Segni del presente. Prospettive di filosofia italiana contemporanea 9788885716315, 9788885716322


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Segni del presente. Prospettive di filosofia italiana contemporanea
 9788885716315, 9788885716322

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Nicola Magliulo

Segni del presente Prospettive di filosofia italiana contemporanea

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Zeugma

Collana diretta da:

Massimo Adinolfi e Massimo Donà

Comitato scientifico: Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani-Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco Lozano, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

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Zeugma | Lineamenti di Filosofia italiana 5 - Classici

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Nicola Magliulo

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Pubblicazioni del Centro di ricerca di Metafisica e Filosofia delle Arti dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano DIAPOREIN

© 2018, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa sociale, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected]

Zeugma ISSN: 2421-1729 n. 5 - ottobre 2018 ISBN – Edizione cartacea: 9788885716315 ISBN – E-book: 9788885716322 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Yellow-Red-Blue Wassily Kandinsky, 1925

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A mio figlio, Leone

Desidero ringraziare Massimo Donà per l’attenzione affettuosa che ha sempre avuto per il mio lavoro

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La Terra che salva: Emanuele Severino

Il grande sistema filosofico, costruito con rigore da Emanuele Severino, vuole salvare l’integrità ontologica di ogni ente dalla sua corruzione, dal diventare polvere, e liberare gli essenti e il mondo dall’inquinamento nichilistico che li avvolge e li immiserisce. Ciò che appare, se si oltrepassa l’alienazione dei mortali, è il farsi chiaro, evidente, manifesto dello splendore dello spettacolo degli enti in forma. Una filosofia del mattino, luminosa, persuasa di guarire la mente dalla follia che la angoscia, dal “trauma” della morte e dell’inesorabile annientarsi di tutto ciò che è; capace di fare la giusta diagnosi, e di somministrare la terapia efficace, perché la “malattia” che impedisce di pervenire alla Gioia che dimora nel fondo dell’uomo sia sconfitta irreversibilmente, rivelandosi un mero errore ermeneutico. Quella “malattia” dell’Occidente causata dalla convinzione che ogni ente sia niente, e che sta ora estendendosi a tutta la terra manifestando il suo volto tremendo ed esplicito, a lungo tenuto nel sottosuolo e rimosso dalla metafisica occidentale. Per Severino appare, invece, l’essere dell’ente che si mostra nella sua irriducibile evidenza, e che l’angoscia per tempo e morte che divorano ogni cosa, non può corrodere: essa si fonda, come vedremo, sul superamento del sapere occidentale che ha erroneamente connesso morte e nulla, e sul saldo nesso tra l’essere sé dell’ente e il suo non poter diventare altro da

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sé. Il filosofo bresciano ha spesso citato un passo di Eschilo, l’Inno a Zeus nell’Agamennone, in cui si afferma la necessità di conoscere quel «sapere che sta e non si lascia smentire, che salva la mente dal precipitare nell’angoscia e nella follia». Ma perché un sapere si imponga e salvi deve avere la potenza di una Verità innegabile; e l’innegabilità di ciò che appare è determinata dal Destino della necessità, per cui ogni essente non può essere o divenire nulla, in quanto la sua negazione comporterebbe l’autonegazione del suo apparire. Per Severino, l’essenza del nichilismo si fonda, infatti, sulla volontà di separare l’inseparabile, ciò che è originariamente unito: l’essenza dall’esistenza, l’identità dell’ente dalle sue determinazioni e dalla sua identità con sé. Intorno all’irriducibile legame degli essenti con l’essere, al pathos per l’apparire del molteplice, il filosofo bresciano costruisce una sequenza di tesi, fondate in modo incontrovertibile; senza che però questo debba significare ridurlo ad un pensatore abile solo nel serrare in un reticolo logico, scisso dal reale, le sue argomentazioni. Quali sono dunque le fondamenta del pensiero del nostro filosofo? Ogni ente che appare è determinato dalla Struttura Originaria, si manifesta all’interno delle sue intramontabili sponde; essa è l’insieme dei significati, uniti da nessi necessari e immutabili, senza i quali nessun essente può essere quel che è, ed apparire. In Oltrepassare il filosofo bresciano li riassume così: l’esser sé dell’essente, il suo non esser altro da sé, il suo non poter diventare ed essere altro da sé, il suo essere eterno, e, ancora, l’essere dell’apparire infinito, la necessità che gli essenti della terra, sopraggiungendo, siano accolti dagli essenti dello sfondo, e la necessità che il sopraggiungere della terra sia la Gloria, cioè si dispieghi senza fine – e a queste determinazioni dello sfondo si aggiungano tutte quelle che gli competono e che costituiscono la dimensione stessa a cui si rivolgono i miei scritti, indicandole.1 1. Adelphi, Milano 2007, p. 179.

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Iniziamo ad esaminare, seppure sinteticamente, i nuclei semantici della Struttura originaria. Per il nostro filosofo, determinare l’essere richiede che si debba necessariamente metterlo in relazione con il nulla; se il nulla non significasse la sua assoluta negatività, insignificanza, da cosa realmente si distinguerebbe l’essere, a cosa si opporrebbe? Il nulla appare ma come negato, ovvero il nulla appare come un positivo significare, ma il contenuto affermato dal suo apparire è errore che si toglie, che è tolto; l’assolutamente insignificante, negativo, ovvero il contenuto definito come nulla momento, contraddice cioè l’essere positivamente significante del nulla. Nel pensiero severiniano, il senso stesso dell’essere sta, dunque, nel suo opporsi al nulla, nell’energia che consente ad ogni positivo di negare il non essere assoluto. Il suo ritornare a Parmenide è stato frainteso e si è fatto talvolta di lui un neoparmenideo: per Severino, infatti, anche il molteplice, ogni cosa in quanto determinata appare nella luce che nega il nulla. Non il puro essere indeterminato è, ma è dell’essere che è presente, che è di per sé noto, nella sua immediatezza fenomenologica (cioè la presenza immediata del contenuto che appare) e logica (l’immediatezza della connessione tra due determinazioni, tra soggetto e predicato), che non può darsi negazione. Nel suo manifestarsi, l’essere di ogni cosa è dominato dalla legge dell’opposizione del positivo e del negativo senza cui non potrebbe neanche apparire nella sua identità con sé, e non potrebbe darsi alcun pensiero, discorso. Tale è la forza originaria di questa legge da fondare e includere anche la propria negazione che può esistere solo se afferma ciò che nega: se la determinatezza di un ente significa la proprietà del positivo di opporsi al negativo, di respingerlo via da sé, la sua negazione non riesce a liberarsi di ciò che nega, ma se ne deve fare essa stessa portatrice. Destino di ogni negazione è dunque affermare l’opposizione, in quanto è impossibile negare ciò che costituisce il suo fondamento, ovvero l’opporsi della negazione e di ciò che si intende negare. Si dà, in questo senso, la coorigi-

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narietà di identità e opposizione che non richiede, per essere fondata, che si esca dalla propria area semantica. L’opposizione universale di positivo e negativo, che è l’autentico respiro del pensiero, non va concepita però solo come un principio logico ma ontologico, di cui un’individuazione fondamentale è l’elenchos aristotelico; il filosofo bresciano ne esplicita il senso profondo, mostrando come l’autotoglimento della negazione riguardi non solo la negazione stessa, ma ogni parte della totalità dell’Essere. Se infatti appaiono i diversi in quanto tali, la negazione della loro differenza si contraddice perché, per poterla negare, è necessario che la distinzione tra essi appaia. Severino sottrae, inoltre, il pnc ai limiti in cui lo confina il nichilismo occidentale fin dalle origini della metafisica greca: Platone include infatti le differenze degli enti nell’essere, salvando i fenomeni, ma li lascia nel Tempo e dunque nel venire e andare nel nulla; anche Aristotele, nella misura in cui afferma che c’è un tempo in cui l’ente non è, non supera il nichilismo insito nel pnc così formulato. Per il filosofo bresciano l’eternità di ogni cosa è un’altra individuazione dell’opposizione originaria di positivo e negativo: le cose meritano di essere aionicamente; non solo alcuni enti divini o aspetti privilegiati degli essenti, come l’anima, ma tutte le cose sono eterne, anche gli umani, ma non come nella concezione cristiana per la quale risorgono dopo essere diventati nulla. L’uomo non diventa polvere: certo, la specificità che caratterizza ogni essente nel suo essere questo qui scompare per lasciare il posto ad altri enti sopraggiungenti, ma senza che questo implichi il suo annullamento; senza cioè che il risultato del divenire di un ente da un prima a un poi, possa essere interpretato come il diventare altro da sé. La volontà crede che il divenire altro possa accadere nel senso, oggi esplicitamente dominante, di ritenersi padrone e produttore di questo processo. Ma, per Severino, sia spostare un pennarello o una sedia, che bombardare Hiroshima sono erroneamente interpretati dai mor-

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tali come un diventare altro, nella misura in cui questi eventi vengono concepiti come l’isolarsi e l’annientarsi dello stato precedente, e l’emergere dal nulla della nuova forma specifica che sono il pennarello o la sedia spostati, la città bombardata etc. La volontà di potenza è la fonte dell’errore perché vuole dominare, trasformare, resistere, opporsi all’apparire dell’essere sé dell’essente: crede sempre di avere davanti a sé ciò che è isolato e di cui si può impadronire. Infatti, a questo scopo, si isola la cosa che si vuole trasformare dalla relazione originaria e necessaria con i suoi predicati, con il contesto in cui appare e con lo sfondo che intramontabile accompagna ogni essente. È nell’idea occidentale della cosa, nel suo dibattersi tra l’essere e il nulla, quindi disponibile alle forze che possono evocarla o respingerla nel niente, la radice di ogni sfruttamento, manipolazione, violenza, guerra. La purezza di un inviolabile essere sé della singola cosa è invece, per il filosofo bresciano, già da sempre sottratta alla hybris nichilistica, e non si può liberamente decidere di alterarne l’identità; in questo senso, ad esempio, anche l’amore cristiano, che appare certo preferibile all’odio, volendo trasformare, annientare l’uomo vecchio, per farne uno nuovo, è violenza. Nulla può davvero far diventare l’essente altro da sé: soffriamo perché erroneamente ci convinciamo di poter essere strappati o separati dall’identità con noi stessi: mai, invece, possiamo essere espulsi dalla dimora che già da sempre ci ospita. Per Severino, il Destino della Necessità mostra che l’essere sé di ogni parte è la sua relazione con il Tutto; ma nella relazione tra gli essenti nel cerchio finito dell’apparire: «essere insieme (essere con) è essere negazione (essere non). Qualcosa può essere insieme ad altro, perché non è l’altro; qualcosa può non essere l’altro, perché è insieme all’altro»2. Tuttavia, questo non essere e non poter diventare altro da sé di ciascun ente, non contraddice, anzi afferma il 2. Tautotes, Adelphi, Milano 1995, p. 150.

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legame irriducibile tra il fondo dell’Io, e di ogni cosa, con la Totalità dell’essere; nell’uomo, il mortale confligge con quel oltre-dio che l’uomo è, ma si tratta di una contraddizione già da sempre superata, vinta: Se esiste una molteplicità di cerchi degli Io finiti del destino, ogni cerchio differisce dagli altri, è l’apparire di contenuti diversi; e ogni cerchio è un plesso di contraddizioni che sono eternamente oltrepassate lungo percorsi diversi. Ma tutti questi percorsi sono raggi eterni che si uniscono allo stesso centro, ossia alla Gioia che, come toglimento assoluto della contraddizione, è l’infinito apparire del Tutto. Nella Gioia, in cui consiste il mio inconscio, Io (il cerchio attuale dell’Io del destino) sono identico a ogni altro Io; e l’inconscio di ogni altro è la Gioia che io sono eternamente.3

L’identità di pensare ed essere L’uomo è il luogo in cui si manifesta e viene testimoniata la ricchezza della Totalità delle cose. È, invece, la separazione tra pensare ed essere – che scinde l’apparire da ciò che appare, come se il primo potesse essere astrattamente separato dai suoi contenuti –, ad essere criticata alla radice e respinta da Severino. Il pensiero non è, come per il soggettivismo moderno, chiuso in sé e connesso alla cosa come se questa fosse al di fuori di sé: la cosa appare nel segno ma non come noema, significato separato dalla sua concretezza, dal suo essere in carne e ossa: l’intera, intatta cosa si manifesta nell’anima, e l’anima è l’automanifestazione della cosa così concepita. Essa, 3. La Gloria, Adelphi, Milano 2001, pp. 64-65. Un’ampia ricostruzione dell’itinerario speculativo del filosofo bresciano è presente nei lavori di: N. Cusano, Emanuele Severino. Oltre il nichilismo, Morcelliana, Brescia 2011; e di G. Goggi: Emanuele Severino, Lateran University press, Roma, Città del Vaticano 2016.

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secondo la straordinaria intuizione aristotelica, è tutte le cose, e in essa tutte le cose si mostrano; l’aperto che siamo e in cui siamo immersi ci circonda prima di ogni viaggio, distinzione: non è l’occhio che determina il campo visivo, ma solo ciò a cui si dà lo spettacolo dell’essere. Apparire non è quindi cosa tra le cose, strumento a nostra disposizione, perché tutto appare, si manifesta in e per la sua luce. Né, come per le scienze, il mondo ci appare perché il nostro cervello determina la mente, comprende e produce il reale; per il nostro filosofo, invece, l’apparire non è una funzione del cervello come la luminosità non lo è della vista: il manifestarsi dell’apparire, è ciò che è in luce e si mostra da sé, l’unità originaria e necessaria di ciò che appare con il suo apparire. L’apparire, dunque, non è prodotto da una qualche causa, sia essa naturale o spirituale: non Ego cogito ma neanche Es denke, se per Es si intende pulsione, istinto, volontà che muove, causa che produrrebbe il pensare; ma è l’orizzonte, il cerchio in cui tutto si dà già da sempre rivestito dei suoi necessari nessi semantici. Ma Severino afferma anche la necessità di andare oltre la concezione fenomenologica dell’apparire: essa concepisce sì il fenomeno come ciò che si mostra da sé ma in un modo che non si sottrae al dubbio: «Ma perché ciò che si mostra in sé stesso non può essere negato, affermando che non esiste e che non appare? Husserl dice più volte (con Cartesio) che ciò che si mostra in sé stesso non è un nulla […] Ma perché ciò che non è un nulla non può essere negato, ossia non si può affermare di esso – di esso che non è un nulla – che sia nulla? E perché non si può affermare che esso (identico o non al nulla) non appare?»4. Per Severino, l’essere dell’ente non coincide con il suo apparire, come invece afferma Heidegger; l’ente è anche quando non appare, non può essere stato o diventare diverso da sé, prima e dopo il suo apparire qui e ora; anche l’oblio di 4. Oltrepassare, cit., p. 145.

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ciò che è entrato e uscito dall’apparire può essere solo provvisorio, e tutto ciò che appare dimenticato, è eternamente destinato ad essere rammemorato e a ritornare nell’apparire. L’apparire trascendentale è dunque più grande anche della coscienza pensata come una dimensione isolata che entra in relazione con le cose poste come al di fuori di essa; in esso si manifesta la stessa relazione-opposizione di soggetto e oggetto; ciò che appare viene posto ma da un atto senza soggetto umano o divino: l’autocoscienza della coscienza è il luogo in cui il contenuto dell’apparire si dà in forme finite: Appare insomma e il nostro mondo interiore (ciò che Kant chiamava «senso interno») e il mondo delle cose sensibili (ciò che Kant chiamava «senso esterno»). Kant li includeva entrambi all’interno di ciò che chiamava fenomeno, e fenomeno è il modo in cui si ripresenta il phainomenon greco, ossia ciò che è il contenuto del phainestai. Nella sua sostantivizzazione il fenomeno kantiano ripropone il concetto di apparire dell’essente: è l’essente che appare.5

Ed è proprio a partire dall’interpretazione del pensiero kantiano che meglio si comprendono le affinità e le divergenze tra le tesi di Cacciari, che esamineremo più avanti, e di Severino6. Per i due filosofi è in un orizzonte più originario che si danno come fenomeni sia il soggetto che l’oggetto ma diverso è il modo di concepire l’essere fenomeno: per Severino fenomeno è automanifestazione della cosa, per Cacciari esso è resta differente dalla cosa in sé. Quindi, per il filosofo brescia-

5. E. Severino, L’Identità della follia, Rizzoli, Milano 2007, p. 301. 6. Sul confronto tra i due filosofi mi permetto di rimandare a: N. Magliulo, Cacciari e Severino. Quaestiones disputatae, post-fazione di D. Grossi: La differenza tra il discorso di E. Severino e il discorso di M.Cacciari., Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2010; e all’acuta analisi di: L. Mauceri, La hybris originaria. Massimo Cacciari ed Emanuele Severino, Orthotes editrice, Nocera Inferiore 2017.

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no l’apparire trascendentale si identifica con l’autocoscienza della coscienza che testimonia la verità del destino della necessità, dell’essente che appare, dell’Io infinito pur nei limiti dell’Io finito; mentre per il filosofo veneziano, la soggettività trascendentale, l’inseparabile relazione tra l’essere della cosa e il suo apparire, resta indeterminata ed enigmatica: luce oscura. Severino ritiene che in tal modo Cacciari dissolva l’«a chi» l’apparire appare: esso diventa irraggiungibile e dunque inesistente e controvertibile in quanto non c’è fondamento all’affermazione dell’esistenza del soggetto trascendentale cui appare il nostro stesso vedere-osservare i fenomeni; mentre per il filosofo veneziano l’inafferrabilità della relazione originaria che si dà tra la luminosità dell’essere e il nostro sguardo non implica necessariamente la sua inesistenza o infondatezza7. Per Severino il darsi insieme della Fimmediatezza e della Limmediatezza assicura l’innegabilità dell’essere dell’essente; per Cacciari, invece, l’immediatezza dell’ente non coincide con la Limmediatezza, non perché si esaurisca nella sua Fimmediatezza, ma perché proprio il suo apparire incontraddittorio nel logos non riesce a comprenderne ed esaurirne la perfetta determinatezza ed a provarne l’effettiva esistenza.

