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Italian Pages 243 Year 1990
ALDO GABRIELLI SI DICE I O NON SI DICE (guida pratica I allo scrivere e al parlare
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MONDADORI
OSCAR GUIDE
RIMANI UNIVERSITY OF GLAMORGAN LEARNING RESOURCES CENTRE Pontypridd, Mid Glamorgan, CF37 1DL Telephone: Pontypridd (0443) 480480
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Aldo Gabrielli
SI dice o non si dice? Aggiunte alla grammatica
Learni
DILLO
Centre
Arnoldo Mondadori Editore
OA
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© 1976 Amoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano 5 edizioni Oscar manuali I edizione Oscar guide giugno 1990
ISBN 88-04-34216-1 St
Questo volume è stato stampato presso Amoldo Mondadori Editore S.p.A. Stabilimento Nuova Stampa - Cles (TN) Stampato in Italia - Printed in Italy
Due parole al lettore.
Quando,
parecchi anni fa, cominciai
un mio colloquio coi let-
tori di alcune riviste mondadoriane su argomenti di lingua italiana, non pensavo davvero che quel colloquio potesse diventare una conversazione nutrita e cordiale, e tanto meno prolungata nel tempo. Ero mosso da una fede che aveva le sue radici nei
più lontani anni della scuola, ma questo non mi impediva di dubitare che mi stavo piuttosto apprestando a una specie di sordo monologo davanti a persone ben poco desiderose di ascoltarmi, certamente persone distratte, capaci anche di affibbiarmi
la taccia di barbogio pedante e di solenne seccatore. Mettermi a parlar di accenti, di virgole, di iati e di dittonghi, mettermi soprattutto a gridar l’anatema contro anglicismi e francesismi, neologismi deliranti e incallite sgrammaticature, proprio oggi, figuratevi, che la gente spesso se ne fa vezzo, per di più su riviste in tutt’altre faccende affaccendate, poteva davvero sembrare una insensatezza, una pazzia... E invece no, sbagliavo, sbagliavo di grosso; tanto vero che dopo tre lustri e passa quel colloquio
continua
ancora
e, come
sembra,
non
accenna
a fi-
nire. Si direbbe che dubbi e problemi di lingua e di grammatica covassero da sempre nell’intimo di un’infinità di gente solo in apparenza lontanissima da questi argomenti, e che aspettassero l’occasione buona per sbottar fuori. È avvenuto cosî che una settimana dopo l’altra domande e risposte venissero a formare una tal montagna di carta che non si poteva buttar via; erano domande nate sotto l’impulso d’una necessità immediata che esigevano risposte pronte, chiare, risolutive, convincenti, domande il più delle volte intorno a problemi che nessuna grammatica s'era mai data la pena o aveva avuto l’occasione di discutere e di risolvere. Le grammatiche, si 5
sa, devono seguire schemi più o meno fissi e generali, e non possono sempre fermarsi su casi singolari, su difficoltà formali spesso imprevedibili, su problemi a volte addirittura personali, proprio quei problemi che lasciano bene spesso col pennino in aria chi si accinge a scrivere anche una semplice lettera commerciale. Questo spiega perché da più parti mi sia stato ripetutamente rivolto l’invito a raccogliere ordinatamente e organicamente il succo di questo dialogo disperso per centinaia e centinaia di colonne di giornale. E una volta accettato l’invito, ne è venuto fuori questo volume, che non può quindi considerarsi una grammatica nel senso tradizionale della parola, ma soltanto come è scritto appunto nel titolo — un’aggiunta alla grammatica, un supplemento pratico alle comuni grammatiche che vanno per le scuole. Un volume, voglio aggiungere, che mi sono studiatamente sforzato di liberare il più possibile di quella plumbea austerità che hanno più o meno tutte le grammatiche (le regole grammaticali, amici miei, non son materia, no, da show televisivo!), facendone
piuttosto un consigliere bonario, chiaro
e convincente, una specie di casalingo « ricettario » linguistico al quale ricorrere senza timorato rispetto ma con fiduciosa semplicità. Se ci sarò riuscito, tanto meglio per me e soprattutto per il lettore. Aldo Gabrielli
I
Maiuscole
e minuscole
Maiuscole
nei nomi
comuni.
Vecchia questione, dove non sarà mai possibile mettersi d’accordo. La grammatica dice una cosa che sappiamo tutti: si scri. vono con l'iniziale maiuscola tutti i nomi propri di persona e di cosa; e questa, sf, è una regola categorica. Ma il guaio è che, fatta eccezione dei nomi di persona e di luogo, non c’è una regola fissa che stabilisca quando un nome comune può diventar proprio e quando no. Moltissimi sono infatti i nomi comuni, e quindi scritti solitamente con la minuscola, che in un contesto acquistano il valore di nomi propri; prendiamo come esempio stato, novecento, libertà, bilancia; se è giusto scrivere « essere in cattivo stato », « novecento lire », « combattere per la libertà », «i pesi della bilancia », dovremo invece scrivere « lo Stato italiano, « l’arte del Novecento », « la statua della Libertà », « il segno zodiacale della Bilancia »; e questo perché, come avverte ancora la grammatica, questi nomi hanno subîto una personificazione, cioè non esprimono più un concetto generale, proprio dei nomi comuni, ma un concetto singolo, isolato entro una
determinata categoria di cose comuni. Sono diventati, cioè, nomi propri, come Mario, come Roma, come Sicilia.
Sembrerebbe davvero una regola facile; ma proprio sul concetto di personificazione non sempre è possibile andare d’accordo. Cosî accade che, mentre la grammatica vorrebbe che si scrivesse, per esempio, « l'Italiano è portato alla musica », « l’umorismo degli Inglesi », perché i due aggettivi italiano e inglesi diventano come il nome proprio di un singolo individuo o di un gruppo di individui considerati come un tutto a sé stante; accade, dicevo, che un gran numero di persone scrive anche in questo caso i due aggettivi con la minuscola. Prendiamo ora la parola Dio: sempre con la maiuscola, si 1l
capisce, per indicare l’essere supremo creatore dell’universo; « Pregare Dio », « Il Dio degli Ebrei »; ma, avverte la grammatica, sempre con la minuscola
quando si tratta di una divi-
nità pagana, tanto più che in questo caso abbiamo non solo un femminile dea, ma anche i plurali dèi e dee. Tutto semplice. E invece, incontriamo assai spesso anche qui la maiuscola: « la Dea Venere », «i sommi Dèi ».
Per Sole, Terra e Luna, che sono certamente nomi propri quando indicano i tre corpi celesti, la grammatica raccomanda che si scrivano sempre con la minuscola fuori del linguaggio strettamente scientifico; perciò: «la Terra gira intorno al Sole e ha come
satellite la Luna »; ma «la terra imbruniva
mentre
il sole calava all’orizzonte, e già sorgeva la luna ». Eppure, son nomi che s'incontrano con la maiuscola anche fuori dell’astronomia, e gli esempi classici abbondano, e il caro amico Fabio Tombari, scrittore fine e avveduto, ha condotto una battaglia
serrata per convincerci a scrivere Sole, Terra e Luna sempre la maiuscola; e mi duole sinceramente di non potergli ragione. Ma dove la confusione rimane davvero grande è in quei in cui con le maiuscole si vuole addirittura esprimere un
con dare
casi sen-
timento personale di rispetto, di devozione, di ammirazione, s'intende più o meno sincero e sentito; il compianto Camilli le chiamava « maiuscole reverenziali »; i casi, insomma, di papa, re, imperatore, ministro, duca, presidente, ecc., nomi
che indicano dignità, titoli di onore. Si tratta propriamente di nomi comuni, e si scriverà correttamente « l’elezione del nuovo
papa », «la residenza del vescovo »; ancora con la minuscola quando il titolo è seguito dal nome: « papa Paolo VI », «il conte Confalonieri ». Però la grammatica consiglia di usare Ja maiuscola in quei casi in cui si indica col titolo la persona stessa che lo incarna: « Il Papa ci ha benedetti », « Parlò il Presidente », « Entrò il Conte ». Ma ecco che un ateo scriverà papa in ogni caso, un monarchico sempre presidente, e ormai di conti con la maiuscola non se ne incontrano che nei romanzi del Sette e dell’Ottocento. Non parliamo di nomi di istituzioni e di enti, di titoli di opere e simili, dove spesso il nome è un composto di più parole. Scriveremo Repubblica francese o Repubblica Francese? Banca commerciale italiana o Banca Commerciale Italiana? Anche qui le opinioni sono discordi. Ma a me pare che gli elementi com12
"
positivi del nome non essendò in nessun modo separabili, debbano considerarsi tutti nomi propri e vadano perciò scritti con la maiuscola; e scriverei anche « la casa editrice Arnoldo Mon-
dadori Editore » e non «la Casa Editrice Arnoldo Mondadori editore » perché la ragione sociale, vero nome proprio della società, è appunto « Arnoldo Mondadori Editore ». E coi titoli di opere come la mettiamo? Scriveremo Orlando furioso © Orlando Furioso? Corriere della sera o Corriere della Sera? Anche qui propendo per le maiuscole, escludendo, s’intende, gli articoli e le preposizioni articolate; se però l’articolo fa parte integrante del titolo, sempre maiuscolo: I Promessi Sposi, Le Novelle della Pescara, Il Gattopardo. Ma sento già l’obiezione: e con certi titoli sesquipedali, che pur non sono rari, come se la caverebbe? Per esempio, Niente di nuovo sul fronte occidentale, di Remarque, Figurine del mondo
vecchio e del secolo nuovo,
di Panzini?
Certo, dopo il
consiglio ora dato, c'è da rimanere in.erdetti. Vado a guardare sul catalogo mondadoriano:
tutte minuscole, . alvo, s'intende, la
prima iniziale. E credo che sia la risoluzione migliore, perché in certi casi è bene metter da parte la regola e guardare aula logica: anche l’occhio vuol la sua parte. E poi, su una cosa credo che tutti, grammatici e non grammatici, vadano d’accordo: meno maiuscole useremo e tanto meglio sarà.
Minuscole nei nomi propri. La televisione, nei lunghi e a volte eterni elenchi di nomi di attori, autori, registi, tecnici eccetera, usa spesso scrivere que-
sti nomi propri con la lettera iniziale minuscola. Moltimi chiedono: ma non è un errore? Rispondo: è un errore. Se c’è una parte della grammatica (ho appena finito di dirlo) dove tutti si sono messi da secoli d’accordo è proprio questa che riguarda l’iniziale dei nomi propri, e non solo di persona ma anche di cosa, che si distinguono dai nomi comuni appunto per l’iniziale maiuscola: « Alessandro Manzoni» e non « alessandro manzoni », « Milano » e non « milano » come la televisione mostra
sovente di preferire. Si capisce che si tratta, diciamo cosî, di un vezzo, di una piccola stravaganza formale scaturita dal cervello estroso di un tecnico grafico in vena di novità a tutti i costi. Ma trasferir questo vezzo su uno schermo televisivo, e 13
con un’insistenza che sembra ormai rasentare la norma, può rappresentare un’imprudenza grave ai danni dei meno avveduti, non solo, ma anche di chi pit facilmente soggiace alla suggestione del nuovo e dello strambo. Infatti quest’uso della minuscola nei nomi propri si va sempre più trasferendo dallo schermo
televisivo (e a volte anche cinematografico)
sulla nor-
male carta stampata, come mi è dato sempre più spesso di vedere sulle carte intestate, sui biglietti di visita, sui manifesti e perfino sulle copertine dei libri. Mi spiace di dovere con tanta frequenza muovere appunti alla nostra televisione, per tanti aspetti meritevole di caldissimi elogi. Ma i nostri dirigenti televisivi devono rendersi sempre conto della potenza espressiva del mezzo di cui dispongono, e vigilarsi costantemente anche in quelle che possono considerarsi minuzie, come appunto una piccola iniziale minuscola puramente cervellotica messa al posto di una ragionevole tradizionale iniziale maiuscola.
Piazze, vie, mari, laghi, monti...
Continuiamo il discorso delle iniziali maiuscole per casi più particolari. Diremo Piazza Dante o piazza Dante, Corso Roma o corso Roma, Via Mazzini o via Mazzini? Si può scrivere, si capisce, nell’uno e nell’altro modo, errore non si farebbe; ma
se ragioniamo un attimo mi sembra che le prime forme con entrambe le maiuscole siano da preferirsi: Piazza Dante fa tutto un nome; io non posso dire « Ci vediamo in Dante », nessuno mi capirebbe; dunque la parola piazza è strettamente collegata a Dante, diventando un nome unico, e un nome proprio: perciò tutte iniziali maiuscole come si fa con i nomi e i cognomi. Analogamente scriveremo Corso Roma e Via Mazzini: chi direbbe « Abito in Roma al numero 24 » 0 « L’ho incontrato in Mazzini ieri sera »?Scriveremo Teatro alla Scala o teatro alla Scala? Palazzo Barberini o palazzo Barberini? Palazzo Reale o palazzo Reale? Anfiteatro Flavio o anfiteatro Flavio? Pensiamoci un po’ su, e vedremo che qui pure gli elementi costitutivi di ciascuna frase non sono assolùtamente separabili l’uno dall’altro senza creare qualcosa che non indica nulla. Quindi a mio avviso sempre maiuscole. In particolare questo appare ovvio quando il secondo x elemento è addirittura un aggettivo, come in Palazzo Reale:
14
reale preso a sé non indica certo un palazzo, allo stesso modo che Flavio, nome proprio di persona, non può indicare anche un anfiteatro. Veniamo ora a certi nomi geografici. Scriveremo senza esitare fiume Po ché solo Po è il nome proprio del fiume: « Una remata sul Po»; scriveremo ugualmente bene il fiumze Adige e il torrente Scrivia; ma dovremo scrivere, non ci son dubbi, il Fiume Azzurro, il Fiume Giallo, ché « una remata nell’Az-
zurro o nel Giallo » farebbe spalancare gli occhi all’ascoltatore. L’aggettivo, insomma, da solo non può creare il nome di un luogo: perciò anche Monte Bianco, Monte Rosa, Monte Nero, Lago Maggiore, Mar Rosso, tutte maiuscole; ma potremo scrivere il monte Etna («l’eruzione dell’Etna » va benissimo), il monte San Gottardo («la galleria del San Gottardo »), e anche il lago di Garda («una gita sul Garda »), il lago Trasimeno (« le isole del Trasimeno »), ecc. Ci son tuttavia dei casi dove anche l’aggettivo può stare a sé, può far da nome proprio: e avviene quando l’uso continuato di questo aggettivo ha portato alla sua sostantivazione, e quindi alla sua capacità di far da nome proprio: è il caso dell’Oceano Atlantico, dell'Oceano Pacifico, del Mare Adriatico, del Mare Tirreno e di tanti altri mari che possiamo tranquillamente semplificare in Atlantico, Pacifico, Adriatico e Tirreno senza téma alcuna di non essere capiti.
Le consonanti
venute
di fuori.
Diciamo meglio consonanti non specifiche del nostro alfabeto. Sono cinque: la j (i lunga), la £ (cappa), la x (ics), la y (fpsilon)
e la w (vu doppia). Solo la w può considerarsi
straniera in
senso stretto, ché non fece mai parte del nostro alfabeto, men-
tre la j fu usata fin dal latino medievale, e poi, nel Cinquecento, venne introdotta anche nell’italiano; la x ci viene dal latino fin dal periodo classico, e anche dal greco, sia pure con
diverso segno; la & e la y ci vengono pur esse dall’alfabeto greco e latino; tutte lettere, dunque, di stretta cuginanza. Che uso faremo oggi di queste consonanti? Dico subito, un uso molto molto ridotto, sempre che non si debba, naturalmente, trascrivere una parola nella sua forma originaria. Esaminiamole rapidamente una per una. 15
La j si usava in passato in alcuni precisi casi: quando era iniziale di parola seguîta da vocale, come in jattura e jeri; quando era iniziale di sillaba nell’interno di parola, come in fornajo e cesoje; come terminazione plurale dei nomi in -i0 àtono, come studj, varj, fornaj. Oggi tutto questo non più. La j resta solo in certi nomi propri per ragioni tradizionali, storiche o anche soltanto anagrafiche, come Jàcono, Ojetti, Rèjna, Pistoj, e solo in questi casi io consiglierei di rispettarla; in nomi propri di paesi, regioni e simili e in certi nomi comuni dove l’uso della j è del resto molto oscillante, più che altro affidato al gusto o all’abitudine di chi scrive, io direi di abolirla affatto: ja, ma meglio Aia, Jesi, meglio Iesi, e cosî Ionio, Iugoslavia, iodio,
iuta, iunior, invece di Jonio, Jugloslavia, jodio, juta, junior. La k. Ci viene come ho detto dal’alfabeto greco e latino, col suono di c gutturale. Ormai da noi resta solo in alcuni simboli della scienza e della tecnica (k77, chilometro, kg, chilogrammo, K maiuscola come simbolo del potassio, dal latino Kdliurz, ecc.). Manterremo naturalmente questo segno nei nomi stranieri trascritti come tali (Kaiser, Kirsch, Kursaal, Krapfen; Kiimmel, Kant, Keplero, ecc.), ma la aboliremo, sostituendola col c guttu-
rale, in tutte quelle parole più o meno italianizzate e ormai saldamente assimilate nel nostro lessico, si da considerarsi italiane (cachi, invece di kaki, caiaco o caiacco invece di kaiak, capòc in-
vece di kapoc, caracùl invece di karakul, chepi o cheppi invece di képi, chimono invece di kimono, clacson invece di Klaxon, cherosene invece di kerosene, ecc.). La x, consonante del greco e del latino, col suono di cs,
sopravvive in certi nomi propri come Ximenes, Bixio, Oxilia, Xanto (ma Carducci scrisse Csanto) ecc. Essendo però lettera di suono aspro, contrario alla morbidezza del nostro idioma, si tende sempre più a evitarla sostituendola con una s di suono sordo o con una doppia s: come in bauxite, uxoricida e uxoricidio che s’incontrano anche scritti baussite, ussoricida e ussoricidio,
e più frequentemente in tassi invece del francese taxi. Ma la x è soprattutto frequente in principio di parole per lo più di origine
greca,
come
xendòfobo,
xilòfono,
xilògrafo,
ecc.
dove
l’uso sempre più dimostra di preferire — ed è una preferenza da raccomandare — la semplice s tutta italiana: serofobia per xenofobia, senòfobo per xenòfobo, serografia per xerografta, silèma per xilèma, silofagia e Silòfago per xilofagia e xilòfago, silòfono per xilòfono, silografia, silogràfico e silògrafo per xilo16
È
grafta, xilogràfico e xilògrafo, silòide per xildide, silolite per xilolite, siloteca per xiloteca, e poche altre. Frequenti nella nostra lingua sono poi le preposizioni latine ex ed extra, usate come prefisso in frasi del tipo ex-deputato ed extrafino; ma qui pure si tende ad addolcire la x di extra (per la semplice ex non sarebbe possibile essendo sempre usata separatamente e mai fusa con la parola che segue); cosî, invece di extrafizo si dirà estrafino © addirittura strafino, invece di extradotale si dirà estradotale
o stradotale,
e analogamente
scriveremo
estraconiugale,
estracontrattuale, estragiudiziale o stragiudiziale, estralegale, estraparlamentare, estrapolare, estraterritoriale, estravagante, ecc. Greca anche la y (c’è chi la chiama alla francese i greca), che
tende a sua volta a scomparire dal nostro alfabeto. Si eccettuano i soliti nomi propri, come Scotland Yard, Nuova York, Yorick, ecc. e quei nomi comuni non assimilati che perciò vengono
trascritti nella loro forma originale: yachts, yak, yankee e pochi altri. In tutti gli altri casi, ove sempre più si afferma la forma italianizzata, la y si sostituirà con la semplice i: iamzatòlogo per yamatòlogo, iarda per yard, iatagan per yatagan, ioga per yoga,
iogurt per yoghurt, iole per yole, iprite per yprite, iucca per yucca e qualche altro. Ci son poi certe ragazze snobiste che mettono il loro orgoglio in una y da infiorarne il loro nome, come Lydia invece del comunissimo Lidia, e Myriam invece di Miriam. Dopo i diciott'anni queste fanciullaggini non saranno più permesse. Resta l’ultima lettera, w, questa sf, come ho detto, schiettamente straniera. Comune nelle parole tedesche dove si legge come il nostro v (Wagner, Wagram, Wiirstel) e inglesi, dove dovrebbe pronunciarsi come una nostra u (William, Wisconsin, wafer, whisky), in molte parole straniere da tempo assimilate
si sostituisce meglio con la semplice v; valchiria per walchiria © walkiria (forme né italiane né tedesche), valzer invece di walzer, vàpiti invece di wéàpiti, volframio invece di wolframio, ecc. Anche in alcuni nomi propri l’italianizzazione preferisce Vanda a Wanda, Vilma a Wilma, Volfango a Wolfango, ma spesso
trova resistenza negli interessati per il solito snobismo di cui sopra.
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II
Accenti obbligatorii, facoltativi e sbagliati
Accenti obbligatorii. In materia di accenti c’è da avvertir subito che la lingua italiana, a mille e passa anni da quando è nata, è ancora
un caos, un
tiremmolla, un pasticcio. E questo perché nessuno si è preso mai la briga di sistemar le cose una volta per tutte, come han fatto da tempo altre lingue, la francese e la spagnola per esempio. In attesa che qualcuno pensi autorevolmente e definitivamente a occuparsene, cercherò di mettere un po’ d’ordine nella faccenda, rifacendomi un po’ alle grammatiche, un po’ alle norme sul segnaccento emanate dall’UNI (Ente per l’Unificazione Italiana) e dirette in particolare agli editori e ai tecnici tipografici, e un po’ rifacendomi, infine; alla pratica e al buon senso. Oggi come oggi, mi sembra che gli accenti nella nostra lingua possano dividersi in tre distinte categorie: accenti obbligatorii, accenti facoltativi, accenti sbagliati.
Sono obbligatorii quegli accenti che a non usarli si commette errore di ortografia; sono facoltativi quegli accenti che usati secondo il giudizio e il gusto personale di chi scrive, servono opportunamente a evitare ambiguità di senso o di lettura; sono sbagliati quegli accenti che vengono collocati senza scopo alcuno e, nel migliore dei casi, servono solo ad appesantir la scrittura. Esaminiamoli particolarmente. L’accento è obbligatorio: 1. su tutte le parole di due o più sillabe tronche in vocale: libertà, perché, fini, abbandonò, laggi;
2. sulle parole monosillabe terminanti con due vocali di cui la seconda ha suono tronco: chi, ciò, diè, già, giù, piè, più, può, scià; però su gui e su qua, ricordiamocelo, l’accento non va (e
vedremo più avanti il perché); 21
3. sui seguenti dieci monosillabi per distinguerli da altri monosillabi
di identica
forma
i quali, non
accentati,
hanno
un
significato del tutto differente:
— ché, poiché, perché, congiunzione causale (« Andiamo ché si fa tardi») per distinguerlo da che, congiunzione e pronome (« Sapevo che eri malato », « Can che abbaia non morde »); - dà, indicativo presente di dare (« Non mi dà retta ») per distinguerlo da da, preposizione, e da’, imperativo di dare (« Viene da Roma », « Da’ retta, non partire »);
— di, giorno (« Lavora tutto il di») per distinguerlo da di, preposizione e d?’, imperativo di dire (« È l’ora di alzarsi », « Di’ che ti piace »);
— è verbo (« Non è vero ») per distinguerlo da e congiunzione (« Io e lui »);
— là, avverbio di luogo («È andato là ») per distinguerlo da la articolo, pronome e nota musicale (« Dammi la penna », « La vidi », « Dare il la all’orchestra »);
— li, avverbio di luogo (« Guarda lî dentro ») per distinguerlo da li articolo e pronome (« Li 24 ottobre », « Li ho visti »);
— né congiunzione (« Né io né tu ») per distinguerlo da ne pronome e avverbio (« Ne ho visti parecchi », « Me ne vado subito »); — sé, pronome
personale tonico (« Lo prese con sé ») per di-
stinguerlo da se pronome
àtono e congiunzione (« Se ne prese
la metà », « Se lo sapesse »);
— si, avverbio di affermazione o «cosî » (« Sî, vengo », « Sf Z . * . * x . LI bello e sf caro ») per distinguerlo da si pronome (« Si è ucciso »); — tè, pianta e bevanda
(« Piantagione di tè », « Una tazza di
tè ») per distinguerlo da te (di suono chiuso, « té ») pronome (« Vengo con te »).
L’accento è facoltativo, cioè dipende dal solo giudizio o gusto di chi scrive, in tutti quei casi in cui può servire a evitare ambiguità di senso o di pronunzia. Il caso più frequente è quello dell’accento sulla forma sdrucciola di una parola di significato diverso quando sia pronunziata piana: nèftare e nettare, compito e compito, sibito e subito, capitano e capitano, àbitino e abitino, 22
àltero e altero, àmbito e ambito, duguri e auguri, bàcino e bacino, circiito e circuito, fristino e frustino, intuito e intuito, malèdico e maledico, mèndico e mendico, nòcciolo e nocciolo, rètina e retina, ribino e rubino, séguito e seguito, viola e viola, vitiperi e vituperi, eccetera eccetera. Si tratta di accenti utilis-
simi che vanno a vantaggio di chi legge, sempre che siano usati, s'intende, a ragion veduta. Accenti facoltativi, utili sempre e a volte addirittura necessari, sono quelli che segnano la posa della voce sulle terminazioni in -i0, -ia, -ii, -te, come fruscio, tarsia, fruscii, tarste, e ancora: lavorio, leccornia, gridio, albagia, godio, gemitti, vibrio, brillio, codardia, e via per centinaia di casi. Necessari son poi, come dicevo (e io li catalogherei addirittura tra gli obbligatorii), in certi vocaboli di ugual forma ma che con diversa
accentazione cambiano a volte addirittura di significato; è il caso di abbaglio e abbaglio, abbato e abbaio, balia e balia, bacio e bacio, gorgheggio e gorgheggio, colonia e colonia, gorgoglio e gorgoglio, raschio e raschio, sdrucio
e sdrucio, regia e regia,
eccetera. Un'altra categoria di accenti facoltativi, questi detti propriamente fòrici, è quella che avvfa subito alla corretta pronunzia delle vocali e ed o nell’interno di una parola la quale con la pronunzia aperta ha un significato e con la pronunzia chiusa ne ha un altro: féro, buco, fòro, piazza, téma, timore, tèma, argomento, mèta, fine, méta, sterco, còlto, da cogliere, còlto, istruito, rocca, fortezza, récca, arnese per filare, ecc. Ma qui soprattutto
abbisogna cautela: chi ha dimestichezza con questi accenti acuti e gravi, se ne serva pure, anche con larghezza; ma chi dimestichezza non ha, se ne tenga distante, o consulti bene prima un dizionario.
E infine, ecco gli accenti sbagliati, e considero sbagliati gli accenti inutili, che a metterli non si chiarisce nulla, che non servono a nulla, perché non rispondono a nessuna esigenza di senso o di pronunzia. Perciò è vero e proprio errore scrivere « dieci anni fà », accentando il fa verbale che non potrà mai confondersi con la nota musicale; come sarebbe errore scrivere (e alcuni lo fanno trascinati dal suono tronco) « non lo sò », « cosî non và » accentando senza ragione il so e il va.
23
Qui e qua. La grammatica afferma che l’accento è prescritto in quei monosillabi dove la vocale finale tònica è preceduta da un’altra vocale:
pid, giù, già, ciò, piè, chid, ecc.
Benissimo:
ma
allora
perché la stessa grammatica dice che scrivere qui e quà con l’accento è errore da matita blu? È un ragionamento serrato, che vorrebbe mettere la grammatica, come sportivamente si dice, alle corde; ma non è cosî. Infatti la lettera 9 non si scrive mai isolatamente ma sempre ac-
compagnata dalla vocale «, formando il nesso inscindibile qu a cui si fa sempre seguire una seconda vocale con la quale fa sillaba; qua-le, que-sto, quin-to, quo-ta. Inoltre, su questa x servile della consonante 9 non cade mai l’accento. In altre parole, è una vocale che non è vocale a sé ma un elemento stesso della consonante. E allora ecco che si segue per qui e per qua quell’altra regola che dice: i monosillabi formati di una consonante e di una vocale non si accentano mai: re, fa, tu, su, no, me, te, lo, ecc. Si fa eccezione solo per quelle coppie di monosillabi che hanno ugual forma ma significato diverso: è verbo, e congiunzione, dà verbo, da preposizione, ecc. come
sopra s'è visto.
Qua, qui, accento o non
sempre come
accento,
si leggeranno
si
leggono; invece pid, già, ciò, piè senza accento si leggerebbero soltanto « pfu », « gfa », « cio », « pfe ».
Dò, dài, dà... In fatto d’accenti, lo abbiamo
visto, l’italiano non ha sempre
regole fisse. Il caso del verbo dare è uno dei tanti in cui ciescuno si regola come vuole. Le grammatiche prescrivono di limitare l’accento alla sola terza persona singolare dell’indicativo presente: egli dà. Invece poi, nell’uso, incontriamo accentate anche la prima e la seconda persona singolare, io dò, fu dèi,
e la terza plurale, essi dànzo. accento in più non guasta mai. fanno i Francesi e gli Spagnoli. a loro gusto: « La tessera / al (Carducci); « Questo danno ci
Ho sempre sostenuto che un Guardate che seminfo d’accenti Gli stessi nostri scrittori vanno secco taglio dài de la guardia » dài, questo scorno / ci dài »
(D’Annunzio); «I Malatesti non dànno quartiere » (D’Annunzio); « Se gli dài i bigliettoni da mille » (Moravia); « Si dànno
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al fuoco i casotti del dazio » (‘Carlo Levi). Il grande dizionario
del Battaglia accenta le forme dèi, dà, dànno, però l'imperativo dai lo fa senza accento: forse una dimenticanza; il « Dizionario enciclopedico italiano » consiglia anche la forma accentata io dò. Regole fisse, dunque, non ce ne sono;
ma
se dovessi dare un
consiglio direi: accentate più che potete, non fa male all’occhio, ed evita qualche errore. D'Annunzio accentò perfino il passato remoto désti: « Fiori tu désti alla città natale », certo per avvertire subito l’occhio della giusta pronunzia chiusa della vocale e.
Ventitré, lungopò... Un ingegnere di Agrigento mi scrisse un giorno molto cortesemente per rammentarmi quel che avevo detto altra volta a proposito dei composti del numerale fre, come ventitré, trentatré, quarantatré e via all’infinito; avevo detto che questi composti vogliono sempre l’accento, anche se il numerale tre, preso isolatamente, l’accento non lo vuole. Aggiungeva l’ingegnere: « Come si spiega allora che alcuni autori, anche importanti, su libri e su giornali, scrivono ventitre e trentatre senza l’accento? » Rispondo: padronissimi codesti autori di scrivere ventitre senza l'accento, ma
resta il fatto che scrivendo cosî commettono
un
errore di ortografia. Potrei anche informare i miei contraddittori che lo stesso Carducci trascurò l’accento, cosî come negli ultimi anni tolse l’accento anche al suo nome Giosue; trascurò l’accento anche il D'Annunzio, sebbene non costantemente; ma con tutto il rispetto dovuto a questi grandi poeti, debbo ribadire che ventitré e quarantatré e tutto il resto quando non vengano accentati, errori sacrosanti restano e non c’è grandezza che possa giustificarli. Perciò mi ha meravigliato che fl famoso DOP (Dizionario d’ortogra-
fia e di pronunzia) edito dalla Rai, sempre raccomandabile per la sicurezza e la severità dell’informazione, in questi e in altri simili composti abbia inopinatamente allargato la manica, avvertendo, accanto alla forma ventitré accentata, che questa forma è « meglio » che ventitre senza l’accento; e accanto al trentatré e quarantatré, ecc. che è «meno bene » scrivere frentatre e quarantatre disaccentati. In libri come questo, che voglion essere qualcosa come il codice della corretta scrittura e pronunzia, a me pare che non dovrebbero trovar luogo i « meglio » e i « meno bene », nota25
zioni che quando non convalidano addirittura un errore, come nel caso nostro, ad altro non servono che a perpetuare tutti gli infiniti irre e orre della nostra ortografia, ancora
fondata,
dopo secoli e secoli, sull’opinione di chi la usa. Tutto questo discorso parte da una regoletta elementare, che abbiamo visto più sopra, per la quale nella nostra lingua tutte le parole tronche in vocale, dal bisillabo in poi, vanno sempre
accentate. È una semplice legge grafica fondamentale felicemente introdotta nella nostra scrittura fin dal Cinquecento, e bisogna rispettarla; non si può fare eccezione per un ventitré, non ci si può arzigogolare intorno con i « meglio » e i « meno bene ». A proposito di questo tipo di accento ci fu un altro giorno un tale, torinese, che mi rovesciò addosso gravi parole di deplorazione perché avevo sostenuto che anche il composto lungopò richiede sempre l’accento, perché, se fosse senza accento non altrimenti potremmo leggerlo che « lungòpo », oppure « liingopo », se si preferisce. Mi disse che quel Po, nobile fiume,
con quel segnetto sopra non poteva assolutamente accettarlo. Padronissimo di non accettarlo (poteva tuttavia scrivere lungo Po, cosi come qualcuno scrive lung'Arno e lungo Tevere); però
vorrei ora chiedere a lui e a tutti i sostenitori del ventitre disaccentato, come si regolano poi con parole del tipo viceré, autogrii, rossobli, nontiscordardimé (cito quelle che mi vengono sulla penna) le quali, per coerenza coi loro principii ortografici, dovrebbero essere scritte tutte senza l’accento. E sempre per coerenza, penso che dovrebbero abolire l’accento anche su molte
altre parole di composizione analoga ai nostri ventitré e lungopò; per esempio, tutti i composti di che: altroché, benché, fuorché, sicché, giacché, e gli stessi perché e poiché, e poi lassi e quassiu e ahimè, e chissà... Dice bene il Migliorini che «l’ortografia deve mantenere una sua coerente simmetria »: se scriviamo perché per non leggere « pèrche », se scriviamo /ass4 per non leggere
« lìssu », è necessario scrivere ventitré, lungopò, viceré e autogr per non leggere « ventitre », « lungòpo », « vicère » e « autògru ». Non ci son santi!
Sé stesso, sé medesimo.
.
Una delle regolette fasulle più dure a morire, e che le grammatiche continuano monotonamente a tramandarsi l’un l’altra, e molti scrittori, anche grandi scrittori, continuano scrupolosamente ad applicare, è questa che dice: il pronome sé si accenta sempre quando è isolato: « se lo porta con sé », per distinguerlo dal primo se che è congiunzione; invece non si accenta davanti a stesso e stessa, medesimo e medesima perché questa distinzione non è più necessaria; però un momento: bisogna ugualmente accentarlo al plurale, e scrivere sé stessi e sé stesse per non scambiarli con le forme verbali di stare; invece se medesimi e se medesime vanno sempre senza accento perchéla confusione, di nuovo, non è possibile... Se la nostra grammatica non fosse infarcita di queste sottigliezze_ confusionarie, non sarebbe forse quella reietta che è. Vorrei ripetere a tutti quelli che mi leggono, e in particolare ai numerosi insegnanti ancora impastoiati in queste cianciafruscole, che una volta stabilito che il sé pronome si deve scrivere accentato per distinguerlo, come è giusto, dal se congiunzione (e l’esempio sopra citato ne dimostra la necessità), non si capisce poi perché uno stesso e un medesimo che seguono debbano
modificare mazione e centato il una norma benedire.
questa regola. Si fanno forse eccezioni tra il st afferavverbio e il si particella pronominale? Sempre acprimo, mai accentato il secondo. Seguiamo dunque comure, e la regoletta fasulla andrà finalmente a farsi
IH «sé» con l’accento
In un romanzo di Riccardo Bacchelli si trova questa frase: « St, Agata, abbi coraggio ». Quel sé avverbiale con tanto di accento è legittimo? Legittimissimo,
anche se non
molto comune.
In effetto, fra
il su preposizione e il su avverbio c'è una notevole diversità di suono. Il su preposizione è generalmente àtono: « Méttilo
su una tavola », « Guarda su quel monte ». Invece il su avverbiale è fortemente
tònico:
« Méttici su una tavola », « Guarda
su verso il monte». Questa maggior posa della voce alcuni preferiscono segnarla anche visivamente con l’accento: « Lèvati 27
si », « Va sù a vedere », « È meglio riderci si », « Metter si casa », e simili. Anche perché, a volte, l’accento può tornar utile per evitare confusione di senso: «Metti su una tovaglia ». Il caso è raro, ma può accadere. È insomma uno di quegli accenti che abbiamo definiti utili. Oltre al Bacchelli, usano l’avverbio sé accentato (ma non mi sembra costantemente) il Panzini, il Pirandello, il Bontempelli, il Monelli, il Landolfi e
qualche altro, per citar solo quelli che mi vengono in mente: « Guardai
in sé le due file delle finestre » (Panzini);
« Non
c'era che da tirar si lo sportello della gabbia » (Pirandello); « Si precipitava a tenerla sù » (Bontempelli). E a proposito di su in funzione di preposizione, voglio accennare a due forme antiche, ma sempre vive, sia pur rare: la sur eufonica e la s’ elisa davanti a vocale w- iniziale di parola (s’un, s'una). Il Manzoni usò costantemente la sur prevocalica: « sur un panchetto », « sur una seggiolaccia », « sur un tavolino »,
« sur una parte del pavimento », eccetera. Ma anche tra gli scrittori più recenti esempi se ne trovano: « sur un alto pioppo » (Pascoli); « chi sur un sasso, chi sur un sacco a terra » (Sòffici); «sur una scena » (Baldini). E nel Carducci leggiamo:
« s'una picca ».
Il circonflesso.
Due paroline potremo
spenderle anche per questo particolare
accento, che ha, come
sapete, la strana forma di una
v rove-
sciata, *, e che va sempre più scomparendo dall’uso. Si incontra ancora, ma anche qui di rado, nella poesia, per indicare una sincope, cioè la soppressione di una sillaba nel corpo di una parola: corre per cogliere, t6rre per togliere, féro per fecero, tòsco per tossico, e cosî via; o anche per indicare un’apòcope, cioè la soppressione di una sillaba in fin di parola: firo per furono, amaro per amarono, perdéro per perderono, ecc. Ma qual poeta moderno si attenterebbe più a usare un còrre, un fàro e un perdéro? E se anche li usassero preferirebbero forse ricorrere anche qui ai due soliti accenti acuto e grave, secondo la pronunzia:
féro, perdéro, còrre, tòsco.
Il circonflesso resiste invece di più (e meglio lo vedremo parlando dei plurali) per indicare la contrazione in una delle due : nascenti dal plurale dei nomi in -io con la i non accentata: 28
vari invece di varii, studî invece di studii, armadî invece di armadii. Ma anche in questo caso il circonflesso appare inutile, bastando una semplice î quando non sia possibile una confusione di senso:
vari, studi, armadi.
molti preferiscono
addirittura
Nei casi di senso incerto,
la doppia i: assassinii, plurale
di assassinio, ma assassini plurale di assassino, ammalii, da ammaliare, ma ammali da ammalare.
Due segni, due suoni. Non tutti, anche quelli che insegnano grammatica, fanno gran caso al fatto che la nostra lingua può disporre di due specie di accenti tònici. uno che va da sinistra verso destra,
, e uno
che va da destra verso sinistra, . Il primo si dice accento grave, perché serve a indicare il suono largo o aperto di due vocali, la e e la o, il secondo accento acuto, perché serve a indicare il suono chiuso o stretto delle stesse vocali. Questi
accenti, in questa loro particolare funzione, assumono pi precisamente il nome di accenti fònici. Queste cose non c’è grammatica che non le dica; ma in pratica quanti sono che ne tengono conto? Eppure si tratta di due segni niente affatto trascurabili, per il fatto che servono non solo a indicare la sillaba tònica, quella sillaba cioè dove la voce deve posarsi pronunziando quella determinata parola, ma anche il suono corretto che dobbiamo darle nel pronunziarla. Tutto ciò, ripeto, riguarda nella nostra lingua solo il suono delle due vocali e ed o. Perciò se io scrivo caffè, quell’accento grave segnato sulla vocale tronca è mi fa sapere che essa va pronunziata correttamente aperta;
se invece
scrivo
perché vuol dire che la é finale va
pronunziata correttamente chiusa. Ne viene come logica conseguenza che se scrivessi « perchè » non potrei pronunziare altrimenti che con un suono finale aperto, e perciò scorretto; analogamente dovrei pronunziare scorrettamente chiusa la vocale finale di « caffé » se la scrivessi con l’accento acuto. Sarebbe quindi più che opportuno se anche scrivendo a mano o a macchina ci abituassimo a usare i due diversi accenti secondo il suono che dobbiamo dare alla sillaba tonica in vocale e. Lo stesso ragionamento vale per la vocale 0, che in sillaba finale tronca ha quasi costantemente il suono aperto: però, amò, falò, ma che 29
nei corpo della parola può a volte avere anche suono chiuso, come in féro, célto, compito, ecc. Ma chi si prende cura di tutto questo? Purtroppo certi avvertimenti della grammatica sono ritenuti, anche da persone di buoni studi, trascurabili pignolerie; ma se questo potremo perdonarlo, che so, a un ingegnere o a un medico, non mi par tollerabile in un insegnante di grammatica. Se fin dalle scuole elementari si insegnasse a scrivere, per quanta è lunga l’Italia, perché, né, trentatré, e poi cioè, caffè e Mosè, per indicare i due diversi modi di pronunziar correttamente la vocale e, si potrebbe forse ottenere, a lungo andare, quella uniformazione di pronunzia che è sempre stato il problema serio dei nostro linguaggio. Un Milanese, che cominciasse a scrivere fin dai sei anni perché avrebbe certo una buona guida visiva per correggere il naturale « perchè » del suo dialetto. Si obietterà:
ma
quanti degli stessi insegnanti,
specialmente
delle regioni
settentrionali e meridionali, conoscono esattamente la pronunzia della e e della o tònica? Non tutti, siamo d’accordo; ma il rimedio mi sembra ovvio: ricorrano, dove sono incerti, al vocabolario, e la lezioncina servirà a lungo andare anche per loro. Pesavano a me pure, quando ero studente, le sottigliezze grafiche e foniche che mi inculcavano i miei grandi maestri
Adolfo Gandiglio e Manara Valgimigli; parevano a me pure sottigliezze da pedanti; ma poiché anche gli errori d’accento contavano sul totale, e fioccavano i tre e i quattro anche in compiti letterariamente sufficienti, imparai presto, e come, il valore di quei due semplici segnetti; e ora essi mi vengono spontanei sulla penna come mi vengono spontanei tutti i segni dell’alfabeto. Bisogna dunque insistere anche su queste apparenti minuzie, e vorrei che gli insegnanti, soprattutto i più giovani, mi ascoltassero. ; Quando, nel lontano 1925, come responsabile della cura tecnica dei volumi, mi ardii di introdurre in tutte le edizioni Mondadori l’accentazione fonica, seminando di acuti e di gravi opere di illustri autori, si scatenò un putiferio; non già tra gli autori stessi, che furono anzi lietissimi dell’innovazione, ma fra i tipografi compositori che videro sconvolta una loro lunga
indisturbata tradizione; ch’era quella di accentare sempre, in ogni caso, col segno del grave. Ma avendo l’editore stesso accettato la mia proposta, i tipografi, proto alla testa, dovettero piegarsi al nuovo sistema. Non dico questo per stupida vanità, 30
s1 capisce, ché io non feci che seguire l’esempio degli editori Zanichelli e Laterza dai quali rispettivamente il Carducci e il Croce avevano da tempo ottenuto l’accentazione fonica delle vocali e ed o nelle loro opere; lo dico solo per dimostrare una volta di più che ogni novità, quando è fondata sull’utilità e sul buon senso, ed è applicata coraggiosamente e tenacemente sostenuta, finisce sempre col trionfare. Al punto che oggi non c'è editore, e neppur rivista e perfino quotidiano — quelli almeno che hanno alle spalle direttori e redattori di buona cultura e aggiungerei di buon gusto — che non abbiano adottato l’uso dell’acuto e del grave, secondo la corretta pronunzia. E per finire questo argomento degli accenti, aggiungerò che sulla vocale a, che ha sempre per natura suono aperto, l’accento da usarsi non creerà problemi: sarà sempre grave, come in città, verrà, là, capita, àncora. Qualche discussione si potrebbe fare sull’accentazione delle vocali î ed , che avendo per natura suono chiuso, dovrebbero, per coerenza, essere sempre accentate acute: /i, fini, laggiài, Per; e questo è il sistema che mi fu insegnato e che io séguito a praticare per forza d’abitudine. Ma poiché il suono di queste vocali, nell’un modo o nell’altro accentate, non può cambiare, molti preferiscono usare anche per esse sempre l’accento grave.
lead Si Sta) e Ù
cori è 94h,
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Divisione sillabica delle parole. La divisione in sillabe delle parole e quindi la loro spezzatura quando si debba andare a capo in fin di riga, è fonte non piccola di incertezze. Vediamo di semplificare le cose nella maniera più schematica possibile, dando regole pratiche, da applicare senza titubanze sulla carta. Tutta la faccenda si può ridurre a quattro regolette sole: la prima concernente le vocali iniziali di parola, la seconda le consonanti semplici, la terza le consonanti doppie, la quarta i gruppi di due o tre consonanti diverse tra loro. Prima regola: una vocale iniziale di parola, seguita da consonante semplice, fa sillaba a sé: 4-m0-re, e-re-mo, i-so-la, o-no-re, u-ma-ne-St-m0.
