Storia del fascismo [Volume Primo, Volume Secondo]

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STORIA DEL FASCISMO

FRANCESCO ERCOLE

STORIA DEL FASCISMO V olume P rimo D A I FASCI

« D I A ZIO N E RIVOLUZIONARIA »

A L L A M A R C IA S U R O M A

(1915-1922)

A. M O N D A D O R I • M I L A N O ANNO X V II

INDICE DEL PRIMO VOLUME

I

- L e origini del F a s c is m o

II

- L a nascita del F a s c i s m o ......................................... 69 (Dai

« Fasci di azione rivoluzionaria » del gennaio « Fasci di combattimento » del marzo 1919).

19 1 5 ai

III - I l F ascismo come P artito e la vigilia della R i ­ voluzione f a s c i s t a ....................................................1

(Dalla costituzione del PaRTito Nazionale Fascista,

7 novembre 1921, alla Marcia su Roma, 28 otto­ bre 1922).

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LE ORIGINI DEL FASCISMO

F ascismo , inteso come quel radicale e integrale rivol­ gimento di coscienza e di volontà del popolo italiano, onde il popolo italiano fu, in brevissimo volgere di anni, tratto a darsi una nuova forma di vivere a Stato e a con­ quistarsi un Impero, ha, come tutti i grandi fenomeni storici, di vasta e profonda portata nazionale e univer­ sale, origini prossime e origini remote. Le origini prossime del Fascismo sono note, e molto facilmente individuabili: sono l’intervento dell Italia nel­ la guerra mondiale del 1914-1918 e la fine vittoriosa di questa per virtù della vittoria italiana. Il Fascismo è nato a Milano tra due date precise: 28 gennaio 19 15 - prima adunata, a Milano, dei Fasci di azione rivoluzionaria, sorti e fondati allo scopo di sostenere, propagandare, di­ fendere tra le masse italiane la necessità dell’intervento dell’Italia nel conflitto mondiale apertosi nell’estate del 1914; 23 marzo 1919 - prima adunata, a Milano, dei Fa­ sci di combattimento, sorti e fondati per imporre al Parla­ mento italiano la volontà di non compromettere e distrug­ gere il frutto della guerra duramente combattuta e vinta. I quali Fasci hanno già entrambi, anche se altro non ci fosse, - e c’è innanzi tutto il nome (fascismo, da fasci, unioni di forze, piu o meno omogenee, ma tenute forte­ mente insieme da vincoli ideali e disciplinari, in vista di fini comuni da raggiungere) - questa nota comune: che l

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il loro sorgere alla vita fu, per entrambi, dovuto alla ini­ ziativa di Benito Mussolini. Tra il 24 maggio 1915, data della dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria-Ungheria, e il 23 marzo 1919, data ufficiale di nascita del Fascismo, - anche se è vero che ci fu una specie di Fascismo avanti lettera, per cui Mussolini potè, un giorno, parlare di fascisti, che inizia­ rono, nel gennaio del ’19, la battaglia contro il rinunciatarismo: si tratta, in realtà, di interventisti, che soltanto dopo il 23 marzo potranno dirsi fascisti - sono corsi, dun­ que, quattro anni : ma questi quattro anni ebbero valore decisivo nella storia d ’Italia e del mondo, perché, durante questi quattro anni, maturò, nel silenzio dei grandi fatti germinanti nelle viscere piu profonde dei popoli, una vera e propria rivoluzione : vale a dire, germino 1 avvento di un nuovo periodo storico nella vita del popolo italiano, e, attraverso questo, nella vita dell’Europa e del mondo. Periodo storico, non momento transeunte e contingente nella vita del popolo italiano, cioè vera e propria rivolu­ zione, e non labile e temporanea rivolta, in quanto la sua novità non si risolse in una brusca e netta rottura di continuità tra il presente e il passato dell’Italia : la quale, se è oggi, in virtù di questa Rivoluzione, 1 Italia fascista, è pur sempre, anche attraverso questa sua nuova forma di vivere politico, la stessa Italia unitaria, uscita ieri dal travaglio del Risorgimento, che era poi, a sua volta, la stessa Italia creata, due millenni or sono, da Roma : periodo storico, che è dunque nuovo, nel senso già con acuta preveggenza indicato dal Duce del Fascismo, un mese prima della Marcia su Roma, nel discorso di Udine, del settembre 1922. Constatava, infatti, già sin d’allora, Mussolini, il verifi­ carsi, attraverso l’agire del Fascismo, da cui la Nazione attendeva in quei mesi l’evento destinato a risolvere la crisi, di cui essa si sentiva prossima a morire, di qualcosa

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di analogo o di simile a ciò che si era verificato attraverso il processo del Risorgimento: l ’entrata in gioco di due forze, che nel Risorgimento erano state : « una, la forza necessariamente un po’ statica, tardigrada, la forza della tradizione sabauda e piemontese; l’altra, la forza insurre­ zionale e rivoluzionaria, che veniva su dalla parte mi­ gliore del popolo e della borghesia » : con che Egli voleva dire, in sostanza, che, come soltanto attraverso la collaborazione e l ’equilibrio tra due forze - tradizione monarchi­ ca e rivoluzione popolare - si era potuto realizzare l’uni­ tà della Patria, col Risorgimento, cosi soltanto con la collaborazione e l ’equilibrio di quelle stesse due forze, tradizione e rivoluzione, il Fascismo sarebbe riuscito a fare della Patria unificata dal Risorgimento uno Stato. Constatazione, di cui è facile scorgere la aperta confer­ ma proprio nell’evidente concorrere di queste due forze nel determinare i due eventi, dai quali trasse la sua ori­ gine prima e celebrò il suo diretto inizio la Rivoluzione fascista : alludo all’intervento dell’Italia nella guerra mon­ diale e alla Marcia su Roma. È noto, infatti, che il primo atto della Rivoluzione fa­ scista coincide con le giornate del maggio 1915, durante le quali con l ’intervento dell’Italia si affermò la vittoria dei Fasci di azione rivoluzionaria : vittoria che fu, a sua volta, il presupposto diretto di quell’altra vittoria, che, in nome dell’intervento, fu conseguita, con la Marcia su Roma, nell’ottobre del 1922, dai Fasci di combatti­ mento, sorti intorno a Mussolini nel marzo del 1919. Appunto per questo, il Duce ha sempre affermato la continuità storica esistente « tra il popolo che ha combat­ tuto e vinto nelle trincee, e il popolo che ha fatto la Marcia su Roma ». Perché fu sempre lo stesso popolo, che si trovò, per ben due volte, riunito a combattere per la stessa causa: una prima volta, tra il gennaio ed il maggio del 1915, per costringere il Parlamento a subire

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prese, e questa volta per sempre, quella funzione di pro­ tagonista del proprio destino, che esso aveva, per un attimo, fugacemente esercitato, contro il Parlamento, nel maggio del 1915. Ma questa soluzione della crisi parlamentaristica fu, nell’ottobre del 1922, possibile in quanto e perché, nel cercarla e volerla, quale essa si realizzò con la Marcia su Roma, la volontà del popolo si era - come già fugace­ mente, nel maggio del 1915, nella decisione dell’intervento, cosi ora definitivamente nella sconfessione del parla­ mentarismo - incontrata e fusa, in una sola volontà rea­ lizzatrice, con la volontà del Re: perché questa volontà si era, anche alla vigilia della Marcia su Roma, come già alla vigilia dell’intervento - come sempre, dalla dichiara­ zione di guerra di re Carlo Alberto di Sardegna all’A u ­ stria, nel ’48, in poi, in tutti i momenti decisivi della vita nazionale - mantenuta fedele al compito assegnatole dalla continuità storica della Nazione, di agire da inter­ prete infallibile, al di là ed oltre gli apparenti e contin­ genti' dubbi e dissensi di individui, di gruppi, e di Partitij' della vera e.Antima e profonda volontà popolare: perché, insomma, anche questa volta, come sempre, dai primordi del Risorgimento nazionale, la forza della tra­ dizione e quella della rivoluzione celebrarono la propria sintesi concreta nell’atto di volontà sovrana, con cui, il 22 ottobre 1922, la Maestà del Re d ’Italia consegnava nel­ le mani del Duce del Fascismo il Governo della Nazione. *

Ciò significa che, se il Fascismo, e la Rivoluzione che in suo nome si è iniziata, ed è tuttora - tra l ’attenzione vigile, ed oscillante tra l ’ammirazione e il timore, del­ l ’Europa'e del mondo - in pieno corso di sviluppo, hanno le loro origini prossime nei quattro armi di storia italiana,

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che corsero tra la fondazione dei Fasci interventisti, nel gennaio del 1915, e la fondazione dei Fasci di combatti­ mento, nel marzo del 1919, ossia nacquero immediata­ mente dall’intervento e dalla vittoria del popolo italiano nella guerra mondiale 1914-1918; le origini remote del Fascismo e della sua Rivoluzione risalgono molto piu addietro nel tempo di quel quadriennio: tanto addietro, da confondersi addirittura, rimontando nei secoli, con le origini stesse di quel popolo italiano, che di quel­ l’intervento e di quella vittoria nella guerra mondiale 1914-1918 fu il protagonista: verità di cui nessuno si e reso più autorevole assertore ed interprete di Colui, che del Fascismo e della sua Rivoluzione fu ed è il creatore ed il Duce. « Com ’è nato questo Fascismo » disse, infatti, Mussoli­ ni, nel discorso pronunciato, qualche mese prima della Marcia su Roma, nel Teatro Comunale di Bologna, il 3 aprile 1921, «intorno al quale è cosi vasto strepito di passioni, di simpatie, di odi, di rancori e di incompren­ sioni? Non è nato soltanto dalla mia mente e dal mio cuore: non è nato soltanto da quella riunione, che nel marzo del 1919 noi tenemmo in una piccola sala di Milano. È nato da un profondo, perenne bisogno di que­ sta nostra stirpe ariana e mediterranea, che a un dato mo­ mento si è sentita minacciata nelle ragioni essenziali della resistenza da una tragica follia e da una favola mitica, che oggi crolla a pezzi nel luogo stesso ov’è nata. « . E, anche più esplicitamente, otto mesi dopo la Marcia su Roma, parlando, il 19 giugno 1923, ai fascisti di Cremona: « La fede nel Fascismo, la mia fede e qualche cosa, che va al di là del semplice Partito, della semplice idea, della sua necessaria struttura militare, del suo ne-i cessario sindacalismo, del suo tesseramento politico. Il Fascismo è un fenomeno religioso di vaste proporzioni storiche, ed è il prodotto di una razza. Nulla si può conl6

tro il Fascismo: nemmeno gli stessi fascisti potrebbero nulla contro questo movimento gigantesco che si impo­ n e ». Che si è imposto, dopo la Marcia su Roma, con l’autorità di un Partito, che non ha tardato a contare a centinaia e centinaia di migliaia i propri aderenti, e col prestigio di un Governo, che tiene ormai da poco meno di vent’anni in pugno le sorti del Paese, ma che si era, prima della Marcia su Roma, imposto, senza essere ancora un Partito, senza ancora possedere il Governo, con la pura e semplice forza della sua volontà di imporsi, o più esattamente, con la pura e semplice forza della sua vocazione ad imporsi: quella vocazione, che gli veniva dall’essere la sua volontà di imporsi, non la volontà arbi­ traria e particolaristica di uno o di pochi o di molti indi­ vidui, ma la volontà profonda ed intima del Popolo o della Nazione, come unità spirituale e storica, di cui la volontà di quell’uno o di quei pochi o di quei molti individui, agenti attraverso il Fascismo, era ed è, di volta in volta, sicura, e, appunto perché tale, infallibile in­ terprete e realizzatrice. D i qui, la impossibilità di capire il Fascismo, senza con­ netterne la genesi con le esigenze spirituali politiche ed economiche della Nazione, e perciò di fare la storia del Fascismo, senza inserire questa storia nella piu vasta storia del popolo italiano, dai suoi lontani primordi alla vigilia della Rivoluzione, che dal Fascismo e nata. N é certo fu per pura coincidenza fortuita che il Duce volle, il 23 settembre 1937, nello stesso giorno inaugurare la Mostra della Rivoluzione Fascista, ricostituita nella nuova sede, e la Mostra Augustea della Romanità. In questa coincidenza, Egli vide la piu significativa espres­ sione della ininterrotta continuità storica, per cui 1 antico Impero di Roma si collega al recentissimo Impero del­ l’Italia fascista. Continuità storica, la cui testimonianza piu aperta a

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noi sembra di scorgere, osservando, nei suoi modi e nelle sue forme più singolari, il processo storico, attraverso cui l ’Italia ha, sin dall’inizio, contribuito al passaggio dal concetto medievale a quel concetto moderno dello Stato, come Stato sovrano, di cui lo Stato fascista è appunto la espressione tipica più concreta e più piena. # Sin dall’inizio; poiché sta di fatto che, proprio in Ita­ lia, in due moti spirituali e culturali press’a poco con­ temporanei, sorti e svoltisi nella penisola italiana tra il sec. XIII e il sec. X V , è implicito il germe remoto e primordiale del concetto di Stato moderno. Non a caso, infatti, rinascenza del diritto di Roma nella pratica giuridica e politica e rinascenza del pensiero e della civiltà antica nell’Umanesimo e nel Rinascimento filosofico e artistico sono stati, nello sviluppo dello spi­ rito italiano, fenomeni press’a poco coevi : perché proprio dall’uno e dall’altro di essi mosse, sulle soglie dell’età moderna, il processo spirituale, che, in circa due secoli, portò, tra la prima e la seconda metà del sec. X V I, e proprio in Italia prima che altrove, cosi al primo affer­ marsi, nella storia del pensiero, della filosofia moderna, come al primo affermarsi, nella storia della realtà politi­ ca, dello Stato moderno. Né fu sovrattutto a caso che di entrambi questi due fenomeni l ’Europa occidentale conobbe la prima espres­ sione concreta, non meno nel genio politico, che nella coscienza morale del primo grande poeta dell’età moder­ na, Dante Alighieri: proprio Dante medioevale e tomi­ sta, e malgrado la ostinata tenacia della sua fede in un istituto cosi universalisticamente medioevalistico, qual era, sulla soglia del sec. X IV , il Sacro Romano Impero di nazione germanica. Giacché non certo nella teoria o nel

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pensiero politico di Dante è da cercare il se£ modernità : bensì nella sua coscienza morale : nel suo modo di porsi il problema della coerenzà~Era la teoria e l’azione : in altri termini, nella intuizione, che gli fu propria, della moralità della vita. La prova di ciò ci è offerta, nella genesi stessa del suo pensiero, da quella, che, sul terreno politico, apparve ed è la sua affermazione più audace nei confronti della tra­ dizione pubblicistica medievale : l’affermazione della au­ tonomia, nei mezzi e nel fine, dello Stato di fronte alla Chiesa. Se è vero che la teoria dantesca ha aperto, malgrado la sua fondamentale ortodossia religiosa e filosofica, una profonda frattura nella unità del pensiero teocratico me­ dievale, e l ’ha aperta proprio mediante il concetto, pretta­ mente medievale, dell’Impero come governo laico della Cristianità, non è men vero che quella frattura è deter­ minata, non tanto dalla asserita origine immediatamente divina del governo temporale, e quindi dalla autonomia di questo di fronte al governo religioso, quanto da ciò : che alla sua teoria Dante è condotto dalla esigenza di risolvere un problema assai più morale che politico: il problema posto dalla mancata concordia tra la obbedienza volontaria e abituale alla legge posta dalla ragione all’agire dell’individuo, e il raggiungimento per parte del­ l’individuo della sua felicità come essere razionale. Questa concordia, San Tommaso e il medioevo l ’ave­ vano cercata e trovata nel concetto cristiano e cattolico della grazia e del merito, e rinviata nell’al di là, nella vita ultra terrena. Ma Dante, cristiano e cattolico, respin­ ge questo modo di concepire la vita, e perciò cerca nella Monarchia universale creata da Roma - cioè in un or­ gano che, per quanto posto in essere direttamente da Dio, è pur sempre un organo umano, come quello che ha in sé, e non riceve per mezzo della grazia, la suffi-

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cenza al proprio fine - un rimedio, attraverso cui sia possibile, già in terra, prima della morte del corpo, superare, con un aiuto dato da Dio alla virtù naturale dell’uomo, la infermità indotta dalla ingiustizia, cioè dal peccato, nel volere umano, ossia ottenere già in terra l’accordo tra la volontà retta e il suo fine. Il che vuol dire che, per Dante, l’uomo è animale naturalmente politico, proprio nel senso in cui tale lo aveva definito Aristotele : nel senso, cioè, che esso è nato per vivere nello Stato, e non può vivere che nello Stato: ossia che l ’umanità non è creata da Dio unicamente per popolare di santi la città celeste, ma è creata anche per popolare la città terrena di uomini che portino, mercé il loro vivere politico, al più alto grado possibile, in ogni momento della vita sto­ rica e nella conquista del vero e del bene, lo sviluppo di tutte le energie umane. Appunto in questo distacco del fine trascendente dal fine immanente dell’uomo, o in questa sottrazione del secondo all’azione della grazia, sono in germe l ’umane­ simo e la civiltà moderna. Il che è tanto vero, che noi possiamo constatare, nella stessa coscienza di Dante, l ’i­ stintivo insinuarsi, nell’etica di Aristotele e di San Tom ­ maso, che pur Dante credette esser la propria, di un esplicito intuito di ciò che sarà, fra poco, nel Quattrocento e nel Cinquecento, l’etica dell’umanesimo, vale a dire il sovrapporsi, nella stessa coscienza di Dante, della etica della volontà - quell’etica della volontà, in cui si risolve, oggi, in Italia, l ’etica del Fascismo - sull’etica dell’intelletto. Lo constatiamo attraverso la rappresentazione del V e­ stibolo infernale, che Dante incontra, al di là di ogni sua previsione, straordinariamente affollato di « sciaurati che mai non jur vivi » ; cioè di morti, i quali, non aven­ do, in vita, fatto né il male né il bene, come sono esclusi, non meno dai gironi deH’Inferno che dai balzi del Pur-

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gatorio, cosi sono esclusi non meno dal « duol senza martiri » del Limbo che dalla luce beatifica del Para­ diso, e sono, anche nell’al di là, nulli, come nulli furono nella vita terrena: uomini, insomma, che, non avendo mai osato né volere né fare il bene, cioè la subordinazione di se stessi e del proprio libito individuale alla umana ci­ viltà e alle sue esigenze, per i doveri, che questa subor­ dinazione impone, e che essi respinsero, non osarono nep­ pure né volere né fare il male, cioè la subordinazione dell’umana civiltà e delle sue esigenze a se stessi e al proprio libito, per i pericoli, che questa subordinazione comporta, per la vita presente o per la vita futura, e che essi scansarono per pauroso amore di sé, e la cui vita per­ ciò si svolse sempre nella sfera delle azioni lecite, o possi­ bili, in quanto non vietate, come azioni utili o non dan­ nose a se stessi, e non mai nella sfera delle azioni dove­ rose o necessarie, anche se non utili o dannose a se stessi, alla umana civiltà. Perciò « misericordia e giustizia li sdegna »: misericordia, perché non vollero fare il bene; giustizia, perché non osarono fare il male. Ma è evidente che una tale rappresentazione, intrinse­ camente assurda di fronte alle esigenze dell’etica indi­ vidualistica di Aristotele e di San Tommaso, pei quali non è concepibile atto umano, che non rientri negli schemi tradizionali dei vizi e delle virtù, si giustifica e spiega soltanto ammettendo che per Dante la moralità comincia soltanto là, dove l ’individuo cessi di agire razio­ nalmente in vista di un fine, che si esaurisca e chiuda in lui stesso, come individuo, e agisca invece razional­ mente in vista di un fine, che lo trascenda come indi­ viduo, perché è il fine dell’organismo collettivo, di cui egli è membro consapevole e responsabile, cosi del bene come del male, che dal suo agire razionale a quell’orga­ nismo derivi: sicché nel disprezzo dantesco per gli sciamati del Vestibolo, par di sentire il preannuncio del

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disprezzo machiavellesco per la viltà degli uomini, che « non sanno decidersi né a volere il bene ne a fare il male » : vale a dire, che, « prendendo certe vie del mezzo, non sanno essere onorevolmente tristi o perfettamente buoni ». È cosi che Dante, ultimo assertore, nel trattato De Monarchia, dell’Impero medievale, dà, rivalutando il va­ lore originario e immanente dello Stato, e affermando in questo il primato della volontà politicamente orientata sugli schemi dell’intellettualismo individualistico tradizio­ nale, la mano a Machiavelli, primo assertore, nel libro del Principe, dello Stato sovrano moderno: dello Stato, cioè, che non conosce o non pone alla propria volontà e alla propria azione diretta al conseguimento dei fini, che gli sono intrinsecamente propri, altri limiti che quelli imposti all’una e all’altra dalla possibilità, che la realta storica offre a raggiungerli: lo Stato, che, in altri ter­ mini, è realmente, com’era, nei giorni di Roma, il Prin­ ceps dell’Impero Romano, e come è oggi, in Italia, lo Stato fascista, legibus solutus, perché, come quello, non è soggetto ad altra legge, che alla legge che esso dà, nella pienezza della sua sovranità, a se stesso. # A costruire il quale, nella pienezza del suo volere uni­ tario, al di sopra del persistente frazionamento e polve­ rizzamento medievalistico di feudi maggiori e minori, di Comuni urbani, di Comuni rurali, di Corporazioni mer­ cantili e artigiane, tendeva intanto, dai giorni di Irnerio in poi, la diuturna fatica dei giuristi, educati dalla glossa e dalla scuola di Bologna a considerare e a illustrare, in un mondo governato da un sistema di autonomie localistiche e particolaristiche, come testo di diritto in atto e dovunque vigente, la codificazione voluta e operata dal-

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l’Imperatore Giustiniano, cioè dall’onnipotente sovrano di uno degli Stati piu rigidamente ed energicamente accen­ trati ed unitari, che la storia conosca. Singolarissimo sforzo di adeguamento della teoria giu­ ridica, tenuta per se stessa immutabile e inviolabile, di un diritto romano imperiale valevole per tutti i popoli e per tutti i luoghi, alle vicissitudini di una contemporanea realtà politica senza tregua mutevole e cangiante, che costituisce dei giuristi italiani, dal sec. XIII al sec. X V , la piu alta benemerenza storica, e da cui è venuta la traccia profonda da essi impressa sul diritto pubblico e sul pensiero politico d ’Italia e di Europa. Perché è pur certo che, dal sec. XIII in poi, parve aprirsi, in Italia e fuori d’Italia, tra la teoria dei giuristi italiani e la realtà politica contemporanea, un contrasto ogni giorno piu in­ sanabile. Mentre, infatti, questa teoria affermava tutta la C ri­ stianità, tranne le terrae Ecclesiae, soggetta de iure alla sovranità dell’Impero, de facto la sfera di effettiva auto­ rità politica dell’Impero era venuta sempre piu restrin­ gendosi su una parte sempre piu esigua dell’Impero occi­ dentale, da cui era esclusa, per la piu gran parte, quella stessa Nazione, che pure aveva creato l ’Impero, e conti­ nuava pur sempre ad esserne, agli occhi dei giuristi, la unica sede, l’Italia. D i qui, la apparentemente insolubile antinomia, per cui l’Impero, teoricamente universale, veniva dovunque, in Italia e fuori d ’Italia, di fatto a risolversi in una serie di entità politiche minori, le quali, in quanto, pur non riconoscendone l’autorità effettiva, non ne disconoscessero la persistente esistenza giuridica, ne riproducevano, cia­ scuna nella propria sfera, altrettante immagini ridotte, ma ciascuna delle quali era, a sua volta, in sé e per sé, di fatto, un vero e proprio Stato. Onde la presenza di altrettanti Stati entro l’Impero, quanti erano in atto, in

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Italia e fuori, città e regni dall’Impero indipendenti, o, meglio, di altrettanti piccoli Imperi entro il grande Im­ pero: giacché dei due elementi, dal cui contatto risultava l ’autonomia medievale, la libertà di sviluppo, da un lato, e la sanzione dall’alto, dall’altro, il secondo si era fatto ormai, nella città e nel regno indipendente, cosi tenue, che poco ci voleva a dirlo scomparso. Ma scomparso non era, e non poteva essere, per l ’inte­ resse che avevano a mantenerlo teoricamente in vita que­ gli stessi Stati indipendenti dall’Impero, ai quali, pur ne­ gando essi all’Impero effettiva obbedienza politica, pre­ meva che non cessasse di esistere quel palese segno este­ riore della sua persistente realtà giuridica, che era la uni­ versale validità del diritto romano come diritto dell’Im­ pero. Perché sta di fatto che il diritto imperiale romano, co­ me quello che rispecchiava l ’immagine di una monar­ chia assoluta e di un sapiente accentramento amministra­ tivo, a cui era bensì ignota quella che si dirà tra qualche secolo la libertà degli individui, ma a cui erano ignoti gli arbitri, le disuguaglianze e le violenze della società feu­ dale, forniva un troppo valido sussidio agli Stati di fatto indipendenti dall’Impero nella lotta da essi condotta, spe­ cialmente dai grandi Stati monarchici già formati o in via di formazione oltre le Alpi, contro l ’anarchia del feudalesimo e nella loro azione diretta a rafforzare l’auto­ rità statale all’interno, perché essi potessero presumersi disposti a privarsene. Sicché quello, che sovrattutto pre­ meva ai governi dei singoli Stati, non era tanto di pro­ scrivere, nell’ambito di ciascuno di questi, la validità del diritto romano a garanzia della propria effettiva indipendenza politica, quanto piuttosto di riconoscerne e applicarne a se stessi la validità, in quanto, nei limiti del­ la propria indipendenza politica, questa potesse, ai fini della politica di ciascuno di essi, servire.

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Diretta applicazione del diritto pubblico imperiale ro­ mano alle esigenze dei singoli Stati indipendenti, a giu­ stificare o legittimare la quale non offriva certo base sufficiente la massima corrente in Francia già durante il sec. XIII: « Le Roi ne tient de nului, hors de Dieu et de Lui ». Essa, infatti, aveva l’inconveniente di esclu­ dere la monarchia francese, e quindi, per estensione, qual­ siasi altra monarchia non soggetta alla sovranità politica dell’Impero, dalla possibilità di applicare a se stessa pro­ prio quella parte del diritto imperiale romano, che più interessava alla propria politica dal punto di vista in­ terno: vale a dire, quella serie di facoltà, di privilegi, di poteri, che, come jura reservata Imperatoris o Principis, il testo di legge o la glossa avevano concepito e affermato come inerente all’Imperatore, e tale da non potere essere esercitata che da lui, o da chi avesse da lui facoltà di esercitarla in suo nome, e dal cui complesso risultava appunto formata quella plenitudo potestatis, che i governi monarchici pretendevano avocare a se stessi. Ora, di questa plenitudo potestatis l ’effettivo e inte­ grale esercizio fu giuridicamente conquistato dalla mo­ narchia francese, quando, durante la seconda metà del sec. XIII, i suoi giuristi, educati dalla tradizione giuri­ dica romanistica, che faceva capo all’Italia, ebbero esco­ gitato la massima, secondo la quale « rex Franciae, qui Imperatorem in dominum non recognoscit, est Imperator regni sui... », o « tenet locum Imperatoris in regno suo » : massima già nota in Italia tra la fine del sec. XIII e il principio del sec. X IV , e da giuristi italiani applicata al regno di Sicilia, e poi universalmente diffusa nella coscien­ za giuridica di tutta Europa, da quando l ’ebbero, in Ita­ lia, fatta propria i due piu illustri giuristi dell’epoca, Bartolo e Baldo, segnando, ciascuno di essi, nella storia della sua fortuna, un momento decisivo. Il primo, infatti, la estese alle città dell’Italia e la pose

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a base del proprio sistema di diritto pubblico con la for­ inola, di larga portata storica: « cum quaelibet civitas superiorem non recognoscat, in se ipsa habet liberum populum, et tantam potestatem habet in populo, quantam Imperator in universo »: il secondo le prestò la for­ mulazione solenne e precisa « Rex in regno suo est Imperator regni sui », che, estesa a tutte le forme di Stato, e quindi anche ai governi repubblicani, diventò subito tradizionale, procurando a lui la sorte curiosa di essere poi considerato, persino in Francia, come l’inventore, non solo della formola, ma anche del principio che in essa si esprimeva. Tanta può essere talvolta la fortuna di una frase!... È vero però che in questa frase era implicita la nascita dello Stato sovrano moderno.

Se ne ebbe la prova durante i tre secoli di esperienza politica compiuta in quasi tutti i paesi civili dell’Europa occidentale, dopo che fu superato il passaggio dal con­ cetto di « Stato patrimoniale » al concetto di « Stato di polizia », dall’assolutismo monarchico. Lo « Stato di polizia » supera lo « Stato patrimoniale » per questo, che esso tende a risolversi nella intera colletti­ vità, cioè nell’insieme di tutte le forze individuali e so­ ciali comunque in esso comprese, che, pel conseguimento di fini, che sono suoi, cioè collettivi, e non individuali e particolari, si organizza ad unità nella persona del Prin­ cipe, in cui la collettività si riassume, e che la collettività rappresenta e governa, all’interno e di fronte all’estero, non nell’interesse suo proprio, come di sua proprietà personale e privata, ma nell’interesse di quella, e senza altro limite, interno ed esterno, che l ’interesse di quella: è, in altri termini, non piu lo Stato feudalisticamente

concepito come oggetto di una sovranità che risiede nel Principe, e quindi come cosa del Principe (res Principis); ma è ormai lo Stato romanisticamente concepito come soggetto di una sovranità che è sua e risiede in esso me­ desimo, e che ha nel Principe unicamente l’organo che in suo nome la esercita : res populi, res publica : lo Stato, insomma, che non è governato dal Principe, ma si go­ verna per mezzo del Principe. Sovranità, dunque, che è del Re, in quanto è dello Stato, che il Re sintetizza nella sua persona, e la cui in­ trinseca illimitatezza è la fonte, onde deriva, o su cui si appoggia, la illimitatezza dei poteri esercitati dal Re, il quale è legibus solutus, come è necessariamente le gibus solutus lo Stato. Né Luigi X IV voleva, con la sua frase famosa « L ’État c’est moisì, esprimere concetto diverso da questo: che in Lui, e soltanto in Lui, voleva ed agiva lo Stato. Il quale Luigi X IV non aveva, a ben guardare, minor diritto a pronunciarla, di quanto ne avrà, o si illuderà di averne, qualche decennio piu tardi, alla vigilia della Rivoluzione francese, il « Popolo », teorizzato nel Contratto sociale. Re e Popolo sono realmente, l ’uno e l’altro, lo Stato, in quanto è attraverso la volontà o l’azione dell’uno e del­ l’altro, che lo Stato vuole ed agisce come collettività poli­ tica unitaria. Appunto per questo, è autorevolmente sostenuto dalla recente storiografìa francese non avere, in sostanza, la Rivoluzione fatto altro che trasferire, a m ezzo del con­ cetto di « volontà generale », da un individuo, il Re, alla totalità degli individui, il Popolo, il diritto di eserci­ tare, in nome e nell’interesse dello Stato, una sovranità, che l’assolutismo monarchico era già, per suo conto, riu­ scito a rendere illimitata. Ed è anche noto come nessuno dei Re assoluti avesse, con altrettanta discrezionalità di arbitrio, disposto dei

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beni, della libertà e della vita dei singoli Francesi, come ne disporranno, in nome del Popolo, i governanti giaco­ bini degli ultimi anni della repubblica, o, come anch’egli in nome del Popolo, ne disporrà Napoleone Bonaparte, console e imperatore. Il quale potrà, bensì, consolidando quel tanto di defi­ nitivo, che, nell’impeto della passione rivoluzionaria, si era riusciti a realizzare della ideologia democratica, com­ piere, come si disse, l ’opera della Rivoluzione: ma non potrà, piu di quanto non avessero potuto gli uomini della Rivoluzione, distruggere quella che era stata, attra­ verso una fatica di secoli, la grandiosa creazione dello Stato monarchico : la Francia unitaria moderna. Appunto per questo, la Francia che, dopo oltre un quindicennio di rivolgimenti e di vicende, i restaurati Borboni riceveranno dalle mani della coalizione vincitrice di Napoleone, sarà pur sempre, nella sua formazione so­ ciale, nella sua struttura economica, nella sua organizza­ zione giuridica, nella sua coscienza nazionale, la Francia unitaria creata da Luigi XI, da Enrico IV, da Richelieu, da Mazzarino, da Luigi X IV . Nessuno Stato monarchico aveva, invece, in Italia - ove pure, tra il sec. X IV e il sec. X V , la trasformazione delle Signorie dell’età umanistica nei Principati del Rinasci­ mento aveva dato luogo al primo apparire, in Europa, di veri e propri Stati nel senso moderno - potuto, durante i secoli in cui i re di Francia avevano assolto la loro mis­ sione unificatrice, sorgere ed affermarsi, cui fosse dato di creare, prima della Rivoluzione francese, e con una consimile fatica, una analoga Italia unitaria. La fatale eredità della politica di equilibrio degli Stati italiani del Quattrocento aveva, per la Nazione, fruttato tre secoli di frazionamento politico e di soggezione alla predominanza straniera. Furono i secoli di quella deca­ denza politica e civile, la quale parve, con lo spagnolismo 28

in politica, il barocchismo in arte, il ges ne, toccare il punto estremo tra la fine principio del sec. XVIII.

Ciò non aveva però impedito che, anche in Italia, du­ rante questi tre secoli, dallo « Stato patrimoniale » si svolgesse lo « Stato di polizia » ; vale a dire, che anche in Italia, dall’assolutismo dei principi e dei governi na­ scesse lo « Stato moderno ». Era nato lo Stato moderno, con tutte le caratteristiche che lo qualificano e lo individuano - coscienza del valore originario della propria sovranità, anche di fronte alla Chiesa; esercizio teoricamente e praticamente illimitato di essa, in nome e nell’interesse della collettività; tenden­ za verso l’accentramento dei pubblici poteri, e quindi verso il superamento dei privilegi e delle autonomie feu­ dali e cittadine : aspirazione ad assorbire nel proprio am­ bito tutte le forze individuali e sociali e a livellarle in un eguale rapporto di sudditanza - non meno nel Nord che nel Sud della penisola, in Lombardia e in Toscana e in Piemonte, come a Napoli, in Sicilia e in Sardegna : non meno nei piccoli Principati di Modena e di Parma, che nelle superstiti Repubbliche aristocratiche di Lucca, di Genova e di Venezia: quantunque qui, per lo piu, con il minor vigore di iniziativa e di risultati, derivante dalla modestia dei m ezzi e dalla crescente insufficenza politica. Avviamento alla nascita dello Stato moderno, che ap­ parve tanto piu palese, quanto piu nella seconda meta del ’700, il Trattato di Aquisgrana parve garentire in Italia, insieme con un alleviamento della preponderanza straniera, una feconda condizione di equilibrio pacifico tra le energie politiche nazionali, e si manifestarono, in 29

Italia, con l ’Arcadia, col Giansenismo, con le riforme de­ gli Stati, i primi segni di risveglio e di ripresa: quanto piu, cioè, gli Italiani cominciarono ad apparire e ad essere un popolo in via di risorgere, e con ciò il problema politico del risorgimento, in tutti i suoi termini fondamentali (federazione o unità?), si presentò alla coscienza politica europea, e specialmente italiana. Il dilemma era ancor vivo e presente tra gli Italiani nei primi decenni del sec. X VIII, ma già era apparso sostan­ zialmente superato e risolto negli ultimi : risolto a favore dell’unità. G li Italiani del Settecento non avevano, del resto, che guardarsi attorno, per convincersi non esserci della loro persistente debolezza e inferiorità altro motivo che la loro persistente disgregazione politica. Sicché la tesi uni­ taria era nella seconda metà dei sec. X V III prevalente tra gli economisti, gli storici, i letterati, i filosofi di ogni regione della penisola, pur cosi diversi per temperamento ed ingegno, ma tutti piu o meno d ’accordo nel riconoscere che l ’Italia non avrebbe potuto eguagliare in ricchezza e potenza le altre Nazioni di Europa, se non, come quel­ le, ricomponendosi in un sol corpo di Nazione, con le stesse leggi e sotto un solo Governo. Concetto dapprima prevalentemente utilitaristico del­ la unità, accanto al quale però era già sorto, in alcuni almeno dei piu nobili e aperti intelletti del Settecento, il concetto etico. E, sulla base di questo, si era anche, già sin dal Settecento, venuto elaborando in Italia, e pur di fronte a un’Europa da ogni lato soverchiante, la futura dottrina giobertiana e mazziniana del primato italico, mentre, non meno concordemente, arte e filosofia collaboravano a farsi stimolatrici di virtù civili e patriottiche, quasi che, nell’inconscia aspettazione delle ore decisive che si avvicinavano, fossero entrambe sospinte dall’an­ sia di contrapporre al pacifico mondo arcadico un mondo



di visioni eroiche. E questa armonia di voci giustifica, pro­ prio sulla soglia del secolo, la frase superba di Alfieri: « L ’Italia c’è », e gli strappa la profezia : « L ’Italia divisa in molti principi e debolissimi, avendone uno nel suo centro, che sta per finire, e che occupa la maggior parte di esso, non potrà certamente andare a lungo, senza riu­ nirsi almeno sotto due principi, che, o per matrimonio o per conquista, si ridurranno ad uno». E gli Italiani sapevano o intuivano già, più o meno confusamente, quasi tutti, quale fosse o potesse essere il principe chiamato a ridurre a unità l ’Italia: era il so­ vrano di quello Stato piemontese che, specialmente con l ’audace politica estera concepita e condotta da Vittorio Amedeo II, si era, già sin dalla prima metà del secolo, assicurata una funzione iniziatrice e direttiva sulle sorti della penisola : funzione, veduta con gelosia e sospetto e paura crescente dagli Stati italiani, ma già sin d ’allora, più o meno esplicitamente, riconosciuta dalle diplomazie straniere. Del quale generale moto di nazionale risveglio in Ita­ lia furono, dalla metà del secolo in poi, sintomi inequi­ vocabili in tutte le regioni della penisola, benché con di­ versa intensità di efficacia da regione a regione : la ten­ denza giurisdizionalistica della politica ecclesiastica, cosi negli Stati indipendenti come nelle provincie soggette a sovranità straniere; la cura posta dai Governi per mante­ nere vivo il contatto della propria azione con i progressi della scienza e della tecnica : il crescente interesse gover­ nativo per i problemi economici e sociali: lo sforzo di­ retto ad accrescere la produzione economica e la pro­ sperità collettiva, agevolando e incoraggiando le iniziative individuali, e sovrattutto la larghezza ed ampiezza della attività riformatrice, che fu, in alcuni Stati, cosi al Nord che al Sud della penisola, singolarmente ardita e fecon­ da: tanto ardita e feconda, da legittimare la domanda, 3i

che qualche storico si è dimostrato non alieno dal farsi, se, in qualcuno degli Stati italiani, non si sarebbe, forse, per spontaneo svolgersi di un processo riformatore già ini­ ziato e promosso, pervenuti, anche prima della Rivolu­ zione francese, o indipendentemente da quella, a compie­ re quel passo decisivo verso la totale eguaglianza degli in­ dividui di fronte allo Stato, che sarà, per opera della Ri­ voluzione francese, l’abolizione delle feudalità. Fu, infatti, proprio su questa Italia, già rinnovantesi negli istituti e nelle leggi, e nello spirito alfìeriana, che si riversarono, subito dopo 1’ ’89, l ’ondata di propaganda teorica degli immortali principi e la conquista napoleoni­ ca del 1896-97, onde vennero agli Italiani le repubbliche cispadana cisalpina e italiana e il regno d’Italia. E di entrambe l’effetto fu doppiamente malefico. Perché se, innanzi tutto, la dottrina del Contratto sociale, e del dirit­ to di natura, della sovranità popolare, parve, da un lato, rafforzare negli animi la soluzione unitaria del problema nazionale, ne alterò, d’altro lato, e capovolse la base, trasformando, di fronte alla coscienza degli individui, in un diritto da pretendere ciò che era stato sin allora conce­ pito come un dovere da compiere. E in secondo luogo, perché, e fu peggio, avendo la serie delle vittorie napo­ leoniche sulle forze dell’Austria posto in breve volger di tempo tutta l’Italia in mano di Napoleone, ed avendo Bonaparte annunciato, in nome delle proprie vittorie e della teoria democratica, « l ’Italia agli Italiani », gli Italiani credettero di aver riacquistata la patria dalle armi di un vincitore, che pure essendo, per nascita e genio un italiano, agiva in nome di una sovranità e di un inte­ resse straniero, senza alcun merito proprio. Cominciò cosi il tragico equivoco, che doveva durare per tutto il periodo napoleonico, tra la costante volontà unitaria degli Italiani e la non meno costante politica antiunitaria della Francia in Italia.

Né valse a favorire le speranze degli Italiani che gli eventi si fossero svolti in senso cosi favorevole alle armi di Francia, presentatasi liberatrice, da far si che in breve tempo il dominio francese si estendesse a tutta la peni­ sola, tranne - dopo Campoformio - Venezia, Parma, le isole. Parve bensì allora che un piccolo sforzo di volontà potesse essere sufficiente a compiere l ’opera promessa ed attesa. Ma appunto questa volontà era mancata a Bonaparte e alla Francia, anche dopo Marengo e la fon­ dazione del Regno italico. La Rivoluzione francese venne cosi a portare, attra­ verso le vittorie di Napoleone, agli Italiani, come doni piu accettati che chiesti, cioè come conquiste più altrui che proprie, la realizzazione di progressi giuridici, econo­ mici, sociali, che l’attività riformatrice dei loro principi e governi era già avviata a realizzare e a render possibile, in Italia, se, anche prima della comparsa degli eserciti francesi, l’esperienza teorica e pratica della Francia rivo­ luzionaria non avesse, già a men che due anni dall’ ’89, indotto o costretto, in Italia, principi e governi a tron­ care quell’attività riformatrice, e a ritorcerne il corso ver­ so conati di restaurazione di un passato irrevocabile. Perché era pur vero che quell’esperienza teorica e pra­ tica della Rivoluzione francese risaliva allo stesso motivo, per cui era avvenuto che il moto delle riforme, iniziato dalla Monarchia francese e dagli Stati italiani sotto la spinta di esigenze economiche e spirituali sostanzial­ mente simili o analoghe sboccasse a un tratto, in Fran­ cia, nella violenza di una rivoluzione esplicitamente ever­ siva e distruttiva, nel momento stesso in cui sembrava, in Italia, destinato a svolgersi entro le dighe di un tran­ quillo processo evolutivo. Ciò non era avvenuto soltanto perché il peso dei pri­ vilegi, tuttora goduti, in cambio di servigi non più real­ mente prestati dalla nobiltà e dal clero, gravava, per lo

33 3. E rcole, I

squilibrio sorgente dalle fortune della classe borghese e del recente capitalismo, sulla struttura sociale della Fran­ cia monarchica molto di più di quanto non gravasse sulla struttura sociale degli Stati monarchici italiani, ma per un motivo molto più intimo: per il contrasto di atteg­ giamenti e di tendenze esistente tra il pensiero politico italiano, ispiratore, in Italia, delle riforme agli Stad mo­ narchici, e il pensiero politico francese, ispiratore, in Francia, della rivoluzione contro la Monarchia unitaria. Contrasto, le cui prime manifestazioni risalgono al­ l’Italia del Machiavelli, del Guicciardini e del Boterò, ossia al primo affacciarsi, per iniziativa italiana, nella mentalità e nella coscienza politica ed etica europea, del concetto e del problema della Ragion di Stato, e che ri­ sulta cosi profonda, da indurci a chiederci, se, in realtà, sia mai esistita nella storia del pensiero italiano del Sette­ cento, che pur visse con cosi appassionata intensità il contatto col pensiero francese contemporaneo, un periodo che possa esattamente chiamarsi illuministico. La verità è che, alla scomparsa, ovunque, in Italia, verificatasi, dalla seconda metà del sec. X V I in poi, del Popolo da qualsiasi partecipazione diretta ed efficace alla vita politica, era seguito un arresto definitivo nello svi­ luppo di quella dottrina della sovranità popolare, che pur aveva, attraverso Marsilio, per circa due secoli, do­ minato il pensiero pubblicistico italiano. Si era avuto, è vero, da precedenti già vivi nella filo­ sofia politica di San Tommaso, e sovrattutto per opera di Bartolo da Sassoferrato e di Coluccio Salutati, il deli­ nearsi di una distinzione tra due forme di tirannide, quod exercitium e ex dejectu titilli, con tutte le conse­ guenze prossime e remote sul diritto del popolo alla ri­ volta e sul tirannicidio, che diventò più tardi, insieme con l’idea del contratto, uno dei motivi più comuni di quel dualismo nel modo di concepire la genesi della so-

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vranità dello Stato, da cui derivò il vero e proprio giusna­ turalismo individualistico dei secoli X V II e X V III. Ma sta di fatto che gli spunti giusnaturalistici impliciti nelle teorie di Bartolo e di Coluccio sulla tirannide rimasero in Italia senz’eco e senza seguito. Le deduzioni da quelle premesse furono tratte, fuori d ’Italia, dalla letteratura del giusnaturalismo posteriore, alla'quale la partecipazione dell’Italia fu scarsissima e poco significativa. Il che, ben più che con un mancato interesse del pensie­ ro italiano ai problemi, che quella letteratura tendeva a risolvere, deve connettersi a tutto un indirizzo della mentalità politica nazionale, e perciò alla poca fortuna goduta, coerentemente alla forma tutta particolare as­ sunta, dagli inizi del sec. X V III, in Italia, dal moto il­ luministico, dal giusnaturalismo d ’oltr’Alpe. Certo, nes­ suno dei grandi maestri del giusnaturalismo settecentesco è nato ed ha scritto in Italia. Che, anzi, chi ha letto tutte le opere dei maggiori pensatori politici italiani, anteriori o contemporanei alla rivoluzione, a cominciare dal Vico, e specialmente di quelli, che scrissero press’a poco negli anni in cui in Francia scrivevano Montesquieu, Voltaire e Rousseau cioè le opere del Giannone, del Genovese, del Galiani, del Filangeri, del Delfico, del Beccaria, del Carli, del Verri, sino a venire al Cuoco, al Pagano, al Romagnosi, al Gioia, e giù giù, sino ai profeti del Risorgimento, a Gio­ berti e a Mazzini - sa come in tutte si avverta una nota comune: una quasi istintiva resistenza a cedere a quella esasperazione razionalistica, in cui è da scorgere la ca­ ratteristica saliente del vero e proprio illuminismo, e che è il clima spirituale, da cui sorgono opere come il L e­ viathan di Hobbes e il Contratto sociale di Rousseau. Ci sono bensì, sempre, in questi pensatori italiani, l’in­ sofferenza dello stato di cose presenti, e l ’esigenza di mutarlo e migliorarlo, e l ’aspirazione a liberare le energie

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spirituali dell’ individuo dalle costrizioni e convenzioni dell’ambiente, e l’intuito delle antinomie e degli squilibri tra l ’ideale e la realtà, con l’ansia di superarli e compor­ li; e l’idea della perfezione assoluta e immutabile della natura, e perciò di un diritto naturale costante e perenne : cioè tutti i motivi del giusnaturalismo europeo. Ma, in Italia, il principio unitario della natura e del diritto naturale è sempre temperato e accordato con quello della relatività storica; l ’individualismo utilitaristico sem­ pre connesso al principio di causalità e corretto dal senso della solidarietà collettiva; il superamento del passato non mai pensato come negazione radicale di esso, né la riforma delle istituzioni politiche e sociali e giuridiche mai concepita come sovvertimento ex abrupto di rapporti personali e reali consacrati dal processo storico. Sicché è da dire che, dai giorni del Machiavelli e del Guicciardini, il carattere, che di fronte all astrattismo enciclopedistico del pensiero politico francese, all’empi­ rismo individualistico del pensiero politico britannico, al dottrinarismo giuridicistico del pensiero politico tede­ sco, ha sempre contraddistinto il pensiero politico italia­ no, è la sua organica e costante tendenza « storicistica » ed « etica » : cioè, proprio, nel senso piu preciso e per­ fetto del termine, politica : quella tendenza, di cui parra quasi, sulla soglia del Risorgimento nazionale, di vedere l’espressione simbolica nella decisa prevalenza, che, nel pensiero di Giuseppe Mazzini, al concetto di dovete spetterà sul concetto di diritto. È per questo che, reagendo, per primo in Europa, per guarire lo Stato moderno dai germi di crisi in esso inse­ riti dall’astrattismo teorico della ideologia democratica, mediante il Fascismo e la sua rivoluzione, ad una men­ talità, che è tuttora largamente diffusa nella civiltà con­ temporanea, il pensiero italiano avra la coscienza di es­ sersi rifatto allo spirito delle proprie origini. 36

Ma dir questo equivale a scorgere quale vero e pro­ fondo rapporto corra tra il Fascismo e il moto spirituale e politico, ond’ebbe, or è piu di un secolo, inizio la ricomparsa del popolo italiano tra i popoli protagonisti della storia e della civiltà umana; equivale a vedere come e per quali vie il Fascismo si leghi a quel Risorgimento nazionale, la cui alba primiera fu senza dubbio di al­ meno mezzo secolo anteriore alla Rivoluzione francese. # Nella tesi, cosi largamente e pressoché universalmente diffusa, anche in Italia, sino a pochi decenni or sono, se­ condo la quale esisterebbe tra il Risorgimento italiano e la Rivoluzione francese un rapporto di derivazione di quello da questa, c’è senza dubbio un nucleo di verità, ma è molto diverso da quello che, sino a poco tempo fa, era consuetudine ritenere. Non la ideologia politica, vale a dire la ideologia in­ dividualistica della Rivoluzione francese, ma la marcia vittoriosa delle legioni repubblicane e degli eserciti napo­ leonici, contribuì al risorgere del popolo italiano, e vi contribuì, non già recando agli Italiani una nozione di libertà o un desiderio di indipendenza, che essi prima ignorassero, ma al contrario, pretendendo, in onta o in antitesi alle promesse teoriche, di togliere loro quella li­ bertà e quella indipendenza, di cui essi già godevano, o che, in quanto non godessero, si disponevano, quando e come fosse possibile, a guadagnarsi con uno sforzo pro­ prio, e non altrui, per costringerli a vivere all’ombra di una repubblica e di un impero francese, come sua propaggine o provincia : onde il ritorcersi di quella stessa propaganda teorica della ideologia democratica contro la Francia rivoluzionaria, che l ’aveva lanciata pel mondo. La quale si era illusa di avere avvinto a se stessa e alla

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propria egemonia spirituale e politica i popoli attraverso il principio della sovranità popolare, facendo sorgere, al di fuori dei propri confini, una serie di Stati democratici; e si accorse, non appena ai suoi eserciti venne meno il sorriso della vittoria, di avere armato i popoli contro se stessa, in nome del principio di nazionalità, facendo sor­ gere nei popoli fuori dei propri confini l ’esigenza di ordinarsi a Stati nazionali. È per questo che il principio opposto dalla reazione europea al principio rivoluzionario della sovranità popolare, fu bensì un principio antide­ mocratico, ma fu sovrattutto un principio antinazionali­ stico : il principio del legittimismo dinastico, impersonato da Metternich, ministro di uno Stato non nazionale, ma plurinazionale e intrinsecamente antinazionale. E della sovranità popolare gli Stati della reazione dina­ stica avevano creduto di avere avuto ragione e di averlo reso innocuo, attraverso la finzione costituzionalistica, sot­ to cui fu adombrata la restaurazione in Francia, valendo­ si della propria vittoria su Napoleone, per imporre alla Francia e a tutti i Paesi trascinati da Napoleone nell’or­ bita. francese il ritorno dei sovrani legittimi. Ma non altrettanto facile apparve e fu ai vincitori di Waterloo imporre freno e silenzio al fermento nazionali­ stico scatenato in gran parte d’Europa dall’urto formida­ bile tra le armate napoleoniche e la coscienza dei popoli, destata o chiamata a libertà dalla propaganda degli im­ mortali principi della rivoluzione : quella coscienza dei popoli, contro la quale il legittimismo coalizzato a Vien­ na si illuse di avere opposto una invalicabile barriera nella Santa Alleanza, terribile monito ai popoli a non muoversi. E il monito, per iniziativa sovrattutto di Metternich, agi ad Aquisgrana, a Karlsbad, a Troppau, a Lubiana, a Verona, vigile e inesorabile, specialmente in Italia e sugli Italiani.

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Il che era naturale : perché proprio in Ita^b’ Metter? sapeva di avere, nella resistenza dell’idea taria, l’avversario più temibile. L ’idea unitaria non si era, infatti, mai spedì; neppure durante il periodo napoleonico. Che, se essa par­ ve, dopo Marengo, tacere, fu perché da allora essa si chiuse all’ombra delle congiure e delle sètte e nel segreto dei cuori, per riapparire all’aperto coi primi rovesci delle armi napoleoniche, non appena, al primo annunciarsi del disastro di Russia, serpeggiò per la penisola un giaco­ binismo italiano, che non era se non la veste, dietro cui si nascondeva l ’idea del regno unico d’Italia. L ’indipen­ denza sedusse, nel 1814 e 18x5, gli Italiani, come la li­ bertà e l’eguaglianza avevano sedotto i Francesi nell’ ’89, e assunse subito, col fascino di una virtù magica, la veste dell’unità. Tutte le Potenze vincitrici della Francia cer­ carono in essa la rete, in cui irretire la ingenua brama di libertà del popolo italiano. Parlarono e promisero unità Inglesi e Austriaci. E i nuovi giacobini improvvisarono piani e fabbricarono progetti, in cui l’unità era sperata e invocata, ora dallo zar, ora dai Savoia, ora da un principe britannico, ora persino dall’Austria! Pensarono anche a Napoleone, all’isola d’Elba, e sperarono infine in Murat. Il proclama di Rimini apri ai loro occhi il miraggio di una meta grandiosa, che, per quanto rive­ latasi subito illusoria, non spari più dalla loro fantasia e dalla loro coscienza. Non spari, neppure nei durissimi decenni seguiti al Congresso di Vienna, quando chi avesse superficialmente considerato la situazione creata a danno del popolo ita­ liano, dal 1816 al 1830, avrebbe forse potuto concluderne non avere la Rivoluzione francese avuto, nei riguardi dell’Italia, altra funzione che di stroncare ogni possibilità di sviluppo al suo appena iniziato risorgere. E, invero, la situazione poteva parere, in Italia, sino 39

alla vigilia del 1830, disperata. Non solo perché quasi mezza Italia era nelle mani dell Austria, e perche i so­ vrani restaurati in Italia erano, anche se non tutti con uguale attitudine di ossequio incondizionato, tutti con uguale irriducibilità di fini, solidali con 1 Austria nella difesa ad oltranza dello status quo legittimistico, ma sovrattutto perché alla causa del legittimismo contro quella della indipendenza nazionale sembrava ora aderire con particolare fervore quel Regno di Sardegna, che aveva, sin quasi alla vigilia della Rivoluzione francese, tenuto ad onore di rappresentare la iniziativa del Risorgimento italiano. La diserzione dello Stato sabaudo sembrava segnare pel Risorgimento d’ Italia l’ora di un irrimediabile ar­ resto. La Santa Alleanza era però meno spiritualmente forte di quanto potesse supporsi. Perché, se la causa della so­ vranità popolare era stata abbattuta, insieme con l’Eu­ ropa sorta da essa, a Waterloo, quella della sovranità na­ zionale era stata assunta dalla coscienza dei popoli, che pareva disposta a difenderla. Pareva, e in gran parte era. Si sentivano, nella fragorosa rovina della fortuna napo­ leonica, e nell’affrettato trionfo della reazione dinastica, salire, dalla profondità delle masse popolari, fremiti e brontolìi forieri di nuove tempeste, di cui era dovunque interprete, sempre più penetrante e insidiosa, 1 attività delle sètte, e specialmente della Carboneria. In realtà, i popoli erano sempre meno disposti a scam­ biare i governi creati dalla rivoluzione con i reduci del legittimismo dinastico, e a rinunciare per sempre ad al­ cune fra le più decisive conquiste, ottenute durante e mercé la rivoluzione, dagli individui. La nostalgia dei diritti di libertà e di uguaglianza, che la rivoluzione aveva proclamato, e la reazione pretendeva rinnegare o distruggere, era sempre piu acuta e diffusa. 40

Sicché la rivoluzione pareva sopravvivere, nella co­ scienza dei popoli, al crollo dell’Impero. Del che i go­ verni del legittimismo ebbero la prova con la rivoluzione del luglio 1830, e l’avvento della Monarchia di Luigi Fi­ lippo, quando si videro a Parigi ricomparire il tricolore e la guardia nazionale, e il nuovo re ripetere dalla volontà dei Francesi, e non dal diritto divino, la fonte del pro­ prio potere. La ideologia della Rivoluzione, cioè la sovranità del popolo, non come collettività nazionale, ma come somma di individui, pareva cosi di nuovo contrapporsi, da Pa­ rigi, al diritto divino e al legittimismo, rappresentato a Vienna da Metternich, e la Francia alzare di nuovo sul mondo la bandiera della libertà e dell’eguaglianza. Moveva dunque un’altra volta dalla Francia l ’appello alla rivoluzione?... Lo credettero i popoli e si sollevarono in Belgio, in Polonia, in Italia, dove sorsero, come d ’in­ canto, governi provvisori e si adunarono assemblee rivo­ luzionarie. Parve che l’ultima ora della Santa Alleanza fosse per suonare e, con essa, quella dell’Austria. Che fosse però poco piu di un fuoco di paglia, lo di­ mostrò, entro pochi mesi, la delusione provocata dal G o­ verno della rivoluzione di luglio in tutti gli ambienti ri­ voluzionari di Europa, quando esso, non osando, mal­ grado le speranze destate, imporre con le armi all’Austria il non intervento, le ebbe permesso di stroncare nel san­ gue, con le carceri e i supplizi e gli esigli, i moti di Polonia e d’Italia. •

Ma fu questa l’ora di Giuseppe M azzini : il quale, pro­ prio nel momento stesso, in cui pareva risuonare nel mondo la voce della Francia, estrasse dalle fibre più inti­ me della coscienza nazionale, ove viveva di vita nascosta

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e segreta, l’idea unitaria italiana, e la riaccese, alta e irresistibile, di contro alle due opposte volontà, interessate a comprimerla o a rispegnerla, della Francia e dell Austria. Non fu, infatti, certamente coincidenza fortuita, se la genesi della Giovane Italia e l’inizio dell apostolato teorico e pratico di Giuseppe Mazzini furono press a poco coevi con la rivoluzione del 1830 e l’avvento della Monarchia di luglio, e lo svolgersi, per opera dei cosiddetti dottrinari francesi, del classico liberalismo europeo. Perché proprio dalla esperienza, seguita a quella del 1820-21, della vanità pratica dei moti del 1830-31, guidati dalle tradizioni e dalla mentalità astrattamente formali­ stica e intrinsecamente ambigua del carbonarismo e dalla cieca fiducia nella iniziativa movente dalla Francia, sorse, nell’animo del Mazzini, quella istintiva e prepotente esi­ genza di sostituire, pel bene della Nazione italiana, e quin­ di, attraverso il bene di questa, pel bene della società umana, alla ormai e stanca ed esausta iniziativa francese una nuova e fresca iniziativa italiana in Europa, da cui doveva, in due fasi o riprese, tra il 1831-34 e il 1837-45, germinare, nel suo nucleo originario e iniziale, il pro­ gramma politico di Giuseppe M azzini: quel programma repubblicano unitario, i cui presupposti e i cui fini sono piu che in germe presenti nella Istruzione generale per gli affratellati nella Giovane Italia del 1831, e nel quale Metternich fu il primo a scorgere, ben più che nel libera­ lismo democratico di marca francese, di cui egli non tardò a constatare la radicale infecondità rivoluzionaria e la disposizione al compromesso e all’equivoco, il vero e piu pericoloso nemico della reazione e conservazione legitti­ mistica. Quel programma, infatti, lungi dal restringersi alla sola Italia, si estendeva all’Europa ed al mondo, mirando espli­ citamente a inserire la vita presente e futura d’Italia nella più vasta vita d’Europa e del mondo. Il che era conse42

guenza necessaria dall’essere quel programma nato dalla reazione alla pretesa di immobilizzare la vita spirituale e politica dell’Europa e del mondo nell’ossequio ad un pre­ cedente programma rivoluzionario, che aveva già assolto il suo compito storico, e che aveva già anch’esso preteso di essere europeo e universale. « Il passato ci è fatale. La Rivoluzione francese ci schiac­ cia » sono parole scritte da M azzini nel 1835, mentre piu ferveva da Parigi la propaganda degli immortali principi dell’ ’89. « Essa preme quasi incubo il nostro cuore... Uo­ mini e cose, tutto aspettiamo dai suoi programmi, e ten­ tiamo ricopiare Robespierre e Saint-Just... Mentre noi scimiottiamo i nostri padri, dimentichiamo che i nostri pa­ dri non scimiottavano alcuno, e furono grandi per que­ sto... Ci emancipammo dagli abusi del vecchio mondo, importa oggi emanciparci dalle sue glorie... L ’opera del sec. X V III è compiuta: dobbiamo oggi fondare la poli­ tica del X IX secolo: risalire, attraverso la filosofìa, alla fede: definire e ordinare Vassociazione: proclamare l’U ­ manità: iniziare l’Epoca nuova: dalla sua iniziazione dipende il compimento materiale dell’antica. » E aveva scritto sin dall’anno prima : « La prima epoca del mondo europeo, dai primi tempi della Grecia sino ai cominciamenti del X X secolo, ebbe per missione di sviluppare Yindividuo sotto ogni aspetto, l’io umano con tutte le conseguenze, e aveva a programma Dio e l’ uo­ mo, e la compì... L ’epoca individuale, avendo raggiunto la sua piu alta espressione, avendo ricevuto applicazione teorica a tutti i rami della conoscenza umana, e manife­ stato il proprio spirito in religione e in filosofia, in mo­ rale e in politica, un altro sole comincia a splendere e un altro fine a svelarsi, e l’epoca sociale è oggi quel fine, e Dio e l’ umanità è il suo programma... Necessità quindi di ordinare lo strumento in modo conforme al fine che si vuole raggiungere : associazione di tutti : associazione

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di eguali, dacché non può esistere associazione che tra uomini liberi, né può esistere libertà, se non tra eguali', eguaglianza di popoli: solidarietà e capacita di iniziativa per tutti;... distrutto il pregiudizio, vergognoso per co­ loro che lo enunciano e fatale per coloro che lo accettano, in virtù del quale alla Francia sola apparterrebbe Vinizia­ tiva della lotta europea... L ’iniziativa non è dietro a noi, essa è innanzi: non è racchiusa nella teoria dei diritti, formola di emancipazione individuale che i nostri padri conquistarono... non è piu nelle parole libertà ed egua­ glianza ». Periodi, che giova rileggere, perché contengono espres­ sioni e concetti, che sono oggi ben noti e familiari in Italia, e che bastano a rèndere, in tutto ciò che è in esso di originale e vitale, tutto il pensiero politico mazziniano, quale esso si è svolto, attraverso una serie vastissima di scritti, dal giorno in cui Mazzini fondo la Giovane Italia, al giorno della sua morte. Pensiero, che si arricchisce e chiarisce e sviluppa e po­ tenzia col correr della meditazione e degli anni, ma che non conosce deviazioni, incertezze, oscillanze, sin quasi ad apparire immobile. Nella vita intima del pensiero maz­ ziniano, non c’è stata che una crisi: quella determinata dalla « tempesta del dubbio », che l’assalse tra il 1836 e 1837, e chi ha letto le pagine agostiniane delle Note autobiografiche di Giuseppe M azzini sa come essa sia stata brevissima e radicalmente superata e risolta. Onde la no­ ta singolare della personalità storica di M azzini pensatore e d’uomo d’azione sta proprio in ciò : che in lui il pen­ siero sembra non avere storia, non essendo per lui il suo pensare, se non una forma del suo agire. ^ Della quale coerenza tra il pensare e l’agire la virtù di attrazione, segretamente esercitata per una lunga serie di anni su larghe e vaste zone della coscienza nazionale di gran parte d’Italia, non solo sui giovani delle classi piu

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alte e più colte, ma anche, benché in minor misura, sul popolo, ebbe, in confronto della contemporanea propagan­ da delle idee tradizionali del rivoluzionarismo francese, sovrattutto radice nel suo reciso e incrollabile orientamen­ to antiindividualistico, e perciò antiliberale. Il liberalismo aveva per Mazzini il duplice torto di essere insieme anti­ storico e immorale: antistorico, perché, insistendo nel concepire come fine dell’attività degli individui la libertà, quale diritto dell’individuo isolato, portava ad attardare la vita delle Nazioni in una fase sorpassata del progresso civile e sociale del genere umano: immorale, perché, in­ sistendo nell’educare gli individui a non sentirsi che tito­ lari di diritti a tutela di interessi individuali, tendeva a spegnere in essi il senso del dovere, e a ridurre la vita delle Nazioni a un puro e semplice compromesso o equi­ librio di egoismi, mortificatore di ogni vera e concreta volontà di bene morale nel mondo. Di qui, la irrimediabile infecondità rivoluzionaria del liberalismo, ossia la sua incapacità ad educare gli indi­ vidui a quella disposizione al sacrificio e al martirio, senza cui nessuna rivoluzione è pensabile. E infatti, da quando la libertà è stata, mercé la Rivo­ luzione francese, riconosciuta e sancita come un diritto di ciascun individuo, la libertà non è più stata, per nes­ sun individuo, un fine, per cui valga la pena di sacrificarsi o morire. Il fine della vita umana è ora un altro, più vasto e com­ prensivo, in quanto ha in sé implicito il primo: muo­ vere dalla propria libertà di individuo, per attuare in pieno e senza limiti la propria umanità nella vita di quel popolo o di quella nazione, e perciò di quello Stato, in cui e per cui si realizza, nella concreta realtà storica del genere umano, la umanità di ciascun individuo. Giacché a presupposto di tutto il pensiero mazziniano c’era pur sempre questa idea: che, se la civiltà umana

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non è mai opera di individui isolatamente presi, ma e sempre espressione di valori sovraindividuali o collettivi, per cui nessun individuo, per quanto grande, ha mai po­ tuto agire sulla coscienza o sulla mentalità di altri indi­ vidui, se non agendo in funzione di una stirpe, di una razza, di una gente, di un popolo, persino coloro,^ che, per la vastità delle cose compiute o per la profondità del­ l’influsso esercitato sullo sviluppo spirituale e politico di tutto il genere umano, siamo soliti considerare come geni universali, soltanto le collettività di individui «diretti da principi comuni, affratellati da tendenze uniformi, governati da leggi uguali », vale a dire soltanto i popoli ordinati a Stato formano le vere e proprie Nazioni^, protagoniste della storia umana e iniziatrici di civiltà tra le Nazione è parola che rappresenta Unita: unita di principi, d’intento e di diritto, e la sola che riunisca in un tutto omogeneo una moltitudine di uomini. Senza quella, non è nazione, ma gente. » Perché è soltanto l’or­ dinamento politico, che può garentire ad una pluralità di individui, ossia ad un popolo, di fronte agli altri popoli, ciò, che, nei rapporti degli individui di fronte agli altri individui, corrisponde alla liberta: la sovranità su se stes­ sa, o la sovranità. Che, anzi, la libertà di ciascun individuo, come tale, presuppone sempre la indipendenza del popolo, cui 1 in­ dividuo appartiene, di fronte agli altri popoli. Senza questa indipendenza o sovranità, non esiste veramente po­ polo : esiste una folla o una massa di individui, che non essendo indipendenti come popolo, non sono neppure liberi come individui, e perciò non sono nazione. indi­ vidui, che ricevono la civiltà dagli altri popoli, e non la insegnano o non la producono. Perciò « i barbari ve­ nuti dal Nord a trucidarsi l ’un l’altro sul cadavere del­ l’Impero erano gente : gli Italiani, ai quali ogni manife46

stazione di principi, di intenti e di diritti è vietata, sono gente sino a quest’oggi... »: gregge di individui, nel senso materiale e fisico: non popolo di uomini, quali sono gli Inglesi, i Francesi, i Tedeschi. Sino a quest’oggi, diceva Mazzini nel 1832, e sottointendeva certamente: non saranno tali domani. Perché gli Italiani torneranno ad essere, come furono un giorno, un popolo di uomini liberi, non appena essi riappariranno tra le nazioni, come una nazione, e quindi come uno Stato. È press’a poco il concetto, già sin dal 1766 espresso, in Italia, da Ri­ naldo Carli con la frase: « Divenghiamo pertanto tutti di nuovo Italiani per non cessare di essere uomini ». Non meno di ogni forma di liberalismo più o meno democratico appariva perciò al M azzini antistorica e im­ morale anche ogni forma di internazionalismo cosmopo­ litico. Sicché non fa meraviglia che proprio nella ten­ denza internazionalistica M azzini abbia sùbito, sin dalle sue esperienze pratiche, individuata la testimonianza ir­ refutabile della organica incapacità rivoluzionaria del car­ bonarismo. «... La Carboneria tendeva a stendere i suoi lavori in tutte le contrade: accoglieva nelle sue file uo­ mini di ogni terra. Ma era associazione cosmopolita. Non vedeva sulla terra che il genere umano e l’individuo, e individui, non altro, erano per essa i suoi membri. La Patria non aveva altare o bandiera nelle Vendite: il Po­ lacco, il Russo, il Tedesco non erano, dopo iniziati, se non carbonari. Figli idolatri della Rivoluzione francese, quegli uomini non oltrepassavano le sue dottrine. Cerca­ vano per l’uomo, per ogni uomo, la conquista di ciò che essi chiamavano i suoi diritti: diritto di libertà e di ugua­ glianza, non altro. Ogni idea collettiva, e quindi l ’idea Nazione, era per essi inutile... Teoricamente ignoravano che non esistono diritti per l’individuo, se non in conse­ guenza di doveri compiuti. Dimenticavano che la legge di vita dell’individuo non può desumersi se non dalle 47

specie, e rinnegavano il sentimento della vita collettiva e il concetto dell’opera trasformatrice, che ogni individuo deve tentare di compiere sulla terra a prò della Umanità. Praticamente essi si assumevano di agire con una leva, alla quale sottraevano il punto di appoggio, e si condan­ navano all’impotenza... »

Ciò che Mazzini, fondando la Giovane Italia, intese dunque predicare agli Italiani, era non il diritto, ma il dovere di insorgere : insorgere come individui, per poter risorgere come nazione, e perciò come Stato. E con que­ sta parola d’ordine, il Risorgimento usci dal periodo di vigilia o di preparazione, iniziatosi circa un secolo prima, ed entrò decisamente nel periodo della attuazione, la cui meta sarà, tra circa un trentennio, proprio quella, che M azzini aveva previsto: la costruzione dello Stato uni­ tario. N é sembri contraddire a questa constatazione il fatto che l’unità prevista da Mazzini era repubblicana, e che egli non rinnegò mai, sinché visse - anzi piu volte, an­ che negli ultimi anni, accentuò -, la propria ostilità alla soluzione monarchica del problema nazionale, pur dichia­ randosi sempre disposto ad accettarla, quando gli risul­ tasse evidente che essa era voluta dalla maggioranza de­ gli Italiani. Chi esamini da vicino, in tutte le sue manifestazioni, specialmente attraverso i contatti con la Monarchia, il repubblicanesimo di Giuseppe M azzini e tratto ad esclu­ dere che esso abbia radici in motivi di carattere teoretico di valore assoluto. Quel repubblicanesimo, ben piu che di pregiudiziali teoriche, è il frutto, da un lato della educazione letteraria alfìeriana, decisamente antimonarchi­ ca, e, dall’altro, dell’esperienze pratiche dei primi anni 48

di vita politica di Mazzini, tra il 1831 e il 1833 : esperien­ ze, le quali lo indussero ad una radicale e tenacissima resistenza a credere, in genere, nella possibilità di una disinteressata adesione agli interessi nazionali di qual­ siasi politica dinastica, e, in ispecie, nella realtà e since­ rità di vocazione unitaria della politica sabauda. Ciò, insomma, che trattenne sino alla morte M azzini dall’aderire alla Monarchia fu di non aver mai potuto o saputo guarire dal sospetto, in parte alimentato da certi atteggiamenti imposti dalla necessità delle circostanze alla politica di Carlo Alberto e di Vittorio Emanuele, che la politica sabauda tendesse pur sempre a ingrandire il Piemonte, e non a unificare l ’Italia. Appunto per que­ sto, Mazzini credette sempre la Monarchia incapace di sciogliersi dalla necessità di aderire all’iniziativa francese, e pensò la iniziativa italiana privilegio o prerogativa del popolo. Il che vuol dire che il repubblicanesimo di Maz­ zini non fu mai altro che un aspetto della sua fede unitaria. In realtà, Mazzini, anche quando fu triumviro di quella Repubblica romana del 1849, che egli non concepì mai come fine a se stessa, ma come momento o episodio del processo unitario della Nazione, non desiderò mai la repubblica ut sic : egli desiderò sempre unicamente l’uni­ tà : quella unità, che doveva pur sorgere, cosi come egli aveva previsto, dalla volontà del popolo (e qui sta la verità del suo pensiero), ma a costituire la quale era pur necessario (e qui sta il limite di quel pensiero) l’azione della Monarchia. Necessaria: come, del resto, a molti Italiani, che pure aderivano all’ordine di idee impersonato da Mazzini, era apparso evidente, sin dal momento in cui, all’aprirsi del quarto decennio del secolo - essendo, per la rivoluzione di luglio e il disgregarsi della Santa Alleanza, definitiva­ mente fallita la speranza di Mettermela di congiungere in

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una specie di fronte unico tutte le grandi Potenze di Europa contro ogni conato rivoluzionario in Italia - il problema italiano era apparso ridotto a una specie di duello tra l’Impero austriaco e il Popolo italiano. Proprio il Popolo italiano nel suo complesso, e non sol­ tanto alcuni o pochi governi, partiti e sètte operanti nella penisola, perché Mazzini aveva senza dubbio ragione, quando partiva dal presupposto di una quasi assoluta unanimità del popolo italiano nel ritenere la presenza del­ l ’Austria in Italia insopportabile, e nel desiderare o vo­ lere che tutte le regioni italiane fossero almeno, apparte­ nendo ad uno Stato italiano, indipendenti dall’Austria. Ma M azzini aveva torto a non vedere come questa unanimità di desiderio o di volontà fosse inevitabilmente destinata ad essere una' unanimità puramente platonica, e perciò in pratica inefEcente, sino a che essa non avesse altri mezzi di manifestarsi ed esprimersi, se non quelli, in cui era implicito, per chiunque vi ricorresse, uno di quei pericoli o di quei rischi, che la grande maggioranza degli individui non può mai, presso nessun popolo e in nessun paese, presumersi disposta ad affrontare, neppure per conseguire ciò che essa realmente desidera e vuole. Gli individui, i quali sentono cosi altamente gravare sulla propria coscienza l’imperativo etico, da tentare di com­ piere il proprio dovere a rischio del carcere, del patibolo o dell’esilio, non sono e non possono mai essere molti. È per questo che alle delusioni del 1815 segui, in Ita­ lia, non tanto la scomparsa dell’idea unitaria, quanto piut­ tosto una profonda crisi della fede nella possibilità di realizzare in Italia l ’unità, pur sempre accarezzata nel­ l’intimo dell’animo dai più fra gli Italiani, ma da essi or­ mai tenuta come irrealizzabile. E ne venne quel movi­ mento del neoguelfismo, che M azzini non esitò ad addi­ tare più tardi al disprezzo degli Italiani, come partito dei tiepidi o dei moderati.



