Sulla riproduzione della capacità umana vivente. L'industrializzazione della soggettività 9788865483695


189 92 44MB

Italian Pages 218 [222] Year 2021

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD PDF FILE

Recommend Papers

Sulla riproduzione della capacità umana vivente. L'industrializzazione della soggettività
 9788865483695

  • 0 0 0
  • Like this paper and download? You can publish your own PDF file online for free in a few minutes! Sign Up
File loading please wait...
Citation preview

Romano Alquati

Sulla riproduzione della capacità umana vivente L'industrializzazione della soggettività

DeriveApprodi 161

© zozi DeriveApprodi srl tutti i diritti riservati DeriveApprodi srl piazza Regina Margherita 27, 00198 Roma [email protected], www.deriveapprodi.org Progetto grafico: Andrea Wéhr In copertina: disegno di Patrick Fontana ISBN 973-88-6548-369-5

n

I edizione: giugno 2021

Romano Alquati

Sulla riproduzione della capacità umana vivente L’industrializzazione della soggettività

de 664168

Introduzione. Per leggere Alquati Archivio Romano Alquati

Con Sulla riproduzione della capacità umana vivente (di seguito, La riproduzione), testo inedito del 2002, l’Archivio Alquati e DeriveApprodi inaugurano un percorso di pubblicazione degli scritti del sociologo e militante politico Romano Alquati (1935-2010), a oltre dieci anni dalla sua scomparsa. Chi era Romano Alquati? Alcuni lo conosceranno per la militanza operaista negli anni Sessanta, per la pratica della «conricerca»?, per l'elaborazione di concetti chiave come «operaio massa» e

«composizione di classe», per i suoi articoli su «Quaderni rossi» e «Classe operaia», successivamente raccolti nel fondamentale vo-

lume Sulla Fiat e altri scritti (1975). Dell’operaismo politico è stato una figura centrale, al punto che è difficile pensare quella straordinaria esperienza senza Alquati?. Meno noto, ma altrettanto im-

1/ L'Archivio Romano Alquati è un gruppo di lavoro, costituito da militanti, allievi e ricercatori sociali, finalizzato al reperimento, raccolta e sistemazione di testi, inter-

venti, appunti, lettere, registrazioni e dei variegati materiali esistenti di e su Alquati. Lo scopo è quello di renderli accessibili, sia tramite pubblicazioni editoriali sia attra-

verso un sito di prossima costruzione. 2/ Ad Alquati è spesso attribuita la paternità della «conricerca» operaista degli anni Cinquanta e Sessanta, ruolo rispetto al quale egli aveva un atteggiamento cauto, sia per i travisamenti legati all'impiego di questa categoria sia per l'uso sostanzialmen-

te depoliticizzato che molti ne fecero in seguito, riducendola ad «accattivante» tecnica di inchiesta sociologica. Soprattutto, Alquati era categorico nel negare alla figura di Raniero Panzieri (contestando alcune ricostruzioni che accreditavano tale legame)

un qualsivoglia coinvolgimento nella pratica tutta politica della conricerca, che nella sua cartografia attribuiva — tenuto conto delle differenti impostazioni e soprattutto finalità politiche — a un «triangolo» che aveva i suoi vertici nel gruppo legato al sociologo Alessandro Pizzorno, nella figura di Danilo Montaldi - fondamentale per la sua

formazione — e nel gruppo da egli stesso promosso, a Torino, a ridosso dell’esperienza dei «Quaderni rossi». Questi temi sono stati esplicitati în particolare nel volume

Camminando per realizzare un sogno comune (Velleità alternative, Torino 1994).

3/

Per sostenere questa tesi è sufficiente leggere le pagine a lui dedicate da Toni Ne

gri nel suo primo volume autobiografico Storia di un comunista (Ponte alle grazie, Mì-

lano 2015). Altrettanto rilevante, diremmo fondamentale per posizionare la figura di

portante, è il suo percorso di ricerca degli anni Settanta sull’industrializzazione dell'università e della formazione, la nascita di un «proletariato intellettuale» e dell'«operaio sociale»4. Quasi

sconosciuti, invece, sono ì suoi contributi dagli anni Ottanta fino ai primi Duemila, quando fu colpito dalla malattia che gli impedì di proseguire l’attività. L'opera dì Alquati è un'Atlantide in buona parte da far emergere: la gran parte dei suoi scritti maturi è infatti inedita o è circolata

in circuiti ristretti. Negli ultimi anni, tuttavia, alcune sue elabora-

zioni hanno cominciato a essere riprese e discusse, mentre vari ricercatori e militanti — che l'hanno direttamente conosciuto o l’hanno studiato — hanno intrapreso percorsi seminariali. In questo

quadro sì colloca l'impresa di pubblicazione e ripubblicazione dei suoì volumi, inediti o già editi”. La scommessa che anima questa iniziativa non è solo volta a rendere merito a una figura di maestro

e ricercatore militante, ma soprattutto a scoprire un giacimento di ipotesi forse più attuali oggi di quando sono state scritte. Per quali ragioni, nella scelta dei testi, si è deciso di aprire que-

sto percorso con La riproduzione? Rinviando alla Postfazione per

una più profonda disamina delle proposte teoriche e delle implicazioni politiche di questo scritto, è preliminarmente utile collocarlo nel percorso di ricerca dell'autore, richiamare il contesto culturale

e politico in cui è stato prodotto, anticiparne alcuni spunti salienti.

Alquati nell'operaismo politico dei primi anni Sessanta, è il saggio del 2001 Il bandolo della matassa del politologo Damiano Palano, che ricostruisce con rigore la «carriera» del concetto di «composizione di classe», giustamente ritenuta fondativa del filone

teorico dell’operaismo e che correttamente attribuisce, nella sua formulazione origi-

maria, al contributo di Alquati (in D. Palano, Il bandolo della matassa. Forza lavoro, composizione di classe, capitale sociale: note sul metodo dell'inchiesta (2001), ora in Id., Il bandolo della matassa. Pensiero critico nella società senza centro, Multimedia Publishing. Milano 2009); si veda anche S. Wright, L'assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo, Edizioni Alegre, Roma 2008.

4f

Siveda în particolare L'università e la formazione. L'incorporamento del sapere socia-

le nel lavoro vivo, «Aut Aut», n. 154, luglio-agosto 1976; insieme a N. Negri e A. Sorma-

no, Università di ceto medioe proletariato intellettuale, Stampatori, Torino 1978. s/ Per un approfondimento sulla figura di Alquati rimandiamo a due preziosi testi introduttiri: G. Borio, Un cane in chiesa, in G. Roggero, L'operaismo politico italiano, DeriveApprodi, Roma 2019; F. Bedani - F. loannilli, a cura di, Un cane in chiesa. Mili-

tanza, categorie e conricerca di Romano Alquati, DeriveApprodi, Roma 2020.

6

La costruzione del «Modellone» Alquati è approdato negli anni Settanta all'insegnamento presso Scienze politiche all’Università di Torino, dove è stato titolare del corso di Sociologia industriale fino ai primi anni Duemila; in questo periodo di relativo distanziamento dalle traiettorie politi che e teoriche di altre figure dell’operaismo, con cui mantenne tuttavia costantemente il confronto, mise a fuoco un ambizioso programma di ricerca. È negli anni Ottanta infatti che elabora un modello di «società complessiva» dai tratti proficuamente divergenti rispetto al mainstream delle scienze sociali*, restituito nel

terzo volume delle Dispense di sociologia industriale, pubblicate nel 1989 e oggi fuori catalogo”. È un modello sistemico, da egli stesso chiamato «Modellone», di società gerarchizzata per «livelli di realtà», cioè strati interdipendenti che rappresentano l'articolazione verticale della società capitalistica. Ipotizza e analizza inoltre un

passaggio del capitalismo a una fase neo-moderna, caratterizzata dalla estensione dell’organizzazione industriale dalla fabbrica

all'intera società e dal primato della dimensione psichica/mentale del lavoro (ciò che in breve definisce «iperindustriale», in antitesi rispetto al senso comune dell’epoca, egemonizzato dalla retorica del post-industriale). Nei primi anni Novanta Alquati pubblica la prima parte (della seconda ci restano solo frammenti) di un quarto volume delle Dispense, intitolato Introduzione a un modello sulla formazione (1992).

anch'esso fuori catalogo, come il pressoché coevo Sul comunicare

(1993). In questo testo esplicita l’ambivalenza del processo di for-

mazione di ciò che chiama «capacità umana vivente», concetto che

deriva dalla categoria marxiana di forza lavoro*: risorsa per il padrone, l'incremento delle capacità dei proletari (con la formazione)

è tuttavia anche una leva per la possibile fuoriuscita dal capitali-

smo.

In questi anni Alquati entra in relazione con una nuova generazione di militanti formatisi nei movimenti universitari (la «Pantera» del 1990), dei centri sociali, del mediattivismo. È un passaggio

6/

Che tendeva ad abbandonare, l’idea stessa della possibilità dì una rappresentazio-

7]

1 primi due volumi erano denominati rispettivamente Premesse generuli e civiltà

8/

Ogni parola, nel formulario in apparenza complesso di Alquati, è utilizzata in

ne complessiva della società.

contadina e Fase classica della civiltà capitalistica, modo rigoroso e coerente con il suo modello.

che lo condurrà a rapportarsi (in modo non certo accomodante,

diciamo che Alquati non ricercava l’applauso facile!) con nuove domande di conoscenza critica. Nella cornice di questo dialogo sono

da inquadrare alcuni testi pubblicati da piccoli editori: Sacre icone

e Per fare conricerca, entrambi editi da Calusca (1993); Sul virtuale, Cultura, formazione e ricerca e Camminando per realizzare un sogno comune pubblicati da Velleità alternative (1994). Più ampia circolazione ha avuto il testo edito da Manifestolibri Lavoro e attività (1997), che anticipava un capitolo delle nuove dispense del corso di Sociologia industriale, la cui prima parte sarà poi diffusa,

ma mai pubblicata, nel 2000 con il titolo Nella società industriale d'oggi, di prossima uscita per DeriveApprodi. Alquati riprende qui il «Modellone», misurandosi con nuove suggestioni teoriche, pro-

cessì politici, trasformazioni sociali e tecnologiche, annunciando

due ulteriori volumi: la versione provvisoria del secondo è questo testo, finora inedito. Concettualmente il volume riprende i temi del Modello sulla formazione del 1992, ma al contempo sviluppa

nuove ipotesi. Al centro resta la «capacità umana» nella sua du-

plicità, come perno dell’accumulazione ma anche come

risorsa

appropriabile dalla parte proletaria per liberarsene. La redazione

delle nuove dispense si fermerà a questo scritto, coincidente con

gli ultimi anni di insegnamento. In seguito di Alquati ci restano

frammenti, note, trascrizioni di colloqui, e appunto questo testo, l’ultimo che ha scritto, il più vicino ai nostri giorni: una prima ra-

gione per attribuirgli priorità nel disegno di pubblicazione. Il libro-macchinetta

Vi sono anche possibili controindicazioni in questa scelta. L'autore, nelle note introduttive, ci informa che la comprensione di questo

scritto presuppone la conoscenza dei concetti del Modellone, qui solo sintetizzato, e probabilmente è vero. Non si può omettere che la lettura di Alquati sia difficoltosa.

L'autore era uso avvertire di ciò il lettore nelle note che informava-

no come i suoi scritti fossero «trascrizioni di parlati», esito cioè di

un confronto con il gruppo con cui discuteva le sue ipotesi. In una nota di qualche anno prima chiariva il suo modo di intendere il linguaggio e la scrittura:

non considero questi «libretti» come dei piccoli libri, ma [...] come mac-

8

chinette. E dunque la loro forma la intendo solo come «struttura logica», non quindi come stile di scrittura. [...] Questi non sono libretti da leggere una volta sola, ma da rileggere, ricorrendo anche a tutto un insieme

di altri testi, perlopiù citati. E non ritengo un argomento valido quello che in essi «non si capisce tutto». Io credo che mai in un libro che dica davvero qualcosa si debba capire tutto, e se così fosse sarebbe negativo. Queste sono macchinette un poco aperte, che richiedono una lettura un poco attiva; non solo mentalmente. E allora dichiaro che non scrivo nemmeno per tutti, e c'è chi ne viene escluso: aumenta gente che non sa leggere, ma la colpa non è mia?,

infatti oggi la

Il libro, dunque, è un risultato — provvisorio e modificabile — di un processo di ricerca e individuazione di tendenze possibili. È questa

una delle ragioni per cui i suoi testi procedono «a spirale», con continui rimandi interni. Al lettore non è concesso nulla, appositamente possiamo aggiungere: viene messo di fronte a nodi critici e problemi aperti, attorno a cui formare la propria capacità critica. Questa scrittura è per Alquati anche un metodo di formazione,

teso ad arricchire il lettore nella complessità problematizzante e processuale, e non impoverirlo in risposte semplificate.

Alquati tornava in continuazione sui propri lavori, che rimanevano programmaticamente «inconclusi»: così è avvenuto per La ri-

produzione, come già detto l'ultimo grande tema che ha affrontato. Come si potrà vedere, vengono qui formulate o accennate ipotesi e questioni preliminari che Alquati non avrà tempo e modo di approfondire e sviluppare. Il libro si conclude con nuove domande:

«questo testo è un pezzo di un discorso che ha almeno potenzialmente un respiro strategico. Mi pare che non sia difficile tradurlo

sperimentalmente su un piano tattico e pratico». Ecco, questo è

l’obiettivo, il modo di leggerlo e ancor più di utilizzarlo!9,

Contesto di dibattito Ne La riproduzione trovano spazio numerosi riferimenti al contesto politico e sociale del periodo, sebbene l’analisi non sia intrappolata nella congiuntura e apra scenari di medio-lunga durata. Erano gli 9/ Alquati, Camminando, cit., p. 4. 10/ Nella revisione del manoscritto abbiamo cercato di mantenere intatto il suo peculiare stile di scrittura, adattandolo al contempo alle esigenza di resa editoriale e dì accessibilità per il lettore.

anni espansivi della nuova globalizzazione, della cosiddetta new economy, dei dibattiti su «neoliberismo», «postfordismo»,

«fine

del lavoro». Nel testo non mancano passaggi sul movimento no global che aveva infranto la retorica seguita al crollo del socialismo reale sulla «fine della storia». Non a caso si conclude con il riferimento all'emergere di «una vasta minoranza che converge pure nel dire e finanche nel gridare che è ancora possibile pensare a un

mondo diverso da questo, progettare una nuova e diversa società». Questo richiamo non aveva l’obiettivo tattico di strizzare l’occhio

al movimento: ciò non rientrava nella postura umana e politica di Alquati. Quella vasta minoranza era piuttosto uno spazio dentro

cuì conricercare, innanzitutto rispetto all'ipotesi qui formulata di una centralità della riproduzione. Erano anni di cambiamento accelerato in cui più temi inediti sì imponevano all’attenzione delle soggettività che, come Alquati, rifiutavano di considerare il capitalismo come una «seconda natura». È esemplificativa la riflessione sulle nuove forme di «lavoro autonomo», allora molto dibattuto negli ambiti del pensiero critico!!. Alquati si confronta con la sua ascesa e le sue ambivalenze, reali e possibili, pur evidenziando il carattere solo formalmente autonomo del lavoro, in realtà sottoposto a peculiari forme di subordinazione. Altre categorie che esercitavano un certo fascino nei

circuiti politici cui Alquati si rivolgeva — «biopolitica», «moltitu-

dine», «cognitariato», «lavoro immateriale», il dibattito sull’allora

ascendente settore «no profit» — costituiscono lo sfondo di altri passaggi del libro. Verso queste elaborazioni sviluppa un approccio

critico ma non ideologico, cercando di far emergere i punti significativi sollevati, ma anche le differenze del modello da lui proposto.

Nei suoi scritti, Alquati apriva un ventaglio molto ampio di riferimenti teorici, non sempre espressamente citati. Ovvio e imprescindibile il rapporto con l’opera di Marx, le cui categorie sono poste in continua tensione quando non rinominate, come con altre

eminenti figure del marxismo, incluse quelle con cui ebbe un dialogo serrato nel corso della sua biografia. Scontati dunque i richiami all'operaismo, a partire da Negri e Tronti; per lui una figura importante, nel problematico rapporto con le sue tesi, è stata anche Claudio Napoleoni. In questo testo, nella riflessione sui problemi

11/ Jl riferimento obbligato è al testo seminale di S. Bologna — A. Fumagalli, a cura di, Il lavoro autonomo di seconda generazione, Feltrinelli, Milano 1997. Va ricordato anche il testo di Y. Moulier Boutang, Dalla schiavitù al lavoro salariato, Manifestolibri, Poma 2002. IO

teorici contenuti nello stesso impianto marxiano, Alquati utilizza le analisi sul feticismo proposte da Romano Màdera ne L'alchimia

ribelle, allora appena pubblicato. Altrettanto ricorrenti i richiami al pensiero critico a lato del marxismo (ad esempio Deleuze), non meno rilevante è il confronto interno alle scienze sociali. Difficilmente collocabile in una specifica scuola, attinge anche a tradizioni sociologiche differenti, muovendosi tra struttura e individuo e privilegiando gli approcci «che si collocano nel punto

d'incontro e d’interconnessione tra i cosiddetti individui e l’organizzazione sociale». Mette di conseguenza al lavoro autori e approcci molto diversi, da Merton a Morin o Touraine, dalla filosofia

di Arendt all’«antropologia negativa» di Gehlen, dalle teorie della complessità alla microsociologia, fino agli studiosi che prende in considerazione nella bolgia postmoderna, come Baudrillard, o al teorico della «società liquida», Bauman.

Accanto a questi riferimenti, ne La riproduzione ricorrono dibattiti più situati nel periodo, che potrebbero oggi apparire datati,

ma che allora occupavano il campo della riflessione. E il caso di

Jeremy Rifkin, soprattutto per alcune intuizioni contenute in L'era

dell'accesso o ne Il secolo biotech, qui impiegato insieme ad altre analisi teoricamente più dense, come quelle di Paul Virilio, per portare

argomenti sulla centralità della tecnoscienza. In altri passaggi, per sviluppare il tema della merce-intrattenimento, fa riferimento alle analisi di Aldo Bonomi contenute ne Il distretto del piacere. Altrove dialoga con alcuni degli autori che si sono occupati dell'impatto delle nuove tecnologie, tra cui si possono segnalare almeno Kevin Kelly, Paul Lévy e Carlo Formenti. E non mancano, qui come altrove, i riferimenti ai romanzi e alla letteratura, promossi a strumenti

privilegiati per indagare la soggettività.

Il lavoro di riproduzione La riproduzione è uno dei testi più «attuali» di Alquati e si può af-

fermare che la visione anticipatrice della riproduzione al centro

dell’accumulazione capitalistica risulti più evidente oggi di allora. È questa infatti l'ipotesi che sorregge il testo fin dalle prime pagine: la riproduzione della capacità umana («che un tempo si chiamava

forza-lavoro-vivente»), questo nodo baricentrico del capitalismo, non come funzione indiretta dell'accumulazione, ma «per la prima

volta» come suo luogo diretto («funzionale all’accumulazione di Il

capitale e dominio due volte: indirettamente, come sempre è stato nel capitalismo, ma adesso pure direttamente, come luogo ormai prevalente di valorizzazione»). Non certo il primo a congedarsi da una visione «manifatturiera» del capitalismo, né — dopo decenni di teoria e pratica

femminista — a concentrarsi sulla riproduzione, Alquati qui osa, intellettualmente parlando, un salto in avanti con solidi anelli di fissaggio. L'immagine di un capitalismo che si valorizza attraverso la riproduzione non aveva molti precedenti; egli inscrive tuttavia questo passaggio nell'ipotesi, non meno importante, per cui la riproduzione del capitalismo «coincida ancora con la sua stessa valorizzazione e accumulazione». È con questa duplicità, qui sti-

lizzata in modo forse irrispettoso della complessità interrogante di Alquati, che il lettore è chiamato a confrontarsi. Da ciò discendono altre implicazioni.

Non c'è nulla di romanticamente «esterno» al regno della mer-

ce nel riprodurre capacità umana: è lavoro (specifico, aggiunge l’au-

tore, perché a differenza dell'attività il lavoro è caratteristica esclusiva della civiltà capitalistica).

E non vi è nessuna concessione a

visioni «umaniste»: l'umano riprodotto è subalterno allo sviluppo

produzione vi sono anche il turismo, l’intrattenimento, i consumi in rete. Soprattutto, è lavoro sia quando riproduciamo gli altri sia quando riproduciamo noi stessi; è lavoro quello del salariato che

eroga il servizio riproduttivo e quello di chi ne fruisce, anzi è di quest’ultimo il lavoro principale. È forse il contributo più rilevante di Alquati a una teoria della riproduzione che lo porta anche a confrontarsi in modo molto critico con il pensiero femminista. 12/

Alcuni anni dopo, sottolineando la centralità di questi ambiti nelle forme con-

temporanee di sviluppo e accumulazione del capitale, Christian Marazzi avrebbe par-

lato di «modello antropogenetico», basato cioè sulla produzione dell’uomo attraverso l'uomo. Si veda C. Marazzi, Capitalismo digitale e modello antropogenetico di produzione, in F. Chicchi - ].L. Laville - M. La Rosa — C. Marazzi, Reinventare il lavoro, Sapere 2000, Roma 2005. 12

"a ROTTI PRIA 0 E n

tiva. Così, tra i luoghi in cui è possibile esplorare il lavoro di ri-

0

previdenza, formazione, sanità ecc.)!2. La riproduzione non è un settore ma un'attività trasversale all'intera sfera sociale e produt-

RI

Inoltre, Alquati non confina il lavoro di riproduzione nella sfera domestica e nelle sole agenzie riproduttive (scuola, assistenza,

RT

oggettivo.

CTER

funzione dei rapporti di forza tra le due classi in conflitto almeno

I

capitalistico, sia pure con un «residuo irrisolto», la cui intensità è

Ecco — qui molto schematizzate o appena accennate — alcune delle questioni decisive che il lettore potrà trovare in questo testo straordinariamente ricco e ulteriormente approfondite nella Postfazione. Si tratta di quesiti sfidanti che, a vent'anni di distanza,

costituiscono una materia viva di ricerca per una progettualità te-

orico-politica all'altezza delle contraddizioni del presente, le sole

— adottando il suo metodo — che meritino di essere prese in considerazione.

13

1. Questioni pre-preliminari sulla riproduzione

Questo testo è lo schema di un progetto di una grossa e complessa

ricerca futura, potenziale. È anche un approfondimento dell’esplo-

razione di alcune variabili (e relazioni) di un più ampio modello ipotetico ed esplorativo che ho rappresentato altrove. E tutto ipotetico, non bisogna dimenticarlo: l’ipoteticità qui è sempre almeno sottintesa. Purtroppo ci sono in giro degli intellettuali che da decenni non riescono proprio a capire cosa comporta e cosa richiede

una modellazione ipotetica. In generale, la ricerca sbocca sempre pure nelle ipotesi per un'indagine successiva. Così le mie, dall’in-

dagine sulla società industriale d’oggi, sboccano in queste ulteriori

ipotesi. Poiché sempre di ipotesi si tratta. Le ipotesi connettono la ricerca alla teoria!.

Non aspettatevi nessuna completezza. Il taglio è ancora un ponte verso una rappresentazione davvero postmoderna, come quella complessa esplorata da Edgar Morin. Non mi rivolgo ai soliti intellettuali di formazione soltanto umanistica. Purtroppo oggi si ignora la differenza tra l’intellettuale (umanistico), la forza lavoro intellettuale e l’intellettualità della capacità lavorativa umana merce. Per questa rappresentazione e modellazione anche piuttosto originale ho dovuto inventarmi anche un linguaggio parzialmente

artificiale e mio. Il modello in fieri è una macchina in potenza e

risulta molto complicato, ma la colpa non è mia. Ritengo sbagliato cercare un'ulteriore semplificazione. Il mio atteggiamento qui non è né ottimista né catastrofico, ma propenso all’ambivalenza; però molte volte la faccia positiva

di certa realtà sta solo nei nostri progetti o speranze, dobbiamo 1/

Questo testo era nato come capitolo del secondo volume del mio Nella società in-

dustriale so senza è scritto maniera

d'oggi, come parte del «Modellone» là contenuto, e non può essere compre prima aver letto quest'altro testo. È davvero la trascrizione dì un parlato ed «a spirale», ritornando sempre sulle stesse variabilì e relazioni ipotetiche in un poco diversa: è molto ripetitivo. Poiché noi siamo abituati a una scrittura

lineare, questo compromette parecchio la leggibilità del testo,

1

costruirla noi. Inoltre, in tornate successive mi propongo

di ap-

profondire un poco l’aspetto politico di tutto quel che adesso vado

saggiando in una prima esplorazione, volta anche a scoprire l’e-

ventuale plausibilità di quel che vien fuori e quel che ulteriormen-

te mi sì presenterebbe insistendo. L'eventuale utilizzo di tutto ciò in una prassi richiede altri passaggi e mediazioni, da inventare e

costruire,

Alcune ipotesi generali Una strana premessa ipotetica: la teoria del valore-lavoro di Marx

era «oggettivamente» sbagliata, perché il «sempre di più» necessario, l'incremento del profitto, la produttività e la competitività che devono crescere sempre e oltre un dato tasso, dipendono da un aumento sinergico della potenza mediante risparmio di tutto

quanto sia scarso e costi, quindi anche risparmio di natura sussunta, di capitale-natura e di capitale-mezzi. Ma la teoria del valo-

re-lavoro-umano era «soggettivamente» giusta perché, ponendo arbitrariamente il valore/capitale come dipendente soltanto dal

plusvalore consistente in un sovrappiù soprattutto di erogazione di capacità-umana-vivente del lavoratore-umano mercificata o in mercificazione (risparmiata e risparmiante), evidenziò finalisti-

camente la dimensione nella quale soprattutto cercare l’alternativa, lottando, e con più forza per vincere. Riproduzione della specie? Questa è una faccenda del tutto astratta: per gli umani invero non significa nulla. Nel capitalismo la specie è forza lavoro e capitale-umano, o nulla. A partire dalla seconda metà degli anni Settanta anche in Italia la riproduzione della forza-lavoro-umana è diventata centrale, e una crisi struttu-

rale strisciante del capitalismo in Occidente continua a incrementare e complessificare questa sua centralità: l'ipotesi è che adesso il capitalismo in grande difficoltà nell’accrescere il monte dei pro-

fitti in settori saturi cerca di valorizzarsi e accumularsi sempre più

nella stessa riproduzione della capacità-lavorativa-umana-vivente,

ieri pochissimo considerata per questo massimo scopo di questo nostro sistema.

Riproduzione del sistema sociale o della società complessiva specifica: riproduzione del capitalismo? No. Oggi qui per me la riproduzione del capitalismo coincide ancora con la sua stessa valoriz-

16

zazione e accumulazione?, con «la valorizzazione e l’accumulazio-

ne del capitale»3. Nell’iperindustrialità. Pertanto preciso che qui

per me l’ipotesi è invece che ciò adesso, per la prima volta, avvenga sempre di più anche dentro la riproduzione di quella che un tempo si chiamava forza-lavoro-vivente, e che io chiamo sia «capacità-lavorativa-umana-vivente», sia «capacità-attiva-umana-vivente-lavorizzata» e in mercificazione in-finita. Quindi ribadisco, qui riproduzione di cosa? Della capacità-umana-vivente in mercificazione. Ma sottolineo subito che ciò è molto più ampio e pure diverso dalla mera riproduzione biologica dei corpi umani estesi, fisici, di cui parlano molte delle residue femministe odierne, la cui visione è piuttosto cartesiana e risulta tangibilista, limitando assai il loro significato di parole come biopolitica e corporeità. Il corpo umano sociale e vivente e la sua capacità-lavorativa non si limitano al bio-

logico o addirittura al muscolare.

La riproduzione della capacità-attiva-umana-vivente è vecchia quanto l'umanità stessa. Ma peculiarità del capitalismo è che, in esso sussunta, questa nostra capacità diventa una merce e addirittura la merce principale. E quindi la peculiarità è proprio che essa sia sussunta al capitalismo non più solo come capacità-vivente-umana di agire, bensì appunto come la capacità-umana-vivente-merce di lavorare, in senso specifico: ossia come capacità-lavorativa-um-

ana-merce. Sebbene oggi essa stia diventando per la prima volta luogo diretto e principale della stessa valorizzazione/accumulazione

del capitale e del capitalismo. Rivedremo immediatamente cosa intendo con «lavoro specifico». Inoltre, sempre ipoteticamente, dico subito che qui, in questa rappresentazione che concerne il sistema sociale capitalistico,

e quello d’oggi per di più, anche l’attività umana pure vivente che produce e riproduce questa capacità-umana-merce è pure essa lavoro-umano-specifico, e proprio così è sussunta. Inoltre anticipo e sot-

tolineo fin d’ora che il lavoro-specifico (umano) qui non è un agire «settoriale», come per me l’artefare-occupazionale, ma è una specificità trasversale tendenzialmente universale: ricorre in tutti gli ambiti e i settori funzionali differenti, anche nei settori di riproduzione di nostra capacità, e finanche nel tempo cosiddetto libero. Allora io qui intendo come «lavoro-umano-specifico», trasver-

2/ L'accumulare è il riprodurre con incremento: ciò ripropone l'antica enorme questione dell'origine del sovrappiù. 3/ È il mio «Meta-livello», il secondo dall'alto del mio «Modellone». Livello e fascia alti, di relativa persistenza o invarianza.

17

sale, qualunque attività-umana che sia inclusa nell’accumulare

capitale. Pertanto il lavorare-specifico, ossia propriamente capitalistico, non è quello settoriale (che io chiamo artefare occupazionale). Anzi, qui nella riproduzione della nostra capacità-vivente in mercificazione il lavoro-umano, oltre alla sua trasversalità ten-

denzialmente universale, ha una peculiare e importante duplicità che rivedremo presto: c’è il lavoro specifico con cui co-riproduciamo gli altri, e che viene dal lettore considerato di un certo vago interesse pratico; è lavoro riproduttivo di prestazione soprattutto

femminile, tuttavia non solo femminile. Ma c'è in primo luogo il lavoro-specifico con cui tutti quanti noi (co-)auto-riproduciamo noi

stessi: lavoro di autoriproduzione e autovalorizzazione nel fruire.

Quest'ultimo lavorare però è preso purtroppo dal lettore come un'idea scandalosa o bizzarra, semmai come una strana curiosità solo teorica, quindi priva di portata pratica, mentre io la propongo come la principale dimensione di lavoro politico per il prossimo

futuro. Comunque questo lavoro di consumo finale lascia tutti scettici o indifferenti. Quest'ultimo lavorare autoriproduttivo vale anche per le don-

ne. Così che soprattutto loro, le femmine‘, hanno fin dalle origini dell'umanità una duplice presenza tra produzione/artefattura e riproduzione (assai degli altri, ma anche autoriproduzione di se

stesse); però nel capitalismo viene lavorizzata e mercificata,e. poi

industrializzata. Ma c'è una duplice presenza analoga anche per i

maschi, seppur minore. E qui dietro c'è la grande questione della sussunzione dell’agire umano: sostanziale/funzionale (che cambia solo la funzione) e formale (che cambia anche la forma). È per molti stupefacente che si dica che dopo molti millenni in cui, come per il vivente”, il grande fine è stato riprodursi per

ciascuno alla maniera sua, per il capitalismo solo ora questa nostra

riproduzione diventerebbe centrale. Ma come? Perché lo diventa? C'è stato nel capitalismo un tempo in cui aveva cessato di esserlo? Invero è successo proprio che il capitalismo si era imposto come

il sistema sociale che (dalla metà in su della sua piramide) aveva

abrogato questa centralità del riprodursi umano sussumendo

la

nostra riproduzione come funzionale ad altro: Certo, c'erano stati

anche nella società contadina momenti in cui altri grandi scopi si

erano di fatto sovrapposti a questo, ma nella sussunzione capitali4/

Le femministe non dicono mai le femmine, i maschi: lo ritengono offensivo.

5/ Chesi difende dall'entropia con l'incorporarsi materia, energia e informazione mediante il consumo, e così anche per gli umani.

18

stica l'ipotesi è che l’intera struttura sociale sia stata ricostruita in funzionalità e quindi subalternità ai suoi nuovi grandi scopi della valorizzazione e accumulazione del capitale e del dominio capitalistico, funzionalità che include pure lo sviluppo continuo della tecnoscienza. Per alcuni secoli però quest'accumulazione capitalisti

ca era passata prevalentemente per l’artefattura dei «beni-merce»,

tangibili, per i quali il consumo-finale era solo un vincolo, spesso indiretto. Cosicché solo ora vediamo la riproduzione della capaci-

tà-umana-vivente fare un vistoso, ma in fondo falso, ritorno alla

centralità nel capitalismo d'oggi, ossia nell’ipercapitalismo. Allora,

adesso,

nuova

centralità

della riproduzione

di capa-

cità-umana-vivente vuol dire che possiamo parlare di un nuovo

«umanismo»‘ ipercapitalista? A mio ipotetico parere no. Infatti,

il falso di questa nuova condizione consiste proprio nel fatto che tutt'oggi la capacità-umana-vivente, la cui ri-produzione ai livelli medio-bassi sembra ri-diventare centrale, lo è appunto come luogo funzionale tendenzialmente privilegiato della valorizzazione del capitale. Ripeto, è pur sempre funzione dell’accumulazione, strumentale all’accumulazione, anche qualitativa, del capitale e del capitalismo, ed è sempre più critica: questo è il vero grande scopo alto del sistema. La riproduzione degli umani ritorna al centro, ma in quanto è ben due volte subalterna a ciò. Essa serve lo sviluppo del dominio, della tecnoscienza, dei mezzi artificiali e del macchina-

rio artificiale (e di qualcos'altro, ad esempio la religione). Dunque

ribadisco: questa che abbiamo in noi ma senza averne davvero il possesso, è capacità produttiva di capitale e sviluppatrice di tecnoscienza. Questa nostra capacità-vivente conta pochissimo e sem-

pre meno tutt’oggi per se stessa e per altri fini eventuali, «nostri», ma conta per questo meta-fine. Cosicché oggi di capitale e dominio due volte: indirettamente, come sempre è stato nel capitalismo, ma adesso pure direttamente, come luogo ormai prevalente di valorizzazione. Ciò pone problemi e interrogativi alla teoria. Rivedremo.

Società complessiva Dopo aver anticipatamente riprecisato ciò, direi che nei livelli gerarchici più alti la riproduzione allargata del sistema e del dominio capitalistici e della tecnoscienza sussunta al capitalismo avviene 6/

A parte che io non sono «umanista».

19

attraverso la riproduzione della sua «società-specifica-complessiva», della sua forma complessiva e della sua natura lavorativa, ossia di

società del lavoro-specifico. Avviene cioè attraverso la riproduzione

del triangolo specifico della società in cui si attua questa accumula-

zione?: 1) trama sociale dei lavori-specifici trasversali (tendenzialmente universali), 2) singolo lavoro-specifico particolare trasversale (tendenzialmente universale), 3) lavoratore-umano-specifico lui pure trasversale (e tendenzialmente universale), con la sua capacità-umana di farlo, essa pure sempre più trasversale.

Rimarco:

tutti specifici. Qui il lavoro particolare si muove nella sua trasversalità tendenzialmente universale, sia singolare sia collettiva, e fa

(all’inizio storico) da base del triangolo e da interconnessione tra la trama dei lavori e il lavoratore: trasversali, ripeto, in maniera tendenzialmente universale. All'inizio questi sono stati i tre lati della «società-specific-

a-complessiva»: però poi, come segno del lato interconnettente

gli altri due, tenderà a salire non già il lavorante-umano, bensì la

«sua» Capacità-lavorativa-umana-vivente in mercificazione (protagonista della riproduzione che assumerò qui). Tale capacità sale

più su dello stesso lavoratore-specifico che l’ha in sé e la eroga, proprio perché è sempre più riferita al lavoro specifico in generale, funzionale al sistema nella sua trama e sempre meno a questo

lavoratore-specifico-umano che la contiene. Orbene, chiamo ciò ribaltamemto sussuntivo e lo riprenderò più avanti varie volte. Per

fare salire al posto più importante il lavorante specifico umano bi-

sognerebbe imporre un cambiamento generale e radicale di tutto il sistema e della sua forma. Però questo cambiamento e avvio al primato del lavorante-umano per ora proprio non tende a succedere, fino ai livelli più alti. Ciò per alcuni è ancora un sogno, che però

non si trasforma in un progetto*. Così, essa è società complessiva

del lavoro iperindustriale, peculiarmente trasversale in maniera

tendenzialmente universale, e sempre più della capacità-uman-

a-vivente di farlo’, separata dal suo contenitore umano vivente e a

lui soprastante. Orbene, questo triangolo della società specifica complessiva

del lavoro sappiamo pure già che più sotto è suddiviso in quat7/

Qui comincia la parte più complicata di questo testo.

9/

Noto subito che questa tendenza universalizzante ha molto a che fare con molti

8/ Nel Che fare? Lenin sostiene il sogno, ma distingue i sogni trasformabili in progetti praticabili da quelli che restano lì come sono. Così anche l’utopia.

aspetti della cosiddetta «globalizzazione». 20

tro grandi-ambiti!° funzionali e orizzontali del lavorare, ai quali riaccennerò subito; tutti attraversano la società-specifica-comp-

lessiva, e quindi attraversano i tre lati iperindustriali del suddetto

triangolo!!, In particolare qui vedremo, soprattutto, il grande ambito del consumo-finale riproduttivo-specifico della nostra capacità-lavorativa-vivente incrociarsi con il triangolo trasversale della società-complessiva del lavoro-specifico, e quindi proporsi come grande-ambito del lavoro-specifico di consumo-finale-riproduttivo. Qui mi riferirò ancora alla trasversalità del vecchio lato di base del triangolo della società-specifica-complessiva (e così appunto alla trasversalità del singolo «lavoro-specifico» particolare) in quanto questo è ancora la suddetta interconnessione di questo nostro si-

stema sociale, e il luogo da cui si vedono entrambi gli altri due,

però, ripeto, in questo ambito del riprodurre capacità-umana nel suo particolare aspetto di lavorare-specifico particolare di consumo-finale-riproduttivo. Inoltre, pur considerando che il sistema è tenuto insieme da singoli lavori specifici, annuncio che qui,

malgrado tutto, ci dedicheremo ancora di più al lato del singolo pseudo-individuo-lavoratore, che pure oggi è ridotto alla propria

capacità-umana-vivente, perché questo siamo singolarmente noi! Benché questi non sia centrale per il sistema se non in negativo, quando minaccia. Privilegio questo lato perché è, per noi, la più

grande baricentralità. Così incrocerò tutto quanto soprattutto con questo lato, o almeno mi propongo di farlo. Se proprio volete chia-

matelo umanismo, ma in senso pragmatico. Così, ripeto, vedremo

il lavorare particolare peculiarmente incrociato col riprodurre la capacità-lavorativa-umana-vivente, alla quale il lavoratore è ridotto e pure sovente sottomesso. Ripeto, con insistenza: se, come già sappiamo, tutto il triango-

lo della società complessiva (quindi tutti e tre i lati) è trasversale, di «trasversalità universale», lo è anche il particolare lavorare-umano-specifico singolo, pure come vecchio lato interconnettente e base della società-specifica. Quindi anche il singolo particolare lavoro-specifico iperindustrializzato e in ulteriore iperindustrializzazione! attraversa la società, in tutti i suoi ambiti e settori, e poi si ridetermina differentemente ai vari livelli di realtà. Allora, pure

questo scandaloso lavoro-specifico-di-consumo è di trasversalità universale. Tanto più è altrettanto tendenzialmente trasversale il 10/

Tre più uno, più il consumo distruttivo/realizzativo di sovrappiù.

12/

Cheè sempre specifico per definizione, sussunto o creato.

11/

Dall’incrocio risulterebbero una dozzina di situazioni, tutte da esplorare.

21

lavoro-di-consumo-specifico appunto finale, e anche la riduzione del lavorante-specifico-umano alla sua capacità-lavorativa-uman-

a-vivente e capacità-umana-vivente di lavoro-specifico-di-consumo-finale. Ciò comporterà molte intricate complicazioni. Ripeto ancora: attenzione, è così il lavoro-specifico e iperindustriale come lo rappresento io nel mio modello, non già il lavoro/occupazione

come lo rappresentano ad esempio gli economisti e i sociologi del lavoro! lo intendo sempre per «lavoro» questa grande variabile baricentrale del mio modello, incrociata con l’iperindustrializzazione

e lato di interconnessione del triangolo della società specifica: il lavoro che io qualifico come specifico è l'agire che produce e accumula capitale e che consente agli iperproletari di percepire un salario-di-fatto, e contenente pure più sotto la produzione di ricchezza, includente a sua volta il conseguimento di una vasta pluralità di scopi gruppali e personali peculiari. Non dimentichiamolo mai, neppure di andare più a fondo nell’ambivalenza e nella politicità di tutto ciò, cosa che mi propongo di fare. Torniamo indietro. Come dicevo altrove, agire, lavorare nella sua trasversalità specifica, è sempre un trasformare, ossia distrug-

gere consumando una forma, sostituendola e perciò producendo-

ne un’altra. Però questo succede pure dentro il corpo vivente del la-

voratore/consumatore: il lavorare cambia anche il lavorante, e così

di capacità-umana-vivente fa ciò. Ricordo quel che ho appena richiamato: il lavorare trasversale, anche umano e vivente, essendo trasformativo sempre costruisce ma altrettanto sempre distrugge. Il lavorare sempre distrugge delle forme per costruirne di nuove, sempre! Abbiamo un costruire e un distruggere dappertutto, pure

le forme del lavoratore: bisogna allora fare ulteriori distinzioni nel merito di ciò, scendendo di livello di realtà qui dentro. E appunto distinguere i livelli di realtà sociale. Anticipo ripetendo: la riproduzione della nostra capacità la realizziamo consumando, in un peculiare tipo di consumo; consu-

mo-finale-riproduttivo, come lavoro. Ma cos'è in generale il consumo? È qui l’uso delle utilità!?. Questo «uso» nel passato si è chiamato

13/

Rinvio anche ai punti del primo e del secondo volume di Nella società industria-

le d'oggi in cui ho esplorato la difficile questione dell’ «utilità», come aspetto legato ai fini. 22

A

il lavorante-specifico di consumo-finale, cioè il consumatore. Dunque, il lavorare che crea le utilità sempre distrugge e consuma qualcosa per trasformare. Anche il lavorare di consumo-finale-riproduttivo

«consumo» perché allora, in quella tangibilità, per usare le utilità

delle cose bisognava distruggere (simultaneamente o gradualmen-

te) e incorporarsi pure i loro supporti. Nondimeno, rivedremo che nell’intangibilità non è più così. Adesso è differente, perché oggi in generale sono ormai tutti quanti gli oggetti di consumo a usare il consumatore innanzitutto «finale», anche a prescindere da questa sua «finalità» nel significato di «terminalità». Questo è molto im-

portante e dovrei approfondirlo: lo farò altrove. Allora,

in primo

luogo

si scende

all'altra domanda:

come

il

lavoro specifico particolare trasversale attraversa i quattro grandi-ambiti della società-specifica-complessiva? Come poi il lavoro-specifico entra pure nel riprodurre capacità-umana-vivente con molti e vari suoi aspetti? Come il consumare «finale», in quanto

lavoro-specifico-di-consumo-finale-riproduttivo di capacità-uman-

a-vivente in particolare, entra negli altri grandi ambiti, ma pure in

quello stesso del consumo-riproduttivo dove sta di casa per definizione?

Poi ci si potrebbe chiedere anche: come si riproduce il singolo

lavoro-specifico particolare in generale!*? Più propriamente nell’iperindustrialità? Orbene, è una questione pure questa che richie-

de ulteriore approfondimento. Ne vedremo qualcosa, a differenti livelli di realtà. Ripeterò molto. Grandi ambiti La riproduzione iperindustriale del lavoratore avviene dappertutto, nondimeno è questione che soprattutto concerne uno dei due grandi ambiti del consumo-finale!S; e in quanto è fatta dal lavoratore!s, concerne il grande-ambito del consumo-finale-riproduttivo.

Quindi, questo mio discorso parziale, locale, si focalizzerà nel terzo grande ambito, dopo aver premesso altro. Facciamo allora un

passo indietro per riprendere la questione dei quattro «grandi-ambiti» orizzontali del lavorare trasversale specifico differente.

Come si sa, una vecchia tradizione divideva il sistema sociale capitalistico in tre grandi ambiti: la fabbrica, la società e lo Stato; traducibili qui nel mio linguaggio in «artefattura», cioè la fabbrica 14/ 15/ 16/

Nonèuna contraddizione di termini. Distruttivo e riproduttivo. Per riprodursi nella propria capacità-lavorativa destinata alla trama iperindu-

striale di lavori-specifici iperindustriali trasversali, come ho già detto.

23

volgarmente e vetustamente intesa; «consumo», la società in senso volgarmente tradizionale; e «politica istituzionale»,

il grande

ambito del vecchio Stato. Inoltre, nel mio modello ipotetico divido la cosiddetta «società»!7 (spesso male intesa come luogo-parte del sistema sociale del consumo-finale, e così come «società

consumatrice» e non società complessiva) in due grandi ambiti di

consumo-finale: grande ambito del consumo-finale-distruttivo/ realizzativo iperindustriale, e grande-ambito del consumo-finale-riproduttivo iperindustriale. Si tratta di un’altra duplicità iperindustriale. Cosicché gli ambiti in cui divido orizzontalmente il sistema sociale capitalistico al medio raggio (tutti attraversati dal lavoro iperindustriale nella sua trasversalità) diventano quattro: 1) artefattura, 2) consumo realizzativo-distruttivo, 3) consumo riproduttivo di capacità-umana, 4) politica istituzionale. Ciascuno ha il suo particolare e utile-differente lavoro-specifico, e c’è l'incrocio.

Premetto che oggi i confini tra questi quattro ambiti funzionali

sono assai labili e che essi si stanno sempre più mescolando

loro, anche a cagione dell’iperindustrialità stessa.

tra

Questi quattro grandi-ambiti di utilità differente non coincido-

no, ma sono trasversali anche alla grande dualità beni-tangibili/ servizi-intangibili con la quale vanno incrociati; neppure coincidono con le cinque (o più) grandi parti-componenti dell’agire/lavorare, e neppure con i tre suddetti lati del triangolo della società complessiva specifica, coi quali pure sono da incrociare. Con i percorsi

e i livelli, sono questi i maggiori dispositivi della mia modellizzazione, l'armamentario principale. È davvero molto complicato, ma

è così.

Questa mia quadripartizione funzionale orizzontale del «sistema-sociale-complessivo» in grandi funzioni e grandi-ambiti oriz-

zontali funzionali a utilità differente del lavoro-umano-specifico e

del sistema sociale-specifico, in fondo, è riferita proprio al sistema trasversale e totale del lavoro-specifico, tanto più iperindustrializzato; e da lì alla capacità-lavorativa-umana-vivente, che per il e nel sistema specifico, ovvero capitalistico, siamo noi!8. Noi che siamo

tendenzialmente ridotti a essa; noi, i cosiddetti individui, con sem-

pre meno individualità, destinati al lavoro-umano-vivente trasver-

sale e specifico (che non è tanto l'occupazione), ma non solo. Que-

sta capacità-umana-vivente-lavorativa-merce 17/

18/

Perquesta vecchia tradizione.

(che noi

Equi mi muovo piuttosto in un percorso dell’ufficialità del sistema.

24

siamo)

in

tali grandi ambiti funzionali e differenti si ri-presenta dal medio raggio in giù modificata nel «salto della realtà» che facciamo col

discendere di livello di realtà sociale rispettivamente su ciascun piano orizzontale differente nella sua utilità iperindustriale, a diversi livelli o anche magari solo a diverse fasce di livelli di utilità, nei livelli del sistema di sussunzione — come sostiene Kevin Kelly

— della nostra società, giù verso il basso e l’incluso.

Come sappiamo già, a sua volta la capacità-umana-vivente iperindustriale fino a ieri si presentava distinta in questi quattro ambiti, i cui confini adesso si vanno indebolendo e frantumando, di

maniera che adesso le loro funzioni utili e differenti invadono gli

altri, generando una certa confusione; questa si solo se si distinguono i livelli rispettivi di realtà cietà-specifica e iperindustriale nei quali ci si sta come ho già accennato, proprio questo appannarsi

dipana un poco sociale della somuovendo. Ma, dei confini degli

ambiti ha a che fare con il divenire concretamente trasversale del lavorare-specifico-umano e della capacità di farlo. Ora scendiamo ancora un pochino di più in questi quattro residui grandi-ambiti.

1. Nel primo grande-ambito funzionale abbiamo l’artefattura. Si tratta del lavorare specifico artefattivo e dell'erogazione e sub-consumo della capacità-umana-vivente per produrre l’utilità/valore d'uso dei beni percepibili. È ora tempo di premettere

un

grande

nodo

di questioni.

Nell’Occidente viviamo ormai in un «mondo artificiale», ossia un mondo prodotto da noi umani, e nei suoi aspetti tangibili questo

è anche un mondo artefatto. Il mondo artificiale e dell’artificiale viene opportunamente distinto dal mondo naturale. Qui da noi la natura vera, la natura incontaminata e intatta, è quasi scomparsa:

c'è solo natura trasformata, trasformata in altro. Si tratta appunto di ex natura diventata artificiale. Ciò è cominciato già nelle grandi civiltà precedenti. Nella civiltà capitalistica c'è stata però anche appropriazione e capitalizzazione dell’ex natura, e così sua sussunzione. Pertanto l’artificializzazione dell'ex natura non coincide con l’artefattura dei beni tangibili, in cui c'è anche molta creazione ex novo. Perché? Perché c’è anche il vastissimo e fortemente crescente processo di artificializzazione pure dell’impercepibile. Avviene nella produzione sottostante, utile-differente, produzione appunto delle

utilità differenti, dei valori d’uso (di merci), anche impercepibili e oggi rinvianti ai servizi, soprattutto a quelli alle persone. Questa

25

importantissima faccenda dovrà essere sempre tenuta presente ulteriormente approfondita.

e

Inoltre, in questo grande ambito funzionale dell’artefattura dei beni, dell’utilità percepibile dei beni, adesso iperindustriale, la capacità-attiva/lavorativa-umana-vivente sappiamo già che nella sua erogazione è sub!°-consumata?°/sub-usata artefattivamente, ossia

erogata e sub-consumata nel produrre le altre utilità mercificate e in mercificazione, in particolare nell’artefare tangibilmente,

nel

costruire i beni tangibili e le loro utilità?!. Così l’artefare (ossia il produrre con la minuscola il tangibile) è pure un sub-consumo «intermedio» (e di solito aretefattivo-produttivo): sub-consumo-intermedio di energia, di materie prime e ausiliarie, di mezzi e macchine, oltreché sub-consumo

intermedio

(di solito artefattivo)

di

capacità-umana-vivente in mercità. Tale sub-consumo è tuttora di-

stinto, ma sempre meno, dal consumo-finale riproduttivo di capa-

cità-umana-vivente: sottolineo questa distinzione di grandi-ambiti funzionali! Qui, dunque, nel suo sub-consumo intermedio il la-

vorare-specifico artefattivo sottostante di beni è tangibile, visibile,

sensibile, specie nel costruire i supporti percepibili di quelle utili-

tà. Costruisce utilità sensibili e loro supporti distruggendo utilità

intermedie sottostanti. Ma appunto questo non significa che sia il solo lavorare specifico utile differente, sottostante e quindi osservabile verso il basso: è quello artefattivo e intermedio, che è stato a

lungo il principale. Ma ora non più?

Ho dunque

affacciato anche

la questione

della

differenza

dell’artefare che dovrei circoscrivere alle utilità percepibili, sensi-

bili, ossia magari in supporti percepibili, col produrre con la minu-

scola, ossia col produrre le utilità differenti e sottostanti, sia di beni che di servizi. Questione da riprendere e approfondire. Si può inoltre avere una duplice confusione: perché noi adesso siamo quasi tutti imprese, e poi perché qui ce la vedremo con im-

prese di riproduzione che invece stanno nel terzo grande ambito (quello del consumo-finale-riproduttivo). Iperindustrialità, ambi-

19/ «Sub» consumo-intermedio e produttivo quello della capacità-umana; «consumo/uso intermedio» quello delle materie (prime e ausiliarie), dell'energia e dei mezzi e macchine-artificiali. Nota importante che anticipa molto. 20/

È sub-consumo (artefattivo o produttivo, intermedio) della capacità-umana-viv-

ente.

21/ Dunque il grande-ambito dell’artefattura iperindustrializzata è produttivo — con la minuscola — di utilità di merci comuni e dunque è artefattivo. Di beni-merce, in generale. Tutti tangibili? È da vedersi meglio. 26

valenza e politicità qui, nell’artefattura soprattutto sensibile del

sensibile.

2. Nel secondo grande-ambito ipotetico funzionale e differente del

consumo-realizzativo iperindustriale di plusvalore e sovrappiù, ma distruttivo d’utilità differente sottostante, c'è un lavoro-specifico di

consumo-finale-distruttivo. Si lavora quasi solo a distruggere. Senza

però produrre o riprodurre direttamente quasi alcunché di utile/ differente e dunque dotato di valore d’uso e così sottostante; «qua-

si» perché semmai si riproduce soltanto capacità distruttiva e pure un poco capacità in generale e trasversale, e tecnoscienza (sempre

più trasversale). Comunque noi la facciamo, questa distruzione e

pure questo farlo è lavorare! Allora è qui in atto un consumare-finale, un lavoro-specifico di consumo-finale distruttivo, finalizzato prevalentemente a una distruzione iperindustriale realizzatrice di sovrappiù (come spesso nella guerra, ad esempio). Qui si produce capitale quando la distruzione e il lavoro distruttivo rendono al capitalista più di quel che costano. Qui si Produce (con la maiuscola)

quasi «solo» verso l’alto, verso il Meta-livello, distruggendo il sottostante: si Produce quasi solo capitale e dominio capitalistico e sviluppo tecnoscientifico indiretto (e religione), il che per il nostro sistema sociale è la cosa più importante, la realizzazione del suo più grande scopo. Si accumula capitale distruggendo utilità differenti e così realizzando l'allargamento dei mercati. Però scendendo di livello di realtà si trovano quasi solo differenze di sprechi e di distruzioni. Le quali tuttavia richiedono anch'esse lavoro-umano-vivente-specifico: ripeto, lavoro-di-consumo-finale-distruttivo. Ed esigono capacità-umana-vivente di farlo, capacità-distruttiva. Quindi qui la capacità-calda, anche la capacità-attiva/capacità-umana iperindustriale è (quasi) solo consumata

nel distruggere (metafinalizzato alla realizzazione suddetta del sovrappiù), qui è «quasi» solo capacità-distruttiva, così si riproduce e si forma. Il fatto che in forte tendenza diventi trasversale e tendenzialmente in maniera universale non è piccola cosa! Ovvero ricorre come «fattore» di distruzione e forza distruttiva di utilità in generale. Ma perfino così, ripeto, questa distruzione è spesso pure indirettamente Produttiva??, accumulativa. Inoltre, sub-riproduce un poco della capacità-umana tendenzialmente trasversale stes22/

Perché allarga il mercato e consente più alti volumi di artefattura e quindì mag-

giori economie di scala. Inoltre, il distruggere rende direttamente più di quel che co-

sta.

27

sa, e così pure certi momenti di tecnologie scientifiche, appunto sempre più trasversali. Luogo per antonomasia dello spreco, della distruttività assoluta sottostante. Però, come dicevo, questa distruzione non solo concorre alla produzione e accumulazione di capitale, ma ha qualche effetto secondario di innovatività di metodi e sostanze, e non solo di mezzi e macchine artificiali e fredde, ma

anche di risorse umane viventi, di innovazione tecnologica e organizzativa, di riproduzione di capacità-umana. Si consideri il fatto che gran parte dei nuovi modelli organizzativi e delle nuove tecnologie, materie ed energie, e la riproduzione di nuove risorse-uma-

ne sono sperimentati prima dall'esercito: è tecnoscienza militare, come sostiene Paul Virilio. Ma i confini si indeboliscono. C’è una politicità peculiare anche qui? E un’ambivalenza?

3. Nel terzo grande ambito del consumo-finale-riproduttivo iperin-

dustriale® la capacità-attiva/lavorativa-umana invece è prodotta e riprodotta. Come? Consumando le altre utilità comuni nel con-

sumo «finale» riproduttivo; in parte consumando

pure utilità

speciali di risorse e mezzi di consumo-finale riproduttivo e mac-

chine-artificiali di consumo-finale riproduttivo artefatte altrove, e consumando utilità di natura, utilità di ex natura (inclusa la terra in trasformazione, trasformata e sussunta). Però consumando così anche utilità riproduttive calde fornite da peculiari partner, come servizi alla persona lavorante. Allora la questione del consumo-finale riproduttivo si complica. Innanzitutto si divide in due ulterio-

ri e peculiari importanti sub-ambiti (che abbiamo già intravisto poco fa): consumo-finale riproduttivo di beni-sensibili, consumo finale riproduttivo di servizi intangibili all'impresa e al lavorante (in specie di prestazioni alla persona-lavorante, ovvero al lavoratore-umano-vivente che appunto le consuma, in maniera peculiare).

E pure per capacità psichica, mentale, spirituale e intellettuale del corpo-umano-vivente (e pure sociale), non solo capacità «biologica». Ma queste come e con cosa si producono e ri-producono? Tuttavia, vedremo che ci sono pure due differenti tipi di servi-

zi (all'impresa e ai lavoranti, i quali però sono essi pure imprese, soprattutto singolari). A noi interessa il duplice lavoro-specifico-di-consumo-finale-riproduttivo?* e così lavoro-specifico richiedente capacità-umana-vivente di consumo-finale, capacità-umana 23/

24/

Che approfondirò a breve.

Distinto: per consumo di beni e di servizi riproduttivi; e poi ancora lavoro: per ri-

creazione 0 per formare capacità-umana-vivente.

28

di lavoro-di-consumo-finale anche nei servizi riproduttivi. Anche intangibile, impercepibile e mediante componenti impercepibili. Siamo nella parte più ostica e complicata di questo testo.

Sub-consumo-finale significa che, consumando le utilità tangibili e intangibili, le incorpora nel corpo-umano-sociale-vivente dei lavoranti-umani (iperproletari), nella forza-lavoro-vivente, ovvero nella capacità-umana-vivente merce, singolare e collettiva, tramite

utilizzo e/o fruizione. E si produce capacità-umana-vivente calda

pure (sub)consumando capacità-umana-vivente calda. C'è una circolarità, una ricorsività, in una spirale. E un saldo. Ritornando al punto precedente ripeto che abbiamo altre due

situazioni:

1) consumo-finale

di beni tangibili (di solito come

supporti d’utilità); 2) consumo-finale di servizi nell’intangibilità,

nell’impercepibilità.

A loro volta ciascuna duplicata (nel consumo

solitario, o col partner), di consumo finale e riproduttivo a seconda di chi vi realizza il lavoro-specifico di consumo, cosicché ne risultano più occorrenze: a) autoriproduzione relativamente solitaria,

b) autoriproduzione in scambio con partner interni, che nel Prologo ho chiamato duplicità principale. Allora adesso abbiamo: 21) il fruitore autoriproduttivo si riproduce consumando solitario beni tangibili (mangia una mela che ha raccolto da solo); a2) il fruitore autoriproduttivo fruisce da solo utilità anche intangibili (legge un libro affittato in biblioteca: il libro stampato è il supporto tangibile, ma lui fruisce delle forme e contenuti del testo, di un intratteni-

mento o di una conoscenza, altra duplicità). Passiamo al punto b),

in cui si consuma in scambio tra due ruoli: bi) riproduzione mediante oggetti che un «partner-esterno» gli dà (qui abbiamo solo eventuali

«scambi

esterni» dell’autoriproduttore-fruitore, come

quello col venditore o affittatore esterno; scambio esterno, come

nella compravendita di beni, ad esempio mangia una mela che

ha comprato); b2) scambio nella prestazione di un servizio (riproduttivo) tra partner, scambio interno; il fruitore fruisce autoriproduttivamente d’utilità ricevute direttamente da un partner, in uno scambio che perciò definisco «interno»: una persona consolata o

istruita da un’altra mediante prestazioni fornite da quest’ultima, ad esempio di cura. Nei servizi riproduttivi ricorre soprattutto la situazione b2), che ne è considerata tipica (e io mi occuperò più di questa, un poco criticamente). Replico che in essa appunto ricorre lo scambio riproduttivo tra partner che dico «interni». Vedremo

presto perché li definisco «scambi».

Ma non dimentichiamo che poi si tratta di combinazione ripro-

29

duttiva dì risorse fredde come quelle di mezzi e macchine artificiali, soprattutto (essendo ormai la natura trasformata) con risorse

calde: con risorse calde di umani-viventi. E non dimentichiamo che c'è anche l’artificiale caldo: ossia non tutto ciò che sta nel corpo umano è natura, anzi, quasi niente o niente del tutto.

Qui si vede già che il protagonista principale della riproduzione di

capacità-lavorativa-umana-vivente è il consumatore, il fruitore-finale,

anche nel caso del fruire del servizio, perché egli non manca, non può mancare, mai. Perché è lui che ha in corpo ed è proprietario della capacità-lavorativa-umana-vivente, in mercificazione, che si riproduce appunto incorporandone altra, nel suo corpo-umano-vivente

e carnale (che però include anche l’anima, lo spirito e la mente, che

bito-finale della riproduzione di ricreazione/restauro o riproduzione semplice e iperindustriale della capacità-attiva/lavorativa-umana,

consumo finale riproduttivo senza alcun suo incremento (come ad

esempio nell’intrattenimento e nella sanità), e quindi riportando iperindustrialmente capacità-umana tutt'al più al punto in cui era

prima di consumarla: per questo si distingue anche dal consumo meramente distruttivo, perché questo toglie, distrugge ricchezza e

utilità, mentre quello lascia le cose più o meno come stavano prima. Ripeto ancora: la capacità-umana-vivente qui è semplicemente

riportata con vari input com'era prima di usarla e di consumar-

la, e quindi è riportata alla forma che aveva prima?5; B) il grande

sub-ambito-finale della riproduzione formativa o riproduzione-allargata e quindi riproducente con incremento (iperindustriale) la ca-

pacità-attiva/lavorativa-umana-vivente stessa. In entrambi questi

due sub-ambiti riproduttivi, A e B, si realizza la riproduzione della

capacità, del suo valore. Nel ricreare tornando alla forma di prima. Nel formare pure dando iperindustrialmente una forma nuova e

diversa dalla precedente, più potente, consumando e così incorpo-

rando nel lavoratore le altre utilità differenti di beni-riproduttivi e di servizi, ma adesso utilità particolari perché spesso magari pure

incrementative. Riproducono nell’interrelazionalità iperindustriale e mediante un lavoro iperindustriale di consumo-finale, che

25/ Incrociando abbiamo tra l’altro Aa, riproduzione semplice mediante beni, e Ab, riproduzione-semplice mediante servizi alla persona del lavoratore-specifico-trasversale. 30

pere ene

Inoltre, questo terzo grande-ambito del consumare-finale riproduttivo di capacità-umana è a sua volta sub-diviso in un'ulteriore e molto importante duplicità che incrocia le precedenti: A) il sub-am-

aria

emergono dalla carne).

è relazionale soprattutto (ma non solo) allorché si tratta proprio di fruizione e di consumo finale di servizi riproduttivi di capacità-umana-vivente?© prestati da partner interni. Ribadisco: in entrambi questi sub-ambiti A e B di solito?” c'è un'interrelazione iperindustriale tra partner-ricreativi o tra partner formativi interni. Dovremo incrociare anche i due sub-ambiti del riprodurre capacità-lavorativa-umana-vivente differente (ricreativo e formativo) con tutto quanto il resto. Ma alla politica due volte. E vedere l'iperindustrialità e la politicità qui peculiare, e l'ambivalenza.