Seconda regola: le consonanti semplici fanno sillaba con la vocale che segue:
se-re-n0,
ve-lo-ci-pe-de,
ta-vo-li-no.
Terza regola: le consonanti doppie si dividono a metà: una va in una sillaba, l’altra nella sillaba che segue: mot-tet-t0, bozzel-lo, az-zur-ro, el-la.
Quarta regola, che riguarda i gruppi di consonanti diverse tra loro. Qui bisogna distinguere due casi. Primo caso: gruppo di due o tre consonanti che nella nostra lingua possono venire a trovarsi in principio di parola e quindi anche di sillaba: in questo caso tutto il gruppo si unisce alla vocale che segue: A-bra-mo, ve-tro, bi-stro, ve-spro, a-cro-sti-co, sod-di-sfa-re, la-dro.
Infatti nella nostra lingua abbiamo parole che cominciano con br- (bravo, breve), con #r- (trave, trono), con str- (strano, strofe), con spr- (sprone, spruzzo), con cr- (croce, crisi), con sf- (stato, stufo), con sf- (sfera, sfasciare), con dr- (dromedario, drupa).
Secondo caso: gruppo di due o tre consonanti che nella nostra lingua non possono venire a trovarsi in principio di parola 35
e quindi di sillaba: in questo caso la prima consonante va con la vocale della sillaba che precede, l’altra o le altre consonanti con la vocale della sillaba che segue: el-m70, tec-ni-co, a-rit-me-ti-ca, crip-ta, ec-ze-ma, ac-qua, seg-men-to, Alc-ma-ne, spet-tro, al-tro, con-trat-to, e-sem-pla-re, sub-do-lo, ac-me, Wag-ner, Gram-sci, mar-xi-sta, op-zio-ne, am-ne-sia, Cad-mo, az-te-co, oc-to-pla-sma,
ecc. Nella nostra lingua infatti non abbiamo parole di pura forma italiana che possano cominciare coi gruppi consonantici come lm-, cn-, tm-, pi-, cz-, cq-, gm-, nt-, lem-, ttr-, Itr-, ntr-, mpl-, bd-, cm-, gn- [ghn], msc-, rx-, pz-, mn-, dm-, zt-, ct-.
Tutto si può ridurre quindi alle suddette quattro semplici regole, facili da ricordare. Ma resta purtroppo la faccenda dei dittonghi e degli iati. Come dividere parole come pausa, paura, piove e piolo? Non tutti possono sapere che la divisione sillabica è la seguente: paw-s4 ma pa-u-ra, pio-ve ma pi-o-lo. Dinanzi a casi come questi, poiché la divisione sillabica serve in pratica soltanto nella scrittura, quando si debba spezzare una parola in fin di riga la miglior cosa è di attenersi a questa regola prudenziale: mon si vada mai a capo con una vocale; in fin di riga perciò divideremo sempre ancora:
au-ra, ie-ri, ae-reo, pau-sa, pau-ta, pio-ve, pio-lo; e flui-do, flui-re, soa-ve, inti-to, bedui-no, ecc. senza
tenere alcun conto di dittonghi e di iati. C'è infine la faccenda dei prefissi. Ci sono dei grammatici che amano complicare le cose, e consigliano di lasciare fntegri i prefissi andando a capo col resto della parola; casi, per esempio, come ben-arrivato, mal-augurio, in-abile, dis-dire, cis-alpino, tras-porto, trans-atlantico e simili. È una complicazione inutile, che può portare a errori disastrosi, perché non tutti son dotti
in etimologia e sanno distinguere un prefisso vero da un prefisso falso. La miglior cosa è quella di attenersi alla regola generale che stabilisce di dividere sillabicamente de-nar-ri-va-t0, ma-lau-gu-rio,
i-na-bi-le,
di-sdi-re,
ci-sal-pi-n0,
tra-spor-to,
tran-
sa-tlan-tico. In grammatica, quanto più si semplifica tanto meno errori si fanno.
« Legislatore » «in sillabe. Facciamo un caso particolare: come sillaberemo la parola /egislatore? Dopo quello che s'è detto, la sillabazione che si consi36
s
glia è le-gi-sla-to-re. Se si volesse rispettare la prima componente latina si potrebbe certo anche sillabare /e-gis-la-fo-re; ma non tutti sanno che la parola discende dal latino legislàtor, composta di due parole distinte, legis, della legge, e /àtor, proponitore. Si è detto che dei prefissi, spesso insidiosi (in questo caso addirittura una parola, /egis) è meglio non tener conto. Meglio anche qui attenersi alla regola generale secondo la quale i gruppi di due o più consonanti diverse tra loro formano sillaba con la vocale che segue, sempre che questi gruppi possano venire a trovarsi in principio di parola: e il gruppo s/- lo ritroviamo infatti in parole come slavo, slitta, slogare.
E « ipnosi »? e « ipsilon »? Come si dividono parole come queste correttamente in sillabe? A voler seguire il primo caso della quarta regoletta sillabica detta più sopra bisognerebbe sillabare i-pro-si e i-psi-lon per il fatto che nella nostra lingua esistono parole comincianti con i gruppi pr- e ps-: pneumatico, psiche. È vero. Ma qui si tratta di gruppi consonantici presi pari pari da una lingua straniera (in questo caso dal greco) e da considerarsi perciò non di schietta
formazione italiana. Sillaberemo perciò, seguendo caso della quarta regoletta: ip-mo-si, ip-si-lon.
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Suonare
o sonare?
Ci troviamo di fronte alla regola famosa del dittongo mobile, famosa perché sempre se ne parla nelle grammatiche e poi ben pochi la rispettano. I dittonghi mobili sono due, uò e iè, e si
chiamano mobili per il fatto che restano o dovrebbero restar tali quando si trovano in sillaba accentata, ma si contraggono nella semplice vocale, rispettivamente o ed e, quando l’accento si sposta su un’altra sillaba. Per esempio: suòro, perché l’accento cade sul dittongo, ma sordre perché l’accento si è spostato sulla sillaba seguente; analogamente, sièédo, ma sedévo, e ancora scuòla, ma scoletta, buòno ma bontà, piède ma pedestre, mièle ma melato,
lièto ma letizia. Soprattutto nella coniugazione dei verbi questa mobilità del dittongo appare evidente: suòno, suòni, suòna, però soniàmo, sonàte, e di nuovo suònano perché l’accento è tornato sul dittongo. Ancora: sièdo, sièdi, sièéde, ma sediàmo, sedéte e di nuo-
vo sièdono. Questa, dunque, la regola. Ma poi, come sopra dicevo, ecco che l’uso non se ne cura, e fa un po’ quel che vuole; e infatti si sente dire, e soprattutto si vede scritto, suonare, scuotevo, muoverò, nuovissimo, buonissimo, invece dei corretti sonare, scotevo, moverò, novissimo, bonissimo; per il dittongo ie: tiepidezza, diecina, intieramente, invece di tepidezza, decina, interamente.
Certo, non è bene seguire questi che in grammatica non possono non considerarsi errori; anche perché l’uso non mostra nessuna coerenza in questi tralignamenti; infatti neppure il più sciatto dei malparlanti o il più arrabbiato contestatore della grammatica scriverebbe, per esempio, « siedendo », « muorire » e « nuovità». Rispettiamo dunque la legge, che oltre tutto non aggiunge assolutamente nulla alla nostra fatica. 4l
Ci sono, ben inteso, delle eccezioni che per lunga tradizione storica sono ormai cosf radicate nell'uso da non apparir più eccezioni; è il caso, per esempio, del dittongo ie di alcuni verbi, come allietare, miètere, lievitare, risièdere, che resiste, in barba alla regola, per tutta la coniugazione: allietare, e non « alletare », lievitare, e non «levitare », mietevo, e non « mete-
vo », risiedeva, e non «trisedeva »; e questo par ragionevole soprattutto quando la contrazione del dittongo potrebbe ingenerare ambiguità: è il caso, appunto, di lievitare e di levitare, che sussistono come due verbi distinti di diverso significato; di nuotiamo da nuoto, e di notiamo da nota, di vuotiamo da vuoto e di votiamo da véto, e simili. Altra eccezione è data dalle parole composte, come buongiorno, buongustaio, fuoribordo, luogotenente, ecc. Se si dovessero considerare come una parola sola, corretto
sarebbe dire « bongiorno », « foribordo »,
« logotenente »; ma le due componenti sono tuttora ben distinte all'occhio e all’orecchio,
e lo stesso
accento
si fa sentire su
entrambe, sf che la permanenza del dittongo ci sembra, in questi casi, pienamente giustificata. In ogni altro caso è consigliabile applicare la semplice regola del dittongo mobile, semplice anche per uno scolaretto delle elementari. Però a questo punto una postilla polemica voglio pur farla. Ci son dei grammatici — dico grammatici, non geometri o tecnici o barbieri — i quali nel far notare che questo dittongo mobile è da molti ignorato o negletto, ben lontani dal consigliarne il rispetto, sia pure, diciamo, cordialmente, senza alcun piglio severo,
sembrano predicare invece il contrario, spingono addirittura alla disobbedienza, e ne godono, al pari di un carabiniere che messo là di piantone desse una strizzata d’occhio al ladruncolo, come a dire: « Bravo! glie l'abbiamo fatta al padrone e alla legge ». Che gusto, che scopo c’è, dico io, a dichiarare, come qualcunb ha fatto, che i principali dizionari correnti « non fanno bella figura » a sostenere a gara la forma rovissizzo perfin nel titolo;
e a compiacersi del fatto che un grande dizionario preferisce dir buonissimo al posto di bonissimo, e che perfino in Toscana, se Dio vuole, il rovissimzo è in continuo regresso? Che l’uso spesso s’infischi del dittongo mobile, l’ho detto anch'io; ma che poi io debba addirittura goderne, e augurarmi che al più presto questo infelice dittongo-s’affossi, mi sembra davvero paradossale. \
V
I segni d’interpunzione
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Piccoli ma importanti. Come si usano i segni d’interpunzione? C’è una regola che stabilisca tassativamente come vanno usati, quando vanno usati e quando no? Cominciamo con una risposta generale, per scendere poi ai casi particolari: una regola fissa, tassativa, per l’uso di tutti i segni della punteggiatura non c’è, né ci potrebbe essere. Poiché questi segnetti, piccoli ma importanti, che collochiamo qua e là nei nostri scritti hanno, come tutti sappiamo, la funzione di pause tra l’uno e l’altro concetto — e di pause lunghe più o meno secondo la nostra precisa ed esclusiva intenzione — essi non possono, ovviamente, esser legati a un sistema fisso di collocazione. Essi fanno parte, piuttosto, dello stile stesso di chi scrive. Per-
ciò c'è chi punteggia con abbondanza e chi con parsimonia, chi dà, poniamo, alla virgola un certo valore di pausa e chi un altro, più o meno reciso; chi ama fare i periodi brevi, e ricorre quindi a frequenti punti fermi, e chi preferisce invece i periodi lunghi, complessi, e di punti fermi ha perciò raro bisogno. E cosi via. Certo è che punteggiare con logica e misura fa parte strettissima dello scrivere bene. Dirò, come consiglio generale, che non bisogna mai fare un uso esagerato della punteggiatura; l’eccesso di virgole, di punti e virgole, di due punti eccetera può dare al discorso, anziché colore ed efficacia, un andamento frammentario, affannoso e zoppicante.
La virgola. E veniamo ora ai casi particolari. I segni d’interpunzione, dico quelli che interessano normalmente i miei lettori, sono sette: 45
la virgola, il punto e virgola, i due punti, il punto fermo, il punto esclamativo, il punto interrogativo, i punti sospensivi. La virgola sta a indicare la pausa pit breve nel corpo del periodo; essa non stabilisce un vero e proprio distacco tra un membro e l’altro del periodo, ma segna piuttosto un passaggio tra i successivi membri, come i gradini di un’unica scalinata. Se osserverete come ho collocato le virgole nel periodo che or ora
avete letto, capirete meglio quel che ho voluto dire. Natural mente, come prima dicevo, essendo le pause del nostro discorso legate al nostro gusto e alla nostra intenzione, alcune delle virgole che io pongo in questo scritto altri potrebbe benissimo abolirle, senza commettere per questo nessun errore (un esempio: la virgola posta tra abolirle e senza piace a me; ad altri potrebbe non piacere). Ma ci son certi casi dove collocare la virgola è obbligatorio; eccoli: 1. prima e dopo il vocativo: Avanti, signori, c'è posto; Mamma, vengo subito; 2. per separare gli incisi, le apposizioni, che son poi le parti accessorie di un periodo principale: Anna, salutata l’amica, se ne andò; Roma, capitale d’Italia, ha origini millenarie; Lo vedete, quel che voglio l’ottengo. In certi altri casi l’uso o no della virgola ha un’importante funzione stilistica. Nelle enumerazioni, per esempio, o nelle ripetizioni, la virgola solitamente si usa quando si voglia scolpire bene ciascun elemento, anche se ciascun elemento sia preceduto da una e con semplice valore rafforzativo: Carta, penna, calamaio, non ti manca nulla; E va, e torna, e va ancora, senza darsi pace; E uno, e due, e tre, all’infinito; Certo, certo, ha ragione lei. Ma alcune volte che si vuol dare alle ripetizioni o alle enumerazioni una maggiore scioltezza, anzi tutta la scioltezza possibile, la virgola naturalmente si abolisce: Corri corri corri, eccolo arrivato; Un due tre, chi non è povero sarà re; Pioggia
neve grandine e caldo e freddo e gelo, le abbiamo provate tutte: qui la virgola appare solo alla fine della lunga elencazione che è sprovvista di pause allo scopo di far tutto un mucchio delle sofferenze patite. E si potrebbe esemplificare per un pezzo. Ci son poi casi dove la collocazione d’una virgola può addirittura mutare il significato d’una frase. Prendiamo per esempio questo periodo:+« Quel giovane che conobbi a casa tua, mentre ero a Milano mi ha scritto »; spostiamo la virgola, e ne cambiamo il senso: « Quel giovane chè conobbi a casa tua mentre ero a Milano,
46
mi ha scritto».
Qui la posizione
della virgola ha
dunque una funzione determinante per il senso. Ma potremo anche scrivere cosî: «Quel giovane, che conobbi a casa tua mentre ero a Milano, mi ha scritto»: qui le due virgole racchiudono una frase alla quale si vuol dare particolare risalto (risalto che, leggendo, viene segnato, oltre che dalle due brevi pause, anche da un leggero cambiamento
del tono della voce).
Il punto e virgola. E veniamo al punto e virgola, che dà maggior filo da torcere a chi non è proprio ferrato nel mestiere dello scrivere. Questo punto e virgola serve a indicare una pausa più lunga della semplice virgola, ma più corta del punto vero e proprio; più precisamente, esso serve a staccare i diversi elementi di uno stesso
concetto, senza tuttavia interromperne l’unità. Attenzione a questo periodo del Bontempelli, dove successivi elementi del periodo, pur rimanendo legati insieme, sono nettamente separati l’uno dall’altro: « Posò il libro senza chiuderlo; si alzò, tirò giù la sacca e se la mise accanto, ne tolse un astuccio e una scatola di fiammiferi e dall’astuccio una sigaretta; appoggiò sigaretta astuccio e scatola sul libro aperto ». Avete osservato quanta sapiente distribuzione di pause, or più lunghe or più corte, in questo unico e complesso periodo? Un altro esempio più terra terra, senza scomodare artisti di fama: « Domani partiremo per Venezia; appena giunti prenderemo una gondola e ci recheremo in Piazza San Marco; il resto del programma lo stabiliremo là per là ». Anche per il punto e virgola va detto quel che si dice per
tutti i segni di interpunzione: il suo uso è regolato dal gusto di chi scrive, e dal peso che si vuol dare a questa o a quella pausa. Come il solito, non bisogna abusarne.
I due punti. Anche questi due punti, rappresentano una pausa tra l’uno e l’altro membro di una proposizione, di un periodo. Ma che pausa? Il punto e virgola, abbiamo visto, è una pausa un po’ più lunga della virgola; i due punti, invece, non sono né una pausa più lunga né una più corta, ma piuttosto una pausa tutta
47
particolare che ora può essere più lunga, ora più breve, ma sempre con caratteri propri. La funzione più semplice e più comune dei due punti è quella di introdurre un discorso altrui; essi rappresentano cioè la pausa che uno fa quando, nel racconto, riferisce le parole testuali di un’altra persona: Egli allora mi rispose: «Sta bene, verrò da te»; Si sedette al tavolino e ordinò: «Un caffè, per favore ». Quest’uso, come ho detto, è semplice, e ne hanno sen-
tore anche i ragazzini che cominciano a leggere le prime fiabe. (Bisogna solo spendere due altre paroline per quelle virgolette, « », con cui si suole ormai comunemente circoscrivere le parole testuali di un personaggio. Queste virgolette si 4proro, «, come suol dirsi, subito dopo i due punti, e si chiudono, », non appena il discorso riportato è finito. Alcuni autori o stampatori invece di queste virgolette preferiscono usare le lineette: per es.: Al richiamo, il cacciatore rispose: — Tornerò questa sera —, e riprese il cammino: questione di gusti; sono segni che servono soltanto a mettere in maggior risalto le parole che si ripor-
tano testualmente;
ma non
pesano sul valore dei nostri due
punti, e si potrebbero, tutto sommato, anche abolire.)
Ma i due punti hanno anche altre precise e più complesse funzioni. Una, molto importante, è quella di introdurre una enumerazione di cose o di concetti; per esempio: I precetti del diritto sono tre: vivere onestamente,
non nuocere ad altri, rico-
noscere a ciascuno il suo. Ancora: I casi sono due: o pagare 0 fallire. Un’altra importante funzione dei due punti è questa: di indicare che quanto sta per seguire è una determinazione più chiara, più diffusa, più particolare di tutto il pensiero detto in precedenza. Qualche esempio per capirci meglio: Vedrerzo che cosa saprai fare all'esame: sarà la prova più bella di come avrai
studiato. E questo esempio, un po’ lunghetto ma parlante, del Manzoni: Un de’ bravi s'alzò, e gli disse: « Padre, padre, venga pure avanti: qui non si fanno aspettare i cappuccini: noi siamo
amici del convento: e io ci sono stato in certi momenti che fuori non era troppo buon'aria per me: e se mi avesser tenuta la porta chiusa, la sarebbe andata male ».
48
Il punto fermo.
;
Ed è ora di passare al punto fermo, o, come si dice più brevemente, al purto. Qui il discorso non può esser diffuso od oscuro, perché questo punto è il solo segno che abbia una funzione ben precisa e tassativa: quella di chiudere un periodo compiuto in ogni suo elemento, e tutto ciò che vien dopo quel segno fa parte di un nuovo pensiero, di un nuovo ragionamento; in breve, di un nuovo periodo grammaticalmente inteso. Dopo il punto fermo, infatti, il discorso si riprende con la lettera maiuscola. Esempi? Basterà dare una scorsa a queste pagine per
averne a centinaia. Ma non voglio privarvi di questo brano di Alfredo Panzini, dove i brevi periodi si succedono come i parti-
colari d’un grande quadro osservato a occhiate: « Mattino di primavera. Sedile dei giardini pubblici al margine del laghetto romantico dove vanno a spasso le oche bianche. Dolce silenzio, dolce sole. Cespugli di serenelle spandono il loro odorino amaro. Romeo e Giulietta siedono sul sedile. Romeo ricama in silenzio, col bastoncello, segni sconsolati sopra i sassolini. Giulietta si asciuga col fazzolettino una lacrima ». Infine, c'è da ricordare una cosa: che il punto fermo serve anche a indicare l’abbreviatura di una parola: per es. significa per esempio; a.C., d.C. valgono avanti Cristo e dopo Cristo; prof., professore; sign., signore; dott., dottore; n., numero; tera; on., onorevole; e via abbreviando.
ecc., ecce-
Ultima avvertenza: nei titoli dei libri, dei giornali e nelle iscrizioni, il punto fermo non si segna; ma solo per ragioni estetiche.
Ii punto esclamativo e interrogativo. Il punto esclamativo e il punto interrogativo, è chiaro, servono a chiudere una frase esclamativa o interrogativa: Com'è bello!; Come stai? Ma le cose non filano sempre cosî lisce, e spesso c'è un po’ di imprecisione nell’uso di questi due segni d’interpunzione. Vi consiglio di seguire le seguenti regole: dopo il punto esclamativo o interrogativo, quando essi chiudono compiutamente il periodo, il nuovo periodo si incominci con lettera maiuscola: « Voi avete creduto che Dio abbia fatta una creatura a sua immagine, per darvi il piacere di tormentarla! Voi avete 49
creduto che Dio non saprebbe difenderla! Voi avete disprezzato il suo avviso! »; « Lucia, volete mancarmi ora? Non dovremmo esser già marito e moglie? Il curato non ci aveva fissato lui il
giorno e l’ora? »: sono due esempi del Manzoni. Quando però più proposizioni esclamative o interrogative si seguono, avendo stretta relazione tra loro, sf che l’una spiega, rafforza, giustifica l’altra, allora dopo il segno di esclamazione o d’interrogazione si userà la lettera minuscola. E ricorriamo ancora al Manzoni, che è una fonte inesauribile di esempi di bella scrittura: « Che preziosa visita è questa! e quanto vi devo esser grato d’una sf buona risoluzione! »; « Oh via! per amor di chi vado in furia? Volete tornare
indietro, ora? e farmi fare
uno sproposito? ». Avete osservato bene, in questi esempi, i diversi valori di quelle maiuscole e di quelle minuscole? Si capisce che, sempre, codesti valori è lo scrittore che li fissa; perciò si è detto che i segni di interpunzione danno tono, colore, sfumatura al discorso, e bisogna usarli con molta misura e cautela. Ricordatevi soprattutto di non abbondar mai neppure in questi due ultimi segni. C'è chi fa spreco di punti esclamativi, e ne mette fin tre o quattro in fila: Che bellezza!!! Come chi, volendo stupir troppo, finisce col non stupir più nessuno.
Punti sospensivi. Resta in ultimo da parlare dei cosiddetti punti sospensivi o di reticenza, chiamati più brevemente puntini. È un segno di punteggiatura molto importante che troppi o non conoscono affatto o usano spesso senza regola e senza logica. Questo segno è rappresentato da tre punti fermi (dico tre, perché questo è un numero
sufficiente;
metterne
di pi, come
alcuni fanno, è una
fatica perfettamente inutile), con i quali si sospende a mezzo una frase, riprendendola subito dopo o lasciandola addirittura incompiuta. Quando si fa questa sospensione? Primo caso: quando si voglia indicare una pausa in una frase dubitativa, o anche soltanto affannosa o agitata da qualche passione; questi puntini, cioè, interrompono per un attimo il discorso come il respiro è interrotto dall’ansia. Citerò, ora e in seguito alcuni esempi tolti tutti dal solito generoso Manzoni, il quale anche in fatto di punteggiatura non faceva le cose alla leggera. Esempio che illustra 50
il caso suddetto: «Non saprei se monsignor illustrissimo... in questo momento... si trovi... sia... possa... Basta, vado a vedere ». Secondo caso: quando si voglia tacere qualcosa che non si desidera o non si può dire: « Veramente... se vossignoria illustrissima sapesse... che intimazioni... che comandi terribili ho avuti di non parlare... E restò li senza concludere, da far rispettosamente intendere che sarebbe indiscrezione il voler saperne di più ». Terzo caso: quando si voglia indugiare a dir cosa che par
troppo forte o troppo grave, e poi si dice lo stesso: « Mi tocca a vedere e a sentir cose...! cose di fuoco! ». Quarto e ultimo caso: quando si voglia indicare una brusca interruzione del discorso: « Se avete bisogno di denari — disse Renzo — ho qui tutti quelli che m’avete mandati, e... — No. no, — interruppe la vedova ». Tutto qui; è abbastanza semplice, ma da tenere in conto. Perché,
ripeto, i punti
sospensivi
sono
una
vera
calamità
di
certe scritture fatte da chi non sa scrivere. Ho visto scritture cosî tempestate di puntolini sospensivi da parere addiritura un crivello. Aggiungerò, prima di far punto sul serio su questo argomento, un’ultima avvertenza: dopo i punti sospensivi non si usa la lettera maiuscola; salvo, ben inteso, il caso in cui essi chiudano definitivamente un periodo. Si osservino gli esempi dati più sopra, e quest’altro per sopraggiunta: « Ma parlerò io alla madre badessa, e una mia parola... e per una premura del padre guardiano... Insomma do la cosa per fatta ».
La virgola prima di «e ». Vive tenace nelle scuole quest’altra regola fantasma: « prima della congiunzione e non si mette mai la virgola ». Ricordo d’averla ascoltata anch'io, e fors’anche applicata, quando andavo alle elementari. Di queste regole fasulle e ostinate già ne abbiamo incontrate in queste pagine, ma ancora ne incontreremo. Ho detto che la virgola e tutti gli altri segni di interpunzione hanno una funzione essenzialmente stilistica, e il loro uso non può essere regolato che molto genericamente dalla grammatica. Ho detto anche che essi sono come le pause musicali: metti, 5]
togli, sposti una pausa, e la musica cambia. Io, per esempio, posso dire, liscio liscio, che « Marta è una donna giovane e bella »; ma posso anche dire, volendo sottolineare con una breve pausa la seconda qualità, la bellezza: « Marta è una donna giovane, e bella »; come a dire « e anche bella ». In quali casi metteremo dunque questa virgola? In tutti quei casi in cui si voglia, con quel segnetto, dar risalto a un particolare elemento del periodo, anche se questo elemento è preceduto dalla congiunzione e. Sentite come usava queste pause il Foscolo in quel poema sinfonico che sono I Sepolcri: « Si spandea lungo ne’ campi / di falangi un tumulto e un suon di tube / e un incalzar di cavalli. accorrenti, / scalpitanti su gli elmi a’ moribondi, / e pianto, ed inni, e delle Parche il canto ». È un esempio lampante: le prime due e, nessuna virgola, ché il periodo deve svolgersi sciolto, precipitoso; le ultime tre e, tutte
precedute dalla virgola, che spezza il periodo in tre pause brevi e solenni, rotte come singhiozzi. Ma non solo le virgole possono precedere la congiunzione e; tutti i segni di interpunzione possono precederla, perfino il punto fermo. Abbiamo sott’occhio I Sepolcri; riprendiamoli: « Ivi Cassandra... /. venne; e all'ombra cantò carme amoroso, / e guidava i nepoti, e l’amoroso / apprendeva lamento a’ giovinetti. / E dicea sospirando: Oh, se mai d’Argo... ». Continuerà ancora per molto nelle scuole questa storiella della e allergica alle interpunzioni?
Simboli senza punto.
.
Il simbolo di metro, di ettaro, di ettolitro eccetera deve essere
seguito dal puntino oppure no? È una domanda che mi rivolgono in molti. E sibito rispondo che tutti i simboli, e non solo quelli della metrologia, vanno scritti senza il punto fermo. In passato, è vero, il puntino si metteva, e cosî ci insegnarono a scuola, e i più vecchi ancora lo usano: 7. per metro, kr. per chilometro, e cosî via. Ora non più. E l’innovazione, relativamen-
te recente, è ragionevole, trattandosi non già di parole abbreviate ma appunto di simboli. La grammatica, come abbiamo visto, dà al punto fermo anche questa funzione:
di chiudere
la
spezzatura di una parola accorciata; perciò scriviamo dott., prof., 52
intr., a.C. per dottore, professore, intransitivo e avanti Cristo. Ma km non può certo considerarsi una forma accorciata di chilo metro e neppure di kilometro (accorciatura sarebbe chil. oppure kil., questa sî col punto). Trattandosi dunque di simboli, come,
per capirci, quelli della chimica (O ossigeno, C carbonio, H:0 acqua, ecc.) o delle targhe automobilistiche (MI Milano, PD Padova, ecc.), il punto fermo appare superfluo, direi anzi er-
rato. Bene hanno fatto perciò gli scienziati e i tecnici ad abolire questo puntino: m = metro, cm = centimetro, ha = ettaro, 1 = litro, dal = decalitro, e cosî via. In verità non tutti rispet-
tano questa norma, specialmente, come ho detto, i più vecchi, per inveterata abitudine nata nella scuola; però anche una recente grammatica, parlando del punto, dà esempi di simboli seguiti dal puntino. Aspettiamo che si aggiorni.
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Forme piene e forme elise. È io La ne
preferibile scrivere, per esempio, io lo bo saputo oppure l’ho saputo, egli se ne è andato oppure egli se n'è andato? grammatica italiana lascia ampia libertà nell’uso dell’elisioe quindi dell’apostrofo; ma si sa che la libertà, una volta
concessa,
fa presto
a diventare
licenza.
Cosî è avvenuto
che,
salvo pochissimi casi nei quali, allo stato attuale della lingua, certe forme intere anziché apostrofate non potrebbero non considerarsi errore, tutto il resto è affidato al gusto, e spesso al cattivo: gusto, di chi scrive. Tutte le grammatiche, anche le più recenti, hanno il loro bravo elenco di regolette a questo proposito. Regole semplici, che si possono ripetere in breve. L’elisione, e di conseguenza l’apostrofo, è obbligatoria negli articoli lo, la, una, nelle preposizioni articolate con lo e la (dello, dallo, nello, sullo, allo, ecc.), e basta. Tutto il resto è facoltati-
vo. È facoltativo elidere l’articolo gli davanti a una i; è facoltativo elidere l'articolo femminile plurale /e, e cosi pure le forme atone /o e la dei pronomi personali di terza persona, le particelle pronominali wi, ti, si, ci, vi, la preposizione semplice di, e perfino la preposizione da, che dovrebbe restare integra a ogni costo ma che tuttavia ogni tanto chiude un occhio e si lascia elidere senza reagire. Tutte qui le regole. Ma poi, all’atto pratico pochi le applicano o per meglio dire ciascuno le applica come gli pare e piace. Una sola resiste: quella che si riferisce all’articolo maschile /o e alle relative preposizioni articolate; qui siamo tutti d'accordo: l’uomo, l'elefante, l’oltraggio, dell'onore, ché nessuno, fino a oggi, si è attentato a scrivere «lo uomo », « dello onore » (ma anche qui, ora che ci penso, la brava eccezione esiste: quando in fin di riga la carta manchi, nessuno esita a scrivere lo/uomo, dello/onore; e certi grammatici incoraggiano que57
sto strafalcione gridando l’anatema a quell’apostrofo in fin di riga di cui parlerò a parte, diffusamente). Mi sono preso il gusto di aprire a caso, qua e là, qualche autore d’oggi; non solo ciascuno la pensa a modo proprio, e questo potrebbe apparire anche legittimo; ma dimostra di non tenere in nessun conto questa faccenda, tanto è oscillante in uno stesso scrittore l’uso dell’elisione, fuori, s'intende, d’ogni neces-
sità stilistica, d’ogni esigenza espressiva. Vediamo un po’: Tomasi .di Lampedusa:
un'anima, ma una abitudine; se n’usci, ma non
ce ne era bisogno; Soldati: quest'idea, quest'atmosfera, ma della infinita; Vittorini: la iniezione, ma subito dopo l'iniezione; Rea: l’impudica, ma la oscurità; Piovene: se n'era andata, l’ambascia, ma quella animazione; Buzzati: un'illusione, ma una imposta.
Potrei continuare per un pezzo. Intendiamoci: questa allegra libertà nell’uso delle forme intere o apostrofate non è cosa di questi ultimi tempi: essa è antica quanto è antico l’apostrofo, dura cioè da poco meno di cinquecent’anni (l’apostrofo fu introdotto dal Bembo, e diffuso
dal Manuzio). Esempi ottocenteschi in contrasto con la grammatica troviamo citati in abbondanza nella « Storia della lingua italiana » del Migliorini: la idea, la Italia, nel Guerrazzi; lo antropofago, nell’Imbriani; la egloga, nel Carducci; la immaginazione, nel Fogazzaro; di fronte, poi, ad altre forme elise, che meglio ci aspetteremmo intere: l’amicizie, nel Foscolo; l’arti e l’ore, nel Mazzini; nell’idee, nel Niccolini. Nel Manzoni si legge: « Addio, monti sorgenti dall’acque... » Quel dalle è bene apostrofato? Non c’è dubbio che anche qui il Manzoni ha fatto le cose a dovere. Poteva scrivere, si capisce, anche dalle acque, senza elisione, ma al suo orecchio di artista in quel punto sonava meglio un trisillabo (dal-l’ac-que) che un quadrisillabo. C'è chi fa una distinzione: apostrofa l’erbe (incontro di due e) ma non apostrofa le ultime. Anche qui, solo questione di gusto. Ecco un esempio del Petrarca: « Vedove l’erbe, e torbide son l’acque »: ma qui si tratta di poesia, dove la necessità della misura metrica si impone, a volte, anche al gusto personale. C'è un’avvertenza importante da fare: si sconsiglia di usar l’elisione quando l’articolo precede una parola invariabile nel plurale, per non generare equivoco. Infatti l’analisi, l’estate, l’età e simili hanno normalmente valore di singolare; si potrà tollerare l’elisione solo quando la parola invariabile abbia il 58
plurale specificato da una forma verbale o da un aggettivo: « L’età passate », « L’iniquità erano di tutti i giorni ». Leggendo questo o quell’autore, ho avuto l’impressione che oggi l’uso delie forme piene tende a diventare abuso, a tutto danno di quella fluidità, di quell’armonica fusione di suoni che son proprie della nostra lingua. Incontri come una abitudine, la ostentazione, quella animosità, se ne è andato, anche io, sono
francamente brutti, e dovrebbero essere di regola evitati. Il bello è poi che, parlando, tutti ci guardiamo bene dal farne.
«Qual è » o « qual’è y? Leggendo non solo giornali ma anche libri di autori che vanno per la maggiore c’è ancora qualche incertezza nell’uso dell’apostrofo in casi come qual è, tal è, qual altro, tal altro e simili,
che si incontrano scritti anche qual'è e tal’è, qual’altro e tal’altro. Sarebbe possibile stabilire una regola che fissasse una volta per tutte la giusta grafia? A una domanda come questa rispondo senza esitare che tutto è possibile in materia di regole ortografiche: ‘l’ortografia, si sa, altro non è che convenzione, e tutto
sta nel mettersi esisteva
ancora,
d’accordo.
Nel Quattrocento
l’apostrofo non
e si scriveva larizza, luomo, longegno (=
lo
’ngegno) e cosî via. Poi, nel Cinquecento, come sopra ho accennato, venne
il Bembo
a metter
ordine
in questa
sull'esempio del greco introdusse l’apostrofo per sione di una vocale in fine di parola foneticamente successiva parola cominciante con altra vocale. apparve la prima volta in un’edizione del Petrarca
faccenda,
e
indicare l’elifusa con una L’innovazione stampata dal
Manuzio nel 1501. Da allora siamo tutti d’accordo, e scriviamo
senza esitare l’anima, l’uomo, l'ingegno. Ma in grammatica esiste anche il fenomeno del troncamento, e questo è valso a mettere alquanta confusione nell’uso dell'apostrofo. Il troncamento consiste nella soppressione dell’ultima vocale àtona (cioè non accentata) d’una parola che si venga a trovare davanti a un’altra parola cominciante con consonante, e con la quale sia strettamente associata per ragione di senso. È il caso, per esempio,
di «sigror
mio », « amor
paterno »,
« buon giorno », « mar Tirreno », e anche di « qual donna » e « tal libro ». Il troncamento, a volte, riguarda addirittura l’intera ultima sillaba àtona di una parola: « gran cosa » (per grande 59
cosa) « san Giovanni » (per santo Giovanni), « fra Ginepro » (per frate Ginepro), ecc. Per indicare il troncamento di una vocale o di una sillaba finale non si usa mai l’apostrofo (non si scrive, cioè « amor’paterno », « gran’cosa »), a differenza dell’elisione, che richiede sempre l’apostrofo. Fissata bene questa semplice premessa, vediamo che cosa può accadere in pratica. Può accadere che in un contesto una parola troncata come signor, buon, mar, qual, tal venga a trovarsi non più davanti a parola cominciante con consonante, ma davanti a parola cominciante con vocale; e allora nasce confusione nell’uso o nel non uso dell’apostrofo, perché l’analogia formale trascina a collocare l'apostrofo anche dopo una parola che non è elisa ma troncata; e si vede perciò scritto tal’è, qual’è perché si scrive l'elmo, l’uomo. È evidente, però, che come nessuno scrive « signor Angelo », « mar’Adriatico », « suor’ Anna », cosîf non si
deve neppure scrivere qual'è e tal’è, né tal’altro, qual’altro e simili, ma soltanto qual è, tal è, tal altro e qual altro. Per evitare
l’errore, si tratta insomma di appurar bene se ci troviamo davanti a parola elisa o a parola tronca. C'è un modo semplice, alla portata di tutti, per fare con sicurezza questa distinzione? C'è, ed è questo. Se una parola privata della vocale finale può stare cosî accorciata davanti ad altra parola cominciante con consonante, si tratta di una parola troncata; se invece non può stare, si tratta di una parola elisa. Pertanto, scriveremo un asino perché si può dire « un cavallo »;
ventun anni, ventun isole, perché si può dire « ventun cavalli », « ventun lettere »; ressun esempio, perché si può dire « nessun libro »; scriveremo mar Adriatico perché si può dire « mar Tirreno »; analogamente: fin allora, e non « fin’allora », perché si può dire «fin da domani»; qual esempio, e non «qual’esempio», perché si può dire «qual fortuna»; tal azzico, e non « tal’amico», perché si può dire « tal nemico »; fior alpestre, e non «fior’alpestre » perché si può dire « fior campestre », ecc. Si tratta insomma di
troncamenti, e non richiedono l’apostrofo. Bisognerà scrivere invece un’asina, e non « un asina », perché non si può dire « un cavalla »; nessun’età, nessun’epoca, perché non si può dire « nessun donna »; buon’amica,
e non « buon amica », perché non si
può dire «buon nemica », analogamente, buon’annata ma buon anno. Qui si tratta infatti di parole elise, che richiedono sempre l’apostrofo. Come si vede, la regola per fissare una volta per tutte la 60
giusta graffa in casi come quelli ora esaminati, esiste già, ed è facilissimo applicarla. Il guaio è che non tutti la conoscono, 0,
se anche carla. E scrittore, a queste più nella
la conoscono, non si prendono poi la cura di appli questa è sciattonerfa tanto meno perdonabile in uno specie se di cartello. In passato è vero si badava meno cose, ma è bene che una lingua si stabilizzi sempre sua scrittura. Predica perciò bene il Migliorini: « Che
si scriva “n uomo
e non
un’uomo,
un enorme
peso e invece
un'enorme ingiustizia è una distinzione non fondata sulla fonetica ma su una schematizzazione dei grammatici. Distinzione artificiale è perciò quella fra troncamento e elisione, ma una volta che questa distinzione si accetti come la pratica esige che si faccia, ne discende come un corollario ineluttabile che si debba scrivere senza apostrofo fa/ è, qual è». Rispettiamo dunque la regola.