Partito, a cui senza dubbio, sovrattutto dal 1845 in poi, appartennero alcuni fra i nobili spiriti dell’Italia, e che sarebbe erroneo ed ingiusto, almeno nei piti alti tra i suoi rappresentanti, come il Gioberti, che aveva iniziato la sua vita politica nelle file della Giovane Italia, accusare di conscio e deciso antiunitarismo. Ma è pur vero che il neoguelfismo moveva da una debole fede unitaria, e fu il partito di coloro, che, di fronte agli ostacoli, interni ed esterni, che si opponevano alla conquista dell’unità, pre­ ferirono, anziché affrontarli in pieno, girarli, prendendo la via della minor resistenza o del minimo sforzo, la via del federalismo. Il quale, mentre pareva spaventar meno le gelosie e le preoccupazioni antiitaliane delle Po­ tenze europee, urtava meno radicalmente gli interessi e i pregiudizi regionalistici e locali. È senza dubbio domanda storicamente vana quella, se, col metodo dei neoguelfi o dei moderati, si sarebbe mai riusciti a cacciar l’Austria dalla penisola, e a fare l’Italia, sia pur federale. Ma non è men certo che la funzione storica di Mazzini fu di aver reso quel metodo impossi­ bile, screditandolo nella coscienza degli Italiani piti ope­ rosi ed audaci, quando egli alla debole fede unitaria dei moderati, e quindi al loro programma del minimo sforzo, oppose il proprio programma dello sforzo totalitario, o del tutto per tutto. Fu cosi, infatti, che attraverso la Giovane Italia, il Popolo italiano poté, di fronte all’Euro­ pa, proclamare la sua reale volontà di indipendenza e di unità, e i martiri, suscitati dalla fede mazziniana, testimo­ niarla col sangue. La funzione dei martiri non è mai stata, però, quella di realizzare la volontà di un Popolo : è sempre stata quella di testimoniarla : e di testimoniarla con tanta energia, da far sorgere coloro che la realizzeranno. È per questo che l’intransigenza mazziniana è la fonte del volontarismo garibaldino, e che perciò il Popolo italiano deve la sua

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indipendenza e la sua unità non meno a Mazzini che a Vittorio Emanuele, a Cavour, e a Garibaldi. E, in vero, a dare alla volontà degli Italiani, testimoniata dalla Gio­ vane Italia e dai martiri, la possibilità di realizzarsi, non c’erano, dopo il 1830, che due m ezzi: o la rivoluzione, o che tutti o qualcuno dei Governi esistenti in Italia pren­ desse su di sé il compito di realizzarla. Ora di questi mezzi, il primo era impossibile, data la certezza a priori che l’Austria aveva mezzi più che sufficenti a stroncare qualsiasi tentativo di rivoluzione nelle province soggette alla sua sovranità; né era possibile (come si illudeva Mazzini) la rivoluzione in uno o in qualcuno degli Stati italiani devoti all’Austria, perché, malgrado nessuno di essi fosse in grado di resistere alla volontà dei sudditi, ciascuno avrebbe certamente provocato, per do­ marla, l’intervento dell’Austria. Chè, se un Governo ita­ liano non avesse invocato l ’intervento dell’Austria contro propri sudditi ribelli per amore di indipendenza, CIO avrebbe voluto dire che questo Stato italiano assumeva su di sé la iniziativa della lotta per l’indipendenza, e non sa­ rebbe stata necessaria contro di esso la rivoluzione. Ma la prova, da un lato, dell’isolamento, in cui, di fronte al Popolo italiano, la situazione creatasi in Europa dal 1830 in poi, aveva lasciato l ’Austria, e, dall’altro, della efficacia della predicazione unitaria di M azzini e della Giovane Italia, non ostante i suoi cruenti insuccessi, anzi mercé questi, si può scorgere in ciò: che, a un certo momento, il cui inizio può farsi all’ingrosso coincidere con l ’elezione dell’arcivescovo di Imola a pontefice col nome di Pio IX, tutti gli Stati italiani, anche quelli sino alla vigilia piu ligi all’Austria e al legittimismo, si siano sentiti costretti da un irresistibile moto di opinione pub­ blica ad aderire alla causa nazionale, e che l’Austria ab­ bia dovuto permettere che ciò avvenisse alla luce del sole, senza intervenire a prevenirlo o a impedirlo.

La verità è che, dal giugno 1846 al polo italiano visse in una singolare già realizzato il proprio Risorgimento e degli Stati italiani alla causa per due motivi: perché quella conversionE in quasi tutti quegli Stati, sincera, e perché, anche se essa fosse stata sincera, sarebbe stata inutile e vana, sino a che essa non fosse accompagnata dalla volontà di iniziare la realizzazione deli ’i ndipcndcnza, preparandosi, median­ te la guerra, ad espellere dalla penisola l ’Austria. ^ Indipendenza ed Unità avrebbero, dunque, continuato ad essere un’aspirazione o un desiderio, e non sarebbero state una realtà degli Italiani, sino a che uno Stato ita­ liano non avesse assunto su di se la iniziativa di rischiare la propria sorte nella guerra all’Austria, per realizzarle entrambe. E gli Italiani, a qualunque Stato appartenes­ sero, intuirono allora ciò, che la gelosa intransigenza del­ la sua torrida fede unitaria vieto anche allora di intuire a Mazzini - onde da questo momento ebbe inizio l’isola­ mento politico di lui di fronte al moto di volontà nazio­ nale, che egli stesso aveva in gran parte suscitato - : non esserci in Italia che uno Stato, che una tale iniziativa fosse in grado di prendere : lo Stato, che l’aveva già presa in passato: lo Stato sabaudo. Da quel momento, tutti gli Stati e tutti i Partiti italiani poterono a un solo patto cooperare al Risorgimento del­ l’Italia: aderire alla iniziativa sabauda, servirla, collabo­ rare con essa, sino a farsi assorbire da essa. Logicamente, perciò, mentre si inizio, col biennio 1848-49, il distacco di Garibaldi e dei piu attivi e fecondi volontari di origine mazziniana dalla intransigenza del Maestro e il loro passaggio al servizio della Monarchia, gli altri Stati italiani, o si suicidarono nella coscienza dei sudditi, ritirando, nel maggio del ’48, le proprie truppe dall’esercito di Carlo Alberto, a guerra già dichia-

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rata ed aperta, o furono soppressi dai sudditi, con le di­ chiarazioni di annessione al Piemonte. Le restaurazioni del 1849 non contano, come non con­ teranno quelle seguite, dopo l’estate del 1859, all’armi­ stizio di Villafranca. Durante il decennio cavouriano, tutti gli Stati italiani non vissero, tranne uno, che di vita ap­ parente nella coscienza dei sudditi, i quali, a qualunque regione appartenessero, sapevano non esserci, dal giorno in cui Carlo Alberto aveva la prima volta dichiarato la guerra all’Austria, che un solo Stato italiano: quello, nel cui governo, dopo Novara, sedevano Uomini prove­ nienti da tutti gli Stati italiani, e presso il cui Re mode­ rati neoguelfi e rivoluzionari mazziniani si eran dati la mano, per fare insieme l ’Italia. Nella solitudine, in cui gli Stati italiani avevano, nel ’48, lasciato il Re di Sardegna di fronte all’Austria, era, in­ somma, in atto la morte del federalismo, e in germe la soluzione unitaria del Risorgimento, annunciata da. Maz­ zini e attuata dalla Monarchia, secondo la formóla, di ispirazione mazziniana, di Garibaldi : « L ’Italia e Vit­ torio Emanuele! ». # Sui primi del 1871, infatti, entrata l’Italia in Roma, già da un decennio capitale proclamata del Regno uni­ tario uscito dal travaglio del Risorgimento, parve ai piu tra gli Italiani, parve anche ai piu tra gli stranieri, a volta a volta benevoli o ostili, che l ’opera del Risorgi­ mento italiano fosse conclusa, che i fini del Risorgimento fossero raggiunti. Il popolo italiano era ormai definitivamente uno Stato tra gli Stati d ’Europa: uno Stato, entro e mediante cui gli Italiani vedevano garentiti a se stessi e ai loro di­ scendenti prossimi e remoti quella indipendenza e quel-

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SI la libertà politica e civile, di cui, o già apprestavano a godere - in nome di quegfr'^diSr'pnncipì in virtù dei quali gli Italiani, già servi e divisi, eran risorti a vita unitaria - tutti gli altri popoli colti e pro­ grediti del mondo. L ’Italia era fatta, e il sogno repubblicano di Mazzini pareva realizzarsi in pieno nella Monarchia risiedente a Roma. E si chiesero allora gli Italiani, e piu di essi, e con par­ ticolare curiosità, si chiesero gli stranieri, che cosa fosse per significare per la prossima e futura storia d’Europa e del mondo l’avvento nel consorzio degli Stati civili di questo nuovo Stato, il cui popolo pareva aver ricevuto da Roma la vocazione a non poter essere, tra gli altri popoli, indipendente e signore di sé, se non a patto di esercitare, nel nome di Roma, un’azione di egemonia spirituale nel mondo. La prima Italia, l ’Italia di Roma repubblicana e im­ periale, aveva improntata del proprio spirito la civiltà dell’Occidente, tuttora, dopo tanto volger di secoli, im­ perniata, come intorno a piloni infrangibili, sui presup­ posti e le basi datile da Roma: la seconda, l’Italia del Medioevo, del Papato e del Sacro Romano Impero, aveva, da Roma, cristianizzato il mondo civile, fondendolo nel­ la granitica unità religiosa del cattolicesimo romano. Qua­ le nuova parola stava per dire agli uomini, quale nuova impronta si preparava a imprimere sulla civiltà moder­ na, la volontà unitaria di questa « terza Italia », repenti­ namente e pressoché miracolosamente ricomparsa, dopo tanti secoli, a pretendere e ad affermare, in nome di Roma, il proprio diritto di esistere e di agire come vo­ lontà di uno Stato sovrano tra Stati sovrani?... Della ansiosa aspettazione, con la quale, dall’estero, gli uomini pili colti e pensosi guardavano all’annunciarsi e inserirsi della volontà unitaria italiana nell’urto o nel con-

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trasto tra le varie volontà nazionali lottanti per la con­ servazione o la conquista dell’egemonia spirituale sullo sviluppo della civiltà umana, ci resta una eloquente te­ stimonianza nella domanda, che noi sappiamo rivolta, nei giorni poco prima del 1870, a Quintino Sella dallo storico tedesco di Roma, Teodoro Mommsen: «V oi, dunque, volete andare a Roma?... Ma una volta a Roma, che cosa farete?... Con quali propositi ci entrate?... Perché a Roma non si sta e non si vive senza propositi cosmopolitici, se non in nome di una idea universale! » Senonchè la risposta, singolarmente ingenua, datagli dal Sella - essere il proposito universale, in nome del quale la terza Italia pretendeva di entrare in Roma, quello di contribuire al progresso della Scienza, cioè proprio a quella forma di attività universalistica, astrattamente con­ cepita, in servigio della quale non era mai mancato, ben­ ché troppo spesso a esclusivo vantaggio della civiltà stra­ niera, il contributo prezioso e più volte l ’iniziativa fe­ conda del genio e della operosità italiana, anche quando il popolo italiano, (basta pensare al ’500 e al ’700) era pur sempre servo e diviso - è sufficiente a documentare come gli stranieri nutrissero a torto preoccupazioni per un improvviso affacciarsi di una iniziativa italiana co­ munque diretta a influire sul corso della civiltà europea, ossia come la « terza Italia » si accingesse ad entrare in Roma, senza avere consapevolezza o coscienza di alcuna idea concreta e universale ad essa originalmente spon­ tanea e propria, che la conquistata e riconosciuta unità statale le garentisse prestigio e forza bastevole ad affer­ mare e a diffondere, da Roma e in nome di Roma, nel mondo. Non un’idea religiosa, posto che, abbattuto, con la presa di Roma, l ’estremo residuo di quel potere tempo­ rale, che non era mai stato oggetto di culto o di dogma, la nuova Italia - lungi dal porsi sulla via tracciatale da

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Mazzini, che aveva concepito il Risorgimento nazionale anche dal punto di vista di una rivoluzione religiosa si era affrettata a confermare, dietro l’apparente ossequio alla tradizione del cattolicesimo, il proprio ufficiale agno­ sticismo religioso, e non aveva esitato a tentar di com­ porre, sia pure unilateralmente, il proprio dissidio con la Santa Sede, riconoscendo al pontefice, con la Legge delle guarentigie, tutti gli attributi della sua sovranità religiosa sull’orbe cattolico. E neppure un’idea politica. Giacché i presupposti ideo­ logici, liberali e democratici, su cui la « terza Italia » si vantava di fondare il proprio assetto costituzionale unita­ rio, lungi dall’esser sorti in Italia, per virtù creativa del moto pel Risorgimento nazionale, non rappresentavano che l ’assorbimento per parte di questo, dovuto a impulso di imitazione, o all’impero di necessità pratiche contin­ genti, di una corrente di idee nate e maturatesi, anterior­ mente al Risorgimento, fuori di Italia, e fuori di Italia affermatesi e impostesi, con l’ illuminismo razionalistico settecentesco e il propagarsi e dilagarsi oltre i confini di origine delle rivoluzioni inglese, americana e francese; e lo stesso principio di nazionalità, proclamato dalla « terza Italia », come ragione d’essere fondamentale ed essenziale della propria esistenza di Stato sovrano nel consorzio in­ ternazionale, non era che un elemento o un dato dell’uni­ versale vangelo democratico europeo, in aperto e insana­ bile contrasto con il concetto di nazionalità posto da Maz­ zini a base della sua Giovane Italia. Una unità italiana, dunque, senza scopo alcuno, che fosse comunque destinata a trascendere gli interessi im­ mediati dei singoli Italiani chiamati a goderne i benefici e i vantaggi: una Roma italiana, svuotata, quasi pel solo fatto d’essere diventata italiana, del contenuto di uni­ versalità, che pure era stato nei secoli il suo provviden­ ziale privilegio storico: uno Stato nazionale, già nel suo

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nascere minato dalla sua apparente tendenza a costituirsi e a procedere sulle orme o sul modello degli Stati altrove esistenti, e a riecheggiare in se stesso i motivi ideali già in quelli fiorenti e per virtù di quelli dominanti in Eu­ ropa e nel mondo. Nessuna meraviglia perciò, se, di fronte ad uno Stato siffatto - rassegnato, già sin dai suoi primi segni di vita, a vivere ai margini della civiltà altrui, e pur gloriantesi di essere il prodotto di una Rivoluzione spirituale, di un vittorioso risorgere di valori nazionali - il primitivo senso di soddisfazione e di giubilo per la raggiunta indipen­ denza e unità cedette, nelle menti piu aperte e negli ani­ mi più generosi, e già a pochi anni di distanza dalla presa di Roma, ad uno stato d’animo di delusione e di sconforto, come di fronte ad un fallimento di ideali in­ vano accarezzati e sognati : se sorse e si diffuse in più di un Italiano il dubbio, se davvero fosse valsa la pena, per dar vita ad una Italia siffatta, che si strappasse Roma al Papato, e che si sfidassero per decenni di prove dai mi­ gliori Italiani il carcere e l ’esilio e la morte, e che i vecchi Stati regionali, alcuni dei quali non certo privi di be­ nemerenze e di glorie, fossero stati condotti a veder mor­ tificate le proprie tradizioni, pur sopravvivendo nella me­ moria dei sopravvissuti, nella grigia uniformità di un as­ setto unitario meramente statico e formale : il dubbio, in altri termini, se la « terza Italia », anziché la conclusione positiva, non rappresentasse che l ’arresto o la stasi nega­ tiva del moto, iniziatosi tra tanto fulgore di ideali e tanto succedersi di esperienze eroiche, del Risorgimento. Dubbio, di cui chiunque, già in quegli anni, risalisse alla scaturigine prima del Risorgimento, al pensiero di coloro che ne furono antesignani e annunciatori, profeti e veggenti, non poteva tardare a trovare conferma. N é la indipendenza né la unità garentite agli Italiani dalla terza Italia erano, infatti, la indipendenza e la unità,

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quali le avevano annunciate e previste agli Italiani ven­ turi, negli anni della disgregazione e della servitù, Alfieri e Foscolo, Gioberti e Mazzini. Per gli uni e per gli altri, indipendenza e unità poli­ tiche non avevano valore, se non come supposto o pre­ supposto di indipendenza e di unità spirituali: vale a dire, di liberazione consapevole e intera del pensiero ita­ liano da ogni influsso o mimetismo di idee sorte e svol­ tesi altrove, per opera di civiltà e culture comunque stra­ niere, e affermazione decisa e coerente, sul pensiero al­ trui, del pensiero originalmente italiano, e di compatta e organica unione di volontà concordi verso uno scopo comune, e, come tale, da tutti o da ognuno perseguito e raggiunto. N é gli uni né gli altri avevan concepito e voluto l ’indipendenza e l ’unità come fini a se stesse, con­ seguite le quali, nessun altro fine trascendente i singoli individui, nessun altro fine nazionale, restasse al popolo italiano, e quindi ai singoli Italiani, da perseguire. Dagli uni e dagli altri, indipendenza e unità erano state so­ gnate e volute come mezzi ad un fine ulteriore: come condizione storicamente necessaria e imprescindibile, per­ ché il popolo italiano potesse, riallacciandosi a Roma, riacquistare la vocazione al compito, che D io gli ha prov­ videnzialmente assegnato: il compito di essere la N a­ zione suscitatrice e maestra di civiltà universale : vale a dire indipendenza e unità non erano state che il presup­ posto per l’esercizio del primato civile dell’Italia nel mon­ do: questo vero e proprio fine dell’Italia, che non può mai concepirsi come fatta, perché deve sempre farsi, me­ diante il concorde sforzo degli Italiani presenti e futuri. Primato civile dell’Italia sul mondo, che certo Mazzini concepì in modo diverso da Gioberti, ma che era, e do­ veva essere, pur sempre, nel suo profondo pensiero, un primato : cioè una missione, cui è dovere dei singoli Ita­ liani dedicare l’ingegno, il lavoro e la vita.

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«... L ’Europa » disse egli un giorno « erra nel vuoto in cerca del nuovo vincolo, che annoderà in concorde re­ ligione le credenze, i presentimenti, l ’energie degli indi­ vidui isolati nel d u b b io : ... e questa invocata unità, o Italiani, non può uscire che dalla nostra patria e da voi... ». E scrisse nel 1835 ad uno dei suoi più fidi e austeri com­ pagni di fede, Pietro Giannone: « ... noi cerchiamo come si possa creare una missione, una terza epoca della nuova I t a li a : ... vogliamo essa sorga gigante, angelo di vita ai popoli. In questo pensiero di una Italia iniziatrice è il se­ greto di tutti i miei atti... »

Ma è anche troppo noto come Pefficacia inizialmente vasta e profonda sulle coscienze e sulle volontà, dall’apo­ stolato mazziniano sia stata, e ben prima del ’48, com­ promessa o svalutata dagli insuccessi della sua azione pratica, e anche più, in seguito, dal suo ostinato rinchiu­ dersi e isolarsi nella sua intransigenza repubblicana, e come lo stesso Gioberti abbia veduto, prima di chiuder gli occhi alla luce, scemarsi, per reazione al fallimento dell’esperimento neo-guelfo, l ’immenso prestigio, da lui da qualche anno esercitato sugli animi. Avvenne cosi che, quanto più gli Italiani si allontana­ rono dal ’48 e si venne, negli anni tra il ’49 e il ’70, fati­ cosamente svolgendo, con tutte le armi della diplomazia, della guerra e della rivoluzione, tra una serie di soste, di riprese, di sconfitte, il processo formativo dell’unità, si perdesse o oscurasse negli animi e nelle volontà - tutte prese e converse nelle esigenze e nei problemi dell’ora e dell’azione immediata e diretta - il senso della missione futura, e prendesse quasi istintivamente nelle coscienze valore di fine, ciò, che, ai fini del Risorgimento, aveva valore di strumento e di mezzo; e che sovrattutto appa60

risserò fini essenziali e supremi del Risorgimento""rrnéua rivendicazione della libertà individuale, quell’attuazione, in Italia, degli ideali del liberalismo e della democrazia, quella trasformazione della costituzione dello Stato in senso costituzionale e parlamentare, mediante le quali era riuscito alla terza Italia, sovrattutto pel genio politico di Cavour, di conquistarsi il favore di gran parte della opinione pubblica europea, naturalmente pacifista ed ostile, e di farsi accogliere senza insuperabile repugnanza dalle grandi Potenze del tempo, sospettose del sorgere di una nuova concorrente e interessate al mantenimento di un equilibrio di forze internazionali, di cui esse posse­ devano, e non volevano correre il rischio di perdere, la iniziativa. Sicché parve che non già gli Italiani fossero stati chiamati a conquistarsi la propria concreta libertà di volere e di agire, per fare l ’Italia, ma che l’Italia si fosse fatta pel trionfo della libertà in astratto. D i qui, il sorgere e il radicarsi del funesto equivoco, onde fu, nei lunghi decenni seguiti al compimento del­ l’unità nazionale, fuorviato e falsato il concetto, che del Risorgimento italiano ebbero le maggioranze delle generazioni italiane, che dalle vicende di quello trassero in sorte la fortuna di vivere in una patria resa dal sacri­ ficio dei Padri libera ed una. Credettero, o si illusero di credere, gli Italiani viventi nell’Italia, come si diceva, già fatta, che i loro padri aves­ sero per tanti anni vissuto e operato e sofferto, unica­ mente allo scopo di procurare e garentire alle generazioni venture la sodisfazione o il vantaggio di vivere in una Patria libera ed una, anziché in una Patria serva e di­ visa, e che questa libertà ed unità della Patria costituisse per essi un diritto ad essi trasmesso per eredità, che essi non avessero altro dovere che di conservare il piu possi­ bile illesa ed intatta, cosi come l’avevan ricevuta: che, una volta fatta l ’Italia, altro dovere non restasse agli 61

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Italiani viventi nell’attimo fuggente che rispettarne for­ malmente le leggi, per trarne ciascuno di essi la mag­ gior garanzia e tutela possibile dei propri interessi indi­ viduali o collettivi di cittadini e di sudditi. Credettero che fare l ’Italia, cioè ridurre gli Italiani sotto l ’impero di un’unica sovranità statale, fosse stato l’unico fine, per cui i precursori, gli apostoli, i profeti del Risorgimento avevano spinto, non le piu numerose, ma le piu forti e sane generazioni di Italiani, a soffrire, a lottare, a mo­ rire, attraverso una lunga serie di vicende eroiche : il fine, raggiunto il quale altro motivo di lottare, soffrire e morire agli Italiani non rimanesse, che tutt’al piu quello di difendere da minacce o da offese, comunque venienti dal di fuori, l ’Italia già fatta: fatta per gli Italiani empi­ ricamente considerati. Processo di liquidazione graduale e crescente degli idea­ li originari del Risorgimento per parte di un’Italia, che, nata dal Risorgimento, ne respingeva le mete nelle lon­ tananze sempre piu indistinte e confuse di un passato remoto e di un non meno remòto futuro, il quale parve toccare la fase di sua perfetta maturazione nel momen­ to, in cui si profilò all’orizzonte politico del Paese la dit­ tatura parlamentare di Giovanni Giolitti. È sintomatico il fatto che Giolitti, ponendosi, appena apparso alla Camera, all’opposizione contro il Governo di Depretis, si sia ben guardato dal far causa comune con i rappresentanti della cosi detta « Pentarchia », che con­ ducevano la campagna contro il trasformismo depretisiano nel nome delle genuine tradizioni democratiche della Sinistra storica. D i questo suo tenersi lontano dalla Pentarchia si indica da lui stesso, nelle Memorie, come ragione principale la diffidenza verso la politica estera cosiddetta delle mani net­ te, con la quale Cairoli, capo riconosciuto dalla Pentarchia, aveva condotto l ’Italia allo scacco di Tunisi. Ma non era 62

cosi. L ’appartenenza di Crispi alla Pentarchia, a dimostrare come questa fosse in realtà sul terreno della politica interna, e notti avjS&é in­ vece alcun proprio programma comune di politica estera. Ben altro motivo separava Giolitti dagli uomini della Pentarchia, ed era la radicale diversità delle origini, che erano, per gli uni, quasi tutti provenienti dalle fila del vecchio Partito d ’azione, ed antichi seguaci di Mazzini e di Garibaldi, le cospirazioni, gli esilii e le guerre, men­ tre per l’altro, nato alla vita politica, quando l’Italia uni­ taria era già costituita da oltre un ventennio, era la tran­ quilla carriera degli uffici burocratici. Si comprende perciò come la istintiva incompatibilità mentale e spirituale tra Giolitti e gli uomini della Pen­ tarchia dovesse con particolare evidenza manifestarsi nei rapporti di colui, che ne fu l’anima sinché essa visse: Francesco Crispi. Tutto, in realtà, sembrava congiurasse a contrapporre Giolitti a Crispi, tra i quali non sembra poter scorgere altra nota comune, che la ferrea robustezza dell’organi­ smo fisico e la disposizione ad una forte longevità. Ma uno di essi era già sulla soglia della vecchiaia, nel mo­ mento in cui l’altro entrava nella piena maturità delle forze. E nella vecchiaia dell’uno fremeva lo spirito ri­ belle e avventuroso dell’antico ribelle e cospiratore, men­ tre nella maturità dell’altro dominava la calma avvedu­ tezza e prudenza del funzionario in attività di servizio. Sicché pareva impersonarsi in essi il contrasto storica­ mente inevitabile tra la generazione che aveva operato lottato e sofferto per fare l ’Italia, e la generazione che viveva nell’Italia fatta col sacrificio della prima. Tutto il Risorgimento, in senso mazziniano e giobertiano, era pur sempre, a vent’anni di distanza dalla presa di Roma, spiritualmente presente nella coscienza e nella volontà di Francesco Crispi, e le sue mete lungi dall’esser

raggiunte; onde agiva pur sempre in lui lo spirito origi­ nario del moto, da cui era sorta l ’Italia nuova. Senonchè, egli si ostinava cosi a parlare un linguaggio, che era, per le generazioni italiane nate alla vita politica dopo il ’70, sempre meno comprensibile. Quel potente soffio di fede nell’avvenire d’Italia, che aveva spinto ge­ nerazioni di Italiani ad agire, a rischio della vita, sino alla proclamazione dell’unità e alla conquista di Venezia e di Roma, ora, a cose fatte, cessato il tumulto delle rivo­ luzioni e delle guerre, nel tranquillo godimento del­ l ’unità conquistata e consolidata, apparve ai più, e talora agli stessi superstiti, sotto l’aspetto di una poesia, che avesse ormai fatto il suo tempo, e alla quale fosse da con­ trapporre la prosa, di cui sembrava dovesse ormai essere intessuta la vita attuale. Ora, nel riconoscimento di questa esigenza di prosa per la vita immediata dell’oggi, è il presupposto centrale del programma di politica interna e di politica estera, di cui si trovò ad essere interprete e realizzatore Giolitti : pro­ gramma, il cui fine non era, come per gli uomini del Risorgimento, la grande Italia di domani: ma proprio unicamente la modesta Italia di oggi: quella modesta Italia di oggi, che aveva bisogno di pace all’esterno, per mantenere il più possibile intatto l ’equilibrio di forze internazionali, che, comunque raggiunto, le garentiva il minimo di indipendenza necessario di fronte alle altre Nazioni, e di libertà all’interno, per permettere alle pro­ prie forze produttive il massimo rendimento col minor sacrificio di tutti e di ciascuno. Politica quindi, malgrado le formali apparenze demo­ cratiche e progressiste, rigidamente conservatrice, entro le cui linee deve interpretarsi quella stessa guerra per la conquista della Libia, che è senza dubbio il retaggio più tangibile trasmesso dal Governo di Giolitti all’avvenire della Patria. Se egli, infatti, si indusse a imporre al Pae64

se, quasi forzando la propria natura, la responsabilità e lo sforzo di una guerra, fu unicamente perché ebbe la sensazione sicura che, ove l ’Italia non si fosse decisa a realizzare l’ipoteca già da tanti anni accesa sull’unico lembo della costa africana non ancora occupato dall’e­ spansione colonizzatrice delle grandi Potenze europee, l’equilibrio mediterraneo sarebbe stato a breve scadenza irreparabilmente spostato a danno dell’Italia. Ma nulla fu piu estraneo ai suoi propositi, quanto l’idea che la impresa libica fosse per nascondere un tenta­ tivo di mutamento dell’equilibrio di forze europee garentito dal gioco di Alleanze e di Intese esistenti, e sovrattutto dovesse significare il primo passo dell’Italia verso un esplicito espansionismo italiano. Politica, dunque, la quale, in quanto giovò a trasfor­ mare industrialmente e agrariamente l’Italia, portandola al livello delle grandi Nazioni europee, e procurò alle popolazioni alcuni anni di indubbia prosperità economi­ ca, non passò certamente in pura perdita per la storia d’Italia, ma nella quale era implicito un errore radi­ cale, e perciò il germe della sua decadenza e rovina: la incoscienza del proprio limite, vale a dire la tendenza a dare valore di immutabilità e perennità nella vita storica della Nazione a ciò che aveva valore puramente relati­ vo e transitorio. E in fondo essa non si accorgeva di creare essa stessa il presupposto del suo prossimo supe­ ramento. Il suo presupposto era, infatti, l ’idea della libertà e unità d’Italia come fini a se stesse: come libertà e unità di una Italia costretta a rinchiudersi nella realtà imme­ diata dell’oggi, e negata a qualsiasi concreta possibilità di una piu vasta e più ampia realtà del domani: di una Italia già risorta, per quel tanto che le era dato risorgere, e non suscettibile di incremento ulteriore, e rinnegante perciò, nella realtà dell’oggi, i sogni o le illusioni di

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futura grandezza, che, nel periodo rivoluzionario del suo risorgere, avevano arriso agli eroi e ai martiri della sua indipendenza e della sua unità. Ma questo rinnegamento di ciò, che pure era stato, alle origini della sua rinascita, elemento precipuo di ener­ gia e di fede in se stessa della nuova Italia, non poteva essere eterno. Superato il collasso e la stanchezza degli sforzi compiuti nella fase eroica del Risorgimento, ripri­ stinate, attraverso l ’ordinato svolgersi della vita civile, le energie economiche e spirituali della Nazione, era ne­ cessario che l ’ispirazione originaria del Risorgimento ri­ prendesse l’antico impero sugli animi: che gli Italiani riacquistassero, rafforzati e potenziati dalla conseguita indipendenza e unità, la fede iniziale nella possibilità di una futura ripresa della iniziativa e potenza italiana nel mondo. Questa rinascita della fede dell’Italia in se stessa era, in fondo, una naturale conseguenza dello stesso rigoglio di vita spirituale ed economica, che, durante la dittatura giolittiana, per effetto della consolidata unità, molto piu che per l ’impulso datole dallo Stato, pervadeva da un capo all’altro la Nazione : era sovrattutto la conseguenza della prova di forza, che la Nazione aveva offerto a se stessa e ad altrui con la impresa della Libia. Erano, infatti, evidenti, nell’Italia giolittiana, i segni o gli indizi premonitori di un rivolgimento di spiriti e di coscienze, in cui maturava il prossimo apparire di un nuovo Risorgimento, che non era, in sostanza, se non la ripresa dell’antico. Questo rivolgimento di spiriti era già esplicito nel nazionalismo, ed implicito in molte delle più singolari manifestazioni di vita spirituale, culturale ed economica - quali il rinascente irredentismo, il cosiddetto vocianesimo, il sindacalismo, il futurismo - dell’Italia dei primi decenni del secolo ventesimo.

Lo scoppio della guerra europea, ponendo improvvisa­ mente l’Italia di fronte al formidabile dilemma della neutralità o dell’intervento, doveva porre improvvisamen­ te alla luce la intrinseca deiscenza della politica giolittiana: la mancanza di fede nell’avvenire dell’Italia: di quell’Italia, che quella stessa politica aveva avviato a po­ ter credere nel proprio domani. Appunto perciò la guerra doveva essere l ’evento destinato a liquidare l ’Italia di Giolitti, che era l’Italia vivente dell’oggi e per l ’oggi; e a porre i germi dell’Italia del Fascismo, che è l ’Italia vivente del domani e pel domani. Giolitti non volle l’intervento, e tentò invano impedir­ lo; e fu coerente con se stesso, cioè con il presupposto del­ la sua politica, che era la sfiducia nell’avvenire di grande Potenza dell’Italia : ma si vide sopraffatto e travolto da un impeto di fede in quell’avvenire, che egli stesso, sen­ za volerlo, aveva contribuito a far sorgere. Se avesse vinto Giolitti, cioè il neutralismo, l’Italia avrebbe precluso a se stessa ogni via al proprio avvenire di grande Potenza, sarebbe irrimediabilmente discesa al rango di Potenza di second’ordine, non tanto perché questo dovesse proprio, dal punto di vista diplomatico, essere, in ogni caso, l ’unica possibile conseguenza del non intervento, quanto perché l’Italia avrebbe dato a se stessa la testimonianza irrefragabile della sua repugnanza a fidare nelle proprie possibilità di vittoria e nella propria attitudine a imporre il suggello della sua volontà sul corso della storia prossima e futura dell’Italia e del mondo; e senza la fede nel proprio destino, nessun popolo è mai assurto ad avvenire di grandezza e di potenza. Viceversa, nel trionfo dell’interventismo, ben più che il fatto puro e semplice della vittoria dell’Italia nella 67

guerra mondiale, era in germe la prepotente volontà di espansione e di conquista morale ed economica e spiri­ tuale, che oggi, di fronte all’Europa ed al mondo, agita la Nazione e si concreta nel Fascismo e in Mussolini. Perché la guerra si concluse con la vittoria, e la vittoria, mentre da un lato - portando i confini dello Stato uni­ tario ai termini segnati, sin dai primordi del Risorgi­ mento, del Quarnaro e del Brennero - riapri, di fronte alla coscienza degli Italiani, i problemi dell’indipendenza e dell’unità - quali il Risorgimento li aveva originalmente concepiti e posti, e quali la « terza Italia » li aveva lasciati insoluti, o risoltili in modo puramente esteriore e for­ male, nell’atto stesso che ne temprava, nel consapevole orgoglio della durissima esperienza eroicamente vissuta e superata, la concreta e decisa volontà di risolverli dal­ l’altro lato, svelando agli Italiani - nel disordine univer­ sale di spiriti e di tendenze del dopoguerra mondiale e nella universale anarchia economica e civile, aggravata sino all’esasperazione dalla tenace assurdità dei metodi socialistici - la irrimediabile crisi del parlamentarismo democratico e liberale, avviantesi ovunque al declino, forni ad essi, e alla loro volontà unitaria di superarla e trascenderla, nella rivoluzione, ond’è sorto lo Stato fasci­ sta, il motivo e l’impulso a quella iniziativa europea, che già avevano ad essi invano additato, all’alba del Risorgi­ mento, Gioberti e M azzini: vale a dire, riaccese e risu­ scitò in essi quella coscienza di una missione da assol­ vere a beneficio della civiltà umana, che sola può dare alla indipendenza e alla unità nazionale contenuto e so­ stanza di valore spirituale. Sicché non invano potrebbe agli Italiani di oggi rivol­ gersi da uno studioso straniero la domanda inutilmente rivolta dal Mommsen agli Italiani del 1870: in nome di quale idea universale essi parlino da Roma agli altri po­ poli. Questa idea è il Fascismo.

II L A N A S C IT A D E L FA SCISM O (D ai « Fasci di azione rivoluzionaria » del gennaio 19 1 5 ai « Fasci di combattimento » del marzo 1 9 19 )

-pH noto come il primo immediato e diretto segno di H j vita del nascente Fascismo nella storia d’Italia coin­ cida con quella svolta decisiva dell’attività politica di Benito Mussolini, che fu, nell’ottobre del 19145 sua repentina e irreparabile rottura con la disciplina del Par­ tito socialista italiano, di cui egli era da alcuni anni uno dei rappresentanti più autorevoli e noti, per la sua resi­ stenza ad accettarne la tesi di una assoluta e intransi­ gente neutralità dell’Italia e dello Stato italiano nella guerra europea determinata alcuni mesi prima dall as­ sassinio di Serajevo, e quindi la sua clamorosa uscita da esso, per iniziare una intensa e vasta azione di propa­ ganda della necessità di una politica di intervento. Il che equivale a dire che il germe iniziale del Fasci­ smo e della sua Rivoluzione deve cercarsi nella crisi di pensiero e di volontà, che, in un giorno di autunno del 1914, per contraccolpo della guerra, che da alcuni mesi insanguinava l’Europa, strappò ad un tratto Benito Mussolini alla fede nel socialismo, e lo dono tutto e per sempre all’Italia. Crisi brevissima, il cui periodo di incubazione e di ma­ turazione durò meno di una ventina di giorni dell ot­ tobre 1914. 69

Il primo sintomo se ne ebbe il 5 ottobre, in un arti­ colo, in cui Benito Mussolini, dal 1° dicembre del 1912 direttore dell’organo ufficiale del Partito socialista, VAvan­ ti!, rivelava per la prima volta in maniera esplicita l’orien­ tamento del proprio pensiero in senso contrario al blocco austro-tedesco, a proposito della neutralità dell’Italia nel­ la guerra mondiale: « La neutralità socialista fu sin da principio e per ragioni formidabili affetta da parzialità e quindi in certo senso condizionata. La neutralità verso Oriente era una cosa, versò Occidente un’altra: simpatica verso la Francia, ostile verso la Germania. I socialisti di­ cevano al Governo: se voi andate verso la Francia, do­ vete prima fiaccare un moto rivoluzionario all’interno. Ma l’atteggiamento da tenersi nell’altro caso non era contemplato. La valutazione tra le due guerre era, dun­ que, diversa e ne conseguiva una diversa condotta pra­ tica. I socialisti, i rappresentanti delle organizzazioni economiche e nazionali, mentre si impegnavano allo sciopero generale in una data eventualità (guerra contro la Triplice Intesa), non prevedevano tale impegno terri­ bile nell’altra eventualità: quella di una guerra contro 1’Austria-Ungheria... La neutralità assoluta ha il valore di una dichiarazione ideale di principio. Significa l’oppo­ sizione ideale alla guerra » {Avanti!, 5 ottobre 1914). Ma non erano passati, dopo questo articolo, tre giorni, che già la neutralità socialista, da assoluta, quale era an­ cora presentata il 5 ottobre, era diventata, l ’8 ottobre, nella prosa del direttore dell’Avanti!, decisamente re­ lativa : « Per dare una direttiva sicura ad un giornale, men­ tre tutta l’Europa frana, mentre tutto si capovolge e si sovverte, mentre si compie con la guèrra una delle più grandi liquidazioni della storia, per dare ad un giornale una direttiva sicura durante questa colossale Umwaltung di valori materiali e morali, bisogna avere il cervello di 70

un genio, che vede e prevede tutto, o il cervello di un idiota, che accetta il destino senza indagarlo. Se non sono un genio, non sono nemmeno un idiota. E non mi vergogno di confessare che, nel corso di questi due tragici M esi, il mio pensiero ha avuto oscillazioni, in­ certezze, trepidazioni. E chi tra gli uomini intelligenti, non ha sentito questa crisi interiore?... Quanto all inter­ vento dell’Italia, è questione da esaminare da un punto di vista puramente e semplicemente nazionale. Reazione e rivoluzione non c’entrano più, o per lo meno assai indi­ rettamente. E giudicando le cose da un punto di vista nazionale o di obiettività critica, io ho avuto momenti di repulsione contro questa neutralità governativa, che è bassa, non illuminata da alcuna speranza, una neutra­ lità di ripiego, degna di gente che vive alla giornata!... Sin dai primi di agosto, il Governo sapeva che la nostra ostilità alla guerra avrebbe cambiato tono e forma a se­ conda delle circostanze: violenta e insurrezionale, in caso di guerra contro la Francia, ideale e legale nel caso di guerra contro l’Austria-Ungheria... » (Avanti!, 8 otto­ bre 1914). Ma il direttore dell 'Avanti! dava cosi alla neutralità socialista una interpretazione dinamica, che era ben lungi dall’essere condivisa dai dirigenti del Partito. N e questa interpretazione appariva proprio allora per la prima volta nel giornale affidato alla sua responsabilità, anche se appariva ora per la prima volta in forma aperta ed espli­ cita. Chi dia, infatti, una scorsa alla raccolta dell 'Avanti! di quei mesi può facilmente constatare gli sforzi, con cui, dall’n settembre del ’14, Mussolini aveva cercato di abi­ tuare i lettori dell’organo socialista all’idea di una neu­ tralità, da cui non fosse a priori esclusa la possibilità della guerra. Appunto in questo senso, egli potrà piu tardi attribuire alla dichiarazione di neutralità dell’Italia nel conflitto mondiale un valore rivoluzionano : come 71

di uno stadio, attraverso il quale l ’Italia dovesse necessa­ riamente passare, per giungere dalla precedente posizione di alleanza con gli Imperi centrali all’idea e al proposito dell’intervento armato contro di essi. Ben altra interpretazione davano, e avevano subito dato, alla neutralità socialista - come se, in Italia, e pen­ dente la guerra tra le altre Potenze di Europa, fosse stata comunque pensabile o concepibile una neutralità socia­ lista diversa e distinta dalla neutralità italiana! - gli uo­ mini del Partito!... Per questi, la neutralità doveva es­ sere rigidamente statica, e quindi tutt’altro che rivolu­ zionaria. Neutralità assoluta, senza riserve e senza eccezioni: neutralità a qualunque costo e contro qualunque avver­ sario: perciò anche in confronto della Triplice Intesa. N é alcun sentore che ci potesse essere, per giustificare l ’in­ tervento italiano nel conflitto, un motivo essenzialmente o esclusivamente italiano: come se la ipotesi che l’Italia, pur facendo la guerra insieme con altri, facesse la guerra soltanto per sé, fosse a priori assurda!... D i questa asso­ lutezza della neutralità, il Partito socialista si avviava, con l’ostinazione del fanatismo, a fare un dogma! Tra questi due modi di interpretare la neutralità era inevitabile l ’urto. Esso si manifestò insanabile nell’articolo che, il 18 otto­ bre 1914, Mussolini pubblicò sull 'Avanti!, sotto il titolo Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante. « ... Un Paese, che vuol vivere nella storia e fare della storia, non può soggiacere, pena il suicidio, a una norma cui si conferisce il valore di un dogma indiscutibile o di legge eterna sottratta alle necessità del tempo e dello spa­ zio. La nostra neutralità è stata sin dall’inizio parziale: è stata una neutralità spiccatamente austro-tedesca e per converso francofila... La neutralità ci poneva di fronte a due pericoli estremamente gravi. Il primo era di natura

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interna: l’opposizione dei socialisti ad uiWgiì fire contro l’Austria-Ungheria poteva indiretta**« D ' O rdine il giuoco triplicista della Monarchia. Il pei internazionale era non meno grave... U n ’opposizione so­ cialista spinta agli estremi, nel caso di una guerra contro l’Austria-Ungheria, avrebbe potuto far sorgere nell opi­ nione pubblica e proletaria dei Paesi della Triplice il sospetto di una nostra complicità con la politica degli Imperi Centrali... Le vicende del Partito socialista au­ striaco e la clamorosa scissione dei Cèchi dalla Centrale socialista di Vienna dimostrano che i problemi nazionali non risolti turbano lo svolgimento della lotta di classe... Il caso del Trentino e tale, che forza a meditazione i neutralisti più assoluti... I l . Trentino è virtualmente e moralmente insorto... N oi socialisti italiani non possiamo chiudere gli orecchi alle voci che ci giungono d’oltre Alpe... Il programma della neutralità assoluta per 1 av­ venire è reazionario... è una formola pericolosa che ci immobilizza... Abbiamo avuto il singolarissimo privi­ legio di vivere nell’ora più tragica della storia del mon­ do. Vogliamo essere - come uomini e come socialisti gli spettatori inerti di questo dramma grandioso? O non vogliamo esserne in qualche senso i protagonisti.. Non salviamo la lettera del Partito, se ciò significa ucci­ dere lo spirito del socialismo... » (Avanti!, 18 ottobre) È evidente che per Chi scriveva queste parole lo spinto del socialismo portava ormai senza indugio alla guerra: perché si trattava dello spirito di un socialismo decisa­ mente e consapevolmente nazionale. Sicché alla guerra Mussolini sapeva ormai di tendere, non meno come socia­ lista, che come italiano: nel primo senso, Egli vedeva nel­ la guerra un preludio alla rivoluzione: nel secondo, un mezzo alla integrazione della Patria. Il che vuol dire che tutte le repugnanze, pressoché istintive, e perciò tanto meno facilmente superabili, pro-

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prie dei socialisti per il fenomeno guerra erano state nella coscienza di Mussolini perfettamente superate. L ’essere socialista a Lui non pareva affatto incompatibile con la disciplina della vita militare. Chè, anzi, la vita militare gli era sempre apparsa uno strumento essenziale di edu­ cazione, se non altro, perché essa insegna ad ubbidire, cosa indispensabile per imparare a comandare: e senza saper comandare, non si sarebbe mai potuto realizzare nessun programma politico in Italia: neppure quello del socialismo. Ora tra Chi impostava cosi il problema della neutra­ lità o della guerra, e il Partito socialista italiano la in­ compatibilità teorica e pratica era, in quel momento, asso­ luta. E non tardò a sanzionarla il convegno della dire­ zione del Partito, tenutosi a Bologna il 20 ottobre, in cui l’ordine del giorno contro la neutralità assoluta, presen­ tato dal direttore dell 'Avanti!, Mussolini, fu respinto alla unanimità, rendendo subito inevitabili le dimissioni di Lui dalla direzione del giornale del Partito. Due giorni dopo, la Sezione milanese del Partito con­ statava l ’esistenza dello scisma tra socialisti fedeli al dogma della neutralità assoluta, e socialisti solidali con Mussolini, pochissimi di numero, ma decisi e pronti ad ogni cimento, mentre, sulle colonne del Corriere della Sera Mussolini poneva gli Italiani dinanzi ai termini inesorabili del dilemma: « .. .L ’Italia interverrà, dovrà intervenire. Se no la Monarchia si vedrà sorgere in faccia lo spettro della Rivoluzione. Nel momento della pace chi sarà rimasto con le mani alla cintola, indifferente a tanto scempio, non potrà avanzare pretese. E l ’Italia ha il suo compito ben tracciato. Contro l ’Austria: senza raggiri, direttamente, apertamente ». Il dado era tratto. Mussolini era ormai fuori del Par­ tito sin dalla sera del 22 ottobre, anche se la espulsione ufficiale tarderà ad essere proclamata sino al 25 novem-

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bre: stava già, anzi, sin d’allora, per iniziare la batta­ glia contro il Partito, libero ormai da quella « camicia di Nesso » che era stata per Lui la neutralità: libero al punto da potere, il 15 novembre, lanciare dal primo nu­ mero del Popolo d Italia, con L' articolo Audacia, la parola di sfida ai compagni di ieri, servi di una formola vigliacca ed assurda: «... La propaganda antiguerresca è la propaganda del­ la vigliaccheria. Ha fortuna, perché vellica ed esaspera l’istinto della conservazione individuale. Ma è per ciò stesso una propaganda antirivoluzionaria. N oi socialisti abbiamo rappresentato una delle forze vive della nuova Italia: vogliamo ora legare il nostro destino a queste forze morte, in nome di una pace, che non ci salva oggi dai disastri della guerra e che non ci salverà domani dai pericoli indubbiamente maggiori, e non ci salverà dalla vergogna e dallo scherno dei popoli che hanno vissuto questa grande tragedia della umanità?... « È a voi, giovani d’Italia, giovani delle officine e degli Atenei, che appartenete alla generazione, cui il destino ha commesso di fare la storia: è a voi-che io lancio il mio grido augurale, sicuro che avrà nelle vostre file una vasta risonanza di echi e di simpatie... » Il pronostico ebbe larga conferma nella realtà: non certo tra le masse degli iscritti al Partito e alle organiz­ zazioni socialiste, che rimasero a lungo sorde e cieche alla predicazione mussoliniana, ma ai margini di essa, e sovrattutto, proprio come Egli aveva previsto, tra i giovani. # La crisi mussoliniana, che in meno di una ventina di giorni portò allo scisma del Partito socialista, e all’affermarsi di un movimento politico interventista, su­ bito raccoltosi intorno alla persona di Benito Mussolini,

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parve sulle prime sorprendere o stupire molta gente, in Italia, come qualcosa di assolutamente imprevisto e inat­ teso. In realtà, la sorpresa era in gran parte infondata. Perché sta di fatto che l ’improvviso affacciarsi alla mente di Mussolini del dilemma, che la guerra europea pose repentinamente all’Italia, tra la neutralità e l ’intervento, ebbe per effetto di affrettare o precipitare, nella coscienza e nella volontà di Lui, una crisi, che già da tempo, e ben prima che la guerra scoppiasse, era in Lui piu che latente, e che non attendeva che un’occasione per farsi palese. È vero che, proprio due anni prima, il suo travolgente discorso di intransigenza assoluta al Congresso socialista di Reggio Emilia aveva indotto la maggioranza dei com­ pagni a mettere l’ala riformista alla porta del Partito, ed aveva fatto di Lui il Dittatore di questo in nome della rivoluzione. Ma questa dittatura, benché poco dopo riconfermata dal Congresso di Ancona, e rafforzata dal possesso del giornale del Partito, era molto più appa­ rente che reale, perché frutto di un equivoco. Il quale risaliva ad alcuni anni indietro, a quando Benito Mus­ solini, reduce, sulla fine del 1909 da Trento, ove era stato per circa un anno, segretario della Camera del lavoro, e collaboratore di Cesare Battisti al giornale II Popolo, aveva, dal gennaio del 1910, iniziato a Forlì come segre­ tario di quella Federazione provinciale, la sua carriera di dirigente socialista, fondando il periodico La lotta di classe, da Lui diretto sino al momento della sua nomina a direttore dell’Avanti! Per circa tre anni, La lotta di classe era stata, nelle mani di Mussolini, l’organo di una diuturna battaglia contro il positivismo, e di un tenace tentativo di infusione di volontarismo, o, com’Egli dirà piu tardi, di blan­ quismo o bergsonismo, nell’anima, da troppi anni ad­ dormentata e intorpidita dalla prevalenza a lungo indi76

scussa e indisturbata di un gretto determinismo mate­ rialistico del socialismo italiano. E dalla Lotta di classe lo spirito della battaglia era stato da Mussolini trasportato nell’organo stesso del Partito. Già alla vigilia di assu­ merne la direzione, il prossimo direttore dell 'Avanti! ave­ va nel numero del 23 novembre, scritto queste parole: «... noi non ci rammarichiamo di avere reagito con tut­ te le nostre forze al positivismo, dottrina di classi arri­ vate, e non di classi che vogliono arrivare, e dottrina che non ha dato nessuna certezza al socialismo, e lo ha invece isterilito nell’anima e nella volontà» (Avanti!, 12 novembre 1912). Il fallimento della predicazione mussoliNIana per 1 in­ tervento dell’Italia nei primi mesi del 1915 e l’irrigidirsi delle masse socialiste in un dogmatico neutralismo di­ mostreranno come quell’isterilimento fosse ormai ingua­ ribile. Durante i due anni di dittatura mussolimana sul Partito socialista, gli indirizzi di volontarismo nell’ala rivoluzionaria di esso non erano stati perciò che bagliori illusori; dietro non c’era nessuna concreta fede m quella^ forza della storia che si chiama volontà umana. Sicché la rivoluzione professata, predicata, quasi imposta dalla instancabile attività di Mussolini alla maggioranza degli aderenti al Partito era tutt’altra cosa da quella rivoluzione, che il Partito aveva da anni educato i propri aderenti a concepire e a volere. Già sin d’allora, quindi, anche quando usavano le stesse parole e si illudevano di volere la stessa cosa e di essere d’accordo, Mussolini e la gran de maggioranza dei socialisti italiani parlavano due lin­ guaggi toto coelo diversi e l’uno all altro incomprensibili. _ Incompatibilità teorica e pratica tra la mentalità poli­ tica dominante nel socialismo italiano e la mentalità po­ litica di Mussolini, che si era venuta, specialmente dal 1909 - cioè dalla dimora fatta per circa un anno a Trento 77

da Mussolini - in poi, sempre piu gravemente scavando e approfondendo, sino a diventare, alla vigilia della guer­ ra, insanabile, e che aveva radice nella formazione della personalità morale e nella genesi della cultura mussoliniana, quali l’una e l ’altra si erano gradualmente for­ giate, per influsso, cosi della educazione materna e spe­ cialmente paterna, che delle esperienze materiali e spi­ rituali di una vita, sin dagli anni giovanili, e da ogni punto di vista, diffìcile ed aspra. Chè, se è vero, che, come disse Mussolini una volta, « rivoluzionari si nasce e non si diventa », è anche vero che, se - pur restando, per incoercibile vocazione dell’ani­ mo, pur sempre un rivoluzionano, anche da quando go­ verna, in nome dell’autorità, il proprio Paese - Mussolini non si arrestò al socialismo, e tanto meno passò al comu­ niSmo, ma potè, dal proprio istinto di creatore, in nome di una rivoluzione dar vita ad una nuova forma di vivere a Stato, ciò fu sovrattutto dovuto al lievito posto nella sua anima giovanile da due educatori: la povertà e suo padre. Benemerenze precipue di Alessandro Mussolini, come educatore del figlio, queste: da un lato di avere dalla sua fucina esercitata su di Lui quella enorme efficacia educativa, quale la definirà appunto il figlio, che il la­ voro manuale è destinato a produrre sul lavoro spiri­ tuale; dall’altro lato, di avergli saputo, sin dagli anni formativi dell’infanzia e dell’adolescenza, evitare i danni o i pericoli di quella unilateralità e superficialità di cul­ tura, la quale costituirà piu tardi uno degli elementi o motivi di debolezza e di inferiorità della maggior parte dei socialisti italiani nei confronti di Mussolini. Sappiamo che il piccolo Benito udì la prima volta dalla voce del padre leggere e spiegare alcune pagine del Capi­ tale di Carlo Marx : e fu certamente questo il suo primo contatto col socialismo. Ma sappiamo anche che quella

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singolare figura di operaio socialista, che era Alessandro Mussolini, non leggeva soltanto Marx ai figliuoli : leg­ geva, o spingeva a leggere, anche Ariosto e Machiavelli (specialmente Machiavelli), e parlava di Carducci, di Garibaldi, di Mazzini. Letture degli anni infantili e giovanili, il cui richiamo giova a chiarire, nei modi ed aspetti piu singolari della sua libertà di formazione, quella, che altri chiamò la individualità utilitaria della sua cultura, la quale risultò senza dubbio vasta e varia - senza paragone piu vasta e piu varia di quella solita a riscontrarsi negli uomini poli­ tici di parte democratica e socialista, che non va in ge­ nere più in là della cultura dei luoghi comuni -; ma, in genere, di quella vastità e varietà, che erano specificatamente necessarie ai fini, in vista dei quali Egli sarebbe stato un giorno chiamato dalla sua vocazione a servirsene. Ben lungi, infatti, dal chiudersi nella lettura dei testi socialisti, da Marx a Proudhon, Egli ebbe sempre cura di tenere ben vigile e desto il contatto del proprio pen­ siero e del proprio sentimento con tutte le correnti spiri­ tuali più vive e vitali del proprio tempo. D i qui, innanzi tutto, la familiarità del suo spirito con poeti italiani e stranieri, quali Dante, Foscolo, Carducci, Pascoli, D ’Annunzio, Victor Hugo, Heine, Klopstok, Platen, e con pensatori antichi, e moderni, anch’essi ita­ liani e stranieri : specialmente Machiavelli e Mazzini, tra i primi; Carlyle, Nietzsche, Schopenhauer, tra i secondi. Sovrattutto notevole appare in Lui, sin dai primi anni, la passione per la storia, e la sua vera e propria predilezione per la filosofia, o, meglio, per la storia di questa : né è a caso che la sua bibliografia, insieme con saggi sulla fortuna di Roma sul mare e sul Machiavelli, offra ben tre studi monografici relativi a filosofi : Nietzsche, Giordano Bruno, Giovanni Huss. Da questo suo intenso contatto con la storia della

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filosofia verrà probabilmente a Mussolini il primo in­ centivo alla originalità della sua posizione di fronte al socialismo italiano. Perché questa originalità fu preva­ lentemente dovuta alla tendenza, assai presto rivelatasi in Lui, e, del resto, comune a quasi tutta la gioventù più intelligente e aperta del tempo, a dirigere le proprie preferenze di lettore a quei filosofi moderni (James, Bergson, Blondel, Croce, Gentile, Maurras), le cui dot­ trine più vivamente reagissero al positivismo e al mate­ rialismo storico, che erano pur sempre la filosofia del socialismo e dei socialisti, in Italia e all’estero. È per questo che, nella storia intima di Mussolini, e perciò in quella prossima d ’Italia, deve considerarsi de­ cisivo il quadriennio 1909-1913, corso tra la nomina di Mussolini a segretario della Camera del lavoro a Trento (febbraio 1909) e la sua assunzione alla direzione dell’Avanti! (dicembre 1912). Non solo, infatti, si realizzò e concretò, durante questo quadriennio, la presa di contatto tra il socialismo mussoliniano e la filosofia della volontà e dell’azione: ma furo­ no anche questi gli anni, durante i quali il socialismo di Mussolini entrò in una serie di rapporti vivaci e fe­ condi, anche se spesso svoltisi attraverso discussioni e contrasti, con alcuni fra i piu interessanti di quei movi­ menti spirituali, culturali e politici, mediante i quali l ’Italia diede, sulla soglia del secolo X X , i primi segni della imminente rinascita. D i questi rapporti, nonché delle relazioni personali strettesi tra Mussolini e i più noti ispiratori o dirigenti di quei movimenti (Battisti, Labriola, Péguy, Leone, Oli­ vetti, Corridoni, De Ambris, Prezzolini, Papini, Mari­ netti, Corradini, Rocco, Coppola ecc.), qualcuno dei quali diventato poi avversario suo e del Fascismo, la maggior parte suoi collaboratori o seguaci, prima o dopo la Marcia su Roma, non è qui il luogo di tracciare la storia. Ma

è ben noto come di ciascuno di quei movimenti e dell’in­ fluenza da essi esercitata sulla sua coscienza e sulla sua vo­ lontà, siano piu che evidenti le tracce nella sintesi del Fascismo: specialmente per ciò che riguarda il Sindaca­ lismo e il Nazionalismo, l’uno e l’altro dei quali ap­ paiono, nei loro elementi essenziali e vitali, realizzati appunto in quella sintesi, a far sorgere e a formare la quale nella mente di Chi ne sarà il creatore hanno con particolare efficacia contribuito gli scritti di tre pensa­ tori: Vilfredo Pareto, Giorgio Sorel, Alfredo Oriani. Di Vilfredo Pareto, Mussolini frequentò le lezioni al­ la Università di Losanna, durante uno dei periodi più movimentati e drammatici della sua gioventù, nel 1904: poche lezioni, ma sufficienti a destare nell’animo del giovane ascoltatore una impressione profonda. Se ne com­ prende il motivo, leggendone l ’opera principale, il Trat­ tato di Sociologia, pubblicato durante la guerra, ma scrit­ to in gran parte prima, in cui è un cosi sicuro e preciso presentimento del prossimo declinare della socialdemocra­ zia, che stupisce. Pareto ha benissimo veduto come la democrazia e il socialismo non avessero altro sbocco che l’anarchia o la conquista straniera, salvo l’intervento di una restaurazione dell’autorità mediante la forza. « È facile vedere che ci muoviamo su di una curva simile a quella che già percorse la società romana, dopo la fondazione dell’Impero, e che, dopo aver manifestato un periodo di prosperità, si prolungò, conducendo alla decadenza. La storia non si ripete mai, e non è proba­ bile che il nuovo periodo di prosperità abbia origine da un’altra invasione barbarica : meno improbabile sarebbe che seguisse per opera di una interna rivoluzione, che desse il potere agli uomini, che possono e vogliono usare la forza. » Che tali uomini potessero molto più facilmente venire dalle file dei rivoluzionari, che da quelle dei conserva-

tori o dei riformisti, era anche antica convinzione del Pareto. Il quale ne offri una singolare conferma nel 1914, commentando con queste parole i fatti della cosiddetta settimana rossa, in Italia, mentre direttore dell 'Avanti! era Benito Mussolini: «... G li uomini dell Avanti! dimo­ strano di avere qualità virili e di lealtà che tosto o tardi assicurano la vittoria, e alla fine sono utili all intera Na­ zione... ». Mori proprio entro l’anno della Marcia su Roma, ma senza potere assistere alla conquista dello Stato in Italia per parte del Fascismo, un altro pensatore, che aveva avuto con Vilfredo Pareto, e in modo anche più esplicito, il presentimento dell’avvenire di Benito Mussolini come dittatore e restauratore del proprio Paese: Giorgio Sorel. D i Giorgio Sorel sono, infatti, notissime le parole pro­ nunciate nel 1912, quando appena si profilava all orizzonte la figura di un Mussolini agitatore e ispiratore dell’ala rivoluzionaria del socialismo italiano: «... Il vo­ stro Mussolini non è un socialista ordinario. Credetemi, voi lo vedrete forse un giorno alla testa di un battaglione sacro salutare con la spada la bandiera italiana... È un Italiano del X V secolo, un condottiero. Non lo si sa ancora, ma egli è il solo uomo energico, capace di ripa­ rare le debolezze del Governo». A Giorgio Sorel quest’Uomo accennerà, un giorno, in un discorso alla Camera italiana, come ad uno degli au­ tori, che avevan contribuito a formare la sua mentalità. E, in realtà, basta leggere gli articoli e discorsi di Mus­ solini, per avvertire la frequenza di idee e di motivi di evidente ispirazione soreliana, anche se piu di una volta Mussolini si sia trovato a contraddire e a respingere certi atteggiamenti teorici o pratici del Sorel. Dal Sorel venne, innanzi tutto, a Mussolini la esalta­ zione della violenza, come mezzo necessario a forzare, con l’intervento della volontà umana, il processo storico.

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vale a dire, il concetto della storia come libero processo di forze spirituali, non soggetto a determinismi, ma realizzato da coloro, che hanno la capacità e la forza di esprimerlo dalla propria consapevole volontà, mediante l’azione violenta-, quella azione violenta, il cui compito è di distruggere il vecchio, per dar vita, anche attra­ verso miti e ideologie, al nuovo : venne, in altri termini, la decisa ripulsa dell’ingenuo e semplicistico fatalismo marxista, da cui le masse sono condotte alla passività del­ l’inerzia. Dal Sorel venne pure, a Mussolini, con la critica di tutto l’apparato filosofico economico e tecnico del Capitale di Marx, la impostazione della lotta di classe nei suoi fondamenti sociali e nella rivendicazione della dignità del lavoro; nonché la concezione del sistema sindacale, come necessità inerente alla struttura delle moderne società pro­ duttive, e la messa in rilievo del carattere etico delle asso­ ciazioni del lavoro, redente dal gretto e odioso materiali­ smo marxista. E vedremo piu innanzi come alcuni lati od aspetti della riforma corporativa dello Stato realizzata dal Fascismo si risolvano nella valorizzazione di motivi soreliani. Quanto ad Alfredo Oriani, il documento della ricono­ scente devozione, con cui Mussolini ha voluto rivendicar­ ne la funzione di anticipatore dello spirito del Fascismo nell’Italia dell’anteguerra, è nel discorso pronunciato il 27 aprile 1924, in occasione della marcia compiuta per suo ordine dai fascisti al Cardello : « Piu passano gli an­ ni, più le generazioni si susseguono, e pili splende que­ sto astro, anche quando i tempi sembravano oscuri. Nei tempi, in cui la politica del “ piede di casa” sembrava il capolavoro della saggezza umana, Alfredo Oriani so­ gnò l’Impero : in tempi, in cui si credeva alla pace uni­ versale e perpetua, Alfredo Oriani avverti che grandi bufere erano imminenti, le quali avrebbero sconvolto i

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popoli di tutto il mondo; in tempi, in cui i nostri diri­ genti esibivano la loro debolezza più o meno congenita, Alfredo Oriani fu un esaltatore di tutte le energie della razza: in tempi, in cui trionfava un sordido anticlerica­ lismo, che non aveva alcuna luce ideale, Alfredo Oriani volle morire col crocifisso sul petto... N oi ci siamo nu­ triti delle pagine di Alfredo Oriani. Quella storia d ’Italia cosi accidentata e tormentata... e che a taluni può appa­ rire misteriosa e paradossale, a noi fu chiara ed apparve logica, di una logica formidabile, attraverso i volumi del­ la “ Lotta politica” . Intristiva la coscienza italiana; Gari­ baldi era morto; Mazzini sembrava lontanissimo dalle nuove generazioni, che correvan dietro ad un profeta di dubbia razza tedesca. La politica del materialismo e del positivismo trionfava dalle cattedre, dai giornali, nei par­ titi, nelle coscienze, intorpidiva l’anima italiana... fu que­ sto il momento, in cui Alfredo Oriani gettò alle folle italiane il volume della Rivolta ideale, nel quale tutti i problemi, tutte le passioni, tutte le angosce e tutte le spe­ ranze del nostro tempo vengono prospettate, illustrate, in uno stile conciso, tacitiano, che basterebbe da solo a co­ stituire la gloria di uno scrittore. Oso affermare che, se Alfredo Oriani fosse ancora tra noi, Egli avrebbe preso il suo posto all’ombra del Littorio... ». Pagina senza dubbio altamente significativa, come quel­ la, da cui sembra, meglio che da ogni altra, illuminarsi e chiarirsi in che senso sia vero che, nel pensiero e nella volontà di Mussolini, il Fascismo e la sua rivoluzione si inseriscono, con piena coerenza di sviluppo, in tutta la precedente storia del popolo italiano, e ne continuano perciò e potenziano, realizzandone, anche quando sem­ brino contraddirle o correggerle, le finalità essenziali, il Risorgimento.

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A chi prenda in esame la vita politica di Mussolini, dal gennaio 1910 al luglio 1914, come segretario della Fede­ razione socialista di Forlì, come direttore della Lotta di classe, come oratore nei congressi di Reggio Emilia e di Ancona, come membro della direzione del Partito, come direttore dell 'Avanti!, non può, dunque, far meraviglia di constatare, negli atti e nelle manifestazioni di Lui - me­ glio, a prima vista, ispirate ad una decisa e rigida e in­ transigente aderenza teorica e pratica alla finalità del Par­ tito socialista italiano - altrettanti sintomi o indizi di un suo graduale allontanarsi da esso e dalla sua disciplina. Cosi, per esempio, già nell’autunno del 1911, nel suo contegno di violenta opposizione alla guerra di Tripoli, onde gli vennero un processo e una condanna, come a sovvertitore della disciplina collettiva a danno della N a­ zione. Perché, nella autodifesa da lui pronunciata il 25 novembre 1911 è la dimostrazione palese, non meno della reciproca incomprensione, la quale, pure attraverso il co­ mune antilibicismo, già lo separava dai suoi compagni di fede politica, che della solidarietà di propositi nazionali, la quale, pure attraverso la apparente irreducibilità dell’anti­ tesi, già lo univa ai nazionalisti: «... tra noi socialisti e i nazionalisti c’è questa diversità: che essi vogliono un’Italia vasta: io [non noi: singolare affermazione di individuali­ tà di fronte al resto dei socialisti!] voglio un’Italia colta ricca e libera... Preferisco essere cittadino della Danimar­ ca che suddito dell’Impero Cinese. Mi posi cosi sul ter­ reno dell’amor patrio, e ne fui rimproverato come di una debolezza verso il nazionalismo... Io ho detto ciò che dissi e scrissi, perché voglio un’Italia che senta il dovere e si sforzi di redimere dalla doppia miseria economica e spirituale la sua gente! ».

