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Italian Pages 192 [190] Year 2021
MARIO LENTANO
Straniero
L’eredità dei Greci e dei Romani non comprende solo le tracce materiali della loro civiltà o gli splendidi frutti della loro arte e della loro letteratura: queste culture hanno consegnato all’Occidente anche un vocabolario per descrivere il mondo, catalogare le forme della vita associata, organizzare le avventure dell’intelligenza o la percezione del corpo e della natura. Ecco perché esplorare quel vocabolario significa per un verso guardare agli antichi da un osservatorio privilegiato, in grado di restituire l’immagine di una straordinaria esperienza storica, per l’altro riconoscere loro la funzione di interlocutori dei quali non possiamo fare a meno per pensare le grandi questioni del nostro tempo.
Prossime uscite: 2. Folklore, Tommaso Braccini. 3. Democrazia, Stefano Ferrucci. 4. Corpo, Anna Maria Urso.
Le parole degli antichi
Collana diretta da Mario Lentano
Le parole degli antichi 1
Mario Lentano
Straniero
© 2021, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Le parole degli antichi ISSN: 2724-6086 n. 1 – aprile 2021 ISBN Edizione cartacea: 978-88-5529-241-2 ISBN Ebook: 978-88-5529-242-9 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Galata Ludovisi, I secolo a.C., oggi conservata al Museo Nazionale Romano (Palazzo Altemps, Roma).
I
Le parole per dirlo
1. Definire l’estraneità La cultura antica è fatta per noi anzitutto di parole. Naturalmente, esiste un numero molto cospicuo di documenti non verbali, se così si può dire, che ci vengono da quella cultura: edifici di ogni genere, pubblici e privati, tracciati stradali, manufatti artistici o destinati all’uso quotidiano, ciascuno dei quali è anche un veicolo di informazioni preziose sul mondo che lo ha prodotto. Ma l’universo dei Greci e dei Romani è stato accessibile, a quanti lo hanno studiato dopo la fine del mondo antico, in primo luogo attraverso la sua manifestazione testuale, attraverso il patrimonio di testi scritti che hanno avuto la buona sorte di scavalcare l’abisso dei secoli e di giungere sino a noi. Per questo, ogni approccio alla cultura antica non può non passare attraverso le parole che quella cultura ha
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usato per descrivere sé stessa e per comunicare la propria auto-rappresentazione; anzi, non può non partire dalle parole, nella convinzione che queste ultime non costituiscano mai degli indicatori neutrali o asettici, ma siano al contrario portatrici di un modo specifico di organizzare il mondo e di classificarlo. È dunque da qui che anche la nostra avventura nella riflessione degli antichi sulla nozione di “straniero” deve prendere le mosse. Prima di dare avvio a questa esplorazione può essere però utile capire come i Greci percepissero sé stessi, se, in altri termini, si immaginassero legati da tratti comuni, tali da definire quella che oggi chiameremmo la loro identità. Ebbene, a giudizio dello storico Erodoto, che veniva da Alicarnasso, in Asia Minore, ma compose il suo capolavoro nell’Atene di Pericle a partire dalla metà circa del V secolo a.C., questa identità consisteva nel fatto di avere «lo stesso sangue e la stessa lingua, e i comuni templi degli dèi e i riti sacri e gli analoghi costumi». L’elenco viene poi ripreso quattro secoli dopo da un altro storico conterraneo di Erodoto, Dionigi, il quale aggiunge agli elementi citati dal suo predecessore «le stesse leggi eque e moderate», commentando che «è proprio in questo che la natura dei
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Greci si distingue da quella dei barbari». Al di là delle differenze e dell’ostilità endemica che separano una città dall’altra, dunque, i Greci non perdono di vista la consapevolezza di avere forti elementi che li uniscono: la lingua innanzitutto, certo articolata in dialetti diversi ma tali che i loro parlanti possono in ogni caso capirsi fra loro, e poi la religione e i relativi culti, i costumi, cioè quella che noi definiremmo la cultura, e il sangue, termine che ha un significato reale – i Greci ritengono di avere un capostipite comune dal quale sono discese le diverse stirpi in cui sono divisi – ma anche metaforico, per designare quella certa “aria di famiglia” che li fa sentire fra loro simili. Che cosa si muove dunque al di fuori della famiglia ellenica? Cominciamo subito col dire che i Greci hanno almeno due termini diversi per designare lo straniero. In primo luogo ci sono i semplici xénoi, ossia quei Greci che non appartengono alla medesima comunità di chi li definisce così, ma che per le ragioni più varie si trovano a risiedere in essa o con i quali si viene per qualsiasi motivo a contatto: agli occhi di un Ateniese, gli abitanti di Sparta o di Tebe sono dunque degli xénoi. In un mondo di minuscole città-Stato come la Grecia dell’età ar-
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caica e classica, in cui le distanze sono brevi e i confini ravvicinati, gli stranieri sono ovunque: possono muoversi per partecipare a riti e feste, per assistere a giochi e gare, più spesso per ragioni di commercio, all’ingrosso o al minuto, perché esiliati dalle loro rispettive comunità, talvolta persino per frequentare le scuole dei grandi pensatori. A partire dal IV secolo, una città come Atene diviene infatti una sorta di centro internazionale di studi superiori, nel quale le aristocrazie dell’intero mondo mediterraneo inviano i loro rampolli a completare il proprio curricolo formativo in un contesto prestigioso ed esclusivo. S’intende che questa situazione di generalizzato movimento fra le città comportava una miriade di problemi pratici: per affrontarli, molte comunità istituirono la figura di una sorta di console, il prosseno, chiamato a garantire agli stranieri in soggiorno temporaneo protezione materiale e tutela degli interessi. In greco, però, xénos ha anche un altro significato, quello di “ospite”: un termine con il quale si designa il peculiare rapporto di tipo personale, detto appunto xenía, che unisce a livello individuale figure appartenenti a comunità diverse e spesso distanti. È un rapporto che prevede da entrambe le parti obblighi precisi: l’accoglienza,
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in primo luogo, accompagnata dall’offerta di cibo e tetto, quindi lo scambio di doni, che manifestano la generosità delle due parti e al tempo stesso rendono concreta la relazione attraverso la circolazione di beni chiamati a tenerne vivo il ricordo e a serbarlo inalterato nel tempo. Infine, come sempre accade nel mondo antico, la xenía ha anche una sua dimensione religiosa: a vigilare sull’osservanza delle regole dell’ospitalità e a sanzionare la loro eventuale violazione è infatti lo stesso signore degli dèi, Zeus, che in questa sua specifica funzione assume l’appellativo di Xénios, “protettore degli ospiti”. È dunque xenía quella che il re di Sparta Menelao e sua moglie Elena offrono al principe troiano Paride in visita nella loro città, nell’episodio che condurrà di lì a poco alla guerra fra i rispettivi popoli; non a caso, agli occhi degli antichi la colpa di Paride non consiste tanto nel rapimento in sé della bellissima regina, quanto nel fatto che agendo in quel modo l’eroe ha violato il codice di comportamento che il suo statuto di ospite gli avrebbe imposto. Ed è un rapporto di xenía quello che scoprono di intrattenere nell’Iliade l’eroe greco Diomede e il guerriero troiano Glauco, in procinto di affrontarsi. In Omero lo svolgimento del duello prevede una precisa
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etichetta: lo scontro vero e proprio è preceduto da una schermaglia nel corso della quale i due combattenti espongono la propria genealogia e si fanno vanto dei rispettivi meriti in guerra, allo scopo di esaltare la propria eccellenza bellica e al tempo stesso fiaccare la resistenza dell’avversario. Ed è appunto nel corso di questi preliminari che Diomede e Glauco scoprono di essere legati da un rapporto di ospitalità, stabilito originariamente dai rispettivi nonni e da questi trasmesso in via ereditaria ai loro discendenti. L’eroe greco, che per primo si rende conto della cosa, cessa immediatamente le ostilità e pianta nel terreno la propria lancia, in un gesto che intende essere al tempo stesso concreto e simbolico: pur essendo coinvolti in una guerra che non può concludersi se non con l’annientamento di una delle due parti, Diomede e Glauco non combatteranno mai più l’uno contro l’altro, quando capiterà loro di incrociarsi nuovamente sul campo di battaglia, e si scambiano persino dei doni, gli unici che in quel momento hanno a disposizione, chiamati a rinnovare e sancire il rapporto dal quale si sono scoperti legati: Evitiamo nella battaglia la lancia l’uno dell’altro; per me ci sono molti Troiani e alleati famosi
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da uccidere, quelli che posso raggiungere e un dio mi concede; e molti Greci ci sono per te da uccidere, quelli che puoi. Scambiamoci le armi, in modo che anche costoro sappiano che ci vantiamo di essere antichi, paterni ospiti.
Come sempre nel mondo di Omero, atti e comportamenti individuali contano nella misura in cui sono esposti allo sguardo degli altri: perciò, la reciproca cessione delle armi ha anche la funzione di dare pubblicità al rapporto, affinché entrambe le comunità di appartenenza ne prendano atto e ne tengano conto. Com’è inevitabile, il motivo dell’ospitalità tor na poi con grande frequenza nell’Odissea, poema di viaggi e di soggiorni in terre remote. Dopo la scena iniziale, che vede gli dèi riuniti in consiglio per decidere il ritorno di Odisseo, il poema si apre con l’immagine della dea Atena che assume le sembianze fittizie di Mente, condottiero dei Tafi, e in questa veste giunge alla reggia di Itaca per spronare Telemaco alla ricerca del padre. Quando si accorge della sua presenza, il giovane principe si avvia sollecitamente alla porta, declinando gli elementi di un vero e proprio protocollo dell’ospitalità omerica: il figlio di Odisseo
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vide Atena e le si fece incontro nel portico, adirato in cuor suo che l’ospite stesse da tanto alla porta e, arrivato davanti a lei, le prese la destra, ricevette la lancia, e le si rivolse con queste parole: «Salute, straniero, sarai nostro ospite, e dopo, quando avrai pranzato, dirai quello che ti abbisogna».
Nei diversi casi che abbiamo menzionato, dun que, l’istituto della xenía disegna una fitta trama di rapporti che mettono in connessione le aristocrazie o i sovrani di città e regni situati sulle diverse coste del Mediterraneo: si tratta insomma di legami attraverso i quali le élites non solo si assicurano la possibilità di spostarsi in sicurezza, ma intessono anche vincoli di scambio e di alleanza, promuovono reti di solidarietà, danno corpo a relazioni che conferiscono loro visibilità, influenza e potere. Ora dobbiamo però abbandonare l’affascinante mondo di Omero, che d’altra parte avremo molte occasioni di incrociare ancora nel corso di questo libro, e tornare allo xénos che frequenta la città di età storica, sulla quale possediamo maggiori informazioni. Accanto allo straniero che soggiorna solo per breve tempo in una co-
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munità diversa dalla propria, per poi fare ritorno in quest’ultima, esistono quelli che si stabiliscono in modo duraturo in un’altra città, magari per impiantarvi la propria attività economica: il greco li definisce métoikoi, alla lettera “coloro che hanno cambiato abitazione”, ed essi sono presenti in gran numero nel panorama sociale della polis di età classica. Si tratta perlopiù di artigiani, commercianti o titolari di imprese, in senso lato, finanziarie o industriali, e di alcuni di essi abbiamo la fortuna di poter ricostruire a grandi linee la storia personale. Prendiamo il caso di Lisia, uno dei massimi oratori ateniesi del IV secolo a.C. Suo padre, Cefalo, appartiene a una famiglia benestante di Siracusa, la più importante colonia greca della Sicilia, al punto che il leader ateniese Pericle lo invita a trasferire ad Atene la sua attività; il trapianto ha successo e alla fine del V secolo la famiglia di Lisia possiede una fabbrica di scudi che impiega ben centoventi operai, un cospicuo patrimonio liquido, una vasta rete di crediti all’interno e all’esterno dell’Attica, la regione in cui sorge Atene. La loro abitazione si trova al Pireo, nel quartiere del porto, come quella di tanti altri meteci, in una posizione che consente di seguire da vicino lo svolgimento di traffici e commerci; al tempo
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stesso, essa è frequentata dagli intellettuali più in vista della città, che non mostrano alcuna difficoltà a intrattenere relazioni di amicizia con uno straniero. Il più impegnativo fra i dialoghi platonici, La repubblica, si immagina svolto proprio a casa di Cefalo, dove Socrate e i suoi seguaci, tra i quali i fratelli dello stesso Platone, si sono riuniti a colloquio con il vecchio patriarca. Sempre da Lisia veniamo a sapere qual era il corretto comportamento che la città si aspettava da uno straniero residente: avevamo contribuito agli spettacoli e ci eravamo tassati ogni volta che ci era stato richiesto; rispettosi dell’ordine e obbedienti al governo, non ci eravamo fatti un solo nemico, anzi avevamo riscattato dalla prigionia molti Ateniesi.
In effetti, i meteci hanno l’obbligo di contribui re alle spese pubbliche, dall’allestimento delle navi da guerra, all’istruzione di un coro per le rappresentazioni teatrali, e soprattutto quello di prendere parte alla difesa militando nella fanteria degli opliti, i soldati dotati di un’armatura completa che costituiscono il nerbo degli eserciti cittadini. Quest’ultimo elemento si spiega alla luce della particolare ideologia del-
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la guerra coltivata dalla città antica, secondo la quale a combattere in sua difesa devono essere in primo luogo quanti hanno un concreto interesse economico e personale a farlo: e tali sono certamente i meteci, le cui sorti finanziarie sono indissolubilmente legate a quelle della città che li ospita. Ogni meteco è tenuto inoltre al versamento di una sorta di tassa di soggiorno, che confluisce in un cespite a sé del bilancio pubblico e costituisce per la città un’entrata di grande rilievo. I meteci rappresentano insomma un carico pagante, e come tale molto ambìto: i programmi di risanamento economico elaborati ad Atene nel corso del IV secolo includono pressoché invariabilmente la previsione di incentivi al trasferimento di nuovi meteci, dalla cui massiccia presenza ci si attende un cospicuo ritorno finanziario. Accanto agli oneri economici che abbiamo menzionato, la condizione dei meteci è soggetta altresì a una serie di limitazioni: gli stranieri residenti non partecipano all’assemblea popolare, non possono essere eletti alle magistrature, intervengono in misura molto limitata nei culti e nelle cerimonie religiose della città. Soprattutto, non è loro consentito detenere beni immobili ad Atene e in Attica, che si tratti di edi-
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fici o, a maggior ragione, di proprietà terriere: come vedremo, nel discorso pubblico ateniese è corrente l’assimilazione della terra a una madre, dalla quale sono nati all’alba della storia i più antichi abitatori della città; possedere una parte di quella terra sarebbe stato dunque per un meteco come usurpare una madre che non gli apparteneva. D’altra parte, la storia ha mostrato spesso come la necessità di una certa categoria per assicurare il funzionamento di un sistema economico o sociale non comporti necessariamente la sua accettazione, anzi rappresenti spesso la premessa di un atteggiamento fortemente discriminatorio: e i meteci sotto questo profilo non fanno eccezione. Regimi dispotici possono individuare nei meteci ricchi altrettanti obiettivi da colpire, allo scopo di incamerarne i cospicui patrimoni: fu proprio questo il caso di Lisia e della sua famiglia sotto il governo ultra-oligarchico dei cosiddetti Trenta tiranni, nell’ultimo scorcio del V secolo a.C. D’altro canto, se questo accade, è evidentemente perché il regime può contare su un certo consenso nel prendere di mira una categoria invisa a molti. Già mezzo secolo prima, in un dramma del grande tragediografo Eschilo, le Supplici, si legge che «nei confron-
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ti di un meteco ognuno ha una lingua pronta a pronunciare parole dure ed è facile ricorrere a espressioni di disgusto»: è vero che il dramma in questione riguarda, come di norma nel teatro ateniese, un remoto episodio del mito, ma quei versi vengono pronunciati pur sempre davanti a un pubblico che si presuppone in grado, se non di condividerli, quanto meno di ritenerli plausibili e soprattutto abituato a riconoscere dietro lo schermo delle vicende narrate sulla scena le concrete dinamiche della città reale. I meteci potevano anche non essere greci: e sempre più spesso non lo erano, specie a mano a mano che si avanza nel IV secolo a.C. Si trattava dunque a tutti gli effetti di barbari, come infatti le fonti li definiscono, pur se integrati nell’architettura sociale della polis e in qualche modo desiderabili come fonte di ricchezza, quella che producevano con il loro lavoro e quella che procuravano attraverso le tasse cui erano assoggettati. Al di fuori delle città che compongono il variegato tessuto della Grecia si estende invece il mondo dei barbari veri e propri, dei quali è giunto adesso il momento di occuparsi.
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2. Uomini che balbettano Talete di Mileto, considerato l’inventore della filosofia e incluso nel canone dei Sette savi, che comprendeva gli uomini più sapienti della Grecia, era solito dichiarare di sentirsi grato verso gli dèi per tre ragioni: essere nato uomo e non animale, maschio e non femmina, Greco e non barbaro. Una massima considerata abbastanza memorabile da fare la sua comparsa nell’ampia biografia di Talete che apre le Vite dei filosofi di Diogene Laerzio, vera e propria enciclopedia del pensiero greco, e che comunque veniva attribui ta negli stessi termini anche a Socrate. Non c’è che dire, Talete, che vive nel VI secolo a.C., non sembra preoccuparsi in alcun modo di quello che definiremmo oggi “politicamente corretto”: nella sua visione dicotomica del mondo, “uomo”, “maschio” e “Greco” appartengono tutti a una stessa colonna e si contrappongono alla sequenza parallela in cui trovano posto invece “animale”, “femmina” e “barbaro”. Proviamo allora anche noi a guardare più da vicino questo termine, che si affianca e si contrappone a xénos ed è onnipresente nel discorso greco sullo straniero. “Barbaro”, in greco bárbaros, designa tutte le popolazioni che non partecipano della comune identità greca. Sin dalle sue prime atte-
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stazioni, peraltro, questo termine non ha mai un valore meramente descrittivo: come direbbero i linguisti, esso non serve solo a denotare, ma anche a connotare, e dunque ad attribuire un valore – o, in questo caso, un disvalore – alla realtà che designa. Bárbaros è infatti un vocabolo onomatopeico, come il suo equivalente latino balbus, e indica propriamente chi non è in grado di pronunciare con chiarezza le parole, ma si esprime in una lingua incomprensibile, simile a un confuso bar-bar. Si tratta, beninteso, di un caso tutt’altro che isolato: gli Indiani Nahua chiamano “quelli che balbettano” i membri delle tribù vicine, ma anche “quelli che bramiscono come cervi”; il nome degli Ottentotti, un’etnia dell’Africa meridionale, vale propriamente “balbuzienti”; e moltiplicare gli esempi a livello etnografico non sarebbe difficile. Oltre tutto, in Grecia, anche qui in modo del tutto analogo a quello che accade in molte altre culture, il balbuziente è qualcuno che suscita il riso, il cui deficit evoca immediatamente l’immagine dello sciocco: ecco dunque che il barbaro, in quanto incapace di esprimersi correttamente, appare al tempo stesso anche ridicolo e stupido. Il secondo termine usato dai Nahua per definire i loro vicini, quello che assimila la loro par-
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lata al bramito di un cervo, suggerisce anzi una seconda connessione, anch’essa ben attestata nel mondo greco, quella che associa il linguaggio del barbaro al verso di un animale. In effetti, per i Greci le parole dei barbari potevano essere descritte come analoghe alle strida degli uccelli, un suono dunque inarticolato e oltre tutto decisamente sgradevole: in questo modo, chi le pronunciava veniva retrocesso a un livello che non solo lo escludeva dall’ambito della civiltà, ma ne faceva senz’altro un estraneo al mondo umano tout court. Ecco ad esempio come la regina Clitemnestra si rivolge alla prigioniera troiana che suo marito Agamennone ha portato con sé di ritorno dalla guerra, la sventurata Cassandra, nell’Agamennone di Eschilo, una tragedia andata in scena nel 458 a.C.: «Forse come una rondine conosce solo un’ignota lingua barbara». E più avanti, apostrofando direttamente la straniera: «se non capisci le mie parole e non intendi, fatti capire non con la voce, ma con le tue barbare mani!». «Sembra che la straniera abbia bisogno di un buon interprete», commenta a sua volta il coro della tragedia, «pare una bestia selvaggia da poco catturata». La lingua parlata da Cassandra è dunque simile al verso di una rondine. Non solo: secondo il mito, la rondine
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era originariamente una donna, la bellissima Filomela, alla quale però era stata tagliata la lingua, perché non rivelasse ad alcuno lo stupro del quale era stata vittima; ecco perché anche dopo la metamorfosi essa continua a esprimersi con suoni rochi e sgraziati. La lingua degli altri, quella parlata dai barbari, non è un linguaggio articolato, ma ricorda semmai il garrire di una rondine dalla lingua mozza o il verso scomposto emesso da una fiera appena caduta in trappola. Né le cose vanno diversamente nell’altro grande genere teatrale del V secolo, la commedia. In uno dei capolavori del poeta comico Aristofane, gli Uccelli, così si esprime ad esempio il protagonista Pistetero, riferendosi agli animali che danno il titolo alla pièce: «Io sono stato lungo tempo con loro, e, per quanto siano barbari, gli ho insegnato a parlare». Qui, da un lato, l’immagine che avevamo visto all’opera nel dramma di Eschilo viene rovesciata – non sono i barbari a esprimersi come uccelli, ma questi ultimi ad apparire incomprensibili come i barbari –, dall’altro fa la sua comparsa l’idea secondo cui “parlare” equivale di fatto a “parlare greco”, la lingua di Pistetero; con l’ovvio sottinteso che al di fuori del greco esiste solo un caotico mormorio o un incomprensibile caleidoscopio di suoni privi di senso.
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Va detto comunque che questo carattere espressamente derogatorio del termine bárbaros era ben chiaro agli stessi antichi. Strabone, un contemporaneo dell’imperatore Augusto del quale è giunta sino a noi una vasta opera geografica in diciassette libri, spiega ad esempio che bárbaros era usato con valore offensivo per designare quanti pronunciavano le parole in modo impastato e aspro; in prosieguo di tempo il termine aveva poi assunto un significato più vago, ma anche più complessivo, per indicare l’appartenenza etnica di tutti coloro che non erano greci. Dunque secondo Strabone lo straniero balbetta perché, quando parla greco, sembra che abbia la bocca impastata, mentre i suoni che emette sono percepiti come aspri: lo straniero è tale non tanto per il suo aspetto fisico, per il suo abbigliamento o ancora per i costumi che pratica e lo stile di vita che adotta, ma per un deficit legato all’uso della parola. Naturalmente, il passaggio da una connotazione puramente linguistica – il barbaro è colui che non si esprime in una lingua comprensibile e articolata – a una più generale svalutazione dello straniero è breve: ed ecco che nelle fonti greche i barbari sono descritti pressoché invariabilmente come brutali e violenti, incivili e rozzi;
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i loro costumi sono inaccettabili, essi ignorano le regole della vita associata, sono naturalmente servili e hanno un animo da schiavi. Di conseguenza, il loro rapporto con i Greci non può che essere contrassegnato da un’insanabile inimicizia, da una sorta di guerra permanente che non ha neppure bisogno di essere dichiarata, perché sussiste nei fatti e non conosce momenti di tregua. Ed è ancora una volta il teatro, questa straordinaria espressione della cultura ateniese di età classica, a rivelare nel modo più netto una simile percezione, ad esempio nei versi che il tragediografo Euripide, nella seconda metà del V secolo a.C., fa pronunciare sulla scena a Ifigenia, figlia di Agamennone: «è giusto, madre mia, che gli Elleni dominino sui barbari, non i barbari sugli Elleni: quelli sono schiavi, questi sono uomini liberi». Oltre tutto, queste parole sono proferite un attimo prima che la giovane principessa venga offerta in sacrificio per consentire alla flotta greca, bloccata dalla bonaccia nel porto di Aulide, di mettersi in mare alla volta di Troia: Ifigenia è dunque pronta a offrire la propria vita pur di consentire l’affermazione militare dei Greci, che dà compimento e realizzazione alla legge che ha enunciato nel suo discorso.
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Un secolo più tardi quelle stesse parole vengono citate con approvazione da Aristotele: per il grande filosofo, i barbari sono caratterizzati da un deficit antropologico così spiccato che nelle loro società non viene rispettata neppure la “naturale” superiorità del maschio sulla femmina, «come se per natura barbaro e schiavo fossero la stessa cosa». Prima di lui, il Menesseno attribuito a Platone contrapponeva la guerra combattuta fra Atene e Sparta nell’ultimo scorcio del V secolo a.C. a quelle che nei decenni precedenti avevano opposto Greci e Persiani, presto divenuti, questi ultimi, i rappresentanti per eccellenza della barbarie: per l’anonimo autore, quella tra città greche è una guerra per l’egemonia, che mira certo alla sconfitta dell’avversario, ma si mantiene pur sempre al di qua della soluzione estrema rappresentata dalla sua distruzione; al contrario, «contro i barbari si deve combattere fino ad annientarli». Questa idea è in effetti onnipresente nella cultura greca del IV secolo, in particolare nei decenni che precedono la campagna di invasione progettata e poi realizzata dalla Macedonia ai danni dell’impero persiano. Nella già citata Repubblica, il dialogo che Platone immaginava avvenuto nella residenza del meteco Cefalo,
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Socrate dichiara senza mezzi termini che il sentimento di amicizia e benevolenza verso i Greci è naturale tanto quanto lo è l’ostilità nei confronti dei barbari, al punto che la nozione di “guerra” dovrebbe applicarsi solo ai conflitti con questi ultimi: Se dunque i Greci combattono contro i barbari, e i barbari contro i Greci, diremo che si fanno la guerra e che sono nemici naturali, e questa inimicizia la definiremo, appunto, guerra. Ma quando i Greci si battono contro i Greci, diremo che per natura sono amici e che in tale circostanza la Grecia è ammalata e discorde, e questa inimicizia occorre definirla discordia.
Nei decenni successivi il motivo ritorna più volte negli influentissimi discorsi di Isocrate, sorta di maître à penser e di opinion maker del suo tempo, che sviluppano il tema dell’amicizia fra Greci contrapposta alla loro naturale ostilità verso i barbari. Ecco ad esempio come il retore si esprime in un’orazione composta all’incirca nel 340 a.C.: tenersi lontano dalle città greche era per loro [cioè per i Greci del secolo precedente] un principio irrinunciabile, come lo è per le persone più pie
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l’astenersi dai tesori di un tempio; ritenevano invece che l’unica guerra inevitabile e la più giusta fosse quella di tutti gli uomini uniti contro la ferocia delle belve, e in subordine quella dei Greci contro i barbari, che sono i nostri naturali nemici e ci infastidiscono continuamente.