« Pover'uomo » 0 « pover uomo »? Giurerei che la causa di tutto il gran discutere che si trascina da oltre mezzo secolo intorno a questa frase deve ricercarsi specialmente in una poesia del Carducci, una poesia tra le sue più note, direi quasi popolare, perché non c’è antologia scolastica che non la riporti, non c’è insegnante che non la faccia imparare a memoria: Davanti San Guido; si che anche una persona di mediocre cultura ne rammenta qua e là qualche verso. O cipressetti, cipressetti miei... Orbene, appunto in questa poesia il Carducci usa la scrittura senza l’apostrofo là dove dice « Ben lo sappiamo: un pover uom tu se’ ». Nello scrivere a questo modo, il Carducci ebbe probabilmente dinanzi agli occhi un famoso verso dantesco del XVI del Purgatorio: « Buio d’inferno e di notte privata - D’ogni pianeta sotto pover cielo »; e fors’anche quell’altro verso, pure dantesco, della Vita nuova, che dice « Ond’io pover dimoro ». Gli era sfuggito però il fatto che il Manzoni aveva più volte usato la forma apostrofata pover uomo. Insomma, quel pover cosf monco dell’ultima vocale il Carducci l’aveva negli occhi e negli orecchi, e l’usò cosî liscio liscio senza affatto pensare se fosse un troncamento oppure un’elisione. Perché la soluzione del problemino sta proprio nell’appurare se scrivendo pover si faccia troncamento o elisione. Se è troncamento,
non ci vuole apostrofo;
ci vuole invece 61
se è elisione. La regola s'è vista or ora: una parola è tronca quando può stare cosf accorciata davanti a un’altra parola che cominci con consonante; una parola è invece elisa quando cost accorciata non potrebbe stare davanti a parola cominciante con consonante. Orbene, se in antico si diceva « pover cielo », « po-
ver dimoro », oggi come oggi nessuno direbbe pi, forse neppure in poesia, « pover fanciullo », « pover diavolo », « pover cuore », « pover me ». Siamo quindi davanti a un caso di elisione, che richiede sempre l’apostrofo: dunque pover'uomo e mai « pover Uomo ». In verità, se si scorrono le pagine degli scrittori più recenti, la preferenza mi sembra che vada alla forma apostrofata; ma non son pochi neppur quelli che preferiscono la forma, diciamo cosî, carducciana; a cominciare dal De Amicis e dal Pirandello, per seguitare col Lampedusa e col Moretti e finire col Montanelli che da buon toscano scrive addirittura pover òrmzo, senza apostrofo ma con tanto di accento. Ci sarebbe un modo, tuttavia, per evitare la contestazione: rifarsi alla forma intera, poveruomo, nell’uso popolare anche poverorzo (« Oh! il poveromo! » leggiamo nel Pascoli), col suo bravo plurale poveruorzini.
Tutt’i diritti, tutt'e due.
S’incontra a volte l’elisione della parola tutto in frasi come tutti diritti, tutt'i contestatori, tutt'i presenti. È lecita questa elisione? Ma leggendo ad alta voce, chi ascolta non potrebbe intendere tutti diritti, tutti contestatori, tutti presenti, frasi che hanno un significato affatto differente? L’elisione è certamente lecita. Come è lecita l’elisione in fràsi come tutt'altro, tutt'e due, tutt'il giorno, a tutt'oggi, tutt'uno, cosî sarà altrettano lecita nelle frasi sopra citate. Posso solo aggiungere che codesta elisione davanti all’articolo maschile plurale è meno comune, e si preferisce dire tutti i...; ma nulla impedisce che chi la gradisca la usi. « Né bengala e fanfare di tutt’i suoni e di tutt’i colori » scrisse il Carducci, che però scrisse anche « tutti i fatti e le idee ». Né credo nella possibilità che ascoltando queste frasi comprese in un contesto si possa intenderle in modo errato. Leggendo ad alta voce, parlando, queste elisioni, queste fusioni di lettere, di sillabe si fanno normalmente; nel caso
62
nostro,
nessuno
pronunzierà,
salvo uno
straniero, la
frase tutti i presenti staccando lé tre parole, ma fondendola in una parola sola, « tuttipresenti ». Chi sa parlare a dovere poserà alquanto la voce sulla seconda sillaba di futti, strisciando sulla i quasi a raddoppiarla; mentre nella frase tutti presenti la voce poserà piuttosto sulla prima sillaba #u?, accennando appena alla i della seconda sillaba. Fate voi stessi la prova. Ma prima di chiuder l’argomento, vorrei soffermarmi sul #utt’e due visto più sopra. La forma più comune è certo tutti e due, e cosî tutti e tre, tutti e quattro, ecc.: la particella e he qui fun zione eufonica e rafforzativa. Cominciò a usarla Dante: « Vinto dal sonno in sull’erba inchinai - Là ’ve già tutti e cinque sedavamo ». Ma
c’è anche
una
terza
forma,
tutti due
(tutti tre,
tutti quattro, ecc.), però piuttosto rara: « Roma ognora - Con gli occhi di dolor bagnati e molli - ti chier (chiede) mercé da tutti sette i colli »: sono famosi versi del Petrarca. Ma non mancano esempi moderni e modernissimi: Ferdinando Martini: « presero a sbraitare tutti due come ossessi »; Manara Valgimigli: « Erava-
mo affamati tutti due ».
L’elisione del « che ».
Il che può essere eliso davanti a parola che comincia con le vocali e, i; e in tal caso diventa sempre cb’: ch'egli, ch'io. Questo è ovvio; la » è necessaria per conservare la pronunzia dura,
gutturale della consonante
c. Ma la stessa elisione può anche
farsi davanti a parole che cominciano con a, 0, 4; e tremo scrivere: ch’altri, ch’'ode, ch’urla, ma anche, la pronunzia guttutale è data dalla vocale iniziale c'altri, c'ode, c’urla. Tuttavia questo secondo modo
allora poposto che di parola, io non lo
consiglio perché l’abolizione della © mi pare assolutamente arbitraria. L’elisione, non dimentichiamolo, è legittima solo per la vocale finale di parola. Ultimo caso: il che davanti alle forme verbali bo, hai, ha, hanno. Le forme elise saranno:
ch°bo, ch’hai,
ch’ha, ch’banno; meno bene, e generalmente sconsigliate per il motivo ora detto, c'ho, c'hai, c'ha, c'hanno. Chi preferisce le forme verbali accentate senza la %, scriverà ch'ò, ch'di, ch'è, ch’ànno; assolutamente da non usare le forme c’ò, c’di, ecc.
C'è per ultimo da avvertire, in generale, che le stesse regole valgono anche per le èlisioni di certe congiunzioni come anche, perché, finché, benché, per l’aggettivo indefinito qualche, ecc.: 63
anch'egli, anch’oggi, bench'io, perch’io, finch'ebbe, ecc. Pascoli scrive: « Qualch’altra felicità »; Baldini invece: « Di li a qualc’altra settimana ». Ma salvo che per anche, tutte le altre elisioni son rare nella prosa.
Gl’ultimi, gl’altri...
«In uno degl’ultimi numeri della rivista... »: erroracci come questo non sono poi tanto rari sulla carta stampata; nelle scuole, poi, càpita di incontrarli con sconcertante frequenza: cosî almeno mi assicura un amico professore di liceo. Non faccio fatica a crederlo: l’ho incontrato anch’io appunto in una
rivista;
e che lo facciano
certi studenti
di liceo, e,
aggiungo, perfino universitari, per non parlar di qualche giornalista, diciamo, disattento, è cosa da farci su un pensierino, e non di color rosa. L’articolo plurale maschile gli, lo abbiamo appena visto, si elide solo davanti alla vocale iniziale i della parola che segue: questa è grammatichetta. E non è neppure obbligatorio: gl’insegnanti, ma anche gli insegnanti. Non è nemmeno un’invenzione recente, risale ai primi secoli della lingua. Troviamo gl’ingegni in Dante, e gl’intagli nel Boccaccio, anche se si scriveva glingegni e glintagli, tutt’unito, come si scriveva anche lanima e lhonore, ché il segno grafico dell’apostrofo fu introdotto, come sappiamo, solo nel Cinquecento. Ma sempre gli occhi e gli altri troviamo in Dante, e gli animi nel Petrarca, con
alternanza
di li (li altri, li ultimi, forma
arcaica
che
si
incontra perfino in qualche autore moderno, come nel Pascoli: « Pendeano li agli e le cipolle in reste »). L’uso attuale respinge l'apostrofo anche davanti alla i segufta da altra vocale: gli iati, gli iugeri, gli iuniores, e non gl’iati, gl’iugeri, gl’iuniores. La
legge è dunque questa; sî che gl’altri non può leggersi che « glarti », come glabro, e gl’ultimi non può leggersi che « glultimi », come glutine.
Apostrofo in fin di riga.
È ammissibile l’apostrofo in fin di riga? si può scrivere, cioè, P / ordine, con l’ che chiude la riga e ordine che comincia la riga successiva?
64
Sono almeno tre lustri che mi batto per questo apostrofo; ma tutte le volte che mi viene rivolta questa domanda, la mia prima tentazione è quella di non rispondere. E questo perché una mia risposta favorevole all’apostrofo in fin di riga, data tempo fa a una dattilografa milanese, procurò alla malcapitata, che aveva seguito e sostenuto il mio consiglio ritenendolo autorevole, una minaccia di licenziamento da parte del principale. Però, mi dico poi, se non rispondiamo noialtri che ci gingilliamo con questi problemi da mane a sera, chi deve rispondere? Le grammatiche tacciono su queste e altre questioni pratiche; gli insegnanti si rifanno alle grammatiche; e cosî tutto resta al punto di prima, e le dattilografe e, quel ch’è peggio, i compositori tipografici continuano ad ammannirci sconci come dello / uomo, una | aquila, da / altra parte, allo / estremo, tutto / altro, un bello / asino, sconci che oltre a essere veri e propri errori di grammatica, violano la precisa volontà dell’autore che non si è mai sognato di strafalcionare in questo modo. « Come si farebbe a sapere, » si domanda il Migliorini « ove un tale andazzo s’imponesse definitivamente, se il titolo del panegirico del Giordani Allo Imperatore Napoleone è dovuto a una precisa scelta dell’autore o è un arbitrio più tardo di un tipografo o di una dattilografa? ». La questione riguarda soprattutto la scrittura a macchina e la stampa, ché per la scrittura manuale il problema neppur si pone, potendosi le righe allargare o stringere come si vuole; riguarda la stampa specialmente, dove tutte le righe piene debbono essere uguali, al capello. Le macchine compositrici hanno certo dispositivi speciali per portare la riga sempre alla giustezza, cioè alla misura
voluta, e i bravi compositori
normal-
mente se ne valgono; ma ormai la gente s’è cosî abituata all’abolizione dell’apostrofo e alla reintegrazione arbitraria della vocale elisa, che questi stessi compositori trovano più conveniente, nelle affrettate linee di un quotidiano, comporre una / anima, dello / antico, anziché perdere qualche secondo di pi nella ricerca di una giustificazione tipografica conveniente; perché (e parlo per chi non è pratico di tipografia) nel caso, per fare un esempio, di dell’antico è molto più sbrigativo collocare in fondo alla riga un dello che un dell’an-. Alcuni linguisti, pur condannando l’uso e l’abuso delle forme piene contrarie alla grammatica, condannano recisamente anche l’uso dell’apostrofo in fin di riga per il fatto che la stessa gram65
matica dice che in fin di riga non si può mai spezzare una sillaba (infatti nel caso di dell’antico la sillabazione è del-l’an-ti-c0). Ma a me sembra che in questo caso la questione di una divisione sillabica non sia neppur da considerare: qui si tratta della semplice spezzatura di un nesso sintattico, foneticamente accettabile, imposta da un limite di spazio; « l’apostrofo » dice ancora il Migliorini « può ben indicare, oltre all’elisione, la neces-
sità di continuare la lettura alla riga seguente, senza che la regola della sillabazione sia minimamente violata »; tanto vero che questa spezzatura 707 richiede l’uso della lineetta, che è appunto il segno convenzionale della spezzatura sillabica. Sarebbe certo errore scrivere /°- / anima, dell’- / antico, ma non già, come si raccomanda, /’ / anima e dell’ / antico.
Fu il Camilli che si occupò tra i primi di questo problema grafico, consigliando questa che è l’unica soluzione possibile; ma già altri linguisti prima di lui, come il D’Ovidio, avevano manifestato parere favorevole all’apostrofo. Tale soluzione, peraltro, non è stata inventata né dal D’Ovidio, né dal Camilli, né
da altri studiosi contemporanei. Ho sott'occhio un’edizione bodoniana dell’Armzinta del 1787, e subito alla riga ottava dell’introduzione m’imbatto in un sull’ / Istmo ch’è un piacere guardarlo. Il Bodoni, infatti, grande maestro d’arte tipografica, usò normalmente questa forma di spezzatura grafica. Raffaello Bertieri, che fu direttore a Milano di una famosa scuola del libro e della rivista « Risorgimento grafico », pubblicò tra l’altro un diffuso studio su «L'arte di Giambattista Bodoni ». Corro a esaminarlo: in una composizione tipografica perfetta, sono riuscito a contare, sf e no in cento pagine, una ventina almeno di queste spezzature apostrofate: uomo d’ / arte, un’ / annua pensione, tutt° / altro, fors’ / anche, eccetera. Apro anche a caso un testo che non ha pretese grafiche, ma grammaticali certo: il tomo primo del Vocabolario degli Accademici della Crusca, edizione veronese del 1806: nella penultima riga della dedica del padre Cesari al Principe Eugenio, trovo stibito quest’esempio: « Io m’inchino all’ / Altezza Vostra Illustrissima... ». E non ho voglia di cercar altri esempi. Esempi, del resto, in cui m’imbatto sovente anche sfogliando il dizionario del Tommaseo-Bellini, ristampa del 1929. Conclusione:
poiché l’apostrofo in fin di riga senza lineetta
non può aver valore di spezzatura sillabica, e non contravviene perciò a nessuna legge grammaticale; poiché l’apostrofo non 66
offende l’occhio (dicono alcuni chie quel segnetto appeso in fin di riga sta male; ma perché allora non sta male la virgola, appesa solo una frazione di millimetro più in basso?), e poiché, in compenso, impedisce un autentico errore morfologico a cui si va pericolosamente assuefacendo il già guasto orecchio degli Italiani; credo che sia giunto il momento di mettere in pratica costante questa forma grafica, invitando i grammatici a porvi il crisma della loro autorità. Non so i principali delle dattilografe, ma i proti e i compositori tipografici in genere han già fatto buon viso all’innovazione, specie dopo che l’UNI (Ente nazionale
italiano di unificazione),
ha sancito il divieto per i
tipografi di completare arbitrariamente le sillabe, avvertendo che « esistono nella tradizione tipografica esempi insigni che giustificano il libero uso dell’apostrofo in fin di riga », e perciò testualmente stabilisce (luglio 1969): «Non è permesso integrare le parole apostrofate per evitare l'apostrofo dopo consonante in fin di linea. Esempio: quell'uomo si dividerà cosî: quel- $ l’uomo o quell’uo- / mo o quell’ / uomo, ma non così: quello / uomo ». Oggi come oggi, posso dire con compiacimento che la massima parte dei giornali e dei periodici in genere ha adottato questa innovazione (se non vado errato, il primo quotidiano è stato La Notte di Milano, nel 1970); solo pochissimi le si oppongono, insistendo nell’errore e nell’orrore. Non si capisce il perché.
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VII
Maschio
o femmina?
Amàlgama. La parola amàlgama di che sesso è? È maschio?
è femmina?
Se consultate i dizionari, vedrete che non ce n’è uno che vada d’accordo con l’altro. Io mi sono preso questo gusto. Sono per il femminile il vecchio Tramater, il Petrocchi, il Mèstica, il Dizionario Etimologico Italiano del Battisti-Alessio; sono per il maschile il Tommaseo, il Fanfani, lo Zingarelli, l’Alfani, il Palazzi, l’Albertoni-Allodoli, il Migliorini, il Passerini Tosi,
il Devoto-Oli, il Dizionario d’ortografia e di pronunzia (DOP) della Rai, il De Felice-Duro. Il grande dizionario del Battaglia, in
corso di pubblicazione, salomonicamente spacca il male in mezzo, e sulla base di numerosi esempi antichi e moderni lo registra come maschile e femminile, a piacere. Amalgama è da almeno tre secoli nel nostro lessico, e sul suo significato siamo tutti d’accordo. Non siamo ancora d’accordo sul sesso. I Francesi l’accordo lo hanno trovato da un pezzo: è maschio; gli Spagnoli anche: è femmina. Come va questa faccenda? Andiamo all’origine del vocabolo. Amzalgama deriva da un latino medievale degli alchimisti amdlgama, di genere neutro, probabile deformazione araba (al-malgan) del greco mdlagma, mistura, impasto, che discende a sua volta dal verbo malésso, rammollisco (per l’aspetto molle della lega). Secondo
altri, invece,
il neutro
latino
sarebbe
l’alterazione
del
sinonimo algama, dall'arabo dl-gaméa, che significa « riunione ». L’oscillazione del genere è dovuta evidentemente alla terminazione -4 del vocabolo, propria dei femminili italiani. Ma l’italiano non difetta neppure di nomi in -4 di genere maschile: il papa, l’auriga, il profeta, il collega, l’eremita, ecc. Di qui la confu-
sione, alimentata e recenti:
dai quotidiani esempi, anche autorevolissimi
« nell’amalgama interna » (Palazzeschi); « creazione di
71
un
amalgama » (Sinisgalli);
«un’amalgama
« amalgama
armoniosa » (Sbffici);
di poesia » (Cecchi); « questo amalgama » (Sol
dati)... Decidiamoci: l’origine del vocabolo è di genere neutro; si sa che il neutro latino sfocia normalmente nel maschile italiano. Facciamolo maschile.
Ambage.
« Avevo scritto » mi dice uno studente liceale « dopo molti ambagi, convinto di aver scritto una frase molto raffinata. Ma mi hanno detto che è una frase sbagliata ». Senza dubbio. La parola ambage, che vale propriamente « cammino tortuoso », e figuratamente « giro di parole oscuro, intricato », è certo una parola raffinata; però è femminile fin dalla nascita; si doveva perciò dire, molte ambagi. È un errore in cui cadono non soltanto gli studenti liceali, ma persone anche di superiori studi, certamente per via di quella forma singolare in -e che non ha sesso ben definito. Ricordiamo i bei versi dannunziani, dove la parola è usata nel significato di intrico, avvolgimento tortuoso: « ma d’improvviso irretiti — in non so qual divina — ambage di rosei veli ».
Arancio
e arancia.
Qui i dizionari sono generalmente tutti d’accordo: arancio, maschile, l’albero, arancia, femminile, il frutto; è una regola comune a moltissime piante arboree da frutto: il melo e la mela,
il pero e la pera, il noce e la noce, il pèsco e la pèsca... Fanno eccezione le piante erbacee: il fagiolo, pianta e frutto, analogamente la fava, pianta e frutto, e il melone, e il cocomero (ma nel dialetto anche la cocomera per il frutto: « cocomere zuc-
cherine di Faenza » dice il Panzini). Tralignano però dalla regola arborea, a quanto pare, le piante di agrumi: il limone, pianta e frutto, e cosi il mandarino, e il cedro, e il bergamotto, e il chinotto, e il pompelmo, eccetera. Farebbe eccezione, dunque, solo l’arancio; tanto che mi ardirei a dire che il maschile arancio per indicare il frutto sia la regola e il femminile sia l'eccezione regionale. La verità è che il frutto al maschile s’ode in buona parte dell’Italia centrale e in tutta l’Italia meridionale. In Toscana si dice, è vero, arancia; ma ecco un antico esempio 72
del fiorentinissimo
Buonarroti
if Giovane,
Michelangelo, dove il frutto è maschile:
nipote del grande
« O belle zane D’aranci,
di cedrati e di lumfe! ». E trovo anche un esempio maschile del torinese Baretti: « Tracannare sugo d’aranci con acqua ». Voglio anche citare un esempio del Campanella, calabrese, di una regione dove, almeno quando ero ragazzo, di arance femmine non ho sentito mai parlare: « Gli aranci e i limoni sino al primo caldo di primavera non maturano ». Ma rispettiamo pure la regola arborea: una piantagione di aranci, un cesto pieno di arance.
Asma.
Anche questa odiosa malattia dà il suo da fare ai grammatici: è maschio, è femmina?
L’uso comune,
si sa, la vuol femminile,
con un plurale regolare le asme; e tutti dicono infatti asma cardiaca, allergica, isterica. Ma la voce è correttamente maschile, con due plurali, gli asmi e gli asma. In antico c’era la forma chiaramente maschile 45720 (« A me venga el mal de l’asmo » canta Iacopone da Todi), ma s’usava anche la variante dsirza, femminile («A_ vederle mi vien l’asima », Poliziano). Questa
oscillazione di genere sta nell’origine della parola, ch’era neutra, tanto in greco, dstbrza, « affanno », quanto ‘nel derivato latino asthmwa. Ma dal neutro solitamente l’italiano ha tratto il genere maschile, e maschile infatti s’usa più spesso nel linguaggio scientifico. Apro un dizionario medico e leggo infatti: asma cardiaco, asma uterino, asma isterico, asma uremico, asma allergico e via per tutta una pagina. L’altalena dei generi c’è anche all’estero: femminile in spagnolo, 45724; maschile in francese, asthme;
neutro in tedesco, astbzza. Si capisce che quell’4 finale
ha fatalmente trascinato il termine nella serie dei nomi femminili. I dizionari rispettano di regola questa oscillazione, e registrano entrambi i generi, pur dando la preferenza al maschile. Ma il Migliorini è rigido: solo maschile.
Automobile. In alcuni dizionari, anche recenti, stupisce che la voce automzo-
bile sia indicata oltre che di genere femminile anche, sebbene 1)
raramente, di genere maschile. Ma chi si attenterebbe oggi a dire « Ho comprato un nuovo automobile »? In qualche dialetto, specialmente meridionale, e in particolare in Sicilia, ur automobile
al maschile ancora comunemente
si dice. E aggiungerò che questo maschile non è che il tenace residuo di un turbinoso passato; perché l’automobile, pochissimi lo sanno, anche se vi si inscatolano dalla mattina alla sera,
è nato maschio, e femmina è diventato solo col passare degli anni. Il nome, foggiato sul modello di locomobile (routière), locomobile (stradale), apparve la prima volta in Francia esattamente
nel settembre del 1875 (ricordiamoci di festeggiarne il centenario). Però
era
ancora
sostantivo,
voiture automobile,
non
vettura
automobile,
era
soltanto
aggettivo:
vettura che si muove
da sé, termine ibridamente composto del greco 44t6s, e del latino mobilis, mobile. Eravamo ai primi tentativi di vettura automobile a vapore, e poi anche ad aria compressa, come apprendiamo, per esempio, da queste righe del giornalista scienziato Henri de Parville, pubblicate sul “Journal des Débats” del 30 marzo 1876: « Rien de si ingénieux, de si facile a conduire que la voiture automobile è air comprimé que l’on voit fonctionner sur le tramway de l’Arc-de-Triomphe, à Neuilly ». Automobile restò aggettivo per almeno quindici anni, fino al 1890, quando la vettura, avendo acquistato una certa popolarità almeno nel nome, fu detta più brevemente, con forma so-
stantivata, autorzobile. E qui appunto cominciò il travaglio. Perché essendo una precisa caratteristica dei sostantivi di avere un genere grammaticale loro proprio, si presentò subito anche per automobile la domanda: maschio o femmina? un automobile o une automobile? Ù Intorno a questa non certo futile questione linguistica si accesero presto vivacissime discussioni, accompagnate da una non meno vivace campagna di stampa che metterebbe conto di andare a rivedere e a ripubblicar per intero. Chi per primo si trovò di fronte al dilemma fu il Consiglio di Stato francese, incaricato di stilare il complesso regolamento sull’uso pubblico di questo nuovo «bello e orribile mostro » sferratosi sulle strade parigine fra il- terror dei pedoni. Il Consiglio, rispettoso delle competenze, credette opportuno di ricorrere ai lumi non già dei
tecnici del motore ma dei tecnici della lingua (da noi queste cose si ignorano, e perciò tante parole della tecnica nascono 74
con le gambe storte); ricorse addirittura ai grandi dell’Accademia; e questi grandi, certo affascinati dalla potenza e dal fragore della nuova invenzione, decretarono che automobile doveva essere
sostantivo maschile. E maschile troverete infatti il vocabolo se consulterete i dizionari francesi di quel tempo, compreso il primo Larousse. D’altra opinione tuttavia furono gli esperti del linguaggio, i grammatici, i linguisti, e tra questi un dei più autorevoli, Michel Bréal, il quale più ragionevolmente sostenne che essendo il termine automobile la sostantivazione della frase femminile
voiture
automobile,
femminile
doveva
restare:
une
automobile. Diffusasi la macchina, lo stesso problema si presentò via via anche alle altre nazioni. La Spagna restò ferma al maschile, un automovil.
Da noi fu naturalmente la Fiat, sorta nel 1899,
a doversene occupare. E poiché la massima autorità letteraria era allora il D'Annunzio, a lui pit volte si rivolse il senatore Agnelli ponendo il quesito. Rispose alla fine il Poeta con questa letterina che val la pena di riportar per intero: « Mio caro Senatore, in questo momento ritorno dal mio campo di Desenzano, con la Sua macchina che mi sembra risolvere la questione del sesso già dibattuta. L’Automobile è feminile. Questa ha la grazia, la snellezza,
la vivacità
d’una
seduttrice;
ha, inoltre,
una
virtù
ignota alle donne: la perfetta obbedienza. Ma, per contro, delle donne ha la disinvolta levità nel superare ogni scabrezza. Inclinata progreditur. Le stringo la mano. Il Suo Gabriele d’Annunzio. Il Vittoriale, 18 febbraio 1926 ». Si faccia caso alla data: 1926; la Fiat, come dire la stessa automobile, esisteva in Italia
già da ventisette ancora risolta. La nunziana, e usò dola cosî nell’uso
anni, e la questione del sesso non era stata Fiat accolse definitivamente la sentenza dancostantemente la forma femminile affermancomune.
Ma non fu una vittoria assoluta, ché il maschile continuò ad
apparire qua e là, tenacemente. Gli scrittori nostrani non sembravano accorgersi troppo della nuova, rombante e, aggiungiamo, costosa invenzione. La nostra letteratura del primissimo Novecento resta fedelmente aggrappata alle redini della diligenza e del landò. In una lettera del Pascoli da Barga a un suo amico lucchese, in data 27 dicembre
1901, ecco la voce appare,
sia pure alterata nella forma diminutiva cara al poeta delle Myricae: « Avere un automobiletto da venire un giorno sîf e uno no, a ritrovare il mio socio, il mio collaboratore »: dunque 75
il Pascoli era per il maschile. Un verso del « Totò Merimeni » gozzaniano, anteriore al 1911, sonava esattamente, in una delle
prime edizioni che ebbi sottomano, « S’arresta un automobile fremendo e sobbalzando »: ancora maschile; peccato che poi uno zelante correttore di bozze, in una postuma edizione dei Colloqui, abbia inserito, certo di sua iniziativa, l’apostrofo, man-
dando a monte quell’interessante documento linguistico. Per il femminile s'era però a lungo battuto l’inesorabile purista Costantino Arlfa, che nei suoi « Passatempi filologici », pubblicati nel 1902, gridava: « Lasciamo stare che i Francesi se la sbrighino fra loro; quanto a noi dico che, essendo la voce automobile un adiettivo, essa prende il genere del sostantivo al quale si unisce. Nel caso nostro il sostantivo sarebbe vettura o carrozza; onde vettura automobile, carrozza automobile, e, usando automobile sostantivamente, essa conserva lo stesso genere, perché si sottintende il sostantivo: il che avviene in altri casi simili, come per es. La territoriale, La mobile, La riserva, dove si sottintende wzilizia ». Cosi si spiega perché a cento anni di distanza ancora qualche dizionario sembra che tentenni. Ma a proposito di dizionari, ecco qualche notizia per completare questo curricolo automobilistico, che non ha nessuna pretesa, si badi bene, d’esser neppure lon‘ramamente completo. Il primo dizionario a registrare il termine come aggettivo fu in Francia il Littré, edizione del 1877: « auto-
mobile, adj. Terme de mécanique. Qui se meut de soi-méme et sans l’aide du mécanicien ». Da noi si dovette attendere ancora un po’. Il dizionario del Petrocchi, per esempio, che è del 1902, ancora lo ignora. Il Panzini, nel « Dizionario moderno », prima edizione
1905, lo registra come
« voce nuova »,
cosf commentata con la sua solita arguzia: « Automobile: in origine aggettivo, poi sostantivo, pet indicare la nota vetturaa motore, spavento dei viandanti, concorrente con le ferrovie ». Cita ancora .il termine il Prèmoli, nel suo « Vocabolario nomenclatore », che è del 1909, con un diffuso elenco delle parti che compongono la nuova invenzione, e con questa presentazione: « vettura da diporto, signorile, docile e rapidissima, la quale si
muove da sé con meccanismi ingegnosi. Si è disputato per decidere di che genere debba essere il sostantivo automobile: il genere maschile tende a prevalere ». Guardate che tiremmolla! Ma va da sé che invece è la forma femminile quella che ha vinto la battaglia, e consiglierei pertanto 76
i prossimi lessicografi a chiuder la discussione esprimendosi cost: « Automobile, sostantivo femminile; in origine anche maschile ». Oggi tuttavia nel parlar comune si preferisce il termine abbreviato auto, sempre femminile («la mia auto »), o anche macchina, come dire la macchina (ahimè) per eccellenza. I Fran-
cesi dicono voiture. E chiuderò con una nota curiosa: al suo primo apparire, ma anche oggi in alcuni dialetti, la voce fu spesso alterata in modi stravagantissimi: altomobile, attomobile, e perfino rotomobile.
La barbèra. « Produttore di vino », mi scrive un noto enologo della Morra,
nelle Langhe, « tutte le volte che devo presentare la barbèra mi scontro con... il barbèra. Posso chiederle la sua opinione? » La mia opinione? Non sono un esperto, non sono neppure piemontese o almeno settentrionale, e potrei quindi dire soltanto una timida opinione di spilluzzicatore di cose linguistiche. Del resto, sul genere di certi vini si è sempre discusso, cosf come
sempre si è discusso e si discuterà sui nomi, lo abbiamo già visto, di certi fiumi, di certe città, il cui genere sorge piuttosto dall’uso, dalla tradizione. C'è chi chi il frèisa e chi la frèisa, però dantesco (« l’anguille di Bolsena discute: sempre femminile. Gli
dice #/ marsala e chi la marsala, sulla vernaccia, dopo l'esempio e la vernaccia ») nessuno più
esperti dicono più spesso la barbera, ripetendo l’uso locale piemontese, Morra compresa. Fui appunto un giorno alla Morra, e sentii portarmi della barbera in contrasto con me che avevo chiesto del barbera. Perché io, essendo centrale, avevo sempre sentito pronunziar cosî, nel maschile. Non credo infatti di sbagliare dicendo che il vocabolo è costantemente femminile soltanto in Piemonte. Nei casi dubbi, di solito si ricorre agli esempi classici più autorevoli; ma a parte che i classici non sembrano essersi occupati molto di questo vino (il vocabolario del Tommaseo, infatti, neppure lo registra), bisognerebbe aspettare, per numerosi spogli, la nuova Crusca. Ci vorrà del tempo. Restano gli autori moderni e recentissimi, che in genere però seguono l’uso del proprio paese natfo. Sul dizionario del Battaglia, di solito traboccante di esempi, ne trovo pochi utili al caso nostro. -Ce n'è uno del Carducci, tratto dall’epistolario: « Il vino francese è il solo degno di me, 77
quando ho l’onore di pranzare da solo a solo con te: non mi va allora il chianti, e il barbera è troppo duro ». Il toscano Carducci usa dunque il maschile; ma lo usa qui; ché altrove, come ci fa sapere il Monelli, lo stesso Carducci ebbe a improvvisare un «ritrattino gastronomico » che dice: «Generosa barbera. Bevendola ci pare - d’essere soli in mare - sfidanti una bufera »: un femminile nato probabilmente dalle villeggiature settentrionali degli ultimi anni. Un altro esempio, pute maschile, è del milanese Emilio de Marchi: « Dopo avere allungato il barbera con due grosse lagrime, alzò il bicchiere e lo votò d’un fiato ». C'è infine il noto verso pascoliano: «Serba la tua purpurea barbèra... », femminilissima, e con tanto d’accento.
Paolo Monelli, modenese, ma fatto esperto dai suoi alpini di Piemonte, e soprattutto òptimz4us pòtor, in quel suo delizioso libro dedicato al Vero bevitore, dichiara espressamente: « Barbera. È uno dei pochi vini di sesso femminile, come la freisa, l’albana, la vernaccia, la rifina, e in Svizzera la déle; ma se è femmina
è una virago da mettere fuori combattimento la gioventii tenerella e delicatina che usa oggi ». Anche Mario Soldati, piemontese di Torino, è naturalmente per /a barbera. La bilancia sembra pendere, dunque, dalla parte del femminile. Ma vediamo un po’ che ne pensano i dizionari che, linguisticamente, dovrebbero avere il peso maggiore. E anche qui la bilancia pencola ora a destra ora a manca, come una barchetta su un mare agitato. Sono per il maschile il Battaglia, il DevotoOli, il De Felice-Duro, il Dizionario Enciclopedico Italiano, il Di-
zionario Etimologico Italiano, il vocabolario della vecchia Accademia d’Italia; sono per ambo i generi il Migliorini, il Dizionario di pronunzia della Rai, il Garzanti, l’ultima edizione dello Zingarelli, che in passato teneva per il maschile. Il vecchio Palazzi distingue: femminile l’uva, maschile il vino. Prende posizione netta il Passerini Tosi: maschile il vitigno, maschile e meno bene femminile, il vino. Il vecchio Petrocchi non si sbottona: agg. e sost., senz’altra aggiunta. Siamo nel buio più fitto. Ricorrere all’etimologia? Ma per l'etimologia di barbera ancora si brancola. Quella più ripetuta fa risalire il nome, assieme al lombardo a/bèra, mutato in bianchera, e al toscano dlbiglio, due nomi di viti, al latino 4/buèlis, vitigno che prosperava sulle alture, come si legge in Columella; e questo da 4/ba, altura: perciò, alla lettera, vite che prospera sulle alture. Benissimo; ma il genere della parola? E allora, à mio avviso, non ci resta che 78
accettare l’uso concordemente femminile del luogo di origine, tanto per il vitigno quanto per il vino. Può essere che questo femminile sia nato per influsso dei sottintesi vite e uva, e che si sia poi mantenuto, come generalmente accade, anche per il prodotto. Sul maschile invece avrà influito certamente il nome sottinteso vino. Discotso lungo, conclusione poca; la stessa cosà che avverrebbe del resto con molti altri vini; con l’albana, per esempio: « albana vero » dice Marino Moretti, « bianca albana » dice Riccardo Bacchelli: e son nati entrambi, press’a poco, negli stessi luoghi
Schieriamoci dunque buon pro ci faccia.
piemontesemente
con la barbera, e che
« La cellofan » o « il cellofan »?
Su cellofan ci sono molte cose da chiarire, e non solo intorno al genere. Perciò vorrei richiamarmi alle origini. Sul finire del secolo scorso si fabbricò in Francia una materia laminare e trasparente,
resistente
e flessibile, ottenuta
dalla viscosa
con
l'aggiunta di glicerina o di altra sostanza plastificante (se sbaglio, mi si corregga). A questa materia fu dato il nome di cellophane, composto di cello-, abbreviazione di cellulose, celluJosa, e del greco phands, lucido, trasparente, sul modello di dia4-
phane, diàfano: come dire, cellulosa trasparente. Coniato il vocabolo,
i Francesi
ne fissarono
anche
il sesso:
femminile:
la
cellophane; e su questo in Francia sono tutti d’accordo. D’accordo sono anche gli Spagnoli che, trasformando il vocabolo francese secondo le loro esigenze linguistiche, hanno fatto celéfana, femminile. La ridda, l'anarchia comincia da noi, che ripreso il francese tal quale, lo abbiamo trasformato a orecchio in cellofan, pronunziando « cellofàn », diciamo cosi, alla francese, ma più comunemente « cèllofan », seguendo il vezzo, tutto settentrionale, anzi
lombardo, di contrarre l’accento sulla prima sillaba in tutti i vocaboli tronchi in consonante (per esempio fèstival, cògnac, còrdial invece dei corretti festivàl, cognàc, cordiàl, ecc.). Una volta accettata la forma francesizzante sarebbe stato naturale, io penso,
mantenerle più o meno la pronunzia, e dire cellofàn. Ma questo è il meno. C’era piuttosto da stabilire il genere del nome, e non era una cosa semplice perché mancava quella vocale finale che 73
nel nostro linguaggio è la guida più sicura per questa faccenda. A me pare che il genere femminile sarebbe statoil più logico e naturale in quanto, come appunto il francese, avrebbe tenuto conto del primo elemento, e il più importante, del vocabolo, che è cellulosa, pacificamente femminile. Dunque, la cellofàn. Invece no: molti hanno cominciato a dire e a scrivere il cèllofan. Tuttavia il discorso non finisce qui. Giustamente i nostri linguisti non si sono rassegnati ad accettare questa forma tronca, senza dubbio di formazione popolare, troppo spiccia e troppo in contrasto con le nostre esigenze linguistiche. E allora ascoltate. Per avere un’idea dell’iradiddio che vortica intorno a questo innocente vocabolo, basta aprire il monumentale e ottimo dizionario del Battaglia: « Cè/lofan, sostantivo maschile (anche cellofàn, cellofane, cellofano; disusato cellòfane, cellofània) ». Non capisco quel « disusato » e quel « cellofània » invece del più na-. turale « cellofanfa », che avrebbe ripetuto almeno il modello ve-
trofania. Restano poi ignoti i generi di alcuni vocaboli tra parentesi. Il vecchio Zingarelli aveva cellofàne, femminile, ma il nuovo si corregge e lo fa maschile, aggiungendo anche la forma cellòfane, raro cellòfano; è maschile nel Battisti-Alessio; il Prati suggerisce un cellòfane maschile, come
anche il Migliorini, che
però vi segna accanto una cellòfana femminile; il Dizionario Enciclopedico Italiano ha nell’otdine: cèllofan o cellofàn; anche cellòfane, più raro cellofàno, tutti maschili; il Devoto-Oli e il De Felice-Duro stanno per il cèllofar o cellofàn, maschile; e infine l'autorevole DOP oltre il cèllofan o cellofàn maschile, avverte che c'è una seconda forma, rara, cellòfane, pure maschile.
Ditemi ora voi come farà a raccapezzarsi il cosiddetto uomo della strada. Il quale, a mio avviso, seguendo la legge dell’uso, farà bene a continuare a dire /a cellofàn, femminile invariabile, accentata sull’ultima vocale.
Cervello...
Al ristorante, un Milanese ordinerà una cervella fritta; un Romano, invece, ur cervello fritto, un fritto di cervello. Qual è il genere giusto?
Il sostantivo cervello ha due plurali: uno regolare maschile, i cervelli, uno irregolare femminile, le cervella (lo rincontreremo quando parleremo dei nomi sòvrabbondanti). Questo secondo 80
plurale, però, si usa soltanto in certe particolari locuzioni, tutte tragiche, come « bruciarsi le, cervella », « farsi saltar le cervella », « fracassarsi le cervella », « le cervella dell’ucciso ». In
ogni altro caso,
e in particolare
mente,
senno,
giudizio,
memoria,
nel significato si deve
usare
figurato di soltanto
cer-
velli. In certe regioni settentrionali, tuttavia, col plurale femminile /e cervella si indica anche l’organo degli animali macellati quando è usato come vivanda, e si dice « una porzione di cervella », « oggi si mangia cervella »: plurale ignoto in ogni altra regione d’Italia, ma tutto sommato tollerabile, perché questa vivanda si prepara normalmente in numerosi pezzettini, cioè in numero superiore all’unità. Ma il guaio è che gli stessi Settentrionali, ingannati da quella terminazione della parola in -a, hanno finito con l’intender cervella come singolare femminile, e perciò dicono « ho ordinato una cervella », « la cervella mi ha fatto male », « era una cervella fritta davvero squisita . E questo, [S
si capisce, è un errore grave, che bisogna in ogni caso evitare.
«€ purè. Ancora in trattoria: a Milano si ordinerà normalmente una purè, al femminile; nell’Italia centrale si ordinerà più spesso un purè, al maschile; ma si obietta che purè in francese è femminile. Certo, in francese è femminile, ma allora bisogna scrivere purée, e pronunziare « piiré ». Se invece si usa l’adattamento italiano purè, questo è maschile (e il maschile ci viene probabilmente dallo spagnolo un puré). Il francese purée, con cui si indica quella specie di pappa mangereccia ottenuta spremendo, passando per lo staccio o per altro apposito arnese patate, legumi, verdure bollite, deriva da un antico verbo purer che significava appunto spremere, strizzare sugo (secondo il Dauzat, il primo significato del verbo sarebbe tutt’altro che d’ordine mangereccio: vorrebbe dir suppurare, produrre pus). Nell’Italia settentrionale è anche molto diffuso un altro adattamento, pur esso femminile, purèa: « una purèa di patate ». A proposito di questa vivanda mi vien voglia di riferire quel che dice il famoso Artusi nel suo ricettario di cucina: « Ormai in Italia se non si parla barbaro, trattandosi specialmente di mode e di cucina, nessuno v’intende; quindi per esser capito 81
bisognerà ch’io chiami questo piatto di contorno non passato di patate, ma purée di patate, o più barbaramente ancora patate mdchées ». Certo, queste righe l’Artusi le scriveva a Firenze, alla fine del secolo scorso, in piena battaglia puristica. Ma a leggere oggi queste cose, per di più in un ricettario di cucina, sembra di viver davvero in un altro pianeta.
Errata-còrrige. Nota espressione latina con cui si indica l’elenco degli errori di stampa sfuggiti al correttore o genericamente al tipografo e non più riparabile essendo il libro già stampato. Si colloca di solito in fondo al volume dopo l’indice, con questa intestazione appunto, e più raramente in testa o addirittura in un foglietto volante inserito in ciascuna copia del libro. Errata-còrrige (attenti alla lettura: còrrige e non «corrige »!): alla lettera « correggi le cose errate, correggi gli errori ». Si discute sul genere da dare all’espressione: un errata-còrrige o un’errata-còrrige? Fu usata, e a volte si usa, anche al femminile, per via di quella desinenza in -4 di errata; ma la parola è neutra (è il plurale di erratu7mz, errore) e meglio la useremo quin-
di al maschile che è il modo pi regolare, come già s’è visto, di rendere il neutro latino e greco in italiano. Dunque diremo wr erratacorrige, lasciando il plurale invariato: gli errata-còrrige. Un’ultima
avvertenza;
mettete
sempre
il trattino tra le due parole;
i due elementi compositivi sono infatti inseparabili, fanno come una parola sola, e la funzione del trattino è appunto quella di rappresentare
questa
inscindibile
unione.
Vero
è che a volte,
parlando, si dice anche semplicemente errata: « L’errata è stampato in fondo al volume ». .
Gala.