La Gloria e la Gioia È inevitabile che l’errore appaia perché si dia la Verità: gli uomini nulla possono su tale destinazione; la loro striscia di terra, per il filosofo bresciano, sta tra l’autonegazione della negazione della verità e il non ancora sopraggiungente tramonto

7. Sulla differente interpretazione kantiana dei due filosofi si guardi anche: E. Severino, Dispute sulla verità e la morte, Rizzoli, Milano 2018, pp. 183189.

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della Terra isolata. Il Destino della Necessità non costringe, non prevarica ma è il cuore, l’adempimento della vocazione più sincera dell’ente; due anime battono nel petto dell’uomo, afferma Severino, citando il Faust di Goethe: la contesa tra l’isolamento della Terra e il Destino della Necessità confligge nel mortale, che è il luogo in cui appare questa contraddizione non risolta. Per il nostro filosofo, il fondamento dell’isolamento della Terra sta nell’impossibilità per il Tutto di apparire concretamente nel cerchio finito dell’apparire; dunque è da sempre necessariamente destinato che apparisse l’erranza che conduce i mortali ad isolarsi dalla verità, e a persuadersi del predominio della Terra come dimora sicura. L’errore ha, conseguentemente, invaso il linguaggio, le parole e le opere: nel nostro tempo la Terra appare avvolta dalla nube dell’inquinamento nichilistico. Credersi padroni del proprio destino, o anche di poter determinare l’eclisse dell’errore e il trionfo del Destino della Necessità, appartiene ad una nichilistica volontà di potenza, in quanto volontà e azioni non sono in nostro potere come forze capaci di determinare una configurazione della terra piuttosto che un’altra. Quando gli uomini testimonieranno la negazione della contraddizione, attenderanno il compiersi, il tramonto del Destino; non ci è dato quindi determinare l’avvento del Tramonto della terra isolata, ma il Destino della Necessità non implica alcuna indifferenza rispetto alla dimensione dell’agire; al contrario ogni nostro gesto, l’atto più umile o il più grande, sono assolutamente rilevanti. Ogni nostro fare, in quanto destinato e non isolato dal Destino, è nella Verità; tuttavia, nonostante il linguaggio dell’Occidente dia spicco all’alienazione e alla follia, l’uomo che si apre allo sguardo del Destino patisce il non ancora sopraggiunto tramonto della terra inquinata dal nichilismo proprio perché la oltrepassa solo astrattamente. Per Severino la Verità non può darsi concretamente nella sua interezza: la cosa si mostra processualmente, e mai simultaneamente: aporia che Severino

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chiama la contraddizione c. Appare il non apparire concreto dell’essere sé della cosa come è fuori dal cerchio dell’apparire finito; resta in un luogo inaccessibile, in un altrove, l’apparire infinito che non può mai accadere, farsi evento, entrare nel finito perché altrimenti lo annienterebbe. Per Severino, l’apparire infinito del Tutto è avvolto nell’ombra chiara del nonapparire, e quindi la Gioia resta nell’inconscio disseminando le sue tracce lungo il Sentiero della Terra. Ma che il Tutto non possa entrare, in quanto tale, nel cerchio finito, ma solo manifestarsi interamente in un infinito apparire, non è la tesi conclusiva cui perviene il suo itinerario speculativo. A partire da La Gloria il filosofo bresciano ritiene di poter indicare un ulteriore sviluppo del suo pensiero: se la contraddizione C non può essere in alcun modo superata, invece quella tra l’isolamento della Terra e il Destino della Verità può, deve esserlo. Nessuna determinazione che incominci ad apparire, che sopraggiunga, può infatti essere inoltrepassabile; se la si pensasse come tale, come ciò che compie definitivamente il percorso dell’apparire, apparterebbe necessariamente allo sfondo, alla totalità intramontabile dei predicati necessari dell’essente, diverrebbe un predicato persintattico8; si produrrebbe, allora, una contraddizione in quanto ci sarebbe un tempo in cui lo sfondo non ha un legame necessario con esso, e un tempo in cui tale legame si darebbe, per cui lo sfondo diventerebbe altro da sé. Ma se ciò che sopraggiunge non appartiene al cerchio originario dovrà necessariamente apparire in un cerchio diverso da esso. Ora se l’apparire è necessariamente e immediatamente, in quanto tale, attuale e

8. Nel linguaggio severiniano indica le determinazioni che sono la “forma” di ogni essente, e che appartengono immutabili allo sfondo del cerchio finito del Destino. Al contrario delle determinazioni “iposintattiche” che, in quanto sopraggiungenti, non possono appartenere a tale sfondo e devono essere necessariamente oltrepassate.

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originario, come può darsi un altro cerchio dell’apparire? In realtà già l’apparire infinito mostra che esiste un altro cerchio oltre quello attuale: rispetto ad esso l’apparire infinito appare solo formalmente, in sé nel linguaggio severiniano, mentre rispetto a se stesso appare anche per sé. Analogamente la fondazione dell’esistenza di una costellazione infinita di cerchi finiti del Destino, diversi dall’originario, sta nell’impossibilità di un oltrepassante inoltrepassabile. Non solo la costellazione infinita dei cerchi finiti, ma anche il dialogo infinito tra essi, viene fondato e deve apparire non solo astrattamente ma anche concretamente: patire come mortali tutto il dolore del mondo è il primo passo per l’oltrepassamento dell’isolamento della Terra; ogni cerchio è destinato ad accogliere gli altri, e deve patire in carne ed ossa l’oscurità più profonda e il peso più angosciante che possa apparire. Il mortale deve sopportare un infinito patimento, e questa è la sua grandezza prima di tramontare accogliendo gli altri cerchi non solo processualmente ma in un unico ed irripetibile evento; se infatti la relazione tra i cerchi apparisse solo processualmente, renderebbe impossibile il tramonto definitivo dell’isolamento. È quanto Severino indica nella necessità dell’apparire, insieme, del Venerdì santo e della Pasqua: Nello sguardo del destino della verità appare cioè la necessità che il «venerdì santo» della solitudine delle terre dei cerchi non preceda ma appaia insieme al proprio tramonto; e cioè che il tremendum non sia lasciato a sé stesso e al suo orrore, ma appaia nell’atto stesso in cui è oltrepassato dalla «pasqua» della libertà del destino (e tuttavia sia insieme conservato come passato nella totalità concreta delle sue determinazioni, nella sua carne e nelle sue ossa), cioè nell’atto stesso in cui nella costellazione dei cerchi appare il Luogo della Terra che è il fondamento della libertà del destino, e la totalità infinita della verità in quanto dimensione persintattica non contrastata dall’isolamento della terra, e il volto mai visto nel finito, e il timbro inaudito della Gioia. In quello sguardo appare dun-

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23 que la necessità che l’abisso estremo del dolore e della morte, che è necessario che si spalanchi nel finito, si manifesti nell’evento stesso in cui esso è oltrepassato, ossia nel tempo stesso in cui esso manifesta, nel nuovo bagliore della Gioia – nella gloria della Gioia –, il proprio compimento e il proprio esser passato.9

L’uso del linguaggio cristiano non deve ingannare sulle notevoli differenze di orizzonte e di contenuto tra le tesi severiniane e quelle teologiche comunque declinate. La riflessione di Severino sul grido dell’ora nona, come sul paradigma trinitario, cruciale come vedremo per gli altri filosofi che analizzeremo più avanti, è infatti marginale, o sviluppata soprattutto per criticare le interpretazioni teologiche tradizionali che condurrebbero il cristianesimo a naufragare in aporie insormontabili. Il Venerdì santo rappresenta piuttosto, per il nostro filosofo, l’evento in cui, nei cerchi dell’isolamento della Terra, appare la totalità delle esperienze altrui, fino all’ultima sfumatura di piacere e dolore: un evento unico ed irripetibile, perché se si ripetesse all’infinito renderebbe impossibile l’accadere del tramonto che è invece necessario. Il mortale, nel bagliore che precede il tramonto dell’isolamento, patirà la duplice angoscia di esperire l’alienazione da ciò che gli è più proprio, dall’appartenenza al Destino della Necessità, e l’estraneità da quello che riteneva il suo vissuto nella Terra isolata; instans in cui la “sua” vita non appare più “sua”, non più di quanto lo siano anche le vite altrui. Il mortale tramonta solo quando l’ingresso delle esperienze altrui estrometterà interamente, e non solo in parte, l’io dell’individuo dall’Io del destino, lasciando spazio alla futura inclusione degli altri cerchi nell’Io del destino. In Oltrepassare, Severino mostra che della Gioia non sono destinate ad apparire solo tracce ambigue come quelle che ap-

9. La Gloria, cit., pp. 543-544.

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paiono nell’isolamento della terra; ma che la loro decifrazione consentirà l’apparire, lungo il sentiero della Gloria, di concrete tracce di essa. Da un lato diventeranno punti sempre più remoti gli enti così come erano apparsi nell’epoca della Follia dell’Occidente; dall’altro, si allarga il cerchio finito dell’apparire, anche se mai potremo giungere alla piena e simultanea apparizione della totalità delle relazioni di un ente. Ma questa concezione fa nascere un ulteriore problema: il dolore del mortale che è in relazione al nulla, e quello che invece appare in relazione alla Gioia, come possono essere lo stesso dolore? Il dolore non isolato dalla Gioia, dall’apparire del Tutto, è certo percepito in modo differente da quello patito dal mortale; ma quest’ultimo, precisa Severino, non è cancellato, alleviato e alterato dal suo apparire in relazione alla Gioia; appare nella Pasqua per un verso chiuso in sé come era nell’isolamento, e per un altro in relazione alla Gioia. La Terra che salva è solo l’inizio della Gloria della Gioia, del processo in cui comincia ad apparire l’Immenso; successivamente sopraggiungerà un altipiano della salvezza ancora più alto perché non sarà solo in relazione alla terra isolata ma oltrepasserà anche la sintesi tra la terra isolata e la terra che salva; e poi, ancora, dopo la Terra dell’alba, dell’aurora, sopraggiungeranno altri infinti altipiani della Gioia, nell’itinerario verso il manifestarsi del culmine dell’Immenso.

Le aporie della fede cristiana Per Severino la fede è argumentum non apparentium, il suo contenuto è l’apparire della negabilità di ciò in cui si crede. L’impossibilità, inesistenza della fede si evidenzia nel circolo vizioso per cui argumentum, prova della fede nelle cose invisibili, sarebbe la fede stessa. La sua infirmitas appare quindi come conseguenza di una simile infondata concezione, inca-

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pace di negare la negazione. È allora impossibile, inesistente una fede pura, che respinga definitivamente da sé il dubitare e resti salda e incrollabile nella sua verità, perché il credente non può mai separare l’atto di fede dall’esitare nel profondo del suo cuore. In mancanza di una simile incontrovertibilità, per trasformare l’invisibile in visibile, e il negabile in innegabile, l’impotenza della fede non può che affidarsi alla volontà che è la radice di intolleranza, prevaricazione, violenza. Né la pretesa di fondare la fede sulla certezza dei fatti storici narrati dai Vangeli può evitare che imploda nelle sue contraddizioni: alla convinzione, che presume di essere attestata storicamente, che Gesù sia il Figlio di Dio, Severino obietta che nell’esperienza sensibile il nesso necessario e incontrovertibile tra questo uomo e il suo essere il Salvatore non può darsi in alcun modo. La violenza del cristianesimo, come di ogni fede, deriva quindi dalla volontà di potenza che vuole che il senso in cui crede si affermi e prevalga. Ma la fede così intesa dal cristianesimo storico, non è che errore negato dall’apparire della Verità del Destino della Necessità; che poi il cristianesimo possa apparire, allo sguardo del Destino, in modo nuovo e diverso, resta, per Severino, un problema aperto. Il filosofo bresciano analizza le contraddizioni che derivano dallo sforzo della grande teologia cattolica di conciliare lo scacchiere speculativo dell’Occidente, rappresentato dalle categorie della filosofia greca, con le verità cristiane. Agostino e Tommaso, nell’interpretazione del nostro filosofo, si sforzano di rispettare il principio di non contraddizione, di non presentare come meramente illogiche le verità cristiane, senza però riuscirci per le inevitabili aporie che la contaminazione greco-cristiana genera. Ad esempio, il tentativo tomistico di presentare come razionalmente comprensibile e non meramente assurda e contraddittoria l’Incarnazione di Cristo, e la presenza delle due nature – umana e divina – in uno, fallisce: dire che la differenza tra i predicati umani e divini di Gesù vale non rispetto al sostrato comune ma secondo

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un diverso rispetto, fa solo retrocedere l’aporia ad un livello precedente e non elimina l’opposizione. Se infatti i predicati umani vengono riferiti alla natura umana, e quelli divini alla natura divina, la contraddizione tra il darsi in uno delle due proprietà opposte viene solo spostata alle due nature, anch’esse opposte e presenti nel medesimo sostrato. Le stesse aporie si ripresentano, per il filosofo bresciano, laddove si analizzi la tradizionale sistematizzazione teologica del concetto di creazione, libera e dal nulla, del mondo: ad esempio, se l’identità di Dio è determinata come immutabile, la contraddizione con un Dio diveniente è inevitabile. Come conciliare il Dio che crea, che si incarna, che ama, con il Dio immutabile? Creazione, incarnazione aggiungono, modificano o no qualcosa all’idea di perfezione divina? Co-esistono due differenti forme di perfezione divina? Aporie che si evidenziano ulteriormente anche nella concezione teologica tradizionale della Passione e Resurrezione. Severino, riprendendo la difficoltà sollevata in un passo del De Trinitate di Agostino, riflette sulla contraddittorietà di un Figlio di Dio che muore solo come uomo, che: muore troppo poco: muore una morte temporale per riscattare una pena e una morte eterna [... ] È vero che per salvare l’uomo, Cristo non può decidere di diventare lui l’eterno dannato; ma rifiutando di dannarsi eternamente, egli non restituisce tutto al derubato, cioè perpetua la rapina e distrugge la giustizia divina, la quale esige che il debito sia pagato per intero e che, se la pena dell’uomo è la morte eterna, l’amico dell’uomo abbia a patire questa pena, e non quella pena inferiore che è la morte del corpo, per giunta seguita dalla sua resurrezione.10

Il filosofo bresciano evidenzia l’incongruenza di un Dio che, per un verso si vuole impotente, e, per un altro, fa ricorso alla sua potenza per risorgere: aporie che discendono appunto 10. Pensieri sul cristianesimo, Rizzoli, Milano 1995, pp. 238-9.

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dall’assurda contraddittorietà della concezione di un Eterno che scende nel tempo. Severino ritiene che sia proprio l’idea di libertà l’erronea illusione di cui il cristianesimo deve liberarsi, e che produce insostenibili aporie: pensare, ad esempio, che gli uomini sarebbero stati liberi di non uccidere Cristo, di comportarsi come Pilato, implicherebbe che Dio avrebbe potuto non incarnarsi, se avesse previsto che l’uomo non avrebbe ucciso suo Figlio; con l’ulteriore antinomia di dover concepire come identici sia il Dio che non si è incarnato e morto per l’uomo, che quello invece che si è sacrificato per amore degli uomini. Tuttavia, oltre le aporie che evidenzia nell’interpretazione del cristianesimo, Severino afferma che l’Incarnazione del Verbo non è affatto da respingere in sé, e come anzi essa possa rappresentare una traccia feconda che consentirebbe di ripensare in un modo radicalmente diverso il paradosso di questo uomo-dio: la Luce originaria dell’Essere, per il filosofo bresciano, è già da sempre e per sempre incarnata, ovvero la sua eternità sarebbe in un nesso inseparabile e originario con la carne. La relazione tra il Verbo e la carne si mostra nell’apparire, manifestando la sua verità iscritta ab origine nel Destino e non generata, prodotta nel divenire, o liberamente voluta, scelta dal Figlio che avrebbe potuto anche scegliere, volere altro. Dio è carne da sempre ferita ma eternamente glorificata, avvolta nella Gioia: ovvero la Passione di Gesù è sofferenza reale, ma pur sempre di un oltre uomo – oltre dio la cui verità è ab origine salva, di un dolore oltrepassato da sempre nella Gioia. Severino sottrae l’Incarnazione ad un divenire altro da sé, nichilistico e contraddittorio, e la inscrive nell’orizzonte del Destino della Necessità: qui le aporie vengono meno in quanto, essendo in una relazione originaria con la carne, Dio incarnandosi non cambia forma, non esce o si oppone a sé, non diviene altro da sé.