In questa pagina è illuminante l’assimilazione delle città greche a templi sui quali sarebbe empio mettere le mani: il mondo ellenico ne risulta così in qualche modo sacralizzato, nel senso che gli viene riconosciuto uno statuto analogo a quello dei santuari e delle offerte agli dèi in essi custodite, con la conseguenza che chi lo aggredisce si rende colpevole di un vero e proprio sacrilegio. I barbari invece, intrinsecamente privi di questo carattere di sacralità, possono e devono essere sottomessi e schiacciati. In altri punti della sua vasta produzione, lo stesso Isocrate affermerà che la differenza di stirpe che esiste fra Greci e barbari è analoga a quella che oppone per natura uomini e animali; di conseguenza, la guerra contro i barbari è necessaria come quella condotta contro le bestie feroci, che non possono essere integrate o assimilate ma solo sterminate. Si torna così a contrapporre da un lato esseri umani e Greci, dall’altro barba-
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ri e animali: Talete, se avesse potuto ascoltare, sarebbe stato senza dubbio d’accordo. 3. Stranieri a Roma Questo per quanto riguarda il vocabolario dell’estraneità e della barbarie nel mondo greco; che cosa succede invece se spostiamo l’attenzione verso la cultura romana e la sua lingua? Il latino, diciamolo subito, ha a disposizione una parola molto antica, hospes, per esprimere uno dei significati del greco xénos, quello di “ospite”, mentre non possiede in origine un equivalente del greco bárbaros; e anche gli altri termini con i quali si indica lo straniero sembrano tracciare un panorama assai diverso da quello che emerge dalle testimonianze greche sulle quali ci siamo intrattenuti sin qui. Il non Romano può essere anzitutto designato con la parola advena, che indica in senso proprio colui che sopravviene, che arrivando dall’esterno si aggiunge (questo è il senso del prefisso ad-) a quanti già in precedenza abitavano un certo luogo, i suoi incolae (e qui è invece il prefisso in- a dare l’idea di un insediamento stabile). Abbiamo poi termini come externus o extraneus, “chi viene da fuori” o “chi appartiene allo spazio
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esterno”, alienus, “colui che è estraneo” in quanto proviene da un’altra realtà, e soprattutto peregrinus, certamente il termine latino più comune per indicare lo straniero (ma anche un rito, un’usanza e persino una divinità che giungano a Roma da fuori). Dal punto di vista etimologico, peregrinus è connesso al verbo peragrare, letteralmente “camminare attraverso i campi”, e mette dunque in luce la lunga strada percorsa dall’individuo che non appartiene al mondo romano e che in esso arriva da una realtà più o meno lontana. Infine, sappiamo che almeno nel latino più arcaico a questa già ricca costellazione di termini se ne aggiungeva un altro, hostis, che avrebbe in seguito assunto il significato di “nemico”, ma che indicava in origine lo straniero con il quale si intrattiene una relazione di scambio pari iure, fondata cioè sull’uguaglianza giuridica delle parti. Non a caso, questa parola è formata a partire da una radice che in latino indica appunto equivalenza: il verbo hostire significa infatti “pareggiare” e Hostilina si chiama la dea cui spettava di garantire che le spighe crescessero tutte della stessa altezza. Un simile valore in qualche modo privilegiato di hostis, del resto, si conserva a lungo nella tradizione romana e si coglie ancora nella riflessione giurisprudenziale
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di età tarda: gli esperti di diritto attivi sotto i Severi, all’inizio del III secolo d.C., spiegheranno infatti che hostes in senso proprio si definiscono solo i nemici cui la guerra è stata pubblicamente dichiarata secondo le regole, insomma, quelli contro i quali si combatte una guerra “giusta”, nozione che per i Romani riguarda assai più la sfera procedurale che non quella etica. Tutti gli altri sono invece latrones aut praedones, banditi e delinquenti comuni. L’hostis è senza dubbio un nemico, ma al tempo stesso anche qualcuno cui si riconosce sufficiente dignità da farne il partner di un’interlocuzione, sia pure orientata in ultima analisi al suo annientamento; contro gli altri invece non ci sono guerre, ma solo operazioni di polizia. Da tutto questo, appare evidente che i termini latini relativi allo straniero non implicano, almeno dal punto di vista linguistico ed etimologico, alcuna nuance valutativa o senz’altro stigmatizzante: si tratta, al contrario, di designazioni neutrali e puramente descrittive. Anche quello che diventa in prosieguo di tempo il termine più oppositivo fra tutti, hostis, sottolinea in origine piuttosto l’elemento dell’uguaglianza speculare che non quello dell’alterità. Tanto è vero che per esprimere i significati fortemente dispregiativi
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legati in greco alla nozione di bárbaros, i Romani hanno finito col prendere a prestito proprio quest’ultimo termine, trasferendolo di peso nella loro lingua con il minimo ritocco sufficiente a fargli assumere la veste di un aggettivo latino, barbarus: segno che evidentemente nessuno dei vocaboli di cui disponevano era già carico di quelle medesime valenze. Nelle sue attestazioni più antiche, anzi, la vicinanza di questo termine all’uso che ne facevano i Greci è tanto spinta che barbarus può riferirsi ai Romani stessi: è quello che succede quando il grande commediografo Plauto, attivo fra III e II secolo a.C., chiarisce nei prologhi delle sue pièces di aver tradotto barbare, cioè «in lingua latina», copioni che erano originariamente scritti in greco, o quando lo stesso Plauto adotta la locuzione poeta barbarus (un doppio prestito, perché anche il primo termine proviene dal greco poietés) per riferirsi con ogni probabilità al suo collega Gneo Nevio. Inoltre, è significativo il fatto che barbarus in latino non sia usato mai in riferimento a quanti quella categoria avevano originariamente elaborato: per i Romani i Greci sono stranieri, ma non barbari. In effetti, l’atteggiamento nei confronti dei Greci rimane complesso e ambivalente lungo
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tutto l’arco della storia intellettuale di Roma. Il prestigio della lingua e della cultura ellenica è naturalmente fuori discussione: la celebre affermazione di Orazio sulla «Grecia conquistata» che «conquistò il selvaggio vincitore» si riferisce espressamente all’ambito letterario. Assai precoce è però anche la definizione di uno stereotipo del Graeculus, il Greco da quattro soldi, che ricorre spesso nella già citata produzione comica di Plauto: un chiacchierone vanesio e inconcludente, perso nei suoi libri e imbelle in guerra, moralmente sospetto quando non senz’altro depravato, impiccione e astuto, compiacente per interesse e bugiardo per natura. E sempre in Plauto verbi come congraecari o pergraecari, letteralmente “vivere alla maniera dei Greci”, presentano una chiara sfumatura peggiorativa e alludono a uno stile di vita improntato a un trionfo di cibo, vino e sesso. D’altra parte, tutto questo ricorre in testi che, sia pure largamente rimaneggiati, derivano pur sempre da copioni greci, tradotti e adattati alla scena romana: gli stessi commediografi che nei loro versi deridevano i Greci, insomma, ne conoscevano perfettamente la lingua e la cultura. Non c’è dubbio, peraltro, che Plauto esprimesse nelle forme proprie della commedia un
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atteggiamento di ostilità diffuso in una parte almeno della classe dirigente romana. Fu in particolare il suo sanguigno contemporaneo Catone, uomo politico, generale e storico di assoluto spicco, a condurre una sua personale battaglia contro i saperi provenienti dalla Grecia: in una pagina rivolta al figlio, Catone si dichiara certo che i Greci «hanno giurato di uccidere tutti i barbari con la loro medicina», precisando subito appresso che «chiamano comunemente barbari anche noi, anzi, ci definiscono in modo ancora più offensivo “Osci”», con riferimento a una popolazione dell’Italia meridionale che anche agli occhi dei Romani, a dire il vero, era spesso additata come l’icona della rozzezza. E nel corso del II secolo a.C. si susseguono le cacciate di filosofi e maestri di retorica, visti come altrettanti corruttori di giovani e percepiti alla stregua di un pericolo per la “sana” moralità indigena. In uomini come Cicerone, profondamente imbevuti di cultura greca, il giudizio è naturalmente più equilibrato; in ambito politico, però, i Romani si sentono sufficientemente forti da postulare, se non la propria autonomia, quanto meno la capacità di perfezionare modelli altrove difettosi, come proprio Cicerone fa dire a uno degli interlocutori del dialogo Sulla repubblica,
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Scipione Emiliano: «se consideri i progressi del nostro regime politico […] capirai che anche quanto è stato ricavato da altri presso di noi è diventato molto migliore di com’era nel suo luogo di origine». La medesima convinzione è espressa in termini generali da Cicerone nel proemio della sua opera filosoficamente più impegnata, le Discussioni di Tuscolo: «la mia idea è sempre stata questa: che o noi, da soli, abbiamo scoperto tutto con più sapienza dei Greci, o, se lo abbiamo ricavato da loro, lo abbiamo reso migliore». Il paradosso consiste semmai nel fatto che questa affermazione ultra-nazionalista deriva proprio da una fonte greca: nell’Epinomide, della cui paternità platonica i moderni dubitano ma che gli antichi attribuivano senz’altro al grande filosofo, si afferma infatti che «qualsiasi cosa i Greci hanno preso dai barbari, lo hanno reso migliore portandolo sino alla perfezione». Cicerone, insomma, deride i Greci con le loro stesse parole. In Virgilio, infine, il tormentato rapporto con la cultura greca sembra approdare a un punto di equilibrio. Nei celebri versi pronunciati al centro esatto dell’Eneide da Anchise, quando Enea scende fino al regno dei morti per avere un’interlocuzione con lui, ai Greci (mai men-
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zionati, ma chiaramente allusi nelle parole del vegliardo) viene serenamente riconosciuta l’eccellenza nel campo delle arti figurative, delle scienze, dell’uso della parola, ma per i Romani si rivendica nulla di meno che il dominio del mondo, in una sorta di consensuale e definitiva ripartizione dei compiti tra le due culture. Non si trattò peraltro dell’ultima parola. Nelle velenose satire di Giovenale, scritte tra I e II secolo d.C., torna a più riprese l’idea di una Roma invasa e stravolta dalla onnipresenza dei Greci, che scalzano dal favore dei potenti i cittadini de souche, quelli che hanno respirato da bambini l’aria dell’Aventino e si sono nutriti di olive sabine, accaparrandosi le posizioni migliori grazie alla loro incoercibile tendenza al servilismo e all’adulazione. Di lì a poco un nuovo provvisorio equilibrio sarà legato alla figura di un imperatore squisitamente “filelleno” come Adriano, al quale non a caso Marguerite Yourcenar farà dire, nelle celebri Memorie, di aver governato l’impero in latino, ma di aver vissuto e pensato in greco. In ultimo, a partire dalle riforme di Diocleziano, sullo scorcio del III secolo, l’impero si divide in un Occidente e un Oriente sempre più lontani l’uno dall’altro, sul piano linguistico e presto anche su quello religioso,
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e avviati infine a destini molto diversi. Eppure, le sorti delle “parole per dirlo” non sono mai lineari. Dopo il crollo dell’Europa nelle mani dei “barbari” di stirpe germanica, nella seconda metà del V secolo d.C., gli abitanti dell’impero superstite, che faceva perno intorno alla capitale Costantinopoli, continueranno ancora a lungo a definire sé stessi Romani (o meglio, con parola greca, Rhomaîoi, “Romei”) e a percepirsi come null’altro che la metà di un intero infranto, mentre “greco” – una circostanza paradossale, in un’area dove si parlava comunemente questa lingua – diventa spesso un sinonimo di “pagano”, caricandosi una volta di più della sfumatura nettamente dispregiativa che quasi un millennio prima gli aveva attribuito Plauto.
II La spartizione del mondo
1. Omero senza barbarie Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, nell’Iliade di Omero, il testo più antico della letteratura greca, i Troiani non appaiono caratterizzati da alcuna particolare alterità rispetto agli Achei che sono venuti a combatterli. I due popoli parlano una sola lingua, si riconoscono negli stessi modelli culturali, fanno proprie le medesime gerarchie di valori; abiti e armature sono simili, l’aspetto esteriore appare del tutto analogo, la bellezza è un tratto che qualifica gli eroi e le donne di entrambi gli schieramenti. Persino il pantheon è comune ai due popoli: i Troiani non venerano divinità proprie e distinte da quelle dei loro nemici, e a spartire i loro favori fra i due popoli in lotta sono i medesimi dèi dell’Olimpo, riconosciuti come tali dagli uni e dagli altri. Così, quando nel sesto canto del
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poema Ettore incontra all’interno delle mura la madre Ecuba, la esorta a salire con le altre anziane al tempio posto sulla rocca della città e a pregare la dea Atena di avere «pietà di Troia, delle mogli e dei figli bambini / dei Troiani», recandole in dono uno splendido peplo. Le donne presentano dunque la stessa offerta che in età storica gli Ateniesi usavano consacrare alla divinità durante la festa delle Panatenee. Dipende probabilmente da questa sostanziale analogia il fatto che in Omero non compaia mai il termine “barbaro”, sul quale ci siamo soffermati nelle pagine precedenti: un’assenza talmente vistosa da essere rilevata e discussa, verso la fine del V secolo a.C., dal grande storico Tucidide, all’interno della memorabile sintesi di storia greca arcaica che apre la sua Guerra del Peloponneso. Tra l’altro, risulta per noi molto interessante il modo in cui Tucidide giustifica questa assenza: a suo dire, Omero non adopera il vocabolo «perché neanche gli Elleni si erano ancora caratterizzati con un unico termine che si opponesse agli altri popoli». Dunque, la nozione di Greco e quella di barbaro nascono insieme, e quest’ultima non ha ragione di esistere se non in quanto si contrappone all’altra: se in Omero i barbari non compaiono, è perché non compaio-
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no neppure i Greci, o almeno questi ultimi non sono ancora dotati di un nome che li comprenda nella loro totalità, ma vengono chiamati di volta in volta, come osserva ancora Tucidide, Danai, Argivi o Achei. Una bellissima riflessione, quella dello storico ateniese, circa il modo in cui prende corpo una categoria che nasce sin dall’inizio come relazionale e dialettica. Va detto peraltro che un’eccezione all’assenza del termine “barbaro” in Omero c’è ed è relativa a un contingente di alleati dei Troiani, quello dei Cari, provenienti dall’area dell’Asia Minore intorno a Mileto e definiti dal poeta barbaróphonoi, «dalla parlata barbara»: come abbiamo visto nel capitolo precedente, lo statuto di inferiorità dello straniero si manifesta in primo luogo sul piano linguistico, in un deficit che attiene al campo dell’espressione verbale. Inoltre, di uno dei due comandanti delle truppe carie, Anfimaco, Omero racconta che va in guerra coperto d’oro come una donna, sciocco, che l’oro non lo salvò dalla morte crudele, cadde sotto i colpi del rapido Achille.
Fa così la sua prima comparsa nella letteratura occidentale il cliché del barbaro le cui armi
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scintillanti e preziose si contrappongono allo scarso valore militare: una combinazione che capiterà di incontrare altre volte nel corso delle prossime pagine. Va poi detto che la specularità fra Achei e Troiani, a guardare bene, non è poi così perfetta. È al troiano Priamo, ad esempio, che Omero attribuisce una sorta di poligamia priva di paralleli tra i suoi nemici greci, dal momento che dei cinquanta figli del re solo diciannove sono nati dalla legittima moglie Ecuba: un tratto di lunghissima durata nella rappresentazione dei sovrani orientali da parte della cultura europea, che giunge sino ai sultani dell’impero ottomano e ai loro harem. Inoltre, mentre nelle scene di battaglia gli Achei appaiono solitamente silenziosi e compatti, disciplinati e pronti a obbedire alle indicazioni dei loro capi, i Troiani sono descritti invece a più riprese come in preda alla confusione e al disordine, per via della molteplicità di lingue in uso nel loro composito esercito: anche in questo caso, si tratta di un elemento che resterà costante nella rappresentazione dei barbari e del loro modo di combattere. Quelli che abbiamo segnalato restano però tutto sommato aspetti minori, che Omero si guarda bene dall’enfatizzare e che non alterano in misu-
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ra significativa la sostanziale analogia tra i due schieramenti. Nell’Odissea il quadro rimane largamente simile; se incontro con l’alterità c’è, all’interno del secondo grande epos omerico, esso non riguarda tanto i popoli stranieri che pure vengono menzionati, dai Fenici agli Egizi, ma si realizza ai margini del mondo, attraverso esperienze collocate al di sotto o al di sopra, in ogni caso al di fuori della comune misura umana. Estremamente indicativo, in questo senso, è il ben noto racconto relativo ai Ciclopi, abitatori di un mondo alla rovescia, tutto segnato, anche sul piano grammaticale, da una fitta trama di negazioni che ne fanno l’antitesi speculare di un’ordinata società politica: i Ciclopi di Omero non praticano l’agricoltura, non si dedicano alla navigazione, non hanno città né assemblee, non osservano la giustizia né riconoscono gli dèi, ignorano modelli culturali universalmente accettati nel mondo greco, come quelli che disciplinano e ritualizzano la pratica dell’ospitalità, gli stessi che abbiamo richiamato nel capitolo precedente, o impongono di temperare il vino mescolandolo con l’acqua. Quanto a Polifemo, il mostro che tiene a lungo prigioniero Odisseo è rivestito di pelli animali, si dedica a un’attività
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squisitamente pre-culturale come la pastorizia e consuma una bevanda come il latte, alimento naturale e “selvaggio”, non sottoposto ad alcuna forma di manipolazione umana e in quanto tale attribuito spesso dall’etnografia antica al regime alimentare dei popoli più primitivi. Al polo opposto rispetto al mondo di Polifemo si colloca invece la società dei Feaci, nella quale Odisseo approda in quella che si rivelerà essere l’ultima tappa del suo tormentato ritorno in patria. Non solo gli orti e i frutteti del re Alcinoo rappresentano il contraltare della fecondità spontanea e disordinata che segna l’isola dei Ciclopi, ma questo popolo è caratterizzato altresì dalla commensalità con gli dèi, un privilegio del quale tutti gli uomini godevano all’alba della loro storia ma che rimane ormai accessibile loro soltanto nella forma imperfetta e mediata del sacrificio animale: una commensalità trasversale e condivisa che si colloca a sua volta in antitesi con il pasto solitario e cannibalico di Polifemo. Per non parlare poi dell’esperienza dell’altrove assoluto, dell’alterità non integrabile costituita dal regno dei morti, cui Odisseo accede durante il suo soggiorno nella remota regione dei Cimmeri. In Omero il mondo degli uomini «mangiatori di pane», come vengono chiamati proprio nel
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contesto dell’avventura tra i Ciclopi, si definisce insomma ritagliandosi un proprio spazio nel vuoto lasciato dagli estremi che ne costituiscono la negazione; ma è un mondo che non sembra presentare al proprio interno particolari segmentazioni e contrapposizioni. Non è insomma a Omero che dobbiamo rivolgerci per cogliere la nascita, nel mondo greco, di una visione negativa dello straniero; anche se in prosieguo di tempo la guerra di Troia che quel poeta aveva così potentemente raccontato verrà interpretata come il primo atto di un confronto fra civiltà e barbarie destinato a segnare i successivi secoli della storia greca. 2. L’invenzione dell’Oriente Perché si manifesti in Grecia una riflessione sull’identità, propria e altrui, era necessaria l’esperienza – esaltante e sconcertante al tempo stesso – delle guerre persiane, lo shock dell’incontro diretto e drammatico con una realtà come quella dell’impero che aveva il suo cuore nella regione della Mesopotamia. Si trattò di un lungo conflitto, combattuto in due ondate successive nei decenni iniziali del V secolo a.C.: entrambe videro l’affermazione delle forze gre-
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che coalizzate sotto l’egida di Atene e Sparta, che riuscirono a imporsi contro ogni previsione su un nemico assai più corposo numericamente, frustrandone per sempre i progetti di espansione nella penisola ellenica. Ed è appunto a partire dagli anni immediatamente successivi a questa guerra epocale che la cultura greca si interroga sulle ragioni della vittoria inattesa e matura una visione del mondo persiano, e orientale in genere, come caratterizzato da un’alterità radicale rispetto a quello dei Greci. Nel 472 a.C., a brevissima distanza dalla conclusione del conflitto, l’opposizione insanabile fra Europa e Asia percorre interamente i Persiani di Eschilo, l’unica tragedia antica relativa a un episodio storico che sia giunta sino a noi: nel sogno della regina persiana Atossa, madre di Serse, con cui si apre l’azione del dramma, i due continenti appaiono come altrettante sorelle, ma dalle attitudini ben diverse, dal momento che l’Asia si acconcia di buon grado alle briglie che le impone l’impero del grande re, mentre l’Europa, assegnata in sorte alla stirpe ellenica, recalcitra fino a strappare il morso e a spezzare il giogo. Più avanti Atossa chiede ai dignitari persiani che formano il coro informazioni su Atene, città-guida della resistenza greca contro
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l’invasione – in quale parte della terra si trovi, quanto numerosi siano i suoi eserciti e soprattutto chi sia il re che li governa – e rimane non poco sbigottita nel sentirsi rispondere che gli Ateniesi «Di nessun uomo si dichiarano schiavi, di nessun uomo sudditi». L’opposizione torna in termini non dissimili nell’opera di Erodoto, i cui nove libri culminano appunto nel racconto delle guerre persiane. Nel serrato dialogo che oppone l’esule spartano Demarato e il re Serse, che si accinge a guidare l’immenso corpo di spedizione persiano, l’accento è posto in primo luogo sulle differenze politiche fra i due paesi: da un lato, il libero mondo delle città greche, con le sue comunità piccole ma coese, con un sistema politico che coinvolge l’individuo e lo motiva a condividere le sorti collettive, con la sua rigorosa osservanza della legge, temuta e rispettata più che se si trattasse di un tiranno; dall’altro, invece, una società, quella persiana, verticistica e dispotica, segnata dalla subordinazione di tutti all’autorità di un sovrano che è il solo detentore del potere e di conseguenza il solo a trarre vantaggio da un’eventuale affermazione militare. Pressappoco negli stessi anni in cui Erodoto moriva, intorno al 430 a.C., il motivo della dif-
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ferenza tra regimi politici come chiave per definire l’identità greca in contrapposizione a quella asiatica viene ulteriormente sviluppato in un contesto decisamente inatteso. Si tratta di un testo anonimo intitolato Arie, acque e luoghi e compreso nel cosiddetto corpus ippocratico, che racchiude l’insieme delle opere giunte a noi sotto il nome del grande medico di Cos (e attribuibili in realtà a lui solo in minima parte). Il tema portante del breve ma denso trattatello è il rapporto causale tra l’ambiente geografico – nel suo senso più ampio: clima, paesaggio, venti, acque sorgive e così via – e la tendenza allo sviluppo di determinate patologie. In questo contesto, però, l’autore lascia spazio anche a considerazioni di ordine più generale circa le caratteristiche peculiari che distinguono l’Europa, da lui identificata sostanzialmente con la sola Grecia, e l’Asia, anch’essa coincidente in ultima analisi con l’impero persiano. La tesi dell’anonimo medico si può sintetizzare così: il clima della Grecia, mutevole e ricco di variazioni, stimola gli ingegni, aguzza l’intelligenza, addestra ad affrontare difficoltà e disagi, mantiene in costante esercizio la mente e promuove dunque il valore guerriero dei suoi abitanti; al contrario, le condizioni climatiche dell’Asia, tendenzialmente uniformi,
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inducono una sorta di inerzia che costituisce il corrispettivo psicologico di quella uniformità, finiscono per svilire corpi e animi, producono un generalizzato benessere la cui contropartita negativa è rappresentata da un’estrema indolenza in guerra. Sono i primi vagiti di un paradigma scientifico destinato a grande fortuna nel pensiero etnografico antico, che punta a stabilire un rapporto tra le caratteristiche dell’ambiente e le attitudini psicologiche di quanti quell’ambiente condividono: una dottrina che i moderni hanno definito “determinismo geo-climatico” e della quale ci capiterà ancora di occuparci nelle prossime pagine. In Arie, acque e luoghi, però, a questa spiegazione se ne affianca un’altra di ordine politico, nella quale sembra di avvertire l’eco della lezione di Eschilo e di Erodoto: Non è solo per queste ragioni [quelle, appunto, legate al contesto ambientale] che, a mio parere, gli Asiatici sono imbelli, ma anche a causa delle istituzioni politiche. La maggior parte dell’Asia è governata da re, e dove gli uomini non sono padroni di se stessi, autonomi, ma dipendono da un padrone, non pensano ad addestrarsi alla guerra, ma fanno di tutto per non sembrare bellicosi.
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Ben diverso è infatti il rischio: a loro naturalmente viene imposto di partecipare a spedizioni militari, faticare e morire per i padroni, lontano dai figli, dalla moglie, dalle altre persone care. Da tutte le azioni nobili e valorose che compiono, i padroni ricavano ulteriore ricchezza e potenza; loro invece ricavano pericoli e morte. […] E così, anche se uno è di sua natura valoroso e coraggioso, la sua mente viene deviata dalle istituzioni.
Ben altrimenti stanno invece le cose nel mondo delle libere città greche: Chi invece è indipendente (e perciò affronta i pericoli a proprio vantaggio, non per altri), coraggiosamente e di propria volontà va incontro al pericolo, è lui stesso che riporta il premio della vittoria. È così che le istituzioni politiche influiscono sul valore in misura non trascurabile.
Ecco dunque i due paradigmi esplicativi – quello che chiama in causa i regimi politici e quello climatico – combinarsi tra loro a disegnare il profilo di un mondo orientale popolato, da un lato, da tiranni, dall’altro, e proprio per questo, da popoli imbelli e fiacchi. Con queste premesse, l’affermazione della Grecia al termine delle guerre persiane riceve una spiegazione che al
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tempo stesso la giustifica e la iscrive in un più generale ordine della natura. Nel secolo successivo, il germe fecondo del l’operetta ippocratica viene sviluppato nella Politica di Aristotele, il trattato in otto libri che raccoglie i corsi tenuti dal grande filosofo presso la scuola del Peripato, da lui fondata ad Atene: I popoli che abitano nelle regioni fredde e in Europa sono pieni di energia e coraggio, ma di intelligenza e abilità tecnica insufficienti, per cui vivono più liberamente, ma senza organizzazione politica e incapaci di dominare i popoli vicini. I popoli dell’Asia hanno sì doti intellettuali e tecniche, ma sono privi di coraggio, per cui si trovano continuamente in soggezione e schiavitù altrui. Ma la stirpe greca, trovandosi geograficamente in mezzo, partecipa di ambedue i caratteri ed è infatti sia coraggiosa che intelligente, sicché conduce una vita libera ma è anche politicamente organizzata nella maniera migliore, e in grado di dominare tutta l’umanità se trova una forma unitaria di organizzazione statale.
