Senza Dio. Del buon uso dell'ateismo 8830427640, 9788830427648

Come vivere, agire, lottare, morire quando si può contare solo su se stessi? È la sfida cruciale per un nuovo Illuminism

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Italian Pages 229 [110] Year 2010

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Senza Dio. Del buon uso dell'ateismo
 8830427640, 9788830427648

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Nahtjak89

Giulio Giorello

SENZA DIO Del buon uso dell’ ateismo

Come vivere, agire, lottare, morire quando si può contare solo su se stessi? È la sfida cruciale per un nuovo Illuminismo, inteso non solo come difesa di fronte al dispotismo, ma come compagno di strada anche per coloro che ancora avvertono il bisogno d'amore a cui un tempo si dava il nome di Dio. Da "ateo protestante", l'autore di questo libro non mira a dimostrare che Dio non c'è ma a definire l'orizzonte di un'esistenza senza Dio. Una vita, quindi, che prescinda da qualsiasi forma di sottomissione al divino, rifiutando rassegnazione e reverenza, ritrovando il piacere della sperimentazione nella scienza e nell'arte, e riscoprendo infine il gusto della libertà, soprattutto quando essa appare eccessiva alle burocrazie di qualsiasi "chiesa". Un ateismo non dogmatico che può essere utilizzato persino da ogni credente stanco della furia dei vari fondamentalismi che hanno sostituito al dono della Grazia del Signore il paesaggio desolato della repressione e dell'intolleranza.

PROLOGO «Se dovesse incontrare quel tipo, stia alla larga dalla teologia.» «È un argomento che raramente sollevo.» Nicholas Blake Mi ricordo quando viaggiavo, per studio o per lavoro, nelle sei contee dell'Ulster controllate dall'esercito britannico: la cosiddetta Irlanda del nord. Non pochi intellettuali, anche sofisticati, ritenevano che le truppe della Corona fossero là a «mantenere la pace», sedando un conflitto di matrice essenzialmente religiosa – impressione spesso corroborata da vari giornali, radio e televisioni che, in Inghilterra e altrove, parlavano di secolare «faida» tra «cattolici» e «protestanti». Mi trovai a chiedere ospitalità per la notte presso una famiglia di campagna. Stavo già sistemando il bagaglio, ed ecco la domanda: «Cattolico o protestante?» Per trarmi d'impiccio, risposi: «Ateo». Un attimo di silenzio perplesso, poi un'altra domanda: «Sì, ma ateo cattolico o ateo protestante?» Ciò mi fa ripensare a una lettura dei tempi di scuola, la raccolta di saggi di Bertrand Russell intitolata Perché non sono cristiano (la prima traduzione italiana, presso Longanesi, è del 1959). Allora appariva un testo trasgressivo, peggio di Lolita di Nabokov. Lo era almeno per me, che avevo come insegnante di religione (al liceo Berchet di Milano) nientemeno che Don Luigi Giussani,1 il quale sarebbe diventato fondatore e anima di CL, ovvero il movimento cattolico di Comunione e Liberazione. Difficile fargli accettare che un suo «allievo» potesse preferire Sir Bertrand a uno qualunque dei quattro Vangeli canonici. Mi colpivano, di Russell, l'argomento e il tono. «Trovo strano», scriveva quel filosofo e logico matematico nella Prefazione, «poter pensare che una divinità onnipotente, innocente e benevola abbia preparato il mondo, da nebulose senza vita, in tanti milioni di anni, per ritenersi soddisfatta dell'apparizione finale di Hitler, di Stalin e della bomba H.» Aveva scritto quelle righe nel 1957; non tanto per prendersela col Signore quanto per non dimenticare le responsabilità degli uomini. Ma persino dei papi si sono chiesti dove fosse Dio al tempo di Auschwitz. Già, dove? In qualche piega remota dello spazio-tempo einsteiniano, troppo lontano per vedere i dettagli della sua creazione e comprensibilmente disgustato dagli spettacoli offerti dall'incubo che chiamiamo storia? O al pub, autore pentito, a bere per dimenticare? Non 1 A lui devo comunque una notevole influenza nell'essere diventato ateo.

sappiamo, dice l'agnostico. Piuttosto, non c'era, perché non c'è e non c'è mai stato, ribatte l'ateo. «Cattolico» o «protestante» che sia. Il libro di Russell è una raccolta di saggi di diversa data, ma legati da un coerente filo rosso. Include anche la trascrizione del dibattito con padre H.C. Copleston, S.J. (sta per Societatis Jesus), trasmesso dalla BBC nel 1948. Nelle prime battute il gesuita chiedeva se anche il filosofo, a prescindere dalle particolari tesi che avrebbe sostenuto, fosse convinto che «il problema di Dio era sempre della massima importanza» – strappando un mezzo assenso a Russell. Mi chiedo cosa avrei detto io, se mi fossi trovato (indegnamente) nei panni di Sir Bertrand. Mi viene spontaneo «No: di scarso interesse». Allora, perché questo libro? Dopotutto, qualsiasi padre Copleston potrebbe obiettarmi che un ateo dovrebbe essere particolarmente coinvolto con Dio, dal momento che si prende la briga di negarlo. Ma chi o che cosa si vuole negare? In via preliminare accetto la «definizione» del buon padre, che è il nucleo del cosiddetto teismo: con la parola Dio «intendiamo un ente supremo, personale, distinto dal mondo e creatore del mondo». Non sarebbe allora più opportuno assumere la posizione dello stesso Russell: «Non sto dogmaticamente dichiarando che non c'è Dio: dico soltanto che noi non lo sappiamo»? È un atteggiamento che ha precedenti illustri come quello di Charles Darwin, il teorico dell'evoluzione per selezione naturale, che dichiarava nell'Autobiografia di non volersi imbarcare nelle discussioni di tali «astrusi problemi», aggiungendo: «Il mistero del principio dell'universo è insondabile per noi, e perciò, per quel che mi riguarda, mi limito a dichiararmi agnostico». A sua volta, Russell concludeva che «il mondo non ha bisogno di dogmi», nemmeno di quelli dell'ateismo militante. Ha però bisogno di «libera ricerca». Se non ci fossero stati i Free-thinkers, cioè i liberi pensatori, sarebbe stato necessario inventarli. E se guardiamo a quelle culture ove più sono affondate in profondità le cosiddette radici cristiane, possiamo operare la separazione, come indicava Russell, tra liberi pensatori «cattolici» e «protestanti»: sia gli uni sia gli altri possono limitarsi all'agnosticismo o assumere posizioni dichiaratamente ateistiche; resta che «nel tipo protestante l'allontanamento dalla tradizione è soprattutto di indole intellettuale, mentre nel tipo cattolico è principalmente di natura politica». Più seccamente, «si potrebbe dire che ai protestanti piace essere buoni, e hanno inventato la teologia per mostrarsi tali; mentre ai cattolici piace essere cattivi, ma hanno inventato la teologia per mantenere buono il prossimo».

Ovviamente, la distinzione è per «tipi ideali» e non per individui in carne e ossa: in relativa autonomia dalla formazione religiosa ricevuta da piccoli (se c'è stata), nel concreto dell'esistenza non c'è la strategia cattolica pura o quella protestante altrettanto pura, ma un misto dell'una e dell'altra, con varie sfumature, anche se spesso una componente tende a prevalere sull'altra: per attenerci ad alcuni degli autori presi in considerazione nelle pagine che seguono, John Stuart Mill ci apparirà inclinare più verso il «protestante» (non foss'altro per la sua difesa appassionata di cause che il conformismo all'epoca sua e nel suo Paese giudicava eccentriche) e Sade più verso il «cattolico»; più «misto» (e con leggerezza) Voltaire, che detestava il Calvinismo, ma difendeva gli ugonotti vessati dai cattolici. Un pizzico di libero pensiero «protestante» farà capire la ragione della mia ipotetica risposta a qualsiasi padre Copleston: se c'è stato un tempo in cui poteva sembrare di moda dichiararsi senza Dio (solo qualche decennio fa!), oggi è arrivato quello in cui, come paventava Russell già in un saggio del 1928 (incluso appunto in Perché non sono cristiano), «col decadere del liberalismo […] probabilmente gli atei saranno costretti a riunirsi in società segrete» celando il loro ateismo – un po' come sembra facessero gli atei timidi (cioè timorosi di finire male) quando il loro critico più bizzarro e spregiudicato, Pierre Bayle, osservava nei Pensieri sulla cometa (1682) e nel Dizionario storico-critico (1695-1697 e 1702) che nel mondo cosiddetto civile non si era ancora costituita una «società di atei» solo perché costoro erano perseguitati dai fanatici religiosi al punto che dovevano procedere mascherati. Allora, essere agnostico non mi basta più. Preferisco dirmi ateo, perché si rigeneri quello che Russell chiamava «liberalismo»: la possibilità di confrontarsi – e di scontrarsi se è il caso – con i religiosi della più variegata estrazione (compresi coloro che dell'ateismo fanno una religione). Nella convinzione che ateo non sia tanto chi logora il proprio tempo nel cercare di dimostrare che Dio non c'è, ma chi decide di vivere senza o perfino contro Dio. Sotto questo profilo l'ateismo non è una dottrina definita, ma un complesso di atteggiamenti, alcuni dei quali mi paiono più efficaci della mera sospensione del giudizio. Vedo l'ateismo non come una rete di dogmi (simmetrici a quelli di qualsiasi teismo), ma come un repertorio di strumenti, intellettuali e pratici, che riguardano il nostro modo di indagare l'universo e di scegliere il nostro destino. Come sarebbe lusinghiero definirsi, in quest'ottica, «protestanti» (nel senso di Russell)! Ma il versante «cattolico» non può essere cancellato, facendo semplicemente

finta che non ci sia… Il primo capitolo di questo libro espone una sorta di confutazione pratica del teismo. Alla presenza del male su questa Terra è dedicato il secondo capitolo. Il terzo analizza alcuni aspetti del (presunto) conflitto tra scienza e religione, per prospettarlo non come una contesa tra ragione e fede, ma come uno scontro politico. È su questo terreno che si giocano ancor oggi le sorti del liberalismo: la difesa del quale è affidata, nel quarto capitolo, a una modesta proposta metodologica, che unisce insieme ateismo e liberalismo – o come io preferisco dire, ateismo e libertarismo (non è solo questione di parole). Il quinto capitolo riesamina le «prove» dell'esistenza di Dio; non si tratta di paradigmi di dimostrazione, bensì di modelli di sottomissione. Può darsi, infine, che le brevi conclusioni dell'Epilogo sorprendano il dogmatico, teista o a-teista che sia. Se andrà così, mi riterrò soddisfatto. La scelta degli argomenti, le loro differenti versioni, i riferimenti testuali sono inevitabilmente idiosincratici; in queste pagine c'è un po' di storia personale, che mi ha fatto propendere per alcune soluzioni piuttosto che per altre. L'uso di varie battute di Russell (attenzione, il termine non è sminuente), lo devo soprattutto a mio fratello Sergio,2 che tanti anni fa mi passò la sua copia di Perché non sono cristiano. Sade è ampiamente saccheggiato, nel primo capitolo, perché ho preso a considerarlo non solo come un grande pornografo ma come un altrettanto grande filosofo, in particolare grazie al volume di Opere scelte curate nel lontano 1962 per Feltrinelli da Gian Piero Brega, una delle intelligenze più lucide dell'editoria italiana. Alcuni passaggi del quinto capitolo sono ispirati a Spiegazioni filosofiche (1981) di Robert Nozick, uno dei più appassionati esponenti del pensiero analitico (ma per lui questa etichetta è riduttiva): è stato in particolare Marco Mondadori a caldeggiare la pubblicazione in lingua italiana (1987) di quest'opera. Con Marco per anni ho discusso le idee espresse da Mill nel suo On Liberty (1859), cioè quel Saggio sulla libertà che è stato il classico della filosofia preferito da un altro maestro e amico, Paul Feyerabend, «liberale appassionato». Nel quarto capitolo faccio mio uno spunto di Jean Petitot, sodale fin dal tempo in cui lavoravamo al progetto dell'Enciclopedia delineata da Ruggiero Romano, edita da Giulio Einaudi. Ho l'impressione di averlo svolto nella direzione che più mi garbava, ma non credo di aver commesso un torto: conosco Jean da più di trent'anni, e so che la differenza in filosofia lo attrae. Devo aggiungere che in questo libro non c'è riga che non 2 Che di cognome fa Interlando. Abbiamo (avevamo) una madre in comune.

abbia discusso con Luca Guzzardi e con Corrado Sinigaglia. Infine, voglio ringraziare altre amiche e amici senza il cui apporto non sarei nemmeno arrivato alla fine: Pietro Adamo, Mariella Agostinelli, Claudio Bartocci, Edoardo Boncinelli, Gioia Meller-Marcovicz, Nuccio Ordine, Telmo Pievani, Elide Pittarello, Janus Podrazik, Silvano Tagliagambe, Armando Torno, Nicla Vassallo. Devo a Michele Di Francesco non poche importanti indicazioni su Russell. Luigi Brioschi, direttore editoriale della Longanesi, mi è stato vicino con parecchi suggerimenti e indicazioni di lettura, oltre che con l'incoraggiamento a perseverare in questo non facile cammino. Guglielmo Cutolo, infine, non è stato un semplice editor, ma un compagno sempre presente, pagina dopo pagina. Però, non abbiamo ricreato la compagnia di atei che Bayle riteneva possibile ma a patto della segretezza; solo mia è la responsabilità di quanto è scritto in queste pagine.

Post scriptum A proposito, sentendo riaffiorare qualche vecchio ricordo di famiglia (c'era un ramo «ginevrino» tra i Giorello, estenuatosi di generazione in generazione fino a dileguare), quella volta in Ulster me la cavai con un «Ateo protestante». Non ne sono particolarmente fiero, e continuo a pensare che quella irlandese sia stata una lotta di libertà da parte dell'ultima colonia rimasta allo (ex) Impero britannico, non una guerra di religione. In Irlanda cantano un rebel song, il cui ritornello ripete che «al sorgere della Luna» ciascuno deve fare la propria parte, indipendentemente dalla particolare denominazione (cioè affiliazione) religiosa. Non credo a slogan tipo Comunione e liberazione; se devo sceglierne uno, preferisco Individui e libertà.

1 CONTRO LA REVERENZA La favola del Vecchio di Roma «A Roma […] un vecchio, aiutato da alcuni suoi subordinati, cerca di disciplinare tutte le questioni di virtù e di vizio; vale a dire di verità e falsità, in special modo in materia di religione. Egli ha la pretesa di sapere e d'insegnare quali idee e pratiche religiose portano alla felicità dell'uomo o gli sono fatali, non solo in questo mondo ma in quello che verrà.» Dato che, come ricorda il principe Amleto, nessuno è ancora tornato indietro a raccontare che tipo di sogni si facciano in quel mondo a venire (anche se i soliti bene informati ci assicurano che comunque quel mondo «verrà»), leggiamo le parole con cui abbiamo esordito come se fossero quelle di una fiaba, che potrebbe cominciare col classico C'era una volta. Il condizionale è d'obbligo: contrariamente a quanto presentiva (o sperava) l'autore della citazione, l'anarchico americano Lysander Spooner nel suo I vizi non sono crimini (1875), in varie parti del globo ci sono ancora strutture politiche che trattano i peccati come delitti: Stati o comunità teocratiche, manifestazioni differenti di un'unica mentalità totalitaria, quella ben compendiata da una battuta del poeta John Milton, «la testarda smania di proibire». Quanto al «vecchio di Roma», c'è ancora; e le sue pretese non si sono troppo affievolite con la modernizzazione della società; semmai, sono diventate sempre più «cattoliche» (nel senso tecnico del termine, ovvero «universali»). Leggiamo nell'enciclica Caritas in ventate del 2009 di Benedetto XVI (Joseph Ratzinger) che nel quadro della «concorrenza tra le varie visioni dell'uomo» quella cristiana «ha la peculiarità di affermare e giustificare il valore incondizionato della persona umana e il senso della sua crescita». Ratzinger cita Paolo VI (Giovanni Battista Montini): «Ciò che conta per noi è l'uomo, ogni uomo, ogni gruppo d'uomini, fino a comprendere l'umanità tutta intera». E aggiunge che «ammaestrata dal suo Signore [Gesù Cristo], la Chiesa scruta i segni dei tempi e li interpreta, e offre al mondo [la sua] visione globale dell'uomo e dell'umanità». Nel dicembre di quell'anno Benedetto XVI ha ribadito alla curia romana che la Chiesa dovrebbe, oggi più che mai, preoccuparsi di aprire il «cortile dei Gentili» (vedi per esempio Corriere della Sera, 22 dicembre 2009; e, a commento, l'intervista, nella stessa sede, al cardinale Camillo Ruini) – come era previsto nel Tempio di Salomone, stando al profeta Isaia (56,7): «La mia Casa sarà chiamata Casa d'orazione per tutti i popoli». In quel «cortile», dice il Papa, tutti «possono agganciarsi a Dio». Allude non solo

al dialogo con le altre religioni, in particolare con le sorelle nel monoteismo: Ebraismo e Islam; ma anche a quello coi fratelli separati (il Cristianesimo non coincide con il Cattolicesimo Romano: ci sono, per esempio, anche gli ortodossi e i protestanti). Infine, che dire dei nuovi «Gentili» di oggi, cioè «coloro per i quali la religione è una cosa estranea»? Forse sono questi che gli importano di più: i tipi «ai quali Dio è sconosciuto». E non potrebbero costoro rispondere al Pontefice che la sua allusione è un'illusione, ribattendo – chi con passione, chi con indifferenza – che quello «sconosciuto» non c'è? Non è questa, del resto, l'accezione più immediata del termine ateo? Tale risposta, ancora ingenua, non disarmerebbe il buon «pastore», specie se si tratta di un tipo agguerrito come Ratzinger che qualcuno (vedi la nota di Sandro Magister su L'Espresso, 29 aprile 2010) definisce «un grande illuminista» che oggi chiede di non rinchiudere la ragione «nei soli dati misurati dalla scienza» (a proposito, come è duro a morire il cliché di un sapere scientifico puramente quantitativo). Comunque sia, il Pontefice avrebbe pronta la replica: come fai a negare l'esistenza di quel Dio, se non lo conosci? Sconosciuto e incomprensibile La lettrice o il lettore renitente a qualsiasi tipo di «pastorizia» potrebbe ribattere, a proposito dello sconosciuto: «Il tuo Dio è una macchina da te fabbricata per servire le tue passioni […]; ma poiché essa disturba le mie, acconciati a vedermela rovesciare». Così dichiara un miscredente, ormai in fin di vita, nel Dialogo tra un prete e un moribondo di Sade a un sacerdote che gli viene a dare l'ultimo conforto. Che cosa potrebbe dirgli l'uomo di Dio? Non oso mettermi nei panni di un teologo raffinato come Ratzinger; ma mentre auguro vita lunga e felice a chiunque legga questo libro (di qualunque «chiesa» o sinagoga o madrassa ella/egli sia), riprendo qualche passo del Dialogo tra il sacerdote e la sua renitente «pecorella», assai riluttante a essere «agganciata»: PRETE «Non credi dunque in Dio?» MORIBONDO «No, e per una ragione assai semplice; che è assolutamente impossibile credere a ciò che non si comprende. Tra comprensione e fede devono correre rapporti immediati; la comprensione è il primo alimento della fede; dove la comprensione non agisce la fede è morta e coloro che in tale caso pretendessero averla si ingannano. Ti sfido a credere al dio di cui predichi, poiché non sapresti dimostrarmelo, poiché non sei in grado di

definirmelo, poiché pertanto non lo comprendi; poiché non comprendendolo non puoi fornirmi alcun argomento ragionevole e poiché, in breve, tutto ciò che sta al disopra dei limiti dello spirito umano è o chimera o superfluità; poiché il tuo dio, non potendo essere che o l'una o l'altra, nel primo caso a credergli sarei pazzo, nel secondo imbecille.» Donatien-Alphonse-François, marchese di Sade, compose il Dialogo nell'estate del 1782 (mentre era ospite delle carceri di Vincennes). Il Divin Marchese, com'è spesso chiamato dai suoi ammiratori, doveva dimostrarsi spregiatore del Dio uno e trino dei cristiani, proprio perché tale divinità gli pareva avvolta in un mistero impenetrabile a ogni intelletto. Però, il mistero è una difficoltà insormontabile per un credente? Direi di no: un poeta come Dante, per esempio, ha saputo far dell'impossibilità di comprendere il Dio sconosciuto un punto di forza della teologia dei cristiani. «Umana gente», accettate senza troppo discutere quel che ci dice il Vangelo, «ché se potuto aveste veder tutto, / mestier non era parturir Maria» (Purgatorio III, 37-39). E la madre di Gesù è così salutata dal poeta: «Vergine Madre, figlia del tuo figlio» (Paradiso XXXIII, 1). L'allusione è a Gesù, figlio di Maria, a sua volta figlia (cioè creatura) di Dio e destinata dalla volontà del Padre a quel parto eccezionale, da cui è nato il Figlio… che è poi ancora Dio. C'è da rompersi la testa, se si vuole capire: «Matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer la infinita via / che tiene una sustanza in tre persone» (Purgatorio III, 34-36). A questo punto, l'ateo compie la sua mossa: potrebbe chinare la testa di fronte al mistero, ma solo se la Natura di cui anch'egli è parte, per dirla ancora con Sade, apparisse «non sufficiente a sé medesima»: solo allora sarà lecito «supporle un padrone». Non bastano, dunque, le leggi della fisica (nel senso più ampio del termine) che reggono il mondo? PRETE «Sicché, tutto è necessario, nel mondo?» MORIBONDO «Certamente.» PRETE «Ma se tutto è necessario, tutto è regolato.» MORIBONDO «E chi ti dice il contrario?» PRETE «E chi può regolare tutto così com'è, se non una mano onnipotente e saggia?» MORIBONDO «Non è giocoforza che la polvere si infiammi quando le si accosta il fuoco?» PRETE «Sì.» MORIBONDO «E quale saggezza vi ravvisi?»

PRETE «Nessuna.» Il ronzio dell'ape Meno di vent'anni prima Voltaire, nel Dizionario filosofico (1764; prima edizione anonima Ginevra – anche se l'indicazione formale è Londra; prontamente condannato dai ben pensanti e presto oggetto di acre e feroce polemica), alla voce «Catechismo cinese» aveva affidato all'esotico buon principe Ku l'elogio della potenza divina che sostenta mondo, vita e intelligenza. Il filosofo del Dizionario sembra agli antipodi del miscredente del Dialogo sadiano: «Chi ha dato il moto alla natura? Dio. Chi fa vegetare tutte le piante? Dio. Chi fa muovere gli animali? Dio. Chi dà la forza di pensare all'uomo? Dio». È uno splendido elogio della potenza divina; ma pure Voltaire si troverebbe piuttosto a disagio nel «cortile» di Ratzinger: l'autore del Dizionario è un deista, cioè un philosophe che nutre poca simpatia per il Cristianesimo e le altre religioni rivelate – in breve, per lui non c'è bisogno che alcuna Maria partorisca! Per dirla con Kant, un tipo del genere si affida solo «alla sua semplice ragione» per risalire al «principio originario di tutte le cose» (al contrario del teista che ammette un «Dio vivente», cioè personale, trascendente ecc.). Ma il voltairiano principe cinese è importante per un'altra ragione. Separa concettualmente quel che tradizionalmente è congiunto nel nucleo del Cristianesimo. Voltaire non pone più enfasi su Gesù come «figlio di Dio» in un'accezione distintiva rispetto a tutte le altre umane creature; inoltre, proclamata solennemente la pervasiva presenza di Dio nell'universo, Ku nega con altrettanta risolutezza di possedere un'anima immortale: «Che me ne faccio di questo esserino subalterno, quando io sono animato da Dio stesso?» E ancora: «Preferisco essere la macchina di un Dio che mi è dimostrato, che non la macchina di un'anima di cui dubito». Se proprio dobbiamo usare la parola anima, essa denoterà puramente l'attività del corpo, non una sostanza pensante che qualche divinità ha «soffiato» nella nostra carne. Ku (ovvero Voltaire) ricorre, infine, a un drastico paragone: «Forse il ronzio di quest'ape resterà, quando non ci sarà più l'ape?» Possiamo tornare al moribondo di Sade impegnato nel suo scontro dialettico col sacerdote: PRETE «Ma ammetterai bene qualcosa, di là da questa vita! È impossibile che il tuo spirito non abbia talvolta indugiato a penetrare la fitta tenebra della nostra futura sorte e quale sistema può averti meglio soddisfatto di

quello di una moltitudine di pene per chi vive male e di un'eternità di ricompense per chi vive bene?» MORIBONDO «Quale, amico mio? Quello del nulla. Non mi ha mai spaventato e non ci vedo altro che non sia semplice e consolante. Tutti gli altri sistemi sono opera dell'orgoglio, quello solo della ragione. D'altronde non è né odioso né assoluto; non ho forse sott'occhio le perpetue generazioni e rigenerazioni della natura? Nulla perisce, amico mio, nulla si distrugge nel mondo; oggi uomo, domani verme, dopodomani mosca. Non è pur sempre esistere?» Dopodiché, il moribondo filosofante constata che quella che chiamava anima (il voltairiano «ronzio»!) è solo un complesso di tendenze naturali che a seconda delle circostanze chiamiamo vizi o virtù: «È dunque assurdo abbandonarsi al rimorso e più ancora temere una punizione nell'altro mondo, se in questo abbiamo avuto la fortuna di scamparla». E adesso è il morente a catechizzare il sacerdote: «Rinuncia all'idea di un altro mondo, poiché non ve n'è alcuno. Ma non rinunciare al piacere di essere felice e di far felici gli altri in questo». Alla fine il miscredente rivela al prete che sono pronte per lui «sei donne più belle del giorno», se solo rinnega «tutti i vani sofismi della superstizione». Il pastore non disdegna l'offerta, lasciandosi trasformare in «un uomo corrotto dalla natura, per non aver saputo spiegare quel che fosse la natura corrotta». Il giudizio del coniglio Dunque, per dirla con il Bouvard e Pécuchet di Gustave Flaubert (postumo, 1880), tacciare la natura di «corruzione» è insensato: PÉCUCHET «Ma lo spettacolo dell'universo denota un'intenzione, un piano.» BOUVARD «Non credo. Il Male vi è organizzato altrettanto bene del Bene. Il verme che si sviluppa nella testa di una pecora, e che la fa morire, anatomicamente non è meno perfetto della pecora.» Uno spirito cristiano, però, scorge in tutto questo solo un'assenza (momentanea) di senso: Pécuchet replica, infatti, che nel quadro globale della corruzione del mondo, «se [uno] scopo non è visibile oggi, lo sarà domani». Tuttavia, domani è qualsiasi giorno di là da venire; ed è sempre oggi! Tra sé Bouvard mormora che «forse in Spinoza [si] troverebbe da ribattere».

Proviamo! «Ebreo di nascita, in seguito transfuga dall'Ebraismo, infine ateo, era di Amsterdam. Fu un ateo di sistema e adottò un metodo completamente nuovo», scrive di lui il Bayle del Dizionario storicocritico, ove ricorda pure che quel «miscredente», mentre usciva da una rappresentazione teatrale nella sua città, sarebbe stato «assalito proditoriamente da un ebreo che gli assestò un colpo di coltello». A parte la pittoresca ricostruzione di Bayle, quel che sappiamo con sicurezza è che Spinoza era stato oggetto da parte della comunità ebraica di una solenne «scomunica» (27 luglio 1656), recitata dinnanzi all'arca della Torah nella sinagoga della Houtgracht: «Che egli sia maledetto di giorno e maledetto di notte, maledetto quando esce e maledetto quando rientra. Il Signore non lo risparmierà: al contrario, la collera del Signore e la sua gelosia si abbatteranno su quest'uomo, e tutte le maledizioni scritte in questo libro penderanno su di lui, e il Signore cancellerà il suo nome da sotto il cielo». Spinoza, però, è rimasto nel cuore dei filosofi. Come ammetteva persino un tipo ipercritico come Bayle: «I liberi pensatori venivano da tutte le parti» a conoscere quel «maledetto»! Abbandonata Amsterdam, appartatosi in campagna, stabilitosi poi a L'Aia, alieno da incarichi accademici e da riconoscimenti pubblici, Spinoza riusciva a sostentarsi «lavorando alla fabbricazione di microscopi e telescopi». E il suo restava un ben strano «ateismo»: l'opera postuma dello «scomunicato» nomina Dio in quasi ogni pagina. Ma Dio coincide con la Natura, e quelle che nella Bibbia erano le creature del Signore ora non sono altro che «modi dell'essere». Leggiamo nell'Appendice al Libro I dell'Ethica (postuma, 1677): «Dopo che gli uomini si sono persuasi che tutto quanto accade, accade per loro, non hanno potuto far a meno di giudicare che in ogni cosa l'elemento principale è ciò che per essi presenta la massima utilità […]. In tal modo essi non hanno potuto fare a meno di formare quelle nozioni con le quali pretendono di spiegare la natura delle cose, come il Bene, il Male, il Freddo, il Caldo, la Bellezza e la Bruttezza: e poiché si ritengono liberi, da ciò son sorte queste altre nozioni, la Lode, cioè, e il Biasimo, il Peccato e il Merito […]. E poiché quelli che non conoscono intellettualmente la natura delle cose non affermano nulla intorno a esse, ma solamente le immaginano e prendono l'immaginazione per l'intelletto, essi perciò credono fermamente che ci sia un ordine nelle cose». Il mondo non è fatto appositamente per noi più di quanto i mari lo siano per i pesci. È tutta una questione, semmai, di selezione e di adattamento – come nell'Ottocento insegnerà Charles Robert Darwin. E anche Russell nel

Novecento si rivelerà in questo buon discepolo di Spinoza. Ancora ci ostiniamo, dirà, a ritenere che ogni cosa sia «progettata sì da consentirci di abitare a nostro agio questo mondo». Però, questa finalità «si presenta talvolta in forma piuttosto curiosa»: per esempio, si dice che i conigli abbiano la coda bianca per essere colpiti più facilmente da chi li caccia. Ma… «chissà cosa pensano loro di questa interpretazione?» Prima di Darwin e di Russell, qualche frequentazione spinoziana sembra averla avuta pure qualcuno dei tanti «cattivi» che istruiscono la sventurata Justine, celata sotto lo pseudonimo di Thérèse, nell'omonimo romanzo di Sade (Justine ovvero le disavventure della virtù, prima stesura alla Bastiglia, 1787; seconda stesura 1791, pubblicata anonima presso lo stampatore Girouard, e con la falsa indicazione «in Olanda»). Prima di passare al tormento della carne costoro sono soliti raggiungere un orgasmo puramente verbale discettando sui «modi dell'immaginazione». Dice per esempio il padre Clément (di fatto, tutt'altro che clemente): «Hai mai visto, Thérèse, certi specchi che, con diverso artificio, o rimpiccioliscono gli oggetti o li ingrandiscono o li rendono spaventevoli o conferiscono loro tratti graziosi? Immagina ora che questi specchi uniscano, alla facoltà di riflettere, la facoltà di creare: non darebbero essi, dello stesso uomo, ritratti completamente differenti? E questi ritratti non scaturirebbero dal modo in cui lo specchio ha percepito l'oggetto? Alle due facoltà attribuite da noi allo specchio, aggiungiamone una terza: la sensibilità. Quale sentimento nutrirà in tal caso lo specchio verso l'uomo che riflette? Quello che gli ispira il tipo di essere percepito. Lo ha visto bello? Lo amerà. Lo ha visto orribile? Lo odierà. Eppure, è chiaro, si tratta dello stesso individuo.» E se concediamo che il godimento dei sensi derivi sempre dall'immaginazione, perché meravigliarsi della «infinita moltitudine di gesti e passioni» che agitano le nostre vite? Sade ha innervato la sua concezione amorale degli affetti umani con l'analisi spinoziana dell'immaginazione, primitiva tecnica di trasformazione del mondo in sé in cosa per noi – nel contesto di una natura di cui noi stessi non siamo che «modi dell'essere», capaci perfino di illuderci che l'intero universo sia al nostro servizio. «Esecranda devozione» Spinoza e Sade riconoscono entrambi la potenza creatrice e distruttrice della natura. Diversamente, però, dal filosofo dell'Ethica, Sade abitualmente non accosta a quel termine, Natura, il nome Dio. Economia di pensiero implica parsimonia di parola: perché impiegare due locuzioni

distinte per la stessa entità? È ciò che a più riprese teorizza l'altra grande eroina di Sade, la Juliette del romanzo che porta il suo nome (Juliette ovvero la prosperità del vizio, 1801). Ci limiteremo qui a un solo episodio di questa nuova storia, raccontata anch'essa in prima persona. La nostra eroina è arrivata nella «splendida» capitale del Granducato di Toscana, «costruita dai soldati di Silla, abbellita dai triumviri, distrutta da Attila, ricostruita da Carlo Magno, ingrandita a spese dell'antica Fiesole (…), per gran tempo in preda a lotte intestine, soggiogata dai Medici, che, dopo averla governata per duecento anni, finalmente la cedettero alla casa di Lorena». Leopoldo, «arciduca e fratello della regina di Francia», è un sovrano magnanimo (nella tipica accezione dei cattivi di Sade: «dispotico, orgoglioso e ingrato»). Ciò non impressiona più di tanto la ragazza, atea e libertina più di qualsiasi maschio, ma anche sensibile alla bellezza dei capolavori esposti nella galleria del granduca, ove spicca «la famosa Venere de' Medici»: «L'opinione generale dice che questa statua rappresenti la Venere marittima dei Greci: non voglio indagare oltre su un pezzo di cui ormai esistono tante copie; tutti possono possederlo, senza dubbio, ma nessuno può apprezzarlo come me. L'esecranda devozione fece una volta spezzare quest'opera bella. Imbecilli! Essi adoravano l'autore della natura e credevano di servirlo distruggendo la sua opera più splendida». Juliette rivendica l'autonomia dell'arte per un simulacro di cui si narra che gli antichi spettatori si accendessero d'amore; e guardando la statua successiva se la prende con la rigidità della morale corrente, che bolla certe «meraviglie» come contronatura: «I miei occhi si posarono quindi sull'Ermafrodito. Voi sapete che i Romani, appassionati per questo genere di mostri, li preferiscono nelle loro orge libertine; questo senza dubbio fu uno di quelli che godettero di più salda reputazione lubrica; dispiace soltanto che l'artista, ritraendolo a gambe incrociate, non abbia voluto lasciar scorgere la caratteristica del duplice sesso». Padre Copleston, del resto, paragonava nel corso del dibattito con Russell la stessa esperienza religiosa al tipo di ebbrezza «che può dare la poesia o l'arte». Per di più, tale ebbrezza dipende sempre «da ciò che è particolare entro una composizione letteraria o artistica. Se uno si innamora, si innamora di qualcuno e non di nessuno». Obiezione di Russell: «Non è sempre così. Romanzieri giapponesi ritengono di non avere raggiunto il successo se non ci sono molti lettori che si uccidono per amore delle loro immaginarie eroine». Juliette ci aveva già fornito un caso meno drammatico: lei stessa è investita di passione erotico-artistica («Amo

le arti, mi riscaldano la testa») per quella Venere (o per l'ermafrodito). Eppure, ciò non significa che Venere sia davvero esistita! Ma non possiamo sognare ancora Venere, pur senza crederla reale? E prova qualcosa il fatto che qualcuno possa morire per Cristo o qualcun altro morire per Venere? Nient'altro che umiliazioni «Non dovete aspettarvi altro che umiliazioni, e l'obbedienza è la sola virtù che vi raccomando», dice alle ragazze che ha reso sue «schiave» il più potente e crudele dei quattro libertini che hanno rinchiuso in un tetro e impenetrabile castello un bel numero di giovani donne (ma i maschi non mancano) su cui esercitare «tutte le stravaganze del pervertimento». In nome dell'arbitrio il microcosmo delle Centoventi giornate di Sodoma – il capolavoro «maledetto» concepito da Sade nel carcere di Vincennes e perfezionato alla Bastiglia (1787) – diventa ossessivamente regolato dai diritti dei pochi e dai doveri dei molti… A proposito: «All'ingresso le bambine venivano numerate. Il mio numero era il 113. […] Dormire con le braccia incrociate sul petto, per tenere lontano il Diavolo, le docce tutte insieme, la cronica mancanza di cibo, l'istigazione alla delazione: niente di tutto questo mi lascerà mai». È la testimonianza, però, non di una delle vittime del castello sadiano, bensì di Carmel McDonnell-Byrne, «accolta» a dieci anni in un'istituzione religiosa per bambini «disadattati», la St Vincent Industrial School di Goldenbridge di Inchicore (Dublino), dopo che la madre era fuggita di casa. Una sera di luglio del 1966, Carmel riceve un dono che dovrebbe compensarla della morte improvvisa di due fratellini: «Mi diedero due caramelle, una per Harry e una per Robert, pensai. Scoppiai a piangere, mi presero a schiaffi». C'è più brutalità e cattiveria qui che in tutte le cervellotiche torture escogitate dalla fantasia di Sade. Rapporti ufficiali hanno denunciato abusi di questo genere; Benedetto XVI ha riaffermato di fronte ai vescovi cattolici d'Irlanda una linea estremamente severa (Corriere della Sera, 21 febbraio 2010). Ma non si è trattato solo di maltrattamenti sui minori nella «cattolica» Irlanda. Per quanto riguarda l'abuso su minorenni e maggiorenni «c'è [pure] la Germania del Papa […]. C'è il Belgio […] con le perquisizioni delle tombe nella cattedrale di Malines, con le conseguenti deplorazioni pontificie. Ci sono Polonia, Svizzera, Olanda, Danimarca, Norvegia, Inghilterra, Australia», scrive in proposito il teologo cattolico Vito Mancuso (alcune sue idee saranno discusse nel quarto e nel quinto

capitolo) su la Repubblica (30 giugno 2010). L'elenco potrebbe far impallidire il catalogo di Leporello nel Don Giovanni di Mozart e Da Ponte. Ma non c'è troppo da scherzare: «la peculiarità dello scandalo», avverte Mancuso, «è il fatto incredibile che i vertici ecclesiastici sapevano di questi crimini e, per non indebolire il potere politico della Chiesa, tacevano e insabbiavano». Ma è poi davvero così incredibile? Per quel che concerne i vari sacerdoti che, in tante parti del mondo, sono risultati colpevoli di pedofilia, monsignor Charles J. Scicluna, «promotore di giustizia» presso la Congregazione per la Dottrina della fede, ha dichiarato che su di loro «grava la minaccia dell'eterna dannazione»! Se la vedranno forse con Minosse, l'ex re di Creta, spedito da Dante a fare il giudice dell'Inferno («Stavvi Minòs orribilmente e ringhia: / essamina le colpe nell'entrata; / giudica e manda secondo ch'avvinghia», Inferno, V, 4-6). A me – e anche a parecchi altri, credo – interesserebbe che (oltre ai futuri «ringhi» ultraterreni) udissero in tempi più brevi le parole di qualche giudice in carne e ossa. Ma in tale delicata questione c'è un duplice errore. Da parte delle strutture vaticane: come ha scritto Adriano Prosperi commentando la notizia (la Repubblica, 30 maggio 2010; ma vedi anche 27 marzo e 30 aprile 2010), «il peccato riguarda la coscienza del credente e può essere trattato nel segreto della confessione. Il reato riguarda la giustizia. Per i crimini c'è il codice penale, c'è l'obbligo della denuncia da parte di chi ne è a conoscenza. [Però] nei riti segreti della Congregazione vaticana questa distinzione […] non si è affermata». L'articolo di Prosperi si intitola «La nostra giustizia e quella di Dio»; e un ateo ha il pieno diritto di dichiarare che è la giustizia «nostra» – terrena, mondana – che soprattutto gli sta a cuore (magari, se gli garba, potrà anche aggiungere che ride di quella comminata tra Inferno e Paradiso – ma ciò, qui, non è rilevante). La sua affermazione diverrà una protesta all'apprendere che, come rivela Prosperi, al contrario che nei Paesi anglosassoni (colpa di Enrico VIII, che per cambiare moglie promosse lo scisma d'Inghilterra, staccandosi da Roma?) e in Francia (sarà l'eredità giacobina della Rivoluzione?), in Italia i vescovi a conoscenza di quei reati non sono tenuti alla denuncia, «perché qui la legge non lo impone, e in questi casi le autorità della congregazione vaticana non obbligano i vescovi a denunciare i propri sacerdoti». Ecco il problema che gli anatemi non riescono a nascondere. Ma lo stesso Stato italiano è «colpevole», dice Prosperi, «di tollerare nel suo sistema giudiziario infrazioni come questa al principio dell'eguaglianza dinanzi alla legge».