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Chi pensava e scriveva in tal modo correva realmente il rischio di passare, nel Partito, come un patriottardo! N é minore scandalo dove tra i lettori, dell Avanti! sol­ levare l ’articolo con cui, il 9 dicembre 1912, il recentis­ simo (da una settimana) direttore commentava il rinno­ vamento anticipato della Triplice Alleanza: « N oi ne­ ghiamo che la Triplice abbia mai giovato all’ Italia... Sono d’accordo le due Potenze per ciò che concerne gli Ita­ liani della Monarchia? H a il Governo ricordato che dai nostri connazionali si agitano postulati di carattere nazio­ nale, che trovano concordi tutti gli Italiani dell’Austria?... « Se risulterà che il Governo italiano si è legato al de­ stino degli Imperi centrali in tutta perdita... si dovrà con­ cludere che la Nazione è stata tradita... » Evidentemente il nuovo direttore del giornale socialista non concepiva la politica estera se non in funzione ita­ liana, e pensava che i proletari italiani dovessero sempre essere disposti o alla pace o alla guerra, a seconda che pace o guerra richiedessero gli interessi dell’Italia. Ciò, del resto, risulta dal confronto di questi due passi di due articoli dell ’Avanti! usciti a breve distanza, entro quello stesso mese di dicembre 1912 : io dicembre : « Sarà impossibile a Giolitti o a qualunque altro suo successore forzare i soldati italiani a combattere oltre l’Isonzo » : 20 dicembre: « N el caso deprecato che per sciogliere il nodo gordiano si ponesse mano alla spada, e l’Italia do­ vesse seguire l’Austria nella guerra tra le due Triplici, il dovere dei proletari italiani e dei socialisti è uno solo : ri­ spondere alla mobilitazione dell’esercito con la mobilita­ zione fulminea, violenta di tutto il popolo ». Cioè, con la rivoluzione : quella rivoluzione nazionale, di cui la guerra è sempre preludio, e di cui preparare, per quando ne suoni l’ora, nella coscienza e nella volontà dei proletari italiani l’avvento, Mussolini riteneva precipuo compito storico del socialismo.

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Giacché Egli aveva sempre concepito il socialismo come _ movimento nazionale, e perciò come fattore, non di di­ sgregazione, ma di unificazione del popolo. E sta di fatto che, sin all’ottobre del 1914, Mussolini aveva tenacemente pensato che il potenziamento mo­ rale e unitario del popolo potesse in Italia avvenire in no­ me del socialismo. Appunto per affrettare l’assolvimento di questa fun­ zione unitaria del sOcialismo, Mussolini si era cosi ener­ gicamente sforzato di fare del Partito socialista uno stru­ mento efficace di azione rivoluzionaria, rassodandone la compagine verso una consapevole unita di indirizzo e di scopi: appunto per questo aveva imposto, nel congresso di Reggio Emilia, del luglio 1912, la espulsione dei ri­ formisti, e nel congresso di Ancona, dell’aprile 1914, la espulsione dei massoni dal Partito socialista. E che, del resto, Egli non assegnasse allora alla rivoluzione socia­ lista compiti di rinnovamento o di rinascita nazionale molto diversi da quelli che, dopo la guerra, assegnerà alla rivoluzione fascista, lo dimostra il discorso da lui pronunciato alla Camera, il 16 maggio 1925, a propo­ sito della legge contro le società segrete: « ... Quando io fascista militavo nel Partito socialista italiano... anche al­ lora credevo poco alla democrazia, al liberalismo, e agli immortali principi. Anche allora pensavo che la penna e un grande strumento, ma la spada, che a un certo mo­ mento taglia i nodi, è uno strumento migliore. Facendo inorridire i sedentari del socialismo di allora, che sono quelli di oggi, io patrocinavo nettamente la necessita di un urto insurrezionale, che avesse dato alle masse operaie il senso della tragedia. Fu l’ultimo sussulto di giovinezza del socialismo italiano. Esso non si è rialzato più... » Non si è rialzato più, da quando il fallimento della settimana rossa nel giugno 1914, quasi alla vigilia della guerra, ebbe testimoniato la vanità di ogni illusione che

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le masse operaie potessero comunque, attraverso il socia­ lismo del Partito, essere educate a vivere il senso della tragedia, e perciò la vanità degli sforzi, con cui Musso­ lini, da oltre tre anni, cercava di educarle alla insurre­ zione, come ad addestramento alla rivoluzione. Ma che, della organica sordità del Partito, Egli si fosse già sin d’allora accorto, sembrava provarlo questo perio­ do, da lui pubblicato, un mese avanti, la settimana rossa, nel numero di maggio della rivista Utopia : « L ’antimili­ tarismo è ancora per i socialisti tutt’uno col pacifismo : non si è ancora pervenuti alla posizione dialettica di esal­ tare la guerra intereuropea come unica soluzione rivolu­ zionaria della società capitalistica. Altro che gridare : Ab­ basso la guerra!... Chi grida cosi è il più feroce conser­ vatore. Da questo punto di vista sembra che nessuno sia più ferocemente attaccato al regime attuale che il Par­ tito socialista, che, in cambio di preparare, a costo di sangue e di battaglie, una situazione rivoluzionaria, che faccia da ostetrica alla nuova società, si fa pigliare da brividi senili, da rammollimento contro gli orrori della guerra e delle strigi... ».a . Mussolini, però, nel 1914, per quanto preoccupato e pensoso, non disperava ancora delle possibilità rivoluzio­ narie del Partito socialista italiano. L ’insuccesso della set­ timana rossa non gli era parso decisivo. Si trattava di so­ stare, in attesa di riprendere in migliori condizioni la lotta. È il senso dell’articolo Tregua d’armi, pubblicato sull ’Avanti! il 12 giugno: «D a ieri sera è cominciato un altro periodo di tregua sociale. Breve o lungo non sappia­ mo. N e profitteremo per continuare nella nostra multifor­ me attività socialista, per consolidare i nostri organismi politici, per raggiungere altre posizioni nei Comuni e nel­ le Province, per preparare, insomma, un numero sempre maggiore di condizioni morali e materiali favorevoli al nostro movimento. Cosicché, quando batterà nuovamente

la diana rossa, il proletariato si troverà pronto al più gran­ de sacrificio, alla più decisiva battaglia... ». Parole da intendersi nel loro significato preciso, e non come metafora : perché la diana rossa, di cui Mussolini attendeva il battito per lo scattare del Partito all’azione, era proprio quella, che un anno prima, aveva egli stesso evocata imminente all’Europa come la Sesta Potenza, in un articolo del 21 febbraio 1913, suggerito dalla gara de­ gli armamenti... « La Sesta Potenza è la Rivoluzione, la quale, dopo un lungo silenzio e un lungo ritiro, e ora richiamata all’azione dalla crisi commerciale e dalla scar­ sezza degli alimenti. Da Manchester a Roma, da Parigi a Varsavia ed a Pest, essa è onnipresente, alza la testa, si sveglia dal sonno. Sono tanti sintomi del suo ritorno alla vita, dappertutto visibili, nell’agitazione e nell’inquie­ tudine, da cui sono prese le classi proletarie. Un solo se­ gnale si aspetta, e la Sesta Potenza, la più grande del­ l’Europa, verrà fuori sfolgorante d’armature, con la spada in pugno, come Minerva dalla testa dell Olimpico. Que­ sto segnale sarà dato dall’imminente guerra europea...» E pochi giorni dopo, Mussolini tornava alla carica, con la insistenza di un ritornello : « ... con lo scatenare una conflagrazione di popoli, la borghesia giuoca la sua carta suprema ed evoca sulla scena la Sesta Potenza : la Rivolu­ zione ! » Le revolverate di Serajevo riecheggiarono perciò all’o­ recchio di Mussolini come la diana rossa, che egli atten­ deva per l’ora di quella rivoluzione, che doveva nascere dalla guerra. Ma a qu^l’eco fu sordo il Partito. La diagnosi, fatta nel maggio, della infermità morale, onde il Partito era reso inabile ad agire, si dimostrò, con l’esperienza dell ot­ tobre, esattissima. E allora Mussolini trascino, senza o contro il socialismo, alla guerra il popolo italiano, con­ scio di trascinarlo, attraverso la guerra, alla rivoluzione. 89

Il primo accenno a ciò che doveva, un giorno, essere il Fascismo, si legge, sin dal 23 novembre 1914, alla vigilia della espulsione di Mussolini dal Partito socialista, in uno dei primi numeri del Popolo d’Italia, quando il giornale fondato da Mussolini non aveva che una settimana di vita: « Noi socialisti e sovversivi intervenzionisti dobbia­ mo rompere gli indugi: costituire dei Fasci di azione che debbono raccogliere coloro che sono favorevoli all’inter­ vento contro l ’Austria-Ungheria e la Germania per mo­ tivi d’ordine nazionale e internazionale: spingere le classi dominanti ad assumersi la responsabilità, a cui non pos­ sono sfuggire, o precipitare il loro disfacimento politico e morale... ». Era nei suoi termini essenziali, il dilemma: o Guerra o Rivoluzione, in cui finirà per risolversi la propaganda scritta ed orale dei Fasci di azione. Il proposito incontrò rapidamente adesioni e seguaci: per le une e per gli altri, centro di raccolta il giornale di Mussolini, a cui giungevano voci da ogni parte d’Italia e da ogni provenienza culturale e politica, da Papini a Prezzolini, da Gentile a Varisco, da Corradini a Corridoni, da Coppola a De Ambris, da Panunzio a Balbo, mentre già si iniziava per le città d’Italia l’apostolato interventista di Michele Bianchi, di Canzio Garibaldi, di Cesare Battisti. La prima adunata dei Fasci interventisti ebbe luogo a Milano, il 28 febbraio : essa risultò manifestazione altissi­ ma di fede concorde e decisa : « i fatti genoano le idee, dai fatti balzano gli uomini: il Fascio è fatto». Quando la prima adunata dei Fasci si sciolse, Mussoli­ ni affermò: « La buona semente fu gettata, e, si vedrà, non invano... ». L o si vedrà durante la settimana di passione del mag90

GIO quando la attività dei Fasci interventisti dominerà la situazione e precipiterà gli eventi. E questa attivila avra termine quando essa avrà, con l’entrata dell Italia nel con­ flitto mondiale, raggiunto la mèta dei suoi sforzi: g i interventisti diventarono, da allora, quasi tutti interve­ nuti, disseminandosi per le varie zone del fronte di guerra. Molti di essi si troveranno però insieme, di nuovo, a riprendere la stessa battaglia, sotto la stessa guida, quat­ tro anni piu tardi, in un giorno di marzo del 19x9, e si accorgeranno allora, nel ritrovarsi insieme, di provenire ciascuno da parti diverse, e talora opposte, come, prove­ nendo ciascuno da parti diverse e talora opposte, avevano, nel gennaio del 1915, confluito nei Fasci di azione per in­ tervento. C ’è, infatti, questa singolare analogia tra la guerra e il Fascismo: che, come la guerra l ’hanno fatta individui provenienti da tutti i Partiti, di individui provenienti da tutti i Partiti furono, sin da principio, composte le file del Fascismo. Giacché, se il dilemma posto all’Italia, nella seconda metà del 1914, dallo scoppio della guerra mon­ diale non tardò a dividere gli Italiani tra assertori della neutralità e sostenitori dell’intervento, sta di fatto che la contrapposizione delle due schiere non corrispose affatto alla distinzione e distribuzione dei Partiti esistenti e ope­ ranti in Italia. Tutti i Partiti videro ben presto i propri aderenti prendere posizione per Puna o per 1 altra delle tesi antitetiche, o, quando non dichiarassero di^ voler ri­ mettersi alle decisioni del Governo, oscillare piu o meno a lungo incerti fra Puna e 1 altra. Non ci fu che un Partito, il quale si sia, con ostinata tenacia, afferrato ad una delle due tesi, come ad un dogma intangibile : il Partito socialista : e scontò l’errore, prima con uno scisma, che lo privò dell’unica persona.' capace di dominarlo e di guidarlo al successo, poi con 1 annien­ tamento.

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Ls’grrore fu, invece, evitato dagli altri Partiti, i quali ammisero tra i propri aderenti, di fronte al problema della neutralità o dell’intervento, la possibilità del dis­ senso o del dubbio. Sicché, come ci furono neutralisti fra i democratici, i liberali, i cattolici, cosi ci furono, tra essi, interventisti. Se ne ebbe la prova, quando, di fronte alla lettera giolittiana del parecchio, si ruppe ogni unità di atteggiamento e di tendenza tra i gruppi aderenti alla democrazia libe­ rale. Soltanto tre Partiti, due dei quali relativamente re­ centi nella vita italiana, e tutti e tre comunque Partiti di minoranza, rivelarono sin da principio, e poi in forma sempre piu ferma e decisa, la tendenza all’interventismo, benché per motivi ideali e storici del tutto diversi, se non addirittura antitetici : il Partito nazionalista, il Partito ri­ formista e il Partito repubblicano. Anche qui la parola del fondatore del Fascismo ci offre una testimonianza preziosa. « ... A mano a mano che i mesi passavano, » disse, il 4 novembre 1925, Mussolini, a Roma, commemorando il settimo anniversario della vittoria, « il travaglio è diven­ tato piu profondo. Bisognava scegliere e decidersii Quali le ragioni, che spingevano all’intervento dell’Italia nella guerra mondiale? V ’era una corrente, che sosteneva la guerra in nome degli ideali di libertà e di una idea uma­ nitaria e di giustizia - la corrente massonico-riformista un’altra per la conquista dei confini della Patria - in cui confluivano elementi e motivi venienti non meno dal na­ zionalismo che dal liberalismo democratico -, e in fine una terza corrente, che voleva la guerra, non per obiet­ tivi lontani, e nemmeno per obiettivi territoriali, ma sem­ plicemente per togliere la Nazione da uno stato di in­ feriorità morale » : la corrente, di cui appariva a Musso­ lini rappresentante tipico Filippo Corridoni, che « com­ prese la guerra come uno strappo, come una soluzione 92

di continuità ad una politica miserabile proprio a Mussolini faceva capo, avendo intoni nei Fasci di azione rivoluzionaria, il suo massimo centro di irradiazione e di propulsione della propria fede e della propria volontà nella coscienza del popolo. Perché non è vero, o non è vero nel senso, o nella mi­ sura, in cui fu da qualcuno affermato, che ai Fasci di azione rivoluzionaria appartenessero esclusivamente ele­ menti di sinistra, tutti piccoli borghesi o operai o ex ope­ rai, in rotta con gli altri Partiti, anche se sia vero che la maggior parte dei loro inscritti era costituita dagli eretici del Partito socialista e del suo neutralismo dogmatico o dai seguaci delle varie scuole sindacaliste, e specialmente da questi. Tra questi fascisti avanti lettera, non c erano però soltanto elementi di sinistra, sindacalisti o ex-socia­ listi: c’erano anche elementi che venivano dai vecchi Par­ titi della democrazia e del liberalismo e, sovrattutto, che a nessun Partito, prima di aderire ai Fasci interventisti, avevano comunque appartenuto, e pei quali la adesione ai Fasci rappresentava la prima esplicita manifestazione di una concreta fede politica: la fede nell’avvenire di po­ tenza e di gloria della Nazione italiana, a render possibile il quale essi intuivano fatalmente necessaria la iniziativa dell’intervento. N é tra le varie correnti dell’interventismo, anche le più apparentemente remote o estranee, la distan­ za era cosi profonda, da impedire il contatto o l’accordo, sia pure parziale. Chè, anzi, Mussolini celebrerà acutamente, commemo­ rando, P i i dicembre 1931, la figura di Enrico Corradini, da pochi giorni scomparso, il 1915 come « l ’anno della grande voltata nella storia italiana, in cui si vide che si poteva militare agli opposti lati e non essere lontani » . l’anno, cioè, in cui ebbe inizio quel graduale processo di erosione e di superamento dei conflitti o delle antitesi tra i vari Partiti italiani, che, attraverso la rivoluzione

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delle Camicie Nere, si risolverà nel totalitarismo fascista. Giacché questa fu, appunto, la precipua- azione eserci­ tata, nei mesi del dilemma tra neutralità e intervento, dai Fasci di azione rivoluzionaria : di avere potentemente contribuito ad avvicinare, attenuando o smussando le dif­ ferenze e i contrasti nella unità deU’intuizione centrale, le tendenze o correnti confluenti verso l’aiTermazione del­ la necessità, e quindi del dovere, di intervenire nel con­ flitto mondiale. Onde, mentre, da un lato, non appaiono, pure attraverso la palese diversità di spirito e di tono, estranei all’interventismo dei Fasci di azione rivoluzio­ naria motivi non molto dissimili da quelli, in base ai quali si giustificava l ’interventismo di Bissolati, e in ge­ nere, degli uomini della democrazia, è facile constatare come l ’interventismo dei Fasci di azione rivoluzionaria abbia di fatto arricchito di elementi, di pensieri, di voci nuove l ’interventismo dei nazionalisti, dei liberali, dei repubblicani, dei democratici. Certo, chi oggi si provi a scorrere qualcuno fra i piu eloquenti discorsi pronunciati, in quei mesi di accesa pro­ paganda e di appassionata polemica, dai piu noti apo­ stoli e propugnatori dell’intervento, e a porne il conte­ nuto in rapporto con la campagna in quei mesi quoti­ dianamente svolta, sulle colonne del Popolo d’Italia, da Mussolini, non può non avvertire in quei discorsi, da qualunque parte venissero, e in nome di qualsiasi fede fossero pensati e detti, e pure attraverso il persistere di posizioni mentali e di atteggiamenti pratici discordanti, la crescente presenza e influenza di motivi o di atteggia­ menti, la cui ispirazione appare sempre piu decisamente mussoliniana : ossia non può non avvertire il crescente avviarsi, dai primi mesi dell’inverno 1915 in poi, della polemica antineutralista e interventista, originalmente mossa da cosi radicale diversità di interessi, di presup­ posti, di fini, verso una sempre piu coerente unità di

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indirizzo e di tono, il cui spirito animatore e unificatore era unicamente da cercarsi nel giornale fondato, diretto, scritto, a Milano da Mussolini. Là, nelle colonne del Popolo d’Italia, sin dal febbraio del 1915, gli interventisti di tutte le origini e di tutti i Partiti cercavano quasi istintivamente la bussola piu si­ cura del proprio orientamento e la ragion d’essere piu persuasiva del proprio improvviso riconoscersi, al di là dei dissensi o delle antitesi, fratelli nella spontanea disci­ plina verso una causa comune. Specialmente rapido, quasi direi insieme istintivo e intuitivo, fu il riconoscimento di una intima fraternità spirituale tra l’interventismo di marca immediatamente mussoliniana e l’interventismo, a primo aspetto, nei pre­ supposti e nei fini, cosi diverso e lontano da quello,^ dei nazionalisti, nonché il reciproco agire e influire dell’uno sull’altro, quasi a inconscio presentimento del prossimo inserirsi e risolversi dell’uno nell’altro. N e meno imme­ diato e rapido fu certamente, anzi reso anche piu facile dalla maggiore affinità di alcuni presupposti e fini ideali, il contatto tra l’interventismo di Mussolini e quello dei sindacalisti. Ma anche liberali e democratici, cui la passione di parte o il preconcetto aprioristico e sistematico non aves­ sero ottenebrata la sanità del giudizio, trovavano spesso, con palese sorpresa, nelle parole e negli atteggiamenti del Popolo d’Italia, e di Chi lo dirigeva e insieme ispi­ rava la condotta dei Fasci di azione, rispondenza insospet­ tata, e, dato i precedenti politici di Lui, inattesa, a stati d’animo, talora non del tutto confessati, che essi pur sapevano intimamente propri, risposte a quesiti, che essi appena osavano porre a se stessi. E gli uni e gli altri, nel­ le fasi e nelle vicende della battaglia combattuta insie­ me, si sentivano sempre più decisamente, anche se spesso senza averne chiara coscienza, tratti ad attendere che

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Egli parlasse o indicasse la via da seguire o a chiedere a Lui, sia pure tacitamente, la parola d’ordine per l’a­ zione. Del che si ebbe con particolare evidenza conferma du­ rante la settimana decisiva del maggio 1915, quando Mussolini apparve, per unanime, anche se non espressa, designazione delle folle scese, in tutte le città d’Italia, in piazza a chiedere al Governo la guerra, centro e capo della riscossa e della vittoria interventista. * Si comprende cosi come la data di nascita del Fasci­ smo, come moto politico tendente, in virtù della guerra voluta ed imposta nel 1915, ad un radicale rinnovamen­ to di tutta la vita del popolo italiano, coincida col gior­ no, in cui Mussolini richiamò a raccolta intorno a sé gli interventisti intervenuti, dal 1915 al 1918, per difendere insieme con essi, a qualunque costo, ossia anche a costo di riprendere le armi, la vittoria che quella guerra aveva concluso : quella vittoria italiana, che era stata a Vit­ torio Veneto sfolgorante e decisiva, non solo per l ’Italia, ma per tutti gli alleati, e che era ora doppiamente insi­ diata, a Parigi ed in Patria: a Parigi, dalla bugiarda e utopistica demagogia di Wilson, dalla dubbia fede degli alleati e dalla debolezza pericolosa dei nostri stessi pleni­ potenziari : in Patria, dal disorientamento degli spiriti, prodotto da quella che Mussolini definì « fatale confluen­ za di due delusioni e di due esasperazioni », dal crescen­ te disordine, e sovrattutto dal riaffacciarsi sulla scena po­ litica del neutralismo che, ridotto al silenzio dalla guer­ ra, ora rialzava nella pace la voce, e già osava il processo alla guerra. Chi mai avrebbe potuto difendere la vittoria dalle in­ sidie di dentro e di fuori meglio di coloro che avevan 96

voluto e imposto la guerra? Già dal 3 gennaio 1919, la esigenza di raccogliere intorno alla Vittoria gli interven­ tisti era nettamente posta da Mussolini in un articolo del Popolo d’Italia, il cui titolo Verso una Costituente del­ l’interventismo italiano equivaleva ad un programma. Tanto più urgente era questo appello alla unità di azione degli interventisti, quanto piu la crisi della vittoria a Parigi stava per dividerli, e perciò per indebolirli, di fronte agli avversari. Se ne era avuta la prova, quando la ideologia wilsoniana rimise improvvisamente l’uno con­ tro l’altro Leonida Bissolati e Benito Mussolini, che la campagna per l ’intervento pareva avere avvicinato in un’azione concorde. Mussolini aveva sùbito veduto 1 errore del rinunciatarismo, e si era affrettato ad opporgli il nascente Fascismo. « Dopo la vittoria, » dirà il 3 aprile 1921, « quando sorse la scuola della rinunzia più o meno democratica, noi fascisti [evidentemente avanti lettera] avemmo il su­ premo spregiudicato coraggio di dirci imperialisti e anti­ rinunciatari. Fu quella la nostra prima battaglia, che demmo nel Teatro della Scala, nel gennaio 1919. Ma come? Avevamo vinto noi per tutti, avevamo sacrificato il fior fiore della nostra gioventù, e poi si veniva a noi coi conti degli usurai, degli strozzini, ci si contendevano i termini sacri della Patria, e c’erano in Italia dei demo­ cratici, la cui democrazia consisteva nel fare 1 imperia­ lismo per gli altri e nel rinnegarlo per noi, che ci lancia­ vano questa stolta accusa, semplicemente perche inten­ devamo che il confine d’Italia al nord dovesse essere il Brennero... che il confine orientale fosse il Nevoso... e non eravamo sordi alla passione di Fiume... e porta­ vamo nel cuore lo spasimo dei fratelli della Dalmazia... e sentivamo vivi e vitali quei vincoli di razza, che non ci legano soltanto agli Italiani da Zara a Ragusa ed a Cattaro, ma ci legano anche agli Italiani del Cantón

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Ticino, anche a quelli Italiani che non vogliono piu esserlo,... e a quelli che sono al di là dell’Oceano... » E la reazione antirinunciataria era stata, per merito di Mussolini, cosi rapida e decisiva, che già a metà gennaio il rinunciatarismo poteva considerarsi, tra gli interventi­ sti, una causa perduta. Subito dopo la battaglia della Scala, ogni traccia di rinunciatarismo era, tra i reduci dei Fasci di azione rivoluzionaria del 1915, nettamente scom­ parsa, e se ne avrà la prova nel settembre, a Fiume. E comunque il Brennero era salvo. Ma intanto, per contraccolpo anche della momentanea scissione determinata tra gli interventisti, sui primi del 1919, dalla polemica prò e contro il rinunciatarismo, che aveva, per qualche settimana, indebolito la compagine dell’interventismo, erano già apparse le « prime avvisa­ glie dell’ofiensiva pussista ». Erano apparse sovrattutto per colpa dell’atteggiamento di agnostica indifferenza tenuta ostinatamente dal Governo di Orlando di fronte alla folla dei combattenti reduci dalle trincee. I mesi passavano, senza che nulla si facesse in favore dei soldati, e pareva che tutto congiurasse a spegnere nell’animo di questi il senso e l’orgoglio della vittoria, e a far sorgere in essi il pentimento dell’essere intervenuti, quasi che essi ormai avessero la sensazione di aver fatta e vinta la guerra per nulla. « Avemmo » dira Mussolini, commemorando il settimo anniversario di Vittorio Ve­ neto « la Vittoria trionfale del giugno e la Vittoria non meno trionfale di Vittorio Veneto. Però il popolo era nelle strade a festeggiare la pace, non ancora la vitto­ ria... La Vittoria non appariva ancora negli spiriti con tutta la sua potenza creatrice, e nemmeno per tutto il 1919 a pace ultimata... e nemmeno nel 1920... Il fante era tornato dalle trincee, anzi era stato disperso dalle trincee : il pacco vestiario, ecco il bottino. C i fossero state almeno delle soddisfazioni morali. Bisognava por-

tare almeno i nostri battaglioni superstiti a sfilare nelle capitali nemiche. Si disse al fante: tu dovrai nascondere i segni delle tue ferite: tu non dovrai portare i simboli del tuo valore sul petto: tu dovrai dimenticare di avere fatto la guerra, perché è l’ora della espiazione. «È questa la parola funebre, che dominò lo spirito del popolo in quel tempo... Si voleva che si espiasse il delitto della guerra, e si voleva una inchiesta sulla guer­ ra, come se la guerra fosse un’operazione amministrati­ va qualunque... » Qual meraviglia che questo contegno del Governo raf­ forzasse l ’offensiva pussìsta contro la guerra e la vit­ toria, e che più audace diventasse ogni giorno la traco­ tanza dei predicatori del leninismo alle masse? Se ne videro le conseguenze già a metà di febbraio del 1919, quando a Milano, a Firenze, a Torino, rolle di operai bolscevizzati sfilarono per le vie, bestemmian­ do la guerra e inneggiando a Lenin, e più ancora nei mesi di estate, quando la battaglia disfattista culmino nella gazzarra scatenatasi sino alla nausea intorno a quella inchiesta su Caporetto, «che un ministro infame, infamabile, da infamarsi, aveva dato in pasto alla esaspe­ razione e ai giusti dolori di gran parte del popolo ita­ liano... ». Ma Mussolini non attese, per dare inizio alla reazione, che in giugno la crisi del Gabinetto Orlando portasse Nitti al governo della Patria vittoriosa. Sin dalla meta di febbraio, Egli aveva intuito che era venuto il mo­ mento di resistere alla marea e non c era un minuto da perdere, e aveva anche intuito che la iniziativa della resistenza non potevano prenderla che gli interventisti. « ... Noi... sentimmo che il nostro compito non era finito, ed io stesso sentii che il mio compito non era finito » : noi, cioè gli interventisti, e, per essi, Mussolini.

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Una singolare conferma che il Fascismo è stato ed è una rivoluzione può forse scorgersi in ciò: che, mentre l’intervento era stato, nel maggio del 1915, richiesto a gran voce nelle vie e nelle piazze da folle di popolo tumultuante, il Fascismo è sorto alla vita nella oscurità e nel silenzio, per cui la data del 23 marzo 1919, che ha oggi valore di solennità nazionale per tutti gli Italiani, passò pressocché inavvertita dai contemporanei, persino a Milano. N é di ciò fu soltanto responsabile il malanimo degli avversari nascosti o palesi, e tutti più o meno interessati a circondare di silenzio il nascente Fascismo. Fu che in realtà, né il momento né l ’ambiente eran disposti a valutare l’importanza dell’avvenimento, onde era naturale che dell’adunata, come volle subito chia­ marla Mussolini, tenutasi la sera del 23 marzo 1919, fra le mura di un vecchio palazzo milanese in Piazza San Sepolcro, pochissimi notarono il significato. Anche o sovrattutto perché, per dichiarazione esplicita dello stesso fondatore e duce del Fascismo, pochissimi erano essi stessi: « Cerchiamo di non tenere sempre in mano l ’orologio per constatare a quale ora precisa appartengono i fascisti, perché i fascisti della prima ora sono pochissimi : quando, cinque anni fa, ci riunimmo in una oscura sala di Piazza San Sepolcro, a Milano, eravamo poche decine di per­ sone » : cinquantadue, o, al massimo, cinquantatré. Ed è probabile che queste poche decine di persone non abbiano affatto avuto, o abbiano avuto assai confu­ samente, la sensazione di aver compiuto uno di quei gesti, che sono destinati a passare alla storia. È certo comunque che, lungi dal supporre di aver dato quella sera inizio ad una Rivoluzione, non sospettaron nem100

meno di aver dato vita ad una Associazione politica destinata a trasformarsi in Partito, cioè di esser sul punto di aggiungere un nuovo ai molti o troppi Partiti, della cui rissa disordinata e incomposta la Patria stava per morire. Se qualcosa i piu tra essi ebbero coscienza di aver voluto, era, al contrario, la negazione di ogni atti­ vità, cui potesse darsi nome di Partito. Il Fascio sorgeva come antipartito : come un episodio della lotta civile, che, subito dopo la vittoria, si era aperta tra assertori e detrat­ tori della guerra, tra combattenti e neutralisti, tra socia­ listi e Italiani: vale a dire, come un episodio della bat­ taglia in corso contro quello, che, già nel febbraio di quello stesso anno, Mussolini aveva denunciato come il « ritorno della bestia trionfante ». Uno però c’era, senza dubbio, tra quelle poche decine di uomini, trovatisi uniti la sera del 23 marzo 1919, a dar vita al Fascio di combattimento, il quale aveva ben netta e chiara coscienza del valore dell’atto compiuto e della meta, prossima o remota, cui esso tendeva: Colui, per iniziativa del quale essi si erano radunati. «... Sette anni or sono, io convocai a Milano coloro che mi avevan seguito nella battaglia dell’intervento e du­ rante la guerra. Potevo nel vasto bazar degli specifici demoliberali trovare un titolo comodo per l’organizza­ zione che intendevo formare. Potevo chiamarla Fasci di ricostruzione, di riorganizzazione, di elevazione, o con altre parole che finiscono in one. La chiamai invece Fasci di combattimento. In questa parola dura e metallica, c’era tutto il programma del Fascismo, come io lo sognavo, co­ me io l’ho fatto. » Programma, il quale certo « non aveva molti numeri per conseguire un successo di adesioni e di popolarità. Si chiamava di combattimento, e questa parola, dopo quaranta mesi di guerra, suonava ingrata alle orecchie di molta gente : partiva in lotta contro il rinunciatarisrno

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di marca piu o meno wilsoniana, il che alienava dal Fascismo le simpatie della democrazia tradizionale: ri­ vendicava la necessità dell’intervento e la grandezza della vittoria, la qual cosa urtava i nervi di coloro che intendevano superate le differenze storiche tra interven­ tismo e neutralità: finalmente scendeva in campo con­ tro la demagogia socialista, che convogliava tutti i mal­ contenti delle classi medie ed esasperava, nell assurda aspettazione del paradiso russo, tutti i fanatismi politici e tutte le miserie del proletariato». Il che non impedì però che il Fascismo, appena fon­ dato, si proponesse, pur sapendo di andare da tanti punti di vista contro corrente, la meta di conquistare, in Ita­ lia, il potere, cioè di governare la Nazione. N é ciò può sorprendere, essendo questa meta impli­ cita nella genesi stessa del Fascismo, a cui stava a base l’idea che soltanto coloro, che avevan voluto la guerra, avessero il diritto e il dovere di governare 1 Italia e quin­ di, innanzi tutto, il dovere di organizzare la pace vitto­ riosa. Era, in sostanza, il ritorno al punto di partenza della campagna per l’intervento: la guerra concepita come situazione rivoluzionaria, destinata a fare da ostetrica alla nuova società. Sicché non erano ancora trascorsi cinque giorni daìYadunata di Piazza San Sepolcro, che già Mussolini, il 28 marzo, manifestava, mediante l’an­ nuncio di tre -prese di posizione, opportune e necessarie, le finalità rivoluzionarie del moto politico che in quelVadunata aveva cominciato a vivere: « 1) Unnico Partito realmente reazionario in Italia è il Partito socialista, alleatosi durante la guerra, moral­ mente, e forse anche materialmente, con le forze della reazione europea. La rivoluzione europea, ovunque se­ guita alla vittoria dell’Intesa, e una diretta conseguenza dell’ intervento italiano. In base al suo atteggiamento

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quadriennale, il Partito socialista italiano non può es­ sere rivoluzionano. « 2) Gli interventisti, venuti o non dalle scuole sov­ versive, devono accettare i posti, i pericoli, le incognite della situazione, e, se problemi fondamentali esistono, spetta agli interventisti assumere l’iniziativa della loro soluzione. N el maggio 79/5 si rese necessaria una. rivo­ luzione per fare la guerra. Può darsi sia necessaria un al­ tra rivoluzione per fare la pace. Siamo noi, che, avendo incominciato nel 19 15, abbiamo il diritto e il dovere di conchiudere nel 7979. «3) Il proletariato non deve identificarsi col Partito so­ cialista. Ostilità, dunque, al Partito socialista, per il suo atteggiamento, che ha fatto correre un rischio spavente­ vole alla nostra Nazione e al mondo, ma nessuna ostilità contro le masse lavoratrici, delle quali riconosciamo i postulati e per le quali siamo disposti a lottare. » In queste tre prese di posizione, enunciate da Mus­ solini a cinque giorni di distanza dall’adunata di Piazza San Sepolcro, era già tutta, nei suoi presupposti e nei suoi fini, in germe, presente la Marcia su Roma, cioè la conquista del potere in Italia per parte del Fascismo. Il quale alla Marcia su Roma e alla conquista del po­ tere perverrà, come a suo necessario sbocco finale, attra­ verso tre fasi o momenti : un primo, dal marzo 1919 di­ cembre 1920; un secondo, dal dicembre 1920 al novem­ bre 1921; un terzo dal novembre 1921 all’ottobre 1922. *

Chi consideri lo sviluppo dell’attività fascista nei due primi momenti della vita del Fascismo, dalla fondazione del primo Fascio di combattimento alla trasformazione

del movimento fascista in Partito (marzo 1919-novembre 1921) vede subito come essa tendesse a svolgersi in due direzioni principali. La prima si risolse nella partecipazione del Fascismo, insieme con le Associazioni irredentiste, con gli Arditi, con i Volontari, alle agitazioni per Fiume e per la Dal­ mazia, e culminò, nel settembre del 1919, nella solida­ rietà strettasi tra Mussolini e D ’Annunzio, dopo l’impresa di Ronchi, e durata per tutto il tempo della occupazione dannunziana della città olocausta, sino al Natale di sangue. Da quel momento, la causa fiumana fu causa fascista, e il Popolo d’Italia organo del movimento fiumano nella penisola. Ci fu per oltre un anno un continuo scambio di energie e di aspirazioni tra Dannunzianesimo e Fascismo. E, proprio venendo in volo da Fiume, di cui Egli aveva, in barba ai divieti di S. Indecenza Nitti, vissuto per qual­ che giorno « l’atmosfera di miracolo e di prodigio », e con un saluto a Fiume, Mussolini inaugurò, il 9 otto­ bre 1919, a Firenze, il primo Congresso fascista. Perché, come Egli stesso disse, l’anno dopo, pronun­ ciando a Trieste, il 20 settembre 1920, uno dei suoi piu grandi discorsi agli Italiani, « è bensì vero che, nel 1919, l’Italia ha avuto un Nitti e nel 1920 un Giolitti, ma, se questa è la faccia nera della situazione, dall’altra parte la faccia splendente di questa situazione è Gabriele d ’Annunzio, il quale ha realizzato l’ unica rivolta contro la plu­ tocrazia di Versaglia. Molti ordini del giorno, molti ar­ ticoli di giornali, molte chiacchiere più o meno insulse; ma l’unico, che abbia compiuto un gesto vero e reale di rivolta, l’unico che, per 12 o 13 mesi, ha tenuto in iscacco tutte le forze del mondo, è Gabriele d’Annunzio insie­ me con i suoi legionari. Contro quest’uomo di pura razza italiana si accaniscono tutti i vigliacchi, ed è per questo che noi siamo fierissimi e orgogliosi di essere con lui... Quest’ uomo significa anche la possibilità della vittoria e

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della resurrezione. E questa possibilità esiste, pc biamo fatto la guerra e abbiamo vinto... ». Onde, alla domanda posta, durante quello scorso: «Quale può essere il compito del Fascismo:.. 10 stesso Mussolini rispose, in nome della folla ascoltante. « Il compito dei fascisti in Italia è questo: tenere testa alla demagogia con coraggio, energia ed impeto. Il Fa­ scio si chiama di combattimento: combattere con armi pacifiche, ma anche con armi guerriere... y>. Era la seconda direzione dell’attività dei Fasci, dal marzo in poi: la resistenza e la controffensiva alle agita­ zioni comunque promosse tra le masse operaie dai socia­ listi, e perciò l ’attacco decisivo, immediato, travolgente, agli organi e ai centri dell’organizzazione avversaria. Non ci fu, infatti, da allora, sciopero, in Italia, che i fascisti non fossero pronti a rintuzzare o a render vano e ridicolo col proprio intervento. Primo episodio della battaglia interna : 1 urto violento, sanguinoso, nel centro di Milano, tra un manipolo di fa­ scisti, affiancati da ufficiali smobilitati e da studenti, e scioperanti, del 15 aprile, cui seguirono l’invasione e la devastazione degli uffici dell Avanti ! E la battaglia continuò ininterrotta, anche dopo che, 11 15 giugno 1920, Giolitti sostituì Nitti al Governo. E ogni vicenda della lotta aumentava, da un lato, il terrore della massa sovversiva, che la propaganda lenini­ sta aveva svuotato d’ogni volontà di sacrificio e d ogni coraggio di iniziativa, e, dall altro, le simpatie pel Fa­ scismo della parte più consapevole e sana della popola­ zione, e sovrattutto di coloro, che avevan fatto la guerra. Tra la primavera del ’19 e l ’estate del 20, il Fascismo guadagnava le terre redente, o vi si rafforzava, dopo esservisi piantato subito dopo il marzo del 19 : cosi a Trento, a Zara, a Fiume, a Trieste, prime tra le citta redente ad essere sedi di un Fascio. X

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N eLL’Istria, il nemico era uno e duplice: comunismo e slavismo, per allora associati. A Trieste, squadre di vo­ lontari per la difesa cittadina, imitando i fascisti mila­ nesi dell’aprile ’19, assaltavano e incendiavano, nella pri­ mavera del 1920, il Balean, centro di attività comunistica e croata. Sin dal 24 maggio del 1920, un secondo Congresso na­ zionale fascista, adunato a Milano, dopo il primo tenu­ tosi a Firenze il 9 ottobre del 1919, documentava i pro­ gressi compiuti in poco piu di un anno. G li inscritti ai Fasci assommavano a Milano a 20.615. Cifra modesta, la quale sembra però anche sufficente a documentare - ove la si ponga in rapporto ai dati, per quanto imprecisi ed incerti, che possediamo circa il pre­ cedente Congresso di Firenze - la lentezza e la relativa­ mente scarsa entità numerica di questi progressi dal mar­ zo ’19 al maggio ’20. Secondo questi dati, infatti, i Fasci rappresentati nell’ottobre del 1919 a Firenze non arriva­ vano a 40, o al massimo a 50; mentre per tutto il 1919 il numero degli iscritti al movimento oscillava tra i 10.000 e i 17.000. È certo comunque che, sino circa alla metà del 1920, vale a dire press’a poco sino al ritorno di Giolitti al potere, il Fascismo non aveva ancora molto profonda­ mente agito sulla coscienza delle masse italiane. Era ri­ masto un fenomeno milanese, benché con varie e forti diramazioni al di là di Milano, e non era ancora riuscito ad assurgere a valore di fenomeno nazionale. E forse neppure il modesto programma, che Mussolini dichiarerà di essersi prefisso il 23 marzo 1919 - costituire un cen­ tinaio di Fasci nelle principali città d’Italia - era stato del tutto eseguito. Senza dubbio, molti Fasci avevan fatto séguito, nella primavera e nell’estate del 1919; a quello primogenito-, a Genova, a Torino, a Verona, a Berga­ mo, a Treviso, a Pavia, a Cremona, a Napoli, a Brescia,

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a Trieste: altri eran sorti tra l’autunno del ( ^ mavera del 1920: e il Fascismo era presto p e n e tro , tandovi centri fiorenti di azione e di p r o p a g a to r i scana, nel Basso Po, nelle Puglie. Ma alcune regioni gu _ erano tuttora chiuse, come la Lumgiana e la Lomellina, altre offrivano resistenze tenaci, come il Piemonte, 1 Abruzzo, la Sicilia, la Sardegna. Ma si trattava pur sem­ pre quasi esclusivamente di centri urbani, e in questi 1 Fascismo, pur godendo di numerose e crescenti simpatie tra la borghesia e alcuni ceti popolari, urtava pur sempre con masse operaie ferme nel loro tenace attaccamento alle organizzazioni politiche ed economiche del socialismo. Era pur sempre, insomma, espressione di minoranze: la massa era dovunque o estranea o ostile. La decisione presa, per iniziativa di Mussolini, dai Pa­ sci di combattimento, di partecipare da soli, respingendo ogni alleanza con gruppi politici affini, che pur l’avreb­ bero desiderata, alle elezioni parlamentari rutilane del 1919 fu quindi un atto di coraggiosa intransigenza ideale, le cui ragioni Mussolini chiari, il 29 ottobre, sul Popolo d’Italia-. «Per molte ragioni d’ordine pratico, ma sovrattutto per una ragione di indole politica, che si riattacca direttamente alle polemiche bissolatiane, noi fascisti, che non rinunciamo a Fiume e nemmeno alla Dalmazia, non abbiamo potuto andar col gruppo cosiddetto di sini­ stra” , patrocinato dai combattenti inscritti all Associazione nazionale. A destra... noi abbiamo trovato della gente arrendevole nei programmi e anche nei candidati, ma ciò che da quelle brave persone ci divide è la nostra men­ talità, un insieme di sentimenti, di impulsi, di ribellioni, che non si pesano col bilancino, e tuttavia scavano tra uomini e uomini un solco profondo come un abisso, allora, terza e unica via, scartato 1 astensionismo, a via dell’affermazione fascista. La nostra non è una lotta elet­ torale, è una lotta politica: lotta, che noi condurremo 107



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contro le forze antinazionali, oggi riassunte e simboleg­ giate dal Governo di Nitti... ». Ma fu un atto, le cui conseguenze non era difficile prevedere. Parve ne fosse uscita la documentazione del­ l ’isolamento fascista. Mussolini non ebbe che poco piu di 4000 voti, e i socialisti si divertirono a celebrarne il fu­ nerale simbolico. Viceversa: grande trionfo dei due Par­ titi di massa: i popolari, con un centinaio di deputati, e, specialmente, i socialisti: 156 deputati, e grande bal­ danza, con altrettanta voglia di schiacciare il fastidioso nemico. Entrarono in Parlamento, cantando bandiera ros­ sa, acclamando Lenin, fischiando il Sovrano. Mussolini prese atto, senza che per un istante la sua fede piegasse, della sconfitta, già nell’animo suo scontata. « Un milione e ottocento mila elettori misero nell’urna la scheda con la falce e il martello... Io fui ripescato sui­ cida nelle acque niente affatto limpide del vecchio Navi­ glio. Ma si dimenticava una cosa: il mio spirito tenacis­ simo e la mia volontà qualche volta indomabile. Io, tutto orgoglioso dei miei quattromila voti, dissi: la battaglia continua!... U n giorno sarebbe venuto, in cui gli Italiani si sarebbero vergognati delle elezioni del 16 novembre... ». Verranno, infatti, dopo quattordici mesi di attività eroica, le elezioni del maggio 1921. E non saranno ancora trascorsi cinque mesi dal Congresso fascista di Milano del 24 maggio 1920, che già le minoranze dei Fasci appa­ rivano folla. # Cominciò proprio, infatti, verso la fine di estate del 1920, rapida, violenta, turbinosa, quella che un avversa­ rio chiamerà la esplosione del Fascismo. Cominciò, poco dopo il famoso sciopero dei metallurgici e la occupazione delle fabbriche, durante la quale il Governo di Giolitti

aveva rivelata in tutta la sua crudezza la ormai inguari­ bile impotenza dello Stato liberale, di fronte ai conati insurrezionali di masse incapaci di fare qualsiasi rivolu­ zione, tra il novembre e il dicembre del 1920 : e fu, nella storia’ del Fascismo, il momento, che uno storico chiamò romagnolo ed emiliano, con Ferrara e Bologna protagoniste. Punto strategico di importanza fondamentale per u socialismo italiano era, infatti, Bologna, il cui dominio assicurava ai socialisti la incontrastata prevalenza in tutta la valle padana. Ma quel dominio crollò in un attimo per la insurrezione morale sollevata in tutta la regione dal barbaro assassinio del combattente Giulio Giordani nel palazzo municipale di Bologna. I rossi si sbandarono, i capi scomparvero dalla circolazione. Invano, un mese dopo, i socialisti tentarono, con l’agguato al Castello Estense, la riscossa a Ferrara. A lla insurrezione imme­ diata di Ferrara segui quella di Modena, e di Reggio, e di tutte le città della Valle Padana. Ma ciò significò anche il dilagare del Fascismo nelle campagne. Il Fascismo rimase pur sempre un fenomeno prevalentemente urba­ no, ma cominciò ad affermarsi anche un Fascismo rurale. Fu questo il secondo periodo del Fascismo: novembre 1920-dicembre 1921 ; durante il quale il Fascismo, favorito anche dal ripetersi di eccidi, come quelli del Diana, di Empoli, di Sarzana, di Modena, accelerò con ritmo sem­ pre piu intenso il proprio processo di conquista dell ani­ ma italiana. Si ebbe, proprio in questi mesi, 1 inizio di una organizzazione sindacale aderente ai Fasci : 1 inizio di una organizzazione militare dei Fasci; 1 inizio di un Fascismo rurale di contadini e braccianti. Ma sovrattutto si ebbe l’ampliarsi e slargarsi del moto, da espressione di minoranze, a espressione di masse, in cui, accanto a elementi borghesi confluivano, sempre piu numerosi, ele­ menti provenienti dall’artigianato e dal popolo minuto. 109

Confluivano, borghesi e popolani, da nessun Partito e da tutti i Partiti. V ’erano, nella folla di gente, che ogni giorno aderiva al Fascismo, proprio cosi come era avve­ nuto a proposito dei Fasci di azione rivoluzionaria del 1915, antichi nemici, della più varia indole e origine, del Socialismo, e molti, che sino a ieri al Socialismo avevano creduto, e oggi non credevano più, come molti altri, che avevano sino a ieri creduto al Liberalismo, alla Demo­ crazia, o alla Repubblica, senza contare i moltissimi, per cui l ’adesione al Fascismo rappresentava l ’inizio di una propria vita politica precisa. Era insomma di già incominciato quel processo di ra­ pido proselitismo, che culminerà, dopo la Marcia su Ro­ ma, nella fusione tra Fascismo e Nazionalismo, per cui Mussolini potrà dire un giorno che « il Fascismo, salvo le nuove reclute, è tutto di ex... ». Specialmente numerosi erano però anche, e già prima della Marcia su Roma, gli ex-sindacalisti. Niente di più naturale perciò, se di questa cosi evidente trasformazione della coscienza poli­ tica italiana, pensò di poter trarre profitto Giolitti, an­ sioso di sottrarre sé e lo Stato alla tirannide socialista, per indire, nella primavera del 1920, le nuove elezioni parla­ mentari, imperniandole sulla idea di blocchi nazionali, di cui entrassero a far parte i fascisti. Ma le cose andarono molto al di là delle intenzioni di Giolitti. Perché il blocco nazionale risultò, quasi dovun­ que, non associazione di forze uguali, ma raggruppa­ mento, più o meno omogeneo e sincero, di forze diverse intorno al Fascismo, con un programma che, in sostan­ za, malgrado ogni sforzo di differenziazione teorica o pra­ tica, era il programma del Fascismo. Sicché Mussolini comparve alla Camera in attitudine di leader, non del solo Fascismo, ma di tutte le forze nazionali di destra, e potè servirsi della tribuna parlamentare, per parlare, più che ai deputati, all’intera Nazione. Ormai il Fasci­ no

smo, che pur aveva alla Camera un numero, proporzio­ nalmente agli altri Partiti, relativamente modesto di de­ putati, parlava ed agiva come la forza politica prevalente nel Paese. A dare la prova di questa prevalenza basta, del resto, il confronto tra alcune cifre. Sui primi del 1921, il socialismo italiano presentava un bilancio di forze, che aveva tutto l’aspetto dell’impo­ nenza: 156 deputati, 2500 Comuni, 36 Consigli provin­ ciali, un milione e ottocentomila voti nelle elezioni del novembre ’19, 2000 Sezioni del Partito, 250.000 inscritti, 3 milioni di operai organizzati. Tutto questo edifìcio si sfaldò e crollò nel giro di po­ chi mesi, tra l ’inverno e l’estate del 1921, sotto 1 urto del Fascismo: il processo di sfaldamento aveva toccato il culmine al Congresso socialista di Livorno, con la scis­ sione dei comunisti. Quando, invero, si riunì in Roma, il i° novembre 1921, il terzo Congresso dei Fasci, si constato come i Fasci rappresentati fossero saliti da 40 o 50, quanti erano nel­ l’ottobre del 1919 a Firenze, a 2200, e gli inscritti, da 17.000 a 310.000, senza contare le decine di migliaia di operai, già inquadrati nei Sindacati aderenti al Fascismo. Si senti, insomma, da tutti, in quel momento, in Italia, che a Roma, al Congresso del Fascismo, tutta 1 Italia viva e vitale era in ispirito presente. Tanto presente, che sin da pochi mesi prima, comme­ morando, il 23 marzo, il secondo anniversario della fon­ dazione del primo Fascio di combattimento, e rivendi­ cando a se stesso « l’orgoglio di avere lanciato nel mondo questa superba creatura piena di tutti gli impeti e gli ardori di una giovinezza traboccante di vita », Mussolini aveva potuto tranquillamente definire il Fascismo come « una grande mobilitazione di forze materiali e morali, che, senza false modestie, si propone di governare la Na­

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z i o n e senza che tale definizione apparisse ad avver­ sari e ad amici stranamente avventata ed assurda, trattan­ dosi di una mobilitazione di forze politiche, che, pur ten­ dendo esplicitamente alla conquista del potere, si era sino allora svolta del tutto al di fuori di ogni organizza­ zione e di ogni programma di Partito. E, in realtà, il Fascismo era sorto, due anni prima, come un movimento o un moto, molto piu spirituale che politico, quasi per generazione spontanea, dalle piu pro­ fonde energie della stirpe: cosi come, del resto, conti­ nuerà ad essere, anche dopo la costituzione in Partito, un moto, il cui impeto dinamico verrà senza tregua esplican­ dosi in forme e manifestazioni, che non potranno inse­ rirsi nei ranghi di un Partito, e la cui intima virtù di espansione avrà, sin da principio, la vocazione a traboc­ care al di là dei cancelli segnati all’attività di un Partito. Per oltre due anni, dal marzo del 1919 all’ottobre del 1921, il Fascismo fu essenzialmente squadrismo : vale a dire, assunzione di una dura e rischiosa milizia, per una lotta ineguale, in cui la iniziale sproporzione del numero e dei mezzi di difesa e di offesa era unicamente com­ pensata dall’impeto della volontà e dallo sprezzo del pe­ ricolo, ossia dalla consapevole disposizione a morire pur di vincere: milizia in apparenza frammentaria, indisci­ plinata, inorganica, quasi anarchica, eppur resa formida­ bile da una ferrea disciplina interiore, non già di confor­ mità a un programma preordinato e cosciente, ma di de­ dizione ad una finalità comune trascendente gli interessi dei singoli, e intuita da ciascuno assai piu per atto di fede, che non formulata per via di ragionamento; e pre­ cipua sua forma di attività fu Vazione diretta : vale a dire, l’esercizio di quella violenza, la quale, quando sia « tem­ pestiva, cavalleresca, chirurgica », è sempre migliore del compromesso o della transazione, e ha sempre in sé la giustificazione della propria moralità, come quella, che

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è « non la piccola violenza individuale, sporadica, spesso inutile, ma la grande, la bella, la inesorabile violenza del­ le ore decisive », e, come tale, « non può essere espulsa dalla storia». Proprio, infatti, attraverso o mediante quell’apparente disordine di attività squadristica, che si imponeva con la violenza, ma pagava la vittoria col rischio o col sacrificio, quando non addirittura con la morte, dei vincitori, quell’apparente caotico e arbitrario incrociarsi e moltiplicarsi di azioni e di iniziative locali (le cosiddette spedizioni punitive), il Fascismo esercitò la sua massima forza di attrazione: si da assumere, in men che due anni, con una rapidità, che apparve alla ingenuità delle folle mira­ colosa e alla scaltrezza degli avversari inspiegabile, le proporzioni di un gigantesco movimento nazionale. Sicché parve che il Fascismo fosse venuto a realizzare il pronostico implicito in questi periodi, scritti - in tempi che ora sembrano perduti nella lontananza della memo­ ria, nel 1908, nell’Italia dell’anticlericalismo massonico, dell’infatuazione pacifista, dei blocchi socialdemocratici, in pieno regime parlamentaristico, imperando la dittatura parlamentaristica di Giovanni Giolitti - da Enrico Corradini: «La inviolabilità della vita umana e il pacifismo sono da relegare tra le favole, nel patrimonio degli idea­ lismi sentimentali degli uomini del passato. Bisogna ram mentare che il disprezzo della morte è il massimo fattore di vita. Ed oggi, in mezzo a questi branchi di pecore e di omiciattoli, che, in Italia, compongono le cosiddette classi dirigenti, datemi cento uomini disposti a morire, e l’Italia è rinnovata... ». Non è quindi necessario dimostrare come, nella forza di attrazione esercitata sugli Italiani dai primi Fasci di combattimento, il programma - quel programma teorico, che è, o sembra dovere essere, il presupposto necessario per la propaganda o la diffusione di qualsiasi organismo

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di Partito, e che invano i vecchi Partiti italiani chiede­ vano, con irosa insistenza a questa nuova forza politica, in cosi inusitata guisa comparsa a combatterli, a dividerli, a disorientarli - non entrò quasi per nulla. Non da un programma le masse furono guadagnate al Fascismo, ma dall’impeto della sua concreta e imme­ diata volontà di conquista. Il programma si rivolge quasi sempre al futuro : è una promessa o un impegno per l ’azione di domani : l ’atti­ vità dei Fasci di combattimento versava invece tutta nel­ l ’attualità dell’oggi: nello sforzo di capovolgere, caso per caso, luogo per luogo, la situazione di fatto data o trovata, e di crearne una nuova improntata al suo spi­ rito: nello sforzo, cioè, di penetrare nel cuore dell’organizzazione avversaria, per scompaginarne le file, e abbat­ terne i capi, e sostituirsi a questi nel dominio delle masse. Il programma veniva, intanto, tra le soste della battaglia, lentamente, faticosamente formandosi, attraverso in­ certezze, tentennamenti, pentimenti, incoerenze, quasi sempre sanate al fuoco dell’azione dalla immediatezza dell’intuito. Già sin dal 23 marzo, del resto, commemorando sul Popolo d’Italia il secondo anniversario della fondazione dei Fasci, Mussolini aveva ben nettamente intuita e affer­ mata la natura, a dir cosi, pragmatistica del Fascismo nel­ la fase iniziale del proprio sviluppo : « L o spirito fascista sovrattutto rifugge da tutto ciò che è ipoteca arbitraria sul misterioso futuro. Noi non crediamo ai programmi dogmatici, a questa specie di cornice rigida, che dovrebbe contenere e sacrificare la mutevole cangiante complessa realtà. C i permettiamo il lusso di conciliare e superare in noi le antitesi, in cui si imbestiano gli altri, che si fos­ silizzano in un monosillabo di affermazione o di ne­ gazione. C i permettiamo il lusso di essere aristocratici e democratici, conservatori e progressisti, reazionari e rivo-

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luzionari, legalitari e illegalitari, a seconda delle circo­ stanze di tempo, di luogo e di ambiente, in una parola, di storia, nelle quali siamo costretti a vivere e ad agire. Il Fascismo non è una Chiesa, e piuttosto una palestra. non è un Partito, è un movimento, non ha un program­ ma bell’e fatto, da realizzarsi nell’anno duemila, per la semplice ragione che il Fascismo costruisce giorno per giorno l’edificio della sua volontà e della sua passione... ». Ma questa natura era, sin dalle sue origini, cosi orga­ nicamente implicita nel Fascismo, che essa gli rimarra pienamente essenziale e ineliminabile in tutto il corso del suo sviluppo successivo : anche quando esso sara diven­ tato Partito, e, come Partito, conquisterà il Governo, e, come Governo, trasformerà lo Stato.

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Ili IL FA SCISM O C O M E P A R T IT O E L A V IG IL IA D E L L A R IV O L U Z IO N E FA SCISTA ( Dalla costituzione del Partito Nazionale Fascista, 7 novembre 1921, alla Marcia su Roma, 28 ottobre 1922)

u soltanto verso la fine del 1921, quando il moto si era dilatato in guisa da essere ormai, di fatto - nel Parlamento, nella opinione pubblica, nei giornali, nelle piazze - la forza politica dominante nel Paese, e quando la vastità e profondità del suo repentino inserirsi nella coscienza nazionale l’aveva già, quasi suo malgrado, con­ dotto ad assumersi responsabilità amministrative e politi­ che, anche di carattere parlamentare, e ad allargare il campo delle sue attività, dal terreno puramente squadristico, al terreno economico e sindacale, che la necessità di trasformare il movimento in Partito, e di dare al Partito un programma, cominciò a farsi sentire urgente e impro­ rogabile : tanto piu improrogabile, quanto piu, per effetto del troppo rapido crescere, della eterogeneità degli ele­ menti penetrati nelle sue file, della varietà e disparità delle idee direttive, dello spirito di lotta e di battaglia, spesso eccessivo e tendente al capriccio o all’arbitrio, della scarsa coordinazione tra l’aspetto politico e l’aspetto mi­ litare e sindacale del moto, si resero in questo palesi e preoccupanti gli indizi di sbandamento o di crisi interna. Era ormai evidente come ci fossero, in Italia, nella vita

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della Nazione, problemi che urgeva risolvere, ma a ri­ solvere i quali non c’era, ormai, in Italia, che una forza e una volontà : quella del Fascismo. D i qui, la impellente necessità di far fronte a quegli indizi di sbandamento o di crisi interiore con la rigidità di una disciplina unitaria, organizzata e consapevole. Non tutti, naturalmente, i fascisti avvertirono con ugua­ le prontezza questa necessità, e vi fu chi oppose il ti­ more che la disciplina di Partito soffocasse la passione o inaridisse lo spirito di iniziativa. Ma anche qui fu de­ cisiva la parola di Mussolini, che, sovrattutto in un arti­ colo del Popolo d’Italia del io ottobre, si schierò ferma­ mente tra i sostenitori della trasformazione del movi­ mento in Partito, già sin dal 28 settembre esplicitamente proposta da una commissione riunitasi a Milano. Ad affrettare la trasformazione contribuì con partico­ lare efficacia il terzo Congresso dei Fasci, convocato a Ro­ ma il 7 novembre, e svoltosi tra una intensa tensione di spiriti, in presenza, da un lato, di oltre 30.000 Camicie Nere accorse dalle province, e, dall’altro, di un minac­ cioso fermento di elementi di sinistra, e persino di uno sciopero, avente palese carattere intimidatorio. Ma la ten­ sione, contenuta dalla energica azione di freno esercitata da Mussolini sugli squadristi, non impedì al Congresso il normale svolgimento di una discussione, che, per quan­ to svolgentesi tra correnti diverse, e non tutte disposte alla remissività e alla intransigenza, quali quelle deter­ minate dalle divergenze tra fascisti e fiumani, tra fascisti e nazionalisti, e tra varii settori dello stesso Fascismo, pure si concluse in una unanime manifestazione di con­ cordia e di volontà unitaria. Sicché avvenne che proprio dalle discussioni del Congresso uscissero, a poca distanza dalla sua chiusura, e il Partito e il suo Programma, pub­ blicato dal Popolo d’Italia il 27 dicembre. « Il Partito » aveva già scritto, sin dal 16 novembre,

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Mussolini, « pure essendo sempre pronto alla violenza, ove gli avversari la rendano necessaria, inizierà il lavoro preparatorio, che deve abilitarlo a reggere, o in parte o in tutto, il governo della Nazione». Per intanto, esso doveva anche, e sovrattutto, servire a rendere, col peso della propria presenza, impossibile quella collaborazione socialista al potere o quella ascesa dei socialisti al Gover­ no liberale democratico, che, col Governo di Giolitti, e anche piu con quello del socialista riformista Bonomi, appariva negli ambienti del parlamentarismo sempre più facile e prossima. Quanto al Programma, quale era uscito dallo spirito animatore del Congresso, esso era ben lungi dall’esaurire, nella serie dei suoi articoli, il contenuto essenziale e vitale del Fascismo! Chè, anzi, mentre il Programma del Partito risultava, come era naturale e necessario, da un complesso piuttosto numeroso di articoli e di enunciazioni determinate, il credo del Fascismo poté risolversi in poche proposizioni: queste, che, sotto il titolo di Fondamenti, si leggono a capo di quel Programma : « La nazione non è la semplice somma degli individui viventi, né lo strumento dei Partiti pei loro fini, ma un organismo comprendente la serie infinita delle generazio­ ni, di cui i singoli non sono che elementi transeunti, e la sintesi suprema di tutti i valori materiali e immate­ riali della stirpe. L o Stato è la incarnazione giuridica della Nazione. Gli istituti politici sono forme efficaci, in quanto i valori nazionali vi trovino espressione e tute­ la. I valori autonomi dell’individuo e quelli comuni a più individui espressi in persone collettive organizzate vanno promossi, sviluppati e difesi, ma sempre nell’ambito della Nazione, cui sono subordinati. » Ora, basta confrontare questi Fondamenti, posti a base del Programma del Partito fascista nel novembre 1921,

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con l’affermazione iniziale di un documento di ben sei anni posteriore, vale a dire con il primo articolo della Carta del ■ Lavoro del 21 aprile 1927 : « La Nazione ita­ liana è un organismo avente fine, vita, mezzi di azio­ ne superiori per potenza e durata a quelli degli^ indi­ vidui divisi o raggruppati che la compongono : e una unità morale politica ed economica, che si realizza inte­ gralmente nello Stato fascista » ; per vedere come in quei Fondamenti del novembre ’21 fosse già tutto il Fascismo, non meno il Fascismo eroico della vigilia, che il Fasci­ smo dominatore e trionfatore di oggi, come, in genere, il presupposto e la giustificazione logica e storica di tutte le leggi e di tutti gli istituti, mediante cui il Fascismo, di­ ventato Regime, ha poi trasformato in ogni campo l’as­ setto dello Stato italiano, perché quei Fondamenti erano più che sufficienti a individuarne il contenuto di cre­ denza, di fronte a qualsiasi altra concezione politica, e specialmente di fronte a quel liberalismo, a quella de­ mocrazia, a quel socialismo, contro cui esso si era le­ vato, per sostituirsi a ciascuno di essi nel dominio politico, giuridico, culturale, economico della Nazione. Tutto ciò, invece, che nel testo del Programma del Partito del novembre ’21 veniva dietro o dopo le propo­ sizioni iniziali, o i Fondamenti, o era semplice dedu­ zione esplicativa implicita nelle premesse, o era, nella massima parte, enunciazione programmatica vera e pro­ pria di propositi o di tendenze, in base a cui il Partito si impegnava, in quel momento, a risolvere, in un modo piuttosto che in un altro, i singoli e piu gravi problemi di politica interna, estera, finanziaria, economica, so­ ciale, scolastica, militare, incombenti sulla vita del Pae­ se: enunciazione perciò contingente, e non affatto asso­ luta, di propositi e di tendenze, che impegnavano il Par­ tito, sino a che esso non credesse, pel mutare delle circo­ stanze o condizioni di fatto, o per il sorgere di nuovi pro119

blemi, di assumerne delle nuove e diverse, come meglio rispondenti alle esigenze, che sono sempre storiche, della Nazione, ma non impegnavano, nel suo nucleo essenziale e vitale di credenza, il Fascismo. Tanto ciò è vero, che, e nel momento, in cui il Pro­ gramma fu formulato, e, in seguito, durante il susse­ guirsi di quasi un ventennio di formidabili attività di governo, il Fascismo, e, per esso, il suo Fondatore e Duce, ha sempre attribuito al Programma del Partito, [ come tale, importanza del tutto relativa, e si è sempre guardato dal rinchiudersi in esso, e dal considerarlo, in tutti i suoi articoli, come un dogma insuperabile e im­ mutabile. « Il programma fascista, non è una teoria di dogmi, sui quali non è piu tollerata discussione alcuna : il nostro Programma è una elaborazione e discussione continua: è sottoposto a un travaglio di revisione incessante: unLó mezzo, per farne un elemento di vita, e non un rudere morto... » : sono anche queste parole di Mussolini. Le quali non si riferiscono però, e non possono riferir­ si, che a ciò, che è vera e propria enunciazione program­ matica di Partito, non all’essenza stessa del Fascismo, cioè al suo concetto della Nazione e dello Stato nazio­ nale e della subordinazione all’uno e all’altro degli indi­ vidui e degli interessi individuali. Questo concetto è, per il Fascismo, un dogma, in quanto è la ragione d’es­ sere del suo volere ed agire nel mondo: un dogma, che certo può essere ed è suscettibile di integrazione e di sviluppo (onde, per esempio, lo svolgersi da esso del concetto di razza, come sinonimo di individualità e per­ sonalità storica, psicologica e fisica del popolo, e del ( concetto di autarchìa, come strumento o mezzo di difesa e di potenziamento della indipendenza e potenza del popolo), ma non può essere in alcun modo suscettibile di contestazione e di discussione. 120

* Appunto perché il Fascismo non si è chiuso in una serie di enunciazioni programmatiche di Partito, e non si è nell’azione pratica pietrificato nell’ossequio formale ad una teoria statica, ma ha mantenuto in sé intatto il vigore dinamico, e quindi creativo, da cui o in vii tu del quale era originariamente sorto alla vita, esso ha potuto, continuando pur sempre a servirsi, come di uno strumento indispensabile per l’assolvimento della sua missione, del Partito, superare in se stesso il Partito. E, quindi, come fu prima di costituirsi in Partito, cosi ha continuato ad essere anche dopo, una organizzazione economica, coi Sindacati, e una organizzazione militare, con le Squadre di azione. Fasci, Squadre, Sindacati. una specie di trinomio, tra i cui elementi vennero, ne­ gli ultimi mesi del 1921, stringendosi legami cosi orga­ nici e solidi, da condurli a costituire, in forma sempre piu decisa, parte integrante di una unità: l’unita del Fa­ scismo. La organizzazione armata delle Squadre ricevette defi­ nitiva disciplina il 22 novembre 1921, quando fu creato 'un Comando generale col compito di costituirle, organiz­ zarle e dirigerle, e i fascisti furon divisi in principi e trìarì, con divisa e giuramento proprio : unita minima, la squadra : più squadre, una centuria : piu centurie, una coorte : pili coorti, una legione, comandata da un con­ sole : organizzazione, in cui era già in germe quella della futura Milizia Volontaria per la Sicurezza nazio­ nale-, e la cui maggior forza era pur sempre costituita dalla volontarietà. Come tale, la organizzazione delle Squadre continuò a presidiare e a fiancheggiare nel Partito il Fascismo, senza essergli subordinata, anzi rimanendone distinta : fenomeno singolarissimo, si può dire unico, nella storia 121

dei Partiti italiani : del che ofiriron conferma le più o meno innocue o risibili imitazioni e contraffazioni, che ne furon, sugli inizi, tentate dagli altri Partiti. Soltanto i Sempre Pronti nazionalisti presentarono subito analo­ gie evidenti di disciplina e di scopi con le Squadre fa­ sciste. Quanto ai Sindacati e al Sindacalismo fascista, sta di fatto che, quantunque già sin dai tempi del primo Con­ gresso, a Firenze, aderissero al Fascismo un certo nu­ mero di operai sindacalisti, quasi tutti superstiti dei Fasci di azione rivoluzionaria dal 1915; trattava di ope­ rai isolati e non organizzati, e che di un vero e proprio Sindacalismo fascista non può incominciare a parlarsi che dal novembre-dicembre 1921, quando il Fascismo irruppe, come vedemmo, nella Valle Padana, sommer­ gendovi ad uno ad uno tutti i fortilizi delle organizza­ zioni rosse, e vide,quasi ad un tratto sorgere di fronte a sé il fenomeno sindacale, « in tutta la sua vastità e con tutti i suoi problemi tecnici e umani ». Problemi grossi e delicati. Perché il passaggio della massa dalle vecchie organizzazioni socialiste alle nuove era stato tumultuario, « come la fiumana d’un torrente che si rovescia in un altro alveo », e migliaia di conta­ dini, di braccianti, di piccoli proprietari, di fittavoli, di mezzadri, erano venuti ad ingrossare le file del Fasci­ smo, molto più per istinto di rivolta contro la prepotenza e le angherie delle leghe rosse, o per paura del manga­ nello fascista, o per spirito di imitazione, che per sincera conversione alle idee del Fascismo o per chiara coscienza del passo compiuto. Ma comunque non si poteva respin­ gerle, urgeva organizzarle. E si cominciò con una organizzazione federale, sulla base della provincia, non avendo fatto buona prova l’espe­ rimento di Federazioni regionali, di Sindacati, che si dichiaravano apolitici, pur facendo capo al Fascismo. 122

Particolarmente interessante risultò, a questo propo­ sito, nel giugno del ’21, il convegno dei Sindacati eco­ nomici della provincia, a Ferrara. _ Ma già sin d’allora era evidente in questi Sindacati economici l’orientamento politico fascista. C era, per esem­ pio, già nel 1921, un gruppo di ferrovieri fascisti, cui si dovette, durante lo sciopero antifascista, l ’iniziativa dell’offerta di ricondurre i fascisti, venuti a Roma pel Congresso, alle proprie sedi. Nel novembre, la dire­ zione e il Comitato centrale del Partito invitarono 1 fa­ scisti a curare con particolare interessamento l’organiz­ zazione di Sindacati e di Cooperative. E nel dicembre, il Consiglio nazionale del Partito stabili che i servizi pubblici ferroviari e postelegrafonici non potessero avere altra organizzazione sindacale che quella fascista. C ’era, dunque, ormai, nei fatti, anche prima che nella teoria, tra la fine del ’21 e il principio del 22, un Sindacalismo fascista o un Fascismo sindacalista, dato 1 quale l’apoliticismo dei Sindacati fascisti appariva ogni giorno più come una menzogna, troppo palese, per poter, comunque, essere utile. Chè, se, sulla questione se i Sindacati dovessero essere o no, politicamente, fascisti, i fascisti erano tutt’altro che d’accordo, e ne sorse una polemica interna, vivissima du­ rante il ’22, e non mai più spenta del tutto negli anni suc­ cessivi, temendosi da alcuni che la subordinazione al Par­ tito potesse nascondere qualche insidia al carattere pret­ tamente economico del fenomeno sindacale, tale timore nasceva da un presupposto errato. La verità è che un Sindacato realmente apolitico, in quanto esclusivamente economico, non e mai esistito, e, dove appare che esista, si risolve in una frode. E infatti ognuno sapeva come sotto il preteso apoliticismo del a Confederazione generale del lavoro si nascondesse nient’altro che l’asservimento degli interessi sindacali dei I2 3

lavoratori agli interessi politici del Partito socialista. Sic­ ché la originalità del Sindacalismo fascista stava essenzial­ mente nella sincerità, con cui esso faceva esplicita profes­ sione del suo aderire a un determinato credo politico : quello del Fascismo. Ma stava anche in ciò : che si fonda­ va sovrattutto sulla iniziativa di minoranze scelte, e perciò muoveva da una istintiva diffidenza verso le masse, pur non rifiutandosi dall’attirarle a sé e dal farle proprie. Diffidenza, la quale fu cosi palese negli anni tra il 1921 e il 1923, anche in qualche discorso di Mussolini, da insinuare in qualcuno il sospetto di un vero e proprio scetticismo mussoliniano sulla efficienza del sindacalismo. Sospetto, che fu però da Mussolini recisamente respinto: « Il Sindacalismo, quando raccoglie le masse, le inqua­ dra, le seleziona, le purifica e le eleva, è la creazione antitetica della concezione atomistica e molecolare del liberalismo classico. Bisogna fare del Sindacalismo senza demagogia, del Sindacalismo selettivo, educativo, mazzi­ niano... ». Si trattava però pur sempre, per allora, di un Sinda­ calismo, in cui, per quanto politicamente orientato verso le idealità nazionali del Fascismo, persistevano elementi e motivi del sindacalismo d ’anteguerra. Esso era sempre concepito come, se non piu deliberatamente ostile, estra­ neo allo Stato, e suoi strumenti d’azione erano, sempre, la autodifesa di classe e perciò la lotta fra le classi. N e c era ancora alcun chiaro e preciso avviamento tranne alcuni accenni divinatòri di Mussolini - verso un sindacalismo più vasto e comprensivo, tendente a dare unità organica ai varii elementi produttivi e a portarli ad una reciproca collaborazione economica sul piano na­ zionale e statale. Quella che sara piu tardi la economia corporativa, era ancora di la da venire, benché sin dal febbraio 1922 Mus­ solini mostrasse, sulle colonne del Popolo d’Italia, di I2 4

non escludere che, in un lontano avvenire, « i sindacati dei produttori potessero essere le cellule di un nuovo tipo di economia... ». Anche la terminologia era tuttora incerta e oscillante. Già era apparsa o riapparsa nell’uso la parola corpora­ zione, ma a indicare, per ora, i sindacati di soli operai, 0 anche i sindacati misti di datori di lavoro e di pre­ statori di opera. È, d’altra parte, pur vero però che il sindacalismo fa­ scista continuò a lungo, anche per alcuni anni dopo la Marcia su Roma, ad essere un sindacalismo prevalente­ mente rurale, e che la conquista del proletariato urbano dovrà costare al Fascismo qualche anno di dura fatica. Né la organica attitudine del Fascismo a concretare in una molteplicità di iniziative e di forme associative la propria energia conquistatrice si esaurì nella formazione e nella organizzazione delle squadre e dei sindacati. Esso infatti non tardò ad attirare a sé e ad attrarre nel­ l’orbita della sua attività, pur senza farne una diretta immediata attività del Partito, e le cooperative, nel Sin­ dacato italiano delle Cooperative, e i lavoratori del brac­ cio e del pensiero, già organizzati nei sindacati ai imi economici, nelle Sezioni del Dopolavoro, ai lini ricreativi ed educativi, e gli studiosi e gli intellettuali nei Gruppi di competenza, e poi nelle Sezioni dell’Istituto nazionale di Cultura fascista, e le donne nei Gruppi femminili, e 1 goliardi nei Gruppi Universitari Fascisti, e i giovanetti nelle Avanguardie, e i fanciulli nell’ Opera Nazionale Balilla. Il che vuol dire, in sostanza, che il Fascismo, mentre, non appena comparso nel mondo, si è sforzato di pie­ gare a se stesso e alla propria intuizione della vita una parte sempre più numerosa delle generazioni nate e cre­ sciute nella vecchia Italia democratica liberale, si è affret­ tato a forgiare e a garentire a se stesso gli strumenti ne-

cessari ad educare a sé e ai propri compiti prossimi e re­ moti le generazioni giunte a maturità o venute alla luce durante o dopo il suo avvento. Le basi di quella gran­ diosa e originalissima istituzione, che è, oggi, la Gioventù del Littorio, risalgono, infatti, ai primi anni del Fascismo e alla vigilia della Rivoluzione. E non basta. Giacché la forza maggiore del Fascismo è pur sempre stata, e prima e dopo la Marcia su Roma, al di là o al di fuori del Partito, delle Squadre, e dei Sin­ dacati, degli Istituti di propaganda, delle Organizzazioni giovanili : è quella, che esso ha sempre attinto, già a poco meno di un anno di distanza dalla sua nascita, e in mi­ sura sempre e formidabilmente crescente dal 1922 in poi, come da riserva inesauribile, dalla polla profonda dell’anima popolare, dal consenso inconscio ed ingenuo delle masse anonime, dei milioni di Italiani, che non hanno la tessera del Partito fascista, e che del Fascismo subiscono il fascino. È questo fascino del Fascismo e di Mussolini sulle folle italiane effetto della violenza fascista, specialmente della violenza dei primordi? Senza dubbio, in gran parte. È la conseguenza del successo? Certamente. Ma è altret­ tanto vero il contrario. Siamo, cosi, di fronte a quella filosofia della forza e del consenso, a cui Mussolini dedicherà, sin dal mar­ zo 1923, pochi mesi dopo la Marcia su Roma, nella sua rivista Gerarchia, alcune pagine, che sollevarono, sul momento, una tempesta di discussioni, ma che, come non tardò ad essere pressoché da tutti riconosciuto, dice­ vano alcune verità incontrovertibili. «... Mai nella storia vi fu Governo, che si basasse esclusivamente sul consenso dei popoli e rinunziasse a qualsiasi impiego della for­ za... Il consenso è mutevole come le formazioni della sabbia in riva al mare. Non ci può essere sempre. Non può mai essere totale. Nessun Governo è mai esistito, che

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abbia reso felici tutti i suoi governati. Posto matico che qualsiasi provvedimento di Governo malcontenti, come eviterete che questo malcontento di­ laghi e costituisca un pericolo per la solidità dello Sta­ to?... Con la forza: con l’accantonare il massimo di forza... » Proprio come, pochi giorni dopo la pubblica­ zione di queste pagine, lo stesso Mussolini dirà, conse­ gnando al Ministro delle Finanze del Governo sorto dalla Marcia su Roma i Bilanci del suo Ministero : « Dichiaro che voglio governare, se possibile, col consenso del mag­ gior numero dei cittadini : ma nell’attesa che questo con­ senso si formi, si alimenti e si fortifichi, io accantono il massimo delle forze disponibili. Perché può darsi per avventura che la forza faccia ritrovare il consenso, e, in ogni caso, quando mancasse il consenso, c’è la for­ za... ». L ’esperienza storica dimostra che il consenso delle folle si è sempre e dovunque conquistato cosi : né c’è al­ tro pensabile modo di conquistarlo, che questo. Il suc­ cesso è sempre una forza, e la piu efficace delle forze. E, se la forza genera il consenso, il consenso si risolve in accrescimento di forza : ove per forza non si deve in­ tendere la forza bruta, meccanica, materiale - quella for­ za, di cui si volle vedere il simbolo nel manganello, ma la forza della volontà, che si impone e piega a sé la volontà altrui, facendola propria. Non il bastone fascista ha convertito le masse al Fa­ scismo, ma la fede, per cui è stato impugnato. N e ciò che rende invincibile il Fascismo è il numero, ogni anno crescente (e l’aumento numerico non e sempre guada­ gno), dei suoi tesserati, o il numero delle Legioni della sua Milizia, necessaria, non a creare il consenso, ma a fronteggiare le minoranze degli avversari : e unica­ mente l’impeto della sua volontà, la fede ispiratrice e animatrice delle sue opere. I2 7

L ’elemento precipuo della vitalità del Fascismo sta, insomma, sin dal suo primo affacciarsi alla vita, proprio qui: nell’aver saputo evitare i rischi dell’eccessivo intel­ lettualizzarsi e razionalizzarsi, ossia nell’aver saputo con­ servare, pur dopo quasi un ventennio di incontrastato dominio sulla coscienza della Nazione, i caratteri di mo­ vimento dinamico: vale a dire, nell’essere il Fascismo, anche dopo la sua conquista di tutti i poteri dello Stato, rimasto ciò che esso era all’origine del suo apparire nella storia italiana : nient’altro che una fede operosa. Il Fascismo è oggi, come era ieri, e come sarà domani, sino a che esso continuerà a reggere la vita della Na­ zione, la fede in questa verità: che, se il Popolo italiano è oggi, dopo secoli di disgregazione interna e di servag­ gio allo straniero, non più una espressione geografica o un mito letterario, ma una salda e concreta unità poli­ tica, in quanto è uno Stato tra Stati, non è perché i sin­ goli italiani empiricamente viventi possano da questo Stato pretendere il conseguimento o la garanzia del massimo benessere o di felicità individuale di ciascuno di essi, ma perché essi possano, volendo e operando a servizio di questo Stato, in cui e per cui la Nazione italiana vuole ed agisce come collettività unitaria e sovrana, cooperare, ciascuno col proprio massimo sforzo individuale, nel mi­ glior modo possibile, alla affermazione e diffusione attua­ le, e sovrattutto futura, della civiltà italiana nel mondo: ed è insieme la volontà, la volontà concreta e immediata, di diffondere e trasfondere nella coscienza degli Italiani questa fede: trasfonderla in modo che essi non vi si acquetino, come nel possesso di una teoria, che si possa contemplare, anche senza agire, perché tenuta per vera, anche se essa non si traduca nella realtà; ma ne trag­ gano senza tregua impulso ad agire, con ogni sforzo o sacrificio proprio di individui, perché essa diventi la real­ tà di oggi e la realtà di domani.