Come si vede, in questa limpida pagina aristotelica il tratto della differenza fra regimi politici contrapposti viene ancora menzionato, ma il suo valore esplicativo sembra perdere peso rispetto
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a quanto accadeva in Arie, acque e luoghi: l’elemento decisivo, non a caso ricordato dal filosofo in apertura del passo, è costituito adesso dai fattori climatici, dei quali la diversità politica rappresenta semmai una conseguenza. Soprattutto, lo schema binario che opponeva Europa e Asia si arricchisce qui di un elemento terzo e centrale, in coerenza con tutta l’impostazione del pensiero aristotelico, e in particolare con la sua teoria che identifica la virtù in un giusto mezzo fra due eccessi ugualmente viziosi. S’intende che l’idea secondo cui la Grecia occupa nel disco della terra la posizione centrale è assai più antica di Aristotele: già il mito raccontava come Zeus, volendo conoscere quale fosse il centro del mondo, avesse lanciato un giorno due aquile in volo dagli estremi opposti del cielo e di come queste ultime si fossero incontrate sulla verticale dell’oracolo di Delfi, in un punto segnalato nell’area del santuario da una pietra chiamata omphalós, “ombelico”. Non c’è dubbio però che nella Politica questo motivo tradizionale assuma un significato nuovo: la centralità della Grecia spiega infatti perché i suoi abitanti mostrino un perfetto equilibrio tra le caratteristiche, potenzialmente divergenti, del coraggio e dell’intelligenza; inoltre, essa costituisce
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il punto di mediazione fra due eccessi (regioni troppo fredde vs. regioni troppo calde, Europa vs. Asia), secondo un modulo ternario che ricorre ovunque, come abbiamo accennato, nel pensiero aristotelico. Infine, ai nostri occhi appare particolarmente suggestiva l’ultima frase, in cui il filosofo prospetta una possibile egemonia universale dei Greci subordinandola alla capacità da parte loro di superare le frizioni e le divergenze che da sempre li dividono. Le parole di Aristotele sembrano infatti alludere all’imminente, o forse coeva, spedizione asiatica di Alessandro il Macedone, del quale lo stesso filosofo era stato precettore, avviata nel 334 a.C. e destinata a concludersi dieci anni dopo con la conquista greco-macedone degli immensi territori persiani. Quella spedizione, sulla quale avremo modo di tornare nel corso del nostro libro, tradurrà in atto l’auspicio espresso dalla Politica e ricomporrà la frattura tra Oriente e Occidente nel segno di un’identità unificata dalla cultura del “centro” ellenico. Contemporaneamente, lo straordinario prestigio del pensiero aristotelico consacrerà definitivamente i dogmi del determinismo geoclimatico: ancora due secoli e quel modello sarà pronto a migrare in un nuovo contesto culturale,
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quello romano, e ad assolvere anche lì la funzione di giustificare un progetto di egemonia universale non troppo dissimile da quello concepito e praticato a suo tempo da Alessandro. 3. Spostare il centro del mondo Il mediatore di questo passaggio coincide probabilmente con un filosofo greco, Posidonio di Apamea o di Rodi, attivo nella piccola isola dell’Egeo nella prima metà del I secolo a.C. e molto vicino agli ambienti dell’élite romana, ormai padrona del Vicino Oriente. Di Posidonio abbiamo purtroppo solo frammenti, ed è un peccato, perché molti di essi mostrano spiccati interessi etnografici: Posidonio aveva viaggiato molto e osservato bene, trasferendo poi nelle sue opere il frutto dei propri soggiorni nelle terre dei barbari. A lui, soprattutto, si ispira con ogni probabilità una pagina del trattato Sull’architettura di Vitruvio, risalente forse alla tarda età augustea. Eccola: Là dove il sole effonde moderatamente il proprio calore, lì conserva anche i corpi temperati; e dove invece, passando più vicino alla Terra, la fa bruciare, arde e consuma la giusta mescolan-
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za di umidità. Al contrario nelle zone più fredde, più distanti dal Sud, l’umidità non è assorbita dai raggi caldi, ma l’aria rugiadosa, facendo fluire dal cielo l’umidità nei corpi, produce corporature più grandi e toni di voce più gravi. Perciò le popolazioni che vivono a nord sono caratterizzate da enorme statura, carnagione chiara, capelli dritti e fulvi, occhi azzurri e sangue abbondante grazie alla grande umidità e al freddo dell’atmosfera. Quanti invece si trovano più vicini all’equatore e immediatamente sotto l’orbita del Sole, hanno per la forza del calore solare corpi più piccoli, colorito più scuro, capelli crespi, occhi neri, gambe forti e sangue scarso. […] Benché le popolazioni meridionali abbiano mente acutissima e straordinaria ingegnosità, appena devono affrontare imprese che richiedono energia vengono meno, perché il Sole ha succhiato loro la forza d’animo; quanti nascono invece nelle regioni fredde sono più facili all’ardore guerresco, sono dotati di grande valore e non provano alcuna paura, ma per la loro lentezza mentale attaccano senza riflettere e inoltre, mancando di ingegnosità, vengono frustrati nei loro disegni. […] L’Italia, a metà tra Nord e Sud, grazie al mescolarsi dell’una e dell’altra parte ha prerogative di insuperato equilibrio. Pertanto spezza l’impeto dei barbari con l’intelligenza, con la forza fisica le astuzie dei meridionali. Perciò la mente divina ha collocato
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il popolo romano in una zona eccellente e temperata, perché conquistasse il dominio del mondo.
In questa pagina il modello geo-climatico, del quale abbiamo seguito il primo affiorare nella cultura greca, mostra un’accresciuta capacità di rendere conto della complessità del mondo. In primo luogo, le variazioni climatiche sono invocate per giustificare le differenze tra i popoli del Nord, audaci ma sconsiderati, e i popoli del Sud, intellettualmente raffinati ma militarmente fiacchi: una contrapposizione la cui matrice risale, come ben sappiamo, al pensiero etnografico di Aristotele. A quelle variazioni si connettono inoltre una serie di tratti somatici, che vengono interpretati alla luce di una cornice esplicativa in grado di darne ragione in modo unitario: così la pelle scura degli Africani, legata alla loro vicinanza al sole, o i capelli rossicci dei Germani, che dipendono invece da un eccesso di umidità. Infine, come già accadeva in Aristotele, anche per Posidonio-Vitruvio sono le zone centrali del mondo quelle che godono di una posizione privilegiata, grazie al perfetto equilibrio tra caldo, freddo, umido e secco che in esse si realizza e al quale corrisponde un bilanciamento altrettanto ottimale di intelligenza e valore, senno e
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audacia. Solo che questo centro non corrisponde più al mondo greco, ma all’Italia in generale e a Roma in particolare, al vertice di un impero che negli anni in cui veniva composto il trattato sull’architettura aveva esteso il suo dominio e insediato le sue truppe da un capo all’altro del Mediterraneo. Non solo: Vitruvio afferma esplicitamente che la posizione della città non è il frutto del caso, ma il prodotto di una ben precisa volontà soprannaturale. È stata infatti la mente divina a collocare Roma al centro del mondo, allo scopo di propiziarne l’ascesa militare e porla alla testa di tutti i popoli conosciuti. Anche in Vitruvio, dunque, il modello geo- climatico mostra una spiccata declinazione politica: esso è chiamato a spiegare in termini scientifici, in quanto tali apparentemente neutrali e inoppugnabili, l’egemonia dei Romani e la loro capacità di imporsi vittoriosamente sui nemici più diversi. Così, un dato squisitamente storico come quello dell’imperialismo romano viene naturalizzato e ricondotto all’influsso determinante di condizioni oggettive e immodificabili. Ancora pochi decenni e il modello torna, in termini non dissimili, nella Storia naturale, la grande enciclopedia composta da Plinio il Vecchio negli anni Settanta del I secolo d.C.:
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Quanto alle zone intermedie, lì, per una salutare mescolanza dei due estremi, vi sono terreni fertili per ogni produzione, dimensioni moderate dei corpi e un notevole equilibrio anche nel colorito, costumanze addolcite, sensibilità limpide, intelligenze feconde e capaci di affrontare ogni aspetto della natura; queste genti hanno grandi dominazioni, come non ne hanno mai possedute i popoli delle zone più esterne, i quali, del resto, non hanno mai dovuto sottomettersi ad esse, emarginati come sono, e immersi nella solitudine per l’inquietante oppressione della natura.
Il modello geo-climatico percorre ancora una lunga strada nei secoli finali del mondo antico; piuttosto che seguirne ulteriormente il tragitto, tuttavia, prima di concludere questo capitolo è più interessante chiedersi se le sue categorie trovino applicazione nelle concrete descrizioni dei popoli con i quali l’impero entra in contatto, e spesso in conflitto, nella sua espansione, anche se per forza di cose sarà qui possibile solo fornire una breve esemplificazione. Tra i popoli del Nord, sono senza dubbio i Galli quelli dei quali i Romani hanno avuto più diretta e continua esperienza, in occasione delle ripetute incursioni in Italia centrale nella prima età repubblicana, quindi delle campagne di
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espansione nella pianura padana e infine della decisiva spedizione condotta da Cesare direttamente nel loro territorio durante gli anni Cinquanta del I secolo a.C. In effetti, nelle fonti latine i Galli appaiono caratterizzati da un set di tratti e comportamenti che si ripropongono con la stabilità e la frequenza di altrettanti stereotipi: i loro corpi sono imponenti e massicci, caratterizzati da pelle chiara e capelli fulvi, ma al tempo stesso anche flaccidi e molli, inadatti a sopportare la fatica, il caldo o la sete; le loro armi sono più appariscenti che efficaci, secondo un modulo che appare per la prima volta, come abbiamo visto, nella rappresentazione omerica del principe cario Anfimaco; i loro eserciti incutono il terrore per l’abitudine di innalzare grida di guerra che stordiscono e intimidiscono gli avversari. I Galli sono insofferenti alla disciplina militare e prediligono l’azione individuale all’attacco in schiere compatte; appaiono incapaci di dosare le forze e distribuirle lungo l’intero corso della battaglia; di conseguenza, la loro aggressività si esaurisce tutta nel primo urto, superato il quale non è difficile averne ragione e volgerli in fuga; la propensione all’ira ne offusca le già deboli capacità di analisi razionale, mentre la loro audacia fa conto solo sulla prestanza fisi-
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ca e risulta dunque in ultima analisi inefficace o persino controproducente. I Galli insomma esprimono al tempo stesso una forma imperfetta di valore guerriero e un deficit di cultura, intesa come un processo di addomesticamento di potenzialità naturali che rischiano, lasciate a sé stesse, uno sviluppo disordinato e casuale. La loro è una forza senza disciplina, una natura rigogliosa ma priva di arte, che li condanna alla sconfitta di fronte alla superiore organizzazione dei Romani. Tutto il contrario si verifica per i popoli meridionali, che possiamo qui esemplificare attraverso il caso dei Cartaginesi, anch’essi, al pari dei Galli, ben noti ai Romani sin dagli albori della storia repubblicana, sullo scorcio del VI secolo a.C., e sino alla distruzione totale della loro città, avvenuta alla metà del II. Abbiamo visto come, nello schema proposto da Vitruvio, alle genti del Sud venga riconosciuta una spiccata sottigliezza intellettuale, sia pure associata alla mancanza di valore guerriero. Nel caso dei Cartaginesi, questo tratto assume la veste peculiare dell’astuzia e della menzogna: la locuzione Punica fides, “slealtà cartaginese”, diviene presto un nesso formulare che qualifica la tendenza dei nemici di Roma alla frode e al mendacio.
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Essa è legata certo allo statuto dei Punici come mercanti, in quanto tali assuefatti all’imbroglio e all’uso suadente e ingannevole della parola, ma conosce poi una sua manifestazione anche in ambito militare, dove si risolve in una sistematica tendenza a ingannare l’avversario, a violare la parola data, a infrangere giuramenti e accordi per mero tornaconto personale. Infine, vale la pena di osservare che nel mondo romano – anche qui sulla scorta di precedenti che non è difficile reperire nelle fonti greche – alla dialettica fra popoli del Nord e popoli del Sud se ne associa una seconda, articolata secondo l’opposizione alto/basso. Così, le genti di montagna, come Sanniti e Liguri, sono caratterizzate da un’asprezza che deriva loro dall’ambiente in cui vivono, avaro di prodotti e tale da abituarli a una vita di stenti e alla fatica di domare un contesto riottoso alla presenza umana, che sviluppa in esse un carattere aggressivo e bellicoso. Al contrario, le città stanziate in pianure fertili sono ricche grazie alla generosità della terra, ma la stessa bellezza dei luoghi, insieme all’ampia disponibilità di beni, imprimono nei loro abitanti i tratti dell’arroganza e della mollezza. Ed è interessante che anche lungo questo nuovo asse Roma finisca per godere i
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benefici della medietà: i colli su cui sorge la città, spiega Cicerone elogiando la sapienza di Romolo, rappresentano infatti un’opzione “centrista” che concilia tanto l’opposizione fra alto e basso (i colli sono il punto medio fra la pianura e la montagna), quanto quella fra interno ed esterno (l’Urbe non sorge sul mare, ma neppure troppo lontana da esso). Eroi fondatori non si diviene per caso, e costruire un impero è anche una questione di giuste distanze.
III Declinazioni dell’identità
1. Le regole dell’eccezione Un uomo anziano si avvicina all’oracolo di Delfi, tra le montagne della Focide, il santuario più venerato dell’intero mondo mediterraneo. Non reca nulla con sé, se non il necessario per compiere un sacrificio in onore del dio venerato in quel luogo da tempo immemorabile. Dopo il rito, l’uomo rivolge ad Apollo una sola domanda: vuole sapere se le leggi che ha stabilito per la sua città siano buone e capaci di assicurarne la prosperità, e in particolare di promuovere il valore guerriero dei suoi abitanti. Per una precisa volontà dell’uomo, quelle leggi non sono state messe per iscritto, ma proclamate e diffuse in forma orale; siamo del resto in un’epoca molto arcaica della storia greca, forse il IX secolo a.C., nella quale la scrittura è ancora un’eccezione e il sapere, anche quello che riguarda
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il diritto, circola normalmente passando “dalla bocca all’orecchio”, come si dice. Ma il dio, al quale nulla è ignoto, avrebbe potuto giudicare ugualmente. In effetti, la risposta non tarda ad arrivare: le leggi sono buone e la città che si accinge ad adottarle è destinata a gloria imperitura, a patto che non cessi mai di servirsene. Non occorreva sapere altro: l’uomo compie un nuovo sacrificio, quindi si congeda dagli amici e dal figlio, che lo hanno accompagnato tra quelle montagne, e si lascia morire di fame, la morte nobile e incruenta prediletta dagli aristocratici e dai sapienti. Prima di partire, aveva fatto giurare agli Spartani suoi concittadini che non avrebbero abrogato neppure una delle sue disposizioni fino a quando non fosse tornato da Delfi; ora faceva in modo che quella condizione, il suo ritorno in patria, appunto, non si realizzasse mai e che dunque gli Spartani rimanessero vincolati per sempre al loro giuramento. Così il biografo greco Plutarco, attivo fra I e II secolo d.C., racconta gli ultimi momenti della vita di Licurgo, il legislatore al quale la città di Sparta attribuiva tradizionalmente la sua costituzione. E in effetti agli occhi dei Greci, come più tardi dei Romani, quella città rimase per lunghissimo tempo un modello di buon
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governo, un esempio di regime ben temperato, nel quale ceti e gruppi erano adeguatamente rappresentati e partecipavano all’esercizio del potere in misura conforme al loro rango, oltre che un paradigma inarrivabile di virtù militare. A noi della complessa costruzione di Licurgo interessa però un aspetto peculiare, quello del rapporto con il mondo esterno alla città, e a questo riguardo possiamo ancora prendere a prestito le parole di Plutarco: [Licurgo] non permise loro neppure di recarsi o di viaggiare all’estero a proprio piacimento, e di contrarre così abitudini straniere e di imitare norme politiche diverse e costumi di genti prive di educazione. Anzi espelleva da Sparta coloro che senza alcuna utilità si ammassavano e confluivano nella città […] perché non fossero maestri di qualche vizio. Insieme a persone straniere è fatale che sopraggiungano anche idee straniere, e nuove idee apportano nuovi modi di giudicare, dai quali è inevitabile che nascano molti sentimenti e propositi discordanti con il sistema politico esistente, il quale è come un’armonia. Per questo riteneva necessario vigilare che la città non si riempisse di cattivi costumi ancor più che di persone infette provenienti dall’esterno.
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Non c’è che dire, Licurgo aveva una visione piuttosto scoraggiante del contatto con idee, punti di vista e sistemi di valori diversi da quelli condivisi a Sparta: un simile fenomeno assumeva anzi ai suoi occhi l’aspetto del contagio, si presentava alla stregua di un’infezione non dissimile da quella che potrebbe verificarsi per la presenza in città di corpi malati. D’altra parte, nella cultura greca una simile visione è tutt’altro che limitata alla costituzione di Licurgo: la città ideale descritta nelle Leggi, l’opera della vecchiaia di Platone che deve moltissimo proprio alla suggestione del miraggio spartano, disterà dal mare ottanta stadi, pur disponendo di un porto, e questa circostanza viene rilevata con approvazione dagli interlocutori del dialogo, poiché, a loro giudizio, è inevitabile che il mare predisponga ai commerci e determini dunque un contatto potenzialmente pericoloso con gli stranieri. Un’idea che sarà ripresa nel mondo romano da Cicerone, all’interno di un’opera, La repubblica, che a Platone è largamente ispirata e nella quale, tra l’altro, si esalta la scelta romulea di fondare Roma ben lontana dal mare: le città che sorgono sulla costa, infatti, sviluppano inevitabilmente «una particolare tendenza alla corruzione e al mutamento dei costumi», dal momento che «nuove lingue e nuo-
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vi modi di vivere» si mescolano agli antichi e che insieme alle merci vengono importate anche le usanze straniere, con il risultato che «niente può rimanere integro nelle loro istituzioni». Inoltre, Platone spiega che nessun abitante della città sarà autorizzato a viaggiare all’estero prima dei quarant’anni, se non per adempiere un incarico pubblico o recarsi presso i grandi santuari panellenici: il presupposto implicito è che solo un uomo adulto, e ormai compiutamente formato dal minuzioso sistema educativo della città, avrà una tempra morale abbastanza solida da non lasciarsi corrompere dai modelli sub-ottimali o decisamente disfunzionali cui sarebbe esposto viaggiando al di fuori di essa. Le Leggi aggiungono anzi un ulteriore precetto, rivolto a quanti tornano in patria dopo aver partecipato ai sacrifici oppure agli agoni panellenici, come le ben note Olimpiadi: una volta rientrati, spiega Platone, tutti costoro «insegneranno ai giovani che le istituzioni degli altri relative alla costituzione sono inferiori alle loro». L’esperienza dell’alterità, insomma, per quei pochi che vi sono ammessi, serve solo a confermare la bontà della propria cultura; l’inferiorità dello straniero, prima ancora che essere frutto della diretta osservazione, è un dogma stabilito già in anticipo dalla legge.
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In testi di questo genere, che riguardino la Sparta storica o la città ideale delle Leggi, sembra emergere una sorta di autarchia etica, l’immagine della società ben governata come di un’isola di perfezione che occorre in primo luogo preservare dal rapporto inevitabilmente contaminante con il mondo esterno, sia impedendo o limitando l’uscita dalla città dei suoi privilegiati abitanti, sia vietando a quanti non vi appartengono di entrare in contatto con essi. E certo non è un caso che le utopie letterarie, compresa quella di Thomas More che ha dato il nome al genere, siano così spesso collocate proprio in contesti insulari. Alla base vi è dunque l’idea di una purezza che coincide con l’assenza di mescolanze e va preservata dal contatto con elementi estranei; d’altra parte, è vero anche che agli occhi di Licurgo o di Platone si tratta di una purezza più politica che etnica. Lo straniero, in altri termini, è pericoloso non in quanto portatore di caratteri che lo rendano intrinsecamente inferiore, o perché appartenente a un’etnia stigmatizzata, come di norma accade nelle moderne xenofobie, ma in quanto vissuto e cresciuto all’interno di contesti educativi e istituzionali che non ne hanno propiziato l’armonico sviluppo. È una visione che inserisce l’individuo nel contesto della città
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e ne fa l’oggetto di un’assidua pedagogia civica che concorre in misura decisiva alla costruzione della sua identità, in quanto tale perfettamente coerente con gli orizzonti così squisitamente politici della cultura greca. All’incirca nello stesso anno in cui Platone nasceva, alle periodiche “cacciate degli stranieri” praticate a Sparta (il greco le definisce xenelasíai) faceva riferimento anche l’ateniese Pericle, nel celebre discorso in onore dei caduti nella guerra del Peloponneso pronunciato nel 430 e tradizionalmente considerato una sorta di manifesto della democrazia greca, anche se il nome della città nemica in quel contesto non viene fatto esplicitamente. Noi, afferma in quella occasione il grande leader politico, non impediamo a nessuno straniero di vedere o imparare qualcosa, non pratichiamo la xenelasía, ma anzi «offriamo la nostra città in comune» a chiunque voglia visitarla. All’isolazionismo identitario degli Spartani, Pericle contrappone insomma l’idea ateniese di una città aperta, che si porge in libera fruizione a chi desideri farne esperienza, benché non manchi anche qui l’idea di una superiorità della polis attica, come si desume dal fatto che chi la visita lo fa per apprendere qualcosa che ignora. Siamo naturalmente
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nel contesto di una guerra in corso, e dunque l’esaltazione di sé in polemica con l’avversario è parte integrante di un discorso volto, tra l’altro, a rinsaldare la compattezza e la motivazione dei cittadini di fronte a un conflitto che si annuncia lungo e sanguinoso. Ma le cose stanno poi davvero come affermava Pericle? 2. La coda del serpente Chi osservasse un vaso greco che rappresenta uno dei più antichi re di Atene, Cecrope o Erittonio, non tarderebbe ad accorgersi di una singolare particolarità: le immagini che raffigurano quei venerandi sovrani attribuiscono loro un corpo ibrido, pienamente umano nella sua parte superiore ma terminante all’estremità in basso con una lunga coda di serpente. Una simile soluzione iconografica, apparentemente bizzarra, ha in realtà una spiegazione precisa: essa vuole alludere al fatto che i primi re della città erano emersi dal suolo stesso dell’Attica, la regione in cui sorge Atene. Di Erittonio, ad esempio, si diceva che fosse stato concepito quella volta che il dio Efesto aveva cercato invano di possedere Atena, la vergine per eccellenza nel pantheon greco: mentre la dea fuggiva di fron-
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te al suo poco gradito molestatore, che essendo zoppo faticava a raggiungerla, questi aveva sparso il proprio seme sulla coscia di Atena, che se ne era detersa con un batuffolo di lana; e proprio dalle gocce di liquido cadute nel terreno era stato concepito il futuro re. Da qui deriva dunque la scelta figurativa del serpente, animale “ctonio” per eccellenza, in quanto strettamente legato al suolo sul quale striscia: tanto che la medesima caratteristica – la forma serpentina degli arti inferiori – era attribuita anche ai “figli della terra” per definizione del mito greco, i primordiali Giganti, partoriti alle origini del mondo da Gea e Urano. In effetti, quello dell’autoctonia, dell’essere cioè nati “dalla terra stessa” nella quale si risiede, secondo il significato del termine greco, è uno dei miti più tenaci dell’immaginario ateniese e torna con particolare insistenza nella letteratura e nella pubblicistica del tardo V e poi del IV secolo a.C., fino a diventare un ingrediente fisso nella rappresentazione di sé di quella cultura. Aristotele, del resto, lo aveva detto nella sua Retorica: l’oratore che voglia tessere l’elogio di una città, dovrà ricordare per prima cosa proprio la lunghissima permanenza dei suoi abitanti nel medesimo territorio, o, se
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possibile, la loro autoctonia, perché è dal possesso di queste caratteristiche che un popolo ricava la propria nobiltà. E non si può dire che i retori suoi contemporanei non abbiano recepito i precetti del grande filosofo. Il Panegirico, l’ampia e impegnativa allocuzione che l’oratore Isocrate, già menzionato nel capitolo precedente, aveva tenuto in occasione dei giochi olimpici del 380 a.C., è occupato ad esempio in misura significativa da un elogio di Atene e dall’esposizione delle ragioni che rendono la città attica degna di esercitare l’egemonia sul resto della Grecia, e in questo contesto proprio il motivo dell’autoctonia gioca un ruolo di primo piano: Noi infatti abitiamo la nostra terra senza aver dovuto cacciarne altri, senza averla occupata deserta e senza essere un miscuglio raccogliticcio di popoli diversi. Al contrario, la nostra stirpe è così bella e pura che noi possediamo da sempre la terra dalla quale siamo nati, in quanto siamo autoctoni e possiamo perciò rivolgerci alla città con gli stessi nomi con cui ci rivolgiamo ai nostri congiunti più stretti. Solo a noi infatti fra i Greci è lecito chiamarla al tempo stesso nutrice, padre e madre. Bisogna dunque che quanti ragionevolmente si vantano, aspirano giustamente all’egemonia ed
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evocano spesso le rispettive tradizioni, possano mostrare una simile origine per la propria stirpe.
