Spaghetti western. La proliferazione del genere (anno 1967) [Vol. 2] 9788876065033

Prosegue l'analisi dello spaghetti western con un volume interamente dedicato alla prolifica stagione del 1967. Son

118 19 1MB

Italian Pages 350 [266] Year 2014

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Table of contents :
UN DOLLARO TRA I DENTI
Giudizio Morandini: ***
La trama
La trama
Giudizio Morandini: Non Trovato.
La trama
La trama
La trama
La trama
Commento
La trama
UN UOMO, UN CAVALLO, UNA PISTOLA
La trama
La trama
La trama
La trama
La trama
La trama
DIO PERDONA... IO NO!
Giudizio Morandini: **
La trama
Giudizio Morandini: ***
La trama
L’UOMO, L’ORGOGLIO, LA VENDETTA
PER 100.000 DOLLARI T'AMMAZZO
La trama
Il commento
La trama
Ragazza: “”Perché fai tutto questo?”
Cash: “Perché debbo farlo.”
Ragazza: “E non c’è altro per te?”
Cash: “Cosa ci può essere? No, non c’è altro, finché non avrò finito.”
In definitiva un western molto particolare, con all’interno dei momenti interessanti che, con una sceneggiatura meno farraginosa, avrebbero potuto elevarlo a cult. Imperdibile per i cultori delle opere tarantiniane.
Giudizio Morandini: *1/2
La trama
Commento
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Spaghetti western. La proliferazione del genere (anno 1967) [Vol. 2]
 9788876065033

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EDIZIONI IL FOGLIO CINEMA

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Edizioni Il Foglio Collana CINEMA Direttore: Fabio Zanello www.ilfoglioletterario.it Via Boccioni, 28 - 57025 Piombino (LI) © Edizioni Il Foglio - 2014 1a Edizione - Settembre 2014 ISBN 9788876065033 Elaborazione grafica e impaginazione | [email protected]

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MATTEO MANCINI

Spaghetti Western Volume 2 La proliferazione del genere (anno 1967)

Edizioni Il Foglio

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“Generosità di intenti e messe di informazioni per quella che potrebbe diventare la trilogia più esaustiva sul western all'italiana” (Ciak, N.10, Ottobre 2012). “Davvero una ghiottoneria per gli amanti del genere e non solo. Lo stile è lineare e scorrevole, quasi fosse secondario. Ad attirare l'attenzione, infatti, bastano già i numerosissimi richiami ad autori e titoli, commentati, oltre che da Matteo Mancini, anche da diversi blogger italiani e stranieri e da alcuni critici del settore” (Film Tv, N. 1027, Anno 2012). “Un'inesausta cavalcata storico-filmografica che nulla ha da invidiare ai precedenti lavori sul tema: il numero delle pellicole pistole & cowboy pressoché sterminato è restituito da Mancini con una nonchalance-fiume da scrittore russo votato alla saggistica. Si deduce un lavoro di ricerca certosino” (Mario Bonanno, sololibri.net). “In pochi hanno cavalcato attraverso questo cinema con un'analisi così minuziosa, alla riscoperta delle sue retrovie. Dalla sua opera trapela una forte e autentica passione, un magma sovversivo e affascinante che travolge il lettore appassionato del genere ma anche chi si avvicina per la prima volta al western” (Mariangela Sansone, Sentieriselvaggi.it). “Matteo Mancini, laurea in legge e altra laurea, anzi un vero e proprio dottorato, in cinefilia sul campo” (Carlo Gambescia). “L'autore fa un lavoro di archeologia, lavora di cesello ed esamina le radici reali dagli show di Buffalo Bill ai fumetti, fino ai primi film leoniani. Un viaggio appassionato e appassionante” (Gianluigi Perrone, di Taxidrivers.it). 417 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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“Eravamo dei cialtroni, però ci sentivamo degli artigiani più o meno bravi. Soffrivamo moltissimo, per quel che ricordo io, del fatto di non poter mai fare le cose come avremmo voluto fare. Non ci sentivamo assolutamente di fare delle cose che sarebbero rimaste, pensavamo di fare dei prodotti di puro intrattenimento che, al di là dello sfruttamento più o meno breve del film di genere, non sarebbero andati. Assolutamente non pensavamo che dopo quaranta anni ci sarebbe stato qualcuno che si sarebbe interessato” (Mario Caiano, in Italian Kings of B di Steve Della Casa)

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PIANO DELL'OPERA

Vol.1 – L'Alba e il Primo Splendore del genere (Anni 1963-66): Western americani, Fumetti western, Proto-western, Western di ambientazione nazionale, Zorro movie, Paella western, Sauerkraut western, Western preleoniani, Spaghetti western postleoniani, I primi spaghetti western sperimentali tra politica e western d'autore. Vol.2 – La Proliferazione del Genere (anno 1967): Lo spaghetti-western sbarca in America, I nuovi western americani, La critica italiana dell'epoca, Epigoni leoniani, Spaghetti western d'autore, Parodie di Franco & Ciccio e pistolere del western all'italiana. Vol.3 – Il Mezzogiorno di Fuoco del Genere (anno 1968): La musica del western all'italiana, 1968: anno di tensioni sociali, Spaghetti western: tra tesori perduti e macaroni combat, Tortilla western, I primi western comici e le saghe dei pistoleri prestigiatori. Vol.4 – il Crepuscolo e la Notte: tra Western Kung Fu e Western Nostalgici (anni 1969 a oggi): Fagioli western, Western Kung Fu, Western demenziali, Western sperimentali, Western nostalgici e crepuscolari, Il tentativo negli anni '80 di rivitalizzare un genere morto, Gli omaggi della cinematografia estera.

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PREFAZIONE

Quando si parla di Spaghetti-western, occorre dire che il cuore e l'anima del genere la si incontra affrontando il lotto di film compresi tra il 1966 e il 1970. Del resto Per un Pugno di Dollari, uscito nel 1964, raggiunse gli Stati Uniti e molti altri paesi solo nel 1967. A determinare questo ritardo fu il contenzioso tra Sergio Leone e Akira Kurosawa, a seguito del plagio ammesso dallo stesso Leone che copiò, scena per scena, Yojimbo. L'uscita del film fu comunque un successo e quando gli altri due film della trilogia dell'Uomo senza nome, cioè Per Qualche Dollaro in Più e Il Buono, il Brutto e il Cattivo, ottennero medesimi incassi le porte dei cinema si aprirono al genere, dando il via a centinaia di epigoni. Si tratta di western diversi da quelli classici, depauperati dai modelli positivi cari al political correct di Hollywood e liberi dalla necessità di preservare l'integralità dei valori della famiglia. I nuovi protagonisti sono antieroi solitari, desperado messicani e banditi vestiti in modo bizzarro che ricercano meri interessi personali. Cambiano inoltre i set. I nuovi western non sono girati negli stati del sud degli Stati Uniti, ma nei deserti ispanici precedentemente utilizzati come location dei peplum. La caratteristica principale di questi film risiede nel mix di azione, violenza e brutalità, in cui si esaltano personaggi maledetti come Lo Straniero senza Nome, canaglie del calibro di Ringo e Django, per non parlare dei diabolici Sartana e Sabata. Nuovi registi saltano sul carro dello spaghetti-western e agganciano le loro carriere a questa nuova moda. Non c'è un regista, in Italia, che non voglia fare un western. Alcuni, come Sergio Corbucci, Sergio Sollima, Duccio Tessari, Enzo G. Castellari, Enzo Barboni, Demofilo Fidani, Mario Caiano, Ferdinando Baldi, Antonio Margheriti e Tonino Valerii, costruiranno addirittura la carriera attorno al genere, dando vita a una corposa filmografia e a un nuovo modo di fare cinema. Ognuno di questi registi seguirà l'esempio di Sergio Leone, cercando tuttavia di aggiun423 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

gere qualcosa di suo per spiazzare il pubblico. Nascono così soggetti strutturati su bizzarrie provenienti dai più disparati generi, ma amalgamate con arte al contesto western. Ecco che facciamo la conoscenza di personaggi dai contorni ectoplasmatici, antagonisti ai limiti della schizofrenia, ma anche di armi non convenzionali, costumi sgargianti e diavolerie di ogni tipo, il tutto finalizzato alla messa in scena degli ingredienti imprescindibili per la riuscita del film: violenza e azione. Nelle vesti di protagonisti si alterneranno stelle veterane del western hollywoodiano come Guy Madison, Jack Palance, Charles Bronson, Lee Van Cleef, John Ireland e Henry Fonda, schierate al fianco di una serie di giovani emergenti quali Terence Hill, Franco Nero, Giuliano Gemma, Bud Spencer, Anthony Steffen, George Hilton, Gianni Garko, Jeff Cameron, Tomas Milian, George Eastman, Richard Harrison, Robert Woods, Peter Lee Lawrence, Donal O'Brien, Hunt Powers, Dean Reed, Glenn Saxson e Fabio Testi. A frapporsi a questo nutrito gruppo troveremo alcuni dei cattivi più spietati e trucidi di tutto firmamento cinematografico, personaggi personificati da Gian Maria Volonté, Frank Wolff, Fernando Sancho, Piero Lulli, Mario Brega, Eduardo Fajardo, Nello Pazzafini, Luigi Pistilli, Horst Frank, Claudio Camaso, Leo Anchoriz e José Bodalo. Un'altra componente chiave del genere è la cura delle colonne sonore. Veri e propri assi del livello di Ennio Morricone, Francesco De Masi, Bruno Nicolai, Gianni Ferrio, Stelvio Cipriani, Nico Fidenco, Lallo Gori, Nora Orlandi, Carlo Savina, Luis Bacalov e i fratelli De Angelis si divideranno il compito di musicare il genere, assumendo il ruolo di portabandiera di un suono nuovo ed emozionante capace di fungere da minimo comune denominatore dell'intero panorama. Chi potrebbe mai dimenticare l'emozione di sentire la chitarra elettrica di Alessandro Alessandroni o il suo meraviglioso fischio, oppure l'armonica ossessionante di Franco De Gemini o i capolavori alla tromba di Michele Lacarenza, per non parlare della voce angelica di Edda Dell'Orso? A ciò, di per sé superbo, si aggiungono le voci dei talenti dell'Italia canora degli anni '60. Cantanti come Little Tony, Peter Tevis, Maurizio Graf e I Cantori Moderni di Alessandroni si susseguiranno, tra un film e l'altro, in un cocktail di ingredienti capace di imprimere nella mente dello spettatore il tema principale e di spingerlo a fischiettarlo per giorni. Se in Italia lo spaghetti western spopola fin da subito, la maggior parte dei miei connazionali ha potuto vedere questi film solo di re424 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

cente, in televisione o in DVD. I film di genere italiani non uscivano nei cinema delle grandi città, ma venivano relegati nei Drive-In o nei cinema dei piccoli centri rurali. Vedere gli spaghetti-western non era quindi facile, talvolta era addirittura impossibile. Ora, grazie a internet, alla rivalutazione operata da alcuni critici, nonché all'elevazione di alcuni di questi film al rango di cult - non a caso sono menzionati nelle classifiche dei migliori western della storia del cinema - anche in America è possibile reperirli così come è possibile acquistare Spaghetti Western vol.1 di Matteo Mancini. Distintosi grazie alla ricerca e al lavoro da detective operato nel primo volume, in questo secondo capitolo che, insieme al terzo, coprirà il cuore e l'anima del genere, sarà possibile leggere le opinioni su alcuni dei migliori esempi del genere. Scopriremo le informazioni su molti classici, in modo che i lettori possano conoscere nuovi film o rivalutarne altri finiti nel proverbiale dimenticatoio. Ricordate: questo è solo il secondo volume del genere, non è il primo e non sarà neppure l'ultimo. TOM BETTS Settembre, 2013

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5. SPAGHETTI WESTERN ALLA CONQUISTA DEL MONDO

5.1 Sbarco negli Stati Uniti 5.2 I western americani di transizione 5.3 La critica italiana dell'epoca

5.1 Sbarco negli Stati Uniti Nel primo volume di questa trilogia abbiamo affrontato la genesi del genere, dai primi approcci degli anni '60, con lo spagnolo Joaquìn R. Marchent e l'austriaco Harald Reinl, fino all'esplosione vera e propria avvenuta, a cavallo tra il 1964 e i primi mesi del 1965, con i nostri Sergio Leone, Duccio Tessari e Giorgio Ferroni. All'inizio del 1967 il successo di pubblico è così forte che lo spaghetti-western ha già una sua identità, attribuibile all'uscita di circa un centinaio di pellicole, con un trend in costante crescita che si confermerà con l'uscita di un numero di western pari al doppio rispetto a quelli apparsi nel 1966. I dati denotano la fortuna di un fenomeno capace di far man bassa ai box office europei, di lanciare nuovi attori, di permettere a registi talentuosi di dar sfogo al loro estro in totale libertà, sia di stile che di contenuti, e soprattutto di salvare l'imprenditoria cinematografica italiana dalla crisi nera dovuta al decadimento del peplum e alla scarsa fortuna ricevuta dai cappa e spada e dagli spionistici. Se questo avviene in Italia e, in parte, in Europa, negli Stati Uniti il fenomeno tarda a manifestarsi. Molti dei western prodotti prima dell'avvento di Leone non vengono importati, altri giungono in netto ritardo. La Valle dei Lunghi Coltelli (1963) e Il Tesoro del Lago d'Argento (1962), entrambi diretti da Harald Reinl, giungono a New York solo nel maggio e nel novembre del 1965, due anni dopo la loro uscita europea. I distributori americani sottovalutano il genere, lo ritengono spu427 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

rio rispetto ai canoni tradizionali. Sono interessati, come dimostra l'importazione dei due sauerkraut western sopramenzionati, solo a quei western che riprendono gli stilemi classici, dunque quelli che contrappongono i cowboy agli indiani. Così nel luglio del 1966 arriva negli States il primo western diretto da un regista italiano: si tratta de La Strada per Fort Alamo (1964) di Mario Bava, western che rispecchia le caratteristiche fin lì apprezzate negli States. Sebbene le pellicole giungano col contagocce, spesso tagliate e in edizioni mal curate, la cortina rappresentata dall'oceano Atlantico inizia a essere conquistata e così ecco arrivare ad agosto Minnesota Clay (1964) di Corbucci e a settembre del medesimo anno Giorni di Fuoco (1964) di Reinl (evidentemente particolarmente apprezzato dagli americani). Tra novembre e dicembre è il turno dei primi veri western rivoluzionari, che vengono accolti con scetticismo e poca convinzione, tanto da essere doppiati in modo indecoroso. I primi a uscire sono i due Ringo di Tessari, trasmessi a distanza di un mese l'uno dall'altro, seguiti da Django (1966) di Corbucci e da Gli Uomini dal Passo Pesante (1965) dell'italo-americano Antonini (alias Albert Band). Sergio Leone arriva con notevole ritardo, a causa dei problemi legati alla disputa per plagio con la Toho Film. È la United Artists a comprendere le potenzialità della pellicola e a risolvere la lite, pagando i diritti a Kurosawa e strappando così l'esclusiva per la distribuzione del film sul mercato nord americano. Per un Pugno di Dollari (1964) sbarca nel nuovo continente nel gennaio del 1967, facendo un discreto incasso ma lasciando perplessi i critici americani che provvedono subito a stroncarlo per via dei dialoghi (!?). Nel giro di qualche mese escono, sempre nel '67, gli altri due episodi della trilogia del dollaro, nonché Johnny Yuma (1966) di Romolo Guerrieri, Navajo Joe (1966) di Sergio Corbucci, Un Fiume di Dollari (1966) di Lizzani e, a gennaio 1968, Adiòs, Gringo (1965) di Stegani. Per l'arrivo delle altre perle della nostra produzione del 1966 bisognerà attendere l'estate successiva, con l'arrivo dei politicizzati La Resa dei Conti (1966) di Sollima e Quien Sabe? (1966) di Damiani. Il fenomeno spaghetti western è ormai alla conquista del mondo, in Brasile si iniziano a fare western che scimmiottano i nostrani, lo stesso avverrà qualche anno dopo in Turchia e si arriverà persino all'assurdo con un alcuni western americani presentati sul mercato estero come se fossero italiani. Dunque si assiste a un clamoroso ri428 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

baltamento della situazione. Se nei primi anni '60 gli italiani producevano western spacciandosi per americani, adesso sono gli stranieri che producono western spacciandoli per italiani. Tutto questo diviene presto evidente agli occhi degli spettatori, dei giovani appassionati e di alcuni attenti produttori americani, ma non dei critici e dei registi d'oltreoceano che insistono nel volere difendere una posizione conservatrice sgretolata in mille pezzi dai fatti. La reazione dei critici newyorkesi infatti è stizzita, lascia addirittura trasparire una sorta di risentimento. A livello subliminale i critici ritengono irriguardose e offensive le sperimentazioni degli europei. L'approccio di questi studiosi, per fare un parallelo culinario che rende bene l'idea, è un po' come quello che potrebbe avere un fanatico di mozzarelle di bufala di Caserta al cospetto di una mozzarella importata dalla città di Buffalo. In termini più consoni al contesto, gli americani ritengono il western un contenitore solo loro, dove inserire le tradizioni della loro terra e le radici della loro storia. Gli italiani, i tedeschi e gli spagnoli vengono visti come degli ignoranti usurpatori che tentano di interessarsi a un qualcosa di estraneo alla loro cultura (cioè il far west) e dunque incapaci, a priori, di poter plasmare western degni di rispetto. A ciò si aggiungono le critiche alla regia innovativa e rivoluzionaria lanciata da Sergio Leone che, sulle prime, spiazza e fa storcere il naso ai puristi del genere. Il cinema degli Hawks, dei Mann e dei Ford era un cinema fatto di ritmi blandi, crescenti alla distanza, e non di continui sbalzi di ritmo, con pestaggi, sparatorie e battute intrise di un'ironia macabra ogni due minuti. I registi Burt Kennedy e John Ford si prestano quindi per un'intervista dai toni beffardi e irrispettosi verso il nostro cinema. Dice Kennedy al più famoso collega, celebre soprattutto per i film interpretati da John Wayne: “Lo sai che anche gli italiani e gli spagnoli fanno i western?” Ford finge stupore e chiede all'altro di che livello siano. Kennedy va giù di mano pesante: “Nessuna storia, nessuna scena. Solo ammazzamenti!” Sono persino più crudeli i giornalisti specializzati: la rivista Life, nel 1968, affibbia al western italiano l'aggettivo “spaghetti” e lo fa con intento denigratorio, immortalando il regista Sergio Leone con una selva di spaghetti al posto della barba. Ciò che i redattori di Life non immaginano è che, proprio grazie a questo loro articolo, quell'appellativo messo con intento canzonatorio diverrà un marchio identificativo di un genere che farà scuola in tutto il mondo. 429 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Se Life fa dell'ironia, sconfinano nella volgarità gli autorevoli critici del New York Times, che si divertono nel definire i nostri western indegni anche di un attacco, insomma roba da terzo mondo priva di contenuti. Non vengono minimamente presi in considerazione gli incassi ottenuti dai film e, in modo particolare, si sottovaluta la natura del fenomeno dando indirettamente del palato grezzo al pubblico europeo che corre in massa a riempire i cinema. L'arroganza di questi giornalisti, arroccati ai vecchi archetipi e mal disposti alle novità, li rende così ciechi da non comprendere ciò che viene operato nel vecchio continente. Leone e compagni, infatti, danno vita a una vitale rivisitazione di un genere che sarebbe altrimenti morto di lì a poco. Viene codificato un nuovo stile, figlio delle esperienze maturate dai registi italiani nelle seconde unità dei kolossal americani girati in Europa (i vari Ben Hur, Quo Vadis?). È in questi film che nasce lo stile italiano. Gli americani chiedevano ai nostri di girare le scene di azione, permettendo loro di sperimentare ritmi e soluzioni spettacolari. A tali esperienze si somma poi il solido background costituito dalle commedie e dal neorealismo in cui i vari Leone, Corbucci e compagnia erano cresciuti in ruoli da aiuto. Si viene così a costituire una miscela esplosiva che trasforma i nostri registi in specialisti in grado di contendere lo scettro ai più blasonati colleghi d'oltreoceano. Alla luce di quanto sopra, Leone e i suoi colleghi modernizzano quel cinema che li aveva fatti innamorare del loro mestiere, quello degli Sturges, degli Hawks e dei Ford. Il cinema americano viene assorbito, citato, preso come modello di riferimento e poi trasformato in un prodotto nuovo in cui emerge la verve e l'impronta spaccona tipicamente italiana. In sostanza viene dato vita a una sorta di omaggio evolutivo del genere, un po' come faranno ai giorni nostri Quentin Tarantino e Robert Rodriguez, guardando al nostro cinema di genere degli anni '70. Se inizialmente la componente citazionista è evidente, a poco a poco si sovrappone una nuova idea, cioè quella di sfruttare un contenitore tradizionalmente americano per farci entrare tematiche che nulla hanno a che fare con la storia degli Stati Uniti, ma che invece trovavano terreno fertile nella società nostrana. Il cinema western infatti, sia in Italia che in Spagna, diviene veicolo libero, quasi privo di controllo, attraverso il quale far passare sotto chiave metaforica tematiche (spesso politiche) che altrimenti sarebbero state bloccate dalla censura, in particolare quella franchista. Si giunge a tale soluzio430 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ne anche perché, nel panorama europeo, non importava a nessuno soffermarsi sul concetto di frontiera o sui contrasti tra bianchi e nativi ovvero sottolineare i valori political correct tanto amati dai bacchettoni hollywoodiani (l'importanza della giustizia, il ruolo cardine della famiglia, le minoranze razziali sempre caratterizzate in modo barbarico, il ricorso minimo alla violenza per non disturbare il perbenismo borghese). Il genere viene così a tratteggiarsi addirittura in modo contrario a quello di origine e soprattutto viene ad assumere un taglio fumettistico votato all'intrattenimento puro. Non esiste più una netta linea di demarcazione tra buoni e cattivi, spesso si invertono i ruoli, tanto da vedere dei banditi come protagonisti e dei gestori dell'ordine pubblico come corrotti, in un'ottica filo anarchica o comunque fortemente rivoluzionaria incentrata sulla ricerca dell'eccesso e dell'irriverenza. Da tale impostazione non possono che derivare sparatorie a raffica, cavalcate in mezzo alla polvere, armi assurde manovrate da pistoleri prestigiatori assai diversi dai cowboy della tradizione, il tutto in un complesso di situazioni dove l'impossibile non trova residenza. Dunque non importa a nessuno fare film storici culturalmente rispettosi del passato, ma si punta a sfruttare un panorama immaginifico dove intessere storie dai sottogeneri più disparati. A riguardo è condivisibile il commento di Luca Beatrice che nel suo Al Cuore, Ramon, al Cuore, volume uscito a metà anni '90, scrive che gli spaghetti western rispecchiano la realtà sociale e politica dell'Italia degli anni '60 e '70 meglio di qualsiasi film politicamente impegnato. C'è più terzomondismo, rivolta guevarista e contestazione sociale in questi film che in tutti i film d'autore di quel periodo. Gli spaghetti western, tanto amati dal pubblico quanto odiati dai critici che non ne intuiscono le potenzialità, vengono così ad acquisire quel significato che nell'ottocento avevano assunto sul versante narrativo i feuilleton (c.d. Romanzi d'appendice), anch'essi osteggiati dai “letterati” e marchiati come un sottogenere. Al riguardo cito un passaggio di Umberto Eco, estratto dal suo Il Pendolo di Focault, che, a mio avviso, calza bene per far comprendere la questione: “Ci hanno fatto credere che da una parte c'è la grande arte, quella che rappresenta personaggi tipici in circostanze tipiche, e dall'altra il romanzo d'appendice, che racconta di personaggi atipici in circostanze atipiche. Io con il feuilleton giocavo, per passeggiare un po' fuori della vita. Mi rassicurava, perché proponeva l'irraggiungibile. Invece no. Aveva ragione Proust: la vita è rappresentata meglio dalla cattiva musica che non da 431 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

una Missa Solemnis. L'arte ci prende in giro e ci rassicura, ci fa vedere il mondo come gli artisti vorrebbero che fosse. Il feuilleton finge di scherzare, ma poi il mondo ce lo fa vedere così com'è o come sarà. Quello che è successo davvero è quello che avevano raccontato in anticipo i romanzi d'appendice.” Sulle prime nessuno si accorge di tutto questo, ma si tratta di un momento di impasse che verrà presto superato da Hollywood. Infatti, se i critici e i vecchi registi americani si pavoneggiano reputando il loro cinema l'unico meritevole di attenzione, sono più scaltri i produttori d'oltreoceano che intuiscono che sta nascendo qualcosa di nuovo e non intendono perderne il controllo. 5.2 I western americani di transizione Al di là di quanto si dica a New York e dintorni, negli anni '60 il cinema americano è in crisi nera. Hollywood non è più quel centro che dominava incontrastato sulla cinematografia mondiale. È stritolato dall'emergere dei serial televisivi e da una concezione ormai superata di fare cinema di genere, messa in imbarazzante evidenza dai rivoluzionari prodotti provenienti dall'Europa. Dei registi storici resistono in pochi, molti come George Stevens, Fred Zinnemann, Delmer Daves o Anthony Mann sono passati per lo più alla commedia, altri come Robert Aldrich o Edward Dmytryk girano solo un paio di western dispersi in una selva di altri generi, il secondo tentando addirittura fortuna in Europa con il poco riuscito Shalako (1968) e con un Sean Connery in versione atipica. Lo stesso Howard Hawks preferisce altre tipologie di film, ritornerà al western col poco originale e autocitazionista El Dorado (1967) nonché col tardivo Rio Lobo (1970), entrambi con la presenza di John Wayne. Persino John Sturges, dopo il grande risultato ottenuto in Europa con I Magnifici Sette (1960), perde lo smalto dei tempi d'oro, incapace di bissare il successo con i successivi western, tra i quali L'Ora delle Pistole (1967), sequel del più riuscito Sfida all'O.K. Corral (1957). Curioso inoltre il fatto che lasci al collega Burt Kennedy il compito di dirigere il remake/sequel del suo miglior film, soluzione che non porta a nulla di buono visto i mediocri incassi ottenuti da Il Ritorno dei Magnifici Sette (1966). 432 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Si assiste dunque a un fenomeno deleterio che anticipa quanto succederà allo spaghetti-western a partire dagli anni '70 e che mette in luce gli usuali sintomi che precedono la morte di un genere. Iniziano infatti a proliferare le parodie (seppur confezionate da attori di calibro e non ancora demenziali), aumentano i tentativi di contaminazione col cinema orientale giapponese (non ai livelli che raggiungeremo noi con la folle commistione tra kung fu e western) e prende piede un elevato numero di western crepuscolari incentrati sulla fine del west, in cui anziani sceriffi destinati all'annichilimento esistenziale sostituiscono gli integerrimi eroi alla John Wayne. Da ciò deriva un gruppo di western di transizione, ancora legato agli stilemi classici ma al contempo sospeso in un limbo dominato da un malessere figlio dei problemi che graveranno su Hollywood fino alla metà degli anni '60. John Ford è l'unico a insistere con convinzione, ma pure lui ha corretto il tiro allontanandosi dal convenzionale mito della conquista del west che caratterizzava la sua produzione. I suoi nuovi film si preoccupano di tematiche di rilievo sociale contestualizzate nella società americana dell'epoca, ma lo fanno con un'impostazione ancorata agli anni '50. Ford è troppo anziano per rinverdire lo stile e sebbene riesca a mantenere dei livelli di rendimento eccelsi non può certo essere lui a risollevare il genere dal crollo. A ogni modo il regista di origini irlandesi spara i suoi ultimi colpi, girando la bellezza di sette western in cinque anni, dal 1959 al 1964. Si tratta di opere di vecchia impostazione, ma con alcune punte come Soldati a Cavallo (1959), strutturato attorno alla guerra di secessione, o il curioso western processuale I Dannati e gli Eroi (1960), dove compare un protagonista di colore (Woody Strode, prossimo a passare allo spaghetti-western) in un'analisi incentrata sulla triste condizione degli ex schiavi afroamericani arruolati nell'esercito. È persino superiore ed estremo l'antirazzista Cavalcarono Insieme (1961), in cui Ford porta gli spettatori a schierarsi a favore degli indiani, evidenziando lo scabroso tema delle violenze sessuali sulle donne con la conseguenziale difficoltà di reinserimento sociale delle stesse (a causa dell'atteggiamento bigotto della società). Merita infine due parole il malinconico e sofferto L'Uomo che Uccise Liberty Valance (1961), con cui il regista di origini irlandesi fa morire John Wayne in un epilogo dal fortissimo sapore metaforico. Si tratta quindi di ottimi prodotti, non in grado però di riempire i cinema alla stregua di quelli degli anni '50 e soprattutto incapaci 433 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

di far presa in Europa, dove vengono penalizzati dalla concorrenza dei più scatenati cugini italo-spagnoli. Ecco allora che si cercano vie alternative, non sempre intraprese con convinzione. Trovano spazio le parodie, ne gira una addirittura Sturges, o occasionali tentativi di intellettualizzare il genere con esiti il più delle volte controproducenti per le casse dei produttori. Escono comunque prodotti pregevoli, sotto il profilo contenutistico, come il crepuscolare western, in bianco e nero, Solo Sotto le Stelle (1962) di David Miller, che si interroga sulle ragioni della fine dell'epopea western. Non di minore importanza è l'eccelsa riflessione sul razzismo affrontata da John Huston ne Gli Inesorabili (1960). Non manca poi chi tenta di lanciarsi all'avventura, lo fa Marlon Brando chiamato a sostituire Stanley Kubrick nella direzione de I Due Volti della Vendetta (1961), western lento in cui si intravedono alcuni sviluppi narrativi che saranno ricalcati da Leone e da Corbucci. Brando, infatti, propone un protagonista pestato, costretto a recuperare dagli infortuni e a riprendere dimestichezza con la pistola in vista della vendetta finale. Sulla scia di Sturges, c'è inoltre chi tenta di emulare il successo de I Magnifici Sette (1960) proponendo, ancora una volta, in salsa western Kurosawa (lo faranno, da noi, anche Corbucci e Leone). È Martin Ritt a percorrere questa via, seppur con esiti altalenanti, schierando Paul Newman ne L'Oltraggio (1964), vera e propria trasposizione western di Rashomon (1950). Bello e piuttosto violento, seppur ancora legato agli stilemi classici, il conradiano (il riferimento va al romanzo Cuore di Tenebra) Rio Conchos (1964) del veterano Gordon Douglas. A contendersi il ruolo di protagonista sono quattro pistoleri che, a guerra di secessione ultimata, dovranno porre fine a un ex colonnello sudista impazzito e intenzionato a fomentare gli indiani contro i civili. Tra i registi emergenti si segnalano due promesse che mettono in chiaro fin da subito l'intenzione di imprimere un taglio autoriale ben distinto sia dal western alla Ford, sia da quello europeo; si tratta di Sam Peckinpah (ex aiuto regista di Don Siegel) e di Monte Hellman. Il loro ruolo, così come l'emergere delle pellicole ispanico-italiane, sarà decisivo nell'avviare quello che viene definito dai critici il c.d. revisionismo western, tuttavia il loro genio non viene inizialmente compreso. Entrambi si trovano a dover combattere con produttori intransigenti, poco inclini alle novità e agli esperimenti. Sam Peckinpah finisce col subire continui tagli, vedendo i suoi primi film trasformarsi, per effet434 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

to degli interventi castranti della produzione, in un qualcosa di diverso da quanto concepito. Monte Hellman, invece, decide di percorrere la via delle produzioni indipendenti e quindi riesce a godere di maggiore libertà, seppur costretto a usufruire di budget e cast limitati. Peckinpah, dopo un debutto in sordina dovuto ai vincoli contrattuali, gira il decadente Sfida nell'Alta Sierra (1962) in cui introduce quello che diventerà il suo marchio di fabbrica. Si nota infatti fin da qui l'interesse alla fine dell'epopea western (si sottolinea lo stoicismo dei vecchi sceriffi alle prese con la loro ultima impresa) e un taglio di regia realistico teso a esaltare gli aspetti negativi su cui si basa la società americana (violenza in primis come motore di avanzamento della labile società civile). All'interno di questo contesto vengono a muoversi personaggi poco raccomandabili, tratteggiati come ubriachi, bari e disonesti, figli di un ambiente che non può che generare reietti. Peckinpah è inoltre tra i primi a mostrare sparatorie letali, senza stacchi, con vittime straziate da ferite sanguinanti e pistoleri che sparano su uomini che cadono in modo spettacolare. Due anni dopo, con Sierra Charriba (1964), cerca di proseguire nel suo discorso. Si tratta di un western controverso che ruota sulla caccia a un capo apache. Peckinpah cerca di sfruttare un cast bizzarro, in cui fanno la comparsa attori europei come Richard Harris e Mario Adorf. La pellicola purtroppo viene falcidiata da un numero corposo di tagli imposti dalla produzione (insensibile ai tentativi del regista di modernizzare il genere). Il risultato finale non è dei migliori e decreta l'iniziale insuccesso economico di Peckinpah, che finisce con il non ottenere più finanziamenti. Gli addetti ai lavori tuttavia ne intuiscono le qualità che non tarderanno a manifestarsi di lì a poco. Grazie a notevoli e innovative abilità nella direzione delle scene di azione, con rallenty ad hoc, posizionamento studiato della macchina da presa e un montaggio serrato nel momento dell'esplosione dell'azione, Peckiphan diverrà uno dei maggiori modelli di ispirazione dei registi italiani. Amatissimo da Leone e da Castellari, sarà persino omaggiato in modo esplicito da Tonino Valerii che ne Il Mio Nome è Nessuno (1972) inquadrerà una croce su cui è riportato il nome e il cognome del regista.. Un discorso analogo lo si deve fare per Monte Hellman, regista della scuderia low budget di Roger Corman. Sebbene dotato di minor talento e meno votato all'azione, Hellman, appena trentaquattrenne, piazza subito un dittico, all'epoca passato inosservato, ritenuto oggi 435 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

di alto livello da registi come Quentin Tarantino (che vorrà Monte Hellman come produttore esecutivo in occasione de Le Iene), in cui partecipa, tra l'altro, un giovane Jack Nicholson sia in veste di attore che di coproduttore. I film in questione sono La Sparatoria (1966) e Le Colline Blu (1966), usciti a pochi mesi di distanza l'uno dall'altro. Si tratta di western criptici, antieroici, dal taglio claustrofobico e dalle venature crepuscolari, con pistoleri stanchi di cui viene detto ben poco. Li vediamo impegnati in odissee desertiche destinate a sfociare in finali tragici. I dialoghi sono quasi assenti, così come le storie sono essenziali. L'interesse della regia ricade sulla cura dei dettagli ambientali, non si cerca la spettacolarità ma si gioca sull'attesa, in una sorta di dilatazione temporale che lascia sulle corde lo spettatore sempre pronto a decifrare gli indizi utili a comprendere le sotto trame e a pensare che da un momento all'altro possa esplodere l'azione. Nello stesso anno dei film di Hellman esce un altro western destinato ad avere un grande successo in Europa: A Sud Ovest di Sonora (1966), conosciuto anche col titolo originale The Appaloosa. Ritroviamo Marlon Brando protagonista, affiancato da John Saxon, per la regia del giovane canadese Sidney J. Furie che stranamente non si dedicherà più al genere. Furie imprime una regia dinamica fatta di campi lunghi alternati a primissimi piani. Il ritmo è tanto sollecito da colpire Enzo G. Castellari. Il regista romano studierà le inquadrature del film al punto da utilizzarle come base di partenza per il suo primo film da regista. I toni però restano ancora classicheggianti, seppur con tematiche riprese dallo spaghetti western. Non a caso il protagonista subisce un pestaggio che lo porta sull'orlo della morte, da cui viene strappato grazie all'intervento di terze persone che lo mettono poi in condizione di vendicarsi. Ormai il revisionismo è nell'aria. Peckinpah, pur bloccato per alcuni anni ai box a seguito del flop di Sierra Charriba, scalpita sempre più, inoltre iniziano ad arrivare i western italiani e soprattutto nel gennaio del 1967 il primo capitolo della trilogia del dollaro di Sergio Leone irrompe nei cinema a stelle e strisce. Lo stesso Clint Eastwood decide di tornare in patria, intenzionato a farsi portatore dell'esperienza maturata in Europa per rilanciare il western in America, dapprima come semplice attore poi anche da regista. È chiaro a tutti che i western da prendere in considerazione per fare film capaci di sbancare i botteghini sono i revenge movie italospagnoli. Non a caso i produttori di altri paesi, come quelli brasiliani, 436 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

messicani e turchi, iniziano a seguire con grande passione i nostri western e tentano di emularne le gesta con pellicole di loro produzione. Per gli americani è uno smacco troppo grande per restare inerti, superati in gradimento in una delle loro arti di elezione, per di più da registi dai potenziali economici ridotti. Così, a differenza dei critici, i produttori hollywoodiani prendono a guardare con ammirazione il nostro cinema bis e cercano di scoprire l'alchimia che ne decreta il successo. Dalla seconda metà degli anni '60 ha dunque inizio la contaminazione tra le due tipologie di western. Gli americani inizieranno dapprima a lavorare su ritmo e azione dei loro film, quindi a modernizzare le regie e infine a far rientrare gli attori rilanciati in Europa (Clint Eastwood, Lee Van Cleef e Burt Reynolds su tutti) e a ingaggiare alcune promesse europee. Arriveranno a Hollywood, a esempio, Claudia Cardinale, Franco Nero e svariati attori inglesi da Terence Stamp a Richard Harris. Giungeranno addirittura ad abbandonare le location tradizionali del cinema western americano, per spostarsi in Almerìa sperimentazioni che dureranno fino ai primi anni '70 – e a offrire a registi italiani (il riferimento va a Leone) le regie dei loro western. In virtù di questo nuovo orientamento di tendenza, nel 1966 vedono la luce alcuni grandi western hollywodiani in cui si registra un esponenziale aumento dell'azione e della spettacolarità. Tra questi sono degni di nota il maiuscolo I Professionisti (1966) di Richard Brooks, che anticipa i tortilla western e in cui compaiono, al fianco del classico Burt Lancaster, volti noti del nostro cinema di genere come Claudia Cardinale e Jack Palance; e Duello a El Diablo (1966), in cui Ralph Nelson prende confidenza con torture e violenze tra indiani e soldati, in vista del più famoso Soldato Blu che girerà qualche anno dopo. Nonostante quanto sopra continueranno a prodursi western dall'impianto classico, i più affidati alle interpretazioni di un John Wayne sulla via del tramonto, così come, sempre sulla scia degli esempi tracciati dai nostri film, prenderanno piede western allegorici funzionali a catalizzare le proteste e le critiche di stampo etico-morali legate alla guerra fredda, agli scontri armati in Vietnam, al razzismo e alle ribellioni studentesche. Sotto questa nuova prospettiva si tenderà a dare maggiore spazio a quelle categorie di soggetti (esempio gli indiani) che in precedenza venivano mostrati come banditi o psicopatici privi di etica; ci sarà inoltre meno spazio per gli eroi idealizzati, tanto cari 437 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

alla tradizione borghese, a vantaggio di personaggi più oscuri e complessi, e verranno svalutati personaggi come Buffalo Bill, il Generale Custer e altri, precedentemente elevati al rango di eroi nazionali, evidenziandone le malefatte e la crudeltà con cui hanno compiuto le loro imprese. Per ragioni di spazio, torneremo su tutto questo in occasione del quarto volume dove accenneremo all'evoluzione del genere. 5.3 La critica italiana dell'epoca Chi non si interessa di critica cinematografica potrebbe esser portato a pensare che, al momento dell'uscita nelle sale cinematografiche, i nostri western siano stati accolti con entusiasmo dai critici italiani e spagnoli. È difatti un luogo comune che i cittadini di una nazione siano portati, per ragioni di campanilismo ovvero per cercare di contribuire al miglioramento dei prodotti realizzati nel proprio paese, a promuovere il lavoro degli indigeni. Non è un caso se America i critici locali avevano avanzato una serie di argomentazioni “protezionistiche” in difesa del loro western, un genere che reputavano marchiato da un bollino di origine controllata tanto da non accettare di vedere i vari Ford o Sturges superati ai botteghini dagli europei su un terreno loro congeniale, né di constatare la metamorfosi di un qualcosa di loro esclusiva proprietà in quanto incentrato sulla storia degli Stati Uniti e sui conflitti interrazziali connessi. Un simile atteggiamento di orgoglio nazionale si riscontrerebbe in ogni angolo di mondo, ma non in Italia dove tale principio vale solo in ambito calcistico e dove gli artisti locali vengono spesso presi a pesci in faccia per poi essere rivalutati post mortem. Dunque se le frecciate scoccate da New York e dintorni si possono giustificare, sono invece assurde, deleterie, iettatrici e addirittura pericolose per lo sviluppo dello spaghetti-western e del cinema di genere nostrano gli atteggiamenti tenuti dai critici italiani e spagnoli dell'epoca (che per fortuna non sortiranno effetto alcuno). È bene ricordare che il cinema italiano (per non parlare dello spagnolo), prima dell'avvento dello spaghetti-western, era in crisi ben più profonda di quello americano. Versava in una condizione di sterilità creativa, a corto di fondi e spesso incapace di varcare i confini nazionali. Ebbene in un contesto del genere, i nostri cari critici (per lo 438 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

più legati a correnti politiche di sinistra o di marcata influenza cattolica), con comportamento tipicamente italiano di presunta superiorità intellettuale, anziché entusiasmarsi per l'improvvisa e inattesa rinascita del nostro cinema, pensano bene di attaccare con intento distruttivo i film di genere e più in particolare le perle western dirette da Leone e compagni. Questi film sono troppo banali per i loro gusti, costituiscono argomento di divertimento per fanciulli e di chi “si accontenti di due pistolettate e di una dozzina di pugni di morti”. Si tratta di posizioni che non trovano alcuna giustificazione se non quella di dar sfogo a un arrogante narcisismo fine a sé stesso e a un'ipocrisia utile ad aggraziarsi il politico di turno. Sui giornali campeggiano titoli in cui si parla di cinema mercantile, di spettacolo reazionario o, nei casi peggiori, di mostruosità che hanno come pretesto iniziale la storia del west americano ma che poi seguono altre e ingiustificate vie. C'è persino chi bestemmia, sostenendo che Primo Zeglio sia superiore al troppo rivoluzionario e compiaciuto Sergio Leone. Tra i detrattori non mancano nomi illustri, anche perché diviene una moda sparare a zero su questi film e lo si fa senza alcun rischio poiché non vi è nessuno in grado di opporre eccezioni capaci di invertire la tendenza. Tra i più infervorati figura lo scrittore Alberto Moravia, con conseguenziale schiera di ruffiani che ne seguono subito la scia perché è sconveniente mettersi contro un maestro. Moravia non perde occasione per fare ironia sul numero dei morti ammazzati in uno spaghetti western: “...A causa della pressione demografica... gli uomini sono troppi e non possono più sopportare le proprie vicendevoli presenze.” La mancanza di flessibilità mentale di questi critici è tale da dare l'impressione che non avessero ben chiaro cosa sia il cinema. Ad avviso di chi scrive, il cinema è estro, è magia, è un qualcosa di distorto dalla realtà; di certo non è mera e banale riproduzione documentale o la messa in scena di un'epoca. Da tale impostazione deriva una libertà assoluta per sceneggiatori e registi, liberi di scegliere contenitori di qualsiasi tipo, anche legati a una certa epoca (nella fattispecie il far west), per poi intessere storie senza freno e suscettibili di sbordare al di là di quell'epoca. È un po' quello che, in Bastardi senza Gloria, farà Quentin Tarantino, il quale prenderà le mosse dai tristi eventi che hanno fatto la storia dell'umanità per poi procedere battendo strade del tutto personali che nulla hanno a che fare con la storia. Ignorare questa magia porta a uno sfruttamento ridotto dell'incredibile forza 439 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

insita nel cinema e nelle opere artistiche. Fare cinema è diverso dal fare documentari, così come fare scrittura creativa diverge in modo netto dal fare giornalismo. Il cinema e la narrativa sono il regno dove il sogno diventa realtà e dove le realtà è genuflessa al servizio della fantasia. Concetti che definirei scontati, ma che all'epoca (e non solo allora) sembrano esser sottovalutati. Per i critici di allora l'unico cinema che si dovrebbe fare in Italia è la commedia e il neorealismo, traducendo il tutto da esperienze riscontrabili nella vita di tutti i giorni. Così, mentre i cinema vengono invasi da un numero crescente di spettatori, sono pochi i film a esser salvati, seppur parzialmente, dalla mannaia delle riviste e dei giornali di settore. Oltre ai film di Leone (che avrà comunque i riconoscimenti che merita solo negli anni '80), ricevono qualche apprezzamento Django, La Resa dei Conti e Arizona Colt, per tutti gli altri piovono sproloqui e talvolta insulti. Nel volume Dizionario del Cinema Western all'Italiana di Marco Giusti è riportato uno stralcio di un articolo pubblicato su Positif da Goffredo Fofi, il quale giunge alla seguente conclusione: “Il fenomeno più impressionante della povertà culturale, artistica e mentale è rappresentata dal western all'italiana. I western venuti dopo i primi tentativi di Leone e Tessari sono semplicemente merda, una massa di sparatorie e torture, una sorta di sadismo grossolano e gratuito. Il western italiano si caratterizza per il plagio più svergognato, in un delirio di violenza nauseabonda.” Tullio Kezich, pur riconoscendo il talento di Leone e dei suoi attori, muove una netta critica alla violenza introdotta nel genere dall'autore romano, a suo dire eccessiva e fuori luogo. Ben più pesante è l'opinione che il triestino esprime nel valutare il debutto western di Tessari. La pungente ironia del critico sconfina nel cattivo gusto quando decide di beffeggiare il cast artistico capitanato da Montgomery Wood (al secolo Giuliano Gemma): “Gli attori hanno ragione di mascherarsi con nome esotici.” In un clima come quello sopra accennato, secondo quanto affermerà il sopracitato Giusti, tra i critici più generosi c'è Morando Morandini, uno che afferma, tutt'oggi, che sono solo una trentina (su circa seicento) gli spaghetti western meritevoli di esser recuperati. Quanto detto è sufficiente e illuminante per comprendere la malevolenza critica che, negli anni '60, ruota attorno al cinema western italiano e che in seguito si ripeterà per lo spaghetti thriller, l'horror e il poliziottesco. Al riguardo, calza a pennello quanto Lucio Fulci dirà, 440 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

poco prima di lasciare questo mondo popolato da burocrati troppo ottusi per amare il sense of wonder, in un bellissimo documentario a lui dedicato: “Bisogna sempre temere i critici, in cinquant'anni di carriera non mi hanno mai dato una mano, adesso parlano talmente bene di me che non serve.” Oltre a denigrare l'unico movimento (cioè quello del cinema di genere) in grado di smuovere dalle sabbie mobili l'imprenditoria cinematografica, i critici altolocati fanno a gara per lanciare malefici sul genere, intravedendo immaginarie crisi prima ancora dell'uscita de Il Buono, il Brutto, il Cattivo (1966). Cominciano così a uscire articoli in cui si parla di genere in crisi e privo di idee innovative; ormai siamo alla resa dei conti, mugugna qualcuno. Si tratta di falsità che definire oscene è dir poco, visto che saranno prontamente smentite dai fatti. Nel giro di pochi mesi esce un numero di western addirittura doppio rispetto a quello degli anni precedenti, con una serie di capolavori indiscussi e la nascita di sottogeneri del tutto nuovi come il western gotico e il tortilla western. È l'ennesima dimostrazione di quanto questi critici siano incapaci di possedere la lungimiranza di cui dovrebbe esser portatore un professionista e la riprova di quanto siano inidonei a interpretare l'evoluzione del mondo a cui hanno dedicato la vita. A voler fare gli avvocati del diavolo, perdonatemi questa uscita che rievoca i miei trascorsi giurisprudenziali, è opportuno dire come tali figuracce siano state imboccate da certe interviste rilasciate dai nostri registi. Questi ultimi, salvo qualche rara eccezione, si dimostrano fin da subito poco convinti del lavoro che vanno facendo. Molti sono inconsapevoli di dirigere film destinati a diventare di culto. Lo stesso Tessari, nei primi mesi del 1966, incalzato dalle domande di un giornalista, confessa un certo disagio e la volontà di dedicarsi ad altro: “Basta con i western. Non ne farò più neanche uno perché tutto quello che si poteva dire, ormai, si è detto!” Probabilmente Tessari sa di mentire, infatti non terrà fede alla dichiarazione, ma viene preso in parola dai ciarlatani della carta stampata. Il risultato è scontato e va ad alimentare lo sfavorevole atteggiamento della critica verso il genere. Dunque si cementificano le fallaci opinioni dei Fofi di turno e si attende, quasi si spera, che il genere collassi, in modo poi da pavoneggiarsi nei salotti che contano per manifestare quanto si sia stati bravi nel leggere gli sviluppi futuri. Ciò di cui questi luminari non si rendono conto è che il nostro cinema sta subendo un epocale cambiamento che lo rivoluzionerà e che farà scuola a livello internazionale, ponen441 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

dosi al fianco del cinema dei vari Fellini e Rossellini. Nonostante le boccucce e le smorfiette, la crisi dell'industria cinematografica italiana dei primi anni '60 è ormai alle spalle grazie ai successi dello spaghetti-western (genere primo negli incassi). È per merito del western se il cinema d'autore può sopravvivere e se prendono piede generi fino ad allora non praticati in Italia e anch'essi capaci di espatriare e di attirare le attenzioni di oriente e oltreoceano. Accanto agli spaghetti western iniziano così a figurare ottimi macaroni combat come Dalle Ardenne all'Inferno (1967) di Alberto De Martino o Attentato ai Tre Grandi (1967) di Umberto Lenzi, diventano inoltre ricorrenti gli horror gotici in cui primeggiano Riccardo Freda, Antonio Margheriti e Mario Bava; presto arriveranno Dario Argento da una parte, con L'Uccello dalle Piume di Cristallo (1970), e dall'altra Steno, con La Polizia Ringrazia (1972), che daranno il via allo spaghetti-thriller il primo (anticipato dai thriller di ambientazione borghese girati da Umberto Lenzi con la trilogia avviata nel 1969 con Così Dolce... Così Perversa) e al poliziottesco il secondo. Di lì a poco sarà infine la volta dei cannibalici e degli splatter paranormali che avranno i loro padrini, rispettivamente, nel duo Lenzi/Deodato, con le pellicole Il Paese del Sesso Selvaggio (1972) e Ultimo Mondo Cannibale (1977), e in Lucio Fulci, con la sua trilogia zombiesca. Conquiste dunque che nascono da lontano, dagli incredibili incassi ottenuti dagli spaghetti western, un genere capace di arricchire imprenditori persino improvvisati e di incoraggiarli a scommettere sul cinema, con il risultato di permettere a registi, sceneggiatori, scenografi, operatori di macchina e collaboratori vari di maturare esperienza. Non è difatti un caso se i cast tecnici dei futuri poliziotteschi, degli horror o dei thriller siano infarciti di professionisti passati quasi tutti dallo spaghetti-western, tappa pressoché obbligata in cui sperimentare, crescere e perfezionarsi, sviluppando quelle qualità tanto importanti che influenzeranno registi internazionali del calibro di Martin Scorsese, Francis Ford Coppola, Joe Dante, Sam Raimi, John Landis, John Carpenter fino ai più recenti James Mangold, Quentin Tarantino, Robert Rodriguez, John Woo, Johnnie To, Jim Jarmusch, Jan Kounen, Kim Ji-Woon, Takeshi Miike e del macedone Milcho Manchevski, tutti studiosi dichiarati dello spaghetti western e che si riconosceranno nell'estrema sintesi di Tarantino: “Senza gli spaghetti western non esisterebbe buona parte del cinema italiano e Hollywood non sarebbe la stessa.” 442 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

All'epoca però nessuno sembra comprendere ciò che sta succedendo. I più svegli e competenti, lo erano già stati anche con gli horror di Mario Bava, sono i critici francesi e, per certi versi, quelli inglesi (da sempre attenti al cinema di genere, complice una grande tradizione narrativa). Sono proprio i transalpini a trattare per primi lo spaghetti western come un qualcosa a sé stante e non come un sottoprodotto usa e getta destinato a scomparire nel nulla. È poco, ma è comunque una piccola soddisfazione per attori e registi impegnati nel genere. Per la giusta consacrazione bisognerà attendere circa quaranta anni, ma sarà una soddisfazione immensa, una rivincita di un intero settore e una vittoria di squadra, come dimostrano le parole rilasciate da Umberto Lenzi in una delle tante interviste presenti in rete: “Con Tarantino è stata la cosa più bella della mia vita, perché io rappresento un certo tipo di cinema, no snob com'è il mondo di Cinecittà a Roma. Così quando Quentin fece la presentazione a Roma del suo Inglorious Basterds, eravamo tutti invitati, noi, quelli che lui considera i suoi maestri: io, Castellari, Bava Jr, Deodato e qualcun altro. Avevamo tutti i nomi scritti nelle prime file, mentre i grandi produttori e i grandi attori italiani erano in piccionaia. Poi quando prese la parola disse: «La prima cosa da fare è baciare e abbracciare il mio maestro Lenzi e gli altri che stanno là!» Tarantino però sarà solo una punta di un iceberg che emergerà col trascorrere degli anni diventando mastodontico con il sopraggiungere del nuovo secolo. E sarà proprio il tempo a mostrare chi avesse ragione e a mettere in chiara luce la disonestà intellettuale di chi, capito di aver detto castronerie, cercherà di salvarsi modificando opinioni e indicando quali maestri del cinema mondiale Sergio Leone e compagni. Diviene allora appropriato lo sfogo dell'attore Gianni Garko, che proporrò in bella evidenza nella copertina del terzo volume, il quale in un articolo destinato alla rivista Nocturno scriverà: “Che l'atteggiamento della critica degli anni '60 e '70 verso il western italiano fosse accecato e perdente è stato provato dalla perenne vitalità di quel cinema, che oggi continua a essere studiato dagli specialisti, imitato da grandi registi, ammirato e protetto da schiere di fan diffuse in ogni continente.” A ogni buon conto, facendo un parallelismo col film che ha segnato il destino del genere, la situazione che viene a crearsi a metà anni '60 è la seguente: da una parte c'è il pubblico, specie quello giovanile, che trasforma i titoli dei western italiani in slogan da urlare negli stadi e 443 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

che, ignorando le pellicole appoggiate dalla critica, corre in massa nei cinema alla semplice visione di un manifesto disposto con arte in una piazza; dall'altra ci sono i critici, sia americani che italiani, che soffrono per il buon esito di questi prodotti; nel mezzo, simile a un calderone che bolle in pentola, brulicano intelligenti produttori hollywoodiani pronti a mutare il loro approccio per recuperare la posizione di dominio nel cinema mondiale, apprendendo e metabolizzando la lezione dei grandi maestri (non ancora reputati tali) del cinema bis italiano.

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6. 1967: LA PROLIFERAZIONE DEL GENERE

6.1 Spaghetti-western minori Se nel 1966 si era assistito all'esplosione dello spaghetti-western secondo gli stilemi dettati da Sergio Leone, il 1967, a dispetto di quanto avevano profetizzato molti critici nostrani, segna la vera e propria consacrazione di questa tipologia di pellicole che, a fine annata, raggiungeranno le ottanta unità, circa il doppio di quelle prodotte nei dodici mesi precedenti. Si tratta di un record che sarà avvicinato solo nel 1968 e che non verrà più sfiorato negli anni successivi. Dunque si assiste a un'invasione di western, che andranno a monopolizzare gli schermi dei cinema italiani e non solo. Purtroppo questa enorme mole determinerà un abbassamento della qualità media dei prodotti, molti dei quali completati in fretta e furia per sfruttare nel minor tempo possibile la moda del momento. Ecco che troveremo in azione molti piccoli produttori, alcuni dei quali improvvisati, che andranno a cercare di fare cassa piuttosto che di confezionare prodotti di alto livello. Gioco forza, però, l'alto numero di film permetterà a molti registi emergenti di trovare spazio e di gettare le basi per la loro carriera. È in questo periodo che inizieranno a farsi conoscere Enzo G. Castellari, Giulio Petroni e Giuseppe Colizzi, registi che sapranno farsi valere a livello internazionale. Inoltre, anche in virtù della legge dei grandi numeri nonché della presenza di case produttrici più convinte e fiduciose nell'elargire capitali, non mancheranno ulteriori capolavori che andranno ad aggiungersi a quelli già usciti e trattati nel precedente volume. Dopo un dicembre scoppiettante, il nuovo anno si apre con una larga serie di spaghetti western minori, spesso poveri e di bassissimo interesse, girati per lo più nel 1966 ma usciti in ritardo. Tra questi figura Per un Dollaro di Gloria (1966), diretto dall'ex documentarista, nonché autore di parodie western come Il Bandolero Stanco (1952), Fernando Cerchio. 445 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Si tratta di un film dallo stile classicheggiante, con poca azione e ritmo legato alla blanda impostazione preleoniana. Troviamo infatti l'ennesima vecchia star americana, appesantita e decaduta per il vizio dell'alcool, nel ruolo di protagonista. A essere chiamato in causa è l'ultra cinquantenne Broderick Crawford, premio oscar nel 1950, quale migliore attore protagonista, con Tutti gli Uomini del Re, e già apparso in Italia nel 1955, agli ordini di Federico Fellini, ne Il Bidone. La prova dell'attore, ormai precipitato nei serial televisivi, fa tenerezza. Lo vediamo per quasi tutto il corso del film impegnato a difendere un fortino sudista, con l'aiuto dei dragoni francesi, dagli attacchi degli indiani motivati a riprendersi le terre loro strappate. A supportarlo nella prova recitativa c'è un cast artistico poverissimo che non aiuta la già superata sceneggiatura firmata da Ugo Liberatore, autore su cui avremo modo di ritornare nel corso del volume. Dunque un western di concezione fordiana, difeso dal solo Marco Giusti che ne sottolinea un certo fascino malato. Spaghettiwestern.altervista.org ritiene invece che anticipi Soldato Blu nel mostrare il dramma vissuto dagli indiani. I voti oscillano dal quattro al quattro e mezzo in pagella. Situazione analoga è quella che riguarda Uccideva a Freddo (1967) del caratterista Guido Celano, passato a sessant'anni suonati ai ruoli di regista e di produttore (rimetterà oltre cento milioni con questo film), alla stregua del cinquantenne Osvaldo Civirani, il quale, dopo una trentennale esperienza da direttore della fotografia e un poker di film, girati tra il 1964 e il 1966, sospesi tra avventura e peplum, si lancia nel genere con Uno Sceriffo tutto d'Oro (1966), supportato da Giulio Sbarigia (coproduttore di Un Dollaro Bucato e Adiòs, Gringo) e da una sceneggiatura del duo Gianviti-Dell'Aquila. Sulla stessa falsa riga è la realizzazione di Djurado (1966) di Giovanni Narzisi, ex operatore di macchina di Mario Bava nonché direttore della fotografia di una decina di pellicole apparse tra il 1961 e il 1967. Si tratta di western usciti in ritardo, con cast artistici poverissimi, produttori improvvisati, regie dozzinali, sceneggiature già viste in cui imperversano bande di disonesti e bulli contrastate dallo straniero di turno, per un livello complessivo tra i peggiori del genere. Marco Giusti, pur riconoscendone la sconclusionatezza e la pessima regia, ricorda con piacere Uccideva a Freddo che reputa un suo cult personale. Sempre a gennaio escono altri western di basso profilo, ma più cu446 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

rati rispetto ai sopramenzionati. Uno di questi è Un Uomo e una Colt (1966), sottoprodotto che la PEA di Alberto Grimaldi finanzia in ossequio a un accordo con l'argentino Tullio Demicheli, coproduttore de La Resa dei Conti (1966), a cui viene garantita la regia come contropartita per la precedente collaborazione. Il film va ad affiancare il western di Sollima e Il Buono, il Brutto e il Cattivo di Leone, proiettati nelle sale a dicembre dalla medesima casa di produzione. Il cast artistico comprende tutte le seconde linee dei western minori di Grimaldi. Abbiamo Claudio Undari, Fernando Sancho, Raf Baldassarre e Maria Fié a contendersi i ruoli principali. In buona sostanza si tratta di uno di quei film, dai toni melò, che prima della rottura tra Grimaldi e Joaquìn R. Marchent venivano diretti da quest'ultimo. Se già Marchent non riusciva ad accattivare pubblico, Demicheli non fa meglio e per di più non è dotato del talento del collega spagnolo Tuttavia la pellicola non è da bistrattare, sebbene passi del tutto inosservata. La sceneggiatura e la direzione non sono male, come dimostra la recente rivalutazione del film operata dallo spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it. Quest'ultimo loda fotografia e interpretazioni, riconoscendo la sufficienza al lavoro di Demicheli; c'è inoltre chi parla di grandissimo western dal finale moraleggiante incentrato sulla tematica della redenzione dell'uomo malvagio visto come rappresentante di un intero popolo. La storia procede con una serie di avventure intrecciate (tradimenti, spaccati zapatisti, amori proibiti, cavalcate in pieno deserto) in cui vedremo alternarsi i vari personaggi. Ci troviamo nel Messico, ai tempi della rivoluzione sebbene non si tratti di un tortilla, visto che i temi rivoluzionari si limitano ad aleggiare per tutto il corso del film. Gli sceneggiatori, tra cui figura il giornalista Nino Stresa (proveniente da lunghe collaborazioni soprattutto col regista Mario Costa oltre che da generi disparati dall'avventura alla commedia di Totò), si sforzano soprattutto di lavorare sulle caratterizzazioni dei personaggi. Li vediamo evolvere diversamente alla vista della povertà. C'è chi viene presentato come sicario (Undari) ma poi, mutando i propri ideali e schierandosi contro chi l'aveva ingaggiato, passa dalla parte dei peone e chi, da contadino (Sancho), cercherà di approfittare della situazione generale per lucrare a suo esclusivo vantaggio. La regia non è esente da difetti, si avverte un po' di confusione, ma è comunque passabile. Purtroppo, nonostante Demicheli sia tra i primi ad anticipare il filone tortilla-western, al botteghino è una cata447 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

strofe. Il film incassa appena venti milioni, portando la PEA alla drastica decisione di rifiutare qualsiasi altra offerta di collaborazione per la realizzazione di piccole produzioni western. Non è migliore la sorte di Starblack (1967) – conosciuto anche come Johnny Colt - con cui Giovanni Grimaldi, prima di passare alle più remunerative parodie con Franco & Ciccio, chiude in netto calo la breve parentesi nel genere iniziata con l'altalenante All'Ombra di una Colt (1965). Nell'occasione Grimaldi viene prodotto dal factotum Paolo Moffa, professionista a tutto tondo nato quale prolifico aiuto regista nella metà degli anni '30, soprattutto alla corte di Mario Mattoli e di Vittorio De Sica, poi passato nel 1945 al ruolo di direttore di produzione (di film di Germi, Visconti, Antonioni e Bonnard) e da questo a quello di piccolo produttore con un trio di peplum girati tra il 1960 e il 1964. Produrrà in seguito piccoli western tra cui spiccherà, per l'importanza storica del personaggio, Sono Sartana, il Vostro Becchino (1969). Grimaldi scrive soggetto e sceneggiatura, rifiutando di esser assistito da terze persone. Seppur libero da vincoli estrae dal cilindro un pastrocchio, anche perché poco ispirato in fase di scrittura e non supportato dal cast artistico (assai povero). Il soggetto è zorresco con tanto di protagonista dalla doppia vita, tra cui quella notturna in cui vaga per il paese vestito di scuro, con un foulard che gli copre l'intero volto. Non manca la violenza, tanto che inizialmente viene vietato ai minori di quattordici anni. Nessuno però se lo fila e persino chi vi ha lavorato non tarda a prenderne le distanze. Intervistato sul punto, il protagonista Robert Woods ammetterà che “era un film terribile”. La ragione dell'insuccesso ricade sulla totale assenza di originalità, lo sottolinea anche spaghettiwestern.altervista.org, il quale evidenzia ben poche cose meritevoli di nota: la direzione delle scene di azione, la dinamicità di Woods e una sequenza dove Starblack porge la pistola a una donna violentata in modo da consentirle di uccidere il suo stupratore. Ad anni di distanza non manca tuttavia chi ne suggerisca la visione. E se Tom Betts loda Woods, Antonio Bruschini propone addirittura di rivalutare l'intero film. A mio avviso, resta un western marginale. 448 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Sempre a gennaio esce un altro western con Robert Woods, quello che lo renderà famoso in mezzo mondo: Due Once di Piombo (1967). Lo producono un duo di misconosciuti produttori, tra cui il più noto è Gabriele Silvestri, reduce da un trio di piccole spy story e commedie, tra le quali La Sfinge Sorride Prima di Morire (1964) di Tessari, di valore nullo. Silvestri non avrà molta fortuna in seguito, produrrà soprattutto western di serie C, oltre al pessimo Bolidi sull'Asfalto – A Tutta Birra con l'asso del motociclismo Giacomo Agostini lanciato da protagonista nel mondo del cinema. Gli amanti di Fulci lo ricorderanno inoltre quale produttore esecutivo del giallo, non troppo riuscito, Murderock Uccide a Passo di Danza (1984). Se i produttori non lasciano sperare in un western degno di nota, le cose cambiano col regista. Sotto lo pseudonimo di Maurice A. Bright, c'è infatti un giovane debuttante di belle speranze, appena uscito dallo staff di Pasolini: Maurizio Lucidi. Lucidi arriva dall'aiuto regia de Il Vangelo secondo Matteo e, a dispetto dei trentaquattro anni, ha già una lunga gavetta in veste di montatore con più di venti film, un po' di tutti i generi, alle spalle con punte quali Arrivano i Titani (1961) di Tessari, Il Sorpasso (1962) e I Mostri (1963) di Risi, nonché i western Gli Uomini dal Passo Pesante (1965) e Un Dollaro tra i Denti (1966). Darà il meglio proprio nel western con il sequel de Due Once di Piombo, e i più ricchi La Più Grande Rapina del West (1967) e il commerciale Si può Fare... Amigo! (1971) con Bud Spencer e Jack Palance. Notevole (forse il suo miglior film) sarà invece l'omaggio che farà a Hitchcock con il torbido e intricato La Vittima Designata (1971), pellicola drammatica mascherata da thriller, con Tomas Milian e Pierre Clementi: una chicca da recuperare. Seppur con risultati non disprezzabili, non raggiungerà mai l'apice che si sarebbe potuto attendere da uno come lui fallendo occasioni propizie come col sopravvalutato thriller L'Ultima Chance (1973). Chiuderà la carriera all'alba del nuovo secolo, dopo esser passato al comico e al circuito televisivo. A sceneggiare il film troviamo lo specialista Adriano Bolzoni, reduce dai vari Minnesota Clay (1964), Ringo del Nebraska (1965) e Johnny Oro (1965). Il copione viene intitolato Il Mio Nome è Pecos, ma lo produzione opta per il più accattivante Due Once di Piombo, a indicare l'entità del piombo sparato dal protagonista. Bolzoni inventa poco, preferisce andare sul classico con un mix di avidità, vendette, razzismo e violenza, portato avanti con il canonico 449 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sviluppo narrativo del giovane pistolero, pestato a sangue, che sfugge dal luogo di prigionia per intercessione di terze persone e ritorna, in vista della vendetta finale, a eliminare uno a uno tutti gli antagonisti. La particolarità del film sta nella caratterizzazione del protagonista (il nome è un omaggio al fumetto Pecos Bill). Al posto del consueto straniero dal cuore freddo e dall'atteggiamento implacabile, abbiamo un pistolero peone, vestito da straccione, con gli occhi a mandorla (per effetto di due cerotti ben apposti sul volto di Woods) che ha il vezzo di nascondere l'arma sotto il sombrero. Una sorta di Cuchillo di Sollima, ma che usa armi da fuoco con i modi dell'antieroe del genere. Si tratta di una soluzione innovativa non di poco conto, in controtendenza rispetto agli archetipi tradizionali del messicano tipo. Lo vedremo fronteggiare una banda di rapinatori intenzionati a mettere le mani su 80.000 dollari celati in un barilotto di rum, da qui seguirà un interminabile sequela di duelli e sparatorie che renderanno il film famoso nei paesi del terzo mondo, garantendogli un incasso inatteso e un immediato sequel votato però alla commedia. Woods riferirà di esser stato riconosciuto per questo film persino in Senegal, dove tutti lo chiamavano Pesos. Nonostante la sciatteria della messa in scena, Lucidi è convincente. Sposa il taglio alla Leone, calibrando bene i tempi e non lesinando nel proporre scene violente. Si mette inoltre in mostra sul set per alcune bizzarrie, come praticare esercizi yoga per sciogliere dubbi amletici in ordine al posizionamento della macchina da presa. Alla fine però sorprende un po' tutti, anche se c'è chi sospetta che siano state utilizzate scene tagliate da Per Qualche Dollaro in Più, ipotesi che a me pare poco probabile visto che la casa di produzione è diversa. Dunque uno spaghetti-western classico, non troppo originale ma dinamico e denso di azione, che riunisce, attorno all'ottimo Robert Woods, un gruppo di attori e mestieranti all'epoca semisconosciuti ma in seguito capaci di lasciare la loro impronta. Tra le varie comparse troviamo infatti Luigi Montefiori (alias George Eastman) e Pietro Martellanza (alias Peter Martell), prossimi ad avere ruoli di primo piano, ci sono poi caratteristi storici come Massimo Righi, Umberto Raho e Sal Borgese. Nel cast tecnico invece abbiamo due futuri registi di z-movie del calibro di Aristide Massaccesi (meglio conosciuto con lo pseudonimo di Joe D'Amato) e di Demofilo Fidani, rispettivamente operatore e scenografo. La main theme è una lenta ballata di Lallo Gori (testo bruttino), ai 450 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

limiti del plagio, come fa notare giustamente Marco Giusti, di The House of the Rising Sun (1964) degli Animals. A dispetto del successo avuto ai botteghini, il film finirà per lo smarrire il proprio lustro col decorrere degli anni. A oggi non è facile da reperire e viene addirittura ignorato dal Morandini. Lo stroncano filmtv.it, “originalità zero: riservato ai patiti del genere”, e l'americano spaghetti-western.net che parla di western mediocre in cui si muove un interessante eroe messicano. Spaghettiwestern-altervista.org è invece di parere contrario e ne consiglia la visione. Apprezzato abbastanza dai blogger esteri. Lo spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it, oltre a lodare la direzione degli attori, fa notare varie similitudini con Django per via del prologo, in cui vediamo Pecos vagare nel deserto con una sella sulle spalle, e della presenza di un predicatore avido. Positivo pure sonofdjango.blogspot.it, il quale da avvio alla sua recensione in modo illuminante: “I film con Robert Woods sono come la scatola dei cioccolatini di Forrest Gump: non sai mai quale ti tocca... credo che Due Once di Piombo sia da considerare tra quelli più buoni!” Il successo ottenuto da Due Once di Piombo viene bissato da un altro western poverissimo e fortemente legato agli stilemi leoniani, che beneficia di un'ottima distribuzione in America in virtù della partecipazione dell'attore italo-statunitense Roger Petitto. Il film non va forte in Italia, ma spopola all'estero. UN DOLLARO TRA I DENTI Produzione: Italia-USA 1967. Prodotto: Roberto Infascelli e Massimo Gualdi (Primex Italiana), Allen Klein e James Hager (Taka). Regia: Luigi Vanzi (Vance Lewis). Soggetto e Sceneggiatura: Giuseppe Mangione, Warren Garfield.. Interpreti Principali: Roger Petitto (Tony Anthony), Frank Wolff, Gia Sandri, Jolanda Modio, Raf Baldassarre. Fotografia: Marcello Masciocchi. Musiche: Benedetto Ghiglia. Sottogenere: Eroi solitari in villaggi stranieri. Durata 86 min. 451 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Giudizio Mancini: **1/2 Giudizio Morandini: Non Trovato. La trama In un paese di frontiera, uno straniero (Petitto) si spaccia per capitano yankee e convince Aguila (Wolff), un messicano capo di una banda di delinquenti, a rubare un carico d’oro che i soldati americani consegneranno ai soldati messicani. Aguila, dopo aver sterminato una truppa dell’esercito messicano, farà vestire i suoi uomini con le divise militari e, aiutato dallo straniero, si approprierà del tesoro. L’avarizia però lo spingerà a rompere il patto e a tentare di far uccidere il socio. La sadica Maruja (Sandri), a cui viene data l'incombenza di assassinare l'americano, farà fuggire il protagonista che metterà in atto la sua vendetta. Commento Coproduzione italo-americana con due imprenditori, seppur alle prime armi, capaci in seguito di lasciarsi ricordare: da una parte abbiamo Roberto Infascelli, dall’altra l’americano Allen Klein. Il primo, figlio del produttore Carlo Infascelli, dopo una serie di impieghi da aiuto regista e da direttore della produzione (in seguito tenterà anche l’esperienza di regista con il non riuscitissimo La Polizia sta a Guardare del 1973), debutta alla produzione proprio con questo film. Si tratta di un debutto importante, Infascelli legherà il suo nome ad autentici gioielli, spesso affidati a Steno (La Polizia Ringrazia del 1971, Febbre da Cavallo del 1976 e Doppio Delitto del 1977), ma anche a Dallamano (La Polizia Chiede Aiuto del 1974) e a Vanzi per il quale produrrà i fortunatissimi seguiti del film qui oggetto di esame, vale a dire Un Uomo, un Cavallo, una Pistola (1967) e Lo Straniero di Silenzio (1968). Da ricordare inoltre la sua firma sul soggetto di un altro cult degli anni '70, a metà strada tra il thriller e l’horror: L’Ultimo Treno della Notte (1974) di Aldo Lado. Il prestigio di Roberto Infascelli sarà purtroppo frenato da un fatale incidente stradale che lo strapperà alla vita, nel 1977, nel momento del suo maggior fulgore. Se il nome di Infascelli è uno di quelli degni di esser ricordati per il grande contributo alla cinematografia di genere italiana, addirittura determinante per la nascita del poliziottesco, non è di secondaria importanza quello dell’americano Allen Klein. All’epoca trentacinquen452 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ne, Klein era il manager dei Beatles, ruolo che già lo rende leggendario; oltre a questo era un grande appassionato di western surreali, tanto che si farà conoscere per la produzione di una serie di capolavori del bizzarro come lo spaghetti western Blindman di Ferdinando Baldi (1971) o il filosofico La Montagna Sacra (1973) di Alejandro Jodorowsky. Infascelli convince il socio a puntare su un regista poco noto, con cui aveva già collaborato in veste di direttore della produzione: Luigi Vanzi. Nonostante quasi un decennio speso a fare l'aiuto regista alla corte, tra gli altri, di Michelangelo Antonioni, Vanzi vanta un curriculum anonimo. Aveva mosso i primi passi col documentario Il Mondo di Notte (1960) e da questo era passato a due film di scarso successo. Quando si appresta a dirigere Un Dollaro tra i Denti è uno sconosciuto e non immagina minimamente che il suo film avrà un discreto successo anche perché la pellicola va molto male in Italia, dove incassa appena venti milioni. Infascelli respira aria da catastrofe commerciale, ma Allen Klein, da grande volpe, rimedia alla disfatta grazie a un eccelso lavoro di distribuzione negli Stati Uniti che porta Un Dollaro tra i Denti a sorprendere gli stessi produttori. Vanzi emerge così prepotentemente in contesto internazionale, ottenendo un consenso crescente, soprattutto in America e in Giappone. Girerà prodotti sempre più balzani fino al curioso mafia movie Piazza Pulita (1972) che ne chiuderà la carriera cinematografica a vantaggio di quella televisiva. Nell'occasione il romano lavora su una sceneggiatura stesa da un veterano: Giuseppe Mangione. Già attivo dagli inizi degli anni ’40 e persino premiato con il Nastro d’Oro, nel 1955, per il miglior soggetto e la migliore sceneggiatura col film Gli Innamorati (diretto da Mauro Bolognini), Mangione si dedica al western senza spremersi le meningi e senza aver mai trattato il genere. Scrive il copione in contemporanea a quello più originale di Sugar Colt. Ne deriva uno script fortemente debitore di Per un Pugno di Dollari, tanto da sembrare un remake quasi privo di dialoghi. Si ripropongono, infatti, tutti gli elementi che avevano fatto la fortuna di Leone: lo straniero che arriva in un paese di frontiera per arricchirsi; un manipolo di feroci messicani che vengono giocati dallo straniero; uno sterminio dei soldati messicani eseguito con una mitragliatrice a opera di soggetti travestiti (nell’occasione da preti); una scena in cui il protagonista viene percosso sel453 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

vaggiamente mentre l’antagonista se la ride di gusto; la liberazione, per mano dello straniero, della donna tenuta prigioniera dall'antagonista in modo da farla ricongiungere al figlio e farla scappare con tanto di aiuto economico; un epilogo in cui il protagonista getta la pistola a terra e sfida l’avversario, rimasto senza colpi, a ricaricare l’arma e a cercare di sparare. Insomma, come si può ben capire, i riferimenti sono troppi per parlare di citazioni, tuttavia il film merita la visione. Vanzi gestisce molto bene (soprattutto nell’ultima parte) un’indovinata colonna sonora firmata da Benedetto Ghiglia, compositore con alle spalle meno di trenta film (tra i più famosi Adios, Gringo di Stegani e Porcile di Pier Paolo Pasolini) e qui alla sua migliore composizione (diverge nell'opinione 800spaghettiwesterns.blogspot.it che la reputa ripetitiva e irritante). Molto ben resa inoltre è l’atmosfera cupa e perversa che il regista riesce a ricreare sfruttando la splendida fotografia di Marcello Masciocchi. Quest'ultimo ricorre a giochi d’ombra, con background completamente neri funzionali a esaltare le immagini in primo piano. Per quanto concerne la perversione, Vanzi amplifica la violenza che si era respirata nei film di Leone (si becca per questo il divieto ai minori di anni diciotto) e lo fa introducendo un personaggio femminile tra i più sadici e ambigui dell’intero panorama con un lesbismo latente. La vediamo tagliare la carne di un maiale arrostito, per darla a una giovane ragazza da cui sembra attratta sessualmente; si rende inoltre protagonista di una scena in cui si eccita frustando a sangue il protagonista. Anche il personaggio interpretato da Frank Wolff è più crudele e cinico rispetto al Ramon di Volonté. Colpisce con calci le donne, minaccia di sgozzare bambini, non mantiene la parola data e, ogni volta che guarda i suoi uomini, dice: “Che tipo di uomo sono, io?” e gli altri gli rispondono: “Sei un uomo giusto”. Dopo aver debuttato nel cinema italiano partecipando a film autoriali quali Salvatore Giuliano (1961) di Rosi e Il Processo di Verona (1963) di Lizzani, ma anche in altri film per la regia di Nanny Loy, Monte Hellman e altri autori d’oltreoceano, Il californiano Wollf, con questo film, entra di prepotenza nel genere. Lo ritroveremo nell'annata in tre cult western: Il Grande Silenzio di Corbucci, Ammazzali Tutti e Torna Solo di Castellari e Il Tempo degli Avvoltoi di Cicero. Il successo lo porterà a collaborare con tutti i principali registi del cinema di genere, tra cui Sergio Leone, Fernando Di Leo, Duccio Tessari, Enzo G. Castellari, ma la sua carriera si stroncherà improvvisamente, 454 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