In sintesi, mi verrebbe da chiudere l'argomento con la sarcastica battuta di Vittorio Imbriani (cui dobbiamo l'impagabile romanzo Dio ne scampi dagli Orsenigo), che si trova nel bel mezzo della sua irriverente Novella del Vivicomburio (1877, da lui stesso definita qualcosa di ben «peggio» dell'intera produzione di Sade): che tipo di giustizia si esercita «quando si dice al reo convinto e confesso: Va e non peccar altro! onde egli baldanzosamente va e ripecca e s'affretta anzi a ripeccare?» Non so se la polemica sulla pedofilia nelle file del clero cattolico si sarà già spenta quando usciranno queste pagine. Qualche reazione appare al tempo stesso grottesca e vergognosa, come quella di chi vede nel fiorire di denunce contro il Pontefice e tutta la Chiesa Cattolica Romana un complotto orchestrato dalla «finanza protestante ed ebraica»; ma va detto che non sono mancate, da parte della stessa gerarchia e degli ambienti cattolici, vigorose prese di distanza da siffatte manifestazioni di razzismo e intolleranza (vedi per l'intera questione Corriere della Sera, 30 e 31 maggio 2010). Però, il nocciolo della questione non è questo; non è nemmeno se la pedofilia ci sia al di fuori del clero cattolico (com'è ovvio), se sia o no una conseguenza del celibato dei preti (tutto da dimostrare!), se ciò infine provochi «un profondo dolore» all'attuale Pontefice (con il quale, per altro, solidarizzano non pochi laici). Dice invece Prosperi: la Chiesa «anch'essa ha la sua colpa […], quella della conoscenza del segreto con cui ha coperto fin che ha potuto i casi dei preti pedofili». In un intervento dell'aprile precedente ha osservato il teologo svizzero Hans Küng, consulente ufficiale al Concilio Vaticano II, le cui tesi sull'infallibilità del Papa e sulla struttura ecclesiale su base conciliare sono state giudicate pericolose dalla Congregazione (che nel 1979 gli ha interdetto l'insegnamento nelle facoltà teologiche cattoliche): «Non si può sottacere il fatto che il sistema mondiale di occultamento degli abusi sessuali del clero rispondesse alle disposizioni della Congregazione romana per la Dottrina della fede (guidata tra il 1981 e il 2005 dal cardinale Ratzinger), che fin dal pontificato di Giovanni Paolo II raccoglieva, nel più rigoroso segreto, la documentazione su questi casi. In data 18 maggio 2001 Joseph Ratzinger diramò a tutti i vescovi una lettera dai toni solenni sui delitti più gravi (Epistula de delictis gravioribus), imponendo nel caso di abusi il secretum pontificium, la cui violazione è punita dalla Chiesa con severe sanzioni». «Perché Benedetto XVI ha fallito», si intitolava l'articolo di Küng (la Repubblica, 15 aprile 2010), che segnalava il rischio di «una crisi senza precedenti». Ma se questo preoccupa un illustre teologo non da oggi su

posizioni molto critiche (senza però voler mai uscire dalla Cattolicità), che rilevanza ha per l'ateo? «Ancora uno sforzo…» Chiediamocelo, anzitutto, per un ateo che sia attento lettore delle pagine di Sade. In tutte le sue traversie il Marchese non ha mai dimenticato la filosofia: al punto da farla entrare persino nello spogliatoio. Lo fa da citoyen in un'opera intitolata appunto la Filosofia nel boudoir, dedicata «agli amanti del piacere d'ogni età e d'ogni sesso», stampata a Londra nel 1795 anonima, ma con la dicitura «opera postuma dell'autore di Justine». Il nobile diventato repubblicano è, però, vivo e vegeto: lascerà questo mondo quasi vent'anni dopo (il 2 dicembre 1814, nel manicomio di Charenton: quel che resta della sua famiglia vieterà che il nome di questo tipaccio «infame e sanguinario» sia inciso sulla lapide tombale). Nel testo, concepito come una pièce di teatro, l'indiscusso protagonista, il libertino Dolmancé, blasfemo a oltranza, copre di insulti il Dio dei cristiani, creatore di tutto quel che esiste e insieme così «debole» da non essere capace di impedire i crimini delle creature «fatte a sua somiglianza». Ma a un certo punto interrompe disquisizioni ateistiche e performance erotiche leggendo con approvazione un anonimo manifesto politico fresco di stampa: Francesi, ancora uno sforzo se volete esser repubblicani. Per i veri patrioti, vi si sostiene, la garanzia migliore della conservazione di una repubblica è l'assenza di dominio anche virtuale: ciò vale pure nei confronti del controllo pretesco delle coscienze. E tuttavia, l'estirpazione di qualsiasi inganno religioso non dovrebbe essere l'esito di un'azione imposta dall'alto, di tipo centralistico e gerarchico: si propone, piuttosto, una sorta di libera concorrenza da parte dei rappresentanti di tutte le confessioni, nella speranza che le assurdità di ciascuna meglio risaltino dal confronto con quelle di ogni altra. Nella Caritas in ventate (2009) Joseph Ratzinger ha sottolineato che «è la stessa pluralità delle forme istituzionali di impresa a generare un mercato più civile e al tempo stesso più competitivo». Il Papa e il Divin Marchese: l'accostamento non suoni provocatorio. Se le varie chiese, sinagoghe, madrasse ecc. sono anch'esse «forme istituzionali di impresa», e tali sono pure i vari centri di ricerca, le accademie, la associazioni culturali ecc., il pluralismo è la condizione imprescindibile di una lussureggiante crescita «spirituale», pur in un acceso conflitto di idee. L'anonimo pamphlettista di Sade era perentorio: «Non vorrei […] che ci si limitasse a permettere indifferentemente tutti i culti: io desidero che si sia

liberi di ridere o di beffarsi di tutti, che uomini, riuniti in un tempio qualsiasi per invocare l'Eterno a loro modo, siano visti come commedianti su un palcoscenico, al gioco dei quali è permesso a chiunque di andare a ridere». Peccava però di una certa superficialità quando asseriva che il potere della religione era «irrimediabilmente tramontato». Oggi, anno Domini 2010, non sono venute meno l'inclinazione dei popoli a battersi per le religioni né le intromissioni del clero nella vita politica. Lo riconosce lo stesso Benedetto XVI nell'enciclica, ove aggiunge che «il fanatismo religioso […] in alcuni contesti impedisce l'esercizio del diritto di libertà di religione». Ha i suoi buoni motivi; ma perché non ricordare che quello stesso fanatismo impedisce pure l'esercizio del diritto di libertà di irreligione? Viviamo in società fin troppo attente al rispetto delle varie fedi: qui da noi, in Italia, di una in particolare, cioè di quella cristiana «cucinata in salsa romana» (come diceva a suo tempo Giordano Bruno, finito sul rogo il 17 febbraio del 1600, a Roma in Campo dei Fiori, anche per essere stato autore di battute del genere). Dove passa mai il confine fra critica e beffa?. Non sono forse ironia e sberleffo due tra le migliori armi della critica? Possibile che la caricatura o la parodia si possano oggi usare per scienziati o (almeno finora) anche per politici, e ne debba essere esonerato qualsiasi Dio con i suoi «servi»? E se qualcuno esprime dubbi o sarcasmi, per ciò stesso è un bestemmiatore? E se pure lo fosse? In una società libera persino la blasfemia può avere una funzione euristica: individuare i punti deboli di questa o quella impostazione religiosa e manifestare persino con l'insulto l'insofferenza di chi cerca di ragionare o di agire fuori dalla gabbia dei conformismi. I più accorti tra gli stessi religiosi potrebbero imparare qualcosa da un Dio dei blasfemi, intuendo possibili difetti della loro dottrina preferita e cercando così di tramutare eventuali debolezze in punti di forza. S'intende, ovviamente, la forza che scaturisce dalle idee e dalla condotta esemplarmente coerente coi propri principi – senza mai ricorrere direttamente alla repressione o invocare il braccio dello Stato per «punire i peccatori». Tolleranza o rispetto? Esponenti di questo o quel fondamentalismo tacciano la tolleranza di essere solo un segno di indifferenza o sussiegosa altezzosità: essa viene trattata come una parola vuota e inutile, mentre viene dimenticato disinvoltamente il complesso e tormentato percorso filosofico che ha

messo fine a secoli di sanguinose guerre di religione. Si preferisce sempre più usare l'idea di rispetto a cui avrebbero diritto tutte le credenze o pratiche, per quanto assurde ci paiano. Poiché l'ateo di tali credenze pratiche non sa che farsene, richiedergli che le rispetti è mero non senso; anzi, facendo il verso ai suoi oppositori, potrebbe sentirsi «non rispettato» a sua volta, se gli si imponesse una reverenza, seppur formale, a ciò che desta la sua irritazione o il suo sarcasmo. Se la si mette sul piano del rispetto, non si esce da trappole di questo genere. Perché non chiudere tutto ciò ricordando che la blasfemia dell'ateo è appunto programmatico non rispetto di dogmi e di riti che hanno devastato individui e popoli, una reazione (magari viscerale) contro tutte le guerre condotte in nome di qualcosa in cui lui non crede o di cui, comunque, si fa beffa? La retorica del rispetto cela un vuoto di intelligenza e di memoria. La tolleranza che l'Occidente ha imparato a praticare tra lacrime e sangue non è stata annunciata dalle trombe degli angeli, ma è stata costruita da esseri in carne e ossa che rischiavano vita e proprietà – e per questo da espediente politico per la stabilità degli Stati è diventata precondizione per la più ampia libertà di coscienza. Tuttavia, il «tollerante» diritto di cittadinanza per qualsiasi credenza o pratica, indipendentemente da quanto assurda o irragionevole possa sembrarci, non va confuso con la retorica del rispetto che richiede che a ogni credenza o pratica venga garantita una sorta di immunità perpetua da qualsivoglia critica o dissenso. Siffatta retorica non è che l'ennesimo «tradimento dei chierici»: non solo per il passato dell'Europa e dei suoi prolungamenti al di là dell'Atlantico, ma contro quei popoli che, nelle più diverse parti del mondo, subiscono oggi la devastazione da parte di questo o quel fondamentalismo che, prima o poi, mira alla cancellazione delle garanzie politiche, e al dispotismo su menti e corpi di donne e uomini. Ai nostri occhi di occidentali che si sentono disincantati è spesso l'Islam che sembra incarnare lo spauracchio di un totalitarismo religioso inflessibile, e da molte parti ci si ripete che i musulmani non si limiterebbero a «goderne» a casa loro, ma vorrebbero imporlo a qualsiasi Paese in cui siano penetrati in numero sufficiente da farne terra di conquista. Come replicare a un grido di dolore del genere, sotteso dalla paura che noi – un tempo colonizzatori – possiamo ritrovarci colonizzati dall'Islam? La mia risposta è semplice: basta ricordare, come ha opportunamente osservato Sergio Romano (Corriere della Sera, 16 marzo 2010), che uno Stato al servizio della libertà di cittadine e cittadini «ha il diritto e il dovere di trattare tutti […] allo stesso modo, e non dovrebbe

quindi consentire ad alcuna confessione religiosa […] di prevalere sulle altre imponendo la propria dottrina in materia d'insegnamento, diritto di famiglia, sessualità». Ciò vale anche per i musulmani, che vogliamo difendere, come dice Romano, «quando sono trattati con diffidenza e privati dei diritti […] che lo Stato deve garantire a tutte la minoranze»; ma che non difenderemmo affatto «se davvero pretendessero di imporre la sharî'at [la legge divina] al Paese che li accoglie». Romano è del parere che «l'islamizzazione dell'Europa sia soltanto un drappo rosso agitato di fronte agli occhi degli europei dalle componenti più xenofobe delle loro società nazionali»; ma se (o quando) dei fanatici cercassero di violare una qualsiasi delle nostre libertà col pretesto che offende la loro religione, dovrebbero sentirsi ragionevolmente certi di non poter contare su alcuna complicità da parte delle strutture protettive del consorzio civile. Ciò, ovviamente, dovrebbe applicarsi non solo all'Islam, ma a qualsiasi religione (anche e soprattutto a quella che si pretende sia la religione della stragrande maggioranza della popolazione del Paese). È ateismo, questo? Molti fondamentalisti – delle «fedi» più varie – diranno di sì. Io ritengo che questa non sia un'accusa da cui difendersi, ma una lode: ci si dovrebbe sentire soddisfatti se si riesce a far capire ai fanatici di ogni risma che siamo disposti a combattere l'attentato alle nostre libertà ricorrendo – se è il caso – anche alla forza fisica. Se è però lecito richiedere tolleranza per gli individui (nel senso di lasciar loro la libertà di esprimere le proprie idee), non necessariamente dobbiamo portar reverenza a tutte le idee, rinunciando all'arma della critica. Così come non si pretende reverenza per la scienza (ma si rivendica il diritto degli scienziati a condurre in piena autonomia le proprie ricerche, contro gli attacchi e le azioni quotidiane svolte per impedirle), non c'è ragione di pretendere reverenza per qualsiasi religione (anche perché oggi nessuno, almeno in Occidente, mette in discussione la libertà di dedicarsi a questo o quel culto, purché non sia lesivo della legge). Del resto, perché artisti e intellettuali dovrebbero «mobilitarsi» se questo o quel capo religioso è diventato bersaglio di strali polemici, e lasciare che i loro «colleghi» del presente o del passato vengano censurati o emarginati per le pressioni di questo o quel gruppo «ultraortodosso»? E perché alcuni pensano che sia lecito bloccare un'attività scientifica e si scandalizzano se viene impedito che, poniamo, si celebri una messa? Perché, infine, la critica sarebbe legittima e auspicabile nella scienza (e contro la scienza) e rimarrebbe «blasfemia» e peccato nella religione (e contro di essa), si tratti

di una qualche forma di politeismo o di uno qualsiasi dei nostri tre monoteismi? Gli argomenti ateistici alla Sade non vanno presi alla lettera come delle ingiunzioni, bensì come i primi elementi di un'etica dell'irriverenza. L'ateo può essere, cioè, disposto a lasciar fiorire qualunque concezione o forma di vita, anche religiosamente ispirata, senza per questo esonerarla dalla critica o dall'irrisione e soprattutto senza concederne il monopolio alla concorrenza! Volete uno slogan? Qualsiasi esponente di un qualunque clero dev'essere libero di dire quello che vuole, ma nessun Reverendo merita reverenza. Religione e discordia «Arialdo, mentre la Chiesa milanese in vicinanza della Pasqua celebrava con gran devozione le Litanie, sosteneva, predicando e disputando coi chierici, che in tale periodo – secondo l'asserzione di sant'Ambrogio – non era necessario osservare alcun digiuno e che si poteva lecitamente in questi tre giorni mangiare carne e bere vino. Come tali affermazioni furono udite e ripetute per la città, s'interruppero le Litanie e s'accese tra le due parti una violenta zuffa. Ci furono degli scontri, durante i quali molti furono feriti da colpi di spada e di pietra e sei persone perdettero la vita.» Così Landolfo Seniore nella Historia Mediolanensis (redatta verso il 1100) a proposito di quel diacono Arialdo che doveva essere uno dei protagonisti dei tumulti detti della Pataria. Correva l'anno 1063; il nostro eroe aveva già predicato vigorosamente contro eccessi sessuali attribuiti al clero, ma nel contrastare «quel digiuno e quelle pie processioni», come avverte Pietro Verri nella sua Storia di Milano, doveva sortire ben altri effetti: «La morale severa […] concilia partito, perché si crede santa, e perché ognuno ama che generalmente gli uomini la pratichino; chi predica il contrario perde la stima e viene riguardato come un seduttore pericoloso […]. Declamando in favore del celibato [Arialdo] ebbe fautori, declamando contro il digiuno, rimase preda del furore del popolo». Salvato in extremis dai propri sodali, Finirà comunque «preso e ucciso al Lago Maggiore», nel 1066. La disputa religiosa diventa occasione di discordia civile appena una qualche questione che divide gli animi venga benedetta dalla parola di un religioso. Non è la disputa in sé, ma la violenza in nome di Dio che talvolta l'accompagna a rappresentare il pericolo maggiore. Chi stigmatizza una dottrina che ritiene «eretica» o una pratica che considera «idolatrica» spesso non esita a cercare di estirparla col ferro e col fuoco. Così, agli spiriti pii e devoti la pagina di Sade che apparirà più scandalosa non sarà

forse una delle tante in cui si manifesta incredulità rispetto a questo o quel dogma, ma quella di Francesi, ancora uno sforzo ove il pamphlettista raccomanda anche agli atei più arrabbiati di non conculcare l'espressione religiosa, per non regalare martiri alle consorterie clericali. Quel «repubblicano» parla anche per il nostro tempo. Quante volte apprendiamo dalla televisione o leggiamo sulla stampa di perorazioni o lamentele di alti prelati, sacerdoti di varie denominazioni cristiane, rabbini, imam ecc. che sostengono che «il potere laico» impedirebbe loro di esprimersi in materie che riguardano la coscienza o la salvezza non solo dei fedeli, ma di ogni essere umano come tale! Da noi, qualcuno blatera perfino di «congiura laicista». Io non ho una visione cospirativa della storia; ma se anche l'avessi, troverei gli eventuali «congiurati» piuttosto incapaci: nei media è sempre più difficile evitare di imbattersi nell'esaltazione di questa o quella «radice religiosa», per non dire del proliferare di storie edificanti di miracoli e miracolati! Altro che «dittatura» del relativismo, del materialismo, dell'ateismo. E allora la mia è un'esortazione a che gli atei siano davvero «libertini» nella loro irriverenza: che cioè accolgano nelle sedi pubbliche più diverse, o magari nelle loro abitazioni private, se lo ritengono opportuno, gli esponenti di qualsiasi chiesa, sinagoga, madrassa ecc. e li lascino pure parlare dei beni ineffabili della loro religione; ma che poi a quei signori non venga risparmiato l'attacco critico più spietato, senza alcuna remora all'esercizio dell'analisi scientifica o magari della satira più perversa. Se i suddetti signori si sentono per questo inquieti, ben venga la loro inquietudine: senza una perpetua irrequietezza non vive una società libera. Ma se decidono di dare sfogo a tale sentimento con minacce alla libertà di espressione altrui, non resta che ricorrere a quella difesa dei propri beni e della propria vita che è diritto di ogni cittadino esercitare contro gli intolleranti di qualunque estrazione. Religione «civile»? A buon diritto questa disposizione può essere esercitata sia contro il feticcio dell'ateismo di Stato sia contro l'idolo della cosiddetta religione civile. Cominciamo da quest'ultima. Niccolò Machiavelli: «Quegli principi o quelle repubbliche le quali si vogliono mantenere incorrotte, hanno sopra ogni altra cosa a mantenere incorrotte le cerimonie della loro religione». Spesso, nell'Antichità, il fondatore di uno Stato era un istitutore religioso – tra i Greci come tra i Romani. Giordano Bruno: può sembrarci «eroico», se non miracoloso, il gesto di chi, «senz'acqua», riesce a «estinguer il fuoco di una fornace ardente», ma è ancor più eccellente spegnere «senza sangue

[…] le sedizioni d'un popolo acceso». Per l'uno come per l'altro la questione non era se davvero esistessero gli dei dell'Egitto (Bruno) o quelli della Grecia o di Roma (Machiavelli), bensì se fosse socialmente utile il culto loro tributato. Che il Cristianesimo potesse assolvere a un'analoga funzione sociale, e con altrettanta efficacia, Machiavelli dubitava – almeno per le forme storiche che la dottrina e la pratica cristiane avevano assunto all'epoca sua. Quanto a Bruno, impressionato dalla ferocia dello scontro tra Riforma e Controriforma, stigmatizzava l'estremismo di entrambe le parti e raccomandava al potere politico (alle teste coronate, ma pure al Senato di qualche repubblica) di non cedere a quelli che insozzano il Vangelo col fumo delle pistole. Da par suo, in pieno Illuminismo, Voltaire teneva a distinguere «la religione dello Stato dalla religione teologica», sostenendo che solo la prima era necessaria alla conservazione dell'ordine (una societas di soli atei sarebbe impossibile, diceva in polemica con Bayle che sosteneva l'esatto contrario); l'altra, invece, era dissipazione del proprio tempo a livello individuale e devastazione del consorzio civile. L'autore del Dizionario filosofico auspicava «moschee, chiese, templi, giorni consacrati all'adorazione e al riposo, riti stabiliti dalla legge» e «ministri di questi riti che godano di considerazione senza potere» (corsivo mio). Questo era il dono di uno Stato capace di rispettare la libertà di coscienza; prezioso per gli esponenti di qualsiasi confessione, giacché li svincolava dall'essere strumenti di un potere che finisce col coartare la potenza di Dio a mero strumento di dominio. Tale distinzione potrebbe apparirci come un passo per liberare Dio dai burocrati di Dio; e in un certo senso, lo è davvero. Però, Voltaire sosteneva pure che «la moralità è una sola, come non c'è che una geometria» – e quindi, ogni religione non poteva che essere messa al servizio non solo della virtù privata ma anche dell'etica pubblica. Poniamo ora il caso che un seguace di una concezione politica della religione alla Machiavelli, alla Bruno o anche alla Voltaire ritenga che il Cristianesimo potrebbe funzionare come strumento di pace e virtù civili, meglio del Paganesimo antico. O immaginiamo che qualcuno ci venga a dire che il nostro Paese, l'Italia, aveva già la sua religione civile ancor prima di diventare, nell'Ottocento, una Nazione: è dalla sua radice cattolico-romana che sarebbe potuta germogliare la pianta della sovranità capace di plasmare delle cittadine o dei cittadini responsabili e solidali, e non dei meri esponenti del più «anarcoide» individualismo. Per chi la pensa in tal modo, il fatto che nel Risorgimento le cose non siano andate in questa direzione sarebbe un semplice incidente di percorso; in futuro

potrebbe (anzi, dovrebbe) funzionare così, a cominciare da questi nostri giorni disordinati e confusi. Ecco un'evenienza che forse nel loro anticattolicesimo né Machiavelli né Bruno né Voltaire avevano previsto, ma che non è affatto incompatibile con la loro concezione della religione messa al servizio dello Stato. Come dei premurosi «laici», almeno nel nostro Paese, si affrettano sempre più spesso a confermare. In tanta strumentale «devozione» è interessante che il controcanto a questa litania venga talvolta da pensatori cattolici di ben diverso stampo: «Quando i cristiani […] progettano una 'religione civile' cercando di instaurare presidi e tentando alleanze strategiche con chiunque offra un appoggio alla forza di pressione cristiana nei confronti della società, allora confondono la chiesa con il regno di Dio, progettano una Cristianità che appartiene al passato, che non può essere risuscitata e che, soprattutto, contraddice la buona notizia di Gesù». Così Enzo Bianchi, fondatore e priore della Comunità monastica di Bose, nel suo La differenza cristiana (2006). Personalmente, non sono sicuro che una Cristianità come quella che a lui pare così arcaica non possa «essere risuscitata». A parte ciò, la sua tesi merita una piccola digressione. Cappotto e cappello Continua il priore di Bose: «Non soluzioni tecniche, non ricette politiche, ma la voce dei pastori sarà tanto più autorevole quanto più capace di essere voce del Vangelo e non di risposte tecniche in merito all'attuazione delle esigenze evangeliche. Ecco perché è sbagliato sostenere […] che i vescovi pagano le tasse e sono cittadini di uno Stato, liberi di entrare direttamente in politica». «Sbagliato», precisa il nostro autore, non sotto l'aspetto formale della democrazia, bensì sotto quello evangelico. Certo, «un pastore che faccia politica non lede le leggi di una democrazia in cui la Chiesa è una delle tante realtà religiose»; però, con quello stesso atto «inocula nella comunità cristiana fermenti di divisione, sicché la sua cura del gregge non è più cura di comunione». Mi piacerebbe sentire cosa pensano le alte gerarchie della Chiesa Cattolica Romana di questa valutazione; per intanto, Bianchi si è preso le bacchettate da un puntiglioso filosofo del linguaggio, Diego Marconi (2007), che lo ha accusato di proporre indebite censure: «I vescovi italiani si comportano di fatto come una lobby, cercando d'influenzare i parlamentari di cui sono in grado di condizionare l'elezione. Che questo possa non piacere a un cattolico, si capisce; ma un cittadino qualsiasi non dovrebbe avere, in questo caso particolare, obiezioni diverse

da quelle che può avere all'azione delle lobby in generale. […] I laici e i credenti che non condividono le posizioni dei vescovi italiani farebbero meglio a contrastare quelle posizioni nelle sedi appropriate anziché perseguire improbabili e illiberali limitazioni della facoltà dei vescovi di intervenire nel dibattito pubblico» (corsivo mio). È un giudizio severo. Però, Marconi non tiene conto che l'appartenenza a una lobby è incoerente non solo con molte dichiarazioni di esponenti della Chiesa Cattolica Romana ma (soprattutto) con quelle del Vangelo (possibile che un filosofo del linguaggio non colga l'importanza della coerenza tra quel che si predica e quel che si fa?) Comunque, nel quarto capitolo accennerò a come, a mio avviso, cittadine e cittadini del nostro Paese dovrebbero «contrastare quelle posizioni» degli alti prelati a livello pratico. Per ora, mi limito ad aggiungere che l'ateo blasfemo e libertino descritto in questo capitolo magari potrà guardare con simpatia alla buona fede che sottende il monito (in negativo) del priore di Bose; ma difficilmente riuscirà a spegnere la diffidenza per il linguaggio «pastorale» con cui è formulata la sua proposta (in positivo). Gregge? Perché mai trattare gli esseri umani alla stregua di pecore irregimentate? Come faceva notare Mill, nel Saggio sulla libertà (1859), «persino le pecore non sono tutte identiche»! E allora, che bisogno c'è di «pastori»? Siccome non siamo tutti uguali abbiamo ciascuno bisogno di «cappotto e cappello» della giusta misura (il paragone è liberamente tratto da Mill), e magari qualcuno potrebbe decidere di farne a meno. Vale anche per Dio: il freddo qualche volta fa bene, snebbia il cervello, fortifica il corpo. A questo punto qualcuno mi accuserà di trattare il Signore del mondo alla stregua di un capo di vestiario. Meglio così, piuttosto che farne un despota! Coloro che sostengono l'inevitabilità politica della religione nel caso migliore rischiano di venire arruolati, magari controvoglia, nelle file di una qualche teocrazia; nel caso peggiore, sono loro che direttamente assoggettano gli altri! Né sembra portare chiarezza la retorica della «religione della libertà», come se la libertà venisse da Dio, o fosse Dio. Onorarla in questo modo significa tradirla. Preferisco libertà senza religione, perché voglio la chance di non aver religione – nemmeno una religione della libertà. Ritengo infine che – al di là delle buone o cattive intenzioni – se una locuzione come «religione della libertà» ha una qualche pregnanza (e non è un mero espediente linguistico), anche tale «religione» dovrà avere i suoi «pastori» – che potrebbero rivelarsi «pii e invadenti» non meno dei fanatici propagandisti della teocrazia islamica, così temuta dalle anime belle dell'Occidente.

Contro l'ateismo di Stato «L'ateismo moderno si presenta spesso anche in forma sistematica, secondo cui, oltre altre cause, l'aspirazione dell'autonomia dell'uomo viene spinta così avanti da fare difficoltà nei riguardi di qualunque dipendenza da Dio», leggiamo nella Gaudium et spes. Torneremo sulla nozione di autonomia nei capitoli successivi e soprattutto nell'Epilogo. Ma c'è un passo di quel testo che vale la pena di esaminare già qui perché consente di liberare il campo da un equivoco: «Tra le forme dell'ateismo moderno non va trascurata quella che si aspetta la liberazione dell'uomo soprattutto dalla sua liberazione economica e sociale. Si pretende che la religione sia di ostacolo, per natura sua, a tale liberazione, in quanto, elevando la speranza dell'uomo verso una vita futura e fallace, la distoglie dall'edificazione della città terrena. Perciò i fautori di tale dottrina, quando arrivano a prendere in mano il governo, combattono con violenza la religione, e diffondono l'ateismo anche ricorrendo agli strumenti di pressione, di cui dispone il pubblico potere, specialmente nel campo dell'educazione dei giovani». Congedando queste righe il 7 dicembre 1965, Paolo VI alludeva all'URSS e agli altri Paesi del socialismo reale. Ora che l'Unione Sovietica si è dissolta, sono ancora attuali queste preoccupazioni? Ha ancora senso parlare di ateismo di Stato? A me sembra che promuovere qualcosa del genere non sia altro che affidarsi a una particolare religione civile (vedi il paragrafo precedente): la religione dell'ateismo. In sé non avrei nulla da obiettare a questa religione mondana – o meglio, nulla più di quanto abbia da obiettare alle altre religioni, più tradizionali. Ma qualunque religione comporta il costituirsi di una comunità i cui membri si vincolano reciprocamente secondo schemi pubblici: allora, se l'ateismo militante prendesse corpo in strutture istituzionali e dettasse una politica, offrirebbe dimostrazione non di forza ma di debolezza. Il libertino, coerente nella sua irriverenza, combatterà non solo qualunque imposizione religiosa nel senso classico della parola, ma anche qualsiasi forma coercitiva di ateismo, anche se la coercizione viene esercitata in nome di uno dei tanti «valori umani» predicati sotto un cielo vuoto di Dio. E perché dovremmo sostituire alla dipendenza dalla divinità (il Dio o gli Dei delle religioni tradizionali) una dipendenza, altrettanto vischiosa, dallo Stato? Rispondo: nessuno Stato è Dio, perciò nessuna repressione dello Stato sulle coscienze. Dunque, questa irriverenza può essere la base di un'alleanza con tutte le religioni arbitrariamente conculcate. Il che comporta libertà per la fede, o meglio per le fedi, al plurale. Può sembrare paradossale che questa diventi la «professione» di

un ateo; ma la cosa può scandalizzare solo dei bigotti, sia pure i bigotti dell'ateismo. Si tranquillizzi, allora, qualsiasi buon cristiano (o musulmano ecc.) che teme che «i nuovi atei» vogliano radere le chiese (moschee ecc.) al suolo. Niente di più falso: l'ateo per scelta antistituzionale si tiene senza problemi le chiese, e anche le sinagoghe, anche le madrasse ecc. che scandiscono il paesaggio di città meravigliose come Roma, Istanbul, Cordova o Damasco… Sono patrimoni che desidera salvare dalla furia dei diversi fondamentalismi – nonché dalla speculazione edilizia. Che ci siano degli atei in questa accezione è una garanzia per i religiosi di qualunque fede; o meglio, le cose andrebbero proprio così, se questi atei ci fossero per davvero e, nel rivendicare orgogliosamente la propria libertà, potessero giovare a quella degli altri. Un ateismo di questo tipo, infine, è un buon affare per i devoti (se fossero intelligenti e virtuosi nel senso machiavelliano dei termini, dovrebbero persino promuoverlo). Così, non si rischia nemmeno il paradosso del libero pensiero denunciato nel sarcastico Dizionario del Diavolo di Ambrose Bierce: se credi nella libertà di coscienza devi concedere che «la coscienza è libera di respingere tale dottrina»! È un tipo di autoriferimento che sembrerà un vizio per ogni dogmatica forma di ateismo; diventa, però, una virtù per un ateismo autenticamente libertino. Però, sul piano istituzionale non si scambi tutto questo per un concetto ristretto di laicità che definisca lo spazio pubblico come quello messo a disposizione di tutte le religioni – perché tale caratterizzazione non tiene conto di quegli atei libertini e irriverenti che non vogliono rinunciare ai beni terreni in cambio di un qualunque «paradiso», in questo o nell'altro mondo. Sono convinto che si possa avere un'etica pubblica anche senza Dio, ma ritengo altrettanto sensato pensare che si possa avere una società libera anche con Dio. Esigere che la società sia aperta a ogni realtà religiosa (purché quest'ultima rispetti il vincolo dell'assenza di danno ad altri) non implica tuttavia autorizzare quel Dio a devastare impunemente le nostre esistenze. Una società con Dio – o con più Dei, tanti quante sono le «chiese» che propongono la propria (magari «unica») divinità – può restare libera solo a patto che non impedisca ad alcuno di negare l'esistenza di questa o quella divinità, anche se costui si fa «impudentemente» beffa dei sacri testi di qualsivoglia dottrina filosofica o religiosa. Non ci sono bestemmie o lazzi così «satanici» da richiedere un qualche intervento di Stato: non sono capaci i tanto zelanti servitori di Dio di rispondere con una critica intelligente ai blasfemi o ai beffeggiatori? Se invece i «devoti»

passano direttamente alla violenza in prima persona, o a indebite pressioni politiche lesive dell'altrui libertà, sappiano che allora lo Stato è autorizzato «a tagliare loro gli artigli» (per dirla con l'efficace linguaggio usato in Inghilterra ai tempi di Cromwell a proposito dei fanatici di ogni risma, che in nome di Dio pretendevano di abolire qualsiasi libertà di espressione). Buon appetito! Sia lecita una nota personale. Non amo né l'irrisione gratuita né l'insulto – e preferisco alla bestemmia di Sade lo humour esercitato da David Hume a proposito del dogma cattolico della presenza del corpo e del sangue di Cristo nel pane e nel vino dell'Eucaristia. In una pagina della Storia naturale della religione (1757) il filosofo scozzese raccontava di un certo Mustafà finito prigioniero in Francia dopo aver combattuto dalla parte degli Ottomani. Alcuni dei dottori della Sorbona lo spingono a farsi cristiano anzi cattolico, incentivandolo con le promesse di «un po' di buon vino in questo mondo e del paradiso in quello futuro». Viene opportunamente catechizzato; e quando gli chiedono «Quanti dei ci sono?», lui risponde: «Uno solo», con grande soddisfazione dei suoi maestri. Battezzato, riceve l'Eucaristia. Ma ai suoi istitutori non basta: con questi immigrati non si sa mai, meglio rifare l'esame! Così, il giorno successivo «il prete, per rendere la cosa più ferma e più sicura, continuò la sua istruzione e ricominciò […] con l'abituale domanda 'Quanti dei ci sono?' 'Non ce n'è nessuno', rispose Benedetto, infatti questo era il suo nuovo nome. 'Come! Nessuno?', grida il prete. 'Sicuramente', ribatte l'onesto discepolo. Mi avevate detto che vi era un solo dio, e ieri l'ho mangiato'».