Va detto che in questa appassionata rivendicazione dell’eccellenza ateniese Isocrate pone le cose in termini per noi piuttosto interessanti: l’oratore osserva infatti che mentre per tutti gli altri Greci espressioni come “terra madre” o “patria” hanno un valore puramente metaforico, per significare che il luogo nel quale si è nati è simile a una madre o a un padre per i suoi abitanti, gli Ateniesi, al contrario, sono i soli a poter impiegare queste locuzioni nel loro significato più letterale. Essi infatti sono concretamente emersi dal suolo dell’Attica, non diversamente da come potrebbe fare lo stelo di una pianta o il tronco di un albero, e la terra assume per loro lo statuto di un grande utero che li ha dati alla luce alle origini della storia. È stato osservato con grande acume che quello dell’autoctonia, ad onta della sua apparenza così fortemente “identitaria”, è in realtà un mito democratico, strettamente connesso cioè all’affermazione di quel peculiare regime politico che si dispiega ad Atene proprio a partire dalla metà del V secolo e che, con vari correttivi, resta sostanzialmente in vigore per quasi tutto
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il successivo. Proprio nel momento in cui ridimensiona fortemente il potere dei grandi clan aristocratici, che si facevano discendere da questo o quel dio o eroe e fondavano su una simile rivendicazione genealogica il loro privilegio di ceto dominante, la cultura ateniese concede a tutti, in modo generalizzato, una nobiltà superiore come quella che nasce appunto dalla comune origine autoctona. Ma se questo è vero, non meno significativi sono gli effetti che una simile premessa comporta nel campo delicato e decisivo della cittadinanza e di quanti sono ammessi a fruirne. Se infatti gli Ateniesi sono autoctoni, se sono figli dell’Attica, in quanto discendenti dei primi abitatori della regione che dal suo ventre erano venuti alla luce, se sono i soli fra i Greci a poter chiamare in senso proprio “madre” la terra nella quale risiedono, questo significa che cittadini ateniesi si può solo essere, non diventare: la condizione di possedere una certa madre può infatti darsi solo come originaria, non la si può acquisire in un secondo momento. Non a caso, le norme che regolano l’accesso alla cittadinanza vengono modificate in senso restrittivo proprio a partire dalla metà del V secolo, in parallelo con l’affermarsi del mito dell’autoctonia e con
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l’avviarsi del regime democratico al suo punto di massimo compimento: se fino ad allora era sufficiente che il solo padre del nuovo nato fosse cittadino ateniese, di lì in avanti fu invece richiesto che tale statuto appartenesse anche alla madre. Tra l’altro, a promuovere una simile misura fu quello stesso Pericle che in Tucidide esaltava Atene presentandola come la città che «si offre in comune a tutti», in contrapposizione alla xenofobia spartana. I medesimi presupposti ispirano del resto anche la politica ateniese di concessione della cittadinanza ai membri di altre città: anch’essa è improntata infatti a un criterio di estrema parsimonia, al quale si deroga solo in momenti di crisi estrema o di immediato pericolo per la sopravvivenza della città. Così accade ad esempio nella fase finale della guerra contro Sparta, allorché la prospettiva ravvicinata di una disastrosa sconfitta per mano dei nemici, alleati con il re di Persia, induce ad ammettere in blocco nel novero dei cittadini gli abitanti di Samo, l’isola rimasta fedele all’impero marittimo ateniese lungo tutte le traversie del trentennale conflitto. Dionigi di Alicarnasso, uno storico che scrive quando l’intero mondo greco è finito ormai sotto il controllo di Roma, non esita anzi a esprimere
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proprio a questo riguardo il suo biasimo contro Spartani e Ateniesi (cui aggiunge i Tebani, un altro popolo al quale il mito accreditava un’origine autoctona): la politica perseguita da tutti costoro, che faceva della cittadinanza un bene così gelosamente custodito da rendere di fatto eccezionale la sua condivisione, era per Dionigi tra le cause che avevano determinato il collasso della Grecia. I Romani, al contrario, avevano costruito il proprio impero sull’accoglienza dei vinti e sulla loro progressiva cooptazione all’interno del corpo civico, e questo era senza dubbio uno dei segreti che ne spiegavano la strepitosa affermazione. Un’osservazione, quella di Dionigi, che induce anche noi a spostare il nostro sguardo sulle rive del Tevere. 3. I figli dell’asilo Abbiamo aperto il paragrafo precedente evocando i più antichi re di Atene, con la loro coda di serpente che ne indicava lo strettissimo legame con la terra; ora è giunto il momento di vedere in che modo i Romani abbiano a loro volta pensato le proprie origini più remote. In realtà, quello romano è un racconto stratificato, specie se vogliamo risalire a quanti si dice-
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va avessero abitato il sito dei sette colli prima che sorgesse in quei luoghi la città: qui si erano succeduti nel corso del tempo il principe greco Giano, divenuto poi il signore degli inizi, forse proprio per via di quella sua posizione incipitaria tra i frequentatori dell’area lungo il Tevere, poi il dio Saturno, scacciato dall’Olimpo e sceso a cercare rifugio nel Lazio, gli Aborigeni, che secondo alcuni arrivavano dalla Sabina, secondo altri erano niente meno che i superstiti del diluvio universale, il greco Evandro, esule dall’Arcadia e primo fondatore di una città sul Palatino, e infine, il più importante fra tutti, Enea, giunto con la sua pattuglia di profughi troiani all’epoca in cui regnava su quelle terre Latino, discendente di Saturno. A tutti costoro, tuttavia, possiamo qui dedicare solo il più fuggevole degli sguardi: la nostra attenzione deve infatti concentrarsi più da vicino sulla figura di Romolo, figlio del dio Marte e di una sacerdotessa, Ilia o Rea Silvia, a sua volta discendente più o meno diretta di Enea, e precisamente sul momento in cui il fondatore si accinge a tracciare sulla cima del Palatino il solco che dovrà delimitare i confini della nuova città. Prima di procedere a questa complessa operazione rituale, Romolo compie in effetti
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qualcosa di estremamente interessante. Ecco come si esprime a questo proposito il greco Plutarco, che abbiamo già ricordato per la biografia da lui dedicata allo spartano Licurgo: venne scavata una fossa circolare intorno all’attuale Comizio, nella quale furono deposte offerte votive di tutto ciò che risultava adatto secondo le consuetudini e necessario secondo natura. Infine ogni abitante portò una piccola porzione della propria terra d’origine e la gettò nella fossa, mescolandola insieme con le altre. Chiamano questa fossa con lo stesso nome con cui indicano il cielo: mundus. Poi circoscrissero la città, descrivendo un cerchio tutt’attorno a questo punto centrale.
Che cosa fanno dunque Romolo e i suoi uomini in questo momento cruciale che precede immediatamente la nascita della nuova città? Nella profonda apertura che hanno scavato nel terreno, insieme alle cose “adatte” e “necessarie” essi gettano anche le zolle che ciascuno reca con sé e che provengono dalle diverse regioni di cui sono originari; subito dopo, il cumulo così ottenuto viene mescolato in modo da ricavare una terra omogenea, nella quale le diverse porzioni sono fuse insieme. Il significato del rito sembra evidente: dal momento stesso che ne sancisce
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l’ingresso nella storia, Roma si presenta come una città mista, plurale, composita, e tale è a partire dal suo sostrato materiale, dalla concreta terra sulla quale saranno poi edificate le case e i templi dell’Urbe. La città nasce dal contributo di molti, ma al tempo stesso questa iniziale molteplicità viene superata e trascesa nella creazione di una nuova unità, in cui i singoli apporti risultano ormai indistinguibili. Per questo è stato giustamente detto che il mito delle origini di Roma si oppone frontalmente a quello che gli Ateniesi raccontavano sulla loro storia più antica e che anche noi abbiamo ripercorso nelle pagine precedenti: se in Attica è la terra a generare gli uomini, sul Palatino, invece, sono gli uomini a generare la terra. Ma la nostra storia è ben lontana dal finire qui. Quando il solco è stato finalmente tracciato, le mura innalzate e l’intera città sembra un gigantesco cantiere che vede sorgere in ogni dove strade, case, templi, edifici pubblici, Romolo non tarda infatti a rendersi conto che i Romani sono pochi, troppo pochi per le ambizioni di una città che il suo fondatore ha voluto costruire sulla misura della sua auspicata grandezza. Il re prende allora la decisione di istituire sul Campidoglio, in una radura posta tra due cortine di
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bosco, un asilo, una zona franca aperta a quanti, per le ragioni più diverse, vorranno convergervi ed essere così ammessi, senza ulteriori formalità, allo statuto di cittadini romani. L’accesso all’asilo non prevede alcun requisito preliminare ed è virtualmente aperto a chiunque. L’idea si rivela immediatamente un successo: in breve tempo il luogo si riempie di schiavi fuggitivi, debitori insolventi, banditi, gente che ha conti in sospeso con la giustizia o dal passato comunque torbido, semplici avventurieri che vogliono lasciarsi alle spalle una vita insoddisfacente e tentare la sorte in un contesto, quello della Roma nascente, che appare pieno di promesse per chi sia alla ricerca di una seconda possibilità. È una simile massa, composita per provenienza geografica, estrazione sociale e statuto personale, a costituire il nucleo della più antica cittadinanza, ed è questa una circostanza della quale i Romani non persero mai del tutto memoria: all’inizio del II secolo d.C., il velenoso poeta satirico Giovenale ricordava agli aristocratici dei tempi suoi, che amavano ostentare i loro interminabili alberi genealogici, come riavvolgendo all’indietro il filo della loro nobiltà si sarebbe finito in ultimo per trovare «un pastore, o qualcosa che preferisco non menzionare
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neppure», con riferimento proprio agli uomini confluiti tanto tempo prima nell’asilo di Romolo. Veniamo infine a un momento che, nella cronologia delle origini, si colloca appena pochi mesi dopo la nascita di Roma. L’Urbe è ormai una realtà, la spregiudicata iniziativa del fondatore ne ha consentito il rapido popolamento, ma perché la sua storia possa mettersi definitivamente in cammino c’è qualcosa di essenziale che ancora manca. A cercare rifugio nell’asilo è stata infatti una massa certo vasta, ma esclusivamente maschile: Roma è priva di donne e in questa situazione non può sperare di sopravvivere alla generazione di quanti hanno preso parte alla sua fondazione o ad essa si sono aggregati subito appresso. La nuova crisi è affrontata da Romolo con la consueta determinazione: il Lazio dell’VIII secolo a.C. pullula di borghi e villaggi, abitati da Sabini, Latini o Etruschi, e in tutti il re invia i propri ambasciatori a ripetere la medesima richiesta, quella di mescolare la stirpe e il sangue, cedendo ai Romani le loro donne. Ovunque, però, l’ambasceria di Romolo è accolta con sufficienza, se non con aperto disprezzo: nessuno vuole saperne di imparentarsi con quegli uomini venuti dal nulla e di affidare le proprie figlie a gente con trascorsi oscuri, se
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non decisamente impresentabili. Il fondatore decide allora di mutare strategia e di ricorrere a un abile dosaggio di forza e di astuzia: invita gli abitanti dei centri vicini per assistere a un grande sacrificio, cui si accompagneranno gare atletiche e corse di cavalli; quando poi la massa dei visitatori, confluiti in gran numero, si è raccolta nell’area dove sarebbe sorto un giorno il Circo Massimo, Romolo ordina ai giovani romani di rapire le ragazze presenti allo spettacolo. Fu così che vennero celebrati a Roma i primi matrimoni: con donne straniere, latine e sabine, anche se sono state solo queste ultime a dare il nome al celebre ratto, promosse però immediatamente al rango di madri dei futuri cittadini. Quella mescolanza che non si era potuta realizzare consensualmente, per via dell’ottusa chiusura dei vicini, viene procurata con un atto di forza. Al ratto segue una guerra, che espone l’esercito romano appena costituito alla sua prima prova sul campo di battaglia; la città è sul punto di capitolare, non mancano episodi di tradimento e intelligenza con il nemico, ma alla fine i belligeranti giungono a un accordo che non solo riconosce la situazione di fatto, ma apre anche ai Sabini che lo avessero voluto la possibilità di trasferirsi a Roma, rendendo anco-
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ra più variegato il già composito tessuto etnico della nuova città. I passaggi salienti della parabola biografica di Romolo, insomma, per non parlare della scelta di un remoto capostipite troiano o dei racconti sui successivi visitatori giunti nel Lazio da terre lontane, cui abbiamo solo fugacemente accennato, appaiono legati da un vistoso filo rosso: tutti contribuiscono infatti a sottolineare come i Romani rappresentino una razza mista, un’entità etnicamente e culturalmente ibrida, ben lontana dal possedere quella nobiltà e quella purezza di sangue che gli Ateniesi rivendicavano attraverso il mito dell’autoctonia. Tutto al contrario, quando pensavano le proprie origini i Romani si immaginavano come radicalmente “eteroctoni”, discendenti di uno straniero e cresciuti attraverso plurimi e successivi innesti di genti anch’esse straniere. Al tempo stesso, quei racconti lasciavano emergere quello che un grande studioso contemporaneo di Roma antica ha felicemente definito lo «stile» della sua storia, e cioè un’idea dinamica, porosa e permeabile dell’identità, vista come una rete a maglie larghe, continuamente ridefinita dall’immissione di apporti nuovi e incline a legittimare pienamente una simile pluralità.
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Ma i miti, e quelli che riguardano le origini più di tutti gli altri, non sono racconti neutrali: essi offrono un fondamento alle scelte praticate in età storica dalle culture che li hanno elaborati. In questo senso, il confronto fra le storie circolanti nel contesto ateniese e quelle diffuse invece nel mondo romano dà conto del modo assai diverso in cui queste due grandi città hanno affrontato la questione del rapporto con lo straniero. Se infatti gli Ateniesi sviluppano una nozione dura e densa della cittadinanza, legata a un dato estremamente concreto come la comune origine dalla terra dell’Attica, la cultura romana, al contrario, smaterializza quella nozione, facendone un costrutto giuridico non vincolato ad alcuna precisa spazialità, ad alcun suolo fisicamente inteso. Un cittadino romano può non essere nato a Roma, anzi di norma non lo è, al limite può non esserci mai stato lungo l’intero corso della sua vita: la locuzione «sono un cittadino romano», che ne rivendica orgogliosamente lo statuto, definisce infatti un complesso di diritti la cui titolarità è del tutto slegata da qualsiasi luogo di nascita, appartenenza territoriale o scelta residenziale. È un meccanismo che consente a ogni abitante dell’impero di sentirsi figlio della propria patria locale, legato alle sue
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tradizioni e magari partecipe della sua vita politica, e al tempo stesso cittadino di una comunità più vasta, senza che le due affiliazioni entrino in conflitto o addirittura in contraddizione l’una con l’altra. Il mito delle origini elaborato dalla cultura romana, al pari di quello greco dell’autoctonia ma con un orientamento decisamente opposto, serve perfettamente allo scopo di fondare questa idea e questa pratica della cittadinanza: Atene è solo degli Ateniesi, sin dai tempi più remoti, e gli Ateniesi sono da sempre i suoi soli abitatori; Roma invece è di tutti, e lo è sin dal momento in cui l’area del suo insediamento storico viene popolata in successione promiscua da dèi profughi e principi in esilio, eroi viaggiatori e comunità di errabondi, richiedenti asilo e senza patria, e proprio per questo non è di nessuno in via esclusiva. Questa vicenda ha un epilogo, molto lontano dall’epoca remota delle origini, ma che vale la pena di raccontare prima di chiudere definitivamente il nostro capitolo. Nell’anno 48 d.C., quando sullo scranno più alto di Roma siede l’imperatore Claudio, accade che alcuni notabili della Gallia chiedano di essere ammessi fra i membri del Senato, la grande assemblea che ha ormai perso gran parte delle prerogative di cui
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godeva in età repubblicana, ma conserva intatto il suo prestigio di vertice supremo del sistema costituzionale romano accanto al principe. Ecco perché per le élites locali vedere propri rappresentanti fra i banchi del Senato rappresenta una sorta di agognato punto d’approdo, il segno dell’avvenuta integrazione ai massimi livelli del potere: ed è questo appunto il senso della richiesta avanzata dai Galli, ormai assoggettati da un secolo all’impero e protagonisti di un processo di romanizzazione che si è rivelato nel loro caso particolarmente rapido ed efficace. A dire il vero, la proposta suscita resistenze e opposizioni. Qualcuno protesta affermando che era già duro veder sedere in Senato Insubri e Veneti, provenienti da aree della pianura padana che solo in tempi relativamente recenti erano state ammesse al pieno godimento della cittadinanza, perché si potesse accettare adesso di trovarsi accanto i Galli; e che l’Italia non era poi così esausta da non essere in grado di fornire all’impero i suoi quadri dirigenti, come accadeva da tempo immemorabile. Altri parlano di una massa di stranieri appena fuoriusciti da una condizione di schiavitù e pronta adesso a infiltrarsi minacciosamente al vertice del sistema, e per fare leva sulle paure dei loro colleghi non
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esitano a evocare la remota occupazione gallica di Roma, più antica di quattro secoli e mezzo. In una circostanza di questo genere, Claudio sceglie di non imporre autoritativamente il proprio punto di vista, ma di scendere nell’arena accanto agli altri senatori: ad essi tiene infatti un memorabile discorso, che noi abbiamo la fortuna di conoscere non solo attraverso la ricostruzione dello storico Tacito, ma dalle parole stesse che il principe volle incidere nel marmo ed esporre pubblicamente nelle città più importanti della Gallia, tra le quali Lione, dove nel Cinquecento ne venne ritrovato un esemplare. Il discorso di Claudio è un limpido manifesto dell’atteggiamento romano verso gli stranieri. Il principe, come si addice all’esponente di una grande schiatta aristocratica, prende le mosse dalla storia della sua famiglia, quella dei Claudi, appunto, che era di origine sabina e venne accolta nell’Urbe solo in coincidenza con l’instaurazione della repubblica, negli ultimi anni del VI secolo a.C., quindi ricorda come un’origine straniera avessero anche i Giuli, la famiglia di Cesare, che venivano da Alba Longa, o i Porci Catoni, oriundi invece di Tuscolo. Più tardi, in parallelo con l’ampliarsi dell’impero, a entrare in Senato erano stati i Transpadani, poi gli Spa-
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gnoli e infine gli stessi Galli della Narbonense, la fascia costiera corrispondente grosso modo all’attuale Provenza, in omaggio alla medesima visione che induceva a mettere al servizio di Roma le migliori energie dell’impero, quale che fosse la loro origine. A questo punto, Claudio prospetta ai suoi ascoltatori il medesimo raffronto che anche noi abbiamo sviluppato nelle pagine precedenti, comparando l’atteggiamento di apertura dei Romani con quello ben diverso tenuto da Spartani e Ateniesi: questi ultimi erano stati certo in grado di costruire vasti imperi regionali, grazie alla loro potenza militare, ma quegli imperi si erano dimostrati fragili ed effimeri, e ciò era accaduto per nessun’altra ragione se non per il fatto di considerare gli altri Greci come se fossero «gente appartenente a un’altra razza». Alienigenae, dice precisamente Tacito per esprimere quest’ultimo concetto, e il termine non è scelto a caso: all’inizio del passo, quando riferiva delle resistenze opposte da una parte dei senatori all’ingresso dei Galli nell’assemblea, alienigenae era il vocabolo con cui quei senatori avevano definito gli sgraditi postulanti. Il messaggio è chiaro: un atteggiamento di chiusura rischia di minare la grandezza di Roma e di incrinare il suo
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impero non meno di quanto era accaduto a suo tempo per le fugaci egemonie a guida ateniese o spartana. Tutto al contrario, conclude il principe, «il nostro fondatore Romolo si dimostrò a tal punto saggio da considerare, spesso nella stessa giornata, i medesimi popoli prima nemici e poi concittadini». È questo lo stile della storia di Roma: una scelta come quella patrocinata da una parte dei senatori – è il sottinteso di tutto il discorso di Claudio – finirebbe per tradire la vocazione più autentica e genuina della città. S’intende che non vogliamo qui proporre alcuna visione oleografica della parabola storica di Roma, presentandola come una gloriosa vicenda di generose aperture e aggregazioni indolori. È vero, al contrario, che ogni estensione della cittadinanza gronda sangue, in quanto frutto delle guerre che ne sono la premessa e delle vittorie che ne rappresentano il presupposto, essendo in ogni epoca la cittadinanza stessa non un diritto del vinto ma una concessione discrezionale del vincitore. E così accade anche nel caso che approda in Senato sotto il principato di Claudio. E tuttavia, pur con queste restrizioni e precisazioni, i mille anni successivi a Romolo, se osservati nelle grandi linee, vedono la progressiva creazione di uno spazio comune sempre più vasto e
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relativamente pacifico al suo interno. Di questo spazio la città di Roma è al tempo stesso la sintesi e l’icona: negli stessi anni in cui ha luogo il dibattito in Senato di cui abbiamo dato conto, il filosofo Seneca la descrive in una pagina memorabile come una metropoli multietnica e multiculturale, popolata da uomini provenienti da ogni angolo del mondo. «Tutto è mescolanze e innesti», proclama in quel contesto Seneca, e intanto evoca non a caso la figura dell’esule Enea, che di una simile vocazione all’apertura e all’inclusione era stato al tempo stesso il fondatore e il primo beneficiario. Quando il processo avviato con l’istituzione dell’asilo di Romolo giunse a compimento, all’inizio del III secolo d.C., tutti gli abitanti di un impero che si estendeva senza soluzione di continuità dall’Egitto alla Britannia e dalla penisola iberica alla Siria condividevano la stessa condizione giuridica ed erano accomunati dal godimento del medesimo status di cittadini, in quella che possiamo definire la prima globalizzazione della storia. Non è poco, per una vicenda iniziata il giorno remoto in cui la nave che trasportava Giano calò la sua ancora ai piedi dei sette colli.
IV
Stranieri speciali
1. Mostri dei margini La penetrazione dell’armata di Alessandro negli immensi territori dell’impero persiano e fino alla penisola indiana, dove le truppe grecomacedoni arrestarono infine la loro avanzata, non fu solo una straordinaria impresa militare: ad essa si accompagnò anche un immenso lavoro di raccolta di informazioni, che riguardava il mondo delle piante e degli animali, ma anche quello degli uomini e dei popoli. Soldati che non erano usciti sino ad allora dalle montagne della loro terra o dalle mura delle loro città si trovarono improvvisamente di fronte territori sterminati, civiltà venerande, genti di cui non avrebbero mai sospettato l’esistenza o della cui esistenza avevano solo informazioni vaghe e di seconda mano. Le opere scritte per dare conto
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di questa inedita avventura intellettuale sono andate in gran parte perdute, ma testimoniano in ogni caso l’ampliarsi degli orizzonti prodotto dal contatto con un mondo nuovo, non troppo dissimile da quello sperimentato dagli Europei dopo la scoperta del continente americano, mentre il moltiplicarsi delle osservazioni empiriche disegnava un quadro etnografico assai più mosso e sfaccettato di quanto il comodo schema aristotelico delle tre zone della terra potesse contenere. Tra le aree raggiunte dalle truppe di Alessandro, è in particolare l’India a suscitare l’attenzione di naturalisti, esploratori, storici: del resto, quell’immenso e remoto paese esercitava da sempre un fascino prepotente agli occhi dei Greci, come scrigno di una sapienza antichissima e al tempo stesso come spazio dominato da una natura lussureggiante e colma di meraviglie. Così, le opere di Indiká, o Cose dell’India, che vedono la luce in quei decenni oscillano fra la descrizione etnografica e la raccolta di mirabilia che ambiscono a suscitare lo stupore dei loro lettori. È il caso degli Indiká di Megastene, ambasciatore alla corte indiana di Chandragupta per conto del re di Siria Seleuco I, uno dei successori diretti di Alessandro. In quella veste, Megastene
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ebbe modo di soggiornare a lungo nel paese, in anni che possiamo collocare all’inizio del III secolo a.C.; e sebbene l’opera in cui raccoglieva le sue osservazioni sia perduta, qualcosa se ne può ancora spigolare grazie agli autori antichi che vi ebbero accesso e ci consentono di gettare uno sguardo ai suoi contenuti. Particolarmente affascinante in questo senso è una pagina che proviene dalla Storia naturale di Plinio il Vecchio, l’erudito e scienziato latino morto nell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., in cui accanto a quella di Megastene viene citata anche l’analoga opera sull’India attribuita al medico greco Ctesia di Cnido, vissuto un secolo prima e a sua volta ambasciatore alla corte del re di Persia: Secondo Megastene, su un monte chiamato Nulo ci sono uomini con le piante dei piedi rivolte all’indietro e con otto dita per piede. Su molti altri monti si trovano invece uomini con la testa di cane, vestiti di pelli di fiere, che emettono solo latrati e vivono di caccia e uccellagione, procurandosi la preda con l’arma delle unghie. […] Ctesia parla di una stirpe di uomini – i Monocoli – che hanno una gamba sola e sono straordinariamente agili nel saltare; essi sono chiamati anche Sciàpodi, poiché quando la calura è più forte, giacendo a terra supini, si proteggono con l’ombra del piede. Non lon-
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tano da essi sono i Trogloditi; e, continuando verso occidente, c’è una popolazione priva di collo, con gli occhi piantati sulle spalle […]. Taurone chiama Coromandi una popolazione selvatica, senza voce, che emette strida paurose, ha corpi setolosi, gli occhi glauchi, i denti di cane. […] Megastene cita una popolazione, tra gl’Indiani Nomadi, la quale ha solo dei buchi al posto delle narici e, avendo i piedi inceppati, striscia come i serpenti: costoro si chiamano Scirati. Dice ancora Megastene che ai confini estremi dell’India, a oriente, presso la sorgente del Gange, abitano gli Astomi, una popolazione priva di bocca, irsuta in tutto il corpo, vestita di bioccoli di cotone; vive solo dell’aria che respira e degli odori che annusa.