Ormai si legge e si sente dappertutto un gala benefico, il gala canoro, î partecipanti al gran gala, e cosi via. Ma una volta gala non era sostantivo femminile? Non si diceva la gala, una gala? Ù E infatti tutti i dizionari, dal più antico al pit recente, lo registrano sempre femminile, in bgni sua accezione; ma l’uso e 82
l’abuso giornalistico e televisivo lo hanno ormai fatalmente mascolinizzato, almeno nel significato particolare di ricevimento, trattenimento solenne, elegante, fastoso. Per capire come sia avvenuto questo singolare fenomeno, bisogna delineare, sia pure in breve, la storia di gala. Dall’antico francese gale, divertimento, spasso, allegria, festa, da un verbo galer, di origine germa-
nica, che voleva dire « divertirsi », nacque nel secolo XIII l’italiano la gala, femminile, come la maggior parte dei nostri nomi in -a, che acquistò via via, nel corso dei secoli, vari significati: trina, nastro, guarnizione («un abito pieno di gale »); lusso, sfarzo, apparato solenne (con le frasi comuni « mettersi in ga-
la », cioè in gran lusso, in ghingheri, in fronzoli; « spettacolo di gala », lussuoso, sfarzoso; « ricevimento di gala, di mezza gala », ricchissimo o meno ricco); di qui, con particolare accezione nel
linguaggio della marina, « la gala di bandiere » detta anche pavese, cioè ornamento di bandiere disposte a festoni sulie navi; infine (e ci siamo), per ulteriore evoluzione di significato, gala
passò a significare la festa, il ricevimento stesso ricco di pompa e di apparati, e si disse « Una gala di corte », « La gran gala di capodanno », « Partecipare alla gala di beneficenza ». Sempre femminile, come ben ricorderanno quelli dai quarant'anni in su. Ma ecco a questo punto che cosa accade: accade che l’italiano gala, verso i primi decennii del Settecento, passa in Francia con tutti i suoi significati; ma per la tendenza propria della lingua francese di mascolinizzare i nomi in -4 (le réséda, la reseda, le vodka, la vodka, le ténia, la tenia, ecc.) anche la nostra
gala diventò le gala (letto naturalmente « galà »): diventò cioè sostantivo maschile. Il resto è chiaro: il solito traduttore orecchiante (non dirò, come
un tempo
s’usava dire, infranciosato)
di fronte a frasi francesi come le gala de cour, un gala de bienfaisance, tradusse disinvoltamente « il gala di corte », « un gala di beneficenza ». Leggendo, si fosse almeno mantenuta la pronunzia tronca alla francese, che avrebbe giustificato l’improvvisa mascolinizzazione; no, « gàla », sempre « gàla », all’italiana; e questo non può non considerarsi errore. Ha tentato il Migliorini una giustificazione di questo abuso: considerare gala, in questo particolar significato, come una forma ellittica di spettacolo di gala, cosi come il varietà, maschile, sta per featro o spettacolo di varietà. Abile giustificazione, certo. Ma non dimentichiamo che gala ha già, fin dall’origine, il significato compiuto di spettacolo solenne, di trattenimento pomposo e festoso. 83
Il Gènesi.
Parlando del primo libro della Bibbia molti oggi dicono il Genesi, al maschile, mentre in passato si è sempre sentito dire la Genesi. La parola gèresi, come nome comune, è senza dubbio femminile, come era femminile in latino, gèresis, che l’aveva presa dal femminile
greco géresis, nascita, origine, creazione;
siamo
tutti d’accordo perciò nel dire «la genesi del mondo ». Come nome proprio, invece, riferito al titolo del primo libro del Vecchio Testamento, quello che parla appunto della creazione del mondo, si usò spesso anche nel maschile, il Geresi, a cominciare da Dante, che lo fa accentato, lo Genesi (Inf., XI, 107), con chiaro riferimento alla parola « libro »; cioè, propriamente, il (libro della) Geresi. E cosî, nei secoli, il nome biblico fu
usato ora al femminile e ora al maschile, con regolare alternanza; lo usò al maschile il Villani (sec. XIV), ma al femminile il Davanzati (sec. XVI); tra i moderni trovo in Fogazzaro
« il primo capitolo del Genesi », ma in Papini « rilessi... tutta la Genesi ». La forma femminile è tuttavia la più comune.
«Il guardaroba » o « la guardaroba »? Direi che il maschile è ormai il genere preferito largamente nell’uso: il guardaroba, invariato nel plurale, i guardaroba. I dizionari, a cominciar dal Tommaseo, lo fanno generalmente ambigenere; ma appare certo che l’origine del vocabolo fu femminile: la guardaroba, plurale le guardarobe, tanto nel significato di luogo o stanza o armadio dove si conservano vestiti e biancheria, quanto nel significato di luogo, nei ritrovi pubblici, dove si depositano temporaneamente soprabiti, ombrelli, ecè., quanto ancora nel significato estensivo di complesso di abiti posseduto da una persona, da una famiglia. Gli esempi classici (dal sec. XIII) che ho sott'occhio danno il vocabolo sempre come femminile: « Volendo andare alla guardaroba » (Sacchetti), « Fummo menati da lui a una guardaroba » (Firenzuola), « Una ricchissima guardaroba » (Varchi), « Fanno serbare ogni cosa nelle
guardarobe » (Ségneri). Nel francese abbiamo costantemente il femminile, la garderobe, e cosî pure nello spagnolo, la guardarropa. E certo preferibile sarebbe mantenerlo nel femminile an84
che nella nostra
lingua, come fanno
accurati (« Eravamo
infatti gli scrittori più
alla soglia ‘della guardaroba », D'Annunzio;
« Gran mastro della sua guardaroba », Ojetti). La forma maschile sarà certamente nata per analogia con molti altri nomi maschili composti della forma imperativa guarda- e di un sostantivo femminile: guardacoda, guardastiva, guardasala, guardacaccia, guardapinna, guardaspiaggia, ecc. Aggiungerò, giacché siamo in argomento, che la parola guardaroba si usò anche per indicare la persona addetta alla custodia della guardaroba; invariabile nel singolare (il, la guardaroba), faceva nel plurale i, le guardaroba o anche i, le guardarobe,
e perfino, per il maschile, i guardarobi: ne trovo un esempio nella Vita di Michelangelo del Condivi: « mandandogli un giorno papa Paolo cento scudi d’oro per messer Pier Giovanni, allora guardaroba
lo XXXI
di Sua
Santità »; e leggiamo
dei Promessi
printendenti,
confessori,
Sposi:
«e
furono
amministratori,
nel Manzoni,
capito
in quel luogo soinfermieri,
cucinieri,
guardarobi, lavandai... ». In questo senso, tuttavia, il vocabolo è pressoché sepolto, e s’usa in sua vece guardarobiere, nel fem-
minile guardarobiera.
Medium.
Nasce
a volte una
discussione
sull’uso della parola medium.
Se si tratta di una donna, si deve dire un medium o una medium?
La parola medium è il neutro sostantivato dell’aggettivo latino medius, mezzo, che sta in mezzo; propriamente quindi « la persona che sta in mezzo, che fa da mediano, da intermediario tra il mondo di qua e il mondo di là ». Si tratta di una parola che io giudico invariabile e da usar sempre nel maschile: il medium, i medium, siano maschi o femmine. Perciò dire « una medium » e « le medium » dico che è sbagliato. In una novella del Pirandello, La casa del Granella, trovo questo periodo che potrebbe metter fine alla discussione: « La signorina Piccirilli, Tinina, si rivelò un medium portentoso ».
85
Retrobottega.
Il vocabolo retrobottega da alcuni dizionari è dato come femminile, da altri maschile, da altri di entrambi i generi. Ma retrobottega è correttamente femminile, soltanto femminile: la retrobottega, le retrobotteghe. Quei dizionari che lo registrano come maschile non fanno che seguire l’uso prevalente, che non è certo quello corretto; quelli poi che lo registrano d’ambo i generi peccano anche di più perché convalidano, col loro irre orre, un sistema facilone che serve solo ad accrescere
il già grave disordine regnante nel nostro moderno linguaggio. Un dizionario serio dovrebbe se mai dire: «retrobottega, sostantivo femminile;
errato, anche
se comune,
come
sostantivo
maschile invariabile ». Perché errato? Perché nella nostra lingua wutte le parole composte con retro- assumono correttamente lo stesso genere della parola che segue il prefisso. Sono quindi femminili, oltre retrobottega, anche i sostantivi retrobocca, retrocàmera, retrocessione, retroguardia, retrocàrica, retromarcia, retrostanza, retrovia, ecce-
tera. Sono invece maschili retroaltare, retrocamino, retrofrontespizio,
retrogusto,
retrosapore,
retrovisore,
retrofeudo, e qualche
altro. Lo stesso accade, del resto, nei composti con anti-; per cui son femminili, per es., anticamera, anticarica, antidatazione, an-
tiporta, ecc., e sono invece maschili antiporto, antipasto, antifumo, antiscalo, antibecco, ecc. ecc. Chi usò per la prima volta retrobottega come maschile sentf certamente quel prefisso retro- come sostantivo maschile, il retro, cioè il didietro, la parte posteriore: « Il retro della bottega ». Ma gli scrittori più avveduti useranno sempre il femminile (« Due ragazze che stavano nella retrobottega », Monelli). * Ci sono due sole eccezioni alla regola che riguarda il prefisso retro-, ora detto; due eccezioni entrambe spiegabili e sempre discutibili: retroterra e retroscena. Retroterra, di formazione relativamente recente (risale circa alla fine della prima guerra mondiale), traduce il tedesco Hinterland, composto di hinter,
dietro, e Land, territorio, paese:
propriamente, « territorio che
sta dietro » (sottintendendo « una zona costiera »). Prima di creare il termine italiano noi usavamo quello tedesco, correttamente, come maschile: l’Hinterland, un Hinterland; volgendolo in ita-
liano, abbiamo conservato lo stesso genere. E fu certo un errore. 86
Retroscena è regolarmente femminile nel significato proprio di « parte del teatro che sta dietro la scena »; quindi: « Gli attori attendono nella retroscena », « I pettegolezzi delle retroscene ». Ma diventa improvvisamente maschile invariabile quando assume il senso figurato di « ciò che accade dietro la scena »; diciamo cosî « il retroscena del processo », « i retroscena della politica ». Nel cambio di genere ha certamente agito il senso figurato dell’espressione « ciò che accade »; espressione di valore neutro, corrispondente al maschile italiano.
«Il soprano » o « la soprano »?
Soprano era in origine aggettivo, disceso da un latino volgare superanus, poi contratto in supranus, da super, sopra. Alla lettera, che sta sopra, superiore. « Vidil seder sopra il grado soprano », dice Dante dell’angelo che siede sul gradino più alto della porta del Purgatorio. Vive ancora nell’uso letterario; per esempio, leggiamo nell’Inmocente di D'Annunzio: « Attinsero le altezze soprane », cioè le massime altezze; e s’incontra in qualche topònimo per indicare una località situata in posizione dominante rispetto ad altra località omonima: Vezzano Soprano,
Petralia Soprana, in opposizione a sottano (da un latino volgare subtanus, da subtus, sotto, donde anche la femminile sottana, propriamente « veste che si mette sotto un’altra veste »). Aggiungerò che da soprano si fece la variante sovrano, cosi come
da sopra si era fatto sovra, e si usò come aggettivo (« Omero, poeta
sovrano », Dante)
e come
sostantivo,
nel significato di
re, di monarca (propriamente, colui che sta sopra gli altri, che ha il più alto potere). Nel Seicento si passò dall’aggettivo al sostantivo, e si chiamò maschilmente soprano (ma propriamente « canto o registro soprano ») la voce umana di più alto registro, quella che è propria delle donne e dei fanciulli, ma che un tempo era anche degli uomini, i quali la ottenevano con i noti mezzi inumani o anche mediante il cosiddetto falsetto. In seguito questo sostantivo, ripeto solo maschile, si adattò anche alla persona dotata di tal voce, donna, uomo
o ragazzo che fosse. E di qui nasce l’incer-
tezza, che ancora sussiste, sul genere di questo sostantivo oggi che i soprani maschi non esistono più. Non mi par dubbio, però, che l’unico uso corretto sia i! soprano, al maschile, anche 87
con riferimento a donna; nel plurale, i soprani. Un esempio del D'Annunzio: « Tilde era un primo soprano non molto giovane »; nel linguaggio dei critici musicali più vigilati questa forma maschile è poi quella generalmente rispettata. Diremo perciò « il celebre soprano Maria Caniglia », « Questa ragazza diverrà un ottimo soprano ». Dire, come correntemente spesso si dice, la soprano, una soprano, e nel plurale le soprano, mi pare francamente un abuso, che consiglierei di evitare. Va da sé che la stessa regola dovrà valere per il mzezzosoprano, plurale i mezzosoprani, e anche per il contralto (« Il celebre contralto Marietta Alboni »), che farà nel plurale i contralti.
Sòsia e Mecenate.
Quante volte ho letto e sentito frasi come queste:
« Anna è la
sosia di sua madre », « Quell’attrice non è certo la sosia della
Garbo », parlando di due persone che si somigliano come due gocce d’acqua o non si somigliano affatto. E tutte le volte mi vien da dire: che erroraccio! Erroraccio perché? Ma perché sòsia è un
nome
maschile,
e maschio
ha da restare,
anche
se da
nome proprio una trasformazione l’ha già fatta divenendo nome comune. Infatti questo Sosia, per chi non lo ricordasse, è il nome del servo di Anfitrione, nella famosa commedia di Plauto. (Di nomi
maschili in -4 ce n’è parecchi, basterebbe ricordare Enea, Leònida, Bàrnaba e Bàbila: vero è che a Milano il popolo dice normalmente santa Babila!) Nella commedia plautina accade che un giorno Mercurio, mandato sulla terra da Giove, assume l’iden-
tico aspetto di Sosia, allo scopo di giocare alcune beffe diciamo piccanti all’infelice Anfitrione. Questo soggetto fu poi ripreso dal Molière nella commedia intitolata appunto Amphitryon; e il nome del servo, divenuto subito popolarissimo in Francia, da proprio si trasformò in comune, venendo a indicare persona somigliantissima a un’altra al punto da essere scambiata con questa. Noi riprendemmo il termine dal francese in questa accezione figurata verso la metà dell’Ottocento. Ma sempre come termine maschile, si capisce. Perciò dobbiamo dire il sosia, nel
plurale i sosia, sia con riferimento a uomo sia con riferimento a donna. Non possiamo dare a Sosia una sorella dallo stesso nome! Diremo quindi correttamente: « Anna è il sosia di sua %
88
. *
madre », « Quell’attrice non è certo il sosia della Garbo ». Stona quel maschile accostato a un femminile? Ma stona forse
dire « Anna è # ritratto, il doppione, il modello, lo stampo di sua madre »? Una volta una signora mi scrisse press’a poco cosî, a proposito appunto di questo sosia: « Lei sostiene che sosia resta sempre maschile anche se riferito a donna. Ma con la parola mecenate, per esempio, come ci si deve regolare? Si deve dire che la signora tale è il mecenate degli artisti? Non sente ch'è una stonatura? » Non sento; la sentirei se si dicesse « la mecenate ». Mecenate era un fior di cavaliere romano, fors’anche con tanto di barba, e non vedo perché, trasformandosi il suo nome in comune, dovrebbe cambiar di sesso. Non tutti i nomi, che diamine, pos:
sono avere i due generi. D'altra parte questi accostamenti di due generi opposti, in similitudini e paragoni, sono frequentis simi. Di una donna che veste con colori sgargianti e male accostati si dice che è un arlecchino e non già « un’arlecchina »; cosî come si dà del pappagallo, e non della « pappagalla », a donna che imita pose e abiti di altra persona; un uomo che ha modi e arti raffinate di seduzione può essere definito na sirena e mai « un
sireno », ché di sireni maschi
non
s'è mai
vista l'ombra in nessuna mitologia. Certe lanciatrici russe di peso o di disco, massicce e muscolose, sembrano altrettanti ercoli, nome che più maschile di cosi non si potrebbe. Voglio dire che quando si vuole usare un vocabolo bisogna usarlo a dovere senza forzature di sorta, specialmente di sesso. Che se poi all’orecchio certi accostamenti stonano, c'è sempre il modo di girare l'ostacolo: per sosia, s'è già visto che il ritratto, il modello e simili vanno benissimo; per mecenate anche più semplice: diciamo che quella tal signora è la protettrice, la benefattrice, la sostenitrice degli artisti e l’orecchio sarà accontentato.
Nomi
geografici.
Si può stabilire una regola per il genere dei nomi propri geografici? Perché, per esempio, si dice la Colombia, la Bòrmida, ma
si dice :l Guatemala e il Ghana? Basterebbero questi pochi esempi. per dimostrare che una regola non è possibile stabilirla, salvo che si voglia considerar 89
regola una pura e semplice enunciazione generica seguîta dal solito codazzo di eccezioni. La regola, semmai, è questa: che i nomi propri geografici seguono in quanto al genere la medesima sorte dei nomi comuni indicanti cose inanimate; le quali cose, non potendo avere un sesso come lo hanno gli uomini e gli animali, dovrebbero considerarsi propriamente di genere neutro (come accade infatti in alcune lingue antiche e moderne);
ma l’italiano non ha il neutro, e perciò è stato assegnato alle cose inanimate ora l’uno ora l’altro dei generi, secondo l’origine, secondo la tradizione o l’uso. Certo, generalmente si dice che sono maschili i nomi che escono in -0 e femminili quelli che escono in -4, e senza dubbio anche la maggior parte dei nomi propri geografici segue questa regola; ma come abbondano le eccezioni per i nomi comuni (la
mano, il poeta), cosi abbondano anche per i nomi propri geografici: il Canadà, il Ghana, il Guatemala, il Kenia, il Panamà, il Ruanda, il Tanganica, il Venezuela, l’Alto Volta, ecc. La Cambogia spesso si mascolinizza nel Cambogia, e la Costa Rica, sempre femminile quando è scritto in due parole, diventa #/ Costarica quando è scritto (malamente) in una parola sola. Per i nomi di fiumi, di laghi, di mari, di monti ecc., spesso influisce sul genere il nome comune corrispondente; cosî abbiamo il Caspio (sottinteso mare), la bella Cipro (sott. isola), il
Volga (sott. fiume), ma meglio la Volga, come presto vedremo, il Garda (sott. lago), ecc. I nomi di città si considerano gene-
ralmente femminili appunto per la sottintesa parola città, valevole poi anche per i semplici paesi e i borghi e i villaggi: « Roma eterna », « la vecchia Aosta », e anche « la regal Torino », « l’industriosa Milano », « la marzia Todi ». Ma qui pure, quante ecce-
zioni! Ecco «il rapido Mella» manzoniano, ecco «la Piave» del Gozzi, di Paolo Monelli e di tutti i Veneti, di fronte al Piave dello Zanella, del Carducci, del D'Annunzio, dei bollettini di guerra e del famoso inno patriottico; canta ancora il Carducci l’« Asti repubblicana » e « l’alta Spoleto » ma anche « il dolce Mondovf ridente »; e i Fiorentini inneggiano al « bel mf’ Firenze ». Insomma, un’iradiddio di eccezioni, di contraddizioni che nascono appunto dal fatto che tutta questa roba rientra nella categoria dei nomi comuni e non ha, né potrebbe avere, un sesso definitivo. Dove si potrebbe tuttavia mettere un po’ d’ordine sarebbe nei nomi di città, facendoli tutti femminili, pur rispettando quei casi dove il genere maschile si è ormai storicamente Di
90
e amministrativamente stabilizzato: il Cairo, il Pireo, Montecatini Alto, Belvedere Marittimo, Loreto Aprutino. E diciamo, lasciando ai poeti, come sempre, libertà d’azione, « la sabauda Torino », « la generosa Milano », « Assisi francescana », « Como industriosa », e anche, perché no?, «la bella San Marino ».
L’Etna.
Si è letto questo titolo su un giornale: « L’Etna si è risvegliato ». L’Etna è dunque nome maschile? Il dizionario di pronunzia della RAI lo fa maschile, altri lo fanno femminile. Era femminile in greco, Aitze, e nel latino, Aetza.
Virgilio, se pure il
poemetto Aetra è suo, cantò il vulcano al femminile. Ma il Rapisardi, poeta siciliano di pura razza, lo cantò al maschile: « E tu tranquillo di vermiglie arene E di colti e di boschi ampio t’ammanti ». Ma discutere del sesso dei nomi geografici, ho appena finito di dirlo, è fatica vana. Meglio è attenersi all'uso, e preferibilmente a quello del luogo. Non avendo a portata di mano un Siciliano adeguato, vorrei girar la domanda a qualche lettore di buona razza etnea. Nel maschile hanno certo influito i sottintesi zz0nte o vulcano; come altri sottintesi influiscono sul
genere di moltissimi topònimi.
«HI Volga » o «la Volga »? In russo, Volga è femminile; femminile è anche in francese; ma-
schile è invece in spagnolo, e comunemente maschile s’usa in italiano. Però il femminile la Volga s'incontra anche presso alcuni scrittori (« dalla Volga al Golfo persico » leggo in D'Annunzio), e
soprattutto presso gli slavisti, che rispettano il genere originario russo. Il Lo Gatto, per esempio, usa costantemente la Volga.
La donna negli uffici. Tutte le volte che la donna fa un passino avanti nelle sue conquiste sociali (speriamo con suo e nostro vantaggio), succede il solito parapiglia grammaticale. Un « affezionato lettore » mi scrisse un giorno a questo proposito: « Vedo che tutti i dizionari, 91
anche quelli più recenti e più voluminosi, trascurano di dirci qual è il femminile di ferroviere, oggi che numerose sono le donne nei ruoli delle ferrovie. Aggiungerò con disappunto che i dizionari in genere, salvo rarissime eccezioni, e neppur sem-
pre costanti, si dilungano in notizie non propriamente linguistiche, ma tacciono poi davanti a certi dati squisitamente grammaticali, come le varianti femminili di nomi maschili, i plurali o le forme verbali irregolari o difficili, e via dicendo; sf che
spesso ci fanno chiudere il volume delusi e indispettiti ». È vero. Io stesso ho fatto spesso questa osservazione. La modernità, l’utilità di un dizionario non è solo nel numero dei vocaboli che si vanta di registrare, ma anche, e direi soprattutto, nella chiara indicazione del modo come vanno correttamente usati. Molti nostri lessicografi, occupatissimi a sciupare spazio e tempo preziosi per descriverci minutamente, poniamo, i ciclostomi o la coriotide e le corriarràcee, e a indicarci con molta
pignoleria le parti in cui si divide l’encefalo (tutte bellissime nozioni, che però meglio e più opportunamente andremo a cercare nelle enciclopedie dove sarà possibile trovare maggiore esattezza
e compiutezza
di informazione),
farebbero
meglio, a
mio parere, ad occuparsi di quelle nozioni di lingua che sono di stretta pertinenza dei vocabolari. Come nel caso della voce ferroviere, che può essere tanto aggettivo quanto sostantivo, tanto maschile quanto femminile. Il femminile è ovvio? Certo è ferroviera, cosi come da infermiere si è fatto inferzziera. Ma tanto ovvio non pare, se poi la gente, nella pratica, va a scartabellare il volume per sapere come cavarsi d’impaccio. E poi a me sembra che in sede di vocabolario sia più utile la pur ovvia informazione della ferroviera femmina, che venirci a dire che l'amamèlide ha fiori a glomeruli asceltari e il frutto a capsula deiscente. Ma lasciando questo pur opportuno argomento, torniamo ai nostri ferrovieri, che una volta divenuti femmine non potranno
chiamarsi altro che ferroviere, e non ferrovieri in gonnella come qualche giornalista le ha battezzate. Aggiungerò, restando nel campo ferroviario, di aver letto tempo fa un articolo di giornale che, dovendo trattare appunto delle nuove assunzioni femminili nell’amministrazione delle ferrovie, aveva messo il cronista in una pastoia grammaticale molto penosa. Dopo aver parlato di « donne ferroviere », con una felice concordanza di due femminili plurali, ecco che subito il giornalista inciampò in una 92
Li
donna conduttore, col relativo “plurale donne conduttori, scusandosi della stridente sgrammaticatura col fatto che « non esiste ancora nella terminologia ferroviaria la parola conduttrice »; come se la parola conduttore non avesse avuto fin dall’origine un femminile regolare conduttrice, di cui si potrebbero riportare esempi fin dal Quattrocento. È proprio necessario aspettare una circolare governativa per applicar questo femminile a un’impiegata delle ferrovie? Ma la cosa non si fermò qui. Nello stesso articolo si parlava anche del grado di capostazione ora assegnato ad alcune giovani donne. Il cronista se la cavò col solito capostazione in gonnella. Io non mi attenterò mai di chiamare « il capostazione » una ragazza femminilmente in fiore sol perché non è venuta ancora da Roma l’autorizzazione a chiamarla, come la logica e la grammatica consigliano, la capostazione. Questi composti con capo- ne danno, certo, del filo da torcere; ma nel caso nostro le cose dovrebbero andar piuttosto lisce dopo i numerosi termini ormai vecchiotti e stabilizzati nel nostro linguaggio come /a capufficio, la capoclasse, la caposquadra, la capoturno e cosî via, coi loro bravi plurali invariabili le capufficio, le capoclasse, le caposquadra, le capoturno. Ed ecco invece il solito cronista fare un nuovo scivolone: « le capistazione ». I capistazione maschi, si; ma femminilizzando, lasceremo anche qui invariato il termine, e diremo /e capostazione; e, quando verranno, anche
le capotreno.
Sindachessa, ambasciatrice... Altra domanda che molti si fanno, e che i dizionari al solito non risolvono: un sindaco in sottana è una sindachessa o resta sindaco? Un avvocato che si chiama Maria o Maddalena resta avvocato o si tramuta in avvocatessa?
Ricordo le chiacchiere che si profusero quando, per la prima volta al mondo (almeno cosî credo), fu nominato come amba-
sciatore americano a Roma una donna, la squisita signora Clara Boothe Luce. Nessuno osava chiamarla ambasciatrice; ma tutti « l'ambasciatore Clara Luce » e allora venivan fuori cosette davvero amene, come quella volta che un giornale, nel reso-
conto di una serata di gala, avverti compiaciuto che l’ambasciatore americano era intervenuto indossando « un superbo abito di 93
seta color malva molto scollato », e un altro giornale parlò imperterrito del « marito dell’ambasciatore americano a Roma », alludendo all’editore Henry Luce, coniuge di Clara. Di fronte a queste baggianate, la logica e la grammatica ebbero alla fine la meglio; e finalmente si sentî dire e si vide stampato l’amzbasciatrice Clara Luce. Voglio dire che per me, che cerco di ragionare sempre a fil di logica, appunto, e di grammatica, certi problemi, come questi del sindaco e della sindachessa, dell’ambasciatore e dell’ambasciatrice, non si pongono neppure. La grammatica insegna una
cosa elementare: che per gli uomini esiste un maschile e per le donne un femminile. Non si può fare eccezione per un sindaco o per un ambasciatore. Il fatto è che certe svolte sociali, come og.gi si ama dire, portano sempre con sé perplessità e discussioni in ogni campo. Sentite questa, che è storica. Un tempo, tutti i pittori erano maschi, almeno quelli celebri, quelli noti. Ma ecco che tra il Seicento e il Settecento spuntano due astri pittorici femminili, Artemisia Gentileschi e, mezzo secolo più tardi Rosalba Carriera. Fin allora s'era usata la sola parola pittore (con
le varianti più antiche dipintore e pintore); ora bisognò classificare anche queste donne artiste, e sorse il problema linguistico: come definirle? Il latino classico non suggeriva niente in proposito, offriva solo il pictor, pictoris maschile. Esisteva però un aggettivo femminile, pictrix, pictricis, creato nel basso latino: si diceva, per esempio, matura pictrix, natura pittrice; e a questo aggettivo si rifecero i letterati dell’epoca sostantivandolo, e dissero la pittrice Artemisia Gentileschi, la pittrice Rosalba Carriera. Da allora pittrice al femminile diventò comune nell’uso, e nessuno oggi penserebbe di poter dire che la Gentileschi e la Carriera furono « due celebri pittori ». 3 Solo un centinaio d’anni fa o poco più, le donne non esercitavano nessuna pubblica professione, e assai rare eran pure le professioni private, sf che i nomi professionali eran tutti maschili. Oggi chi discuterebbe sull’appellativo di maestra da dare a un'insegnante di scuola elementare? Arrivarono poi le professoresse, arrivarono le dottoresse e le medichesse e le ragioniere, e
oggi nessuno più si meraviglia di questi appellativi. Non riesco davvero a capîre la perplessità soprattutto di certi giornalisti di fronte a questi problemi che non esito a definire elementari. Un giorno eleggono al senato una donna, e nelle redazioni si crea lo smarrimento. Com’è il femminile di senatore? Si può DI
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dire il senatore Merlin? Nessuno pensa che i nomi in -fore fanno normalmente in -trice, come da imperatore si fa imperatrice; alla fine, è vero, spunta il femminile senatrice, ma ce n’è vo-
luto del tempo e del coraggio per decidersi ad appiccicarlo al nome di una donna. Si è letto anche di donna e donne deputato; ma perché non dire subito la deputata, le deputate? Da una terminazione maschile in -0 nasce regolarmente un femminile in -4: dunque deputata; tanto più che qui si tratta di un participio passato del verbo deputare: cioè persona deputata a rappresentare in parlamento un certo numero di elettori. Una donna che abbia ottenuto questo incarico non può essere che una deputata, e non una deputatessa, come alcuni anche oggi insistono a dire. Per avvocato, la stessa cosa: altro participio passato, questo di origine latina: advocatus, da advocare, chiamare presso, cioè persona chiamata presso chi deve essere assistito in un giudizio, propriamente assistente, protettore. Maschile in -0, femminile in -4: avvocata, e niente avvocatessa (del resto avvocata nostra; nel
senso di « divina protettrice » si recita da secoli nelle preghiere come attributo della Madonna).
Mi torna ora alla mente la perplessità di un presentatore televisivo quando doveva rivolgersi al notaio per risolvere qualche problemuccio procedurale; finché questo notaio fu maschio, tutto semplice: « Signor notaio »; ma un giorno allo stesso tavolino giudicante misero una donna, ed ecco il presentatore domandarsi: notaio o notaia? Poi risoluto spaccò salomonicamente il problema a mezzo e disse: « Signora notaio ». Non pensò che i sostantivi in -4i0 fanno al femminile -4i4, che dal cartolaio si fa la cartolaia, dal fornaio si fa la fornaia, dal lavandaio la lavandaia,
e che dicendo sigrora notaia si evitava di mandare a gambe all’aria la grammatica. E non parliamo dei ministri in gonnella. L’orgasmo linguistico cominciò quando fu nominata all’alta carica di primo ministro una gentile signora indiana. Ch’io sappia, nessuno ha mai tentato di chiamarla ministra; eppure la grammatica dice che il femminile di siristro, per esempio, è sinistra. Qualcuno obietta: esistono da tempo, è vero, alcuni femminili
di nomi indicanti professioni, ma usati solo per designare la moglie di chi questa professione esercita. È un ragionamento che non cambia di un pelo la questione. Se ambasciatrice e sindachessa e ministra si usavano fino a ieri per indicare la moglie
dell’ambasciatore, del sindaco e del ministro (si usava anche ministressa, ma con valore ironico o scherzoso), che cosa impedisce, dal punto di vista grammaticale, che gli stessi femminili si
trasferiscano alla donne titolari delle stesse cariche? S’intende,
e sia ben
chiaro,
che il maschile
resta
maschile
quando si voglia impersonalmente indicare la carica, il titolo in sé: « La signora tale è stata nominata sindaco di Spello », « Come ministro sceglieranno la figlia di Nehru ». Ma solo in questo caso.
Giudicessa.
Dalle trasmissioni televisive di una serie intitolata Di fronte alla legge, gli Italiani appresero che esiste un vocabolo: giudicessa.
« È un vocabolo nuovo? » mi chiesero. « Non sarebbe meglio dire la giudice? » Giudicessa non è un vocabolo nuovo, è anzi antichissimo, e risale al latino medievale iudicissa, femminile del classico iudex,
iddicis, da cui l’italiano giudice. Aggiungerò che non solo il termine è antico, ma ebbe in origine una determinazione specifica, designando inizialmente la donna a capo di un giudicato. La Sardegna medievale fu per un certo tempo divisa in quattro giudicati, divisioni territoriali autonome con a capo un giudice che rappresentava il supremo organo giudiziario e amministrativo del territorio. Quando, morto Mariano II giudice del giudicato di Arborea, assunse il potere sua figlia Eleonora, non si disse, come oggi si sarebbe detto, « il giudice Eleonora di Arborea », ma « Eleonora giudicessa di Arborea », come infatti si legge scritto in tutti i documenti dell’epoca. Accanto a giudicessa si usò anche la forma giudichessa, che si riallaccia al verbo giudicare piuttosto che al sostantivo giudice, e che mi sembra
meno
raccomandabile.
Ma a parte la validità linguistica del vocabolo, c'è però da osservare che nel significato moderno l’unico termine da usare con riferimento a donna addetta all’amministrazione della giustizia è la giudice, plurale le giudici; si tratta di uno dei tanti nomi in -e, che la grammatica chiama « di genere comune », che non mutano cioè passando dal maschile al femminile: come il nipote e la nipote, il custode e la custode, il coniuge e la coniuge, ecc. C'è anzi un precedente specifico, la preside, oggi d’uso 4
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normale dentro e fuori della scuola. Facciamo dunque che anche la giudice diventi di uso comune dentro e fuori dei tribunali.
La vigile urbana. La giunta municipale milanese decise qualche anno fa di bandire un concorso per vigili urbani riservando venti posti a giovani donne disposte a svolgere questa attività. E subito risorse il problema: come chiamare queste guardie in gonnella? Un giornalista, commentando la notizia, si fece infatti la stessa dodanda; e cosî sbrigativamente la risolse: « brutto termine vigilesse, meglio hostesses della strada ».
Che a molti Italiani, anche di buona cultura, sembri ormai più adatta per capirsi la lingua inglese che la propria, è un fatto che vado notando da un pezzo; ma qui mi sembra che il giornalista esageri. Siamo infatti di fronte, nel caso d’oggi, a un problemino di grammatica elementare, quello stesso che abbiamo appena finito di considerare a proposito della giudice e della giudicessa. Anche la parola vigile fa parte di quella categoria di nomi in -e che vengono chiamati « di genere comune » perché hanno un’unica forma tanto per il maschile quanto per il femminile, e per distinguerne il genere bisogna osservarne l’articolo. Perciò se nel maschile abbiamo # vigile, i vigili, nel femminile ripeteremo esattamente la stessa forma, cambiando solo l’articolo: la vigile, le vigili. Niente di trascendentale, come si vede. Nessuno, voglio sperare, vorrà creare un goffo termine nuovo, vigilessa, solo perché chi vigila ha le gonnelle invece dei calzoni. E non voglio neppur commentare l’espressione hostesses della strada dove, parola inglese a parte, quella specificazione « della strada » appare piuttosto una irriguardosa qualificazione.
Le soldate d’Israele.
Leggo su una rivista questa didascalfa:« Donne soldato israeliane in esercitazione ». Un amico mi dice: « Quel donne soldato mi stona. Non sarebbe meglio dire so/datesse? » Ho detto già, e qui ripeto, che in casi come questo la soluzione più semplice è quella di seguire gli schemi morfologici tradizionali, che solo in pochi casi, sempre
risolvibili di volta in
volta, oppongono vere difficoltà di soluzione. Da una terminazione maschile in -o non può nascere normalmente che un femminile in -4; lo abbiamo visto per deputato e per avvocato che fanno nel femminile deputata e avvocata. Quindi da soldato non può nascere che sol/data. Inoltre, anche soldato, come già vedemmo per deputato e avvocato, non è che una forma verbale sostan-
tivata, e propriamente il participio passato del verbo soldare, verbo oggi disusato, ma nato assai prima di quell’assoldare che invece è tuttora vivo nella nostra lingua. Soldare, derivato da soldo nel significato di paga, mercede, voleva dire « prendere a soldo », « prendere a mercede », e il verbo nacque quando le milizie erano appunto mercenarie, cioè al servizio di questo o di quello che meglio le pagava. Un soldato, un « assoldato », non può diventare nel femminile altro che una soldata, anche se oggi il soldo, almeno nel senso antico, non c’entra per nulla. Soldatessa, con quella terminazione -essa che in certi casi dà al vocabolo una connotazione spregiativa o ironica, lasciamola a certe viràgini la cui mascolinità non è nella funzione ma nel carattere: « Quella soldatessa di sua moglie... » Niente in comune con le soldate israeliane o cinesi.
Il direttore Carolina.
Ci fu una volta una bella e colta signora che mi scrisse questa lettera: « Mi hanno affidato la direzione di un periodico settimanale, e devo per legge, come lei sa, apporre il mio nome e la mia qualifica in testa o in coda del periodico stesso. Come devo firmarmi: direttore o direttrice? » La domanda mi parve elementare, non credetti insomma che rappresentasse un problema; e subito risposi alla signora press’a poco cosf: « Dato che lei, secondo quanto mi dichiara, è donna, l’unico termine che le si compete per natura e per grammatica non può essere che
di genere femminile; quindi direttrice, che è appunto il femminile di direttore ». Come neppure detto; perché il periodico, diretto con vera competenza da questa signora che chiamerò, tanto per capirci, Carolina Orsinî, continua a uscire da qualche anno infiorettato sul bel principio da questa sgrammaticatura: « Carolina Orsini, direttore responsabile ». E non è il solo, intendiamoci. Obiettano: ma qui direttore si vuol riferire impersonalmente %
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all'ufficio, alla carica. Obiezione respinta: diremo, si capisce, impersonalmente al maschile, « chi è il direttore del periodico? », non conoscendo chi lo dirige; diremo: « Siamo in cerca di un buon direttore », « Qui ci vorrebbe un direttore di polso », e altre frasi di questo genere; ma se a questo sostantivo, per lo più
collocato in funzione appositiva, facciamo seguire o anche precedere un nome proprio femminile, fondendoli insieme in un costrutto sintattico compiuto, la concordanza nel genere s’impone, non ci son santi. Diciamo Luigi XV re di Francia, ma dicia-
mo Caterina II imperatrice di Russia, non già imperatore. Scrisse a questo proposito il compianto Giacomo Devoto alcune righe che raccomando alla lettura di questi strani direttori improprî, com’egli li chiama: « Ci sono donne che tengono al. la mascolinità del loro grado e firmano il direttore dell’istituto. Le disapprovo per l’alone di cui inconsapevolmente si circondano. Fino a tanto che non le conosciamo, questi direttori improprî ci richiamano accenti, fattezze e trascuratezze mascoline, del-
le quali poi non appare traccia. Raggiunta la parità di diritti, non c’è ragione che le donne si mimetizzino da uomini, facendo violenza a strutture grammaticali non adatte ad accontentarle ».
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Ciliegie e province. Si apre un vocabolario e si apprende che il plurale di ciliegia è ciliege; se ne apre un altro, e si scopre che il plurale è invece ciliegie; uno prescrive provincie, un altro province. Ma non c’è dunque una regola per i plurali di questi nomi in -cia e in -gia? Una regola unica e tassativa sul plurale di questi nomi non è
in teoria possibile per la semplice ragione che la i àtona delle due terminazioni -cia e -gia non ha sempre lo stesso valore: ora infatti è puro segno grafico per ottenere la pronunzia schiacciata delle consonanti c € g&, come in micia e valigia; ora invece ha valore sillabico, fa cioè parte integrante della parola, come in provincia e in orgia. È chiaro che nel primo caso la i nel plurale appare superflua, e perciò dovremmo scrivere mzice e valige; nel secondo caso invece bisognerebbe mantenerla anche nel plurale, scrivendo provincie e orgie. Ma una difficoltà salta subito agli occhi: come si fa a sapere se quella benedetta i è puro segno grafico, e perciò sopprimibile nel plurale, oppure è vocale siltabica, e perciò non sopprimibile? Solo gli specialisti (e non sempre, perché a volte essi stessi si trovano a non andar d’accordo) possono sapere con che razza di i si abbia che fare. Di qui la necessità di proporre una regola pratica, semplice sem-
plice che anche uno scolaretto elementare possa rammentarla e applicarla, una regola che alla fine risolva almeno uno dei più comuni problemi ortografici che da secoli si trascinano senza ragione alcuna nella nostra lingua. E la regola è stata trovata; è certo una regola « di comodo », ma è ormai generalmente consigliata dalle grammatiche non solo perché è pratica, ma anche perché ha il merito di dare nella grandissima maggioranza dei casi lo stesso risultato che darebbe una regola storicamente formulata. Qual è questa regola? Eccola: le parole dove -cia e -gia (con 103
la i àtona) sono precedute da vocale fanno il plurale in -cie e -gie, mentre le parole dove -cia e -gia sono precedute da consonante fanno il plurale in -ce e -ge; avremo perciò audacie, fiducie, ferocie, contumacie, camicie, bigie, regie, grigie, valigie, ciliegie,
micie; ma avremo province, pance, pronunce, gocce, bisacce, orge, bolge, frange, micce. Rientrano nel secondo caso della regola anche le parole in -scia, che nel plurale termineranno sempre in -sce: fascia, fasce, striscia, strisce, ascia, asce.
È chiaro che questa regola non può valere per le parole dove la i sia tònica, cioè accentata, come in farmacia, nevralgia, bugia,
nostalgia, ecc.: qui la i è necessaria anche nel plurale, e scriveremo farmacie, nevralgie, bugie, nostalgie. Tutto qui. Non sbaglia perciò chi scrive provincie, perché si attiene alla regola storica, come non sbaglia chi scrive province, perché si attiene alla regola pratica. L’ortografia, lo sappiamo, altro non è che una convenzione, e a me sembra che quando una regola serve a rimuovere senza danno un motivo continuo di dubbi e di confusione, debba essere approvata e raccomandata. Ci sono perfino dei grammatici che con questo lodevole intento vorrebbero andare anche più in là, abolendo la i nel plurale in ogni caso; ma davanti a parole come audace, efficace, feroce, sagace che dovrebbero andar bene sia come aggettivi singolari sia come sostantivi plurali, io, che sono sempre propenso a semplificare, resto francamente perplesso.
Fàrmachi o fàrmaci?