2 CONTRO LA RASSEGNAZIONE Ateismi. Lo scandalo del male Ateo si dice in molti modi. Nella citata Gaudium et spes (1965), ovvero Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, che riassume i risultati del Concilio Vaticano II, si avverte che l'ateismo «va annoverato fra le cose più gravi del nostro tempo» e poi se ne dà una sorta di campionario, avvisando che con quel termine si designano però «fenomeni assai diversi tra loro». Ed ecco un piccolo campionario: «Alcuni negano esplicitamente Dio, altri ritengono che l'uomo non possa dir niente di lui, altri poi prendono in esame i problemi relativi a Dio con un metodo tale che questi sembrano non aver senso. Molti, oltrepassando indebitamente i confini delle scienze positive o pretendono di spiegare tutto solo da questo punto di vista scientifico, oppure al contrario non ammettono ormai più alcuna verità assoluta. Alcuni tanto esaltano l'uomo, che la fede in Dio ne risulta quasi snervata, inclini come sono, a quanto sembra, ad affermare l'uomo più che a negare Dio. Altri si creano una tale rappresentazione di Dio che, respingendolo, rifiutano un Dio che non è affatto quello del Vangelo. Altri nemmeno si pongono il problema di Dio: non sembrano sentire alcuna inquietudine religiosa, né riescono a capire perché dovrebbero interessarsi di religione». Ciascuna di queste definizioni potrebbe venire analizzata nel nostro libro. Nel capitolo precedente si è trattata la negazione esplicita di Dio (distinguendola dall'agnosticismo di chi ritiene che le creature umane «non possano dir niente» di Lui). Altre accezioni saranno esaminate nei capitoli terzo (l'oltrepassamento «indebito» dei confini delle scienze «positive»), quarto (niente più verità «assoluta») e quinto (l'approccio che considera il problema teologico di Dio o quello metafisico dell'Essere come «privo di significato»). Per ora, esaminiamo il tipo di ateismo, soprattutto moderno e contemporaneo, che (sono sempre parole della Gaudium et spes) «ha origine non di rado dalla protesta violenta contro il male del mondo». Leggiamo nella Bibbia, Sapienza 14,25: «Ed ogni cosa è confusamente piena di sangue, e di omicidi, e di furti, e di fraudi, e di corruzione, e di dislealtà, e di tumulti, e di spergiuri, e di turbamenti de' buoni». Ecco una potente immagine del dispiegarsi del male, il cui tratto più inquietante è la sofferenza degli innocenti; eppure, questa non dovrebbe sfuggire a un Dio onnisciente e onnipotente, che «dispone ogni cosa soavemente» (Sapienza 8,1). È una dolcezza che pare sospetta.

Padre delle Tenebre Altri passi biblici suonano ancor più terribili. Isaia 45,6: «Io son il Signore, e non ve n'è alcun altro». Poco dopo (45,7): sono Io «che formo la luce, e creo le tenebre: che fo la pace, e creo il male». In un tribunale si direbbe: piena confessione! A Dio è dunque imputabile il male che lui stesso «crea»? È di questo Dio tenebroso che John Stuart Mill ci invitava a disfarci nell'ultimo dei suoi Saggi sulla religione (postumi, 1874). Autore di un Sistema di logica (1843), teorico del governo rappresentativo, ma anche appassionato nemico della «soggezione delle donne», sostenitore dell'abolizione della schiavitù e difensore dell'autodeterminazione dei popoli, Mill si dichiara convinto che il politeismo (in breve, «ogni dio governa normalmente il suo reparto particolare», anche se può esistere qualche altro dio più forte di lui) sia più «naturale» della credenza in un Dio unico. Il monoteismo si sarebbe imposto in modo stabile solo con l'avvento di una mentalità scientifica matura. Quando si cerca di «dimostrare, con l'accumularne le prove che ogni evento dipende da eventi antecedenti», si è portati a pensare «che nessun evento […] possa venire preordinato o regolato con assolutezza da un qualunque essere che non sia quello che detiene nelle proprie mani le redini di tutta la Natura». Il passo di Mill rovescia l'idea – abbastanza in voga presso gli storici del pensiero, di ieri come di oggi – che solo il Dio unico avrebbe potuto rendere concepibile una Natura spiegabile scientificamente: all'inverso, è il consolidarsi dell'indagine teorica e dell'applicazione tecnologica a spingerci al «teismo razionale» – cioè alla convinzione filosofica dell'esistenza di un'unica divinità, che per gli spiriti religiosi dell'Occidente coincide con il Dio di Abramo. Potremmo commentare con il fisico Richard Feynman (Nobel 1965): nei fenomeni naturali «c'è anche una struttura, un ritmo che non appare direttamente all'occhio, ma che si rivela solo dopo più attenta analisi; e sono appunto questi ritmi e strutture che noi chiamiamo leggi fisiche». È in tale quadro che Mill riteneva che Dio potesse operare amando le proprie creature, ma senza alcuna possibilità di infrangere tali leggi. Non era un ateo nell'accezione che abbiamo dato alla fine del primo capitolo; piuttosto, Mill ha scartato l'idea di un Dio insieme sommamente potente e buono, e ha prospettato la scelta tra un Dio sommamente potente e un Dio sommamente buono. Se si opta per il secondo dotato di somma bontà ma non di potenza assoluta – ci si ritrova col miglior alleato del genere umano nella resistenza contro il dolore e la morte. Come ha osservato Ludovico Geymonat (nel presentare una versione italiana dei Saggi milliani nel 1953) è tale concezione della

divinità come «completamente inserita nel mondo» che ci consente di sperare qualche successo nella lotta incessante contro il male: è una profonda solidarietà tra il Creatore e le sue umane creature a permettere una cooperazione contro i disastri della natura e le ingiustizie sociali. Con il vantaggio che noi esseri umani non siamo più condannati alla pura rassegnazione. Come diceva Mill, è vero che spesso siamo «tentati di ascrivere alla volontà di un creatore diverso» le forze maligne; ma nella natura è difficile scorgere un piano del male, cioè «una recondita predisposizione dei mezzi di distruzione»; semmai, constatiamo che spesso la distruzione di una creatura è il solo mezzo di preservarne altre. Allora, «gli agenti distruttori» risultano «una parte necessaria degli agenti preservatori». Dio è assolto: il male non è più imputabile all'Essere infinitamente buono, ma alla «qualità del materiale» di cui siamo fatti noi stessi e il mondo. Chi la pensa così non è ateo nel senso che contesta l'esistenza di Dio – ma è «ateo» nel senso che ne nega l'onnipotenza. Mill era di questa opinione per salvare di Dio la bontà somma, confermata dalle conquiste dell'impresa scientifica. Ma non molti cristiani lo hanno seguito su questa strada. Anche perché una diversa tradizione offriva una differente soluzione al problema del male. Il Diavolo, probabilmente Sapienza 2,24: è «per l'invidia del Diavolo [che] la morte è entrata nel mondo». L'autore di quel libro (un tempo si credeva che fosse il saggio Salomone) restava persuaso che alla fine il Signore soccorrerà i giusti, consegnando i reprobi al loro destino; solo che tutto sarebbe avvenuto in un lasso di tempo che trascende aspettative e paure dei singoli. Nasce da qui la tentazione di quel particolare ateismo stigmatizzato dalla Gaudium et spes e provocato dal troppo potere lasciato al Diavolo che, per dirla col poeta Percy Bysshe Shelley, «è simultaneamente l'Accusatore, il Procuratore generale e il Carceriere del Tribunale celeste». Una specie di burocrate sottoposto al disegno di Dio onnisciente e onnipotente. Shelley insinuava che la concezione cristiana del Diavolo, elaborata su qualche base «caldaica» e «tardo-ebraica», fosse semplicemente un palliativo che doveva rendere il Dio unico («despota sospettoso e invidioso») più tollerabile ai suoi adoratori, che aveva ridotto a «schiavi presi dal panico». Il giovanissimo Shelley, rampollo dell'aristocrazia britannica, doveva venire cacciato dall'impeccabile Oxford nel 1811. Eppure, questo poeta maledetto – che poi (non diciamo da vecchio: non ha fatto in tempo a

diventarlo) avrebbe dichiarato di preferire l'arcaico Prometeo, il fuoco della tecnica, al nuovo arrivato Gesù, il volto sofferente della rassegnazione – era disposto a spezzare una lancia per il Diavolo, ammonendo i compunti teologi a non annacquare troppo le brucianti fiamme dell'Inferno. Se eliminiamo il Diavolo, che ne sarà di Dio? Shelley parlava con ironia; ma sono preoccupazioni prese sul serio ancora da un pontefice colto e raffinato come Paolo VI, il quale indicava (1972) tra i «bisogni maggiori della Chiesa […] la difesa da quel male che si chiama Demonio». Indicazione – si chiedeva in un momento di riflessione (auto) critica – «semplicistica o addirittura superstiziosa»? No. Il Diavolo c'è! E l'autorità della Chiesa assicura che dobbiamo guardarci da lui, altrimenti corriamo rischi mortali. Anche a livello intellettuale: se cancelliamo l'invidia del Diavolo e concepiamo il male come qualcosa di puramente umano, non si conferisce con questo alla stirpe di Eva e di Adamo un eccessivo potere di maleficio? E tutto in piena buona fede, sempre per difendere Dio da coloro che «odiosamente» l'accusano di causare la sofferenza anche di chi non sembra avere colpa. Come vedremo nell'esempio del prossimo paragrafo. Dalla Savoia al Vaticano Maligno a parte, il dolore degli innocenti non è affatto un argomento valido per negare la Provvidenza divina, almeno per il savoiardo Joseph de Maistre (vero iniziatore del genere «antimoderno cattolico», come lo ha definito il filosofo Augusto Del Noce). Il quale, citando Ecclesiaste 7,20 («Certo non v'è niun uomo giusto in terra, il quale faccia bene, e non pecchi»), liquidava il problema dichiarando che nessuno è davvero innocente. Però, lui stesso ammetteva dei casi (pochi) ove la soglia dell'innocenza era quasi raggiunta. Per esempio, ecco una fanciulla di diciotto anni che «da cinque è tormentata da un cancro orribile che le rode il capo. Già sono scomparsi gli occhi e il naso, e il male avanza sulle sue carni verginali come un incendio divora un edificio. Preda delle sofferenze più acute, una pietà tenera e quasi celeste la stacca interamente dalla terra e sembra renderla irraggiungibile o indifferente al dolore […]. Dalla sua bocca non sono mai uscite che parole d'amore, di sottomissione e di riconoscenza». Joseph de Maistre invitava ad accostarsi a tale vittima senza colpa con la stessa reverenza con cui si entra in chiesa, nel tempio di Dio: «L'inalterabile rassegnazione di questa fanciulla è diventata una specie di spettacolo; e come nei primi secoli del Cristianesimo ci si recava al circo

per pura curiosità, per vedersi Biondina, Agata, Perpetua gettate ai leoni o ai tori selvaggi, e più di uno spettatore ne usciva sorpreso di ritrovarsi cristiano, così vengono molti curiosi […] a contemplare la giovane martire 'gettata al cancro'». Se ne guadagnano, conclude il savoiardo, «pensieri migliori». Ma per un ateo – anzi, semplicemente per uno che si trovi d'accordo con Mill – il tempio del dolore non è che uno dei tanti effetti presenti in natura. E a livello di un minimo buon gusto può venir spontaneo osservare come ci sia più sadismo in quell'edificante «spettacolo», su cui ricama de Maistre, che in tutti i supplizi a cui veniva sottoposta la sventurata Justine di Sade. Comunque, Le serate di Pietroburgo hanno come sottotitolo Colloqui sul potere temporale della Provvidenza, sono cioè dei dialoghi che si fingono avvenuti nell'estate 1809 tra un Conte che viene dalla Savoia, un Cavaliere francese spinto in Russia «dalle tempeste» che hanno sconvolto la Francia e un Senatore di Pietroburgo (la «rumorosa città» della giovane martire di cui sopra). Il testo è stato pubblicato nel 1821, incompiuto, alla morte dell'autore. Ora, senza addentrarci nella questione di quale dei personaggi rappresenti la genuina opinione del pensatore savoiardo, basterà ricordare che i tre protagonisti delle Serate sono ossessionati dal pericolo della «teofobia», cioè quella variante di ateismo che maledirebbe il Signore a causa dello scandalo del male. Dice il Senatore (un cristiano ortodosso che ama discutere con dei cattolici) che Dio ne è responsabile solo come un «sovrano è autore dei supplizi che vengono inflitti in base alle sue leggi: in un senso remoto e indiretto, è lui che impicca e che fustiga, perché ogni autorità e ogni esecuzione legale vengono da lui; però, in senso diretto e immediato sono i ladri, i falsari, gli omicidi ecc. i veri autori del male che li punisce; sono essi che costruiscono le prigioni, che alzano le forche e i patiboli». Insomma, il sovrano punisce «volontariamente, ma a malincuore». Quello di Joseph de Maistre potrebbe sembrarci un modo di pensare strettamente ispirato dalla reazione alla Rivoluzione francese; eppure, basta dare un'occhiata alle cronache odierne per scoprire che non è solo questo, e non tanto nei soliti Paesi islamici, bensì nel nostro Occidente post-illuministico ma non sempre illuminato. Pat Robertson, telepredicatore fondamentalista protestante, a proposito del recente disastro di Haiti ha dichiarato che si è trattato della punizione divina per il «Patto col Diavolo» stipulato dagli schiavi ribelli all'inizio (1791) della loro lotta di liberazione (la notizia è riportata dal Corriere della Sera, 16 gennaio 2010; il video è stato pubblicato anche su YouTube). Se in una delle sue forme più virulente il Protestantesimo USA ha dato l'ennesima

prova di non aver mai perdonato agli haitiani di aver abbattuto a casa loro la schiavitù ben prima di Lincoln nel Continente e di aver costruito (1804) una «repubblica di neri» non lontana dalle coste del Nordamerica, la Chiesa Cattolica Romana ha riconosciuto Haiti (una ex colonia francese) come Stato indipendente solo nel 1860, facendogli scontare di essere nato sotto il segno del Vudù e dei giacobini! Abbiamo accennato nel primo capitolo al giacobinismo; quanto al Vudù, è bene ricordare che il termine viene da una parola africana che indica il divino: senza tracciare una netta linea di confine tra monoteismo e politeismo, i suoi cultori sembrano riconoscere un pantheon di loa, o spiriti intermediari tra Creatore e creature. Una certa alterigia «bianca» non ha mancato di trasformare in racconti horror le possessioni vuduiste: ma c'è così grande differenza tra queste manifestazioni del Divino e non pochi comportamenti dei «folli di Dio» delle varie religioni monoteistiche? La Repubblica di Haiti è stata per noi nel 2010 quello che la città di Lisbona fu per l'Europa nel 1755, quando due ore e mezzo di scosse di terremoto la mattina del giorno di Ognissanti causarono la morte di ventimila persone su duecentosettantamila (centocinquantamila, invece, le vittime in Haiti, stando a una delle stime più «ottimistiche»). Ebbero a notare illuministi come Voltaire o Kant che tra gli edifici di Lisbona rasi al suolo erano incluse le chiese in cui molti buoni cristiani assistevano alla messa: evidentemente, Dio riconoscerà i suoi! Per tornare a de Maistre, quelle che noi oggi chiamiamo catastrofi naturali (dimenticando come esse sembrino accanirsi soprattutto contro i «dannati della Terra») erano agli occhi del savoiardo le evidenze più lampanti di una teodicea (alla lettera, «dottrina del diritto e della giustizia di Dio») che considerava tsunami e terremoti, carestie ed epidemie, ma anche guerre tra Stati e guerre dello Stato contro i suoi cittadini come legittime punizioni comminate dal Signore alle sue colpevoli creature. Joseph de Maistre definisce in particolare la guerra come un dono di Dio (ben prima che qualcuno nel Novecento la teorizzasse come sola «igiene del mondo»), né ci risparmia l'elogio del boia: su questo singolare personaggio si basa «ogni sudditanza». Il carnefice «costituisce l'orrore e il legame dell'associazione umana. Togliete dal mondo questo agente incomprensibile, e nello stesso istante l'ordine lascia il posto al caos, i troni si inabissano e la società scompare». Per de Maistre al Signore onnipotente e onnisciente nei Cieli corrisponde sulla Terra il sovrano potente e informato circa ognuno dei suoi sudditi. Comunque, chi ci garantisce che con i loro apparati militari e

polizieschi le varie teste coronate non esagerino nell'opera di repressione, entro il proprio Stato come all'estero? L'autore delle Serate di Pietroburgo sperava che con una sottile operazione di unificazione religiosa, al di là delle differenze di superficie (si poteva ricorrere anche alla Massoneria), le varie denominazioni cristiane avrebbero potuto ritrovarsi affratellate (una volta cancellata la «esecrabile» Riforma dei protestanti) sotto il controllo del Papa, unico garante che il potere politico non degeneri in una costellazione di dispotismi assoluti. Di solito de Maistre è presentato come un genuino pensatore cattolico; a rigore meriterebbe piuttosto l'etichetta di papista per la rivendicazione della superiorità del Pontefice romano su qualsiasi governo. E ora, a quasi due secoli dalle Serate, la parola a un papa venuto da Cracovia: «Come è l'amore il supremo precetto nei confronti di Dio Persona [sic!], così non può essere che l'amore il dovere fondamentale verso la persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio. Proprio questo codice morale proveniente da Dio […] è anche l'intangibile base di ogni legislazione umana in qualunque sistema e, in particolare, in quello democratico. La legge stabilita dall'uomo, dai parlamenti e da ogni altra istanza legislativa umana non può essere in contraddizione con la legge di natura cioè, in definitiva, con l'eterna legge di Dio». Così Giovanni Paolo II, al secolo Karol Józef Wojtyła, in Memoria e identità (2005). Non tragga in inganno la locuzione «legge di natura»: non si tratta di una legge nel senso di quelle stabilite nel faticoso lavoro della ricerca scientifica. Anzi, guai a pensare che possano essere gli scienziati a dare ragguagli e indicazioni su temi come quelli della cosiddetta bioetica: si sarebbe tacciati di scientismo! Del resto, non erano stigmatizzati nella Gaudium et spes come atei coloro che «pretendono di spiegare tutto» dal punto di vista del sapere scientifico? (Vi torneremo nel terzo capitolo.) Ora, che la scienza possa far del bene – per esempio, lottando contro il cancro – lo riconoscono anche pontefici e prelati che, quando pare loro il caso, non esitano a ricorrere per se stessi alla medicina o alle tecniche più avanzate (e non si limitano alla preghiera). Ma le decisioni pertinenti modalità e finalità della ricerca spetterebbero secondo loro ai sacerdoti, non ai biologi o ai fisici! E comunque, se la scienza cerca di ridurre o eliminare il dolore, non priva così i cristiani di preziose opportunità di mostrare a Dio (e ai non credenti) la forza della loro rassegnazione? «Quando non era qualche infermità a fargli vivere l'esperienza del dolore, era lui stesso a infliggere al proprio corpo disagi e mortificazioni. […] Come hanno potuto sentire con le proprie orecchie alcuni membri del

suo stretto entourage, in Polonia come in Vaticano, Karol Wojtyła si flagellava. Nel suo armadio, in mezzo alle tonache, era appesa sull'attaccapanni una particolare cintura per i pantaloni, che lui utilizzava come frusta e che faceva portare sempre anche a Castel Gandolfo.» Almeno, così riferiscono Sławomir Oder e Saverio Gaeta (Perché è santo. Il vero Giovanni Paolo II raccontato dal postulatore della causa di beatificazione, 2010). Sia o no attendibile la testimonianza, qui non si contesta in sé tale tipo di scelta di dolore; si vuole solo sottolineare che per l'ateo che «protesti violentemente contro il male del mondo» la sofferenza non è edificante, la sopportazione è solo una sconfitta, la gioia con cui si accoglie il dolore difficilmente si distingue dal masochismo. L'ateo si ribella al male, si rifiuta di accettarlo, anzi osa combatterlo. Anche Gesù ha cercato di guarire i propri «simili» dalla sofferenza e si è ribellato alle autorità e alle ingiustizie della sua epoca: «ateo» pure lui? I monarchi tanto cari a Joseph de Maistre si sono «inabissati» (almeno in larga parte, e comunque noi, se ne vedremo qualcuno annaspare in acqua, non gli getteremo la ciambella di salvataggio): a parole, il nostro sarebbe il tempo della democrazia, nella quale finalmente tutti hanno (o dovrebbero avere) diritto di espressione e libertà di scelte di vita. Ma la sovranità della legge di Dio – nel pensiero papista – sembra esonerata dalla democrazia. Wojtyła non cessava di attaccare parecchie «scelte legislative decise nei parlamenti degli odierni regimi democratici»: aveva in mente soprattutto le «leggi abortiste» (detto con maggior precisione, le norme che regolano l'interruzione di gravidanza), e non esitava a dichiarare che «i parlamenti che approvano e promulgano simili leggi devono essere consapevoli di spingersi oltre le proprie competenze e di porsi in palese conflitto con la Legge di Dio e con la legge di natura». Tutto nel più puro spirito delle Serate, per cui tali verità dell'essere erano evidenze «indiscutibili». Oggi vanno di moda i valori «non negoziabili». Giustizia e malignità L'ateo direbbe, invece, discutiamone (e magari, alla fine della discussione, negoziamo). Per prima cosa, Dio è davvero responsabile dei dolori che tormentano gli esseri umani, peccatori oggi nella loro quotidiana esistenza, peccatori all'origine dei tempi nelle persone di Eva e di Adamo? Dio è giusto, anche se fa quel che gli pare: cito dalla Congrégation sur l'élection éternelle di Giovanni Calvino. Sostenitore della «elezione eterna», cioè della tesi per cui il Signore «ha scelto» chi tenere con sé prima ancora della creazione del mondo e dell'uomo, Calvino non vuole eludere il tema

più angoscioso: «Siamo tutti perduti in Adamo» (anzi, nous sommes tous abêmés). Ma la Provvidenza è separabile dalla Preveggenza del Signore? Quando Dio ha creato il primo uomo, non ha forse previsto cosa ne sarebbe seguito? Non stava Dio «disponendo secondo la propria volontà»? «È innegabile», ammette Calvino; e concede che Dio ha pur creato l'essere umano «giusto e buono e retto nella propria natura»: ma se poi questi ha tralignato nella sua insubordinazione a Dio, «è cosa sua, né può essere attribuita a Dio stesso». Eppure, aggiunge il Riformatore, rivolto qui forse a se stesso prima ancora che ai fedeli di Ginevra, «se Dio non l'avesse decretato, non sarebbe andata così. Poteva provvedere» (Dieu y pouvait bien pourvoir). Non era forse in grado di impedire che il peccato fosse commesso? Certo che sì, conclude Calvino, «ma guardiamoci dal mormorare contro il nostro giudice». Mormorare contro, no; agire in Suo nome, sì. Come ricorderà Voltaire nel Dizionario, alla voce «Dogmi»: in una sorta di celeste Giudizio vengono vagliati sia benefattori sia malfattori. Vi compare anche Calvino, «che si vantava, nel suo grottesco dialetto, di avere preso a calci l'idolo papale, dopo che altri l'avevano abbattuto: ho scritto contro la pittura e la scultura – diceva – e ho mostrato con assoluta evidenza che le buone opere non servono a niente, provando che è diabolico danzare il minuetto». Voi, lettrici e lettori, andate pure a ballare; a spedire «nell'abisso» il severo riformatore ci pensa, stando all'arguto Voltaire, lo «spettro spaventevole» di Michele Serveto! Medico aragonese, scopritore della cosiddetta piccola circolazione (la circolazione polmonare del sangue), contestatore della tradizionale dottrina trinitaria (non negava totalmente la Trinità, ma sosteneva che Padre, Figlio e Spirito sono solo tre «modi» dell'unico Dio), già inviso ai cattolici, era finito a Ginevra nelle grinfie di Calvino e, dopo un lungo processo, condannato al rogo (1553): l'eresia era un delitto che minacciava la sicurezza dello Stato, immagine terrena della potenza divina. E il Riformatore di Ginevra non aveva esitato a dichiarare che il Signore, quando ritiene sia il caso, batte con le sue verghe l'intera stirpe umana e «per giusto giudizio, ci punisce a suo piacimento». Miseria e Provvidenza Rifacendo il verso a Bertrand Russell, potremmo dire che ci sono «verghe» protestanti e «verghe» cattoliche. Vediamo, per primo, un esempio protestante: «Fu intorno al principio di settembre del 1664 che io seppi dai miei vicini come la peste fosse tornata in Olanda, dove già […] aveva infierito l'anno prima; portata, dicevano alcuni, dall'Italia; altri dal Levante

con le merci scaricate in porto dai legni di Turchia; altri infine, da Cipro. Ma che cosa importava di dove venisse?» La peste distava ormai poche miglia marine dalle sponde dell'Inghilterra! Il nostro preoccupato narratore (evidentemente inglese) poteva rifugiarsi, come altri, in luoghi di campagna meno popolati e dunque più salubri. Il Signore «li riscoterà dal laccio dell'uccellatore, dalla pestilenza mortifera», legge però nel Salmo 91 (versetto 3), sicché sceglie di restare in città, per diventare il cronista della Peste di Londra di Daniel Defoe (1722, uno dei testi più inquietanti dell'autore di Robinson Crusoe). Passiamo al mondo cattolico. Ci affidiamo alla penna di Alessandro Manzoni, per cercare di capire come anche gli innocenti subiscano le verghe di Dio. Prima ancora della descrizione della grande moria del 1629, contempliamo con gli occhi del Renzo Tramaglino dei Promessi sposi (terza edizione, 1842) questo spettacolo: «Nell'uscire, vide, accanto alla porta, che quasi v'inciampava, sdraiate in terra, più che sedute, due donne, una attempata, un'altra più giovine, con un bambino, che, dopo aver succhiata invano l'una e l'altra mammella, piangeva, piangeva; tutti del color della morte: e ritto, vicino a loro, un uomo, nel viso del quale e nelle membra, si potevano ancora vedere i segni d'un'antica robustezza, domata e quasi spenta dal lungo disagio». Alla vista della miseria, Renzo con nobiltà si priva dei pochi denari che ha nella borsa. Non pago del gesto, constata: «La c'è la Provvidenza!» Salvo poi dover pensare a come cavarsela, ormai senza il becco di un quattrino. La Provvidenza (nei panni terreni del bergamasco cugino Bortolo) verrà in soccorso anche a lui, fuggitivo in terra straniera – avendo varcato il confine tra il milanese e i territori dell'adiacente Repubblica veneta. E i tanti che non hanno trovato premio per la loro generosità, e che, dopo aver fatto elemosina in eccesso, si sono trovati a chiedere «la carità» all'angolo di una strada (senza poter contare su un Bortolo qualsiasi)? È vero che non bisogna scambiare le opinioni di un personaggio letterario con quelle del suo creatore (nel caso, Manzoni); ma è anche vero che I promessi sposi dispiegano uno scenario di storiche e naturali devastazioni così impressionante che persino un disegno provvidenziale stenterebbe a redimerlo. Nelle sue traversie, quando infuria la peste Renzo si ritrova a Milano. Insieme con i malvagi alla Don Rodrigo, quanti innocenti (o quasi innocenti, direbbe de Maistre) finiscono male, non foss'altro per l'incompetenza delle autorità civili – i decurioni della città di Milano – e la «debolezza di volontà» delle autorità «pastorali»! Narra Manzoni

basandosi sulle fonti storiche pertinenti: i decurioni chiedono al «cardinale arcivescovo» Federigo Borromeo (1564-1631) che in solenne processione vengano esibite per la città le reliquie di san Carlo (Borromeo anche lui: 1538-1584, cugino di Federigo). Il «buon prelato» inizialmente rifiuta; ma gli altri adducono i «rumori» del pubblico, e lui acconsente. Commenta Manzoni: «Se poi, nel ceder che fece, avesse o non avesse parte un po' di debolezza della volontà, sono misteri del cuore umano». Tali misteri rispecchiano, in piccolo, gli enigmi, in grande, del disegno provvidenziale. Quanto alla processione (11 giugno 1629), dovette essere spettacolo impressionante e solenne. «Andava dinanzi una lunga schiera di popolo, donne la più parte, coperte il volto d'ampi zendali, molte scalze, e vestite di sacco. Venivan poi l'arti, precedute da' loro gonfaloni, le confraternite, in abiti vari di forme e di colori; poi le fraterie, poi il clero secolare, ognuno con l'insegne del grado, e con una candela o un torcetto in mano. Nel mezzo, tra il chiarore di più fitti lumi, tra un rumor più alto di canti, sotto un ricco baldacchino, s'avanzava la cassa, portata da quattro canonici, parati in gran pompa, che si cambiavano ogni tanto. Dai cristalli traspariva il venerato cadavere, vestito di splendidi abiti pontificali, e mitrato il teschio […]. Dietro la spoglia del morto pastore […], e vicino a lui, come di meriti e di sangue e di dignità, così ora anche di persona, veniva l'arcivescovo Federigo. Seguiva l'altra parte del clero; poi i magistrati, con gli abiti di maggior cerimonia; poi i nobili, quali vestiti sfarzosamente, come a dimostrazione solenne di culto, quali, in segno di penitenza, abbrunati, o scalzi e incappati, con la buffa sul viso; tutti con torcetti. Finalmente una coda d'altro popolo misto.» Con buona pace delle speranze riposte nel potere salvifico del «venerato cadavere», il giorno seguente, mentre i più nutrono «una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver troncata la peste», i decessi crescono «in ogni classe, in ogni parte della città, a un tal eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l'occasione, nella processione medesima». Ma la colpa doveva venire attribuita non al concorrere insieme di tante persone, che consentiva la «moltiplicazione de' contatti fortuiti» (cioè il contagio), ma all'opera subdola degli untori, i quali avrebbero approfittato della calca per compiere meglio la loro opera di morte (ungendo appunto case e cose dei loro concittadini). La Provvidenza (che ovviamente c'era: anzi, c'è sempre!) aveva disposto che, messi di fronte al disastro, i milanesi dovessero prendersela non con la stoltezza delle autorità civili ma con degli incolpevoli capri espiatori (i

presunti «untori»). Intanto, il morbo non risparmia nemmeno altre forme d'innocenza – come quella dell'infanzia. Manzoni ci riferisce del mesto addio della madre al corpo morto della figlioletta «di forse nov'anni» (Cecilia), e della fiducia della bella donna «lombarda» di ricongiungersi con lei in cielo, mentre accudisce «un'altra bambina, più piccola, viva, ma con i segni della morte in volto». Ed ecco il pietoso augurio di Renzo, testimone di tanto dolore e di tanto civico sfascio: «O Signore! […] Tiratela a Voi, lei e la sua creaturina: hanno patito abbastanza! Hanno patito abbastanza!» Il cattolico liberale Manzoni, di fronte a questa enigmatica Provvidenza, che in tanta strage e morte alla fine consentirà però ai due «promessi» (cioè fidanzati) Renzo e Lucia di convolare a giuste nozze, nella celebrazione della rassegnazione non è poi così diverso dal cattolico illiberale de Maistre, che trovando divina la guerra poteva considerare tale anche la pestilenza (visto che di frequente l'una trascinava seco l'altra). Ma l'ateo, come minimo, potrebbe dubitare che recitare preghiere o imbandire processioni cambi le cose (se non in peggio). E, se lo può, dovrebbe esprimere i suoi dubbi ad alta voce, come fa l'eroe di un'altra Peste, quella narrata (1947) da Albert Camus. Un medico si trova davanti allo spettacolo del dolore, insieme con un sacerdote che assiste nello spirito i malati che il dottore cura nella carne: «Mormorò Paneloux [il sacerdote]. 'È rivoltante in quanto supera la nostra misura. Ma forse dobbiamo amare quello che non possiamo capire'. Rieux si alzò di scatto; guardava Paneloux con tutta la forza e la passione di cui era capace, e scuoteva la testa. 'No, Padre', disse, 'io mi faccio un'altra idea dell'amore; e mi rifiuterò sino alla morte di amare questa creazione dove i bambini sono torturati'». Il dottor Bernard Rieux non si rassegna: non cerca merito nell'accettazione del male (come potrebbe pensare un cattolico come Renzo); ma nemmeno si limita – come il calvinista inglese di Defoe – ad accettare che sia Dio a scegliere, sospendendo «la condanna universale di tutta la stirpe di Adamo» per «condurci [se eletti] a nostro Signore Gesù Cristo». Defoe accortamente lasciava a dei «giovinastri stravaganti» il ruolo di chi trae le conseguenze della nostra impazienza di fronte a una Provvidenza così «nascosta» da risultare inesistente: «Non avevano alcun timore di bestemmiare contro Dio e parlar da atei, sicché scherzavano sul fatto che io dicevo di vedere nella peste la mano di Dio, e motteggiavano e ridevano sulle parole giudizio e castigo, come se la divina Provvidenza non c'entrasse per nulla in quello che accadeva». Atei davvero radicali! Risatacce a parte, non troppo lontani, sotto il

