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Italian Pages 299 Year 1982
QUADERNI DI FILMCRITICA 15/BULZONI
T/T TRUFFAUT TRUFFAUT di CIRIACO TISO
T/T TRUFFAUT TRUFFAUT di Ciriaco Tiso
BULZONI 1982
TUTTI I DIRITTI RISERVATI
© 1982 by Bulzoni Editore 00185 Roma - Via dei Libumi, 14
premessa
Tutti i perfezionamenti che assomma il cinema non possono dun que paradossalmente che riavvicinarlo alle sue origini. Il cinema non è ancora stato inventato, (da «Il mito del cinema totale», in Che co sa è il cinema? di André Bazin). Oinos: Ma perché piangi, Agathos... e perché le tue ali paion fiaccarsi nel mentre che noi sorvoliamo questa magnifica stella, la più verdeggiante, e tuttavia, la più terribile tra tutte quelle che ab biamo incontrato nel nostro volo? I suoi fiori imbrillantati paiono un magico sogno... ma i suoi foschi vulcani richiamano alla mente le passioni d’un cuore agitato. Agathos: Non è che essi richiamino alla mente. Essi sono! Essi sono sogni e passioni. Quella stravagante stella — or sono tre secoli — ero io, il quale, colle mani contratte, e gli occhi inondati di pian to, ai piedi della donna che amavo, l’ho profferita alla vita con al cune frasi appassionate. I suoi fiori imbrillantati sono i più cari fra rutti i sogni traditi e i suoi forsennati vulcani sono le passioni del più tumultuoso, del più avvilito dei cuori! (da La potenza delle pa role, di Edgar Allan Poe).
Truffaut è certamente l’unico regista che possa aspirare, accanto a Hitchcock e Buftuel, al posto di terzo dei «fratelli ambiguità». La sua scrittura, proprio come quella di un Buftuel è ambigua perché non dilata, non deforma, non distor 7
ce l’immagine; e, come in Hitchcock, la narratività non è mai la progettazione di un senso esteriore, ma sempre d’un effetto primario interamente di fiction', è, invece, labirintica, nella specularità cristallina della sua stessa chiusura. Nella definita fermezza della forma si libera all’istante il passo che supera la vita del soggetto, il com/passo del mondo che, in L’uomo che amava le donne, si configura come incedere geo metrico delle gambe femminili nell’attraversamento dell’aria e del globo terrestre. L’immaginario del cinema/truffaut si dipana all’infinito, iscrivendosi dentro una superficie sferica che, quale specchio multiplo, lascia proliferare fantasmi e spettri: più dalla parte del sentimento nella prima fase del suo fare cinema; poi so no divenuti la sfida dei sentimenti in un universo filmico ch’è sempre una Fantasia che cresce e si disperde nella quotidiani tà esistenziale, negli spazi aridi della Storia, della memoria e della geometria, e molto raramente nei tempi della fanta scienza o della metafisica. Fahrenheit 4SI, il film più «fanta scientifico» di Truffaut, è piuttosto un disegno fantafisico: una rappresentazione del Fantasma della Storia. Il cinema di Truffaut è sempre una intelligenza che si slab bra di sentimenti, e, nello stesso tempo, un sentimento che si costringe d’intelligenza: ancora la passione si accende nel cer vello e esibisce fondamentalmente l’immaginario in tutta la sua fantasmatica materialità, e qui, tra un riflesso opaco e un’ombra di luce, insorge infine l’elisione del senso, altra fe rita dell’elusività segnica, nella emersione intrattenibile del desiderio finzionale. È la configurazione di un doppio inscioglibile, fantasma/schema: dove il soggetto si manifesta in re lazione a una doppiezza che si moltiplica a partire dal gioco spettrale io/altro. Il soggetto nel cinema/truffaut si mette in gioco variamen te, come doppio io/autore, io/regista, altro/attore, io(auto re)/altro( regista) in un progettoFilm gettato al mondo come
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traccia unica che pure lascia trasparire le fissioni essenziali del Fantasma, anche nella impurità della Storia quotidiana, nella temporalità dei giorni che passano; un fantasma che riesce a oggettivarsi in uno spazio smorzato di storia, denu dato, evocato e descritto come luogo dell’essere piuttosto che dell’esistere. Lo spazio della storia in un film/truffaut non diviene mai assolutamente metafisico, come per esempio in Dreyer e in Bresson, né mai del tutto verosimile come nel neorealismo, ma rimane fermo nel bilico della smaglia(nza)tura. Il lavoro di Truffaut si presenta come una filmografia qua si illimitata e periodica. «Un primo periodo è terminato con Fahrenheit 451, spie ga Truffaut, — un secondo con La nuit américaine, un terzo oggi con L'amour en fuite». Se si prova a percorrere con lo sguardo della memoria questo tracciato filmico si ritrova un ordine illimitato tra i singoli testi di ogni periodo e anche tra i diversi periodi, ri conducibili a una variante che s’iscrive nel doppio aper tura/chiusura, nel reciproco rovesciamento dei due termini. Il gioco narrativo di Truffaut s’iscrive sempre in uno spa zio molto delimitato, in uno spazio ben ordinato dal tempo filmico e in questo ambito i tempi dei personaggi scorrono paralleli o intrecciati, le situazioni si raddoppiano, esplodono o si congelano. Sia che l’origine è un’idea tematica e narrativa precisa, let terariamente ben definita prima della realizzazione, sia che l’idea si rafforza, si precisa negli spazi del set e nel lavoro del montaggio, in ogni caso il doppio apertura/chiusura insorge nella produzione di un film che non è mai labirintico nella struttura del récit ma all’interno di essa che ne costituisce una trasparente eppure solida prigione. In definitiva, un film di Truffaut si configura come una vertigine di fantasmi che si rinviano specularmente segni e sensi per riconoscerli in de 9
finitiva estranei agli altri e a se stessi, in un corpo/struttra molto simile a un qualcosa di ben definito e solido. Ridurre il «complesso» e raggirare l’«elemento» è la doppia operazione del fare cinema di Truffaut: eludere il pericolo del documentario, anche nella sfiducia verso il colore, rinfor zando il taglio di fiction. Ma Truffaut sa bene che una scrit tura è sempre cancellazione di una traccia precedente dello stesso autore o di un altro, lo sa bene quando riduce per il cinema un romanzo, quando ha un soggetto originale. La scrittura cancella l'origine. Fare cinema, in ogni sua fase, è cancellare e fare apparire in altra forma il segno cancellato. È sempre un gioco solitario quello che permette questa can cellazione, la condizione unica per il fare creativo: l’artificio si esibisce nella scrittura strappando segni all’universo della Storia e al mondo dell’io, ma anche da antecedenti storici e senza io, attraverso un procedimento che si compone di due leggi antitetiche che si comportano proprio come se io facessi un’opera su un’opera sia che lavori su un romanzo sia che lavori su un’idea molto originale. Ma c’è poi mai qualcosa di originale? L’artificio sa più della nostra coscienza e dunque si comporta secondo leggi antitetiche, forse due, le stesse che segue il Menard di Borges per ri/scrivere il Chisciotte. «Il mio gioco solitario — dice Pierre Menard, — è gover nato da due leggi antitetiche. La prima mi permette di tenta re varianti di tipo formale o psicologico; la seconda m’impo ne di abolire ogni variante in favore del testo «originale», e di ragionare irrefutabilmente questa abolizione...» La pratica filmica di Truffaut, da. qualsiasi parte cominci il lavoro, .si risolve in una doppia metodologia, in un duplice artificio riconducibile a un’unica legge. «La regola — dice Truffaut — è jnolto semplice, se ho una storia complicata la racconto il più semplicemente possi bile; se ho una storia semplice la prendo d’intorno per dissi mulare la pochezza della proposta».
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L’ultima filmografia truffautiana lascia intravvedere una li nea di tendenza che, all’insegna del nodo etica/estetica, con l’uso metodico di un crescente artificio che ribalta le récit at traverso le digressioni della fiction e le elusioni del piacere, si apre a un immaginario molto più fertile e vertiginoso, che tuttavia non rigetta la ricerca infinita dell’essere. Il tratto peculiare del cinemaTruffaut è in una messa in scena, del fantasma (immagine prodotta dalla fantasia con tutte le sue implicite speculari moltiplicazioni) attraverso lo schema (rappresentazione intermedia con cui il molteplice sensibile si congiunge alla purezza concettuale). Per evitare che questa definizione si possa deteriorare in una visione «schematica» e che i film di Truffaut si possano tacciare di schematismo, rilevo che lo schema è in/finizione fantastica e spazio fictionale, esattamente come il fantasma è immagine di fantasia ma anche corpo d*(immag)inazione e luogo imma ginario. In questo senso, la grafia filmica di Truffaut si configura come diaframma scheletrico sul quale traspare l’evento della storia come disegno fisico che, per l’assenza o l’irruzione im provvisa di una carica pulsionale sfuggita al processo di sim bolizzazione riesce ad attivare il funzionamento meccanico del dispositivo/immagine esibito come assoluto artificio della finzione in/per cui la persona-corpo diviene residuo d’un si mulacro, i materiali scenici si articolano in strutture algebri che, le accumulazioni o progressioni del sentimento e del de siderio sono coniugazioni d’una ipotesi logica che si sottrae ai comandi del concetto/legge di un Sapere che si alimenta di oblio d’essere e detriti storiografici. Il filmTruffaut, allora, elude la storia Storia e slitta in una moltiplicazione di fissioni che fanno uscire fuori di sè il testo e rigettano il soggetto nelle sembianze del Rimpianto, dove la mutilazione del desi derio produce altre trasgressioni dell’identità d’un io incluso nelle forclusioni fallite tra le dissolute pieghe del mondo e 11
delle sue sacre rappresentazioni, della Storia e delle sue pro fane scritturazioni: in una infinita epifania di assenze del soggetto, di mancanze situazionali e pretestuali, dove un gio co di senza riprendere materialmente a illuderci. Ma lo specchio è troppo opaco per rifletterci, forse troppo impolverato, e poi s’iscrive raramente come segno/oggetto nelle chiusure filmiche di Truffaut, perché lo stesso taglio dell’immagine qui è sempre di per sé specchio che raddoppia e frantuma l’identificazione d’io, dissolve l’utilità di storia, restituisce l’immagine alla sua coniugazione anteriore. La chambre verte è così. E anche L’homme qui aimait les fem mes è così. L’immaginario/Truffaut racchiudendosi di film in film, ri prende a ardere e slabbra la chiusura congelata all’infinito e da qui riprende l’inversione, unico senso di marcia effettivo del divenire sottomesso all’essere. A partire dalla scena di un immaginario in/finito si può parlare in questo scritto di una traccia che, attraverso frantumi di sentieri, va da Truffaut a Truffaut. Non, dunque, T. e T., oppure T. e non T., né una contraddizione né una, tautologia, neppure una compa gnia, con T., ad esempio, né una dedica a T.; invece, da T. a T. indica bene questa demonia dell’essere che s’iscrive nel mondo del molteplice come infinitudtne, processo immobile, itinerario che sconfina dalla propria finitezza formale: T/T. Il titolo da Truffaut a Truffaut segnala pure una sotterra nea convinzione: che il linguaggio non è mai segno di un in dice comune o indice di un segno comune, non enuncia il senso del suo valore d’uso e neppure di gioco linguistico; piuttosto, il linguaggio è occultatore di senso per cui il senso delle mie parole di oggi è il segnale del mio linguaggio di domani/ieri. L’immagine iniziale di un film/truffaut ritrova senso sol tanto nella sequenza finale. Il suo cinema di oggi, più elabo rato e chiuso in se stesso di quello dell’altro ieri, cattura si12
gnificanze nell’artificio della finzione e nel labirinto dell’im maginario eppure ritrova la sua matrice nel cinema degli inizi laddove la finzione assoggettava l’artificio all’intensità dei sentimenti, dell’entusiasmo etico/estetico. Nella sua via di mezzo, il cinemaTruffaut si configura come una scrittura d’immaginario che, nella fermezza del récit, riconcilia il dop pio speculare in ogni possibile variante (finzione/ricerca, sentimento/intelletto, io/mondo) e libera l’ebbrezza d’un gio co misterioso: l’essere del Tempo si annoda al tempo dell’Essere, lo spazio della Storia si allaccia alla storia degli Spazi. Infine è lo Specchio che raddoppia il soggetto prima di moltiplicarlo. La scaturigine della moltiplicazione è il rad doppiamento sacrificale. Nella immagine del suo cinema, Truffaut si configura come un io/altro: e il nodo è scioglibiIc solo da., a., da Truffaut a Truffaut, oppure nel doppio che, lasciate cadere le preposizioni “a” e' “da”, si dispone ad un’altra molteplice infinità: Truffaut/Truffaut. Immaginiamo, allora che Truffaut per poter giungere da Sè a sè Medesimo debba percorrere in un tempo illimitato uno spazio delimitato di testi critici che vanno da io all'altro al medesimo: da me, agli altri, al soggetto di cui si sta scrivendo, Truffaut appunto, ch’è oggetto della sua stessa scrittura e sog getto della nostra. Il S/oggetto, nullificando le tappe e gli strumenti da cui pure si lascia attraversare, si fissa nell’istante di una ir/relazione con sè medesimo, Truffaut/Truffaut. Il nodo si forma e il discorso scivola sulla falsariga di un rinvio all’altro, di un’elusione all’altra, da un r/aggiro all’al tro per via di una scrittura che non sa essere immediata e di retta ormai se non nella primaria intuizione, e, per la segna tura, in parte già avvenuta prima, dei materiali iscritti in questo quaderno, nello spostamento le parole si avvitano alle cose: ed è l’apparizione del fantasma che danza specchiando si nell’io d’altro, si rivolta, scompare, lasciando residui, trac ce, simulacri, feticci prodotti dalle slabbrature di un materia ls
le esploso per eccesso di gestazione. Il soggetto si muove sempre senza spostarsi, infine. Ogni gesto è un passo nel ri flesso dello specchio in un interno labirintico, oppure della luna in uno stagno privo di simbologie, esterno/notte. L’aurora di domani s’è già accesa cent’anni addietro in una torre di silenzio innalzata all’essere nel deserto di solitudine e là s’è dispersa e spenta. Nessuno potrà dire se farà mai ritor no e neppure quando!... Insorge cosi, tuttavia, la prima im maginazione. Si sa che il doppio di fiction/piacere non è soltanto una ubriacatura, ma un altro doppio di gioia/dolore. Anche se dal film come scrittura di una duplice idea, del mondo e del cinema, Truffaut approda ai lidi del film come registro di un doppio senso del fare cinema, la gioia e l’an goscia, dal film della passione etico/estetica al film della vi brazione sensuale/poetica, toma dai silenzi dell’origine che sempre si cancella e traspare negli specchi notturni di oggi, la domanda critica del film come atto di diario/amore. Mi piace chiudere ponendo vicine due dichiarazioni: non vuole essere un confronto di due parole divergenti quanto piuttosto di due maniere d’essere di fronte al cinema che sono sempre insieme nei film più smaglianti. Lo splendore è sempre altrove da una presa di posizione, morale o estetica o poetica o edonistica che sia. Strappare la rete illusoria e catturare for se anche per un solo attimo questa pienezza dell’essere. Le dichiarazioni sono tutte e due nel libro Les films de ma vie, edito nel 1975, ma corrispondono a momenti diversi della biografìa di Truffaut. La prima al periodo del farecriti ca, la seconda al periodo del farefilm. E per tornare al prin cipio del titolo di questo quaderno, intestiamo: da Truffaut: “Quando facevo il critico, pensavo che un film, per essere riuscito, dovesse esprimere simultaneamente un’idea del mondo e un'idea del cinema', La regola del gioco o Quarto potere rispondevano bene a questa definizione.
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Oggi, io chiedo al film che sto guardando sia la gioia di fare del cinema^ sia {'angoscia di fare del cinema e mi disinteresso di tutto ciò che sta tra le due cose, vale a dire di tutti i film che non vibrano» a Truffaut: «Il film di domani mi appare più personale an cora di un romanzo individuale e autobiografico, come una confessione o come un diario intimo. I giovani cineasti si esprimeranno in prima persona e ci racconteranno ciò che è loro accaduto: potrà essere la storia del loro primo amore o la presa di coscienza di fronte a un fatto politico, a un viaggio, una malattia... Il film di domani sarà un atto di amore». Le sottolineature di questa ultima dichiarazione sono mie per riconciliare nel testo del film/Truffaut e nel nome del corpo/Cinema una moltiplicazione di contrasti', severitàebbrezza, vibrazione-sospetto; e riformulare una varietà di nodi essenziali per il fareCinema: diario/testo, amore/piacere, idea/fatto, angoscia/mondo, gioia/cinema, da ipotizzare in tutte le loro possibili varianti fino a demarcare la prova de flagrante dell'essere laddove, eliminando la a e il da nel tito lo del quaderno, si può giungere al doppio del medesimo-. Truffaut/Truffaut, traducibile in filmCinemafilm, triade in cestuosa di un luogo/Fantasma dove il desiderioSenzatempo è restituito, nell’estrema neutrale inf>(personalità, alla sua mancanzaSenzaspazio. Allora, insorge agli orizzonti dell’immaginazione un’altra fantasia che reca nel corpo i segni di una domanda precisa, ostinata: il Cinema diviene il luogo della consumazione di un oggetto fanti asmatico e tras/parente che, ricavato dall’innesto della più segreta intimità del diario autobiografico e la più im personale estraneità della storia cosmobiografica, attraverso l’infinita combinazione d’intrecci e riflessi di cui la finzione più artificiosa è capace, può infine cancellare le regioni del S/oggetto, le colpe dell’origine e in questa zona d’il/logica nu dezza, nel dispendio degli ultimi residui di energia elusiva del
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Simbolo padreFiglia/figlioMadre, possa costringere finalmente l'essere a manifestarsi o, almeno, a dichiararsi. Un simile oggetto io vengo a configurarmi come testo dell’immaginario e, nello specificoCinema, come film', una assenza presente, una figura d’io ch’è prima dell’altro, forse splendida come il sole, forse oscura come * la notte, forse pal lida come luna, forse pietosa come la crudeltà, forse sma gliante come vertigine, terrificante come uno specchio, forse indifferente come s(ci)enza, forse impura come una ideo/ogia, sensuale come un demone, incolore come la luce, forse insapore come l’acqua, imprendibile come le nuvole, soporosa come la terra, forse ardente come il fuoco, bianca come la neve, forse dolce come il miele, ambigua come la tentazio ne, forse originaria come il silenzio, unica come l’essere, for se sbiadita come la passione, ostinata come la fiducia, forse pietosa come la follia, inutile come l’opera, forse impossibile come l’estasi, imprevedibile come il desiderio, scettica come l’ozio, forse inconsapevole come la ragione, dilaniata come la psiche, forse tradita come l’anima, sciupata come l’amore, dissoluta come la speranza, trafitta come l’odio, forse ambi ziosa come la pratica, gelida come l’idea, forse puttana come la vita, moralista come la morte, forse vicina come l’altro, estranea come io all’io, forse barrata come dio, forse divisa come l’es/Senza. Ciriaco Tiso
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Parte Prima T/ da Truffaut...
L’ inFinitudine Francois Truffaut
Per me è lo stesso, da dove io cominci: giacché di nuovo vi tornerò ancora. Parmenide di Elea
Essere — esprime il legame di soggetto e oggetto. Laddove soggetto e oggetto sono unificati assolutamente, e non solo in parte, e con ciò unificati in modo tale che non può essere intrapresa una partizione senza violare l'essenza di ciò che deve essere separato, qui e in nessun altro luogo si può parlare di un essere in assoluto, come accade nel caso dell’intuizione intellettuale. Ma questo essere non deve essere scambiato con l’identità. Quando dico: «Io sono io», il soggetto (io) e l’oggetto (io) non sono unificati in modo tale che non possa essere intra presa alcuna separazione senza violare l’essenza di ciò che deve essere separato; al contrario, l’io è possibile solo attra verso questa separazione. Come posso dire «io» senza auto coscienza? Ma come è possibile l’autocoscienza? Per il fatto che io mi oppongo a me stesso, separo me da me stesso, ma, malgrado questa separazione, mi riconosco come lo stesso 19
nell’opposto. Ma in che misura come lo stesso? Io posso, io debbo (muss) porre tale domanda; infatti sotto un altro aspetto esso è opposto a sé. L’identità non è quindi una uni ficazione di oggetto e soggetto, che assolutamente abbia luo go; l’identità non è quindi = all’assoluto essere, (da Frie drich Hòlderlin, Sul tragico, Feltrinelli)
L’infinito e l’erranza
«L’errore, — dice M. Blanchot (L’infinito letterario) —, il fatto di essere in cammino senza potersi mai fermare, muta no il finito in infinito. Si aggiunga questa peculiarità, che dal finito, sebbene conchiuso, si può sempre sperare d’uscire, mentre la vastità infinita è prigione, perché senza uscita. Co sì ogni luogo senza nessuna uscita diventa infinito». Il film, nella sua finitezza, si libera al gioco imprevedibile di un immaginario sconfinato e impertinente. Bisogna imma ginare che in fondo alla corsa di Antoine Doinel in Les quatre-cents coups, si schiuda, nel profumo del mare e nei sopori eterei della sua vastità aurorale, una smagliante aper tura che, racchiudendosi sopra se stessa, iscriva il piccolo protagonista in una sfera facendone un eroe e una vittima. In questo infinito racchiuso si inserisce un film/truffaut. Non film d’interiorità, dunque, ma d’intemezza oggettivata in una scrittura precisa, lucida come una torre di silenzio, speculare e infrangibile. L’universo filmico di Truffaut si configura come unà serie di oggetti/uova d’avorio che si possono guardare anche toc care ma non scalfire. Il film, poi, come corpo/luogo finito d’infinitudine, per usare una tautologia. Bisogna accostarsi all’oggetto/film, osservarlo da vicino per scoprirne la traspa renza di cristallo infrangibile, dove si riflettono in speculari illimitate simmetrie una molteplicità di fantasmi che s’incon20
erano e non si riconoscono, si guardano e si toccano, si par lano soltanto per enunciare ciascuno il proprio segreto: infi ne, un labirinto d’immaginario infinito si schiude in questo corpo/oggetto finito che è il film/truffaut. Da ciò derivano due considerazioni: primo, ogni film è as solutamente solitario, nella filmografia di Truffaut, anche se ripetitivo oppure continuativo di una serie/struttura di moti vi tematici e segni scritturali; secondo, ciascun film evidenzia uno spazio in/finito, immutabile, dove la storia tende a can cellarsi e il personaggio ad estasiare o ad annientarsi, a stu pirsi comunque di sé e del mondo. La filmografia di Truffaut è come una serie di dighe solita rie in uno spazio immutabile e infinito. Il film si pone come testo finito, conchiuso, e scrittura infinita: film come testo fi nito, delimitato, che racchiude e custodisce l’evento d’un im maginario, illimitato, infinito. Il cinema, tramite il film/truf faut chiede altro, iscrive un bisogno diverso dalla sua specifi cità; rintracciare questo qualcosa in più di desiderio nei labi rinti disegnati dalle finzioni dell’essere del soggetto e della Storia, costituisce il tracciato diegetico di ogni film.
La chiusura e l’apertura (la ferita)
Sotto il profilo diacronico, la filmografia di Truffaut esibi sce un duplice tentativo: complicare e fermare il film, fare di un film un monologo e racchiuderlo dentro di sé, fame un oggetto che nessuno sguardo possa scalfire mentre lo con templa e attraversa. «Ho deliberatamente girato L’enfant sauvage, Adele H., La chambre verte per farli assomigliare a degli oggetti ed an che a delle uova d’avorio che si possano vedere, toccare, ma non rompere — dice Truffaut (in una intervista riportata nella parte finale del libro)». 21
La scelta rischiosa della forma chiusa, intemizzata, del monologo immaginario e fictionale è molto indicativa degli errori epocali della storia/Storia e delle verità premonitrici del soggetto/Soggetto. Tuttavia, oggi sappiamo anche che non è più possibile raccontare una storia oppure tracciare il disegno di un personaggio interamente da un solo versante, perché pur a volere prescindere dalle nostre intenzioni e vo lontà, l’altro versante risucchia l’io, il soggetto e la sua sto ria. Oggi è possibile narrare, almeno a cinema, soltanto gli in terstizi, le relazioni e i contrasti, le sottrazioni e i toccamenti. Il cinema è un materiale molto trasparente e rifiuta per sua natura l’assoluto lirico (il delirio del soggetto), e l’assolu to epico (il delirio della storia e del mondo). Il film, in tutta la sua materialità fantasmatica e processuale, deve cogliere la zona in bilico dove insorge il deliquio dell’essere, e dove ogni gesto, al di là del suo enunciato, del suo detto, diviene indi cibilmente poietico/politico, e dove ogni soggetto, a prescin dere anche dalle sue luci (soli, colori, cieli, mari, lune, stelle) e delle sue ombre (notti, opachi riflessi, figure spettrali) va sempre errando stravolto dai richiami deH’immaginario sul fi lo di un impossibile silenzio, ai limiti di un unico desiderio: la finzione, l’occultamento di un’altra verità. Infine il S/ oggetto, con passo labirintico gettato sulle di stese della sforàStoria, e con immutabile processo supera il deserto abissale del s/Oggetto. È il tempo dello Spazio infi nito, nel quale s’era iscritta la prima fase del cinemaTruffaut, il cui vertice è segnato da La sirène du Mississipi, au tentico film dell’essere e dei suoi deli(ri)qui, delle sue eteroUtopie e domande libertarie. L’epoca della nudezza d’un corpo filmico dove ogni luce è spenta e accesa al momento innomi nabile della giustizia, e ogni ombra insorge e scompare nel luogo onirico imprevedibile, e volge verso l’altra sponda, il
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tempo deilo Spazio finito: il film chiuso, il monologo, il to no unico e assoluto, il film serrato da ogni parte come Le journal (il diario) d’un curé di Bresson; dunque, del territorio dei sentimenti congelati, del senso lacerato, della forma ela borata: dove finisce l’amore, finisce sempre l’impossibile pure a lungo desiderato, come l’amore disperato e illusorio e an che in/voluto di Adele che finisce o, forse, nasce per la pri ma volta, nella follia in una eterotopia solare (è molto bello che Truffaut non mostri Adele in manicomio), come il culto funebre di Julien Davenne in La chambre verte con la morte del soggetto nella foresta di luci artificiali (artigianali) di ce ra, e come la caccia erotica alla bellezza dell’uomo che ama va le donne (la fine del soggetto catturato dall'assurdo della sua stessa pratica, dall’imprevisto incidente della palude not turna e infine nell’estremo gesto di uscirne e riafferrare il principio: la mano di Bertrand che si tende verso la bellezza in controluce provoca la mancanza d’ossigeno, è il sangue che si perde e si rapprende). La salvezza è soltanto in un’al tra ferita, l’apertura di uno spiraglio, la terza fase, lo spazio del Tempo infinito-, la maturità in retromarcia memorica di Antoine Doinel in L’amour en fuite. L’uovo d’avorio mostra infine le ferite occultate. Avrà la sua durata e poi si rovescerà nello spazio del Tempo finito per prepararsi a ricominciare un’ulteriore scatenata ricerca dell’essere dietro le Chimere della causalità per la ripresa di una precedente bellezza in una divergenza ancora uguale. In fine, l’errore della storia può renderci la verità dell’Essere, il tempo finito di uno spazio filmico può ricondurci per sbaglio allo Spazio del tempo in/finito. Il groviglio di apertura e chiusura, di corpo e ferita, non smette facilmente di prolife rare con frenesia illimitata.
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Il termine e la scaturigine
L’inizio è sempre una esperienza, una storia, una cronaca, un romanzo, un documento; ma la scaturigine è nel destino della finzione che conduce altrove., sottrae il “reale” alla sua identità concettuale e lo trascina nelle località immaginarie dove tutto è sempre uguale, ossia diverso da come si preve deva. Là è soltanto possibile l’imprevedibile, l’innominabile. Filmare una storia significa proprio questo, renderla cine ma, fame un’immagine, della pellicola, e legare questi mate riali scheletrici e radiografici alla necessità della luce e della proiezione su una superficie, in uno spazio: in definitiva, fil mare — e il cinema di Truffaut mi pare la fisicizzazione di questo principio — significa spandere una storia (e la Storia) nelle ferite sconfinate del temp/Tempo, e spenderla nella re stituzione di un delirio alla dispersione cosmica dell’essere. È la sola effettiva im/potenza d’io. Questo destino non ri sparmia neppure storieRomanzo, le storie già narrate, disse minate d’immaginario in altre scritture. Il film allora disperde la topia letterale della storia in una immaginarietà più ir/reale, più assurda perché più quotidiana e, attraverso il sentiero già consumato del verosimile, la rimanda all’origine che non c’era o che, comunque, neppure il racconto cono sceva nella sua primitiva funzionalità letteraria. Si ha un’apertura di doppi, in questa situazione: si riapre un labi rinto di spazi e di tempi, di scorci e argini, per ritrovare la chiusura spezzata dell’origine, forse il silenzio', la parola esaurita nei tratti più elementari è strappata al Linguaggio e offerta al Cinema in un gesto di estremo tremore. Ma Truffaut sa bene che, ovunque v’è ancora energia, nell’universo della fisica, là non potrà esservi vuoto, dunque neppure silenzio. È per questo che la costruzione d’un film/truffaut dà sempre la sensazione precisa d’un qualcosa di molto solido, come un oggetto conchiuso ma non pesante, 24
per niente privo di trasparenza. E ciò avviene sia in film co me La nuit américaine, o Jules et Jim che lasciano intravede re un intenso lavoro creativo in fase di riprese e di montag gio, sia in film come La peau douce, La marièe était en noir, e Adele H., che, invece, recano piuttosto le impronte di una segnatura narrativa e strutturale determinata con molta pre cisione prima. Ci sono film fermati e film in fuga nel cinemaTruffaut, film che sono sfuggiti al controllo e si sono persino sottratti a un principio tematico definito e alla consapevolezza di un/a fine. Nonostante il mio enorme amore per i film solidi, precisi, serrati, penso che bisogna sempre desiderare che un film sfugga al suo autore, nel tema e nella costruzione, e, li berato dalla tirannia del Soggetto, si disperda in uno spazio d’infinitudine. Forse L'amour en fuite è un film sfuggito e sfuggente e, anche, racchiuso d’un amore in fuga. Dalla clausura la ferita che ci desidera implora, e la ferita a sua volta vuole essere suturata: dal chiuso l'apertura grida e geme, dall’aperto la chiusura attrae e risucchia. La scelta non è mai lineare, direzionale, ma sempre labirintica, perché, in un film/truffaut, ogni “scelta” sa (di) essere errata, fonda ta su una malattia, dentro una paura. Ed è soprattutto in questa maniera peculiare di configurarsi che il cinema di Truffaut abbraccia la sapienza', entro questo spazio delimita to, il suo immaginario s’infinisce, la sua finzione può impaz zare. Il “muro”, si sa, è Punico punto/segno di riferimento nel deserto illimitato dell’essere, punto di separazione e segno di congiungimento tra il soggetto e il mondo: un qualcosa che, nell’infinito di luce e di tenebra, s’impone come accumulo di materiali al quale, di qua o di là, l’io non può smettere di rapportarsi. Il muro non si può scavalcare, è infinitamente alto e infinitamente lungo e largo: bisogna soltanto scavare tra pietre e marmo, forse con le unghie, per tentare una feri 25
ta, un buco, una crepa. Lo sapeva bene Bresson quando ha girato II condannato a morte è fuggito (o il vento soffia dove vuole), lo sapeva Godard quando ha girato 'A bout de souf flé su “soggetto” di Truffaut, e lo sa Truffaut quando gira i suoi film.
La fuga e il ritorno
Il dispendio e la paura. La complicanza del cinema/Truffaut implica una fuga esplicita dal “realismo” verso gli orizzonti della fiction/immaginario, con seguenza certamente della decisione per un cinema chiuso: l’asce tismo di Bresson e il surrealismo di Bufiuel e il logismo nodoso di Hitchcock. Questa fuga, che piuttosto si configura come un viag gio, non scarta del tutto il dato di partenza — la lezione Rossellini /Renoir — ma lo tiene addirittura come punto fermo. Si può dire che è una fuga (e un viaggio) in uno spazio immutabi le. I film dell’apertura e degli spazi, il cinema dell’origine, Les mistons, Les quatre-cents coups, Tirez sur le pianiste, rad doppiano le loro implicite elusioni realistiche in film successi vi come La sirène du Mississipi, Fahrenheit 451, La marièe était en noir, La nuit américaine, Une belle fille comme moi. La ripetizione eterna dell'origine permane anche quando il salto è avvenuto con decisione dalla parte del film racchiuso, fermato nel tempo e nello spazio, il film senza storie, senza nodi storici, ma tramato d’intrecci psichici, geometrici, e in tessuto di fili oscuri che insorgono e si agitano all’interno del cervello e del cuore del soggetto di storia, stravolti in una struttura molto solida e lucida, quasi astratta. Un universo vertiginoso traspare negli ultimi film/truffaut attraverso le grafie di un récit serrato e che pure s’illumina di trasparenze multiple. Non c’è psicologia nei film che moltiplicano il ta26
giio di fiction, ma piuttosto la registrazione immaginaria di una finzione teorica: Les deux anglaises et le continent, Ade le H., La chambre verte, L’homme qui aimait les femmes. In generale la doppiezza del cinema/Truffaut si snoda sul la traccia indelebile di un unico potente desiderio che è il piacere di fareCinema, con tutte le sofferenze e felicità che questo implica; e che è, poi, l’altra faccia di un altro piacere: vedereCinema. Il testo, del film e sul film, è sempre un indi ce di piacere nel labirintoTruffaut. Tuttavia, questo piacere si sdoppia e a suo modo si molti plica nella pratica filmica come creazione e/o esecuzione, per tautoLogie e contraddizioni. Se un film come La nuit américaine, che pare tutto da costruire nella fase di lavorazione, può arrecare molta preoccupazione al regista, esibisce però più vistosamente i segni precisi di un piacere creativo, laddo ve un film come La chambre verte reca le impronte della se renità di chi sa e non deve fare altro che, nella ripresa, rea lizzare un sapere, far essere il sapere; e ciò, come ogni quie te, del resto, comporta anche la noia, il distacco dal lavoro che nel testo s’iscrive con timbro difficile da mascherare co me un alcunché che eccede, una sorta di totalità che mette in soggezione; esattamente come nell’altra situazione risplende una particolarità che induce a uno stato di esaltazione. Nasce da qui un altro tratto peculiare del cinemaTruffaut, la pratica di una eccedenza segnata come riduzione e non co me sovrabbondanza. L'eccesso praticato da Truffaut, invece di scolpirsi o inscenarsi nella scrittura immaginifica come, ad esempio, avviene in Bergman/Fellini, rimane piuttosto come una tentazione quasi ascetica che si moltiplica sempre sul doppio orrore/estasi. È molto evidenziato questo tratto di scrittura in Les deux anglaises et le continent, film serrato in una angoscia quasi estatica e che pure è lo spazio assoluto della malattia e della morte, un tempo senza divenire, quasi mitico, per niente ef 27
fimero, non il tempo dei giorni che passano, ma l'altro tem po, quello obliato dagli spazi della storiaStoria: Truffaut osa cancellare il tempo della quotidianità proprio in un film la cui storia evoca una trasmutazione topografica che è pure una divergenza linguistica e, anche, di conseguenza, una per mutazione di senso. Tra le due inglesi e il continente insorge sempre la frattura originaria, Verosione di una incognita fon damentale, quella della terra che traspare nei corpi, nel san gue, nei desideri. Il continente può solo stagnare nella solitu dine di prima, giacché le due inglesi non gli appartengono, né potranno mai appartenergli: una delle due è soltanto di se stessa, della sua malattia, l'altra elude se stessa e il suo deli quio, ma si sottrae anche all’amore per Claude, al fascino delle falde continentali, inventandosi infine un improvviso se greto che impone al mondo come destino. Il segreto ritorna ossessivo in tutte le storie/truffaut ed è sempre legato a una persona. Un rapporto tra due esseri è soltanto una maniera di conoscere il segreto/ostacolo, e di prendere coscienza di una verità più ampia per cui io non posso stare con te che custodisci un segreto perché anch’io ho un segreto che non sapevo di avere: il destino della soli tudine cosmica incorporata nel soggetto di storia che diventa oggetto oscuro di un altro desiderio che in fondo a tutto è sempre una mancanza d’essere. Le coppie si formano e si disfano nel cinema/Truffaut, co me in La peau douce, dove il segreto, attraverso l’amore/ passione, conduce alla morte, oppure come in L’amour a vingt ans là dove la ragazza che Antoine incontra racchiude già il suo segreto che non è possibile scalfire ma soltanto contemplare: proprio come è il film nella configurazione di Truffaut. E così Tirez sur le pianiste, dove il segreto rigetta indietro inesorabilmente fino a trasformare il soggetto in causa innocente di morte per l’altro che conosce il suo segre to e in definitiva lo ama; e così le storie dei legami libertari, 28
il tempo delle estasi a tre di Jules et Jim, laddove ogni uno della triade è solo, anche nella morte: Jim e Catherine sono sempre separati nell’amore, perché non c’è fertilità nel loro rapporto; del resto, è solo un banale pretesto che copre una ragione indefinibile e profonda: ma anche l’estremo tentativo di trovare l’unione nella morte/suicidio che Catherine impo ne a Jim è destinato al fallimento: li troveranno separati, di suniti in fondo al lago. E Jules che è predestinato a una vitasacerdozio, che custodirà i simulacri di due amanti impossi bili, non ha né Catherine, né Jim, soltanto le loro ceneri che neppure può disperdere al vento come era desiderio di Ca therine. Che ne sarà della figlia avuta da Catherine? Divenu ta grande ritornerà neW Ultimo metro. Tuttavia il tempo dell’amore si è bruciato in un labirinto di tentativi appassio nanti e ancora inutili. Con Sartre si potrebbe dire che nel cinemaTruffaut l’individuo è sempre rappresentato come una “passione inutile”. Ma al contrario del pensiero/immagine sartriana, nei personaggi/truffaut non c’è mai “impegno” nel la storia, ma soltanto abbandono nel proprio sacrificio e nel proprio piacere, erranza d’intensa disperazione in una zona di a/u-topia, di anarchia assoluta, o, meglio, di un assoluto anarchico. Il territorio sconfinato dell’immaginario, come prova dell’infinito nella pratica del finito, s’inscena nel film: che per Truffaut non è mai soltanto una storia di cow-boys, ma, vi ceversa, sempre una storia d’amore... con dei sentimenti.