a quarantatré anni, il 12 dicembre del 1971, quando si suiciderà con un colpo di pistola in un hotel di Roma, perché ferito dall’improvviso abbandono della moglie scappata con un altro uomo. Un epilogo tragico per un grande attore meritevole di esser ricordato tra i più grandi del cinema di genere. Tornando al film, non si può non ritenere bello l’epilogo, che scimmiotta Per Qualche Dollaro in Più, con lo straniero che elimina, uno a uno, i vari uomini di Aguila, apparendo d’improvviso dai punti più impensati (dalle assi del pavimento, dalle zone d’ombra, dall’ingresso del saloon, da un carrello che scende in discesa sulle rotaie). Se l’epilogo è carino, il prologo è addirittura da antologia e mostra l'arrivo del protagonista in un paese deserto dove tutti sembrano dormire, ma in realtà sono morti. Nel ruolo di protagonista, portato dal produttore Allen Klein, troviamo un italo-americano sconosciuto: Roger Petitto in arte Tony Anthony. Diventerà uno dei volti più noti in America e in Giappone, per esser protagonista nonché produttore di alcuni western che mescoleranno il genere con la cultura giapponese. Spesso criticato per la sua mono espressività, nell’occasione, se la cava più che bene e riesce a suscitare simpatia. Il suo è il tradizionale ruolo del cacciatore di taglie guascone (anche lui col poncho alla Eastwood). Petitto rimarrà così legato a questo personaggio da interpretarlo in altri quattro film, due dei quali inediti in Italia (Un Uomo, un Cavallo, una Pistola, Lo Straniero di Silenzio, Get Mean e Comin’At Ya), nonché nell’ottimo Blindman di Ferdinando Baldi. Secondari gli altri elementi del cast artistico, con una brava Gia Sandri, la ritroveremo in Wanted di Ferroni, che riesce a trasmettere la perversione del suo personaggio con un semplice gioco di sguardi. Da segnalare che il titolo è dovuto alla firma che il protagonista lascia sul corpo della sua ultima vittima: un dollaro d’oro conficcato nella bocca. Nel complesso è un western tutt’altro che originale, ma dotato di buon ritmo e di alcune trovate visive interessanti. Marco Giusti parla di “fortunato esempio di professionalità e di eleganza, ma anche di un grande piacere per gli occhi.” Tra i generici arrivano le bocciature immotivate di mymovies.it (una stella) e il silenzio totale di Morandini e filmtv.it. Apprezzato dai blogger stranieri che lo hanno visto in massa e, pur non reputandolo 455 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

un capolavoro, ne sottolineano la solidità. Per gli amanti delle citazioni: Soldato Yankee: “Sei uno che sta facendo il furbo, eh?” Protagonista: “Ci provo e quando ci provo quasi sempre ci riesco.” Tra gli ultimi a esser visti a gennaio non mancano i sequel apocrifi dei due pistoleri più amati dagli spettatori: Ringo e Django. A dir la verità si tratta di operazioni a dir poco truffaldine, visto che i legami con i personaggi sono talmente flebili che in alcuni di questi film non c'è neppure un protagonista che abbia il nome di uno dei due eroi!? È il caso di Una Donna per Ringo (1966), coproduzione italo-spagnola, costruita per lanciare nel genere (non avranno fortuna in Italia) le ventenni Emilia e Pilar Bayona, ballerine e cantanti di Saragozza. Il bravo Rafael Romero Marchent, qua in uno dei suoi peggiori film, si presta per ragioni alimentari, tanto che i toni sono del tutto avulsi rispetto al suo caratteristico taglio melò. Il copione, di Manuel Sebares (I Sette del Texas) e di Giovanni Simonelli, viene costruito attorno alle due giovani ragazze, su disposizione del produttore ispanico Benito Perojo. Il titolo originale è Due Pistole Gemelle, ma i nostri distributori pensano bene di modificarlo in modo da accalappiare pubblico, operazione che peraltro finisce col dare i suoi frutti. L'unica nota positiva dello script sta nell'innovativa idea di tentare di proporre due pistolere al femminile, idea che non avrà grande fortuna ma che ispirerà vari registi, a partire dal 1968, con pellicole come Lola Colt, Giarrettiera Colt o il più famoso Le Pistolere (1971) con Brigitte Bardot e Claudia Cardinale. Nell'occasione però regista e sceneggiatori non azzardano, ma rimangono a metà strada. Così abbiamo una coppia di protagoniste castigate nei vestiti, coadiuvate da due coprotagonisti (si ripesca addirittura il pessimo Sean Flynn, decaduto dopo i primi tentativi western di Caiano) che giungono a toglierle dagli impicci e a difenderle dai bulli locali (capitanati da uno sceriffo corrotto) che vogliono impedir loro di prendere possesso di un ranch a esse spettante. Marchent non crede nel progetto, lo accetta per ragioni contrattuali, addirittura spinge in direzione della farsa. Così, affiancate a sequenze degne del genere (con sprazzi persino violenti), vediamo le due ventenni cantare e ballare in giro per i saloon, e persino esser prese in collo e sculacciate dai loro uomini alla stregua di bimbe dispettose. Sono inoltre 456 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

coinvolte in scene che non hanno nulla a che fare con lo spaghetti-western, essendo più consone per una commedia rosa. Per le ragioni sopraesposte il film è ignorato dai blogger stranieri e bocciato da tutti gli altri che ne sottolineano l'indecisione tra sentimentalismo e azione. Indubbiamente più riuscito è Pochi Dollari per Django (1966), girato anch'esso nel 1966, ma apparso nei cinema a gennaio. A produrlo sono il regista Marino Girolami, che i più ricorderanno dietro alla macchina da presa in B-Movie del calibro di Roma Violenta (1975), Zombi Holocaust (1980), ma anche del mediocre spaghetti western Il Piombo e la Carne (1964), e lo spagnolo Rafael Marina Sorail, al suo primo western dopo ruoli da direttore di produzione in un trio di commedie uscite nella sola penisola iberica. Girolami, fratello di Romolo Guerrieri e papà di Enzo G. Castellari, da specialista delle commedie (ne aveva prodotte e dirette una dozzina a partire dal 1958) decide di cavalcare il successo del genere affidandosi a uno staff tecnico e artistico prevalentemente spagnolo. Il soggetto porta la firma di Manuel Sebares, sceneggiatore spagnolo di fiducia della PEA, per la quale aveva scritto i copioni di I Due Violenti (1964), I Quattro Inesorabili (1965) e soprattutto di I Sette del Texas (1964) di Joaquìn R. Marchent. Girolami gli affianca il fedelissimo Tito Carpi (già quindici le collaborazioni tra i due), reduce da Per Mille Dollari al Giorno (1966) di Amadio e da una ventina di commedie scritte in appena sei anni. La regia va a un pioniere del paella western: l'argentino, di origini ucraine, Leòn Klimovsky. Ex odontoiatria di sessanta anni (e non ginecologo come si legge in giro), con una quarantina di pellicole (limitate al circuito cinematografico ispanico) di svariato genere alle spalle, un basco sempre in testa e un modo di fare da aristocratico, Klimovsky offre un curriculum interessante e soprattutto è ben visto dai coproduttori ispanici. Emigrato in Spagna negli anni '50, dopo aver debuttato in patria nel 1948, arriva sul set con molteplici apprezzamenti ottenuti negli anni grazie a vari adattamenti cinematografici dei classici della letteratura mondiale, come Giocatore di Dostoevskij, Il Conte di Montecristo di Dumas e Il Tunnell di Ernesto Sabato. Giudicato con favore dalla critica, era riuscito addirittura a ottenere importanti premi tra i quali una nomination al Festival di Cannes con Marihuana (1950), una menzione speciale e un premio come miglior regi457 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sta al Festival di San Sebastian rispettivamente con La Picara Moliera (1955) e Salto e la Gloria (1959). Passato negli anni '60 al cinema di genere, dopo circa una dozzina di paella-western, proseguirà la carriera dedicandosi soprattutto agli z-movies con incursioni nel macaroni combat (L'Urlo dei Giganti del 1969) e nell'horror (Le Messe Nere della Contessa Dracula del 1971). Chiuderà la carriera nel 1979 con un totale di settantasei pellicole che gli varranno, nel 1995, il premio alla carriera riconosciutegli dall'Associazione dei registi della Spagna. Tra i suoi film più riusciti ricordo il western ...E Intorno a lui Fu la Morte (1969). Nonostante le credenziali, fin dal primo giorno delle riprese, il film va incontro a gravi problematiche dovute all'inadeguatezza di Klimovsky nell'interpretare le scene di azione. Si tratta di controindicazioni già riscontrate nelle precedenti coproduzioni italo-spagnole; difficoltà peraltro già palesate dallo stesso Klimovsky nei suoi quattro western precedenti, ma che si cercava di nascondere. A giudicarlo inadeguato è il suo aiuto Enzo G. Castellari, che informa subito il padre rimasto a Roma. Girolami si fionda a Madrid e promuove il figlio a regista. Klimovksy viene così sollevato dall'incarico, tuttavia gli viene garantita la firma sul prodotto finale per ragioni legate ai finanziamenti spagnoli. Il cambio non salverà la pellicola. Castellari gira un prologo dall'incredibile gusto di genere, poi si perde. Non è concorde Marco Giusti il quale, nel suo Dizionario, parla di stralunata sequenza pretitoli. Al di là dell'opinione dell'autore di Stracult, questa sequenza iniziale è, a mio avviso, l'unica cosa interessante del film. In essa vediamo, in primo piano, due manigoldi messicani sfidarsi a braccio di ferro. Sul tavolo sono piantati, di lato alle braccia dei due, due coltelli dai fili acuminati. Chi perde vedrà sbranarsi la pelle per lo sfregamento del braccio sulla lama. Castellari, senza staccare l'inquadratura, fa passare, in campo lungo e in mezzo alle braccia tese dei due, un asino che avanza con in sella un uomo avvolto da un poncho: è Django. L'arrivo dello straniero è il preludio della sparatoria tra lo stesso e i due (che scopriremo essere dei ricercati), oltre che all'inserimento di una trovata trash atta a stanare un terzo bandito nascosto in una locanda. Per farlo uscire allo scoperto, Django lancia all'interno del locale una candela munita di miccia in modo che sembri un candelotto di dinamite. Questa la brillante partenza del film che non avrà un seguito adeguato alla premessa. Carpi e Sebares costruiscono un prodotto di vecchia concezione 458 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

orientato al western americano piuttosto che ai nuovi stilemi leoniani. I riferimenti al Django di Corbucci si fermano al nome. Dai western d'oltreoceano si riprendono invece i conflitti tra agricoltori e allevatori, utilizzando il solito escamotage delle cosche contrapposte che si danno battaglia a colpi di fucile e di intrighi. Il tutto è ambientato in location campagnole (ottime scenografie invernali), tra praterie e giganteschi massi usati per inscenare agguati. Non mancano i tradizionali assalti fordiani alle fattorie, con agricoltori asserragliati all'interno e bersagliati da proiettili e fuoco. A fungere da ago della bilancia tra i contendenti non c'è un vendicatore o un pistolero stile Il Cavaliere della Valle Solitaria, ma uno sceriffo integerrimo che si scoprirà essere un cacciatore di taglie che ha rubato l'identità al vero sceriffo. Il fine del cacciatore è quello di catturare tutti i componenti di una banda di ricercati. A dargli corpo c'è il legnoso Anthony Steffen, il Django apocrifo per antonomasia che ritornerà ad assumerne le vesti in Django il Bastardo (1969) e W Django (1971). L'idea del falso sceriffo dai modi integerrimi viene ripresa da L'Uomo dalla Pistola d'Oro (1965) di Balcàzar, film da cui si mutua anche lo sviluppo comportamentale dell'aiutante sceriffo. Quest'ultimo è uno dei banditi su cui pende una taglia ma che, a sua insaputa, viene messo alla prova dal protagonista. Django infatti ne intravede la bontà d'animo e, a modo suo, cerca così di redimerlo. Il bandito infatti per amore della figlia, che lo crede esser suo zio (perché l'uomo si vergogna di deluderla rivelandogli la sua vera natura, atteggiamento questo ripreso da Minnesota Clay), finirà con il ravvedersi. Il personaggio viene interpretato Frank Wolff, che si alterna da un set western a un altro. La storia va avanti in modo verboso, senza guizzi e con poca ironia. Kilmovsky e Castellari non inventano nulla dietro alla macchina da presa, sopraffatti da un ritmo lentissimo e noioso. Manca anche quella spettacolarità che renderà famoso il regista romano. Ci sono comunque dei buoni inserti cruenti, tra cui segnalo alcuni banditi feriti alle orecchie, con tanto di sangue mostrato in primo piano (come già visto in Ringo del Nebraska). Bella inoltre la scena in cui, per mezzo di un coltello arroventato, vengono bruciate le dita di Wolff. Di pregevole fattura è altresì l'esplosione a stretta vicinanza che rende cieco l'antagonista, mostrato con tanto di faccia insanguinata. La messa in scena non è male, i due registi seguono da vicino i 459 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

protagonisti con inquadrature molto strette, ma sono pessimi nel dirigere gli attori. Ogni cosa è lenta oltre misura, dal modo di parlare degli attori (pedestre il doppiaggio) alle loro movenze. Il cast artistico, a parte i due protagonisti, è uno stuolo di caratteristi spagnoli poco memorabili. È buona la fredda fotografia del semi-debuttante Aldo Pinelli (e non Pennelli come riporta Marco Giusti nel suo Dizionario), che assisterà Castellari anche in Sette Winchester per un Massacro (1967) prima di ritirarsi dopo appena tre film. Pinelli viene verosimilmente aiutato dall'operatore spagnolo Pablo Ripoll che invece aveva (cinquanta pellicole tutte spagnole) e avrà in seguito una lunga carriera da addetto alla fotografia, tra gli altri di cult quali Le Tombe dei Resuscitati Ciechi (1972) di De Ossorio e Zanna Bianca (1973) di Fulci. Deludente la colonna sonora di un Carlo Savina che guarda più alle melodie hollywoodiane che a quelle conterranee. Dunque un western solido, ma al contempo trascurabile per l'incapacità di divertire. Non mancano alcuni timidi apprezzamenti. Per Tom Betts è uno dei migliori film di Steffen, opinione che non condivido affatto. Marco Giusti lo reputa molto carino anche se lento e con varie ingenuità. Dimostra interesse 800spaghettiwesterns.blogspot.it che lo definisce un curioso ibrido tra la corrente del western nordamericano e quello europeo. Tra i detrattori non manca il Morandini che gli appioppa una stella, ma anche gli utenti di imdb.it che non vanno oltre il 5,7 in pagella. Ascrivibile al filone apocrifo di Django è anche il capolavoro con cui Giulio Questi compie la sua unica ma decisiva incursione nel genere. Il film viene distribuito all'estero come Django Kill!, sebbene di Django non vi sia traccia. Non è un caso se in Italia si opta per un duplice e distinto titolo che nulla a che fare col personaggio di Corbucci. SE SEI VIVO SPARA – ORO HONDO Produzione: Italia-Spagna, 1967. Prodotto: Alessandro Jacovoni (Compagnia Cinematografica Cia), Hispamer Film. Regia: Giulio Questi. Soggetto: Franco Arcalli, Giulio Questi e Maria Del Carmen Marti460 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

nez Roman. Sceneggiatura: Franco Arcalli, Giulio Questi, Benedetto Benedetti. Interpreti Principali: Tomas Milian, Roberto Camardiel, Milo Quesada, Marilù Tolo, Piero Lulli, Raymond Lovelock, Paco Sanz, Patrizia Valturri. Fotografia: Franco Delli Colli. Musiche: Ivan Vandor. Sottogenere: Revenge Movie. Durata: 115 min. Giudizio Mancini: **** Giudizio Morandini: *** La trama Banda di rapinatori assalta una carovana per rubare un carico d'oro. Sottratto il bottino il gruppo si spezza: da una parte i messicani capitanati da un mezzosangue (Milian), dall'altra gli americani capitanati da Oaks (Lulli). Il motivo della divisione verte sull'accordo sulla sua divisione dell'oro. Oaks non intende dividerlo, così massacra i messicani. Rimasti senza cavalli, però, gli uomini di Oaks giungono in un paese bigotto. Sono carichi d'oro e ciò li porta a scontrarsi l'uno contro l'altro. Intanto il mezzosangue, aiutato da due indiani, risorge dalla fossa in cui era stato sepolto e raggiunge gli ex compagni per vendicarsi e per riportare ordine in una città che pare rappresentare l'inferno. Commento: Opera di estremo culto, amatissima dal regista Joe Dante e da tanti altri per il suo essere fuori dagli schemi. Si tratta di un western violentissimo, con punte splatter degne di un horror e con una sceneggiatura caratterizzata da una chiave di lettura surreale/fantastica dai contorni da inferno biblico. Bizzarro fin dall'ideazione, il film viene concepito come un canonico western con cui fare cassa. Dietro al progetto c'è Alessandro Jacovoni, un piccolo produttore caduto in disgrazia economica, con un background associato a Tonino Cervi e a svariate commedie tra cui Gli Innamorati (1955) di Mauro Bolognini. Jacovoni è interessato unicamente a recuperare fondi, ma il progetto gli sfugge di mano e si trasforma in uno dei western più psichedelici che si siano mai visti, solo Cesare Canevari, con Matalo! (1970), riuscirà a superarlo. 461 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Gli sceneggiatori, Franco Arcalli e Giulio Questi, si lasciano prendere dall'entusiasmo e rompono ogni schema precostituito. La cosa non deve sorprendere. Giulio Questi è stato un grandissimo regista, un professionista con ambizioni autoriali in grado di personalizzare i generi e proporre intelligenti sceneggiature di critica sociale. Nato come giornalista e scrittore, aveva raggiunto la notorietà come documentarista aggiudicandosi un Nastro d'Argento nel 1958. Il successo lo aveva portato ad avvicinarsi ai lungometraggi, dapprima come aiuto regista (di Fellini, Puccini, Zurlini e Germi), poi come co-regista (con Lizzani e Petri). Se sei Vivo Spara è il lungometraggio che lo vede debuttare alla regia. Nel giro di cinque anni, girerà altre due perle del bizzarro e del visionario (non troppo apprezzate all'epoca): il thriller La Morte ha Fatto l'Uovo (1968) e l'horror ermetico ed esoterico Arcana (1972), entrambi caratterizzati da situazioni avulse alle regole commerciali. Lo stesso Questi avrà modo di spiegare il suo approccio al cinema di genere: “Il cinema di genere ti garantisce sempre una drammaturgia ben sostenuta, secondo certi schemi che rendono sempre. Accettando questa cosa poi ci puoi mettere quello che vuoi, dipende dalla tua fantasia, dalle tue cose da dire.” Purtroppo dopo questi film, deciderà di lavorare per la televisione producendo e dirigendo, di tanto in tanto, dei cortometraggi nel suo tradizionale stile alieno a ogni compromesso. Franco Arcalli invece, dopo una brevissima carriera di attore (il più delle volte non accreditato), era stato lanciato come montatore da Tinto Brass con Chi Lavora è Perduto (1963). Oltre a confermarlo al montaggio, Questi lo fa debuttare alla sceneggiatura, stringendo con lui un duraturo sodalizio tanto che Enrico Ghezzi li soprannominerà Jules e Kim in omaggio agli inseparabili protagonisti del film di Truffaut (Jules e Jim). Arcalli diverrà uno dei più stimati montatori italiani, promosso a montatore di fiducia, oltre che di Giulio Questi (per cui scriverà tutti i copioni), di Bernardo Bertolucci, di Valerio Zurlini e di Michelangelo Antonioni. Metterà la firma in capolavori indiscussi quali Zabriskie Point (1970), Ultimo Tango a Parigi (1972), Novecento (1976) e Il Deserto dei Tartari (1976). Affetto da una grave malattia, morirà nel 1978 ad appena quarantanove anni dovendo rinunciare al montaggio del capolavoro di Francis Ford Coppola Apocalypse Now (1979). Qualche anno dopo usciranno postumi La Luna (1979) di Bertolucci e C'era una Volta in America (1984) di Leone, cosceneggiati proprio da Arcalli. 462 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Analizzato a posteriori, dunque, non deve sorprendere se il western di Questi abbia così tanti elementi che lo distinguono dai prodotti del periodo, sia perché i due autori erano a digiuno del genere (con il quale non si confronteranno più) sia per la loro inventiva ribelle. Ecco quindi che viene a plasmarsi un soggetto in cui tutto ruota attorno a un carico d'oro (leggi denaro) e all'impatto che lo stesso ha sulle relazioni interpersonali. Geniale la trovata di far usare al protagonista dei proiettili d'oro in modo da conferire un taglio metaforico alle numerose morti. Si muore a causa di quell'oro maledetto che tutti vorrebbero per sé. “Siete più marci di qualsiasi cadavere. Quell'oro non appartiene più a nessuno” urla Tomas Milian, a sottolineare che chi vive rincorrendo il denaro finisce, prima o poi, per morire per mano dello stesso. Il risultato finale è un'opera malata, violentissima, che si spinge a introdurre sfumature omosessuali e un'amara critica della società. La caratterizzazione del villaggio in cui si svolgono i fatti, guarda caso chiamato “Il campo dell'angoscia”, è da inferno dantesco. Vediamo impiccati appesi alle travi, uomini nudi che vagano per la strada, bambini e cani presi a calci, donne pallide (Valturri) segregate in mansarda, altre (Tolo) che si eccitano passandosi le dita sulle labbra nell'origliare gli altri che litigano, c'è addirittura un pazzo (Ray Lovelock) che distrugge con un coltello i vestiti della matrigna. Intimorita dalla piega troppo originale e sovversiva data dal duo Questi/Arcalli, la produzione decide di intervenire per mettere a freno l'estro degli sceneggiatori giunti a ideare persino una scena – poi mai girata - in cui una ballerina avrebbe dovuto compiere un balletto erotico al cospetto del protagonista, scoprendo poi in seguito che a compierlo era stato un travestito (!?). Per lo stesso motivo (anche se, in virtù di una serie di inquadrature ambigue, resta comunque suggerita allo spettatore l'idea di base) viene eliminato uno stupro collettivo compiuto ai danni di Lovelock da un gruppo di giovani al servizio del boss di turno. Laddove non interviene la produzione interviene poi la censura. Il film subisce innumerevoli tagli e viene penalizzato dal divieto ai minori di diciotto anni. Non contenti, dopo un mese dall'uscita, la procura sequestra la pellicola per i suoi contenuti violenti. Vengono così tagliate due tra le scene più pazzesche mai viste all'epoca: uno scalpo in primissimo piano con cranio glabro coperto di sangue e fiotti ematici 463 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

vomitati dalla bocca della vittima, nonché un'operazione ripresa in primissimo piano con un coltello piantato in mezzo al ventre e una serie di dita inserite per togliere i proiettili. Martoriato dalla censura e incompreso dal pubblico avvezzo ad altre tipologie di western, Se sei Vivo Spara finisce con l'ottenere un insoddisfacente risposta ai botteghini italiani. Andrà invece forte in Germania e in Giappone. Ritirato dal circuito cinematografico, sarà riproposto nel 1975, per sfruttare il successo stratosferico ottenuto nel frattempo da Tomas Milian, col titolo Oro Hondo e con la reintroduzione delle due scene sopramenzionate. Inutile sottolineare come tutto abbia danneggiato l'opera, apparsa in molteplici e parziali versioni fino alla distribuzione uncut in Dvd. In ogni caso, qualsiasi versione si guardi, siamo alle prese con un soggetto pazzesco, sviluppato con grande talento e dovizia di particolari dal regista e dal collaboratore Arcalli. I due caratterizzano con attenzione tutto, dalla psicologia dei personaggi alle reazioni collettive di un popolo razzista, che pratica la giustizia sommaria credendosi nel giusto e che poi si disinteressa degli affetti, perché legato ai valori materiali. “Questo è un paese di gente onesta, non c'è posto per ladri e assassini. Per voi non ci può essere misericordia, è la mano del signore che colpisce” vanno blaterando per giustificare i crimini che compiono travestendoli da atti di giustizia. Antonio Bruschini vede in questo una sorta di metafora della società americana capitalista, in cui tutti quelli che vengono considerati diversi finiscono macellati. Le caratterizzazioni non si limitano a questo, si estendono alle scenografie e all'introduzione di inquadrature metaforiche dal sapore artistico/pittorico. Ne è una prova il crudo montaggio, dal sapore bellico, in cui si mostrano, dopo l'esplosione di una bomba, cavalli sventrati e uomini ammassati a terra. La qualità del lavoro è talmente evidente che, nonostante i tanti personaggi contrapposti all'eroe di turno, non si crea confusione. Lo spettatore è coinvolto nel seguire l'evolversi dei fatti senza annoiarsi. Piuttosto innovativa è la volontà di fare scontrare tra loro tutti i personaggi come un branco di cani arrabbiati che si sbranano a vicenda, per contendersi l'oro, alla maniera dei dannati dell'inferno. Ed è proprio all'inferno che è stato strappato il mezzosangue interpretato da Tomas Milian, il bandito che diviene protagonista. Il bellissimo prologo anticipa nientemeno che George A. Romero e i suoi zombi; vediamo una mano emergere dalla terra stile morto vivente. Quest'ultima 464 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

considerazione viene suggerita dalla presenza di tre indiani che, con le loro cure e preghiere, rapiscono dal regno dei morti il mezzosangue, facendolo risorgere dopo esser stato fucilato dagli uomini di Oaks (Piero Lulli). La regia di Questi è crudissima, non risparmia niente e mostra tutto in primo piano. Così lo vediamo sottolineare gli atti barbarici, esaltare le impiccagioni - con vittime riprese in primissimo piano con la lingua penzoloni – o mostrare cavalli sventrati e torture mai viste in simil modo. Addirittura Tomas Milian viene legato e costretto a subire gli attacchi di un pipistrello che, grazie a un abile montaggio, gli ronza sopra la testa. Di grosso spessore è l'epilogo. Notiamo Milo Quesada che, ripreso in primo piano, muore divorato da una colata di oro fuso (quello che aveva rubato) che gli corrode la faccia. Se il cast tecnico è meritevole di applausi, le interpretazioni degli attori non sono da meno nonostante un Tomas Milian non ancora sopra le righe, ma comunque buono. A distinguersi positivamente sono Piero Lulli, nei soliti panni del cattivo di turno anche se ridotto a un ruolo poco più da cammeo, e la splendida Marilù Tolo. Quest'ultima, forse, regala la performance più ambigua e al contempo più affascinante del film, dando corpo a un personaggio vanitoso, privo di scrupoli (convince l'amante a rischiare di sacrificare il figlio pur di non mollare l'oro) e con un sadismo latente che emerge in modo spiccato quando si eccita nello spiare il proprio uomo (cui da corpo un po' freddamente Paco Sanz) mentre litiga col socio. Attrice di indubbio talento, ex modella per Valentino, coinvolta nel mondo del cinema dall'età di sedici anni (debutta nel 1960, con Fulci, nel musicarello Urlatori alla Sbarra) e nella televisione dove aveva ricoperto il ruolo di valletta di importanti quiz (Il Musichiere), giunge al film con quasi dieci anni di esperienza cinematografica. Dopo il debutto con Fulci, aveva avuto un inizio promettente (diretta da De Sica, Bolognini, Lizzani, Godard e Fellini) poi sfumato con l'approccio al cinema peplum. Riuscirà comunque a entrare nei cuori degli amanti del cinema bis e dei fotoromanzi. Sarà addirittura chiamata nella serie americana Charlie's Angels (1979), anche se la si ricorderà soprattutto nel thriller di Valerii Mio Caro Assassino (1972), in Barbablù (1972) dell'americano Dmytryk, nell'episodio Testimone Oculare della serie La Porta sul Buio (1973) di Dario Argento, all'epoca suo fidanzato, e nel sottovalutatissimo Le Cinque Giornate sempre di Argento (1974). 465 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Parteciperà solo ad altri due western, Roy Colt & Winchester Jack (1970) di Mario Bava e Viva la Muerte... Tua! (1971) di Tessari, senza raggiungere lo status di “attrice culto” nonostante doti, recitative e fisiche, per niente inferiori a quelle di altre colleghe. Penalizzata da un carattere turbolento, storiche le liti con Argento, chiuderà la carriera a metà anni '80, poco dopo aver posato nuda per Playboy. Un ruolo importante viene assegnato allo spagnolo Roberto Camardiel, incontrato più volte nel corso dell'opera. L'attore sfrutta la sua impronta comica per caratterizzare in modo simpatico uno dei vari boss che si alternano nel film. Il suo personaggio fa il simpaticone, ma in realtà è un inusuale sadico. Arriva a sparare al proprio pappagallo dopo avergli fatto bere del liquore da un bicchiere!? È persino più incisivo Milo Quesada, attore argentino di cui si ricorda la partecipazione nello splendido sci-fi diretto da Petri e tratto da un racconto di Robert Scheckley: La Decima Vittima (1965). A Quesada viene riservato il personaggio più bigotto della sceneggiatura. Piccoli ruoli, ma importanti ai fini dell'evolversi della sceneggiatura, sono riservati al giovanissimo Ray Lovelock e a Patrizia Valturri. Lovelock interpreta un giovane frustrato che vede di cattivo occhio l'amore che il padre prova per una donna sadica e priva di scrupoli. La sua performance rispecchia i ruoli tipici che Lovelock andrà a interpretare in moltissimi altri film. È il solito faccia d'angelo, dai tratti fanciulleschi e dai modi ingenui. Se sei Vivo Spara segna il suo debutto, nonostante la giovanissima età (appena diciassettenne). Così l'attore romano, di padre inglese, darà il via a una carriera che lo vedrà come uno dei volti più ricorrenti del poliziottesco, seppur con ruoli non sempre di primissimo piano. Lo si ricorda in capolavori del calibro di Banditi a Milano (1968) di Lizzani e in Milano Odia: la Polizia non può Sparare (1974) di Umberto Lenzi, fino a guadagnarsi ruoli da coprotagonista nel thriller di Umberto Lenzi Un Posto Ideale per Uccidere (1971) al fianco di Ornella Muti, nell'horror spagnolo Non si Deve Profanare il Sonno dei Morti e nel violentissimo poliziottesco Uomini si Nasce, Poliziotti si Muore (1976) di Ruggero Deodato. Dopo gli anni '70, complice la crisi del cinema italiano, vedrà ridimensionarsi il suo ruolo in produzioni di bassa lega fino a esser assorbito dalle fiction tv. Patrizia Valturri, invece, appare nel film come una sorta di spettro uscito da un romanzo gotico ottocentesco. Ha il volto truccato in 466 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

modo cinereo, la si vede far capolino dalle tende di una stanza. Il suo è un ruolo difficile, che richiede contemporaneamente sensualità (non trasmessa bene dalla attrice), follia depressiva (questa resa bene) e un fascino (carente nella Valturri) talmente forte da giustificare la conquista del cuore del protagonista. Attrice non di particolare culto, la Valturri aveva alle spalle solo un ruolo poco più da comparsa nella commedia Signori e Signore (1965) di Pietro Germi. In seguito comparirà in una manciata di film quasi sempre di scarso livello, tra cui il più riuscito è probabilmente il thriller Nude... si Muore (1968) di Antonio Margheriti. Un plauso finale va fatto per la splendida fotografia di Franco Delli Colli, capace di sopperire con estro alle carenze di budget, e per la soundtrack di Ivan Vandor, jazzista ed etnomusicologo di origine ungherese con svariati riconoscimenti internazionali, ma raramente impegnato nel ruolo di compositore cinematografico (una decina i suoi contributi) e quasi sempre al servizio di autori quali Antonioni, Zurlini e Visconti. Dunque un grande film che merita di esser visto per la sua unicità e per la sua vena artistica. In una parola: memorabile. Non si contano le sviolinate di esperti, appassionati e addetti ai lavori. Il critico Tullio Kezich lo accoglie in modo sarcastico, intravedendovi tributi a Edgar Allan Poe e a Roger Corman piuttosto che al western hollywoodiano e reputandolo per questo poco serio. Tomas Milian, al contrario, lo ha definito un film d'autore, ricordando Questi come un intellettuale rivoluzionario. Marco Giusti parla di uno dei capolavori del genere, sulla stessa linea Alex Cox (lo inserisce nella sua top ten). Antonio Bruschini addirittura arriva a definirlo il western più cult e violento dell'epoca, con elementi che lo apparentano più all'horror che al western. Diciannovesimo nella classifica di spaghetti-western.net, diciassettesimo per Howard Hughes. Più indietro per gli altri ma comunque menzionato un po' da tutti. Tre stelle pure per il Morandini che ne sottolinea la componente violenta, vedendovi però risvolti barocchi e ambizioni di critica sociale. Per gli amanti delle citazioni: 1) “La gramigna va estirpata a qualsiasi prezzo”. 2) “Spari bene, forestiero, ma sei un grande macellaio”. 467 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Terminato gennaio, con già una decina di nuovi western di terza/quarta fascia in circolazione, a febbraio iniziano a farsi largo gli spaghetti western più attesi. Ancora una volta è Sergio Corbucci a essere in prima linea, sebbene abbia da appena terminato Navajo Joe (1966). Il suo è un vero e proprio inesauribile tour de force che ha ne I Crudeli (1967) il quarto western uscito nel giro di dieci mesi, dopo Django (1966), Johnny Oro (1966) e il già citato Navajo Joe. Un poker peraltro preceduto dai più convenzionali Massacro al Grande Canyon (1964) e Minnesota Clay (1965) per un lotto complessivo di film che rendono Corbucci il regista italiano più prolifico nel genere (per l'epoca). Proprio a questi due ultimi film si avvicina la nuova fatica del regista, che torna a lavorare con due sue vecchie conoscenze: Albert Band, al secolo Alfredo Antonini, che aveva sostituito dietro alla macchina da presa in Massacro al Grande Canyon, e lo spagnolo José Gutiérrez Maesso, coproduttore di Django. Sono questi i due imprenditori che stanno dietro a I Crudeli, un progetto che porta l'indelebile stigmate di Albert Band e che si sarebbe dovuto intitolare La Stella Nera. Il produttore italo-americano propone di attingere una sceneggiatura dal romanzo Guns of North Texas di Will Cook, che già stava alla base de Gli Uomini dal Passo Pesante (1965) diretto dallo stesso Antonini. Will Cook era un romanziere americano, specializzato nel western e scomparso ancora giovane nel 1964, famoso soprattutto per il film Cavalcarono Insieme (1961) di John Ford, tratto proprio da una sua opera, e per alcuni episodi di serie televisive andate in onda alla fine degli anni '50. A sviluppare il soggetto viene confermato Ugo Liberatore, che già aveva collaborato con Antonini ne Gli Uomini dal Passo Pesante. Liberatore vanta una certa esperienza nel cinema d'avventura che lo aveva visto esordire con capolavori quale l'horror gotico Il Mulino delle Donne di Pietra (1960) di Ferroni. Aveva quindi proseguito dedicandosi al peplum, non solo agli ordini di registi nostrani ma anche stranieri come Rudolph Maté per L'Eroe di Sparta (1962), e in minor parte alla commedia nonché ai film più impegnati agli ordini di Damiano Damiani con L'Isola di Arturo (1962) e La Rimpatriata (1962). In seguito, pur continuando a scrivere copioni (a fine carriera saranno poco meno di cinquanta), si darà alla regia ottenendo un iniziale successo. Sarà tra i primi a portare in scena nudi e scene piccanti, con i trasgressivi Il Sesso degli Angeli (1967) e Bora Bora (1968); pellicole 468 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

che mischieranno l'esotismo all'erotismo, andando incontro a non pochi problemi di censura e che ne segneranno la carriera registica imbrigliandolo in opere ripetitive di successo decrescente. Scriverà solo un altro western, Un Minuto per Pregare, Un Istante per Morire (1968) sempre per la produzione di Albert Band, prediligendo tutt'altro e collaborando con Pasquale Festa Campanile e Mauro Bolognini. A fine anni '70 girerà, sulla scia de Il Presagio (1976) di Richard Donner, l'horror demoniaco Nero Veneziano (1978) che vanta tutt'oggi qualche cultore, pur penalizzato da un ritmo blando. Avvalendosi di Liberatore, Antonini confeziona dunque una sorta di remake del suo precedente film, castrando l'inventiva, quanto meno sotto il profilo contenutistico, di Corbucci. Quest'ultimo, dopo le parentesi costituite da Django e Navajo Joe, si ritrova a dirigere un western dalla forte impronta hollywoodiana. La sceneggiatura punta sulla caratterizzazione dei personaggi, piuttosto che sull'azione e sull'intreccio narrativo. Tutto ruota attorno ai rapporti di una famiglia errante costituita da un padre despota e fanatico sudista, ancora una volta interpretato dal duro Joseph Cotten (come nel film diretto da Antonini). L'uomo vaga a bordo di una carovana, accompagnato dai suoi tre figli cui danno corpo Juliàn Mateos, Gino Pernice e Angel Aranda. La famiglia è solita depredare e uccidere plotoncini nordisti, a guerra ormai finita. Il movente del padre è quello di rubare i carichi d'oro per ricostituire l'esercito sudista, in realtà però i figli penseranno ad altro. L'oro depredato viene conservato all'interno di una bara dove dicono di trasportare il cadavere di un soldato caduto in battaglia che dovranno sotterrare con tutti gli onori del caso. Per dare credito a tale ricostruzione, il quartetto porta con sé una donna la quale alle domande dei controllore afferma di essere la moglie del defunto e di aver chiesto il trasporto per riportarlo a casa. La poveretta è costretta a cooperare con il gruppo e a subire ogni sorta di angheria, perché la famiglia, a parte un elemento, è composta da misogini. Si assiste così alle continue scorribande del gruppo (il film è quasi tutto in esterna) con relativi assalti che gli stessi devono subire, per motivi diversi, a opera di banditi messicani, ranger, indiani, nordisti e pazzi scriteriati che incontrano sul loro cammino. Dunque un soggetto che rievoca le odissee de I Sette del Texas (1964) di Joaquìn R. Marchent e che anticipa I Quattro dell'Apocalisse (1975) di Fulci. Il soggetto prevede la presenza di molte comparse, si assiste quin469 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

di a diversi cammei, inoltre non prevede un vero e proprio antagonista. Tra gli attori coinvolti, oltre al solito Aldo Sambrell (fa un messicano), si distingue Al Mulock. Attore canadese, attivissimo nei serial televisivi inglesi, già visto ne Il Buono, il Brutto, il Cattivo dove interpretava lo storpio ferito a inizio film da Tuco, Mulock avrà un destino funesto suicidandosi in Spagna, nel corso delle riprese di C'era una Volta il West, lanciandosi da una finestra dell'albergo in cui era alloggiato. Nel film di Corbucci, il canadese personifica un ubriacone trasandatissimo, che tenta di rapinare i protagonisti, dopo aver pranzato con loro e aver avvelenato i loro cavalli (li vediamo esamini stesi al suolo). L'aspetto interessante dello script è costituito dal fatto che i protagonisti riescono a superare ogni insidia e attacco, finendo per perire solo a seguito dei dissidi interni che minano la loro unità. A scatenare i malumori è la presenza destabilizzante di una donna, ingaggiata a tradimento per ricoprire il ruolo della vedova inconsolabile. Così troveremo il figlio buono, un modesto Juliàn Mateos: ventinovenne spagnolo impegnato soprattutto in patria, dove aveva vinto dei premi come miglior interprete in Young Sànchez (1964) di Mario Camus, e con alle spalle un'esperienza importante ne Il Ritorno dei Magnifici Sette (1966), avrà un piccolo ruolo anche nel western angolo-tedesco Shalako (1968) agli ordini di Dmytryk, prima di passare alla televisione spagnola e al ruolo di produttore; contrapposto a questo personaggio c'è il figlio cattivo e stupratore cui da corpo un grandissimo Gino Pernice (reso "celebre" dal taglio dell'orecchio in Django), qua con i capelli rossi e un look che – visto a posteriori – lo rende assai simile a Robert Englund (cioè il protagonista della saga horror Nightmare). Il motivo della contesa è la giovane che Mateos ha recuperato in un saloon, folgorato dalla bravura della stessa nel giocare a poker, e di cui si è innamorato. È la formosa brasiliana Norma Bengell a ricoprire questa parte. La prova della trentaduenne è tra le più convincenti del lotto, grazie anche a un'esperienza per nulla marginale essendosi già distinta al fianco di Alberto Sordi ne Il Mafioso (1962) di Alberto Lattuada e nello sci-fi culto Terrore nello Spazio (1965) di Bava nonché nei panni di una prostituta in La Parola Data (1962) del brasiliano Anselmo Duarte, prestazione che l'aveva lanciata nel firmamento del cinema internazionale grazie alla nomination all'oscar ottenuta dal film e alla Palma d'Oro conquistata al Festival di Cannes. In Brasile la Bangell era già una vera e propria star, anche per esser 470 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

stata la prima attrice a esser stata ripresa tutta nuda in un film, si trattava di Os Cafajestes (1962). Apparirà anche, seducente come non mai, nel western Io Non Perdono... Uccido (1968) di Marchent, in una delle sue rare sortite europee, prima di tornarsene in Brasile dove si aggiudicherà un poker di premi quale migliore attrice e anche una nomination al Golden Kikito al Gramado Film Festival con Eternamente Pagu (1987) che la vedrà debuttare alla regia (seguiranno altre due regie). Ne I Crudeli la Bangell appare piuttosto casta, eccettuato in una sequenza in cui Pernice, sorprendendola mentre sta facendo un bagno in un bozzo, cercherà di stuprarla. Assai attraente e con un bellissimo taglio di occhi, la Bangell dimostra grinta e una vitalità da far rimpiangere il fatto di non averla vista impiegata con maggiore assiduità nel genere. La mano di Corbucci, piuttosto contenuta dall'imprinting voluto da Antonini, si vede nel tasso di violenza, Il romano la rende manifesta, non facendo nulla per nasconderla. Vediamo volti grondanti sangue, scie rosse che si formano all'interno di pozze d'acqua, cadaveri che spuntano fuori dalle bare e un tocco gotico esplicitato da certe inquadrature (penso al trafugamento notturno di una bara in un cimitero fotografato da Barboni con gusto horror). Bellissima poi la scena di azione iniziale con un manipolo di nordisti che cadono vittima dell'agguato ordito dai protagonisti, mentre stanno guadando un corso d'acqua, con le immancabili cadute spettacolari dei cavalli in mezzo al torrente. Eccezionale l'epilogo il quale, seppur introdotto frettolosamente, risulta sottolineato da una macabra vena poetica che raramente si riscontra in un western. Corbucci regala inoltre un nuovo triello che porterà all'eliminazione contemporanea dei tre fratelli, soluzione ripresa da Quentin Tarantino ne Le Iene. Confermatissimi Enzo Barboni (strepitoso nella sequenza del trafugamento della bara) alla fotografia e Ruggero Deodato quale aiuto regista. Le musiche, non eccelse (ma sono uno dei pochi a pensarla così), portano la firma di due mostri sacri: Ennio Morricone e il trombettista Nunzio Rotondo, considerato da molti tra i migliori jazzisti dell'epoca e qui in una delle sue rare collaborazioni cinematografiche. Rotondo musicherà anche la serie televisiva Nero Wolfe (1969). La pellicola è apprezzatissima oltreoceano col titolo The Hellbenders, da noi l'hanno vista in pochi anche perché si stenta a rinvenirne 471 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

l'edizione italiana. Filmtv.it non l'annovera nel suo corposo database, ed è uno dei rari casi per una pellicola western. Il Morandini, ovviamente, non può che fare lo stesso e addirittura spaghettiwestern.altervista.org si sottrae da commentarla. Eppure, all'estero, sono in molti a considerarla tra western più riusciti, non il sottoscritto che la reputa inferiore a Django e a Navajo Joe, oltre che ai successivi western di Corbucci. Quentin Tarantino la inserisce attorno alla ventunesima posizione della sua classifica di gradimento. Sono più o meno della stessa opinione Tom Betts e il regista Alex Cox. Anche Marco Giusti la reputa un grande western, particolarmente moderno come costruzione drammatica. Mondo-esoterica.net ne raccomanda la visione, pur ammettendo che si stenti a entrare nel film a causa di una prima parte un po' ripetitiva. Pollice alzato per 800spaghettiwesterns.blogspot.it che storce il naso solo in relazione alla colonna sonora, giudicando il resto di alto livello (quarantesimo posto nella sua classifica di gradimento). Per sonofdjango.blogspot.it è un buon film che vive di alti e bassi e che si assesta a metà classifica tra i western diretti da Sergio Corbucci. Il blogger inglese fa giustamente notare come si tratti di un western atipico nell'evoluzione del regista, con esso si nota una riduzione della violenza e dell'azione sacrificate allo scopo di evidenziare la disgregazione dell'unità familiare, con un trio di figli che rappresentano distinti vizi capitali (l'avidità, la lussuria e la gelosia) e un padre accecato da un ideale che solo lui vede e incapace di porre un freno alla disfatta finale. L'unico a non essere entusiasta è spaghetti-western.net il quale, piuttosto comprensibilmente, spiega i difetti: sceneggiatura basata su episodi, con recitazioni piatte e sviluppi narrativi prevedibili, per una storia non adatta alle corde di Sergio Corbucci. Visione consigliabile specie a chi apprezza gli spaghetti-western con contaminazioni hollywoodiane. Per Imdb.com, che lo preferisce a Navajo Joe, vale un 6,7 in pagella. In contemporanea al film di Corbucci, esce la pellicola di un altro infaticabile: Alfonso Balcàzar, al quinto western in meno di due anni e con un budget più corposo del suo solito per la contemporanea presenza di coproduttori italiani e tedeschi. Lo spagnolo, all'apparenza, confeziona un omaggio a Leone. Il tito472 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

lo del film, Clint, il Solitario, nonché la presenza di Marianne Koch (attrice che interpretava la donna liberata da Clint Eastwood in Per un Pugno di Dollari) suggeriscono proprio questo. Balcàzar però non è Leone, così come George Martin (al secolo Francisco Celeiro Martinez) non è Clint Eastwood, inoltre la sceneggiatura di José Antonio de la Loma guarda troppo ai western americani degli anni '50, in particolare a Il Cavaliere della Valle Solitaria di Stevens. La stessa regia ha un'impostazione americana, Balcàzar muove poco la macchina da presa (non inventa nulla, né cerca virtuosismi) tanto che le inquadrature fisse, in piano americano, vanno per la maggiore. Il ritmo è lento, l'azione concentrata negli ultimi venti minuti dove si assiste alla reazione del protagonista. Quest'ultimo è un pistolero che ha deciso di ritirarsi dall'attività, per tornare a vivere in campagna (bellissime le location montane, tra abeti, laghi e vette innevate) con la moglie (che inizialmente lo respinge) e il figlioletto che ne ignora la vera identità. Balcàzar si concentra sui rapporti familiari; mostra l'interesse del bimbo per lo straniero, poiché lo vede abile nell'estrarre la pistola, per poi restarne deluso quando lo vedrà sottostare alle angherie dei bulli. L'uomo non è un codardo (come pensano i vicini), sta solo mantenendo la parola data alla moglie. Così lo vediamo consegnare l'arma alla donna, la quale odia la violenza e gli impone, come condizione di permanenza, il lavoro nei campi. Clint ce la metterà tutta, ma si troverà contro i bulli locali i quali, capitanati dal signor Shannon (il voluminoso Walter Barnes, già visto ne La Resa dei Conti), cercheranno di cacciare gli agricoltori per accaparrarsi i ranch. Così li vedremo sparare a contadini disarmati, distruggere raccolti, e far accusare di furto allevatori ignari della presenza di cavalli altrui nei propri recinti. Tutto questo finché Clint non tornerà a imbracciare fucile e pistola, tradendo il patto con la moglie. Il finale, assai frettoloso (conforme sonofdjango,blogspot.it, il quale fa notare come Sancho muoia quasi inosservato) e senza la minima traccia di pathos, vedrà il protagonista sterminare tutta la banda, quindi allontanarsi perché incapace di mantenere quella calma che gli aveva chiesto la moglie. Ecco però che il bimbo, informato della vera identità dell'uomo, gli correrà incontro e lo chiamerà “papà”, dicendogli che la mamma lo vuole a casa. Dunque un happy end in palese stile hollywoodiano, con sottolineatura di tutti i valori tipici di questo cinema: l'importanza della famiglia, il valore del lavoro e la violenza cui ricorrere solo dopo che sono falliti i tentativi di dialogo. Aspetti questi che portarono alcuni critici dell'e473 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

poca a difendere la pellicola, reputandola superiore alla media. George Martin, come al solito, è bravo nelle scene acrobatiche (c'è anche una lunga scazzottata in un saloon, con i volti tumefatti), ma pecca di espressività. Soffre addirittura al fianco della Koch, che lo surclassa in carisma e grinta. Tra gli antagonisti, oltre allo statico Barnes (bravo per le espressioni ma dinamicamente mal diretto), non manca Fernando Sancho, nel ruolo del litigioso luogotenente del boss. Bella la colonna sonora melò di Nora Orlandi, opinione non condivisa da 800spaghettiwesterns.blogspot.it che gli affibbia un bel quattro in pagella. Marco Giusti parla di “più grande successo di Balcàzar”, non a caso la pellicola avrà un sequel. A mio avviso, al di là della confezione (pecca solo nella fotografia notturna, troppo scura), c'è poco di memorabile e si avverte l'assenza di spettacolarità (non cadono neppure i cavalli). La forte componente ispanica (l'apporto italiano si riduce alla presenza di qualche caratterista) contribuisce inoltre a rendere da noi semisconosciuta la pellicola, che non viene analizzata neppure da spaghettiwestern.altervista.org e riceve appena una stella su mymovies.it. La situazione cambia all'estero dove il film gode di una certa fama. 800spaghettiwesterns.blogspot.it lo definisce elegante, altri blogger lo reputano sufficiente pur se lontano dagli stilemi dello spaghettiwestern. Prima della fine di febbraio, con Joe L'Implacabile (1967) alias Dinamite Joe, debutta nel genere il maestro assoluto della fantascienza spaziale italiana nonché un grande dell'horror gotico: Antonio Margheriti, meglio conosciuto con lo pseudonimo Anthony M. Dawson. La produzione vede schierato un corposo gruppo italo-spagnola che ha in Anacleto Fontini l'elemento di maggior esperienza, forte delle sei pellicole già prodotte (non ne farà molte altre), quasi tutte peplum, di cui si ricorda il solo Il Gladiatore Invincibile (1961) di De Martino. Il budget, manco a dirlo, è irrisorio, ma la presenza di Margheriti, all'epoca già affermato nonostante gli appena trentasette anni, è una garanzia. Maturato alla corte di Turi Vasile nel triennio 1957-59, per il quale aveva sceneggiato quattro film, si era lanciato alla regia ad appena trent'anni dedicandosi alla fantascienza con lo scialbo Space 474 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Men (1960). Grazie alle eccezionali capacità artigianali nel realizzare gli effetti speciali, secondo in questo al solo Mario Bava (non a caso nel 1968 Stanley Kubrick cercherà di ingaggiarlo come consulente per 2001 Odissea nello Spazio, mentre riuscirà ad averlo nella medesima veste Sergio Leone in Giù la Testa), riuscirà a emergere in modo netto nel panorama del cinema bis italiano. Peraltro si era già distinto con un lotto di film di ottimo successo (horror, sci-fi e peplum), addirittura diciassette di questi girati in soli sei anni. Una velocità di realizzazione e una quantità che gli varranno, in seguito, il soprannome di Roger Corman Italiano. Tra i film più riusciti del periodo come non citare gli sci-fi Il Pianeta degli Uomini Spenti (1961) e I Diafanoidi Vengono da Marte (1966) o il suo primo horror gotico Danza Macabra (1963), subito seguito da La Vergine di Norimberga (1964) e da I Lunghi Capelli della Morte (1964). Negli anni successivi continuerà ad alternarsi di genere in genere, restando legato al cinema bis e all'horror più in particolare. Girerà altri cinque western, dapprima di marca gotica poi comico/grotteschi, e avrà modo di brillare con dei thriller contaminati quali Contronatura (1969) e La Morte negli Occhi del Gatto (1973). Suoi anche il mitico splatter Apocalypse Domani (1980), misto di war movie e cannibal movie, e una serie di film di imitazione tra cui Killer Fish (1979), L'Ultimo Cacciatore (1980) e altri, come I Cacciatori del Cobra d'Oro (1982), sulla scia di Indiana Jones. Chiuderà la carriera a metà anni '90, dopo quasi sessanta pellicole dirette. Dunque un regista esperto cui viene affidata la scatenata e scanzonata sceneggiatura di Marìa Del Carmen Martìnez Romàn. Quest'ultima, già reduce da All'Ombra di una Colt (1965), avrà poi modo di mettere la firma sui copioni di alcuni tra i più bizzarri western quali Se sei Vivo Spara (1967) o Dove si Spara di Più (1967) nonché su quindici pellicole di basso profilo per un totale di venti lavori (otto western). Protagonista abbiamo un damerino, cui da corpo il dinoccolato californiano Rik Van Nutter - già visto nei panni di Buffalo Bill in Sette Ore di Fuoco (1965). Il suo personaggio, anziché sparare, predilige l'impiego degli esplosivi tanto da esser soprannominato Dinamite Joe. Si tratta di un antesignano del futuro Sartana, che ricorre a continue diavolerie con cui riesce a tirarsi fuori dai guai. Le sue doti eclettiche lo portano a essere ingaggiato da una commissione di senatori. Gli viene chiesto di vigilare su un carico d'oro governativo, destinato a esser trasportato da una miniera alla banca federale. L'avvertimen475 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

to è quello di stare attento al gruppo di banditi che è solito assalire le diligenze per depredarne la mercanzia. Ciò che il nostro non sa è che qualcuno dei suoi mandanti fa il doppio gioco con i delinquenti. Se il soggetto non può annoverarsi tra i più originali (ricorda un po' Per il Gusto di Uccidere di Tonino Valerii), lo stesso non può dirsi per lo sviluppo. Margheriti e Romàn danno vita a un western grottesco, con momenti trash che lo trasformano in farsa. La rassegna delle bizzarrie è chilometrica: abbiamo soldati ingessati a mo' di saluto romano; guardie giurate, baffute e barbute, vestite da donna che tentano di ingannare potenziali banditi; ballerine impiegate come fucilieri a difesa di fortini yankee; un boss messicano che va in giro facendo trasportare da due suoi luogotenenti una poltrona, sormontata da un sole, tenuta in sospeso tra due cavalli lanciati al galoppo. La piega scelta è fin da subito palese. Dinamite Joe entra in scena in una festa chiccosissima (con tanto di invitati che indossano parrucconi bianchi di britannica memoria ottocentesca) organizzata dai senatori, facendo saltare una parete con una carica esplosiva. Eloquente, al riguardo, la reazione di un politico: “Di solito, la reale capacità delle persone è decisamente inferiore alla messa in scena.” In perfetta linea all'atteggiamento appena indicato è la caratterizzazione del protagonista, un elegantissimo Don Giovanni (cambia di continuo vestito, ma sceglie sempre abiti distinti) che fa il verso al quasi omonimo protagonista di Dinamite Jim (1966). Come nel film di Balcàzar, lo vediamo passare di donna in donna senza legarsi a nessuna di esse, oltre che andarsene in giro con una serie di oggetti comuni modificati in armi esplosive (esempio orologi da taschino che scoppiano). Tra una farsa e l'altra, Margheriti regala ottime scene di azione (c'è un bellissimo inseguimento nel deserto, con cadute di cavalli e camera car). Degna di nota è la lunga sequenza ambientata in una miniera. La vediamo saltare in aria per mano dei banditi, che intrappolano il protagonista sotto le macerie. Quest'ultimo vagherà al buio in cerca dell'uscita, facendosi luce con una torcia infuocata. Si tratta di un scena che ispirerà, forse, Rambo di Stallone. Non manca un'autocitazione legata al cinema peplum, con una mega esplosione che determina lo straripamento di una miniera e il consequenziale inondamento di una cittadina con effetti stile tsunami. Il regista ovviamente, da abile mago degli effetti speciali, riproduce il tutto utilizzando opportuni modellini. 476 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Oltre alle bizzarrie di cui sopra, impreziosiscono il tutto alcuni personaggi di contorno fuori da ogni schema. Tra essi spiccano il vecchietto soprannominato Spugna (perché beve whisky a go go), scelto da Dinamite Jim per guidare la sua diligenza, e il bandito messicano El Sol (lo spagnolo Ricardo Palacios) il quale, avvicinato da un senatore corrotto, rivede ogni volta la percentuale relativa al suo ingaggio, per il complicarsi della missione, finendo per reclamare l'intera posta dopo esser partito da un 10% iniziale del bottino eventualmente recuperato. Eccezionale girandola finale di colpi di scena, con un campionario di sorprese interminabile su cui spicca la soluzione della diligenza costruita in oro e poi riverniciata in modo da trasportare il carico senza dare nell'occhio, soluzione che sarà ripresa da altri western a partire da Un Uomo, un Cavallo, una Pistola (1967) di Vanzi. Bravo e simpatico Van Nutter, marito della più famosa Anita Ekberg e qua al suo ultimo spaghetti-western, nelle vesti del damerino burlone che piazza bombe a destra e a manca, anticipando il più famoso Sean di Giù la Testa. Ornamentali gli altri, tra i quali Halina Zalewka. Ottima la confezione, con una discreta regia e un'eccellente fotografia dello spagnolo Manuel Merino. Divertimento assicurato soprattutto, ripeto, per l'incredibile girandola di colpi di scena. Scanzonato. Al di là di quanto detto, il film non gode di grande culto. Svariati appassionati (Tom Betts, Carlos Aguilar) ne sottolineano la componente ludica nonché l'ottima componente tecnica, ma reputano il tutto mediocre a causa di uno script vuoto nei contenuti. Filmtv.it lo stronca con il commento: “film, sospeso tra western e commedia, da dimenticare”. Imdb.com non gli riconosce neppure un cinque. Severissimo anche 800spaghettiwesterns.blogspot.it per il quale non vale più di un tre e mezzo in pagella. Morandini e Farinotti non sprecano inchiostro. Tra i più ottimisti, oltre al sottoscritto e a spaghettiwestern.altervista.org (“buono in virtù di innumerevoli trovate originali”), troviamo Marco Giusti che parla di film abbastanza divertente che precede sia i Sartana scanzonati che i film alla Hill-Spencer. Consigliato solo a chi cerca western comico/demenziali scatenati, si astengano i puristi. L'ultimo western a uscire a febbraio è l'interessante I Lunghi Giorni della Vendetta che segna il ritorno di Giuliano Gemma allo spaghet477 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ti-western, in quello che sarà un anno assai prolifico per l'attore. I LUNGHI GIORNI DELLA VENDETTA Produzione: Italia-Spagna, 1966. Prodotto: Luciano Ercoli, Alberto Pugliese (Produzioni Cinematografiche Mediterranee), Mahnahen Velasco (Pc Mingyar). Regia: Florestano Vancini (Stan Vance). Soggetto e Sceneggiatura: Fernando Di Leo, Augusto Caminito. Interpreti Principali: Giuliano Gemma, Conrado Sanmartin, Francisco Rabal, Gabriella Giorgelli, Nieves Navarro, Manuel Muniz (Pajarito), Franco Cobianchi, Milo Quesada. Fotografia: Francisco Marin. Musiche: Armando Trovajoli. Sottogenere: Revenge Movie. Durata 123 min. Giudizio Mancini: ** Giudizio Morandini: ** La trama Ted Barnett (Gemma) evade da un campo di concentramento nordista in cui stava scontando la condanna per l'omicidio del padre. In realtà, è stato incastrato da uno sceriffo corrotto (Rabal) e da un signorotto (Sanmartin) che vende di contrabbando armi ai messicani e organizza tratte di schiavi neri. Aiutato da un truffatore (Muniz) e da una ragazza (Giorgelli), Barnett cerca di gettare luce sulla morte del padre. Mr. Cobb, il signorotto, intanto sta chiudendo un importante trattativa con il generale Porfirio (Cobiachi D'Este), ma Barnett riuscirà a mettere le due bande l'una contro l'altra, facendo sparire le armi oggetto di contrattazione. Commento Classico revenge movie prodotto dall'affiatatissima coppia Pugliese-Ercoli (i papà del Ringo di Tessari, omaggiato dal sottotitolo Faccia d'Angelo), che affidano la stesura del soggetto all'esperto Fernando Di Leo e al giovanissimo Augusto Caminito, qui alle primissime armi ma capace in seguito di farsi ricordare. Saranno infatti di Caminito gli script di western come Ognuno per Sé (1968), ma soprattutto di cult 478 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

thriller quali La Vittima Designata (1971) o gli ottimi comici di Alberto Sordi e Carlo Verdone In Viaggio con Papà (1982) e Troppo Forte (1986). Con scarsi risultati, tenterà negli anni '80 la via della regia, con l'horror Nosferatu a Venezia (1987), e quella della produzione. I due sceneggiatori, ispirandosi a Per Pochi Dollari Ancora uscito qualche mese prima e interpretato proprio da Giuliano Gemma, tentano di fondere western e narrativa classica. Se nel film di Ferroni il romanzo di riferimento era il Michele Strogoff di Jules Verne, qui viene chiamato in causa Alexandre Dumas e il suo Conte di Montecristo. Comune a entrambi è la lentezza della narrazione e soprattutto una sceneggiatura che coinvolge una moltitudine di personaggi secondari (forse troppi), con situazioni che finiscono per appesantire il film in quanto non direttamente connesse al fulcro centrale della vicenda (penso alle scene con la banda dei messicani o alla cattura dei due negri a inizio film). Protagonista è il solito innocente condannato ai lavori forzati per un omicidio che non ha commesso e che fugge dalla prigione per fare luce sui fatti. Molto particolare la primissima parte ambientata all'interno del campo di concentramento nordista. Qui Gemma, truccato con una lunga parrucca e una foltissima barba che gli conferisce l'aspetto di Gesù, viene sempre inquadrato di spalle. Lo vedremo in primo piano solo dopo quasi mezz'ora, quando entrerà all'interno della casa di uno degli assassini di suo padre, costringendolo a tagliargli capelli e barba. Da qui in poi il film cala di ritmo e facciamo la conoscenza della consueta banda di corrotti (sceriffo compreso) che controlla il paese, nonché dello stereotipato gruppo di messicani poco propensi a rispettare i patti e disposti a trattare solo l'acquisto di armi di contrabbando. I piani di questi ultimi vengono però rotti dal protagonista che, vestendosi in modo elegante e distinto, inizia a fare il doppio gioco. Finirà come al solito pestato a sangue, per poi tornare in azione e far scontrare, una contro l'altra, le due bande. Ad accompagnarlo ci sono una serie infinita di personaggi secondari, oltre al barbiere killer, si ricordano un truffatore che si spaccia dentista (facendo morire i pazienti cavandogli i denti!?), un boia dalla faccia cinerea e dai modi schizzati e una giovane (Gabriella Giorgelli) abile col fucile, che si infila in tutti i guai per attirare l'attenzione del protagonista. All'impianto classico, Di Leo aggiunge dei diversivi che, per la loro artificiosità, potremmo definire da B-movie. Lo spettatore può così 479 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

godersi la presenza di uno sceriffo che uccide gli avversari lanciando la stella che tiene sul petto a mo' di ninja. Non mancano poi elaboratissimi escamotage funzionali a sorprendere gli avversari, si veda lo stratagemma grazie al quale il protagonista, tenuto sotto scacco dallo sceriffo, sorprende quest'ultimo manovrando con un dito, stile marionetta, la lenza che ha legato al grilletto della pistola. Si cita inoltre Pochi Dollari per Django nel proporre incontri di braccio di ferro in cui il soccombente finisce col ferirsi il dorso della mano sulla lama di un coltello piantato sul tavolo di gara. Alla regia facciamo la conoscenza di Florestano Vancini, costretto a fare il film per rimediare al flop al botteghino de Le Stagioni del Nostro Amore (1966), film dallo stesso coprodotto e premiato con l'Orso d'oro al festival di Berlino Classe 1926, Vancini parte per la Spagna senza aver letto il copione e senza aver mai diretto opere di genere. Viene dal giornalismo, dai documentari e dal cinema impegnato intriso di riferimenti politici. Nel palmares ha già un Leone d'Oro di Venezia vinto con La Lunga Notte del '43 (1960). I Lunghi Giorni della Vendetta è un film atipico per la sua produzione, Vancini quasi se ne vergogna e insiste per far togliere il nome dai titoli di testa sostituendolo con lo pseudonimo Stan Vance. Oltre che bizzarro, il film si rivela piuttosto tribolato per le corde di Vancini. Il ferrarese, in piena difficoltà nel girare alcune sequenze, si vedrà costretto a lasciar spazio a Fernando Di Leo dietro alla macchina da presa. Nonostante tutto però la pellicola non ne risente e vanta alcune sequenze degne di nota, studiate apposta per esaltare le doti acrobatiche di Giuliano Gemma. Tra le sequenze più belle citerei la fuga dal campo di concentramento e soprattutto l'intera parte finale, con il protagonista che vede stoppare la propria impiccagione e poi, dopo una sorta di rivolta popolare, uccide il cattivo; Vancini riprende il tutto da pertugi e angolazioni studiate a tavolino (aperture nelle travi di legno, nelle porte e così via). Nonostante il coinvolgimento di un attore di grido come Giuliano Gemma (interpreta il solito buono dalla battuta pronta e dalla agilità di un gatto), nonché di un'ottima accoppiata di sceneggiatori e di un regista considerato di qualità, il film non ottiene un grande incasso e finisce per subire la bocciatura della critica dell'epoca: “noioso” e “banale”. Leone lo bolla persino come “paranoico”. Vancini non farà altri western, tornerà ai suoi film di impronta politica come il premiato (anche con una nomination al Nastro d'Argen480 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

to) Il Delitto Matteotti (1973), per terminare la carriera lavorando per il circuito televisivo firmando serial di successo come La Piovra 2 (1985) e Piazza di Spagna (1991). Nel cast tecnico si annovera la presenza dell'operatore Sergio D'Offizi, mentre nel cast artistico abbiamo volti noti quali la bellissima Nieves Navarro (nel suo consueto ruolo di donna ambigua, combattuta dall'amore che la lega al protagonista e quello che invece prova per lo sceriffo corrotto), il grande Francisco Rabal (miglior attore al Festival di Cannes nel 1984 con il film I Santi Innocenti di Mario Camus e che il sottoscritto ricorda nel suo ultimo film ovvero l'horror di Stuart Gordon Dagon del 2001) e il simpatico Manuel Muniz alias Pajarito (già visto nella serie Ringo e qui alle prese con la tipica figura dell'arzillo vecchietto del paese). Ruoli importanti anche per Conrado Sanmartin (lo si ricorda nel horror del 1961 di Jess Franco Il Diabolico Dottor Satana e in alcuni cult, con ruoli marginali, quali Il Colosso di Rodi e C'era una Volta il West entrambi di Sergio Leone), nelle vesti di un antagonista incapace di resistere all'istrionismo degli altri cattivi ovvero il già citato Francisco Rabal (nei panni dello sceriffo corrotto), il caratterista Franco Cobianchi (il generale messicano che ricalca i personaggi alla Fernando Sancho) e l'argentino Milo Quesada (il barbiere killer). Ruolo della bella di turno affidato alla procace toscana Gabriella Giorgelli (finalista a Miss Italia nel 1961), attrice giovanissima dal seducente taglio di occhi e con alle spalle varie partecipazioni in film di Comencini, Risi, Bertolucci, Monicelli. Dunque un cast ben amalgamato, che non tradisce le attese, ma che viene frenato dalla limitata sceneggiatura. Discorso di chiusura per la colonna sonora di Armando Trovajoli, compositore tanto importante da essere insignito col Premio Donatello alla carriera nel 2007. Ottimo jazzista e direttore d'orchestra, sia a San Remo che per conto della Rai negli anni '50 e '60, il maestro romano realizza una colonna sonora non eccezionale, ma sufficientemente cult grazie alla riscoperta di Quentin Tarantino che ha inserito la main theme nella soundtrack di Kill Bill Vol.1. Tra i sostenitori del film c'è il californiano Tom Betts che lo reputa tra i migliori di Giuliano Gemma. Grandi lodi pure da spaghettiwestern.altervista.org, che lo definisce un grande film pieno di scene violente e spietate, ma che non manca di un pizzico di ironia, e da 800spaghettiwestern.blogspot.it. C'è inoltre chi ne intravede toni dark con momenti da horror gotico. 481 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Non lo esalta Marco Giusti, il quale non nasconde una certa delusione: “un po' comico, un po' serioso, troppo lungo, mai del tutto convincente!” Tra i generici spicca il più che sufficiente degli utenti di imdb.com, mentre lo bocciano filmtv.it (due stelle) e il Morandini (una stella e mezzo) che va sul pesante: “paranoia tristanzuola senza lampi.” Vedibile, ma non un cult. A differenza dell'amico Tom Betts, lo reputo uno dei western peggiori tra quelli recitati da Gemma. Il mese di marzo si apre subito con un capolavoro western misconosciuto, che fa coppia con Se sei Vivo Spara (da cui mutua i coproduttori spagnoli della Hispamer Film e l'apporto di Maria Del Carmen Martinez Roman alla sceneggiatura), portato in scena da un regista di stampo autoriale prestato al cinema di genere per l'occasione. DOVE SI SPARA DI PIÙ Produzione: Italia-Spagna, 1967. Prodotto: Francesco Merli (Framer Film), Hispamer Film. Regia: Gianni Puccini. Soggetto e Sceneggiatura: Bruno Baratti, Maria Del Carmen Martinez Roman, Enrico Ribulsi. Interpreti Principali: Peter Lee Lawrence (Arthur Grant), Cristina Galbo, Andrés Mejuto, Maria Cuadra, Piero Lulli, Pietro Martellanza (Peter Martell), Angel Alvarez, José Rubio. Fotografia: Mario Montuori. Musiche: Gino Peguri. Sottogenere: Melodramma di ispirazione classica. Durata 89 min. Giudizio Mancini: ***1/2 Giudizio Morandini: Non Trovato. La trama Le famiglie dei Mounters e dei Campos si contendono il controllo del territorio, organizzando imboscate e assalti l'una a danno dell'altra. L'arrivo in paese della figlia (Galbo) più giovane del vecchio Campos (Alvarez) rompe quelli che sono gli equilibri tra le due famiglie. Il giovane John Mounters (Lawrence) infatti si innamora di Julietta 482 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Campos e, aiutato da un vecchio delinquente (Mejuto) che ha un uncino al posto di una mano, tenta di placare l'odio che serpeggia in paese. È un tentativo destinato a fallire. Julietta è stata promessa in sposa allo sceriffo (Lulli), un uomo corrotto, legato morbosamente al fratello (Martellanza) della ragazza. Ha inizio, tra tradimenti e pianti, un tragico massacro. Commento Western tra i più tragici mai realizzati, poco conosciuto ma meritevole di essere valorizzato per la poetica che traspare da ogni fotogramma. Tanto per cambiare il film ha una genesi bizzarra, tanto che si pensa presto a un flop commerciale. Dietro le quinte abbiamo un cast tecnico totalmente estraneo al genere, il budget è quello che è, non ci sono maestri e neppure esperti provenienti dal peplum. A ben guardare, si potrebbe affermare che non c'è nessuno che abbia maturato esperienza nel cinema di genere. Alla produzione abbiamo Francesco Merli, un soggettista e sceneggiatore di commedie che decide di sfruttare il western per raggranellare un po' di soldi. Merli però non opta per un regista emergente, né può permettersi uno specialista, così impone la direzione a un regista senza la minima esperienza nel cinema bis e, per di più, con la paura degli spari, dei cavalli e così sensibile al sangue da doversi allontanare dal set ogni qualvolta giunga il momento delle scene cruente. Il cinquantatreenne Gianni Puccini, difatti, proveniva dalla critica cinematografica e da questa, negli anni '40, era passato a ricoprire il ruolo di sceneggiatore (tra gli altri del famoso Ossessione di Visconti) per giungere alla regia di discrete commedie a partire dal 1951. L'approdo al western si rivela traumatico per Puccini, al suo penultimo film. Per destreggiarsi il regista milanese tenta di introdurre un po' di commedia, ma la tragicità del copione, vagamente ispirato a Giulietta e Romeo, non glielo permette. La debacle è nell'aria, eppure nonostante i limiti caratteriali del regista, il film non ne risente, anzi assume un'atmosfera decadente difficilmente riscontrabile nel genere. Puccini fa tesoro dell'esperienza maturata in quasi trent'anni di cinema, aveva collaborato con maestri del calibro di Nanni Loy, Mastrocinque e soprattutto Giuseppe De Santis, e riesce a togliersi una bella soddisfazione. Purtroppo non potrà godersela appieno, perché un improvviso infarto lo porterà via appena un anno dopo dalla conclusio483 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ne dei lavori, cancellando la speranza di rivederlo alle prese col genere. Se alla regia c'è un uomo che non conosce niente di western, come abbiamo anticipato, non cambiano le cose alla sceneggiatura. Bruno Baratti (fido collaboratore di Puccini) rielabora in salsa western Giulietta e Romeo di Shakespeare, sviluppando alcuni spunti pensati da Enrico Ribulsi. Sceneggiatore dell'entourage di Damiano Damiani, Ribulsi porta le idee più rivoluzionarie e coraggiose della pellicola. Tra queste si segnala lo splendido finale e l'idea dei due proiettili che si fondono in una simbiosi dal sapore erotico/omosessuale. Addirittura Ribulsi spinge nel costruire un rapporto tra i personaggi di Martellanza e di Lulli ancor più spinto di quello che viene mostrato nel film. Il leitmotiv dell'opera è da ricercarsi nel tormentone che la bella Maria Cuadra canta nel saloon e che ha nel ritornello “La muerte estas con nosostros” il suo centro. La canzone è presagio di ciò a cui si assisterà: una mattanza, in cui la morte ballerà felice nelle disgrazie altrui fino a materializzarsi in persona con tanto di teschio ghignante (!?). Un film cupissimo, disperato, che fin dalla prima sequenza presenta il suo biglietto da visita, portando in scena un uomo grondante sangue ripreso in primo piano su un cavallo bianco, con la macchina da presa che indugia sulla mano che macchia di rosso il posteriore dell'animale. Puccini, pur provenendo da altri settori, scandisce fin da subito un ritmo veloce e valorizza al massimo l'eccellente sceneggiatura di un Baratti che regge il confronto con gli specialisti del genere, grazie a una serie interminabile di monologhi d'effetto. L'impianto base è quello di “Giulietta e Romeo”, misto con situazioni tipicamente spaghetti. Da Shakespeare viene ripreso l'amore impossibile di due ragazzi che si amano alla follia ma che non possono legittimare il loro amore perché appartenenti a famiglie che si odiano (un po' come quelle viste in Per un Pugno di Dollari). Su tale base, Baratti innesca una serie di situazioni e personaggi caratterizzati con gusto da b-movie. Così, anticipando I Giorni dell'Ira, abbiamo un maestro di armi che, al posto di una mano, sfoggia un uncino che usa per sparare e caricare fucili (la memoria non può non andare ai personaggi cari a Robert Rodriguez). “Santa colt ha sei comandamenti” spiega al giovane protagonista “spara per primo; spara per uccidere; attento ai finti morti; attento alle seconde pistole; non dare mai le spalle a un'altra colt; tieni 484 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

fermi l'occhio e la mano se vuoi vivere a lungo e sano”. Un personaggio dunque sopra le righe come dimostra la prova che fa fare al ragazzo, uncinando i bersagli e invitandolo a colpirli tenendoli a una spanna dalla propria testa. “Santa colt è come una rondine, se la tieni stretta la soffochi, se la tieni lenta ti vola via” continua, mentre l'altro gli spara contro. I personaggi bizzarri non si fermano qui, si assiste a un qualcosa mai visto prima come la relazione morbosa tra lo sceriffo, il grande Piero Lulli, e il fratello di Julietta, il sadico Martellanza. “Avremmo potuto morire tutti e due quella volta. E invece siamo vivi e siamo legati fino alla morte” ripete di continuo Lulli, stringendo tra le dita due pallottole unite in una fusione dal forte simbolismo erotico. Trash (ma di quello per il quale gli affezionati di cinema bis vanno matti) la scena in flashback in cui i due, in simultanea, si sparano contro, senza però colpirsi perché le pallottole si fondono l'una con l'altra in un unico ammasso. Un momento davvero ardito, per l'epoca. L'atmosfera da b-movie viene poi esaltata da sfide a braccio di ferro dove chi perde si vede sbranare la mano da schegge di vetro infilzate sul tavolo di gara, da ottime sparatorie (su tutte l'assalto, in stile campo minato, alla banda Mounters con i Campos che sparano sulle bombe che hanno nascosto nella sabbia) e soprattutto da un finale in si materializza la morte in persona giunta a chiudere i conti (un po' come farà Dario Argento, qualche decennio dopo, nella chiusura di Inferno).”A chi chiama la morte, la morte risponde” precisa una voce narrante “e ha una risposta sola per tutti, il resto è silenzio”. Elemento che lega tutti tutti i protagonisti è la sofferenza a cui vanno incontro. “Solo chi non ha mai avuto una ferita può riderne di chi ne porta i segni” afferma il protagonista, per placare il dolore della fidanzata. Ed è il dolore il tormentone del film. Si va dalla ballerina francese che, nonostante la maturità e i corteggiamenti di decine di uomini, si innamora del ragazzino di turno e ne soffre, perché non è contraccambiata, fino a svelare i segreti del suo pupillo per poi pentirsene e andarlo a salvare a costo della vita. Sorte analoga toccherà ai padri dei due giovani innamorati, che si sentono traditi per la scelta dei figli, o allo sceriffo che vede morire sotto gli occhi il bandito a cui si sentiva legato a vita per volontà divina. Su tutti, poi, Julietta e John che non possono vivere il loro amore alla luce del sole. Il cast artistico è un ottimo connubio di gioventù ed esperienza. Nel ruolo di protagonista troviamo un attore particolarmente in auge 485 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