profilo intellettuale, dal dottore di Camus. Il quale, però, ormai ha compreso che si tratta di agenti patogeni e non di una qualche «verga» dell'Onnipotente. Nella Peste lo sfondo è la città di Orano (nell'Algeria ancora sotto il dominio coloniale francese), e il cronista – si scopre alla fine del romanzo – è quello stesso coraggioso medico ateo. È un laico senso del dovere (non un versetto dei Salmi) che lo ha spinto a restare e a resistere (nonché a mettere su carta la propria testimonianza). Certo, Rieux ha i suoi vantaggi rispetto ai colleghi della Milano o della Londra del Seicento: in città ci sono ospedali efficienti, decenti misure d'igiene e profilassi, e c'è la scienza al servizio dell'apparato sanitario! «È il progresso», dicono i personaggi della finzione letteraria, i quali adesso spiegano come evento naturale quel particolare castigo di Dio, cioè il meccanismo di trasmissione del morbo: i bacilli (batteri) Yersinia pestis vivono nelle pulci, che a loro volta parassitano i «sorci». Quella che nel Medioevo era nota come Morte Nera passa così da topo a topo ma anche agli esseri umani infestati dai piccolissimi insetti… È legittimo dubitare che la scienza possa risolvere i tormenti dell'anima, e dar quel senso alla nostra storia di sofferenza che il padre Paneloux del romanzo di Camus, da buon cattolico, cerca ancora di scorgere al di là dell'umana «misura» (ma almeno il protestante Calvino diceva che bisogna amare l'umano Gesù Cristo, e non «quello che non possiamo capire»); né si può escludere che «la mano di Dio» disponga sempre di qualcosa come un asso nella manica per vincere la partita. Fatto sta che anche il sacerdote non sarà risparmiato dal morbo: «'Le starò vicino', gli disse [Rieux] con dolcezza. L'altro sembrò rianimarsi e girò verso il dottore degli occhi dove sembrava tornato un certo calore. Poi sillabò difficilmente, in modo ch'era impossibile sapere se lo dicesse con tristezza o no: 'Grazie. Ma i religiosi non hanno amici; essi hanno posto ogni cosa nel Signore'». Compagni di strada Chissà se è peggio essere senza Dio o senza amici? L'agnostico sospenderebbe il giudizio; si potrebbe però insinuare che se tende a preferire amici un po' meno esclusivi del Signore, è già sulla strada dell'ateismo. Mi si potrebbe replicare che volere amici è semplicemente umano. Ma se è così, tutti i padre Paneloux di questo inondo sono irrimediabilmente antiumani (o più modestamente, disumani). Passiamo ora a un'altra finzione letteraria, questa volta non dalla penna di un ribelle ateo come Camus ma di uno spirito religioso come il cattolico Georges Bernanos. Nel suo primo grande romanzo (1929) egli celebra le

virtù etiche di un buon pastore, tale Donisson. Sprofondato nella campagna francese della prima metà del Novecento, il nostro sacerdote spenderà le sue energie a soccorrere infermi, a (cercar di) redimere peccatori (in particolare, peccatrici), ad assistere moribondi ecc. – anche se le gerarchie ecclesiastiche trovano il suo zelo eccessivo, se non sospetto. Il tarlo peggiore, per l'abbé Donisson, è dentro, non fuori. Una notte lo troviamo che cammina solo, tutto assorto nella sua missione, però non al punto di dimenticare «che non ha neanche un amico». Si imbatte «piacevolmente» in un tipo gioviale, pronto «come il buon Samaritano» ad aiutarlo nelle difficoltà. A poco a poco, nel buio più fitto, il prete intuisce «di essersi alla fine imbattuto in colui che aveva [sempre] cercato di fuggire»: il suo compagno di strada altri non è che il Maligno in persona! Il tentatore subito ammette di essere semplicemente il funzionario di «uno più potente», e propone al solitario uomo di Dio il frutto proibito per eccellenza, la conoscenza del proprio Io: «E al vicario si offerse d'un tratto davanti agli occhi il suo doppione; una così perfetta somiglianza, e così sottile, che meglio si sarebbe potuto comparare all'immagine che ognuno di noi ha di se stesso che non a quella riflessa dallo specchio. Che dire? Il suo stesso volto pallido: preciso; la tonaca impillaccherata, il gesto istintivo della mano sul cuore, il suo sguardo e, nello sguardo, la sua paura. La sua coscienza, pure così proclive all'esame di se stessa, non sarebbe mai giunta, da sola, a un tale prodigioso sdoppiamento. La più acuta introspezione dell'universo interiore non riesce a cogliere più di un aspetto alla volta. Ma quel che discerneva in questo momento [Donisson] era l'insieme e il particolare, i suoi pensieri e la loro fonte, le diramazioni, la rete infinita che li collega tra loro, le più sottili vibrazioni della sua volontà». Donisson è messo di fronte al suo peccato d'orgoglio, il voler essere davvero santo. Alla fine, però, il Diavolo si ritira: sconfitto e non domato. L'abbé ha trovato la forza di respingere il «dono» della conoscenza «totale» della propria vita; ha compreso, forse, che conoscere se stessi è la sfida impossibile: cerchi l'Io, trovi il non Io – magari il nulla. Ormai vecchio, Donisson è diventato infine «coadiutore d'una piccola parrocchia, nel borgo di Lumbres» e qui veglia le sue notti non serene, perennemente tormentato non solo dalla «più tetra solitudine», ma da «quel delirio del voler sapere che perdette la prima madre degli uomini […]. Conoscere per distruggere e nella distruzione rinnovare conoscenza e desiderio – o Sole di Satana – desiderio del nulla per se stesso». A suo tempo non si era chiesto Shelley se l'astro del nostro sistema planetario

non fornisse «una magnifica dimora» alla personificazione del male? Sotto il Sole di Satana (così suona il titolo del romanzo di Bernanos) il «Santo di Lumbres» diventerà così «trasparente» da non nascondere (nascondersi) la perdita del senso dell'esistenza che troppo ha cercato nei miti/riti del Cristianesimo. Il satanico Sole di Bernanos è simmetrico alla Notte celebrata da quello strano tipo di ateo che fu il filosofo (di stampo hegeliano) Ludwig Feuerbach. Il quale, in un passo dell'Essenza del Cristianesimo (1841), aveva dichiarato che «la notte è la madre della religione», perché in modo indifferenziato affida ogni cosa «inspiegabile» alla potenza di un Dio. O se si preferisce, a quella di un suo «subordinato». Ci congediamo con una storiella, inventata per l'occasione. In un paese di campagna – diciamo dell'Italia di almeno mezzo secolo fa – c'è una casa «infestata» da una misteriosa «presenza». Tale elusiva entità non si vede, ma si fa sentire con dei colpi in risposta a chi la viene a consultare. Una notte, uno di quegli esprit forts che, stando a Pierre Bayle, sono sempre in cerca di prove contro qualsiasi realtà oltremondana, la provoca così: «Maligno, se ci sei, batti un colpo! E se non ci sei, battine due!» La risposta non tarda ad arrivare: doppio bum. Dobbiamo «credere»? Qualche ex «spirito forte» ha ceduto per molto meno. Alla faccia della logica: se prendiamo per vero il messaggio del Maligno, questo asserisce che il Maligno non esiste! Ma si sa che il Diavolo è mentitore.

3 CONTRO L'AUTORITÀ L'insolenza degli scienziati «Anassagora osa pretendere che il Sole non è condotto da Apollo in quadriga? Lo si chiama ateo, e lo si costringe a fuggire» – leggiamo nel Dizionario di Voltaire. Dall'accusa (432 a.C.) di empietà in Atene al filosofo di Clazomene, quante volte il Sole è «sorto» e «calato» sulle vicende umane? Il conflitto tra autorità e libera ricerca non è venuto meno – semmai ha di continuo cambiato forma. «Ma sapete, Signori, da dove giunge questo diluvio di dottrine insolenti che rozzamente giudicano Dio e gli chiedono conto dei suoi decreti?» domanda ai suoi interlocutori il Conte delle Serate di Pietroburgo di Joseph de Maistre. Lo dica, Altezza: vogliamo saperlo anche noi! «Arriva dalla numerosa schiera dei cosiddetti scienziati che in questo secolo non abbiamo saputo tenere al loro posto che è il secondo. In altri tempi gli scienziati erano pochissimi; oggi non vi sono che scienziati: sono una corporazione, una folla, un popolo, e fra loro l'eccezione, già triste un tempo, è diventata regola. Hanno usurpato un'influenza senza limiti in qualsiasi campo; eppure, se oggi vi è una cosa certa in questo mondo, è che non spetta alla scienza guidare gli uomini.» A chi spetta, allora? «Ai prelati, ai nobili, ai grandi ufficiali dello Stato.» Tocca a loro «insegnare alla nazione qual è il male e qual è il bene, ciò che è vero e ciò che è falso nell'ordine morale e spirituale». Tutti gli altri «non hanno il diritto di ragionare su simili materie. Hanno le scienze naturali per divertirsi, di che cosa dovrebbero lamentarsi?» In realtà, «gli altri» non si lamentano affatto. Per dirla con le parole di Jules-Henri Poincaré, matematico, nonché fisico e tecnologo, quasi un secolo dopo (Il valore della scienza, 1905): «È in virtù della scienza e dell'arte che hanno valore le civiltà. Ci si è meravigliati della formula: la scienza per la scienza; ma vale più dell'altra: la vita per la vita, se la vita non è che miseria». Sì, «il pensiero non è che un lampo in mezzo a una lunga notte. Questo lampo, però, è tutto». Umiltà cosmica oppure orgoglio luciferino? Bigotti come de Maistre, se avessero potuto fare un balzo di cent'anni, non avrebbero avuto dubbio alcuno. E pochi ne nutrono gli odierni critici dell'impresa tecnicoscientifica, stando ai quali la scienza impoverisce l'essere e la tecnologia riduce donne e uomini a meri congegni di qualche insensato ingranaggio. Non si annida nelle parole di Poincaré il nucleo di ogni scientismo? Le conseguenze perverse non sono sotto gli occhi di tutti, dall'uso dissennato

delle fonti di energia all'inquinamento del nostro pianeta? E che dire del motto «La scienza per la scienza»? Qualcuno sbrigativamente concluderebbe che è solo un espediente per giustificare la mancanza di scrupoli degli scienziati nell'intraprendere qualsiasi avventura (dal nucleare agli OGM) in nome del sapere, senza preoccuparsi dei rischi per l'umanità. E le conseguenze morali? Ancora dalla Caritas in ventate di Benedetto XVI: «La fecondazione in vitro, la ricerca sugli embrioni, la possibilità della clonazione e dell'ibridazione umana nascono e sono promosse nell'attuale cultura del disincanto totale, che crede di aver svelato ogni mistero, perché si è ormai arrivati alla radice della vita». In realtà, quei programmi di ricerca che sarebbero promossi dalla cultura del disincanto prima ancora che applicazioni pratiche sono progetti di conoscenza che non pretendono di dissipare una volta per tutte «ogni mistero», ma cercano di far chiarezza su problemi niente affatto «risolti». Resta da chiedersi quali siano i tempi dell'«incanto del mondo» rimpianti dal Pontefice, per altro più sensibile alla questione dell'eutanasia («manifestazione non meno abusiva di dominio sulla vita»: il corsivo è mio) di quanto non sia ai (presunti) pericoli degli OGM. Ma non sono stati dei pensatori cattolici a rivendicare il merito storico del Cristianesimo nell'aver «disincantato» uomo e natura abolendo gli «dei cornuti» dei riti pagani macchiati dal sangue dei sacrifici umani? D'altra parte, l'impresa tecnico-scientifica ha un suo incanto: la meraviglia per fenomeni inattesi e per il successo tecnico era già il motore della ricerca stando a Platone e a Aristotele, come lo era nel nostro Novecento per fisici come Albert Einstein o matematici come René Thom. E anche quando i nostri teoremi, esperimenti o congegni colpiscono nel segno, la meraviglia resta; ma è l'incanto della comprensione attraverso il cervello o attraverso le mani dell'essere umano. Come notava Richard Feynman in un'intervista del 1981: l'unico sentimento che riscatta dallo sconcerto di «sentirsi persi in un universo misterioso privo di alcuno scopo». Ciò che l'autore della Caritas in veritate sembra oggi temere di più è (parola sua) «l'assolutismo della tecnicità», minaccia ancor maggiore dello sfruttamento dissennato delle risorse del globo. Il rischio è «che si produca una confusione tra fini e mezzi: l'imprenditore considererà come unico criterio d'azione il massimo profitto della produzione; il politico, il consolidamento del potere; lo scienziato, il risultato delle sue scoperte». Non si capisce, però, che c'entrino l'avidità o l'ossessione per il potere – che hanno imperversato in epoche ben più «spirituali» di quella attuale – con la scienza come tale. Non più, direi, di quanto la ricerca di ricchezze e

dominio che ha caratterizzato non pochi momenti della storia della Chiesa c'entri con la fede in quanto tale. E cosa mai dovrebbe perseguire uno scienziato, se non qualche «risultato» nelle proprie indagini? Nell'enciclica si stigmatizzano pure alcuni specifici contenuti della ricerca, soprattutto quelli da cui scaturirebbero «posizioni culturali negatrici della dignità umana»: per esempio, la «propensione a considerare i problemi e i moti legati alla vita interiore soltanto da un punto di vista psicologico, fino al riduzionismo neurologico». Tuttavia, le ricerche delle neuroscienze, che appaiono a Ratzinger lesive della «libertà dell'uomo», in realtà la esaltano, aiutandoci a comprendere i meccanismi attraverso i quali arriviamo a formulare i nostri giudizi o le nostre intuizioni, poniamo, sul bene o sul bello; ma non sarà questo a esaurire i problemi dell'etica o dell'estetica, o a rendere inutile la lettura dell'Agostino delle Confessioni o del Faulkner dell'Urlo e il furore. Non diversamente, la comprensione scientifica del cosmo (navette spaziali incluse) e la decifrazione dei meccanismi della vita (compresa l'ingegneria genetica) ci fanno percepire ancor di più lo splendore dei cieli e le «infinite forme bellissime» del mondo organico. E se oggi la nuova frontiera della ricerca è il cervello o il sistema nervoso centrale, vorrà dire che nella galassia della mente si avventureranno insieme poeti e scienziati, visto che gli uni e gli altri testimoniano della capacità d'immaginare nuovi scenari e dell'abilità di crearli. Vita «interiore» e azione «esteriore» ben accoppiate; ma senza quella sicurezza assoluta che Ratzinger ritiene che troppi attribuiscano all'impresa tecnicoscientifica, e che invece non le appartiene, perché semplicemente non le serve. Piuttosto, come ha scritto Karl Popper, «il modo in cui progredisce la conoscenza, e in particolare la conoscenza scientifica, è caratterizzato da anticipazioni ingiustificate (e ingiustificabili), da supposizioni, da tentativi di soluzione dei problemi, da congetture». Queste «sono soggette […] a tentativi di confutazione, includenti controlli severamente critici. Possono superare questi controlli, ma […] non possono essere stabilite come sicuramente vere». Relativismo contro scientismo Nella scienza, notava Popper, la critica viene impiegata allo scopo di mettere in luce quel che non funziona: «La nostra conoscenza si accresce nella misura in cui impariamo dagli errori, anche se non possiamo mai conoscere, nel senso di conoscere con certezza». Ma il fatto che non conosciamo «con certezza» non è un difetto; piuttosto, è una garanzia contro qualsiasi autorità che si arroghi un potere sulla scienza e contro il

nostro stesso autocompiacimento. Quale scientismo, allora? Entro la scienza, nessuno. Nella Fides et ratio (1998) Giovanni Paolo II definiva tale atteggiamento la «concezione filosofica» che «si rifiuta di ammettere come valide forme di conoscenza diverse da quelle che sono proprie delle scienze positive, relegando nei confini della mera immaginazione sia la conoscenza religiosa e teologica, sia il sapere etico ed estetico». Aggiungeva che in passato questo atteggiamento aveva trovato forma «nel positivismo e nel neopositivismo, che ritenevano prive di senso le affermazioni di carattere metafisico»; oggi si celerebbe «sotto le nuove vesti» di un pensiero che teorizza la tendenza della scienza «a dominare tutti gli aspetti dell'esistenza umana attraverso il progresso tecnologico». Tuttavia, un atteggiamento antimetafisico – con buona pace di Wojtyła – non comporta necessariamente la riduzione a pura emotività delle sfere dell'etica e dell'estetica. Nella Fides et ratio, inoltre, si insiste sul rischio che non pochi scienziati «consapevoli delle potenzialità insite nel progresso tecnologico» cedano, «oltre che alla logica del mercato, alla tentazione di un potere demiurgico sulla natura e sullo stesso essere umano». Ma non era stato quello stesso Papa, qualche anno prima (1995), a ingiungere: «Riempite la Terra e soggiogatela»? (parafrasava Genesi 1,28 sottolineando che Dio ha assegnato a uomini e donne «non soltanto il potere di procreare per perpetuare il genere umano», ma anche il «comune compito» di dominare la Terra). Ci pare singolare che un papa del Novecento si sia servito di termini come soggiogare, assoggettare, dominare ecc. con una certa insistenza, e per di più in una lettera rivolta Alle donne, cioè alla parte dell'umanità che porta incisi nella propria carne e nella propria storia segni di giogo e di dominio. In quella scelta linguistica c'è più «scientismo» che in qualsiasi celebrazione della scienza vetero o neopositivista: una forma di superbia accompagnata dal rinnovato invito a popolare e imbrigliare il Creato, di cui l'Uomo, sottomesso all'esclusiva potestà di Dio, sarebbe una sorta di piccolo padrone – per «partecipazione alla signoria divina», come diceva Wojtyła già nella Veritatis splendor del 1993. Infine, in questa sommaria e unilaterale condanna dello «scientismo» che farebbe di scienza e tecnica un potere incontrollato e incontrollabile, Giovanni Paolo II non ha tenuto conto dell'atteggiamento critico insito nel lavoro di scienziati e di tecnologi. In quell'enciclica si limitava a riscontrare «il gusto dell'osservazione empirica, i procedimenti dell'oggettivazione scientifica, il progresso tecnico» (elementi già propri dell'impresa di un Galilei) come «tratti

significativi dell'epoca [nostra] contemporanea»; e aggiungeva che essi avevano il difetto di affiancarsi ad «alcune forme di liberalismo», responsabili dell'attuale contrapposizione tra natura (in particolare, umana) e legge (sottinteso di Dio). Diceva il Pontefice: se si attribuisce a singoli individui o a gruppi sociali la capacità di «decidere del bene e del male», allora «la libertà umana potrebbe creare i valori e godrebbe di un primato sulla verità, al punto che la verità stessa sarebbe considerata una creazione della libertà». Più di recente, però, qualcuno tende a ribaltare la questione. Così leggiamo sulle pagine dell'Osservatore Romano (12 febbraio 2010), quotidiano vaticano abitualmente connotato da notevole sobrietà, in un articolo dedicato a «Il dolore, il piacere e l'inganno del relativismo» per la penna di Carlo Bellieni (neonatologo e bioeticista, nonché membro dell'Accademia pontificia per la vita) che la «dittatura della scienza» sarebbe ormai tramontata: «Oggi governa la dittatura del relativismo scettico e antiscientifico che presuppone l'impossibilità di conoscere realmente e con certezza la natura, avendone smarrito il senso». Non pago di questo, l'autore si produce in virtuosismi come il seguente: «Ma se la realtà non è più una certezza e si piega all'umore del soggetto che la interpreta, anche la vita […] diventa pesante sin dalla culla». La «dittatura del relativismo» era al centro delle preoccupazioni di Joseph Ratzinger almeno fin dall'omelia Pro eligendo romano pontifice (18 aprile 2005), ma pensare che essa destabilizzi non solo «la piccola barca» (Ratzinger) del pensiero dei cristiani bensì l'intera «realtà» (Bellieni) mi pare eccessivo. La scienza non darà acquisizioni definitive o immodificabili – e lavorerà non su certezze ma su probabilità: essa, però, «si piega» non «all'umore» del singolo ricercatore ma ai risultati di osservazioni ed esperimenti. Meglio il tono lapidario del filosofo Martin Heidegger (1924): «La paura del relativismo è la paura di esistere». Contro la scienza e la bellezza «Fu presa per la strada, spogliata nuda e poi, con conchiglie affilate, le tagliarono pelle e carne»; il corpo venne infine smembrato e bruciato. Così morì Ipazia «la filosofa», nel marzo del 415 d.C. – stando alla cronaca di Socrate Scolastico, storico cristiano del V secolo. Il quale non manca di ricordare ai suo lettori che lei, figlia del matematico Teone, per la forza della sua intelligenza e la purezza del suo comportamento era «riverita e ammirata da tutti». Forse, non proprio tutti, visto che esecutori materiali del delitto furono alcuni cristiani agli ordini di un certo Pietro il Lettore,

seguace del vescovo Cirillo, patriarca di Alessandria. Chissà se quest'ultimo era davvero il mandante? Sarebbe stato comunque un bizzarro caso di inefficienza, se Cirillo non avesse saputo controllare tali squadracce. Nonostante ciò, venne fatto santo e dichiarato Dottore della Chiesa. Per secoli quella donna fatta a pezzi è stata il simbolo dell'inarrestabile declino del Paganesimo di fronte alla marea montante della nuova religione dell'Impero. Analisi più recenti mostrano che la situazione era più complessa. I difensori degli antichi Dei avevano subito nel 391 l'offensiva dell'allora vescovo Teofilo, zio del summenzionato Cirillo. Alessandria era lacerata anche dai conflitti interni ai fautori del «Dio unico»: cristiani contro ebrei e cristiani delle varie tendenze in lotta tra di loro. Nata verso il 370, Ipazia sembra aver poco condiviso l'accanimento di parecchi intellettuali pagani nella difesa della loro cultura. È plausibile che fosse incline a riconoscere una sorta di unità profonda sotto le varie differenze di superficie fra le religioni e che affidasse non al culto bensì alla pratica filosofica il cammino della creatura umana verso il «Dio dei filosofi». Doveva comunque prendere le difese degli ebrei, accusati di deicidio dai seguaci di Cirillo e schierarsi al fianco del prefetto di Roma, Oreste, diventato anche lui cristiano senza però rinunciare a quella che noi oggi chiameremmo la laicità dello Stato. Coinvolta in una disputa di cristiani contro altri cristiani, Ipazia sarebbe stata colpita per ragioni tipicamente politiche e probabilmente abbandonata alla sua sorte da Oreste, dubbioso, come l'Amleto di Shakespeare, sul modo in cui reagire alle usurpazioni al proprio potere. L'accusa a questa aristocratica del pensiero era di stregoneria – una calunnia escogitata per renderla invisa sia ai pagani (la cui legge prevedeva per tale reato una pena durissima) sia ai cristiani, che vi avrebbero scorto lo zampino di Satana. Ma noi continuiamo ad ammirare Ipazia per la sua brama di conoscere – manifestatasi in particolare in matematica e astronomia. Aveva contribuito al commento dell'opera aritmetica di Diofanto, si era cimentata nella grande tradizione geometrica da Euclide a Apollonio e si era appassionata alla teoria del moto dei pianeti, consegnata ai posteri nella Grande compilazione di Tolomeo. Ha dunque colpito nel segno uno dei primi estimatori moderni di Ipazia, l'irlandese John Toland, il quale ci fa capire (1720) che gli assassini di quella donna straordinaria in lei avevano contemporaneamente colpito la femminilità, la libertà di religione e l'indipendenza della ricerca scientifica. In particolare, Toland non perdonava che fosse stato un vescovo poi

santificato a istigare «un'azione tanto spavalda» e il suo clero a eseguire il dettato di «un furore così implacabile». Ma non è stato l'unico caso di qualche prelato o «santo» che ha preteso di sequestrare scienza e coscienza. «Eppur si muove» «Pertanto, volendo io levar dalla mente delle Eminenze e d'ogni fedel cristiano questa vehemente sospitione, giustamente di me concepita, con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li suddetti errori ed eresie, e generalmente ogni e qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla S. Chiesa; e giuro che per l'avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa avere di me simil sospitione; ma se conoscerò alcun eretico o che sia sospetto d'eresia, lo denunzierò a questo Sant'Offizio, o vero all'Inquisitore o Ordinario del luogo dove mi troverò.» Convento della Minerva, 22 giugno 1633. insolente scienziato che chiede umilmente perdono non è altri che il «matematico e filosofo della natura» del granduca di Toscana, Galileo Galilei, forzato senza troppi riguardi per i suoi capelli bianchi («dell'età mia d'anni 70») a una penosa ritrattazione; obbligato pure a dichiararsi disposto a diventare quel che tecnicamente si dice un infame, cioè un delatore di chi ha il torto di pensarla esattamente come lui. Il suo peccato è di essersi ostinato a difendere (parole sue) «la falsa opinione che il Sole sia centro del mondo e che la Terra non sia centro del mondo e che si muova», in particolare scrivendo e dando alle stampe «un libro nel quale tratto l'istessa dottrina già dannata e apporto ragioni con molta efficacia a favor di essa». Non aveva provocato qualsiasi anima pia con quel suo Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (che sono il tolemaico e il copernicano, 1632)? E non era stato già ammonito (1616) a non insistere sulla tesi copernicana dei moti della Terra, che parevano in stridente contrasto con la lettera della Sacra Scrittura? «Eppur si muove» Galilei non l'ha mai detto, non l'avrebbe nemmeno mormorato tra sé, attento a non farsi sentire dai suoi giudici, in una testarda, orgogliosa e inutile protesta per la violata autonomia della ricerca! Ma nel Saggiatore del 1623, dedicato a quel papa Urbano VIII (Maffeo Barberini) sotto il cui pontificato, un decennio dopo, sarebbe stato costretto all'abiura, aveva dichiarato che egli «desiderava la vera costituzion dell'universo», lasciando intendere di essere convinto della verità dell'«opinione di Copernico», per cui i pianeti orbitano intorno al

Sole, e la Terra è un pianeta come gli altri, che ruota su se stessa e gira intorno alla sua stella, portandosi seco la Luna. Se scorriamo il Dialogo, troviamo che il portavoce di Galilei, Salviati (Filippo, 1583- 1614: nobile fiorentino definito «sublime intelletto»), sembrerebbe non nascondere il carattere «improbabile» della nuova cosmologia: «Non posso trovar termine all'ammirazion mia, come abbia possuto […] nel Copernico far la ragion tanta violenza al senso, che contro a questo ella si sia fatta padrona della [sua] credulità». Gli occhi ci attestano solo dell'apparente rotazione sull'asse terrestre dell'intera volta del Cielo. Ma come essere sicuri che reale sia invece quella del nostro globo? La risposta di Galilei è ingegnosa: la Terra è come un vascello in viaggio; e «l'esser il moto della nave comune a tutte le cose contenuta in essa» fa sì che non possiamo escogitare alcun esperimento di natura meccanica che ci provi, stando nella nave, che sia proprio questa a muoversi. È il principio di relatività che ancor oggi porta il suo nome – anche se Galilei lo riferiva non al moto rettilineo uniforme (come noi facciamo, almeno a partire da Newton), bensì al moto circolare uniforme. Un altro personaggio del Dialogo, Sagredo (Giovan Francesco, 15831614, veneziano «acutissimo d'ingegno»), assicura di essersi «cento volte trovato», stando in cabina, «a domandar se la nave camminava o stava ferma, e tal volta, essendo sopra fantasia, ho creduto che ella andasse per un verso, mentre il moto era al contrario.» Anche il moto di rivoluzione della Terra attorno al Sole è per Galilei circolare e uniforme. Dunque, anche questo moto, in sé, non può essere rivelato da esperienze effettuate entro la nostra «nave». Ma nella Quarta (e ultima) Giornata del Dialogo si sostiene che sarebbe «la mistione dei due moti annuo e diurno» a produrre «l'inegualità nel moto delle parti del globo terrestre»: è così che riusciamo a individuare la «primaria causa del flusso e il riflusso del mare», cioè delle maree. Prima ancora di turbare sindaci e cittadini, «l'alzamento delle acque» della Laguna doveva rappresentare agli occhi di Galilei una sfida ai sostenitori dell'immobilità della Terra – cui si rivolgeva così: «Trovatemi ora Voi come e donde» quell'acqua «è qua venuta!» La spiegazione di Galilei, però, è errata. Le genuine «prove» della rivoluzione della Terra (James Bradley, 1728) e della sua rotazione (Léon Foucault, 1851) dovevano invece arrivare più di un secolo dopo! «Dolorosi malintesi» Nel Dialogo di Galilei c'è un terzo personaggio: il «buon Peripatetico»,

cioè l'aristotelico che funge da «spalla» (come si dice in gergo teatrale) agli altri due, ai quali Galilei distribuisce il carico di «far violenza al senso» per far risaltare «l'eminenza dell'ingegno» di coloro che «hanno ricevuta e stimata vera» l'opinione di Copernico. È chiamato Simplicio, per il suo «soverchio affetto verso i comenti» di quell'importante esegeta di Aristotele, vissuto nel VI secolo d.C. Ma il termine vuol dire anche «sempliciotto», una sfumatura che i contemporanei di Galilei erano ben in grado di intendere. Il Dialogo, presentato come la rievocazione di un incontro avvenuto «molt'anni or sono […] nella meravigliosa città di Venezia», si rivela una pièce di fantasmi. Ormai sono stati rapiti al mondo «da morte acerbissima» sia Sagredo sia Salviati; mentre è defunto da secoli il commentatore di Aristotele: i tre recitano in una scena spettrale che nulla avrebbe da invidiare a quella dell'Amleto – salvo che le arie della Laguna sono più dolci dei venti che spazzano i flutti presso Elsinore. Simplicio si avvia a concludere la Quarta Giornata con la constatazione teologica che, essendo il mondo opera di Dio, «soverchia arditezza sarebbe se altri volesse limitare e coartare la divina potenza e sapienza a una sua fantasia particolare». Tuttavia, il «buon Peripatetico» insinua qualcosa di più: certi fenomeni della natura potrebbero essere prodotti da Dio «in molti [altri] modi, e anco dall'intelletto nostro inescogitabili». Però, «modi» alternativi di spiegare le maree erano tutt'altro che «inescogitabili» all'epoca stessa di Galilei! Questi nel Dialogo critica la spiegazione rivale offerta da Marcantonio de Dominis (gesuita di origine dalmata, editore nell'Inghilterra protestante dell'Istoria del Concilio Tridentino di Paolo Sarpi, imputato di eresia: il suo cadavere era stato bruciato insieme ai suoi libri a Roma in Campo dei Fiori, nel 1624) nonché dal grande Keplero. Il quale, fin dal 1598, aveva sostenuto come non si potesse «prescindere dalla Luna» per spiegare le maree: «Chi dice che i mari aderiscono alla Luna, ne fa in parte un fenomeno naturale». La disparità di vedute tra Keplero e Galilei mette bene in luce che nello studio dei fenomeni naturali non c'è una lotta impari tra l'intelletto umano e quello divino – come tende a suggerirci il Simplicio del Dialogo – ma una disputa tra scienziati che la pensano diversamente (per Galilei, invece, ricorrere all'attrazione lunare per le maree sarebbe invocare una «proprietà occulta»). Ma al mosaico manca ancora una tessera. Salviati commenta la tesi di Simplicio (cioè di Maffeo Barberini, la «persona dottissima ed eminentissima» che avrebbe fatto da suggeritore agli uomini di scienza) con un: «Mirabile e veramente angelica dottrina»! E Sagredo: questa

potrebbe essere «l'ultima chiusa de i nostri ragionamenti». Ora si potrà prendere il fresco «nella gondola che ci aspetta». Che ottimista! L'autorizzazione a insegnare la teoria copernicana è stata concessa dalla Chiesa Cattolica Romana solo nel 1822 – a quasi due secoli dalla morte di Galilei (1642). Il 31 ottobre 1992, alla Pontificia Accademia delle Scienze, Giovanni Paolo II ha dichiarato che «appartiene ormai al passato il doloroso malinteso sulla presunta opposizione tra scienza e fede», proponendosi così di chiudere il famigerato caso Galileo. Un'abile «operazione propagandistica», dice di tutto ciò (1994) Antonio Beltrán Marí, storico della scienza all'Università di Barcellona: «A questo punto, la maggior parte della gente pensa in tutta sincerità che Galilei abbia fatto del male e che la Chiesa, dando prova di bontà, abbia deciso di perdonarlo». Ma l'impresa scientifica non ha bisogno di perdono; semmai, è la Chiesa Cattolica Romana che ha disinvoltamente assolto se stessa. Antonio Beltrán Marí insegna in una Spagna di «cattoliche, anzi cattolicissime» tradizioni (o meglio, in Catalogna), ma lontano quanto basta dal Vaticano. Nella nostra Italia, invece, guai a dire che in questione non era il delitto di Galilei, ma il torto nei suoi confronti! Chi lo fa, rischia di venir tacciato di scientismo (ma tale esaltazione della scienza non dovrebbe essere venuta meno sotto i colpi della dittatura relativistica?), o magari di essere lui il vero «nemico della scienza»; ovviamente, della scienza «buona», cioè di quella che dovrebbe restare, sempre e comunque, ancella di una qualche teologia. «Cappellano del Diavolo» Bouvard e Pécuchet (di cui abbiamo fatto conoscenza nel primo capitolo) cominciano a interessarsi di fossili, persino dei coproliti, «che sono essenzialmente escrementi pietrificati», e trovano in quelle minuzie «una ragione in più per ammirare la Provvidenza». Poi, i nostri due eroi prendono però a dubitare del Disegno divino, la cui traccia si ritroverebbe persino in tali dettagli, e vanno a chiedere «chiarimenti» a un sacerdote di loro conoscenza. Il Libro della Genesi va sempre inteso alla lettera? La discussione degenera, «e Bouvard, scaldandosi, arriva a dire che l'uomo è un discendente della scimmia». Alcuni paesani presenti al colloquio «si guardano l'un l'altro, quasi a sincerarsi di non esserlo». Ma a proposito delle concezioni darwiniane (per le quali, a rigore, l'uomo non «discende» dagli attuali primati superiori, piuttosto con questi ha antenati comuni nella catena evolutiva), nel 2006 non un semplice parroco di campagna, bensì un prestigioso «scritturista» come Ratzinger

dichiara: «A me pare importante, in particolare, […] che la teoria dell'evoluzione in gran parte non sia dimostrabile sperimentalmente in modo tanto facile perché non possiamo introdurre in laboratorio 10.000 generazioni. Ciò significa che ci sono dei vuoti o lacune rilevanti di verificabilità- falsificabilità sperimentale a causa dell'enorme spazio temporale [sic!] cui la teoria si riferisce […]. La teoria dell'evoluzione non è ancora una teoria completa, scientificamente verificabile». Ma nessuna legge universale (nemmeno quella di gravità di Newton) è verificabile, almeno stando alla concezione ratzingeriana. Albert Einstein, riflettendo sul Lato umano del ricercatore, osservava che «lo scienziato teorico non è da invidiare»: l'esperimento «è un giudice inesorabile e poco benevolo del suo lavoro. Non dice mai sì a una teoria: nei casi più favorevoli risponde forse; nella stragrande maggioranza dei casi dice semplicemente no. Quando un esperimento concorda con una teoria, per la natura significa forse; se non concorda, significa no. Probabilmente, ogni teoria un giorno o l'altro subirà il suo no». Popper ha fatto di questo aspetto il nucleo della sua proposta metodologica: per essere scientifica, una teoria dev'essere falsificabile (deve vietare almeno uno stato di cose possibile), altrimenti è al più un «programma di ricerca metafisico». E per lungo tempo ha considerato tale l'evoluzionismo darwiniano – una visione della vita che poteva stimolare dall'esterno la ricerca propriamente detta, più che una genuina componente della famiglia delle teorie discusse e criticate entro la comunità scientifica; questo non voleva dire, però, che le concezioni darwiniane fossero irrilevanti, tanto più che, rispetto alla concezione del diretto intervento divino nel vivente, esse riducono l'arbitrario nelle descrizioni delle forme osservate. Darwin aveva colto quest'ultimo aspetto fin dall'Abbozzo, scritto per se stesso nel 1842. Nel discutere l'idea per cui «i fossili, come noi oggi li vediamo, erano stati creati con una ingannevole rassomiglianza a esseri viventi», ricorreva a un'analogia con l'astronomia: che ne diremmo di una dottrina per cui i pianeti del Sistema solare si muovono nelle loro particolari orbite perché Dio ha deciso così per ciascun corpo celeste? Cancelleremmo la newtoniana legge di gravità, da cui si deduce la cinematica dei pianeti? E allora, come possiamo conciliare «l'ammissione che certi gruppi di organismi viventi ed estinti, nella loro distribuzione, nella loro struttura e nelle relazioni che intrattengono fra di loro e con le condizioni esterne […] mostrano i segni di una discendenza comune» con l'idea che essi «furono creati separatamente?» A quell'epoca Darwin (che si sentirà sempre più una sorta di