La finitudine e l’interferenza
È a questo punto che la figura/Truffaut si tinge di una coloritura demiurgica, un poco come quella di Orson Welles, qualcosa d’incestuoso tra un mago e un eresiarca. «Debbo la scoperta di Uqbar — dice Borges in un suo rac29
conto — alla congiunzione di uno specchio e di una enciclo pedia». Si può dire la stessa cosa per un film di Truffaut. Senza dubbio il cinema labirintico non è quello di Bertolucci che direttamente si ispira a Borges, ma paradossalmente lo è proprio quello che gli sembra più lontano, il cinema di Truf faut che non sta mai da una sola parte e s’ispira a se medesi mo e, nello stesso tempo, a tutti i maestri del cinema che ha amato, senza differenziazioni di generi e di stili, e che hanno contato comunque, ciascuno a suo modo, qualcosa per lui, da Renoir a Rossellini, da Nicholas Ray a Buhuel, da Lubitsch a Hitchcock. Il cinema di Truffaut ripete filmicamente la narrativa borgesiana: non vi sono tempi lunghi e tempi corti, ma spazi in temporali che s’intrecciano e si annodano variamente nei suoi film: si pensi alla sirena del Mississipi, ad Adele H. Gli spazi sono quelli di un deserto/Specchio, non quelli della Storia/quotidianità. E pure nei suoi film più aperti al quoti diano, come le storie di Doinel, vi sono tempi/spazi interio ri, interni al personaggio e che si schiudono non alla storia ma all’immaginario d’io (l’autore) e nella finzione d’altro (Io spettatore). Come l’eresiarca di Uqbar, località illusoria/reale che è rinvenibile soltanto in un volume anomalo dell’AngloAmerican Cyclopoedia il quale contiene per un caso 121 pa gine invece che 117, Truffaut può dire: “Copulation and mirrors are abominable”. E lo dice per assenze, per mancan ze. E infatti la sterilità, così come la moltiplicazione specula re, atterrisce Truffaut: è per il fatto di non riuscire ad avere un figlio che Jim e Catherine sono separati anche nell’amore più intenso; ed è una copula/guerriglia che impedisce a Claude di far fronte all’ultima prova d’amore impostagli da Muriel, perché la sconfitta da subire era già stata predeter minata da una consapevolezza di sterilità. La copula che unisce Claude e Muriel in Les deux anglai30
ses et le continent è indicativa del senso delle copule presenti o esenti da tutto il cinema/Truffaut: è la prova della sconfìt ta. La copula non è d’amore ma di guerra per uccidere l’amore. Muriel lo sa. Catherine di Jules et Jim non Io sa: ma il risultato è lo stesso. Le copule di Jim e Catherine sono sempre sterili eppure ogni volta intraprese come una batta glia, e perciò uccidono l’amore. Non vi sono mai nascite, moltiplicazioni, nei film/truffaut tranne che in Domicile con jugal, dove la cosa, del resto, non pare faccia molto piacere ad Antoine. Si pensi allo specchio davanti al quale Antoine Doinel di Baci rubati ripete ossessivamente il proprio nome fino al de lirio del riflesso che, raddoppiando, azzera l’identità. Si capi sce perché e in quale maniera per Truffaut gli specchi e le copule sono abominevoli: giacché moltiplicano il numero de gli individui egli li elimina dai suoi film o li mostra facitori di sterilità. Il riflesso, che raddoppia la sterilità o l’impoten za, spaventa il cinemaTruffaut. Nel capitolo/volume immaginario di una enciclopedia rea le, Truffaut potrebbe stupirsi, un giorno, nel leggere: «Per uno di questi gnostici l’universo visibile è illusione, o — più precisamente — sofisma; gli specchi e le paternità sono abo minevoli (mirrors and fatherhood are abominable) perché lo moltiplicano e lo divulgano»; e mentre legge questa sorpresa, l’immagine in uno specchio, anche assente, spia. Allora Truf faut riconoscerebbe ogni suo film in una copula di enciclope dia e specchio, appunto come la scoperta di Uqbar da parte di Borges. Decisamente, il cinema di Truffaut non è la cattura della suspense hitchcockiana, né della ambiguità buftueliana, e neppure della verità renoiriana/rosselliniana; è invece la pre sa di potere àt\V interpolazione immaginaria, fictionale, borgesiana, più dalla parte del labirinto infinito della letteratura che non della infinita letteratura dei labirinti. 31
Il cinemaTruffaut si configura come un labirinto in/finito di scrittura piuttosto che come una infinita scrittura di labi rinti quale è invece il cinema dei maestri, Hitchcock, Rossel lini, Renoir, Nicholas Ray ed altri. Non sono gli intrecci, non i nodi, non le storie, infine, non le situazioni che si moltiplicano, a emergere, bensì dei destini che s’incrociano e si separano e si divorano. Un film/truffaut è configurabile come un giardino di sentieri che si biforcano, luogo del poli ziesco, e di rovine circolari, spazio del fantastico. Il doppio fantastico/poliziesco è presente, dove più dove meno — e la riduzione è parte essenziale del fare&nema per Truffaut — in tutti i suoi film. Penso in particolare a La si rena del Mississipi che si svolge nell’intreccio degli spazi riu nificati dall’indagine poliziesca, o a La rnarièe était en noir, dove il fantastico non esce mai dalle griglie del poliziesco ma lo incorpora nel personaggio della Moreau che fa del suo dovere di giustizia un lavoro paziente e perfetto, oppure a Baisers volés che si dipana in una Parigi del tutto di(a)stratta — il “folle”, che alla fine fa la dichiarazione d’amore alla ra gazza di Antoine, è l’enunciazione di un fantastico assurdo ma assoluto esattamente come l’ultimo mestiere di Antoine, il de tective, o anche come il suo destino di una vita che non ha né inizio né fine ma si svolge, semplicemente: siamo come in una sorta di biblioteca di Babele (tale appare il negozio di scarpe in cui Antoine lavora, con quel proprietario paranoico/consa pevole, e la moglie splendida divoratrice di vergini). Del resto, La chambre verte e L'uomo che amava le donne sono due destini che ripetono diversamente quelli fantastici delle rovine circolari. Julien custodisce un sogno, far rivivere i morti, ma si accorge con terrore che un altro lo sta in un certo senso sognando, un altro io che è già morto; e così Bertrand, che si ostina a voler catturare una parvenza, si ac corge di essere lui stesso parvenza — tutto il film è un accu mulo matematico di prove di questa coscienza che cresce nel 32
protagonista: nell’ultimo gesto della tensione d’una mano ad afferrare la parvenza del corpo sublimato insorge la consape volezza mortale dell’impotenza perché la parvenza ricercata è dello stesso corpo a cui la mano tesa nel toccamento appar tiene. La tragedia dei? interferenza immaginaria sconvolge il pro getto della storiaStoria in ogni film/truffaut. L’interpolazione è un segreto che si manifesta, un sogno che emerge impreve dibilmente contro il soggetto che, spesso a sua insaputa, lo custodisce. In questo senso, il film appare come un ordito la birintico degli spostamenti d’un fantasma nelle e/staticità del tempo, in uno spazio spesso invisibile. Sono sempre i fanta smi a riflettersi bene nell’immagine speculare truffautiana, e non gli spazi che, invece, sono occultati, spesso obliterati di troppa luce. Il cinema/Truffaut è dunque la rappresentazione dell’/nwsibile. Non c’è mai frattura tra la cifra stilistica e la tragedia fantastica, tra il disegno strutturale e la meditazione teorica: unica misura dello stile è Vefficacia., ossia non una formula trovata e applicata una volta per tutte, ma un modo d’essere di ciascun film che, mentre si racchiude, si libera di ogni tec nicismo, rinuncia a qualsiasi abilità esplicitamente esibita, a ogni garanzia grammaticale e sintattica. E osa anche rischia re una certa maldestrezza, a tutto vantaggio della intensità di storia e dell’autenticità di scrittura. Sia là dove l’esecuzione appare più maldestra, sia dove di venta più scaltrita, l’effetto di dopo, in un film/truffaut, non differisce dai risultati di prima e neppure da quelli che po tranno ancora venire. Le finzioni di Truffaut manifestano una tendenza precisa: disporsi a una sempre maggiore elabo razione d'artificio. E già L’amour en fuite — anche per il senso esibito dal titolo — può configurarsi come un Antoine Doinel, o della memoria: una lunga metafora dell’insonnia nostra e di Antoine/Truffaut. Infatti questa volta nel labirin33
to si aggira anche l’autore in maniera esplicita: le sue prece denti elisioni nella maschera dell’attore/Léaud, sono vanifi cate dall’emersione finale del coinvolgimento che lo eccede. Se non altro questo dimostra che nel cinemaTruffaut una interpolazione fa sempre testo (il segreto, la mancanza, la sto ria, il sociale) nel Testo (l’orditura logica, la trama finzionale, il tracciato d’io all’interno del doppio schema/fantasma), esat tamente come il testo si dispone a un’elusione continua autore, dei suoi effetti e atti. L’inizio de La sirène du Mississipi, ad esempio, insorge già sulla finzione iscritta nel testo, e dentro di essa si pone sempre un altro artificio che racchiude soggetti d’elusione (prima JulieZMarion, poi Louis/Marion) e oggetti d’interpol/azione (il detective/fun zione Legge, la polizia/esecuzione Ordine, Jardine/riprodu zione Concetto). Elusione/interpolazione è il nodo che congela le possibilità storiche del Soggetto, che impedisce alle sue terribili e perso nali storie d’entrare nella Storia, glorificandole ne\V interdetto originario. Lei - Non mi riconosce, signor Mahé? Louis - Prego, non capisco bene... Lei - Io sono Julie, sono io Julie Roussel Louis - Julie Roussel?... Ma veramente ... Lei - Trova che non assomiglio alla foto? Louis - Già! Lei - La fotografia che le ho mandato non era la mia...
L’interferenza di Julie che in realtà non è Julie ma è Ma rion, cioè un’altra donna, quella che Louis non aspettava, elusione d’un’attesa che si esibisce come verità. Innanzi a questa fascinazione indecifrabile, Louis strozza il suo imme diato sospetto. Interpolazione d’un corpo elusivo che dissi mula bene una mancanza in un testo già inizialmente pre/di 34
sposto alla slabbratura pur nella sua pre/meditata chiusura. Nella clausura d’un corpo, d’un testo, la Chimera si con torce e Narciso non smette di specchiarsi. Il soffocamento della sorella intravisto da Adele H. nelle acque dell’oceano attraversate dal proprio desiderio, ha ini zio da qui; dove emerge anche la stessa strozzatura del corpo/Adele nell’eccesso del nome del padrePadre che conge la il suo desiderio stravolgendolo nei grovigli di una perfida simbolizzazione che infine la condurrà alla deriva di un amo re senza amore, alla deriva dell’Amore. Da qui comincia pure Verranza di Antoine Doinel dopo la fuga dal riformatorio e dalla famiglia dei quattrocento colpi, in una corsa interminabile verso il mare, orizzonte perduto perché mai raggiunto, apertura/ferita desiderata e irraggiun gibile. Da questa medesima finitezza sfuggono le delusioni/ interpunzioni di Doinel adolescente dell’amore a vent’anni, lo scacco, i congelamenti della prima pulsione ses(n)suale, l’inu tile passione delle prime dispersioni falliche, in una Parigi in decifrabile e prevedibile, frastagliata e compatta come una costa dei mari del Nord; l’apprendistato difficile del mestiere di vivere in baci rubati: l’essere è anche qui nella follia dell’interpolazione finale, l’uomo che si avvicina alla ragazza di Antoine e le dichiara un amore eterno e indistruttibile, as(dis)soluto; eluderà poi, Doinel, la claustrofobia del domi cilio coniugale con strani paradossali lavori senza sicurezza né continuità né ambizioni; e, infine, le pieghe del ritorno nell’amore in fuga. Insorto negli spazi filmici di Truffaut co me un suo doppio/infanzia, Doinel ritorna come altro/io maturità. Sappiamo già che, sotto altro nome e cognome, Doinel/ Léaud ripeteva a se medesimo un interrogativo dell’autore, quando il continente Claude, privato(si) delle due inglesi, specchiandosi nel vetro notturno di un taxi dice tra sé: «Che cosa mi succede? Mi sembro un vecchio stasera». La tenebra 35
dissolve la domanda e il corpo del soggetto. Doinel ritorna con ostinazione a giustificarsi come in un amore in fuga perché, secondo Truffaut, invecchia difficil mente. Egli «è marginale e non ha lo stesso prestigio del marginale». // personaggio e l’autore
Doinel è la sintesi dei personaggi del cinemaTruffaut, un eroe senza eroismi, un soggetto che personifica la negazione stessa dell’eroismo, enunciando la tragedia del mondo. Non siamo di fronte a un soggetto che fugge la società ma, al contrario, innanzi a un personaggio che vuole essere accetta to senza compromessi, e che la società rifiuta. A partire dal piccolo personaggio dei quattrocento colpi fino all’adulto dell’amore in fuga, il Soggetto truffautiano non ha “uno sco po preciso”, si sposa senza convinzione, esplica diversi me stieri e “assai bizzarri”, si avvicina alle attività artistiche ma non ha “ambizioni artistiche”, né possiede una “volontà di carriera”: un personaggio che “ha sempre dei limiti alla sua integrazione sociale”. In questo senso il personaggio che, col nome di Antoine Doinel, attraversa la filmografia di Truffaut si configura co me la personificazione stessa dell’autore che, per monologare e scrivere la propria autobiografia, si finge altro, e alla fine non può mentire oltre. Il monologo labirintico non permette di mentire troppo a lungo senza godersi già prima l’attimo fi nale della menzogna, quando, appunto, il monologo auto biografico occultato, divenuto giardino con due soli sentieri e sempre paralleli, riflette il Medesimo come io dell’altro op pure come altro io; inscena il doppio autore/personaggio in uno spazio quasi neutro che non vuole chiudersi, si sottrae alle interpolazioni, questa volta, elude la struttura, sfugge ai
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limiti del testo, svela l’autore costringendolo a dichiarare pubblicamente l’iniziale desiderio: la scrittura d’un dia rio/film, dove chi scrive non parla d’altro che di sé, dopo i film/diario dove l’io non parlava d’altro che dell’a/tro. Il cinemaTruffaut, infine, realizzerà in maniera esplicita questo desiderio originario nascosto come colpa, oppure tro verà altri artifici con cui interpolare segreti tra l’io/autore e il testo/film? Dice Truffaut: «Questo vecchio cliché del romanziere che pretende di essere prigioniero dei suoi personaggi contiene una parte di verità. Allora si dice: ‘No, Doinel non può fare questo, non può fare quest’altro, non può andare agli sport invernali, ecc.’, e diventa più facile fare il catalogo di ciò che gli è vietato che trovare ciò che può fare». Ecco, l’importante, dunque, è continuare a vivere, e a in seguire sempre un’elusione. Baci rubati era così: Doinel in fuga negli spiazzamenti del desiderio e della mancanza, nelle prigioni del Concetto/legge della Storia che, nel congelamen to eterno, elide tutte le storie di divergenze desideranti e, so prattutto, indifese, giacenti ai margini di se medesime e delle proprie ostinazioni. La Storia oblitera le erranze del Soggetto che non vuole i “pacchetti” del sociale, e Truffaut sa regi strare con grafia stralucida di passione l’errore d’io disperso a sé e al mondo, e che davvero si rivela un progetto dell’es sere gettato nel tempo della Storia come solitudine “morale” e, direi, anche molto fisica, giacché non si lascia catturare dal velo illusorio delle “alternative” di gruppo. Il soggetto/personaggio del cinemaTruffaut, disperso e stu pito del proprio smarrimento in una scena molto delimitata, osa infine allungare il passo nell’errore di una vocazione im possibile, la sosta, la sospensione; jnel procedere necessario ritrova per assurdo l’infinito e là riabbraccia se medesimo che ha un’altra maschera ed è già pronto per un’altra vaganzay una nuova finzione, ulteriore mancanza. Solo, seduto o
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muovendosi qua e là nella tenebra e nella stagione solare, il soggetto delle storie/truffaut si accinge alla ricerca di altr£ meccanismi per rimettersi in cammino con Punico fine di sfi dare la in/finitudine labirintica che prolifera nei limiti della prigione testuale, definita per a/simmetrie dagli specchi della notte e dai fantasmi dell’aurora. Qui la somiglianza del Mi stero e il mistero della Smagliatura appaiono davvero terrifi canti, eppure non smettono di porre in gioco una promessa, almeno nella immaginazione dilaniata dell’io disperso. È il punto del bilico in cui, nel cinemaTruffaut, personag gio e soggetto si dichiarano guerra, si scagliano anatemi, mi nacce, soltanto per ricomporsi in uno spazio ulteriore e sug gerito in precedenza. Il contrasto è solo esibito come elusione di storiaStoria, fuga d’ansia tra le griglie del mondo.
Il Soggetto e il personaggio
Soggetto e personaggio nel cinema di Truffaut non coinci dono, spesso si elidono. Ne sono perfette rappresentazioni Julien Davenne in La chambre verte, o Bertrand de L'uomo che amava le donne, o anche, Antoine Doinel, e, per tutti, la marièe en noir. Jeanne Moreau si sottrae alla Storia come persona, esce dalla storia (il suo paese, la sua casa, il suo lavoro) e si apre alla clandestinità degli spazi stranieri nella direzione di cin que corpi/segni da eliminare. La mariée si mette en noir e fa della sua maschera l’aper tura al compimento d’un lavoro terrificante e necessario, il delitto. Si elide, dunque, come soggetto che subisce la Storia per farsi personaggio. In Jean-Pierre Léaud, persona e sog getto vivono sdoppiati nello stesso corpo. Doinel per diven tare soggetto di storia deve soltanto iscriversi nei percorsi del personaggio che erra in una continua elusione di sé e della 38
storia/Storia in una continua erranza attorno a sé e in una ricerca di sé condotta dall’esterno, negli spazi/tempi di un mondo/Specchio tanto più assurdo, perché ridotto alla pura trasparenza in/verosimile. Nel percorso tortuoso dei sentimenti o della coscienza il soggetto delle storie truffautiane subisce la Storia e si stupi sce perché egli vorrebbe farla, invece, vorrebbe esserne pro tagonista. Ma il personaggio deve giungere in fondo all’ulti ma immagine del film per prendere coscienza di un altro de siderio, che lo immobilizza sempre al margine: la Storia elu de il personaggio che elude la storia. Tra soggetto e perso naggio s’interpone l’assenza di maschera, e il corpo errante che è l’attore si muove come doppiezza ambigua perché il soggetto va verso lo spazio della Storia ma il personaggio si/lo libera dalla disponibilità alla soggezione e ne fa un cor po in rivolta silenziosa, quasi taciuta, felice in definitiva sol tanto di errare negli spazi della storia che Valtro soggetto, il regista, costruisce e dispone ai suoi desideri, però opacizzan doli. In una costruzione filmica molto trasparente e lucida, il personaggio esibisce la propria soggettività in maniera opaca, insicura, sospettosa di fronte alla Storia e questo lo libera all’essere dell’immaginario. Il divenire è rinviato all’essere del personaggio/soggetto in uno spazio storico inessenzìale dove il principio non importa perché vi si farà comunque ritomo. Sia che il soggetto operi nella maschera dell’attore come personaggio, sia che il personaggio si racchiuda nella ma schera dell’autore, il percorso del divenire è segnato con tutte le sofferenze e i suoi godimenti, con le sue dimenticanze e memorie, è catturato nella finitudine filmica che lo congela in un destino che non ha termine perché incausato, e che non ha inizio perché sfugge a ogni classificazione. È il caso di Julien Davenne: il soggetto è un personaggio 39
che si mette in scena sui corpo di un attore che è l’autore medesimo. L’autore attraversa l’esibizione di sé come perso naggio nella continuità della storia solo per disfarsi e per af francarsi dai limiti della Storia. Rinchiudendosi, il soggetto, in tutta la sua assoluta unici tà, nel labirinto ben definito del film, qui a ogni proiezione potrà manifestare la sua infinitezza; nella interruzione del sentiero s’intravede l’apertura di una infinitudine che rinvia il soggetto a una eterna ripresa senza origine e senza fine. Il doppio di senza origine/fine può soltanto scorrere nelle elusioni di una storia che si oggettivizza come un interminabile eppure finito monologo. La storia in un film di Truffaut è là. «Attraverso lunghi percorsi, ma inevitabili e vincolanti, la Storia — dice Foucault (Le parole e le cose) — avrà portato l’uomo fino alla verità che lo immobilizza su se medesimo». L’amore, la morte, la sospensione dell’uno e la impossibili tà dell’altro sono in tutti i film/Truffaut l’essenza di questa verità, l’unico segno in/finito.
Il soggetto e la Storia Il soggetto e il Soggetto. Le storie e la Storia. Il cinema di Truffaut è sempre specchio d’una tragedia del S/oggetto, di un io/segno spezzato, interdetto, libero e sano neppure all’apparenza ormai: un soggetto che non sa da dove viene né dove va; non fugge il mondo della Storia, ma neppure lo desidera e allora, sospeso tra fuga e lacuna, vi si rapporta in un’elusione senza fine, rifiuta a sragione di compiere quel qualcosa di decifrabile, di segnare la propria cifra, perché la sua particolare storia venga integrata, nel bene e nel male, iscritta nella Legge/concetto della Storia. Il Soggetto e la Storia si avvitano in un doppio scisso, che vive come eterno vicendevole eludersi d'identità e differenza.
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La storia di Antoine Doinel non può entrare a far parte della Storia del mondo perché tra io e mondo v’è tin diaframma ineliminabile, una immagine/specchio che in(ri)frange la luce della volontà, e opacizza il desiderio della rappresentazione. Nessuno dei due elementi dell’essere si lascia facilmente in scenare dalla fantasia dell’altro. Ed è la riproduzione labirintica e multipla del cinema di Truffaut, per il quale un film è sempre il film, la storia del Soggetto diviene universo nonostante la Storia dell’universo o proprio contro di essa. Il s/Oggetto delle storie truffautiane è in definitiva un io archiviato, un insieme di frammenti che si trascina nell’ebbrezza della sua incoscienza all’insegna dell’identità, scartando, però, l’eccesso di uguaglianza: per una colpa sconosciuta e originaria, il soggetto è rigettato nell’asfissia catastale del mondo, là dove insorge lo scorcio arginoso dell’abisso. Qui le pulsioni si co/stringono, gli spazi coincidono a perfezione, im/perfettamente, col tempo vissu to come “mortificata copia” dell’eternità. Julien Davenne nella camera verde e Bertrand/l’uomo che amava le donne muoiono entrambi perché vogliono ridurre a una identità quelle che sono semplicemente delle uguaglianze — le nostre donne, i nostri morti — e osano tentare di tra sformare il tempo della memoria in una presenza eterna, sen za tempo, dove si pongono in tutta la loro imponenza ambi gua le fissioni cosmiche di una memoria totale. È il tentativo assurdo e affascinante del Funès borgesiano. Julien e Ber trand sono due maschere di un identico volto che si ripete nella speculare simmetria di smarrimenti e duplicazioni sem pre ulteriori e perfettibili: è la tragedia hòlderliniana di chi vuol vivere il presente come eternità {l’uomo che amava le donne) e/o l’eternità come presente {l’io della camera verde): né l’uno né l’altro, dunque, fanno parte degli orizzonti di Storia, ma entrambi si riflettono soltanto nella labirintica specularità di una decisione molto logica e che, proprio per
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questo, li trascende, li eccede di sragione, e li restituisce con tutta la loro in/trasparenza ai tempi notturni del fantasma e agli spazi speculari dello schema, in definitiva alla potenza tenebrosa del Riflesso il quale non conosce nient’altro che vi sioni e sentimenti d’io, oltre ogni intenzione di messaggio e storia. Julien è un doppio di odiarne/odiato, Bertrand di aman te/amato multipli, ciascuno, di altri raddoppiamenti riferibili alla scena del contemplante/contemplato. Julien, mentre fa della propria vita lo spazio per la messa in scena del ricordo, è già lui stesso il corpo-oggetto dell’essere ricordato, luogo predisposto al gioco libero e p/ossessivo della Memoria. Bertrand vuol fare della sua vita un progetto di contemplanza e si rivela, nel gesto finale, già simulacro d’una con templazione che lo definisce dagli echi oblati d’un’origine oscura. Il doppio Julien/Bertrand, nel tentativo di eternizzare il presente, e presentizzare l’eternità, si suicida, divenendo corpo/feticcio residuale di un assoluto che vuol essere infini ta presenza nelle mortificazioni del tempo che copia l’Etemità, la raddoppia, la moltiplica, la frantuma. Ecco perché Yaltro Soggetto, quello meno drammatico ma non per questo meno tragico, Antoine Doinel, continua a vi vere. Doinel/Truffaut, traversando tutte le a/simmetrie labi rintiche della Storia che non lo vuole e di cui elude sempre la Volontà, sottraendosi alla cattura delle sue rappresentazio ni per esporsi soltanto all’immaginazione della storia, non può morire, perché, pur sognando eternità e assoluto, pur non smettendo di inseguirlo, sa scivolare nel presente della quotidianità effimera, forse anche quando rivolta le carte del gioco immaginario nell’ultima fuga d’amore/cinema. È per una identica ragione che Louis e Marion, in fuga dal Mississipi alla Senna, si aggirano in entrate e uscite per i labirinti topografici del mondo sempre ai margini delle trame 42
di Storia, anche quando alla fine escono definitivamente di campo in attesa che il demiurgo Truffaut ritrovi per i loro desideri il tempo di altri spazi d’apparizione. Ma il punto è proprio questo: il soggetto/persona di storia può davvero aver fiducia nel soggetto/artefice nella Storia? Assolutamente no, perché l’uno e l’altro s’identificano nella dispersione della propria s/oggettività in nome di un unico speculare evento che li unisce: la finzione, che esclude l’auto re dal proprio testo, lo rende straniero a se medesimo e al proprio film, e strappa definitivamente il personaggio/attore alle p/ossessioni del regista. Tuttavia, lo Specchio è sempre là pronto a catturare il corpo nel passaggio imprevedibile per farne un riflesso illimitato, e, ancora, a raddoppiarlo, e mol tiplicarlo nelle simmetrie di una fantasmatica infinità. Si sa che sempre ogni film è un altro inizio. La morte di un finale riapre il soggetto (l’autore e il personaggio) a un al tro desiderio d’altro e di se medesimo. E non è forse là l’ori gine che non si conosceva? Il regista si vede strappata dalle mani {'intenzione e il film diviene dissoluzione, materia svuo tata e ricolma di desideri e scheletri in contro/luce, testo che si chiude all’infintezza, ma che pure pretende Io spreco della propria mancanza, e, tramite questo, il rivelamento d’un io dell’io. II S/oggetto escluso dalle ragioni della Storia non vuole esse re né incluso né forcluso, non vuole in nessun modo preclu dersi, ma vuole essere, compiere l’opera di contemplazione che, nella dimensione più elementare, è sempre un meccani smo, esistenziale di verità, una funzione inusuale di performanza infinita. È ciò che lucidamente traspare nell’usura smagliata del sospetto finale cui rinvia ogni film/truffaut.
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Il metodo e il godimento
Il piacere e l’angoscia. La creazione e l’esecuzione, l’entusia smo e la noia. Dice Truffaut: «Ogni volta che ho voluto pre parare e scrivere tutto già da prima, ho ottenuto un risultato troppo secco a mio avviso — come ne La peau douce, La marièe était en noir e Adele H. — e d’altronde, in questo ge nere di imprese mi sorprendo ad annoiarmi, durante le ripre se, perché non c’è più niente da inventare. Una ripresa dà più soddisfazioni se si può aggiungere il piacere della crea zione a quello dell’esecuzione». Il piacere della messa in scena è ciò che distingue un film di Truffaut dalle opere dei suoi colleghi di Nouvelle Vague, che mostrano maggiore interesse per le storie, per i perso naggi, per le trame. In comune con loro ha l’amore per il soggetto/personaggio, che è visto dalla parte della storia e della follia da Godard, della trama e dell’avventura da Cha brol, della ragione e dell’intelletto da Rohmer. Truffaut co glie il Soggetto di storia in tutta la sua internezza, dal ver sante delle visioni e dei sentimenti, della immaginazione e delle finzioni, inscena la parte maledetta dell’individuo e del ia storia d’io che immagine dopo immagine fa pulsare e cre scere, ne\Veccedenza più severa, il monologo d’infelicità e di festa, d’amore e di panico. Assurdamente, il cinemaTruffaut diviene più politico del cinema politico di Godard, proprio nel suo sottrarsi all’espe rienza politica per sprofondare nella immaginazione poietica. Al di là di ogni atteggiamento puritano/ideologico oppure indifferente/scientifico, bisogna riconoscere che una precisa coloritura politica in senso anarchico e ribelle è ben segnata nell’immaginario filmico di Truffaut, proprio là dove la struttura d’io va a coincidere perfettamente con la struttura del testo. Un film, di là o di qua da qualsiasi impegno e/o disimpe 44
gno espliciti e impliciti, o c’è o non c’è. Un filmTruffaut c'è sempre. Il suo cinema, a mio avviso, è politico nel senso del la rivolta più utopica e della canzone più anarchica proprio perché è innanzitutto un fare-poièsi(a). È l’utopia eterica in travista e catturata in una zona che precede ogni circoscrizio ne di polis, nell’infinito immaginario. L’immaginario, oltre ogni sua pretesa di astrattezza, non può prescindere dal senso della mancanza di Storia da cui è straziato ogni io del mondo, e soprattutto il soggetto d’un racconto in prima persona, il protagonista di un diario/storia. La filmografìa di Truffaut è l’enunciarsi stesso di un im maginario labirintico e storico, che non può iscriversi se non nelle pieghe di una eterna ma fertile contraddizione, di un contrasto, di un bilico, che non smette di rincorrere l’errore sul filo di un abisso che da sempre divide e unisce la ragione e la follia, la storia e l’idea, l’esperienza e l’intuizione, la sto ria e il sogno, il documento e la finzione, la monologia auto biografica e la dialogia politica. 11 cinemaTruffaut produce unità osservando contrasti nell’obiettivo dell’unico principio di ragione che enuncia ancora una valenza — la causalità —, e li coniuga nella sola duplice forma di sensibilità davvero increata o innata — lo spazio/tempo. La partenza^ che non conosce mai la sua scaturigine, può essere l’intento autobiografico o la traccia d’una rivolta, ma in ogni caso il film, nell’essenza stessa del suo processo mec canicistico, in quanto scorrimento preordito di senso, deve contraddire l’intenzione e la traccia iniziale, smorzarla e/o rafforzarla, divenendo generatore di tragica contraddizione tra apertura e chiusura, artificio e natura. Il punto di parten za non conta niente, è indifferente, importa invece l’origine che non si conosceva e che si ritrova o s’intravede alla fine, nelle fissioni dell’ultima immagine, e anche dopo la fine, nel rapporto diretto, individuale, personale, nell’incrocio dello sguardo del film che si accende sullo schermo e la pupilla
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dello spettatore che legge, guarda e si lascia osservare. Biso gna anche accettare — il cinema di Truffaut ne è costante ri prova — una specie di dementa del film e dell’evento d’una relazione d’amore, intrapresa per e we//’indifferenza o per dif fidenza, singolare e irripetibile tra due s/oggetti (io/film), in un determinato momento, in un preciso luogo. Con Truffaut, come del resto con Godard, — duplice po larità di riferimento essenziale per una ricerca nel cinema contemporaneo — non ci si trova innanzi a una fuga dalla Storia attraverso (’immaginario, né a una paralisi della finzio ne fantastica nella storia; é il caso eccezionale di un immagi nario che, per strade diverse, nella chiusura o nell’apertura, nella sutura o nella ferita, nel monologo o nel dialogo, si stravolge di sé qui e ora, dentro i muri della storiaStoria per frantumarli nell’ansiosa e spietata ricerca dell’essere, infine. Non è un caso che il mio amore filmico navighi tra queste due sponde, procedendo sull’argine abissale del doppio chiu sura/apertura: Truffaut/Godard è un nodo inscioglibile di storia e finzione, reale e immaginario, monologo e dialogo. Truffaut e Godard vivono questo medesimo nodo da due punti di vista e di partenza spesso estremi, diversi, addirittu ra opposti. Godard fa sempre in modo che una tazzina di caffè diventi un oceano tempestoso e scatenato dove l'essere stravolge il pensiero con furia semiotica, lo dilata e lo costringe alla de flagranza; Truffaut, inversamente, fa in modo che un oceano in tempesta squarciato dall’immagine terrificante di un volto femminile che annega, diventi un piccolo lago dove si conge la d'allucinamento un amore in/voluto che, nato per scio gliere un io dal vincolo d’un nome troppo ingombrante, im menso come una prigione, al nome ritorna. Dal nominalismo oggettivo e reificante di una tazzina di caffè si sprigiona un mare infinito di pensiero critico in Godard; dalla distesa oceanica e soggettiva di un folle amore si racchiude nei con
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gelamenti del silenzio acritico la pazzia d’un amore, in Truf faut. Se Godard è il Principe delle Chiusure che si sfaldano già da fuori, da un esterno senza centro, Truffaut è il Demone che architettando Chiusure ben solide, le cosparge di tenerez za crudele e le espande da dentro, le dilata, le infinisce, le azzera dunque da dentro, dall’interno. Se Godard invoca e provoca mancanze desiderando pienezze, Truffaut enuncia mancanze e le disperde desiderando ebbrezze. La mancanza e il desiderio. Un film non è la vita ma il suo esatto contrario: in un film tutto scorre liscio perché il suo spazio è purificato degli scarti dei tempi morti, mentre nella vita tutto è intricato e difficile. Lo dice il regista Ferrand/Truffaut nella notte americana per confortare Jean Pierre Léaud che è in crisi, ma nella cadenza della frase si vede che egli sa che non è del tutto vero, o non è vero affat to per il regista e critico Truffaut. Chi lo dice nel film è un regista interpretato da Truffaut/attore. Qui cade un altro nodo. Truffaut/attore, appunto. Non bisogna mai prendere sul serio o alla lettera le affermazioni del personaggio che di volta in volta Truffaut recita. Se lo recita, mi pare evidente che si senta un po’ quel personaggio, ma non bisogna cadere nella trappola. C’è la parte critica in Truffaut/attore e una parte registica che ora s’accordano ora litigano, anche se la lotta non si vede. Truffaut, sia che diri ga stando dietro la cinepresa sia che lo faccia stando davan ti, è sempre un critico che sa guardare da ogni parte l’attimo della sua operazione registica e interpretativa. L’attore/Truffaut è sempre anche un critico della propria regia, come il regista è critico della sua recitazione, e sa sempre dove inizia e dove finisce non dico il senso della battuta, ma la battuta stessa. Se in La nuit américaine, Jean-Pierre Léaud non sa rispon dere al regista Ferrand per troppa devozione all’amico Truf47
faut, Isabelle Adjani, sul set di Adele H., fa notare al regista Truffaut con molta ostinazione che «ogni film è il muro», e non già una pietra nel muro della vita, come pensa Truffaut. L’ipotesi della Adjani è convalidata da questa sprezzante e disperata accorata dichiarazione di Jean Vigo: «Je me suis tuè avec L’Atalante». Si sa che la vita di Vigo è finita nel di spiacere per i tagli di censura inferri al suo film. Se L’A telan te fosse stato una pietra nella vita di Jean Vigo, il muro avrebbe resistito, invece è crollato, dunque il film è la vita. O, più esattamente, forse, un film non è la vita in senso proprio, bensì un muro nella mia vita che, dunque, diverreb be un deserto nel mondo. Il film è un muro/schermo che si frappone tra mondo e io. In questo senso, la traccia tematica di Truffaut ritorna a iscriversi in ogni opera come Vemergen za di un desiderio puntualmente negato e, anche, come l'ec cedenza di una mancanza che da un altro versante, in una distesa precosciente, invece si desidera. Il mondo della Storia esclude ciò che il Soggetto desidera, ciò che gli. manca. Una mutilazione nella mutilazione, dunque. Il mondo offre sol tanto quel che può, il suo avere * non certo la possibilità d'essere che non conosce, offre e impone la sovrabbondanza incancrenita della sua Storia e dei suoi Prodotti, della sua marcita Economia, del Feticcio senza più sangue e vita, im pone al Soggetto, come unica chance per farsi riconoscere nei suoi disegni, di prendere coscienza definitiva della pro pria inFelicità. Un film deve ^sempre registrare e descrivere * riflettere la zona fitta di tenebra e densa di luce, l’opacità o l’abbaglio della linea infinita che divide e unisce il soggettoSoggetto e la storiaStoria, mondo e io. 1 film più splendidi sono certamen te quelli che proiettano dei fantasmi che percorrono avanti e indietro, su e giù, qua e là, questo filo sottile e infinibile che segna l’orlo dell’abisso: dalla parte del Soggetto stravoluto è La sirène du Mississipt, dalla parte del Soggetto dissol(u)to è 48
Pierrot le fou. Che io ritengo i due film più smaglianti e es senziali, in assoluto, nel cinema degli ultimi vent’anni. Loro equivalenze sono soltanto, nella segnatura di un’altra cadenza tonale, Baisérs volès e Les carabiniere. Film della pienezza man cante, della mancanza piena, della insatura lacuna o della satu razione lacunosa, film della luce/tenebra, del. tempo/spazio. Film dell’essere d’eternità elusiva. Qa qui si giunge a vivere la propria vita fino all’ultimo respiro e all'uomo che amava le don ne nella camera verde. Come si vede, il nodo è inscioglibile in io e in altro, nel singolare e nel raddoppiamento, e si può soltanto osservarlo con sconcerto proliferare all’infinito. Il nodo è Truffaut/Truffaut e Godard/Godard e l’altro nodo è Truffaut/Godard. 11 doppio nodoso d’autore ripete quello dell’immaginario assoluto io/mondo, dove l’uno rappresenta la coscienza dell’al tro e l’altro la coscienza dell’uno, e l’uno e l’altro giocano un al tro nodo d’inCoscienza, allucinato di finzioniFissioni dell’Essere. Il bilico e la prova
Bisogna riconoscere che il cinema s’è fermato, oggi, innan zi a una porta che non si ha la forza di aprire: il film di quella zona impossibile in cui l’io si rapporta al mondo. È stato filmato il s/ogg_etto e il mondo, tutte le loro opposizio ni e relazioni, ma non l’allucinamento che insorge là dove io cerco il mondo e non Io trovo, dove il mondo mi cattura e io non lo voglio, la Storia mi soffoca e io non la desidero, quando io ho bisogno di Storia e la storia mi manca. Rendere possibile l’infinito^ oppure trascinare l’impossibile nel mondo della possibilità finita: penso che questo sia il compito a cui il cinema ha rinunciato e a cui è ancora chia mato. Descrivere l’istante del bilico in cui io e mondo non si toccano e il punto in cui non possono non toccarsi. L’attimo 49
in cui film/io/mondo si elidono eludendosi o confondendosi, in una finitezza che si dilata all’infinito giacché ogni passo supera la mia vita e la vita non basta a raggiungere il mio passo. Ecco — negli scorci del cinemaTruffaut — riflesso l’unico dovere ancora precluso all’universoFilm. Oggi che è finalmente uscito dalla sua ansia di riproduttività, delegando questa opportunità all’avvento del videoregistratore, e si è fatto consapevole di essere mezzo di produzione immaginaria e di rappresentazione finzionale, il cinemaCinema deve tro vare il coraggio di inscenarsi come segno che si sdoppia e si moltiplica in una infinita trasmutabilità delle sue proliferazio ni e perdenze: lavoro filmico e lavoro reale non potranno or mai che stravolgersi e confondersi nell’inorigine primaria e fi nale dove la prima macchina terminale s’è riconosciuta nella sua “iezza” di sangue e di cervello. Si ha voglia di parlare di soggetto disperso, di autore fran tumato, d’io negato. Il soggetto è dissol(u)to e stravoluto dalla potenza neutra dell’essere che sempre si esibisce per lui, attraverso il suo corpo, le sue lacerazioni. Il testo, scrittura dell’essere, detiene l’ultimo potere d’io: le lacrime e le sue ri sate, i suoi orgasmi e le impotenze. Un qualsiasi testo di qualsiasi semiotica reca lacrime sessuali, di Se/sso, con tutte le implicanze esplicite e implicite. Questa via richiede che il Cinema si liberi del naturalismo e dell’umanismo, del realismo verista e verosimile; in un ge sto di estremo artificio ad abbracciare l’immaginario assolu to. È evidente che il contrasto non è più tra il giorno e la notte — l’avvento del colore nel cinema avrebbe almeno do vuto insegnare questa piccola verità — ma soltanto tra chia ro e scuro, tenebra e luce. Il conflitto è risolvibile filmando tutto molto grigio in bianco e nero, oppure tutto molto cupo e senza cieli azzurri in colore. Smorzare il troppo sole, il chiarore nitido del cielo di giorno, e lavorare di giorno con la luce elettrica, oppure cogliere l’abbaglio di sole che ferisce 50
l’obiettivo e lascia apparire il fantasma nello scheletro mate riale dello schermo. Accendere molte luci di notte per una illuminazione fore stale come Truffaut ha provato a fare inseguendo per strada o in casa il fantasmaBertrand in L'uomo che amava le don ne-, o, anche, creare una foresta di luci accendendo candele di cera come Truffaut indica nella sequenza in cui si scopre la cappella neH’immaginazione della Camera verde. L'artificio, servo e padrone della bellezzaReììezza che, se la si guarda, reca angoscia e gioia, ma anche godimento e mor te, per troppa luce o per troppa tenebra. Penso alla bellezza di JeanneMoreau che regala morte nelle vesti di una sposa in nero, oppure a quella enigmatica, statuaria di Cecilia che ac cende l’ultimo lumino nel luogo sacro dei morti “viventi” all’unico vivente “morto”, Julien/Truffaut che finisce di per correre l’eternità della memoria nel silenzio dell’ultima paro la: nulla. La bellezzaBellezza è una smagliatura perversa che non si lascia fermare. Lo sapeva bene Sternberg quando filmava l'angelo azzurro di Marlene Dietrich, e lo sa altrettanto bene Truffaut quando filma l'uomo che amava le donne mentre insegue la bellezza nelle notturne spazialità del mondo e del la solitaria coscienza. Ma la bellezza è anche un sorriso che stravolge. Ne è con sapevole Truffaut mentre registra le sottili insidiose perfidie di Bernadette Lafont, une belle fitte comme moi, una ragazza mica scema. O quando annota le parole che Louis dice a Marion, la sirena del Mississipi: «Parliamo un po’ del tuo sorriso, adesso. No, no. Non questo. Questo è quello che fai per la strada, oppure nei negozi. No, fammi l’altro... quello vero, quello della felicità... ecco... cosi... è magnifico... No, è troppo... mi fa male agli occhi. Non posso più guardati... Aspetta». 51
La bellezza e l’intenzione Una mancanza e una intenzione, un diario e una storia. Louis e Marion s’incamminano abbracciati in un paesaggio nevoso di montagna. E nelle loro rarefatte parole, infine, ri torna la bellezzaBellezza. Louis - Sei così bella... quando ti guardo, provo una soffe renza... Marion - Eppure ieri dicevi che era una gioia. Louis - È una gioia e una sofferenza. Possiamo tradurre queste tre battute di dialogo quasi in un enunciato teorico: bellezza è ciò che quando lo guardo mi fa provare una sofferenza e che pure quando l’ho guardato ieri era una gioia. La Bellezza è sempre un doppio di gioia/soffe renza. In questa antinomia, nell’ambigua doppiezza, ogni tenta zione filmica si dissolve e consuma. Occorre liberarsi ancora della tirannica Ragióne, costruttrice di muraglie, per scoprire che la Bellezza è sempre infedele perché ambi(ziosa)gua, e per sapere che la Coscienza è sempre inconsapevole perché in( nocentejgenua. Ad esempio, Truffaut si lamenta di aver girato La marièe était en noir a colori per via di alcune “cadute” del tono fo tografico; forse se lo avesse girato in bianco e nero potrebbe guardarlo «senza vergogna» — dice. Truffaut non ama mol to il taglio troppo “documentario” d’un primo piano di Ade le tra i negri. Ma ciascuno di noi sa che La marièe è un ca polavoro del cinema, e Adele H., anche. Il che significa: la bellezzaBellezza non è fedele neppure alle aspettative dell’au tore, anzi lo divora, lo distrae, lo elude e risplende anche nel rischio di Unibilità documentaria insita nel colore in deperi mento, così come prescinde dalle intenzioni, ideologiche o non, dell’artefice, fiduciosa e orgogliosa soltanto del senso che reca nel corpo che la rappresenta, della danza di cui il
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suo testo è capace, della malattia che la ferisce nel decadi mento e che la sua smagliatura nasconde. Chi ha avuto modo di vedere più d'una volta un filmTruffaut sa che la Bellezza pone sempre domande impossibili, perché è soprattutto muta, senza linguaggio, e pretende ri sposte che non si possono prevedere né presentire. L'impre vedibile, ecco un tratto segnico che accomuna molto cinema contemporaneo, come l’altro tratto della nudezza-, ciò vale per Truffaut come per Straub — accettare la molestia, l’in trusione del caso che interferisce nella realizzazione del film. L’imprevedibile/nudezza è un doppio di tratteggiatura filmica riconducibile alla intuizione di Bresson che, nel costruire un film di morte — serrato da tutte le parti, come afferma Truffaut — qual è Le journal d’un curé de campagne, oppu re un film che esce infine da una chiusura quale II condanna to a morte è fuggito, iscrive nella storiaFilm l’evento di un’unica verità: il vento soffia dove vuole. Qui, bisogna dire che se il cinema di Bresson è sempre una riflessione/lavoro che libera la storia all’essere, il cinema di Truffaut racchiude l’essere nella storia, lo congela di storia, lo sottrae alla facoltà del suo libero gioco e lo rende all’esse re della storia fuori o contro le griglie della Storia. In questo senso si ha una coloritura molto metafisica in Bresson, e molto politica in Truffaut. Allora, la bellezzaBellezza diviene indice della mancanza che vuole narrarsi, affamata o assetata di storia nell’erranza della finzione e nelle visioni dell'immaginario sentito. Il pae saggio di neve che vede entrare e uscire di campo Louis e Marion trafitti nell’ultima in/finita riconciliazione, e quell’altro territorio similare che accoglie la disperata solitudine di Aznavour-Charlie/Edouard, pianista — dopo la morte di Léna-Marie Dubois uccisa dai banditi che perseguitano Edouard —, questi due spazi di candore costituiscono la pa gina bianca che abbaglia e fa male agli occhi per il troppo 53
lucore e che pure è l’unica opportunità offerta a dei fantasmi ostinati per rimettersi in scena, per segnarsi di luccicanza. Come, d’altronde, la superficie del lago che Jeanne Moreau/ Catherine spezza con una sterzata improvvisa, inattesa e vio lenta dell’automobile nell’estremo vano tentativo di fermarepossedere Jim è la camera scura, unica possibilità che rimane al regista per lacerare di rappresentazioni la propria autore volezza sventrata che s’inscena nell’a/Simmetria di molteplici falsificazioni: è il tentativo tragico dell’autore di cancellare la propria soggettività enunciata nell’occultamento e nella esibi zione. È qui che insorge il momento necessario del diario, il pas saggio obbligato dalle grafie della storia a quelle della pro pria vita: il tempo in cui il segreto pretende di svelarsi da sé. Ma è anche là che ha inizio un’altra consumazione d’io, un’altra morte da offrire al mondo per lasciarsi iscrivere negli indici dei suoi Cataloghi, oppure per immettersi negli inter stizi di un testoVolume come verità interpolata, unica e in trovabile in qualsiasi altro volume identico a quello in cui l’interpolazione è avvenuta: giacché la sua “verità” è in un altrove assoluto, in un luogo assolutamente altro, ed è là, in quel testo, solo per pura combinazione di eventi casuali. Il diario è sempre legato al fluire — al fuggire — della me moria che vuole, e non sa, fermarsi. Ricordare è sempre il tentativo, segnato come destino in ogni immagineFilmtruffaut, di viversi come colpa originaria, come caduta infantile e adulta morte, ossia come perdenza d’orgasmi d’io. Una buona parte di cinemaTruffaut, e proprio là dove la memo ria in sé non si dichiara — come avviene nell’zo della camera verde — impone questo rimpianto immaginifico, disumano, là il desiderio insorge nella assoluta ricerca d’una cattura del tempolnfanzia: costringere la Memoria a spogliarsi delle for me belle della ricordanza e di qualsiasi tenerezza del rim pianto, infine, per segnalarsi come luogo del tutto eteroclito 54
d’un presente immaginario e finzionale dissoluto nelle voli zioni/fissioni d’eternità. Film come L’argent de poche, Les quatre-cents coups, L’enfant sauvage e, già prima, agli inizi dell’esordio, Les mistons, un insieme d’io dell’infanzia dilaniata è fissata innanzi e dentro le inquietudini sessuali degli adulti: è la messa in scena da parte dell’autore d’un gioco di assoluta im/purezza: la spia per eccitarsi si rovescia ne\}'eccitarsi per spiare con suipore cosciente i passaggi funebri dei grandi. Allora il gio co non smette di variarsi e di moltiplicarsi, eppure, rifletten dosi diversamente, diventa estremamente severo. Questi mistons, che sono in ciascuno di noi, che si sono eccitati “spiando” e tormentando dì interferenze questa giovane cop pia d’innamorati pieni di vita, osservano con severa cosciente partecipazione e sofferenza la ragazza che passa vestita di ne ro in seguito alla morte dell’innamorato. Les mistons soffro no già nel presentimento di essere gli adulti che uccideranno lo sposo della sposa in nero, anche senza volerlo. E sanno già che Lei dovrà ucciderli, anche senza desiderarlo.