Se invece di fare riferimento alla capacità-attiva-umana merce in lavorizzazione e alla sua utilità specialissima facessi riferimento agli altri due tipi d’utilità (quello delle merci comuni e l’altro dei mezzi-freddi) tutto si ribalterebbe: la produzione iperindustriale diventerebbe consumo e viceversa; così come quello che nel mer-

cato del lavoro si presenta come offerta, nel mercato delle altre merci si presenta come domanda ribaltandosi, e viceversa. Non

dimentichiamolo. Perché adesso faremo spesso esplorativamente

questo capovolgimento e scambio. Ma dovremo dare molto maggior risalto all’ambivalenza e alla politicità. Ciò più sotto, come ho detto, pone al centro del medio raggio la questione del «consumo-finale»; oggi è già poco distinguibile da quello «intermedio»,

allorché si fa difficile anche distinguere il «mercato-finale» da certi «mercati-intermedi»: dipende molto dalla suddetta trasversalità, e dall’astrattezza di tutto questo.

4. Infine c’è il quarto grande-ambito (misto), quello politico istituzionale, in cui si governa «pubblicamente», e ormai tendenzial-

mente in modo iperindustriale. Però abbiamo diversi significati di questa parola «politica», importante ma non ben determinata,

problematica. Bisogna riportare anche qui, in particolare orizzon-

talmente, la società riproduttiva intesa non solo in riferimento alla capacità-umana-vivente, bensì in riferimento pure all'impresa

e verticalmente alla forma complessiva del sistema. È un grande-ambito in cui si spende quasi la metà del reddito complessivo

di questo sistema sociale (anche assai distruttivamente) e in gran

26/

Nell’incrocio avremo Ba, riproduzione di nostra capacità-vivente con incremen-

to mediante beni tangibili, e Bb, riproduzione con incremento di capacità-vivente

mediante servizi al lavoratore specifico trasversale (e soprattutto autoriproduzione o scambio riproduttivo tra partner con incremento).

27/ Senonmilimito a considerare il fruire proprio del consumo-finale di benì (tangibili) riproduttivi (come nel mangiare o nell’abbigliarsi ecc.), iperindustriale anch'esso (nella sua crescente leggerezza). ZI

parte proprio per far funzionare la nostra riproduzione.

Infatti lo

Stato, nella sua articolazione territoriale, in Europa ha governato

parecchio per decenni proprio questa stessa riproduzione di capa-

cità-lavorativa-umana-vivente, specialmente nei servizi pubblici. Oggi, come tutti sanno, è al centro del governo la questione della scarsa produttività proprio dei «servizi pubblici» e si pone la questione del che farne. Ma l'ambito della politica istituzionale non l’esaurisce tutta: restano fuori sia quella intrinseca che quella mitica della «grande» politica. Anche qui dobbiamo accennare all’ambivalenza, all’iperindustrialità e alla politicità peculiare, come ovunque. E come lavoro di professionisti richiedente «capacità politica». Come dicevo prima, i grandi ambiti adesso si compenetrano nell’iperindustrialità. Le loro funzioni ora traboccano e invadono gli altri, proprio per le caratteristiche di astrattezza e psichicità che rivedremo esser proprie del lavorare iperindustriale e della capacità-lavorativa-umana-vivente che esige.

Dentro i servizi di riproduzione della capacità di lavorare Torniamo allora all'odierna centralità della riproduzione della capacità-umana-vivente-merce. Se noi guardiamo a com'è adesso all’inizio del nuovo millennio il lavorare-umano come occupazione, anche nel senso volgare e merceologico-tecnologico in cui l’intendono

ancora le statistiche internazionali, vediamo subito che in Occidente e anche in Italia il lavoro-specifico come occupazione si fa ormai per oltre il 60% nei cosiddetti servizi (all'impresa e alla cosiddetta

persona); inoltre, per circa il 35-40% lo si fa proprio nei servizi ri-

produttivi della cosiddetta persona, ovvero nella riproduzione della capacità-lavorativa-umana-vivente (sempre più a sua volta trasversale e tendenzialmente universale). Così il riprodurre la capacità altrui è già, anche nell’arretrata Italia, il settore occupazionale esterno a mag-

gioranza relativa (a prescindere dal lavoro domestico); tra l’altro si estende anche all’esterno della famiglia, tendendo a essere ovunque prevalentemente femminile. Ho già detto che questo lavoro di prestazione riproduttiva occupazionale agli altri è l’unico che interessi davvero il lettore. Ma a questo riprodurre altri, occupazionale e no,

va aggiunto innanzitutto l'immenso lavoro di auto-riproduzione dei lavoratori specifici trasversali, nel loro consumo cosiddetto «finale», nella fruizione e ricezione finale. Su 18-19 ore quotidianamente 32

en

RT RE OL PE

MIE

IT

——_

mem: 407

dedicate alla riproduzione della capacità-umana-vivente (in parte

sovrapposto all’artefare) noi impegniamo nella nostra auto-ripro-

duzione oltre dieci ore al giorno?8. È questo lavoro-specifico-di-consumo-finale: è qui che oggi il capitale sta spostando il centro della sua stessa valorizzazione. Poiché il nostro tempo di sopravvivenza è scarso, oltre a intensificarlo continuamente, nel futuro si dovrà renderlo tutto produttivo (pure il nostro sonno!). Purtroppo il lettore considera l’idea che questo sia lavoro-specifico e oggi baricentrale

(anche per il nostro agire politico) un’inutile bizzarria. Parlo a sor-

di! Come sempre? Comunque insisto. Come già detto, ci sono due differenti lavori-di-consumo-finale tipici dei servizi riproduttivi, in particolare dei cosiddetti «servizi primari» e «servizi sociali»: quello finale auto-riproduttivo, in cui siamo noi a consumare merci finali (beni o servizi), e quello finale riproduttivo di prestazione indiretto e relazionale, in cui come emittenti aiutiamo altri a consumare merci finali (beni o servizi) o ne siamo aiutati, come ad esempio nel lavoro di cura di altri (scam-

bio interno). Piuttosto, ma non esclusivamente, femminile. Dunque, nell’Occidente capitalistico più avanzato, per ora, i

beni tangibili vengono fatti a sempre più alto automatismo dalle macchine-artificiali e fredde, solo un poco ma molto significativamente integrate dagli umani-viventi e caldi, sotto il comando del padrone collettivo. Lo fanno mediante scienza?? sempre più flessibile, telematica, il lavorare di immagini; anche al livello delle molecole, dei geni, perfino al livello subatomico delle particelle. Sempre più fabbricando protesi del corpo umano (si pensi alla biomedica),

simulando territori, distruggendo natura. Gli umani invece, gli iperproletari di ambo i sessi, lavorano sempre più a riprodurre se stessi per il lavorare specifico capitalistico in generale, anche qui

molto in telecomunicazione sempre più macchinico-artificiale e con macchine riproduttive artificiali e fredde; e, ripeto, sotto il co-

mando del padrone collettivo. Infatti, lo fanno per il profitto. Ricordo che è caldo ciò che sta dentro il corpo-umano-vivente e invece è freddo quel che sta fuori di lì, e ci sono anche dei semifreddi come le protesi. 28/ 29/

Compreso il sonno, ovviamente. Poiché ho nominato la grande-variabile scienza voglio subito informare o ricorda-

re che qui, nel primo percorso, per me si tratta della scienza cosiddetta «galileiana»,

e non di altre concezioni o sistemi scientifici. Questa scienza-galileiana è quella che il capitalismo ha sussunto e usato per conseguire la massima potenza convertibile in produttività di profitto! Mi interessa proprio per questo!

BUS

33

Se gli umani eliminassero il capitalismo (e non solo la globalizzazione capitalistica) magari potrebbero agire davvero per loro stessi pure per scopi autonomi da quelli del sistema; ma prima dovrebbero già cambiare soggettivamente questi odierni uomi-

ni-merce i cui fini quasi sempre sono gli stessi dei loro padroni.

Qui la grande ambivalenza di oggi. Pertanto il valore duplicemente riproduttivo è ormai in tendenza il principale valore d’uso/utilità del capitale, ancor più del capitale-umano (in prevalenza femminile?). Ipotesi: nell’ipercapita-

lismo il principale uso/utilità della capacità-lavorativa-umana-vivente

è il riprodurre capacità-lavorativa-umana-vivente medesima.

Questa

è per me adesso una ragione di più per riprendere con la spirale scendendo ulteriormente a fondo nella questione più generale

di come si producono i «servizi riproduttivi», ossia di come

si in-

corporano utilità peculiari in qualcosa e soprattutto in qualcuno

mediante servizi riproduttivi. Questione però inclusa in quell’altra

verticale di come la riproduzione, la combinazione riproduttiva freddo/caldo, di potenza fredda e calda, sta inclusa nella Produzione di capitale, cioè nella Produzione di sovrappiù di valore

ricchezza come capitale, adesso appunto prevalentemente median-

e

te servizi riproduttivi come prestazioni alla persona del lavorato-

re-umano-vivente, questione che riprenderò alla fine in una strana appendice fuori testo?0. Cosa comporta questa grande ipotesi che la parte maggioritaria

rispetto al lavorare-umano-vivente-specifico odierno consista nel produrre i servizi alla persona in quanto questi sono i servizi ripro-

duttivi della capacità-umana-vivente?!,

e parte adesso principale,

inclusa nel produrre capitale in generale, capitale indifferenziato? Produrlo mediante sovrappiù specifico peculiare. Perciò, è parte

che alimenta pure il dominio, la tecnica e tecnoscienza (e magari la sfera separata del senso, di religione/ideologia). Sottolineo: se questo avviene non significa «solo» che il consumo-finale riproduttivo stesso (essendo diversamente attraversato da «lavoro-specifico-di-consumo-finale») produce capitale, il che è già di per sé una vera enormità; ma pure che l'esclusività umana, quand’anche

residua, della capacità-umana-vivente

e neo-merce-umana-vivente

e calda e attiva, in un certo senso forse riassume in sé la potenza 30/ Vedremo che te formazione (di capitale mediante 31/ Quindi anche

34

allora oggi sembra ci siano due vie all'accumulazione: la sottostancapacità-umana-vivente), e la «vecchia» e solita valorizzazione del sovrappiù specifico e/o plusvalore. del capitale-umano stesso.

produttiva di tutto quanto il resto del capitale, in quanto co-lavoro trascorso). Se questo avviene, e come avviene, ha un'enorme importanza per noi. E non è proprio una faccenda settoriale!

Quindi, esplorerò un poco di più come il basilare lavoro-specifi-

co iperindustriale particolare trasversale attraversa il terzo grande ambito di utilità differente. Abbiamo quest'altra grande duplicità?? e reciprocità: da un lato si muove sotto il nostro naso il variare del

consumare finale come lavoro-specifico-di consumo e di combinazione-cosumativa di potenza fredda e calda specifica, a sua volta

iperindustriale, che vincola l’artefattura e la produzione di utilità varie; dall’altro, dobbiamo esplorare il reciproco, cioè come il va-

riare della produzione con la minuscola dell’artificiale freddo (e

caldo a sua volta), ossia dell’articolare, del definire e del conseguire

le utilità differenti di tutti gli altri ambiti e livelli di lavoro-specifico iperindustriale in generale?’ influisce sul consumo-finale (e

questo suo lavoro iperindustriale di consumo-finale) vincolandolo. Quest’altra duplicità?* e reciprocità di vincolo non sarà la sola,

questo grande nodo è molto complesso e intricato. Qui non farò certo una teoria generale completa neppure del consumo-finale,

in scambio con l’artefare utilità fredde (di beni) e il produrre utilità

calde (di servizi),

e neppure della sua riproduttività, ma proporrò

solo qualche spunto. Però, come abbiamo già ricordato, la riproduzione della capacità-lavorativa-umana avviene ancora molto anche come consumo-finale di beni/merce tangibili e freddi (auto-servizio?) da parte del proprietario in riproduzione, o fruitore — sono i casi al) e bi) di prima, ad esempio usare/consumare cibo, bevande, abiti, ripari, libri, dischi ecc. Ricordiamoci inoltre che consumiamo le utilità, che spesso stanno in supporti. Di solito proprio per quanto concerne i «servizi riproduttivi»

degli (iper)proletari, la produzione (con la minuscola) avviene in-

vece b2) in una relazione tra due partner, interni, per uno dei quali

è facile vedere il lavoro riproduttivo di prestatore di utilità riproduttive differenti (e così di peculiare sub-artefattore di peculiari utilità differenti), di utilità riproduttiva anche come quella di cose e merci impercepibili, che entrano nella prestazione di servizi. 32/

Altra duplicità si aggiunge soprattutto alla dozzina di duplicità significative dì

cui tratto in Nella società industriale d'oggi. 33/ Ossia, ripeto, dell'artefare beni freddi coi suoi bisogni e richieste, e del produrre utilità calde. 34/ La principale è quella di lavoro-semplice/lavoro-complesso.

35

Solitamente, invece, i più non guardano come a un lavoro-ripro-

duttivo quello che svolge il fruitore-ricevente il servizio stesso e consumante, fruente, autofruente, l'utilità del servizio. Sbagliando molto. Replico: anche il fruire è un lavoro-specifico. Il consumare-finale specifico lo è. Già quando, col cosiddetto fordismo, qualcuno intuì l’importanza del fatto che i proletari/operai diventavano i principali consumatori-finali di massa della nuova produzione di massa

cì fu un salto in avanti della lotta e della conflittualità. Adesso, nel

cosiddetto «post» ma invero iperfordismo, c'è un salto nel consumismo (ossia di eccesso di consumo) auto-riproduttivo di massa

dell'impercepibile.

Generalizzando*, adesso ricordo pure che il lavoro intangibile riproduttivo di capacità-lavorativa è sì diversamente e anche meno macchinizzabile nelle macchine artificiali, e più lentamente — tuttavia lo è anch'esso. Quindi, qui c'è adesso più alta intensità di lavoro-vivente. Mentre quello artefattivo tangibile si è macchinizzato artificialmente con elevata velocità e spesso vistosamente,

anche perché percepibile. Perciò nel grande ambito-funzionale

del consumo-finale e della riproduzione della nostra capacità, e

quindi di noi stessi, nell'attuale fase del capitalismo, succede oggi

(e ancora succederà per un tempo medio) che la percentuale del lavorare umano che sta nella riproduzione anche solo degli altri umani aumenta e aumenterà sempre più in proporzione rispetto a quello che residua nell’artefattura e nel resto. Così, la riproduzione di capacità-lavorativa-umana-vivente — presentando tuttora sia un’e-

levata esclusività-umana sia un'elevata intensità di lavoro (vivente)

— avrà una sempre maggiore importanza occupazionale e lavorativa,

anche in proporzione di quantità di iperproletari occupati: occuperà una parte sempre più prevalente di lavoratori, fino a sfiorare

la loro totalità. Ipotesi, al solito.

Ripeto ancora, fino alla nausea: nelle società complessive capitalisticamente e tecnologicamente più avanzate, oggi la maggior parte degli umani lavora già nell’occupazione esterna a riprodurre se stessa, e pure riproducendo dei partner. E a ciò si aggiunge l’auto-riproduzione! Oltre al lavoro domestico, ancora con prevalenza di donne. Anche come semplice prestazione di ricreazione. Questo primato del riprodurre capacità-umana è nuovo e non era stato previsto nemmeno solo pochi decenni fa, a parte certa vecchia 35/

Oître alle ragioni, da non confondere con un generico umanismo, per cui il no-

stro agire lavorizzato è fondamentale per noi.

36

fantascienza. Società del giuoco? Sì, del giuoco lavorativo! Replico:

i lavoratori-umani-specifici sono gente iperproletaria impegnata

sempre più quasi solo a riprodurre iperindustrialmente se stessa, sia nell'occupazione che fuori. Vedremo pure che la riproduzione e la società riproduttiva e del consumo-finale riproduttivo esterno (che si aggiunge al domestico) nella sua prevalente femminilità, donnità (fatto da donne intere e sociali nei loro corpi interi, e non da biologicità separate), è ovviamente un luogo per diversi aspetti

pluribaricentrico della società-specifica complessiva. E vedremo un

poco di più perché, come e con che conseguenze. Ritorniamo così nel terzo grande sub-ambito di produzione (con la minuscola) iperindustriale di utilità ipermoderne calde

differenti di servizi alle cosiddette persone, ma invero contenute

in prestazioni iperindustriali ai lavoratori in generale, da parte di lavoratori-partner riproduttivi interni, nel senso di prestatori iperindustriali di questi servizi-merce di riproduzione di capacità-umana-vivente a dei lavoratori-partner — entrambi qui lavoratori

riproduttivi. Soprattutto da femmine: corpi biologici separati bensì da donne denti psiche, mente, spirito, intelletto, biano nel tempo storico e così non solo per la rivoluzione, tipicamente umana.

ripeto, non da inesistenti nei loro corpi interi inclue dunque sociali, che camper l'evoluzione ma anche

Inoltre, come ancora si suol dire, la fruizione da parte del lavoratore-partner ricevente e consumatore-finale è tuttora molto spesso inseparabile? dal tempo e luogo della sua prestazione iperindu-

striale da parte del lavoratore-partner-interno iperindustrialmente prestante”. Però ormai di solito è prestata e fruita mediante comu-

nicazione e sempre più telecomunicazione: quindi anche questa riproduzione è sempre più una teleriproduzione, si fa mediante

telecomunicazione. Entrambi i partner sono iperproletari al lavoro. Invero è tutto il triangolo della società specifica e del lavoro specifico che si ritrova più sotto rideterminato nel lavoro-specifico-di-consumo-finale-riproduttivo iperindustriale. Tutto questo magari nella sua politicità. Vedremo che la questione non è più solo che noi siamo contenitori-attivi di capacità-umana-vivente-merce, e lavorativa, ma che 36/ 37/

Ma comunque è sempre analiticamente distinta e perfino opposta. Semmai bisogna verificare se e come oggi questi due momenti (prestazione e

fruizione), ieri di solito coincidenti, si staccano tra loro anche grazie allo sviluppo, în

specie qualitativo, del telecomunicare.

37

proprio in ciò siamo diventati tutti imprese. E dobbiamo approfondire l'ambivalenza e la politicità di tutto ciò.

Sulla nuova qualità del lavoro iperindustriale Ripeto ancora: sì tratta del lavoro-specifico come l’intendo io in questo modello, e nella sua trasversalità-universale, poi nella sua

iperindustrialità. Orbene, su questo ho scritto un libretto alcuni

anni fa'* e poi c'è il primo volume e la metà del secondo di Nella società industriale d'oggi, lì rinvio. Tiro fuori solo qualcosina in rela-

zione al consumo-finale-riproduttivo che vi è collegato??. Ho già detto pure che essendo il consumare-finale riproduttivo

dell'umano fruitore ricevente e il prestare dell'umano riproduttore

di capacità-umana offerente un duplice lavorare di consumo-finale in iperindustrializzazione e in atto, nella sua dinamica ripresenta in angolazione più particolare le cinque o sei grandi componenti

del lavoro in generale: 1) ripresenta fini, funzioni e utilità del consumare-finale riproduttivo iperindustriale; 2) ripresenta le risorse

fredde, i mezzi-freddi, sempre più artificiali, adesso del consuma-

re-finale riproduttvo iperindustriale; nella loro scala, tra i cui gradi-

ni rammento che ci sono le quattro sub-componenti e sub-risorse,

pure fredde, seguenti: tecnoscienza, organizzazione, tecnologia,

macchina/artificiale (fredde perché esterne al nostro corpo intero: così dunque qui sarebbe fredda pure la natura, se da noi ci fosse ancora). Ricordo che le risorse hanno l'utilità speciale di potenziare le altre utilità (adesso del consumo-finale riproduttivo), e così risparmiare; 3) ripresenta inoltre, combinate con le fredde, anche

le risorse-calde, e così il lavoratore-finale riproduttivo e la sua (ri-

chiesta e posseduta, si fa per dire) capacità-calda e le altre sub-com-

ponenti calde e sub-parti della capacità-umana-vivente (a sua volta

sempre più artificiale, alla sua differente maniera) che produce

altra capacità-umana-vivente (e così pure almeno l'organizzazione calda, la tecnoscienza calda ecc.); 4) ripresenta l'’oggetto/prodotto del consumare-finale riproduttivo iperindustriale duplice (ossia dato e ricevuto) che qui ora è appunto la capacità-umana-vivente

che risulta prodotta dalla riproduzione, dal consumo finale; 5) infine ripresenta il contesto del consumare riproduttivo iperindustria38/

R.Alquati, Lavoro e attività. Per un'analisi della schiavitù neomoderna, Manifesto-

39/

Adesso torniamo su un terreno un poco meno complicato.

libri, Roma 1997.

38

i

le duplice; 6) eventualmente, quindi, ripresenta la qualità richiesta del consumare-finale,

dato e ricevuto. Orbene,

bisognerà

ripren-

dere almeno un poco queste componenti del lavorare e incrociarle con tutto quanto il resto. E, al solito, dare evidenza all'ambivalenza

e alla politicità.

Industrialità, iperindustrialità di tutto quanto Ho qualificato fin qui di «iperindustriale» tutto quanto, senza però entrare nel merito dell’industrialità e tanto meno dell’iperindustrialità. È un nodo di questioni molto ampie. Riprendo quindi a spirale l’ultima definizione di «industria» che ho dato verso la fine del primo volume di Nella società industriale d'oggi*°, adesso

riproponendo una definizione più estesa dell’iperindustrialità, da applicare a tutto quello che ho detto fin qui e dirò in seguito. Quindi, inserendo direttamente la psichicità e la neo-artigianalità

nell'iperindustria; tra l’altro, pure telecomunicante, telematica e

telematicamente retizzata, se si vuole. L’iperindustrialità pertanto

diventa: «una maniera organizzativa trasversale almeno implicitamente collettiva del lavorare in reti (pure telematiche) sia distri-

buite che al contempo a forma di piramidi di comando piuttosto centrale, di rapporti cooperativi psichici e neo-artigianali, in cui

questo lavoro-specifico cooperante in generale è prescomposto e ridistribuito mediante un piano segnico informatizzato (e numerizzato, digitalizzato ecc.) e virtualizzato che lo pre-reintegra

segnicamente in rete secondo una razionalità scientifica peculiare e flessibile, rivolta al risparmio (potenziante), soprattutto di

capacità-umana-vivente psichica, artificializzandola, di tempo e di capitale, e tesa all'innovazione così risparmiatrice. Quindi esso procede nell’intreccio con la scienza-galileiana flessibilizzata in nuovi paradigmi, e intercombinante grandi potenze potenzianti differenti, tutte a loro volta intrecciate con la scienza meta-poten-

te e meta-potenziante, e ugualità e differenza, e così al contempo 40/

Industria è «una maniera organizzativa trasversale almeno implicitamente col-

lettiva del lavorare in reti di rapporti cooperativi, in cui questo lavoro cooperante in

generale è prescomposto e ridistribuito mediante un piano segnico che lo pre-reinte-

gra secondo una razionalità scientifica peculiare e rivolta al risparmio, soprattutto di capacità-umana-vivente, di tempo e di capitale, e all'innovazione così risparmiatrice,

e quindi procede nell’intreccio con la scienza galileiana, e intercombinante grandi po-

tenze differenti, e ugualità e differenza, e così al contempo procedente per sinergia organica da differenza di utilità e per alte scale di standardizzazione e ripetizione, în

maniera pianificata e programmata, e sboccante nell'utilizzo e continuo sviluppo soprattutto qualitativo del macchinario-artificiale, e così necessariamente aperta verso il futuro».

39

procedente per sinergia organica da differenza di utilità e per alte scale di standardizzazione e ripetizione, in maniera pianificata e programmata in continua rettifica (mediante controllo in tempo

reale), e sboccante nell’utilizzo e continuo sviluppo soprattutto qualitativo del macchinario-artificiale piuttosto intangibile, verso nuovi, più potenti e automatici sistemi uomo-macchina-artificia-

le e così necessariamente aperta verso il futuro». Una definizione

lunga e per parti. Allora e di nuovo incrociandosi con questa concezione ipotetica si deve riformulare esplicitamente tutto quanto

detto finora. Orbene, si constata anche che la mia definizione integrativa

dell’iperindustrialità affina l’industrialità classica restando nel suo

solco e traiettoria; la caratterizza da un lato per la sua psichicità,

in senso ampio (inclusa la parte timica, ossia la parte affettivo-emotiva, e la mentalità o meglio la mentità, nel significato insolito

di prodotto proprio della mente, ovvero prodotto di elaborazione

mentale e così con astrattezza, impercepibilità ecc.), più che cognitività, intellettualità e spiritualità; dall’altro lato, con un ritorno di

(nuova) artigianalità (e giù in basso di regressione a vecchie forme

di dipendenza), ma restando all’interno di questa concezione e for-

ma ipotetica dell’industrialità, ora iper, la quale così si riproduce su nuovi terreni, anche per un certo ribaltamento di rapporti di forza.

Sottolineo il fondarsi dell’industrialità sull'innovazione, cioè il

ricombinare i fattori produttivi, alla Schumpeter, per risparmia-

re. Produce anche l’obsolescenza, in particolare proprio di capaci-

tà-umana. Ciò ci pone un grande dilemma, che qui e ora ha una centralità irriducibile e fortissima. Rinvio altrove l’approfondimento del rapporto di sussunzione potenziante tra artificialità e naturalità in sparizione in Occidente.

Cosicché, ad esempio, oggi la terra in Occidente è trasformata e

appartiene Non ho ho parlato battuta: la

all’artificiale. inserito qui un capitolo sulla tecnoscienza, perché ne molto in Nella società industriale e lì rinvio. Solo una maggioranza delle femministe (sulla strada di Evelyn

Fox Keller) si sono opposte a quella che io chiamo la scienza-galile-

iana e la combattono, magari nella loro testa, financo nelle versioni postmoderne perché secondo loro maschile e maschilista. Ma è proprio vero? E conviene loro? Non farebbero magari meglio ad affermare il contributo e la presenza femminile in questa scienza e tecnoscienza proprio per rivendicarne un ben diverso funzionamento e uso alternativo? 40

Sulle nuove organizzazioni (scientifiche) iperindustriali Intendo per «organizzazione-umana» (centrica) «l’ordine (e la forma) dei sistemi di cooperazione umana e delle loro reti sociali, basati sulla differente competenza (e quindi sulla differenza-utile

e differenza di utilità di capacità-umana-vivente utile) e sulla gerarchia, per il conseguimento di fini in qualche maniera comuni ai suoi membri». Osservo come questa stessa organizzazione abbia già molto in comune con l’industrialità, cosicché questa risulta

prevalentemente organizzativa. Ricordo che ci sono al livello di realtà sottostante altri due significati della parola organizzazione: organizzare attivo in atto come dare ordine e forma, e il suo risultato e output come ordine prodotto e forma‘! potente, fredda e calda, da usare e applicare, o applicare essendone usati. Elenco allora alcune sue parti, alla rinfusa: l’ordine/forma pe-

culiare, la trama e la combinazione, la gerarchia, la cooperazione; i ruoli, i compiti, le funzioni, le competenze differenti, le differenze utili intercombinate e la sinergia, il linguaggio e la comunicazione, i metodi, la disciplina e le regole, la regolazione; la direzione, il

coordinamento, il controllo, il comando, l'apparato, la razionalizza-

zione, la burocrazia e la tecnoburocrazia ecc. Tutte quante sia calde sia fredde. La memoria, il programma, l’interfaccia applicativa, il suo movimento, la sua presa trasformante sull’oggetto, le abbiamo già un pochino trattate nella seconda parte del testo succitato. Solo l’organizzazione produce il collettivo in senso forte, ossia quel che è collettivamente organizzato, e allora non basta l’inferenza statistica a rilevarlo. Ho proposto ed esplorato il momento organizzativo come cuo-

re del cooperare iperindustriale dell’industrialità, del capitalismo stesso e dei tre momenti della società-specifica (organizzazione

della trama o come trama; organizzazione del lavoro particolare,

universalmente trasversale, nella dimensione aziendale o dell’agenzia lavorante, e poi organizzazione del lavorare del singolo e organizzazione del singolo lavorante stesso, ridotto alla sua capacità); e nella nuova intercombinazione delle due grandi trasversa-

lità dinamiche (quella dell’ugualità e delle scale, e l’altra contraria

della differenza e della sinergia organica e verticale). Adesso c’è, ad esempio, una nuova organizzazione molto esaltata e vistosa nell’informatizzazione e nelle telecomunicazioni e nella rete telematica, la quale valorizza molto l'aspetto «alla pari», distribuito e 41/

L'utilità consiste in una forma che cambia altre forme.

4I

soprattutto adattivo: ma fino a che punto essa è nuova o diversa, 0 invece resta inclusa nella precedente forma? Allora organizzazione sempre scientifica (neo-scientifica?) e pure neo-tayloristica.

Risottolineo questo aspetto fondamentale:

l'organizzazione

umana precede la macchina-artificiale, che incorpora sempre un’organizzazione razionalizzata e scientifica di lavoro collettivo-speci-

fico-umano cooperante in rete di rapporti (e interrelazioni), e con le sue cinque o sei parti. E tanto più è collettiva, cooperante.

Mi chiedo tra l’altro: a) come cambia l’organizzazione del la-

vorare in generale e dei singoli lavori, come destinazione della

capacità riprodotta e da riprodurre, e nel suo particolare iperindusîtrializzarsi>; b) come essa entra dentro lo stesso lavorare di con-

sumo-finale-riproduttivo in iperindustrializzazione? Dove adesso

dobbiamo vederla più da vicino. Ciò è da farsi tenendo pure conto che l'indispensabile innovare‘? progredisce in nuove ricombinazioni come nuove organizzazioni ulteriormente risparmiatrici (di

fatica, di tempo, di lavoro e di capitale); e che essa è sempre più

uguale dappertutto. Sappiamo già a iosa che la tecnica (e la capacità-umana) adesso è a sua volta trasversale: essendo, infatti, pure

momento qualificante della trasversale e tendenzialmente universale iperindustrialità. Come già ieri alcuni anarchici, adesso ci sono soprattutto delle femministe che negano i ruoli. Odiano il ruolo come tale e lo con-

siderano sempre in sé maschile. Vogliono abolire tutti i ruoli. Ma si rendono conto che abolire i ruoli equivale ad abolire la sociatività

umana, significa abolire la sinergica cooperazione organica stessa tra gli umani? I ruoli si possono solo cambiare, trasformare. Sulle nuove tecnologie iperindustriali

Intendo la «tecno-logia» come una logia della tecnica, quindi «una maniera trasmissibile di fare le cose basata sull’applicazione della scienza, e quindi sull’organizzazione razionale scientifica, in base alla materialità dell'oggetto; ma anch'essa rivolta al fine di risparmiare capacità-umana-vivente, tempo e capitale, e di solito a sua

volta sboccante nello sviluppo qualitativo e nell'automatismo crescente del macchinario-artificiale». Quasi momento potenziale dell’innovazione. Le loro definizioni hanno molto in comune.

Ribadisco il fatto che tutte le nuove tecnologie settoriali e

42/

Attraverso il quale nella sua relativa continuità cresce la tecnica, nel cosiddetto

«progresso tecnico».

42

sottostanti distinte in base alla materialità dell'oggetto e alle sotto-scienze applicate, così settoriali a loro volta, già si sviluppano sempre mediante le stesse meta-regole delle vecchie tecnologie

scientifico-industriali, le quali sono quindi a loro volta e specifi-

camente trasversali, maniere concernenti sia le parti fredde che quelle calde. Dunque cambiano solo i contenuti bassi, tanto più si

scende, ma cambiano! Tuttavia, in una sempre minore differenza orizzontale. Ripeto che si sta aggiungendo una nuova sottotrasversalità. Oggi vengono gradualmente ma rapidamente meno molte di queste differenze, per cui si ha una vistosa unificazione, omogeneizzazione e uniformazione di questo mondo, e queste scendono

sempre più verso il basso, fino alle nanotecnologie subatomiche dove la materia scompare alla vista; si scende fino al gene, ancora molecolare, o al bit della digitalizzazione dell’impercepibile.

Abbassando anche i livelli di sussunzione della realtà ai quali è

osservabile, percepibile con i sensi, la trasversalità tecnologica. In particolare le tecnologie dei servizi e della riproduzione interrela-

zionale della capacità-umana-vivente hanno sempre più aspetti in

comune tra loro, e con quelle della produzione «alleggerita» dei beni tangibili. Proprio per la psichicità. Inoltre, nella rete-telematica, viene gradualmente meno la differenza tra tecnologia, organizzazione, macchina-artificiale. Le nuove tecnologie, allora, pure nel consumo-finale! Tra l’altro, da qui alla nuova capacità «richiesta» di fronte a quella posseduta; richiesta in maniera anche esplicita e consapevole, ma pure bisogno «oggettivo» di capacità richiesta, anche implicita e inconsapevole.

Sul nuovo macchinario-artificiale iperindustriale Ricordo che intendo la «macchina-artificiale» come la parte non umana

di un sistema sussumente uomo-macchina,

come «un

dispositivo potenziante costituito da un sistema di algoritmi, ov-

vero da un programma, messo in movimento (nel significato che

cambia la forma come ordine dell’interrelazioni tra le parti, inter-

no ed esterno) da una particolare e adeguata energia, mediante un opportuno motore». Sulla scorta di questa concezione procede

anche la vecchia e sempre rinnovata (nell’arco di quattro secoli)

idea dell’«uomo-macchina», come singolo (rappresentazione della macchina calda). E ancor più del gruppo di umani cooperanti

come macchina sociale calda artificiale e collettiva e così organiz-

zata. Ciò mi pare non abbia granché di scandaloso, e magari ne-

anche poi di così riduttivo, per certi aspetti. È un'ipotesi limite di 43

notevole utilità euristica, di conoscenza e rappresentazione. Ripeto

ancora che la macchina umana calda (anche nell'odierna artificia-

lità) non è solo biologica, ma ha nel suo corpo anche la psiche, la mente, l'intelletto, lo spirito e la soggettività. La macchina-artificiale* è sempre composta di cinque (o sei)

parti fondamentali, che non possono mancare:

1) il motore,

2) la

memoria, 3) il programma immesso e incorporato, cuore della macchina, 4) l’utensile, 5/6) il sistema di regolazione e l'interfaccia

con l'umano, che tutt'oggi necessariamente la integra, pure con altre macchine - verso il grande automa. La macchina così si applica

alla trasformazione dell’oggetto di lavoro e quindi a quest’oggetto stesso, che è una specie di sua parte «esterna». Sottolineo che la macchina artificiale e in specie fredda è molto più semplice e povera di quella naturale, soprattutto di quella calda-umana ora in lenta artificializzazione. La macchina-artificiale è stata forse la principale causa dello sviluppo del lavoro salariato. Ripeto che la macchina va ancora pensata come «la parte non umana del sistema uomo-macchina»,

parte tuttora aperta sull’esclusività della capacità-umana-vivente, cosicché il sistema-uomo-macchina non può all’oggi funzionare

senza essere integrato dalle perduranti esclusività umane. Non c'è

ancora il grande automa, e non è neppure tanto vicino. Non solo, ma il lavoro capitalistico nell'insieme ha ancora bisogno pure di lavoro intelligente e inventivo, finora esclusivo degli umani

(iper-

proletari). Oggi non solo il programma è prodotto dagli umani,

ma si nota che anche l'utensile è sempre più il cervello umano;

ma allora bisogna considerare di più e meglio come è fatto e opera

il cervello umano, perché non sembra conseguirne ciò che molti

vanno dicendo. E poi: è proprio vero che la macchina è intrinsecamente maschile? Che non riguarda e non contiene nel suo corpo artificiale anche le donne? Le nuove generazioni di protesi e micro-macchine incorporate

(verso il cyborg) e la prospettiva della bionica, ad esempio, anco-

ra non ci mostrano un momento ormai prossimo in cui si potrà fare a meno dell’integrazione umana del sistema-uomo-macchina: sia nel funzionamento di breve periodo, sia nell'innovazione del

macchinario e nella macchinizzazione di lungo periodo, ancora

prevalentemente imitativa del lavorare-vivente-umano, e tanto più 43/ A differenza molto significativa dalle molto più complesse macchine naturali che qui non considero.

44

nell’iperindustrialità (ossia in specie nella psichicità in senso ampio). Le macchine-artificiali fredde a tutt'oggi, anche quelle biologiche e ancora semiartificiali, non sono autosufficienti, perché

non sono autosufficienti le loro parti centrali. Quindi, sottolineo,

abbiamo effettivamente a che fare con il «sistema-uomo-macchi-

na-artificiale» in cui questa macchina è necessariamente aperta alle capacità-viventi esclusive indispensabili dell’utilizzatore umano; aperta non solo nell’interfaccia, ma anche (almeno un poco) nella altre parti, diversamente. Aperta all’attivatore-sviluppatore umano

di ambo i sessi che la integra e la completa, in queste sei parti. Così ipotizzando esploro, riproponendo con forza la questione assai vec

chia di un «uso altro delle macchine-artificiali»; tanto più di quelle odierne, tanto cresciute nella loro capacità fredda. Ritorno al fatto che aspetti dell’organizzazione del lavoro-speci-

fico cooperante collettivo mediante sua razionalizzazione poi si in-

corporano nella macchina-artificiale stessa accrescendola e muovendo per le due strade intrecciate dell'innovazione: quella diretta ed «endo», dal basso, e quella indiretta ed «eso», dall'alto, entrambe

procedenti con scienza. Se non c'è ancora la macchina-artificiale davvero intelligente, tuttavia varie parti del cervello umano di ambo i sessi sono già state macchinizzate nell'artificialità. In cosa consiste l’industrialità della macchina-artificiale? E l’iperindustrialità? Ossia dove ritroviamo le conseguenze della «psichicità» in senso ampio della macchina-artificiale odierna e della stessa neo-artigianalità, in specie della macchina-artificiale fredda riproduttiva di capacità-umana (spesso simulativa, più che analogica)? Ciò vale anche magari per quello che ho appena detto delle tecnologie e della meta-tecnologia iperindustriale unica, con super-tecnologia elettronica, informatica e telematica, ed energia elettrochimica e così pure sub-biologica. C'è anche nel consumo-finale un nuovo macchinario intangibile, ma non c'è nemmeno

qui un nuovo macchinismo iperindu-

striale psichico e neo-artigianale. Segno che la conoscenza scienti-

fica è riuscita a impadronirsi di altre ulteriori «parti» del lavorante umano, interagente e cooperante, e del suo interrelazionarsi grazie alla flessibilità dei nuovi paradigmi scientifici, e a razionalizzarlo e immetterlo nella macchina-artificiale mediante le sue parti, o distribuendolo al contempo in tutte queste sue parti cambiando il contenuto basso della forma della macchina-artificiale e della sua interna organizzazione, tutt’ora aperta sull’integratore uma-

no insostituibile e irriducibile proprio nelle sue capacità-viventi 45

esclusive nel sistema-uomo-macchina e nella combinazione-attiva uomo-mezzi. Procedono le varie e convergenti trasversalità, pure del macchinario, artificiale per definizione.

Così abbiamo

anche

macchine-artificiali-di-consumo

molto

simili a tutte le altre e pure nel loro svilupparsi, come d'altronde la tecnologia che è presente (in omogeneizzazione crescente) nel consumare-finale-riproduttivo stesso. Abbiamo sistemi-macchina-di-consumo con le sei suddette parti. Inoltre spesso la stessa macchina, con lo stesso software, funziona sia nell’occupazione

artefattiva sia nella riproduzione degli umani, nel loro tempo-libero, nel giuoco, con applicata la stessa capacità di chi l’attiva (e ne

è usato). Anche per questo in tendenza bisogna erogare ovunque la stessa capacità-umana-vivente, che appunto diventa sempre più

trasversale. Come sono sempre più trasversali le stesse macchine-artificiali e di più certe parti del sistema uomo-macchina. Anche qui, ambivalenza e politicità.

Qualcos'altro sulla riproduzione del lavorante-umano Allora ripremetto che qui intendo esplorare soprattutto il terzo

momento della riproduzione della società-specifica, ossia la ripro-

duzione nel terzo lato del triangolo, la riproduzione del lavorante-umano-vivente, singolo e collettivo‘, nei suoi ruoli inclusi nei

quattro grandi-ruoli (artefattore, consumatore-finale distruttivo e

riproduttivo, cittadino), e nella funzionalità di questi. Ma in specie nel lavoro-di-consumo-finale del lavorante (che conta nel nostro

sistema per la sua capacità-lavorativa-umana-vivente-merce). Così

è importante vedere il residuo irrisolto anche rispetto a questa tendenza: cosa resta fuori? Riepilogo. Come sappiamo, dopo il rovesciamento sussuntivo

l'agente diventato lavorante, il cosidetto individuo, è (in tendenza) ridotto alla propria capacità potenziata, la quale è appunto già per definizione lavorativa e dunque riferita allora al lavorare-specifico

in generale e organizzato, e tendenzialmente sempre più uniforme nella grande trama sociale sistemica dei lavori. Questi esigono, come dicevo, erogazioni di capacità sempre meno diverse*5, Sap44] Questo è anche la terza componente del lavorare iperindustriale, terza perché più importanti di lui nel sistema sono diventati adesso i mezzi coi quali sempre si combina: pure nel consumo-finale.

45/

i

Malgrado certo residuale ma fondamentale dualismo che presto esplorerò: sem-

46

piamo allora già pure che nella specificità il lavoratore singolare e collettivo si riduce tendenzialmente a vettore attivo e piuttosto responsabile della propria capacità-attiva-vivente e calda, in mercificazione permanente e così merce: la merce principale che egli può affittare o vendere per poter sopravvivere coi suoi congiunti. Egli vale per il valore di questa: ciò lo pone come proletario e iper-

proletario, anche quando l’affitta indirettamente, cedendo i suoi semilavorati (ipotizzo anche questo esplorativamente). Ma ciò adesso va approfondito nell'odierno prevalere del consumo-finale-riproduttivo che conserva peculiarità residuali, benché calanti: mantiene cioè residuali differenze medio-basse. Ciò vale ormai

anche in quanto la nostra capacità-lavorativa-vivente di consumare

è ormai sempre più simile a quella di ogni altro lavorare (malgra-

do certo residuale dualismo). La capacità-umana-vivente richiesta non cresce spontaneamente sugli alberi. Oggi la sua offerta si concentra in alcune aree del globo, nei paesi iperproletari, e manca in altre*6, perciò escluse dal mercato internazionale ma non globale della capacità-umana-vivente. Vedremo che ciò non coincide tutto con il grande ambito del consumo-finale-riproduttivo, sebbene stia in grande prevalenza lì. Complicazioni ce ne sono proprio tante! Solo successivamente, e oltre a ciò, eventualmente noi ci si riproduce per il lavoratore stesso che noi molteplicemente siamo, per noi stessi in una qualche sua/nostra eventuale autonomia. Allora c'è anche la grossa questione dell’eventuale riprodursi di una qualche sua/nostra autonomia (soggettiva), e perfino potenzialmente della sua (nostra) possibilità di andare contro se stesso (contro noi stessi) come attore-lavorativo. Oppure il lavoratore-spe-

cifico si riproduce o viene anche riprodotto nello scambio con altri, essendo ridotto più normalmente appunto alla sua capacità-merce,

con tutta l’altra questione «normale» del feticismo e della cosalità*7: l'opposto dell'autonomia. Nello specialismo ci si riproduce abbastanza solo per una gamma assai ristretta di lavori sistemici (che, tuttavia, sono sempre meno diversi tra loro: differenze specialistiche sempre più relative). Ma non è facile capire quel che scrivevo precedentemente, ossia che, essendo l’attività-umana e quindi tanto più il lavoro-umano sempre e nella loro trasversalità trasformativi, essi sono plice e complessa. 46/ La globalizzazione capitalistica odierna è alquanto zoppa. 47] Vedi Marxela lettura che ne fa Romano Màdera, L'alchimia ribelle, Palomar, Bari 1997:

47

sempre verso il basso — verso i livelli bassi della nostra realtà sociale — produttivi (con la minuscola); al contempo, sono sempre

pure consumativi, ovvero distruttivi di qualche altra utilità, o for-

ma utile-differente‘8. Cosicché ovunque, in ogni grande ambito,

nella trasversalità dell’agire/lavorare, al contempo si costruisce e

sì distrugge, perché così fa già il trasformare: come dicevo, trasformare vuol dire distruggere una forma e sostituirla con una forma

nuova, anche nel lavoro-di-consumo-finale, pure riproduttivo. Le

distinzioni tra artefattivo e consumativo sono dunque sempre più

relative anche in questo trasformare consumativo, e consumativo-finale e riproduttivo. Anche il riprodurre più sotto distrugge

forme dentro di noi per crearne altre più idonee, come qualsiasi

lavorare-specifico.

Bisogna distinguere la questione dei beni-finali-riproduttivi

tangibili e produttiva, normale», tà-vivente.

della loro utilità normale, che è invero proprio utilità rida quella dei servizi riproduttivi e intangibili: l’«utilità comune, dei beni-merce è riproduttiva di nostra capaciInfatti quasi tutto o proprio tutto quello che artefanno

o producono gli umani viene più o meno direttamente consumato

da loro, serve al loro consumo. Occorre distinguerla da quella dei servizi riproduttivi, che appunto si producono e si offrono in un

altro grande-ambito. Sottolineo questa che dovrebbe essere la cosa più ovvia: oggi noi domandiamo, consumiamo «finalmente»* e produciamo i beni-finali-merce sensibili, tangibili, più comuni e di «utilità comune», proprio per riprodurci, ossia per riprodurre

la nostra capacità-vivente in mercificazione alla quale come esseri

umani siamo ridotti. Lo facciamo perlopiù nella ricreazione, cioè nella riproduzione semplice, ma anche nella formazione, quindi

con incremento. Devo anche ricordare che per i corpi umani incar-

nati ed estesi, pesanti e poggianti su un terreno e un territorio, ci sarà sempre un bisogno di beni, di tangibilità, di spazialità e contiguità spaziale da consumare «finalmente», cioè nel consumo-fina-

le, nel lavorare-specifico-umano-di-consumo-finale.

Nel capitalismo, non a caso iperindustriale e innovativo, dob-

biamo continuamente incrementare soprattutto quell’altra capa-

cità lavorativa, quella dei mezzi-riproduttivi freddi, tangibili e intangibili. Dobbiamo pure innovare i mezzi-freddi. Il che avviene tuttora mediante la nostra capacità-lavorativa in mercificazione cal-

+2] Ciò non è sempre la distruzione creatrice di cui diceva Schumpeter, che si riferiva all'innovazione è il semplice trasformare, quindi oggi lavorare. 4) Ossia nel «consumo-finale».

4h

da, incarnata e

territorializzata,

e anche imitandola. Ad esempio,

l'enorme questione della rete che propone spazi virtuali non deve

farci credere che il territorio e la stessa spazialità vengano davvero meno in assoluto, e tantomeno che possa estinguersi o ridursi in assoluto la carnalità dei corpi-umani-viventi e sociali. Semmai, il virtuale e la telematica ci impongono di capire come la de-spazializzazione e la disincarnazione siano ormai delle trasformazioni

in cui si ha sempre un intreccio della rete e del virtuale con la nuo-

va corporeità

e territorialità, peculiarmente

astratte.

Non

esiste

una virtualità davvero separata dalla corporeità carnale tangibile

e territoriale, ma esse sono adesso sempre necessariamente intrecciate, e conta proprio quest’intreccio. Ciò è vero anche per i servizi

riproduttivi intangibili, ovviamente: nella loro genesi stanno solo in intrecci e scambi con tali corpi incarnati caldi (rapporti e scambi

caldi tra corpi incarnati), oltreché con corpi freddi (interfaccia con mezzi e perfino con macchinario-artificiale di consumo-riprodut-

tivo). Ripeto: non esistono cervello, mente e spirito davvero senza un corpo di carne da cui «emergere», e quindi senza territorio. Il fallimento della prima via all'intelligenza artificiale lo conferma! È vero che le caratteristiche di questo nostro odierno mondo sempre più artificiale che appaiono e spesso sono più nuove ci si mostrano con crescente chiarezza nel lavoro di produzione e consumo del settore dei beni e soprattutto dei servizi di «intrattenimento», in cui inoltre si vede sempre più come la stessa merce in gioco sia la gente che gira e naviga per intrattenersi. Però non c'è in questo niente di magico, perché questa gente (iperproletaria) è la capacità-umana-vivente-merce che adesso si riproduce Producen-

do capitale, nella suddetta nuova centralità. E lo fa proprio anche girando, movinentandosi.

Qui la maggior novità sarebbe che masse di consumatori finali

iperproletari e di consumi in buona parte insensibili e di intrattenimento si addensino in peculiari aree territoriali specializzate, anche con particolari infrastrutture, mezzi e macchinari. Sono

dell’opinione che questo concentrarsi spaziale (dai parchi tematici

ai distretti del piacere) sia proprio di una fase di transizione che

presto esploderà ri-distribuendosi ovunque, confondendosi e coincidendo col vivere e un consumare del tutto diffuso, fino al domici-

lio, della gente-specifica (ovvero iperproletaria), in quanto questo è sempre più già un lavorare riproduttivo di capacità-umana-vivente che ormai Produce capitale.

49

Riproduzione ed «economia dell’abbondanza» Lionel Robbins alcuni decenni or sono ribattezzò l'economia più o meno come «scienza del comportamento razionale in condizioni di scarsità»; da qui l’appello agli economisti a interessarsi assai di ragione e di intelligenza umana come fonte della razionalità, con l'esempio di Herbert Simon. Non molto tempo dopo Kenneth

Arrow, guardando all'informazione, ammonì che c'erano merci che non sì consumavano davvero usandole e che chi ne passava ad altri l’utilità non ne restava privo, non le perdeva. Cosicché, in tali

casi, la questione della scarsità si problematizzava e diventava assai

relativa; poteva configurarsi perfino una sub-economia dell’abbon-

danza.

Ai suoi lontani tempi Max Weber aveva già distinto nel consu-

mo, e quindi anche nell’artefattura, l’utilità delle cose (e merci) dai

suoi supporti tangibili. Diceva pressappoco: noi usiamo l’utilità delle cose; solo di conseguenza spesso consumiamo anche i suoi

supporti, perché ci sono molte utilità nella sfera del tangibile che non si possono fruire senza distruggere e incorporare in noi pure i

supporti dell’utilità. Allora abbiamo magari una questione di scar-

sità dei supporti ma non dell’utilità. Tuttavia, ci sono altre cose che si possono addirittura usare, utilizzare e fruire, senza distruggere e così consumare tangibilmente granché o per nulla i suppor-

ti stessi. Come nel leggere un libro, o di più nell’ascoltare un cd:

logoriamo ad esempio il supporto cartaceo, ma il testo che esso contiene rimane intatto mentre ce lo incorporiamo. Inoltre ci sono addirittura merci-utili-differenti il cui valore cresce utilizzandole e

più le si usa, come le reti telematiche: il lavoro del loro consumo ne incrementa il valore d'uso. Tutto ciò ripropone con forza la necessità di combinare un’eco-

nomia della scarsità, com'è stata l'economia del passato fino a pochi

anni or sono, con una nuova «economia dell'abbondanza». Tanto

più che con l'elettronica e la rete telematica i beni ricchi e incon-

sumabili crescono sempre di più rispetto agli altri. È allora come

dire che quasi tutto il consumo tende a diventare «intermedio». Ovvero molto consumo importante tende a essere lavoro-specifico di consumo per molti aspetti intermedio e non più finale, perché

— sebbene un valore si incorpori innanzitutto nei corpi-umani-sociali viventi e nella capacità-umana-vivente in mercificazione che

contengono e contribuiscono a riprodurre — tuttavia non c'è vero

consumarsi o distruzione dell'utilità fruita, e dunque quasi più nulla adesso davvero «finisce», nemmeno i supporti. Così adesso 50

c'è questo fruire che non consuma nient'altro che capacità-vivente dei consumatori stessi, la quale però nella sua necessaria qualità

da noi è piuttosto scarsa, e comunque confluisce nel valorizzare e accumulare il capitale, insieme a ciò che esso alimenta. Comun-

que c’è adesso in ciò anche risparmio di capitale e di lavoro. Orbene, tutto questo ha grandi implicazioni anche sul versante del consumo-finale e così nella riproduzione della capacità-umana. Pertanto lì dovremo far risaltare anche l’ambivalenza e la politicità.

SI

2. Altri frammenti preliminari: servizi in generale

Sappiamo già che il servizio in generale è l’attività svolta da qualcuno a vantaggio d'altri agenti umani!. Altrettanto il servizio svolto

da un lavorante o da un'agenzia lavorizzata prestante è il lavoro svolto a vantaggio di altri lavoratori o agenzie lavorizzate riceventi.

Oggi, quindi, è spesso scambio interno tra lavoranti o agenzie lavo-

rative, tra partner lavorativi. Comunque, genericamente il servizio nella civiltà trascorsa era inteso come l’attività contenuta in rapporti interumani in genera-

le, pure tra uomini liberi. Tanto che un tempo si chiamava servizio l’utilità della prestazione in generale, anche l'utilità di cose mate-

riali non umane. Poi il «servizio» venne a coincidere con la «pre-

stazione» di una persona a un’altra, di un lavorante a un altro, cioè col dare e prestare l'utilità del servizio in generale al partner interno. Perciò non confondiamo il servizio con l’utilità che dà, ovvero col dare nella relazione tra partner interni la forma che cambia l’altra (così opera l’utilità in generale). Cambia in primis la precedente forma esterna del partner interno ricevente/consumatore, ossia

in specie muta la forma della sua capacità-vivente, rendendola atta a qualcosa. Perché nel capitalismo le cose sono cambiate? Perché nel capitalismo, come sappiamo, si è inserito in alto un Meta-livello

anche teleologico, ossia un livello di Meta-scopi, che ha cambiato la funzionalità, la natura, il significato e il senso di tutto quanto

gli sottostà. Ha mutato anche questi aspetti delle prestazioni im-

mediate alle persone o alle agenzie trasformate in lavoranti-umani specifici, singoli o collettivi, cosicché queste prestazioni sono diventate solo un tramite nella trama dei lavori funzionali sistemici, essendo state trasformate in contenuti di rapporti valorizzativi tra

ruoli di iperlavoratori, adesso valorizzanti. Anche qui, ambivalenza e politicità. 1/

Definizione vaga ed equivoca, tuttavia.

53

Il terziario come comparto merceologico pattumiera

e i servizi Come

sappiamo

già benissimo,

nella mia

rappresentazione

e

modello l’industria e altrettanto l’iperindustria non sono settori merceologici, ma trasversalità artificiali, abbastanza

che e tendenzialmente universali. Inoltre,

capitalisti-

a meglio guardare, la

riproduzione della capacità-lavorativa-vivente-umana non coincide

strettamente con nessun settore, sebbene la sua parte separata (che oftre tutta una serie di servizi ricreativi e formativi alle perso-

ne lavoranti) operi piuttosto dentro il terziario e la riproduzione di capacità-umana. Non per questo, però, essa si dà solo lì. Abbiamo

già visto più volte pure che questa sottostante e ripetuta divisione

considera i settori merceologico/tecnologici in base alla materialità dell'oggetto e poi del prodotto del lavoro, materialità specifiche; l’astrarsi e il de-tangibilizzarsi delle utilità e delle materialità

consente la loro trasversalizzazione, il fatto che siano sempre più

uguali dappertutto, insieme alla rispettiva capacità di attivarle e

innovarle. Mentre i primi due grandi comparti merceologici, primario e

secondario, hanno tuttora una residuale ma definitoria materialità

tangibile (energie e materie prime organiche il primario e inorga-

niche il secondario, e loro derivati come oggetti-di-lavoro, benché con le nuove tecnologie e materiali questa distinzione valga sempre meno) e così danno «beni» e loro utilità, il terziario è trattato

come «settore pattumiera» in cui si colloca tutto quanto il resto. Eppure esso fornisce pure i servizi riproduttivi nella loro presunta immaterialità (semmai impercepibilità della loro utilità). Esso fornisce informazioni utili-differenti, conoscenze e pensieri utili-dif-

ferenti, idee utili-differenti, emozioni e affetti utili-differenti ecc. Questa tra beni e servizi costituisce una grande dualità settoriale, per la quale il terziario è il grande comparto settoriale statistico

(dell'occupazione e della produzione del reddito) del lavorare intangibile, che produce intangibilità utile duplice (cognitiva e timica), magari su vari supporti. Perciò insisto a qualificarlo così e non come settore dell’immateriale perché, invero, il terziario ha invece una sua materialità piuttosto intangibile: è fatto, come ho appena detto, da un lato di informazioni

e momenti del pensiero e sape-

ri/conoscenze utili, trasmessi, dall'altro di stati emotivi e affettivi utili, comunicati. Questi hanno una loro materialità, sebbene in-

54

tangibile,

impercepibile.

Ripeto di nuovo, utili perché cambiano

forme in altre atte a qualcosa di differente. Allora, su questa base si proporrebbe intanto la questione non certo nuova della terziarizzazione del lavorare umano. La quale

però, guardando meglio, è soprattutto questione di servizi all’im-

presa e di riduzione della cosiddetta manualità,

e non tanto — come

ci interessa qui — di servizi riproduttivi della capacità-vivente della

persona lavorante. Il terziario inoltre è anche il settore statistico

che contiene gli impiegati, che sono i lavoratori-occupati così di solito contrattualmente inquadrati perché trattano (impiegati d'or-

dine) o elaborano (impiegati di concetto) solo informazioni, saperi e conoscenze più o meno procedurali. Ci pongono la faccenda sottostante della mobilitazione cognitiva, del cognitivismo e della macchinizzazione-artificiale di quest'altro lavorare. Dentro alla questione della terziarizzazione c'è il tema ieri dell'aumento degli impiegati, ma oggi? Hanno poco da spartire con la nostra ripro-

duzione-di-capacità-umana-vivente, non c'entrano direttamente. Semmai qualcosa qui rinvia ai servizi-artefattivi

e produttivi (con

la minuscola), servizi all'impresa. Tra l’altro, in conseguenza dell’automatismo almeno locale di molti impianti e così a causa della crescita del macchinario, il lavo-

ro-umano-vivente che rimane in tutti i comparti è sempre più o ti-

mico o cognitivo medio-alto, per la difficoltà perdurante di macchinizzare prestazioni timiche e intellettuali umane-viventi. Allora anche la distinzione del terziario dal resto, rispetto alla materialità dell'oggetto, tende ad attenuarsi, perché anche là dove si lavorano

oggetti tangibili (lavorazione oggi «alleggerita» di oggetti «allegge-

riti»), il lavoro umano che vi residua ancora, disperso e frammisto,

sempre più accentua a sua volta la sua natura? relazionale ed enfatizza la mediazione (tele)comunicativa. La pattumiera è quindi

invero sia cognitiva sia relazionale: materia sociale e intangibile, materia insensibile nel senso che non cade sotto i sensi direttamente, materia relazionale. Ancora un cenno, trascurabile, alla materialità (intangibile)

A voler guardare più nei dettagli, il quadro si complica ulteriormente. Tra l’altro, segnalo nuovamente una questione per ora trascura2/ Timico-cognitiva: le merci cognitive sono trasversalmente universali proprio perché sostituiscono in parte l'umano-vivente o ancora ne sono parte. Ma anche quelle timiche e di cura attraversano tuttora molte situazioni di lavoro.

55

bile: non in tutti servizi ciò che si trasmette ad altri* ha natura

tutta intangibile. Però talora in certe prestazioni si trasmette magari, insieme al servizio, pure qualcosa di percepibile, di tangibile,

subalternamente: pertanto c'è anche qualche servizio un poco tan-

gibile, perché assieme a esso — se guardiamo più analiticamente e

con maggiore attenzione — si presta anche della tangibilità. Ci sono

pertanto anche servizi riproduttivi in cui si sub-prestano materie tangibili: ad esempio, la balia che allatta all’asilo nido dà pure il latte, ma noì qui mettiamo l'accento sul servizio e specialmente sulla relazione/scambio dell’allattare, sebbene scambiandosi anche latte (contro qualcosa) mostra a sua volta una certa percepibilità.

Di

solito neì servizi la trasmissione di eventuali materie tangibili è

immersa in una quantità maggiore e dominante di intangibilità: io qui enfatizzo l’aspetto relazionale. Invece in altre prestazioni,

ad esempio di cura, spesso non si dà niente di percepibile ma tutto è solo relazionale, e così comunicativo. Questo tra l’altro contribu-

isce alla crescente rilevanza che ha proprio oggi il comunicare: in specie tra ruoli, tra persone lavoranti e attivanti ruoli. Comunque

in generale qui l'intangibilità dell'oggetto di trasmissione, di presta-

zione, è prevalente. Qui di solito tutto è sempre più relativo: le differenze si erodono. Nondimeno ripeto che i sotto-settori del terziario riproduttivo

sono quello timico (ossia affettivo-emotivo) e quello cognitivo, che

si ritrovano nei due tipi di servizi: all'impresa, soprattutto cognitivi, e alla persona lavorante — anch'ella piuttosto impresa —, soprattutto timici, di cura. Altro anticipo: di nuovo impercepibilità e relazione

Se anche negli scambi non personali o con interfacciamento di

persone con cose, dove il partner è non-umano, è natura o macchina-artificiale, qualcosa passa dall’uno all’altro, allora c'è pure trasmissione di valore d'uso, passaggio di utilità; altrettanto e di

più c'è in scambi tra umani nell’incorporarsi in senso lato utilità (anche nell'anima o nella mente e spirito). Si dà allora ciò: queste

utilità ricevute ci trasformano, cambiano la nostra forma (cambiando anche la loro), e spesso necessariamente cambiano anche la forma dei supporti dell’utilità. Anche quando quel che passa,

3/ Si dice per il loro esclusivo vantaggio, sebbene abbia sempre invero anche un corrispettivo.

56

quel che è trasmesso, quel che si presta, non si percepisce con i sensi e la forma è intangibile, impercepibile.

Peraltro si dice che di solito i servizi sono invisibili, insensibili, in specie da una terza persona, perché si vedono i due partner

interni interagire ma non si vede, non si percepisce, la sostanza

della relazione tra loro, quel che passa dall'uno all’altro. Eppure ho detto che questa ha una sua materialità. Il rapporto di servizio tra

i partner è mediato dalla comunicazione, allora si percepisce il co-

municare: il linguaggio del comunicare, e poi talora i mezzi della

comunicazione con il loro hardware. Insomma, quella di molti ser-

vizi alla persona/lavoratore è un’impercepibilità relativa! Però resta

il fatto che talora non si percepiscono i contenuti del comunicare:

semmai spesso se ne percepisce qualche effetto, le conseguenze che trasformano qualcos'altro, che cambiano la forma (tangibile

o intangibile: attenti soprattutto alle forme intangibili!) di qualcun altro.

Il concetto di servizio e la servilità

Si intende per servizio un'attività svolta (anche indirettamente) per il vantaggio di altri, e quindi per i fini altrui. Si ha quindi an-

che un aspetto di alienazione. In questi termini c’è spesso la servi-

lità vissuta talora come alienazione e asservimento immediato del prestatore, e una certa sua svalutazione etica.

Eppure, in una società fortemente integrata e per gerarchia come la nostra, malgrado la sua immensa complessità, di solito*

anche queste prestazioni personali di un partner al lavorante o a

un'agenzia di lavoranti (come una lezione a una classe scolastica di lavoratori) sono sub-funzioni sociali sistemiche, anche se immediatamente rivolte a un’altra persona come prestazioni imme-

diatamente funzionali a quella (come è perfino l'eutanasia). Bisogna distinguervi i livelli di realtà sociale coinvolti. Sono anche e soprattutto sub-funzioni sistemiche perché quasi sempre questa persona o agenzia lavorante che riceve la prestazione è a sua volta funzionale al sistema specifico tramite i suoi ruoli di lavoratore,

anche collettivo. Nondimeno, prevalentemente nel primo anello della catena del servizio, ossia nella diretta prestazione alla perso-

na ricevente al cui servizio immediatamente si lavora, la servilità

continua

a essere vista un poco anacronisticamente. Lì inoltre il

4/ Ma non sempre, come in generale di solito tutti fini-esterni dell’agire/lavorare sono sub-funzioni del sistema sociale.