nel '67 ovvero il ventiduenne, faccia d'angelo, Peter Lee Lawrence, al secolo Karl Hirenbach. Lo sfortunato attore tedesco, da molti ritenuto somigliante al grande James Dean, sia per il volto sia per la prematura scomparsa, si lascia apprezzare per i lineamenti da modello che lo avevano reso famoso nei fotoromanzi Lancio, piuttosto che per il talento interpretativo; nonostante ciò è funzionale alla causa e si ritaglierà un importante spazio nello spaghetti-western. Morirà a soli ventinove anni a causa di un tumore al cervello, ma questo non gli impedirà di legare il suo nome a svariati film, quasi sempre di seconda fascia, a partire dalla comparsata non accreditata in Per Qualche Dollaro in Più - dove aveva ricoperto il ruolo (nel flashback) del cognato di Mortimer – fino al mediocre Il Bacio della Morta (1974) di Carlo Infascelli. Lavorerà in tutto in una trentina di film, quasi tutti spaghetti western, offrendo una delle sue migliori interpretazioni in ...E Divenne il più Spietato Bandito del Sud (1967) di Julio Buchs. Il ruolo della co-protagonista va alla peperina Cristina Galbo. A dispetto dei suoi diciassette anni, la madrilena mostra personalità da vendere in un ruolo tutt'altro che facile. Ruba la scena a Lee Lawrence, non tanto per la bellezza dei suoi occhi, ma per una capacita recitativa nettamente superiore che le permette di rendere frizzantino il personaggio e di dargli un taglio intraprendente raro da appurare in un western.”Siete bella, vestita da sposa” le dice lo sceriffo che si è accordato per sposarla. “Certo, ma molto più da vedova!” le risponde lei in tono sprezzante. Così come in modo sprezzante reagisce all'aggressione di Lawrence, per niente intimorita dalla colt che l'altro le punta contro, sparandogli in faccia con una pistola tascabile. Purtroppo la carriera della Galbo si arresterà con la morte del marito Peter Lee Lawrence, di cui si innamora proprio nella lavorazione di Dove si Spara di Più. Il suo però resta un volto cult grazie alle partecipazioni, con ruoli più o meno di rilievo, in film quali il western Due Volte Giuda (1968), il thriller Cosa Avete Fatto a Solange? per la regia di Massimo Dallamano (1972) e l'horror spagnolo Non si Deve Profanare il Sonno dei Morti (1974). Molto affascinante e sensuale è Maria Cuadra. Donna più matura della Galbo, la Cuadra rende decisamente sexy il personaggio della ballerina francese innamorata, senza corresponsione, del ragazzino abile con la pistola. “Se devi uccidermi è meglio se lo fai in privato, qui c'è troppa gente” dice maliziosamente per sciogliere la durezza del giovane. Nonostante un'indiscutibile bellezza (e nella fattispecie an486 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

che bravura) la Cuadra non farà fortuna nel cinema, quasi sempre rilegata in ruoli da comprimaria, sparirà a inizio anni '70 dal panorama cinematografico internazionale. Davvero un peccato, la ritroveremo nel capolavoro western di Tonino Valerii Il Prezzo del Potere (1969). Bravo (straordinario per spaghettiwestern.altervista.org), ma troppo confinato in un ruolo secondario, Martellanza, di cui avremo modo di parlare più approfonditamente nel corso dell'opera. Garanzia di successo Piero Lulli che torna a ricoprire ruoli da malfattore corrotto; convincente, seppur non eccelso, l'esperto Andres Mejuto al debutto in un film italiano (non ne farà altri). Ottima la calda fotografia di Mario Montuori. Altalenante la colonna sonora di Gino Peguri, un compositore, almeno sulla carta, di terza fascia (di lui si ricorda la soundtrack dell'horror Il Boia Scarlatto del 1966 e la collaborazione col maestro sovietico Tarkovskij nel 1984 in Nostalghia) capace, come dimostrano i vari brani del film, di sfornare soundtrack azzeccatissime (penso a quelle che esaltano la tragicità delle immagini del film), ma anche altre decisamente mediocri (a esempio la musica che accompagna i titoli iniziali). Per 800spaghettiwesterns.blogspot.it il lavoro di Peguri è comunque notevole. Nel complesso un film da recuperare e valorizzare, sia per la capacità di trasmettere il disagio dei protagonisti, sia per la componente innovativa e sperimentale che lo caratterizza. Lo boccia 800spaghettiwesterns.blogspot.it, infastidito da alcuni momenti, a suo dire, di romanticismo pedante. In particolare, il blogger spagnolo soffre la presenza della Galbo (“le parti con i due innamorati in scena rallentano il ritmo”) e in più dimostra di aver visto la versione col finale alternativo (assai brutto) dove i due protagonisti riescono a legittimare il loro amore. Finale, per fortuna, scartato nella versione italiana, a beneficio del surreale ingresso della morte; scena definita dal portoghese por-um-punhado-de-euros.blogspot.pt “un eccellente momento” innestato in un “film semplice e senza trovate geniali”. Entusiasmo a mille per spaghettiwestern.altervista.org che ritiene, contrariamente al collega portoghese, sussistenti trovate geniali fino all'assurdo. Buono il commento di Marco Giusti: “è uno dei western più rari e inventivi del tempo, pieno di battute notevoli e di situazioni originali.” Sette in pagella per gli utenti di imdb.com. Tacciono Filmtv.it e il Morandini. 487 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Per gli amanti delle citazioni: 1) “Ogni volta che spari, ricarica: il proiettile nella cartucciera invecchia e ti fa morire giovane”. 2) “Un proiettile addosso a te è un proiettile di meno in corpo a un altro”. Nella prima settimana di marzo escono altri western. Il migliore è 10.000 Dollari per un Massacro (1967), opera con cui Romolo Guerrieri - al secolo Romolo Girolami - dopo il successo commerciale di Johnny Yuma (1966), si congeda dal genere passando ad altre tipologie di film tra i quali il giallo Il Dolce Corpo di Deborah (1967) e il poliziottesco La Polizia è al Servizio del Cittadino? (1973), senza raggiungere più il livello dei suoi western. La pellicola viene concepita da Mino Loy e Luciano Martino come parallela di un altro progetto; a essa infatti farà seguito, pressoché con lo stesso cast, Per 100.000 Dollari T'Ammazzo di Giovanni Fago. Luciano Martino, già sceneggiatore, tra gli altri, di Buffalo Bill, l'Eroe del West (1964) e Arizona Colt (1966), entra quindi in campo nel ruolo di produttore, qualifica che lo vedrà eccellere nell'ambito della cinematografia di genere. Il suo tuttavia non è un vero e proprio debutto. A partire dal 1963, dopo esser maturato in veste di sceneggiatore, era apparso quale produttore, peraltro di uno dei migliori e autoriali horror italiani degli anni '60: Il Demonio del pasoliniano Brunello Rondi. Successivamente si era interessato alla spy story, per passare, al suo sesto film, al western e da qui ad abbracciare un po' tutti gli altri generi. A sostenerlo nello sforzo economico c'è il fido Mino Loy, con il quale aveva già prodotto alcune spy story. Per il trentaquattrenne Loy si tratta di un vero e proprio debutto nel western. Documentarista fin dai primi anni '50, il sassarese aveva debuttato al cinema con la commedia di scarso successo Gente Felice (1957), proseguendo con una serie di noiosi documentari ascrivibili al sexy movie quali Mondo Sexy di Notte (1962) e 90 Notti in Giro per il Mondo (1963). Otterrà i suoi migliori risultati proprio al fianco di Luciano Martino, in qualità di produttore di una ventina di pellicole, stringendo con lo stesso un lungo sodalizio che ha ne I Giganti di Roma (1964) il punto di inizio. Il soggetto e la sceneggiatura vengono sottoscritte da quattro sceneggiatori: l'accoppiata Luciano Martino – Ernesto Gastaldi, già collaudata in occasione di Arizona Colt; Sauro Scavolini, al suo secondo 488 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

film dopo aver debuttato con Romolo Guerrieri nel precedente Johnny Yuma; e Franco Fogagnolo al suo unico film quale sceneggiatore (lo ritroveremo, con incarichi amministrativi, in un paio di thriller prodotti da Luciano Martino). Gastaldi e Martino ripropongono alcune idee già utilizzate in Arizona Colt, ma con un tono più romantico e alcuni momenti melodrammatici dal retrogusto ispanico. Protagonista è un bounty killer che viene presentato freddo e insensibile, alla stregua dell'Arizona di Giuliano Gemma. Anche lui non cede alle offerte di un padre disperato per il rapimento della figlia, finché lo stesso non gli offre la cifra per la quale il killer è disposto a muoversi, cioè i diecimila dollari di cui al titolo. Fin qui le analogie col precedente film sono fortissime. Sprezzanti inoltre sono le sue battute al cospetto dei rivali. Mentre gioca a poker contro colui che, nel corso della storia, prenderà la veste dell'antagonista, ma che in quel momento è un bandito alle prime armi, lo sfotte dicendo: ”Cominci a diventare un pezzo interessante. Ieri ti davano a 3.000. C'è sempre qualcuno che con 3.000 dollari può comprarsi un bel ranch e tu sei come un ranch che cammina per il paese, aspettando che qualcuno se lo prenda. Sai, se non sei proprio jellato quelli da 3.000 dollari li fai fuori tutti. È gente di campagna, dilettanti occasionali, ragazzi. È con quelli da 5.000 che cominci a faticare, ma ce la fai ancora. È quando arrivi a quelli intorno ai 6-7-8.000 dollari che ci rimetti la pelle al 90%.” L'altro, ridacchiando, gli risponde: “E tu, per quanto ti muovi?”. “Minimo 10.000!” la risposta. In un'altra occasione, un bandito della banda dell'antagonista si pavoneggia in un saloon infestato da presunti bounty killer. Una ballerina gli si avvicina e gli chiede: “Sei anche tu qua per la taglia?”. La risposta del manigoldo non si fa attendere: “Non ho ancora visto uno qui dentro che sia in grado di incassarla”. Ma ecco che compare il nostro, mentre beve un bicchiere di whisky: “Hai guardato bene, amico?” A dare corpo al bounty killer c'è un ottimo Gianni Garko (accreditato con lo pseudonimo Gary Hudson), passato dal ruolo di antagonista de 1.000 Dollari sul Nero (1966) di Cardone a quello di “buono” e ormai pronto a diventare uno degli attori più richiesti. Gli autori pensano di dare al personaggio il nome Django, tanto che il titolo in fase di lavorazione è 7 Dollari su Django, giusto per richiamare sia il film di Corbucci che la trilogia della scommessa di Cardone. Dunque siamo alle prese con un sotto Django apocrifo, eppure i 489 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

rapporti col film di Corbucci, e anche con quelli di Cardone, sono pressoché formali. L'opera di Guerrieri prende le mosse da Arizona Colt, per svilupparsi con un taglio romantico tutto suo. Oltre alla caratterizzazione del protagonista, che nella vive in un magazzino di un ritrattista suo aiutante (cui da corpo Fidel Gonzales) costellato di taglie appese alle pareti, viene riciclato dalla pellicola di Michele Lupo anche Fernando Sancho. L'attore iberico, un po' come ne Il Ritorno di Ringo (1965) e soprattutto in Sette Dollari sul Rosso (1966) di Cardone, funge da spalla dell'antagonista nel ruolo di suo padre. Il suo è il classico personaggio goliardico con vezzi bizzarri, lo chiamano Polvere di Stelle per il vezzo di sfoggiare sulla camicia le stelle rubate agli sceriffi che ha ucciso. Non mancano poi il vecchiettino buffo, qua interpretato da Pinuccio Ardia, che patteggia per l'eroe di turno. L'uomo, pur facendo parte della banda di banditi, non fa altro che scommettere sette dollari per volta a favore di Django e dunque contro i suoi. A fine film, quando sarà l'unico sopravvissuto della banda, chiamerà con un fischio Django e gli dirà: “Ehi, Django, avevo scommesso sette dollari su di te”, il nostro, triste e ormai avviato verso l'orizzonte, gli risponderà: “E avevi scommesso giusto.” Al di là di quanto detto, la particolarità della sceneggiatura sta nel dare al protagonista una doppia faccia. Da una parte è venale e smargiasso, dall'altra debolissimo e impacciato con le donne. Django è infatti preso sentimentalmente da una donna per la quale arriverà a commuoversi e a piangere per amore (!?). Questa, per legarselo a sé, cercherà di portarlo ad abbandonare la carriera di pistolero, trattandolo in modo duro e rozzo. Curiosamente a ricoprire il ruolo abbiamo Loredana Nusciak, al secolo Loredana Cappelletti, già vista nel Django di Corbucci. La prova dell'attrice è migliore rispetto alla più famosa performance al fianco di Franco Nero e ha una connotazione da donna virago. Risulta così bizzarro vedere un pistolero spavaldo e per nulla impaurito dalla morte, darsela a gambe al cospetto di una donna che lo beffeggia e gli spara col fucile. È probabile che tale innovazione sia uno sviluppo elaborato da Scavolini. Lo sceneggiatore infatti aveva già proposto, seppure in chiave più sensuale ed erotica, una donna forte e formosa nel precedente lavoro di Guerrieri: Johnny Yuma. Il rapporto tra i due innamorati toccherà l'apice in una sequenza visivamente eccezionale, probabilmente la migliore del film (compli490 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ce la soundtrack agrodolce). In essa vediamo un Django pensieroso e commosso, poggiato a una diligenza svaligiata dai delinquenti con cui si è accordato per rapinarne il carico. All'interno sono tutti morti, tra questi c'è la sua donna. Django l'ha lasciata partire rifiutando di accompagnarla nel viaggio verso quella che sarebbe dovuta essere la loro nuova vita. A rendere più amaro il tutto contribuisce l'espressione della poveretta, morta con gli occhi aperti in senso di condanna. Diverso dai canonici western è altresì il rapporto tra protagonista e antagonista. I due vivono un rapporto di reciproca simpatia, sebbene non badino a risparmiarsi l'uno con l'altro, soprattutto dopo la morte della donna di Django. Quest'ultimo finirà pestato dai rivali (appare con la bocca piena di sangue) e sotterrato in pieno deserto, con la sola testa lasciata in superficie a cuocere sotto la tortura del sole e di uno scorpione. La scena sarà ripresa pari pari dal western Da Uomo a Uomo (1967) di Petroni e da Il Mercenario (1968) di Corbucci. Bravi, nella fattispecie, gli sceneggiatori che fanno cadere il protagonista nelle mani degli antagonisti grazie a un originale escamotage. L'errore che Django commette non è attribuibile a un eccesso di zelo o alla sfortuna, come nei primi due capitoli della trilogia del dollaro di Leone o nel Django di Corbucci, bensì all'imprevedibile tradimento della ragazza rapita dall'antagonista e che il nostro, insieme al carico d'oro rubato dai banditi, ha recuperato come d'accordo preso col padre. La giovane (la silente Adriana Ambesi, ruolo da “arredamento” il suo, visto che recita pochissime battute) infatti, affetta da una sorta di sindrome di Stoccolma, si rivolta d'improvviso e si da alla fuga portando i malviventi sulle orme di Django e del suo aiutante. ”Sei astuto, abile, pericoloso, ma non conosci le donne” lo canzona l'antagonista, in un passaggio intriso di un velo di maschilismo (a differenza di Django, l'altro è molto più macho e prepotente con le donne). Sul punto ormai di soccombere, Django ribalterà la situazione in suo favore in un epilogo dalle atmosfere horror dominate dagli ululati di vento e da una nebbia fitta fatta di polvere. Questi i contenuti di un film che Romolo Guerrieri considerava il suo migliore western. Lo stesso Garko ne conserverà un piacevole ricordo, anche perché prende piede l'embrione da cui deriverà la saga Sartana, quanto meno per il look del pistolero. Garko è vestito di nero, con una sciarpa bianca al collo che gli dona un tono da dandy. L'attore spiegherà che l'idea della sciarpa era frutto di una sua trova491 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ta, in omaggio al personaggio che aveva ricoperto nel film drammatico Un Uomo a Metà (1966) di Vittorio De Sica e che appunto portava una sciarpa al collo. Luciano Martino reputa il film superiore al gemello Per 100.000 Dollari T'Ammazzo (1967), opinione che io non condivido in quanto lo script del film di Guerrieri, pur beneficiando di interessanti caratterizzazioni e alcuni simpatici diversivi (si veda il prologo ambientato in riva al mare, con Garko che sonnecchia sulla risacca), è piuttosto convenzionale. Nel film di Fago, inoltre, si renderà ancora più marcata la piega romantica a danno della componente guascona, con monologhi di grosso effetto e con un protagonista più sofferente e tormentato del Django di Guerrieri. Per quel che mi riguarda considero 10.000 Dollari per un Massacro inferiore anche a Johnny Yuma, sebbene benefici di una confezione nettamente superiore. Infatti, se si può sostenere che la sceneggiatura sia meno innovativa, non si può non dare atto che le interpretazioni e soprattutto l'eccezionale messa in scena (fatta di dune e passaggi montani fotografati divinamente da Federico Zanni) siano di un altro pianeta. Lo stesso Guerrieri è più ispirato e preciso, offre molte riprese in primo piano con dettagli stretti soprattutto sugli occhi. Oltre alle già segnalate, tra le sequenze degne di nota, per il posizionamento della macchina da presa, segnalo la scena che anticipa la prima scazzottata tra Garko e Camaso, con la mdp che inquadra in campo lungo i protagonisti da una struttura tubolare di legno che rotola, su un'aia, spinta dal vento. Da ricordare anche la lunga sequenza in cui Django fa cadere in trappola i componenti della banda, per privarli dei cavalli, facendoli entrare in una grotta usando come esca dei lingotti d'oro disseminati a terra. Un'ultima nota va spesa per l'eccelso Claudio Camaso, fratello del più famoso Gian Maria Volonté e chiamato a dar corpo al cattivo di turno. Camaso debutta nel western proprio con questo film, dopo alcune apparizioni in serial televisivi e in un poker di film sospesi tra il drammatico e la spy story, tra i quali il più famoso è Lutring – Svegliati e Uccidi (1966) di Lizzani. Per tre anni Camaso sarà impegnato solo nel western, distinguendosi in ruoli da antagonista psicopatico. Stranamente non verrà mai chiamato da grandi produzioni, ma resterà confinato negli spaghetti-western di serie B con punte quali Per 100.000 Dollari T'Ammazzo (1967) e Joko Invoca Dio... e Muori (1968). Le sue performance nel panorama western caratterizzeranno sempre 492 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

personaggi deliranti, talvolta drogati, con interpretazioni fedeli alla lezione impartita dal Volontè di leoniana memoria. Dal 1969 passerà ad altri generi senza ottenere il successo che avrebbe meritato, complice un carattere impossibile, introverso e soggetto a scatti d'ira nonché l'alea di attore maledetto (nel '65 era stato persino accusato di aver piazzato una bomba nei pressi del Vaticano). Lo ritroveremo in due cult assoluti dell'horror come Contronatura (1969) di Margheriti e Reazione a Catena (1971) di Mario Bava, nonché in uno dei mondo movie più discussi e apprezzati dell'epoca (vietato ai minori di 18 anni per alcune scene di violenza) cioè Faccia di Spia (1975) di Giuseppe Ferrara, in cui interpreterà nientemeno che Che Guevara, in un'opera che documenta i rapporti dei servizi segreti americani. Purtroppo l'ombra del fratello Gian Maria Volontè e un successo mai decollato finiranno presto col soffocarne le ambizioni, fino al tragico epilogo che lo vedrà prima recluso in carcere e poi suicida nel 1977, dopo esser stato arrestato con l'accusa di tentato omicidio ai danni della propria ragazza, l'attrice Dominique Boschero, nel corso di una lite fatale per un comune amico intervenuto a dividerli. Un finale di vita turbolento degno dei personaggi interpretati al cinema. Alla colonna sonora ritroviamo Nora Orlandi, in uno dei suoi migliori lavori (sono uno dei pochi a pensarla in questa maniera), con una main theme interpretata da Pier Giorgio Farina che canta Basta Così (non devi uccidere più). Le musiche sono melodiche, in perfetto stile Orlandi. Giovanissima, appena trentaquattro anni e con già all'attivo la soundtrack di Johnny Yuma (1966) che gli era valsa il riconoscimento di alcuni premi, la Orlandi vantava un passato da violinista dell'orchestra della RAI, ma anche da autrice di testi e cantante. A tal riguardo aveva fondato nel 1952 il famoso gruppo vocale Quartetto 2 + 2, con cui aveva preso a partecipare a svariate trasmissioni radiotelevisive oltre che a stringere collaborazioni, tra gli altri, con Gianni Morandi, Patty Pravo, Nico Fidenco, Domenico Modugno e Lucio Dalla per dare supporto in sala incisione. Proprio grazie all'ottimo lavoro espletato con Johnny Yuma e 10.000 Dollari per un Massacro, la Orlandi accetterà una decina di proposte di collaborazione in veste di compositrice di colonne sonore di western di seconda e terza fascia. Comporrà inoltre le musiche del thriller Lo Strano Vizio della Signora Wardh (1971) di Sergio Martino poi riprese da Quentin Tarantino in Kill Bill Vol. 1. Abbandonerà il cinema a metà anni '70, dopo aver realizzato circa venti colonne sono493 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

re.

Completano il cast tecnico, in veste di aiuto di Guerrieri, il futuro regista di adventure movie e sci-fi di risibile valore Tonino Ricci, mentre come operatore di macchina troviamo il futuro addetto alla fotografia dei migliori thriller di Sergio Martino (nonché di una sterminata produzione di cinema bis): Giancarlo Ferrando. Nel complesso si tratta di un discreto film, a mio avviso, un po' sopravvalutato, poiché il soggetto non brilla per originalità nonostante sia da sottolineare l'impegno degli sceneggiatori nel tracciare delle caratterizzazioni innovative. Al di là dei soliti commenti disfattisti della critica ufficiale con il Morandini che lo stronca (una stella e mezzo) definendolo un'esercitazione scadente con qualche momento di marca, non si contano le lodi espresse dagli appassionati spagnoli, tedeschi e giapponesi. Persino filmtv.it apprezza il prodotto scrivendo un commento pienamente condiviso dal sottoscritto. Il sito infatti concede tre stelle e plaude la regia e l'introduzione di alcuni elementi di ambiguità nel rapporto tra protagonista e antagonista, ritenendo il western godibile nonostante l'originalità non sia il punto di forza. Entusiasti tutti gli altri, fanno forse eccezione Quentin Tarantino e Alex Cox che non segnalano il film tra i loro preferiti. Marco Giusti lo ricorda come uno dei western del cuore, mentre Antonio Bruschini ne evidenzia la piega romantica e struggente, con un rapporto di amore e odio tra il protagonista e l'antagonista che rende il film estremamente riuscito e originale. Spaghettiwestern.altervista.org reputa le prestazioni di Garko e Camaso tra le migliori in assoluto espresse dai due attori e considera il film un western bellissimo, pur penalizzato da una prima mezz'ora stereotipata (“si pensa all'ennesimo film di sparatorie”). Il film compare in ventinovesima posizione nella classifica degli spaghetti western più belli di tutti i tempi stilata dal sito americano spaghetti-western.net, davanti a capisaldi quali Una Pistola per Ringo (1965) e Il Grande Duello (1972) di Santi e subito dietro a Tepepa (1968) di Petroni. È addirittura in diciottesima posizione nella classifica dello spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it - a parità col gemello Per 100,000 Dollari T'Ammazzo (1967) – che assicura: è un grande film e ha alcune scene che rimarranno impresse nella retina dello spettatore, come la morte dei passeggeri della diligenza assaltata da Camaso (scena davvero bella, rimarca il sottoscritto). 494

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Ancora più generoso il commento dell'inglese sonofdjango.blogspot.it che assicura: è uno dei migliori western italiani mai realizzati. L'appassionato poi si perde ad avanzare delle critiche che non condivido molto. In prima battuta dice che il film è tra i western più violenti mai visti, perché gli omicidi del protagonista sono quasi tutti perpetrati a sangue freddo o a danno di rivali disarmati. In seconda battuta, e in questo non è il solo, vede una sorta di attrazione erotica tra l'antagonista e il protagonista, seppur manifestata in chiave metaforica (si veda la sequenza in cui i due, dopo essersi presi a cazzotti, stramazzano esausti l'uno accanto all'altro per poi pranzare insieme). Ripeto, a mio avviso non è da annoverarsi nell'olimpo dei western più belli, ma ne consiglio la visione. Un altro western in grado di farsi valere, specie in Spagna, è ...E Divenne il Più Spietato Bandito del Sud, film ultimato nel 1966 ma giunto nei cinema italiani solo nel marzo del '67. A produrlo è Ricardo Sanz, al suo terzo film dopo una lunga carriera da manager di produzione intrapresa nella seconda metà degli anni '50, con pellicole di scarso valore destinate al mercato spagnolo. Già incontrato in occasione de I Quattro Inesorabili (1965) di Zeglio, Sanz farà altri western di basso budget, anche senza apporto italiano, con risultati di un certo interesse, ne sono un esempio Quando Satana Impugnò la Colt (1970) di Rafael Romero Marchent nonché il macaroni combat I Leopardi di Churchill (1970) di Maurizio Pradeaux. Per l'occasione il produttore spagnolo viene supportato dall'ex attore Silvio Battistini, al suo secondo film da produttore e destinato a ritirarsi nel giro di pochi anni. Sanz e Battistini affidano il film a Lucio Fulci, il quale litiga col coproduttore italiano e lascia il set. Si innesca così un valzer poco chiaro che andrà ad alimentare una serie di curiose diatribe circa la paternità della pellicola. Il calabrese Nick Nostro sostiene di essere lui il regista, ma di non esser stato accreditato per ragioni contrattuali. Secondo Nostro, Fulci avrebbe girato alcune sequenze poi inserite nel montaggio definitivo. Si tratta però di affermazioni difficilmente verificabili anche perché altri confermano che il regista era lo spagnolo Julio Buchs, così come indicato nei credit, ipotesi peraltro verosimile vista la preponderanza dei capitali spagnoli. Sulla questione resta quindi un velo di nebbia che ci costringe ad attenersi a quanto indicato nei titoli di apertura che indicano appunto Buchs quale regista. Introdot495 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

to nel mondo del cinema a soli ventidue anni dal padre José, in qualità di aiuto regista, Buchs era passato alla regia nel 1962 girando, tra gli altri, il paella western apocrifo Django non Perdona (1965). Girerà solo un altro western, Quei Disperati che Puzzano di Sudore e di Morte (1969), in grado tuttavia di acquisire un interesse talmente forte da essere considerato un prodotto di culto persino da Quentin Tarantino. Scomparirà prematuramente nel gennaio del 1973. Il soggetto, firmato dagli specialisti José Mallorquì e Federico De Urrutia, ripercorre, in modo romanzato e sei anni prima di Sam Peckinpah, la vita del giovane pistolero Billy The Kid, qua caratterizzato come un ragazzo nobile di cuore, costretto, per un motivo o l'altro, a uccidere. Buchs gira con piglio hollywoodiano, tralasciando le stramberie o i virtuosismi tipici dello spaghetti-western. Fa eccezione un duello, uno contro cinque, che ricorda quello che Castellari porterà in scena in Keoma (1976). I dialoghi sono piuttosto puliti, con personaggi tratteggiati in modo non troppo spaccone. Il tasso della violenza è sotto la media (diverge nell'opinione Tom Betts, mentre sono d'accordo col sottoscritto spaghetti-western.net e 800spaghettiwesterns.blogspot.it), viene dato inoltre importante spazio ai valori come la famiglia e la giustizia (rappresentata da Pat Garrett), inoltre la musica di Gianni Ferrio ha melodie di impronta americana. Degna di nota l'ottima interpretazione di Peter Lee Lawrence, che viene confermato in veste di protagonista dopo Dove si Spara di Più. Lo vediamo girare con vari look fino a mostrarsi a petto quasi nudo, in un mix di dolcezza e di durezza con velate tracce di erotismo. Sebbene 800spaghettiwesterns.blogspot.it lo definisca un po' insipido, a mio avviso l'attore tedesco offre una delle sue migliori interpretazioni e si rivela ben calato nella parte. Grazie a questo film, inoltre, diverrà uno degli attori più ricercati per i ruoli da protagonista di spaghetti-western di medio livello. Il cast artistico annovera inoltre un buon gruppo di caratteristi come Francisco Sanz, Maria Fié e Luigi Induni Radici. A dar corpo a Peter Garrett c'è invece Fausto Tozzi, veterano famoso soprattutto per aver preso parte a due perle firmate Pietro Germi: La Città si Difende (1951) e Il Brigante di Tacca del Lupo (1952). In futuro, dopo aver collaborato in svariate pellicole sia da sceneggiatore che da aiuto, tenterà la via della regia con Trastevere(1971) rinunciando subito a darvi un seguito. 496 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Ne esce fuori un western molto apprezzato sia all'epoca che ai giorni nostri. Per spaghettiwestern.altervista.org è uno tra i migliori film su Billy the Kid. Tra i fan c'è Tom Betts, che lo definisce superiore alla media. Bene anche per gli utenti di imdb.com che gli riconoscono una sufficienza tendente al buono. Critico filmtv.it (“modesta versione”), lo ignora il Morandini. Solo per chi è alla ricerca di western ulteriori rispetto ai grandi classici e per chi apprezza i western di impronta hollywoodiana. Bravo Peter Lee Lawrence. Tentano, non riuscendoci, di bissare i fasti passati Giorgio Ferroni e Giuliano Gemma che si ripresentano insieme, dopo Un Dollaro Bucato (1965) e Per Pochi Dollari Ancora (1966), in occasione di Wanted, terzo e ultimo western dell'accoppiata (il meno riuscito). Ferroni, ancora accreditato quale Calvin Jackson Padget, cambia produttore; questa volta a metterlo sotto contratto è l'italo-austriaco Gianni Hecht Lucari, imprenditore proveniente dal cinema d'autore e al suo primo western, in seguito produrrà ...E per Tetto un Cielo di Stelle (1968). Hecht Lucari organizza il film al solo scopo di fare cassa, vuole infatti finanziare progetti autoriali poiché li predilige al cinema bis. Dopo aver debuttato con Un Giorno in Pretura (1953), aveva dato seguito alla propria produzione con poco meno di una ventina di film, tra commedie e drammatici, distinguendosi tra i produttori del periodo in virtù di collaborazioni strette con registi di lusso quali Luigi Zampa, Roberto Rossellini, Mario Monicelli, Dino Risi, Nanni Loy, Mauro Bolognini e Luigi Comencini. In seguito si aggiudicherà persino tre David di Donatello; due per il miglior film con Metello (1969) di Mauro Bolognini e Il Giardino dei Finzi Contini (1970) di Vittorio De Sica, uno per la migliore produzione con La Ragazza con la Pistola (1968) di Mario Monicelli. La sua parantesi western è quasi disinteressata, intrapresa per mere ragioni di opportunità e per tale ragione si affida all'affiatata coppia Ferroni-Gemma senza mettere voce sul soggetto e senza seguire da vicino le riprese. Ferroni, dal canto suo, chiama ad adunata i fidatissimi Augusto Finocchi (al suo secondo film), Remigio Del Grosso e l'ex scenografo Massimiliano Capriccioli, autori del soggetto del suo precedente western (Per Pochi Dollari Ancora). I tre stendono un soggetto convenzionale, incentrato sul tema dell'eroe (uno sceriffo) ingiustamente incarcerato, per un omicidio che non ha commesso, costretto a evadere per provare la 497 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

propria innocenza. Un plot di sicura presa sul pubblico, ma per nulla innovativo e soprattutto in linea con gli spaghetti-western del 1965 piuttosto che con quelli del 1967. Molti i debiti con Per il Gusto di Uccidere (idea dello sceriffo che scorta carovane per conto delle banche), ma soprattutto con Adios, Gringo (film sceneggiato dallo stesso Remigio Del Grosso e diretto dall'allievo di Ferroni, Giorgio Stegani). Un soggetto quindi che non ha nulla da aggiungere a quanto già visto e che non viene sviluppato in modo convincente neppure da Fernando Di Leo, chiamato in supporto nella stesura finale della sceneggiatura. Così abbiamo una storia trita e ritrita, senza ironia nei dialoghi, con personaggi stereotipati, caratterizzati in modo netto (un po' alla hollywoodiana). La storia va avanti senza colpi di scena e senza trovare spunti registici degni di nota. Ferroni gira in modo solido, ma abbastanza piatto, ripetitivo nonché con cadute di ritmo. Ruggero Deodato, aiuto regista insieme a Giorgio Stegani - quest'ultimo non accreditato ma ingaggiato per girare le sequenze ambientate in Spagna a causa dell'indisponibilità di Ferroni impossibilitato a recarsi nella penisola iberica - dirà che il regista girava tutto con campi e controcampi. L'osservazione di Deodato è indubbiamente calzante dal momento che sono pochi i primissimi piani, così come le soggettive e le zoomate. Si segnala solo una lunga sequenza (girata da Stegani, con l'ausilio del camera car e impreziosita dalle spettacolari cadute dei cavalli) in cui una carovana viene inseguita da un plotone di messicani bersagliati, in mezzo alla polvere, dalle fucilate e dai candelotti di dinamite lanciati da Gemma. Carina la trovata della carovana che si divide in due in modo da distrarre i banditi, illudendoli che gli inseguiti abbiano abbandonato il carico d'oro, e farli così cadere in trappola (al posto dell'oro viene lasciata una cassa di dinamite pronta a esplodere). Giuliano Gemma, privato di ironia, è meno brillante del solito, ma è perfetto nelle scazzottate e nella varie scene acrobatiche. Debolissimi gli antagonisti, capitanati dal francese Serge Marquand (anche lui proveniente dal set di Per Pochi Dollari Ancora); meglio le tante spalle che si susseguono ad aiutare il protagonista. Tra queste Benito Stefanelli (ruolo più ampio del consueto), un grande Nello Pazzafini (il migliore della compagnia) nell'inconsueta veste di parroco che tiene sotto la tunica cinturone e pistola, e un bravissimo Germàn Cobos, reduce dai paella western, nei panni di un distinto giocatore di poker. Tra i cattivi ci sono, con dei piccoli ruoli, Riccardo Pizzuti e Alberto 498 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Dell'Acqua. Quasi assenti i ruoli femminili. La confezione della pellicola non entusiasma (dicono l'opposto 800spaghettiwesterns.blogspot.it, spaghetti-western.net e fistfulofpasta.com), a causa di una debole fotografia di Toni Secchi, già avuto da Ferroni in Un Dollaro Bucato (1965), e di una brutta colonna sonora firmata da Gianni Ferrio (altra vecchia conoscenza del regista). Buone le scenografie, ora un po' invernali, ora un po' estive. Nonostante la presenza di Gemma, Wanted delude le attese e floppa al botteghino, penalizzato dall'incomprensibile divieto ai minori di diciotto anni, sebbene il tasso della violenza sia inferiore alla media. . Dunque un film ben costruito, ma con poca verve e scarsa volontà di proporre innovazioni. Visti i nomi, è ricordato un po' da tutti quale un western mediocre. Marco Giusti nota una certa lentezza e carenza di azione, ma soprattutto si stupisce per la convenzionalità della storia. Sullo stesso piano è il Morandini che giustifica la sua stelletta e mezzo con il commento: scarse invenzioni. Indicativa anche la mezza bocciatura di spaghettiwestern.altervista.org che lo reputa appena sufficiente, mentre per spaghetti-western.net si tratta di un film piuttosto ingenuo portato in scena in modo antiquato. In tre parole: Solo per irriducibili. Un altro tentativo, non del tutto fallito, di bissare precedenti successi è quello di Franco Giraldi e della Jolly Film, i quali con Sette Donne per i MacGregor danno seguito a Sette Pistole per i MacGregor. Il cast, sia tecnico che artistico, è pressoché lo stesso, ma non c'è più la “star” Robert Woods, accantonato perché polemico sulla scelta dell'attrice coprotagonista, ancora una volta Agata Fiori. L'attore americano viene rimpiazzato, non a dovere, dal connazionale David Bailey, trentenne proveniente dai serial televisivi americani, dove ritornerà senza successo. Confermatissimi gli altri con gli stuntman Alberto Dell'Acqua e Nazzareno Zamperla in prima linea. La Jolly Film punta a fare cassa e ci riesce. Giraldi, non appena terminato Sugar Colt (1967), viene convinto a girare in fretta e furia il seguito del suo primo western tanto da anticipare nell'uscita nei cinema proprio Sugar Colt. Il copione si allinea all'ironia comica del primo capitolo, aumentandone l'impatto a discapito dei contenuti drammatici (comunque presenti). Enzo Dell'Aquila, cosceneggiatore insieme a Fernando Di 499 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Leo, cerca di introdurre una marcata piega musical (tentativo già perpetrato in occasione del primo film che avrebbe dovuto omaggiare, guarda caso, il musical Sette Spose per Sette Fratelli), ma viene limitato dai produttori che preferiscono andare sul sicuro. La storia verte sullo sposalizio di tutti e sette i fratelli MacGregor (con altrettante sette sorelle figlie di un irlandese), a conclusione di una rocambolesca avventura che vedrà uno di loro rapito dalla banda capitata dall'ottimo Leo Anchoriz. Quest'ultimo ruberà tutti i soldi messi da parte dai fratelli, facendoli così scatenare. I sei andranno a liberare il loro congiunto e recupereranno il maltolto. Scazzottate (con protagoniste anche le donne), parolacce (censurate nella versione americana) e soluzioni inverosimili corredano il soggetto, commentate dall'ottima colonna sonora di Morricone. Quindi un un western, indirizzato alle famiglie, anticipatore della deriva comica degli anni '70. Così preannuncia il trailer: “Ecco i MacGregor, sette ragazzi scozzesi che non hanno paura di nessuno e che non dicono mai di no, quando si tratta di menare le mani.” Non dispone di grande alone di culto e non manca chi lo reputi imbarazzante (Thomas Weisser). Tra i fan c'è filmtv.it che gli da tre stelle, pur facendo notare un ritmo non troppo incalzante (ma comunque superiore al primo capitolo, aggiungo io), e Marco Giusti che lo definisce molto divertente. Quasi sufficiente per gli utenti di imdb.com. Ne sottolinea la minore cura rispetto al primo capitolo il Morandini (il giudizio passa da due e mezzo a due stelle) che, a ragione, parla di copione sgangherato e di western arioso, colorito, violento senza brutalità. Indicato agli amanti degli spaghetti-western tendenti al comico demenziale, anche se ancor dotato di un pizzico di cattiveria. Più convinto, anche se ancora legato a una marcata comicità, è l'altro western di Giraldi, girato nel 1966 ma uscito dopo Sette Donne per i MacGregor.

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SUGAR COLT Produzione: Italia-Spagna, 1966. Prodotto: Ugo Santalucia (Mega Film), Francisco Lara Polop (Eva Film). Regia: Franco Giraldi. Soggetto: Augusto Finocchi e Giuseppe Mangione. Sceneggiatura: Augusto Finocchi, Giuseppe Mangione, Franco Giraldi, Fernando Di Leo e Sandro Continenza. Interpreti Principali: Jack Betts (Hunt Powers), Gina Rovere (Jenne Oak), Soledad Miranda, Giuliano Raffaelli (Julian Rafferty), Erno Crisa (James Parker), Jorge Rigaud. Fotografia: Alejandro Ulloa. Musiche: Luis Enriquez Bacalov. Sottogenere: Giallo. Durata 106 min. Giudizio Mancini: **1/2 Giudizio Morandini: ** La trama Ex soldato nordista, specializzato nel servizio informazioni dell'esercito (Betts), viene avvicinato da un ex superiore (Rigaud) per indagare sulla scomparsa di un contingente militare sparito nel nulla nei pressi di Snake Valley. L'uomo, ormai ridottosi a fare il maestro d'armi a un corposo gruppo di donne, rinuncia all'incarico finché non vede trucidare il vecchio amico sotto i suoi occhi. Così, fingendosi medico, decide di partire e di fare luce sulla vicenda. Prende alloggio in un saloon retto da due donne, l'austera Bess (Rovere) e la giovane ma spigolosa Josefa (Miranda), e studia gli atteggiamenti dei cittadini di Snake Valley, ricorrendo a bizzarre pozioni della verità. Scoprirà così che un colonnello (Raffaelli) tiene in ostaggio il plotone e pretende un congruo riscatto per la liberazione dei soldati. Commento Dopo aver diretto la seconda unità di Per un Pugno di Dollari e aver debuttato col discreto successo di Sette Pistole per i McGregor, prodotto nel '66 da una Jolly Film privata del suo regista di punta (cioè Sergio Leone), Giraldi sfrutta il periodo a lui propizio per sfornare un nuovo spaghetti-western. A offrigli l'occasione è Ugo Santalu501 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

cia (futuro vincitore del David Donatello nel 1973, per la miglior produzione, col film di Luchino Visconti Ludwig) che anticipa Papi & Colombo nel mettere sotto contratto il regista facendosi però superare dai medesimi nell'uscita cinematografica del sequel dei McGregor. Il soggetto viene steso in fretta e furia da Augusto Finocchi e Giuseppe Mangione, un mix di gioventù e saggezza. Finocchi infatti è alla terza esperienza lavorativa, dopo aver firmato la sceneggiatura di Per Pochi Dollari Ancora e Wanted (metterà in seguito la firma in svariati western di medio livello, tra i quali Il Pistolero Segnato da Dio). Mangione, invece, con i suoi cinquantotto anni e un Nastro d'argento in bacheca vinto nel 1956 per la sceneggiatura de Gli Innamorati (regia di Mauro Bolognini), vanta già un curriculum di primo ordine (con debutto nel 1942) anche se pressoché all'asciutto di B-movie (all'attivo un paio di peplum e l'horror del '66 diretto da Mastrocinque Un Angelo per Satana). I due confezionano un soggetto che si distingue dalla media dei prodotti dell'epoca, sia per alcune soluzioni originali (il rapimento di un intero plotone di soldati a scopo estorsivo) sia soprattutto per le bizzarrie del protagonista che sembra una sorta di Sherlock Holmes (alla caccia di un mistero dai contorni gialli), che imita nell'amore per la boxe nonché per le donne e le arti seduttive. A ciò devono aggiungersi soluzioni decisamente inusuali per un western, come l'impiego di sieri della verità (!?). Decisivi sono gli interventi in sceneggiatura di due specialisti quali Fernando Di Leo e Sandro Continenza. Ne esce fuori un prodotto interessante soprattutto per la caratterizzazione del protagonista e per alcune folli sequenze. Si va dalla scazzotta in saloon con il protagonista in mutandoni che si esibisce dando sfoggio dell'arte della boxe, fino alla più assurda scena in cui, per indurre i clienti del saloon a parlare, il “nostro” getta in una stufa una pastiglia che irradia un vapore che elimina i freni inibitori e spinge chi lo inala a parlare senza ritegno. Assurda, al riguardo, la pasticca antidoto che impedisce a chi l'ha assunta di subire l'effetto della nube di vapore. Non meno bizzarre sono le sequenze iniziali, dove il protagonista definisce la sua accademia in cui si diletta a insegnare il maneggio delle armi a un corposo gruppo di nobili donne. Proprio le donne assumono un ruolo innovativo. A differenza dei canonici western, abbiamo donne tutt'altro che marginali. In particolare sono degne di nota Gina Rovere e la grandissima Soledad Miran502 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

da, qua nel suo unico spaghetti-western. Entrambe dotate a livello recitativo, hanno un ruolo da co-protagoniste. La Rovere, nei panni della padrona del saloon, si dimostra austera, fisicamente possente, ma dal cuore buono. La sua è una prova che sfrutta appieno sia l'esperienza maturata negli anni '50, quando era una delle soubrette più in vista dell'avanspettacolo, sia quella meno spensierata acquisita agli ordini di importanti registi quali Monicelli, Steno e altri. Nonostante il talento espresso e alcune ottime prove (tra le quali sicuramente quella qui oggetto di esame), la carriera della romana andrà via via a ridimensionarsi, permettendole comunque di continuare a calcare per oltre quarantanni i set cinematografici. Più di nicchia, ma di maggior culto, è Soledad Miranda. Longilinea (a inizio carriera la troviamo in veste di modella), dalla lunga capigliatura corvina e dagli occhi grandi e malinconici, è l'eroina per eccellenza del cinema di Jess Franco. Nonostante una brevissima carriera (morirà a Lisbona nell'estate del 1970 in un incidente stradale ), è stata una delle migliori attrici del cinema erotico sia per le sue curve ma soprattutto per la sua espressività e la sua immensa sensualità. Jess Franco soleva dire che al di fuori dal set la Miranda era una ragazza semplicissima, ma che una volta dietro la macchina da presa si trasformava. Sensuale, furba, felina nei movimenti, spesso impiegata in striptease in cui non risultava mai volgare ovvero esaltata da inquadrature ardite, è tutt'oggi ricordata e apprezzata da intere schiere di fan, grazie a film erotici sospesi tra l'horror e il noir quali Vampyros Lesbos, De Sade 2000 e She Killed in Ecstasy tutti diretti nel 1970 dall'estroso e visionario regista spagnolo Jess Franco. Per tali film è stata altresì omaggiata dalla scrittrice di gialli Cristiana Astori che a lei ha dedicato il romanzo Tutto quel Nero, uscito nel 2011 nella collana Giallo Mondadori. Non tutti però sanno che la carriera della Miranda aveva preso le mosse in Spagna con ben altri tipi di film. Giraldi se la ritrova ai provini grazie ai co-produttori spagnoli e la sceglie perché, a suo avviso (e a ragione), grazie a un fisico gracile e al contempo peperino, contrastava con la monumentalità della Rovere. La prova della Miranda è convincente, nel ruolo un po' ambiguo di una ragazza che ama perdutamente il protagonista ma cerca di far tutto per non darlo a vedere, adottando un atteggiamento aggressivo nei suoi confronti. Non manca un assaggio di quella sensualità erotica che Jess Franco sarà capace di elevare all'ennesima potenza, nella 503 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

scena in cui, stordita dal bizzarro siero della verità, tenta di sedurre il protagonista strisciandogli contro il corpo. Veniamo adesso all'eroe di turno, un pistolero dall'importante passato nell'esercito nordista, ridottosi a vivere nel lusso con i proventi di somme versategli da donne nobili intenzionate a imparare a usare le armi. “Eri diventato famoso nel servizio informazioni dell'esercito, il miglior agente e la miglior pistola degli Stati Uniti” dirà di lui il vecchio superiore, che cercherà di far di tutto per convincerlo ad assumere l'incarico di indagare sulla scomparsa di un intero plotone nordista. Sugar Colt è un pistolero un po' inusuale, ama scherzare e giocare ed è una sorta di dandy. Sfoggia un bizzarro anello di vetro che utilizza per sparare ai nemici che tentano di sorprenderlo alle spalle. A dar corpo al personaggio c'è un attore semi-sconosciuto, ma nell'occasione decisamente convincente (conforme sonofdjango,blogspot.it): Hunt Powers, al secolo Jack Betts. Classe 1938, l'attore americano viene messo sotto contratto per il volto fotogenico e le indubbie doti espressive manifestate in alcuni serial televisivi di discreto successo. Fisico asciutto, non troppo imponente e muscolare, Powers ispira simpatia in ogni sequenza e alterna momenti seriosi ad altri che sconfinano nel grottesco. Il debutto di questo attore nello spaghetti-western è così buono che viene subito confermato in ruoli da protagonista, a partire da La Più Grande Rapina del West (1967) in cui recita al fianco di George Hilton per la regia di Maurizio Lucidi. Purtroppo finirà per essere coinvolto in progetti di secondo ordine (tutti spaghetti-western), spesso agli ordini dell'artigiano Demofilo Fidani, finendo agli inizi degli anni '70 per tornare alle serie tv da cui era partito. Deboli, invece, sono gli attori chiamati a interpretare gli antagonisti, complice anche una caratterizzazione piuttosto scarna e quasi marginale. Nei panni del boss di turno c'è uno spento Giuliano Raffaelli, del quale non si ricorda una carriera particolarmente folgorante, e qua presente a sprazzi. Bello il finale in cui, barcollante e ferito (Giraldi rende ulteriormente visionaria la sequenza inserendo soggettive sfocate), il boss viene braccato dagli stessi soldati che aveva recluso per mesi e che avanzano verso di lui, privi di scarpe e tremanti, alla stregua di zombi. Sarà ucciso dalla Rovere con un colpo d'arma da fuoco (ancora una volta si sottolinea l'importante ruolo delle donne in que504 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sto film). Braccio sinistro di Raffaelli è Erno Crisa, qua in uno dei suoi ultimi film. Morirà a soli quarantaquattro anni, un anno dopo, a seguito di una emorragia celebrale patita su un set. Attore teatrale, nonché abile ballerino, Crisa arriva al film con un curriculum assai interessante che lo eleva ad attore di un certo prestigio nel panorama italiano e francese. La sua prova in Sugar Colt è tutt'altro che memorabile e lo si ricorda soprattutto per lo scontro fisico con Hunt Powers, all'interno di un panificio, con tanto di farina, lieviti e vasche d'acqua, in quella che sembra un'anticipazione della scazzottata nella bisca clandestina di Lo Chiamavano Bulldozer (1978). Ordinaria la regia di Giraldi che si diverte (confondendo blogger come sonofdjango.blogspot.it che per questo lo penalizza nel giudizio finale) ad alternare sequenze farsesche ad altre di stampo poliziesco e altre ancora drammatiche, con momenti toccanti che rendono agrodolce la visione. Ne sono un esempio la sequenza del funerale del pianista di Snake Valley o il bellissimo prologo, in cui una parte del plotone nordista viene travolto dalla caduta di una serie di massi. Interessante la fotografia dello spagnolo Alejandro Ulloa, abile a esaltare i contrasti di colore. Eccezionale invece la malinconica colonna sonora di Bacalov. Nonostante il flop al botteghino, penso di poter definire Sugar Colt il migliore dei quattro film di Giraldi (che poi si dedicherà prevalentemente alla commedia), quanto meno per originalità e bizzarria. Non è una pietra miliare, ma la visione può essere consigliata. 800spaghettiwesterns.blogspot.it arriva a scrivere che se non fosse stato per alcuni buchi di sceneggiatura si sarebbe stati davanti a un grande spaghetti-western. Tre stelle per filmtv.it, che plaude la regia e la messa in scena, ritenendo scongiurato il rischio di volgarità. A metà marzo, dopo un corposo lotto di spaghetti-western da battaglia, esce il secondo capolavoro dell'anno. Dopo il mediocre e convenzionale Un Fiume di Dollari (1966), Carlo Lizzani decide di liberarsi dei vincoli produttivi e autofinanziandosi gira il suo secondo e ultimo western: Requiescant.

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REQUIESCANT Produzione: Italia-Germania, 1966. Produttore: Carlo Lizzani (Castoro Film), Alvaro Mancori e Anna Maria Chretien (Mancori-Chretien Film). Ernest Von Theumer (Tefi Film). Regia: Carlo Lizzani. Soggetto: Renato Izzo, Franco Bucceri. Sceneggiatura: Adriano Bolzoni, Armando Crispino, Lucio Battistrada, Karl-Heinz Vogelmann. Interpreti Principali: Lou Castel, Mark Damon, Pier Paolo Pasolini, Ferruccio Viotti, Barbara Frey, Ninetto Davoli, Franco Citti. Fotografia: Sandro Mancori. Musiche: Riz Ortolani. Sottogenere: Politico. Durata 108 min. Giudizio Mancini: **** Giudizio Morandini: ** La trama Giovane trovatello (Castel) viene raccolto da una famiglia di religiosi girovaghi e cresce insieme alla figlia (Frey) di questi ultimi. Un giorno la ragazza, affascinata da uno spettacolo di ballerine, scappa per seguire le professioniste. Il fratellastro, che presto sarà ribattezzato Requiescant per la sua abitudine di pregare con il breviario in mano al cospetto delle sue vittime, decide di partire per ritrovarla. La troverà in un paesetto retto da un aristocratico (Damon) misogino, che teorizza la schiavitù come miglior forma di vita per chi è nato povero. La donna è ridotta alla prostituzione ed è sotto il pieno controllo di un drogato (Viotti) che altro non è che l'amante segreto del padrone del paese. Intanto Requiescant scopre che il suo vero padre era un rivoluzionario trucidato a tradimento proprio dall'aristocratico che governa il paese. Il nostro si unirà così a un gruppo di peone guidati da un prete (Pasolini) che ha accettato, suo malgrado, la violenza come unica via per ristabilire la giustizia. Commento Film piuttosto lento e con qualche soluzione narrativa poco com506 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

prensibile, ma di un fascino e di un'importanza unica. L'opera di Lizzani, che ne è anche il principale produttore, affronta tematiche che hanno nel concetto della libertà il loro fulcro centrale e si chiude con un epilogo in cui il protagonista assume il controllo di una banda di peone pronti a dichiarare guerra ai proprietari terrieri per riprendersi ciò che considerano loro. Questi aspetti fanno di Requiescant l'antesignano per eccellenza del futuro tortilla western (da cui si estranea per non essere ambientato in un clima da rivoluzione messicana) nonché, insieme a La Resa dei Conti, uno dei primi esperimenti in cui si cerca di introdurre la politica all'interno di un western. Il progetto nasce dalla volontà di proporre tematiche contemporanee (la giustizia, la libertà, la lotta di classe, secondo alcuni persino la critica all'interventismo americano), che non avrebbero potuto trovare sbocco - causa censura - in altri tipi di film. Ecco che nasce un film che miscela lo spaghetti-western leoniano (dunque scene brutali, duelli sopra le righe, omaggi a Per Qualche Dollaro in Più come la scena in cui Castel cerca di raccogliere da terra un pezzo di pane su cui spara, di volta in volta, Viotti) alla filosofia politica. Ne deriva un prodotto divergente dai canoni usuali, allo stesso modo del protagonista interpretato da Lou Castel. Il ruolo dell'eroe infatti non viene ricoperto da un pistolero canaglia dalla battuta sempre pronta, ma da un giovane ragazzo piuttosto trasandato, che va in giro con aria da perdente e con look bizzarro: cappello da predicatore, pistola tenuta alla vita da una corda in stile francescano e breviario in mano per pregare al cospetto dei nemici da lui stesso uccisi (da qui il nomignolo Requiescant). Questi aspetti conferiscono al film un alone di culto, ma non sono i soli. Il soggetto, che ha in Franco Bucceri (futuro interprete nonché sceneggiatore di opere quali il thriller Mio Caro Assassino, California e il comico Vieni Avanti Cretino) il suo principale ispiratore, concentra gli sforzi sul valore della libertà. Purtroppo però il film si perde in una parte centrale troppo lenta, avulsa rispetto al vero tema trattato, e funzionale a caratterizzare il protagonista. È nella seconda parte che il film sale in cattedra, grazie ai dialoghi curati dall'esperto Adriano Bolzoni, giornalista e saggista ormai maturato nel genere (e poi capace di affermarsi soprattutto nel poliziottesco), ma anche per merito di svariate sequenze spettacolari ben messe in scena da Lizzani. Non è però tutto rose e fiori. Al di là della già citata lentezza, la 507 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sceneggiatura, che porta la firma anche di Armando Crispino (già autore di innumerevoli script affidati alla regia di Pietrangeli, nonché futuro regista di thriller di pregevole fattura quali L'Etrusco Uccide Ancora del 1972 e Macchie Solari del 1974), scricchiola per via di alcuni passaggi un po' forzati. Assurda, al riguardo, è la decisione di Ferguson, cioè il personaggio interpretato da Damon, di far rapire la sorellastra di Requiescant proprio quando quest'ultimo se ne stava andando dal paese, lasciando campo libero all'antagonista e al suo braccio destro (innamorato, seppur in modo malato, della donna). Banale inoltre è la scena in cui Requiescant, senza aver mai preso una pistola, spara a due banditi centrandoli al primo colpo e ripetendosi in seguito senza fallire un bersaglio (neppure quando sarà completamente ubriaco!?). Se questi sono i difetti, i pregi sono, senza ombra di dubbio, ben superiori, a partire dalle caratterizzazioni dei due personaggi principali. Da una parte l'ingenuo Requiescant, dall'altra un misogino (interpretato da Damon), con una vena di omossessualità latente, che vive in un delirio narcisistico di potenza tale da teorizzare la schiavitù come migliore forma di vita per coloro che non sono aristocratici. “Sono più forte di tutti quanti! Sono un aristocratico, io, e batterò chiunque osi sfidarmi!” urla ai suoi, per poi prendersela col suo braccio destro, per il quale probabilmente nutre un'attrazione sessuale che lo porta a tenere un comportamento da amante geloso: “questa è una sottana, e questo un paio di calze a rete e queste sono mutande ricamate! Tutti indumenti che sono stati escogitati per annebbiare la mente degli uomini deboli e tu sei debole, perché per la tua visione annebbiata io ho perso tre uomini! Dimentica le donne, non permettono all'uomo di pensare. E l'uomo deve costruire, comandare, creare. Egli non può esser distratto da esseri inferiori, perché la donna è un essere inferiore. Il suo unico scopo è quello di riprodurre”. Come si può ben capire non vi è alcuna traccia di amore in Ferguson, ma solo un cinico opportunismo capace di sfociare in atteggiamenti da egemone. Indicativa è la scena in cui si definisce un benefattore poiché non fa mancare niente ai suoi schiavi. Così come per il protagonista, si tratta di un ruolo diverso da quanto visto fino ad allora. Ferguson, infatti, è un antagonista, seppur delirante, connaturato da una profondità e da un fascino filosofico. Ne è evidente l'arringa finale che farà alla fine, quando cercherà di smuovere le coscienze degli schiavi che lo hanno tradito convinti dal mi508 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

raggio di libertà: “Siete delle scimmie che vanno blaterando di libertà e questo mi fa ridere!” li urlerà contro, abbandonato dai suoi uomini al cospetto di un plotone di peone pronti a ucciderlo. “Per voi libertà vuol dire solo un pezzetto di terra su cui poter sedere e far niente. Siete dei primitivi! Voi non create, non costruite e come selvaggi continuate a vivere. Che avete saputo fare fino a oggi? Avete solo saputo distruggere quello che i vari George Bellow Ferguson del mondo hanno creato lavorando per secoli. Voi siete la zavorra della terra. Siete degli schiavi creati per servire. Siete nati servi e tali morirete, urlando la parola libertà di cui non sapete il significato!” Ciò che Ferguson non vuole capire è che ciascun uomo, a prescindere dalle qualità di cui è portatore e dal suo status economico, deve avere una possibilità di scelta, perché è proprio questa libertà, come dice nel film Pasolini, che distingue un uomo da un animale da lavoro. “Sono le idee che devono cambiare” afferma il personaggio di Pasolini, un prete rivoluzionario (altra bizzarria del film) che pur non accettando la violenza come via per ottenere giustizia ha finito per giustificarla, rispondendo al pessimismo di Requiescant circa l'istituto della proprietà. “I campi e il bestiame possono passare di mano, cambiare padrone e nuovi padroni significa nuovi servi”. “La giustizia sta nel cuore dell'uomo giusto e chi ha il senso della libertà non ha bisogno che gli si spieghi nulla”. Ecco quindi che il concetto di libertà si caratterizza per essere la chiave necessaria a perseguire la giustizia e vincere la violenza, poiché senza libertà non ci sarà mai giustizia né gratificazione personale. Bellissimo l'epilogo che tocca apici di caratterizzazione psicologica degne di un capolavoro. Ormai accerchiato dai peone, Ferguson, dopo essersi esibito in un monologo che esprime il suo manifesto filosofico, cerca di suicidarsi sparandosi alla testa, perché non accetta di esser disonorato da quelli che considera animali. “Lasciami morire come un gentiluomo” supplica, ma Requiescant, che gli sta davanti, gli spara alle braccia per impedirgli di suicidarsi fino a ucciderlo, senza battere ciglio, al cospetto dei peone. Il tasso di violenza del film è decisamente alto per l'epoca, non a caso la visione viene vietata ai minori di quattordici anni e la censura pratica una serie di tagli nelle versioni destinate al mercato estero. Fin dalle prime battute, Lizzani mette in scena dei passaggi davvero brutali. Si va dal primo piano di un bambino, il piccolo Requiescant, che riceve una pistolettata in testa con tanto di sangue che si allarga 509 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sulla fronte, alla brutale impiccagione di Barbara Frey. Non mancano poi le scene di tortura ai danni del protagonista, che riuscirà a scappare grazie all'intervento di terze persone. Memorabili varie sequenze, con sprazzi di regia di primissimo ordine. La sequenza principe è sicuramente l'inedito duello in cui i due contendenti (Castel e Viotti) si passano un cappio al collo e salgono su una sedia in attesa del momento di spararsi contro. La particolarità del duello sta nel fatto di dover sparare non contro l'avversario, ma sulle gambe della sedia in cui questo è salito in modo da farlo morire impiccato. Dunque un diversivo esaltato dall'alternanza di primissimi piani, che si succedano in attesa che sull'orologio appeso al muro scocchi l'ora in cui estrarre la pistola (idea che sarà ripresa da Sam Raimi in Pronti a Morire). Degno di nota è anche il perverso gioco tra Damon e Castel. I due si sfidano sparando su bersagli fissi, via via sempre più lontani, bevendo a ogni giro un bicchiere di liquore (sarà riproposto qualcosa del genere in Il Mio Nome è Nessuno). La particolarità sta nel fatto che i bersagli sono tenuti in mano da donne costrette a vedere la morte in faccia a ogni giro! Spettacolare è infine l'assalto, a colpi di dinamite, condotto da Damon ai danni di un Castel rintanato in una struttura diroccata e letteralmente costretto a girare in mezzo alle lingue di fuoco. Il nostro si salverà rannicchiandosi dentro una campana. Non mancano altri momenti di grande effetto. Oltre al citato finale, è indimenticabile il campo di sabbia infestato da teschi e scheletri abbandonati sotto la luce del sole, dove Requiescant scopre la sua vera origine e dove i massacri di Ferguson restano vivi nel ricordo. La quantità e la qualità di queste scene testimoniano l'ottimo lavoro e la crescita in cabina di regia di Lizzani. Già visto all'opera nel western Un Fiume di Dollari, il romano compie un netto salto in avanti e sforna un'opera geniale. Il suo limite sta nella non sempre perfetta capacità di scandire un ritmo coinvolgente, ma si tratta di un difetto eclissato dalle fiammate di stile che rendono la pellicola magica e densa di significati. Regista considerato tra i più importanti nel panorama cinematografico nostrano, nato come critico cinematografico, quindi convinto partigiano e attivista del partito comunista, sceneggiatore e documentarista nella seconda metà degli anni '40, con una nomination all'Oscar per la migliore sceneggiatura ottenuto con Riso Amaro (1949) di Giuseppe De Santis e il primo premio a Locarno vin510 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

to con la sceneggiatura di Germania, Anno Zero (1948) di Rossellini. L'interesse degli americani l'aveva quindi spinto a interessarsi in prima persona alla regia, dopo aver fatto da aiuto a Rossellini. Achtung! Banditi! (1951) segna l'inizio di una lunghissima carriera terminata nel 2011, fatta da circa settanta pellicole. Molti i premi e le nomination ottenute, tra cui il primo premio al Festival di Cannes con Cronache di Poveri Amanti (1953), il Laceno d'Oro al Festival di Avellino con il neorealista Il Processo di Verona (1963) e la duplice nomination all'Orso d'oro del Festival di Berlino ottenute con lo splendido poliziesco girato con piglio documentarista Banditi a Milano (1968), premiato anche con un David di Donatello e un Nastro d'Argento, e con il film a episodi Amore e Rabbia (1969). Negli anni '70, come dirà Roberto Poppi, la produzione di Lizzani “si segnalerà per tutta una serie di opere in cui è protagonista la cronaca quotidiana e dove vengono denunciati i mali che tormentano il paese.” Usciranno così pellicole apprezzatissime all'estero come il poliziesco Torino Nera (1972), il reportage politico San Babila ore 20: Un Delitto Inutile (1976) o Fontamara (1977), trasposizione del romanzo di Ignazio Silone in cui si analizzano gli sfruttamenti dell'entroterra rurale del sud. Negli anni '90 e nel decennio successivo arriveranno i premi alla carriera (David di Donatello nel 2007, vinto peraltro anche nel 1996, unitamente al suo secondo Golden Globe italiano, con Celluloide; Nastro d'Argento nel 2008 e Golden Globe italiano nel 2009), a coronamento di una carriera prestigiosa densa di continui riferimenti politici. Il lavoro di Lizzani viene così ad agevolare anche gli attori. Ecco che si assiste a una performance immensa di Mark Damon. L'americano sfoggia espressioni e atteggiamenti degni di un demone dell'inferno. È lui, da un punto di vista interpretativo, il mattatore del film. La sua bravura sta nel far venire a galla quella follia allucinata e al tempo stesso controllata che avvolge, come un'aura, la figura del suo personaggio. È senza dubbio una delle sue migliori prove. Grazie a film come questo e al precedente Johnny Oro, Damon riesce così, all'età di trentatré anni, a rivitalizzarsi e a ritagliarsi un importante spazio nella cinematografia italiana. Lanciato dalla fortunata serie americana Alfred Hitchcok Presenta (1955), era giunto in Italia nel 1963 dopo aver recitato con ruoli marginali in film di maestri hollywoodiani del calibro di Richard Fleischer (I Diavoli del Pacifico del 1956), Roger Corman (il cult horror I 511 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Vivi e i Morti del 1960) ed Edward Dmytryk (Cronache di un Convento del 1962). Aveva quindi ottenuto la possibilità di mettersi in mostra con una certa regolarità e con ruoli da protagonista a partire dal capolavoro horror di Mario Bava I Tre Volti della Paura (1964). Verrà in seguito chiamato in film italiani di ogni genere, dall'horror al thriller, passando per il western e l'erotico, con personaggi molto diversi tra loro ma quasi tutti caratterizzati da un'aura di fascino maledetto. Purtroppo non riuscirà a confermarsi su livelli alti e le sue interpretazioni saranno caratterizzate da un'alternanza che lo porterà, a poco a poco, a esser relegato in produzioni di basso profilo. A metà anni '70, deciderà di ritirarsi per intraprendere con una certa soddisfazione la carriera di produttore con opere quali La Storia Infinita (1984) e l'horror Paura.com (2002). Se Damon appare allucinato e diabolico, è invece quieto e sotto tono Lou Castel, al suo secondo western dopo Quien Sabe? (1966). Ne interpreterà, sempre con toni sommessi e nei panni di un giovane con usi bizzarri, un terzo solo qualche anno dopo: Matalo!(1970). Guest star della pellicola è Pier Paolo Pasolini, attore, regista e poeta che non ha bisogno di presentazioni, coinvolto per i contenuti politici e intenzionato a dirigere pure lui uno spaghetti-western che poi non farà mai. Si dice che i produttori lo abbiano pagato donandogli una Ferrari. Pur avendo dei dialoghi maiuscoli, la prova del maestro non è delle migliori. Bravi Ferruccio Viotti e la carinissima Barbara Frey. La fotografia e la colonna sonora non sono invece tra le migliori. Giustamente la pellicola viene esaltata dagli appassionati, meno dai critici. Marco Giusti esordisce con una frase che rende bene l'idea: “uno dei prodotti di maggior culto dello spaghetti-western politico.” Entusiasti anche Tom Betts e il regista Alex Cox. Il primo lo definisce un classico, il secondo lo pone in sesta posizione nella sua classifica degli spaghetti-western preferiti e lo usa come modello per dimostrare come il western italiano non sia solo Sergio Leone. Filmtv.it, che lo reputa naif, si limita a concedergli tre stelle; più che sufficiente per gli utenti di imdb.com. Vergognoso il Morandini che gli da solo due stelle, aggiungendo che l'unico motivo di interesse è costituito dalla presenza di Pasolini. Fa addirittura peggio 800spaghettiwesterns.blogspot.it che lo boccia, con durissime critiche alla sceneggiatura e agli attori. In particolare critica i dialoghi reputati troppo pesanti e noiosi, per la scelta di infarcirli di tematiche politi512 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

che. Io, invece, ve lo consiglio assolutamente. Da avere in videoteca. Per gli amanti delle citazioni: “Solo un uomo libero è un uomo” Il mese si chiude con il terzo western di Rafael Romero Marchent, il quale torna al melodramma dopo lo sperimentale Una Donna per Ringo - girato in fretta e furia per ragioni alimentari – regalando un western semisconosciuto ma di primissimo livello. DUE CROCI A DANGER PASS Produzione: Italia-Spagna, 1966. Prodotto: Eduardo Manzanos Brochero (Cooperativa Cine Espana), Carlo Caiano e Giuliano Rialti (United Pictures). Regia: Rafael Romero Marchent. Soggetto e Sceneggiatura: Enzo Battaglia. Interpreti Principali: Pietro Martellanza (Peter Martell), Luis Gaspar, Mario Novelli (Anthony Freeman), Armando Calvo, Mara Cruz (Mara Krup), Nuccia Cardinali, Dyanik Zurakowska, Jesùs Puente. Fotografia: Emilio Foriscot e Sergio Martinelli. Musiche: Francesco De Masi. Sottogenere: Revenge Movie. Durata 86 min. Giudizio Mancini: *** Giudizio Morandini: * La trama Dopo aver assistito all'uccisione della propria famiglia, a opera di un signorotto (Calvo) che tiene sotto scacco Danger Pass, il piccolo Alex viene allevato da una famiglia di quaccheri e cresce covando vendetta nonostante gli insegnamenti pacifisti che gli vengono impartiti. Divenuto adulto (Martellanza), contro il parere della famiglia di adozione, ritorna in paese per vendicarsi. Ad attenderlo troverà il signorotto e il figlio di quest'ultimo (Gaspar), ma anche il fratellastro (Novelli) il quale farà di tutto per convincerlo a non ricorrere alla violenza, nonché la sorella (Cruz) rapita il giorno dell'omicidio del padre 513 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

e costretta a vivere da sguattera. Seguirà l'insanguinato regolamento di conti. Commento Paella western low cost con piccola compartecipazione italiana, che vede due dei principali apripista tra i produttori del genere: lo spagnolo Eduardo Manzanos (vero e proprio padre dello spaghettiwestern insieme ad Alberto Grimaldi) e Carlo Caiano, entrambi già attivi a partire dal biennio '62/'63 rispettivamente con Zorro, il Vendicatore (1962) e Duello nel Texas (1963). Anche alla regia troviamo un nome “storico”, infatti l'opera viene affidata a Rafael Romero Marchent, fratello del più famoso Joaquìn (primo regista ad avventurarsi nel genere), già convincente con Mani di Pistolero (1965). Fa la sua comparsa invece un volto nuovo alla sceneggiatura, il nostro Enzo Battaglia, tuttavia non muta la tipica impronta marchentiana. Per Battaglia è una parentesi estemporanea dovuta a ragioni alimentari. Già assistente di Pietro Germi in Divorzio all'Italiana (1961), aveva tentato la fortuna, non ancora trentenne, dirigendo, tra il 1962 e il 1967, un poker di pellicole esistenziali di scarso successo commerciale seppur alcune di esse, come Gli Arcangeli (1962), apprezzate dai critici. Non godrà di particolare fortuna neppure dopo questa incursione nel cinema bis, chiudendo nel 1975 una carriera senza acuti con un totale di otto pellicole sceneggiate di cui sei dallo stesso dirette. Nella fattispecie Battaglia riesce a intessere uno script solido, strutturato attorno al tema della vendetta. Il plot si rifà ai western di Joaquìn Romero Marchent, grazie al ruolo giocato dai legami familiari (fratelli e sorelle) e dai diversi approcci di reazione al cospetto delle ingiustizie, il riferimento più marcato va a I Tre Spietati (1963). Assistiamo infatti all'uccisione di un uomo e una donna davanti agli occhi atterriti di due bambini (fratello e sorella) che poi, nel proseguo del film, andranno a caccia della loro vendetta un po' come avverrà col più conosciuto Da Uomo a Uomo (1967). Oltre all'evidente omaggio alla filmografia western ispanica, il prologo si caratterizza anche per un evidente omaggio ai western preleoniani. Abbiamo uno sceriffo integerrimo che si ribella alle prepotenze di un bullo locale fino a sacrificare la propria vita e quella della pro514 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

pria famiglia in nome della giustizia, asserragliandosi all'interno di una casa messa sotto bersaglio dai banditi. “Non potrai mai capire che uno preferisca morire piuttosto che diventare assassino” dirà al bullo che, in tutta risposta e con fare arrogante, farà impiccare il protetto dello sceriffo tuonando: “Hai voluto sfidarmi e ora paghi. Avrai la lezione che meriti, perché così tutti capiranno che è bene non mettersi contro i Morane.” La ferocia dell'uomo, cui da corpo il caratterista Armando Calvo (già visto in Una Bara per lo Sceriffo), raggiunge apici di una crudeltà inaudita, ma piuttosto comune nei paella western. Lo vediamo addirittura prendere a cinghiate una bambina in pieno volto (scena fuori campo) e costringerla poi a vedere l'esecuzione dei genitori assassinati con due colpi di pistola a bruciapelo. L'opera si sviluppa proponendo un netto contrasto tra la sete di vendetta dei due bambini divenuti adulti. La sorella, sempre sulla scia de I Tre Spietati, esorterà il fratello a giurarle di uccidere i responsabili della morte del padre (“non permettere che io muoia senza che la vendetta sia compiuta”). Farà invece l'opposto il fratellastro, il quale, da vero e proprio grillo parlante di collodiana memoria, farà di tutto per ostacolarne i propositi in nome della non violenza (“la violenza chiama altra violenza”). Proprio in quest'ultimo rapporto risiede il punto di forza del film. Da una parte abbiamo un personaggio che accetta la violenza quale unico modo per farsi giustizia, ponendosi lui stesso sullo stesso piano dei bulli; dall'altra un giovane che personifica la coscienza buona del vendicatore funzionale a riequilibrarne gli impulsi negativi. Il confronto si risolverà a vantaggio del primo, tanto che vedremo il protagonista scagliarsi contro il fratellastro prendendolo a pugni e persino a tentare di violentare e percuotere la figlia dell'antagonista in una parabola comportamentale che, a poco a poco, lo priverà di qualsiasi freno inibitore, aspetto caro al regista visto che aveva già proposto un qualcosa del genere in Mani di Pistolero. Dunque non ci sono eroi e il finale melodrammatico, in cui tutti si ritroveranno a piangere in una rivolta totale (il paese intero si ribellerà ai bulli), sarà l'ennesima dimostrazione per sottolineare come la violenza conduca a un circolo vizioso ricco di tragiche conseguenze. Quindi un film dalla struttura semplice, ma ben amalgamato e con alcuni dialoghi graffianti. Ne è un esempio la scena in cui il protagonista, pur di uccidere i suoi rivali, si prepara a scagliare un candelotto di dinamite all'interno di un saloon ritenendo tutti gli avventori re515 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sponsabili indiretti delle malefatte dei bulli: “Coloro che permettono le ingiustizie sono colpevoli tanto quanto coloro che le commettono” sentenzia al fratello, che per dissuaderlo entra anch'egli nel saloon. Rafael Romero Marchent, a differenza di Joaquìn, non eccelle nella direzione delle scene di azione e la sua è una regia piuttosto convenzionale. A sua discolpa c'è da dire che il basso budget non gli permette di svariare e costringe gli operatori a muoversi in un contesto scenografico piuttosto ripetitivo. La cifra stilistica dello spagnolo riesce comunque a emergere, poiché Marchent non risparmia scene crude. Ci sono omicidi a sangue freddo, pestaggi a danno di poveri cristi, ma anche frustate (fuori campo) inferte a un bambina di otto anni e (questa volta inquadrate) a una donna in lacrime riversa al suolo. La sequenza migliore, per l'atteggiamento smargiasso del protagonista, è quella in cui vediamo il nostro fingersi ubriaco e provocare la reazione del figlio dell'antagonista durante il matrimonio della sorella dello stesso. Ne segue la scazzottata tra i due e la successiva presa di giro del nostro che andrà a canzonare il padre del malmenato, dando le spalle a quest'ultimo ormai riverso nella polvere, dicendogli: “Eccolo là, ve lo restituisco, signor Morane, padre di un figlio idiota. Porgo i miei omaggi e i miei ringraziamenti per avermi dato la possibilità di partecipare a questo giorno indimenticabile. Addio, signor Morane” e così chiudendo lo vediamo tuffarsi a terra per evitare il proiettile sparato a tradimento dal malmenato, colpo che finirà con l'uccidere proprio il signor Morane per la gioia dell'intero paese. “Morane è stato ammazzato da suo figlio, questa è vera giustizia divina... Meritava mille volte la morte che ha fatto” sottolineerà un cittadino. Il cast artistico, complice il budget, è piuttosto povero, ma vede spiccare l'ottimo Pietro Martellanza, accreditato Peter Martell, fino ad allora semisconosciuto. Dai tratti simili a quelli di Anthony Steffen, l’attore di Bolzano arriva al film con un pugno di opere girate tra il 1963 e il 1966 in cui aveva per lo più ricoperto ruoli da comparsa. Con Due Croci a Danger Pass Martellanza dimostra di avere ottime capacità recitative per ruoli allucinati e sopra le righe (qua lo vediamo fare il damerino, poi il duro infine il folle), che lo metteranno in buona luce per ruoli da antagonista. Proseguirà la carriera fino alla metà degli anni '70, confinato nel mondo del cinema bis. Verrà ingaggiato nel 1967 da Colizzi, per affiancare Bud Spencer in Dio perdona… io no, film che non girerà causa infortunio e relativa sostituzione a beneficio di Terence Hill. 516 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Purtroppo Martellanza non si affermerà quanto avrebbe meritato, cadendo nelle sabbie mobili costituite dai B-movie di terza fascia. Personalmente lo ricordo nel thriller non molto riuscito La Morte Accarezza a Mezzanotte (1972) di Luciano Ercoli e nel western Il Pistolero dell'Ave Maria (1969). Oltre a Martellanza si rivelano in palla il trio di attrici femminili, tutte piuttosto attraenti. Il compito più difficile va alla madrilena Mara Cruz, alla quale viene riservato il compito di interpretare la sorella del protagonista, costretta a fare la sguattera per poi ribellarsi e inveire nei confronti dei padroni. La Cruz, già vista in Johnny West, il Mancino (1965) oltre che nel peplum La Rivolta dei Gladiatori(1958), offre una prova convincente e, insieme a Martellanza, si rivela la migliore. Proseguirà la carriera soprattutto in Spagna e in film di scarsa presa commerciale. Più seducenti, ma con funzioni quasi ornamentali, Dyanik Zurakowska (non proferisce quasi battuta e si limita a fare gli occhioni commossi quando viene minacciata da Martellanza) e la nostra Nuccia Cardinali (la più bella tra le tre, con un profilo vagamente somigliante a quello di Janet Agren) che si esibisce cantando due pezzi messi lì tanto per permetterle di dar sfogo alle capacità canore. La Cardinali arriva dai fotoromanzi (ne aveva interpretati circa quaranta da protagonista), ma si era altresì distinta con una serie di 45 giri incisi fin dai primi anni '60. Chiuderà la carriera nel mondo del cinema nel 1975 con una dozzina di pellicole di basso budget nel carniere. Più longeva invece la carriera della Zurakowska, vera e propria musa del paella western (soprattutto agli ordini di Rafael Romero Marchent) e dell'horror ispanico con pellicole mediocri (molte delle quali mai giunte in Italia) quali Le Notti di Satana (1968) di Enrique L. Eguiluz e L'Orgia Notturna dei Vampiri (1974) di Leòn Klimovsky. Nata in Congo, la Zurakowska era cresciuta in Spagna e poi emigrata in Francia, proseguirà la carriera con una quarantina di pellicole prodotte tra il 1965 e il 1977 quasi tutte di genere. Meno convincenti Mario Novelli (è il fratellastro votato alla pace) e i due attori chiamati a ricoprire le vesti dei cattivi di turno. Da una parte l'esperto Armando Calvo, dall'altra Luis Gaspar. A entrambi vengono affidati ruoli dalle caratterizzazioni stereotipate. Abbiamo il vecchio bullo padrone terriero che crede di stare sopra alla legge e il figlio di papà di fulciana memoria (il riferimento va a Le Colt Cantarono la Morte... E fu Tempo di Massacro) che compie ogni sorta di 517 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

prepotenza e frusta a piacere donne e coloro che si frappongono ai suoi piani. Lo scarso carisma dei due attori non sopperirà alla scarsa vena degli sceneggiatori. Crepuscolare la fotografia del duo Foriscot-Martinelli, mentre è piuttosto anonima (la ritiene invece superba 800spaghettiwesterns.blogspot.it) la colonna sonora di Francesco De Masi con main theme cantata dallo specialista Raoul. Apprezzatissimo in Spagna, dove non manca chi lo considera tra i migliori paella western mai realizzati, Due Croci a Danger Pass rimane tuttora un oggetto piuttosto misterioso in Italia. Il Morandini stranamente sembra averlo visionato e, ovviamente, lo stronca con una stella e il laconico commento ha l'aria di esser stato girato, scritto e ideato con la carta carbone. Non ci vanno teneri neppure gli utenti di imdb.com che gli affibbiano uno scandaloso quattro in pagella. È severo persino spaghettiwestern.altervista.org che dimostra di non conoscere il regista (che ricordo, era specializzato nel tratteggiare protagonisti psicotici), lamentando una certa confusione e alternanza negli atteggiamenti di Martellanza. Incomprensibile anche la critica sulla morte di Morane che viene erroneamente definita per fatalità, quando invece è stata diabolicamente costruita dal protagonista proprio per farla passare come un incidente. Secche le critiche alla sceneggiatura, giudicata priva di incisività, così come alla regia (western girato con poco mestiere) Più morbidi il Farinotti e filmtv.it, i quali concedono due stelle. Il sottoscritto si allinea all'appassionato spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it che reputa il film un ottimo prodotto, con omaggi a Un Dollaro d'Onore (1959) di Howard Hawks (per il sottoscritto il riferimento, dovuto allo scambio finale di prigionieri tra i due rivali contrapposti, non è molto appropriato), al punto da dargli un bel sette in pagella. In particolare plaude la regia di Rafael Romero Marchent sostenendo come lo stesso diriga il tutto con la consueta eleganza e competenza, dimostrando, ancora una volta, di conoscere perfettamente i codici del western. Da rivalutare. Western meno qualitativi, ma comunque degni di nota sono quelli che escono nel mese di aprile, dove mancano prodotti firmati da registi già affermati nel genere. Si registra tuttavia il debutto, in un film tutto suo, del ventinovenne Enzo G. Castellari che, firmandosi Edward G. Rowland, si presenta a fari spenti, ma che sarà capace di diventare 518 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

uno dei più grandi registi nostrani di azione. Il 1967 sarà per lui un anno molto proficuo, girerà addirittura quattro western. Il primo del poker è Sette Winchester per un Massacro, con cui cerca di miscelare le atmosfere d’oltreoceano con il cinema di Sergio Leone. L'idea di partenza viene infatti legata alla vera storia del colonnello sudista Shaw che, alla fine della guerra di secessione, costituì un esercito non intenzionato ad accettare l'armistizio che concludeva il conflitto a sfavore dei confederati. Il film, tutt’altro che trascendentale, viene ricordato per alcuni gustosi aneddoti. Il primo riguarda l’ansia da prestazione che colpisce Castellari nei primi giorni delle riprese. Al primo ciak, infatti, tutto il cast rimane basito all’udire l’ordine del regista di sospendere i preparativi e attendere l’arrivo del padre, Marino Girolami. Castellari sembra sul punto di mollare, per usare una terminologia informatica è andato in overhead prima ancora di iniziare, non sa più dove collocare le macchine da presa. Il secondo aneddoto riguarda l’attore che avrebbe dovuto ricoprire il ruolo del protagonista, poi andato a Edd Byrnes. Castellari preme per avere Robert Redford. L’attore americano, all’epoca non ancora famosissimo, vanta già un discreto curriculum - con collaborazioni con Sydney Pollack - ma non a sufficienza per convincere Sbarigia, il produttore, che pone il suo veto. La scelta non è felice, anche perché lo script del duo Castellari-Carpi non è dei migliori e non propone niente che possa distinguerlo dalla massa (siamo ancora alle prese con cacciatori di taglie e stranieri doppiogiochisti). I debiti con Per Qualche Dollaro in Più sono marcati. Viene riproposta la coppia di infiltrati in una banda di banditi alla caccia di un bottino, con relativa uccisione, uno a uno, dei manigoldi allo scopo di intascarne le taglie. Scopiazzato anche Il Buono, il Brutto, il Cattivo da cui viene ripresa l'idea del tesoro sepolto in un cimitero, nonché l'atteggiamento del protagonista che fa il misterioso quando deve rivelare il luogo in cui è celato il bottino. Il protagonista inoltre veste i panni del solito straniero dai modi ambigui e col vezzo del sigaro (peraltro con look molto simile a quello di Clint Eastwood). Peccato, perché il film parte con un ritmo sollecito e con spunti di riflessione piuttosto originali sulla guerra, che non verranno sviluppati in corso d'opera. “In guerra sei un eroe, se ammazzi qualcuno ti danno la medaglia” dice un uomo parlando del colonnello Blake (ruolo che viene assegnato a Guy Madison, per alcuni nella sua migliore performance), ri519 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

cercato dalle autorità per i suoi crimini. “Certa gente ha imparato solo a uccidere e non la smette più. Che ci vuoi fare, è la sporca conseguenza di ogni guerra. Pensa se avessimo vinto noi, a quest’ora il Col. Blake, magari, sederebbe in parlamento e forse non sarebbe nemmeno il peggiore” gli risponde un altro. La verve di originalità si esaurisce dopo i primi dieci minuti, evaporando in una serie di scene inverosimili che portano presto alla noia. Alto inoltre, come sottolinea Marco Giusti, il livello d'ingenuità che pervade la pellicola. Ne è una dimostrazione la scena che vede la banda di Blake superare il confine, uccidendo gli Yankee con questi che non si accorgono che i banditi son nascosti, in sella ai cavalli, dietro ai cadaveri dei soldati messicani!? I personaggi sono poco caratterizzati (non è d'accordo 800spaghettiwesterns.blogspot.it che vede in ogni personaggio una specifica caratteristica), fa eccezione un delinquente solito uccidere i nemici facendo una capriola per colpirli con gli speroni alla gola. Il taglio di Castellari è ancora acerbo e poco personalizzato, tuttavia si respira un certo amore per le acrobazie e le scene action, vero marchio di fabbrica dell’autore (in passato maestro di armi). La regia è a tratti incerta sulla piega da dare al film (si passa di continuo dal serio alla commedia e poi al grottesco). Interessanti, sotto il profilo visivo (ottima la fotografia di Aldo Pennelli), alcune scene finali, con Castellari che gioca con le ombre in un cimitero indiano ben ricostruito. Buone le inquadrature in primissimo piano con la mdp posizionata dietro a una pistola o le soggettive con le mani poste su parte dell’obiettivo. Sufficienti le musiche di De Masi. Nel complesso un film non pessimo, ma nemmeno di culto (conformi gli utenti di imdb.com che gli danno cinque e mezzo in pagella). La pensa diversamente 800spaghettiwesterns.blogspot.it che lo reputa buonissimo, con punte di eccellenza assicurate dalla regia di Castellari (bravo, a suo dire, nelle carrellate e negli zoom) e dalle musiche. Ne parla bene anche spaghetti-western.altervista.org che sottolinea la cura delle scenografie e la buona tensione suscitata dal regista. Pochi giorni dopo il film di Castellari, un altro maestro d'armi si lancia all'avventura debuttando dietro alla macchina da presa. È il trentaquattrenne catanese Alfio Caltabiano, regista che uscirà di scena nel 1974 dopo aver girato altri sei modesti film (di cui due western di stampo comico). 520 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