Il film e la critica
E nell’intreccio indissolubile di un altro doppio, film/cridca che 1* infinitudine dell’immaginarioTruffaut si riconferma come una ripetizione che si moltiplica, si disperde, si ricostituisce nel riflesso illimitato d’una immagineSpecchio: l’austerità e l’incandescenza, il piacere e il dolore, la vecchiaia e l’infan zia. Un intero universo di gioco severo, tanto più autentico perché esibito con il sentimento stralucido dell’artificio di Finzione, tanto più evidenziato quanto più volutamente dissi mulato: lo spazio immaginario di ogni filmTruffaut, con la sua effezione d’eterna infinità anche ne\\'effetto notte, è do vuto essenzialmente, come la scoperta di Uqbar nella fanta 55
sia di Borges, sempre alla congiunzione di uno specchio e di una enciclopedia, o di uno schermo e di una cinematografia. In questo senso, un filmTruffaut è sempre l’opportunità di uno slittamento^ di una cattura e di una fuga, un gioco di elusioni che si apre e si chiude tra due spazi (la critica e la regia, lo spazio sacrificale del set e quello criticale della pagi na da riempire) di un unico essenziale Spazio: il cinema. Fare d’un film la pietra d’un muro da erigere in nome delle persone amate nel Cinema è una impresa sorprendente ma compensata dal fatto che è ardua. Questo sa Truffaut la cui opera si svolge tra le pretese assurde di Pierre Menard/Borges e Borges/Funes o della memoria: fare di un film il film/Cinema, ossia non una copia ma una eguaglianza, una identità; e, anche, fare d’un film un muro/Universo da get tare negli spazi infiniti del cosmo. E il lavoro si svolge sulla traccia di un discorso perseguito nella riconciliazione di una doppia scrittura, un doppio percorso del fare poietico: Film/Critica. Dunque, la prima opposizione è una tautologia: il film è il mondo» il mondo è il film; ogni film è nell’essere delle cose, ossia non mi appartiene. Questa coscienza traspare nella lu cidità truffautiana di non poter sempre controllare la struttu ra del film (Jules et Jim, La nuit amèricaine, Tirez sur le pianiste) oppure nel piacere di averla infine costretta, domata, finita (Les quatre-cents copus, Adele H., La chambre verte). L’estrema elusione della sorveglianza: « L’amour en fuite — dice Truffaut — mi ha fatto dormire veramente male; in tut ti gli stadi il film era in pericolo, bisognava raddrizzare la barra ogni momento, trovare delle soluzioni. Avevo già vis suto questa situazione in Tirez sur le pianiste o Baisers volès, ogni volta che giro un film senza sapere io stesso quale sia veramente il tema». Tra l’assoluta prigionia di una immagine congelata nel ri flesso logico di uno specchio (o di uno stagno, però incande
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scente di luce e di freddo) e l’estrema elusione di una dispe rata sorveglianza la punizione della colpa originaria ritorna non come V Altro che mi rassicura, ma come opacità ricondu cibile per molti sentieri che scorrono paralleli e si biforcano al punto che in(de)finisce il s/oggetto d’io, una mancanza d’altro forse, una presenza di medesimo del Medesimo, lo spazio del Senz'altro, che invece di lasciarci supporre un Grande autore che protegge e rassicura i tormenti e le paure del piccolo autore del testo filmico, o che garantisce anche con la sua travolgente mistificazione fantastica le immagina zioni del soggetto/autore di testi filmici e non filmici, vuol farci provare «la vicinanza di una strana potenza, neutra e impersonale» (M. Blanchot, l'infinito letterario). Questa “strana potenza” che traspare in ogni immagine del labirintoTruffaut è una mancanza e una pienezza, un desiderio e un sapere, un essereSenza inizio né fine né tempo né spazio né causa né in/determinazioni. L’immagine de\\'infinito /z7w/co/Truffaut è una scheletricità materiale che si dispone alla' ferma trasparenza di una eterna immaterialità, o d’una materiale fantasmaticità, una differenza equivalente a un senzaFine, senza Storia e così di seguito in un trascinamento fissato nel gioco dell’immagina rio che infine prova a stravolgere la Cattiveria el/usiva e s/fuggente deWinfinità eterna nel rovesciamento imprevedibi le ma non per questo impossibile di un glorioso assoluto che si raddoppia nel nodo di sacrificio/ebbrezza nell’evento che si può solo evocare in quella ferita del s/oggetto in cui io si nega ad altro per disporsi agli allucinamenti di un tempo/spazio astorico, dove insorge, eterna e infinita, la Pie tà che riduce alla contemplazione di sé ogni altro spreco d’orgoglio o di umiltà, di miseria e di festa. Nel processo di speculare riduzione, che non annulla ma denuda, Truffaut organizza una uguaglianza sempre differen te nella singolarità dell’elemento che pure viene da altro/ve, 57
dallo sconforto di uno spazio/presenza impersonale d’zo, non dalla garanzia del genio maligno dell’Akro. La particolarità del soggetto/io è quella di somigliare a tutti gli uomini, tranne nel fatto di somigliare a tutti gli uo mini. Lo dice Borges di Shakespeare. In tutti gli autori, è un solo autore che è l’unico Soggetto che non è nessuno. E così per un autore e per Truffaut in quanto autore, ma è così per ogni suo film che si apre pro prio nella dissoluta dissimulazione dell’Apertura, nella chiu sura che incorpora l’essenza di tutto il cinema della Storia e che nella sua Unità sacrifica la propria “unicità” mentre pure custodisce la propria inesauribile solitudine, per disporsi alla “ripetizione estenuata” di tutti i film del mondo. La persona dell’Autore si consuma nell’opera sacrificandosi all’im/persona dell’Operazione. Il film, racchiudendo nella sua più ferma unità/identità il Cinema, si libera ad altri spazi, alla Critica anche, attraverso il crollo simultaneo (dunque progressivo/regressivo) delle frontiere innalzate al Dio più personale in nome di una dura fortezza della Storia e nell’invocazione d’eterna difesa delle sue oscilazioni incancellate ma non in cancellabili, rinviabili a un doppio di base: Legge/Ragione, regola del concetto e immacolata concezione del regolamento d’Ordine, in ogni spazio bianco o nero o colorato dove in sorge il bisogno della lettera (la parola, lo scritto, etc...). «La letteratura, dice Blanchot, non è un semplice inganno, è il potere pericoloso di andare, attraverso l’infinita moltepli cità dell’immaginario, verso ciò che è». La filmografia di Truffaut, la speculare immaginarietà del le sue storie, l’estrema lucidità con cui costruisce il gesto e il riflesso, s’iscrive in questa tensione infinibile verso l’essere che, d’altra parte, nel rovesciamento assurdo, vuole sempre lasciarsi afferrare in ogni film dall’autore con un estremo ar tificio: Velusione che lo rende misterioso e segreto, imperso nale e potente, in una vicinanza che si riproduce e si lascia
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avvertire per sottrazioni, e interpolazioni e interferenze, per “pacchetti” di mancanze non sempre e non ovunque prevedi bili, quasi sempre disseminate negli spazi del dispendio e nel le ferite del sensOj negli interstizi dell’estremo orrore e dell’ultima estasi, dell’estrema paura e dell’assoluto amore. Truffaut sa che bisogna sempre lasciarsi inondare di piace re nella doppia mandata di gioia/angoscia, e mai di un solo rimpianto. Truffaut sa che non si può mai essere interamente sul “set” dove i problemi di fuori, d’io e altro, vengono ad ag gredire; l’interferire del mondo nella magia del set (Fellini per esempio ignora questa verità) impedisce di capire del Ul to ciò che si fa: è dopo che si capisce di più, nello spazio ri stretto e buio di una moviola nella ripetizione degli scorri menti e delle fissioni, delle soste e delle riprese, è là che il film si strappa ai residui, ai detriti che arruginiscono i mec canismi dell’esistenza, e tuttavia mai del tutto perché all’im provviso il film si fa mondo, il mondo diviene film. Il cine ma traspare come film/mondo. I punti di riferimento crolla no, anche le frontiere, il mondo e il film si rimandano in eterno e all’infinito i riflessi delle loro immagini. Nel rapporto film/mondo si riproduce perfettamente quel gioco di molteplici speculari rinvii che Blanchot vede verifi carsi tra il mondo e il libro. Questo potere indefinito «di riverberazione, questo scintil lante e illimitato moltiplicarsi che è il labirinto della luce e che peraltro non è un nulla, sarà allora tutto ciò che trovere mo, vertiginosamente, in fondo al nostro desiderio di capire». Dunque, se il libro/film, il testo, è la possibilità del mon do, dobbiamo anche dedurne «che è proprio all’opera del mondo, non solo il potere di fare, ma quel grande potere di fingere, di falsificare e d’ingannare di cui ogni opera di fin zione è il prodotto, tanto più evidente quanto più questo po
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tere è in essa dissimulato». (M. Blanchot) Non è troppo azzardata l’ipotesi che un giorno Truffaut possa filmare la sua odissea nello spazio, senza missili, sen za cosmosfere, senza marziani o lunari, senza ritorni mitici, ma intessuta di tempi storici e diaristici, che sia piuttosto una grafia generale della vita, dell’esistere nell’ansia furiosa o serena d'essere. Forse sarà un'odissea nel tempo, senza spazi fantascientifici, ma semplicemente cosparsa di scorci e tagli fantasmatici e labirintici, per restituire al mondo e al cinema l’orditura complicata della Storia che non vuole, e non si sa ancora perché, liberare il Soggetto all’essere. Il tempo delle vicinanze è lontano, come ben si sa, e le pro/premesse mancano. Eppure il linguaggio «è ormai destinato a proliferare senza origine né termine né promessa» (Foucault, Le parole e le cose). Nel tracciato di tale spazio “vano e fondamentale” s’iscrive giorno dopo giorno, scena dopo scena, il testoFilmcinema. Là, probabilmente, Truffaut cerca ancora di ritrovare quella parolalmmagine prima, interamente iniziale e recentemente perduta al cinema, la quale fondava e circoscriveva un tem po, il movimento infinito del discorsoCinema.
Il teatro e l'essere L'ultimo metrò conduce il cinema/truffaut al Teatro e ri porta il teatro al Cinema. Il cinema/teatro, estrema finzione, gioco deH’immaginario, spettacolo della vita contro la morte della Storia, rivalsa del récit sull’epoca, sull’evento epocale, il tempo del racconto contro l’evento dell’epoca: la guerra. Uno spettacolo contro un altro spettacolo, dunque. L’amore dello Spettacolo è spettacolo d’amore, l’odio della Storia è storia dell’odio. Lo spettacolo è storia d’amore, la Storia è spettacolo d’odio.
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Lei: Fa male l’amore? Lui: Sì, l’amore fa male... Sei bella Helena, così bella che guardarti è una sofferenza. Lei: Ieri dicevate che era una gioia. Lui: È una gioia e uno sofferenza...
Ritornano in dramma, nell'ultimo mètro, in teatro, le pro messe e le minacce d’amore di Louis e Marion in La sirène du Mississipi. E il cinema rinasce proprio per il sentiero più impervio, nella scena a ombre cinesi del teatro Monmartre, del teatro borghese. Nella Sirène era una proposta di teatro nel cinema, nel Mètro è il cinema riproposto come teatro. Forse, finita la guerra, Marion abbandonerà il ruolo di Hele na, ritornerà a far cinema e Helena tornerà ad essere un’altra Marion con un altro Louis in un altro territorio del MississiP>Marion e Louis rientreranno in un’altra avventura filmica dopo la prova e la sospensione del teatro in cui Marion( De neuve) s’inventa un altro Louis(Depardieu) giovane come lo era il Beimondo della Sirène, ma forse più sincero, ossia più istrione, disponibile al molteplice gioco dell’immaginario: il teatro nel film, il cinema nel film del teatro. La frase che ritorna come motivo del teatro nel film è un motivo di un altro film, cinema che si performa di teatro: è un’astuzia e un’elusione del cinema ma anche un’elisione del la scena che inganna e s’inganna, nella rappresentazione di una storia di vita in una Storia di morte. Quella frase «Siete bella, Helena, così bella etc...» ritorna nel teatro che scorre dentro e sotto la storia e crea buchi vuoti nella Storia. In quella frase insorge anche il ritorno della bellezza sfug gita e ripresa nell’ultima caccia, in una cattura difficile e ero tica, in quanto amore fatto di sofferenza e gioia, e come me todo che accompagna il cinema/truffaut anche oltre il tema di ogni singolo film, oltre la storia, facendo della storia oltre la storia. 61
Per quest’altra via ritorna il suggerimento di Truffaut mes so in bocca al regista teatrale Lucas: non bisogna mai esegui re un testo o una nota al testo alla lettera quando sia crea, si filma o, comunque si mette in scena qualcosa, perché an che l’autore che ci ha preceduti che ha scritto il testo e sug gerito la messa in scena può avere sbagliato, dato che l’erro re è un diritto e un bisogno, e si affida alla sensualità di chi realizza il suo testo e suoi appunti. Il passato conta solo co me erranza, dimenticanza necessaria alla nuova vita. Chi non dimentica muore. Il motivo della Camera verde ritorna anco ra e ancora un ritorno dichiara Truffaut nell’ Ultimo mètro. Cinema/teatro/storia diviene storia dell’immaginario, uni ficazione armonica di moltiplicazioni speculari, di opposizio ni, ripetizioni e contrasti che proiferano nel conflitto cosmico della Scena teatro/cinema, nel Film, in una illimitata simme tria che si dilata nel riflesso infinito dello specchio/superficie dell’obiettivo, lastra della camera dove un altro Narciso si ri mira e gode di sé, della sua immagine che si trasforma nella fissità di sempre. Ciriaco Tiso
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Parte Seconda a Truffaut /T
Il fantasma, o dell’amore sublime
L’ultimo mètro è la scena fìssa d’un sotterraneo svuotata di senso e ripiena di rumori e vocii. È un buco vuoto che s’iscrive come documento e finzione della storia del docu mento, falsificazione d’una scena di reperto fuori dalla storia/Storia. È il fantasma. È anche l’ultima opportunità di mettere piede in casa al ri paro dalla tragedia della Storia, ma anche di ritornare ai luo ghi della memoria, del passato, dell’estrema mutilazione dell’essere, dove pure incombe una presenza immaginaria co me gioco eterno contro la seriosità burlesca del quotidiano storico. Il gioco del teatro, fingendo sentimenti e distruggendoli, elidendo passioni, elude la storia e stravolge la Storia nella conversione del teatro in film e del film in teatro. Finzione, recitazione, mascheramento, custodire un segreto, vivere an cora un sogno, percorrere ad una ad una confondendole tut te le tappe deH’immaginario. Il ritrovamento della bellezza/ amore è una gioia che fa piangere e una sofferenza che fa gioire. Il segreto si schiude senza rivelarsi mai del tutto nel gesto dello schiaffo. La mano della Deneuve colpisce il volto di Depardieu non quando questi annuncia a Marion che sta per lasciare il teatro ma quando le dice che sta per lasciarlo “a causa” dell’impegno nella Resistenza. 65
Se Depardieu si dovesse offrire interamente alla Storia (la politica), la storia (la finzione, l’immaginario, il sogno) fini rebbe e con la finzione scenica avrebbe fine, in un buco vuo to che si riapre nello spazio scenico, anche la ripetizione del la bellezza ritrovata: una dichiarazione d’amore che è una enunciazione illimitata di dolore e di godimento. L'immaginario è questo doppio, il teatro lo è, e soprattut to il cinema, il cinema d’un film dell’ultima opportunità di far apparire in scena Julie/Marion, la sirena del Mississipi accanto a un altro Louis che si chiama Bernard/Depardieu, per smascherare Y altro del cinema di Truffaut ossia JeanLouis Richard, suo sceneggiatore da La peau douce a La nuit américaine, per riabbracciare la figlia ormai ventenne di Jules et Jim ossia di Catherine/Moreau nata dal suo rappor to con Jules e desiderata a lungo e invano dal suo legame con Jim. Il destino ritorna come segreto e si ferma sprigionandosi in tutta la sua smaglianza onirica d’infinitudine sempre altra e altrove da (ciò che) dove la si voleva, la si cercava. Il biso gno è un dispendio d’imprevedibile, un riserbo d’impossibile, prendere l’ultimo metrò per scrivere un’altra poesia, per fare d’un film un’altra poièsis che sarà sempre la prima, perché è sempre primo quel che scaturisce daìYultimo. La scaturigine dell’immaginario è appunto l’ultima violenza della Storia. Lo spettacolo vive di storia nel cuore segreto della Storia e il piacere sconfigge ancora l’idiozia della sparatoria. E si sa che la finzione cinema/teatro sutura il buco vuoto della Storia tramite il segno della storia, che prolifera e si moltiplica in altre storie, origine di altri desideri. L’ultimo mètro è una costrizione all’immaginario che si li bera dentro uno spazio Storico mutilato, una barra di simbo logie tracciata sul reale; ed è anche l’estrema opportunità di salvarsi, di raggiungere la mèta attraverso il gioco di ferite del conflitto, scavalcando i buchi vuoti della storia e i passi 66
falsi della storia, le crepe del reale e i botri della finzione. 1 buchi vuoti sono gli spazi scenici da riempire nell’attesa di un finale oltre la scena, nel reale storico: e che di fatto si riempiono eliminandosi, riducendosi e svuotandosi dietro i suggerimenti segreti del genio/regista che guarda e dirige stan do nascosto, ossia come corpo/cervello morto alla Storia, ma lucido e vivo per l’immaginario del teatro e del Cinema. È l’apparizione assolutamente fìnzionale nello spazio scenico, del tenero colossale attore/personaggio Bernard/Depardieu che si rap/presenta alla presenza inquietante di una attrice pura mente cinematografica che gioca perfettamente il ruolo di protagonista / impresario teatrale. Depardieu e la Deneuve sono due presenze inquietanti l’una per l’altra. La recitazione di Bernard è la copertura di un ruolo nel reale: la lotta, la Resistenza. La finzione di Marion è la ma schera dell’altro, il marito Lucas di cui interpreta l’opera cu stodendone la vita nello scantinato del teatro “Monmartre”. Non è chiara, ha qualcosa di ambiguo, qualla donna non mi piace, dice di lei Bernard all’inizio. Ma si vedrà presto che il poco chiaro, ossia l’ambiguità della Deneuve/Marion è una proliferazione di amore: a) per il teatro: è lei che lo por ta avanti in mancanza del marito; b) per il marito/regista, Lucas, l’uomo regista, che ella nasconde alla Storia nel sot terraneo scenico e esibisce alla scena; c) per il suo mestiere di attrice; d) per la sua assoluta disponibilità ad altro amore per Bernard, mentre mostra esattamente il contrario, ossia durezza e anche ostilità in una fedeltà assoluta aH’immaginario della finzione', è aggressiva in quanto bellezza infedele sempre, ossia uguale nella diversità, coerente nella apparenza delle contraddizioni: lei che lo rimprovera con violenza quando Bernard, per difenderne la reputazione prende a bot te il critico nazista che non vuol chiederle scusa per le offese; lei che non vuole che Bernard le sfiori il viso con le dita, co
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me esige il copione, e come ordina Jean-Luc, colui che mette in scena lo spettacolo di Lucas seguendone troppo alla lette ra le indicazioni per non sbagliare regia; lei, Marion, acco glie dentro di sé, nel suo corpo, Bernard, senza per questo tradire Lucas, e amerà Lucas senza per questo tradire Ber nard. Infine la Deneuve custodisce nel proprio nome, Marion, un altro personaggio/truffaut, la sirena del Mississipi, la Marion che, in un’altra finzione, nascondeva il nome di un’altra donna uccisa per necessità di sostituzione in un an nodati d’inganni falsi. Nell’imperversare dell’assoluta finzione che dilaga nelal sce na e nel reale stravolgendo la storia/Storia le griglie dell’im maginario, ricorre un motivo filmico che è il dialogo/scena di un altro film che appare sulla scena del teatro. È Depardieu/Bernard che dice Deneuve/Marion le parole d’amore (confessione d’un’idea precisa di bellezza filmica di Truffaut) che in un altro film Beimondo/Louis ripeteva ad una identica/diversa Deneuve/Marion: Marion: Fa male l’amore? Bernard: Sì, l’amore fa male... Sei bella, così bella che guardarti è una sofferenza. Marion: Ieri dicevi che era una gioia. Bernard: È una gioia e una sofferenza.
Nella Sirène, al posto di Bernard c’era Louis. Il diaologo chiudeva il film con una dichiarazione di bellezza, un inno alla bellezza. È così nell'ultimo mètro il cinema della Sirène diviene tea tro, filmizza il teatro, e il teatro diviene cinema e teatralizza, drammatizza il film. Paradossalmente le sequenze più teatrali dell'ultimo mètro sono quelle che esibiscono più cinema e sono più filmiche sono i quadri del teatro, delle ombre cine
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si. Il vero teatro invece è nelle finzioni di Marion e nei rac conti di Bernard. Bisogna riconoscere che l’inizio del film, con Bernard che corteggia in piano sequenza una donna che si rivelerà essere la sarta del teatro “Monmatre”, è cinema puro e tuttavia se gna il punto in cui il Cinema dissolve nel teatro: teatro è il corpo del film, la parte che copre l’intero arco della narratività filmica dove,, come buchi vuoti, insorgono i momenti di un dramma forduso (inconcluso e sconcluso) già dilaniato dal cinema che ne divora le parti. E il finale del film, che parte come rèe it, come storia vera narrata dal film/cinema, si rivela conclusione inattesa del dramma, della storia che si svolge sulla scena del teatro: ed è con questo smascheramen to ambiguo che il teatro è iscritto nel cinema, si dichiara film, s’iscrive nel film, si dispone infine al cinema. Vepos nascosto sotto lo spazio scenico e dentro la messa in scena d’un testo, dentro la verità e gli errori del proprio testo messo in scena da chi ne custodisce il segreto, Vepos sotterraneamente sconfigge la sua epoca sottraendovisi e donandovisi con tutta la sua lucida passione, con gioia e soffe renza, aprendola alla disponibilità assoluta dei sentimenti e delle loro possibilità multiple. Marion amerà il teatro, amerà Bernard e riamerà Lucas, il genio dell’ultima bellezza gettata come sfida alla bruttezza di sempre: l’ingiuiria della Storia. Si capisce allora come V Ultimo mètro può essere soltanto il retro di un teatro, l’apertura dello spazio scenico che divie ne film dopo essersi nutrito di cinema nell’elusione della Sto ria nella storia. Dove, l’unica scena d’amore della commedia recitata da Marion nel teatro di Lucas si dilata e spazia ad abbracciare illimitatamente l’intero corpoFilm che non vuol perdere il suo spazio nell’evento epocale d’una opacità stori ca la bellezza vive nel retro della scena e nel cuore d’uno Spazio occupato dalla bruttura, e il retro diviene il cuore che
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danza e ride anche nella sofferenza: impone lo splendore del la finzione. Non è il tempo a passare ma sono gli uomini, gli io. «Helena, mia cara Helena, quando mi darai la tua fiducia? Non sai che sono l’uomo al mondo che ti ama di più? E poi c’è un’altra cosa». Lei: «Cos’altro?» — Lui: «Cè che non vo glio perderti». Lucas, attraverso un buco ricavato n^lle pareti e che mette in comunicazione il suo nascondiglio con lo spazio scenico, può ascoltare la propria messainscena segreta, e fare in mo do che attraverso il teatro, i suoi sentimenti di scena diven gano sentimenti dell’essere. Il cinema permeandosi di teatro e contaminandosi di storia ritorna alla purezza del cinema. Lo spazio della finzione diviene la scena deH’immaginario dove il fantasma, moltiplicandosi in altri fantasmi, danza. E l’amore gronda di gioia e di dolore, ma soprattutto versa piacere, sparge lacrime di piacere, elargisce veri spasimi di godimen to, per custodire l’ultimo duplice segreto: il sogno e la finzio ne del sogno. L'ultimo metro è un mètro/fantasma e più che un film del teatro che vive e fa vivere sotto l’Occupazione, è una storia d'amore che squarcia le costrizioni della Storia.
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Il demone, o dello stravolgimento
1. Può darsi che ['inizio del Cinema che io sognavo alla fi ne del film di * ) Ferreri( fosse già stato avviato, prima di Chiedo asilo, dal cinema di Truffaut nelle sue più recenti scritture. E ritrovando Truffaut ci si accorge che bisogna sempre ripetersi. Si sa che Socrate, che andava ripetendo il mistero delfico «conosci te stesso», fu preso in giro da Aristofane nelle «Nu vole»; pare che Socrate fosse presente alla rappresentazione e sembra anche che gli spettatori piuttosto che ridere abbiano applaudito il filosofo in persona. A me tuttavia piace imma ginare che la gente gli abbia riso in faccia o alle spalle e che lui stesso facesse mostra di divertirsi del loro riso provocato dalla sua doppia presenza: nello spazio scenico e nello spazio pubblico, come «persona» e come individuo, come personag gio di un dramma reale e di un dramma esistenziale. E così come io lo immagino, Socrate impara a difendersi non difen dendosi affatto, ma partecipando alla offesa di sé, che è sempre un modo per aiutare la gente a capirsi. Lui che veni
(*) Si tratta di Chiedo asilo, al quale è stato dedicato un lungo saggio nei n. 301 e 302 di “Filmcritica”. Ogni riferimento a Ferreri e al suo cinema, in questo scritto rinvia là.
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va avvertito dall’interno demone delle cose che doveva evita re trovava il modo di non difendersi: stare al gioco e non ri spettarne le regole, oppure non stare al gioco e rispettare certe regole. Socrate che, spostando la riflessione filosofica dall’oggetto al soggetto (strappandola alla tecnica retorica e illusionistica, di potere, dei sofisti, di Gorgia e Protagora) cominciava a concettualizzare la filosofia togliendola svestasi dionisiaca delle origini — e per questo in un certo senso colpevole ai miei occhi irragionevoli —, aveva tuttavia il merito di sentir si una specie di levatrice come la madre: aiutava a partorire un qualcosa che non fosse proprio un sofisma, un inganno, o una doxa, cercava di far dono di sé agli altri, agli animi intorpiditi degli Ateniesi gettati tra l’età d’oro di Pericle e lo spazio del suo crollo, indicando loro Valétheia, ripetendosi fi no allo svuotamento: e perciò era preso in giro anche dai so fisti, per il suo ripetere sempre le stesse cose. Nella testimonianza di Senofonte (Memorabili, IV) è iscrit ta sia la «presa in giro» sia la «risposta» ad essa. Udendo dalle labbra di Socrate cose che aveva già sentito ma non ascoltato né compreso forse, un sofista, Ippia, con aria di canzonatura, disse: «Ancora vai ripetendo, o Socrate, quelle stesse cose che ti ho sentito dire un secolo fa?». Socrate rispose con la sua solita impaziente e agitata cal ma: «E quel che è peggio, o Ippia, non solo dico sempre le stesse cose, ma anche sugli stessi argomenti; mentre tu inve ce, forse perché sei molto dotto, sugli stessi argomenti non ripeti mai le stesse cose». Ecco, la demonia del mio Senza è anche in questa difesaripresa della parola e degli argomenti; e aggiungo: ripetere le stesse cose su argomenti uguali e diversi; oppure, ripetere al tre cose sugli stessi argomenti. Insomma ritorna Truffaut, e, con lui, il cinema fatto e quello da fare, ritorna il film nella sua sospensione tra progetto e esibizione, tra attesa e realiz 72
zazione, tra contemplazione e azione: ritorna e si ripete cal pestando ogni impedimento maligno, che è sempre anche nelle sottili e dotte (soprattutto perché garantite dal Potere) ironie o «critiche», comunque idiozie, di molti. Io dico: signori miei, ripetetevi fino alla fine, però sulle stesse cose e su altre su di voi e su altri ma prima su di voi! Non fate come i politicanti che ripetono una cosa sempre detta e mai fatta, mai sperimentata e mai contemplata, mai intuita, mai esibita se non nel verbo rigonfio e imbecille della promessa di mestiere. Invece, bisogna ripetere una dispera zione e la possibilità stessa della ripetizione dopo il salto. Una disperata ripresa dell'indicibile, dell'innominabile. Oggi del resto la mia canzone è soltanto una invocazione alla saggia scellerata Senzienza, questa chiusa apertura senza fine che mi ossessiona, vendicando finalmente tutte le altre desolate esaltanti depressioni. Angosce, anche, e orgasmi inutilmente dissipati. Chi si unisce alla mia scrittura, dun que, in questa melodrammatica tragica aria, questo assolo che tuttavia mi permette una ripresa ancora? L’invocazione si raddoppia, si moltiplica, s’infinisce già ai suoi albori.
INVOCAZIONI O lo, mio dio, perdesti Fortune sprecasti avventure nell'Ansia di un’altra paura Eguali sventure avrai nella rinuncia ad altre Chiusure.
Placati, o dio selvaggio, e lascia finalmente in pace questo Io strappalo alla tua iracondia feroce, 73
ingiusta, liberalo dalla prigione d’eternità senza orizzonti d’ombra e di luci Infuria, tenebrosa Luna e rendimi, nelle notti di Pienezza, la memoria che il tuo grottesco sorriso mi tolse per sempre l’altro ieri dalle labbra degli occhi! Ho bisogno di questo per tornare a fissarti, opaco riflesso in fondo alla Tenebra, evitando d’indicare col dito il gesto fatale!