57

destinatario pretende e riceve spesso magari anche prestazioni extracontrattuali rispetto ai residui contratti collettivi, aumentando l'impressione falsa di modalità pre-capitalistiche. Sebbene questo sia poì sommerso nella funzionalità sociale sistemica di quasi tutto. Pertanto, la questione della servilità immediata è subalterna e

meno importante della funzionalità sociale di quello scambio. An-

che se spesso la prima dà (più) fastidio a chi la presta, o magari a terze persone eticamente o ideologicamente suscettibili. Ancora, unidirezionalità di facciata

Come ormai sappiamo, i servizi personali come prestazioni alla persona-lavorante nel suo consumo si basano sulla relazione e in-

terrelazione di consumo-finale tra due partner (che dico interni)

riproduttiva di capacità-umana-vivente; nella quale si riproduce innanzitutto e segnatamente la capacità del ricevente. Quindi c'è

dentro lo scambio di servizio riproduttivo questa principale unidirezionalità, che va verso il fruitore venendo dal partner prestatore, quando quest’ultimo c’è. Ed è anche unidirezionalità della

comunicazione che media il rapporto riproducente. È ciò che noi notiamo di più perché è proprio quello che siamo ormai male

abituati a guardare di più. Però, come dicevo, in vero già nel servizio unidirezionale lavorano entrambi i partner: lavora sia chi dà la prestazione sia chi la riceve, e il secondo non solo perché è in generale un lavorante, ma perché anche la fruizione della presta-

zione altrui è qui un altro (suo) lavoro! Appunto lavoro-specifico di consumo-finale-autoriproduttivo. Questo è il grande scandalo

di questo mio testo! Dunque, sappiamo già che è sempre più difficile discrimina-

re il consumo-finale da quello intermedio, e inoltre distinguere l'utilizzo dalla fruizione; e poi siamo già edotti sul fatto che già

nell’unidirezionalità lavorano entrambi i partner interni. Orbene, chi negli anni recenti ha cominciato a interessarsi di servizi e spe-

cialmente di prestazioni riproduttive alla persona, di solito consi-

dera soltanto il lavoro di chi presta il servizio ad altri e trascura

o ignora l’altro lavoro-di-consumo-finale, quello complementare e principale di co-autoriproduzione del fruitore, nel fruire; e questo è

un grosso limite. Ma non è l’unico.

Ho parlato pure di scambi. Infatti, non sempre il servizio è pro-

prio così unidirezionale come sembra in facciata. Nel percorso-uf-

ficiale e formale, che seguo anche qui, di solito privilegiamo l’uni-

direzionalità della prestazione principale del servizio, e il lavoro 58

«prestativo» anche come lavoro di consumo-finale dato ad altri: però più nascosto c'è sempre nella relazione tra i due partner ripro-

duttivi anche uno scambio reciproco, che si allarga nell’informale (e nel secondo percorso). Infatti, a guardarlo meglio il servizio al lavorante contiene una certa reciprocità: anche chi lo presta ne ot-

tiene qualcosa in contropartita, perfino nella forma estrema della schiavitù. Allora bisognerà sempre vedere pure l'utilità reciproca e

secondaria del servizio apparentemente unidirezionale per il suo prestatore (lavorante più vistoso e così più visto dei due). Questi presta utilità riproduttive sempre più alla ricerca di una contropartita di prestazioni a lui e oggi alla ricerca di un reddito equivalente, quindi di un salario di fatto. Alla ricerca di questa specifica contropartita, di valore prossimo a quello del lavoro reciproco che inizial-

mente chiedeva, e a quello che ha prestato. Ma, come sappiamo, io sostengo che dei due partner il più importante è il fruitore del servizio, che non può mancare mai col suo lavoro di auto-riprodu-

zione. Però anche il fruitore nella contropartita adesso presta qualcosa al prestatore, che così più sotto diventa consumatore-fruitore

a sua volta.

Anche la contropartita, comunque, è un’interrelazione subordi-

nata e più nascosta, talora informale, tuttavia è importante. Anche

nel darla sub-lavorano di nuovo entrambi i partner interni consu-

matori-finali. Adesso emettono di nuovo entrambi qualcosa; chi prestava ora riceve, se non dal destinatario di facciata da qualcun altro ancora, da un terzo, o dal sistema sociale e in specie dall’amministrazione publica o da certe imprese. E non gratis. Se adesso

chi prima emetteva riceve, questi fa un altro sub-lavoro-specifico di consumo-finale come sub-fruitore, anche se magari indirettamente. Indirettamente perché oggi la contropartita del prestatore

(prevalentemente donna) è in tendenza un salario-di-fatto5, che è appunto destinato al consumo-finale®. Ribadisco: scendendo e andando dietro la facciata bisogna vedere pure il suddetto scambio-riproduttivo di capacità-umana-vivente perché, al di sotto dell’unidirezionalità più di superficie, c'è sempre anche qualcosa di

vicendevole tra i partner, e così funziona in un’interrelazionalità

5/ Che certe femministe, come da noi le padovane di Lotta femminista, molto giu-

stamente e opportunamente anche in senso politico volevano fosse riconosciuto e ver-

sato direttamente a chi prestava il servizio riproduttivo di altri. 6/ Si chiede, cosa consumare poi col salario se tutto è veleno? Risposta: consumare

veleno, se abbiamo bisogno di veleno, se ci piace riprodurci mediante veleno! Altri-

menti cercare di develenizzare, tornando anche indietro. Ma se invece è solo quasi tutto veleno si può anche scegliere.

39

e interattività riproduttiva davvero duplice, mediata da reciproca comunicazione. E poi perché, come sappiamo, lavora pure ad autoriprodursi anche il ricevente: lavorano entrambi due volte, ciascuno in duplice ruolo reciproco. E questa è un'altra cosa! È una situazione

corivolutiva nella quale, inoltre, funziona un importante co-ap-

prendimento. Solo in apparenza nella salarietà siamo oltre la reciprocità e

in prestazioni mercificate. C'è invece una reciprocità mercantile e

mercificata. Così nella neomercità, commercialità e contrattazione dì tutti questi scambi: noi siamo sempre più mercanti e contrattatori” di quella utilità-merce? E questa è ancora un’altra cosa, che

cì pone la questione della salarietà di fatto anche come contropar-

tita per il prestatore di facciata, e su questo versante ci ripropone

la questione della salarizzazione e così della proletarizzazione e iperproletarizzazione, negli aspetti oggettivi e soggettivi; è anche la questione delle classi-parti almeno oggettive, e adesso nella moltitudine. Spesso oggi questo secondo momento

del pagare un salario

a qualcuno* come corrispettivo del servizio (magari apparente) prestato dall'emittente, diventa più importante della prestazio-

ne riproduttiva stessa, nel suo valore d’uso/utilità per il fruitore

immediato; e c'è tra l’altro pure il valore simbolico e identificativo del salario. Ad esempio, soprattutto nel pubblico impiego, la prestazione è sovente un puro pretesto, una simulazione per pagare

qualcuno, che neppure si reca sul posto d'occupazione. Possiamo guardare pure al voto di scambio, al clientelismo tangentizio ecc. Però, anche per il fruitore più di superficie oggi si comincia a parlare di remunerazione, perché anch'egli più sotto presta qual-

cosa non solo al partner ma attraverso questo alla società-specifica:

ad esempio, salario al cittadino/lavoratore perché sia retribuito il suo sforzo di tenere alta o dlevare la sua capacità-lavorativa-vivente (merce), aumentando così la produttività generale del sistema o almeno

certa sua potenzialità. Pagare ai lavoranti lo stesso lavoro di autoriproduzione, la stessa fatica di sopravvivere come consumatori

in senso lato, e il loro metaservizio di sostenere così il mercato. Candide rivendicazioni socialistoidi che oggi, si dice, se imposte

insieme e in tempo rapido butterebbero all'aria tutto quanto; men-

tre invece questi capitalisti nostrani vogliono privatizzare la ripro7j

8/

Lodice anche Jeremy Rifkin.

0

Pure nell'sperfordismo, verso il salario di cittadinanza.

60

duzione dei due partner come fonte diretta di profitto. Ma allora anche per il lavoro-di-consumo del ricevente di superficie può avvenire che si rivendichi e si ottenga anche un secondo salario, un sub-salario, per il suo ricevere, riprodursi e autovalorizzarsi. E così pure un secondo salario adesso come sub-ricevente per il prestatore di superficie. Dobbiamo comprendere l’ambivalenza e politicità

di tutto questo. Un'altra particolare complicazione che non riguarda solo la riproduzione ed è questione generale nasce per l’uso/consumo

nell'industria e iperindustria capitalistica per il fatto, noto da ben oltre un secolo, che qui non sono gli uomini a usare le macchi-

ne-artificiali, ma sono queste macchine a usare/consumare gli uomini, pure per chiudere il sistema uomo-macchina-artificiale tuttora aperto e così impossibilitato a funzionare; mentre gli artigiani

usavano davvero gli strumenti. Magari è pure la capacità-lavorativa eroganda a usare il lavoratore.

Classi di servizi Come

sappiamo, ci sono nel terziario vari tipi di servizi: soprat-

tutto ci sono «servizi all'impresa» e «servizi al lavoratore», ossia

alla persona lavorante. Dei secondi (che ci interessano in questo testo) riprenderò a parlare dopo. Adesso liquidiamo con due parole i primi. I servizi, come sappiamo già a memoria, sono pure luogo

del cosiddetto «lavoro immateriale» o meglio «lavoro insensibile», «direttamente impercepibile». Ricordo che bisogna approfondire l’ambivalenza e la politicità di tutto ciò.

Servizi all'impresa: servizi produttivi Oggi è sempre più importante il sistema dei servizi all'impresa, che di solito sono servizi-produttivi (con la minuscola), e quan-

do l’impresa servita produce beni tangibili quelli che riceve sono anche servizi-artefattivi, parte significativa del terziario: sono, più esattamente, buona parte del cosiddetto terziario superiore

(o quaternario), infatti più sotto sono spesso anche cognitivi. Essi

sono interni o esternalizzati con vari tipi di outsourcing, ed erano intesi ieri — nella fase precedente alla verticalizzazione delle grandi

corporation — come le funzioni ausiliarie interne d'impresa, ossia

come funzioni terziarie interne. Mi riferisco in particolare a engineering, ricerca e sviluppo, logistica, marketing e commercializ61

zazione interna, contabilità

e amministrazione,

funzione finan-

ziaria, del personale, di controllo e comando ecc. Così, nel lungo secolo americano, acquistò centralità il capitalismo «industriale»,

che integrava tutto quanto all’interno delle grandi corporation, evitando molte intermediazioni esterne.

Orbene, i «servizi all'impresa» o servizi produttivi sono «servi-

zi-intermedi» all’artefare e produrre. Sono importanti anche per-

ché adesso costituiscono il luogo privilegiato del nuovo (0 perenne) uso dell’informazione da un lato e del sapere/conoscenza dall’altro. Sono il referente di quasi tutti gli odierni deliri «cognitivisti», negativi e soprattutto positivi.

Ci sono poi nell'impresa altri servizi ausiliari, e differenti, nei casi in cui Ja produzione sia tangibile; e qualcosa di tangibile c'è e ci sarà sempre, data la nostra irriducibile corporeità vivente. E poi

c'è almeno l'hardware. Nei servizi all'impresa, allora, è soprattutto questione di logistica, distribuzione e consegna, trasporti e comunicazioni tangibili o di tangibilità, e di magazzini, stoccaggio, oltreché funzioni amministrative e direttive. C'è stata negli ultimi anni una progressiva fuoriuscita e autonomizzazione esterna di queste funzioni terziarie. Esse (a partire

dall'autonomizzazione interna dei centri di spesa) sono diventate prima di tutto come tante aziende terziarie interne, poi è subentrato un decentramento: ora degli stessi servizi ex interni come

imprese terziarie esterne, ora come inserimento in imprese specializzate orizzontalmente integrate per quelle rispettive funzioni, e così imprese di servizio specializzate che servono più imprese

decentranti e realizzano nuove forti economie di scala. In questa maniera l’ugualità acquista nuova importanza, la differenza con.

tinua a recedere?, Pertanto ciò avviava subito a reti di imprese in questo senso. Oggi queste aziende e imprese di servizi terziari ex interni

sono di solito prevalentemente cognitive, e ai livelli più bassi della cognitività (lavoro mentale povero, stupido, di trattamento di informazioni). Tuttavia anche oggi, esternati e ri-esternati nell'outsourcing ìn un'integrazione

adesso orizzontale e interimpresa,

62

ine

9/ Cosicché questo outsourcing terziario ha pure fatto sembrare che ci fosse una riduzione complessiva assoluta di addetti delle imprese ex tradizionali del tangibile e poi delle altre dì servizi (prima private e poi pubbliche) molto maggiore di quello che effettivamente c'era.

ATI

questi servizi sono spesso riferiti a imprese appaltanti che trattano ed elaborano qualcosa di diverso da queste prestazioni quaterna-

rie (0 terziario-superiori, per via della cognitività, sovrastimata)

che ricevono, e parecchie sono ancora imprese del tangibile. Così

nella transizione. Inoltre, moltissimo intangibile prima o poi va a

sboccare nel tangibile, magari nella tangibilità della nostra carne.

Comunque la conclusione qui è che adesso si cercano economie di scala soprattutto nelle funzioni terziarie esternalizzate e così orizzontalmente riconcentrate fuori, altrove. Non dirò altro per ora sui servizi all'impresa che costituiscono gran parte del terziario superiore e/o quaternario, in base ai set-

tori merceologico-tecnologici basati sulla materialità dell'oggetto.

Il terziario è detto «superiore» perché il cognitivo, che qui regna

attorniato dai deliri dei cognitivisti, il mentale (che poi non è l’intellettuale e neppure l’intelligente), continua a essere considerato illusoriamente e idiotamente più «alto». La differenza di questi servizi all'impresa produttivi dai servizi al lavoratore riproduttivo oggi si attenua (magari perché il lavoratore-umano sta diventando

a sua volta sempre più un'impresa, se a lui e a voi piace, e poi per-

ché ci sono sempre più imprese di riproduzione). Della mobilitazione cognitivista ho già detto qualcosa altrove. Ripeto solo che innanzitutto non dobbiamo confondere l’informazione con il sapere/conoscenza. Sono due mondi collegati ma diversi,

anzi collegati proprio perché diversi tra loro. Il sapere e la conoscenza. a loro volta differenti tra loro, si nutrono di informazioni, ma sono il risultato di rielaborazioni delle informazioni stesse da non

confondere col mero trattamento; non è conoscenza in primo luogo

la comunicazione cognitiva, la quale è mero trattamento, e dunque lavoro mentale povero. Di per sé non produce nuovo sapere, ma solo muove e trasferisce quello che già c'è! Il tempo della rivoluzione informatica e della centralità dell'informazione sta passando: oggi è al centro il sapere e soprattutto la conoscenza (che è un sapere consapevole), sempre frutto di elaborazione; in particolare, poi, sono centrali il sapere e la conoscenza scientifica applicandi, che a loro

volta richiedono tutt’altri discorsi (un poco ne ho già fatti, pure in Nella società industriale d'oggi). Tuttavia, rimando altrove per vedere cos'è e come a parer mio si produce e come funziona l’informazione trattata, la sua mercificazione, la sua macchinizzazione-ar-

tificiale e previa razionalizzazione e proceduralizzazione, e poi la macchinizzazione del suo trattamento ecc. E poi, invece, come si produce, applica e funziona il sapere/conoscenza'!° rielaborato, le 10/

Pensoche illibro di Pierre Lévy sulle tecnologie della conoscenza rimanga il suo

63

differenti facoltà umane che richiedono, la loro formazione, la loro

mercità e neo-mercità, la loro macchinizzazione-artificiale. C'è lavoro-cognitivo e mentale piuttosto basso (e di trattamento) già macchinizzato o di macchinizzazione prossima; e invece produzione di conoscenza e lavoro intellettuale oggi non ancora macchinizzato e macchinizzabile, neppure nel tempo medio. Ricordo la distinzione tra memoria e calcolo logico, già macchinizzabili, o ad esempio la

cosiddetta «intelligenza di catena» propria pure delle reti telematiche, da un lato, e la questione dell’artificializzazione dell'intelligenza e del pensiero, poi dell'invenzione, creatività, esperienza ecc., dall'altro. Dice Edgar Morin: computazione non è cogitazione. E molto sbagliato pensare che siccome oggi la tecnologia fa passi avanti ulteriori nel trattamento dell'informazione e nelle procedure per servire e usare conoscenza già esistente e macchinizzata-artifi-

ciale, sia diventata irrilevante la questione della capacità — esclusiva degli umani - della produzione di conoscenza nuova mediante elaborazione e intelligenza. È come quando (alla vigilia della Prima guerra mondiale) certuni credettero alla verità della faccenda della

scimmia che poteva fare l'automobile. Furono proprio i sociologi americani a mostrare tutta l’importanza dell’informale nell’organizzazione scientifica classica del lavoro (taylorismo classico), informale in cui avveniva tutt'altro! E lì comunque occorreva proprio capacità e intelligenza umana. Ciò è vero ancora oggi. E vero pure che molti di costoro che si gingillano illudendosi e

fraintendendo la faccenda del general intellect sbagliano assai pensando che adesso venga richiesta ai più solo lavoro intelligente di alta qualità; mentre oggi anche la rete telematica vuole quasi solo lavoro mentale proprio di mero trattamento, lavoro stupido che esige soltanto di sapere le procedure e saperle applicare per far girare la conoscenza e i programmi che già vi stanno dentro, riprodotti:

transitori perché, come già è stato per l’operaio massa!!, presto la macchina-artificiale subentrerà nel suo automatismo, o in seguito

il sistema di macchine, l'automa. Cosicché in questa povera apertura residuale ma tuttora irriducibile del sistema uomo-macchina

sull'uomo, a sua volta residuale, presto la macchina in quei lavori

poveri e semplici resterà sola. Bene! Grazie comunque all’imitazione emulativa dell'umano. Viva la macchina quando ci toglie solo lavoro stupido e così ci libera davvero, anche liberando un poco la migliore.

sa

11/ Non solo fungibile da altri, ma per definizione nel suo vuoto sostituibile dalla macchina.

64

nostra capacità dalla sua parte più stupida. La macchina-artificiale poi fa con grande e pure maggiore potenza, velocità e resistenza

quello che le è stato dato imitando il lavoratore-specifico-umano-vivente.

Dunque,

a noi

iperproletari

conviene comunque

acquisire e

avere la capacità di fare un lavoro intelligente e inventivo, e non solo perché invero il mercato continua a richiederlo ed è pagato di più, ma anche per eventuali nostri scopi autonomi ed eventuali

contro-funzioni. Quand'anche il mercato non ce lo richiedesse più.

Come già dicevo nel «Prologo» di Nella società industriale d'oggi, semmai il dualismo persistente e rinnovato (semplice/complesso), malgrado la tendenza forte all’uniformazione del lavorare tutto e della capacità-umana-richiesta e mercificata, andrebbe risolto in un forte prevalere per tutti gli umani-viventi dell'agire lavorativo intelligente/inventivo/esperitivo e complesso, e nel far crescere in ricchezza e complessità pure quello affettivo/emotivo o timico. Ma

agli iperproletari il capitalismo ciò oggi non lo offre! Bensì li costringe in grande maggioranza al lavoro soprattutto mentale, sem-

plice, stupido, pure nelle reti telematiche, in cambio di salario di

fatto povero (con sempre minore loro potere d'acquisto). Quindi, non già la perdurante fondamentale e soprastante dualità capitale/lavoro (la quale pure secondo molti si sta risolvendo

in un’unificazione dei due poli, come già era stato nell'artigianato della civiltà contadina, dalla quale la nostra civiltà è uscita). Bensì,

ipotizzo un dualismo sottostante incluso nel precedente, dualismo dentro il lavoro-specifico odierno, e anche in questo lavoro-specifico dei servizi all'impresa. Ipotizzo che esista ancora pure qui il

dualismo lavoro-specifico-semplice/lavoro-specifico-complesso, ossia

che questa sia forse adesso per noi la dualità principale, dentro il

lavorare-specifico-umano. Ripeto: c’è nel nostro lavorare prevalente trattamento e questo esige solo capacità procedurale e lavoro mentale povero, semplice e stupido, quindi richiede diplomati in istituti tecnici (più o meno prolungati). Però ci sono innanzitutto ancora mansioni, ma anche

momenti imprevisti e imprevedibili di ogni lavorare, nei quali tut-

tora si richiede l’intelligenza esperienziale e inventiva, e la capacità, il sapere e la conoscenza di capire, comprendere, produrre sapere e conoscenze nuove e quindi capacità complessa. Questo nelle scuole superiori italiane non si insegna più. Questa seconda capacità-umana-richiesta, complessa, che ci riporta al residuare di un

dualismo importantissimo, pur nella tendenza all’uniformazione 65

e all'ugualizzazione nell’astrattezza, conta ancora molto e sempre di più per noi come mezzo e come fine: non solo per lavorare con

più alti salari, o per diventare imprese maggiori, meno lontane dal dominio competitivo, ma pure per cercare di uscire dal capitalismo. Se anche non sussistesse più la capacità-umana-calda complessa e ricca (ma non è ancora così e non lo sarà a lungo), dovremmo mobilitarci per riaverla! Ma adesso torniamo alla riproduzione di capacità-umana-lavorativa-vivente in mercificazione in-finita e ai servizi-finali così riproduttivi.

66

3. Altri frammenti sui servizi riproduttivi

Questioni preliminari anticipate: società riproduttiva? Come abbiamo già visto prima, la società-riproduttiva di capaci-

tà-umana-vivente per molti è sinonimo della società intera. Però

questo è scorretto. Perché appunto così la società è vista, purtroppo, come qualcosa che sta fuori dalla produzione (con la minuscola), ovvero fuori dall’artefattura da un lato e dalla politica istituzionale! dall'altro: è allora soltanto società-consumativa, e non società-complessiva! La società complessiva specifica include invece tutti i quattro grandi-ambiti del lavoro umano trasversale, mentre la società riproduttiva è solo una sub-società, una parte della società specifica contenuta nel grande-ambito del consumo-finale-riproduttivo.

Tornando a più sopra

Qui parlo di nuovo soprattutto dell’interazione del consumo-finale-riproduttivo con l’artefattura (col suo consumo e sub-consumo intermedio): l'interazione e scambio circolare orizzontale a sua volta corivolutivo tra produzione/artefattura delle merci e riproduzione degli umani come capacità-umana-vivente in mercificazione. Si tratta ancora di questo.

Però sappiamo che per alcuni rimane aperta più sopra l’altra grande questione che qui accennerò: se la società riproduttiva sia o no fuori dalla Produzione con la maiuscola (e non solo dall’artefattura), se essa sia magari fuori dalla Produzione con incremento (ossia allargata) di capitale e così dall’accumulazione del capitale,

ed eventualmente in che parte, come e perché. Ho aperto questo

testo proprio con la grande ipotesi che adesso il capitalismo accumuli e quindi valorizzi, Produca, il capitale anche nel grande-am1/ Però sappiamo che comunque non sta fuori dalla politicità intrinseca e così dal politico,

67

dito dì riproduzione della capacità-lavorativa-umana

(e non solo

nell'artefattura, come sì pensava una volta). Nondimeno, ammo-

nirei fin d'ora a non confondere questi due processi differenti che stanno su differenti livelli di realtà sociale sistemica: l'interazione

verticale tra riproduzione di capacità-umana-vivente e Produzione,

valorìzzazione e accumulazione del capitale. Più sotto, inclusa in

essa, l'interazione orizzontale tra artefattura di beni tangibili e di loro utilità e riproduzione della capacità-lavorativa-umana-vivente, ossìa tra due grandi ambiti funzionali di sottostante utilità differente e lavorativi-specifici che stanno alla pari su uno stesso piano

al medio raggio. Che è ben altra questione! Chiaro?

Consumo intermedio, finale e distruttivo: scambio orizzontale tra

artefattura e consumo-finale Il consumo, il lavoro-di-consumo sia intermedio sia finale, è qui l’uso delle utilità?: è utilizzo di utilità il consumo intermedio, invece è

fruizione delle utilità il consumo finale. Ora ho attirato l’attenzione

sul fatto non certo nuovo che nella società-specifica-complessiva

esiste anche l’altro consumo: il consumo intermedio, che è con-

sumo intermedio di risorse, artefattivo

e comunque produttivo.

Concerne i mezzi (energia, materie prime, strumenti, macchine, tecnologie fredde, scienza-fredda ecc.), è consumo artefattivo pure

di mezzi-intermedi, per il crescente automatismo dell’artefare; ma

è pure consumo-intermedio di capacità-umana-intermedia, che però non va immediatamente a incorporarsi in fruitori-umani-vi-

venti, ma in semilavorati, fino al prodotto-artefatto-finale,

ossia

fino a quell’output che, alla fine, va sul mercato come merce-uti-

le-di-consumo-finale. È consumo intermedio di risorse calde e fredde. Ciò che lo distingue è che esso non avviene passando per il mercato-finale, perché ci sono pure mercati dell’intermedio (beni e servizi intermedi), perché anche le risorse-intermedie adesso sono merce. E nella crescente trasversalità tutto si assimila, si uniforma. Attenzione ai circoli viziosi. Resta poi il fatto che il consumo-intermedio (in primo luogo produttivo di utilità intermedie e finali) contiene anche una sub-distruzione, contiene anche questo suo sub-consumare intermedio. 2/ Rinvio anche ai punti del primo e del secondo volume di Nella società industriale d'oggi in cui ho eplorato la difficile questione dell'«utilità» (ripeto, come aspetto legato si fini). 3/

Come quello tipico dei servizi all'impresa ora in dercentramento e riaggregazione

urizzomale visti prima.

68

Inoltre, proprio assumendo come riferimento la nostra capacità-attiva/lavorativa, distinguo orizzontalmente, sullo stesso livello, il primo grande-ambito dell’artefattura, proprio in quanto essa produce le utilità differenti dei beni-merce, destinate soprattutto all’altro grande-ambito dello stesso piano, il terzo del consumo-finale-riproduttivo*. Così distinguo l'artefattura soprattutto dal terzo grande-ambito del consumo/uso riproduttivo e fruitivo stesso e riproduttivo (dunque produttivo) della capacità-umana-calda, con il quale il primo scambia orizzontalmente. In questo terzo gran-

de-ambito invece è proprio la capacità-umana-vivente, utile-differente, specialissima e calda, a venire prodotta nei corpi-umani-vi-

venti-interi piuttosto nel consumo-finale in cui ci si incorpora le utilità artefatte e prodotte altrove. Questa è la centrale distinzione orizzontale sullo stesso piano del medio raggio: tra consumare (intermedio) per artefare e consumare (finale) per riprodurre! Ri-

badisco: l’uso delle utilità (riproduttive) che avviene qui nel terzo grande-ambito lo chiamo fruizione e chiamo fruitori i consumatori/utilizzatori finali e riproduttivi (di sé in primo luogo); chiamo quindi anche fruire il consumare utilità da parte del ricevente auto-riproducente, anche quando il partner corivolutivo non ci sia. Oltre alla distinzione principale tra il primo e il terzo grande-ambito, ricordo che anche i consumi-finali a meglio guardare sono due (distruttivo e riproduttivo), e che questi nei loro rispettivi

grandi-ambiti costituiscono la società-consumativa finale. In senso lato, quasi solo questi due grandi-ambiti del consumo-finale-distruttivo e del consumo-finale-riproduttivo, sia di prodotti caldi che freddi, costituiscono la società davvero consumativa. Questo,

replico, è il duplice consumo che si dice finale (sempre distruttivo

e riproduttivo). È finale anche il riproduttivo, perché spesso incorporiamo in noi l’utilità delle merci (in specie tangibili) distruggen-

done i supporti e incorporandoceli insieme all’utilità, di modo che le merci di consumo finale tangibili sboccano in una loro sparizione, e sembrano finire perché incorporatele non le vediamo più, spariscono dentro di noi. Invece, per ciò che distruggiamo e basta

non c'è problema. Sappiamo che qui, in questo modellare ipotetico, chiamo artefatti solo quelli freddi e tangibili, ma ricordo che è artificiale anche gran parte delle merci-calde. E tutto con ambivalenza e politicità. 4/ Incuisi (ri)produce la capacità-umana in mercificazione nella sua utilità e for ma-utile differente.

69

Ho detto che i servizi sono di solito prestazioni di utilità di

merci calde e intangibili, e come prestazioni potenziali sono incorporati — appunto come potenzialità — nei corpi dei prestatori; com-

binandosi con altro, la loro utilità passa arricchita in quelli viventi dei ricevitori, o mediante contiguità di corpi o con il faccia a faccia,

efo mediante comunicazione o telecomunicazione. Questioni di scambi tra corpì e di biopolitica? Ma le cose si complicano perché talvolta possiamo parlare anche di servizi come utilità, valori-d’uso,

riproduttivi di capacità-umana; questi crescono un poco su supporti particolari e, trasformandosi, passano da un corpo all’altro, si trasportano. O si comunicano. È un groppo di questioni intermedie

grosse e importanti che non potrò del tutto sviscerare qui.

Ri-complicando, sappiamo già che la prestazione/emissione di servizi-finali può essere vista anch'essa come una sub-produzione.

Ma è tale pure l’autoriproduzione del fruitore. Ed entrambe circolano in senso contrario rispetto all’artefattura. Ripeto: sono due grandi ambiti che scambiando principalmente tra loro (artefattura

e riproduzione) sono l'uno un vincolo per l’altro. Questo non va

mai dimenticato, però complica ulteriormente le cose. Riparto da loriano. Riprendo di nuovo l'interazione orizzontale inclusa artefattura/

consumo

Come è 2 iutti noto, storicamente l’artefare beni tangibili è stato il

primo dei vari grandi-ambiti del lavorare industriale in generale in cui si sia valorizzato capitale col lavoro-umano, allora ci si è male

abituati a guardare a esso come destinazione quasi esclusiva perenne della capacità-umana-vivente stessa. Certo, essendo altamente macchinizzato in artificialità, l’artefare beni tangibili richiede

ancora che vi si eroghi e consumi significativa capacità-umana, € così necessita e domanda tuttora la produzione altrove (mediante consumo finale) di peculiare capacità-utili-differenti da erogarvi

in quantità e soprattutto in qualità; anche se non è più lo sbocco quasi esclusivo della capacità-lavorativa-specifica-umana-vivente

riprodotta. Come sappiamo già a memoria, l’artefattura esige tuttora, residualmente, peculiari valori-d'uso utili-differenti delle

capacità utilizzate che devono continuamente

essere riprodotti,

iperindustrialmente. Di modo che così l’artefare utilità di beni vin-

cola ancora il consumo-finale dei lavoratori-umani-viventi almeno quanto ne è vincolato. Però adesso l’artefare beni non è più il solo a vincolare così la riproduzione di capacità-umana e nemmeno il più 70

importante nel farlo. Infatti, anche lo stesso lavoro di riproduzione

della capacità-umana — proporzionalmente sempre più rilevan-

te — richiede a sua volta una capacità-umana riproduttiva da erogarvi per produrla. Ovunque vediamo che l'averla nella qualità e quantità necessaria utile-differente sta ponendo la questione della formazione (riproduzione allargata) della nostra capacità-vivente,

che io esploro come peculiare lavoro-specifico di consumo-finale,

come una questione strategica per la produttività complessiva del sistema. È una questione impellente anche perché il formare capa-

cità-umana-vivente in specie complessa, nel suo dualismo, è non

solo molto costoso, ma anche molto lento, richiede cioè parecchio tempo di lavoro formativo. Così la disponibilità di capacità richiesta vincola tutto quanto. Però ricordo che oggi anche questa stessa

capacità riproduttiva, ossia questa capacità-umana di riprodurre capacità-umana in generale, è sempre più uguale a tutta quanta

l’altra in generale. Si erodono tutte le differenze. Parlo infatti di differenze tuttora importanti, ma residue e relative. Ulteriori complicazioni scendendo

Scendendo di livello di realtà sociale sistemica c'è ulteriore complicazione. Parentesi. Ho appena detto che il grande-ambito

dell’artefattura, scendendo di livello, contiene anche un sub-con-

sumo (artefattivo) intermedio e così pure un sub-consumo-intermedio di capacità-umana-vivente; e di contro il grande-ambito del consumo-finale riproduttivo di capacità-umana, scendendo, contiene una sub-produzione di utilità calda differente di questa capacità-umana. La complicazione ulteriore deriva, sul primo versante, dal fatto già prima ripetuto che l’artefattura a sua volta contiene anche una sub-riproduzione. Infatti, noi riproduciamo capacità-umana in tutto quanto l’agire/lavorare, separato e diffuso: lavorando in generale e pure artefacendo magari uno si diverte, impara. D'altronde, ripeto, la riproduzione della capacità-umana

avviene soprattutto nel consumo-finale, certo, ma una parte di

riproduzione di capacità-umana si ha anche nel consumo-artefattivo intermedio stesso$, nel lavorare artefattivo, ed è sub-riproduzione, sub-consumo riproduttivo intermedio. Qui cì sarà dunque un saldo tra consumo e sub-riproduzione intermedia di capacîtà

5/ Cosicché si razionalizza e iperindustrializza la formazione dì capacità per rispar miare una parte di questo tempo. 6/ Ad esempio lavorando nell'occupazione s'ìÌmpara a lavorare meglio, sì ruba îl meStiere ecc.

71

umana-vivente e merce, saldo comunque a favore del consumo produttivo intermedio di capacità-umana. Quindi, a sua volta la società-riproduttiva è solo in parte coincidente col grande ambito del consumo-finale (di merci), però questa è la parte maggiore. Qui si tratta di una parte fortemente prevalente: il consumo finale

avviene soprattutto nel terzo grande ambito funzionale utile-dif.

ferente. Altra riproduzione diffusa di capacità-umana è inclusa in qualsiasi lavorare umano. Ci riproduciamo un poco pure in tutto quanto lo stesso nostro lavorare-specifico, pure nell’erogare capacità-umana-vivente ne acquistiamo. È difficile tracciare confini netti in questa complessità.

Capacità-lavorativa-umana-vivente-merce (specialissima) Alla domanda importantissima e inevitabile: società riproduttiva di cosa?, consumo-finale-riproduttivo di cosa?, ho già dato una

precisa risposta, quantunque

complessa: riproduttivo di capaci-

tà-umana-vivente, calda, in mercificazione, in mezzificazione e in

macchinizzazione. Questa è risorsa-calda. Allora, nella sua potenza potenziante di risorsa calda, a sua volta essa è proprio merce incrementante di utilità speciale: inoltre, è risorsa calda specialissima perché è ciò che siamo noi, perché siamo noi.

Sottolineo ulteriormente. La produzione (con la minuscola) di una risorsa calda è peculiare? Sì, soprattutto perché, come sappiamo già a memoria, tale risorsa detiene ancora certe esclusività umane fondamentali per il lavoro-umano-specifico, che resteranno tali anche nel futuro almeno medio prossimo. Quindi è peculiare perché tuttora solo la capacità-umana-vivente quantunque

merce le ha e può cederle. Però sottolineo altrettanto che su questa

risposta che do ipoteticamente, esplorativamente, sperimentalmente, ci sono in giro a mio parere idee molto confuse, silenzi,

risposte sbagliate e fuorvianti. Siamo dunque su un terreno molto

controverso e frainteso, perciò insisto molto. Sappiamo già a iosa pure che questa capacità-umana-vivente specifica,

scomposta,

frammentata

e separata

(separata

soprattut-

to da possibili scopi autonomi del suo proprietario iperproletario), storicamente prima è stata la capacità-attiva generica, ma poi è stata sussunta effettivamente al capitalismo e così è stata lavorizzata ol-

tre certe soglie e mercificata, diventando capacità-lavorativa-merce 72

specifica — cioè la principale di tutte le merci e specialissima. Proprio nella nostra società la capcità-umana è tuttora in un processo di mercificazione in-finita, nell'iperindustrialità; si tratta di un passaggio alla sua mezzificazione e meccanizzazione. Sappiamo già pure che la capacità-lavorativa-umana è oggi una sotto-cormponente del lavorare in atto e non più una parte del lavoratore, malgrado la retorica sul primato dello pseudo-individuo. Proprio così può a sua volta essere identificata oggi come un aspetto nei quale il lavoro-salariato si pone in interconnessione tra i lavoratori singoli (e gruppali) e il sistema organizzato in quanto trarna di lavori-specifici, lavoro-di-fatto-salariato come base del triangoloe centro della piramide che è la nostra società complessiva. Il rvoratore-umano di fatto salariato è ridotto a capacità-umana-vtvente in mercificazione, tendenzialmente funzionale alla trama dei Lrvori, oggi sempre più uniformi e uguali, malgrado i suddetti sottostanti

dualismi e certe sottostanti differenze-utili piuttosto residue.

Conosciamo già la mia definizione esplorativa e ipotetica dell’antica capacità-attiva-generica: era un insieme di attitudini. &coltà, competenze, saperi e conoscenze non metcificate e piuttosio possedute dall’agente, perciò risorsa-calda-generica. Però, nella dviltà capitalistica questa capacità lavorativa e lavorizzata, sussunta o creata dal capitalismo, è cambiata nei contenuti. È cambizia im primo luogo perché — sussunta o creata ex novo nel capitalismo

— la capacità-umana lavorizzata è diventata una neo-merc®”, ed è

in neo-mercificazione in-terminata, anche in funzione dello =

luppo dei mezzi-artificiali e delle macchine-artificiali, nell'accu-

o mulazione del capit e dellaalism tecnica in esso inclusa. Di solo questa (specialissima e con esclusività) è la sola merce di proprietà di proletari e iperproletari, i quali da ciò sono definiti, e sopravii vono vendendola o piuttosto affittandola ad altri, direttamente o mediante semilavorati. E oggetto da secoli di leasing, che questi ne siano consapevoli o no. Inoltre, sappiamo che oggi gli iperproletari talora ne sono i proprietari titolari, ma di solito non i possessori sono scesi di livello gerarchico di realtà sociale specifica e stanno al di sotto*, perché la loro-capacità-lavorizzata calda serve soprattutto in attività lavorative fatte per conto di altri e funzionali ad altro Come sappiamo già fino alla nausea, sono lavori funzionali alla trama di lavori iperindustriali necessari a portare avanti il sistema. 7/ 8/

Chiamo neo-merce quella che si affitta. Veditra pocole due parti del «rovesciamento sussuntivo».

73

a riprodurlo e accumularlo, Sono lavori che già abbiamo ipotizzato soprastanti a chi lì attiva e attua, il quale è solo una parte di loro?,

la parte che sì qualifica come contenitore dinamico della capaci. tà-lavorativa!® e suo erogatore, Glì erogatori-viventi iperproletariì

e ìperindustriali ne rispondono avendone a carico quasi tutta la riproduzione: oggi più dì ieri, come singoli e come collettivi. Cosic-

Ché anche la capacità-vivente e propria che essi riproducono è funzionale alla trama-specifica di lavori-umani-specifici in generale,

mentre loro ne ricavano solo il salario di fatto. Il valore d’uso delle loro capacìtà come merci è concepito innanzitutto per l'attuazione

dì quelle attività che stanno nella trama sistemica generale e sono metafinalizzate ai livelli più alti del sistema. Orbene, nell'ulteriore sussunzione effettiva e formale!!, la capa-

cià umana-vivente nei suoì contenuti sottostanti si modifica per-

Ché k attitudini, le facoltà, le competenze, i saperi e le conoscenze che la costituiscono e che essa include non solo sono cambiati, ma hanno anche cambiato natura o funzione nel capitalismo. La capacità umana-vivente non cì cala addosso da fuori o dall’alto: cresce dall'interno del nostro corpo, dal basso verso l’alto, cosicché senza il lavoro dei suoi strati più bassi non sì produce neppure nuova

capacità alta nella perfettibilità degli umani. Questa deve essere

ticordato come base di ogni biopolitica.

Ssppiamo già pure che ì suoi contenuti vedono un passaggio

dalla muscolarità attraverso il sistema nervoso periferico sempre più verso la corteccia cerebrale e il suo esterno: si richiedono di muovo e sempre più da un lato capacità timiche, ossia emotive-af-

fetuve, e dall'altro cognitive, inventive, finanche spirituali. Ciò sebbene l'indispensabilità del supporto carnale e corporeo umamo della nostra capacità calda non consenta di liquidare le vecchie trà di sempre (muscolari, nervose/periferiche ecc.), come pure

mobi vorrebbero. Infine, la capacità-umana-vivente come neo-mer-

ce domandata, soprattutto in Occidente, muta pure nei contenuti, perché la sua principale fonte non è quasi più l'esperienza perso-

male direrta ed empirica, trasmessa per tradizione e per imitazione

cell'esperire e del praticare altrui, com'era nell’intersoggettività

v

amrice: è invece sempre più la conoscenza tecnoscientifica, la quale 12 selezionato per altri fini e trasformato, razionalizzandola, l’e-

s, Povedrameo che se. alla Arnold Gehlen, parto dall'agire lavorizzato, il cosiddetto sogseo dell'agure lo si incontra solo subordinatamente, e l'oggetto di fronte a lui. so LL: quale però è ancora fruita un poco autonomamente da chi svolge questi lavori. m1i

Os

74

cambrando anche la sua forma.

sperienza collettiva di tutti N risucchiata'?, mutandola in tecnologia scientifica, e facendo quasi sparire l'esperire medesimo dal sopravvivere degli umani, singoli e raggruppati. Così la tecnica cresce mediante la scienza e la cultura umana fredda, e solo così si trasforma a sua volta pure dall'alto e per vie esterne, tecnoscienti-

fizzandosi. Ricordo di nuovo l’ipotesi del ribaltamento storico: poiché i mezzi e le macchine-artificiali hanno la destinazione di potenziare e realizzare la valorizzazione e accumulazione di capitale e di capitalismo, la mezzificazione e macchinizzazione-artificiale sono diventate lo scopo strumentale, la funzione di medio raggio di tutto il nostro lavorare e della capacità-umana di farlo. Così non solo i lavori-specifici e i lavoratori-specifici, ma anche la stessa capacità-lavorativa-umana-vivente adesso sono tutti quanti (sub)funzio-

nali a zione, alti. E te più

questi scopi di medio raggio (mezzificazione, macchinizzainnovazione tecnologica), inclusi e strumentali a quelli più si è diffuso un feticismo dei mezzi considerati erroneamencapaci di noi! La capacità-umana-vivente, al medio livello di

realtà, è vista come risorsa di attivazione, innovazione e sviluppo

dei mezzi e delle macchine-artificiali. Ciò avviene nell’applicazione della tecnoscienza, molto più che nell’esperienza diretta dei lavoratori e con eventuali residui irrisolti di loro autonomia. Sottolineo inoltre che la capacità-umana-vivente ha in questa modellazione due aspetti distinti: la potenza e la ricchezza di capacità. La prima la riaggancia alla produttività ed è la prerogativa

di dare con meno fatica, tempo, lavoro e capitale risultati utili: la seconda è la gamma delle sue utilità differenti. La prima oggi serve più al capitalismo; la seconda è, forse, più utilizzabile verso fini autonomi.

Esse sono state un poco contrapposte. Il saldo oggi è

alto per la potenza ma basso per la ricchezza, per noi. Ipotizzo che ci sia impoverimento della nostra capacità, pur nell’altissima potenza.

Da questo saldo bisogna ripartire, sottolineando maggiormente ambivalenza e politicità.

La capacità-lavorativa-umana è dunque proprio una merce. La merce è, per definizione, qualcosa di concepito, progettato e prodot-

to per i bisogni del suo compratore/affittatore, creando la domanda sul mercato. Ciò avviene anche per la merce capacità-umana e per il mercato del lavoro-come-occupazione. Allora, c'è questa prima

grande ipotetica alienazione mercantile proprio nell'affitto della 12/

Comedicevo in un «Quaderno rosso» fin dal 1962.

capacità-umana-vivente! Perciò l'ipotesi importantissima è che la capacità-umana-merce deve essere riprodotta o incrementata innanzitutto per i bisogni del lavoro così come è oggi e che si fa

soprattutto per altri, in questa peculiare alienazione: si fa in primo luogo per i bisogni, i meta-bisogni e i desideri del suo compratore o meglio affittuario, ossia del capitalista. È pure un’ipotesi che essa la debba erogare il lavoratore formalmente dipendente che la ven-

de viva; oppure sia anche erogata fredda, incorporata in prodotti

dedicati al compratore e per i suoi bisogni, se è data da un lavoratore formalmente autonomo o micro-imprenditoriale. Questo è un grosso nodo di interazioni di medio raggio da riesplorare, e poi

anche di raggio medio-basso. Cosicché ipotizzo che la parte della capacità-umana davvero ri. prodotta per i bisogni del suo vettore-attivo-vivente e formalmente titolare è residuale e piccola, e indirettamente anch'essa molto spes-

so destinata ad altri. Il che ripropone pure la questione dell’autonomia vera o no dei bisogni e anche dei desideri dei suoi vettori,

sviluppatori, erogatori iperpoletari. E di cosa sia per loro la libertà, o solo l’identità: cosa desidera la gente iperproletaria? Quali scopi ha nel suo sopravvivere? Da dove vengono? Dove portano? Vedremo che, tra l’altro, la riproduzione della capacità-umana per i bisogni di un compratore, ossia di un agente o un'agenzia distinta e separata, ma interconnessa in maniera peculiare, è oggi

uno scopo funzionale del sistema già difficile da conseguire per chi deve farlo o lo possiede. Spesso il capitalismo italico e internazionale si ritrova in Europa con una riproduzione della capaci-

tà-umana inadeguata ai suoi effettivi bisogni, e quindi costosa, carente, inadatta e tuttora rigida. Soprattutto, e più negativamente,

ciò in Italia avviene per l'occupazione, poi pure per gli altri nodi

dell'essere merce specialissima, nell'ambivalenza e politicità solite. E non solo siamo merce, per via del riprodurre e affittare (0 vendere) questa siamo tutti imprese. Cosa significa ciò nell’ottica degli iperproletari?

Altre due parole sul valore d’uso e utilità specialissima della

capacità-attiva-umana-vivente

Riprendo dalla prima parte di Nella società industriale d'oggi. Ab-

biamo evidenziato come la capacità-umana-neomerce sia specia-

lissima perché è la risorsa calda che siamo noi, alla quale siamo ridotti, non è destinata a noi bensì ai lavori-specifici del sistema

sociale. È merce, ma il suo valore di scambio non ha nulla di spe76

ciale. Come per ogni cosa utile mercificata, viene ceduta a ciò che

l'utilizza, valorizzandolo, perché gli dà valore aggiunto oggettivato, vi aggiunge cioè tempo di co-lavoro indifferenziato, aggiunge

combinazione lavorativa mercificata indifferenziata e indifferente oggettivata, o almeno certi suoi frutti. Invece qui, e dal medio raggio in giù, è ben più importante il valore d'uso di questa risorsa e risorsa-merce: perché, come ripetuto, la sua utilità/valore d'uso

è in primo luogo speciale (come era già vero per tutte le risorse e

così anche per i mezzi freddi che potenzia); ed è poi specialissima perché siamo noi. È allora determinante il rapporto verticale del

suo valore d’uso/utilità con quello di scambio. Ho già ripetuto prima alcune cose sul valore d’uso/utilità! specialissima della nostra capacità-lavorativa-umana-vivente, da secoli in perpetua mercificazione, mezzificazione, macchinizzazione e artificializzazione, in-terminate. Questo suo valore d’uso/utilità è stato indicato nella sua misteriosa «capacità di creare un valore maggiore del proprio valore», nel suo funzionamento attivante di breve periodo e in quello innovante di periodo meno breve. Ma questa qualificazione, in fondo, dice ben poco, rinvia la questione ad altri livelli di realtà. La questione, allora, va studiata su livelli di realtà differenti, va articolata verticalmente. Orbene, la capacità-umana-vivente è pure neo-merce che consumandosi riproduce

anche se stessa.

Scendendo un poco, la merce specialissima ha questa prerogativa del suo valore d’uso non solo perché nel suo contenuto è vivente!*, e allora, come tutto ciò che appartiene al bios nella sua

carnalità viva, sa produrre valore d’uso/utilità differente; ce l’ha an-

che perché è vivente-umano! Pertanto si parte da lì, dalla corporeità carnale vivente. Però, si parte per arrivare in prima istanza alla psiche, alla mente umana, allo spirito, per poi giungere in secon-

da istanza alla soggettività, singolare e collettiva. Per pervenire alla loro utilità e produttività, forma utile-differente peculiare, come parti irriducibili ed esclusive di questa merce specialissima e del suo valore d’uso/utilità di risorsa calda. Perché appunto queste

funzioni e capacità di svolgerle sono esclusive dell’umana! Perciò, sono momenti

del valore d’uso della capacità-vivente-umana (e

non più solo animale) nella sua differenza ed esclusività. Il che non toglie che ci si possa chiedere se anche l’animale, il vivente 13/

14/

Ricordo che il valore d’uso è l'utilità vista nell'ottica dell'offerente,

Come diceva Marx.

in generale (inclusi i vegetali), la stessa materia inanimata ma in

movimento, e pure il macchinario-artificiale!5, possano produrre valore aggiunto, come capitale.

Dunque, c'è in primo luogo la soggettività-umana; poi, andando oltre, c'è (ormai per lo storiografo?) l'ardua questione della soggettività iperproletaria e diversamente operaia, singolari e collettive!S, non necessariamente antagoniste. E di quella della moltitudine, con la sua politicità intrinseca. Comunque,

insisto,

il valore d'uso esclusivo del vivente umano è nella soggettività. Ed essa valorizza tutt'ora perché anche la nostra soggettività è valore

d’uso di una neo-merce. Concepita ai livelli medio-alti, lo è per il capitalista che di solito l’affitta e per il suo sistema. Anche la vecchia, magari morente e in estinzione soggettività operaia valorizza

capitale, e pure quella contro, tanto più come merce, come «capitale-umano» (che però può andare contro se stesso, e qualche volta un poco c'è andato). Tanto è vero che in Occidente gli operai (classici) sono in estinzione, adesso siamo tutti imprese. Questi sono nodi

enormi, da riprendere a fondo. Vista un po' più sotto, l’utilità della capacità-umana calda mercificata e in ulteriore in-terminata mercificazione è con lei racchiu-

sa dentro i corpi-viventi degli umani iperproletari; genericamente, si può dire che sta dentro le persone. Dentro le persone iperprole-

tarie, appunto, ovvero dentro gli agenti/lavoranti incarnati, e re-

sidenti locali!” Comunque questi la contengono in se stessi e ne

sono i vettori attivi: dunque, non solo la recano in sé, ma la conser-

vano riproducendola man mano che si consuma, e la sviluppano. E lo fanno a proprie spese, sia individualmente sia collettivamente. E

di questo rispondono alla società-specifica alla quale e nella quale la erogano, più o meno in leasing. Questa faccenda, ritenuta da molti ovvia, ha comunque un’enorme importanza e va approfondita, la propongo come un nodo di ipotesi per l’ulteriore ricerca. In

15/ Oggicisi accorge che c'è forte analogia tra il biologico e le macchine-artificiali: in fondo se la macchina-artificiale è un programma in opportuno movimento, anche un'erba o una qualsiasi bestia lo è. Sono, infatti, macchine biologiche e viventi, molto più complesse delle odierne macchine artificiali. Le tecnobiologie ci mettono con forza di fronte a ciò, che già l'agronomia aveva mostrato da secoli. 16/ Collettive in senso debole perché gli iperproletari singoli ricorrono su scala so-

ciale, e di più in significato forte perché esistono collettivi organizzati di iperproleta-

ri e operai a loro volta dotati di loro soggettività (ad esempio consigli, sindacati ecc.). 17/ Dice bene Alberto Magnaghi, ignorando però che sono iperproletari, mentre egli li pone solo come residenti (si veda A. Magnaghi, Il progetto locale. Verso la coscienza di luogo, Bollati Boringhieri, Torino 2000).

78

un contesto in cui nessun politico di professione sembra avere in testa ipotesi di un certo respiro, noi ne abbiamo una caterva! Oggi c'è qualcuno che riscopre quel che Marx già vide nella manifattura e che non è altro se non la conseguenza di quella frantumazione scientifica del lavorare che si è poi chiamata taylorismo. Adesso si sottolinea che non solo la capacità-umana-vivente

nella sua mercità (funzionale alla sua macchinizzazione) è usata/ sfruttata sempre più per frammenti piccoli, separati e via via dif-

ferenti, cosicché non si può nemmeno capire quali corpi umani concorrano al lavoro collettivo e sociale, in quanto combinazione di microframmenti di erogazioni. Questo noi lo dicevamo già quarant’anni fa a chi ci chiedeva del «lavoro produttivo», intendendo erroneamente ed economicisticamente la classe operaia come classe sociale dei lavoratori produttivi; sostenevamo che anche nel taylorismo il lavoro in frantumi nella sua ricombinazione ed esointegrazione capitalistica operata dall’organizzazione e dal nuovo macchinario-artificiale padronale era comunque più poten-

te e produttivo, e i frutti di questa potenza andavano rivendicati e conquistati con la forza accresciuta dell’operaio collettivo. Tuttavia, a causa di questa frantumazione, i singoli perdono la percezione di

se stessi, di come son fatti e dei confini del loro sé, tanto che in generale non è più possibile riconoscere in molto lavorare delle per-

sone intere e distinte: gli agenti/lavoranti singoli non ci sarebbero

proprio più, ma esisterebbe soltanto un lavorare indistinto in cui non è più discriminabile neppure un lavoro vivo distinto da quello trascorso, come macchina-artificiale, scienza, organizzazione o

altro, con cui sempre si combina. Ciò è però solo una tendenza in atto, e prima che si compia possiamo lottare per deviarla. Figurarsi poi cosa accade con le nanotecnologie. La biopolitica stessa sembra perdere il suo riferimento al corpo umano singolare, anche la singolarità verrebbe meno, scomparirebbe anche la moltitudine in quanto sistema di singolarità. Il vero soggetto, così, diventerebbe la tecnologia, realizzandosi in pieno quel che diceva Robert Musil nel sottotitolo: ossia «le qualità senza l’uomo». Tuttavia, ciò sarebbe più che mai una tendenza, da deviare. Finché esistono ancora i singoli uomini sociali, anche come lavoratori sociali e ultimi uomini, si può lottare per portare il sistema e il processo altrove, anche con ritorni indietro.

Analogamente c’è pure chi sostiene che non solo nel lavorare capitalistico odierno siamo diventati tutti quanti matti, compresi

i capitalisti, ma lo siamo divenuti al punto che l’unico grande sog79

getto è la pazzia stessa. In fondo, anche questa tendenza l’aveva già

almeno colta il solito Marx, per il quale la mercificazione della for-

za lavoro umana comportava alienazione, reificazione, feticismo e follia. Ma anche di fronte a questa tendenza in atto!8 la risposta è ancora quella appena detta: deviare la tendenza finché è aperta! E, ripeto, anche con ritorni indietro.

Dal punto di vista del sogno di un’utopica alternativa al capitali-

smo, bisognerebbe rovesciare la soggettività corrente, intrisa delle

idee dominanti, in gran parte indotte dai mass media, in sogget-

tività-contro, alternativa e autonoma, non solo temporaneamente. Facendo leva sulle radici profonde del suo «doppio carattere», sulla sua ambivalenza ipotizzata. Con essa l’iperproletariato può produrre, ma anche andare contro se stesso, pure come produttore.

Magari! Finora, nella storia, ciò è riuscito solo un paio di volte su scala di massa, e temporaneamente; se non esci dal capitalismo,

tuttavia, ti ritrovi che da un lato hai cambiato «solo» qualcosa in

basso in questo sistema, dall'altro hai mutato certi contenuti bas-

si della neo-merce umana specialissima, che però rimane tale. Nondimeno più sotto è mutata, soprattutto nel processo in cui si

riproduce, ovvero nella sua ambivalenza, almeno potenziale. La

questione del feticismo del capitale e della cosalità del proletario-0-

peraio ci portava proprio qui. È quello che Marx intendeva quando diceva che la maggior forza produttiva — e innovativa, aggiungo del capitale è la classe operaia rivoluzionaria. Da un lato la sua ambivalenza va sempre ricostruita, anche dentro la risoggettivazione;

dall'altro, da sola, non basta e non è bastata mai a portarci fuori dalla condizione di neo-merce e dal capitalismo. Dopo ogni grande

cambiamento interno spinto dalla lotta proletaria, l’organizzazione di movimenti, all’inizio difensivi, è spesso partita dal basso; ma

poi, da sola, non è mai andata oltre certi livelli. Cosicché la lotta era

tanto più forte quanto più vi era una forza di sviluppo del sistema, offrendo al capitalismo proprio ciò di cui aveva bisogno per crescere e che «da solo», forse, non avrebbe mai inventato!?.

È ancor

più così per il suo valore d'uso/utilità specialissimo ed esclusivo, in

cui la soggettività proletaria viene a risolversi malgrado se stessa,

lasciandosi però dietro, talvolta, più adeguate determinanti di un

18/ A parte il fatto che quando tutti sono matti la pazzia non si distingue più dalla normalità e la questione dovrebbe essere argomentata diversamente. 19/

Per questo il padrone in fondo ci ama, come diceva il vecchio fumetto: ama il pro-

letariato ed è per la sua riproduzione, ovviamente. È la classe iperproletaria che invece non dovrebbe amare se stessa!

80

sogno di vera e grande trasformazione. Tale sogno non è detto che

sia sognato da iperproletari proprio tipici; magari sono atipici, per qualche interessante motivo, data la cosalità, nel feticismo?0.

Capacità e soggettività, forza lavorativa, potenzialmente neo-at-

tiva: vi si ritrovano le determinanti dell’operaietà, benché sia stata

moltissimo differenziata nella sua genesi e nella sua storia, nelle sue condizioni e rapporti, ma anche nelle sue concezioni e inter-

pretazioni. Si richiamano pure le componenti della politicità delle capacità e risorse calde esclusive dei singoli e dei collettivi umani. Risorsa-calda usabile per sé: in che termini? Autonomi? Per quale sé singolare e collettivo? Nuova capacità e nuova operaietà? È una

risorsa-calda rovesciabile o profondamente modificabile? La sua

iperindustrialità è evidente. Dovrei riprendere qual-

cosa prima degli aspetti classici di primato dell’organizzazione, dell'intreccio con la scienza, della proceduralità nello standard,

dello svuotamento, novatività, del suo del suo necessario tificiale. Tutte cose

della risparmiatività, della produttività, dell’incontribuire alla macchinizzazione-artificiale e chiudere l'odierno sistema uomo-macchina-argià dette: solo da raccogliere qui nei termini di

valore d’uso della capacità-umana-vivente, nella psichicità odierna,

nel peculiare e parziale ritorno di artigianalità, dentro la tecnoscientificità e l’iperindustrialità. E la politicità? Questa variabile pluribaricentrica è molto vasta.

È ovvio che così la capacità degli umani-viventi iperproletari, nel suo duplice valore (di scambio e d’uso), si ritrova al centro di ogni concezione e dimensione della politicità — istituzionale e soprattutto intrinseca. Bisogna allora scendere a evidenziare le sue parti e sotto-variabili chiave, particolarmente importanti in quest'ottica. Sono oggi presenti sia nelle dimensioni sistemiche più oggettive,

cosiddette tecnologico-economiche, sia in quelle soggettive, singo-

lari, gruppali e collettive. Innanzitutto nel primo percorso, in cui ricordo che ora mi sto muovendo, e poi verso gli altri due. Ovvia-

mente nell’ambivalenza, quindi sia dal punto di vista funzionale dello sviluppo del sistema o almeno della sua accumulazione, sia da quello almeno iniziale dell’utopia alternativa sognante certa alterità, magari una sua realizzazione nell'autonomia e nell’antagonismo. Ciò è stato finora frustrato nei suoi sogni e/o derubato dei

suoi sbocchi. È un campo amplissimo. 20/

Vedi Romano Màdera.

81

Alcuni aspetti recenti e importanti della macchinizzazione della capacità-umana-vivente

Rispetto al primato dell’organizzazione, dobbiamo approfondire il

processo di mercificazione della capacità-umana che la scompone in parti e la stacca dai nostri fini, alienandola sui probabili fini del suo utilizzatore, e poi la sua razionalizzazione. Sono passaggi obbligati alla macchinizzazione-artificiale, che incorpora sempre nel macchinario-artificiale procedure razionalizzate e quindi anche frammenti razionalizzati di capacità sociali.

e sapere umano,

collettivi e

Molti ideologi, innamorati e feticisti del nuovo macchinario

artefatto, dimenticano che finora le macchine-artificiali sono sta-

te sviluppate soprattutto imitando la capacità dei lavoratori umani, e imitandola nel loro sviluppo in potenza; è in questo modo

che

le macchine-artificiali si sono arricchite di capacità-lavorativa,

mentre al contrario gli umani iperindustrializzati singoli si sono

impoveriti di capacità, di suo valore d'uso. Il valore d'uso della capacità-umana-vivente termina pure per obsolescenza e di solito a causa dell’innovazione, e ciò pone un drammatico dilemma tra conservare e innovare. Quindi, vedendo quanto sia tutt'oggi limitata

e circoscritta l'emulazione, è fondatamente ipotizzabile che nel futuro breve-medio, senza lo sviluppo dell'umano e della sua conoscenza per copiarlo, si bloccherebbe anche lo sviluppo qualitativo dello stesso macchinario artificiale. Ricordo che le facoltà superio-

ri della mente emergono dal corpo carnale e dalle sue parti locali. C'è poi la questione, prima appena sfiorata, di alcune — tuttora irriducibili — esclusività umane. Questi cognitivisti «macchini-

sti» dimenticano l’istruttiva vicenda dell’intelligenza artificiale, ancora parecchio lontana nel tempo: più passano gli anni, più la

prospettiva della macchina-artificiale intelligente si allontana.

Il

macchinario odierno è ancora «stupido». Ma qualcosa di analogo

accade anche nella bionica, e poi non c'è solo il cognitivo: oggi è ancora impossibile macchinizzare artificialmente certa altra capa-

cità-umana-vivente. Tra l'altro, è sbagliato o perlomeno molto riduttivo dire «cognitariato»: sia perché si crede e si fa credere che solo oggi i la-

VOLZIOA i umani cedono la mente e perfino la loro intellettualità al sistema-uomo-macchina-artefatta, mentre ciò accade da sempre; sia perché si omette il timico, ossia l’affettivo-emotivo, e quindi si

n 1muove la grande dimensione odierna del «lavoro di cura». Tuttavia, la cognitività come primo strato dell’intellettualità è molto 82

importante: non bisogna contrapporla alla riproduzione, ma com-

binarla con essa.

Infine, ricordo che la capacità-umana-vivente qui include, oltre

alla solita capacità-di-artefare, anche la capacità-di-consumo finale-riproduttivo, così come la capacità-di-distruggere?! e la capacità-politico-istituzionale: tutte come capacità-lavorative-umane.

Ancora prestazioni alla persona, ovvero al lavoratore Piccoli dettagliamenti, storicizzando. Come sappiamo già a memoria, c'è una ricreazione della capacità-umana-vivente con bisogni corporei e carnali che avviene mediante consumo di beni

tangibili. Qui però mi concentro sui bisogni psichici, mentali e

ideologici che richiedono servizi, e servizi primari di ricreazione e

formazione di nostra capacità-vivente. In ciascun servizio riproduttivo funziona un duplice lavoro-riproduttivo-umano: di prestazione/emissione di qui e di ricezione di là. Più sotto, come contropartita, avviene pure il contrario, chi in facciata emetteva riceve, e viceversa chi riceveva emette. Si ha così

una duplice e reciproca prestazione e una duplice fruizione. Quin-

di, c'è scambio tra due partner: uno che sub-produce la prestazione riproduttiva (in cambio di qualcosa) e l’altro che la fruisce (dando in cambio qualcosa). Nelle civiltà precedenti questo scambio (non

strettamente bilaterale) era in termini di vera reciprocità; ma nel

capitalismo poco a poco, per una parte preponderante e tuttora cre-

scente, si mercantilizza; allora la prestazione, ciò che viene dato (e

anche ciò che si ha in cambio), si mercifica. Questi scambi diventa-

no commercio e ci meta-richiedono soprattutto di contrattare. Così bisogna approfondire cosa ha favorito o no questo, e il tutto andrà riportato all’industrialità. In fondo questo scambio riproduttivo tra partner, anche se non sempre simmetrico e alla pari, era già genericamente un aspetto

della socialità animale e di quella degli umanoidi. Anche gli es-

seri umani si sono valsi della loro socialità, in maniera peculiare, proprio per poter potenziare la propria riproduzione generica an-

che mediante partner, in rapporti e scambi cooperativi di grup-

pi, scambi riproduttivi più o meno specializzati e tra ruoli, subito molto «culturali» in tutte le precedenti civiltà; così hanno ripro-

dotto socialità e sociatività riciclando in maniera diversa modalità

21/ La distruzione è indispensabile al padrone capitalista. Ciò dà un contropotere ai lavoratori che sono ben capaci di attuarla!