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Fu appunto in nome di questa fede operosa che il Fascismo si fece Partito, e, fattosi Partito, si preparo, in pochi mesi, a conquistare il Governo per trasformare lo Stato.

Non erano, infatti, trascorsi che due o tre mesi dal giorno in cui il movimento fascista si era ordinato in Partito, che apparve sempre piu palese e minacciosa la tendenza del Fascismo a sostituirsi - nella lotta contro gli elementi sovversivi e antinazionali, specialmente la dove piu gravi potevano essere le conseguenze di una troppo debole o incerta azione governativa, come nelle provincie di confine - al Governo, o quasi a pretendere esso di essere il Governo. Fu, dal gennaio del 1922 in poi, un crescendo di adu­ nate, di manifestazioni, di affermazioni fasciste, nei piu vari e diversi centri della penisola, dalle quali il prestigio del Governo - che, ridratosi, nell’estate del 1921, il Gabi­ netto Giolitti, e sostituito dal Gabinetto Bonomi, cadra, proprio nel febbraio del 1922, nelle mani di Facta - usciva sempre piu scosso e diminuito: a Trieste, a Zara, a Fiu­ me, dove ci fu, ai primi di marzo, addirittura un azione guerresca di fascisti fiumani e triestini contro Zanella; nel marzo, grande adunata a Milano, pel terzo anniver­ sario dei Fasci; il 21 aprile, prima celebrazione fascista del Natale di Roma e della Festa del lavoro, con adu­ nate e cortei, cui parteciparono migliaia di persone; a metà maggio, sciopero fascista a Ferrara: 50.000 lavo­ ratori fascisti, affluenti con ogni mezzo, mantello e co­ perte a tracolla, militarmente, a Ferrara, per chiedere, non sussidio, ma lavoro pei reduci dalla guerra; il 24 maggio, anniversario dell’entrata in guerra, grande cor­ teo, turbato da fucilate avversarie, per riportare nella 129 9. E rcolb , I

sua città la salma dell’Eroe popolano, Enrico Toti, e in­ vito di Mussolini ai fascisti a reagire senza remissione agli attacchi; pochi giorni dopo, in seguito ad atti di san­ gue contro fascisti, occupazione militare di Bologna : mo­ bilitazione dei fascisti bolognesi e concentramento a Bo­ logna di Squadre bolognesi, ferraresi, veneziane : 10.000 uomini bivaccanti nella città: passaggio delle forze ar­ mate di polizia dal prefetto al comandante il Corpo di Armata : vera e propria prova generale della forza, della disciplina, della efficienza dell’organizzazione politico-mi­ litare fascista; il 28 maggio, adunata a Firenze dei Fasci toscani, da Grosseto a Carrara, da A rezzo a Livorno; adunate a Padova, a Legnano, e Sestri Ponente : quasi contemporaneamente, prima adunata nazionale delle Cor­ porazioni sindacali fasciste : masse diventate ormai quasi eserciti mobilitabili e smobilitabili a un cenno, che, men­ tre sembravano voler fiancheggiare lo Stato, in realtà ope­ ravano, come forza, fuori dello Stato. Il Fascismo voleva, dunque, restaurare o sovvertire lo Stato? Ma chi faceva, sorpreso, questa domanda, dava a vedere di non aver letto o di non aver capito ciò che pure era chiaramente e senza ambagi detto nel Proclama lanciato in tutta Italia dalla Direzione del Partito Nazio­ nale Fascista, subito dopo il Congresso di Roma, nel novembre del 1921 : « Saremo con lo Stato e per lo Stato, tutte le volte che esso si dimostrerà geloso custode e difensore e propaga­ tore della tradizione nazionale, del sentimento nazio­ nale, della volontà nazionale e capace di imporre a tutti i costi la sua autorità. « Ci sostituiremo allo Stato tutte le volte che si manife­ sterà incapace di fronteggiare e combattere senza indul­ genze funeste le cause e gli elementi di disgregazione interiore dei principi della solidarietà nazionale. « Ci schiereremo contro lo Stato, qualora esso dovesse

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cadere nelle mani di coloro che minacciano o attentano all’avvenire del Paese... » Né Mussolini aveva atteso che la crisi statale italiana assumesse la gravità evidente nel giugno del 1922, con l’avvento di Facta al potere, per avvertire come la causa fondamentale se ne dovesse cercare, piu che nella sin­ gola responsabilità di alcuni determinati uomini di G o­ verno, nella radicale impotenza dello Stato liberaldemocratico e parlamentare ad affermare se stesso e il pro­ prio valore unitario di fronte ai Partiti, perciò nella ten­ denza, che da questa impotenza politica dello Stato deri­ vava alla lotta tra i Partiti, ad assumere forma e carat­ tere di guerra civile. Già nel primo discorso da Lui pronunciato, come depu­ tato, alla Camera, il 21 giugno 1921, Mussolini aveva detto : « È inutile che Giolitti dica che vuole restaurare l’au­ torità dello Stato. Il compito e enormemente difficile, perché ci sono già tre o quattro Stati in Italia, che si contendono il probabile e possibile esercizio del potere.y La guerra civile si aggrava per questo fatto: che tutti i Partiti tendono a trasformarsi, a inquadrarsi in eser­ citi... » Pericolo, in realtà, tanto piu grave, in quanto il pre­ supposto liberale costringeva lo Stato, già indebolito dal parlamentarismo, ad un atteggiamento di assurda im­ parzialità di fronte all’urto tra Partiti devoti e Partiti ostili alla causa della Nazione, fra Partiti sostenitori e Partiti negatori della sovranità dello Stato nazionale su­ gli individui : onde la protesta mussoliniana, del discorso del 23 luglio 1921, sulla politica interna del recente Ga­ binetto Bonomi: « ...m i rifiuto di accettare la vostra equazione, e voi stessi, nella vostra intima coscienza, do­ vete rifiutarvi, perché non potete stabilire identità di sorta, tra un movimento sovversivo, che tende a capoL31 9a.

E rcole,

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volgere ah imis la stessa economia politica del Paese, e noi, che non vogliamo conservare all’infinito istituzioni, che siano rese difettose o insufficienti, ma che però in questo momento rappresentano la salvaguardia dello Stato... ». Pochi giorni dopo questa protesta, Mussolini, impo­ nendo non senza fatica la sua volontà al movimento, che Egli stesso aveva fondato, ma non ancora in quel momento trasformato in Partito, aveva firmato, il 3 agosto 1921, il patto di pacificazione tra socialisti e fasci­ sti, vivamente desiderato dal Presidente del Consiglio, Bonomi. Il quale avrebbe dovuto, con la propria forza di Governo, essere il principale garante della sua osser­ vanza. La debolezza del Governo Bonomi di fronte allo sciopero generale, inscenato dai socialisti in seguito alPaggressione sovversiva, che chiuse il Congresso fascista del novembre 1921, aveva invece determinato la denun­ cia fascista del patio, che del resto, non era mai stato seriamente rispettato dai socialisti, senza contare i comu­ nisti, che non l’avevan mai voluto riconoscere. Per cui il patto di pacificazione era durato meno di quattro mesi. Cosa ben naturale, dato che la vera pacificazione pre­ supponeva, come dirà Mussolini alla Camera, il i° dicem­ bre, « uno Stato accentratore e unitario, che imponga, movendo dal concetto di Nazione, a tutti i singoli, com­ presi i Partiti, una ferrea disciplina », e « sappia abban­ donare il sistema di dare ragione a tutti, credendo di potere risolvere una crisi di autorità, qual’era quella attra­ versata dall’Italia, con semplici misure di polizia... ». N é certo questa crisi di autorità avrebbe potuto essere risolta coi sistemi normali dell’appello al Paese o con il solito gioco della crisi ministeriale. La via d’uscita, Mussolini e il Fascismo la vedevano ormai del tutto fuori del regime parlamentare. L a vedevano là, dove la poneva, nei termini piu crudi 132

e recisi, il 25 giugno del 1922, in Gerarchia, un arti­ colo scritto da Mussolini, sotto il titolo: Stato Antistato Fascismo, nel quale il Fascismo era bensì presentato come un movimento di restaurazione dell’autorità dello Stato : ma non dello Stato, quale esso era attualmente in Italia : « Lo Stato attuale italiano è in contrasto con lo spirito animatore del Fascismo. L o Stato italiano, piu che rivendicare altamente e duramente la sua autorità, la rivendica dalla parte opposta... Il Fascismo non può accettare la concezione rollandesca di uno Stato che è moralmente al di sopra della mischia... Non v’ha dubbio che Fascismo e Stato sono destinati, forse in tempo rela­ tivamente vicino, a diventare una identità. In qual modo? In un modo legale, forse. Il Fascismo può aprire la porta con la chiave della legalità, ma può anche essere costretto ad aprire la porta col colpo di spalla della insurrezione... ». Quando queste pagine furono scritte, la crisi dello Stato era ormai entrata nella fase culminante. Si era or­ mai già iniziata ed era in pieno sviluppo la seconda delle due offensive scatenatesi contro lo Stato liberale, negli anni seguiti alla guerra. La prima era stata l’oifensiva sovversiva, che aveva avu­ to il suo momento critico con la occupazione delle fabbri­ che, definito da Mussolini come il massimo sforzo com­ piuto dai socialisti nel dopoguerra. Ma i socialisti non avevano osato spingere gli operai ad uscire dalle fabbri­ che per impadronirsi dello Stato; e l’offensiva era fallita. E i socialisti dovettero assistere passivi, nell’estate del 1922, allo sferrarsi, contro lo stesso Stato liberale, della offensiva fascista : « A lla occupazione delle fabbriche cor­ risponde, nel triennio successivo, l’occupazione delle cit­ tà. Noi occupiamo le città. Da questo momento lo Stato non esiste più. È allora che dico: cosi non può andare; di due, bisogna fare uno : non si può essere Costantino­ poli e Angora : non si può essere Roma e Milano. Bisogna

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uscire da questa situazione paradossale». Cosi, dopo la Marcia su Roma, Mussolini alla Camera, nel discorso pronunciato il 7 giugno 1924, a chiusura della discussione sull’indirizzo di risposta al discorso della Corona. Uscirne attraverso la legalità o attraverso la insurre­ zione ? Nel giugno e nella prima metà di luglio del 1922, Mussolini non lo sapeva ancora. Egli non escludeva an­ cora la possibilità di un’ascesa legale, di una graduale penetrazione in tutte le regioni, in tutti i municipi, di una schiacciante maggioranza, di una riforma elettorale, di nuove elezioni, di una netta prevalenza di volontà fasci­ sta nella Camera, e quindi nel Governo. Si ebbe perciò, nel luglio, una serie di cosiddette epurazioni locali, cioè di defenestrazioni di sindaci e consiglieri comunali socia­ listi: a metà mese, il Fascismo si imponeva a Rimini; da Rimini passava nelle Marche, dove sino allora erano state scarse avanguardie, e stravinceva ad Andria, centro pugliese, e poi a Cremona, a Novara, a Viterbo. Che però la incertezza, sulla via da seguire, durasse, risulta anche dal discorso, l’ultimo da lui pronunciato dal banco dei deputati, con cui Mussolini, nella seduta del 29 luglio, durante una lunga e travagliosa crisi del Ministero Facta, spiegò i motivi della persistente oppo­ sizione dei fascisti al Governo : « Il Fascismo risolverà questo suo intimo tormento, dirà forse tra poco, se vuole essere un Partito legalitario, cioè un Partito di Governo, o se vorrà essere invece un Partito insurrezionale, nel qual caso non potrà più far parte di una qualsiasi mag­ gioranza di Governo, ma probabilmente non avrà nem­ meno l’obbligo di sedere in questa Camera... ».

Senonchè proprio in quello scorcio di luglio maturava l’avvenimento che avrebbe, entro l’agosto successivo, por-

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tato Mussolini a decidersi per Vinsurrezione : un tentati­ vo, rapidamente fallito, di riscossa socialista. _ _ Nell’ultima decade di luglio, sciopero ferroviario, che comincia a Novara: i Fasci rispondono, minacciando di occupare Milano con 30.000 uomini, se lo sciopero non cessi il 2i luglio. E il 21 luglio lo sciopero cessa. Ma qualche giorno dopo, a Ravenna, battaglia tra gli operai delle leghe rosse e operai passati ai sindacati fascisti, cui immediatamente risponde la presa di Ravenna, da parte di fascisti, accorsi da paesi vicini, specialmente da her­ rara, agli ordini di Italo Balbo. , E allora, il 31 luglio, proclamazione di nuovo e piu ampio sciopero. Proprio il giorno prima, apertasi una nuova crisi del Gabinetto Facta, Filippo Turati, capo del socialismo di destra, era stato ricevuto dal Re, m vista di una possibile collaborazione tra le vane frazioni della democrazia: ma era una collaborazione, che, te­ nuta a battesimo da Turati, il Fascismo non poteva accettare. Mussolini non riteneva possibile, ed era noto, che una grande coalizione dei tre grandi Partiti di massa, Socia­ listi, Popolari, Fascisti, di cui il Fascismo fosse pnmus inter pares, e lo ripetè esplicitamente, il 30 luglio,, sul Popolo d’Italia : una coalizione governativa Socialisti-Po­ polari non poteva significare che la guerra al Fascismo, e quindi la guerra civile. E come tale fu subito interpre­ tato lo sciopero generale del 31 luglio, atto rivoluzionario, ispirato dagli elementi rivoluzionari, qualunque fosse, di fronte ad esso, l’atteggiamento della Confederazione del lavoro e del Partito socialista. Immediata risposta fascista: pubblico ultimatum agli scioperanti e al Governo: o lo sciopero finirà entro 48 ore, o il Fascismo si sostituirà ai pubblici poteri per farlo cessare. Dopo 48 ore, perdurando lo sciopero, le Squadre fasci-

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ste occupavano le stazioni, presidiavano le linee ferroviarie, conducevano e scortavano i treni, proteggevano i ferrovieri che non avevano scioperato. In pochi giorni lo sciopero era stroncato, con indicibile sollievo della opinione pubblica, che applaudiva ovunque alla gioventù fascista, che in quei giorni montava sui tram, faceva fun­ zionare i treni, issava il tricolore alle finestre. Parve la liberazione da un incubo, e qualcuno parlò di un prossimo o immediato ingresso di elementi fascisti in un nuovo Governo di coalizione appoggiato dal Fa­ scismo. Erano illusioni ormai anacronistiche. Il 3 agosto, le Squadre fasciste cacciavano i socialisti dall’amministrazione comunale di Milano, e, con forte tributo di sangue, assaltavano e distruggevano VAvanti!. Dal balcone di Palazzo Marino sventolava di nuovo il tricolore e parlava D ’Annunzio per la prima volta re­ duce a Milano dalia notte di Ronchi. Poi, il giorno dopo, battaglia a Savona, battaglia a Parma, battaglia a Li­ vorno; il 5 agosto, a Genova, occupazione del porto, roccaforte dei socialisti e del loro tirannico monopolio sindacale, e del Palazzo di San Giorgio, sede dell’antica Repubblica, cuore di Genova marinara. E dovunque crol­ lo di Sindacati e di Comuni rossi, come per un terremoto; occupazione di Camere del lavoro; conquista di coopera­ tive, come a Verona e a Venezia; e dappertutto accorrere in folla, ogni giorno crescente, sino a diventare perico­ losa, di nuovi proseliti, cosi di borghesia che di popolo, al Fascismo. Il 22 agosto del 1922, l’organo socialista di Reggio Emilia, la Giustizia, prendeva atto della sconfitta, conse­ guenza di quello sciopero, col quale si era sperato di abbattere il Fascismo : « Lo sciopero di agosto è stato la nostra Caporetto. Era l ’ultima carta, l ’abbiamo giocata, abbiamo perso. Ci hanno tolto Milano e Genova, nostri

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capisaldi, che parevano imbattibili. C i hanno dato alle fiamme i nostri maggiori giornali... Dovunque e giunta la raffica fascista, ci ha spezzato. Le varie soluzioni, che abbiamo tentato al problema della nostra esistenza, sono state tutte tardive: tardiva la soluzione collaborazionistica, che si doveva tentare dopo le elezioni del mag­ gio 1921 ; tardiva quella rivoluzionaria dello sciopero ge­ nerale di protesta, tentata quando molti dei nostri forti­ lizi erano già caduti. La colpa era dei dissensi interni di metodo e delle deviazioni dalla rotta originaria... ». In realtà, la sconfìtta era molto piu antica, risalendo al 1920, al momento delle occupazioni delle fabbriche e la colpa era ben altra da quella indicata dal giornale di Reggio Emilia: era, come dirà, nel giugno del 1924, Mussolini, nient’altro che la paura : non la paura fìsica, ma la paura morale : la paura delle responsabilità : « ...Voi sapevate che ad un dato momento non avreste saputo frenare le vostre masse, molti elementi delle quali cre­ devano che la rivoluzione socialista consistesse nel pren­ dere, nell’assidersi piu comodamente al banchetto della vita, mentre la rivoluzione socialista non poteva essere che una nuova organizzazione economica e sociale di un dato aggregato nazionale... ». Per colpa di questa paura, il Partito socialista, che non aveva osato, nel 1919-20, condurre alla vittoria la offen­ siva propria contro lo Stato liberale, assisteva passivo, nell’estate del 1922, al cedere dello stesso Stato all offen­ siva fascista, ormai avviata verso la via della insurrezione. Che questa fosse ormai la via da percorrere, lo disse, sulla fine di agosto, Mussolini, in una piccola riunione tenutasi a Levanto davanti ad una quarantina di fascisti, in un breve discorso, quasi famigliare, che ebbe ripercus­ sione vastissima in tutta Italia; e lo fece non meno netta­ mente comprendere nel grande discorso, tenuto il 20 set­ tembre, all’adunata dei Fasci della Venezia Giulia, a

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Udine : « Il nostro programma è facile : vogliamo gover­ nare l’Italia : assumerci la tremenda responsabilità di prendere sulle braccia la Nazione », per darle lo Stato «che deve uscire dall’Italia di Vittorio Veneto»: «lo Stato, che non rappresenta un Partito, che rappresenta la collettività nazionale, comprende tutti, supera tutti, protegge tutti, e si mette contro chiunque attenti alla sua imprescrittibile sovranità... ». Sei giorni dopo, a Cremona, Mussolini incalzava : « Noi vogliamo che l’Ita­ lia diventi fascista... È dalle rive del Piave, che abbiamo iniziata la marcia, che non può fermarsi, sino a che non avremo raggiunto la meta suprema, Roma... ». Proprio in quello scorcio di settembre, il Fascismo sta­ va, a luminosa conferma di questa sua vocazione a go­ vernare l ’Italia, per sostituirsi al Governo italiano nella difesa a oltranza della sovranità e della dignità dell’Ita­ lia vittoriosa in Alto Adige, di fronte ai Tedeschi. Nella notte fra settembre e ottobre, infatti, Squadre di fascisti di Vicenza, Mantova, Trento, Cremona, Bre­ scia, rapidamente concentratesi, sotto la guida di uomini, quali De Stefani, Giunta, Farinacci, Starace, facevano a forza irruzione in Bolzano e in Trento, occupandone le sedi delle amministrazioni provinciali, e di qui osavano rivolgere, in forma quasi di ultimatum, domande peren­ torie al Governo: abolizione del Commissariato e licen­ ziamento del commissario Credaro, applicazione imme­ diata delle leggi italiane alle terre redente, creazione di una Provincia unica Trento-Bolzano. L ’attacco non era mosso contro i 200.000 Tedeschi dell’Alto Adige, verso i quali il Fascismo non intendeva affatto inaugurare una politica di violenza, bensì contro il Governo italiano, la cui inqualificabile debolezza permetteva a 200.000 allo­ geni, piccolissima minoranza in una Nazione chiara­ mente omogenea, come poche altre in Europa, di ignorare l ’Italia e di trattare gli Italiani come stranieri.

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Logicamente perciò, pochi giorni dopo, Mussolini traeva, dalla ostinazione liberale del Corriere della Sera, lo spunto per annunciare, in modo anche piu inequivo­ cabile, la meta rivoluzionaria del Fascismo, nel discorso, uno dei suoi più notevoli, pronunciato il 4 ottobre, dinanzi al Gruppo “ Sciesa” di Milano, nell’attesa generale, che teneva sospesi gli animi. Si sentiva nell’aria il presagio di ore decisive imminenti : « Il dissidio è tra Nazione e Stato. L ’Italia è una Nazione. Non è uno Stato... Lo Stato non c’è... O ggi il giornale che rappresenta il libe­ ralismo in Italia, constatava che in Italia ci sono due Governi, e, quando ce ne sono due, ce n è uno di più : lo Stato di ieri e lo Stato di domani... Siamo d’accordo: una Nazione non può vivere... tenendo nel suo seno due Stati, due Governi, uno in atto, uno in potenza... Quali sono le vie per dare un Governo alla Nazione?... C i sono due mezzi : convocare la Camera ai primi di novembre, far votare la legge elettorale riformata, convocare il po­ polo a comizio entro dicembre. Poiché la crisi Facta, come invoca il Corriere, non potrebbe spostare la situa­ zione... Se il Governo non accetta questa strada, allora noi siamo costretti a imbroccare l ’altra... Il nostro gioco è ormai chiaro... Il contrasto è plastico e drammatico fra l’Italia di ieri e la nostra Italia. L ’urto appare inevi­ tabile... Ormai l’Italia liberale è una maschera, dietro la quale non c’è nessuna faccia. È un’impalcatura: ma dietro non c’è nessun edifìcio. Ci sono delle forze : ma dietro di esse non c’è più lo spirito... Domani, è assai probabile, è quasi certo, tutta la impalcatura formidabile di uno Stato moderno sarà sulle nostre spalle: non sarà soltanto sulle spalle di pochi uomini: sarà sulle spalle di tutto il Fascismo italiano ». Periodi, che la cieca inintelligenza del Governo di Facta ancora una volta si illuse di poter interpretare nel senso di una pura minaccia verbale, ma il cui senso pre­

ciso è chiarissimo a chi legga questi altri periodi, che Mussolini pronunciò, venti giorni dopo, a Napoli, di fronte a 40.000 squadristi e a 20.000 lavoratori fascisti: « Voi ricordate che alla Camera italiana... ponemmo i termini del dilemma, che non è soltanto fascista, ma ita­ liano: legalità o illegalità? Conquista parlamentare 0 insurrezione? Attraverso quali strade il Fascismo diven­ terà Stato? Perché noi vogliamo diventare Stato... Per­ ché il giorno 3 ottobre io avevo già risolto il dilemma!... Quando chiedo le elezioni, quando le chiedo a breve sca­ denza, quando le chiedo con legge elettorale riformata, è evidente a chiunque che io ho scelto una strada. La stessa urgenza della mia richiesta denota che il travaglio del mio spirito è giunto al suo estremo possibile. Avere capito questo significa avere o non avere la chiave in mano per risolvere tutta la crisi politica italiana... ». Significa, cioè, aver capito che per parte sua, sin dalla vigilia del discorso al Gruppo “ Sciesa” , Mussolini e il Fascismo avevan già scelta la via della insurrezione. E la insurrezione fu definitivamente decisa il 16 otto­ bre, in una riunione convocata da Mussolini, e da Lui presieduta, a Milano, al n. 46 di via San Marco, pre­ senti, con Mussolini, De Vecchi, Balbo, Bianchi, De Bono, Teruzzi e i generali Fara e Ceccherini. # Sta comunque di fatto che, quantunque l’idea della improrogabile necessità di un atto insurrezionale, desti­ nato a dare inizio ad una vera e propria rivoluzione, risa­ lisse nella mente di Mussolini e dei principali Uomini del Fascismo, all’estate del 1922, e rappresentasse la sin­ tesi conclusiva di un processo lungamente meditato, la scelta della forma, in cui la insurrezione del Partito Na­ zionale Fascista contro lo Stato democratico liberale si 140

svolse, e del giorno, in cui essa si effettuò, fu essenzial­ mente dovuta ad una ispirazione repentinamente balena­ ta allo spirito di Benito Mussolini, e soltanto allo spirito di Lui, sulla soglia della seconda metà di ottobre! Questa insurrezione, passata alla storia sotto il nome di Marcia su Roma, consiste, infatti, nella mobilitazione, ordinata, in conformità alle decisioni già prese il 16 otto­ bre, in tutta Italia, nella notte tra il 26 e il 27 ottobre 1922, di tutti gli inscritti, prìncipi e trìari, al Partito Nazionale Fascista, agli ordini di un Quadrumvirato segreto di azione, assumente, con mandato dittatoriale, tutti i poteri politici, amministrativi e militari, allo scopo di strappare dalle mani degli esponenti del Parlamento e consegnare nelle mani di Mussolini il Governo della Nazione, con la minaccia, immediatamente tradotta in azione, di una marcia convergente di colonne armate sulla Capitale, cui però era comandato di evitare ogni urto con l ’esercito e di rispettare la Monarchia. Tra il 27 e il 28, affluirono, in luoghi di adunata preordinati, a trenta o quaranta chi­ lometri da Roma, le Squadre o colonne di prìncipi o giovani fascisti, mentre i trìari eran rimasti a guardia delle città : a Santa Marinella e a Monterotondo, col mar­ chese Perrone, i generali Fara e Ceccherini, e la medaglia d’oro Igliori, quelli che venivano dall’Italia settentrionale e centrale; a Tivoli, con Giuseppe Bottai, Giacomo Acer­ bo, il console Giannantoni, quelli che venivano dall’A ­ bruzzo; a Foligno, col generale Zamboni, una riserva. Poche le Squadre del sud, aventi come compito prin­ cipale quello di vigilare le province e impedire disloca­ menti di truppe verso Roma. Sede del Comando gene­ rale, o dei Quadrumviri - De Bono, De Vecchi, Bianchi, Balbo -: Perugia, venuta, la notte del 28, in mano ai fascisti. A dissipare il pericolo di un urto cruento tra le forze del Governo e le colonne fasciste, intervennero, a mezzo-

giorno del 28, la notizia che il Re, che aveva, sin dalla sera del 27, accettate le dimissioni del Gabinetto Facta, si era rifiutato di firmare il decreto di stato d’assedio, presentatogli dal Gabinetto dimissionario, e, la mattina del 29, l’annuncio che il Re aveva chiamato da Milano Mussolini, per affidargli l’incarico di formare il nuovo Ministero. Il Fascismo aveva vinto, d’accordo con la Monarchia, la sua battaglia contro il Parlamento. E allora la Marcia, che già era incominciata, delle co­ lonne fasciste su Roma dai luoghi di raduno, avvenne, tranne pochi incidenti, pacificamente. Il 30 ottobre, piu di 100.000 Camicie Nere, ammassatesi a Villa Borghese, furono passate in rivista da Mussolini; resero omaggio in­ quadrate all’altare della Patria e al Milite Ignoto; sfila­ rono per cinque ore sotto il Quirinale, dinanzi al Re, fiancheggiato dal .generale Armando Diaz, Duca della Vittoria, e dall’ammiraglio Paolo Thaon di Revel, Duca del Mare, da poche ore membri del Gabinetto sorto dalla Marcia su Roma, a significare che esso recava al Governo della Patria lo spirito della guerra e della vittoria. Il 31, era diramato per tutta Italia l’ordine di smobilitazione. I fascisti, vincitori, tornavano alle loro sedi. La insurrezione aveva, dunque, trionfato, senza com­ battere, prima, anzi, di cominciare a combattere, perché non trovò resistenza, o la trovò soltanto in quell unico nemico, contro cui era diretta, il Parlamento e il sistema parlamentare, che, infatti, tentò, contro di essa, benché invano, il colpo dello stato d’assedio. Stornato questo dal­ la magnanima saggezza del Re, la Marcia su Roma non aveva ostacoli, contro cui lanciarsi. « ... Chi poteva resistere alla nostra Marcia? » chiederà Mussolini, ad un anno di distanza dall’evento, celebran­ done a Perugia il primo anniversario. « Noi ci prepa­ rammo a tutti gli eventi con tutte le sagge regole della 142

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strategia militare e politica. La nostra lotta non era diretta contro l’esercito, al quale non cessammo mai di tribu­ tare l’attestato della nostra pili profonda e incommensu­ rabile devozione. Non era diretta contro la Monarchia, la quale ha gloriosamente incarnato la tradizione della no­ stra razza e della nostra Nazione. Non era diretta contro le forze armate della polizia, sovrattutto non era diretta contro i fedeli della Benemerita, coi quali noi avevamo in molte località combattuto insieme la buona battaglia contro gli sciagurati dell’Antinazione. Non era nemmeno diretta contro il popolo lavoratore... che per qualche tem­ po è stato ingannato da una demagogia stupida e suici­ da,.. e che in quei giorni non interruppe il ritmo solerte e quotidiano della sua fatica... Era diretta la nostra bat­ taglia sovrattutto contro una mentalità... di rinuncia, con­ tro uno spirito sempre più pronto a sfuggire che ad ac­ cettare tutte le responsabilità, contro il mal costume parla­ mentare... E chi ci poteva resistere?... Roma in quei gior­ ni mi dava l ’idea di Bisanzio, discutevano se dovevano o no applicare il loro ridicolo stato d assedio, mentre le nostre colonne avevano già circondato la capitale. Non costoro potevano, coi loro reticolati, con le loro mitra­ gliatrici, che non avrebbero sparato... impedire a noi di toccare la meta. E meno ancora i vecchi Partiti!...» Il che non impedì però allo stesso Mussolini, a cui il fallimento della rivoluzione socialista tra il 19*9 e ^ 1922 era apparsa una tragedia della paura, di definire a circa due anni della Marcia su Roma, tragedia dell ardimento quella d’un Partito, « che non aveva nemmeno cinque anni di vita, che aveva soltanto tre anni di efficienza, che non aveva ancora potuto procedere ad una selezione dei suoi elementi, e nel quale, in vista del successo, con­ fluivano molti individui qualche volta non rispettabili, e che pure assumeva il potere... » : vale a dire la conquista insurrezionale del Governo dello Stato per parte di un

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Partito, che da non piu di un anno, fuori del Governo, aveva di fatto sostituito lo Stato, esautorandone i gover­ nanti legali. Senonchè queU’ardimento fu, nel momento stesso della vittoria, temperato da un intuito di prudenza, non meno mirabile di quello, e di cui è chiara l ’orgogliosa consape­ volezza in queste parole, pronunciate da Mussolini, par­ lando, il 16 novembre 1922, per la prima volta alla Ca­ mera, in nome della Rivoluzione : « Mi sono rifiutato di stravincere. Mi sono imposto dei limiti. M i sono detto che la migliore saggezza è quella che non ci abbandona dopo la vittoria... ». Massima prova di temperanza, nell’ora dell’ illimitato trionfo, questa: Tessersi Mussolini astenuto dal costituire un Ministero, che fosse esclusivamente composto di fa­ scisti, e l ’avere Egli cercata la collaborazione di estranei disposti a fornirgliela, onde andarono con Lui ministri liberali, popolari, democratici, persino uno che aveva ap­ partenuto al Gabinetto precedente, e ciò benché a Lui non sfuggisse certamente il pericolo, che in questa colla­ borazione poteva nascondersi, per lo sviluppo rivoluzio­ nario della conquista del potere. Ma Egli dirà, a soli due mesi di distanza dalla Marcia su Roma, nel numero di giugno 1923, della rivista Ge­ rarchia : « La Rivoluzione fascista non demolisce tutta in­ tera e tutta in una volta quella complessa e delicata mac­ china che è l’amministrazione di un grande Stato; essa procede per gradi e passi. Questo procedere logico e sicuro sgomenta gli avversari. Manca la possibilità di speculare sulle esagerazioni del nuovo Regime. La linea da seguire sta tra i misoneismi di chi si spaventa di talune innova­ zioni e le anticipazioni di coloro, ai quali sembra, e non è, di segnare il passo. Il secondo tempo deve armonizzare il vecchio col nuovo... » : quel secondo tempo, che si ini­ zierà, come vedremo, proprio due mesi dopo Tatto insur-

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rezionale, con cui il Partito fascista si era, con la forza dello squadrismo, impadronito del potere in Italia, nel gennaio del 1923, con la istituzione della Milizia Volon­ taria per la Sicurezza Nazionale e del Gran Consiglio : si inizierà in altri termini, nel gennaio del 1923, quando interverrà a rendere, non solo di fatto, ma anche di di­ ritto, irrevocabile la presa violenta del potere, compiuta dal Fascismo nell’ottobre del 1922, la introduzione nella vita costituzionale dello Stato italiano dei due organi ri­ voluzionari del Gran Consiglio e della Milizia. Giacché sarà proprio in virtù della istituzione di questi due organi, che la Marcia su Roma, lungi dal risolversi in una congiura di palazzo, o in un mutamento di Mi­ nistero, o nella sostituzione di un Partito ad un altro nel Governo dello Stato, o dall’esaurirsi in una pura e sem­ plice insurrezione senza seguito e senza sviluppo, fu, in tutto il senso della parola, il primo momento, il momento iniziale, di una Rivoluzione, destinata a dar vita a un nuovo regime politico.

Fine del volume primo

F IN IT O 30

DI

SETTEM B R E

N ELLE

STAM PAR E 19 3 9

O F F IC IN E

-

ANNO

G R A F IC H E

A. M ONDADORI VERONA

X V II

STORIA DEL FASCISMO II

FRANCESCO ERCOLE

STORIA DEL FASCISMO V olume Secondo DALLA MARCIA SU ROMA ALLA CREAZIONE DELLO STATO FASCISTA CORPORATIVO E ALLA PROCLAMAZIONE DELL’ IMPERO

(1922-1936)

A. M O N D A D O R I ANNO

XVII

• MILANO

INDICE DEL SECONDO VOLUME IV - Il

primo tempo della

R ivoluzione : L a ditta ­

G overno fascista sullo Stato demo­

tura del

cratico LIBERALE ............................................................................

(Dalla Marcia su Roma, 28 ottobre 1922, al di­ scorso del 3 gennaio 19 2 5 ).

V

- Il

secondo tempo della

sformazione dello mocratico

SCISTA

R ivoluzione : L a tra­

S tato italiano da S tato de­

LIBERALE IN STATO TOTALITARIO FA­

........................................................................

(Dal discorso del 3 gennaio 1925-III al Plebiscito fascista del 24 marzo 1929-VII).

VI - L a

crisi della società capitalistica e l ’ avvento

DELLA NUOVA ECONOMIA: Lo STATO FASCISTA COR­ PORATIVO ........................................................................ (Dal Plebiscito fascista del 24 marzo 1929-VII alla istituzione della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, 19 gennaio 1939-XVII).

VII - L a

iniziativa italiana nel mondo e la politica

ESTERA DEL F A S C I S M O ..............................................................

(Dalla Marcia su Roma alla proclamazione dell'Im­ pero italiano, 9 maggio 1936-XIV, e all’Asse RomaBerlino, novembre 1936-XIV).

IV IL PRIMO T E M P O D E L L A R IV O L U Z IO N E : LA D IT T A T U R A D E L G O V E R N O F A S C IS T A SULLO S T A T O D E M O C R A T IC O L IB E R A L E (Dalla Marcia su Roma, 28 ottobre del 3 gennaio 1925)

IQ 22,

al discorso

se, nell’ottobre del 1922, abbia avuto inié zio, in Italia, con la Marcia su Roma, una vera e propria rivoluzione può oggi sembrare - a chi consideri, nella sua vita politica interna ed esterna, nella sua strut­ tura giuridica, nella sua base sociale ed economica, lo Stato italiano di oggi, e lo ponga a confronto con lo Stato italiano, quale questo, nella sua vita politica, nella sua struttura giuridica, nella sua base sociale ed economica, si presentava allo sguardo dell’osservatore diciassett anni or sono - oziosa, assurda, anacronistica. Ciò non toglie però che questa domanda se la siano posta, nei primi anni del Regime, in Italia e fuori d Ita­ lia, molti osservatori e studiosi, e i piu, fuori del Fasci­ smo, tendessero, e non sempre in mala fede, a darle ri­ sposta negativa. Se la pose, a qualche anno di distanza dalla Marcia, lo stesso Duce del Fascismo : per esempio in un discorso tenuto al Senato, il 5 dicembre del 1924: « ... Quello che avvenne nell’ottobre del 1922 fu una rivoluzione?... I pa­ reri sono discordi... Tuttavia, se levare della gente in ar­ mi, occupare con violenza edifici pubblici, marciare sulla Capitale, sostituirsi ad un Governo, significa compiere un insieme di fatti insurrezionali, non v ’ha dubbio che a domanda

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11

nel 1922 ci fu una rivoluzione». E già otto mesi prima, commemorando il quarto anniversario della fondazione dei Fasci: «...Perché insisto a proclamare che quella dell’ottobre è stata storicamente una rivoluzione}... Per­ ché le parole hanno una loro tremenda magia : perche e grottesco tentare di far credere che è stata una semplice crisi ministeriale... ». Se però quel tentativo grottesco parve a lungo trovare qualche successo, fu per due motivi, nei quali e da scor­ gere, nella sua più profonda intimità, la singolare natura della Rivoluzione fascista e la ragione d’essere della sua individualità e originalità storica. Il primo di essi è accennato proprio nel discorso del 24 marzo 1928, in cui il tentativo di presentare la Marcia su Roma come una semplice crisi ministeriale è definito grottesco: «...Forse, se noi avessimo dato alle nostre masse il diritto'che ha ogni vittorioso, quello di spezzare il nemico, sarebbe passato per certe schiene quel brivido di terrore, per cui oggi non ci sarebbe piu discussione possibile sulla rivoluzione più o meno compiuta dal Fa­ scismo». Vale a dire: la rivoluzione, se non fu del tutto in­ cruenta, fu cruenta del sangue dei propri combattenti e seguaci, non di quello dei propri avversari. Avvenne, perciò, che il non aver fatto quello, che sono solite fare tutte le rivoluzioni, ebbe per effetto che a molti quella del Fascismo non parve una vera rivolu­ zione. Chè se il Fascismo ebbe poi il coraggio, la vo­ lontà ed i mezzi per fare quello, che non aveva creduto o voluto fare in principio, e più tardi si ebbero Tribunali speciali per i reati contro il Fascismo, è pur vero che, di regola, queste cose avvengono all’inizio, e non nel corso della rivoluzione, e che esiste pur sempre un romantici­ smo rivoluzionario, « il quale non crede alla realta di una rivoluzione, senza un congruo periodo di terrore... » 12

Ma piu profondo e sostanziale motivo, onde fu, sin da principio, impedito che la Marcia assumesse subito agli occhi dei più il carattere rivoluzionario, che pur le era insito, è da cercarsi nella presenza dei freni e dei lìmiti, di cui, come già notammo, Mussolini volle e seppe immediatamente circondare l ’impeto della volontà rivoluzionaria nelle sfere fasciste, che avevan per suo ordine marciato su Roma. « ...N on è facile passare da un moto insurrezionale ad una situazione legalizzata » disse, il 3 gennaio 1924, il Duce, rispondendo al saluto augurale recatogli dai suoi collaboratori al Governo; « sono problemi che mi affati­ cano, e a cui penso incessantemente, quando gli altri dor­ mono. Il problema dello squadrismo, che ora sembra l’uovo di Colombo, non era problema trascurabile : erano sette o otto organizzazioni a camicie multicolori, che passeggiavano piu o meno camionalmente per tutte le parti di Italia. Ognuna di queste formazioni politicomilitare era un frammento della autorità dello Stato che andava in rovina. Sopprimere tutti gli squadrismi, e lo stesso squadrismo che aveva condotto il Partito fascista al potere: non uscire dai confini della Costituzione - e io ho sempre avuto la massima cura di non toccare quelli che sono i pilastri fondamentali dello Stato -, o ridurre al minimo le demolizioni, perche demolire e facile, ma costruire è difficile : questi sono gli elementi, sui quali bisognerebbe meditare, senza attardarsi a vedere se, nel­ l’ultimo paesucolo, nelle giornate di domenica c e ancora una rissa... Senza eccessivo orgoglio, noi siamo soddisfatti della nostra opera. » Quei pilastri fondamentali dello Stato, che, a men che due anni dalla Marcia su Roma, il Duce della Rivolu­ zione fascista rivendicava a suo massimo orgoglio 1 aver voluto e ottenuto che non fossero toccati, e che neppure in seguito, neppure oggi, a quasi vent’anni di distanza 13

dall’inizio della Rivoluzione, sono mai stati toccati, Mus­ solini li ha più volte, nei suoi discorsi alla Camera e fuori della Camera, espressamente indicati e definiti: e sono la Monarchia, la Chiesa, l’Esercito, lo Statuto. E fu appunto perché questi pilastri dello Stato non furon toccati, che al Duce riuscirà, com’Egli stesso dichiarò più volte, di « innestare la rivoluzione nel tronco della vecchia legalità », ossia di riassorbire la rivoluzione nella costituzione, accelerando e ottenendo « l ’entrata definitiva del Fascismo nell’orbita della Costituzione...». Sicché, già poco più di un anno dalla Marcia su Roma, vi fu chi, in Italia e fuori d ’Italia, notava come Mussolini avesse quasi miracolosamente ottenuto, non solo di arginare la Rivoluzione, da L ui stesso scatenata, ridu­ cendone al minimo i rischi, ma anche di risolvere in un solo attimo, i due maggiori problemi, che la Rivolu­ zione aveva posto al suo sorgere, quello costituzionale e quello internazionale, riuscendo contemporaneamente a garentire allo spirito rinnovatore della Rivoluzione una possibilità di sviluppo e una capacità di realizzazione infinitamente superiori a quelle che essa avrebbe avuto, se fosse rimasta in balia di se stessa. La più superficiale esperienza storica basta, del resto, a documentare come il pericolo di ogni rivoluzione, da qualsiasi motivo essa siasi originata, è sempre nella soluzione di continuità, che essa rappresenta nell’ordinamento costituzionale ed economico di un popolo, e come il compito più delicato e difficile di chi guida una rivolu­ zione sia quello di ridurre al minimo quella soluzione di continuità, senza tradirla, cioè senza comprometterne i fini. L ’avere assolto questo doppio compito, inalveando la volontà e la forza della rivoluzione nello Stato, mediante l’apparenza di una semplice crisi ministeriale, che fu, in realtà, l’inizio di un nuovo Regime, fu un capolavoro di sapienza politica, che non ha precedenti, e a cui Mus-

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pi solini deve in gran parte l ’altissimo, impareggiai crescente prestigio, di cui Egli gode nel moti"'

È pur vero però che fu appunto per questo modo di procedere della Rivoluzione iniziatasi con la Marcia su Roma, la quale, nel momento stesso, in cui si impadro­ niva, con l’avvento di Mussolini al Governo, di tutto il potere dello Stato, iniziava il proprio sforzo, diretto ad inserire la propria volontà rivoluzionaria nell’ordinamen­ to tradizionale esistente, ossia a modificare la struttura politica, giuridica, economica dello Stato italiano, senza toccarne o radicalmente alterarne i pilastri fondamentali, vale a dire, a non distruggere lo Stato, che essa si pro­ poneva di ricostruire, e a non distruggerlo, per poterlo ricostruire, che il Fascismo si trovò a lungo di fronte a una tenace incapacità altrui a riconoscere e a valutare il carattere rivoluzionario, cioè storicamente definitivo e irrevocabile, della Marcia su Roma, e a una tenace illu­ sione, di cui furono vittima, l’uno dopo l’altro, tra il ’22 e il ’25, tutti i Partiti costituzionali (tranne uno, se pure era un Partito, il nazionalista, sin dai primi del ’23 im­ medesimatosi col Fascismo), che pure, sull’inizio, erano stati da Mussolini chiamati a collaborare col Fascismo nello sforzo della ricostruzione, e al vincitore avevano aderito nella sottintesa speranza di riuscire a circuirlo, che, con l’avvento di Mussolini e del Fascismo al G o­ verno, nulla fosse avvenuto, per cui potesse ritenersi o presumersi imminente o prossima la fine o il tramonto dello Stato democratico-liberale : l ’illusione, in altri ter­ mini, che la Marcia su Roma si fosse risolta nella transi­ toria incrinatura di un regime tuttora vigente, nella pa­ rentesi momentanea di un processo tradizionale sostan­ zialmente immutato. 15

Illusione od equivoco, che potè anche talora essere | in buona fede, e appoggiarsi su una erronea o falsa in­ terpretazione di frasi o parole del Duce, come, ad esem­ pio, di queste, da L ui pronunciate, sulla soglia del 1923: « ... Io intendo di ricondurre con tutti i mezzi la Nazione ad una disciplina, che sarà superiore a tutte le sètte, a ; tutte le fazioni, a tutti i Partiti... » Non riteneva, infatti, lo Stato liberale di essere, quasi | per definizione, superiore ai Partiti, in quanto si risol- ; veva nella missione di garentire a tutti e a ciascuno una eguale possibilità di affermarsi e di lottare per la con­ quista del potere? Ma, in realtà, quella asserita superiorità di fronte ai Partiti, di cui, in Italia, lo Stato liberale usava tradizio­ nalmente menar vanto, come di suo massimo titolo di nobiltà, non fra che l ’affermazione dell’attitudine di in­ differente e negativo agnosticismo, che, in omaggio al proprio concetto puramente formale e astrattamente giu­ ridico, di libertà individuale, lo Stato italiano, sin dal suo primo sorgere a vita unitaria, aveva assunto e vo­ leva mantenere di fronte ai Partiti, e quindi di fronte al contenuto di credenza politica proprio di ciascuno di essi : per cui lo Stato liberale non era superiore ai Partiti, se non in quanto e perché esso aveva rinunciato a incar­ nare qualsiasi idea politica o morale: si era ridotto ad essere un recipiente, entro cui qualunque contenuto po­ tesse di volta in volta essere versato, purché il versamento avvenisse sotto la garanzia di determinate forme giuri­ diche. Ed era perciò tanto più debole o impotente di fronte ai Partiti, quanto più si illudeva che suo compito essenziale, e ragion d’essere della sua sovranità su di essi, fosse il controllarne e dominarne l’urto e la lotta. Si illudeva, perché non gli schemi astratti, ma le idee, i sentimenti, gli interessi concreti hanno sempre mosso gli uomini e fatta la storia. Era fatale che la forza fosse 16

là, dove fosse la fede in un principio di vita, e non la credenza in una forinola, e che quindi quell asserita su­ periorità, fondata sull’agnosticismo morale e politico dello Stato, non potesse sostenersi e durare, di fronte alla naturale organica storica vigoria morale e politica dei Partiti. Chè, se il liberalismo italiano parve a lungo potere evitare di porsi il problema di scelta o di semplice priorità fra il suo essere liberale e il suo essere nazionale, ciò dipese unicamente dal fatto che, per un complesso ben noto di motivi inerenti alla genesi e allo sviluppo del Risorgimento italiano, era, sin oltre il ’70, esistita tale identità sostanziale tra la forma liberale, ^entro cui si era venuta realizzando, nel nuovo Stato, 1 unita, e le esi­ genze nazionali di questa unità, da escludere a lungo pure l’ipotesi di una scelta tra la fede nel liberalismo e 1 os­ sequio alle necessità della Nazione. Ma era pur venuto il momento, in cui quel problema di scelta si era imposto alla coscienza dei liberali italiani. e fu, non appena, entrati in scena i Partiti antinazionali, questi ebbero trovato nella forma liberale dello Stato la piu valida delle protezioni. E non v ’ha dubbio che la logica interna del liberalismo portava a scegliere per la difesa della libertà contro il soverchiare delle esigenze nazionali. Tutti sanno che, negli ultimi tempi,_ negli anni che precedettero la crisi finale, la Nazione italiana ebbe, di volta in volta, ad organi effettivi della sua volontà e del suo destino, non lo Stato liberale, ma i vari Partiti avvi­ cendatisi al potere attraverso la vicenda delle consulta­ zioni elettorali e delle crisi parlamentari, e, anche piu di questi, i Partiti antinazionali, che, esclusi dal potere dalle pregiudiziali rivoluzionarie del loro contenuto di creden­ za politica, e resi da questa esclusione irresponsabili, facevan tanto più sentire sullo Stato il piemere della loro prepotenza, quanto più agivano al di fuori dello Stato,

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facendo pesare sulla volontà legale di questo la forza ille­ gale e bruta della piazza. La verità è che la costituzione liberale dello Stato può fare buona prova, solo quando e dove le correnti politiche disputantisi, attraverso la lotta tra i Partiti, la conquista del potere statale, si muovano entro i limiti di uno stesso fondamentale ordine politico, ossia quando e dove la lotta sia impegnata fra Partiti, tutti concordi nel ricono­ scere le realtà e la necessità della Nazione, e divisi tra essi da differenze secondarie, come avvenne, in Italia, sin dopo il ’70, e come avviene tuttora in alcuni Paesi, quali l ’Inghilterra e gli Stati Uniti di America : benché anche qui, l ’affermarsi sempre piu minaccioso di ten­ denze e di correnti politiche antinazionali e sovversive tenda a render la situazione sempre piu delicata, e avvi­ cini il momento, in cui la crisi del potere statale di fronte all’irrompere dei conati e delle volontà rivoluzio­ narie si rivelerà in tutta la sua insuperabile gravità. Giacché, quando la lotta politica sia impegnata, come fu in Italia, e alla vigilia dell’intervento e nella crisi se­ guita alla vittoria, tra Partiti divisi da divergenze poli­ tiche reciprocamente irriducibili, o addirittura tra Par­ titi nazionali e Partiti antinazionali, la costituzione libe­ rale dello Stato è semplicemente assurda: e, piu che as­ surda, immorale, perché, imponendo allo Stato un at­ teggiamento di inerte neutralità formale tra la causa della Nazione e la causa dell’Antinazione, e abbandonando l’esito finale della lotta alla volubilità cieca e arbitraria delle maggioranze o al risultato incerto di un rapporto di forze tra i Partiti contrastanti, crea necessariamente un iato interiore tra la coscienza nazionale e la coscienza giuridica dei singoli e più consapevoli fra i cittadini, che non può esser risolto, se non contro la Nazione, sacrificando l’interesse superiore di questa, per osservare le leggi dello Stato, o contro lo Stato, violando le leggi 18

di questo, per servire l’interesse superiore della Nazione. Per fortuna dell’Italia, come c’era stata, nell'anno del dilemma tra la neutralità e l’intervento, una minoranza abbastanza forte, da riuscire ad imporre, in nome della più profonda volontà nazionale, la ineluttabilità del­ l’intervento alla tenace volontà neutralista della maggio­ ranza parlamentare, cosi ci fu, nel momento più grave della crisi postbellica, al cui svolgersi turbinoso e pressoche anarchico lo Stato liberale assisteva inerte e passivo, una minoranza abbastanza forte, da riuscire ad imposses­ sarsi del potere statale, non per imporre al Governo di questo una volontà di Partito, ma per costringere il Go­ verno a diventare, come unico organo della volontà na­ zionale, quale esso non era mai stato sino allora, vera­ mente e pienamente superiore a tutti i Partiti, compreso il Partito vincitore. Il che vuol dire che ciò che la Rivoluzione culminante nella Marcia su Roma riuscì, sin dal suo inizio, real­ mente ad imporre alla vita italiana, fu sovrattutto un nuovo modo, radicalmente diverso da quello proprio del­ lo Stato liberale, di concepire la superiorità dello Stato di fronte ai Partiti. # Né i superstiti zelatori del liberalismo piu o meno democratico potevano offrire misura piu certa della loro inguaribile mentalità astrattistica, di quella che offri­ rono, continuando a confondere la superiorità politica dello Stato, affermata e pretesa, in nome della propria Rivoluzione, dal Fascismo trionfatore, nei confronti di tutte le organizzazioni politiche comunque viventi nel­ l’ambito dello Stato, con la superiorità giuridica di que­ sto, nei confronti dei cittadini individualmente conside­ rati : quella superiorità, per cui non ci possono essere,

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nello Stato, privilegiati ed iloti, ma tutti i cittadini, co­ munque raggruppati o isolati, sono ugualmente sottopo- ; sti alla legge dello Stato. Questa superiorità è intuitiva per chiunque sia nato ' alla vita dopo la Rivoluzione francese: quella Rivolu­ zione, di cui il Fascismo nega i presupposti ideologici, non nega la funzione storica; e discende dal concetto stesso di Stato moderno : né il Fascismo l’ha mai disco­ nosciuta o vulnerata. Perché lo Stato voluto e creato dal Fascismo è si, senza dubbio, uno Stato forte, ma è pur sempre uno Stato moderno : vale a dire uno Stato, in cui la sfera di libertà accordata agli individui, per quanto, nell’interesse nazionale, soggetta a restrizioni o a rinuncie, non può essere, e non è, abbandonata alla discrezione o all’arbitrio dei singoli, e neppure a quello dei gover­ nanti, ma, quale essa sia, deve essere, ed è, delimitata in modo inequivocabile, sia mediante un comando gene­ rale, che è quello della legge, sia mediante norme parti­ colarmente obbligatorie (patti nominativi) per tutti gli appartenenti a determinate categorie di attività produt­ tiva, emananti da Associazioni legalmente riconosciute dallo Stato, e attingenti alla legge dello Stato la compe­ tenza a emanarle. Chè, anzi, lo Stato fascista ha la coscienza di realiz­ zare in modo ben piu compito e perfetto l ’ideale dello Stato giuridico moderno, di quanto l’ostinata pretesa in­ dividualistica di ignorare il fenomeno sindacale, e di non vedere di fronte a sé che individui isolati, non permettesse allo Stato liberale. Il quale non trovava in sé, nel proprio ordinamento, né/la volontà, né il mezzo, per impedire quei due sistematici attentati, non meno alla libertà degli individui, che alla prosperità della Na­ zione, che erano lo sciopero e la serrata, trovando quasi inevitabile che, nella lotta economica, le categorie e le classi sociali si facessero giustizia da sé, con le forme

più brutali della intimidazione e della violenza illegale. La superiorità, che, subito dopo la Marcia su Roma, Mussolini proclamava compito essenziale del Fascismo restituire allo Stato di fronte a tutte le sètte, a tutte le fazioni, a tutti i partiti, era, insomma, non la superiorità giuridica, ma la sovranità -politica dello Stato, vale a dire la superiorità della idea - la sovranità integrale della Nazione sugli individui -, che esso ha la missione di incarnare, di fronte alle contrastanti idee della fazione, della setta, del partito. Interprete degli interessi e realizzatore della volontà della Nazione non può essere che lo Stato, a mezzo del suo unico organo legittimo, che e il Governo : questo e il principio teorico, a cui, sin dagli inizi, si ispiro, nella sua azione pratica, la Rivoluzione fascista : questa e la meta, a cui tese, sin dagli inizi, il Governo posto in es­ sere da quella Rivoluzione.

Meta, però, che non poté subito ed in un balzo inte­ gralmente raggiungersi. La realizzazione totale di questo programma incon­ trò, infatti, nelle esigenze del momento storico, difficolta ed ostacoli, che solo la energia formidabile di Mussolini poteva superare. Ma per superarli, occorsero a Mussolini alcuni anni. Mussolini dovette, cioè, prima di raggiun­ gere la meta, superare un periodo di transizione o di passaggio dall’uno all’altro Regime, in cui era implicita la necessità di alcuni compromessi con la realta delle cose, o di alcune, pili apparenti che reali, contraddizioni tra le parole e gli atti, e su cui era inevitabile, per quanto vano, il conato della speculazione avversaria. È ben vero che, nel discorso pronunciato a Roma il 4 novembre 1933 all’Assemblea generale del Consiglio

nazionale delle Corporazioni, segnante l ’inizio della fase risolutiva della politica corporativa del Regime, Mus­ solini dirà, richiamandosi ai primordi di questo : « Quan­ do, nel giorno 13 gennaio 1923, si creò il Gran Consiglio del Fascismo, i superficiali avrebbero potuto pensare: si è creato un istituto. N o : quel giorno fu seppellito il liberalismo politico. Quando con la Milizia, presidio ar­ mato del Partito, quando con la costituzione del Gran Consiglio, organo supremo del Regime, si diè colpo a I tutto quello che era la teoria e la pratica del liberalismo, ' si imboccò definitivamente la strada della Rivoluzione... ». ; Si imboccò questa strada, in quanto, nonostante ogni palese ed esplicito proposito di « innestare la rivoluzione nel tronco della vecchia legalità », o « di rimettere nel­ l’alveo della legalità la vasta fiumana che aveva rove­ sciato gli argini », o di affrettare « il processo di riassor­ bimento della* rivoluzione nella costituzione dello Stato monarchico » la creazione di quei due istituti aveva pur garentito la introduzione, in questa costituzione, di una essenziale novità; questa: che, da allora in poi, il Parlamento non avrebbe più potuto in nessun modo di­ sporre della vita e delle sortì del Governo. La Rivoluzione consisteva appunto nell’aver dato vita ad una situazione, per cui il Governo sarebbe stato, da ora in poi, responsabile dei suoi atti, non di fronte al ramo elettivo del Parlamento, ma di fronte al Re, unico vero interprete della volontà del popolo. Chi ben guardi, però, la funzione di fatto esercitata, sino alla fine del 1924, nel Regime dai due istituti rivo­ luzionari del Gran Consiglio e della Milizia, non tarda ad accorgersi che essa consiste, in sostanza, nel garentire al Partito Nazionale Fascista la possibilità di esercitare la dittatura sullo Stato democratico-liberale. Giacché è pur vero che quello Stato, che la Rivoluzione aveva po­ sto in mano, perché lo trasformasse secondo il suo spirito,

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al Governo fascista, continuò pur sempre, a n ch e.^ p |¡la creazione dei due nuovi istituti, per q u a lc h e ^ n m ^ à d essere uno Stato costituzionale, attrezzato, gegni politici e amministrativi e nelldnsierne'^ale sue leggi, molto più per tutelare la libertà degli individuile quindi dei Partiti, che per imporre a individui e a Partiti l’impero degli interessi nazionali e della volontà nazio11 Egli è perciò che la forza, di cui, per oltre due anni, dispose di fatto il Governo fascista, fu in gran parte una forza tuttora extrastatale-, quella forza stessa, che aveva condotto a impadronirsi dello Stato, e che, di fatto ave­ va, sino alla vigilia, per due anni, sostituito lo Stato, impotente od assente, come reale interprete degli inte­ ressi nazionali e della volontà nazionale. Massimi demen­ ti di essa : la indomabile volontà del Duce, vale a dire un elemento per sua natura personale, che non poteva, come tale, identificarsi con la immanente volontà dello Stato; il Partito, che inquadrava nei ranghi di una disciplina infrangibile la parte più viva e dinamica del popolo italiano; la Milizia Volontaria per la Sicurezza nazio­ nale, che era senza dubbio la difesa armata del Regime, anche se non poteva ancora considerarsi come una vera e propria milizia di Stato. N é occorre ricordare come questo della Milizia costituisse il massimo scandalo per i sognatori di un impossibile ritorno al passato e il tema preferito per i predicatori di una cosi detta normalizza­ zione, che avrebbe dovuto risolversi in una restaurazione. Avvenne cosi che, per qualche anno, non tanto la forza statale, quanto la forza fascista, fosse quella che garenti alla Nazione la normalità della vita civile, dando sicurezza al Paese e pace ai cittadini. E basta una rapida scorsa agli avvenimenti e ai giornali di quegli anni, per constatare come, da un lato, la reiterata dichiarazione di Mussolini di non essere disposto a cedere a nessun

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tentativo di restaurazione parlamentaristica, e, d’altro lato, la reiterata minaccia, per parte del Partito, della cosiddetta seconda ondata, siano state, nella prima fase del Regime, i massimi strumenti di forza posti da que­ sto al servizio dello Stato, e gli unici freni per gli ele­ menti antinazionali, disorientati e dispersi, ma non af­ fatto estirpati. In fondo, la situazione appare con particolare nettezza fotografata in queste brevi parole del Duce, in un suo discorso dell’i i luglio 1923: «Il potere lo abbiamo e lo teniamo, e lo difenderemo contro chiunque. Qui è la Rivoluzione : in questa ferma volontà di mantenere il potere...»; vale a dire, nella strenua volontà di durare. Appunto per la coscienza di questa volontà, Mussolini sentirà di potere con tranquilla risolutezza affermare, commemorando il terzo anniversario della Marcia su Roma, il 28 ottobre 1925 : « Questo regime non può es­ sere rovesciato che dalla forza. Coloro, che credono di poterci sbancare con le piccole congiure di corridoio 0 con fiumi di inchiostro, si disingannino. I Ministeri pas­ sano, ma un Regime nato da una Rivoluzione stronca tutti i tentativi di controrivoluzione, realizza tutte le sue conquiste. Quella che si chiamava la rotazione dei porta­ fogli non esiste piu, e, quando domani dovesse ricomin­ ciare da capo, non potrebbe svolgersi che nell’ambito del Partito Nazionale Fascista. Perché una Rivoluzione può esser convalidata dal responso del suffragio elettorale (infatti, la Rivoluzione fascista fu clamorosamente con­ validata dai quattro milioni e ottocentomila voti avuti nelle elezioni del 6 aprile 1924), ma può anche farne senza: in ciò è il carattere tipico di una Rivoluzione». Ci fu, insomma, per qualche anno, in Italia, un Go­ verno forte, in uno Stato, che era tuttora debole e disar­ mato : un Governo nuovo in uno Stato vecchio, anzi de­ crepito : il Governo, quale lo avevano espresso le giovani

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energie della vita italiana, temprate dalla guerra e dalla vittoria; lo Stato, quale l’aveva creato e ridotto un sessan­ tennio di incontrastato dominio della ideologia liberale. # Situazione, senza dubbio eccezionale, e perciò piena di inconvenienti e di pericoli e seminata di insidie. Se ne ebbe un primo sintomo nel 1923, nei tre tentativi di aggiramento del Fascismo, denunciati dal Duce nel suo discorso riassuntivo dei primi sei mesi di Governo, e tutti vittoriosamente stornati : « la mistificazione della unità operaia, il trucco del contraltare nazionalista, la manovra della difesa a oltranza dello Statuto, della li­ bertà e del Parlamento». Situazione, quindi, appunto perché eccezionale, neces­ sariamente transitoria; ma non perciò meno inevitabile. Perché, volendo, come si era voluto, e si continuava a volere, evitare i rischi ed i danni di una rivoluzione to­ talmente eversiva dello Stato esistente, non c era, per ricostruire su nuove basi lo Stato, senza prima distrug­ gerlo, che una sola via : quella, appunto, per cui si era, sin dall’inizio, avviata la Rivoluzione fascista : creare, dapprima, un Governo forte, per ristabilire le condizioni elementari della vita civile, o la famosa normalità, e af­ frontare la soluzione dei problemi pratici, che non com­ portassero indugi - il che il Regime fece durante 1 eser­ cizio dei pieni poteri -; e poi, in un secondo momento, creare lo Stato forte, e crearlo, senza uscire dalle forme costituzionali vigenti; per mezzo, cioè, degli organi for­ niti da quella stessa costituzione, che si voleva gradual­ mente, ma radicalmente, trasformare. Sta di fatto, però, che per colpa degli avversari del Regime, il passaggio dal primo al secondo di questi due momenti della Rivoluzione avvenne con un ritmo molto.

piu intenso e violento di quello, che è lecito supporre fosse inizialmente intenzione o proposito del Duce della Rivoluzione di imprimergli. Si sa che il primo di questi due momenti era parso a Mussolini totalmente esaurito al chiudersi del primo anno dei pieni poteri concessigli dal Parlamento nel no­ vembre del 1922: vale a dire, al 31 dicembre del 1923. Sulla soglia, infatti, del 1924, il 15 gennaio, inaugu­ rando in Roma i lavori del nuovo anno del Consiglio di Stato, Mussolini constatava con evidente compiaci­ mento: « ...È ben noto quale immane lavoro il Governo ha dovuto compiere nell’anno ora trascorso, per stabilire l ’ordine e la disciplina sociale all’interno, onde costituire un ambiente propizio allo svolgersi delle attività produt­ trici e per sollevare il prestigio dell’Italia all’estero. Esso ha voluto che il ristabilimento pieno dell’autorità dello Stato fosse adcompagnato da una revisione degli istituti amministrativi e giuridici; affinché quello spirito rinno­ vatore che aveva portato il Fascismo al potere si trasfon­ desse in tutto l’ordinamento dello Stato, al quale si è cercato in un anno di dare una organizzazione piu che sia possibile corrispondente alla funzione, che deve com­ piere in questo periodo storico, e alle reali necessità sto­ riche e sociali del Paese. Accanto alla vasta riforma finan­ ziaria, accanto all’opera di semplificazione di tutti gli or­ ganismi centrali, e al nuovo ordinamento burocratico, accanto alla riforma della scuola e a quella giudiziaria, sta l’altra, non meno ampia, e importante, dell’ammini­ strazione degli Enti autarchici... » E pochi giorni dopo, parlando all’Assemblea nazionale del Partito : « I risultati di questo enorme cumulo di ri­ forme, che in sintesi costituiscono una rivoluzione gran­ diosa, si vedranno in tutta la loro plasticità fra qualche tempo... Tutto il ritmo della vita italiana si è accelerato... C ’è qualche cosa in Italia, che è ben morto... ».