Adesso, o Dolcezza, puoi anche sprofondare! Non avrai salvezza, neppure dannazione ma desiderio di altri Te in altri meriggi. O Destino, amico e nemico, ascolta la Sua fame di candori v esaudiscila, fallo per Me — esultante vanità di ogni tuo capriccio! Hai ancora terrore di rinunciare all’antica logora sete di Ansia, o idiozia! Ma neppure sai davvero volerLa. O ansia, Ansia mia, perdonami in nome dello sfascio del mio Nome e del Tuo, ansia, ansia mia perduta ebbrezza di 74
Melancolia, estatico inizio di ogni Filosofia! Una disperanza e una ripresa nelle ripetizioni che non han no niente di «sociale», «psicologico», «religioso», «morale», «gnoseologico»; ma sono ipotesi e misure ritmiche di danza e di musica. Dov’è, ossia qual è il luogo della frattura tra vita e morte, tra inizio e fine? È proprio in quel Vuoto che ince stila la Bellezza e la Bruttezza, la Verità e la Menzogna, nel la sospensione del rito che è l’inopportunità rimossa della di menticanza. È nell’ob/io della disperazione che si sente ad dosso, che è con, presente, hic et nunc\ quindi V oblio quasi fetale di quei tramiti che sono l’avventura del vivere, lo stu pore dell’esistere. Forse l’inizio stesso della Esistenza è nel ricordo — lo di ceva già Platone (l’anima in vita ricorda le idee iperuranie — meglio di così!) — e la memoria vivifica attimo per attimo il distacco del tempo finito dalla sua Infinitezza, questo acca dere della spazialità, questo stagliarsi (nel ritaglio) dello spa zio dalla Infinitudine iniziale. Nella dimenticanza è dunque la morte e, tuttavia, se il tempo ha un suo punto di strappo dalla Infinitudine, ne avrà infine uno anche dalla Finitudine e allora l’io liberato dal corso finito potrà abbracciare la sua totalità originaria di essere spazio tempo in-finito. Ma ci vuole inutile sacrificio, spreco. Bisogna consacrare una esistenza a questa ritualità del ricordo: prima, «appren dere» il ricordo (intuirlo nel molteplice), poi «comprenderlo» (dargli un senso, o concetto), infine «esibirlo» (come $/oggetto d’immagine). Scartando ogni linea di fuga negli spazi dell’esistente, si sceglie o si lascia scegliersi nel ristagno del Sentimento unico che, conosciuto, si contempla, si vene ra nel rito e poi gli si costruisce il Tempio: facendo, della persona conosciuta e ricordata nel culto della esistenza eletta a cerimonia, la regina di un mondo di «santi» per me; Lei è 75
la regina, che risplende in alto nella «foresta di luci», e in fondo a tutti, ponendosi come vertice e culmine della pro fondità in avanti, e in alto. Se, dunque, dimenticare le perso ne che abbiamo amato o odiato e che sono morte vuol dire rimuovere in noi la Morte stessa per vivere, per consumare un rituale già sbiadito nella conoscenza e nella eticità o nel culto del bello (qui si inserisce il discorso dell’altro film di Truffaut, L’uomo che amava le donne), della famiglia, del lavoro etc..., un Senso diverso è rintracciabile nel ricostruire la Morte di un altro rito, quello funebre, cui il primo viene sacrificato nella inversione-perversione di ogni ragione e di ogni materiale: comportarsi con la Morte (le «persone morte che hanno contato qualcosa per noi») come in genere si fa con la vita e viceversa. Truffaut opera magicamente questa perversione erotica fa cendo della Vita la morte e della Morte la vita, o anche dell’Esistenza una bruttezza e della Morte una bellezza da vi ver e che non può non vivere, se noi vogliamo che viva: per ché, in realtà, come può mai morire chi muore nell’amore, nell’Eros spezzato al culmine del godimento non consumato? La decisione ci prende da qui. E da qui ha inizio il primo orrore (il primo piano di Truffaut tra gli Orrori della guerra che, in una finzione stupefacente, sovrappone un volto di reale finzione a una situazione di immaginaria documentazio ne nell’impotenza stravolgente dell’osservazione quasi orrida mente estatica della morte dei «simili» estranei e poi dei «si mili» più vicini per affinità elettive) fino alla perdita dell’Unica affinità senza la quale il rituale dell’esistenza non ha più senso. La perdita di una «totalità» che già toglie erotismo ai miei giorni a venire, unita alla scomparsa di altre «affinità» anch’esse erotizzanti un tempo (le persone «che hanno conta to qualcosa per noi») fa di Me uno di loro e non uno di quelli che li dimenticano, fa di me uno di loro nell’atto stes so del ricordo voluto, del rito imposto, delle cerimonie che
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consacro al loro culto, del luogo che mi scelgo per il rito («la camera verde») e infine del Tempio che dedico loro do po che l’Unicità (l’Eros unico) mi avverte che non vuole esser sola abbattendo lo spazio della conservazione del proprio si mulacro con un fulmine. La voce ritorna e il rapporto è sta bilito anche da questi colpi della stregoneria, da questi eventi magici, che non deprimono ma estasiano e entusiasmano a consolidare il luogo e il rito stesso. Dov’è, dunque la «came ra verde», o, più precisamente il. «verde» della camera? Nel cinema o fuori? Questa volontà di ricordare e di amare nella memoria spinta oltre di sé, dalla volontà alla necessità, al ri chiamo del Destino, capace solo agli albori dell’io fetale, irri gidisce l’animo in una fissità di morte, in un rigore morale pur nella violazione quotidiana della norma del Sentimento: la morte non fa giustificare chi ci ha fatto del male, chi ci ha fatto scoprire che bisogna diffidare della vita (Massigny, amico-nemico). È solo un primo passo dell’impresa, la prima tappa, come per la pratica di Milarepa: il primo stadio del Rito è l’ap prensione e l’esibizione della magia nera:, oltre c’è quella bianca. Bisogna imbattersi nella guida giusta e qui, nel film di Truffaut, è una donna, una Bellezza che nei sospetti di chi ricorda appare come oblio: Lui l’ha conosciuta da picco la, anni addietro, ma fa una gran confusione sul dove, con chi etc.; Lei invece ricorda perfettamente tutto, perché ricor da il passato come vita che vuol morire, mentre Truffaut ri corda il passato come morte che vuol vivere. Il contrasto è qui. Una cosa unisce ed è questo comune legame al passato, ma un rapporto presente in questo legame non può esserci: bisogna fare attenzione perché il richiamo di un altro eros tenta tuttavia, avvince, ci soffia addosso. Julien ne ha orro re: rifiuta di vedere l’amico che all’inizio sulla bara della mo glie sta impazzendo e per il quale litiga col prete che promet te il «ritorno» dopo il Giudizio (il suo amico è adesso che 77
vuole viva la moglie, se non può dargliela stia zitto, se ne vada; e poi suggerisce all’amico che la moglie «non è morta» se lui non vuole che muoia) e che ora dopo qualche mese si è risposato. È la sciatteria che, nel rigore della cerimonia sa cra oltre le strutture religiose che lui si è data, TruffautJulien non può concepire, non deve. E quindi, nella estasi dell’uno e del vero bene della Bellezza una, della Fedeltà bel la o della Bellezza fedele, Egli non può instaurare con la ra gazza altro rapporto che quello del ricordo e del culto del passato, pur nella differenza che li separa. Ma è proprio la differenza che, ingrandendosi, esibendosi, stravolge e trasmuta valori: quando Julien si trova nella casa di Cecilia e vede immagini di Massigny appese al muro (nella «camera verde» di Lei che custodisce il simulacro del «nemi co» che lui ha scartato dal suo tempio del ricordo erotico), è allora che l’io è sconvolto, stravolto dal dubbio nella sua fis sità in una duplice rappresentazione: Massigny, questa pre senza funerea, tradendo in vita la sua fiducia e amicizia, gli aveva per primo aperto un baratro nel suo rapporto di luce con l’esistenza; e ora Cecilia col custodirne l’immagine (la persona che per lui non conta, invece conta molto per lei che ne è stata allieva e amante) apre una ferita nella ipostasi della sua Ricordanza vissuta sempre come unicità che riflette l’esemplarità dell’Eros che lo ha baciato e poi lasciato (la moglie morta). A questo punto c’è Io sfascio, perché tutta l’iniziale ricerca, dell’anello della moglie dall’antiquario è un ritrovamento di un doppio passato (anello e Cecilia) che lo accompagna e vuole possederlo mentre Lui sa ancora negarsi: scartata la compagnia di Cecilia e perduto il luogo isolato di venerazio ne della sposa defunta, Julien sfida le strutture religiose per avere uno spazio dove erigere un Tempio per il culto di pitti i «suoi» morti. L’ottiene infine, perché in fondo anche una «follia» come quella di costruire «una foresta di luci dove i
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morti possano vivere» è sempre un alcunché di valido per la Religione: se non altro, Le permetterà di avere una bella cappella nuova nel cimitero, al posto di una cappella disinte grata. Ma la deflagranza è nella stessa rappresentazione del luogo sacrificale, nella esibizione di sé al ricordo: questa cap pella di splendore, luminosa, dilatata e profonda, pare avere diecimila linee di fuga tutte portanti (attraverso gradi e me scolanze di amori ? di eros, bellezze, verità, bene) all'unica prima Fiamma che tutto irradia quasi per emanazione: la sposa avuta e perduta, l'unica, la sola, l'Una, forse mai ama ta materialmente. Ma V emanazione (senza «degradazioni» tuttavia), per cui la materia è unita all’anima e dove unico distacco è il senso del vivere non la sua pratica materiale (in fatti Julien lavora, ha rapporti con la gente, ma da morto}, è infine pienamente realizzata. Ecco la crescita della differenza rituale di Julien dal culto «normale» di Cecilia: a lei il ricor do non impedisce di vivere l’esistenza almeno nel proprio de siderio di Julien, a questi (nel suo doppio attore-regista della cerimonia e architetto dei suoi spazi) è impedito il presente se si escludono gli obblighi professionali che, tuttavia, non riescono a prenderlo al punto da uscire dal Luogo del Rito: preferisce restare in Provincia a fare il giornalista, piuttosto che recarsi a Parigi per dirigere un giornale; perché mai do vrebbe andare a Parigi se il luogo della sua Regìa, della sua direzione unica, estatica, eppure fatta di inateriali luminosi, è là dove il Ricordo è? In questa ampiezza di Luce, Julien ritrova Cecilia, l’estasi di vita negata che, nell’insegnamento di Lui, percorre senza stupore una memoria non conosciuta, volti e persone e senti menti estranei ma che comprende nella mancanza del suo più intimo sentimento, l’immagine di Massigny che, estraneo per la troppa intimità consumata, Truffaut/Juline, fisso nel suo rigore, esclude dalla dimora della Bellezza, della Morte che risplende. 79
2. È ancora la tentazione, Cecilia, la mano che penetra e apre per poi chiudere: infine la rivelazione dell’unico cero che mancava ancora nel Tempio, completo adesso dei suoi figli, demoni e santi. Almeno per Lei è così: nel momento stesso dell’autosegregarsi di Julien e poi del suo strappo alla prigione per via della lettera d’amore (e di morte) della don na, nel richiamo presente Lui si riproduce (o si rivela) per quel che davvero è: ossia tutto ciò che ha rappresentato di retto interpretato prodotto costruito immaginato. JulienTruffaut è un ricordo e un cero mancante nel tempio dove Lei, la vestale greca, custodisce l’altare di demoniache divini tà, alimentandone i Fuochi. Il cero mancante infine non c’è più perché la vestale lo accende già; lo ha già acceso in se greto (non la vediamo) mentre Julien si rinserrava nella vec chia camera verde esplosa. È la lettera di lei che gli comuni ca la sua stessa identità nella coscienza della tragedia: il cero mancante non è più Massigny, ma ['altro, ossia lui stesso, Julien. Chi era dunque questo Paul Massigny l’amiconemico, se non ['Inverso, la perversa inversione della sacrificalità di Julien (attore-giornalista-regista)? Non ci sono più ceri da accendere perché Cecilia ha già acceso dunque quello che mancava, decretando la morte di Julien o, meglio, recando la morte alla sua coscienza. Caden do nel tempio, dopo la lunga-breve evasione-fuga da casa al la Casa, nella più assoluta debilitazione (richiama alla mente il Beimondo del finale di La sirène du Mississipi), ai piedi della Vestale-Cecilia, fredda e innamorata — Julien si dichia ra, riconoscendosi, cero mancante: è proprio Lui, Julien, o l’altro di Sé, Massigny, il suo altro sempre invisibile se non in rapide apparizioni su immagini fotografiche, nel nome del quale Julien è già stato amato da Cecilia la quale, dopo il fraintendimento del nuovo amore che era invece già consu mato, non può identificarsi in niente altro se non nella du plice figura di Nemesi e Vestale del corpo già morto di Lui.
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Tuttavia Lei non sa, opera magicamente, per incanto. Il regista è la persona che recita Julien, ossia Truffaut, e solo lui può sapere da prima e, recitando fino in fondo il suo personaggio, può cadere dicendo: «Il cero, il cero... lo so che cosa c’è stato fra noi, so che cosa c’è stato... nulla!». Cecilia è immagine, Julien tramite Truffaut è il suo co struttore. Lei non sa neppure, nella statica diafana Mutezza, che ha tutto compiuto per magia, per mistero. Lui è la Paro la, del folle e del saggio, che finalmente si permuta innanzi a Lei, chiudendosi dopo lo slittamento e gli spostamenti nel mutevole da cui all’inizio si era escluso. Julien muore, dunque. E nella sua confessione che pare lontana, deposta già in una luogo precedente, almeno in una regione situata molto prima dell’esordio del film, in un altro cinema, Julien, da obbligo del ricordare, da meccanismo del la memoria, diviene egli stesso ricordo nella (e)statica figura della donna che, adesso come prima nel negozio di antiqua riato, si muove con compostezza religiosa ad accendere l’uni co e ultimo cero che manca ancora dopo il riempimento se greto del «vuoto» di Massigny: il cero mancante è Valtro di Massigny, colui che lo ha scacciato dalla sua stima, Julien Davenne. E nel definitivo completamento, nell’attesa forse di un al tro vuoto, il nostro sguardo non sa ancora staccarsi dalla contemplazione della fila di ceri che ardono in primo piano sullo schermo e del corpo della vestale che, esaurito il «ruo lo», esce fantasticamente di scena forse per coricarsi accanto al corpo inerte di Julien nell’attesa deU’epirosi finale e di un ritorno immaginato come eterno già da Eraclito. Vestasi è là e il nostro sguardo stravolto nella fissazione dei lumini sacri non sa disincantarsi, certamente, nella attesa inconscia o ri saputa che tutto ricominci. La Bellezza sublime impone un compito: custodirla. Ho fatto fatica a uscire dalla sala. E voi?
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Uno si chiede, al di là del Pensiero e delle sue definizioni, al di là della Morale e delle sue pretese, al di là anche dei Sentimenti e delle Bellezze volute, uno si chiede: chi ha scrit to tutto questo se l’autore è morto mettendosi in scena? La risposta: il ricordo illumina la morte, uno sguardo presente può illuminare il passato e allora è proprio morendo come doppio di Bene-Male (Julien-Massigny) come William Wil son, è negando V altro nel ricordo, che si nega l’zo; ma è così che lo potrò rivivere come Alterità inidentificata nel deside rio ritualistico di una qualche Vestale, tra vestimento di un altro già consumato Eros: consumato perché strappato alla ebbrezza della primitiva Molteplice-Totalità nella selezione temporale della Ragione e della Morale. La violenza dunque non è solo del Sentimento contro i sentimenti, della Bellezza contro alcune bellezze esibite pur sempre nella pertinenza del Sentimento, ma anche e parimenti nella esclusione della Brut tezza dell’etica e della conoscenza «scientifica». Ancora una volta si afferma la trasgressione come denotazione di una terribile esistenza: la Legge, la Regola che qui è spezzata nel la deflagranza assoluta della scrittura e non nella sua fuga, non nello scarto, ma nella spinta oltre di sé dell’io che la pratica con i materiali antichi del cinema o col cinema di an tichi materiali. Vepirosi eraclitea forse non è del tutto lonta na e certamente non è fuori dell’io che si pensa ricordandosi e, ricordando, si ricorda già: Vesplosione è già avvenuta. L’io è sfinito e infine cade nella Tenebra proprio in quella «fore sta di luci» che aveva innalzato al dio Eros per allontanare le tenebre. Allontanando la tenebra dall’a/tro la si sussume nel proprio io che si amplia e assolutizza come lo che ripete la sua iniziale Senzienza, Senza di io e Io senza di! L’io, ancora incapace di vivere il richiamo nicciano, si so spende nell’estasi della luce proiettata sulla morte e muore nell’attesa che la «d» del di si stacchi e si sposti o slitti in nanzi all’io e vi si unisca formando la parola dio e poi si fac-
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eia da comune' e minuscola, propria e Maiuscola. Ma i tem pi, si sa, non sono ancora maturi. Intanto c’è il bilico, la so spensione tra una zona di paura e un attimo di coraggio! Nello spazio ristretto della «camera verde» {verde perché tut ti gli altri colori erano già stati presi. Penso alla «camera az zurra» di Merimée anche) che esplode, e poi nella sua com mutazione all’imponenza templare, lo stupore si consuma in un crudele rigore che sospende anche Noi invece di regalarci catarsi o (im)purificazioni. Il rito, nella sua estatica sospen sione è Bellezza oltre ogni intenerimento, oltre ogni facoltà del Soggetto che è al cinema e fuori dal cinema, nel film e fuori del film. Il film, che inizia sull’intenerimento sensibile di fronte a una crudeltà (la guerra) diventa crudeltà su un intenerimento (il ricordo), e Truffaut, recitandosi, rompe nel mettersi in scena la «tenerezza» consueta del suo mettere in scena. Altre volte aveva tentato: nel Ragazzo selvaggio, e in altre brevi apparizioni-scongiuri. Qui c’è un salto; entrando e uscendo dal film e nell’andare avanti e dietro la cinepresa, nel portar si dagli spazi «reali» a quelli «scenici», errando comunque nel territorio della Finzione, Truffaut diviene fantasma, spa zio scenico, dove non c’è più facoltà di sentimento (o c’è ma come esplosione) e, nel momento finale, si esclude (immagi niamo che, dopo essere caduto ai piedi di Cecilia, si sia do vuto alzare e correre dietro la cinepresa a dirigere appunto gli ultimi movimenti di Lei che vive come corpo statico que sto «doppio» Truffaut-Julien, cancellato nella stessa intensità della scrittura disperata e serena). Il multiplo di questo dop pio, Massigny-Julien-Truffaut attore-Truffaut personaggio, si fa ipostasi nel corpo di un’altra persona che è anche altro sesso: l’Eros da cui tutto è partito ritorna nell’Eros (femminile-virile; Cecilia è come la moglie di Julien) esibito nella sua immaterialità, che tutto richiude nella lapidaria iscrizione del Sublime che sconvolge sempre nel delirio an 83
nullando finalmente le possibilità del Pensiero, indicando al tre strade, altri sentieri, altre estasi da innalzare all’altare de gli orrori antichi e nuovi. Nel tempio, v’è anche l’immagine di Oscar Werner soldato di Jules e Jim che, si ricorderà, era il vestale dei simulacri inceneriti di Catherine e Jim; è un passato che qui si ritrova in un corpo meno passionale, me no erotico, quello della Vestale che custodisce un «doppio» molteplice che non va, come in Julies e Jim da Jules a Jim e al doppio Jim-Catherine (nel passaggio dal trio all’uno che custodisce un «doppio» che si è separato e distrutto), ma va da Truffaut a Truffaut attore/regista, che si raddoppia chia mandosi e staccandosi da Lei che ne custodirà per un attimo il corpo dopo il crollo. Ma poi Cecilia sparisce, rimangono sullo schermo i ceri e noi sappiamo che Truffaut è fuori scena, e custodisce (come Oscar Wemer-Jules custodisce il «doppio» Catherine-Jim) il «doppio» cinema-reale, estasi/orrore, losenza, Senza-io. Io. Senza. Disponendo di questa ripetizione della ripresa, della so spensione, infine della negazione affermata nel rito totale della convenzione finzionale sventrata, e nell’attraversamento del ricordo che in ogni caso uccide e produce un gioco di ozio dato come unico lavoro produttivo, di assenza come unica presenza, di ritorno come unica forza di esistenza, il Cinema formulandosi nel suo massimo splendore cosciente è restituito (per allusione e consumazione sacrificale di questa coscienza filmica e esistenziale) alla prima ebbrezza, al primo stupore dei primi film di Lumière. Il cinema dei? inizio rivive nel cinema della fine (o nella fine del cinema!) e il viaggio ri prende da questo sospetto e da questo intrecciarsi di inizio nella fine e di passato nel presente, in questo innesto di me moria nell’oggi, del là nel qui, del fare cinema nel fare esi stenza, del ricordare nell’essere. Si può morire di ricordo e non si può vivere solo di ricordo, come dice Plotino (a che serve ricordare oggi che ieri sono stato saggio?), perché vive 84
re è essere ogni giorno, ma nell’essere dei giorni, del tempo e degli spazi si può anche morire di assenza di memoria. E infatti, stando ancora al testo, dopo il .delirio fuori e in torno ad esso, delirio epistemologico, scientifico, chi ha det to che la scienza è laboratorio delle divisioni ipotetiche e ma tematiche? Sfatiamo, sfatiamo queste pretese di idiozia, am pliamoci, sfondiamoci. Insomma è proprio quando Julien non ha più niente da ricordare che muore o, meglio, si sco pre morto nell’attimo stesso dell’ultimo richiamo alla vita che lo strappa al ricordo. Allora chi sa dirmi cosa uccide: la vita o il ricordo? L’azione o la contemplazione? E che cosa non uccide? Io dico: razione mi fa soffrire e il ricordo mi fa mo rire oggi, ma domani può darsi che sia il contrario perché sono sicuro che ieri o l’altro ieri è stato diverso. Al di là di ogni silenzio e di ogni grido dell’io che ritorna a enunciarsi con prepotenza, con volontà di potenza nella sapienza deli rante dell’essere Senza, dell’Es-senza, di quel tratteggio che si apre tra ES e Senza, in quella spaziatura che lega e slega, punto di relazione e di opposizione del nodo, è là in mezzo precisamente che sta la scrittura di Truffaut e la mia su Truffaut: là è sospensione e possibilità di ripresa, dopo la di speranza, nella ripetizione di festa e di panico. E ciò, si badi, non è affatto ragionevole, ma è proprio ol tre ogni limite di ragioni, sopra e oltre ogni ragione, contro la Ragione e le sue emanazioni: sistema, struttura, psiche, modello (// modello di Pickman!) eccetera eccetera.
3. Un giorno, un pomeriggio di gelo, mentre me ne anda vo al cinema, a vedere un altro film di Truffaut, incontrai Lui, il maledetto, il demone, messaggero del Senza, insom ma. Il Demone che parla sempre dentro, nella solitaria nu dezza, dice: «Il tuo compito lo conosci già; perché ti tormen ti?». Io dico al demone: «Signore mio, io non ho nessun compi85
to. Perché mi parli di compiti? Un tempo li facevo a scuola e quando mi andava, e mi andava quasi sempre perché si era educati. Che pena! Capisci, disubbidire faceva sentire in col pa. Io non sono mai stato del tutto coraggioso. Perché ag giungi ai miei tormenti anche quelli delle tue richieste e delle allusioni?». E il demone: «Insisto, invece, perché hai ancora un compi to. Hai cercato di fuggire, di evadere, di tacere, di non fare, di non contemplare, di impigrire, di oziare oltre ogni ozio anche. Capisci?». Io al demone: «Vieni al dunque. Che vuoi dire? Devo fa re, parlare, agire? Di questi tempi? Mi piace passare per un aristocratico che tace piuttosto che per un popolano che ciarla». Il demone: «Non è questo. Puoi “ciarlare” o tacere, fare o non fare, aver coraggio o paura, ripetere o non ripetere, in ventare o non inventare, immaginare o non immaginare, scrivere o non scrivere, filmare o non filmare, pensare o non pensare. Insomma, puoi fare quel che vuoi, ma in ogni caso farai quel che vuoi soltanto se stravolgerai le direttive, i si stemi, Ì modelli religiosi (materiali o ideali) dei Padri e delle Madri. Insomma ecco il tuo compito: stravolgere i Nomi del Padre e della Madre, le facciate degli Specchi e le omologie dei Modelli, tutte queste cose. E inventare, ripetendo lo stra volgimento» . Io sono allibito: «Ma perché? Che ragione c’è di gettare tanti soggetti nello smarrimento? Poverini, perché togliere lo ro la fiducia, perché rompere il buon senso, la garanzia, in somma perché gettarli in pasto al Mistero e alle smagliature del Destino?». Il demone: «Ecco, capisci finalmente: l’hai detto: il mistero e il destino, il terrore e il tremore, l’orrore e l’estasi; questo è il compito che ti è destinato, questo “fra”, questo bilico, la prova del marginale. Tutto devi rapportare a questo “fra”.
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Rigetta ogni cosa in questo “fra” e allora sarai davvero quel che vuoi essere». Sono angosciato e dico-. «Sei crudele. Mi fai conoscere me stesso sventrandomi». E Lui: «Sono crudele! Ma anche buono, generoso, rivelan doti in fondo l’ebbrezza che è dietro questa duplice fatica del mistero e del destino». Io: «Allora che cosa devo fare? Non so, sono un po’ pi gro, e poi, insomma, certamente, cioè!... Che devo fare?». Lui: «Devi fare quel che devi fare, cioè quel che vuoi e quel che vuoi sai cos’è adesso. Non ti pare? Rifletti un po’: prendi un termine qualsiasi, “nome”, ad esempio, che ricorre in ogni enunciato, taglialo a metà e pervertilo e avrai me-no — Meno. Capisci?». Ero assolutamente interdetto anche se capivo le sue follie; m’indispettiva il modo istrionesco, arrogante e distratto nello stesso tempo che il Senza aveva nel porgere le sue sfide. In tanto pensavo che bisognava tornare a ricordarsi un po’ di più di Rimbaud, Baudelaire, Poe, Mallarmé, di Dreyer, e di Straub soprattutto, che a un certo punto mi è sfuggito: ecco, bisognerebbe tornare a parlare di Straub, mi dicevo, bisogne rà parlarne. Mentre progettavo altri discorsi, comunque da differire per motivi di “pertinenza” anche, con movimenti molleggiati il Demone se ne andava, lasciandomi nello stupo re e con un carico enorme. Lo rincorsi e lo afferrai per le spalle e gli dissi con molta furia: «Vuoi prenderti gioco di me. Aspetta, adesso. Dimmi cos’è questo stravolgimento di cui parli? Vuoi mettermi alla berli na di tutti, dei sistematici, dei dotti, e espormi alla mutezza di coloro che non possono ancora capire!». E lui: «Ma perché ti agiti tanto? Una volta che hai avuto in dono la rivelazione di un segreto! Sei stupido». Io: «Non so. Forse. Ma sai le critiche! la gente, tu non lo sai, è pronta a distruggere ogni cosa che uno inventa, a smi-
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nuirla per la gioia di vederti andare giù». Lui: «Il rischio è questo, ma ti assicuro, vale la pena cor rerlo. Del resto sei stato scelto. Non puoi rifiutare: sarebbe come morire per te». E io: «Ma anche così è come morire: “stravolgendo", co me tu dici, in fondo c’è il vuoto, la voragine!». Lui: «Non fare capricci: sono inutili. Il mistero già ti pos siede e anche la mano del destino». E io: «Dimmi cos’è questo “stravolgimento”. In che consi ste?». Lui: «È il principio di ogni creazione, di ogni invenzione, di ogni scienza, che ha inizio in Se stesso e si sparge nelle mondane contorsioni. Non confondere col “capovolgimento” o con le “analisi”; altri hanno provato a far questo e sono falliti. Non ci si ricava niente a voler mettere con i piedi per terra ciò che vi era con la testa. Il punto è la terra, la radice, gli umori, le ebbrezze che sono in essa; e da qui inizia lo stravolgimento nella parola prima, nel senso, dunque, nella immagine. Prendiamo la parola «stravolgere». È una relazio ne di fonemi, vocali, consonanti, sillabe scelte e relazionate: il punto è tornare al gioco di scarti inziale; questo è il fine, ma bisogna partire da una frattura fondamentale e prodursi nello spazio di mezzo. «Stravolgere» è uguale: travolgere-Stravolgere. Ma anche Stra-volgere-Stra. Infine: Tra~volgereS o anche S-volgere-tra. O ancora: Svolgere-tra oppure Tra svolgere. Riesci a seguire? E io: «Sì, ma non so dove vuoi arrivare, mi pare un gioco gratuito e facile». Lui: «Aspetta. Chiamalo come ti pare, ma capisci che ci vuole molto coraggio a giocare a questo gioco perché non ha regole ma confini, baratri che si aprono però nella moltipli cazione fino alla unitaria totalità iniziale che, lo sai già, ti ho dettato come Senza (Es-Senza -Es = Senza). Hai notato quei trattini, spero. Ecco è in quella tratteggiatura che tutto si 88
stravolge, permuta, commuta e trasmuta-, ogni fine ha inizio proprio laddove non ti aspetteresti perché ti hanno insegnato il senso del legame e non quello della slegatura, del comporsi seriale e strutturale delle cose, del discorso, invece di suggerti che il fine e il mezzo di ogni cosa, parola e oggetto, di ogni io è un comporsi di nodi, un allacciarsi di realtà che si agita no contorcendosi e stravolgendosi». Io: «Non scopri niente, qualcuno ha già parlato di nodi, di tutto questo». Lui: «Può darsi, ma non è verbalizzato e scritto in questi termini, neppure nella tua scrittura e parola. Aggiungi senz’altro che tutto questo non è stato dato come stravolgi mento ma come “parola” del Padre. Invece anche il Padre si può stravolgere e allora tutti i suoi attributi sono svuotati, annullati e allora rinasce altro: altre simbologie e altre imma gini. Ti pare? E inoltre nessuno conosce il mistero. Tu sai il Padre dei padri, quello abbandonato, quello conosciuto e perduto, non quello mai conosciuto, non il Padre ma tuo Padre. Allora prendiamo il nome «Padre». Sleghiamo: Pad-re o anche pa-d-re e stravolgiamo: re-d-ap, d-a-p-e-r, pre-da, perda, apre-d, abbiamo preda, perda, e puoi vedere mille aperture nello sventramento che continua fino all’esaurirsi del tempo finito nella infinitezza dello Spazio originario. Il rapporto stesso tra padre e figlio è di stravolgimento. E ba da, è stravolgere materiali, non idee o ragioni, materiali sem pre formati, e ferire per questa via il Senso caotico, affettar lo, sai, come fanno i macellai con la carne: saper tagliare fette in un tutto caotico non è semplice, solo che attraverso l’affettare tu non devi perdere di vista il tutto, un altro tutto che è costruire. E in questo ti viene incontro Eros, mio ami co, che non è passionale, sentimentale, ma ebbra senzienza di finitudine e attesa-sospensione-tensione oltre Sé, nella infitudine; quindi magari ora impallidisce, ora arrossisce, ora è indifferente, ora s’infiamma, ma sempre è tra la spaziatura
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stravolta del tuo unico dovere: stravolgere e mettere ogni co sa e ogni io alla prova del bilico. Sai già tutto questo, ne ab biamo parlato altre volte. Io te ne ho parlato senza apparir ti, o meglio tu ne hai parlato senza rivelarmi. Ora ci siamo prodotti l’uno all’altro, ci stiamo rappresentando». Io: «E ho un po’ vergogna, un po’ di pudore». Lui: «Vergogna, pudore! Si vede proprio che sei soltanto agli inizi. Vedrai in seguito: non c’è motivo di vergognarsi, ammesso che sia un valore la vergogna; ma anzi, ciò che ti detto, quel che ti annuncio e ti produco deve soltanto inor goglirti. E là piuttosto è il pericolo, perché l’orgoglio può ir retire e sviare. Fai attenzione. E tutto andrà bene». Io: «Parli come se il mio tempo e il mio spazio fossero in finiti». Lui: «In un certo senso, sì: se saprai proiettarti nelle tue stesse proiezioni stravolgenti, per cui il futuro sarà già passa to quando lo vivrai come presente e il presente sarà morto quando lo vivrai come futuro. Capisci? Io: «Dunque anche la memoria, il ricordo...». Lui: «Soprattutto la sragione!». E io: «Lasciamo perdere, incominci a espormi troppo. Ma io stavo parlando di cinema, di memoria, di passato, di mor te, di bellezza, di Truffaut». Lui: «Parliamone, allora. Anzi parlane. Ma prima voglio dirti: qualcuno ha parlato di “stravolgimento” come di una interpretazione arbitraria o erronea, come di un “travisare” (per esempio le parole altrui). Sono degli imbecilli, primo, perché non c’è niente da “interpretare” nelle parole di nessu no, in nessuna scrittura e quindi non c’è errore né arbitrio né travisamento nella significanza dello stravolgere ma una piattaforma d’invenzione, invece. Semmai lo stravolgere è un volgere torcendo con forza qualcosa, coniugandolo in manie ra da farlo deviare con potenza dalla direzione normale; ed è sempre un oggetto, un testo, una immagine su cui si opera 90
lo stravolgimento creativo: su un io, su un soggetto, comun que. Secondo, nego persino che ci sia una qualche parola di un io da “travisare”, ma sicuramente ogni io è travisamento di un qualche altro discorso, o scrittura. Perché non bisogna dimenticare che se l'io può stravolgere ogni cosa, ogni cosa può stravolgere l’io. La tragica condizione di una solare di speranza è questo annodarsi del tutto in Niente e del niente in Tutto, del finito spaziale nella in-finitudine temporale». E io: «Ora capisco. È una specie di furto di anime disper se!». Lui: «Che vuol dire? Adesso son io che non comprendo. Ascolta, è semplice: un Padre è lo stravolgersi di una perdita goduta nella produzione del figlio: il Figlio è lo stravolgi mento di un recupero sofferto nella riproduzione del padre o della improduzione di un padre. È chiaro adesso?». E io: «Chiarissimo, come acqua di fonte! Ma, scusa, dim mi qualcosa sulla Sostanza, prima di andartene». E lui: «La Sostanza, ecco la grande menzogna che tu e al tri “io” inseguite. Alcuni hanno definito la sostanza come materia formata, unione di materia e forma, altri hanno avu to altre specificazioni che in sostanza, vedi come le parole tornano? si riducono alla rappresentazione iniziale. Là è la sua qualità, nella stessa ferita che unisce o che fa di un dop pio una unicità-, questo fa si che la sostanza paradossalmente sia ciò che non è ma che appare nel momento stesso che la forma organizza una materia e una materia si lascia formare da una organizzazione. In questo attimo di sospensione. Ma poi, prova a rompere l’attimo razionale e nell’incanto ti stu pirai di vedere si una materia (res exstensa), e una res cogitans (una forma), ma non vedrai una sostanza se non nell’istante in cui le altre due si sposano. Ma c’è dell’altro: solo se materia e forma si uniscono in questa apparenza rea le che è la sostanza, possono mostrare di esistere; altrimenti sono una diversità, un non-essere che è nel momento che si 91
enuncia. Del resto capisci che questo è il punto. Se tu co struisci Sull’Apparenza che cosa troverai? altre apparenze, perché l’una rinvia all’altra e allora nel gioco di eros e di odio ogni elemento è ricondotto alle origini dove l’uomo stesso e il metallo forse sono una identica cosa. Io: «E il Bene allora, la bellezza, la Felicità?». Lui: «Sono pure invenzioni dell’uomo per illudersi di vive re per qualcosaltro, dato che la vita lo abbruttisce, la mate ria lo domina e lo rende aggressivo e lo spinge in cerca di successi; poi deve giustificarsi e moralizza: e s’inventa il be ne, il male, la bellezza. Sappi che oltre il percorso del tempo finito e dello spazio che lo iscrive in un’ansia spasmodica, l’uomo non può superare il limite se non superandosi». Io: «Che vuoi dire?». Lui: «Semplicemente che di là dal tempo e dallo spazio concesso a ciascuno per azione e contemplazione che sempre s’intrecciano come tutti gli elementi della materia e della spe ranza, tu troverai quello che ti riflette riflettendosi in Te ma non potrai conoscerLo se non nella stessa riflessione essendo Sostanza, ossia senza fine, ossia apparenza senza fine, ossia Spazio tempo infinito, quasi increato. È l’increato, che per l’io è un paese straniero, anzi Lui stesso è straniero allo Stra niero. Renditi conto e illumina la tua coscienza nella rifles sione serena, abbandonati agli umori anche, però ritieni che non l’elemento, non l’uno, né il molteplice, ma Vintreccio ininterrotto dell’incrocio che si produce e si mette in scena annodandosi e snodandosi, non solo dunque relazionandosi e opponendosi, è il modo di prodursi dell’essere come Essere, nell’intrecciarsi stesso di un prima e un dopo nel mondo, nell’io e in dio. Capisci allora che anche dialettica non può porsi come triade di essere, non-essere, sintesi etc., ma tutto è un vortice; anche se usi questo termine nel suo senso più adeguato come Platone o Plotino (la facoltà di penetrare nel le, cose e coglierne i limiti e le possibilità con parole diverse) 92
insomma, non devi perdere di vista l’orribile intrecciarsi di nodi che già ti annoda e ti contorce. Vi è sempre un punto dove il Sole e la Luna ti entrano e ti escono dall’anima e stravolgono il tuo corpo, un punto in cui tra te e gli astri non v’è differenza ma solo diversa opportunità, diverso desti no e un mistero diverso; ma, l’annodarsi di io e cosmo è uno dei fondamenti stessi dell'essere, dato che tutti gli astri e tutti i metalli sono nella terra di cui sei fatto e a cui eri legato e da cui ti hanno strappato promettendoti paradisi illusori. E hai perso l’unico Eden/Eldorado, la radice alla terra; è lì che devi puntare. Ogni uomo dovrebbe cercare la radice, l’origi ne, la terra anche se dovesse affogare in acque stagnanti e, affogando, portare segreti alla fanciulla dalle mille verginità che vi giace sprofondata immeritatamente, perché il tuo uni co dovere è il tuo destino di liberarla riconoscendola in Te e poi liberarla ancora dallo stagnare della tua anima o della tua ragione soprattutto. Ora devo riprendere il cammino per ché io sono limitato nel tempo: passeranno su di me altri millenni e poi ritroverò una Faccia straniera che non potrò mai sapere se è padre o madre o figlio o Me. Addio! E ri fletti, ma riflettimi anche, con un certo amore e umore, con tragica ebbrezza, quando vorrai è là che potrai ancora rico noscermi. Adesso devo lasciarti. Ma perché sei così smarrito? So che cosa ti aspetti ancora: sappi che lo stravolgimento è la Voce e l’imago riunificate del Senza-, è il dispositivo di cui si costituisce e di cui si serve per rappresentarSi: tramite es so, contemplandosi, la Senzienza si produce e, producendosi, si estasia di Sé. E quando dico «sé», non mi riferisco mai a una persona, a un qualcosa di antropomorfo, o non del tut to. La storia è sempre la sua storia, ciò che produce, è pro duzione di Sé». Lo vidi avviarsi su per un pendio mentre un vento impe tuoso travolgeva il mondo. Agitandosi come un vero istrio ne, facendo della tempesta una occasione di ubriacatura luci 93
da, di rappresentarsi al suo stesso cammino, si volse e agi tando le braccia mi gridava: «Non ha nessuna maschera chi ha tante maschere. Potresti tu, adesso, anche subito, dopo avermi lasciato, ricordarti per un attimo di me, della mia faccia? No! Perché non ha nessu na faccia, chi ruba e produce in maniera maniacale maschere dietro maschere. Ma non è proprio vero che non è nessuno, anzi è in questo intreccio di maschere, di identità messe a dura prova, sospese e riprese, perdute e riavute, è questo FEssere...». Non lo udivo più perché la bufera ci separava adesso! Si disperdeva nelle voragini della Natura, pareva che il cielo si fosse ampliato e abbassato e sprofondasse e la terra si erges se e io ero al vertice e Lui in basso nello scambio della perti nenza, come prima ci annodavamo nella solarità del merig gio che stordiva e rendeva originarie epifanie tinte di altre tragedie e misteri. Io mi sarei rivestito di essi e me ne sarei andato per le strade del mondo, ancora solo tra gli altri o altro tra soli. In una ricerca di Lui in Me, o di me in Voi. O di altri io, co munque, fino a lacerare le vesti di ciascuno e mostrare final mente a tutti ['increato di ognuno, a chiunque ['estraneità del tutto e di Tutti. 4. Era, invece, proprio una bellissima giornata per andare a cinema, dato che impazzava la bufera fuori. Un cinema deserto, ma sullo schermo ritrovai infine la conferma di tutto questo satanico pervertimento epistemologico in un altro film di Truffaut. E ritrovo Lui, il demone che continua a rappre sentarsi questa volta in una specie di fissazione, in un pre sente che si muove geometricamente nei nostri occhi tramite l’incedere triangolare di due gambe femminili sempre diverse che s’incrociano nella fissità del movimento. Come dice Lui, il protagonista, il Demone, che ha su questo schermo un’al
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tra maschera, le gambe delle donne sono come un compasso che misura il globo terrestre, tracciando nell’aria geometrie: linee, punti e cerchi, poligoni e quadrati, rettangoli, rombi, stravolgendo l’ipostasi del mio sguardo rapito nell’incantesi mo del loro agitarsi erotico/geometrico, in questo film della Notte che racchiude tutti in Tutto. Innanzitutto, dunque, qui siamo per la prima volta con Truffaut alla espansione di una geometria del senso invece che alla rappresentazione del senso della geometria come altre volte, perché nella tenebra estatica dell’Uomo che amava, la sfera amorfa e produttrice del Senso è assunta nel mantello più ampio di una Geome tria che riproduce a sua volta l’amorfa produttività del Sen so: questa Forma senza Fine, il triangolo gambesco femmini le che incede ininterrottamente fuori e dentro le pupille dei nostri occhi e del protagonista, Bertrand, il cui sguardo è ad dirittura fatto di questo incedere femminile geometrico eroti co e sterile al tempo stesso. Gli occhi, nostri e di Bertrand e di Truffaut, sono anche le sforbiciate con cui questa Forma infinita intaglia significanze nella zona prima della virtualità del Senso; e poi, spingendosi ancora in un prima altro (in una precedenza), s’intaglia Lui stesso, il Senza-Senso, nella regione assoluta dell’increato, nello Spazio straniero del Tempo, nella Estraneità della geometria erotica e notturna. E tuttavia non è tutto qui, anche perché oltre la forma senza fine della Sapienza folle e della viziosa Virtù, insorge la For ma più tragica che conosce la finitezza del suo tempo e del suo spazio, della sua azione, e per questo appare più inten sa, ansiosa e crudele della Concupiscenza — maschera stra volta del desiderio che non può fermarsi perché in fondo all’azione c’è il destino che già conosce inizialmente e che pu re, o proprio per questo, insegue per fermare l’attimo geome trico che passa davanti, fugge e scompare. Cosi la Persona di questa Forma desiderante, Bertrand, può anche dedicare la sua esistenza al tentativo di afferrare l’istante e fermarlo, far 95
lo presente e renderlo passato, mentre sa bene di non poterlo spingere nel futuro (proiezione concessa soltanto alla forma senza fine del saggio Signore dello spazio straniero, l’increato appunto). Qui, all’inizio dell’azione, quando il Tempo esce dalla sua infinitudine per svolgere i suoi attimi nello Spazio già sapen do dei limiti finali, esso ricerca con ansia spasmodica, desi dera, consuma eros tra uno sguardo e un abbraccio sempre fisso nella triangolarità che procede variamente in male... Forse è questo l’amore? L’amore fa forse male? Louis - Sì, fa male.