La fortuna di questa pagina è stata grande nella storia della cultura europea. Per tutta la durata del Medioevo non si ebbe alcun dubbio sull’esistenza dei popoli citati da Plinio; e ancora dopo la scoperta dell’America, c’erano esploratori pronti a giurare che uomini dal viso di cane simili a quelli descritti dallo scienziato sulla scorta delle sue fonti greche fossero stati effettivamente avvistati nel Nuovo Mondo. Plinio stesso, dal canto suo, non manifesta alcun dubbio sulla veridicità delle notizie che riferisce: notizie che del resto le sue fonti, che si tratti di Ctesia, di
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Megastene o del non altrimenti noto Taurone, presentavano come il frutto di un’osservazione personale e diretta delle regioni che descrivevano. Al tempo stesso, quelle notizie raccontano di uno spazio segnato dal marchio della totale alterità, definita per scarto o per contrasto con il mondo familiare allo scienziato latino e ai suoi lettori: l’idea soggiacente è quella che associa alla nozione di “centro” l’idea di normalità, positività, eccellenza, e a quella di “periferia”, al contrario, i tratti della stranezza, della singolarità, al limite dell’anomalia. In base a questo modello, nelle aree centrali della terra vivono uomini e donne “normali”, così come siamo abituati a vederli; al contrario, a mano a mano che ci si sposta verso i confini dell’ecumene la normalità si altera, si deforma, e alla fine si perde, cedendo il passo al brutto, all’ibrido, al mostruoso. Remoti dal punto di vista geografico (s’intende, remoti dal punto di vista di chi scrive), quei luoghi non possono non essere lontani anche per le forme di vita che ospitano: laggiù è come se la natura giocasse, come se si divertisse a sperimentare una serie di possibilità combinatorie (una sola gamba, occhi sul busto invece che sulla testa, piedi enormi, numero eccezionale di dita, ecc.) che sono state invece scartate nel mondo a noi
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più familiare. Non a caso, questo modello non riguarda solo le specie umane, ma anche quelle animali o vegetali: anche in questi ambiti sono i margini estremi della terra a ospitare lo strano o il perturbante, è lì che lo straniero e il barbaro lasciano definitivamente il campo al mostro. In un precedente capitolo avevamo già osservato come la categoria di centro fosse evocata prima in relazione alla Grecia e più tardi a Roma per spiegarne la superiorità su tutte le altre culture; e vedremo nel prossimo come non diversamente la pensassero i Persiani, i quali, secondo Erodoto, valutavano i popoli stranieri in ragione della loro maggiore o minore vicinanza al cuore del mondo, che essi facevano naturalmente coincidere con il proprio impero. Ora, la pagina di Plinio suggerisce che quella categoria potesse conoscere anche un impiego più ampio, per articolare il continuum che separa la norma dalla sua violazione. Va detto peraltro che questo modo di rappresentare i margini non è l’unico attestato nelle letterature antiche: esso coesiste infatti con quello secondo cui, al contrario, proprio le periferie del mondo sono quelle che producono le piante più grandi, gli uomini più alti e belli, le risorse naturali più ricche e abbondanti. Ad
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affermarlo è ancora una volta Erodoto, per il quale «le estreme parti della terra abitata hanno avuto in sorte le cose più belle, così come l’Ellade ha avuto in sorte il clima più temperato»; e molti secoli dopo gli farà eco Tacito con una delle sue fulminanti sentenze, secondo la quale «tutto ciò che non si conosce appare meraviglioso». Nelle parole dello storico di Alicarnasso, la Grecia resta pur sempre un luogo privilegiato, in quanto sede della medietà e del perfetto equilibrio fra gli opposti, ma i confini del mondo spiccano per la loro invidiabile bellezza o per la disponibilità dei beni che vi si trovano. A ben guardare, comunque, tra questi due modi di pensare l’alterità non c’è vera contraddizione, dal momento che l’uno e l’altro rappresentano altrettante declinazioni diverse del medesimo tratto, quello dell’eccezionalità. Lo scarto dalla norma, insomma, può avvenire in entrambe le direzioni: come sapeva ogni lettore dell’Odissea, e come anche noi abbiamo visto in un altro capitolo di questo libro, a chi si allontani dal centro del mondo può capitare di imbattersi tanto nei bestiali Ciclopi quanto nei divini Feaci.
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2. L’Ebreo inassimilabile Per quanto indietro si vada nel ricostruire le testimonianze della cultura greca sugli Ebrei, esse appaiono già viziate da alcuni stereotipi ricorrenti. Nel IV secolo a.C. lo storico Ecateo di Abdera e lo studioso egizio Manetone concordano nell’affermare che le leggi di Mosè prescrivano agli Ebrei di avere contatti esclusivamente con i loro correligionari e che il loro stile di vita sia il rovescio di quello adottato dal resto dell’umanità. Nasce da qui l’accusa di misantropia, intesa in senso letterale come odio verso tutti gli altri esseri umani, poi molte volte ripresa dagli autori dei secoli successivi; ad essa si affianca quella di ateismo, dovuta verosimilmente al disagio che in culture come quella egizia, greca e romana, con i loro pantheon rigurgitanti di dèi, suscitava l’intransigente monoteismo del culto giudaico. Ancora per Diodoro Siculo, uno storico di lingua greca attivo verso la metà del I secolo a.C., gli Ebrei sono l’unica nazione che non solo rifiuta di avere contatti con gli altri popoli, ma li considera tutti alla stregua di nemici. A dire il vero, nel contesto dell’Egitto governato dai Tolomei, la dinastia che aveva assunto il controllo di quel grande paese dopo lo smembramento dell’impero di Alessandro,
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si era proceduto all’inizio del III secolo a.C. a un’operazione destinata ad avere un impatto enorme sulle vicende successive della cultura ebraica, e non solo. Si tratta della versione in greco della Bibbia, condotta da settantadue traduttori provenienti da Gerusalemme (e perciò nota nei secoli a venire, con una lieve approssimazione aritmetica, come la versione dei Settanta) nell’ambito della biblioteca istituita ad Alessandria dal secondo dei Tolomei. In quella città, divenuta assai presto una metropoli multiculturale, la comunità ebraica era molto numerosa, al punto da occupare un intero quartiere, che si diceva assegnato loro dallo stesso Alessandro al momento della fondazione. I suoi membri continuavano a praticare la religione dei padri, ma dal punto di vista linguistico si erano pienamente assimilati al nuovo contesto e utilizzavano ormai il greco anche nel servizio della sinagoga, benché questo suscitasse i malumori degli osservanti più ortodossi; in ogni caso, quella traduzione rendeva le scritture ebraiche potenzialmente accessibili al pubblico colto dell’intero Mediterraneo, per il quale il greco costituiva una sorta di lingua veicolare. Va detto peraltro che l’iniziativa di Tolomeo II non indica necessariamente una particolare pre-
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dilezione per la cultura degli Ebrei né rappresenta un privilegio accordato in esclusiva a questi ultimi: essa si inserisce piuttosto nel disegno universalistico della biblioteca alessandrina, nata con l’intento di raccogliere e custodire non solo i prodotti della tradizione letteraria greca, ma anche le opere più significative delle culture con le quali i dominatori di quella parte del mondo avevano a che fare, opere tra le quali i testi considerati sacri giocavano ovviamente un ruolo di primo piano. Per la stessa ragione, nel mentre si metteva mano alla versione in greco della Bibbia, si procedette altresì a tradurre i testi dell’antica religione persiana, attribuiti a Zoroastro: ben due milioni di versi, che gli Alessandrini non solo voltarono pazientemente in greco, ma si preoccuparono anche di corredare con indici e commenti. La visione degli Ebrei già elaborata dagli autori greci torna senza significativi mutamenti nelle fonti latine: i membri di questo popolo appaiono fortemente legati alle loro tradizioni, tra cui spiccano quella di astenersi dal consumo di carne suina e quella del riposo assoluto in giorno di sabato; una specifica curiosità suscita anche la prassi della circoncisione, abbastanza nota ai Romani del I secolo a.C. da consentire al
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poeta Orazio di farvi allusione in una delle sue satire senza dare troppe spiegazioni. Il motivo della separatezza degli Ebrei affiora poi in età augustea nello storico Pompeo Trogo: a suo giudizio, l’abitudine a non mescolarsi con gli stranieri maturò all’epoca del soggiorno in Egitto e si trasformò in seguito in una vera e propria tradizione, fino ad assumere la forza prescrittiva di una norma religiosa. Un secolo e mezzo più tardi, per un incallito xenofobo come Giovenale la misantropia degli Ebrei giunge al punto che essi offrono l’acqua o indicano la strada solo ad altri Ebrei: un’osservazione assai pungente, se si pensa che secondo Cicerone dare indicazioni a chi si è smarrito e condividere l’acqua rappresentano altrettanti doveri elementari, che vanno adempiuti nei confronti di ogni altro essere umano a prescindere dall’etnia di appartenenza. Ai tempi di Giovenale, tra l’altro, una folta comunità giudaica si era insediata nell’area fuori porta Capena, dove secondo la tradizione il re Numa, successore di Romolo, incontrava di notte la propria divina ispiratrice, la ninfa Egeria. Il poeta naturalmente deplora questa circostanza, osservando come i nuovi abitatori non abbiano nessun rapporto con quello che per i Romani costituisce invece un vero e proprio luogo della
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memoria, legato alla storia più antica della città. La pagina di Giovenale suggerisce così un’affascinante riflessione sul valore che all’interno delle culture umane possono assumere i luoghi in quanto reti di simboli capaci di rimandare a vicende storiche, costrutti culturali, processi di definizione identitaria. È però nelle Storie, l’opera della piena maturità di Tacito, composta all’inizio del II secolo d.C., che il forte stigma nei confronti degli Ebrei trova la sua espressione più radicale. Lo storico dedica al tema i primi capitoli del quinto libro, fortunosamente scampati al naufragio che ha coinvolto invece quelli successivi, allorché si accinge a raccontare della campagna condotta in Giudea dalle truppe romane a partire dal 66 d.C. e destinata a concludersi pochi anni più tardi con la distruzione del tempio di Gerusalemme. Prima di avviare il suo resoconto, Tacito traccia un quadro di quello che sa sull’origine e i caratteri della cultura ebraica, di cui vale la pena di leggere un estratto: Allo scopo di legare a sé il suo popolo per l’avvenire, Mosè introdusse riti singolari e contrari a quelli di tutti gli altri uomini. Lì sono profane tutte le cose che noi consideriamo sacre, e viceversa
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sono loro consentite quelle che noi consideriamo immorali. […] Si dice che stabilirono di riposare nel settimo giorno, perché ricordava la fine delle loro pene; a questo aggiunsero anche il riposo del settimo anno, spinti dalla loro inerzia. […] Questi riti, quale che sia la ragione per la quale vennero introdotti, godono almeno della sanzione dell’antichità; le altre tradizioni, malauguranti e spregevoli, si imposero invece per la loro perversità. […] Consumano i pasti tra loro, dormono separatamente, e pur essendo un popolo assai incline al sesso, si astengono dalle donne straniere, mentre tra loro nulla è proibito. Stabilirono di praticare la circoncisione per distinguersi dagli altri. Così fanno quelli che aderiscono al loro modo di vivere; la prima cosa che imparano però è quella di disprezzare gli dèi, di rinnegare la propria patria, di non tenere in alcun conto genitori, figli, fratelli. […] i Giudei venerano una sola divinità, senza darne una rappresentazione. […] alcuni hanno ritenuto che si trattasse di Dioniso, che assoggettò l’Oriente, ma le forme del culto non corrispondono in alcun modo: Dioniso infatti ha istituito per sé cerimonie festose e piene di gioia, invece il rito dei Giudei è assurdo e squallido.
Nelle parole di Tacito, quello giudaico si presenta dunque come un mondo alla rovescia, do-
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minato da comportamenti e valori che appaiono il ribaltamento di quelli correnti invece nella cultura romana; agli Ebrei viene attribuita in particolare una fortissima solidarietà interna, che ha però come sgradevole contropartita la totale chiusura nei confronti di qualsiasi altro gruppo umano. Si tratta della vecchia accusa di misantropia, che abbiamo visto nascere già negli autori greci, cui Tacito aggiunge l’inclinazione al sesso, l’assenza di ogni disciplina, la bizzarra concezione di un dio unico, che non è legittimo raffigurare in immagine, e più in generale l’adozione di un rituale religioso «assurdo e squallido». Anche le consuetudini sacrificali degli Ebrei sono interpretate perlopiù dallo storico latino sotto una luce negativa: l’immolazione di arieti e buoi discende dal desiderio di irridere la religione egizia, al cui interno quegli animali hanno grande rilevanza, mentre il riposo del sabato o l’istituto del cosiddetto anno sabbatico sono ridotti a deprecabili manifestazioni di indolenza e pigrizia. Infine, se alcuni ingredienti di una simile costellazione culturale si giustificano quanto meno in ragione della loro antichità, molti altri tradiscono la perversità di questo popolo, che si direbbe un tratto innato e ineliminabile dell’intera etnia.
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I testi citati sin qui, comunque, non esauriscono la riflessione della cultura greco-romana sugli Ebrei. Eruditi e pensatori greci lodarono talora la sapienza di Mosè, più antica di quella dei loro filosofi, presentarono gli Ebrei come maestri di Pitagora o persino di Platone, allestirono genealogie che mettevano in relazione il patriarca Abramo con Eracle, l’eroe greco per eccellenza, o sostenevano la comune discendenza da Abramo di Ebrei e Spartani: un’escogitazione, come è stato osservato, che nobilitava in qualche modo agli occhi dei Greci l’isolazionismo ebraico assimilandolo all’analogo atteggiamento della città di Licurgo nei confronti degli stranieri, del quale anche noi ci siamo occupati nelle pagine precedenti. Va detto, però, che simili sviluppi risultano tutto sommato marginali e che la visione corrente della cultura ebraica restò in larga misura quella ostile che approda alla pagina di Tacito. La storia di questa visione non finisce peraltro con il grande storico latino, ma non mette conto seguirne ulteriormente le tracce nei secoli successivi. Semmai, è utile sottolineare come l’avvento del cristianesimo – religione che nasceva pur sempre da una costola del giudaismo – non comportò in alcun modo l’adozione
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di un atteggiamento più benevolo nei confronti di quello che i testi presto divenuti sacri anche per il nuovo credo consideravano il popolo eletto. Un autore come Agostino, le cui opere esercitarono un’influenza decisiva sullo sviluppo della dottrina cristiana e rappresentarono un riferimento imprescindibile per tutto il pensiero medievale, scaglia a più riprese contro gli Ebrei la duplice accusa di deicidio, per aver invocato a gran voce la crocifissione del Cristo, e di colpevole incredulità, per essersi rifiutati di riconoscere il Messia pur avendolo visto con i loro occhi. Un filo rosso molto robusto connette lo scritto Contro i Giudei di Agostino all’omonima operetta di Isidoro, vescovo di Siviglia all’alba del Medioevo, a sua volta punto di riferimento della cultura successiva, fino al violento libello Sugli Ebrei e le loro menzogne, composto da Lutero alla metà del Cinquecento e recuperato dal nazismo per puntellare la sua politica di segregazione, prima, e sterminio, poi, nei confronti degli Ebrei. Nella storia della cultura occidentale, questi ultimi restano così per un tempo lunghissimo l’eccezione che non si può assimilare, i fuori posto da isolare o cancellare, gli stranieri che le loro stesse colpe condannano a restare per sempre tali.
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3. Ma gli antichi erano razzisti? Questa succinta evocazione degli esiti cui approda in età moderna il pregiudizio anti-ebraico induce a estendere lo sguardo e a chiedersi se sia applicabile alle società antiche un’altra categoria che ha avvelenato a lungo la cultura occidentale degli ultimi secoli, quella di razzismo. Diciamo subito che se con questo termine si intende la convinzione che i membri di determinati gruppi umani possiedano caratteristiche che li rendono inferiori e che derivano loro da null’altro se non dall’appartenenza a quei gruppi, la risposta è negativa: abbiamo visto nel capitolo precedente come il più diffuso paradigma interpretativo in campo etnografico leghi le differenze tra popoli ed etnie a fattori di ordine climatico e ambientale, che influiscono in modo determinante sia sulle caratteristiche fisiche (colore della pelle, foggia dei capelli, maggiore o minore disponibilità di sangue e così via) sia su quelle psicologiche (coraggio, intelligenza, astuzia e altro ancora). Le attitudini di una comunità umana non discendono insomma da una qualche tara intrinseca, in quanto tale strutturale e immutabile, ma da fattori esterni, al punto che il modificarsi di questi ultimi produce un parallelo mutamento delle attitudini stesse.
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È così, per limitarsi a un solo esempio, nel caso dei Galati o Gallogreci, stanziati in un’area dell’Asia Minore che prende da essi il nome di Galazia: si tratta di un’etnia di origine celtica, proveniente dalla regione transalpina e migrata nel III secolo a.C. nel territorio anatolico. Ebbene, è interessante il fatto che il nuovo contesto ambientale, a giudizio degli storici, abbia fatto perdere ai Galati i tratti legati al loro originario statuto di popolo del Nord, secondo la ripartizione di remota matrice aristotelica: a contatto con il clima mite dell’Asia e con le abbondanti risorse disponibili nel territorio di nuovo insediamento, la loro ferocia aveva finito per mitigarsi, appannando o cancellando il valore guerriero che inizialmente li caratterizzava. Una metamorfosi che le fonti antiche spiegano ricorrendo volentieri all’analogia con il mondo vegetale e assimilando il caso dei Gallogreci a quello dei semi che degenerano se vengono piantati in una terra diversa da quella abituale. Al tempo stesso, un simile modo di porre la questione dimostra che per la cultura antica i tratti che definiscono l’identità di un popolo non sono legati a caratteristiche innate e immutabili, ma possono modificarsi in misura anche significativa se cambia il contesto nel quale i suoi membri si
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trovano a vivere. Non a caso, il fenomeno opposto a quello che riguardava i Gallogreci veniva rilevato a proposito della città di Massalia, l’attuale Marsiglia, antica colonia ellenica stanziata nel cuore del territorio celtico: dal contatto con i loro barbari vicini, osserva infatti lo storico Tito Livio, i Massalioti «hanno derivato una certa aggressività». Ciò nonostante, vale la pena di ricordare come alcuni testi antichi siano stati sfruttati, ben oltre le intenzioni dei loro autori, come pezze d’appoggio per legittimare i razzismi del Novecento: è questo in particolare il caso della Germania di Tacito, un’operetta etnografica relativa ai popoli che abitavano quella vasta regione dell’Europa centrale e pubblicata dallo storico negli ultimissimi anni del I secolo a.C. Nell’aprire le sue pagine, Tacito dichiara di aderire alla tesi di quanti considerano i Germani una stirpe autoctona e ritengono che nel corso della loro storia essi non si siano mai mescolati ad altri gruppi umani, rimanendo «una stirpe distinta, pura e simile solo a sé stessa». Disgraziatamente, in quel contesto Tacito parla dei matrimoni misti come di una macchia dalla quale i Germani sono rimasti immuni; e non è difficile immaginare come una simile dichiarazione sia stata
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piegata a legittimare la politica di pulizia etnica messa in campo dal nazismo, in un agghiacciante cortocircuito che sovrapponeva i popoli descritti dallo storico antico e i Tedeschi del Terzo Reich, presentati come i loro diretti discendenti. È un fatto, comunque, che Tacito fa qui propria una nozione negativa della mescolanza interetnica della quale abbiamo altre attestazioni nelle letterature antiche e che percepiva i matrimoni tra stirpi diverse nei termini di una contaminazione: qualcosa di molto lontano, insomma, dall’immagine di Roma città aperta prospettata dall’imperatore Claudio nella pagina con la quale abbiamo chiuso il capitolo precedente. Ma che dire dei popoli dalla pelle scura, bersaglio privilegiato dei razzismi di età moderna, tuttora assai vitali? Anche in questo caso, le informazioni che si possono reperire spigolando fra i testi antichi non sembrano indicare l’esistenza di un particolare stigma. Intanto, per definire i “neri” il greco e più ancora il latino ricorrono spesso a un termine di origine etnica, Aithíops, latinizzato in Aethiops e riferito in senso proprio agli abitanti dell’Etiopia, e questa scelta è piuttosto interessante per più di una ragione. In primo luogo, si tratta di un aggettivo composto che si riferisce propriamente all’a-
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spetto bruciato dal calore: rispetto a termini moderni come “ne(g)ro”, noir, black o simili, a essere sottolineata non è dunque tanto una caratteristica cromatica della pigmentazione cutanea, quanto la sua origine, ricondotta ancora una volta all’influenza determinante dei fattori ambientali e climatici. In secondo luogo, gli Etiopi sono una popolazione ben nota e particolarmente valorizzata nella letteratura antica, a cominciare dallo stesso Omero: a quanto pare, quando sono stanchi di risiedere sull’Olimpo – o, più concretamente, quando il poeta ha bisogno di liberare la scena dalla loro presenza un po’ ingombrante – gli dèi amano ritrovarsi tutti insieme o singolarmente a banchettare con gli Etiopi, come capita a Posidone all’inizio dell’Odissea. Questi non è infatti presente al momento in cui si decide, nella vasta sala di Zeus, il ritorno in patria di Odisseo, che il dio aveva cercato sino ad allora di impedire, e Omero ne giustifica l’assenza spiegando che Posidone si era recato fra gli Etiopi lontani – gli Etiopi che si dividono in due ai confini del mondo, quelli del Sole al tramonto e quelli del Sole nascente –
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per ricevere un’ecatombe di tori ed agnelli. Là sedeva a banchetto, lieto.
Già nell’Iliade, del resto, gli dèi al completo si trattengono ben dodici giorni in Etiopia, costringendo Tetide, madre di Achille, a una lunga anticamera prima di poter incontrare Zeus e presentargli le sue rimostranze a favore del figlio, mortificato dall’arroganza di Agamennone. Dunque tra gli Etiopi, ai margini del mondo, è ancora possibile praticare quella commensalità con gli dèi che Odisseo conoscerà in un altro peculiare altrove, l’isola dei Feaci, e che è invece preclusa per sempre agli uomini comuni. Del resto, gli Etiopi sono descritti ripetutamente dagli antichi come un popolo senza macchia, particolarmente devoto agli dèi, dei quali si sono guadagnati la benevolenza avendo introdotto per primi sacrifici, feste e celebrazioni in loro onore. Tutto questo, peraltro, non faceva di loro altrettanti bigotti imbelli o inerti edonisti, dediti esclusivamente ai banchetti e al culto divino: dall’Etiopia veniva l’eroe nero Memnone, figlio dell’Aurora, che insieme alle sue torme di guerrieri dalla pelle scura si era schierato al fianco dei Troiani in uno dei tanti sviluppi narrativi fioriti intorno alla celebre guerra, per essere infine
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ucciso da Achille. Persino nella veste di schiavi gli Etiopi sembrano essere apprezzati, magari solo come stranezza esotica: in una commedia latina di Terenzio – il cui originale è però greco – un amante porta in dono alla cortigiana di cui è invaghito una giovane schiava etiope, che la donna gli aveva chiesto con insistenza. S’intende che i tratti somatici dei popoli di colore – i capelli crespi, le labbra carnose, il naso schiacciato – erano ben noti a Greci e Romani e tornano spesso nelle loro descrizioni di appartenenti a quei popoli, senza che però ad essi sembri attribuito un valore espressamente negativo. Già nel VI secolo a.C. il filosofo Senofane di Colofone, in un celebre carme nel quale rileva come ogni cultura umana elabori la sua rappresentazione degli dèi a partire dalle proprie caratteristiche fisiche, e dopo la fulminante osservazione secondo cui anche buoi, leoni o cavalli, se avessero le mani, dipingerebbero le divinità «ad immagine del corpo di ciascuno», prosegue spiegando che gli Etiopi credono in divinità dalla pelle nera e dal naso camuso, i Traci, dalla parte opposta del mondo, in dèi dagli occhi azzurri e i capelli rossi. In un testo del genere, è lo stesso radicale relativismo che ispira il ragionamento a escludere che Senofane
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volesse attribuire agli Etiopi una qualche connotazione negativa a partire dalla loro pigmentazione cutanea. In tutt’altra epoca e contesto, conclusioni non dissimili vengono suggerite da un velenoso epigramma di Marziale, il poeta latino attivo tra la fine del I e l’inizio del II secolo d.C. e divenuto celebre proprio grazie al suo talento in questo genere letterario breve e puntuto: O Cinna, Marulla ti ha reso sette volte padre, ma i tuoi figli non sono liberi: infatti nessuno è tuo. […] Questo moretto che viene avanti con i suoi capelli ricci confessa di essere il rampollo di Santra il cuciniere. E quello dal naso camuso e dalle labbra gonfie è il ritratto di Pannico il lottatore. E chi conosce e guarda Dama il cisposo, potrebbe forse ignorare che il terzo è il figlio del panettiere? Il quarto dalla faccia effeminata, dal volto pallido, ti è nato da Ligdo, il tuo concubino: se vuoi inculare tuo figlio, fallo pure: non è peccato. E questo dalla testa a punta e dalle orecchie lunghe, che si muovono come quelle degli asinelli, chi può dire che non sia il figlio di Cirta il buffone? Le due sorelle, la nera e la rossa, sono di Croto il flautista e di Carpo il fattore.
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La poco casta Marulla ha dunque messo al mondo sette figli da altrettanti padri diversi, nessuno dei quali peraltro coincide con suo marito Cinna: per sua sfortuna però – e soprattutto per via delle dottrine antiche in merito alla trasmissione delle rassomiglianze, che assegnano un ruolo determinante all’impronta paterna – tutti recano stampati nel viso i lineamenti dell’uomo dal quale sono stati concepiti. Tra i diversi partner individuati a colpo sicuro da Marziale, pare chiaro che Pannico il lottatore fosse immaginato come un uomo di colore, visto il ricorrere di elementi descrittivi convenzionali come il naso camuso e le labbra carnose; e tale è con ogni probabilità anche il rampollo di Santra il cuciniere, che Marziale definisce Maurus, cioè propriamente del colore dei Mauritani, una popolazione nordafricana, e del quale menziona i capelli crespi. In ogni caso, che Marulla si sia unita a simili partner non sembra agli occhi dell’epigrammista particolarmente infamante: i due possibili amanti “neri” della donna sono menzionati accanto agli altri senza alcuna enfasi specifica. È vero peraltro che l’adulterio consumato con un individuo dalla pelle scura comporta per la donna che lo commette un elemento supplementare di degradazione, specie quando questa
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donna non sia una Marulla qualsiasi, ma l’irreprensibile Lucrezia, eroina nazionale e modello di castità matronale. Quando Sesto Tarquinio, figlio dell’ultimo re di Roma, penetra nella sua stanza da letto con l’intenzione di abusare di lei, le resistenze di Lucrezia vengono vinte con la minaccia di ucciderla e di porle accanto nel letto uno schiavo nudo, per poi accusarla di essere stata colta nel mezzo di uno squallido adulterio. Ora, è interessante che in una versione tarda del racconto lo schiavo in questione diventi un “etiope”, cioè appunto un uomo di colore: una variante che si spiega evidentemente supponendo che questo conferisse all’argomento di Tarquinio ulteriore forza costrittiva, nella misura in cui avrebbe gettato su Lucrezia una maggiore infamia. È vero però che l’elemento determinante della minaccia è costituito dallo statuto servile del partner e non dal colore della sua pelle: a Roma schiavi e schiave sono un giocattolo sessuale a disposizione dei padroni, ma per una donna è considerato turpe avere relazioni intime con uno di loro. Semmai, può essere interessante mettere in luce un tratto che rimanda agli specifici quadri mentali delle culture antiche, come l’associazione tra colore della pelle e presagio di cattivo
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augurio: il nero è infatti stabilmente associato tanto in Grecia quanto a Roma alla sfera della morte, dell’oltretomba e degli dèi inferi, ai quali non a caso si offrivano in sacrificio vittime di colore scuro, mentre gli animali dal vello bianco erano riservati alle divinità del cielo. Così, a proposito di una matrona non molto più incline alla fedeltà coniugale di quanto lo fosse la Marulla di Marziale, il già ricordato Giovenale parla della nascita di un bambino di colore affermando che suo padre non vorrebbe mai vederlo di prima mattina. Un’affermazione che non intende affatto bollare un presunto atteggiamento razzista di questo genitore, ma rimanda alla diffusa convinzione secondo cui incrociare con lo sguardo qualcosa di malaugurante (una persona che zoppica dal piede destro, un castrato, una scimmia o, per l’appunto, un individuo dalla pelle scura), specialmente se accade all’inizio della giornata, rappresenta un segno infausto e suggerisce l’opportunità di non uscire di casa o di farvi precipitosamente ritorno. Allo stesso modo, si raccontava che alla vigilia della battaglia di Filippi, nel 42 a.C., l’imminente sconfitta dei cesaricidi fosse stata preannunciata dalla comparsa sulla porta dell’accampamento di un uomo di colore, «segno di lutto sin troppo evi-
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dente», come osserva la fonte che ci tramanda la notizia; non a caso, i soldati uccisero immediatamente il malcapitato, senza peraltro che questo bastasse a scongiurare l’esito rovinoso dello scontro. Anche una testimonianza come questa non implica però una visione dei “neri” venata di razzismo: l’etiope di Filippi era verosimilmente uno schiavo al seguito dell’esercito, la cui sfortuna era stata solo quella di essere avvistato dai soldati all’atto di avviarsi verso il campo di battaglia, in una situazione non troppo dissimile da quella, sopra ricordata, di chi veda una scena di cattivo augurio nel momento in cui esce di casa. Infine, a partire dalla tarda antichità l’avvento del cristianesimo arricchisce e insieme complica la rete delle associazioni simboliche legate al colore della pelle: il nero diventa ora un attributo stabile di Satana, e per estensione di quanti condividono uno statuto a vario titolo “demoniaco”, dall’idolatra al peccatore all’eretico. Quanto all’Etiopia, menzionata anche nei testi biblici assiduamente commentati dai Padri, essa ricorre spesso nelle opere di questi ultimi come icona delle nazioni peccatrici, talora in associazione con l’Egitto, che aveva lungamente trattenuto in schiavitù il popolo eletto. Se si considera che gli Etiopi, come abbiamo visto, avevano fatto il
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loro ingresso nella tradizione letteraria greca nella veste di nazione benedetta e di commensali amati dagli dèi, il capovolgimento di prospettiva è totale e contribuisce a porre le premesse di una trasformazione destinata presto o tardi a trapassare dal mondo delle espressioni metaforiche a quello delle discriminazioni reali.