Per il plurale dei nomi in -cia e -gia una regoletta s'è dunque trovata, sia pure empirica, ma soddisfacente. Ora vien fatto pe-
rò di chiedersi se un’analoga regola, empiricissima quanto si voglia ma pratica, sia possibile trovarla anche per un altro ordine di plurali spinosissimi, quelli delle parole in -co e in -go, come farmaco e archeologo, stomaco e chirurgo. Dobbiamo dire farmachi o farmaci, archeologhi o archeologi, stomachi o stomaci,
chirurghi o chirurgi? In verità, una regola per questi plurali è stata parecchie volte tentata, ma*sempre con risultati poco o nulla soddisfacenti: non si può infatti chiamar regola quella che, a stento acciuffata per i capelli, finisce poi con l’affogare in un’ondata di eccezioni. Del resto, fin dal Seicento l’accademico segretario della 104
DI
Crusca Benedetto Buonmattei aveva detto chiaro e tondo che questo plurale « non si può ridurre a regola ». Egli aveva infatti ben presenti esempi fin dal Trecento, che alternavano salvatichi a pratici, dittongi e dialogi a sindachi e a equivochi, fino ai suoi contemporanei che scrivevano aprici e bifolci ma fantastichi e reciprochi. La cosa poi non è di molto mutata nei secoli seguenti, tanto che troviamo parrochi nel Manzoni, reciprochi nel Foscolo, pratichi nel Tommaseo, e via via avvicinandoci ai nostri giorni, aprici e pudici nel Carducci e lombrici nel Rapisardi (questi e molti altri esempi allinea il Migliorini nella sua « Storia della lingua italiana »). E oggi? L’altalena continua, anche se un po’ rallentata almeno nei vocaboli di maggior consumo. Ma stomachi vuole ancora Paolo Monelli e lastrichi Virgilio Lilli. Una regola in strettissimo senso non potrebb’essere che quella suggerita dal latino, dove a una terminazione in -cus e in -gus {donde appunto le terminazioni italiane in -co e in -go) corrispondeva sempre una terminazione plurale -ci e -gi: focus, caducus, diàlogus, pròfugus avevano il plurale foci, caduci, didlogi, pròfugi: ma, come si vede, si tratta proprio di parole dove il plurale italiano si è ormai stabilizzato nella forma gutturale, fuochi,
caduchi,
diàloghi, pròfughi,
e nessuno
potrebbe
seria-
mente pensare di modificarlo oggi in palatale: « fuoci », « dialogi», ecc. Dunque, di una regola unica, stabile non è certo il caso di parlare. La ragione di queste alternanze di plurali, ora con suono gutturale ora con suono palatale, sta nella vita stessa di ciascuna parola: alcune sono di derivazione popolare, altre sono di derivazione dotta. Nel primo caso, il plurale è stato foggiato sul suono gutturale del singolare: da fuoco si è fatto fuochi, da caduco, caduchi, da largo, larghi, fuori d’ogni legame con i plurali latini corrispondenti, foci, caduci, largi; nel secondo caso, invece, la formazione dotta ha scrupolosamente rispettato la forma latina palatale, e cosî da amico si è fatto amici, da greco, greci, da asparago, asparagi. Per molte di queste parole, l’una o l’altra forma hanno assunto una stabilità che nessuno ormai più discute; per molte altre, invece, le oscillazioni sono ben vive, e creano quella confusione, quelle incertezze nella
pratica quotidiana del parlare e dello scrivere che si trascinano, come s'è visto, da secoli. È il caso appunto di farmachi e farmaci, manichi e manici, chirurghi e chirurgi, stomachi e stoma105
ci, filologhi e filologi, sarcofaghi e sarcofagi, e di centinaia di altre parole di antica e di nuova formazione. Se le grammatiche, invece di cincischiar regolette stente che vengono poi sommerse da valanghe di eccezioni, dicessero francamente che una regola qui non esiste perché non è possibile che esista, e rimandassero per questi plurali semplicemente ai dizionari; e se i dizionari, per loro conto (intendo quelli redatti per fini pratici, scolastici), nei casi di doppio plurale si risolvessero a indicarne uno solo, si finirebbe, più presto di quel che non si creda, col risolvere anche questo problema di semplice ortografia. Che scopo c’è di continuare ad avvertire che farmachi,
si, è corretto,
ma
forse è meglio dir farmaci;
che
stomachi è più usato di stomzaci, che parrochi nessuno più lo usa e si preferisce dir parroci, ma il Manzoni scrisse parrochi e perciò possiamo servircene anche noi tranquillamente? Che scopo c’è, dico in sede pratica, di continuare a confonder la testa con queste grammaticherie? Mi è stato detto che io ho la manfa della pianificazione. In fatto di ortografia, sf. Non si offende certo il genio di una lingua, non se ne àltera certo la fondamentale struttura mettendo un po’ d’ordine in certe faccende di natura strettamente ortografica, che si sa come son nate e perché son nate. D'altra parte, l'enorme massa dei parlanti e degli scriventi deve pur sapere a quale norma attaccarsi senza tanti quotidiani tentennamenti. Il letterato, l’artista è sempre fuor di questione anche in queste faccende di forma: egli può scegliere tutte le forme che vuole, e anche inventarne, se crede:
la responsabilità resta tut-
ta sua. E da questo discorso, sf, mi pare che potrebbe nascere una « regola »; e se autorità avessi, vorrei cosî proporla: primo, ‘rispettare tutte le forme plurali, palatali o gutturali, ormai consolidate nell’uso; secondo: attenersi sempre e soltanto alla pronunzia palatale, secondo la legge latina, in tutte le altre forme ancora oscillanti: perciò soltanto farmaci, parroci, manici, stomaci, intonaci, chirurgi, taumaturgi, intrinseci, reciproci, ecc. Per
le parole in -logo, che son moltissime e sempre se ne coniano di nuove, atteniamoci alla distinzione, ben funzionante, tra pa-
role che indicano cose, come monologo, apologo, prologo, epilogo, riepilogo, dialogo, le quali hanno sempre il plurale gutturale, monologhi, apologhi, prologhi, epiloghi, riepiloghi, dialoghi, e parole che indicano persone, come filologo, psicologo, à
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sociologo, astrologo, archeologo,’ teologo, che hanno
sempre
il
plurale palatale: filologi, psicologi, sociologi, astrologi, archeologi, teologi. Le parole in -fugo si sono ormai stabilizzate nella forma gutturale, e cosi resteranno: callifugo, callifughi, vermifugo, vermifughi, febbrifugo, febbrifughi. Oscillazioni da mal di capo hanno invece le parole in -fago: ebbene, fissiamole
una volta per sempre nella forma palatale -fagî, e non soffriremo più: perciò, sarcòfagi, lotòfagi, antropòfagi, esòfagi e via di questo passo. Ho detto il mio pensiero. E datemi pure del pianificatore.
Giudizi o giudizii? Cominciamo
col fare subito una distinzione tra parole in -f0,
con la i tonica, cioè accentata, e parole in -i0, con la i àtona,
cioè non accentata; tra parole, cioè, come leggio e calpestio, e parole come giudizio e studio. Nel primo caso (i accentata), il plurale è naturalmente sempre -iî: leggii, calpestii, e ancora, zio, zii, restio, restii, pio, pii, natio, natti, bacto, bacii, ecc. Per il secondo caso si è sempre fatta, fin dall’antico, parecchia confusione. Cosi, accanto al semplice studi, si trova scritto studi o studî,
e fino a non molto tempo fa anche studi, e perfino studj e studi’. Oggi si tende a semplificare e a uniformare la formazione di questi plurali, e si consiglia di usare la semplice -î, contraendo cioè le due i finali in una sola. Scriveremo perciò studi, giudizi, esem-
pi, baci, raggi, fasci, mugghi, sobri, oli, armadi, spazi. Soltanto in pochi casi questa soluzione, ch’è la più pratica e spiccia, può dar luogo a equivoci tra parole di identica forma ma di diverso significato. In questi casi (ma solo quando in un contesto si possa davvero generar confusione) è consigliabile usare la doppia i finale, o anche, se si preferisce, la i col circonflesso: cosî, i plurali delle parole come principio, palio, condominio, assassinio, martirio, beneficio, oratorio, direttorio e
simili sarà opportuno scriverli principii o principî, palii o palî, condominii o condominî, martirii o martiri, beneficii o beneficî, oratorii o oratorî, direttorii o direttori, per non confonderli con principi, plurale di principe, pali plurale di palo, condomini, plurale di condòmino, assassini, plurale di assassino, martiri, plurale di martire, benefici, plurale di benèfico, oratori, plurale di oratore, direttori, plurale di direttore. Per la parola tempio se107
guiremo la stessa regola: temzpii, per distinguerlo da tempi, plurale di tempo, sempre che non si preferisca la forma dotta terzpli (dal latino temzpla). Ma anche in questi particolari casi, certi grammatici consigliano di ricorrere, anziché alla doppia î o al circonflesso, piuttosto all’accento tonico; consigliano cioè di scrivere con una sola i le parole piane come principi, arbitri, martiri, benefici, ecc. rispettivamente plurali di principio, arbitrio, martirio, beneficio; e di scrivere invece con l’accento le parole che si pronunziano sdrucciole: principi, arbitri, màrtiri, benèfici, come plurali di principe, arbitro, martire, benefico. E anche questo è un accorgimento possibile, per chi sappia valersene.
Le superficie, le superfici...
Mi scrisse un giorno un’insegnante lucchese per dirmi di aver letto in un mio scritto un plurale le superficie che l'aveva lasciata perplessa: era forse, mi chiese, un errore di stampa? No, non era un errore di stampa; la verità è invece che l’unico plurale legittimo di la superficie è proprio le superficie, invariato, anche se poi la forma plurale illegittima le superfici si sia da tempo affermata nell’uso, divenendo anzi la più comune. Un’identica sorte è toccata alla parola effigie, il cui plurale corretto dovrebbe essere anch’esso invariato, le effigie, ma che più spesso viene sostituito da le effigi, regolarmente accolto nei dizionari.
Come si spiega la coesistenza di questi due plurali? La spiegazione è semplice. I nomi con la terminazione in -ie, non abbondanti in verità nella nostra lingua, come appunto superficie, effigie, e ancora
specie, serie, carie, barbarie, calvizie, canizie,
ci derivano dalla quinta declinazione latina la quale, come un tempo sapevano anche gli scolaretti della prima media (oggi proprio non giurerei), ha un’unica desinenza tanto per il nominativo singolare quanto per quello plurale: superficies singolare, superficies plurale, effigies singolare, effigies plurale, species singolare, species plurale, ecc. Si tratta poi di nomi di tradizione dotta, dove la i della sillaba*finale -cie, -gie nel passaggio dal latino all’italiano si è tenacemente conservata. Però è avvenuto anche questo: che entrando queste parole sempre più largamente nell’uso, la è di superficie, effigie e specie, quasi muta nella pronunzia, ha %
108
finito con lo scomparire anche nella scrittura; e si ebbero cosi le doppie forme superfice, effige e spece (quest’ultima, più raramente; ma la troviamo già in Dante, forse per rimare fece e lece; e lo imitò il Giusti nella Chiocciola: « Contenta ai comodi
Che Dio le fece, Può dirsi il Diogene Della sua spece »; inoltre in alcuni codici danteschi già s'incontra la forma effige). A questo punto era inevitabile che i doppioni senza la i fossero considerati come appartenenti alla grande categoria dei nomi italiani in -e, come pace e ambage, che hanno il plurale in -i; e sull'analogia di paci e ambagi ecco nascere i plurali superfici ed effigi. Resiste ancora il plurale le specie; e resistono per necessità i plurali le serie, le carie, le barbarie, le canizie e le calvizie perché la i del singolare non potrà mai scomparire per quanto popolari esse possano diventare. (Qui però è avvenuto un guaio anche peggiore, ché qualcuno dalle forme canizie e calvizie, intese soltanto come plurali, ha tratto fuori due singolari spropositati, la canizia e la calvizia, sul modello di la rosa, le rose!) Tirando ora le somme di tutto questo discorso, vorrei dire che usando i plurali le superficie e le effigie si rispetterebbe, come io rispetto, la più schietta tradizione latina, cosîf come tutti inconsapevolmente rispettano, almeno finora, la forma plurale latineggiante le specie.
La spezie, le spezie. Continuando il discorso sulle parole in -ie, come superficie ed effigie, voglio aggiungere che c’è da tenerne in conto un’altra in particolare, le spezie, sostantivo plurale con cui indichiamo le note sostanze aromatiche usate per condire i cibi. Orbene, su una rivista medica ho letto che «il pepe è una spezia salutare », dove quel singolare una spezia è purtroppo errato. Anche questo vocabolo infatti risale a quello stesso latino species, « specie », che come abbiamo appena visto resta invariato nel singolare e nel plurale: /a specie, le specie (anticamente anche spezie; famoso il verso dantesco « l’umana spezie eccede ogni
contento »). In latino con la parola species si indicava in particolare ogni cosa derivata per elaborazione da un’altra cosa; il vinum, per esempio, era la species del genere uva. Anche ciascuna droga che ci veniva dall'Oriente era la species di questo o di quel genere di piante. Data poi la natura minuta di questa mer109
ce, la parola si usò quasi costantemente nel plurale, le specie, poi stabilizzata nella forma arcaica le spezie. Il singolare è rimasto praticamente inusato, almeno nel linguaggio corrente: cosî si spiega il fatto che, volendone indicare una sola, al redattore della rubrica medica sia venuta spontanea sulla penna la forma singolare una spezia che è evidentemente errata. Correggiamo dunque cosî: « il pepe è una spezie salutare »; forma invariata, cosf come diciamo una serie, una canizie.
Alcoli, non àlcooli.
Alcuni formano il plurale della parola 4/coo/ con la desinenza del plurale italiano -i: gli alcooli. Ma è giusto questo plurale? Prenderò il discorso più da lontano, dicendo che anche questo nome, come tanti altri venutici di fuori, ha stentato parec-
chio a trovare una sua grafia definitiva, e direi che ancora non l’ha trovata posto che le due forme dlcool e èlcole si alternano bellamente nell’uso. I pit antichi dizionari, a cominciar dalla fine del Settecento, registrano una prima forma alcohol, e quindi alkool, alcool (accentando « alcoòl »), 4lcoole (accentando « alcoòle »), e infine dlcol e dlcole. Ora, mentre tutte le altre for-
me son seppellite da un pezzo, restano ancora in vita, come s’è detto, 4/cool, probabilmente presa dal francese ma con l’accento ritratto (àlcool), e &d/cole, generalizzata soprattutto nel periodo dell’ultimo purismo di Stato, e oggi preferita, mi sembra, nell’uso dei chimici. E veniamo al plurale. Chi sceglie la forma d/cole non ha problemi: l’unico plurale regolare non può esser che d/coli. Ma è chiaro che un analogo plurale d/cooli sarebbe possibile solo se si accettasse un singolare &/coole, che però, come s'è visto, è disusato da un pezzo. Poiché invece abbiamo accettato la forma singolare &/cool, questa dovremo lasciarla invariata nel plurale, gli &/cool, cosî come lasciamo invariati nel plurale tutti gli altri
nomi tronchi in consonante venutici da lingue straniere: gli sport, i bar, i film, i tram. Aggiungerei a questo punto che la forma con l’o semplice è da preferirsi soprattutto nei derivati: diremo perciò 4/còlico meglio che alcoolico, e diremo alcolismo, analcolico, antialcolico, eccetera. E vorrei finire con una noti-
ziola etimologica. Il nome risale all’arabo 4/-k4b!, con cui si indicava una polvere sottilissima di solfuro di piombo usata dalle donne orientali per tingersi di nero le ciglia. Pit tardi gli alchi%
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misti diedero alla parola il senso generale di polvere impalpabile e poi quello più estensivo di parte sottile, essenziale di qualche cosa. A questo punto Paracelso (sec. XVI) creò l’espressione alcohol vini, cioè « essenza del vino », « spirito del vino », dive-
nuto poi più brevemente alcohol.
Assise.
« La grande assise ecumenica », « L’assise repubblicana al Palazzo dei Congressi », « La nuova assise per le monete »: titoli come questi si leggono con sconfortante frequenza sui giornali e perfino sui libri. Perché sconfortante? Perché sono sbagliati, non rispettano la concordanza grammaticale. La parola assise è femminile, sf, ma è anche plurale.
Il grossolano errore si spiega col fatto che in passato la parola si usava soltanto nell’espressione Corte d’Assise, e oggi invece è entrata nel linguaggio comufie col significato di « grande assemblea », « solenne adunanza », e non tutti son preparati a usarla. Oggi, come tutti sappiamo, è l’età dei paroloni oltre che delle parolacce; ma mentre per queste occorre solo ignoranza e cattiva educazione, per quelle ci vuol grammatica, e la grammatica qualche volta manca. Dicendo «la grande assise » molti non hanno neppure il sospetto di sgrammaticare, perché quella -e finale è si il plurale comune di tutte le parole femminili in -a (la pianta, le piante), ma è anche la desinenza singolare di molte parole femminili come neve e pieve; si che è già una fortuna che finora non si sia generalizzato sulle stampe quell’assisi plurale che abbiamo incontrato in un giornale milanese («le grandi assisi politiche »), e che più spesso s’incontra nella locuzione « Corte d’Assisi », ravvicinando un tribuna-
le alla patria di san Francesco. La parola assise, venutaci in questa particolare accezione attraverso il francese assises, altro non è che il participio passato femminile sostantivato del verbo assidersi, sedersi, e corrispon-
de esattamente all’altro participio passato femminile sedute, usato sostantivamente nello stesso significato: « le sedute dei ministri ». Dire perciò « la grande assise » è come dire «la grande sedute »: una sgrammaticatura elementare in cui neppure un analfabeta va a cadere. Si domanderà: perché questo plurale? Perché la parola assise fu usata cosî al plurale fin dalle origini 111
(il più lontano medio evo) per significare un’assemblea con pit sedute. Queste assise medievali erano nell’età feudale alla base dell’organizzazione dello Stato. L’imperatore, il principe le convocava periodicamente non solo allo scopo di rendere giustizia, ma anche per esaminare e controllare l'andamento generale della cosa pubblica. E c’erano /e grandi e le piccole assise: le prime si tenevano una volta l’anno, spesso alla presenza dello stesso monarca, le seconde erano convocate più volte durante l’anno per la discussione degli affari ordinari. Coi secoli, la
parola languî fino a scomparire, salvo, come ho detto, nell’espressione Corte d'Assise, alla lettera « Corte di sedute » per giudicare dei più gravi delitti. Per concludere, visto che la parola rara è arrivata fin sulle bocche della gente comune, cerchiamo di usarla a dovere, cioè come sostantivo femminile plurale, e diciamo «le grandi assise repubblicane ». Che se poi quel plurale ci stona, usiamo senza esitazione il singolare assisa, cosî come diciamo « adunanza », « assemblea »: « la prossima assisa socialista », « la grande assisa ecumenica ». (L’italiano ha anche
un’altra
assisa, antico
francesismo piuttosto raro, nel significato di « divisa », « uni. forme », specialmente
militare;
esso
deriva
dallo stesso assise
francese, participio passato di asseoir, ma nel significato figurato di « fissare, « stabilire »: propriamente, per una certa categoria di persone.)
abito fissato, stabilito
Bello.
L’aggettivo qualificativo dello può presentare qualche difficoltà sia quando è usato nel singolare sia nel plurale. Nel singolare rimane immutato quando viene a trovarsi davanti a una s impura (s seguita da consonante) oppure davanti a gr, pr, ps, x e Z: « bello studente », « bello gnomo », « bello pneumatico », « bello psichiatra », « bello xilofono », « bello zio ». Si tronca inve-
ce sempre in bel davanti a ogni altra consonante o gruppo di consonanti: « bel ragazzo », « bel libro », « bel pranzetto ». Davanti a parola che cominci con vocale, elide la desinenza o del maschile e meno comunemente la desinenza 4 del femminile: « bell’uomo », « bell'esempio », « bell’aspetto », « bell’anima », « bell’isola » (ma anche « bella isola »).
E veniamo al plurale. Qui le forme maschili sono tre: belli, J2.
begli e bei. Useremo belli quando l’aggettivo è collocato dopo il nome: « uomini belli », « libri belli »; useremo degli quando è collocato prima del nome e questo nome comincia con vocale o con s impura, o gr, pr, ps, x, z: « begli esempi », « begli uomini », « begli ingegni » (anche « begl’ingegni »), « begli studenti », « begli zii », ecc. Useremo infine bei davanti a ogni altra consonante o gruppo consonantico: « bei ragazzi », « bei tramonti ». Questa la regola che si raccomanda di seguire scrupolosamente. Non manca però, ma solo nell’uso letterario, chi dice bel-
li anche davanti a vocale: Ugo Ojetti, per esempio, scriveva normalmente « belli ufficiali », « belli occhi ». Il plurale femminile è sempre delle in ogni caso: « donne belle », « belle donne », « belle anime », « belle specchiere », « belle zie ».
Aggiungerò, per concludere l’argomento, che dello si può anche elidere e quindi apostrofare in frasi come bello e fatto © bell’e fatto, bella e morta o bell'e morta, belli e fritti o bell’e fritti.
Il cachi.
Si sente comunemente anche sulla bocca di persone colte, « mangiare un caco », « il caco non è ancora maturo ». Ma è sbagliato. La parola cachi con cui si indica la nota pianta che dà un frutto dolciastro dalla buccia di color giallo rossiccio, e il frutto stesso, è invariabile, rimane cioè immutata
golare quanto nel plurale. Bisogna dunque
tanto nel sin-
dire «il cachi ha
messo i frutti », « mangiare un cachi », « il cachi è maturo », « un
cestello di cachi appena colti ». Il nome è di origine giapponese — come la stessa pianta del resto — e si scrive anche esoticamente kaki; ma questa graffa non è affatto necessaria da noi, come
non è affatto necessario
scrivere polka e marzurka, invece di polca e mazurca; si tratta di parole straniere ormai radicate nel nostro linguaggio, e chi scrivesse kaki peccherebbe d’affettazione come certe ragazzine che scrivono i loro nomi Sophia, Yole e Wanda.
Il nome scien-
tifico è diòspiro, il Diòspyros kaki di Linneo, e significa grecamente « frumento di Giove »: composto di Diòs, di Giove, e pyròs, frumento. Tutt’altra origine ha poi l’aggettivo cachi, pur esso invariabile, per indicare un colore tra il bruno e il giallastro simile a quello della terra arida, riarsa. Nessuna relazione col colore 113
del frutto ora detto. L’origine è inglese, khaki, e questo dall’indostano kéki, che vuol dir « polveroso, color polvere », a sua volta derivato dal persiano £khék, polvere. Fu il colore, in ori-
gine, delle uniformi militari inglesi in India; colore scelto per la sua facile mimetizzazione col terreno riarso di quelle contrade. Si dirà « stoffa cachi » (anche questa è la grafia da seguire), « abito cachi », « uniformi cachi ». E se ne fa anche un sostantivo maschile invariabile: « tessuto d’un bel cachi intenso ».
I carceri, le carceri.
« Gli arrestati sono stati chiusi in celle di isolamento in due diversi carceri piemontesi »: cosî diceva una recente notizia su un quotidiano, con stupore di molti lettori per quei carceri nel plurale maschile invece del comune femminile le carceri. È corretto dire i carceri o è scorretto? La parola carcere è una parola alquanto stravagante: suona maschile,
normalmente,
nel singolare, il carcere;
però, sempre
normalmente, nel plurale preferisce il femminile: le carceri. « Nel doloroso carcere », come leggiamo in Dante; ma « Lo hanno portato nelle carceri di Volterra » come leggiamo in Pavese. Ecco però altra stravaganza: a volte, ma piuttosto nell’uso letterario, le piace essere femminile anche nel singolare:
la carcere;
e infatti leggiamo nel Manzoni: «Il trasporto alla carcere... portava lo stesso- pericolo della liberazione ». Ma non è finito: ama vestirsi da maschio, sebben assai raramente, nel plurale, e diventa i carceri: ecco un esempio modernissimo, tratto da una lettera del Gramsci: « Pensando che i carceri coltivano le attitudini artistiche dei galeotti ». È Si sa che la parola carcere indica a un tempo il luogo dove si sconta una pena detentiva (« lo hanno chiuso in carcere ») e poi la pena stessa (« gli hanno dato tre anni di carcere »). In questo secondo senso era comune in passato la frase carcere duro, con cui si indicava una pena detentiva particolarmente rigorosa; « significa » ci spiega il Pellico « essere obbligato al lavoro, portare la catena ai piedi, dormire su nudi tavolacci, e mangiare il più povero cibo immaginabile ». Questa espressione singolare
maschile aveva normalmente un plurale maschile: i carceri duri.
114
Le gesta o le geste? I Latini usavano il plurale neutro gesta, gestorurz, da gestum, participio passato neutro del verbo gèrere, fare, compiere, con lo stesso significato della frase res gestae, « cose fatte », « imprese compiute », specialmente militari, eroiche. L’italiano prese la parola tal quale, e la fece femminile plurale, le gesta, allo stesso modo di molte altre parole. plurali femminili in -4, come le miglia, le castella, le cervella, ecc. Dire perciò « le sue
gloriose gesta » è correttissimo: «Le sue gesta partigiane » leggiamo in Pratolini. Questo plurale in -a fu più tardi inteso come un singolare femminile, la gesta, con un plurale regolare le geste, di cui troviamo molti esempi negli scrittori antichi e moderni: « Ove dorme il furor d’inclite geste », Foscolo. C’è ancora da avvertire che nell’uso letterario e poetico anche la forma singolare la gesta s’incontra a volte sia nello stesso significato di impresa, spedizione (« Il suo duce prigion bandi la gesta », Carducci; « La gesta di Ronchi », D’Annunzio), sia in quello di esercito, schiera (« Dopo la dolorosa rotta, quando - Carlo Magno perdé la santa gesta », Dante).
Marrone.
Si deve dire guanti marrone oppure guanti marroni? L’accordo al plurale del sostantivo marrone, inteso come colore, è certo assai comune (« guanti marroni », « stoffe marroni »), ma è proprio del linguaggio popolare e non è corretto. Correttamente, marrone, nome di colore simile a quello che ha il frutto di una varietà di castagno, è di regola invariabile e bisogna perciò dire guanti marrone, abito marrone, scarpe marrone, stoffa marrone scuro. Marrone, facciamo bene attenzione, non è aggettivo come verde, giallo, rosso, azzurro, celeste, ecc., che richiedono, ovviamente, l’accordo nel genere e
nel numero col sostantivo da cui dipendono: rosse,
libri gialli, prati
verdi, ecc.;
veste azzurra, calze
marrone
è sostantivo,
e
segue la stessa legge dei sostantivi rosa, ciliegia, ciclamino, viola, arancio (in questo caso sempre nel maschile, mai arancia), cenere, corallo, seppia, ocra, ecc. quando sono assunti come determinazione di colore. Nessuno direbbe « vesti rose », « ca-
115
pelli ceneri », « seta coralla », ma sempre e soltanto « vesti rosa », « capelli cenere », « seta corallo »; si costruisce cioè, mentalmente, una « vesti color della color del corallo ». « guanti color del
frase ellittica che suona, in forma distesa, rosa », « capelli color della cenere », « seta
Di conseguenza diremo guanti marrone, cioè marrone ».
Silo e autosilo. Quanti Italiani sanno che dicendo ur silos si fa errore, e grossola-
no errore? Da quanto vedo e sento direi che son pochini davvero. I Greci avevano
una
paroletta, seiròs o sirés, che indicava
una buca scavata ad arte per conservare granaglie. I Latini imitarono la buca, e trasformarono il nome in sirus. Questo sirus
passò solo nel lessico spagnolo, trasformandosi in silo; nel plurale, secondo l’uso di quella e di altre lingue, con l’aggiunta di una s, diventò /os silos. La voce si diffuse soprattutto attraverso
gli impianti portuali, dove queste grandi costruzioni cilindriche sopra terra sono sempre più d’una; perciò il nome si indicava generalmente nel plurale: silos. Quando gli Italiani presero il vocabolo, lo presero tutt’intero, anche con quella codina dell’s; e dissero tranquillamente il silos, i silos. Ora, l’errore è chiaro. Vogliamo accettare il vocabolo? Accettiamolo pure, ma accettiamolo correttamente e diciamo #/ silo e i silos; ma, meglio assai, adattiamolo alla nostra lingua e diciamo i/ silo, un silo, e nel plurale i sili.
Da questo primo errore se ne è generato un secondo. Infatti mi fu dato di leggere in un titolone d’un grande giornale nazionale che l’Alitalia aveva costruito in non so quale aérostazione (il giornalista, veramente, aveva preferito dire terminal) «un albergo e un autosilos ». Un giornalista, anche assillato dalla fretta, non deve trascurare l’elementare concordanza di un articolo col suo sostantivo. Oltre tutto, la parola autosilo di coniazione recentissima (1955), è nata tutta italiana, e credo a Milano, con riferimento al deposito sotterraneo di automobili in Piazza Diaz (non dovrebbe esser difficile conoscere anche il nome del suo effettivo creatore): è una composizione regolare del prefisso 44to- nel significato di « automobile », e del solito silo. Perciò il singolare autosilo avrà come plurale gli autosili. 116
Nomi
composti:
plurali da capogiro.
In un mio dizionario che chiamerò « grammaticale »1 perché il suo primo intento è quello di spiegare e possibilmente di risolvere i tanti dubbi di grammatica che fanno della nostra lingua bene spesso una specie di vicolo buio dove si cammina a tentoni, io ho cercato di mettere un po’ d’ordine, valendomi
anche dell’opinione e del consiglio di altri grammatici, alla faccenda dei plurali dei momi composti, cosi chiamati perché sono il risultato dell’intima fusione di due parole diverse: per esempio, biancospino e grattacapo. Chi volesse dare un’occhiata a questa faccenda, e scartabellasse qua e là qualche dizionario, e neppur tanto alle lunghe, subito si accorgerebbe che per la formazione di questi plurali non solo non si segue nessuna logica e nessuna regola, ma tutto si riduce piuttosto a un’opinione. Qualche esempio. Coprifuoco, dice il dizionario, fa al plurale coprifuochi, ma coprifocone resta tale, è invariabile; copri punto è anch’esso invariabile, i copripunto, ma coprigiunto no, fa i coprigiunti; copribusto, copriletto non mutano: i copribusto, ‘i copriletto. Se poi mettiamo in fila più dizionari, scegliendo anche tra i più recenti e meglio fatti, la confusione, se possibile, aumenta
ancora,
perché uno
dice una cosa e l’al-
tro l’opposto; questo infatti ti avverte che devi dire ; copriletto, ma quell’altro ti prescrive un plurale i copriletti; uno registra i copricapi, un altro i copricapo, e un altro ancora, per non far torto a nessuno, li registra tutt'e due: i copricapi, meno comune i copricapo. Va e decidi. È ragionevole continuare cosî? Non sarebbe l’ora che anche la nostra ortografia si risolvesse a crescere e a non andar più sull’altalena? I Francesi, e non loro soltanto, queste cose le hanno già regolate da un pezzo: copricapo, couvre-chef, plurale les couvre-chefs
e basta; copriletto, couvre-lit, plurale les
couvre-lits; coprigiunto, couvre-joint, plurale /es couvre-joints. Una regola dunque ci vorrebbe, e non ci vorrebbe molto a farla; e una volta fatta, le grammatiche, e i dizionari soprattutto (che
di solito non fanno che ripetere quel che ha detto il precedente, perpetuando nei secoli la confusione), dovrebbero rispet! Dizionario Linguistico lano, VI edizione, 1975,
Moderno,
Edizioni
Scolastiche
Mondadori,
Mi-
117
tarla. Solo cosî nel giro di qualche anno anche questo pasticcetto formale sarebbe risolto. Mi si obietta. ma come si fa se gli stessi scrittori usano spesso forme differenti? Il Panzini, per esempio, dice i copricapo, mentre D'Annunzio dice i copricàlici? È naturale: non essendoci una regola, ciascuno si regola da sé. Anche perché, in genere, questi particolari composti sono di formazione piuttosto recente, alcuni recentissima, e se ne possono creare sempre di nuovi, e non hanno una base storica su cui appoggiarsi. Il « Dizionario d’ortografia e di pronunzia » della Rai, che spesso cito con elogio, rappresentava un’ottima occasiorie per normalizzare il più possibile certi secolari tiremmolla, data soprattutto l’autorità dei suoi compilatori. Invece anche qui si trascinano i soliti « però» e i soliti «anche», e il « più comune » e il « meno comune », e il « più corretto » e il « meno corretto », tutte cose che vanno benissimo in un dizionario sto-
rico della lingua ma assai meno in un prontuario al quale, come dice il nome, si ricorre per avere una risposta pronta, univoca, senza tentennamenti. Si tratta oltre tutto di cosette formali, e non si farebbe davvero sacrilegio respingendo o forzando certi vecchi usi, e fissando per esse una struttura razionale e definitiva. Se il Bembo scriveva spatio invece di spazio e l’Ariosto scriveva horore invece di onore dovremmo anche noi continuare ad altalenare tra le due scritture? Ora, come sopra dicevo, appunto in quel mio dizionario grammaticale ho cercato di dare una certa uniformazione almeno a questi plurali dei nomi composti, raggruppando razionalmente certe forme stabilizzate nell’uso e da tutti accettate senza eccezioni, e desumendone una regola comune. Ripeterla qui credo che possa giovare ai miei lettori.
Ho diviso le parole composte in dieci gruppi: esaminiamoli a uno a uno. 1. Nomi
composti
di un aggettivo
e di un sostantivo ma-
schile o femminile: formano il plurale come fossero nomi semplici, cambiando cioè solo la desinenza del secondo elemento: biancospino, biancospini, francobollo, francobolli, bassorilievo, bassorilievi, altorilievo, altorilievi, bassopiano, bassopiani, altopiano, altopiani, bassofondo, bassofondi, nerofumo, nerofumi, altoforno, altoforni, mezzogiorno, mezzogiorni, mez118
zanotte, mezzanotti, vanagloria, vanaglorie, falsariga, falsarighe. Poche le eccezioni ormai stabilizzate, e le troviamo in quei vocaboli dove il primo termine è pit sentito isolato dal secondo termine specialmente nei composti con mezzo: mezzaluna, mezzelune (e infatti si scrive anche mezza luna), mezzalana, mezzelane (ma anche mezza lana), mezzatinta, mezzetinte (anche mezza tinta), mezzamanica, mezzemaniche (anche mezza manica); mezzobusto, mezzibusti (anche mezzo busto), purosangue,
fa purisangue o resta invariato, mezzosangue si comporta nello stesso modo. 2. Nomi
composti
di due
aggettivi:
formano
il plurale
come fossero nomi semplici, cambiano cioè solo la desinenza del secondo termine: chiaroscuro, chiaroscuri, pianoforte, pianoforti, sordomuto, sordomuti, sordomuta, sordomute, grigioverde,
grigioverdi,
agrodolce,
agrodolci,
sacrosanto,
sacrosan-
LINNEGCI
3. Nomi composti di un sostantivo maschile o femminile e di un aggettivo: formano il plurale mutando la desinenza
sia del primo sia del secondo termine, si comportano cioè come se fossero separati: caposaldo, capisaldi, fabbroferraio, fabbriferrai, caposcarico, capiscarichi, cartapesta, cartepeste, acquaforte, acqueforti, collotorto, collitorti, casamatta, casematte, cassaforte, casseforti, melagrana, melegrane, terracotta, terrecotte, gattamorta, gattemorte, pellerossa, pellirosse, ecc. Eccezione ormai stabilizzata: palcoscenico che fa palcoscenici. 4, Nomi composti di due sostantivi: distinguiamo due casi: se i sostantivi sono entrambi maschili o entrambi femminili modificano nel plurale solo la seconda desinenza: arcobaleno, arcobaleni, cartapecora, cartapecore, pescecane, pescecani, madreperla, madreperle, cassapanca, cassapanche, toporagno, toporagni, ecc. Se invece i due sostantivi sono di genere diverso variano nel plurale solo il primo elemento: grillotalpa, grillitalpa, pescespada, pescispada, pescesega, pescisega, pesceluna, pesciluna, ecc. Eccezioni stabilizzate: boccaporto fa boccaporti,
banconota
fa banconote,
ferrovia
fa ferrovie
(ma
qui
ferro ha piuttosto valore aggettivale: via di ferro, fèrrea). 5. Nomi composti di una forma verbale e di un sostantivo plurale: nel plurale restano invariati (si cambierà natu-
ralmente solo l’articolo); il dattipanni, i battipanni, il guarda119
sigilli, i guardasigilli, il segnalinee, i segnalinee, il guastafeste, i guastafeste, il portapenne, i portapenne, lo schiaccianoci, gli schiaccianoci, il baciapile, i baciapile, ecc. 6. Nomi
composti
tivo singolare del sostantivo: copricapo,
di una
forma
verbale
e di un
sostan-
maschile: variano nel plurale la desinenza grattacapo, grattacapi, coprifuoco, coprifuochi,
copricapi,
copribusto,
copribusti,
passaporto,
passa-
porti, parafango, parafanghi, rompicollo, rompicolli, passatempo, passatempi, perditempo, perditempi, segnalibro, segnalibri, ecc. Prima avvertenza importante: seguono la stessa regola anche le parole composte con marzo, sebbene femminile, per la sua terminazione in -0, tipica del maschile: asciugamano, asciugamani, baciamano,
baciamani,
paramano,
paramani,
corrimano,
corrimani, ecc.
Seconda
avvertenza:
certi
composti
di questo
gruppo
in-
dicano qualità riferita a persona, e a volte son nomi maschili ma a volte femminili: per es. un ficcanaso, ma anche una ficcanaso, un rompicollo ma anche una rompicollo. Come ci regoleremo nel plurale? Se il nome è maschile, lo sappiamo faremo plurale il secondo elemento: i rompicolli, i ficcanasi; se è femminile lo lasceremo invariato: le rompicollo, quelle ficcanaso. 7. Nomi
composti
di una
forma
verbale
e di un
sostan-
tivo singolare femminile: se il nome composto risultante è di genere maschile nel plurale resta invariato: il portacenere, i portacenere, il portafrutta, i portafrutta, lo spazzaneve, gli spazzaneve, il portabandiera, i portabandiera, il cavalcavia, i cavalcavia, lo scioglilingua, gli scioglilingua, l’aspirapolvere, gli aspirapolvere, il battistrada, i battistrada, il cacciavite, i caccîavite, il salvagente, i salvagente, ecc. Se invece il nome risultante è femminile, prende nel plurale la desinenza femminile: la guar-
daroba, le guardarobe, la portabandiera, le portabandiere, ecc. 8. Nomi
composti
di due
forme
verbali:
restano
inviaria-
ti nel plurale: i dormiveglia, i dormiveglia, il parapiglia, i parapiglia, il saliscendi, i saliscendi, il fuggifuggi, i fuggifuggi, il tiremmolla, i. tiremmolla, ecc. 9. Nomi
composti
di una preposizione
o di un
avverbio
e di un sostantivo: se il nome composto è dello stesso genere del sostantivo componente, nel plurale si declina questo sostan120
tivo: il sottufficiale, i sottufficiali, il soprammobile, i soprammobili, il surgelato, i surgelati, il contrordine, i contrordini, il dopopranzo, i dopopranzi, il sottaceto, i sottaceti, il contrabbando, i contrabbandi, il fuoribordo, i fuoribordi, il lungote-
vere, i lungoteveri, il lungarno, i lungarni, il lungomare, i lungomari, il lungofiume, i lungofiumi, il lungolago, i lungolaghi, la soprascarpa, le soprascarpe, l'anticamera, le anticamere, l’intervista, le interviste. Se invece il sostantivo componente è di genere diverso rispetto al nome composto, il plurale resta invariato: il sottobottiglia, i sottobottiglia, il sottocoda, i sottocoda, il sottoscala,
i sottoscala,
il retroterra,
i retroterra,
ecc.
Il decimo e ultimo gruppo è quello dei nomi composti con capo-. Trattandosi di un discorso particolarmetne diffuso, preferisco parlarne in un capitoletto a sé.
Capostazione In una
e capocronista.
trasmissione
televisiva, mi pare di « Rischiatutto », as-
sistemmo a un certo punto a uno spettacolo scoraggiante: di fronte ad alcuni plurali di nomi composti del tipo capolavoro nessuno dei concorrenti seppe rispondere, e lo stesso presen tatore dichiarò molto sinceramente che se non avesse avuto sott'occhio la risposta scritta non avrebbe saputo rispondere con sicurezza. Ora io vorrei qui aggiungere che la stessa televisione, scegliendo questo particolare tipo di quesito, aveva corso il rischio più grave, quello di vedersi contestare come errate alcune delle risposte ritenute valide dai cosiddetti esperti. Anche per questo tipo di composti, infatti, l'anarchia nei plurali regna sovrana, e basta aprire i soliti dizionari per accertarsene. Per alcuni infatti il plurale di capolavoro è capolavori, ma per altri è capilavori, per altri ancora l’uno e l’altro vanno benissimo; caprogruppo fa capigruppo ma anche capogruppi, e cosi capolinea
che si barcamena tra i capolinea e i capilinea, il capotamburo tra ‘i capotamburi e i capitamburi, e via da perderci la testa. Vediamo allora come si potrebbe anche qui « pianificare » con un po’ di buon senso. Si tratta di parole composte con un primo elemento capo-, avente valore di preminenza, di superiorità, di eccellenza, e di un secondo elemento rappresentato da un sostantivo; per esempio, 121
capostazione e capocronista. Esaminiamoli da vicino. Quando diciamo capostazione vogliamo dire « il capo della stazione »; quando però diciamo capocronista non intendiamo dire « il capo del cronista » ma il « cronista che è a capo ». Questo capo- può dunque avere due funzioni ben distinte: nel primo caso ha funzione di soggetto, nel secondo di semplice attributo. Noi daremo la forma plurale solo all’elemento principale del composto: nel primo caso a capo, nel secondo a cronista; diremo perciò i capistazione (i capi di una stazione) ma diremo i capocronisti (i cronisti a capo di uno o più cronisti). Qualche altro esempio: capoclasse, il capo della classe, caporeparto, il capo del reparto, e ancora capoturno, capofabbrica, caposquadra, capotreno, caposervizio, capofamiglia, capodivisione, capofila, capoposto, caposezione: il primo elemento è preminente, e lo metteremo al plurale: capiclasse, capireparto, capiturno, capifabbrica, capisquadra, capitreno, capiservizio, capifamiglia, capidivisione, capifila, capiposto, capisezione. Esempi della seconda serie: capomzacchinista, macchinista che è capo di altri macchinisti, capotecnico, tecnico che è a capo di altri tecnici, e ancora caporedattore, capocomico, capoluogo, capocuoco, capolavoro, capodanno, capoverso: qui è preminente il secondo elemento, e sarà questo solo che faremo plurale: capomzacchinisti, capotecnici, caporedattori, capocomici, capoluoghi,
capocuochi,
capolavori, capodanni,
capoversi.
Tutto semplice, mi pare. Resta solo da risolvere il plurale femminile di questi nomi, dato che oggi la capostazione, la copoclasse, la capoturno, ecc. non sono proprio un fenomeno tanto raro da ignorarlo, come fanno quasi tutti i dizionari. Nel caso dei nomi della seconda serie la soluzione è semplice» si metterà al femminile il secondo termine esprimente la funzione, la carica, e se ne farà il plurale: la capotecnica, le capotecniche, la capocomica, le capocomiche,
la capocuoca, le capocuoche, la
capomastra, le capomastre, la capocronista, le capocroniste, la caporedattrice, le caporedaîttrici, ecc. Per i nomi della prima serie non c’è altra soluzione possibile: lasciarli invariati nel plurale: le capostazione, le capoclasse, le caporeparto, le capoturno, le caposquadra, le capofila, le capolista, le capoufficio e meglio le capufficio. Ma non è ancora finito; ché a volte la parola capo viene posposta, e si hanno formazioni come consigliere capo, commesso capo, redattore capo e simili, dove la parola capo si
122
scrive separata dal nome a cui si riferisce. In questi casi il plurale come si forma? La soluzione è semplice. Quel capo, posposto al nome con funzione appositiva, forma un’espressione ellittica che si svolge cosî: «che è a capo » cioè, consigliere, commesso, redattore che è «a capo» di altri consiglieri, di altri commessi,
di altri redattori
(i francesi
dicono
en chef, gli spagnoli er jefe). E resta pertanto invariato nel plurale. Diremo perciò il consigliere capo e i consiglieri capo, il commesso capo e i commessi capo, il redattore capo e i redattori capo, il cronista capo e i cronisti capo. Per la donna avremo la commessa capo, la redattrice capo, la cronista capo, e nel plurale le commesse capo, le redattrici capo, le croniste capo.