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Il Paradiso della Tecnica Il tramonto del Paradiso cristiano è stato seguito, nel modernocontemporaneo, dall’affermazione del Paradiso della Tecnica. L’uomo si allea con la potenza della Tecnica che gli appare più forte e affidabile della tradizionale potenza divina per raggiungere la salvezza, ottenere rimedi ai mali e una felicità che si identifica con la soddisfazione dei bisogni. È la distruzione degli Immutabili, perseguita coerentemente dal nichilismo della filosofia contemporanea, a spianare la strada a questa potenza, a togliere ogni fondamento ai limiti che dovevano arginarla. Il mortale si crede l’artefice, il padrone dell’agire, che nel decidere separa la cosa dai nessi con il Tutto: la sua decisione si fonda sulla fede di potere, agendo, vincere, rimuovere il dubbio che il suo fare ottenga o non ottenga veramente ciò che vuole; e la natura, e in generale quanto accade, sembra che acconsentano, rispondano, confermando la funzionalità positiva del suo fare. I mortali non comprendono che si tratta di una corrispondenza provvisoria, per niente fondata incontrovertibilmente, anche se agevolata nella sua potenza proprio dallo statuto ipotetico e statistico-probabilistico della scienza. La nostra è, per Severino, un’epoca di transizione tra il capitalismo destinato a finire, e la tecnica, ed è pertanto sbagliato confondere o identificare l’uno e l’altra. Infatti esiste una differenza e contraddizione radicale tra la necessità del capitalismo di alimentare la scarsità delle merci, e la tecnica che invece promette e persegue l’incremento dei beni di consumo e la soddisfazione di ogni bisogno. Da mezzo al servizio delle forze storiche dominanti (capitalismo, democrazia, cristianesimo, islamismo etc.), usato per il raggiungimento dei loro scopi escludenti quelli degli altri, la Tecnica diventa il fine cui esse si rivolgono, per la sua capacità di raggiungere ogni scopo senza nulla escludere. Per Marx il soggetto che contraddice il capitalismo è la classe operaia, in quanto «cervello sociale» che

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conosce dall’interno e quindi può trasformare il sistema sociale dominante; per Severino, invece, il soggetto che determina il passaggio dal modo di produzione capitalistico alla civiltà della Tecnica sarebbe quella parte di umanità che persegue e subordina ogni scopo a quello di un indefinito incremento della potenza e della soddisfazione di ogni bisogno attraverso un progresso tecnico-scientifico liberato da ogni limite compresa l’appropriazione privata capitalistica della ricchezza. Ma, osserva Severino: se nel paradiso della Tecnica, la felicità dei bisogni sia materiali che spirituali degli individui appare totale, in realtà ciò che manca in esso – ovvero l’incontrovertibile verità della felicità ottenuta – getta un’ombra sulle sue pretese di assicurare loro una piena soddisfazione; se, infatti, la felicità raggiunta è ipotetica, vuol dire che potrà finire, potrà essere smentita e non potremo che precipitare nella massima infelicità di vederci sottrarre quanto pensavamo di aver ottenuto. Per il filosofo bresciano, è quindi un contraccolpo necessariamente destinato quello che ci condurrà fuori dall’estrema alienazione della Terra isolata, perché, nel paradiso della Tecnica, raggiungerà il suo culmine sia la felicità che l’infelicità degli individui. Nella parte conclusiva di Oltrepassare, Severino afferma, infatti, che anche quando gli uomini, nel paradiso della tecnica, saranno consapevoli della massima contraddizione del divenire altro, ovvero di come l’annientamento di tutti gli enti implichi necessariamente l’eternità del tutto, non potranno che volere che la cosa non venga e vada nel nulla; ma questa estrema consapevolezza non consentirà loro di superare la costitutiva infirmitas che deriva dall’essere la felicità ottenuta una mera fede. Severino pensa, in conclusione, che il mortale sia alienato da un millenario errore, dalla follia della ricerca di una potenza senza verità e che quindi non conosca, e patisca l’assenza della verità davvero onnipotente del Destino della Necessità: si tratta quindi di restare fedeli ed ulteriormente radicalizzare il processo di demitizzazione inaugurato

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dalla filosofia, di liberarsi da ogni fede nei miti, nelle religioni, nella scienza, compresa quella nella Tecnica. Solo l’agire e la libertà conformi alla Verità incontrovertibile, sottraggono l’uomo alla volontà di potenza, consentendogli di iniziare a cogliere le tracce della Gioia che, da sempre assicurata e destinata, abita nel suo inconscio.

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Tra il tempo e il Sacro: Vincenzo Vitiello

La critica ad una concezione della Storia, in cui possa realizzarsi la redenzione dell’umanità, è uno dei presupposti fondamentali da cui muove la riflessione di Vitiello. Non solo nel tempo storico, e con i ‘mattoni’ della politica, non può prodursi alcuna redenzione dai mali del mondo; ma volerla perseguire è la più pericolosa fonte e manifestazione del male, il grembo da cui provengono le peggiori tragedie della Storia. Il fallimento e gli orrori che hanno prodotto, e continuano a produrre, i rappresentanti del Bene, dei valori assoluti, gli inferni generati da coloro che vogliono ricostruire il mondo da zero, edificare paradisi in terra, ne sono una tragica conferma. In questo senso, per il filosofo napoletano, la volontà di redenzione, sia in Terra che in Cielo, è la proiezione dell’amore di sé, del più intimo bisogno umano di rassicurazione e consolazione, e produce sempre il negativo annullamento delle differenze, di ogni distinta determinazione. Possiamo davvero, si chiede Vitiello, chiamare Bene quella Perfezione intesa – secondo il passo di Giovanni, 17, 23: ut sint consummati in Unum-, come definitiva compiutezza, luce indistinta che nega ogni colore, e che costituirebbe la meta del nostro desiderio di una sopravvivenza personale oltre la morte? Si

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tratta invece di comprendere che: «Il Bene sommo, quando troppo s’approssima, quando troppo noi ci approssimiamo ad esso, si traduce in Summum Malum. Più dia-bolica della forza che divide, dell’enorme potenza del negativo, è la forza che unisce, che toglie ogni separazione»1. L’idea del Bene coincide, dunque, per il filosofo napoletano, con quella dell’Uno come indistinzione originaria, in cui gli enti determinati non esistono in quanto tali; di un Innominabile e Infigurabile che è prima del tempo, di cui mai può esserci stata esperienza: «Sacro è Apeiron: Illimite. Non conosce confine, né esterno né interno. Sacro è Aidion: senza forma, figura, eidos. Sacro è Notte, nulla in esso si vede, e nulla c’è da vedere»2. Mistero di una Perfezione che ha lasciato essere accanto a sé il finito; Potenza originaria, che però non è destinata necessariamente ad essere piuttosto che a non essere, e che minaccia la nostra finita esistenza: «Domani potrebbe non esserci domani. Né ieri, né oggi. Domani potrebbe non esserci tempo. Potrebbe non esserci mai stato tempo. Domani potrebbe il tempo essere risucchiato in un buco nero, come una stella che muore»3. L’itinerario speculativo di Vitiello ruota, dunque, intorno alla necessità di ripensare la centralità del Sacro; di porci in ascolto dell’Altro, di ciò che pur non essendo in nostro potere ci abita profondamente: trascendenza non astratta e spiritualistica del nostro esserci, Aperto che impedisce ogni asfittica chiusura nell’orizzonte dei “fatti”, in ciò che nel mondo sempre e solo accade. La consapevolezza delle aporie di ogni idea di redenzione, non si traduce nel filosofo napoletano in una sorta di rassegnata apologia della finitezza umana: vera umiltà non è infatti quella che assolutizza la nostra condizione fi ­ nita,

1. Topologia del moderno, Marietti, Genova 1992, p. 150. 2. Il Dio possibile. Esperienze di cristianesimo, Città Nuova, Roma 2002, p. 63. 3. Oblio e memoria del Sacro, Moretti e Vitali, Bergamo 2008, p. 138.

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ma quella che scopre di essere irriducibilmente inquietata dall’alterità dell’altro già nella relazione con quanto ha di più proprio e vicino: il nostro corpo. Noi non siamo padroni di alcunché, né possiamo determinare l’origine, la durata, la possibilità di mutamento, o la fine, di appetiti, passioni, sentimenti; in particolare, l’indifferenza dell’Alterità che ci abita, si manifesta nel dolore fisico, nella malattia che il corpo, sordo ad ogni nostro chiedere pietà, soffre. Il Sacro non appare dunque in una dimensione sovrasensibile dell’umano, ma proprio nel silenzio del corpo, o nel grido: non nelle parole, ma nelle forme in cui il corpo esprime la sua sofferenza, in una condizione di intrascendibile passività, sospeso alla possibile dissoluzione della sua forma singolare. Il nostro esserci è icona dell’abisso dell’Uno-duità di Perfezione e Imperfezione in cui consiste la nostra inquieta dimora; male è rimuovere la fragilità ‘ontologica’ iscritta nel nostro esserci, «non riconoscere nel corpo individuale il corpo sacro»4. Ma l’oblio del Sacro, dell’impenetrabile indifferenza del suo Abisso, è proprio quanto accade, fin dalle origini, nelle tradizioni filosofiche e religiose. La Filosofia insegue una rassicurante presa di distanza dalla minaccia dell’Indistinto; è volontà di dominare l’inquietudine dell’Indeterminato, di rimuoverla nella rete di concetti conformi alla Logica fondata sul principio di non contraddizione, in cui ogni ente è se stesso e differente dall’altro. Nichilismo è in questo senso la compiuta negazione, il voler mettere a tacere il volto tremendo del Sacro. Ma anche le religioni dimenticano questa dimensione abissale, ponendo all’Inizio un Dio solo buono, ed escludendo quella potenza negativa che essa anche rappresenta per i mortali. Ne consegue che, per Vitiello, il processo di secolarizzazione, lungi dall’essere ascrivibile alla sola modernità, affonda le sue origini agli inizi della nostra civiltà: 4. E pose la tenda in mezzo a noi…, Edizioni AlboVersorio, Milano 2007, p. 42.

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«Secolarizzazione è questo: la traduzione del Sacro in potenza divina. Traduzione che implica anzitutto la subordinazione del Sacro a funzione dell’uomo, a es-plicazione della storia»5. Fino alla scomparsa della stessa esperienza originaria del thauma, della meraviglia e dell’angoscia per il mistero dell’esistere, che non suscita più alcuna interrogazione; alla banalizzazione del ‘fatto’ che si nasca e si muoia, che ci sia donato tempo. È questo il destino della filosofia? Sopravvivere dissolvendosi in filosofia delle scienze umane e naturali, in esercizio letterario, o in consulenza psicologica? Per il filosofo napoletano, la pratica filosofica può, invece, ancora avere un senso se interroga differentemente quella Verità che è più grande del logos, in cui il primato spetti alla Possibilità, ad un possibile non inchiodato all’identità con sé, e non all’Atto, al ripetersi delle stesse cose sempre. Vitiello prova a scardinare, in questo senso, la logica della terza persona che ci condanna al dominio della necessità, e ci destina inevitabilmente nell’orizzonte delle molteplici determinazioni cancellando l’indeterminato, o in una compiutezza che rimuove ogni possibilità impossibile; si tratta, piuttosto, di sperimentare la logica della seconda persona, quella del Tu, che consente di aprirsi al Mistero, di non restare chiusi all’interno dei significati, di ripensare il legame e la distinzione tra logos e sarx: Nella logica della seconda persona, il pensiero, tu a se stesso, risale dalla figura e dalla voce che compongono il significato, che sono il significato, alla passione che l’accompagna e gli dà colore. Scoprendo già nella voce e nella figura la propria origine sensibile, il pensiero mira ad andare oltre la determinatezza del significato e del corpo proprio, del corpo ridotto a significato, verso quell’indeterminato, quella pura X, che è la prote hyle, non cosa ma cosità, Sacheit, materia sì ma transzendentale Materie. Quella che si esperisce nel corpo 5. Oblio e memoria del Sacro, cit., p. 13.

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35 proprio, singolo, individuum omnimodo determinatum, come passione, istinto, impulso, godimento e malattia.6

Il dono dell’abbandono Il cristianesimo vincente, che si è fatto storia, è essenzialmente quello paolino che, scegliendo di privilegiare la profezia (il parlare edificante che si rivolge agli uomini) alla glossolalia (il parlare diretto tra uomo e Dio), ha ridotto la Parola alla sua diffusione e conquista del mondo, invece che custodire l’irriducibilità del Mistero rivelato ad ogni dimensione mondana. Ma l’oblio del Sacro, dominante nel cristianesimo storico, non impedisce di ripensare, nella Revelatio, le tracce della dimensione abissale della divinità, di un altro Dio possibile; itinerario intrapreso, negli ultimi decenni, nella filosofia contemporanea italiana, da Vitiello, Cacciari, Donà, che, rivisitando la grande speculazione hegeliana e schellinghiana sul cristianesimo, ne sviluppano le tesi in particolare nella direzione di una nuova ermeneutica del Dio trinitario. Pensare trinitariamente significa, infatti, per questi filosofi, pensare il limite invalicabile del pensiero, il vero abisso della ragione, il naufragio del logos che vuole impadronirsi della Verità rivelata. La fede cristiana non può essere rassicurante; né ci sono ponticelli da lanciare sull’abisso: per Vitiello, essa si fonda sulla rivelazione di un Mistero oltre la Verità e la Logica, come appare nella definizione di Anselmo: «Signore, tu sei non solo ciò di cui non si può pensare il maggiore, ma sei ciò che è maggiore di quanto si possa pensare» (Proslogion, XV). Una Revelatio che, così interpretata, eccede anche la tradizionale distinzione tra la Verità ebraico-cristiana, che sarebbe fondata sull’Ascolto, e quella

6. Grammatiche del pensiero, Edizioni ETS, Pisa 2009, p. 142.

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greca che sarebbe invece fondata sulla Visione: è sufficiente, per il filosofo napoletano, ricordare l’ascolto eracliteo del Logos, quello parmenideo della Dea, e il passo dell’Esodo (33, 18-23) in cui Dio si lascia vedere di spalle da Mosè, o quello dell’Apocalisse (1, 12), in cui la Voce è ascoltata e vista insieme, per evidenziarne l’infondatezza. Ma è possibile, allora, per un cristianesimo “appeso” al Mistero del Revelatum, dare ragione (logon didonai) della relazione tra il Sacro, “chiuso” nella sua perfetta indifferenza, e la creazione del mondo? Per il filosofo napoletano occorre affermare l’esistenza di un Dio secondo come condizione trascendentale della finitezza; dalle Tenebre esistenti prima e oltre l’informe materia originaria, dal Dio che non conosce distinzioni e negazioni, fa esodo il Figlio che nella sua prima kenosi ha creato il molteplice: «Ma in questa eternità indivisa accade la divisione del Figlio che ‘sospende’ l’immutevole ‘è’. E dona tempo: il tempo in cui entra spogliandosi della sua natura divina»7. Il Figlio non è co-eterno al Padre, ma la sua nascita, per Vitiello, resta avvolta nel più profondo mistero, in quanto non è il Dio-Uno ad averlo generato, né può darsi autoctisi divina. Il Padre accetta e riconosce la decisione del Figlio che, creando il mondo, attualizza la possibilità inerte che aveva in sé; e accogliendo la decisione del Figlio, e con la finitezza del Figlio anche la sua, mostra l’infinita bontà divina. La Perfezione non potrebbe però restare eternamente imperfetta e limitata; l’Infinito attende la fine del finito ad opera del finito stesso: nella seconda kenosi il Figlio è venuto a negare la negazione e, per compiere questa Missione, deve morire. La gratuità del suo Amore raggiunge il suo akmé nel grido dell’ora nona: amore perfetto è infatti quello del Figlio che nella sofferenza della Croce non crolla, o rimanda ad una umana troppo umana delusione (Nietzsche), 7. G. Rossé, V. Vitiello, Paolo e l’Europa. Cristianesimo e filosofia, Città Nuova, Roma 2004, p. 232.

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ma patisce, non abbandonandola a sua volta, la relazione con il Padre. La disperazione dell’abbandono patito sulla Croce, lungi dall’essere una scena ‘simbolica’ che non coinvolgerebbe davvero e fino in fondo la sua divinità, e quella dell’intera Trinità, mostra piuttosto la profondità del Mistero divino: il Silenzio di Dio rivela la possibile negazione della Parola. La Croce non è transitus che acquista il suo senso dalla resurrezione futura, ma in-stans che spalanca il tremendo abisso dell’Indifferenza del Padre che Gesù patisce nell’ora della sua più profonda angoscia. Tuttavia essere stato abbandonato appare, in questo senso, paradossalmente anche un atto d’amore, un dono: «Il Padre abbandonando il Figlio sulla Croce ha consentito che il mondo continuasse a vivere»8. Vitiello e Cacciari condividono una radicale ed eterodossa concezione della morte di Dio: l’intero Deus Trinitas, e non solo il Figlio, possono morire, implodere nell’abisso dell’Indifferenza dell’Inizio, o del Sacro, per usare il linguaggio del filosofo napoletano, da cui provengono. Nella tradizione filosofica, o in quella teologica, anche nella theologia crucis, non sono presenti analoghe tesi, capaci di indicare e andare fino in fondo nella meditazione intorno alla morte di Gesù in Croce nella sua relazione con l’Abisso del Sacro. La relatio non adventitia tra le persone divine non esaurisce la loro singolarità: esse sono infatti anche in relazione con il Mistero della loro provenienza. Per Vitiello però, a differenza che in Cacciari, il Padre ha in sé simultaneamente tutte le possibilità: quella che il Figlio realizza creando il molteplice e donandogli l’essere Padre, e insieme l’Abisso originario che nega ogni determinata distinzione. Per il filosofo veneziano, invece, sia la Vita che il Ni-ente provengono da una dimensione più originaria e “altra” dal Padre e dal Deus Trinitas: dall’infinita Libertà e Com-possibilità dell’Inizio.