«Cappellano del Diavolo») aveva già maturato le linee portanti della sua concezione, compresa la sua idea più «pericolosa», quella della selezione naturale. Il quadro doveva venire dispiegato nella comunicazione congiunta con Alfred Russel Wallace del 1858, alla Linnean Society di Londra. Il numero medio degli esemplari di una specie in una data regione «viene conservato grazie alla lotta ricorrente contro altre specie o contro la natura esterna». Ma «possiamo forse dubitare, osservando la lotta che ogni individuo deve combattere per assicurarsi i mezzi di sussistenza, che ogni minima variazione di struttura, abitudini, o istinti, tale da adattare meglio quell'individuo alle nuove condizioni, non si farà sentire nel suo vigore e sul suo stato di salute? Nella lotta, esso avrebbe una maggiore probabilità di sopravvivenza; e nella sua prole, gli individui che ereditassero la variazione, per quanto lieve essa fosse, avrebbero anch'essi una maggior probabilità.» (corsivi miei). Per questo la concezione della selezione naturale richiede una valutazione che fuoriesce dalla stretta dicotomia «verificabilitàfalsificabilità». Gli odierni biologi riconoscono di non poter predire con esattezza il futuro evolutivo della specie e di doversi limitare a considerazioni probabilistiche. Per di più, i tempi sono così lunghi che «nessuno potrebbe controllare se le predizioni si sono avverate» (Niles Eldredge)! Come ha osservato nel 1959 il filosofo Michael Scriven, questo è un aspetto che la concezione darwiniana dell'evoluzione ha però in comune con altre teorizzazioni in cui è essenziale il ruolo del tempo – dalla geologia alla cosmologia. Nello studio dell'evoluzione della vita sul nostro globo, o delle configurazioni della Terra o addirittura della genesi delle strutture dell'universo, è importante non tanto la discussione dell'esattezza di questa o quella legge di natura quanto della probabilità di un particolare fattore nella spiegazione dei fenomeni. La miglior conferma delle idee darwiniane – ribadisce Eldredge – è che i pattern osservati sono proprio quelli che ci aspetteremmo una volta assunte le premesse di Darwin. Non si tratta tanto di osservazioni o esperienze che riguardano il futuro degli organismi viventi, quanto del fatto che decenni dopo le intuizioni di Darwin, grazie alle nuove evidenze fornite dalla paleontologia, siamo in grado di fare «retrodizioni» (cioè, previsioni concernenti il passato della storia della vita sul nostro pianeta). Lo stesso Darwin, nel suo capolavoro, L'origine delle specie (1859), non aveva cessato di interrogarsi su come si sarebbe potuto produrre, poniamo, l'occhio umano – uno strumento della natura così raffinato da superare qualsiasi congegno escogitato dall'«arte», cioè dalla tecnologia. «Quando

per la prima volta fu detto che il Sole è fermo e che la Terra gli gira intorno, il senso comune del genere umano dichiarò che la dottrina era falsa; ma il vecchio detto vox populi vox Dei, come ogni filosofo sa, non vale nella scienza. La ragione mi dice che se si può dimostrare l'esistenza di numerose gradazioni da un occhio semplice e imperfetto a uno complesso e perfetto, essendo ogni grado utile per chi lo possiede, come è certamente il caso; se inoltre l'occhio varia sempre e le variazioni sono ereditarie, fatto altrettanto vero, e se queste variazioni sono utili a un animale in condizioni mutanti di vita, allora la difficoltà di ammettere che un occhio perfetto e complesso si formi per selezione naturale, sebbene insuperabile per la nostra immaginazione, non deve essere considerata come sovvertitrice della nostra teoria.» Qui, diceva Darwin, «è indispensabile che la ragione vinca l'immaginazione». Se era pregnante il parallelo del 1842 con le orbite dei pianeti, non lo era meno nell'Origine delle specie il paragone tra l'occhio naturale e il cannocchiale di Galilei: «Noi sappiamo che questo strumento è stato perfezionato dai ripetuti sforzi dei più elevati intelletti umani; e siamo portati […] a concludere che l'occhio si sia formato con un processo analogo». Quest'ultimo è un processo non di qualche secolo ma di «milioni di anni»: Darwin ci ha insegnato così a scrutare nell'abisso del «tempo profondo». «A prescindere…» Se non sembrasse «irriverente», diremmo che quanto sopra dichiarato da Darwin costituisce un'applicazione antiteologica del celebre intercalare di Antonio de Curtis, in arte Totò. Il problema è se l'eventuale dipendenza ontologica dal Signore debba essere utilizzata direttamente entro la spiegazione scientifica: si tratti della nascita di stelle e pianeti, della comparsa di nuove specie o persino delle caratteristiche che ci paiono distintive dell'Homo sapiens. All'autore dell'Origine, però, non sono mai stati mostrati degli strumenti di tortura, e l'Inghilterra vittoriana era piuttosto diversa dall'Italia della Controriforma. Eppure, anche nel caso dell'evoluzionismo il punto di conflitto con la lettera della Scrittura pareva evidente: l'uomo sarebbe fatto a immagine non di Dio, ma di un qualsiasi primate superiore, come uno scimpanzé o un gorilla. Già in vita Charles Darwin aveva conosciuto l'attacco di prestigiosi vescovi della Chiesa anglicana. E sotto la costellazione dei pregiudizi si svolgerà, negli Stati Uniti, il celebre «processo delle scimmie», intentato nel Tennessee (19251926) a un insegnante che aveva osato presentare agli allievi l'eretica

teoria darwiniana. La vicenda è stata persino trasposta in un film, per la regia di Stanley Kramer: l'affascinante Inherit the Wind (1960, reso in italiano con E l'uomo creò Satana, e tratto a sua volta da uno spettacolo teatrale). Per non dire delle attuali tendenze creazionistiche, virulente negli USA e attecchite anche da noi. Infine, l'ostilità a Darwin non è monopolio né dei protestanti né di altri cristiani di varia denominazione. Leggo infatti in un ampiamente illustrato Atlante della creazione (Global Publishing, Istanbul 2007) che il darwinismo sarebbe destinato a essere scientificamente superato «allo stesso modo in cui [lo sono state] le credenze dei popoli che adoravano i coccodrilli». Quest'opera imponente si deve a uno studioso di Ankara, Adnan Oktar, classe 1956, più noto con lo pseudonimo di Harun Yahya adottato in ricordo dei due grandi profeti Aronne e Giovanni. Costui (che si dichiara assai sensibile alle rivendicazioni di larga parte del Terzo Mondo contro il colonialismo di Europa e USA, impregnato di darwinismo) non è nemmeno capace di concedere a religioni come quella degli antichi Egizi quel tipo di «sapienza» che «adorava gli crocodilli» non in sé, ma perché Dio era anche in loro, come aveva compreso Giordano Bruno nel suo Spaccio de la bestia trionfante (1584). Comunque, Harun Yahya viene presentato come «autore di opere importanti, che svelano l'impostura degli evoluzionisti, le loro errate tesi e gli oscuri legami tra il darwinismo e ideologie sanguinarie come il fascismo e il comunismo». In realtà, tanto «oscuri» quei legami a Harun Yahya non sembrano: anzi, gli pare evidente che dal rifiuto dell'intervento del Dio creatore e dalla concezione darwiniana della lotta per la sopravvivenza derivino le premesse di «ideologie distorte come quelle che hanno giustificato il razzismo o la lotta di classe». Per non dire del terrorismo: «Se alcune persone commettono atti di terrorismo usando i concetti e i simboli dell'Islam, del Cristianesimo o del Giudaismo in nome di tali religioni, potete stare certi che tali persone non sono musulmani, cristiani o ebrei. Sono veri e propri darwinisti sociali. […] Qualunque ideologia sposino, coloro che spargono il terrore in tutto il mondo sono in realtà darwinisti». Forze di sicurezza, ormai lo sapete: qualunque libretto possano avere in tasca i militanti di una Guerra Santa, nel cuore hanno impresso a caratteri cubitali l'Origine delle specie! L'ostilità di Harun Yahya è motivata, in realtà, dalla convinzione che con la «trasmutazione» delle specie si neghi l'intervento divino. Ma mentre fa appello alla paleontologia che rivelerebbe l'assenza di qualsiasi «anello mancante», sfuggono all'illustre studioso alcuni particolari: Darwin non era un darwinista sociale; non

pochi esponenti del darwinismo sono stati fra i primi a svelare la menzogna razzista; regimi sanguinari come quelli di Stalin non hanno esitato a includere i darwiniani più coerenti nell'elenco dei nemici di classe, come accadde ai tempi dello sciagurato affare Lysenko – persino con il plauso dei partiti comunisti «fratelli» in Occidente. Nell'Atlante non mancano assicurazioni che l'Islam «non è la sorgente del terrorismo, bensì la sua soluzione», poiché si tratta di «una religione che offre e garantisce libertà di idee, pensiero e vita». Adnan cita il Corano 2,256: «Non c'è costrizione nella religione». Ma se lui abbia fatto un buon servizio ai musulmani giudichi il lettore. Comunque, un ideale accordo c'è già con l'attuale principe di Galles e possibile erede al trono britannico. Come nota Christopher Hitchens sul Corriere della Sera (18 giugno 2010), parlando al Centro di studi islamici dell'Università di Oxford (9 giugno), il regale rampollo (che Hitchens definisce «uno smidollato morale e intellettuale») non ha perso l'occasione di denunciare «la crisi interiore e profonda dell'anima» in Occidente, dovuta all'imperversare di «un pensiero meccanicista che risale almeno all'asserzione di Galileo che non c'è nulla in natura se non quantità e movimento». Così, l'autore del Dialogo, è servito; quello dell'Origine delle specie segue a ruota. «La questione fondamentale» Il dotto e devoto Adnan, infine, infarcisce il suo Atlante di citazioni di autorità «scientifiche» che sarebbero ormai tediate dal materialismo darwiniano avendo compreso la spiritualità profonda delle religioni. È un atteggiamento esattamente speculare a quello degli atei ingenui che vanno invece a contare quanti siano i non credenti in questa o quella accademia scientifica; ma quando si ha a che fare con il binomio scienza/religione non mi pare così rilevante ricorrere alle statistiche. Nel Saggiatore Galilei si faceva beffe di coloro che ritenevano che si dovesse mettere ai voti se essere copernicani oppure tolemaici; figuriamoci se dobbiamo «democraticamente» decidere se, poniamo, la cosmologia contemporanea confuti o no la creazione divina del mondo o se la biologia dopo Darwin lasci o meno l'anima all'Homo sapiens!. Dobbiamo invece respingere la pretesa di qualunque chiesa di dettare l'agenda della ricerca scientifica: questo è il vero nodo di tutto il preteso conflitto tra fede e ragione. Lo stesso successo delle concezioni evoluzionistiche (con buona pace di Harun Yahya) finisce col mostrarci come le pretese dei preti (di qualsiasi religione) di controllare ricerca e insegnamento in campo tecnicoscientifico celi sostanzialmente il timore che il nostro modo di conoscere e

sperimentare faccia emergere prospettive che potrebbero ridurre l'influenza di dottrine e istituzioni religiose sulla vita civile. C'è un dettaglio che mi pare rivelatore, almeno per quanto riguarda la Chiesa Cattolica Romana. A proposito del caso Galileo, en passant Giovanni Paolo II sottolineava («Ai partecipanti alla Sessione Plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze», 31 ottobre 1992) come lo specialismo scientifico avesse fatto venir meno quel «carattere unitario della cultura» in cui la «filosofia naturale» (leggi scienza) era subordinata alla religione – un aspetto del passato, diceva Wojtyła, che sarebbe «in sé positivo e augurabile anche oggi»! A sua volta, nella Caritas in ventate (2009) Benedetto XVI, dopo aver richiamato l'attenzione sulla bioetica come «campo primario e cruciale della lotta culturale tra l'assolutismo della tecnicità e la responsabilità morale dell'uomo», definisce «la questione fondamentale: se l'uomo si sia prodotto da se stesso o se egli dipenda da Dio». E aggiunge che «le scoperte scientifiche […] e le possibilità di intervento tecnico sembrano talmente avanzate da imporre la scelta tra le due razionalità: quella della ragione aperta alla trascendenza o quella della ragione chiusa nell'immanenza». Ma non potremmo sostenere, invece, che «la scelta» sia tra una ragione scientifica aperta nell'immanenza e una chiusa in una trascendenza che finisce con l'ingabbiare l'immaginazione tecnicoscientifica? Credo di indovinare quale sarebbe stata l'opzione di Giordano Bruno. (A proposito, nel corso della sua Cattedra dei non credenti, 1998, Carlo Maria Martini, allora arcivescovo di Milano, auspicava che la figura di Bruno «potesse diventare oggetto di uno di quei ripensamenti critici che la Chiesa si è ripromessa per la fine del secondo Millennio». A oltre un decennio di distanza, stiamo ancora aspettando.)

4 CONTRO LA PROIBIZIONE L'impazienza per la libertà «La scienza, intesa come scopritrice di verità assolute, rimane dunque, e naturalmente, disoccupata per mancanza di verità assolute. Ma questo non porta a distruggere la scienza, porta soltanto a una diversa concezione della scienza.» Così il grande matematico Bruno de Finetti all'inizio del suo Probabilismo (1931). L'elogio che egli tracciava in quel testo della «travolgente marea del pensiero relativista» doveva venire ulteriormente definito nel contributo «filosofico» del 1934, L'invenzione della verità, ove si sottolineava come l'idea della conquista di una verità assoluta fosse dannosa per i filosofi come per gli scienziati: i primi si cullerebbero nell'illusione di aver trovato un possesso per sempre; i secondi, raggiunto il sapere definitivo, smetterebbero di investigare. Bruno de Finetti chiariva che questa sua critica non mirava a «dimostrare l'impossibilità di giungere a una verità che non abbia mai più bisogno di ritocchi» (poiché «un simile intento sarebbe contraddittorio, ché esso consisterebbe proprio nello stabilire una tale verità»); intendeva invece prevenire «l'inutile imprudenza di farsi garanti di una certa concezione per tutta l'eternità, quando il domani può smentirla». E concludeva «che conviene piuttosto abbracciare il punto di vista favorevole alla possibilità indefinita di progresso», in quanto tiene vantaggiosamente aperta la ricerca evitando la stagnazione. Potremmo citare, al proposito, un autore di teatro che quel matematico ammirava, il Bertolt Brecht della Vita di Galileo: «Sì, rimetteremo tutto in dubbio […]. E quello che troviamo oggi, domani lo cancelleremo dalla lavagna, e non lo riscriveremo più, a meno che lo troviamo un'altra volta posdomani. Se qualche scoperta seconderà le nostre previsioni, la considereremo con speciale diffidenza». È il metodo del sospetto, nucleo dell'atteggiamento critico. Non mi pare che ci sia alcunché di male nel chiamare relativismo tutto questo; mi pare doveroso, però, sottolineare come tale approccio poco abbia a che fare con quella caricatura del relativismo per cui non si darebbe più verità: una posizione pressoché senza sostenitori, che è strumentalmente utilizzata ancor oggi da leader religiosi, filosofi oggettivisti e ricercatori «scientifici» quando vogliono abbellire con un po' di retorica la loro nostalgia della Verità con la maiuscola. Relativismo non si oppone a verità, ma ad assolutismo. Per di più, non è un tranquillo punto di arrivo, ma un inquieto punto di partenza. E qui torna opportuno il riferimento a Immanuel Kant, che invitava a considerare le

regole e le formule che pretendono di fissare in maniera meccanica l'uso delle disposizioni naturali come «ceppi di un'eterna minorità». In uno spirito analogo Michel Foucault esortava a non soggiacere al ricatto di chi ci chiede di schierarci pro o contro la ragione (la scienza) in nome di una fede qualsiasi: «Non so se oggi si debba dire che il lavoro critico implica ancora la fede nell'Illuminismo; credo che comporti sempre il lavoro sui nostri limiti, vale a dire una paziente fatica che dia forma alla nostra impazienza per la libertà». Abuso della teologia e buon uso della filosofia Stiamo sfiorando quello che Robert Nozick ha chiamato «il più frustrante e avaro di risultati di tutti i problemi», sottinteso filosofici: la creatura umana è davvero libera di scegliere quello che pretende di scegliere? Tradizionalmente, uno spirito religioso si trova di fronte, prima o poi, alla questione se l'essere umano sia dotato o no di un libero arbitrio, o volontà libera (Free Will, come dicono gli inglesi), che dovrebbe consentirgli di optare per il bene o per il male – preferibilmente il bene, ci raccomandano i pastori delle varie chiese. Il punto è cruciale: se l'essere umano non avesse il libero arbitrio, allora non potrebbe venirgli imputato il male – ci dicono i teologi, specie cattolici. Uno di loro, Vito Mancuso, in un recente contributo (La vita autentica, 2009) ha indicato che il drago che sbarrerebbe la strada a una genuina presa di coscienza della responsabilità di ogni persona è ancor oggi la tesi per cui «non abbiamo alcuna libertà, siamo solo pedine più o meno consapevoli di qualcosa di molto più grande di noi» come «il Deus sive natura di Spinoza». Sotto accusa è la concezione di un determinismo causale così rigido che sembra non concedere alcuno spazio a un'azione libera. Il peccato mortale di Spinoza sarebbe aver preso le distanze «da Cartesio, che sosteneva […] che noi abbiamo il libero arbitrio fondandolo sulla nostra possibilità di frenare l'assenso nelle cose dubbie». Il teologo Mancuso riprende il testo spinoziano: gli esseri umani «s'ingannano nel credersi liberi […]; e tale opinione consiste solo in questo, che essi sono consapevoli delle loro azioni e ignari delle cause da cui sono determinati […]. Se dicono, infatti, che le azioni umane dipendono dalla volontà, queste sono parole a cui non collegano nessuna idea» (Ethica, II, 35, Scolio). Nella citazione, Mancuso si ferma qui; il testo prosegue così: «Tutti ignorano ciò che è la volontà e in qual modo essa muove il corpo; quelli che blaterano di altro, e immaginano sedi e dimore dell'anima [saremmo tentati di dire il destino dell'anima] sogliono suscitare o riso o nausea».

La confutazione di Spinoza da parte del nostro teologo è bizzarra e istruttiva. Bizzarra: scrive Mancuso che «oggi si ritiene che questa concezione sia teoreticamente superata in forza del principio di indeterminazione che, stabilendo l'impossibilità di conoscere nello stesso tempo la posizione e la velocità di una particella, rappresenta la fine del determinismo». Non è il massimo della precisione in termini di meccanica quantistica, ma si può chiudere un occhio; del resto, il teologo si rende conto che «non [è] scendendo al livello dell infinitamente piccolo, là dove sono le sorgenti dell'essere [sic!], che possiamo sperare di risolvere la questione della libertà; è salendo più in alto, laddove la libertà è all'opera». A parte che non eravamo abituati a pensare al fuoco del roveto ardente (Esodo 3,1-6) come a un brodo di leptoni e quark, la bizzarria continua. Del «livello più alto» Mancuso dà un unico esempio, Albert Einstein – non come fisico della relatività o dei quanti (lo definisce, però, «il più grande scienziato del Novecento»), ma come filosofo e uomo di pace. Lo cita, perfino, come «attento lettore di Spinoza», laddove Einstein dichiara di non credere «alla libertà dell'uomo nel senso filosofico della parola. Ciascuno agisce non soltanto sotto l'impulso di un imperativo esteriore, ma anche secondo una necessità interiore». E allora, obietta Mancuso, non sarebbe nemmeno possibile prendere sul serio le battaglie di Einstein contro gli ordigni nucleari e la sua ammonizione a optare per un futuro diverso da quello della «morte universale». Come può scegliere chi non è (metafisicamente) libero? Ecco perché la polemica di Mancuso è istruttiva. Infatti, nella sua direzione si potrebbe rincarare la dose: dove sta la libertà di scelta tra programmi scientifici contrapposti – diciamo, quella di Galilei che sceglie Copernico contro Tolomeo, o quella di Darwin che sceglie l'evoluzionismo contro il fissismo, o quella dello stesso Einstein, che opta per la critica della meccanica quantistica come era stata sviluppata a Copenaghen (Bohr) e a Lipsia (Heisenberg)? Dov'è mai la libertà di ricerca, premessa della stessa libertà politica? Sono domande che investono tutto quello che si è detto nel capitolo precedente. Ma se Mancuso nella sua lettura di Spinoza si fosse spinto fino alla Quinta (e ultima) parte dell'Ethica, non avrebbe sentito il bisogno di scomodare Einstein. In quelle pagine, infatti, già si teorizza la «potenza dell'intelletto ossia la libertà umana». Cerchiamo ora di spiegarlo con un esempio tratto dalla migliore western philosophy.

Il giudice «ben disposto» Nel film di Clint Eastwood Gli spietati (1992) l'«uomo della Legge» (Gene Hackman) che ha abusato dei suoi poteri si trova di fronte alla canna dell'arma del protagonista-giustiziere (lo stesso Eastwood). Intuendo di essere ormai alla resa dei conti, il cattivo sceriffo dichiara, però, di non «meritare» di finire così! L'altro gli ribatte che «non è questione di meriti». Siamo nel West, non in un'aula di università – ma i due stanno inconsapevolmente impersonando i termini estremi del problema della libertà del volere. Il cattivo sostiene la posizione di Tommaso d'Aquino, e di non pochi altri pensatori cristiani (tra i quali il nostro Mancuso): crede nel libero arbitrio; Eastwood, invece, sembra pensarla come Calvino o Spinoza. Paradossalmente, la punizione dello sceriffo corrotto da parte del buon fuorilegge sarebbe facilmente ammissibile nella prospettiva del cattivo: basterebbe che Clint replicasse che l'altro ha compiuto misfatti che meritano la più severa delle punizioni! Invece, opta per lo scomodo determinismo che (come teme Mancuso) potrebbe assolvere non solo prepotenti sceriffi ma addirittura tipacci come Nerone o Hitler. Insomma, per Clint il cattivo degli Spietati, come il despota romano o il tiranno del Reich, ha agito semplicemente seguendo la propria natura. Possiamo imputargli quella che è una qualità del suo essere? La risposta per me (non per Mancuso, suppongo) è «Sì» – con una qualificazione, però: possiamo imputargli non questa o quella peculiarità caratteriale (che non si è scelta, ma che ha ricevuto dalla sua costituzione fisica o biologica, o magari dalla predestinazione divina), ma le azioni che derivano da quella «natura». Sono tali azioni che noi puniamo, o meglio che noi a nostra volta siamo determinati a punire. «Se un accusato, in tribunale, credesse di giustificare la sua innocenza affermando di essersi comportato in quel modo non avendo la possibilità di agire altrimenti e di ritenersi pertanto non punibile, potrebbe sentirsi rispondere da un giudice ben disposto che la stessa cosa vale allora anche della condanna del suo agire da parte del giudice, e precisamente che anche questi non può valutare diversamente, essendo necessariamente ciò che è.» Il filosofo novecentesco Karl Jaspers svolgeva tale considerazione nell'ormai lontano 1953 (non senza, credo, qualche ricordo del Processo di Norimberga, in cui erano stati giudicati i crimini dei gerarchi nazisti), chiudendo in questo modo il tradizionale enigma del libero arbitrio ma aprendo un nuovo e più importante problema. Non troppo diversamente

dal «giudice ben disposto» di Jaspers procede Clint con le sue pallottole! Il punto non è negare la responsabilità ma ridefinirla: tutte le mie azioni sono causate, ma alcune dipendono pienamente da me (io ne sono la causa adeguata, direbbe Spinoza), mentre altre possono essere prodotte da vincoli esterni. Per esempio, un conto è se io decido di mettere fine alla mia esistenza perché non sopporto più una vita che non ritengo più degna di essere vissuta, giusto o sbagliato che sia questo mio giudizio; diverso è se un altro, arbitrariamente, «stacca la spina». Un conto è se alla fine non mi suicido, perché è riemersa alla mia mente l'idea che la vita è dono di Dio e io non ne sono il padrone, altro è se un potere invasivo della privacy ha inviato in casa mia dei poliziotti che mi impediscono di farla finita (come se la mia vita appartenesse a uno Stato che ha su ciascuno dei suoi «figli» patria potestà di vita e di morte). Un conto è se Galilei smette di difendere il copernicanesimo perché trova un errore nelle sue «prove», altro è se invece è costretto da un'autorità esterna a rinnegare tale «opinione». Un conto è se un genetista dell'URSS si convince – a torto o a ragione – che la concezione darwiniana è sbagliata, altro è invece se questa conclusione gli viene imposta dal Partito, con la minaccia del campo di concentramento o del plotone di esecuzione. La libertà che ci interessa qui è la libertà empirica dell'azione che si può dispiegare riducendo il più possibile i vincoli esterni al nostro agire, non la pretesa libertà metafisica del soggetto da qualsiasi vincolo «interiore». Anche la libertà empirica può rivelarsi problematica, com'è illustrato dai casi in cui nella realtà (e non solo negli esempi dei filosofi o dei film western) qualcuno si dichiari o si lasci dichiarare «incapace di intendere e volere», e dunque «non punibile». Ma al contrario che nelle dispute metafisiche sul libero arbitrio, qui una soluzione del problema c'è. È in situazioni sfumate di tale genere che emerge l'importanza della decisione come autonomo conferimento di valore alle proprie azioni. Se si rivendica la propria libertà, si rivendica anche la propria responsabilità, esattamente come Socrate che non fugge di fronte alle leggi della propria città, che peraltro giudica inique. Se invece si invocano le circostanze attenuanti, per ciò stesso ci si considera irresponsabili (ovvero causa inadeguata delle proprie azioni). Coglieva nel segno Bayle, quando diceva che Spinoza era un vero ateo, perché era «il primo ad aver ridotto a sistema l'ateismo, facendone un corpo dottrinale coerente, svolto con metodo geometrico». Il suo Dio, che coincideva con la Natura, non aveva bisogno di trasferirsi in un qualsiasi aldilà perché la società umana potesse funzionare coerentemente. Non è un

caso che nel capitolo finale del Trattato teologico-politico, la «grande opera esecrabile» (come la definiva Bayle) che era riuscito a pubblicare (1670) in vita, Spinoza delineasse una concezione libertaria dell'apparato statale: «Il fine dello Stato, dico, non è cambiare gli uomini da esseri razionali in bestie o automi; ma, al contrario, far in modo che la loro mente e il loro corpo compiano in sicurezza le loro funzioni, e che essi si servano della libera ragione […]. Il fine dello Stato, dunque, è la libertà». Non si tratta solo della libertà della polis o città, che vigila affinché al proprio interno o nelle più o meno immediate vicinanze non si formi un qualsiasi potere che potrebbe usurparne le prerogative, ma dalla stessa libertà di coscienza senza la quale nessun individuo può essere causa adeguata del proprio corso di azioni. Il punto è che le due libertà – quella di non soggezione da parte della polis e quella di ciascun cittadino/cittadina di essere «padrone dei propri pensieri» – si sostengono a vicenda. Infatti, «sarà dunque un governo estremamente dispotico quello che nega a ciascuno la libertà di dire e di insegnare quello che pensa». Uno Stato che volesse imporre un totale conformismo sarebbe allo stesso tempo tirannico e fragile, in quanto «chi vuole determinare tutto con le leggi, stimolerà i vizi piuttosto che correggerli»: del resto, diceva ancora Spinoza, «ciò che non può essere proibito deve essere necessariamente concesso», per quanto possa sembrare pericoloso. Ateismo metodologico Non perdiamoci in discussioni se lo Stato inteso come strumento al servizio della libertà sia o no un'utopia; piuttosto, esso rappresenta un'unità di misura che permette di valutare nel concreto quanta libertà siano disposti a concedere gli Stati di oggi, magari «democratici», a cittadine e cittadini, senza ridurli alla condizione di sudditi. Riscopriamo così, per questa via, il senso profondo dello slogan di Lysander Spooner per cui «i vizi non sono crimini» – compreso quel particolare «vizio» che ci spinge a considerare gli istituti sociali via via realizzati come inadeguati alla difesa o all'incremento della libertà dei singoli, se tendono a tramutarsi in pervasivi strumenti di controllo e costrizione! I totalitarismi del Novecento sono stati fin troppo generosi nel metterci in guardia contro la libertà che degenererebbe in licenza. Come ricordava Hitler: «Quanto più si allentano i freni dell'organizzazione statale e si lascia libero campo alla libertà individuale, tanto più la storia di un popolo si avvia sui binari del regresso civile». Non c'è solo Hitler. Abbiamo nel mondo di oggi esempi di organizzazioni statali o comunitarie che vedono

nella libertà individuale il peggior nemico e che, reprimendola, conculcano minoranze, violentano tradizioni e culture, eliminano sistematicamente garanzie giuridiche, censurano la stampa o Internet, pretendono di limitare la libertà di parola e di azione di altri Stati e di altri popoli. Per di più, non si tratta sempre o solo di forza bruta: la repressione dell'individualità, che implica prima o poi soggezione su larga scala, viene talvolta giustificata ed effettuata con le migliori intenzioni, invocando questo o quel valore che dovrebbe apparire «non negoziabile». È per questo che l'intreccio di libertà filosofica, responsabilità politica ed economica, e autonomia dell'impresa tecnico-scientifica rappresenta ancor oggi agli occhi degli illiberali di ogni risma «un peccato che deve essere espiato in nome della teleologia della giustizia», come ha scritto in un recente contributo il matematico e filosofo Jean Petitot. Non sono portatori di diseguaglianze e scompensi lo sviluppo capitalistico e la stessa crescita tecnico-scientifica? Non sono solidali a una forma di esasperato individualismo, che come un acido scioglierebbe qualsiasi legame comunitario? Le loro conquiste non vengono subite da coloro che si trovano esclusi da questo tipo di «progresso»? La risposta da parte di chi teme di pagare il prezzo di questa eccessiva libertà è che essa, come un peccato, vada repressa promuovendo gli esclusi a «motore di una salvezza redentrice». Petitot smaschera efficacemente il nucleo tirannico coperto da questa retorica: per essere «operativo», cioè incisivo sul piano della storia, tale «profetismo teologico-politico» esige che «una casta 'morale' imponga un potere clericale che […] operi per reti di influenza e controllo dell'opinione pubblica, onde […] conquistare il potere e mettere le tecniche di repressione al servizio della giustizia». Concordo con lui non solo sulla denuncia della trappola autoritaria, ma anche sul suo invito a resistere. Scrive Petitot che «di fronte alla potenza di quei clericalismi, bisogna riconquistare le posizioni di un ateismo metodologico, vale a dire di denuncia razionale», cioè di un atteggiamento capace di smontare tutte queste favole di «redenzione». Perché chiamarlo ateismo? È ovvio come ateismo e anticlericalismo non siano affatto sinonimi. Una prima ragione per insistere sull'ateismo è che il controllo sociale cui mirano i vari eserciti della salvezza è della stessa pasta di quello di tutte le chiese dell'intolleranza, che perseguono il loro progetto e impongono i loro ideali in nome di un qualche «Dio geloso», cui piegare le preferenze dei singoli. E allora, perché non tagliare, una volta per tutte, il filo diretto che tali burocrazie dello spirito pretendono di avere con la divinità? Anzi, che farsene della divinità, se si è ridotta a

strumento di prevaricazione e inganno? E perché qualificare questo ateismo come metodologico? Riprendo qui il tema del Prologo. Non mi interessa in sé la questione dell'esistenza o della non esistenza di una qualche divinità – se non esiste, ciò è bene per la nostra argomentazione; se esiste, è ancora meglio (più significato avrà la nostra ribellione) – quanto il fatto che Dio può venire impugnato come una clava per sottrarci ogni forma di autonomia – filosofica, politicoeconomica, tecnico-scientifica. Si tratta di evidenziare l'infondatezza di tale pretesa, da qualunque parte venga avanzata: maghi, incantatori, sacerdoti, funzionari di partito, imbonitori della televisione ecc. E soprattutto, attenzione al linguaggio: perché parlare di salvezza o di redenzione? Chi si esprime in questo modo non dovrebbe anche avere l'onere di indicare il pericolo o il peccato? È la libertà una malattia mortale? O addirittura la vera ragione per cui il mondo sarebbe corrotto? Anche dei filosofi sembrano aver pensato così (vedi oltre il caso del Platone della Repubblica). Ma per me la libertà non è un'influenza contro la quale bisogna vaccinarsi, bensì la condizione di base per la vita che decidiamo di vivere, senza che nessuno venga a dettar legge alla nostra coscienza. «Tra il Diavolo e il profondo mare azzurro» Anno Domini 1725. Un reverendo, diretto dalla madrepatria inglese a New York, sale sul mercantile che dovrebbe portarlo a destinazione. Non apprezza l'indifferenza della gente di mare per tutto quello che concerne il destino dell'anima dopo la morte; si prodiga allora a distribuire copie della Bibbia ai membri della ciurma. Per tutta risposta, una notte i marinai si intrufolano nella cabina ove è alloggiato e gli tagliano «l'amaca da sopra» mentre dorme, lo sodomizzano «più volte» e infine lo picchiano violentemente sul capo… con una sua Bibbia. Era l'epoca in cui gli equipaggi sia delle navi legali sia di quelle dei pirati venivano reclutati indifferentemente tra membri di una Chiesa di Stato (come in Inghilterra), presbiteriani, dissenzienti e settari vari; non mancavano cattolici romani e perfino ebrei o musulmani – per non dire di «pagani» della più varia estrazione. Sarebbe mai stato pensabile, sulla tolda della nave o nella stiva, che venisse turbata la pace per qualche sottile questione teologica come la salvezza attraverso le opere, la sostanza trinitaria di Dio o la natura umana/divina di Cristo? E se alcuni capitani ritenevano che potesse essere motivo di discordia la presenza di donne o di ragazzini a bordo, più nefasta era considerata l'invadenza di un prete di

qualsiasi denominazione! Era un modo di garantire al tempo stesso efficace cooperazione e libertà di coscienza, anche se aveva qualche risvolto che oggi potrebbe sembrare sgradevole per i seminatori della zizzania religiosa. Ma quando, in un lungo viaggio, si rimane sospesi «tra il Diavolo e il profondo mare azzurro» (come recita una ballata), si guarda alla abilità tecnica di navigazione o di combattimento, e non al particolare credo di ciascuno. Però, le genti di mare sapevano sfruttare in modo nuovo e originale i residui delle vecchie religioni. Per esempio, un certo signor Young della Society for the Promotion of Christian Knowledge, che tentava di convertire i marinai all'ospedale di Plymouth, venne da questi con calore mandato al Diavolo, e il suo «gregge» si servì delle pagine dei librettini edificanti per accendere la pipa. Questo capitava a terra, e tra semplici marinai che erano al servizio del commercio legale. I pirati non erano talvolta da meno; inoltre, applicavano una forma di ateismo metodologico ante litteram, che – rozzo quanto si vuole – tagliava alla radice la mala pianta della discordia religiosa e le perverse conseguenze di ogni possibile fondamentalismo. Così, il pirata Charles Bellamy (inizio del XVIII secolo) non mancava di rimproverare quelle genti di mare che, arruolate spesso a forza su mercantili o su navi da guerra, «prestano fede a un ruffiano di prete che è una palla di sego, che non crede né pratica ciò che mette in testa agli imbecilli cui tiene la predica». Quei facinorosi marinai che se la prendono con il reverendo che viene a importunarli potrebbero sembrarci loro i veri intolleranti, non foss'altro per il carattere sbrigativo e rude del modo di reagire. Dopotutto, che male potrebbe fare un uomo di chiesa che diffonde le proprie idee sul modo «giusto» in cui ci si deve comportare? Il fatto è che, come lo sfortunato reverendo violentato nel 1725, non sono pochi coloro che in nome di questo o quel valore pretendono di regolare la condotta altrui e tacciano d'intolleranza quelli che rimproverano loro tale invasione nella vita degli altri. A questo punto possiamo riprendere la discussione del capitolo primo circa l'invadenza dei prelati nella politica del nostro Paese. Sarebbe davvero «improbabile e illiberale» (per dirla con le parole del filosofo Marconi) che cittadine e cittadini italiani – così esposti alla tutela di uno Stato straniero, cioè del Vaticano, di cui quella particolare lobby fa gli interessi entro i confini del nostro Paese – reagissero con risolutezza a insinuazioni e diffamazioni che rasentano l'incitamento alla discriminazione nei confronti di chi ha scelto forme e stili di vita che i