83

di rapporto riproduttivo già presenti nei mammiferi e nei primati, però là come istinti e invece tra noi nella culturalità, che consente l’indeterminatezza, l'apertura e la «rivolutività» tipica di noi uma-

ni??. Qui dentro si ha talora il lungo processo di individuazione degli umani, della loro distinzione da un rizoma in cui erano e sono tutt'uno col loro contesto socio-culturale e con la natura più o meno trasformata, e poi d’identificazione e sviluppo di identità

singolare e di singolarità. Non è però vero che nel più profondo dei

singoli umani c'è l’individualità, oggi tanto rara. No, anche per gli esseri umani la socialità prevale. È stato proprio Freud a mostrarci, contro la superficialità degli psicologi, che noi nel profondo abbiamo ìl legame, la relazione con gli altri. Inoltre, l'identità è stabilita solo da una convenzione sociale esterna per riconoscerci, è poca cosa: ce la dà la carta d'identità, diceva Jean Baudrillard. Contano

invece la personalità e la singolarità.

È necessario vedere come si arriva a un rapporto di riproduzione reciproco ma asimmetrico, pure nel potere, e come si trasforma storicamente lo scambio bilaterale con dei partner. Scambio che

però nella società-specifica si unidirezionalizza, almeno in superfice, mostrandosi nel suo prevalente andare proprio dal prestatore/ emettitore al ricevitore, nei ruoli. Lo fa nella continua differenziazione e derivazione di fini subalterni, funzionali e così di funzio-

ni, di mete, scopi e compiti sempre più dettagliati: ciò comporta

altrettanta derivazione e differenziazione di attività e di lavori.

Così lo scambio riproduttivo umano, e in esso la fruizione auto-

riproduttiva, sviluppa la forte differenziazione interna e crescente

complessificazione del sociale, della società-specifica-umana in quanto società del lavoro-specifico. Comunque, la socialità generica degli umani aveva già dato luogo a sfere peculiari e specializza-

te di scambi riproduttivi bilaterali molto significativi e più

o meno

separati, oppure il capitalismo industriale le riciclava — come la famiglia — e le sussumeva, ritrasformandole di nuovo. D'altro canto,

le macchine-artificiali si assumono una parte sempre crescente dì

queste funzioni anche nuove, cosicché in Occidente forse diminu-

isce ciò che devono davvero fare direttamente gli umani iperproletari. E va messa in conto la trasversalità che unifica e semplifica.

Bisogna anche storicizzare, ponendo l’industrialità come grande variabile indipendente di questi processi, però anche vicever-

22/

È interessante comunque già sapere perché e come per gli umani è diverso, defi-

nare 1) ruolo immenso della culturalità, e in particolare vedere quali sono simmetrici

e qual: no, quali sono alla pari e quali no. E per cosa, come e con che conseguenze.

84

sa. Ad esempio

comunità,

che

proprio la famiglia — dentro la ridimensionata

poi diviene società-generica e successivamente

società-specifica e mista, miscuglio neo-moderno o ipermoderno — si iperindustrializza trasformandosi alquanto. E non lo fa procedendo linearmente sempre in avanti, ma con ritorni e deviazioni. Dentro la famiglia, ad esempio, si trasforma e altera la maternità.

Ma ci sono anche costruzioni di nuovi e specifici scambi coope-

rativi in partnership; su ciò la sociologia e in generale la scienza

sociale della famiglia hanno molto da dire. A me va bene quando si considerano le recenti trasformazioni della famiglia e delle altre istituzioni riproduttive umane, ad esempio la sua impresizzazio-

ne spesso surrettizia, la sua iperindustrializzazione; lo stesso discorso vale per altre agenzie speciali e separate di riproduzione di capacità-umana-vivente, come l'ospedale o la scuola. Occorre pure risalire più in alto, dove la scienza sociale corrente non va e non

vuole più andare. Rimarco che in questo cammino della nostra socialità riproduttiva si individua ed evidenzia soprattutto il fruitore di una comples-

sa, collettiva, continua, differenziata e articolata «prestazione alla

persona»; partner interni prestano utilità all’agente-umano che

poi viene lavorizzato nel capitalismo e diventa il lavorante/lavoratore. Io pongo proprio all’inizio del capitalismo il fruitore come il referente principale della prestazione reciproca. Si dà qui da prin-

cipio un primato ancora più forte a colui che la riceve e ne fruisce, consumando; il consumatore-finale riproduttivo è individuato nel fruitore e nella fruizione autoriproduttiva. Allora, nella modellazione, dobbiamo andarci dentro e a fondo. Occorre andare su e giù circolarmente con la conricerca nell’approfondire una conoscenza

per molti aspetti più consapevole della storia del lavoro di consumo-finale-fruizione e del suo significativo primato, innanzitutto nell’autoriproduzione della capacità-umana-vivente, in quanto merce.

La prestazione riproduttiva rivolta dal partner prestatore all’agente umano fruitore, magari come persona, Foucault la chiama-

va «terapia», con significato assai ampio, e oggì sì chiama spesso «lavoro di cura» in senso altrettanto ampio. È un significato un

po' idealizzato da talune femministe, mentre altre ne hanno ne-

gato la natura lavorativa e l'hanno rappresentato ideologicamente in una visione linearizzata della prestazione in cuì scompare del tutto lo scambio, vedendo come unico lavorante/riproduttivo chì

presta/emette più in superficie, perché prevalentemente donna; è

$5

il metafisico «corpo della donna» separato dalla donna

effettiva e

preso come soggetto. No, questo è proprio sbagliato. Il prestatore (o meglio la prestatrice) assai spesso è anche salariato-di-fatto,

ma certe femministe non ne assumono la salarietà. Questa cura

è prestata in un'apparente e talora appariscente unidirezionalità,

senza scambio vistoso, da donne che ora spesso ne hanno una con-

tropartita indirettamente salariale-di-fatto, specialmente quando è separata in sedi apposite fuori dalla famiglia (in servizi a prevalente occupazione femminile: le donne sono più relazionali), però anche in famiglia. Tuttavia, la cura è data non solo da donne, c'è

anche il lavoro di emissione di cura dei maschi; è un lavoro sia in reciprocità sia formalmente salariato, ossia in aziende di servizi

riproduttivi. Entrambi i sessi, infatti, possono dare la cosiddetta cura in reciprocità, in scambio mercantile

lario, e al fanno in dalità di cura e di

e sempre più contro sa-

contempo in organizzazioni gerarchiche. E sempre più lo aziende e imprese iperindustriali che mescolano più moscambio, e con l'apporto di un macchinario-artificiale di riproduzione, che piace assai alle donne-effettive. Ma poi

c'è la contropartita. Certo, la cura è spesso anche un dono; però,

dobbiamo allora affrontare la problematicità crescente per noi del dono. Dietro la facciata dell’unidirezionalità

è comunque

impor.

tante ritrovare la fruizione del ricevente come lavoro del fruitore

riproduttivo, lo scambio, il lavoro di contropartita. E la circolarità del tutto, in più giri. Andrà scavata l’ambivalenza e la politicità di questi altri punti. Di nuovo l’interattività e l’interlavorità

Se la prestazione ha una contropartita anche di lavoro, di presta-

zione di lavoro-umano-vivente, si ha interattività tra due lavoranti.

Non a caso ciò è stato approfondito ieri dagli interazionisti sim-

bolici e oggi dagli studiosi della comunicazione

umana

come

prestazione al lavoratore di messaggi riproduttivi, che mediano lo

scambio, con la comunicazione e con l’utilità racchiusa nel messaggio, subito contraccambiati in reciprocità (come nel dialogo e

nella conversazione riproduttiva). In questa interattività/interlavo-

rità bisogna approfondire, distinguendo molto. Cosa e come si dà, come e cosa si prende, e come si contraccambia, e chi lo fa, ossia le componenti e sotto-componenti di questo agire in lavorizzazione e in lavorità.

86

Lavoro relazionale Oggi si dice che il lavoro riproduttore di capacità-umana-vivente

è lavoro relazionale. Con questa espressione si intende che esso avviene non solo in meri rapporti di ruoli ma anche in scambi personali primari, attraverso relazioni. Allora è opportuno approfon-

dire qualcosina nella relazionalità umana. Come dicevo, le donne sono più relazionali; ma ripeto che la cosa più importante è, nella relazionalità, la maniera in cui le femmine stanno e si muovono

nei rapporti del lavoro-trasversale-specifico-umano, una maniera

piuttosto ricollegata alla maternità e all’allevare figli. É opportuno studiare meglio questo legame personale e l'interazione coi ruoli, le dipendenze e interdipendenze, che spesso diventano rapporti di potere; studiare quindi dominanze e sudditanze personali, pure angosce, dubbi, e invece certezze, sicurezze, forze. È un campo

difficile, nel quale però oggi si sta ricercando e scrivendo molto, tuttavia permangono ancora non pochi misteri. Inoltre qui si deve

riproporre la lavorità e la lavorizzazione che trasforma tutto, la

salarizzazione di fatto, la sussunzione anche effettiva nella soli-

ta iperindustrialità. Si pensi alla maternità assistitita o surrogata da mezzi e macchine-artificiali freddi: questa artificializzazione,

come l’evoluzione e la rivoluzione naturale storica, cambia i corpi

interi. Eppure, quantunque deprecata dalle femministe, essa piace alla donne! Occorre approfondirne l’ambivalenza, soprattutto politica. | coadiuvanti riproduttivi

L'interrelazionalità di una grande parte del riprodurre capaci-

tà-umana-vivente ha dato luogo fin dalle origini degli esseri umani a ruoli differenti, basati sulle diffenze-utili degli agenti umani. Prima la differenza sessuale, poi quella dell’età, dopo altre più comunitarie e in seguito «sociali», create e amplificate nella formazione differenziata, talune ereditarie. Cosicché la partnership riproduttiva è stata sempre meno comportamento spontaneo? rivolto a peculiare sinergia riproduttiva, e sempre più lavoro dentro organizzazioni specializzate e funzionalizzate, mono o plurifun-

zionali, in seguito scientifiche e iperindustriali. I partner sì chiamano anche coadiuvanti quando si trovano in posizione subalter-

na a qualche altro ruolo: dai coadiuvanti familiari e comunitari a

coadiuvanti liberi, da legami di sangue e poi dì suolo, a coadiuvanti 23/

Matalora invece lo è apparsa sempre di più.

professionali e tele-coadiuvanti. Così pure il volontariato riprodut-

tivo, dalla carità religiosa all'impresa iperindustriale, e poi servizi

«terzo

pubblicì, impresizzati o privatizzati; e così nel cosiddetto

settore», col presunto no profit € il quasi-profit, magari fino alla riproduzione nelle reti telematiche con presunti scambi alla pari. 1 coadiuvanti si fanno ìl solito cammino storico recente, con la sa-

larizzazione delle prestazioni, la contrattualità esplicita. Sono poi natì anche istituti dì tutela mutualistica e sindacali, e una legisla-

zione, controllo e monitoraggio sempre più pesanti?4 e pervasivi da

parte della magistratura (ad esempio, con l'ingerenza crescente di

assìstenti sociali). Si stanno adesso sviluppando coadiuvanti di impresa e coadiuvanti-impresa, magari telematici. Questa particolare associazione cooperante, anche riproduttiva, è degna di nota.

Mediazione comunicativa Ricordo ancora che il comunicare è il trasmettere un messaggio utile e differente che cambia soprattutto e in primo luogo chi lo riceve. Cambia appunto lo stato della sua capacità, ma invero cambia anche chi lo emette. Inoltre, la comunicazione solitamente si trasforma in

uno scambio interattivo, continuo. 1 partner consumativi-finali in-

terrelati attuano la riproduzione della capacità del ricevente il ser-

vizio (e però di solito lo fanno con la contropartita per l’emittente/

prestante) soprattutto comunicando.

Ci sono molti tipi di comunicazione: mimica, gestuale, verba-

le-orale, verbale-scritta. C'è la comunicazione corpo a corpo nella contiguità e la telecomunicazione. Sono state conquiste

gigante-

sche dell'umanità? i meta-segni per rappresentare e comunicare

sui segni stessi, con ciò inizia la vera comunicazione, che richiede

almeno minima meta-comunicazione. Agli animali è mancata e

manca la meta-comunicazione sui primi segni, con cui astrarre

generalizzando. È una lunga storia, adesso molto studiata, sulla quale c'è una vasta e seria letteratura, perché si vogliono fare le macchine-artificiali parlanti con un minimo di intelligenza.

Siamo alla telecomunicazione mediante macchine-artificiali, la mediazione telecomunicativa della relazione e relazionalità del

lavoro-umano a sua volta sub-mediata da macchine-artificiali co24/

Vedi gli Stati Uniti, ma con l'americanizzazione pure da noi avviene sempre di

25/

Dopo la conquista del primo linguaggio e di pochi segni soltanto di un unico

più.

strato già fatta dagli animali, fin dal canto degli uccelli e da prima, dagli insetti sociali Poiché sociali non possono essere senza comunicare.

88

municative e telecomunicative. Fino alla solita rete telematica, e nell'intelligenza artificiale. Si tratta di macchine artificiali relazionanti, veri media artificiali. Però ciò va visto meglio dentro la riproduzione di capacità-umana-vivente, magari mediante macchine-artificiali riproduttive, tuttavia grazie pure ad altri umani, in cooperazione. Nella solita ambivalenza e politicità iperindustriale. Di nuovo, territorio e riproduzione

Accenno adesso a qualche altro aspetto medio-basso della riprodu-

zione di capacità-umana-vivente, di altra natura. Andrà sottolinea-

ta l'’ambivalenza e la politicità anche di questi altri punti. Pierre Lévy, come già molti altri, ha proposto una delle tante periodizzazioni della storia del contesto geografico degli umani

cooperanti, tra loro scambianti e comunicanti, intercombinati ai

mezzi: a) la «terra», luogo della memoria e dell’erranza delle raccoglitrici e cacciatori, fino all’eterno ritorno contadino; b) il «territorio», come terra fertile soprattutto a partire dalla rivoluzione

complessa del neolitico e della stanzialità contadina, poi alla fine

delimitato, iscritto, fondato e appropriato — cioè fatto oggetto di proprietà privata — dai capitalisti (come pure l’acqua, gli animali e gli umani stessi); trasformazione di spazio, tempo e agire che

si lavorizza, nella rivoluzione capitalistica; materie mercificate, merci tangibili e intangibili, loro circuiti spazializzati nella me-

tropolizzazione; strutture organizzative tangibili e vistose — tutto

questo è proprio dell’industrialità classica; c) l’«infosfera» in cui

circola, pure nelle reti telematiche, l’impercepibile, ossia lo spazio smaterializzato, de-tangibilizzato, globale, delle strutture organizzative elettroniche e del sapere tecnoscientifico esoprodotto. Vi è qui un primato del tempo; il tempo collettivo emergerebbe dalla

combinazione dei tempi individuali, interiori, dalle vecchie metropoli industriali alle megalopoli iperindustriali neometropolizzate e telecomunicanti in tempo reale. Qui la «terrestrità» è un residuo ludico, o un’allucinazione? Ma finché ci sarà carne umana viva, ci sarà territorio.

Allora, nello schema di Lévy il territorio in senso stretto apparirebbe tipico della civiltà contadina, poi ereditato dal capitalismo

che l’ha sussunto. Da quel tempo, preso più genericamente come il

momento dell'incontro e dello scambio della civiltà con la natura, il territorio è inteso da molti come una grande conquista dell’u-

manità; è un momento successivamente attaccato, poì localmente distrutto e messo in crisi o solo trasformato dalla metropolizzazio-

ne capitalistica interminata. Cosicché la metropoli, che organiz.

za e valorizza tempi negando e distruggendo luoghi, da alcuni è

intesa anche in contrapposizione alla territorializzazione e riterritorializzazione, ed è considerata da varie forze soggettive diverse come negatività distruttrice. Proprio in quanto

propriamente

e

intrinsecamente capitalistica. Oggi siamo alla megalopoli terrri-

toriale, che forse riproduce la metropoli su scala molto più ampia

e redistribuita. Le metropoli esplodono dunque nelle megalopoli,

verso la megalopoli ecumenica? Tuttavia, un’esplosione analoga avviene nella parabola storica di tutte le organizzazioni perimetrate del lavorare-umano: dal villaggio alla città alla megalopoli, sembra che la differenza stia nella crescente densità dei luoghi del lavorare-specifico nella concentrazione urbana. Come mai allora sì ripropone la riproduzione della capacità-umana-vivente in un’odierna presunta de-territorializzazione e de-spazializzazione nella megalopoli metropolitana? Perché invece non la si vede come sua esplosione e disseminazione? Bisogna infatti sempre tenere presente che gli umani incarnati nei loro corpi estesi non posso-

no comunque prescindere dalla tangibilità, dai prodotti e mezzi che occorrono loro, dal riprodursi del territorio sul quale devono

poggiare e della sua spazialità?©: tutti questi elementi per gli agenti-umani viventi non sono solo vincoli, ma anche grandi ricchezze

e risorse. Si pensi, ad esempio, all’antica biodiversità. Come la semiologizzazione — e così mentalizzazione — del cibo e dei vestiti modifica ma non distrugge la necessità di nutrire e coprire i corpi «fisici» dei viventi, così la despazializzazione

non

distrugge

davvero il territorio geografico/fisico esteso, che ricompare come

momento dialettico nella globalizzazione capitalistica retizzata. Trasforma però la spazialità, rinnovandola nell’assoggettamentio capitalistico degli umani.

Alla fine degli anni Settanta in Italia il territorio si poneva

anche come ciò che era fuori e davanti alle torri del governo dei

vari livelli di «terrestrità». Era pure di «sociale», sostantivato, il che non era molto corretto. Nelle civiltà, è la società la parte che

concerne più le interazioni tra gli umani, che solo indirettamen-

te sono anche territoriali. Nondimeno, coloro che teorizzavano in

questa maniera errata escludevano dal territorio le imprese che a loro volta, per molti, non facevano parte della società, come pure le 26/

lotra l'altro non intendo qui il territorio come Levy, ma come la base solida su cui

poggiano i corpi incarnati degli umani-viventi, 90

istituzioni politico-statuali. Però, la «società civile» dei politologi non è l’intera società complessiva specifica, ma solo una sua parte. Dunque, questa vecchia idea del territorio funziona male. Certamente, non è la concezione del territorio che esploro in questa modellazione. Lo è invece il terreno strutturato includente la terra come suolo agrario e su cui poggiano i lavoranti. Tra l’altro, dicevamo di città oniriche in cui torri e città sotto-

stanti si sognavano reciprocamente in deliri incrociati senza più incontrarsi, vedersi, percepirsi. Inizio del regno della nuova linguisticità, il territorio nelle visioni e nei deliri tecnoburocratici, fino a fenomeni come i marchi con costi sempre più alti, le firme,

il sistema importantissimo della moda che allarga il mercato, fa-

cendo buttar via merci ancora nuove. Spesso vedevano le imprese

assurdamente anche come ciò che al contempo stava fuori, come isole de-territorializzate. Ma oggi, con la sua inclusione subalterna nell’infosfera globale, quel territorio così inteso è metropolizzato

direttamente nella megalopoli, sviluppando la vecchia metropoli magari come intero territorio-impresa? Con le conseguenze di incompatibilità, insostenibilità, invivibilità.

Dunque, talvolta da parte di qualche ritardatario si ripropone il

territorio come una maniera di porre la società-riproduttiva, con-

sumativo-riproduttiva-finale, di fronte ai vari livelli di governo e quindi come articolazione geografica della società civile, però nella globalizzazione capitalistica, che riproduce la gerarchizzazione, la centralità nell’eventuale impero, e l'emarginazione o esclusione interna, la distruzione dei significati, l’uniformazione astratta del-

la metropoli ora diffusa. Lo sfruttamento sta lì dentro. Ora tutto è dappertutto, ma nell’astrazione segnica, come nelle proiezioni olografiche, nelle nanotecnologie o nelle biopsico-tecnologie? Non

ancora, ipotizzo. La riproduzione come si frammenta, sì reintegra, si ricompone nella globalità? E come funziona il locale? Con la figura del «residente» sempre anche locale, valorizzata con buona intelligenza e novità da Magnaghi (che, tra l’altro, rivela il nascere e crescere di nuove figure composite e complesse che sì costituì scono al di là delle compartimentazioni tra gli ereditari «grandi ambiti»). Ma proprio qui si ripropone pure la questione del «glocale», ripreso da Bonomi come peculiare combinazione di locale e dì globale, che non riesce neppure a essere più né l'una né l’altra cosa

separatamente. È un confronto stimolante.

QI

Territorialità della patria

Una grande questione della quale accenno in relazione al territo-

rio, ma che meritava un intero paragrafo, è quella del territorio patrio, del territorio nazionale e della nazionalità territoriale. La

nazione è uno degli importantissimi momenti organizzativi in cui sì suddivide il sociale, con i miti e i valori; tiene insieme gli agenti/

lavoranti umani, talora in contrapposizione alle classi, talaltra in

decisiva combinazione con esse. È la nazione nel capitalismo. Dice Morin che la nazione è, malgrado tutto, ancora l’organizzazione

territoriale che con più forza e più profondamente identifica i pro-

letari, perché si propone come un allargamento della famiglia, sia negli aspetti paterni e maschili (la patria) sia in quelli femminili (la terra madre). Anche Màdera ci ricorda che i conflitti di gran

lunga più forti e partecipati della civiltà capitalistica sono stati i conflitti nazionali: i proletariati della varie nazioni a morire in

guerra gli uni contro gli altri.

Ci sono a mio parere almeno tre livelli di identificazione terri-

toriale: il livello locale e di residua comunità; il livello nazionale; il livello sovranazionale, in cui Toni Negri pone adesso l’inizio di una transizione all'impero, nel balzo odierno di ulteriore globalizzazione?” A mio parere è sbagliato contrapporre in assoluto tra

loro questi tre livelli, perché coesistono l’uno dentro l’altro (come si sostiene con il «glocale»). E in atto una crisi della nazione in certi aspetti del governare e del mercato che vengono in parte compensati valorizzando sia la sotto-nazionalità sia la sovranazionalità.

Oggi, soprattutto sul terreno politico istituzionale, c'è in Occidente un inizio di sovranazionalità, però la gente iperproletaria vi si contrappone un poco disorientata e si aggrappa alla propria nazionalità, la difende proprio perché sostiene patria nel profondo.

Un'altra questione connessa è quella delle culture locali che si contrapporrebbero alla globalizzazione dei mercati e delle condizioni materiali di vita. Ciò comporta una discussione della

vecchia tesi del materialismo storico, il mitico primato della co-

siddetta «struttura» intesa come lo zoccolo duro delle condizioni «economiche», oppure il primato della cultura erroneamente

intesa come sovrastruttura. L'importante è non contrapporre in

assoluto l'una cosa all'altra, proprio perché di solito operano entrambe insieme. Tra l’altro, la globalizzazione include anche una 27/ Jl riferimento è a M. Hardt-A. Negri, Impero, Rizzoli, Milano 2001 [N.d.C.]. 92

superficiale e strumentale valorizzazione delle culture e differenze locali, se ne nutre.

Migrazioni lo non credo a questa retorica sull’esodo odierno: balle! Un altro grande aspetto che si può riportare a questo nodo è quello della mobilità

territoriale e delle migrazioni, oggi soprattutto ancora

dell'immigrazione. Conricercare soprattutto con gli immigrati riproduttivi, cioè con quelli che sono venuti a riprodurci, e spesso in rapporti di lavoro servili; e gli immigrati che sono venuti a riprodursi, nelle loro varie occupazioni e disoccupazioni, e il loro

lavoro-di-consumo. Comprendere quel che cercavano e sognavano, quel che trovano, quel che gli costa, quel che rendono a noi e al sistema sociale del nostro ex belpaese. Questo è un grandissimo nodo. L'ambiente

Un'altra questione importantissima è quella dell'ambiente spaziale, naturale-residuo e artificiale; e il mondo come intercapedine perdurante tra la natura e la società, come l’intende anche Hannah

Arendt, nel suo scambio coevolutivo e coapprenditivo con noi. È complessa la relazione col nostro riprodurci nel lavoro specifico di consumo-finale, e mediante i beni sempre artificiali, con trasformazione e distruzione della natura residua. Sono questioni enor-

mi, sulle quali ci sono già movimenti, molta letteratura e ricerca.

Comunità e riproduzione Nell’«Introduzione» a Nella società industriale d’oggi ho definito esplorativamente la comunità come «un sistema di persone conviventi e interrelazionate sullo stesso territorio, aventi tra loro scam-

bi anche personali primari e nella reciprocità, e valori condivisi; agenti non solo per sé, ma anche per questo sistema socio-culturale che insieme costituiscono». Vanno aggiunte l’empatia, la fiducia,

l’identificazione anche collettiva ecc. Si tratta, allora, di riscontrare soprattutto la dimensione culturale dell’ipermodernità, la quale può accordare sub-culture locali con una meta-cultura globale, o

almeno provarci. Si pensi, ad esempio, all'odierna americanizza-

zione accordata con la valorizzazione di tradizioni culturali locali. Per quel che mi concerne, malgrado tutto io accetto ben poco di

93

Samuel Huntington?*, però per quel poco lo studio: solo più sotto

la cultura locale è così importante. Qui ipotizzo che, malgrado tutto, Ja comunità

sopravviva al

di sotto della socictà, ma assai erosa, svuotata e spesso

nascosta.

Inoltre, che si trasformi nella tele-comunità che riduce i rapporti

e scambi faccia a faccia, le relazioni corpo a corpo. Oggi si parla

inoltre di «comunità virtuali», dove però l'interrelazionalità si riduce solo ad alcuni tipi di relazioni, si comprime ulteriormente il

potenziale di capacità dello pscudo-individuo, si allentano proprio i legami interpersonali e la reciprocità. Si entra nell’ipermercato globale e nell'infosfera globale ormai soprattutto come singoli attori esocombinati, c per loro parti e frammenti; nelle reti telecomunicative trascendenti l'arca locale. I riferimenti, i gruppi di riferimento, sono molto spesso extra-territoriali, viventi su schermi, o simulati. Così si formano, ad esempio, le mobilitazioni mentali che non solo anticipano le migrazioni, ma fanno già anticipare nelle teste le culture dove si sogna di andare, magari idealizzandole. È la potenza dei media. C'è ancora chi, comunque, continua a pensare la comunità solo come quell'antica del faccia a faccia fondata sul tradizionale territorio fisico o quasi naturale, una terra poco trasformata,

luogo

dell'interrelazione forte di corpi incarnati. Si tratta di una comunità che residua molto impoverita al di sotto dell’infosfera; e c'è chi valorizza o suscita una profonda nostalgia di quella antica, magari

immaginata, pure come un archetipo. E c'è pure chi parla ormai spesso della comunità come di ciò che manca, che solo si sogna??. Ciò comunque ripropone il locale, il suolo e il sangue, l’etnia perimetrata e chiusa, contro l'esterno come «altro», come il nemico: ma lo fa nel revival, nell'astratto? Bisogna approfondire la questione dell'orizzontalità locale, come luogo di iniziative, di vitalità,

di risorse e di energie umane, magari nella democrazia comunale

e diretta, che rivitalizza il sistema capitalistico verso ulteriori livelli di accumulazione. La fa sfruttando capacità-umane-viventi anche

nuove e nondimeno da alcuni ritenute residuali, magari talora non

a torto. Bisogna comprendere la miticità di ciò, la sua difficoltà di resistere e di riproporsi, nello svuotamento, come avviene per il dono. Bisogna farlo senza uscire dall'ambivalenza. Ridomandia28/ i) riferimento è a S. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2000 [N.d.C.).

79/ Si veda R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998.

94

moci allora come la riproduzione della capacità-umana-vivente si muoverebbe o si muove qui dentro, e tuttavia pure al contempo nel cyberspazio: verso dove? Pseudo-individuo

Un'ipotesi importante da ricordare è che l’agente-lavorante umano nella nostra società, in cui è attore-lavorizzato e lavoratore, è sempre più ridotto a questa sua capacità-vivente, di cui è vettore attivo e titolare abbastanza responsabile, ma con pochissimo possesso. Questo

pure nel suo partecipare alla capacità collettiva e sociale,

anche in seguito al rovesciamento sussuntivo e originario. E pure come impresa?°. Allora consideriamo tutte le numerose e pesanti trasformazioni che derivano oggi, nella psichicità iperindustriale, da questa situazione, singolare e collettiva. Cosicché ciascuno è lavorante, quindi lavoratore, persona o soggetto, in relazione all'interattività che ha con la sua capacità: questa muta in ciascuno

dei tre percorsi che ipotizzo (del soggetto, dell'agente, dell'attore). Oggi non solo ogni lavoratore è ancora molto esocombinato con gli altri, con i mezzi e le macchine-artificiali, senza controllo e neppure consapevolezza di ciò, ma si ritrova pure contrattualmente solo,

come impresa anche singolare. Inoltre è sempre più diffusa dai mass media liberisti l'ideologia dell’individualismo, però qui da noi i veri individui sono sempre più rari. Ci sono quasi solo pseudo-individui, la cui maturazione, anche nell’istruzione cognitiva, è sempre più difficile. Questo tanto più nel consumo-finale e come questione di modelli di consumo autoriproduttivo, che poi sfrutta servizi e prestazioni altrui. Ripeto

che l’individualità, adesso tanto precaria, non prevale nel nostro profondo: siamo pur sempre sociali. Questo è un grande nodo.

La capacità richiesta e il «mercato dell'occupazione» Si ripropongono ora questioni già anticipate fin dal «Prologo» di

Nella società industriale d'oggi. Sì tratta di dare un’altra occhiata critica alla domanda esplicita ufficiale di forza lavoro sul mercato dell'occupazione, confrontandola non solo con quella che effettivamente si richiede, data la consapevolezza e l'intelligenza non

30/ Il che non comporta tra l'altro solo competizione e concorrenza, ma anche che queste microimprese singolari si identifichino con le imprese maggiori che le inclu-

dono pure contro i loro pari, 31/ E nel narcisismo superficiale e superficista, in cui si dice che nessun occidentale sappia più donarsi nel profondo all'altro.

9$

eccessiva di molto nostro «padronato», ma pure con quella che dovrebbe essere richiesta ed effettivamente offerta per avere lo sviluppo capitalistico e tecnologico necessario per far restare sul mercato le merci traenti e strategiche nel periodo medio e lungo. O

eventualmente per entrarci sul serio. Ma poi pure per molto altro. Nello «sviluppismo», non dobbiamo

fare l’errore comune

di

credere che il nostro padronato conosca sempre con vera lungi-

miranza i suoi bisogni. Si pensa che sia sufficiente che l’offerta

e le organizzazioni che lavorano a plasmare l’offerta, tra le quali

la scuola, si adeguino alla domanda esplicita padronale di forza lavoro (ossia di valore d'uso a basso livello di realtà della capacità-umana-vivente, oggi in formazione permanente e perpetua) e la capacità di sviluppo/innovazione e di incremento della produttivi-

tà del sistema-Italia la si consegue. Non è così, ci vuole altro all’arretrato sistema-Italia! Anche perché per formare per certi profili professionali ad alta scolarità ci vogliono parecchi anni e quando

quel tal processo d'istruzione è concluso spesso le professionalità mirate sono già obsolete e se ne richiedono delle altre. Dunque, è sempre meglio orientarsi a una polivalenza flessibile che possa via via generare nuove specializzazioni solo temporanee. Per l'interesse del padrone bisogna andare oltre le richieste esplicite immediate e vedere dove tende ad andare davvero il la-

voro innanzitutto occupazionale effettivo italico; non solo, occorre insistere a formare nelle sfere riproduttive internazionalmente

più avanzate, sperando che magari la domanda di alta capacità più

vecchia (difficilissima a ri-formarsi) sia già andata fuori mercato e si sia allargata la domanda più «contemporanea»

di capacità

semplice e povera, meno difficile da produrre. Ma non è questa la tendenza in atto. L'obsolescenza e con essa l'innovazione che di solito escludono e distruggono, anche irreversibilmente, preziosa capacità-vivente-umana, è spesso inevitabile: si pone così spesso un enorme dilemma. Tuttavia, le nostre possibilità di crescere nella parte più potente e complessa, nel dualismo, sono ben poche. Inoltre le agenzie del sistema non devono orientare anticipando solo l'offerta? e la formazione, bensì orientare anche la domanda incapace, rancorosa e presuntuosa, a vista troppo breve e miope,

abituata a vivere parecchio di rendita e nella protezione. Operano qui difetti tipici di ogni mercato, per lorsignori da correggere, 12/ Cheinclude anche le famiglie in grande arretrato, e gli insegnanti, che di sbocchi

sul mercato futuro ne capiscono poco, 96

così come i frutti di alcune nostre patologie. Dovremmo verificare certe situazioni, sempre nello stesso «sviluppismo» che spera che il nuovo migliorerà le cose, o almeno lo farà il terreno nuovo del prossimo conflitto?’, e crede che questo nuovo l'abbiamo a portata di mano

pure noi italici. Ci sono pure i nuovi fautori delle vita-

lizzazioni locali del capitalismo, nella speranza di vie locali per correggerlo, migliorarlo, chissà. A ogni modo, basta uno sguardo

al nostro odierno mercato dell'occupazione per vedere che certa

domanda di capacità-umana complessa tira ancora, eccome, e dovrebbe tirare ancora di più domani. Perdurerà il dualismo della

domanda e

si protrarrà il problema del dualismo da conseguire

nell'offerta di capacità-umana-merce; noi siamo deboli nell'offerta

e produzione di nuova capacità-umana-vivente-complessa. Questa

è l'ipotesi. Se la capacità-umana-vivente contenuta e più o meno rinnovata di continuo nella corporeità umana è assai complessa, ampia,

differenziata e ricca tuttora di zone oscure e di misteri, alcuni dei

quali dureranno ancora a lungo, le sue esigenze riproduttive sono

a loro volta molto complicate, differenziate e problematiche. Allora, l'investimento nella ricerca e nella formazione non solo dovrebbe essere quantitativamente molto più elevato, ma mirato allo studio di vari e difficilissimi nodi della richiesta del lavorare prossimo

futuro, che sarà sempre più un lavorare anche di riproduzione e

di consumo-finale riproduttivo, sebbene più trasversale. E giunto

adesso il momento di vedersela con questa intricata e difficile problematicità. Ancora, bisogna approfondire l'ambivalenza e politici tà di questi punti, che non riguardano solo il padrone. Un cenno alla scomponibilità del corpo-umano-vivente C'è innanzitutto da riconsiderare il grande nodo anche teorico della separazione, della separabilità e soprattutto della scomponibilità e frammentabilità del corpo umano vivente, soprattutto dei singoli, però non c'è meno scomponibilità e separabilità di quello vivente collettivo e sociale. Di queste cose avevo ricominciato a occuparmi nelle mie vecchie Dispense dell'89, poi «abortite». La prima questione è quella dell’unità del corpo umano che sì dice funzioni sempre come un tutto; tuttavia, c'è una certa diffe33/ Lo sviluppismo e il tecnoscientismo sono stati la quintessenza del leninismo. Non sl capisce come oggi gli sviluppisti tecnoscientifici possano chiamarsi fuori rispetto alla questione del leninismo, e non vedere che forse fu proprio Stalin il mag» gior inseguitore della modernizzazione nel Novecento.

97

renza funzionale di organi, sub-organi e tessuti specializzati in detererminate sub-funzioni, cosicché una certa scomposizione e

frammentazione funzionale relativa delle capacità corporee è pos. sibile, entro certi limiti. Tali limiti, nell’avidità dei capitalisti e nel. le follie delle organizzazioni scientifiche di discendenza tayloristica, vengono ancora spesso superati, con scotomizzazioni estreme,

che talora o spesso risultano controproducenti. Tutto ciò fu tipico del taylorismo classico, ma si ripropone anche nell’iperindustrialità e nel mondo dei servizi riproduttivi: due volte, sul lato della composizione/scomponibilità di chi presta, e sul lato di chi riceve,

Adesso pure nelle tecno-psico-biologie e nelle nanotecnologie. E si devono vedere meglio sia le cause e presupposti, sia gli esiti, le

conseguenze e le portate. Ciò è complicato dal fatto che la scomponibilità-funzionale originaria del corpo umano vivente, nella sua carnalità e nelle funzioni intangibili, non è stata fatta (dall’evoluzione) per i bisogni del lavorare iperindustriale odierno e nei suoi poco differenti sotto-settori. Cosicché rimane un forte gap tra la

relativa differenziazione funzionale del corpo-umano-vivente e la scomposizione e frammentazione operata dal nostro sistema-sociale34, con i ruoli differenti e specialistici, con la loro frantumazione e dispersione. Inoltre, certe scomponibilità sono potenziali nella corporeità

ereditata ed emergono solo ex post nella sussunzione effettiva, e certe differenze si costituiscono solo nella differenziatezza degli usi e della richiesta differenziale, che una vera e propria frantumazione

ipertayloristica distingue

sub-facoltà nuove

nei nuovi

bisogni di uso e consumo della corporeità intera, che prima era più unita e non così distinta in quelle parti. Ciò si è sempre rinno-

vato storicamente, ma adesso l’ipertaylorismo scende a livelli molto bassi: nuove facoltà si scoprono, si inventano o si frantumano,

vecchie facoltà si buttano, lasciandole deperire e atrofizzarsi anche nell’unità indifferenziata del funzionamento della corporeità uma-

na, nell’obsolescenza. Qui è la biopolitica. Così, molti bisogni nuovi e differenti vengono soprattutto dai grandi limiti insuperabili attuali dei mezzi-artificiali e in particolare dell’odierno automati-

smo del macchinario-artefatto — quindi dai limiti di automatismo e autonomia del macchinario-artificiale più recente, e anche delle

più nuove tecnologie. Ci vuole perciò il «sistema» uomo-macchina

34/ Nel suo uso e sfruttamento iperindustriale e poi nei suoi sistemi di diversificata, differenziata, scomposta, riproduzione della consumata o consumanda capacità

98

aperto sull'uomo, che è tuttora insostituibile, anche come collettivo-umano-cooperante con capacità indispensabili ed esclusive,

oggì e pure domanì. Nella perfettibilità degli umani, si propone di

continuo il fabbisogno magari residuale di nuove capacità umane, sebbene nella trasversalità uniformante e ugualizzante, da studia-

re. imitare, razionalizzare e macchinizzare a loro volta. Qui ritro-

viamo il dilemma dell’obsolescenza della capacità-umana-vivente

soprattutto mercificata. Allora, abbiamo la storicità, il mutare sto-

rico dei bisogni riproduttivi; adesso da noi sono quantitativamente

e qualitativamente rilevanti bisogni nuovi, mentali, intellettuali,

ideologici, spirituali, soggettivi. Non solo. Oggi la gigantesca questione della brevettabilità di parti del corpo umano e quella del copyright sulle «opere d’inge-

gno», ci mostra alcune avvocature americane ridefinire dal punto

di vista delle grandi imprese per tutta la globalità cosa sono l’uomo lavorante, i suoi confini, la sua composizione; altrettanto, cos'è la società, i suoi confini e la sua composizione interna. Vengono mes-

si fuorigioco secoli di filosofia e ancor più di teoria, anche scienti-

ii

SR

i E

fica, cominciando col riformulare la teoria del valore/capitale ben

oltre il frammento marxiano sulle macchine, ed escludendo dalla decisione la grandissima parte delle masse cosiddette interessate ma invero ignare e indifferenti, comprese certe loro supposte «rap-

presentanze». Ciò non avviene solo nel Terzo mondo o nei paesi poveri, che invece talora cercano di difendere una loro relativa ricchezza di antiche risorse, ma assai in paesi e mercati come il

nostro. Qui sta crescendo un nuovo terzomondismo di fuga dai nostri problemi di sviluppo e di sfruttamento dei lavoranti, senza

dare nessun vero aiuto a quelli là. Più le tragedie, gli sterminì e

i genocidi sono lontani, più interessano. Tra l’altro, ce l'abbiamo un’idea di quanto è distruttivo della diversità il turismo, sempre occidentalizzante nei suoi veri esiti?

Qualcosina su bisogni e desideri nella nostra riproduzione I bisogni sono venuti alla ribalta in Italia alla metà degli anni Settanta” nei dintorni del libro di Agnes Heller?, che io non ho mai granché apprezzato. I desideri sono stati invece generalizzati e mitizzati nello stesso periodo da Jean-Frangois Lyotard e da ex operaisti francesi, che hanno pure fatto sparire gli interessi. I desideri 35/

36/

Su«Autaut» se ne sono occupati Pier Aldo Rovatti e Roberta Tomassini. Il riferimento è ad A. Heller, La teoria dei bisogni in Marx,

1974 [N.d.C.].

Feltrinelli, Milano

99

sono diventati allora subito di gran moda e molti se ne sono riem-

piti la bocca e la carta, senza che si sviluppasse una teoria coerente e rigorosa. Si è trattato di grandi polveroni, e dei primi passi nelle nuove ideologie post-moderniste. Nel mio Nella società industriale

d'oggi mi sono occupato di desideri e bisogni, anche a proposito

della finalità dell’agire-umano (sempre finalizzato per sua defini-

zione) in lavorizzazione specifica. Da lì riprendo qualche spunto frammentario. Partiamo dai bisogni, che stanno nella sfera della necessità: indicano mancanze, vuoti che siamo costretti a colmare. Anche i bisogni radicali, in fondo. Sono gran parte di ciò che siamo costretti a fare. Da alcuni decenni e tantissimo oggi, i bisogni ci sono

messi in testa o nel corpo dallo sviluppo della pubblicità, delle grandi retoriche capitalistico-industriali: ci sono indotti, per molte

strade, dirette e indirette. È un condizionamento che arriva fino alla colonizzazione, e mette in questione anche la democrazia: chi decide i nostri bisogni? Così, per il rapporto che i bisogni, il loro manifestarsi, il loro mutare, la loro impellenza, ha con la nostra riproduzione, il loro studio è importante pure per capire funzione e senso del nostro odierno riprodurre capacità-umana-vivente in senso lato, e il fatto che stia diventando produttivo di capitale. Qui mi interessano i nostri bisogni riproduttivi della nostra capacità.

Certo, i bisogni non sono tutti uguali e mettono in questione mancanze e necessità di parti e funzioni differenti della nostra corporeità vivente, separate più

o meno

artificialmente

e scompo-

ste. A questo riconducono pure le classificazioni e ri-classificazio-

ni dei bisogni: secondo parti funzionali del corpo da riprodurre, a

seconda degli strati e stati differenti di materialità da trasformare

mediante combinazione ai mezzi,

all'’organizzazione

e al mac-

chinario, da fare funzionare con capacità-viventi relativamente e residualmente differenziate, pure con parti specializzate di capacità-umana-vivente singolare e collettiva, da produrre e riprodurre.

È dunque un circolo. Tutti, ad esempio, conoscono già la classifica-

zione dei bisogni proposta da Abraham Maslow. La prima necessità

è rivolta ai beni nella loro materiale tangibilità, perché alla base

deve innanzitutto funzionare la carnalità del corpo che sostiene e

supporta anche il resto soprastante; poi il mirare non solo all’intel-

ligenza, alla creatività, all'invenzione, alla simbolicità perduta, ma

pure all'appartenenza, ai valori condivisi, e aggiungo — alla nuova religione del capitalismo. Nell’iperindustriale ci sono i bisogni degli agenti/lavoranti nel IOO

riprodursi per il nuovo lavoro; tuttavia, i bisogni nuovi di sopravvivenza e lavoro specifico odierno spesso non cancellano i vecchi.

La cosiddetta «libertà» potrebbe aversi tuttora solo una volta sod-

disfatta

la necessità primaria,

poi c'è la nuova necessità, nel fare

finalizzato e nel riprodursi per questo fare. Segnalo in particolare

i bisogni morali e ideologici: per la classe iperproletaria, almeno oggettiva, la soggettività è il suo momento precario. Sono bisogni anche contro la paura e le ansie nuove, al di là dell'occupazione in senso stretto. Per i propri bisogni, quando si ostacola la loro soddisfazione, le persone talora si mobilitano e lottano. I bisogni odierni esigono più che mai beni e prestazioni alla persona, servizi alla persona del lavoratore, direttamente e indirettamente. Sappiamo

anche che l'umanità (in una distribuzione media della ricchezza), aumentando nel tempo storico la potenza delle sue tecniche e così la quantità di utilità prodotta a parità di tempo esteso, e man mano

che ha raggiunto e sopravanzato l’eccedente, ha dato meno importanza ai bisogni di prima necessità, che sono anche quelli che si avvertono più nettamente, e si è dedicata via via agli altri, difficili da riconoscere, e sui quali sono facili l’imbroglio, la falsificazione e l’autoinganno, per i diversi livelli gerarchici della realtà umana

nella società-specifica. Ed è molto cambiata l’idea di necessità, e la necessità stessa.

Richiamo inoltre l’odierna sovrapposizione di nuovi bisogni e

utilità psichiche e ideologiche sopra le antiche, e sopra la prima necessità: utilità sempre più spesso immaginarie ma sentite come reali. Perfino il pane oggi spesso serve a tutto meno che a man-

giarlo. Per questo l'insieme assoluto di beni tangibili non dimi-

nuisce. Enfatizzo fenomeni come il consumo vistoso, l'esibizione dei prodotti firmati, i nuovi bisogni segnici, ideologici, etici e la

loro induzione nel cervello degli umani. Sovrapposizione non solo

per merci e neo-merci nuove, ma anche per quelle vecchie, così allargando e forzando i mercati, che hanno il limite della domanda nel tempo di vita scarso della gente iperproletaria, e la domanda

ha un'elasticità ampia ma finita. I vari consumi-finali entrano per-

ciò in concorrenza tra loro per il tempo sistemicamente scarso di nostra sopravvivenza, nel diventare impellenti per noi e inserirsi

nel nostro consumo-finale, in questa nostra riproduzione ricca di sfere aleatorie, astratte, mentali, incerte, indecidibili.

Tuttavia, ci sono da un lato i nostri bisogni come esseri uma-

ni più o meno sussunti che si debbono e vogliono riprodurre, e dall’altro i bisogni più potenti del nostro sistema sociale che a IOI

sua volta si deve e vuole riprodurre; sono i bisogni di questa società-specifica, e i bisogni del lavoro specifico. Bisogni di differenti

livelli gerarchici. Essi talora coincidono, talora no: dipende dall’au-

tonomia che, rispetto alla domanda di capacità-umana-merce sul mercato, riescono a ritagliarsi

o comunque conservano ancora cer-

ti lavoranti-umani-specifici, appunto nella specificità. Autonomia che sì dice serva anche a inventare il nuovo, a innovare. È vero fino

a un certo punto che non ci può essere contrapposizione tra i sin-

goli lavoranti e la società specifica”, infatti la società non è solo la

moltitudine dei singoli, è anche organizzata, strutturata. Così la

riproduzione della struttura sociale può trovarsi in contrasto con certi bisogni dei singoli, soprattutto con certi momenti psichici, mentali e ideologici. Per questo il capitalismo negli ultimi decenni

ha curato molto e con successo la formazione e la ricreazione in

questi sub-ambiti, nell'eccedenza. C'è poi un'altra questione già implicita nella prima: la separazione delle capacità possedute e tanto più richieste, non solo tra loro, ma da eventuali scopi (ieri «autonomi»?) del lavorante-umano medesimo, singolare e collettivo. E poi il riferirla a fini del sistema sociale, il ricondurla indirettamente al conseguimento del profitto e all'accumulazione di capitale e capitalismo, di dominio, allo sviluppo della tecnoscienza propria di questo sistema. Ci sono vari riformisti che da sempre denunciano la separazione dei nostri bisogni e fini da ciò che davvero serve o servirebbe alla nostra

migliore riproduzione. Da Amartya Sen a Claudio Napoleoni, ad

esempio, questa separazione è stata posta come questione centrale

del disagio e dell’alienazione umana, secondo loro ben più di un

talora improbabile sfruttamento da pluslavoro. Per molti, questa è da sempre la vera grande questione permanente esasperata dal capitalismo. Ma oggi nei paesi ricchi, oltre la prima necessità, lo è

ben di più. La questione di discriminare tra scopi e valori, espliciti

e consapevoli, e magari impliciti e inconsapevoli, e di decidere a tavolino e «di testa» cos'è in generale la gioia o il piacere e l’imin campo

parecchia ideologia e metafisica. Inoltre, ci riporta alla soggettività-umana nell’ipercapitalismo e nell’iperindustrialità in esso ancora inclusa. È un campo immenso, importantissimo e tuttora poco esplorato nell’eventuale ambivalenza, si tratta di un'enorme

ricerca da fare. Perché in buona parte e a pezzetti l'alta direzione 37/

Sitratta di un tema approfondito da Cornelius Castoriadis. 102

I

mette

lidiJE

portanza che così hanno è molto problematica,

che comanda strategicamente le maggiori imprese e il capitalismo

come sistema, piuttosto in segreto pare, questo studio se lo fa fare

dai suoi consulenti. Da qui ci avviciniamo alla dimensione che giustamente nella

seconda metà degli anni Settanta taluni (come Deleuze e Guattari, o Lyotard) hanno messo al centro: il grande nodo del desiderio. Io

dicevo allora e tuttora dico: desiderio radicale. A partire magari dalla teoria di Jung del desiderio, e del simbolo vero, che consente di investire molta energia, verso il futuro, ossia andando al di là e altrove rispetto alla forma del presente, immaginando e proiettando:

l'investimento libidico, nella e per la libertà. Anche per inventare l'alterità. Inoltre, mentre nella carnalità «fisica» il bisogno sentito con più forza creava spesso il desiderio, oggi nella psichicità è il desiderio indotto che diventa bisogno di massa, anche nella sua aleatorietà e spesso distruttività. Il desiderio consapevole e no diventa poi bisogno psichico e mentale di nuovo tipo; nuovo regno della necessità, psichica, ideologica, morale, è nuova dipendenza e illibertà. Pertanto oggi il confine tra desideri e bisogni è sempre più labile in entrambe le direzioni. Ad esempio, ci si inventa di propria

testa una concezione particolare e temporanea della gioia e si fa di questa un bisogno assoluto, condizionando e vincolando tutta la vita al conseguimento di quella bella pensata. Quasi tutto quel che si è detto sulla trasformazione storica recente dei nostri bisogni può valere anche per i desideri. Cenno alla questione del «piacere»

Oggi in Occidente, nei paesi più ricchi in primo luogo e anche in altri meno ricchi?*, la pressione per l'allargamento del mercato-finale e degli stessi spazi funzionali della valorizzazione e così dell’accumulazione di capitale, proseguendo la diffusione del consumismo aperta dalle rivendicazione nichilistico-fordiste dell'operaio massa e della classe proletaria del suo tempo, vede un grande ampliamento del consumo di beni e servizi di puro intrat-

tenimento. Già al momento del declino della grande ondata di lotte del proletariato ricomposto all’insegna dell’operaio massa esplose la questione dell’edonismo (che poi qualcuno disse reaganiano) contro la tradizione «sacrificista» del movimento operaio storico, 38/ Come ci mostra proprio la spinta all'emigrazione di gente che non manca nei luoghi d'origine del consumo di prima necessità e nemmeno di qualcosa di voluttuario.

103

soprattutto come nuova rincorsa, ormai sempre più singolare pure nella moltitudine soggettiva (ma con classe oggettiva), di ulteriori livelli di consumismo. Allora cominciò a riproporsi la questione del «piacere». Ma cos' il piacere? E che rapporto c’è tra il precedente sacrificismo ed eroismo, razionalista, dell’operaio professiona-

le e vetero-comunista, e l'odierno piacere ed edonismo?

Questo è

un momento fondamentale della soggettività, anche politica. E ci sono anche la gioia e il piacere dei masochisti, poi conta assai la sublimazione. Come si è formata quel che era già prima la perso-

nalità più profonda, che poi sarà difficilissimo trasformare? Dai tempi in cui su vari muri del Nord Italia si cominciò a leg-

gere la scritta «godere operaio», la questione del godersi la vita, del

piacere e della gioia è andata sempre più crescendo nella nostra sopravvivenza. E ha iniziato a presentare momenti

strani e con-

troversi. Pertanto adesso comincia a sentirsi in giro un bisogno di capire meglio la questione, di operare alcune distinzioni, di approfondire diversi fenomeni a ciò ricondotti, magari tradizionalmente o per abitudini che adesso si incrinano, oppure sono scalzate, so-

stituite. Ne è un sintomo l’inaspettata fortuna che ha avuto da noi, in ambienti vagamente sinistri, un libro di Slavoj Zizek, per il suo titolo davvero insolito??. Chiunque guardi anche solo il telegiornale si stupisce nel vedere persone in situazioni di vacanza faticare assai, spesso in gruppo

o del tutto sole, con tensione, ansietà e senza nemmeno l’ombra di

una qualsiasi creatività; ed è molto frequente sentirle dichiarare che adesso finalmente si stanno molto divertendo e provano un grande piacere. Si direbbe allora che la grande sciagura alla quale parecchi cercano di sfuggire non sia tanto la noia, quanto soprattutto l’ozio; infatti moltissimi fanno attività ricreative e ludiche molto noiose. Si direbbe infatti che moltissimi cerchino proprio l’alto ritmo e la vuota ripetitività, la proceduralità, la routine prestabilita da altri e memorizzata, annoiandosi anche nel cosiddetto «tempo libero». Si

guardi ad esempio come ballano. Fanno ciò come nel loro lavoro/ occupazione, non c'è nessuna compensazione. Non ha niente a che vedere, ad esempio, con il vecchio bricolage e giuoco che compen-

sava l'occupazione*’ quarant'anni fa. Oggi faticano spesso stressan-

dosi molto più che nel lavoro/occupazione, pure con più noia. Ciò comunque ci mostra che il piacere per tanti è dato da un agire, che

39/ Jlriferimento è a S. Zizek, Il godimento come fattore politico, Raffaello Cortina, Mi.

lano 2001 {Nd4.C.).

40/

Oggi invece c'è lavoro di giuoco.

104

ha moltissime caratteristiche basse di questo lavorare e che io pon-

go a livello medio e verso l'alto come «lavoro-di-consumo-finale».

È consumo di energia, di tempo, di materia, di mezzi, di valore,

di ricchezza, e poi in specie fruizione di peculiari servizi, spesso

detti riproduttivi e finanche formativi, ma non di rado meramen-

te distruttivi e autodistruttivi; servizi spesso anche costosi, di caro prezzo rispetto ai redditi dei lavoratori iperproletari. Molti di questi

lavori di consumo che darebbero piacere inseguono nuovi bisogni indotti, anche molto frustranti, come il faticare e il soffrire in condizioni climatiche spesso disastrose di molti turisti di massa che vanno sempre carichi, di buon passo e sovente non sanno neppure dove e a far cosa: di solito a guardare cose che non sanno nemmeno che cosa sono, che senso hanno per gli altri, per le maledette guide che li mandano lì, visitano e ascoltano cose che a loro spesso non dicono proprio niente. Eppure non solo lo fanno, ma lo ripetono!

Sembrano vivere e lavorare nell’occupazione proprio per prendere i

soldi per poter poi fare cose del genere. Piacere? Ma piacere esattamente di cosa? Come? Perché? Per quale personalità? È in gran parte lavoro distrutttivo, che dà piacere magari proprio perché ci si sente e riconosce nella condizione sicura di chi ha l'eccedenza e può permettersi di sprecare, grande dépence*, una sorta di consumo vistoso di massa, come è proprio per molti il consumo culturale. Questo lavoro di consumo più distruttivo che ricreativo, ma senz'altro ricreativo per altri (quasi mai davvero formativo, anche quando sia consumo culturale), rende certo qualcosa, però a qualcun altro: rende cioè guadagno e profitto

ad altri. Queste sono situazioni di vero sfruttamento, e di sfruttamento consumistico cinico dei consumatori-finali, ossia di masse

bisognose di sentirsi conformi, che così si sentono e si credono in autoriproduzione. Comunque sono attività lavorizzate molto volu-

te, desiderate. Per avere questi consumi-finali e poter fare questo

lavoro di consumo-finale sono disposti anche a mobilitarsi, a lot-

tare o a commettere delitti, soprattutto i più giovani. Lottare per cose del genere! Ma per quali valori e scopi i vari iperproletari sopravvivono?

Tuttavia, a un certo livello di realtà, c'è probabilmente in alcune pratiche e comportamenti qualcosa di davvero autoriproduttivo, nella loro situazione culturale, soggettiva, nella loro etica effettiva

e visione di fatto del mondo, se è vero che ricevono e sentono pia41/

Si pensi a Georges Bataille e alla sua parte maledetta,

105

cere, Ci sono anche molti che ci stanno davvero male, o perdono

il senno, e tuttavia insistono; però ci sono comunque altre attivita che danno agli iperproletari un vero piacere, ossia quel senso

di gioia o quell’ebrezza che chiamano

felicità, sensazioni

e senti-

menti, anche nell'immediatezza, in una forte spontaneità,

magari

senza contraccolpi e contropartite negative (oltre al prezzo). Anche per questo lavoro di consumo-finale spesso distruttivo4 e in buona parte autodistruttivo ci vuole una certa capacità, bisogna preparasi e addestrarsi, dedicarvi tempo ed energie nel resto dell’anno.

E altro denaro, oltreché attrezzarsi nella maniera conforme”. C'è dunque bisogno di lavorare nell’occupazione, per poi magari avere di questi lavori-di-consumo-finale-umano autoriproduttivo. C'è

un obbligo alla gioia, e in quella data concezione, sulla quale si è valutati e misurati. Comunque

sia, allora, il piacere dovrebbe essere capito ben di

più: perché molta gente è contenta in certe situazioni? Le cerca,

le vuole assolutamente? Che rapporto c'è tra piacere e godimento? Dobbiamo capire cosa significa una lotta sul piacere e sull’edoni-

smo, per altre concezioni, anche per altri modelli, legati ad altri

scopi. Noi siamo come ci hanno formati. Trasformarci davvero in età adulta è molto difficile. Per un'esplorazione del nodo del piacere io prenderei un’altra strada ipotetica, forse meno ambiziosa, più

prosaica e terra terra, cominciando e provando a distinguere due diversi concetti e tipi di effettivo piacere.

In primo luogo c’è un piacere relativo. Da un lato esplorerei un piacere alquanto relativo consistente nella sensazione/emozione di

soddisfare bisogni o desideri per i quali c'era o c’è ancora un’ansietà, una paura di non riuscirci, oppure solo una speranza, una

possibilità o un'illusione in più. Si procede così nella soddisfazione

di importanti bisogni di riproduzione propria o di partner, singolare e gruppale (nell’identificazione). Bisogni e desideri non sono necessariamente egoistici. Qui si sovrappone anche molto il piacere di acquisire o riconfermare un'appartenenza, di sentirsi conformi,

di conservare o mutare secondo un progetto un'identità, di essere riconosciuti adeguati, di essere omologati. Non tanto diversamente

va per la realizzazione di molti desideri: a livelli psichici, la distinzione tra i due tende a elidersi. Così possiamo anche esplorare la 42] La distinzione tra consumo-finale distruttivo e riproduttivo ai livelli sottostanti diventa davvero sempre più debole.

43/

Oggi spesso non si può dare due calci a un pallone o salire in bicicletta senza una

divisa apposita e costosa e in spazi esclusivi.

106

piramide del piacere nella soddisfazione/insoddisfazione**, nei movimenti e comportamenti di soddisfazione. Dobbiamo render-

ci conto che il capitalismo sa rilevare, comprendere, manipolare e produrre il desiderio/bisogno e la sua soddisfazione più o meno a quasi tutti i livelli della piramide, e così sa controllare gli scopi e

i valori che muovono la riproduzione degli umani, come capacità-vivente-merce, tra l’altro da esso ridefiniti. La composizione di

questa

piramide

rappresentare.

comprende

quasi tutto, e questo si può almeno

In secondo luogo, c’è un piacere edonistico, cioè il piacere che un

certo peculiare consumare beni e servizi dà di per se stesso. Sono beni e servizi in sé erogeni, con la questione complessa dell’eros in senso lato, indipendentemente dalla soddisfazione di bisogni.

Anche se a livello psichico, mentale o ideologico la distinzione è ardua, magari per la potenza suggestiva di chi lo propone e l’impone, con l’ebbrezza della trasgressione, o piuttosto con la contrad-

dittorietà di una nuova conformità sociale nella cultura globale edonistica, che spinge il consumo, in certe culture residue molto in contrasto con etiche personali, gruppali, locali o no. Scavando

ritroviamo spesso la soddisfazione del bisogno di appartenenza, di omologazione, di buona valutazione da parte degli altri e di noi

stessi. Il piacere che viene più dalle relazioni con altri con cui si

fanno direttamente o indirettamente le cose, che non dal valore

d’uso intrinseco del consumo erotico in senso ampio. Ma proprio il

fatto che l’erotismo sessuale (narcisistico), che si dice si vada sostituendo alla sensualità, è alquanto mentale, ci conferma quanto sia arduo distinguere i due piaceri. Tuttavia, almeno a certi livelli e in certi momenti, la distinzione sembra tenere. C’è un lavoro-di-con-

sumo intrinsecamente diverso da quello della mera soddisfazione di incerti bisogni, allora non si riesce talora a capire se li abbiamo

davvero. I due piaceri e i due lavori di consumo entrano nella riproduzione della capacità-umana in maniera differente. Un altro punto è la questione dell’edonismo come maniera molto mentale

di concepire il piacere e la sua importanza; maniera che muta an-

che storicamente, cosicché è importante vedersela con quel che è oggi. Dicevo prima, come subentra all’etica del sacrificio?

Sono infatti in gioco pure trasformazioni forti dei costumi, dell'etica. Ad esempio la fine di molto pudore, di ogni autolimi-

44/ Accolgo l'ipotesi che l’insoddisfazione non è il contrario della soddisfazione, ma sta su un altro piano.

107

tazione, della prudenza, anche della stessa propensione

al rispar-

mio, cosicché cresce l’insolvenza di masse che consumano, ovvero spendono per potersi concedere il lavoro di consumo-finale nor-

malmente, abitualmente, al di là dei loro redditi e del loro salario,

alla caccia del massimo di sensazioni ed emozioni piacevoli, e dei mitici sentimenti gratificanti (€ magari si considerano sempre bravi cristiani o bravi socialcomunisti), finché lo consente il tempo di vita intensificato ma pur sempre limitato, finito. Spesso sono solo miraggi. Ciò motiva moltissimi comportamenti, alimenta l’agire, spinge al lavorare, ci motiva cioè al lavoro insieme all’ansia, all’angoscia, alla paura. Qui la mancanza, l’impedimento, aprono anche

al conflitto, alla lotta. Concludo questo punto citando un importante libro di Aldo Bonomi (segno che qualcuno cominia a capire):

Il distretto del

piacere‘. Malauguratamente l’autore non ci dice cos'è il piacere*®. E, al solito, considera nei luoghi odierni del piacere solo il lavoro-riproduttivo (e i mezzi) di chi presta piacere agli altri, a partner

interni, di chi dà piacere come un servizio: è interessante, ma è una vecchissima storia e al medio raggio ci dice ben poco di nuo-

vo*?. Già gli antichi servi domestici facevano ciò, millenni or sono. Bonomi non coglie o almeno non approfondisce il lavoro fruitivo autoriproduttivo di coloro che vanno in giro a prendere e a ricevere

il piacere, il piacere della fruizione come lavoro oggi centrale, il

lavoro nella fruizione del piacere. Questo è il grande tema nuovo,

di grande portata, anche politica. In terzo luogo l'autore, che pure coglie l'esplosione territoriale e funzionale dell’«ombrellone» in spiaggia, non segnala il fatto che c'è un movimento che interessa

tutti i luoghi odierni di lavoro e così pure quelli di lavoro riproduttivo come una parabola,

o meglio come il periodo di una

spirale

che parte dal microgruppo, passa per il grande stabilimento e

ri-

torna oggi al microgruppo, però iperindustriale: nella mia ipotesi

il distretto, e a maggior ragione i parchi tematici che il distretto

include, sono un momento transitorio a causa della situazione del macchinario-artificiale che soprattutto potenzia e amplifica la pre-

stazione di piacere (come piacere nella prestazione, nello scambio); 45/

A. Bonomi, Il distretto del piacere, Bollati Boringhieri, Torino 2000.

46/ Bonomi non definisce c non problematizza mai le sue maggiori variabili. Gli piace volare basso. 47/ Molti sanno che, ad esempio, il vecchio Marx proprio nel Capitale sceglie il violi. nista e la prostituta, in quanto danno piacere ad altri, come esempi di lavoro-produttivo, per Ja sua teoria della valorizzazione del capitale. 108

ma un macchinario-artificiale potente più flessibile ne consentirà

la dispersione fino al livello dei singoli lavoranti in autoriproduzione, e nel loro rispettivo domicilio. Piacere redistribuito mediante

macchine-artificiali piccole, articolate, flessibili, ai singoli lavoranti edonisti, mutando la condizione di questi singoli.