8. E pose la tenda in mezzo a noi…, cit., p. 43.

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La morte e l’eternità Ma se l’interpretazione del Deus Trinitas e della Croce è quella che abbiamo appena mostrato, come è da intendersi allora l’idea di resurrezione? Per il filosofo napoletano essa va pensata non come una rinascita dopo la morte ma come un futuro aperto qui e ora, indisgiungibile dal presente: risorgere significherebbe, per ogni singolo, convertirsi dall’obbedienza della Legge esteriore all’interiorità della coscienza nella sua irriducibile differenza dal mondo. Per Vitiello, eterno è, come per Freud, l’inevitabile dissolversi di ogni singolo vivente nell’inorganico; per cui si deve: «custodire la morte come possibilità – non la morte come ritorno nell’essere, nell’indistinto –; custodire la morte come origine e non come termine, come nascita (della differenza) e non come fine (nell’Identità) – questo il compito più difficile, perché ciò che non possono perdere, gli uomini amano obliare»9. Appare evidente, allora, la differenza tra la sua concezione e quella di Cacciari: per il filosofo veneziano, l’Uno e la singolarità determinata, non appaiono esclusivamente come opposte polarità in un aut aut intrascendibile: ma la singolarità può anche mostrarsi come icona dell’Uno; riflettere lo splendore dell’Indeterminato, delle sue infinite possibilità, tra cui non può essere esclusa l’impossibile possibilità di non esaurirsi nelle sue determinazioni, nella relazione negativa con l’altro da sé, senza che questo significhi esclusivamente annientarsi nell’Indistinto. L’Impossibile non è solo la negazione del possibile, ma anche l’ultima, estrema misura del possibile: che l’impossibile adventus di una Vera Vita sia. L’atopos della Gerusalemme celeste non va immaginato, allora, come una redenzione che neghi il proprio di ognuno in un’unità indistinta, ma, all’opposto, come una polifonia capace di far risuonare le differenze, affine alla

9. Topologia del moderno, cit., p. 187.

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musica del paradiso dantesco: «l’Unum ultimo è quello che Padre, Figlio, Apostoli e tutti coloro che crederanno formano; non un’unità nella quale tutti si dissolvano, perdendo il proprio volto, ma, all’opposto, in cui ognuno sia tutto in tutti»10. Si evidenzia, sempre intorno a questo nodo teoretico, un’ulteriore e ancora più radicale differenza tra la concezione di Vitiello e quella di Severino. Per il filosofo bresciano, che ritiene di aver fondato incontrovertibilmente l’eternità dell’essente, la morte non è l’annullarsi dell’ente, ma l’essenziarsi nell’Uno: oltrepassando la negazione dell’Essere prodotta dallo sguardo “malato” della Terra isolata, si apre per ogni ente una sempre più concreta appartenenza alla Gioia dell’Immenso. Vitiello non esclude affatto, però, l’esperienza di una gioia infinita, seppure inseparabile dal dolore, nel dolore; dunque la più importante distinzione tra il filosofo bresciano e quello napoletano non sta nel concepire o meno la Gioia dell’essente; e neanche solo nell’essere per il primo una Gioia destinata da sempre, e per il secondo soltanto possibile; quanto piuttosto nell’essere, per Vitiello, la gioia possibile fin quando l’ente resti nella differenza dalla Perfezione dell’Uno, dal semplicissimo che non ha parti, né separazioni o distinzioni. Che non conosce differenze. Che non è sole – senza essere insieme luna e mare, cielo e terra, luce e ombra, pietra e pianta e animale e uomo.11

Da quella morte che è prima della stessa inseparabile distinzione tra la vita e la morte. Per il filosofo napoletano salvezza non può che significare, allora, serbare, conservare l’ente: essa si fonda sulla capacità del nostro esserci di ek-sistere tra la meraviglia per l’essente e l’angoscia dell’Indifferenza del Sacro, tra l’infinito dolore e l’infinita gioia. Rigorosa 10. Dell’Inizio, Adelphi, Milano 1990, p. 212. 11. Topologia del moderno, cit., p. 245.

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concezione del limite, della differenza, della distanza, inconciliabili e insuperabili, che separano gli uomini dall’abisso del Divino; di una fede che non può non implicare l’inquietudine del dubbio, l’essere sempre in bilico, nella contraddizione tra eterno e tempo. Condizione irrimediabilmente instabile e incerta, che esclude ogni possibile redenzione; come quella in cui, per Heidegger, all’esserci si mostra, nell’istante dell’albacrepuscolo, in un tremito d’essere, l’Ultimo dio. Ma Vitiello, sviluppando un confronto tra le tesi hegeliane e quelle severiniane, pone ulteriori domande e obiezioni al filosofo bresciano: Come può esservi Gioia – e Gioia assoluta, la Gioia della Gloria, la Gioia dell’infinito apparire dell’Infinito- se non meno eterno della verità è l’errore, se da sempre, per sempre la terra isolata è compagna della Terra salvata, se l’infinito cerchio dell’apparire dell’infinito ha in sé tutti gli apparimenti finiti dell’Infinito? Ma è possibile la compresenza di Terra isolata e Terra salvata? L’eternità della Terra isolata non è la più dura smentita della possibilità della Gioia della Gloria? Quale salvezza conosce la Terra salvata accanto, eternamente accanto alla Terra isolata? Si può gioire della Verità in presenza dell’eterno errore? E nel versante opposto: si può soffrire dell’errore in presenza dell’eterna Gioia dell’eterno Vero?[...] Questa separazione è la ferita di cui l’Infinito mai non cessa di non sanguinare[…]Bisogna dire di più che nella Gloria, nella Doxa Theou, si cela il maggior pericolo per il pensiero.12

Anche Cacciari, in Labirinto filosofico, il suo testo forse più caratterizzato da una “tonalità severiniana”, aveva posto al filosofo bresciano un analogo problema: «Se l’errore stesso è un eterno, come dice appunto Severino, che valore è possibile

12. Severino/Hegel: un confronto, citato in E. Severino: In dialogo con Vincenzo Vitiello, in Trovarsi accanto. Per gli ottant’anni di Vincenzo Vitiello, Inschibboleth, Roma 2017, pp. 631-632.

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dare a espressioni che ne indicano il tramonto o il compimento? L’errore è eternamente oltrepassato, come il sogno dal risveglio. L’eternità di ogni essente non ha nulla da attendersi, e altrettanto dovrà essere per l’errore…»13. Severino14 replica a Vitiello che certo il dolore della Terra isolata, anche quando sopraggiunge la Terra che salva, lo si patisce e non solo ricorda, altrimenti non sarebbe tale; ma come un dolore compiuto che non oltre si prolunga. Ancora una volta il filosofo bresciano afferma che Vitiello non discuterebbe le premesse, i nessi della Struttura originaria, ma solo le conseguenze di essa, e avrebbe frainteso la relazione tra Verità ed errore, che sono sì eternamente insieme, ma già da sempre il secondo come negato dalla prima. La Gioia è, ribadisce Severino, infinito oltrepassamento dell’errore e del dolore che appaiono via via e sempre più come un “punto” rispetto all’apparire infinito del Tutto. La Terra isolata non può non apparire in relazione alla Terra che salva, che non sarebbe tale se non la contenesse come oltrepassata; ma la Terra isolata che appare in relazione alla totalità concreta del destino è distinta ma non separata da quella che la precede; in un certo senso è, per un verso ancora e per l’altro non più, isolata dal Destino.

Essere nel mondo fuori dal mondo L’itinerario speculativo di Vitiello evidenzia le aporie etiche cui condurrebbe, invece, la volontà di redenzione: voler togliere la sofferenza è impossibile, anzi pericolosa hybris, perché voler redimere il dolore equivale a negarlo, togliendo con esso il negativo della finitezza che ci costituisce radicalmente. 13. Adelphi, Milano 2014, p. 49. 14. Severino-Hegel: un confronto, cit., pp. 623-640.

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In Topologia del moderno, il filosofo napoletano indaga intorno al rifiuto morale della conciliazione tra male e redenzione domandandosi: qual è il senso profondo della rivolta di Ivan Karamazov? In questione è questo mondo, il presente che nessun futuro potrà redimere. Insopportabile è per la coscienza morale moderna piegare il male a strumento di un bene futuro, concepire il dolore come concime per la futura armonia celeste: «Il rifiuto etico di Ivan poggia su una ragione metafisica: sulla non identità di colui che soffre con colui che redime; e sulla non identità dell’atto della redenzione con l’atto della sofferenza»15. Nessuno può perdonare la sofferenza di un altro, neanche Cristo; si può perdonare il dolore fatto a sé, non quello fatto ad altri; una madre può perdonare il dolore che patisce per la violenza del carnefice, non quello del figlio che ne è vittima. Né il perdono può redimere la sofferenza patita se non avviene nell’istante stesso in cui si sta patendo; dunque se uno solo non perdona, il male resta irredento. Lungo questo itinerario Vitiello ripensa la morale cristiana a partire da una differente interpretazione di ciò che Gesù ha insegnato: «Le parole dell’Antica Alleanza erano profezia di salvezza, di redenzione del male in bene; la parola di Gesù dice invece che nessun male del mondo può mai toccare l’uomo interiore»16. Il Figlio è venuto a distinguere radicalmente il divino dal mondo, nel mondo; a separare i legami naturali tra gli uomini, l’obbedienza “formale” alla Legge, in una parola questo mondo, da ciò che è il suo Regno: «L’imperativo di dare a Cesare quel ch’è di Cesare e a Dio quel ch’è di Dio, non ha, pertanto, il significato banale di tenere distinte le due Città, quella religiosa e l’altra politica; ha bensì il senso profondo di marcare la differenza, insuperabile, tra l’esteriore e l’interiore,

15. Topologia del moderno, cit., p. 179. 16. Ripensare il cristianesimo. De Europa, Ananke, Torino 2008, p. 52.

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la coscienza e il mondo»17. Tuttavia duplice appare la Parola: in Matteo (5, 44), si afferma un amore incondizionato per tutti gli uomini, senza distinzioni, come il Padre che fa piovere sui buoni e sui malvagi; mentre, in un successivo passo (10, 34), si chiede di imitare Gesù che è venuto a portare la spada nel mondo. Difficile, è allora, per il cristianesimo, tenere insieme l’amore che unisce, che ama senza fare differenze, e la spada che divide; la divisione che viene non prima ma dopo la conciliazione; e, tuttavia, salvezza non può che essere pensata né solo come immanente, mondana, né come astrattamente trascendente; ma nel mondo, come altra da esso. Idea affine alla concezione morale kantiana del dovere per il dovere, che ritorna come un approdo fondamentale nelle opere di Vitiello, e si fonda su quel negativo sentimento di piacere derivante dalla libertà di essere nel mondo fuori dal mondo, unico tratto divino presente nell’uomo; esso può anche orientare le nostre relazioni, tradursi in un differente cum-patire: «Cerchiamo di non fare del male agli altri, poi forse saremo capaci di aiutare chi soffre[…] Qualunque vita è un valore infinito. Rispettare l’altro, ridurre la sofferenza dell’altro, impedire la sofferenza dell’altro, è l’orientamento, umile e alto, che mi sento di suggerire – ma [… ] a voce bassa.»18. Diversamente da ogni ‘eticità’ che indica, fin dalla sua radice etimologica greca, ethos, un prendere dimora nel mondo, la morale, sia kantiana che cristiana, esige invece un’appartenenza ad esso che non è mai totale; un paradossale sentirsi estranei e, insieme, coinvolti nel mondo. È quanto mostra, per il filosofo napoletano, anche una differente ermeneutica dell’Annuncio: Gesù rivela, ai pescatori che chiama, che: «niente è più come prima, anzi niente più è. E barche, e reti, e pesci, e pescatori e mare non sono. 17. Il Dio possibile, cit., pp. 185-86. 18. B. Forte-V. Vitiello, Dialoghi sulla fede e la ricerca di Dio, Città Nuova, Roma 2005, pp. 94-100.

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Non sono per sé, ma per altro, quell’altro che non vedono, ma sentono, “avvertono”. Rivelazione è questo: sentire di nonessere-in-sé, ma in-altro, “avvertire” di non essere-per-sé, ma per-altro»19. Male è allora assolutizzare l’imperfezione, separare la finitezza dall’Infinito, cedere alla tentazione di Satana di voler regnare in un mondo senza Dio, di amare le creature prima e più del Padre. Il mondo diviene il luogo in cui Gesù da un lato, e Satana dall’altro, confliggono radicalmente: l’uno ci chiama ad essere liberamente suoi amici, l’altro agisce tentando, attraendo i mortali e il Figlio, a farsi signori del mondo. Non bisogna, dunque, desiderare di separarsi dall’inquietudine dell’Altro servendo Mammona; o anche, seguire la scelta disperata del Grande Inquisitore che rinuncia, per amore dei molti e dei deboli, per garantire loro pace, giustizia e sicurezza, alla libertà di figli. Gli uomini, nell’età del Figlio, devono, in ogni istante, decidere tra le antitetiche possibilità che Gesù ha rivelato; il Messia si è manifestato, e il tempo è stato ordinato a partire dalla sua venuta in un prima del Passato, nel Presente dell’ascolto, in un dopo il Futuro. Dopo di Lui, non c’è momento che possa necessariamente esaurirsi nella ripetizione dell’eterno ritorno delle stesse cose sempre; né, a differenza della concezione ebraica del tempo, nell’attesa di un Messia ancora di là da venire. L’Evo cristiano ha spalancato, ci ha gettato in questa vertiginosa esperienza di un: tempo apocalittico […] non perché votato alla catastrofe, ma perché sempre in bilico, mai stabile. Instabilità del tempo non in quanto divenire, ma instabilità del divenire stesso. Il presente, il nyn kairos, proprio in quanto ‘fuor di sé’, nella speranza che l’altro gli venga incontro, gli doni tempo, è il luogo della coscienza, non teorica, ma pratica, non pensata,

19. Paolo e l’Europa, cit., pp. 239-240.

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45 ma vissuta, ‘avvertita’- nel senso vichiano, e cioè con ‘animo perturbato e commosso’ del limite del tempo.20

Stare accanto L’amore cristiano, nella tradizione teologica, è pensato come la perfezione di una compiutezza che estingue il desiderio, di una pienezza che colma ogni mancanza; ma, per Vitiello, questa idea di agape nega finitezza e distinzione delle differenti singolarità e non può che essere abbandonata. Così come è da abbandonare ogni sua declinazione secolarizzata: Vitiello ricorda21 come la fraternité della Rivoluzione francese provenga da quella annunciata nei Vangeli, ma se ne distingua appunto per la pretesa di essere opera umana solo umana, “prodotto” realizzabile con le “armi” della politica. È stato, dei tre principi fondamentali della Rivoluzione, quello che, non a caso, ha lasciato più rapidamente il palcoscenico della Storia: la fraternità non è di questo mondo, e le relazioni umane vanno ripensate alla luce di un diverso paradigma che oltrepassi quei modelli collettivistico-comunitari che hanno negato le differenze in un’indistinta eguaglianza. Tutti uguali nel volere le stesse cose, come accade anche nell’attuale uniformità globale di un mondo fatto a immagine e somiglianza dell’Occidente capitalistico-democratico, nei confronti del quale si è scatenata anche la retriva e aberrante reazione degli integralisti religiosi: «Davanti alla dilagante miscredenza democratica l’anima religiosa si sente offesa, di qui l’affermazione della verità propria come esclusiva, la negazione dell’altra verità, delle al-

20. Ivi, p. 238. 21. E pose la tenda in mezzo a noi, cit., pp. 75-76. Il confronto qui è con J. Derrida, Politiche dell’amicizia, Cortina Editore, Milano 1995.

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tre verità, che sono tutte menzognere, parole del diavolo, del male, della dannazione. Contro cui non c’è che da lottare per spegnerle.»22. Ma per Vitiello è possibile una differente concezione della relazione tra le differenti fedi non più destinata necessariamente a riprodurre conflitti distruttivi; i quali non possono essere certo impediti dalla retorica di un dialogo ecumenico e interreligioso, impotente a combattere la reciproca presunzione delle fedi ‘monoteistiche’ di essere le depositarie di una Verità assoluta; vera radice dell’eterno ritorno dell’odio e delle persecuzioni tra le religioni ‘sorelle’. L’eccedenza del Mistero rispetto alla Verità, e della Verità rispetto alla finitezza delle parole che la interpretano e commentano, dovrebbe, piuttosto, trasformare la relazione tra le fedi in un incontro tra distinti che sappiano accettare: sino in fondo l’alterità dell’altro e quindi l’alterità di sé rispetto all’altro […] La civiltà del dialogo tende a negare l’esperienza originaria dell’in-contro. Che non avviene per ‘parlare’, ma per stare accanto, l’un l’altro, partecipandosi la propria esperienza di finitudine, e cioè l’esigenza che stimola all’in-contro […] All’incontro si va mai nudi, ma vestiti dei propri abiti di idee, convincimenti, pregiudizi, certezze e dubbi. Si va con la propria miseria, la propria cultura, limitata, imperfetta. Ciascuno col proprio Dio – immagine umana del Sacro. E si va all’incontro non per affermare il valore della propria immagine sulle altre, si va non per convincere o essere convinti, per dialogare […] Si va per parlare, l’uno accanto all’altro, al proprio Dio. Si va per pregare, ciascuno la propria preghiera.23

Tesi ben diversa da quelle che vorrebbero confinare, con paternalistica tolleranza, le religioni nella sola sfera privata; o che immaginano di escludere dallo spazio pubblico ogni simbolo religioso secondo una malintesa idea di laicità e rispetto

22. Il Dio possibile, cit., pp. 28-29. 23. E pose la tenda in mezzo a noi…, cit., pp. 84-85.

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dell’altro: come se la relazione con il differente da sé fosse possibile non a partire dalla propria specifica identità ma dalla sua cancellazione. Restare fedeli alla propria finitezza significa, allora, per i singoli e le comunità, misurarsi con quel silenzio che impedisce alle parole di chiudersi su se stesse, e che gli ultimi uomini, nel nostro tempo, credono di rimuovere scambiandosi fiumi di informazioni o impersonali chiacchiere. Si potrebbero, invece, dire parole non solo serve dei significati, ingabbiate dall’ordine sintattico; in cui si ascolti il corpo, il respiro, la voce, che esprime le tonalità affettive e che non è mai riducibile soltanto a veicolo dei significati verbali. Il mondo potrà essere salvato non dalla presunzione umana di catturare e dominare la natura propria e dei viventi nella rete di nomi e giudizi, ma dall’approssimarsi alle cose, dalla capacità di dire anche “il giglio, la lattughella, la pietra, l’erba”; da quella che per Vitiello è la “lingua di Celan”: La lingua nominale dell’uomo non può rinunciare a formare mondi, al dialogo, al syn, al cum del parlare-con. Non può sottrarsi alla sua essenziale storicità. Può, però, apprendere dalla lingua innominale delle cose che vi è un essere-accanto più originario dell’essere-con. E anche più rispettoso dell’altro di quanto non sia il libero essere-con.24

24. F. Duque-V. Vitiello, Celan Heidegger, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2011, p. 73.

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Della singolarità*: Massimo Cacciari

Il nudo esistere della singolarità provoca meraviglia e angoscia: possiamo fare esperienza, incontrare davvero la specifica singolarità e l’alterità dell’altro da noi, solo quando sappiamo leggere e accogliere i modi attraverso i quali esso si dà e resiste ai giudizi, alle determinazioni con le quali cerchiamo di impossessarci, di definire la sua identità. Thauma non meramente contemplativo ma decisione di perdurare in tale apertura; interrogazione che non solo si origina dal taumazein ma continuamente lo rinnova; in questo senso, per Cacciari, le congetture che formuliamo altro non sono che espressione dell’amore della mente per la sua cosa, per il pragma che ci chiama in causa per il colpo meraviglioso e tremendo che ci ‘ferisce’.