prelati non approvano? Non sarebbe invece «appropriato» che, stanchi di tale invadenza, facessero degli scritti di costoro un uso analogo a quello adottato dai marinai per i libelli del signor Young, servendosene per accendersi la pipa, magari in pubblico? Atei giuridicamente incapaci Qualcuno mi potrebbe obiettare che in questo capitolo ho parlato soprattutto di individualismo, non di ateismo. Può darsi; ma entrambi hanno lo stesso nemico. Lo mostra un'osservazione di Mill nel Saggio sulla libertà: «Vi è qualcosa di spregevole, e allo stesso tempo spaventoso, nel genere di prove che negli ultimi anni sono bastate per dichiarare chiunque giuridicamente incapace: lo si vede dopo la morte, nei casi in cui l'eredità viene impugnata […]. Si va a rovistare nei minimi particolari della vita quotidiana di una persona, e ogni 'scoperta' che […] appare lievemente diversa dal più assoluto luogo comune viene presentata alla giuria come prova di infermità mentale, sovente con successo». Tutto ciò, per Mill, non fa che svelare l'opinione «volgare» che, «ben lungi dal rispettare il diritto dell'individuo a comportarsi, in cose di scarsa importanza, secondo il proprio giudizio e le proprie inclinazioni […], non riesce neppure a concepire che una persona sana di mente possa desiderare una libertà del genere». Segue un parallelo rivelatore a proposito dei «miscredenti»: «Quando una volta si proponeva che gli atei fossero mandati al rogo, le persone caritatevoli suggerivano di spedirli invece in manicomio; oggi non sarebbe sorprendente che lo si facesse, e che gli autori si congratulassero con se stessi perché, invece di scatenare una persecuzione religiosa, hanno scelto un modo di trattare questi sfortunati così cristiano e umano, fonte anche di tacita soddisfazione perché gli atei hanno così ottenuto quel che si meritano». I cristiani, di tutto ciò, non erano né i primi né gli unici responsabili. Nelle Leggi il solito Platone prospetta l'istituzione di una «casa della temperanza» ove andrebbero rinchiusi i folli (usualmente lasciati a piede libero nella democratica Atene) – e insieme con loro gli «empi» (cioè gli atei) che si sono ridotti così «per ignoranza e non per malvagità d'animo» (i «malvagi», invece, a morte subito!) Dopodiché, cinque anni di prova: «durante quel periodo di detenzione nessuno dei cittadini potrà avvicinare i reclusi tranne i partecipanti al Consiglio notturno, i quali saranno lì a invitarli a salvare l'anima». Poi eccoli scarcerati: tutto bene se «risanati»; altrimenti, se ci ricascano, «siano senz'altro condannati a morte» (909a). È in embrione l'idea che solo un pazzo può negare gli dei della città o, detto

più laicamente, i valori comuni cui si affida la maggioranza dei suoi concittadini. Il mito del consenso «Su Dio il consenso è unanime», leggo in un articolo del Sole 24 Ore del 21 febbraio 2010: «Oggi come non mai il richiamo etico-religioso ha cittadinanza e gode di rispetto. Chi dissente rischia di passare per fesso» (corsivo mio). Cos'è, un passo avanti rispetto a Platone? Non dobbiamo aspettarci più le visite notturne di «consiglieri» che ci vogliono salvare l'anima? Spero che l'estensore dell'articolo (Giovanni Santambrogio) non stia esprimendo il suo intimo sentimento verso gli atei; ma dipinga piuttosto qualche tratto dell'atteggiamento che Mill definiva «volgare» circa la libertà individuale di critica e di scelta di vita. Nell'enciclica Spe salvi (2007) Benedetto XVI ha dichiarato: «Se ci fossero strutture che fissassero in modo irrevocabile una determinata – buona – condizione del mondo, sarebbe negata la libertà dell'uomo, e per questo motivo non sarebbero, in definitiva, per nulla strutture buone». Sarei portato a sottoscrivere! Ma nello stesso paragrafo si aggiunge che «anche le strutture migliori funzionano soltanto se in una comunità sono vive delle convinzioni che siano in grado di motivare gli uomini a una libera adesione all'ordinamento comunitario». L'ateo (il «fesso» di poche righe sopra) è appunto colui che non aderisce, colui per il quale ogni comunità è al più una locanda dove sostare e non una dimora per tutta l'esistenza; una collettività di cui si impegna a rispettare le norme di coesistenza, ma di cui non necessariamente vuole o deve introiettare i valori profondi – perché ha uno stile di vita diverso, o venera altri dei o nessun dio, o non ritiene che alcun valore sia così profondo da imporgli il sacrificio della propria autonomia o indipendenza di giudizio. Torniamo alla Spe salvi. Qui si concede che «la scienza può contribuire molto all'umanizzazione del mondo e dell'umanità»; ma si aggiunge che «essa però può distruggere l'uomo e il mondo, se non viene orientata da forze che si trovano al di fuori di essa». Primo commento: a parte che mi sfugge cosa voglia dire «umanizzazione dell'umanità», siamo così distanti da come si atteggiavano Bellarmino o Barberini nei confronti di Galilei? Ratzinger precisa che «non è la scienza che redime l'uomo; l'uomo viene redento tramite l'amore». E la salvezza sta nella «stella della speranza». Secondo commento: tutto molto bello, e apparentemente condivisibile. Non bisogna però dimenticare che gli inquisitori che nel 1633 misero alle strette Galilei lo facevano anche per salvargli l'anima; dunque, per amore di lui, redimendolo dal suo peccato, che consisteva semplicemente – come

ebbe a dire Milton – «nell'aver pensato, in astronomia, diversamente da come pensavano i suoi censori francescani e domenicani». Dunque, che cos'hanno in comune certi nostalgici di Platone, i burocrati di quella che fu l'URSS e le digressioni «filosofiche» del Pontefice romano? L'ateismo metodologico ci aiuta nella risposta. Rubo le parole a Petitot: tutti questi signori, pur con accenti diversi, «pongono la libertà al servizio della passione per la servitù». Sicché, «qualsiasi autonomia dissidente che si dichiari 'atea' rispetto alla nuova chiesa della nuova speranza dovrà […] essere considerata blasfema, apostata ed eretica». «Direzioni innumerevoli e contrastanti» Tollerare o addirittura incrementare un eccesso di stili di pensiero e forme di vita comporterebbe il rischio di guastare qualsiasi ben ordinata realizzazione comunitaria? E i «fessi» che a tale ordine non si sottomettono dovrebbero finire in una casa di cura? Mill così riassumeva il punto di vista dei ben pensanti: «Se, per ammissione comune, i bambini e i minori vanno protetti da se stessi, la società non è forse ugualmente obbligata a proteggere adulti che sono ugualmente incapaci di controllarsi? Se il gioco d'azzardo, l'ubriachezza, l'incontinenza, la pigrizia o la sporcizia sono altrettanto nocivi alla felicità e contrari al progresso almeno quanto lo è la maggior parte degli atti vietati dalla legge, perché […] la legge non dovrebbe cercare di reprimerli, nella misura in cui ciò è possibile e socialmente utile? E, per supplire alle inevitabili imperfezioni della legge, non dovrebbe l'opinione pubblica almeno organizzare una poderosa polizia contro questi vizi e colpire con rigide pene sociali coloro che notoriamente li praticano?» Mill vedeva in tutto ciò il germe della tirannia più subdola, quella dei moralisti di ogni risma che sono sempre pronti a insegnarci che «le cose sono giuste perché sono giuste!» Per esempio: ancor oggi negli Stati Uniti ci sono le «contee secche», ove è rigorosamente vietata la vendita agli adulti di alcolici; e in alcuni di quegli Stati è passibile di sanzione penale la sodomia tra due adulti consenzienti, anche eterosessuali – persino marito e moglie. E voi volete la polizia morale a investigare tra le vostre lenzuola? Alla sua epoca Mill era colpito soprattutto dagli argomenti delle associazioni di proibizionisti sull'alcol. In una pagina del Saggio sulla libertà dava la parola al segretario di una sedicente «Alleanza» contro «le bevande fermentate o distillate», che ai suoi occhi incarnava il tipico «proibizionista democratico»: costui si dichiarava sempre disposto a

concedere che cadano «al di fuori della sfera della legislazione» tutte le questioni «relative al pensiero, all'opinione, alla coscienza» del singolo (ecco il democratico); ma ribadiva che «dentro di essa» resta «tutto ciò che è […] attinente ad atti, abitudini, rapporti sociali» (ecco il proibizionista). Per Mill questa è una distinzione capziosa: bere birra, vino o whiskey è una scelta «individuale»; eppure, lo Stato potrebbe benissimo impedire a chiunque di consumare tali sostanze: basterebbe che ne vietasse il commercio! Ed è proprio ciò che il proibizionista democratico vuole: ricorre al pretesto che quei consumi ostacolerebbero il suo «libero sviluppo morale e intellettuale, […] indebolendo e demoralizzando la società», dalla quale avrebbe «il diritto di pretendere mutuo soccorso e appoggio». Questa rivendicazione, per Mill, «non riconosce alcun diritto ad alcuna libertà, eccetto forse quella di avere opinioni in segreto». È la schiavitù di ciascuno da parte di ogni altro. Proibizionismo americano a parte, basta oggi sostituire al commercio delle bevande fermentate quello, poniamo, di materiale pornografico, e la questione riesplode. Come ha osservato Nadia Urbinati, «se il legislatore potesse provare senza ombra di dubbio che esiste una diretta relazione causale tra […] la pornografia e la violenza contro le donne o tra la pornografia e la schiavitù delle donne, non ci sarebbero discussioni sulla legittima coercizione di [questa] libertà di espressione». Tuttavia, per dirla con uno dei protagonisti di L'erba del vicino è sempre più verde (Stanley Donen, 1960), «chi può mai sapere cosa è la realtà?», almeno negli affari umani. Già per Mill non c'era dottrina sociale che potesse «stabilire inferenze di causalità diretta»; e, come nota Urbinati, è tale «mancanza di certezza scientifica [che] tiene la sfera della decisione politica aperta alla revisione». È bizzarro, mi chiedo, che sia un inciampo nel meccanismo della nostra conoscenza a garantire lo spazio della libertà individuale? Non più del fatto, direi, che la rivedibilità di qualsiasi teoria rende possibile la crescita della scienza. In entrambi i casi conta l'aspetto procedurale: l'individualismo libertario che ci pare legittimo trarre dai testi di Mill mira non a ridurre l'eccesso di libertà dell'individuo in ciò che esclusivamente lo riguarda, ma l'eccesso del legislatore, che potrebbe trovarsi a vincolare comportamenti che potrebbero avere effetti unicamente sull'individuo che li adotta. Quella sua pretesa va vagliata, situazione per situazione, perché siamo consapevoli che un'azione che riguardi l'agente considerato nel suo più puro isolamento è un caso limite; ma va esaminata tenendo conto di tutti i pro e i contro, lasciando completa possibilità di espressione alle parti interessate. Se contassero solo le preferenze del legislatore, cioè se egli procedesse

meramente a sua discrezione, anche se rinforzato dal consenso di una qualche minoranza o, ancor peggio, della maggioranza, non usciremmo da un paternalismo dispotico (pur se ammantato dai crismi della democrazia). Anche una legislazione, non diversamente dall'accordo scientifico, è il risultato dell'equilibrio di ragioni contrapposte – necessario dal punto di vista pratico, instabile sotto il profilo teorico. A questo punto, se qualcuno mi accusasse di sfruttare il punto di vista milliano per giustificare non solo la pornografia, ma qualsiasi più eversiva «licenza», mi renderebbe un servigio: mi permetterebbe di chiarire, per contrasto, come lo scopo del Saggio sulla libertà fosse quello di contenere il più possibile ogni forma di coercizione da parte della società sui suoi membri. Volete sopprimere il consumo delle bevande alcoliche, o di qualsiasi altra «droga», o di materiale pornografico (prodotto dalla cooperazione di soggetti tutti adulti, consenzienti ecc.)? Chiedetevi prima se davvero siete in grado di dimostrare che il fatto che altri consumino tali «sostanze» vi danneggia direttamente; interrogatevi se quella «licenza» non possa costituire un precedente che, in altre situazioni, potrebbe giovare alle «libertà» che voi vorreste vi fossero garantite; infine, provate a domandarvi se quei divieti non vadano contro diritti individuali inseriti nella Costituzione o nelle leggi del Paese, così che qualche Corte costituzionale potrebbe impugnare quelle proibizioni, anche se le avete fatte passare «a larga maggioranza». Torniamo al Saggio di Mill. Vogliamo «la libertà […] di modellare il piano della nostra vita secondo il nostro carattere, di agire come vogliamo, con tutte le conseguenze, senza essere ostacolati dai nostri simili, purché le nostre azioni non li danneggino, anche se loro considerano il nostro comportamento stupido […] o sbagliato» (corsivo mio). Mi pare pertinente, al proposito, la distinzione cara a John Harsanyi tra preferenze «personali» e preferenze «esterne». In breve: le preferenze personali di un individuo riguardano «come lui vorrebbe essere trattato», mentre quelle esterne ci dicono «come lui vorrebbe che gli altri fossero trattati». Le prime riguardano, per esempio, il mio lavoro, la mia salute, il mio stile di vita ecc. Però, non ho preferenze personali rispetto ai libri letti dal mio prossimo, anche se è possibile che io abbia forti preferenze intorno a ciò che loro dovrebbero leggere; queste sarebbero quindi preferenze esterne. Tale distinzione taglia l'erba sotto i piedi a qualsiasi gruppo di sadici che, con un rigore degno dei vecchi calvinisti, si sentisse in dovere di torturare la sventurata Justine (differente sarebbe il caso se lei acconsentisse di buon grado, anzi ne godesse). Tale criterio ci garantisce

pure da una più o meno garbata «benevolenza» di coloro che si preoccupano del nostro benessere: che ritengono, per esempio, che leggere certi libri – come Juliette di Sade, o magari le poesie di Juan de la Cruz (o, più modestamente, questo libro) – ci faccia male. Insomma, per dirla ancora con Mill, vorremmo «perseguire il nostro bene al nostro modo, purché non cerchiamo di privare gli altri del loro o li ostacoliamo nella ricerca». Come faceva notare Harsanyi nel 1977, «questo non è che il notissimo principio della sovranità, del consumatore, spesso discusso nella letteratura dell'economia del benessere: gli interessi di ciascun individuo devono essere definiti nei termini delle sue proprie preferenze personali e non nei termini di ciò che qualcun altro pensa sia bene per lui». Quello che noi oggi chiamiamo «sovranità del consumatore» ha per altro radici antiche: l'individualista è disposto a tutto «pur di non avere sopra di sé nessuno che in alcun modo la faccia da padrone», diceva Platone nella Repubblica (563d-e). Per lui questo era il marchio di uno Stato in cui c'è «libertà di espressione e possibilità di fare ciò che più aggrada» per chiunque (557b). «Tale Stato, vivacizzato da ogni tipo di costume, apparirebbe magnifico come un mantello ricamato di fiori sgargianti di ogni genere», dice ancora Platone (557c). Par di sentire il celebre slogan (1957) di Mao Tse-Tung: «Che cento fiori sboccino e cento scuole contendano»! Però, non diversamente dal dittatore comunista, il filosofo ateniese non nutriva fiducia in un individualismo che non riconosce confine, poiché troppi fiori (quanti, cento e uno?) sono segno di «lassismo» (558b). E questo porta all'anarchia e quindi, per reazione, alla tirannide (552b-e). Occorrono allora «restrizioni della libertà» – ovviamente, alla condizione «che si sia il più possibile tutti amici e uguali, obbedienti alla stessa guida» (590d-e), il solito «pastore» dei popoli. Ci risiamo! Ammettiamo pure che «il gusto selvaggio per la libertà» (per dirla con Gilles Lapouge, giornalista e scrittore) conduca prima o poi a una qualche forma di servitù: è questa una buona ragione perché ci togliamo da noi stessi quella eccessiva libertà (eccessiva, certo: se non è tale, non è nemmeno libertà), nel timore che prima o poi ce la tolga qualcun altro? Sapere che prima o poi si dovrà morire è una ragione per non vivere? Ma qualcuno potrebbe obiettarmi: quanto di tutto ciò che hai detto resterebbe in piedi, se con gli strumenti della tua semplice ragione tu scoprissi che quel Dio di cui rifiuti ogni rappresentante terreno non può non esistere?

5 CONTRO LA SOTTOMISSIONE Il Signore del tempo Se stiamo al bestiario degli atei della Gaudium et spes, il Russell di Perché non sono cristiano rientra tra coloro che ritengono che sia privo di senso il modo con cui abitualmente parliamo di Dio. Torniamo al dibattito con padre Copleston. Il gesuita, a un certo punto, quasi si secca per l'atteggiamento da positivista di Sir Bertrand: «Non capisco come Lei possa dire che non è logico chiedersi come la totalità – o qualsiasi cosa – sia posta in essere. Perché c'è qualcosa invece che nulla?» È la domanda metafisica per eccellenza, come concedeva Heidegger; ma è sintomatico che nemmeno lui abbia mai fatto lo sforzo «di far vedere come si potrebbe rispondere» – ha osservato Robert Nozick (un altro filosofo). Una soluzione il nostro buon gesuita, invece, l'aveva. Perché c'è qualcosa invece che nulla? (Perché c'è l'ente invece che il niente?) Basta chiamare Dio quel Perché, ed è fatta! In un passo del Mondo di Cartesio, al moto effettivo di una qualsiasi porzione di materia viene contrapposta la «tendenza» di questa a proseguire in linea retta: Dio la imprime a tutte le cose, ma poi «le diverse disposizioni della materia» rendono i movimenti «ineguali e curvi». Analogamente, spiega il grande matematico e filosofo francese, «i teologi ci insegnano che Dio è anche l'autore di tutte le nostre azioni in quanto esse sono e in quanto hanno una certa bontà; ma […] le diverse disposizioni delle nostre volontà possono renderle viziose». Nella versione più tradizionale: ogni cosa ammette una causa, dunque c'è una causa per tutte le cose. Detto così, era uno dei bersagli preferiti di Russell. Fate una piccola variazione: ogni numero ammette un numero più grande, dunque c'è un numero più grande di tutti i numeri. Vi pare che stia in piedi? No. Chi la pensa come padre Copleston è tenuto a precisare: Dio non è «causa prima» nel senso che da Lui si diparta ogni catena causale; piuttosto, lo è nel senso che rappresenta la condizione per cui ci sono catene causali. Torniamo a Cartesio. Un paragrafo dei suoi Principi della filosofia (1644) si intitola: «La durata della nostra esistenza è sufficiente per dimostrare l'esistenza di Dio», e qui viene chiarito che «dal fatto che noi esistiamo ora non segue che esisteremo anche nel tempo immediatamente successivo, a meno che qualche causa – quella stessa, cioè, che ci ha inizialmente prodotti – ci riproduca, per così dire, di continuo». Insomma, per Cartesio il Signore che ha creato il mondo non riposa mai: deve tenere in vita proprio noi!

Per di più, prosegue il testo dei Principi, è anche «eterno, onnisciente, onnipotente, fonte di ogni bontà e verità, autore di tutte le cose». Qual è lo stato di tali attributi divini? Precisava il teologo protestante Giovanni Miegge (1900-1961) nel suo Per una fede (1952): «Diremo che Dio è eterno, ma eviteremo di scambiare la sua eternità con un'astratta forma di atemporalità»; che è onnisciente e onnipotente, «perché non possiamo conciliare con l'idea di Dio le limitazioni dipendenti […] da qualsiasi altra causa estrinseca» a Lui, «ma senza abbandonarci […] alla celebrazione di un'astratta e tirannica» potenza. Infine, «diremo che è immutabile, non perché l'idea dell'immutabilità in sé sia particolarmente degna della divinità […], ma perché non possiamo pensare in lui alcuna arbitrarietà». Insomma, si tratta «di riconoscere a Dio le perfezioni che ci appaiono inseparabili dalla sua idea, ma senza pensare che Dio sia vincolato dalle perfezioni che ci compiacciamo di attribuirgli». Non potremmo svincolarlo, allora, perfino dal dovere di esistere? L'isola che non c'è «Ogni volta che voglio pensare all'ente primo e sommo, e trar fuori dalla mia mente, come da un tesoro, la sua idea, è necessario che io gli attribuisca tutte le perfezioni […]; e questa necessità basta senz'altro, in un secondo momento, accortomi che l'esistenza è una perfezione, a farmi correttamente concludere che l'ente primo e sommo esiste.» In questo passo delle Meditazioni metafisiche (1641) Cartesio da tale argomento ontologico ricava il nucleo del monoteismo: «Non posso intendere due o più Dei siffatti». Tutto ciò ha un prezzo: il soggetto cartesiano è tipicamente dotato di «libero arbitrio» (vedi il quarto capitolo); eppure, ecco una libertà che Cartesio è pronto a sacrificare! «Non mi è dato di esser libero di pensare Dio senza esistenza (ossia l'ente sommamente perfetto senza la perfezione somma).» Il nucleo di tale argomento è più antico delle Meditazioni cartesiane, poiché risale a uno dei più intriganti pensatori del (preteso) «oscuro» Medioevo, Anselmo detto di Aosta (vi era nato nel 1033) o di Canterbury (vi morì nel 1109, dopo esserne stato arcivescovo dal 1093). Questi aveva dedicato due opere all'esistenza di Dio. La prima, Monologion (1076), dalla gradualità delle perfezioni presenti nelle cose della nostra quotidiana esperienza risale al Signore. Ma dopo aver fatto circolare il testo «a seguito delle insistenti preghiere di alcuni confratelli», l'autore aveva cominciato a domandarsi «se per caso non si potesse trovare un unico argomento, che per dimostrare la sua validità non avesse bisogno d'altro

argomento che di se stesso e che fosse da solo capace di dimostrare che Dio esiste veramente, e che egli è il Sommo Bene». A questo compito avrebbe consacrato un altro opuscolo, il Proslogion (composto tra il 1077 e il 1078): «Un giorno, in cui vivamente mi affaticavo […] proprio nel mezzo del conflitto dei miei pensieri, si mostrò a me ciò che io non avevo più speranza di trovare». L'argomento, che gli era inizialmente apparso come «impostura», è delineato così: «Dunque, anche l'insipiente deve convincersi che almeno nell'intelletto esiste qualcosa di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore, poiché egli lo intende, quando lo sente dire, e tutto ciò che si intende esiste nell'intelletto. Ma certamente ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore non può esistere nel solo intelletto». Infatti, se esiste nel solo intelletto, si può pensare quel qualcosa esistente anche nella realtà, e proprio questo doppione, allora, sarebbe maggiore. «Di conseguenza, se ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore esiste nel solo intelletto, ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore è ciò di cui può pensarsi una cosa maggiore. Questo, evidentemente, non può essere. Dunque, senza dubbio, qualcosa di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore esiste sia nell'intelletto sia nella realtà». Iniziamo col chiederci chi sia mai l'insipiente. Salmo 14,1: «Lo stolto ha detto nel suo cuore: Non v'è Dio». Giovanni Diodati, lucchese per schiatta e ginevrino per nascita, traduceva (1607) così in volgare l'insipiens della Vulgata: doveva trattarsi, stando a lui, dello «huomo sensuale, e profano, non alluminato della viva luce dello Spirito di Dio». Costui, «per la malizia del suo cuore» non tiene conto di quel che potrebbe conoscere seguendo la mera ragione naturale circa Dio e la sua Provvidenza; anzi, «nella sua volontà perversa e ribelle […] opera senza timore di Dio». Potrebbe servirci a definire l'ateismo metodologico di cui abbiamo trattato nel quarto capitolo: non è però «stoltezza» ma «ribellione». Tuttavia, per non forzare il testo anselmiano, adeguiamoci ai traduttori che preferiscono lasciare insipiente. Come scrive uno di loro (Lorenzo Pozzi, 1936-1996), l'insipiente è una figura ricorrente nei secoli, ovvero «il libero pensatore che irride tutti coloro che spiegano il naturale con il soprannaturale, essendo questo per lui sempre una sciocca superstizione». Come si è detto nel terzo capitolo, però, senza il rifiuto di spiegare il naturale con il sovrannaturale non si sarebbe sviluppata la scienza moderna! Imbrigliare la conoscenza nel sovrannaturale, invocare a ogni piè sospinto il «mistero», rifiutarsi di vagliare i dati dell'esperienza, rifugiarsi nell'inspiegabile significa sovrapporre alle teorie, alle osservazioni, alla

tecnologia una gamma di pregiudizi che bloccano la ricerca. Che ce ne faremmo di un Dio «maligno», che può ingannarci nonostante tutte le nostre «sensate esperienze» o «geometriche dimostrazioni»? L'insipiente (l'ateo metodologico che a qualsiasi dispotismo è deciso a ribellarsi) non solo lavora per liberare noi tutti da questa beffa metafisica, ma può operare per liberare lo stesso Dio dai ceppi della superstizione dei suoi adoratori. «Alcuni dicono che in qualche parte dell'oceano vi è un'isola, che chiamano, per la difficoltà o piuttosto per l'impossibilità di trovare ciò che non esiste, 'Isola Perduta'; costoro raccontano che quest'isola […] supera per abbondanza di beni tutte le altre terre abitate da uomini. Se qualcuno mi dice questo, io intendo facilmente quanto mi si dice». Ma supponiamo che quelle stesse persone concludano così il loro resoconto: «Non puoi più dubitare che quest'isola, superiore a tutte le altre terre, che con certezza sai esistere nel tuo intelletto, esista veramente nella realtà in qualche luogo; e poiché è meglio esistere anche nella realtà che esistere solo nell'intelletto, è necessario che quell'isola realmente esista; poiché, se non esistesse, qualsiasi altra terra esistente nella realtà sarebbe migliore di essa e così quest'isola, già intesa da te come migliore, non sarebbe migliore». Queste ultime citazioni sono tratte dal Liber pro insipiente di Gaunilone, monaco dell'abbazia di Marmoutier (Francia, non lontano da Tours), che alla fine sbotta in una sorta di Mi stanno prendendo in giro! Dall'idea di un essere di cui non si può pensare nulla di più grande non ne deriva l'esistenza, perché dalla presenza di un qualsiasi concetto nella mente non si può ricavare la presenza dell'oggetto nella realtà. Nessuna operazione finanziaria che si possa immaginare poniamo con 100 euro – talleri, diceva Kant – mi garantisce di disporre di quella somma per impiegarla in qualche banca di questa Terra! Per dirla con la sua Critica della ragion pura: l'esistenza di cento monete o di un'isola o di un dio non è una proprietà dell'«oggetto» in questione che possa venir dedotta «per analisi» dalla mera definizione; è un fatto che può essere accertato solo «per sintesi» dei dati dell'esperienza. Volete davvero l'isola che non c'è? Fate come Peter Pan e Wendy, provate ad andarci! Constatiamo Dio dentro di noi e pure nel cielo stellato sopra di noi – diceva Kant – come garante di un ordine etico e magari estetico: però, è solo un sentimento, non un argomento di pura ragione. Già Hume, nella conclusione della Storia naturale della religione, definiva i pretesi argomenti per l'esistenza di un unico Dio «fantasie capricciose di scimmie sotto parvenze umane». L'unico rimedio era «rifugiarsi nelle serene, anche se oscure regioni della filosofia» (corsivo

mio). Prima, a far l'elogio di tale oscurità, c'erano stati versi come questi di Juan de la Cruz: «Più salivo in alto / più il mio sguardo s'offuscava, / e la più aspra conquista / fu un'opera di buio». «Un astro tramontato» Né Gaunilone né Kant hanno riportato a più miti consigli gli entusiasti dell'argomento ontologico (che vanta sostenitori del calibro di Leibniz, e – dopo Kant – di Hegel). Anselmo aveva concluso nel suo Liber apologeticus (sorta di difesa delle tesi avanzate nel Proslogion) che la sua prova non era resa fiacca dalle obiezioni di Gaunilone; semmai, queste gli avevano consentito di mettere meglio a fuoco il passaggio cruciale del suo argomento, che faceva perno sulla locuzione ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore, essa riassume «ciò che si deve credere dell'essenza divina», perché «è meglio essere eterno che non essere eterno, essere buono che non essere buono, anzi, essere la stessa bontà che non essere la stessa bontà. Ma tale non può non essere ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore» (corsivo mio). E Cartesio, a sua volta, metterà bene a fuoco tale aspetto della prova: non si sta discutendo di un concetto qualunque, ma proprio e solo di quello di Dio. E in quel «tesoro» che è l'idea di Dio nella nostra mente, scopriamo non solo che «Dio ha tutte le perfezioni», ma pure che «l'esistenza è una di esse». Come ha osservato poi Giovanni Miegge, tutte le diverse versioni dell'argomento ontologico, che «intendono ricavare direttamente l'esistenza di Dio dall'idea di essere», presuppongono un assioma tipo «l'essere è il bene, e il bene non può non essere». Però, aggiungeva il teologo protestante, l'idea dell'essere (anzi, dell'Essere con la maiuscola) sembra «oggi [1952, la data di Per una fede] un astro tramontato». Nozick in Spiegazioni filosofiche del 1981 ha sottolineato come l'inclusione dell'esistenza tra le perfezioni fosse il punto debole di Anselmo e di tutti coloro che ne avevano seguito le orme. Supponiamo che un parrocchiano «angosciato» chieda al suo pastore se Dio davvero esista, e questi gli ribatta che «Dio è talmente perfetto che non ha bisogno di esistere»! Così, potremmo arrivare alla non esistenza di Dio muovendo proprio dalla sua definizione come Ente perfettissimo! Liberiamo allora la divinità da una teologia che ha finito col «sostituire al vero Dio un astratto complesso di perfezioni, di cui si sarebbe decretata l'esistenza, decorandolo col nome di Dio» – leggiamo ancora in Per una fede. È un Illuminismo cristiano quello che traspare dalle parole di Miegge. E il pastore della storiella di Nozick introduce a una teologia che si avvicina pericolosamente all'ateismo. Già quando Miegge prospetta una

relativizzazione di quel che potrebbe essere una qualsiasi «perfezione» di Dio (essa cambia al cambiare delle nostre premesse), egli è ormai un amico e compagno nell'ateismo. Al di sopra dell'essere In un passo della Repubblica di Platone il bene era detto «al di sopra dell'essere». Il filosofo ateniese aveva fatto ricorso a un'analogia di tipo fisico: «Il Sole fornisce a quel che è visibile non solo la capacità di esser veduto, ma anche la generazione»; eppure, «esso non è generazione»! Alla precisazione di Socrate, inteso come personaggio del dialogo, ribatteva «comicamente» Glaucone: «Che divina superiorità!» (509b-c). Poteva innestarsi su questo tronco l'unico Dio dei tre grandi monoteismi? Quello che sul Sinai aspetta Mosè è un incontro col suo Dio («Io sono colui che sono»). Sembra che qui Essere e Dio coincidano, ma si noti che il discorso è in prima persona singolare. E quel Dio («Padre»), che Gesù («Figlio») offre a chi vende la sua roba e lo segue, è sempre l'essere di una persona («il Santo Benedetto», come già si diceva nell'Ebraismo) e non un'idea, un concetto, un principio distillato dai filosofi. Di fronte agli esiti paradossali delle speculazioni di costoro, Miegge proponeva di riconsiderare le espressioni bibliche – specie veterotestamentarie – che oggi possono sembrarci elementi di un antropomorfismo ingenuo, come «il cardine di tutto il messaggio biblico: Dio è amore, e perciò perdona, cioè rinunzia all'assolutezza del giudizio morale, non meno che alla perfezione di una astratta immutabilità». Ma la tensione essenziale tra attributi divini e definizione dell'unico Dio non è solo ebraica o cristiana. Per esempio: «Dio […] non è né corpo, né persona, né sostanza, né accidente. Egli è al di là del tempo. Egli non può abitare in un luogo o in un essere. Egli non è oggetto di alcuno degli attributi o delle qualificazioni naturali. Egli non è né condizionato né determinato, non genera né è generato. Egli è al di là della percezione sensibile. Gli occhi non lo vedono, lo sguardo non lo coglie, l'immaginazione non lo comprende. Egli è una cosa, ma diversa da tutte le altre cose; egli è onnisciente, onnipotente, ma la sua onniscienza e la sua onnipotenza non sono paragonabili a niente di creato. Egli ha creato il mondo senza un archetipo prestabilito e senza ausiliario». In questo passo – che riprendiamo dall'ormai classica Storia della filosofia islamica (1964) di Henry Corbin (1903-1978) – Abûl-Hasan 'Alî ibn Ismâ'îl al-Ash'arî (di Basra, ovvero Bassora, 873-935), grande teologo dell'Islam sunnita, riassume le posizioni dei Mo'tazaliti, pensatori

musulmani dell'Iraq meridionale, emersi nel II secolo dall'Egira (VIII secolo dell'era cristiana) come «anello intermedio», a proposito dello status del peccatore, tra i permissivi Omayyadi (il peccatore, per quanto incallito, ha ancora la qualità giuridica di «credente») e le tendenze rigoriste (il peccatore responsabile di gravi colpe è «fuori dall'Islam», e può dunque venire ucciso): peccati considerati gravi non qualificano chi li commette come «miscredente» ma solo come «delinquente». Sul finire del IX secolo i Mo'tazaliti erano pressoché estinti; ma il loro atteggiamento razionalistico aveva fortemente segnato la speculazione sull'Unico (talvolta, in una prospettiva esplicitamente contraria ai dogmi cristiani della Trinità e dell'Incarnazione). Può sorgere la tentazione di vedere qui un cospicuo esempio di un Indicibile, di un Inconcepibile, di un Indeterminato tale da svuotare Dio da qualsiasi concretezza. Come osservava Corbin, questa è «la trappola del ta'tîl», termine che noi rendiamo abitualmente come agnosticismo; ma lo studioso segnalava che la radice 'tl indicava originariamente in arabo un pozzo senz'acqua o una donna senza ornamenti… Non rischia di svanire, una divinità siffatta? Questo è il motivo profondo, insinuava Corbin, del distacco dello stesso Ash'arî dai Mo'taziliti – e della successiva sua polemica: l'astrazione razionale conduce chi segue i Mo'taziliti a separare drasticamente Dio dalle sue manifestazioni. Non potrebbe essere questa la forma più subdola di ateismo? Così riteneva Ash'arî, e per questo accettava che all'unico Dio spettassero legittimamente i Nomi assegnatigli dalla Tradizione. Come ha chiarito Corbin, «quando il Corano e certi hadîth di Dio avanzano una rappresentazione antropomorfa (Dio ha le mani, un viso, è seduto al Trono ecc.), per i Mo'taziliti si tratta di metafore […]. Per i letteralisti si tratta invece di fenomeni reali concernenti Dio […]. Ash'arî è d'accordo con i letteralisti quanto alla realtà di questi fenomeni relativi a Dio; ma mette in guardia da ogni interpretazione materiale […]. Secondo lui il musulmano deve credere che Dio ha realmente le mani, il viso ecc., ma senza domandarsi come». Questa scettica rinuncia è il prezzo da pagare per non cadere nel tashbîh (antropomorfismo). Per altro, essa innerva anche la speculazione dell'Islam sciita. Qui, ricordava Corbin, l'unico Dio è «colui che è inattingibile anche dal pensiero più ardito»: pertanto non gli si possono attribuire «nomi o qualificazioni, né l'essere né il non essere»: anzi, Egli «non è, bensì fa essere». Ne deriva una «dialettica della doppia negatività: il Principio è non-essere e non non-essere […]. Ogni negazione è vera soltanto a condizione di essere a sua volta negata».