Di nuovo la distinzione del lavoro dei due partner nei servizi Dunque, chi entra nella problematica importante e di recente grande sviluppo dei servizi di intrattenimento, piuttosto ricreativi,

sembra considerare come lavoro appunto di intrattenimento solo quello di coloro che, come partner del consumatore, prestano/

emettono delle utilità ricreative nell’intrattenere altri, i riceventi/

fruitori. Allora, nel merito di questo lavorare-di-servizio ripro-

duttivo di capacità-umana-vivente, non emerge proprio niente di

nuovo e di interessante; se non che anch'esso, con la sua relativa elasticità, è incluso nella nuova grande estensione del consumo-finale come luogo di valorizzazione e di incremento di capitale, creazione di nuovi mercati ecc. Questi servizi prestati, in se stessi,

sono anche molto antichi, ma adesso si iperindustrializzano, più

o meno come qualsiasi altro servizio che ora diviene Produttivo di

capitale. Magari proponendoci la suddetta questione di cos'è e di

come si può scomporre questo intrattenere, da dove esattamente venga, del suo muoversi tra piacere relativo e piacere edonistico,

con concezioni e sentimenti della gioia differenti.

Molto più interessante sarebbe invece l’approfondimento del lavoro-di-consumo-finale-fruitivo del consumatore-finale ricevente

in autoriproduzione nei luoghi dell’intrattenimento e del piacere edonistico (che magari sono dei non-luoghi). La maniera di peri-

metrazione (che muta storicamente) non è la cosa più importante. Si pone anche la questione di una dimensione peculiarmente psichica pure del consumare-finale odierno, che si va estendendo dovunque, in tuttii consumi o quasi, sicché magari l’intrattenimento

e l'edonismo vengono proposti come una dimensione sovrapposta, appiccicata sopra, privilegiata e fortunata, del nuovo sopravvivere iperproletario, anche femminile. Per i ceti meno poveri non è una cosa nuova; ma adesso ciò si va generalizzando per le masse iperproletarie dei paesi più ricchi, dove ormai tutto il sopravvivere è lavorare specifico, nondimeno tutto quanto o quasi vissuto come ricerca e acquisizione di piacere. Questo però è sempre e comun-

que incluso nella valorizzazione e accumulazione di capitale e dì capitalismo, di dominio, di tecnologia scientifica. È per questa via 109

che si propone la questione della ricchezza che un meta-territorio

annovera di consumatori edonisti come una peculiare ricchezza di

capitale, ovvero di capitale-umano. Non solo degli abitanti di quella zona che in qualsiasi maniera possono sfruttare il consumare e fruire di quelli, ma ancor più di alcuni che lì hanno proprietà e

possesso, di risorse che consentono di porre masse di altri come

proprio capitale-umano. Bisogna poi considerare l’adeguata capa-

cità-di-consumo-finale che questi consumatori devono avere, sia

nella loro coevolutività rispetto ai partner e alloro coapprendimen-

to, sia rispetto ai mezzi, alle tecnologie e macchine-artificiali di intrattenimento con cui si combinano, rispetto al contesto. Insom-

ma, c'è moltissimo da approfondire in questo lavorare di consumo-finale di servizi.

Necessità e libertà Nella psichicità crescente del necessario, nella quale c’è difficoltà ad avvertire e riconoscere i propri bisogni, come per l’esonero di Arnold Gehlen, la gente iperproletaria ha difficoltà a distinguere

tra necessità e libertà. E noi pure. Ci sono perfino bisogni che si creano pensando e parlando, con la suggestione verbale o l’imma-

gine visiva. Ancora il primato della visione. Cambia la nozione, la sensazione e il sentimento di libertà: cambiano i diversi livelli di

realtà della costrizione, coercizione, del comando

e del dominio, e

dell'autonomia. Ecco dei nodi da approfondire: dipendenza dai bisogni, loro induzione e democrazia; scelta poco condizionata tra alternative

riconosciute; decisionalità; la libertà come scelta di un nuovo e differente orizzonte; la libertà interiore e le condizioni esterne; la condizione dalla libertà degli altri (Kant), la scelta di alternative;

libertà e psichicità dei desideri; libertà e responsabilità; concezioni diverse della libertà.

Psichicità e commmercializzazione crescenti Scendendo un poco, ho definito l’iperindustria in termini di psichicità. Così vediamo pure aspetti gratificanti della simulazione, l'insistenza odierna sulla «superficità», l'identità ridotta

ai dati

della carta d'identità; poi, invece, il profondo degli umani con le sue rigidità e i suoi ritmi lunghi, messo illusoriamente da parte, ma che all'improvviso si fa sentire nelle crisi personali e nei crolli. Dunque non limitiamoci all'identità, scendiamo alla personalità e alla singolarità. IIO

I bisogni carnali, di ricreazione muscolare e nervoso-periferica,

richiedevano una qualità dei beni tangibili più facilmente control-

labile e gestibile (per il modo dell’insoddisfazione e della sofferenza da mancanza, e per una certa cultura di consumo-finale). Invece, i bisogni psichici e mentali — molto spesso questione di apparenza, di immagine,

di presentazione e rappresentazione — sono molto

meno determinati, la loro soddisfazione dipende assai da strategie di marketing, da politiche commerciali*, sempre più da promozioni complesse, sofisticate e costose, che richiedono lavoro commerciale intangibile complesso, e anche molta ricerca sull’anima, dalla psicanalisi in poi. La loro fruizione si ottiene mediante culture astratte, segnicità mentale, competenze faticose, effimere e sempre

da inseguire, con continui stressanti aggiornamenti, perché questo

è l'aspetto più rapidamente obsoleto e caduco, dipendente da mode

di periodo sempre più breve. L'appartenenza attraverso la moda si sposta sempre più nella psichicità in senso ampio. Grandi apparati

di marketing rilevano le potenzialità di induzione, di assorbimen-

to, di condizionamento,

anche di induzione di desideri e bisogni

sempre relativamente nuovi, almeno in superficie. È una coloniz-

zazione continuamente rinnovata, sempre più verso le psico-bio-

tecnologie di creazione del consumatore, del lavoratore di consu-

mo-finale, nel senso che realizza praticamente (nell’ambivalenza) il

consumare, l’utilizzare e soprattutto il fruire finali, tra distruzione e riproduzione, spesso lasciando dietro montagne di rifiuti.

Il salario sociale Il prezzo d’affitto di questa capacità-lavorativa-umana-merce è il salario-di-fatto. Il salario, pure a livello macro, è la quota di reddito dedicata alla riproduzione della capacità-umana-vivente. Il salario, in specie monetario, è diventato il reddito monetario del proletario

lavoratore, datogli come contropartita del dispendio di capacità e anche della sua riproduzione, perché il proletario salariato potesse

acquistare le merci necessarie per riprodurla*° e allargare il mer-

cato (così nel fordismo). Allora, però, è anche vero che talora come contropartita®° potevano essere fornite al proletario direttamente dall'affittuario di capacità-lavorativa-umana salariata alcune di 48/

I marchi importanti con costi sempre più alti, le firme, il sistema importantissi-

mo della moda che allarga il mercato facendo buttar via merci ancora nuove. 49/ Lenin giovane vide la fonte delle crisi cicliche capitalistiche nella differenza tra il salario come costo e il salario come reddito. 50/ Come nel cosiddetto, e precedente nel tempo, truck system, III

quelle merci, ossia non necessariamente il salario in denaro, mo-

netario, Soprattutto negli anni Sessanta in Europa si comprese che potevano essere date al proletario come contropartita del suo lavoro e dispendio di capacità socialmente

utile, o utile solo a qualche

capitalista particolare, altre utilità riproduttive intangibili, perfino

in apparenza gratuite (come i servizi pubblici), necessarie alla riproduzione. L'erogazione di questi servizi riproduttivi da parte di

enti pubblici c quindi dello Stato si chiamò «salario sociale» e lo si conteggiò in molte statistiche in aggiunta al salario aziendale. Nel welfare, il salario sociale crebbe quasi quanto quello aziendale. Scrivo al passato remoto, ma ciò non è finito.

Costi della riproduzione e valorizzazione del capitale Una questione importantissima è stata messa sul tappeto dall'esplodere del primo femminismo negli anni Settanta, quando a molti parve che fosse una grande e radicale minaccia per il capitalismo. Il patriarcato capitalistico,

a mia

ipotesi, si qualifica

so-

prattutto nel non pagare esplicitamente e al suo valore il lavoro-di riproduzione, prevalentemente

femminile.

Come

sappiamo,

il

proletariato ha per definizione la proprietà formale e molta della responsabilità e del costo di riproduzione della sua (e nostra) ca-

pacità-vivente mercificata, ma di rado ne ha il possesso. Questo cì

porta al cuore del capitalismo e del rapporto tra le due grandi classi-parti classiche, almeno oggettive. Quello della riproduzione della capacità-lavorativa è un tempo di lavoro-di-consumo-finale che ieri il padrone pagava implicita-

mente col salario degli occupati esterni, soprattutto maschi, e che

copriva a malapena il costo della capacità-umana erogata nelle artefatture e luoghi di occupazione extrafamiliare, così produttivamente consumata nel consumo-intermedio, e che poi bisognava

riprodurre, soprattutto altrove, cioè nella riproduzione diffusa e in

quella separata, in particolare a casa. Questa riproduzione era in

gran parte fatta dalle donne proletarie, ma in apparenza gratuita-

mente: invero il loro lavoro di prestatrici di servizi riproduttivi a partner interni era mal coperto dal salario dei lavoratori occupati

maschi, i quali spesso si comportavano come titolari anche del salario che copriva il lavoro riproduttivo femminile ma veniva dato

a loro, che molte volte lo spendevano solo per se stessi. Così le don-

ne erano proletarie due volte: perché asservite anche ai loro maschi

ed escluse da molti diritti conquistati dai salariati stessi, II2

e perché

anch'esse

vendevano/affittavano Ja loro capacità-vivente, anche

quando in apparenza la regalavano. Dico «in apparenza» perché

bisogna considerare le contropartite: una parte del reddito e del salario familiare comunque le donne di solito lo consumavano, a parte la reciprocità. Negli anni Settanta gli operai trainarono tutti i proletari ad appropriarsi del sovrappiù rilevante dovuto alla socialità dinamica e all'organizzazione collettiva del lavorare che il padrone riteneva sua, e al macchinario-artificiale che ne derivava. Strapparono anche servizi riproduttivi pubblici, gratuiti o a prezzo politico. Questa

appropriazione operaia collettiva di una parte significati-

va e crescente dei frutti della collettività e socialità del lavoro con macchine artificiali riduceva molto i saggi di plusvalore. Sulla scia di ciò è avvenuto che delle proletarie femmine furono in parte por-

tate da alcune femministe a rivendicare che fosse loro pagato in

maniera diretta e congrua il lavoro femminile che allora si riteneva di riproduzione, in specie il lavoro emesso, trasmesso, di cura. Così ci sono state femministe (da noi soprattutto le «padovane») che hanno rivendicato il pagamento diretto del salario al lavoro domestico delle donne e secondo il suo vero valore, calcolato allora su una media di circa cinque ore al giorno. In Italia sono state proprio

queste militanti del movimento «Lotta femminista» ad avviare per

prime, fin dagli anni Settanta, lo studio e la rilevazione della riproduzione, intesa abbastanza come riproduzione della forza lavoro umana vivente, realizzando un grande e importante lavoro, anche

di notevole portata politica, con potenzialità all’epoca quasi rivoluzionaria. Ciò per un decennio. Mi pare che da noi siano restate abbastanza abbandonate a se

stesse. Tuttavia da loro ho imparato molto5!, benché con qualche dissenso, credo minore. Però, neppure loro hanno rivendicato la retribuzione di tutto il lavoro di autoriproduzione e autovalorizzazione della capacità-umana-vivente di tutti quanti in famiglia e in casa, compresa quella di altre donne, riceventi e fruenti. Tantomeno si sono poste la questione del pagamento a prezzi equi di tutto

quanto il lavoro di riproduzione, anche di quello emesso e dato ad

altri, a partner, fatto dagli stessi maschi, in famiglia e fuori, neì rapporti primari e negli scambi reciproci informali: è stata una scelta ideologica. Qualora si fosse imposto un simile pagamento, s1/

Una

rivelazione fu il libro di Leopoldina Fortunati L'arcano della riproduzione.

Gasalingia prostitute, operai e capitale (Marsilio, Padova 1981), che mi fu mandato în ono.

113

avrebbe dato un colpo quasi mortale al capitalismo mondiale

di

allora, già all’inizio di una crisi strutturale globale, e al suo pa-

triarcato. Inoltre, pur ignorando il fondamentale lavoro fruitivo e di autoriproduzione, queste femministe — rifiutando certi ruoli, le culture sottostanti e le concezioni del maschile e del femminile

vigenti, rivendicandone altre qualitativamente molto diverse, con

maggiore relazionalità e maniera diversa di porsi nel lavoro-specifico e nei rapporti del nostro lavoro (e non solo di mera occupazione) — minacciavano non solo l'equilibrio precario tra produzione

e riproduzione, ma pure tutta la forma del sistema sociale capitalistico del tempo. Non è mia intenzione esaurire qui tutta la complessità, l'ampiezza e la radicalità delle richieste dei vari e diversi femminismi negli ultimi tre decenni, le loro motivazioni e fondamenti, dove sono sboccate e dove non lo sono, di chi ha vinto e di chi perlopiù ha perso. Comunque la questione del lavoro proletario

non pagato non finisce qui. Nella differenza tra i vari movimenti femministi piuttosto borghesi residuali odierni, che rimuovono la questione del salario, e il movimento di lungo periodo delle donne effettive nel capitalismo mondiale e globale.

Le donne ancora educano i fanciulli: danno loro la capacità di sopravvivere in questa società specifica, come questa richiede. Non formano tanto alle professioni, che però contano sempre

meno. Faccio notare che purtroppo anche i vari femminismi®? (ancora per ideologia di parte piuttosto miope) hanno considera-

to e messo sul tappeto come lavoro riproduttivo non pagato solo

le prestazioni di cura e in generale di riproduzione emesse e trasmesse dalle eroganti ai partner riceventi e fruitori, in specie ai maschi. Non hanno visto e posto la questione enorme del lavoro di consumo-finale di autoriproduzione fatto dai riceventi/fruitori

stessi, nemmeno quando erano e tuttora sono donne fruitrici di prestazioni riproduttive. Hanno ignorato (moralisticamente?) que-

sto grande lavoro-di-consumo-finale fruitivo di autoriproduzione.

Si tratta di varie altre ore di lavoro al giorno! Ma negli ultimi anni

la questione è venuta fuori, ad esempio nella rivendicazione

del

salario al cittadino-consumatore-finale (ed elettore) e già così lavoratore: farsi pagare tutto quanto il lavoro-di-consumo-finale, compreso il sonno, le vacanze (che sono molto spesso lavoro-specifico

duro) ecc. E farsi pagare pure il lavoro distruttivo, ossia la faticos2/ Ci sono stati e ci sono sette od otto femminismi, in inconciliabile conflitto tra loro, con posizioni diverse e spesso contrapposte, tra loro non mediabili.

I14

sità e il tempo di certo consumo-finale-distruttivo. Sarebbe stata la prima risposta, allora terrificante, al patriarcato specificamente capitalistico su questo terreno. Risposta «economica»? Non solo.

Inoltre tale rivendicare poteva inserirsi in una lotta dell'intero proletariato per una società diversa da sostituire (o affiancare?) a questa. Tutto ciò varrebbe ancora oggi per l’iperproletariato e le donne iperproletarie. E in queste rivendicazioni contano i tempi, i ritmi,

la velocità. Cosicché nella parzialità e la lenta gradualità dei movimenti il padrone ha controllato i passaggi riuscendo a trasformarli in una dinamizzazione e modernizzazione del suo sistema e della sua società.

Oggi i vari femminismi che avevano minacciato la fine del capitalismo vi trovano invece cittadinanza; non solo, certe rivendicazioni di servizi sono ben accolte dagli stessi tecno-burocrati pubblici perché hanno migliorato il sistema capitalistico. Accade

così quando le dinamiche rallentano e si fermano. Il nuovo grande

movimento femminista che poteva cambiare e trasformare radi-

calmente l’intero mondo, oggi ha ottenuto abbastanza cittadinanza dentro questo capitalismo e perfino dentro il suo patriarcato sussunto. Malgrado ciò molto raramente si incontrano femmini-

ste autocritiche!

Tra l’altro, su questo piano erroneamente sentito come «sinda-

cale» ed «economico» del costo del lavoro ci sono tre grandi vie universalmente riconosciute con le quali il patriarcato capitalistico

deruba tuttora le donne proletarie e iperproletarie (e con ciò tutto l’iperproletariato): 1) pagare meno il lavoro femminile a parità di prestazioni; 2) collocare il lavoro femminile a gradi della gerarchia più bassi del dovuto, col mancato riconoscimento della qualità e

valore della capacità-umana-vivente posseduta ed erogata dalle femmine nelle loro occupazioni e prestazioni; 3) sottopagare moltissimo le prestazioni riproduttive o far finta di non vedere la loro mercità, la loro importanza, il loro valore. E molto spesso le donne

accettano. Perché53 Inoltre,

momento

questione

non

certo meno

importante,

proprio nel

in cui la questione dei costi di riproduzione si poneva

(soprattutto grazie a certi femminismi) è intervenuta anche la tendenza capitalistica a rendere Produttivi (di capitale) i servizi riproduttivi vecchi e nuovi almeno come luoghi di prestazione/ emissione e di riproduzione di altri da sé. Come sì erano create, 53/

lo comunque non gliene faccio una «colpa»: ambivalenza?

IIS

negli anni Settanta, in seguito a rivendicazioni o anticipandole, aziende pubbliche di nuovi servizi riproduttivi. Si sono dunque co-

minciate a misurare e quantificare prestazioni altrui alle persone iperproletarie e si è avviata pure una loro nuova razionalizzazione. Sappiamo che anche la questione di rendere Produttiva l’autoriproduzione, come luogo di valorizzazione di capitale, è da tempo oggetto di analisi e razionalizzazione, anche per intensificare e macchinizzare nell’artificialità la riproduzione. Questa, tra l’altro,

può sempre più essere fatta pure da maschi, nella trasversalità che

invero sta riducendo anche la differenza tra i corpi umani viventi,

anche della corporeità carnale. E di solito per desiderio delle donne stesse. Si vuole aumentare il consumo-finale ma ridurre il tempo di lavoro-di-consumo per ogni sua unità, pure della sua sottoparte distruttiva, anche per la scarsità del tempo di vita degli umani in

Occidente. Notiamo che quando i costi hanno cominciato a crescere in seguito alle rivendicazioni sulla riproduzione, proprio la sua iperindustrializzazione volta ad abbatterli faceva vedere le pos-

sibilità non solo di risparmio di capitale, ma anche di risparmio

molteplice di lavoro riproduttivo e autoriproduttivo iperproletario,

e di sovrappiù specifico e di plusvalore in questo grande-ambito, pure in spazi ritenuti «privati»: ciò in particolare nei punti

più

avanzati del capitalismo occidentale in ulteriore globalizzazione. Nei paesi più ricchi è cresciuta una nuova valenza di sfruttamento

importante del risparmiare sulla riproduzione iperproletaria della capacità-umana-vivente in mercificazione infinita (e lì dentro pure di parecchio lavorare non riconosciuto, soprattutto delle femmi-

ne). Una nuova potenzialità di mobilitazioni-contro qui, «in casa

nostra»! Mobilitabilità che con la crisi strutturale diventeranno

forti e indurranno, spero, molti di coloro che adesso sì credono o

si sentono privilegiati a mobilitarsi. È un previsione più che una profezia. Ma voi che guardate solo nel Terzo mondo lontano, con sguardo materno, come vi sarete preparati per un’eventuale lotta qui in Occidente, per voi stessi

e non solo per solidarietà

come

valore per altri? Scegliendosi per sé il meglio di altre civiltà, ma lasciando agli autoctoni gli aspetti negativi.

Perciò adesso si accelerano e crescono proprio in Occidente due

o tre impresizzazioni: il dare fuori a imprese «private» di servizio; il riportare una certa parte della riproduzione (ieri portata fuori dalle famiglie proletarie nei «servizi sociali pubblici») di nuovo

dentro la nuova famiglia iperindustriale impresizzata, ora poten116

ziata con nuovi mezzi e macchinario-artificiale riproduttivo flessibile, pure di piacere; la trasformazione di altri servizi pubblici esterni in imprese pubbliche vere e proprie. Ciò anche sul versante dell’autoriproduzione, della fruizione. Mentre la globalizzazione capitalistica fa sviluppare anche un nuovo terzomondismo come fuga, non solo come solidarietà e valore, come lotta comune e unica, cresce da noi un nuovo ulteriore sfruttamento del lavorare-specifico occidentale, che sembra non essere rifiutato da nessuno. D'altronde ormai noi qui siamo sem-

pre più tutti imprese, per quel che facciamo nella nostra sopravvivenza: si tratta di lavoro-specifico fatto sempre più da imprese singolari. Bisognerebbe che cambiasse la soggettività iperproletaria controllata dal padrone con la sua formazione permanente per mobilitare qualcuno contro ciò, e poi nell’eventuale mobilitazione per contribuire a cambiare un po’ ciò che gli iperproletari di solito hanno in testa. Contro-formare, contro noi stessi. Il composito

e sincretico movimento detto «no global»5 ci mostra che questo può ancora avvenire.

Più dentro la ricreazione o restauro di capacitàlavorativa-vivente Nel mio modello chiamo «ricreazione» o «restauro» la riproduzione semplice (vale a dire senza incremento) del valore della capacità-umana-vivente, valore di scambio e d’uso. Una delle questioni oggi più problematiche è, in molti casi, stabilire di volta in volta proprio se c’è suo restauro o no. Quello ricreativo è un sotto-gran-

de-ambito in notevole sviluppo e allargamento, a causa soprattutto dell’elasticità dei bisogni e desideri ricreativi e della loro domanda.

Ad esempio nel consumismo culturale, dilatabile pressoché all’in-

finito55, e contornato di collezionismi vari e di massa, è difficile riscontrare se si ricrea effettivamente qualcosa nel consumatore-finale. C'è anche lotta intercapitalistica, concorrenza, sulla ricreazione del duplice valore della capacità umana-umana-vivente-merce. Una grossa questione è dunque proprio la ricreazione sempli-

ce. Ciò avviene, da un lato, mediante beni ricreativi, quindi di autoricreazione solitaria mediante beni; anche se questi beni sono 54/ 55/

Pursbagliando nel valutare la globalità stessa. Limitato solo dallo scarso tempo di sopravvivenza umana.

117

stati comprati o affittati da qualcuno, che però non è un partner-ri.

creativo diretto, poiché la grandissima parte dei beni artefatti e quindi grandissima parte dell'artefattura del tangibile (in specie voluttuario) è rivolta proprio al consumo-finale-ricreativo, Oppure,

dall'altro lato, quella mediante servizi ricreativi, dell'impercepi-

bile; sappiamo che qui mi interessano soprattutto questi ultimi. In scambio interno unidirezionale o esplicitamente reciproco di servizi.

Il più grande limite e vincolo all'espansione di questi consu-

mi-finali è la scarsità di tempo di sopravvivenza

degli

iperpro-

letari-viventi dotati della giusta capacità-di-consumo di fronte all’estendersi nel tempo delle fruizioni-riproduttive desiderate e possibili, spesso non più intensificabili, comprimibili, macchinìzzabili-artificialmente, in primo luogo da parte dei riceventi in primo luogo, ma poi anche dei prestanti/emittenti. Ora, nel grande attacco al salario reale di fatto (il vero postfordismo!), c'è anche scarsità di reddito degli iperproletari medi, nel senso di middle class.

Sì è parla di produzione di lavoro vivo mediante lavoro vivo,

ma non è esattamente così. La scarsa intensificazione di queste prestazioni ricreative di valore della capacità-umana-vivente pri-

ma altrove consumata/usata, comporta pressione forte sull’uso di questa risorsa scarsa, in termini soprattutto di produttività gene-

rale del sistema; ciò adesso si ribalta proprio sui servizi riprodut-

tivi, anche per la loro scarsa Produttività. E c'è un grande sforzo,

qualitativamente rilevantissimo, di macchinizzazione-artificiale del consumo-umano. Da qui viene una crescente competizione

conflittualità infra-capitalistica,

e

a partire dall’appropriazione del

tempo intensificato di vita degli iperproletari, spesso tolto a consu-

mi magari socialmente più impellenti, colonizzando le scelte dei

consumatori coi mass media". È infatti proprio qui, per molti sin-

goli padroni, il luogo oggi privilegiato di allargamento dei propri

rispettivi mercati, e di fortissima forzatura commerciale e pubbli-

citaria dei bisogni. Gli iperproletari consumatori-finali sono spinti

soprattutto verso una ricreatività edonistica che non lascia dietro

nulla, tranne i profitti delle imprese che accumulano

in questo

meta-settore, che confina col consumo meramente realizzativo/distruttivo. Ci sono anche rifiuti intangibili, ad esempio il ciarpame

56/

Jrotocalchi sono luoghi di guerre pubblicitarie tra imprese, per la colonizzazione

de lettori /spettatori.

118

ideologico osoleto. Tutto ciò va a discapito della formazione, sulla cui insufficienza soprattutto qualitativa si piangono troppe lacrime di coccodrillo. Anche certi padroni cominciano ad ammonire

che ci sono altre maniere di investire e di carpire il tempo altrui, e utilità differenti da promuovere. Dati anche i limiti di competenza dei lavoratori singoli e dei collettivi lavoranti, da noi il tempo sociale carpibile è scarso. Un grande meta-problema soprastante è cosa è scopo in se stesso, scopo finale, e cosa invece è mera funzione per altri scopi più «ultimi», in quel che vuole o desidera la gente iperproletaria. Dove porta? Cosa ci propone? Chi davvero desidera, e perché? C'è poi la questione crescente dei servizi-ricreativi intangibili e delle prestazioni intangibili ricreative alla persona, perlopiù erogate dalla partner-riproduttiva emittente. Come sappiamo, certi

confini sono sempre meno facili da stabilire. La parte dal leone la fanno i vari sotto-settori dell’intrattenimento, del consumo visto-

so di massa da esibire per appartenere. C'è adesso una tendenza indotta al risparmio negativo, all’indebitamento permanente degli

iperproletari; i quali, mentre ieri consumavano più di quel che pro-

ducevano, adesso per intrattenersi consumano di più di quel che

guadagnano.

I settori ricreativi principali da esplorare sono: assistenza,

previdenza,

sanità,

sicurezza,

giustizia, residenzialità e disporre

di una casa, verde e ambiente pulito, natura (almeno apparente), vacanze e turismo di massa, scaricamento dei bambini (rinchiusi), sessualità (superficiale), intrattenimento e spettacolo nei suoi

molteplici sotto-settori merceologici/tecnologici. Alcuni di questi sono già considerati diritti fondamentali del cittadino-lavoratore, si comincia a rivendicarli e perfino a mobilitarsi per queste cose.

Sono oggi fondamentale via del mantenimento del profitto, ma si

comincia a rivendicarli in se stessi, per il «piacere», anche contro il profitto. Qui vi è dunque una determinante ambivalenza e politicità.

La solita formazione Sappiamo già che intendo con formazione la riproduzione allargata con incremento della capacità-umana-vivente e del suo valore di scambio e d’uso. Quindi si dà nel consumo-finale formativo.

È la formazione della personalità, del cosiddetto individuo, nella u9

quale entra anche la formazione professionale, ma come momento

molto secondario. Si tratta dell'incremento della capacità posseduta

più in generale, rispetto alla capacità-umana-vivente effettivamente

richiesta, domandata. Quindi da un lato essa non va confusa con

l'educazione, dall’altro tantomeno con l’istruzione, e poi con l’addestramento. Infatti è formazione, ad esempio,

anche il parto, la

socializzazione primaria, l'allevamento dei bambini. È proprio un

grande nodo, molto attuale, che anch'io devo approfondire molto:

un nodo anche assai problematico. Come e cosa si incrementa davvero oggi? E come lo si usa/consuma? Cosa di ciò è voluto di per sé

e cosa è imposto, indotto, più o meno direttamente da altri, per il vantaggio loro? Questo grande processo, sia concentrato e separato in luoghi

appositi (famiglia, scuola, parte peculiare del sistema massmedia-

tico e ormai telematico), sia diffuso trasversalmente dappertutto, ovunque si agisca e lavori, ha già nel mio Modellone un’importanza enorme, eppure è ulteriormente crescente. Tanto che io ho già dedicato alla sua industrializzazione e nuovo scambio con il lavoro-specifico-trasversale ben due volumi delle mie vecchie Dispense”.

C'è consumo-finale solitario formativo di beni tangibili (ad esempio leggere libri); anche qui c'è un rapporto con un venditore, ma non con un partner-interno prestante direttamente le uti.

lità formative. E c'è pure consumo-finale di servizi intangibili (ad

esempio guardare un programma Tv), dove invece è più importante lo scambio formativo con il prestatore-emettitore, come partner interno (chi ha co-prodotto il programma, non i suoi supporti). Occorre allora riaccennare alla questione

della

partnership

formativa, alla prestazione formativa unidirezionale come insegnamento e al suo corrispettivo, e poi soprattutto alla fruizione autoformativa come apprendimento,

fruizione

nello

scambio

o

anche autoformazione (e autoapprendimento) solitario. Guardare soprattutto allo scambio formativo tra partner, mediato dalla co-

municazione formativa. Ho detto che la formazione è da molti decenni in gran parte

eso-formazione. Ma la cosa è intricata. È formazione dall'esterno rispetto al singolo discente e al gruppo che impara, diretta e indiretta. Però, rispetto all’iperproletariato collettivo le cose cambia57/

R. Alquati, Introduzione a un modello sulla formazione,

11 Segnalibro,

1992; Un modello della formazione che si industrializza, edizione interna. 120

Torino

no, perché sono iperproletari anche i formatori, e i formatori dei formatori. Così siamo formati ancora nell'iperproletariato”, in

coevoluzione e coapprendimento, ma in una funzione del sistema e non

in autonomia,

soggettivamente. Siamo sì formati anche in

sedi separate, da altri iperproletari, ma per i fini del sistema, spesso in maniere prestabilite. Ecco il punto! Qui, in prima istanza, il collettivo è tale solo nel primo significato, debole, della parola. Perché ricorre su ampie scale e i forma-

tori iperproletari sono tanti, ma piuttosto frantumati, anche isolati, in specie soggettivamente, e così pure loro sono senza propria

autonomia soggettiva: tutti soli ciascuno alla stessa maniera, con gli stessi mass media e gli stessi modelli. E tutti che viaggiano,

anche consapevolmente, per i fini dell’ipercapitalismo. Invece a

certi livelli l’iperproletariato formatore non è granché collettivo, nel secondo significato dell'aggettivo «collettivo», ossia in quanto «collettivamente organizzato». Come occupazione iperindustriale

non c'è molta contiguità cooperativa immediata, in organizzazioni formative; ci sono piccoli gruppi formativi sparsi, slegati, distribuiti.

E neppure

tele-collettività organizzata in formazione. Allora,

benché adesso la formazione sia attuata da imprese e istituzioni, e così al loro interno prodotta da peculiari cooperazioni produttive iperproletarie di riproduzione allargata, di formazione come incremento della capacità-umana-vivente, non possiamo comunque dire che l'odierna formazione dell’iperproletariato riesca a essere davvero endogena, come fu quella proletaria a cavallo tra i due secoli trascorsi. Perché, ripeto, quando essa davvero c'è è organizzata

collettivamente (quasi) solo per i fini del capitalismo. Pure con metodi e scopi di grandi imprese.

I servizi formativi sono a loro volta in avanzata fase di iperin-

dustrializzazione, ovunque, e anche di impresizzazione e privatizzazione. Ricordo che qui conta moltissimo nella coevolutività e nel coapprendimento l’autoriproduzione dei fruitori, cioè appunto l'apprendimento,

che non è ancora l’autoformazione. Di ciò quasi

nessuno si interessa da un punto di vista orientato all'autonomia

di chi si riproduce cercando di incrementare la sua capacità, per

fini almeno più ambivalenti. Bisogna adesso approfondire come viene effettivamente incrementata dalle nostre parti la capacità-umana-vivente, con le nuove tecnologie e organizzazioni a questo dedicate, con il nuovo mac58/

C'è una moltitudine iperproletaria? 12I

chinario-artificiale formativo e anche con una certa applicazione

della tecnoscienza. Bisogna vagliare qui dentro, spingendo con la conricerca autonoma sulla faccia vecchia e nuova di ciò che sembra

offrire qualcosa anche a noi in un'eventuale autonomia. Un vecchio problema che si ripresenta in modo

drammatico

è

quando la formazione è uno strumento, finanche una funzione di liberazione, e quando invece è un fine in sé; tenendo conto che la nostra capacità è una merce. Ma il problema maggiore è l’esistenza

di una differenza o meno tra formare capacità-umana e valorizzare capitale.

Un aspetto ulteriormente importante della formazione è la produzione della soggettività umana, anche collettiva. Ricorre quindi il sogno di una risoggettivazione, pure alternativa, dell’agente/lavorante umano d'oggi, non solo singolare ma collettiva, e perfino «di classe». Risoggettivazione nel senso che se la classe c'è tuttora almeno come mero iperproletariato oggettivo, in se stesso, occorre

dargli soggettività autonoma e politica.

Noi consideriamo la moltitudine soggettiva come un limite da

risuperare verso la classe per se stessa? O consideriamo la mol-

titudine soggettiva come un punto d’arrivo strategico superiore,

ulteriore, già conseguito? E diciamo basta con le classi e le nazioni? O vogliamo contro-risoggettivarci e contro-risoggettivare? Infatti, ripeto, la soggettività di per sé non ha niente di alternativo al capitalismo; non è alternativa nemmeno alla cosalità. Intendo riaffermare la ri-soggettivazione-contro, antagonistica, perché vuole un’alternativa: non mi soddisfa questa moltitudine soggettiva com'è oggi, in questa cultura di massa. Dico controformare!

Comunque, il formare conforme col suo lavoro-di-consumo-finale è soprattutto un luogo baricentrico privilegiato: non solo per il tentativo disperato di rilanciarvi la produttività e la competitività del sistema-Italia, magari dal glocale, ma soprattutto per cercare di bloccare e capovolgere l’impoverimento soggettivo e di capacità-umana-vivente, che pur nel continuo potenziamento tuttora

procede. Potrebbe essere terreno baricentrale di confronto e con-

flitto consapevole, nel quale stiamo e interessa tutti quanti, e in più ruoli e funzioni.

Controformazione vuol dire anche liberazione da molte delle tradizioni storiche sterili o controproducenti della cosiddetta sini-

loro sincretismo: bisogna scremare! 122

nel

"Ml rzioninodI d di —

stra che ancora intasano le culture politiche dei dissenzienti,

| luoghi della formazione separata

Sono tutti molto importanti e hanno ciascuno la sua storia nel capitalismo; oggi i più antichi sono in ulteriore peculiare trasfor-

mazione, proprio nel senso dell’iperindustrializzazione e sussun-

zione ipercapitalistica. Sono famiglia, scuola, amicizia e gruppi

amicali, luoghi di incontro, rapporti secondari/terziari, la Tv, Ja

grande comunicazione e la telematica, o all'opposto l'interfaccia con la natura e il mondo nel senso arendtiano”’, Non è difficile a questo punto esplorarli singolarmente: fatelo, una certa letteratura si può scovare e usare. Ma questi sono luoghi piuttosto separati di formazione. Però una certa formazione per una residuale esperienza, come nella qualità totale, è diffusa almeno potenzialmente

in tutto l'agire umano in lavorizzazione in-finita. Tuttavia, i luoghi

separati stanno esplodendo e le loro funzioni parziali si diffondono. Molti luoghi separati sono sempre più transitori. Non dico più

niente su questo grande nodo sul quale ho già scritto più volte.

Un pochino di storia: richiamo alcune tappe Già in quel che ho detto finora era non solo implicita, ma spesso si è affacciata allo scoperto una storia della riproduzione di capacità-umana-vivente, con certi suoi principali passaggi storici. Adesso si potrebbe riprenderne sistematicamente qualcuno, cercando

come sempre ambivalenza e politicità.

Servizi privati e pubblici: tre momenti del riprodurre capitalistico

Bisogna distinguere più periodi nella storia interna del capitalismo e della riproduzione di capacità-lavorativa-umana-vivente in mercità. Sono almeno tre, li abbiamo già un po’ intravisti. In questa storia ci sono anche due o tre ben differenti «privati». Faccio pure lontano riferimento alla proposta maderiana della ripresa dell’insolita e quasi sconosciuta visione marxiana del comunismo

come proprietà e riappropriazione individuale nel possesso collettivo, contro l'appropriazione privata capitalistica. C'è da rifare, ad esempio, anche la storia parallela della famiglia e dei micro-

gruppi, come quelli amicali, in cui essa spesso si prolunga, e degli affini culturali territoriali e locali; d'altro canto, c'è ancora da fare una storia dello Stato e del suo uso da parte dei grandi gruppi

59/

Checi ripara dalla natura.

123

sociali. Ad esempio, in un periodo precedente e idealtipico della civiltà contadina e del protocapitalismo, tutta la riproduzione della

capacità calda degli umani si faceva in casa ed era a carico della famiglia e del vicinato, magari ancora ricco di parenti (all’inizio della sussunzione sostanziale capitalistica c'era pure una ricca comunità che in seguito verrà sottomessa, espropriata e poi ridotta).

La sussunzione anche formale parte da qui, trasformando profondamente la situazione. Nel primo momento della storia interna al capitalismo espro-

priatore/appropriatore che ha proletarizzato gli schiavi e gli arti-

giani/contadini poveri e indebitati, abbiamo avuto anche il primo grosso avvenimento: il mutualismo, legato all'importante

inter-

relazione tra sviluppo del salario e del lavoro salariato e sviluppo della macchina-artificiale e dei mezzi freddi, sempre più costosi. Lì, dentro il proletariato, nella stessa cosiddetta comunità proletaria, non c'era e non cresceva spontaneamente la cultura razio-

nal-scientifica sempre più necessaria al lavorare-specifico. Andava allora comprata o affittata all’esterno, e siccome costava relativamente cara la si comprava anche mediante il mutuo soccorso o attraverso solidarismi spesso idealistici di esperti perlopiù borghesi. Infatti, questa conoscenza apparteneva sempre più alla borghesia,

quand’anche non la producesse solo lei, e questa la vendeva facendola pagare cara. Dunque, ci si associava per ridurre il costo individuale dell'acquisto o affitto di conoscenza e competenza. Però, cominciava così a svilupparsi tra i proletari una cultura esogena, tecnoscientifica e razionalista, di origine borghese e tendenzial-

mente universale, o almeno universalista. Momenti esogeni fonda-

mentali della capacità-attiva-umana sono da ora rielaborati nell’esperienza proletaria diretta, indiretta e collettiva, ma vengono da

fuori. Fuori fino a che punto? Rielaborati e fino a che punto? Fino a quando questa rielaborazione terrà? O invece sono solo acquisiti mediante standardizzazioni, semplificazioni, banalizzazioni,

divulgazioni procedurali? Nella mutualità certe standardizzazioni

indicano le prime avvisaglie di industrializzazione del riprodurre

capacità-lavorativa-umana-vivente proletaria. Ma il mutualismo si trasforma anche nelle prime organizzazioni di una resistenza collettiva e concorre alle prime affermazioni del socialismo. Nel secondo momento, da una parte la riproduzione comunita-

60/

Brecht nel suo Galileo, che andava quotidianamente a studiare il lavoro degli ar-

tigiani ai cantieri navali di Venezia, mette in risalto il contributo del suo artigiano (Mazzonis).

124

ria e mutualistica nelle mani dei proletari si fa pericolosa, dall’altra

però, sotto il comando del capitalista collettivo, la riproduzione per il lavoro/occupazione comincia a richiedere competenza tecnoscientifica maggiore e strumenti, poi perfino macchine-artificiali

riproduttive notevolmente sofisticate. E un pochino anche vicever-

sa. Ciò malgrado l’estrazione sempre più proletaria dei ricercatori professionali che hanno prodotto quella conoscenza-scientifica ap-

plicanda; e nella condizione proletaria, nello specialismo dell’organizzazione-scientifica con cui i ricercatori lavorano. Spesso, nella

mobilità lavorativa a cui sono costretti, i proletari non ce la fanno a

ricominciare ogni volta da capo in un nuovo specialismo angusto.

I proletari allora hanno ottenuto (con grandi lotte, a partire dall’In-

ghilterra) che lo Stato passasse loro più o meno gratis le ormai indispensabili conoscenze di base, con la scuola pubblica, e si facesse

carico di una certa distribuzione (talora apparentemente) gratuita di tecnoscienza e di cultura generale «razionale». Così sono nati in

Europa, in seguito a lotte rivendicative, i servizi pubblici riprodut-

tivi

e di consumo-finale pure formativi, complementari a quello

che cercavano di fare le famiglie dei lavoratori proletari: è perciò

cresciuta anche la scuola pubblica e altri servizi pubblici ricreativi, nel significato di restaurativi (come sanità e previdenza). Questa

pubblicizzazione, che ha dato l’avvio al welfare state, è passata

spesso per una nazionalizzazione di servizi ex mutualistici. Lo

Stato è cioè stato costretto ad assumersi gradualmente una gran

parte della riproduzione ex mutualistica, in particolare della formazione. La riproduzione pubblica viene pagata allora dall’erario,

quindi in una certa parte pagata anche dalle stesse famiglie dei

lavoratori proletari medesimi mediante contributi e imposte. Tuttavia, la distribuzione di conoscenze ai proletari è avvenuta un po’ anche a carico di imprese e di parte dei ceti abbienti. Comunque, gran parte di questa previdenza pubblica era ed è pagata dai proletari stessi.

Succede allora che, in questo secondo momento, l’offerta di ser-

vizi riproduttivi/formativi al consumo-finale si divida in due. Su

un versante abbiamo quella privata, nel sopravvivere dell'antica reciproca cura negli scambi primari, nella reciprocità di prestazioni, di solito le più intime ed empiriche, che però cambiano nel taglio e nella maniera. Sull’altro versante questa reciprocità in diminuzione è affiancata da un'offerta pubblica, fatta di servizi riproduttivi pubblici erogati dall’amministrazione nelle sue articolazioni. Così

la riproduzione comincia a diventare industriale proprio con la sua 125

massificazione e le alte scale dell'utenza; è però tagliata sui bisogni

di capacità-umana-vivente delle imprese. È questo pure il cuore della metropolizzazione®!. Cresce così il nuovo «stato sociale» basato sul welfare e rivendicato dagli operai, che alcuni intendono come tendenziale sostituzione/estinzione del vecchio Stato dei tempi di Marx. Questa concentrazione di lavoro riproduttivo

e di lavoro

for-

mativo duplice, in aziende soprattutto pubbliche di servizi detti

«sociali», ha consentito forti economie di scala e i primi avvii di una loro industrializzazione piuttosto pubblica. Perciò, dopo il

mutualismo e dopo un primo momento, conviene anche econo-

micamente affidare molti servizi riproduttivi all’amministrazione

pubblica. Però sottolineo che, dopo il primo dopoguerra

«rosso»,

questa pubblicizzazione è stata ricercata dalla parte meno arretrata del capitalismo anche in Italia, perché ci si rendeva conto della crescente delicatezza politica e di incremento di forza dell’antago-

nismo nella conflittualità di classe che aveva il lasciare nelle mani degli operai di mestiere mutualisti, investiti dal socialismo e che già allora gestivano gran parte dell’artefattura professionale, anche la gestione diretta di buona parte — troppa — delle funzioni riproduttive, in particolare della formazione. Nella lotta di classe. Dunque nella mutualità, ma ancor più nel secondo momento del passaggio alla loro gestione e direzione pubblica, i servizi riproduttivi iniziano la loro lunga e lenta strada di industrializzazione. È l’industrializzazione pubblica della riproduzione, mediante lo

Stato. Notiamo che è stato il movimento operaio a rivendicare le pubblicizzazioni. Così cresce pure la scuola pubblica per i proleta-

ri. Da qui la presenza della maniera industriale dentro la riproduzione si fa diretta, e resta una questione soprattutto organizzativa.

Da allora, dunque, ritroviamo le determinanti dell’industrializzazione anche nei servizi riproduttivi (in particolare pubblici) e nella riproduzione incrementativa della capacità-umana-vivente-merce. Dovremo approfondire l’analisi di questo processo in cui l’indu-

strializzazione e l’industrialità intervengono come

grandi varia-

bili indipendenti sulla riproduzione soprattutto formativa quale variabile dipendente. E in seguito si richiederà macchinario-arti61/

Sulla sua critica e possibilità di superamento

in un’alternativa complessiva

si

veda il libro di A. Magnaghi, Il progetto locale, cit. Lo considero molto importante. Tuttavia, non mi ha persuaso a rinunciare a integrare questa strategia dal basso con un «dentro e contro», qualcosa che al contempo scenda dall’alto inventando ed esplorando qualcosa di effettivamente alternativo e che contro-funzioni.

126

ficiale riproduttivo e formativo sempre più complesso - si pensi prima agli ospedali, poi ad esempio alle scuole di lingua piene di macchine ecc. È stato perciò necessario istituire agenzie pubbli-

che che offrissero gratis o a prezzo politico prestazioni riproduttive proto-industriali in talune funzioni, come previdenza, sanità,

scuola, intrattenimento per proletari e operai, nelle sue numerose

componenti e nella persistente affluenza di massa. Fino al welfare.

Bisogna sottolineare che, salvo rari esempi di anticipazione poli-

co-paternalistica, ciò è avvenuto — dagli anni Sessanta dell’Ottocento in Inghilterra fino agli anni Settanta del Novecento in Italia — anche in seguito alla pressione e alla lotta operaia mirata proprio a ciò, come corresponsione di salario sociale. Ancora oggi perma-

ne qualche lotta difensiva (soprattutto di donne) sulla disponibilità

di servizi riproduttivi pubblici o sul loro allargamento. C'è stata,

ma anche in Italia sta passando, la fase della pubblicizzazione del riprodurre capacità-umana, del consumo-finale riproduttivo, nello stato sociale. Dopo, dagli anni Ottanta, inizierà anche da noi un

nuovo e terzo momento,

del lavoro-di-consumo-formativo della

capacità-lavorativa-umana, sempre di più merce specialissima, trasversale. Vediamo in breve la transizione al terzo momento, alla situazione odierna, di forte ridimensionamento dello stato sociale. Lo sviluppo del welfare La transizione dal secondo al terzo momento si è mossa lungo più vie. Come dicevo, nel secondo momento lo Stato dapprima ha dovuto e poi ha preferito tenere sotto il proprio controllo diretto alcuni

di questi servizi riproduttivi (difesa, giustizia, pubblica sicurezza, poi sanità, formazione scolastica, in parte residenzialità, previdenza) e di gestione delle infrastrutture. È un processo modernizzan-

te che raggiunge il culmine nel welfare state ottenuto dagli operai ricomposti nella breve e grande ondata di lotte tirata dall’operaio massa, anche come questione di salario sociale, contornata dalla rivolta giovanile e subito dopo da quella femminista. Il welfare si è affermato e sviluppato in Italia con le pressioni organizzate di

movimenti che sboccano pure nella politica istituzionale, magari tardivamente. Qui sono in primo piano le femministe dell’emanci-

pazione, che riescono a rivendicare con forza e lotte di massa nuovi servizi pubblici. In questo periodo si ha un forte sviluppo di nuove

infrastrutture e servizi pubblici, soprattutto riproduttivi, gratuiti o a prezzo politico. È salario sociale. Al contempo, anche perché la famiglia è in disgrazia, le donne 127

vogliono uscire a lavorare direttamente come salariate nelle nuove

attività riproduttive massificate, concentrate, proto-industrializ-

zate. Cercando una parità con i maschi, che ha pure valenza di una certa loro maschilizzazione, vogliono liberarsi di molto lavoro domestico, e ci riescono discretamente (anche grazie alle prime tecnologie e macchine-artificiali riproduttive distribuite). Alla fine del secondo momento, negli anni Settanta, nei servizi pubblici

di riproduzione separata della capacità-lavorativa-umana-vivente

sono entrate molte donne, anche come prestanti, soprattutto di

ceto medio in proletarizzazione: hanno ottenuto la loro occupazio-

ne direttamente salariata esterna, pur continuando il lavoro ripro-

duttivo domestico almeno in apparenza «gratuito», mutando così i termini effettivi del rapporto riproduttivo e di prestazione di utilità

riproduttive relazionali, a vari livelli di realtà. Moltissime donne si sono scolarizzate fino ai livelli più alti, tanto che adesso le donne

primeggiano nella scuola anche come consumatrici di istruzione in autoriproduzione. Allora, come ricettore della riproduzione pubblica nasce e si afferma l'importante figura dell’«utente», ossia del consumatore di servizi pubblici.

Per oltre due decenni lo Stato governa un ingigantito sistema di

offerta di servizi, prodotti da anticipi di iperproletariato e di «operai sociali», spesso espressioni di nuovi clientelismi e di corporativismi. Nel grande ritardo in cui le riforme giungono rispetto alla

parabola dei movimenti sociali di lotta e rivendicazione, tali ser-

vizi sempre meno si pongono la questione del come, per chi e per

cosa riprodurre la capacità-umana, e della metropolizzazione in cui essa funziona. Ciò diviene il compito quasi esclusivo degli enti locali, detti anche enti territoriali, sebbene spesso de-territorializ-

zanti, che rimagono ghettizzati in una funzionalità subalterna. La direzione dello sviluppo nell’accumulazione capitalistica rimane comunque nelle mani delle grandi imprese metropolizzanti. Questo è anche il momento generale della terziarizzazione. Succede che molti operai riescano davvero ad andare contro se

stessi proprio scolarizzandosi e terziarizzandosi nel lavoro pub-

blico. Si parlava perfino di de-operaizzazione e di deproletarizzazione; pure molti militanti di fabbrica approfittavano spesso del clientelimo rosso. Ci fu un’ipertrofia del terziario pubblico, e c’è stata la prima corsa al mettersi in proprio vissuto offensivamente come liberazione. Abbiamo una parte seguente del secondo momento, in cui l’ec-

cessivo sviluppo del welfare provoca una crisi fiscale dello Stato. 128

Certe posizioni di rendita della classe operaia diventano capitalisticamente insostenibili. Il welfare è visto presto, perfino in Italia, come

una palla al piede del sistema. Si aprono tre vie compresenti

e intrecciate per superarlo, seguendo modelli americani.

La prima via di transizione al terzo momento e verso il ritorno al

privato Nuovo mercato. In un terzo tempo, negli anni Ottanta e Novanta, si generalizzano nuove condizioni che aprono la via di una forte tensione e pressione per razionalizzre la produzione e l’offerta di

servizi riproduttivi pubblici di capacità-umana-vivente, redistri-

buendone frammenti e sezioni in imprese «private» specializzate,

per costruire e allargare un nuovo mercato dei servizi riproduttivi mercificati e mercantilizzati, ridimensionando il welfare. Ciò pas-

sando anche per momenti di transizione più particolari: outsour-

cing, cooperative, volontariato, terzo settore, insomma la cosiddetta «terza via». Come

detto, c'è massiccia induzione di bisogno di

questi servizi, commercializzazione spinta, forzatura del mercato,

spremitura dei consumanti e sub-fornitori, terzisti ecc. Però pochi

cercano di indagare come trasformare la compravendita di servizi in nuovi terreni di conflitto e lotta per sbocchi diversi, e ancor

meno riescono a farlo: comunque, merito a quei pochi che ci han-

no provato, gli altri invece hanno subìto o addirittura accettato. Lo sviluppo di un nuovo mercato per servizi riproduttivi competitivi,

sfoltendo posizioni di rendita di prestatori pubblici, razionalizzan-

do e innovando nel pubblico, è la prima via. La si percorre soprattutto per quei servizi ex pubblici vecchi, rinnovati e nuovi, solo ora ri-sussunti effettivamente e formalmente, per i quali esistono pure innovazioni tecnoscientifiche significative, grazie anche alla telecomunicazione e a scienze galileiane applicate agli umani, corpi estesi e anime. Questa prima via si pone forse più direttamente ed esplicitamente come ridimensionamento e ristrutturazione del welfare.

La seconda via di transizione al terzo momento Le nuove famiglie. La seconda via, dunque, è l’iperindustrializzazione delle famiglie iperproletarie (anche quelle di single, di gay ecc.) e il ritorno in famiglia di molte funzioni riproduttive che erano già uscite. È un ritorno che nei paesi occidentali meno arretrati rispetto all'Italia,

a cominciare dagli Stati Uniti, è già ben visibile; qui

traspare pure il proposito «reazionario» di buona parte dei capita129

listi di tornare a non pagare tali prestazioni e il lavoro di consumo finale, o comunque non pagarlo al suo valore. Ci sono donne deluse che tornano a lavorare in casa come riproduttrici domestiche

«professionali», sono nuove casalinghe. Però è un ritorno in una casa con nuove tecnologie scientifiche domestiche e residenziali e nuova capacità-umana, ad esempio la scolarizzazione delle donne continua a crescere. Anche grazie a nuove tecnologie flessibili e macchinario-artificiale flessibile, disarticolabile e riarticolabile con fasi distribuite, soprattutto in reti e in network di distribuzione capillare di competenza e procedure avanzate, che non vuol dire ricche. Ciò nel forte incremento di trasversalità tecnologica, dovu-

to parecchio all'informatica, alla digitalizzazione e alla telecomunicazione. Però, è falso che ciò che è tecnologicamente

più nuovo

sia più ricco e richieda capacità-umana più complessa. Soprattutto si diffondono nuove tecnologie redistributive di telecomunicazione e tele-rappresentazione (e di tele-elaborazione?) che sostituisco-

no relazionalità con tele-razionalità; il che trasforma, astrae e così

riduce pure la relazionalità corpo a corpo.

Non solo. Infatti, come dicevo, la famiglia e la convivenza ven-

gono assistite, soprattutto si possono attrezzare per loro iniziativa, in modo da diventare esse stesse piccola impresa abbastanza standardizzata e competitiva di riproduzione iperindustriale di capacità-umana-vivente in in-terminata mercificazione, oltreché

di altro. Per certi aspetti, la casa/appartamento iperindustriale

dell’iperproletariato torna di nuovo a essere — oppure diviene — competitiva, talora in un nuovo equilibrio tra offerta di prestazioni e loro consumo/uso da parte dei riceventi. La famiglia può dunque riprendersi all’interno alcune prestazioni interrelazionali, anche grazie a nuovo macchinario elettronico (e presto tecnobiologico e magari nanotecnologico), più automatico, più flessibile e meno caro a parità di prestazioni. Questo macchinario è sempre più lo stesso ovunque: cosicché adesso, con questa nuova riproduzione

domestica, si combinano in casa e in famiglia lavori a domicilio di occupazione in artefattura per l'esterno. Tanto più se la famiglia di fatto conserva un potere d’acquisto salariale discreto. Terza via di transizione al terzo momento: imprese di riproduzione Servizi riproduttivi privati. Date la complessità organizzativa

dell'alta tecnologia necessarie, il livello della scienza incorporata

e

centralmente per abbassare il costo e allargare l'applicazione po130

tenziante della stessa scienza applicanda, l'ulteriore sofisticatezza dell'utilità differente delle prestazioni nuove, succede che le maggiori imprese col bisogno di ridurre davvero i costi (almeno transitoriamente e selettivamente) e incrementare la qualità, nel suddetto bisogno perpetuo di allargare il loro mercato e una domanda

solvibile, continuamente a caccia di investimenti profittabili, adesso vogliono passare a produrre iperindustrialmente loro stes-

se i servizi riproduttivi. Perché ci sono appunto nuove condizioni

vantaggiose di tecnologia e organizzazione, di mercato e di potere d'acquisto, di debolezza politica degli iperproletari. Le grandi imprese (più o meno multinazionali) ora mirano a rivendere o affittare i servizi riproduttivi offerti, emessi, potenzialmente prestati. Lo fanno, ripeto, per il profitto che adesso lì diventa sempre più possibile, magari passando per soluzioni transitorie (come le coo-

perative torchianti e talora già razionalizzanti, il terzo settore solo funzionale, certo volontariato sussunto poco circospetto e molto ingenuo). Questo è allora un altro «privato»: protagonista e traente è qui ora la grande impresa articolata in rete centrica di reti, o ragnatela di ragnatele, la quale può indurre i bisogni e comandare i processi. Ormai lo Stato nazionale democratico dei partiti, in ridi-

mensionamento, sempre meno comanda e dirige la riproduzione; lo stesso statalismo o pubblicismo (operaio) ora appaiono come un breve periodo di passaggio da un privato all’altro. Anche qui, ricercare ambivalenza e politicità.

Riepilogo: ristrutturazione del welfare?

Riprendiamo queste vie intrecciate di transizione al terzo momen-

to. Come è noto, il welfare, o economia del benessere, teorizzato in

Europa fin dagli anni Trenta in sfere socialdemocratiche, in Italia perviene a un grande balzo negli anni Settanta, sulla spinta della

grande ondata di lotte operaie, la maggiore ondata offensiva della

nostra storia. Prende la forma di «stato sociale» ultra-keynesiano doroteo®, per cui si è detto che l’Italia democristiana è stata il maggior paese a socialismo reale dell'Occidente. Il welfare da noi si è proposto

consumismo

pure

come

la faccia pubblica del fordismo, col suo

e iperconsumo,

ed esibizione dell’abbondanza del

superfluo. In un secondo tempo, il salario sociale si è espanso più del salario aziendale ed è diventato spesso un salario (invero una 62/ rio».

l democristiani a gestione dorotea sono stati in Italia anche il «partito del sala-

13I

rendita) del cittadino utente proletario, giorno. Si è parlato di «Stato mamma» nis? che praticavano un deficit spending concessioni unilaterali e automatismi

in particolare nel Mezzoper i governi democristiapermanente, perfino con per «assistere» il proleta-

riato aggressivo di allora; concedevano rendite a parti della classe operaia che rientravano in un clientelismo rosso (la capitale è stata Genova, maggior centro dell’Iri e dell’Efim), a sopravviventi e resi-

duali vecchi operai di mestiere, in un sistema di voto di scambio e

di neo-corporativismo. Si parlò alla fine di accumulazione senza sviluppo. Una spesa pubblica ritenuta esorbitante è stata volta a caricare sulle casse e gestione dello Stato — indebitandolo, soprattutto a livello locale — una pluralità di servizi pubblici riproduttivi, che costano ancora adesso carissimi anche per inefficienze, clientelismi, sprechi sistematici, quindi con assai bassa produttività e spesso pessime prestazioni. È successo anche che una serie di leggi avanzate strappate dalle lotte negli anni Settanta siano arrivate ad attuazione negli anni Ottanta, quando i rapporti di forza e la situa-

zione politica erano già mutati, ribaltati; per cui esse sono parzialmente abortite e rimangono tuttora sulla carta. Negli anni Ottan-

ta, dopo il riflusso degli operai e dei movimenti, «ristrutturare il welfare» diventa la parola d'ordine. Ma questo avrebbe dovuto farsi già molto prima per iniziativa della parte proletaria, sviluppando modelli nuovi e alternativi di lavoro pubblico.

In questo quadro va approfondita la dimensione dell'effettiva

riproduzione della capacità-umana-vivente. Se è vero che non solo

ciò alimenta le tangentopoli e fa uscire il nostro sistema economico dalle regole del capitalismo concorrenziale, creando aree protette di spartizioni di rendite (chi le ha pagate? Torino è stata forse

la città-fabbrica che ha pagato di più6*), cid non consente neppure che, con l'avvento delle nuove tecnologie, la produttività genera-

le del sistema, la formazione della capacità-lavorativa italica e la qualità di molti servizi riproduttivi reggano di fronte alle nuove esigenze riproduttive di capacità-umana-vivente nel capitalismo globale complessivo. Ciò fin dagli anni Ottanta. Il privilegio nor-

mativo dei dipendenti pubblici clientelari e il coinvolgimento di

pseudo-sindacati residuali conservatori nella gestione burocrati-

co-clientelare perdurano ancora oggi. È in questione anche una 63/

Main una democrazia consociativa e neo-corporativa per via della concertazione

sistematica col sindacato. 64/ L'operaio (e pure l'impiegato) massa di Torino ha finanziato il clientelismo rosso

e la rendita dei professionali dell’industria di Stato.

132

certa faccia dello sviluppismo statalista e centrista da parte di chi si indigna dello sperpero, che fa il contrario del vitalizzare: addor-

menta. Non dimentichiamo che negli anni precedenti non si usciva comunque dal capitalismo, non c’era stata un’organizzazione

politica per questo, un progetto comunista, né un partito idoneo. Operai-redditieri, operaisti-populisti e clienti assistenziali, illusi,

si erano sdraiati nel sistema proprio mentre il padrone realizzava il grande balzo tecnologico e la controffensiva ideologica massmediatica che metteranno tutti gli operai classici fuori gioco. Il clientelismo rosso ha bruciato il lavoro pubblico agli occhi degli stessi operai privati che lo pagarono. Così adesso il welfare si ristruttura nella privatizzazione liberista, condivisa anche dai residui partiti di sinistra. Ma la distinzione tra sinistra e destra e finanche centro diventa sempre meno significativa$5. Tuttavia, è solo per il rischio di perdere vecchi privilegi che adesso certi ipertutelati lavoratori, soprattutto dipendenti da servizi pubblici, si mobilitano un poco contro la ristrutturazione liberista.

Un cenno al superamento del cosiddetto fordismo Torniamo indietro nella storia interna della riproduzione nel capi-

talismo. Nella combinazione tra taylorismo e fordismo, quest’ultimo è la parte concernente il consumo-finale. Il taylorismo esigeva alte scale ma consentiva, con l'aumento forte di produttività, di allargare notevolmente il mercato pagando più alti salari. Così per

la prima volta il nuovo operaio collettivo di quest'organizzazione scientifica seriale diventò consumatore dei prodotti voluttuari di

massa e di grande serie complessi che produceva e desiderava. Si

espanse un nuovo consumo di massa di una nuova produzione di

massa. Presto si diffuse anche un nuovo consumismo proletario,

ossia un super-consumo «eccessivo». Cominciò allora anche il consumo proletario del superfluo, e così pure consumo del «cul-

turale-umanistico» spettacolarizzato, piuttosto effimero, spesso

idiota e distruttivo. Oggi si parla di postfordismo, spesso confondendosi con un

post-taylorismo immaginario. Ma questo è vero solo nel senso che, nell’odierna crisi strutturale, è finita l'epoca dei salari relati-

vamente alti per tutti e c’è forte precarizzazione e mobilità, spesso

65/ D'altronde il movimento di classe operaia degli anni Sessanta e Settanta ha raggiunto il culmine della soggettività antagonistica e anti-capitalistica, forse senza di-

ventare maggioritario nemmeno allora, nel 1970-71, quando la forza oggettiva degli operai aveva già cominciato a declinare.

133

discendente. Solo questo è vero e pertinente: il taglio progressivo

e continuo del salario reale. Tuttavia, cose come la «qualità totale»

mettono ancora più di prima l'accento sul consumo-finale e sul

consumatore-finale, diventato — oltreché innovatore quasi gratui-

to — anche valorizzatore diretto. Fusione e unificazione di grandi-ambiti, ieri di funzionalità differente. Allora, per questi aspetti

di ulteriore valorizzazione del consumo e iperconsumo finale, c'è

adesso invece un iperfordismo! E c'è un consumismo dell’intangibile,

assai spinto nel superfluo, in tutte le sue forme, e c'è pure distrut-

tività crescente. Tanto più che qui è arbitrario stabilire i limiti del bisogno. Comunque, se il salario è la quota del reddito che paga la riproduzione, si apre una nuova epoca storica del riprodurre gli umani, all'insegna di un iperconsumo che si diffonde ed espande con nuovi settori, dove il riprodurre e il distruggere sono alquanto intrecciati, ma dove solo meno di un quinto degli iperproletari

in Occidente sembra esserci dentro, e più dei quattro quinti sono

esclusi e sopravvivono precariamente. È un iperconsumo per pochi, nel calare del salario reale e soprattutto del salario sociale. E

poi c'è il resto del mondo, piuttosto vittima della globalizzazione

capitalistica, che non è entrato mai nella «società affluente», come

si diceva ieri.