* Questo saggio riprende con poche addenda il mio testo: Indeterminato splendore, pubblicato in Inquieto pensare, Scritti in onore di Massimo Cacciari, a cura di E. Severino e V. Vitiello, Morcelliana 2015. Per una ricostruzione più ampia e articolata del pensiero di Massimo Cacciari mi permetto di rinviare a: N. Magliulo, Un pensiero tragico. L’itinerario filosofico di Massimo Cacciari, Città del sole, Napoli 2000; N. Magliulo, La luce oscura, Edizioni Saletta dell’uva, Caserta 2005.

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In un suo saggio, negli anni Settanta del secolo scorso, il filosofo veneziano scriveva: Se «filosofia» deve esserci, ebbene sia Andenken, ri-memorazione dell’Essere. Questa è l’unica cosa non pensata dalla metafisica moderna: l’oggetto come Gegen-uber, l’oggetto che «sorprende», non rivolto al soggetto, non sintetizzato a priori con le forme della soggettività: oggetto, non mathèmata. L’Essere come aletheia – negazione del «valore» (e quindi della soggettività, della storia della soggettività). L’Essere come luogo «aperto», che fonda il pensiero.1

Dunque la centralità dell’indagine intorno alla cosa era posta fin dagli inizi della sua speculazione: la ricchezza e complessità dell’itinerario successivo compiuto da Cacciari abbandonerà, come vedremo, la sua originaria concezione della Tradizione filosofica, ma non il filo rosso dell’indagine intorno all’ente e all’Essere, come mostra anche il suo recente lavoro, Labirinto filosofico2; piuttosto allargherà ai filosofi greci e alla tradizione teologica, poco presenti nelle opere fino alla prima metà degli anni ottanta, la sua ricerca. In Icone della legge3, la cosa non è atomo di natura ma pluralità di affezioni e relazioni, continuo scambio di percezioni e informazioni, che non sono causate da un Dio architetto, come nella concezione leibniziana, ma appaiono come una danza di puri rapporti, movimenti, energie, che hanno la possibilità come loro sostanza. La cosa è più di ciò che il suo apparire mostra: noumeno invisibile e non conoscibile, enigmatico ma non per questo meno ‘reale’, che si dà nei fenomeni e nelle relazioni indeterminandoli: puro possibile e impossibile. Ogni cosa è attraversata da relazioni mai determinate e deducibili

1. Pensiero negativo e razionalizzazione, Marsilio, Padova 1977, p. 68. 2. Op. cit. 3. Adelphi, Milano 1985.

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da principi o leggi onnivincolanti: appaiono biforcazioni sempre possibili, scarti mai previsti e prevedibili; la stessa trama di relazioni viventi che dal piccolissimo al grande la natura intesse, non corrisponde a statiche leggi necessarie. Successivamente, Cacciari torna ad approfondire e a sviluppare ulteriormente l’indagine speculativa intorno alla cosa: La domanda intorno all’ente va così specificata: non perché è questo o quest’altro, perché ha questa o quella forma. Ogni ente è un composto, ma il composto non è semplice somma delle parti, così come la sillaba non è riducibile alle lettere che la compongono. Ciò che fa del composto questo ente determinato non è a sua volta un elemento, ma la sua causa. E questa è la ousìa di ciascuna cosa (poiché è la causa prima del suo essere.4

Per il filosofo veneziano, corrispondere al thauma della singolarità della cosa significa allora domandarsi: cosa definisce, da dove proviene l’identità specifica, l’essere unico e irripetibile dell’ente? Può quel singolo essere ridotto all’insieme delle sue determinazioni, dei suoi modi di apparire? Ogni ente non si esaurisce, infatti, nella sua immediata datità e in ciò che predichiamo di esso; la cosa, allo sguardo che sa comprenderla, accoglierla, che non vuole fissarla ad uno dei suoi volti, alle molteplici prospettive in cui appare, si dà integra, non consumata e ridotta a ‘prodotto’ manipolabile della volontà di potenza. Nella sua presenza, qui e ora, risuona l’eco di un immemorabile Passato; il suo volto mostra lati nascosti e tracce di possibilità altre da quelle che sono diventate atto. Sorprendente appare che il sopraggiungere e il variare della molteplicità delle relazioni che la determinano, non si risolvano nell’idea di un divenire che scorrendo l’annienti; l’integro vigore del suo poter essere, del conatus a farsi vita vera, è la

4. Della cosa ultima, Adelphi, Milano 2004, pp. 376-78.

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possibilità del suo eterno, irriducibile stare, che mai può compiersi in uno stato di cose presenti. In questo senso anche la morte non può rappresentare necessariamente lo stato ultimo e inoltrepassabile del nostro esserci, il dato che decreta la compiuta negazione dello scorrere infinito delle sue possibilità: ogni momento può essere esperito come istante aionico, provocare meraviglia e angoscia per l’inattingibile fonte del suo donarsi, del suo potere e non dover essere. Per Cacciari, ancora in Dallo Steinhof 5 , la gloria della cosa poteva darsi qui e ora trascendendo una caducità solo luttuosa, ma come la luminosità di un istante che balena tra un passato e un futuro in cui nulla è di essa. Invece, dopo Icone, l’ora della presenza dell’ente rivela la sua possibile eternità nel senso di un poter essere che non necessariamente proviene o dilegua nel nulla. Arché della cosa dimora allora in un portante Passato: il contrario di un passato ‘perfetto’, che diviene nulla, morto, che è messo alle spalle, infecondo per il nostro presente e futuro; Passato che non sta in un altrove separato dalla singolarità di ciascun ente, ma eksiste come ciò che il to on era (to ti en einai)6, e deve essere concepito come la Physis che fa apparire il questo qui, che dà a ciascun ente la sua forma assolutamente individuale. La pura possibilità, il Potere che muove la cosa a determinarsi e a restare incompiuta, non esaurita in ogni determinazione, è il permanere di un poter essere altrimenti: mutando ogni ente non cessa di essere se stesso, anzi è solo trasformandosi che esso conserva la propria identità; la natura di ciascuna cosa non coincide con un sostrato immobile che nessuna trasformazione scalfisce, ma è invece la forza che genera questa capacità di metamorfosi. In Labirinto filosofico la meditazio-

5. Adelphi, Milano 1980. 6. Labirinto filosofico, cit., cfr. in particolare pp. 34-57.

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ne sulla dynamis si approfondisce percorrendo nuovi sentieri: Cacciari li attraversa facendo riferimento in particolare al Sofista platonico laddove l’ente viene definito e messo in relazione alla sua capacità di agire e di patire; l’ente è qui e ora sempre in atto nel suo potere, può sempre ancora ulteriormente e diversamente attuarsi e mostra la sua dynamis nell’operare oltre ogni immobile stato. L’ente è energia che infinitamente muove, e in quanto pura possibilità è immagine del Potere che tiene in sé originariamente potenza e atto; non si tratta di un mero ritorno ai concetti aristotelici, almeno alla loro esegesi tradizionale: piuttosto si evidenzia la problematicità di quella traccia costituita dalla presenza in Aristotele di due distinte parole (entelecheia ed energeia) per definire l’atto. Per Cacciari, infatti, essere in atto non indica solo l’aver raggiunto il proprio fine, ma essere in attività, trascendere ciò che ci determina e definisce; in questo senso ogni atto non implica l’esclusione del possibile, ma conserva l’ulteriorità di esso rispetto ad ogni sua realizzazione.

Luce e ombra Ma il Potere della Physis, che muove ogni ente, manifesta eternamente e necessariamente un solo volto, o può morire, implodere nel Ni-ente dell’Inizio? È la questione che si pone in particolare confrontando le tesi cacciariane con le obiezioni avanzate da Severino: Se, infatti, l’Inizio non è un nulla assoluto, tuttavia per Cacciari, al seguito di Schelling, l’Inizio è il puro Possibile perché innanzitutto sarebbe potuto rimanere un assoluto nulla. In questo modo –rilevo- ogni ‘eternità’ garantita dal Possibile sarebbe sospesa sul baratro del nulla, sulla possibilità di essere rimasta un nulla. Ma che gli essenti siano nulla, o possano

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54 esser nulla o sarebbero potuti rimanere nulla, questo è ciò che chiamo ‘essenza del nichilismo’, ‘Follia essenziale’, ‘fede nella morte.7

Per il filosofo bresciano se l’eterno è la potenza che fa essere ciò che è, come può essere solo possibile? Inoltre, ridurre il significato di ente a ciò che si mostra, come farebbe il filosofo veneziano, lo costringerebbe a collocare l’Uno, concepito come negatio negationis, altro/non altro da sé, in un contraddittorio e inesistente aldilà8. L’ombra che Severino vede minacciosamente gravare sulle tesi cacciariane, accompagna il Mistero dell’Inizio come una possibilità reale ed ineliminabile dall’itinerario speculativo del filosofo veneziano: lethe che non è solo minaccia ma anche promessa, speranza che l’Impossibile accada. Idea di un Possibile indeterminato, non identico a sé nel senso di essere determinato ed escludente il proprio opposto: che ciò che è Impossibile sia. Che una tale concezione non rappresenti un’oziosa, astratta dimensione dell’Inizio, lo si evince, ad esempio, da quanto Cacciari scrive relativamente all’Impossibile cristiano: esso ci consente di fare esperienza e di misurare la distanza tra tutti i possibili in potere degli uomini e l’Impossibile che il Figlio ha rivelato-incarnato e che può ad-propriarsi di noi. Una contraddizione, che resterà aperta fino alla fine dei tempi, tra la possibilità di imitarLo e di divenire figli, o di separarsi da Lui: non l’assenza di un Dio di cui conosciamo il sicuro trionfo finale, che renderebbe commedia tutto il dramma, ma il possibile di un’Assenza inoltrepassabile. Forma tragica del compimento, contraddizione che si spalanca sulla Croce, alla quale non è ‘appesa’ solo la vita degli uomini ma anche quel7. E. Severino, Discussioni intorno al senso della verità, Edizioni ETS, Pisa 2009, p. 50. 8. Sul confronto tra i due filosofi su questi temi si guardi anche: E. Severino, Dispute sulla verità e la morte, cit., pp. 175-196.

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la divina. La luce oscura dell’Inizio comprende infatti infinite possibilità ma anche che qualcosa mai sia possibile: non solo de-creatio, revoca di ciò che è, ma un Assente che mai potrà farsi presenza. Si evidenzia, da quanto andiamo dicendo, insieme la vicinanza e la distanza delle tesi cacciariane da quelle severiniane intorno all’identità della cosa. Per Severino l’identità positiva dell’essente non si esaurisce nel suo non essere la totalità dell’altro da sé, tuttavia viene concepita come una totalità determinata, necessariamente destinata, che implica l’impossibilità di ogni possibile e l’essere nulla di ogni impossibile; la conoscenza dell’essente resta astratta per il permanere della contraddizione C, anche se, con il tramonto dell’isolamento della Terra, appariranno sue nuove concrete determinazioni; ma la cosa mai viene concepita, dal filosofo bresciano, come al suo fondo indeterminata. Per Cacciari, invece, l’identità della cosa è costituita da una X indeterminabile: «L’ente è la differenza tra la sua identità e il suo essere-rappresentato … L’identità è ‘ciò’ che rende possibile la cosa negli infiniti, non pre-determinabili modi del suo apparire, e dunque nel suo essere-fenomeno … Trascendente, e cioè non determinabile come non lo è l’Apparire delle apparenze, è l’unità inscindibile di identità-singularitas, datitàpercezione, fenomeno-rappresentazione»9. Necessariamente non conosciamo gli enti solo come fenomeni, ma sempre essi ci appaiono insieme come fenomeni e noumeni: la nostra conoscenza della cosa non può, quindi, mai dirsi e farsi totalità compiuta in questo o quel insieme di determinazioni: non solo nel senso che non possiamo conoscere le infinite relazioni della totalità concreta di una singola cosa, ma in quello che la sostanza dell’essente, in quanto proveniente da un puro possi-

9. Labirinto filosofico, cit., pp. 314-17.

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bile, resta aperta ad un infinito indeterminato che comprende anche la possibilità della sua impossibilità10. Semplice, irrelata, assolutamente distinta, una in sé e per sé, appare la physis da cui la singolarità della cosa proviene, e quindi non catturabile, manipolabile: L’Uno è il questo proprio di ogni ente e di ogni figura, immanente al suo apparire e che nel suo apparire si nasconde, poiché tutto ciò che appare, appare in relazione ad altro[…] Ogni figura ospita in sé figure ‘straniere’. Ed è in base a tali differenze che essa sarà determinabile. Ma ogni figura è anche se stessa. Non solo una combinazione unica di distinti elementi, ma il ‘qualcosa’ inesprimibile che li collega, che li dona così all’ek-sistenza, unici in ogni istante, irripetibili e intramontabili. Nel distinguere le forme diverse che compongono questa figura, colgo l’im-mediatezza del suo essere questo, in questo istante. La figura non tende nostalgicamente ad essere questo, lo è, così si dà. E proprio ciò è l’ineffabile che è l’armonia non manifesta di ogni sua espressione.11

Per il filosofo veneziano, l’Uno, di cui ogni singolarità è immagine, non si esaurisce, dunque, nella relazione oppositiva ed escludente di identità e alterità; opposizione che non può che essere destituita non appena davvero pensata: «L’Altro sovraessenziale non può essere inteso che come Altro da ogni altro e dall’idea stessa di heterotes, e cioè appunto come l’originaria in-differenza di identità e alterità. Ma tale in-differenza è presupposta in ogni espressione dialettica del rapporto tra il tode ti e il suo non-essere altro»12. È la stessa dialettica platonica che, nel determinare l’identità di ogni essente come altro dall’altro, fa segno necessariamente all’indefinibile della sin10. Su questi temi mi permetto di rimandare anche a: N. Magliulo, Cacciari e Severino. Quaestiones disputate, cit. 11. Della cosa ultima, pp. 503-4. 12. Labirinto filosofico, cit., p. 271.

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golarità: in questo senso occorre attraversare fino in fondo il procedere logico-dialettico, le sue relazioni e determinazioni categoriali, per mostrarne l’impotenza ad afferrare nei suoi limiti quel singolo, e la necessità di un oltre. L’Uno, immanente in ogni tode ti, non si esaurisce infatti nell’essere negazione di tutte le negazioni, ma appare come l’assolutamente Positivo. Ad esso non si perviene, tuttavia, attraverso un elenchos positivo, che, come in Tarca13, affermi l’idea di un differire che si distingua dal negare, di una negazione che sia diversa da sé; né l’Inizio, per Cacciari logicamente inafferrabile, si identifica con l’Innegabile severiniano inteso come confutazione, impossibilità di negarlo: «La verità ‘contiene’ in sé l’innegabile, ma anche la differenza tra verità e innegabile, e dunque ciò che non è l’innegabile. Il principio logico si determina attraverso la forma del giudizio, ma la verità, che esso non può in sé manifestare dimostrativamente, rimane in-finita»14. Per il filosofo veneziano appare, in questo senso, anche l’impotenza dell’Innegabile a “togliere” l’errore, a sedare, negare la Contesa tra la Verità e l’ordine seducente delle parole: non solo il Sentiero del Giorno è ma anche le opinioni sono, e i mortali devono necessariamente imparare ad apprendere ta dokounta, la forma e l’ordine in cui gli enti appaiono. Illusorio, erroneo, è piuttosto ciò che la doxa assolutizza, ciò che del mondo eleva a signoria autonoma, la morta e debole servitù ai ‘dati’ e ai ‘fatti’. Innegabile, allora, non è per Cacciari la perfetta identità tra il logos e l’esistente, ma, al contrario, il permanente conflitto tra i due, l’inseparabile distinzione che li connette; la logica dell’aut aut sta inevitabilmente insieme a quella dell’et et e mostra l’enigmaticità intrascendibile dell’aporia. L’Uno non nega il molteplice, né concilia dialetticamente gli opposti;

13. Differenza e negazione, La Città del sole, Napoli 2012. 14. Della cosa ultima, cit., p. 108.

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analogamente, il vero e il falso si oppongono ma la loro contraddizione viene destituita in quanto la Verità non si dà come mero porre e negare l’errore, ma come Unum che accoglie luce e ombra: senza ombra la sua luce sarebbe per gli umani accecante, insopportabile, insonne. Per Cacciari, la Verità non si limita quindi a mostrare, come accadeva almeno fino a Icone della Legge, l’Uno-duità originaria, e una dialettica tragica, un’insuperabile antinomia, in cui ciascun distinto definisce la propria identità, non statica e mai compiuta, nel polemos con il proprio opposto; ma essa rimanda, apre al Silenzio, solo analogicamente pensabile, dell’Indifferente Inizio da cui proviene o in cui può implodere ogni armonia. Profondo Silenzio che non indica l’assenza di ogni significare, come se il non poter dire qualcosa di determinato debba necessariamente tradursi in un dire niente: piuttosto, la resistenza, il colpo su cui si infrangono i tentativi del logos di esprimere discorsivamente la dimensione abissale dell’Arché, mostrano l’irriducibile differenza tra pensiero e linguaggio. Il filosofo veneziano si interroga almeno fin da Krisis15 intorno ai limiti del discorso, all’ineludibile esperienza della parola che manca; ma è in particolare in Della cosa ultima16, che la ricerca intorno a questo limite si sviluppa ulteriormente rispetto ai suoi precedenti lavori: la nota tesi wittgensteiniana, di ciò di cui non si può parlare si deve tacere, non può, per il filosofo veneziano che essere oltrepassata: l’irresistibile volontà di significare-simbolizzare, propria del nostro esserci, non può infatti che esprimersi provando a indicare ciò di cui si deve tacere; e gli stessi linguaggi a loro volta non possono che trasformarsi, innovarsi continuamente per corrispondere a questa esigenza. In questo senso, come viene mostrato an-