V Uno sguardo alternativo
1. I barbari degli altri Nella cultura dei Greci e dei Romani, la stigmatizzazione del barbaro costituisce l’atteggiamento di gran lunga prevalente in materia di rappresentazione dello straniero, ma non l’uni co; ed è giusto, nell’avviarci alla conclusione del nostro percorso, dare spazio ad altre visioni, tanto più significative proprio per il fatto di essere rimaste minoritarie. In quel grande crogiolo intellettuale che è l’Atene del tardo V secolo a.C., il movimento dei cosiddetti sofisti, filosofi itineranti e maestri di una sapienza nuova e spesso provocatoria, si spinge in alcune sue punte avanzate fino a proclamare l’insussistenza della distinzione fra Greci e barbari, o almeno l’assenza di un suo fondamento naturale. Uno di questi pensatori, Antifonte, in un testo disgraziatamente
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frammentario, ma ricostruibile con una certa sicurezza nella parte che qui ci interessa, afferma ad esempio che «noi ci comportiamo gli uni verso gli altri alla stregua di barbari», dal momento che «per natura tutti siamo stati creati in tutto simili, sia barbari che Greci». Antifonte rileva poi che è possibile esaminare le cose che per natura sono necessarie a tutti gli esseri umani […] nessuno di noi è stato distinto come barbaro o greco, dal momento che noi tutti inspiriamo l’aria attraverso la bocca e il naso, tutti noi ridiamo quando siamo felici e piangiamo quando siamo tristi, cogliamo i suoni attraverso l’udito e osserviamo attraverso la vista con l’aiuto del raggio visivo, lavoriamo con le mani e camminiamo con i piedi.
Si coglie, in parole come queste, l’idea di un’uguaglianza originaria che investe in pari misura tutti gli esseri umani: essa è fondata sulla condivisione generalizzata di un identico statuto di base, caratterizzato dal compimento delle stesse funzioni primarie e dal soddisfacimento dei medesimi bisogni elementari, rispetto al quale ogni distinzione tra gli individui risulta secondaria e posticcia. S’intende, però, che simili posizioni difficilmente potevano andare oltre la mera
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proclamazione di un principio astratto, anche se questo nulla toglie al loro altissimo spessore intellettuale: di fatto, esse restano espressioni di pensatori eccentrici e sostanzialmente marginali, formulate nel contesto di testi filosofici circolanti all’interno di ristrettissime élites e prive di una reale incidenza sulle dinamiche del mondo reale. Al tempo stesso, sulla scorta della rivoluzione sofistica, anche il teatro mette talora in discussione le idee correnti sull’opposizione fra greco e barbaro; del resto, è probabile, anche se non del tutto certo, che l’Antifonte di cui abbiamo appena ricordato la spregiudicata riflessione coincida con l’omonimo drammaturgo che proprio nello stesso lasso di tempo mise in scena le sue tragedie, sfortunatamente perdute. Nella società ateniese del V secolo, abbiamo già avuto occasione di notarlo, il teatro gioca un ruolo del tutto peculiare, che non ha raffronti in altri generi letterari e in altri luoghi della Grecia: le tragedie vengono rappresentate a spese della città, nel contesto di specifiche festività religiose, e sono concepite come un momento di partecipazione collettiva che accomuna l’intera cittadinanza, al punto che a partire da un certo momento viene introdotto per gli spettatori una
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sorta di gettone di presenza, simile a quello di cui godevano i membri delle giurie popolari o i cittadini che intervenivano alle sedute dell’assemblea. Assistere agli spettacoli teatrali costituiva, insomma, l’adempimento di un dovere civico non meno che un’esperienza estetica o intellettuale. Viste queste premesse, sarebbe lecito aspettarsi un’arte addomesticata e posta al servizio dei gruppi di potere di volta in volta prevalenti ad Atene. In realtà, almeno nella produzione dei loro esponenti di maggiore spicco – gli unici, del resto, le cui opere siano giunte sino a noi –, tragedia e commedia possono diventare un luogo di problematizzazione e talvolta di contestazione delle idées reçues, una sorta di esperienza contro-culturale, nella quale sotto il velo delle vicende mitiche o d’invenzione si parlava dell’oggi e lo si faceva spesso da punti di vista che sfidavano le convinzioni e i pregiudizi dell’Ateniese medio. In questa complessa operazione intellettuale si illustra soprattutto Euripide, che fu ritenuto in prosieguo di tempo il maggiore fra i drammaturghi del V secolo, ma che non a caso era assai poco apprezzato dai suoi contemporanei, disturbati dal suo provocatorio anti-conformismo.
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Così avviene nelle Troiane, ambientate al momento in cui la guerra raccontata dall’Iliade è terminata e le prigioniere che danno il titolo al dramma devono essere ripartite fra i diversi comandanti del contingente acheo; qui è Andromaca, vedova di Ettore, a puntare il dito sull’efferatezza dei vincitori, pronti a ucciderne il figlio ancora bambino, Astianatte, per scongiurare il rischio che possa un giorno vendicare suo padre: Voi Greci avete inventato crudeltà barbariche: perché uccidete questo bambino innocente?
Con un paradosso voluto, e che certo doveva colpire il pubblico ateniese che nella primavera del 415 a.C. assistette alla tragedia, proprio Andromaca, barbara in quanto troiana, accusava di barbarie i Greci, demolendo ogni pretesa da parte di questi ultimi di fondare la propria superiorità su una qualche forma di eccellenza morale. Del resto, già quindici anni prima un rovesciamento non dissimile compariva in uno dei capolavori assoluti di Euripide, la Medea, andata in scena nel 431: qui è Giasone, l’eroe della spedizione argonautica, a negare capziosamente i suoi debiti di riconoscenza verso la donna barbara cui deve in realtà la propria salvezza e
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che ha appena abbandonato per un vantaggioso matrimonio con la figlia del re di Corinto. A Medea, che gli ricorda i propri meriti verso di lui, Giasone obietta in un serrato faccia a faccia di averli già ripagati a usura, dal momento che grazie a lui «è terra di Grecia questa che tu abiti, e non un paese barbarico; e conosci giustizia, e puoi vivere secondo norme di leggi e non come piaccia a violenza». Certo, l’idea che quella greca sia una società improntata al rispetto della legge, e in quanto tale di gran lunga preferibile a un mondo barbaro dominato invece dall’eccesso e dalla brutalità, doveva essere radicata nella mentalità del pubblico ateniese; è però significativo che a esprimerla sia un personaggio, Giasone, che la tragedia euripidea presenta come superficiale e vanesio, opportunista e meschino, del tutto privo della grandezza che vorrebbe abusivamente accreditarsi e pronto ad approfittare a proprio vantaggio della posizione di debolezza di Medea, barbara e straniera nel contesto di una città greca. Torniamo dunque al pensiero sofistico, che aveva al proprio arco altre frecce con le quali demolire gli idoli della cultura tradizionale, meno avanzate rispetto alle tesi di Antifonte ma ugualmente puntute. Una di queste era l’in-
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troduzione di un radicale relativismo, fondato sull’idea secondo cui i nómoi, le norme che regolano la vita delle città e dei popoli – nel senso molto ampio che il termine ricopre in greco: consuetudini, leggi, tradizioni –, non siano tali per natura o per rivelazione divina, ma costituiscano il prodotto di una mera convenzione umana e proprio per questo siano soggetti a variare da una cultura all’altra, senza che si possa invocare un criterio terzo e oggettivo in grado di stabilire la loro maggiore o minore pretesa di validità. Una posizione che, assunta fino alle sue logiche conseguenze, portava a dissolvere qualsiasi rivendicazione di “naturale” primato della cultura greca rispetto a quelle dei popoli barbari. Se ricordiamo la costituzione di Licurgo, e la tradizione che la voleva ratificata da un’esplicita sanzione divina, o i miti di altri legislatori, come il cretese Minosse, che dagli dèi stessi pretendevano di aver desunto l’intero apparato di norme destinato a regolare la vita delle loro comunità, il carattere progressivo della rivoluzione sofistica emerge in tutta la sua evidenza. Oltre tutto, quella rivoluzione investe una parte significativa della cultura contemporanea. Abbiamo già visto alcuni esempi tratti dalla produzione teatrale; qui possiamo aggiungere una
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memorabile pagina del più volte citato Erodoto, pagina che del relativismo culturale può considerarsi una sorta di manifesto: Infatti, se uno facesse a tutti gli uomini una proposta invitandoli a scegliere le usanze migliori di tutte, dopo aver ben considerato ognuno sceglierebbe le proprie: a tal punto ciascuno è convinto che le sue proprie usanze siano di gran lunga le migliori di tutte. […] E che tutti gli uomini sono di questo parere per ciò che riguarda le usanze, si può dedurre da molte altre prove e in particolare da questa: Dario durante il suo regno, chiamati i Greci che erano presso di lui, chiese loro a qual prezzo avrebbero acconsentito di cibarsi dei propri padri morti: e quelli gli dichiararono che a nessun prezzo avrebbero fatto ciò. Dario allora, chiamati quegli Indiani che sono detti Callati, i quali divorano i genitori, chiese, mentre i Greci erano presenti e seguivano per mezzo di un interprete i discorsi, a qual prezzo avrebbero accettato di bruciare nel fuoco i loro genitori defunti: e quelli con alte grida lo invitarono a non dire simili empietà. Tale è in questi casi la forza della tradizione, e a me sembra che giustamente Pindaro abbia detto nei suoi poemi, affermando che la consuetudine è regina di tutte le cose.
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Non c’è dubbio, quello condotto dal re Dario è una sorta di vero e proprio esperimento etnografico. Anche il caso di studio selezionato dal monarca persiano appare ben scelto, perché il trattamento del cadavere – e dunque l’insieme dei processi che lo trasformano in un oggetto culturale e ne permettono la corretta iscrizione nel mondo dei morti, da un lato, e nella memoria dei sopravviventi, dall’altro – è un elemento caratterizzante di qualsiasi società umana: non a caso già l’anonimo autore dei cosiddetti Discorsi duplici, espressione anch’essi della cultura sofistica, contrapponeva a questo stesso riguardo le usanze dei Greci e quelle dei Massageti, una popolazione nomade dell’Asia centrale, presso i quali fare a pezzi i propri genitori e mangiarli significava assicurare loro la più onorevole delle sepolture, proprio per indicare come persino in questo campo era solo la consuetudine a regolare i comportamenti umani. Soprattutto, Erodoto sottolinea l’efficacia normativa del nómos, ma al tempo stesso anche il suo carattere meramente convenzionale: lo storico si limita infatti a constatare l’esistenza delle due pratiche, quella dei Greci e quella dei loro interlocutori indiani, senza prendere partito a favore dell’una o dell’altra. A questo proposito, vale anzi la
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pena di ricordare un’altra pagina, nella quale lo storico illustra il criterio con il quale gli stessi Persiani valutavano gli altri popoli: I Persiani stimano, sopra tutti ma dopo se stessi, quelli che abitano loro più vicino, in secondo luogo quelli che sono per distanza al secondo posto, e poi continuando secondo questo ordine stimano gli altri; meno di tutti tengono in considerazione quelli che abitano più lontano da loro, ritenendo di essere essi stessi di gran lunga i migliori degli uomini in tutto e che gli altri partecipino delle virtù in proporzione, e che quindi quelli che abitano più lontano da loro siano i più spregevoli.
Anche i Persiani, insomma, ricorrono a un modello che colloca al centro la perfezione e l’eccellenza, facendola coincidere con sé stessi, e vede poi l’una e l’altra progressivamente sfumare a mano a mano che ci si muove verso le periferie del mondo. Ma se questo è vero, ne consegue che la nozione stessa di “centro” è arbitraria e convenzionale tanto quanto quella di “norma”: si tratta di una categoria mobile, che ogni cultura riferisce a sé stessa, determinando una pluralità di rivendicazioni che inevitabilmente si elidono l’una con l’altra e risultano in ultima analisi insostenibili. Erodoto mette così
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in questione la stessa presunzione etnocentrica dei Greci, o almeno a quest’ultima viene implicitamente attribuito lo stesso valore relativo di quella asserita dai loro nemici storici, quei Persiani di cui il discorso pubblico proclamava la radicale alterità e inconciliabilità e che invece si rivelavano così simili ai Greci in un aspetto cruciale della loro costruzione del mondo. La stessa conclusione viene suggerita del resto da una breve ma fulminante notazione relativa questa volta agli Egizi, dei quali Erodoto afferma, tra l’altro, che «chiamano barbari tutti quelli che non parlano la loro lingua». Come sappiamo bene, e come sapeva anche il lettore di Erodoto, si trattava del medesimo criterio adottato dai Greci, quello che discriminava lo straniero in primo luogo a partire dalla differenza linguistica; ora lo storico di Alicarnasso ricordava che anche quella categoria era reversibile e che bastava dislocare diversamente il punto di vista per diventare subito i barbari di qualcun altro. Nei secoli successivi la tesi di una sostanziale uguaglianza degli esseri umani affiora nella nozione di “cosmopolitismo”, propria di scuole filosofiche come il cinismo e soprattutto lo stoicismo, nato tra IV e III secolo a.C. e destinato a esercitare una grande e duratura influenza sui
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ceti dirigenti dell’intero bacino mediterraneo. Esse elaborano l’idea del mondo intero come di un’unica città, che supera e trascende le appartenenze locali, e dell’individuo come di un abitante della cosmopoli, su un piede di parità, almeno in linea di principio, con tutti gli altri uomini; e qualcuno poté persino pensare di vedere concretamente realizzato questo ideale nella politica di mescolanza etnica e nella promozione di matrimoni misti tra vincitori e vinti volute da Alessandro dopo la caduta dell’impero persiano. Il grande conquistatore macedone, secondo questi interpreti, «costrinse tutti a considerare come propria patria la terra abitata» e a non distinguere il greco dal barbaro, mettendo in comune «le vesti e le mense, i matrimoni e i modi di vivere, mescolati dal sangue e dalla prole», e facendo della virtù l’unico discrimine tra i propri sudditi. È però significativo che simili scelte suscitassero resistenze diffuse e prese di distanza anche all’interno del più stretto entourage di Alessandro. Lo storico ufficiale della spedizione, Callistene, pronipote di Aristotele e voluto da quest’ultimo al seguito del suo ex pupillo, venne giustiziato per essersi opposto all’adozione della proscinesi, una forma di omaggio al sovra-
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no in uso presso la corte persiana, vista come un’usanza barbara che mortificava la dignità dei vincitori greci. E nei resoconti sulle campagne di Alessandro redatti nei secoli successivi torna frequentemente contro i Macedoni l’accusa di degenerazione, per aver adottato in prosieguo di tempo quegli stessi costumi che erano venuti inizialmente a combattere. Del resto, alcune ricostruzioni “complottiste”, adombrate già dalle fonti antiche, non esitavano a identificare nello stesso Aristotele il mandante occulto dell’avvelenamento che nel 323 a.C. avrebbe stroncato un Alessandro appena trentatreenne e al culmine della sua fortuna. Alla vigilia della spedizione, Aristotele aveva consigliato al suo regale pupillo di comportarsi con i Greci da capo e con i barbari da padrone, trattando gli uni come amici e familiari, gli altri, invece, alla stregua di animali o piante; ora che la politica del conquistatore si allontanava così vistosamente da quei precetti, imboccando la via di una grandiosa sintesi tra mondi che Aristotele percepiva invece come inconciliabili, l’antico maestro avrebbe inteso fermare nel modo più drastico la deriva “filobarbara” di Alessandro. Ed è un fatto che dopo la morte di quest’ultimo l’esperimento di fusione interetnica venne abbandonato, mentre i regni
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nati dalla frammentazione dell’immenso impero furono governati da un’élite greco-macedone che si imponeva, restandone distinta, sulla massa della popolazione locale. 2. Eredità latine Nel I secolo a.C. il tema del relativismo culturale fa la sua comparsa anche nella letteratura latina; in particolare, esso è al centro di una bella pagina di Cornelio Nepote, senza dubbio la più profonda e intelligente tra quelle che ci sono rimaste di questo biografo e storico latino contemporaneo di Cicerone. Il testo in questione funge da premessa all’unica sezione a noi giunta delle Vite degli uomini illustri di Cornelio, relativa ai grandi generali stranieri, ed è rivolto al destinatario dell’opera, Tito Pomponio Attico: Caro Attico, non ho dubbi che molti riterranno troppo futile il tipo di storiografia da me praticato e indegno della personalità di uomini eccellenti, quando leggeranno che io riferisco il nome del maestro di musica di Epaminonda o che tra le sue qualità annovero il fatto che danzasse con eleganza o che suonasse il flauto con perizia. Ma quelli che si esprimono in questi termini sono all’incirca
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gli stessi che sono a digiuno di cultura greca e ritengono giusto solo quello che coincide con i loro propri costumi. Se tutti costoro vorranno capire che le cose onorevoli e quelle vergognose non sono le stesse per tutti, ma che esse sono valutate in un modo o nell’altro secondo la tradizione degli antenati, non si stupiranno più che io, nell’esporre le virtù dei Greci, mi sia adeguato ai loro costumi. Così, per Cimone non fu sconveniente, benché si trattasse di un uomo di grandissimo spicco ad Atene, sposare la sorella per parte di madre, dal momento che i suoi concittadini condividevano questa medesima usanza. In base ai nostri costumi invece una simile azione sarebbe empia. […] D’altra parte, esistono anche moltissimi comportamenti che sono decorosi in base ai nostri costumi e che loro invece giudicano vergognosi. A Roma, ad esempio, nessuno si vergognerebbe di farsi accompagnare a cena dalla propria moglie o di attribuire alla matrona il ruolo più importante della casa o di consentirle di comparire in pubblico, mentre tutte queste cose in Grecia sono oggetto di una ben diversa valutazione.
Non c’è che dire, Cornelio conosce molto bene i riflessi condizionati dei suoi connazionali nei confronti dei Greci, gli stessi ai quali anche noi abbiamo fatto riferimento in un capitolo pre-
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cedente, e si affretta a prendere le sue cautele: quanti giudicheranno una frivolezza il fatto che il biografo ricordi tra le virtù di Epaminonda la sua abilità nella danza, attività disdicevole agli occhi dei Romani benpensanti, sono gli stessi che nella loro ignoranza della cultura greca considerano validi solo i costumi con i quali hanno maggiore familiarità. A questa visione dal fiato corto e angustamente identitaria Cornelio contrappone una scelta diversa, ispirata a un approccio che gli antropologi definirebbero “emico”: nel descrivere una cultura diversa dalla propria, l’osservatore deve tenersi il più possibile vicino alle categorie “indigene”, evitando di sovrapporre indebitamente le sue griglie interpretative o il suo sistema di valori al punto di vista dei nativi. Se insomma Cornelio riferisce il nome del maestro di musica di Epaminonda, è perché la cultura greca cui apparteneva il grande generale tebano attribuisce un grande rilievo a questa disciplina nella formazione dell’uomo dabbene. Ma nella pagina di Cornelio c’è un elemento ancora più interessante da rilevare. Quando parla delle «tradizioni degli antenati», facendone l’unico parametro pertinente per giudicare un costume o un modello di comportamento,
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l’autore latino ricorre infatti più volte al termine institutum, participio di un verbo, instituere, che significa “stabilire”, “fissare”, “decidere” e compare spessissimo nei testi letterari o storiografici a proposito delle decisioni di un’assemblea o degli ordini impartiti da un generale sul campo di battaglia. In tutti questi casi, il termine si riferisce dunque a qualcosa di squisitamente umano, frutto dell’accordo tra i membri di un corpo politico o dell’autonoma determinazione di un singolo dotato di autorità. Se ora riferiamo le proprietà semantiche di instituere o institutum all’uso che ne fa Cornelio Nepote nella sua Prefazione, le implicazioni di questa scelta lessicale appaiono evidenti: per lo storico latino le tradizioni di una società, quelle tradizioni che sono talmente potenti da modellare i comportamenti dei soggetti che ne fanno parte, rappresentano pur sempre il frutto di decisioni umane, assunte da qualcuno in un remoto passato e divenute autorevoli per via del lungo tempo trascorso. Non si tratta dunque di norme assolute o atemporali, anche se certo sarebbe impossibile stabilire chi per primo le abbia introdotte, e men che meno di regole dettate da un qualche legislatore divino, e come tali immutabili. Inoltre, ogni cultura ha i suoi instituta, in conformità con i quali
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regola la propria condotta, senza che sia possibile stabilire che gli instituta di alcuni siano superiori a quelli di altri: a pensarla così sono solo gli expertes litterarum, come li definisce Cornelio, insomma gli ignoranti. Ma il relativismo non è necessariamente l’esito di un’avanzata riflessione intellettuale: esso può anche essere il frutto coatto di un’esperienza dolorosamente subita, che rischia di portare sino a un passo dalla perdita di sé. Nell’anno 8 d.C., per ragioni che conosciamo solo in parte e in parte possiamo solo intuire, il grande poeta Ovidio viene relegato da Augusto nel minuscolo borgo di Tomi, agli estremi confini nordorientali dell’impero, in un’area abitata dalla locale popolazione dei Geti. Nelle due raccolte composte durante l’esilio, che non venne mai revocato, Ovidio esplora la propria condizione in ogni suo aspetto, lamentando tra l’altro l’impossibilità di servirsi della lingua materna, quella che con inarrivabile talento aveva impiegato nei suoi capolavori, in un contesto nel quale nessuno sarebbe stato in grado di intendere le sue parole; e in un carme giunge a dichiarare di aver appreso il getico e di aver composto in quella lingua persino un poemetto, che non è giunto sino a noi ma viene considerato dai Ru-
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meni, nei cui confini ricade oggi l’area di Tomi, come l’opera più antica della loro letteratura. Ecco in particolare un passaggio che risulta per noi di estremo interesse: Essi parlano tra loro una lingua comune: e attraverso i gesti io debbo farmi capire. Qui il barbaro sono io, che nessuno capisce, e stolidi i Geti ridono alle parole latine.
In questa esperienza estrema, che rischia di incidere a fondo sulla sua stessa percezione di sé, Ovidio sperimenta drammaticamente la condizione dell’escluso, tagliato fuori da ogni possibilità di comunicare con chi lo circonda. Il suo sguardo è pur sempre quello di un uomo che sente di appartenere a una civiltà superiore, ai cui occhi i Geti non possono che apparire dei bestioni sciocchi e sanguinari; ma adesso è la sua lingua a risultare incomprensibile, è lui a trovarsi nella condizione di non essere compreso da nessuno. Ancora una volta, e nel modo più doloroso, essere barbari è solo una questione di punto di vista.
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3. Imparare dai selvaggi L’affermazione filosofica di una sostanziale uguaglianza del genere umano o quella, meno ardita ma ugualmente significativa, che sottolinea la relatività delle diverse culture e la necessità di giudicarle iuxta propria principia, evitando di estendere abusivamente i criteri di valore dell’osservatore all’oggetto osservato, non esauriscono le visioni alternative dello straniero elaborate nel mondo antico. Un modello ulteriore si può infatti cogliere in un filone altrettanto minoritario, ma robusto, che potremmo definire, prendendo a prestito una categoria suggerita dalla scoperta del Nuovo Mondo e più tardi dalla riflessione di Jean-Jacques Rousseau, come il paradigma del “buon selvaggio”, il “primitivo” che però, proprio perché tale, vive un’esistenza più vicina alla natura ed è il portatore di un’eticità genuina e incorrotta. Nella cultura greca, la figura più interessante a questo riguardo è senza dubbio quella dello scita Anacarsi, proveniente da un popolo che nella geografia degli antichi occupa i vasti e inesplorati territori a nord del mar Nero e protagonista di una singolare peripezia intellettuale, destinata a una fortuna che supera largamente i confini del mondo antico. A parlarne per primo
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è Erodoto, che lo colloca nel VI secolo a.C., ne fa un membro della famiglia reale e lo presenta come un viaggiatore saggio e curioso, giunto in Grecia e qui appassionatosi ai suoi costumi. Quando però tenta di introdurre tra i suoi connazionali una celebrazione religiosa greca, Anacarsi viene denunciato e messo a morte, perché gli Sciti, spiega ancora Erodoto, sono particolarmente gelosi delle proprie tradizioni culturali e ostili ad accogliere usi provenienti dall’esterno. Nella sua variante originaria, insomma, quello di Anacarsi è il racconto di uno Scita illuminato che proprio perché tale si innamora della Grecia, salvo perire più tardi a causa dell’ottusa chiusura identitaria dei suoi compatrioti. Nel corso del tempo, però, questo profilo iniziale va incontro a una decisa metamorfosi. Intanto, alla sapienza che già veniva accreditata ad Anacarsi da Erodoto si affiancano altre virtù, come la semplicità, la devozione religiosa, l’intelligenza e la temperanza nei piaceri, quindi si arriva a iscrivere il suo nome nel canone dei Sette sapienti, unica figura di straniero ammesso in quell’esclusivo e prestigioso Gotha di pensatori e uomini di governo; infine, in epoca tardo-antica, Anacarsi viene addirittura accostato ai massimi filosofi greci, da Socrate a Platone ad Aristotele.