Oggi, con le nuove tecnologie e organizzazioni

Quando le nuove tecnologie, i nuovi modelli organizzativi e la pressione del mercato entrano dentro, o almeno circondano proprio i

servizi-finali-riproduttivi, qual è l’ultimo grido della riproduzione della capacità-umana-vivente? Quando sono pubblici e sempre più privati, a loro volta protetti e spesso in posizioni di monopolio e di complementarietà clientelari con il servizio pubblico di solito te-

nuto nell’inefficienza? Adesso siamo sotto un gigantesco controllo sociale di massa sottomesso al padrone, che si avvale di strumenti di persuasione ideologica e di retoriche potentissimi, in cui tecnoscienza e religione (vecchia e nuova) si mescolano. Ci sono nuove

tecnologie che, a partire dalle telecomunicazioni e dalla telematica, fino a certi settori delle biotecnologie, delle nanotecnologie e delle psicotecnologie,

rivoluzionano

proprio

la relazionalità,

reificandola. Ciò in un sistema complessivo di vita e di consumi basato sulle mode accelerate, lo spreco di massa, la conformità forte ai modelli, un ritorno di religione svuotata, un edonismo di massa che copre spesso la paura e l'ansia. Un aspetto fondamentale: com'è la riproduzione e in particolare la formazione del nuovo

134

lavorante autonomo

di seconda generazione? Che differenze o

alternative potrebbe davvero aprire?

Terzo momento: oltre i servizi pubblici riproduttivi

Con l’ambivalente sconfitta dell’ondata di lotta dei proletari-operai e il graduale declino dei movimenti delle cosiddette «non-classi» che le ha fatto seguito, è iniziato il nuovo e terzo momento, ancora oggi aperto. Alla fine degli anni Settanta anche il welfare all’ita-

liana (quello che ha conquistato lo «Stato mamma», assai clientelare e corruttore, con il voto di scambio e il neo-corporativismo)

comincia a decrescere ed entra in una crisi voluta. Approfondiamo questo terzo momento del riprodurre capacità-umana-vivente in mercità.

66/

Vedi il libro ormai noto di S. Bologna - A. Fumagalli, a cura di, Il lavoro autono-

mo di seconda generazione. Scenari del postfordismo in Italia, Feltrinelli, Milano 1997.

135

4. Nel terzo momento: in Italia ed Europa, americanizzazione?

Com'è noto, il prevalere del liberismo nella storia americana, e quindi la quasi assenza di socialismo statalista, hanno impedito lo

sviluppo del welfare negli Stati Uniti. Lì è rimasto limitato, e gran parte dei servizi-finali-riproduttivi sono non solo privati, ma da

tempo offerti da imprese, a scopo di lucro. Però, nell'attuale nuova

fase del capitalismo, anche in Europa gli orientamenti americani passano per esigenze di competitività complessiva dei sistemi nazionali e internazionali; non solo tra i capitalisti europei e italici,

ma

anche nel sistema politico istituzionale e nel governo dello

Stato amministrativo,

sinistra inclusa. In questo quadro l’ameri-

canizzazione, ormai avviata anche in Europa dai liberisti, consiste in una serie di processi tra loro analiticamente distinti, benché si

presentino intrecciati. Bisogna guardarci dentro. L'americanizzazione riempie la parte inclusa della globalizzazione capitalistica odierna. La questione si presenta come parte di un processo organizza-

tivo, però punta in alto, creando contraddizioni e conflitti, almeno

potenziali. Ci sono nuove aree di conflittualità specifica poten-

ziale, dove c’erano solo conflitti generici o burocratico-clientelari. Questo andrà assai approfondito.

Iperindustrializzazione dei servizi riproduttivi Ho ipotizzato come «psichica» l'iperindustrialità trasversale e com-

plessiva del lavorare odierno, intendendo così evidenziare l’emer-

gere crescente di aspetti sia cognitivi, intellettuali e spirituali, sia

timici (affettivo/emotivi) e di cura. Sottolineo inoltre che adesso,

per varie strade, cresce l’iperindustrializzazione stessa, quindi cresce ulteriore psichicità e artigianalità di aspetti della riproduzione

dentro la tecnoscienza. Come? Perché? Con che conseguenze?

La fabbrica riproduttiva € la società-complessiva-fabbrica cre-

137

scono, sembrano proporsi nell’iperproletariato nuovi «operai della riproduzione fabbrichizzata», soprattutto «operaie», anche nella casa-fabbrica (allora tuttavia non solo «operaie della casa»). Dunque, oggi dobbiamo studiare processi diversi, sebbene congiunti. Da un lato, cosa questa trasformazione complessa del lavorare iperindustriale complessivo (partito dall’artefattura) com-

porta in generale per il riprodurre e soprattutto per il formare la capacità che esso richiede, e come vincola il riprodurre? Dall’altro lato, sottolineo ancora che adesso ciò concerne pure l’organizza-

zione iperindustriale del lavoro riproduttivo, di entrambi i partner

interni dello scambio riproduttivo e di cura, diffuso in tutta la nuova riproduzione in modalità organizzative «nuove», appunto iperindustriali. Anche quando questo scambio interno sia già notevolmente macchinizzato in artificialità, e quindi sia pure scambio interno con un nuovo macchinario-artificiale! di riproduzione di capacità-umana-vivente in mercificazione in-finita. Come

vincola

l’artefattura, e poi la produzione? Continuo con questo secondo processo organizzativo di iperindustrializzazione, suddiviso in tre fasi: la razionalizzazione interna, per competere sui mercati; lo scorporamento e decentramento; l’impresizzazione vera e propria.

Riarticolazione dei cicli di riproduzione Bisogna pure guardare più a fondo al processo importante di ri-

articolazione dei cicli che si diffonde ovunque, come

riorganizza-

zione di ciò che resta dentro le aziende. Il fatto importante, che

costituisce una delle vere novità, è che qualche parte o sub-parte

che prima si ignorava, o scompariva dentro le vecchie prestazioni/lavorazioni, adesso viene messa sotto i riflettori e analizzata in dettaglio, per essere oggetto di innovazioni spettacolari e vistose, molto chiacchierate? Questo lavoro specifico, fino a ieri nascosto, ora viene spesso riconosciuto, aggiunto, contabilizzato. Prima queste parti e sotto-parti al massimo erano trattate? come frammenti

del valore e dell'utilità di altre merci in cui si incorporavano e alle

quali veniva riferita la produzione e realizzazione del sovrappiù 1/

Nella trasversalità crescente di tecnologia, macchine e organizzazione verso il me-

dio livello di realtà sociale specifica. ui 2/ Ormai perfino gli esperti di vecchie istituzioni «operaie» le contabilizzano.

3/ Soprattutto dal movimento operaio, non a caso operaista, tangibilista e artefatturista.

138

e/o del plusvalore, cosicché non se ne teneva conto; adesso invece

si considerano e contabilizzano, perciò si razionalizzano e macchinizzano. In queste innovazioni si hanno pure risparmi locali di natura e forma diversa, che arrivano fino alla riduzione del costo,

del valore e magari del prezzo del prodotto finale. Molte di queste prestazioni sboccano direttamente in nuovi grandi mercati per il consumo prima intermedio. Lì realizzano sovrappiù e plusvalore in proprio. Si creano così, separando dettagli sempre più minuti

e nascosti, nuove tecnologie di minor livello gerarchico di sussunzione, a loro volta sempre più minute, e nuovi mercati e profes-

sionalità sempre più specialistici e frammentari, di breve durata. Fino ad arrivare alle nanotecnologie che usano le particelle.

Altrettanto avviene adesso nei servizi-finali riproduttivi

Altrettanto avviene adesso per molto lavoro riproduttivo relazio-

nale e perfino di cura. Anche qui moltissime operazioni e intere lavorazioni riproduttive di capacità-lavorativa-umana erano nasco-

ste dentro servizi visti molto superficialmente e sinteticamente. Adesso, invece, vengono individuate, separando analiticamente e scomponendo dettagli sempre più minuti e nascosti, si sviluppano nuove sub-tecnologie di riproduzione di minor livello gerarchico di sussunzione a loro volta sempre più minute, basse, astratte e neo-trasversali; e nuovi mercati e professionalità sempre più spe-

cialistiche, frammentarie

e temporanee, oppure, al contrario,

nell’astrazione sempre più neo-trasversali, residualmente di riproduzione iperindustriale della capacità-umana-vivente-merce. L'astrazione è anche intellettualizzazione, o almeno linguisticità

iperproletaria; vi è un iperproletariato intellettuale, un'intellettualità iperproletaria, avvezza a lavorare nei e con i deliri, grazie anche

a novità tecnoscientifiche per paradigmi più flessibili. È importan-

te capire meglio questa coevoluzione tra îl taylorismo nella riproduzione della persona-lavoratrice e lo sviluppo verso il basso delle

scienze dell’uomo. Anche per tutti gli incrementi di produttività che si ricavano da questa razionalizzazione tayloristica del riprodurre c’è ora un saldo positivo tra il lavorare riproduttivo adesso riconosciuto e quello che si risparmia con le nuove organizzazioni

e tecnologie nelle fabbriche esterne dì servizi, ìin cui nella seconda

fase va a sboccare lo scorporamento tayloristico. Enfatizzo che si tratta di una nuova applicazione dell'organìz-

zazione scientifica e «razionale» del lavoro umano detta «taylorì-

smo».

Dunque,

il taylorismo nell'infosfera delle reti telematiche

139

e del virtuale non solo non è morto, ma si sta sviluppando molto proprio nei servizi, con la loro intangibilità: servizi-intermedi-produttivi all'impresa e servizi-finali-riproduttivi degli umani, ora

taylorizzati al masssimo.

Questo aspetto di un crescente mercato di frammenti del timico, del cognitivo/intellettuale e del comunicativo, e della persona-iperproletaria scomposta in frammenti pure nella sua riproduzione, è uno di quelli tipici*, più trainanti e importanti del Produrre capitale iperindustriale odierno, e dell’iperindustrialità stessa. Enfatizzo l'odierna baricentralità di ricerca scientifica, formazione, cultura, spettacolo, turismo, comunicazione, salute (soprattutto

psichica), benessere, sicurezza ecc. Alcuni di questi nuovi baricentri stanno dentro la riproduzione di capacità-umana-viventes. A me interessa in particolare, nella frantumazione neo-tayloristica del riproduttore, quella del formatore, che sta mettendo

in luce una moltitudine di sotto-funzioni sia dell’insegnare sia

dell’apprendere; esse vengono ora separate in nuove sub-tecnologie, sub-tecnoscienze e professioni parziali, iperspecialistiche, ciascuna ancora funzionante a relativamente alta intensità di lavoro, tuttavia di solito tutt'altro che ricche. Con tutto un mare di retorica e parassitismo tecnocratico intorno.

Decentramento odierno (seconda fase di impresizzazione) di sotto-funzioni riproduttive Il distinguere ed evidenziare da tutte le lavorazioni molte opera-

zioni soprattutto terziarie (in cui si trattano prevalentemente informazioni), e così molte operazioni ausiliarie di carattere piutto-

sto terziario$ e cognitivo-basso, di solito stupido, sbocca nel loro trasferirle altrove: sottraendole ai luoghi originari, assegnandole a

imprese specializzate. Si concentrano così lavorazioni uguali prese

da aziende diverse in una riaggregazione orizzontale in cui queste si ricombinano, con nuove tele-economie di scala. Giungono lì

4] Con quello dell'importanza della soggettività e dei mass media nel produrla e indurla, e dell'importanza dell'industria e del consumo invisibile, culturale, intellettuale, ideologico, mentale, spirituale ecc. s/

Eanchedentroilterzo settore!

6/ Osservo en passant che qui si intravvede una differenza tra il terziario in senso stretto come luogo impiegatizio in cui prevalentemente si trattano informazioni (e più strettamente di impiegati d'ordine) e invece il terzo settore più assistenziale, pre-

videnziale, affettivo-emotivo, di cura psico-fisica, intellettuale.

140

decentrate da molti altri cicli. Anche in conseguenza di ciò e delle nuove

razionalizzazioni possibili, si sviluppa nuovo macchinario

semi-speciale nella pluri-standardizzazione e nella nuova trasversalità. Poiché alcune di queste nuove imprese si riaggregano in nuove tele-costellazioni e per reti, e poiché molte di tali prestazioni spesso sono poi comprate o affittate dalle altre imprese come mer-

ci (il cui valore confluisce comunque in quello finale, soprattutto del prodotto tangibile), il lavoro complessivo di questi grandi cicli interaziendali cambierebbe poco. Solo questo si redistribuirebbe riorganizzandosi.

La seconda fase del processo di iperindustrializzazione e im-

presizzazione del riprodurre capacità è l’outsourcing di pezzi della

prestazione/lavorazione riproduttiva ieri intera. Si impone anche nel consumo-finale il fatto che momenti subalterni, funzioni e sotto-funzioni di cicli riproduttivi classici si autonomizzano presentandosi aziendalmente come luoghi di valorizzazione indipendente di capitale, con sovrappiù aziendale — se mai il plusvalore dovesse considerarsi a livello di singola impresa, come se fosse solo «micro» (cosa che non mi è mai sembrato opportuno assumere).

Allora, anche i servizi pubblici e in particolare quelli per il consumo-finale riproduttivo di capacità-lavorativa hanno il loro outsourcing. Hanno

cioè il loro dar fuori dalle agenzie e aziende

pubbliche alcune sotto-funzioni scorporate e magari delocalizzate, per quanto nei servizi alla persona sia più difficile (perché il più si eroga sul luogo e nel momento stesso del consumo, in contiguità, ovvero nel corpo a corpo). Prima, ad esempio, si decentrano prestazioni a cooperative «sociali» che sono momenti di transizione, poi

a nuove imprese riproduttive e relazionali solo dette sociali. Que-

ste diventano presto imprese come tutte le altre, e magari adesso sono quelle tipiche di una situazione generale. Comunque c'è tutto

un altro manifestarsi del valore aggiunto, ristrutturato. Servizi che

prima erano «finali» adesso lo sono solo per delle parti, ieri semilavorati; il resto dei semilavorati si raccoglie in nuove lavorazioni intermedie. Bisogna quindi approfondire il discorso sullo scorporamento di queste prestazioni al lavorante/lavoratore. Dunque, dentro il decentramento si nasconde già una parziale impresizzazione, per sotto-funzioni.

14I

Verso l’alto, terza fase: «impresizzazione» interna ed esterna

Come ho già più volte ripetuto, si impone anche nell’Europa culla del welfare, ben oltre la ristrutturazione organizzativa, l’impresiz-

zazione vera e propria, ovvero la fabbrichizzazione in senso proprio

dei servizi riproduttivi, in specie pubblici. Ricordando che la fab-

brica come luogo funzionale di Produzione di capitale, ovvero di Produzione di merci o utilità fredde o calde mercificate come valore/capitale, include poi l'industria e oggi l’iperindustria. Ricordo di nuovo che il «modo capitalistico» include la «maniera industria-

le», e ancor di più è inclusa la sua sub-modalità iperindustriale, anche per i servizi riproduttivi.

I quali possono

non

solo essere

industrializzati e iperindustrializzati, il che è soprattutto una que-

stione organizzativa e di medio raggio, nonché essere macchinizzati; ma possono essere pure fabbrichizzati, cioè trasformati in luoghi di Produzione di servizi-merce come capitale (merce che si

vende o soprattutto si affitta, Producendo e realizzando sovrappiù

di valore/capitale). Pertanto rimetto l’accento sulle fabbriche ripro-

duttive di capacità-umana-vivente neo-merce come valore/capitale umano e contenuto di capitale indifferenziato.

L'impresizzazione è dunque il processo per cui un’agenzia o un'azienda pubblica che prima produceva per il cosiddetto valore

d’uso, anche per quello riproduttivo di capacità-merce (ma qui so-

prattutto coperto dalla cosiddetta «utilità sociale»), viene sussunta al capitalismo direttamente come luogo di investimento, produzione di valore di scambio indifferenziato e pure di sovrappiù di capitale, finanche di plusvalore. Ovviamente, l’impresizzazione (ov-

vero fabbrichizzazione?) spinge molto l’iperindustrializzazione del riprodurre capacità-umana. Così impresizzati, i servizi riprodutti-

vi finali pervengono a esistere e a scambiarsi soprattutto tramite il mercato. La loro mercantilizzazione e la mercificazione superano adesso soglie critiche fondamentali. Ricordo che la demercificazione della capacità-umana-vivente e la demercantilizzazione dei suoi

scambi stanno tra i grandi scopi del comunismo.

L'impresizzazione è oggi propria dei servizi pubblici riprodut-

tivi di capacità-umana-vivente8, e la si fa con lo scopo dichiarato ufficialmente di ridurne i costi. Dicendo che la riduzione dei costi 7/ Ricordo che nel mio modello l’impresizzazione è una maniera e una modalità del. la più importante «fabbrichizzazione». 8/ Magari passando per il no profit.

142

le imprese private la fanno anche con più alta qualità dei prodotti,

dunque dei servizi riproduttivi prodotti, il che è spesso alquanto dubbio. In genere, tuttavia, non cresce la qualità delle prestazioni riproduttive impresizzate offerte, molto spesso in un monopolio locale (per il loro legame col territorio, che ho appena richiamato,

e per il fatto che le prestazioni riproduttive, almeno finché sono piuttosto

«naturali»?,

devono essere fruite lì dove sono prodot

te ed erogate). Anzi, spesso la qualità diminuisce. Si vede infatti piuttosto la conclamata qualità!° delle prestazioni diminuire negli accordi tra imprese, assumendo peculiari connotazioni astratte e ideologiche ipermoderne (che magari non sono quelle preferite dai lavoranti-umani per loro stessi, ammesso che quest’autonomia

ci sia ancora, in qualche piega).

Un grosso fatto è che, appena dietro la facciata della riduzione dei costi e del dare produttività alla riproduzione, nel senso che

essa renda più di quel che costa (ma a chi?), lo scopo più vero e più forte, almeno in questa transizione, è quello di dare nuove occasio-

ni di investimento profittevole alle imprese!!. Si consente così alle imprese di sfruttare le potenzialità lucrative di produzioni e consu-

mi riproduttivi, merci specialissime, il che avviene spesso a danno delle prestazioni. Si riduce al contempo la gestione pubblica, le

competenze del governo, dello Stato e della politica istituzionale nella riproduzione, competenze che divengono più di indirizzo e correzione. E si riduce il potere della tecno-burocrazia pubblica, anche femminile. Nella crisi della politica e dello Stato democratico dei partiti, peggiora pure la condizione riproduttiva dei lavoranti in generale. Propongo pure questo nodo di ipotesi.

Ma fino a che punto l'Europa può americanizzarsi anche in ciò, per questa via forte e diretta? Allora dobbiamo approfondire soprattutto la conoscenza delle contraddizioni e dei conflitti, almeno

potenziali, su questa strada. Di qui passerebbero una crisi e un ridimensionamento della politica istituzionale che in Europa non

pochi (sinistri?) vogliono limitare, mantenendo una certa differenza dagli Stati Uniti. Si arriva anche alla politicità intrinseca, al sociale specifico e alla conflittualità sul dominio, che è una questione grossa e ignorata. 9/

Nel senso della «natura umana».

10/ Almeno dal punto di vista dei consumatori. 11/ Con la saturazione dei mercati dei beni anche voluttuari, esse non godono più granché di mercati in espansione.

143

Più dentro la razionalizzazione dei servizi riproduttivi pubblici Che si impresizzino o meno, comunque si chiede anche ai servizi riproduttivi un forte incremento di produttività nelle funzioni e sotto-funzioni che rimangono dentro la residuale azienda pubblica, da ottenersi per varie strade: si chiede dunque che rendano decisamente più di quel che costano, ponendo fine a prezzi politici, rendite ecc. Ciò induce una riduzione complessiva del costo sociale della forza lavoro, del lavoro sfruttato e del salario sociale. Inoltre ciò implica un grande e forte risvolto formativo. Si tratta innanzitutto della razionalizzazione scientifica, o della molto maggiore razionalizzazione scientifica. Il primo versante è la raziona-

lizzazione dentro momenti crescenti di iperindustrializzazione di ciò che rimane nei servizi pubblici di riproduzione. Su un altro importante versante, cambiano i rapporti con la politica, con il politico e il dominio, nella politicità intrinseca del sociale specifico, con contraddizioni e conflitti. Tutto ciò dovrebbe essere portato fino alla soggettività singolare e collettiva dei lavoranti-umani. Noi

Indico alcuni altri punti che si potrebbero esplorare attraverso ricerchine.

Ritorno a casa e in famiglia di una parte della riproduzione?

Ripeto ciò che molti non capiscono. Ormai è in iperindustrializzazione anche il lavoro riproduttivo della famiglia e convivenza, e quello della cosiddetta tele-comunità. Il ritorno a casa di molto

lavoro riproduttivo di capacità-umana, benché nella ritardataria

Italia sia solo all’inizio, va considerato a sua volta come un outsour-

cing: ma dall'impresa pubblica esterna di nuovo all’impresa-fami-

glia. Bisogna approfondirne il come e le conseguenze. Abbiamo appena rivisto che il solito iperproletario fruitore non

riproduce tutta la sua capacità-attiva-umana-vivente da solo, ma si

fa ancora coadiuvare innanzitutto dalla sua famiglia e convivenza,

in particolare dal cosiddetto lavoro di cura, in gran parte femmini-

le, e da pezzi della residuale cosiddetta comunità e tele-comunità,

144

E ce

Parentesi: altro ancora, nella terza fase

TO

ci riproduttivi procedono

iu

allora dobbiamo approfondire ulteriormente come i servizi pubbli-

perfino da comunità virtuali. Ma lo si fa sempre più raramente e solo in apparenza gratis!?, sono bilanci difficili di scambi assai

complessi. Nondimeno questo lavoro coadiuvante, malgrado la sua

surrettizia

mercantilizzazione,

non è finora quasi mai del tutto

riconosciuto e retribuito come tale, ma rientra ancora nella reci-

procità familiare, pseudo e tele-comunitaria. Non di rado il lavoro di cura, prestato al fruitore, è addirittura servile o schiavistico,

oneroso così anche per chi lo eroga. Egoismo? In buona parte, ma

non del tutto.

C'è soprattutto un certo ritorno in casa polivalente, perfino

per i maschi: una rivalorizzazione della propria casa di residenza, ora interconnessa in rete. In parte è una situazione di transizio-

ne, ma può perdurare: c'è un nuovo proporzionamento tra cura separata e impresizzata nella sua separatezza e specializzazione (come a scuola, nell'ospedale, nel consultorio, o nel postribolo) e

cura tele-familiare e perfino tele-comunitaria, tra lavoro domestico artefattivo e produttivo (lavoro e tele-lavoro occupazionale a

domicilio) e lavoro domestico riproduttivo. Così in casa il lavoro

occupazionale si moltiplica, prende sempre più tempo di soprav-

vivenza. Oggi abbiamo anche in Italia un certo ritorno di famiglia

iperindustriale e di familismo scientifico e ipertecnologico: chi lo spinge e perché?

4.6.2 Nuova femminilità? Verso un nuovo femminismo? Attualmente il lavoro è soprattutto affettivo-emotivo e cognitivo,

e sembra che le donne sappiano fare meglio proprio questi lavori

tipici di oggi. Allora sono più produttive, magari se glielo riconoscono si gratificano, e tutto finisce lì? Questa seduzione i cinici politici la fanno. Le femmine sono più relazionali, anche per la loro maternità, ma forse anche più intelligenti. Ipotizzo che abbia-

no un’altra maniera soprattutto di stare dentro i rapporti di lavoro-specifico che, secondo molte di loro, se fosse imposta al nostro

sistema odierno lo trasformerebbe radicalmente. Fin dove? Come?

Non era facile negli ultimi decenni dire cosa, al di là dell’anato-

mia da una parte e dei ruoli sociali dall'altra, nel loro reciproco rapporto, quindi nella psiche e nella mente, fosse davvero la femminilità, lo specifico femminile nella società-specifica. Sì constatava

facilmente che da un lato anche la psiche/mente delle femmine 12/

Nella reciprocità bisogna dare qualcosa n» cambio, € spesso la contropartita è « DI

onerosa. È errato pensare che la IRE n " lo Adina Magari perché ci sono anche Sta Carissima pureal fruitore. gratificazioni del curatore; spesso la tamig

145

cambia nei tempi, nei luoghi, nei ruoli, nelle funzioni, che anche nelle femmine sono differenziati. Dall'altro lato, si notava che se si fa una comparazione sistematica con i maschi spesso questi oggi risultano più o meno uguali alle femmine (sono femminizzati?), anche se certo non in tutto. Comunque, le femmine spesso si mostrano propense a una maniera di lavorare (nel significato mio, trasversale, della parola) più o meno diversa da quella maschile; se ciò è vero, ha probabilmente un'enorme importanza anche per 1 progetti di una società diversa. Possiamo credere che si tratti so-

prattutto di una maggiore loro relazionalità, che possiamo ricondurre alla loro funzione di madri, potenziale e reale, quindi sia alla loro anatomia sia a questo loro grande ruolo, che non si limita al dare la vita, ma dà anche la capacità di sopravvivere nella società.

Tuttavia insisto: in cosa consistesse davvero e tuttora consista, ol-

tre la biologia, i ruoli, i diritti differenti e il differente prezzo della

capacità-lavorativa, la differenza effettiva delle donne e del lavora-

re femminile, tanto più scendendo nel profondo, ieri restava ab-

bastanza oscuro. Forse è ancora più misterioso oggi per l'enorme

fumo ideologico che avvolge tale questione, oltreché per la grande commistione e rimescolamento di tutto quanto, nella crescente

culturalità umana. Tanto più che io ritengo fondata l’ipotesi che il femminismo emancipativo, quello della parità con i maschi, ha parecchio maschilizzato le donne. Andando perfino contro una certa femminizzazione (che io chiamo qui donnazione) di periodo

lungo della nostra società. Donnazione della famiglia, del lavoro/ occupazione, del consumo, della politica, incluso lo Stato, che nel

welfare governava la riproduzione come Stato mamma. Donnazio-

ne del lavoro specifico trasversale. Paradosso? Ci tornerò. A un certo punto, poi, le femmine sono state «psichizzate» dai

mass media, dai rotocalchi del sistema e dalla stessa letteratura

femminista. La medicalizzazione dei movimenti femministi più radicali ha avuto e ha toni da psichiatrizzazione. Si sono moltiplicate donne di ceto medio iperproletarie affascinate da una psicana-

lisi di seconda mano di sedicenti psicanalisti dilettanti cialtroni: è esploso un consumo, un mercato, di una pseudo-psicanalisi assai ideologica, diventata una religione, dunque rassicurante. Molto iperproletariato di ceto medio, ora ambivalentemente egemone, e

non solo femminile, è andato abbastanza dietro!? a questo femmi13/

Ho già detto che hanno fatto eccezione in Italia negli anni Settanta le femministe

di Lotta femminista,

146

nismo piuttosto borghese. Sottolineo, psichizzazione molto semiologica, verbosa, spinta da vari femminismi di stampo borghese. Per la potenza dei media le donne si sono sentite, immaginate, det-

te e parlate loro stesse quali fortemente specializzate in sensazioni, emozioni e sentimenti. Autoinganno? Allora, ritengo significativa la difficoltà di caratterizzare ulteriormente la femminilità psichi-

ca effettiva e profonda, ovvero la differenza femminile proprio sul

piano psichico. Ma è vero che la psiche femminile segna per sua natura profonda questa differenza in una maniera tanto forte? Malgrado le «women university» si può ancora dubitarne, tanto che non mancano tra loro rappresentazioni molto differenziate. E le classi sociali in senso sociologico, qui non c'entrano proprio niente? E le culture locali? I vecchi socialcomunisti dicevano che il voto alle donne avrebbe favorito i conservatori; sembra che ancora oggi, malgrado tutto,

dalle donne venga il maggior consenso al capitalismo. Oggi, per un nuovo femminismo che vada contro il patriarcato capitalistico

non solo per rovesciarlo in un matriarcato capitalistico,

e per un

nuovo rapporto di cooperazione conflittuale tra i due generi rinnovati, bisogna ripartire dalle donne effettive, dalla conricerca sulle e con le donne effettive. Capire cosa sono e come sono le donne effettive, e perché, e con che conseguenze. Resta vero che una buona percentuale della forza lavoro vivente femminile disponibile è tuttora (e pure nel prossimo futuro) al lavoro nella baricentrale riproduzione di capacità-umana-vivente, sia in casa sia nell’occupazione esterna, separata. Ho già ripetuto

che le donne sono più relazionali; però, adesso lo sono in parte crescente in un lavoro autonomo, pure schiavistico, in buona misura nemmeno riconosciuto e retribuito come lavoro. Tanto più che, corne ripetuto fino alla nausea, adesso in molti paesi dell’Occiden-

te c'è una tendenza di donne deluse della loro uscita a tornare in casa. Ma in casa si prendono o si debbono fare imporre gli stessi lavori anche molti maschi. Oggi entrambi i sessi fanno a domicilio, di solito per moltissime ore al giorno e alla settimana (tendono a sparire le domeniche), tele-lavori soprattutto terziari e quaternari,

ma non solo (si guardi negli scantinati del nord-est), lavorando in maniera sempre più in apparenza e formalmente neo-autonoma

in

n ii

enti iii

i ami

a produrre e riprodurre a domicilio: doppia (e tripla) presenza, in

casa propria. C'è poca differenza nel lavorare tra i grandi ambiti. Però (ahi!) sono riproduttive solo le donne che effettivamente la riproduzione la fanno. Dietro l'ideologia, ci sono molte donne che

147

non riproducono e tantomeno curano niente e nessuno.

Nate per

dare la vita: però ancora oggi, di solito, per far questo bisogna essere in due e di diverso genere. Il patriarcato sfruttava un rapporto

che però c’era. Ma il separatismo integrale? Oggi ci sono perfino molte donne che ricevono e fruiscono di molta più cura di quella che danno: sono molto più autoriproduttive che riproduttive. Nel narcisismo. C'è una sterilità assai ideologica,

soprattutto di

femministe intellettuali (e separatiste). Non poche assumono sa-

lariate e salariati per far loro fare, ad altre e anche ad altri, il «loro»

lavoro riproduttivo e parte di quello stesso autoriproduttivo.

Nondimeno le donne in generale rimangono le principali protagoniste della baricentrale riproduzione di capacità-umana-vivente in mercificazione e così permangono in una fondamentale dualità,

sebbene ora tendenzialmente iperindustrializzata. Ad esempio, le

nuove tecnologie a pagamento liberano le più ricche da vari aspetti

del procreare, partorire, allevare. E di solito le donne effettive sono anche contente di certe modifiche del loro corpo biologico (modifiche respinte dalle femministe), anche con il solito grave dilemma dell’obsolescenza di capacità-umana-vivente. E poi se compri immigrati eviti i costi di riproduzione al tuo paese e hai forza lavoro

già fatta! Come ciò però le cambia soggettivamente?

Proprio a questo punto, torno al suddetto ipotetico paradosso. Io mi muovo da tempo nella distinzione ipotetica tra le donne ef-

fettive e le femministe. Scandalo! Meglio: tra un processo stori-

co di lungo periodo, di sei o sette secoli, di crescita graduale ma continua del peso e potere delle donne che, ripeto, chiamo donnazione, effettiva e sostanziale. Donnazione della nostra famiglia, società, cultura, etica e perfino della politica istituzionale; e poi i

movimenti recenti di breve periodo detti «femministi». La distin-

zione è tale che la sconfitta dei femminismi (se c’è davvero stata) non ha significato granché la sconfitta delle donne, in primo luo-

go in Occidente; magari grazie alla globalizzazione capitalistica,

dappertutto. Su questa ipotesi ultraschematica c'è moltissimo da approfondire, precisare, capire meglio. Il grande processo plurisecolare della donnazione in Occidente e anche in Italia era già

giunto a livelli tali di crescita che (ipotesi ulteriore) gli stessi fem-

minismi recenti probabilmente sono stati più una sua conseguen-

za che una sua causa. Lo Stato democratico dei partiti e la politica

istituzionale, che nel Novecento hanno avuto molto la funzione di governare la riproduzione della capacità-umana-vivente-merce, ne sono stati fortemente investiti, imbevuti, poi messi in questio148

ne e più volte rifatti. Orbene, perfino questi sono stati un poco donnizzati?*. Da questa centralità della riproduzione e tuttora delle donne

effettivamente riproduttive, e feconde, forse deriva anche da noi un potenziale di lotta di parte anche come lotta aperta femminile e neo-femminista; e pubblica, politica, pure strategica, che però in giro oggi si realizza proprio pochino. Potenziale di lotta davvero a quel tanto di patriarcato e di patriarcalismo iperindustriale e ipercapitalistico residuale!5? E non solo competizione, concorren-

za, nella carriera? Me lo auguro. Nondimeno abbiamo condizioni sempre più favorevoli alle donne e strappate da loro, dalle donne

effettive: c'è una forza e un potere crescenti delle donne intere ed

effettive nel capitalismo, cosa davvero ancora le frena? Non rispet to alle ideologie dei femminismi, ma rispetto a un loro effettivo ulteriore miglioramento di posizione e uso della loro crescente forza, magari verso esiti di grande trasformazione, o addirittura «rivoluzionari». Tuttavia molto resta, almeno staticamente, dubbio, oscuro e soprattutto immaginario, in particolare negli sterili verbalismi sempre più formali di negativa, finora, è che trionfalmente molti dei der dei vari e differenti

intellettuali tardo-femministe. Una cosa malgrado non abbiano proprio raggiunto loro obbiettivi, la maggior parte delle leafemminismi concorrenti non hanno quasi

mai fatto o fanno seria autocritica. Soprattutto sulla suddetta questione di cos'è lo specifico femminile, in particolare lo specifico

psichico e quindi anche la «differenza», pure mitica. Certo, c'è la

maternità, il corpo materno; se però, malgrado la loro forza reale e potenziale enorme le donne su molti aspetti chiave dei loro attac-

chi non hanno vinto!6, ci sarà pure qualche ragione e spiegazione! Non c’entreranno anche le balle consolatorie e formali che si sono raccontate e si stanno ancora raccontando? E, tra l’altro, il piacere della parola colta fine a se stessa, che si esaurisce in se stessa?

Sempre più il consumismo culturale-umanistico e spettacolare è

soprattutto

femminile.

Ci sono state e ci sono ancora nei femmi-

nismi slogan, parole d'ordine neppure magiche, linee e ideologie proprio sbagliate. Le sconfitte sono venute dalle inadeguatezze. 14/ 15/

L’indicatore non è tanto la percentuale delle parlamentari o delle funzionarie. Ma qui la grande domanda è: il capitalismo è necessariamente patriarcale? Perché?

E allora? 16/ Ma sucerti altri stanno da molti decenni stravincendo.

149

Bisogna cambiare parecchio, questo è il punto ineludibile. Ci sono tanti, troppi compiacimenti del presente. Un vero matriarcato inteso modernamente come governo delle femmine non è mai esistito. Però fino al mondo pre-ellenico le donne sono state molto potenti nella lunga stagione dell’a-

nimismo, della magia, del pensiero magico e del mito esplicito: poiché non solo davano la vita, ma allevavano e formavano i fanciulli, pure i piccoli maschi, fino all’iniziazione, e per la loro conoscenza esclusiva di vari importantissimi aspetti della natura, nella divisione sessuale dei ruoli. Il patriarcato è cominciato con i greci. Ma anche nella più classica civiltà contadina e nel suo culto della fecondità, Demetra non ha mai comandato il suo paredro, il suo Toro: contava comunque la maggior forza fisica, muscolare. Ricordare e riproporre Demetra oggi implica riproporre anche il complementare patriarcato. Allora, ribaltarlo in un matriarcato e basta? In pura rivincita? È un revanscismo separato che sceglie la sterilità, nel narcisismo? O invece si vuole un nuovo rapporto pure

fecondo tra i sessi, liberati dal capitalismo, come auspico anch'io? La storia dell'umanità è, almeno dagli elleni in poi, una storia di patriarcati differenti. Il patriarcato capitalistico è diverso da tutti gli altri e ha esso pure una sua storia interna come supersfrutta-

mento con sottosalario. Per comprenderlo e anche per combatterlo bisogna inserire e contestualizzare questo patriarcato peculiare di oggi nel sistema capitalistico odierno, o ipercapitalistico. Le fem-

ministe erano partite contro il patriarcato di oggi, però poi molte di loro se la sono presa, spesso molto duramente, quasi esclusivamente con i loro partner maschi diretti in una sorta di vendetta,

appunto in un loro revanscismo: li hanno attaccati «solo» per la loro maschilità, anche per aspetti abbastanza generali o di genere

che certo i maschi singoli non si sono scelti e per i quali, di solito, non hanno vera colpa. Così si sono spesso sfogate e unite tra loro!. Ma, partendo dall'unione dei cromosomi che ci dà il patrimonio genetico, c'è fecondità, dare vita, senza lo scambio tra i sessi? Anche uno scambio del tutto nuovo e diverso? Anche nella mediazione di macchine-artificiali riproducenti?

Però, nel frattempo il patriarcato specifico capitalista veniva

piuttosto perso di vista, tanto che adesso quasi tutti i vari femminismi hanno discretamente cittadinanza nell’odierno ipercapitali17/

Nelle riprese femministe della «guerra dei sessi», «lui» non è tanto combattuto

perché l’attuatore e il sostenitore del patriarcato capitalistico, ma solo perché è un ma-

schio, e allora qualcuno da odiare con l'approvazione delle amiche. E viceversa

150

smo, che li accetta come un’altra forza di modernizzazione. Così, sebbene all’inizio i femminismi apparissero come una gigantesca minaccia potenziale alla società capitalistica, anche per il ritmo

lento di certi cambiamenti, adesso vi hanno un'abbastanza tranquilla collocazione integrante. Tuttavia, di recente, questo patriarcato non è magari cambiato fino a svuotarsi e un poco rovesciarsi,

dall'interno e «dal basso», proprio grazie a certi aspetti del neo-capitalismo,

inclusa la tecnologia scientifica e il macchinario-arti-

ficiale? Forse su ciò, tra i bisogni, i desideri e gli interessi nelle

donne, nella loro compresenza anche non contemporanea, e le ri-

chieste di certi residuali femminismi, c'è sfasatura? E c’è sfasatura tra condizione effettiva delle donne occidentali e femminismi dei

decenni Settanta, Ottanta e Novanta, sfasatura tra i punti di vista? C'è talora una distanza rilevante? Ma attenzione, dalla forza delle donne non viene fuori o non si ripropone più nessun dualismo netto, almeno dal Novecento. Né tra donnazione

e altro maschile, né dentro la donnazione stessa,

come ad esempio potrebbe essere con taluni fenminismi recenti. Decenni o addirittura secoli di commistioni e rimescolamenti hanno frantumato e più volte riarticolato in varie molteplicità

anche questa condizione, fino alla grande indeterminata pluralità odierna. Oggi che la riproduzione della capacità-umana-vivente e neo-merce diventa baricentrale dappertutto per il capitalismo, ma

impresizzandosi e macchinizzandosi nell’ulteriore tecnoscienza, la donnazione cresce ancora. Tuttavia, adesso i femminismi non rinascono e neppure si rianimano. La mia ipotesi provocatoria è che vari movimenti femministi, forse nel loro ideologismo e ideologizzazione del femminile, non hanno sempre davvero molto capito, correttamente raffigurato e rappresentato proprio le don-

ne effettive. Spesso non hanno saputo vedere, valorizzare, molti-

plicare e utilizzare la forza e il potere crescenti delle donne pur

dentro questo involucro patriarcale capitalistico; e tantomeno per

uscire fuori da quest’ultimo, pur residuale. I fomminismi recenti

e «borghesi» in concorrenza hanno ricercato ieri soprattutto un riconoscimento e una legalizzazione (di situazioni di fatto, pure

di potere, di femministe cooptate dal sistema patriarcale e capita-

listico); soprattutto in questo non sono tanto riusciti, ma anche nel superare certe situazioni di fatto o nel crearne.

Perfino l'odierna sconfitta e declino eventuali del fondamen-

talismo islamico (paradosso) nei confronti dell'Occidente esprime

l'ulteriore sconfitta del maschilismo di fronte alla donnazione (e al ISI

familismo, all’umanitarismo, al «socialitarismo»). E forse sbagliano le femministe di oggi a porre la psicologia anche come psicanalisi di dilettanti cialtroni e non la sociologia, la scienza del sociale,

come scienza umana delle donne, relazionali.

In conclusione: forse oggi lo stesso patriarcato capitalista sta

cedendo; si sta aprendo per la prima volta proprio nel capitalismo e ipercapitalismo una crisi storica del patriarcato medesimo, man-

giato gradualmente dall'interno dalla donnità effettiva? In un capitalismo e in una iperindustrialità capitalistica che, malgrado tutto,

hanno dato molta forza soprattutto alle donne. Anche il macchina-

rio-artificiale ha favorito le donne togliendo ai maschi il vantaggio

della forza fisica. È difficile rispondere nella grande commistione e rimescolamento. Certo, fuori dalle ideologie, il capitalismo, malgrado l’odierno perdurare del patriarcato (intorno ai tre suddetti aspetti del supersfruttamento delle donne), intasca più che può; però non è «necessariamente» patriarcale, né le donne

effettive

sembrano essere «necessariamente anticapitaliste», per nulla. Questa è la questione. A un certo punto (futuro prossimo?) potremmo ritrovarci in un matriarcato capitalista. E ci sono su questa strada varie alternative. Io sono innanzitutto contro il capitalismo.

Un nuovo femminismo meno precario dovrà ripartire dal chieder-

si cos'è davvero una donna, oggi, conricercare!8. Ma è proprio vero

che il capitalismo con la sua mercificazione della capacità umana e

mercantilizzazione dei rapporti pseudo-umani sottomessi al profitto piace alle donne e non ha negatività per loro? Oppure siamo

per un matriarcato capitalista, magari immaginandolo come capitalismo dal volto umano, che nel sogno di alcune migliorerebbe anche la sopravvivenza capitalistica dei maschi, governati dalle femmine? E allora perché non sognare almeno un matriarcato

post-capitalista, anti-capitalista, più vicino al nuovo rapporto fecondo e cooperante tra i sessi rinnovati nell’uscita dal capitalismo? Per puntare a un nuovo rapporto di cooperazione e contro-coope-

razione tra i due sessi rinnovati pur nella loro differenza.

Carenza di nuova capacità richiesta Le nuove esigenze del lavoro odierno mostrano grandi carenze di

capacità riproduttive e formative da parte della nostra società, so-

prattutto per quanto riguarda infrastrutture e servizi al territorio,

negli orientamenti qualitativi. Ne deriva talora anche un grande 18/

1] conricercare è anche femminile: le donne hanno una loro maniera di farlo

152

malcontento e momenti di mobilitazione iperproletaria. Non ne parlo qui. Torniamo all’impresizzazione: di nuovo le cooperative di servizi

Nella prima sub-fase si passa per un processo di transizione che

ha

i tre seguenti

momenti:

cooperative, volontariato, terzo settore.

Allora, dicevo: cooperative «sociali» e riproduttive anche come momenti di transizione a vere e proprie imprese. Ovvero, ad ambigue

«imprese sociali» che diventano poi imprese di riproduzione tout court. Non si tratta più di cooperative di artefattura varia, come quelle dell’edilizia, o di acquisto e distribuzione di merci tangibili

varie (come fu nell’Ottocento all’inizio del mutualismo proletario, con gli spacci). Adesso, da un lato si diffondono cooperative

di produzioni intangibili (in particolare semiologiche e cognitive, nei cicli dell’industria culturale), dall’altro soprattutto cooperative

di riproduzione di capacità-umana-vivente venduta come merce,

spesso agli enti pubblici (sebbene vi lavorino come occupati molti

maschi, vi prevalgono le femmine). Sono cooperative nuove che offrono collettivamente funzioni e sotto-funzioni di riproduzione di capacità-lavorativa-umana-vivente altrui, talvolta di soci, più spes-

so di dipendenti. A cominciare proprio da cooperative che offrono prestazioni di cura. Adesso queste sono assai differenti da ciò avveniva nel vecchio mutualismo: come e perché? Questo è da studiare e capire meglio: nell'Ottocento forse c'era spesso vero solidarismo,

oggi il solidarismo è perlopiù solo una facciata che nasconde supersfruttamenti diversi e spesso repellenti, e tuttavia cari anche a molti sinistri. Questo

importante fenomeno sociale si affianca e si accom-

pagna allo sviluppo del lavoro formalmente autonomo, quindi al mettersi in proprio. Ho già detto che in una prima fase questo autonomizzarsi, pur di solito solo formale, è stato spesso offensivo, in termini nuovi di lotta di classe, ossia di iniziativa di de-proletariz-

zazione o almeno di autonomizzazione degli operai forti, alla fine

degli anni Settanta. Ma dopo, sempre più, con il ritorno dei licenziamenti di massa e l’accentuazione di una mobilità discendente, è stata un'iniziativa difensiva e finanche disperata, con la diffusione di nuove cooperative spesso coatte €, gradualmente, come inven-

zione di maniere povere di sopravvivenza ìin nuove condizioni dì

sfruttamento. È un aspetto della precarietà e precarizzazione. Infatti, adesso, proprio in questi settori e sotto-settori, segnatamente

nelle cooperative di nuovo tipo, St vanno manifestando forme di 153

lavoro riproduttivo schiavistico e servile, forme di supersfruttamento e di concorrenza selvaggia tra iperproletari. Ciò poi sì com-

plica con il lavoro in affitto e con quello interinale. Ripeto, queste cooperative dette «sociali», come sono detti «sociali» i servizi-fina-

li-riproduttivi delle persone, e in fondo non si sa perché davvero si dicano «sociali», vengono gradualmente trasformate in imprese, anche giuridicamente. Non solo va segnalato il fatto che il «mettersi in proprio» parte

con un forte turnover di piccole cooperative anche di riproduzione, ciò merita pure di essere approfondito: sia orizzontalmente, per quanto concerne l’industrialità, sia verticalmente, per quanto

concerne la loro inclusione nella Produzione (diretta o indiretta) di capitale. Nonché per quanto concerne una certa de-composizione ipermoderna della classe iperproletaria e la trasformazione del conflitto e della lotta, che appare sempre meno orizzontale e sempre più verticale.

Tuttavia, sottolineiamo che queste cooperative di riproduzione di capacità-umana-vivente-merce possono essere esplorate anche nella direzione di lavoro fatto diversamente, per altri e nuovi scopi, e in nuove reti di rapporti. E quindi come terreno di confronto e conflitto, magari talvolta anche di lotta per un’alterità. E questo vale altrettanto per il volontariato. Nell’ambivalenza e politicità. Volontariato, vero e falso

La questione del volontariato è già in sé molto complessa, proble-

matica e controversa: se c'è l'interesse o no, se c'è un tornaconto di

qualsiasi natura, qual è il senso, se c'è il dono unilaterale oppure

lo scambio bilaterale. È la grande questione crescentemente pro-

blematica del dono, della capacità di donare e di donarci, che dalle nostre parti sembra sparire. Bisogna indagare lo spessore etico, anche un grosso spessore psicologico (senza cadere noi nello psicologismo). C'è da fare un discorso più in generale sul volontariato in Italia, oggi, analizzando e confrontando i vari volontariati nella

loro differenza: non solo cosa si propongono e come si vivono, ma

come funzionano, cosa stanno effettivamente facendo e con che

conseguenze reali. Inoltre, spesso il volontariato è citato come

la

controprova che non c'è solo l'egoismo e il narcisismo, e in parte è

anche vero: e tuttavia? Tra solidarietà, protagonismo e occupazio-

ne mascherata la questione è intricata.

Poi però succede che oggi, come il lavoro-umano-vivente che

prevale da noi è quello di riproduzione di capacità-umana-vivente,

154

dimensioni come l’interrelazionalità e le prestazioni di cura, nel contesto in cui sopravvivono certe antiche tradizioni ideologico-religiose, fanno sì che ancora maggiore sia la percentuale di volonta-

ri in questi grandi macro-settori merceologico/tecnologici iperindustriali di prestazioni alla pseudo-persona - invero al lavorante e lavoratore, piuttosto iperproletario — in un’appariscente ma spesso ormai vuota reciprocità, la quale nondimeno attrae molti volontari. Allora si tratta di approfondire proprio l’analisi di questo e di molti fenomeni vecchi e nuovi che si danno lì dentro. E il «volontariato riproduttivo» sta pure nelle cooperative dette «sociali»: nel terzo settore e nel cosiddetto no profit, con tutte le note ambiguità. Oc-

corre vederli nell’ambivalenza e nella politicità.

Il terzo settore Sono ormai milioni gli occupati nel terzo settore, in prevalenza femmine. Ho già detto che questo cosiddetto terzo settore si so-

vrappone al terziario ma al contempo se ne distingue. Esso è co-

munque in prevalenza riproduttivo di capacità-umana-vivente in mercificazione. Una delle questioni è il nodo intricato e pieno di ideologia della

cosiddetta «utilità sociale»: che significa utile alla società, in che senso? Utile alla società-specifica che c’è oggi, ossia alla società e civiltà capitalistiche? Realisticamente è così. Oppure,

illusoriamente,

guardando

solo verso il basso,

nei

frammenti separati di realtà in cui stanno chiusi oggi gli umani

iperproletari, immaginando la società riproduttiva come l’altrove

che non è. Allora l’utilità sociale come utilità per noi stessi, ma

fuori dai ruoli? Cioè dentro i ruoli nella loro funzionalità? E allora ci risiamo. Ipotizzo: oggi l'autonomia del sociale o nel sociale è al massimo un nostro traguardo strategico, lontanissimo e difficilissimo, non solo da conquistare, ma mostrando vie per avvicinarci 0 avviarci in tale direzione. Si tratta delle isole «felici» (?) alla André

Gorz, come isole riproduttive? Magari isole di matriarcato? Dentro

il capitalismo e da esso autonome!9? Cosa resta fuori dall’idealogia, fuori dal puro sogno o delirio?

Il terzo settore, che ha pure molto a che fare con le cosiddette «cooperative sociali» e con il volontariato, è sempre più non-luogo

(di transizione verso dove?) di riproduzione collettiva organizzata

di capacità-umana-vivente, tuttora in mercificazione. È sempre più 19/

Per questo vedere le mie paginette sul no profit del ‘97.

155

sede funzionale di servizi riproduttivi ai lavoratori-specifici. Tut-

tavia, soprattutto per aspetti simbolici e proiezione di significati e valori diversi, diventa anche luogo di sperimentazione di rapporti interni ed esterni e maniere di funzionamento autonome e talvolta

perfino alternative, ma è raro. Si propone allora, malgrado tutto, come importante luogo di contraddizioni e di conflitti, potenziale nodo di lotta. Nonostante i tanti equivoci, è uno dei rari posti

così. Bisognerebbe starci dentro a valorizzare questa conflittualità,

allargando reti di rapporti plurali e diversi, verso altro. Non stare

solo a guardare. Adesso, c'è anche l’etichetta di «lavori socialmente utili», con contratti a termine. Però, chi paga i costi del no profit: i deficit, magari

dell’assi-

stenza, oppure certa redistribuzione di rendita? Chi davvero si avvantaggia? A chi altro giova (oltre che illusoriamente ad alcuni precari, permanenti)? Ai tecnocrati spenditori di quattrini pubblici e neo-clientelari? I servizi sono utili a chi, e qual è l'utilità, com'è

riscontrata? Come si valutano i costi e i benefici sociali? Nell’ideologismo e mentalismo? Nella solidarietà imposta e obbligatoria?

Magari con l'accettazione opportunista del meno peggio in una ca-

tastrofe generale? Sono situazioni temporanee o ormai perduranti,

che prefigurano il futuro di tutti, magari anche di certi inclusi (gli

inclusi poveri e precari)? C'è un allineamento ai livelli più bassi, nella competitività globale. Ecco un’altra ipotesi. Più sotto, tuttavia, ci sono situazioni di no profit e di «quasi

profit» diverse. Nel mio papiro del '972° ne distinguevo cinque: bisogna ripercorrerle approfondendo e ulteriormente discriminando, e poi diversamente ricomponendo.

C'è nei rapporti atipici (ma tipici del terzo settore) tutta la questione della flessibilità, che potrebbe essere autonomia o libertà a condizioni forti che però sono rare, cosicché si presenta invece

come precariato?!, che non consente il futuro, non permette di pro-

grammare la propria vita, possederla un poco, e comunque è pover-

tà. Mancano ad esempio i nuovi diritti (il diritto di cittadinanza, il

salario di cittadinanza), le nuove garanzie sociali: sul terreno del

riformismo ciò per cui lottare c'è e abbonda. Manca chi organizzi 20/ Vedi nota precedente [N.d.C.).

21/

Presto saremo tutti precari,

o magari quasi tutti, C hi e perché è privilegiato e

garantito? Adesso più il capitalismo sì sviluppa adesso e più dà povertà e precarietà,

ovvero l'accumularsi del capitale e del dominio riporta ] a gente, almeno da noi, alla

crescente precarietà.

156

la forza. Ma oltre il riformismo spicciolo? Quello che miracolosamente va oltre deve essere valorizzato. Sull’autonomia presunta o potenziale del terzo settore bisogna fare ricerca di taglio micro e macro. Al centro vi è proprio la com-

plessa riproduzione della capacità-umana-vivente e dei suoi possibili destini, se non ce n'è uno solo. Il no profit come questione di ristrutturazione del welfare viene sposata dai sinistri residuali come questione neo-keynesiana, luogo di ritorno di discorsi, linguaggi e ideologie keynesiane (e schumpeteriane), ovvero di un socialismo keynesiano-shumpeteriano con cui ci si ri-identifica! Sono sogni di vecchio riformismo capitalistco. Però ciò contiene anche qualcosa che indica forse qualche altrove, magari parecchio da inventare.

Tuttavia qui c'è solo un mare di dolenze, o potenzialmente talora

un terreno di ricomposizione e nuova conflittualità? Approfondire

la ricerca sull’ambivalenza del terzo settore, e così pure la sua pe-

culiare politicità.

Politica e servizi riproduttivi Questo è un campo vasto, mi limito a indicare qualcosa quasi proforma. Ho ripetuto continuamente che bisognerebbe approfondire, oltre all’ambivalenza di tutto quanto, anche la politicità. Intanto

abbozzo tre dimensioni della politica. Prima dimensione ipotetica: politicità intrinseca. Nel mio modello ipotetico e aperto, al livello di vertice c'è il dominio capitalistico, e la questione del comando e del potere. La politicità intrinseca

consiste nella capacità di qualsiasi entità, fatto, rapporto, scambio e movimento di incidere nei rapporti di dominio (e comando e potere), spostandoli o cambiandoli in una diversa direzione. Questa politicità è intrinseca, e interna a tutto, nell'intera società comples-

siva e nei suoi ambiti. Allora, la politicità intrinseca, in cui tutto quanto è visto nella misura in cui incide nel dominio capitalistico, è la dimensione diffusa e ovunque presente della politica, ed è for-

se la più importante. È qualcosadi piuttosto soggettivo, perché in

fondo emerge da una maniera di guardare la realtà: nell'ottica dei rapporti di dominio??. l i

Qui si pone la questione reciproca della riproduzione di capaci»

22/

ecoQuista purela politicità di certa lotta sul salario e sul profitto, sul cosìddetto

nomico.

157

tà-umana e del suo interagire col dominio capitalistico riuscendo a incidere in quest’ultimo, o cercando efficacemente di farlo, oppure di influire su tutto ciò che è in relazione al dominio e al potere. Politicità intrinseca e riproduzione. E poi viceversa: riproduzione e politicità intrinseca. Tanto più nella meta-ipotesi di una moltitudine soggettiva. La moltitudine soggettiva appare oggi il luogo più proprio di questa politicità, piuttosto spinoziana e riferita al potere,

che Toni Negri ci ha riproposto: chiamatela come volete! Però io ricordo che nel capitalismo non vige un potere qualsiasi e una coercizione qualsiasi, ma mediante ciò che si radica nei rapporti sociali in cui si crea, si realizza e si usa il profitto. E che il dominio capita-

listico è alimentato dal profitto e dalla sua produzione nei rapporti tra capitale e lavoro, dunque tra grandi ruoli e classi dicotomiche almeno oggettive, e/o almeno da quello che ne residua. Ecco che allora nella piramide della società specifica complessiva io ipotizzo ci sia un livello cerniera tra il tutto sottostante e l'alimentazione, accumulazione e riproduzione del dominio, mediante l’accumulazione e la valorizzazione del capitale, mediante il profitto e il darlo.

C'è dunque il mio medio raggio come perno e fulcro della politici-

tà nel sistema; ciò già pone sul tavolo la questione di una grande politica interagente con la politicità intrinseca e del soggetto che la faccia. Nel capitalismo la grande politica è vincolata dalla forza nei rapporti di produzione (del profitto). A ogni modo, in questa prima dimensione la politica e la forza politica nel capitalismo sono anche

dentro i movimenti delle forze sociali che co-danno il profitto.

Seconda dimensione ipotetica: la grande politica. Così distinguo

la politica dal politico, in forte crisi, che Mario Tronti pone — piuttosto provocatoriamente, ma non poco astrattamente — come il far cambiare il corso della storia: il politico così inteso, alla grande, oggi

sarebbe addirittura crollato. Ancora due parole: questa seconda dimensione di una politica alla grande, che a mio parere è rimasta

piuttosto oscura, sta fuori dai suddetti movimenti delle forze socia-

li. Tronti lo ha sottolineato solo dopo la conclusione, fallimentare,

dell’esperienza del «secondo operaismo politico» e al momento del

suo lancio dell’«autonomia della politica» nel 1966, che dunque

andava intesa come l'autonomia del misterioso grande politico, esterno e così relativamente autonomo??, Non era tanto autono-

mia della «politichetta» (terza dimensione), alla quale presto nella

pratica si ridurrà. A me interessa mettere in relazione la grande 23/

Mavannostabilitii termini di questa relatività.

158

politica con il dominio capitalistico, quale rapporto tra classi alme-

no oggettive o ciò che loro subentra (la moltitudine strutturata?) e la sua alimentazione con il profitto. Anche la grande politica nel

capitalismo non si muove in un modo qualsiasi e nel vuoto, ha magari certi vincoli. Cosicché la sua autonomia è sempre piuttosto relativa. Se così la si interpreta, la teoria dell'autonomia del politico può diventare una specie di scienza molto speciale, atipica, di lunghis-

simo periodo, di molte migliaia di anni, della rivoluzione, ovvero

del succedersi storico di ondate rivoluzionarie sempre nuove (magari con qualche ripresa dei miei mitici «desideri radicali»). Di qualcosa che così può apparire piuttosto formale e meccanico. Pertanto nella rivoluzione comunista operaia, bolscevica, leniniana,

l’esperienza e l'eredità che conta, che resta, è quella rivoluzionaria, mentre quello del comunismo operaio è solo il suo momento storico contingente, che per quanto ripreso in seguito, da operaisti politici di ritorno, era già abbastanza morto nel 1923.

Tocco un terreno assai minato. Intendiamoci, il comunismo

operaio — soprattutto in Russia, nella visione e direzione bolsce-

vica — aveva delle notevoli possibilità di crescere, anche «contro se stesso». Aveva un progetto, vago ovviamente, sperimentale, aperto

e flessibile, e così importante che avrebbe potuto ancora crescere molto trasformando radicalmente se stesso e la società in una circolarità corivolutiva. Però la rivoluzione del proletariato russo

portata dai bolscevichi per la prima volta almeno al primo grande

passo, alla conquista del potere statale, fu bloccata ai suoi inizi: la parte più grossa e significativa non potè trovare realizzazione. Ciò anche per certi suoi limiti interni (e non solo per l'accerchiamento o la carestia). Limiti soprattutto di com'era in partenza la sogget-

tività proletaria e operaia, che però avrebbe potuto trasformarsi anche molto se la rivoluzione fosse andata avanti. Invece, sboccò

addirittura nel contrario. Oggi molti sottolineano che mentre agli

inizi fu proclamato il grande obiettivo dell'estinzione delle classi e soprattutto dello Stato, poi all'opposto li si rafforzò (era lo «Stato sociale»?). Comunque, mentre la proposta iniziale dell'abolizione rimase sempre astratta € del tutto indeterminata, mostrando che

non si aveva nessuna idea seria di come attuarla, invece il suo rovesciamento nel proletarismo € nello statalismo fu sempre e ovunque vistoso ed estremamente reale. Insisterei in particolare sullo

statalismo della sinistra socialcomunista Storica, perfino dei resi-

dui odierni, sulla pianificazione centrale dello Stato ancor più che 159

sul partito unico. La consapevolezza di questa enorme contraddizione tra ì grandi scopi e la pratica effettiva fu coperta con la metafisica della transizione, cioè del periodo eterno di transizione al socialismo e poi al comunismo. Oggi ritengo che la questione della transizione (rivoluzionaria per di più) verso un nuovo comunismo, dovrebbe essere ripresa e criticata a fondo dalle radici e riproposta,

del resto fu gran parte di quel che ci mancò negli anni Sessanta.

Comunque quel comunismo indica e propone ancora oggi l’ipotesi che non si può pensare di sconfiggere e superare il capita-

lismo senza privarlo del suo potere centrale di governo e capacità dì coercizione che ne fa un sistema, che non può stare insieme solo mediante il mercato. Ecco: prendere il potere, togliere il po-

tere. Molti studiosi della questione del potere, tra i quali Michel Foucault con la microfisica, sottolinevano che il potere non

è una

cosa che si prende; risalendo almeno a Weber, ricordano che è non

solo un rapporto sociale asimmetrico tra due grandi ruoli sociali e così tra agenti sociali anche collettivi, entrambi coinvolti e a

loro diverso modo consenzienti, ma è pure distribuito in tutto il

sistema dei rapporti sociali. «Prendere il potere» o «togliere il potere» sono metafore. Si tratta di acquisire una sufficiente forza e capacità di coercizione sulla controparte. Ciò allora ripropone

la

questione della politicità intrinseca e della grande politica mirante alla posizione di maggior potenza nel sistema del dominio. Già in Russia nel 1918-19 si dovette capire che il potere capitalistico (come il dominio) non è un potere qualunque, così come il capitale

non è una cosa ma un rapporto sociale di produzione tra classi almeno oggettive. Il potere capitalistico ha radici determinate nella

valorizzazione e accumulazione del capitale, dunque in rapporti

sociali complessi, delicati e specifici: a un certo punto, ad esempio,

togliendo certo potere ai padroni spariva anche la classe del proletariato operaio e la forza del soggetto rivoluzionario. La questione della posizione di massima potenza non riusciva a separarsi dalle

sue radici e riconduceva a quella della politicità intrinseca. Per i

datori proletari di capitale la capacità di coercizione sociale, di costringere la controparte capitalistica, si radica nei rapporti di forza basati sulla produzione del capitale. Perciò anche l'autonomia della

grande politica comunista e tanto più per la rivoluzione comunista può essere solo parecchio relativa. La grande politica comunista

o almeno per uscire dal capitalismo, per essere abbastanza coer-

citiva, doveva basarsi sulla forza proletaria. Cosa vuol dire allora davvero togliere il potere ai capitalisti in un sistema in cui i lavora160

tori iperproletari sono protagonisti in quanto tali? È evidente che queste espressioni verbali sono solo metafore. La rivoluzione e la

transizione sono davvero tanto separate? È l’indeterminatezza di questa misteriosa grande politica. Il capitalismo è sempre riuscito a trasformare in una propria rivitalizzazione e sviluppo le stesse vittorie parziali dei suoi nemi-

ci contro di lui. Inoltre, la vicenda bolscevica insegna che non si

esce dal labirinto capitalistico senza un partito capace di dirigere la transizione alla nuova società. Magari un partito assai diverso anche da quello bolscevico. Pertanto il comunismo dell’operaio di mestiere, poi solo temporaneamente rilanciato dal sogno di quat-

tro gatti tra cui io, di un comunismo dell’operaio massa, oggi è trascorso insieme all’altro successivo. Morto? Non così il sogno o

il bisogno della rivoluzione, e di quella contro il capitalismo. Però cos'è la rivoluzione? Tuttavia, per realizzare questo sogno quei trascorsi comunismi

operai hanno dato importanti indicazioni comunque valide per noi

oggi, malgrado il loro tragico fallimento, sia in positivo sia in nega-

tivo. Qui adesso si tratterebbe, almeno retrospettivamente, di vedere la questione della riproduzione della capacità-umana-vivente (e in mercificazione infinita) in reciproca interrelazione anche con il deviare il corso della storia uscendo dall’esistente. Compromesso tra le prime due dimensioni. Tuttavia, magari mediando, è piuttosto evidente che io ipotizzo, analogamente e diversamente da quarant'anni fa, una nuova interazione e scambio tra

la politicità intrinseca dei movimenti (e magari di un grande sog-

getto sociale duale e parziale, come fu talvolta in parte la vecchia ed

emarginata classe operaia?* che radicava la sua forza di coercizione nel suo grande ruolo, nella produzione del profitto) e una ancora indeterminata grande politica esterna effettivamente comunista, in specie facendo convergere rivoluzione e comunismo, forma e contenuti. Contemporaneamente e congiuntamente, ossia in ma-

niera progettata, dal basso (ossia da ovunque) e dall'alto; e così ponendo come fulcro il livello cerniera, il medio livello. Magari con una misteriosa e favolosa via «rivoluzionaria», e con il progetto di una transizione assai flessibile mediante convergenza di obiettivi mobili di forma e contenuto. In fondo, negli anni Sessanta e

24/

Che però non fu in grado soprattutto per ragioni di controsoggettività politica dì

io. portare avanti un vero attacco rivoluzionar

161

Settanta io la vedevo così, però con una mera intuizione di quella grande politica che non seppi mai elaborare com'era necessario.