15. Feltrinelli, Milano 1976. 16. Cfr. in particolare: Parte terza, lettera IV: Il corpo del silenzio.

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che in Labirinto, è necessario cercare in altre forme non logocentriche del pensare e del dire – nei miti che non sono un altro modo di esprimere il medesimo contenuto del logos, ma il segno di una dimensione più originaria del logos stesso; in immagini, sogni, geroglifici, canti –, i segni dell’Inafferrabile che si mostra sul volto di ogni essente; e, in dialogo con Vico, l’origine non logico-filosofica della stessa filosofia. In questa opera, piuttosto che decostruita, la tradizione metafisica viene interrogata a partire non solo da ciò che in essa sarebbe stato obliato, cancellato ma dal carattere rivelativo dei suoi testi, dalla presenza di tracce che appaiono come linee di faglia, indizi verso il completamente diverso. Filosofia non appare più allora, nell’itinerario cacciariano, solo come espressione della volontà di potenza: Tradizione interamente appiattita sulla rimozione del Ni-ente, e da cui solo far esodo per risalire all’inizio mai visto e udito perché si dia una nuova storia. Per il filosofo veneziano, invece, è pensabile in essa la differenza ontologica tra il mistero del Ni-ente dell’ente, del Comune di logos e physis, da una parte, e tutte le tesi, strategie, modalità con cui si è voluto fondare, assicurare, esprimere la verità determinata della cosa, dall’altra. Intorno all’Inizio, e tra i diversi modi di concepirlo, si combatte una battaglia da cui dipendono le diverse destinazioni possibili della nostra storia e cultura: tutto cambia, ama ripetere Cacciari, se la radice comune di pensiero ed essere non è concepita come Ab-grund, ma come una connessione concettualmente afferrabile ed esprimibile: null’altro che Inizio logico. In questo senso, la concezione del filosofo veneziano critica e oltrepassa anche la tradizione onto-teologica in quanto il Divino appare come quel Ni-ente mai riducibile ad Ente sommo, Persona che detiene ed esaurisce il possesso esclusivo della verità dell’essere. Il Chaos originario, immenso, traboccante di una meravigliosa-tremenda molteplicità, può forse contrarsi, identificarsi, esaurirsi nella concezione di un Dio pensato come il Signore esclusivo del

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divino? Ma, viceversa: può negarsi, escludersi assolutamente dal suo Aperto il poter prendere figura, il suo delimitarsi e farsi forma? Se Persona può darsi, provenire dall’abisso del Divino, in quanto Vivente non può che essere anche mortale, nel senso profondo e radicale dell’annuncio nietzschiano della morte di Dio; e il suo Logos non può essere onnidisvelante ma segno delle profondità dell’inconoscibile abisso dell’Arché. In questo senso la definizione della filosofia cacciariana come ateismo17 ci pare equivoca in quanto può contraddire la compossibilità dell’Inizio; così come lo sarebbe, viceversa, una sua riduzione mistico-teologica in chiave religiosa.

Gaudium Nella filosofia contemporanea italiana, in particolare nell’itinerario filosofico di Cacciari e Severino, emerge il problema del nesso tra l’Eternità, la Gioia e la Singolarità della cosa: le tesi dei due filosofi si differenziano, infatti, dalla tradizione filosofico-teologica occidentale per la quale eterna è solo l’anima disincarnata o anche il corpo, spiritualizzato, che risorge dall’annientamento di quello mortale; e differiscono anche dal nichilismo contemporaneo per cui ogni cosa è essenzialmente mortale, niente, e solo provvisoriamente nell’essere. Il filosofo bresciano sviluppa la propria indagine intorno alla Gioia che dimora nell’Inconscio più profondo del nostro esserci; e come accade per ogni rimosso, quanto più la Gioia è dimenticata tanto più torna a inquietare il solido nulla che impera: essa riaffiora in tracce ambigue, indecifrate che tuttavia seminano dubbi sull’essere del mortale, sul suo essere pura sofferenza;

17. I. Bertoletti, Massimo Cacciari. Filosofia come a-teismo, Edizioni ETS, Pisa 2008.

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in enigma la Gioia si fa sentire e il mortale, indifeso perché ha smarrito la relazione con essa, dubita che il suo esserci si esaurisca nell’essere niente. Per Cacciari lavorare la domanda sulla mortalità del nostro eksistere, consente di dispiegare l’energeia dell’anima attraverso un faccia a faccia con il suo estremo, ultimo possibile: pensare la morte in questo modo ci mette sulle tracce di quegli indizi di immortalità che contraddicono il dato apparente dell’essere la morte necessariamente vestibolo del nulla, di un eterno non essere mai stati. Dunque per il filosofo veneziano non si tratta solo di pensare heideggerianamente alla morte come possibilità dell’impossibilità dell’esistenza, ma all’impossibile possibilità di eternità; alla relazione che intratteniamo con l’immemorabile Passato da cui proveniamo e il Futuro che ci attende, da cui mai potrà essere escluso, ma neanche necessariamente assicurato, gaudium. È possibile, infatti, dal thauma per il che è del mondo, pervenire alla Gioia ineffabile che risolve l’enigma della vita senza ridurla ad una risposta determinata nella sequenza logico-discorsiva: troppo chiaro per il discorso appare l’indeterminato Splendore della presenza di ogni cosa mai esaurita nei fatti in cui si manifesta nel mondo. L’apparire dell’integrità dell’ente, infatti, fa segno, nostro malgrado, alla Gioia: ciò che to on era, è e sarà, è possibilità di eternità avvolta da lethe; in questo senso la nostra inquieta dimora comprende l’angoscia che ci soffoca e la Gioia; e il conflitto tra esse, che lacera il petto dei mortali, non è, come per Severino, solo il frutto dell’errore, ovvero della Follia dei mortali che interpretano e vogliono l’essere niente di ogni ente, ma è necessariamente in relazione con la domanda che interroga il Mistero: l’eksistere della singolarità, morendo, esce dall’apparire o si annulla?. Si evidenzia, allora, anche la differenza tra Cacciari e Severino, relativamente alla concezione dell’eschaton, al suo non poter essere, per il filosofo veneziano, piena disvelatezza che cancella lethe. Per entrambi i filosofi, nella finitezza

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dell’apparire, la Gioia non può interamente e compiutamente mostrarsi; superare la concezione nichilistica del divenire non implica, infatti, il superamento della finitezza della singolarità. Piuttosto il filosofo veneziano, in Labirinto filosofico, evidenzia le aporie delle tesi severiniane in relazione alla presunta incontrovertibilità della nostra destinazione eterna: se l’esperienza tace sul destino della cosa quando non appare, niente può dimostrare relativamente al nostro andare nel nulla. Ma se, allora, questa tesi, che Cacciari condivide con Severino, non vuole contraddirsi, l’eternità dell’ente che non appare è solo un’idea possibile, che non è fondabile su di un’esperienza e non è necessariamente destinata. Essere nel mondo è patire la purezza della cosa e imparare a scoprirne, curarne l’intatta forza, a lasciarla aperta nella sua possibilità impossibile; come del resto potremmo farci consapevoli, misurare la miseria del nostro esserci se non sul metro dell’immagine, che appare, della felicità possibile di ogni creatura? Scrive Cacciari: Le sembra che Leopardi non pensi alla felicità? È l’unica cosa cui pensa! Tutto viene misurato sul metro della sua altissima e irrevocabile esigenza. Più cresce il dolore, più la sua idea si afferma, solitaria, compiuta, intrattabile da illusioni e consolazioni. Perciò anche noi, oggi, dobbiamo corrisponderle. Quanto più profondo è il dolore, tanto più perfettamente dobbiamo mettere in immagine l’idea dell’essere felice. Allora il dolore risulterà insopportabile – insopportabile qualsiasi compromesso con il suo adagio: questa è la vita, questo il destino dell’essente.18

La Gioia non è mai concepita, dal filosofo veneziano, come uno stato al di sopra delle umane sofferenze, in una sorta di contemptus mundi (così come per altri versi l’anima non è ontologicamente superiore e separata dal corpo); né il suo accadere può dirsi assicurato e salvo dalla scandalosa infelicità del 18. Della cosa ultima, cit., pp. 510-11.

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mondo, o viceversa necessariamente divorato dall’annientamento nichilista. Cacciari concepisce piuttosto una stasis, una relazione, in cui il contraddirsi di Gioia e dolore torni a darsi in un inseparabile polemos: lo si evince anche da quanto scrive relativamente alla forma di vita francescana in cui mai il frate deve essere nebuloso, e letizia si dà al culmine dell’abbandono, della miseria patita: Gioia vulnerabile e ferita, che tiene fissa in cuore la pena che ci opprime. Ad essa si perviene con un lungo, faticoso itinerario di liberazione dell’anima e del corpo che raggiunge il suo apice nell’istante in cui ‘tocchiamo’ l’Uno, comunichiamo con l’altra distinta singolarità e: «ognuno è manifesto ad ogni altro nel suo intimo e in ogni dove»(Plotino, Enneadi V, 8-4): esperienza liberante ma che esige in quanto tale il ritorno nella caverna, nella selva delle doxai quotidiane, di stati che si vogliono immodificabili, nell’inferno del mondo.

Assenza e attesa del con-gioire Nella trama delle relazioni determinate, ogni ente è identico a sé nell’essere differente dagli altri, e differente nell’essere identico a sé; in questo senso si tratta di una koinonìa non escludente che non viola il principio di non contraddizione. Tuttavia in questa koinonìa, Impossibile è essere con l’altro, con la singolarità della cosa considerata come pre-esistente, altra da ogni energia distinguente-analizzante. La relazione con l’Impossibile di questo Assente non ne mette però a tacere il desiderio: non è un’assenza che eccita a possedere – seppure illusoriamente, perché ciò che appartiene alla singolarità dell’altro, mai potrà diventare nostro possesso –; ma ancora una volta feconda, ‘produttiva’. Essa è quel futuro, eschaton, cui aneliamo, presente qui e ora come assente in ogni incontro con gli enti, e che rende appunto ogni relazione irriducibile alla sola presenza determinata, e aperta ad un altro possibile

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accadere. L’anima, vuole congiungersi, danzare, con-gioire, con le singolarità che riflettono l’Aperto: ma si è davvero insieme proprio nel patire l’Apousìa, l’impossibilità di determinare-dire discorsivamente lo splendore di ogni singolarità e del legame/simpatia tra esse, che possiamo toccare solo per grazia; che è possibile contemplare-esprimere solo quando filosofare, poetare, o fare musica, si rivolgono all’Inafferrabile Suono che ascoltano, interrogano, cantano. Quello che non può essere perfettamente compreso e disvelato, attrae, infatti, necessariamente il nostro fare, si dà come: “ciò a cui non possiamo negare l’assenso, ciò che irrevocabilmente ci convince a volerlo, a ricercarlo, ad amarlo. Ciò che esige da noi assoluta responsabilità: capacità di corrispondervi. Questo è dunque il nome dell’arché-causa: il Bello cui tendono, in indisgiungibile tensione-passione, desiderio e mente: il nostro esserci tutto”19. L’anima immagina la bellezza della figura che è concepibile solo in interiore hominis, o che ha visto e di cui ha memoria; ma il corpo manca, non corrisponde alla manìa che la sua immagine genera: «...La visione non si acquieta mai, così come la libertà non è mai acquisita una volta per tutte. Vedente e veduto non possono identificarsi; perché accadesse, essi dovrebbero giungere a possedere ‘ciò’ che rende possibile il loro stesso congiungersi»20. Ek-sistiamo come singolarità finite capaci tuttavia di uno sguardo in-finito21 che non è angosciato-stupito

19. Ivi, p. 35. 20. Labirinto filosofico, cit., pp. 122-23. 21. Scrive Cacciari in: Il dramma del sublime, prefazione al testo di F. Valagussa, Il sublime dal Dio all’Io, Bompiani, Milano 2007, pp. 15-18: «Il bello è applauso all’immediato apparire della cosa che si accompagna al nostro sentimento del piacere. Il sublime evoca invece immediatamente l’idea dell’infinità […] Il sublime rappresenta la nostra destinazione; in esso intuiamo ciò cui siamo sempre destinati: l’affermazione della libertà come determinante nel sensibile […] La rappresentazione del sublime è la rap-

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solo per i contenuti dello spettacolo che si mostra quotidianamente ai nostri occhi, ma per il nostro essere gettati qui e ora come spettatori capaci di vedere il valore in sé di ogni creatura oltre il suo valore d’uso e di scambio, il suo esistere non in sé ma solo per altro. Ciò che è rimosso nelle quotidiane manovre dei contemporanei intorno agli enti e nelle esperienze vissute è, insomma, la domanda intorno a chi è l’uomo, generata dal thauma per lo spettacolo delle facoltà straordinarie del nostro esserci: «Che cosa sarebbe e come potrebbe destarsi il raccolto ascoltare e il tendere l’orecchio se non fossimo già da sempre disponibili verso quel che può venirci incontro e che ci viene incontro?»22. Per Cacciari occorre lottare contro la rimozione contemporanea di questo necessario interrogare, e il modo in cui il nesso mente-corpo viene riduzionisticamente interpretato nella civiltà della tecnica; in questo senso davvero ‘eroico’, appare l’agone che chiama il filosofo a decidere di contraddire la trama del destino che l’avvolge, a non lasciarsi soffocare dalla angustia dello spirito del tempo, dell’età di Epimeteo, che tutto riduce ad uno: La Verità dell’Antikeimenos si esprime nella spiritualizzazione di tutti i rapporti, nella «liberazione» dell’uomo da ogni «prigione» spazio-temporale, da ogni legame terreno, nell’affermazione che è in suo potere porre da sé ogni natura, che è la sua mente il centro di un cerchio di raggio infinito. Il vento di questo Spirito non tollererà pluralità di istanti e di luoghi, esige che il mondo sia organizzato in uno spazio e che in ogni

presentazione della sublimità dell’idea rispetto ad ogni immagine […] Lo spettacolo esterno evoca il tremendo dell’immaginazione stessa, della facoltà che pretende di dispiegare se stessa fino all’inimmaginabile […] Sublimetremendo è l’esserci che vive per l’Impossibile. Ma unica immagine dell’Incondizionato non può essere che il venir meno di ogni immagine. Il silenzio è il termine necessario di questo percorso: sublime silenzio». 22. M. Heidegger, Eraclito, Mursia, Milano 1993, p. 161.

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66 punto di questo spazio possa apparire la mente che l’ha prodotto. Esige contemporaneità e ubiquità.23

Conoscere se stessi implica, allora, oltrepassando la miseria della nostra epoca, la necessaria ricerca intorno all’esistenza dell’anima che si distacca da Physis, pur appartenendole, proprio per poter avere intimo accesso ad essa: in un suo ‘prodotto’ Physis perviene a osservarsi e comprendersi; in una sua parte a pensare l’Uno. Si dà la misteriosa provenienza dell’accordarsi di sguardo e physis, di occhio del corpo e occhio dell’anima che sollecita il nostro domandare: da dove l’inseparabile unità dei distinti, contraddizione-polemos che non si risolve in una conciliazione ma nel continuo essere rimandati dall’uno all’altro? L’apparire della cosa ha dunque radice in un’impossedibile Libertà, pensata non come un’identità determinata, ma come l’incondizionatezza dell’Inizio; e l’esserci può essere altrimenti non perché abbia in proprio potere la libertà, o la capacità autonoma di progettarsi; ma perché la Libertà lo ‘possiede’ e destina la sua esistenza alla possibile esposizione alla svelatezza dell’ente. Tuttavia, oltre Heidegger, Cacciari afferma che la com-possibilità dell’Inizio non può esaurirsi nella Libertà di un Aperto necessariamente destinato a comunicarsi e ad essere detto dal linguaggio poetico, o all’Ereignis in cui l’esserci può corrispondere al suo proprio; può anche darsi, invece, l’Impossibile di ogni manifestarsi, liberare e donare. Figura di questo essere liberi può divenire, allora, per Cacciari, quel gratuito donare che se davvero tale non può essere espressione necessaria dell’Inizio, né kenosi a nessuno rivolta; in cui la singolarità si svuota di ogni possesso per farsi coinvolgere davvero dall’altro. L’incontro con altri può infatti comportare l’esperienza di un thauma che ci assale, e di un’energia che ri-crea e libera: avvicinarsi al prossimo può spaccare il 23. M. Cacciari, Europa o cristianità, in A.A.V.V., Dopo duemila anni di cristianesimo, Mondadori, Milano 2000, p. 129.

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cuore, ma, insieme, se si è toccati, feriti in questo modo, come mostra la parabola del buon samaritano, non è possibile fare ritorno a sé se non decidendo come corrispondere a questo pathein. Entrare in relazione significa approssimarsi all’altro per liberarsi-liberandolo, farsi altro dall’abituale identità di un Sé inospitale, disfarsi di ogni philopychìa: lasciar essere, non dominare gli enti, significa averne cura, far emergere le loro possibilità oltre ogni loro stato-attuazione. Ma i dormienti intravedono confusamente, debolmente, o non vogliono vedere la dynamis che è in ognuno, sepolta sotto incrostazioni che appaiono immodificabili: rintanati in una caverna egoica, esistono come individui cui tutto è dovuto, che nessun debito avvertono verso ciò che è comune, e che affermano se stessi solo differenziandosi in modo escludente l’altro.