La pellicola, intitolata Ballata per un Pistolero (1967), viene ideata e voluta fortemente dal regista, all'epoca stimato maestro d'armi - con partecipazioni in film del calibro de Il Colosso di Rodi (1960) di Sergio Leone e di altri peplum firmati da Michele Lupo - nonché stuntman e controfigura di attori quali Charlton Heston in Ben Hur (1959). È lo stesso Caltabiano a investire capitali nel progetto, coinvolgendo un corposo gruppo di imprenditori italiani, improvvisati produttori, affiancati dal più esperto co-produttore tedesco Ernst R. von Theumer, professionista con un passato da direttore della fotografia e da regista nonché fresco reduce dalla coproduzione del capolavoro Requiescant (1967) di Lizzani. La sceneggiatura e il soggetto portano ancora una volta la firma di Caltabiano, il quale decide di dar vita a un prodotto dalla forte impronta leoniana. L'eco di Per un Pugno di Dollari e soprattutto di Per Qualche Dollaro in Più si respira fin dalle prime sequenze, addirittura dai titoli di apertura (sagoma in nero di un cavallo al galoppo su sfondo rosso). Si assiste così a una copia carbone del secondo capitolo della trilogia del dollaro; Caltabiano ripropone battute (“Al mio mulo non piace la violenza”), situazioni (partite a poker dove si gioca la pelle; cassaforte dalla forma di armadio custodita in una banca che dovrebbe essere inattaccabile; o ancora l'evasione del protagonista pestato a sangue, ma capace di travolgere i carcerieri con uno stratagemma che fa sgretolare la cella sugli stessi come in Per un Pugno di Dollari; per non parlare del tentativo dell'antagonista di usare i due protagonisti per far loro debellare la sua banda e poter così dividere il bottino rapinato solo con suo fratello), volti (brutti ceffi ripresi in primissimo piano), voci (il protagonista ricalca Mortimer del secondo capitolo della trilogia del dollaro ed è doppiato dallo stesso doppiatore di Van Cleef) fino a riutilizzare l'idea del vecchio in cerca di vendetta (che nella fattispecie disprezza i cacciatori di taglie) e del giovane spaccone bounty killer che, dopo vari scontri, si allea con il più anziano per debellare la banda di messicani e intascarne le taglie (anche se a fine film riceverà una lezione di etica). Le novità sono del tutto assenti, si segnala solo un personaggio secondario, cui da corpo Dante Maggio, che va in giro con un giubbetto carico di candelotti di dinamite (simpatica la sequenza in cui viene presentato e che lo vede impegnato a far muovere su dei binari una serie di carrelli azionati da piccole cariche esplosive). Ne deriva un western che sa di già visto, con un ritmo non trascen521 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

dentale, penalizzato da una mediocre caratterizzazione dei personaggi. Di interessante si segnala il legame che a fine film si scoprirà esserci tra il vecchio e il giovane bounty killer, in una delle poche sequenze degne di esser salvate. “Ragazzo, nella vita si incontra sempre un uomo più forte, uno più intelligente e uno più rapido” dirà il vecchio al giovane, dopo averlo battuto in duello in una cornice ambientale di discreto impatto visivo (un rudere attorniato dalle montagne e dai massi). Incomprensibile a metà film, invece, la piega comico/demenziale che prende la rissa al saloon, in quanto completamente scollegata da tutto il resto. L'opera difatti è incentrata su un capobanda che uccide a sangue freddo cani legati alla catena, uomini disarmati e scaglia cazzotti in pieno volto alle donne. Caltabiano, dal canto suo, ce la mette tutta, garantendo una messa in scena più che sufficiente. Si sobbarca persino ruoli inconsueti per un regista, ricoprendo quello di attore antagonista (piuttosto legnoso, nonostante il fisico da ex pugile e l'esperienza maturata in una dozzina di peplum) e persino di controfigura del protagonista nelle scene di azione. In quest'ultima veste infatti debutta nel cinema italiano Dragomir Gidra Bojanic, scelto da Caltabiano sia per le doti recitative, sia perché il film viene girato in Jugoslavia. Bojanic, con lo pseudonimo Anthony Ghidra, girerà altri quattro spaghetti-western, tra i quali l'ottimo L'Ultimo Killer (1967), per poi ritornare in patria. Attore statuario, dotato di un certo magnetismo sofferente, si rivela totalmente incapace nelle scene di azione. Caltabiano si trova costretto a sostituirlo di persona nelle scazzottate e a riprendersi sempre di spalle in modo da mascherare il fatto. A fare da spalla a Bojanic, a causa del forfait di Antonio Sabato, viene assunto in extremis Angelo Infanti. Già visto in Quattro Dollari di Vendetta (1966), Infanti si conferma inadatto al genere. La sua è una prova impostata, che determina un'interpretazione arrogante poco naturale. Il romano farà assai meglio in seguito, abbandonando il western. Nella norma le musiche di Giombini e la fotografia di Mancori. Il film non gode di particolare culto tra gli appassionati, ma viene trattato con rispetto un po' da tutti. Spaghettiwestern.altervista.org, pur riconoscendo i debiti con Leone, lo reputa divertente, molto movimentato e avventuroso. Sulla stessa linea è il portoghese por-um-punhado-de-euros.blogspot.it. Per filmtv.it e 800Spaghettiwesterns.blogspot.it è nella media. L'appassionato spagnolo evidenzia inoltre un 522 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

certo interesse per la religione, per via di alcuni dialoghi che chiamano in causa Dio e il Paradiso ma che, a mio avviso, hanno la valenza di dare un certo tono all'antagonista senza alcuna finalità filosofica. Insiste su tali tematiche anche l'americano spaghetti-western.net che vede nel film un superamento di Per Qualche Dollaro in Più, presentando il lavoro del cacciatore di taglie come un mestiere sporco e i bounty killer come uomini destinati a non avere la coscienza pulita. Persino il Morandini lo definisce decente e con ritmo sostenuto e, imitato dal Farinotti, gli rifila due stelle. 5,7 il voto degli utenti di imdb. A mio avviso, pur non essendo malaccio, è trascurabile. Non si salva invece Wanted Johnny Texas (1967), secondo western di Emimmo Salvi, dopo Tre Colpi di Winchester per Ringo (1966). Il film esce a fine aprile prodotto da imprenditori improvvisati (non faranno altri film) e con un budget ridicolo. Salvi scrive soggetto e sceneggiatura, ma lo fa con grande confusione, sconfinando nell'inverosimile. Il film prende le mosse in modo così frenetico da rendere difficoltosa sia la comprensione dei fatti sia, soprattutto, le caratterizzazioni dei personaggi. A quest'ultimo riguardo si poteva tentare di rendere più crepuscolare la figura del protagonista, un avaro che agisce per soldi ma anche per vendicare la donna che gli è stata assassinata e che era l'unica a volergli veramente bene. Il dolore dell'uomo emerge in un dialogo in cui afferma: “A volte uno che disprezza la vita sa meglio degli altri che certi sentimenti esistono.” Salvi non riesce a equilibrare la storia con i personaggi e lo sfondo psicologico di questi ultimi rimane abbozzato. L'eroe di turno è Johnny Texas, un bandito (Willy Colombini) salvato dalla forca da un generale (Sancho) di un esercito non ben precisato (visto che nessuno indossa divise eccetto i banditi!?), con il compito di svolgere una missione in cambio del perdono: il nostro dovrà infiltrarsi tra le file delle truppe di un pazzo sanguinario (Howard Ross), che ruba esplosivi per estorcere denaro a eventuali acquirenti. Fin qui nulla di bizzarro, se non fosse per l'interminabile serie di doppi giochi che Johnny Texas tiene con un numero inestimabile di soggetti. Così vedremo l'antieroe disattendere (apparentemente) agli ordini del generale, il quale tuttavia persevererà nel credere sul suo uomo che considera alla stregua di un figlio perduto, tanto da respingere le richieste di un superiore che gli riferisce che “Johnny Texas è 523 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

uno che si vende facilmente”. Va incontro a destino peggiore il pazzo sanguinario che chiude un patto con Johnny e che esce dal suo rifugio sotterraneo alla guida di un vero e proprio plotone di mercenari, vestiti con pantaloni nordisti e giacche rosse (!?), con l'idea di annientare il generale. Finirà invece sotto l'assedio dello stesso. A esser preda dei doppi giochi saranno anche una prostituta (Monica Braucher), che poi si scoprirà essere una spia del generale, innamorata di Johnny Texas e convinta di esser stata tradita dallo stesso, e un trio di manigoldi fatti liberare da Johnny per averli al suo fianco nell'espletamento della missione, ma di fatto ceduti dallo stesso al pazzo sanguinario. Completano il quadro dei ranger che vogliono impiccare Johnny, a prescindere dai voleri del generale. Dunque una trama intricata che sfocia in un finale di una superficialità e di un'assurdità unica. Il pazzo sanguinario capisce di esser stato tradito da Johnny e invece di ordinare la ritirata al suo plotone, che nonostante le numerose perdite sembra non diminuire mai di consistenza, esce allo sbaraglio e, in sella a un cavallo, va alla caccia del traditore, inseguito anche dalla sua innamorata che crede di esser stata tradita. Segue lo scontro fisico tra protagonista e antagonista, che si risolve a favore del primo. Ormai vittorioso però, Johnny viene abbattuto dal generale con un colpo di fucile sparato da distanza. I ranger, sopraggiunti sul luogo, pensano che Johnny Texas sia morto e rinunciano così a impiccarlo, mentre la spia del generale si dispera perché sostiene che Johnny era il suo uomo. In realtà il nostro non è morto, perché il generale ha usato proiettili a salve (!?). Così, andati via ranger e militari, Johnny si rialza e si prepara a mettere le mani sul carico di dollari che, nel frattempo, uno dei tre manigoldi (Dante Maggio) al suo servizio ha sottratto dal rifugio di Ross. Qui si assiste a un'altra assurdità clamorosa: Johnny decide infatti che è giunto il momento di sparare al socio, ma viene fermato dalla donna la quale favorisce la fuga del malcapitato e del carico di dollari. Johnny, per nulla offeso dall'aver perso il carico, abbraccia felice la donna e vediamo i titoli di coda. Assurdo...! Se il film fa acqua sotto il profilo contenutistico, è pur vero che Salvi riesce a fare qualcosa di buono alla regia anche se è troppo discontinuo nello scandire il ritmo (a tratti troppo frenetico, ad altri lentissimo come nella lunga sequenza con la Braucher che si diletta in un sensuale balletto). Probabilmente convinto di non avere attori di calibro, Salvi recepisce la lezione di Sergio Leone e ricorre oltre al nor524 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

male ai primi piani, limitando all'essenziale i campi medi e le inquadrature con figure intere. Ci sono sparatorie e scazzottate, ma non sono molto spettacolari sebbene si ricerchi qualche bizzarra inquadratura. A esempio vediamo Johnny Texas eliminare un rivale, appostato alle sue spalle, dopo averlo visto riflesso sulla placca dorata che tiene applicata sul fucile. Belle le sequenze iniziali grazie alla sexy Rosalba Neri, qua spesso seminuda e inquadrata di spalle con il dorso svestito e il vago profilo di una mammella, mentre amoreggia con il protagonista. Purtroppo l'attrice romagnola esce di scena dopo appena dieci minuti, uccisa da Howard Ross che tenta di stuprarla. Quando possibile, inoltre, Salvi cerca di dare un taglio visivamente bizzarro e lo ricerca per effetto di costumi accesi (prevalenza del rosso) e della fotografia di Emilio Varriano (futuro operatore di macchina di fiducia di Mario Bava a partire dal 1970 col film 5 Bambole per la Luna d'Agosto). Quest'ultima fa dei contrasti blu e verde, favoriti anche da alcune ambientazioni esterne e notturne ricostruite in studio, la sua caratteristica più evidente. Non male il montaggio dei titoli di apertura, con Johnny che scappa braccato da una serie di inseguitori e una serie di fermo immagine che si susseguono accompagnati da un colpo di pistola per ogni scritta che appare sul monitor. Sufficienti le interpretazioni, sebbene il cast artistico sia alquanto povero. Su tutti si distingue, nei panni dell'antagonista, il muscoloso Howard Ross, al secolo Renato Rossini, che ride di gusto, si esibisce in cadute, capriole e usa la propria mole per coprire più spazio possibile. Proveniente dai fotoromanzi, il romano era entrato nel mondo del cinema come controfigura e stuntman trovando nel peplum, grazie al fisico dalla muscolatura ben scolpita, lo sbocco naturale. Tra il 1963 e il 1965 ne aveva girati circa una decina, con ruoli via via più importanti, fino a interpretare Maciste in Ercole, Sansone, Maciste e Ursus gli Invincibili (1964) di Giorgio Capitani, alternandosi poi tra il macaroni combat, lo spaghetti-western e il poliziesco, quasi sempre con ruoli da antagonista. Non riuscirà mai ad assumere particolare importanza (anche se ricoprirà più volte ruoli da protagonista in piccole produzioni) pur diventando uno dei volti più noti del cinema di genere grazie a film quali Attentato ai Tre Grandi (1967) di Lenzi, 5 Bambole per la Luna d'Agosto (1970) di Bava, Il Boss (1973) di Di Leo, Lo Squartatore di New York (1982) di Fulci e tanti altri, per un totale di 525 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

settanta pellicole. Il ruolo di protagonista invece va a un altro romano: Willy Colombini, accreditato con lo pseudonimo di James Newman. Volto fotogenico da bellone, ma dai tratti tutt'altro che espressivi, Colombini viene scelto per la prestanza fisica. Ancora una volta, come già avvenuto in Tre Colpi di Winchester per Ringo, Salvi mette in scena due personaggi titanici forgiati dal cinema peplum. Anche Colombini infatti, pur avendo una formazione da ginnasta, arriva da film quali Le Fatiche di Ercole (1958) di Francisci, senza aver mai ricoperto ruoli di particolare importanza, ma avendo maturato esperienza soprattutto in veste di controfigura. A differenza di Howard Ross, Colombini non avrà fortuna restando confinato in produzioni di basso profilo, peraltro con ruoli marginali, e chiudendo la carriera nella seconda metà degli anni '70. Quello di Johnny Texas è il ruolo più importante della sua vita. Ruolo da pistolera piuttosto demente (visto che viene presa in giro da Johnny Texas e si muove in modo goffo) per la debuttante Monica Braucher, la quale sarà pur brava nel balletto, come dice Marco Giusti (fa un flamenco sexy da paura), ma è totalmente inverosimile nelle scene di azione. Non a caso chiuderà subito la carriera (farà solo un altro western, Buckaroo di Adelchi Bianchi). Presenza culto invece per un Fernando Sancho dai capelli e dai baffi biondi, qua nei panni di un generale buono ma dai modi bruschi e austeri. Il migliore dopo Howard Ross e il veterano Dante Maggio. Mediocre le musiche di Marcello Gigante. Con Wanted Johnny Texas si vola tra i western di quarta serie. Nessun successo al botteghino. Da ricordare per i dieci minuti iniziali in cui troviamo una attraente Rosalba Neri e per poco altro. Non è tuttavia privo di qualche fan. Marco Giusti dice: non si sa come prenderlo, potrebbe essere tra i migliori (!?) ma anche tra i peggiori, probabilmente siamo solo nel regno del cinema bis alla Emimmo Salvi, cioè un delirio totale. Più sbilanciato spaghettiwestern.altervista.org che parla di pellicola innovativa, stupenda e appassionante (!?) che ha il suo punto di forza nel non proporre un protagonista duro (io non vedo questa particolarità). Non sembrano avere poi tanti dubbi gli altri (pochi) appassionati che hanno visto il film. Il sito anglofono spaghetti-western.net parla di pseudo surrealismo involontario. Imdb.com gli rifila un 4,5 in pagella. Si tiene ben lontano dalla visione il Morandini e addirittura 526 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

filmtv.it che non esprime giudizio. Da segnalare inoltre l'uscita di Killer Calibro 32 (1966), western che da avvio alla trilogia che Alfonso Brescia farà uscire nell'annata con i primi due episodi prodotti da Bruno Turchetto e interpretati da Peter Lee Lawrence. Il copione di Enzo Gicca Palli opta per il giallo, con un pistolero (Lee Lawrence) nero vestito che indaga su una serie di rapine allo scopo di individuarne i responsabili. Possiamo quasi dire di essere alle prese con un antesignano di Sartana, ma Brescia non riesce a convincere. Farà assai meglio col successivo I Giorni della Violenza. Lee Lawrence viene reputato, dai più, inadatto al ruolo, a causa della giovane età (la pensa in modo opposto fistfulofpasta.com). Plausi generali per la colonna sonora di Robby Poitevin e il brano cantato da Maurizio Graf. Per il resto piovono fischi. Terribile e ingenerosa la bocciatura di filmtv.it: “Devono aver fatto una bella fatica a mettere assieme un gruppo così completo e cristallino di incapaci. Quasi tutti si nascondono dietro pseudonimi e non lo fanno per desiderio di americanizzazione, ma solo per difesa personale!” Sulla stessa lunghezza d'onda lo spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it, il quale focalizza l'attenzione sulla storia (voto: 3) qualificandola confusa e banale, con dialoghi imbarazzanti e un ritmo un po' pesante. Sembra poco riuscito anche a Marco Giusti. Curioso leggere il commento di spaghettiwestern.altervista.org che salva pure questa pellicola: “Davvero un gran bel film western. Ben confezionato, ottimi attori, ottime musiche, ottime scene d'azione, ottimo montaggio.” Quando si dice un testacoda... Tra i (pochi) fan figura infine fistfulofpasta.com: “Se siete estimatori delle saghe di Sartana o Sabata, potreste trovarlo divertente.” Il semestre si chiude all'insegna degli spaghetti-western di quarta fascia, con quattro pellicole di risibile valore. Le prime a uscire sono Bill il Taciturno (1967) e Sette Pistole per un Massacro (1967) rispettivamente di Massimo Pupillo e Mario Caiano. Pupillo è un regista di horror gotici low budget, che tenta la via del western autofinanziandosi e assumendo il nome Max Hunter. Arriva dai discreti Il Boia Scarlatto (1964) e Cinque Tombe per un Medium 527 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

(1965), ma fallisce l'obiettivo col nuovo genere. I fondi sono troppo pochi, la confezione mediocre, inoltre Pupillo non si trova a suo agio col western. Di lui alcuni Montefiori dirà: “Aveva poche idee e anche confuse, non sapeva mai dove mettere la macchina da presa!” La produzione inventa Luigi Montefiori (assume qui il suo celebre pseudonimo George Eastman) come protagonista, e lancia Luciano Rossi in un ruolo di primo piano (ovviamente da psicopatico). C'è anche Liana Orfei, proveniente dagli adventure movie. Allo script c'è un altro esperto di horror gotici a basso costo (con venature erotiche e forte componente trash): il filosofo nonché regista Renato Polselli. Di lui, Ernesto Gastaldi confiderà all'amico Gordiano Lupi: “Era un finto intellettuale, un regista mediocre, a cui però sono grato per avermi lanciato. Aveva fatto un film con pretese artistiche che era andato male, da allora si fingeva amareggiato e si dedicava con una certa superiorità a film di genere.” Nonostante i nomi non si punta sull'horror, ma si torna sul tema del giustiziere che deve far fuori un'intera banda di delinquenti e interrompere un traffico di armi clandestine. Il risultato finale è pessimo, ne è concorde lo stesso Montefiori che maturerà sul set la decisione di dedicarsi, in futuro, di dialoghi e sceneggiature. Intervistato sul punto, affermerà: “Mai fatto un film con così poche battute...” Non brilla neppure la pellicola di Mario Caiano, sebbene dotata di un cast di attori smaliziati come Craig Hill, Eduardo Fajardo, Piero Lulli e Roberto Camardiel. Ancora una volta a non funzionare è la sceneggiatura (di Eduardo M. Brochero), che cade nei soliti cliché. Si riprende il canovaccio del pistolero ingiustamente incarcerato (Hill), che esce dopo dieci anni di pena e se ne ritorna nel paese di origine. Respinto dalla donna che ama, la quale non crede alla sua versione, riuscirà a trovare il vero autore del reato a lui imputato e a debellare una banda di manigoldi giunta in paese. Caiano è altalenante (qualche scena d'azione è girata bene), inoltre si affida a una serie di scene per allungare il brodo. Nel complesso un western bruttino, seppur con buone interpretazioni, che conferma la parabola discendente del regista, il quale saprà però riprendersi. Sono persino peggiori i successivi Il Figlio di Django (1967) e Nato per Uccidere (1967), usciti a maggio e a giugno, entrambi auto prodotti e diretti rispettivamente da Osvaldo Civirani e Antonio Mol528 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

lica. Se il film di Mollica (regista teatrale al debutto cinematografico, andrà poco lontano) non ha alcuna pretesa e sfoggia Gordon Mitchell nei panni del buono (di solito faceva lo psicopatico), quello di Civirani gode di un budget medio (è coinvolto Goffredo Lombardo con la Titanus), probabilmente figlio della credibilità risalente ai tempi in cui il regista faceva il direttore della fotografia dei film di Luchino Visconti, e ha attori del calibro di Guy Madison (bravo anche qua) e Gabriele Tinti (al suo unico western, farà poi una miriade di z-movie, soprattutto della saga apocrifa Emanuelle sposando addirittura Laura Gemser, musa ispiratrice di quel tipo di cinema erotico). Hanno una particina inoltre Ignazio Spalla e Luciano Rossi. La sceneggiatura invece viene firmata da Tito Carpi, il quale ha il merito di introdurre un prete pistolero (Madison), impegnato ad aiutare Tinti a vendicare il padre Django assassinato dall'antagonista. Da segnalare che la censura bollò subito il film con il divieto ai minori di quattordici anni, proprio per la presenza di un prete killer. Comune a entrambi i film sono gli incassi assai ridotti, con Civirani che rimette svariate decine di milioni. All'estero tuttavia, sia fistfulofpasta.com che sonofdjango.blogspot.it, salvano l'opera di Civirani indicandola come meritevole di una visione. Ha qualche fan pure quelle di Mollica che su imdb.com beneficia di un clamoroso 6,8 in pagella. 6.2 L'Estate calda in attesa dei nuovi capolavori. La prima metà del 1967 ha visto dunque uscire una media di cinque spaghetti western al mese, si tratta di una percentuale altissima che paga un po' dazio sotto il profilo qualitativo. A distinguersi dalla massa sono soprattutto Requiescant e Se sei Vivo Spara, in virtù di una cura eccelsa, purtroppo però l'incompetenza generale e la refrattarietà del pubblico ai prodotti pionieristici, in grado poi di dettare le regole di veri e propri sottogeneri, ne decretano l'insuccesso e una fitta pioggia di critiche. Qualcuno arriva persino a dare per morto l'intero genere, ormai incapace di proporre nuove soluzioni e chiuso in un asfissiante stallo. Ovviamente, come al solito, ogni occasione per stare zitti si rivelerà persa, anche se luglio passerà in sordina con un solo western nostrano a uscire nelle sale. A sfidare le prime calure è nient meno che il papà dell'horror ita529 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

liano: Riccardo Freda. Il suo La Morte non Conta i Dollari (1967) è un bizzarro esperimento che tenta di miscelare il giallo al western, tentativo che troverà terreno fertile appena un anno dopo con la nascita della saga Sartana. Chi era Freda? È colui che, nel 1957, aveva portato nelle sale cinematografiche il primo horror italiano: I Vampiri (da ricordare anche il successivo sci-fi Caltiki e gli horror L'Orribile Segreto del Dr. Hichcock e Lo Spettro, rispettivamente del 1959, 1962 e 1963), pellicole che spianeranno la strada a Mario Bava lanciato proprio da Freda. Il napoletano si confronta col western a sessantacinque anni suonati, probabilmente per ragioni alimentari. Emblematica, per comprenderne la psicologia, la dichiarazione dello sceneggiatore Ernesto Gastaldi il quale, dopo aver descritto il regista come il più intelligente uomo di cinema da lui incontrato, un professionista che non dava importanza a quello che faceva, racconta un aneddoto legato alla produzione di un film: contattato da alcuni produttori interessati a offrirgli la regia di una sceneggiatura imprecisata, Freda, senza voler nulla sapere in ordine ai temi che avrebbe dovuto trattare, accetta l'offerta fornendo una giustificazione tanto bizzarra quanto divertente: “Io sto con Gianna Maria Canale che costa un sacco di soldi. Giro anche le pagine gialle!” Quanto sopra non deve far pensare a un regista superficiale non dotato di tecnica. Stimatissimo in Francia, assai meno da noi, Freda aveva preso le mosse come scultore e critico cinematografico per poi intraprendere, agli inizi degli anni '40, la via del cinema, prima da sceneggiatore poi da regista, con una serie di film storici e peplum (suoi i vari Spartaco, Maciste all'Inferno), affermandosi in seguito come maestro dell'horror. Proseguirà in calando, dirigendo comunque un interessante spaghetti-thriller di imitazione argentiana intitolato L'Iguana dalla Lingua di Fuoco (1970). Morirà nel 1999 con quarantacinque film all'attivo. Piccola curiosità per gli amici dell'ippica (altro settore devastato da scellerate politiche socio-economiche), la figlia di Freda, Jacqueline, dopo aver svolto il lavoro di stuntman, si distinguerà sulle piste italiane negli anni '90 aggiudicandosi le classifiche gentleman, quale amazzone più vincente sia in ostacoli (disciplina amatissima dal sottoscritto, soprattutto per quel che riguarda la pista di Merano e la specialità cross country, n.d.r.) che in piano, e addirittura, passata professionista, la frusta d'oro come fantino più vincente della stagione di corse 1995 (unica donna a centrare una simile 530 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

impresa in Italia). Ritiratasi dalle competizioni nel 2000 riprenderà il ruolo di stuntman: “Il cinema è una malattia. Ce l'ho nel sangue, è come una malattia incurabile ma affascinante.” Tornando a La Morte non Conta i Dollari, insieme allo sconosciuto Luigi Masini, Freda cura in prima persona la sceneggiatura con l'obiettivo di dar vita a un revenge movie crudele. Nonostante le buone premesse esce fuori una pellicola pasticciata, sia sotto il profilo dello script (vari buchi narrativi e sequenze mal raccordate) sia, soprattutto, per il montaggio. A rovinare il girato ci pensano gli interventi castranti del produttore Enrico Cogliati Dezza (ricordato più come distributore), il quale pensa bene di eliminare alcune scene concepite dal regista per contaminare il genere. Si tratta di frangenti giudicati troppo violenti, quali a esempio l'amputazione di una lingua (nel film viene suggerita fuori campo) e qualche dettaglio sugli omicidi che Freda va a girare con piglio da spaghetti-thriller (penso alla morte, in particolare, dello sceriffo), alimentato peraltro dalla presenza di un misterioso assassino. L'ingerenza di Cogliati Dezza porta Freda a intraprendere una dura polemica e poi a disconoscere la pellicola, tanto da firmarla con uno pseudonimo (George Lincoln) che non utilizzerà più. A fine visione il senso di amarezza è marcato, perché si ha l'impressione che con una maggiore collaborazione sarebbe potuto venir fuori un gioiellino. Ad alimentare la convinzione è la cospicua presenza di soluzioni originali, finalizzate a creare nello spettatore un continuo effetto sorpresa. Bella la girandola di colpi di scena nel duello finale tra Mark Damon e Nello Pazzafini, con il primo che fa scaricare la pistola del secondo rotolandosi all'interno di un barile, per cercare poi di condurlo dal giudice puntandogli contro una colt. A questo punto Pazzafini riesce a disarmare, con una capriola, Damon e gli sottrae la pistola per ucciderlo, tuttavia non riesce a sparare perché Damon ha lasciato due colpi a vuoto nel revolver indispensabili per permettergli di recuperare di nuovo l'arma e beffeggiare il rivale. Davvero divertente. Particolare è anche il ribaltamento di ruoli tra il protagonista (Mark Damon) e il co-protagonista (Stephen Forsyth). Freda fa credere a tutti, antagonisti compresi, che il primo sia un delinquente banalotto, mentre il secondo l'aristocratico che vuol gettare luce sulla morte del padre. A metà film poi, si innesca il primo colpo di scena che ribalta i ruoli. A mio avviso la situazione viene gestita in modo 531 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

scorretto verso lo spettatore (il ribaltamento è gratuito e privo di indizi che possano permettere di scoprire l'inganno), così come è ingiustificatamente fuorviante la scena in cui Forsyth e Luciana Gilli (interpreta quella che dovrebbe esser la sorella del personaggio di Forsyth, ma che in realtà è la sua fidanzata e sorella di Damon) parlano del loro rapporto di fratellanza e di come si debba vendicare il padre quando poi in realtà sono due fidanzati che simulano di esser fratelli mentre il vero rapporto di parentela, celato nella prima parte, è quello tra la Gilli e Damon. Sviluppi pertanto complicatissimi e forzati (vedi anche tutta la storia del fucile del messicano accusato ingiustamente della morte del padre di Damon), a cui si aggiunge una mal gestione della componente gialla; componente che viene interrotta a metà film, quando invece sarebbe stato preferibile mantenerla fino alla fine. Inverosimile, seppur carina per l'effetto sorpresa, la sequenza preludio dell'epilogo in cui gli antagonisti sparano su dei manichini che cavalcano cavalli lanciati al galoppo (!?), senza accorgersi di non sparare sugli uomini che stanno attendendo. Questi ultimi, ovviamente, hanno sfruttato lo stratagemma per penetrare indisturbati in paese e sorprendere gli avversari alle spalle (soluzione a dir poco macchinosa). In definitiva siamo alle prese con un revenge movie che strizza l'occhio al giallo, ma che fa della confusione il suo biglietto da visita. Sufficienti gli attori, tra i quali si registrano molti caratteristi (Pazzafini, Pigozzi) e nei ruoli principali attori qualitativamente di seconda fascia già avvezzi del genere. Presenti alcuni sprazzi di buona regia, tra i quali la bella sequenza iniziale dove vediamo dei falsi nordisti cercare di sequestrare una ragazza, con Freda che scandisce il ritmo grazie a una serie di primissimi piani sulle ruote della diligenza e sugli zoccoli dei cavalli al galoppo. Anonima la colonna sonora di Nora Orlandi. Poco visto all'estero, ne consiglia la visione spaghettiwestern.altervista.org. Freda non lo amava e, probabilmente, a ragione. Se a luglio esce solo il western di Freda, ad agosto si registra una corposa invasione. Nella prima settimana esce il terzo dei quattro western dell'accoppiata Vincenzo Musolino - Edoardo Mulargia, rispettivamente produttore e regista. I due romperanno in seguito la collaborazione a causa del passaggio di Musolino alla regia (girerà due we532 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

stern). Il film in questione è Cjamango (1967), probabilmente il migliore dei quattro western del sodalizio. Sul punto pare concordare Marco Giusti che lo ritiene tra i più noti western di Edoardo Mulargia. L'opera, limitata nel budget, nasce fin da subito con un forte legame con i precedenti lavori del produttore (Perché Uccidi Ancora? e Vayas con Dios, Gringo) tanto che il cast tecnico è riproposto pressoché in modo integrale. Così ritroviamo Vitaliano Natalucci alla fotografia, Enzo Alabiso al montaggio, l'esperto Alfredo Montori alla scenografia e Felice Di Stefano alla colonna sonora. Un cast dunque abbastanza giovane, ma che non avrà una grossa fortuna nel proseguo degli anni. Fa invece il debutto nel genere, dopo tre adventure movie, Fabio Piccioni. È proprio quest'ultimo a proporre il soggetto a Musolino e a svilupparlo con la collaborazione dello stesso, strizzando più di un occhiolino soprattutto a Django ma anche a Per Qualche Dollaro in Più. Non a caso il film uscirà in Germania col titolo Django - Kreuztigen Sane im Blud, cosa che rende il film un sotto Django. Tutto ruota attorno a un malloppo d'oro vinto in una partita a poker da Cjamango, un pistolero freddo e implacabile, sulla scia del Clint Eastwood di leoniana memoria (look compreso), che si ammorbidirà solo alla fine quando prenderà con sé un trovatello che tutti scacciano chiamandolo “lebbroso”. L'oro è provento di una rapina ed è conteso da due bande di malviventi: una capitanata da El Tigre, cui da corpo Piero Lulli; l'altra dal messicano Pablo, interpretato da Livio Lorenzon. Cjamango si troverà così perseguitato dalle due bande, in una lotta in cui tutti saranno contro tutti e col tesoro che passerà da una mano all'altra... L'unica costante sarà la lunga scia di sangue che si innescherà a seguito di agguati e regolamenti di conti. Nonostante una trama con molti personaggi e l'elevato numero di morti, il film scorre molto lentamente a causa di una sceneggiatura priva di verve e di dialoghi graffianti. Il soggetto è elementare, infarcito di pestaggi e torture. El Tigre, per far confessare Cjamango, arriva a legare un bambino facendogli tenere in mano un candelotto di dinamite. Lorenzon, invece, uccide una donna infilzandola con una spada. Peggio fanno alcuni uomini di El Tigre che uccidono un vecchio ubriaco disarmato, reo di non collaborare con loro. Ne deriva un western senza infamia e senza lode, un po' risollevato da un finale beffardo dove il protagonista, dopo aver eliminato tutti i rivali, si vede togliere l'oro da un ranger, interpretato da un Mic533 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

key Hargitay declassato a mera comparsa (lo ricordo protagonista in Tre Colpi di Winchester per Ringo del 1966). Il ranger infatti, per tutto il corso del film, osserva Cjamango (quasi come fosse un suo angelo custode) e le due bande di delinquenti, spacciandosi per un commerciante di liquori, e sfrutta il pistolero per eliminare i contendenti e riprendersi il mal tolto senza rischio alcuno. Al riguardo è curioso il look con cui il ranger si presenta allo spettatore. Sfoggia un abito scuro simile a quello che caratterizzerà Sartana, personaggio nato proprio dalla penna di Piccioni in quello che resterà il miglior successo dello stesso: Se Incontri Sartana Prega per la Tua Morte (1968). Dunque uno script che non ha nulla di originale, ma che ha il merito di proporre un finale brioso inserito in un impianto narrativo poco propositivo. Non è dello stesso parere lo spagnolo spaghettiwesterns.blogspot.it che ritiene il finale stupido. Mulargia gira bene, in particolare quando stringe con gli zoom sui campi lunghissimi. Sotto tale aspetto è molto bella la soluzione registica con cui riporta in scena, nel corso del duello finale RassimovLulli, Hélène Chanel (precedentemente ferita da Lorenzon), aggirando con un movimento di macchina i due rivali per chiudere sullo sfondo della scena e mostrare la donna intenta a strisciare a terra. Non manca qualche vuoto narrativo, specie nel finale con Rassimov che giunge prima dei rivali in paese sebbene sia partito in netto ritardo rispetto agli stessi. Ci sono inoltre errori nel montaggio. Ancora più evidente è l'incongruente morte della Chanel, la quale, abbandonata in una casa, spira dopo un lasso temporale enorme. Bene invece il cast artistico in cui, al fianco di attori collaudati come le “canaglie” Piero Lulli e Livio Lorenzon, fa la sua comparsa uno dei più ispirati attori di cinema di genere italiano: il triestino Ivan Rassimov, qua al suo primo film da protagonista, dopo sette comparse in pellicole di vario genere tra cui Terrore nello Spazio (1965) di Bava. La prova di Rassimov è convincente sia dal punto di vista recitativo che dinamico, anche se troppo legata al pistolero di leoniana memoria. L'attore avrà modo di manifestare il proprio valore grazie a oltre quaranta apparizioni, soprattutto in ruoli da antagonista psicopatico come nel cannibal movie Mangiati Vivi! (1980) di Umberto Lenzi e nei thriller di Sergio Martino, nei quali raggiungerà l'apice con la performance de Tutti i Colori del Buio (1972). Mero cammeo per Mickey Hargitay (sufficiente in un ruolo poco impegnativo). Il ruolo della bella di turno viene invece riservato al534 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

l'aggressiva francese Hélène Chanel (straordinario taglio di occhi, peraltro azzurri in netto contrasto con la chioma castano scuro) che se la cava abbastanza bene, pur risultando spigolosa forse oltre il dovuto. Fotografia e colonna sonora nella media. Dure le critiche dei detrattori italiani. Filmtv.it non va oltre una stella, più generoso mymovies.it che invece gliene riconosce due. Antonio Bruschini, pur non essendone colpito, lo ritiene dignitoso, mentre spaghettiwestern.altervista.org va contro tutti valutandolo lodevole, ben fatto e con bellissime inquadrature. Se in Italia il film non ha riscosso apprezzamenti, lo stesso non può dirsi all'estero dove invece è stato visto da quasi tutti gli appassionati. L'inglese fistufulofpasta.com apprezza la realizzazione delle scene di azione, individuando i difetti in una serie di aspetti quali una colonna sonora poco convincente, alcuni passaggi didascalici in cui i personaggi raccontano fatti che sarebbe stato preferibile mettere in scena e nella presenza (antipatica) del bambino che rende meno duro il protagonista. Sonofdjango.blogspot.it parla di un western niente male, seppur derivato dai primi due capitoli della trilogia del dollaro di Leone e da Django. L'appassionato di lingua inglese plaude Rassimov sostenendo che, oltre alla presenza di un valido cast di supporto, gran parte del fascino del film lo si deve proprio a lui. Opinioni che trovano concorde il californiano Tom Betts. Per il tedesco allesglotzer.blogspot.it è persino il film più noto di Mulargia, portato in scena in modo piacevole sebbene poco inventivo nei contenuti e fortemente debitore delle pellicole già menzionate nel corso dell'analisi. Il più duro di tutti è lo spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it che gli rifila un bel 4 in pagella, sottolineando una trama ricalcata su altri western nonché la presenza di una serie di personaggi inutili (il bambino, il ranger) oltre a un numero sconfinato di ammazzamenti. Tuttavia, anche lo spagnolo, rileva il buon lavoro degli attori. Al di là dei commenti, il successo del film viene confermato dalla produzione di due sequel: Chiedi Perdono a Dio... Non a me (1968) di Musolino e con Ardisson al posto di Rassimov e l'apocrifo paella western Adios, Cjamango (1970) di Zabalza. Solo per fanatici. È invece degno di nota il debutto di Nando Cicero, il quale irrompe nel genere con un film amatissimo dall'attore protagonista George 535 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Hilton. Qui sotto la scheda. IL TEMPO DEGLI AVVOLTOI Produzione: Italia, 1967. Prodotto: Pier Ludovico Pavoni (Pacific Cinematografica). Regia: Nando Cicero. Soggetto e Sceneggiatura: Fulvio Gicca Palli, Nando Cicero. Interpreti Principali: George Hilton, Frank Wolff, Eduardo Fajardo, Pamela Tudor, Femi Benussi, Janos Bartha. Fotografia: Fausto Rossi. Musiche: Piero Umiliani. Sottogenere: Durata 95 min. Giudizio Mancini: *** Giudizio Morandini: Non Trovato. La trama Il giovane Kitosch (Hilton) è un mandriano costretto alla schiavitù dal padrone Jaime Mendoza (Fajardo). Il duro lavoro però non gli raffredda i bollenti ardori. Il giovane passa infatti da un letto all'altro, attirando il malcontento dei colleghi. Frustato più volte da Mendoza, Kitosch tenta di fuggire ma riceve brutali punizioni (compresa una timbratura a fuoco sulle natiche), finché un giorno mette a frutto il suo proposito. Arrestato da uno sceriffo disonesto (Bartha), l’uomo viene liberato da Tracy il nero (Wolff), un brutale criminale che lo prende sotto l'ala protettiva. I due si renderanno protagonisti di furti e omicidi, fino a rapire la moglie (Tudor) di Jaime Mendoza e pretenderne il riscatto. Commento Sequel ufficiale del mediocre Kitosch, l’Uomo che Veniva da Nord (1966), ancora una volta prodotto da Pier Ludovico Pavoni e interpretato da George Hilton. Esce dopo appena un anno dal primo capitolo, e ne mutua buona parte del cast tecnico. Ci sono lo sceneggiatore Fulvio Gicca Palli e l’addetto alla fotografia Fausto Rossi, cambiano invece alcuni elementi cruciali che si riveleranno determinanti. Alla regia, al posto dello spagnolo José Luis Merino, troviamo, l’ex attore e 536 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

aiuto-regista di Francesco Rosi e Luchino Visconti, Nando Cicero. Alla scenografia fa invece la comparsa il pittore e sensitivo Demofilo Fidani (nel 1986 pubblicherà il libro Il Medium Esce dal Mistero), prossimo a passare alla regia con un corposo elenco di western dal bassissimo budget. Il film ha nella caratterizzazione dei personaggi la sua arma vincente. Difatti il soggetto è tutt’altro che memorabile e si sviluppa con una prima parte piuttosto lenta, incentrata sulle peripezie erotiche di Hilton. L'attore uruguaiano amoreggia sepolto nella paglia, quindi salta in camera della moglie del padrone, dove cerca una saponetta caduta tra le gambe della donna che se ne sta sdraiata in una tinozza con fare provocante. Per entrare nel vivo della storia bisogna attendere l'entrata in scena di Tracy il Nero, solo da questo momento la pellicola si tinge di toni cupi e di un inusuale alone diabolico. Fulvio Gicca Palli tratteggia i migliori personaggi della sua scarna produzione (suo il soggetto del thriller La Vittima Designata e lo script del western La Notte dei Serpenti di Ferroni). Su tutto domina il pessimismo, estrinsecato da una marcata sfiducia nel prossimo. A fungere da elemento centrale è l’originale caratterizzazione dei personaggi, in particolare la parabola involutiva del protagonista. Kitosch è rappresentato come una pecorella smarrita (il suo peccato iniziale è quello di desiderare la donna di altri), trascinata nelle spire dell’inferno da un angelo nero che gli si presenta sotto mentite spoglie. I due vengono posti al cospetto di una vasta gamma di antagonisti (sceriffi, donne cieche, proprietari terrieri, messicani, ladri, preti, prostitute) aventi in comune la spudorata naturalezza con cui tradiscono la parola data. Diviene quindi farsesca la battuta che, verso la fine, dirà, sapendo di mentire, Eduardo Fajardo: “Nessuno vi disturberà, hai la mia parola”. L’unico personaggio dotato di un briciolo di pietà è l’ingenuo Kitosch, anche se finirà per esser travolto dalla follia del compagno di avventura, di cui subisce il carisma, al punto da non fare una piega quando vedrà Tracy assassinargli la fidanzata. Ed è proprio il personaggio di Tracy a calamitare l’attenzione. Vestito completamente in nero, sulla scia del colonnello Mortimer di leoniana memoria (il doppiatore è lo stesso di Lee Van Cleef), si presenta in forma simpatica, quasi paterna. Da consigli a Kitosch, gli spiega come usare la pistola: “La pistola è come una donna. Se la stringi troppo la soffochi, se la tieni leggera ti vola via, ma se la sai trattare non ti tradisce mai”. 537 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Da tale atteggiamento si trasforma in un autentico mostro (un prete arriva persino a dire che è affetto da un possessione diabolica!?), geloso del suo compagno al punto da scatenare una sparatoria pur di costringerlo ad abbandonare il villaggio in cui questo aveva deciso di rifugiarsi. Il profilo di Tracy è quello di uno psicopatico, con tanto di turbe sessuali e ossessioni riconducibili al rapporto con la madre, di cui porta in giro il cadavere trafugato da una fossa comune. Soffre di crisi epilettiche che lo assalgono quando non può sfogare le proprie perversioni. Terribile è la scena in cui cerca di imbullettare un traditore alla porta di una abitazione, proposito scongiurato dall'intervento di Kitosch che giustizia con un colpo di pistola il malcapitato, suscitando il pianto isterico di Tracy. Ma le follie dell’uomo non si fermano qui: appicca un rogo in cui muore una donna; prende a schiaffi una prostituta che cercava di eccitarlo e gli preme il volto su un piatto di cibo. Scene talmente crudeli da costare il divieto ai minori di anni 18. La regia di Nando Cicero è molto buona. Il regista è al primo dei suoi tre western e alla sua seconda pellicola dopo il debutto avvenuto nel 1966 con una commedia. Nonostante le prime armi, mostra subito un'indubbia predisposizione per le scene di azione, e si rivela assai capace nel creare atmosfere orrorifiche. Purtroppo, dopo altri due western interessanti (Professionisti per un Massacro e Due volte Giuda), dal 1970 passerà alla commedia scollacciata venendo definito uno dei principali maestri del genere, con pellicole quali W la Foca (1981), La Soldatessa alla Visita Militare (1977), La Liceale (1979), suoi anche i cult trash a sfondo calcistico Il Diavolo e l’Acquasanta (1979) e Paulo Roberto Cotechino, Centravanti di Sfondamento (1983) con cui chiuderà la carriera, da segnalare infine le scatenate parodie con Franco & Ciccio Ku Fu? Dalla Sicilia con Furore (1973) e Ultimo Tango a Zagarol (1973). Ne Il Tempo degli Avvoltoi si possono apprezzare le vere doti tecniche di Cicero, qualità che gli avrebbero permesso di confrontarsi con successo nel poliziottesco e nello spaghetti thriller in modo da scrollarsi di dosso quel bollino da regista trash con cui oggi viene ingiustamente ricordato. Tra i momenti da ricordare è da citare l’assalto alla carovana dove è trasportato l’oro su cui vorrebbero mettere le mani alcuni nemici di Tracy. La sequenza propone due interessanti trovate: la prima è costituita dagli attacchi sincronizzati, a gruppi di tre, con i banditi che, divisi in due tronconi posti su lati opposti della 538 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

carovana, galoppano da una parte all’altra per assaltare i soldati di guardia al mezzo e sdraiati attorno a esso; la seconda è l’idea di far sparare da Tracy, con un fucile lancia granate, dei candelotti di dinamite alla stregua di testate di gas lacrimogeni, in modo da mietere delinquenti e soldati. Molto bello l’epilogo crepuscolare, con Hilton che, ferito dall'amico-rivale, va incontro a un destino segnato e Fajardo che non infierisce concedendogli la fuga verso la morte. Per una volta vediamo il personaggio di quest'ultimo abbassarsi al ruolo di servo: aiuta Hilton a salire in sella, porgendogli le proprie mani a mo' di staffa forse per riconoscenza per averlo visto uccidere Tracy. Gustosa infine la scena che vede Hilton e Wolff sparare a una serie di stelle da sceriffo conficcate su un tronco. Da sottolineare infine la maiuscola prova di Frank Wolff, determinante nel permettere a Cicero di creare un'atmosfera infernale. Il californiano, già visto all'opera in Un Dollaro tra i Denti, regala la sua prima grande performance (secondo alcuni la migliore), grazie a un’espressività impreziosita da continui tic e smorfie isteriche. Favolosa la sua reazione di compiacimento quando Hilton, ormai contaminato dalla follia, manifesterà la volontà di frustare Fajardo. Il suo è uno dei personaggi più diabolici e sadici mai comparsi nella filmografia western. Di spessore gli altri due attori principali, entrambi però nei loro ruoli convenzionali. A George Hilton va la parte del pistolero burlone (anche se un po’ meno del solito), mentre a Fajardo è riservato quello del boss che dispensa ordini a destra e sinistra, ben vestito e munito di frusta per punire i servi. Completano il cast la bella e provocante Pamela Tudor (Cicero non perde occasione per mostrarne le curve) e la molto più castigata Femi Benussi, qui al suo secondo film ma in seguito, a differenza della Tudor, costante presenza del cinema bis con quasi ottanta film (dal poliziottesco all’erotico spinto) girati nell'arco di un decennio. Eccellente la fotografia di Fausto Rossi (soprattutto nelle scena del saloon con la donna bendata circondata dalle fiamme), così come le scenografie curate dal sardo Demofilo Fidani che si esaltano nella desolata e diroccata location finale. Bruttina la colonna sonora di Umiliani. Per concludere, come affermato da Antonio Bruschini, Il Tempo degli Avvoltoi è uno dei western all’italiana più violenti dell’epoca, che 539 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

merita di esser ricordato e rivalutato per la caratterizzazione sociopatica di Tracy, una caratterizzazione che ispirerà molti film successivi soprattutto thriller. Marco Giusti lo reputa il più apprezzato tra i western di Cicero e lo giudica scatenato su sesso e violenza. Tom Betts parla di gemma del genere. Assai meno entusiasta spaghettiwestern.altervista.org, non convinto dalla sceneggiatura e da alcune scene troppo tirate per le lunghe e per giunta poco spettacolari. Lieve bocciatura inferta dallo spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it, il quale reputa Cicero inidoneo al western, per l'incapacità di scandire il ritmo e la drammaticità richieste dal genere, e reputa inoltre incomprensibili alcune scene (si veda la mancata reazione di Kitosch all'uccisione della fidanzata). È addirittura più duro fistfulofpasta.com che lascia trapelare una certa delusione per effetto delle incongruenze della sceneggiatura, tra le quali quelle legate all'epilessia. Riserva infine qualche critica a Wolff, reputando la sua interpretazione unidimensionale. Molti i western che escono nella seconda settimana di agosto, tra questi Dio non Paga il Sabato (1967) di Tanio Boccia. A produrre il regista lucano, già incontrato in occasione di Uccidi o Muori (1966), è un poule di piccoli produttori alle prime armi supportati dall'esperto Eduardo Manzanos. Il più famoso del lotto è Zeljko Kunkera, reduce dall'interessante action movie Ad Ogni Costo (1967) di Giuliano Montaldo. Kunkera produrrà in seguito un pugno di pellicole di vario genere, ma non di particolare successo eccetto il giallo erotico Quante Volte... Quella Notte (1972) di Mario Bava. Boccia cambia così produttori, ma continua a dover girare con budget irrisori e attori di seconda scelta. Presente ancora una volta Rod Dana, accreditato Robert Mark, ma solo in una sorta di cammeo. Il ruolo principale, anche se da antagonista, va al caratterista Furio Meniconi, altro riciclato da Uccidi o Muori. Fisico possente, volto barbuto, si tratta di un attore solitamente impegnato in ruoli secondari, specie in pellicole di stampo avventuroso o western, che dimostra tutti i suoi limiti con un'interpretazione, seppur efficace, assai grezza. Al suo fianco troviamo la rossa Daniela Igliozzi, anch'essa lanciata in un ruolo più importante rispetto alle canoniche comparsate che le venivano riservate in film comici e avventurosi, o in western quali L'Uomo con la Pistola d'oro (1965) e 1.000 Dollari sul Nero (1966). Da notare i costumi super sexy con cui la vediamo in scena, prima con pan540 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

taloni attillatissimi di pelle e camicia verde dotata di ampia scollatura, poi con una gonnella marrone che ne mette in mostra le cosce. Al di là dell'avvenenza fisica, la prova della Igliozzi è tra le più convincenti del film. Personifica una pistolera ninfomane, amante del sesso e del sadismo. “A me piacciono tutti gli uomini” confesserà, nuda, all'antagonista, per poi passare tra le braccia del vendicatore cui da corpo Dana e da qui a provocare il protagonista. Salvo sporadiche occasioni, la Igliozzi lascerà il cinema proprio dopo questo film, dedicandosi al doppiaggio (una delle attrici cui presterà la voce sarà Jamie Lee Curtis). Il ruolo del buono, anche se con uno spazio inferiore rispetto a quello riservato a Meniconi e alla Igliozzi, va all'americano Larry Ward, scelto in virtù delle partecipazioni in serial televisivi americani quali i western Dakota (1963), dove aveva lavorato da primo protagonista, Rawhide (1965) e Gunsmoke (1963-66) dove invece aveva fatto delle comparsate. La prova di Ward, anch'egli piuttosto prestante fisicamente, è inespressiva e non gli permetterà di fare il salto nel mondo del vero cinema. Ritornato in patria, proseguirà nelle fiction tv con ruoli, il più delle volte, marginali. Sono inoltre presenti il caratterista Massimo Righi, ispiratissimo nel suo consueto ruolo da psicopatico, e la veterana Vivi Gioi (attrice formatesi in teatro con un passato da cantante), al suo penultimo film, nei panni di una bizzarra e svitata anziana di paese dal piglio teatrale e con espressioni luciferine. Se il cast artistico non brilla, la sceneggiatura di Mino Roli non aiuta gli attori. Pressoché debuttante, il quarantenne giornalista, dopo un mediocre debutto alla regia nel 1954 con Il Barcaiolo di Amalfi, viene confermato da Kunkera che già l'aveva avuto in Ad Ogni Costo. Roli stende un soggetto che ha nelle intenzioni quella di introdurre degli elementi atipici nel genere, spingendo sul pedale dell'erotismo e della deviazione psicologica dei personaggi. Lo sceneggiatore si specializzerà, in seguito, nei gangster movie e nel western crepuscolare mettendo la firma sulle sceneggiature di film culto quali Al di là della Legge (1968) di Stegani, Keoma (1976) di Castellari e Californa (1977) di Lupo. Riproporrà altresì il soggetto di Dio non Paga il Sabato per il più folle Matalo! (1970) di Canevari, restando poi legato a Giuliano Montaldo, per il quale sceneggerà importanti opere quali il gangster movie Gli Intoccabili (1969) e l'acclamato film di denuncia sociale Sacco e Vanzetti (1970). 541 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Nell'occasione Roli sviluppa un soggetto approssimativo, cura poco i dialoghi (assai ridotti) e pone il minimo sindacale sul piatto della bilancia. Lo script, di fatto, è sintetizzabile in sei righe. Un trio di banditi (Dana, Igliozzi e Righi) salva un condannato dall'impiccagione (Meniconi) poco prima dell'esecuzione della pena, per rapinare con lo stesso una carovana. Nel corso dell'azione uno di loro (Dana) resta ferito gravemente e viene abbandonato dai tre. Questi ultimi, intanto, si rifugiano in un paese fantasma dove vive solo una pazza (Gioi) che attende che in paese possa ritornare la ricchezza. La vecchia riesce, di nascosto, a nascondere il malloppo rubato dalla banda, ma scoperta viene fatta prigioniera insieme a due viandanti (Ward e Maria Silva) giunti in paese per caso. Tra una violenza e l'altra, i prigionieri avranno la meglio sui carcerieri, aiutati dall'arrivo del complice abbandonato che giungerà in paese per vendicarsi e recuperare donna e malloppo. Questa è la sinossi, diluita da momenti morti (vedi la sequenza in cui i manigoldi verificano il motivo per cui i viandanti sono giunti in paese), da continue torture e pestaggi (Righi colpisce Ward con il cinturone della pistola usato a mo' di frusta) e lunghe sequenze di cavalcate che rendono il ritmo lentissimo (specie nella prima parte). Tanio Boccia, tuttavia, è in forma e regala buone sequenze (anche se molto dilatate) con sapiente uso dei campi lunghi e lunghissimi (non manca qualche ripresa aerea) funzionali a esaltare le scenografie ambientali. Eccellente la fotografia di Giuseppe Aquari il quale, purtroppo, resterà sempre legato a piccole produzioni. È ottimo inoltre il lavoro dello scenografo Saverio D'Eugenio (collaboratore nei migliori western di Joaquìn R. Marchent), il quale predispone delle scenografie interne degne di un film gotico (si veda il cimitero abbandonato), con evidenti strati di polvere, piante rampicanti secche e ragnatele distese su arredamenti e pareti. Degni di nota infine sia gli psichedelici titoli di apertura, con disegni gialli e fucsia accesissimi di fumettistica memoria, sia il make up con il volto di Ward tumefatto e ferito dai colpi inferti da Righi. Boccia riesce in definitiva a fare di necessità virtù e a confezionare un prodotto povero sotto il profilo contenutistico, ma visivamente accattivante e ben curato. Tra le sequenze più interessanti cito quella in cui la Igliozzi si denuda integralmente davanti a Meniconi, il tutto ripreso dalle spalle della donna. Notevole inoltre la sequenza con Ward che, con un fischio, richiama il proprio cavallo per farlo scagliare su Righi; l'animale, infatti, si imbizzarrisce e frantuma una mano del 542 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

bandito colpendogliela con uno zoccolo con Boccia che piazza un bel primissimo piano sul contatto zoccolo-mano. Discreta la colonna sonora del maestro Angelo Francesco Lavagnino (c'è pure un fischiettio tarantiniano), con l'eccezionale main theme rockeggiante The Price of Gold cantata da Roberto Matano e impreziosita dagli assoli di chitarra dallo stesso eseguiti. Matano, un passato da componente dell'orchestra Milleluci e del gruppo di Dora Musumeci, era all'epoca il leader del gruppo musicale I Campioni, di cui facevano parte assi quali il sassofonista Fausto Papetti, il giovanissimo Lucio Battisti, lanciato proprio da Matano, oltre il più famoso Tony Dallara sostituito proprio da Matano a partire dal 1958. Il nome del cantante era altresì legato a quello di Batty Curtis, Adriano Celentano e Fred Buscaglione per aver recitato con gli stessi nel musicarello I Ragazzi del Juke-Box (1959) di Fulci. Andiamo adesso a vedere cosa si dice in giro di questo film, anticipando subito che vanta non pochi fan. Antonio Bruschini, a mio avviso a ragione, lo reputa il miglior film di Boccia definendolo bizzarro e con atmosfere vicine all'horror. Piace, con moderazione, anche a Marco Giusti che ne sottolinea l'impatto visivo pur denunciando, anche lui a ragione, una certa lentezza nello sviluppo della trama. Sulla stessa lunghezza d'onda è spaghettiwestern.altervista.org il quale lo ritiene solo gradevole a causa di alcuni momenti morti e di alcune scene di azione poco incisive. Mondoesoterica.net plaude Boccia per la capacità di tenere viva l'attenzione, grazie a un piglio claustrofobico esaltato dalla presenza di una città fantasma in cui è ambientato più di un'ora del film. Storce in modo più deciso il naso il californiano Tom Betts, per il quale non può parlarsi di un film buono, seppur degno di esser visto per via delle bizzarrie. Bizzarrie evidenziate anche da filmtv.it che concede tre stelle pur giudicando l'opera quasi fuori genere e girata con pochi mezzi. Morandini e Farinotti non pervenuti. Consigliato agli amanti delle contaminazioni. Tra i western di medio basso cabotaggio c'è Odio per Odio (1967) di Domenico Paolella. Si tratta della seconda fatica western, dopo Johnny Yuma (1966), dell'accoppiata Italo Zingarelli – Roberto Palaggi, futuri produttori de Lo Chiamavano Trinità. I due confermano Fernando Di Leo alla sceneggiatura e gli affiancano Bruno Corbucci e Mario Amendola, reduci rispettivamente da Django (1966) e da Uccidi o 543 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Muori (1966) e I Giorni della Violenza (1967). Le premesse sono quelle di un western di grosso livello, ma le cose non vanno come dovrebbero. Zingarelli è poco soddisfatto del copione e cerca un regista che possa mettere quel quid indispensabile a trasformarlo in qualcosa di inconsueto. L'attenzione cade su un regista di lungo corso: il foggiano cinquantaduenne Domenico Paolella. Paolella vanta un importante curriculum formato da una trentina di pellicole, oltre una lunga serie di documentari risalenti all'anteguerra. Apprezzato nel periodo fascista (anche grazie a una serie di articoli antisemiti dallo stesso firmati), aveva avuto un promettente inizio di carriera suggellato da importanti riconoscimenti internazionali. L'insorgere della guerra e la passione per il giornalismo l'avevano quindi portato lontano dai set fino a condurlo, in qualità di corrispondente dal fronte sovietico, sul campo di battaglia. Il vecchio amore però non lo aveva lasciato, così nel 1951 era tornato dietro alla macchina da presa con la discreta commedia neorealista Un Ladro in Paradiso, opera in grado di rilanciarlo al punto da vederlo dirigere più volte Totò in buoni prodotti quali Destinazione Piovarolo (1955) e Il Coraggio (1955). Con l'arrivo degli anni '60, alla stregua di molti colleghi, Paolella aveva abbandonato commedie e musicarelli per prendere la strada del cinema di genere, riscuotendo discreti risultati in termini di pubblico. Dotato di indubbie capacità tecniche, specie nella gestione delle scene di azione, si era distinto con una mezza dozzina di adventure movie pirateschi, tra cui Il Giustiziere dei Mari (1961) interpretato da Richard Harrison, e altrettanti peplum, spesso conditi da sottili vene di ironia, come Maciste contro i Mongoli (1964). Zingarelli lo sceglie proprio perché colpito da quest'ultimo gruppo di film, ma la scelta non sarà delle più felici. Il regista pugliese girerà solo un altro western (Execution) eclissandosi, a poco a poco, negli anni '70 svalutato da un mediocre lotto di dieci film un po' di tutti i generi, peraltro al servizio di attori di un certo calibro. Così lo ritroveremo in commedie, tonaca movie, drammi sentimentali e poliziotteschi, con pochi prodotti degni di esser recuperati: La Preda (1974), lo spettacolare La Polizia è Sconfitta (1977) nonché Gardenia, il Giustiziere della Mala (1979), in cui si registra la presenza cult di Franco Califano nei panni dell'antieroe schierato contro la criminalità romana. Il foggiano accetta la sfida proposta da Zingarelli, il quale gli chiede di rivedere copione e soggetto. I due, infatti, apportano modifiche 544 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

su modifiche, soprattutto su pressione dello stesso Zingarelli che arriva al punto di pretendere di avere voce in capitolo sulla messa in scena. Alla fine lo script delude le attese, si punta tutto sul lato melanconico della vicenda, agendo soprattutto sulla caratterizzazione dei protagonisti. A contendersi la scena sono due antieroi, uno è un vecchio rapinatore di banche, dotato di un'etica signorile, che delinque per dare un futuro alla moglie e alla figlia (che ignora la vera identità del padre); l'altro è un peone figlio d'arte, che sogna di diventare scultore, ma che finisce coinvolto in una rapina ordita dal primo. I due, condannati al carcere, riusciranno a sottrarsi alla pena e a debellare la banda del bullo di turno, colpevole di aver rapito la figlia di uno di loro per ridurla in schiavitù. Il finale è all'insegna dello strappa lacrime (con il telefonato amore che scoppia tra il peone e la ragazza), insufficiente però a salvare il film. Questa la sinossi, per un western che scorre senza guizzi, seppur ben montato e con almeno un paio di momenti da ricordare. Tra questi la sequenza con John Ireland, il vecchio, che guida una carovana e, al contempo, si liberara di alcuni complici che vorrebbero sottrargli il malloppo (eccellente il montaggio dinamico curato da Sergio Montanari). Discreta poi la sequenza che vede Antonio Sabàto, il peone, respingere un gruppo di delinquenti, sparando pistolettate da dietro una roccia e azionando a distanza, con un sistema di fili e spaghi, una serie di fucili disseminati all'esterno della casa che sta difendendo (!?). Accanto ai due contendenti c'è il veterano Fernando Sancho, che appare con una gamba di legno in stile piratesco (una vera e propria autocitazione). Purtroppo allo spagnolo viene riservato poco spazio, così come alla marchentiana Maria Fié, qua con un make up teso a invecchiarla. Nei panni dei due protagonisti invece abbiamo due attori che debuttano nello spaghetti-western e su cui avremo modo di parlare: il semi-debuttante siciliano Antonio Sabàto, fresco dal premiato Gran Prix (1966) di Frankenheimer e che avrà fortuna nello spaghetti-western e nel poliziottesco; e l'esperto canadese John Ireland, ripescato dai serial televisivi (tra cui Alfred Hitchcock Presenta, Gunsmoke e Rawhide) dopo una lunga carriera da villain spesa al servizio dei più importanti registi western americani come John Ford, Howard Hawks e John Sturges, con titoli quali Sfida Infernale (1946), Fiume Rosso (1948) e Sfida all'O.K. Corral (1957). Ireland può inoltre vantarsi di 545 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

aver ricevuto una nomination all'oscar, quale migliore attore non protagonista, strappata col drammatico Tutti gli Uomini del Re (1949), nonché un ruolo in un film culto quale Spartacus (1960) di Kubrick. La prova dei due è di livello e non delude le attese. Da una parte abbiamo un Ireland che plasma un personaggio stanco, malato (di malaria), spesso sudato e barcollante, che vive per salvare la propria famiglia; dall'altra lo scanzonato Sabàto, che ricalca la figura del pistolero burlone e malandrino alla Giuliano Gemma. Nei panni dell'antagonista troviamo lo svizzero di origine lituana Mirko Ellis, al secolo Mirko Korcinsky. Attore di scuola teatrale, già visto in svariati spaghetti-western di seconda fascia, non riesce a emergere pur aiutato da una cicatrice in pieno volto che lo rende sinistro (una delle poche caratterizzazioni del personaggio). Molto malinconica e appropriata la colonna sonora di Willy Brezza (non dello stesso avviso lo spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it che la reputa irregolare), pianista jazz solitamente impegnato in veste di compositore di musicarelli e qua alle primissime armi, stante i trentadue anni, sebbene con all'attivo la conduzione delle musiche di All'Ombra di una Colt (1965), Per il Gusto di Uccidere (1966) e Dinamite Jim (1966). Nel complesso siamo alle prese con un film ben messo in scena e con buone interpretazioni, ma trascurabile a causa di una sceneggiatura poco vitale e priva di dialoghi graffianti. Riscosse un ottimo incasso, comunque non proporzionale alla capacità di resistere negli anni, tanto che oggi la pellicola non è facilmente reperibile. Tom Betts ne parla con entusiasmo, paragonandola (generosamente) a una tragedia shakespeariana. Parole dolci anche da spaghettiwestern.altervista.org che la giudica realizzata con insolita accuratezza e senza le abusate violenze. Meno brillante è il ricordo di Marco Giusti: “quando la vidi non mi prese moltissimo.” Ancor più critico lo spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it che, giustamente, la ritiene confusionaria e mal assemblata, con due storie distinte che vengono a intersecarsi senza troppa coordinazione. I critici non di settore la accolgono benino: tre stelle per filmtv.it, due per Farinotti e Morandini con quest'ultimo che si sbilancia nel definirla piacevole e con qualche spunto originale. Per me e gli utenti di imdb (cinque in pagella) resta sopravvalutata. 546 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Altra pellicola a uscire a metà agosto è I Giorni di Violenza, a cui è dedicata la seguente scheda. I GIORNI DELLA VIOLENZA Produzione: Italia, 1967. Prodotto: Bruno Turchetto e Vittorio Mascioli (Concord Film). Regia: Alfonso Brescia (Al Bradley). Soggetto: Gian Luigi Buzzi. Sceneggiatura: Gian Luigi Buzzi, Mario Amendola, Paolo Lombardo e Antonio Boccacci. Interpreti Principali: Karl Hirenbach (Peter Lee Lawrence), Beba Loncar, Luigi Vannucchi, Nello Pazzafini, Andrea Bosic, Lucio Rosato, Rosalba Neri, Romano Puppo. Fotografia: Fausto Rossi. Musiche: Francesco De Masi e Alessandro Alessandroni. Sottogenere: Guerra Secessione, Revenge Movie. Durata 105 min. Giudizio Mancini: *** Giudizio Morandini: *1/2 La trama Josh (Lee Lawrence) è un giovane fattore innamorato della figlia (Loncar) del padrone terriero sudista (Bosic) per il quale lavora. L'uomo, nonostante il giovane sia un abile pistolero, non vede di buon occhio la relazione, perché Josh ripudia la guerra e i principi che stanno alla base della sua filosofia. Il vecchio ritiene la violenza quale unica arma per rispondere alla minaccia nordista e alle sempre più frequenti razzie che investono la fattoria, ed è disposto a tutto pur di preservare la proprietà, anche a mettere a rischio la vita dei figli. Infatti, in una di queste incursioni, mentre il giovane fattore sta accompagnando in un posto sicuro la figlia del padrone, muoiono il figlio (Puppo) dello stesso e la di lui moglie (Neri) trucidati da un bandito invaghito della donna (Rosato) e da un capitano nordista (Vannucchi) convinto di trovare all'interno della fattoria un plotoncino di guerriglieri sudisti capitanati da un ribelle (Pazzafini) ricercato per svariati delitti. 547 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