La neve cancella il giallo e il fumetto e tutti gli altri ele menti filmici e antropologici rivelando Vamore. La costruzio ne è perfetta e stupenda. Marion e Louis abbracciati sotto la neve lasciano la capanna felici, dimenticando il rischio anche se ne sono coscienti, immersi totalmente ne\Yamore ritrova to. Lei - (Piange) Credo che sia per di là. Louis - No, credo per di là. Lei - Non era male, quella capanna. Louis - Sei così bella... quando ti guardo, provo una soffe renza. .. Lei - Eppure... ieri dicevi che era una gioia. Louis - È una gioia e una sofferenza. 146
Lei - Io ti amo, Louis! Louis - Ti credo.
La falsa coscienza della donna sirena è diventata coscienza di donna. La falsa coscienza dell’uòmo borghese (dabbenesentimentale-di successo) è diventata coscienza d’uomo. Sì, in fondo a tutto c’è la politica, la rivoluzione. Con Vamore costruito (attimo per attimo dal niente e dal falso) di Louis e Marion e con l’eliminazione della loro ri spettiva maschera, si scopre anche la coscienza, la loro di sposizione alla lotta. Intanto Truffaut ha distrutto tutte le pseudo-strutture sociali e borghesi. Creando una nuova co scienza politica. Una dimensione rivoluzionaria.
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W Truffaut
Più che (oltre che) un intervento critico sul recente film di Truffaut *, questo editoriale vuole essere una esaltazione aperta di Truffaut come il suo film è una esaltazioneaffermazione politica eccezionale di valori umani e filmici di menticati o distrutti tutti riferibili al segno amore. Truffaut ama il cinema, ama le donne, ama Deneuve, ama Beimondo, ama Renoir a cui dedica il firn e ama Hitchcock che ancora una volta consacra suo maestro. E il suo amore diventa di struzione lucida di tutti i cliché esistenziali. Il cinema di Truffaut è assolutamente libero, ha il rigore delPinessenziale e perciò della vita. Non le cose reali essenzializzate fino al livello metafisico come p.e. in Godard_o in Straub strutturano il suo cinema, ma Panima stessa reificata nelle cose. È Panima colta nel suo momento-movimento rea le esistenziale. La morte-essenza (la vera Julie che avrebbe dovuto sposare Louis, e il losco Richard che sfrutta Marion) rimane fuori dalla scena perché a Truffaut interessa filmare la vita. A lui non servono neppure grossi avvenimenti ma so lo piccole cose della vita vissute o lette nei libri o nei fumet ti. Come Hitchcock, Truffaut sa trasformare in cinema affa scinante i modelli filmici più consumati e in vita-amore le co se più banali deUaJnon)-esistenza. Cosi Truffaut fa un cinema politico senza mai parlare di
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politica e scrive la sua posizione rivoluzionaria nella libertà stu penda con cui usa la cinepresa e con cui ha girato Les sirènes. La sua arma rivoluzionaria è l’amore: per il cinema e per la vita. Parafrasando Marx, Truffaut afferma ancora una volta che fare la rivoluzione significa realizzare un «violento sov vertimento di ogni struttura sociale esistente». Il capitalismo industriale è distrutto con coscienza critica. Belmondo-Louis è il capitalismo che accetta di negarsi nell’amore che Julie-Marion gli porta. Non dimentichiamo che il soggetto di ’A bout de souffle era di Truffaut. Ora egli ci racconta i precedenti della storia di Michel Poiccard. La donna è esaltata cantata amata. Deneuve-Julie è la Donna-sirena sorgente d’amore, come nei fumetti come nella vita. Truffaut ci dice che la donna è tutto: bene e male, amore dolore e ancora amore^ angoscia e allegria. È la dro ga, la vera droga che se porta l’amore può davvero distrug gere tutti i «capitalismi» borghesi di questo mondo. La società è distrutta in tutte le sue (pseudo)-struture: le forme della comunicazione (agenzie-annunci matrimoniali pubblicitari), il perbenismo borghese (dell’industriale Louis all’inizio del film), la patria e la nazione (Louis e Julie ne so no la sfida), i pregiudizi “razziali” (Julie donna di vita e cari ca d’amore), il dovere disumano e disumanizzante (il detecti ve ucciso da Louis). Facendo politica e rivoluzione con un cinema assolutamen te e soprattutto libero, Truffaut va affermando con sempre maggiore incisione e precisione la sua unicità. E se JulieMarion è necessaria a Louis perché si liberi dalle sue (sovra)-strutture borghesi e torni uomo e riprenda ad amare, Truffaut è necessario a noi perché ci spogliamo ogni volta di forme culturali acquisite e ricominciamo nuovamente a guar dare al cinema con amore. Truffaut e La sirène sono tutto quello che il cinema può essere per noi.
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Parte Terza Truffaut / oltre la barra critica
Storie, scene, dichiarazioni, interviste, dialoghi di Francois Truffaut
Les films de ma vie
Un libro di Francois Truffaut. Ne scrive Edoardo Bruno
Il libro di Francois Truffaut Les films de ma vie, uscito in questi giorni, ripropone la questione della doppia identità del critico e del regista, con le incidenti illuminazioni sull’attività inventiva che investono tanto l’immaginario dello schermo, che l’immaginario della lettura filmica. Il libro è una raccolta delle pagine scritte da Truffaut, in un arco di tempo che va dal 1953 ad oggi e comprende pagine pubblicate sulle riviste e giornali, ai quali collaborava e pagine inedite, scritte dopo, «per il suo piacere». In tutte vi è una linea comune che introduce il problema di come entra * re dentro un film, di come leggere un’opera, facendo astra zione dalla sala in cui viene proiettata, dal pubblico, da ogni possibile condizionamento esterno, per cogliere, attraverso la porta aperta, le idee e le immagini dell’autore, per mettere a fuoco ciò che Truffaut definisce «ideé du monde» e «idée du cinéma». Come autore di film, il discorso di Truffaut muove paral lelo a quello critico, la sua ricerca continuamente oscillante
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tra la gioia e l’angoscia di fare cinema, tende, tra sentimenti contrastanti, alla costruzione dell’immaginario, alla realizza zione di un dato fantastico. Il libro non fa distinzione tra film di intenzione (film che cioè si propongono programmati camente quello che viene comunemente detto un certo impe gno) e film di routine', per Truffaut conta solo la realizzazio ne, o meglio contano i dati espressivi scelti per la rappresen tazione di un universo poetico. A proposito di due autori quali Nicholas Ray e Howard Hawks scrive: «Si possono ri fiutare l’uno e l’altro, ma se è così, io oso dire: non andate al cinema, non vedete più film, perché voi non saprete mai cosa sono l’ispirazione, l’intiuizione poetica, un’inquadratura, un piano, una idea, un buon film; insomma il cinema». Scrivere di cinema è per Truffaut, come si diceva, un mo do per entrare in un film, per coglierne il senso del suo fluire interno, ma è anche un modo di fare cinema, di mettere-inordine: «un film va visto e rivisto, scrive, molto spesso i si gnificati cambiano, modificando la maniera di esprimersi e le stesse forme di conoscenza». «Divenuto regista, mi sono sforzato di non restare mai troppo senza scrivere sul cinema ed è proprio la pratica di questo doppio gioco criticocineasta, che mi dà oggi l’audacia di esaminare la situazione un po’ dall’alto, alla maniera di un Fabrice che avesse la chance di sorvolare Waterloo in elicottero». In queste pagine fitte, il cinema appare tutto classico e tut to moderno, senza distinzione di tagli, senza contrapposizio ne. Dreyer e Vigo, Renoir e Hitchcock, Howard Hawks e Bunuel, Rossellini e Godard sono tutti contemporanei, si iscrivono ognuno nella loro poetica, alla ricerca di una iden tità stilistica, diversi ed uguali. Tutta la grande arte è astrat ta, come dice Renoir e va interpretata. Quel che occorre è, dunque, «prendere coscienza della forma e comprendere, scrive ancora Truffaut, che certi autori, per esempio Dreyer e Von Sternberg, non cercano mai di rassomigliarsi». Ogni 154
autore ha un suo linguaggio, un suo modo di fare cinema, di guardare oltre i significati apparenti, di realizzarsi, insomma, in un mondo espressivo. Sulla «nouvelle vague» le pagine del libro si aprono vivaci, riproponendo il gusto per la scoperta, l’attenzione ai sensi nascosti, ai valori espressivi segreti. «Il film di domani, scriveva già nel 1957 Truffaut, mi ap pare più personale ancora di un romanzo individuale e auto biografico, come una confessione o come un diario intimo. I giovani cineasti si esprimeranno in prima persona e ci rac conteranno ciò che è loro accaduto: potrà essere la storia del loro primo amore o la presa di coscienza di fronte a un fatto politico, a un viaggio, una malattia... Il film di domani sarà un atto di amore». Una curiosità, per concludere, che è poi una riprova della inseparabilità tra critico e regista: nel 1956, a proposito di un film americano minore, «Il bandito» di Ulmer, Truffaut, nel mettere in risalto il rapporto tra i tre personaggi del film, scriveva: «Uno dei più bei romanzi moderni che conosco è Jules et Jim di Henri-Pierre Roché che ci mostra, durante tutta una vita, due amici e la loro ragazza comune, amarsi di un amore tenero e quasi senza contrasti, grazie a una mo rale estetica e nuova, sempre riconsiderata. Il bandito è il primo film a darmi l’impressione che un Jules et Jim cinema tografico è possibile». Alcuni anni dopo, nel 61 Jules et Jim era diventato film, forse il più felice esempio della nuova stagione cinematogra fica, il più libero canto anarchico della nuova coscienza eu ropea.
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Il cinema “giovane” non esiste
Esistono, secondo te, punti in comune, una certa intesa intellettuale o tecnica, tra i giovani cineasti? Si può parlare realmente dell’esistenza di una nuova scuola cinematografica?
Non credo che vi siano punti in comune tra i giovani ci neasti, tranne forse il fatto che siamo quasi tutti appassionati dei «flipper» mentre i registi più anziani preferiscono giocare a carte e bere wisky. Questa mia constatazione non è un pa radosso perché, tranne questo, non vedo nessun altro punto in comune tra di noi. Certo ci conosciamo tutti, amiamo gli stessi film, ci scambiamo le nostre idee con reciproca simpa tia, ma quando le nostre opere, appaiono sullo schermo è fa cile constatare che i film di Chabrol non hanno nulla a che vedere con quelli di Malie, i quali a loro volta non han nulla a che vedere col mio. I film dei giovani registi assomigliano straordinariamente alle persone che li hanno realizzati, perché essi li hanno crea ti in piena libertà. Ed è questo che ci unisce. I grandi registi francesi hanno perso da molto tempo l’abitudine di scegliere i loro soggetti, di portare nei loro film una idea colta dentro, da tempo nel cervello e nel cuore. Sono divenuti delle «ve dettes», molto richieste, che scelgono l’offerta che più con viene. 157
Cerchiamo quindi di definire il «giovane» cinema rispetto al regista di ieri.
Mi sembra, anzitutto, che i giovani registi si preoccupino più della trama che della tecnica. Essi danno una grande im portanza ai personaggi e ai soggetti dei loro film. Hanno inoltre un grande rispetto per il pubblico e l’idea, forse un po’ ingenua, che quello che loro interessa debba interessare anche gli spettatori. Essi affermano che se la storia piace a loro, piacerà anche agli altri, e che tutto sommato la loro sincerità è anche un buon affare. Ma non hanno nessun sen so estetico in comune e se, tra loro, possono esistere dei rav vicinamenti, sono dovuti al caso. È anche dovuto al caso il fatto che in meno di quindici mesi sono stati realizzati cinque film di giovani registi? Anzitutto non bisogna credere che i produttori si interessi no ai giovani registi. I produttori badano solo al successo. Se vogliamo per forza trovare un punto in comune tra di noi, ebbene può essere questo: ognuno di noi ha realizzato i suoi film fuori dall’industria cinematografica, usufruendo di dana ri propri. Come si può, allora, classificare il movimento dei giovani registi nella storia del cinema?
Si può sommariamente dire che il cinema ha conosciuto tre stadi: il muto in cui il film era un saggio fisico, epoca di Griffith e di John Ford. Fare un film allora era come com battere un incontro di lotta libera. Il regista portava sulle sue spalle il peso di un film e di un materiale considerevole. Egli doveva far muovere migliaia di comparse. Il Deglane di que sta epoca, ossia il lottatore puro, è stato Griffith e il carnefi ce Cecil B. de Mille. Con il parlato il cinema si è intellettualizzato. È diventato un sottoprodotto della narrativa e soprattutto del teatro. È
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stato dato in mano a semi-intellettuali. Questa epoca è stata rappresentata nel caso peggiore dal tandem Feyder-Spaak e nel migliore da Prévert e da Carnè. Esaminiamo adesso il terzo stadio: quello degli intellettua li. Adesso il cinema non è più un saggio fisico, tutti i proble mi tecnici sono stati risolti e sono in mano a una troupe nu merosa e all’altezza dei suoi compiti, la pellicola stessa è di ventata ultra sensibile. E la prova che nel cinema non esista no più problemi tecnici è data dal fatto che i nostri primi film sono, tecnicamente, non inferiori all’ennesimo film di un grande regista. In altri tempi questo sarebbe stato impossibi le. Il cinema adesso è in mano agli intellettuali, cioè a gente che in altre circostanze avrebbe potuto scrivere un romanzo o delle commedie e che, senza alcun dubbio, dieci anni fa avrebbe preferito farlo anziché incorrere nelle maglie troppo complicate della tecnica cinematografica. La nostra è l’epoca del cinema d’autore. Sicuramente un cinema intellettuale cor re il rischio di diventare in breve tempo arido e astratto. Ma vi sono più probabilità che divenga intelligente, forte e since ro assai più che nei periodi precedenti. Quindi, anziché parlare di rivoluzione è più esatto parlare di evoluzione.
Esattamente. Adesso i giovani cineasti devono ritrovare la purezza del cinema muto, purezza che può evitare al nostro cinema il pericolo di diventare avvizzito, nodoso, arido e noioso. Bisogna assolutamente ritrovare la freschezza della prima epoca del cinema e rinnegare in blocco tutta la secon da epoca che appare ai nostri occhi come un periodo di transizione.
Quali sono, secondo te, i dialoghisti e gli sceneggiatori più esecrabili di questo secondo periodo, ossia quelli che hanno 159
maggiormente contribuito a minare la salute del cinema e la cui influenza persiste ancora?
Tranne i tre nomi che hanno dominato il cinema prima della guerra, ossia: Renoir, Gance e Vigo, lo schermo ha prodotto soltanto dei sottoprodotti del teatro e della narrati va. Charles Spaak mi sembra il più compromesso di questa seconda epoca. Citerò anche Jeanson che ha volgarizzato il «Boulevard». Quando Jeanson dichiara che lotta contro il culto del regi sta, affermando che il vero e solo autore del film è il dialo ghista, ha ragione perché tutti i film che ha scritto sono stati realizzati da uomini che si annullavano dinanzi a lui, che non avevano nulla da dire e che lui è il vero e solo autore di tutti questi film. Ma, al suo posto, non me ne farei un titolo di merito. Se non si può definire la formula del giovane cinema, si può almeno tentare di giudicare gli intellettuali che gli danno vita.
Si tratta soprattutto di gente che non ha paura. Essi non provano alcun timore nei confronti della tecnica, non si spa ventano di discutere con i produttori: per i giovani cineasti essere anche uomini di affari è un punto d’onore. In poche parole non credono affatto che il danaro è contro l’arte o l’industria contro Pane cinematografica. Essi vogliono conci liare l’arte e i quattrini invece che opporre l’una contro l’al tro. E inutile nascondere che il pericolo, in questo caso, è che il successo li obblighi a lavorare secondo gli schemi or mai abituali. Rischiano di venire sollecitati dai produttori che diranno loro: «Avete realizzato il vostro film con soli trenta milioni, noi per il prossimo ve ne daremo centoventi. Vedrete così come tutto sarà più facile». Sì, il pericolo è rap presentato dal secondo o dal terzo film. 160
Qual è la tua posizione a questo proposito? Non si può generalizzare: i casi sono sempre particolari. È evidente che, come si possono realizzare dei film a basso co sto si possa desiderare di fame uno più costoso, come può essere utile usufruire di attori noti. Il problema consiste nel salvaguardare al massimo la propria libertà. Il fatto di aver realizzato i vostri film da «franchi tiratori» e con mezzi di fortuna ha apportato qualcosa di nuovo nella realizzazione dei medesimi? Certamente. Là dove un regista esperto avrebbe girato una quindicina di volte la scena, non ne abbiamo girata che una o due. Questo fatto stimolava gli attori i quali, sapendo che non avremmo ricominciato, recitavano gettandosi a capofit to. I nostri fotogrammi non hanno quindi la gelida perfezio ne propria dei film francesi e il pubblico è restato colpito dalla spontaneità che animava la pellicola.
Ma questo è un fatto aleatorio dovuto più che altro a una mancanza di «rifinitura». Certo. E questo è già molto nel cinema. Conferisce cioè al film una verità che pur non essendo profonda ma solamente esteriore ha la sua importanza. Per esempio nei film normali quando si gira una scena in cui vi sono alcuni personagi che parlano nell’interno di una automobile, la si realizza nel tea tro di posa,. grazie a un sistema che viene comunemente chiamato «trasparente». Quando questo accade, si capisce benissimo che l’attore non guida e che recita la sua parte senza interessarsi al volante. Tutti gli automobilisti, tra gli spettatori, si domandano come mai la macchina non vada a fracassarsi contro un albero. Ora, siccome noi non d pote vamo permettere di girare un «trasparente», abbiamo fissato (ed erano molti anni che nessuno usava più tale sistema) la macchina da presa sul davanti dell’automobile. Siamo riusdti
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ad ottenere così la verità: verità delle strade, verità nell’inter pretazione e questa scena ha colpito il pubblico. Ma questo trucco, usato per causa di forza maggiore non deve diventare un sistema. Comunque si ottiene il risultato di ottenere una verità profonda tramite una verità superficiale e il cinema so fisticato aveva perduto persino quella. Ad esempio: i vestiti degli attori non erano mai gualciti e le pettinature, in qual siasi circostanza, erano impeccabili.
Tu parli di mancanza di mezzi finanziari e tuttavia hai gi rato il tuo film con il cinemascope. Ma il Cinemascope non è un lusso. 11 costo d’affitto per lo speciale obbiettivo è di un milione per tutto il film e permet te di realizzare notevoli economie girando dei campi più lun ghi e meno numerosi. D’altra parte, grazie allo «scope» ho ottenuto dei risultati che erano indispensabili. L’ambientazione del mio film è triste e squallida e temevo che riuscisse ad dirittura sgradevole. Grazie allo «scope» ho ottenuto degli ef fetti stilistici che non hanno tolto nulla alla realtà. A un cer to momento, per esempio, il protagonista, vuota un secchio di immondizie. Ebbene questa scena è meno tetra di quanto sarebbe risultata usando un obbiettivo normale ed è restata, tuttavia, realista. Inoltre, il mio film non poteva finire né ot timisticamente né troppo pessimisticamente. Ho evitato la soluzione che avrebbe voluto un finale drammatico utilizzan do lo schermo largo e fissando l’immagine del mio eroe il cui viso si immobilizza sullo sfondo del mare. Mi sembra che tutti i giovani registi che si sono rivelati in questi ultimissimi tempi abbiano un punto in comune. Ossia che nessuno di essi ha imparato il suo mestiere facendo pra tica dietro alla macchina da presa, bensì frequentando assi duamente le cineteche. Una volta si arrivava al cinema per caso. Adesso effettiva-
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mente la voglia di fare del cinema viene a forza di vedere dei film, cominciando, così, a desiderare di fame. Per quello che mi riguarda ho cominciato a pensare di fare il regista fin dall’età di dodici anni, ossia quando ho comin ciato a vedere dei film. In queste condizioni si rischia, forse, di non reinventare il cinema ma di copiarlo. È qui allora che la personalità deve intervenire. / giovani registi hanno digerito la cultura cinematografica? Non si trovano piuttosto nella situazione di certi vecchi pro fessori di lettere che arrivano al romanzo tramite la storia della letteratura? Non rischiamo ossia di imitare, anziché in ventare? Secondo me, questa cultura, non cosdtuise un handicap. Costituisce anzi un progresso nei confronti della generazione precedente che arriva alla regia, dopo aver fatto «Passistenta to». Gli assistenti infatti tendono a imitare i loro maestri e non i classici. Ed è questo che ha creato quello stile che è stato denominato «cinema francese» e che è troppo falsa mente elegante e monotono e del tutto inferiore alla scarna sobrietà del cinema americano. E siccome tu vuoi per forza una definizione del «giovane cinema» ti posso dire che noi tutti siamo arrivati allo scher mo detestando il cinema francese e ammirando invece quello americano da cui abbiamo appreso la disinvoltura nei con fronti della tecnica, e la sobrietà nell’usare la macchina da presa. Bene inteso le nostre fonti di ispirazione sono pretta mente francesi.
Si può dire che i giovani registi hanno l’ambizione di rin novare il dialogo? Negativamente, sì, nella misura in cui disapproviamo i dialoghi alla Audiard o alla Jeanson, i quali presentano sol tanto personaggi spiritosi che sanno riassumere in ogni loro 163
minima frase la loro esperienza mediante aforismi indovinati e brillanti. La lattaia che parla come l’ingegnere, in maniera che non ammette replica e impone le proprie idee sulle sorti del mondo e della vita. Il nostro intento è di scoprire la veri tà; noi tentiamo di «steatralizzare» il dialogo. Per Les Quatre cents coups, il mio «dialoghista» Marcel Moussy è stato decisivo da tale punto di vista. Mi sono ri volto a lui dopo aver visto le sue trasmissioni televisive Si c’était vous. Eccelle nel dialogare i conflitti familiari e la sua esperienza di professore gli ha ispirato dialoghi, tra allievo e maestro, veramente commoventi per la loro verità. Noi giriamo dei film nei quali non accade nulla, o quasi. Non vi son sangue, nè lotte, nè violenza ma un susseguirsi di piccoli incidenti quotidiani che costituiscono il contenuto del film. Il pericolo, naturalmente, è quello di creare una nuova moda e di ricopiare se stessi. Quanto prima si imporrà a tutti voi un problema, quello delle «vedettes». Come lo risolverete? Personalmente rifiuterò sistematicamente di girare film con cinque attori: Fernandel, Michèle Morgan, Jean Gabin, Gé rard Philippe e Pierre Fresnay. Sono attori troppo pericolosi in quanto pretendono di mo dificare la sceneggiatura se non piace loro. Non esitano nem meno a imporre o a rifiutare alcuni attori. Influenzano inol tre la regia ed esigono primissimi piani. Non esitano a sacri ficare l’interesse del film per quello che essi chiamano «la lo ro personalità» e, secondo me, sono responsabili di molti fia schi. Sono contento di aver fatto una simile dichiarazione co sì non dovrò lottare contro nessuna tentazione. Ma, fortuna tamente, il cinema esiste anche al di fuori di essi. Inoltre an che queste «vedettes» hanno avuto forti insuccessi commer ciali. Ma vi sono anche attori intelligenti e citerò come esem pio Jeanne Moreau che è molto stimata per la sua modestia
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e per la sua discrezione; essa non vuole nemmeno assistere alla proiezione dei rulli per non avere nessuna impressione immatura sulla sua interpretazione. Sarebbe stupido rifiutare la collaborazione di persone di questo calibro. Perché hai scelto come, soggetto del tuo primo film * ventura di un adolescente?
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Già da molto tempo questo soggetto mi ossessionava. Ave vo avuto, anzitutto, l’idea di realizzare un cortometraggio: La fuga di Antonio. Poi, a poco a poco il film si è articolato da solo in una specie di cronaca sull’adolescenza, in particolar modo sul tredicesimo anno di età che è il più difficile e delicato. Ho scelto questo soggetto perché mi trovo più a mio agio con i bambini che con gli adulti. E ho tratteggiato una situazione che ho conosciuto e vissutouion molto tempo fa. Infine jl problema degli adolescenti è quasi sconosciuto al cinema e offre un infinito campo di scoperte. Les Quatre cents coups non è un film autobiografico, ma alcune circostanze della mia adolescenza mi hanno senza al cun dubbio ispirato. Sono nato a Parigi il sei Febbraio del 1932. Ero u.n allievo terribile che costituiva la disperazione dei suoi genitori. Sono stato bocciato agli esami di quinta elementare e, nei corsi superiori, la mia occupazione preferi ta era quella di marinare la scuola.. Col mio compagno Ro bert Machenay che è divenuto il mio assistente, abbiamo vis suto le stesse esperienze dei due. ragazzi del film. C’era la guerra, e noi barattavamo oggetti rubacchiati qua e là con li tri di vino che poi vendevamo. Poco prima della Liberazione fui mandato in colonia ma dopo poco scappai. M’impiegai come magazziniere presso un commerciante di granò e dopo aver perduto l’impiego quattro mesi dopo fondai un cine club in concorrenza con quello di André Bazin É in quella circostanza che l’ho conosciuto. Mio padre ritrovò le mie tracce e mi consegnò alla polizia. Sono stato ospite per mol165
to tempo nel riformatorio di Villejuif da cui mi fece uscire André Bazin. Sono stato manovale in un’officina, poi mi sono arruolato per la guerra d’Indocina. Ho approfittato di una licenza per disertare. Ma, dietro consiglio di Bazin, ho raggiunto la mia armata. In seguito sono stato riformato per instabilità di ca rattere. Bazin mi permise allora di scrivere sui «Cahiers du Cinema» e in seguito sono entrato a far parte di «Arts». Dunque hai affidato al tuo film una tua esperienza perso nale, un grido dell'anima...
Ho operato una trasposizione. Avrei potuto indifferente mente scegliere un altro soggetto applicandovi le mie espe rienze personali. Ma ho voluto invece fare un ritratto, il più esatto possibile, di uno stato dell’adolescenza assai noto agli educatori e sociologi ma ignorato dalla maggior parte dei ge nitori che hanno persino l’aria di ignorarne la esistenza. Il mio film trattava quella crisi che gli specialisti denominano «la crisi d’originalità giovanile» e che si manifesta con quat tro stadi precisi: il risveglio della pubertà, lo «svezzamento» affettivo da parte dei genitori, il desiderio d’indipedenza, il complesso di inferiorità. Ognuno di questi quattro elementi ispira un senso di rivolta e porta alla scoperta di una certa ingiustizia. Non mi sono divertito a illustrare sistematicamente questi quattro stadi ma credo che uno psicologo po trebbe facilmente scoprirli analizzando il film.
Come hai scelto gli interpreti del tuo film? Con gli annunci economici. Tra le centinaia di ragazzi che mi si sono presentati ne ho scelto una quarantina e ho im mediatamente notato Jean-Pierre Léaud. Posso dire a questo proposito che il ragazzo era, non solo, l’interprete ideale quale io l’avevo immaginato, ma che il suo coraggio, la sua
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vivacità.» il suo modo di essere hanno contribuito a migliora * re notevolmente il film. Quali sono le esperienze che hai tratto dal tuo film? Hai in un certo senso addolcito il tuo spirito critico? Sono diventato più indulgente, voglio dire che non ho più nessuna intenzione di riformare il cinema. I cattivi film non mi indignano più come una volta. Ho solamente voglia di fare dei buoni film. Ho perduto un po' della mia purezza di cineamatore. Sono diventato egoista come tutti i realizzatori; cerco, quindi, di lottare contro questa tendenza e ho un po’ paura per l’avvenire.
Qual è, secondo te, il più grande avvenimento di attualità cinematografica? Credo che si sia parlato a torto di «cambio di sentinella» dei registi. È vero che vi è stato qualche nuovo arrivo ma non si è verificato nessun abbandono.. Piuttosto bisognerebbe occuparsi di più dei giovani sceneggiatori. Ecco l’avvenimen to. Jean-Charles Pichon con «La Tète contre les murs», Pier re Cascar con «Les yeux sans visage», Louis Sapin con «Les dragueurs», Louise de Vilmorin con «Les Amams», Marcel Moussy, Paul Gegauff, ecco il vero cambio di sentinella. Ec co le persone che imporranno uno stile e che apriranno uno spiraglio di aria pura. Ho scritto, tempo addietro su «Arts» un articolo sulla crisi di ambizione del cinema francese, nel quale dicevo che l’ot tanta per cento dei romanzieri ambisce al Premio Goncourt ma che non esistevano tre cineasti che si augurassero il pre mio Delluc. Con il nuovo cinema la situazione cambia. Riu sciti o no, tutti i nostri film sono ambiziosi. E questo è mol to importante. Si può discutere tre ore di seguito per decide re la qualità di un film ma è assai facile avere cosctóhza della sua qualità ambiziosa. Questo comune denominatore di am
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bizione potrebbe essere la spinta per aiutare il cinema. Il pre mio alla qualità dovrebbe incoraggiare le intenzioni, ossia l’ambizione. È da augurarsi che la giuria per il premio Delluc, tra poco abbia solo l’imbarazzo della scelta. E allora che il cinema francese sarà salvo.
Intervista concessa da Francois Truffaut al direttore del settima nale parigino «Arts», André Parinaud.
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Come ho girato «L’Enfants Sauvage»
Ho atteso tre anni per realizzare L’enfat sauvage. Avevo letto nel 1966, su Le Monde, il resoconto di una tesi di Lu cien Maison su 1 ragazzi selvaggi, cioè i ragazzi cresciuti sen za nessun contatto con il mondo, e vissuti, per una ragione o un’altra, nell’isolamento. Fra i dnquantadue casi «seri» ri cordati da Lucien Maison, dopo il «ragazzo-lupo», di Hesse (1344) sino al piccolo Yves Cheneau di Saint-Brévin, l’esem pio d’isolamento più netto e più istruttivo sembra essere sta to quello di Victor de l’Aveyron, lungamente e minuziosa mente studiato dal dottor Jean Itard, che si intressò a lui dal momento della sua cattura, avvenuta da parte di alcuni cac ciatori, nel folto di una foresta, nell’estate del 1798. Il «selvaggio» era irsuto e si muoveva come un animale, usando sia i quattro arti che le due gambe. Viveva allo stato selvaggio, tutto nudo, con il corpo ricoperto di cicatrici, usando le unghie come artigli; e non esprimendosi che con dei grugniti. Nella foresta si nutriva esclusivamente di casta gne, di ghiande e di radici e si calcola che dal momento del suo abbandono fino a quello della sua cattura, ha dovuto trascorrere in solitudine totale un periodo dai sette agli otto anni. Le cicatrici che Victor de l’Aveyron aveva sul corpo erano tracce di lotte, probabilmente dei morsi d’animali con i quali si era imbattuto; ma sotto la gola, all’altezza della 169
trachea, una cicatrice più profonda delle altre sembrava esse re la traccia di un colpo di coltello. Doveva trattarsi certa mente di un bambino che qualcuno aveva voluto uccidere, con un colpo di pugnale, abbandonato nella foresta all’età di 3 o 4 anni, perché appunto ritenuto morto. Ma la polvere e le foglie a contatto con la ferita, debbono averla cicatrizzata. Questa mi sembra l’ipotesi più probabile anche se il mistero dell’abbandono del «selvaggio» dell’Aveyron, non venne mai chiarito. Trasferito alla Gendarmeria di Rodez, il ragazzo selvaggio divenne rapidamente oggetto di curiosità pubblica, al punto che di lui si occuparono persino le gazzette dell’epoca, per esempio Le Journal des Débats ed è per questo che gli scien ziati parigini chiesero di poterlo tenere in osservazione. Fu quindi trasferito dalla Gendarmeria di Rodez all’istituto dei Sordo-Muti di Parigi, un grande edificio che esisteva tuttora in via Saint-Jacques. I medici che hanno esaminato il «sel vaggio» a Parigi hanno pensato però che si trattasse di un bambino debole o idiota, abbandonato forse proprio per questo nella foresta e che dunque era perfettamente inutile occuparsi di lui. Secondo questi medici bisognava rinchiuder lo a Bicètre, tra i pazzi e gli incurabili. Questa non era però l’opinione di Jean Itard, un giovane medico che effettuava le sue ricerche sulla sordità. Egli pensava che il Selvaggio dell’Aveyron era degno di essere educato e pertanto chiese di poterlo prendere con sé, nella sua casa vicino Parigi. Iniziò così l’opera di rieducazione, inventando e utilizzando modi pedagogici di cui, ancora oggi, ci si serve per la rieducazione dei sordo-muti e dei ritardati. Questo soggetto corrispondeva a quei temi che mi interes sano di più e oggi mi rendo conto che L'Enfant sauvage si imparenta sia con Les quatre cents coups, che con Fahren heit 451. In Les quatre cents coups ho mostrato un ragazzo che mancava di affetto, cresciuto su, senza tenerezza; in Fah-
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renheit 451 ho parlato di un uomo cui vengono negati i li bri, cioè la cultura. Quello che manca a Victor dell’Aveyron è ancora più radi cale: si tratta del linguaggio. Questi tre film sono dunque co struiti sopra una frustrazione maggiore. Anche negli altri miei film mi sono attardato a descrivere personaggi che sono luori della società; non sono loro che rifiutano la società, ma è la società che li rifiuta. Allorché assieme al mio caro amico Jean Gruault ho co minciato a scrivere la sceneggiatura de L’Enfant sauvage, la difficoltà principale era che si trattava di lavorare su un testo costituito in realtà da due rapporti redatti dal Dottor Itard: il primo datato 1801 e destinato probabilmente all’Académie de Médicine; il secondo, scritto nel 1806 e indirizzato al Mi nistero degli Interni per ottenere il rinnovamento della pen sione stanziata a Mme Guérin che, appunto si occupava del ragazzo. Per trarre da questi scritti una sceneggiatura, abbiamo im maginato che il Dottor Itard invece di scrivere questi due rapporti avesse tenuto ogni giorno un diario; questo dà al film la struttura di una cronaca e fa salvo lo stile dell’autore, a volte scientifico, filosofico, moralistico umanista, a volte li rico e familiare. Sono dunque restato fedele al tono dei rapporti del dottor Itard (di cui tra l’altro mi piace molto lo stile) che ho letto e riletto, spesso durante la lavorazione, al fine di «ripescare» qualche particolare, ma soprattutto per impregnarmi meglio del suo stile. Mi sono anche documentato ma non sistematicamente: ho letto qualche libro sia sui sordo-muti, che sulla pedagogia in genere e tra questi anche un libro della Montessori. Temo sempre che un eccesso di documentazione mi costringa a ri nunciare a un’idea, facendomi apparire il problema troppo vasto. Sulle prime tendo a limitarmi. C’è il rischio che accu171
mutando troppi dettagli su un soggetto come questo, si supe ra la durata media di un’ora e mezza. Non ho neanche voluto avvalermi di una consulenza me dico-scientifica; non desideravo che qualcuno mi potesse im pedire, comunque, di muovermi liberamente. Qualche volta mi sono fatto dare qualche consiglio, pro prio mentre giravo. Una sera ho invitato a cena un «otori no» che mi ha dato due o tre indicazioni precise. Ho così potuto improvvisare due piccole scene sull’educazione auditi va che non avrei mai potuto immaginare senza questi ele menti; ma non ho voluto niente di sistematico per quanto concerne i consigli tecnici. Prima di iniziare le riprese mi sono fatto proiettare molti film scientifici sui ragazzi spastici e mi sono accorto che esi ste una grande diversità di comportamenti: vi son ragazzi as sai dolci, lentissimi che fanno qualcosa di lancinante, che battono su di un tavolo per tutta la giornata; altri frenetici; altri ancora che vi osservano veramente come animali e altri che hanno lo sguardo fisso nel vuoto. Allora ho pensato che in fondo si aveva il diritto di inventare. Il film comporta una serie di esercitazioni che Itard fa fare al ragazzo per educare il suo orecchio, il suo occhio, i suoi sensi: là si manifestò un aspetto documentaristico e il nostro criterio di lavoro è stato quello proprio di un documentario. È tutto chiaro? Si comprenderà ciò che abbiamo voluto fare? Questi esercizi bisognava poterli seguire, bisognava che all’inizio il pubblico comprendesse subito ciò che Itard voleva ottenere dal ragazzo, in modo da poter seguirne lo svolgi mento con interesse. Questo è per me uno scopo primario ottenuto anche grazie al commento costituito dalla voce fuo ri campo di Jean Itard che scrive il suo diario. L’enfant sauvage è un film a due personaggi; mi è sembra to che il lavoro essenziale in questo film non fosse tanto la messa in scena quanto di occuparsi del ragazzo. Ho voluto 172
dunque interpretare il ruolo del dottor hard per occuparmi io stesso del ragazzo ed evitare così di passare attraverso un inter mediario. Ma non ho preso subito questa decisione e la scelta dell'attore sulle prime mi ha dato non poche preoccupazioni. Ho pensato prima ad attori di cinema, poi ad attori della televisione; ma mi sono reso conto che in ogni caso ci si sa rebbe trovati in imbarazzo per i ruoli che essi avevano già interpretato; c'è nel cinema europeo un'esigenza di plausibili tà più grande che nel cinema americano. Il Dottor Itard è esistito: è stato uno dei pionieri deH’otorinolaringoiatria, un uomo che non è celebre come Pasteur ma che è, malgrado ciò, conosciuto, magari più in America che in Francia. 11 film ha un suo carattere abbastanza forte di autenticità, giac ché è una storia vera appena «romanzata». Per un film di questo genere, di solito si prendono attori poco conosciuti. I lo dunque cercato un attore sconosciuto per la parte del Dottore, sia cercando tra i giornalisti, sia tra gli amici. Poi e in difficoltà. Non si tratta di tenere la barra ma di rad drizzarla se no ci si avvia verso il naufragio. A causa del tempo che passa troppo veloce in rapporto al pensiero, si può anche paragonare la lavorazione al tragitto di un treno impazzito che brucia le tappe al punto che non si ha più neanche il tempo di leggere i nomi delle stazioni attraversate. Si fa del metraggio, del minutaggio «si ammazzano dei nu meri». Da questo lavoro nervoso non può uscire in alcun modo un capolavoro, che esige anzitutto il controllo di tutti t>lt elementi, ma nella migliore delle ipotesi qualcosa di vivo. Ringrazio Truffaut e i «Cahiers du cinéma» che hanno permesso la traduzione in italiano di questa prima parte del «Journal». I radiazione di Alfredo Leonardi *
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Dialoghi di «Fahrenheit 451 »
Premessa
Molte opere di fantascienza possono essere considerate co me favole per adulti e, in tal senso, si può vedere in Fahren heit 451 una favola del nostro tempo. Due appetti di fantascienza si alternano nella letteratura fu turista: quello che tratta della terra e dei suoi abitanti, e quello che mette in scena degli esseri extra-terrestri come Marziani, abitanti di Venere, Robots, Mostri, ecc... Il capo lavoro di Ray Bradbury, Fahrenheit 451 appartiene alla pri ma categoria. L’azione si svolge infatti sul nostro pianeta, ma con un leggero anticipo nel tempo e in un certo modo si potrebbe dire al pubblico: l’azione di F. 451 si svolge dove volete voi, quando volete voi. Attingendo in una atmosfera più strana che stravagante, la storia segue un postulato ab bastanza semplice: si svolge in una società nella quale è seve ramente proibito leggere e possedere libri. In questa società, il compito dei pompieri non è quello di spegnere gli incendi, bensì quello di dare la caccia ai possessori di libri e di bru ciare i loro libri pubblicamente. Poiché la storia si svolge in un paese indeterminato, il film può essere tacciato di immaginazione, ma all’interno di que sta immaginazione è stata rispettata una certa realtà, in mo llò
do che la storia assomiglia a quello che noi sappiamo sulla Resistenza che parecchi paesi hanno opposto all’oppressione nazista, con la differenza che qui gli uomini perseguitati so no soltanto amatori di libri. Uno dei temi principali di F. 451 è l’amore per i libri. Al cuni provano per i libri un amore puramente intellettuale; ciò che li interessa è il contenuto del libro. Altri lettori, inve ce, provano un attaccamento sentimentale, quasi fisico, per i libri come oggetto. Questo sentimento è frequente, ad esem pio, in coloro che hanno trascorso la loro giovinezza in cam pagna, o comunque in un luogo dove i libri erano oggetti ra ri, o ancora in coloro che durante l'infanzia si sono visti re galare solo un libro all'anno, come premio scolastico o in occasione di qualche anniversario. Nello spirito di quelle persone, il libro si distacca quasi del tutto dal suo contenuto e diventa oggetto di culto. Col tem po la sua rilegatura, la sua copertina, lo stesso suo odore as sumono un significato sentimentale particolare per colui che lo possiede. Il fatto che si continui a proibire o addirittura a bruciare i libri nella nostra società moderna (si potrebbero citare degli esempi recentissimi di tale tipo di roghi), e che si continui a censurare severamente la cosa scritta in parecchie parti del mondo, conferisce al film un carattere di attualità. D’altra parte, per i grandi «lettori» che temono di veder sparire i li bri dai mezzi di espressione audiovisivi, Fahrenheit 451 può apparire di un’attualità... bruciante.