Romanzo-fiume,
guerra-lampo.
Voglio ora parlare di una particolare categoria di nomi, che non hanno nulla che fare con i nomi composti, ma che pure risultano dall’accoppiamento di due sostantivi, e che creano anch’essi qualche perplessità nel momento di metterli al plurale. C'è una differenza anche visiva tra questi e i nomi composti, ché i due elementi costitutivi si scrivono sempre separati e uniti tra loro da una lineetta: romanzo-fiume, guerra lampo, porta-finestra, decreto-catenaccio, eccetera eccetera, ché la lingua moderna continuamente ne crea per il vezzo crescente di dir molte cose in breve e anche per influsso delle lingue straniere. Ben diversi dal tipo francobollo, pescecane e madreperla, questi nomi non possono rientrare per la formazione del plurale nelle regole fondamentali che abbiamo veduto poco fa. Sono combinazioni di nomi che in definitiva rappresentano un’intera frase abbreviata; e per questo appunto si raccomanda di scriverli col trattino, avendo il trattino fra i vari suoi usi anche quello di simbolizzare un intero discorso taciuto. Come si scrive
infatti
normalmente
ellittica che vale distesamente
autostrada
Firenze-Mare,
frase
« autostrada che va da Firenze
al mare », cosî si deve scrivere rorzanzo-fiume, « romanzo lungo come un fiume », guerra-lampo, «guerra fatta, finita in un lampo », carro-bestiame, « carro per il trasporto del bestiame », e cosî via. Per la formazione del plurale di questi nomi accoppiati 123
ricorreremo a una regola particolare, che è unica per tutti ed è semplicissima: metteremo al plurale solo il primo elemento lasciando invariato il secondo; e questo perché è solo il primo elemento che cambia numero, mentre il secondo, che esprime soltanto una specificazione, un paragone, rimane qual è: infatti se un romanzo è lungo come un fiume, anche più romanzi saranno lunghi come un fiume, se un carro serve a trasportar bestiame, anche più carri serviranno a trasportar bestiazze. C'è inoltre il fatto che non sempre questi nomi risultano dall’accoppiamento di due sostantivi di genere uguale, tutt'e due maschili o tutt'e due femminili, rendendo impossibile la concordanza. Avremo dunque in pratica questi plurali: romanzi-fiume, guerre-lampo, carri-bestiame, porte-finestra, decreti-catenaccio, treni-lumaca, cani-poliziotto, ragazzi-prodigio, ragazze-prodigio, ragazze-squillo, navi-traghetto, case-asilo, gonne-pantalone, uomini-rana, giacche-fantasia, governi-fantasma, donne-cannone, carte-carbone, torri-vedetta, palazzi-alveare, orologi-calendario, pesci-pilota, ecc.
Italo-americano,
centro-meridionale.
C'è infine una seconda categoria di parole risultanti dall’accoppiamento strettissimo di due e anche tre e più parole le quali sono però tutte aggettivi: attore italo-americano, cucina centromeridionale, mercato orto-floro-frutticolo. Qui pure, come ve-
dete, gli elementi costitutivi saranno legati sempre tra loro dal solito trattino.
P
Anche per questi vocaboli compositi a noi interessa ora la formazione del plurale; e la cosa è ancora semplice: a differenza di quel che accade coi nomi accoppiati or ora visti, noi qui metteremo al plurale soltanto l’ultimo aggettivo del gruppo, naturalmente concordandolo nel genere col sostantivo a cui si riferisce. Esempi: visita medico-fiscale, visite medico-fiscali; attore italo-americano, attori italo-americani, attrice italo-americana, attrici italo-americane; dialetto centro-meridionale, dialetti cen-
tro-meridionali; guerra franco-tedesca, guerre franco-tedesche; trattato russo-franco-americanò, trattati russo-franco-americani; mercato orto-floro-frutticolo, mercati orto-floro-frutticoli; e via su questo metro. 124
Acquavite.
Un’altra parola che suscita spesso discussioni è acquavite, sul cui plurale non sono tutti d’accordo. Luigi Veronelli, esperto di bevande alcoliche oltre che di cibi, dice acqueviti. Si tratta però di un composto che rientra nella categoria dei nomi formati di due sostantivi femminili, del tipo madrevite, cartapecora, cassapanca, madreperla, nomi composti che, come abbiamo visto, modificano nel plurale solo il secondo elemento lasciando invariato il primo: le madreviti, le cartapecore, le cassapanche,
le madreperle. Perciò il plurale dovrà essere acquaviti. E acquaviti infatti dice di regola il Monelli, altro esperto di bevande alcoliche oltre che di lettere, come vedo nel suo già citato libro « Il vero
bevitore ». Una
sola volta, se non
erro,
Monelli usa acqueviti, ma deve piuttosto trattarsi di una svista tipografica. Anche in Bacchelli incontro « acquaviti di limpidezza adamantina ». Non capisco perché quasi tutti i dizionari (salvo il vecchissimo Tramater e il recente De Felice-Duro) ignorino il plurale di acquavite, come se di questo liquore esistesse un solo esemplare. Ma la grappa, il cognàc e tutti gli altri distillati del vino non sono forse acquaviti?
Pellerossa, pellirosse. Il plurale di pellerossa qual è: i pellirosse, i pellerossi, oppure i pellerossa, invariabile? Lo abbiamo visto: diciamo ? pellirosse, rispettando cosî la regoletta che dice: i nomi composti di un sostantivo più un aggettivo formano il plurale mettendo nel plurale entrambi i componenti. Infatti dai singolari caposaldo, fabbroferraio, cassaforte, terracotta abbiamo i plurali capisaldi, fabbriferrai, casseforti, terrecotte. Di conseguenza, pellerossa, pellirosse. Nel caso nostro, però, devo affrettarmi ad aggiungere che si tratta di un nome in verità nato plurale, in quanto si riferiva a una gente, a una pluralità di persone. Lo abbiamo infatti preso, negli ultimi decennii del secolo scorso, dal plurale francese Peaux-Rouges, ricalcandolo dapprima in Pelli Rosse, poi in pellirosse, tutto attaccato. E di qui appunto abbiamo poi fatto il singolare pellerossa, alternato nell’uso con una seconda 125
forma pellirossa, che lascia invariato il primo termine non più sentito come plurale. E giacché siamo a parlardi questi Indiani dell'America settentrionale, non mi sembra inopportuno avvertire che il nome di Pelli Rosse fu dato la prima volta dal navigatore italiano Giovanni Caboto, nel 1497, alle popolazioni indigene di Terranova, i Beothuc, oggi estinti; e non per un naturale color rossiccio della pelle, che non avevano, ma perché usavano tingersi il viso e altre parti del corpo con ocra rossa.
Pomodoro,
pomodori.
Di questo sostantivo si incontrano ben tre plurali: pomzidoro, pomidori, pomodori. Qual è da preferirsi? La parola pomodoro è certo parola composta: poro d’oro, per il particolare color fiammante del frutto (lo chiamarono, dapprima, anche pomo d’amore!). Perciò, il plurale i porzidoro parrebbe il più logico. E cosî fu infatti usato in principio (sec. XVI)
da Giovanvettorio
Soderini
nel suo
« Trattato
di
agricoltura », e anche da altri, scritto tanto in due parole quanto in una parola sola. Anzi, sul plurale staccato pomi d’oro si rifece più tardi il singolare unito # pormzidoro, da cui la forma plurale i pomidori. È accaduto però che nel corso del tempo, per l’uso frequentissimo del vocabolo, si è andata via via perdendo la nozione espressa dai due elementi compositivi, in modo che essi han finito col fondersi saldamente. Ne consegue che il plurale porzodori, foggiato secondo la regola comune dei normali nomi maschili in -0, è quello preferito dai lessicografi più recenti, e che io mi permetterei di consigliare. La coppia plurale i porzidoro e î pomidori è, intendiamoci, ancora abbastanza comune, ma è d’uso piuttosto regionale.
I film, gli sport. Nei giornali, anche in quelli linguisticamente si vedono diversamente trattati i plurali di certi c'è chi scrive i films e chi i film, chi gli sports ma Qual è la forma che conviene seguire? A proposito del plurale dei nomi stranieri 126
4
più scrupolosi, nomi stranieri: anche gli sport. in un contesto
italiano, c'è da precisare questo: o noi li usiamo come tali, cioè come stranieri, e allora bisognerà scriverli ovviamente nella forma plurale della loro lingua: «i filrzs americani », « gli sports nautici »: in tal caso però essi andranno sottolineati in un
testo
manoscritto,
0 messi
in corsivo
in un
testo
a
stampa, cosi come siamo soliti sottolineare o stampare in corsivo una pàrola straniera; oppure li consideriamo vocaboli italiani, inseriti da tempo nel nostro lessico, e in tal caso essi ricadono nella comune regola grammaticale che prescrive di lasciare immutati nel plurale i nomi terminanti in consonante; perciò come scriviamo gli amor, i cavalier, scriveremo i film, gli sport, i tram, i camion, i bar, i gol, i cognac, i cordial. E a questo secondo sistema si consiglia di attenersi sempre, anche per evitare di cadere in qualche grossolano errore, sempre possibile quando non si ha sicura conoscenza di certe lingue straniere; o di prendere qualche goffa cantonata, come avvenne a quel tale che scambiando la parola ravet per francese (si tratta, come ognun sa, d’un nome proprio di persona, tratto dalla famosa commedia in dialetto piemontese Le miserie d’monsu Travet, di Vittorio Bersezio, divenuto poi nome comune per indicare l’impiegatuccio statale schiavo del dovere e dei superiori), travets!
ne
trasse
fuori
un
sorprendente
plurale
i
Ripeto: la regola sopra detta deve valere solo per quei vocaboli stranieri che, inseriti da tempo nel nostro linguaggio, fanno parte ormai del nostro lessico. Va da sé, invece, che per ogni altro nome di diversa lingua citato e sentito come straniero dovremo usare la forma plurale che gli è propria; cosf diremo, per es., « A me piacciono i film dove agiscono i cow-boys (nel plurale e sottolineato) », « Molte ladies inglesi erano presenti alla cerimonia ».
Referendum,
curriculum,
memorandum...
Se si dovesse usar la parola referendum al plurale, come ci si regolerebbe? Diremo i referenda, dato che la parola è latina, o lasceremo le cose come stanno, e diremo i referendum? E per cur-
riculum, e per memoranduri come ci regoleremo? Vive da tempo indisturbato nel nostro lessico un gruppetto di queste parole latine ormai cosî radicate nell’uso che potremo 127
considerarle alla stessa stregua di molte parole straniere, cialmente inglesi, le quali ormai definitivamente inserite nel stro idioma, hanno per il plurale lo stesso trattamento delle stre parole tronche, restano cioè, come abbiamo appena visto
spenonopiù
sopra, invariate; per citare solo le più comuni, i tram, gli sport, i film, e non i trams, gli sports, i films. Io penso che si possa benissimo considerare straniero, almeno
dal punto di vista morfologico, anche questo gruppo di parole latine, come referendum, ultimatum, curriculum, memorandum, au-
ditorium, solarium, album, per tacere del comunissimo lapis. Perciò la prima risposta alla domanda potrebbe esser subito questa: il referendum, i referendum, il curriculum, i curriculum, il memorandum, i memorandum, e cosî via. Del resto per alcune
di queste parole la forma latina invariabile si è stabilizzata da tempo. Tutti, e fin dal Cinquecento, diciamo e scriviamo senza nessuna esitazione il lapis e i lapis, anche se il latino lapis, propriamente « pietra », imporrebbe un plurale /èdpides. La parola album,
venutaci
dalla Germania
settecentesca
dove
in-
dicava un libro per la raccolta di ricordi, di versi e di autografi augurali di amici, resiste ancora in questa forma invariabile,
gli album,
nella
medesima
accezione
e
in altri
usi
estensivi, come « album di francobolli, di fotografie, di dischi »,
ecc. Ma sempre la forma italiana @/b0, plurale gli albi, usiamo in ogni altro caso (l'albo dei medici, degli avvocati; albo d’onore; l'albo dei promossi, ecc.). Solario, col plurale i solarii,
da almeno un secolo ha sostituito il latino invariabile solarium, che fa capolino solo raramente; e lo stesso è accaduto per auditorium che da tempo ha ceduto il passo alla forma auditorio, plurale auditorii. Alquanto diverso è il caso di wltimzatum,
referendum
e memorandum,
tutte
parole latine, è vero,
ma che ci sono venute attraverso il linguaggio politico straniero, di solito il francese, e perciò lasciate tal quali anche nel plurale. Tuttavia anche per queste qualche tentativo di italianizzazione
c’è stato;
il Foscolo,
per
esempio,
usò
wltizzato,
e il
Pananti parlava di memorandi. Nulla impedirebbe di usare una forma
referendo,
con
un
plurale regolare
i referendi,
e cosi
pure sarebbe ottima cosa cominciare a dire i curricolo, nel plurale i curricoli: basterebbe che si mettessero a divulgarle la radio e la televisione, seguite dalla stampa quotidiana, e le due parole nel giro di pochi mesi sarebbero sulla bocca di 128
tutti. Anche spècizzen è parola latina, ma venutaci essa pure attraverso il francese (che l’aveva presa dall’inglese). Il latino nel plurale fa specizziza; e noi come da crimen, criminis abbiamo
fatto crizzine,
plurale crizzini,
avremmo
potuto
benissi-
mo fare specimine, specimini. Ma anche qui, essendo di importazione francese, abbiamo lasciato la parola invariata nel plurale.
I sovrabbondanti.
Esistono dei. nomi maschili detti da alcuni grammatici sovrabbondanti
perché, invece del solito unico plurale, di plurali ne
hanno due:
uno regolare in -i, di genere maschile, e uno irre-
golare in -4, usato nel femminile; come frutto (i frutti, le frutta), mauro (i muri, le mura), lenzuolo (i lenzuoli, le lenzuola), azello (gli anelli, le anella), calcagno (i calcagni, le calcagna), ciglio
(i cigli, le ciglia), ginocchio (i ginocchi, le ginocchia), ecc. Alcuni di questi doppi plurali si adoperano a piacimento, senza differenza di significato (per es., i due plurali di sopracciglio: i sopraccigli, le sopracciglia, quelli di ginocchio: i ginocchi, le ginocchia; di vestigio: i vestigi, le vestigia; di vestimento: i vestimenti, le vestimenta; e qualche altro); ma quasi sempre tra le due forme c’è differenza di significato, a volte sfumato, ma a
volte anche notevole. Osserviamo queste semplici frasi: « Lo strinse tra le braccia », « Si appoggiò ai bracci della poltrona »; « Aveva le labbra rosse », « I labbri rossi del vaso »; «I fondamenti di una scienza », « Le fondamenta del palazzo »; « Case dai muri cadenti », « Città recinta da antiche mura »; « Gli anelli della catena », « Capelli cascanti in soffici anella »; « Albe-
ri lungo i cigli delle strade»,
« Occhi
dalle lunghe ciglia »;
« Strade che sembrano budelli », « Riempirsi le budella »; « But-
tar via gli ossi del pollo », « Gli dolevano le ossa »: le differenze di significato saltano agli occhi. In particolare, per difo, dirò che i due plurali spesso si confondono, secondo le regioni d’Italia. « Ho i diti indolenziti », « Ho le dita indolenzite »; il D'Annunzio, nella Sera fiesolana, anche per ragione di rima, dice « su i pini dai novelli rosei diti »;
ma, solitamente, la forma maschile si preferisce quando si vuol fare una
specificazione:
i diti pollici, i diti anulari;
in senso 129
collettivo, meglio il femminile le dita: « Le dita della mano ». Per orecchio c'è da dir questo: che si tratta di un nome sovrabbondante fin nella forma singolare: l'orecchio e l’orecchia, con i rispettivi plurali, gli orecchi e le orecchie. La forma maschile è quella più comune, e l’unica del linguaggio scientifico; la forma femminile è d’uso piuttosto regionale, specialmente al plurale. Orecchia, poi, è generalmente usata nel significato figurato: « Un libro pieno di orecchie »: « pieno di orecchi » non si direbbe. Nel significato musicale, invece, sempre maschile: « Ha un orecchio finissimo », e anche in certe locuzioni: « Porre,
porgere, prestare orecchio a una cosa ». Come si vede, un mucchio di sfumature, dove soltanto l’uso può dare consiglio. Anche lenzuolo ha due plurali. S’usa il maschile plurale è lenzuoli, quando si parla di essi in senso generale: « Ho comprato dei nuovi lenzuoli », « Che bei lenzuoli ho visto in vetrina ». S’usa il femminile /e lenzuola in senso collettivo, quando si vuole indicare il paio che si mette a letto: « Cacciarsi tra le lenzuola », « Cambiare le lenzuola ». Membro ha un plurale femminile le membra, usato solo rife-
rendosi a parti del corpo animale, specialmente prese nel loro complesso: « Stirarsi le membra »; e un plurale maschile, i 72e74bri, che si usa quasi soltanto in senso figurato, per indicare le parti di alcunché: «I membri del consiglio », «I membri del periodo ». Corno ha i plurali le corna e i corni. Il primo si usa nel senso proprio: le corna degli animali, le corna del bue, e anche del diavolo; i corri si usa in senso soprattutto metaforico: i corni della luna, del dilemma, un suono di corni.
Il sostantivo maschile frutto con un suo plurale regolare frutti si riferisce a tutto ciò che la terra produce, sia esso mangereccio o no: « La mela è il frutto del melo », « L’albero è carico di frutti ». Ma esiste anche un singolare /a frutta che si riferisce in senso collettivo solo al prodotto mangereccio di una pianta, già còlto per essere mangiato: « Mangio una frutta e mi basta » (ma è anche corretto dire « Mangio un frutto », usando cioè il maschile):
« Un piatto di frutta fresca », « Que-
st'anno c'è poca frutta ». Questo singolare la frutta ha due plurali: le frutta e le frutte; perciò possiamo dire « Un piatto di bel le frutta » oppure « Un piatto di belle frutte ». Anche il plurale di calcagno è duplice: i calcagni e le calcagna. Ma il primo è l’unico da usare in senso proprio: « S'è sbucciato 130
"4
i calcagni », e anche estensivamente, « I calcagni delle calze, delle scarpe »; il secondo s’usa solo in alcune locuzioni: « Stare al-
le calcagna di uno », seguirlo da vicino; « Battere, alzare le calcagna» , darsela a gambe, scappare. Citerò ancora, tra i nomi sovrabbondanti, il sostantivo tergo,
col plurale i terghi riferito piuttosto a cose: «i terghi degli armadi, delle monete », cioè i rovesci; nel significato di schiena, di persona o animale, più comune /e terga: « Volgere le terga ». Urlo, grido, strido hanno tutti il doppio plurale: gli urli e le urla, i gridi e le grida, gli stridi e le strida. A volte nell’uso questi doppi plurali si confondono, ma di solito si preferiscono i plurali maschili se riferiti ad animale, uomo o cosa: « Gli urli della bufera »; « Due gridi lamentosi ci fecero trasalire »; « Si
udivano gli stridi rauchi degli sparvieri »; più spesso s’usano i femminili riferiti solo all'uomo e in senso collettivo: « Le grida della folla »; « Le strida dell’infelice », « Le urla del malcapitato ».
Fili, file e fila. « In un discorso ufficiale tenuto nella nostra città da un pezzo grosso, ho udito più volte ripetere frasi come queste: « nelle fila del nostro partito », « serrare le fila ». Cosî mi avverte un amico. In questo errore marchiano cadono pezzi grossi e piccoli e anche mezzani: voglio dire un po’ tutti. Non c’è discorso dove l’oratore non inciampi nelle « fila del partito » 0 non inviti i seguaci a « stringere le proprie fila ». L’italiano è certo una lingua difficile, e anche piena di trabocchetti, ma forse è troppo ignorata anche da chi non dovrebbe ignorarla. Esiste un sostantivo femminile singolare /4 fila, « serie di persone o cose più o meno allineate una dietro l’altra », che ha un plurale regolare le file; si dice perciò che davanti ai negozi si formano « lunghe file » di persone per comprare il pane, e che i militari « rompono le file », cioè rompono il loro allineamento. Esiste poi un secondo sostantivo, ma di genere maschile, i/ filo, propriamente il prodotto della filatura (un filo di lana, di cotone) che ha, purtroppo, due plurali: uno regolare maschile, i filî, e uno irregolare femminile, le fila. È dunque un altro di quei nomi sovrabbondanti che abbiamo esaminato or ora. Il plurale più comune è quello 131
regolare, i fili: « Le Parche umana », « i fili del telegrafo femminile le fila è d’uso più lettivo, per indicar molti fili
filano e tagliano i fili », « tre fili di perle ». limitato: si incontra in presi insieme: abbiamo
della vita Il plurale senso colcosî « le
fila dell’ordito », e diciamo che il formaggio fuso « fa le fila »;
ma più spesso in frasi figurate, come « le fila della congiura », « il traditore ordisce le sue fila ». Tutto qui. E dunque attenzione, pezzi grossi e piccoli: le fila del cacio e del tradimento; ma le file del partito, dell’associazione e dell’esercito.
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Lo zio, gli pneumatici.
Si dice e si scrive lo zio, lo gnocco, gli pneumatici, uno psicologo, ma si dice e si scrive anche il zio, il gnocco, i pneumatici, un psicologo. Questa e altre incertezze nell’uso dell’articolo non sono un guaio solo dei giorni nostri; esse rappresentano piuttosto le più recenti scaramucce di una lunga guerra — lunga di se-
coli — che si combatte tra le doppie forme degli articoli determinativi e indeterminativi il, i, lo, gli, uno e un. La grammatica, com’è giusto, ha tentato di metter fine a questa guerra, e ha perciò fissato una regola sulla quale finalmente posarsi. E una regola semplice, che sappiamo tutti: gli articoli lo, gli, uno si usano, invece di il, i, un, davanti a parole che cominciano
con
z, con
s impura
(cioè seguita da consonante),
con i gruppi sc, gr, ps, pn, e con x (= ks); perciò: lo zampillo,
uno scudo, lo sciacallo, uno gnocco, gli gnocchi, uno psicologo, gli pneumatici, uno xilografo. La stessa regola si deve estendere anche ad altri gruppi consonantici estranei alla nostra lingua:
lo bdèllio, lo mnemonismo,
lo pterigio, lo ctònio, uno
Cnidio, gli pterodàttili, gli ftalati, e simili. Questa la regola; la quale non è stata fatta a capriccio ma partendo dal presupposto che l’incontro di un articolo o di una preposizione articolata terminante in consonante con certi gruppi consonantici iniziali di parola intralcia, rende meno fluida la pronunzia; perciò meglio /o zio che il zio, meglio lo pneumatico che il pneumatico, meglio lo psicologo che il psicologo, meglio uno sbirro che un sbirro. Si tratta dunque di una faccenda di suono, di una questione di orecchio. Cominciò il Bembo, nel Cinquecento, -a rendersi conto di queste stonature, e cercò di mettere un po’ d’ordine in questa faccenda. Egli stesso, per esempio, che aveva scritto « Una sol vo135
ce in allettando il spirto », corresse più tardi il verso cosî: « Una sol voce in allettar lo spirto ». Ma le sue regole furono ben lungi dall’essere uniformemente rispettate; e ancora nell’Ottocento la lotta tra le due forme era assai viva: il Foscolo scriveva i stemmi, il Berchet, un spergiuro. Più forte l’oscillazione tra lo e il dinanzi alla z, con preminenza assoluta di il; basterà citare ancora il Foscolo, nel famoso sonetto Alla sera:
« Le nubi estive e i zeffiri sereni », forma ripetuta nei Sepolcri: « Di puri effluvii i zefiri impregnando ». Il Pindemonte cosi scriveva, il 18 maggio 1810, al classicheggiante Mario Pieri: « Io poi dico il zelo e non lo zelo, e prego lei a guardarsi anch'ella da tale affettazione »; e lo stesso padre Antonio Cesari, cruscan-
tissimo e rigido purista, non esitò a tacciare addirittura di « schifiltosi » quelli che usavano /o zio al posto di il zio. Notissimo a tutti, del resto, è il zappatore leopardiano; e lo stesso D'Annunzio, se scrisse lo zibellino, non esitò davanti a il zibetto e a i zaini. Numerosi gli esempi anche tra gli scrittori contemporanei, come coi zoccoli del Panzini, un tenente dei zappatori del Bacchelli, i zazzi del Monelli, il zirlare del Linati. Identica confusione di articoli si riscontra, fin dal Seicento, davanti a parole, un tempo rare ma oggi sempre più frequenti, comincianti con i gruppi consonantici sopra allineati. Troviamo nel Mattioli (secolo XVI) /o psillio, ma anche # psillio (un’erba, detta anche pulicaria), nel Bartoli (sec. XVII) troviamo del pseudolegista. Il Tommaseo consiglia di dire i pseudonimi; sembra meno crudo, infatti, l’incontro consonantico nel plurale, ché dire i pseudonimi è come dire ipsilon, dire i pneumatici è
come dire iprosi. Del resto, anche il Carducci non esitò davanti a il psicologismo. Anche per il gruppo gr, uguale confusione: il Redi (sec. XVII) ha « non faccia lo gnorri »; ma il Menzini, suo contemporaneo, dice « fo il gnorri »; e ancora il Tommaseo, sot-
to gnòstico, dà questo consiglio: « I gnostici pronunziasi meglio che gli; ma uno gnostico meglio che un ». L’altalena continua fra i contemporanei: i gnocchi dice il Panzini, i gnomi l’Ojetti, il gnaulio il Calvino; il Gadda ha addirittura rel sciocchezzaio. Tutto questo, e potrei continuare, dimostra appunto che l'incertezza odierna non è che la naturale conseguenza dell’incertezza antica. Incertezza che, una volta tanto, la nostra gram-
matica ha voluto toglier di mezzo con quella semplice regoletta che s’è detta in principio. Alla\quale però un’obiezione si potrebbe muovere. Va bene il cattivo suono dell’articolo il e un da136
è
vanti alla s impura:
il scolaro è impronunciabile,
un sdegno
storce la bocca, un xilofono sembra uno starnuto; ma già le cose
cambiano con l’articolo plurale i: i scolari ripete il suono di iscariota, i sbirri suona come l’isba russa; e ancora i specchi suona come ispettore, i gnocchi come ignorante, e già s'è parlato di i pseudonimi, i psichiatri che suonano come ipsilon, e di i pneumatici che suonano come iprosi, ipnotismo. E non parliamo della z iniziale; è troppo facile l’obiezione: perché respingere le forme il zoppo, il zio, un zoppo, un zio, quando poi pronunziamo senza il minimo sforzo alzare, milza, punzone e ronzio? Queste obiezioni se le fa, certo inconsciamente, il popolo il quale tende sempre a inserire parole e costrutti negli schemi
più semplici e uniformi. Cosî si spiega la sempre maggior frequenza di i pneumatici e un psicologo, parole nate dotte ma ormai
sulla bocca
di tutti, e la resistenza
di forme
come
lo
psicomante e uno pterodàttilo, ancora riservate alle persone célte, più ossequenti alle leggi grammaticali. A proposito anzi delle forme sempre più comuni il psicologo, un psicologo, Luciano Satta, in una sua bella grammatica, opina, a
mio avviso ragionevolmente, che « una spinta a questa preferenza è spiegabile probabilmente con il modo in cui si leggono certe sigle: il partito socialista italiano conserva l’articolo # anche quando è siglato: il PSI ». Anche il disciolto PSIUP fu sempre il PSIUP e mai lo PSIUP, e nessuno dice lo MSI ma il MSI quando non si preferisca risolverlo in MIS. Ma, detto tutto questo, mi affretto ad aggiungere che sono ben lontano, Dio me ne guardi, dal consigliare di non tener conto della regola predicata da tutte le grammatiche; insisto anzi nel raccomandarla, e io sempre a essa mi attengo; ma non possiamo neppure ignorare una realtà fin troppo evidente che ripudia sempre più gli pneumatici e uno pseudonimo, ma continua a rispettare scrupolosamente lo specchio e uno scemo, come l’istinto le detta.
Il iodio, lo iodio.
« Il iato delle troppe vocali» scriveva il della versificazione » scriveva il Carducci, iettatore » scriveva D'Annunzio, « era uno Baldini. La grammatica più severa prescrive
Foscolo, «gli iati « m’ha l’aria d’un iettatore » scriveva che con le parole 137
comincianti con una i segufta da vocale (cioè la i detta semiconsonante) si debbano usare gli articoli determinativi /o, plurale gli, e l’indeterminativo uno:
perciò lo iodio, lo iato, lo iet-
tatore, lo iugero, lo iugoslavo; gli iati, gli iugoslavi, gli iettatori; uno iugoslavo, uno iettatore. Ma ecco che a questo punto interviene l’uso, che nasce dall’istinto stesso del parlante, il quale spesso ignora leggi grammaticali e tradizioni; e abbiamo cosî il iato e il iodio, un iugoslavo e un iettatore. È lo stesso fenomeno avvenuto, come abbiamo appena visto, con le parole comincianti con ps, pr, gn. ecc., si che, contestando antiche leggi grammaticali, si dice sempre meno /o psicologo, lo pneumatico e lo gnocco, e sempre più il psicologo, il pneumatico e il grocco. Sappiamo come son nate queste leggi: per le cosiddette ragioni eufòniche, cioè di bel suono, di maggior facilità di pronunzia; ma si può dubitare che sia più facile pronunziare lo iato e gli iati che il iato e i iati, e che lo iugoslavo e gli iugoslavi scorrano meglio che il iugoslavo e i iugoslavi. Ciascuno quindi potrà concluder da sé: per l’una e per l’altra forma c’è da appoggiarsi, come sopra s’è visto, a nomi di cartello.
Perché « gli dèi »? Diciamo i deboli, i devoti, i deserti; ma perché allora gli dèi e non i dèi? È sempre esistita, dall’origine della nostra lingua, accanto alla normale forma Dio una forma Iddio nata dall’espressione articolata il Dio (il Dio per eccellenza, il Dio cristiano) per concrezione dell’articolo col nome. Questo nome cosî composto, scritto anche con la minuscola specialmente riferito alle divinità pagane, ebbe un plurale iddii, con un femminile iddia, pluràle iddie.
Altre forme
composte
furono
iddeo, plurale iddei, coi
femminili iddea e iddee, più vicine alle forme latine deus e dea. Di tutte queste forme, solo Iddio, quasi sempre riferito alla divinità cristiana e perciò scritto con la maiuscola, è ancora vivo nell’uso comune, mentre tutte le altre del primo gruppo appaiono
a volte solo nella poesia (« gl’itali iddii » del Carducci);
quelle del secondo gruppo, iddeo, iddei, eccetera sono tutte morte. Ciò premesso, l’origine di quello strano articolo gli davanti a vocale è presto spiegata: è il residuo della fotma articolata plurale gli iddei, apostrofata gl’iddei, fusa nella pronunzia 138
s
in « gliddei ». L’articolo è rimasto anche quando il gruppo iniziale id- è scomparso dall’uso.
Lo suocero.
In alcuni dialetti settentrionali, e in particolare in Emilia, si sente dire /o suocero, allo suocero, dello suocero, anche da persone di buona cultura. Ma si tratta, è chiaro, di un errore grossolano: le sole forme corrette sono il suocero, al suocero, del suo-
cero, La grammatica, l’abbiamo visto, prescrive quando bisogna usare l'articolo lo e quando l’articolo i/. L'articolo lo è d’obbligo (ripetiamolo un’ennesima volta) solo davanti a parole che cominciano con z, con gr, pn, ps, x e in particolare con la s im-
pura. In ogni altro caso si deve usare il. Lo vive ancora, e tenacemente, appunto nell’espressione /o suocero (e di conseguenza gli suoceri e uno suocero). Ma la ragione di questo fatto la spiega chiaramente un chiaro linguista, il Tagliavini, ch'è bolognese: gli Emiliani e i Romagnoli, egli dice, pronunciano in molti casi, nel loro dialetto, e anche quando non parlano in dialetto, la semivocale “ come una v; e dicono, per es.,
angvéla, per anguilla, cvesto, cvello, Avgusto per questo, quello, Augusto. « Non ci si può dunque meravigliare » conclude il Tagliavini « che chi pronuncia, per abitudine fonetica regionale, svòcero invece di suòcero, sente all’inizio un s impuro e quindi è portato a usare l’articolo /o, che è d’obbligo appunto in casi come lo sviluppo, ecc. » Giustissimo. Però questo errore, spiegabile in bocca emiliano-romagnola, rimane inspiegabile in bocca lombarda, per esempio, dove pure l’espressione lo suocero è comunissima. Qui si tratta, probabilmente, di una piatta imitazione non sostenuta da nessuna tradizione fonetica.
L'articolo coi nomi stranieri.
Anche questo è un problema non sempre discusso o risolto dalle comuni grammatiche; ma specialmente oggi che le parole straniere son di casa nel nostro comune linguaggio mi sembra che sia arrivato il momento di esaminarlo e di risolverlo. Per fortuna, una soluzione sembra qui abbastanza facile, almeno nel
suo principio generale. Che è questo:
nella scelta dell’articolo 139
italiano da collocare davanti a una parola straniera dobbiamo tener conto non già della consonante o del gruppo consonantico iniziale di parola, ma della sua effettiva pronunzia; per esemnpio, se dobbiamo porre l’articolo alla parola francese chègue non dobbiamo tener conto del gruppo iniziale ch, che in italiano è sempre di suono duro, come in che e in chela, ma del modo come in francese questo gruppo viene pronunciato, cioè « Scè »; non diremo quindi « il chèque », « i chèques », « un chèque », come diciamo il chenopodio, i chenopodi, un chenopodio, ma diremo lo chèque, gli chèques, uno chèque, cosi come diciamo lo scettro, gli scettri, uno scettro. Accettata questa norma, che è l’unica accettabile, tutto filerà liscio per tutte le parole francesi con lo stesso gruppo iniziale: chalet, chef, choc, champagne, chiffon, Chénier, Champs-Elysées, eccetera, dove gli articoli italiani da usare saranno gli stessi ora visti per chèque: lo chalet, gli chalets, uno chalet, lo chef, lo champagne, uno chiffon, i ver-
si dello Chénier, gli Champs-Élysées. E useremo gli stessi articoli anche davanti a quelle parole d’altra lingua che hanno per iniziale la s seguita da consonante, quella che noi diciamo s impura, come nelle parole sport, speaker, stand, scout, slip: lo sport, lo speaker, uno stand, gli scouts, gli slips (o anche
slip invariato, considerandola ormai parola italiana). Gli stessi articoli useremo anche per quelle parole straniere comincianti col gruppo consonantico sh o scb che si pronunziano come il gruppo sc di scezo; e come diciamo lo scemo, gli scemi, uno scemo, diremo lo show, gli shows, uno show, uno
shampoo, lo Shelley, lo Shakespeare, lo Schiller, eccetera. Conoscendo questo facile meccanismo gran parte delle difficoltà saranno presto superate. Diremo perciò i jockey, perché pronunziamo « giòki »; diremo /o yacht («dt ») o anche il yacht come diciamo lo iodio o il iodio; diremo il jazz (« giàs »), il jet, un jet (« gèt »), il jumbo, un jumbo, nome proprio di elefantino volante, dato scherzosamente a un colossale apparecchio
aereo per la sua mole appunto, e pronunziato in inglese « giàmbou » (ma anche italianizzato in iumzbo, invariabile). Qualche difficoltà presenta invece la » iniziale di molti nomi
stranieri, comuni e propri, specialmente inglesi e tedeschi. Nella nostra lingua la 4 è sempre muta, è come se neppure esistesse all’inizio di una parola, e perciò noi scriviamo senza pensiero alcuno /’ho fatto, l’hai visto, cosî come altri scrive anche l’ò fatto, l’ài visto. Ma quando in un nome straniero questa iniziale 140
è una vera e propria consonante dal suono aspirato, come si fa a ignorarla? dovremo cioè scrivere‘lo buzzour, lo hobby, lo handicap, lo Hinterland, lo Heine, lo Hegel, lo Humboldt, lo Hem-
ingway, rispettando la % consonantica
aspirata, o ignorarla, e
scrivere, come anche correntemente si pronunzia, l’humzour, l’hobby, l'handicap, l’Hinterland (anzi, addirittura l’binterland con la minuscola), l’Heine, Hegel, l’Humboldt, l’Hemingway? Que-
sto problema non esiste per lo spagnolo dove la stessa » è muta come da noi: l’hidalgo, l’Hernindez; e muta anche nel francese,
almeno nella grande maggioranza delle parole da noi comunemente usate: /’botel, l’bangar, l’Hugo, l’Hoche. Sul problema di questa è i fonetisti, si capisce, son rigidi: il valore di questa lettera va rispettato, e quindi si deve scrivere e dire correttamente lo Heine e l’Hugo, l’hidalgo ma lo humour. Si obbietta tuttavia, e l’obiezione ha il suo bel peso: ma quanti, anche di ottima cultura, sanno là per là sempre distinguere una % semplice segno grafico e quindi muta, da una ) consonantica aspirata? Si tratta dunque di una scelta, da lasciare, a mio avviso, a chi verrà a
trovarsi davanti a questo problema. Chi conosce il valore del segno 4 saprà come regolarsi, chi non lo conosce non potrà che regolarsi secondo la legge italiana; o meglio, se uno scrupolo gli resta, cercherà una scappatoia, aggirando abilmente l’ostacolo: invece dell’Heine
dirà, per esempio,
di Enrico
Heine, del
poeta Heine, del grande Heine o anche soltanto di Heine. E cosî anche i più rigidi fonetisti saranno placati. Non è finito, c'è ancora un’ultima difficoltà da superare: la w iniziale nelle parole tedesche, olandesi e inglesi. Per il tedesco e l'olandese nessunissima difficoltà: la w in queste lingue corrisponde nella pronunzia esattamente alla nostra consonante v: quindi i Wagner, il Weber, il Wirstel, come in italiano si dice il Verga e il vulcano. Per l’inglese invece il ragionamento è diverso; e lo faremo nel capitoletto che segue. Ma un’aggiuntina non farà male. Si è parlato finora della forma dell’articolo da usare davanti ai nomi stranieri; ma quanto al genere come dovremo regolarci? Questo problema sorge allorché la parola straniera è di genere diverso dalla corrispondente parola italiana; e si incontra soprattutto nei titoli di certe opere letterarie che si vogliano citare nella lingua di origine. Per esempio: il francese r2émoire è maschile, ma in italiano è femminile, la mzemoria; diremo allora «i Mémoires di Carlo Goldoni » o «le Mémoires di Carlo Goldoni »? e ancora diremo « le 141
Fleurs du mal di Baudelaire » o «i Fleurs du mal» perché fleur in francese è femminile ma in italiano fiore è maschile? A me pare che l’unica soluzione ovvia sia quella di porre l’articolo nello stesso genere della parola straniera: «i Mérzoîres di Gol. doni » « le Fleurs du mal di Baudelaire »; e analogamente « le Pensées di Pascal », « le Études historigues di Chateaubriand ». Ci sono infine certi titoli latini di genere neutro plurale che si considerano generalmente maschili; cosî si dice «i Levia Gravia di Carducci », e dello stesso poeta «i Juverilia »; eccezione fa però l’espressione, pur essa neutra plurale, opera omnia, « tutte le opere », con cui si indica la raccolta di tutte le opere di un autore stampate in volumi di stile tipografico uniforme. Orbene, questo plurale neutro latino si rende in italiano nel femminile invariabile: «l’opera omnia dannunziana », «le opera omnia dei principali poeti italiani ».
Il whisky o Pwhisky?
« Si deve scrivere il whisky o l’whisky? La prima forma è quella più comunemente usata. » A questa domanda che mi viene spesso rivolta, non c’è che una risposta: i whisky è certo la forma più comunemente usata, ma è indubbio che è anche la forma sbagliata. Abbiamo appena finito di vedere la norma che regola l’uso dell'articolo italiano coi nomi stranieri, regola fondata sulla effettiva pronunzia del nome straniero e non sulla sua graffa; perciò una delle due: o leggiamo whisky, e altri nomi inglesi comincianti con w, come west, water, week-end, Wells, Webster,
ecc. cosf come sono scritti, cioè dando a quella w il suono della nostra v, e diciamo «viski», «vest », « vàter », « vikènd », « vells », « vebster », e allora scriveremo ovviamente il whisky, il west, il water, il week-end, il Wells, il Webster; o li leggiamo come in realtà si pronunziano, « uiski », « uèst », « udOtE », « ufikend », « uèls », « uèbsté », perché questa w inglese non è
una consonante come nel tedesco e non si legge v, ma è una semivocale corrispondente alla nostra x come in uomo e uovo, e allora non avremo altra scrittura possibile se non l’wbisky, l’west, l’waterj l’week-end, l’Wells, «l’uiski », «l’uèst », «l’udpté »,
l’Webster, pronunziando «l’ufikend», «l’uèls »,
« l’uebsté ». Chi sostiene il contrario, e sono i più, dovrebbe 142
4
prima dimostrare la legittimità delle forme italiane « il uomo » e
« il uovo ».
ì
L’amico Luciano Satta che è della schiera, tanto pit folta della mia, del whisky, forse sente una specie di ripugnanza visiva per quell’apostrofo messo davanti a quella w cosî prepotentemente consonante ai nostri occhi; nessuno però muove più la minima obiezione e sente la minima ripugnanza per molte altre analoghe forme, come /o chalet, lo champagne, lo choc, dove l’ar-
ticolo italiano tiene giustamente conto solo della pronunzia e non del gruppo consonantico iniziale di parola. Ma wbisky e week-end in particolare sono nomi inglesi di introduzione abbastanza recente nel nostro comune linguaggio, e ogni novità, si capisce, crea perplessità e dubbi anche nella scrittura. Un tempo l’inglese era conosciuto in Italia da pochissimi, sf che quando nel 1910 dilagò la Fanciulla del West di Puccini, nessuno si pose il problema dell’articolo, nemmeno gli autori del libretto, ché tutti leggevano (come del resto molti leggono ancora), « del vèst ». Ma con l’anglomania che c’è oggi è ancora giustificabile l’errore?