Sono così lontane dalla nostra epoca postilluministica queste discussioni islamiche? Per una volta concordo con il cattolico John Haught (Georgetown University, Washington D.C.), che nel suo Dio e il nuovo ateismo (2008) polemizza con Richard Dawkins (L'illusione di Dio, 2006) e Christopher Hitchens (Dio non è grande, 2007): questi «atei dall'intelligenza brillante [bright]» trovano «disgustoso» il fatto che «la fede biblica sia così antropomorfica» e rivendicano che semmai Dio andrebbe cercato in definizioni filosofiche «fuori dal mondo materiale, dalla concretezza umana e dall'ambiguità dell'esistenza storica» (se l'impresa fallisce, vuol dire che Dio non è grande!) Di mio, provo non poca simpatia per il senso dell'umorismo e la passione polemica di Dawkins, Hitchens ecc.; ma devo ammettere che finiscono anche loro per cadere nella trappola del ta'tîl pur di liquidare il tashbîh! Può l'astrazione dei filosofi svuotare Dio degli attributi che gli hanno per secoli conferito i teologi legati alla lettera di questa o quella Scrittura? I brillanti atei che Haught attacca talora indulgono alla semplificazione: esigono dal Dio dei tre monoteismi una purezza razionale che mal si concilia con la Parola della Rivelazione; e persino nella politica mirano a formule astratte da qualsiasi motivazione di fede. Eppure, obietta loro Haught, avrebbe senso, poniamo, eliminare dall'impegno di Martin Luther King jr per i diritti dei neri americani la sua ispirazione cristiana, e protestante? O magari – aggiungo io – considerare marginale l'Islam coraggioso di Malcolm X nel quadro della sua lotta al razzismo USA? L'ateismo «militante» dei vari Dawkins o Hitchens rischia di far passare qualsiasi forma di ateismo per la semplice e brutale cancellazione di tutto quel che si è ricordato poche righe sopra. Ma le cose non stanno esattamente così. Il bisogno di Dio è come una ferita aperta (e non basta qualche medicina teologica o filosofica): un taglio nella umana avventura, non una sintesi degli opposti ottenuti a buon mercato da professori neohegeliani. L'ateismo metodologico che abbiamo delineato nel quarto capitolo può essere, allora, un alleato di quei mistici che hanno ridotto il divino a puro «nulla» non per arrivare a un compromesso sempre fragile tra ta'tîl e tashbîh, ma per utilizzare tale tensione nel saggiare le nostre capacità di immaginare Dio e le sue relazioni con gli esseri umani. Un tè nel deserto (celeste) «Quale il tuo cuore, tale è il tuo Dio» era il motto di Ludwig Feuerbach. Quella astratta «immutabilità» di cui ha trattato Giovanni Miegge faceva di Dio, già a detta del Feuerbach dell'Essenza del Cristianesimo (1841), solo

«una chimera». L'antropomorfismo della Bibbia andava almeno apprezzato per lo sforzo di ridare carne e sangue a una figura che altrimenti sarebbe svanita come un fantasma logico. Nell'Essenza della religione (1846) Feuerbach estende la sua ricognizione a ogni manifestazione di religiosità: «Sia che tu adori Geova oppure Api, il tuono o Cristo, la tua ombra, come i neri della Costa d'Oro, o la tua anima, come gli antichi persiani, il flatus ventris o il tuo genio, insomma, sia che tu adori un essere sensibile o uno spirituale – è la stessa cosa; oggetto della religione è soltanto qualcosa in quanto è un oggetto della fantasia e del sentimento». Il disprezzo di Feuerbach per le pretese dimostrazioni dell'esistenza di un'astratta divinità era condiviso, all'epoca sua, da uno dei temperamenti filosofici più fortemente travolti dall'amore per Dio. Nelle Briciole di filosofia, pubblicate nel 1844 da Søren Kierkegaard sotto lo pseudonimo di Johannes Climacus (leggendario eremita del Sinai), ogni prova di Dio è al più «un canovaccio eccellente per una comica pazzesca». Così, «nel fondo più intimo del timor di Dio sonnecchia […] un arbitrio capriccioso, conscio di esser stato lui a produrre Dio». L'utilità politica di qualsiasi religione è una bestemmia dell'Ignoto: Kierkegaard quasi parafrasa l'Essenza del Cristianesimo. Sia lui sia Feuerbach sono buoni allievi di quel Lutero che, in nome della Grazia, aveva trattato come «vile» la ragione; il che vuol dire sottrarre terreno a qualsiasi teologia razionale. Le loro traiettorie si separeranno: i manuali di storia della filosofia usualmente raccontano che Feuerbach ha spianato la strada a Marx e che Kierkegaard ha preparato il terreno all'esistenzialismo; ma l'erede più efficace di entrambi è stato, nel Novecento, Martin Heidegger. «Di per sé Dio non ha bisogno di alcuna teologia», ha dichiarato nella sua memorabile lezione a dei teologi (!) sul Concetto di tempo (1924). Ma se le cose stanno così, non c'è nemmeno bisogno di una a-teologia, cioè di un'antiteologia propinata da atei convinti di poter fornite «prove» della non esistenza di Dio. Il punto è delicato: le «prove» di Dio fin qui esaminate non ci convincono, non ci danno nessuna dimostrazione d'esistenza (a meno di non dare per scontate asserzioni ancor più discutibili di quello che vorrebbero provare). Ma ciò non significa che dimostrino l'inesistenza di Dio. L'unica conclusione che riteniamo lecito trarre è di natura pragmatica, e riprende un paragone già di successo ai tempi di Russell, quello della Teiera volante. Se qualcuno ci viene a dire che esiste quella «cosa» (la teiera) in orbita, poniamo, intorno alla Terra e che dovremmo inginocchiarci per adorarla, non spetterebbe a costui l'onere della prova? Come appello all'insubordinazione, tale ragionamento è

efficace: non rivolgeremo preghiere a nessuna teiera! Ma è meno cogente sul piano, per così dire, antiteologico. Come ricordava Nozick, «richiediamo una prova a chiunque faccia un'asserzione esistenziale», e tale è ovviamente l'asserzione che c'è Dio o che c'è una Teiera volante; ma lo è anche l'asserzione che ce un universo senza Dio, o senza una Teiera in orbita – o almeno che c'è un universo le cui leggi (in senso lato) fisiche spiegano i fenomeni, rendendo superflua qualsiasi divinità… Come, sulla scorta di un teologo come Miegge, abbiamo lasciato il Dio «astratto» costruito da coloro che sono affascinati esclusivamente dalla purezza della logica per ritrovare invece la concretezza di un Dio che si è fatto carne, vediamo ora cosa significhi in questo mondo il vivere o il morire senza più invocare un Dio, né messo in croce né rinchiuso in qualche teiera. «Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso!» Nell'aforisma n. 125 della Gaia scienza (1882) di Friedrich Nietzsche così grida «l'uomo folle», che irrompe nella piazza del mercato, mentre gli altri restano indifferenti o imperturbabili. Chi sarà mai quel matto? È uno che, a modo suo, fornisce paradossalmente una prova di esistenza non più nel rigore geometrico di Anselmo o di Cartesio, bensì nel colore livido della Passione: se Dio è morto, vuol dire che prima esisteva, anche se ora non esiste più. E «l'uomo folle» dichiara che noi tutti siamo gli assassini: «Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all'ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strofinare via l'intero orizzonte? Che facemmo per sciogliere questa Terra dalla catena del suo Sole? Dov'è che si muove ora? Dov'è che ci muoviamo noi? Via da tutti i Soli?» Avremmo così liquidato Dio entro la nostra cultura, il nostro intelletto, la nostra coscienza, il nostro modo di vivere. Attenzione a quel «via da tutti i Soli»: Nietzsche è piuttosto rigoroso nel trarre «le conseguenze nichilistiche della […] scienza della natura», perché, ci dice, «da Copernico in poi l'uomo rotola dal centro verso la x». Per lui sembrerebbe valere il secondo corno del dilemma di Nozick: c'è davvero un universo le cui leggi spiegano i fenomeni – e niente Teiera volante! Ma quell'universo è tanto «determinato» dalle leggi che i fisici e le altre persone di scienza così pazientemente individuano quanto lo era l'unico Dio di Ash'arî! Dovremmo considerare le teorie scientifiche come «metafore», concedendo la loro efficacia (per esempio sul piano tecnologico, ma non solo), senza dare alcuna «interpretazione materiale»? La concezione della scienza di Nietzsche (così icasticamente espressa in quel «verso la x») si

oppone – e non è l'unica – a quel realismo filosofico per cui le nostre teorie dovrebbero essere resoconti «letteralmente veri» di come stanno le cose «in realtà». Analogamente, quanto si deve prendere sul serio l'immagine nietzscheana della «morte di Dio»? Rottura evidente col Cristianesimo? O accordo profondo, più di quanto non sospetti un lettore frettoloso? Dio sarebbe davvero perito sul Golgota, come si legge nel Vangelo di Marco 15,37: «E Gesù, gettato un gran grido, rende lo spirito». Ci voleva un ateo «folle» come Nietzsche per farci cogliere appieno la tragedia di una divinità che esala il proprio spirito, salvo risorgere dopo tre giorni. Ma dove è ora il suo corpo? Se lo chiedono tutti quei sottili esegeti che scorgono nella Resurrezione, al più, «il simbolo reale di un destino di eternità» che potrebbe riguardare l'intero universo sussunto nell'Idea (con la maiuscola). Ovunque e in nessun luogo, vorrebbero rispondere alcuni: l'intera materia non ci sarebbe più o starebbe tutta per convertirsi in energia (come vorrebbe farci credere, per esempio, il teologo Mancuso). Pur non essendo al corrente (per ovvie ragioni) di tali disinvolte interpretazioni del principio einsteiniano dell'equivalenza di massa ed energia, un buon cristiano (calvinista) come Diodati all'epoca sua (attorno al 1607) aveva messo in guardia contro quei raffinati «cristiani» che ritenevano che la ricomparsa di Cristo potesse venire intesa in modo puramente simbolico, come se fosse solo un'allusione al rinnovamento del mondo mediante la Buona Novella («la spirituale rigenerazione delle anime per lo Spirito di Dio»). Il traduttore ginevrino della Bibbia li rimandava polemicamente alle parole dell'apostolo Paolo (Prima lettera ai Corinzi 15,14): «Se Cristo non è risuscitato, vana è adunque la nostra predicazione, vana è ancora la vostra fede». Gli esperti di teologia che oggi voltano le spalle a questo avvertimento mi paiono esattamente speculari agli esprits forts descritti da Bayle, che già allora non si stancavano di escogitare controprove «geometriche» per negare un Dio trascendente, la Trinità, l'Incarnazione, la Resurrezione di Cristo ecc. Ma quel pensiero forte non scalfiva la fede cristiana, né lo farebbe oggi, più di quanto difendano il Cristianesimo le retoriche di coloro che dichiarano di «credere di credere», castrando la pregnanza dell'asserzione paolina. Domanda: in cosa crede chi crede? Paradossalmente, tocca all'ateo irriverente, non rassegnato, che fa del proprio ateismo una questione di metodo, rispondere prendendo il Cristianesimo come scelta di vita più sul serio di quanto facciano certi specialisti della Parola del Signore. Di fronte alla loro debolezza intellettuale mi sento spinto, almeno per amicizia verso i credenti onesti, a

difendere il nucleo profondo della loro fede – che quei «teologi» compiacenti sono invece disposti a svendere in cambio di consolazioni a buon mercato. Se mai dovessi credere nel Dio dei cristiani, che me ne farei di un Cristianesimo privato della sua componente escatologica e ridotto a una qualche versione di platonismo, magari riverniciata con estrapolazioni – più o meno vaghe – tratte alla rinfusa dalla fisica quantistica, dalla cosmologia del Big Bang o dalla biologia postdarwiniana? Aveva ragione Heidegger: Dio non ha bisogno di teologi siffatti. Modestamente, neanch'io. Debolezza teologica e forza ateistica Per contrasto: c'è ancora bisogno di un ateismo militante, difeso da una legione di dottrinari, che si dedichino allo smantellamento dei capisaldi di questa o quella rivelazione? Come lettrici e lettori avranno intuito, ritengo futile un ateismo che pretenda di fondarsi su un corpus di prove della non esistenza di Dio. E continua a stupirmi chi proclama che «dopo Hume e dopo Darwin» il corso del pensiero dovrebbe «imporre al filosofo l'ateismo». Né lo Hume scettico della Storia naturale della religione né il Darwin agnostico dell'Autobiografia avrebbero mai inteso che le loro analisi filosofiche o scientifiche dovessero imporre qualcosa del genere; ed è bene rammentare che in filosofia non si impone un bel nulla, e che un filosofo degno di questo nome non accetta imposizioni, e non si sogna di farne agli altri. Nella Lettera ai cercatori di Dio (2009) della Conferenza Episcopale Italiana c'è un paragrafo intitolato «Tanti modi di servire»: sono troppi; anzi, è di troppo anche uno solo. La forza dello spirito, per l'ateismo, non sta nel dimostrare che Dio non c'è, bensì nel rifiuto di riconoscerlo come un padrone: Non serviam, come dice Stephen Dedalus nell'Ulisse di Joyce, ove quel giovane «ateo cattolico» esibisce la sua pratica miscredenza nella più nota casa di malaffare di Dublino. E già Bayle: «Tutti sanno che le grandi città sono piene di luoghi infami, e che quell'angolo di mondo, in cui noi crediamo che Dio abbia stabilito la Santa Cattedra Apostolica, è letteralmente sommerso dalla lussuria». Kierkegaard: le luterane rocche del Protestantesimo non stanno meglio di Roma; ogni chiesetta di un Cristianesimo addomesticato al raziocinio dei mediocri è più oscena di qualunque taverna. Così si diceva tre o due secoli fa. Attualizzando, potremmo affermare che è meglio la discoteca. Non sono contrario in linea di principio alle provocazioni dei vari atei militanti. Non dovrebbero esserlo nemmeno i buoni cristiani. Tali

provocazioni sono meglio di una certa mollezza teologica, se non altro perché costituiscono un segno d'insofferenza contro la rigidità delle burocrazie per credenti; e potrebbero fungere da stimolo per i difensori di questa o quella ortodossia a migliorare i loro argomenti, cogliendo l'occasione per rispondere alla «offesa» con la «tolleranza» (una volta tanto). E non potrebbe decollare, anche se da un livello piuttosto basso, un confronto pubblico e aperto, lasciando cadere dall'una e dall'altra parte ritrosie e timori? Non si potrebbe così risvegliare la passione dei religiosi per la loro religione, evitando che tutto quanto anneghi nel mare della banalizzazione? Quest'ultima minaccia qualsiasi forma di fede, come aveva intuito il cattolico (sui generis) Gilbert Keith Chesterton. Qualche anno fa, nel commentare una versione italiana del suo Eretici (1905), mi è capitato di riprendere il passo in cui si dichiarava che una società libera «non è fondata sulla pietà per l'uomo comune», bensì «sulla paura nei suoi confronti» – ove con uomo comune Chesterton intendeva l'individuo consapevole delle sue preferenze e insofferente delle varie tutele, compresa quella di una qualsiasi amministrazione politicamente corretta che trovi pericoloso il conflitto delle idee. A sua volta, l'ateo metodologico è disposto a sfidare i dogmi – quelli dell'una o dell'altra religione – ma anche i dogmi dell'ateismo volgare; come Chesterton, non ama la banalità degli attuali apologeti cristiani, così «ecumenici» da svendere persino la Resurrezione del loro Signore, salvo rivendicare, quando pare loro politicamente convincente, le pretese radici cristiane dell'Europa; infine, continua a preferire un Occidente che valorizzi le differenze aprendosi al futuro – nella convinzione che gli stessi cristiani (anche grazie a un piccolo aiuto da parte dei loro amici «atei») si troverebbero più liberi di scegliere il loro Cristianesimo – e questa sarebbe davvero la loro «vita autentica». Prove di sottomissione Dichiarava Ludwig Feuerbach nell'Essenza della religione: «Credere significa immaginarsi che esista ciò che non esiste; significa, per esempio, raffigurarsi che quest'immagine sia un'entità vivente, questo pane sia carne, questo vino sangue, cioè sia ciò che non è». Da Ash'arî a Miegge, attraverso le più diverse maniere di vagliare nomi e attributi di Dio, abbiamo appreso che credere significa scegliere (anche se non è sempre definito, almeno per un certo tipo di temperamento religioso, chi sceglie: la creatura umana con il suo limitato intelletto e la sua debole volontà o Dio per lei, nella concessione della Grazia). Per usare ancora le parole di

Per una fede, tutto ciò «implica un'opzione» o meglio «una decisione». Vale allora la pena di chiedere se si tratti di decisione davvero razionale, visto che da qualche secolo possediamo una teoria che ci insegna come dovremmo decidere in condizioni d'incertezza; e come diceva il cattolico Blaise Pascal, «quante cose non si fanno per l'incerto, come i viaggi per mare, le battaglie», e lo stesso dobbiamo ammettere nel caso del dilemma pro o contro la religione: «Non è certo che essa sia; ma chi oserebbe ammettere che è certamente possibile che essa non sia?» (ancora nei Pensieri, n. 234). Se agissimo solo quando sappiamo con certezza quali sono le conseguenze delle nostre azioni, rinunceremmo praticamente a… vivere. Per esempio, chi o che cosa mi può garantire che se esco di casa, magari semplicemente per andare a bere una birra, non verrò ferito mortalmente alla testa da una tegola che un vento maligno ha staccato dal tetto di una casa vicina? Improbabile (in genere, i tetti sono a prova di forti correnti d'aria), ma non impossibile. E se poi il barista subdolamente versasse del veleno nel mio boccale? Anche questo è improbabile (i baristi, abitualmente, non sono tipi alla Lucrezia Borgia), ma non impossibile. Se mi aspettassi che qualsiasi mia linea di condotta fosse assolutamente esente da rischi, finirei col tapparmi in casa (ma anche la mia dimora potrebbe rivelarsi colma di pericoli!), lasciandomi morire d'inedia. Pascal, invece, esortava a «lavorare per l'incerto», e aggiungeva che questo era possibile grazie al calcolo delle probabilità di cui, prima della «conversione», era stato uno dei fondatori. La cosa vale per piccole come per grandi decisioni: per esempio, se siamo incerti sulle conseguenze del nucleare, o degli OGM ecc., ci condanniamo all'impotenza se aspettiamo di aver assodato che questa o quella tecnologia sia esente da qualunque pericolo in agguato in una qualche remota piega dello spaziotempo: non lo sapremo mai! Dobbiamo invece pesare vantaggi e svantaggi di certe scelte alla luce delle probabilità che si assegnano alle loro conseguenze. Non è la resa alle più arbitrarie e «soggettive» idiosincrasie di ciascuno; è invece l'assunzione della responsabilità del soggetto che decide il corso delle proprie azioni, che soppesa l'utilità che si aspetta dalle sue scelte alla luce delle opinioni che si è liberamente formato su come va il mondo (che includono, ovviamente, tetti di case e baristi, nuclei atomici e geni ecc.). L'argomento di Pascal, esposto nei Pensieri (pubblicati postumi nel 1670: straordinaria impalcatura di una grandiosa apologia del Cristianesimo che era rimasta incompiuta), mira a convincere un ipotetico interlocutore «miscredente» non dando una dimostrazione dell'esistenza di Dio o di qualsiasi altro oggetto di fede (l'immortalità dell'anima,

l'incarnazione ecc.), ma provandogli la razionalità della decisione di credere in Dio, poiché questa aumenterebbe «la sua utilità prevista» più della decisione contraria. La «prova» di Pascal mi sembra qualcosa di preliminare alla effettiva scelta che farà poi il suo interlocutore; propongo di trattarla come una sorta di prova generale, una di quelle performance che precedono e condizionano in teatro l'azione scenica di fronte al pubblico. Anzitutto, gli attori: da una parte, Blaise il credente; dall'altra parte, l'ateo, uno di quegli increduli, magari non privi di coraggio, che pretendono di seguire la ragione e solo la ragione. Per esempio, codesti «empi» si dicono convinti che sia impossibile la nascita di Gesù dal ventre di una vergine. E Pascal: «Perché una vergine non potrebbe partorire? Una gallina non fa le uova senza il gallo?» (Pensiero n. 222). Comunque, il credente si è scelto un antagonista non facile, poiché Pascal ammette che «l'ateismo [può anche essere] un segno di forza di spirito» (n. 225)! E allora, «cominciamo col dire: 'Dio esiste oppure non esiste'. Da che parte decideremo? La ragione non può decidere nulla; c'è di mezzo un caos infinito. Si giuoca una partita, all'estremità di questa distanza infinita, dove risulterà testa o croce. Su che cosa puntare?» È l'argomento della «scommessa» (Pensiero n. 233). L'ateo potrebbe domandare a sua volta se sia sensato per lui partecipare a tale gioco d'azzardo. Ribatte Pascal: «Scommettere bisogna», soprattutto su Dio: «Non è una cosa volontaria: voi siete imbarcato». E dunque, «se esistono tante probabilità da una parte e dall'altra, la partita si gioca a poste uguali; e allora la certezza di ciò che si scommette è uguale all'incertezza del guadagno […]. E così, la nostra offerta possiede una forza infinita, quando c'è da arrischiare il finito in un gioco in cui sono uguali le probabilità di guadagno e di perdita, e c'è un infinito da guadagnare». L'argomento dovrebbe mettere alle strette l'ateo, dal momento che questi si affida solo al proprio «lume naturale»: unico ripiego che avrebbe ancora a disposizione sarebbe dichiarare che «qui mi si costringe a scommettere e io non sono libero», e comunque «sono fatto in modo che così non posso credere»! A questo punto, la prova generale è finita. Davanti al pubblico l'ateo è costretto a confrontarsi con la scena della vita reale dei credenti. Gli dice Pascal: «Studiatevi non già di convincervi con l'accrescere le prove di Dio, ma col diminuire le vostre passioni. Volete andare verso la fede e non ne conoscete la strada; volete guarirvi dall'infedeltà e ne chiedete il rimedio; imparate da quelli che sono stati legati come voi e che adesso scommettono tutto il loro bene; costoro sono uomini che conoscono

la strada che vorreste seguire e sono guariti da un male da cui voi vorreste guarire. Seguite il sistema con cui essi hanno cominciato: facendo tutto come se credessero, usando l'acqua benedetta, facendo celebrare messe ecc.». E conclude: «Questo vi farà credere, e… vous abêtira», cioè vi farà tornare allo stato brado, alla pura animalità, se non all'automatismo della macchina… E se l'ateo non vuole diventare… bête? A mio avviso può mettere in discussione le premesse, che ogni prova (dimostrazione o recita) non può non avere e che spesso dà per scontate. Per prima cosa, davvero «siamo tutti sulla stessa barca» (on est tous embarqués nell'originale)? In un altro dei Pensieri, il n. 218, Pascal dichiara più importante per la nostra esistenza sapere se l'anima sia o no immortale che capire se Copernico abbia o meno avuto ragione. E se invece noi avessimo altri gusti, e magari fossimo più interessati a Copernico? Non saremmo più sulla stessa barca: sarebbe già qualcosa! Punto secondo. Qual è la vera posta della scommessa? L'infinito: e per Pascal l'infinito è Dio. Ma che sappiamo di Lui? – chiederebbe un qualsiasi nuovo Gaunilone. Poco, ammette lo stesso Pascal all'inizio del Pensiero n. 233: «Noi dunque conosciamo l'esistenza e la natura del finito, perché siamo finiti ed estesi come lui. Conosciamo l'esistenza dell'infinito e ignoriamo la sua natura, perché ha estensione come noi ma non ha confini come noi. Ma non conosciamo né l'esistenza né la natura di Dio, perché non ha né estensione né confini». Ove vien meno «il lume naturale», dice Pascal, suppliscono «la fede (è mediante la fede che conosciamo l'esistenza del Signore); e gloria (è mediante la gloria che ne conosceremo la natura)». Attenzione, però, ai tempi dei verbi. Come Dio si rivelerà «nella gloria»? E se qualcuno se lo immaginasse manifestarsi come qualche loa? Come si sostiene in una puntata della celebre serie dei Simpson, la «vera religione» non potrebbe essere magari un misto di «Vudù e Metodismo»? O se invece, «clemente e misericordioso», Dio si imponesse come vuole l'Islam, unica divinità (rigorosamente non trinitaria)? O se il divino si rivelasse nel non essere, come in certe versioni del Buddhismo? Paralleli tra la Madonna e la gallina a parte, Pascal non si sentiva troppo turbato dalla pluralità delle religioni. Ma questo non è un argomento a suo favore. Dice comunque Pascal: «Se il Vangelo è vero, […] che difficoltà c'è?» (n. 224). Ma anche così il suo credente non è al riparo dalle obiezioni. Per esempio, che direste se quello della scommessa fosse l'inesorabile Dio di Giovanni Calvino? Sareste «predestinati» a decidere come scommettere, «razionalmente» o meno.

Punto terzo. William James in La volontà di credere (1897) ha obiettato a Pascal che per convertirsi in forza del suo argomento, l'ateo deve già accettare che l'esistenza di Dio (declinata al modo cristiano, vedi sopra) rappresenti un utilità infinita. Che è ben più che ammettere una utilità finita, seppur grandissima! Ma introdurre utilità o disutilità infinite può rivelarsi un modo autoritario per «troncar le dispute»: prendiamo il caso di antinuclearisti che sostengano che un danno a una centrale atomica, pur poco probabile (in linea di principio, però, non impossibile), avrebbe immense conseguenze nefaste: costoro rifarebbero il discorso di Pascal all'inverso (dove lui parlava di «danno» metterebbero «guadagno», dove lui diceva «guadagno» metterebbero «danno»), finendo con l'escludere il nucleare perché ci sarebbe «un infinito da perdere»! Quel che andava dimostrato era implicitamente presupposto. Punto quarto. Al pensiero n. 233 Pascal non termina con la scommessa pura e semplice; ci ha aggiunto la tirata sull'uso proficuo dell'imitazione di chi si è fatto bête da parte del futuro «convertito». Ma questa scena reale, a mio avviso, peggiora le cose. Per quanto possa sentirmi allettato dalle promesse di «una vita infinita infinitamente felice», debbo rinunciare allo stile di esistenza o di pensiero che con Kant ha trovato la definizione più appropriata come «uso della propria ragione [una volta] fuori dallo stato di minorità»? E non potrebbe sembrare a me, miscredente e ateo metodologico, «infinito» proprio quel «nulla», cioè quell'insieme di beni finiti, cui per Pascal sarebbe «razionale» rinunciare? O non potrebbe aver qualche ragione anche l'ateo, che si annida nel cuore del credente più colmo di fervore, e ribattere con Don Giovanni che sarebbe solo pazzia «lasciar le donne» («Sai ch'elle per me / son necessarie più del pan che mangio / più dell'aria che spiro»)? Forse, Pascal potrebbe, nonostante quanto si è detto sul Dio di Calvino, tentare ancora di convincere un ateo «protestante»: anche «in questa vita» la sua «scommessa» dovrebbe far guadagnare qualcosa – per esempio, la rettitudine («Sarete fedele, onesto, umile, riconoscente, benefico, amico sincero, veritiero»), ovvero la virtù come premio a se stessa. Però… «Se questo discorso vi piace e vi sembra forte, sappiate che esso proviene da un uomo che s'è messo in ginocchio prima e dopo, per pregare quell'Essere infinito e senza confini, al quale egli sottomette tutto il suo essere affinché si sottometta anche il vostro essere per il vostro bene e per la sua gloria; e sappiate che così la forza si accorda con questo abbassamento.» Con questa piccola confessione, che sa di autobiografia, Pascal si è

tradito. Da atei «protestanti» rivolti al cattolico «scettico»: mai, mai e poi mai saremo disposti a rinunciare alla nostra libertà di stare in piedi davanti a qualsiasi Essere (nome o verbo che sia), anche «infinito e senza confini», per ricevere in cambio quel gioco speculare di sottomissione che la pagina dei Pensieri rende così efficacemente. A parte lo stile (magnifico), il discorso di Pascal non mi piace né mi pare stringente. Ma sento per lui gratitudine: ho trovato (grazie a un cattolico) la risposta al problema che ponevo nel Prologo: ateismo per me ora vuol dire niente abbassamento.

EPILOGO Ni dieu ni maître, ovvero né dio né padrone, recita il motto degli anarchici. Mi piace. Come si è detto, l'ateo irriverente e non rassegnato, che non tollera alcun ceppo istituzionale (compreso quello di un ateismo di Stato) e fa di tutto ciò non una dottrina ma un metodo, diffida di Dio; eppure, si comporta così anche in nome del Dio della cosiddetta teologia negativa, o meglio di un Dio libertario e liberato dalle costrizioni in cui i suoi pretesi «servi» o «ministri» vogliono imbrigliare il suo Spirito. Niente a che vedere con quel Dio che per Paolo di Tarso appare l'unico responsabile di ogni potere su questa Terra (Lettera ai Romani 13,1-2: «Ogni persona sia sottoposta alle podestà superiori: perciocché non v'è podestà se non da Dio […]. Talché chi resiste alla podestà resiste all'ordine di Dio»). Quel tipo di ateo, allora, contesta che i poteri iniqui vengano anch'essi da Dio, ovvero si ribella a un Dio che garantisca qualunque «podestà». Altro che inserire nel preambolo della Costituzione europea le «radici cristiane»! Se vivesse ai nostri tempi, Kierkegaard non risparmierebbe il suo sarcasmo per questa commedia. Ma lui era, a suo modo, un credente. Un ateo insubordinato agisce piuttosto come nel Giappone classico agiva il ronin, ovvero il samurai rimasto senza padrone. Non va in cerca di una prova che Dio non c'è; anche se dovesse esistere il Signore del mondo, preferisce non mettersi al suo servizio; e a differenza dei guerrieri per cui aver perso il padrone costituiva un disonore, per lui ciò non sarebbe che l'occasione per dispiegare senza vergogna la propria autonomia. Questa parola è intesa qui nel senso caro ai libertari (qualcuno dice «insindacabilità dell'autodeterminazione») senza le tipiche restrizioni di chi (usando frammenti di Kant o magari di Croce) ci dice che essa è tale solo se è permeata di «volontà buona». Peccato che non tutti vogliano lo stesso bene! E allora dovremmo tornare «alle leggi antiche e alle opinioni antiche?» Osservava Pascal – Pensiero n. 301 – che esse non erano necessariamente «più savie», ma semplicemente nella loro unicità «eliminano la fonte delle divergenze». L'ateo metodologico non teme il diffondersi del dissenso e può essere così spregiudicato da spingersi a congetturare che Dio (se c'è) apprezzi questa sua «empietà» più che la devozione dell'ipocrita. E se l'abbè Donisson del nostro secondo capitolo, nella sua lotta incessante contro il peccato, trovava nel Diavolo un insolito compagno di strada, perché, atei e

peccatori quali siamo, non potremmo servirci perfino dell'acqua santa – cioè accompagnarci a Pascal? In particolare, Pensiero n. 209: «Sei forse meno schiavo se sei amato e coccolato dal tuo padrone? O schiavo, sei proprio fortunato. Il tuo padrone ti coccola, ma presto ti picchierà». Chi detesta la soggezione anche virtuale non si cautela nemmeno con quel «presto». Preferisce essere più secco: nessun padrone, mai! Alcuni cattolici, che concordano su una convergenza pratica nella solidarietà al di là delle differenti opinioni su Dio, asseriscono che «una società aperta e libera, perché non teocratica, trova coerentemente nel nome di Gesù Cristo il più solido dei fondamenti» (Dario Antiseri). Come potrei replicare? Fondamento indica in filosofia (e altrove) la base su cui edificare l'una o l'altra costruzione intellettuale o morale o politica. Lo si può riferire alla matematica come all'etica o al diritto ecc. Ma fondamentalista, nel Cristianesimo, è stato chi – tipicamente in contesto protestante – si è opposto alla lettura critico-storica della Bibbia richiamandone spesso l'interpretazione letterale, specie in relazione ai punti essenziali della dottrina (i cosiddetti fundamentals); e oggi il termine è slittato a designare chi nelle varie religioni – in particolare nei tre monoteismi: Ebraismo, Cristianesimo e Islam – rivendica contro la «secolarizzazione» e la modernità una sorta di purezza delle origini. Ma in qualunque contesto quella del fondamentalista è una fatica di Sisifo. Ogni volta che rilegge questa o quella Scrittura Sacra in cerca del «vero» spirito della Parola di Dio, la sta già interpretando – e meno se ne rende conto più è convinto di essere l'unico corretto letteralista. Ora, non credo che un papa come Giovanni Paolo II fosse in senso stretto un fondamentalista. Però, al paragrafo 83 della Fides et ratio leggiamo che per Wojtyła la sfida maggiore del nostro tempo resta quella del «saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento». Domanda: come poter lasciare, ogni volta che lo riteniamo opportuno, il fondamento per tornare al fenomeno? E poi, perché insistere sul fondamento, se questo si rivela coercitivo? Forse che qualche essere umano o qualche umana struttura ha il monopolio dell'infallibilità? Gesù ha dichiarato di essere la verità (e la vita): dunque, è la verità che «costringe»? Non avrebbe dovuto, piuttosto, rendere liberi? Arriviamo qui alla più significativa differenza tra la libertà dell'ateo e il fondamento nella «carità». Soffrirà di «una crisi di leadership» (come ha detto Hans Küng), ma occorre riconoscere che Joseph Ratzinger l'ha colta con chiarezza (diversamente da vari pensatori più o meno «cattolici»): l'unica garanzia di libertà, ci dice, è «la fedeltà alla verità» (Caritas in

veritate), e la libertà non può che essere «al servizio della verità». Sicché, nel mettere in guardia contro la sopravvalutazione dello sviluppo tecnologico («come elemento di libertà assoluta»: vedi anche quel che si è detto su papi e ricerca scientifica nel capitolo terzo), Benedetto XVI conclude che «a partire dal fascino tecnico esercitato sull'essere umano, si deve recuperare il senso vero della libertà, che non consiste nell'ebbrezza di una totale autonomia, ma nella risposta all'appello dell'essere». E se preferissimo restare «ebbri»? Siamo stanchi dei vari Pastori dell'Essere (con la maiuscola o meno). L'autonomia è la condizione che conquistiamo per noi stessi nella fatica quotidiana – dalle scelte esistenziali alla ricerca scientifica (in tal senso oggi l'autonomia non è però «assoluta»; potrà sempre venir ampliata e rafforzata domani): per questo l'ateismo può rendere un buon servizio perfino a Dio, impedendo che venga ridotto a un oppressore. Nel lontano 1962 l'epistemologo Imre Lakatos, guardando retrospettivamente a un secolo di studi sui fondamenti della matematica, si chiedeva: «Perché andare in cerca di test ultimi o di autorità finali? Perché i fondamenti, se si ammette che sono soggettivi? Perché non riconoscere onestamente la fallibilità [della matematica] piuttosto che illuderci di riuscire a rammendare in modo invisibile l'ultimo strappo nel tessuto delle nostre intuizioni?» Sostituiamo nel testo di Lakatos solidarietà a matematica. Quella che noi cerchiamo è una solidarietà fra individui, ciascuno indipendente nelle proprie scelte. C'è ancora bisogno di fondarla su qualche «solida roccia»? Non possiamo ammettere, invece, che vogliamo costruire qualcosa come una rete senza centro (cioè senza una gerarchia con un Papa al vertice della piramide), una democrazia che guarda con sospetto persino all'idea di una sovranità democratica – perché teme la collera dell'individuo «comune» nel senso di Chesterton? Pare sia abbastanza invalso, in alcune democrazie del nostro Occidente, pensare che governi eletti a (larga) maggioranza siano per ciò stesso «unti dal Signore»: ma è un doppio errore. Primo, perché il Signore (forse) non c'è; ma se anche ci fosse, questa non sarebbe ancora una ragione per obbedirgli, o meglio per obbedire ai rappresentanti terreni di quel potere che godrebbe della garanzia divina: rivendichiamo la libertà dell'ateo, che è quella di «resistere» a quel Dio. Secondo, perché, anche sotto il profilo storico, i più vitali esperimenti democratici sono quelli che inseriscono nelle loro carte costituzionali un sistema di checks and balances (controlli e contrappesi) che fanno sì che una democrazia non totalitaria garantisca per prime le minoranze (sì, anche quelle formate da un solo individuo!)

contro la tirannia della maggioranza, magari riassunta in un uomo solo. Sicché nessun mandato plebiscitario può far di costui un intermediario tra noi e il Signore. Il detto vox populi vox Dei non piace a chi ha gustato l'ateismo della libertà: se mai Dio parla, parla alla e nella coscienza dei singoli e non ha nessuna «voce di popolo»; e il popolo stesso, in questa accezione totalizzante, non è che un feticcio, di cui l'ateo ha tutto il diritto di farsi beffe (sicché, per esempio, una locuzione come popolo delle libertà è fuorviante peggio di circolo quadrato). Per il fatto di essere prive di giustificazione teologica saranno meno significative le nostre azioni, nelle nostre singole esistenze come nella vita associata, specie se intese alla cooperazione di individui liberi con altri individui liberi? Si potrà obiettare che non sapremo mai se queste nostre azioni sono «buone»! Lo concediamo, non lo sapremo mai con certezza, e le nostre valutazioni non saranno che fallibili congetture, rivedibili e migliorabili. Tuttavia, «il problema di come vivere, agire, lottare, morire quando non ci si può affidare che a congetture» (Lakatos) costituirà – questo sì! – la sfida per un nuovo Illuminismo, inteso non solo come uno strumento di difesa dalle forme di dispotismo con cui saremo chiamati a confrontarci ma come un buon compagno di strada anche per quelli che ancora avvertono il bisogno di amore che in passato è stato chiamato Dio. Joseph de Maistre avrebbe bollato l'intera faccenda come la beffa ispirata da un «orgoglio feroce e ribelle». Le sue «serate» in quel di Pietroburgo, dopo il caldo estivo del pomeriggio, abitualmente si concludevano con la ritirata degli amabili conversatori nelle loro stanze, mentre cominciava a spirare il vento freddo della sera. Chissà se Cavaliere, Conte e Senatore dormivano sonni tranquilli, non visitati dallo spettro dell'ateismo che a loro parere portava seco il germe dell'anarchia? Tutti i fondamentalisti – religiosi o politici che siano – nutrono la convinzione di potere esorcizzare quel fantasma. Ma non si accorgono (parola di Hegel) che «quanto più solido, ben definito e splendido è l'edificio eretto [dalla loro religione], tanto più impetuosa è la pressione della vita, per fuggire via verso la libertà».