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È però probabilmente nel contesto della scuola filosofica cinica, intorno al III secolo a.C., che quello di Anacarsi diventa uno sguardo vergine sulla cultura greca, da parte di un osservatore esterno immune dalla corruzione della civiltà e foriero invece di una saggezza innata, che gli deriva proprio dalla sua origine barbarica. Prende così corpo una raccolta di epistole fittizie che si immaginano indirizzate da Anacarsi a sovrani e leader politici fuori e dentro il mondo greco: un falso, insomma, che però ha avuto la ventura di giungere sino a noi, a ulteriore conferma della fortuna arrisa al personaggio che ne veniva considerato il vero autore. L’attacco di un paio di queste lettere mostra con chiarezza il tipo di operazione culturale che aveva in mente il loro anonimo redattore. Nella prima, rivolta ai cittadini di Atene, Anacarsi esordisce ricordando di essere stato deriso per il fatto di non parlare bene il greco e obietta che anche gli Ateniesi si trovano nella medesima situazione allorché si esprimono davanti a un uditorio scitico: dunque la convenzionale definizione dello straniero come di un “balbettante” – è questo, come sappiamo, il significato proprio del termine bárbaros – non esprime un dato oggettivo, ma un giudizio reversibile e dipendente esclusivamente dal punto di
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vista di chi lo pronuncia. Una pagina della quale si ricorderà forse il geografo Strabone – le cui riflessioni sulla nozione di “barbaro” abbiamo menzionato nel primo capitolo di questo libro – quando, dopo aver affermato che il termine è riferito a chi pronuncia il greco con suoni aspri e lingua impacciata, riconosce che anche i Greci suscitano la medesima impressione allorché parlano le lingue degli stranieri. D’altra parte, se non esiste una superiorità dei Greci sul piano linguistico, essa non ha ragion d’essere neppure su quello della razionalità, come chiarisce l’attacco della seconda epistola: «Sono saggi, i Greci, ma non certo più saggi dei barbari. Infatti, gli dèi non hanno negato ai barbari la capacità di sapere in cosa consiste il Bene». Naturalmente, le lettere abbondano di riferimenti allo stile di vita sobrio degli Sciti, contenti del poco, esenti dall’avidità di beni e ricchezze, capaci di reprimere i desideri smodati e le passioni tristi, inclini a vivere in armonia con la natura. Infine, una stoccata ulteriore all’ideo logia mainstream è la ritornante affermazione secondo la quale solo chi viva al modo degli Sciti è davvero libero, mentre i Greci, che tali si credono per definizione e che amano identificare barbarie e schiavitù, come faceva Aristotele, sono in realtà succubi delle loro brame.
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Nel mondo romano, considerazioni riconducibili al modello del buon selvaggio, tale in quanto esente dalle mollezze della civiltà, si colgono nella pagina con cui Cesare apre il resoconto della sua campagna gallica. Qui, a proposito delle popolazioni stanziate nella regione transalpina, lo storico osserva, tra l’altro, che il peculiare vigore dei Belgi deriva loro proprio dal fatto di essere l’etnia più distante dall’area sotto il controllo romano e dunque la meno frequentata dai mercanti italici, i cui raffinati prodotti, dal vino agli oggetti di lusso, hanno l’effetto di indebolire i loro animi (ma Cesare dice, più icasticamente, di effeminare). Dunque, quanti vivono lontano dai confini dell’impero sono certo più selvaggi, ma anche militarmente più valorosi: la loro forza non è stata stroncata dal contatto con la civiltà, i loro corpi si presentano più virili e adatti al combattimento. Al contrario, l’abbandono delle tradizioni guerriere o semplicemente la fine dello stato di endemica conflittualità interetnica assicurata dall’egemonia romana, da un lato, immettono i popoli conquistati nel circuito di una cultura superiore, dall’altro, e al tempo stesso, li rammolliscono. Un secolo e mezzo più tardi, considerazioni analoghe sono sviluppate da Tacito a proposito
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dei Britanni, la cui indomita fierezza e la conseguente resistenza alla penetrazione romana dipendono dal fatto che «non erano stati ancora fiaccati da una lunga pace», laddove invece i Galli, anch’essi un tempo guerrieri di grande spicco, una volta conquistati «hanno perduto in un solo momento sia il valore che la libertà». Come già accadeva in Cesare, insomma, la pace ha il potere di effeminare i popoli che ne beneficiano: non a caso il verbo emollire impiegato da Tacito può assumere in latino anche il significato tutt’altro che metaforico di “castrare”. Più in generale, anche la cultura romana adotta il motivo del selvaggio come dotato di una naturale moralità, che fa paradossalmente della sua barbarie un modello per i (potenziali) conquistatori. È quanto accade con gli Sciti, non a caso lo stesso popolo cui apparteneva il saggio Anacarsi: nella descrizione che ne fa in età augustea lo storico Pompeo Trogo, essi per un verso appaiono simili ai Ciclopi dell’Odissea, dal momento che ignorano l’agricoltura, praticano esclusivamente la pastorizia, non hanno dimore o città, si nutrono di latte e miele e usano per coprirsi le sole pelli animali, per altro verso sono mossi da una spontanea inclinazione alla giustizia che, pur in assenza di leggi e tribunali, guida in
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modo efficace i loro comportamenti. Di qui la conclusione di Trogo: sarebbe bello se gli altri uomini avessero simile morigeratezza e disinteresse per i beni degli altri […]. E pare davvero degno di ammirazione che la natura dia loro ciò che i Greci non riescono ad ottenere con l’antica dottrina dei sapienti e gli insegnamenti dei filosofi, e che raffinati costumi vengano superati a confronto con l’incolta barbarie. L’ignoranza dei vizi ha giovato agli Sciti ben più che ai Greci la conoscenza della virtù.
La natura prevale dunque sulla cultura, l’indole dei barbari illetterati è superiore a tutta la raffinata filosofia dei Greci. Alcuni decenni più tardi, considerazioni analoghe sono riprese da Tacito nella Germania, il già ricordato trattatello etnografico composto nell’ultimo scorcio del I secolo d.C. L’ammirazione del grande storico è rivolta soprattutto, non a caso, ai costumi sessuali dei Germani, particolarmente severi in materia di adulterio femminile, che Tacito descrive opponendoli con trasparente allusione alla degenerazione della coeva società romana: La donna che abbia fatto scempio del proprio onore non trova perdono: per quanto sia bella, per
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quanto sia giovane o ricca, non le sarà mai possibile trovare marito. Lì nessuno ride dei vizi, lì sedurre ed essere sedotti non è considerato un passatempo alla moda. […] Presso i Germani i buoni costumi hanno più forza di quanta ne abbiano altrove le buone leggi.
Le «buone leggi» di cui parla Tacito sono quelle destinate alla repressione dell’adulterio, varate a suo tempo dal fondatore del regime imperiale, Augusto, e rimaste in vigore sino alla caduta del mondo antico. Leggi particolarmente severe, che prevedevano persino l’istituzione di un tribunale ad hoc deputato allo svolgimento dei processi sulla delicata materia, ma delle quali le fonti antiche denunciano a più riprese l’inefficacia. Agli occhi dello storico, la “naturale” eticità dei Germani riesce dunque laddove a Roma falliscono anche i progetti legislativi nati con le migliori intenzioni. Naturalmente, quei popoli si mostrano inflessibili anche nei confronti dell’omosessualità passiva, una pratica considerata a Roma particolarmente infamante, al punto da prevedere come pena per chi se ne macchiasse l’immersione nel fango di una palude, fino al soffocamento del malcapitato. Il motivo del “barbaro buono” giunge sino al tramonto della civiltà classica. Naturalmente, la
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letteratura dei decenni che precedono e accompagnano la fine dell’impero d’Occidente pullula di quadri che dipingono, talvolta con ironia, altre volte con raccapriccio, il profilo dei popoli che sempre più spesso e sempre più a fondo stanno penetrando nella carne viva del territorio romano e si preparano infine a travolgerne le difese. Si va dal vescovo-poeta Sidonio Apollinare, costretto ad acquartierare in casa propria un gruppo di Burgundi e impossibilitato a comporre versi per il nauseabondo odore di cipolla che si alza dalle cucine dei suoi ospiti, allo storico Ammiano Marcellino, per il quale gli Unni possono a stento definirsi uomini, inclini come sono a nutrirsi di erbe selvatiche e carni semicrude, appena frollate, tenendole fra le cosce e il dorso dei cavalli dai quali non scendono mai. E descrizioni analoghe riguardano, in questi e in altri autori tardi, gli Alani, i Vandali, i Goti e più in generale le etnie che si riversano entro i confini dell’impero e prendono ormai stabile dimora accanto o al posto dei suoi tradizionali abitatori. Eppure, insieme a questi quadri tanto ricorrenti quanto largamente stereotipati, in cui si esprimono le paure di un mondo che avverte angosciosamente l’approssimarsi della fine, non
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mancano testi che recuperano il motivo del buon selvaggio e ne fanno una categoria per interpretare le vicende della storia contemporanea. Alla metà del V secolo d.C., una manciata d’anni prima del crollo definitivo dell’Occidente, il presbitero e storico Salviano di Marsiglia se ne serve negli otto libri del suo Governo di Dio per giustificare le ripetute sconfitte dei Romani cristiani e l’affermazione dei popoli germanici “pagani”, avviati a diventare i nuovi padroni dell’impero. Tale affermazione, argomenta Salviano, è stata in realtà permessa da Dio proprio perché quei popoli dimostrano un rifiuto dell’omosessualità e un rispetto per l’onore delle donne di gran lunga superiori a quelli esibiti dai Romani, evidenti in particolare nella severità con la quale reprimono l’adulterio e la sodomia: gli stessi aspetti che colpivano Tacito tre secoli e mezzo prima. Proprio i famigerati Vandali, che nei decenni precedenti avevano occupato i territori nord-africani dell’impero e che di lì a poco avrebbero messo a ferro e fuoco la stessa città di Roma, guadagnandosi la fama tuttora legata al loro nome, sono lodati da Salviano per le leggi che impongono le nozze coatte alle donne che prima del loro arrivo praticavano la prostituzione e tutelano l’unicità del matrimonio, del tutto estranea al
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diritto romano classico e invece particolarmente valorizzata dall’etica cristiana della famiglia. Insomma, per quest’ultimo storico del mondo antico i barbari vincono perché sono migliori dei Romani, e lo sono in particolare nel campo dell’etica sessuale e delle relazioni fra uomini e donne, avvertito come decisivo dai seguaci del nuovo credo e dal loro dio. In questa sua incarnazione estrema, al tramonto del mondo antico, il mito del buon selvaggio assolve così una funzione speculare a quella esercitata in Vitruvio dal paradigma geoclimatico, cui abbiamo fatto riferimento nel capitolo precedente: se quest’ultimo si prestava ottimamente a giustificare l’affermazione e l’egemonia dei Romani sui barbari, ora quel mito assumeva invece il compito di spiegarne la sconfitta e imponeva il crisma della volontà divina alla loro imminente espulsione dalla storia.
VI Epilogo
Dopo aver fluttuato per lunghi giorni fra le onde in tempesta, implacabilmente perseguitato dal signore del mare Posidone, Odisseo è stato infine deposto dalle acque sulla terraferma. L’eroe si trascina faticosamente a riva, con la pelle incrostata di sale, raggiungendo a stento un bosco che si spinge fino a lambire il mare; qui ha cura di scegliere un anfratto riparato, fra un olivo e un oleastro, e di proteggere accuratamente il corpo nudo con una cortina di foglie. Per fortuna, neppure in questo momento la sua dea tutelare, Atena, si dimentica di lui, versandogli sugli occhi il sonno, come se fosse un balsamo, perché presto e bene si liberi della pena e della stanchezza. Odisseo si sveglierà di soprassalto solo più avanti – nel frattempo Omero ha avuto modo di chiudere il quinto libro dell’Odissea per aprire il successivo –, destato da giovani grida
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femminili: un gruppo di ragazze si è recato al fiume a lavare i panni di un corredo da sposa, poi li ha stesi al sole ad asciugare e ora, in attesa che il calore faccia il suo effetto, si distrae giocando a palla; in lontananza si intravede un carro, con le stanghe poggiate sul prato, mentre le mule che lo hanno tirato sin lì brucano l’erba poco più avanti. Così, questa pagina omerica offre anche un bellissimo scorcio di vita femminile nella Grecia dei secoli bui. Quando poi la palla cade in acqua, per il tiro maldestro di una delle ragazze, ecco alzarsi un grido più forte degli altri, che sveglia l’eroe. Sbirciando dal suo nascondiglio fra i rami, Odisseo non tarda a rendersi conto della situazione e come sempre si interroga sulla cosa migliore da fare: Ahimè, alla terra di quali uomini sarò arrivato? Saranno violenti, ingiusti, selvaggi, oppure ospitali, e avranno un animo pio?
Si tratta, diciamolo subito, di versi formulari, che ricorrono identici anche in altri punti dell’Odis sea: come quando l’eroe, sbarcato sulla costa dei Ciclopi, dichiara analogamente ai compagni di voler esplorare quella terra sconosciuta, allo scopo di conoscere l’indole dei suoi abitanti.
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Guardiamo allora più da vicino gli aggettivi che chiudono la sequenza e rappresentano il polo positivo dell’alternativa prospettata da Odisseo: philóxenos, “ospitale”, significa più precisamente “benevolo verso gli stranieri” ed è composto a partire dallo stesso termine xénos che abbiamo esaminato nelle prime pagine di questo libro; subito dopo Odisseo ricorre a un secondo aggettivo, theoudés, “pio”, propriamente “che ha timore degli dèi”, e lo riferisce all’animo degli uomini che si ripromette e al tempo stesso paventa di incontrare. La cultura omerica sembra dunque istituire un nesso molto forte tra il rispetto che si deve allo straniero e il timore che occorre nutrire verso gli dèi e al tempo stesso contrappone questi due atteggiamenti alla violenta ingiustizia di un popolo selvaggio. Sul punto, comunque, torneremo fra un attimo: prima dobbiamo occuparci di Odisseo, la cui disperata condizione non consente indugi. L’eroe è nudo, avendo perso tutto nel naufragio della sua imbarcazione, ma strappa dal fitto della boscaglia un ramo frondoso e se ne cinge i fianchi, coprendo in qualche modo i genitali, quindi avanza verso il gruppo raccolto sulla riva del fiume, che non si è accorto sino ad allora della sua presenza. Inevitabilmente, le ancelle
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si disperdono spaventate di fronte all’apparizione inattesa; solo la giovane donna che le guida, Nausicaa, figlia del re dell’isola su cui l’eroe è stato sbattuto dalla tempesta, rimane immobile, perché Atena, ancora lei, le ha infuso coraggio e ha scacciato dal suo cuore la paura. È a questo punto che Odisseo si produce in un memorabile appello alla principessa, di grande efficacia e anche, va detto, di straordinaria bellezza poetica, nel quale succintamente spiega a Nausicaa la sua situazione e ne sollecita l’aiuto. A noi interessa però soprattutto la saggia e rassicurante risposta della donna: Zeus distribuisce a tutti gli uomini i beni e i mali, a suo piacimento, e questi ultimi, quando toccano in sorte, vanno sopportati con pazienza; ora, però, dal momento che Odisseo è giunto alla terra dei Feaci, non gli mancherà un abito e tutto quanto si deve a un supplice provato dalla sventura. Nausicaa richiama quindi le ancelle, che ancora si tengono a distanza dalla singolare coppia: Fermatevi, ancelle. Dove fuggite per aver visto un uomo? Forse pensate che sia un qualche nemico? Non c’è un uomo vivente, non ci potrà mai essere che arrivi nel paese dei Feaci portando inimicizia; noi siamo cari agli immortali
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[…] Ma questo arriva qui vagando infelice e dobbiamo occuparci di lui; vengono tutti da Zeus gli stranieri e i mendichi; è caro anche un piccolo dono. Su, ancelle, date allo straniero da mangiare e da bere, e lavatelo nel fiume al riparo dal vento.
Possiamo adesso capire meglio perché Odisseo aveva congiunto strettamente timore degli dèi e benevolenza verso gli stranieri: nelle parole di Nausicaa, l’obbligo di accogliere chi giunge da lontano, specie se è in condizioni di bisogno e si presenta dunque nella veste del mendico e del supplice, discende direttamente dal fatto che questi «viene da Zeus», è posto cioè sotto la diretta protezione del dio supremo. E certo deriva anche dal rispetto delle norme stabilite dagli dèi la convinzione della principessa circa la buona disposizione di questi ultimi verso il suo popolo. L’isola dei Feaci appare davvero il contraltare di quella dei Ciclopi, colpevoli al tempo stesso di non riconoscere l’autorità degli dèi e di non osservare le regole dell’ospitalità: non a caso, una volta giunto alla reggia di Alcinoo, padre di Nausicaa, Odisseo sarà ammesso alla mensa del re e alla spartizione del cibo e del vino, su un
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piede di parità con i Feaci che siedono accanto al proprio sovrano, laddove invece Polifemo non solo aveva rifiutato di porgere al nuovo arrivato i doni ospitali, ma lo aveva costretto a una commensalità deformata e stravolta, nella quale i compagni stessi dell’eroe si trasformavano in cibo per il mostro. Spostiamoci ora in un altro orizzonte culturale, distante un millennio da quello nel quale Omero ha composto i suoi versi: anche se siamo ancora nel contesto di un naufragio e di un eroe piombato inopinatamente in una terra sconosciuta. Il primo libro dell’Eneide, dopo il celebre esordio nel quale Virgilio promette di cantare le armi e l’uomo che per primo giunse da Troia alle coste di Lavinio, si apre infatti a sua volta con una scena di tempesta che deve molto al remoto modello omerico. La flotta dell’eroe, salpata inizialmente dalla Sicilia in direzione dell’Italia continentale, è adesso in balìa del mare: impossibilitate a tenere la rotta, le navi sono preda delle forze scatenate da Giunone, nemica giurata dei Troiani e fermamente decisa, se non a impedirne l’arrivo nella penisola, voluto dal fato immutabile, quanto meno a ritardarlo il più possibile. Alla fine, i superstiti del naufragio prendono terra su un litorale sconosciuto, che solo più
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avanti sarà possibile identificare con le sponde nord-africane prospicienti la Sicilia, ma per il momento restano ancora dispersi: in particolare, Enea e i suoi approdano in un luogo deserto, insieme con sette navi della flotta. Di lì a poco, l’apparizione di Venere nelle mentite spoglie di una cacciatrice fa sapere loro che non lontano sta sorgendo una nuova città, Cartagine, fondata dalla regina Didone insieme a un gruppo di esuli fenici; è a lei che i Troiani potranno rivolgersi per chiedere ospitalità e tirare in secco le navi, in modo da ripararle e metterle nuovamente in grado di affrontare il mare. Un altro gruppo di naufraghi, invece, ha preso terra più vicino alla città in costruzione ed è stato per questo respinto malamente dalle sentinelle di Didone, che hanno scambiato i Troiani per predoni scesi sulla terraferma allo scopo di fare bottino. Di questo trattamento uno dei compagni di Enea, Ilioneo, si lamenta davanti alla stessa regina, con parole accorate: O regina, cui Giove concesse il frenare superbi popoli con la giustizia e una nuova città costruire, per tutti i mari portati dai venti, infelici Troiani, noi ti preghiamo, risparmia il nefando incendio alle navi,
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salva un popolo pio, e più da vicino consideraci. Noi non venimmo o a guastare col ferro i Penati di Libia o a trascinare alle spiagge prede ghermite; nell’animo non c’è una tale violenza, né tanta superbia in noi, vinti. […] Che stirpe d’uomini è questa? O quale mai tanto barbara patria permette questi usi? Ci nega accoglienza alla riva, viene a aggredirci, e ci vieta un margine estremo di terra. Se non curate il genere umano e le armi mortali, considerate gli dèi almeno, memori di bene e male.
Sono versi che non possono non richiamare, a chi li legga in questo inizio di XXI secolo, la condizione di quanti oggi nello stesso tratto di mare tra la Sicilia e l’Africa rischiano la vita lungo una rotta inversa a quella dei Troiani oppure riescono a scampare ai pericoli del viaggio solo per vedersi respinti o trattenuti per settimane nei porti d’arrivo. Agli occhi del troiano Ilioneo, una terra che neghi l’approdo ai naufraghi, che non conceda loro di raggiungere la riva e di sbarcarvi, che anzi li respinga con la violenza e li
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ricacci da dove sono venuti, è una terra barbara, i cui abitanti sono a stento degni di appartenere al consorzio umano. E tale si rivela altresì un popolo che aggredisca chi non è giunto con intenzioni ostili, ma porta con sé il duplice carico di dolore rappresentato dalla disfatta della sua patria e da un lungo e penoso viaggio per mare, del quale ancora non intravede la fine. Non solo: ritroviamo qui, sia pure espresso in una forma diversa, un motivo del tutto analogo a quello che si coglieva già nelle parole della Nausicaa omerica e sul quale ci siamo brevemente soffermati nelle pagine precedenti. Per dare forza alla sua richiesta di asilo, e insieme stigmatizzare il comportamento delle sentinelle cartaginesi, anche Ilioneo invoca infatti gli dèi: dèi che sono «memori», che tengono cioè conto delle azioni e delle colpe degli uomini e non tarderanno a sanzionare il mancato rispetto degli obblighi legati all’ospitalità. Tuttavia, la prospettiva di Virgilio è in parte diversa da quella omerica: nell’Odissea sono le ancelle a essere richiamate da Nausicaa alla necessità di essere «memori», ricordando che mendichi e stranieri sono protetti da Zeus e che proprio per questo occorre mostrarsi benevoli nei loro confronti; nel poema virgiliano sono invece gli dèi a prendere nota del bene e
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del male compiuto dagli uomini e questi ultimi vengono invitati a tenerne conto, certi che prima o poi finiranno per scontare gli effetti delle loro inadempienze. Servio, il dotto grammatico che in età tardo-antica scrisse un commento agli opera omnia di Virgilio, trovava anzi l’aggettivo «memori» particolarmente ben scelto da parte del poeta: «perché gli dèi», spiega, «anche se non puniscono subito le colpe, ne serbano tuttavia il ricordo». Nel suo discorso di replica, Didone si assume la piena responsabilità di quanto è accaduto: Teucri, sciogliete dal cuore il timore e cacciate gli affanni. Dura vicenda, e un regno recente, mi forzano a simili provvedimenti e a curare a distesa con guardie i confini. […] vi manderò via sicuri, prestandovi mezzi ed aiuto. E se volete restare con me in questi regni, da uguali, vostra è la rocca che innalzo. Tirate in secco le navi. Per me fra Tirio e Troiano non si farà differenza.
Didone dunque si dichiara pronta non solo ad accogliere i Troiani, consentendo loro di trattenersi in terra libica sino a quando non saran-
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no in grado di riprendere il mare, ma anche a sostenere le loro necessità materiali e persino a fare di essi, se sceglieranno di fermarsi a Cartagine, un solo popolo con gli esuli fenici, senza discriminazioni di trattamento fra gli uni e gli altri: un’affermazione cui viene data pronta attuazione nel seguito del libro, dal momento che i naufraghi si tratterranno effettivamente in città per tutto il lungo inverno e che l’eroe stesso assumerà accanto alla regina il ruolo di una sorta di principe consorte. Quello che però più conta dal nostro punto di vista è il fondamento etico posto da Didone alla base della sua scelta di apertura e da lei espresso, nel prosieguo del suo discorso, con uno dei versi più belli che Virgilio abbia mai scritto: Non ignara mali, miseris succurrere disco («Non ignara di mali, imparo a soccorrere i miseri»). Al pari dei Troiani di Enea, Didone è a sua volta un’esule, ha conosciuto in prima persona l’esperienza dello sradicamento e della violenza, è fuggita da una città che le aveva strappato gli affetti più cari e non era in grado di garantirle una vita sicura, ha lungamente percorso il Mediterraneo solo per approdare infine in una terra ostile, che a malapena ne sopporta la presenza e dalle cui minacce è costretta a guardarsi.