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Metamorfosi dell’identico: Massimo Donà

Nella filosofia novecentesca differenti filoni e pensatori hanno creduto di poter affermare un pensiero della differenza senza alcuna relazione con il problema dell’identità, ovvero di ciò che nel variare delle diversità resta permanente consentendo di riconoscere che a mutare è sempre un identico. Massimo Donà polemizza con essi mostrando l’essenzialità e la concretezza di questo nodo speculativo per la conoscenza del nostro esserci nel mondo. Cosa appare infatti davvero al nostro sguardo? Per Severino, come abbiamo visto, a mostrarsi è un’identità eternamente uguale a se stessa, pur nel sopraggiungere delle variazioni dei contesti e delle relazioni in cui è iscritta; una positività dell’essente risolta nella sua determinatezza escludente il negativo. Ciò che l’ente veramente è appare in una Luce senza un’Ombra reale che la oscuri, in un’integrità mai davvero esposta al tarlo corrosivo del non essere. Una lieta quiete è il destino dell’uomo che oltrepassi il conflitto tra la Terra isolata e la Verità dell’eternità dell’essente; una Gioia infinita cui condurrà il necessario superamento della volontà di potenza, che vuole far diventare altro da sé le cose e noi stessi. Per Donà, invece, non è lo stare in sé di una perfetta determinatezza, capace

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di espellere da sé il negativo, ciò che appare, e che ogni ente mostra di sé; è invece la negazione delle determinazioni che lo costituiscono a rappresentare il suo vero volto. L’essente non è quel che è, afferma Donà, differenziandosi in questo senso delle tesi severiniane: una negazione, va subito precisato, non escludente, che non afferma cioè al posto dell’ente negato un altro ente, che nel negare la positività dell’essente non rimanda ad uno spazio altro da esso. Una negazione, quindi, differente da quella sancita da Platone nel Sofista, e da allora, per il filosofo veneziano, mai autenticamente messa in discussione e oltrepassata dalla filosofia occidentale. Essere identici a sé, nel senso di poter definire perfettamente la propria identità è l’impossibile; sempre noi ci opponiamo a noi stessi nel senso di non poterci identificare del tutto in questa o quella nostra determinazione. Come infatti cogliere che cosa essa sia, ciò che la rende un’identità specifica, unica ed irripetibile, se non rimandando ai predicati universali che la determinano ma che non appartengono solo ad essa, in quanto possono essere presenti anche in una molteplicità di altri essenti, come evidenzia la classificazione per generi e specie che li accomuna tra loro? L’idea che più iscriviamo la cosa in un’appartenenza universale sempre più precisa e larga, meglio la conosciamo e distinguiamo, non riesce assolutamente a delimitarne concettualmente la specificità. Non è in una progressiva distinzione identificante che l’oggetto potrà essere conosciuto nella sua singolarità: sempre torniamo a individuare l’identità di ogni ente attraverso questo o quel predicato universale e sempre manchiamo la possibilità di definirla non potendo mai esaurire la totalità delle relazioni che la determinano. Tutto ciò che possiamo predicare dell’identità di un ‘questo’, sia che si tratti dei suoi predicati affermativi che di quelli negativi che la oppongono ad altro da sé, non ne esauriscono la determinatezza; viceversa essa non sarà mai altrove, ma sempre nel suo farsi di volta in volta altro da sé

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nelle diverse determinazioni che la caratterizzano. Ogni ente per essere sé nega l’altro da sé, e questo implica l’affermazione di due positività in relazione tra loro; ma, a differenza che in Severino, le due positività esistenti non possono apparire, per Donà, come nettamente delimitate nelle loro differenze; bensì il loro mostrarsi come negate nella loro determinatezza implica l’impossibilità di tracciare un confine definito tra esse; esso, cioè, non può darsi perché ad apparire non sono due distinti perfettamente determinati e delimitati, ma due negantesi determinatezze.

L’altra temporalità Il problema dell’identità dell’ente viene indagato, dal nostro filosofo, anche in relazione alla questione fondamentale di come concepire la temporalità dell’esserci. Per Donà, il passare del tempo non scorre annientando gli enti, e il passato non è divorato dal nulla nichilistico; né viceversa, permane perfettamente conservato e compiuto nel cerchio dell’apparire così come nelle tesi severiniane. Per quest’ultimo, il passato è compiuto, perfetto perché il suo quantum esistenziale ha raggiunto il suo limite ultimo, e nulla più si può aggiungere ad esso. Il filosofo veneziano, in particolare nel suo lavoro: Il Tempo della Verità1, rivolge due obiezioni alla concezione severiniana del passato che gli appare incerta: a) Il compimento definitivo della crescita dell’identità specifica di un ente, affermata dal filosofo bresciano, è impossibile perché essa viene sempre ri-determinata da ciò che soprag-

1. Cfr. in particolare i due capitoli: Sulla soluzione severiniana delle aporie prodotte dal nichilismo (implicato dall’idea occidentale di temporalità); Ancora sulla prospettiva severiniana; Mimesis, Milano-Udine 2010.

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giunge. Come del resto accertare il compimento di questa identità? Se il passato continua ad apparire insieme al sopraggiungere di altre determinazioni, come può dirsi compiuta la sua crescita? Ciò che sopraggiunge non può che mutare ulteriormente l’identità specifica di ciò di cui il filosofo bresciano afferma l’interruzione della crescita. Non si può quindi intendere il passato perfetto, compiuto di questa identità, come un compimento definitivo. b) Come va intesa la permanenza di un ente, cosa permane eguale nel suo passare da un insieme con cui è in relazione ad un altro successivo, domanda Donà a Severino? Identico è in realtà, per il filosofo veneziano, il suo differenziarsi in se stesso, il suo non essere mai un se stesso perfettamente determinato; ciò che permane è un’identità che è se stessa in modi sempre diversi, davvero costitutivamente uno, nessuno, centomila; un identico che ha in sé un’alterità e si esprime in forme sempre differenziate. Il passato, per Donà, appare nel presente come non ancora, e non solo come non più; dimensione sempre incompiuta che mai esaurisce perfettamente il nostro esserci, e dunque mostra come il nostro costitutivo essere indeterminato ci impedisca di poterci mai identificare con quanto già abbiamo vissuto e realizzato. Il tempo mostra in questo senso la nostra intrascendibilmente compiuta incompiutezza. La stessa relazione tra passato, presente e futuro andrebbe allora ripensata, sottratta alla sua immediata rappresentazione: sempre noi non siamo soddisfatti di quello che siamo diventati come ‘prodotto’ di ciò che siamo stati. Il presente non è allora solo ‘sequestrato’ dal nostro passato come qualcosa che ci ha compiuto definitivamente, ma è costitutivamente inquietato dal fatto che l’incompiutezza di ciò che è stato, ancora anela ad un futuro che ci faccia diversi; e solo questa aperta possibilità è ciò che impedisce la fine di ogni tensione esistenziale sotto il peso del

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macigno di un passato che renderebbe immutabile, immodificabile, privo di ogni attrattiva e interesse il nostro esserci: «D’altro canto cos’è futuro? Cosa, se non che quel che appare nel semplice e attuale manifestarsi di ciò che può ancora accadere a quanto “non è più quel che era”? Ossia, nel manifestarsi da parte di ciò che quest’ultimo può ancora diventare?»2. Tutto accade dunque nel presente, che non fugge, e che non può essere misurato perché non ha una durata spaziale. Donà critica ogni astratta alterità rispetto al nostro essere qui e ora; dal finito non si può uscire verso un infinito concepito come una dimensione che comincia lì dove finisce la nostra finitezza; se, infatti, l’infinito fosse tale finirebbe inevitabilmente per determinarsi, essere un altro finito anch’esso. L’idea di un uomo, di un mondo, di un’alternativa all’esistente, in terra o altrove, sono respinte ab origine dal filosofo veneziano: l’unica alterità che davvero si dà, e che consente di non restare chiusi in una finitezza assoluta, è quella che la nega senza mai tradursi nella istituzione di un esserci, di uno spazio, di un tempo altro, e quindi in quanto tale determinato e definito, compiuto. Per il filosofo veneziano, in questo senso, la concezione severinana, maturata a partire da La Gloria, che la Gioia debba mostrarsi in un percorso infinito, come una dimensione altra, un positivo futuro, rappresenta un approdo ad una sorta di escatologia realizzata; invece per Donà la gioia non può che fondarsi sul non essere mai quel che è dell’ente così come appare. Non quindi un percorso futuro in cui appaia la sequenza di Terre liberate, ma l’incondizionatezza del nostro essere qui e ora; non un’astratta o futura alterità ma l’indeterminatezza del nostro esserci temporale; la possibilità di far risuonare nella nostra positiva determinatezza quel che ancora non siamo: il nostro essere già altri da quel che eravamo, un altro già vivente in noi. In questo senso, per il filosofo veneziano, mai nella Storia do2. Filosofia un’avventura senza fine, Bompiani, Milano 2010, p. 56.

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minata dal male ci sarebbe stata e ci potrebbe essere una vera novitas: in essa, infatti, tutto ritorna e i mutamenti che accadono non sono altro che il ripetersi in forme diverse del Medesimo. Ma oltre il tempo spazializzato della grecità, si afferma, nell’orizzonte ebraico-cristiano, un altro modo di esperire la temporalità non assoggettato a ciò che si ripete sempre identico a sé, ma occasione per un futuro, un novum autentico che non è di questo mondo; non il flusso del produrre e discorrere quotidiani ma la possibilità di progettare, di rendere nuovi tutti i giorni. La fine dell’eterno ritorno della Storia, così intesa, è la vera Buona notizia annunciata da Cristo che inaugura la possibilità di esperire in modo nuovo il tempo, e non un’altra epoca storica radicalmente diversa dalle precedenti. Agli umani viene offerta un’eccezionale opportunità di rigenerazione che non riguarda un tempo che debba ancora venire – un tempo astrattamente distinto da quello della quotidianità: le cose così come sono state esperite prima dell’evento cristiano sono definitivamente consumate, e liberate da una morta compiutezza per essere offerte in dono a un nuovo sguardo: Il cristiano deve, dunque, pro-cedere senza farsi ammaliare dalla potenza condizionante del passato; deve comprendere che esso, propriamente non ha mai avuto luogo; che non sostanzia le nostre vite (come, invece, siamo tutti soliti credere) quale fonte imprescindibile del loro significato.3

L’illusorietà del Tutto La critica di Donà alla concezione severiniana dell’elenchos aristotelico vuole metterne in discussione la possibilità di essere fondamento incontrovertibile del Tutto, ma senza respin-

3. Il tempo della verità, cit., p. 146.

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gerne l’effettivo valore nell’ambito delle relazioni finite degli enti. Se il pnc non ha realmente fuori e contro di sé un avversario davvero in grado di negarlo, ma solo un’ombra che si dissolve appena procede a contraddirlo, allora proprio il principio che fonda tutte le distinzioni e relazioni oppositive tra gli enti, non avendo nulla fuori e contro sé da cui distinguersi, si sottrae ab origine alla sua stessa legge. L’aporetica del fondamento, sviluppata dal filosofo veneziano, mostra proprio l’impossibilità del principio a determinarsi perfettamente e quindi il suo essere necessariamente indeterminato: per questo le singole cose del mondo non possono che essere a loro volta simul determinate e indeterminate, mai perfettamente distinte e compiute nella loro determinatezza. Analogamente, la stessa relazione viene istituita dal nostro filosofo tra l’essere e il nulla, il vero e il falso4. Nella relazione tra l’essere e il non essere, quest’ultimo non è mai messo fuori gioco come in una partita a scacchi da una mossa vincente e definitiva. Per Donà l’essere è intrascendibile e non esiste fuori di esso alcuna alterità assoluta in quanto anche il non essere non può che darsi come un positivo nulla che è. Il nulla, così concepito, implode come nella concezione severiniana, ma per ragioni e con esiti diversi e opposti da quelli del filosofo bresciano: non è infatti la contraddizione tra l’assoluta assenza di significato e il positivo significare del nulla, ma quella interna al nulla momento a provocarne la destituzione di ogni valore; infatti, per Donà, nel predicare l’assoluta insussistenza, insignificanza del negativo, il nulla autocontraddicendosi si autotoglie non per lasciare spazio, come in Severino alla rotonda integrità di una

4. Una ricostruzione della struttura speculativa che è alle fondamenta delle tesi di Donà è nel saggio di: A. Gatto, Un itinerario nella filosofia di Massimo Donà, in M. Donà, Senso e origine della domanda filosofica, Mimesis, Milano-Udine 2015.

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Totalità che estromette da sé l’assolutamente altro dall’essere, ma al positivo affermarsi del nulla che è. Severino5 replica che per affermare che il nulla sia essente e l’essente nulla, che essi siano indistinguibili, per negare che ci sia differenza tra essi, è necessario che appaia la diversità tra i due termini; anche se si afferma che l’aporia del nulla non è stata risolta, tale distinzione non la si può negare, per cui l’affermazione di Donà si risolve in un’autonegazione di quanto vuole sostenere perché nega questa distinzione e pretende di essere una negazione di essa. Per il filosofo bresciano, l’aporia del nulla è risolta incontrovertibilmente in quanto il significare del nulla si oppone, si distingue dal non significare niente del nulla, dalla sua assenza di ogni significato; invece Donà finirebbe con il separare il significare dal non significare; ma questo lo porterebbe in una situazione aporetica, in cui si ha davanti: o un positivo significare che non può mostrare il contenuto che dovrebbe essere positivamente significante; o dall’altro lato starebbe dinanzi un assolutamente non significante (assolutamente nulla) che come tale non potrebbe nemmeno “star dinanzi” e costituire l’altro lato o momento del contraddicentesi significato nulla.6

Il filosofo veneziano ritiene, invece, che proprio in base all’identità di essere e significare, affermata da Severino, la distinguibilità tra il nulla come positivo significare e l’assoluta negazione del significato del nulla momento, contraddica lo stesso presupposto del filosofo bresciano; se infatti significare ed essere sono lo stesso, come potrebbe il nulla momento da

5. Discussioni intorno al senso della verità, cit., pp. 63-77. 6. Ivi, p. 71.

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un lato non significare e dall’altro significare come ciò che non significa7? L’aporia che abbiamo visto concernere il pnc e la distinzione tra essere e nulla, si manifesta anche nella relazione tra verità ed errore. La Verità è tale se può distinguersi ed opporsi ad un errore; ma l’errore, a sua volta, pretende di affermare qualcosa che ritiene vero, che non sa essere falso; quindi non esiste realmente alcun errore che si distingua da ciò che è vero. In questo senso allora la verità appare sola e intrascendibile perché nulla ha effettivamente fuori e contro sé; dunque smentisce se stessa, ovvero la possibilità di affermarsi negando un errore; il suo imporsi, non potendo distinguersi da alcun errore, non potrà che essere indistinguibile erranza, non avere alcuna possibilità di essere solo perfettamente vera e non anche simul falsa. Una Verità che predichi il distinguersi di tutto, e che non abbia alcuna reale alterità fuori di sé, è una Verità che si contraddice; essa non può mai essere determinata, coincidere con una determinatezza, e per questo si sottrae allo stesso principio di distinguibilità e quindi all’opposizione vero-falso. Nessuno dei distinti riesce a essere così come si mostra, e un’intrinseca doppiezza determina l’insostenibilità di ogni univoca affermazione: essa può essere insieme l’una cosa e l’altra. Il nostro filosofo mostra l’impotenza della volontà di sapere come stanno veramente le cose, della volontà di verità che vuole conoscere se stessi, pervenire a poter perfettamente distinguere ciò che vera-mente siamo da ciò che non siamo. Anche Nietzsche ha certo messo in discussione la concezione classica e metafisica della verità, ma per opporle l’affermazione di un’altra verità, come quella del divenire, restando così all’interno della dicotomia intrascendibile tra ciò che è vero e ciò che è falso. Solo pervenire ad una verità diversa da quella

7. Aporia del fondamento, Città del sole, Napoli 2000, pp. 221-254.

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della Tradizione metafisico-teologica avrebbe garantito infatti, per il filosofo tedesco, all’esistenza umana di ritrovare quella salute perduta per il sacrificio della parte sensibile e diveniente del proprio esserci. È invece Leopardi, per Donà, ad aver meglio e più radicalmente compreso che nessuna cosa sembra essere così come appare, e che voler smascherare l’illusorietà delle illusioni significa comunque restare all’interno del dominio della volontà di verità e di una distinzione tradizionale tra vero e falso. Affermare l’illusorietà e non la falsità del Tutto significa allora, scardinare la volontà di potenza metafisica che crede di poter liberarsi una volta e per tutte dall’errore: che ogni cosa sia illusione implica, infatti, che non si possa né affermare né negare ciò che appare. Qualsiasi convinzione non è mai così fondata da non potersi rovesciare nel suo contrario; ogni conoscenza non può essere mai iscritta in un rassicurante orizzonte che separi incontrovertibilmente il vero dal falso. Allora tutto non può che diventare dubitabile; come se il cartesiano genio maligno tornasse a confondere le idee chiare e distinte con cui il cogito pensava di aver rifondato, definito saldamente, e rimesso in ordine il mondo e il sapere umano. Analogamente, va in crisi la presunzione scientifica moderna di poter affermare un vero razionalisticamente definito in chiave matematico-geometrica ed escludente la vita vissuta, e l’esperienza sensibile, come false. È il teatro barocco a recuperare l’ambivalenza del nostro essere nel mondo, che gli antichi sofisti avevano affermato provocando la condanna della metafisica greca; come mostra il sofista rappresentato da Shakespeare nella figura di Jago nell’Otello: siamo maschere che recitano e come in una costitutiva e intrascendibile eterogenesi dei fini, scopriamo tragicamente di essere, di volere, di fare il contrario di quello che pensavamo rappresentasse la verità di noi stessi e delle nostre azioni: «v’è una forza, in ogni cosa, e dunque anche in noi, destinata a mostrarci che i motivi per cui abbiamo fatto quel che abbiamo fatto non sono quelli

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per cui l’abbiamo fatto; che i fini per cui abbiamo lottato non sono mai i fini per cui abbiamo lottato»8. In questo senso, in particolare le tragedie e i personaggi del teatro shakespeariano rappresentano l’ambivalenza di fondo del nostro modo di essere in un mondo privo di ordine e di senso; Amleto, scrive il nostro filosofo: capisce che il mondo è tutto pieno di meraviglie, che nulla, cioè, di quel che è, è come dovrebbe essere. Che molto più numerose sono infatti le cose, le possibilità, gli aspetti, i significati, in cielo e in terra, di quanti possa immaginare qualsivoglia filosofia; ossia, ogni sguardo razionale volto alla “determinazione” di un questo che, se è un questo, non dovrebbe mai venire confuso con questo o quell’altro.9