L'incontro delle due dimensioni, com'è noto, allora non ci fu granché; non si progettò una transizione conforme a quella teoria, a quella strategia teorica. La nostra teoria generale del capitalismo

fu molto debole: l'uscita eventuale fondata solo sull’accelerazione dello sviluppo non bastava. La potenza della classe operaia per il capitalismo non si trasformò a sufficienza in forza per se stessa,

ovvero contro se stessa, e in forza politica rivoluzionaria. Orbene,

si propo-

quest'ottica converge molto con la prima, e comunque

ne come una trasversalità sostanziale anch'essa tendenzialmente universale: attraversa tutti quanti i grandi ambiti. Essa dovrebbe costituire la dimensione più importante del mio Modellone, in tutti i suoi tre percorsi. Però finora è rimasta ai margini. Ciò richiede probabilmente l'individuazione o la controcostruzione di una

nuova grande forza sociale, singolare e/o piuttosto plurale, suscettibile di essere portatrice (superando la cosiddetta spontaneità) di

una nuova dualità. Tutto ciò andrebbe messo in relazione con la riproduzione della capacità-umana-vivente odierna, in interazione

reciproca: incontro delle due politicità e riproduzione, e viceversa. Cominciamo a rappresentare qualcosa, ipotizzando, impostando nella sperimentazione un progetto provvisorio.

Terza dimensione della politica. Le prime due accezioni vanno ben distinte dal grande ambito della politica istituzionale, quale

politichetta, che oggi si americanizza come amministrazione o governo amministrativo, ridimensionando nella globalizzazione

capitalistica il vecchio Stato democratico dei partiti. Qui abbiamo

da una parte la riproduzione che si fa nel grande ambito della poli-

tica istituzionale, politichetta appunto, dove oggi vige il professionismo, gli stessi eletti sono a loro volta professionisti della politica. Mi pare l’aspetto meno importante.

Dall'altra parte,

invece,

c'è

l'aspetto contrario della politica che governa e decide della riprodu-

zione, sia in quanto ancora residualmente di competenza dello Sta-

to (adesso sovranazionale, e tuttavia magari a sua volta residuale, nelle sue articolazioni), sia con una qualche regolazione gerarchica

pubblica, in termini di politica economica, del nodo della riprodu-

zione della capacità-lavorativa-umana e poi del suo mercato.

troppo questo sub-ambito è quello che monopolizza

Pur-

l’attenzione,

parecchio economicistica, degli ex o dei residui «compagni». La riproduzione della capacità-umana dovrebbe invece essere rappor-

tata a tutto quanto questo mondo tripartito della politicità. 162

Si dice che la politica fosse l'aspetto più carente del vecchio operaismo degli anni Sessanta e Settanta, anche perché non si seppe portare oltre certi limiti la lotta di classe operaia. Pure perché non si seppe elaborare questo nodo della grande politica rivoluzio-

naria di Fu a dir indiretti, ripartire

parte operaia, che rimase soltanto una vaga intuizione. poco carente, lo è ancora oggi negli epigoni anche molto eredi lontani e di più vario tipo. Tuttavia, adesso si può a costruirla dalla parte medio-bassa e bassa della nostra

nuova realtà, cercando di salire da lì, in riferimento però a nuovi

soggetti sociali forti. Potrebbero essere così ricchi di forza nell’iperpropletariato l’operaia e l'operaio molteplice della riproduzione

e dell’autoriproduzione (accanto ad altri soggetti) come referente di

una nuova azione d’avanguardia e di élite interna, che rilanci pure vecchi rinnovati e nuovi militanti?

163

5. Breve morale di questa favola

Una morale di domande dice già molto. Evidenzio qualche conclusione generale. Ho detto che nella terza fase del capitalismo industriale c'è la sussunzione dei servizi nell'iperindustrialità capîtalistica e il prevalere di un lavorare timico e cognitivo di nostra riproduzione. Riproduzione e capacità coercitiva in specie dei lavo-

ratori della conoscenza inventiva. Orbene, dobbiamo enfatizzare che proprio questi due tipi di lavoro-umano ricorrono più di altri soprattutto nella riproduzione (della capacità-umana-vivente), che dunque non solo diventa il settore principale, ma in questa dimen-

sione diviene forse anche qualitativamente il più tipico. Infatti, alcune delle realtà che dico «baricentriche» stanno proprio qui: dove inoltre prevalgono sempre più le femmine, non solo per numero. È vero, nell’Occidente capitalistico più avanzato per ora i beni tangibili li fanno a sempre più alto automatismo le macchine-artificiali, solo un poco ma molto significativamente integrate dagli umani. Lo fanno sotto il comando del padrone collettivo, mediante scienza sempre più flessibile, mediante telematica e il lavorare di immagini; ora lo fanno pure al livello delle molecole e dei geni. già pure al livello sub-atomico delle particelle. Queste macchine

lavorano sempre più fabbricando protesi del corpo umano (come nella biomedica), simulando territori, distruggendo natura e trasformandola.

Gli umani

invece, gli iperproletari, co-lavorano in

combinazione lavorativa sempre più a riprodurre se stessi, di solito per il lavorare specifico capitalistico metafinalizzato al profitto, in telecomunicazione sempre più macchinico-artificiale, sotto il tele-comando del padrone collettivo. Questa situazione nuova degli iperproletari, femmine e maschi, è anche il risultato della lotta di classe precedente; corrisponde a una sconfitta dei proletari classici? Ora i nuovi proletari «iper» lavorano in buona e crescente prevalenza a riprodurre se stessi consumando beni e servizi, offrendo servizi riproduttivi ai propri partner-interni e lavorando anche nella fruizione autoripro165

duttiva di questi servizi, per poi erogare capacità in altro lavoro. Ma in che condizioni lo fanno, in quali rapporti prevalenti di lavoro specifico? Non lo fanno autonomamente, per propri scopi autonomi, bensì per erogare questa loro capacità-merce sotto il comando del padrone nella valorizzazione e accumulazione di capitale e di dominio capitalistico, che include lo sviluppo della tecnoscienza curvata sul suo uso capitalistico e il riprodursi della sfera religiosa.

Lo fanno per il profitto. Però a molti, anche iperproletari e iperpro-

letarie, questo piace. Sono perlopiù identificati negli scopi del capi. talismo e nelle sue funzioni. Non si sentono perdenti, se non per il salario reale ora diminuito e ancora calante nel prossimo futuro, in specie il salario sociale; ma sperano che sia per poco.

Se si eliminasse il capitalismo (e non solo la globalizzazione) magari gli iperproletari (0 neo-proletari) potrebbero agire per loro stessi; però prima dovrebbero cambiare ed essere cambiati sogget-

tivamente, questi uomini-merce dovrebbero risoggettivarsi un'altra volta, magari dentro qualche lotta nuova. Perché adesso non

c’è significativa distinzione tra loro e il sistema capitalistico. È qui

la grande ambivalenza odierna? Sostituire il capitalismo con altro progettato, o cercare e sognare di sostituirlo soltanto accelerandone e garantendone lo sviluppo?

C'è comunque anche l’ipotesi ulteriore che adesso la valorizzazione del capitale, almeno in Occidente, si sposti parecchio in questi servizi finali e in questi lavori. È il grande fatto di livello

medio-alto al quale bisogna riferirsi. Scendendo via via a livelli di

realtà inferiori ci sarebbero una grande quantità di variabili im-

portanti da considerare, intorno alle quali conricercare, o almeno «inchiestare», come certi amano dire oggi. Dobbiamo

man mano

tirarle fuori, cominciare a riconcettualizzare e problematizzare,

a riflettere e sperimentare. Ma oggi questo ai livelli bassi (e medio-bassi) lo fa sempre meglio la scienza sociale, in particolare la

sociologia, l'antropologia, la linguistica. Ho già ripetuto che io non

pongo questo modello frammentario e parziale della parte media

del sistema, nemmeno per quanto concerne la riproduzione della capacità-lavorativa-umana-vivente-merce, in contrapposizione alle

ricerche scientifiche di scienza sociale e pure sociologiche, che si

muovono più in basso e di solito possono essere incluse, con mol-

te loro ipotesi e risultati, come parte bassa del mio modello, con

certe revisioni critiche qui e là. Semmai cerco di “dare al di È

dell’oggettivismo semplificatore della vecchia scienza galileiana €

moderna,

166

sia sociale sia naturale. Basandomi

su una nuova

scien-

za effettivamente postmoderna come quella della complessità di Morin, con ambivalenza e politicità peculiari. Comunque, non bisogna pensare che questo primato del riprodurci possa configurare un qualsiasi nuovo umanesimo, magari matriarcale, ossia di un utopico capitalismo matriarcale. Per nulla! Infatti, replico per l'ennesima volta, la prevalente riproduzione di

capacità-umana-vivente non è fine a se stessa ma è funzionale ad

altro che le soprastà, al profitto: è il contenuto della Produzione e accumulazione di capitale e di capitalismo, di ipercapitalismo. Alla gente iperproletaria in Occidente sembra andare bene così. Il capitalismo è pure un modo di vivere, e a moltissimi (anche ex sinistri)

piace, lo considerano come naturale e progressivo.

Però ci sono ormai in giro non trascurabili minoranze, soprat-

tutto di giovani, infastidite dai vecchi modelli e linguaggi, che si mobilitano, in un pluralismo più o meno solidale (soprattutto

cristiano, ma ancora anche socialistoide, libertario o anche generico), anche conflittuale; e sembrano disposte a impegnarsi per la ricerca, l'esplorazione e lo sviluppo di un modo di vivere alternativo. Nuovi sogni, in una più o meno voluta o tollerata continuità con sub-minoranze iperproletarie giovanili in nuova rivolta. Come

mai?

In questo quadro nascono nuovi interessanti slogan

e obiettivi molto spesso già fortemente legati alla questione qua-

litativa della riproduzione della capacità-umana-vivente, magari da de-mercificare, non solo formalmente!.

Molteplicità, sincreti-

smo, moltitudine soggettiva: perché questa mercità e quel che ne consegue davvero non gli sta bene? Io mi sono sempre

mosso

nell’ipotesi di un general intelleci

ulteriormente dispiegato, ma correttamente interpretato. A me personalmente, nel riconsiderare anche storicamente la successio-

ne nel tempo di diverse operaietà, di diversi tipi di operai2, dun-

que di differenti soggettività operaie, interessa particolarmente il momento

in cui alcuni di noi inventarono (in maniera un poco

diversa) l’«operaio sociale», senza granché approfondire. Pertanto

adesso vorrei esplorare il proporsi di un operaio della riproduzione, finanche dell’autoriproduzione?. Anche nel quadro di un'epistemo1/

Tra questi, ad esempio, ha per me una certa interessante centralità il movimen-

to assai minoritario del «welfare community». Però improbabilmente raggiungibile

solo per via pacifica e come luogo della mera solidarietà come valore. 2/ Da considerarsi come agenti singoli, come microgruppi e gruppi sociali peculiari. come livelli di nuove composizioni e concezioni della classe operaia in sé e per sé, oggettiva e soggettiva. 3/

Però bisogna guardarsi bene dal contrapporli, ad esempio, al cognitariato dì Bifo,

167

logia magari postmoderna, di un nuovo conricercare e co-elaborare su questo nodo. Ponendolo però all'incrocio con il riproporsi di certe grandi questioni aggregative: della grande inestinta questione del nazionalismo e dell’affacciarsi di suoi momenti di crisi per sovranazionalità soprattutto del governo, e sottonazionalità del vivere quotidiano della gente iperproletaria, pur nella crescita della globalizzazione. E di quella dell'eventuale rapporto delle odierne classi sociali oggettive con la moltitudine soggettiva. Certo, questi operai del riprodurre e riprodursi (in casa e fuori) oggi sono quasi

tutti anche operai del produrre, nella cognitività. Questo «quasi» discrimina molto nella doppia presenza nel lavorare specifico (produrre e riprodurre), e anche quelli della doppia presenza nel riprodurre stesso (riprodurre sé e/o altri) sono già molti milioni in Italia. Hanno conquistato questo nuovo terreno, con le nuove tecnologie,

nuovi rapporti. Su questo terreno sono più forti di com'erano ieri? Questo però è comunque il nuovo terreno di lavoro politico per la produzione di controsoggettività, non il nuovo «soggetto». Vuol

dire che le potenzialità-contro sono adesso aumentate? Ma contro per cosa, e perché?

La riproduzione da un lato intriga, sfrutta e assorbe, ma dall’al.

tro soddisfa soprattutto un nuovo iperproletariato occidentale di ceto medio; tuttavia non è solo questione sua, bensì di tutti quanti e globalmente, sebbene con differenze interne. Avevo cominciato

a parlare di proletariato di ceto medio già una trentina di anni fa. Adesso qui da noi l’iperproletariato è in grande prevalenza di ceto medio, nel significato che sotto la middle class non c'è in Occidente quasi più niente: perciò adesso sono loro le forze motrici del sistema’, ma sono anche sotto il torchio del padrone, nella crisi

strutturale che lascia ai capitalisti ben pochi margini per un nuovo

riformismo.

Come vivono quest'ambivalenza? Tuttavia non sba-

gliamoci: non sto proponendo all'attenzione questo che chiamo

ceto medio al posto della classe, per farla finita col discorso delle classi. No. L’iperproletariato è oggi la grande classe, almeno ogget-

tiva. Ma soggettivamente, e anche collettivamente? ! capitalisti invece sono ancora una grande classe soggettiva. E perfino antagonista. Ricordiamoci allora che se l’antagonismo c'è ancora, se ci è ancora imposto, per vincere ci vuole anche la forza:

basta la forza degli odierni movimenti piuttosto soggettivi? Que-

perché sono due facce dello stesso iperproletario, la sua doppia presenza almeno nel

Javoro specifico.

I

4/ Come amava dire Togliatti, con un significato un poco diverso. 168

sto che chiamo provocatoriamente ceto medio, ma il nome non conta, è una parte forte dell’iperproletariato con un potere almeno negativo. Forse, se l’operaietà come abbiamo sempre pensato non è quella del braccio, ma è l’avere la capacità di attivare e innovare il macchinario-artificiale e l’organizzazione tecnoscientifica e trasversale odierna, esiste oggi una nuova operaietà di cosiddetto ceto medio? Negli operai della riproduzione? O forse nella moltitudine dei lavoranti trasversali e nella classe oggettiva’ ci si potrebbe valere in qualche suo tratto proprio di una o più nuove parti o segmenti forti anche soggettivi, così magari di una molteplice quasi-avanguardia di massa e di movimento interna la quale riesca a ricomporre minoranze forti anche soggettive più ampie in una

magari minoritaria «nuova classe soggettiva plurale», nel sincretismo, da dentro la moltitudine — o verso altro e qualcosa di più?

Magari cognitiva o intellettuale? E nell’ipotesi ulteriore di un’avan-

guardia interna di questa avanguardia, magari all'insegna degli

operai della riproduzione? Moltitudine nella quale per molti si rappresenta la condizione soggettiva oggi migliore e di cui gioire, per altri invece si manifesta una condizione piuttosto negativa seguita

alla «sconfitta» degli operai classici — se davvero questa c’è stata o per la parte che c’è stata — e che dobbiamo cercare di superare: verso ricomposizioni e risoggettivazioni. Pure verso un rapporto con una rinnovata e stavolta ben compresa grande politica? Però in tal caso, per crescere ancora oltre certe soglie critiche, questo

movimento dovrà magari porsi di nuovo e stavolta risolvere il problema non solo di un nuovo partito, ma di un partito di tipo nuovo, di nuova forma: e di nuovo partito di una nuova classe-parte, in una pluralità, da dentro una moltitudine? Ripeto: cercare ancora la forza anche contrattuale di una classe, magari come contropotere, o puntare solo sulla pluralità sincretica e mobile delle forze-soggettive contro, nel muoversi della moltitu-

dine soggettiva? A ogni modo, come può costruirsi oggi un partito di tipo nuovo nel sincretismo e nella pluralità delle forze socialì

che si potrebbero trasformare in forze politiche? Magari nel significato di disponibile per una nuova politica in grande di nuovo

comunismo post-operaio da inventare? Partendo forse, stavolta, da nuove élite interne? O invece non è più il caso di volere un qualsivoglia partito.

5/

E magari neppure un’organizzazione politica dei

L'iperproletariato oggi è classe oggettiva, solo oggettiva: classe in sé e non per sé.

169

movimenti e della lotta per una grande politica piuttosto rivoluzio-

naria? Per qualcosa come un altro e nuovo comunismo8?

Ripeto, il capitalismo è pure un modo di sopravvivere, una civiltà. Se non se n’è proprio tanto contenti, in varie minoranze, sì pensa che debba o possa essere combattuto, cambiato, solo da

fuori dei suoi rapporti? O si vuole fuggire altrove, magari nel pro-

tocapitalismo che circonda l'Occidente con residuali isole di civiltà

contadina”? C'è una ripresa del terzomondismo di fuga? Il vecchio comunismo operaio dei professionali, di proletariato operaio dei mestieri, e poi quello embrionale dell’operaio massa sono fuori gioco, soprattutto col loro vecchio linguaggio, con certe loro topi-

che, col loro immaginario e simbolicità. Ma non è proprio il caso di piangere o di storcere la bocca. L’iperproletariato, nella sua nuova

composizione, ha non del tutto esigue minoranze nuove che nella moltitudine soggettiva talora riescono a esprimere una maggiore

radicalità che non il nostro vecchio e residuale movimento operaio

degli anni Sessanta e Settanta, ancora impregnato dal vecchio so-

cialcomunismo operaio, naufragato nel socialismo reale statalista

e proletarista. Quelli, almeno in quell’inizio dove li hanno fermati, ci giravano intorno; invece questi iperproletari di oggi, almeno a parole, talvolta sembrano voler andare direttamente alle radici

internazionali delle grandi questioni strategiche del capitalismo e della sua accumulazione di dominio e di tecnoscienza, curvata nell’uso capitalistico e della sua religione tendenzialmente universale (proprio malgrado i fondamentalismi). Ma l’iperproletariato

è pur sempre almeno una classe, almeno o piuttosto «oggettiva»,

in se stessa, ben più che per se stessa? Tuttavia esiste ancora una

grande-classe-parte nuova o una forza sociale capace di configu-

rare una dualità, o di consentire eventuale contro-lavoro politico

verso ciò che qui ho esplorato? Consentendoci pertanto di muo-

verla in qualche modo pure per se stessa, in autonomia, o volendo

farlo? Oppure oggi dobbiamo guardare ad altro, o limitarci a voler eliminare qualche negatività minore, e per il resto compiacerci? In fondo questo è il sistema sociale che anche noi abbiamo voluto, salvo dettagli? Un'ipotesi è che adesso vadano emergendo davvero certe condizioni di qualcosa come un nuovo comunismo plurale di ceto medio iperproletario, a partire dall’autoriproduzione diversa, nel lavoro 6/

7/

Benché si sia bruciato il nome?

Come proponeva Lin Bia0.

170

trasversale odierno e nella compresenza dei non contemporanei,

me

rare

site

n

soprattutto soggettivi. Nei prossimi vent'anni qui in Occidente, se

non aspettate che vengano a «liberarvi» da fuori quelli del Terzo mondo, oppure gli operai cinesi, indiani o indonesiani miracolosamente usciti da soli dal labirinto della cosalità e dalla condivisione dei capisaldi ideologici comuni alla borghesia, vi resta solo il sogno (o la profezia?) di una nuova rivoluzione in qualche modo significativo anticapitalistica di questo che chiamo ceto medio iperproletario occidentale, e soprattutto di quello incluso nel nuovo proleta-

riato, e nelle nuove contraddizioni scaricate su di esso — se si può ancora parlare di proletariato, nuovo o iper. Come forza di ripro-

duzione e autoriproduzione di capacità-umana-vivente singolare e collettiva? O almeno per un grande riformismo che cominci a muoversi qui sopra, verso una nuova ondata rivoluzionaria adesso

forse allo stato nascente? O per di qui o tanti saluti? Il continuismo ha respiro corto: bisognava proprio saper morire per rinascere diversi. Gli zombie sono nostri nemici: vogliono portarci con loro nei

sepolcri. Lotta sulla formazione, sulla ricreazione/restauro della capacità-umana-vivente, sul piacere, ma non solo questo. La mol-

titudine anche soggettiva ha magari certi nodi di maggior forza

anche oggettiva?

Rispetto a ciò questo testo è un pezzo di un discorso che ha

almeno potenzialmente un respiro strategico. Mi pare che non sia

difficile tradurlo sperimentalmente su un piano tattico e pratico. C'è di nuovo in giro, perfino in Italia, nella moltitudine soggettiva

e nell'odierna classe oggettiva, una vasta minoranza che converge pure nel dire e finanche nel gridare che è ancora possibile pensare a un mondo diverso da questo, progettare una nuova e diversa

società. Qui la nostra riproduzione è uno dei nodi su cui riflettere, cercare e conricercare per questo progettare plurale. Conricercare soprattutto su rivoluzione, comunismo e transizione.

Da anni sto riscontrando l’ipotesi che tutto il nostro agire in

questa società è lavoro capitalistico, nella totale indifferenza e disinteresse dei «compagni». Se è lavoro tutto il nostro mantenerci in sopravvivenza, e tutta la nostra stessa sopravvivenza, e lavorati-

va è la capacità di sopravvivere che diamo all’accumulare capitale, possiamo anche ricavarne forza per strappare una vita completamente diversa? Intanto senza esplorazione politica del lavoro-uma-

no di consumo come lavoro-specifico non si va lontano.

171

Appendice

1. Produzione e riproduzione

Abbiamo già visto, con molte ripetizioni, qualcosa dell’interazione sottostante e orizzontale tra produzione/artefattura delle utili tà-comuni e riproduzione della solita capacità-umana-vivente: tra lavoro-umano-specifico di produzione/artefattura e lavoro-umano-specifico-di-consumo-finale

riproduttivo;

orizzontalmente,

allo stesso livello medio-basso. Questo è stato un leitmotiv in que-

sto testo, proprio per ciò ora considero questo paragrafo un riepilogo fuori testo.

Risalendo da qui al punto già accennato di considerazione critica dell’affermazione, ora frequente ma da dubitare assai, che «oggi

non c’è più distinzione tra produzione e riproduzione». Come si è già intravisto, io sostengo — esplorando ipoteticamente — che questo non è vero, da più punti di vista. Il fatto è che le parole (produzione

e riproduzione) hanno vari e diversi significati.

Innanzitutto, molti intendono dire con questa battuta incauta che oggi tutto è produttivo e quindi lo è sempre anche la ripro-

duzione, senza granché riflettere nel merito del riprodurre capa-

cità-lavorativa-umana. Ma intanto: è vero che oggi «tutto è produttivo»? In senso proprio no. Se produttivo vuol dire remunerativo,

che rende più di quel che costa a chi investe, redditivo di capitale, «Produttivo» con la maiuscola, allora non è affatto vero che adesso

tutto rende all’investitore più di quel che gli costa. No, per niente. È ancora facile perdere soldi per investimenti sbagliati, anche

in riproduzione di capacità-umana-vivente. Anche la riproduzio-

ne può avvenire in rosso per uno o più investitori: nel riprodurre capacità-lavorativa-umana possiamo perderci, smenarci, in soldi, in energia, in tempo. Il semplice fatto che le possibilità sono due

(guadagnarci o perderci) e non c’è solo quella positiva, ci dice che

l’affermazione suddetta è spesso falsa. Dunque, ribadisco che oggi non tutto è in sé produttivo in senso proprio. C'è pure una ripro-

duzione di capacità-umana-vivente che può costare più dì quel che

rende: sia a uno o a entrambi i due partner interni che fanno iîl

t75

lavoro-di-consumo-finale-riproduttivo, sia a un terzo (il capitalista, di norma) che di solito ha cofinanziato questo lavoro di consumo

riproduttivo e poì impiega la capacità-umana ottenuta in produzioni e vendite di altre merci. O alla società. Dipende dai livelli.

Quindi, c'è anche una riproduzione di capacità-umana-vivente improduttiva: da ridurre ed eliminare, perché per il nostro sistema può essere un intollerabile spreco. L'affermazione suddetta è di

nuovo proprio falsa! Questo è il nodo forse principale in cui si deve scavare. Qui qualche problemino teorico o interpretativo può venire dall’identificazione di questo investitore, dal fatto che spesso ci sono diversi investitori a diversi livelli di realtà e magari bisogna specificare: produttivo esattamente per chi, per quale investitore? Tuttavia, in senso improprio molti intendono spesso dire «produttivo» solo nel significato (diverso, qui sostanzialmente errato e comunque sottostante) di utile per chi compra, che serve a qualcosa, almeno che ha un valore d’uso per chi offre e vende; o magari

che ha un'utilità sociale, nel significato di utile in e a questa so-

cietà. per qualche suo aspetto. Però oggi magari talora si producono ancora cose, prestazioni, rapporti e scambi che sono inutili in ogni senso, perfino al realizzo di sovrappiù. Pertanto non proprio tutto ciò che si produce è utile. Ma qui quel che ora ci interessa è che nemmeno la riproduzione della nostra capacità è sempre a priori utile. Produrre ad esempio capacità-lavorativa umana obsoleta

non da nulla a chi lo fa. Dipende. Di nuovo, se le possibilità sono

due l'affermazione non è vera.

Diversamente stanno le cose se, come normalmente avviene, si artefanno o si producono (con la minuscola) proprio delle effetti-

ve utilità/valori d’uso, o almeno certe potenzialità di ciò: cose utili almeno a chi le fa, magari nel senso che ci prova gusto. Allora, in questo caso «speciale» ma normale, bisogna salire un poco più

sopra e vedere se l'investimento in quel produrre utilità differen-

ti rende (a chi?) più di quel che costa oppure no. Questo costare magari non si intende solo in senso strettamente economico. Le

cose si complicano ma non diventano un indecifrabile groviglio.

Dipende.

Produttivo allora perché produce, con la minuscola, utilità o

anche valori d'uso di merci di fatto: vendibili, che poi magari si possono vendere/affittare con guadagno? Ossia ricavando dall’affitto/vendita (0 magari anche da certi successivi usi) più di quel che sono costate? Sì, ma allora e soltanto allora subentra la redditività: pertanto Produttive perché, soltanto così vendute, affittate 176

o usate con guadagno, le utilità differenti possono rendere più di

quel che sono costate, e c'è un incremento della ricchezza iniziale, come contenuto di capitale. Incremento che tuttavia non derivi da

formazione di capacità-umana-vivente perché questo è un sub-caso specialissimo: bisogna tenere distinta la Produttività dalla formazione di capacità-umana, sebbene quest’ultima spesso vi sia inclusa, anche come il dare e crescere la vita umana, e appunto la

sua capacità. Però il rivendibile con guadagno è un’altra cosa. La regola più generale è: produciamo tutti capacità-umana-vivente in mercità per affittarla, scambiarla, venderla vantaggiosamente. Che la riproduzione sia uguale al nostro Produrre con guadagno è il nostro comune sogno di iperproletari di fatto salariati, ma questo non ci è affatto garantito in partenza. Per quanto rilevanti le po-

tenzialità restano da realizzare! Pertanto è meglio chiamare l’utile-differente «utile (differente)» e tenere la parola «produttivo» per

altri referenti un poco soprastanti, per altri significati meno bassi. Ma, ripeto, la riproduzione di capacità-umana-vivente coincide

Ti TTT

Seite

con il produrre una redditività qualsiasi? A mio parere no. Solo potenzialità. Comunque si deve raffrontare la riproduzione di capacità-umana-vivente a questa situazione e processo per cui qualcosa rende più di quel che costa. E ciò sappiamo già che ci rimanda

anche alla questione delle risorse, appunto potenzianti, alla capacità-umana come risorsa calda in mercificazione che pure potenzia il lavoro, trasversale, se si combina con la potenza essa pure poten-

ziale dei mezzi. Potenza potenziale e produttività. Pertanto poten-

ziando la produzione di capacità potenziante può rendere alla fine

più di quello che complessivamente è costata. Tuttavia la sua utilità-differente di risorsa calda non è qualsiasi. C'è da distinguere.

Frammentariamente più dentro Abbiamo così di nuovo intravisto che per poter approfondire que-

sto punto bisogna anche ritornare ai diversi concetti di Produzione

e di Produttività già incontrati nella prima parte di Nella società in-

dustriale d'oggi. Replico: nel mio linguaggio in primo luogo Produzione con la maiuscola è Produzione di capitale: di tutta e qualsiasi ricchezza volete, ma come contenuto di capitale, in significato alto (e così anche quando s'intende produzione dì merci, e quindì dì

valore in esse contenuto, da realizzare e capitalizzare). Così in que

sto senso alto la Produttività è la capacità dì valorizzare capitale, e T77

Produttivo

vuol

dire che valorizza

capitale.

Poi però,

appena

più

sotto, diciamo a un raggio medio-alto, abbiamo visto che produtti-

vo è ciò che, incluso nella Produzione di capitale, rende più di quel che costa e che così dà un sovrappiù, realizzabile pure in un plusvalore. Con quel sovrappiù, incrementa e valorizza capitale. è cioé

contenuto di incremento di capitale. Così possiamo scendere fino a dire produttivo nel significato classico: un lavoro o un lavoratore specifico artefà o produce utilità di merci vendibili Ja cui artefattura 0 produzione,

realizzando sovrappiù

nella vendita o nell’affitto,

alla fine realizza questo rendere più di quel che costa. Si ripropone la classica questione dell’origine del sovrappiù di capitale! e anche la sua classica soluzione, almeno fino a un certo punto. Allora in primo luogo l'affermazione precedente verso l'alto vorrebbe dire che oggi non c'è più distinzione tra una riproduzione che valorizza capitale e una che non lo valorizza, ma solo riproduce, forma, una capacità-umana-vivente che non è necessariamente sempre contenuto di capitale? No, quest’affermazione non è vera. Se la ricchezza di capacità-umana non include quest’ultima come contenuto di capitale, il riprodurla non lo incrementa sempre. Al contrario, ci sono ancora in talune pieghe del sistema capaci-

tà-attive-umane-viventi erogate per conseguire fini del tutto autonomi: ci interessa peculiarmente che si riproduca capacità-vivente utile al lavoratore-di-consumo ma non al capitalista, perché questa riproduzione davvero autonoma non incrementa capitale. Questo

però è molto raro: è il sogno, l'utopia di alcuni e soprattutto di alcu-

ne. Nella sua rarità ciò è comunque significativo per noi, proprio perché qui la Produzione (di capitale) non c'è. Comunque, è un caso che smentisce l'affermazione suddetta falsificandola perché così non c'è Produzione ma solo produzione; ripeto, è purtroppo un caso piuttosto raro o un'ipotesi

teorica, non

certo la regola ge-

nerale. Bisognerebbe che questa capacità-umana-vivente in forte mer-

cificazione (scomposta e separata) fosse appunto contenuto di capi-

tale-umano e come tale si incrementasse. Soltanto allora si potrebbe dire non c'è quasi più differenza di funzionalità accumulativa a livelli alti, nell’indifferenziatezza, e solo lì, tra una ri-Produzione che incrementa capitale-umano e una Produzione che valorizza, incrementa, Produce capitale in generale: non ci sarebbe quasi differenza tra una formazione di capacità-lavorativa-umana-merce e 1/

Abbastanza in termini di teoria del valore-lavoro?

178

una valorizzazione di capitale in generale. Qualunque sia più sotto il suo contenuto. Da un lato, ciò è tautologico; vale per tutto quanto perché lì in alto nessuna differenza tra Produzioni (di capitale) conta. Anche nel mio Modellone in alto (come in Marx), nella mercificazione, le merci al secondo livello di realtà sociale sistemica specifica della Produzione di capitale (e dunque di valorizzazione del capitale), al Meta-livello e dunque nella fascia alta, sono per definizione indifferenziate qualitativamente e indifferenti alla differenza-utile qualitativa che includono, tanto più come risorse-merce di produzione di capitale: come il lavoro indifferenziato e soltanto quantitativo che ne co-Produce appunto il valore-capitale. Dall'altro lato, qui il capitale-umano ha solo una potenzialità accumulativa: questo è il punto. In alto, al Meta-livello (secondo-livello gerarchico della piramide rappresentativa della nostra società-specifica), nella mia ipotesi e in quella classica contano le merci (anche la capa-

cità-lavorativa-umana-merce) esclusivamente come ricettacoli di quantità di valore (0 magari di cosiddetto valore di scambio) capitalizzato-capitalizzando, indifferente a ogni differenza qualitativa e quindi anche al sottostante valore d'uso differente ri-produttivo di capacità-umana che include. Qui in alto c'è Produzione ma conta

solo la differenza di quantità. A questi livelli alti di realtà sociale specifica il valore d'uso, utile-differente, non c'è, per cui qui non

ha senso parlare di riproduzione o altro distinguendo qualità-utili del valore d’uso, anche quando è riproduttivo però così differen-

ziato, differente, tale solo a livelli sottostanti e inclusi in quelli alti. A meno che per produzione non si intenda, con la minuscola,

l’artefattura dei prodotti/merce (anche come produzione di utilità calda di servizi riproduttivi di capacità-lavorativa-umana-vivente).

Benché i confini orizzontali tra i grandi-ambiti si vadano facen-

do labili, la dichiarazione incauta di uguaglianza (tra produzione/

artefattura di utilità e riproduzione di capacità-umana-vivente) è

tuttora piuttosto falsa. Al medio raggio e in modo crescente più

giù, c'è ancora notevole differenza tra produrre merci comuni e

produrre la merce specialissima forza-lavoro-umana. Proprio in

quanto è tuttora non comune ma specialissima per noi, sia come

risorsa calda sia nella sua peculiare utilità e significato. Così rica-

diamo nell’altra interazione già trattata, riproduzione-artefattura,

2/ E poi questolo si sente nell'amministrare l'insieme correggendo il mercato e rimediando ai suoi difetti.

179

dove per definizione c’è differenza e dunque non è vero che c’è uguaglianza. Scendendo nel suo contenuto sottostante e nell’utilità differente dal medio raggio in giù, il capitale-umano resta differente dal capitale in generale, perché ne è una parte particolare: quella parte specialissima che sì riproduce stando dentro i corpi-umani-viventi interì, singoli o collettivi, che siamo noi. Così scendendo il valore d’uso/utilità sì distingue, sì differenzia. Comunque tale parte ha certe potenzialità, può essere utile a qualcuno che ha lavorato a

riprodurla o a farla riprodurre per accumulare. Ma scendendo non c'è più la Produzione di capitale, indifferenziato, ma incontriamo solo ì suoì contenuti bassi. Allora, se invece intendiamo così non

il capitale-umano indifferenziato, bensì la capacità-umana-vivente

merce ma differente nei valori-d’uso utili differenti sottostanti, ritorniamo alla relazione e situazione sottostante e orizzontale

intravista sopra: produzione con la minuscola di utilità di merci/ consumo-finale-riproduttivo di queste utilità differenti. Torniamo lì, e le due funzioni e ambiti funzionali sono appunto differenti, dunque non uguali.

La riproduzione impresizzata di capacità-umana-vivente diventa a sua volta un luogo importante di Produzione di capitale, almeno come valorizzazione di capitale-umano, finanche nella famiglia

impresizzata, partendo dal fatto che vi si fa un lavoro-specifico iperindustriale che rende più di quel che costa e il sovrappiù si

capitalizza; ciononostante, Produzione di capitale e riproduzione di capacità-utile-umana stanno in ogni maniera su livelli di realtà differenti; così sono ancora analiticamente ben distinte. Paragona-

re Produzione e riproduzione vuol dire paragonare verticalmente entità e processi che stanno a livelli di realtà differenti: valore di scambio soprastante con valore d’uso/utilità sottostante. Valore d'uso/utilità sottostante alla Produzione e il lavoro-specifico indifferente e indifferenziato (detto «astratto» dai marxisti) che sta sopra: la riproduzione e formazione di capacità-utile-differente e ì grandi ambiti di valore d'uso differenti stanno invece sotto; sono

inclusi in quella, nella prima, e nel lavoro-indifferenziato e indifferente soprastante: c'è dunque questa relazione di inclusione, e non di identità. Non c'è dunque uguaglianza.

180

Ancora formazione di capacità-lavorativa-umanavivente Sull’altro versante va distinto proprio il caso della formazione, che abbiamo già intravisto. Nel mio modello ipotetico, è la riproduzione allargata della capacità-umana-vivente e il suo incremento come capitale-umano, e capitale/risorsa calda; quando però sia proprio

così, perché ci sono in giro molte formazioni finte. Piccolo approfondimento problematico già incontrato prima. Anche

la forza lavoro, ossia la capacità-umana-lavorativa-vivente

mercificata, si include nel capitale tendenzialmente già come il problematico (e controverso) capitale-umano, onde lo stesso riprodurre con incremento forza lavoro o capacità-umana-vivente (ossia il formare) è produrre potenziale capitale come potenziale capitale-umano. Anche inteso come dare vita e capacità, e crescere fanciulli capaci. Ma allora va approfondita questa potenzialità. Come

la formazione crea un potenziale che si può realizzare e si realizza come nuovo capitale, ovvero suo incremento». L'incremento però va usato facendo rendere il tutto più di quel che è costato.

Nondimeno sappiamo già che ci può essere anche una forma-

zione che consuma più capacità di quella che produce, ci può es-

sere un incremento di capacità-umana che costa più di quel che

rende: formazione diversamente, in verticale, improduttiva. Nella nostra scuola certo non manca. Dal punto di vista capitalistico, generare o allevare una capacità-umana-vivente tanto più merce, che non sia effettivamente valorizzativa e accumulativa, è un grande e immorale spreco. Già spreco d’aria, d’acqua, di alimenti e indu-

menti, di tempo: oggi non si tollera un consumo-riproduttivo improduttivo!

Altro ancora

Prima però si può esplorare la possibilità che il capitale-umano

possa anche essere sia in proprietà sia in possesso del suo contenitore, sviluppatore, erogatore-umano vivente necessario, îl quale allora può accumularsi un po’ dì capitale în quanto è lui îl conte

nitore attivo di capitale-umano: capitalista proletario, la massima

3/

maniera Secondolamia definizione, partorire 0 allevare bambini di solito è a sua

te «formazione»: incrementa capacità-umana-vivente, valore dì capacitàuma na-viven

rùx

ambiguità e ambivalenza! Oggi di tali ambigui lavoratori ce ne sono tanti e ce ne saranno sempre di più. Siamo tutti imprese.

Qui dire che non è vero che è tutto uguale dal medio raggio în giù, come ho affermato, può invece enfatizzare e promuovere un'autonomia almeno potenziale o un'ambivalenza dentro tale capacità-umana-vivente, magari sottratta al lavoro specifico. Allora, come abbiamo intravisto prima, sì mette sul tavolo la possibilità che questa capacità-umana-vivente possa essere utile anche «per

se stessa», nel senso di conseguire scopi medio-bassi autonomi. A parte il sogno più o meno trasformabile in progetto o l'utopia, oppure l'apertura strategica, tale questione non è poi di lana caprina.

Allora la faccenda è grossa, ed è quella che più mi interessa.

La questione più fastidiosa e deprimente è invece che la ripro-

duzione degli esseri umani non è mai considerata dai più, pure da settori del femminismo, salvo eccezioni importanti, come inclusa nell'acumulazione e valorizzazione di capitale, nell’alimentazio-

ne del dominio, della tecnica e tecnoscienza. È invece vagheggiata

come «un altrove» dal capitalismo «di per sé». Tutto ciò perché la

sì guarda solo ai livelli di realtà medio-bassi e bassi, ignorando, al solito, quello che sta più sopra, che determina e comanda il sottostante; però è pazzesco ignorarlo, mettere la testa nella sabbia. Lì sotto con la testa nella sabbia si guarda poco e si vede male. E

ci sono anche struzzi «scientifici»: tantissimi «scienziati sociali» chiusi nei ruoli bassi e nelle prospettive di ruolo basso. Con laurea,

master, dottorato e altro.

Ripeto. Riproduzione o produzione di capacità-umana-vivente non è (ancora?) uguale a Produzione di capitale, se non potenzialmente. Produrre o riprodurre esseri umani o loro parti è produrre

solo una potenzialità di incremento di capitale. Questa potenziali-

tà deve realizzarsi attraverso alcuni complessi passaggi per si richiedono forti condizioni, nei quali si ripropone anche porto reciproco tra riproduzione di capacità-umana-vivente nica e tecnoscienza, la sua ambivalenza odierna e così pure attuale politicità, nell’iperindustrialità ipercapitalistica. Al approfondendo l’ambivalenza e la politicità.

i quali il rape tecla sua solito,

2.

Donnazione e crisi

dei femminismi

Lo specifico psichico femminile? Non è mio scopo sedurre femministe. La mia ipotesi fondamentale è che da sempre le caratteristiche anatomiche, fisio-funzionali e perfino psichiche delle donne abbiano avuto un peso così forte che

la donna e i suoi ruoli sono cambiati poco nelle diverse civiltà e cultu-

re. A differenza dei maschi. Sebbene differenze minori nel tempo e nello spazio ci siano state e ci siano. Anche per questo, forse, esse hanno spesso rappresentato la forza di tradizioni passate rispetto e certi cambiamenti. Taglio giù con l’accetta, ultraschematicamente. La differenza

anatomica già negli animali superiori sociali ha determinato da un certo momento in poi una differenza sessuale dei ruoli, differenziando la maniera di vivere e di partecipare al branco o al gruppo familiare. Ma quel che conta è che già dall’apparire dell’homo sapiens sapiens la differenza sessuale dei ruoli si pone diversa-

mente: la madre è raccoglitrice e travaglia nel focolare domestico; il maschio esce a caccia ed è più importante nelle piccole proto-guerre, comanda l’insieme, anche quando la discendenza è ma-

trilineare. E c’è l’esogamia femminile, con cultura e formazione

differenziate e molti rituali distinti per parecchi millenni e decine

di millenni. Non è mai esistito un matriarcato nell’antichità, nel si-

gnificato moderno di un governo delle femmine. Decisiva rimase comunque la maggior forza muscolare dei maschi. Anche nella se-

dentarietà agricola, la maternità pesantissima e mortifera e l’allevamento vincolano le donne, così come le tradizioni dì raccolta, la

cura, la conoscenza concreta delle piante selvatiche, deglì anìmali da cortile. Ma certo ci fu una lunghissima stagione della magia e del pensiero magico in cui le donne furono molto potenti non solo perché davano la vita, ma perché allevavano ì fanciulli e possede-

vano importantissime conoscenze esclusive della natura. A parte l'enorme, ardua e ambigua questione degli schiavi, in particolare tS3

nelle civiltà contadine, che si sono spesso assunti soprattutto gran

parte del lavoro femminile. I maschi patriarchi evolvono verso una maggiore distanza dalla manipolazione diretta delle materie naturali, verso una maggiore astrazione. Proprio in Grecia, con il logos ha inizio anche il patriarcato, quasi tremila anni fa: con la città/ mercato contadina, il denaro e la specializzazione dei mestieri artigianeschi; e nell'esercizio del comando, con la separazione e ulteriore differenziazione in nobili, sacerdoti, militari e artigiani.

La variabile strategica differenziatrice

principale

appare

la

maggiore relazionalità delle donne, sia come madri reali che pure (ma meno) come madri e allevatrici potenziali. Altre determinanti storiche universali della donnità si indicano nel naturismo del bios

e nel travaglio, nel familismo, nel comunitarismo, nel pacifismo, nell’umanitarismo, nel suddetto relazionismo di cura. Dalla crisi

della polis in avanti, una cultura donnesca caratterizzerà anche le

culture dette orientali e gli schiavi a Roma (in gran parte di provenienza orientale), porterà alla grande rivoluzione cristiana contro

la romanità maschilista che (con la polis e la città contadina del dispotismo) rappresenta il momento della maggior distanza storica

tra i sessi, i loro ruoli e le loro culture.

Ipotesi: sulla differenza dei grandi ruoli si differenzia lo specifico femminile. Le cose mente solo con l’industrialità capitalistica la distanza anatomica; la distanza culturale

(indotta dall'anatomia) cambieranno gradualche riduce sempre più e psichica delle donne,

poi anche sociale e lavorativa, si attenuerà gradualmente dalla fine

del Settecento e con l’Illuminismo. Oggi diventa diventa sempre

più spesso molto arduo dire cos'è lo specifico femminile psichico

e culturale, in una formazione sempre più promiscua, in una vita malgrado tutto sempre meno somatica.

Fin dall’antichità le femmine umane mostrano una serie di ruoli più diretti nella riproduzione della specie, all’inizio a partire dalla loro famiglia e clan, e poi tribù e popolo. Ciò non verrà mai meno, anche se nell’iperindustrialità capitalistica sarà una caratteristica più indiretta e meno esclusiva.

Il patriarcato Fino alla fine del Settecento la storia dell'umanità è storia di patriar-

cati, ossia di forme di dominio di maschi sulle femmine (soprat-

tutto se tolta di mezzo la complicazione degli schiavi). Il patriarcato 184

vu nell’homo sapiens si fonda sulla maggiore forza e prestanza fisica

dei maschi

fecondatori rispetto alla donna, che nella civiltà conta-

dina sedentaria diventa la terra, che riceve il seme. Per la fecondità

si richiedeva infatti il rapporto, pur asimmetrico, dei due sessi. Il

patriarcato però è un po’ relativo: se è vero che i maschi coman-

dano sull’insieme, tanto più con lo sviluppo delle guerre, dell’impero e dello Stato, è altrettanto vero che c'è comunque una sfera domestica di cui i maschi non si degnano e in cui le donne sono a loro modo

sovrane; in tale sfera, inoltre, vige una regola diversa e

spesso resistente a quella statale e pubblica. In seguito la tecnolo-

gia e la tecnoscienza apriranno certe sfere alle donne, senza che i

maschi si assumano granché il focolare; così ad alcuni è parso che lo specifico potere femminile (basato su potenze invisibili e silenti) all’inizio del capitalismo e della società borghese fosse diverso ma non inferiore. Tra l’altro, la borghesia e la sua visione della vita soprattutto privata è stata sentita come molto più donnesca rispetto all’aristocrazia feudale (si veda anche Elias e l’imporsi graduale delle buone maniere!). Comunque: patriarcato e dominio. Il capitalismo appare la civil-

tà in cui un lungo periodo storico di patriarcato si attenua sempre più fino a che - ipotesi — il patriarcato nel capitalismo industriale,

tecnoscientifico e neo-finanziario, per quanto ancora forte, appare

residuale. Soprattutto il macchinario nella sua tecnoscientificità (sì pensi al rapporto tra streghe, donne, scienza e tecnoscienza)

riduce l’inferiorità delle donne, malgrado l’uso capitalistico di tutto ciò. Ma c’è stata davvero e come una critica femminista o anche

femminile peculiare dell’uso capitalistico delle macchine, della tecnoscienza, dei modi di razionalità e organizzazione scientifica?

Cioè un discorso femminile sull’ambivalenza di ciò? E sul nuovo sociale, sull’economico e sul politico, sul culturale e sul religioso?

E rispetto al dominio? Ma com'è (ipoteticamente) il patriarcato capitalistico? Il patriar-

cato capitalistico, almeno nella fase classica, si presenta come un

peculiare super-sfruttamento delle donne soprattuto proletarie nell’ambito del più generale sfruttamento del proletariato, costretto a vendere, a dare in leasing o addirittura gratis la propria capacità-umana-vivente. Questo peculiare super-sfruttamento sì attua

in tre maniere: 1) pagando meno (0 non pagando affatto) il lavoro 1/

Il riferimento è a N. Elias, La civiltà delle buone maniere, Il Mulino, Bologna 19832

[N:d,G.].

185

femminile di ogni tipo; 2) collocando le mansioni di lavoro femminile o le donne in qualsiasi mansione ai gradi più bassi della gerarchia, che è sempre anche gerarchia salariale; 3) facendo finta di non vedere o addirittura negando la mercità specifica di molto lavoro femminile, o perlomeno negando il suo concorrere a produrre valore (capitale). Pertanto, la lotta contro questo nostro patriarcato

non è solo questione di salario al lavoro domestico, sebbene sia in-

nanzitutto questo, ma più ampiamente rientra nella questione ge-

nerale dello sfruttamento del proletariato mediante salario e lavoro trasversale salariato di fatto, come questione di sotto-salario. Ciò è stato particolarmente vero da noi fino ai primi anni Settanta. Tuttavia, cosa molto importante, per riuscire a protrarre al massimo

nel tempo queste tre condizioni anche il capitalismo industriale ha cercato e cerca di mantenere vive e forti antiche tradizioni patriarcali di altre epoche, soprattutto di formazione culturale, ideologica

e religiosa delle donne, per poterle discriminare il più possibile non solo nella loro accettazione, ma perfino con il loro frequente concorso. Così, malgrado il capitalismo dia almeno potenziale forza alle donne, queste poi nella loro soggettività manipolata e parti-

colarmente colonizzata (altrettanto di quella maschile) accettano o subiscono abbastanza una presunta inferiorità. Comunque la mia conclusione ipotetica triplice è: il capitalismo

non è necessariamente patriarcale; le donne non sono necessariamente

anticapitalistiche (anzi!); per un futuro nemmeno troppo lontano pos-

siamo ipotizzare addirittura un matriarcato capitalistico, che sarebbe anche il primo matriarcato della storia umana. Femminismi

Una cerîa reazione a tutto ciò hanno cercato di promuoverla i vari

e diversi movimenti femministi, raccolti in due principali e non

sempre distinguibili tradizioni: quella di emancipazione e di parità (almeno pari opportunità) con i maschi, e quella cosiddetta di liberazione delle donne. La tendenza che ha avuto relativamente più successo è stata (ovviamente?) quella di emancipazione. Ha toccato maggiormen-

te anche la questione della salarietà femminile e del patriarcato specifico, attenuando soprattutto le prime due inferiorità. Si dice

che i femminismi della parità abbiano anche parecchio maschiliz-

zato le donne, andando perfino contro certi aspetti del processo di 186

donnazione industrial-capitalistica della società. E un'ipotesi, La tendenza alla liberazione annovera femminismi più decisamente sconfitti e ora in crisi, almeno come movimenti che talora sono

stati «di massa», ma poco o magari niente anti-capitalistici, 0 poco davvero con efficacia anti-patriarcale. Segnalo, anche sulla scorta delle interviste fatte da Francesca

Pozzi?: femminismo terzomondista, maternista, dell’autocoscien-

za e psicanalista, dei servizi pubblici del salario al lavoro domesti-

co, del salario del cittadino consumatore ed elettore, e altri, poco

mediabili, spesso incompatibili e in contrasto tra loro, cosicché

oggi appare arbitrario e distorsivo parlare di «femminismo» al singolare. L'analisi storica dei movimenti femministi recenti, degli anni Settanta e Ottanta, che hanno subito pesanti sconfitte, malgrado

la donnazione e la crescente forza delle donne, suggerisce l’ipotesi che ottenebrate da ideologie gratuite e spesso folli, raramente riscontrate, non abbiano saputo capire cosa sono le donne e la loro «vera» differenza, e tantomeno abbiano saputo (o voluto) valersi

della loro forza crescente; hanno anzi combattuto proprio molti degli aspetti che alle donne davano e ancor più oggi danno forza. E raramente questi movimenti hanno davvero combattuto lo stesso

patriarcato, compiacendosi narcisisticamente di possibilità super-

ficiali di sensazioni ed emozioni, accettando una falsa immagine

della donna come irrazionale, soprattutto da parte di intellettuali

separatiste spesso lesbiche e sterili, ben poco riproduttive, che in

molti casi ricevono ben più cura di quanta ne danno; esse cercano

un'affermazione revanscista sui maschi piuttosto che un rapporto muovo di convivenza o cooperazione tra i sessi, foss’anche conflit-

tuale e magari molto. E senza coscienza della lavorità riproduttiva specifica anche nella fruizione. Tuttavia, nel processo storico che almeno nell'ultimo secolo ha da un lato (quello dei valori) promosso la donnità, dall’altro ha dato nuova forza materiale alle donne, producendo una donnazio-

ne della società capitalistica (e non più solo borghese), oggi si dà un’accelerazione e un’amplificazione, un vero balzo. Abbiamo il recente primato della riproduzione della capacità-umana-vivente, in primo luogo nell’occupazione, ma più importante nella valoriz-

zazione del capitale, cominciando dalla stessa produzione del plu2/ Alla fine degli anni Novanta Francesca Pozzi ha condotto, in collaborazione con Alquati, una ricerca sulla soggettività delle militanti femministe. non pubblicata {Nd.C.|.

187

svalore. Proprio nel momento in cui certi femminismi riuscivano a coinvolgere non trascurabili minoranze di massa in rivendicazioni e movimenti contro alcuni aspetti del patriarcato specifico, in particolare nel terreno crescente della riproduzione della capacità

umana, pure aumentandone il costo per i capitalisti (ossia al netto

di volontariati e qualche razionalizzazione spontanea dal basso),

proprio allora questi ultimi hanno introdotto nuove modalità e tec-

nologie di risparmio di lavoro anche o soprattutto riproduttivo e

di consumo, nella sua trasversalità. Cosicché hanno cominciato a

valorizzare direttamente capitale nella riproduzione della nostra capacità mercificata. Ciò, malgrado la sua ambivalenza, ipotizzo

che come saldo moltiplichi almeno potenzialmente il potere con-

trattuale e la forza politica delle donne odierne, in particolare in Occidente.

Un nuovo femminismo plurale ma rivoluzionario? Se è vero, come pare fondato, che la donnità di per se stessa non

è anti-capitalistica, nondimeno un nuovo femminismo liberatosi di certi ideologismi e compiacenze sterili potrebbe cercare di sfrut-

tare la nuova centralità delle riproduttrici forti iperproletarie, proletarie sempre due volte, per una mobilitazione plurale di vaste

e magari crescenti nuove minoranze di donne in una loro nuova soggettività trasformabile in controsoggettività. In una prospettiva plurale e magari sincretistica di nuovo rapporto — quand’anche

conflittuale — tra i due sessi, in un movimento anti-patriarcale in

primo luogo perché anti-capitalistico. Magari a partire proprio dal terreno della riproduzione della capacità-umana-merce e della sua

mercità odierna, in cui risalta la questione formativa e soggetti-

va. Sottolineo che questa non è questione settoriale, interessa en-

trambi i sessi in specie iperproletari (siamo tutti imprese) come forza-contro almeno potenziale, anche contro se stessa!

188

Postfazione. Dentro il «modellone» Archivio Romano Alquati

Usare la potenza di capacità per produrre ricchezza di capacità! R. Alquati

Il testo Sulla riproduzione della capacità umana vivente richiede

una lettura attenta e interrogante!. L'autore non ha infatti l’esigenza di una linearità formale, né di semplificare per dar forza al suo pensiero; sceglie di evidenziare le categorie fondamentali e le

interdipendenze che le legano e così definisce percorsi capaci di confrontarsi con la complessità del presente. Procede con analisi ricche di descrizioni e successivi approfondimenti, che assumono un movimento a spirale per incentrare l’attenzione sul processo e

cogliere il suo divenire. Il tratto espositivo di Alquati sottende una

diversità a cui corrisponde anche un modo di intendere e presenta-

re le ipotesi e la ricerca?. Il suo atteggiamento è sempre fortemente incentrato sull’indagare l’ambivalenza, che costituisce al contem-

1/ Una prima stesura di questo testo era rivolta ai militanti e ricercatori più prossimi, già socializzati al suo linguaggio, alle sue categorie, al significato di alcuni prefissi (meta-, mega-) e suffissi, alla «forma» del suo modello di società complessiva, qui

dato quasi per scontato. In molti passaggi non si preoccupa di esplicitare i bersagli e i riferimenti con cui dialoga, dà per scontato che chi legge «sappia già». Successivamente è stato parzialmente rielaborato. Nelle intenzioni dell'autore doveva essere il

terzo volume di Nella società industriale d'oggi. Chi ha conosciuto e frequentato Alquati sa che scrive per pochi. L'esposizione verbale vis-à-vis nelle lezioni, nei seminari, nelle riunioni e nei colloqui si avvaleva anche di schemi e disegni, di gestualità, tona-

lità, anche teatralità irriproducibili nello scrivere e che agevolavano di molto la com-

prensione del suo pensiero. 2/ In questo si sottende un'importante problematica relativa al rapporto tra modo di condurre la ricerca, suoi risultati, capacità e scelta della modalità della loro esposizione. Robert K. Merton in La pratica della ricerca (Castelvecchi, Roma 2016) affronta questi nodi e le contraddizioni connesse. In particolare affronta la «differenza che esiste tra la versione finita del lavoro scientifico così come sì presenta nelle pubblica

zioni e il corso delle indagini seguito realmente dal ricercatore». Ecco: le esposizioni di Alquati, definite sempre semilavorati in progress, esplicitano un particolare atteg» giamento che, nell'affrontare la complessità esistente, non rinuncia a proporre non

IS9

po un dato di fatto e una possibilità. Come tutte le sue ricerche, si tratta di una sfida politica per supplire a quello che non c’è e non viene ricercato: ovvero una lettura della realtà del capitalismo contemporaneo e dei suoi effetti sul sistema e sulle possibilità offerte agli umani d’oggi. L'autore non rinuncia a indagare e comprendere in quale direzione potrà procedere una controsoggettività che voglia contrapporsi e liberarsi del rapporto sociale che sostiene la civiltà capitalistica. Quella di Alquati è una ricerca rigorosa, che si avvale di strumenti di analisi scientifica, attinge da proposizioni e risultati raggiunti dalle scienze sociali — dalla sociologia all’antropologia e alla linguistica — e vuole confrontarsi con classici e autori contemporanei per ridefinire i concetti e costruire una sintesi. Alquati si pone più scopi che si integrano e definiscono un disegno politico preciso: comprendere la realtà, raccogliere le forze per agire in essa soggettivamente, attivando percorsi di ricomposizione tramite interventi finalizzati — la conricerca è uno di questi —, aprire e sostenere contrapposizioni che modifichino i rapporti di forza, trasformando gli stessi controsoggetti individuali e collettivi mobilitati. Alquati definisce esplicitamente una rappresentazione che pone la

necessità di distinguere «livelli di realtà», dunque la discontinuità

verticale (nella continuità). La società capitalistica è infatti gerarchicamente ordinata e i fini

che il sistema persegue sono da comprendere partendo dai livelli più alti, a cui i livelli inferiori sono collegati e subordinati. Al verti-

ce (nel macro-livello) il sistema produce (e riproduce) il dominio di una parte sull’altra; lo fa mediante la valorizzazione e l’accumulazione di capitale (meta-livello), che a sua volta si basa sulle attività che nel suo modello collocano nei livelli cosiddetti intermedi, su

cui concentra prevalentemente l’analisi. Questi livelli intermedi (o

di «medio raggio») corrispondono alle attività che definisce utili e differenti, nel senso che producono utilità (per chi ne usufruisce):

beni/servizi; consumi; consumi riproduttivi; decisioni politiche e amministrative. Queste attività sono differenti, poiché a questo li-

vello intermedio si presentano distinte, non «ancora» trasformate

nella logica indifferenziata del valore. In altri termini, riprodurre

capacità (ad esempio con la formazione) è al tempo stesso un'’attivi-

tà che genera utilità (livello intermedio), che valorizza e accumula

soluzioni definitive, ma stimoli per procedere nell'incertezza, riformulando e approfondendo contimuamente.

190

capitale (livello superiore) e in ultima istanza dominio capitalistico

(mega-livello).

Alquati pensa che, per dare forza ad analisi capaci di compren-

dere la civiltà capitalistica, «bisogna partire dall'alto, dai livelli più alti, per rappresentare “la realtà”»?. Questo punto di osservazione è indispensabile per cogliere le differenze e le interconnessioni sistemiche tra i vari livelli (verticali) e gli ambiti (orizzontali) che

definiscono l’attuale società nel suo complesso. Tuttavia, per dare prospettiva alla progettualità, con la consapevolezza dell'impor-

tanza della teoria, occorre collocarsi nella dimensione mediana, in

una prospettiva di medio raggio, e da qui agire scendendo per raccogliere forza, per poi risalire in contrapposizione ai fini sistemici. Alquati ha sempre mirato alla costruzione di una sintesi sostantiva

capace di leggere e interpretare le linee di tendenza e i rapporti tra

le parti antagoniste — capitalisti e proletariato - dando significato a un’astrazione in grado sia di proporre una politicità sostanziale sia di definire una possibile forza materiale, dunque un percorso di soggettivazione.

Il tema di questa della capacità umana merce. Per Alquati la umana, già oggi ma

ipotesi di ricerca sta nel titolo: riproduzione vivente, nella forma capitalistica, dunque di riproduzione e la costruzione della capacità ancor più in un prossimo futuro è definita

per incrementare i processi di accumulazione, valorizzazione e

dominio necessari a un ulteriore potenziamento del capitalismo. Ne consegue che la continuità e la riproducibilità allargata del

capitalismo esigono sempre l'apertura di nuovi cicli che rendano possibile mantenere delle asimmetrie sistemiche per garantire il permanere della sua valorizzazione e accumulazione. Ora, questa valorizzazione avviene in una realtà definita «iperindustriale» e

dentro la riproduzione affinata di quella che un tempo si chiamava

forza lavoro vivente. Quest'ultima categoria, prettamente marxia-

na, è presa in considerazione da Alquati, che però ne sottolinea e

rappresenta i cambiamenti, a suo modo di vedere tanto sostanziali da portarlo a modificare il concetto: da qui nasce la definizione di «capacità umana vivente». Qui, come in tutto il suo percorso

di elaborazione e ricerca, è essenziale l'esigenza di evidenziare ì mutamenti di forma e funzionalità di tale categoria nello sviluppo iperindustriale, cioè nella società capitalistica odierna.

3/

p. i.

R. Alquati,

Dispense di sociologia industriale, Il Segnalibro, Torino 1989, vol. 31,

Alquati sottolinea come la capacità umana vivente sia sempre più in mercificazione: è questo l’elemento principale che nel rapporto capitalistico la definisce, in quanto fonte di particolari separazioni. La riproduzione della capacità umana, come egli puntualizza, è sempre esistita nelle diverse società, è l'aspetto essenziale che permette agli umani di socializzare e di riprodurre il sistema in cui vivono. Nel capitalismo odierno, però, la riproduzione della capacità umana vivente si caratterizza appunto perché produce la merce principale, speciale. Che più ha valore e più a sua volta va-

lorizza. È in questa trasformazione dell'agire umano che troviamo

la peculiarità forte analizzata nel testo. La capacità umana vivente a cui si fa riferimento è quella del lavoratore, in senso specifico; la

sua riproduzione tende a essere sempre più luogo diretto centrale

della valorizzazione e accumulazione di capitale, oggi e in prospettiva. Questa tendenza prevale perché il capitale ha in buona misu-

ra esaurito le precedenti possibilità di riattivare cicli di accumulazione espansivi e trainanti con la produzione delle merci tangibili.