L'evento, per la gioia del proprietario terriero, porta Josh a sposare la causa sudista e ad arruolarsi con i guerriglieri, motivato a vendicare gli amici caduti. La guerra intanto volge al termine e si risolve a favore dei nordisti. Josh è ricercato per l'omicidio di un civile assassinato durante una rapina. Sul giovane pende una taglia di 5,000 dollari che lo costringe a darsi alla macchia. La sua amata, intanto, ritorna a casa e si fidanza proprio con l'ex capitano nordista autore della strage iniziale. Il militare, ormai passato a un incarico burocratico, è intenzionato a confiscare la fattoria, ma non lo farà proprio grazie alla relazione stretta con la figlia del proprietario terriero. In compenso, però, vuole anche incassare la taglia di 5,000 dollari che pende su Josh. Per farlo utilizza la fidanzata a mo' di esca. Josh, infatti, non tarderà a farsi vivo e, per evitare l'arresto, rapirà la ragazza scappando verso la frontiera aiutato dal vecchio compagno di battaglia un tempo suo capitano, ma ora pronto a tradirlo perchè invaghito della giovane... Commento Terzo, e a mio avviso migliore, dei sei western diretti da Alfonso Brescia che si firma con il consueto pseudonimo Al Bradley. L'opera rientra nell'ambito di un contratto che prevede l'obbligo di Brescia di girare due western per conto del produttore Bruno Turchetto, reduce dai clamorosi successi ottenuti con Un Dollaro Bucato (1965) e Adios, Gringo (1965). Il film esce dopo Killer Calibro 32 (1967), il primo dei due western diretti da Brescia per Turchetto, e propone il medesimo attore protagonista, cioè il tedesco Karl Hirenbach, meglio conosciuto col nome Peter Lee Lawrence. Rimasto orfano della copiosa squadra di soci con cui aveva prodotto i due film con Giuliano Gemma, Turchetto si vede costretto a mettere in piedi dei western con budget inferiori, ma non per questo meno ambiziosi. L'impronta che da al film non diverge dalle precedenti opere, anzi ne costituisce una sintesi dilatata in un arco temporale più vasto. Gian Luigi Buzzi, al suo unico film, stende il soggetto attingendo dai due masterpiece del produttore senza però scopiazzare più del dovuto. Da Un Dollaro Bucato riprende l'idea di dividere il film in due parti: la prima dedicata alla guerra di secessione, la seconda alla decadenza e relativa persecuzione degli sconfitti rigettati dalla nuova 548 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

società. Da Adios, Gringo invece estrapola l'amore disperato e osteggiato tra il protagonista e una ragazza, cui si frappone un'ingiusta taglia che pende sulla testa del giovane costretto a darsi alla macchia per aver salva la vita. Viene poi introdotto anche un accenno a quei western che hanno in Massacro al Grande Canyon (1964) l'esempio più fulgido, in virtù di un proprietario terriero costretto sulla sedia a rotelle, interpretato da Andrea Bosic, disposto a sacrificare la famiglia pur di salvare i possessi immobiliari. Queste le basi di un soggetto dal forte rischio dejà vù, sviluppato da un trio di sceneggiatori poco avvezzi al genere ma capaci di dar vita a una sceneggiatura tutto sommato buona. Il più esperto dei tre è il ligure Mario Amendola, zio del famoso doppiatore Ferruccio Amendola e fresco del copione del più che sufficiente Uccidi o Muori (1966) di Tanio Boccia. Amendola sfoggia inoltre un curriculum copioso in fatto di sceneggiature (circa una settantina) e di regie. Ex attore teatrale e scrittore di successo di riviste d'avanspettacolo, aveva debuttato in veste di sceneggiatore con la commedia Il Vagabondo (1941) di Carlo Borghesio e con Erminio Macario protagonista, stringendo con gli stessi una duratura collaborazione. A trentanove anni era poi passato alla regia con la commedia I Peggiori Anni della Nostra Vita. Apprezzato sceneggiatore di commedie, aveva quindi iniziato ad alternarsi tra regie e sceneggiature, soprattutto agli ordini di Borghesio (sette film), Giorgio Simonelli (quattro film), Carlo Campogalliani (cinque film) e Aldo Fabrizi, interpretate dai maggiori attori del periodo quali Macario, Totò, Peppino De Filippo, Walter Chiari, Tognazzi, Sordi e Aldo Fabrizi. Tra i film più noti di questa prima fase segnalo La Famiglia Passaguai (1951) e Papà Diventa Mamma (1952) entrambi diretti da Aldo Fabrizi. Nei primi anni '60 si era poi affacciato, piuttosto timidamente e senza successo, al cappa e spada e all'avventuroso, facendo invece fortuna con i musicarelli (in modo particolare con Little Tony) e le parodie di Franco e Ciccio (ricordo Soldati e Caporali diretto dallo stesso Amendola nel 1965). L'approccio al western segnerà una nuova carriera per Amendola che lo porterà a legarsi ai fratelli Corbucci, sceneggerà così un pugno di western cupi e altamente drammatici tra i quali lo strepitoso Il Grande Silenzio (1967) di Sergio Corbucci, dimostrandosi assai capace anche in questo genere. Purtroppo tornerà alle commedie, ai film comico/demenziali e ai sorrisi & cazzotti della coppia Spencer – Hill con i vari Pari e Dispari (1978), Chi Trova un 549 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Amico Trova un Tesoro (1981) e Banana Joe (1982). Oltre ai fratelli Corbucci, collaborerà in modo preminente proprio con Alfonso Brescia e contribuirà altresì alla nascita della saga comico/poliziesca del commissario Nico Giraldi, poliziotto coatto ispirato alla figura di Serpico e personificato da Tomas Milian. Tormentato dal diabete, morirà nel 1993 con la bellezza di 163 sceneggiature e 37 regie all'attivo, per lo più di film comici non di particolare rilievo. Se Amendola è un nome culto nell'ambito del cinema bis, gli altri due sceneggiatori sono assai meno blasonati. Si tratta di Paolo Lombardo e Antonio Boccacci, i quali, curiosamente, vantano una regia a testa. Lombardo aveva debuttato con l'avventuroso Il Cavaliere senza Terra (1958) di Giacomo Gentilomo, proseguendo con altri cinque film di intrattenimento (anch'essi per lo più avventurosi) ma di risibile valore per registi quali Regnoli, Bianchi Montero e Bergonzelli. Non scriverà nessun altro copione western. Negli anni '70, nonostante gli scarsi successi, tenterà di ritagliarsi uno spazio in veste amministrativa, inventandosi poi regista di un paio di film pessimi e addirittura produttore di un terzetto di opere di modesto valore. Tra i film diretti ricordo l'horror L'Amante del Demonio (1972), con Rosalba Neri ed Edmund Purdom, definito da Gordiano Lupi, nel suo Storia del cinema horror italiano, modesto e prevedibile. Curriculum pressoché simile, seppur addirittura più scarno, per Boccacci. Lanciato da Piero Costa in veste di sceneggiatore con l'avventuroso e mediocre La Rivolta dei Mercenari (1960), aveva sceneggiato un altro paio di film semisconosciuti tentando la regia con Metempsyco (1963), un modesto horror gotico privo di inventiva e con un cast artistico povero come ricorda Lupi. Uscirà di scena dopo aver collaborato alla stesura della sceneggiatura de I Giorni della Violenza. Dunque abbiamo un poule di sceneggiatori che sulla carta non destano molta fiducia. L'unico a dare qualche garanzia è Amendola, ma il western è un genere all'epoca pressoché sconosciuto all'autore. Eppure quello che viene fuori è un'ottima sceneggiatura, peraltro con dei monologhi in grado da scuotere lo spettatore. Gli sceneggiatori prendono il soggetto di Buzzi e lavorano soprattutto sui dialoghi, inserendo qua e in là sparatorie collettive con un elevato numero di comparse. Il budget limitato non permette di mostrare le battaglia tra nordisti e sudisti, così si ovvia proponendo un gruppo di rivoltosi su550 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

disti e un plotoncino di nordisti mercenari, più banditi che soldati (i costumi lasciano a desiderare), che compiono scorribande a danno dei civili. Il punto di forza della sceneggiatura è caratterizzato dall'assenza di personaggi positivi. Persino il protagonista, nel corso di una rapina, uccide un civile. Tutti, dunque, sono un po' malvagi anche se quasi nessuno lo è fino in fondo. L'unico a fare eccezione è il personaggio interpretato da Lucio Rosato, il quale uccide a sangue freddo una donna rea di averlo respinto sessualmente e diffonde notizie false per perseguire scopi personali. Un altro aspetto a colpire è l'impatto e l'influenza negativa che il denaro e le proprietà hanno sui personaggi. Gli aspetti venali prevalgono su ogni valore. Solo il protagonista, interpretato da Lee Lawrence, ha una filosofia umanitaria, ma l'abbandonerà in nome della vendetta. Bellissimo il dialogo che lo stesso ha con il padre della donna che ama, il quale lo incida all'odio: “Dovete opporre violenza alla violenza” gli dice “Vi sono bande di uomini che chiamano ribelli o guerriglieri, ma che io definisco, piuttosto, patrioti. Mettetevi alla testa di una di queste bande, voi godete di grande prestigio quindi altri giovani vi seguirebbero. Solo così potrete proteggere questa fattoria dai razziatori!” Lee Lawrence, con il volto imperturbabile, seppur al contempo contaminato da un velo di dolcezza, risponde in modo secco: “Diventando dei fuorilegge? Si sta già combattendo una guerra e voi non potete dichiararne un'altra personale. I nordisti possono anche essere dei razziatori, ma i loro ideali di giustizia e libertà io non mi sento di combatterli. Io sono contro lo schiavismo e l'ingiustizia!” Nonostante i buoni propositi, la violenza verrà a travolgere anche l'innocenza dell'unico personaggio che sembra essere ligio ai valori etici. Decisivo il crudo omicidio di Rosalba Neri, qua purtroppo limitata a un cammeo. La donna è colpevole di non amare l'uomo che, in concorso con il capitano nordista personificato da Luigi Vannucchi, le ha assassinato il marito (stranamente interpretato da un Romano Puppo per una volta in un ruolo non da cattivo). Per tale ragione, mentre impreca e piange sul corpo del marito, viene uccisa con un colpo di pistola sparato a bruciapelo. Disgustoso l'atteggiamento e la caratterizzazione di Andrea Bosic, il quale assiste alla morte del figlio e della di lui moglie senza battere ciglio, interessato unicamente a mantenere la fattoria. Quando Lee Lawrence tornerà a casa, Bosic, anziché essere abbattuto per la morte dei cari, sarà ben felice di sentir uscire dalla bocca del ragazzo procla551 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

mi di vendetta, e lo sarà non per il desiderio di veder onorata la memoria dei defunti piuttosto per ragioni politiche. La felicità di Bosic sarà talmente alta da sbilanciarlo fino a benedire l'amore che il giovane prova per la figlia, promettendo la futura proprietà della fattoria. “Come vedi tutti facciamo delle guerre personali, ma ti approvo. Ogni nuovo braccio che si leva contro i nordisti è un passo verso la vittoria!” commenterà. Lee Lawrence però non è interessato alle sorti del conflitto, vuole solo uccidere chi ha trucidato i suoi amici: “Vittoria? Ci credete davvero? Il blocco navale ci ha tagliato i rifornimenti...” Maiuscolo qui Bosic, senz'altro il più in palla del lotto, il quale chiuderà il pugno in modo belligerante e dalla carrozzella tuonerà: “È sulla terraferma che li batteremo, quel loro generale Grant non vale un'unghia del nostro Lee. Noi li sbaraglieremo e gli spazzeremo via come foglie al vento!” Dunque un western che fa forza sui dialoghi e sulle caratterizzazioni negative dei personaggi. Lo stesso Lee Lawrence, suo malgrado, si troverà coinvolto in rapine e omicidi, al fianco di un possente e ambiguo guerrigliero sudista, interpretato dallo statuario Nello Pazzafini, chiamato a ricoprire un ruolo copia carbone a quello già avuto in Adios, Gringo. Dopo una prima parte incentrata sulla guerra e sulla violenza, buona per i dialoghi meno per l'azione, l'opera prenderà una piega melodrammatica. Il protagonista infatti vedrà pendere sulla propria testa una taglia che lo costringerà a vivere da fuggiasco e a tenersi alla larga dalla fidanzata, cui da corpo la biondissima slava Beba Loncar. Delusa dalla metamorfosi del giovane, che tutti inizieranno a considerare un delinquente, la giovane si farà corteggiare da un uomo distinto che altro non è che colui che le ha ucciso il fratello. Il nuovo amante sarà per di più gradito dal padre della ragazza, il quale, in cambio della promessa di non subire l'esproprio della fattoria, dimenticherà il passato e l'odio per i nordisti, schierandosi addirittura contro i sudisti. “Ti leggo negli occhi la tua voglia di rivedermi, ma non abbracciarmi: potrei sporcare il tuo vestito” la sarcastica frase pronunciata da Lee Lawrence non appena rivedrà la fidanzata, intenta a suonare il piano al cospetto di Vannucchi. Poi, rivolgendosi a Bosic, aggiungerà: “Da quanto ho visto, questa fattoria ha ripreso a prosperare, forse per merito delle nuove relazioni... La verità vi brucia, vero? È l'unica soddisfazione che mi resti dopo aver fallito in tutto: nella guerra, nell'amore 552 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

e nella vendetta!” Seguirà una parte finale in stile Adios, Gringo, in cui Lee Lawrence rapirà la Loncar e, braccato dalla banda di Vannucchi e Rosato, si darà alla macchia tra boschi e monti in un contesto scenografico tutto laziale (sembra però di essere in Jugoslavia, tra verde, massi e pareti rocciose). Qua si assisterà al tradimento, un po' forzato in verità, di Pazzafini (vuole stuprare la ragazza) con relativa scazzottata con Lee Lawrence. Inoltre ci saranno delle ottime scene di azione, con Lee Lawrence che ricorrerà a ogni furbizia possibile per sottrarsi agli attacchi dei rivali (compreso un trucco con proiettili lanciati nel fuoco per simulare degli spari di copertura e rallentare l'inseguimento dei rivali), pensando erroneamente che la ragazza stia tramando contro di lui. La giovane invece, strada facendo, tornerà a innamorarsi del ragazzo al punto da disattendere l'invito di lasciare sul percorso dei segni di riconoscimento indispensabili a mettere gli inseguitori sulle tracce del giovane (altra forzatura, visto che non se ne capisce l'utilità essendo, di fatto, gli inseguitori già sulle tracce della coppia). La giovane, per nulla intenzionata di finire di nuovo tra le braccia di Vannucchi, farà di più: lascerà dei segni contrari a quelli richiesti in modo da spingere gli inseguitori dalla parte opposta. Purtroppo però verrà scoperta dal rapitore, il quale, sospettoso, invertirà la rotta finendo quindi in bocca agli inseguitori. Inevitabile l'imboscata finale. Epilogo con una resa dei conti, definita cultissima da Marco Giusti, ben diretta e montata da Alfonso Brescia con un taglio tipicamente leoniano fatto di alternanze di volti e primissimi piani su occhi, pistole nelle fondine e sul fiammifero acceso da Lee Lawrence per decretare il momento in cui estrarre le colt. Interpretazioni piuttosto granitiche; quasi tutti gli attori, a parte Pazzafini (interpretazione fisica e subdola), appaiono estremamente burberi e seriosi. Lee Lawrence ha una sola espressione, Vannucchi è meno incisivo rispetto alla performance resa nel precedente Johnny Yuma (1966). Bravi Bosic e Rosato (al suo terzo film dopo Deguejo e Navajo Joe), sicuramente tra i più in forma insieme a Rosalba Neri (fugace la sua apparizione). Anonimo Romano Puppo. Carina, ma abbastanza fredda, la Loncar che Giusti definisce bonissima ma che a me pare troppo perfettina e meno attraente di altre. Nonostante i ventiquattro anni, vantava già una carriera interessante (circa venti pellicole tra le quali Signori & Signore di Germi). Dopo aver mosso i primi passi in Jugoslavia, l'attrice, dai tratti più vichinghi che slavi, era 553 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

stata lanciata dal regista inglese Jack Cardiff per ricoprire un piccolo ruolo in Le Lunghe Navi (1964). La buona prova l'aveva quindi spinta sotto la luce dei riflettori fino a essere impiegata in film, seppur non eccelsi, diretti da Mauro Bolognini, Carlo Lizzani e Pietro Germi, con ruoli via via sempre più importanti. I Giorni della Violenza resta il suo unico western, se si eccettua la partecipazione a un sauerkraut western. Verso la fine degli anni '60 passerà al cinema di genere di terza e quarta fascia, in particolare la ritroveremo nelle spy story, in poliziotteschi fiacchi ma anche nel decamerotico. Avrà comunque modo di esser diretta da Mario Monicelli nella commedia Brancaleone alle Crociate (1970). Rivitalizzata dal successo ottenuto nel 1974 in veste di protagonista del serial Ho Incontrato un'Ombra, tenterà di entrare nel circuito televisivo quale presentatrice ma ci riuscirà per poco. Sull'esempio di altre sexy colleghe, inciderà un disco nel 1978 senza riuscire a placare l'inesorabile parabola discendente che la vedrà sempre meno coinvolta nel cinema. Ritornerà in Jugolavia nei primi anni '80, incapace di diventare una vera attrice culto ma comunque con una cinquantina di pellicole alle spalle. Sufficiente la colonna sonora di Bruno Nicolai, bene invece alla fotografia l'ex operatore di macchina Fausto Rossi, già apprezzato ne Il Tempo degli Avvoltoi (1967). I Giorni della Violenza è dunque un western sottovalutato che brilla nella copiosa, ma per lo più fallimentare, filmografia di Alfonso Brescia. Qualcuno ha addirittura accusato quest'ultimo di essere uno dei registi più incapaci nel panorama del cinema di genere italiano (sentenza che non condivido), con una produzione infarcita di trashate. Figlio d'arte, il padre era un produttore, il trentasettenne Brescia ottiene il massimo dal budget e sforna una regia professionale, fatta di carrellate, camera car, soggettive e altre soluzioni visive che rendono gradevole la visione. Al riguardo sono ottimi sia il prologo (con primissimo piano di uno stivale poggiato su una ceppa e personaggi che si muovono in campo lunghissimo) che l'epilogo, girati con grande gusto di genere. Non nuovo al western, aveva diretto nel giro di pochi mesi i mediocri Voltati... Ti Uccido (1967) e Killer Calibro 32 (1967), arriva al film dopo una gavetta iniziata nel 1956 quale aiuto soprattutto di Mario Amendola (che diverrà uno dei suoi sceneggiatori di fiducia) con cui aveva collaborato in ben dieci film, ma anche di Mario Caiano (quattro film) e Lucio Fulci (due film). Era quindi passa554 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

to alla regia nel 1964 con il pessimo Il Magnifico Gladiatore, seguito da altri due prevedibili peplum e dai citati western, generi che Brescia abbandonerà presto. A fine anni '60 tenterà di riciclarsi nel macaroni combat ma con risultati non trascendentali che lo porteranno nel 1969 a intraprendere la via verso il cinema erotico. In quest'ultimo contesto girerà film sempre più raffazzonati, ma avvolti da un'aura da trash movie che gli garantiranno uno zoccolo duro di fedelissimi, con Nel Labirinto del Sesso (1968) a fungere da capostipite e Le Calde Notti di Don Giovanni (1971) a risultare tra i più ricercati dai fan grazie alla presenza della Fenech e della Bouchet. Tra il 1977 e il 1978 tenterà, con una folle operazione commerciale, di rivitalizzare la sci-fi italiana, in un periodo in cui era ormai tramontata. Presenterà così un pessimo quintetto di film di ambientazione spaziale girati l'uno di seguito dell'altro e spesso con contaminazioni erotiche, tra i quali vanta qualche affezionato il solo La Bestia nello Spazio (1978) per la presenza della pornostar Marina Frajese e per dei dialoghi e una fotografia strampalatissimi. Lapidari, in ordine a questo blocco di pellicole, i commenti degli specialisti: storie deliranti, male interpretate e portate in scena con effetti speciali di cartapesta obsoleti di dieci anni!? Sempre più insoddisfatto, Brescia godrà improvvisamente di una seconda giovinezza a cavallo tra gli anni '70 e '80. Proprio in quegli anni vivrà il momento migliore della carriera, quanto meno a livello di incassi, dedicandosi alla sceneggiata napoletana di cui diventerà un vero e proprio specialista, dirigendo Mario Merola in una dozzina di opere tra le quali si distingueranno L'Ultimo Guappo (1978), I Contrabbandieri di Santa Lucia (1979), La Tua Vita per mio Figlio (1980) e il trucido Napoli... La Camorra Sfida, La Città Risponde (1979). Chiuderà la carriera negli anni '90 con una serie di pessimi prodotti di imitazione, per lo più gialli e polizieschi, girati svogliatamente e senza verve. Nonostante il ricordo tutt'altro che qualificato che Brescia ha lasciato ai posteri, I Giorni della Violenza è da considerarsi buono, sebbene all'epoca fu additato quale western povero di idee e troppo infarcito di scene di azione. Con il passare degli anni però il film ha conquistato consensi. Su imdb.com si è guadagnato un discreto 6,5 in pagella. Spaghettiwestern.altervista.org lo reputa appassionante e altamente spettacolare. Il sito plaude anche gli attori, in modo particolare Lee Lawrence definendolo in grande forma. Unico neo sono le musi555 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

che di Bruno Nicolai (a mio avviso poi non così male, ma sono uno dei pochi a salvarle) e le scenografie, inadeguate per rappresentare il Missouri. Tra i meno convinti circa le interpretazioni troviamo Marco Giusti, il quale salva Pazzafini e un po' Vannucchi (è un buon cattivo) ma non esprime commenti entusiastici sugli altri in particolare su Lee Lawrence (ha una sola espressione). Commento, quest'ultimo, pienamente condiviso dal sottoscritto. Non lesina complimenti neppure l'anglofono mondo-esoterica.net che vede delle similitudini con Il Buono, il Brutto, il Cattivo (io non le vedo), ma ne raccomanda la visione reputandolo un film ben scritto, con colpi di scena inaspettati e un ritmo crescente. Il blogger pone l'attenzione anche sull'atmosfera triste che pervade i fatti, con un protagonista disperato, caratterizzato da elementi sia positivi che negativi. Elogi per Brescia: sorprende con una direzione forte e coreograficamente spettacolare, con buon uso dei primi piani e delle scene di azione. Infine, insieme al californiano Tom Betts, il blogger fa giustamente notare come l'idea della famiglia sudista trucidata da una banda di nordisti, con relativa trasformazione di un uomo pacifico a fuorilegge in cerca di vendetta, sarà ripresa da Clint Eastwood in occasione de Il Texano dagli Occhi di Ghiaccio (1976) in quello che è l'ennesimo esempio di come i western di Eastwood siano in relazione con i piccoli western italiani. Sonofdjango.blogspot.it invece rappresenta la parte degli appassionati combattuti. Il film non è brillante né brutto dice, ma è un western di medio livello con un cast decente e ben diretto, con la conseguenza di garantire un'ora e mezza di evasione, ma nulla più. Non mancano poi i detrattori. Filmtv.it lo liquida quale western con poche idee e raffazzonato. Implacabile il Morandini che, stranamente, ha visto il film e probabilmente se ne è anche pentito visto che lo boccia senza appello con una stella e mezzo nella scala dei giudizi e il severo giudizio di convenzionale e legnoso. Per Thomas Weisser è addirittura insostenibile. Il Farinotti si limita a concedere due stelle. Voi, se siete degli appassionatissimi, dateci un'occhiata, specie se vi piacciono i western mélo. Dal Trailer: “Missouri 1863, la guerra ha armato la mano del fratello contro il fratello. Il sud è prostrato, in balia dei nordisti che la vittoria ha reso spietati, sanguinari. Sulle piaghe aperte da un esercito vittorioso si ac556 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

canisce la ferocia di uomini senza scrupoli che hanno fatto della guerra lo strumento della loro avidità. Gruppi di guerriglieri sudisti tentano di opporre una disperata resistenza, ma la ribellione aggiunge nuovo sangue a quello già versato. In questo clima rovente, non c'è posto per i deboli, non c'è posto per la pietà...” “Josh Lee, una testa che vale 5.000 dollari, ma 5.000 dollari possono dare alla testa, per questo Josh dubitava perfino della donna che amava.” “Butch, unito a Josh dallo stesso ideale, diviso dall'invidia e dalla gelosia.” “Christine, una donna che aveva patito con lui le ansie di un'esistenza disperata, costretta a patire l'umiliazione di un vergognoso sospetto.” Per gli amanti delle citazioni “Una fattoria è come una bella donna, se nessuno la guarda sfiorisce.” Sulla scia di Sugar colt torna protagonista la figura del dandy scherzoso che, a poco a poco, assume toni drammatici e vendicativi. A riproporre il personaggio è Gentleman Joe... Uccidi! Si tratta di un'opera confezionata discretamente (producono Mancori e la moglie Chretien, oltre all'onnipresente Alfonso Balcàzar che mette a disposizione il suo villaggio di Esplugas City), ma trascurabile per la scarsa originalità del soggetto. Alla regia c'è Giorgio Stegani, alias George Finley, fido collaboratore di Giorgio Ferroni e apprezzato dal sottoscritto grazie ad Adiòs, Gringo (1965). La pellicola ha il merito di sfruttare, nel ruolo di antagonista, un Eduardo Fajardo in forma smagliante. Stegani lo getta nella mischia con un look a lui inedito. Gli amanti del genere ricorderanno l'attore spagnolo ben vestito e, seppur crudele e oppressore (talvolta persino razzista), dai modi eleganti e aristocratici. Qua invece lo vediamo nei panni dello stereotipo messicano: infido, brutale, sporco, barbuto e propenso a grasse risate. Ennesima dimostrazione, quindi, della bravura di questo attore, sottolineata peraltro dal californiano Tom Betts (“una delle migliori caratterizzazioni di Fajardo”). 557 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

La sceneggiatura (firmata da Jaime Jesus Balcàzar) soffre l'assenza di dialoghi forti. A parte qualche battuta provocatoria del dandy (“Se è quella pistola a sostenere che ho barato, non ho nulla da rispondere: ho grande rispetto per gli argomenti di una pistola”), Balcàzar si limita a macinare idee trite e ritrite (messicani che sterminano i detentori di un carico prezioso allo scopo di prenderne possesso; protagonista che fa il doppio gioco, finché non viene scoperto e pestato a sangue), plasmando il revenge movie di scuola leoniana. Protagonista è Anthony Steffen il quale, per assurdo, controbilancia la rozzezza del personaggio di Fajardo. Se di solito Steffen appare sofferente e trasandato, qua è curato e ben vestito (caso più unico che raro per il brasiliano). Non cambia però la tipologia del suo personaggio: è un pistolero col vizio del poker, motivato a vendicare il fratello assassinato dalla banda di messicani. Per compiere la missione, cercherà di smantellare la banda stessa, sebbene questa furoreggi in paese; non un paese qualunque, bensì un villaggio di frontiera prossimo a passare sotto la giurisdizione messicana. Da segnalare, in positivo, un finale con doppio colpo di scena, che spaghettiwestern.altervista.org reputa ben lontano dai canoni classici dello spaghetti-western. Musiche molto ritmate (ma non eccelse) firmate da Bruno Nicolai. A mio avviso, Gentleman Joe è un deciso passo indietro di Stegani, forse il suo peggior western dei tre diretti. Sul punto però discordano in molti, a partire da Marco Giusti (“Stegani ci sa fare”) che loda addirittura Steffen (“in uno dei migliori ruoli che abbia mai fatto”). Non nasconde il suo entusiasmo neppure il francese Jean-François Giré che parla di eccellente tenuta del film. Buono infine il giudizio di spaghettiwestern.altervista.org, il quale tuttavia sottolinea i difetti della sceneggiatura (“la storia non è tra le più esaltanti”). Lo ignora, oltre al Morandini, filmtv.it. Dopo Un Dollaro tra i Denti, Roberto Infascelli e Allen Klein battono il ferro ancora arroventato e ne girano il sequel che esce a distanza di pochissimi mesi. Il titolo è semplice, i dettagli riservati alla scheda sotto riportata.

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UN UOMO, UN CAVALLO, UNA PISTOLA Produzione: Italia, Germania, USA, 1967. Prodotto: Roberto Infascelli e Massimo Gualdi (Primex Italiana), Allen Klein (Reverse Productions), Juventus Film. Regia: Luigi Vanzi (Vance Lewis). Soggetto e Sceneggiatura: Giuseppe Mangione, Roberto Infascelli. Interpreti Principali: Roger Petitto (Tony Anthony), Dan Vadis, Marco Guglielmi, Daniele Vargas, Ettore Manni, Marina Berti, Raf Baldassarre. Fotografia: Marcello Masciocchi. Musiche: Stelvio Cipriani. Sottogenere: Bounty Killer. Durata 90 min. Giudizio Mancini: *** Giudizio Morandini: Non trovato. La trama Gruppo di malviventi, operanti sul confine del Messico agli ordini di En Plein (Vadis), rubano una diligenza delle poste rivestita d’oro. Aiutati nel colpo da un insospettabile cittadino (Vargas), i malviventi si vedono sottrarre il veicolo proprio dal loro complice. Quest'ultimo, per fregarli, sostituisce il carro con un altro identico, ma uno straniero (Petitto) però, aiutato da un vecchio religioso (Guglielmi) che se ne va in giro a sciorinare prediche al vento, elimina uno a uno i vari pretendenti e recupera il veicolo, facendosi pagare le taglie dei delinquenti dal tenente Stafford (Manni). Commento Il trio Infascelli-Klein-Petitto (nell’occasione aiutati dai finanziamenti dei tedeschi della Juventus Film di Berlino) memore del discreto successo americano di Un Dollaro tra i Denti ne propongono il sequel, mantenendo buona parte del cast tecnico e soprattutto lo stretto legame con i primi due western di Sergio Leone. Roberto Infascelli va a coadiuvare Mangione nella stesura dello script e il risultato finale ne beneficia. Infatti, nonostante i continui rimandi a Leone (colonna sonora che sfiora il plagio; il personaggio dell’ispettore postale che si presenta tale e quale al colonnello Mortimer, compresa la voce del doppiatore di Van Cleef; pestaggi a 559 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

danno del protagonista), lo script è più elaborato rispetto al primo capitolo e punta su dialoghi conditi dalla giusta dose di ironia. Diminuisce la violenza e viene completamente a mancare quell’atmosfera perversa che caratterizzava il primo episodio, tanto che il film riceve il divieto solo ai minori di anni 14. Aumentano invece i personaggi “secondari”, con almeno un paio degni di nota: il predicatore interpretato da Guglielmi e il meschino personaggio riservato a Vargas, che verrà ucciso dalla moglie schifata e tradita per la sua sete di denaro sporco. È invece meno incisivo l'antagonista; non c'è più il grande Frank Wolff, sostituito dal meno qualitativo Dan Vadis. In compenso è più curata la caratterizzazione dello straniero che si rivela più guascone e simpatico (si veda l’ottima sequenza in cui scava le buche a due bulli), nonché munito di un cavallo che lo aiuta a cacciare la selvaggina (!?). Assurdo poi l'inizio in cui si presenta con un ombrellino rosa per pararsi dal sole. Si introduce inoltre una soluzione già vista in una Una Pistola per Ringo, col protagonista che proferisce sempre il medesimo modo di dire: “Mi venga un colpo se non ho mai…” La sceneggiatura regge bene fino all’ultima parte dove scricchiola un po'. Vediamo difatti Vargas seminare sia i soci - con la trovata di sostituire il carro con un altro tarocco - sia lo straniero - costretto a rotolare nella sabbia per evitare i cavalli che gli vengono di continuo lanciati contro – per poi essere preceduto da tutti questi sebbene avesse un vantaggio abissale. Simpatico e tendente al comico l'epilogo, preceduto da un “prefinale” in cui il regista si autocita facendo apparire dai luoghi più impensati il protagonista in modo da eliminare, uno a uno, i vari banditi (uno viene ucciso dopo esser stato costretto a mangiare un pollo arrosto!?) Per gli amanti del pulp sono da segnalare una scena in cui Dan Vadis spoglia una donna a colpi di winchester, nonché il bizzarrissimo fucile a tre canne che utilizza Petitto nella mattanza finale. La regia di Vanzi è buona, il regista è abilissimo nello scandire il ritmo e nell'utilizzare in modo accorto la colonna sonora. Geniale, anche se non sfruttata appieno dalla fotografia, la soluzione del lancio dei fuochi d’artificio per illuminare la notte e individuare i nemici che vagano allo scoperto. Alla fotografia ritroviamo Marcello Masciocchi, il quale abbandona 560 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

gli splendidi giochi di ombre del primo episodio, optando per una fotografia solare meno affascinante, ma più consona alle scenografie desertiche. Nel cast artistico è confermatissimo Tony Anthony, al secolo Roger Petitto, che ripete quanto di buono mostrato nel precedente capitolo, risultando addirittura più simpatico. Lo affiancano un manipolo di attori che non hanno legato il loro nome allo spaghetti western. Il ruolo di antagonista va al giovanissimo e statuario Dan Vadis, il quale, pur facendo il suo, non lascia tracce indelebili nella memoria degli appassionati. Conosciuto soprattutto per le sue partecipazioni nel genere peplum, Vadis aveva già lavorato nello spaghetti western, ricordo Deguejo (1966) e Per Pochi Dollari Ancora (1966), senza convincere troppo e sempre nel ruolo del bullo. Nonostante ciò, dopo questo film, finirà per ricoprire ruoli secondari di autentici cult hollywoodiani come Lo Straniero Senza Nome (1973) e L’Uomo nel Mirino (1977) entrambi di Clint Eastwood nonché lo splendido Sfida a White Buffalo (1978) di J. Lee Thompson prima di morire prematuramente a soli quarantanove anni nel 1987. Più bizzarro, se vogliamo, il restante cast artistico con attori solitamente impegnati in altri generi. Il più qualitativo del lotto è Ettore Manni (proveniente da film di maestri del calibro di Fellini, Risi e Bolognini), qui limitato a poco più di un cammeo. Meno convincenti, ma comunque passabili, il veterano (anche se spesso impegnato in film di contorno) Marco Guglielmi e il caratterista Daniele Vargas. Il primo è chiamato a dare corpo a un personaggio istrionico, senza però sfruttare a pieno le potenzialità offerte; il secondo, ex compagno di banco di Pier Paolo Pasolini ai tempi del liceo, si limita a una prestazione senza infamia e senza lode, passerà in seguito alle commedie o ai film impegnati, spesso con ruoli da caratterista. Un’ultima considerazione va spesa per Stelvio Cipriani il quale, dopo aver musicato The Bounty Killer (1966), ritorna al western ma senza essere ancora maturato. Proprio per questo, forse anche su pressione dei produttori, realizza una colonna sonora debitrice del sound di Morricone. Un brano, addirittura, sfiora il plagio riprendendo palesemente alcune note della colonna sonora utilizzata nel duello finale de Per Qualche Dollaro in Più. Nel complesso, siamo alle prese con uno spaghettino che sa divertire e intrattenere il pubblico, senza però aggiungere niente di nuovo. 561 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Per 800spaghettiwesterns.blogspot.it è inferiore al primo capitolo (cinque e mezzo il voto), contrario spaghettiwestern.altervista.org che lo reputa più fluido e ritmato. Filmtv.it invece lo liquida con una riga e due stelle: “banale e inutilmente violento.” Avrà tre sequel scatenati e fuori dai canoni. Per gli amanti delle citazioni: Tenente: “Ci sono due tipi di persone di cui non mi fido: quelli che dicono di non sapere niente e quelli che dicono di sapere tutto” Straniero: “Vorrete scusare la mia franchezza, tenente, ma i tipi come voi o fanno una grande carriera o muoiono giovani.” A completamento del quadro, si segnala l'uscita de Il Magnifico Texano (1967), giunto nelle sale a fine mese grazie ai capitali sborsati dalla coppia Ferdinando Felicioni ed Emilio Giorgi (l'anno dopo produrranno il discreto Un Treno per Durango di Mario Caiano), supportata dallo spagnolo Rafael Marina Sorail, fresco di Pochi Dollari per Django (1966). Il film, il cui titolo fa il verso a quello originale impresso sul copione di Per un Pugno di Dollari (dove si legge il sottotitolo Il Magnifico Straniero), segna il debutto nel genere, sotto lo pseudonimo di Lewis King, del campano Luigi Capuano. Regista minore specializzato in adventure movie e nel filone zorresco, Capuano chiude la carriera col western affrontandolo a sessanta anni suonati. Ex pilota di bombardieri, con un passato da giornalista sportivo, aveva preso le mosse nel 1947 interessandosi inizialmente alle sceneggiate napoletane, per affermarsi, agli inizi del '60, col cappa e spada e con una serie di trasposizioni dei romanzi di Emilio Salgari. È Capuano in persona a scrivere la sceneggiatura, coadiuvato dall'esperto Arpad De Riso. Il suo però è un soggetto privo di originalità e troppo debitore degli zorro movie tanto cari al regista. Protagonista è un vendicatore, interpretato da Glen Saxson, munito di foulard nero calato sulla parte inferiore del viso in modo da occultarne l'identità. L'uomo difende i messicani del luogo oppressi dai rancheros, i quali, tra una prepotenza e l'altra, agiscono indisturbati sotto la protezione del giudice. Le gesta del vendicatore mascherato gettano nello scompiglio il paese, tanto da spingere lo sceriffo (il solito Luigi Induni Radici) a istituire una taglia sulla sua testa. 562 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Questa la trama, di un soggetto che ruota attorno al senso di giustizia e al concetto di legge. Capuano da a questi concetti una caratterizzazione soggettiva che diverge da soggetto a soggetto. Così abbiamo i sostenitori della regola del taglione, chi intende adire le autorità per condannare i malfattori, chi ancora usa la furbizia per aggirare i divieti e usare la legge a proprio favore. Dunque un clima di caos dove prosperano i giustizieri e dove gli stessi vengono visti con favore dagli oppressi. Il ruolo dell'antagonista va a Massimo Serato (celebre nei fotoromanzi, oltre che attore di circa centocinquanta film un po' in tutti i tipi), celato sotto l'assurdo pseudonimo John Barracuda (!?). Spetta a lui ricoprire la lunga e corrotta mano della burocrazia, che si erge contro la giustizia fai da te, unica via per difendersi dalle deformazione delle istituzioni. Glen Saxson, già visto nel discreto Django Spara per Primo (1966), conferma le proprie difficoltà nell'andare a cavallo (per Marco Giusti è pure “poco espressivo”), tanto da ricorrere continuamente a stuntman mascherati. Motivo, quest'ultimo, che lo porterà a perdere le attenzioni dei produttori, con consequenziale ridimensionamento dei ruoli allo stesso affidati. Tra i rancheros figura Riccardo Pizzuti (stuntman conosciuto per i film di Bud Spencer e Terence Hill, sopratutto per le scene in cui sputa via i denti a ogni cazzotto subito); tra i messicani, invece, c'è Glauco Onorato (doppiatore storico di Bud Spencer). La confezione della pellicola, completamente girata a Roma, non è delle migliori. Pablo Ripoll (fotografia) piazza degli evidenti filtri blu per le notturne, inoltre le scenografie sono abbastanza sciatte. Non è delle migliori neppure la colonna sonora di De Masi, la quale si lascia facilmente dimenticare. Abuso di zoom per Capuano, a cui piace chiudere spesso sugli occhi degli attori. In pochi hanno visto il film e quei pochi non si strappano i capelli dalla gioia. Spaghettiwestern.altervista.org lo definisce a tratti indigesto, poco avvincente e dal ritmo scarso. Cinque e mezzo per imdb.com, non pervenuti gli altri. Trascurabile. Sempre ad agosto escono i primi due western che danno vita a un vero e proprio sottogenere che prenderà piede, sfociando ne I Giorni dell'Ira (1967) di Tonino Valerii. Si tratta di western dai soggetti 563 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

spesso identici, ma sviluppati in virtù di monologhi e dialoghi capaci di fare presa sullo spettatore. Dedico a questo lotto di film un capitolo tutto suo. 6.3 Quando gli allievi superano i maestri. È il dieci agosto e nelle sale dei cinema italiani esce L'Ultimo Killer. Non si tratta di un film dal grande budget, né di un western particolarmente conosciuto, ma è innegabile l'influenza marcata che avrà nel genere al punto da tracciare le coordinate per la nascita di un filone cui ascrivere perle del calibro di Da Uomo a Uomo e I Giorni dell'Ira. È dunque il primo film, anche se in parte anticipato, di qualche mese, da Dove si Spara di Più (1967) di Puccini, incentrato sul rapporto tra un pistolero anziano e un giovane incapace di tenere in mano una pistola, seppur smanioso di apprendere i trucchi e segreti della professione fino a superare in bravura il maestro di riferimento. Vediamo ora la scheda di questo apripista. L'ULTIMO KILLER Produzione: Italia-Spagna, 1967. Produttori: Franco Committeri, Luciano Pappalardo (Juppiter Generale Cinematografica), Mario Rossi (Rofilm) e Castor Film Productions. Regia: Giuseppe Vari (Joseph Warren). Soggetto: Victor Catena (Victor Cabot). Sceneggiatura: Augusto Caminito. Interpreti Principali: Luigi Montefiori (George Eastman), Dragomir Gidra Bojanic (Anthony Ghidra), Daniele Vargas, Dana Ghia, Giuseppe Medici (John Hamilton). Fotografia: Angelo Filippini. Musiche: Roberto Pregadio. Sottogenere: Maestro e Allievo / Revenge Movie. Durata: 88 min. Giudizio Mancini: *** Giudizio Morandini: * 564 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

La trama Un distinto uomo (Vargas), Barrett, tenta di acquistare tutti i terreni della zona. Chi accetta le proposte viene pagato, chi rifiuta subisce ritorsioni che comportano la distruzione e l'incendio della fattoria. Per eliminare coloro che gli bramano contro, Barrett ingaggia Rezza (Bojanic), un pistolero professionista che vive da eremita e sogna di tornare al paese natale. Il primo a cadere sotto i colpi del pistolero è Burt (Medici), fido aiutante del boss ma reo di atti di bullismo non graditi al capo. Nell'occasione il sicario viene salvato da un peone mal ridotto (Montefiori) che entra così nelle simpatie dell'uomo al punto da esser preso sotto la sua ala protettrice. Il giovane non rivela i suoi propositi al killer e cerca di apprenderne i segreti. Divenuto abile con la pistola, il messicano pianificherà l'assassinio di Barrett, colpevole di avergli distrutto la fattoria e ucciso i genitori, ma quest'ultimo, a sua volta, ingaggerà Rezza per ucciderlo. Commento L'Ultimo Killer è una vera e propria sorpresa soprattutto se si considera la pre-produzione e le dinamiche che stanno dietro al progetto. Il film nasce come un prodotto di quarto ordine con inesperti produttori squattrinati, attori poco noti e sceneggiatura scritta in fretta e furia. La genesi è in salita fin dal concepimento. Sergio Garrone rinuncia a cacciar i soldi perché non apprezza il regista Giuseppe Vari con cui aveva litigato in occasione di Deguejo (1966), vende addirittura i diritti al primo che gli capita a tiro: l'ex commercialista Franco Committeri. Committeri all'epoca è un quarantatreenne al debutto assoluto nel mondo del cinema, sprovveduto e privo di capitali. In seguito, soprattutto negli anni '80, dimostrerà di avere grande fiuto legando il proprio nome a grandi interpreti della commedia italiana, in particolare a Ettore Scola (nove le loro collaborazioni). Produrrà una ventina di film, nessuno di genere, e vincerà addirittura un David di Donatello nel 1981 con Passione d'Amore e un Nastro d'Argento nel 1987 con La Famiglia, pellicole entrambe dirette da Ettore Scola. All'epoca però Committeri non è quello degli anni '70 e '80, ma uno dei tanti improvvisati alla caccia di fortuna. Il produttore romano mette sotto contratto due attori che costano poco ma che hanno l'alea della scommessa: da una parte un giovanissimo (venticinque anni) Luigi Montefiori, al suo secondo ruolo importante dopo il pessimo 565 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Bill il Taciturno; dall'altra il serbo Dragomir Bojanic fresco da Ballata per un Pistolero (1967) e reduce da produzioni jugoslave. La sceneggiatura viene invece affidata al ventottenne Augusto Caminito, senza alcun aiuto e costretto a stendere il copione nell'arco di due nottate. Proprio su Caminito ricadono le uniche speranze per una buona resa del film, lo sceneggiatore arriva da I Lunghi Giorni della Vendetta (1967) ed è piuttosto ricercato per gli spaghetti-western (ne farà altri quattro nell'annata). Tutto lascia presagire al peggio, ma lo sceneggiatore ha un'idea geniale che anticipa di pochi mesi due cult assoluti: Da Uomo a Uomo (1967) e I Giorni dell'Ira (1967). È il primo a introdurre il sotto-tema del maestro e dell'allievo che ne segue pedissequamente gli insegnamenti. L'opera infatti è incentrata sul rapporto tra il killer e il suo allievo, il quale, come sarà per lo Scott Mary de I Giorni dell'Ira, è uno straccione deriso e malmenato da tutti, che va in giro in groppa a un asino e che non sa tenere in mano una pistola. Sarà il mercenario a educarlo e a inquadrarlo, facendo di lui un uomo che potrà poi vendicare i genitori trucidati dal bullo di turno. La figura di quest'ultimo è marginale, poco curata. Sappiamo che ama vestirsi in modo elegante e che cura i propri interessi avvalendosi di una banda di manigoldi o di pistoleri a pagamento. La storia, così come il suo sviluppo, sono piuttosto povere e prive di interesse, a rilevare sono invece i decadenti dialoghi tra Bojanic e Montefiori, con il primo – vagamente somigliante a Luc Merenda – che appare sofferente, isolato, incapace di costruirsi una vita. “È difficile capire le donne, sono come i muri: non riesci mai a sapere cosa nascondano dall'altra parte” riferisce all'allievo che è innamorato di una ragazza, ma sentitosi tradito rifiuterà sempre ogni forma d'amore. “C'è un muro che non supererai mai, dal momento che uccidi il primo uomo: quello della società” cerca di ammonire l'allievo per dissuaderlo dalla professione. “Alzeranno un muro altissimo davanti a te, ti rispetteranno, avranno paura di te, ma non ti ameranno mai e tu resterai sempre dalla parte di qua del muro.” L'allievo non è per nulla intimorito, perché a lui non interessa vivere, vuole solo vendicarsi. “Meglio così...” sbuffa con fare arrogante. Bella, al riguardo, la risposta del pistolero che lascia trasparire tutta l'amarezza che si porta dentro: “Anche io lo credevo una volta, un giorno ti accorgi che la vita si svolge dall'altra parte e che tu ne sei escluso per sempre. Sono stanco di questa vita, stai sempre solo come un cane e aspetti di crepare peggio di un 566 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

cane.” Se il lavoro di scrittura di Caminito è sorprendentemente buono, lo sono altrettanto le interpretazioni dei due protagonisti. Montefiori passa da straccione ad apprendista, quindi diviene arrogante e tiene un atteggiamento ambiguo di sfida verso il maestro, poi alla fine torna a essere un uomo sofferente perché comprende che tutti gli ammonimenti del vecchio erano veri. Una prova a dir poco maiuscola, per un attore che si ritrova buttato nella mischia dopo appena un anno di Centro Sperimentale di Cinematografia (scuola poi non completata) ed essere apparso da mera comparsa in Django Spara per Primo (1966) e in Bill il Taciturno. Montefiori, alias George Eastman, diverrà uno dei volti cult nel cinema di genere, sia in qualità di attore che di sceneggiatore, soprattutto legato al regista/produttore Joe D'Amato. Dotato di una mole imponente, è alto più di due metri, avrà un ruolo determinante nello spaghetti-western (vari ruoli da protagonista buono, ma anche da canaglia come in Preparati la Bara) e soprattutto negli horror e nei post-atomici degli anni '70/'80 dove vestirà quasi sempre i panni del pazzo assassino o del degenerato. Tra le sue apparizioni memorabili come non ricordare l'assassino cannibale nello splatter Antropophagus (1980) di D'Amato, o lo scimmione di 2019 Dopo la Caduta di New York (1983) di Martino ovvero il minotauro di Fellini - Satyricon (1969) o ancora il giocatore di poker omosessuale in Regalo di Natale (1986) e La Rivincita di Natale (2004) di Pupi Avati. Avrà ruoli importanti pure nel bizzarro e fumettistico Baba Yaga (1973) di Farina e nel trucidissimo Cani Arrabbiati (1974) di Mario Bava. A partire dal western Ciakmull (1970) di Barboni, si distinguerà anche in veste di sceneggiatore di pellicole di genere scrivendone una quarantina. Tra le storie più riuscite ricordo i super cult Keoma (1976) di Castellari e Deliria (1986) di Soavi. Negli anni '90 tenterà addirittura la via della regia, con l'horror DNA Formula Letale (1990): una sorta di imitazione squattrinata de La Mosca. Proseguirà la carriera nel mondo della Tv distinguendosi come uno degli sceneggiatori più ricercati e mettendo la firma su copioni di importanti fiction e serial televisivi come Il Maresciallo Rocca (1998), Uno Bianca (2001) di Soavi, La Squadra (2001/04), L'Onore e il Rispetto (2006) e molti altri. Se Montefiori fa bene, non sfigura neppure la sua spalla, ovvero il 567 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

serbo Dragomir Bojanic, meglio conosciuto con lo pseudonimo Anthony Ghidra. Bojanic si dimostra molto esperto, magari non acrobatico, ma con espressioni sempre tristi e malinconiche, come quando suona l'armonica e ricorda l'infanzia: “Voglio tornare dove sono nato, comprare una casa , avere dei figli, forse una moglie. Se trovo ancora il vecchio che suona al tramonto, lo faccio entrare in casa, gli do da mangiare e da bere, lo faccio stendere sul letto e gli dico: basta camminare, vecchio, riposati adesso, è da quanto sono ragazzo che ti vedo in giro...” Geniale l'intervento dell'allievo che ha capito tutto: “Quel vecchio sei tu, e ora ti sei messo in testa di scalare quel muro che mi dicevi... non ci pensare... Ma come mai non mi hai chiesto perché volevo imparare a sparare?” domanda sorridente. L'altro, colpito nel vivo, risponde in modo duro: “Perché già lo sapevo: vuoi uccidere qualcuno... Forse te stesso, il chico che eri!” L'allievo si rattrista, sa che il maestro ha dato la risposta giusta. La vendetta, per il messicano, non è la via per il riscatto (come avverrà per il protagonista de I Giorni dell'Ira) ma quella per l'autodistruzione, l'estrinsecazione del rifiuto alla vita e dei valori in base ai quali era vissuto fin dall'infanzia e che alla fine rigetterà perché consumato dalla rabbia. Dunque passaggi dotati di una profondità degna di un grande film e che elevano L'Ultimo Killer a un livello di primo ordine. Caminito impreziosisce il tutto con trovate da b-movie, come il mercenario che incide croci sulla sommità delle pallottole (“con un colpo così è difficile sbagliare, quando colpisce qualcosa il piombo si apre e ti fa un buco come una cannonata”) o spara con la carabina tappandosi l'occhio con una benda da pirata ovvero simula tra i massi una sfida con l'allievo dal sapore beffardo, che ricorda la prova iniziatica superata da Anthony Steffen in Una Bara per lo Sceriffo (1965). Non mancano infine la serie di lezioni impartite al giovane messicano, con dialoghi e monologhi da antologia: “Quando ti trovi davanti a un avversario non sei mai in condizioni di parità. Uno dei due è sempre favorito: quello che ha il sole alle spalle. Primo, perché se hai il sole alle spalle il tuo avversario è illuminato meglio. Secondo, perché se tu l'hai dietro l'altro ce l'ha negli occhi. Guarda l'ombra, se te la vedi davanti puoi sparare, se non la vedi aspetta, muoviti lentamente, cercala. E mentre ti sposti bagnati la bocca, davanti hai l'aria. Se senti freddo a destra, hai il vento a destra. Se è freddo al centro, vuol dire che hai il vento in faccia ed è male, il tuo colpo è lento, meglio averlo alle spalle, allora non lo senti. Devi calcolare quanto ce n'è. Se la polvere si alza, il 568 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

vento è basso e forte. Se vedi gli alberi che si muovono, è alto e più debole. Io lo sento dai capelli, li porto lunghi per questo. È istinto, come le bestie. Devi dimenticarti di essere un uomo, tutto il tuo corpo deve servire per uccidere... Ogni cosa serve a darti un vantaggio. Quanto ti trovi davanti alla morte hai la sensazione di essere un animale, se ti rifiuti di esserlo hai poche possibilità di sopravvivere. In un duello mortale, vince sempre chi ha più voglia di vivere.” Bello il duello tra maestro e allievo, con il primo che proferisce una battuta in stile Sentenza de Il Buono, il Brutto, Il Cattivo (“sono un professionista, quando mi pagano vado sempre a fondo”) costringendo l'altro a far ricorso a tutti gli insegnamenti per salvare la pelle. Qua Vari escogita un trucco già utilizzato da Corbucci in Johnny Oro (1966), fa abbagliare il pistolero da un riflesso solare mettendolo così in posizione di debolezza. Seguirà un epilogo intriso di una tristezza e di un senso di sconfitta davvero unico, con Montefiori che sentirà in testa le parole del maestro quando gli parlava delle barriere alzate dalla società. In definitiva uno spaghetti-western che fa di necessità virtù (molto stazionario e con poche location), ottenendo il massimo dai dialoghi e delle prove di Montefiori e Bojanic. L'intreccio è da western prima maniera, con signorotto locale che strappa le terre ai coloni dando fuoco a case e uccidendo i refrattari. Su tale canovaccio si innesca la novità del rapporto pistolero/allievo, che diviene il cuore del film (il resto è marginale per non dire superfluo) e da il via a un filone di epigoni. Vari dirige molto meglio che in Deguejo, eliminando i tempi morti che contraddistinguevano il suo primo western, anche se l'azione non raggiunge apici particolari. Degna di nota la cura nei particolari (a partire dal make up, con tumefazioni e ferite ben riprodotte) e nella ricerca dell'immagine pulita. Tra le sequenze più riuscite c'è la simulazione che il maestro inscena per raffreddare gli ardori dell'allievo, con il regista che segue i due attori tra i massi in un bellissimo scenario cui fa sfondo un lago immerso nelle praterie. Non manca la scena di pestaggio: Montefiori frustato a sangue e preso a calci e pugni. Il discreto lavoro finale rilancerà Vari nel western; ne girerà altri sei, uno dietro l'altro, tra cui Prega il Morto e Ammazza il Vivo (1971), prima di smarrirsi passando dal giallo all'avventuroso, e da 569 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

questi al decamerotico fino al melodramma e al poliziottesco, coi soli Terza Ipotesi su un Caso di Perfetta Strategia Criminale (1972) e il tonaca movie erotico Suor Emanuelle (1977) degni di esser menzionati. Ottima la fotografia di Angelo Filippini, lo ritroveremo in El Desperado (1967) e in Quella Sporca Storia del West (1968), ma che avrà una carriera a singhiozzi terminata nel 1989. Qua Filippini regala un master nitido dall'atmosfera invernale, elegantissimo, nonostante gli scarsi mezzi. Eccelle anche il maestro Pregadio (sì, proprio quello della Corrida) alla colonna sonora con una main theme malinconica e lenta nel suo incedere, tra le migliori mai ascoltate. Pregadio viene lanciato nel western dopo aver composto appena due colonne sonore e aver collaborato, in veste di conduttore di musiche scritte da altri (Giovanni Fusco, Carlo Rustichelli, Walter Rizzati, Mario Nascimbene e Romano Mussolini), in cinque film girati tra il 1963 e il 1966, tra i quali Kriminal (1966) di Lenzi. Non abbandonerà la veste di conduttore neppure in seguito, nonostante la realizzazione di circa cinquanta colonne sonore. Famoso soprattutto in qualità di pianista e direttore di orchestra in trasmissioni televisive e radiofoniche, Pregadio non riuscirà a ritagliarsi uno spazio importante nel mondo del cinema, rimanendo confinato per lo più in commedie e opere di genere di terza fascia. Tra i lavori cinematografici degni di nota segnalo le musiche del western Il Pistolero dell'Ave Maria (1969). Vediamo ora come L'Ultimo Killer è giudicato dai critici. Gli esperti del settore lo apprezzano abbastanza, il californiano Tom Betts esalta soprattutto il coprotagonista slavo; spendono parole dolci anche Bruschini (loda regia e caratterizzazioni) e Tomas Weisser che sottolinea la componente visiva, ma bacchetta la sceneggiatura giudicata un po' debole. Persino Montefiori ne parla come uno dei suoi western preferiti. Entusiasti i blogger e i siti di settore. Spaghetti-western.net lo reputa eccellente, al punto da elevarlo a miglior western di Vari nella circostanza definito“talentuoso”. Per 800spaghettiwesterns.blogspot.it è sopra la media e incentrato sul razzismo degli americani nei confronti dei messicani. Grandi complimenti anche per il notevole Bojanic. Mondo-esoterica.net punta il dito sul basso budget, facendo notare 570 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

come solo l'assenza di denaro abbia impedito al film di diventare un vero capolavoro. Tra i detrattori, piuttosto sorprendentemente, troviamo spaghettiwestern.altervista.org il quale reputa la storia debole e ritiene insufficiente l'azione (scarseggia), giungendo a ritenere mediocre la pellicola. Appare poco convinto anche Marco Giusti che mostra perplessità davanti ai commenti positivi dei colleghi Betts e Bruschini. “Non aggiunge nulla di nuovo” per il portoghese por-um-punhado-de-euros.blogspot.it che lo indica destinato solo ai più fissati estimatori del genere. Inflessibile e ingeneroso, come al solito, il Morandini che gli concede una sola stella. Per il Farinotti e filmtv.it ne vale due. A mio avviso, è da recuperare. Piccolo gioiellino di serie B. Per gli amanti delle citazioni “Se l'avversario fa un passo e si ferma, ha paura; se ne fa due, è indeciso; se ne fa tre, sta per ammazzarti!” Dopo appena ventuno giorni esce il primo epigono de L'Ultimo Killer. I due film vengono girati in contemporanea, ma la velocità con cui il film di Vari viene fatto uscire ne decreta il primato nel filone. Così a Petroni non resta che darvi seguito, questa volta con un buon budget e attori di primissimo livello molti dei quali di scuola leoniana (c'è anche il fido Giancarlo Santi in veste di aiuto regista). Ecco la scheda del film. DA UOMO A UOMO Produzione: Italia, 1967. Prodotto: Alfonso Sansone ed Enrico Chroscicki (Sancro International), Francesco Abenia e Antonio Caputo (P.E.C.). Regia Giulio Petroni. Soggetto e Sceneggiatura: Luciano Vincenzoni. Interpreti Principali: John Philip Law, Lee Van Cleef, Luigi Pistilli, Mario Brega, Anthony Dawson, Romano Puppo, José Torres, Carla Cassola. Fotografia: Carlo Carlini. 571 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Musiche: Ennio Morricone Sottogenere: Maestro e Allievo / Revenge Movie. Durata 120 min. Giudizio Mancini: ***1/2 Giudizio Morandini: ** La trama Bambino assiste allo sterminio della sua famiglia a opera di un gruppo di cinque soggetti che, in una notte piovosa, irrompono nella casa e sparano all'impazzata. Il piccolo riesce a scorgere dei particolari che, una volta adulto (Law), gli permetteranno di identificare uno a uno i componenti della banda per ucciderli in regolari duelli. Nella vendetta sarà aiutato da un vecchio (Van Cleef), appena uscito di carcere, che ha anch'esso le sue buoni ragioni per ricercare i componenti della banda. Il vecchio, infatti, accusa i vecchi compagni di averlo venduto alla giustizia ed essersi ritagliati alle sue spalle un futuro da gentiluomini. Ciò che il ragazzo non sa è che anche il vecchio partecipò alla spedizione omicida anche se non mise mano alla pistola. Lo scoprirà alla fine e dovrà combattere tra la riconoscenza e la sete di vendetta. Commento Gemma della cinematografia western italiana per quel che riguarda il sottogenere revenge movie. Da Uomo a Uomo, infatti, è un vero e proprio precursore di questo sottogenere capace di influenzare decine e decine di altri film, compresi quelli d'oltreoceano. Il film viene prodotto da una consolidata coppia di produttori, Alfonso Sansone e l'italo polacco Enrico Chroscicki, proveniente dalle commedie e con all'attivo punte come Il Sorpasso (1962) co-prodotto con Cecchi Gori per la regia di Dino Risi. I due produttori, forti di un budget piuttosto elevato, tentano di ripercorrere le orme di Sergio Leone così assumono Luciano Vincenzoni alla sceneggiatura, Giancarlo Santi all'aiuto regia e chiamano nel cast artistico alcuni degli attori lanciati dal maestro romano, tra i quali Lee Van Cleef, Luigi Pistilli e Mario Brega, avvalendosi infine della preziosa collaborazione della United Artists. Il risultato sarà così buono che i due, subito dopo, produrranno I Giorni dell'Ira chiamando alla regia un altro allievo di Sergio Leone, cioè Tonino Valerii. L'impronta leoniana è molto forte. Vincenzoni traccia una sceneg572 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

giatura i cui personaggi principali, seppur con lievi differenze, paiono ricalcati da quelli di Per Qualche Dollaro in Più. Abbiamo infatti un giovane spavaldo che, seppur sbarbato, si atteggia e si comporta alla stessa maniera di Clint Eastwood e un saggio e calmo vecchio ancora interpretato da Lee Van Cleef che funge da elemento di equilibrio. Come nella citata pellicola di Leone, i due entrano in competizione, intralciandosi a vicenda, pur di giungere prima dell'altro nei luoghi in cui si rifugiano i comuni nemici, per poi unirsi e combattere assieme (peraltro con un epilogo simile a quello del film di Leone). Costante è anche l'evoluzione psicologica del vecchio che arriva a stimare il compagno più giovane al punto da dirgli: “Mi piacerebbe avere un figlio come te, perché un giorno finirò con una pallottola dietro la schiena e non ci sarà chi mi vendicherà”. Ciò che cambia, rispetto a Per Qualche Dollaro in Più, è il movente dei due. Nell'opera di Petroni non ci sono bottini da recuperare o taglie da intascare, i due sono sono mossi unicamente dal desiderio di vendetta: da una parte abbiamo un ragazzo che vuol vendicare lo sterminio della propria famiglia, dall'altra un vecchio che vuol far scontare ai suoi ex compagni i quindici anni spesi in carcere per esser stato da loro tradito. Interessante è l'intreccio che alla fine porta i due protagonisti a entrare in conflitto, poiché anche il vecchio interpretato da Van Cleef ha partecipato allo sterminio della famiglia del ragazzo. Dunque un'opera con elementi che rievocano Leone e con altri embrionali che saranno sviluppati dal successivo film dell'accoppiata Sansone-Chroscicki, cioè I Giorni dell'Ira. Valerii riprenderà dal lavoro di Petroni l'idea del vecchio pistolero che da lezioni di tattica al giovane: “quattro cartucce per un uomo solo sono uno spreco, ragazzo.” Curiosi alcuni siparietti comici, ai limiti del grottesco, che raggiungono l'apice nella scena in cui Van Cleef, dopo aver ucciso alcuni messicani di guardia (tra cui Mario Brega), soccorre Philip Law, sotterrato fino al collo in una piazza deserta, prendendolo per le orecchie e dicendogli: “sei diventato piccolo piccolo”. La particolarità dello script tuttavia sta nell'introdurre una forte anima da b-movie, con trovate che faranno la fortuna del cinema di molti registi, tra tutti Quentin Tarantino. Kill Bill difatti deve molto a questo film. Vincenzoni propone un manipolo di assassini brutali che, in un prologo notturno dilatatissimo e girato da film horror con pioggia, 573 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

tuoni e fulmini, irrompono in un'abitazione per uccidere un uomo e stuprarne moglie e figlia, prima di trucidarle con un colpo di pistola. Il tutto avviene sotto gli occhi di un bambino che si nasconde dietro un ammasso di tronchi, individuando uno a uno dei particolari che gli permetteranno da adulto di identificare i vari componenti: abbiamo infatti un uomo che ha un poker di assi tatuato sul petto, uno che ha come ciondolo un teschio, un altro che indossa un orecchino, altri che hanno cicatrici in volto o che indossano speroni particolari. Dunque una scena che ispirerà Tarantino per l'episodio animato che introduce O-Ren in Kill Bill Vol.1, ma anche registi come Dario Argento (penso soprattutto al recente Non ho Sonno dove un bambino assiste all'assassinio della madre riconoscendo il rumore dello spruzzino che usa il killer per curare la sua asma). Non male l'idea del gruppo di banditi che, prima di assaltare il fortino in cui si sono rintanati i due protagonisti, fa suonare una marcia funebre messicana per snervare gli avversari e impedir loro di riposare. Le soluzioni tipicamente b-movie però non si esauriscono qui, ma propongono trovate piuttosto balzane per un western. Si va da una sedia che sprofonda in uno scantinato per effetto di una botola mobile azionata da un pulsante manuale, all'esercitazione di tiro iniziale di Philip Law - con tanto di percorso - che pare estrapolata da un poliziesco, fino a una distesa desertica in cui appaiono teschi e volti mummificati di persone sepolte vive col solo capo lasciato a bruciare sotto il sole. Vincenzoni compensa così, in modo gustoso, alla mancanza di dialoghi graffianti anche se occorre dire che la buona riuscita del film deve molto al magistrale estro di Giulio Petroni. Quest'ultimo, pur tornando in seguito a dirigere importanti western tra cui il mitico Tepepa (1969) con Orson Wells e Tomas Milian, regala una regia curatissima, attenta ai particolari (molti gli zoom) e al ritmo, che non ripeterà nelle successive opere a causa di tagli più classicheggianti. Si dice che nell'occasione sia stato fondamentale la collaborazione dell'aiuto Giancarlo Santi, futuro regista di una delle ultime perle del cinema western italiano vale a dire Il Grande Duello (1972), chiamato dai produttori allo scopo di velocizzare le riprese e aiutare un Petroni in difficoltà con i tempi. Petroni, del resto, arriva al film con svariati corti e mediometraggi (il debutto nell'immediato dopo guerra nell'isola di Ceylon dove aveva lavorato come Direttore del Dipartimento cinematografico), un ap574 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

prendistato da aiuto alla corte di Mario Amendola e Giuseppe De Santis e solo quattro commedie di scarso valore girate tra il '59 e il '62. Peraltro era uscito dal circuito cinematografico da ben cinque anni (era passato a lavorare alla RAI). Dunque, nonostante quarantasette anni di età, Petroni viene a trovarsi alla prese con un genere con cui non si era mai confrontato e con un velo di ruggine a frenarlo. La buona prova tuttavia lo rilancerà e lo porterà a dirigere, nel giro di cinque anni, altri quattro spaghetti-western con alti (Tepepa) e bassi (E Sotto un Cielo di Stelle) senza però restare coinvolto in pessimi lavori. Passerà in seguito ad altri generi, dall'erotico all'horror, incapace di raggiungere le vette toccate col western e finendo col ritirarsi nel 1978 con un horror dalle tinte fosche, vietato ai minori di diciotto anni: L'Osceno Desiderio di cui rifiuterà persino la paternità. Morirà di vecchiaia nella sua amata Roma, all'età di ottantanove anni. Molte le sequenze degne di nota per il taglio registico. Su tutte regna lo splendido duello nel saloon tra Philip Law e Dawson, ripreso anch'esso da Per Qualche Dollaro in Più, ma girato con maggior tensione (grazie alle riprese circolari, ai molti primissimi piani e alle tre note suonate dal pianista per scandire il momento in cui estrarre le armi). Ottima poi l'uccisione di Pistilli, preceduta da una soggettiva dall'alto di quest'ultimo con pistola in mano posta davanti alla mdp. Petroni e Vincenzoni regalano inoltre due omaggi, più o meno voluti. Il primo di essi a a Un Dollaro Bucato, con Philip Law immobilizzato sotto il sole e costretto a ingurgitare una manciata di sale; il secondo a Sette Dollari sul Rosso, con Van Cleef che da le spalle a Philip Law rifiutando il duello, mentre l'altro lo invita a difendersi. Collaudato il cast artistico. Spiccano un Luigi Pistilli alle prese con un ruolo più ampio del solito, ma sempre infido (è un sindaco corrotto), e un Lee Van Cleef che ripete, pur non arrivando ai medesimi apici, la performance di Per Qualche Dollaro in Più. Brutale come sempre Mario Brega, in un rapido cammeo (pesta a sangue Van Cleef). Curiosa invece le presenza di John Philip Law, nel suo primo ruolo da protagonista e nel suo unico western. L'attore scimmiotta Clint Eastwood (pare che lo stesso Petroni, sul set, lo chiamasse Clint) dimostrando di non aver ancora acquisito quella personalità che farà di lui uno degli indimenticabili attori della filmografia di genere italiana. Avrà grande popolarità grazie a Diabolik (1968) di Mario Bava e alle partecipazioni in cult movie del calibro di Barbarella (1968) e Cassandra Crossing (1976). Continuerà a lavorare, alternandosi tra 575 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

America e Italia, fino all'anno della sua morte nel 2008, finendo via via coinvolto in produzioni sempre più piccole. Lo troveremo protagonista indiscusso in tutti e tre gli episodi dell'horror I Tre Volti del Terrore (2004) di Stivaletti. Completa il cast lo scozzese Anthony Dawson, nulla a che vedere col regista Antonio Margheriti che utilizzava tale nome come pseudonimo, proveniente da horror e adventure movie britannici, oltre che dal giallo Delitto Perfetto (1954) di Hitchcock e da Agente 007, Licenza di Uccidere (1962) di Terence Young. Il suo è un volto che buca lo schermo, austero, fascinoso, ma la sua espressività, decisamente monotona, lascia un po' a desiderare. Da ricordare infine la superba fotografia (specie nelle notturne) di Carlo Carlini e la ritmatissima e poco riconoscibile (nel sound) colonna sonora di Ennio Morricone. Inutile soffermarsi sulle opinioni espresse dagli appassionati. Da Uomo a Uomo compare spesso nelle top ten stilate dai maggiori esperti. Spaghetti-western.net lo pone in nona posizione, è ottavo per Quentin Tarantino, settimo per 800spaghettiwesterns.blogspot.it, solo sedicesimo invece per Howard Hughes. Non si smentisce il Morandini: due stelle, pur facendo notare una certa vivacità e un buon ritmo. Più generoso filmtv.it con le sue tre stelle e uno sfondone grosso come una casa nel commento: “Nel ruolo di Burt c'è Anthony Dawson ovvero Antonio Margheriti, celebre regista della serie B nostrana.” Una pellicola dunque da avere in videoteca. A ottobre esce il terzo capitolo del filone, il meno riuscito, che vede ancora una volta gli allievi di Sergio Leone in prima fila. Questa volta a essere coinvolto è l'addetto alla fotografia dei primi due western leoniani ovvero il grande Massimo Dallamano che debutta alla regia. A produrre il suo Bandidos è Solly V. Bianco, un imprenditore egiziano residente in Italia che non si segnala per aver dato vita a opere di culto. Il film ruota attorno a un soggetto (degli spagnoli Luis L. Moreno e Juan C. Sainz) molto triste, che ha nella vendetta l'elemento trainante. Abbiamo infatti un ex pistolero (Enrico Maria Salerno) che da la caccia a un suo infallibile allievo (Venantino Venantini). L'uomo, ormai incapace di sparare perché stigmatizzato a entrambe le mani dal suo 576 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

vecchio allievo, addestra un giovane (Terry Jenkins) all'uso delle armi in modo da vendicarsi per interposta persona La particolarità di questo revenge movie sta nella ragione della vendetta. Qui non c'è da riscattare un torto subito, ma la necessità di porre rimedio a una tremenda disgrazia. Il vecchio, infatti, vuol uccidere la sua creatura perché questa si è macchiata di atroci delitti. In altre parole ha utilizzato gli insegnamenti non per eccellere nelle gare di tiro che lo vedevano protagonista al fianco del maestro (una sorta di prestigiatore di pistole), ma per compiere rapine. Purtroppo questo buono spunto non viene ben sviluppato dalla sceneggiatura di Romano Migliorini (e del suo fido Giovanbattista Musetto), autore più congeniale all'horror, come dimostra il suo apporto in opere quali Operazione Paura (1966) di Mario Bava, Il Boia Scarlatto (1966) o La Notte dei Diavoli (1972), lo si ricorda anche per lo script del cult di guerra Quel Maledetto Treno Blindato (1978). Piuttosto che amplificare l'anima malinconica che sta alla base del film, Migliorini si perde in uno script piuttosto convenzionale e poco coinvolgente. Piazza qua e in là qualche discreta battuta (a esempio “Basta dire che sei un buon tiratore e trovi subito un furbo che ti piomba per far vedere che è più bravo di te” oppure “Spara sempre due colpi, attendere il risultato del primo può essere fatale”) e poi infarcisce il tutto con sequenze tipiche dell'epoca, peraltro poco spettacolari. Ecco che si assiste al consueto assalto a un treno scortato dai militari, alle varie simulazioni di tiro con il maestro che sgrida l'allievo e si espone a rischi folli confidando nella precisione di tiro dello stesso, il tutto diluito da sparatorie e qualche scazzottata in saloon, fino allo scontato finale. Per fortuna Dallamano, alla regia, si diverte a sperimentare e conferisce un taglio dinamico (largo uso di soggettive e carrellate) molto interessante. Molte, difatti, sono le trovate bizzarre (vedi la scena in cui un brigante, prima di essere ucciso, chiede la spiegazione di un quadro truce appeso in un saloon raffigurante la morte di Sardanapalo) e ancor di più le soluzioni innovative: si va dalla splendida carrellata iniziale sul treno assaltato dai banditi, con i vari passeggeri, ormai privi di vita, sporgenti dai vagoni, alla scena in cui la mdp segue un bicchiere di whisky lasciato scivolare sul tavolo del saloon (sarà citato da Rob Cohen in Dragon: la storia di Bruce Lee del 1993 anche se nella fattispecie la mdp seguirà un coltello lasciato scivolare sul pavimento), passando per la splendida sequenza della sparatoria al sa577 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

loon con Venantini e Jenkins che si accordano per sparare ai messicani nascosti nel locale (bella l'inquadratura sul foro del sombrero di un messicano, da cui si vede l'occhio che spia i movimenti di Jenkins). Si tratta, tuttavia, solo di alcune delle soluzioni adottate da Dallamano che evidenziano l'intenzione dello stesso di regalare qualcosa di visivamente nuovo. Le interpretazioni sono nel complesso fiacche, complice una scarsa caratterizzazione dei personaggi. Si salva solo Enrico Maria Salerno il quale, dopo aver fatto il doppiatore di Clint Eastwood e di Franco Nero, debutta nel genere. Il suo è un personaggio sofferente, deriso da tutti (perché handicappato e incapace di difendersi) che va in giro con dei guanti logori, a mendicare a destra e a sinistra, trasmettendo allo spettatore il disagio che lo tortura. Bello il duello con Venantini, che lo vedrà soccombere in un modo che più triste non si potrebbe, di spalle, ormai rassegnato a una morte certa. Sono invece legnosi Venantino Venantini (caratterista storico dei b-movie anni '70, soprattutto thriller per la regia dei vari Lenzi, Fulci, D'Amato) e l'americano sconosciuto Terry Jenkins (girerà solo un altro film: un musical americano). Il primo riveste i panni di un pistolero invincibile che ha l'abitudine di staccare con un colpo di pistola la fondina dell'avversario prima che lo stesso riesca a sfilare l'arma; il secondo invece è calato nel ruolo di un giovane che cerca un testimone della banda del pistolero, per vedersi scagionare da un'accusa ingiusta. Nel complesso, dunque, Bandidos è un film non basilare che può essere consigliato solo a chi ha una certa conoscenza dello spaghettiwestern e, non ancora sazio, sia in cerca di qualche film di una certa qualità. Non lo consiglierei invece a chi è alle prime armi, perché in giro c'è di meglio. Per dovere di cronaca, tuttavia, Bandidos annovera una fitta schiera di fan che, contrariamente al sottoscritto, lo considerano un western sopra la media. Spaghetti-western.net è uno tra questi, ponendolo in trentatreesima posizione nella classifica dei migliori spaghetti-western di tutti i tempi. Persino diciottesimo per il regista Alex Cox. Di ottima fattura la fotografia dello stesso Dallamano. Non entusiasma la musica di Egisto Macchi. Prima di Natale esce infine il capolavoro del filone, che lancia il regista Tonino Valerii subito dietro ai tre grandi maestri del genere, cioè i tre Sergio: Leone, Corbucci e Sollima. 578 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