Francois Truffaut
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Fahrenheit 451 ha avuto il premio «Filmcritica» alla 27 Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica «per la impo stazione illuministica con la quale Truffaut ha individuato la disumanizzazione della presente civiltà dei consumi, in una storia apparentemente fantastica che conserva nell’ambientazione e nella vicenda la cadenza di una situazione normale rendendo diretta la metafora attraverso uno stile classico e li neare».
Clarisse (Julie Christie) è al telefono Uomo - Pronto Clarisse - Scappa! Uomo - Cosa? Clarisse - Presto! Uomo - Chi parla? Clarisse - Scappa! Presto! Uomo - Io... Clarisse - Non perdere tempo, scappa...! Uomo - Pronto... pronto
Dopo una «spedizione» il Capitano dei pompieri (Cyril Cusack) conversa con Montag (Oskar Werner) Capitano - Be’, ehm... di che tipo erano quei libri, Mon tag? 215
Montag - Non ci ho fatto caso... C’era un po’ di tutto: Non ho guardato bene... romanzi, biografie, racconti di av venture. Capitano - Oh, la solita roba, eh? Ma perché continuano? È solo un puntiglio. A proposito... Pompiere - Passami quel cavo... Capitano - ... che cosa fai Montag nei tuoi giorni liberi? Montag - Non molto, signore. Falcio il prato. Capitano - E se fosse proibito anche questo? Montag - Lascerei crescere l’erba! Capitano - Ah... bravo! Pompiere - Siamo pronti. Capitano - Montag forse avrai qualche buona notizia fra qualche giorno. Benedict non resterà con noi per molto. E Montag forse prenderà il suo posto. Montag - Una promozione, signore. Capitano - Spero che l’idea ti renda felice, Montag.
Sulla monorotaia Montag incontra Clarisse. Clarisse - Noi siamo vicini di casa. Io sto vicino al blocco... otto uno tre. Lei non abita lì? Montag - Sì infatti. Clarisse - Sa, che facciamo insieme lo stesso percorso tutti i giorni. Montag - Davvero? Clarisse - Già. È per questo che mi sono detta ... che do vevamo parlarci qualche volta. Montag - Sì, sì parli pure. Ma le confesso che io non sono un gran conversatore... Clarisse - Hm... non si preoccupi di questo... una volta che ho cominciato niente mi ferma più. Mio zio dice che so no una miniera di parole.
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M ontag - Questo suo zio non le ha mai detto di non par lare mai con gli sconosciuti? Clarisse - No. Ha detto solamente... che se qualcuno mi chiedleva l’età, dovevo dire «ho venti anni e poco sale nella zucca». Sono due cose che legano. Montag - Poco sale nella zucca... Clarisse - Si. Stupida... svitata. Comunque lei non mi fa paura. Montag - E perché dovrei? Clarisse - Infatti non c’è motivo. Per la uniforme, immagi no. Molte persone hanno... paura... paura dei pompieri. Montag - Questa è la mia fermata. Clarisse - Anche la mia. Lei è un ufficiale? Montag - Oh, no, non ancora. Un ufficiale deve... Ma sarò promosso... presto. Clarisse - Anche ad occhi chiusi riuscirei a capire che me stiere fa. Montag - È per via dell’odore del kerosene? Clarisse - Sì. Montag - È piuttosto forte, vero? A mia moglie non piace molto: dice che si attacca a tutto. Ma a me non dispiace. Io lo trovo... una specie di... profu mo. Clarisse - Un profumo? Montag - Sì, un profumo, come tanti altri. Clarisse - Non ho mai visto sua moglie. Com’è fatta? Montag - È quasi come lei. Tranne i capelli più lunghi. Clarisse - È quasi come me? Montag - Sì, quasi identica. Clarisse - Mi dica... quel numero che portate tutti, che si gnifica? Montag - Oh, Fahrenheit quattrocentocinquantuno. Clarisse - Perché quattrocentocinquantuno invece di otto217
centotredici o centoventuno? Montag - Fahrenheit quattrocentocinquantuno è la tempe ratura alla quale... i libri prendono fuoco e cominciano a bruciare. Clarisse - Vorrei farle un’altra domanda, ma non ne ho il coraggio. Montag - No, avanti. Clarisse - È vero... che tempo fa... i pompieri servivano a spegnere gli incendi e non a bruciare i libri? Montag - Credo che suo zio abbia ragione: lei è un po’ svitata. Spegnere gli incendi! Ma chi gliel’ha raccontato? Clarisse - Oh, non lo so. Qualcuno. Ma è vero, non è co sì? Montag - No. Che idea assurda. Le case son sempre'state incombustibili. Clarisse - La nostra no. Montag - Be’, allora, ehm, verrà demolita un giorno o l’al tro. Dovrà essere distrutta e..., lei dovrà traslocare in una casa incombustibile. Clarisse - Che peccato. Mi dica, perché lei brucia i libri? Montag - Come? Beh... è un lavoro come gli altri; un buon lavoro, piuttosto variato. Il lunedì bruciamo Lucrezio (Cfr.: le iniziali che sono comuni ai giorni della settimana e all’autore che viene bruciato...) il martedì Molière; il merco ledì Machiavelli... il giovedì Goldoni... il venerdì Voltaire, e il sabato Sartre... e la domenica... Dante.. «Li riduciamo in cenere e poi bruciamo le ceneri». È questo il nostro motto. Clarisse - A lei non piacciono i libri? Montag - A lei piace la pioggia? Clarisse - Certo, l’adoro. Montag - I libri sono soltanto un mucchio... di spazzatu ra. Non servono a niente.
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Clarisse - Allora perché c’è chi li legge malgrado sia tanto pericoloso? Montag - Proprio perché è una cosa proibita. Clarisse - E perché è proibita? Montag * Perché rende infelice l’umanità. Clarisse - Lei ne è proprio convinto? Montag - Oh, certo! I libri, rendono la gente antisociale. Clarisse - Crede che io sia antisociale? Montag - Perché me lo chiede? Clarisse - Beh! Io sono un’insegnante, cioè, non del tutto, sono ancora in prova. Oggi ho avuto la prova di psicanalisi. E non credo di aver detto le cose giuste. Non sono sicura delle risposte che ho dato. Forse è per questo che l’ho assalita così. Le ho dato molto fastidio? Montag - Oh, no, niente affatto. Anzi, anch’io... sono sta to interrogato, oggi. E non devo aver brillato. Beh! Clarisse - Io abito lì. Vede? Questa è la mia casa. Un’altra domanda! Montag - Ancora? Clarisse - Una piccola piccola. Montag - Avanti, coraggio. Clarisse - Legge mai i libri che brucia? Montag - Perché dovrei? Primo: non m’interessa. Secondo: ho di meglio da fare. E terzo: è proibito. Clarisse - Oh... lo so. Lei è felice? Montag - Che? Certo che sono felice.
In casa di Montag. La «parete» televisiva trasmette il pro gramma. La moglie di Montag, Linda è interpretata dalla stessa Julie Christie.
Annunciatrice - ...in modo che poss te d endervi in caso di aggressione. L’arte dell’autodifesa e ila otta... può di 219
mostrarsi utile anche tornando a casa. Ecco, se guardate at tentamente... vedrete come una donna può sfruttare a suo vantaggio il peso superiore deiruomo. Visto? Adesso rivedia mo a velocità normale. E ora... al rallentatore. Osservate at tentamente, care cugine. Montag - Forse avrò la promozione? Annunciatrice - Ecco, mentre lui muove in avanti il piede sinistro, notate la posizione della donna... Montag - Mi hai sentito, Linda? Annunciatrice - Le ginocchia leggermente flesse e le punte dei piedi rivolte verso Tintemo. Linda - Oh, è magnifico, Montag. Annunciatrice - Ecco... osservate attentamente... E ora... veniamo alla contromossa... quando lui è a... terra... può essere pericoloso cercare di sorprenderlo... Ecco, osservate bene questo esempio... Montag - Me lo ha detto il capitano mentre eravamo fuori per una chiamata. Linda - Che cosa hai detto? Montag - Stavo parlando della mia promozione. Linda - Ti aumenteranno lo stipendio? Di quanto? Montag - Non me ne ha parlato. Potremmo prendere una casa più grande. Ti piacerebbe? Linda - Io vorrei un altro schermo televisivo a muro. Di cono che quando si ha un sencodo schermo a muro, è come sentirsi circondati dalla «grande famiglia». Montag - Linda, quante ne hai prese di queste pillole, og gi? Linda - Come? Oh, quelle? Serviti pure, io ne ho un altro flacone pieno. Montag - Quante ne hai già prese? Linda - Oh, non essere noioso, Montag. Poche... poche! Annunciatrice - Ecco un bollettino dal nostro ufficio delle buone notizie. 220
Linda - E poi è una giornata speciale per me. Annunciatrice - ... Le delazioni contro coloro che minac ciano la nostra campagna contro i nemici della pace pubbli ca... aumentano di numero. Linda - Mi hanno dato una parte ne «La Famiglia». Montag - Che cosa? Linda - Una parte ne «La Famiglia». Annunciatrice - Le cifre relative agli interventi nella sola zona urbana... indicano l’eliminazione di un totale di 10 quintali e 750 kg. di pubblicazioni correnti. Ottocentotrentasei kg. di prime edizioni. E sono state distrutte anche dicias sette kg. di manoscritti. Ventitré elementi antisociali sono stati arrestati ed inviati negli istituti di rieducazione. Linda - Hai visto? La cugina Claudette stasera ha un toupet. Montag - Chi? Linda - La cugina Claudette. Montag - E chi è la cugina Claudette? Linda - La cugina annunciatrice. Quella che a te non pia ce. Montag - A me non ne piace nessuna. Linda - Perché non mi ripari il forno, Montag? È tanto che te lo chiedo! Oh, presto, presto. Fra un minuto tocca a me. Presto, presto. Montag - lo non capisco. Come puoi recitare una parte? Linda - Hanno scritto una commedia, dove manca una parte. Cioè la mia. Quando guardano verso di me, allora io devo dire quel che penso. Ci siamo; adesso comincia! Annunciatrice - Ed ora, care cugine vicine e lontane, il no stro teatro della grande famiglia. «Venite a recitare con noi». Naturalmente in tutto ciò che vedrete... qualsiasi riferimento a fatti realmente accaduti sarà assolutamente occasionale... Rammentatelo bene. Ed ora volete venire a recitare con noi? 221
Siete pronte? Sapevo che avreste accettato. Venite, cugine, a far parte della «grande famiglia»!
Sulla «parete» televisiva appaiono Bernard e Charles nella trasmissione dedicata alle «Linde» del paese. Bernard - Charles, ti rendi conto di che dilemma è questo? È tremendamente difficile. Io non riesco a vedere nessuna soluzione. Charles - Via, via, Bernard, c’è sempre una soluzione. Dunque, noi siamo tredici in tutto, giusto? Tu vuoi invitare anche Edward, il che fa quattordici. Bernard - Sì, ma se qualcuno si ammala; torneremo di nuovo ad essere in tredici. Charles - Esattamente. Perciò invitiamo altre persone. Bernard - Questa è un’idea. Charles - Che ne dici di Lottie e di James, per fare sedici. Se si ammala qualcuno, almeno non saremo in tredici, no? ti pare? Bernard - Mm. Ma c’è il problema delle camere, Charles. Lottie ha due bambini, Charles. Due maschietti. Freddie e il piccolo John. Charles - Questo non mi sembra affatto un problema. Mettiamo i due bambini nella, be’, nella camera di Hélène, per esempio. Tu che ne dici, Linda? Montag - Be’... coraggio, aspettano te. Linda - Io credo che... Charles - Vedi, Linda è d’accordo con me. I bambini di Lottie staranno coi bambini di Hélène, Linda ha proprio ra gione. Bernard - Poi c’è il problema dei posti a tavola. Io credo di aver trovato una soluzione. Dunque... se mettiamo Yvon ne a capotavola e Richard alla sua destra. Charles - Oh! No, no, Bernard. Richard è due anni che non parla con Yvonne!
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Bernard - Oh! Charles - Per via di Leslio. Bernard - Oh! Charles - Madeleine deve stare a capotavola tanto più che è più anziana di Yvonne. Si, magari anche più di Jackie. Nemmeno questo è un problema. Mettiamo Madeleine a ca potavola. Va bene, Madeleine, non è vero, Linda? Linda - Assolutamente. Bernard - Be’, se Linda dice che va bene, allora faremo co sì. Però rimane sempre il problema delle camere. Charles - Quali camere sono rimaste? C’è la camera rosa. Possiamo metterci Lilian nella camera rosa. Bernard - E Susan nella camera verde. Charles - Sì. Bernard - Va bene, ma dove mettiamo Monica? Charles - Eh già! Come facciamo per Monica? Tu che suggerisci, Linda? Linda - La camera blu. Charles - Linda ha ragione! Bernard - Ha proprio ragione. Charles e Bernard - Linda, tu sei assolutamente fantastica. Linda - Hai visto come son brava? Ho dato tutte le rispo ste giuste. Non è magnifico? Avrei potuto fare l’attrice, non trovi? Montag - Non trovo cosa? Linda - Che avrei potuto fare l’attrice. Montag - Certo che avresti potuto... farla. Linda - Chissà se Joyce mi ha visto. Spero proprio di sì. Domani le telefono per sapere se le sono piaciuta. Montag - Come hai avuto quella parte? Linda - Quelli della «Famiglia» mi hanno telefonato. A me! Per dirmi che sarei entrata nella commedia. Montag - Oh, avranno telefonato a tutte le migliaia di Linde che vivono nel paese. 223
Linda - No, non è vero. E anche se fosse vero, tu non do vresti dirmelo. Sei stato molto cattivo. Interno della caserma dei pompieri.
Pompiere I - E così stai per essere promosso, Montag. Au guri. Montag - Grazie. Pompiere 2 - Beh, è vero quello che dicono, Montag? Ti promuovono, eh? Montag - Così dicono. Pompiere 3 - Che effetto ti fa, Montag? Contento? Montag - A mia moglie fa molto piacere. Pompiere 3 - Lo credo! Pompiere 4 - Presto, Presto, ragazzi, presto. Nell’aula di esercitazione per allievi pompieri. Istruttore - Attenti. Basta così per oggi. Tornate ai banchi. Che storia è questa? Credevo di avervi già detto che non vo glio vedervi seduti uno accanto all’altro. Oppure hon sono stato abbastanza chiaro? Sì, tu! Ci siamo capiti. Vieni a se dere qui. Montag - Ripassiamo un po’ la lezione di ieri. Abbiamo imparato come scoprire i libri nascosti durante la costruzione stessa della casa. È piuttosto raro, perché è una cosa molto costosa, specie per i pavimenti e i soffitti. Abbiamo anche studiato come si nascondono i libri nella mobilia. Hostess - Gli allievi Stoneman e Black si presentino nell’uf ficio del capitano immediatamente. Ripeto: gli allievi Stone man e Black si presentino immediatamente nell’ufficio del ca pitano. Montag - Dicevamo come vengono nascosti nella mobilia.
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Il sistema più diffuso è rappresentato dal falso frigorifero o dal falso apparecchio televisivo. Ciò che può presentare qualche difficoltà sono i libri nascosti negli oggetti di uso corrente. Quando si cerca un libro, i luoghi dove si deve subito guar dare sono gli oggetti di forma rettangolare. Come le scatole per i sigari o le scatole di cioccolatini o altri oggetti di forme simili. Ma anche un oggetto cilindrico può essere sfruttato! Hostess - Montag si presenti nell’ufficio del capitano. Montag - Vieni qui. Portami una pila di libri. Mentre so no via... dai un libro a ciascuno. Ognuno di voi nasconderà il suo libro in qualche posto di quest'aula. Quando torno, vi darò una dimostrazione di come si cerca no. Per imparare a trovare bisogna prima imparare a nascon dere.
Nel corridoio della caserma.
Black - Diciamo che siamo capitati accanto per caso? Stoneman - No, non regge. Black - Che vuoi che dica? Che lo abbiamo fatto apposta? Stoneman - L’idea è stata tua... Sei stato tu a pensarci. Black - Piantala! Se non gli diciamo la stessa cosa... Beh, insomma... Senti... tu fa parlare solo me. Nell’ufficio del capitano. Capitano - Montag, ci metterò solamente... cinque minuti. Montag - Sì, signore. Capitano - Che ore sono? Montag - Ehm... le dieci, signore.
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Capitano (rivolto a Stoneman) - Basta... capito. Sia l’ulti ma volta...
Stoneman viene punito. Capitano - Fuori! (a Montag) Ti piace la ginnastica, Mon tag? Montag - Sì, signore. Capitano - E l’hockey? Ti piace l’hockey? Montag - Moltissimo, signore. Capitano - E il golf? Montag - Il golf. Moltissimo, signore. Capitano - Mm. E il football? Montag - Moltissimo, signore. Capitano - Mm, il biliardo, la pallacanestro? Montag - Oh, sono tutti bellissimi sport, signore. Capitano - Allora aumenta la dose. Più sport per tutti quanti. Rafforza lo spirito del gruppo. Organizza il diverti mento. Capito? Basta tenerli occupati per farli felici. È que sto l’importante. Sì? Dico bene? Montag - Assolutamente, signore. Capitano - Bene, vogliamo parlare un po’ di questa... tua promozione? Avrai accennato la cosa a tua moglie, immagi no? Montag - Sì, signore. Capitano - E come... ha reagito? Montag - Ehm, ha detto, che forse potremmo prendere un altro schermo televisivo. Capitano - Oh, ne avete solamente uno? Capisco. Le pro mozioni sono molto importanti per gli uomini sposati, non è vero? Montag - Credo di sì, signore. Capitano - Montag. Voi non avete figli, mi sembra? Montag - No, signore. Non abbiamo figli. 226
Capitano - Be’, il tuo dossier è irreprensibile. E, non vedo motivo per cui non dovrebbe andare tutto bene. Natural mente ti rendi conto... che con i nuovi emendamenti alla leg ge, dobbiamo aspettarci di lavorare piuttosto sodo. Sì, molto sodo. Credo che saremo costretti ad arruolare nuovi volonta ri. Montag - Sì, signore, io... ho sentito i camerati che ne parlavano. Capitano - Quanto tempo è che sei con noi? Montag - Da sei anni, signore. Sì... Sì... sì, da sei anni, si gnore. No, no, no, da cinque anni, signore... da cinque an ni. Capitano - Montag tu hai una qualità che io apprezzo enormemente. Non parli molto. Hai visto il mio medaglione personale? Oh, ha una somiglianza notevole. Voglio farne avere uno anche a te... ricordamelo... Dunque, torniamo alla tua promozione. Ho esaminato le tue note caratteristiche. Ci sono solo sei tue fotografie, visto di profilo, qui; ce ne servono dodici, lo sai. Due serie di sei. Ricordalo, Montag. Rientrando a casa Montag trova Linda svenuta
Montag - Linda. Linda! Va al telefono e chiama l’ospedale.
Voce di Montag Voce di Montag Voce di Montag
donna - Qui l’ospedale. - Senta... ehm, si tratta di mia moglie, è... donna - Nome e indirizzo. - Ehm... ehm, Montag. Isolato otto uno tre. donna - Otto uno tre. - Ehm, un momento. Pronto.
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Voce di donna - Sì. Montag - Sono rientrato adesso dal lavoro e l’ho trovata sul pavimento... è svenuta. Voce di donna - Fa uso di pillole? Montag - Sì, certo. Ieri ne ha.. Voce di donna - Un momento, le passo il reparto intossi cazioni. Montag - Sì. Voce uomo - Reparto intossicazioni. Montag - Ecco, si tratta di mia moglie, è... Voce uomo - Nome e indirizzo. Montag - Ehm, Montag. Isolato otto uno tre. Voce uomo - Che tipo di pillole? Montag - Oh, ehm, un momento. Pronto. Voce uomo • Sì. Montag - Ehm... sono rosse. Oh! E ehm... rosse numero due. Voce uomo - Oh, sono eccitanti, ma innocue. Magari ci avrà preso sopra il tipo sbagliato di pillole sedative. Montag - Oh, sono... sono dorate numero otto. Voce uomo - Bene, resti vicino a lei. L’ambulanza sta arri vando... Quattro minuti. Montag - Che devo fare nel frattempo? Voce uomo - Niente.
Entrano gli infermieri Montag - Dov’è il dottore? Infermiere 1 - Quale dottore? Montag - Il dottore che deve curare mia moglie. Infermiere 2 - Niente dottori per queste cose, siamo noi che facciamo le trasfusioni. Montag - No di là... È qui, prego. Infermiere 1 - Facciamo tutto noi. Che cosa credeva? 228
Infermiere 2 - Di casi come questo ne vediamo una cin quantina al giorno. Infermiere 1 - E lei non sarà l'ultima per oggi, questo è poco ma sicuro... Infermiere 2 - Non si preoccupi, signore. Le daremo una ripulita coi fiocchi. Le faremo il pieno di sangue nuovo. Fra venti minuti starà meglio di prima. Lei stia tranquillo. infermiere 1 - Senta, non è piacevole da guardare. Ci vuo le stomaco! E meglio che aspetti fuori. Lasci fare a noi. La chiameremo appena finito. Infermiere 2 - Questo regolatore non funziona più come, una volta. Infermiere 1 - Avvicinamelo un po’. Infermiere 2 - Bisogna toglierle le calze! (Ride) Infermiere 1 - Lascia stare! Metti il vestito sopra una se dia. Bé, signore, può entrare adesso. È fresca come una rosa. Nuova di zecca. Montag - E ancora svenuta. Infermiere 2 - Oh, io non direi, signore. No... È solo addormentata. Be', la lasci stare e se ne vada a letto. Domani sarà tutto finito. Montag - Si sarà completamente rimessa, domani? Infermiere 1 - Altro che rimessa! Creda a me, non sarà mai stata tanto bene! Infermiere 2 - Però guardi che avrà un grande appetito in tutti i sensi. Infermiere 1 (Ride) - Tutti... Sarà affamata. Se ne accorge rà. Linda rinviene. 229
Linda - Mamma che fame! Montag - Come ti senti? Linda - Affamatissima. Montag - Ricordi niente? Linda - Sto morendo dalla fame... mi mangerei un bue... Montag - Ieri sera... Linda - Sì. Che dormita. Ho dormito come un masso. Montag - Senti. Quando sono tomato a casa ieri sera... Linda - Non so che mi sia preso. Sto morendo di fame. Montag - Vuoi stare zitta un momento? Linda - Oh! Ma certo, tesoro. Parla solo tu, se d fa tanto piacere. Coraggio; che dicevi di ieri sera? Montag - Niente. Non ricordo più. Comunque non impor ta. Linda - Guarda! Ti ho comprato un regalo... per festeg giare il tuo... oh, ho dimenticato, ma non importa. (Gli dà un superbo rasoio a lama). Ti piace? Non è carino? Ti pia ce? Montag - Sì. Moltissimo mi piace. Linda - Non è elegante? È proprio l’ulrimo grido. Oggigiorno ce l’hanno tutti. Posso buttar via quello vecchio! (e getta nel cestino il vecchio Philips a pile). Montag - Linda. Linda. Ho una cosa da dirti. Mi ascolti, Linda? Che stai facendo? Linda. Linda - Ehi!
Entrambi ridono. Si abbracciano. Montag ripensa, tra sé, alla domanda di Clarisse: «Legge mai i libri che brucia?». Sulla «parete» televisiva si svolge un programma. Un pom piere ferma un «capellone». Pompiere 3 - Ehi, tu, vieni qui. Vieni qui. Be’? Che cos’è
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questa roba? Che cos’è? Eh? Ahi! Andiamo. (Tagliano i ca pelli). Andiamo... Andiamo. Sta buono. Annunciatrice - Alcuni giovani boicottano ancora i negozi dei barbieri. E qui vedete una squadra del buoncostume al lavoro con uno di questi ignobili capelloni. Come vedete, far rispettare la legge può essere divertente a volte. Montag - Come mai la porta non funziona? (Cerca di ri pararla). Linda - Sei appena in tempo. La cena è pronta. Montag. Che stai facendo? Montag (imbarazzato) - Arrivo.
Di nascosto, Montag dopo cena apre un libro sottratto al le fiamme e comincia a leggerlo, quasi compitando. Montag - «La storia personale di David Copperfield... di Charles Dickens. Con quaranta illustrazioni di Phiz. Londra. Chapman and Hall Limited, e Humphrey Milford». «New York, Oxford University Press... Sezione Americana, 35 West, Trentaduesima strada. David Copperfield. Capitolo Primo. VENGO AL MONDO. Queste pagine diranno se sarò io l’eroe della mia vita, o se questa parte sarà sostenuta da qualche altro. Per cominciare dal principio, dirò come mi venne riferito e come credo, che nacqui di venerdì, a mezzanotte in punto. Fu anzi notato che, quando l’orologio cominciò a battere le ore, io feci udi re il mio vagito.
Una squadra di pompieri perquisisce i passanti ai giardini pubblici. Pompiere 4 - Un momento. Vada. Capitano - Andiamo. Ah, ah!
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Ah, ah! Bimbo (piange). Clarisse raggiunge di corsa Montag.
Montag - Oh! Va tutto bene? Clarisse - Sì. Va tutto bene. Dicono sempre così. Dev’esser vero. Che va tutto bene. Montag - Veramente non sembra. Che c’è che non va? Clarisse - Oh, tutto quanto! Ci vorrebbe troppo per... Certe volte mi sembra di non poterne più, e vorrei... Montag - Su, andiamo in un posto tranquillo e... Clarisse - Non farà tardi? Montag - No, ho un sacco di tempo. Andiamo là (Vanno verso un caffè). Montag - L’ho vista l’altro giorno, mentre eravamo fuori per una chiamata, ero sull’autopompa! Clarisse - È buffo, mi ha fatto venire in mente una cosa. Una ragazza che aspettava... un soldato... alla porta di una caserma. Montag - Che è successo? (Si siedono a un tavolo, verso una grande vetrata). Clarisse - Be’, ero preoccupata per il test-psicanalitico! Montag - Si... Clarisse - Avevo ragione di preoccuparmi. Mi hanno man data a spasso licenziata. Montag - Perché? Che motivo le hanno dato? Clarisse - Nessuno. Soltanto una telefonata. La sua opera non è più richiesta. E non devo tornare più a scuola. Montag - Ma devono dirle la ragione. Si faccia dire il per ché. Vada a scuola e chieda... Clarisse - E come faccio? E poi, chissà che avranno rac contato di me ai ragazzi. 232
Montag - Strano. Chissà cosa avrà detto durante quel «test»... Lei non ne ha idea? Ci dev’essere qualcosa... che ha detto o che ha fatto. Clarisse - Oh, non sono mai piaciuta ai miei colleghi. Lo ro mi disapprovano. Forse perché io non seguivo sempre i programmi... e... Ci divertivamo durante le lezioni e a loro non andava. Prima c’era un’altra insegnante. Quella che io sostituivo. Le era capitata la stessa cosa. Non andava neanche lei. E so che adesso fa una vita terribile. Montag - Ma allora, non è stato per il test. Sono gli altri che volevano liberarsi di lei. Perché lei è diver sa. (Indica fuori dalla vetrata). Guardi quel tizio laggiù. Clarisse - Che sta facendo? Montag - Quella è la cassetta delle informazioni. Non rie sce a decidersi. Clarisse - Che informazioni vuol avere? Montag - Non vuol avere niente. Conosce qualcuno che ha dei libri. Allora si è procurato una fotografìa di quella persona... col suo numero, ed ora vorrebbe metterla nella cassetta. Clarisse - Ma allora è una spia. Montag - No. È un informatore. Lo guardi. È come uno che gira intorno a una donna. Clarisse - Si è messo qualcosa in bocca! Montag - È un eccitante. Per trovare il coraggio. Clarisse - Vuole essere sicuro che nessuno lo veda. Lo guardi. Se ne sta andando. Visto! non ha trovato il corag gio. Montag - Oh, stia tranquilla. Ci ripenserà. Eccolo lì. Clarisse - Ma insomma, deciditi! Oh! Che sollievo.
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Montag - Si è liberato del vicino troppo rumoroso, o del cognato che ha un lavoro migliore, o forse era la madre. Chi può dirlo? Devo andare a lavorare. La prego, torni a scuola... e cerchi di sapere. Clarisse - No, non posso farlo! Montag - Ma deve!!! Deve trovare una scusa per tornare là. Clarisse - Beh, potrei andare a vuotare il mio armadietto. Montag - Ecco, benissimo. Ehm... io devo scappare. Au guri. Clarisse - Io non ci vado. Deve venire con me. Montag - Ma... ma non posso. Devo andare al lavoro. Clarisse - A questo ci penso io. Venga. Lasci fare a me. Clarisse va a telefonare
Clarisse - Pronto! La caserma Rodier? Centralino - Interno uno, miss. Uomo - Caserma Rodier. Clarisse - Posso parlare con... Uomo - Chi parla? Clarisse - Telefono da parte di Montag. Uomo - Si. Clarisse - Posso parlare col capitano? Uomo - Un momento. Ufficio del capitano Capitano - Parla il capitano. Clarisse - Sono Linda Montag. Capitano - La moglie di Montag? Clarisse - Sì. Capitano - Oh, signora, cosa posso fare per lei?
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Capitano - Mio marito mi ha pregato di dirle che si sente poco bene, e non può alzarsi dal letto. Capitano - Niente di grave, spero. Clarisse - No. Vedrà si rimetterà presto. Capitano - Va bene, signora. Grazie per avermi avvertito. Clarisse - Grazie a lei. Capitano - La moglie di Montag, dice che lui non sta be ne. È restato a letto. Fabian - Montag? Capitano - Mm. Fabian - Davvero? Mi dispiace. Capitano - Beh, Fabian... basta così per ora. Fino alla riu nione. Clarisse e Montag escono per raggiungere la scuola. Clarisse - Venga. Nel corridoio della scuola incontrano i bambini che tra lo ro ripetono la lezione. Bambini - Nove per tredici, centodiciassette. Nove per quattordici, centoventisei. Nove per quindici, centotrentacinque. Nove per sedici, centoquarantaquattro. Nove per diciassette, centociquantatre Clarisse - Quello è Robert. Bambini - Nove per diciotto, centosessantadue. Nove per diciannove, centosettantuno. Nove per venti centottanta.
Robert passa accanto a Clarisse e volutamente fa mostra di non vederla.
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Clarisse - Robert! Robert (indifferente, tra sé) - Nove per tredici fa centodiciassette. Clarisse è restata addolorata per l'indifferenza del bambi no.
Montag - Forse è stata la mia divisa... Clarisse - Sì, è questa che gli ha fatto paura, dev’esser sta ta la divisa. Montag - Allora vada, io aspetto qui. Ragazza - Nove per quindici fa centotrentacinque. Clarisse - Va bene. Ragazza - Nove per sedici fa centoquarantaquattro. Nove per diciassette fa centocinquantatre. Nove per diciotto fa centosessantadue. Nove per diciannove fa centosettantuno. Nove per diciannove fa cento... Bambini - Uno per dodici fa dodici. Due per dodici fa ventiquattro. Tre per dodici fa trentasei. Quattro per dodici fa quarantotto. Clarisse (piange). Bambini - Cinque per dodici fa sessanta. Sei per dodici fa settantadure. Sette per dodici fa ottanquattro. Otto per dodici fa novantasei. Nove per dodici fa cento otto. Dieci per dodici fa centoventi. Undici per dodici fa centotrentadue. Montag - Io sto per essere promosso. E allora dovranno ascoltarmi. Andrò personalmente a parlare con il suo presi de. 236
Andiamo. Montag e Clarisse escono
Clarisse - Perché Montag - Che cosa? Clarisse - Come hai cominciato? Come ci hai pensato? Come hai potuto desiderare di...? Come può uno... come te... fare questo genere di lavoro? Lo so che tutti dicono così... ma tu! Tu non sei come loro. Quando io ti dico qualcosa, tu mi guardi. Perché hai scelto questo lavoro? Non trovi che tutto questo sia assurdo? Montag - Ti ricordi cosa mi hai chiesto l’altro giorno? Se leggevo mai i libri che bruciavo. Rammenti? Clarisse - Sì... Montag - Ieri sera ne ho letto uno. «Perché mi vergognerei... di me stesso. Mi vergognerei di me stesso». Saranno state le undici e mezzo passate. In casa di Montag. Linda, aprendo uno sportello, scopre i libri nascosti.
Linda - Oh!
Montag sta leggendo un libro. È notte. Montag - Che stai facendo, Linda? Linda - Ho trovato queste cose in casa. Io non voglio di questa roba, Montag. Mi fa paura. Montag - Tu passi tutta la giornata davanti alla tua «Fa miglia» del televisore. Questi sono la mia famiglia. Quando ci siamo conosciuti? E dove? Linda - Come?
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Linda - Cosa? Montag - Quando è stata la prima volta? Linda - Non lo so. Fammi pensare. No, non lo ricordo proprio. Montag - Oh, è piuttosto triste... non credi? Io sì. Lo trovo molto triste. Dietro ognuno di questi libri c’è un uomo. È questo che m’interessa. Lasciami in pace e torna a dormire. Linda - Io non ho sonno. Montag - Hai le tue pillole, no? Montag (leggendo) - «Rinoceronte - animale del genere Rhinoceros - degli Ungulati Perissodattili di forme tozze e pesanti, di aspetto poderoso, con pelle assai spessa e dura. Nell’ufficio del Capitano, il giorno dopo.
Fabian - Oh, guarda chi si vede! Montag - Come sarebbe? Fabian - Ti credevo malato, e invece eccoti qui. Montag - Malato? E chi t’ha dato questa idea? Fabian - Non mi ricordo, avrò capito male. Sbrigarsi. Montag. Hai dimenticato l’elmetto. Montag si serve delle scale per scendere, invece della perti ca. Capitano - Che c’è, Montag? Hai rotto i tuoi rapporti con la pertica?
/ pompieri sono in azione. Entrano in una casa. Robert - Oh, mamma, guarda! I pompieri. Ci sarà un bell’incendio. Vecchia (ridendo) - Sia uomo, master Ridley. In questo
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giorno, per grazia di dio, noi accenderemo una candela così grande... che sono convinta non si spegnerà mai. Montag (entrando) - La polizia ha lasciato le cose a metà. Chi è questa donna? Che ci fa qui? Il Capitano guarda con aria soddisfatta la casa.