BIBLIOGRAFIA Prologo La citazione in esergo è tratta da N. Blake, La fossa che inghiotte, tr. it. Mondadori, Milano 2010 (Blake è lo pseudonimo da giallista del poeta Cecil Day-Lewis). Per tutto il libro le citazioni dalla Bibbia sono tratte dalla versione italiana di Giovanni Diodati (1607), edizione a cura di M. Ranchetti, M. Ventura Avanzinelli, 3 voll., Mondadori, Milano 1999. Qualche piccola modificazione grafica è stata introdotta per maggiore intelligibilità, come è stato fatto nella edizione approntata dalla Società Biblica Britannica & Forestiera, Roma 1994. Si è anche tenuta presente La Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane, Bologna 1971. Per il Corano i riferimenti sono a Il Corano, a cura di G. Mandel khan, testo arabo con la versione letterale integrale, UTET, Torino 2005. Per le citazioni russelliane il riferimento è a B. Russell, Perché non sono cristiano, tr. it. Longanesi, Milano 1959. Ma vedi anche, sempre per i tipi di Longanesi, l'edizione 2006, con introduzione di Piergiorgio Odifreddi. Capitolo primo In questo e in altri capitoli sono citate le seguenti lettere encicliche: Giovanni Paolo II (al secolo Karol Józef Wojtyła), Fides et ratio, 14 settembre 1998; Veritatis splendor, 6 agosto 1993. Benedetto XVI (al secolo Joseph Alois Ratzinger), Spe salvi, 30 novembre 2007; Caritas in ventate, 29 giugno 2009. Un posto particolare occupa la «Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo» Gaudium et spes, documento redatto e approvato dal Concilio Vaticano II e promulgato da Paolo VI (al secolo Giovanni Battista Montini) l'8 dicembre 1965. Le lettere encicliche e la Gaudium et spes sono pubblicate da Edizioni Paoline, Milano; i testi sono disponibili anche sul Sito ufficiale del Vaticano: www.vatican.va. L'Ethica di Baruch Spinoza è citata da B. Spinoza, Tutte le opere, a cura di A. Sangiacomo, Bompiani, Milano 2010. Per la «maledizione» gettata su Spinoza vedi S. Nadler, L'eresia di Spinoza, tr. it. Einaudi, Torino 2005. Di Pierre Bayle vedi Dizionario storico-critico, ed. it. a cura di G.

Cantelli. Laterza, Roma-Bari 1976 e Pensieri sulla cometa, ed. it. a cura di G. Cantelli, Laterza, Roma-Bari, 1995. Per il Dizionario filosofico di Voltaire vedi l'edizione italiana a cura di M. Bonfantini, Einaudi, Torino 2006. La Storia naturale della religione di David Hume è citata da D. Hume, Saggi e trattati morali letterari politici e economici, a cura di M. Dal Pra, E. Ronchetti, UTET, Torino 1974. Di Lysander Spooner vedi I vizi non sono crimini, tr. it. di C. Ruffini, Liberilibri, Macerata 1998; di Ambrose Bierce il Dizionario del Diavolo, ed. it. a cura di G. Almansi, Guanda, Parma 2010. Per le opere di Donatien-Alphonse-François marchese di Sade i riferimenti sono all'edizione delle Oeuvres Completes presso Jean-Jacques Pauvert in trenta tomi (Paris, 1966 e seguenti) e a quella del Cercle du Livre Précieux in quindici tomi (Paris, 1962-1964). In italiano il principale testo di riferimento è D.-A.-F. de Sade, Opere, a cura di P. Caruso, Prefazione di A. Moravia, Mondadori, Milano 1976. Si è però tenuto conto anche dell'edizione delle Opere scelte, a cura di G.P. Brega, Feltrinelli, Milano 1962, ove sono sottolineati interessanti punti di contatto tra Sade e Spinoza. A mio avviso questa impostazione appare assai più interessante del raffronto con Kant sviluppato in M. Horkheimer e T.W. Adorno, Dialettica dell'Illuminismo (edizione originale 1947), per cui vedi la versione italiana a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1966 e 1991. Sull'«argomento del verme» presentato da Bouvard il riferimento è a G. Flaubert, Bouvard e Pécuchet, tr. it. di C. Sbarbaro, Mondadori, Milano 1968. Per i tumulti della Pataria a Milano il riferimento è a Landolfo Seniore, Historia Mediolanensis, libro III, cap. XXX, in La Letteratura italiana. Storia e testi. 1. Le Origini, a cura di A. Viscardi, B. e T. Nardi, G. Vidossi, F. Arese, Ricciardi, Milano-Napoli 1956. La Storia di Milano di Pietro Verri, originariamente pubblicata a partire dal 1783, è citata dall'edizione Sansoni, Firenze 1963. Per la religione civile, a parte Voltaire, due riferimenti classici: Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, in N. Machiavelli, Opere, a cura di R. Rinaldi, UTET, Torino 1999; G. Bruno, Spaccio de la bestia trionfante, in G. Bruno, Opere italiane, testi critici di G. Aquilecchia, coordinamento generale di N. Ordine, UTET, Torino 2002, Vol. II. Sul

confronto Machiavelli-Bruno ci limitiamo a segnalare M.A. Granada, «Maquiavelo y Giordano Bruno: religion civil y critica del Cristianismo», in Bruniana e Campanelliana, IV (1998); N. Ordine, La soglia dell'ombra. Letteratura, filosofia e pittura in Giordano Bruno, Marsilio, Venezia 2003 e 2004, e Contro il Vangelo armato. Giordano Bruno, Ronsard e la religione, Raffaello Cortina, Milano 2007. Strumento indispensabile, per gli aspetti più generali, è l'antologia a cura di M. Ciliberto, Biblioteca laica. Il pensiero libero dell'Italia moderna, Laterza, Roma-Bari 2008. La novella del Vivicomburio è in Vittorio Imbriani, Racconti e prose (1877-1886), a cura di F. Pusterla, Fondazione Pietro Bembo/Ugo Guanda Editore, Parma 1994. La locuzione «Dio dei blasfemi» è tratta dal bel libro dello storico (e amico) P. Adamo, Il Dio dei blasfemi, Unicopli, Milano 1993. Sugli aspetti politici delle teologie monoteistiche basti qui il riferimento ai due testi di J. Assmann, Potere e salvezza, tr. it. Einaudi, Torino 2002 e Non avrai altro Dio, tr. it. il Mulino, Bologna 2007 (ma vedi pure P. Sloterdijk, Il furore di Dio. Sul conflitto dei tre monoteismi, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2008). Per una difesa del monoteismo vedi invece M. Cacciari, P. Coda, Io sono il Signore Dio tuo, il Mulino, Bologna 2010. Per tre letture «libertarie» di Ebraismo, Cristianesimo e Islam vedi rispettivamente A. Luzzatto, Il posto degli ebrei, Einaudi, Torino 2003; E. Bianchi, La differenza cristiana, Einaudi, Torino 2006; T. Ramadan, Islam e libertà, tr. it. Einaudi, Torino 2008. Alcune tesi di Bianchi sono criticate da D. Marconi, Per la verità, Einaudi, Torino 2007. Capitolo secondo I testi letterari cui si fa riferimento in questo capitolo sono: D. Defoe, La peste di Londra, ed. it. a cura di E. Vittorini, Bompiani, Milano 1965; P.B. Shelley, La necessità dell'ateismo e La mascherata dell'anarchia, Chersilibri, Brescia 2005; A. Manzoni, I promessi sposi – Storia della colonna infame, 2 voll., Mondadori, Milano 2009; Georges Bernanos, Sotto il Sole di Satana, tr. it. di C.V. Lodovici, dall'Oglio, Milano 1965 (ma si segnala anche, nella traduzione di G. Mezzanotte, l'edizione San Paolo, Milano 2010); A. Camus, La peste, tr. it. B. Dal Fabbro Bompiani, Milano 1963; J. de Maistre, Le serate di Pietroburgo o Colloqui sul governo temporale della Provvidenza, ed. it. a cura di A. Cattabiani,

traduzione di L. Fenoglio e A. Rosso Cattabiani, in appendice il trattato di Plutarco, «Perché la giustizia divina punisce tardi», nella versione e con il commento di J. de Maistre, traduzione dal greco e dal francese di C. Coccia, Rusconi, Milano 1971 (di Joseph de Maistre vedi pure Il Papa, Introduzione all'edizione italiana di Carlo Bo, note a cura di J. Lovie e J. Chetail, Rizzoli, Milano 1984); J.S. Mill, Saggi sulla religione, ed. it. a cura di L. Geymonat, originariamente 1953, nuova edizione Feltrinelli, Milano 2006. Sulle leggi di natura, Richard Feynman è citato dal suo La legge fisica, tr. it. di L. Radicati di Brozolo, Bollati Boringhieri, Torino 1971 (per approfondire il tema tra potenza di Dio e leggi della natura vedi, per esempio, i saggi raccolti in S. Moriggi, E. Sindoni [a cura di], Dio, la Natura e la Legge – God and the Laws of Nature, Angelicum – Mondo X, Milano 2005). La citazione da Paolo VI sul Diavolo è tratta dalla «Udienza generale del 15 novembre 1972», disponibile on-line sul Sito Internet del Vaticano: www.vatican.va/holy_father/paul_vi/audiences/1972/documents/hf_pvi_aud_19721115_it.html. La citazione di Wojtyła è tratta da Giovanni Paolo II, Memoria e identità. Conversazioni a cavallo dei millenni, Rizzoli, Milano 2005. Su Wojtyła vedi S. Oder con S. Gaeta, Perché è santo. Il vero Giovanni Paolo II raccontato dal postulatore della causa di beatificazione, Rizzoli, Milano 2010; vedi anche A. Tornielli, Santo subito. Il segreto della straordinaria vita di Giovanni Paolo II, Piemme, Casale Monferrato 2009. Non ci addentriamo nella sterminata letteratura sul male; ci limitiamo qui alle brillanti considerazioni di E. Boncinelli, Il male. Storia naturale e sociale della sofferenza, Mondadori, Milano 2007. Giovanni Calvino è citato nell'originale da J. Calvin, Oeuvres, a cura di F. Higman e B. Roussel, Gallimard, Paris 2009; per la versione italiana vedi G. Calvino, Istituzione della religione cristiana (1559), 2 voll., a cura di G. Tourn, UTET, Torino 1983 e G. Calvino, La predestinazione, a cura di G. Tourn. Per i giudizi di Voltaire e Kant sul terremoto di Lisbona vedi Voltaire, Candido, tr. it. di G. lotti, Einaudi, Torino 2006; Voltaire, Il sommo male. Poema sulla legge naturale. Poema sul disastro di Lisbona, tr. it. di E. Cocco con testo francese a fronte, Prefazione di X. Tilliette, Il ramo, Rapallo 2004; I. Kant, Scritti sui terremoti, ed. it. a cura di P. Manganaro,

con presentazione di A. Placanica, 10/17 cooperativa editrice, Salerno 1984. La storiella finale con cui si chiude il capitolo è liberamente ispirata a B. Fonzi, Il Maligno, Einaudi, Torino 1964. Capitolo terzo Per i riferimenti al relativismo nell'impresa scientifica vedi il successivo capitolo quarto. Sulla storia di Ipazia e le vicende della biblioteca di Alessandria, oltre al classico di John Toland, Ipazia. Donna colta e bellissima fatta a pezzi dal clero (1720), ed. it. a cura di F. Turriziani Colonna, Clinamen, Firenze 2009, segnaliamo L. Canfora, La biblioteca scomparsa, Sellerio, Palermo 1986 e 2009; M. Dzielska, Hypatia of Alexandria, adattato e tradotto dal manoscritto inedito polacco, Harvard University Press, Boston-New York 1996 (per la versione spagnola, più facilmente reperibile: Hypatia de Alejandría, Siruela, Madrid 2009). Per il contesto della condizione femminile nell'Antichità vedi i due saggi di Silvia Ronchey, «Ipazia, l'intellettuale», in A. Fraschetti (a cura di), Roma al femminile, Laterza, Roma-Bari 1994 e «Filosofa e martire: Ipazia tra storia della chiesa e femminismo», in R. Raffaelli (a cura di), Vicende e figure femminili in Grecia e a Roma, Atti del Convegno di Pesaro, 28-30 aprile 1994, Ancona, Commissione per le Pari Opportunità della Regione Marche 1995. Vedi pure G. Beretta, Ipazia d'Alessandria, Editori Riuniti, Roma 1993. Sulla persecuzione cristiana dei pagani vedi ancora P.F. Beatrice, L'intolleranza cristiana nei confronti dei pagani, EDB, Bologna 1993. Comunque, la vicenda di Ipazia non smette di ispirare informate opere di narrativa: vedi, per esempio, C. Contini, Ipazia e la notte, Longanesi, Milano 1999; A. Petta, A. Colavito, Ipazia. Vita e sogni di una scienziata del IV secolo, Prefazione di M. Hack, La Lepre, Roma 2009. Per il processo a Bruno: L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, a cura di D. Quaglioni, Salerno, Roma 1993. Per un misurato giudizio sulla questione vedi C.M. Martini, Orizzonti e limiti della scienza, a cura di E. Sindoni e C. Sinigaglia, Raffaello Cortina, Milano 1999. Per Galileo Galilei il riferimento classico è alla Edizione Nazionale delle opere, pubblicata in venti volumi sotto la direzione di Antonio Favaro, per

i tipi di Barbèra (Firenze) a partire dal 1890. Una buona edizione dei principali scritti galileiani è G. Galilei, Opere, a cura di F. Brunetti, 2 voll., UTET, Torino 2005. Segnaliamo poi, in particolare, due edizioni del Dialogo dei due massimi sistemi del mondo: quella a cura di L. Sosio, Einaudi, Torino 2002 e quella a cura di A. Beltrán Marí, con Prefazione di A. Frova e M. Marenzana, Rizzoli 2003. Su Internet il Portale Galileo (http://portalegalileo.museogalileo.it/), nato e sostenuto dall'Istituto e Museo di Storia della Scienza di Firenze (ora Museo Galileo), favorisce un accesso ampio e immediato alle biografie, alle opere e alla corrispondenza (in formato elettronico) e a moltissimi altri materiali inerenti Galilei e la sua scuola. Oltre all'ormai celebre «giudizio» di John Milton Areopagitica, versione italiana a cura di S. Breglia, nuova edizione a cura di G. Giorello, Laterza, Roma-Bari 1987, su Galilei e il suo rapporto con la Chiesa di Roma ci limitiamo a segnalare, senza alcuna pretesa di completezza, L. Geymonat, Galileo Galilei, Einaudi, Torino 1957; G. de Santillana, Processo a Galileo, tr. it. Mondadori, Milano 1960; P. Redondi, Galileo eretico, Einaudi, Torino 1983, nuova edizione Laterza, Roma-Bari, 2009; S. Drake, Galileo. Una biografia scientifica, tr. it. il Mulino, Bologna 1988; M. Cammerota, Galileo Galilei e la cultura scientifica nell'età della Controriforma, Salerno, Roma 2004; M. Bucciantini, Galileo e Keplero. Filosofia, cosmologia e teologia nell'Età della Controriforma, Einaudi, Torino 2007; E. Festa, Galileo e la lotta per la scienza, Laterza, RomaBari 2007; E. Bellone, Molte nature, Raffaello Cortina, Milano 2008; M. Artigas e M. Sanchez de Toca, Galileo e il Vaticano, Marcianum Press, Venezia 2009; A. Frova, Il Cosmo e il Buondio. Dialogo su astronomia, evoluzione e mito, Rizzoli, Milano 2009; P. Odifreddi, Hai vinto, Galileo!, Mondadori, Milano 2009; S. Pagano, I documenti vaticani del processo di Galileo Galilei, Pontificia Accademia delle Scienze, Roma 2009. (Parecchi di questi testi discutono «l'errore» di Galilei sulle maree. La teoria galileiana, infatti, prevede un periodo semidiurno di esattamente dodici ore, ma non rende conto né del ritardo giornaliero di cinquanta minuti né del fatto che l'innalzamento delle acque è massimo quando la Luna è piena o nuova; minimo quando la Luna è al primo o all'ultimo quarto.) Per una disamina del discorso di Giovanni Paolo II alla Sessione Plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze, 31 ottobre 1992 (vedi anche L'Osservatore Romano, 1° novembre 1992) sia lecito il riferimento a G. Giorello, «Scienza e fede: l'incerta alleanza», in D. Galbiati, Padre Eligio, R.A. Ricci, G. Rigamonti, E. Sindoni (a cura di), Scienza ed Etica alle Soglie del Terzo Millennio, Società Italiana di Fisica, Bologna 1993.

Una menzione a parte su Galilei e il suo rapporto con il potere merita la pièce di B. Brecht, Vita di Galileo, in Teatro, edizione italiana a cura di E. Castellani, vol. II, Einaudi, Torino 1963. Tra le opere di Charles Darwin segnaliamo Taccuini, ed. it. a cura di T. Pievani, Laterza, Roma-Bari, 2008; L'origine delle specie. Abbozzo del 1842. Lettere del 1844-1858. Comunicazione del 1858, ed. it. a cura di T. Pievani, Einaudi, Torino 2009; L'origine delle specie, Introduzione di G. Montalenti, tr. it. Boringhieri, Torino 1967; L'origine dell'uomo e la selezione sessuale, Introduzione di G. Montalenti, tr. it. Newton & Compton, Roma 2006; Autobiografia (1809-1882), a cura di N. Barlow, tr. it. Einaudi, Torino 2006. Sulle caratteristiche peculiari della spiegazione darwiniana vedi, in particolare, M. Scriven, «Explanation and prediction in evolutionary theory», in Science, 130, 1959; E. Mayr, Un lungo ragionamento. Genesi e sviluppo del pensiero darwiniano, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1994; N. Eldredge, Le trame dell'evoluzione, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2002; E. Mayr, L'unicità della biologia. Sull'autonomia di una disciplina scientifica, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2005. Un'eccellente antologia sulla spiegazione darwiniana è costituita da M. Ruse (a cura di), Philosophy after Darwin, Princeton University Press, Princeton 2009. Infine, sul rapporto tra Darwin, l'evoluzione per selezione naturale e sessuale, la cultura e la religione, senza pretesa di completezza: A. Desmond e J. Moore, Darwin, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1992; M. Ceruti, Evoluzione senza fondamenti, Laterza, Roma-Bari 1995; D. Dennett, L'idea pericolosa di Darwin, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1997; M. Ruse, Can a Darwinian Be a Christian?, Cambridge University Press, Cambridge 2001; J. Browne, Charles Darwin, 2 voll., Pimlico, London 2003; R. Dawkins, Il cappellano del Diavolo, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2004; D. Dennett, L'evoluzione della libertà, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2004; G. Barsanti, Una lunga pazienza cieca. Storia dell' evoluzionismo, Einaudi, Torino 2005; O. Franceschelli, Dio e Darwin, Donzelli, Roma 2005; N. Eldredge, Darwin. Alla scoperta dell'albero della vita, tr. it. Codice, Torino 2006; T. Pievani, Creazione senza Dio, Einaudi, Torino 2006; R. Keynes, Casa Darwin. Il male, il bene e l'evoluzione dell'uomo, tr. it. Einaudi, Torino 2007; M. Luzzatto, Preghiera darwiniana, Raffaello Cortina, Milano 2008; E. Boncinelli, Perché non possiamo non dirci darwinisti, Rizzoli, Milano 2009; P. Odifreddi, In principio era Darwin. La vita, il pensiero, il dibattito sull'evoluzionismo, Longanesi, Milano

2009; M. Ruse, Defining Darwin, Prometheus Books, Amherst (NY) 2009; O. Franceschelli, Darwin e l'anima, Donzelli, Roma 2009; T. Dixon, Scienza e religione, tr. it. Codice, Torino 2009. Per il giudizio di Ratzinger sulla controllabilità della teoria darwiniana vedi S.O. Horn, S. Wiedenhofer (a cura di), Creazione ed evoluzione. Un convegno con papa Benedetto XVI a Castelgandolfo, Edizioni Dehoniane, Bologna 2007. Per una critica dello «scientismo» e del «relativismo» insieme, esemplare per faziosità, vedi G. Israel, Chi sono i nemici della scienza?, Lindau, Torino 2008; per un'appassionata difesa dell'autonomia della ricerca scientifica vedi invece C. Bernardini, Incubi diurni. Essere scienziati e laici, nonostante tutto, Laterza, Roma-Bari 2010 (ma si consideri pure M. Grilli, Gli scienziati e l'idea di Dio, Prefazione di C. Bernardini, Dedalo, Bari 2010). Per un'equilibrata valutazione del mondo scientifico vedi G. Corbellini, Perché gli scienziati non sono pericolosi. Scienza, etica e politica, Longanesi, Milano 2009. Capitolo quarto Platone è citato da Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000; e da Repubblica, a cura di R. Radice e G. Reale, Bompiani, Milano 2000. Sulla critica del dissenso nel Platone della Repubblica e delle Leggi vedi l'interessante G. Guidorizzi, Ai confini dell'anima. I Greci e la follia, Raffaello Cortina, Milano 2010. La citazione di Adolf Hitler viene dai suoi Tischgespräche in Führerhauptquartier 1941-1942, a cura e con un'Introduzione di P. Schramm, Seewald Verlag, Stuttgart 1965; tr. it., Conversazioni di Hitler a tavola, Longanesi, Milano 1970 (devo l'indicazione al bel saggio di R. Bodei, «Il rosso, il nero, il grigio: il colore delle moderne passioni politiche», in S. Vegetti Finzi [a cura di], Storia delle passioni, Laterza, Roma-Bari 1995). Per la citazione di Mao Tse-Tung sui «cento fiori» il riferimento è a Sulla giusta soluzione delle contraddizioni in seno al popolo, tr. it. Casa editrice in lingue estere, Pechino 1967 (vedi anche Citazioni dalle opere del Presidente Mao Tse-Tung, tr. it. Casa editrice in lingue estere, Pechino 1967). Per il relativismo in campo scientifico ci limitiamo qui a riferirci ad alcuni classici del Novecento: J.-H. Poincaré, Opere epistemologiche, 2 voll., ed. it. a cura di G. Boniolo, tr. it. di M. Borchetta, C. Milanesi, S.

Sacchitella, Piovan, Abano Terme 1989; J.-H. Poincaré, Scienza e metodo, ed. it. a cura di C. Bartocci, Einaudi, Torino 1997; J.-H. Poincaré, Il valore della scienza (1905), tr. it. di G. Ferraro, Dedalo, Bari 1992; A. Einstein, Opere scelte, ed. it. a cura di E. Bellone, Bollati Boringhieri, Torino 1988; A. Einstein, Il lato umano. Spunti per un ritratto, a cura di H. Dukas e B. Hoffman, Prefazione di C. Bartocci, Einaudi, Torino 2005; K.R. Popper, Logica della scoperta scientifica (1934), tr. it. Einaudi, Torino 2010; Congetture e confutazioni. Lo sviluppo della conoscenza scientifica (1963), tr. it. il Mulino, Bologna 2003; B. de Finetti, Probabilismo (1931), ora in B. de Finetti, La logica dell'incerto, a cura di M. Mondadori, il Saggiatore, Milano 1989; B. de Finetti, L'invenzione della verità (1934), Raffaello Cortina, Milano 2006; R. Thom, «De quoi faut-il s'étonner?», in Circé. Cahiers de Recherche sur l'imaginaire, 8-9, 1978; R. Thom, Parabole e catastrofi. Intervista su matematica scienza e filosofia, a cura di G. Giorello, S. Morini, il Saggiatore, Milano 1980; R. Feynman, Il piacere di scoprire, tr. it. Adelphi, Milano 2002. L'espressione «impazienza per la libertà» è tratta da M. Foucault, «Che cos'è l'Illuminismo?» in Archivio Foucault. 3. 1978-1985. Estetica dell'esistenza, etica, politica, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998. Su uso e abuso della teologia il riferimento è a V. Mancuso, L'anima e il suo destino, Raffaello Cortina, Milano 2007 e La vita autentica, Raffaello Cortina, Milano 2009. Per l'argomento del «giudice bendisposto» vedi K. Jaspers, Introduzione alla filosofia, ed. it. e commento a cura di P. Chiodi, Postfazione di U. Galimberti, Raffaello Cortina, Milano 2010. Per il «gusto selvaggio per la libertà» di corsari, pirati, e altre genti di mare nell'Età moderna ci limitiamo a indicare i due seguenti testi: M. Rediker, Sulle tracce dei pirati, tr. it. Piemme, Casale Monferrato 1995 (si noti che il titolo originale suona Between the Devil and the Deep Blue Sea. Per altro, i pirati e le genti di mare in genere non lasciano tracce; semmai l'unica cosa da fare è seguire la scia delle loro navi); G. Lapouge, Pirati, tr. it. excelsior 1881, Milano 2010. Per l'idea di società laica e aperta descritta in questo capitolo il principale riferimento è a J.S. Mill, Saggio sulla libertà, Prefazione di G. Giorello e M. Mondadori, tr. it. il Saggiatore, Milano 2008; per gli studi critici più importanti ci si limita a segnalare L. Crocker, Positive Liberty,

Martinus Nijhoff, The Hague 1980; J.C. Rees, John's Stuart Mill's On Liberty, Clarendon Press, Oxford 1985; A. Ryan, The Philosophy of John Stuart Mill, MacMillan, London 1987. Per una serie di applicazioni dei principi milliani vedi l'antologia J.S. Mill, L'America e la democrazia, a cura di P. Adamo, Bompiani, Milano 2005 (in particolare, il saggio introduttivo del curatore contiene una serie di interessanti chiarificazioni sulla genesi della «sovranità del consumatore»). Su questi stessi temi vedi anche P. Adamo, G. Giorello, Quale Dio per la sinistra? Note su democrazia e violenza, Unicopli, Milano 1994. Sul principio dell'assenza di danno ad altri ci limitiamo a segnalare, nell'immensa letteratura pertinente, quel piccolo classico che è E. Pound, Il carteggio JeffersonAdams come tempio e monumento, ed. it. a cura di L. Gallesi, Edizioni Ares, Milano 2008. Sulla distinzione tra preferenze personali e preferenze esterne vedi in particolare R. Dworkin, I diritti presi sul serio, tr. it. il Mulino, Bologna 1982 e i due volumi italiani di J. Harsanyi a cura di S. Morini: Comportamento razionale ed equilibrio di contrattazione, tr. it. il Saggiatore, Milano, 1985 e L'utilitarismo, tr. it. il Saggiatore, Milano 1988. Per individualismo e democrazia segnaliamo N. Urbinati, L'ethos della democrazia. Mill e la libertà degli antichi e dei moderni, Laterza, Roma-Bari 2006; N. Urbinati, Individualismo democratico, Donzelli, Roma 1997, 2009. Per la nozione di ateismo metodologico è essenziale il riferimento a J. Petitot, Per un nuovo Illuminismo. La conoscenza scientifica come valore culturale e civile, ed. it. a cura di F. Minazzi, Bompiani, Milano 2009. Infine, molte delle questioni politiche discusse nel capitolo possono rimandare alla specifica situazione italiana, per la quale ci limitiamo a segnalare, senza alcuna pretesa di completezza: G. Giorello, Di nessuna chiesa, Raffaello Cortina, Milano 2005; G. Boniolo (a cura di), Laicità, Einaudi, Torino 2006; C.A. Viano, Laici in ginocchio, Laterza Roma-Bari, 2006; F. D'Agostino, G. Giorello, Il peso politico della Chiesa, San Paolo, Milano 2008; M. Ainis, Chiesa padrona, Garzanti, Milano 2009; R. Chiaberge, Lo scisma. Cattolici senza papa, Longanesi, Milano 2009; M. Teodori, Contro i clericali, Longanesi, Milano 2009. Capitolo quinto La questione delle prove dell'esistenza di Dio è qui esaminata a partire da G. Miegge, Per una fede, Edizioni di Comunità, Milano 1952 (poi Claudiana, Torino 1991) e da R. Nozick, Spiegazioni filosofiche, tr. it. il Saggiatore, Milano 1987.

Per le citazioni di Ash'arî nella sua polemica con i Mo'taziliti e per le tesi sciite sull'Uno il riferimento è a H. Corbin, Storia della filosofia islamica, tr. it. Adelphi, Milano 1991. Per le prove dell'esistenza di Dio, Anselmo d'Aosta e Gaunilone sono citati da Anselmo d'Aosta, Proslogion, Introduzione, traduzione e note di L. Pozzi, Rizzoli, Milano 1992. Non riportiamo qui la vastissima letteratura sull'argomento ontologico anselmiano, ma vogliamo almeno ricordare i lavori di Ermanno Bencivenga sull'argomento: Dio in gioco. Logica e sovversione in Anselmo d'Aosta, Bollati Boringhieri, Torino 2006; La dimostrazione di Dio, Mondadori, Milano 2009; La filosofia come strumento di liberazione, Raffaello Cortina, Milano 2010. Altri classici filosofici richiamati nel capitolo sono: R. Descartes, Meditazioni metafisiche e I Principi della filosofia, in R. Descartes, Opere 1637- 1649, ed. it. a cura di G. Belgioioso, Bompiani, Milano 2009; dello stesso Descartes, Il Mondo, in R. Descartes, Opere postume 1650-2009, ed. it. a cura di G. Belgioioso, Bompiani, Milano 2009. I pensieri di Blaise Pascal sono citati dall'edizione italiana a cura di G. Auletta, Pensieri e altri scritti, con un saggio di T.S. Eliot, Mondadori, Milano 2003, che riproduce nell'ordinamento e nella numerazione l'edizione Brunschvig; I. Kant, Critica della ragion pura, ed. it. a cura P. Chiodi, UTET, Torino 1967 (nuova edizione 2005) e Critica della ragion pratica, ed. it. a cura di P. Chiodi, UTET, Torino 1995, che contiene anche altri scritti morali di Kant. E ancora: L. Feuerbach, L'essenza della religione, ed. it. a cura di C. Ascheri e C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 2003 e L'essenza del Cristianesimo, a cura di F. Tomasoni, Laterza, Roma-Bari 2006. S. Kierkegaard, Briciole di filosofia, ed. it. a cura di C. Fabro, Rizzoli, Milano 2009 (ma di Kierkegaard vedi pure Enten-Eller, ed. it. in cinque volumi a cura di A. Cortese, Adelphi, Milano 1977-1989); le citazioni di Friedrich Nietzsche sono tratte da La gaia scienza e Idilli di Messina, ed. it. a cura di F. Masini, Adelphi, Milano 1977 e dai Frammenti postumi (in particolare da quelli dell'autunno 1885, pubblicati nelle Opere complete di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. VIII/1, Adelphi, Milano 1975; ma di Nietzsche vedi anche La volontà di potenza nell'edizione a cura di M. Ferraris e P. Kobau, Bompiani, Milano 1992. (Su Nietzsche e le speculazioni in merito alla fondazione di una nuova religione vedi anche M. Ferraris, Guida a Nietzsche, Laterza, Roma-Bari

2004; per una lettura antitetica vedi M. Ceruti, G. Fornari, Le due paci. Cristianesimo e morte di Dio nel mondo globalizzato, Raffaello Cortina, Milano 2005.) Infine, di Martin Heidegger si è citato Il concetto di tempo, ed. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1978. Ovviamente, non è qui possibile dare una anche minima bibliografia del dibattito su teismo e ateismo. Ci si limita a segnalare l'importante antologia C. Hitchens (a cura di), The Portable Atheist. Essential Readings for the Nonbeliever, Da Capo Press, London 2007. Per il movimento degli «atei brillanti» (i cosiddetti Brights) vedi anzitutto R. Dawkins, L'illusione di Dio. Le ragioni per non credere, tr. it. Mondadori, Milano 2007 e C. Hitchens, Dio non è grande. Come la religione avvelena ogni cosa, tr. it. Einaudi, Torino 2007. Si tengano presenti pure i lavori di D. Dennett, in particolare Rompere l'incantesimo. La religione come fenomeno naturale, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2007 (e su temi analoghi V. Girotto, T. Pievani, G. Vallortigara, Nati per credere, Codice, Torino 2008); per una critica di parte cattolica vedi J. Haught, Un Dio evoluto. La teologia dopo le teorie di Darwin, tr. it. Le vespe, Milano 2002 e Dio e il nuovo ateismo, tr. it. Queriniana, Brescia 2009. Vedi ancora, come esempio di «spirito forte», J.A. Paulos, La prova matematica dell'inesistenza di Dio, Prefazione di P. Odifreddi, tr. it. Rizzoli, Milano 2010. Si consulti pure la pagina Web del movimento bright: www.the-brights.net. La tendenza «brillante» non è viva solo nel contesto di lingua inglese: vedi, per esempio, G. Garcia Volta, J.C. Marset, Probablemente Dios no existe, Pianeta, Barcelona 2009. Per la pubblicistica italiana, evocata nel corso del capitolo, ci limitiamo a far riferimento a P. Odifreddi, Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici), Longanesi, Milano 2007 e a P. Flores d'Arcais, M. Onfray, G. Vattimo, Atei o credenti? Filosofia, politica, etica, scienza, Fazi, Roma 2007. Le citazioni da Gilbert Keith Chesterton sono tratte da Eretici, tr. it. Piemme, Casale Monferrato 1998 (vedi anche la recente nuova edizione Lindau, Torino 2010). Per quella da James Joyce il riferimento è a Ulisse, ed. it. a cura di G. De Angelis, Mondadori, Milano 1988. Juan de La Cruz è citato da Poesie, a cura di G. Agamben, testo originale a fronte, Einaudi, Torino 2008. Infine, mi piace indicare per la teologia negativa il bel volume di Marco Vannini, Prego Dio che mi liberi da Dio, Bompiani, Milano 2009; Vannini

mostra in modo concreto come certe forme di ateismo siano più vicine allo Spirito di quanto non lo siano le dottrine di parecchi teologi ufficiali e ufficiosi. Epilogo La versione italiana di G.F.W. Hegel, La differenza tra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling, è in Primi scritti critici, a cura di R. Bodei, Mursia, Milano 1971. La citazione di Imre Lakatos è tratta dal suo «Regresso infinito e fondamenti della matematica», in I. Lakatos Matematica, scienza e filosofia. Scritti filosofici II, a cura di J. Worrall, G.P. Currie, ed. it. a cura di M. D'Agostino, il Saggiatore, Milano 1985 (di Lakatos vedi pure Sull'orlo della scienza. Pro e contro il metodo, con P.K. Feyerabend, a cura di M. Motterlini, Raffaello Cortina, Milano 1995; La metodologia dei programmi di ricerca scientifici, ed. it. a cura di M. Motterlini, il Saggiatore, Milano 1996). La citazione di Dario Antiseri è tratta da D. Antiseri, G. Giorello, Libertà. Un manifesto per credenti e non credenti, con una Postfazione di S. Tagliagambe, Bompiani, Milano 2008. Per le questioni sollevate dall'idea di autonomia del singolo individuo sarà utile il riferimento alla voce pertinente in F. D'Agostino, Introduzione alla biopolitica. Dodici voci fondamentali, Aracne, Roma 2009: lettrici e lettori capiranno facilmente la natura del mio disaccordo con l'autore. Per una complessiva valutazione dell'ateismo (anche in relazione agli spunti che abbiamo tratto da Pascal) vedi la nuova edizione di A. Del Noce, Il problema dell'ateismo, Introduzione di N. Matteucci, Postfazione di Massimo Cacciari, il Mulino, Bologna 2010.