La Spezia, della Spezia. Si deve scrivere della Spezia, alla Spezia, oppure de La Spezia, a La Spezia, come più spesso si vede? Sono molti i nomi di città e di luogo, e più erano in passato, che si accompagnano all’articolo determinativo, e perciò il problema contenuto nella domanda si presenta assai di frequente, e non sempre, a mio vedere, viene assennatamente risolto. Potremmo ricordare città come la Mirandola, la Cattolica, la Maddalena, la Morra, l’Impruneta, il Forte dei Marmi, le Focette, la Mira, il Castagno Val d’Elsa, e tante altre; fuor dei nostri confini, il Cairo, il Pireo, la Mecca, l’Aia, l’Avana, la Corufia, eccetera. Questo articolo per alcune nostre città è andato perduto, tanto
che oggi si parla di Cattolica, di Mirandola, di Mira, di Forte dei Marmi senza l’articolo. E questo è un male, perché è un’altra bella tradizione che se ne va. L’articolo infatti è stato apposto al nome dall’uso parlato popolare, e si è tramandato nei secoli con maggiore o con minore fortuna; sul luogo resiste meglio, fuori invece sovente si trascura e a poco a poco scompare. Da noi si è fatto un apposito decreto per conservare l’articolo solo 143
per due capoluoghi di provincia, un articolo con tanto di maiuscola: La Spezia e L'Aquila. E il problema è sorto proprio da quella
maiuscola.
Dobbiamo
dire, per esempio,
«vado
a La
Spezia » o « vado alla Spezia »?, «i monumenti de L’Aquila » 0 « dell'Aquila »? Quel decreto fu fatto male: bisognava stabili re soltanto che l’articolo tradizionale applicato ai nomi Spezia e Aquila andava rispettato in ogni caso, anche nelle preposizioni, senza parlare affatto di maiuscola; trattando cioè la Spezia e l’Aquila come tratteremmo, tanto per capirci, espressioni come « la Rosina » e « la Teresa ». Perciò, « visitare la Spezia », « sorvolare l'Aquila », « vado alla Spezia », « i monumenti dell’Aquila », e non « visitare La Spezia », « sorvolare L'Aquila », « vado a La Spezia », « i monumenti de L’Aquila », come tutti scrivono; analogamente, « presso il Cairo », e non « presso Il Cairo », « il porto del Pireo, «la Corte dell’Aia », « un pellegrinaggio alla Mecca », « il porto del Ferrol », e cosî via. L'articolo con la maiuscola si scriverà, ovviamente, solo quando il nome si trovi all’inizio di un periodo, o sia usato come citazione a sé stante,
per esempio nelle carte geografiche, nelle intestazioni di lettere e documenti accanto alla data, e in altri simili casi.
Ne « I Promessi Sposi ». Come ci si comporta con le preposizioni articolate quando queste precedono un altro articolo che fa parte del titolo di un’opera letteraria, di un giornale, di una ditta e simili? Si deve dire, per esempio, « de I Promessi Sposi » o « dei Promessi Sposi »? diremo « alla Rinascente » o «a La Rinascente »? Innanzi tutto bisogna precisar questo: il problema nasce in un solo caso, quando si voglia o sia necessario conservare l’integrità formale di un titolo, di un nome; la qual cosa avviene solo in casi particolari, come nelle citazioni bibliografiche pi severe, in certi documenti ufficiali e simili. Nelle citazioni correnti, dove non è affatto richiesta questa assoluta integrità di forma, lascerei da parte ogni perplessità e scriverei tranquillamente, cosî come si dice parlando, « un’edizione dei Promessi Spost », «un
articolo sulla Stampa », «i negozi della Rinascente ».
Cosi ristretto il problema a pochi casi particolarissimi, vediamo poi che esso si riduce a solo quattro preposizioni capaci di crearci inciampi: di, 4, da e in; per tutte le altre, con, su, per,
144
tra difficoltà non esistono perché l’accostamento dell’articolo è sempre possibile: «con I Promessi Sposi », «su La Stampa », « per La Rinascente », « tra il Giorno del Parini ecc. ». La soluzione che viene spontanea per le prime quattro preposizioni articolate è quella di scomporle nei loro elementi costitutivi, scomposizione del resto comunissima un tempo e ancora abbastanza frequente nella prosa letteraria e specialmente in poesia: de lo, a nello, negli. già scrivono, si », « da Le
le, da la, ne lo, ne gli invece di dello, alle, dalla, Perciò scriverei senza esitare, come infatti molti « ne Lo Scialo di Pratolini », « ne I Promessi SpoNovelle della Pescara », « note a Gli Italiani di
Barzini jr» e cosî via. Resta però un ostacolo: la preposizione seguita dall’articolo maschile singolare i. Dovremo scomporre anche qui e scrivere de il, a il, da il e ne il? Ammetterei anche questa scomposizione, del resto logicissima e coerentissima, e
scriverei, per esempio, « note a Il Giorno del Parini », « ne Il Fuoco di D'Annunzio », « brani da Il Mulino del Po di Bacchelli », «lo zioni diverse da ricorrere convenzione:
stile de I/ Deserto dei Tartari di Buzzati ». Solunon ne vedo, e in casi come questi non c’è che
a una convenzione. Tutta la scrittura del resto è basta accettarla e rispettarla d’amore e d’accordo.
Il Mario, la Maria.
È consuetudine propria di certe parlate settentrionali, ma condannata dai puristi, quella di far precedere dall’articolo i nomi propri maschili (il Mario, il Gino); è invece ammesso l’articolo davanti ai nomi femminili (« è la Titti come una passeretta... »).
Come si spiega questa differenza? Questa consuetudine settentrionale, a dire il vero, va dilagando: in numerose altre regioni si sente ormai dire il Mario, il Gino; perfino in Toscana dove, al tempo del purismo, si eleva-
rono grida severe contro tale uso. Da una lettera di Ferdinando Martini a una signora Maria V.B. di Ancona, pubblicata nel volume Di palo in frasca, tolgo questo espressivo finale: « ... se per caso Ella sentisse il prurito di dirmi qualche altra impertinenzuola, d’una cosa la prego: non dica il Ferdinando Martini; anche l’Aleardi, lo so, scrive il Daniele, il Lorenzo; nondimeno
io Le sarei veramente grato se quell’articolo determinativo me lo 145
risparmiasse: sono ancora giovine (il Martini scriveva cost nel 1879, a 38 anni), e per tenermi ritto non c’è bisogno di appuntellarmi le spalle con una sgrammaticatura ».
Il diffondersi della quale dipende, si capisce, dal quotidiano andirivieni tra regione e regione, che va sempre più uniformando, un po’ in bene un po’ in male, il nostro linguaggio. Davanti ai nomi propri femminili, l’articolo è invece antico quanto la lingua italiana, e abbondano esempi di scrittori classici, a cominciare da Dante: «I’ vidi Elettra con molti compagni, Tra’ quai conobbi Ettor ed Enea, - Cesare armato con li occhi grifagni, - Vidi Cammilla e la Pentesilea... ». Di il Mario, il Gi-
no neppur l’ombra, ch’io sappia, fino alla più recente prosa contemporanea. Come si spiega? Si spiega con una realtà storica. La donna in tutti i tempi antichi, e in particolare presso i Romani, entrava nel numero delle « cose » appartenenti al padre e, dopo il matrimonio, al marito. Il suo nome, perciò, nacque propriamente come appellativo, che si foggiava sul nome gentilizio mediante una desinenza femminile; da Tullio, Marzio, Giulio si foggiarono gli appellativi la Tullia, la Marzia, la Giulia; cosî come in tempi moderni da Mo-
rosini, da Foscari si foggiarono gli appellativi la Morosina, la Foscarina. Gli appellativi hanno sempre bisogno d’un articolo determinativo, come i cognomi e i soprannomi; diciamo infatti Alessandro il Grande, Isotta la Bionda, diciamo /’Alighieri, il Boccaccio, diciamo il Tonto, lo Sciancato. Il nome
maschile, no; esso era
veramente un nome proprio, in quanto nell’uomo stava la rappresentanza assoluta di sé e dei suoi, là dove nella donna era la rappresentanza di una persona dipendente o con relazione ad altre persone. Anche nel volgare italiano, formatosi dal latino, i nomi neo-
latini femminili ebbero valore di appellativo; e l’uso dell’articolo è infatti soprattutto comune in Toscana, dove è più tenace la tradizione linguistica. La riprova di quanto s'è detto è che l’articolo tende sempre più a cadere via via che la donna acquista una sua personalità spiccata. Parlando d’una donna illustre nessuno userà l'articolo, nessuno dirà la Maria, la Francesca parlando di Maria Stuarda e di Francesca da Rimini. E anche nell’uso di tutti i giorni l’articolo coi nomi propri femminili è piuttosto un distintivo di umiltà, o anche di familiarità,
di confidenza. Quanto ai nomi propri maschili con l’articolo, tutto è nato per semplice analogia: avendo sentito dire e ripe146
%
tere la Carla, la Mariuccia, i.Lombardi si misero a dire if Carletto, il Mario. Ed è un uso, ho detto, che va dilagando.
Una specie di rivendicazione storica, se vogliamo...
L’articolo partitivo. È comunissimo l’uso dell’articolo partitivo in frasi come Avrete delle noie, Dategli del vino cusano di francesismo; io direi Tutti più o meno sanno che to dalle preposizioni articolate
da bere, e simili. Alcuni lo acdi no. l’articolo partitivo, rappresentadel, dello, eccetera, si usa quan-
do nel discorso si voglia indicare solo una parte o un numero indeterminato di uomini o di cose: « C’eran degli uomini che urlavano », cioè alcuni uomini, « Dategli del vino », cioè un po’ di vino. Nonostante l’opinione contraria di alcuni puristi, l’articolo partitivo non può considerarsi un francesismo: è d’uso antico nella nostra lingua, e se ne trovano numerosissimi esempi in tutti i nostri migliori classici, dal Trecento in poi, perfino nei cinquecentisti più severi, nei cruscanti, fino al Manzoni, che ne ha qualche decina. Ne cito alcuni. Quattro scrittori del Cinquecento: «Io questo che esso dice ho già udito dire a degli altri » (Bembo); « Con assai » (Berni); « Sono venuto per nondimeno a degli altri... » (Varchi). « Vi si perderono per degli anni »
tali parole e con dell’altre del foco » (Caro); « Diamo Uno scrittore del Seicento:
(Daniello Bartoli). Ed ecco infine il Manzoni, con tre esempi dai Promessi Sposi: « Come con delle spugne »; « Il viandante che fosse incontrato da de’ contadini »; « C’eran de’ morti da portar via». E non parliamo, poi, degli scrittori contemporanei: « Le bocche calde e carnose stamparono dei sigilli sulle sue guance » (Palazzeschi); « Tentò di ragionare, di fare dei sistemi » (Moravia ); « Bada che ci sono degli scalini » (Bassani). Si può parlare, dunque, di
francesismo? Diremo semmai che mentre il francese fa un uso costante di questo costrutto, la lingua italiana preferisce farne un uso moderato, e, sempre che sia possibile senza scapito della chiarezza, ne fa benissimo a meno. Ci son anche dei casi dove questo partitivo è addirittura illogico, diciamo sbagliato: « Una signora con delle gambe bellissime »,
« Aveva degli occhi assassini »... Come se quella signora aves147
se più braccia e più occhi, dei quali alcuni particolarmente belli o assassini.
Li 31 gennaio... È curioso davvero come certe inveterate abitudini siano dure a morire anche nel campo della lingua. In tempi come questi nei quali tutto sembra vecchio e superato, tanto che il disegnatore di un mobile o di una saliera non è contento se non vien chiamato designer, il direttore artistico diventa l’art director, e la cameriera vuol essere chiamata colf altrimenti ricorre ai sindacati, in tempi come questi è curioso che tenacemente persistano parole e formule vecchie inacidite di almeno duecent'anni; e non già su carte burocratiche, che non farebbe stupore, ma anche su carte private, perfino sui biglietti di augurio. Io ricevo spesso lettere datate cosî: li 31 dicembre, li 22 gennaio, li 12 agosto. Non solo: spesso questo li reca addirittura l'accento: li 22 gennaio. Di dove è nato questo muffitissimo li? Si tratta della variante ormai morta e sepolta dell’articolo maschile plurale i o gli (« Tornate a riveder li vostri liti », Dante; « Su per l’onde fallaci e per li scogli », Petrarca); morta
e sepolta anche nei versi dei poeti più tradizionalisti, e tuttavia ben viva e fiorente sotto le dita delle nostre più sofisticate dattilografe. « Li 22 gennaio », cioè « I 22 (giorni di) gennaio ». Ora si capirà anche meglio perché questa calfa diventa addirittura un grossolano errore quando viene accentata, li, confondendola con l’avverbio di luogo affine a /è. E si capirà perché sia anche errore usarla, come molti fanno, con riferimento al primo giorno di ciascun mese: li 1 gennaio 1975:
un articolo plurale accordato con un numero singolare.
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«Pi
bene»
e « meglio ».
Un Meridionale si trova spesso imbarazzato sull’uso di pid bene e di meglio. Quando usare l’una forma e quando l’altra? Si deve cioè dire « scrivi più bene tu che lui » o « meglio tu che lui »?
Tanto più bene quanto meglio sono forme comparative bene, ed effettivamente,
ma
non
soltanto nel Mezzogiorno,
di si
usano un po’ a caso, senza tanto sottilizzare. Dico subito che le due frasi « scrivi più bene tu che lui » e « scrivi meglio tu che lui » sono entrambe corrette; ma è certo che un Toscano, per esempio, preferirebbe la seconda forma, con meglio. E questo perché meglio è da preferirsi a pid bene quando il comparativo ha il significato avverbiale di «in modo migliore»: «Oggi mi sento meglio di ieri», « Cerca di far meglio un’altra volta », « Carlo ha risposto meglio di te ». Useremo invece più bene quando bene ha valore di sostantivo, e il comparativo assume il significato di «un bene maggiore »: « Vuole più bene a te che a me», «Ha fatto più bene lui all’azienda che non tutti i suoi predecessori », e simili. È una distinzione facile da ricordare, e converrà tenerne conto al-
l’occorrenza.
I meglio e i peggio. Usar meglio e peggio per migliore e peggiore come superlativi relativi, è errore?
Niente affatto: è anzi forma vivissima in tutte le regioni d’Italia; è uso elegante e vivace a un tempo, che s'incontra, infatti, presso i migliori scrittori: «I meglio spettacoli d’Ame151
rica», «È il meglio medico del paese», « Le meglio cose che poteva dire me le disse ». E si badi che questo meglio si usa anche in funzione sostantivata: «I meglio purtroppo muoiono presto », « Scegliete le meglio ». È del Manzoni questa frase: « Piglia con te un paio de’ meglio »; e si noti che nella prima stesura del suo romanzo aveva scritto: « Un paio dei migliori ». Quest’altra è del Verga: « Marciava da pari a pari coi meglio del paese ». La stessa cosa, naturalmente, può dirsi di peggio usato invece di peggiore: « Ai peggio porci vanno le meglio pere », è un vecchio proverbio toscano; « Mi ha dato la peggio frutta che avesse »; e sostantivato: «Ho scelto proprio i peggio », «Le peggio sono loro ».
Il più infimo, intimissimo... Si leggono a volte frasi come queste: « Fu messo nel più infimo posto della classifica », « Era il mio più intimo amico », « Siamo
intimissimi », e simili.
Vien
fatto di chiedersi:
non
sono frasi sbagliate? intizzo e infimo non sono già aggettivi superlativi? Si tratta infatti di superlativi di derivazione latina, ma non più sentiti come superlativi si bene come normali aggettivi di grado positivo e quindi suscettibili di una forma comparativa e superlativa come tutti gli aggettivi in genere. Infizzo è propriamente il superlativo alla latina (infirzus) dell’aggettivo basso, e ha anche il comparativo inferiore (latino infèrior); intimo (latino intimus) è il superaltivo di interno, col comparativo interiore (latino intèrior). Perduto presto il loro più schietto valore di superlativo e di comparativo, questi Aggettivi sono stati fin dall’antico usati anche nella forma comparativa piu infimo e più intimo, in quella superlativa relativa il più infimo e il più intimo, e perfino in quella superlativa assoluta infimissimo e intimissimo. «Nella parte più bassa e più infima di tutte fu posta » (P. F. Giambullari, sec. XVI); « Dar fama ai più infimi» (Alfieri); « La sua faccia apparve anche più infima» (Tozzi). E sentiamo spesso dire che una persona «è di infimissima estrazione », cioè di bassissima origine. Qualche esempio di intizzo: «La più intima luce » (Fra Giordano, sec. XIV); «I suoi più intimi pensie152
ri» (G. Gozzi); « Uno dei più intimi e sensibili poeti» (Papini). E frasi come «siamo intimissimi », « invitò solo gli intimissimi » si ripetono tutti i giorni senza errore. Di questi aggettivi comparativi e superlativi alla latina ce n'è parecchi altri; ma uno in particolare voglio ancora citare, ché anch’esso viene usato sovente nelle forme alterate del comparativo e del superlativo italiano: l’aggettivo prossizzo (latino pròximus), superlativo di prope, vicino, che vale perciò « vicinissimo ». Anche qui non esitiamo a usare frasi comparative come «Non hai un parente più prossimo », © superlative relative come « Uno dei suoi più prossimi parenti », e addirittura superlative assolute come «Un prossimissimo parente ». Usiamo dunque tranquillamente frasi come queste:
non sono
frasi sbagliate.
Deteriore.
Frasi come «Gli aspetti più deteriori dell’attuale situazione politica », « Merce della più deteriore qualità» e simili, non sono rare sui giornali e, purtroppo, anche sui libri. Ma sono frasi grossolanamente errate. Errate perché deteriore è già aggettivo comparativo, e significa « peggiore », « più cattivo ». Deriva dal latino detèrior, comparativo di un dèter, « cattivo », non documentato. Dire perciò pi deteriore equivale a dire « più peggiore », che neppure un modesto scolaretto oggi userebbe. Come avvengono questi incidenti linguistici? Avvengono perché si tratta in origine di parole scelte, proprie del linguaggio colto, che poi un bel giorno scappano dal nobile chiuso dove erano sempre vissute e ben trattate, e vanno a finire nelle mani di persone impreparate a certe squisitezze. Solo una quarantina d’anni fa, in Italia questo aggettivo erano sf e no in cento a usarlo; oggi sono falange. Per di più oggi il latino è sempre più relegato nel fumoso mondo
neppure parativa
dei miti
inutili, e chi si avvicina
a deteriore
non
ha
il minimo sospetto che si tratti di una forma comlatineggiante. È la sorte toccata in questo dopo-
guerra a molte altre parole rare, che una volta restavano, come ho detto, nello stretto cerchio di chi sapeva usarle, ma
che oggi per mezzo dei giornali, della radio e della televisione 153
arrivano agli orecchi di milioni di persone impreparate a riceverle, sempre però pronte a raccoglierle, spesso per snobismo o per semplice imitazione, e a usarle cosî come vien viene.
Ampissimo
e amplissimo.
L’aggettivo arzpio ha due forme di superlativo: amzpissizzo e amplissimo, entrambi usabili e corretti. In latino esisteva un aggettivo, @7plus, dal quale nacquero tre forme nel nostro linguaggio, ampio, amplo e amplio, la prima di carattere popolare, le altre due di carattere dotto. Arzplio scomparve
presto,
ampio e amplo rimasero, e s’ebbero rispettivamente i superlativi ampissimo e amplissimo. La forma positiva amzplo oggi si può dire scomparsa anche dall’uso letterario (sul grande dizionario del Battaglia vedo un esempio del Nievo, come pit recente documentazione: « Nell’amplo esercizio della sua autorità »). Resta
la forma
ampio,
dell'uso letterario
e comune.
Più fortunato il superlativo dotto amplissizzo, che sempre più si impone forse per attrazione analogica delle comuni voci ampliare, amplificare, ampliamento e simili.
Superlativi dotti.
Si legge a volte un superlativo acrissizzo, in contrasto con la forma acerrimo insegnata dalla grammatica. Nella Fiammetta del Boccaccio, scritta intorno al 1340, già si legge, per esempio, questo periodo: « Colui che fu del nostro peccato cagione, colui di quello è stato acrissimo purgatore ». Effettivamente, le grammatiche insegnano che gli aggettivi acre, aspro, celebre,
integro,
misero
e salubre
(non
sàlubre),
seguono di regola, nella formazione del superlativo, la forma latina, e abbiamo quindi acerrimo, asperrimo, celeberrimo, inte-
gerrimo, miserrimo e saluberrimo. Ma sono tutte forme proprie della lingua scelta, letteraria, e il popolo non le usa, preferendo dire « molto celebre », « assai aspro » e cosî via. Certi
scrittori
poi, classici
e moderni,
non
esitano
a ricor-
rere alla formazione regolare in -issimzo. Perciò, oltre ad acrissimo, che ora s'è visto, abbiamo
di asprissimo: 154
esempi numerosi
il Redi, nel ditirambo famoso:
soprattutto
« Pioggia rea di
ghiaccio asprissimo »; il Tommaseo: « Altercazioni asprissime »; il Leopardi: « Principio' asprissimo a tollerare ». Miserissimo lo usò più volte il Boccaccio nel Decazzerone. Di integro esiste anche una forma superlativa infegrissimo; ma in senso morale non si userebbe in nessun caso invece di integerrimo. Di celebre e di salibre non si conoscono, ch'io sappia, esempi classici di superlativo in -issirzo.
Augurissimi. Si può fare il superlativo di un sostantivo? per esempio, augurissimi, salutissimi? Si può fare; anzi oggi si fa spesso, fin troppo. Nelle lettere specialmente, come più o meno sincera esplosione di un sentimento, si suole scrivere salutissimzi, abbraccionissimi e perfino bacissimi. Questi superlativi assoluti foggiati come sostantivi contrastano si capisce con la legge grammaticale che riserva il superlativo soltanto all’aggettivo; ma non sono di oggi, si badi, perché si incontrano numerosi esempi antichi, e d’autori classici; il guaio è che oggi, come ho detto, se ne abusa. Superlativi tutti moderni, e di dubbio gusto e di più dubbia efficacia, sono per esempio occasionissima,
affarissimo,
spettacolissimo,
strennissima,
veglissima
e
chi sa quant’altri. Tutti ricordano il campionissimo Coppi, le stellissime della canzone, la Canzonissima. Ma anche fuori di un certo linguaggio enfatico o propriamente pubblicitario, il superlativo del nome può tornar buono quando occorra insistere su una qualità, su un valore, anche senza nessuna
intenzione
ironica o spregiativa.
« La vaga fan-
ciulla, sî come quella che garzorissima era» dice il Bembo (sec. XVI). Il Leopardi ha bagattellissime, il Baretti ha vergognissima, e potrei continuare per parecchio. Del resto nessuno si stupisce più di fronte al superlativo padronissimo; tutti accettiamo le finalissime dello sport, le direttissime dell’alpinismo, i veglionissimi di carnevale; e il superlativo generalissimo non incrina l’autorità militaresca. Non parliamo poi di alcune locuzioni che corrono ormai sulla bocca di tutti e anche normalmente si stampano: d'accordissimo, in gambissima, in frettissima,
a propositissimo,
Conclusione:
questo
dalle grammatiche,
ma
per tem pissimo, e varie
superlativo solo come
è ammesso eccezione,
altre.
ormai
e va usato
anche con 155
avvedutezza. « Il superlativo assoluto » diceva Ugo Brilli, buon letterato e carducciano per la pelle «è uno sdrucciolo, ma badate a non abusarne: perché non è saldo in gambe, il superlativo può diventare, con quella lunga coda dell’issizzo, uno sdrucciolone. »
I nostri unici amici.
Si dice comunemente «i nostri unici amici », « due uniche rappresentazioni » e cosî via. Non è un errore? Se sono più di uno come possono essere unici?
Risponderò con le parole del Tommaseo, tratte dal suo vocabolario: « Sebbene il senso non pare lo comporti, talvolta s'usa il plurale, non solo Figlizoli unici, parlando di più figliuoli di genitori diversi, ma anche, Le uniche mie speranze, e simili, riguardando que’ più oggetti come un oggetto solo ». Anche il latino wricus aveva il suo bravo plurale. Il fatto è che noi diamo spesso a wzico il medesimo significato che diamo all’aggettivo solo, con in più una connotazione rafforzativa; e come diciamo «due soli errori », «le nostre sole speranze », cosi diciamo, rafforzando, «ho fatto due unici errori », «sono queste le nostre uniche speranze ». Anzi, so-
vente rafforziamo anche di più, e accoppiamo l’uno all’altro aggettivo: « In quel triste momento foste voi i nostri unici e soli amici generosi ».
Un grand’errore. La pubblicità radiofonica e televisiva non solo è, come tutti da tempo sappiamo, ossessiva, ma può essere anche perniciosa quando non sia fatta a dovere. Specialmente nel campo linguistico. Per esempio, appare tratto tratto sugli schermi appunto televisivi la frase gran aroma riferita a una merce di largo consumo; la frase non solo è pronunziata cosî, ma appare anche in primissimo piano scritta cosî, a grossi caratteri. È evidente che un simile erroraccio messo davanti agli occhi di migliaia di- scolaretti alle prime armi con la grammatica non ci metterà molto a passare sui quaderni di scuola, sui tèémi in classe: «un gran amico», « una gran occasione ». È 156
solo questione di tempo. Nella speranza che questo non accada, proviamo a ripetere qui la regoletta elementare. L’aggettivo grande può troncarsi in gran solo quando la parola che segue (maschile o femminile, singolare o plurale) comincia con consonante; consonante però che non deve essere né s impura, né x, né z, e neppure gr, pr e ps: diremo perciò gran signore, gran signora, gran maestri, gran parole; ma diremo grande specchio, grandi zazzere, grande psicologo, eccetera. (Nell’uso popolare è tuttavia accettabile il troncamento anche in questi ultimi casi: gran sfoggio, gran zoticone e simili.) Ma davanti a parola che cominci con vocale, grande
non si tronca mai; può soltanto elidersi in grand’ seguîto dall’apostrofo: grande uomo o grand’uomo, grande albero o grand’albero. « Vagliami ’1 lungo studio e ’1 grande amore Che m'ha fatto cercar lo tuo volume », dice Dante. Grande amore, dunque, o grand’amore, tutt'al più; ma «gran amore » mai. Veda perciò la televisione di far correggere la frase pubblicitaria in grande aroma: farà opera utile più che non sembri.
Codesto.
Il povero codesto restringe sempre più l’area del suo già modesto regno, che è la Toscana. Escludendo in modo assoluto l’Italia settentrionale, dove il codesto è ignoto, ed escludendo il Mezzogiorno, dove esiste una forma corrispondente dialettale gesso, ridotta spesso per afèresi a ’sso (« Lassa ’ssa preta », lascia codesta pietra), si può infatti dire che solo il popolo toscano usa distinguere nettamente gli usi dei tte aggettivi o pronomi dimostrativi questo, codesto e quello; salvo, s'intende, le cosiddette persone colte di altre regioni, le quali però, come spesso mi è accaduto di sentire, usano il codesto anche a sproposito. Debbo precisare l’uso corretto di questi dimostrativi? Non c'è grammatichetta elementare che non lo riporti; ma posso farlo anch'io in due parole. Questo indica la persona o la cosa vicina o prossima a chi parla: « Questo abito mi sta a pennello »; « Questo ragazzo è mio figlio ». Codesto (e meno comune cotesto) indica invece la persona o la cosa vicina o prossima alla persona alla quale si parla: 157
« Cotesto abito ti sta proprio bene »j « Codesto tuo giudizio non lo condivido ». Perciò se un oratore (come appunto mi è capitato di ascoltare), parlando
in una
piazza di Milano
rivolto
ai Milanesi,
dicesse, per esempio: «Sono venuto qui tra voi, in codesta bella città, ecc. », sbaglierebbe, ché Milano è città vicina anche all’oratore oltre che alla gente che lo ascolta. La regoletta però non si ferma qui; continua dicendo che si può usare ancora codesto invece di questo quando chi parla vuol creare
una
vicinanza
ideale alla mente,
all’animo di chi
ascolta, quasi distaccandosi dall’argomento che egli ha appena espresso. Esempi antichi e recenti potrei allinearne a iosa. Alfieri: « Confesserò di aver avuto in quel punto la viltà di desiderare la ricchezza più ancora che la bellezza di cotesta ragazza ». Leopardi: « Passeggere: - E pure la vita è una cosa bella. Non è vero? - Venditore: - Cotesto si sa. - Passeggere: Non tornereste voi a vivere cotesti vent'anni, e anche tutto il
tempo passato...? ». Emilio Cecchi: «Si trattava di una cifra di trenta centesimi; e per il momento non sapevo capire in che modo cotesto capitale si fosse prodotto, in che modo cotesta ignota donazione fosse discesa sul mio tavolino ». Resta il terzo dimostrativo, quello, che si usa per indicar cosa o persona lontana tanto da chi parla quanto da chi ascolta: « Quella signora che viene verso di noi è mia madre »; « Guarda quella stella lassi ». Ma oggi i nove decimi degli Italiani dicono « Lèvati dal dito quell’anello », perché codesto anello lo dicono solo i Toscani. Il discorso che ora s’è fatto potrà ripetersi per gli avverbi di luogo qui, qua, costi, costà, li, là, colà. Lo faremo tra poco. .
Gli stranissimi sette.
Anche tra gli aggettivi ci son gli strani, gli stravaganti. È bene allinearli qui sotto per evitare che qualcuno caschi nell'errore al momento di metterli al superlativo assoluto: benèfico, malèfico, benèvolo, malèvolo, magnifico, malèdico e munifico. Sette aggettivi, tutti di origine latina, costruiti sui verbi fare, dire e volere, non certo del parlar più comune, e perciò ancora attaccatissimi alle lorò forme originarie. Infatti questi aggettivi non hanno un superlativo assoluto regolare in -issizzo 158
Ù
come qualcuno potrebbe pensare, non si può dire cioè, « beneficissimo »,
« maleficissimo »,
« malevolissimo »
eccetera,
ma
bisogna ricorrere alle stesse forme usate dai Latini. Benèfico, in latino denèficus, aveva il superlativo beneficentissimus, che è piuttosto il superlativo di beneficente; perciò diremo anche noi bdeneficentissimo. Malèfico, in latino malèficus, superlativo maleficentissimus, in italiano wmaleficentissimo; e cosi tutti gli altri: derevolentissimo, malevolentissimo, magnificentissimo, maledicentissimo, munificentissimo. Come ho detto, però, si tratta di superlativi alquanto solenni, e non sono certo di uso comune. Perciò nel linguaggio corrente si preferisce dire «è un signore molto benefico », « donazione assai munifica », « giudizi malevoli in massimo grado », e simili. « Sovrana tua beneficentissima » leggiamo nel Parini; ma il Manzoni preferî dire « uomo sommamente benefico e liberale ». : Ma a proposito di benèvolo e di malèvolo, attenti all’errore, attenti a non dir «benèvole » e « malèvole », come ho sentito dire a molti, facendo di questo aggettivo maschile in -0 e femminile in -a un aggettivo in -e, come celebre, fedele e amabile, buono cioè per ambi i generi. Diremo cioè « un uomo benevolo », « una donna benevola », « malevolo consiglio », « critica malevola », « con benevole intenzioni », « malevoli giudizi ».
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Tu e te. È corretto
dire, come
molti
dicono,
io e te, hai ragione
te,
vieni anche te? Può stupire che una lingua, a mille e passa anni dalla sua nascita, debba ancora presentare tanti dubbi come la nostra. Ma cosî è. Non son pochi, per esempio, quelli che mi domandano:
« Alla radio, alla televisione,
nei libri, nei gior-
nali, e quasi regolarmente nel parlare comune, ci si dà del te e non del #4, e ci sono perfino insegnanti che dicono io e te, vieni anche
te, e te che cosa
questo genere. Ma insomma: Dubbio in verità presto
ne
pensi?
e altre cose
di
si deve dire io e te o io e tu? ». risolto: bisogna dare del tf, e
dire io e tu o tu e io, vieni anche tu, tu che cosa ne pensi?,
e cosî via. La grammatica insegna che il pronome personale tu è d’obbligo come soggetto, mentre nei complementi bisogna usare fe; perciò «io e tu (soggetti) partiremo », «io (soggetto) partirò con te (complemento di compagnia)». Il bello è che soprattutto in Toscana si fa spreco di questo te stravagante.
(In Toscana,
figuratevi,
accoppiano
addirittura
la
forma giusta e quella scorretta, e dicono, per esempio, « te tu chi sei? » « Te tu che vuoi? ».) Ma
errore
resta.
Si tratta di
uno di quegli errori che i grammatici chiamano solecismi, e sono errori propri di un dialetto, del parlare alla buona, che non possono aver nulla che fare con la lingua corretta. Si capisce che questi solecismi possono anche essere usati da uno scrittore per fini artistici, cioè allo scopo di dare un particolar colore a una frase, a un discorso; ma sempre come solecismi bisogna trattarli, usandoli con molta discrezione e soprattutto con ragione. Il Panzini intitolò un dei suoi romanzi migliori I/ padrone sono me!, ripetendo una frase del 163
protagonista, contadino romagnolo. « Sei te che comandi legalmente... sei te che disponi» leggiamo nel toscano Cico gnani; « Sei te che non ce l’hai. Te credi che la pazienza sia un’erba! » scrive il marchigiano Tombari. E Beppe Fenoglio, piemontese, può anche scrivere « me e te siamo due bei stupidi », sgrammaticando a destra e a manca; ma son certo che questi illustri artisti, una volta saliti su una cattedra scolastica, queste sgrammaticature non le avrebbero ammesse. E all'amico Luciano Satta lasciamogli pur difendere, lui toscanaccio
di Siena, il vacci te che in posizione enfatica « suona meglio di vacci tu»; ma poi vorrei vederlo se lo lascerebbe passare in un tèma di prima liceale. Concludo: quando una regola c’è, bisogna rispettarla; poi va da sé che ciascuno è libero di farne quell’uso che crede: la responsabilità resta tutta sua.
Lui, lei, loro.
Le grammatiche avvertono che i pronomi di terza persona da usar come
soggetto
sono
egli, ella, esso, essa, essi, esse;
per
i complementi bisogna invece usare lui, lei, loro; bisogna cioè dire «egli
studia », « ella è brava », «essi
verranno », « vi-
dero lui che studiava », «lo dirò a lei», «fallo per loro». Però le stesse grammatiche avvertono anche che lui, lei e loro
si possono sostituire come soggetti a egli, ella, esso, ecc. tutte le volte che occorra dare a questo soggetto un particolare rilievo. Insomma avviene in certi casi che alla legge generale della grammatica si sostituisca la legge particolare dello stile. Lui, lei, ecc. sono usabili come soggetti intensivi. Per esémpio, quando si mettono in contrapposizione le azioni di due soggetti diversi: « Lui studia e lei se ne va a spasso »; certo, potremmo dire anche: « Egli studia ed ella se ne va a spasso »; ma l’espressione sembra perdere la sua forza. Si usano ancora lui, lei, loro quando sono preceduti da parole come nemmeno, neppure,
anche, pure, pit, come,
tanto, quanto,
ecc.:
« Nem-
meno lui lo sapeva», « Pure lei è bionda », « Ne sappiamo quanto loro », « Non sembra più lei ». Ma poi, nel parlar comune, anche trasferito in testi letterari, l’uso di questi soggetti è frequentissimo, a cominciar dalle origini: « Lui cadde bocconi, eglino smontati l’uccisono » %
164
scrisse Dino Compagni nella sua Cronica trecentesca; e Dante: «Ma perché lei che dî e notte fila... »; e Lorenzo de’ Medici: «Lei più veloce innanzi a lui si fugge». Esempi troppo antichi? Eccone di moderni e di modernissimi: il Manzoni ne ha a bizzeffe (« Lui sa quel che fa... »; « Ma Renzo, lui non sa... »; «Lui l’ha veduto co’ suoi occhi », ecc.); ma
anche il Panzini: « A questa fanciulla lui, già da tempo, aveva mandato un biglietto »; e il poeta Dino Campana: « Lei calma gli spiega le stranezze del cuore... »; e Saba: « Loro si comperano una casa a tre piani». Direi che, al gusto d’oggi, egli e soprattutto ella suonano addirittura pedanteschi, e sempre più perdono terreno. Ci son però due casi in cui /ui, lei e loro come soggetto son d’obbligo; primo caso, quando il verbo precede il soggetto: «Lo ha -detto lui », « Ora parlerà lei », « L'hanno voluto loro »; secondo caso, nelle esclamazioni « Lei benedetta! », « Beati loro! »
come
« Fortunato
lui »,
Chi per esso.
Sono giuste le frasi, comunissime nel linguaggio burocratico, « il signor Tale o chi per esso », « La firma del padre o di chi per esso »? Non sarebbe meglio dire «o chi per lui »? Anche il pronome personale esso dà parecchio filo da torcere ai comuni scriventi, ché il suo uso è molto oscillante tra regione e regione, tra secolo e secolo e tra scrittore e scrittore.
Le grammatiche sono fin troppo recise e metodiche special mente quando dicono che il pronome singolare esso, femminile essa, si riferiscono
solo ad animali
e cose, mentre
per le
persone bisogna usare egli ed ella, lui e lei; e invece i plurali essi ed esse possono usarsi tanto per le persone, quanto per gli animali e le cose. Distinzione clamorosamente smentita dai fatti, ché fin dalle origini l’italiano ha usato esso ed essa riferiti a persona, tanto come soggetto quanto nei complementi. « Quei fe’ segno — Ch’io stessi cheto ed inchinassi ad esso » (Dante);
« Ma
pur
esso
ed
essa
corsero
insieme,
e
vinse
Ipomenes » (Boccaccio); « Ei non mi vuol mai credere: peggio per esso » (Alfieri); « Era essa l’ultima figlia del princi pe » (Manzoni); «Essa non guardava « Anch’essa parla — di te» (Montale).
nessuno » (Borgese); Chi poi non ricorda 165
il titolo che l’Alfieri usò per la sua biografia? « Vita di Vittorio Alfieri scritta da esso ». Qui bisogna però aggiungere che la lingua d’oggi dimostra sempre meno simpatia per esso, essa eccetera. Sono pronomi che resistono, è vero, nel linguaggio parlato centrale e soprattutto meridionale;
ma è anche vero che le forme lui, lei, loro
vanno sempre più generalizzandosi, dando al periodo maggiore agilità e scorrevolezza. Specialmente nei complementi riescono francamente pesanti: «dillo a esso»; «uscirò con essa »; « insieme ad essi »... Perciò lasciamo ai burocrati il chi per esso e diciamo più speditamente o chi per lui.
Il «lei» allocutivo.
Qual è l’esatta concordanza del pronome personale lei usato come maschile nel discorso diretto? Si deve dire: Lei, signore, è stata in villeggiatura oppure è stato in villeggiatura? Il pronome allocutivo lei, che si accompagna al più sussiegoso ella, col quale ci si rivolge direttamente e con particolar cortesia ad altra persona, vale tanto per il maschile quanto per il femminile. Sappiamo la sua origine, e sappiamo anche che esso entrò nell’uso nei primi del Quattrocento,
e il feno-
meno si generalizzò nel secolo successivo per influsso dello spagnolo. Nelle nostre corti principesche e nelle nostre cancellerie ci si rivolgeva ai personaggi d’importanza con le locuzioni Vostra Signoria, Vostra Eccellenza e simili; locuzioni reverenziali che, divenendo soggetto della proposizione, portavano necessariamente all’uso d’un verbo di terza persoga: « Vostra Signoria desidera... ». Erano locuzioni propriamente femminili, anche se buone per entrambi i sessi, e portavano di necessità a un pronome femminile di terza persona: ella appunto o lei: « Vostra Signoria desidera che la persona che ella ha raccomandato
sia assunta
a corte;
io la assicuro che
lei sarà accontentata ».. Detto in breve tutto questo, appare chiaro che da un punto di vista strettamente grammaticale il verbo dipendente da questo lei dovrebbe accordarsi nel femminile: «Lei, signor colonnello, si sarà accorta... »,‘« Spero che lei, dottore egregio,
si sarà molto divertita... ». Ma ecco che a questo punto il nostro buon senso si ribella all’incoerenza di un tal rapporto DI
grammaticale, tanto lontano dal nostro attuale costume. Lo stesso Manzoni mostrò di oscillare fra il costrutto rigidamente grammaticale e quello logico: « Eh via, sappiam bene che lei non è venuta al mondo col cappuccio in capo », dice don Rodrigo al padre Cristoforo nel capitolo quinto dei Prozzessi Sposi; ma ecco che nel capitolo 38° don Abbondio cosî dice al signor marchese: « Giacché vossignoria illustrissima è tanto inclinato a far del bene». La lingua d’oggi, che ha perduto il ricordo di quei sottintesi soggetti femminili signoria, magnificenza, eccellenza, ecc., prescrive ormai l’accordo al maschile quando ci si rivolge a un uomo; ho sottomano tre esempi, ma se ne potrebbero trovare a centinaia: « Lei è molto orgo-
glioso » (Fogazzaro); « Lei non è penetrato della gravità della situazione » (Fucini); « Lei è troppo buono, troppo sensibile» (Panzini).
Questo
sto un’eccezione: lei è un uomo.
esempio
del Piovene
consideriamolo
piutto-
« Neppure lei si è comportata bene »: quel
Diverso è il caso della forma pronominale nelle frasi « Signor colonnello, arrivederla »;
atona /4, come « Domani, dot-
tore, la verrò a prendere alla stazione ». Usare /o sarebbe qui una sconcordanza che però incontriamo nel linguaggio popolare: « E non
vogliam
Tedeschi,
arrivedello », come
dice il Giusti.
Ci son tuttavia anche oggi dei casi in cui quelle solenni cerimoniose frasi, dirette a soggetti maschili, vengono espresse in tutte lettere; la concordanza femminile, nei verbi, negli aggettivi, nei pronomi sarà allora obbligatoria: « Vostra Eccellenza sempre cosf magnanima e comprensiva... », «Sua Santità si è degnata di rivolgere... », eccetera eccetera.
Da Ella.
Mi ha scritto un industriale lombardo: «È stata sottoposta alla mia firma una lettera contenente questa frase: “In relazione alle mansioni da Ella svolte...”. Ho corretto “da Ella” in “da Lei” perché, secondo quanto ho imparato a scuola,
è questa
la forma
del pronome
da usare
nei complementi.