Di qui, la convinzione, già prima della fine del 1923, radicatasi nella mente di Mussolini, che il bilancio di un anno di pieni poteri fosse nel suo insieme cosi attivo, da potersi considerare già assolto il compito, in vista del quale il Regime li aveva chiesti e ottenuti, e quindi, fosse non solo inutile, ma dannoso pretenderne la pro­ roga. Sicché, invece di chiedere un prolungamento di poteri, che Egli sapeva gli sarebbero stati senza alcuna resistenza accordati, non soltanto dai rappresentanti del cosiddetto Partito popolare alla Camera, ma dagli stessi socialisti, sciolse improvvisamente la Camera, e convoco i collegi elettorali per le nuove elezioni. Lo scioglimento fu annunciato sul principio di gen­ naio, e i comizi elettorali convocati per il 6 aprile 1924. Alla possibilità di sciogliere la Camera, Mussolini aveva però pensato già da qualche mese, e già dall’aprile del 1923, quando, nell’ambito del Partito, Egli aveva provo­ cata la discussione intorno ad un nuovo sistema elettorale, che, pur consentendo la rappresentanza parlamentare a tutti i Partiti, fosse però congegnato in guisa da garentire la formazione di una salda e compatta maggioranza di Governo e la continuità dell’indirizzo politico consacrato dal suffragio elettorale : al quale scopo Egli aveva anche, ' sin dal luglio, fatto presentare un apposito disegno di legge alla Camera. Il che significa che già sin d’allora Mussolini meditava di avviarsi a sostituire, come base alla propria azione di governo rivoluzionario, all eserci­ zio di pieni poteri concessi da una maggioranza parla­ mentare, composta in massima parte di avversari più o meno dissimulati del Fascismo, l’appoggio incondiziona­ tamente sincero di una maggioranza di seguaci fidati. Quella maggioranza avrebbe dovuto uscire da un complicato congegno di legge elettorale, che prese nome dal suo principale relatore, on. Acerbo, e la cui discussio-

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ne fu alla Camera vivacissima e appassionata, provo- j cando le prime scissioni e polemiche tra Partiti e Gruppi alla Camera, che si erano, sino allora, comportati, di fronte al Governo della Marcia su Roma, in attitudine di alleati o di fiancheggiatori più o meno leali. Furono in grandissima parte favorevoli i liberali : ma si divisero in due opposte correnti prò e contro il Regime i demo­ cratici e i popolari: un gruppetto di questi passò, anzi, insieme con i socialisti e i repubblicani, ad una opposi­ zione astiosa e irriducibile. La riforma elettorale fu approvata alla Camera nella seduta del 21 luglio ’23, con 223 voti favorevoli, di fronte a 123 contrari, e le cifre erano di per sé indizio della difficoltà e asprezza della battaglia... Non è meraviglia però che Mussolini non abbia potuto accingersi alla fatica della lotta elettorale, senza dover vincere una forte repugnanza del suo più intimo e istin­ tivo temperamento : repugnanza tanto più palese, quanto più l’apertura del cosiddetto agone elettorale scatenò, in Italia, le ambizioni degli infiniti postulanti. Per qualche tempo, i Ministeri furono affollati da turbe odiose e mo­ leste di candidati fascisti, filo-fascisti, fiancheggiatori. Del disgusto, che la gazzarra destava neH’animo di Mussolini, è traccia nel breve discorso da Lui pronunciato, il i° febbraio, davanti a circa 3500 ufficiali della Mili­ zia: « ...M olti domandano quale sarà la vostra funzione nel prossimo periodo elettorale. Non vi scaldate troppo per questi ludi. Considerateli come piccole necessità della vita quotidiana. Non dovete correre dietro questo epi­ sodio. Tutto ciò è vecchia Italia, è ancora ancien régime. Tutto ciò deve essere lontano dalle vostre anime, come è lontano dalla mia. E niente è più ridicolo di pensare a un Mussolini che sta faticosamente compilando le liste elettorali. Mi occupo in questi giorni di altri problemi ben più interessanti per la vita e l’avvenire della Nazione, 28

che non sia quello di scegliere coloro, che domani si autoproclameranno i rappresentanti della Nazione... ». ■ La scelta fu fatta, tra una segretezza che non escluse le indiscrezioni, tra il febbraio ed il marzo, da una cosid­ detta Pentarchia, che consenti 1 accesso nel listone della maggioranza governativa a troppi elementi di fede o molto recente o molto dubbia, a troppi sedicenti fian­ cheggiatori, per cui il fiancheggiamento non era che una speculazione. Comunque, la giornata del 6 aprile segnò la vittoria del Fascismo su una multiforme coalizione di avversari irriducibili: una vittoria cosi decisiva, da non dar luogo a dubbi o a riserve in qualsiasi osservatore in buona fede. La lista fascista raccolse quasi cinque milioni di voti, assicurando al Governo, per la realizzazione prossima e remota del suo programma, una maggioranza parla­ mentare, che aveva tutti gli aspetti di una incrollabile solidità: mentre, a rappresentare le minoranze, entrava alla Camera un gruppo ostinato e agguerrito di avversari, tra i quali spiccavano, per i socialisti, il deputato Mat­ teotti, e per i democratici costituzionali, il deputato Amen­ dola. E quella vittoria era stata cosi irrefragabilmente pale­ se, da determinare nei fascisti e in Mussolini 1 impres­ sione, che non vi si potesse, da chiunque ne prendesse atto in buona fede, scorgere se non la testimonianza del con­ senso, con cui la enorme maggioranza del Popolo ita­ liano approvava l ’opera svolta, in un anno di pieni po­ teri, dal Governo posto in essere dalla Marcia su Roma, e perciò la sanzione definitiva per parte del Popolo ita­ liano del processo rivoluzionario con la Marcia su Roma iniziatosi. Sembrò in altri termini, a Mussolini e ai fascisti, che con il responso delle urne nella giornata elettorale del 6 aprile, la Rivoluzione delle Camicie Nere fosse ormai 29

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definitivamente entrata nel secondo momento del suo sviluppo: quello della graduale sistematica realizzazione del proprio programma rivoluzionario, mediante l ’azione del Governo fascista, entro i confini segnati da quelli, che Mussolini considerava pur sempre i muri maestri dello Stato e della sua costituzione. Questo è, infatti, il senso delle parole pronunciate dal Duce, quattro giorni dopo il 6 aprile, di fronte ad una formidabile folla accorsa ad acclamarlo: « ... Questa adu­ nata viene a confermarne molte altre : ieri, attraverso le città della Valle Padana, lungo i piccoli borghi e gli sper­ duti casolari dell’Appennino, nelle città della Toscana, ho sentito il consenso formidabile di quel popolo anonimo, che- è la base granitica della Patria. E il consenso è bal­ zato anche dalla eloquenza grigia, ma solenne e severa, delle cifre delje urne... Quale è il monito imperioso che esce dalla prova di domenica scorsa? Il monito è solenne, ed è questo : bisogna che tutti si arrendano al fatto com­ piuto, perché è irrevocabile... ». N é un senso diverso è a base del primo grande di­ scorso pronunciato da Mussolini di fronte alla nuovissi­ ma Camera, il 7 giugno 1924, diretto a dimostrare la vanità di qualsiasi opposizione, la quale non muovesse dal riconoscimento della irrevocabilità dei fatti compiuti, e a trarre da questa constatazione gli elementi per una pacifica convivenza tra maggioranza e minoranza. La discussione svoltasi nei giorni precedenti alla Ca­ mera sull’indirizzo di risposta al discorso della Corona, a cui avevano largamente partecipato, con segni di pa­ lese e tenacissima incomprensione, oratori della minoran­ za, aveva, infatti, secondo Lui, sovrattutto posti pro­ blemi di ordine psicologico, ossia problemi, che egli chia­ mò di convivenza. « ... Si tratta di sapere, se le nostre reciproche suscetti­ bilità, che sono accesissime - ma questo dimostra che



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c’è stata una Rivoluzione, e che questa continua - per­ metteranno che il Parlamento possa funzionare. Io spero di si, se ognuno di noi si renderà conto della propria personale e politica responsabilità... ». Egli si guardò bene dal contestare all’opposizione il diritto e la possibilità di esistere e di parlare, come tale, nella Camera fascista, e portò lo spirito di convivenza con gli avversari al punto, da suggerire Egli stesso come l’opposizione avrebbe potuto utilmente farsi, in una Ca­ mera, la cui maggioranza era irriducibilmente fascista. «...Voi dovete fare l’opposizione, e la potete fare in due modi: in un modo concreto, in un modo di dettaglio. Vuol dire: voi vedete le leggi, i provvedimenti che pre­ senta il Governo fascista. Se sono buoni, li approvate, se sono cattivi, li respingete o li modificate. Ma potete fare un’altra opposizione: una opposizione di principio, una opposizione di lunga portata verso l’avvenire.^Noi abbiamo vissuto due grandi esperienze storiche: l’espe­ rienza russa e l’esperienza italiana, che hanno dei punti di contatto in ciò: che, piu o meno voracemente, ognuna di queste esperienze ha mangiato 1’ ’89, cioè quella parte di immortali principi, che non si è ritenuta piu adatta all’attuale clima storico. Ebbene: cercate di studiare, voi che fate l’opposizione, se non sia il caso di trarre una sin­ tesi, di non fermarsi eternamente in due posizioni antite­ tiche, di vedere se questa esperienza può essere feconda, vitale, dare una nuova sintesi di vita politica. Questo il compito per una opposizione brillante, che non si abban­ doni ad un meschino pettegolezzo politico, ma che as­ surga qualche volta alla comprensione e alla trattazione dei gravi problemi della storia ». Al quale programma tracciato alla opposizione, Egli contrapponeva il proprio, cioè quello del Governo e della sua maggioranza : « Far funzionare il Parlamento » . pro­ gramma nel quale era implicito l’abbandono dei decreti-

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legge ed il normale controllo della Camera sui bilanci. O nd’egli appassionatamente concludeva : « Ebbene, noi, che ci sentiamo di rappresentare il Popolo italiano, di­ chiariamo che abbiamo il diritto e il dovere... di disperdere le ceneri dei vostri e anche dei nostri rancori, per nutrire con la linfa potente, nel corso degli anni e dei secoli, il corpo augusto e intangibile della Patria... ». E parve realmente che Egli fosse quel giorno riuscito, se non a disarmare radicalmente gli avversari, a placarne l ’ardore del contrasto e dell’antitesi, e a creare nell’aula arroventata di Montecitorio un’atmosfera respirabile di reciproca sopportazione : parve, cioè, che la politica mussoliniana, saldamente imperniata sulla maggioranza par­ lamentare alla Camera e sulla forza spirituale del Partito nel Paese, si avviasse, in un ambiente di generale tempe­ ranza, alla fecondità di ulteriori sviluppi di un processo gradualmente rivoluzionario. Sicché Egli stesso poté, una settimana dopo, affermare, di fronte agli stessi deputati, che avevano ascoltato il discorso del 7, nella seduta della Camera del 13 giugno 1924 : « Sabato, parlando alla Ca­ mera, mi ero messo al di là della maggioranza e della minoranza, mi ero diretto al Paese, mi ero messo in con­ tatto con la Nazione. Le mie parole erano state accolte con soddisfazione vivissima; si era formata una specie di détente nell’Assemblea e un’atmosfera di concordia e di pacificazione nel Paese... lo potevo dire ormai di essere giunto quasi al termine della mia fatica... ». # Era purtroppo una generosa illusione. A queste pa­ role, Egli dovè, infatti, il 13 giugno 1924, far seguire queste altre: « ...e d ecco che il destino, la bestialità e il delitto tentano - non credo in modo irreparabile - di turbare questo processo di ricostruzione morale ».

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Due giorni prima era stato assassinato, in circostanze misteriose, il deputato socialista Matteotti, con un delitto, che sollevò ovunque un grido di indignazione, e che pareva fosse stato concepito e commesso dal più feroce­ mente diabolico tra i nemici del Fascismo e del suo Duce. E, infatti, esso pareva fatto proprio apposta per compro­ mettere alle radici la possibilità di dare al Popolo italiano «quei cinque anni di pace e di fecondo lavoro », che, in un suo discorso del io aprile, il Duce aveva promesso agli Italiani, e del cui prossimo avvento aveva offerto sicura garanzia agli Italiani il successo del suo discorso del 7 giugno alla Camera. Ma, appunto perché nulla dei risultati di questo di­ scorso fosse irreparabilmente compromesso, Egli, che pur sapeva come, dall’n giugno in poi, Fascismo e fascisti fossero bersaglio di una violenta lotta nazionale e inter­ nazionale, e come « il Partito, che raccoglie in Italia il maggior numero di medaglie d ’oro, di combattenti, di decorati, di mutilati, di uomini della cultura e del lavoro, di giovani audaci e puri, venisse quotidianamente mar­ tellato e denunciato come un Partito di criminali», non esitò a confermare solennemente al Senato, nella seduta del 24 giugno, come direttiva generale della sua politica : « raggiungere a qualunque costo, nel rispetto delle leggi, la normalità politica e la pacificazione nazionale, sele­ zionare ed epurare con instancabile, quotidiana vigilanza il Partito, nonché disperdere con la piu grande energia gli estremi residui di una concezione illegalistica inattua­ le e fatale... » Cosi, il giorno dopo, Egli annunciava alla sua maggio­ ranza il suo programma prossimo: « ...n o n far piu de­ creti-legge, rientrare nella legalità assoluta, reprimere 1 il­ legalismo, purificare il Partito... C ’è un programma del primo tempo : la modificazione della compagine del Go­ verno. C ’è un programma del secondo tempo : purifi-

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cazione e selezione del Partito. C e un programma del terzo tempo : fare funzionare gli organi legislativi... ». E alla maggioranza chiedeva : « se un gruppo di mi­ noranza si ritirasse sull’Aventino, dovrebbe bastare que­ sto fatto per mettere in gioco il funzionamento della Ca­ mera?... » La risposta è significativa, perché dimostra come fosse pur sempre tenace in Mussolini la speranza che ogni possibilità di un modus vivendi con le opposizioni non fosse del tutto esclusa: « ...Se la ipotesi piu ottimista si verifica, e le opposizioni sono veramente pensose delle sorti della Patria, e non vogliono spingere le cose sino al punto, in cui l’irreparabile scoppia, come conseguenza fatale, logica; se le opposizioni si renderanno conto di questa loro responsabilità, e ritorneranno alla Camera a darvi la loro opera di critica, di controllo, di opposi­ zione, anche astiosa, anche settaria, anche pregiudiziale, che noi dovremo sopportare, tollerare, qualche volta quasi incoraggiare... allora potremo dire di aver superata la crisi... Siamo disposti... a far funzionare regolarmente il Parlamento, a far rientrare il Fascismo nella legalità, siamo disposti a purificare il Partito, e lo faremo, siamo disposti a seguire una politica di conciliazione nazionale, che ignori il passato, che ignori in tutto le lotté politiche del passato, ma non ci si chieda la rinuncia a quei prin­ cipi, che abbiamo il sacrosanto dovere di difendere a qualunque costo... ». Ancora un mese dopo, il 22 luglio, quando la stampa di opposizione aveva già aperta la lotta senza quartiere contro il Fascismo e la provocazione continua del Paese alla rivolta, Mussolini, pur dichiarando che « indietro non si ritorna », dichiarava di non disperare del tutto della intelligenza e della buona fede degli avversari : « gli even­ ti sono condizionati anche da coloro che ci osteggiano. Una battaglia politica non è un monologo. Le possibilità

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di dare cinque anni di pace e di lavoro al Popolo italiano esistono ancora, ma ciò non dipende soltanto da noi... ». Ma Mussolini si illudeva di nuovo, nel far pur sem­ pre credito di patriottismo e di responsabilità nazionale agli uomini delle opposizioni. °Costoro avevano un programma ben chiaro e preciso. Avevan, cioè, subito dopo l’assassinio Matteotti, creduto di poter trarne finalmente il pretesto, per tentar di « an­ nullare tutto quello che significa, dal punto di vista mo­ rale e politico, il Regime che è uscito dalla rivoluzione dell’ottobre». E perciò avevan risposto al programma di legalità e di pacificazione del Governo fascista, insce­ nando, dal luglio, la secessione parlamentare cosiddetta dell’Aventino, e abusando, con pervicace iattanza, di una libertà di parola e di stampa, ogni giorno più peri­ colosa e lesiva dei piu sacri interessi nazionali, per chie­ dere, e per proprio conto iniziare, il processo alla Marcia su Roma e alla rivoluzione, in nome di una pretesa nor­ malizzazione, dietro cui si nascondeva la speranza di potere agganciare Mussolini, isolare moralmente e mate­ rialmente, disonorandoli, il Fascismo e i fascisti nel Paese, creare una situazione tale, da permettere il ritorno alla paralisi parlamentare, sbarazzarsi con un semplice voto di maggioranza della Camera dei deputati del Governo fascista: come se il Fascismo fosse arrivato per la via or­ dinaria al potere, e questo gli fosse stato dato da un or­ dine del giorno: come se, in altri termini, esso potesse considerare, dopo la Marcia su Roma, il Parlamento, come l’unico ambiente, in cui le situazioni politiche di una Nazione in momenti eccezionali potessero trovare la loro soluzione regolare. Speranza, a cui Mussolini rispose, proclamando, i 29 ottobre, da un balcone del Palazzo comunale di Cremo­ na : « Noi siamo qui per dire che siamo dei soldati fedeli alla consegna, e la consegna ci è stata data dal Re e dalla

Nazione. Solo al Re, solo alla Nazione, noi dobbiamo rendere atto del nostro operato, non a coloro, che ad 1 ogni gesto, ad ogni provvedimento, ad ogni legge, vor­ rebbero intentarci il loro ridicolo processo, mentre sono gli esclusi e i condannati dalla nuova storia... ». Ma è pur vero che dall’intenso, ostinato desiderio, da cui Mussolini era mosso, di evitare, sino a che fosse possibile, la irreparabile rottura con gli avversari, onde evi­ tare al Paese i danni di una lotta civile, derivarono i sei mesi di sosta, o di riordinamento tattico, da Lui imposto, dal luglio al dicembre, al Partito e alla sua Rivoluzione. Per sei mesi, ogni vigore offensivo - quel vigore, che 10 aveva reso irresistibile negli anni tra il 1919 e il 1922 sembrò repentinamente scomparso dal Partito, costretto dalla ferrea volontà del proprio Duce a restar fermo sotto una campagna accanita, incessante, inesauribile, tendente a isolarlo nella coscienza del pubblico con la questione morale, o ad addormentarlo con l’appello alla normaliz­ zazione. In realtà, quella passività era però puramente appa- I rente, e il manganello era, si, « messo in soffitta », ma non per questo i fascisti « messi in pantofole e papalina ». E 11 22 settembre il Duce stesso disse ai fascisti di Ferrara: « Il Fascismo è in piedi, deciso a porgere con animo as­ solutamente sincero l’olivo della pace, deciso anche a snudare la spada, se l’olivo di pace non venisse accolto ». Perché chi continuava pur sempre a trattenere nel fo­ dero quella spada era Mussolini, nell’attesa che quell’uli­ vo di pace fosse finalmente accolto: Mussolini, che, in quei mesi « collaudava » se stesso e il Fascismo « in fatto di pazienza», e parlando P i i novembre alla maggioran­ za parlamentare dell’orribile delitto perpetrato, i i tembre, contro la persona di uno fra i più puri tra i fa­ scisti, Pon. Casalini, diceva di considerarlo come la « pro­ va del fuoco » della disciplina del Partito fascista.

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Il che voleva dire.che Mussolini, in quel tardo autunno del 1924, non riteneva ancora esaurito l’esperimento ini­ ziato da Lui stesso con l’avvento della nuova Camera, e mirante a realizzare il programma rivoluzionano del Fascismo entro i confini di ciò che Egli, il 22 novembre, non esitava a definire'un regime di normalità costituzio­ nale, e a facilitare il quale Egli aveva, un mese prima, presa la iniziativa di affidare ad una Commissione di 15 studiosi, presieduta dal senatore Gentile, l’incarico di studiare le riforme legislative richieste dalla necessita dei tempi. Ma che la pazienza di Mussolini e del Fascismo stesse ormai per toccare il limite estremo, di fronte alla per­ vicace insistenza della campagna avversaria, è evidente in alcuni periodi di un discorso del 5 dicembre in Senato : « Non crediate che il Fascismo sia vicino al tramonto... Quando si dice, si scrive e si proclama che tra Fascismo, Governo fascista e tutto il resto dell’Aventino e delle opposizioni si è creato un abisso incolmabile, allora man­ ca uno dei termini di confronto, manca uno degli ele­ menti della pacificazione. In applicazione di una legge fisica, voi potete influire sul Fascismo stando vicino o dentro al Fascismo : dall’esterno, voi indurrete le molecole di quest’organismo a serrarsi insieme e ad adottare la tattica intransigente, estremista, perché questa è una ra­ gione viva di conservazione». Che era, appunto, ciò che stava per avvenire. Fu, infatti, la irriducibilità dell’opposizione a provo­ care in Mussolini il fallimento di ogni speranza di potere inalveare la Rivoluzione nei solchi della normalità costi­ tuzionale, e la decisione di sferrare il contrattacco. Questa decisione maturò in Lui tra 1 ottobre e il di­ cembre, attraverso le fasi, com’Egli stesso ebbe a dire, di una vasta esperienza umana e, prima di tutto, attra­ verso la esperienza di quel processo di graduale sban-

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damento della maggioranza parlamentare, o fiancheggu trice, che si era iniziato tra i combattenti, al Congresso di Assisi, era continuato tra i liberali al Congresso di Li­ vorno, aveva culminato alla Camera, nella seduta del 16 dicembre, « quando questo processo di erosione toccò ai margini il punto estremo»...: vale a dire, quando il capo dell’esiguo gruppo di deputati liberali di destra, che eran rimasti sino allora fedeli alla maggioranza, on. Salandra, parve unirsi a Orlando e a Giolitti nel tentativo di rovesciare, alla Camera, con un voto di sfiducia par­ lamentare, il Governo fascista, mentre la campagna di stampa, guidata, a Milano, sul Corriere della Sera, dal senatore Albertini, e a Roma, sul Mondo, dal deputato Amendola, toccava il diapason di una estrema violenza, provocando, negli ultimi mesi del 1924, qualche defezio­ ne nelle file stesse dei gregari del Partito: onde, qualche mese dopo, l’amarezza dell’accenno all’esperienza di vita fatta da Mussolini in quei mesi: « come, per sentire le tempre di certi metalli, bisogna batterli con un martel­ letto, cosi ho sentita la tempra di certi uomini... ». Senonchè, accanto a questa, anche un’altra esperienza aveva in quegli stessi mesi, potuto fare Mussolini : quella della inalterabile, granitica fedeltà delle masse a Lui e al Fascismo. « Io ho saggiato il Partito » dirà piu tardi « e la prova era riuscita positiva nei rapporti della grande folla ano­ nima dei gregari... ». Che se c’eran frequenti, qua e là, entro le file del Fascismo di molte città, dissensi, contra­ sti, beghe, ad arte sfruttate ed inasprite dagli avversari, esse non interessavano minimamente le masse. « Nel settembre le moltitudini di Ferrara, Ravenna, Vi­ cenza, Bergamo, Lodi, Gallarate, Busto, Milano mostra­ rono che l’altro protagonista del dramma - il coro onni­ presente, anche quando tace - non si era allontanato dal Fascismo: parlo del vasto popolo italiano».

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Che perciò, il Fascismo, o, meglio, il Partito fascista fosse in via di disfacimento era una pura e semplice il usione degli avversari, in parte ispirata dalla sporadica fre­ quenza di un certo apparente dissidentismo interno, ma sovrattutto determinata dalla pazienza, con cui il Partito sembrava disposto a subirne gli attacchi. G li avversari non capivano che quella pazienza non aveva che una causa: la volontà di Mussolini di condurre sino al li­ mite estremo l’esperimento della normalizzazione. Appunto ai fini di questa normalizzazione, Egli si osti­ nava a « comprimere, a castigare » il Partito. Ci era voluto, infatti, tra il 17 e il 18 dicembre, tutta la energia di Mussolini, per costringere la maggioranza fascista ad accettare le dimissioni dell’on. Giunta, Vice presidente della Camera, contro cui era stata chiesta au­ torizzazione a procedere per una aggressione ai danni di un antifascista calunniatore del Regime, e sovrattutto per indurla a subire la prova suprema di normalizzazione, repentinamente impostale nella seduta del 20 dicembre. Il 20 dicembre Mussolini, tra la più viva sorpresa del­ la sua stessa maggioranza, presentava improvvisamente alla Camera un disegno di legge elettorale, implicante il ritorno al sistema del collegio uninominale, esprimendo il desiderio che se ne iniziasse la discussione il prossimo 3 gennaio. _ . , « Occorreva » dirà fra poche settimane Egli stesso, « che io mi dimostrassi pronto alla rinuncia al mio bottino elet­ torale, e quindi disposto a ritentare, presto, o tardi, o tar­ dissimo, la prova». Al che si rispose dagli avversari con un’accentuazione della campagna, esplicitamente mirante a presentare il Fascismo come un’orda di briganti, e inscenando a que stione morale. La verità è che la bomba, come la chiamerà Egli stes­ so, gettata da Mussolini il 20 dicembre nell’aula di Mon-

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tecitorio, era destinata a precipitare la situazione verso i la crisi definitiva. Gli oppositori videro che la battaglia veniva improvvisamente spostata, dal terreno, sul quale essi avevano tentato di inchiodarla, cioè il terreno mo­ rale-giudiziario, su un terreno squisitamente politico. L ’al larme fu acuto. L ’opinione pubblica veniva violentemen- r te distratta verso altri obiettivi: un nuovo stato d’animo, il caratteristico stato d’animo elettorale, spuntava. L ’A- I ventino, che correva pericolo di sfondamento sul terreno di. politico, tentò la sua disperata diversione giudiziario-mo- j rale, gettando in pasto all’opinione pubblica il memoriale | Rossi. Fine veramente grigia del 1924, in cui si ebbe per uri | istante la sensazione che i nemici della Nazione stessero a per toccare la meta. I Chi viveva, in quegli estremi giorni dell’anno a Roma, nell’ambiente avvelenato dei cosi detti circoli politici, potè [ illudersi che il Fascismo fosse finalmente isolato. Già si t parlava di dirpissioni del Governo e di un Ministero Salandra-Giolitti, e si preparavano le liste dei nuovi miJ nistri. Nello stesso tempo, nell’incertezza tuttavia regnante sui, veri propositi del Duce, cresceva tra i fascisti il numero di coloro, che già meditavano di rompere la consegna, e | di salvare la Rivoluzione con le armi. «... Il Partito » narrerà, tra un mese, il Duce « avverte il pericolo, e tenta spezzare con una insurrezione di mas­ se limitate a sole devastazioni, senza spargimento di san­ gue, e comunque rapidamente contenuto dal Governo, il cerchio infausto ». Erano i prodromi della reazione, che già fremeva in yl ogni città d’Italia, nell’anima popolare, e sarebbe scop­ piata domani violentissima e inesorabile, se il Fascismo 1 fosse stato abbandonato a se stesso. Ma questo domani non venne. 40

Non venne, perché il Duce aveva per suo conto già deciso. Dal Consiglio dei ministri del 31 dicembre usci, anziché l’annuncio delle dimissioni del Governo, l’an­ nuncio di misure di estremo rigore contro la stampa. E non passarono, tre giorni, che il Duce, da quella stessa Camera, che avrebbe dovuto assistere alla sua caduta, sferrò il contrattacco travolgente e inesorabile. La Rivoluzione, dopo la sosta dal luglio al dicembre, stava per entrare nel suo secondo tempo. Nessuna me­ raviglia che si preparasse ad entrarvi, riattaccandosi al primo.

V IL S E C O N D O T E M P O D E L L A R IV O L U ZIO N E : L A T R A S F O R M A Z IO N E D E L L O S T A T O IT A L IA ­ N O D A S T A T O D E M O C R A T IC O L IB E R A L E IN S T A T O T O T A L IT A R IO F A S C IS T A (Dal discorso del 3 gennaio 1929-VII al Plebiscito fascista del 24 marzo ig2C)-VII) p r e s e n t im e n t o consapevole del valore storicamente risolutivo, che, nello sviluppo della Rivoluzione fasci­ sta, era destinato ad avere il discorso del 3 gennaio 1925, appare nettissimo nei primi periodi pronunciati, quel gior­ no, da Mussolini, alla Camera : « Il discorso, che io sto per pronunciare dinanzi a voi, forse non potrà essere a rigore di termini classificato come un discorso parlamen­ tare. Può darsi che alla fine si trovi che questo discorso si riallaccia, sia pure a traverso il varco del tempo, a quello che io stesso pronunciai in quest’aula, il 16 no­ vembre. U n discorso siffatto può condurre, e può anche non condurre, ad un voto politico. Si sappia ad ogni mo­ do che io non cerco questo voto politico. Non lo desidero. N e ho avuti troppi... ». Mussolini intendeva dire che di un tal voto Egli non sentiva alcun bisogno, perché quel discorso era, come era stato il discorso del 16 novembre 1922, un discorso pret­ tamente rivoluzionario : perché, in altri termini, anche questa volta, come già una prima volta nel novembre del 1922, Egli parlava, non in nome della tradizione par-

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lamentare, ma in nome della rivoluzione antiparlamen­ tare. Quel richiamo al discorso del 16 novembre 1922 signifi­ cava, dunque, questo: che quel cerchio infausto, entro le spire della cui drammatica antitesi, la faziosità sediziosa dell’Aventino si sforzava, da oltre sei mesi, di immobiliz­ zare la vita italiana, Mussolini interveniva ora personal­ mente a spezzarlo, impegnando la battaglia sullo stesso terreno, prescelto dagli avversari, ma prendendo Egli la iniziativa delle operazioni, con pochi periodi, i quali eb­ bero da soli la efficacia di far riprendere in pieno alla Rivoluzione, ponendo repentinamente fine alla sosta, la sua avanzata irresistibile. Tutta la forza risolutiva del discorso del 3 gennaio sta­ va, invero, nel colpo mortale, che con la magnanima sfida implicita nelle parole : « Domando formalmente se, in questa Camera e fuori di questa Camera, c’è qualcuno che si voglia valere dell’art. 47 dello Statuto », Mussolini recava alla famosa questione morale, sin dal giugno in­ scenata, alla Camera e nel Paese, dagli avversari del Fa­ scismo, per coprire, dietro di essa, la lotta politica contro la Rivoluzione, e portata proprio in quei giorni, col lan­ cio del memoriale Rossi, all’estremo della violenza pro­ vocatoria. « ... Quali farfalle andiamo a cercare sotto l’arco di T i­ to?... Ebbene, io dichiaro qui, al cospetto di questa A s­ semblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che as­ sumo io solo la responsabilità morale e politica e storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno stor­ piate bastano a impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda!... Se il Fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una superba passione di tutta la migliore gioventù italiana, a me la colpa. Se il Fasci­ smo è stato una associazione a delinquere, se tutte le vio­ lenze sono state il risultato di un determinato clima sto­

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rico, politico, morale, a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico, morale, io l ’ho crea­ to, con una propaganda che va dall’intervento ad oggi... ». Fu sovrattuto in virtù di questa eroica assunzione di responsabilità integrale di tutto quanto era in Italia av­ venuto, prima e dopo la Marcia su Roma, per parte di Mussolini, che il discorso del 3 gennaio apparve subito « come una folata di vento che rischiara di colpo l’atmo­ sfera », e che, non appena esso fu pronunciato, si vide il Fascismo riprendere in pieno, pure nella disciplina del­ l’ordine imposto dalla Rivoluzione ai suoi stessi gregari, la sua intransigente bellicosità, e le Legioni delle Ca­ micie Nere, maceratesi nel tormento della lunga attesa, balzare in piedi come al suono di una fanfara. Le parole del Duce avevano, in un solo attimo, restituito a tutto il Fascismo l’orgoglio delle proprie origini e della propria meta. Immediata conseguenza di ciò : il rapido abbandono, per parte degli avversari, del terreno morale, su cui essi avevano a lungo preteso di aggrapparsi e di trascinarvi la Nazione, e il loro non meno rapido ripiegamento sul terreno politico: quel terreno politico, nel quale qualche estrema speranza di successo sembrava ad essi suggerire, cosi il deciso atteggiamento di opposizione ormai assunto dai tre ex Presidenti del Consiglio, Orlando, Salandra, Giolitti, alla Camera, che la freddezza o repugnanza, con cui molti elementi della maggioranza fascista avevano ac­ colto il progetto di riforma elettorale sulla base del col­ legio uninominale. Chè se, a proposito del singolare collaudo, a cui la so­ lidità della maggioranza fascista era stata sottoposta con la inattesa e inopinata presentazione della riforma elet­ torale, il primo a riconoscere che si era avvertito qualche segno di stordimento, sarà, nel successivo febbraio, lo stesso Mussolini, sta di fatto che le dissidenze avevan su­

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bito taciuto, e l’equilibrio si era immediatame posto: sicché mai al mondo « una maggiora mentare, composta in gran parte di sensibili'e nali, come quella fascista, diede altrettanto c disciplina... ». Lo diede nella seduta del 17 gennaio 1925, quando essa, approvando con voto pressoché unanime la riforma elet­ torale, chiuse con la Vittoria del Governo la operazione strategica, che il Governo aveva aperto, presentando quel­ la riforma, il 20 dicembre. Operazione strategica, ai fini della quale il discorso del 3 gennaio assume importanza e valore di episodio saliente, confermando in Mussolini il possesso di quella dote, che è 1’« essenziale di ogni strategia », vale a dire al’attitudine alla uscita in tempo.. . ». Perché quel discorso fu pronunciato proprio il 3 gen­ naio 1925, e non qualche giorno prima, o qualche giorno dopo?... A questa domanda, che fu posta, e contempo­ raneamente agli avvenimenti, e dopo di essi, da molti, Mussolini rispose, con un articolo della fine d’ottobre ’25, in Gerarchia, molto semplicemente: « Perché solo nel­ l’ultima decade di dicembre si realizzarono le condizioni necessarie e sufficienti per incominciare la controffensi­ va ». « In questi ultimi giorni », si legge nel discorso del 3 gennaio, « non solo i fascisti, ma molti cittadini si doman­ dano: V ’è un Governo?... Questi uomini hanno una di­ gnità come uomini? N e hanno una come Governo? » Domanda senza dubbio grave : « perché un Popolo non rispetta un Governo che si lascia vilipendere... » Era proprio questo il momento, che Mussolini atten­ deva per muovere alla controffensiva. « Sono stato io, che ho voluto che le cose giungessero a questo determinato punto estremo. » A l punto, cioè, in cui rivelandosi, anche nelle sue conseguenze o ripercussioni cruente, in tutto il

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Paese, lo sfondo repubblicano della sedizione aventinia­ n i fosse, più che il Governo, la opinione pubblica, a gri­ dare « basta, la misura è colma... Quando due elementi sono in lotta, e sono irriducibili, la soluzione è nella for­ za. Non c’è stata altra soluzione nella storia, e non ci sarà mai... ». E della controffensiva l’esito era certo a priori, trovan­ dosi, tra i due elementi in lotta, la vera forza, che è sempre la forza della volontà, e che implica la risoluzione di vincere a qualunque costo, anche a costo di uccidere o di morire, da una parte sola. « ... Quando », dirà Mussoli­ ni il 23 marzo 1925, celebrando il settimo anniversario dei Fasci « ho creduto che la misura fosse colma, e lo era, ho detto basta, e in poche ore la situazione fu vera­ mente chiarita, e delle opposizioni non è rimasta che pol­ vere vile » : la situazione fu chiarita, proprio come Mus­ solini aveva preannunciato alla Camera, chiudendo il di­ scorso del 3 gennaio, « su tutta la linea, nelle 24 ore successive... ». Fulminea e integrale vittoria, di cui, come Colui, che la guidò e la vinse, dirà, sulla fine di ottobre di quello stesso anno, rievocandone i momenti e le fasi, « il merito va alle masse rurali del Fascismo, che non si sbandaro­ no, a me, che rimasi tranquillo al mio posto nell’imperversare delle molte bufere, e al Popolo italiano, che non fu dimentico del passato e non disperò dell’avvenire)), ossia, che fu possibile, perché, come Egli stesso aveva già detto sin dal febbraio, « il famoso Paese e i non meno famosi 39 milioni di Italiani, inventati da me e mono­ polizzati dall’Aventino, non si sono mossi, non hanno levato nemmeno un dito a protestare, non ci sono stati disordini e rivolte... », anzi, al contrario, « le masse pro­ fonde del Popolo italiano hanno gioito di questo ritorno alla maniera forte, perché il Popolo italiano, come tutti i popoli ricchi di fermenti estetici, ama le figure nette e

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definitive; ama una continuità nello stile: un Mussolini, che si contaminasse nel trasformismo, non sarebbe piu nelle simpatie del Popolo italiano, il quale esige coe­ renze fondamentali in coloro, che pretendono di gui­ darlo... ». * Massima prova di ciò, due fatti : che pochi atti di ener­ gica discrezionalità del potere esecutivo, quali la pres­ sione su taluni giornali, la chiusura di qualche decina di circoli noti per le loro finalità sovversive e il fermo su qualche agitatore fanatico, bastassero a ristabilire 1 equi­ librio morale, che la provocazione antifascista aveva gra­ vemente offeso e turbato, e a troncare alla radice ogni conato o minaccia di guerra civile in Italia, e che, dopo d 3 gennaio e il bando lanciato a tutti 1 vecchi Partiti italiani, anziché il fenomeno d un diradamento dei vecchi gregari del Partito, si sia avuto una ondata di nuovi con­ sensi al Regime. Chè se, « testardo nello sperare come tutti i disperati », l’Aventino si ostinò a calcolare sulle opposizioni del Se­ nato, anche qui lo attendeva la piu amara delle delu­ sioni, quando si seppe che, dopo tre giorni di discussio­ ne, nella seduta del 24 febbraio 1925, opposizioni, con­ tandosi proprio sul terreno della legge elettorale, non avevan raggiunto che la cifra di 58 contro 244 voti fa­ vorevoli al Governo. Onde, proprio come era accaduto dopo il discorso anti­ parlamentare e rivoluzionano del 16 novembre, anche il discorso antiparlamentare e rivoluzionario del 3 gennaio, risolventesi in una esplicita sfida del Governo al Parla­ mento, sboccava in una clamorosa manifestazione di rin­ novata adesione del Parlamento al Governo. Ben a ragione, quindi, potrà, a distanza di un mese,

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Mussolini constatare come « tutte le previsioni dell’Aventino sono state rigorosamente smentite dai fatti». Le cose andarono, insomma, in senso opposto a quello, in cui il cieco settarismo dell’Aventino si era immaginato che dovessero andare. Non si ebbero, in seguito alla cam­ pagna antifascista del ’24 e alla controffensiva del 3 gen­ naio ’25, né lo sfacelo del Partito fascista, né il tracollo del Fascismo mussoliniano. A l contrario: dalla campagna dell’estate ’24 e dal discorso del 3 gennaio ’25, mentre, la disciplina unitaria del Partito usci cosi rafforzata, da esser diventata infrangibile, il fascino che, sin dai pri­ mordi del Fascismo, la personalità di Mussolini aveva esercitato sulle folle italiane, guadagnò l ’efficacia religiosa di una vera e propria provvidenzialità di Colui, che le folle, già sugli inizi del ’25, subito dopo il discorso del 3 gennaio, consideravano, con unanime sentimento, come il Duce dato da Dio all’Italia, e che, dalla fine del 1925 in poi, ne dominerà sempre piu incontrastato la fantasia. Mito, a far sorgere il quale contribuirono certo non pa­ co il fatto dell’essere Mussolini miracolosamente scampato a ciascuno dei ben quattro attentati, che nel giro di un solo anno, tra il novembre del ’25 e l ’ottobre del ’26, furon tramati ed effettuati contro la sua persona, e le cir- | costanze di tempo e di luogo, che ciascuno di questi at- 1 tentati avevano preceduto e accompagnato; ma che, pur prescindendo da ciò, sarebbe ugualmente sorto dalla sua strenua volontà di resistere e di durare, dal suo indomito coraggio nell’assumere tutte le responsabilità, dalla fondamentale coerenza di tutta la sua attività politica, dalla granitica inflessibilità della sua fede in se stesso e nel­ l’avvenire dell’Italia; sovrattutto dalla consapevolezza, re­ sasi in Lui sempre piu nettamente e chiaramente esplici­ ta, di essere nato con una missione da assolvere: consape­ volezza, di cui la piu eloquente espressione è forse da scorgere nei periodi pronunciati da Mussolini, il 9 di-

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cembre ’28, nell’ultima seduta della 27a Legislatura della Camera dei Deputati: «Talvolta, quando mi accade di riflettere sulla vicenda abbastanza singolare della mia vi­ ta, io levo una preghiera all’Onnipotente che Egli non voglia chiudere la mia giornata, prima che i miei occhi abbiano visto la nuova, più luminosa grandezza sulla terra e sui mari dell’Italia fascista »; o in quest’altri, con cui Egli, con austera serenità di eloquio, come se facesse una constatazione di carattere scientifico, chiuse il di­ scorso dell’Ascensione: « Mi sono convinto che, malgra­ do ci sia una classe dirigente in formazione, malgrado ci sia una disciplina di popolo, sempre più consapevole, io debba assumermi il compito di governare la Nazione italiana ancora da 10 a 15 anni. È necessario... Perché? È una libidine di potere che mi tiene?... Credo che nessun italiano pensi questo... È un dovere preciso verso la Ri­ voluzione e verso l’Italia». Appunto per questa consapevolezza di una missione da assolvere, apparve ben presto cosi chiara e precisa, nella vocazione al comando di Mussolini, la certezza di incon­ trare pronta e incondizionata obbedienza. Chè se la in­ differenza tranquilla, con cui, sulla fine del ’24, Egli si dispose repentinamente a « strangolare la sua creatura del 6 aprile » e a « gettare nella tormenta elettorale gli uo­ mini della sua maggioranza », era potuta ad avversari ed estranei apparire crudelmente cinica, gli era stato facile rispondere che, con la presentazione della riforma eletto­ rale, assai piu che compiere un attentato alla sua mag­ gioranza, aveva inteso fare un esperimento della sua ca­ pacità di rispondenza alla funzione, che essa maggioranza era chiamata ad assolvere, e che era di servire, non di fine, ma- di mezzo al Fascismo: « ... Si dimentica che la maggioranza è un mezzo, non un fine di Governo; ... la maggioranza è stata compatta, anche nella eventualità del sacrificio supremo, come la falange di Tebe ».

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Sicché non ci sorprende di avvertire nel linguaggio con cui, un mese dopo il 3 gennaio, Mussolini, rievocando la j battaglia, che aveva posto fine alla sosta della Rivoluzio­ ne, espresse il proprio elogio ai gregari del Partito, il to­ no stesso, con cui un generale, raccogliendo a rapporto i propri soldati, li loda per la devozione, con cui essi gli hanno procurato la vittoria contro il nemico: « Quando io penso alle molte e varie prove che io ho imposto ai j miei gregari in questi cinque anni di dure battaglie, e specie in questi ultimi mesi, le amarezze per i tradimenti inevitabili e le umane fragilità della carne e la mala fede abbietta di molti avversari dileguano, e resta l’orgoglio e l’umanità del Capo, che obbedisce ed è obbedito, se­ condo la legge immutabile della guerra, che io condurrò strenuamente, per fasi più o meno previste e imprevedi­ bili, sino alla totale vittoria». # «

Quale fosse realmente la fase, di cui il discorso del 3 gennaio aveva segnato l’inizio, lo disse con inequivocabi­ le chiarezza lo stesso Mussolini, prima anche che l ’anno si chiudesse, in un articolo della fine di ottobre, in cui, Egli, non esitando a farsi quasi storico di se stesso, espo­ se in rapida sintesi le circostanze ed i risultati della bat­ taglia da Lui sostenuta e vinta tra il giugno ’24 e il gen­ naio ’25: «... Errano coloro, che alla data del 3 gennaio 1925 vorrebbero stabilire l’inizio della Rivoluzione fa­ scista: equivale a confondere il 18 brumaio coll’ ’89. La Rivoluzione francese comincia con la convocazione degli Stati generali, e si riprende con il colpo di Stato SieyèsBonaparte. Cosi la Rivoluzione fascista comincia nell’ot­ tobre 1922: fissa gli elementi irrevocabili del suo successo e del suo sviluppo nel gennaio del 1923, con la creazione della Milizia, l ’istituzione del Gran Consiglio e l’espul­

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sione dei vecchi Partiti, nessuno escluso, dalla vita poli­ tica italiana. Contìnua per tutto il 1923 coi pieni poteri... Ha una sosta nel secondo semestre del 1924. Riprende in pieno all’inizio del 1925». Cosi dopo ben dieci anni, nella prefazione, che Musso­ lini detterà, nel novembre del 1933, per il volume conte­ nente la raccolta delle decisioni del Gran Consiglio del Fascismo nei primi dieci anni di vita del Regime : « Tutte le grandi istituzioni del Regime sono sorte dal Gran Con­ siglio. In primo luogo la Milizia... La notte del gennaio 1923, durante la quale fu creata la Milizia, segna la con­ danna a morte del vecchio Stato demoliberale, cioè del suo gioco costituzionale, che consisteva nella vicenda dei Partiti al Governo della Nazione. Da' allora il vecchio Stato demoliberale non fece che attendere di essere sepol­ to: il che accadde con tutti gli onori il 3 gennaio 1925. Lo Stato liberale era ammalato da almeno trentanni, cioè dall’apparizione dei diversi socialismi. La sua agonia è stata relativamente breve». Questa agonia duro, infatti, poco piu di due anni, dal 22 ottobre 1922 al 3 gennaio 1925 : vale a dire, dal momento in cui, con la Marcia su Roma, il Partito fascista cominciò ad esercitare, in nome della Rivoluzione, la propria dittatura sullo Stato demo­ cratico liberale, al momento in cui la Rivoluzione fascista iniziò il processo di radicale trasformazione dello Stato democratico liberale in Stato fascista corporativo. Sicché è da dirsi che il miglior commento al discorso del 3 gennaio è forse quello offertoci dalle parole, che, men che tre mesi più tardi, Mussolini lancio ad una ster­ minata folla accorsa, il 23 marzo 1925, acclamarlo sotto i balconi di Palazzo Venezia : « ... Voglio dirvi, io, che siamo in primavera, ed ora viene il bello... Il bello per me e per voi è la ripresa totale e integrale della azione fascista, sempre e dovunque e contro chiunque... ». Che cosa Egli intendesse dire con questo annuncio

del bello, lo si capi subito dopo, già nel mese successivo, quando si vide il Gran Consiglio affrontare, in una me­ morabile sessione dei suoi lavori, quella dell’aprile ’25, oltre l ’esame della situazione del Partito, nella vigorosa ripresa di energie dovunque in atto, il problema sinda­ cale corporativo, quello delle riforme costituzionali, quel­ lo dell’Italia meridionale, quello della bonifica integrale, mentre il Duce chiamava uomini in gran parte nuovi a collaborare con Lui al Governo. Ma sovrattutto lo si vide verso la line di giugno, e precisamente la sera del 22, quando Mussolini chiuse i lavori del Congresso nazionale del Partito, con un di­ scorso, che apparve immediatamente, e appare tuttora, a tanta distanza di anni, tra i piu fondamentali e essen­ ziali, per comprendere la sostanza etica e il valore poli­ tico del pensiero e della prassi fascista, fra quanti il Duce ebbe mai a pronunciarne. Con questo discorso il Fascismo entrava decisamente, senza riserve, senza compromessi di nessun genere col passato remoto o recente della vita italiana, nella grande via della Rivoluzione, affermando in faccia all’Italia e al mondo il suo orgoglioso proposito di « cambiare la faccia fisica e i connotati morali agli Italiani », e la sua certezza di possedere forza sufficiente a realizzarlo. Fu, infatti, in quel discorso che Mussolini osò esporre senza alcun velo la vera ed essenziale finalità del Fa­ scismo : la trasformazione radicale della coscienza morale e politica degli Italiani in una coscienza cosi granitica­ mente unitaria, da ridursi a coscienza totalitaria : « voglia­ mo fascistizzare la Nazione, tanto che domani italiano e fascista, come press’a poco italiano e cattolico, siano la stessa cosa... Il Fascismo deve diventare un modo di vita. V i devono essere degli Italiani del Fascismo, come vi sono gli Italiani della Rinascenza e della Latinità... ». Deve,

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insomma, dalla Rivoluzione fascista uscire Vo: vale a dire, una nuova generazione di nerazione modellata dal Fascismo. Sicché non sorprende di vedere per la prima volta annunciata da Mussolini, nel discorso del 22 giugno, an­ che la vera meta di questa agognata e voluta trasforma­ zione morale e politica degli Italiani, nella creazione DELL’Impero, la cui concezione è qui definita come «la base della nostra dottrina». « ...Talvolta mi sorride l’idea delle generazioni di la­ boratorio: creare la classe dei guerrieri, che è sempre pronta a morire; la classe degli inventori, che persegue il segreto del mistero; la classe dei giudici, la classe dei grandi capitani d’industria, la classe dei grandi gover­ natori... È attraverso questa selezione metodica, che si creano le grandi categorie, le quali a loro volta creeran­ no l’Impero... Certo questo sogno è superbo, ma io vedo che sta a poco a poco diventando una realta... » Stava diventando una realtà, merce la forza insita nel Fascismo, non di rinnegare il passato, ma di superarlo, in una nuova visione integrale della vita, che non annul­ la, ma potenzia, per quel tanto di vitale che era in essi, eliminandone le deficienze, i valori delle visioni prece­ denti : la forza, in altri termini, di potenziare, nella disciplina dello Stato, la libertà degli individui, che era stata la conquista del piu recente passato. Di qui, appunto, per poter potenziare la libertà degli individui nella disciplina dello Stato, la necessita non tanto di riformare, quanto di superare lo Statuto libe­ rale, affermata, nel discorso del 22 giugno ’25, con una energia, che basta a documentare come il passaggio dal primo al secondo momento della Rivoluzione fosse, già nel gennaio del 1925, piu che maturo nella mente di Mussolini. Come già, insomma, nel 1848, le istituzioni assolu-

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tiste della Monarchia sabauda, mediante la concessione j dello Statuto, si uniformarono al liberalismo, per fare, j secondo l’esigenza del Risorgimento, L' Italia indipendente ed una; cosi oggi le istituzioni liberali della Monarchia sabauda si sono uniformate, mediante il superamento dello Statuto liberale, al Fascismo, per dare, secondo le esigenze di questo, forza e potenza all’Italia indipen­ dente ed una: si sono, cioè, ancora una volta, unifor­ mate alle esigenze del momento storico vissuto dalla Nazione. Le quali sono oggi, ai fini, non della indipen­ denza e della unità, ma della forza e della potenza, so­ stanzialmente due: domare la tirannide del parlamen­ tarismo; portare al primo piano dell’organizzazione sta­ tale il potere esecutivo. Programma, per realizzare il quale, il discorso del 22 giugno 1925 additava due parole d’ordine: la prima: intransigenza assoluta ideale e pratica', la seconda: tutto il potere a tutto il Fascismo. Il che equivaleva a dire che tra il primo e il secondo momento della Rivoluzione la differenza non era nella meta, che era sempre la stessa, la instaurazione dello Stato fascista al posto dello Stato liberale, ma nel me­ todo adottato per raggiungerlo. A lla transigenza, risolventesi nella collaborazione con gli altri Partiti nel Go­ verno dello Stato, era sostituita la intransigenza, vale a dire la esclusione di tutti gli altri Partiti dal Governo dello Stato. # Indizio palese di questo nuovo metodo della Rivolu­ zione si era già avuto a poche settimane di distanza dal 3 gennaio, quando la Commissione cosiddetta dei 15 Solom, nominata sin dall’ottobre del 1924; dal Partito, con 1in­ carico di studiare, senza tema di apparire troppo audace, ì

sia nel conservare sia nell 'in n ov a re, le riforme legislative richieste dalle esigenze dei tempi, diventò, il 31 gennaio 1925, C o m m issio n e g ov ern a tiv a , con decreto del Presiden­ te del Consiglio dei Ministri, che ne portò il numero dei membri a 18, investendola del mandato ufficiale « di stu­ diare i problemi oggi presenti alla coscienza nazionale e attinenti ai rapporti fondamentali tra lo Stato e tutte le forze, che esso deve contenere e garentire, e di pre­ sentarle al Governo del Re, onde possano essere pro­ poste al Parlamento le opportune riforme... ». La Commissione, sempre presieduta dal senatore Gen­ tile, non perdette il suo tempo, sicché, nell’ultima se­ duta della sessione di aprile del 1925 del Gran Consiglio, il 30 aprile, essa era già in grado di presentargli « le basi delle riforme costituzionali, soffermandosi specialmente sui compiti spettanti alle sottocommissioni e sui rapporti tra i Sindacati e lo Stato », di che il Gran Consiglio si compiacque di prendere atto, con la formale promessa che, entro il maggio, tutto il lavoro della Commissione sarebbe stato presentato al suo esame. Il quale si iniziò la sera del 6 ottobre i 9 25 > seconda se' duta della sessione autunnale del Gran Consiglio, e con­ tinuò nelle successive sedute del 7 e dell 8, avendo ad oggetto « le Corporazioni e le riforme politiche dello Stato e dirigendosi sovrattutto sulle proposte della Com- > missione relativamente alla istituzione di un Dicastero della Presidenza, al riconoscimento giuridico dei Sin­ dacati, alla Magistratura del Lavoro, alla riforma del Senato, all’ordinamento corporativo dello Stato e alla rappresentanza corporativa ». Anche prima, però, che il Gran Consiglio si riunisse per la sessione di ottobre, e già sin dalla seconda meta di maggio 1925, il Governo fascista aveva deciso di dare senz’altro attuazione ad una delle proposte della Com ­ missione dei 18, stralciandola, per cosi dire, dall insieme

delle riforme costituzionali, e facendone argomento di una legge, che, già, nella seduta del 17 maggio 1925, era stata approvata dalla Camera dei Deputati: la cosid­ detta Legge contro le società segrete, mirante ad affer­ mare la illecita giuridica di ogni forma o specie di asso­ ciazione segreta, e quindi a mettere nell’Italia fascista la massoneria fuori della legge. Ma è evidente come, per una proposta di tal sorta, non fosse necessario attendere un ampio e particolareggiato esame per parte del Gran Consiglio, dato che essa non faceva che realizzare un antico voto del Gran Consiglio, risalente al 1923, e dato sovrattutto che la sua presenta­ zione al voto del Parlamento per parte del Governo fa­ scista rappresentava, agli occhi di Mussolini, la piu elo­ quente testimonianza della coerenza fondamentale della sua vita, risalendo la sua radicale avversione alla Masso­ neria ai giorni, quando Egli ispirava le sorti dell’ala rivoluzionaria del socialismo italiano, e quindi ai pri­ mordi stessi'del Fascismo, come Egli tenne esplicitamente ad affermare alla Camera, nella seduta del 16 maggio, e ripetè qualche mese dopo al Senato, allorché, il 20 no­ vembre 1925, lo stesso disegno di legge affrontò il voto del secondo ramo del Parlamento e l ’opposizione di un esiguo, ma tenace gruppo di senatori, cui il pregiudizio settario e politico rendeva insensibili alla reazione susci­ tata nell’opinione pubblica dalla provata ingerenza della Massoneria nel recente attentato del 5 novembre al Capo del Governo. « ... Il Fascismo » disse quel giorno Mus­ solini al Senato « ha impegnato, secondo le buone regole, le sue battaglie a scaglioni. Prima, ha demolito il bolsce­ vismo, poi ha affrontato la massoneria, finalmente il regime demoliberale. » L o affrontava, il regime demoliberale, appunto con la serie di rijorme decisive, che, con la soppressione della Massoneria, si iniziò nell’ autunno del 1925, destinate,

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come si legge nel Messaggio agli Italiani del 28 ' a « cambiare fìsonomia allo Stato », vale a dire. con. la completa trasformazione dello Stato italiano," tife, co­ me ebbe a dichiarare alla Camera, il 13 maggio 1926, il guardasigilli Alfredo Rocco, che ebbe la ventura d’esserne tra i massimi ispiratori e legislatori, non ha investito solamente gli aspetti esterni degli istituti giuridici, ma ne ha contemporaneamente investito lo spirito ed il modo di applicazione, essendo la crisi di indebolimento dell’autorità statale dovuta, ben piu che a cause contin­ genti o a colpe di uomini, all’esaurimento storico di isti­ tuzioni politiche fondamentali... Trasformazione, la quale avvenne, proprio come ave­ va detto il Duce nel suo discorso al Senato sulle società segrete, a scaglioni. Anche in ciò, infatti, il Fascismo ha rivelato quel mirabile equilibrio di ardimento e di prudenza, che ne costituisce la nota piu caratteristica e forma il segreto dei suoi successi. Il Regime pensò, innanzi tutto, e preliminarmente, a esercitare quello, che Mussolini definì, nel discorso del 20 novembre 1925 al Senato, diritto di ogni Regime : «darsi le leggi che lo difendano». E perciò incomincio con Varmare lo Stato : vale a dire, col dotare lo Stato di tutti i mezzi materiali e morali - di cui lo aveva sino allora, o del tutto privato, o insufficientemente fornito il pregiudizio individualistico -, necessari a difendere la sua essenziale natura di supremo organismo etico con­ tro chiunque vi attenti o osi disconoscerla o offenderla. E si ebbe il complesso delle Leggi cosiddette di difesa : la legge 31 dicembre 1925 sulla stampa periodica; la legge 31 gennaio 1926 contro i fuorusciti politici; la legge 24 dicembre 1925 sulla dispensa dal servizio dei funzio­ nari dello Stato; la legge 25 novembre 1926 sui prov­ vedimenti per la difesa dello Stato, con cui si introdu­ ceva la pena di morte per gli atti diretti contro la vita

e la integrità personale del Re, del Reggente, del Prin­ cipe Ereditario e del Capo del Governo, e per i reati con­ tro la sicurezza dello Stato o di alto tradimento, e si istituiva a tal fine un Tribunale Speciale unico per tutto il Regno, e il R. Decreto 6 novembre 1926 sulla riforma delle Leggi di Pubblica Sicurezza. Ma già anche prima che si chiudesse il 1925, si era inaugurata la serie delle leggi costruttive: da quella del, 24 dicembre 1925 sulle attribuzioni e le prerogative del Capo del Governo, Primo Ministro, Segretario di Stato, con la immediatamente successiva, del 31 gennaio 1926, sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giu­ ridiche, e dal complesso di leggi sull’ordinamento delle istituzioni locali (legge 4 febbraio 1926 sulla istituzione del Podestà e della Consulta municipale; leggi 18 aprile 1926 e 3 settembre 1926, sulla istituzione dei Consigli pro­ vinciali dell’Economia; legge 3 aprile 1926 sulla estensio­ ne delle attribuzioni dei Prefetti) con la relativa circolare del 26 maggio ’27 e la essenziale distinzione tra il con­ cetto di ordine morale e il concetto di ordine pubblico, alla legge 3 aprile 1926 sulla disciplina dei rapporti col­ lettivi del lavoro. Essenziale valore rivoluzionario è da riconoscere alle due leggi sulle attribuzioni e prerogative del Capo del Governo e sulla facoltà del Governo di emanare norme giuridiche, mediante cui il Regime fascista mantenne l’impegno, solennemente enunciato dal Duce il 3 gen­ naio 1924, di ristabilire l’idea dello Stato e di fissare lo stile del Governo, e in virtù delle quali, mentre gli altri popoli civili di Europa sono tuttora quasi tutti prigio­ nieri di una teoria meccanica e astratta della divisione dei poteri, l ’Italia si avviava a realizzare, non nelle forme generiche, ma nella realtà giuridica e politica, i veri e necessari presupposti dello Stato giuridico moderno, os­ sia della sottomissione anche dei supremi organi pubblici

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alla legge, che lo Stato dà a se stesso, vale a dire, la plu­ ralità, l ’autonomia e l ’equilibrio dei massimi organi pub­ blici, intesi a reciproco controllo, ciascuno nei limiti delle proprie competenze e funzioni. È per questo che la figura del Capo del Governo che, se è tale dal punto di vista giuridico, è contempo­ raneamente, dal punto di vista politico, il Duce del Po­ polo italiano -, destinata a diventare il perno di tutto il sistema di Stato accentrato e autoritario posto in essere dalla riforma costituzionale del Fascismo, non si realizzò in pieno, non solo nella lettera, ma anche nello spirito, se non dal momento, in cui furono posti alle sue dirette dipendenze, oltre la Milizia Volontaria per la Sicurezza nazionale, il Capo di Stato Maggiore, il Capo della Po­ lizia, e l’Avvocatura erariale, anche la Corte dei Conti ed il Consiglio di Stato, vale a dire i due organi supremi di critica e di controllo di tutta quanta l’Amministra­ zione statale. Critica e controllo, la cui necessità, lungi dall’essere esclusa, è al contrario presupposta, come suo essenziale interesse, dal Regime, e di cui furono eloquenti espres­ sioni il discorso del 15 gennaio 1930 sulle funzioni della Corte dei Conti ai fini del Regime, e del 19 aprile 1931, a proposito del primo centenario dell’assetto dato, alla vigilia del Risorgimento, da re Carlo Alberto al Con­ siglio di Stato, che è oggi uno degli elementi fondamen­ tali del Regime e della vita politica e morale della N a­ zione : discorso specialmente interessante, per l’esplicito accenno ad una delle piu importanti funzioni odierne del Consiglio di Stato, quella di vigilare a che l’inter­ vento dello Stato nella sfera àt\Yeconomico avvenga nel­ le condizioni migliori, con vantaggio dei singoli e dei gruppi, e senza nocumento degli interessi generali dello Stato, essendo questa vigilanza sull’attività dello Stato nella sfera economica tanto piu essenziale nello Stato

fascista, quanto piu l ’estensione delle funzioni statali nel settore economico forma la caratteristica peculiare dello Stato posto in essere, in antitesi alla Stato liberale, dalla Rivoluzione fascista.