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Questo modo di porre la questione da parte della regina di Cartagine risulta in effetti di grande interesse. La disponibilità manifestata da Didone, la sua solidarietà verso uomini che fuggono dalla guerra e che sono approdati sulle sue rive mentre erano in cerca di migliori condizioni di vita non nascono infatti da motivazioni di ordine religioso, alle quali pure Ilioneo nella sua rampogna aveva fatto appello, e neppure da un astratto ideale filantropico che impone di mostrare benevolenza verso gli altri uomini. Il presupposto cui la regina si riferisce appare invece al tempo stesso più concreto e più profondo: è la scuola del dolore, maestro duro e potente, è l’empatia con chi soffre che discende dal fatto di aver condiviso in passato la stessa sofferenza e un’analoga costrizione ad abbandonare la propria terra. Una forma altissima di etica profana, quella espressa da Didone, fondata com’è sul riconoscimento di una comune condizione umana segnata per tutti indistintamente dall’esperienza del male e in grado proprio per questo di chiamare tutti al reciproco, benevolo soccorso. Siamo così giunti alle conclusioni del nostro percorso; ma prima di congedare il lettore che con pazienza ci abbia seguito sin qui, c’è un’ultima considerazione che vogliamo ancora suggeri-
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re. Pagine come quelle che raccontano il naufragio di Odisseo nell’isola dei Feaci, e più ancora quello dei Troiani sulle coste di Cartagine, sono note da tempo immemorabile alla tradizione occidentale, perché appartengono a testi letterari che nel corso dei millenni hanno contribui to potentemente a forgiarne l’immaginario, la cultura diffusa, la visione del mondo. Al tempo stesso quelle pagine, lo abbiamo già accennato, acquistano nel nostro presente una risonanza nuova: sono versi che non si possono leggere, oggi meno che mai, solo come poesia, magari per compiacersi delle eleganti soluzioni formali o delle raffinate scelte lessicali o retoriche con cui Omero o Virgilio li hanno impreziositi. Alla sensibilità di chiunque si lasci toccare la mente dalle «lacrime delle cose» e dalle «vicende dei mortali», per riprendere ancora due espressioni dell’Eneide, essi non possono non richiamare infatti le tragedie che accompagnano negli anni più vicini a noi l’intensificarsi dei movimenti migratori tra le due sponde del Mediterraneo, tra il feroce sfruttamento della sofferenza praticato dai mercanti di vite umane e l’arroccamento talora non meno feroce dell’Europa nella difesa manu militari dei propri confini. Se poi proviamo a sporgere lo sguardo appena oltre quei
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confini, il panorama desolante che si presenta ai nostri occhi ci mostra un mondo brulicante di esuli, di sradicati, di profughi, spesso di naufraghi, che spinge masse sterminate di donne e uomini alla ricerca di una terra nella quale insediarsi e di migliori condizioni di vita per sé e per i propri figli. In un contesto del genere, diventa allora urgente ripensare in termini nuovi la nozione di “straniero” e quella di “cittadinanza” che ad essa, come abbiamo visto più volte nel corso di questo libro, è strettamente legata, per non tagliare fuori dai recinti del privilegio un numero crescente di esseri umani, colpevoli solo di essere nati all’esterno di quegli stessi recinti e di non rassegnarsi a restarne esclusi. Su questioni così complesse e articolate, beninteso, i Greci e i Romani dei quali abbiamo lungamente discusso nelle pagine di questo libro, con i loro xénoi e i loro bárbaroi, i loro advenae e i loro peregrini, o magari i loro “buoni selvaggi”, non hanno nulla da insegnarci, nulla per cui possiamo prenderli a modello, importando semplicemente le loro soluzioni e facendole nostre. Troppo diversa è la nostra società dalle loro, troppo diversi i problemi che deve affrontare, anche se nelle pagine di poeti come Omero o Virgilio può capitare di avvertire una
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nota che ci è dolorosamente familiare, proprio per il fatto di entrare in risonanza con esperienze e vissuti del nostro tempo. Tanto è vero che quando i moderni hanno provato ad annettersi gli antichi per dare lustro ai propri costrutti ideologici hanno finito inevitabilmente per distorcerli e piegarli abusivamente ai loro scopi, come quando Benito Mussolini definì i Romani «razzisti fino all’inverosimile», in barba a ogni verità storica, pochi mesi prima di varare le famigerate leggi che introducevano anche in Italia la discriminazione anti-ebraica. A noi è bastato mostrare, per grandi linee e selezionando solo alcune delle molte, possibili piste di approfondimento, in che modo due grandi culture dell’antichità hanno pensato lo straniero, tematizzato l’alterità, gestito il confronto con un mondo già allora irriducibilmente plurale. Ma dopo aver interrogato quelle culture, e ascoltato le loro risposte, è solo a noi che spetta il compito di trovare nuovi percorsi verso una storia e un’umanità migliori.
Fonti e percorsi
La bibliografia che segue non ha alcuna pretesa di completezza. Non solo i temi affrontati nel saggio sono vari e articolati, ma le ricerche sulla percezione e sulla costruzione dello straniero e dell’Altro si sono infittite negli ultimi decenni, anche sulla scorta delle urgenze del presente, dalla lotta per la parificazione giuridica della popolazione di colore negli Stati Uniti ai cosiddetti studi post-coloniali, fino alle analisi legate al moltiplicarsi dei flussi migratori in ogni parte del mondo tra XX e XXI secolo. I titoli che seguono, divisi a seconda del capitolo al quale più propriamente si riferiscono, mirano dunque solo a offrire al lettore interessato un primo spunto per ulteriori approfondimenti. A questo scopo si sono scelti perlopiù studi recenti, di ampio respiro e, ove possibile, in lingua italiana, benché anche nel campo tradizionalmente poli-
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glotta dell’antichistica il predominio dell’inglese sia ormai un fatto compiuto. Infine, diamo qui conto delle fonti da cui sono desunti i testi greci e latini citati nel corso del volume; a questo riguardo, segnaliamo altresì che laddove non sia diversamente indicato, le relative traduzioni vanno attribuite a chi scrive. Cominciamo anzitutto con alcune indicazioni bibliografiche di ordine generale sul tema dello straniero nel mondo antico. Un buon punto di partenza è rappresentato dalla raccolta di saggi curata da M. Bettini, Lo straniero ovvero l’identità culturale a confronto, Laterza, Roma- Bari 1992 e dal prezioso librino di A. Barbero M. Bettini, Straniero. L’invasore, l’esule, l’altro, Encyclomedia, Milano 2012. Meritano sempre una lettura le pagine affascinanti di A. Momigliano, Saggezza straniera. L’Ellenismo e le altre culture, nuova ed., Einaudi, Torino 2019, il cui nucleo risale alla metà degli anni Settanta. Ricchissimo di dati e bibliografia, e con una prospettiva assai più ampia di quello che suggerisce il suo titolo a effetto, è il saggio di B. Isaac, The Invention of Racism in Classical Antiquity, Princeton University Press, Princeton-Oxford 2004. Molto materiale utile, sia pure nel quadro
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di un’interpretazione forse eccessivamente ottimistica, è vagliato da E.S. Gruen, Rethinking the Other in Antiquity, Princeton University Press, Princeton-Oxford 2011. Sul mondo greco, due quadri d’insieme apparsi in tempi recenti sono costituiti da C. Bearzot, I Greci e gli altri. Convivenza e integrazione, Salerno Editrice, Roma 2012, e da A. Cozzo, Stranieri. Figure dell’Altro nella Grecia antica, Di Girolamo, Trapani 2014. Un breve ma succoso saggio di W. Nippel, La costruzione dell’“altro”, si trova in S. Settis (a cura di), I Greci. Storia cultura arte società, vol. I, Noi e i Greci, Einaudi, Torino 1996, pp. 165-196 (ma in questa grande opera di sintesi vi sono anche altri saggi da tenere presenti, come quello di F. Lissarrague, L’immagine dello straniero ad Atene, vol. II/2, Una storia greca. Definizione, Einaudi, Torino 1997, pp. 937-958). Un’ampia rassegna è poi rappresentata dalla monografia di K. Vlassopoulos, Greeks and Barbarians, Cambridge University Press, Cambridge-New York 2013; di grande utilità sono anche le pagine di E. Hall, Inventing the Barbarian. Greek Self- definition through Tragedy, Clarendon Press, Oxford 1989. Ragguagli più succinti ma di grande interesse sono quelli di M.M. Sassi, I barbari, in M. Vegetti (a cura di), Introduzione alle
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culture antiche, vol. II, Il sapere degli antichi, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 262-278, e di M. Moggi, Straniero due volte: il barbaro e il mondo greco, ora in Id., La polis e dintorni. Scritti raccolti in occasione del 75° compleanno, ETS, Pisa 2017, pp. 277-299 (in questa stessa raccolta va visto anche il saggio Qualche riflessione su alterità e identità in Grecia (epoca arcaico- classica), pp. 301-318). Per il mondo romano va segnalata, soprattutto per l’ampia raccolta di fonti, la corposa monografia di Y.A. Dauge, Le barbare. Recherches sur la conception romaine de la barbarie et de la civilisation, Latomus, Bruxelles 1981. Sulla percezione dell’Altro nella cultura latina si possono leggere poi R. Oniga, Sallustio e l’etnografia, Giardini, Pisa 1992; Id., I paradigmi della conoscenza etnografica nella cultura antica, in «I quaderni del ramo d’oro», II, 1998, pp. 93-121; F. Stok, Gli altri popoli visti da Roma. Cultura ed etnografia nel mondo antico, in «Euphrosyne», XXVII, 1999, pp. 259-269; e più di recente E.S. Gruen, Romans and Others, in N. Rosenstein - R. Morstein-Marx (a cura di), A Companion to the Roman Republic, Blackwell, Malden-Oxford-Carlton 2006, pp. 459-477.
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1. Le parole per dirlo La celebre definizione erodotea dell’identità greca si legge in Storie, 8, 144, 2 (tr. di A. Izzo D’Accinni, come per le successive citazioni da questo autore), quella di Dionigi in Antichità romane, 1, 89, 4 (tr. di E. Guzzi). A proposito della xenía omerica abbiamo letto Iliade, 6, 226231 (tr. di G. Paduano, come per le successive citazioni da questo poema), quindi Odissea, 1, 119-124 (tr. di G. Paduano, come per le successive citazioni da questo poema); altri passi e discussione in D. Puliga, L’ospitalità è un mito? Un cammino tra i racconti del Mediterraneo e oltre, Il melangolo, Genova 2010. Sulla condizione dei meteci rimandiamo alle nitide pagine di C. Bearzot, I Greci e gli altri, cit., pp. 73-91; per il caso particolare di Lisia, di cui abbiamo citato l’orazione Contro Eratostene, 20 (tr. di G. Avezzù), rimandiamo a Lisia, Contro i tiranni, Marsilio, Venezia 1991, pp. 28-37, mentre di Eschilo abbiamo letto Supplici, 994-995. A proposito di bárbaros, l’affermazione di Talete si legge in Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, 1, 33; i testi citati comprendono inoltre Eschilo, Agamennone, 1050-51 e 1060-63 (tr. di C. Carena); Aristofane, Uccelli, 199-200 (tr. di G. Paduano); Strabone, Geografia, 14, 2, 28; Euripide, Ifige-
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nia in Aulide, 1399-1400 (tr. di F. Ferrari); Aristotele, Politica, 1252b 9 (tr. di R. Laurenti); Platone, Menesseno, 242c-d (tr. di A. Riminucci); Repubblica, 470c-d (tr. di G. Lozza); Isocrate, Panatenaico, 163 (tr. di C. Ghirga), e Sullo scambio, 293. Sul valore di hostis abbiamo citato Festo, Il significato delle parole, p. 416 Lindsay, e Digesto, 50, 16, 118. Sui rapporti della cultura romana con quella greca un quadro ancora per molti versi insuperato è offerto dai lavori di E.S. Gruen, in particolare Studies in Greek Culture and Roman Policy, Brill, Leiden 1990, e Culture and National Identity in Republican Rome, Cornell University Press, Ithaca-New York 1992. L’espressione oraziana Graecia capta ferum victorem cepit è in Epistole, 2, 1, 156. Plauto usa barbare in riferimento alle sue traduzioni latine dei copioni greci, ad esempio, nel Trinummo, 19; il nesso poeta barbarus è ne Il soldato spaccone, 209-212; pergraecari, tra l’altro, nella Mostellaria, 22, 64 e 960; congraeca ri nelle Bacchidi, 743. Il pensiero di Catone, proveniente da un’opera perduta del Censore, è citato testualmente da Plinio il Vecchio, Storia naturale, 29, 14, mentre le citazioni da Cicerone vengono dalla Repubblica, 2, 30, e dalle Discussioni di Tuscolo, 1, 1, quella di Platone
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dell’Epinomide, 987d-e. Infine, abbiamo alluso alle parole di Anchise a Enea riportate in Virgilio, Eneide, 6, 847-853, e a quelle di Giovenale in Satire, 3, 84-85. 2. La spartizione del mondo Di Omero abbiamo riportato Iliade, 6, 276277, mentre le parole di Tucidide si leggono nella Guerra del Peloponneso, 1, 3, 3 (tr. di L. Canfora); la descrizione dell’armatura di Anfimaco in Iliade, 2, 872-874 (qui, al v. 867, il riferimento ai Cari come barbaróphonoi); il profilo della società dei Ciclopi in Odissea, 9, 105 ss. (qui, al v. 191, la contrapposizione del mostro antropofago agli uomini «mangiatori di pane»). Dei Persiani si è citato il v. 242 (tr. di F. Ferrari), mentre il dialogo fra Serse e Demarato si legge in Erodoto, Storie, 7, 101-105. Nel testo compaiono poi Arie, acque e luoghi, 16 e 23 (tr. di L. Bottin, di cui va vista l’introduzione a Ippocrate, Arie acque luoghi, Marsilio, Venezia 1986); Aristotele, Politica, 1327b 23-33 (tr. di M.M. Sassi); Vitruvio, Sull’architettura, 6, 1, 3-11 (tr. di S. Ferri); Plinio il Vecchio, Storia naturale, 2, 190 (tr. di A. Barchiesi). Sul modello del determinismo geo-climatico cfr. F. Borca, Luoghi, corpi, co-
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stumi. Determinismo ambientale ed etnografia antica, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2003, e più di recente P. Li Causi, Le immagini dell’altro a Roma e il determinismo climatico ambientale, Corrao, Trapani 2008. Sulla caratterizzazione etnografica dei Galli, da un lato, e dei Cartaginesi, dall’altro, rinviamo ai repertori generali che abbiamo citato in apertura di questa bibliografia. Infine, l’elogio di Romolo in relazione al sito da lui scelto per la fondazione di Roma si legge in Cicerone, La repubblica, 2, 5-10, mentre per i popoli di montagna va visto lo specifico studio di F. Borca, «Horridi montes». Ambienti e uomini di montagna visti dai Gallo-Romani, Keltia, Aosta 2002. 3. Declinazioni dell’identità Abbiamo desunto la scena iniziale del capitolo, e la successiva citazione, dalla biografia di Licurgo scritta da Plutarco, rispettivamente 29 e 27, 6-9, che il lettore italiano può leggere, tra l’altro, in Plutarco, Le vite di Licurgo e Numa, a cura di M. Manfredini e L. Piccirilli, Fondazione Lorenzo Valla, Milano 1980, con ampio commento (da cui è desunta la traduzione). I rimandi a Platone provengono invece dalle Leg-
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gi, 704b e 950d-951a (tr. di F. Ferrari e S. Poli), quelli a Cicerone dalla Repubblica, 2, 7 (tr. di F. Nenci), l’affermazione di Pericle è riportata da Tucidide, La guerra del Peloponneso, 2, 39, 1 (tr. di F. Ferrari). Di Aristotele abbiamo ricordato la Retorica, 1360b 31-32, di Isocrate il Panegirico, 24-25, di Dionigi di Alicarnasso le Antichità romane, 2, 17. Per quanto riguarda il mito dell’autoctonia, ampiamente studiato, il saggio di riferimento resta quello di N. Loraux, Nati dalla terra. Mito e politica ad Atene, Meltemi, Roma 1998 (ed. or., Né de la terre. Mythe et politique à Athènes, Seuil, Paris 1996); in tempi più recenti una sintetica introduzione è offerta da M. Bettalli, Autoctonia: nascere “dalla” terra, in M. Bettini - G. Pucci (a cura di), Terrantica. Volti, miti e immagini della terra nel mondo antico, Electa, Milano 2015, pp. 84-91. Per Roma abbiamo menzionato Plutarco, Romolo, 11, 2; Giovenale, Satire, 8, 275; Tacito, Annali, 11, 24 (nell’edizione curata da A. De Vivo, Tacito, Annali. Libro XI, Carocci, Roma 2011, il lettore interessato trova un commento al discorso di Claudio e il testo parallelo offerto dalla iscrizione di Lione); Seneca, Consolazione alla madre Elvia, 7. Sulla radicale “eteroctonia” dei Romani due bei contributi recenti sono quello di M. Bettini,
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Perché i Romani non ebbero una cosmogonia?, ora in Id., Dèi e uomini nella Città. Antropologia, religione e cultura nella Roma antica, Carocci, Roma 2015, pp. 13-34, e quello di G. De Sanctis, «Permixta omnia et insiticia sunt». Il Lazio, Roma e i miti delle origini, in M.P. Castiglioni - M. Curcio - R. Dubbini (a cura di), Incontrarsi al limite. Ibridazioni mediterranee nell’Italia preromana. Atti del convegno internazionale, Ferrara, 6-8 giugno 2019, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2020, pp. 43-67. Sulla nozione romana di cittadinanza segnaliamo infine il suggestivo saggio di F. Dupont, Rome, la ville sans origine. L’Enéide: un grand récit du métissage?, Gallimard, Paris 2011; lo storico moderno cui facciamo riferimento nel testo è Andrea Giardina e l’espressione «lo stile della storia di Roma» si legge nel suo saggio L’identità incompiuta dell’Italia romana, in L’Italie d’Auguste à Dioclétien. Actes du colloque international de Rome (25-28 mars 1992), École Française de Rome, Roma 1994, pp. 1-89, in part. pp. 70-89. 4. Stranieri speciali La pagina di Plinio proviene dalla Storia naturale, 7, 22-25 (tr. di G. Ranucci), su cui riman-
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diamo al commento di M. Beagon, The Elder Pliny on the Human Animal. «Natural history» book 7, Clarendon Press, Oxford 2004, nonché alle succinte ma puntuali osservazioni di P. Li Causi, Le immagini dell’altro, cit., pp. 23-26, quella di Erodoto sulle cose belle che si trovano ai confini del mondo dalle sue Storie, 3, 106, 1 (che si riferisce all’India ed è ripresa più avanti in 3, 116, 3: «le regioni estreme, che circondano il restante territorio e lo racchiudono, sembra che posseggano le cose che consideriamo più belle e più rare»). La sentenza di Tacito (omne ignotum pro magnifico est) è in Agricola, 30, 3. Sulla percezione degli Ebrei nella cultura antica, per cui abbiamo riportato Tacito, Storie, 5, 4-5, si possono vedere, tra l’altro, la già citata monografia di E.S. Gruen, Rethinking the Other (pp. 179-196, per la posizione dello storico latino; pp. 277-351, per altri autori antichi) o quella, anch’essa già ricordata, di A. Cozzo, Stranieri, cit., pp. 114-118, con ulteriore bibliografia, nonché i saggi sugli Ebrei compresi in A. Momigliano, Saggezza straniera, cit. Nel testo facciamo riferimento a Diodoro Siculo, Biblioteca storica, 40, 3-4 (che con ogni probabilità dipende dal perduto Ecateo); Flavio Giuseppe, Contro Apione, 1, 239 (che a sua volta cita Manetone);
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Orazio, Satire, 1, 9, 69-70; Pompeo Trogo, Storie filippiche, 36, 2, 15; Giovenale, Satire, 3, 12-20 e 14, 96-106 (con riferimento a Cicerone, I doveri, 1, 50-52). Sulla rappresentazione dei popoli di colore nel mondo antico e l’applicabilità della categoria di “razzismo” esistono due monografie di F.M. Snowden Jr., Blacks in Antiquity. Ethiopians in Greco-Roman Experience, Belknap Press, Cambridge (Mass.) 1970, e Before Color Prejudice. The Ancient View of Blacks, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)-London 1983, nonché, a proposito della cultura romana, L.A. Thompson, Romans and Blacks, University of Oklahoma Press, Norman 1989; una vastissima raccolta di testi tradotti e commentati, che comprende anche gli autori cristiani, è presente nella dissertazione di M.S. Diatta, L’image de l’homme à la peau foncée dans le monde romain antique: constitution, traduction et étude d’un corpus de textes latins, Université Bourgogne Franche-Comté 2017. Sui Gallogreci e i Massalioti abbiamo fatto riferimento a Livio, Storia di Roma, risp. 38, 17, 9, e 38, 17, 11. Sul mutamento di immagine dell’uomo dalla pelle scura, e degli Etiopi in particolare, nel primo cristianesimo va visto D. Brakke, Ethiopians Demons: Male Sexuali-
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ty, the Black-skinned Other, and the Monastic Self, in «Journal of the History of Sexuality», X, 2001, pp. 501-535. Noi abbiamo citato nel testo Omero, Odissea, 1, 22-26; Senofane, fr. 14 Diehl (tr. di F. M. Pontani); Marziale, Epigrammi, 6, 39, 1-19 (tr. di S. Beta liev. mod.); la variante su Lucrezia e lo schiavo “etiope” è nel commento di Servio a Virgilio, Eneide, 8, 646, i versi di Giovenale in Satire, 6, 592-601, mentre sulle persone che è opportuno non incontrare di mattina informa Luciano, Il falso critico, 17; sull’episodio del 42, Floro, Epitome di tutte le guerre, 2, 17, 7-8. Della Germania di Tacito abbiamo letto 4, 1; sull’uso novecentesco di questa e altre pagine del trattato etnografico, oggetto di un’ampia bibliografia, rimando a Ch.B. Krebs, Un libro molto pericoloso. La Germania di Tacito dall’Impero romano al Terzo Reich, il lavoro editoriale, Ancona 2012. 5. Uno sguardo alternativo Il passo citato di Antifonte costituisce il fr. 44a-b di questo importante pensatore, secondo la numerazione e il testo stabiliti da G.J. Pendrick, Antiphon the Sophist. The Fragments, Cambridge University Press, Cambridge 2002,
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alla cui traduzione è ispirata la nostra, mentre di Euripide abbiamo riportato Troiane, 764765 (tr. di U. Albini), e Medea, 536-538 (tr. di M. Valgimigli). In materia di relativismo culturale compaiono nel testo Erodoto, Storie, 3, 38, 1-4 e 1, 134, a proposito dei Persiani, e 2, 158, 5 a proposito degli Egizi (tr. di A. Izzo D’Accinni); il testo allude inoltre ai Discorsi doppi, 2, 14. Il passo su Alessandro viene da Plutarco, La fortuna o la virtù di Alessandro Magno, 329C-D (tr. di A. D’Angelo; qui, a 328B, anche i consigli rivolti al conquistatore da Aristotele), mentre sul tema del cosmopolitismo si può leggere la sintesi di A.A. Long, The Concept of the Cosmopolitan in Greek & Roman Thought, in «Daedalus», CXXXVII, 2008, pp. 50-58. Di Cornelio Nepote abbiamo citato Vite dei condottieri illustri dei popoli stranieri, Prefazione, la cui discussione deve molto allo studio di M. Bettini, Cornelio Nepote e un modo di pensare molto romano, in G. Solaro (a cura di), La Roma di Cornelio Nepote, Aracne, Roma 2013, pp. 13-20. Di Ovidio abbiamo invece citato le Tristezze, 5, 10, 3538 (tr. di R. Mazzanti). Su Anacarsi, del quale Erodoto parla in Storie, 4, 76-77, una comoda informazione d’insieme è offerta da A.M. Armstrong, Anacharsis the Scythian, in «Greece &
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Rome», XVII, 1948, pp. 18-23; va poi vista la traduzione italiana delle epistole fittizie (Anacarsi Scita, Lettere, a cura di G. Cremonini, Sellerio, Palermo 1991), con una bella nota introduttiva di L. Canfora, da cui abbiamo desunto i passi riportati nel testo. Sullo Scita come paradigma del buon selvaggio molti passi utili sono raccolti in J.W. Johnson, The Scythian: His Rise and Fall, in «Journal of the History of Ideas», XX, 1959, pp. 250-257. Di Strabone abbiamo ricordato Geografia, 14, 2, 28; di Cesare La guerra gallica, 1, 1, 3; di Tacito Agricola, 11, 4; delle Storie filippiche di Pompeo Trogo, 2, 2, 11-15 (tr. di A. Borgna); della Germania di Tacito i capp. 12, 1 e 19, da vedere con l’ampio commento recente di D. Baldi (in Tacito, Germania, Quodlibet, Macerata 2019), del Governo del mondo di Salviano, infine, 7, 101 ss., su cui da ultimo ha scritto E. Caliri, Meretrici e “viri molles” nell’Africa vandalica: Salviano e il presunto rigorismo di Genserico, in «Bollettino di studi latini», L, 2020, pp. 538-559. Le descrizioni di Burgundi e Unni cui alludiamo nel testo si leggono rispettivamente in Sidonio Apollinare, Carmi, 12 e Ammiano Marcellino, Storie, 31, 2.
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6. Epilogo Dell’Odissea abbiamo riportato 6, 119-121, e 199-210, dell’Eneide virgiliana (nella tr. di A. Fo) 1, 522-543; 1, 562-574; 1, 630. Le altre citazioni presenti nel testo provengono da Servio, Commento all’Eneide di Virgilio, 1, 543, e ancora da Virgilio, 1, 462. Infine, le considerazioni che chiudono il capitolo sono debitrici del bellissimo saggio di M. Bettini, Homo sum. Essere “umani” nel mondo antico, Einaudi, Torino 2019, mentre la citazione di Mussolini è desunta da P.S. Salvatore, Razza romana, in A. Giardina - F. Pesando (a cura di), Roma caput mundi. Una città tra dominio e integrazione, Electa, Milano 2012, pp. 277-286.
Indice
I. Le parole per dirlo 1. Definire l’estraneità 2. Uomini che balbettano 3. Stranieri a Roma II. La spartizione del mondo 1. Omero senza barbarie 2. L’invenzione dell’Oriente 3. Spostare il centro del mondo III. Declinazioni dell’identità 1. Le regole dell’eccezione 2. La coda del serpente 3. I figli dell’asilo IV. Stranieri speciali 1. Mostri dei margini 2. L’Ebreo inassimilabile 3. Ma gli antichi erano razzisti?
p. 9 p. 22 p. 31 p. 41 p. 47 p. 56 p. 65 p. 72 p. 78 p. 93 p. 100 p. 109
V. Uno sguardo alternativo 1. I barbari degli altri 2. Eredità latine 3. Imparare dai selvaggi
p. 123 p. 136 p. 142
VI. Epilogo
p. 153
Fonti e percorsi
p. 169
Mario Lentano insegna Lingua e letteratura latina all’Università di Siena, dove è anche membro del Centro Antropologia e mondo antico. Si è occupato di teatro comico e retorica di scuola, della tradizione leggendaria sulle origini di Roma, di relazioni familiari, con particolare riguardo al rapporto padri-figli. Le sue pubblicazioni recenti includono Nomen. Il nome proprio nella cultura romana (Bologna 2018); Il re che parlava alle ninfe. Miti e storie di Numa Pompilio (Pisa 2019); Enea (Roma 2020). Per l’editore Inschibboleth è responsabile del settore antichistico e direttore della collana “Le parole degli antichi”.
Le parole degli antichi | 1 Collana diretta da Mario Lentano
I barbari sono uomini che balbettano, il cui linguaggio non ha nulla di umano ma si riduce a suono inarticolato e privo di senso, gli Ebrei rifiutano ogni rapporto con gli altri popoli e sono chiusi nell’incomprensibile culto del loro unico dio, mentre una purezza immune dai vizi della civiltà ispira a Sciti e Germani un istintivo rispetto della giustizia. Sono solo alcuni aspetti di una riflessione sull’Altro che percorre l’intera storia delle culture antiche, tra arroccamenti identitari e spinte all’integrazione, relativismo dei valori e rigida proclamazione di una superiorità refrattaria ad ogni apertura, e che ha segnato in profondità l’immaginario dei secoli a venire. Straniero ricostruisce le tappe e i chiaroscuri di questa straordinaria avventura intellettuale.
ISBN ebook 9788855292429
€ 7,00