Tuttavia una professoressa d’italiano, da me successivamente interpellata, mi ha detto che la forma “da Ella” è certamente arcaica ma non errata. Lei che cosa può dirmi? ». Posso dire che la professoressa probabilmente aveva nell’o-
recchio qualche verso dantesco, come «E cînsela e girossi intorno ad ella », oppure « Io non m'’accorsi di salire in ella »; o anche questo verso petrarchesco: « Girmen con ella in sul carro d’Elfa ». Gli esempi potrebbero continuare, perché effettivamente il pronome ella (oggi unico residuo di una serie completa ello, ella, elli, elle, di cui sono però ben vive le forme senza capo lo, la, li, le: «lo vidi» = «ello vidi»), il pronome ella, dicevo, e tutti gli altri si usavano sia come soggetto sia come complemento. Ancora Dante: « Ello passò
per l’isola di Lenno », e « Noi eravam partiti già da ello ». Tuttavia, accanto a queste forme, per i casi obliqui presto apparvero anche le forme lui, lei, loro, si che nello stesso Dante leggiamo « Grazie riporterò di te a lei» e « Donnescamente disse: Vien con lui », solo per citare due esempi. Allo stato
attuale
della
lingua,
però, le cose
si sono
ben
stabilizzate; ed ella si usa solo per il soggetto, mentre /ei si usa per il soggetto e per i complementi. Se non si rispetta questa legge si fa errore. Mantengono il loro antico costrutto (lo abbiamo visto poco fa) solo i pronomi esso, essa, essi, esse, usabili tanto come soggetto quanto nei complementi, sî che sono corrette, anche se considerate pedantesche, frasi come « Firmerà il direttore o chi per esso», « Parti con essa », « Di esse non mi curo », « A essi non perdéno ». Detto questo, c'è da precisare che nel caso citato dal mio industriale il pronome E/la è di quelli detti « allocutivi » 0 « di cortesia », che si usano cioè come forma di rispetto nella conversazione diretta; e per distinguerli si usa spesso scriverli con la maiuscola. Ma anche precisato questo, la cosa non cambia, e l’uso,
che oggi differenzia nettamente le due forme, deve essere severamente rispettato. Guardiamo, per esempio, questa frase tolta da una lettera di Giosuè Carducci (che usava spesso il deferentissimo E//a) a un sottosegretario alla Pubblica Istruzione: « Ella conoscerà di certo il professor Alfredo Panzini, il quale, valentissimo insegnante, potrebbe essere, ove a Lei paresse, chiamato alla supplenza... » E questa dello stesso Panzini al Carducci: « Ella torna dalla gloria di S. Marino, io, Alfredo Panzini, a importunarLa... Per la venerazione e per l’amore che ho per Lei, mi aiuti questa volta... ». Non a Ella, dunque, non per Ella. Sono regole, che diamine, elementari. Voglio aggiungere, per soddisfare la curiosità di qualche 168
lettore, che l’allocutivo E//4, come ho già accennato più sopra, apparve nel linguaggio cortigianesco nei primi del Quattrocento, e si usò solo come soggetto: per l’oggetto e per ogni altro complemento si usò sempre il Lei; dal secolo seguente in poi si affermò il Lei anche come soggetto. Ho detto linguaggio cortigianesco. Ella e Lei infatti si riferiscono alle allocuzioni, Vostra Signoria, Signoria Vostra, Vostra Grazia, Vostra Magnificenza e simili, con cui si cominciò a rivolgersi dapprima a personaggi d’alto affare, e poi più genericamente a gente di medio o anche basso e perfino mal affare, quando l’influenza spagnola generalizzò l’uso di dar del Signore e della Signoria a tutti quanti. Un uso che fece torcere il naso a non pochi avveduti letterati del tempo, anche per la confusione grammaticale che poteva creare (e la crea sovente anche oggi). Il Caro, poi, non esitò a considerare
« cosa
stranissima
e stomacosa
questo
modo
di
parlare con uno come se fosse un altro ». E sempre a proposito di E/la ricorderò
che Ferdinando
Martini,
in una
lettera
al Fanfani, dopo un Lei allocutivo aggiunse tra parentesi: « dovrei dire Ella? non mi ci va». Dico questo anche per avvertire i miei lettori che faranno bene d’ora in poi a mettere in soffitta questo Ella, e ad attenersi al meno impennacchiato Lei.
Un
biasimato
«lo ».
In una vecchia ma non dimenticata opera del Morselli, Glauco,
il protagonista dice rivolto a Scilla: « Tu sei saggia e io non sono ». Altri avrebbe
detto «e
io non lo sono ». Quale delle
due forme è preferibile? L’uso di questo /o invariabile in unione di una forma del verbo essere — «e io non lo sono» — fu sempre avversato dai puristi più intransigenti, e ancor oggi, sebben meno acremente, le grammatiche gli storcono la bocca. Non perché sia errato, ma perché spesso appare pleonastico e inelegante: « Siamo poveri, ma presto non lo sarezzo più »; « È impiegato da voi? » « Lo era, ma si è dimesso ». Esaminiamo questi due esempi, e vediamo subito che questo /o, sia pur pesante e impaccioso, non è evitabile, salvo che non si voglia dare un diverso giro al discorso. Primo esempio: « Siamo poveri, ma presto non lo saremo pit »: potremo mutare in questo modo: 169
« Siamo poveri, ma presto non saremo più tali » o anche « ma presto non saremo più poveri », oppure «ma presto diventeremo ricchi », che altererebbe però il valore originario della frase. Secondo esempio: «È impiegato da voi? » «Lo era, ma si è dimesso »: per evitare il /o bisogna ripetere: « Era impiegato, ma si è dimesso ». Come s’è detto, in queste due frasi il /o non è proprio un intruso, anche se per qualcuno non ha una faccia simpatica. Dove invece appare intruso davvero, e da mettere alla porta, è in questi altri esempi: «Lei è bella, e sua sorella lo è altrettanto »:
diciamo:
« Lei è bella, e sua
sorella
altrettan-
to» e avremo detto meglio la stessa cosa. « Dice di essere ricco ma won lo è »: diremo meglio: « Dice di essere ricco e non è», oppure, con più forza, «e ricco non è ». « Molti furono invitati ma
io now
lo fui»:
diciamo:
«ma
non
io»,
e più incisivamente « ma io no ». « Era paziente con tutti, ma
non lo era con i maleducati »: mutiamo cosî: « ma non altrettanto con i maleducati », o anche « meno che con i maleducati ». Ma ora che lo abbiamo
esaminato,
discusso, assolto o con-
dannato, domandiamoci: che cos'è esattamente questo lo? Mi par chiaro: è una particella pronominale invariabile di valore neutro che si unisce come predicato nominale a una forma del verbo essere col significato generico di « questa cosa », « questo », « ciò », « tale» e simili: « Diceva di essere e non lo era », vale a dire «e tale non era».
ricco
È, si badi, di nascita antica, e gli esempi che si potrebbero. allineare, a cominciar
dal Due-Trecento,
son centinaia. Vedia-
mone alcuni. Il Boccaccio nella Vita di Dante: «Solo in una cosa fu impaziente o animoso, cioè in opera appartenente a parti; poiché in esilio lo fu troppo pit che alla sua sufficieiza non si apparteneva ». Un esempio del Caro: « Ciascheduno è tanto misero quanto s’immagina d’esserlo ». Del Filicaia: « Ah non mai nato io fossi, o fossi stato — Cieco negli occhi, come il (= lo) fui nel core». Dei numerosissimi di Daniello Bar-
toli mi pare che basti questo: « Allegrissimo quanto mai non l’era stato in sua vita ». Veniamo al Redi: « Galeno era veridico, e tutti gli altri menzogneri, siccome ancora lo sono tutti coloro, ecc. »; e al Magalotti: « Capace di formare uno stile, e
in quello di riuscir maraviglioso al pari di quello che lo sono stati quegli altri ne’ loro ». E infine il Monti: «Se furono 170
N
miseri di pensiero, nol furono.al certo di stile ». E non sto a tediarvi con i contemporanei, che sono valanga. Diceva
il Fanfani:
«So che non
vuol chiamarsi
(questo lo)
errore dai filologi di maniche larghe, e so che a difenderlo si sono recati dal Gherardini sino a 44 esempi, a’ quali io stesso potrei aggiungerne altri cinque o sei. Ma ciò che rileva? Di ciascuna voce e modo più spropositato si può portare esempio di scrittore citato...; ma sopra l’autorità di gente che niuno crede infallibile ci sta l’uso costante dei migliori, e ci sta il senso di chi dee scegliere tra il buono e il reo». Parole fin troppo forti, alla maniera dell'ottimo Fanfani. Ma anche qui, come in tante altre dibattute questioni di forma e di stile, si tratta piuttosto d’orecchio e di misura.
Gli e loro.
« Oggi si leggono a destra e a manca frasi di questo tipo: Ci hanno scritto se potevano venire, e noi gli abbiamo risposto di st. Un periodo come questo, con quel gli al posto di /oro, ci avrebbe procurato a scuola un segnaccio blu »: cosî si sfoga con me un vecchio amico. È vero, una volta un gli per /oro (complemento di termine) era un erroraccio che procurava un brutto voto. Tante cose una volta erano considerate errori che ora non sono più, anche fuor della scuola. Le stesse grammatiche, che son fatte del resto da uomini e perciò mutevoli di gusto e perfino di capricci, oggi non torcono più il naso a questo gli, come invece in passato concordemente
facevano.
La verità è, tuttavia, che
gli usato come complemento di termine plurale, anche se biasimato dai puristi fin dal Cinquecento, non è stato mai errore: è antico quanto è antica la nostra lingua, più antico della forma lor». Di solito si risale con gli esempi al Boccaccio, ma certo altri esempi anteriori numerosi troveremo nel nuovo vocabolario
della Crusca,
quando
Iddio ce lo manderà.
Si co-
minci dunque con l’usare gli al plurale, e solo in séguito si passò al /oro, sovvertendo anche il costrutto comune a tutti gli altri pronomi in funzione di complemento, i quali precedon: il verbo («io gli dico »), mentre. loro, salvo in poesia e raramente nella prosa letteraria, si colloca sempre dopo il ver-
bo («i
dico loro»). Ecco uno dei tanti esempi che potrem171
mo
togliere dal Boccaccio:
voli
ragionamenti
entrata
« Ma
poi che con
fu... essa
loro in piace-
piacevolmente
donde
fos-
sero e dove andassero gli domandò » (Dec., nov. 9, g. 10). Questo è del Della Casa (sec. XVI): «L’esser amati gli è sommamente caro »; e questo è del Galilei (sec. XVII): « Alli padri Gesuiti... gli potrà dar la copia della lettera ». Nella stessa Vita di Cristo dell’abate Cesari (1760-1828), capo riconosciuto dei puristi del suo tempo, leggiamo: « Provvedutamente usando le cose del mondo a quel fine che gli furono concedute, conducono ordinatamente la temporal vita e nel l'eterna saranno felici ». Se poi veniamo all’età nostra c’è da riempire pagine intere di esempi. Numerosi nel Manzoni; due me ne vengon sott'occhio nel capitolo undecimo: « Chi si cura di costoro a Milano? Chi gli darebbe retta? »; « E andavano, non solo curvi, per il peso, ma sopra doglia, come se gli fossero state peste l’ossa »; e questo è nel capitolo sesto: « La legge l’hanno fatta loro, come gli è piaciuto ». Il Manzoni, come dimostra il secondo esempio che ho qui riportato, non esitò a preferire la forma più spedita anche fuor del discorso alla buona affidata alla gente minuta: si dice infatti, di solito, che questa forma è tollerabile solo nella cosiddetta prosa familiare, cioè non letteraria. Bisogna invece dire con Francesco D’Ovidio, grande linguista e scrittore di finissimo gusto, che questo gli «si rende poco men che necessario dovunque loro o lor ci riesce più pesante del solito ». È dunque soltanto una questione di gusto, di stile, ed è l’orecchio che deve consigliarci l’uso dell'una o dell’altra forma. Se certi grammatici tenessero conto della priorità storica della forma gli su loro, e badassero al fatto che questo gli vale anche «a loro » sia pure nelle forme articolate glie lo, glie la, ecc., ‘non continuerebbero forse tanto a discutere e a cincischiare. Pfuttosto mi sembra che dagli esempi che solitamente si danno si potrebbe pensare che l’uso debba limitarsi solo al genere maschile plurale. Ma qui pure direi che non ci sia da restar dubbiosi: gli plurale, discendendo dall’i//is latino ch’era maschile e femminile insieme, è da ‘accettare anche al femminile (ma il Carducci, e non solo lui, per lo stesso motivo,
teneva come buono anche gli per /e singolare: «Oso pregare la signora Sansoni a fare ciò che gli sia meglio possibile », Lett., XIX, 33).
E ora, prima di finire, voglio dare qualche esempio di scrit172
tori contemporanei tutti di severa coscienza linguistica, spilluzzicando nei miei spogli fréttolosi. « Volli prendere le parole di questo poeta: esse di balzo volarono via... Passerotti e rosignoli gli volarono dietro » (Panzini, I! bacio di Lesbia),; « Ti mando queste bozze, perché tu gli dia un’occhiata » (Val-
gimigli, lettera a Pancrazi); « Bisogna perdonargli, diventeranno buoni sempre anche loro » (Bontempelli, L'amante fedele);
« Il bello è quando
ancora
non
sanno
discorrere:
inse-
gnargli a dire le prime parole » (Cicognani, Villa Beatrice); «I Grandi Spiriti... riescono ad aver qualche notizia del culto e delle cure che quaggii gli spendiamo » (Baldini, I/ sor Pietro, ecc.);
« Si ha il sospetto
a caso, dal (Monelli, I! guardano il L’incontro);
che osti e trattori comperino
primo commesso viaggiatore che gli si vero bevitore); « Quando gli piace una prezzo: la prendono e la portano via » « Non hanno nessuno quei due, che
i vini
presenta » cosa non (Tombari, gli scopi
la stanza? » (Pavese, La bella estate); « Anche a Silvana e a tutte le altre, gli hai detto che erano il tuo boccino? » (Pratolini, Le ragazze di San Frediano). Credo che possa bastare. E ora provate a sostituire questi
gli con altrettanti loro, e sentirete che gusto.
«Suo » e « proprio ».
Non è sempre facile decidere quando, in un discorso, si debba usare il possessivo suo o il possessivo proprio. Si deve cioè dire: Gina tiene molto alla sua salute oppure Gina tiene molto alla propria salute? Quando
nella frase non esiste nessuna
possibilità di dubbio,
si può usare ugualmente bene tanto l’uno quanto l’altro possessivo, tenendo presente che proprio ha un valore più incisivo, più scolpito di appartenenza. Diremo quindi bene, nell'esempio sopra citato, sia nell’una sia nell’altra maniera. Si badi poi che in certi casi i due termini suo e proprio, per ottenere una precisione anche maggiore, si possono riunire insieme, formando una rafforzativa reciproca: «Gina tiene molto alla sua propria salute »; «Ciascuno chiude in sé i suoi propri segreti ». Ci sono però dei casi in cui possono sorgere nel contesto dubbiezze e confusioni. Per esempio: « Gina scrisse a Maria 173
che era molto preoccupata della sua salute ». La salute di chi, di Gina o di Maria? In questi casi si segua la regola seguente: si usi il possessivo proprio quando il possesso si riferisce al soggetto della proposizione, si usi invece suo quando il possesso si riferisce a persona diversa dal soggetto. Pertanto, nell'esempio ora detto, se intendiamo parlare della salute del soggetto (Gina), diremo: « Gina scrisse a Maria che era molto preoccupata della propria salute »; se invece intendiamo parlare della salute di Maria, diremo: «Gina scrisse a Maria
che era molto preoccupata della sua salute ». In passato, per evitare l’equivoco, si ricorreva anche alle espressioni di lui, di lei, ecc.: «Gina scrisse a Maria che era molto preoccupata della di lei salute ». Ma si tratta di espressioni pedantesche, che recisamente si sconsigliano a chi vuole scrivere bene.
«Questi » e « quegli ». Si va sempre più diffondendo l’uso dei pronomi singolari maschili questi e quegli non già in posizione di soggetto, come tassativamente prescrive la grammatica, ma nei complementi. Si tratta di un grossolano errore, e come tanti grossolani errori sempre più si diffonde con l’aiuto di certa stampa e di certe
trasmissioni
radiotelevisive.
(Son queste
le cose che mi
sconcertano, queste storture e brutture linguistiche dovute esclusivamente all’ignoranza, peggio, all’ignoranza verniciata di cultura; perché, dàgli oggi, dàgli domani, finiscono col diventar regola.) Per chi più non lo ricordasse, ripeterò che questi e quegli rappresentano un doppione, piuttosto dell’uso letterario, dei pronomi dimostrativi maschili singolari questo e quello; ma mentre questo e quello possono usarsi tanto come soggetto (« questo non mi piace », « quello è matto »), quanto nei complementi (« non voglio questo ma quello », « dillo a questo e non a quello »), i pronomi singolari maschili questi e quegli si usano solo come soggetti e riferiti a persona, o anche ad animale personificato, come spesso avviene nelle favole. Cioè, io posso dire, per es.: « Remo e Pietro sono due bravi ragazzi, ma questi (Pietro) studia davvero, mentre quegli (Remo) è piuttosto svagato »; però sbaglierei se dicessi: «... ma
a questi piace lo studio, mentre a quegli non piace ». E sba174
glierei appunto perché avrei usato i due pronomi in funzione di complemento di termine. Ricordiamo anche l’esempio notissimo di Dante, che parla dell’apparizione del leone: « Questi parea che contra me venesse »: dove questi è usato appunto come soggetto.
Cui, a cui.
Cui è un pronome libero, che non ama briglie e pastoie, ribelle a ogni regola e remora di sorta; invariabile nella forma, vuol essere singolare e plurale, maschile e femminile al tempo stesso. È propriamente il latino cui, dativo del pronome relativo qui, «il quale », e vale quindi « al quale »; ma nell’italiano il suo uso è stato presto esteso anche agli altri casi, con 0 senza il soccorso di una preposizione, come sostitutivo del pronome che: « La persona di cui ti parlo », « L’amico 4 cui diedi il libro», «Il luogo în cui siamo », «La provengo », e cosî via.
città da cui
Fin qui tutto in regola con le norme comuni della grammatica. Ma dicevo che è un pronome intollerante di ogni briglia. E infatti subito vediamo che in funzione di complemento di termine ama a volte scrollarsi di dosso la preposizione 4, mantenendo anche cosî da solo lo stesso significato: « L’amico 4 cui diedi il libro », ma anche «L'amico cui diedi il libro ». Bisogna tuttavia aggiungere che questo secondo costrutto privo di preposizione è d’uso piuttosto letterario. Qui il pronome cui conserva infatti il valore originario di complemento di termine che aveva in latino; e fu solo per analogia con gli altri complementi ch’esso venne poi associato alla preposizione 4, propria di questo complemento di termine. Le due forme si alternarono presto nell’uso, tanto che le ritroviamo in uno stesso autore: « A guisa d’un soave e chiaro lume — Cui nutrimento a poco a poco manca », sono due famosi versi del Petrarca; ma un altro verso non meno famoso dello stesso poeta dice: « Gente, a cui si fa notte innanzi sera ». E queste due forme si sono mantenute nei secoli, fino ai giorni nostri; e aggiungerò che la forma priva di preposizione appare sempre più di frequente negli scrittori contemporanei: « Luna cui sotto
il mento
s’incurva
—
una
collana » (D’Annunzio); 175
« Pronunciava nomi cui i due compagni non s’interessavano » (Bontempelli); « Quei futuri cui oggi si legano ed accomandano le letterarie speranze » ( Cecchi); «Non disagi e le privazioni cui andava incontro »
l’atterrivano i (Moravia). La
scelta dei due costrutti è dunque legata semplicemente al gusto dello scrittore. Altra scrollata di briglie nel complemento di specificazione. Il costrutto normale sarebbe il di cui, la di cui, i di cui, le di cui; ed esempi di questo costrutto in verità non mancano; questo è del Redi, autore, come sappiamo, di Crusca: « Come si può vedere nel pesce rondine, nella di cui bocca due ordini di denti si trovano »; e questo del Baretti, prosatore vigilato come pochi: «Quei tanti mondi o globi... le di cui ampiezze e distanze possiamo anzi calcolare e misurare ». Ma fu sem-
pre fin sto na
sentito come costrutto troppo contorto e pesante, dall’antico la preposizione di fu messa da parte, ed il costrutto corretto che ora s’usa e si raccomanda: scese dal ciel, per li cui prieghi...» (Dante); «Io verso quali reami — d’amor ci chiami il fiume, le cui eterne a l’ombra de gli antichi rami — parlano nel sacro
sf che è que« Donti dirò fonti — mister
dei monti » (D'Annunzio).
Ma non basta. Sia pure nella sola poesia o nella prosa più eletta, cui si arroga anche la parte del complemento oggetto, in sostituzione del pronome regolare che: « Il ciel cui tanti lumi fanno bello » (Dante); « Il severo militar costume, — cui da troppi anni io servo » (Alfieri); « Oh solitaria casa d’Aiaccio, — cui
verdi e grandi le querce ombreggiano » (Carducci); « Romagna solatia, dolce paese, — cui regnarono Guidi e Malatesta, cui tenne pure il Passator cortese, — re della strada, re della foresta » (Pascoli). Altre intemperanze, altre eccezioni alla normale grammatica potrei ricordare a proposito di questo stravagante prono-
me; ma nella pratica poco interesserebbero i miei lettori. Non voglio invece trascurare una bruttura stilistica dove molti cadono nell’uso di questo pronome, con l’assoluta avvertenza di ben guardarsene. Non si usi mai il cui nel significato neutro di « ciò », « questo », « la qual cosa » e simili, in frasi come:
« Studiò poco, per cui s'ebbe una bocciatura », oppure « Arrivò tardi, di cui molto si dispiacque ». Diciamo « Studiò poco, e per questo s'ebbe una boccia:ura », « Arrivò tardi, e molto se ne dispiacque ». : 176
Lo strano « che ».
Càpita spesso di leggere frasi come queste: La domenica che ti incontrai, Il giorno che siamo andati, ecc. E allora vien fatto di domandarsi: «Ma questi due strani che, sono o non sono errati? » Non sono errati. L’uso del pronome relativo che, prece duto o no da una preposizione, col significato di del quale, nel quale, ecc., è antichissimo, è gli esempi si affollano. Con la preposizione di ecco un esempio del Petrarca: « Gli occhi di ch'io parlai sî caldamente »: cioè, gli occhi di cui io parlai ecc.; con la preposizione 4, questo di Dante: «Quel gran seggio a che (4 cui) tu gli occhi tieni ». Ma questo costrutto è ormai raro, e solo del linguaggio poetico. Ben vivo è invece l’uso di che senza nessuna preposizione, assumendo
di volta in volta valore temporale,
ecc. Esempi, quanti se ne vogliono:
locale, modale,
« Con quel furore e con
quella tempesta - Ch’escono (con cui escono) i cani » (Dante); «Ed io son un di quei che (a cui) il pianger giova» (Pe-
trarca); « Ci custodisca Iddio per ogni via che (per la quale) andiamo » (Tommaseo); « Una soffitta che ci (dove) si saliva per la scala grande » (Pavese).
Ma soprattutto l’uso di questo che ellittico è frequente col valore temporale di «in cui», «nel quale», «quando »: « Era già l’ota che volge il disfo — Ai naviganti e intenerisce il core — Lo dî ch’han detto a’ dolci amici addio » (Dante);
« Era il giorno che al sol si scoloraro, — Per la pietà del suo Fattore, i rai» (Petrarca); « Dal giorno che mandato fu da lei » (Ariosto); « Vi sono de’ giorni ch'io non posso fidarmi di me » (Foscolo); « Tempo forse verrà ch’alle ruine — Delle
italiche moli — Insultino gli armenti (Leopardi); « Quei giorni di novembre, che fa bello, — che si colma la botte del buon vino » (Pascoli); « Doveva datare dal giorno che non c'erano gli orologi» (Panzini); «In queste nottate che la luna si
leva tardi » (Papini); « Una domenica di sole che la gente va a messa » (Pavese). È un modo di costruire il periodo con andamento più spedito e disinvolto (si potrebbe anche dire, s'intende, « In queste nottate nelle quali ecc. »; « Una domenica di sole in cui ecc. »), e vi ricorrono gli scrittori quando non si debba dare al contesto una cadenza letteraria, solenne; e vi si ricorre anche di sovente nel comune linguaggio di tutti 177
i giorni, per la stessa efficace speditezza: « La chiave che ci si apre la cantina », «La pentola che ci si cuoce il brodo », per non ricordare il proverbio popolarissimo « Paese che vai usanze che trovi ». Avverte il Devoto che « delle tre forme “l’anno nel quale son nato”, “l’anno in cui son nato”, “l’anno che son nato” l’ultima va diventando comune ».
Affatto.
Ecco una specie di quiz ai miei lettori: se io chiedo a un amico: « Ti piace questo quadro? » e lui mi risponde « Affatto », come devo intendere: che non gli piace per niente, o, viceversa, che gli piace moltissimo? Capisco la perplessità di qualche mio lettore; perché frasi come questa, e col significato negativo dell’avverbio affatto, sono ormai comunissime, e già cominciano ad apparir perfino nei libri. Ma questo non toglie che tale uso debba considerarsi scorretto. L’avverbio affatto è nato con un suo significato preciso, e vale « interamente », « compiutamente », « in tutto e per tutto », « del tutto »; e perciò, se
alla mia domanda « Ti piace questo quadro? » l’amico mi rispondesse « Affatto », sarebbe come se rispondesse che gli piace interamente, compiutamente, e cioè moltissimo. Insomma, il sem-
plice affatto ha solo valore affermativo e non negativo; perché possa assumere un significato negativo bisogna farlo sempre precedere da una espressione negativa: niente affatto, nulla affatio, ecc., come ora vedremo. Rifacciamoci a qualche esempio classico, cominciando dal Trecento, dove affatto, assolutamente usato, ha appunto il significato di «del tutto », « interamente ». Giovanni Villani: « Dal loro capitano furono ritenuti, acciocché non compiessono la loro infortuna d’essere affatto sconfitti ». Il Tasso: « Giacque un’ora e piue — Stordito affatto e di sé stesso fuori ». Il Manzoni: « Scalzi una gran parte, ben pochi interamente vestiti, chi affatto in camicia ». Il Giusti: « L’immaginazione mi s’è inaridita quasi affatto ». E termino con qualche moderno e contemporaneo: « È necessario che ogni corrispondenza sia almeno per ora affatto sospesa fra noi » (Carducci); « Né il malizioso è affatto inesperto del bene, né l’innocente può essere affatto 181
privo di malizia » (Croce); infine, un esempio di Emilio Cecchi: « Noi partivamo da punti di vista affatto diversi ». Si usa anche rafforzar questo avverbio ripetendolo due volte, o anche facendolo superlativo: affattissizzo: « Si può dir che sia pazzo affatto affatto » (Berni). Certi poi dicono anche tutt’affatto, ma male perché è l’inutile ripetizione del tout è fait francese. E ora, qualche esempio dove affatto serve soltanto forma rafforzativa di una negazione, acquistando, più o lo stesso valore che ha la locuzione « niente del tutto »:
dicono
come meno, « Non però debbe aver la colpa affatto » (Ariosto); « Non è mai affatto inutile il conoscere l’origine degli errori » (Manzoni); « Voi dite
che il bagarino non poteva firmare se no il responsabile diventava lui. Ma niente affatto! » (Panzini); « Un concetto... è indistinto, cioè nient’affatto pensato » (Croce); « Non glie ne importava proprio nulla di conoscerla, nulla affatto » (Palazzeschi).
Attenti, dunque, a non sbagliare.
Costi, costà.
« Mettiti costî », « Venite via di costà »: due frasi come queste si sentono comunemente solo in Toscana, o si leggono in
qualche libro di scrittore toscaneggiante. Si tratta infatti di avverbi di luogo stretti parenti dell’aggettivo-pronome codesto, di cui s'è parlato a suo luogo. Rileggiamo insieme in breve la regola grammaticale che li riguarda:
qui, qua,
costi, costà, li, là, colà sono
avverbi
di
luogo con significati corrispondenti ai significati visti per questo, codesto e quello. Precisamente: qui e qua servono a indicare un luogo vicino a chi parla o scrive e valgono « in questo luogo »: «io mi fermo gui», «Io, qua, non ci resto»; cost? e costà servono a indicare un luogo dov’è la persona a cui si parla o si scrive, e valgono «in codesto luogo »: « Come ti trovi seduto cost? », « Che tempo avete costà? »; li e là, con la variante colà oggi pochissimo usata, indicano un luogo lontano tanto dalla persona che parla o scrive quanto dalla persona a cui si parla o si scrive, e vale « in quel luogo »: « Mettilo li sul tavolino », « Guarda /è su quel monte ». Ora accade però che mentre qui e qua e li e là sono sempre usati a dovere tanto in Toscana quanto fuor di Toscana, il cost? o il costà si usa solo in Toscana; fuor di Toscana, quando si usa, 182
N
bene spesso si usa a sproposito; come fece quel tale che sedendosi su un prato erboso per uno spuntino disse ai compagni che gli erano intorno: « costà ci staremo benone ». Al posto di costi o costà l’uso sempre più generalizzato ricorre agli avverbi li e là, e dice, per esempio: naso? », invece di « Lèvati di Ma si capisce che è un uso e bene farebbero certi bravi questa regola, salvo in quei
« Lèvati di là », « Che hai lf sul costà », « Che hai costî sul naso? ». tollerabile solo nel parlar comune, e anche ottimi scrittori a rispettar casi, s'intende, in cui particolari esigenze d’arte consigliassero di non rispettarla. Una particolare funzione di questi avverbi è poi quella di rafforzare gli aggettivi o pronomi questo, codesto e quello, formando le coppie questo qui, codesto costi e quello li o là,
in frasi come: « Questo qui è più bello di quello là », « Codesto costi non mi garba ». E ho voluto ripetere questa ovvia regoletta per uno scopo preciso: per ricordare ai Lombardi che sbagliano gravemente quando dicono, per esempio (e lo dicono spesso), « Quello qui non mi piace », « Quella qui mi sembra un po’ matta ». E prima di finire facciamoci una domanda: tra queste coppie in -i e in -4, cioè tra qui e qua, tra costi e costà, tra li e là c'è una differenza di significato e quindi di uso? A voler esser sottili una differenza c’è, anche se a volte minima e sovente anche opinabile, ed è questa: qui, costi, lî rispetto a qua, costà,’ lè indicano un luogo più ristretto e più determinato; perciò meglio si dice « Siediti qui vicino a me», « Ci troviamo qui attorno a un tavolo », mentre più vagamente si dice « Andavamo di qua e di là », « Abita di qua dal fiume »; analogamente diremo « Resta fermo costî » ma diremo « Costà a Roma come vi trovate? »; ancora: « Mettilo lf su quella sedia » ma « Portatelo di là ». Non sempre questa distinzione è sentita e quindi osservata; in certi casi però è lo stesso istinto che ci guida a dire correttamente: « Là a Roma come stavate? » e non «lf a Roma »; « Andavamo di qua e di là » e non «di qui e di lî ».
Punto, punti...
Si usa spesso in Toscana la parola punto in frasi come « Non ne ho punta voglia » per dire « Non ne ho nessuna voglia ». È un uso corretto 0 da lasciare solo al dialetto? 183
È un uso correttissimo, proprio dei Toscani, è vero, ma. anche dello stile letterario. Come è nato? Bisogna risalire al nome punto, forma sostantivata del participio passato di pungere, che è propriamente il segno che si lascia su una superficie pungendo. Di qui discendono i vari significati figurati di « cosa piccolissima, o scarsissima », di « spazio limitatissimo », di cosa insomma minuta nel tempo e nello spazio: «In quel punto si udî un grido », cioè in quell’attimo ristretto di tempo; « Fui a un punto dall’essere investito », cioè fu questione di pochi centimetri perché non venissi travolto. Dal sostantivo nacque l’avverbio, con un primo significato di « poco », « in quantità minima » e simili: « Non fur mai tante né tali (le preghiere) — Che per merito lor punto si pieghi — Fuor del suo corso la giustizia eterna » (Petrarca); « Come un fiore appena sbocciato,... pronto a concedere le sue fragranze alla prim’aria che gli aliti punto d’intorno » (Manzoni). A volte, per maggior forza, perfino si raddoppia: ancora il Manzoni: « Voleva esser servito (il popolo), e, punto punto che qualche fornaio indugiasse, pressava e brontolava ». Ma, sempre come avverbio, è più frequentemente usato nel significato di « niente affatto », per rafforzare una frase negativa: «L'ombra che s’era al Giudice raccolta — Quando chiamò, per tutto quello assalto — Punto non fu da me guardare sciolta » (Dante); « Ella né allora né poi il conobbe punto » (Boccaccio); « A la turba volgare che si prostra — Non badar punto » (Parini); « Aveva cercato di trattenerla con chiacchiere, com’ella diceva, non punto belle » (Manzoni).
Ma i Toscani, non paghi, lo han fatto perfino aggettivo, e dicono, per esempio, « Non ho punta fame », « Non ho punti quattrini », « Parla schietto, senza punte moine ». Anche l’uso letterario lo ha fatto suo, ma fuor di Toscana è raro che s'incontri: « Mi vide entrare nella sala dell'adunanza senza punte carte in mano » (Fucini). Spesso, in frasi ellittiche, come risposta negativa: « Quattrini ne hai? » « Punti »;j « Buone notizie? » « Punte ». E per finire, ecco un uso sostantivato della parola punto: «I grandi poeti, pochi o punti li conoscono » (Emilio
Cecchi): cioè « nessuno li conosce ».
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Cifre o lettere? Dovendo scrivere in un contesto dei numeri, ci si trova a volte impacciati: si devono usare le cifre arabiche oppure bisogna scriverli in tutte lettere?
Si capisce che da questo problemino bisogna senz’altro escludere un contesto di argomento matematico o tecnico, dove i numeri, quando vengono citati, debbono essere di regola rappresentati per mezzo di cifre arabiche. La faccenda riguarda unicamente la prosa narrativa; e qui una buona regola è questa: i mumeri vanno scritti in tutte lettere. « Pensino ora i miei venticinque lettori... »; « Eran vent’otto mila fanti, e sette mila cavalli... »; « ... aspettate d’esser quindici o venti, da con-
durmi via insieme... »; « Le stanzine eran dugent’ottantotto »: son tutti esempi del Manzoni. Nelle date, invece, si preferisce usare i numeri arabi, e lo stesso Manzoni seguîf questa regola: « Quella grida per le bullette, risoluta il 30 ottobre, non
fu
stesa che il 23 del mese seguente ». Ma il Leopardi: « Ricevo la tua dei nove » (si noti, di passaggio, il plurale, che una volta si usava per i numeri dal due in avanti). Se nelle date si cita il millesimo, si useranno di regola le cifre arabiche: «Il 7 dicembre 1968... ». Cosî pure, nelle indicazioni del numero delle strade: « Abitava in Via Giusti 32 ». Fatte dunque queste eccezioni, mi sembra che la conclusione possa esser questa: in un contesto letterario sarà da seguire la regola dei numeri in tutte lettere, salvo in quei casi in cui il numero debba avere un particolare risalto aritmetico. 187
Date.
Come si devono scrivere certe date nel corso di un testo? È giusto scrivere, per esempio, « il mattino dell’11 novembre 1968 » oppure si deve scrivere « del 11 novembre 1968 »? Può certo diventare un piccolo problema anche questo dell’apostrofo davanti ai numeri comincianti in vocale. Bisogna convenire che la forma dell’11, cosî come, per es., l’8 di gennaio, l'XI
Bersaglieri, dall’1 all’800, possono a tutta prima sorprendere l'occhio (è la stessa cosa che avviene col famoso l’whisky, che alcuni preferiscono scrivere il whisky). Ma quel che conta non è, in un contesto, il puro segno grafico, ma il modo come si pronunzia. Perciò, dovendo usare certi numeri arabi o romani che nella pronunzia hanno una vocale iniziale, la forma apostrofata è l’unica da usare. Il solito Manzoni, che a queste
cose
badava
come
pochi,
evitò
l’ostacolo,
e scrisse
in tutte lettere il numero cominciante con vocale: « Fin dall’otto aprile dell'anno 1583 », «L’undici di giugno »; però, dove il numero cominciava con consonante, egli ritornò alle cifre arabiche: «Il 5 giugno dell’anno 1593 ». Mi sembra che il consiglio da dare sia questo: seguire l’esempio del Manzoni tutte le volte che sarà possibile.
L’apostrofo nei millesimi. Nell’accorciatura dei millesimi tutte le grammatiche raccomandano l’uso dell’apostrofo, quasi a simbolizzare la caduta delle cifre precedenti: «i moti del ’48», «siamo nel ’75», «il °500 » (cioè il secolo). Ma è solo una raccomandazione, non un
obbligo; pertanto non farebbe errore chi scrivesse « nel 48 », « il 500 ». Nei numeri accoppiati, poi, non occorre mai l’apostrofo per il secondo elemento; scriveremo perciò «la guerra 1915-18 » oppure «la guerra del ’15-18 ». Cosî pure l’apostrofo si abolisce sempre quando un altro apostrofo precede: « nell’89 » e non « nell’ ’89 ».
Trentaseiesimo.
Si deve dire frentaseiesimo e non « trentaseesimo », cosî come si deve dire ventiseiesimo, quarantaseiesimo, ecc., e mai « ven188
tiseesimo », « quarantaseesimo ». Insegna infatti la grammatica che i numerali ordinali, dopo ‘il decimo, si formano aggiungendo al numero cardinale il suffisso -esizzo. Il cardinale essendo trentasei, avremo trentasei-esimo, e analogamente ventiser-esimo, quarantasei-esimo, e cosî via. Come si potrebbe giustificare l’elisione della vocale finale î del numero cardinale? L’elisione è giustificabile in ventesimo, ventiquattresimo (quasi « vent’esimo », « ventiquattr’esimo », come in vent'anni e in quattrocchi), e in undicesimo, dodicesimo e simili, dove la finale i di undici, dodici è, agli effetti della pronunzia, assolutamente superflua. I numeri tronchi come ventitré, trentatré, ri-
badiscono la regola generale per la quale la finale accentata non si elide; e avremo perciò ventitre-esimo, trentatre-esimo, eccetera. Lo stesso discorso si potrà fare per i numeri composti con -enne, come ventiduenne, ventitreenne, ecc., cioè i composti modellati sul latino diennis, di due anni (da arnus, anno). Avremo cioè ventunenne (ventun-enne), ventiquattrenne (come « ventiquattr’anni »), ventitreenne (ventitré-enne), e infine ventiseienne (ventisei-enne) e non « ventiseenne » come alcuni an-
che accettano.
Centuno
o centouno?
Quando si debbano scrivere in tutte lettere numeri come 101, 108, 301, 901, 908 come ci si deve regolare? Scriveremo centuno o centouno, centotto o centootto, e così via? Chi maneggia assegni bancari si troverà spesso davanti a que-
sto problema. Il numero cento, nella formazione dei numeri composti con 470 e con otto, i due soli numeri comincianti con vocale, dovrebbe comportarsi esattamente come si comportano tutti gli altri numeri, come venti, trenta, quaranta, ecc.: elidendo cioè la vocale finale e fondendola con la vocale che segue;
cosî, come abbiamo ventuno, ventotto, trentuno, trentotto, quarantotto, dovremmo avere centuno, centotto, trecentuno, trecentotto, novecentuno, novecentotto. Questo vorquarantuno,
rebbe la logica. E invece no. Nell’uso si dice e si scrive centouno, centootto, trecentouno,
trecentootto, ecc. Illogicità, stravaganza.
E, illogicità anche maggiore, si dice e si scrive centottanta e non
« centoottanta », duecentottanta
e non
« duecentoottanta » 189
ecc. Centottanta sî ma centotto no. Come si spiegano queste incongruenze? Si spiegano con l’uso. Si capisce però che basterebbe cominciare
a dire e a scrivere
centuno,
centotto,
due-
centuno e duecentotto perché presto o tardi la logica finirebbe col trionfare. Io, per mio conto, cosî dico e scrivo. (Per mille il discorso è diverso; il suo uso è coerente in ogni composto: sempre staccato: rmzilleuno, milledue, milletré, milleotto, milleundici... Mai « milluno », « millundici » 0 « millotto ».)
Trentun
anno
o trentun anni?
Ho finito di sfogliare non so quante grammatiche, e delle migliori, e tutte dicono, press’a poco, questo: i numerali cardinali composti con -u70, quando siano seguiti da un sostantivo, vogliono di regola questo sostantivo nel singolare, ma l’uso ammette anche il plurale: quindi, di regola, ventun soldato, trentun anno, e come eccezione consacrata dall’uso anche ventun soldati, trentun anni. Per il femminile come ci regoleremo? Ancora le grammatiche: sempre l’accordo nel singolare femminile: ventuna lettera, trentuna donna.
Poi, come sempre accade, queste stesse grammatiche allineano le eccezioni. Il sostantivo va sempre al plurale: quando esso precede il numero: soldati ventuno, lettere ventuna; quando al sostantivo è unito un aggettivo: ventun soldati italiani, quando il mnumerale è preceduto dall’articolo: i trentun libri che mi desti. Non risulta però chiaro come ci si debba regolare, nei due ultimi casi, coi sostantivi femminili: dovremo dire, cioè, trentun donne milanesi o trentuna donna milanese;
le trentun
lettere che ti scrissi o le trentuna lettera eccetera? Insomma, anche qui, grande perplessità e, in ultimo, un gran pasticcio. Una cosa, senza dubbio, è vera: l’uso ammette tutt’e due le forme, e si dice e si scrive tanto frentun (o trentuno) cardinale quanto trentun (o trentuno) cardinali: nel primo caso, si tiene conto soltanto della seconda componente del numero (come se fosse scritto cioè trenta e uno); nel secondo caso, si considera il numero come un complesso tutto intero, con valore di plurale, come sono del resto tutti gli altri numeri cardinali,
dal due all’infinito. E questo valore plurale è cosî sentito, che le forme ventun soldato e trentuna donna perdono ogni giorno terreno, mentre va sempre più affermandosi la forma 190
col sostantivo plurale, buona tanto per il maschile quanto per il femminile, tanto se il numero precede quanto se segue, tanto se precede l’articolo quanto se segue l’aggettivo. Perciò, per semplificare le cose, e senza voler mancare di rispetto alla più antica tradizione, mi permetterei di consigliare
i lettori di attenersi sempre a questa secondo forma che ha, per giunta, il merito di contentare meglio l’orecchio. Diremo perciò: « Un’adunanza di trentun cardinali »; « Una fila di ventuno
vetture »; « Alle ore ventuno »; « Le centuno
lettere
dell’epistolario ». Qualche
esempio classico?
Ce n’è a iosa. Non
mancano,
si
capisce, esempi accordati nel singolare, come questo, antico, del Machiavelli: « Uno spazio di trentun braccio », e questo, contemporaneo, dell’Ojetti: «In casa del pittore Vespasiano Bignami che ha ottantun anno »; ma sentite questi altri: « Eleggevano ventun cittadini » (Varchi); « Intervennero centotrentuno
senatori » (Varchi); « Accozzatisi in cinquanta giorni cinquantuno cardinali in conclave » (Ségneri); « Sessantun fedeli di sedici diverse nazioni » (Daniello Bartoli); « Ventuno articoli della lor
fede »
(Pallavicino);
e potrei
continuare
per
un
pezzo.
Dei moderni scrittori è inutile dire, ché si attengono anch'essi per la. massima parte alla forma con l’accordo al plurale.
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