Riproduzione come valorizzazione Per Alquati la riproduzione del capitalismo (come rapporto sociale) coincide con la sua stessa valorizzazione e accumulazione: oggi il luogo diretto e principale di ciò è, sempre più, la riproduzione della capacità attiva umana vivente lavorizzata e in mercificazione infinita. Il doppio carattere della merce, l'’ambivalenza tra valore d’uso e valore di scambio, lo ritroviamo affinato come doppio carattere della capacità umana merce, che è a un tempo merce e soggetto.

Così in chi è chiamato a erogare la capacità umana merce coesiste, contrapposta, la capacità calda generata e il ricatto di dover cedere

questa capacità ad altri invece di utilizzarla per sé. Infatti, questa peculiare capacità viene impiegata in una specifica cooperazione sistemica, per scopi di valorizzazione e riproduzione capitalistica. Il governo di questi processi definisce e perpetua — accrescendo e

affinando — le forme del suo dominio. La capacità umana vivente si produce e riproduce: da un lato nella sua dimensione semplice, come

riproduzione biologica

possibilità di esistenza; dall'altro in una dimensione incrementa-

e

ta. E quest’ultima la questione principale. Tale incremento, infatti,

non va a favore del proprietario della capacità umana vivente, cioè della persona e dei lavoratori che la incorporano, ma va a favore del 192

possessore, il capitalista individuale e collettivo, che l'ha comprata

e che perciò la utilizza temporaneamente per i suoi fini. Questa appropriazione avviene perché la capacità umana merce è trasfor-

mata ed eroga lavoro specifico. Alquati scrive nel testo che intende

come «lavoro umano specifico», trasversale, qualunque attività umana che sia inclusa nell’accumulazione di capitale. Si tratta di una specificazione rispetto al sentire comune scientifico e sociolo-

gico del lavoro, inteso quasi sempre solo come produzione di utilità (da scambiare) e di identità per il lavoratore. Per Alquati, invece, tale produzione di utilità sta a un livello di realtà più basso; a essere

soprastante e caratterizzante il sistema sociale è invece l’accumu-

lazione di capitale, che avviene nella trasformazione dell’attività in

lavoro. La differenza specifica‘ di tale trasformazione rispetto alle società passate è quindi che la capacità umana è merce.

Questa peculiarità racchiude una duplicità, cioè un’ambivalenza fondamentale: la riproduzione avviene per altri e per il la-

voratore stesso. Gli altri hanno però fini contrapposti a quelli del lavoratore. Tale duplicità si ridetermina all’interno di un processo

più generale di iperindustrializzazione che cambia la forma di entrambi gli aspetti della riproduzione. Alquati propone questa

contrapposizione come il principale terreno su cui fondare l’agire

politico: la sintesi analitica è volta esattamente a questo scopo. La

sintesi si rappresenta in quello che chiama «modellone», ossia la

sua proposta complessiva di interpretazione della realtà del capi-

talismo contemporaneo, definito e presentato negli anni Ottanta e Novanta”, frutto maturo della sua attività di ricerca militante ed elaborazione teorico-politica. Il testo sulla riproduzione, allora, conferma e sviluppa le ipotesi proposte nel modello. Questo modo di procedere illustra il metodo e la politicità della sua elaborazione. Nella riproduzione di questa capacità-merce, una funzione par-

ticolare la assumono le donne©. Da un lato per il loro ruolo sto-

rico, in quanto figure di riferimento della riproduzione generica-

mente intesa. Dall’altro ora, nel rapporto capitalistico, si definisce

una duplice presenza tra produzione e riproduzione, che assume 4/

Per Alquati il termine specifico indica sempre il «capitalistico», mentre generico è

riferito a quanto non è ancora sussunto dal capitalismo, ovvero ciò che dell'umano e del sociale non è ancora stato trasformato e costruito capitalisticamente. s/ Nelle Dispense di sociologia industriale e nella versione successiva, Nella società industriale d'oggi, ancora inedita.

6/

La seconda appendice, che Alquati non aveva previsto per questo testo, è stata in-

serita appositamente per rimarcare alcuni suoi approfondimenti su donne, patriarca» to e dominio.

193

forma specifica. La riproduzione viene mercificata, lavorizzata e industrializzata. Una duplice presenza analoga si situa anche nella forma di sussunzione dell'agire umano, cheè sostanziale e funzionale, Nel suo ricercare Alquati tende sempre a individuare che

cosa muta nella forma, là dove il formale non è l'aggettivo ma il sostantivo,

Un altro aspetto significativo è che, proprio nella riproduzione della capacità umana può avvenire, anzi sì sta già definendo una importante discontinuità, che riguarda la potenzae l’utilizzo dei mezzi. Oggi sì tende sempre più a potenziare ì processi che sepa-

ranoe sottraggono le capacità dagli individui e del corpo sociale collettivo, affinché una volta separate le capacità possano essere ìînglobate dalla tecnoscienzae dal neo-macchinario, soprattutto

organizzativo, Una proposta politica alternativa al capitalismo do-

vrebbe quindì ìincentrare la propria attenzione nel valutare e criti-

care questa scissione.

Approtondendo la sua ricerca, Alquati elabora un’analisi della

società complessiva e della riproduzione allargata del sistema e del dominio. A tal fine ipotizza un triangolo, sui cui lati si collocano: 1) la trama sociale dei lavorì specifici trasversali (tendenzialmente universali). 2) ìl singolo lavoro specifico particolare trasversale

(tendenzialmente universale), 3) il lavoratore umano specifico, lui pure trasversale (e tendenzialmente universale), con la sua capacitè umana. ess pure sempre più trasversale. Alquati elabora questo schema per evidenziare un nodo politico fondamentale: c’è un ribaltamento sussuntivo della capacità umana vivente in mercificazione. perché è sempre più riferita al lavoro specifico in generale, funzionale al sistema, e sempre meno al lavoratore specifico che

I: contiene. La separazione all’interno di questo rapporto è sostanziale. La condizione del lavoratore specifico rimane sottostante e viene sviluppata attraverso i processi di mercificazione: questa è l'essenza del rapporto sociale capitalistico. In un «contro-ribaltamento», bisognerebbe portare il lavoratore specifico verso l’alto, spingendo verso il basso la dimensione funzionale al sistema.

Questo triangolo si interseca con i quattro grandi ambiti funzionali e orizzontali del lavorare della società specifica odierna:

1) artefattura, 2) consumo rezlizzativo-distruttivo, 3) consumo riproduttivo di capacità-umana, 4) politica istituzionale. Nel terzo

grande ambito, la produzione e riproduzione di capacità umana è al contempo produzione e valorizzazione di capitale e di dominio. Il terzo grande ambito viene suddiviso nel «sub-ambito-finale

194

della riproduzione di ricreazione/restauro o riproduzione semplice e iperindustriale della capacità-attiva/lavorativa-umana» e nel «grande sub-ambito-finale della riproduzione formativa o riproduzione-allargata e quindi riproducente con incremento (iperindustriale) la capacità-attiva/lavorativa-umana-vivente stessa». I grandi ambiti sono trasversali anche alla dualità tra beni tangibili e beni

intangibili. I beni sono il risultato dell’artefazione generata con il lavoro. I quattro grandi ambiti vanno incrociati con i suddetti lati del triangolo. Questo intreccio racchiude sia i principali dispositivi della modellizzazione alquatiana sia la forza della sua sintesi. È indubbiamente una parte complessa del testo, ma la complicazione sta nella realtà; dunque dobbiamo avere la capacità di leggere e di comprendere anche e soprattutto le dimensioni nascoste e fondamentali che sottendono la strutturazione e il funzionamento del sistema. Le dimensioni scelte da Alquati per approfondire il suo concetto di lavoro sono: l’attività umana, la capacità umana, le risorse, i percorsi e i livelli.

Attività umana e capacità umana in separazione

per il potenziamento dei mezzi

L'attività umana singolare e collettiva è scomposta in cinque com-

ponenti: Fini, Agenti, Mezzi, Oggetto, Contesto. Più sotto la com-

ponente «agente umano» si ridetermina in esperienza e capacità,

attualmente entrambe in calo. Nel capitalismo, nello scambio diretto tra le attività e le capacità da esso richieste, è cresciuta una

tendenza storica che sottomette o addirittura taglia fuori l'agente umano. Nell’iperindustriale le attività e le capacità umane separate e mercificate sono sempre più combinate con i mezzi: in questo

processo la capacità attiva umana si separa dall’agente, si scompo-

ne, si riduce. Dunque si impoverisce, pur potenziandosi. Questa

è la nostra condizione attuale, conseguenza dello sfruttamento în senso non solo economico ma complessivo. Alquati afferma che il «contropercorso» dovrebbe avere il fine

di invertire queste tendenze e costruire un processo che ponga l’agente-umano al primo posto, al di sopra dell'attività stessa, cosicché la società si ricostituisca come trama dì rapportì tra agenti

umani ricchi e potenti nella capacità per se stessì: decapitalizzando e demercificando. Per Alquati la società capitalistica è un sistema gerarchico, at195

traversato e sostenuto da forme organizzative diversificate e differenziate, Essa istituisce e riproduce una trama di rapporti sociali

(relazioni e scambi) che i proletari devono ritessere: è l’innovazio-

ne che realizzano per conto altrui. La trama di rapporti tra l’attività trasformativa e la trama di attività definisce i sottosistemi funzionali della società nel suo complesso: si tratta sempre di combinazioni attive tra agenti umani e mezzi (in mercificazione e capitalizzazione). Gli agenti umani si trovano subalterni all’attività umana

funzionale che svolgono, in quanto meri attori che attivano ruoli;

dietro ci sono persone e talora veri soggetti. E questi entrano sistemicamente in gioco come vettori, contenitori attivi e accumulatori,

nonché come erogatori di capacità propria e del loro prossimo. In questo processo sì dà un irrisolto residuo di autonomia che può indirizzarsi verso un’alterità. Le risorse sono utilità speciali, erogatrici di potenza, ossia di incremento delle utilità in generale, e si caratterizzano per essere calde o fredde. Queste componenti interne all’attività si com-

binano sempre, scambiandosi tra loro in più sensi, livelli e archi temporali: capacità-umana e capacità-mezzi. Questa tendenza si

consolida in tutti i quattro ambiti in cui si incardina il processo di produzione e valorizzazione di capitale, ma il clou si raggiunge oggi nella riproduzione delle capacità umana merce. Le trasversalità e le risorse (calde e fredde) sono distinte dal corpo e dalla capacità con cui scambiano e a cui si applicano, sono

collocate su una scala e sono: la sinergia, la forma, l’esperienza, la

conoscenza, l'informazione, l’energia, la razionalità, la formazio-

ne, la scienza, la tecnologia, la tecnica, la semiotica, l’organizzazio-

ne, il macchinario ecc. La questione dei mezzi per Alquati è cruciale, si connette alla sua attenzione ai livelli più profondi dello sfruttamento, ben viva già nei suoi articoli sui «Quaderni rossi». Infatti, un aspetto es-

senziale e generalmente passato sotto silenzio dello sfruttamento è il sisterna binario dell’innovazione che il capitale impone: da un lato i grandi salti tecnici dovuti alla ricerca scientifica, i passaggi da una forma all'altra di produzione di energia; dall'altro, gli incrementi di produttività che il capitale ottiene assorbendo nel suo «freddo» macchinario i movimenti della forza lavoro vivente, «calda». La forza lavoro e il macchinario non sono del lavoratore,

ovvero lo sono nella misura in cui egli concedendo al capitale que-

sto scambio iniquo, alla fine del quale la posizione dominante del capitalista viene enormemente rafforzata, mentre il prestatore e la 196

prestatrice d’opera si trovano in mano, per ben che vada, un salario per la propria riproduzione. Non è detto che tale appropriazione della capacità umana vivente avvenga soltanto nei luoghi dedicati a fabbricare. Nello scorso mezzo

secolo, ad esempio, l'enorme sviluppo dell'informatica

ha tratto linfa vitale prima dal sotterraneo rifiuto giovanile dell’assetto oligopolistico e dagli alti costi della comunicazione, poi dai primi passi nell’uso personale dei computer come elaboratore di dati, di connettore dei contatti vocali e di azione a distanza. Come affermava il proclama dei «sette di Chicago» al loro processo per «disordini» nel 1968, la comunicazione doveva diventare «free», ossia libera e gratuita. L'enorme attività giovanile gratuita che si addensava intorno alla costruzione di una rete informatica uni-

versale è stata progressivamente assorbita da imprese votate ine-

sorabilmente al profitto che si sono costituite in oligopoli, mentre

migliaia di coloro che si erano impegnati nel «provare e riprovare» sono rimasti a mani vuote.

Ribaltamento della combinazione attiva Bisogna soffermarsi sul senso politico del ribaltamento storico. La

combinazione attiva che sempre più sostituisce l’attività da lungo

tempo sottende peculiarità fondamentali: il capitalista quale nemico almeno oggettivo si identifica con i mezzi che si pongono come capitale-mezzi, trasponendo in loro un’ostilità: il loro sviluppo seleziona solo certe loro potenzialità contro altre, certi potenziamenti dell’attività trasformativa contro altri. I mezzi e le mac-

chine artificiali assumono la funzione di potenziare e realizzare la valorizzazione e accumulazione di capitale e di capitalismo; la mezzificazione e macchinizzazione artificiale sono diventate lo scopo strumentale, di medio raggio, di tutto il nostro lavorare e

della capacità umana di farlo. Così non solo i lavori specifici e i lavoratori specifici, ma anche la stessa capacità lavorativa umana vivente adesso sono tutti quanti funzionali a questi scopi (mezzifi-

cazione, macchinizzazione, innovazione tecnologica). La capacità

umana vivente, al medio livello di realtà, è vista come risorsa dì

attivazione, innovazione e sviluppo dei mezzi e delle macchine ar-

tificiali, diventati indispensabili e costitutivi del vivere sociale sìa dei capitalisti sia dei proletari. Questa visione sì manifesta nell'applicazione della tecnoscienza molto più che nell'esperienza diretta 197

dei lavoratori e lascia il segno în eventuali residui irrisolti di loro autonomia.

In secondo luogo, per la loro ben maggiore affidabilità politica,

ì mezzi hanno avuto storicamente uno sviluppo molto sproporzio-

nato rispetto alla capacità umana, che non solo oggi risulta rela-

tivamente malto meno ricca del possibile (scientifico, tecnologico ece.), ma in assoluto è impoverita, quantunque nel persistente

dualismo. Così sì constata un ribaltamento storico per cui nell’in-

movazione di lungo periodo ì mezzi sono ì veri protagonisti e il capitale umano, glì agenti umani, rimangono tuttora irriducibili e ìnsostituibili, ma soprattutto come sviluppatori di mezzi.

Un punto dì vista alternativo, compresa l'essenza dì questo passaggio, dovrebbe mobilitarsi affinché sul medio periodo avvenga un «controribaltamento». L'uso e lo sviluppo dei mezzi andrebbe finalizzato all'arricchimento qualitativo della capacità umana.

Lavoro, attività e lavoro riproduttivo In una ricerca sul lavoro Alquati puntualizza che oggi «il lavoro

va inteso come una specificità capitalistica, una particolare moda-

lità trasversale dell’attività, un agire speciale. La società è trama finalizzata e organizzata di attività umane svolte dagli agenti umani. Ma queste attività vengono lavorizzate, così che oggi la società specifica è diventata trama di lavori, svolti da lavoratori umani»?

sempre combinati con i mezzi.

Dobbiamo perciò softermare l’attenzione sui livelli, le funzioni, gli ambiti orizzontali, le trasversalità e le modalità con cui il lavo-

rare specifico si conforma. La capacità umana vivente è trasversalmente all’interno dell’intreccio, è la risorsa specifica e principale del capitalismo contemporaneo. La categoria del lavoro è letta e indagata in contrapposizione

alle vulgate prevalenti oggi nelle scienze sociali e nel sistema politico. Insistendo sui differenti livelli di realtà, Alquati vuol portarci

a comprendere e approfondire l’ambivalenza e a rimarcarne la po-

liticità.

In primis, il lavoro specifico è l’agire che tramite diversificate forme di cooperazione sociale permette il sovrappiù e l’accumu-

lazione di capitale, incrocia l’iperindustrialliazzazione e consente 7/

Alquati, Lavoro e attività, cit., p. 15.

198

agli iperproletari di percepire un salario di fatto. Solo più sotto è pro-

cesso che attiva, combinando capacità calde e mezzi, produzione di ricchezza utile incorporata in merci: prodotti diversificati adatti e adattabili a esigenze particolari socialmente indotte, quindi ri-

chieste e desiderate, includendo altre pluralità di scopi peculiari.

Il terzo livello sottostante è quello in cui il fine è l’attività differen-

ziata che produce utilità, valori d’uso differenti. Per riprodursi la

società non può fare a meno di riproporre continuamente processi che realizzano artefatti con valori d'uso necessari per l’esistenza dei singoli e delle istituzioni (aggregati di umani cooperanti per

scopi particolari). Questa necessità permane come motore che atti-

va e sostiene i soprastanti ne e dominio, fondanti la Nella sua trasversalità distrugge consumandola

processi di valorizzazione, accumulaziociviltà capitalistica. specifica il lavorare sempre trasforma, una forma, sostituendola e quindi co-

struendone un’altra. La trasformazione avviene anche «nel cor-

po vivente del lavoratore/consumatore, il lavorare cambia anche

il lavorante e così il lavorante specifico di consumo finale, cioè il

consumatore». Il lavorare che crea utilità consuma e distrugge. La metamorfosi avviene anche per il lavorare di consumo finale

riproduttivo di capacità umana vivente. Per Alquati «abbiamo un

costruire e un distruggere dappertutto, pure nelle forme del lavoratore: bisogna fare sempre ulteriori distinzioni salendo o scendendo di livello di realtà». La distinzione è relativa ai processi che

in questi avvengono realizzando differenti funzioni sistemiche

con fini specifici. Il dominio

si fonda sullo sfruttamento delle asimmetrie esi-

stenti. La strutturazione asimmetrica del sistema ha un funziona-

mento complesso, costituito da fondamentali interdipendenze sia verticali che orizzontali, ed è definito in differenti livelli di realtà gerarchizzati: i fini dei livelli sottostanti diventano risorse peri fini dei livelli superiori. Questa strutturazione consente al sistema di avere contemporaneamente, ai diversi livelli, permanenze o variazioni accelerate: permanenze di lungo periodo in alto, cambia-

menti e permanenze di medio periodo (che caratterizzano i cicli

di sviluppo e le crisi) nella medietà, rapidì e diffusi cambiamenti in basso, con ricorrenti innovazioni. Avviene così la riproduzione allargata del sistema. La politicità di un’alternativa collettiva alla civiltà capitalistica non può costituirsi solo nello svelare gli Scopì soprastanti del sistema, ma nell’aprire percorsi dì contrapposiziìone che dal concreto della medietà, controutilizzino ì mezzi e in

199

particolare le competenze disponibili, depotenziando così le dinamiche sistemiche e aprendo la possibilità di deviare la tendenza.

L'iperindustriale ridefinisce la sussunzione

capitalistica

L'industriale si caratterizza per forme organizzative appositamente costruite e migliorate nel tempo per governare e massimizzare ì processi produttivi, che si avvalgono di efficienti ed efficaci for-

me di cooperazione. La cooperazione sociale è oggi diretta dalle soggettività capitalistiche individuali e collettive. L'organizzazio-

ne scientifica finalizza il processo lavorativo, elabora un nuovo

linguaggio, nuove concettualizzazioni, nuove rappresentazioni, nuovi modelli, collocandoli in una grande struttura differenziata ma integrata, sempre più decentrata ma comandata dal vertice. Alquati attribuisce all’organizzazione un primato — in certo senso

«oggettivo» — tra le varie componenti del lavoro industriale.

L'industriale si fonda sull'innovazione che permette di risparmiare tempo e si avvale della potenza offerta dalla razionalità scientifica, intrecciandosi sempre alla scienza. Si realizza insieme alla modernità e cresce con lei. L'iperindustriale, nella «neomoder-

nità», si riproduce allargando e potenziando ulteriormente l’industriale. È caratterizzato da «psichicità», ossia dal superamento del prevalere della muscolarità e neuralità più bassa, il che già implica

l'espropriazione di facoltà e competenze più ricche e complesse

presenti nell’individuo e nel collettivo iperproletario. L'iperindustrializzazione procede potenziando e rendendo ostili i mezzi,

soprattutto conoscenze, esperienze, saperi e risorse organizzative che vengono separati e incorporati nel macchinario, che viene poi fatto, innovato e quindi ricostruito continuamente dagli umani

iperproletari, i quali devono acquisire e adattare le loro capacità per realizzare la funzionalità sistemica. Sì tratta di dinamiche sostanziali della fase capitalistica odier-

na, in cui i processi si riproducono affinandosi, ovvero elimina-

no gli aspetti accessori. Il «modo industriale», dunque, sempre più diventa non solo un modo di lavoro o di produzione, ma un

modo specifico di agire umano generalizzato. È un «modo proprio dell'intera civiltà capitalistica ipertrasversale a tutto quanto, un modo di agire trasformare che si estende a tutta la società, a

z200

tutte le attività umane incluse quelle del consumo (riproduttivo e

distruttivo) e perfino a quello politico istituzionale».

Per Alquati l’attenzione è da porsi sull’agente umano e sulla sua trasformazione appena avviata nel passaggio di fase e nella grande crisi odierna. Sempre più al proletariato vengono richieste prevalentemente capacità psichiche, ossia intellettuali/cognitive e

affettive in tutte le attività e le combinazioni. La capacità-merce è

acquisita in prevalenza in una formazione a lui esterna e piuttosto posseduta dal capitalista collettivo. Il prevalere effettivo di questo comando generato dall’esterno è un altro passaggio della proletarizzazione specifica.

Estensione del lavoro al consumo Oggi sempre più la riproduzione della capacità è lavoro e la si rea-

lizza consumando in un particolare tipo di consumo: il «consumo

finale riproduttivo». Il consumo è un uso di utilità, che comporta trasformazioni, usure e distruzioni. Il consumo è anch'esso finalizzato a riprodurre sovrappiù, a valorizzare capitale impiegato in questa trasversalità. Il consumatore è diventato il principale protagonista della riproduzione di capacità umana come fruitore finale.

«Perché è lui che ha in corpo ed è proprietario della capacità-lavor-

ativa-umana-vivente, in mercificazione, che si ri-produce appunto

incorporandone altra nel suo corpo-umano-vivente e carnale (che

però include l’anima e la mente)».

Il consumo è dunque lavorizzato.

È un cambiamento impor-

tante: sono ormai gli oggetti di consumo a usare il consumatore «finale». Il consumo è diventato l’attività umana, il lavoro umano

prevalente e «le distinzioni tra artefattivo e consumativo sono dunque sempre più relative. Anche il riprodurre distrugge forme per crearne altre come qualsiasi altro lavorare-specifico».

Secondo Alquati l’iperindustriale diventa un modo più efficace

e totalizzante nel caratterizzare la società. I processi di innovazione mirano al risparmio di lavoro, risorse e mezzi, ma soprattutto all’incorporamento di competenze, conoscenze e scienza prodotte

sempre più in fabbriche specifiche, come merci speciali in nuovi

sistemi di macchinari, reti gerarchizzate, estendibili orizzontal» mente

e verticalmente, con funzioni organizzative e razionaliz-

zatrici. C'è potenza e arricchimento, ma in questo passaggio che sottende

un'ulteriore

tendenza

a una mercificazione

infinita 20



aprono potenzialità differenti: possibilità di dominio per il capitale e dì contrapposizione per il proletariato. Tendenze contrapposte

che possono realizzarsi solo con effettive soggettivazioni.

La comprensione e l’approfondimento di questo passaggio sve-

la un nodo politico strategico per lo sviluppo del sistema. Il capitale collettivo sì trova di fronte al dilemma: sviluppare e arricchire le competenze di chi incorpora la capacità umana, e in che modo? Insito nel dilemma si trova un irrisolvibile rischio: quanto questo sviluppo, incremento qualitativo e arricchimento accentui e ingigantisca l’ambivalenza, ovvero quanto le capacità calde potranno

poì essere utilizzate dagli iperproletari per scopi autonomi e diventare forza per possibili contrapposizioni. Si intende per forza la capacità di piegare ai propri fini le competenze presenti, anche riappropriandosene, trasformandole, accrescendole. Questo è il nodo dello scontro tra le classi: la possibilità che si può soggettivamente aprire.

È questo il limite del capitale, la contraddizione tra l'urgenza

inderogabile di sviluppare per accumulare e la necessità di controllare politicamente le tensioni per impedire che cambino i rapporti dì forza. Il crescere della ricchezza delle competenze e delle capacìtà dell'agente umano, anche se continuamente sottratte ed esternalizzate nei mezzi e nel macchinario, diventa minaccia che può

contrastare e rovesciare il dominio. A ben vedere non sono problemì nuovi, anche se oggi presentano aspetti differenti. Il rapporto

tra composizione tecnica e ricomposizione politica della classe è

stato più volte affrontato da Alquati, che descrive e si interroga su

quanto è accaduto in passato e lo paragona a quanto avviene ora, considerando i balzì consentiti da nuove e più potenti tecnologie, descrivendo l’essenza delle strategie e dei sistemi organizzativi e funzionali mobilitati dalle soggettività capitalistiche con il taylorismo, il fordismo e il toyotismo. Nelle sue analisi ne considera gli intrecci e le funzionalità, le linee di tendenza emergenti e i possi-

bili aspetti nuovi; al contempo, coglie e sottolinea le inadeguatezze e le rigidità che oggi tendono ad accrescere i limiti del capitale. Per Alquati il toyotismo non ci ha portato oltre il taylorismo,

fo O ta

perché il suo affermarsi rappresenta un passaggio che affina quest'ultimo, «se con esso si intende un’organizzazione scientifica fatta dall'alto e da fuori scomponendo e ricomponendo, disinte-

grando e reintegrando in modo da risparmiare tempo di agire e tempo tout court»?*.

Produzione nell’iperindustriale Alquati vuol definire la specificità del sistema e dei suoi processi sostanziali.

Così, quando si sofferma su che cosa si intende per

produzione, ne evidenzia due aspetti ben distinti. Il significato più importante di produzione «è di fascia alta» e si riferisce alla

valorizzazione del capitale: è la produzione del sovrappiù, che ne

incrementa il valore e lo accumula. È un processo che si colloca al

secondo livello: siamo nella sfera indifferenziata e qui conta solo la quantità del valore/capitale prodotto. Per modo di produzione Al-

quati intende il modo di «fabbrica», ovvero il modo di produzione del quantitativo che incrementa il valore/capitale. La fabbrica è il luogo funzionale della valorizzazione del capitale, luogo del modo di produrre; essa sta al di sopra dell’industria e della maniera industriale di agire/lavorare e la include. La produzione così intesa è trasversale, collocata al di sopra della divisione della società complessiva specifica in grandi ambiti. Tutti e quattro i grandi ambiti

— artefattura, sistema della riproduzione, consumo

realizzativo,

sistema politico — sono luogo di produzione, di accumulazione di

capitale e, mediante questa, accumulazione di dominio. Il concetto di produzione ha anche un secondo significato, riferito al processo attivo lavorativo in cui si realizzano le merci, «si

conferisce, trasformando forme differenti e di differente materiali-

tà e ormai perlopiù intangibili, impercepibili, il valore d’uso/utilità differente rispettivo delle merci e quindi dei beni e dei servizi. E ciò avviene appunto nell’utilità differente e nella differenza utile.

L’industrialità e l’industrializzazione concernono il medio raggio,

sono trasversalità universali di terzo livello, e stanno al di sotto del-

la fabbrica. Così pure il lavoro e la sua industrializzazione: si lavora

anche nel consumo e nella politica»9.

s/ R. Alquati, Dall ‘industrialismo dassico all'iperindustrialismo, manoscritto inedito i 1993. Lì

9/

Trascrizione di una lezione del suo corso di Sociologia industriale dal titolo «Con-

li». cetti generali indispensabi

Tre diversi percorsi I percorsi permettono possibilità di lettura, esplorazione e rappresentazione della complessa realtà sistemica: si riferiscono a tre differenti ipotetiche determinazioni dell'agente umano singolare e collettivo. I livelli, intesi come differenti stati di realtà sociale sistemica, sono discontinuità gerarchiche nella continuità, salti effettivi, nel senso forte della parola. Lo schema che rappresenta la strutturazione dei livelli è una piramide: la gerarchia sale funzionalmente verso l’alto, il vertice comanda e domina gli strati sottostanti che a loro volta determinano e condizionano quelli inferiori. Salendo, la complessità si riduce e aumenta l’astrazione. Più si sale

più ci sì allontana dal piano della realtà percepibile e si accede a posizioni che non sono immediatamente osservabili. La base della piramide, sempre più estesa, sorregge il sistema e contiene ambiti (sottosistemi funzionali) differenti, in cui si definiscono diversità

generate da attività e lavori che realizzano molteplici utilità.

Il modello di Alquati presenta tre differenti percorsi: quello ufficiale o formale, ovvero la rappresentazione dei processi siste-

mici con i fini della parte-classe e soggettività capitalistica. In esso

sì è chiamati a operare come attori esecutori di ruoli esodefiniti, ascritti al modello di cooperazione sistemica. Parallelamente c’è

un secondo percorso intermedio: quello della latenza, che si gioca molto sull’informalità ed è definito dalle ambivalenze esistenti. In esso l'«attore» sottende un altro aspetto, quello della «persona», che eccede l’attore assumendo atteggiamenti e scopi non del tutto riconducibili ai fini del macrosistema. È il percorso in cui si evidenziano differenze e ambiguità in dimensioni non del tutto inserite nella mera razionalità sistemica. Le ambivalenze si prestano a percorrere due tendenze contrapposte, possono essere un pre-

supposto che favorisce innovazioni o, viceversa, spazi per possibili autonomie. Il terzo percorso, definito «contropercorso», è quello

attraverso cui il «soggetto» è portatore di finalità autonome, che si contrappongono ai fini sistemici e diventano perciò antagoniste.

I tre percorsi sono intesi come «polarizzanti secondo gli interessi opposti delle due classi-parti»!9. Alquati propone sempre la sua indagine ipotetica partendo dal primo percorso, quello in cui il sistema è visto dal punto di vista capitalistico e nella modalità in cui questo lo istituisce. Procede a 10/

Alquati, Dall'industrialismo, cit.

204

spirale, approfondendo, problematizzando e ritornando in maniera differente sulle stesse variabili, ridefinendole salendo e scenden-

do per i diversi livelli al fine di individuare e svelare le ambivalenze

che si evidenziano nei processi. Solo successivamente esplora le

peculiarità che si determinano negli altri percorsi, mettendone in luce le potenzialità che via via si presentano e le possibili forme di costituzione reale di un'’alterità; allo stesso tempo, ci ricorda che il «contropercorso» va praticato più che inquadrato metodologi-

camente, va costruito come realtà in divenire. Infine, sottolinea

la necessità di tenere insieme pratica e teoria, riaggiornandole e ridefinendole in questa spirale che presenta dei ritorni ciclici di problemi e di possibilità, sempre diversi e mutati.

Secondo Alquati bisogna collocarsi a metà della piramide nel terzo livello, puntare e muoversi nel medio raggio. E per farlo efficacemente occorre dotarsi di risorse, attivare controprocessi che,

utilizzando, indirizzando e socializzando queste capacità, costruiscano forza, aprendo percorsi massificabili di contrapposizione.

Si tratta perciò di definire elaborazioni intermedie ma efficaci, ricche e potenti. Essere capaci collettivamente di attuare sintesi

oltre l’immediatezza, «imparare a usare e potenziare criticamente

l’astrazione determinata, generalizzare opportunamente, applica-

re teorie e ipotesi teoriche all'esperienza e combinare deduzione

e induzione. Vedere funzioni nascoste e interpretarne il senso ef. fettivo. Pensare criticamente e immaginare il diverso e il nuovo»,

sempre convivendo con i problemi. In altri termini, l’obiettivo non è di elaborare una teoria che spieghi la società come insieme unitario e coerente del «generico»,

cioè il vivere degli umani. Il suo intento è, invece, quello di qua-

lificare la ricerca sull'essenza dello specifico capitalistico. Ricerca

una teoria adatta a far prevalere politicamente un punto di vista di

parte. E quindi dà valore, sceglie e si sofferma su quegli aspetti che

ipoteticamente possono permettere l'aprirsi di processi di ribalta-

mento. Una teoria che permetta di esplorare i differenti livelli dì

realtà sociale, che indichi la possibilità di agire considerando la diversità dei tempi, misurandosi con l'occasione immediata e con la prospettiva di medio periodo. Una teoria che contempli sempre sia la possibile reversibilità dei processi, sia le cause dirette e indirette che la possono cagionare.

205

Rapporti sociali asimmetrici, residuo irrisolto e macro-conflitto Per Alquati è decisivo comprendere gli effetti dei rapporti sociali asimmetrici perché se da un lato impongono delle negatività che ingabbiano, dall’altro contrappongono chi li subisce al sistema: proprio questo tratto definisce la politicità intrinseca presente nel

sociale, permettendo di puntare sull’inassorbibile, inteso come potenziale da cui può scaturire autonomia e conflittualità. Fonda-

mentali sono atteggiamento e collocazione che presumono la ri. cerca di forme di contro-oganizzazione e di progetto, da perseguire ricoMponendo situazioni e soggetti collettivi per impegnarli in

cooperazioni con fini antagonistici e di fuoriuscita dal capitalismo. L'autore sottolinea così il perché di certe insistenze

(forma-

zione, comunicazione, riproduzione). Sono le baricentralità dove

lo scontro, se si realizza, può cambiare maggiormente

i rapporti

di forza perché lì si gioca la possibilità di deviare la tendenza, di acquisire spazi di autonomia, di consolidare contrapposizioni so-

stanziali. La forza per un possibile ribaltamento può scaturire dal residuo irrisolto lì consolidatosi.

Ciò che Alquati chiama «residuo irrisolto» è quanto non è as-

sorbibile e rimane fuori dal processo di sussunzione, è la contrad-

dizione aperta tra generico e specifico, ovvero tra umano e capitalistico, dove il generico è rappresentato dagli elementi prima della

costruzione capitalistica. Ci sono degli aspetti del rapporto che rimangono con un loro carattere di ambivalenza. C'è uno spazio dove persiste l’inassorbibile nella valorizzazione, un grumo capitalisticamente irrisolto, che permane come contraddizione insana-

bile; è un nodo collettivo, sociale e quindi qualitativamente non secondario, si ridefinisce e persiste come estraneità potenzialmente

contrappositiva. È altro che può trasformarsi in contro. È un fattore che non si piega a diventare artificiale, a uso della valorizzazione del capitale. Nell’inassorbibile vanno incluse anche certe parti della natura

umana, forme di socialità e culture che in esse persistono, parti della natura, intesa non tanto come contesto ma come ecosistema

più generale che, oltre a certi limiti, si sottraggono e ostacolano oggettivamente la stessa potenza del sistema capitalistico estrattivo instaurato dagli umani globalmente. Il riproporsi in differenti

aspetti del residuo irrisolto ribadisce che anche nella neomodernità e nell’ipercapitalismo c’è la possibilità di attivare e accrescere 206

alterità e anti-istituzionalità. Può anzi fondarsi su presupposti che

dovrebbero rendere più ricca e potente la progettualità antagonista.

Per Alquati la civiltà capitalistica fonda la sua specificità sulla

contrapposizione di due classi-parti, quella capitalistica e quella iperproletaria,

che sono classi ricostituite dal capitalismo e

isti-

tuite come controparti, in un macro-conflitto. «L'iperproletariato si ritrova a erogare la sua capacità, vivente o incorporata, sotto il comando dell'altra parte. Nessuna delle due classi parti può funzionare senza che funzioni l’altra! Sono tuttora indispensabili l'una all'altra, i due macroruoli sono reciprocamente legati, però

asimmetricamente, in contrapposizione oggettiva. Da ciò deriva

un reciproco potere! Almeno potenziale. E una reciproca forza»!!.

Tra le due grandi classi-parti il disequilibrio sta nel fatto che la parte capitalistica possiede tutto del sistema, ma gli manca la capacità di attivare gran parte degli innumerevoli segmenti costitutivi del sistema medesimo agendo e lavorando. Ne delega la realizzazione. Il proletariato ha invece solo la possibilità di scambiare (vendendo, affittando, regalando) la propria capacità attiva calda, come una neomerce esclusiva; cosicché è progressivamente chiuso in

una condizione di esecutività di ruoli distinti e separati. Per con-

tro, «il capitalista collettivo si è appropriato, oltre alle possibilità di comandare i processi di accumulazione di profitto e di dominio che derivano da plurime forme di sfruttamento ed espropriazione, della direzione strategica e quindi del comando». Persiste dunque un macro-conflitto tra questi grandi ruoli: «Talora la conflittualità, almeno oggettiva, potenziale si manifesta ai bassi livelli perché la contrapposizione tra le due parti è scesa giù. In basso la forma del sistema cambia parecchio e velocemente anche per la lotta tra le due grandi figure/parti, rideterminate. La

parte alta del sistema invariata, ma resta relativamente invariata

proprio mediante il fortissimo cambiamento sottostante. Il segre-

to della crescente velocizzazione necessaria scendendo è proprio l'innovazione-specifica, cuore dell’industrialità, inclusa nel capitalismo»!?.

Anche

quando

descrive il sistema capitalistico, Alquati ha

sempre in mente che può darsi una effettiva autonomia e che esi-

ste una possibilità di liberazione, di ricomposizione dì una con11/

12/

13/

Alquati,

Dall'industrialismo, cit,

Alquati, Nella società industriale, cit. Ivi,

207

tro-forza soggettiva. Ma oltre certi limiti questo processo non Si dà spontaneamente, abbisogna di progettualità e forme organizzative adeguate capaci di ridefinire un diverso e altro uso delle risorse.

| servizi nella neomodernità Nel testo Alquati analizza e definisce i servizi in rapporto alla riproduzione umana in generale e alla riproduzione della capacità umana in particolare; espone poi le successive trasformazioni delle loro funzioni nelle diverse fasi del capitalismo. In epoche precapitalistiche i servizi sono ambiti di attività svolte da qualcuno

a vantaggio di altri agenti umani o entità sociali, quindi per fini altrui. Qui si riscontra un aspetto di alienazione. Al loro sviluppo consegue un ulteriore allargamento e ridefinizione nella divisione

sociale del lavoro. Nel capitalismo i servizi vengono ricostruiti e sì trasformano notevolmente perché si ridefiniscono nuovi

me-

ta-scopi che ne cambiano la funzionalità, il significato, il senso; nell’attuale fase neomoderna, i servizi si sono industrializzati. In particolare, la costruzione di nuovi processi operata dal capitale

muta gli aspetti delle prestazioni, e ridefinisce rapporti e ruoli tra gli iperproletari in una trama di lavori funzionali sistemici.

A livello delle utilità differenti, appare evidente che i servizi diventano merci che permettono particolari fruizioni destinate al consumatorifutilizzatori finali e riproduttivi. Nella fruizione si

danno differenze importanti perché non in tutti i servizi ciò che si trasmette ad altri ha natura intangibile, «talora in certe prestazioni sì trasmette magari, insieme al servizio, pure qualcosa di percepibile, di tangibile». In altre prestazioni, invece, «non si percepisce,

la sostanza della relazione tra loro, quel che passa dall’uno all’altro

[...] in prestazioni ad esempio di cura, spesso non si dà niente di

percepibile ma tutto è solo relazionale, e così comunicativo».

Alquati si sofferma sul processo di mercificazione dei servizi riproduttivi di capacità umana vivente. La capacità ha due peculia-

rità distinte: la potenza e la ricchezza. La prima oggi serve più al

capitalismo, la seconda è, forse, più indirizzabile verso percorsi di soggettivazione. Per la produzione di servizi il capitale ha bisogno di una capaci-

tà flessibile adatta a combinarsi con la scienza, acquisendo anche la dimensione telematica e il lavorare per immagini. Quando il la208

voro riproduttivo viene industrializzato, si ridefinisce e si estende in ambiti differenti; è un lavoro che deve sempre più rispondere alle esigenze di fabbrichizzazione dove la capacità umana è portata a rapportarsi al sistema macchinico organizzativo, che a sua volta pretende una continua e accelerata trasformazione e inno-

vazione di se stesso. Da tempo il sociale si sta trasformando ed è sempre più condizionato da sistemi di macchine che sviluppano organizzazione tecnoscientifica, ridefinenendo la vita e il territo-

rio. La socialità e la socializzazione è già ridefinita coinvolgendo e inserendo i proletari in reti organizzative sempre più complesse che scompongono e poi ricostruiscono competenze e macchine.

Nella finalizzazione al profitto e al dominio, imposta dal padrone collettivo assume sempre più un ruolo importante la comunicazione che interscambia non solo tra persone ma tra queste e i macchinari artificiali (e anche tra macchinari e macchinari differenti per funzione e collocazione gerarchica), e di di tele-comando che hanno forti aspetti direttivi, formativi e performativi. Siamo davanti a trasformazioni che richiedono nuove prestazioni e disponi-

bilità ai lavoratori e in generale agli umani coinvolti come attivatori di questi servizi e come consumatori dei prodotti forniti da questi. Una grande capacità di anticipazione porta Alquati a spiegare

quanto in tendenza l'introduzione del taylorismo cambia complessivamente la forma dei servizi. La centralità dell’artificiale innerva anche il sistema dei servizi, caratterizzandosi per uno specifico rapporto con i mezzi, con la tecnoscienza, con la costruzione di un

sistema di fabbricazione della società. L'innovazione odierna del macchinario è fatta per l’accumulazione di capitale e di dominio, ma al contempo potrebbe aprirsi a processi di soggettivazione an-

tagonista.

Allora lì si pone la questione reciproca della riproduzione di capacità-umana e del suo interagire col dominio capitalistico riuscendo a incidere in quest’ultimo, o cercando efficacemente di farlo; e questo,

sottolineo, sarebbe forse il punto di vista su di essa più importante di tutti: politicità-intrinseca e riproduzione, e viceversa riproduzione e politicità-intrinseca!*.

Alquati si domanda — formulando più ipotesi — quale possa essere una nuova classe soggettiva, quali possano esserne le avanguardie 14/

Ibid.

interne e le forze motrici, quali organizzazioni sarebbero necessarie, come dovrebbe essere un partito di tipo nuovo della classe-parte. Bisogna però chiarire cosa si intende per classe, specificando

che cosa cambia e che cosa si ridefinisce ai diversi livelli di realtà. Un'ipotesi potrebbe essere quella di considerare l'emergere di una

nuova operaietà, non più manuale ma psichica, relazionale, mentale, che elabora particolari conoscenze. Queste hanno a che fare

con una certa scientificità, comunicazione, formazione. Ci sarebbe

allora da ripensare la figura dell’operaio sociale. Un’altra ipotesi è quella di considerare l'emergere di una proletarietà non più operaia. Queste due ipotesi non possono essere verificate e arricchite nel

dibattito astratto; non si può separare la teoria dalla prassi. Esse devono definirsi come processualità di un progetto concreto agito: funzione del partito che ricompone e potenzia — nel produrre ricchezza - le soggettività politiche che si definiscono nei movimenti

conflittuali della classe.

Riproduzione e ruolo delle donne Con l'avanzare della modernità la capacità-umana-vivente si riconfigura progressivamente perché le è richiesto di plasmarsi secondo

le contingenze e di avere determinate qualità:

la sua principale fonte non è quasi più l’esperienza personale diretta ed empirica, trasmessa per tradizione e per imitazione dell’esperire e del

praticare altrui, com'era nell’intersoggettività antica; è invece sempre più la conoscenza tecnoscientifica, la quale ha selezionato per altri fini e trasformato, razionalizzandola.

Nella produzione della merce-servizio cresce l’iperindustrializza-

zione e cresce ulteriormente la psichicità e l’artigianalità di certi

aspetti della riproduzione rinnovati e ridefiniti dalla tecnoscienza.

La riproduzione è sempre più lavorizzata in processi in cui prevale la fabbrichizzazione!5. Gli iperproletari sono chiamati e costretti a un particolare lavoro, sempre più combinato con i mezzi che ri-

chiede, «per la difficoltà perdurante di macchinizzare prestazioni

timiche e intellettuali umane-viventi» di produrre conoscenza in15/

La fabbrichizzazione è l'imposizione ai processi sociali di una funzione a loro

esterna col fine di alimentare i livelli soprastanti. 210

ventiva e di sviluppare maggiormente capacità psichiche, timiche,

affettive, cognitive medio-alte. In questi processi c'è un particolare

coinvolgimento delle donne. Secondo Alquati le donne sono sempre più centrali nel lavoro riproduttore di capacità umana vivente, che è lavoro relazionale. Con questa espressione si intende che esso avviene non solo in meri rapporti di ruoli ma anche in scambi personali primari, attraverso relazioni. Per Alquati cambia anche il modo in cui il sistema sociale capitalistico definisce il ruolo delle donne singolarmente e collettivamente nelle sue varie fasi, come le colloca negli ambiti

sociali e nei processi produttivi e riproduttivi. La riproduzione era ed è in gran parte fatta dalle donne proletarie. Ci sono tre grandi vie universalmente riconosciute con le quali il patriarcato capitalistico deruba tuttora le donne proletarie e iperproletarie (e con ciò tutto l’iperproletariato): 1) pagare meno il lavoro femminile a parità di prestazioni; 2) collocare il lavoro femminile a gradi della ge-

rarchia più bassi del dovuto, col mancato riconoscimento della qualità e valore della capacità-umana-vivente posseduta ed erogata dalle femmine nelle loro occupazioni e prestazioni; 3) sottopagare moltissimo le prestazioni riproduttive o far finta di non vedere la loro mercità, la loro importanza, il loro valore. E molto spesso le donne accettano.

Si corrisponde meno di quanto il lavoro femminile vale, ma poi

c'è una seconda modalità, più determinante, in cui si realizza lo

sfruttamento che permane e deriva dal modo di appropriarsi, da parte del capitalista collettivo, dell’attività lavorativa. Nel processo di appropriazione tale attività viene svalutata, svuotata, consumata grazie alle modalità in cui è prestata e utilizzata la capacità

umana vivente; si tratta di una forma di sottrazione ed espropriazione principalmente qualitative che si aggiunge a quella quantitativa già sottolineata e che dipende dal fatto che le donne colloca-

te al centro del processo riproduttivo (oggi produttivo di valore), che sono cioè costrette a stare dentro e non all’essere lasciate ai margini.

Alquati propone «una distinzione ipotetica tra le donne effettive

e le femministe» e afferma che «bisogna ripartire dalle donne ef-

fettive, dalla conricerca sulle e con le donne effettive. Capire cosa sono e come sono le donne effettive, e perché, e con che conse-

guenze». Esplora i cambiamenti, soffermandosi sul mutare delle ambivalenze, e afferma che si è dato «un processo storico dì lungo 21I

periodo, di sei o sette secoli, di crescita graduale ma continua del peso e potere delle donne che, ripeto, chiamo donnazione, effettiva e sostanziale». Sottolinea inoltre che «abbiamo condizioni sempre più favore-

voli alle donne e strappate da loro, dalle donne effettive: c'è una

forza e un potere crescenti delle donne intere ed effettive nel ca-

pitalismo. [...] Un nuovo femminismo meno precario dovrà ripartire dal chiedersi cos'è davvero una donna, oggi, conricercare. Ma è proprio vero che il capitalismo con la sua mercificazione della

capacità umana e mercantilizzazione dei rapporti pseudo-umani sottomessi al profitto piace alle donne e non ha negatività per loro?».

Militanza come confronto e rigore nella teoria Dalla fine degli anni Cinquanta fino ai primi anni Duemila, nel

suo lungo percorso di ricerca e di proposizione politica, Alquati è

stato punto di riferimento per numerosi ricercatori e militanti con i quali ha condiviso percorsi e confronti. Altrettanto importanti

sono state le interlocuzioni con studiosi e personaggi significati-

vi del secondo Novecento, sia italiani che internazionali: Renato

Rozzi, l'amico di una vita, Paolo Caruso, Giovanni Bottaioli, Da-

nilo Montaldi, Franco Fortini, Alessandro Pizzorno, Edgard Morin, Jean-Frangois Lyotard, Cornelius Castoriadis, Daniel Mothé,

Raniero Panzieri, Vittorio Rieser, Pier Luigi Gasparotto, Gaspa-

re De Caro, Mario Tronti, Toni Negri, Guido Davide Neri, Karel

Kosic, Enrico Filippini, Giairo Daghini, Guido Bianchini, Maria Rosa Dalla Costa, Alisa Del Re, Ferruccio Gambino, Sergio Bologna, Mario Dalmaviva — per citarne solo alcuni. All'Università di

Torino Filippo Barbano e Claudio Napoleoni l'hanno chiamato a insegnare Sociologia industriale nella facoltà di Scienze politiche, dove ha collaborato con Massimo Egidi, Andrea Sormano, Marino

Guglietti e altri. Vi è rimasto con il ruolo di professore associato,

sovente osteggiato dai vertici accademici, ma indirizzando e con-

tribuendo alla formazione di molti allievi che hanno seguito i suoi corsi e discusso le tesi di cui sceglieva di essere relatore. Alquati non si pronuncia mai per il gusto della polemica; cer-

ca invece sempre di comprendere quanto viene proposto da altri

autori e interlocutori. Opera continuamente delle scelte, cogliendo quello che ritiene sia utile, sottoponendolo a rielaborazione e 212

approfondimento. Anche quando sottolinea le debolezze degli impianti teorici che analizza, lo fa per costruire un discorso differente e trasformare quanto gli appare errato o insufficiente in un punto di vista adeguato ai problemi posti. Complessivamente la stessa sintesi operata nel modello è frutto di questa costante attività di comparazione tra permanenze e variazioni, tra processi in divenire e in via di esaurimento, e soprattutto tra percorsi di

trasformazione. Nel confronto con gli altri punti di vista, Alquati esercita dunque la capacità di individuarne gli elementi di forza, mutandoli e ricombinandoli nello sviluppo e nell’approfondimento della sua sintesi. Ripropone nella sua ricerca la stessa tensione alla problematizzazione e al compimento di un salto in avanti. Non si accontenta

dell’oggetto definito, è necessario portarlo a un ulteriore passaggio di critica e approfondimento. Alquati ribadiva che la conoscenza va intesa come un’arma sempre riaffilabile e riadattabile da riprendere opportunamente, non è mai esaustiva o definitiva:

il punto è quale uso se ne fa, che direzione si traccia, che fine ci

si propone.

Non è possibile né necessario ricostruire ogni volta

ex novo, ci si deve anche avvalere degli elementi già a portata di mano, a patto che questi vengano continuamente messi a verifica,

problematizzati ed eventualmente trasformati per uno scopo defi-

nito. Perciò Alquati propone percorsi che devono essere capaci sia di piegare le conoscenze, i saperi, le risorse esistenti, riattualiz-

zandoli, ricollocandoli e ridefinendoli, sia di costruirne di nuovi, più adeguati a per conseguire così può e deve Con questi

potenziare le soggettività individuali e collettive scopi antagonistici. Cosi fa il padrone collettivo, fare chi si vuole opporre a esso con progettualità. presupposti Alquati inserisce nella sua sintesi le

osservazioni che dei singoli autori effettivamente gli sono utili.

Certo, sceglie, seleziona, si schiera, ma non rinunciando mai alla

valutazione e al senso critico. Questo suo impulso a prendere posizione gli consente di muoversi liberamente e criticamente attingendo a più aspetti di differenti discipline. Ribadiva sempre che

solo in percorsi concreti si può mirare a definire progressivamente una «scienza altra». Di Marx, per fare un esempio cruciale, in-

tende confermare le categorie e teorizzazioni fondanti che hanno permesso la comprensione dell'essenza della civiltà capitalistica,

sostiene la politicità di molti suoi passaggi mentre ne rivisita altri

discutendone anche il senso, senza conformarsi ed essere incatenato alla loro perpetuazione deterministica. Allo stesso modo,

213

può trovare i varchi che si aprono nel pensiero di nemici di classe o di avversari teorici per una lettura alternativa. Così le elabora-

zioni delle scienze sociali, benché sviluppate come conoscenze sistemiche per potenziare l’altro campo, possono diventare diversamente importanti per la costruzione della conoscenza politica antagonista.

Alcuni autori rappresentano un punto costante di confronto:

dicevamo

Marx, ma anche Lenin, oggi da quasi tutti considerato

un cane morto, è determinante come artefice di teoria e pratica per il ribaltamento sistemico e la rottura rivoluzionaria. Con il suo

pensiero Alquati si confronta intensamente, in modo esplicito o implicito. Dai sociologi statunitensi attinge il metodo e gli strumenti della ricerca sociale: da Robert Merton per i presupposti

della teoria del medio raggio, l’attenzione alla latenza, gli approfondimenti delle ricerche sulla scienza; da Randall Collins per la sociologia del conflitto e la comparazione delle teorie e dei modelli sociologici; da Herbert Simon per le scienze dell’artificiale intese come intersecazioni tra biologia, sociologia, linguistica, psicologia

ed economia. Alquati valuta, seleziona e gerarchizza le posizioni, considera alcuni autori un costante punto di riferimento e interlocuzione, che permettono la comprensione critica dei livelli alti del sistema

capitalistico; altri autori invece rimangono stimolanti per svilup-

pare e approfondire la comprensione sia dei livelli medi e bassi di realtà sia degli argomenti per i quali il confronto verte su dimensioni e temi contingenti.

Promuovere la conricerca come atteggiamento critico

e alternativo

Alquati è spesso citato come ideatore della conricerca, tuttavia raramente si è posta sufficiente attenzione al considerare come la intendesse e come la praticò. Distinguendosi da altri, egli propone la conricerca come un insieme di pratiche e di interventi in ambiti sociali che realizzandosi costruiscono importanti differenze in

primo luogo politiche. I tratti caratterizzanti sono: chi la promuove, il contesto dove si attua, gli strumenti che impiega, gli scopi e i fini che si vogliono realizzare. Alquati considera e approfondisce alcuni problemi di organizzazione della conricerca e di come que214

sta possa proporre e attuare adeguate forme di contro-organizzazione negli ambiti di intervento!‘. Il conricercare è un intervento continuativo, ridefinito in successive «ondate», attivato consapevolmente da un’avanguardia po-

litica che sceglie di collocarsi per attuare percorsi di aggregazione e ricomposizione in ambiti sociali considerati importanti (bari-

centrali), perché in essi si presume che esistano le potenzialità e

quindi in qualche modo possa avvenire un conflitto rilevante tra parti collettive portatrici di interessi almeno oggettivamente contrapposti. La peculiarità della conricerca alquatiana è nel costruire una

cooperazione sinergica tra protagonisti differenti dotati di competenze diversificate, singoli e gruppi già presenti nel contesto, ricercatori e militanti politici esterni che decidono di apportare conoscenze e capacità per far crescere e progredire una progettualità

politica. In questo senso la ricerca attiva, muove e trasforma sia il

contesto sia i soggetti che vi partecipano. Lo scopo della cooperazione è costruire e formare nuove forze che, sviluppandosi e carat-

terizzandosi antagonisticamente, sappiano contrapporsi alla realtà sistemica esistente.

La conricerca si realizza come agire consapevole e progettualmente condiviso da militanti per costituire un processo di formazione di soggettività individuali e di gruppo, attingendo a potenzialità anche differenti presenti nel contesto sociale così da

riprodurre nuove e più avanzate forme di militanza, per ricomporre una soggettività collettiva più forte e allargata. Il conricercare è un processo aperto in avanti, sempre ipotetico, che prevede quindi «una dimensione descrittiva sul come è fatta una realtà, una dimensione esplicativa sul perché è fatta così, e una simulativa che vuole immaginare come potrebbe evolvere e poi prova a prefigurare questo movimento nel futuro»! È un processo pratico,

flessibile, sempre applicativo: anche quando propone «aspetti di invenzione e innovazione teorica si tratta sempre di teoria appliCata», perché occorre possedere il funzionamento del contesto per agire dentro e contro di esso. Ci deve essere chiarezza sul fine stra-

tegico e su quali sono i fini subordinati. Altrimenti non emerge il potenziale di questo processo. La conricerca richiede una costruzione e un'applicazione in16/ 17/

Cfr. Alquati Camminando per realizzare un sogno comune, cit. R. Alquati, Elementi di metodologia della conricerchina, manoscritto inedito 1992. i

,

215

nanzitutto di conoscenza critica per la produzione di altra conoscenza — senz'altro di parte ma scientifica, da mettere in pratica,

perché dice Alquati:

La scientificità, nella sua ambivalenza, che va assai meglio capita e approfondita in concreto, dà potenza al conoscere e all’agire. Il suo orientamento come qui lo si propone è strategico; anche nel senso forte dei giochi di strategia con applicazione pure sperimentale di un metodo-atteggiamento, volto a rompere sempre l’equilibrio dell'esistente e alla sua ulteriore trasformazione in altro, ma con un certo riferimento

a

un contropercorso e a una certa vaga contro-progettazione flessibile e sempre con una certa progettualità e qualche grande scopo, e obbiettivo strategico!*,

Lo scopo dei conricercanti è di acquisire nuova, ulteriore conoscenza più potente, più estesa, più profonda e più aggiornata. Essa non

può che essere complessa, molto complessa, anche perché non è solo rivolta a far luce su problemi pratici o anche teorici locali e frammentari, ma perché sono da reinventare, almeno in certe parti, la teoria generale e i modelli organizzativi che da tale teoria sono derivati. Alquati scrive: lo parlo di scientificità nella conricerca e di uso della potenza della scienza: come di qualsiasi mezzo nella sua ulteriore e peculiare ambivalenza, un'inestinta utilizzabilità alternativa dei mezzi. Usare la potenza

di capacità per produrre ricchezza di capacità! Ma qui bisogna anche andare oltre, vedendo la scienza stessa come un sistema stratificato, ma che funzioni praticamente per il raggiungimento di certi nostri fini!?.

Il conricercare è anche conoscenza di se stessi e delle proprie po-

tenzialità come soggetti, soggettività collettive, classe. Conoscenza

delle dinamiche sociali che muovono ed esprimono forme di contrapposizione, conflitti, lotte, movimenti. Consapevolezza dell’im-

portanza della teoria, per rischiarare l’agire e dare prospettiva alla progettualità. Ritorno alla ricerca nella consapevolezza dell’insufficienza ed erroneità della nostra teoria. Affrontando il nodo del metodo Alquati esplicitamente afferma che: 18/ 19/

RAlquati, Per fare conricerca, Calusca, Padova 1993. Alquati, Elementi di metodologia, cit

216

Non mi interessano le tecniche, ma semmai il metodo-atteggiamento, inteso come sempre nuova rottura e rilancio in avanti dell'equilibrio o dell’equilibrato neo-costituito, lungo un cammino di conoscenza-liberazione, che sempre riparte riaprendo, rimuovendo per nuove ulterioriì

aperture. Muovendo sia noi che il contesto/oggetto della conricerca stessa in peculiare reciprocità critica e dialettica (parola bandita dai cretini). Il Metodo si pone quindi come principale contenuto?°.

Anticipazione Nel suo percorso di militante politico, ricercatore e teorico, Alquati si caratterizza e anche si contrappone ad altri compagni che si sono collocati al vertice dell’operaismo: Panzieri, Tronti e, in mi-

sura diversa, Negri. Tra i tanti suoi tratti distintivi sicuramente vanno rimarcati, come già fece Gaspare De Caro?!, la capacità di

anticipazione e la lettura del processo. Si tratta di peculiarità sostanziali che lo rendono unico, perché non intellettualizza mai il suo ricercare sempre finalizzato a una politicità che è al contempo anti-istituzionale e rivolta a scegliere i modi e le forme dell’agire per modificare il divenire. Più volte ripeteva parlando di sé che «è meglio, nonostante tutto, essere sociologi che filosofi». Alquati non ha la pretesa di fornire una visione onnicomprensiva, né di coltivare specialismi. Egli mira a cogliere l'essenziale,

svelando perché esso si costituisce con determinate modalità e rapporti, quali forze servono per un'alterità. Alquati ha chiara la

necessità di una ricomposizione collettiva. A questo fine, oltre che

per carattere, non ha mai cercato di emergere individualmente

come leader distributore di certezze rassicuranti ma ingabbianti e condizionanti, di costruirsi come un intellettuale vezzeggiato

e acclamato che pensa per gli altri, perseguendo l’edificazione di un «io» sterile e saccente. Per contro, si è sempre collocato e ha lavorato per un «noi collettivo», perché l'elaborazione teorica e la

pratica dell'intervento si costituissero su basi sostanziali e durature, da raggiungersi anche faticosamente, non aderendo a mode

tanto velleitarie quanto temporanee. Ha mirato a definire una posizione di parte, a rafforzarla criticamente nell’approfondimento, per cogliere alcuni nodi fondamentali e comprendere le relazioni

cit. 20/ Alquati, Per fare conricerca, rienza storica della rivista Classe operaia, manoscritto Espe lo, Gril E. Caro De 21/ G. inedito 1973.

217

che si danno e si modificano tra di essi. I] concentrarsi

su una

selezione di elementi sostanziali costituisce il punto di forza delle sue elaborazioni.

218

Indice

p5

Introduzione. Per leggere Alquati

La costruzione del «Modellone» p 7 * Il libro-macchinetta P 8 e Contesto di dibattito p 9 *@ Il lavoro di riproduzione P 11

1. Questioni pre-preliminari sulla riproduzione Alcune ipotesi generali

p 16

# Società complessiva

P 15 p 19 @ Grandi

ambiti p 23 * Dentro i servizi di riproduzione della capacità di lavorare P 32 e Sulla nuova qualità del lavoro iperindustriale P 38 è Qualcos’altro sulla riproduzione del lavorante-umano P 46

p 53

2. Altri frammenti preliminari: servizi in generale Il terziario come comparto merceologico pattumiera

e iservizi

p 54 + Classi di servizi P 61

3. Altri frammenti sui servizi riproduttivi

P 67

Questioni preliminari anticipate: società riproduttiva?

P 67

e Capacità-lavorativa-umana-vivente-merce (specialissima) p 72 ® Più dentro la ricreazione o restauro di capacità-lavorativa-

vivente p 117 e La solita formazione P 119 + Un pochino di storia: richiamo alcune tappe P 123

4.

Nel terzo momento:

in Italia ed Europa, americanizzazione? Iperindustrializzazione dei servizi riproduttivi P 137 ®

p 138

Riarticolazione dei cicli di riproduzione

è

P 137 Decentramento

odierno (seconda fase di impresizzazione) di sotto-funzioni

riproduttive pr 140 e Verso l’alto, terza fase: «impresizzazione» interna ed esterna P 142 + Più dentro la razionalizzazione dei

servizi riproduttivi pubblici nella terza fase

P 144

p 144 + Parentesi: altro ancora,

è Politica e servizi riproduttivi

p 157

P 165

5. Breve morale di questa favola Appendice

p 175

1. Produzione e riproduzione Frammentariamente più dentro capacità-lavorativa-umana-vivente

r 177 P 181

e Ancora formazione dì è

Altro ancora

P 181

2. Donnazione e crisi dei femminismi

P 183

Lo specifico psichico femminile? p 183 + Il patriarcato r 184 @ Femminismi p 186 + Un nuovo femminismo plurale ma rivoluzionario? p 188

Postfazione. Dentro il «modellone»

Riproduzione come valorizzazione p 192 @ Attività umana e capacità umana in separazione per il potenziamento dei mezzi ®

Ribaltamento della combinazione attiva P 197

P 189 p 195

# Lavoro,

attività e lavoro riproduttivo P 198 + L'iperindustriale ridefinisce la sussunzione capitalistica P 200 e Estensione del lavoro al consumo P 201 + Produzione nell’iperindustriale P 203 + Tre diversi percorsi

P 204

e Rapporti sociali asimmetrici, residuo

irrisolto e macro-conflitto P 206 + I servizi nella neomodernità P 208 ® Riproduzione e ruolo delle donne P 210 + Militanza come confronto e rigore nella teoria P 212 @ Promuovere la conricerca come atteggiamento critico e alternativo p 214 @ Anticipazione p 217