La quale è appunto una Rivoluzione, per essere essa riuscita a distruggere in pochi anni l ’ordinamento giuri­ dico dato allo Stato italiano dalla concezione politica del liberalismo, e a sostituirgli un nuovo ordinamento giuridico coerente alla concezione politica propria: quel­ l ’ordinamento giuridico, che gli permettesse di diventare 10 Stato, il quale piu di ogni altro Stato assume in pro­ prio, in conformità alla propria visione integrale della vita e dei suoi valori, il compito di prendere l’iniziativa anche nella sfera dell’attività economica. Che, invero, la Carta del Lavoro, cioè il documento, nel quale il Gran Consiglio del Fascismo tracciò, il 21 aprile 1927, i capisaldi della nuova struttura, che la Ri­ voluzione fascista ha dato allo Stato italiano, intitoli con la formola dello Stato Corporativo e della sua funzione 11 suo primo paragrafo, il cui primo articolo contiene la definizione della Nazione come una unità morale po­ litica ed economica che si realizza integralmente nello Stato Fascista, significa che l’organizzazione, per cui lo Stato Fascista è definito come Stato Corporativo, è l’orga­ nizzazione, mediante cui la sintesi di tutti i valori morali e immateriali della stirpe, di cui si parla nel Programma del Partito Nazionale Fascista del 1921, si incarna giu­ ridicamente nello Stato, ossia la organizzazione giuridica, mediante cui lo Stato Fascista realizza integralmente, quindi anche nel campo dei rapporti economici, la « unità morale e politica di quell’organismo avente fine, vita e mezzi di azione superiori per potenza e durata a quelli degli individui divisi o raggruppati che lo compongono,

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che è la Nazione italiana » : la realizza, organizzando tutta la società italiana sulla base di quel princìpio corpo­ rativo, che fu esattamente definito il principio della or­ ganizzazione e personificazione delle categorie economi­ che, perché partecipino coscientemente alla vita della co­ munità politica, e che è un principio di organizzazione politica e giuridica, in quanto è insieme una norma di condotta individuale e sociale. Significa, in altri termini, che lo Stato, quale lo ha posto in essere, in Italia, il Fascismo, è fascista, per la finalità unitaria, che gli è implicita, corporativo, per il sistema di organizzazione giuridica, con cui esso realizza la propria finalità; fascista, per la volontà che lo anima, corporativo, per la forma, con cui questa volontà si estrin­ seca e si attua. Fascismo e Corporativismo sono cosi due modi di esse­ re, due aspetti, due momenti, coessenziali e correlativi, di uno stesso principio : la concezione politica e la realiz­ zazione giuridica dello Stato, come sintesi unitaria e to­ talitaria della Nazione. Sicché il rapporto che corre tra il concetto di Stato Fascista e il concetto di Stato Corporativo è analogo al rapporto corrente tra il concetto di Stato liberale e il con­ cetto di Stato di diritto, altro non essendo lo Stato di diritto se non la realizzazione giuridica della concezione politica propria del liberalismo: vale a dire dello Stato, la cui finalità si esaurisce nella tutela e nel potenziamen­ to della libertà spettante a ciascuno degli individui, dal cui sommarsi o giustapporsi esso risulta. Onde si comprende come Mussolini abbia dichiarato essere lo Stato corporativo « la creazione tipica e l’orgo­ glio legittimo della Rivoluzione fascista », e che « Cor­ porativismo e Fascismo sono termini che non si possono dissociare... ». Non si possono dissociare, non essendo il

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Fascismo un semplice programma teorico, ma una realtà storica, in quanto il tipo di Stato, che esso ha instaurato in Italia, è uno Stato corporativamente organizzato. Anche il liberalismo fu, per circa m ezzo secolo, una realtà storica, e non un semplice programma teorico, in quanto il tipo da esso instaurato in Italia fu uno Stato di diritto: per cui l ’orgoglio, con cui Mussolini e il Fa­ scismo considerano lo Stato corporativo come la creazio­ ne tipica della Rivoluzione fascista, ha l ’esatto riscontro nell’orgoglio, con cui, nei primi decenni del regime unitario, gli artefici della unità, gli uomini della Destra storica, considerarono lo Stato di diritto come la crea­ zione tipica della Rivoluzione liberale. Il che vuol dire che il Corporativismo fascista è in fun­ zione della dottrina politica del Fascismo, e non vice­ versa, perché è sempre la volontà politica, che crea la propria organizzazione giuridica, e non questa che fa sorgere quella. Luminosa conferma di ciò è che la instaurazione del­ l’Ordinamento corporativo dello Stato italiano non prece­ dette, ma in parte segui, e in parte accompagnò, dal 1925 in poi, la trasformazione politica degli organi centrali della sovranità statale: vale a dire che la revisione inte­ grale del rapporto tra i singoli individui e la collettività nazionale, mediante cui riuscì al Fascismo di affrontare il problema, che il pregiudizio individualistico aveva reso insolubile, delle relazioni tra i due fattori della produ­ zione economica, poté iniziarsi non prima, ma dopo, che il Regime aveva iniziato l’altra sua fatica, diretta a re­ staurare nella sua pienezza l ’autorità e sovranità dello Stato, attraverso il definitivo svincolamento del Governo dalla tirannide del Parlamento. Vediamo, infatti, che le due leggi sulle attribuzioni e prerogative del Capo del Governo e sulla facoltà del po­ tere esecutivo di emanare norme giuridiche precedettero

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di alcuni mesi la legge 3 aprile 1926 sulla disciplina giu­ ridica dei rapporti collettivi del lavoro, nella quale furono per la prima volta espresse le basi e affermati i presup­ posti fondamentali dell’Ordinamento corporativo. Il quale, però, neppure esso, sorse e si concretò alla vita tutto in una volta, ma anch’esso, secondo la legge fon­ damentale della Rivoluzione fascista, si realizzò a sca­ glioni. Chi, infatti, consideri nel suo insieme il complesso degli istituti e delle norme di organizzazione e di fun­ zionamento, destinati a presiedere alla disciplina delle realizzazioni economiche, secondo quel principio di su­ bordinazione composita e successiva dell’interesse econo­ mico individuale agli interessi delle categorie economiche e della economia nazionale, in cui si risolve il principio corporativo, si accorge che esso, pure formando un si­ stema coerentemente unitario, è il prodotto di un lungo e complesso processo formativo, che non è ancora esau­ rito, e nel quale si possono, sin d’ora, e sino ad oggi, distinguere all’ingrosso tre momenti o tre fasi di svilup­ po, susseguentisi l’una all’altra, benché in qualche guisa implicite l ’una nell’altra: una fase di preparazione o di avviamento, che potremo dire prelegislativa o pregiuridi­ ca, dai primordi del sindacalismo fascista, cioè dall’au­ tunno del 1921, a quelli che Mussolini, il 3 gennaio 1934, illustrando al Senato il valore e la portata della legge 5 febbraio 1934 sulle Corporazioni, chiamò primi tenta­ tivi corporativi (incontro di Palazzo Chigi e patto di Pa­ lazzo Vidoni): una seconda fase, che Mussolini stesso definì, il 7 maggio 1928, sindacale, dalla presentazione, discussione e promulgazione della legge 3 aprile 1926, alla cosiddetta riforma, nel marzo del 1930, del Consi­ glio Nazionale delle Corporazioni; una terza fase, che, il 7 maggio 1928, Mussolini preannuncio come esplicita­ mente corporativa, iniziatasi nel marzo 1930, con la ri­ forma del Consiglio Nazionale delle Corporazioni, e di

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cui, per quanto essa sia tuttora in corso, un punto fer­ mo di sviluppo può dirsi solidamente raggiunto con la legge del 5 febbraio 1934 sulla costituzione e il funzio­ namento delle Corporazioni. #

La prima fase, la fase iniziale, risaliva ai primordi stessi del Fascismo, cioè al momento in cui, press’a poco sulla fine del 1924, la esistenza di un movimento sinda­ cale guidato da fascisti e orientato verso le idee del Fa­ scismo aveva incominciato ad essere una realtà in conti­ nuo incremento. Quel sindacalismo aveva sin da princi­ pio, infatti, rivelata una propria pressoché istintiva tendenzialità corporativa, cioè la tendenza a fornire nel Sin­ dacato il presupposto o la base per il sorgere di una nuova economia, cioè di una economia superante nella corporazione l ’individuo. Tanto forte ed urgente era, anzi, nel sindacalismo fa­ scista dei primordi la tendenza a superare il sindacalismo di classe in un organismo più vasto, in cui si attuasse la solidarietà fra i diversi fattori della produzione nell’inte­ resse nazionale, da far si che sotto il nome di Corpora­ zioni si organizzassero gli stessi Sindacati, anche se com­ posti di soli lavoratori o prestatori d’opera, o addirittura si tentasse una prima espressione esplicitamente corpora­ tiva nelle cosiddette Corporazioni integrali o nazionali (del lavoro industriale, del lavoro agricolo, del commer­ cio, delle attività intellettuali), che non erano se non Sindacati misti di datori di lavoro e di lavoratori. Ma tutte queste Corporazioni anteriori alla legge 3 aprile 1926 non avevano, oltre il nome, nulla di comune con le Corporazioni, quali le istituirà, dal 3 aprile 1926 in poi, la legislazione rivoluzionària del Fascismo, perché tutte eran destinate a vìvere fuori dello Stato, ispirandosi

tutte ad un modo di concepire il collaborazionismo tra le classi sociali, che tuttora escludeva, ad imporne la at­ tuazione integrale, l ’intervento diretto dello Stato. Il passaggio dal Sindacalismo fascista al vero e proprio Corporativismo corrisponde, insomma, al passaggio del collaborazionismo fascista, da un collaborazionismo, che non escludeva, in ogni caso, il ricorso a\Yautodifesa tra le classi sociali contrastanti per la difesa di propri interessi legittimi, ad un collaborazionismo, che non ammette tra le classi sociali, in nessun caso, pur l’ipotesi del ricorso alla lotta. Quest’ultimo modo, infatti, di concepire e attuare la collaborazione tra capitale e lavoro, lungi dall’esser coevo al sindacalismo fascista, fu il risultato di un lungo e non facile processo, o travaglio, formativo, non tanto teore­ tico, quanto pratico, a cui, nella prima fase del movimen­ to, e ancora dopo la Marcia su Roma, nell’estate del 1924 e nella primavera del 1925, e quasi alla vigilia della legge 3 aprile ’26, non erano state estranee incertezze e oscillanze, che in qualche momento eran sembrate quasi sul punto di comprometterne le sorti. Senonchè, già in varii discorsi pronunciati da Mussoli­ ni, tra il 1923 e il 1924, al Consiglio Nazionale del Partito 0 al Congresso delle Corporazioni, nonché nelle parole rivolte, in occasione di rapide visite, agli operai di Monte Amiata e di Dalmine, era evidente la coscienza di ciò che poteva considerarsi il punto debole di una collabora­ zione di classe, che, per essere veramente tale, doveva es­ sere « fatta in due » : la scarsa disposizione, quando non addirittura la resistenza, dei datori di lavoro a venire spontaneamente incontro alle esigenze dei lavoratori. Di qui, la affermazione, frequente in questi discorsi, essere il collaborazionismo fascista, un collaborazionismo, che non escludeva a priori il ricorso alla lotta : « quel che ci divide da tutte le altre scuole è che, per i socialisti di 65

tutte le gradazioni, la lotta di classe è la regola, per noi è l ’eccezione » : un’eccezione, però, non affatto esclusivamente teorica. E, del resto, l’esperienza dei mesi di estate del 1924, specialmente in Vaìdarno e in Lunigiana, bastò a dimo­ strare come il sindacalismo fascista fosse tuttora lungi dall’escludere totalmente, come mezzi eccezionali di lot­ ta, né lo sciopero, né il boicottaggio. Ma il fatto veramente risolutivo si era avuto con lo scio­ pero, anzi con la serie di grandi scioperi metallurgici di Lombardia, ordinati dall’organizzazione sindacale ade­ rente al Fascismo, nel marzo 1925. I quali avevan finito col provocare, da parte di Mussolini, nella sessione di aprile 1925, la presentazione al Gran Consiglio di due ordini del giorno, la cui importanza stava in ciò: che, mentre, da un lato, essi davano diritto di cittadinanza, nella teoria e nella prassi del. sindacalismo fascista all’ar­ ma, per quanto eccezionale, dello sciopero, d ’altro lato, concludevano auspicando al sindacalismo fascista di riu­ scire, oltre che a migliorare le condizioni dei lavoratori, anche a preparare la inserzione graduale ed armonica dei Sindacati nella vita dello Stato. Dei quali ordini del giorno, la fecondità di sviluppo apparve palese, pochi mesi dopo, quando, il 2 ottobre 1925, ne germinò il cosiddetto Patto di Palazzo Vidoni, cioè l’accordo concluso a Palazzo Vidoni, tra la Confe­ derazione generale dell’Industria e la Confederazione del­ le Corporazioni, ossia di fatto dei Sindacati fascisti. Perché il monopolio di fatto, conquistato, in virtù di questo accordo, dalle Associazioni sindacali fasciste pre­ ludeva evidentemente al suo prossimo trasformarsi in mo­ nopolio di diritto, stando a base dell’accordo la concorde reciproca rinuncia, di ciascuna delle parti, al ricorso a qualsiasi mezzo di lotta per risolvere i propri legittimi contrasti di interessi, vale a dire il reciproco impegno a

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risolverli per via pacifica. Il che voleva dire esser ormai il Sindacalismo fascista sul punto di superarsi e di realiz­ zarsi, nella sua vera essenza, come Corporativismo. Le tre condizioni, che il Duce, in un discorso all’As­ semblea generale del Consiglio Nazionale delle Corpora­ zioni, definirà, il 14 novembre 1933, necessarie per fare il Corporativismo pieno, integrale, rivoluzionario, vale a dire il Partito unico, lo Stato totalitario e un periodo di altissima tensione ideale, se, nell’Italia degli ultimi mesi del 1925 e i primi del 1926, non potevano ancora dirsi del tutto presenti e operanti, erano però sin d’allora, per evidenti segni, prossime a diventar tali. Stava, in altri termini, per scoccare, in Italia, l’ora, se non della vera e propria Corporazione in atto, della attività legislativa destinata a renderne possibile l’avvento, dando inizio a quell’ordinamento sindacale e corporativo della società nazionale, che doveva costituire il presupposto indispen­ sabile per il sorgere della vera e propria Corporazione. Quest’ora suonò, quando, tra P i i dicembre del 1925 e Pi i marzo del 1926, fu discussa ed approvata, alla Ca­ mera e al Senato, la legge sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi del lavoro, che, insieme col successivo regolamento contenente le relative Norme di attuazione, e formante con esse, benché pubblicato a distanza di tre mesi (i° luglio 1926), un unico sistema legislativo perfet­ tamente coerente e unitario, Mussolini proclamò subito come la più audacemente rivoluzionaria tra le leggi fasci­ ste sino al 1925. Rivoluzionaria, non certo, però, nel senso che con essa il Corporativismo fosse già nato. Chè, anzi, il Corpora­ tivismo nascerà attraverso il non facile e delicato trava­ glio di una Corporazione, che, lungi dal preesistere, nella realtà sociale e politica, alla legge, come il Sindacato, sarà dalla legge posta in essere ex nihilo, e, come nuova crea­ zione della volontà statale, imposta alla realtà. 67

Della Corporazione non c’era del resto, nella legge 3 aprile sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi del lavoro, neppure il nome, parlandosi nell’art. 3 unicamen­ te di « organi centrali di collegamento », mediante cui le « Associazioni di datori di lavoro e di lavoratori possono essere riunite con superiori gerarchie », e riducendosi quindi, nel pensiero del legislatore, oltre che nella lettera della legge, i nuovi organi creati da questa a funzioni dì mero collegamento intersindacale. Il che era logico, dato che la legislazione fascista del 1926 non aveva avuto come scopi immediati che « la eli­ minazione dell’autodifesa di classe e di categoria, la or­ ganizzazione delle classi e delle categorie nell’orbita dello Stato, e la risoluzione pacifica e legale dei conflitti del la­ voro: triplice scopo, raggiunto, da un lato, mediante il divieto dello sciopero e della serrata, e la istituzione della Magistratura del lavoro, e, d’altro lato, mediante la ele­ vazione, ai fini dello Stato e nell’interesse pubblico, at­ traverso il riconoscimento giuridico, delle Associazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori (compresi i tecnici, i professionisti e gli artisti), sino a questo mo­ mento esistenti o operanti nella sfera del diritto privato e a tutela di interessi privati, ad organi indiretti della Pubblica Amministrazione, o a Istituzioni autarchiche, o sussidiarie, dello Stato o a Enti di diritto pubblico, do­ tati di una serie di attributi dell’/Ar imperii, quali la po­ testà normativa (statuti e stipulazioni di contratti collettivi aventi valore per tutti i datori di lavoro e i lavoratori del­ le categorie, cui ogni singolo contratto si riferisce, e che il Sindacato riconosciuto rappresenta legalmente) e la po­ testà tributaria (facoltà di imporre contributi a carico di tutti i componenti le categorie), e sottoposti, nell’esercizio di questi attributi, al controllo di vigilanza o di tutela dello Stato. Tra le quali Associazioni sindacali giuridicamente ri­

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conosciute di datori di lavoro e di lavoratori, la legge 3 aprile 1926 prevedeva esplicitamente possibili due tipi o due forme di collegamento superiore : il tipo di collegamento gerarchico, o, come anche si disse, sindacale, o ver­ ticale, attraverso cui le Associazioni collegate formano una Federazione o una Confederazione, e il tipo di collega­ mento corporativo, o, come anche si disse, orizzontale, attraverso cui le Associazioni collegate formano una Cor­ porazione : entrambe concepite dalla legge 3 aprile come possibilmente coesistenti, l ’una per la tutela degli interessi separati dei vari elementi della produzione, l’altra, per la tutela degli interessi comuni di ciascun ramo della produzione o di ciascun gruppo di imprese. Ma era anche evidente come il legislatore tendesse a far precedere la strada del collegamento sindacale a quella del collegamento corporativo. Il che non può sorprendere, dato che per la prima strada il sindacalismo fascista si era già messo da tempo, mentre l’altra era, per coloro stessi, che ne avevano preannunciato l’avvento, un’incognita. Federazioni e Confederazioni erano, infatti, già da tempo una realtà, quando la Corporazione non era an­ cora che un mito. E, invero, ben prima che apparisse la legge 3 aprile, e non soltanto in Italia, i Sindacati delle singole categorie avevan sempre cercato di superare i li­ miti delle loro rispettive competenze, e di intrecciare rap­ porti con Sindacati opposti o congeneri, sotto la specie del Sindacato misto, nel primo caso, e di Federazioni o Confederazioni, nel secondo. Era quindi naturale che, affermata la priorità dell’Associazione unitaria di catego­ ria, quale scaturiva dallo spontaneo impulso delle affinità del mestiere, la legge 3 aprile si guardasse bene dal pre­ cludere la via a quel moto di Associazione tra Associa­ zioni, che è non meno spontaneo del moto di Associazione tra individui : che, anzi, appare non di rado come condi­ zione del primo. 69

Perché, se, in teoria, i raggruppamenti federali di Sin­ dacati di categoria dovrebbero seguire il formarsi del­ l’Associazione unitaria, avvenne spesso, e avviene, nella pratica, che invece l ’abbiano preceduto o lo precedano. Ciò dipende dall’essere spesso tutt’altro che facile indivi­ duare a priori i limiti di una categoria professionale, che hanno quasi sempre carattere relativo e contingente, e la cui individuazione richiede il sorgere nei singoli compo­ nenti di una consapevole e precisa volontà associativa : onde la frequenza di categorie, in cui una tale volontà non riesce ad affermarsi, e che perciò tentano invano di organizzarsi, quando l ’impedimento non deriva addirit­ tura dalla povertà intrinseca o dalla scarsa consistenza delle categorie stesse. Bastava, del resto, guardarsi intorno, per constatare co­ me fosse nel seno delle organizzazioni piu vaste, che si formava e si plasmava, per lo più, nelle categorie, la co­ scienza associativa, generalmente debole, o pressoché ine­ sistente, dove quelle più vaste organizzazioni facessero difetto: come, cioè, mentre tutto il fronte del sindacali­ smo operaio presentava un aspetto spiccatamente federa­ tivo, e più ancora confederativo, non mancassero esempi di forti Federazioni anche sul fronte padronale: fortis­ simo quello dell’Industria. D i qui, il grande risalto dato all’Istituto confederale dal legislatore del 1926. Il quale, non solo ha conferito alle Associazioni di grado superiore (Federazioni e Con­ federazioni) legalmente riconosciute la stessa personalità giuridica e la stessa competenza di diritto pubblico, che l’art. 5 della legge 3 aprile conferisce alle Associazioni di categoria, ma ha voluto potenziare la funzione di collegamento federale e confederale, attribuendo alle Fede­ razioni e Confederazioni generali i poteri di vigilanza e di tutela sulle Associazioni di grado inferiore : poteri che, spettando in via normale al Prefetto o al Ministero delle 70

Corporazioni, dànno alla Confederazione una funzione di diritto pubblico, che va oltre il semplice coordina­ mento. Anzi, chi dia uno sguardo alla serie di Regi decreti, coi quali tra il 2 settembre e il 24 ottobre 1926, il Mini­ stero delle Corporazioni gettò le basi e alzò i muri mae­ stri dell’organizzazione sindacale italiana, riconoscendo giuridicamente sei Confederazioni di datori di lavoro, e, con un’anomalia, cui sarà posto rimedio in seguito, l’uni­ ca Confederazione di lavoratori, tutti presupponenti Con­ federazioni forti, munite di funzioni di vigilanza e di controllo sulle Associazioni aderenti, capaci di accogliere nel proprio seno e di disciplinare l’incipiente azione delle categorie, il riconoscimento delle cui Associazioni quei Decreti riservavano alle Confederazioni stesse di poter domandare, può ricevere addirittura 1 impressione che, alle origini dei nostri ordinamenti giuridici sindacali fos­ se, non il Sindacato di categoria, tendente al raggruppa­ mento federale o confederale, ma la Federazione o Con­ federazione, tendente ad attrarre e ad accogliere, sceve­ randole e distinguendole entro la loro sfera di inquadra­ mento, le categorie, e a portarle al riconoscimento giuri­ dico, ossia che, in un primo momento, Federazioni e Corporazioni esercitassero, nell’ordinamento sindacale ita­ liano, la funzione di organi costituenti delle categorie. *

Benché nella legge del 1926 fosse già netta la visione non potersi il compito rinnovatore del Fascismo nel cam­ po dell’economia esaurire nella disciplina dei rapporti collettivi del lavoro, vale a dire, nello sforzo di risolvere, contemperando l’interesse dell’individuo con 1 interesse della collettività nazionale, il problema della distribu­ zione della ricchezza, ma doversi quel compito estende­ 71

re. pure allo sforzo di risolvere anche il problema della produzione della ricchezza, attraverso l ’opera propria di­ retta a disciplinare, organizzare, promuovere la produ­ zione nazionale, e benché in quella legge fosse già pre­ cisa la intuizione non potere il Fascismo servirsi per questo compito della azione dei Sindacati, espressione de­ gli interessi di uno dei fattori della produzione, ma do­ versi per tale compito creare un nuovo organo apposito, in cui, sotto il nome di Corporazione, tutti i fattori della produzione fossero riuniti, sotto la direzione e il controllo dello Stato, è, dunque, certo che, nel 1926, e per qualche anno dopo il 1926, tutti i poteri responsabili del Regime si trovarono concordi nel riconoscere l ’urgenza di affron­ tare subito, permettendo alle categorie, man mano che assurgessero a vita giuridica nel Sindacato, di collegarsi secondo le ragioni concorrenti della contiguità territoriale e della affinità professionale, e di affrettare il processo di collegamento sindacale dei fattori della produzione, e insieme nfel giudicare del tutto prematuro l ’inizio della formazione reale del loro collegamento corporativo. Gli organi di collegamento, previsti e definiti nella legge 3 aprile, nel regolamento i° luglio e nella Carta del Lavoro, restarono, per qualche anno ancora, nella lettera della legge, non passarono nella realtà della vita. È bensì vero che, il giorno successivo alla emanazione delle Norme di attuazione della legge 3 aprile, cioè il 2 luglio 1926, era uscito il Regio decreto istituente il Mi­ nistero delle Corporazioni - dapprima, sino al settembre 1:929, coesistente col Ministero della Economia nazionale, poi, col passaggio ad esso della competenza di questo re­ lativa all’industria, e la trasformazione di quello in Mi­ nistero dell Agricoltura e Foreste, fuso con esso - con cui può dirsi compiuto il primo passo verso la applicazione graduale del Corporativismo, ma non è men vero che alla istituzione del Ministero non segui, per qualche anno, 72

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né la effettiva costituzione del Consiglio Corporazioni, previste, su base burocr zioni, non mai esercitate, di mera nistrativa dal R. decreto 2 luglio 1926, né tanto meno la istituzione effettiva delle Corporazioni per un determi­ nato ramo di produzione, o per piu determinate catego­ rie di imprese, prevista dalla legge 1926 e dalla Carta del Lavoro. Onde la facile ironia degli avversari del Regime sulla esistenza di un Ministero delle Corporazioni destinato a funzionare senza Corporazioni, e la tranquilla constata­ zione del Sottosegretario di Stato al Ministero delle Cor­ porazioni, Giuseppe Bottai, al Gran Consiglio, la sera del 26 novembre 1927 : « La funzione normativa delle Cor­ porazioni nazionali, per quanto si attiene al coordina­ mento della produzione, rimane tuttavia fuori del diritto positivo. ...L ’ora delle Corporazioni scoccherà nel pieno meriggio della nostra esperienza, quando le coscienze sa­ ranno mature e tutti gli elementi economici, sociali, poli­ tici, propizi... ». Che però lo scoccare di quest’ora, fosse, ancora a due anni dalla promulgazione della legge 3 aprile, tutt’altro che prossimo, lo dirà espressamente, pochi mesi dopo, il Duce del Fascismo, inaugurando, il 7 maggio in Roma, il terzo Congresso nazionale dei Sindacati fascisti, e in­ dividuando insieme i due ordini di motivi, l’uno intrin­ seco, l’altro estrinseco, di questa persistente prematurità e immaturità degli Istituti o degli organi corporativi : l’uno, da cercarsi nella crisi generale della vita europea e mondiale, che consigliava lentezza e prudenza nell’atti­ vità diretta a influire in qualsiasi senso sui fenomeni del­ la produzione nazionale, non essendo, per usare l ’espres­ sione di Giuseppe Bottai, in un discorso alla Camera del 1931, l’economia italiana « un corpo vile, su cui possano compiersi esperimenti avventati », ed essendo « in ogni

caso, buona regola chirurgica, non operare con la febbre, specie quando la febbre è alta » ; l ’altro, da ricercarsi nella opportunità e convenienza di non dar vita agli organi di collegamento corporativo, prima che fosse condotto a ter­ mine e perfezionato il sistema gerarchico di collegamento tra Sindacati, ossia il cosiddetto inquadramento sindacale. Fase di arresto, dunque, nella formazione degli istituti e degli organi corporativi nel senso stretto della parola: non certo fase di stasi, né nell’attività legislativa diretta a far penetrare sempre piu addentro nella compagine del­ lo Stato l ’influsso del cosiddetto principio corporativo, né nell’attività di Governo diretta a creare o a porre in essere nella vita della Nazione i presupposti o le condizioni ne­ cessarie per l ’avvento della economia corporativa. Né senza dubbio potrebbe considerarsi periodo di stasi nello sviluppo rivoluzionario del Fascismo il periodo, du­ rante il quale si ebbero l’approvazione, per parte del Gran Consiglio, il 21 aprile del 1927, e la promulgazione il 30, di quel solenne atto, piu politico, che giuridico, che è la Carta del Lavoro, specie di Carta fondamentale del Re­ gime, attraverso la quale l’ordinamento sindacale-corporativo assume il significato integrale e totalitario di « com­ pleta organizzazione giuridica di tutte le forze concor­ renti alla produzione ». Se la Carta del Lavoro sia una vera e propria fonte di diritto e abbia carattere giuridicamente normativo, o non sia piuttosto un documento di altissimo valore morale, risolvendosi in una enunciazione programmatica di orien­ tamenti di massima, in parte già attuati nella legislazione positiva del Regime, in parte da attuarsi, sia nelle leggi presenti, prossime, o future di questo, sia nell’ indirizzo pratico, che il Governo fascista si impegna, attraverso la Carta del Lavoro, ad imprimere alla propria politica so­ ciale ed economica, è problema già lungamente e viva­ mente discusso tra i giuristi, ma che ha perduto molto 74

del suo interesse, da quando la legge 13 dicembre 1928, con cui il Governo si è fatto, su proposta del Gran Con­ siglio, autorizzare dal Parlamento ad emanare disposi­ zioni aventi forza di leggi per la completa attuazione della Carta del Lavoro, sembra avere ufficialmente rico­ nosciuto il carattere non giuridicamente costruttivo di questa. Comunque la prova che il periodo immediatamente successivo alla legislazione sindacale del 1926 e alla pro­ mulgazione della Carta del Lavoro fu, bensì, un periodo di arresto nella formazione degli istituti corporativi, ma non certo un periodo di arresto nell’attività rivoluzionaria del Regime, è sovrattutto data dal fatto che, proprio in questo periodo, e per diretta conseguenza àz\Yinquadra­ mento sindacale degli Italiani, operato, tra il 1926 e il 1928, dagli organi del Regime, e specialmente dal Mini­ stero delle Corporazioni, cominciò a verificarsi ciò, che potrebbe chiamarsi Yinnesto dell’Ordinamento sindacalecorporativo nella riforma costituzionale dello Stato ita­ liano. Fu, infatti, proprio in questo periodo che si potè assi­ stere ad una crescente intensità dell’azione innovatrice esercitata dal principio corporativo, inteso a sempre me­ glio valorizzare le grandi categorie di interessi professio­ nali ed economici, su vari e vasti settori dell’organizza­ zione politico-giuridica nazionale. Era, del resto, questa nient’altro che una legittima de­ duzione dai presupposti teorici del Fascismo, e sovrattutto dalla radicale trasformazione già da esso indotta nel rap­ porto tra i cittadini, come individui, e lo Stato, mediante la elevazione del Sindacato di categoria professionale a Istituto autarchico dello Stato. Logicamente perciò Mus­ solini aveva, già nel discorso del 16 maggio 1927, detto senza riserve alla Camera dei Deputati : « è evidente che la Camera di domani non può rassomigliare a quella

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d 'o ggi... Ci sarà ancora una Camera, ma sarà eletta attra­ verso le organizzazioni corporative dello Stato... ». È vero che in un primo momento si era, negli ambienti stessi del Fascismo, pensato di servirsi del nuovo princi­ pio costituzionale, posto in essere dall’apparire nella vita italiana del Sindacato come organo di diritto pubblico, per trasformare il modo di formazione, non della Came­ ra, ma del Senato: e se ne ha la documentazione negli atd stessi del Gran Consiglio del Fascismo, dai quali ri­ sulta che il problema fu da questo esaminato e discusso in due riprese, nelle sedute dell’8 ottobre 1925 e del 30 marzo 1926. Già, del resto, si era su questo problema divisa in varie direzioni la Commissione dei 18, incerta se introdurre la rappresentanza sindacale o corporativa alla Camera o al Senato, o in entrambi i rami del Parlamento, e l’incer­ tezza durò a lungo anche nelle sfere del Partito. Fu soltanto sin dalle prime sedute della sessione in­ vernale dèi 1928, che si vide come il Gran Consiglio del Fascismo avesse ormai abbandonato ogni idea di riforma in senso corporativo del Senato - che rimase perciò di nomina regia, qual era sempre stato, dalla promulgazione dello Statuto in poi, - e si fosse invece decisamente orien­ tato verso una riforma corporativa del sistema elettorale vigente ai fini della formazione della Camera dei De­ putati. Nelle sedute dell’n gennaio e del 3 febbraio 1928, in­ fatti, il Gran Consiglio discusse e approvò un progetto di riforma della rappresentanza nazionale, da cui venne, poco dopo, la legge 23 settembre 1928, in virtù della quale la rappresentanza politica in Italia cessò di ripetere la sua origine, com’era avvenuto dalla proclamazione dello Statuto sino alla Rivoluzione fascista, dal corpo eletto­ rale, come somma indifferenziata e indistinta dei citta­ dini, e cominciò invece a ripeterla dalle organizzazioni

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vale a dire, dai cittadini in quanto partecipi, in virtù del v ir t ù del loro lavoro, al processo della produzione nazio­ nale, e territorialmente raccolti nei comizi elettorali. La formazione della Camera dei Deputati avveniva, infatti, secondo la legge 2 settembre 1928, attraverso tre momenti: 1) attribuzione alle Confederazioni nazionali dei Sindacati legalmente riconosciuti, da un lato, e ad altre Istituzioni pubbliche aventi importanza nazionale e perseguenti scopi di cultura e di educazione, di assi­ stenza e di propaganda, dall’altro, della potestà di pro­ porre rispettivamente un numero di candidati pari al doppio o alla metà di deputati da eleggere; - 2) attribu­ zione al Gran Consiglio del Fascismo della potestà di scegliere, nel numero dei candidati proposti, i deputati da presentare al corpo elettorale all’atto dell’elezione, vale a dire di formare la lista dei deputati designati al­ l’elezione : potestà nella quale era compreso anche il di­ ritto di escludere qualcuno dei nomi proposti dalle Con­ federazioni o dalle Istituzioni, sostituendovi altre per­ sone non comprese nell’elenco dei deputati, e che quindi era sufficiente a togliere alla Camera dei Deputati risul­ tante dalla elezione l’esclusivo carattere di rappresentanza professionale o di categoria; - 3) attribuzione al corpo elettorale, costituito dai cittadini del Regno sulla base del suffragio universale, riunito in un unico collegio na­ zionale, della potestà di approvare e respingere, senza possibilità di introdurre alcuna variazione, la lista pre­ sentata dal Gran Consiglio. Solo nel caso che la lista non fosse approvata dal Corpo elettorale, era prevista la ammissione di tutte le Associazioni e organizzazioni con più di cinquanta soci a presentare proprie liste di candidati, nessuna delle quali poteva comprendere più di tre quarti dei deputati da eleggere. s in d a c a li,

c a ti,

Si trattava evidentemente di una procedura mirante | a restringere la vera e propria funzione elettorale al mo­ mento della ratifica di una proposta, la cui iniziativa spettava unicamente e in varia misura alle Confederazioni e Istituzioni e al Gran Consiglio. Ma era anche evidente la netta prevalenza o premi­ nenza, che, ai fini di questa procedura elettorale, era assicurata al momento spettante al Gran Consiglio del Fascismo, in quanto era senza dubbio attraverso la scelta fatta dal Gran Consiglio, che la designazione della lista presentata al voto del corpo elettorale acquistava carat­ tere politico, e i candidati perdevano la qualità di rap­ presentanti delle Associazioni sindacali e degli Enti, che li avevano proposti, e prendevano quella di rappresentanti della Nazione. Si spiega cosi come, a circa tre mesi di distanza dalla promulgazione della legge elettorale, e a necessario e logico coronamento della riforma costituzionale, che si era iniziata il 24 dicembre 1925 con la legge sulle attri­ buzioni e prerogative del Capo del Governo, sia final­ mente venuta, tra il 18 settembre e il 19 novembre 1928, la discussione e approvazione, alla Camera e al Senato, della legge destinata a introdurre nella Costituzione del­ lo Stato italiano e a proclamare « organo supremo che coordina tutte le attività del Regime sorto dalla Rivolu­ zione dell’ottobre 1922 », quel Gran Consiglio del Fa­ scismo, che, creato nel 1923, appena compiuta la Marcia su Roma, aveva, da allora in poi, e sino alla fine del 1928, condotta, sotto la guida del Duce del Fascismo, una vita extralegale, o puramente di fatto, ma che, malgrado questa sua esistenza precostituzionale o pregiuridica, ave­ va continuato ad esercitare una funzione non meno essen­ ziale ai fini del Regime, come vero e proprio collegio direttivo di tutto il movimento fascista. È significativo che tale legge abbia avuto a data di

promulgazione sovrana il 9 dicembre 1928, cioè il giorno, in cui la Camera posta in essere dalle elezioni politiche del 6 aprile 1924, tenendo la ultima seduta della XXVII Legislatura, ebbe l ’onore di essere definita dal Duce Assemblea costituente della Rivoluzione fascista, anche se sia da aggiungere che essa sarà poi in alcune sue parti, in ossequio ad esigenze di carattere molto piu pratico che teorico, modificata dalla successiva legge 14 dicembre 1929. Le modificazioni riguardarono, da un lato, una dimi­ nuzione nel numero dei membri de jure del Gran Con­ siglio in rappresentanza di determinate Istituzioni di diritto pubblico, riducendosi a 3 (Segretario e Vicesegre­ tari) i rappresentanti del Partito Nazionale Fascista e a 4 (Presidenti delle 4 Confederazioni dei datori di la­ voro e dei lavoratori dell’industria e dell’agricoltura) i rappresentanti dell’ordinamento sindacale e corporativo, e, d’altro lato, una diminuzione della competenza di carattere deliberativo del Gran Consiglio, che la legge 14 dicembre 1929 restrinse al diritto di formare la lista dei deputati designati al corpo elettorale e al diritto di formare il proprio regolamento interno, sottraendole, in­ vece, ogni intervento, anche soltanto formale, nella deter­ minazione delle direttive e nella nomina di tutte le ge­ rarchie del Partito fascista. Il che basta ad escludere la tesi, secondo la quale il Partito fascista sarebbe stato « in­ corporato, sotto le specie del Gran Consiglio, nell ordi­ namento dello Stato». Anche dopo la sua cosiddetta costituzionalizzazione, con le leggi 9 dicembre 1928 e 14 dicembre 1929, il Gran Consiglio non è affatto diventato il centro motore, o l'organo direttivo del Partito fascista : e diventato invece, in quanto sintesi collegiale delle varie organizzazioni dello Stato, e accanto alla sintesi personale, che di queste organizzazioni si realizza nella persona del Re, il su-

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premo organo costituzionale di consultazione del Regime, per ]’esercizio di quella suprema potestà di Governo, che si incentra nella persona del Duce, che è insieme Capo del Governo e Capo del Partito, e perciò, in questa du­ plice funzione, Presidente del Gran Consiglio del Fa­ scismo, e come tale, esercitante su di esso tutte le facoltà di iniziativa necessarie al suo funzionamento, come ne è per legge segretario il Segretario del Partito. Sicché quasi del tutto immutata rimase nella legge del ’29 la competenza di carattere consultivo attribuita al Gran Consiglio dalla legge del 1928 : competenza, che è facoltativa, tale, cioè, che la iniziativa di provocare il parere del Gran Consiglio è lasciata al criterio discre­ zionale del Duce, quando si tratta di questioni politiche, ed è invece obbligatoria, tale, cioè, che il Duce non può prescindere dal sentirne il parere, anche se questo poi non lo vincoli, quando si tratti di materie costituzionali. Compito essenziale del Gran Consiglio è, insomma, di integrare collegialmente, in posizione subordinata, la funzione accentratrice e direttiva di tutti i poteri dello Stato, che ha il suo organo supremo nella persona del Duce. Compito però, è bene aggiungere, ai fini del quale esiste, nella pratica del Regime, anche un altro istituto, che offre senza dubbio qualche affinità col Gran Consi­ glio del Fascismo. Si allude alla Assemblea quinquennale del Regime : cosiddetta, perché raccoglie « tutte le forze vive ed operanti della società nazionale, tutti gli uomini che stanno con responsabilità e funzioni definite al ver­ tice delle gerarchie e convergono nelle loro azioni ad un solo fine... ». L ’istituto sorse dapprima, o parve, occasionalmente, in connessione con la lotta elettorale : esso fu, infatti, con­ vocato per la prima volta il io marzo 1929, e perciò poco piu di una decina di giorni prima della data fissata per le

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elezioni, sin d ’allora chiamate plebiscitarie; « ma » disse, quel giorno, Mussolini, « il fatto che tale Assemblea fu convocata alla vigilia di una elezione... non deve trarre in inganno. Questa non è un’assemblea elettorale: è piuttosto il gran rapporto dello Stato Maggiore della Nazione... ». Anche più recisamente cinque anni dopo, in occasione della seconda Assemblea quinquennale, il 18 marzo 1934, anche questa volta alla vigilia dei comizi elettorali : « La terza la terremo nel 1939... la quarta nel 1944, la quinta nel 1949, e cosi di seguito; prescindendo ormai dal fatto della consultazione elettorale, episodio che appartiene al passato. L ’Assemblea quinquennale assume quindi un carattere tipico, quello di un rapporto, come dopo una tappa dell’avanzata... ». È, dunque, una istituzione stabile, regolare del Regi­ me, che ha il duplice vantaggio di rispondere al metodo, caratteristicamente fascista, di integrazione subiettiva del­ le masse, avvicinandole ogni tanto in immediato contatto alle Gerarchie, e di fornire al Duce una mirabile occa­ sione per formulare, di fronte al popolo, l ’indirizzo, che Egli intende imprimere al Governo della Nazione. E forse ha anche un terzo vantaggio : di costituire, nella stessa pubblicità del suo apparato e del suo svolgimento, un efficacissimo espediente per rimediare al difetto di azione suggestiva politica, che la necessità del segreto rende inevitabile nel funzionamento del Gran Consiglio. * La seduta di chiusura della X X V II Legislatura si svol­ se con particolare solennità, al Senato, nella seduta del 22 dicembre 1928, e Mussolini ne approfittò, per dare atto al Senato della collaborazione fornita dal secondo ramo del Parlamento all’opera rivoluzionaria, che era

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stata compiuta, dal 1924 in poi, dal Regime: « Il pro­ fondo sommovimento rivoluzionario del Fascismo non ebbe mai ostacoli, né sofferse di incomprensioni in que­ sta Assemblea». N e aveva, invece, per qualche mese almeno, sofferte nell’altro ramo: nella Camera elettiva, benché anche que­ sta avesse poi, per virtù della sua maggioranza, saputo compiere il proprio dovere verso la Rivoluzione. « Que­ sta è la Camera » aveva detto Mussolini, nell’ultima sua seduta, il 9 dicembre 1928, «che ha degnamente ope­ rato, che è stata disciplinata e ferma anche nei momenti più diffìcili... Questa è la Camera del 3 gennaio 1925, del 9 novembre 1926, la Camera dello Stato Corporativo, di tutte le leggi che hanno creato il nuovo Stato... »: in altri termini, la Costituente della Rivoluzione fascista. Sciolta, quindi, la Camera, alla fine di dicembre 1928, essa fu riconvocata per il 20 aprile dell’anno successivo. La sera del 27 febbraio 1919, il Gran Consiglio appro­ vava la lista dei candidati politici da proporre ai comizi elettorali o plebiscitari, fìssati « non per semplice coinci­ denza, ma per determinata volontà », per rindomani del primo Decennale della fondazione dei Fasci, cioè per il 21 marzo 1929. E la campagna elettorale fu aperta, il io marzo, da Mussolini, con un discorso al Teatro Reale dell’Opera, a Roma, innanzi alla prima Assemblea nazionale del Regime : discorso totalmente diverso, nel tono e nell’ispi­ razione, da quelli, che, in analoghe circostanze, si so­ gliono pronunciare dagli uomini di Governo, perche, anziché consistere in una serie di promesse per l ’avve­ nire, si risolse in un quadro sintetico dell’attività svol­ ta, in ogni campo, dal Regime, nel settennio trascorso, per tracciare il quale Egli si immaginò di avere dinanzi al suo spirito «la nostra Italia nella sua configurazione geografica, nella sua storia, nella sua gente: mare, mon­ 82

tagne, fiumi, città, campagne, popolo»..., culminando, com’era facile attendersi, data l ’enorme importanza na­ zionale e storica del grande avvenimento tuttora recen­ tissimo, nella rievocazione degli “ Accordi lateranensi” dell’n febbraio precedente, da cui eran venute insieme la soluzione della “ Questione romana” e la conciliazione tra Stato e Chiesa in Italia... Ma percorsa da una vena di contenuta emozione ne apparve specialmente la chiusa, nella quale Mussolini tenne sovrattutto a rivendicare al Fascismo il merito di « aver dato agli Italiani il senso dello Stato... ». «... Questo plebiscito » aveva detto Mussolini sin dal 9 dicembre scorso, nell’ultimo suo discorso alla Camera ora sciolta, « si svolgerà in assoluta tranquillità; non eserciteremo seduzioni o pressioni. Il popolo voterà per­ fettamente libero... Il plebiscito avrà la sua importanza, e noi desideriamo che riesca solenne. Avrà la sua im­ portanza grande, perché avviene, non solo dopo sei anni di Regime fascista, ma dopo dieci anni di Fascismo. Il popolo italiano dovrà giudicare, e siccome io credo nella forza del popolo italiano, nella sua innata e profonda probità, credo che il plebiscito non deluderà la nostra aspettativa... » Lungi dal deludere questa aspettativa, la risposta data il 24 marzo ’29 dalla intera Nazione alla domanda : « A p ­ provate voi la lista di deputati designati dal Gran Con­ siglio Nazionale del Fascismo? », superò ogni piu rosea previsione : la superò, non meno pel numero dei votanti, che pel numero dei voti favorevoli : il 90 per cento degli elettori si recò alle urne; otto milioni e mezzo di votanti si dichiararono pel Fascismo, contro centotrentamila mi­ seri no deposti nel segreto dell’urna. Il plebiscito aveva luminosamente dimostrato, come vo­ leva Mussolini, che « l’Italia è fascista e che il Fascismo è l’Italia ». 83

Benché, però, la sera dell’8 aprile 1929, un decreto del Gran Consiglio del Fascismo abbia disposto che di esso si eternasse nel marmo il ricordo accanto alle votazioni del 1859, del 1860, del 1866 e del 1870, e accanto al Bollettino della Vittoria del 4 novembre 1918 - e ora, dopo la conquista dell’Etiopia, accanto all’annuncio della vit­ toria dell’Italia fascista sulla coalizione ostile di 52 Stati sanzionisti -, la parola plebiscito non deve trarci in er­ rore sul valore che la votazione plebiscitaria del 24 marzo ebbe di fronte alla Rivoluzione fascista. Il plebiscito del 24 marzo, appunto perché fu plebiscito fascista, non ebbe, né nel motivo ispiratore, né nelle con­ seguenze in esso implicite, nulla di comune coi vari ple­ bisciti, di cui la storia italiana ed europea del secolo XIX ci ha tramandato il ricordo, apparsi in tutt’altro clima storico, da quello, che il Fascismo ha creato nell’Italia di Vittorio Veneto, determinati da tutt’altri presupposti ideali e teorici, da quelli, onde si informa, dalla Marcia su Roma in poi, la coscienza politica degli Italiani. Tra i quali plebisciti sono anche da annoverarsi, ac­ canto ai plebisciti francesi del 1804 e del 1851, mediante cui il popolo di Francia fu chiamato a sanzionare, con un preteso atto di sovranità popolare, la legittimità dei colpi di Stato recanti la corona imperiale sul capo dei due Buonaparte, i plebisciti italiani del Risorgimento, me­ diante cui si credette di sanzionare, col suggello di una investitura popolare, l’ingresso degli ex-Stati regionali della penisola nello Stato unitario, uscito dal connubio tra la tradizione monarchica di Casa Savoia e la rivolu­ zione unitaria : gli uni e gli altri ispirati dall’incontrastato predominio nella mentalità francese e italiana del secolo scorso della ideologia politica imposta o diffusa dalla ri­ voluzione dell’ ’89. Ciò che, invero, il Regime fascista chiese ed ottenne dal voto del 31 marzo 1929, non fu affatto né una, sia 84

pure formale, investitura di guidare, con incontrastata signoria su tutte le energie del Paese, le sorti della Nazione verso le mete vedute e volute dal Duce, né una non meno formale ratìfica plebi­ scitaria del complesso di istituti o di leggi, mediante cui esso aveva già radicalmente trasformato, in tutto il suo assetto giuridico e sociale, la costituzione dello Stato italiano, sostituendo, nei costumi e nelle coscienze, al­ l’impero della ideologia liberaldemocratica l’impero della intuizione fascista del vivere politico e civile. Quella investitura e quella ratifica il Fascismo non chiese, ben sapendo come le Rivoluzioni hanno e trovano in sé, e non cercano fuori di sé, la propria ragione d’essere e la propria giustificazione : sapendo, cioè, che, come un giorno, durante la rivoluzione unitaria, non la maggio­ ranza degli Italiani volle diventar libera e padrona di sé, ma una loro ardimentosa minoranza - d’accordo con la Monarchia di Savoia, e sotto la guida di pochi eroici condottieri: Mazzini, Garibaldi, Cavour - creò, con la rivoluzione e la guerra, l’unità d’Italia, e impose questa unità alla maggioranza, cosi, piti tardi, un’altra mino­ ranza ardimentosa di Italiani, cui tre anni di guerra con­ clusa con una strepitosa vittoria avevano insegnato la vocazione a morire, pur di vincere - d’accordo con la Mo­ narchia di Savoia, e sotto la guida di un eroico condot­ tiero: Mussolini - salvò, con una Rivoluzione, che non fu se non la ripresa e il coronamento della prima, quelPunità, che la organica debolezza e insensibilità nazio­ nale di un regime corroso dalla degenerazione parlamentaristica minacciava di consegnare indifesa all’anarchia dissolvente e disgregatrice, restaurandone l ’impero sugli animi usi alla indisciplina, e impose questa salvezza e questa restaurazione alla maggioranza. La impose con quella forza di imporsi, che sola può generare il consenso e non può mai esserne generata.

Lungi, dunque, dall’essere la legittimità, e quindi la irrevocabilità storica del Regime fascista e della sua Ri­ voluzione, la conseguenza del plebiscito del maggio ’29, quella legittimità e irrevocabilità fu, di quel plebiscito, il presupposto necessario e ineliminabile, e gli forni il fondamento del suo valore etico e storico. Valore altissimo, la cui nobiltà senza precedenti nella storia delle competizioni elettorali di tutti i regimi sta in questa duplice caratteristica: che mentre, da un lato, il Regime fascista convoco il popolo alle urne a votare, non in nome di ciò che lo poteva dividere, cioè di fronte ad una pluralità di partiti, di tendenze e di uomini contraddicentisi e contrastantisi, non meno sul terreno teo­ rico che sul terreno pratico, ma unicamente in nome di ciò che lo poteva unire, di fronte ad un solo Partito, ad una sola tendenza, ad un solo individuo, Mussolini, e lo ha invitato a rispondere con un semplice si o un semplice no; d’altro lato, lungi dal darsi l ’aria, com’era costume del Regime democratico-liberale, di considerarsi come al di sopra della mischia, come sottratto ad ogni possibilità di giudizio da parte degli elettori, ritenendosi già per sempre investito da una pretesa investitura plebiscitaria iniziale del diritto di governare la Nazione, salvo a per­ mettere, durante i ludi elettorali, contro di sé e i pre­ supposti della propria fede in se stesso ogni vilipendio e bruttura, il Regime fascista mise come posta delle batta­ glie proprio se stesso: non la propria legittimità storica, ossia il proprio diritto a governare la Nazione, ma la propria vocazione a governarla per l ’avvenire; e il giudi­ zio su questa vocazione esso chiese alla generalità dei cittadini, non già in nome di ciò che esso si proponeva di fare per 1 avvenire, cioè presentando un programma da attuare domani, ma unicamente in nome di ciò che aveva già fatto sino al giorno prima, presentando, nel discorso del io marzo all’Assemblea quinquennale, il re-

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soconto dell’opera già svolta e compiuta. E perciò, anche da questo punto di vista, il Regime diede contenuto uni­ tario alla lotta, perché, se la disparità e pluralità dei pareri è possibile su ciò che può essere, non è possibile discor­ dia di opinioni su ciò che è stato e che è. Nessuna investitura intese, dunque, il Regime di chie­ dere al popolo italiano, convocandolo, il 24 marzo del 1929, ad una votazione plebiscitaria : intese unicamente invitare il popolo italiano a compiere, di fronte a se stesso e di fronte al mondo, un atto di consapevole concordia e di conscia fede nei destini della Patria italiana: un atto, cioè, di quella unità morale, che era stato, all alba del Risorgimento, il sogno profetico di Giuseppe Mazzini, ma si rivelava soltanto ora, dopo cinquantanni di vita formalmente unitaria, come una realtà spirituale, ed in­ sieme come il massimo privilegio e la massima forza del popolo italiano tra i popoli civili. * Atto di unità morale, compiendo il quale il popolo ita­ liano aveva consapevolmente dato vita ad una Camera, che, essendo tutta composta di Deputati inscritti ad un solo Partito, il Partito fascista, si presentò subito alla Nazione, che l’aveva espressa, e alla opinione pubblica europea, sotto l’aspetto, del tutto inusitato in Europa, di una Camera totalitaria, mentre e contemporaneamente essa, richiamandosi al processo della propria formazione attraverso le designazioni della Associazioni sindacali, ma­ nifestava sin dall’inizio della sua attività la pretesa, quasi universalmente riconosciutale dalla opinione pubblica e dalla stampa, non soltanto in Italia, a considerarsi e a proclamarsi come prima Camera Corporativa dell Italia fascista. Avvenne cosi che il cosiddetto plebiscito del 24 marzo

del 1929 si risolvesse di fatto in una specie di indiscutibile collaudo offerto dal popolo italiano del grandioso esperimento compIUto in un breve volger di anni, in Italia, dalla Rivoluzione delle Camicie Nere, segnando l ’atto di nascita, nella vita di Europa e del mondo, di un tipo di Stato moderno, che non ha, nella storia antica e recente ne precedenti né uguali: lo Stato fascista, la cui caratte­ ristica differenziale, di fronte a tutti gli altri tipi di Stati moderni, e di essere uno Stato a regime totalitario: vale a dire, uno Stato in cui la possibilità e capacità di diri­ gere e determinare la volontà e il potere statale non è e non può essere mai, e in nessun caso, comunque divisa e frazionata tra fattori irresponsabili, posti fuori della or­ ganizzazione o del controllo statale, quali erano, sino a ieri, in Italia, e quali sono tuttora, altrove, i partiti i trust,, 1 cartelli,' ¿ Sindacati, e neppure polverizzata nella folla amorfa dei singoli individui costituenti la cosiddetta massa elettorale; ma è tutta e senza residui concentrata nello Stato, nel senso che tutte le organizzazioni o gli enti, cui spetta un determinato compito sociale di natura politica, economica, morale, educativa, culturale, sono, non soltanto controllati dallo Stato, ma, per mezzi più o meno diretti, collegati e ingranati nella organizzazione vera e propria dello Stato. Della quale organizzazione totalitaria dello Stato ap­ parve subito evidente come il presupposto essenziale fosse 1 unita di fede politica di tutti gli individui comunque compresi nell ambito della sua sovranità, elemento inde­ rogabile dell unita politica, quale la concepisce il Fasci­ smo : unita, che non è veramente tale, se non è concreta unione di spiriti e di volontà. L o Stato fascista è, insomma, lo Stato, in cui l 'idem setitire de república è concepito come requisito indispen­ sabile alla convivenza politica: nel senso che chi non pensa o non crede, come si pensa e si crede conforme­

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mente al pensiero e alla fede fascista, si mette automati­ camente fuori, non dalla possibilità di vivere sotto la ga­ ranzia delle leggi dello Stato la propria vita d’individuo nella sfera dei suoi interessi privati, ma da qualsiasi di­ retta e attiva partecipazione alla vita pubblica della società nazionale. N é meno evidentemente la totalitarietà dello Stato fascista appare subito basata su altri due presupposti non meno essenziali. Il primo è questo : che, per quanto lo Stato fascista presupponga necessariamente la forza politica del Partito fascista, la sua base è molto piu ampia e piu vasta di quella, che potrebbe essergli fornita dal solo Partito fa­ scista. E infatti, tra gli otto milioni di Italiani che aveva­ no, il 24 marzo del 1929, votato pel Fascismo, la enorme maggioranza non era affatto composta di individui in­ scritti al Partito. Già del resto, sin dal 30 ottobre del 1923 Mussolini si era chiesto : « Chi oserà dire, sia pur l’avver­ sario in malafede, che il Governo di Mussolini poggia soltanto sulla forza di un PartitoP N on è manifestazione di Partito, non è solo il Fascismo che celebra la Marcia su Roma; sono accanto a noi mutilati e combattenti, che rappresentano l’aristocrazia della Nazione. È accanto a noi la massa imponentissima dei nostri operai e dei capi dell’industria, sindacati nelle nostre Corporazioni. E sovrattutto con noi è la moltitudine del Popolo italiano... ». Che, anzi, il Regime ha il diritto di chiamarsi totalitario, in quanto in esso si raggruppano decine e decine di mi­ lioni di uomini, tutta la forza umana ed efficiente della Nazione... « Il Partito fascista, che è forza primordiale del Regime, non deve confondersi col Regime, che questa forza politica e tutte le altre di varia natura convoglia, abbraccia, armonizza... » L ’altro presupposto è che il Partito Nazionale Fascista, non è, malgrado il nome, un Partito. Chè anzi, lo Stato fascista è totalitario, in quanto in esso non possono esi89

sfere Partiti. La nozione di Partito politico si riallaccia a una concezione individualistica e contrattualistica dello Stato, e a un sistema politico, nel quale la massa elettorale sia chiamata a dare essa la investitura agli organi sovrani dello Stato, e che quindi consenta a fattori irresponsabili di disporre dei poteri dello Stato. L ’esistenza di Partiti politici nello Stato fascista è un fatto illecito. E, infatti, il Partito fascista non è piu oggi, in Italia, un Partito, nel senso, in cui esso fu tale nei primi anni del Regime, quan­ do questo si risolveva nella dittatura politica del Partito fascista su uno Stato che era pur sempre giuridicamente liberale. Quello, che era ieri, nello Stato ancora liberale, un Partito, è oggi, nello Stato diventato, dopo il 3 gen­ naio 1925, fascista, una vera e propria Istituzione di di­ ritto -pubblico, subordinata, nella sua formazione e nella sua azione, allo Stato, ma insieme imprescindibilmente presupposta da questo, per continuare ad essere uno Stato fascista, e perciò condizione essenziale alla vita stessa dello Stato, come Stato fascista: vale a dire un organo, non tanto dello Stato, quanto piuttosto del Regime, per cui lo Stato è lo Stato fascista : l’organo, mediante cui il Regime garantisce allo Stato fascista il perdurare e persistere nella coscienza e nella volontà degli Italiani di quella unità di fede politica, senza la quale lo Stato ita­ liano non potrebbe essere e rimanere fascista: unità, che è, si aggiunga, politica, in quanto non è soltanto teorica, ma anche pratica, e perciò anche e insieme eco­ nomica. La Nazione italiana è, invero, un organismo po­ litico, presupponente, come tale, una credenza politica unitaria, in quanto è insieme un organismo economico, presupponente, come tale, una attività o prassi economica unitaria. L ’unità politica della Nazione ne postula l’unità economica: ragione fondamentale dell’essere lo Stato italiano Stato politicamente fascista, in quanto è uno Stato giuridicamente corporativo. E tanto è vero che il 90

Partito è, oggi, nello Stato fascista, una istituzi. organo di diritto pubblico, che il Segretario del è, su proposta del Duce del Partito e del Capo del TìcF verno, nominato con un decreto reale, e, come ministro del Re, ha voto e funzione nel Consiglio dei Ministri. Dati i quali presupposti della concezione totalitaria del­ lo Stato, il problema di tradurre questi presupposti in Istituti positivi si era presentato in termini netti e pre­ cisi alla Rivoluzione fascista, e, per essa, al suo Capo e Duce. Si trattava di far si che la sovranità nello Stato non risiedesse in elementi posti fuori dello Stato, e che il Governo, come insieme di tutte le forze comunque eser­ citanti gli attributi della sovranità, non emanasse da forze estranee allo Stato, nessun ente e nessun organismo mo­ rale, politico, economico potendo costituire politicamente e giuridicamente un prius rispetto allo Stato, che è in­ sieme Popolo, perché è Yanimo o lo spirito, in virtù del quale vive, cioè vuole ed agisce e si espande e si per­ petua, attraverso il volger delle generazioni, quel corpo superindividuale o collettivo, che è il Popolo. Il problema fu innanzi tutto risolto dalla Rivoluzione fascista, restaurando, al vertice di quell’organismo vi­ vente, che è lo Stato-Popolo o il Popolo-Stato, per l’eser­ cizio pieno e integrale della sua sovranità su se stesso e di fronte agli altri popoli viventi a Stato, e quindi della sua volontà di disciplina unitaria all’interno e di' potenza espansiva all’esterno, l’autorità e il prestigio di due grandi Istituzioni preesistenti, ossia fornitele dalla tradizione storica della Nazione, che la Rivoluzione trovò, all’ini­ zio del proprio svolgersi, avviati a un processo di appa­ rentemente irrimediabile decadenza, la Monarchia e il Governo. Lo Stato, che il Fascismo ha il merito di aver creato in Italia, è infatti lo Stato, che « si riassume e si esalta

nella Dinastìa di Savoia e nella Sacra Augusta persona del Re »: parole pronunciate da Mussolini alla vigilia del Plebiscito fascista del 24 marzo 1929, e nel quale riecheggiano, cosi uno dei primi ordini del giorno votati dal Gran Consiglio del Fascismo, a pochi mesi dalla Marcia su Roma, la sera del 26 luglio 1923, in cui la Rivoluzione delle Camicie Nere era definita « riserva ine­ sauribile di entusiasmo e di fede nei destini della Patria, simboleggiata dall’Augusta Persona del Re »: come la dichiarazione fatta, a un anno dalla Marcia, da Mussoli­ ni, a Milano, il 28 ottobre 1923: « La Monarchia è il simbolo sacro, glorioso, tradizionale, millenario della Pa­ tria:... noi abbiamo fortificato la Monarchia, l’abbiamo resa piu augusta... ». N é tra questo lealismo monarchico della Rivoluzione e la cosiddetta tendenzialità repubblicana del Fascismo della vigilia c’è contrasto, se non apparente. Quella tendenzialità repubblicana, per quel tanto, che non fosse semplice strumento tattico contingente ai fini del programma rivoluzionario, aveva origine, ben pili che in una aprioristica avversione teorica, incompatibile, del resto, con i presupposti antidemocratici del movi­ mento fascista, contro la forma di Governo monarchica, in un istintivo moto di reazione del Fascismo della vigi­ lia, di fronte al discredito, in cui il prevalere dei metodi parlamentaristici aveva finito, anche in Italia, per far ca­ dere la Monarchia. Ma basta una scorsa al discorso di Udine, per constatare come, già un mese prima della Marcia su Roma, quel moto di reazione fosse stato da Mussolini risolto, non contro la conservazione, ma a javore della restaurazione dell’Istituto monarchico: a Bi­ sogna avere il coraggio di essere monarchici. Perché noi siamo repubblicani? In un certo senso, perché vediamo un monarca non sufficentemente monarca... D ’altra par­ te, bisogna evitare che la rivoluzione fascista metta tutto

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in gioco. Qualche punto fermo bisogna lasciarlo...». Il che vuol dire che la primitiva tendenzialità repub­ blicana del Fascismo antidemocratico e antiparlamentare si era, già alla vigilia della Rivoluzione, trasformata in una sua netta e precisa vocazione a restituire alla Mo­ narchia, conducendola a liberarsi da quella specie di as­ servimento all’arbitrario prepotere delle maggioranze par­ lamentari, a cui la degenerazione parlamentaristica sem­ brava averla irrimediabilmente abbassata, la coscienza e il possesso di quella sua originaria e insostituibile fun­ zione di unica interprete e realizzatrice unitaria della vo­ lontà, e perciò di supremo e decisivo fattore dei destini di questa, di cui pareva essersi, tra gli Italiani, e persino fra quelli, di essi, più tradizionalmente fedeli all’istituto monarchico, perduto il ricordo. Né fu a caso che a coloro, che gli chiedevano a gran voce, tra l’estate e l’autunno del 1924, di normalizzare la situazione politica, Mussolini aveva risposto il 4 otto­ bre: « ...L a normalizzazione dovrebbe consistere nella possibilità di sbarazzarsi di questo Governo attraverso un semplice voto parlamentare... N on è stato un voto parlamentare... che ci ha dato il potere... N oi non pos­ siamo considerarci alla stregua di tutti i Partiti, consi­ derare il Parlamento come l’unico ambiente, nel quale tutte le situazioni politiche di una Nazione trovano la loro soluzione ordinaria e regolare... »; onde, poche setti­ mane dopo, la sua dichiarazione del 29 ottobre : « Noi siamo qui per dire che siamo dei soldati fedeli alla conse­ gna, e la consegna ci è stata data dal Re e dalla Nazione. Solo al Re, solo alla Nazione noi dobbiamo rendere atto del nostro operato... ». La Rivoluzione fascista consiste appunto nell aver tra­ sferito il diritto di risolvere le situazioni politiche del Paese, dal Parlamento, interprete necessariamente mute­ vole delle contingenti vicissitudini dei Partiti, nella Mo-

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narchia, o nel Re, interprete storicamente fermo della perenne volontà nazionale. Sicché è proprio per questo che la restaurazione ope­ rata dal Fascismo della funzione storica dell’Istituto monarchico si risolve o si identifica con la restaurazione contemporaneamente e correlativamente operata dal Fa­ scismo della funzione politica dell’Istituto governativo, 0 del Governo, come organo unitariamente supremo di quel potere esecutivo, in cui si assomma la sovranità, e che ha nella persona del Re la unica fonte dei suoi po­ teri : perché il Governo è il Governo, in quanto è il Go­ verno del Re: del Re, che appunto lo esercita a mezzo del suo Governo. D i qui, sovrattutto, la importanza fondamentale, ai fini della Rivoluzione fascista, delle due leggi sul Capo del Governo e sulle facoltà del Governo di emanare nor­ me giuridiche, mediante le quali il Governo dello Stato è realmente diventato « l’espressione più alta del Regi­ me, per cui lo Stato è lo Stato fascista » : vale a dire, mediante le quali è riuscito al Duce delia Rivoluzione fascista, non solo di « ristabilire l ’idea dello Stato », ma anche di fissare « lo stile del Governo »... : quello stile, che ha fatto del Governo « una cosa viva, palpitante, operante nel seno stesso della Nazione » : operante tutti 1 giorni, quasi tutte le ore, attraverso una attività che si rivolge a tutti gli aspetti, anche i piu disparati e diffor­ mi, della vita nazionale, e non conosce né requie né sosta, e che opera attraverso decisioni, delle quali, com’è giusto, nessuno può essere a preventiva conoscenza : « Uno solo è tempestivamente informato : il, Capo dello Stato, la Maestà del Re... ». Senonchè l ’opera spesa a restaurare l ’autorità e il pre­ stigio della Monarchia e del Governo non fu che un lato dell’azione svolta dalla Rivoluzione delle Camicie Nere, per creare lo Stato fascista, come Stato totalitario : l’altro

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lato, intimamente e inscindibilmente connesso al primo, e non meno essenziale, anzi condizione indispensabile ad esso, fu l’azione svolta per promuovere, alla base di quell’organismo, che è lo Stato-Popolo o il Popolo-Stato, il sorgere e l ’affermarsi, mediante l’attività unificatrice e coordinatrice di due grandi Istituzioni nuove - nuove, in quanto poste ex novo in essere dalla originalità del proprio spirito rivoluzionario -, quali sono il Partito Na­ zionale Fascista e V Ordinamento Sindacale Corporativo, di una formidabile e consapevole unità politica ed eco­ nomica di propositi e di mete, ai fini della disciplina unitaria all’interno e della potenza espansiva all’estero, là dove prima non era che una folla disorganizzata ed amorfa di individui politicamente divisi dalla discordia di Partiti antitetici ed economicamente disgregati dal­ l’urto di interessi contrastanti. Due grandi Istituzioni nuove, in cui Mussolini ebbe ri­ petutamente ad additare le due grandi riserve, politica ed economica, del Regime, vale a dire, i due strumenti, coi quali il Regime realizza la propria idealità dello Stato: l’una, il Partito, organo di unificazione spirituale del Popolo e di preparazione politica della classe dirigente; l’altra, l’Ordinamento Sindacale Corporativo, organo di unificazione economica, di addestramento tecnico e di coordinazione professionale della società nazionale; ed entrambe perciò risolventisi in massima garanzia di li­ bertà e di uguaglianza per gli individui, comunque vi­ venti ed operanti nell’ambito dello Stato, perché entram­ be a tutti selettivamente aperte, senza esclusioni o distin­ zioni di ceti, di classi, di categorie, dal più umile mano­ vale al più alto gerarca del Regime. Istituzioni, le quali si completano a vicenda, benché l’una essenzialmente politica, l ’altra essenzialmente giu­ ridica, e benché quindi le finalità di ciascuna presentino caratteri di contrasto apparentemente irriducibile.

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Nel Partito, infatti, non si entra, come nell’Ordina­ mento Sindacale Corporativo, per tutelare interessi eco­ nomici o professionali, di qualsiasi specie essi siano: si I entra, in quanto si aderisca ad una dottrina politica, ad I un programma di vita morale, da tradursi quotidiana- I mente in azione, in ogni contingenza della vita pratica. Il Partito non è una coalizione di interessi, per quanto legittimi: è una riunione o una comunione di anime intorno ad un unico credo politico. E nel Partito, gli indi­ vidui entrano e operano in condizione di assoluta unifor­ mità di propositi e di intenti, qualunque sia il posto da essi tenuto nelPOrdinamento Sindacale Corporativo, non potendo in seno al Partito ripercuotersi e agire i motivi di contrasto o di conflitto economico, che, in quell’Ordin amento, necessariamente contrappongono, nelle Associa­ zioni sindacali, i datori di lavoro ai lavoratori, e divido­ no, nelle Corporazioni, non meno necessariamente i rappresentanti delle varie categorie produttive. Nel Partito, l’imprenditore e l’operaio, il commerciante all’ingrosso e il commerciante al minuto, l ’industriale e l’agricoltore, l ’impiegato e il libero professionista, il capitano d’industria e l ’artigiano, si trovano sullo stesso piano, soggetti alle stesse gerarchie, concordi nella stessa credenza e nella stessa disciplina. Quello spirito di collaborazione tra le classi, ai fini della distribuzione della ricchezza, e di solidarietà eco­ nomica tra le varie categorie produttive, ai fini unitari della produzione nazionale, che, nella pratica dei rap­ porti quotidiani, è compito dell’Ordinamento giuridico corporativo di realizzare, mediante i vari Istituti e con­ gegni amministrativi, giurisdizionali e politici, delle au­ tarchie sindacali e degli organi dello Stato, è, nel seno del Partito, realtà vivente e operante sulle coscienze, perché è, per chiunque appartenga al Partito e sia degno di ap­ partenervi, un imperativo categorico, cioè un atto di vo96

lontà, prima di essere il risultato di procedimenti giu­ ridici. Il che equivale a dire che i produttori italiani, a qua­ lunque classe o categoria appartengano, possono in tanto, ai fini della produzione italiana, agire corporativamente, in quanto, come individui, pensino e vogliano fascisticamente. Da un lato, quindi, la tutela o la difesa di interessi economici: dall’altro, la professione di una fede politica. Ma è questa fede politica, che pone il limite o il criterio, entro il quale quegli interessi economici possono essere tutelati e difesi, che, anzi, può sola trasformare il diritto dell’individuo a vedere tutelati e difesi, mediante l ’azione sindacale e corporativa, i propri interessi di individuo di fronte agli interessi di altri individui, in funzione neces­ saria alla vita dello Stato. *

Partito e Sindacati-Corporazioni sono, dunque, come elementi costitutivi dello Stato totalitario fascista, legati in un rapporto tanto intimo e organico, da formare un vero e proprio binomio, e in cui è da scorgere la chiave di volta di quello Stato, che la Rivoluzione fascista ha creato, e la cui forza politica risulta dal contemporaneo e vicendevole equilibrarsi, ai fini della Nazione, e sotto la sua immanente sovranità, delle attività delle autarchie sindacali e delle attività del Partito. Questo equilibrio è la massima originalità del Fascismo. E poiché questi quattro grandi Istituti - Monarchia, Governo, Partito, Sindacati-Corporazioni - abbracciano, e unificano la società nazionale nel tempo e nello spazio, ne deriva logicamente che ad essi, come a fattori imma­ nenti dello Stato, sia stato conferito il compito di parte­ cipare in vario modo e in diversi momenti alla costitu­ zione degli organi, mediante cui si estrinseca e realizza,

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nella concreta vita di ogni giorno, la sovrana volontà dello Stato. Basta un rapido sguardo al diritto pubblico vigente nello Stato fascista, per accorgerci come tutti gli organi costituzionali di questo (Gran Consiglio del Fa­ scismo, Consiglio dei Ministri, Senato, Camera dei De­ putati, Consiglio delle Corporazioni, infine, come vedre­ mo, Camera dei Fasci e delle Corporazioni), ripetono la loro origine o la loro formazione dall’uno o dall’altro o da tutti insieme i quattro organi veramente fondamentali dello Stato fascista : Monarchia, Governo, Partito, Sinda­ cati-Corporazioni . Il Fascismo ha cosi trasferito la sovranità, dalle masse elettorali, forze brute ed amorfe, poste fuori dallo Stato, nelle grandi Istituzioni, che inquadrano e costituiscono l ’armatura dello Stato: vale a dire, ha trasferito la sovra­ nità, dalle forze inorganiche o estranee allo Stato, a un sistema di Istituti statali, che assorbono ed elaborano tutta la vita sociale. L ’affermazione mussoliniana, non potere e non dovere esistere porzione o frammento di sovranità prima o fuori o contro lo Stato non è più una semplice aspirazione o enunciazione teorica, è una realtà di fatto. E cosi il Fascismo ha offerto, per primo, al mondo moderno, l’esperimento di un tipo di civiltà politica del tutto e in tutto diversa da qualsiasi altro: quel nuovo tipo di civiltà, che « armonizza la tradizione con la mo­ dernità, il progresso con la fede, la macchina con lo spirito, e che segna la sintesi del pensiero e delle conquiste di due secoli » : onde la superba affermazione di Mus­ solini : « Il Fascismo è l’unica cosa nuova, che i primi trentanni di questo secolo abbiano veduto nel campo po­ litico-sociale » : quella cosa, per cui è dato all’ Italia di dire ancora una volta una nuova parola d’ordine al mon­ do, ossia di riprendere ancora una volta nel mondo la iniziativa politica. 98

VI LA CRISI D E L L A S O C IE T À C A P IT A L IS T IC A E L ’A V V E N T O D E L L A N U O V A E C O N O M IA : L O S T A T O F A S C IS T A C O R P O R A T IV O (Dal Plebiscito fascista del 24 marzo IQ29-VII alla istituzione della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, 19 gennaio 1939-XVII) vero però, che per quanto, nel momento in cui si celebrò il Plebiscito fascista del 24 mar­ zo 1929, il nuovo tipo di civiltà politica creato dalla Ri­ voluzione delle Camicie Nere si annunciasse ormai pa­ lese nelle linee fondamentali, esso non era però ancora entrato nella pienezza del proprio sviluppo, e la Rivolu­ zione aveva ancora altri passi da fare, perché la propria creazione potesse dirsi del tutto compiuta. Era, infatti, ormai nato lo Stato totalitario fascista: non era ancor nato, benché fosse già piu che in germe presente e visi­ bile, lo Stato fascista corporativo, in tutto il senso del ter­ mine. Perché sta di fatto che, per quanto la legge elettorale del settembre 1928, in base a cui il popolo italiano era stato chiamato alle urne pel 24 marzo 1929, fosse stata, nel discorso del io marzo alla Assemblea quinquennale, definita dal Duce « logica conseguenza della profonda trasformazione costituzionale dello Stato e della creazione dei nuovi Istituti corporativi », essa era pur sempre una legge pensata ed elaborata quando, nello sviluppo del Regime, perdurava quella fase di arresto nella formazione

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degli Istituti corporativi, creati dalla legislazione del 1926 e dalla Carta del Lavoro, che abbiamo chiamato fase sin­ dacale del processo formativo del Corporativismo fasci­ sta, e che soltanto nel marzo del 1930 cederà all’iniziarsi di una vera e propria fase corporativa. Era quindi naturale che la legge elettorale del 2 set­ tembre ’28 presupponesse unicamente il funzionamento delle Associazioni sindacali, e ignorasse persino l’esistenza di quegli organi centrali di collegamento tra Sindacati contrapposti di datori di lavoro e di lavoratori, che il regolamento i° luglio ’26 e la Carta del Lavoro presenta­ vano, chiamandoli Corporazioni, come organi di Stato. N e ignorava l’esistenza, perché, in realtà essi non avevan neppure incominciato ad esistere. Sicché, piu che corpo­ rativa, la Camera del 24 marzo ’29 avrebbe potuto legit­ timamente chiamarsi Camera sindacale o sindacalista, come quella che la propria origine sovrattutto doveva alla competenza di diritto pubblico attribuita dalla legge 3 aprile ai Sindacati. E, del resto, nella formazione della lista presentata dal Gran Consiglio al voto del 24 marzo, il criterio poli­ tico aveva, per motivi di carattere contingente, troppo visibilmente prevalso sul criterio rigidamente professio­ nale, perché - come ebbe con la consueta sincerità a ri­ conoscere lo stesso Mussolini nel discorso del io marzo, alla vigilia del voto, - « l’esperimento corporativo potesse essere totale in questa elezione ». È evidente che una Camera composta con questo cri­ terio era senza dubbio una Camera fascista al cento per cento, come il Duce l’aveva esplicitamente promessa alla Camera precedente, sin dal 9 dicembre del 1928; ma era insieme in senso molto approssimativo e relativo una Camera corporativa\ Senonchè l ’arresto nella formazione degli organi cor­ porativi veri e propri (Corporazioni e Consiglio Nazio-

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naie delle Corporazioni) fu, come già si dal significare sosta o stasi nell’attività del retta - mediante una costante organica collaborazione col Partito, da un lato, e con le Confederazioni sindacali, dal­ l’altro -, a potenziare, disciplinare, promuovere in senso unitario la produzione nazionale, e a preparare le condi­ zioni di cose necessarie per poi aprire la via nella società italiana al passaggio dalla vecchia economia capitalistica alla nuova economia corporativa. La politica economica del Regime, risolventesi nel­ l’abbandono, per parte dello Stato, della sua precedente attitudine di indifferenza di fronte ai fatti economici, e nella consapevolezza, da parte dello Stato, della propria funzione di regolatore supremo della vita economica na­ zionale, non nascerà alla vita soltanto il giorno, in cui gli organi corporativi cominceranno a funzionare come una realtà, ma si può dire fosse nata il giorno stesso, in cui era apparsa alla luce la legge 3 aprile ’26. D al­ l’entrata in vigore degli organi corporativi, lo Stato fasci­ sta attenderà, infatti, non l ’inizio della propria funzione e della propria azione economica, ma piuttosto i mezzi tecnici speciali, per potere questa funzione e azione eser­ citare con regolarità giuridica. Ma, anche prima che que­ sti mezzi ci fossero, lo Stato fascista aveva sempre quella funzione e azione economica esercitata, coi mezzi, di cui la sovranità lo forniva, qualunque essi fossero. Il principio dell’intervento statale nei fatti economici non deve, in altri termini, ritenersi coevo, nella vita del Regime fasci­ sta, a quella che dicemmo fase corporativa di questo, per­ ché era coevo all’inizio stesso del Regime, che perciò, anche prima che la fase corporativa avesse inizio, aveva applicato quel principio, quando fosse necessario comun­ que applicarlo. Chè, anzi, ci è dato constatare come l ’attività di inter­ vento statale nei fatti economici sia stata, nel quadriennio 101

tra la primavera del 1926, quando, con la legge 3 aprile, si apri la fase sindacale, e la primavera del 1930, quando con la legge sul Consiglio Nazionale delle Corporazioni si aprirà la fase corporativa, particolarmente viva ed in­ tensa, secondo due direttive concomitanti e correlative. La prima di queste due direttive consistè nella tendenza a garentire, in attesa del sorgere delle Corporazioni na­ zionali, la necessaria uniformità di attuazione alla poli­ tica economica del Regime, tanto al centro quanto alla periferia, anticipando in linea di fatto le funzioni disci­ plinatrici e coordinatrici delle tutt’ora mancanti Corporazioni, mediante la istituzione, da un lato, di un Comi­ tato di azione corporativa sui prezzi ed i costi e sui salari, sedente presso il Ministero delle Corporazioni e presie­ duto dal Capo del Governo, e, d’altro lato, mediante la creazione di due Istituti sorti dalle esigenze della pratica e nati dalla esperienza, e, infatti, voluti e organizzati, verso il sqcondo semestre del 1926, dal Partito Nazionale Fascista, come punto di coordinamento e di convergenza dell’azione politica del Partito con l ’azione amministra­ tiva del Ministero delle Corporazioni, quali furono il Comitato intersindacale centrale e i Comitati intersinda­ cali provinciali. Coi quali Istituti si veniva, in sostanza, a stabilire, in linea di diritto, che i Sindacati, oltre ad essere portatori di interessi di carattere particolare, erano, come tali, soli­ dalmente responsabili dinanzi al complesso della produ­ zione. Il Partito e il Ministero delle Corporazioni erano con essi chiamati a regolare i modi ed il metodo di una collaborazione, che era effettivamente corporativa. Sicché potè dirsi di questi Comitati intersindacali che essi furono, in sostanza, la prima Corporazione in atto : la Corporazione avanti lettera. L ’unità corporativa nazionale era assicurata dalla Pre­ sidenza assegnata alle gerarchie del Partito.