I GIORNI DELL'IRA Produzione: Italia, Germania, 1967. Prodotto: Alfonso Sansone ed Enrico Chroscicki (Sancrosiap), Corona Film e Kg Divina Film. Regia Tonino Valerii. Soggetto: ispirato dal romanzo “Der tod ritt Diemstangs” di Ron Barker. Sceneggiatura: Tonino Valerii, Renzo Genta, Ernesto Gastaldi. Interpreti Principali: Giuliano Gemma, Lee Van Cleef, Walter Rilla, Ennio Balbo, Andrea Bosic, Pepe Calvo, Benito Stefanelli, Yvonne Sanson, Romano Puppo. Fotografia: Enzo Serafin. Musiche: Riz Ortolani. Sottogenere: Maestro e Allievo. Durata 111 min. Giudizio Mancini: **** Giudizio Morandini: ** La trama In un piccolo paese dell'Arizona, dove lo sceriffo se ne va in giro disarmato perché da anni non si sente più nessuno sparare, l'arrivo di un vecchio pistolero, Frank Talby (Van Cleef), scuote la tranquillità e gli equilibri. Lo straniero prende sotto la proprio ala protettiva un giovane (Gemma) bistrattato dai signorotti locali e costretto a portare in giro per le vie i liquami umani, e lo prepara fino a farlo diventare un temibile pistolero. Aiutato dal giovane, Telby estorce denaro ed elimina i signorotti locali, assumendo il pieno controllo del paese. È l'assassinio di un vecchio stalliere, passato a ricoprire il ruolo di sceriffo, a decretare la fine del regno di Telby e a portare allo scontro tra allievo e maestro. Commento Perla prodotta dall'accoppiata Sansone-Chroscicki, dopo il successo di Da Uomo a Uomo. I due produttori racimolano un budget superiore a quello avuto precedentemente a disposizione e insistono con Lee Van Cleef, affiancandogli un attore di culto: Giuliano Gemma. Alla regia si opta per un regista smaliziato col genere, cioè quel Tonino Valerii che tanto bene aveva fatto col western Per il Gusto di Uccidere. 579 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Ne esce fuori una miscela esplosiva, grazie anche al coinvolgimento di Ernesto Gastaldi alla sceneggiatura. In quest'ultimo ambito è da segnalare il debutto assoluto di Renzo Genta, appena venticinquenne, in quello che resterà il suo miglior film (si ricorda per lo script del cannibal movie di Deodato Ultimo Mondo Cannibale del 1976 e per la regia di un western comico di scarsissimo valore del 1972: Jesse & Lester due fratelli in un posto chiamato Trinità). Il punto di forza del film è senza dubbio la sceneggiatura. Il soggetto è strutturato come un western all'americana, ma lo script si differenzia dai prodotti hollywoodiani per dei dialoghi e dei monologhi che resteranno scolpiti nella memoria degli amanti del genere. Ottime sono inoltre le caratterizzazioni dei personaggi e del contesto in cui gli stessi vengono calati. La storia si sviluppa in un paese retto da dei borghesi bigotti, che fanno leva sull'importanza del loro ruolo (un giudice, un banchiere, un imprenditore) per maltrattare i più deboli. Ogni rappresentante dell'ordine però ha raggiunto il vertice in modo disonesto, grazie al denaro sporco e alla corruzione. Ed è qui che si inserisce l'elemento dello straniero che si palesa quale falso angelo giunto a ristabilire la giustizia. A poco a poco lo vedremo prendere il posto dei disonesti contro cui si era schierato, facendo persino peggio di loro. Sul punto è chiarificatrice la fiaba del “lupo e dell'uccellino” che Valerii riproporrà nel suo capolavoro più assoluto: Il Mio Nome è Nessuno (1973). Frank Telby, infatti, è un opportunista che sfrutta la situazione a suo vantaggio. Raccoglie dalla strada un disperato che tutti chiamano “bastardo”, per educarlo all'uso della pistola. Fa questo non per solidarietà, ma per avere qualcuno di veloce e di motivato che possa coprirgli le spalle e possa aiutarlo a sistemarsi definitivamente, vista l'età ormai avanzata. Chi meglio di un frustrato? “Un cane accarezzato è più docile di uno schiaffeggiato” avrà modo di ripetere più volte. Così sfrutta l'odio del giovane, per infrangere anch'egli i valori degni di uno stato giusto. Un ribaltamento di sceneggiatura magistrale che avvicina il film ai prodotti d'oltreoceano. La differenza però sta nello stile violento, cinico, e soprattutto nelle battute che si scambiano i vari personaggi. Van Cleef ha dei tratti luciferini, tanto da regalare, forse, la sua migliore interpretazione. Quando vede la sua creatura, Scott Mary (un Giuliano Gemma ai migliori livelli) pestare e prendere a calci i borghesotti locali, gli occhi dell'attore americano brillano di una luce malata. “Ma che gli avete fatto? Ha gli occhi di un lupo idrofobo” gli chiede un 580 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

cittadino, “Un lupo lo è per nascita, idrofobo lo avete reso voi” ridacchia Telby. E così come un provetto Satana, Telby prende il controllo della città. Lo fa pian pianino, prima uccidendo dei bulletti locali, simulando la legittima difesa (bella la seduta del processo che lo vede assolto). Ne è un chiaro esempio la sequenza in cui Telby e Scott seccano un gruppo di uomini, giunti in paese per ucciderlo, al cospetto dello sceriffo. Quest'ultimo, dopo aver tentato di fermare il gruppo invitandoli a deporre le armi, urla a Telby: “Quattro morti e due feriti: è questo l'inferno che volete, Telby?” e il pistolero gli risponde “Ho sparato dopo che vi hanno colpito, sceriffo. È legittima difesa.” Dunque un'arguzia e un cinismo senza precedenti. “Io sono generoso, pago per quello che è già mio” dice Telby al titolare del saloon, dandogli la miseria di mille dollari e costringendolo a firmare un contratto di cessione di metà quota del locale. Cattiverie e prepotenze che inizialmente vengono viste con simpatia dallo spettatore e che ispireranno Clint Eastwood per il suo splendido Lo Straniero Senza Nome (1973). Ne I Giorni dell'Ira però l'angelo vendicatore non è un eroe e se tale può sembrare lo si deve a una caratterizzazione meschina e crudele del paese e dei suoi abitanti. Gastaldi tratteggia l'intero villaggio in modo negativo. Solo un vecchio stalliere, che poi si scoprirà esser un ex sceriffo, e un cieco burlone sono gli unici a essere gentili con l'orfano Scott. Scott è un giovane evitato dai cittadini, preso a calci e chiamato continuamente “bastardo”, mentre scorrazza per i viali polverosi trascinando carriole cariche di liquami. Frustrato, incapace di sostenere lo sguardo dei signorotti, trova la sua valvola di sfogo facendo roteare una pistola di legno che gli ha regalato lo stalliere e sogna di poter comprare, un giorno, una pistola vera. Non sa ancora quanto si pentirà di questa sua foga. “Mi chiamo Scott, solo Scott, perché mio padre non l'ho mai conosciuto” dice Gemma a Van Cleef quando questo giunge al paese. “E tua madre?” gli chiede lo straniero. “Si faceva chiamare Mary” prosegue il giovane. “Mary... usalo come cognome. Perché non ti fai chiamare Scott Mary?”, Gemma guarda Van Cleef, un po' stupito, e gli risponde: “Tutti riderebbero di me, se mi facessi chiamare Scott Mary”. Van Cleef annuisce, poi inizia il suo lavoro di manipolazione della mente del ragazzo: “Può darsi, ma non saresti capace di farli smettere?”. Così ha avvio l'influenzamento di Telby. Di lì a poco, invita il ragazzo al saloon suscitando le ire dei locali che non vogliono vedere un pezzente come 581 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Scott divertirsi in mezzo a loro. “Lui non può sedersi ai tavoli. Lui pulisce i cessi!” grida Romano Puppo, scagliandosi contro Telby che, serafico, lo squadra dalla sedia. “È mio ospite. Odio chi maltratta i suoi simili” avrà modo di dire Telby, anche quando rimprovererà Scott per l'eccessiva foga con cui frusta il mulo con cui va in giro. Ha così inizio l'addestramento che si dipanerà nel corso della storia in dieci lezioni. “Prima lezione: non pregare mai un altro uomo. Seconda lezione: non fidarti mai di nessuno. Terza lezione: mai mettersi tra una pistola e il suo bersaglio. Quarta lezione: i pugni sono come i colpi di pistola, se sbagli il primo sei spacciato. Quinta lezione: quando spari a un uomo devi ucciderlo o, prima o poi, lui ucciderà te. Sesta lezione: la pallottola giusta, al momento giusto. Settima lezione: prima di sciogliere un uomo bisogna disarmarlo. Ottava lezione: non dare mai a nessuno più pallottole di quante gliene servono. Nona lezione: chi non accetta una sfida l'ha già perduta, e l'ha perduta nel modo peggiore. Decima lezione: quando un uomo comincia a uccidere non può più smettere.” Alla fine, quando Gemma ucciderà degli aggressori di Telby quest'ultimo gli dirà: “Bravo Scott, ora sei un uomo!” Da qui in poi il film prende una piega diversa e Telby diviene sempre più antipatico. Va in armeria e chiede una serie di scatole di munizioni, ma il titolare del negozio gli risponde: “Ho solo tre scatole da dodici proiettili”. Telby, senza scomporsi, afferma: “Se vuoi un consiglio, fai subito una buona provvista. È un genere che andrà tra qualche giorno.” La pace decennale del paese va infatti in frantumi. Ed ecco che assistiamo al dominio di Telby, con Scott che gli protegge le spalle. I borghesi del paese cercheranno di far di tutto per mettergli contro l'allievo. Tenteranno anche la carta dell'amore di una donna, quella ragazza dietro la quale Scott bramava ma che, essendo trattato da straccione, gli veniva persino vietato di guardare. Niente però sembra redimerlo. Anche lo stalliere tenta di mettere in guardia Scott, spiegandogli la vera natura di Telby e i suoi trucchi: il vecchio pistolero, difatti, spara con una pistola che ha il profilo del cane modificato. “Spara sei colpi nel tempo in cui te ne spari tre. Ti ha 582 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

fatto prendere una pistola con la canna lunga, mentre lui ha segato la sua. Hai due pollici in più da estrarre” gli rivela lo stalliere. Scott però è irremovibile, considera Telby suo padre. Neppure l'incendio del saloon con il barbaro omicidio del titolare fatto bruciare vivo da Telby gli fa intravedere la tremenda realtà. Notevole la messa in scena, che richiama alla memoria il celebre western americano Ultima Notte a Warlock (1959). Innovativa, poi, l'introduzione del carro dei pompieri, con tanto di pompe a pressione, che giunge nel tentativo di spegnere il rogo. Scott non vacilla neppure quando Telby fa costruire un mega saloon dove si svolgono spettacoli sfarzosi (con tanto di attraenti ballerine) e gioco d'azzardo. Decisivo sarà l'assassinio del vecchio stalliere che, una volta nominato sceriffo, intimerà a Telby di abbandonare le armi perché in qualità di uomo di legge ne ha vietato il porto, ricevendo come risposta un pallottola in pieno petto. Qui Scott si ribellerà e, a uno a uno, ucciderà tutta la banda di Telby, usando contro il maestro le lezioni che lo hanno forgiato e una pistola speciale, quella di Doc Holliday, che il vecchio stalliere gli ha lasciato in eredità: “dentro ci sono tutti i trucchi di tre generazioni di pistoleri”. Qualcuno vede nell'epilogo il rituale attraverso il quale un ragazzo, uccidendo il proprio padre, diviene adulto. Da sottolineare anche la reazione di Gemma che, a vendetta ultimata, lancia contro la vetrina la mitica pistola di Holliday, gesto che rende ancor più leggendaria la battuta detta, poco prima, da uno dei componenti della banda di Telby: “Quando sparava Scott Mary era un vero spettacolo.” Da ricordare poi tutta la parte che vede Benito Stefanelli protagonista. Grande stuntman e coordinatore delle scene di azione nonché indimenticabile caratterista, Stefanelli si distingue nei panni di un sicario denominato “Il Santo”, chiamato dai signori del paese per uccidere Telby. La sua presenza dura poco meno di dieci minuti ma è indimenticabile. Appena giunto in paese, salva Telby da un agguato perché vuole essere lui a intascare la quota promessa dai signori. Dopo poco lo sfida a un duello molto particolare: “Vi siete fatti molti nemici, Telby” dice scendendo le scale del saloon “chissà se vi sentireste di affrontare un vero duello, però a cavallo e con un fucile ad avancarica”. Telby, spavaldo come al solito, non si tira indietro: “D'accordo, vi ucciderò come volete, tanto per me un'arma vale l'altra. L'arma che mi ucciderà non è stata ancora inventata”. Segue forse uno dei duelli più entusiasmanti con Gemma che si rivolge a Van Cleef, pronto a salire 583 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

in groppa al suo destriero, dicendogli: “Ma perché avete accettato questo duello, affrontate un pericolo in maniera assurda". Van Cleff è secco: "Nona lezione, ragazzo. Chi non accetta una sfida l'ha già perduta, e l'ha perduta nel modo peggiore. Credono che solo il Santo conosca un'arma antica come questa, ma non sanno che anche io ho il mio segreto”. E il segreto c'è, mentre i duellanti si lanciano l'uno contro l'altro (eccellente il montaggio), Van Cleef sputa la pallottola direttamente nella canna del fucile, mentre Stefanelli lo fa manualmente impiegando più tempo. L'esito è inevitabile: Stefanelli finisce con un buco in mezzo alla fronte. Epico. Dunque un capolavoro in cui funziona bene tutto e che, quando manca l'azione, riesce a sopperire grazie a dei dialoghi notevoli e alla bravura dei due attori principali, a cui si affiancano molti caratteristi, dal vecchio tedesco Walter Rilla (attore, tra gli altri, di svariate pellicole di Jess Franco come Sumuru Regina di Femina o Una Venere Senza Nome per l'Ispettore Forrester e di molte altre opere girate tra il 1922 e il 1974) ai vari Pepe Calvo, Balbo e Bosic. La regia di Valerii è meno virtuosa e di genere di quella de Per il Gusto di Uccidere, ma comunque spassosa. Eccellente prova anche del cast tecnico il quale massimizza l'importate sforzo della produzione, garantendo una fotografia (Enzo Serafin) di grande impatto e scenografie di una certa importanza (bellissimo lo sfarzoso saloon messo su da Telby). Molto curato anche il make up, si veda la scena in cui Telby, dopo esser stato trascinato a terra dai sicari che lo avevano legato per i polsi e fatto rotolare per la terra, si rialza col ventre imbrattato di sangue. Ben rappresentati inoltre gli ematomi e le ferite sul volto di Gemma che, a inizio film, viene pestato un po' da tutti. Musiche di Riz Ortolani, qua capace di realizzare la sua migliore soundtrack in ambito western ripresa poi da Tarantino per Django Unchained (2013). Non dico da riscoprire, perché il film ebbe un grossissimo incasso piazzandosi solo alle spalle di Dio Perdona... Io no!, ma di sicuro da cristallizzare nell'olimpo dei più bei spaghetti-western. Presente in molte classifiche di gradimento. Quattordicesimo per spaghetti-western.net, quindicesimo per Howard Hughes e per 800spaghettiwesterns.blogspot.it, più positivo Quentin Tarantino che lo pone in settima posizione. Per il Morandini è pasta scotta (due stelle) anche se con un po' di 584 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

polpa psicologica e sociologica. Tre stelle per filmtv.it. Da avere in videoteca. Per gli amanti delle citazioni: 1. “Un uomo a cavallo deve dividere la sua attenzione tra il cavallo e la pistola e le due cose lo intralciano” 2. “Ciò che la legge non vede non può punire”. 6.4 Le parodie di Franco & Ciccio. Franco & Ciccio, reduci dai successi dei loro film comico/demenziali, non fanno altro che inserirsi in un filone (quello demenziale/parodistico) preesistente avviato e sviluppato dal produttore Emo Bistolfi con film come Io Sono il Capataz (1951), Un Dollaro di Fifa (1960) e I Magnifici Tre (1962) di Giorgio Simonelli, Il Bandolero Stanco (1952) di Fernando Cerchio e Gli Eroi del West (1963) e I Gemelli nel Texas (1964) di Steno. Si tratta di un sotto filone totalmente votato al comico, con poca azione, con storie per lo più attribuibili a sceneggiatori quali Adriano Bolzoni o alla coppia Mario Guerra-Giulio Scarnicci per attori del calibro di Renato Rascel, Walter Chiari, Ugo Tognazzi e/o Raimondo Vianello. È proprio con questi film che, sull'esempio dell'americano Mezzogiorno di Fifa (1956) di Norman Taurog, facciamo la conoscenza di cialtroni in grado di farsi scambiare per valorosi pistoleri del far west e, tra una buffonata e l'altra, di debellare i briganti di turno più per grazia ricevuta che per meriti. Chi conosce i western di Franco & Ciccio non faticherà nel rendersi conto come tali tematiche siano riproposte in toto nei loro film. Occorre a ogni modo dare atto che con loro si respirerà una ventata di entusiasmo e di follia talmente forte da invertire la caduta di pubblico registrata dalle parodie precedenti (si era passati da incassi attorno al miliardo, ai circa 400 milioni ottenuti da Gli Eroi del West, addirittura dimezzati per I Gemelli nel Texas). Inoltre, i western in questione saranno caratterizzati da una maggiore cura nel mettere in scena sparatorie, duelli più o meno fasulli e qualche cavalcata nel deserto. Salvo rare eccezioni, li possiamo definire dei western concepiti in modo serioso, ma stravolti dagli atteggiamenti sopra le righe del duo nonché dai continui ammiccamenti all'Italia contemporanea (soprattutto 585 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

a livello di battute e gag). I nove western della coppia si possono sostanzialmente dividere in due gruppi. Da una parte abbiamo le parodie dei film di Sergio Leone; dall'altra le parodie che strizzano l'occhio al western all'americana, con ampio spazio agli indiani, ai pionieri a caccia di terreni da coltivare, ma anche ai contrabbandieri e ai soldati nordisti in lotta con i pellerossa. Vedremo i nostri ricoprire tutti i ruoli: li apprezzeremo al cospetto del generale Lee, ma anche in qualità di nordisti e persino di bounty killer con poncio di leoniana memoria o spolverino nero alla Sartana, e ancora di indiani, di mezzosangue, di vecchi, bari e addirittura travestiti da donna, e chi più ne ha più ne metta. Del primo gruppo di pellicole fa parte il follissimo Per un Pugno nell'Occhio (1965), diretto tra l'altro da uno specialista del western all'italiana: Michele Lupo. Si tratta del più sgangherato e demenziale western della coppia, un'opera dove tutti i personaggi hanno una caratterizzazione parodistica e dove Franco Franchi (scatenato come non mai) e Ciccio Ingrassia avranno un ruolo ridotto dalla presenza di attori del calibro di Jesus Puente e Paco Moran. Il film fa il verso a Per un Pugno di Dollari e lo prende in giro un po' in tutte le componenti (dialoghi compresi), basti pensare che le due famiglie contrapposte (a causa della rottura del fidanzamento tra i due rispettivi rampolli) fabbricano rispettivamente fuochi d'artificio e tranquillanti. I nostri, rappresentanti di pistole, riusciranno a metterle l'una contro l'altra facendo scoppiare una faida in un paese dove non si sparava da anni. La pellicola è considerata da molti il miglior prodotto del lotto, personalmente la ritengo tra le meno riuscite in quanto troppo demenziale Buoni esempi di parodie sono invece I Due Figli di Ringo (1966) di Giorgio Simonelli e soprattutto Il Bello, il Brutto, il Cretino (1967) di Gianni Grimaldi e Due Rrringos nel Texas (1967) di Marino Girolami. Il primo, al di là del titolo (i figli di Ringo sono due veri pistoleri), omaggia in più punti Per Qualche Dollaro in Più (soprattutto per i costumi, per la tipologia delle armi di cui dispone Ciccio, ivi compresa la prolunga da applicare alla pistola e il campionario di fucili allacciato alla sella del cavallo) e vanta la presenza di George Hilton. Gli altri due film sono la parodia de Il Buono, il Brutto, il Cattivo. Il film di Grimaldi è addirittura quasi una copia carbone di quello Leone (manca il triello finale). Nonostante sia giudicato da molti come uno dei western meno riusciti della coppia, il sottoscritto prende le di586 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

stanze fino a reputarlo tra i migliori. Innanzi tutto Grimaldi, reduce dai western seri, taglia del tutto le scene sopra le righe a vantaggio di un prodotto, sì parodistico, ma meno scatenato del solito. Franco & Ciccio sono meno deficienti, addirittura si dilettano in alcune furberie insolite ai loro personaggi (Franco compie numeri da prestigiatore/illusionista durante una partita di poker, finendo per vincerla grazie a numeri da baro provetto). A Due Rrringos nel Texas, uscito a fine agosto del 1967, dedico la scheda che segue. DUE RRRINGOS NEL TEXAS Produzione: Italia, 1967. Prodotto: Marino & Enio Girolami e Francesco Orefici (CircusFilm). Vincenzo Buffolo e Giulio Sbarigia (Fono Roma). Regia: Marino Girolami. Soggetto e Sceneggiatura: Amedeo Sollazzo, Roberto Gianviti. Interpreti Principali: Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Enio Girolami, Hélène Chanel, Gloria Paul, Livio Lorenzon, Enzo Andronico e Lucio Fulci. Fotografia: Mario Fioretti. Musiche: Carlo Savina. Sottogenere: Guerra Secessione, Parodia. Durata 94 min. Giudizio Mancini: *** Giudizio Morandini: ** La trama Il donnaiolo Franco Caterina (Franchi) viene arruolato a forza nell'esercito sudista dal sergente Ciccio Stevens (Ingrassia), che vaga per i paesi del Texas alla ricerca di volontari. Durante i preparativi per un attacco, Franco viene avvisato dal cavallo che sta sellando di una trappola ordita dal nemico a danno dei sudisti. Nessuno però crede al racconto della recluta, specie dopo che la stessa ha riferito che a informarlo è stato un cavallo parlante. Ritenuto matto, il soldato viene incarcerato mentre gli altri partono per la missione. Liberato dal cavallo però, Franco evade. I sudisti intanto cadono nell'imboscata nordista e ritengono la recluta una spia yankee. 587 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Il sergente Stevens si offre per catturare il fuggiasco. Franco però, insieme al cavallo Ciro, si dirige verso un fantomatico tesoro nascosto in un cimitero di cui solo il cavallo sa il nome. Ciccio si unisce a Franco, ma i due sono braccati da una muta di banditi composta da Sentenza Jane (Chanel) e dalla sua banda, ma anche da Evelyn la Bella (Paul) e il suo amante (Girolami) nonché un capitano nordista (Lorenzon) e un altro sudista (Andronico), tutti intenzionati a mettere le mani sul tesoro. Commento Anticipato sul tempo da Gianni Grimaldi e dal suo Il Bello, il Brutto, il Cretino (1967), Marino Girolami, reduce dalla produzione di Pochi Dollari per Django (1967), non rinuncia al proposito di fare una parodia del terzo capitolo del dollaro di Sergio Leone. Così chiama la coppia comica Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, già protagonista nel film di Grimaldi, e avvia il progetto. A sostenerlo nello sforzo produttivo troviamo due vecchie conoscenze dello spaghetti western ovvero Giulio Sbarigia e Vincenzo Buffolo, provenienti dai successi dei film di Giuliano Gemma Un Dollaro Bucato (1965) e Adiòs, Gringo (1965). Alla sceneggiatura invece si punta su un esperto di parodie, musicarelli e film comici di Totò: Roberto Gianviti. Fedelissimo di Giorgio Simonelli, Steno ma soprattutto di Marino Girolami, col quale aveva debuttato nel 1953 col film Canto per Te, Gianviti arriva al film con quasi ottanta sceneggiature alle spalle (circa la metà al servizio dei tre registi citati). Tra le opere sceneggiate si ricordano I Tartassati (1959) di Steno, Totò a Parigi (1960) di Mastrocinque, I Due Vigili (1967) di Orlandini e le parodie western Per un Pugno nell'Occhio (1965), e I Due Figli di Ringo (1966). Piuttosto curiosamente, visto l'ambito prediletto, Gianviti, pur continuando a praticare il genere comico, scoprirà grazie a Lucio Fulci di essere un grande sceneggiatore di thriller e accompagnerà il regista romano in film del calibro di Una sull'Altra (1969), Una Lucertola dalla Pelle di Donna (1974), Non si Sevizia un Paperino (1972) e Sette note in Nero (1977). Chiuderà la carriera con circa centoventi film nel carniere. A dare manforte a Gianviti c'è Amedeo Sollazzo, vero e proprio specialista del genere Franco & Ciccio. Sollazzo infatti lavorerà sempre con la coppia siciliana abbandonandosi sporadicamente ad altri generi. 588 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

L'idea degli autori, per evitare di ricalcare l'opera di Grimaldi che aveva riproposto in chiave parodistica lo script de Il Buono, il Brutto, il Cattivo, è quella di introdurre degli elementi idonei a diversificare il progetto iniziale. In prima battuta si cambia il titolo, bocciando il più congeniale La Buona, i due Brutti, la Cattiva; in seconda si rispolvera il successo ottenuto da Francis, il Mulo Parlante (1950), portando in scena un eroico - con tanto di benda nera su un occhio - cavallo parlante che affianca i due confusionari protagonisti. Infine si aumenta il numero degli antagonisti; se nel film di Grimaldi erano due, qua diventano una serie: abbiamo la cattiva Sentenza Jane con la sua banda, la buona Evelyn con il suo amante; e due capitani (uno nordista, l'altro sudista) imbufaliti con i nostri, rei di aver fatto rompere la tregua ai rispettivi eserciti impegnati nella difesa di un ponte. Tutto ruota attorno a un tesoro nascosto in un cimitero, di cui i vari personaggi hanno informazioni incomplete. Il cavallo, così come la buona, conosce il luogo del cimitero in cui è sepolto il malloppo (questa è una forzatura della sceneggiatura perché si rivelerà incomprensibile il motivo per cui il cavallo non porti subito i due amici nel luogo); il duo siciliano conosce invece il nome della tomba perché è stato informato direttamente da chi ha rubato il tesoro, cioè Bill Carson che hanno trovato nel corso del loro peregrinare nel deserto; la cattiva, moglie tradita da Carson (che le ha preferito la buona), viene a sapere dai due siciliani il nome della tomba (Archie Stanton) ma non quello del cimitero e decide così di pedinarli di nascosto. Il film è spassosissimo, probabilmente il migliore della coppia anche perché si punta meno sulle esagerazioni grottesche che qua, a parte un'assurda sequenza con Franchi che rompe con la testa un masso e poi sbaraglia una banda a suon di testate, si riducono alle classiche battute del duo. Peraltro appare più brillante e meno scemo del solito il personaggio riservato a Ingrassia, il quale a inizio film comanda un plotone di militari. Diminuiscono le analogie col film di Leone pressoché concentrate nella parte finale, con la ricerca di un tesoro sepolto in un cimitero militare e a cui si accede superando un ponte oggetto di contesa tra nordisti e sudisti (che nella fattispecie non si danno battaglia per timore di distruggerlo). Da notare inoltre i nomi di Bill Carson e Archie Stenton (ripresi pari pari da Il Buono, il Brutto, il Cattivo) così come il poncio marrone di Franco Franchi identico a quello di Clint Eastwood. 589 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Esilaranti le sequenze col cavallo parlante che, oltre a bere birra e a suonare trombette, aiuta di continuo i due a togliersi dagli impicci. In particolare li aiuterà, indicando le carte degli avversari, a stravincere una partita a poker orchestrata per spennarli. Degno di nota, nel frangente, un Franco Franchi che si presenta tutto impettito e poi ride di gusto: “Guarda le facce.... Ho vinto un'altra volta!” Ancora il cavallo sugli scudi nel finale quando simulerà, nel cimitero, di essere un fantasma di un morto in modo da far scappare tutti gli antagonisti. Da una parte abbiamo “la buona” Gloria Paul e il suo amante interpretato da Enio Girolami; dall'altra la cattiva sentenza Jane, cui da corpo la bellissima Helene Chanel con un look mozzafiato (completo di pelle nera con foulard giallo al collo) che ne mette in risalto gli indimenticabili occhi azzurri. La britannica e procace Paul, meno appariscente rispetto ad altre circostanze (la ricordo più sofisticata ne I Due Figli di Ringo), nonostante il nome del suo personaggio, interpreta una donna piuttosto antipatica che fa il doppio gioco con due amanti (uno dei quali è Bill Carson, il marito della cattiva che però befferà tutti i contendenti, compreso il trio protagonista, facendo cercare un tesoro che non esiste). Ballerina di razza, con numerosi premi alle spalle nonché ex fidanzata del compositore Piero Piccioni, la Paul arriva al cinema dopo aver lasciato la compagnia di ballo Alaria Ballet, in cui era stata prima ballerina, al termine di una tournée a Roma perché subissata di offerte. Debutta a ventuno anni con Pugni, Pupe e Marinai (1961) di Daniele D'Anza, al fianco di Tognazzi e Raimondo Vianello. Le vengono assegnati ruoli piuttosto simili ovvero quelli della bella irraggiungibile, in film comici degli attori più in voga del momento. È con il duo Franco & Ciccio che legherà maggiormente il suo nome, anche se in precedenza aveva tentato di affermarsi a livello internazionale partecipando dapprima ad alcuni episodi della sitcom Benny Hill Show (1965), funzionali a metterla in ballottaggio (perso) con Claudine Auger per il ruolo di sexy donna al fianco di Sean Connery in Agente 007 – Thunderball: Operazione Tuono (1965). Avrà un'altra occasione internazionale, dopo una serie di film comici molti dei quali per la tv, con Operazione Crepes Suzette (1970) di Blake Edwards (scritto nientemeno da William Peter Blatty prossimo a dare alle stampe il famoso romanzo L'Esorcista), in cui si esibirà in un memorabile e piccante spogliarello (ancora una volta con look sofisticato), purtroppo però il film non avrà successo portandola a preferire i varietà Rai al 590 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

cinema. Tenterà, con scarso successo, anche la carriera di cantante. Ormai quasi del tutto fuori dal giro, subirà un assurdo incidente nel 1996 quando, durante una doccia, verrà travolta dal crollo del controsoffitto del bagno. L'evento le costerà la paralisi dalla vita in giù e un'esistenza sulla sedia a rotelle. Davvero uno degli epiloghi più tristi fin qui raccontati, ma che non la faranno crollare. Ancora fascinosa e bellissima, nonostante l'età, continuerà a partecipare a trasmissioni televisive e non abbandonerà la passione per il canto. L'altra belloccia di turno è la francese di origine russa Helene Chanel, al secolo Helene Stoharoff, anche lei già vista nel cinema di Franco & Ciccio (Due Mafiosi nel Far West del 1964). Più aggressiva e meno avvenente della collega britannica (ma con un volto, degli occhi e delle curve da paura), il suo è uno dei personaggi più sexy mai visti in un western italiano, seconda solo a Giarriettera Colt (Nicoletta Machiavelli), ed è anche una vera e propria pistolera capace di guidare una banda di manigoldi. Classe '41, la Chanel aveva preso le mosse in Italia con i musicarelli e i film comico/demenziali tra i quali Un Dollaro di Fifa (1960), ma anche in importanti peplum quali Maciste all'Inferno (1962) di Riccardo Freda, con ruoli da co-protagonista. Uscirà di scena alla fine degli anni '70, perdendo progressivamente importanza a causa di opere di scarsa qualità, compresi qualche spaghetti-western di terza fascia, che la vedranno peraltro in ruoli secondari. Tra le opere di fine carriera si segnalerà Labbra di Lurido Blu (1976) di Petroni. In Due Rrringos nel Texas regala una delle sue partecipazioni di culto più note, con un personaggio degno dei migliori b-movie di tarantiniana memoria. A mio avviso, in tutta la sua carriera, è stata un'attrice mal utilizzata che avrebbe potuto dare molto di più nel cinema bis. Nel cast artistico troviamo inoltre Livio Lorenzon, presenza frequente nei western seri, nei panni di un capo nordista in combutta con l'avversario cui da corpo Enzo Andronico (altro attore comico assai popolare). Piuttosto mediocre la colonna sonora di Carlo Savina, a tratti addirittura appena accennata e più legata alle musiche dei western preleoniani. Tra gli appassionati di spaghetti-western il film viene snobbato un po' da tutti, anche per via della piega comica. Gli utenti di Imdb lo bocciano senza appello, un po' meglio fa filmtv.it che gli da due stelle imitato dal Farinotti e dal Morandini che però rifiuta esplicitamente 591 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

di entrare nel merito. Io vi invito a recuperarlo per passare un'ora e mezzo spensierata all'insegna del sorriso. La carrellata dei western del duo comico prosegue col meno riuscito Ciccio Perdona... Io no! (1968) di Marcello Ciorciolini, il quale, al di là del titolo, non prende altro da Dio Perdona... Io no! Il film è un'accozzaglia di scenette che hanno in Franco Franchi il loro punto di forza. La sceneggiatura è abbozzata. Se si eccettuano un paio di sequenze esilaranti e ben riuscite, si salva davvero poco. Tra i momenti degni di nota si segnala la truffa iniziale con cui Franco e Ciccio rubano i cavalli ai viandanti invitandoli a entrare in fasulli locali di ristoro di cui hanno costruito solo le facciate di legno; e la simpaticissima (ma già vista) sequenza della sfida tra Franchi in versione bounty killer e un bounty killer vero, con il primo che ride a crepapelle ignaro del pericolo che sta correndo in quella che può definirsi un'evoluzione della roulette russa già proposta in Per un Pugno nell'Occhio. L'ultimo film di questo gruppo è il western con cui i due siciliani si congedano dal genere ovvero I Due Figli di Trinità (1972) di Civirani. Anche qua, come per il film di Ciorciolini, il titolo è un pretesto per accalappiare maggior pubblico possibile, inoltre la pellicola risente della trascuratezza con cui viene girata, a causa della fretta con cui Civirani chiude il film. Il risultato finale è mediocre, ancora una volta da salvare sono alcune sequenze con un Franco Franchi piuttosto in forma (specie nelle partite a poker). Veniamo ora all'altro gruppo in cui, al fianco dei due, in qualità di antagonista, troveremo Fernando Sancho. I film in questione si aprono con Due Mafiosi nel Far West (1964) di Giorgio Simonelli. Dopo Per un Pugno nell'Occhio è il più demenziale dei nove western trattati e risente dell'incertezza del regista nel dare una data piega al prodotto. Si oscilla tra western serio (con tanto di sparatorie e cadute spettacolari) e demenza allo stato puro esaltata da pistole che sparano con canne piegate o che al posto dei proiettili fanno uscire dalla canna dei serpentelli ovvero dalla presenza di mani di fantozziana memoria che fanno bollire l'acqua perché posate prima sul fuoco. Il film si apre in Sicilia dove i nostri vengono incarcerati perché di592 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

fesi da un avvocato imbranato (interpretato nientemeno che da Aldo Giuffré). Finiti in America come latitanti, se la dovranno vedere con un'eredità nascosta, attaccati da indiani e messicani capitanati da un folle cui da corpo il mitico Fernando Sancho. Più riuscito è I Due Sergenti del Generale Custer (1965) sempre di Simonelli, il quale riduce azione e componente demenziale a vantaggio dell'avventura. I nostri, per la prima volta, vestono i panni dei soldati nordisti e vengono investiti di un'importante missione al fianco dei due più geniali soldati dell'esercito. A causa di una serie di peripezie riusciranno laddove falliranno i due compagni e sgomineranno un traditore nordista (il grande Fernando Sancho) e niente meno che il Generale Lee e il suo plotone. Tra le sequenze da antologia da citare la parte in cui Ciccio, davanti a un tavolo colmo di pietanze (che Franco infilza con la forchetta e mangia), racconta al generale Lee come i sudisti dovranno attaccare il forte nordista. Franco e Ciccio sul Sentiero di Guerra (1969) diretto di Aldo Grimaldi è invece la sintesi dei due film sopraelencati, anche se meno parodistico. Si parte ancora una volta dalla Sicilia, i due questa volta sono dei disertori dell'esercito borbonico, per finire in America alla caccia di nuove terre da conquistare. I due però, durante la corsa per scegliere le terre più fertili, finiranno per arruolarsi nell'esercito nordista. Dovranno poi vedersela con i pellerossa fino a entrare nella loro tribù in veste di mezzosangue siciliani, ma prima faranno arrestare involontariamente una spia nordista e saranno eletti eroi di guerra (salvo poi disertare, come loro solito). I momenti più divertenti dell'opera sono quelli dell'addestramento nordista, pur restando comunque tra i western meno riusciti del duo. Questa, in breve, è la carrellata dei western di Franco & Ciccio, per quel che mi riguarda consiglio di recuperare I Due Rrringos nel Texas, I Due Sergenti del Generale Custer e Il Bello, il Brutto, il Cretino che reputo, nell'ordine, i tre migliori western dei nove oggetto di analisi. 6.5 La stagione autunnale e i capolavori dell'anno La stagione autunnale si apre con l'uscita del secondo western sta593 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

gionale di Giuseppe Vari, il quale, reduce da L'Ultimo Killer (1967), sottoscrive un accordo con la Italcine Tv, rappresentata da Gabriele Silvestri e Franco Palombi, nonché con lo scenografo Enzo Bulgarelli per la realizzazione di due western. I film vengono entrambi scritti dalla quotata coppia Augusto Caminito-Fernando Di Leo, col primo richiesto dal regista che lo ritiene sceneggiatore di fiducia. Vari si mette così a girare nei dintorni di Roma i due film, l'uno di seguito all'altro, entrambi nel corso della primavera del 1967, stranamente con cast tecnici abbastanza diversi. Il primo a esser girato è Un Poker di Pistole (1967), che si avvale delle scenografie di Demofilo Fidani. Silvestri e Palombi, reduci dall'ottimo e inaspettato incasso ottenuto dal loro Due Once di Piombo (1966), forniscono a Vari un budget modesto ma sufficiente a mettere sotto contratto un cast artistico di un certo rispetto. Abbiamo addirittura una coppia di protagonisti formata dall'emergente George Hilton e dal confermato Luigi Montefiori (alias George Eastman), attore con cui Vari aveva lavorato in occasione del suo precedente western. La storia vede Hilton, vincente a poker contro Montefiori, costringere quest'ultimo a condurre, per suo conto, un carico prezioso da una città a un altra quale corrispettivo della vincita. Nel corso del viaggio Montefiori finisce preda della banda del bullo di turno. Il ruolo viene affidato a Domenico Palmara (già avvezzo a personaggi del genere) che ruba il carico. Montefiori però non si da per vinto, aiutato da un messicano, cui da corpo il caratterista José Torres, recupera il maltolto e regola i conti con tutti, Hilton (ruolo ambiguo per lui) compreso. All'epoca fu un fiasco, tutt'oggi persiste a essere un western di nicchia anche perché gli attori coinvolti, specie George Hilton, non ne parlano bene. Nonostante ciò, Un Poker di Pistole vanta non pochi fan. Filmtv.it gli da tre stelle, definendolo interessante (è intrigante per Thomas Weisser); spaghettiwestern.altervista.org lo pone in alta classifica tra i western usciti nel 1967. Addirittura ottiene la media del sei e mezzo sul sito imdb.com e persino due stelle dal Morandini che oltre ad averlo visto (per una produzione del genere fa già notizia questo) aggiunge: “non è tra i western peggiori”. Curioso quindi notare il totale disinteresse dei blogger stranieri, i quali lo ignorano in massa. A ogni buon conto, seppur ben recitato, è trascurabile. 594 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

L'altro western, Con lui Cavalca la Morte (1967), è ancora più povero e meno riuscito (uscirà a fine anno). Per risparmiare, Bulgarelli sostituisce Fidani alla scenografia, mentre nel ruolo di protagonista si lancia il franco-statunitense Mike Marshall, proveniente da alcune commedie transalpine (farà un altro western di quarto ordine, per ritornare in Francia e trovare spazio nei serial televisivi locali). Nel cast artistico ci sono inoltre Andrea Bosic, Claudio Undari e la bonissima Heléne Chanel. Dunque un lotto meno qualitativo, a cui si aggiungono notevoli difficoltà attribuibili a un budget assai misero. Vari si trova così costretto a far di necessità virtù, riesce a imprimere un ritmo adeguato, ma il risultato finale è risibile anche se spaghetti-western.net lo ritiene divertente. Il copione vede, per la prima volta in uno spaghetti-western, un pony express protagonista. Il giovane viene incaricato di consegnare dei documenti a Sacramento, comprovanti una serie di illeciti commessi da un candidato alla carica di senatore (il solito Bosic). Quest'ultimo, venuto a conoscenza del fatto, farà di tutto per ostacolare la consegna, assoldando banditi e sicari incaricati di eliminare il corriere e far sparire le prove. Non ci riuscirà... Di Leo e Caminito tracciano così un soggetto alla parvenza originale, tutto incentrato sul viaggio del corriere e i tentativi di boicottaggio orchestrati dall'antagonista, ma i mezzi sono così limitati che il film non viene neppure esportato. Inevitabile il flop. Analizzati i due piccoli western di Vari, eccoci a uno dei migliori western dell'anno che evidenzia le doti di Enzo G. Castellari, il quale, da qui in poi, riuscirà a imporsi tra i migliori registi action italiani. A voi la scheda del film, che esce a fine settembre. VADO... L’AMMAZZO E TORNO Produzione: Italia, 1967. Prodotto: Edmondo Amati (Fida Cinematografica). Regia Enzo G. Castellari. Soggetto: Sauro Scavolini e Romolo Guerrieri. Sceneggiatura: Enzo G. Castellari, Tito Carpi, Giovanni Simonelli. Interpreti Principali: George Hilton, Edd Byrnes, Gilbert Roland, Stefania Careddu (Kareen O’Hara), Gerard Herter, Ignazio Spalla (Pe595 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

dro Sanchez), Riccardo Pizzuti (Rick Piper). Fotografia: Giovanni Bergamini. Musiche: Francesco De Masi e Alessandro Alessandroni. Sottogenere: Tesori nascosti. Durata 98 min. Giudizio Mancini: ***1/2 Giudizio Morandini: ** La trama Cacciatore di taglie, chiamato “Straniero” (Hilton), è sulle tracce di Monetero (Roland), pericoloso delinquente messicano. Ogni volta che sta per prenderlo, lo lascia fuggire. Il gringo gioca al rialzo, in modo da far salire la taglia. Un giorno però, il messicano, complice un assicuratore disonesto (Byrnes), entra in possesso di un carico d'oro. L'evento rompe gli equilibri e porta “Straniero” a modificare il suo piano. L'oro intanto viene nascosto da Pajonda (Spalla), peone agli ordini di Monetero, senza che quest'ultimo venga informato della collocazione finale. La morte improvvisa di Pajonda getta così nel caos il trio. Nessuno sa dove si trovi l'oro. Ha così inizio una lunga serie di trattative tra “Straniero”, Monetero e l'assicuratore: tutto ruota attorno a una medaglia, indispensabile per capire dove Pajonda abbia nascosto il tesoro. Ognuno dei tre, fingendo con gli altri di aver trovato un accordo teso a escludere il terzo incomodo, cercherà di tradire i patti per avere tutto per sé il carico. Commento Primo film di un certo interesse diretto da Enzo G. Castellari, al secolo Enzo Girolami, che nell'occasione, per la prima volta, abbandona lo pseudonimo inglese per scegliere il cognome della madre (Castellari) che lo accompagnerà per tutta la carriera artistica. Un'altra novità è costituita dalla presenza di un grande produttore di genere, Edmondo Amati, al posto di Marino Girolami, papà di Castellari, con il quale quest'ultimo aveva collaborato dapprima in veste di aiuto, in occasione di Pochi Dollari per Django (1966), e poi debuttato alla regia con Sette Winchester per un Massacro (1967). Il passaggio non è di poco conto, sia per il regista che per il produttore. Amati arriva da Per Pochi Dollari Ancora (1966) di Ferroni e da Django Spara per Primo (1966), preceduti da 100.000 Dollari per Ringo (1965) di De Martino, western di un certo livello e successo. 596 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Tuttavia sarà proprio grazie a Castellari che Amati farà il salto di qualità, stabilendo col romano un fortunato e duraturo sodalizio che andrà oltre il genere. In particolare Amati, con la perla La Polizia Incrimina, la Legge Assolve (1973), lancerà Castellari in quello che diverrà il campo di predilezione del regista: il poliziottesco. Regista completo e versatile, Castellari è uno dei più grandi maestri del cinema di genere italiano, a mio avviso, con Di Leo, il migliore nell'ambito del cinema di azione. Celebri i rallenty di cui farà sfoggio a partire dai poliziotteschi, con capisaldi assoluti del genere quali Il Cittadino si Ribella (1974), opera che anticiperà nientemeno che Il Giustiziere della Notte (1974) di Charles Bronson, e Il Grande Racket (1976); memorabile inoltre, per l’alto contenuto di azione, violenza e degrado urbano, sarà la sua trilogia post-atomica del biennio 1982-83. Si tratta di una trilogia di imitazione hollywoodiana, figlia dei cult I Guerrieri della Notte (1979) di Walter Hill e 1997 Fuga da New York (1981) di John Carpenter, formata da: 1990 i Guerrieri del Bronx, Fuga dal Bronx e I Nuovi Barbari. Per non parlare dei western crepuscolari Keoma (1976) o di Ammazzali Tutti e Torna Solo (1968), rivisitazione western di Quella Sporca Dozzina, su cui torneremo nei prossimi volumi. Un caso a parte merita poi il macaroni combat Quel Maledetto Treno Blindato (1978), conosciuto negli States col titolo Bastardi senza Gloria. Pellicola amatissima da Quentin Tarantino, al punto da spingere il regista di Knoxville a riutilizzarne il titolo (seppur lievemente storpiato per ragioni di diritti d'autore) per un suo film, che poi non avrà nulla a che fare con quello di Castellari se non nel garantire la presenza di quest'ultimo in un breve cammeo poi misteriosamente tagliato nella versione uscita sul mercato. Meno qualitativa, ma ricca di aneddoti, è l’esperienza di Castellari nell’adventure movie, con il poverissimo L’Ultimo Squalo (1981); ennesimo film di imitazione concepito a immagine e somiglianza della sceneggiatura di Jaws. Castellari girerà il tutto in Sardegna, con capitali risibili (squalo di gomma) e una serie di scene di repertorio. Nonostante ciò, nel primo week-end di uscita a Los Angeles, il film incasserà più di due milioni di dollari, tanto da spingere la Universal a far bloccare il film dai tribunali americani, accampando teorie di plagio e di ingiusto e scorretto danno economico (gli spettatori americani preferiranno il film di Castellari a Lo Squalo 3!?). Non di secondaria importanza sarà il ruolo avuto da Castellari nel597 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

l'ascesa di Lucio Fulci quale maestro dell’horror. I produttori del film Zombi 2 (1979) insisteranno più volte per cercare di convincere Castellari ad assumere la direzione del film, ma quest'ultimo, per nulla interessato al genere, riuscirà a liberarsi dalle pressioni facendo il nome di Fulci. L’intuizione si rivelerà quanto mai azzeccata, Fulci girerà con successo la pellicola aprendosi un nuovo percorso nel mondo del cinema che lo condurrà nell’olimpo dei maestri del genere. Tornando a Vado... l’Ammazzo e Torno non si può non partire dicendo che il film attinge a piene mani da Il Buono, il Brutto, il Cattivo. Il soggetto propone una caccia al tesoro, che vede coinvolti tre personaggi. Questi ultimi giocheranno di astuzia per fregarsi vicendevolmente e mettere le mani sul malloppo senza doverlo spartire con gli altri. All'apparenza raggiungono accordi diversi tra loro, ma saranno subito pronti a tradire i patti. La “filosofia del gioco” la spiega George Hilton, nel corso della pellicola, quando Byrne gli dirà: “Lei gioca al rialzo?” E lui: “Sempre. In fondo, chi più chi meno, ognuno fa il proprio gioco.” Moltissime le citazioni a Leone, si parte addirittura dal titolo della pellicola. “Vado, l’ammazzo e torno” è una frase ripresa da una delle battute proferite da Eli Wallach nel terzo capitolo della trilogia del dollaro. L'idea di usarla come titolo non è di Castellari, bensì di Amati. Quest'ultimo infatti si innamora del titolo dopo aver letto un copione, così nominato, che Romolo Guerrieri (lo zio di Castellari) gli aveva inviato qualche mese prima della realizzazione della pellicola di Castellari. Amati pensa bene di sfruttare la cosa senza chiedere l'autorizzazione a Guerrieri, il quale, venuto a conoscenza dell'utilizzo del titolo, va su tutte le furie minacciando di intraprendere le vie legali per violazione dei diritti d'autore. Lo scontro viene evitato solo per il rapporto di parentela intercorrente tra Guerrieri e Castellari. Tornando agli omaggi a Leone, si evidenzia come gli stessi non si limitino al soggetto, ma si estendano alla regia. Ne è una palese dimostrazione la sequenza con i due personaggi che si spiano, a distanza, uno con un binocolo e l’altro con un cannocchiale. Scena ripresa pari pari da Per Qualche Dollaro in Più. Anche i nomi sono simili (il cacciatore di taglie di Castellari, alla stregua di quello di Leone, viene chiamato “Straniero”), così come alcuni costumi sono ricalcati sui prototipi leoniani. Al riguardo è spassoso il parodistico prologo dove Hilton fa fuori tre personaggi che si presentano come il duo protagonista de Per Qualche Dollaro in Più, 598 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

accompagnato da un tizio vestito come il Django di Sergio Corbucci (regista citato anche nella scena dell’assalto al treno, il riferimento va a Navajo Joe). Seppur infarcito di citazioni e omaggi, Vado... L'Ammazzo e Torno è un western dotato di una sua autonomia. Lo script porta la firma, oltre del regista, del suo storico collaboratore Tito Carpi nonché dell’esperto Giovanni Simonelli, reduce dai western precedenti prodotti da Amati. Cresciuto nel peplum e poi passato al western, Simonelli legherà il proprio nome a oltre ottanta pellicole di genere (di cui poche degne di esser ricordate come cult) tra le quali Buon Funerale Amigos, Paga Sartana (1970), Killer Fish (1978) di Margheriti e Un Gatto nel Cervello (1990) di Fulci. A fine carriera, tenterà anche la regia, col catastrofico horror Hensel e Gretel (1989). Il trio sviluppa la sceneggiatura in modo originale, tanto che Castellari ne resterà legato anche per alcuni western successivi. Gli autori, infatti, intessono una storia dal ritmo progressivo, in grado di coinvolgere lo spettatore strada facendo per effetto di una serie di colpi di scena, peraltro ben miscelati da un cospicuo uso dell'ironia e da scazzottate che spianeranno il via libera a Bud Specer e Terence Hill. Non si punta sulla violenza, né si cercano atmosfere o caratterizzazioni malinconico/crepuscolari. Castellari vuol far divertire e lo fa con l'ironia e il giallo, vere e proprie armi vincenti della pellicola. Si rende così protagonista di un notevole miglioramento rispetto all'opera di debutto. Non è ancora evidente il suo marchio di fabbrica, ciò nonostante da vita a una pellicola curata nella scelta delle inquadratura e del ritmo. Abbiamo soggettive con la pistola messa davanti alla macchina da presa, primissimi piani di stivali che calpestano la terra e altre trovate fondamentali a rendere dinamica la visione. Presenti almeno tre sequenze spettacolari, tra cui un'eccezionale soluzione registica. Vediamo infatti, su una pozza di vino versato sulla superficie di un tavolo, il riflesso di un uomo, posizionato alle spalle dell'inquadratura, impegnato a scendere le scale; d'improvviso si materializza George Hilton, completamente avvolto dall’ombra, pronto a sparare avendo di sfondo una tenda rossa resa fluorescente da una lampada collocata al di là del velo. Del prologo si è già detto, qua giova sottolineare come anche l'epilogo sia geniale e suggellato da una “doccia” inebriante costituita dal gettito continuo di monete d’oro; Castellari la innesca quando ormai 599 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

lo spettatore aspetta il triello finale tra i tre avversari (che invece si accordano). Affascinate peraltro la location in cui è ambientata la scena, una struttura gotica così fatiscente da esservi cresciuti all'interno degli alberi. Assai qualitativo il cast artistico, dove pare sarebbe dovuto entrare Charles Bronson, fortemente richiesto da Castellari ma non gradito ad Amati. Al posto dell'attore americano, nel ruolo di protagonista, ritroviamo George Hilton. La presenza di Hilton, paradossalmente, si rivelerà una fortuna per il film; l'uruguaiano è molto più adatto al ruolo, rispetto a Bronson. Dopo il debutto ne Le Colt Cantarono la Morte (1966), Hilton si conferma a perfetto agio nel ruolo del pistolero giullare e lo farà anche in seguito. Non sfigura neppure la meteora Edd Byrnes, reso celebre dalla prima serie tv americana giunta in Italia, 77 Sunset Street, e poi lanciato da Castellari in Sette Winchester per un Massacro. Qua, decisamente meglio del debutto, lo vediamo più spigliato e mobile, dandosi un gran bel da fare con capriole, salti e scazzottate. Debutta invece nel genere Gilbert Roland, anche lui richiesto a gran voce da Castellari. Il messicano, dotato di fascino aristocratico, è la star indiscussa del film, grazie a importanti esperienze maturate nei western d’oltreoceano, agli ordini dei vari John Ford, Richard Fleischer e George Sherman. Piccola parte per Gerard Herter, già visto in cult come La Resa dei Conti (1966) di Sollima. Presenti infine grandi caratteristi come Ignazio Spalla, nel suo classico ruolo da peone, José Torres e Riccardo Pizzuti che diverrà una presenza costante nelle scazzottate dei film di Bud Spencer. Eccezionale, a tratti, la fotografia di Giovanni Bergamini che tocca l’apice nella già citata scena di Hilton che appare su sfondo rosso, oltre che in un’altra in cui vediamo Byrnes, condotto dagli uomini di Monetero, sullo sfondo di un cielo fucsia su cui si staglia un’enorme casa completamente avvolta dall’oscurità. Carina, ma non troppo memorabile, la colonna sonora di De Masi che, al di là della canzone Stranger cantata da Raoul, ripropone alcuni brani già sentiti in Sette Winchester per un Massacro. Buone le reazioni dell'epoca, grazie a una parte della critica ben propensa ad accettare l'ironia in un western, vedendo addirittura in essa la chiave per superare la stasi del genere. Sul punto è esaustivo filmtv.it il quale, nell'argomentare il suo voto (tre stelle), scrive: “Pur 600 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

non uscendo dai classici stereotipi del western all'italiana, Castellari ne rivitalizza la struttura per merito dell'ironia.” Il film mantiene tuttora un certo alone di culto. Marco Giusti lo presenta quale primo grande western di Castellari. Non è da meno il californiano Tom Betts che sottolinea la grande creatività del regista. Un altro a esaltare la tecnica della regia è 800spaghettiwesterns.blogspot.it (otto il voto alla regia), il quale tuttavia penalizza la pellicola perché non ne apprezza il taglio ironico e soprattutto la colonna sonora (giudicata insufficiente). L'opinione di fistfulofpasta.com si sintetizza invece con due parole: visione essenziale. Più moderato spaghettiwestern.altervista.org che non va oltre l'aggettivo gradevole. Non si smentisce il Morandini, il quale lo ritiene ai limiti della parodia e traduce il concetto con due stelle e arroganti critiche agli attori (“Sono più bravi a estrarre la pistola che a recitare”). Divertimento assicurato. Per gli amanti delle citazioni “Fiducia…? È una parola di cui non ho fiducia.” Dopo aver prodotto Deguejo e venduto a terzi il progetto de L'Ultimo Killer, Sergio Garrone, non ancora passato dietro alla macchina da presa, insiste col western proponendo Killer Kid a Leopoldo Savona. Nel progetto viene coinvolto Ottavio Poggi, qua all'ultimo film di una carriera ultra ventennale dapprima da sceneggiatore e poi da produttore di pellicole sospese tra commedia e avventura. Garrone abbozza uno script, vagamente ispirato a Quien Sabe?, che funge da precursore dei tortilla western, pur lasciando la rivoluzione messicana sullo sfondo della vicenda. La storia infatti è molto più vicina alle tematiche di leoniana memoria. Abbiamo un protagonista doppiogiochista che si pone quale ago della bilancia delle sorti di tutti gli altri personaggi. “Quello che non riesco a capire” gli chiederà un rivoluzionario “è perché un uomo incallito come voi si esponga al rischio di perdere la vita per una causa che non è sua”. Il doppiogiochista risponderà in modo ironico: “È un istinto più forte di me e poi sono nato con l'anima del rivoluzionario .” A dar corpo al doppiogiochista c'è il granitico e triste Anthony Steffen, qua in una delle interpretazioni più riuscite. Il nostro è addirittura un ufficiale dei servizi segreti americani. Ha ricevuto l'incarico 601 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

di spacciarsi per Killer Kid, un assassino su cui pende una corposa taglia, in modo da infiltrarsi in una banda di rivoluzionari capeggiata da due personaggi molto diversi tra loro: il Santo e Vilar. Il Santo (il semisconosciuto Howard N. Rubien) è un saggio e vecchio intellettuale che usa il cervello per compiere una rivoluzione culturale; Vilar (Fernando Sancho) invece è un grezzo guerrafondaio che, in nome della rivoluzione, vorrebbe scatenare una guerriglia contro gli americani e contro l'esercito messicano (“le rivoluzioni si vincono con le pallottole, non con le chiacchiere!”). I due, sempre più in contrasto, finiranno per schierarsi l'uno contro l'altro. Tra i motivi della discordia c'è l'ammissione del protagonista (ottenuta in virtù del superamento di una prova di tiro), ben visto dal Santo, nella banda. Intanto il nostro, accolto dai peone, inizia ad agire allo scopo di porre termine a un contrabbando di fucili organizzato da alcuni delinquenti in affari con i rivoluzionari. Il rischio che vuol scongiurare l'alto comando yankee è che i fucili finiscano nelle mani del feroce Ramirez (interpretato dall'ottimo Giovanni Cianfriglia, accreditato come Ken Wood), capo dell'esercito messicano. Interessante parte finale, all'insegna della tragedia, col Santo e Vilar di nuovo insieme, unitamente al protagonista il quale, per amore di una donna, cesserà di fare il doppio gioco schierandosi dalla parte dei rivoluzionari. Purtroppo Garrone rivela troppo presto (circa a metà film) la vera identità di Killer Kid, con la conseguenza di rendere monotona la visione e di pregiudicare quei colpi a sorpresa che avrebbero spiazzato lo spettatore. Nonostante tutto, Savona, reduce da pellicole mediocri quali il western El Rojo, intrattiene a dovere il pubblico con conflitti a fuoco e con l'immancabile pestaggio cui viene sottoposto il protagonista (una volta svelato il suo doppio gioco). Non mancano alcune scene crudeli. Vediamo Ramirez frustare peone indifesi e fucilare donne e bambini, rei di coprire i rivoluzionari. Il regista, autore forse del suo miglior film (buona la messa in scena nelle campagne laziali, esaltata dalla fotografia di Mancori e dalle musiche malinconiche di Berto Pisano), regala soggettive e carrellate di pregevole fattura; ma soprattutto dirige una sequenza apocalittica di grande impatto visivo: vediamo un intero paesaggio distrutto, con alcuni peone crocefissi alle porte e altri appesi sulle travi. Per via di queste sequenze, il critico Thomas Weisser giudica Kil602 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ler Kid il miglior western di Savona e una delle più fini interpretazioni di Steffen. È concorde sonofdjango.blogspot.it il quale conferma: non è certo un capolavoro, ma è uno dei migliori film con Anthony Steffen. Non è dello stesso avviso spaghettiwestern.altervista.org, il quale, piuttosto stranamente, reputa un po' confusionaria la sceneggiatura. All'appassionato italiano non va giù la scelta di Garrone di proporre uno spaghetti-western “classico” in un contesto da tortilla western. Sufficienza piena per gli utenti di imdb.com e per lo spagnolo 800spaghettiwestern.blogspot.it, che fa notare vari anacronismi legati alle armi e alle divise impiegate nel corso della pellicola. Giudizi negativi da filmtv.it (zoppicante western dalla parte degli oppressi) e, implicitamente, dal Farinotti e Morandini che ignorano la pellicola. A mio avviso è un piccolo western di seconda fascia in grado di intrattenere i più appassionati. A fine mese esce un altro piccolo western, a mio avviso sopravvalutato, annoverato tuttavia da Quentin Tarantino tra i suoi preferiti; qua la scheda. EL DESPERADO Produzione: Italia, 1967. Produttore: Elio Scardamaglia e Gian Domenico Leone (Leone Film) e Ugo Guerra (Daiano Film). Regia: Franco Rossetti. Soggetto: Franco Rossetti, Ugo Guerra. Sceneggiatura: Franco Rossetti, Ugo Guerra, Vincenzo Cerami. Interpreti Principali: Andrea Giordana (Chip Gorman), Rosemary Dexter, Dania Ghia, Franco Giornelli, Piero Lulli, Aldo Berti, Giovanni Petrucci. Fotografia: Angelo Filippini. Musiche: Gianni Ferrio. Sottogenere: Revenge Movie. Durata 103 min. Giudizio Mancini: ** Giudizio Morandini: *

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La trama Scampato all'impiccagione in modo rocambolesco, “Desperado” (Giordana), un delinquente privo di scrupoli, si imbatte in un sudista morente. Il giovane rivela al pistolero che a Overton, un villaggio fantasma, il padre (Lulli) lo sta attendendo per investire un ingente quantità di denaro in un ranch. Il soldato, prima di spirare, riferisce altresì che il padre è cieco. Desperado, approfittando della somiglianza col sudista, sfrutta quanto appreso e, recatosi a Overton, si spaccia per il soldato. Il trucco funziona, ma i piani del pistolero vengono sconvolti da una banda di assassini intenzionati a rubare una carovana, con all'interno le paghe dell'esercito sudista, destinata a fare scalo proprio a Overton. Commento El Desperado segna il debutto alla regia di uno dei più importanti sceneggiatori dei primi spaghetti-western. Nato come critico cinematografico e in possesso di una laurea in legge, Rossetti inizia giovanissimo (a circa ventisette anni) a lavorare come aiuto di Mario Monicelli e Steno, affermandosi come sceneggiatore di fiducia di Sergio Corbucci e di Ferdinando Baldi per i quali, tra gli altri, sceneggia cult del calibro di Django e Texas Addio. In seguito sceneggerà altresì Preparati la Bara (1968) e Ciakmull (1969). Il successo di queste pellicole spinge Rossetti a chiedere a Ugo Guerra di provarlo alla regia. La scelta ricade sul western sia perché, fino a quel momento, era l'ambito in cui Rossetti aveva dato il meglio, sia perché erano film di sicuro successo. I due hanno un intenso colloquio in cui fondono un po' di idee. Guerra chiama in aiuto il blasonato ed esperto Elio Scardamaglia, il cui coinvolgimento garantisce un netto aumento dei capitali disponibili. Viene altresì chiamato il quasi debuttante Vincenzo Cerami, che ritocca il copione plasmando lo script definitivo de El Desperado. Una piccola considerazione va spesa proprio per quest'ultimo sceneggiatore. All'epoca pressoché sconosciuto, Cerami non tarderà a emergere negli anni successivi, quando strapperà importanti premi culminati con la nomination all’oscar (miglior sceneggiatura originale per La Vita è Bella di Roberto Benigni) e con due Nastri d’Argento vinti nel 1998 (sia per il miglior soggetto che la migliore sceneggiatura del film sopracitato) e nel 2006 (come miglior soggetto originale de La Tigre e la Neve). Moltissimi gli script firmati da questo autore, quasi 604 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

tutti di impronta autoriale, con due perle su tutte: Un Borghese Piccolo Piccolo (tratto da un romanzo dello stesso Cerami) di Mario Monicelli (1977) e Uccellacci e Uccellini di Pier Paolo Pasolini. Importanti anche le collaborazioni con Bellocchio, Bertolucci e Scola. Cerami tornerà al western con film particolari quali Il Pistolero dell'Ave Maria (1968) e Lo Straniero di Silenzio (1968), opere comunque di nicchia nella filmografia dello sceneggiatore. Nonostante il lavoro dei suddetti, il film pecca proprio a livello di scittura. Concepita come un classico spaghetti western, l'opera mutua tutti i principali luoghi comune del genere. Si va dall'immancabile bottino da rubare, allo scontro tra il protagonista (inizialmente canaglia e poi via via più umano) e un'intera banda di delinquenti indispettiti dal doppio gioco dello stesso. Non viene infine risparmiato il classico epilogo in cui si assiste al tema dell'amore impossibile per il pistolero ombroso: "Non posso restare, devo cambiare ancora molte cose dentro di me" dice Desperado alla donna che lo ama. Insomma, sono in gioco tutte le pedine del western crepuscolare. Del resto Rossetti è il papà del western lugubre, e la sua mano si vede in modo marcato. Insiste nel percorso tracciato con Django, da cui riprende l'ambientazione invernale fatta di fango e decadenza, sviluppando il film all'interno di un villaggio fantasma. Al di là del senso di dejà vù, non convincono gli snodi che portano avanti il soggetto. In primo luogo è assurdo pensare a un padre che, seppur cieco, non riesce a riconoscere il figlio. È inoltre poco credibile che una canaglia priva di scrupoli come Desperado diventi un eroe che si ravvede senza che ci sia una ragione che ne motivi la metamorfosi. È inoltre sfilacciata e sbrigativa la parte finale, con una morte finta del protagonista che non suscita alcun effetto nello spettatore (sequenza pretesa a ogni costo da Ugo Guerra). Le cose non migliorano se si analizzano le caratterizzazioni dei personaggi. Sul protagonista già si è detto, ma non cambia il risultato neppure per l'antagonista che si ricorda solo per il vizio di sniffare coca. Infine ci sono troppe pause morte, non sostenute da dialoghi brillanti (contrario 800spaghettiwesterns.blogspot.it). Si salvano giusto la parte finale e la sequenza con Giordana che parla della guerra e dell'atteggiamento di coloro che ci lucrano sopra. Tra i pochi pregi spicca l'atteggiamento del protagonista, il quale, prima di uccidere i componenti della banda criminale, cerca di offrire 605 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

loro una via di redenzione (puntualmente disattesa dagli stessi). Alto il tasso di violenza, a causa di molte scene di pestaggi dilatate oltre il limite. È terribile il supplizio a cui viene destinato il cieco interpretato da Piero Lulli. Non meno truce è il trattamento riservato a due soldati sudisti, torturati con dei fiammiferi accesi e conficcati nelle orecchie. Desperado invece viene picchiato e costretto quasi ad affogare nel fango. Crudeli persino le sparatorie, in cui la macchina da presa indugia sui cavalli agonizzanti a terra con i petti insanguinati. Belle alcune soluzioni visive adottate da Rossetti, qua alla prima e unica regia western e in seguito sempre più impegnato in commedie scollacciate ed erotici di bassa lega. Non manca qualche trovata da BMovie, come una pistola che passa nelle mani di un condannato a morte, perché inserita all'interno di una bibbia con le pagine ritagliate a mo' di custodia. Tra i momenti migliori è da citare il duello finale, in cui Giordana punisce l'antagonista rendendolo cieco. Favolosi, al riguardo, i primissimi piani sulle palpebre ricoperte di fango dell'antagonista, mentre cerca di aprire gli occhi. Il cast artistico è abbastanza povero, i produttori tentano di lanciare – non riuscendoci e con lo pseudonimo Chip Gorman - il ventunenne Andrea Giordana, che interpreterà, sempre per Scardamaglia, Quella Sporca Storia nel West. Reduce dal successo dello sceneggiato televisivo Il Conte di Montecristo (1966), Giordana si distingue per una bellezza straordinaria ma pecca di espressività apparendo dall'inizio alla fine sempre con un'unica faccia. Non brilla inoltre nelle scazzottate, sebbene si impegni a rotolare nel fango. Spesso confinato in ruoli tesi a esaltarne la bellezza, nel 1969 deciderà di passare al teatro e alla televisione (lo ritroveremo nel 1976 in Sandokan di Sollima) abbandonando la carriera di attore cinematografico. Negli anni '80 si ritaglierà ruoli di presentatore televisivo in importanti manifestazioni RAI (nel 1983 condurrà Il Festival di San Remo, mentre nel 1984 affiancherà Amanda Lear nello show W le donne, arrivando nel 1987 a presentare Miss Italia). Se Giordana non convince, è maestosa la prova di Piero Lulli. Esperto caratterista toscano, Lulli offre una delle sue migliori prestazioni in un ruolo a lui atipico. Il nostro difatti non ha il compito di personificare un meschino e falso antagonista, bensì quello di un povero cieco che stravede per il figlio. I suoi movimenti, così come le espressioni, sono a dir poco perfetti e trasmettono la sensazione che il personaggio sia davvero cieco. 606 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Gli altri attori sono di contorno, tra questi un Franco Giornelli (è il capo dei banditi) alle prime esperienze recitative (non farà molta fortuna, tentando in seguito la carta della regia e del documentario), dopo un passato di segretario di edizione nelle produzioni di Carlo Caiano. C'è anche Rosemary Dexter, apparsa in ruoli marginali in film quali Per Qualche Dollaro in Più e Giulietta e Romeo (1964), e preferita a Martine Beswick. Qualitativa, seppur poco innovativa, la colonna sonora di Gianni Ferrio, tanto che fistfulofpasta.com la trova simile a quella di Riz Ortolani utilizzata in I Giorni dell'Ira. La main theme, “The Big Rip Off”, è cantata da John Balfour (lo ritroveremo nei mediocri Il Figlio di Django e Django Sfida Sartana). Non ebbe grande fortuna al tempo, la versione americana subì addirittura dei tagli con consequenziale stravolgimento del film. Dura la critica dell'epoca con divertenti battute scritte da alcuni recensori. Su Film Mese del 1967 si legge: “Alzandovi dalla poltrona, è meglio che controlliate che qualche schizzo non sia finito anche sul vostro vestito...” Nel complesso è un film sopravvalutato anche per via della buona pubblicità di Quentin Tarantino che, in più di un'occasione, ha dichiarato di considerare El Desperado uno dei suoi western preferiti (lo ha inserito in tredicesima posizione nella sua classifica). D'accordo col sottoscritto è il californiano Tom Betts, il quale non fa giri di parole quando definisce il plot ridicolo, specificando inoltre che Giordana non è credibile nel passare da bandito a eroe. Marco Giusti, pur lasciando intendere di esser in linea con le critiche dei colleghi (“Rossetti è un regista che non riuscirà mai a fare film di grande livello”), suggerisce la visione per l'alta componente barocca. Più morbidi su internet. 800spaghettiwesterns.blogspot.it lo esalta (“è un piccolo gioiello”), vedendovi dei contenuti disperati con personaggi ai quali viene negata la possibilità di riscatto e la speranza di una nuova vita lontana dalla violenza e dalla criminalità. Parole dolci poi per la fotografia di Filippini e le scenografie di Giorgio Giovannini. Spaghettiwestern.altervista.org è tra i pochi a giudicare buona la prova di Giordana. Fistfulofpasta.com chiarisce che non si tratta di un capolavoro, ma di un western comunque divertente. Largo di manica filmtv.it che concede tre stelle, pur qualificando il film come stereotipato e trucido. Ingredienti questi ultimi che il Morandini sintetizza in 607 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

una sola stella in pagella e nell'antipatico commento: “Rossetti deve aver limitato la direzione degli attori alla raccomandazione: facite 'a faccia feroce! Tutti hanno obbedito...” Per gli amanti delle citazioni: “Brutto affare la guerra: muoiono i giovani e restano gli avvoltoi e le carogne.” Piuttosto calmo il mese di ottobre che vede uscire un numero ristretto di film. Tra questi c'è il terzo western diretto nell'annata da Alfonso Brescia, sempre con lo pseudonimo Al Bradley. Voltati... Ti Uccido! (1967), questo il titolo, è il peggiore della trilogia. Lo producono un imprenditore di costruzioni di strade (Tullio Bruschi), appassionato del cappa e spada e più in particolare degli zorro movie andalusi, con alle spalle un poker di z-movie aventi in Le Tre Spade di Zorro (1963) di Blasco il prodotto più riuscito, e un co-produttore spagnolo anch'esso legato al cappa e spada. Il budget è inconsistente, idoneo solo a mettere sotto contratto un cast tecnico caratterizzato da una forte identità ispanica tanto che il film uscirà presto dal circuito cinematografico nostrano. Il copione, firmato da Maria del Carmen Martinez Roman e da Renato Polselli, propone un plot incentrato su una serie di miniere d'oro strappate ai pionieri da un bullo (Conrado San Martin) coadiuvato da una banda di banditi capitanati dall'immancabile Fernando Sancho. Un vecchio pioniere (Spartaco Conversi) si oppone agli abusi e ingaggia un pistolero professionista, cui da corpo l'inglese Richard Wyler (ormai quarantaquattrenne e già visto in The Bounty Killer, ma prossimo a tornare nei serial televisivi inglesi). Quest'ultimo (piuttosto mediocre) agirà d'astuzia e farà in modo, giocando sull'avarizia altrui, di mettere i banditi contro il loro dante causa. Ne deriverà un'infinita mattanza finale in cui tutti spareranno contro tutti, e che coinvolgerà persino il vecchio pioniere che ha innescato la baraonda. L'ultimo duello vedrà Wyler e San Martin, inginocchiati a terra, contendersi l'unica pistola disponibile. Solita solfa trita e ritrita, per un film visto da pochi. Tra questi c'è lo spagnolo 800spaghettiwesterns.blogspot.it, il quale lo stronca in modo clamoroso con un voto che non raggiunge il tre. In particolare viene affossata la colonna sonora (uno in pagella) formata da pezzi riciclati da altri film. Bocciatura netta pure per la sceneggiatura, giudi608 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

cata estremamente noiosa, incoerente e porta in scena in fretta e furia da un Brescia motivato da mere ragioni alimentari. Quest'ultimo, a parziale giustificazione, viene penalizzato da un montaggio pedestre. Due stelle per filmtv.it. Da evitare. Sulla stessa falsa riga, se non addirittura peggiore, è Buckaroo (1967), prodotto da Umberto Borsato e conosciuto col sottotitolo Il Winchester che non Perdona. Il budget è irrisorio, Borsato arriva da ruoli di manager di produzione di z-movie come L'Ultima Preda del Vampiro (1960) di Regnoli; produrrà in seguito il trash horror La Figlia di Frankenstein (1971) di Aureliano Luppi. Il film viene scritto dallo sconosciuto Romano Scuccuglia, al suo unico copione. Controversa invece è l'attribuzione della regia, anche se sembra che dietro alla macchina da presa ci sia l'ex direttore della fotografia Adelchi Bianchi. Ormai cinquantenne, Bianchi torna a dirigere un film dopo un'astinenza durata dieci anni, appena in tempo prima di morire. L'opera resta misconosciuta, vede un domatore di cavalli impegnato a recuperare una miniera rubata al padre dal solito bullo locale. Nel cast fa la comparsa il cantante americano Dean Reed (all'epoca conosciuto per essersi schierato contro la campagna militare in Vietnam), su cui avremo modo di tornare in seguito e qua al primo film in Italia. Reed cura inoltre la stesura dei testi delle canzoni inserite nella colonna sonora musicata da Lallo Gori. Nei panni del despota c'è Livio Lorenzon, gli altri sono volti poco noti. L'hanno visto in pochi, tra questi spaghettiwestern.altervista.org il quale lo stronca senza appello: “poco incisivo nell'azione e scarso nella storia, ai limiti del trash.” Nel corso dell'estate del 1967 viene girato un terno di film che lanciano un attore che diventerà una delle più grandi star del cinema di genere: Mario Girotti, in arte Terence Hill. Curiosamente, i primi due film della trilogia usciranno nel 1968, quindi dopo Dio Perdona... Io No!, girato per ultimo ma ben più famoso dei precedenti per essere la pellicola che battezzerà la coppia principe del c.d. sorrisi e cazzotti. L'approdo di Terence Hill al cinema di genere è quanto mai casuale. Vi giunge dopo aver preso parte (in quanto di madre e di moglie tedesca) ad alcuni sauerkraut western, con ruoli da comprimario, 609 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

come i Giorni di Fuoco (1964) di Harald Reinl e Sparate a Vista su Killer Kid (1965) di Leopoldo Savona, ma soprattutto a una serie di film impegnati. Scoperto all'età dodici anni da Dino Risi, che lo aveva voluto per Vacanze col Gangster (1951) dopo averlo scovato in una gara di nuoto, aveva proseguito la carriera per pagarsi l'università (indirizzo lettere e filosofia), accettando piccoli ruoli in film di registi di grosso calibro (Pontecorvo, Mauro Bolognini, Vittorio De Sica) tra i quali Il Gattopardo (1963) di Visconti. Di film in film il suo interesse per la recitazione era cresciuto tanto da spingerlo a frequentare l'Actor's Studio. Tuttavia seppur promettente fin dalle origini, nessuno avrebbe potuto presagire che sarebbe potuto diventare una stella del western. Bolognini infatti nel 1967 lo mette sotto contratto per due musicarelli, Io non Protesto, Io Amo (1967) e Little Rita nel West (1967), con quest'ultimo dotato di personaggi e ambientazione western (avremo modo di trattarlo nel capitolo 7.1), affidati alla regia di Ferdinando Baldi, reduce da Texas, Addio (1966). Così Hill entra nella scuderia di Bolognini e assume, in occasione di Little Rita, lo pseudonimo con cui oggi lo conosciamo, prendendo a prestito il cognome della moglie (Lori Hill). Bolognini però ha occhi solo per Franco Nero, ed è quest'ultimo l'attore di riferimento per i western della produzione. Il parmense però, appena ultimate le riprese dell'horror Il Terzo Occhio (1966) di Mino Guerrini (di cui nel 1979 Joe D'Amato ne farà una versione splatter con il truculento Buio Omega), riceve una ghiotta offerta da Hollywood. Dapprima ricopre il ruolo di Abele nel kolossal La Bibbia (1966) di John Huston, poi vola negli States per recitare nei panni di Lancillotto nel pluri-premiato Camelot (1967) di Joshua Logan. L'improvviso successo di Nero lascia Bolognini sprovvisto di attore e la cosa si rivela più grave di quanto possa sembrare, perché il produttore ha maturato l'intenzione di girare Viva Django!, il sequel di Django. È tutto pronto: il copione di Franco Rossetti, le location, Enzo Barboni alla fotografia, mentre alla regia Ferdinando Baldi viene promosso erede di Corbucci. Bolognini è così convinto da rinunciare alla collaborazione dei finanziatori spagnoli, si sobbarca tutti gli oneri perché è certo di fare cassa e non vuole spartire i proventi con nessuno. L'assenza di Nero però scombussola il progetto, Bolognini non sa più a chi affidare il ruolo di Django. Alla fine opta per una soluzione in casa, dopo aver guardato le foto di Terence Hill e in particolare gli occhi chiari del veneto, così simili a quelli di Nero. Gli fa indossare i vestiti dell'antieroe cobucciano, gli fa mettere un po' di fondotinta e lo fa 610 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