Relazioni umane e relazioni trinitarie Ogni essente determinato vuole eliminare ciò che rappresenta un ostacolo alla sua affermazione, alla realizzazione delle sue possibilità esistenziali determinando l’esistere come sempre polemico, come una guerra di tutti contro tutti. Ogni singolo vuole superare i limiti che l’altro gli impone; vuole continuare ad essere se stesso, a trasformarsi in altro da sé, violando il limite che l’altro rappresenta per esso. L’itinerario speculativo di Donà si sviluppa mettendo in evidenza la differenza tra le relazioni umane e quelle trinitarie; se infatti nella finitezza vige un differire non contraddittorio, in cui ciascuno è identico a sé in quanto diverso dall’altro, l’amore trinitario sa fare, invece, uno di identità e differenza perché l’identità divina ha in sé,

8. Tutto per nulla. La filosofia di William Shakespeare, Bompiani, Milano 2016, p. 121. 9. Ivi, p. 166.

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negata, la differenza. Il Dio trinitario, insieme all’Incarnazione e all’abbandono patito da Gesù in Croce, rappresentano lo specifico del cristianesimo: sono i nodi speculativi su cui più a lungo si è sviluppata la meditazione e la ricerca del nostro filosofo, che ritiene di poter individuare in particolare nel Deus Trinitas un’inascoltata e più radicale possibilità di negazione e di relazione. Se le eresie spezzano il simbolo trinitario, tuttavia la stessa esegesi dei Padri, pur capace di conservarne lo skandalon, non riesce per Donà a mettere a fuoco quel senso inaudito del negativo che la relazione tra le Persone divine indica. Se nell’esperienza quotidiana ciò che ciascun ente ha in comune con gli altri è l’essere altro dall’altro, ed essere identici a sé significa essere diversi dall’altro, nelle relazioni trinitarie il distinguersi delle Persone tra loro è simul il loro essere insieme; e il loro essere identici a sé è la loro comune e differenziantesi appartenenza al divino. Dio è l’identico che negandosi in quanto tale fa essere i diversi, ma è una negazione non escludente da sé le differenze, per cui la sostanza divina è in sé stessa relazione. Se, infatti, da un lato il Padre non è il Figlio, e ciascuna delle Persone divine è differente dalle altre, tuttavia esse sono simul una cosa sola: paradossalmente proprio là dove le Persone divine sono uno, ciascuna di esse è in rapporto con sé, e là dove sono in relazione tra loro, ognuna è distinta dall’altro. L’identità, l’essere in rapporto con sé non esclude, cioè, l’essere in relazione, e la relazione non esaurisce la sostanza, l’identità del Dio, ma neanche appare come un lato accidentale di essa. Irrelazionabile relazione, il più bello dei legami, quello che per Platone fa degli enti una cosa sola, è allora quello trinitario. In questo senso, per Donà, neanche il concetto di pericoresi, così come formulato da Giovanni Damasceno, è sufficiente a corrispondere all’inaudita idea di negazione che balena nel Deus Trinitas. Infatti si tratta in questo caso di un’inseparabilità dei distinti, di un reciproco compenetrarsi che appare ancora inadeguato alla

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ricchezza del simbolo trinitario: le Persone divine si muovono l’una verso l’altra in perfetta contemporaneità; ma il loro movimento da cosa altro potrebbe nascere se non dalla mancanza reciproca? Certo, osserva il nostro filosofo, tra le Persone divine si dà una perfetta reciprocità, per cui il guardare dell’una è sempre anche un essere guardata dall’altra, e ciascuna di esse muove contemporaneamente verso l’altra, mentre nella dimensione della nostra finitezza ciò non accade in quanto il volgersi dell’uno all’altro non può essere affatto perfettamente reciproco. E tuttavia, lo slancio con cui le Persone divine si volgono l’una all’altra, da cosa potrebbe nascere, nella concezione pericoretica, se non da bisogno, dalla mancanza? Le forme e relazioni dell’amore umano sono tutte caratterizzate dal possesso, dal donare aspettando un contraccambio, dalla logica dei vasi comunicanti per cui l’atto di donare ci impoverisce ma insieme ci fa guadagnare pienezza; si tratta di un donare agli altri che presuppone comunque lo scopo del volerdover stare bene innanzi tutto davanti a se stessi. Sono tutte forme che hanno nella finitezza, nella mancanza, nel desiderio di colmare il vuoto che ci affanna, il loro movente, e quindi non possono essere icone dell’amore trinitario, né tanto meno sacralizzate: «Chi ama ha bisogno dell’amato, ma anche l’amato ha bisogno di quel riconoscimento che lo renda, almeno per qualcuno, imprescindibile»10. Per questo, secondo Donà, anche solo chiedersi quale forma di amore potrebbe essere ad immagine dell’amore trinitario, sarebbe sbagliato; tutti gli amori umani che esperiamo nella nostra finitezza sono ‘malati’ e irriducibili alla perfezione dell’agape intra-trinitaria. Tuttavia imitando il Cristo che è venuto a separarci appunto da forme di amore umane troppo umane, dai legami con ciò che ci è simile, e che patisce e muore senza rete pur non smarrendo la relazione con il Padre, possiamo accedere ad una imitatio 10. Ivi, p. 32.

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dell’agape trinitaria. Separarci dai legami della finitezza senza da un lato trovare dimora in una determinata e altra forma di amore, né viceversa semplicemente negare, annichilire le relazioni umane, è l’unica maniera con la quale possiamo vivere analogicamente l’amore trinitario. Un offrirsi senza scopo, una perfetta gratuità, l’amore del puramente esistente in sé, non è di questo mondo; tuttavia misurare le forme di amore umano in base al metro della Caritas trinitaria ne evidenzia la miseria dei moventi che le determinano, mostrando per un verso la nostra capacità di un giudizio non solo umano troppo umano, e per un altro la nostra distanza incolmabile da una perfetta, compiuta realizzazione di essa nel mondo. Donà11 ritiene che Vitiello e Cacciari, pur avendo sviluppato in modo altrettanto radicale la loro riflessione sul simbolo trinitario, non abbiano compreso fino in fondo l’inaudita, sconvolgente novitas delle relazioni trinitarie. In particolare l’errore di Vitiello sarebbe quello di concepire una minaccia incombente sul molteplice che, laddove si realizzasse, instaurerebbe una dimensione radicalmente alternativa ad esso; l’affermarsi di una differenza positiva dall’essente qui e ora dato. La critica di Donà a Cacciari verte, analogamente, su una differente idea di Inizio e di negazione: egli finirebbe per concepire il non dell’Inizio ancora come una negazione dialettica produttrice di uno spazio altro da ciò che viene negato. Le distinzioni proverrebbero dall’Inizio ma si distinguerebbero assolutamente da esso; come si evidenzia anche nella concezione cacciariana del Deus Trinitas, in cui le Persone divine non solo si differenzierebbero tra di loro ma anche rispetto a quel Non dell’Inizio che le accomuna come una provenienza altra e inconoscibile. Ne consegue che il regno di dio, che non

11. Sulla negazione, Bompiani, Milano 2004, in particolare cfr. le note 12 e 15 al cap. 9: Trinità-relazione-negazione.

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è di questo mondo, finirebbe con non avere nulla in comune con questo mondo; ma con il rappresentare un non luogo radicalmente altro e opposto alla nostra finitezza. Per Donà, invece, il differire si dà solo come un distinguersi nel Medesimo, mai come la possibilità che l’Identità rappresenti un luogo altro da cui gli enti derivino o in cui possano implodere. L’interpretazione di Donà della follia della Croce ed in particolare del grido dell’ora nona, radicalizzano ulteriormente il simbolo cristiano. Più che l’Incarnazione, la morte e la resurrezione, il vero scandalo sta nell’abbandono in cui il Figlio, patendo la rottura irrevocabile della relazione con il Padre, riconosce la divinità dell’Abbandonante. Dio si separa da sé, come chiede di fare agli umani, di separarsi da quanto è simile, dai legami naturali; ancor più la divinità del Figlio si mostra nella decisione, appesa ad una libertà incondizionata, assoluta, di consegnarsi ad una morte senza rete e appoggi, ad uno svuotamento radicale che lo fa perfettamente umano. Il Figlio che grida e muore sulla Croce è un Dio che non si sa più tale, che l’essere abbandonato dal Padre ha messo nella più radicale delle alterità, ma che anche patendo il suo non essere più Dio resta in relazione con il Padre; con quel Padre di cui all’akmé dell’abbandono potrebbe perfino dubitarsi che sia mai davvero esistito. Un abbandono irreparabile ma non escludente la relazione con l’Altro da sé: autentica stasis, lacerazione nel Medesimo, radicalmente differente dagli abbandoni che patiamo nella nostra finitezza. Una teodrammatica che non è una messa in scena, né l’esibizione di una potenza che sarebbe stata ammirata dai mortali, dalla loro sete umana troppo umana di segni e prodigi, ma del rovesciamento radicale dell’ordine del mondo; accade piuttosto corrispondendo ad una radicale misura di gratuità e di libertà, tale da non escludere neanche la necessità.

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Quanto sia cruciale la novitas cristiana nell’itinerario speculativo di Donà lo mostra anche la sua voluminosa e recente opera, Teomorfica12 in cui espone il suo Sistema di estetica. Il nostro filosofo traccia una suggestiva analogia tra tre “luoghi” speculativi e altrettante forme di espressione artistica. Il primo movimento si riferisce alla metafisica platonico-aristotelica e alle estetiche illuministiche del piacere; il secondo movimento alle estetiche neoplatoniche; il terzo movimento fondato sull’ontologia tomista e sul paradigma trinitario, sarebbe capace di inverare i primi due, di includerli nella Medesima verità cristiana come forme necessarie di un’erranza che non sa riconoscersi tale, ovvero come appartenente al manifestarsi dello stesso Dio. Donà vuole iscrivere interamente l’arte contemporanea in una tale prospettiva filosofico-teologica, e individuare nei differenti artisti la possibilità di cogliere, al di là del continuo variare delle forme e degli stili, la vera permanenza di quel Deus Trinitas, già in se stesso molteplice, che si mostra in ciascun ente laddove si neghi la sua mera datità e utilizzabilità.

L’esperienza estetica L’opera d’arte, scrive Donà, apre il mondo, quello di tutti i giorni, e lo rende nuovo trasfigurandolo. Gioia di un negativo che non indica mancanza ma un indeterminato/indeterminabile sentire che eccede l’apparire incontraddittorio degli enti. Infatti nella nostra finitezza, ogni volta che ci poniamo di fronte ad un altro ente, o a noi stessi, si riproduce il dualismo soggetto-oggetto, e ci relazioniamo ai determinati e molteplici significati di ogni cosa; viceversa l’esperienza estetica assume,

12. Bompiani, Milano 2015.

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per il filosofo veneziano, un valore unico: quello di poter guardare alle singole cose esistenti per come sono in sé, per il loro essere puramente e semplicemente esistenti13. Ogni cosa non si esaurisce nella datità con cui si mostra a noi, ma la certezza sensibile della sua immediatezza, la determinatezza definita delle sue relazioni con altro da sé, si lasciano negare rivelando l’indeterminato da cui provengono e in cui dimorano. Donà scrive: Come se io, nel pormi di fronte ad un oggetto percepito, nel suo perfetto isolamento, percepissi appunto la sua semplice esistenza – quella con cui mai mi rapporto invece nell’ambito dell’esperienza quotidiana. E proprio per questo provassi un autentico piacere […] Finalmente, cioè, ho a che fare con la perfetta insensatezza di un ‘è’ in cui vedo riflessa – come in uno specchio – la mia stessa in-determinatezza ma per l’appunto fattasi ormai pura positività, ossia liberatasi dalla contraddizione in cui io sempre mi ritrovo ad esistere in quanto semplicemente gettato-nel-mondo […] Questo il piacere del perfettamente inutile ed insignificante […] quello che ci libera dalla schiavitù nei confronti dell’utilitas e delle sue costrizioni, ovvero della sua logica necessitante…14

L’esperienza estetica ci consente, infatti, di fruire della bellezza della cosa nella sua interezza: non è certo quindi la sua determinazione attraverso i predicati universali, i generi e le specie cui appartiene e che la accomunano ad altri enti, a significarne la bellezza. È insomma l’unica esperienza possibile di una finalità senza scopo definito, della liberazione dalla tirannia dell’utile, dei progetti, dei desideri con cui quotidianamente ci relazioniamo agli enti. Il nostro filosofo, riprenden13. Su questo punto mi permetto di rinviare a: N. Magliulo, Cogito quia absurdum. Note al libro di Massimo Donà: Il mistero dell’esistere, pubblicato in appendice a: Cacciari e Severino, cit. 14. Mistero dell’esistere. Arte, verità e insignificanza nella riflessione teorica di René Magritte, Mimesis, Milano-Udine 2006, pp. 130-1.

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do la lezione kantiana, afferma che la bellezza non è un’idea come le altre, né una determinazione spazio-temporale, una qualità oggettiva della cosa; in questo senso Kant anticiperebbe anche lo scenario dell’arte contemporanea. La bellezza della cosa non rimanda ad un divino astrattamente trascendente ma a quell’alterità che rende assoluto ogni ente esperito esteticamente negandolo senza nulla escludere, cancellare, di esso. Fruizione, quella estetica, che appartiene alla dimensione della conoscenza e non del desiderio, alla contemplazione e non al possesso: È insomma proprio grazie all’incontro con la bellezza che a tutti noi viene concesso di fare esperienza (e non di ‘conoscerla’- che sarebbe sempre e comunque un ‘oggettivare’, e quindi un tradire) della nostra spaesante assolutezza. Quella che normalmente obliamo e soffochiamo coprendola con il frastuono teleologico che da sempre accompagna il nostro procedere ossessivamente orizzontale – tutto sostanzialmente dominato da una insopprimibile e purtuttavia inappagabile volontà di dominio e rassicurazione […] di possesso e di verità “oggettiva.15

Non solo; ma l’esperienza estetica consente di relazionarci allo scorrere del tempo in un modo tale da negarne l’univocità del suo apparire come mera durata e incessante distruzione di ogni cosa; scrive Andrea Emo: L’arte, la poesia, la musica, sono le invisibili carceri del tempo; dove il tempo si addormenta e si ridesta in forme scintillanti; quando la sua grigia continuità viene indotta a specchiarsi nella sua diversità eternamente ripercossa dagli evocati silenzi, e riconosce le inenarrabili qualità delle sue iridi. Nelle opere d’arte il tempo si rivela e magicamente si arresta.16

15. Sulla negazione, cit., p. 369. 16. Le voci delle Muse, a cura di M. Donà e R. Gasparotti, Marsilio, Venezia 1992, p. 130.

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In particolare, la musica ci consente di volgerci al fondo innocente e aconcettuale dei fenomeni, ci obbliga ad un’altra percezione del reale, interrompendo il flusso continuo del significare e innescando una trasfigurazione della temporalità. In essa risuona la Voce di un identico che è sempre diverso da sé; di quel Suono originario, che si riflette nelle molteplici sonorità e che perfettamente ci convince come mai nessun discorso, che, insomma, ci fa fare esperienza di un tempo ‘altro’: «nella musica il tempo si fa bello proprio per gli scarti di cui è intessuto, ossia per le dinamiche che fanno di ogni suo momento una ricchezza di potenzialità future e di ricordi»17. Lo stesso fattore ritmico-timbrico, nella sua autonomia, allude ad un resto eccedente da ogni determinato significare: «Il senso che la musica rende possibile è dunque la stessa riconducibilità del significato all’essere; all’essere suo proprio, in quanto essere che non dice se non il semplice mistero di quel che semplicemente “è”»18.

17. Filosofia della musica, Bompiani, Milano 2006, p. 24. 18. Parole sonanti. Filosofia e forme dell’immaginazione, Moretti e Vitali Editori, Bergamo 2014, p. 85.

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Indice

La Terra che salva: Emanuele Severino

p. 11

Tra il tempo e il Sacro: Vincenzo Vitiello

p. 31

Della singolarità: Massimo Cacciari

p. 49

Metamorfosi dell’identico: Massimo Donà

p. 69

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Zeugma | Lineamenti di filosofia italiana 5 - Classici

Collana diretta da: Massimo Adinolfi e Massimo Donà Comitato scientifico:

Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

ISBN E-book 9788885716322

Questo lavoro illustra le tesi filosofiche fondamentali di Emanuele Severino, Vincenzo Vitiello, Massimo Cacciari e Massimo Donà, tra i più rilevanti pensatori contemporanei italiani, contribuendo all’individuazione e alla comprensione delle teorie, delle affinità e delle divergenze speculative, che caratterizzano il loro itinerario filosofico. In particolare vengono esaminate e messe a confronto le concezioni relative a questioni cruciali come: il principio di non contraddizione e la relazione tra verità ed errore; la singolarità, la mortalità e l’eternità degli enti; il concetto di identità oltre ogni apologia della differenza; l’interpretazione del cristianesimo, delle sue ‘specificità’, delle sue aporie, e di quanto appare ancora fecondo, al di là delle sistematizzazioni filosofico-teologiche tradizionali; il nichilismo e la Tecnica come destino del moderno-contemporaneo; il dolore della finitezza e la Gioia come dimora dell’uomo.

Nicola Magliulo è professore di filosofia nei licei, dottore di ricerca, e svolge attività didattica presso l’Università Federico II° di Napoli. Tra le sue pubblicazioni: Un pensiero tragico, Napoli 2000; Le domande fondamentali, Napoli 2001; Paradossi e aporie del cristianesimo, Caserta 2003; La luce oscura, Caserta 2005; Cacciari e Severino, Milano-Udine 2010; Indeterminato splendore in Inquieto pensare, Scritti in onore di Massimo Cacciari, a cura di E. Severino e V. Vitiello, Brescia 2015: Ripensare l’amore, in Verità dell’Europa, a cura di E. Forcellino, Roma 2016.

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