Appunto perché nati dall’esperienza, questi Comitati non furono da principio disciplinati da alcuna legge: si convocarono in modo saltuario, caso per caso. Solo nel novembre del 1927, il Gran Consiglio onoro della propria sanzione questo Istituto, sorto dalla pratica, de­ liberando che si proseguisse l’opera intrapresa con i C o ­ mitati intersindacali provinciali aventi funzione corpo­ rativa, e accogliendone come validi gli accordi, salvo ra­ tifica del Ministero delle Corporazioni. Ma l’Istituto doveva compiere un nuovo passo, il gior­ no in cui la Presidenza del Comitato intersindacale cen­ trale, prima tenuta dal Segretario del Partito, fu assunta dal Capo del Governo. Investito di un esame della situa­ zione economica generale, composto dai rappresentanti dei supremi organi sindacali, il Comitato intersindacale centrale appariva, nel 1929, un organo agile, pronto, ca­ pace di assumere e definire le responsabilità singole, e sovrattutto, un ottimo terreno di collaborazione, nel quale gli interessi delle categorie trovavano il punto di scambievole mediazione, nel limite moderatore dell in­ teresse nazionale : specialmente prezioso apparve il con­ tributo recato dall’ Istituto alla soluzione del problema dell’assestamento dei prezzi e dei salari. Era, insomma, una vera e propria anticipazione del Consiglio Nazionale delle Corporazioni. Sicché e naturale che, con la legge del 20 marzo 193°» esso sparisse, per essere sostituito dal nuovo Comitato corporativo centrale. Continuarono, invece, ad esistere, presieduti dai Segre­ tari Federali del Partito, i Comitati intersindacali pro­ vinciali, realizzando nelle province la saldatura tra 1 ordi­ ne politico e l’ordine economico, ed evitando il formarsi tra le organizzazioni del Partito e le organizzazioni sin­ dacali di uno spirito pericoloso di concorrenza o di ri­ valità. Accanto ai Comitati intersindacali provinciali, continua­ 103

rono a funzionare in ogni provincia, e non senza pericolo di costituire un doppione con essi, e sotto la presidenza dei Prefetti, i Consigli provinciali dell’Economia corpo­ rativa. E intanto, ad affrettare, da un altro punto di vista, il compiersi della graduale evoluzione della politica econo­ mica del Regime verso la unificazione delle forze pro­ duttive nel sistema corporativo, si era, nel campo dell’in­ quadramento sindacale, realizzata, negli ultimi giorni del 1928, l’operazione, che il Duce con caratteristica espres­ sione definì di sbloccamento di quella Confederazione nazionale dei Sindacati fascisti dei lavoratori, la cui crea­ zione, dettata da ragioni di indole pratica, sovrattutto dal­ la necessità, in un primo tempo, di diffondere e rendere quasi plastico il senso della unitaria organizzazione sin­ dacale dei lavoratori, costituiva però nel suo spirito in­ formatore una evidente deviazione dalla legge sindacale 3 aprile 1926, tutta imperniata sul concetto del costante pa­ rallelismo simmetrico delle due organizzazioni separate dei datori di lavoro e dei prestatori d’opera o lavoratori. Non esisteva, infatti, in antitesi alla Confederazione na­ zionale dei Sindacati fascisti dei lavoratori, una parallela Confederazione nazionale dei Sindacati fascisti dei datori di lavoro. Lo sbloccamento consiste nella trasformazione delle sei Federazioni, in cui era divisa precedentemente l’unica Confederazione nazionale dei lavoratori, in sei cor­ rispondenti e distinte ed autonome Confederazioni nazio­ nali di datori di lavoro, ed ebbe luogo mediante sei con­ temporanei regi decreti del 6 dicembre 1928, cui corri­ spose, nelle singole provincie, l’adeguato sbloccamento de­ gli Uffici provinciali dei Sindacati fascisti, che rappresen­ tavano alla periferia a struttura unitaria l’unica Confede­ razione dei Sindacati fascisti. Con decreti del 6 dicembre ’28, le sei Federazioni dei lavoratori diventarono organismi autonomi-, il che si ri­ 104

solse non a danno, ma a vantaggio del sindacalismo fa­ scista operaio : in quanto lo sbloccamento portò a vivifi­ care, non a isterilire, come sulle prime qualcuno mostrò di temere, le organizzazioni dei lavoratori. L ’esperienza sindacale di questi anni diede di ciò piena conferma. Ma sovrattutto la operazione di sbloccamento mirò a facilitare il passaggio dalla fase sindacale alla fase corpo­ rativa del Regime, preparando la possibilità del funziona­ mento corporativo pieno e assoluto del sistema sindacale, in quanto, inducendo le Associazioni dei lavoratori ad attrezzarsi tecnicamente, e a fidare piu sulla conoscenza effettiva dei problemi che sulla difesa illusoria di un so­ stegno reciproco, riaffermò con nuova energia il princi­ pio che, nello Stato fascista, nessuna Associazione può sussistere su altra forza che non sia quello dello Stato, e che perciò la molteplicità dell’azione sindacale non può convergere ad unità che nello Stato. Niente di piu naturale perciò, che proprio sul finire del ’28, cioè press’a poco contemporaneamente al cosid­ detto sbloccamento, il Capo del Governo desse al Mini­ stero delle Corporazioni l’ordine di mettere allo studio la preparazione di quel disegno di legge, che, attraverso una attenta e diligente elaborazione, durata oltre un anno, e a cui collaborarono in varie riprese, oltre il Gran Con­ siglio, anche le organizzazioni sindacali,, si concreterà, il 20 marzo del 1930, in quella, che si chiamerà formal­ mente riforma, ma sarà di fatto istituzione ex novo del Consiglio Nazionale delle Corporazioni. Perché il Consiglio Nazionale delle Corporazioni creato sulla carta, contemporaneamente al Ministero delle Cor­ porazioni, dal R. decr. 2 luglio ’26, non avrebbe dovuto essere, se avesse mai cominciato a esistere e a funzionare, che un organo a base burocratica di mera consultazione amministrativa, mentre il Consiglio Nazionale delle Cor­ porazioni, quale fu, di diritto e di fatto, nell’ insieme 105

degli organi di cui risulta (Sezioni, Sottosezioni, Assem­ blea generale, Comitato corporativo centrale, Commissio­ ni tecniche permanenti), istituito ed immesso nell’organi­ smo dello Stato dalla legge 2 marzo 1930, è uno degli organi centrali - e perciò presieduto, in ciascuno dei suoi organi costitutivi, direttamente e immediatamente dal Ca­ po del Governo, o dal Duce - a base rappresentativa della Costituzione dello Stato fascista : l’organo, in cui si attua e concreta, attraverso « l’esercizio della funzione coordi­ natrice, assegnata, ai fini dell’ organizzazione unitaria della produzione, alle Associazioni sindacali legalmente riconosciute », quella fusione tra economica e politica, che è essenziale elemento della concezione unitaria dello Sta­ to fascista: vale a dire, l’organo precipuo di attuazione della sovranità dello Stato nella sfera economica e sociale; e perciò lo strumento, di cui lo Stato fascista si trovò, finalmente, provvisto, per la creazione di opatVCordine eco­ nomico nuovo, che sarà, nella pienezza della sua realiz­ zazione, la economia corporativa.

E, invero, senza dubbio, se l’economia corporativa può, in un certo senso, considerarsi potenzialmente nata in quel giorno di febbraio 1922, in cui Mussolini, per la prima volta enunciò nelle colonne del Popolo d’Italia « la possibilità per i Sindacati di produttori di diventare le cellule di un nuovo tipo di economia », sta di fatto che questa economia corporativa, preconizzata da Mussolini nel 1922, cominciò a passare dal campo dei programmi e dei propositi nel campo della realtà concreta, quel gior­ no del marzo 1930, in cui i Sindacati - mediante, da un lato, la costituzione di Sezioni e Sottosezioni del Con­ siglio Nazionale delle Corporazioni, riproducenti, su quel­ la base organica di pariteticità, che era, sin dalla legge 3 106

aprile ’26, caratteristica degli organi di collegamento cor­ porativi o delle Corporazioni, le grandi branche dell’atti­ vità produttiva del Paese, per le libere professioni, per l’agricoltura, per l’industria, pel commercio, per i traspor­ ti marittimi ed aerei, per i trasporti terrestri e la naviga­ zione interna e per le banche, in corrispondenza alle grandi Confederazioni nazionali di datori di lavoro e di lavoratori, e il conferimento, di fatto realizzato col de­ creto del Capo del Governo del 27 gennaio 1931, alle sin­ gole Sezioni e Sottosezioni, cosi costituite, del Consiglio, delle attribuzioni e dei poteri propri delle Corporazioni contemplate dalla legge 3 aprile 1926, e mediante, d’altro lato, in forza del paragrafo terzo dell’art. 12, l’attribuzio­ ne alle Associazioni sindacali interessate, previe le neces­ sarie autorizzazioni e con l’assenso del Capo del Gover­ no, della facoltà di conferire al Consiglio Nazionale delle Corporazioni l ’esercizio della funzione di formulare « nor­ me per il regolamento dei rapporti economici collettivi fra le varie categorie della produzione » - furono messi in grado di passare, dalla fase della loro attività, necessa­ riamente statica, rivolta ai problemi inerenti alla distri­ buzione del profitto e alle opere di assistenza e di giusti­ zia sociale, a quell’altra fase, essenzialmente dinamica, della loro attività, rivolta al perseguimento della gran­ dezza e della potenza della Nazione, attraverso lo svi­ luppo e il potenziamento, in ciascuno dei suoi molteplici aspetti, della produzione nazionale. Quel giorno, il Regime fascista potè realmente dire di essere entrato nella fase veramente corporativa del proprio sviluppo: perché potè dirsi realmente iniziata la costruzione organica dell’ordinamento corporativo. Fu iniziata con la comparsa della Corporazione tra gli Isti­ tuti esistenti e operanti nello Stato italiano. Giacché, con la legge 20 marzo ’30, non solo ha iniziato la pro­ pria vita di organo centrale della Costituzione italiana il 107

Consiglio Nazionale delle Corporazioni : hanno iniziato la propria vita anche le Corporazioni, come organi di collegamento tra le Associazioni sindacali, riconosciute, previsti dalla legge 3 aprile ’26; dì fatto, in forza del­ l’articolo 13 della legge 20 marzo 1930; di diritto, in forza del decreto del Capo del Governo 27 gennaio 1931. Da allora, le Sezioni del Consiglio sono state, prima di fatto, poi anche giuridicamente, le Corporazioni : vale a dire, da allora il Consiglio nazionale delle Corporazioni fu un Consiglio delle Corporazioni costituito dalle Corpora­ zioni stesse. È evidente, però, che in tal modo le Corporazioni non venivano alla luce isolate e separate l ’una dall’altra, come le aveva previste la legislazione del ’26, e le prevedeva la stessa Carta del Lavoro, ma venivano alla luce connesse e collegate l ’una all’altra nel Consiglio Nazionale delle Corporazioni, come Sezioni di questo. La legge del 20 marzo 1930, insomma, insieme col problema della istitu­ zione iniziale delle Corporazioni, ne risolveva il pro­ blema del collegamento. Le Corporazioni che, nate dal collegamento tra Sindacato e Sindacato, sembravano de­ stinate, secondo la immagine usata da Giuseppe Bottai, « a girare isolate l’una dall’altra, perdutamente, nell’or­ bita dello Stato», senza mai potersi incontrare, tocca­ vano invece la forma del proprio collegamento intercorporativo nel Consiglio delle Corporazioni. Facendo, insom­ ma, delle Corporazioni per grandi branche della produ­ zione altrettante Sezioni vive e operanti del Consiglio Na­ zionale delle Corporazioni, la legge 20 marzo ’30 aveva fatto di questo, in quanto riassumente e sintetizzante in se stesso tutte le attività produttive del popolo italiano, una specie di simbolo in atto della Corporazione nazio­ nale integrale. Né, insomma, il Sindacato si risolveva nella Corpora­ zione, né questa nel Consiglio: ma Sindacato, Corpora108

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zione e Consiglio coesistevano sulla stessa base, e forma­ vano, attraverso una successiva individuazione di com­ piti e di funzioni, una unità concreta, che era appunto l’unità dell’Ordinamento corporativo, vale a dire, l’Ordi­ namento, mediante cui, attraverso l’azione di due organi di Stato, quali erano la Corporazione e il Consiglio Na­ zionale delle Corporazioni, si realizzavano, nella sovra­ nità dello Stato e ai fini di questo, l’autarchia e l’auto­ nomia del Sindacato. Con la Corporazione, infatti, lo Stato potenziava, raf­ forzava e avvalorava l’autarchia del Sindacato, mentre nello stesso tempo, con il Consiglio Nazionale delle Cor­ porazioni, ne limitava, equilibrava e circoscriveva l’auto­ nomia. Sicché poteva dirsi - e fu detto - che, cosi nelle Corporazioni, come nel Consiglio Nazionale di queste, si realizzava la confluenza tra le esigenze autarchiche e autonome delle Associazioni sindacali e le esigenze supreme, assolute e prevalenti dello Stato, integralmente rappresentato dalla persona del Capo del Governo, e del Duce del Fascismo. Senonchè, se, con la legge del 20 marzo ’30, istitutiva del Consiglio Nazionale delle Corporazioni, del Comi­ tato corporativo centrale e delle sette Corporazioni gene­ rali (industria, agricoltura, commercio, banca, trasporti terrestri, trasporti marittimi, professioni ed arti), s era fatto sul terreno dell’attuazione effettiva della economia corporativa un decisivo passo in avanti, si rivelarono ben presto, sotto l’assillo della esperienza quotidiana, la ne­ cessità e l’urgenza di un passo ulteriore. Questa necessità ed urgenza furono in massima parte determinate dal repentino e improvviso ripercuotersi, an­ che sulla vita economica dell’Italia, di quella crisi eco­ nomica, la quale era scoppiata da un giorno all altro, come una bomba ad alto esplosivo, nell’America del Nord, il 24 ottobre del 1929, e di cui Mussolini parlò, con la 109

consueta energia, cosi nel discorso tenuto il i° ottobre 1930, inaugurando l ’Assemblea del Consiglio Nazionale delle Corporazioni, come in un successivo discorso del 18 dicembre al Senato: « . . . Per noi, poveri provinciali di questa vecchia Europa, lo scoppio fu di grande sor­ presa: restammo percossi ed attoniti come la terra al­ l ’annunzio della morte di Napoleone; perché ci avevano dato ad intendere che quello era il paese della prosperità indefinita, assoluta, senza ecclissi, senza decadenza: tutti erano ricchi. Ognuno sa a memoria delle cose che ormai sono dei luoghi comuni: c’era un automobile per ogni otto abitanti, una radio per ogni quattro, un telefono per ogni tre. Tutti giuocavano in borsa, e siccome i titoli azionari salivano sempre, ognuno, avendo comprato i titoli a 20, li rivendeva a 100, e cosi lucrava lo scarto, e con questo scarto si comprava l ’automobile, la radio, il telefono: e faceva un viaggio in Europa, pagandolo a rate, e forse anche si fabbricava una villetta nei dintorni. Tutto ciò era meraviglioso, fantastico; anche noi al di qua dell’acqua avevamo un senso di euforia. A d un certo punto, questo scenario crolla: abbiamo una serie di gior­ nate nere, nerissime; i titoli perdono il venti, trenta, cin­ quanta per cento del loro valore. La crisi da allora non è ancora sanata, giornate nere si sono susseguite, e alla prosperità sono seguite le file di coloro che aspettavano la minestra ed il pane nelle grandi città degli Stati Uniti di America... È con profonda tristezza che io faccio que­ sta constatazione, e voi intendete facilmente il perché, senza che io vi insista. Il fatto si è che da quel giorno noi fummo risospinti in alto mare: da allora anche per noi la navigazione è estremamente difficile... ». D i fronte all’irrompere di questa crisi economica, che, da quel giorno di ottobre del 1929, cominciò a imperver­ sare in tutti i Paesi di Europa e del mondo e subito ap­ parve in tutti irrimediabile, Mussolini pose nettamente,

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il 27 ottobre 1932, celebrando il primo Decennale della Rivoluzione fascista, il dilemma: « O questa è una crisi ciclica nel sistema capitalistico, e sarà risolta con i ri­ medi o i metodi tradizionali della economia capitalistica, 0 è una crisi del sistema, e allora siamo di fronte ad un trapasso da un’epoca di civiltà ad un’altra... ». E risolse il dilemma l ’anno dopo, nel suo veramente storico discorso del 14 novembre 1933 all’Assemblea ge­ nerale del Consiglio Nazionale delle Corporazioni: «... Ricorderete che il 6 ottobre dell’anno X, innanzi alle migliaia di gerarchi venuti a Roma per il Decennale, a Piazza Venezia, io domandai: questa crisi che ci atta­ naglia da quattro anni - adesso siamo entrati nel quinto è una crisi nel sistema o del sistemai Domanda grave, alla quale non si poteva rispondere immediatamente. Per rispondere è necessario riflettere, riflettere lungamente e documentarsi. O ggi rispondo: la crisi è penetrata cosi profondamente nel sistema che è diventata crisi del si­ stema. Non è più un trauma, è una malattia costituzio­ nale. Oggi possiamo affermare che il modo di produ­ zione capitalistica è superato e con esso la teoria del capi­ talismo economico che l’ha illustrato ed apologizzato... ». E nettamente, in questo discorso, Mussolini indicava, di questa crisi del sistema di economia capitalistica, il sin­ tomo ogni giorno piu palese nel rendersi ogni giorno più acuto e diffuso uno dei più caratteristici fenomeni del­ l’età contemporanea: il fenomeno, per cui, al prevalere, sino a pochi anni or sono pressoché esclusivo, nel campo della produzione e del lavoro, del contrasto sociale di classe tra datori di lavoro e lavoratori, ha incominciato a sostituirsi il prevalere del contrasto economico tra le varie categorie produttive, vale a dire, il sempre più fre­ quente accompagnarsi, nella esperienza quotidiana della vita economica e sociale, alla lotta tra datori di lavoro e lavoratori ai fini della ripartizione del profitto, della lotta

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tra gruppi e gruppi di produttori ai fini della concorrenza per la conquista dei mercati, ossia del fenomeno, per cui la lotta tende a non esercitarsi piu tra padroni e operai, ma tra operai e operai di categorie concorrenti di rami diversi di produzione, e persino dello stesso ramo. La lotta, insomma, ha perduto il carattere strettamente so­ ciale, che ebbe nel periodo dei movimenti di masse, ed ha acquistato carattere più economico, come di lotta tra forze contrastanti o convergenti di attività produttive. Fenomeno, che l’efficienza della organizzazione sinda­ cale instaurata dal Regime fascista può senza dubbio avere in modo singolare contribuito a rendere particolarmente palese in Italia, dove, appunto mercé quella organizza­ zione, le classi lavoratrici hanno, ben prima che altrove, mostrato di intendere che le armi legali della difesa sono più valide di quelle della rivolta, e dove perciò è avve­ nuto che dalla organizzazione sindacale talune categorie economiche attingessero le forze necessarie a coalizzarsi e a resistere sul terreno del contrasto, non sociale, ma economico, vale a dire sul terreno del contrasto di interessi fra categorie di produttori: che, in altri termini, come constatava, nel febbraio del 1932, in un discorso alla Camera, il Ministro delle Corporazioni, Bottai : « appun­ to perché il metodo corporativo non si estendeva, né po­ teva estendersi, in forza della legge 3 aprile, ai rapporti economici, le categorie organizzate rivendicassero a se stesse una certa autonomia, cosicché, in molti casi, alla lotta di classe si sostituì la lotta delle categorie... ». Appunto per questo, già l ’anno prima, anche in un discorso alla Camera, lo stesso Ministro aveva affermato: « N oi abbiamo, in un certo senso, superata la stessa con­ cezione binaria, su cui poggia la legge 3 aprile: la Cor­ porazione individua ed enuclea i gruppi economici e li mette di fronte » : mette di fronte, datori di lavoro e lavo­ ratori, in una lotta, « nella quale spetta ai datori di lavoXT2

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ro, come ai più dotati, di dare l’esempio di una collaborazione, che qualche volta, bisogna confermarlo, manca proprio a loro. Essi debbono intendere che c’è una pacifi­ cazione economica da perseguire, altrettanto importante che la pacificazione sociale. L ’ordine fascista non è solo ordine pubblico, è anche ordine economico. In questo consiste la grande funzione corporativa... ». Ma di qui, anche, le resistenze alla funzione corporativa, talora dure e tenaci, che l’azione del Regime « intesa a trasportare il metodo corporativo dal campo sindacale a quello dei rapporti economici » incontrò, negli anni immediatamen­ te seguiti alla legge 20 marzo 1930, in alcuni settori della produzione nazionale, più amanti del quieto vivere e meno disposti a superare la vecchia mentalità individua­ listica e monopolistica: mentalità rivelatasi specialmente ostinata in quei gruppi di produttori nazionali, che, per una miope considerazione dell’interesse esclusivo all’au­ mento del profitto, restarono più a lungo attaccati ad una politica economica intrinsecamente anticorporativa, im­ perniata sulla diminuzione dei salari, sul protezionismo doganale e su una tendenza monopolistica a mala pena mascherata dalla mania consorzialista. Resistenze a superare le quali, la esperienza non tardò a rivelare come fossero organi sostanzialmente inadeguati, sia, sovrattutto, per la eccessiva vastità del proprio raggio di azione (non erano, infatti, vere Corporazioni per un determinato ramo della produzione, come le prevedeva l’art. 42 del regolamento i° luglio ’26, abbracciando intere branche di questa, le sette Sezioni del Consiglio, corri­ spondenti alle sette Confederazioni di datori di lavoro e di lavoratori), sia anche per la base rigorosamente pari­ tetica della loro formazione, le Corporazioni-Sezioni pre­ viste e create dalla legge 20 marzo 1930 e dal decreto del Capo del Governo del 27 gennaio 1931. Sicché non ci sorprende di constatare, attraverso il discorso del 24 feb-

braio 1932 alla Camera dei Deputati del Ministro Bottai, come, sin dai primi mesi del ’32, il Governo fascista fosse ben convinto, non solo che « l’attuazione progressiva del metodo integrale dell’ordine corporativo dipende soprat­ tutto dalla applicazione puntuale e rigorosa delle leggi che già esistono e dal funzionamento severo e preciso in atto... », ma anche che, per riuscire a ricondurre, « con volontà decisa a superare tutte le forze di resistenza, nel­ l’ambito dello Stato Fascista, cioè a dire dello Stato Cor­ porativo, tutte le forze che agiscono nell’ordine econo­ mico », è necessario « percorrere sino in fondo la via tracciata dal Duce... »: «... cioè -perfezionare, completare, portare alla massima efficienza l’ Ordinamento corporativo, che e l’unica formola logica di organizzazione economica e sociale... ». * I

Il nuovo passo da fare, dunque, era questo: dar vita alle vere e proprie Corporazioni di categoria: Corpora­ zioni, da far sorgere, individuandole ed enucleandole, e quindi, a cosi dire, innestandole, sui tronchi di quelle grandi unità corporative, ignorate dalla lettera della legis­ lazione del ’26, ma già implicitamente previste dalla sesta dichiarazione della Carta del Lavoro, come « costi­ tuenti l ’organizzazione unitaria delle forze della produ­ zione e rappresentanti degli interessi di questa », che era­ no, in forza dell’articolo 13 della legge 20 marzo 1930, e del decreto 27 gennaio 1931, le Sezioni del Consiglio Nazionale, e di cui un primo remoto esempio, rimasto per oltre tre anni isolato, si era avuto nell’ottobre del 1930, con la Costituzione della Corporazione dello Spet­ tacolo o del Teatro. Sosta di circa un triennio; la quale confermò il propo­ sito del Governo fascista di procedere nella eventuale

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costituzione di Corporazioni di categoria « con molta len­ tezza e prudenza, perché noi non vogliamo correre il rischio che l’Ordinamento corporativo si spezzi nelle in­ finite Corporazioni, che esigerebbero le infinite categorie della produzione ». Anzi, la Corporazione dello Spettacolo si era costituita a parte e con tanto anticipo sulle altre, pel carattere di originalità e eccezionalità, e perciò di piu facile indivi­ duazione, che parve di poter scorgere in essa : perché, come disse Bottai alla Camera il 7 maggio 1931, « nel­ l’inquadramento sindacale le attività dello Spettacolo sono come sur un letto di Procuste... e avrebbero forse me­ ritato un inquadramento sindacale a parte. Ma, essendo ciò organicamente inopportuno, noi abbiamo riunite in sintesi le varie categorie nella Corporazione... ». Programma, dunque, a lunga scadenza, di graduale processo di enucleazione, caso per caso, dalle grandi Cor­ porazioni generali per rami di produzione delle minori e specifiche Corporazioni di categoria. Ma questo programma urtò contro l’urgere sempre più grave di quella crisi economica universale, di fronte a cui appariva agli occhi di Mussolini sempre più irrime­ diabile il crollo di tutti i presupposti e di tutti i metodi teorici e pratici del liberalismo economico e della rela­ tiva economia capitalistica : crollo con singolare efficacia constatato e descritto, nei suoi precedenti e nelle sue con­ seguenze, in tre discorsi, l’uno del 13 novembre ’31, gli altri due del 14 novembre del ’33 e del 14 gennaio del ’34 al Senato, e tutti e tre implicitamente o esplicitamente dominati dalla convinzione di non poter più oltre l’Italia tardare ad assumere l ’iniziativa del nuovo tipo di civiltà, destinata a seguire alla civiltà capitalistica, ed esser quindi necessario accelerare i tempi del processo di perfeziona­ mento del sistema corporativo, in antitesi al sistema capitalistico, ovunque declinante.

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« Cinque anni fa, in questi stessi giorni » disse il Duce, infatti, riferendosi al fatale 24 ottobre 1929, nell’appas­ sionato discorso agli operai, pronunciato a Milano il 6 ottobre 1934, « le colonne di un tempio che pareva sfidare i secoli crollavano con immenso fragore... Che cosa c’era sotto a queste macerie? N on solo la rovina di pochi 0 molti individui, ma la fine di un periodo della storia contemporanea, del periodo dell’economia liberale-capita­ listica. Coloro che guardano più volentieri al passato han­ no parlato di crisi... Si tratta del trapasso di una fase di civiltà ad un’altra fase: non più l’economia, che mette l ’accento sul profitto individuale, ma l’economia, che si preoccupa dell’interesse collettivo. » Sin dal 13 novembre 1931, Egli aveva, del resto, chiuso il suo discorso all’Assemblea generale delle Corporazioni, con parole che significavano un impegno preciso: « Il Regime fascista andrà sempre più decisamente ver­ so le sua realizzazioni corporative, nelle quali è sempre da considerarsi il segno distintivo della Rivoluzione fa­ scista... ». E non passeranno due anni che Egli annunzierà giunto in Italia il momento per realizzare in pieno, in tutto il senso della parola, il Corporativismo : « ... Non vi è dub­ bio che, data la crisi generale del capitalismo, delle solu­ zioni corporative si imporranno dovunque... ». L a stessa coscienza di una nuova civiltà in gestazione mediante la Rivoluzione fascista ispirava, poco più di un mese dopo, le brevi parole di saluto, pronunciate dal Duce agli studiosi di ogni parte dell’Asia, adunatisi a convegno nella sala di Giulio Cesare in Campidoglio, il 22 dicembre ’33 : « ... Venti secoli or sono Roma realizzò sulle rive del Mediterraneo una unione dell’Occidente con l’Oriente, che ha avuto il massimo peso nella storia del mondo... Questa unione fu il motivo fondamentale di tutta la nostra storia. Da essa sorse la civiltà europea... 116

durata per molti secoli. Poi i traffici,... l ’affL u sso DELL'oro, LO sfruttamento di ricche regioni lontane furono la con­ dizione di nascita di una nuova civiltà a carattere parti­ colaristico e materialistico... Questa civiltà a base di capi­ talismo e di liberalismo nei secoli scorsi ha investito tutto 11 mondo. Il fallimento di essa si ripercuote perciò in tutti i continenti. Interessa quindi tutti i continenti la rea­ zione contro la degenerazione liberale e capitalistica, rea­ zione che trova la propria espressione nella fede rivolu­ zionaria del Fascismo italiano, Ghe ha lottato, che lotta contro la mancanza di anima e di ideale di questa civil­ tà... »: fede rivoluzionaria del Fascismo, di cui, un mese prima, Mussolini stesso aveva annunciato imminente l ’e­ spressione economica nella Corporazione, cosi come ne erano state espressioni politiche il Gran Consiglio e la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale : « ... La Corporazione gioca sul terreno economico, come il Gran Consiglio e la Milizia giocarono sul terreno poli­ tico. Il Corporativismo è Veconomia disciplinata e quindi anche controllata, perché non si può pensare a una disci­ plina che non abbia un controllo. Il Corporativismo su­ pera il Socialismo e supera il Liberalismo, crea una nuo­ va sintesi. È sintomatico il fatto... che il decadere del Capitalismo coincide col decadere del Socialismo. Evi­ dentemente c’era tra i due fenomeni una simultaneità d’ordine storico. Ecco perché Veconomia corporativa sorge nel momento storico determinato, quando, cioè, i due fe­ nomeni concomitanti, Capitalismo e Socialismo, hanno già dato tutto quello che potevano dare. D all’uno e dal­ l’altro ereditiamo quello che essi avevano di vitale... Oggi noi facciamo nuovamente un passo deciso sulla via della Rivoluzione... » Questo passo consisteva, a distanza di sette anni dalla emanazione della Legge 3 aprile 1936, nella soluzione del 117

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problema, di cui la Legge 3 aprile aveva gettato le basi, ma che era rimasto a lungo insoluto, sino a che esso aveva formato oggetto di un primo esame in seno al Comitato corporativo centrale, nel maggio del 1933: il problema delle Corporazioni di categoria. Il problema era poi stato ampiamente e liberamente discusso in tutti i suoi aspetti, e sovrattutto intorno a tre punti fondamentali (come si dovessero costituire le Corporazioni di categoria, quante se ne dovessero istituire, quale funzione dovessero avere) dalle singole Sezioni e quindi dall’Assemblea generale del Consiglio Nazionale delle Corporazioni, che conchiuse il dibattito nella riunione del 13 novembre 1933, votando unanime una mozione presentatagli dal Capo del Gover­ no, e da Lui stesso illustrata col memorabile discorso del giorno successivo, cosi concepita...: « Il Consiglio nazionale delle Corporazioni definisce le Corporazioni come lo strumento, che, sotto l ’egida dello Stato, attua la disciplina integrale, organica ed unitaria delle forze produttive, in vista dello sviluppo della ric­ chezza, della potenza politica e del benessere del popolo italiano; dichiara che il numero delle Corporazioni da costituire per grandi rami della produzione deve essere, di massima, adeguato alle reali necessità dell’economia na­ zionale; stabilisce che lo Stato maggiore delle Corpora­ zioni deve comprendere i rappresentanti delle Ammini­ strazioni statali, del Partito, del capitale, del lavoro e della tecnica; assegna quali compiti speciali delle Corporazioni, i conciliativi, i consultivi, con l ’obbligatorietà nei problemi di maggior importanza e, attraverso il Consiglio Nazio­ nale, l’emanazione di leggi regolatrici dell’attività eco­ nomica della Nazione; rimette al Gran Consiglio del Fascismo la decisione circa gli ulteriori sviluppi in senso politico costituzionale, che dovranno determinarsi in con­ seguenza della costituzione effettiva e del funzionamento pratico delle Corporazioni... ».

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In base ai criteri ispiratori di questa mozione, Consiglio, nella seduta del 9 dicembre 1933, disegno di legge, che, discusso e approvato alla Camera dei Deputati su relazione di Alfredo Rocco, ponendo con questa discussione fine alla attività del quinquennio 1929-34, alla vigilia del suo normale scioglimento, e dopo un altro grande discorso del Duce, nella seduta del 13 gen­ naio 1934, in Senato, diventerà la legge 5 febbraio, n. 163, relativa alla costituzione e al funzionamento delle Cor­ porazioni. La quale legge fu preparata, ispirandosi a due criteri fondamentali: creare un numero relativamente scarso di Corporazioni, e crearle in modo da tenere nettamente di­ stinti i campi di attività di ciascuna, evitando nei limiti del possibile la cosiddetta burocratizzazione. E dopo lun­ ga discussione si pose a base delle costituende Corpora­ zioni di categoria il principio, non del prodotto, ma del ciclo produttivo. Vale a dire: si raggrupparono in altret­ tante unità i produttori di un prodotto e rispettivamente di una materia prima coi diversi gradi della lavorazione e con le relative organizzazioni dello smercio, applican­ dosi lo stesso principio anche nell’agricoltura, dove, in un primo momento, si era pensato ad una organizzazione secondo il prodotto finale. In base a tale principio le Corporazioni vennero rac­ colte in tre grandi gruppi: Il primo gruppo, costituito mediante una serie di otto decreti del Capo del Governo in data 29 maggio 1934, abbracciò il ciclo produttivo agrìcolo e commerciale, con importanza preponderante dell’agricoltura, e risultò di otto Corporazioni intitolate: dei cereali, della orto-florofrutticoltura; viti-vinicola; olearia; delle bietole e dello zucchero', della zootecnica e della pesca', del legno', dei prodotti tessili. Il secondo gruppo, costituito mediante una serie di otto

decreti del Capo del Governo in data 9 giugno 1934, abbraccio il ciclo produttivo industriale e commerciale, con importanza preponderante dell’industria; e risultò di otto Corporazioni intitolate: delle costruzioni edili-, della metallurgica e della meccanica-, dell’abbigliamento-, del vetro e della ceramica; della, chimica-, della carta e stam­ pa-, delle industrie estrattive-, dell’acqua, del gas e della elettricità. Il terzo gruppo, costituito mediante una serie di sei de­ creti del Capo del Governo in data 23 giugno 1934, ab­ bracciò le professioni, che non si era riusciti a far rientrare in nessuno dei precedenti cicli produttivi, e che si riuni­ rono sotto la designazione, soltanto apparentemente uni­ taria, di attività produttrici di servizi, e risultò di sei Cor­ porazioni, intitolate delle professioni e delle arti-, delle comunicazioni interne-, del mare e dell’aria-, della ospita­ lità-, della previdenza e del credito-, dello spettacolo. Dall elenco risulta come nessuna Corporazione speciale sia stata prevista per l ’artigianato : gli artigiani vennero assegnati alle diverse Corporazioni, cui appartengono a seconda delle loro attività, ricevendo il diritto di eleggere propri rappresentanti per i consigli delle singole Corporazioni. È evidente che Corporazioni cosi costituite interessano ciascun grande settore dell’economia, e rappresentano pa­ recchi cicli di produzione, spesso aventi fra loro legami assai deboli : di qui, la previsione, caso per caso, della possibilità di raggrupparle, secondo singoli rami dell’eco­ nomia, in sezioni specializzate, o di istituire i cosiddetti Comitati corporativi per singoli prodotti (pèr esempio, per la seta, il cotone, il lino ecc., nell’ambito della Cor­ porazione tessile). Sicché è da presumere che l’attività corporativa sia destinata a svolgersi in gran parte in que­ ste organizzazioni parziali, o nelle cosi dette Corpora­ zioni riunite, alle quali si debbono sottoporre le questioni

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riguardanti diverse Corporazioni, e le quali non sono, quindi, stabili, ma da formarsi volta a volta dallo Stato, secondo la necessità. La rappresentanza del Partito costituisce un elemento di conciliazione tra datori di lavoro e prestatori di opera, e sovrattutto si risolve in una rappresentanza dei consumatori. Caso per caso, possono essere chiamati a parteci­ pare alle Corporazioni esperti, membri estranei, rappre­ sentanti di Ministeri interessati. Ma la legge 5 febbraio 1934 è sovrattutto importante per l’estensione, che va al di là dei confini sinora segnati all’attività corporativa, della competenza in virtù sua attribuita alle nuove Corporazioni, al centro della quale è ora decisamente posta la diretta regolamentazione cor­ porativa dei rapporti economici, e pertanto la disciplina unitaria della produzione, anche se sia vero che questa attività regolatrice dei rapporti economici può essere dalle Corporazioni soltanto esercitata su richiesta dell’autorità competente o di una Associazione collegata, con l’assenso del Capo del Governo. Sta di fatto, che, mentre sinora gli Istituti corporativi svolgevano nel campo economico la propria attività so­ vrattutto a titolo consultivo, come organi ausiliari del Governo, e i Sindacati e il Partito servivan sovrattutto di sostegno a questo nella esecuzione delle sue misure eco­ nomiche (per esempio, riduzione dei salari e dei prezzi), queste misure tendono ora a diventare il campo di azione delle Corporazioni. Vale a dire, tende ad assumere una importanza crescente il diritto spettante alle Corporazio­ ni, per quanto formulato o enunciato in termini piuttosto generici o astratti, a emanare norme aventi valore di legge e perciò obbligatorie : diritto, per cui la Corporazione si presenta, al di sopra dell’attività dei produttori e degli organi monopolistici sorti dal capitalismo privato, inve­ stita della funzione di organo dominante della vita eco-

nomica. Funzione, ai fini della quale attività sindacale e attività corporativa vera e propria formano, pure rispon­ dendo a diverse esigenze, una unità, nel senso che la Corporazione entra in azione anche nei campi a rigore affidati ai Sindacati, là dove questi non arrivano. Cosi per esempio, dove non può avvenire una regola­ mentazione delle tariffe per prestatori di lavoro e di ser­ vizi per opera dei Sindacati (pigioni, trasporti etc.), es­ sendo rappresentata nell’ordinamento sindacale una sola categoria, che occupa di fronte alla massa amorfa dei consumatori una posizione di monopolio, intervengono a stabilire .le tariffe le Corporazioni. E nei casi, in cui non si riesca ad addivenire ad un accordo sindacale, le Corporazioni, senza che ne venga intaccata la posizione della Magistratura del Lavoro co­ me ultima istanza, hanno anche la possibilità di regolare quéstioni di lavoro. Lungi dunque dall’essere aboliti, i Sindacati hanno veduto dalla legislazione piu recente rafforzata la loro posizione entro il sistema corporativo, rimanendone cel­ lula indistruttibile. La divisione in Sindacati di datori di lavoro e in Sindacati di prestatori di opera rimane uno dei presupposti essenziali e centrali dell’Ordinamento cor­ porativo. Ciò vuol dire che lo stadio odierno dell’evol-o^pne corporativa non ha in nulla modificato la posizione del Sindacato rispetto alle Corporazioni. Il Sindacato rimane l’organo, che riunisce, ordina, e disciplina la massa orga­ nizzata, e prepara la sua rappresentanza nelle Corporazioni. Appunto per questo, la creazione delle Corporazioni di categoria ha determinato la necessità prelimi­ nare di una revisione o riforma dell 'Ordinamento sin­ dacale. Sappiamo anzi, che una « revisione dell’inquadramento secondo i suggerimenti e i dati dell’esperienza, con parti-

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colare riguardo alla posizione di alcune categorie inter­ medie, che esigono un criterio unitario ed autonomo di sistemazione, ed alla necessaria simmetria dell’ordine cor­ porativo fu deliberata dal Gran Consiglio nella seduta dell’8 aprile 1930 e da questo demandata al Consiglio Nazionale delle Corporazioni, giusta la competenza ad esso assegnata dall’art. io della legge 20 marzo ’30, il . ■ quale, in conformità ad una decisione di massima del Comitato corporativo centrale, ne affrontò lo studio nella Sessione dell’Assemblea inauguratasi con un discorso del Capo del Governo il i° ottobre. Essa si limitò, in sostanza, a innovazioni puramente organizzative, non assegnando ai Sindacati competenze nuove, ma distribuendole entro il sistema in modo di­ verso da quello adottato sino allora. Il sistema rimase nelle linee fondamentali immutato: Confederazioni, FeL derazioni, Unioni, e Sindacati locali. Ma l’organizzazidhe ! venne resa piu semplice e agile. Le Confederazioni, da 13 furono ridotte a 9, e le Leghe con personalità giuridica riconosciuta da 1805 a 1201, oltre ancora 9 Federazioni per le Associazioni. La semplificazione è stata piu radicale di quanto possa apparire a prima vista, essendo la mas­ sima parte delle Leghe assegnate alla Federazione delle professioni libere e delle arti, nella quale la riorganizza­ zione è tuttora in corso. Il punto centrale della riforma sindacale è però costi. tuito dalla norma sancita nell’art. 7 della legge 5 feb* braio ’34, con la quale alle Associazioni collegate da una Corporazione è garantita la autonomia nel cam-po sinda­ cale : con la quale, cioè, l’attività sindacale vera e propria, cosi nel campo del lavoro, e perciò relativa alla stipula­ zione dei contratti collettivi, come nel campo della assii stenza, istruzione ed educazione morale e nazionale, è stata decentralizzata, spostandola dalle Confederazioni ai Sindacati e alle Federazioni. Spetta perciò ai Sindacati

locali la stipulazione dei contratti collettivi di portata provinciale, previa autorizzazione da parte della Fede­ razione, e a questa la stipulazione di contratti collettivi oltrepassanti la provincia. Alle Confederazioni è rimasto un potere di carattere più che altro disciplinare, conti­ nuando esse a conservare in tal modo, per quanto assai ridotte di fronte alle condizioni precedenti, le funzioni di tutela degli interessi delle categorie di datori di lavoro e di lavoratori nella loro totalità e quella di suprema amministrazione e controllo: per cui esse possono pur sempre collaborare dall’alto, come organi consultivi e di controllo, alla stipulazione di contratti collettivi condotta dalle Unioni subordinate, e quindi impedire la stipula­ zione di contratti antitetici agli interessi delle categorie professionali che esse rappresentano. Sta di fatto, però, che non alle Confederazioni, ma alle Corporazioni compete, in base all’art. 9 della legge 5 febbraio 1934, il diritto di conformare col proprio parere favorevole i contratti collet­ tivi stipulati dai Sindacati collegati, da sottoporre all’ap­ provazione della Assemblea generale del Consiglio na­ zionale delle Corporazioni. Autonomìa, dunque, dei Sindacati collegati nelle Cor­ porazioni dalle Confederazioni, che deve risolversi in autonomia dei Sindacati nelle Corporazioni, ossia, come fu detto, in esercizio effettivo, nel seno delle Corpora­ zioni, organi dello Stato, dei poteri di autodisciplina e di autogoverno, che formano il nucleo sostanziale del Sin­ dacato: non, insomma, sostituzione di un accentramento corporativo all’decentramento confederale, risolvendosi, come si dice nel discorso agli operai di Milano del 6 ot­ tobre ’34, la soluzione corporativa del problema relativo al disciplinamento del fenomeno produttivo nella « autodisciplina della produzione affidata ai produttori ». In altri termini : separazione tra attività sindacale e at­ tività corporativa, nel senso che ài Sindacati è assegnato

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il compito di occuparsi del diritto del lavoro e delle que­ stioni culturali e sociali, mentre alle Corporazioni è affi­ dato il compito di regolare l ’economia: ma separazione attuantesi in modo che l’attività economica delle Corporazioni presupponga implicitamente l’attività sindacale dei Sindacati: onde la posizione dominante delle Corpora­ zioni rispetto ai Sindacati. Sicché può prevedersi che la futura evoluzione del sistema è destinata a orientarsi nel senso di un sempre più deciso inserirsi della funzione del Sindacato, come regolatore del mercato del lavoro, nelle funzioni della Corporazione, come regolatrice della pro­ duzione.

« « La grande macchina » dell’Ordinamento corporativo, ormai completa e perfetta in tutti i suoi organi, « si mise in moto », quando le 22 Corporazioni di categoria, for­ matesi, tra il maggio e giugno del 1934, in base alla legge 5 febbraio, si trovarono la prima volta riunite in Assem­ blea generale del Consiglio delle Corporazioni. Il che avvenne nella solennità del Campidoglio, prima ancora che si chiudesse l’anno, che delle Corporazioni di cate­ goria aveva visto la nascita, la mattina del io novembre 1934. E deU’avvenimento, il significato rivoluzionario fu subito, quel giorno stesso, energicamente messo in rilievo da un breve discorso del Duce. A quale scopo - si chiese in questo discorso il Duce - ab­ biamo creato queste Corporazioni di categoria, che « oggi iniziano la loro vita effettiva e operante, in ogni singolo settore e tutte insieme, per i problemi di indole generale, cioè politici, in questa Assemblea, che da oggi incomincia anch’essa a vivere?... » E rispose : a un duplice scopo : uno interno ed uno esterno. 125

Il primo è lo scopo di realizzare una più alta giustizia sociale per tutto il popolo italiano; l ’altro è lo scopo, che, nel suo discorso del io novembre ’30, Mussolini definiva diretto ad « aumentare senza sosta la potenza globale del­ la Nazione ai fini della sua espansione nel mondo... », di­ retto, insomma, a realizzare al massimo, insieme con la giustizia sociale,1quel fronte unico tra le varie e conver­ genti e contrastanti forze della vita e dell’attività econo­ mica nazionale nei confronti con l’estero, a cui Mussolini aveva già accennato, limitatamente all’industria, come a mèta essenziale dell’Ordinamento corporativo, inaugu­ rando, in Roma, l’8 luglio del 1926, l ’Istituto nazionale per le Esportazioni. Senonchè, in quel discorso del io novembre del ’34, Mussolini non si limitò a constatare che, quel giorno, l ’Assemblea delle 22 Corporazioni funzionanti in pieno « cominciava anch’essa a vivere » ai fini generali o nazio­ nali 4ed ’Ordinamento corporativo; ne dedusse anche la previsione che essa avrebbe a suo tempo sostituito « un altro istituto, che appartiene a una fase storica sorpas­ sata » : avrebbe, cioè, a suo tempo, assorbito in se stessa, tutto intero e senza residui, l ’esercizio di quella funzione legislativa, come unica Assemblea rappresentativa poli­ tica del Regime, che essa persisteva pur sempre a dividere con la Camera dei Deputati. Previsione, giova dir subito, non certo nuova, nello spirito di Mussolini, che non aveva atteso l’avvento delle 22 Corporazioni di categoria per porsi, di fronte all’Or­ dinamento corporativo dello Stato fascista, il problema costituzionale del Parlamento. Se l ’era già posto, nettamente, e già l ’aveva potenzial­ mente risolto, sin dal maggio del 1926, quando aveva pronunciato alla Camera dei Deputati il grande discorso dell’Ascensione : « Che cosa succede di questa Camera? Questa Camera, che ha nobilmente e costantemente ser126

vito la causa del Regime, durerà per tutta intera la legis­ latura... Ma è evidente che la Camera di domani non può rassomigliare a quella di oggi... Dovrà pur venire il momento, in cui siano stabilite le forme, con cui sarà eletta la Camera Corporativa dello Stato italiano... ». Parrà a Mussolini che questo momento non fosse an­ cora venuto neppure cinque anni dopo, quando sarà per scadere il quinquennio della Camera eletta col plebiscito del marzo 1929. Nel discorso tenuto all’Assemblea generale del Consi­ glio delle Corporazioni, il 14 novembre ’33, sulla prossima istituzione delle Corporazioni di categoria, Egli annuncerà, infatti, che, « non essendovi il tempo sufficiente in questi mesi per creare i nuovi Istituti corporativi, la nuova Camera sarà scelta (come avvenne nel marzo del ’34) con lo stesso metodo del 1929... ». Ma, quasi a dissipare ogni possibilità di equivoco, subito aggiungerà: « Ma la Ca­ mera a un certo punto dovrà decidere il suo proprio destino... È perfettamente concepibile che un Consiglio Nazionale delle Corporazioni sostituisca in toto la attuale Camera dei Deputati: la Camera dei Deputati non mi è mai piaciuta... è anacronistica anche nel suo stesso titolo: è un Istituto che noi abbiamo trovato, e che è estraneo alla nostra mentalità, alla nostra passione di fascisti. La Camera presuppone un mondo che noi abbiamo demo­ lito: presuppone pluralità di Partiti e spesso e volentieri l’attacco alla diligenza. Dal giorno, in cui noi abbiamo annullato questa pluralità, la Camera dei Deputati ha perduto il motivo essenziale per cui sorse... «Tutto ciò avverrà prossimamente, perché non abbia­ mo precipitazioni. Importante è di stabilire il principio, perché dal principio si traggono le conseguenze fatali... » Cosi, due mesi piu tardi, illustrando al Senato l ’ormai imminente disegno di legge sulle Corporazioni di cate­ goria, nella seduta del 13 gennaio 1934: «...Q uando

avremo visto, seguito, controllato il funzionamento pratico ed effettivo delle Corporazioni, giungeremo alla terza fase: a quella che si chiama la riforma costituzionale. Soltanto in questa terza fase sarà deciso il destino della Camera dei Deputati ». Il quale destino era però già cosi maturo nella co­ scienza politica del Fascismo, da ispirare, poco meno di due mesi dopo, nell’ampio discorso tenuto alla vigi­ lia del plebiscito del 29 marzo, dinanzi alla seconda As­ semblea quinquennale del Regime, il 18 marzo ’34, que­ ste parole, evidentemente risolventesi in una preventiva svalutazione politica di quella Camera dei Deputati, ai fini della cui formazione l ’Assemblea quinquennale era stata convocata: « ... È facile identificare immediatamente ciò che è fa­ scista da ciò che di fascista ha soltanto il nome. Basta una parola, o una nostalgia, o una proposta, per metterci in sospetto. E poiché non si può continuare a versare eternamente il vino nuovo negli otri vecchi, poiché il parlamentarismo non cadde mai più in basso di quanto non lo sia ora, e, dove non è abolito, agonizza, è chiaro, è logico, è fatale che la Corporazione funzionante superi, in quanto sistema di rappresentanza, questa istituzione, che ci viene dall’altro secolo, prodotto di un determinato movimento di idee, esaurito ormai nel suo ciclo sto­ rico... » La Camera dei Deputati eletta a suffragio universale, anche se, come le due Camere uscite dai comizi elettorali del marzo 1929 e del marzo 1934, prevalentemente for­ mata su base sindacale e unicamente composta di in­ scritti al Partito Nazionale Fascista, continuò, dunque, ad essere una ingombrante e inutile sopravvivenza del passato nel Regime politico posto in essere dalla Rivolu­ zione fascista. La quale, perciò, ebbe realmente raggiunte tutte le sue mete, realizzando in pieno tutti i postulati

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della remota adunata di Piazza San Sepolcro del 23 mar­ zo 1919, soltanto il giorno, che, in occasione del dicias­ settesimo annuale della Fondazione dei Fasci, il 23 marzo 1936, Mussolini aveva promesso non lontano, in cui la vecchia Camera dei Deputati, con la decisiva riforma del sistema rappresentativo operata, entro il quinquen­ nio, dal Fascismo, cedette il posto alla Camera dei Fa­ sci e delle Corporazioni, istituita con la legge 19 gen­ naio 1939-xvn. « Quest’Assemblea » aveva detto Mussolini, il 23 mar­ zo 1926, preannunciandone l ’avvento alla Assemblea ge­ nerale delle Corporazioni « sarà assolutamente politica, perché quasi tutti i problemi della economia non si ri­ solvono, se non portandoli sul piano politico; d’altra par­ te, le forze, che si potrebbero chiamare, forse un poco arbitrariamente, extraeconomiche, saranno rappresentate dal Partito e dalle Associazioni riconosciute. » La nuova Assemblea politica creata dal Fascismo è, in­ fatti, formata dai componenti il Consiglio Nazionale del Partito Nazionale Fascista e dai componenti del Consi­ glio Nazionale delle Corporazioni: il che vuol dire che essa è un organismo politico risultante dalla fusione in un unico corpo delle due maggiori istituzioni poste, co­ me già si disse, a base di quel grande organismo unitario vivente, che è lo Stato totalitario, al cui vertice starmo la Monarchia e il Governo. Da una parte, il Consiglio Nazionale del Partito N a­ zionale Fascista, costituito dai gerarchi, che, al centro e alla periferia, assolvono il compito di dirigere l ’azione dei Fasci: dall’altra, il Consiglio Nazionale delle Corporazioni, costituito da tutti coloro, che, nelle singole Cor­ porazioni, o come delegati dal Partito o come designati dai vari organi competenti, assolvono il compito di diri­ gere la complessa attività nazionale rivolta ai grandi in­ teressi della produzione. 129

Sistema, la cui logica interna appare chiarissima, non appena si consideri che ciascuna delle due istituzioni, dalla cui fusione la Camera dei Fasci e delle Corpora­ zioni risulta, può a sua volta già per suo conto esser te­ nuta come una istituzione rappresentativa, onde è ovvio che la Camera, che da entrambe, nel modo predisposto dalla legge, deriva, celebri non meno nella sua origine che nella sua struttura, il proprio essenziale carattere di organo o strumento di rappresentanza della vita e della volontà della Nazione, destinato a rinsaldare o a poten­ ziare al massimo quella funzione rappresentativa, che è intrinsecamente propria delle due istituzioni, che ne for­ mano il presupposto. E, infatti, nel Partito Unico, si ha la rappresentanza del popolo, quale esso vive consapevol­ mente nella nazione, coi suoi interessi politici, morali, sociali: nell’Ordinamento corporativo, si ha, invece, la rappresentanza del popolo, quale esso vive attivamente nella nazione, coi suoi interessi economici, professionali, produttivi. Sicché, quella rappresentatività, che il regime parla­ mentare cerca o tenta di superficialmente e arbitrariamen­ te realizzare attraverso il gioco elettorale, si realizza nel regime fascista in forma costante e sostanziale, attraverso il Partito Unico e le organizzazioni corporative. Si ha cosi un sistema rappresentativo, che non ha pre­ cedenti od uguali nella storia di nessun popolo e di nes­ suno Stato medievale e moderno : un sistema, che è con­ temporaneamente antiindividualistico, antielettoralistico e antidemagogico: antiindividualistico, in quanto si orien­ ta, anziché verso le maggioranze numeriche degli indivi­ dui, verso le formazioni di masse e le categorie produt­ tive : antielettoralistico, in quanto al voto anonimo e ir­ responsabile sostituisce la scelta e la designazione pubbli­ ca e responsabile: antidemagogico, in quanto elimina ogni occasione o motivo di gara per la conquista della

popolarità e fonda la scelta dei designati alla rappresen­ tanza, anziché sulla vacuità e indeterminatezza di pro­ grammi da realizzare nel futuro, sulla concretezza e pre­ cisione di programmi già realizzati. La legge 19 gennaio 1939 istituente la Camera dei Fasci e delle Corporazioni segna perciò, insieme con un mo­ mento memorabile nella storia della Rivoluzione fascista, un momento memorabile nella storia del costituzionalismo moderno. Quel tipo di rappresentanza parlamentare all’inglese, che ha costituito sino a ieri il modello costante del par­ lamentarismo democratico liberale di Europa e del mondo è oggi, per iniziativa italiana, nettamente su­ perato.

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L A IN IZ IA T IV A IT A L IA N A N E L M O N D O E L A P O L IT IC A E S T E R A D E L FASCISM O (Dalla Marcia su Roma alla proclamazione del­ l’Impero italiano, g maggio 1936-XIV, e all’Asse Roma-Berlino, novembre ipgó-X V ) la legge 5 febbraio 1934 e la successiva istituzio­ ne della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, l’ Italia, tornata per la terza volta ad essere la direttrice della civiltà umana, presentava dunque al mondo, dando l’ultimo tocco alla genesi di quella forma e tipo di Sta­ to totalitario, che è lo Stato Fascista Corporativo, « crea­ zione tipica e orgoglio legittimo della Rivoluzione fasci­ sta », la più radicale riforma nella storia dei tempi mo­ derni, e perciò riprendeva nelle proprie mani, dopo due secoli, da che essa pareva averlo perduto, il privilegio della iniziativa politica. « ... Sismondi, il grande storico, diceva che i popoli, che, in un certo momento della loro storia, prendono la iniziativa politica, la conservano per due secoli. E difatti il popolo francese, che nel 1789 prendeva la iniziativa politica, l’ha conservata per 150 anni. Quello che nel 1789 ha fatto il popolo francese, ha fatto oggi l ’Italia fascista, che prende l’iniziativa nel mondo, e che conserverà que­ sta iniziativa... Stando cosi le cose... non sarete stupiti che tutto il mondo degli immortali principi, della fraternità senza fratellanza, della uguaglianza disuguale, della li­ bertà con i capricci sia coalizzato contro di noi. Ecco, sia­ mo veramente sul piano, dove la battaglia diventa diffion

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cile, seducente, importante, perché battere i vecchi resi­ dui dei Partiti d’Italia è stata una fatica ingrata, ma agi­ tare un principio nuovo nel mondo e farlo trionfare, que­ sta è la fatica, per cui un Popolo e una Rivoluzione pas­ sano alla Storia... È fatale che ogni Rivoluzione che trion­ fa abbia contro di sé il vecchio mondo... » Parole, non senza motivo pronunciate dal Duce sin dal 7 aprile del 1926. E, infatti, il Fascismo ha realmente ricevuta la testimo­ nianza suprema e definitiva del suo carattere rivoluzio­ nario dai modi e dalle forme del suo ripercuotersi e agire al di là dei confini dello Stato, che lo vide crescere, sor­ gere e trionfare. Appunto perché la sua funzione storica fu di dar vita, in Italia, ad una nuova forma di vivere a Stato, la sua vittoria nella vita politica ed economica italiana non era ancor piena e completa, che già si faceva sentire l’influsso della sua forza espansiva nella vita eu­ ropea. Perché era fatale che la novità delle parole, che il Fascismo disse agli Italiani, trovasse, al di là delle Alpi e dei mari ascoltatori, seguaci, avversari. È vero che, in un discorso pronunciato dal Duce, il 3 marzo del 1928, in tono di vivace polemica col Cancel­ liere della Repubblica austriaca, monsignor Seipel, si in­ contra la frase : « Che cosa importa a noi dei ludi cartacei che avranno luogo in Europa?... Il Fascismo non è una merce. di esportazione. Se l’Europa vuole sempre piu gravemente infettarsi dei mali, di cui noi siamo guariti, questo ci renderà piu vigilanti nel difenderci dal con­ tagio... ». Ma non passaron due anni, che già, alla vigilia dell’ot­ tavo anniversario della Marcia su Roma, Mussolini pro­ testerà contro la interpretazione, che a questa frase si era creduto di dare, sovrattutto fuori d’Italia : « O ggi io af­ fermo che il Fascismo, in quanto idea, dottrina, realiz­ zazione, è universale : italiano, nei suoi particolari isti­

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tuti, esso è universale nello spirito, e non potrebbe essere altrimenti. Lo spirito è universale per la sua stessa na­ tura. Si può quindi prevedere un’Europa fascista, una Europa, che ispiri le sue istituzioni alle dottrine e alla pratica del Fascismo : una Europa, cioè, che risolva in senso fascista il problema dello Stato moderno, dello Stato del X X secolo, ben diverso dagli Stati, che esiste­ vano prima del 1789, o che si formarono dopo. Il Fa­ scismo oggi risponde ad esigenze di carattere universale. Esso risolve infatti il triplice problema dei rapporti tra Stato e individuo; tra Stato e gruppi; fra gruppi e gruppi organizzati ». N é certo poteva al genio del Duce sfuggire quale do­ vesse presumibilmente essere il momento, da cui era stori­ camente necessario o naturale che l ’antitesi teorica e pratica tra la concezione fascista e la concezione demo­ liberale della vita individuale e sociale e del rapporto tra l ’individuo e lo Stato incominciasse a trascendere i confini del paese d ’origine della rivoluzione delle Camicie Nere. Era naturale che questo momento dovesse press’a poco coincidere con quello, in cui il Fascismo cominciò a su­ perare le posizioni puramente negative e critiche del pro­ prio programma di azione, e iniziò decisamente l ’assalto alle posizioni positive e costruttive, vale a dire, passò, dal graduale smantellamento teorico e pratico dello Stato de­ mo-liberale, alla graduale formazione o costruzione teori­ ca e pratica dello Stato Fascista Corporativo : quel mo­ mento, che parve annunciarsi nei mesi, durante i quali si svolse, nei due rami del Parlamento italiano, la discus­ sione di quella, che fu poi la legge 3 aprile 1926 sulla di­ sciplina giuridica dei rapporti collettivi del lavoro, vero e proprio punto di partenza della successiva creazione e costruzione dell’Ordinamento sindacale corporativo o del Corporativismo fascista. Fu, in vero, proprio pochi giorni dopo avere, con un J34

discorso al Senato, l’ 11 marzo 1926, messo in luce il va­ lore rivoluzionario di quella legge, che Mussolini accen­ nò, per la prima volta, nel discorso commemorativo del settimo annuale della fondazione dei Fasci, il 28 mar­ zo 1926, alla controrivoluzione che si stava tentando di organizzare al di là delle frontiere, ai danni della Rivo­ luzione fascista, ormai evidentemente vittoriosa in Ita­ lia: «... È perfettamente logico che il mondo internazio­ nale della democrazia, del liberalismo, della massone­ ria, della plutocrazia, dei senza patria, e perfettamente logico che tutte queste forze siano contro di noi. La prova migliore che abbiamo fatto realmente una Rivolu­ zione è in questa controrivoluzione, che noi abbiamo sgo­ minato all’interno e che tenta invano di affilare le sue ar­ mi perfide all’estero... ». Giacché era pur vero che questo improvviso coaliz­ zarsi di forze antiitaliane intorno alle stanche e logore bandiere del liberalismo e della democrazia era in mas­ sima parte dovuto all’azione concorde delle logge mas­ soniche d’oltre Alpe e a quella, che già si chiamava, sin dal 1925, la emigrazione antifascista. Fenomeno, questo, troppo naturale e costante nella storia di tutte le rivolu­ zioni, dalla francese del 1789 alla russa di Lenin e del comuniSmo e alla tedesca di Hitler e del socialnazionalismo, perché la Rivoluzione fascista potesse stupirsene 0 allarmarsene. Sin dal 1926, Mussolini vi vedeva, anzi, qualcosa, che « invece di deprimerci, ci deve inorgoglire. È fatale, è bellissimo che ogni Rivoluzione che trionfa in un Paese abbia contro di se tutto un vecchio mon­ do... ». E infatti « più l’Italia aumenterà la sua statura politica, economica, morale, e maggiori saranno le ine­ vitabili reazioni del mondo antifascista... ». Tanto maggiore, quindi, tanto piu evidente apparve, dopo il 1926, il cammino fatto dalle idee e dalla menta­ lità del Fascismo nei piu diversi Paesi di Europa e del H5

•mondo. Ben presto nessun Paese, neppure quelli di pM antica civiltà e cultura, riuscì a sottrarsi al suo fascino' e dove non si cominciò a temerlo e ad odiarlo, si comin­ cio ad ammirarlo e a desiderarlo. E ci fu presto in orni Paese chi in qualche modo si sforzò di porsi sulle sue orme. Due ordini di fatti contrassegnarono in maniera sempre piti palese questo processo di diffusione del Fa­ scismo nel mondo. Il primo e dato dal sempre piu frequente apparire nella legislazione e nella costituzione di Stati contemporanei stranieri di principi e di tendenze evidentemente consi­ gliate o ispirate dalle leggi o dalle riforme instaurate dalla Rivoluzione fascista in Italia. N on soltanto la costitu­ zione data da Hitler e dal nazionalsocialismo alla Ger­ mania, ma anche le nuove o recenti costituzioni dell’Un­ gheria, della Polonia, della Romania, della Grecia, - e al­ tre si potrebber facilmente citare - presuppongono il falli­ mento del parlamentarismo e costituzionalismo ottocente­ sco, e partono da un modo di concepire la prevalenza del potere esecutivo e la funzione dello Stato in materia economica, che si ispira senza dubbio alla esperienza fa­ scista, e vi sono Stati, come il Portogallo e il Brasile che ponendosi decisamente sulle tracce di questa, stanno ri­ costruendo il proprio ordinamento politico e sociale su base corporativa. Il secondo e dato dal non meno frequente apparire, in quasi tutti gli Stati contemporanei, anche i più lontani o i più ostili al Fascismo, di movimenti politici che, nel­ le premesse teoriche, nei programmi di azione, nelle orme organizzative, e spesso nel nome, si richiamano esplicitamente al Fascismo, o si sforzano di imitarlo, o i seguirlo, o magari di contraffarlo, per lo più con assai discutibile chiarezza ed esattezza di comprensione, spesso con non sempre genuina buona fede, talora con evidente equivoco, ma sempre con il consapevole proposito di

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mettersi su una via aperta e tracciata da Onde la orgogliosa constatazione del Duce, « Dopo alcuni secoli assistiamo a questo fenomeno, che intorno ad una idea italiana il mondo si divide prò e contro: da Tokio a N ew York, dal Nord al Sud, in tutti i Paesi... si discute prò e contro il Fascismo... In tutto il mondo si sente che il sistema parlamentare... oggi è insufficente a contenere l’impeto crescente dei bisogni e delle passioni della civiltà moderna. Si sente dovunque che è necessario ristabilire severamente i principi dell’or­ dine, della disciplina, della gerarchia... Questi principi non giovano soltanto all’Italia, giovano a tutti i Paesi ci­ vili... ». È per questo che movimenti politici, o dichiaratamente fascisti, o piu o meno esplicitamente filofascisti, o co­ munque fascisticamente orientati, sono sorti, e con mag­ giore o minore fortuna agiscono sul terreno teorico e sul terreno pratico, quasi sempre con carattere di più o meno recisa e cosciente opposizione ai Governi esistenti, e sono anche in qualche luogo già giunti o pressoché sul punto di giungere essi stessi al Governo, dovunque, nei più di­ versi Paesi del vecchio e del nuovo mondo, e anche nei Paesi più tenacemente attaccati alle tradizioni del regi­ me politico democratico-liberale: cosi in Francia (Valois, Reboux, Hervé, Tardieu, Doriot, etc.); in Inghilterra (Mosley); in Irlanda (O ’ Duffy); in Polonia (A. Koch, Waleron); in Lettonia; in Lituania; in Estonia (Sirk); in Finlandia (V. Kosola); in Norvegia (Nansen, Vidikum, Quiling); in Svezia; in Bulgaria; in Romania (Goga, Codreanu, Vaida Voevod, Manoilescu); in Belgio (Q. Degrelle); in Olanda (Mussert, A . Mejier); in Spagna (Pri­ mo de Rivera, Franco); in Svizzera (G. Oltremare, dottor Tobler); in Ungheria (G. Sallò, Festeties); in Portogallo (Carmona, Salazar); in Grecia (Metaxas); in Argentina; in Brasile (Vargas, Salgado); nel Chile; nella Colombia;

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nell’Uruguay; nel Canada; in Australia; nell’Unione Sud­ africana; in Islanda. Ma fu specialmente dal 1929, e sovrattutto dal 1932 in poi, che il -processo di universalizzazione del Fascismo ha assunto proporzioni ed aspetti di fenomeno veramente imponente, e quindi, per l’avvenire del regime demo­ cratico liberale, seriamente preoccupante. Del che il pri­ mo a mostrare di essersi accorto, fu, parlando alla se­ conda Assemblea quinquennale del Regime, il 18 mar­ zo 1934, con la consueta sicurezza di intuito storico, pro­ prio Mussolini: « D al 1929 ad oggi il Fascismo, da fe­ nomeno italiano, è diventato fenomeno universale. Ma nel fenomeno bisogna distinguere l’aspetto negativo da quello positivo. L ’aspetto negativo è la liquidazione di tutte le posizioni dottrinali del passato, l’abbattimento di quelli, che sono stati nemici anche del Fascismo: l’aspetto posi­ tivo è quello della ricostruzione: solo coloro che accettano l ’aspettq positivo del Fascismo ci interessano, cioè coloro che, dopo aver demolito, sanno fabbricare. Quanto al­ l’aspetto negativo del fenomeno, non v ’ha dubbio che basta guardarsi attorno, per convincersi che i principi del secolo scorso sono morti. Hanno dato quello che potevano dare... Le forze politiche del secolo scorso, de­ mocrazia, socialismo, liberalismo, massoneria, sono esau­ rite. La prova manifesta è che non dicono più nulla alle nuove generazioni... Si va verso nuove forme di civiltà, tanto nella politica, che nell’economia... ». Si tratta dell’ormai palese iniziarsi di quel « crepuscolo e tramonto della civiltà demoliberale » delle cui cause Mussolini aveva, sin dal 22 agosto del 1933, presentato, in uno degli articoli da L ui scritti per il gruppo di gior­ nali americani facenti capo all ’ Universa! Service degli Stati Uniti, una diagnosi singolarmente penetrante. D i questo tramonto della civiltà demoliberale Mussolini indicava cause negative e cause positive.