truccare in modo da sembrare Franco Nero. A make up ultimato tutti rimangono a bocca spalancata, Terence Hill è la fotocopia del parmense. Il problema è risolto: la parte è sua! Baldi inizia così a lavorare sul copione di Rossetti, assente sul set perché impegnato a dirigere El Desperado. Il titolo viene cambiato in Preparati la Bara! (1967) e quello che doveva essere un sequel diviene una sorta di prequel. Dico sorta perché la moglie del protagonista viene uccisa da un personaggio che non ha nulla a che fare con la setta del primo film, inoltre non sono presenti cenni alla divisa nordista con cui Django era apparso nel film di Corbucci. Questa volta l'antieroe, assai meno cinico, è alle prese con un amico candidato al senato (l'ottimo Horst Frank), che scoprirà essere un infame per avergli fatto assassinare la moglie. Il cambio di regia non porta beneficio all'opera, anzi... L'atmosfera, pur continuando a essere lugubre, cessa di essere claustrofobica. Si perdono inoltre tutti i simbolismi criptici che avevano caratterizzato il primo capitolo, così come viene a scemare l'ironia macabra e l'anima malinconica che pervadevano l'opera di Corbucci. La sceneggiatura di Rossetti mantiene gli elementi tipici e stereotipati del genere. Abbiamo quindi i doppi giochi, il padrone despota che controlla un intero villaggio, i pestaggi a cui viene sottoposto il protagonista e un epilogo che ricalca sia Django che Il Buono, il Brutto, il Cattivo. Del primo viene riproposta la sequenza della bara da cui viene estratta la mitragliatrice con cui il nostro stenderà un plotone di esecuzione; dall'altro la scenografia del cimitero, con Horst Frank che invita Terence Hill a scavarsi una fossa, dopo avergli passato una pala: “I morti stanno dentro le tombe, non fuori, e tu sei morto! Preparati la bara e... scava!” L’unico aspetto interessante è l’attività di boia che viene svolta da Django. Il pistolero escogita uno stratagemma (un meccanismo applicato dietro al collo dei giustiziati) per far sopravvivere i condannati all'impiccagione in modo da radunarli in una banda da scatenare contro il bullo del paese. La prova di Terence Hill, qua con espressioni dure e tutt'altro che allegre, stona un po', specie se visto con gli occhi d'oggi. È d'accordo con tale conclusione Marco Giusti il quale sentenzia: “Terence Hill non era proprio adatto a fare il pistolero assetato di sangue.” Invero l'attore veneto regalerà una prova eccelsa, in un ruolo similare, in occasione de La Collera del Vento (1970) di Mario Camus, su cui torneremo. 611 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Reputa invece convincente l'interpretazione mondo-esoterica.net, che ne apprezza gli ammiccamenti a Franco Nero (“Hill mima alla perfezione il Django di Franco Nero”). Sul punto mi preme sottolineare che Terence Hill non può contare su tutte quelle battute spaccone che pronunciava Franco Nero; il suo è un Django introspettivo, poco votato alla guasconeria. Sono sicuramente più in palla Luigi Montefiori, nei panni dell'antagonista manesco, e Horst Frank, in quelli di subdolo dante causa, che orchestra i piani dietro le quinte. Presenti anche i caratteristi José Torres (è il peone che cercherà di aiutare Django) e Luciano Rossi. La regia di Baldi è assai meno originale e spettacolare rispetto a quella di Corbucci, ma il ritmo c'è. Lo sceneggiatore Rossetti, interrogato al riguardo, dirà: “Baldi era più corretto, ma meno grintoso di Corbucci.” Alla fotografia c'è ancora una volta Enzo Barboni che offre il meglio di sé nella scena (di leoniana memoria) in cui Hill spara su un gruppo di individui che escono da un edificio completamente in fiamme. Notevole la colonna sonora di Gianfranco Reverberi, con perle quali l'eccezionale main theme You Better Smile, cantata da Nicola Di Bari e tradotta nella versione italiana col titolo Cosa Vale un Uomo. Molto bello pure il pezzo strumentale Nel Cimitero di Tucson, sulle cui note, nel 2006, si ispirerà il gruppo Gnarls Barkley per il brano Crazy. Piuttosto insolita e non condivisibile, al riguardo, l'opinione di 800spaghettiwesterns.blogspot.it che reputa insufficienti le musiche, senza darne motivazione. Al di là dei pareri, la scelta di puntare sul compositore genovese è bizzarra. Basti dire che non lo ritroveremo in nessun altro western, così come non farà strada nel cinema. Curerà circa una dozzina di colonne sonore tra cui quelle del poliziottesco d'autore Torino Nera (1972) di Lizzani e del folle horror Riti, Magie Nere e Segrete Orge nel Trecento (1973) di Renato Polselli. La dimensione di Reverberi, così come quelle di Terence Hill e Baldi (il quale aveva però già diretto Texas, Addio), era il musicarello – Stasera mi Butto (1967) e Soldati e Capelloni (1967) – era inoltre considerato un pioniere del rock italiano. Già collaboratore di Enzo Jannacci e Giorgio Gaber, nel 1963 aveva raggiunto il primo posto in hit parade con Se mi Vuoi Lasciare, portata al successo dalla voce di Michele. Non farà molto altro nel cinema, finendo fagocitato dalla tv, peccato... Pur non essendo troppo originale, il film gode di una fama, a mio 612 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

avviso, spropositata. Oltre a essere considerato il miglior sotto Django (io gli preferisco Django Spara per Primo) è anche considerato, da qualcuno, tra i migliori spaghetti-western. Spaghettiwestern.altervista lo ritiene persino originale, citando a esempio la sequenza in cui Django, preso alla sprovvista, anziché consegnare la pistola, come gli viene intimato, la fa roteare con un colpo di polso in modo da sparare in faccia all'aggressore. Più equilibrato mondo-esoterica.net che chiude con una raccomandazione che mi sento di sottoscrivere: “Un ottimo punto di partenza per iniziare a esplorare titoli di genere meno noti.” Il Morandini gli da una stelletta e mezzo (mezza di meno rispetto a filmtv.it) e pur dicendo una cosa vera, tanto per lanciare un opinione subliminale, scrive: “Contro le intenzioni del regista e del suo sceneggiatore, fu percepito come una commedia. Ebbe successo...” Di ben altra levatura è il terzo film interpretato da Terence Hill, che esce però a fine ottobre del 1967 e a cui dedico la seguente scheda. DIO PERDONA... IO NO! Produzione: Italia-Spagna 1967. Prodotto: Giuseppe Colizzi ed Enzo D'Ambrosio (Crono Cinematografica) e José Antonio Perez Giner (Pefsa Producciones Exibidores). Regia: Giuseppe Colizzi. Soggetto e Sceneggiatura: Giuseppe Colizzi. Interpreti Principali: Mario Girotti (Terence Hill), Carlo Pedersoli (Bud Spencer), Frank Wolff, Gina Rovere, Tito Garcia, Remo Capitani, Benito Stefanelli, Francisco Sanz. Fotografia:Alfio Contini. Musiche: Carlo Rustichelli. Sottogenere: Tesori nascosti. Durata 109 min. Giudizio Mancini: *** Giudizio Morandini: ** La trama Corpulente agente assicurativo (Bud Spencer) viene ingaggiato da 613 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

una compagnia per far luce su una rapina di 300,000 dollari. Il denaro è stato sottratto da un treno i cui passeggeri sono stati assassinati, tutti, tranne uno. Da informazioni acquisite, l'agente viene a sapere che responsabile del colpo è un bandito che tutti credevano morto: Bill Sant'Antonio (Wolff). L'indagatore decide così di contattare il baro, nonché pistolero, che si diceva avesse ucciso Sant'Antonio in duello, cioè Will Doc (Terence Hill). I due si metteranno così alla caccia di Sant'Antonio e dei 300,000 dollari rubati. Commento Pellicola di enorme importanza, non tanto per il valore contenutistico né per essere la più vista dell'annata, con oltre due miliardi di incasso, ma per le ripercussioni che avrà sulla cinematografia italiana. Il film difatti segna la nascita di una delle più fortunate coppie del cinema di casa nostra, cioè quella costituita dal corpulento Bud Spencer e dal funambolico Terence Hill. I due, in realtà, avevano già lavorato insieme in occasione del peplum Annibale (1959) di Bragaglia, senza però recitare l'uno al fianco dell'altro. La genesi dell'unione è dunque da attribuirsi a Dio Perdona... Io No! Ed è una genesi tutt'altro che programmata, così come la gestazione dell'opera è a dir poco travagliata. Il progetto nasce dalla caparbietà di Giuseppe Colizzi, fermo ormai da anni dopo aver fatto da aiuto, nei primi anni '50, a Luigi Zampa (di cui era nipote) e poi esser passato a ruoli amministrativi come direttore di produzione e produttore di film di altalenante successo. È Mauro Bolognini, fratello del Manolo produttore di Preparati la Bara!, a convincere Colizzi a produrre un film western. Il regista ha visto il fratello decollare proprio in virtù di questa scelta, e suggerisce all'amico di fare altrettanto. Colizzi ha già quarantadue anni e non ha mai diretto un film, né scritto una sceneggiatura. Ciò nonostante accoglie l'invito e stende il soggetto e la sceneggiatura di un progetto intitolato Il Cane, il Gatto e la Volpe. Non manca chi sostenga che Colizzi abbia vagato a destra e a sinistra con questo copione per circa dieci anni, senza ricevere nessun interesse, ipotesi che a me pare assai difficile. L'idea, come si intuisce, è quella di confezionare un'opera sulla scia de Il Buono, il Brutto, il Cattivo. Dunque un film retto su tre personaggi: uno acrobatico e rapido con la pistola, un altro ingenuo ma forzuto e un terzo malvagio, furbo e scorretto verso i componenti della propria banda. Gli ammiccamenti a Sergio Leone sono inevitabili e 614 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

partono da una struttura iniziale funzionale a presentare i tre personaggi: li vediamo protagonisti di tre distinte sequenze riservate in via esclusiva a ognuno di loro. Gli omaggi proseguono con la presenza del vecchio becchino del paese che sa tutto di tutti, per raggiungere l'apice col triello finale, sebbene condito da una punta di sadismo (l'antagonista viene costretto, per cercare di salvarsi, a spegnere con la bocca una miccia innescata e collegata a un candelotto di dinamite). Il progetto attira subito l'attenzione di un importante produttore: Fulvio Lucisano. Si da così avvio alla pre-produzione, si individua in Gianni Proia, proveniente dai mondo-movie, il regista incaricato di portare a termine il lavoro di scrittura di Colizzi. D'improvviso però il sodalizio tra Lucisano e Colizzi si rompe e il produttore si ritira dal progetto. Colizzi si ritrova così solo, ma per nulla intenzionato ad arrendersi. Raddoppia le forze e si getta a capofitto anche nel ruolo di regista, debuttando in tale veste. A dargli manforte interviene Arrigo Colombo (produttore de Per un Pugno di Dollari), ma è un supporto momentaneo. Anche Colombo infatti alza bandiera bianca lasciando sulle spalle di Colizzi l'intero peso finanziario del film. Colizzi però non cede e rischia tutto, ipotecando la casa... Il film si deve fare e si fa! A posteriori le decisioni di Lucisano e di Colombo si riveleranno fallimentari, perché l'opera non solo avrà introiti strepitosi ma permetterà a Colizzi di sfruttare la coppia Spencer-Hill in altri tre film: i western I Quattro dell'Ave Maria (1968) e La Collina degli Stivali (1970) nonché l'avventuroso Più Forte Ragazzi! (1973). Dunque un successo che lancerà Colizzi a livello internazionale, purtroppo però si tratterà di una breve ascesa a causa della prematura morte del regista che lascerà tutti nel 1978, vittima di un improvviso attacco cardiaco. Bud Spencer e Terence Hill, invece, proseguiranno il loro successo con Enzo Barboni, il quale avrà il merito di convertirli definitivamente al genere denominato sorrisi & cazzotti. Lo stesso Colizzi, ormai privato della coppia, tenterà di rispondere, con scarso successo, con Arrivano Joe e Margherito (1974), schierando una coppia clone interpretata da due emergenti poi capaci di farsi valere a Hollywood: Keith Carradine e Tom Skerritt. Veniamo ora a parlare di come si è formata la coppia. La scelta di puntare su Bud Spencer e su Terence Hill è del tutto affidata al caso, tanto che entrambi non venivano considerati prime scelte. Sul punto è quanto mai calzante il famoso detto del Dalai Lama secondo il quale “non ottenere ciò che si vuole, a volte, è un meraviglioso colpo di fortu615 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

na”. Difatti sia Bud Spencer che Terence Hill si ritroveranno coinvolti nel progetto per defezioni altrui. Bud Spencer viene ingaggiato per l'incapacità del casting di trovare un attore dotato di una mole pari a quella richiesta dal regista. Il provino di Bud Spencer, al secolo Carlo Pedersoli, si rivela un disastro: l'attore non conosce l'inglese, non sa andare a cavallo e ha poca esperienza (un pugno di comparse a fine anni '50). Bud infatti arriva da un periodo di appannamento dopo anni di grande prestigio. Campione italiano di nuoto per sette volte (100 metri stile libero) tra il '49 e il '56 nonché medaglia d'oro come pallanuotista nei giochi del Mediterraneo del '55, si era trasferito in Sud America per ritrovare stimoli lavorando in impieghi di manovalanza. Ritornato a Roma nel 1960 si era dedicato alla stesura di testi per canzoni popolari di cantanti quali Ornella Vanoni e Nico Fidenco nonché alla produzione di documentari Rai. Il cinema non era mai stata la sua vera passione, ma due cambiali in scadenza di due milioni cadauna lo avevano spinto a proporsi a Colizzi, costretto poi ad assumerlo per mancanza di alternative. Ancora più rocambolesca è l'entrata nel progetto di Terence Hill. L'attore veneziano viene chiamato a sostituire Pietro Martellanza (in arte Peter Martell) infortunatosi nel corso della lavorazione del film in circostanze bizzarre: sembra dopo aver dato un calcio a un letto, nel corso di una lite con la fidanzata ingelosita per le sue scappatelle amorose. Il forfait di Martellanza (che lo porterà a mordersi le mani per tutta la vita) spiana la strada a Terence Hill, ingaggiato, su suggerimento di Mauro Bolognini, perché non si riesce a trovare nessuno di disponibile. La produzione, al momento dell'uscita delle locandine, chiede espressamente ai due attori di adottare degli pseudonimi anglofoni, in modo da rendere più appetibile l'esportazione del film. Mario Girotti conferma lo pseudonimo già adottato nel corso di Little Rita, mentre Carlo Pedersoli opta per Bud Spencer in omaggio a due suoi amori: la birra Budweiser e l'attore Spencer Tracy. Nasce in questo modo il mito di una coppia, premiata nel 2010 con il David Donatello alla carriera, che sarà protagonista di ben diciassette film l'uno più simpatico dell'altro con perle quali Lo Chiamavano Trinità (1970) di Barboni, Altrimenti ci Arrabbiamo (1974) di Marcello Fondato e Pari e Dispari (1978) di Sergio Corbucci. Dio Perdona... Io No! non rientra propriamente nel filone sorrisi & 616 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

cazzotti. Il modello di riferimento resta il western violento, a confermarlo è subito il prologo da cui traspare un certo gusto orrorifico tanto che, consciamente o no, sarà riproposto da Lucio Fulci per il suo Zombi 2 (1979). Tra urla e disperazione, assistiamo infatti all'arrivo in stazione di un treno carico di morti (nel film di Fulci avremo un traghetto carico di zombi che sbarca a New York). Scordatevi poi il Terence Hill brillante e burlone. Qua è ancora truce, legato al Django corbucciano (piuttosto che a Clint Eastwood). Non è da meno Bud Spencer che spara e uccide i banditi, piuttosto che malmenarli. Non mancano infine sequenze di un certo impatto drammatico, con un pestaggio ai danni di un Terence Hill che sanguina dal naso e dalla bocca. Nonostante quanto detto, a livello embrionale, sono già presenti alcuni elementi che diventeranno via via prevalenti nei successivi film e che qui traspaiono in un paio di sequenze. Una di esse vede Bud Spencer e Terence Hill darsele di santa ragione (con un colpo risolutivo di Bud a chiudere la contesa); l'altra propone un Terence Hill che beffeggia il compagno, mentre soffre, tutto arcuato, sotto il peso di una cassa tenuta sulle spalle. Di rilievo anche la sequenza iniziale, che sarà riproposta da Barboni in Continuavano a Chiamarlo Trinità, in cui i due protagonisti, a intervalli diversi, passano nello stesso punto e si prendono gioco dei medesimi soggetti. Oltre ai due attori, il film vanta la presenza di Frank Wolff, il quale, per l'ennesima volta e nei panni dell'antagonista, da dimostrazione di un camaleontismo e di una bravura maiuscole. Qua, rispetto ad altre occasioni, sfoggia un look scozzese, con baffoni rossi uniti a folti basettoni. Colizzi è dunque perfetto nel dirigere i suoi attori, ma si rivela positivo pure nella sceneggiatura. L'autore romano scrive monologhi precisi (si veda quello in cui Bud Spencer, già doppiato dal grande Glauco Onorato, narra l'articolato piano che ha portato Bill Sant'Antonio a rapinare il treno e a sviare le indagini), ma soprattutto impiega molti flashback per velocizzare e rendere scorrevole la narrazione. Questa scelta, presa da Leone e messa in atto con primi piani e successive dissolvenze (per mostrare i ricordi dei protagonisti), permette al regista di coinvolgere lo spettatore mostrando con immagini ciò che altri avrebbero raccontato a parole. In uno di questi flashback, si assiste alla sequenza più bella del film: il falso duello tra Bill Sant'Antonio e Doc, in un saloon deserto completamente avvolto dalle fiamme. “Ho sempre amato gli scherzi, chissà che questo non sia il più colos617 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sale di tutti” preannuncia Sant'Antonio a Doc, dopo avergli fatto consegnare una pistola (che poi si scoprirà esser stata caricata a salve) e averlo sfidato a duello. Sant'Antonio riesce così a inscenare la propria morte e a rubare, senza sospetto (perché tutti credono che il cadavere trovato carbonizzato nel saloon sia il suo), i soldi messi da parte dalla propria banda. Questa difatti cercherà proprio Doc, ritenuto responsabile della scomparsa del denaro. Magistrale, al riguardo, l'istrionico Frank Wolff che conferisce spessore al personaggio al punto da risultare, per la sua caratterizzazione, il più interessante del lotto. Egli è infatti tra i più furbi antagonisti fin qui incontrati, una via di mezzo tra l'Indio de Per Qualche Dollaro in Più (con il quale ha in comune l'attitudine di tradire i propri uomini) e un giullare di corte. Nel cast artistico troviamo infine la severa Gina Rovere, già vista in precedenti western tra cui Sugar Colt (1966). Bella e particolare la colonna sonora di Carlo Rustichelli che fonde nella main theme un austero canto gregoriano a un motivo spensierato, suscitando un bizzarro contrasto dall'effetto originale. Convince meno la fotografia di Alfio Contini, specie nelle scene notturne dove si applicano vistosi filtri blu. Dunque un western da vedere, forse meno originale dei successivi film di Colizzi, ma più quadrato rispetto agli stessi. Il ritmo c'è e la sceneggiatura non ha quei vuoti che invece Colizzi non riuscirà a colmare ne I Quattro dell'Ave Maria e La Collina degli Stivali. Viene accolto bene della critica dell'epoca, meno dagli appassionati. Trentaduesimo nella classifica di spaghetti-western.net, appena sotto a Le Colt Cantarono la Morte... E Fu Tempo di Massacro. Lo cita pure Quentin Tarantino, pur non ponendolo nella sua top venti. Tra i più equi 800spaghettiwesterns.blogspot.it che gli riconosce poco più di un sei e mezzo in pagella, perché, a differenza di sonofdjango.blogspot.it (che lo reputa il miglior lavoro del regista nonché tra i western italiani più riusciti), non apprezza troppo la tecnica di Colizzi. Il blogger sottolinea come il regista opti per una scenografia trucida, con location polverose e sporche, e come abbiano un ruolo rilevante le partite a poker. Definisce quindi il film molto divertente. Sulla stessa scia spaghettiwestern.altervista.org per il quale Colizzi “realizza un western di grande fattura, sullo stile di Sergio Leone, ma con un che di personale e con situazioni di grande tensione.” Buono (tre stelle) pure per filmtv.it; l'unico che si distingue indovinate un 618 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

po' chi è? Il Morandini... il quale gli rifila due stelle e lo considera il peggiore della trilogia di Colizzi. Per gli amanti delle citazioni: “La gente ama le leggende... e che altro si racconterebbe la sera, attorno al focolare, a corto di argomenti come è.” Torna nei cinema Maurizio Lucidi, il quale propone addirittura due western: La Più Grande Rapina del West (1967) e Pecos è Qui, Prega o Muori (1967), sequel di Due Once di Piombo, uscito qualche mese prima. Il toscano si divide così tra due produzioni. Per conto di Palombi e Silvestri cura il sequel del western che l'ha visto debuttare nel genere, mentre per l'altro film cambia produzione contando sui capitali di un poker di piccoli produttori. Tra questi ultimi troviamo l'accoppiata Franco Cittadini e Stenio Fiorentini, freschi di Sugar Colt (1967) da cui arrivano il protagonista Hunt Powers, lo sceneggiatore Augusto Finocchi e il compositore Luis Bacalov. I due film hanno dei punti di contatto. Augusto Caminito mette mano su entrambi i copioni, affiancando Bolzoni e Di Leo nel sequel di Pecos, e Finocchi nell'altro. Altro elemento comune, non di poco conto, è la presenza di Aldo Lado, futuro regista di genere, in qualità di aiuto regista. Caminito porta la verve di ironia che pervade i due film, i quali assumono un taglio semi-comico seppur con risultati altalenanti. La Più Grande Rapina del West ruota su un soggetto poco originale. Abbiamo una banda di delinquenti, capitanata da un sanguinario leader (Walter Barnes) e da un guascone che si traveste da prete (Hunt Powers). I due, dopo aver messo a segno una rocambolesca rapina, si rifugiano con l'intera banda in un paese di frontiera, attendendo l'arrivo di una guida incaricata di accompagnarli in Messico, in modo da aggirare i posti di blocco degli sceriffi locali. Inevitabili le liti tra i banditi, dovute ai contrasti tra i leader che cercheranno di fregarsi a vicenda per sottrarre il bottino. Tra i due litiganti si inserisce il terzo incomodo (George Hilton), che inizia a eliminare i banditi facendo sparire l'oggetto della contesa. Dunque un soggetto all'insegna del dejà vù, con uno script avaro di emozioni se si esclude qualche curiosa caratterizzazione. I personaggi portati in scena sono molti, ma due di loro sono simpaticamente so619 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

pra le righe: il Santo (Powers), c.d. perché ama travestirsi da prete e recitare sermoni con braccia levate al cielo; e Billy Rhum (Hilton), c.d. perché si scola rhum e fa a cazzotti nel saloon, costringendo lo sceriffo a sbatterlo di continuo in cella da cui evade attraverso un assurdo corridoio sopraelevato (!?). Sono loro a rappresentare l'anima comica del film. I due, inizialmente contrapposti, finiranno per mettersi d'accordo per eliminare tutta la banda. Il Santo, infatti, se la spassa di nascosto con la donna (Sonia Romanoff) del capo banda, di cui non accetta gli ordini. In una scena, riferendosi alla donna del capo, filosofeggia: “Sei la donna del capo, no? Si, ma chi è il capo...? È questo che bisogna chiarire. Non ti pare? Lui è un macellaio, e io un'artista. Non ricevo ordini da lui, quindi non è il capo. Il cervello è il capo!” Così dicendo si autoproclama leader, anche perché è stato lui a pianificare la rocambolesca rapina iniziale, facendo confluire il denaro rubato all'interno della statua di un santo (!?) trasportata a bordo di una diligenza condotta da un prete. Una sequenza peraltro ben diretta da Lucidi, con tutta una serie di personaggi che si muovono in sincronia. Finocchi riutilizzerà la sequenza, con piccoli correttivi, per l'inizio di Black Jack (1968). Billy Rhum vuole invece vendicare lo sceriffo, trucidato dalla banda, e scongiurare il piano dei banditi di sterminare l'intero paese all'arrivo della guida indio, per non lasciarsi alle spalle testimoni. Rhum non sa però che la guida non arriverà mai, perché il Santo l'ha assassinata all'inizio dell'operazione. Nell'attesa scatta così una girandola di colpi a sorpresa, con Billy Rhum che esce e rientra a piacimento dalla cella, eliminando ogni volta, con l'aiuto del Santo, componenti della banda, e facendo sparire il bottino provento della rapina. Il capo banda, dalla sua, farà rinchiudere tutti i paesani all'interno delle case, promettendo una carneficina e iniziando a sospettare di tutti. L'epilogo omaggerà Vado... l'Ammazzo e Torno (1967) col Santo e Billy Rhum che avranno la meglio sul rivale, sotto un'autentica pioggia di monete d'oro. Questa volta l'effetto sarà ancora più spettacolare del film di Castellari, perché le monete pioveranno sull'intero villaggio per effetto di una denotazione che farà saltare in aria Barnes, rivelando il luogo in cui Billy ha nascosto il carico. Dunque un western poco innovativo, ma ben interpretato, con un cast di primo ordine che lo salva dall'insufficienza. Hunt Powers, an620 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

cora una volta, si trova investito di un ruolo dandy, perfezionando quanto già fatto in Sugar Colt. Le sequenze che lo vedono in azione sono davvero esilaranti e poco importa se l'attore americano viene oggi ricordato come uno che teneva un atteggiamento di superiorità sul set, propenso alla critica ai danni di colleghi e registi. George Hilton invece è il solito burlone dal cazzotto e dalle acrobazie facili (anche se le scene delle scazzottate, tra bevute di whisky e sorrisini vari, sono girate con lo stile della parodia). Walter Barnes invece, reduce da La Resa dei Conti (1966), è un cinico ma distinto antagonista che non spende nulla nel far pestare donne e vecchi (si assiste anche una mezza deportazione, con anziani trascinati via dai loro letti). Grande presenza di comprimari di culto (non solo per il western) tra i quali ricordo l'ottimo Mario Brega (in un ruolo da ubriacone deficiente, tanto da arrivare a credere di esser stato addirittura pestato da Erika Blanc!?), i cattivi Federico Boido, Sal Borgese, Umberto Raho e il pelato Luciano Catenacci, tutti componenti (ovviamente) della banda dei manigoldi. In un ruolo di scarso conto (fa il telegrafista) c'è anche Luciano Rossi (Timido in Lo Chiamavano Trinità). Tra le attrici si segnalano Erika Blanc e Sonia Romanoff, che fa il debutto nel western, contraddistinguendosi in una scena di sesso con Powers (ahimé sforbiciata da Lucidi che temeva la censura) e in una furibonda lite, sia di scena che reale, con la Blanc (memore evidentemente dello scontro con Ida Galli sul set di Django Spara per Primo) infuriata per gli atteggiamenti da vip della Romanoff e per aver ricevuto un pugno dalla stessa in un ciak. La Romanoff era arrivata in Italia nel 1964 grazie a un matrimonio fittizio stipulato con un anziano imprenditore, dal quale aveva poi tentato (senza riuscirci) di separarsi adducendo la mancata consumazione. Non avrà grande fortuna nel cinema e uscirà di scena a fine anni '60, con una decina di film all'attivo (molti dei quali da comparsa). Qua però, anche se poco espressiva, non è affatto male e fa meglio della più quotata Erika Blanc. Bruttina la fotografia di Riccardo Pallottini il quale, nonostante la grande esperienza maturata nell'horror gotico (ricordo le collaborazioni con Margheriti nei vari La Vergine di Norimberga del 1963, Danza Macabra nonché I Lunghi Capelli della Morte del 1964), ricorre a filtri notturni inadeguati. Meno brillante del solito Bacalov. Convenzionale, a parte un uso un po' eccessivo dello zoom, la regia di Lucidi. 621 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Nel complesso un western gradevole, specie per le interpretazioni, che non annoia e che sa divertire, ma che al contempo può esser trascurato. Conforme a tale impostazione è spaghettiwestern.altervista.org che evidenzia inoltre alcuni cali di ritmo. Il più entusiasta è Marco Giusti. L'autore di Stracult parla di grande storia picaresca che si perde un po' nella parte gialla che è poi il cuore del film. Sufficienza striminzita per imdb.com e per filmtv.it che aggiunge: solo per amanti del genere. Il Morandini e, sorprendentemente, i blogger internazionali passano oltre senza lasciar traccia. Pecos è Qui, Prega e Muori ripropone nei panni del protagonista Robert Woods, divenuto famoso proprio per il ruolo di Pecos, ma dispone di un budget inferiore rispetto a La più Grande Rapina del West. Da Due Once di Piombo vengono inoltre confermati Massaccesi (operatore di macchina) e Fidani (scenografie). La pellicola viene scritta e girata in fretta e furia, per sfruttare l'inatteso successo di Due Once di Piombo del quale si riprende unicamente il protagonista. Lucidi, stranamente, si discosta in modo netto dal primo capitolo, riducendo la drammaticità a vantaggio della farsa e dell'avventura. La soluzione non si rivelerà vincente. Ancora una volta c'è un tesoro, risalente addirittura a Montezuma!?, nascosto in un tempio azteco presidiato da un antagonista (Erno Crisa) che vaga tutto vestito di nero, con mantello, frusta e fascia rossa sulla fronte; un folle che ritiene di avere natura divina (!?), soluzione quest'ultima ripresa da Tre Pistole contro Cesare (1966). L'idea del tempio azteco come rifugio per l'antagonista viene invece rubata da 1.000 Dollari sul Nero (1966). Pecos e il suo fido (Ignazio Spalla) saranno incaricati di liberare la figlia del governatore, rapita da Crisa, e di portare alla luce del sole l'oro antico. Il nostro ricorrerà al vecchio trucco del doppio gioco, in modo da farsi accettare all'interno della banda. Seguiranno soluzioni in stile Per Qualche Dollaro in Più. Delirio puro, a tratti fumettistico, con banditi che rappresentano i diversi vizi capitali. Scenografie (di cartapesta) di Fidani alquanto limitate, penalizzate da un budget inidoneo al progetto. Lo esalta, in modo immotivato, spaghettiwestern.altervista.org fino a definirlo capolavoro. Grave bocciatura inflitta su tutti i fronti da 800spaghettiwesterns.blogspot.it: “tentativo fallito di unire il western all'adventure movie” 622 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Lo spagnolo salva la sola interpretazione di Woods, andando giù di mano pesante sul resto: “l'antagonista ha un vestito che andrebbe bene per un film di arti marziali!?” Apprezzato in Sud America, è oggi di difficile reperibilità tanto che lo hanno visto in pochi. Per trovare nuovi western bisogna attendere novembre. Armando Crispino, ex critico cinematografico per conto del giornale L'Unità nonché ex aiuto di Comencini e Antonio Pietrangeli, decide di passare alla regia dopo aver assistito Lizzani in Requiescant (1966). A lanciarlo sono i fratelli Genesi, reduci da Per il Gusto di Uccidere (1966) di Valerii, i quali gli finanziano John il Bastardo con ambizioni di successo poi non riscontrato al botteghino. Crispino vuole fare un western intellettuale e punta sull'estro di Lucio Battistrada, conosciuto sul set del film di Lizzani e con cui firmerà anche il copione del macaroni combat Commandos (1968) nonché del sopravvalutato thriller L'Etrusco Uccide Ancora (1972). I due stendono un copione sperimentale, seguendo la linea tracciata da Duccio Tessari con Il Ritorno di Ringo, ovvero quella di riprendere un'opera classica per trasporla nel west. L'interesse ricade sul Don Giovanni di Mozart, con risultati non troppo apprezzabili. Protagonista è un seducente pistolero (John Richardson), amante delle donne, che scopre di esser figlio di un ricco possidente che non l'ha mai riconosciuto. La scoperta lo manda su tutte le furie, facendolo scagliare contro gli eredi del padre e in particolare contro il fratellastro (Camaso). Richardson ricorrerà a qualunque tipo di astuzia, giocando sporco e tradendo i sentimenti altrui. Il suo unico scopo è la distruzione dei suoi ascendenti. Il tutto viene inframmezzato dalla guerra dei mormoni schierati contro gli yankee e i mercenari che intendono sterminarli. Epilogo all'insegna della tragedia, con il protagonista che cadrà vittima delle donne che ha sedotto e che non hanno digerito i suoi giochi sporchi. La particolarità del film è quella di avere un protagonista arrogante, che non subisce alcuna evoluzione positiva nel corso del film. Sonofdjango sostiene che trascende tutti i parametri accettabili di un antieroe per sfociare nella zona del cattivo antipatico. Crispino è incerto nella messa in scena, non ancora maturo, tanto che in pochi apprezzeranno il film. Eppure il cast artistico annovera specialisti come Claudio Camaso, Gordon Mitchell (solito ruolo da si623 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

cario), Glauco Onorato e Martine Beswick proveniente da Quien Sabe? (1966). L'insuccesso porterà Crispino a interessarsi ad altri generi, trovando il suo campo d'elezione nel thriller, con l'originale cult Macchie Solari (1974), citato persino dal fumetto Dylan Dog. Negli anni '80 passerà alla televisione. Sebbene lo abbiano visto in pochi, il solo Tom Betts salva la pellicola, sottolineandone la componente surreale e, più in particolare, il bizzarro finale che vedrà soccombere Richardson in un modo alquanto macchinoso. Di difficile reperibilità. A metà novembre approda nelle sale il quarto e ultimo western di Sergio Bergonzelli che, come al solito, scrive soggetto, sceneggiatura e si autoproduce. Il titolo è Una Colt in Pugno al Diavolo. Bergonzelli incrementa il modestissimo budget, ma paradossalmente ricaverà un introito dimezzato rispetto a quello ottenuto dal ben peggiore Uno Straniero a Sacramento (1965). In veste di cosceneggiatore ripropone Ambrogio Molteni, reduce da Tre Colpi di Winchester per Ringo (1966) e da Jim il Primo (1964). Il soggetto prende le mosse attingendo lo spunto iniziale da Una Pistola per Ringo (1965). Abbiamo infatti un carcerato a cui viene proposta una missione da compiere in cambio della riabilitazione e della cancellazione della pena. Come per il film di Tessari, il nostro dovrà infiltrarsi in una banda di messicani per porre fine alle loro scorribande. Questa volta però il protagonista non è un bandito, ma un ex ufficiale sudista strappato alla corte marziale da un suo superiore. La motivazione di ciò la si ricava nel beffardissimo finale in cui il protagonista, riferendosi al capo banda messicano, si prenderà gioco del superiore che gli ha offerto l'incarico e gli strapperà la promessa di un ulteriore premio in denaro per non aver ucciso El Condor: “Uomini come lui non si incontrano spesso e possono sempre servire, magari si conservano al fresco come hai fatto con me e infatti se non mi avessi strappato dalla corte marziale oggi non ti avrei ripulito il deserto”. Dunque una trovata molto simile a quella che starà alla base del cult 1997 Fuga da New York (1981) di John Carpenter. Bergonzelli e Molteni hanno comunque il merito di sviluppare il soggetto mischiando sparatorie e scazzottate a momenti al confine del comico, con almeno tre sequenze grottesche che faranno la felicità 624 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

degli amanti del trash. Tra queste segnalo la sequenza in cui il protagonista attira l'attenzione del capo messicano, stando piegato in mezzo al deserto su un cannocchiale gigante munito di bussola col quale dice di cercare giacimenti d'oro (!?): “Osserva la bussola, in quella direzione c'è un bel pilone nascosto. Puoi girarla come ti pare, ma non la confondi, indicherà sempre la stessa posizione: l'oro” questa la frase che il nostro proferisce a El Condor, un improbabile messicano interpretato dal cinese (!?) George Wang. Naturalmente, come i ogni trash che si rispetti, El Condor crede subito allo straniero anche perché nella direzione indicata c'è il nascondiglio in cui tiene nascosti i carichi d'oro rapinati! Un'altra sequenza assurda è quella in cui l'amante del protagonista, la bassissima Marisa Solinas, riesce, nel giro di venti secondi, a far prendere fuoco alla corda appesa al collo dell'uomo utilizzando una lente inclinata in modo da proiettare il riflesso del sole sulla corda stessa (!?). Vere e proprie diavolerie concettuali, ben maggiori di quelle che va compiendo il protagonista, che si sommano a delle caratterizzazioni sopra le righe. Nei panni di attore principale c'è lo sconosciutissimo Bob Henry, recuperato da Bergonzelli all'ultimo minuto a causa dell'impossibilità di trovare un americano disposto ad accettare il misero ingaggio. Fisico longilineo, volto vagamente somigliante a John Wayne e un'altezza tale da sembrare un watusso rispetto a tutti gli altri attori. La presenza scenica di Henry rende ridicoli tutti gli altri, in particolare la povera Marisa Solinas che al suo fianco pare una nana. Di lui non si sa pressoché niente, Tom Betts ritiene che non fosse un attore (infatti non farà altri film) ma un cantante inglese (!?). Forse non è un caso se, nel corso del film, lo vediamo spesso strimpellare una chitarra. A ogni modo, la sua prova non è malaccio specie se si considera la sua totale inesperienza. La Solinas, invece, viene pescata dalle commedie di Mario Monicelli in cui si era distinta al debutto con un ruolo di primo piano in Boccaccio '70 (1962), ma aveva altresì lavorato con maestri del calibro di Bernardo Bertolucci e Nanny Loy e in un paio di musicarelli. La ritroveremo in Giarrettiera Colt (1968) e in Blindman (1971). Gli amanti del thriller, invece, la ricorderanno con un piccolo ruolo in Almost Blue (2000) di Alex Infascelli. È inoltre una delle due prostitute in I Due Carabinieri (1984) di Carlo Verdone. A ogni modo, tra tutti i presenti, è sicuramente l'attrice più titolata anche se non diventerà mai di culto, forse perché penalizzata dal fisico (una trentina i suoi 625 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

film). A fungere da antagonista abbiamo un grande caratterista: il cinese de Roma George Wang. Attore tozzo, anche se non alto, già apprezzato nel western Per il Gusto di Uccidere (1966) di Valerii e nello sci-fi La Decima Vittima (1965), Wang offre una performance alla Fernando Sancho, in un mix di durezza e comicità. Proprio i siparietti comici tra Henry e Wang, degni di quelli tra Sancho e Gemma, sono il punto di forza della pellicola anche a causa di una sceneggiatura povera di idee. Nel cast artistico, oltre ai citati, troviamo, in un piccolo ruolo, Lucretia Love, attrice cult per gli amanti degli spaghetti-thriller pruriginosi di terza e quarta fascia, ma soprattutto per i film avventurosi low budget contaminati di erotismo. La Love sarà spesso prima protagonista in questi film, tra i quali Zenabel. Davanti a Lei Tremavano Tutti gli Uomini (1968) di Deodato, Le Amazzoni (1973) di Brescia e La Rivolta delle Gladiatrici (1974) di Joe D'Amato. Alla regia Bergonzelli fa decisamente meglio del solito, tirando fuori un prodotto quantomeno vedibile. Insieme al thriller Nelle Pieghe della Carne (1970), Una Colt in Pugno al Diavolo costituisce l'apice (assai basso) della sua carriera. Successivamente infatti, salve rare eccezioni, virerà sull'erotico scandalistico e sul porno, con una ventina di produzioni trash già dai titoli: Io Cristiana Studentessa degli Scandali (1970), La Sposina (1976), Porco Mondo (1978). Notevole, per la messa in scena, il prologo in cui assistiamo all'avanzata in pieno deserto di una carovana avvolta da una tempesta di sabbia (con tanto di ululati del vento). Il mezzo procede a stento, su una distesa di veri e propri scheletri umani (so very good), finché non finisce sotto l'assalto dei banditi. Bergonzelli stringe, per ogni sparo, sul bandito che spara dando vita a una sequenza psichedelica (lo saranno anche i titoli di testa) che diviene infernale, con una favolosa carrellata in cui vengono mostrati decine di morti e carovane ribaltate, con un bimbo nudo che piange davanti al cadavere della madre. Davvero un grande inizio, cui non si darà seguito se non con uno spaghetti-western sospeso tra il western classico e l'ironico-comico. Il regista inoltre proporrà delle inquadrature stranissime, tra le quali quella in cui viene introdotto il protagonista. Quest'ultimo viene infatti presentato agli spettatori in una scena di svariati minuti in cui resta fuori campo, con la mdp che ne riprende solo le gambe e i piedi nudi, mentre se ne sta sdraiato su un letto a parlare con un ufficiale 626 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sudista a cui passa una confezione di sigari con le dita dei piedi!? Non mancano i momenti convenzionali, quali una rissa in un saloon, un pestaggio ai danni di Henry (con ottimo make up che ne rende il volto tumefatto e deturpato dai graffi) nonché un epilogo (inusuale per un film dal budget risibile) con grande dispendio di comparse, in virtù di una carica militare preceduta da una serie di cannonate sparate per fare strada all'avanzata. Reggono bene le scenografie, fatte di sabbia e polvere, sebbene ci si trovi in Sardegna. Bruttina invece la colonna sonora di Giampiero e Gianfranco Reverberi, freschi da Preparati la Bara!, i quali ricorrono a una sorta di fischiettio di sottofondo. La main theme, in inglese, è addirittura cantata da Mino Reitano (quello del brano tormentone intitolato Italia, ma che all'epoca apriva i concerti dei Beatles). Non è eccelsa neanche la fotografia di Aldo Greci (non farà nulla di rilevante in seguito). Da segnalare, in veste di aiuto, la presenza di Aldo Lado, futuro regista di capolavori thriller quali La Corta Notte delle Bambole di Vetro (1971) e L'Ultimo Treno della Notte (1974), qua alla sua seconda esperienza professionale. Come anticipato il film floppa, tanto che tutt'oggi è stato visto da pochi. Moltissime le bocciature. Tra i più duri filmtv.it che lo stronca senza mezzi termini quale western inguardabile, irrilevante e superfluo. Opinione fin troppo severa... Tom Betts ritiene che l'unico motivo per visionare il film sia costituito dalla presenza di George Wang, poiché il resto è trito e ritrito. Più o meno sulla stessa linea il connazionale spaghetti-western.net il quale, pur giudicandolo il miglior western di Bergonzelli, lo ritiene poco interessante per regia e sceneggiatura, trovandovi comunque dei buoni momenti per alcune bizzarrie e per la prova di Wang che ruba la scena a tutti. Come spesso capita, però, non mancano i sostenitori della pellicola. Marco Giusti la considera uno suo piccolo cult: “film assurdo, che vanta me come unico fan” dice nel suo Dizionario del Western all'Italiana. In realtà non è l'unico, spaghettiwestern.altervista.org punta il dito sul cast artistico non reputandolo esaltante, per il resto promuove l'opera in quanto abbastanza avvincente, piena di sparatorie e scazzottate. Altri fan sono rintracciabili tra gli utenti di filmtv.it che definiscono il film addirittura buono. Di diverso avviso quelli di Imdb.com che non fanno andare la pellicola oltre un cinque in pagella. Io mi 627 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

schiero con questi ultimi, pur considerando Una Colt in Pugno al Diavolo un western vedibile (in particolare per i momenti trash e per i siparietti tra Henry e Wang) e che sicuramente farà divertire gli estremisti del genere e chi è a caccia di bizzarrie. Si giunge così a fine novembre, col capolavoro dell'annata. Ancora una volta è la PEA di Alberto Grimaldi a metterci lo zampino. Sergio Leone si è preso un anno di riposo, tocca a Sergio Sollima sostituirlo nel western di prima fascia della casa produttrice, compito che il romano assolverà a pieni voti. Ecco la scheda. FACCIA A FACCIA Produzione: Italia-Spagna, 1967. Prodotto: Alberto Grimaldi (Pea), Arturo Gonzales (Prod. Cin.). Regia: Sergio Sollima. Soggetto: Sergio Sollima. Sceneggiatura: Sergio Sollima, Sergio Donati. Interpreti Principali: Tomas Milian, Gian Maria Volonté, William Berger, Jolanda Modio, Carole André, Federico Boido, José Torres. Fotografia: Rafael Pacheco ed Emilio Foriscot. Musiche: Ennio Morricone. Sottogenere: Politico/Filosofico. Durata 108 min. Giudizio Mancini: **** Giudizio Morandini: *** La trama Mite professore di storia (Volonté), in vacanza per ragioni di salute in campagna, viene rapito da Beauregard Bennet (Milian), un feroce assassino, unico superstite del Mucchio Selvaggio, che lo prende come ostaggio per sottrarsi alla forca. Tra i due, braccati da Siringo (Berger), un detective privo di scrupoli, nasce un'amicizia sempre più profonda che li porterà a invertire i ruoli: il bandito si redime, il professore diviene preda dell'onnipotenza e si macchia di atroci omicidi. Intanto Siringo, per indurre in errore Beauregard e portarlo allo scoperto, ricostituisce il leggendario mucchio selvaggio, una 628 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

banda di delinquenti dediti a rapine e omicidi, ma a prendere il controllo della banda sarà il professore con la sua lucida follia. Commento: Con questo suo secondo western, Sergio Sollima dimostra di non esser un regista di passaggio nel genere. Egli infatti si conferma tra i più autoriali e originali del settore. Alberto Grimaldi, contento della performance del regista ne La Resa dei Conti, gli da maggiore potere decisionale affidandogli in prima battuta la scrittura. Affiancato ancora una volta dall'ottimo Sergio Donati, Sollima sviluppa un soggetto che ha nella storia, intesa come materia, e nella caratterizzazione psicologica dei personaggi i suoi punti di forza. L'impronta di Sollima è così forte che l'apporto di Donati scema al ruolo di suggeritore, tanto da spingerlo a prendere le distanze dal risultato finale. Donati criticherà, a mio avviso ingiustamente, la decisione di Sollima di incastrare la filosofia in un prodotto commerciale e di voler a tutti i costi inserire dei dialoghi, a suo dire, verbosi e didascalici. Al di là delle opinioni, il lavoro di Sollima, sia dietro la macchina da presa sia soprattutto in fase di scrittura, è di alta scuola. L'autore romano, contenutisticamente parlando, da vita a delle scene tra le più belle del genere, con spunti di riflessione mai banali. Purtroppo non è tutto “rose e fiori”. Sollima si vede costretto a rinunciare all'idea di realizzare un'opera di circa tre ore, poiché la produzione vuole un prodotto che rispetti i tempi canonici. La decisione porta il regista ad abbozzare e a sottintendere argomenti che avrebbe voluto sviluppare in ben altro modo, lasciando nello spettatore, in alcune sequenze, la sensazione di aver visto qualcosa di estrapolato da un complesso di scene di maggior raggio. Un secondo limite è costituito da una primissima parte di sceneggiatura lenta e soprattutto poco bilanciata nello sviluppo dei personaggi. Sollima tratteggia in modo ottimo il personaggio di Gian Maria Volonté, ma si cura poco di quello di Tomas Milian. Infatti, mentre il professore appare cinereo, piagnucoloso, debole e impacciato (bella la scena in cui tenta, non riuscendoci, di estrarre un proiettile dalla spalla di Milian), il bandito non trasmette quella brutalità che gli viene attribuita dai discorsi delle terze persone. Piuttosto che far parlare i personaggi, sarebbe quindi stato preferibile introdurre scene con un Tomas Milian privo di scrupoli, votato alla violenza; atteggiamenti neanche suggeriti nel corso della visione. Gli omicidi di cui si macchia 629 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Milian sono strumentali e mai gratuiti: uccide per sottrarsi all'arresto e sempre senza pianificazione. Fin da subito da l'idea di un buono che vuol apparire cattivo e ciò è un difetto evidente della sceneggiatura, che non può essere colmato dai continui - e seppur qualitativi - dialoghi che si susseguono in tutta la prima parte, specie quando Volonté osserva il bandito mentre si esercita con la pistola. “Sei già abbastanza veloce” gli dice e Milian, con cinismo, risponde: “I cimiteri sono pieni di tipi abbastanza veloci, è da quando avevo dodici anni che mi esercito tutti i giorni per essere il più veloce”. Ed ecco, in stile da grillo parlante, che il professore lo rimprovera con fare paterno: “La tua vita sarebbe stata diversa se tu avessi dedicato tutto questo tempo ai libri, se avessi esercitato il cervello a pensare invece che la mano a correre alla pistola”. Sono infine presenti delle scene troppo abbozzate come quella in cui Beauregard Bennett, cioè Tomas Milian, viene ingaggiato da un signorotto locale per eliminare una banda di un altro signorotto, artificiosamente rivale del primo. I due aristocratici, in realtà, si divertono a gustarsi le sparatorie scommettendo su quale schieramento avrà la meglio. Una sequenza che pare voler sottolineare la bassezza morale di una certa borghesia votata al divertimento spiccio e disposta a usare le persone come pedine di un folle gioco. Se nella prima parte, dunque, il film stenta a decollare, la seconda è un vero portento. Decisivo è il momento in cui il professore subisce il fascino del potere. L'uomo, giunto con Beuregard Bennet in un piccolo villaggio che vive fuori dalle regole, stupra una ragazza di cui si è invaghito e ne uccide il fidanzato sbattendogli più volte la testa su una pietra. Anziché essere allontanato dalla comunità, il professore guadagna il rispetto di tutti e addirittura l'amore della donna che ha violentato. “Non ho mai visto gente più vera, libera, viva e felice di questa” dirà nell'ammirare i membri del villaggio. Purtroppo però il professore, accecato dal potere, porterà nella comunità la logica che governa la società e lo farà in un modo distorto e delirante da cui non potrà che giungere la morte. Sono proprio lo studio della storia e la corsa al potere, come abbiamo detto, il fulcro del film. Il seme viene impiantato fin dal prologo, in cui si mostra l'ossessione del professore per la materia della storia e il suo alto senso di frustrazione per non aver avuto un impatto attivo sulla stessa. “Ogni uomo può scegliersi la sua parte nella sto630 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ria” va dicendo alla scolaresca, nel giorno della sua ultima lezione. “Voi avete venti anni, dovrete scegliere ancora molte volte tra il giusto e l'ingiusto, la verità o la menzogna e ogni volta dovrete cercare la risposta dentro di voi e se quel poco che vi ho saputo insegnare vi potrà aiutare allora anche la mia parte nella storia non sarà stata del tutto inutile”. Utile a comprendere la psicologia del personaggio è inoltre il rimprovero che gli fa il preside, prima di lasciarlo partire per ragioni di salute (malattia forse immaginario). “Con la vostra intelligenza avreste potuto fare una carriera molto più rapida... Il successo bisogna volerlo, nel nostro paese non esiste limite alcuno alle ambizioni di un uomo disposto a battersi, ma chi non vuole battersi è vinto in partenza”. Ed è infatti questo l'atteggiamento iniziale del professore, un atteggiamento remissivo, insicuro, che si nasconde dietro una falsa gentilezza e dietro a dei valori di fratellanza che non gli sono propri. Per sottolineare questa castrazione mentale, è geniale l'idea di presentare il professore malaticcio, bianco, alla stregua di uno spettro degno della penna di un Edgar Allan Poe. Bellissima la battuta “se gli ho potuto dare un po' di vita vuol dire che io sono vivo” che Volonté pronuncia quando è ancora savio e che evidenzia come lo stesso si reputi un morto vivente schiavo dei formalismi. Sarà di ben altro spessore nel secondo tempo, quando soppianterà Beauregard Bennet fino ad assumere il controllo della banda, grazie alla sua cultura e alla sua abilità mentale. Giungerà persino a inneggiare la violenza di massa, in una scena cruda e al contempo memorabile in cui farà torturare una spia legata a un palo di legno, esprimendo il suo giudizio sulla storia: “la cosa straordinaria è che un uomo come me sia rimasto per tanti anni sullo sfondo a fare da comparsa, prima di scoprire la forza che era in lui. Ti rendi conto di cosa possa fare un uomo intelligente in un paese come questo, dove gli uomini più rozzi e di ignoranti hanno potuto spadroneggiare? Un violento è un fuori legge, cento sono una banda, centomila un esercito.. Il punto è superare il confine della violenza individuale, che è un crimine, per arrivare a quella di massa che è storia”. Passaggi che conferiscono alla pellicola una forte connotazione filosofica, tanto da farne il western di riferimento per chi intenda inserire scampoli di filosofia nel genere. Se la caratterizzazione del professore è magistrale, non è dello stesso livello quella di Beauregard Bennet. Solo verso la fine il personaggio di Milian riesce ad avvicinare quello del professore, ma, a dif631 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ferenza di quest'ultimo, non ne viene trattata a dovere l'evoluzione anche se viene ben rappresentato l'evento scatenante che porta il bandito a mutare il proprio atteggiamento. È l'omicidio di un ragazzino a scuoterlo, shock peraltro incrementato dal tentativo del giovane di socializzare con lui per poi prenderne le distanze, col tentativo di richiamare l'attenzione dello sceriffo, appena compresa la natura dell'uomo. Decisamente meglio caratterizzato è Siringo, l'agente investigativo della Pinkerton, interpretato da William Berger. È un uomo privo di scrupoli, commette omicidi gratuiti al fine di raggiungere il proprio scopo e soddisfare il narcisismo che lo caratterizza (vuole essere il migliore di tutti). Uccide per questo sceriffi, bambini e chiunque cerchi di frapporsi al suo obiettivo. Si tratta di un individuo che sostiene di agire nell'interesse della legge che poi però calpesta quando gli torna comodo. Anche lui finirà per andare incontro a un evoluzione positiva, innescata dal gesto finale di Beauregard Bennet che gli farà capire il vero senso della giustizia, in un epilogo tra i più belli dello spaghetti western, sia dal punto di vista tecnico (regia e fotografia) che per i dialoghi. È solo allora che Siringo si ravvede, prima di ciò infatti assolda un'orda di vigilanti, privi di scrupoli, che braccano i superstiti dei membri del villaggio controllato dal professore. Questi sono dei veri e propri psicopatici, che distruggono accampamenti di donne e bambini per mero divertimento, costringendoli alla fuga nel deserto. Sollima mostra il tutto, anticipando il massacro finale dell'hollywoodiano Soldato Blu (1970), inscenando una mattanza che sarà interrotta solo da Siringo. Quest'ultimo interviene per puro egoismo; vuole infatti togliere di mezzo possibili concorrenti che possano anticiparlo nella cattura di Beauregard Bennet e del professore. Fatto questo, si getta all'inseguimento dei due, ma viene ferito dal professore che lo attende, nascosto dietro a un masso. Ormai Siringo è sul punto di soccombere, ma Beauregard Bennet esce dal riparo e getta il fucile nella sabbia. “Ma che fai?” gli chiede il professore. “Quello che mi sembra giusto” risponde Beauregard. “Giusto? Ma qual'è la giustizia?” irrompe il compagno, ormai lontano da quel buonismo quasi religioso che lo caratterizzava nella prima parte. “Quella di Siringo, che ha ucciso uno sceriffo sotto i tuoi occhi solo per entrare nella banda? Oppure quella dei vigilantes, rispondi, è quella? Senti Beau, non esiste la giustizia che cerchi, è una cosa che ti fabbrichi quando hai il potere, la forza, e noi siamo forti, Beau! La giustizia che tu cerchi non esiste!” conclude il 632 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

professore, prima di essere colpito da un cazzotto di Beau che, battendosi il pugno sul cuore, gli urla: “Ma si che esiste, maledizione! È qui, qui! Hai capito?” Un epilogo dunque drammatico dove si assiste a un triplice ribaltamento psicologico che raggiunge l'apice quando Beau spara al professore, per evitare che lo stesso uccida l'agente; quindi lo vediamo consegnarsi all'uomo di legge che però, impressionato dall'eroismo del bandito, lo lascia libero e lo invita a scappare. Una sequenza bellissima, impreziosita da un taglio di regia fumettistico. Sollima fa posizionare la telecamera in modo da avere in primo piano un personaggio e al contempo gli altri che si muovono in campo lungo. Se regia e fotografia (di Rafael Pacheco) sono di alto livello, le interpretazioni sono a dir poco eccezionali. Gian Maria Volonté è spettacolare, sia nel ruolo di debole sia in quello di tiranno. La bravura del piemontese è talmente eccelsa da adombrare Tomas Milian, non certo il primo arrivato in fatto di carisma. Tra i due peraltro si verificano non pochi screzi sul set. Finiscono addirittura per prendersi a cazzotti, in contrasto per ragioni politiche oltre che per ragioni di protagonismo (entrambi rivendicano il ruolo da primo attore). Alla fine, complice la sceneggiatura, Volonté ha la meglio sul collega, tanto che Tomas Milian dirà sempre di non apprezzare il film (peraltro sollevando giustificazioni sostenibili che criticano lo sviluppo poco bilanciato della personalità del suo personaggio). A fare da arbitro troviamo il professionale William Berger, qua al suo primo importante spaghettiwestern. Nato in Austria nel 1928 e proveniente da un pugno di film di scarso successo, girati tra il '65 e il '67, l'attore biondo si ritaglierà un ruolo sempre più crescente ricoprendo spesso ruoli da antagonista. Dotato di un'espressività non certo marcata controbilanciata dalla prestanza fisica, Berger sarà coinvolto in una sterminata serie di film di genere (circa cento), compresi quelli dal budget risibile (collaborerà svariate volte anche con Jess Franco), non sempre all'altezza delle aspettative ma con punte quali i thriller Cinque Bambole per la Luna d'Agosto (1970) di Mario Bava, e Mio Caro Assassino di Tonino Valerii nonché i western Oggi a Me... Domani a Te! (1967) di Tonino Cervi e Keoma (1976) di Enzo Castellari. Coinvolto negli anni '70 in una vicenda giudiziaria poco piacevole - sarà arrestato, insieme alla moglie (che morirà mentre è detenuta in 633 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

un ospedale psichiatrico giudiziario), per detenzione di sostanze stupefacenti - supererà il momento di crisi per tornare a cavalcare la cresta dell'onda negli anni '80 quando si tenterà di rianimare il western all'italiana con Tex e il Signore degli Abissi (1985) di Duccio Tessari e Django 2 (1987) di Rossati. Morirà a sessantacinque anni, nel 1993, nella sua Austria, senza aver mai abbandonato la carriera di attore; lo si ricorda infatti anche negli ultimi (mediocri) horror made in Italy: Maya (1989) e il più qualitativo Nel Nido del Ragno (1988). La performance di Berger in Faccia a Faccia non è paragonabile a quelle magistrali dei due protagonisti, ma aggiunge un quid che di certo non guasta. Poco più che caratteristi tutti gli altri, tra i quali si segnalano i soliti Federico Boido, nei panni di un cattivo di secondo piano, e José Torres. Alla colonna sonora non poteva mancare Ennio Morricone, presenza costante nei western di Grimaldi, il quale realizza una soundtrack che ha il suo tradizionale marchio fatto di percussioni e voce soprana di leoniana memoria ad accompagnare le note. Un film dunque che aveva tutto per contendere a Leone le prime posizioni di un'ipotetica graduatoria, ma che non viene sfruttato al massimo delle potenzialità per delle sbavatura di sceneggiatura (soprattutto attribuibili a un non perfetto sviluppo del personaggio di Milian) e un primo tempo troppo lento. In ogni caso un must be per ogni appassionato e non solo, come afferma Tom Betts: “Uno dei migliori western psicologici mai fatti!” Marco Giusti si pronuncia in modo assai eloquente: “Nella visione di allora, una specie di capolavoro insuperabile.” Eppure il film non riscuote grande successo al momento della sua uscita, ma la critica spende parole di elogio per l'impegno filosofico e politico messo in campo dal regista. Donati tuttavia, come abbia detto, ne prende le distanze, e rivela: “Sollima è più colto di Leone, è uno che ha letto molto. Leone ha una cultura visiva, è un grande cinefilo, potrebbe ricostruire a memoria la sceneggiatura di Vera Cruz e dei Magnifici Sette. Ma io detesto le enunciazioni di principio nei film e poi non credo che ideologia e western vadano d'accordo.” Enunciazione quest'ultima che il sottoscritto non condivide affatto. Sebbene subordinato a La Resa dei Conti, è presente in alta posizione nelle classifiche di gradimento di diversi appassionati. Decimo 634 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

per spaghetti-western.net, undicesimo per 800spaghettiwesterns.blogspot.it, quattordicesimo per Howard Hughes, non lo citano Quentin Tarantino e Alex Cox. Ne fa un'ottima analisi spaghettiwestern.altervista.org, il quale, dopo averne suggerito l'acquisto, scrive: “Sollima analizza la complessità dell'animo e della mente umana, infatti il personaggio di Volontè ci fa vedere quanto letale possa essere una mente assetata di potere, con in più un'intelligenza e una cultura. E quanto sia sottile la linea tra un criminale e un uomo apparentemente considerato normale”. Solo tre stelle per filmtv.it che lamenta la mancanza di profondità e respiro epico. Parole dolci pure dal Morandini, il quale si trova costretto a dare tre stelle. Bando alle ciance, come diceva un noto venditore dei mercati livornesi, “frugatevi” e compratevi il dvd per la vostra collezione cinematografica. Per gli amanti delle citazioni: “La gente parlerà molto di come siamo stati cavallereschi con le donne e poco di quello che abbiamo rubato: è così che nascono le leggende”. Dicembre come al solito è periodo di grandi western. Anticipato da Faccia a Faccia, esce un poker assai interessante. Abbiamo già parlato de I Giorni dell'Ira di Tonino Valerii, vediamo ora in sequenza le schede degli altri tre, tutti nelle sale nelle ultime due settimane del mese. L’UOMO, L’ORGOGLIO, LA VENDETTA Produzione: Italia-Germania, 1967. Produttore: Luigi Rovere (Regal Film), Giulio Sbarigia (Fono Roma), Costantin Film. Regia: Luigi Bazzoni. Soggetto: Prosper Mérimée (dalla Carmen). Sceneg.: Luigi Bazzoni, Suso Cecchi D’Amico. Interpreti Principali: Franco Nero, Tina Aumont, Klaus Kinski, Guido Lollobrigida (Lee Burton), Franco Ressel, Alberto Dell’Acqua. Fotografia: Camillo Bazzoni. Musiche: Carlo Rustichelli. 635 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Sottogenere: Melodramma. Durata 99 min. Giudizio Mancini: **1/2 Giudizio Morandini: ** La trama Il giovane brigadiere José (Nero) perde la testa per Carmen (Tina Aumont), una sbandata gitana che vive di truffe e prostituzione. Colto in un bordello in attesa della donna, l’uomo uccide un superiore (Ressel) in una colluttazione in cui viene ferito da una coltellata. Ricercato in tutta la Spagna, viene accolto da un gruppo di contrabbandieri amici di Carmen che lo rimettono in sesto. I due pianificano la fuga dalla Spagna e per farlo contano di compiere una rapina in modo da racimolare i soldi necessari. I loro propositi vengono tuttavia minacciati da una novità inattesa: Carmen non è una ragazza libera, ma è sposata con Garcia (Kinski), un assassino da poco uscito dal carcere e aggregato alla banda ormai pronta a eseguire il colpo ideato da José. I piani vengono così frustrati dall’ira violenta di Garcia e dalle continue bugie di Carmen che pare essersi invaghita di un torero. Commento Film strano questo L’Uomo, l’Orgoglio, la Vendetta che può essere definito un western solo analizzandone l’anima intrinseca. La storia è ambientata nella Spagna ottocentesca, ma ha una spiccata anima western rappresentata dalle location desertiche (il film è girato in Almeria) e dai personaggi che si muovono a bordo di carovane o in sella a cavalli lanciati nella polvere, tenendo in pugno colt pronte all'uso. L'entrata in scena di Klaus Kinski suggella infine tale identità, con una parte centrale in cui si assiste all’assalto di una diligenza e a un duello tra Kinski e Nero armati entrambi di coltello. È per questa atmosfera dunque che l’opera viene inserita nell’elenco dei western di produzione italiana. Decisione quest'ultima pretesa dagli stessi produttori, tra cui Sbarigia (reduce dai western di Ferroni e di Stegani), i quali, per eliminare ogni dubbio, presentano un manifesto con Franco Nero costretto a indossare un cappello da cowboy. I produttori vogliono sfruttare l'intelaiatura western per attirare spettatori; in Germania, addirittura, distribuiscono il film col titolo Mit Django Kam der Tod. Nonostante le intenzioni, non arrivano i risultati sperati. Il pubblico si aspetta un western tutto sparatorie e duelli, ma si ritrova al cospetto 636 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

di una pellicola lenta, ambientata in Spagna e improntata sulla passione di un uomo nei confronti di una donna ribelle. Inevitabile il flop sia in termini economici sia di critica, con stroncature inferte dai ben pensanti di casa nostra. Vista oggi, però, la pellicola può definirsi un intelligente e originale tentativo di unire un genere popolare (il western) al melodramma classico, in una sintesi in grado di intrattenere un pubblico più variegato rispetto agli afecionados tradizionali, tanto da poter coinvolgere anche un pubblico femminile. Non è un caso se la sceneggiatura porti la firma di due autori di estrazione culturale completamente diversa. Da un lato abbiamo Luigi Bazzoni, regista colto con la passione per il cinema di genere, fondamentale nelle scene d'azione e nel dare l'impostazione onirica ad alcune scene; dall’altro Suso Cecchi D’Amico, sceneggiatrice cinquantatreenne specializzata in script d’autore agli ordini dei vari Fellini, Visconti, Antonioni e Mauro Bolognini. Un connubio inusuale da cui deriva un film piuttosto bizzarro, incentrato sul rapporto ambiguo e burrascoso che lega i due protagonisti. Tutto ruota attorno all’amore cieco e ostinato che porta il brigadiere interpretato da Nero a compiere azioni di ogni sorta, in onore di una donna che non lo ama e che gioca coi sentimenti altrui. Ecco che lo vediamo lasciar fuggire un’indiziata, poi far passare un gruppo di contrabbandieri non autorizzati e infine assassinare un ufficiale dandosi fino alla vita di brigante. Ogni delitto ha il suo movente nel sentimento che l'uomo prova per Carmen; una passione che sconfina in un’ossessione morbosa che lo porterà a ripudiare gli ideali in cui aveva sempre creduto e a non vedere ciò è ovvio per tutti. “Sai benissimo che Carmen non verrà. Anche il patto che ha fatto con loro è per due, cerca di fartene una ragione. José, perché vuoi rovinarti per una sudicia prostituta? La tua è una malattia!” dice all’ex brigadiere uno dei contrabbandieri con cui José ha rapinato la diligenza, proponendogli di salpare insieme col denaro rubato verso il Sud America, ma l’ex brigadiere è sordo a ogni avvertimento e rinuncia al denaro pur di correre dalla sua amata. Il soggetto, palesemente ripreso dalla Carmen di Prosper Mérimée, si sviluppa in modo lento ma funzionale alla causa. Non siamo al cospetto di un film di intrattenimento, ma di un dramma che tratteggia assai bene la parabola di un uomo avviatosi lungo un cammino destinato a sfociare nella tragedia. Non sono casuali i continui primi piani che Bazzoni stringe sul 637 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sole, fino a inquadrarlo mentre scompare oltre le sagome delle montagne. La scelta registica può essere interpretata come un modo metaforico di rappresentare una passione destinata a soffocarsi proprio oltre quell’orizzonte (l’America dove i due avrebbero dovuto iniziare la loro vita) che avrebbe invece dovuto rappresentare il coronamento di ogni piano. “Non l’ho mai voluto il tuo nuovo mondo. Non ti ho mai amato, José, e ora non mi diverti più” sono le parole con cui Carmen stronca ogni sogno del protagonista; un uomo che ha vissuto di illusioni, senza mai saperlo, e che troverà la pace eterna solo allo svanire delle stesse. Dietro alla macchina da presa, come abbiamo già anticipato, troviamo Luigi Bazzoni. Classe 1929, Bazzoni è un regista da rivalutare, seppure con una filmografia ridotta all’osso. Qui lo troviamo alle prese con la sua seconda pellicola, dopo il giallo autoriale La Donna del Lago (1965) e alcune collaborazioni da aiuto di Mauro Bolognini. Dotato di grande gusto, Bazzoni si distinguerà per i suoi tagli allucinati e l’indubbio stile onirico, caratteristiche che lo renderanno unico e che lo porteranno a toccare il suo apice nello splendido e bizzarrissimo thriller Le Orme (1975). Sarà tuttavia ricordato per opere più convenzionali e meno riuscite, tra le quali lo spaghetti-thriller Giornata Nera per l’Ariete (1971) dove ridurrà i suoi esperimenti a beneficio di un'impostazione commerciale. L'estro visionario di Bazzoni non tarda a manifestarsi anche ne L’Uomo, l’Orgoglio, la Vendetta, con giochi di messa a fuoco e una regia a tratti nervosa. La macchina da presa ondeggia spesso, a simulare le folli corse dei protagonisti. Curioso, e legato a un’interpretazione metaforica che abbiamo già analizzato, il continuo soffermarsi sul sole (a partire dalla prima inquadratura). Lo vediamo sia in primo piano sia in background, a fungere da sfondo su cui si stagliano i profili oscuri dei viandanti. Bazzoni ripeterà questo espediente proprio ne Le Orme sostituendo però il sole con la luna. Sotto il profilo della regia è degna di nota la sequenza conclusiva, dove si riesce magistralmente a unire il pathos di un inseguimento (con le soggettive del protagonista che cerca disperato di raggiungere l’oceano), alla poetica più pura, con l'oceano a simboleggiare la libertà. Per quel che concerne il cast artistico troviamo un gruppo di attori collaudati. Torna in Italia, dopo Camelot, Franco Nero, che si sdoppia in un duplice ruolo. Dapprima è assai “leccato” nelle vesti di un uomo 638 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

di legge, poi torna a vestire i più congeniali panni western. C'è inoltre il tetro e sadico Klaus Kinski, ancora una volta magnifico nei panni di una canaglia da antologia. La principale parte femminile va alla ventunenne figlia d’arte Tina Aumont. Sua madre era l’attrice domenicana Maria Montez, mentre il padre era l’attore parigino Jean-Pierre Aumont. La Aumont è qui alle prime esperienze professionali, ma è già spigliata sebbene venga costretta a recitare in vesti castigatissime. Aspetto quest'ultimo che costituisce un limite (tra l'altro la pellicola è pure vietata ai minori di quattordici anni), poiché sarebbe stato preferibile sfruttare le curve dell'attrice in modo da aggiungere un pizzico di eros che non avrebbe di certo guastato. Proseguirà in seguito sotto la direzione di maestri quali Tinto Brass, Alberto Sordi, Bernardo Bertolucci, Luigi Comencini, ma anche in B-Movie di culto come Arcana di Giulio Questi e I Corpi Presentano Tracce di Violenza Carnale di Sergio Martino. Completano il cast caratteristi del calibro di Guido Lollobrigida (volto ricorrente nello spaghetti western) e Franco Ressel, con quest’ultimo ridotto a un mero cammeo. Deludente la fotografia di Camillo Bazzoni, fratello del regista, qui alla prima esperienza da addetto alla fotografia (proseguirà in questa attività fino al 2000), dopo aver iniziato la carriera da operatore e averla proseguita come regista con quattro lungometraggi considerati positivamente dalla critica ma incapaci di assumere l’aura di cult. Si segnala infine la presenza di due importanti nomi della filmografia italiana. In qualità di aiuto regista abbiamo Francesco Barilli, ex attore con un ruolo chiave nel film di Bertolucci Prima della Rivoluzione (1964) nonché futuro sceneggiatore di cult quali il thriller Chi l’Ha Vista Morire di Lado o del precursore dei cannibal movie Il Paese del Sesso Selvaggio di Lenzi nonché regista de Il Profumo della Signora in Nero (1973), un horror cupo dalle atmosfere “polaskiane” e dotato di un finale delirante e “malato” che lo renderà uno dei film più coraggiosi e truculenti dei primi anni ’70. Girerà poi un altro horror di minor fascino: Pensione Paura (1977). Più importante di Barilli è il nome di Vittorio Storaro, all’epoca un ventisettenne chiamato a farsi le ossa come operatore di macchina ma in seguito capace di affermarsi a livello mondiale tra i più grandi addetti alla fotografia. Innumerevoli, infatti, i riconoscimenti che culmineranno nella vittoria dell’oscar per la miglior fotografia, con il capolavoro di Francis Ford Coppola Apocalypse Now (1979), bissato 639 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

con Reds (1981) e con L’Ultimo Imperatore (1987). Premi a cui faranno seguito le nomination sia all’oscar (Dick Tracy nel 1990) che al David di Donatello (Caravaggio nel 2009), nonché altri successi conseguiti al Festival di Cannes (nel 1998 con Tango) e riconoscimenti quali il Nastro d'Argento del 1970 (con Giovinezze, Giovinezza). Firmerà inoltre la fotografia di indiscussi capolavori mondiali quali Ultimo Tango a Parigi (1972) e di masterpiece di genere come L'Uccello dalle Piume di Cristallo che segnerà il debutto alla regia di Dario Argento. È opportuno ricordare, per dovere di completezza, che il rapporto di parentela che lega Storaro a Bazzoni (cugini) porterà i due a collaborare anche nei successivi film del regista. Niente di particolare da evidenziare in relazione alle musiche di Rustichelli, piuttosto anonime. Marco Giusti inizia la sua recensione dicendo di aver adorato il film per anni. Amatissimo anche da Franco Nero, il quale si duole perché i produttori vollero a tutti i modi distribuirlo come western, decisione questa, ad avviso dell'attore, penalizzante ai botteghini. Lo spagnolo Carlos Aguilar lo segnala tra i migliori adattamenti della Carmen, sospeso tra noir e western. Diametralmente opposta l'opinione del Morandini, per il quale il lavoro di Bazzoni si classifica nelle ultime posizioni tra tutti gli adattamenti (circa una trentina) dell'opera di Mérimée. Non lo annoverano nei loro siti i blogger stranieri, eccetto il portoghese por-um-punhado-de-euros.blogspot.pt il quale premette di non reputarlo un western e aggiunge di ritenerlo non entusiasmante, a causa della poca azione e di una certa ripetitività nello sviluppo della storia. Sulla premessa citata è conforme Spaghettiwestern.altervista.org, anche se poi il giudizio finale è di ben altro tenore: pellicola interessante per la bella storia drammaturgica e psicologica. Lodi generali per gli attori, da cui si dissocia filmtv.it (due stelle) il quale scrive di non ritenere eccelse le prove di Franco Nero e di Luigi Bazzoni alla regia. Ad avviso di chi scrive siamo davanti a una pellicola meritevole di maggior rispetto, sia per la vena quasi teatrale che la caratterizza, sia per gli importanti nomi che le hanno dato vita. Dunque uno pseudowestern malinconico, disperato, con ambizioni da cinema d’autore. Da vedere.