Capitano - Mah! Comunque è uno spettacolo molto inte ressante. Pompiere 4 - La polizia ha arrestato tutta la famiglia, sta mattina. Lei forse era uscita. Fabian - Dove sono i libri? Vecchia - Se non lo sapeste, non sareste qui. Capitano - Di sopra. Montag, tu resta qui. Ehi! Voi due, là dentro! Là dentro! Là dentro! Avanti! Di sotto. Buttateli tutti di sotto. Sfondate... sfondate tutto... Da questa parte. Venite. Di sotto. Buttateli tutti di sotto. Tutti quanti. Tutti quanti! Da questa parte. Andiamo... Montag (raccogliendo un libro) - «C’era una volta un po vero taglialegna che si chiamava...». Vecchia - Non possono prendermi i libri. Non riusciranno mai a portarmeli via. Capitano - Montag. Montag. C’è una cosa che devi vede re. Montag - Sì, signore. Capitano - Andiamo! Presto! Guarda che spettacolo! Ah, Montag! Lo sapevo! Lo sapevo. (Dietro una parete, ben disimulata, si scopre tutta una bi blioteca). 239
Sai, tutto questo... L’esistenza di una biblioteca segreta era nota nelle alte sfere... Ma non c’era modo di arrivarci. Sol tanto una volta in vita mia avevo visto tanti libri in... un posto solo. Allora ero un semplice pompiere. Non ero anco ra autorizzato ad usare il lanciafiamme. Sono tutti nostri, Montag. Stammi a sentire, Montag. A tutti noi una volta nella carriera... viene la curiosità di sapere che cosa c’è in questi libri. Ci viene come una specie di smania, vero? Bè, dai retta a me, Montag... non c’è niente lì. I libri non hanno niente da dire. Guarda, queste sono opere di fantasia. E parlano di gente che non è mai esistita. I pazzi che li leg gono diventano insoddisfatti. Cominciano a desiderare di vi vere in modi diversi, il che non è... mai possibile. Che succe de? Pompiere 5 - Questa casa è «inagibile». Dicono di bruciare i libri con tutto il resto. Capitano - Oh! Bruciare i libri è un conto. Ma bruciare la casa è un’altra faccenda, no? Non è mai un bene bruciare tutto quanto insieme. Vieni qui, Montag. Tutta questa... filosofia... liberiamocene. È anche peggio dei romanzi. Pensatori, filosofi, dicono tutti esattamente la stessa cosa: «Soltanto io ho ragione, gli altri son tutti... imbecilli». In un secolo ti... ti dicono che il destino dell’uomo è presta bilito. Il secolo dopo ^icono che invece... ha libertà di scel ta. Oh, è soltanto questione di moda. La filosofia. È come... le gonne corte quest’anno, le gonne corte... l’anno prossimo. Guarda. (Prende un libro). Tutte storie di morti. Biografie si chiamano. Un’autobiografia. «La mia vita», «Il mio diario», «Le mie memorie», «Le mie... memorie intime». Solo che hanno co minciato solo... diciamo... per l’impulso di scrivere. Poi, hanno continuato per soddisfare la loro vanità. Distinguersi dalla massa. Essere diversi. Poter guardare gli altri dall’alto 240
in basso. Ah! Premio dei Critici. Ah, questa è buona. Evi dentemente aveva i critici dalla sua... uomo fortunato! La scia che ti dica una cosa, Montag. Così a occhio... quanti premi letterari diresti che venissero conferiti ogni anno in questo paese? Cinque, dieci, quaranta! Niente meno che mille e duecento. Chiunque mettesse un po’ di nero sul bianco finiva col vince re qualche premio prima o poi. Ah, «Robinson Crousoe». Ai negri non piaceva per via del servo... Venerdì. E Nietzsche. Ah, Nietzsche! Questo non piaceva agli ebrei. Eccone uno sul cancro del polmone. Vedi, tutti i fumatori si spaventavano a morte; e quindi per la tranquillità di tutti... noi lo bruciamo. Ah, questo qui dev’essere molto profondo. «L’etica di Aristotele». Natural mente chiunque lo legga... deve credere di essere superiore a chi non lo ha letto. E questo non è bene, Montag. Noi dob biamo essere tutti uguali. L’unico modo per essere felici è di sentirci tutti uguali. Quindi... noi dobbiamo bruciarli, Mon tag. Fino all’ultimo. Fabian - Signore. Capitano - Sì, cosa c’è? Fabian - È per via della vecchia di sotto. Non vuole an darsene. Non vuole lasciare i suoi libri! Capitano - Non vuole lasciare i suoi libri, eh? Ah, senti, senti! Il Capitano si dirige verso la vecchia signora. Capitano - Venga, signora: dobbiamo bruciare la casa. Vecchia - No. Capitano - Che cosa vuol fare? La martire? Vecchia - Io voglio morire come sono vissuta. Capitano - Oh, deve averlo letto in qualche libro. Senta, 241
non glielo chiederò di nuovo. Se ne vuole andare? Vecchia - Questi libri erano vivi, parlavano con me. Capitano - Cominciate. Coraggio... (Entrano in azione i lanciafiamme). Basta così. Venga signora, ha solo dieci secondi. Fabian. Conta fino a dieci. Fabian - Uno. Due. Tre. Quattro. Cinque. Sei. Sette. Ot to. Nove... Vecchia (ridendo) - Nove per undici fa novantanove. Nove per dodici fa cento otto. Nove per tredici... fa centodiciassette. Montag - Non può restare là (Le fiamme avvolgono ormai tutta la stanza). Vecchia - Nove per quattordici fa centoventisei... Capitano - Ha rifiutato di andarsene. Montag - Dobbiamo portarla via. Vecchia - Nove per quindici fa centotrentacinque. Capitano - Attenti! Indietro. Aprite. Tutti fuori. Vieni, an che tu, Montag. Montag. Montag!! Vieni via di lì! Montag! Vieni via! Mon tag! Montag! (Ormai sono centinaia e centinaia i libri che bruciano, «I racconti» di Poe, «La repubblica» di Platone, «Le cronache marziane» di Bradbury... La vecchia signora è ormai a terra, tra le fiamme...).
In casa di Montag. Linda assiste al programma televisivo, con alcuni amici.
Annunciatore - E infine rammentate di tollerare gli amici dei vostri amici. Per quanto strani e incomprensibili possano sembrarvi a volte. Cercate... di essere simpatiche, di venire incontro a tutti i loro desideri... se vi è possibile... Abbiate un atteggiamento socievole, e cordiale. Aprite a tutti la vo stra casa... Uccidete l’invidia...
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Jackie - Non sembra che la cugina Midge abbia il viso un po’ gonfio? Linda - Be’, perché ora è incinta. Doris - È per questo? Jackie - Io trovo che è da irresponsabili... fare bambini, voglio dire. Hélène - Ma qualcuno deve pure fare i bambini, Jackie. Non possiamo lasciar morire la nostra specie! Doris - E poi i bambini crescono e ti assomigliano. Dev’essere divertente. Annunciatrice - ... soffocate la malizia; strangolate la vio lenza; sopprimete il pregiudizio... Linda - Oh, ecco {Entra Montag) Montag... Annunciatrice - Siate tolleranti. Ricordate che oggi essere soltanto graziose non è abbastanza. La moglie che usa gli ul trafrodisiaci ottiene risultati molto migliori. Provate anche voi oggi stesso. Però state attente agli amici di vostro marito. Vi ronzeranno intorno come mosconi. Questo è il segreto della felicità... Come vedete basta molto poco... basta soprattutto non lasciarsi andare... E tutto di pende da voi e soltanto da voi, care «cugine»... Se avete bisogno di consigli, scrivete alla Cugina Madgie... Madgie sarà sempre lieta di consigliarvi... e di guidarvi... Una famiglia non sarebbe più una famiglia... se ciascuno dei suoi membri non avesse a cuore la felicità degli altri... e non si adoperasse con tutti i mezzi... per il suo conseguimento... Montag getta un’occhiata e se ne va Linda - Volete scusarmi un momento?... Doris - Mi piace come tiene i capelli oggi! Linda (nella stanza di Montag) - Andiamo, Montag, ades so fa’ il bravo. Vieni di là insieme a noi. È tanto tempo che non vedi Jackie, Doris ed Hélène. Sei molto scortese, io sài? Montag - Lasciami in pace. Linda - Non stai bene? E va bene. Ma sei proprio cattivo. 243
Annunciatrice - Ed ora qualche notizia spicciola... Nei corsi di rieducazione dei nostri centri specializzati centoventitre persone hanno già completato il trattamento ed han no ottenuto una nuova classificazione. Nella zona metropolitana occidentale sono state individuate due cellule antisociali. La polizia rifiuta per ora di lasciare dichiarazioni. Ma oggi la crociata contro coloro che ci minacciano ha registrato un particolare successo. È stata infatti scoperta una fornitissima biblioteca... che è stata prontamente data alle fiamme dai nostri...
Montag accetta di seguire Linda e di salutare gli amici. Montag - Quando una vecchia, mie care cugine, ha prefe rito farsi bruciare con i suoi libri piuttosto che separarsi da loro... Hélène - Se è uno scherzo, non è mica di buon gusto, sai. Montag - Non vi piace sentire queste cose, vero? Hélène - Non essere sciocco, Montag. Cose simili non suc cedono. Montag - No, è che non volete sentirne parlare. Ma io l’ho vista. Jackie - Be’, mio marito dice... che queste cose... Montag - Oh, tuo marito! Ma se non sai nemmeno dov’è... tuo marito. Linda - Montag! Jackie - Certo che lo so. È stato chiamato dall’esercito per un addestramento. Montag - O per andare in guerra, magari. Non si sa mai, ti pare? Hélène - Ma perché dici così? Jackie - Anche se fosse; che differenza farebbe? Non può telefonarmi finché non è tutto finito. Si tratta solo di un paio di settimane.
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Doris - Comunque, non gli accadrà niente. Per quanto ri guarda... le guerre, se vuoi chiamarle cosi, sono solo i mariti delle altre donne che ci rimangono uccisi. Hélène - Sì, È vero. Io non ho mai conosciuto nessuno che sia morto in una... e nemmeno una donna il cui marito morisse in quel modo. Magari investiti o caduti da una fine stra, questo sì. Come il marito di Gloria qualche giorno fa. Però mai in quell’altro modo. Comunque, questa è la vita, no? Montag - Questo lo dite voi. Siete solo degli automi, tutte quante. Come del resto i vostri mariti. E non ve ne rendete nemmeno più conto. Voi non vivete, voi ammazzate il tem po. Hélène - Be’, io credo che sia ora di andare. Jackie - Sì, Anch’io... Doris - Grazie, è stato un magnifico pomeriggio. Proprio divertente. Jackie - Sì. Montag - Sedute. Coraggio, sedetevi. Vi tengo solo un mi nuto. Hélène - Ma di che si tratta? Linda - Tesoro. Hélène - Non è mica un libro! Montag - Propro così. È un romanzo. Doris - Oh, è un libro! Oh, non si deve, è contro la legge. Montag - Sta’ zitta. Siediti e ascolta! Jackie - Dato che Montag insiste tanto. Ma quando avrà finito spero potremo fare come ci pare. Montag (leggendo) - «Nel matrimonio non può esistere al bana disparità, come una incongruenza di carattere e di men talità. Io avevo tentato di adattare Dora a me stesso e lo tro vai impossibile. Non mi rimaneva che tentare di adattare me stesso a Dora. Condividere con lei ogni cosa, ed accontentar mi. Questo rese il mio secondo anno molto più feice del pri245
mo, e cosa ancora più importante — sembrò illuminare di sole tutta la vita di Dora. Ma mentre quell’anno si avviava al termine, Dora... non recuperava le sue forze. Avevo spe rato che mani più leggere delle mie mi avrebbero aiutato a modellare il suo carattere... E che il sorriso di un bambino sopra il suo petto avrebbe potuto mutare la mia moglie bambina in una donna. Non doveva esser così. Mia piccola Dora! Pensammo che lei sarebbe tornata a correre allegra mente in pochi giorni. Ma dissero di aspettare qualche gior no... e poi qualche altro giorno, e lei ancóra non correva né camminava. Cominciai a portarla da basso ogni mattina e di sopra ogni sera. Talvolta, quando la sollevavo, la sentivo leggera sulle mie braccia. Mi piombò addosso una angoscia vuota e mortale. Come se mi stessi avvicinando a una qual che regione ghiacciàia non ancora visibile... ma che già inti rizziva le membra. Non volli dare alcun nome a questa sen sazione ed evitai di chiarirla persino nel mio intimo... finché... una notte... in cui sembrava opprimermi con mag giore forza, e mia zia aveva lasciato Dora salutandola con le parole «Addio, fiorellino», io mi sedetti alla mia scrivania e tentai di pensare. «Oh, che nome fatale era quello! E come quel fiore appassiva prima di sbocciare... sopra lo stelo». Le quattro donne si commuovono. Jackie - Io lo sapevo che finiva così. È come dico sempre io. La vita non è come... I romanzi parlano di suicidi. Parla no di malattie. È stata pura malvagità, Montag. Sei un uo mo cattivo. Hélène - Tutte quelle parole; quelle stupide parole. Parole cattive che fanno male alla gente. Non ci son già ab bastanza guai, così? Perché disturbare la gente con quella ro baccia? Linda - Povera Doris! Hélène - Ciao, Linda. Era stato un pomeriggio così simpa tico.
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Jackie - Che peccato! Doris - Io non le sopporto... queste sensazioni. Io... avevo dimenticato tutte quelle cose (piange) Linda - Oh, mi dispiace, Doris. (Rivolgendosi a Montag) Non verranno più. Dovrò star sola. Non sarò più simpatica a nessuno. E non mi faranno più recitare nella Famiglia. E hai fatto piangere Doris! Montag - Ha pianto perché è tutto vero. Linda - Cosa vorresti fare, adesso? Non hai già fatto ab bastanza del male? Montag - Lasciami in pace, Linda. Devo leggere dei libri! Un sacco di libri! Linda - Ma che ti ha preso? Non stai bene? Montag - No, sto benissimo. Devo leggere. Devo... met termi in pari con i ricordi del passato.
In casa di Clarisse. Entra una squadra di pompieri nel giardino. Capopompiere - Coraggio. Voi quattro, entrate! Pompiere - Mollate il cavo!
Dentro la casa. Zio - Ci siamo. Clarisse - Ma... Zio - Presto! Vattene! Clarisse - Ma tu che farai, zio? Zio - Non ti preoccupare. Sbrigati! Capopompiere - Aprite. Presto! Sappiamo che dentro c’è qualcuno! Zio - Va bene, va bene, aspettate un momento. Arrivo.
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Capopompiere - Aprite! Aprite! Zio - Va bene, va bene, sto venendo. Capopompiere - Presto! Presto! Allora? Zio - Volete me? Nella casa di Montag Linda è nervosa, sposta gli oggetti, come cercando di dire qualcosa.
Montag - Che cosa fai? Linda - Sposto questa poltrona. Sono stufa di vederla là in mezzo. E questa qui... voglio metterla... ecco... qua. Oh! E voglio anche cambiare le tende; non mi son mai piaciute: le voglio mettere nuove. E anche il cesto della biancheria. Ho deciso... Montag - Hai ragione. La poltrona sta molto meglio qua. Linda - Tu non stai mica bene. Ti volti e ti agiti tutta la notte. Mi hai tenuta sveglia. Dovresti restare a casa oggi. Montag - No, no, voglio andare in caserma. Devo farlo. Perché non so se ci tornerò domani o un altro giorno. Linda - Ma... e la tua promozione? Montag - La mia promozione? Quella era prima. Linda - Montag. Senti. Ieri notte... tu parlavi nel sonno. Non so di che, non ho capito. E non capisco nemmeno che cosa ti ab bia reso così? Che succede nella tua testa? Non lo so, e non voglio saperlo. Però c’è una cosa che voglio. Che tu ti sbarazzi di questi libri. Portali tutti via, Montag. Ti prego. Montag - Lo farò, te lo prometto. Linda - Posso farlo io, se preferisci. Montag - No, no, no, lo farò io... dopo averli letti! Linda - No! Adesso! Fallo adesso, Montag! Ti lascerò. Non posso vivere con quella roba. Tu devi fare una scelta. Rispondimi, Montag. Montag - Come posso risponderti, Linda? Io... io non lo so. 248
Nei pressi della casa di Clarisse.
Montag - Mi scusi. Lei conosce quella ragazza che abita qui con suo zio? Clarisse. Donna - Sono venuti a prenderli. Montag - Chi? Donna - Son venuti a portarli via. Montag - La polizia? I pompieri? Donna - Sono venuti a portarli via. Fanno così ora, non è vero? Montag - Solo per interrogarli. Li rilasciano dopo. Donna - Non si può mai dire, è vero? Erano diversi da noi. Erano speciali. Vede... lassù? E là. E anche là. (Indica le an tenne televisive). Vede? Ora guardi casa loro. Non c’è nien te. In caserma. Nell'ufficio del Capitano.
Capitano - Ehi, tu! Vieni qui! Che significa questo? (indi ca un rapporto sulla scarsa disciplina di uno studente). Studente - Signore. Capitano - Guarda! Quante volte devo dirti la stessa cosa? Te ne avevo parlato nel mio ufficio l’altro giorno, no? È ve ro o no? Insomma, perché non vuoi fare come ti si dice? Eh? Perché non vuoi? Guarda! Guardati! Non ti avevo det to... Ma dove hai la testa... eh? In caserma. Nel corridoio.
Montag - C’è il capitano? Impiegato - È appena uscito. Non l’hai incontrato? Montag - No.
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Montag entra, furtivo, nell’ufficio del Capitano e cerca tra i documenti. Il capitano scende dall’auto-pompa e fa ritorno in ufficio.
Chauffeur - Capitano. Capitano - Si. Chauffeur - Quante persone che sono state arrestate ieri notte! Capitano - Si. Era ora. Da quanto tempo è che sei con noi? Chauffeur - Tre anni, signore. Capitano - Sei un buon elemento. Ricordami di darti uno dei miei medaglioni personali. La somiglianza è notevole. Ve drai. Entrando in ufficio vede Montag. Capitano - Oh! Sei tu; eh? Come sei entrato? Montag - Mi occorrevano delle informazioni. Su certi ar resti che... sono stati fitti ieri sera. Volevo vedere delle... identificazioni... Capitano - Ora è Montag che si occupa degli arresti, ve ro? Montag - Oh, no, signore, che cosa dice? Capitano - È presto perché le identificazioni siano già qui... E infatti. Le ho avute in questo momento. Vediamo. Vediamo se sono in questo gruppo. Montag - Oh, eccoli qui. (Mostra la fotografia). Capitano - Oh vedo. Un po’ giovane per lui... non trovi? Montag - È suo zio. Capitano - Amici tuoi? Montag - Oh, no, signore. Io ‘ehm... non precisamente. Vicini di casa. Capitano - Oh! E tu vorresti la loro casa. È così?
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Montag - Sì, signore, è così. Capitano - Be’, la casa dovrà essere requisita. Ma tu non potrai traslocarci finché non sarà stata arrestata anche la nipo te! Montag Oh, lei... è ancora latitante? Capitano - Per il momento, sì. Vedi... ehm...vedi... l’identi ficazione non è ancora stata timbrata. Oh, via, via, è solo questione di un giorno o due. Avrai la nuova casa. Ma dì. Come hai fatto a entrare?... (Montag ha un mancamento). Oh, via... ma che cosa ti pren de?... Stai ancora male? Non dovevi venire. Ma guardati, sembri uno spettro...! Un po’ d’aria fresca, ecco cosa ti ci vuole. Un po’ di aria fresca! Ti metterà a nuovo. A proposito... se vedi quella ragazza gironzolare da qualche parte... faccelo sa pere. Potrebbe affrettare la faccenda della casa. Montag - Certo, signore. Montag, uscendo dalla caserma, si incontra con Clarisse.
Montag - Clarisse. Devo parlarti. Clarisse - Non qui. Montag - Che cosa è successo? Clarisse - Hanno arrestato lo zio. Io sono scappata. Montag - Ma come è successo? Clarisse - Sono venuti ieri sera. Noi dormivamo. Vieni. Devo tornare a casa. È tremendamente importante. Lo zio mi ha svegliata e mi ha detto di scappare. Sono passata dal lucernario, e poi sui tetti. Montag e Clarisse si avviano verso la casa di Clarisse. Montag - Questo è l’ultimo posto al mondo dove dovresti venire.
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Clctfisse • Si, lo so. Ma devo assolutamente trovare una cosa. Ti pt’ego» resta con me. Ho tanta paura.
Entrano nella casa. Mofitag - Va bene, resterò con te. Clarisse - Dev’essere da qualche parte! Morftag - Che cosa stai cercando? Clarisse - Una cosa. Una cosa che devo trovare. Trovare e distruggere. Moiri tag - Posso aiutarti? Clarisse - Non sapresti da dove cominciare! Montag - Era il mio mestiere. Quant’è grande? Clarisse - Così presso a poco... Sono carte... Mciritag - Oh! Clarisse - Macché, è inutile. Ma ri tag - Le troveremo. Non aver paura! Clarisse - È un elenco di indirizzi. Amici di mio zio. C’è scritta tutto. Corns si chiamano e dove sono nascosti. - Li troveremo. Clarisse - Che cosa fai? Bisogna distruggerli. {Montag ha tro vato $li elenchi). 11 nostro primo incontro non è stato un caso. Ti avevo notato e ti ho seguito. Pensavo potessi aiutarci. Mo>rttag - Quando quella vecchia si è fatta uccidere, mi so no reso conto che doveva esserci un legame fra voi. Clarisse - Sì. Temeva di parlare... di tradirci. Montag - Sì. E io... stamattina che cosa faccio? Mi trovo un po’ in imbarazzo e svengo come una ragazzina. Non pos so piti fare il mio lavoro. Che cos’è quella là? Clarisse - Quella? È una sedia a dondolo. Una volta la gente $i sedeva davanti alla porta di casa, nelle serate calde, e si dondolava.
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Ml ofltag - Davvero? Clarisse - E parlava con chiunque passasse lì davanti. Tan to... tanto, per parlare. Dobbiamo andarcene di qui. Io co nosco un posto. Mio zio mi disse cosa fare nel caso che lui fosse stato... arrestato. Si segue il fiume andando a monte finché non si arriva alla vecchia ferrovia. Poi si va ancora avanti.•• finché non si arriva dagli «uomini libri». Morftag- Gli uomini «liberi»? Clarisse - No, «libri», gli uomini-libri. Non ne hai sentito parlare? M oritag - No. Clarisse - Tutte persone che sono sparite. Gente arrestata riuscita a scappare. Altri vennero rilasciati. Alcuni non volle ro farsi arrestare, e andarono a nascondersi laggiù. È in pie na campagna; tra boschi e colline. Vivono là. In piccoli gruppi. E la legge non può toccarli. Vivono pacificamente e non fan no niente di proibito. Però, se venissero in città, non dure rebbero tanto a lungo. Montag- Ma perché li chiami uomini-libro... se non fan no niente contro la legge? Clarisse - Perché sono libri. Tutti quanti... uomini e don ne. Ognuno di loro si sceglie un libro e lo impara a memo ria. £ così diventano libri. Certo, ogni tanto qualcuno viene fermato e arrestato...E quindi vivono con molta prudenza... Perché >1 segreto che hanno dentro... è il più... prezioso se greto del mondo. Senza di loro tutta Fumana conoscenza scomparirebbe. Tu devi venire con me! Montag - Oh, no! Ancora no. È troppo presto per me. Fi no a ieri bruciavo libri. Sì, col... tempo può darsi! Ma già ora tutta la... mia vita è cambiata a un tratto. Devo restare in città, ho un progetto. Nasconderò un libro in casa di ogni pompiere e poi li denuncerò. Il sistema distruggerà se stesso. Dobbiamo far bruciare tutti i piromaniaci!
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Ora dobbiamo andarcene. Separatamente. Tu dai tuoi uomini-libro, e io a... a... togliermi questa (indica la divisa). Un giorno ci rivedremo! Clarisse - No, invece, no. Perché mi vuoi illudere? Montag - Hai ragione. Non ci rivedremo.
In caserma. Ufficio del Capitano. Capitano - Sei di nuovo in forza? Bravo! Vieni, non c’è tempo da perdere. Montag - Mi scusi, signore. Ero venuto a dirle che ho in tenzione di dare le dimissioni dal corpo. Capitano - Come dici? Certe cose non si dicono nemme no! E non certo in vista di una promozione. Montag - Non verrò in caserma domani. Capitano - Ah, ma domani è un altro giorno! Oggi sei an cora ai miei ordini. Montag! Te lo chiedo per favore, guar da... da uomo a uomo. Ti prego! Ti prego! Non farmi que sto davanti ai miei uomini, e ai tuoi camerati! Vieni soltanto... per questa volta sola. Poi farai come ti pa re. Montag. Linda ha inviato la sua denuncia anonima contro il mari to. Arrivano in casa Montag i pompieri. Entrano il Capitano e Fabian. Montag - Questa è casa mia! Fabian - Già... Capitano - Esatto... Montag - Linda! Linda - Non potevo sopportarlo. Non riuscivo più a sop portarlo. Capitano - Be’, allora... Montag sa che cosa stiamo cer cando.
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Fossimo lasciar fare a lui. Per sapere come trovare, si deve prima sapere come nascondere, non è così? A me piace chi sa fare il suo mestiere. Coraggio ragazzi, voi perquisite le altre stanze. Prepara tutto, Fabian. Presto, sbrighiamoci, forza. Presto! Dammi quel lanciafiam me. Dato che questa è la casa di Montag, penso che debba esser lui ad aver l’onore. Che stai facendo là? Sei diventato matto? Lascia stare il letto. Solo i libri! Solo i libri! Ma che stai facendo? Non devi bruciare tutto! Ho detto i li bri. Montag! Ecco, bravo! È questo che volevo vedere! Questo è ragionare! I romanzi non sono la vita. Che cosa speravi di ricavare da tutte queste parole stampate? La felici tà? Che idiota devi essere stato. Questa immondizia può far diventare pazzo un uomo. Credevi di poter imparare sui libri il segreto per camminare sull’acqua... vero? Montag devi im parare... a pensare un po’. Tutti questi scritti, tutte queste ricette di felicità... sono in disaccordo tra loro. Quindi lasciamo pure bruciare questo mucchio di contraddizioni. Siamo noi che in questo momen to lavoriamo per la felicità dell’uomo. Guarda, non è uno spettacolo magnifico? Le pagine... come... come petali di un fiore o come farfalle... scure e luminose. Chi può spiegare il fascino del fuoco? Che cosa ci attira verso di esso? Sia da giovani che da vecchi! Ecco fatto! Questa è sapienza! Questa è vera saggezza. Fabian - Capitano... Capitano - Che cos’hai qua? È il tuo preferito? Dev’esser bruciato con gli altri. E tu sei in arresto. Montag con il suo lanciafiamme prende di mira il capita no. 255
Capitano (urlando) - Montag! Montag (minaccioso) - Uscite di qui! (e brucia ogni cosa, compreso il suo capitano). Pompiere - Tutti fuori, presto! Fuori! Fuori!
Montag è fuggito. In tutto il paese la radio lancia il suo appello. Altoparlante - Stiamo ricercando un uomo in fuga. Ripeto. Avviso a tutti i cittadini. È ricercato per omicidio... Montag. Professione... pompiere. Il criminale è solo ed a piedi. Che tutti si mettano davanti alle porte delle loro case... Guarda te... ed ascoltate. Cercate di individuare un uomo in fuga. Ripeto. Avviso a tutti i cittadini. È ricercato per omicidio. Montag. Professione... pompiere. Il criminale è solo ed a piedi. Che tutti si mettano davanti alle porte delle loro case... Guardate... e ascoltate...
Oltre il fiume, al di là della periferia, c’è il bosco degli uomini-libri. Montag vi si rifugia. Montag - Io sono... Brulard - Sì, sappiamo chi sei. Sei l’uomo del momento. Vieni. Vieni a vedere la tua cattura. Montag - La mia cattura? Brulard - Esatto. La nostra bella cugina è... particolarmen te divertente oggi. Vedrai. Oh! Ti chiedo scusa. Io sono «Il giornale di Henri Brulard» di Stendhal. Annunciatrice - Montag è ancora introvabile... Ma lo sarà ancora per poco. Ah. Eccolo lì. La pattuglia aerea lo ha av vistato. Brulard - Non possono far attendere ancora molto gli spettatori, lo spettacolo deve andare avanti. Troveranno qualcuno. Uno qualunque basterà per ... fornire loro il ne cessario... lieto-fine.
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Annunciatrice - Ecco, ... ora potete vederlo chiaramente! Ecco Montag che sta correndo verso la trappola. È come un animale terrorizzato... ora. Guardatelo, cugini! È finita, cugine. Montag è morto! Un delitto contro la società è stato vendicato. Un’altra vittoria dell’ordine... contro i nemici dell’ordine. Brulard - Non hanno fatto veder bene il viso di quell’uo mo. Poteva essere chiunque! Annunciatrice - Care cugine... arrivederci. Brulard - Persino i tuoi amici ci avranno creduto. Tu sei morto. Tieni. Comincia a cambiare la tua vecchia pelle. Uomo - «La luna sembrava imbronciata». Ragazza - «La luna sembrava imbronciata». Uomo - «Perché pensava che il sole». Ragazza - «Perché pensava che il sole». Uomo - «Non avesse motivo di restare». Ragazza - «Non avesse motivo di restare». Uomo - «Dopo che il giorno era finito». Ragazza - «Dopo che il giorno era finito». Uomo - «È molto scortese da parte sua, disse la luna». Ragazza - «È molto scortese da parte sua, disse la luna». Brulard - Ti interessa la Repubblica di Platone? Montag - Sì... Donna - Be’, io sono la Repubblica di Platone. Quando vorrai ascoltarla te la reciterò. Montag - Grazie infinite. Brulard - Ecco le «Cime tempestose» di Emily Bronte. E quello è «Il Corsaro» di Byron. Una volta era sposata con un commissario di polizia. Invece quel signore magro è «Alice nel Paese delle Meraviglie» di Lewis Carroll. Dov’è «Attraverso lo specchio?» Dovrebbe es sere da queste parti. Ah, ecco «Il Viaggio del pellegrino» di
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John Ernyan. Lui si mangiò il libro, per non farselo brucia re. «Aspettando Godot» di Samuel Beckett. Oh, vedi questa biondina? Guarda come arrossisce. Biondina - Io sono «La questione ebraica» di Jean-Paul Sartre. Sono lieta di conoscerti. Ragazzo - Io sono «Le Cronache Marziane» di Ray Brad bury. Brulard - Permettimi di presentarti... Uomo - Oh! Piacere! «Il Circolo Pickwick» di Charles Dic kens. Montag - Oh, Charles Dickens. Una volta ho letto un suo libro: «David Copperfield». Brulard - C’è anche il «David Copperfield» fra di noi. Uomo 2 - È con un altro gruppo, più a sud. Io sono «Il Principe» di Machiavelli. Oh! Come vedi, non si può giudi care un libro dalla copertina. Montag (Ride). Gemello 1 - Io sono «Orgoglio e Pregiudizio» di Jane Au stin. Gemello 2 - Io sono «Orgoglio e Pregiudizio» di Jane Au stin. Montag - Siete lo stesso libro? Gemello 1 - Mio fratello è il primo volume. Gemello 2 - Mio fratello è il secondo volume. Entrambi - È un piacere far la tua conoscenza! Brulard - Il primo lo chiamiamo Orgoglio. E il secondo Pregiudizio. Ma non credo che a loro faccia piacere. Qui sia mo soltanto circa una cinquantina. Ma ce ne sono molti, molti altri sparsi qua intorno. In... depositi ferroviari abban donati; che battono le strade. Sono vagabondi esteriormente, ma... dentro... sono biblioteche. Non è stato un piano preordinato. Capitò per caso che un uomo qua e uno là co minciasse ad amare qualche libro. E per paura di perderlo,
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lo imparò a memoria. E così, poi ci incontrammo. Noi siamo una minoranza di... indesiderabili che gridano nel deserto. Ma non sarà sempre così. Un giorno saremo chia mati, uno per volta, a recitare quello che sappiamo. E i libri verrano stampati di nuovo. E alla prossima era di oscurità, coloro che verranno dopo di noi faranno lo stesso. Montag - Io ne ho uno con me. Brulard - Si? (Viene incontro Clarisse). Clarisse - Che cos’è? Fammi vedere. «I Racconti del Miste ro e deH’Immaginazione» di Edgar Allan Poe. Brulard - Imparalo alla svelta, così potremmo bruciarlo. Montag - Bruciarlo? Clarisse - Sì, certo. Dobbiamo farlo, così nessuno potrà più togliercelo. Brulard - Sì, noi bruciamo i libri. Ma li conserviamo qui dentro... dove nessuno può trovarli. Anzi, abbiamo appena bruciato «Le Memorie» di Saint Si mon. Vedi, Montag. Quell’uomo laggiù non ha più molto da vive re! Clarisse - È «La Chiusa di Hermiston» di Robert Louis Stevenson. Il ragazzo è suo nipote. Sta recitando se stesso in modo che il ragazzo possa diventare il libro. In una capanna, un vecchio insegna al nipote il libro da custodire. Vecchio - «Io sarò molto tranquillo, rispose Archie. E sarò molto franco. Io non amo mio padre. Anzi a volte mi do mando se non lo odio». Nipote - «Io sarò molto tranquillo, rispose Archie. E sarò molto franco. Io non amo mio padre. Anzi a volte mi do mando se non lo odio». Vecchio - «È la mia vergogna, forse il mio peccato. Ma 259
almeno, e davanti a dio, non la mia colpa». Nipote - «È la mia vergogna, forse il mio peccato. Ma al meno, e davanti a dio, non la mia colpa». Vecchio - *Come potevo amarlo?. Non mi ha parlato mai; non mi ha sorriso mai. Credo che non mi abbia mai toccato nemmeno». Nipote - «Come potevo amarlo?. Non mi ha parlato mai; non mi ha sorriso mai. Credo che non mi abbia mai toccato nemmeno». Vecchio - «Aveva paura della morte più che di qualsiasi altra cosa. Ed è morto come aveva sempre pensato... mentre cadeva la prima neve dell’inverno». Nipote - «Aveva paura ... della morte più che di ... di qualsiasi altra cosa... Vecchio - Ed è morto... Nipote - Ed è morto mentre cadeva... Vecchio - Ed è morto come aveva sempre pensato... Nipote - Ed è morto come aveva sempre pensato... Vecchio - ... Come aveva sempre pensato, mentre cadeva la prima neve dell’invemo. Sarò molto tranquillo, rispose Archie. E sarò molto franco. Io non amo mio padre. Anzi a volte mi domando se non lo odio. È la mia vergogna, forse il mio peccato. Ma almeno e davanti a dio, non la mia colpa. Come potevo amarlo? Lui non mi ha parlato mai; non mi ha sorriso mai. E credo non mi abbia toccato nemmeno. Aveva paura della morte più che di qualsiasi altra cosa. Ed è morto come aveva sempre pensato; mentre cadeva la prima neve deH’invemo». Montag - «Ho intenzione di narrare un racconto pieno di orrori. Lo sopprimerei volentieri, se non fosse una cronaca».
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L’histoire d’Adele H. (Adele H.» una storia d’amore)
Musica Isabelle Adjani (Adèle), Bruce Robinson (Ten. Pinson), Sylvia Marriot (Sig.ra Saunders), Reubin Dorey (Sig. Saun ders), Joseph Blatchley (Sig. Whistler, il libraio), M. White (il Colonnello), Ivry Gitlis (l’ipnotizzatore), Sir Cecil de Sausmarez (il Notaio). Soggetto: dal libro di Frances V. Guille: «Le journal d’Adèle Hugo», Ed. Minard; Sceneggiatura: F. Truffaut, Jean Gruault, Suzanne Schiffman; Fotografia (Panavision): Nestor Almendros; Montaggio: Yann Dedet; Musica: Mauri ce Jaubert (diretta da Patrice Mestral). Suono: Jean-Pierre Rult. Regia: Francois Truffaut. Produzione: Les Film du Carrosse - Les Production Artistes Associés. Pine musica 0. I titoli di testa hanno come fondo una serie di tempere o acquerelli che si presume siano opera di Victor Hugo.
1. Cartina planetaria rappresentante le due Americhe. Len ta zoomata che s’interrompe in una dissolvenza incrociata per poi continuare sulla carta del Canada è terminare sull’in grandimento di Halifax. 261
Voce off.: Nel 1873 da due anni gli Stati Uniti sono lace rati dalla guerra civile, la Gran Bretagna sta per riconoscere l'indipendenza della confederazione sudista ed entrare in guerra contro gli yenki. Fin dal 1862 truppe britanniche so no state inviate in Canada, ad Halifax, capitale della Nuova Scozia, le ex Acadia dei francesi. Halifax sembra preda di uno stato febbrile, agitazione, traffici. Si dà la caccia alle spie yenki e al porto le autorità britanniche controllano i viaggiatori europei che sbarcano dal British, l'enorme piro scafo, soprannominato «la città galleggiante».
2. Attacco per dissolvenza incrociata. Disegno di velieri ormeggiati. 3. Att. per diss. incrociata. Porto di Halifax, esterno not te. La scialuppa di una nave, carica di passeggeri e marinai, avanza verso la m.d.p. da C.L. a C.M., dove attraversando l’inquadratura, esce di campo a sinistra. Sirena di una nave, in lontananza e rumore di remi.
4. Att. per salto, con continuità spazio-temporale. C. M. dall’alto sulla banchina dove due marinai aiutano l’ormeggio della scialuppa. La m.d.p. panoramica fino alla scialuppa in C.M.; scendono i primi passeggeri che salendo la scaletta vengono verso la m.d.p. uscendo poi di campo, a sinistra. Quando compare Adele H., la m.d.p. panoramica seguendo la dal C.M. al P.M. per continuare ad inquadrarla di spalle mentre si allontana nuovamente in C.M. Davanti alla m.d.p. alcuni altri passeggeri. 5. Att. per salto con cont. spazio-temp. C.M. come la 4 su marinaio che porta un bagaglio sulla spalla.
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Inizio musica Voce in sottofondo dei militari 6. Att. per salto con cont. spazio-temp. Banchina del por to ingombra di bagagli. La m.d.p. dall’alto, segue i passegge ri sbarcati, fra cui Adele H., da C.M. a C.T. Adele H. uscendo dal gruppo si dirige verso un posto di controllo do ve il passeggero che la precede ha dei problemi di sbarco. Quindi Adele H. si allontana dirigendosi alla sua destra.
7. Att. per salto con cont. spazio-temp. P.M. sul passeg gero sbarcato, alle prese coi militari del posto di controllo. Militari: «Lei signore da dove viene?» Il passegg.: «Da Liverpool» Milit.: «Ha documenti?» Il passegg.: «No, non ho documenti» Milit.: «Si è imbarcato a Liverpool?» Passegg.: «Sì» Milit.: «E le hanno permesso d’imbarcarsi?» Passegg.: «Sì me l'hanno permesso» Milit.: «Se aveva i documenti a Liverpool, perché ora non li ha più?» Passegg.: «Perché mi sono stati tolti quando siamo arrivati a New-York». Milit.: «Senza documenti non può sbarcare» Passegg.: «Se i documenti me li hanno tolti non è colpa mia». Milit.: «Saranno anche a New York, ma...» Passegg.: «Io non capisco, a New York mi hanno detto...» Milit.: «Noi abbiamo l’ordine di aprire il suo bagaglio... In ogni caso dipenderà dai miei superiori se farla entrare o no».
8.
Att. per salto con cont. spazio-temp. Come l’ultima del
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la 6; la m.d.p. segue gli spostamenti di Adele H. che viene verso di essa per uscire poi fuori campo, in basso.
9.
Att. per salto con cont. spazio-temp. Come la 7.
10. Att. per salto con cont. spazio-temp. P.P. di carrozza che uscendo di campo ci lascia vedere Adele H. in C.T. Adele incontra un vetturino e lo segue verso la carrozza dove vi sale per ricomparire in P.M. al finestrino. Via vai di passanti e di militari; Adele H. volge lo sguardo fuori cam po. Vetturino: «Signorina, hotel Halifax?» Adele H.: «Sì» In sottofondo: Milit.: «Da questa parte i viaggiatori». Da Bristol, prego, avanti, prego, prego. Milit.: «Apra il suo bagaglio!»
11. Att. per salto con cont. spazio-temp. Come la 7 e la 9. Rumore degli zoccoli del cavallo
12. Att. per salto con cont. spazio-temp. Inizia come fini sce la 10. La m.d.p. segue la carrozza che parte.
13. Att. tramite mascherino scorrevole che cancellando l’ultima inquadratura della 12 dà spazio alla prima della pre sente. Dall’alto: entra in campo il cavallo poi la carrozza, in C.T. Svoltano velocemente verso la loro destra fino a passa re di fronte alla m.d.p. che s’abbassa ed inquadra la ruota in P.P. che esce di campo. 264
14. Att. per salto con cont. spazio-temp. Macchina fissa su carrozza in movimento; P.M. frontale su Adele H. al fi nestrino.
15. Att. per salto con cont. spazio-temp. P.M. del vetturi no. 16. Att. per salto con cont. spazio-temp. Come la 14 ma carrozza ferma. Veti.: Adele Vett.: Adele
«Ehi, buono...» H.: «È questo [’Hotel?» «Sì, questo» H.: «No, no, non ci voglio andare qui».
17. Att. per salto con cont. spazio-temp. Come la 15. 18. Att. per salto con cont. spazio-temp. Come la 14 con Adele H. che guarda fuori campo. La sua figura illuminata è oscurata da alcune ombre passeggere mentre da sinistra entra in campo il vetturino, di spalle. Vett.: «A parte l’Hotel Halifax, che è sempre pieno, c’è l’Atlantic, ma più costoso. Se posso darle un consiglio, per ché non va presso una famiglia?» Adele H.: «Oh si certo la prego» 19. Att. per salto con cont. spazio-temp. P.P. di Adele H. sul cui volto passano intermittenti delle ombre, poi si ritrae nel’ombra della vettura. Musica e rumore di zoccoli.
20. Att. per salto con cont. spazio-temp. C.T. sulla car 265
rozza che riparte; ia m.d.p. segue in breve panoramica per poi arrestarsi e lasciare che la carrozza esca di campo e in quadrare in P.P. un lampione e in secondo piano la targhetta con la scritta della via.