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Le prime - Egli diceva - « si sintetizzano nello svi­ luppo preso dal capitalismo anonimo, quindi, in un certo senso, già socializzato e pronto a cadere nelle braccia del­ lo Stato; nella impotenza del potere esecutivo; nel pre­ potere dei Parlamenti; nella mistica e mitologia classica del proletariato. Questi ultimi anni di crisi hanno accen­ tuato i caratteri di questa situazione... ». Ma queste cause negative non avrebbero potuto cosi radicalmente agire in senso contrario alle vecchie idee tradizionali del liberalismo e della democrazia, se non fosse, ad avvalorarne e potenziarne l’azione, intervenuto l’agire di due cause positive : cioè di due avvenimenti politici di vasta portata storica, verificatisi a circa un anno di distanza l’uno dall’altro, in due centri vitali del­ la civiltà contemporanea di Europa e del mondo; nel 1932, il primo Decennale della Rivoluzione fascista, in Italia; nel 1933, la rivoluzione nazionalsocialista e l’av­ vento di Hitler al potere, in Germania. Il primo si risolse in una irrefragabile testimonianza offerta al mondo della vitalità e stabilità e fecondità di quel moto fascista, sul cui prossimo e inevitabile crollo tutti i Partiti liberali democratici e socialisti, in Italia e fuori, avevano scioccamente e ciecamente calcolato e spe­ culato : « Come sempre, il fatto compiuto è stato di una eloquenza irresistibile, e l ’esempio italiano ha suscitato la imitazione in Paesi vicini e lontani... ». A compiere l ’opera e dare un altro colpo mortale ai principi della democrazia liberale venne, l’anno dopo, il trionfo delle forze hitleriane in Germania : « Ecco un altro grande Paese, che ha creato lo Stato unitario, auto­ ritario, totalitario, cioè fascista... N on è il caso di sta­ bilire analogie o differenze tra i due Regimi... Il fatto innegabile è che entrambi agiscono al di fuori di ogni concezione demoliberale... Quelli che si possono chia­ mare fermenti fascisti della rinnovazione politica e spiri-

tuale del mondo agiscono ormai in tutti i Paesi, Inghil­ terra compresa. Non v ’ha dubbio che anche la Francia, ultima cittadella di difesa degli “ immortali principi”, dovrà un giorno alzare la bandiera bianca della capito­ lazione. La stessa America li abbandona. « Roosevelt si muove, agisce, ordina al di fuori d’ogni indicazione o volontà delle Camere. Tra lui e la Nazione non ci sono piu intermediari. Non c’è piu un Parlamento, uno Stato Maggiore. N on ci sono piu Partiti, ma un solo Partito. Una sola volontà fa tacere le voci discordi. Ciò è completamente al di fuori di ogni concezione demo­ liberale. « L ’appello alle forze giovani risuona dovunque: la Nazione che ha precorso i tempi, anticipando di un de­ cennio l’azione degli altri Paesi, è l’Italia ». *

Si chiarisce ed illumina cosi, nei suoi presupposti, nei suoi metodi e nei suoi fini, quella che è stata, dalla Marcia su Roma in poi, la politica estera del Fascismo e di Mussolini: politica estera interamente connessa e legata ai presupposti, ai metodi e ai fini della politica interna del Regime fascista : il regime, cioè, che appunto a que­ sta intima e ininterrotta connessione e rapporto tra la sua politica interna e la sua politica estera dovette in massima parte l’aver potuto, in poco piu che un ven­ tennio, portare l’Italia, vittoriosa nella guerra mondiale, dalla sconfitta diplomatica da essa subita, per la slealtà nei suoi riguardi degli Stati, che le erano stati alleati nella guerra e nella vittoria, nel 1918, a Versailles, al suo trion­ fo sulla coalizione societaria di 52 Stati, guidati dall’In­ ghilterra, e alla proclamazione dell’Impero italiano, nel

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Politica estera, il cui programma ci appare già nettissi­ mamente e chiarissimamente segnato sin dai primissimi

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giorni della Rivoluzione, nei due discorsi pronunciati dal Duce, non appena insediato al governo dalla volontà del popolo e dalla fiducia del Re, il 16 novembre e il 27 novembre 1922, alla Camera e al Senato: «... Non possiamo permetterci » disse alla Camera, il 16 novembre, Mussolini « il lusso di una politica di al­ truismo o di dedizione completa ai disegni altrui... L ’Ita­ lia di oggi conta, e deve adeguatamente contare. Lo si incomincia a riconoscere oltre i confini. Non abbiamo il cattivo gusto di esagerare la nostra potenza: ma non vo­ gliamo neppure, per eccessiva ed inutile modestia, dimi­ nuirla. La mia formola è semplice: niente per niente. Chi vuole avere da noi concrete prove di amicizia, tali prove di concreta amicizia ci dia. « L ’Italia fascista, come non intende stracciare i Trat­ tati, cosi, per molte ragioni di ordine politico, economico, e morale, non intende abbandonare gli alleati di guerra. « Roma sta in linea con Parigi e con Londra, ma l ’Ita­ lia deve imporsi e deve porre agli alleati quel coraggioso e severo esame di coscienza, che essi non hanno affron­ tato dall’armistizio ad oggi. « Esiste ancora una Intesa nel senso sostanziale della parola? Quale è la posizione di questa Intesa di fronte alla Germania, di fronte ad una alleanza russo-tedesca? Quale è la posizione dell’Italia nell’Intesa, dell’Italia, che, non soltanto per debolezza dei suoi Governi, ha perduto forti posizioni nell’Adriatico e nel Mediterraneo, mentre si ripongono in discussione taluni dei suoi diritti fondamentali, dell’Italia, che non ha avuto colonie, né materie prime, ed è schiacciata, letteralmente, dai debiti fatti per raggiungere la vittoria comune? « Mi propongo, nei colloqui che avrò coi Primi Mini­ stri di Francia e di Inghilterra, di affrontare con tutta chiarezza, nella sua complessità, il problema dell’Intesa 141

e il problema conseguente della posizione dell’Italia in seno all’Intesa. « Da questo esame due ipotesi scaturiscono: o l’Intesa, sanando le sue angustie interne, le sue contraddizioni, diventerà un blocco omogeneo, equilibrato, egualitario dì forze, con eguali diritti e con eguali doveri, oppure sarà suonata la sua vera ora, e l’Italia, riprendendo la sua li­ bertà di azione, provvederà lealmente con altra politica alla tutela dei suoi interessi... » E al Senato : « Intendo fare della politica estera, che non sarà avventurosa, e che non sarà nemmeno rinun­ ciataria; certo in questo campo non c ’è da aspettare il prodigio, perché non si può cancellare in un colloquio, sia pur drammatico, di m ezz’ora, una politica, che è il risultato di altri elementi e di un altro periodo di tempo. Io credo che nella politica estera si debba avere come ideale il mantenimento della pace : ideale bellissimo, spe­ cialmente dopo una guerra durata quattro anni. Quindi la nostra politica non sarà la politica degli imperialisti, che cercano le cose impossibili, ma sarà una politica, che non partirà sempre necessariamente dalla pregiudiziale negativa, per cui non si dovrebbe mai ricorrere all’uso della forza. È bene tener presente questa possibilità : non si può scartarla a priori, perché allora voi sarete disar­ mati dinanzi alle altre Nazioni. Non mi faccio illu­ sioni, perché il mio temperamento disdegna tutti gli ottimismi facili... Credo però di essere riuscito già a qualche cosa... a far capire agli alleati e forse anche ad altri popoli d’Europa, i quali erano evidentemente rimasti ad una Italia che ci appare alquanto vagamente preistorica ... e non avevano forse ancora l ’esatta visione di un’Italia, quale è quella che io vedo nascere sotto i miei occhi: un’Italia gonfia di vita, che si prepara a darsi uno stile di serenità e di bellezza; un’Italia, che non vìve di ren­ dita sul passato, come un parassita, ma intende di costi­ 142

tuire, con le sue proprie forze, col suo intimo travaglio, col suo martirio e colla sua passione, la sua fortuna avve­ nire. Questa è l’Italia, che è balenata davanti a coloro, che rappresentavano le altre Nazioni, e che d ’ora innanzi dovranno convincersi, lo vogliano o non lo vogliano, che l’Italia non intende di seguire il carro degli altri, ma intende rivendicare dignitosamente tutti i suoi diritti, e intende, non meno dignitosamente, difendere i suoi inte­ ressi... ». Periodi, che non si possono oggi, a diciassette anni dal giorno in cui furon pronunciati, rileggere senza emozio­ ne, perché, in realtà, nella cristallina e lealissima chia­ rezza e nettezza di termini, con cui, nel momento stesso del suo avvento al Governo in nome di una rivoluzione sorta dalla vittoria italiana nella guerra mondiale, il Duce dell’Italia fascista impostava, in forma di inequivo­ cabile dilemma, il problema dei rapporti tra l’Italia e le Potenze, sino alla vigilia della rivoluzione, alleate con l’Italia nella coalizione antigermanica, è ben facile oggi scorgere implicita tutta la logica storica di quanto è avve­ nuto in questi ultimi anni nella politica estera dell’Italia e del mondo, dalla occupazione temporanea di Corfu in seguito all’eccidio della missione italiana in Albania, nel­ l’agosto del 1923, alla rivendicazione delle aspirazioni ita­ liane verso la Francia nel novembre 1938, ossia, piu bre­ vemente, dalla fugace riconferma di solidarietà italofranco-britannica di fronte alla Germania, nella confe­ renza di Stresa dell’aprile del 1935, al sorgere dell’Asse Roma-Berlino, nell’ottobre-novembre del 1936.

Il programma di politica estera dell’Italia fascista enun­ ciato dal Duce subito dopo la Marcia su Roma si e ve­ nuto durante questi anni gradualmente realizzando, at-

traverso quattro momenti o tappe fondamentali, cia­ scuna delle quali appare distinta da uno speciale ca­ rattere, e l ’ultima delle quali è tuttora in corso di svi­ luppo, che possono all’ingrosso determinarsi entro le date seguenti: una prima tappa, che abbraccia, in linea di massima, il primo decennio della Rivoluzione, dal 1923 al 1932; una seconda, che va, dalla partecipazione ita­ liana alla conferenza per gli armamenti a Ginevra nel febbraio del 1932, all’aprirsi del conflitto italo-britannico per la questione etiopica nell’aprile del 1935; una terza, che va dall’aprile del 1935, attraverso lo svolgersi del­ l ’episodio sanzionista e la vittoria dell’Italia nella guerra etiopica, all’affermarsi della collaborazione italo-germanica nell Asse Roma-Berlino e nel convegno di Monaco del settembre 1938; una quarta, che si è iniziata a Monaco nel settembre del 1938, e che è tuttora aperta. Caratteristico della prima tappa fu lo sforzo coerente­ mente e. tenacemente diretto a sgombrare la nuova poli­ tica estera italiana dalle piu gravi eredità lasciate all’Itaha fascista dall Italia del Risorgimento e dalla mancata soluzione di alcuni essenziali problemi aperti per il suo avvenire di Potenza mondiale dalla guerra del 1914-1918. E, dal primo punto di vista, va, innanzi tutto, consi­ derato il grandiosissimo e storicamente decisivo successo ottenuto da Mussolini P i i febbraio del 1929, un mese innanzi al primo decennale della fondazione dei Fasci e alla vigilia del primo Plebiscito fascista (24 marzo 1929), con la firma degli A tti lateranensi, mediante i quali era dal Fascismo raggiunto ciò, che era parso all’Italia liberaldemocratica irraggiungibile, vale a dire la conciliazio­ ne tra l ’unità italiana e il Capo supremo della Chiesa cattolica, lasciando intatte cosi la sovranità politica dello Stato italiano che la sovranità religiosa della Chiesa cat­ tolica; ed era raggiunto mediante un Trattato, che, men­ tre permetteva alla Santa Sede, come Supremo Governo

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religioso della Chiesa cattolica, di riconoscere in Roma la capitale inviolabile dello Stato unitario italiano, per­ metteva contemporaneamente a questo di riconoscere e sanzionare nella Citta del Vaticano, cioè pur sempre in Roma, in Roma cattolica e italiana, la inviolabile sovra­ nità religiosa del Romano Pontefice su tutto l’orbe catto­ lico. Successo di portata storica di incalcolabile vastità e grandezza, il quale, se fu possibile, regnando la Santità di Pio X I sulla cattedra di San Pietro e la Maestà di Vittorio Emanuele III sul trono dei re d’Italia, non fu certamente perché la “ Questione romana” si fosse pre­ sentata al governo politico di Mussolini o al governo religioso di papa Ratti in termini diversi da quelli, in cui essa si era presentata alla Destra storica del 1871, o piu tardi, a Francesco Crispi, da un lato, e, dall’altro, a Pio IX o a Leone XIII. La “ Questione romana” era, nei primi mesi del 1929, quella che era, o, piu esattamente, quale Tavevan creata piu secoli di storia italiana ed europea, e quale conti­ nuava pur sempre, per ostinata fedeltà a tradizionali pre­ venzioni, a presentarsi come insolubile, all’ una parte e all’altra, prima che un accordo bilaterale di volontà tra la Santa Sede e l ’Italia unitaria pervenisse a risolverla. Ma ciò che aveva impedito, sino all’avvento del Fa­ scismo, cosi alla Santa Sede che all’Italia liberaldemocratica, di risolverla, era, da un lato, la persistenza, nel Governo della Chiesa, del preconcetto temporalistico, per cui pareva non concepibile pienezza di indipendenza reli­ giosa in una Chiesa, che non fosse anche soggetto di sovranità politica, e, d’altro lato, la persistenza, nel G o­ verno dello Stato, della mentalità o dello spirito, con cui le classi dirigenti della nuova Italia avevano affrontato, dal 1849 in poi - mediante una legislazione ecclesiastica di lotta o di ostilità alla Chiesa cattolica, che sopravvisse

poi, quasi per forza di inerzia, sino all’avvento del Fa­ scismo, ai motivi storici che l’avevan determinata - la necessità di regolare i problemi offerti dalle relazioni tra la Chiesa e lo Stato : mentalità tutt’altro che concorde e omogenea, e nella quale avevano a più riprese confluito varie tendenze ideologiche e pratiche, spesso antitetiche e contrastanti, se pure di regola confuse entro l’astratta e generica aspirazione ad un preteso regime separatista, ma tutte per vari motivi tendenti a porre impacci e re­ strizioni all’attività religiosa della Chiesa cattolica in Ita­ lia e a turbare la coscienza dei cattolici italiani. A risolvere ciò che pareva insolubile, bastò che, un giorno, tra i piu felici, tra quanti ne arrisero alla storia dell’Italia e della Chiesa, il genio politico di Mussolini si incontrasse, superando il preconcetto dell anticlerica­ lismo, col genio religioso di papa Ratti nel superare il preconcetto del temporalismo. Quel* giorno, la libertà della Chiesa non apparve piu incompatibile con l’unità dell’Italia. E, infatti, la immensa portata etica e storica dei Patti lateranensi stette, sin da principio e irrevocabilmente, non tanto nell’essersi finalmente risolta la “ Questione roma­ na” , quanto in ciò, che ne fu subito, di un balzo, la conseguenza immediata nella coscienza degli Italiani: la ripristinata unità della loro fede in Dio e della loro fede nella Patria: fuse, da allora e per sempre, in una sola ed unica fede. Da allora, ogni Italiano seppe di poter guardare a Roma, doppia e doppiamente santa Capitale della sua Patria, sede del Governo della sua Chiesa e del Governo del suo Stato : entrambi riconoscentisi nella loro reciproca, e, seppure distinta, cooperante sovranità. Questa concordia interiore di spiriti e di credenze, che fa di tutto il popolo italiano, tuttora, sino a ieri, massa amorfa e discorde di individui disgregati, una sola infran­ gibile unità, è il dono supremo che, con la Conciliazione, 146

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Benito Mussolini e Achille Ratti hanno fatto agli Italiani. Dono, che è, per sua intima natura, destinato a tra­ smettersi tanto più intatto e prezioso dai viventi ai nascituri, quale massima arra e garanzia di unità morale della Nazione, quanto piu lo spirito potentemente sinte­ tico e la volontà graniticamente unitaria del Fascismo varranno a impedire che, a insidiare o a compromettere la restaurata concordia tra la coscienza religiosa e la co­ scienza nazionale della grande maggioranza degli Ita­ liani, che è il massimo dono della Conciliazione, pre­ valga comunque la pretesa, subito, dall’inizio di questa, affacciatasi in varie ed opposte correnti di entrambe le parti, a voler prematuramente trasportare la soluzione del problema dei rapporti tra la Chiesa cattolica e lo Stato moderno, dal terreno politico, o pratico, sul quale esso si è, mediante i Patti lateranensi, felicemente realiz­ zata, sul terreno teorico. Il problema dei rapporti tra la Chiesa cattolica e la civiltà moderna, tra l’autorità della verità rivelata e la libertà dello spirito umano, tra la religione e la filosofia, tra la universalità della Chiesa e la nazionalità dello Stato, è pur sempre aperto allo sviluppo del pensiero, né alcuna insidia più grave alla conciliazione tra l’Italia uni­ taria e la Chiesa cattolica potrebbe concepirsi, quanto la illusione che quel problema sia stato, di fronte alla co­ scienza degli Italiani, chiuso una volta per tutte e per sempre, il giorno, in cui il cardinale Gasparri e il Duce del Fascismo posero, in nome di S. M. Vittorio Ema­ nuele III e di S. S. Pio XI, la firma ai Patti del Laterano. L ’infallibile intuito del popolo italiano avverti imme­ diatamente che ciò, che si era compiuto, per parte dello Stato, era un atto politico : non un avvicinamento o un compromesso teorico tra due posizioni dottrinali, e che, se la Chiesa e lo Stato si erano, in Italia, dati la mano, e avevano inaugurato, nei loro reciproci rapporti, un’era

nuova, non era perché né l’una né l’altra avessero inteso rinunziare reciprocamente alla fede nel proprio valore di fronte all’altro, ma perché ciascuno di essi garentiva, in un sistema di leale coordinazione, il rispetto al valore dell’altro, nella reciproca sfera di azione. N é la Chiesa aveva abdicato, di fronte allo Stato, né lo Stato di fronte alla Chiesa. Ma il popolo italiano avverti anche, con meno infalli­ bile intuito, che, poiché la Conciliazione era, dal punto di vista della Chiesa, un atto religioso, accanto al dono politico, che essa aveva recato al popolo italiano, c’era anche il dono religioso, che essa aveva recato a tutta la Cristianità cattolica, ed era la coscienza di una nuova infrangibile garanzia di indipendenza, conquistata, me­ diante la propria liberazione del pesante fardello temporalistico, dalla Chiesa cattolica nella propria sovranità religiosa. Il vàlore religioso del Trattato lateranense non consi­ steva, infatti, nell’aver esso superato o eliminato la reci­ proca estraneità tra lo Stato italiano, come Stato nazio­ nalmente e politicamente determinato, e la Chiesa catto­ lica, come organizzazione universale di tutti i Cristiani credenti nel magistero di verità affidato in eterno al Ve­ scovo di Roma : ché, anzi, quel valore stava proprio nell’aver resa quella reciproca estraneità tra la Chiesa uni­ versale e lo Stato italiano irrefutabilmente e perpetuamente palese e tangibile di fronte a tutti i cattolici del mondo: palese e tangibile, attraverso il riconoscimento, da parte dello Stato italiano, della originaria sovranità spettante in proprio al governo della Chiesa cattolica, come Governo del Vicario di Cristo in terra, di fronte a tutti i cattolici comunque sparsi nel mondo. Questo Governo ha oggi una sede, che lo Stato italiano non gli concede, ma gli riconosce come sua, sua per diritto divino: la Città del Vaticano, ove non regna

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che il successore di Pietro nel possesso delle chiavi del regno dei cieli per tutti i cristiani: quella Città del Vati­ cano, nella quale, come disse, con una frase, che è delle piu alte, che siano uscite dal labbro di un Romano Pon­ tefice, la Santità di Pio XI, c’è si un territorio, perché in terra non può esistere sovranità, che su un brano di terra non si fondi, ma quel minimo di territorio, che deve servire di supporto materiale ad una sovranità, per se stessa ed in se stessa esclusivamente religiosa. # Ma già ben prima del 1929 si era iniziata la industre e paziente attività diplomatica del Governo fascista mi­ rante a liquidare nel miglior modo possibile, compatibil­ mente agli interessi vitali e alla dignità dell’Italia, le pas­ sività della situazione lasciata dal regime precedente, al fine di restituire alla politica estera dell’Italia fascista la libertà di movimento necessaria alle nuove mete. Singolarmente sintomatica, in questo senso, l’azione subito rivolta da Mussolini a sistemare nell’Adriatico i rapporti tra il Regno d’Italia e la nuova Jugoslavia : azio­ ne, iniziatasi nel 1923 con la ratifica degli accordi di Santa Margherita e di Rapallo, e culminata il 27 gennaio nella firma di un trattato di amicizia e di collaborazione italo-jugoslavo, col quale, mentre si poneva fine al dram­ ma fiumano, assicurando a Fiume, con la rinuncia a Porto Baros e lievi rettifiche di confine, la sognata annes­ sione al regno d ’Italia, si tendeva a dissipare o a supe­ rare, in un nuovo spirito di reciproca comprensione, gli elementi di rivalità creati tra la Jugoslavia e l ’Italia dalle vicende dei trattati precedenti, e sovrattutto dal premere di palesi interessi antiitaliani di Potenze mediterranee, quali l’Inghilterra e la Francia. A scopi sostanzialmente analoghi tendeva contempora149

neamente, anche attraverso la prova di energia offerta, specialmente di fronte al patrocinio dell’indipendenza ellenica assunto dall’Inghilterra, con la occupazione di Corfu per imporre alla Grecia le riparazioni dovute per l ’eccidio della missione Teliini, l’azione svolta da Mus­ solini per la precisa delimitazione di confini tra l ’Albania indipendente e gli Stati confinanti, a garanzia dell’equilibrio adriatico e balcanico. E allo stesso momento appar­ tiene la parte presa dall’Italia, malgrado l ’evidente pro­ posito della Francia e dell’ Inghilterra di escludernela, nello Statuto e nel regime di Tangeri. N é scopo diverso da quello consistente nell’affrettare la soluzione di problemi rimasti, per la debolezza di Go­ verni italiani o per la pervicace ostilità di Governi stra­ nieri, troppo a lungo insoluti ebbero in sostanza, cosi da un lato, la definitiva cessione per parte della Turchia delle isole del Dodecaneso, felicemente ottenuta dal Go­ verno fascista con l’art. 15 dei due Trattati di Losanna del 24 luglio 1923 e del 6 agosto 1924; come, d ’altro lato, l’accordo raggiunto col Governo britannico sulla que­ stione dei compensi previsti dal Trattato di Londra del 1915, vale a dire, la cessione, per parte del Governo bri­ tannico, col trattato di Londra del 15 luglio 1924, dell’Oltre Giuba, a completamento dei possedimenti italiani della Somalia, e, nel dicembre del 1925, la cessione, per parte del Governo egiziano, dell’oasi di Giarabub. Ma fu sovrattutto nel più vasto piano, realmente euro­ peo, dei rapporti con la Germania e gli Stati danubiani, e con la Società delle Nazioni, posta in essere dalla pace di Versaglia del 19x8, e nei riguardi della liquidazione dei numerosi e delicati problemi finanziari, politici e nazionali determinati o aperti da questa pace, e a propo­ sito o in occasione delle numerose Conferenze internazio­ nali riunitesi dopo il 1923 per regolarli o risolverli, che potè, durante il primo decennio dopo la Marcia su Ro­

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ma, piu energicamente e visibilmente manifestarsi, cosi di fronte agli Stati ex-alleati, come di fronte agli Stati ex-nemici dell’Italia nella guerra mondiale, la indivi­ dualità della politica estera perseguita e condotta dal Governo fascista. Due tendenze, entrambe piu o meno esplicitamente contrastanti con le direttive seguite dai Governi di Pa­ rigi e di Londra, si sono rese, sin dai primi contatti, palesi, e si sono sempre meglio accentuate nei successivi convegni, a Parigi nel 1923, a Losanna nel 1924» nel 1925, nella politica estera del Governo fascista. La prima si è specialmente affermata a proposito dei problemi relativi alla liquidazione dei problemi finan­ ziari derivati dalla fine della guerra mondiale e della pace di Versaglia, sia nei rapporti interni delle Potenze al­ leate, sia di fronte alla Germania, all Austria-Ungheria, alla Turchia, e si è manifestata con la presentazione della proposta mussoliniana del « colpo di spugna sulla tragica contabilità della guerra », con la quale era per la prima volta nettamente presentata la tesi della inter­ dipendenza tra le riparazioni dovute dagli Stati vinti e i debiti di guerra degli Alleati verso gli Stati creditori piu ricchi: tendenza manifestatasi anche, all’inizio del 1926, attraverso la definizione del debito di guerra del­ l’Italia verso gli Stati Uniti, e poi verso la Gran Bretagna. Che, se questa tendenza incontrò resistenza e opposi­ zioni vivaci e tenaci, sovrattutto in Francia, ciò non im­ pedì che essa, attraverso successivi tentativi e revisioni, finisse per trionfare, portando, proprio secondo i prin­ cipi enunciati da Mussolini, alla risoluzione internazio­ nale di Losanna del luglio i 93 2> c^e Pose ^ne a^e ripa" razioni dovute dalla Germania, togliendo ogni valore alle clausole finanziarie del Trattato di Versaglia. Ma ben piu decisamente contrastante alle esigenze de­ gli ex-alleati di Inghilterra, e specialmente di Francia,

non tardò a rivelarsi l ’altra tendenza della politica estera del Fascismo: quella determinata dalla sempre più pa­ lese ripugnanza dell’Italia fascista a rendersi, come avreb­ be voluto l ’Inghilterra, e sovrattutto la Francia, guar­ diana e tutrice, anche col peso delle proprie armi, di un assetto politico, quale era quello dato all’Europa dai vin­ citori degli Imperi centrali nel 1918, e che la esperienza del dopoguerra mostrava ogni giorno di più sostanzial­ mente iniquo e intrinsecamente irrealizzabile, e del quale l’Italia sapeva di essere, per responsabilità delle sue ex­ alleate nella guerra antigermanica, una delle vittime, accanto ai vinti di questa. Il Duce aveva bensì dichiarato, subito dopo la Marcia su Roma, che « i Trattati di pace, buoni o cattivi che siano, una volta che siano stati firmati e ratificati, vanno eseguiti », e che « uno Stato che si rispetti non può avere altra dottrina »... : ma aveva anche aggiunto che quei Trattati t« non sono eterni, non sono irreparabili, sono capitoli della Storia, non epilogo della Storia... » D i qui, quello che fu ben presto, in Europa, chiamato il revisionismo fascista, in forza del quale l’Italia apparve all’Europa in funzione di sostenitrice di una politica ten­ dente a superare il rigido sistema di ineguaglianze e di gerarchie imposto dai trattati esistenti, nella ricerca di un nuovo equilibrio di forze e di posizioni, meglio ri­ spondente alla realta delle cose, e perciò di fautrice, mo­ derata e prudente, ma insieme convinta e tenace, delle rivendicazioni avanzate dagli Stati, cui i Trattati di pace avevano inflitto più vaste mutilazioni territoriali e più profonde umiliazioni morali e nazionali, come la Germa­ nia, 1 Austria, 1 Ungheria, la Bulgaria, a queste aggiun­ gendo, naturalmente, le proprie. Revisionismo, di cui la espressione più esplicita si ebbe forse nell ampio discorso sulla politica estera del Regime pronunciato dal Duce in Senato, il 5 giugno del 1928 : r 52

« Non c’è bisogno di ripercorrere le strade della storia più lontana, per affermare che i trattati di pace non sono eterni : basta limitarsi al sec. XIX . Lo stesso Patto della Società delle Nazioni scarta quella che si potrebbe chiamare la immobilità marmorea dei trattati di pace, quando in appositi articoli apre il varco alle possibili re­ visioni. Sarebbe interessante stabilire, ad esempio, quante clausole del Trattato di Versaglia non sono state appli­ cate, e quante altre hanno avuto o avranno una applica­ zione mitigata o diversa. I trattati di pace sono sacri, in quanto conclusero uno sforzo glorioso e sanguinoso, un periodo di sacrifici e di grandi dolori, ma i trattati di pace non sono il risultato di una giustizia divina, bensì di una intelligenza umana, sottoposta, specie sul finir di una guerra gigantesca, ad influenze di ordine eccezio­ nale. C ’è qualcuno che oserebbe affermare che i trattati di pace, da Versaglia in poi, sono un’opera perfetta? Ci sono nei trattati di pace dei grandi fatti compiuti, corri­ spondenti a supreme ragioni di giustizia, fatti compiuti, che tali restano, e che nessuno di noi pensa a revocare, e nemmeno a mettere in discussione. « Ma ci sono nei trattati clausole territoriali, coloniali, finanziarie, sociali, che possono essere discusse, rivedute, migliorate, allo scopo di prolungare la durata dei trattati stessi, e quindi per assicurare un più lungo periodo di pace. Quando in un mio discorso, pronunciato or è un anno nell’altro ramo del Parlamento [si trattava del fa­ moso discorso dell’Ascensione, tenuto alla Camera il 26 maggio del 1927], accennai che l ’Europa si sarebbe trovata tra il 1935 e il 1940 a un punto molto interessante e delicato della sua storia, partivo dall’ordine di conside­ razioni che sono venuto prospettandovi. Tale mia affer­ mazione o previsione non deve essere interpretata in un senso pessimistico. Il fatto è che nel periodo di tempo da me individuato verranno - in seguito allo svolgi*53

mento stesso dei trattati di pace - a maturare talune con­ dizioni, le quali determineranno una nuova fase im­ portante nella situazione tra i diversi Stati di Europa. Sorgeranno particolari problemi, che potranno essere ri­ solti dai Governi in linea pacifica, come io sinceramente mi auguro. Complicazioni gravi saranno evitate, se rive­ dendo i trattati di pace, laddove meritano di essere rive­ duti, si darà nuovo e più ampio respiro alla pace. Questa è la ipotesi che io accarezzo, e alla quale è ispirata la politica del Governo fascista e del popolo italiano; ma, poiché la contraria ipotesi va considerata, nessuno può in buona fede stupirsi, se, all’esempio di tutti gli altri Stati, anche l’Italia intende di possedere le forze armate necessarie per difendere la sua esistenza e il suo avvemre. » Perché era pur vero che, pochi anni prima, nel 1925, si era compiuto un atto di valore, che poteva sembrar decisivo, per la conservazione della pace europea, con la firma degli accordi di Locamo, e che a quest’atto anche l’Italia fascista aveva partecipato, ponendosi sullo stesso piano dell’Inghilterra, nell’impegno a garantire « quella pace sul Reno, che è, in realtà, la pace dell’Europa »; ma era anche vero che lo spirito di Locamo appariva, ad appena due anni di distanza, straordinariamente « deco­ lorato » : onde era venuto, nel 1927, il discorso del­ l’Ascensione : « ...C h e cosa è accaduto? È accaduto che le Nazioni, diremo cosi locarnistiche, si armano furiosamente per terrà e per mare; e che in alcune di queste Nazioni si è osato perfino parlare di una guerra di dottrine, che doveva essere mossa dalle democrazie degli immortali principi contro questa irreducibile Italia fascista, anti­ democratica, antiliberale, antisocialista ed antimassoni­ ca... E allora, il dovere preciso, fondamentale e pregiu­ diziale dell’Italia fascista è di mettere a punto tutte le

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sue forze armate della terra, del mare e del cielo. Biso­ gna, ad un certo momento, mobilitare cinque milioni di uomini e bisogna poterli armare; bisogna rafforzare la nostra Marina, e bisogna che l ’Aviazione sia cosi nume­ rosa e cosi potente che l’urlio dei suoi motori copra qual­ siasi altro rumore nella penisola, e la superficie delle sue ali oscuri il sole sulla nostra terra. N oi potremo allora, domani, quando, tra il 1935 e il 1940, saremo a un pun­ to, che direi cruciale della storia europea, potremo far sentire la nostra voce e vedere finalmente riconosciuti i nostri diritti... » Ma che, malgrado l’attitudine apertamente aggressiva assunta dagli Stati democratici verso l’ Italia, la politica revisionista dell’ Italia fascista continuasse pur sempre ad essere imperniata sulla idea della revisione consen­ suale e pacifica delle clausole piu inique ed assurde dei trattati vigenti, bastano a confermarlo questi periodi del messaggio lanciato agli Italiani da Mussolini in oc­ casione dell’ottavo anniversario della Marcia su Roma: « Sia chiaro che noi ci armiamo materialmente e spiri­ tualmente per difenderci, e non per attaccare. L ’Italia fa­ scista non prenderà mai la iniziativa di una guerra. La nostra politica di revisione dei trattati è diretta ad evitare la guerra, a fare l’immensa economia di una guerra. « La revisione dei trattati di pace non è un interesse prevalentemente italiano, ma europeo, ma mondiale. Non è una cosa assurda e inattuabile, dal momento che è contemplata, questa possibilità di revisione, nello stesso patto della Società delle Nazioni. D i assurdo c’è soltanto la pretesa della immobilità dei trattati. Chi viola il Patto della Società delle Nazioni? Coloro che a Ginevra hanno creato e vogliono perpetuamente mantenere due categorie di Stati: gli armati e gli inermi. Quale parità giuridica e morale può esistere tra un armato e un inerme?... »

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Appunto per questa sua tendenza revisionista, l ’Italia fascista aveva, sin dall’inizio, mostrato una diffidenza istintiva verso quello strumento di conservazione a ol­ tranza dell’assetto europeo creato a Versaglia nel 1918, che era diventato, nelle mani della Francia e dell’Inghil­ terra, la Società delle Nazioni, e ai piani astratti, di ispi­ razione ginevrina, di intese universalistiche, fondate sul­ l’assurda speranza di accordi internazionali e simultanei tra tutti gli Stati, prescindenti da ogni definizione con­ creta dei singoli interessi e rapporti, aveva sempre opposto la propria fiducia nel sistema delle intese parziali e gra­ duali, raggiunte con patti bilaterali o limitatamente pluri­ laterali, capaci di definire realisticamente gli interessi di ciascuno degli Stati partecipanti. E per lo stesso motivo, l’Italia fascista, mentre acconsenti, nel 1925, a porre a Lo­ camo la propria firma accanto a quella dell’Inghilterra, per garentire la inviolabilità dell’attuale frontiera renana, aveva, nel 1924, rifiutato di associarsi all’occupazione fran­ co-belga della Ruhr, in conseguenza del sospeso pagamen­ to germanico delle riparazioni, e, otto anni piu tardi, in occasione della Conferenza internazionale di Ginevra per la limitazione degli armamenti, oppose, nel gennaio del 1932, all’utopia del disarmo universale la propria propo­ sta concreta di un’equa limitazione sulla base del paralle­ lismo degli armamenti e delle forze, e sostenne perciò esplicitamente, oltre che per se stessa, anche per la Ger­ mania il diritto alla parità. La proposta italiana urtò, com’è noto, nella recisa op­ posizione francese. Ma, a conferma dell’anacronistica vanità dell’atteggiamento negativo assunto dalla Francia, si vide subito come questo non avesse altro effetto che quello già facilmente previsto dall’Italia: la uscita della Germania dalla Società delle Nazioni, e quindi, poco do­ po, il libero riarmo germanico, deliberato, con atto uni-

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laterale, e in onta ai divieti formali del 1 rattato di Versaglia, dal Governo di Berlino. Non eran, del resto, passati che pochi mesi dalla Con­ ferenza di Ginevra che saliva, in Germania, al potere, Hitler, e si iniziava la rivoluzione nazionalsocialista. *

Con l’avvento della rivoluzione nazista in Germania, si realizzava evidentemente un essenziale presupposto per l’iniziarsi di una nuova fase della politica estera revisio­ nista del Fascismo. La Germania usciva dalla condi­ zione di impotenza e di minorità politica militare ed economica, a cui l’aveva per tanti anni costretta la vo­ lontà dei suoi vincitori nella guerra mondiale, e si pre­ parava a rientrare nel novero delle Potenze mondiali padrone di se stesse e dei propri destini. E non tardò allora ad apparire evidente come vi fosse tra la Germania e l’Italia una palese convergenza di inte­ ressi a collaborare per la instaurazione di un nuovo equili­ brio di forze in Europa, e come questa convergenza fosse rinsaldata ora dalla solidarietà e analogia degli ideali politici. Di questa convergenza di interessi sì ebbe la prova subito dopo la conquista del Governo in Germania per parte di Hitler, nel febbraio del 1933, al primo acuirsi del conflitto tra la Germania e la Francia sul problema degli armamenti. Mussolini aveva ben compreso la fata­ lità del riarmo delle Potenze disarmate dalla pace di Versaglia. Perciò propose la mediazione italiana sul principio di una limitazione degli armamenti delle Po­ tenze armate al livello già raggiunto e di una valuta­ zione degli armamenti delle Potenze disarmate al livello minimo necessario ai bisogni elementari della loro sicu­ rezza. Ma di nuovo la formola italiana fu respinta dalla I57

Francia, irrigiditasi sul principio di una preventiva ade­ sione generale al patto e al meccanismo della Società delle Nazioni, ossia alla formola della sicurezza collet­ tiva, intesa come un rigoroso impegno, non soltanto di non aggressione, ma anche di mutua assistenza in caso di aggressione dovuta ad iniziativa individuale altrui: formola, evidentemente mirante a rendere in qualsiasi ipotesi irrealizzabile qualsiasi conato di politica revisio­ nista. Atteggiamento di aprioristica resistenza, la quale doveva necessariamente portare al tramonto della con­ ferenza mondiale del disarmo, e al riaprirsi di una nuova formidabile corsa generale al riarmo. Eppure fu proprio in questo momento che il Duce dell’Italia fascista volle offrire al mondo una nuova te­ stimonianza del suo tenace proposito di mantenersi il piu possibile in contatto con le Potenze, che erano state a fianco dell’Italia nella guerra mondiale, e di fare d’ac­ cordo con esse ogni sforzo per avviare verso una soluzione pacifica la politica revisionista, pur sempre caldeggiata dall’Italia. N e aveva, del resto, dato Egli l ’annuncio sin dall’au­ tunno 1932, in un suo discorso del 23 ottobre al popolo di Torino: « ...U n voto del Gran Consiglio ha susci­ tato l’interesse di tutti i Paesi: rimarremo ancora nella Società delle Nazioni? Ora io vi dichiaro che rimarremo ancora nella Società delle N azioni: specialmente oggi che essa è straordinariamente malata, non bisogna ab­ bandonarne il capezzale. A lla Società delle Nazioni trop­ po universalistica, accade che le sue istituzioni perdono di efficacia con l ’aumentare delle distanze... V i sono stati dei tentativi per disincagliare l’Europa da questa costru­ zione troppo universalistica. Ma io penso, che se, domani, sulla base della giustizia, sulla base del riconoscimento dei nostri sacrosanti diritti, consacrati dal sangue di tanti generosi Italiani, si realizzassero le premesse neces158

sane e sufficienti per una collaborazione grandi Potenze occidentali, l ’Europa s a r e b b _ e __ _ dal punto di vista politico, e forse la crisi che ci attanaglia andrebbe verso la fine... ». Era evidentemente il primo accenno a ciò che sara, nel giugno del 1933, il “ Patto a quattro” , concluso a Roma, per iniziativa dell’Italia, tra l’Italia, la Inghil­ terra, la Francia e la Germania, e perfezionato, con la firma dei rappresentanti i quattro Stati, a Roma, il 15 luglio. Il quale “ Patto a quattro” non ebbe adatto a unico scopo di rompere l’isolamento politico della Germania, ma ebbe uno scopo molto piu vasto, e, in tutto il senso della parola, europeo. Esso era stato, infatti, concepito da Mussolini come uno sviluppo logico e necessario del Patto di Locamo dell’ottobre del 1925, con questa diffe­ renza, però, di fronte a quello, che esso tendeva a porre la Germania e la Francia in una posizione uguale a quel­ la dell’ Italia e dell’ Inghilterra, per avviare le quattro Potenze occidentali verso una stabile intesa collaborativa, mediante la quale fosse possibile, col concorso di tutte, superate le divisioni tra esse poste dalla guerra e trovare una formola di soluzione ai grandi problemi, che la fine della guerra aveva aperto nei loro rapporti, e senza risol­ vere i quali non era neppure concepibile qualsiasi sistema di pace duratura in Europa. Senonchè, se questo piano fu subito accettato dalla Germania, e non affatto ostacolato dall Inghilterra, prov­ vide ben presto a renderlo del tutto inattuabile e vano la politica della Francia, stemperandone o annullandone il significato e il valore con le proprie insistenti riserve e con i propri eccessivi riferimenti al Patto della Società delle Nazioni, nel momento stesso in cui la Francia, in palese antitesi allo spirito informatore del Patto a quattro” , svolgeva nell’Oriente europeo una inattesa atti159

vita diplomatica in senso apertamente antirevisionistico, e insieme non meno che antig ermanico. Attività diplomatica svoltasi, sovrattutto, sotto la ispi­ razione francese, nell’autunno del 1933, e che portò il 9 febbraio 1934, ad Atene, alla stipulazione del Patto bal­ canico fra i Ministri degli affari Esteri di quattro Stati, Romania, Jugoslavia, Grecia, Turchia. E fu subito evi­ dente come la nuova Intesa balcanica rappresentasse il prolungamento, sino ai Balcani e all’Asia Minore, di quella concezione politica di rigido mantenimento dello status quo e di intransigente opposizione a qualsiasi ten­ denza revisionistica, che, negli anni immediatamente se­ guiti alla pace di Versaglia, la diplomazia francese aveva già attuato nella regione danubiana con la cosiddetta Piccola Intesa. Allo stesso modo, infatti, che la Piccola Intesa mirava a mantenere lo status quo nel medio Danubio e a para­ lizzare* il revisionismo dell’Ungheria, l ’Intesa Balcanica mirava a mantenere lo status quo nei Balcani e a para­ lizzare il revisionismo della Bulgaria: entrambe con l’appoggio e a vantaggio della Francia. Sicché fu naturale che a questa attività antiitaliana da­ nubiana e balcanica di origine francese venisse pronta ed efficace la risposta, per parte dell’Italia, con la crea­ zione del sistema Italia-Austria-Ungheria, sanzionata coi Protocolli firmati a Roma il 17 marzo 1934. Il rafforza­ mento dei vincoli tra Roma, Vienna e Budapest, e gli impegni per una politica di cordiale collaborazione, men­ tre assicuravano all Ungheria e all’Austria un appoggio sicuro di fronte alla pressione degli altri Stati successori della Monarchia absburghese, davano modo all’Italia di contrapporre un proprio sistema di alleanze a quello che faceva capo alla Francia. Per contraccolpo, intanto, dell’orientamento decisamen­ te antibolscevico e perciò antirusso dato dal Governo

nazista alla politica estera della Germania, si era in­ tanto sin dall’estate del 1933, iniziato il moto di acco­ staménto della Russia sovietica ai sistemi della Picco Intesa e della Intesa Balcanica e alla Società delle N zioni vale a dire alla politica antirevisiomstica e di man­ tenimento dello status quo, che aveva ne la F ^ ncia 1 esp nente principale e più risoluto: accostamento che era stato negli ultimi mesi del 1934, affrettato da due gra avvenimenti di politica internazionale, entrambi dovu alla iniziativa della recente Germania b t k u m quah la conclusione» nel gennaio del 1934,. * Un t f la G ercollaborazione e di amicizia per dieci anni tra la Ger mania e la Polonia, e la crisi pohtica s c o p p t a t o ^ ^ alla fine di luglio, che aveva costato la vita al C “ “ Dolfuss, e fatto per un momento balenare la minacci dell’Anschluss, e che doveva nella primavera del 1935 culminare nella conclusione di un vero f ranco-russo, che parve a molti la ripresa dell antica Du plice alleanza tra la Francia e la Russia del 1893. P Prim a però che ciò avvenisse erano, sovrattutto p effetto della crisi austriaca del luglio>1934, che, m etten ­ do a repentaglio la esistenza e la ind ip en en za e stria, aveva creato un vivace dissenso tra 1 Italia fascis e la G erm an ia nazista, e del n u ovo orientam ento assunto nel genn aio 1934, dalla P olon ia verso la G erm an ia, m contrasto alla sua trad izion ale attitudin e filofrancese, m turate le con d izion i per quel tentativo d i riaccostam ento tra la Francia e l ’Italia, che si concreto n ell incontro M ussolini e L a v a i e n ell’ accordo italo-francese de 7

gennaio 1935. . • „„ Questo accordo mirava, dopo un ventennio 1 me tezze e di tensioni, a porre i rapporti tra e ue azioni su un terreno di intesa definitiva e duratura, e 0 le reciproche ragioni di contrasto o di con itto. mandosi al trattato di Londra del 1915, che aveva assi-

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curato l ’intervento dell’Italia nel conflitto mondiale, l’ac­ cordo assicurava da parte francese un minimo di com­ pensi coloniali all’Italia in cambio di una revisione dello Statuto degli Italiani in Tunisia. A ll’Italia era concesso un arrotondamento del confine sud-occidentale della Li­ bia e la cessione di un territorio di circa 1000 kmq. nella Somalia francese, affacciantesi con la sua parte costiera sullo stretto di Bab-el-Mandeb, di fronte all’isola inglese di Perim, a cui si univa un diritto di partecipazione del­ l ’Italia alla ferrovia Gibuti-Addis Abeba. Ma dell’accordo, la cui efficacia era condizionata, più che alla lettera dei patti, allo spirito con cui questi patti sarebbero stati interpretati e applicati, il valore princi­ pale stava per l ’Italia, nell’intesa, che ne formava la ragion d ’essere, anche se non resa manifesta nell’atto pubblico, della libertà di azione riconosciuta dalla Fran­ cia all’Italia in Etiopia. Nei Sguardi della situazione dell’ Europa centrale, il patto del 7 gennaio 1935 si risolveva nel progetto di un accordo di non ingerenza negli affari interni rispettivi, e di rispetto della integrità territoriale e del regime poli­ tico dei vari Paesi contraenti, che avrebbero dovuto essere inizialmente conclusi tra l ’Italia, Germania, Ungheria, Cecoslovacchia, Jugoslavia, e cioè fra tutti i Paesi confi­ nanti con l’Austria e l ’Austria stessa, e poi aperti alla adesione della Francia, della Polonia e della Romania: accordo col quale Italia e Francia evidentemente mira­ vano a garentire, di fronte alle aspirazioni annessionisti­ che della Germania, l ’indipendenza dell’Austria e il man­ tenimento dello status quo nelle regioni medio-danu­ biane. Pareva cosi si fossero, con palese soddisfazione del­ l ’Inghilterra, gettate le basi di una intesa duratura e stabile tra l ’Italia e la Francia: intesa, che sembrò do­ vere essere fortemente rinsaldata dal gesto compiuto il

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16 marzo 1935 da H itler, quando il Capo della nuova Germania, abbattendo in un sol colpo la parte militare del Trattato di Versaglia, ordinò il ripristino della coscri­ zione obbligatoria in Germania e la creazione di un’ar­ mata permanente adeguata alla posizione e alle necessita germaniche. A l gesto di Hitler rispose, infatti, tra l'11 e il 13 apri­ le 1935, il convegno italo-franco-inglese di Stresa, da cui usci l ’accordo tra le tre Potenze a consultarsi in caso di ulteriori atti unilaterali della Germania, ossia ciò che subito si chiamò nella diplomazia europea il fronte di Stresa. Il quale però non resistè che pochi mesi, ed era già sui primi di estate del 1935 crollato, per contraccolpo della crisi internazionale provocata da quella impresa italiana nell’Africa Orientale, onde la situazione diplo­ matica e politica formatasi tra le Potenze di Europa tra l’autunno del 1934 e la primavera del 1935 fu rapidissi­ mamente compromessa e capovolta, ed ebbe inizio una nuova fase della politica estera fascista e della storia me­ diterranea. *

Quali profondi motivi di carattere storico, politico, stra­ tegico ed economico abbiano condotto l’Italia fascista a chiudere una partita dolorosamente aperta nella coscienza della Nazione sin dai giorni di Adua, affrontando l’im­ presa di Etiopia, è ben noto, e non è qui il luogo di ri­ cordare e di illustrare. Sta di fatto comunque che il precedente o il presuppo­ sto immediato e diretto dell’impresa di Etiopia è da cer­ carsi nella vertenza diplomatica, apertasi sul principio del 1935, tra il regno d’Italia e lo Stato di Abissinia in seguito al tentativo di aggressione compiuto dagli Abis-

siili a Ual-Ual, il 15 dicembre 1934, ai danni dell’Italia: vertenza, la cui soluzione pacifica, attraverso la procedura di conciliazione e di arbitrato prevista dal patto di ami­ cizia italo-etiopico del 2 agosto 1928, era apparso subito resa difficile dalla tendenza della diplomazia franco-bri­ tannica ad evitare l’aperto riconoscimento della responsa­ bilità etiopica. Sin dal 14 dicembre del 1934, era stata infatti segnalata una mobilitazione etiopica in alcune province dell’Impero del Negus. E si sapeva sin dal 19 dicembre deciso in massima da una riunione di ras un attacco alle Colonie italiane. Sicché nelle prime settimane di febbraio 1935 era stata ordinata dal Ministro delle Co­ lonie, Quadrumviro De Bono, una prima mobilitazione di due Divisioni italiane. Ma alla fine di aprile già mezzo milione di armati etiopici era stato mobilitato, quando non piu di 30.000 soldati italiani erano arrivati nelle due nostre Colonie. Il pericolo delle Colonie italiane indifese, a quattsro e ottomila chilometri di distanza dalla Penisola, era evidente. Era quindi necessario l ’accelerarsi della pre­ parazione italiana. Ma fu durante l ’estate del 1935 che la vertenza italoabissina parve subitamente trascendere l ’ambito di una questione coloniale, e assumere l’importanza di un pro­ blema interessante l’equilibrio delle forze nel Mediterra­ neo: e fu quando l’Inghilterra prese pubblicamente le prime misure dirette ad impedire o ad ostacolare l’azione, che l ’Italia si avviava a svolgere in difesa della propria sicurezza e della propria dignità di fronte aU’Abissinia. Tali misure assunsero, infatti, il carattere di una vera e propria pressione o intimidazione esercitata dal Go­ verno britannico sul Governo italiano, avendo a centro il Mediterraneo, dove l’Inghilterra contava di poter giovarsi, di fronte all’Italia, dei vantaggi, che le venivano, o pote­ vano venirle, sia dalle proprie basi e dalle proprie forze navali, sia dalle intese con altri Paesi mediterranei, atti­ 164

rati dal Governo di Londra ad associarsi alle direttive della politica britannica, dietro lo schermo del rispetto ai principi del Covenant ginevrino e alle decisioni del Con­ siglio e dell’Assemblea della Società delle Nazioni. La manovra britannica si rivelò in tutta la sua mi­ nacciosa portata il 19 settembre i935> quando, mentre a Ginevra si svolgevano le trattative e le discussioni mi­ ranti a trovare al conflitto italo-etiopico una soluzione nel quadro dei principi societari, il Mediterraneo diven­ tava teatro del concentramento di 149 navi da guerra bri­ tanniche. Con tale formidabile nuovissimo spiegamento di forze navali la talassocrazia britannica intendeva di dettare la propria volontà all’Italia. Tanto piu che tre mesi pri­ ma, il 14 giugno 1935, il Governo britannico aveva con­ cluso con il Governo tedesco un accordo navale, i cui scopi erano stati, non soltanto di fissare il rapporto tra la flotta britannica e la forza tedesca, ma anche di stabi­ lizzare, almeno per un certo tempo, la situazione navale e politica del Mare del Nord, in modo che 1 attenzione britannica potesse concentrarsi piu sicuramente nel Mediterraneo e sulle conseguenze mediterranee del conflitto italo-abissino. Ma la pressione britannica falli di fronte al coraggio eroico di Mussolini e alla strenua volontà di resistenza del popolo italiano. Il giorno precedente allo spiegamento delle forze na­ vali britanniche nel Mediterraneo, il “ Comitato dei cin­ que” nominato dal Consiglio della Società delle Nazioni per l’esame del conflitto italo-etiopico e la ricerca di una formola di soluzione pacifica, aveva presentato le sue conclusioni: assistenza collettiva della Società delle N a­ zioni all’Etiopia con l ’aggiunta di lievi aggiustamenti territoriali tra l ’Italia e l’Etiopia sulla costa, incoraggiati dall’Inghilterra e dalla Francia, e riconoscimento di un 165

preminente interesse italiano nello sviluppo economico dell Etiopia. Proposte, le quali deliberatamente dimenti­ cavano il valore sostanziale degli accordi precedentemen­ te conclusi tra l ’Italia la Gran Bretagna e la Francia circa 1 Etiopia, e non davano all’Italia alcuna garanzia contro il ripetersi delle aggressioni etiopiche. A queste proposte, l ’Italia aveva già, sin dall’8 settem­ bre, risposto, per bocca del Duce, con le tre parole pro­ nunciate dal balcone di Palazzo Venezia: « N oi tireremo diritto ». Il 28 settembre un proclama del Negus, in cui si pro­ metteva in compenso alle truppe l’Eritrea e la Somalia, annunciava la mobilitazione generale dell’Etiopia. Il 3 ottobre, le truppe italiane, al comando del generale De Bono, varcavano il Mareb ed entravano in territorio etio­ pico. La stessa successione delle date prova come l ’azione italiana« si sia iniziata quattro giorni dopo la constata­ zione del piano offensivo nemico, e quindici giorni dopo la dimostrazione dell’attitudine ostile della Società delle Nazioni. Ciò non impedì che, quattro giorni dopo l’inizio del1 azione italiana, un Comitato della Società delle Nazioni, formatosi con procedura irregolare, si arrogasse il diritto di giudicare l ’Italia, e osasse condannare l ’Italia per vio­ lazione del patto societario, senza neppure prendere in esame il memoriale italiano, che documentava la politica aggressiva dell’Etiopia e spiegava le ragioni italiane. Il io ottobre si decideva a Ginevra l ’applicazione con­ tro 1 Italia dell’art. 16 del Patto, ossia delle sanzioni finan­ ziarie ed economiche, da entrare in vigore il 18 novem­ bre, e tendenti all’assoluto isolamento dell’Italia, con il rifiuto di crediti esteri e la chiusura dei mercati alle esportazioni italiane. Ma qualcuna di queste sanzioni, come quella della so­

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spensione dei crediti, era già stata arbitrariamente cata, qualche settimana prima della decisione societari, da parte della Gran Bretagna, che aveva anche preso la iniziativa di elaborare in precedenza tutto il calcolo e il meccanismo delle sanzioni. L ’Italia era, dunque, cosi costretta ad affrontare la sua impresa dell’Africa Orientale su due fronti: l’uno mili­ tare, contro le masse armate etiopiche, l’altro politico-eco­ nomico contro gli Stati dichiaratisi sanzionisti - ben 52 (e tra essi, anche la Francia, malgrado l’impegno di fatto assunto il 7 gennaio del 1935 a lasciare all’Italia mano libera in Etiopia) - coalizzati dalla politica britannica, che prese subito l ’iniziativa del comando e della violenza offensiva. In realtà, dietro la motivazione della difesa del patto ginevrino e delle decisioni societarie, l ’Inghilterra era riuscita a costituire fra gli Stati mediterranei un vero e proprio sistema di accerchiamento e di isolamento del­ l’Italia, mentre questa era impegnata a fondo nell’im­ presa africana, e aveva a tale scopo anche febbrilmente approntato nuove basi navali nel Mediterraneo orientale, ad Alessandria, ad Akaba, a Caifa, nelle isole dell’Egeo, in modo da fronteggiare la portata delle basi navali e aeree dell’Italia, nella zona compresa tra la Sicilia, la Libia e il Dodecaneso. La guerra fu, in pochi mesi, vinta dall’Italia su en­ trambi i fronti. La vittoria militare, preparata dal gene­ rale De Bono nei pochi mesi precedenti l’inizio dell’im­ presa, con una grandiosa trasformazione dei porti e della struttura dell’Eritrea e della Somalia, si svolse, sotto l’alto comando dei Marescialli Badoglio e Graziani, attraverso una mirabile serie di grandiose vittorie strategiche (di Ganale Doria o di Neghelli, sul fronte somalo, prima e seconda del Tembien, dell’Endertà, dello Scirè, del Lago Ascianghi, sul fronte eritreo), che, in poco piu di sei 16 7

mesi, portarono le truppe italiane all’occupazione di Ad­ dis Abeba, nel cuore dell’Impero etiopico. Ma non meno mirabile della vittoria militare in terri­ torio africano fu, in Europa e nel mondo, la resistenza ita­ liana contro l’assalto economico e politico del sanzionismo societario. Che, anzi, per singolare e fatalmente logica coincidenza di eventi, l ’iniquo e assurdo assedio economi­ co deliberato, con freddo inumano cinismo, da oltre cin­ quanta Stati civili contro il popolo di più antica e vene­ randa civiltà che la storia degli uomini conosca, si ritorse di fatto a danno di coloro, che avevan commesso il delitto di iniziarlo, risolvendosi in un grandioso collaudo, cosi della resistenza moralmente e spiritualmente unitaria de­ gli Italiani, che della perfetta e completa rispondenza del­ l’Ordinamento sindacale corporativo, ai fini, in virtù dei quali la Rivoluzione fascista lo aveva posto in essere. Se si voleva, infatti, mettere a prova l’attitudine dello Stato Corporativo a garantire, anche di fronte ad una coalizione ostile di oltre cinquanta Stati, il massimo rea­ lizzabile di autonomìa e di autarchia alla vita economica del popolo italiano, non si sarebbe potuto immaginare sistema più adatto di quello fornito dalle cosi dette san­ zioni. « L ’assedio economico, che è stato per la prima volta decretato contro l’Italia, poiché si è contato sulla modestia del nostro potenziale industriale », disse Mussolini il 23 marzo del 1936, all’Assemblea del nuovo Consiglio nazionale delle Corporazioni « ha sollevato una serie numerosa di problemi, che tutti si riassumono in questa proposizione : l ’autonomia politica, cioè la possibilità di una politica estera indipendente, non si può concepire senza una correlativa capacità di autonomia economica. Ecco la lezione che nessuno di noi dimenticherà. « Coloro i quali pensano che, finito l ’assedio, si ritor­ nerà alla situazione del 17 novembre, si ingannano. Il

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18 novembre 1935 è ormai una data che segna l'inizio di una nuova fase della storia italiana. Il 18 novembre reca in sé qualcosa di definitivo, vorrei dire di irrepara­ bile. La nuova fase della storia italiana sarà dominata da questo postulato: realizzare nel piu breve tempo pos­ sibile il massimo possibile di autonomia nella vita econo­ mica della Nazione ». Il che vuol dire che proprio il cieco odio dell’avversario forni al Fascismo l’occasione migliore per realizzare il presagio, che era già esplicito in questi periodi pronun­ ciati dal Duce sin dal io novembre del 1934 : « È bene affermare il valore internazionale della nostra organizzazione, perché è solo sul valore internazionale che si misureranno le razze e le Nazioni, quando l’Europa fra qualche tempo, malgrado il nostro fermo e sincerissimo desiderio di collaborazione e di pace, sarà nuovamente arrivata ad un bivio del suo destino ». Ed è per questo che, come Mussolini annunciò il 23 marzo del 1936, mentre la guerra etiopica era nel suo pieno sviluppo, e non ancora risolta, la data del giorno in cui, con la istituzione della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, la Rivoluzione delle Camicie Nere realiz­ zò, sul terreno costituzionale, una tappa fondamentale del processo costruttivo del nuovo Stato totalitario ita­ liano, « è legata all’epilogo vittorioso della guerra africana e agli avvenimenti della politica europea». D i questo rapporto tra la vittoria sulla coalizione euro­ pea e la fase conclusiva della trasformazione costituzio­ nale dello Stato italiano, il motivo profondo era già stato chiaramente espresso da Mussolini sin dal 7 aprile del 1926: «N on sono per abitudine ottimista... vedo un periodo difficile. Ma questo, invece di deprimerci, ci deve inorgoglire. È fatale, è bellissimo che ogni rivolu­ zione che trionfa in un Paese abbia contro di sé tutto un vecchio mondo. N oi spezzeremo il cerchio eventuale

con una trìplice azione, mantenendo intatta la nostra uni­ tà morale e quella del popolo italiano, facendo leva sul sistema corporativo, per cui nessuna, dico nessuna, ener­ gia del lavoro e della produzione italiana deve andare dispersa. Finalmente, se sarà necessario, spezzeremo an­ che il cerchio politico, perché l ’Italia esiste e rivendica pienamente il diritto di esistere nel mondo... ». # Non, dunque, la trasformazione dello Stato unitario italiano da Stato democratico liberale in Stato fascista corporativo è la vera meta, a cui tende il Fascismo. Questa meta è quella, che gli viene dalle sue origini guerriere ed eroiche, vale a dire dall’essere il Fascismo nato alla vita, il giorno stesso, in cui il popolo italiano si affermò protagonista del proprio destino, volendo e imponendo a se stesso la guerra per garentirsi l’avvenire, e si risolve nella consegna del Primato italiano nel mondo. È per condurre il popolo italiano a questo Primato, che la Rivoluzione fascista ha creato in Italia lo Stato cor­ porativo, cosi come, per condurre il popolo italiano alla indipendenza e sovranità su se stesso, il Risorgimento, che il Fascismo continua, realizzandone la meta essenzia­ le, aveva creato in Italia lo Stato costituzionale unitario. « Per questo noi sorridiamo » disse Mussolini, alla vi­ gilia del nono anniversario della Rivoluzione fascista « quando dei profeti funerei contano i nostri giorni. Di questi profeti non si troverà più nemmeno il ricordo, quando il Fascismo sarà ancora vivo. Del resto, ci occorre del tempo, per compiere l ’opera nostra. N oi dobbiamo scrostare e polverizzare nel carattere e nella mentalità de­ gli Italiani i sedimenti depositativi da quei terribili secoli di decadenza politica, militare, morale, che vanno dal 1600 al sorgere di Napoleone. È una fatica grandiosa.

Il Risorgimento è appena all’inizio, perché fu opera di troppo esigue minoranze... » È, « dove andiamo noi in questo secolo ? » domandò Mussolini alla folla di fascisti, accorsi, il 28 ottobre 1925, ad ascoltare la sua rievocazione del terzo anniversario della Marcia su Roma. « Bisogna porsi delle mete per avere il coraggio di raggiungerle. Il secolo scorso è stato il secolo della nostra indipendenza. Il secolo attuale deve essere il secolo della nostra potenza. Potenza in tutti i campi, da quello della materia a quello dello spirito. Ma qual è la chiave magica che apre la porta alla poten­ za? La volontà disciplinata. Allora vi rendete conto come oggi l’Italia realizzi il prodigio di vedere, dopo un secolo di tentativi, di guerre, di sacrifici, di martiri, il popolo italiano che entra sulla scena della storia e si investe della coscienza dei suoi destini. N on è piu la popolazione come un secolo fa, divisa in sette Stati, quella popolazione, che diventò popolo: poi il popolo, attraverso il sacrificio della guerra, diventò Nazione. Oggi la Nazione si dà la sua ossatura giuridica e politica e diventa Stato » : diventa Stato fascista corporativo : ossia lo Stato « in cui ogni cit­ tadino si considera, anche quando lavora nell’ufficio, nelle officine, nei cantieri o nei campi, un soldato, legato a tutto il resto dell’esercito, una molecola, che sente e pulsa con l’intero organismo. Io credo fermissimamente nel de­ stino di potenza che aspetta la nostra giovane Nazione. E tutti i miei sforzi, le mie fatiche, tutte le mie ansie e i miei dolori, sono diretti a questo scopo... ». Il che equivale a dire che ciò che rende invincibile il Fascismo, e ne assicura la vittoria sui suoi avversari, per quanto resi forti e potenti dal loro coalizzarsi contro il Regime fascista, non è tanto la fede nella verità di una determinata teoria o dottrina politica, che è la dottrina o la teoria del Fascismo, quanto un’altra fede, che è di quella fede teorica insieme il presupposto ed il fine:

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la fede nella vocazione del popolo italiano ad una perenne missione di civiltà e di potenza e quindi la fede nella perenne giovinezza e vitalità del popolo italiano. Questa fede è il lievito fondamentale del Fascismo, per­ ché è il motivo fondamentale della vocazione rivoluzio­ naria di Mussolini: ond’essa è alla radice del Fascismo, che da essa è sorto e di essa si alimenta ininterrotta­ mente, in tutto il corso del proprio graduale processo di diffusione nel mondo. Non soltanto perciò questa fede è sempre presente ed esplicita in tutte le espressioni del pensiero di Mussolini, e prima e dopo la Marcia su Roma; ma passeranno gli anni e gli avvenimenti, ed essa rimarrà sempre, immu­ tata e infrangibile, malgrado e oltre ogni prova comun­ que apparentemente contraria ed avversa, a guidare, co­ me infallibile bussola, l’azione del Duce del Fascismo. Il quale, chiuse, per esempio, il 18 dicembre 1930, un grave é documentato discorso sulla politica economica con cui il Regime cercò di far fronte alle conseguenze, anche per la vita italiana, aspre e dure, della crisi mon­ diale iniziatasi nell’ottobre dell’anno precedente in Ame­ rica, con queste parole: « ...N é a rendere diffìcile la no­ stra ripresa varranno le manovre alle quali assistiamo, e che io qualifico atti di vera e propria guerra contro l’Italia... Impresa stolta e vana. L ’Italia supererà questa crisi, come ha superato le altre, non meno gravi e in tempi piu diffìcili, e con uomini di diversa natura... Dopo una crisi gravissima, come quella che segui la battaglia di Custoza, dopo una crisi non meno grave, come quella, che attraversò l’Italia dal 1824 al 1900; dopo un’altra crisi seria, e cioè quella che segui il 1917, dopo la crisi eco­ nomica, politica, spirituale, non meno grave, che si ebbe nel 1919-20, il popolo italiano si è sempre rialzato per le virtù profonde di sempre vecchio e sempre giovane popolo... Ond’è che nel mio spirito fiammeggia una cer172

tezza, come un raggio di sole nel pieno meriggio di una giornata estiva. Il popolo italiano, se rimane fedele a queste sue virtù, se rimane laborioso, probo, fecondo, è signore del suo avvenire, arbitro del suo destino... ». Erano appena, quando queste parole furono pronuncia­ te in Senato, trascorsi sette mesi, da quando Mussolini aveva, l’11 maggio 1930, scagliato da un balcone di Piaz­ za Carlo Alberto, a Livorno, alla folla quest’altri non meno ardenti periodi: « L ’Impero, che fino al 1859 te­ neva la Lombardia, che nel 1915 aveva ancora Trento e Trieste, oggi non è che un vago ricordo, di fronte all’ir­ revocabile fatto compiuto, che prende il nome da V it­ torio Veneto... Vi è dunque qualcosa di fatale, qualche cosa di divino e di ineluttabile in questa marcia verso la grandezza del popolo italiano. Davanti a questa massa di popolo, nella quale tutte le classi sono confuse, dai contadini agli operai, dagli uomini di pensiero agli uo­ mini di fatica, davanti a questa unità infrangibile, che cosa possono ancora le sfatte cariatidi del tempo che fu, o coloro che invidiano questa prorompente giovinezza del popolo italiano?... » Ma lo stesso ardore di fede ispirava, quattr’anni dopo, quest’altre parole, pronunciate il 18 marzo 1934, e nelle quali par di sentir palpitare il presentimento della ormai prossima o imminente impresa etiopica: « È questa la epoca dei piani di quattro, di cinque, di dieci, di qua­ rant'anni. Questi piani rispondono a un bisogno degli spiriti, percossi dalla crisi e dal precipitare dei vecchi idoli. Il piano è un tentativo di domare le forze e ipote­ care il futuro... Potrei anch’io dettagliarvi un piano sino al 1945. Preferisco invece additarvi gli obiettivi storici, verso i quali devono puntare in questo secolo, la nostra e le generazioni che verranno. Parliamo tranquillamente di un piano, che va sino al vicino millennio: il duemila. Gli obiettivi storici dell’Italia hanno due nomi: Asia e 173

Africa. Si tratta di una azione che deve valorizzare le risorse ancora innumeri di due continenti, sovrattutto per quello che concerne l’Africa, e immetterle piu pro­ fondamente nel circolo della civiltà mondiale... L ’Italia può fare questo: il suo posto nel Mediterraneo, mare che sta riprendendo la sua funzione storica dì collegamento tra l’ Oriente e l’ Occidente, le dà questo diritto e le im­ pone questo dovere... ». Sino a che questo dovere non sia tutto compiuto, la Rivoluzione fascista non può conoscere sosta od arre­ sto: ond’è che l’unico pericolo, che, dopo la vittoria sui nemici di dentro, può ancora minacciare la vita del Re­ gime è quello, che, già nel discorso del 18 marzo 1934 alla seconda Assemblea del Regime, il Duce individuava nello spirito borghese, vale a dire nello spirito di soddi­ sfazione o di adattamento all’opera compiuta, nell’amore della vita pacifica e comoda. «... Il fascista imborghesito è colui che crede che or­ mai non c’è piu nulla da fare, che l ’entusiasmo disturba, che le parate sono troppe, che basta un figlio solo... Con­ tro questo pericolo non c’è che un rimedio: il principio della rivoluzione contìnua. « T ale principio va affidato ai giovani di anni e di cuore. Esso allontana i poltroni dell’intelletto; tiene sem­ pre desto l ’interesse del popolo, non immobilizza la sto­ ria, ma ne sviluppa le forze. La rivoluzione nel nostro pensiero è una creazione, che alterna la grigia fatica della costruzione quotidiana ai momenti folgoranti del sacri­ ficio e della gloria. Sottoposto a questo travaglio, che segue la guerra, è già possibile vedere, e sempre piu si vedrà, il cambiamento fisico e morale del popolo italiano. Ecco iniziata la quarta grande epoca storica del popolo italiano, quella che verrà dagli storici futuri chiamata Epoca delle Camicie Nere. La quale vedrà i fascisti integrali, cioè nati, cresciuti e vissuti interamente nel nostro clima: do­

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tati di quelle virtù, che conferiscono ai popoli il privi­ legio del Primato nel mondo... » D i questa quarta Epoca storica del popolo italiano, noi conosciamo ora la data precisa di nascita nella storia del­ la civiltà umana: è quel 9 maggio 1936-xiv dell’Era fa­ scista, al chiudersi del quale, i territori e le genti appar­ tenenti all’Impero di Etiopia passarono sotto la sovranità piena ed intera del Regno d’Italia, e il titolo di Imperatore di Etiopia venne assunto per sé e per i suoi successori dal Re d’Italia: al chiudersi del quale, cioè, gli uomini assi­ stettero da ogni angolo della terra, dopo quindici secoli, alla riapparizione dell’Impero di Roma sui colli fatali dell’Urbe.

FINE

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