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PER 100.000 DOLLARI T'AMMAZZO Produzione: Italia, 1967. Prodotto: Mino Loy, Luciano Martino (Zenith Cinematografica), Vittorio Martino e Leo Cevenini (Flora Films). Regia: Giovanni Fago (Sidney Lean). Soggetto: Sergio Martino. Sceneggiatura: Ernesto Gastaldi, Sergio Martino, Luciano Martino. Interpreti Principali: Gianni Garko (Gary Hudson), Claudio Camaso, Piero Lulli, Claudie Lange, Fernando Sancho, Susana Martinkova. Fotografia: Federico Zanni. Musiche: Nora Orlandi. Sottogenere: Bounty killer. Durata 94 min. Giudizio Mancini: *** Giudizio Morandini: ** La trama John, bounty killer (Garko) reduce da dieci anni di prigione per l'assassinio del padre, vaga alla ricerca del fratello (Camaso) colpevole di averlo incastrato per la morte del vecchio. È stato proprio quest'ultimo, per gelosia, ad assassinare il padre costringendo John a perdere la propria amata (Martinkova) e a scontare una pena ingiusta in carcere. Un giorno, dopo aver riscosso le taglie di un manipolo di briganti guidati da un messicano (Sancho), John trova esposta la taglia del fratello. Clint, questo il nome dell'uomo, è diventato un sanguinario assassino al soldo di un pericoloso bandito, Jurado (Lulli). L'avidità di Clint, però, lo porterà a scontrarsi con Jurado e tutta la banda per mettere le mani su un carico d'oro, intanto il fratello si metterà sulle sue tracce per assicurarlo alla legge. Il commento Film definito il gemello di 10,000 Dollari per un Massacro, opera uscita qualche mese prima, per la medesima produzione e con gli stessi attori, ma con un regista diverso. Il duo Loy-Martino, al posto di Guerrieri, lancia Giovanni Fago, al debutto assoluto dietro la macchina da presa dopo gli apprezzamenti ottenuti quale aiuto di Monicelli, Vittorio De Sica, Mastrocinque e soprattutto di Lucio Fulci, con cui 641 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

aveva collaborato in dieci film (molti dei quali della coppia Franco & Ciccio) ivi compreso Le Colt Cantarono la Morte... E Fu Tempo di Massacro (1966). Considerato da molti un regista con velleità autoriali, Fago girerà altri due western, tra i quali il folle O'Cangaceiro (1969), oltre al poliziottesco di nicchia Fatevi Vivi: La Polizia non Interverrà (1974), definito da Roberto Poppi di buona fattura, e un banale fotoromanzo affidato all'interpretazione di Domenico Modugno. Dagli anni '80 passerà alla tv, ripresentandosi al cinema solo nel nuovo millennio. L'approccio di Fago al western è piuttosto originale e vicino ai toni melò di impronta ispanica. Fago aumenta il taglio romantico che già si respirava nella pellicola di Guerrieri e regala sequenze memorabili per la loro componente poetica. Offre il meglio di sé nella prima parte della pellicola, grazie a flashback intrisi di una vena struggente che solo Leone, in pellicole come C'era una Volta il West e in particolare Giù la Testa, riuscirà a riproporre. Si tratta di spaccati onirici dove domina il romanticismo decadente. Vediamo il protagonista ricordare il suo primo amore, con il piano americano della bellissima cecoslovacca Susana Martinkova che, dalla battigia, osserva la macchina da presa per sparire in dissolvenza, con l'inquadratura che indugia sulle orme impresse nella sabbia, a poco a poco, cancellate dalle onde. Un momento poetico che sarà eguagliato da un epilogo in cui il protagonista sognerà, nel delirio premorte, di tornare alla serenità che aveva accompagnato la sua giovinezza, prima che il fratello rovinasse tutto a causa della gelosia. Notevoli le scelte registiche di Fago, il quale ricorre a carrellate che partono da un contesto generale per scivolare sul particolare. Purtroppo lo script non è ben bilanciato e l'alone cupo, pessimista e romantico che caratterizza la prima parte (bellissimi alcuni dialoghi, scritti peraltro dal futuro regista Sergio Martino e dal grande Ernesto Gastaldi) tende a ridimensionarsi col passare dei minuti. La storia finisce per l'assumere i tratti convenzionali del revenge movie, con regolamento di conti tra membri della stessa famiglia. Non mancano tuttavia i rimandi al mondo leoniano, rappresentati dalla truce tortura ai danni del bounty killer, solito ad andarsene in giro a staccare taglie dalle pareti; ovvero dal vecchietto che se ne sta rintanato in una città semi-fantasma a dispensare aneddoti. Viene infine ripresa da Il Buono, il Brutto, il Cattivo la tematica della guerra (che porta distruzione non solo tra i soldati, ma anche tra gli innocenti, con un bimbo 642 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

morto tra le braccia della madre) in mezzo alla quale agiscono i protagonisti. Peccato davvero, perché la prima mezz'ora è degna di un grande western e si apre con un prologo da antologia dai toni spacconi. Garko è nascosto all'interno di una delle tre bare presenti in una Chiesa diroccata (con tanto di ragnatele). Sulle superfici di ciascuna cassa da morto è affissa la taglia di uno dei tre uomini che vediamo entrare nella Chiesa armati di pistola. Il nostro uscirà da una delle bare e farà secchi gli avversari. Niente male... Al di là di queste sequenze, Gastaldi e Sergio Martino (qui in una delle sue primissime sceneggiature) fanno un gran lavoro sui dialoghi, tutti conditi da uno spiccato pessimismo. Degno di nota è il colloquio tra Gianni Garko e Claudie Lange, con quest'ultima che interpreta la vedova innamorata del bounty killer. “Dimentica tutto” gli dice la donna, ma Garko le risponde “il passato, anche se cerchiamo di dimenticarlo, è come una vecchia ferita e le ferite tornano a far male, di tanto in tanto.” La donna allora lo guarda e riprende con maggior convinzione: “Lei non ha saputo aspettarti, John, io ti amo anche se tu non mi ami e in qualunque momento mi vuoi io sarò qui e vedrai che saprò fartela dimenticare”. Il pistolero allora, con voce mesta, sussurra: “Tu ci riesci sempre, Annie, almeno per un po', ma è troppo tardi per ricominciare”. Ne viene dunque fuori un eroe perdente, infelice, che ha poco della spavalderia del bounty killer leoniano e che vive in funzione della vendetta, continuamente braccato dal rimpianto delle occasioni perdute e di quello che sarebbe stato se le cose fossero andate diversamente. Un personaggio vicino al Django di Corbucci, piuttosto che ai personaggi di Leone, e che è addirittura tormentato, oltre dalla perdita della donna che amava, dal tradimento del fratello. Rispetto al film di Corbucci inoltre la malinconia avvolge ulteriori personaggi. Tra questi c'è la donna che ama il protagonista, ma che non viene e che per lui finirà col suicidarsi. Eloquente poi il pianto di una madre che muore di crepacuore per le scorribande del figlio, e ancora un medico che, curando i soldati, arriva a dire che “la morte, a volte, è una liberazione”. Qualitativo e ricco di specialisti il cast artistico. Al fianco dei due bravi protagonisti (Garko e Camaso), compaiono i cammei di Fernando Sancho e di Piero Lulli. In particolare si distingue Claudio Camaso, qui in uno dei suoi primi film. L'attore tratteggia un personaggio piuttosto sopra le righe, caratteristica che accompagnerà molti dei suoi 643 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ruoli, quasi sempre da antagonista. Completa il cast Claudie Lange, qui decisamente convincente e con alle spalle partecipazioni ne La Bibbia di Huston e ne I Complessi di Risi. Comparirà in seguito, tra gli altri, nel western Quel Caldo Maledetto Giorno di Fuoco (Bianchini, 1968) e nell'interessante thriller di Luciano Ercoli La Morte Cammina con i Tacchi Alti (1971). Agrodolce la colonna sonora di Nora Orlandi (800spaghettiwesterns.blogspot.it le da nove in pagella, giudicandola la migliore in assoluto tra tutte quelle composte dall'Orlandi), artista a tutto tondo che ha saputo distinguersi nei ruoli di cantante, compositrice, violinista, autrice di testi di canzoni (soprattutto di Armando Trovajoli) e pianista. Conosciuta al grande pubblico per il gruppo vocale “Quartetto Orlandi”, dalla stessa fondato negli anni '50, impegnato in molte trasmissioni radiofoniche e televisive, ma anche a San Remo e in sala di incisione a supporto di innumerevoli cantanti tra cui Lucio Dalla, Domenico Modugno e Nicola Di Bari. L'Orlandi si ritaglierà un'aura di culto per la realizzazioni di alcune colonne sonore di grido. Premiata nel 1966 con il premio delle critica per la miglior colonna sonora di film western (con Johnny Yuma), toccherà il top musicando il thriller di Sergio Martino Lo Strano Vizio della Signora Wardh (1971) con un main theme rispolverato da Tarantino per Kill Bill Vol.2. In definitiva Per 100.000 Dollari T'Ammazzo è un buon film che sarebbe potuto diventare eccellente se si fossero sviluppati meglio i flashback (in particolare quelli relativi alla ragazza perduta dal protagonista e che rivive solo nel ricordo) piuttosto che scegliere una via più commerciale. All'epoca fu un mezzo fiasco. Fago fu criticato oltre dai giornali anche dai produttori, che lo accuseranno di essere troppo intellettuale per il genere, opinione che il sottoscritto non condivide affatto. Marco Giusti ricorda il film come un western psicoanalitico. Antonio Bruschini, per l'alta componente romantica, lo preferisce a 10.000 Dollari per un Massacro, ma è tra i pochi a pensarla in questo modo. Tra questi c'è 800spaghettiwesterns.blogspot.it che esalta il film (“è ben al di sopra della media”) per la sua malinconia crepuscolare e per lo sviluppo non lineare della storia. Lodi infine per la fotografia di Federico Zanni. Riuscito soltanto in parte per il Morandini che affibbia le canoniche due stelle, lamentandosi dei troppi flashback; opinione quest'ultima sottolineata pure da spaghettiwestern.altervista.org. 644 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Addirittura delirante per filmtv.it. Per il sottoscritto vale almeno una visione. Consigliatissimo agli amanti dei western melò. SENTENZA DI MORTE Produzione: Italia, 1967. Prodotto: Sandro Bolchi e Mario Lanfranchi (Bl Vision). Regia Mario Lanfranchi. Soggetto e sceneggiatura: Mario Lanfranchi. Interpreti Principali: Robin Clarke, Tomas Milian, Enrico Maria Salerno, Richard Conte, Adolfo Celi, Luciano Rossi, Monica Pardo, Eleonora Brown. Fotografia: Toni Secchi. Musiche: Gianni Ferrio. Sottogenere: Revenge Movie. Durata 95 min. Giudizio Mancini: *** Giudizio Morandini: Non Trovato. La trama Il giovane Cash (Clarke), pistolero che degusta latte al posto dei liquori, vaga per il west alla ricerca dei quattro assassini del fratello, un furfante che aveva cercato di tradire i compagni di banda. I quattro, dopo aver spartito il bottino del loro ultimo colpo, si sono separati e vivono l’uno lontano dall’altro, attorniati da uomini al loro servizio. Il primo a esser trovato è Diaz (Conte), che ha impegnato i soldi per comprarsi una fattoria e dedicarsi al lavoro dei campi. Il secondo è un giocatore di poker (Salerno) che si diverte a soffiare i soldi ai poveracci della sua cittadina. Il terzo è un fondamentalista religioso (Celi) che tiene sotto scacco il paese in cui vive, mentre il quarto è un albino (Milian) schizoide con la passione ossessiva per l’oro e le bionde. Commento Curiosa incursione nel cinema di genere di un regista dai gusti poliedrici (dall'arte allo sport, importante proprietario di levrieri e cavalli da corsa, alcuni dei quali affidati alle cure di allenatori pisani, 645 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

con molteplici premi vinti in giro per il mondo al punto da essere definito lo Sceicco Mohammed di cani da corsa), specializzato in opere liriche e teatrali. Noto collezionista di libri, quadri e sculture (si dice che la sua collezione fosse una delle più importanti del dopoguerra), al punto da essere citato da Vittorio Sgarbi, il quale di lui dirà: “c'è in lui un che di cerimonioso e di beffardo insieme, come il residuo di una maschera mondana che non riesco a capire fino in fondo.” Lanfranchi è tuttora ricordato per esser stato il primo a portare l'opera lirica sul piccolo schermo, con Madama Butterfly (1956) di Puccini. Non va confuso, come invece fa Marco Giusti nel Dizionario del Western all'Italiana, col Mario Lanfranchi già apparso in piccoli ruoli da attore in Navajo Joe e Uno Sceriffo Tutto d’Oro, Reduce da una serie di film opera, Mario Lanfranchi decide di entrare nel cinema di genere proprio con Sentenza di Morte. Aiutato da quel Sandro Bolchi con cui era solito produrre caroselli, scrive, dirige e produce il film. L'intenzione è quella di sfruttare il western per poter passare a territori più intellettuali, operazione che non gli riuscirà. Girerà altri quattro film, tra cui il mediocre western metropolitano Genova a Mano Armata (1976). Non si interesserà più al western, sebbene Sentenza di Morte sia il suo miglior film. Autore di impronta aulica col gusto per la seduzione femminile, Lanfranchi trasmette la sua bizzarra personalità alla sceneggiatura. Questa assume atmosfere e dettagli atipici ai tradizionali western. Salta subito agli occhi come il soggetto sia avulso dall'ambientazione western. Ciò che viene proposto è un revenge movie (la sentenza di morte è quella decretata dal protagonista nei confronti dei quattro antagonisti) sullo stile di quel Kill Bill che frutterà incassi stratosferici a Quentin Tarantino. Eloquente è il sottotitolo scelto da Lanfranchi e Bolchi: Lo Chiamavano il Castigo di Dio... E di fatti qua tutto è incentrato sulla vendetta, con una sceneggiatura a tratti abbozzata e un pistolero che pare avere un'aura trascendente. A eccellere è l'impatto visivo, per merito di una fotografia molto colorata, curata da Antonio Secchi già direttore della fotografia di Un Dollaro Bucato, Wanted e Quien Sabe? e che qua supera sé stesso. Lanfranchi, dal canto suo, sfrutta al massimo le bellissime e variegate ambientazioni spagnole. Come definire, se non spettacolari, le dune iniziali in cui si confrontano Clarke e Conte? Non da meno è il cimitero, immerso in mezzo alle rovine, in cui si svolge l’epilogo tra Clarke e Milian. 646 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

La bravura del regista emerge pure nella messa in scena, spesso condita da pennellate oniriche. Ne è un esempio la scena in cui Adolfo Celi si posiziona, in sella al cavallo, sotto ai due bastoni infuocati che due uomini tengono protesi verso il cielo. Belli poi taluni movimenti di macchina, tra i quali la ripresa dall’alto a conclusione dell’episodio con Enrico Maria Salerno. Il limite del film è costituito da una troppo marcata farraginosità. Lo script è strutturato in quattro episodi indipendenti l’uno dall’altro e tenuti insieme dal legame pregresso che univa i personaggi coinvolti. Il protagonista giungerà al cospetto di ciascuno di loro, uccidendoli come se ogni vendetta costituisse il soggetto di un distinto cortometraggio. Addirittura nell'ultimo confronto Clarke non mostrerà alcuna ferita, sebbene nell'episodio precedente ne avesse subite in quantità. Non convince appieno neppure il montaggio di Franco Attenni, visto che ci sono molte parti in cui si passa da una scena all’altra in modo improvviso e spiazzante. Se questi sono i difetti, è incontestabile l’ottimo lavoro eseguito da Lanfranchi nella caratterizzazione degli antagonisti e del protagonista. Troviamo, infatti, cinque personaggi decisamente sopra le righe, tra cui spiccano le figure dell’albino, ottimamente interpretato da un Tomas Milian che sostiene di aver partecipato alla caratterizzazione fin dalla fase di scrittura, e del fondamentalista religioso interpretato da Celi. Non male, anche se meno originale, la caratterizzazione del protagonista che viene presentato come un vendicatore disilluso (rifiuta due donne e vive per la vendetta) che gioca al gatto col topo. Agisce ponendo sotto pressione costante l'avversario di turno, fa eccezione il religioso, facendo leva sulle debolezze dello stesso in modo da portarlo all’esasperazione. Il suo è un ruolo che sembra ultraterreno, una sorta di incarnazione dello spirito ritornante dell’uomo ucciso dai quattro. Sono le affermazioni delle vittime a farcelo intendere: “C'è qualcosa di strano in lui, le pallottole gli passano vicino e non lo toccano!”; ma soprattutto l’epilogo, in cui il protagonista appare dall’interno della tomba del fratello e spara all’albino. Sulla stessa falsa riga è il bellissimo dialogo tra il protagonista e la ragazza bionda dallo stesso ingaggiata per stuzzicare il palato dell’albino: Ragazza: “”Perché fai tutto questo?” Cash: “Perché debbo farlo.” Ragazza: “E non c’è altro per te?” 647 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

si”.

Cash: “Cosa ci può essere? No, non c’è altro, finché non avrò finito.” Ragazza: “Ma poi?” Cash: “Il futuro non ha importanza e qui non c’è futuro.” Ragazza: “Perché non te ne vai?” Cash: “Quando avrò finito e nemmeno allora, sono uno di questi sas-

Lanfranchi da infine dimostrazione di apprezzare il cinema bis, introducendo una scena pulp. Vediamo il protagonista, ormai senza munizioni, confezionare una cartuccia unendo il proiettile che gli ha ferito la spalla con un bossolo abbandonato a terra. Molto qualitativo il cast artistico. A parte il debuttante Robin Clarke, qui in veste di protagonista, abbiamo quattro grandi attori impiegati in cammei di venti minuti cadauno. Eccezionale Tomas Milian, alle prese con uno dei suoi primissimi personaggi sopra le righe; il cubano è chiamato a indossare una parrucca e delle ciglia ossigenate, per dar corpo a un pazzo epilettico invaghito delle bionde. Ottimi anche Celi e Salerno, meno interessante la prova di Richard Conte, forse un po’ fuori parte e più appropriato per i poliziotteschi. Non sfigura Robin Clarke (ricorda, per i lineamenti, Malcolm McDowell) a cui viene attribuita la possibilità di mettersi in mostra con un ruolo di primo protagonista ma che, tuttavia, non riuscirà a ottenere quell’attenzione che gli avrebbe permesso di affermarsi nel mondo del cinema. Finirà fagocitato dai serial televisivi americani. Carina la colonna sonora di Gianni Ferrio, anche se non eccelsa. Il film floppa al botteghino, complice una pessima distribuzione. In Italia lo hanno visto in pochi (spaghettiwestern.altervista.org fa eccezione, spendendo un aggettivo come giudizio: strepitoso), lo stesso Marco Giusti confessa di non ricordarlo nei cinema. Situazione diversa all'estero. 800spaghettiwesterns.blogspot.it lo reputa notevole non inserendolo nella sua top ten a causa della colonna sonora definita, da altri blogger, un collage di jazz anni '60. Quarantacinquesimo nella classifica di spaghetti-western.net. Mondo-esoterica.net ne parla come una delle più strane produzioni western. “La regia di Lanfranchi rende il film unico; un mix pazzesco di close up, zoom e carrellate combinate con angoli strani.” Tomas Milian lancia critiche seriali a Lanfranchi, a suo avviso non adatto al genere: “Era troppo sofisticato e quando veniva sul set sembrava camminasse sulla merda... Dopo averlo fatto, non ho mai visto il film!” Dichiarazioni piuttosto sorprendenti, anche perché il buon To648 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

mas regala una delle sue migliori performance, come sostiene Tom Betts. In definitiva un western molto particolare, con all’interno dei momenti interessanti che, con una sceneggiatura meno farraginosa, avrebbero potuto elevarlo a cult. Imperdibile per i cultori delle opere tarantiniane. Per gli amanti delle citazioni: “Eppure ti ho già visto…” “I giocatori si ritrovano sempre, prima o poi…” Completano la stagione tre western minori. Il primo è Non Aspettare Django, Spara! (1967) di Edoardo Mulargia. Ancora una volta, il regista sardo è alle prese con un sequel apocrifo della saga Django (di cui si riprende il solo nome) col solito Ivan Rassimov, accreditato Sean Todd, protagonista. Si tratta di un film gemello di Cjamango (1967) da cui mutua l'intero cast tecnico. Tra gli attori entrano invece Ignazio Spalla e Rada Rassimov. La sceneggiatura, del produttore Vincenzo Musolino, è un revenge movie farraginoso e confusionario. Django e sua sorella intendono vendicare il padre, derubato di 100.000 dollari da un gruppo di banditi assoldati da un misterioso mandante. Le caratterizzazioni sono minime, ci si concentra solo sui duelli (una moltitudine). Mulargia fa del suo meglio nel tratteggiare un'atmosfera infuocata (qualcuno la ritiene persino claustrofobica, per la presenza del consueto paese fantasma), ma i problemi di script, uniti alle scarse location (si gira a Roma) e al modesto budget, compromettono il risultato finale. Lo apprezza Tom Betts per le prove dei fratelli Rassimov e per il buon tasso di azione. Per Marco Giusti è un delirio. Miseria per filmtv.it. Ignorato dai blogger esteri. Western di quarta serie, non tra i peggiori. Migliorano di gran lunga le cose con Professionisti per un Massacro (1967), secondo western (ad avviso di Giusti migliore del primo) di Nando Cicero, fresco de Il Tempo degli Avvoltoi. Dietro al progetto ci sono Oreste Coltellacci e Alfonso Balcàzar. Due nomi di una certa importanza, Coltellacci aveva prodotto Fulci in Le Colt Cantarono la Morte. Cicero dispone così di un discreto budget e di un cast artistico di un certo prestigio: George Hilton, George Mar649 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

tin, Ed Byrnes, José Bodalo e Gerard Herter, tutti già apprezzati nello spaghetti western. Il copione lo stendono gli specialisti Roberto Gianviti, Vincenzo Dell'Aquila e il fratello del produttore, Jaime Jesùs Balcàzar. Si opta per un soggetto assimilabile a western di Castellari, con un trio protagonista coinvolto in una serie di peripezie. In tal veste, al fianco dei soliti Hilton e Byrnes (già avvezzi al sottogenere), si aggiunge lo spagnolo George Martin, attore di fiducia della scuderia Balcàzar. I tre si arruolano nell'esercito sudista col fine di compiere una serie di colpi, ma vengono sorpresi e costretti, pena fucilazione, a svolgere una missione segreta. Il trio è compatto, viene incaricato di recuperare una cassa d'oro rubata da un gruppo di disertori guidati da Gerard Herter. Nell'esecuzione di quanto loro ordinato i nostri dovranno vedersela con i traditori e con una banda di messicani che rispondono agli ordini, ovviamente, di Bodalo (qua mammone e sgridato da una madre con un occhio di vetro). Intanto i tre iniziano a meditare di tenere per sé il carico, mentre il messicano finisce con l'anticiparli. Girandola finale di colpi di scena, come tradizione comanda. Gli sceneggiatori caratterizzano piuttosto bene i personaggi. Hilton, come suo solito sopra le righe, è un ex seminarista che ha il vezzo di dispensare citazioni dalla Bibbia e di nascondervi all'interno dinamite. Byrnes è un ex rapinatore di banche, ormai ritiratosi dall'attività. Martin è un esperto di cavalli. Cicero non lesina in sparatorie, qua assai frequenti, e scandisce un ritmo indiavolato. Marco Giusti lo definisce violentissimo e scanzonato. Apprezzato pure da Weisser che loda Hilton e Byrnes (“funziona meglio che nei film di Castellari”), stroncando invece Martin. Ne sottolinea la bizzarria e l'atipicità, per alcune scene di violenza e per le caratterizzazioni sui generis, spaghettiwestern.altervista.org che ne consiglia la visione. Inferiore a Il Tempo degli Avvoltoi, ma gradevole. Altro western di seconda fascia è Le Due Facce del Dollaro (1967), finanziato dai produttori di Yankee (1966) ma affidato, anziché a Tinto Brass, al sessantenne Roberto Bianchi Montero, di cui parleremo nel terzo volume. Il copione porta le firme dei giovani Alberto Silvestri e Franco Verucci (quest'ultimo scriverà soprattutto copioni comici) e propone un gruppo di banditi che si organizzano per rubare un tesoro custodito 650 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

all'interno di un fortino. Lo sviluppo del soggetto è rocambolesco e complicato, dal sapore noir, e porterà i vari componenti del gruppo a infiltrarsi all'interno del fortino, sotto mentite spoglie, e quindi a contendersi l'oro tra loro, minacciati da terzi soggetti motivati dal medesimo fine. Discreto il cast artistico con nei panni del protagonista Maurice Poli (accreditato come Monty Greenwood), famoso in Francia per il serial Belle e Sebastian (1965) e successivamente coinvolto in gialli quali 5 Bambole per la Luna d'Agosto (1970) e in western di quarta fascia. Ancora una volta presente Gerard Herter, quindi Andra Bosic e Jacques Herlin. Visto da pochissimi, viene apprezzato dal solo Antonio Bruschini. Giusti lo ritiene privo di sangue, vendetta e colori, ma comunque gradevole. Insipido per filmtv.it. Stranamente l'ha visto il Morandini che gli piazza una stella e lo indica tra i peggiori (“sagra del già visto”). 6.6 Le pistolere del western italiano Prima di scendere nell'analisi del sottogenere è opportuno spendere un cenno sulle fonti di ispirazione che hanno stuzzicato la fantasia di registi e sceneggiatori. È innegabile sostenere che nell'immaginario collettivo americano la figura della donna pistolero sia legata essenzialmente a tre personaggi esistiti realmente. La più famosa donna del west, grazie soprattutto alle storie narrate da Buffalo Bill nel suo spettacolo itinerante (la definì “la prima pistolero donna”), è stata sicuramente Calamity Jane, soprannome (affibbiatole da un ufficiale yankee salvato in un'imboscata) di Martha Jane Cannary (1852-1903), amante – più o meno romanzata - del leggendario Wild Bill Hickok, tanto da farsi seppellire accanto alla tomba dello stesso nel South Dakota. L'aura che il cinema e il mondo dei fumetti le costruiranno attorno sarà ben diversa da quella reale. La vera Calamity Jane era una donna alcolizzata (tanto che Buffalo Bill la cacciò perché spesso ubriaca in scena), trasandata, propensa alla menzogna, abile truffatrice e dai tratti somatici grezzi e mascolini. Più che una pistolera era una cavallerizza tuttofare, impegnata soprattutto in ruoli da infermiera e da scout dell'esercito. La metamorfosi plasmata da Hollywood sarà netta, così nel musical Non Sparare, Baciami (1953) di David Butler, la vedremo bionda, snella, con gli occhi azzurri, interpreta651 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ta da Doris Day, diventare sempre più aggraziata fino a superare l'atteggiamento mascolino mostrato a inizio pellicola e attirare l'attenzione degli uomini. Ben diverso è anche l'atteggiamento comportamentale trasposto sulla pellicola. La Calamity Jane del mondo dello spettacolo sarà una vera e propria eroina, coraggiosa, abile nell'uso delle armi, ben più di quanto fosse nella realtà, e soprattutto sarà una sorta di femme fatale (quando invece era l'esatto contrario). Di ben altro spessore fu invece il ruolo di un'altra donna: Belle Starr (1848-1889), definita dal giornalista del Police Gazette, Richard K. Fox, “la regina dei banditi”. A differenza di Calamity Jane, Belle Starr fu davvero un personaggio dai contorni cinematografici al punto da assumere il controllo di un gruppo di ladri di bestiame e da mettere assegno una serie di rapine finendo spesso sulle prime pagine dei giornali dell'epoca. L'ardore e la determinazione che la caratterizzavano la portarono addirittura ad avere una lunga sequela di mariti e ad abbandonare un'agiata vita da borghese (aveva frequentato l'accademia femminile) per il gusto del brivido e del proibito. Anche lei finì nel Wild West Show di Buffalo Bill, prima di essere assassinata, a soli quarantuno anni, da ignoti in un'imboscata (probabilmente uno dei suoi tanti amanti gelosi). Il suo fascino, come inevitabile che fosse, giungerà a Hollywood dipanandosi in svariati western a partire da Belle Starr (1941) e proseguendo con La Figlia di Belle Starr (1946) e con La Regina dei Desperados (1952) di Allan Dwan, in cui le darà corpo Jane Russel. Terzo e ultimo personaggio femminile ad aver stimolato la fantasia dei cowboy è quello costituito da Annie Oakley (1860-1926), meglio conosciuta col soprannome, datole da Toro Seduto, “Piccolo colpo sicuro” per le incredibili qualità balistiche nell'uso del winchester mostrate durante gli spettacoli del Wild West Show (sparava a monetine e carte lanciate a distanza, centrandole una dopo l'altra). Le imprese della minuta ragazzina, portarono addirittura a coniare un nuovo modo di dire, individuando col termine “Annie Oakley” i biglietti ferroviari obliterati. A differenza di Calamity Jane e di Belle Starr, la Oakley era una vera e propria sportiva di classe, che partecipava a gare di tiro e a battute di caccia, divenendo, grazie ai successi ottenuti, la vera e unica diva del west. Anche a lei Hollywood dedicherà film, serial televisivi e il musical teatrale Annie Get Your Gun (1946) poi trasposto al cinema col titolo Anna, Prendi il Fucile (1950) con Betty Hutton. Non 652 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

mancheranno inoltre comparsate in fumetti vari, tra cui Tex della Bonelli. Dunque personaggi forti, amatissimi dalle masse americane e per questo giunti al cinema con una potenza superiore a quella corrispondente alla realtà. Certo, il genere western era tutt'altro che adatto ai ruoli femminili da proporre in alternativa ai pistoleri dal carattere impavido. Ecco quindi che per superare il rischio di stuccare gli spettatori, come già anticipato, si era cercato di introdurre tali personaggi soprattutto nei musical. L'esempio tracciato da Hollywood verrà inizialmente mutuato anche dai produttori e registi europei. Così con Rafael R. Marchent e Franco Giraldi, rispettivamente in occasione de Una Donna per Ringo (1967) e di Sette Donne per i MacGregor (1967), avevano iniziato ad assumere spazio personaggi femminili abili nell'uso delle armi, ma ancora in veste di comprimarie. Il passaggio successivo sarà quello delle pistolere protagoniste, ma in western stemperati dalla componente del musicarello fino al passaggio finale costituito da The Belle Starr Story e Giarrettiera Colt, dove si tenterà la via dello spaghetti-western puro con pistolere protagoniste. Da avvio al fenomeno Ferdinando Baldi, con il musical Little Rita nel West (1967). Il film vanta la produzione di Manolo Bolognini e, al fianco della sbarazzina Rita Pavone, protagonista assoluta, schiera attori del calibro di Terence Hill, dei muscolari Gordon Mitchell e Adriano Bellini, alias Kirk Morris, mostri sacri del peplum, qua rispettivamente nei panni di Bisonte Seduto e Ringo. Hanno un piccolo ruolo anche Fernando Sancho, Lucio Dalla e Lucio Rosato, con quest'ultimo chiamato a sostituire Franco Nero nei panni di Django. Il copione lo scrive Franco Rossetti e vede la Pavone debuttare nel mondo del cinema. Baldi opta per la parodia. Vediamo Little Rita sfidare una serie di personaggi del mondo western, da Ringo a Django, corteggiando di continuo Terence Hill che invece la respinge. La sinossi è sintetizzata dalla frase di lancio: “Finalmente, Ringo, Django, Sancho, Tracy il Nero e tutti gli altri killer vengono sterminati da una giustiziera!” Alla fotografia c'è Enzo Barboni, girandola di canzoni con duetti tra la Pavone e Dalla, ma anche tra la Pavone e Teddy Reno (anch'egli presente). Il film va male al botteghino, ma recupererà nel corso degli anni. Lo stronca di netto Weisser (“è inspiegabile che un gigante come Baldi sia invischiato in questa atrocità”) il quale si scandalizza per conto del 653 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

regista, che invece dice di apprezzare il film. Terribile bocciatura da filmtv.it: “uno dei più brutti film confezionati in Italia: non vale neanche come documento di costume.” In contemporanea al film di Baldi, esce Lola Colt , che potremmo definire una via di mezzo tra il musical di Baldi e un western serio. A dirigerlo c'è Siro Marcellini, ex aiuto di Primo Zeglio in La Figlia del Diavolo (1952) e nei western I Due Violenti (1964) e L'Uomo della Valle Maledetta (1964), quest'ultimo da molti attribuito direttamente a Marcellini, a causa di un errore nell'interpretazione dello pseudonimo usato dal regista. A convincere il regista di Genzano è la sceneggiatura, apparentemente insolita, concepita dal giornalista Alberto Antonelli e sviluppata da Luigi Angelo. La gustosa novità introdotta dai due si sostanzia nell'introdurre una ballerina e cantante di colore, abile con la pistola, quale protagonista. La ragazza giunge, con la sua compagnia musicale, in un paese dominato dal solito bullo di turno. Assiste a oppressioni e malefatte, fino a prendere la decisione di spingere il popolo alla rivolta. Gli aspetti positivi del film finiscono con la bizzarra idea iniziale, perché tutto si sviluppa, sotto il profilo contenutistico e della regia, senza innovazioni, con una sceneggiatura che non graffia (neppure nei dialoghi) e che soprattutto ricalca i canoni del periodo. La cosa non sorprende. A produrre il progetto troviamo un piccolo imprenditore proveniente dalla televisione, Aldo Pace, che tenta di intraprendere la carriera cinematografica avendo alle spalle ruoli da segretario di produzione di un trio di commedie. Non farà carriera. Non vanta esperienze maggiori la coppia di sceneggiatori Antonelli-Angelo. Antonelli è al debutto e, addirittura, non firmerà altri soggetti, limitandosi a dirigere un reportage sul Vietnam intitolato Vietnam, Guerra e Pace (1968). Più esperto, ma tutt'altro che trascendentale, Luigi Angelo. Sceneggiatore di fiducia di Filippo Walter Ratti, arriva allo spaghetti-western con nove copioni nel curriculum votati alla commedia e al comico, con opere quali Fra' Manisco Cerca Guai (1960) con Aldo Fabrizi e Totò e Peppino Divisi a Berlino (1962) col duo Totò e De Filippo. Tenterà in seguito col western, ma sempre con prodotti marginali salvo Odia il Prossimo Tuo (1968) di Ferdinando Baldi. Chiuderà la carriera con il trashissimo adventure movie L'Uomo Puma (1980) di De Martino. 654 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Neppure Marcellini si dimostra pronto al genere. È fermo dai tempi del modesto peplum L'Eroe di Babilonia (1963), prima del quale si era esibito in un paio di film d'avventura e cappa e spada, e soprattutto con una serie di commedie definite da Roberto Poppi “non di grande interesse, ma di discreto successo popolare.” Il futuro non gli riserverà grandi opportunità: chiuderà la carriera passando alla televisione. Quanto sopra porta a uno spaghetti western elementare, con personaggi poco caratterizzati. Marcellini gira senza inventiva e non scandisce un ritmo adeguato. Ogni speranza ricade su Lola Falana, cantante americana di origine cubana che, tra un balletto (soul!?), una sculettata e una canzone, tenta di conquistare il pubblico. La venticinquenne viene scelta per via del successo ottenuto grazie ad alcuni serial televisivi come Hullabaloo (1965) e ai musicarelli Quando Dico che ti Amo (1967), dove recitava al fianco di Tony Renis, e Stasera mi Butto (1967) che gli avevano valso il soprannome di Venere Nera. L'intuizione del produttore e del regista non è malvagia anche perché la Falana dimostrerà altrove di essere sufficientemente brava da strappare nel 1971 una candidatura al Golden Globe, col film Il Silenzio si Paga con la Vita diretto da William Wyler. Spesso presente con cammei in svariati serial televisivi, la show girl alternerà dischi musicali ad apparizioni televisive, in veste di presentatrice di varietà italiani, fino a esser colpita, nel 1987, dalla sclerosi multipla che la porterà a uscire dal mondo dello spettacolo per dedicarsi alla religione. Nonostante la presenza della Falana, gli autori procedono col freno a mano tirato e non osano laddove avrebbero dovuto. Non si scommette sulla carica sexy dell'attrice, ma si cerca di sfruttarne le doti di ballerina e di cantante. Così la vediamo esibirsi in quattro lunghe e noiose scene in cui balla con body aderenti (!?) e colorati, cantando i brani Scrivimi il tuo nome sulla mano e Uno come Te. In seconda battuta non si esalta il fatto che sia di colore, aspetto che sarebbe stato idoneo per predisporre una sceneggiatura avveniristica votata all'antirazzismo. Poco si comprendono poi le dichiarazioni di Giusti che sostiene che nel film si parli di razzismo e amore, così come dice lo stesso regista quando afferma che Lola Colt è uno dei primi film a parlare di razzismo. Dal mio punto di vista, infatti, non è sufficiente mettere una protagonista di colore per parlare di film antirazzista, anche perché nel film siamo alle prese con un paese di bigotte che si schiereranno contro la nuova arrivata, non tanto per il colore della 655 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

pelle, per il suo modo di vivere in piena libertà. Le vesti castigate non permettono così alla mulatta di sfruttare il sex appeal, sebbene appaia super truccata e con delle unghie da far invidia a una squillo (!?). La giovane inoltre non è aiutata dallo script ed è priva di quel carisma e di quel fascino di una Machiavelli o di una Rosalba Neri. A farle da spalla troviamo un Pietro Martellanza limitato dal suo essere coprotagonista e per nulla capace di elevarsi come fatto in altri western. Il ruolo di antagonista va a uno scialbo German Cobos. Antipatica Erna Schurer che, come prevedibile, si vedrà soffiare sotto il naso il proprio uomo (Martellanza) dalla coraggiosa protagonista. Tra i difetti più evidenti, oltre alla sceneggiatura poco brillante, segnalo un montaggio a tratti incomprensibile. Ci sono stacchi in cui si passa da una location a un'altra senza giustificazione (ex: vediamo gli attori entrare in un salotto e subito dopo, anziché vederli tra poltrone e tappeti, li ritroviamo a galoppare in piena prateria continuando la discussione in cui erano coinvolti). Fotografia e colonna sonora dimenticabili. Il film vede il debutto, in veste di aiuto, del futuro regista erotico/ porno Mario Bianchi, nulla a che vedere con il regista televisivo spesso citato da Mike Bongiorno. Nel cast artistico si vede invece un bambino con i capelli rossi, cioè Enzo Santaniello che sarà poi uno dei ragazzi della banda italiana dei giocatori di football in Lo Chiamavano Bulldozer (1978) nonché uno dei figli di Wolff trucidati in C'era una Volta il West. Lola Colt è inoltre uno dei primi western girati, almeno in parte, a Tirrenia, negli studios Cosmopolitan. Nel complesso non è un western pessimo, ma neppure capace di sollevarsi dalla media. Un po' tutti, tra critici e appassionati, sono concordi con l'opinione del sottoscritto. Filmtv.it parla di mediocre e ingenuo western musicale. Roberto Poppi lo definisce, oltre che modestissimo, parodistico. Il sottoscritto non è d'accordo con quest'ultima valutazione, poiché di parodistico non c'è nulla. Per Marco Giusti è follissimo, ma anche in questo caso il sottoscritto non ravvisa quasi nulla per definirlo folle. Chi dedica maggiore attenzione al film è l'inglese sonofdjango.blogspot.it che però, pur reputando alcune sequenze promettenti (tra cui il flashback della protagonista che ricorda i suoi parenti torturati dai bulli e il prologo in cui l'antagonista, disattendendo le suppliche 656 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

di un prete, fa saltare in aria due rivoltosi legati a una croce) non lo salva: trama insignificante, giocata con poca convinzione, funzionale solo a passare da uno stacco musicale all'altro. Non forniscono pareri spaghettiwestern.altervista.org, 800spaghettiwesterns.blogspot.it e il Morandini. Una stella per mymovies.it. con il laconico commento: uno spaghetti-western da dimenticare. Ascrivibile al sottogenere, seppur con un ruolo femminile di minor peso, è il folle Bang Bang Kid (1967), girato nel 1967 ma uscito a gennaio '68. Il film ha una produzione prevalentemente americana, con Sidney W. Pink unico riferimento certo. Ex proiezionista, passato alla produzione nei primi anni '50 e da questa alla regia nel decennio successivo; da sempre coinvolto in z-movie girati in mezza Europa, Danimarca compresa, il nome di Pink è fortemente legato alle coproduzioni ispanico-americane con i mediocri Il Sentiero dell'Oro (1965), Sette Donne per una Strage (1967) e il più riuscito Lo Sceriffo senza Stella (1966). Pink è garanzia di trash, da qui il giudizio di Marco Giusti che lo definisce “non tanto più fine di Demofilo Fidani.” Nell'occasione il regista/produttore lascia la direzione al connazionale Stanley Prager, pescato dai serial televisivi di genere comico. Questo secondo le voci ufficiali e i pareri di Marco Giusti e Riccardo Garrone. Roberto Poppi e imdb.com più verosimilmente, vista l'estraneità di Prager a certi progetti, indicano Giorgio Gentili come il vero regista, opinione a cui si allinea il sottoscritto. Non manca poi chi abbia individuato terzi nomi, dal misconosciuto Luciano Lelli allo spagnolo José Maria Ellorieta, qualcuno addirittura ha parlato di Luciano Sacripanti. Insomma una roulette di nomi che lascia presagire il livello infimo della pellicola, da cui tutti prendono le distanze. Gentili, dal canto suo, vanta un buon curriculum da aiuto, tra gli altri di Freda, Zeglio e Lizzani. In questo ruolo lo abbiamo trovato ne I Quattro Inesorabili e ne Un Fiume di Dollari. Proseguirà la carriera da aiuto, stringendo un duraturo sodalizio proprio con Carlo Lizzani ma anche con Fulci con cui collaborerà nei cult Una Lucertola con la Pelle di Donna (1970), All'Onorevole Piacciono le Donne (1971) e Zanna Bianca (1973). Lo script porta la firma dell'americano Howard Berk ed è quanto di mai delirante possiate immaginarvi. Gentili, o chi per lui, mette in scena robot pistoleri, Sandra Milo vestita in modo erotico con ombelico ai quattro venti e pistola in fondina, Guy Madison involontaria657 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

mente ubriaco, fortini gotici che sembrano costruiti con la lego, abiti medievali con personaggi che calzano sul capo corone da re. Al di là delle trovate trash, il copione è sempre quello dei bulli di paese che tengono sotto scacco il popolo fino all'arrivo dello straniero di turno e del suo robottino. Nel cast finiscono coinvolti buoni attori come Riccardo Garrone e Umberto Raho. Ci sono pure Federico Boido e Dyanik Zurakowska. Il risultato però non cambia: un delirio. Sandra Milo, bellissima qui e solitamente impegnata con registi d'autore, mette le mani avanti dicendo di averlo fatto per ragioni alimentari. Di certo ne viene sfruttata la procacità e la carica erotica, un po' poco per un'attrice catapultata in un z-movie dopo aver vinto due Nastri d'Argento da non protagonista con 8 ½ (1964) e Giulietta degli Spiriti (1964) entrambi di Fellini (con cui intratterrà una relazione clandestina ventennale). 800spaghettiwesterns.blogspot.it pone la pellicola al termine della sua classifica, con un tabellino voti che non raggiunge l'uno in pagella. “Non bisogna assolutamente vederlo!” sostiene. Un commentatore gli fa eco: “C'è voluto coraggio a girare questo film, forse sarebbe stato preferibile dargli un taglio fantascientifico. Si può visionare come un precursore de Il Mondo dei Robot di Michael Crichton, anche se ricorda il cinema di Ed Wood.” Arriviamo ora ai due film più importanti del filone che escono, l'uno di seguito all'altro, con uno scarto di due mesi. Il primo a vedere la luce è The Belle Starr Story (1968), conosciuto anche col titolo Il Mio Corpo per un Poker. Il film si caratterizza per una delle produzioni più burrascose dell'intero genere. Lo ideano una cordata di imprenditori milanesi, giudicati da Lina Wertmuller “dilettanti pericolosi”, capitanati da Oscar Righini. Righini è al suo secondo film, dopo il debutto con La Lunga Notte di Veronique (1966), un horror dal bassissimo budget girato da Gianni Vernuccio e giudicato da Gordiano Lupi di buona fattura. Righini tenterà in seguito la carriera da regista senza alcun risultato e con almeno un paio di film rimasti inediti. Produrrà un pugno di zmovie privi di valore, tanto che il film in questione è il più quotato. Il budget è minimo, nonostante ciò si mettono sotto contratto Robert Woods ed Elsa Martinelli. Il primo è fresco dei successi della mini saga Pecos; la seconda è un ex modella affermatasi nel cinema a 658 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

livello internazionale, con tanto di Orso di Berlino riconosciutele come migliore protagonista col film Donatella (1956) di Monicelli. Per una piccola produzione come quella di Righini, è un lusso avere un'attrice del calibro della Martinelli. Quest'ultima vanta addirittura esperienze a Hollywood, con ruoli di primo piano sia al fianco di John Wayne, in occasione della commedia Hatari! (1962) di Howard Hawks, sia di Charlton Heston con la commedia Pranzo di Pasqua (1962). Degne di nota sono inoltre le partecipazioni a Il Processo (1962) di Orson Welles, allo sci-fi La Decima Vittima (1965) di Petri nonché a film diretti da Vittorio De Sica, Mauro Bolognini, Roger Vadim e Dino Risi. Potenzialmente ci sono le condizioni per dar vita a un piccolo western capace di conquistare il botteghino, ma la produzione sbaglia il regista. La scelta ricade sul debuttante e sconosciuto Pietro Cristofani (farà in seguito da aiuto a Roberto Mauri in un paio di western di quarta fascia), autore della sceneggiatura. Cristofani va in paranoia e non gestisce le intemperanze dei due focosi protagonisti, entrati in competizione per una questione di primi piani: Woods non tollera di averne di meno rispetto alla collega. La Martinelli fa forza sulla sua esperienza e preme sulla produzione affinché sollevi dall'incarico Cristofani. Righini e soci si dimostrano incapaci di controllare il loro giocattolo. La Martinelli e Woods litigano di continuo, tanto che l'americano assume le difese di Cristofani, chiedendone la conferma. Nonostante le difese di Woods, Cristofani viene cacciato dopo i primi giorni di lavorazione senza che vi sia un sostituto. Le riprese vengono bloccate per due settimane, poi la Martinelli impone alla produzione la quotata Lina Wertmuller. La giovane regista vanta un curriculum invidiabile e poliedrico. Dopo aver collaborato in teatro, aveva lavorato in radio e in tv approdando al cinema da vice di Federico Fellini ne La Dolce Vita (1960) e 8 ½ (1963). Amante del grottesco e del cinema di critica, aveva debuttato nel 1963 con I Basilischi (premiato al festival di Locarno), seguito da altre quattro pellicole di minor rilievo. Otterrà, a partire dagli anni '70, numerosi premi con addirittura due nomination all'Oscar strappate con la commedia Pasqualino Settebellezze (1975). Tra i suoi film più famosi ricordo Mimì Metallurgico Ferito nell'Onore (1972), con cui strapperà la nomination alla Palma d'Oro di Cannes, e Un Complicato Intrigo di Donne, Vicoli e Delitti (1985) nomination all'Orso d'Oro di Berlino e al Nastro d'Argento. Sarà premiata col David di Donatello alla carriera nel 2010. Appena arrivata sul set in Jugoslavia, la Wertmuller visiona il lavo659 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ro del collega e stralcia quasi tutto (“era un disastro”). Riscrive il copione, colloquia con gli attori e soprattutto con l'amica Elsa Martinelli. Anziché calmare le acque, la romana fa scoppiare il caos più totale. Robert Woods si trova estromesso dal cast, per il vizio di interferire nella regia. Per altri motivi viene mandata via anche un'attrice inserita nel progetto per volere della produzione. La situazione è totalmente fuori dal controllo di Righini e compagni, che si dimostrano dei dilettanti. Chi comanda sono la Wertmuller e la Martinelli. Il direttore di produzione va a protestare dalla Wertmuller che, in tutta risposta, lo prende a cazzotti. Woods, intanto, viene trovato a piangere nel camerino e minaccia azioni legali nei confronti della produzione. “Era troppo cretino” ricorderà la regista più avanti. Alla fine né lui né la Wertmuller verranno pagati. Per sostituire Woods, fatto morire in scena con l'aiuto di una controfigura accoltellata alle spalle, viene chiamato Luigi Montefiori che giunge sul set a film iniziato. La Wertmuller taglia la parte dell'attore americano e introduce un nuovo personaggio cucito su misura per il nuovo arrivato. Il copione definitivo vede la bandita Belle Starr (Martinelli) perdere il proprio corpo a poker con un manigoldo di cui si innamorata (Montefiori) e a cui racconta il suo passato fatto di stupri e assassinii. I due, entrati in sintonia, si assoceranno per compiere una rapina. Modi abbastanza mascolini per la Martinelli che fuma sigari e beve liquori, tutta vestita in nero con cappellino alla Sartana e nastrino nero su camicia bianca. Carinissimo poi il vestito di pelle nero attillato, con cui vaga nelle sequenze d'azione. La vediamo, spesso incazzosa, sparare nei saloon e menare pugni a destra e a manca ma anche amoreggiare con Montefiori. Quest'ultimo, statuario, sfoggia un vistoso orecchino. Verrà fustigato a sangue, legato ai polsi e a dorso nudo, il tutto preceduto da una carrellata argentiana sugli utensili da tortura adagiati su un tavolo. Piuttosto mediocre la confezione (fotografia e colonna sonora insufficiente). Buona parte del film è girato tra interne e location boschive. La pellicola passa inosservata nei cinema, penalizzata dal divieto ai minori di diciotto anni, poi ridotto a quattordici, e dall'atteggiamento della Wertmuller che ne tende a disconoscerla. Difficile da recuperare in italiano, ignorata dai blogger stranieri e 660 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

addirittura da spaghettiwestern.altervista.org. Ne parla benino Marco Giusti: “Molto carino, malgrado la confusione produttiva.” Di sicuro, nel sottogenere, è il film più quadrato e meglio recitato, ma pecca un po' sul versante B-Movie complice una regia troppo perfettina. Più fracassone, ma con un taglio decisamente pulp e sprezzanti venature erotiche è l'altro western di cui abbiamo accennato e a cui dedico la seguente scheda. GIARRETTIERA COLT Produzione: Italia, 1968. Prodotto: Nicoletta Machiavelli e Brando Machiavelli (Columbus Cinematografica). Regia: Gian Rocco. Sogg.: Gian Rocco. Sceneg.: Gian Rocco, Giovanni Gigliozzi, Brunello Maffei, Vittorio Pescatori. Interpreti: Nicoletta Machiavelli, Yorgo Voyagis, Claudio Camaso, Walter Barnes, Gaspare Zola, Marisa Solinas, James Martin. Musiche: Giovanni Fusco e Gianfranco Plenizio. Fotografia: Gino Santini. Durata 102 min. Sottogenere: Pistolere. Giudizio Mancini: *1/2 Giudizio Morandini: *1/2 La trama La giovane nipote (Machiavelli) di Margherita Gautier, giunge in Messico nel periodo della rivoluzione contro gli invasori francesi. Di spirito temerario e avventuroso, tra partite di poker truccate e rapine sventate per la sua abilità nell’utilizzo della Colt, si innamorerà di una spia francese (Voyagis) incaricata di bloccare una consegna di armi, rubate da un folle chiamato “il rosso” (Camaso) e destinate al generale Droga (Barnes). La donna aiuterà la spia a eseguire la missione, ma il prezzo che dovrà pagare sarà il più alto di tutti.

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Commento Follia allo stato puro, passata inosservata all'epoca ma che diventerà un cult movie, in virtù dell’omaggio che Quentin Tarantino gli farà in Kill Bill. Difatti uno degli alias con cui verrà presentata Beatrix Kiddo sarà Arlene Machiavelli, in onore alla protagonista di questo film. Sarà lo stesso regista di Knoxville a dichiarare di essersi ispirato a Giarrettiera Colt, sebbene il personaggio della Thurman risulti esser legato a Meiko Kaji di Lady Snowblood (1973). Tarantino, insieme al sottoscritto, è tuttavia uno dei pochi a salvare la pellicola. Il film ha il grosso limite di esser strutturato attorno a una sceneggiatura confusa e sopra le righe che sconfina nel demenziale. La sensazione è che gli sceneggiatori (quasi tutti alla prima e unica esperienza) si siano lasciati sfuggire il soggetto di mano, incapaci di imprimere un'impronta definita. Da un punto di vista superficiale siamo alle prese con un tortillawestern, seppur intriso di bizzarrie. Se si va più affondo però si precipita in un vero e proprio calderone fatto di tutto un po'. C'è il demenziale, rappresentato dalla scena con due tizi che, correndo in senso opposto, si scontrano e inveiscono l'uno contro l'altro: è colpa tua, perché io venivo da destra! C'è la violenza, addirittura Claudio Camaso cade nella calce viva. E ci sono spruzzate di un erotismo messo in scena con verve poetica. A quest'ultimo riguardo sono sublimi le scene in cui la Machiavelli sfrutta le ampie scollature dei suoi costumi, per ammiccare e sedurre con fare sofisticato. Come ogni western che si rispetti non mancano sparatorie e omicidi, incastonate in un soggetto che vede i rivoluzionari schierati contro gli invasori francesi. Ne deriva un film fracassone, non accettato dagli spettatori dell'epoca con consequenziale flop al botteghino tanto da portare al fallimento della casa di produzione. Dietro al progetto c'è la Columbus Cinematografica, fondata dalla famiglia Machiavelli. “Fu un disastro” confesserà l'attrice. Alla regia viene data fiducia al semisconosciuto Gian Rocco, che sette anni prima aveva messo a segno un film ribelle, supervisionato da Pasolini, intitolato Milano Nera, oggi considerato da riscoprire. Rocco si ritirerà subito dalle scene, sebbene dimostri un certo talento onirico/visionario. Sono almeno quattro le sequenze degne di nota. La prima è un inseguimento all'interno di un bosco andato a fuoco, con la mdp che insegue un fuggiasco, ondeggiando tra i tronchi secchi. Si tratta di una scena simile a quella che inserirà Sergio Marti662 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

no nel prologo di Mannaja (a sua volta ripreso dal thriller I Corpi Presentano Tracce di Violenza Carnale); la seconda è una scena girata con maestria, impreziosita da un erotismo genuino, in cui la Machiavelli si alza da una tinozza, con il dettaglio del ventre che ondeggia simile alle evoluzioni di un serpente stregato dalle note di un incantatore. Sono inoltre particolarmente buoni il prologo (con un manipolo di soldati francesi fatti saltare in aria dalla dinamite) e il secondo incontro Machiavelli – Voyagis, ambientato nella bellissima scenografia delle piscine di Su Pallosu, in Sardegna. Se questi sono i meriti di Rocco, palesi sono anche i demeriti. Ci sono molte sequenze trash. Su tutte non può non menzionarsi la scena voyeuristica con Camaso, fanciullesco nell'interpretazione, che spia un uomo e una donna che amoreggiano dietro a una sorta di spogliatoio di canne montato in pieno deserto (!?). Assurda poi la partita a poker tra la Machiavelli e Voyagis, con il pappagallo di quest’ultimo che comincia a pronunciare parole incomprensibili per lo spettatore, ma che vengono allo stesso spiegate grazie all'inserimento dei sottotitoli (!?). Fa addirittura peggio la Machiavelli, la quale, per imbrogliare l'avversario, tiene un nano nascosto all'interno di una carrozzina per bimbi in modo da ottenere dallo stesso le informazioni relative alle carte dei rivali. E che dire del cavallo del generale messicano che sniffa cocaina, mentre il suo proprietario finisce sempre con l’uccidere chi non vorrebbe? Follie assurde che penalizzano un'idea iniziale vincente (quella della sexy pistolera) sottovalutata dagli sceneggiatori, incapaci di costruire una storia solida. Troppi sono inoltre i vuoti narrativi. Da notare, su quest'ultimo versante, le incomprensibili distorsioni temporali non colmate da adeguato montaggio. Le interpretazioni non sono pessime, anche se alcune si rivelano sopra le righe. Star indiscussa è Nicoletta Machiavelli, già vista all’opera in Navajo Joe e in Un Fiume di Dollari, qui promossa al ruolo di protagonista. L'attrice è strepitosa e porta vestiti dello stilista di fiducia di Luchino Visconti, cioè Piero Gherardi (si dice che lavorò gratis per questo film). In particolare è favoloso il vestito blu, rifinito da bordi fucsia, che esalta le curve dell'attrice, con ampi spacchi e generoso décolleté. Pensare però che la Machiavelli faccia della bellezza la sua unica arma di seduzione è sbagliato, la giovane attrice infatti riesce a calamitare l’attenzione con gli sguardi ammiccanti e il fare da diva. Assai umile nell'analizzare la propria performance, l'attrice scri663 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

verà sul suo sito internet: “Ero circondata da familiari e sapevo di non essere all'altezza. Ero stata programmata per non sentirmi all'altezza; e come sempre la mia reazione fu quella di nascondermi, fuggire”. Il sottoscritto invece esalta questa prestazione che pone la Machiavelli tra le attrici regine del genere. Di personalità eccentrica e carismatica, la Machiavelli tornerà al western con Un Minuto per Pregare, un Istante per Morire di Franco Giraldi e con Una Lunga Fila di Croci di Garrone, prima di rompere, nel 1969, il contratto con Dino De Laurentis. Tenterà in seguito di acquistare quella libertà necessaria per interpretare film diversi da quelli in cui era sempre apparsa; la scelta non si rivelerà vincente, dal momento che il nome Machiavelli resterà legato proprio a quei film che la stessa non amava e che le venivano offerti perché parlava bene l’inglese (la madre era americana). Avrà piccoli ruoli nei poliziotteschi Tony Arzenta (1973) e Il Trucido e lo Sbirro (1976), prima di ritirarsi a inizio anni '80. Al fianco all'attrice tosco-emiliana spicca, per i toni esagerati e fanciulleschi, Claudio Camaso, nei panni di un bullo allucinato. Bravo, nella sua unica apparizione western, il greco ventitreenne Yorgo Voyagis (degna di nota la sua partecipazione in Frantic di Roman Polanski) che viene ricordato soprattutto per le avventure al peperoncino con le attrici del cinema nostrano (la brasiliana Nadia Cassini in primis, ma anche la stessa Machiavelli). Completano il cast l’ex giocatore di football americano Walter Barnes, relegato, come al solito, a un ruolo di secondo piano (simpatica la caratterizzazione del suo personaggio anche se mal inserito nella storia) e un pugno di attori piuttosto scialbi, tra cui la più conosciuta è Marisa Solinas (un passato con Monicelli in Boccaccio ‘70), qui odiosa nei panni di una ninfomane. Ottima la fotografia di Gino Santini, così come la melodica colonna sonora dell’accoppiata Fusco-Plenizio (un vero gioiellino). In definitiva un western che può valere la visione, grazie alla presenza di una Machiavelli bella come non mai e per un paio di sequenze che denotano un certo gusto visionario del regista. Ignorato del tutto dai blogger esteri e nostrani, non sfugge dalla bocciatura del Morandini che lo pone a metà strada tra l'avventura e la commedia leggera, sottolineando l'assenza di senso nella sceneggiatura. Purtroppo c’erano tutti gli ingredienti per confezionare un’opera di culto, ma gli sceneggiatori non sono stati capaci di amalgamare il materiale. Solo per cultori e amanti del bizzarro. 664 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

L'insuccesso di queste pellicole porta i produttori ad abbandonare il sottogenere che muore dopo un pugno di mesi. Sarà Franco Cristaldi a cercare di ridestarlo dall'oblio con un operazione commerciale che chiamerà in causa nientemeno che Claudia Cardinale e Brigitte Bardot, con il più sexy western del lotto: Le Pistolere (1971) del francese Christian-Jacque. Avremo modo di analizzarlo nel quarto volume. 6.7 Conclusioni L'anno appena analizzato, dal punto di vista numerico, è il più florido dello spaghetti-western. I cinema vengono invasi da quasi ottanta pellicole che dal punto di vista qualitativo registrano un innalzamento del livello medio ma con una netta inflessione per quel che concerne la qualità dei prodotti di punta. L'anno registra infatti molte defezioni. Duccio Tessari e Sergio Leone restano a guardare, costringendo Alberto Grimaldi a puntare su Sergio Sollima, a cui affida il progetto western principe della PEA. Sergio Corbucci, Giorgio Ferroni e Giorgio Stegani girano i loro nuovi western, ma rispetto ai precedenti lavori deludono le attese. Damiano Damiani, Enzo Peri e Tino Brass non danno seguito ai loro esperimenti intellettuali. Vengono sostituiti in questo, con risultati assai diversi, dai vari Vancini e Lanfranchi che andranno incontro a inattesi flop. Decisamente meglio, non al botteghino, gli altrettanti intellettuali ma meno quotati Puccini e Questi. Lucio Fulci lascia il campo all'assistente Giovanni Fago, il quale debutta benino ma non al livello del maestro. Un'altra tegola è l'abbandono di Clint Eastwood, ormai tornato in patria, seguito negli States da Franco Nero, che però ritornerà per interpretare lo pseudo-western di Luigi Bazzoni. Chi continua a stare sulla cresta dell'onda è Giuliano Gemma, protagonista di tre pellicole di cui il solo I Giorni dell'Ira risulta capace di tenere il passo dei canonici lavori del funambolico faccia d'angelo. Si lancia infine un nuovo attore protagonista: il tedesco Peter Lee Lawrence, primo protagonista in quattro western di seconda fascia dopo le comparsate degli anni precedenti. Attivissimi nei western minori Robert Woods, che con i due film di 665 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Pecos riesce a ottenere un inaspettato successo, Luigi Montefiori (alias George Eastman), lanciato da Pupillo, e Anthony Steffen. Per fortuna non mancano le garanzie costituite da Klaus Kinski, Frank Wolff, Tomas Milian, Gian Maria Volontè e Lee Van Cleef. Per non parlare dei caratteristi ispanici rappresentati da Fajardo, Sancho, George Martin. Crescono inoltre Mark Damon, George Hilton, e Gianni Garko, questi ultimi due pronti per affermarsi tra i pistoleri di prima fascia. Tra le new entry troviamo Terence Hill e Bud Spencer, con Colizzi che debutta nel genere mettendoli insieme per pur caso. Un altro volto che diverrà noto è quello di Tony Anthony, al secolo Roger Petitto, introdotto da Vanzi e dal duo produttivo Infascelli-Klein nei primi due capitoli della serie de Lo Straniero che vanno a spopolare negli Stati Uniti e in Giappone. Si lanciano infine Claudio Camaso, fratello minore di Volonté da cui mutua un istrionismo adatto ai ruoli allucinati, e lo slavo Anthony Ghidra. Nei panni del pistolero dandy invece facciamo la conoscenza di Hunt Powers. Al di là dei volti nuovi, si codificano inoltre dei nuovi sottogeneri. Vari e Petroni introducono il sottogenere degli allievi che superano i maestri, filone altamente qualitativo in cui si inserisce Tonino Valerii, in modo talmente fortunato da superare in qualità i due. Persiste il western politico, ormai sul punto di esplodere, con Lizzani e Sollima che regalano le due migliori pellicole dell'anno. Si registra infine, oltre alle prime pellicole di Petroni e Colizzi, la trilogia di Enzo G. Castellari, lanciato dal padre e confermato da Edmondo Amati. Per quanto riguarda le attrici si nota un certo tentativo di dar più spazio ai personaggi femminili, tanto che si tenta di inserire persino delle pistolere protagoniste. Nicoletta Machiavelli ed Elsa Martinelli sono gli esempi più evidenti e sono anche le attrici più brave, purtroppo non supportate dalle sceneggiature sebbene la Machiavelli in Giarettiera Colt sia magnifica e, a mio avviso, insieme a Claudia Cardinale sia da ritenere la migliore in assoluto di tutto il genere. Tra le più seducenti si distinguono poi Hélène Chanel in Due Rrringos nel Texas, Daniela Igliozzi in Dio non Paga il Sabato e la sadica Marilù Tolo in Se sei Vivo Spara. Spendo infine una menzione (per la bellezza, meno per la recitazione) per Sandra Milo, seppur in un western tra i più sconclusionati mai visti: Bang Bang Kid. Gli spagnoli tentano, non riuscendoci, di lanciare le gemelle Bayona con Una Donna per Ringo. Avranno 666 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

un destino comune le cantanti Lola Falana e Rita Pavone, alla loro prima e unica esperienza western in film a metà strada tra il genere e il musical. Girandola invece di attrici per Sette Donne per i MacGregor, unico film dell'anno prodotto dalla Jolly Film. Marianne Koch trova invece spazio in Clint il Solitario, dimostrando il proprio talento in un ruolo alquanto drammatico dopo la comparsa in Per un Pugno di Dollari. Ruoli interessanti infine per Cristina Galbo e la bomba sexy Maria Cuadra, entrambe all'opera in Dove si Spara di Più. Dei quasi ottanta film prodotti nell'anno solo due possono considerarsi dei capolavori. La palma del migliore va a Faccia a Faccia di Sollima, seguito a ruota da Requiescant di Lizzani. Si tratta di due film dai forti contenuti filosofici e politici, all'epoca non troppo apprezzati ma a mio avviso imprescindibili per il genere. A contatto, la terza moneta va a Tonino Valerii e al suo I Giorni dell'Ira, western con grandi attori e una sceneggiatura colma di dialoghi da antologia. Il film, prodotto dal duo Sansone-Chroscicki, fa il paio con Da Uomo a Uomo di Petroni, da cui mutua la produzione e buona parte del soggetto. In quinta posizione metto i bizzarri Se sei Vivo Spara di Questi e, una spanna sotto, Dove si Spara di Più di Puccini, bravi entrambi in chiave metaforico/simbolica. Settimo lo scanzonato Vado, l'Ammazzo e Torno, prodotto da Amati per la regia di Enzo G. Castellari. Quest'ultimo plasma un western pieno di citazioni, caratterizzato da marcati toni parodistici. Solo ottavo Dio Perdona... Io No! capace però di sbancare i botteghini e di sbaragliare la concorrenza con due miliardi di incasso. Il film di Colizzi non è ancora votato al comico, ma presenta per la prima volta la coppia Spencer-Hill. Grande equilibrio dietro, con alcune piccole sorprese costituite da Due Croci a Danger Pass di Rafael R. Marchent, prodotto da Carlo Caiano e Eduardo Manzanos Brochero, e i piccoli I Giorni della Violenza di Alfonso Brescia e L'Ultimo Killer di Giuseppe Vari. Tra i bizzarri citazioni di merito per Dio non Paga il Sabato di Tanio Boccia, Sentenza di Morte di Mario Lanfranchi e L'Uomo, l'Orgoglio e la Vendetta di Luigi Bazzoni. Merita una visione, seppur americaneggiante, I Crudeli di Sergio Corbucci, sorta di remake de L'Uomini dal Passo Pesante di Albert Band (per l'occasione produttore), incentrato sullo sfaldamento della famiglia. Luci e ombre invece con: Per 100.000 Dollari T'Ammazzo, melodramma firmato da Giovanni Fago, per Loy e Luciano Martino; Sugar 667 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Colt di Franco Giraldi e Il Tempo degli Avvoltoi di Nando Cicero. Questi i film più riusciti, ma ce ne sono almeno un'altra decina, a partire dal duo interpretato da Tony Anthony, meritevoli di una visione.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Aguilar, Carlos, Guìa del Video-Cine, Ed. Càtedra, Madrid, 2001. Barbieri, Luca, Storia dei Pistoleri, Odoya, Bologna, 2010. Beatrice, Luca, Al Cuore, Ramon, Al Cuore, Tarab, 1996. Betts, Tom, Western all'Italiana (a cura di Ferrante T.), rivista, Anaheim, California, 1983. Bruschini, Antonio, Tentori, Antonio & De Zigno, Federico, Western all'Italiana, Glittering Images, Firenze, 2001. Chianese, As, Il Declino dell'Impero Americano, Edizioni Il Foglio, Piombino, 2008. D'Amicone, Giulio, Vamos! Il Western Italiano oltre Leone, Falsopiano, 2013. Farinotti, Pino, Il Farinotti, Dizionario di tutti i Film, Newton Compton, Roma, 2009. Giré, Jean François, Il Etrait une Fois... Le Western Européen, 1960-2002, Dreamland, Parigi, 2002. Giusti, Marco, Dizionario del Western all'Italiana, Oscar Mondadori, Milano, 2007. Lupi, Gordiano, Storia del Cinema Horror Italiano – Vol.1, Edizioni Il Foglio, Piombino, 2011. Lupi, Gordiano, Storia del Cinema Horror Italiano – Vol.3, Edizioni Il Foglio, Piombino, 2012. Lupi, Gordiano, Storia del Cinema Horror Italiano – Vol.4, Edizioni Il Foglio, Piombino, 2013. Morandini, Morando & Laura, Luisa, Il Morandini, Dizionario dei Film, Zanichelli, Bologna, 2000. Pezzotta, Alberto, Il Western Italiano, Il Castoro, 2012. Poppi, Roberto, I Registi, dal 1930 ai Giorni Nostri, Gremese Editore, Roma, 2002.

DOCUMENTARI E PROGRAMMI TELEVISIVI 32 Pallottole di Western all'Italiana, di Antonio Bruschini. Italian Kings of B, a cura di Steve Della Casa. La Voce del Western Italiano, di Al P. Mangini. 669 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Stracult, di Marco Giusti, programma Rai 2. Varie puntate con interviste, tra gli altri, ai vari Bud Spencer, Terence Hill, Luigi Montefiori, George Hilton, Kirk Morris, Willy Colombini, John Saxon, Enzo G. Castellari.

SITI INTERNET 800spaghettiwesterns.blogspot.it allesglotzer.blogspot.com caniarrabbiati.it film-maniax.wetpaint.com film.tv.it fistfulofpasta.com imdb.com mondo-esosterica.net mymovies.it por-um-punhado-de-euros.blogspot.com sonofdjango.blogspot.com spaghettiwestern.altervista.org spaghetti-western.net

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INDICE DEI FILM TRATTATI

B Ballata per un Pistolero (Caltabiano, Alfio, 1967) Bandidos (Dallamano, Massimo, 1967) Bang Bang Kid (Praeger, Stanley, 1967) Belle Starr Story, The (Wertmuller, Lina, 1968) Bello, il Brutto, il Cretino, Il (Grimaldi, Gianni, 1967) Bill il Taciturno (Pupillo, Massimo, 1967) Buckaroo (Bianchi, Adelchi, 1967)

p.521 p. 576 p. 657 p. 658 p. 586 p. 527 p. 609

C Ciccio Perdona... Io No! (Ciorciolini, Marcello, 1968) Cjamango (Mulargia, Edoardo, 1967) Clint il Solitario (Balcàzar, Alfonso, 1967) Colt in Pugno al Diavolo, Una (Bergonzelli, Sergio, 1967) Con lui Cavalca la Morte (Vari, Giuseppe, 1967) Crudeli, I (Corbucci, Sergio, 1967)

p. 592 p. 533 p. 473 p. 624 p. 595 p. 468

D Da Uomo a Uomo (Petroni, Giulio, 1967) Desperado, El (Rossetti, Franco, 1967) 10.000 Dollari per un Massacro (Guerrieri, Romolo, 1967) Dio non Paga il Sabato (Boccia, Tanio, 1967) Dio Perdona... Io No! (Colizzi, Giuseppe, 1967) Djurado (Narzisi, Gianni, 1967) Dollaro tra i Denti, Un (Vanzi, Luigi, 1967) Donna per Ringo, Una (Marchent, Rafael R., 1966) Dove si Spara di Più (Puccini, Gianni, 1967) Due Croci a Danger Pass (Marchent, Rafael R., 1967) Due Facce del Dollaro, Le (Bianchi M., Roberto, 1967) Due Figli di Ringo, I (Simonelli, Giorgio, 1967) Due Figli di Trinità (Civirani, Osvaldo, 1971)

p. 571 p. 603 p. 488 p. 540 p. 613 p. 446 p. 451 p. 456 p. 482 p. 513 p. 650 p. 586 p. 592

671 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Due Mafiosi nel Far West (Simonelli, Giorgio, 1965) Due Once di Piombo (Lucidi, Maurizio, 1967) Due Rrringos nel Texas (Girolami, Marino, 1967) Due Sergenti del Generale Custer, I (Simonelli, Giorgio, 1966)

p. 592 p. 449 p. 587 p. 593

E E Divenne il Più Spietato Bandito del Sud (Buchs, Julio, 1967)

p. 495

F Faccia a Faccia (Sollima, Sergio, 1967) Figlio di Django, Il (Civirani, Osvaldo, 1967) Franco e Ciccio sul Sentiero di Guerra (Grimaldi, Aldo, 1969)

p. 628 p. 528 p. 593

G Gentleman Joe... Uccidi! (Stegani, Giorgio, 1967) Giarrettiera Colt (Rocco, Gian, 1968) Giorni dell'Ira (Valerii, Tonino, 1967) Giorni della Violenza (Brescia, Alfonso, 1967)

p. 557 p. 661 p. 579 p. 547

J Joe, L'Implacabile (Margheriti, Antonio, 1967) John, il Bastardo (Crispino, Armando, 1967)

p. 474 p. 623

K Killer Calibro 32 (Brescia, Alfonso, 1967) Killer Kid (Savona, Leopoldo, 1967)

p. 527 p. 601

L Little Rita nel West (Baldi, Ferdinando, 1967) Lola Colt (Marcellini, Siro, 1967) Lunghi Giorni della Vendetta, I (Vancini, Florestano, 1967)

p. 653 p. 654 p. 478

M Magnifico Texano, Il (Capuano, Luigi, 1967) Morte non Conta i Dollari, La (Freda, Riccardo, 1967)

p. 562 p. 530

672 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

N Nato per Uccidere (Mollica, Antonio, 1967) Non Aspettare, Django, Spara! (Mulargia, Edoardo, 1967)

p. 528 p. 649

O Odio per Odio (Paolella, Domenico, 1967)

p. 543

P Pecos è qui... Prega e Muori (Lucidi, Maurizio, 1967) Per 100.000 Dollari T'Ammazzo (Fago, Giovanni, 1967) Per un Dollaro di Gloria (Cerchio, Fernando, 1967) Per un Pugno nell'Occhio (Lupo, Michele, 1965) Più Grande Rapina del West, La (Lucidi, Maurizio, 1967) Pochi Dollari per Django (Klimovsky, Leòn, 1967) Poker di Pistole, Un (Vari, Giuseppe, 1967) Preparati la Bara! (Baldi, Ferdinando, 1967) Professionisti per un Massacro (Cicero, Nando, 1967)

p. 622 p. 641 p. 445 p. 586 p. 619 p. 457 p. 594 p. 611 p. 649

R Requiescant (Lizzani, Carlo, 1967)

p. 506

S Sceriffo tutto d'Oro, Uno (Civirani, Osvaldo, 1967) Se Sei Vivo, Spara! (Questi, Giulio, 1967) Sentenza di Morte (Lanfranchi, Mario, 1967) Sette Donne per i MacGregor (Giraldi, Franco, 1967) Sette Pistole per un Massacro (Caiano, Mario, 1967) Sette Winchester per un Massacro (Castellari, Enzo G., 1967) Starblack (Grimaldi, Gianni, 1967) Sugar Colt (Giraldi, Franco, 1967)

p. 446 p. 460 p. 645 p. 499 p. 527 p. 519 p. 448 p. 501

T Tempo degli Avvoltoi, Il (Cicero, Nando, 1967)

p. 536

U Uccideva a Freddo (Celano, Guido, 1967) Ultimo Killer, L' (Vari, Giuseppe, 1967) Uomo e una Colt, Un (Demicheli, Tullio, 1967)

p. 446 p. 564 p. 447

673 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Uomo, l'Orgoglio, la Vendetta, L' (Bazzoni, Luigi, 1967) Uomo, un Cavallo, una Pistola, Un (Vanzi, Luigi, 1967)

p. 635 p. 559

V Vado... L'Ammazzo e Torno (Castellari, Enzo G., 1967) Voltati... Ti Uccido (Brescia, Alfonso, 1967)

p. 595 p. 608

W Wanted (Ferroni, Giorgio, 1967) Wanted Johnny Texas (Salvi, Emimmo, 1967)

p. 497 p. 523

674 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Ringraziamenti

Chiudo questo secondo volume regalando due pagine a tutti coloro che a vario titolo hanno contribuito alla realizzazione dell'opera, informandovi subito di aver già pressoché ultimato il terzo volume, che vedrà in copertina un omaggio ai pistoleri prestigiatori, quelli che gli avversari definivano diabolici perché sembravano sempre saperne una più del diavolo. Bando alle ciance ora, anche perché l'editore, in ossequio alle antiche gesta del Dio Nettuno, potrebbe inseguirmi armato di forcone per avervi impastocchiato con qualche discorso di troppo. A chi rivolgersi per primo se non a Gordiano Lupi, stoico e mai domo nella sua attività di promozione e pubblicazione di libri di svariato genere, spesso a rimessa economica ma sempre con entusiasmo e voglia di fare? È merito principalmente suo se oggi potete leggere questo volume e tutta una serie di perle che impreziosiscono lo sterminato catalogo de il Foglio Letterario di Piombino. Perle che, nel 2014, lo hanno portato in finale del prestigioso Premio Strega col romanzo Calcio e Acciaio, libro che naturalmente vi consiglio di leggere. Un grazie caloroso va poi a Sacha Naspini, autore della copertina nonché responsabile dell'impaginazione del volume, e a Fabio Zanello, direttore della collana Cinema, sempre pronto a infondermi incoraggiamenti e sproni. E poi un saluto all'instancabile Tom Betts, forse la persona più appassionata di cinema western che io conosca, al punto da contattarmi da oltreoceano per complimentarsi per il lavoro eseguito e per proporsi quale collaboratore per il secondo volume. Naturalmente vado orgoglioso della prefazione che ha accettato con piacere di donarmi. Un grazie di cuore poi a tutti coloro che hanno speso tempo e parole per recensire il primo volume (qualcuno, addirittura, mi ha riferito di averlo citato nella sua tesi di laurea), quasi sempre con complimenti che mi hanno sorpreso (non dico commosso perché sarebbe un termine troppo forte), motivandomi a continuare nell'estenuante ricerca, visione e studio del cinema western italiano. A tal riguardo, in particolare, mi piace ricordare gli articoli realizzati dalle riviste Ciak e Filmtv nonché dalla “romanista” Mariangela Sansone. 675 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Un pensiero poi a chi mi ha sempre sostenuto nel lungo e tortuoso cammino della scrittura, come non ricordare gli amici di penna di lungo corso Carmine Cantile, Alessandro Napolitano, Ferdinando Sicuranza, Andrea Franco, Luca Guardabascio e Vincenzo Barone Lumaga, compagni di decine di battaglie nei laboratori di scrittura, e poi gli appassionatissimi Giovanni Modica, Giulio Giovannetti, Maurizio Leoni, Ivo Gazzarrini, Jan Svabenicky e il collega Riccardo Sabbatini (fucina di aneddoti e ricordi d'epoca) sempre bramosi nel chiedermi ragguagli circa l'uscita dei nuovi volumi della collana. Un omaggio poi al vecchio compagno di calcettate Fabio Meini, gestore del sito caniarrabbiati.it, ai curatori della trasmissione radio Ciak Point Charlie e al cinema Lanteri di Pisa che sono stati i primi a scommettere e a lodare il primo capitolo della serie. The last but not the least, o per meglio dire dulcisis in fundo, un infinito ringraziamento a tutti coloro che hanno acquistato Spaghetti Western Vol.1, a Pier Paolo Dainelli (uno dei maggiori responsabili del mio interesse verso il cinema di genere, avendomi fatto scoprire una lunga serie di film quando lo vedevo in tv a presentare la serie I B Movie di TVR nelle domeniche invernali), a Marco Giusti per la promozione del cinema di genere con la trasmissione RAI Stracult e a tutti coloro che, a vario titolo, spendono tempo e passione per parlare del cinema italiano del tempo che fu (uno su tutti il grande Federico Frusciante). Un saluto poi a chi non c'è più, ma che sono certo ci osservi dall'alto, tra questi ultimi non posso non menzionare Antonio Bruschini, scomparso proprio mentre stavo realizzando il primo volume e che, ne sono certo, mi avrebbe potuto aiutare con consigli e suggerimenti. Chiudo con l'ennesimo grazie, a tutti voi, compreso a te che mi stai leggendo. Al terzo volume... Matteo Mancini

676 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Indice

Piano dell'Opera

p. 421

Prefazione a cura di Tom Betts

p. 423

5. Spaghetti Western alla Conquista del Mondo 5.1 Sbarco negli Stati Uniti 5.2 I western americani di transizione 5.3 La critica italiana dell'epoca

p. 427 p. 427 p. 432 p. 438

6. 1967: La Proliferazione del Genere 6.1 Spaghetti western minori 6.2 L'Estate calda in attesa dei nuovi capolavori 6.3 Quando gli allievi superano i maestri 6.4 Le parodie di Franco e Ciccio 6.5 La stagione autunnale e i capolavori dell'anno 6.6 Le pistolere del western italiano 6.7 Conclusioni

p. 445 p. 445 p. 529 p. 564 p. 585 p. 593 p. 651 p. 665

Rifermenti Bibliografici

p. 669

Indice dei Film Trattati

p. 671

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Edizioni Il Foglio www.ilfoglioletterario.it 678 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.