21. Att. per salto con cont. spazio-temp. C.M. sulla car rozza ferma e sullo sfondo la casa dove il vetturino va a chiedere ospitalità per Adele H. Vett.: «Ho un’inquilina per lei, una bella signorina» Sig.ra Saunders: «Grazie signor O’Brian» Rumore di passi.
22. Att. per salto con cont. spazio-temp. P.P. di Adele H. al finestrino della carrozza, che guarda fuori-campo. 23. Att. per salto con cont. spazio-temp. C.L. sul vetturi no che lascia la casa; la m.d.p. panoramica su di lui mentre si avvicina alla carrozza in C.M. 24. Att. per salto con cont. spazio-temp. P.P. di Adele H. che sporgendosi in avanti, dal finestrino, esce di campo. Vett.: «Venga». Adele H.: «Grazie».
25. Att. per salto con cont. spazio-temp. come l’ultima in quadratura della 23; Adele H., in C.M. esce dalla carrozza e si dirige verso la casa; la m.d.p. la segue in leggera panora mica.
26. Att. per salto con cont. spazio-temp. P.M. di Adele H. che entra in campo da sinistra, si volta verso la carrozza fuori-campo e poi sale i gradini della casa. 266
27. Att. per salto con cont. spazio-temp. C.M. sull’ingres so illuminato della casa dove la signora Saunders accoglie Adele e la invita ad entrare; la m.d.p. segue in breve panora mica. Sig.ra: «Dia a me la valigia». Adele H.: «Grazie» Adele H.: «Io mi chiamo Adele» Sig.ra: «Molto lieta, s'accomodi»
28. Att. per salto con cont. spazio-temp. come la 26 dove entra in campo, da destra il P.P. del baule portato in spalla dal vetturino. Rumore di passi Campane in lontananza Nitrito del cavallo
29. Att. per salto con cont. spazio-temp. come la 27, Adele H., esce sull’uscio di casa mentre da destra entra in campo il vetturino col baule, che a sua volta entra in casa e Adele H. si volta a guardare. 30. Att. per salto con cont. spazio-tempo come la 21; il vetturino esce di casa, saluta Adele H. e s’avvia verso la car rozza. Vett.: «Io mi chiamo O’Brian... carrozza... » Adele H.: «Oh, Grazie infinite» Vett.: «Buonanotte» Adele H.: «Buonanotte» Musica
quando le serve la
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31. Att. per salto. Interno casa P.P. dall’alto su Adele H. a letto; alcune vaghe ombre si muovono sul suo volto. Adele H. muove il capo in modo irrequieto e la m.d.p. segue leg germente i suoi spostamenti. Dissolvenza in chiusura. 32. Att. per salto. Interno giorno. P.P. d’insegna notarile in cui si riflette il volto di Adele H. che avanza, ingranden dosi. Giunto in P.P. il riflesso del volto scompare e si vede la testa di Adele H., da dietro, che esce di campo sulla sini stra dopo esservi entrato da destra.
Adele H.: «Buon giorno notaio, mio marito è medico, il dot tor... di Parigi. Arrivo adesso dalla Francia e mi hanno indi rizzato a lei» 33. Att. per salto con cont. spazio-temp. C.T. del notaio in piedi nell’ingresso che fa entrare Adele H.; la m.d.p. car rella lateralmente seguendo Adele H. che avanza ed esclu dendo di campo il notaio. Adele H. si siede restando in P.M. con lo sguardo rivolto al fuori campo.
34. Att. per salto con cont. spazio-temp. P.M. del notaio seduto dietro la sua scrivania e rivolto ad Adele H. fuori C. Notaio: «E hanno fatto bene, perché sa, io amo molto la Francia e sarà una gioia per me poter esserle di aiuto. Che cosa la preoccupa?»
35. Att. per salto con cont. spazio-temp. P.P. di Adele H. che parla al notaio fuori campo. Adele H.: «Ebbene ecco, ho una nipote in Francia a cui so no molto affezionata, è una ragazza un po’ troppo romanti ca. Durante il suo soggiorno in Inghilterra si è innamorata di 268
un giovane ufficiale inglese, il tenente Pinson, del tónto us sari. Si era anche arrivati a parlare di matrimonio. I miei, la mia famiglia, non si era assolutamente opposta: quando in seguito ai recenti fatti in America il tenente Pinson si imbar cò precipitosamente per Halifax e da allora non abbiamo più avuto sue notizie. La mia famiglia mi ha incaricato di inda gare. Ciò mi imbarazza molto. Il tenente Pinson mi è del tutto indifferente, il tenente Pinson mi è del tutto indifferen te. La sola cosa che mi sta a cuore è la felicità di mia nipo te. Ecco notaio le ho già detto tutto.
36. Att. Per salto con cont. spazio-temp. come la 34; il notaio si sporge in avanti per sentire meglio mentre con la mano destra si tiene un cornetto all’orecchio. Contro-campo della precedente. 37. Att. per salto con cont. spazio-temp. come la 35; con trocampo della precedente. 38. Att. per salto con cont. spazio-temp. come la 34 e 36; controcampo della prec. 39. Att. per salto con cont. spazio-temp. come la 35 e 37; controcampo della prec. 40. Att. per salto con cont. spazio-temp. come la 34, 36 e 38; controcampo preced.
41. Att. pei; salto con cont. spazio-temp. come la 35, 37 e 39; controcampo preced. 42. Att. per salto con cont. spazio-temp. come la 34, 36, 38 e 40; controc. preced.
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43. Att. per salto con cont. spazio-temp. come la 35, 37 39 e 41; controc. preced.
44. Att. per salto con cont. spazio-temp. come la 34, 36, 38, 40 e 42; controc. preced. Notaio: «Lei dunque vuole che io ricerchi questo tenente...»,
45. Att. per salto con cont. spazio-temp. come la 35, 37, 39, 41 e 43; controc. preced. Adele H.: «Il tenente Pinson, sì» 46. Att. per salto con cont. spazio-temp. come la 34, 36, 38, 40, 42 e 44; controc. preced.
Notaio: «Ma con discrezione!»
Un abbaiare di cane. 47. Att. per salto; libreria, interno gior. C.M. di Adele H. vista dall’interno della libreria, attraverso la grata della fine stra. Sullo sfondo una carrozza ferma. La m.d.p. panorami ca per seguire Adele H. che vediamo passare dalla prima fi nestra, alla seconda fino ad arrivare alla porta a vetri dell’in gresso. Qui Adele si ferma e guarda meglio verso l’interno della libreria. Rifa quindi lo stesso percorso in senso contra rio e la m.d.p. segue nuovamente fino al punto di partenza. Mentre Adele H., all’esterno, esce di campo, all’interno, en tra in campo, da destra, una donna accompagnata dal tenen te, ambedue in P.M. Quando la donna esce di campo, ne entra il libraio; quindi il ten. e il libr. si spostano insieme verso l’uscita e la m.d.p. in un carrello-panor. li segue facen do entrare nuovamente in campo la donna e escludendone il
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libr. La m.d.p. si ferma sul C.T. della porta da cui escono la donna e il tenente. Libraio: «Ah sì, sì, me lo ricordo, anche gli altri ufficiali me lo dicono, fra le librerie della città noi siamo la più fornita; e poi con noi avete molti problemi in meno per lo sdogana mento, no?» Rumore di passi.
Libr.: «Spero di avere quei due libri fra una settimana o due al massimo» Tenente Pinson: «Ah, va bene, grazie» Libr.: «A presto» Tenente: «A presto». Campanello della porta. Porta che si chiude.
Passi del libraio Passi esterni Con un movimento simile al precedente la m.d.p. segue il carr-panor. la coppia in strada attraverso le finestre e li ve diamo poi allontanarsi in C.L. verso la carrozza ferma. Co me in precedenza ricompare in campo, da dietro la finestra, Adele H.; si ripete il movimento iniziale fino all’arrivo di Adele H. alla porta di ingresso, in C.T. Adele H. entra dalla porta dopo essersi voltata verso la carrozza fuori-campo. Pianosequenza. Porta che si apre e campanello.
48. Att. per salto con cont. spazio-temp. P. raw. del li braio, di spalle sullo sfondo di uno scaffale carico di libri; il 271
libraio si volta verso Adele H. fuori campo.
Libr.: «Desidera?» Adele H.: «Vorrei della carta» Libr.: «Carta da lettera?» Adele H.: «No, una risma intera, sa per delle annotazioni... Mi sembra di conoscere l’ufficiale che è uscito ora, non -è il ten. Pinson? Libr.: «Sì, era lui, è un mio buon cliente». Adele H.: «Non sapevo che fosse ad Halifax» Libr.: «Non è qui da molto ma è già conosciuto in tutti i sa lotti. Beh, così almeno dicono in città». Adele H.: «Ah, lo dicono in città». 49. Att. per salto con cont. spazio-temp. P.P. di Adele H. che guarda verso il libr. fuori campo, si dirige verso di lui fi no a trovarsi entrambi in P.M. La m.d. segue in panorami ca. Il libr. esce di campo e Adele H. si volta a guardare fuo ri dalla finestra, verso la carrozza che è ancora visibile in C.L. Quindi si rivolge verso il libr. fuori campo e distratta mente sfogli un libro che ha sottomano. Adele si sposta an cora sulla sua destra per guardare verso la carrozza e la m.d.p. segue in panor. Adele H. si sposta verso il libraio e la m.d.p. in carr. panor. segue fino ad inquadrare anche il libraio che sta scendendo alcuni gradini e che porta due ro toli di carta sotto il braccio. Adele H. ritorna sui suoi passi e la m.d.p. la segue mentre il libraio esce di campo per rien trarvi poco dopo. Adele H. avanza più veloce fino a trovarsi di spalle rispetto alla m.d.p. che l’ha seguita, escludendo an cora dal campo il libraio che procedeva zoppicando. Sempre in P.M. Adele si volta dando spazio al libraio che entra in campo. Adele guarda nuovamente la carrozza attraverso la finestra, si volta poi verso il libraio che le parla ma ancora una volta guarda verso la carrozza.
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Adele H.: «E che altro dicono?» Libr.: «Per me è un cliente come un altro, ma pare che fac cia dei debiti. Mio Dio! qui paga sempre in contanti. Mi perdoni signora...» Libr.: «Signorina, è un suo parente forse?» Adele H.: «Sì, è il cognato di mia sorella» Libr.: «Ah» Adele H.: «Ma lo vedo di rado, sa io con mia sorella non... » Libr.: «Ah, sì, sì» Adele H.: «Va bene quella lì» Adele H. prende i rotoli di carta e paga, quindi s’avvia verso l’uscita, la m.d.p. la segue in panor. dal P.M. al P. raw. al P.M. escludendo ancora il libraio. Libr.: «Signorina, siamo anche biblioteca circolante per ab bonamenti» Adele H.: «Ah, si?» Libr.: «Anche se non si abbona potrei darle lo stesso dei li bri in prestito» Adele H.: «Grazie»
Adele H. si ferma volgendosi verso il libr. che entra anco ra in campo, sullo sfondo della porta. Si salutano. Libr.: «Arrivederla» Adele H.: «Arrivederla» Adele H. esce dalla porta e il libraio esce di campo. Campanello porta. Passi
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Con una panoramica simile alle precedenti la m.d.p. segue Adele H. in strada, vista dai vetri della porta poi da quelli delle due finestre, quindi la m.d.p. si ferma ed entra in cam po il libraio, di schiena in P.M. che osserva Adele H. svolta re l'angolo di strada. Pianosequenza. 50. Att. per salto con cont. spazio-temp. Interno casa, se ra. C.L. sulla sala da pranzo. Sullo sfondo un tavolo con i signori Saunders che preparano tavola. Sulla sinistra, im provvisa si apre la porta d’ingresso ed entra Adele in C.T., attraversa la stanza seguita in panor. dalla m.d.p.
51. Att. per salto con cont. spazio-temp. P. raw. di Adele di spalle che si blocca improvvisamente per poi voltarsi subi to. Quindi si sposta alla sua destra per prendere un lume sulla mensola, e la m.d.p. segue il movimento. Adele H.: «Buona sera signora» Sig.ra: «Signorina, vuole mangiare un boccone con me? Mio marito stasera non c'è, va a servire al circolo militare, che è un banchetto importante». Adele H.: «Ci sono anche gli ufficiali inglesi?» Sig. : «Sì certo, anzi è per loro il banchetto, per festeggiare l'arrivo del 16mo ussari» Adele H.: «Forse ci sarà mio cugino» Sig.ra: «Suo cugino? Lei ha un cugino ad Halifax?» Adele H.: «Sì, il tenente Pinson, insomma io lo chiamo così ma non siamo nemmeno parenti, siamo cresciuti assieme; è il figlio del pastore del nostro villaggio, a dir la verità lui mi amava fin dall'infanzia, io non l'ho mai incoraggiato, però sono molti anni che non lo vedo, forse sarebbe una buona occasione... potrei farle avere una lettera per lui... lei la con segnerebbe, signor...» Signor Saunders: «Ma sì, niente di più facile».
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Adele H.: «Io salgo a scrìverla, questione di minuti».
L’inquadratura resta vuota, quando Adele esce di campo sulla destra.
52. Att. per salto con cont. spazio-temp. P.P. dalPalto sul volto di Adele, avvolta nel buio della stanza. Pallida in viso, dice ciò che sta scrivendo. Adele H.: «Albert, amore mio, la nostra separazione mi ha distrutto, dalla tua partenza ho pensato ogni giorno a te, io sapevo che anche tu soffrivi, io non ho ricevuto le lettere che mi hai scritto e posso quindi immaginare che nemmeno a te siano mai arrivate le mie, però io adesso sono qui, Albert, sulla stessa sponda deU’Oceano su cui stai tu, tutto ricomincera come prima, so che presto le tue braccia si stringeranno intorno a me, sono nella stessa\ittà in cui sei tu, Albert, io ti aspetto, ti amo. Tua Adele.
Quindi solleva il capo lentamente e guarda fuori campo al la sua sinistra. 53. Att. per salto con cont. spazio-temp. P.P. di una pagi na di album di famiglia e una mano sul lato estremo della pagina. La mano sfoglia lentamente alcune pagine in cui si vedono alcune immagini di Adele bambina e delle sue sorel le.
Sig-ra: «Oh signorina, dev’essere un artista famoso quello che ha fatto questi ritratti» Adele H.: «No, è mio fratello» Sig-ra: «Le faccio i miei complimenti, sa cogliere le somi glianze come nessun altro». Adele H.: «Non è difficile»
54. Att. per salto con cont. spazio-temp. P. raw. sig.ra Saunders che guarda fuori campo verso l’album e P.M. di Adele di lato alla vecchia, e anch’essa guarda. Sig.ra: «Oh, sembra che sia lei in carne ed ossa, oh ma che bel... è lei questa?» Adele H.: «No, mia sorella maggiore» Sig.ra: «Abita in Europa?» Adele H.: «È morta, molto tempo fa» Sig.ra: «Mi perdoni» 55. Att. per salto con cont. spazio-temp. P.P. del disegno in ocra, della sorella di Adele, Leopoldine.
Adele H.: «Leopoldine è morta alcuni mesi dopo che mia madre le aveva fatto questo ritratto, aveva 19 anni si era ap pena sposata; la disgrazia accadde durante una gita in barca. Suo marito morì con lei. Nostro padre era... in viaggio, quando apprese per caso la notizia da un giornale. Per poco non impazzì di dolore». 56. Att. per salto con cont. spazio-temp. P.P. della sig.ra Saunders e di Adele in secondo piano; Adele esce di campo mentre la sig.ra Saunders avanza in P.P.P. torcendo il capo all’indietro, verso Adele fuori campo.
Sig.ra Saunders: disperazione».
«E
lei
poverina,
immagino
la
sua
57. Att. per salto con cont. spazio-temp. P.P. di Adele H. 58. Att. per salto con cont. spazio-temp. P.P. della sig.ra Saunders, come la 56. 276
59. Att. per salto con cont. spazio-temp. come la 57, poi la vecchia entra in campo di schiena coprendo interamente il fotogramma per disporsi quindi a fianco di Adele e metterle un braccio intorno al collo in modo da essere nuovamente ambedue in P.P.; quindi esce di nuovo di campo.
Adele H.: «Leopoldine era adorata da tutta la famiglia» 60. Att. per salto con cont. spazio-temp. come la 55, e le mani della sig.ra Saunders.
Sig.ra: «Com’era bella!» Adele H.: «Suo marito fece di tutto per salvarla, quando si rese conto che era perduta, si lasciò andare a fondo per ri manere con lei...». 61. Att. per salto con cont. spazio-temp. P.P. della sig.ra S. che guarda il disegno fuori-campo, quindi volge lo sguar do altrove. 62. Att. per salto con cont. spazio-temp. P.P. della mano di Adele che prende alcuni gioielli posati sul comodino; la m.d.p. segue il movimento della mano.
Adele H.: Questi erano i suoi gioielli, io li porto sempre con me....
63. Att. per salto con cont. spazio-temp. P.P. di Adele che parla guardando la sig.ra S., che è fuori-campo. 64. Att. per salto con cont. spazio-temp. come la 61, la sig.ra si sposta sulla sua destra, verso Adele che è fuori cam po. 277
65. Att. per salto con cont. spazio-temp. P.P. di Adele H. e le mani della sig.ra S. che cerca di cingerle il collo coi gioiello di Leopoldine; Adele rifiuta e le mani della S. escono di campo. Adele H.: Oh, no... ancora non mi sono mai sentita di met terli» Sig.ra: «Come la capisco, signorina Adele!»
66. Att. per salto con cont. spazio-temp. P.P. come la 64. Sig.ra: «... perché sa, avrei tanto desiderato avere dei fratelli e delle sorelle». Adele H.: «No, lei non può capirmi, non sa che fortuna sia stata per lei essere figlia unica».
€7. Att. per salto con cont. spazio-temp. P.P. di Adele che guarda la S. fuori-c. e fa un movimento da cui s’intuisce che si riprende il gioiello dalle mani della S.
68. Att. per salto con cont. spazio-temp. P.P. come la 64 e la 66. 69. Att. per salto con cont. spazio-temp. P.P. come la 67 di Adele che ha il capo abbassato. Musica. 70. Att. per salto; esterno notte P.P. come l’ultima inquadr. della 20.
71. Att. per salto; interno casa; il sig. Saunders entra in casa, la m.d.p. lo segue in panoramica su C.T., fino ad in quadrarlo vicino alla tavola imbandita a cui è seduta Adele
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con a fianco, in piedi, la sig.ra S. La m.d.p. lo segue ancora mentre si toglie il pastrano e lo appende e poi va anch’egli a sedersi a tavola. Lentissima carrellata centrale che esclude ai lati i due padroni di casa per riprendere solo Adele H. in P. raw. Sig. Saunders: «Beh, tesoro, credevo che non finisse più» Sig.ra S.: «Sarai stanco e... Sig. S.: «Fradicio. Bene, ho visto suo cugino» Adele H.: «L'ha visto?» Sig. S.: «Sì» Adele H.: «Che aspetto aveva?» Sig. S.: «Beh era, era un figurino, non si era mai visto nessu no di cosi elegante...». Adele H.: «E mi dica, di che cosa parlava, ha sentito che co sa diceva?» Sig. S.: «Raccontava delle storielle molto divertenti, faceva ridere tutti quanti, anche i camerieri si torcevano...» Sig.ra S.: «E la lettera? Hai dato la lettera al cugino della si gnorina?» Sig. S.: «Sì, ma certamente» Sig.ra S.: «E allora che cosa aspetti, dalle subito la risposta» Sig. S.: «Ma non mi ha dato risposta, il tenente ha letto la lettera ma non mi ha dato, non...»
Adele presa dall’emozione in P. raw.
Adele H.: «Non ... non ha importanza, tanto io non aspet tavo risposta»
Adele si porta una mano alla bocca e accenna ad un pian to, quindi si alza e sale le scale che la portano in camera sua; la m.d."p. la segue, dal basso, fino a vederla scomparire dietro l’ingresso del piano superiore, tutto in P.M.; poi la 279
m.d.p. rifa il percorso inverso per andare ad inquadrare i coniugi Saunders in cui l’uomo racconta alla donna...
Sig.ra: «Qual è stato il menù?» Sig.: «È. stato lo chef del generale Doill, sai, che ha scritto il menu, c'era zuppa di aragosta, pollo al curry, salmone, bi stecche di daino au piment, filetti di sogliola con salsa trifo lata, carciofi al pepe e poi gallo cedrone al whisky, gelato di lampone e vini di ogni sorta... e la sua lettera, beh, quel te nente non l’ha neppure aperta». Sig.ra: «Nooo!» Sig.: «No, ha guardato la busta, ha scrollato le spalle e poi se l'è cacciata in tasca senza leggerla: per un innamorato è uno strano comportamento». Dissolvenza in chiusura. Pianosequenza.
72. Att. per salto. Interno notte. P. raw. di Adele H. a letto, ripresa dall’alto e in preda all’agitazione e all’incubo, la cui immagine si sovrappone a quella di un’altra figura dai moti convulsi: si tratta di Leopoldine, in abiti da sposa, che è in procinto di morire affogata. Musica dal ritmo drammatico
73. Att. per salto con cont. spazio-temp. nell’inquadr. vuota irrompe con un urlo la figura di Adele H. in P. raw. vista di fianco, nel momento del suo risveglio dall’incubo. La m.d.p. segue leggermente i dondolamenti del capo di Adele, che poi toma a ricadere sul cuscino. 74. Att. per salto. Esterno giorno, scorcio dall’alto di una strada di Halifax; quindi da sinistra entra in campo il caval lo, poi la carrozza col solito vetturino in C.M.; questo arre 280
stato cavallo e carrozza si sporge per parlare ad Adele H.; Zoccoli di cavallo Vett.: «Eh, buono! Ecco la banca signorina» Adele H.: «Oh grazie signor O'Brian» Si vede quindi lei scendere dalla carrozza, dalla parte oppo sta alla m.d.p. ed allontanarsi per entrare in banca che si scorge sullo sfondo. Rumore di passi 75. Att. per salto con cont. spazio-temp. P.M. di Adele H. già in banca con sullo sfondo la porta a vetri dell’ingres so: chiude la porta, si guarda intorno alcune volte indecisa, per dirigersi poi verso la sua destra mentre la m.d.p. la se gue carrellando di lato. Si ferma presso un impiegato che sta scrivendo e chiede.
Adele H.: «Mi scusi, io sto aspettando una rimessa dall’Eu ropa» Impiegato: «Sì signora, l’ultimo sportello laggiù» Adele H.: «Ah, grazie»
Costui le indica di andare oltre e Adele procede ancora verso la sua destra lungo il bancone, sempre seguita dalla m.d.p. che finisce con l’inquadrarla di spalle in P. raw. quando Adele si ferma presso un secondo impiegato. Pianosequenza. Impiegato: «Sì, dica pure» Adele H.: «Io sto aspettando posta e una rimessa dall’Euro pa» Impiegato: «Sì, il suo nome prego?» Adele H.: «Signorina...» 281
76. Att. per salto con cont. spazio-temp. P.P. dell’impiega to leggermente da dietro e in secondo piano, Adele in posi zione frontale. Controcampo della precedente; l’impiegato controlla alcune lettere quindi ne consegna una ad Adele ed esce di campo.
Impiegato: «Ecco» Adele H.: «Grazie»
Adele l’apre e s’allontana di spalle iniziando a leggerla gira intorno ad una colonna e, in P.M. si ferma a leggere presso una scrivania; la m.d.p. che l’ha sempre seguita, la inquadra frontalmente; chiusa la lettera Adele si guarda ancora intor no e rifà in senso inverso il percorso precedente seguita dalla m.d.p. che finisce col riprenderla ancora in P. raw.; parla nuovamente all’impiegato che entra così in campo come lo era all’inizio di questo pianosequenza. Adele H.: «Scusi, in questa lettera mi scrivono che io devo ricevere un mandato». Impieg.: «Mi dispiace ma i mandati impiegano un po’ più della posta ordinaria per arrivare; penso che dovrà tornare fra circa due settimane». Adele H.: «Due settimane? Grazie»
Adele poi si volta e si allontana verso l’uscita mentre la m.d.p. la segue in P.M. fino a vederla uscire in strada. 77. Att. per salto; Interno camera; P.M. di Adele H. che entra in camera sua, chiude la porta d’ingresso col chiavistel lo e si avvicina al letto dove vi depone uno scialle; la m.d.p. segue in breve panoramica; Adele si avvicina al comodino, ravviva il lume e posa nuovamente sul letto alcuni oggetti di vestiario; quindi avanza frontalmente verso la m.d.p. che ar
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retra un poco per scoprire il tavolino a cui Adele si siede: ta glia in due un foglio di carta, lo prende, si alza e la m.d.p. segue in panoramica mentre lei s’avvicina ad un comò dove sta un lume che Adele ravviva, quindi, la m.d.p. carrella leg germente in avanti in modo da averla in P.M. leggermente dal basso, mentre posa il foglio, intinge la penna e inizia a scrivere: intanto la si vede anche riflessa nello specchio che le sta di fronte. Adele dice ciò che sta scrivendo. La m.d.p. carrella in avanti fino ad escludere dal campo la figura reale ed inquadrare solo il suo volto riflesso in P.P.; nel riflesso Adele parla velocemente, il capo eretto mentre per due volte guarda in macchina...
Adele H.: «Miei cari genitori, se sono partita senza avvertire è stato per evitare quelle spiegazioni che anche le cose più semplici provocano nella nostra famiglia. Il tenente Pinson comprometterebbe la sua carriera se lasciasse ora il posto che gli è stato affidato, mi è dunque impossibile ritornare. (Musica di sottofondo) Voi sapete che io lo amo, mi ama anche lui e desideriamo sposarci. Comunque non farò niente senza aver ricevuto la risposta con il consenso di tutti e due. Adele. Post, scriptum: mio padre mi deve due mesi in assegni, maggio-giugno; la prima parte di quel denaro mi perverrà at traverso la banca inglese del nord america; avrò certamente bisogno della totalità del mio assegno. Il costo della vita ad Halifax è alto!» Fine musica. Dissolvenza in chiusura
Squittio di gabbiano Rumore di passi 283
78. Att. per salto; esterno giorno. Inquadr. vuota dall’alto su scorcio di strada. Entra in campo da destra, in P.M. Ade le H. camminando velocemente; la m.d.p. inizia a carrellare seguendola ed inquadrandola su un tre quarti frontale. In percorso parallelo ma nei due sensi Adele H. incontra dei militari. Uno di questi la incrocia alla sua sinistra e arrivan do in senso opposto ad Adele, passa di spalle di fronte alla m.d.p. Adele H. si arresta improvvisa e così la m.d.p.; si volta e torna indietro e la m.d.p. carrella seguendola sui tre quarti di spalle; passano altri militari; nell’ultimo tratto, quando già il militare che lei segue è entrato in campo, Ade le H. accelera il passo e prende il militare per un braccio; questo si ferma e si volta, frontale alla m.d.p. e P.M. men tre Adele è di spalle; si guardano (il militare è impersonato dallo stesso Truffaut).
79. Att. per salto con cont. spazio-temp. controcampo della precedente; P.P. del militare di spalle e Adele, frontale in secondo piano che lo guarda. 80. Att. per salto con cont. spazio-temp. controcampo della precedente; Adele H. di spalle e P. raw. del militare.
81. Att. per salto con cont. spazio-temp. controcampo co me la 79; Adele H. si porta la mano destra, guantata, sulla bocca, quindi il militare, dopo essersi guardati, esce di cam po; rimasta sola e impressionata, Adele H. si gira su se stes sa mentre la m.d.p. le carrella intorno in un quarto di cer chio fino ad avere ancora il P.P. di Adele che livida e spenta esce di campo. Nota. Quattro inquadrature, la 82, 83, 84 e 85 seguenti, concludono il primo rullo. La 82 e 83 vedono Adele H. in
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camera sua a scrivere, la 84 è un pianosequenza che la ri prende in banca, come la 85.
/ dati, relativi al primo rullo del film, sono stati ricavati in mo viola da Michelangelo Buffa, Lorenzo Gillo e Lucia Levèque.
IBS
FILMcritOG RAFIA di Ciriaco Tiso
Il “cinema” di Francois Truffaut secon do la “critica” di Filmcritica.
LES 400 COUPS I quattrocento colpi
1959
Edoardo Bruno dice che in questo film Truffaut punta de cisamente sul “personaggio”. Lo ritiene «un'opera più poetica che di prosa». (E.B., n. 90, ottobre 1959, p. 293).
TIREZ SUR LE PIANISTE Tirate sul pianista
1960
Film con Charles Aznavour e Marie Dubois, tratto dal ro manzo di David Goodis. Accenni critici si ritrovano in “Jules et Jim" di Stefano Roncoroni (n. 133, maggio 1963 p. 311) e in “La peau douce: cronaca di un adulterio” di Adriano Aprà (n. 150, settembre 1964 p. 489).
JULES ET JIM______________________________________ JuleSeJim 1961
Stefano Roncoroni parla d’un film del «ricordo» come 289
struttura, e della «critica» come intenzione tematica. (S.R., n. 133, maggio 1963, pp. 309-312). LA PEAU DOUCE
La calda amante
1964
Adriano Aprà vede il film come la “cronaca di un adulte rio”. Claudio Rispoli, invece, lo descrive come traccia della fine “del segno d’un equivoco” provocata dal mondo “ebete” degli adulti in un personaggio che vuole riappropriarsi dell’infanzia. (A.A., n. 150, ottobre 1954, pp. 488-490; C.R., n. 159-160, agosto-settembre 1965, pp. 471-473).
FAHRENHEIT 451 Fahrenheit 451
1966
A proposito di questo film, Edoardo Bruno parla di “poli senso” e di chiarezza stilistica della “metafora” dentro la quale è possibile rinvenire, con una ricchezza linguistica, altri simboli, altre metafore”. (E.B., “Venezia 66: le metafore”, n. 172, novembre 1966, pp. 501-503).
LA MARIEE ETAIT EN NOIR La sposa in nero
1967
In un suo delicato pezzo, Giuseppe Turroni parla d’amore, incubo, angoscia, di Truffaut e d’altro. (G.T., “La sposa in nero”, n. 190, agosto 1968, pp. 384385).
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BAISERS VOLES Bad rubati
1968
Turroni e la divisione in “capitoli” minimali: la necessità, il destino, un gran bel film, la maniera della maniera, il gio co del cinema, un po’ meno di crudeltà, il gentile Truffaut. (G.T., “Baci rubati”, n. 196-197, marzo-aprile 1969, pp. 127-129). LA SIRENE DU MISSISSIPI La mia droga si chiama Julie
1969
In tre “capitoli", Giuseppe Turroni individua tre linee di struttura nel film e parla di una sirena. Sergio Arecco, inve ce, parla di due sirene. Andrea Ferendeles, infine, osa nomi nare una droga che si chiama Julie. (G.T. - a -; S.A. - b -; A.F. - c -; “La mia droga si chiama Julie", n. 206, aprile 1970, pp. 186-191).
L’ENFANT SAUVAGE Il ragazzo selvaggio
1969
Alessandro Cappabianca descrive il film come l’apparenza illuministica di un “discorso senza illusioni". Renato Tomasino vi rintraccia una scelta tra “dialettica e struttura". Turro ni, in tre righe, parla di “era della ragione" del cinema. (A.C., “L’apparenza illuministica di un discorso senza illusio ni"; R.T., “Una scelta tra dialettica e struttura", n. 214, marzo 1971, pp. 145-150; G.T., da “I migliori film del 1969", n. 221, gennaio 1972, p. 41).
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DOMICILE CONJUGAL Non drammatizziamo... è solo questione di corna
1970
In set “capitoli”, dedicati alla ripetizione, al sogno, all’amore-sogno, al cinema nel cinema, al mistero, alla foto grafia, Giuseppe Turroni ritrova nel film la scrittura di una “costrizione coniugale”. (G.T., “La costrizione coniugale”, n. 218, settembre-ottobre 1971, pp. 374-375).
LES DEUX ANGLAISES ET LE CONTINENT Le due inglesi
1971
In questo film, Alessandro Cappabianca rileva un doppio “antiromantico” di amore/morte. Giuseppe Turroni, parla di un “realismo crudele” dentro il quale si muove il corpo tene ro di un’attrice, Kika Markham. (A.C., “L’antiromantico amore/morte in Truffaut”, n. 224, aprile-maggio 1972, pp. 18,1-182; G.T., “Le due inglesi”, n. 228, ottobre 1972, p. 367).
UNE BELLE FILLE COMME MOI Mica scema la ragazza!
1972
Giuseppe Turroni parla di “quando” Truffaut rifà il verso a Clair e Becker, di “quando” fa la letteratura nel cinema, di “quando” lotta per liberarsi dal cinema, di “quando” fa il ra gazzo selvaggio”. (G.T., “Une belle fille camme moi”, n. 236, agosto 1973, pp. 231-232).
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LA NUIT AMÉRICAINE
Effetto notte
1973
In questo film, Edoardo Bruno trova un “omaggio” critico reso da Truffaut al cinema americano “di modelli e di generi". Ne fa una metafora di Cinema, dedicandogli un edi toriale. «Quello del cinema è un mondo straordinario e vor rei che questo mio film La nuit américaine fosse un'elegia, un riassunto dei miei dodici anni di regista”, scrive Truffaut; ma anche “di amore critico, di studio delle poetiche e dei suoi autori”, sottolinea Bruno. (E.B., “Argomenti: La nuit américaine”, n. 234-235, maggio-giugno 1973, pp. 150-151; R. Tomassino: “Truffaut & Marx”; A. Cappabianca: “Il campo della fuga e della notte”; F. La Polla: “Il cinema se condo Truffaut”; E. Ghezzi: “L'impossibilità di non fare un film”; G. Turroni: “La saggezza, l'amore” (n. 237, settembre 1973, pp. 253-266). L’HISTOIRE D’ADELE H. Adele H., una storia d’amore
1975
Enrico Magrelli scrive di opposizioni dove “Adele H.” equivale a “il nome e l'amore”. Giuseppe Turroni, definisce questo film come la scena della “dimensione borghese del ri to”. Per Enrico Ghezzi, che ne parla in un saggio dove Truf faut è confrontato/rapportato a Chabrol e “Adele H.” alla “Profezia di un delitto”, siamo nell’ambito dell’indagine criti ca alla ricerca della “vera storia” di Adele H. (E.M., “Adele H., il nome e l’amore”; G.T., “Adele H.: la dimensione bor ghese del rito”; n. 261, gennaio-febbraio 1976, pp. 3-7; E.G., “Chabrol ultimo e l’ultimo Truffaut”, n. 263, aprile 1976, pp. 99-107). 293
L’ARGENT DE POCHE Gli anni in tasca
1976
Per Giuseppe Turroni è un film di "dolcezze assorte e gen tili”. Per Edoardo Bruno, il tentativoTruffaut di tradurre "l’assoluto” in termini filmici. (E.B., "L’argent de Poche”, n. 268, ottobre 1976, pp. 307-308; G.T., n. 273, marzo 1976, pp. 120-121).
L’HOMME QUI AIMAIT LES FEMMES_______________ L’uomo che amava le donne 1979
Turroni descrive il film come la segnatura d’un “compasso daH’aria”. Alberto Amato parla di "colore” delle parole. (G.T., "Il compasso dell’aria”; A. Am. "Il colore delle paro le”. n. 298, settembre 1979, pp. 347-351). LA CHAMBRE VERTE
La camera verde
1979
Turroni: "Il vero volto della vita”. Franco La Polla: "L’oc chio e la camera oscura”. Raffaele Milani e Laura Falqui: "L’apparenza e la corruzione”. (Tutti nel n. 301, gennaio 1980, pp. 30-38).
L’AMOUR EN FUITE L’amore in fuga
1980
Edoardo Bruno vede il film come "il racconto di un deside rio, un film girato sulla pelle di Léaud, ovvero Antoine Doi294
nel, l'altro se stesso, lo specchio ribaltato di Truffaut” (E.B., ‘‘L'immagine del malessere”, n. 295, maggio 1979, pp. 200201).
Mancano all'appello filmografìe©/Filmcritica di Truffaut i seguenti film: UNE VISITE 1955 Un film in 16mm, cortometraggio fotografato da Jacques Rivette e montato da Alain Resnais. LES MISTONS
1958 Un film 16mm di 23 minuti, con Bemardette Lafont e Gé rard Blain. HISTOIRE D’EAU
1959
Film 16mm, cortometraggio, realizzato da Francois Truf faut e Jean-Luc Godard e montato soltanto da Godard. In terprete: Jean-Claude Brialy.
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L’AMOUR A VINGT ANS L’amore a vent’anni
1962
Film composto di cinque episodi realizzati da Francois Truffaut, Renzo Rossellini, Marcel Ophuls, Andrzej Wajda e Shintaro Ishihara. L’episodio firmato da Truffaut s’intitola Antoine et Colette (Antoine e Colette), ed è interpretato da jean-Pierre Léaud.
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Indice
Premessa di Ciriaco Tiso........................................ Pag.
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PARTE PRIMA / da Truffaut L’infinitudine Francois Truffaut..........................
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67
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PARTE SECONDA a Truffaut / Il fantasma, o dell’amore sublime (“L’ultimo mè tro”, n.......................................................................
Il demone, o dello stravolgimento (“Il demone, o dello stravolgimento: ‘Estasi’ e ‘Senza’ nella misa scrittura e nel cinema di Truffaut”, n. 303, marzo 1980, pp. 99-115).............................................. L’orrore e l’estasi (“La paura e l’amore, l’orrore e l’estasi”, n. 232,)................................................... L’incontro e l’effezione (Conversazione con F. Truffaut, a cura di C. Tiso) n. 237, settembre 1973, p. 267-269 ................................................... L’universTruffaut (Libri: “L’univers de Francois Truffaut”, di D. Fanne, Edition du Cérf, Paris 1972-n. 228)........................................................
297
La ricerca e la finzione (“Finzione/Ricerca/Finzione in Truffaut”, n. 207, maggio 1970, pp. 215-227) . W Truffaut (Argomenti: “W Truffaut”, n. 206, aprile 1970, p. 146)..............................................
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151
Les films de ma vie (“Truffaut: les films de ma vie”, di Edoardo Bruno, n. 257, settembre 1975, pp. 311-312)........................................................
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155
Il cinema “giovane *' non esiste (“Intervista con Francois Truffaut - il cinema “giovane” non esiste! - a cura di Andre Parinaud, direttore del settima nale parigino “Arts”. Traduzione in Filmcritica, n. 87, pp.)...................................................................
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159
Come ho girato “L'enfant sauvage” (“Come ho gi rato l’Enfant sauvage”, n. 211, novembredicembre 1970, pp. 458-461) ...............................
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171
Une belle fille camme moi (Perché “Une belle fille comme moi”, n. 237, settembre 1973, p. 251)
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177
La nuit américaine n. 273, settembre. 1973, p. 252)
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179
Now conosco Isabelle Adjani (“Non conosco Isa belle Adjani”, n. 261, gennaio-febbraio 1976, p. 21)........................................................................
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181
PARTE TERZA Truffaut/oltre la barra critica (Storie, scene, di chiarazioni, interviste, dialoghi di Francois Truf faut)
Effetto cinema (“Incontri - Con Francois Truffaut”, tradotto da “Cinematrographe”, n. 44, a cura di Philippe Carcassone, Michel Devillers e Jacques Fieschi. Traduzione di Fulvio Contenti, n.
298
295, maggio 1979, pp. 204-211).......................... Pag. 183
Diario di Fahrenheit 451 (“Diario di Fahrenheit 451”), n. 167, maggio-giugno 1966, pp. 285-294) .
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199
Dialoghi di Fahrenheit 451 (“Fahrenheit 451”, n. 172, novembre 1966, pp. 539-558).....................
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215
L'Histoire d'Adele H. (dati relativi al primo rullo del film ricavati in moviola da Michelangelo Buf fa, Lorenzo Gillo e Lucia Levèque; n. 283, marzo 1978, pp. 102-113)..................................................
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Filntcritografia di Ciriaco Tiso.............................
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Indice......................................................................
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