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Italian Pages 160 [260] Year 2014
Giulio Questi
SE NON RICORDO MALE FRAMMENTI AUTOBIOGRAFICI raccolti da Domenico Monetti e Luca Pallanch
Rubbettino
- FOCUS COLLANA DIRETTA DA CHRISTIAN UVA
CINEMA
Collana diretta da Christian Uva (Università degli Studi Roma Tre) Comitato scientifico Enrico Carocci (Università degli Studi Roma Tre) Luigi Cimmino (Università degli Studi di Perugia) Giacomo Manzoli (Alma Mater Studiorum-Università di Bologna) Andrea Minuz (Sapienza Università di Roma) Emiliano Morreale (Cineteca Nazionale/Università degli Studi di Torino) Alan O’Leary (University of Leeds) Guido Vitiello (Sapienza Università di Roma) Vito Zagarrio (Università degli Studi Roma Tre) In collaborazione con Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia - Cineteca Nazionale Presidente Stefano Rulli Direttore generale Marcello Foti Conservatore Cineteca Nazionale Emiliano Morreale Divisione Editoria Gabriele Antinolfi Immagini Copertina Giulio Questi (archivio privato Giulio Questi) Il volume è illustrato con fotogrammi tratti da pellicole conservate presso la Cineteca Nazionale, con fotografie provenienti dall’Archivio Fototeca del Centro Sperimentale di Cinematografia e dall’archivio privato Giulio Questi. Ricerca immagini Marina Cipriani, Alessandro Andreini (Archivio Fototeca CSC) © 2014 Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia, via Tuscolana 1524 00173 Roma www.fondazionecsc.it La Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia è disponibile a riconoscere ai legittimi detentori il copyright relativo alle fotografie delle quali non è stato possibile reperire gli aventi diritto. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e degli editori. © 2014 - Rubbettino Editore 88049 Soveria Mannelli - Viale Rosario Rubbettino, 10 - tel (0968) 6664201 www.rubbettino.it
Indice
Prefazione DOMENICO MONETTI E LUCA PALLANCH
Se non ricordo male Premessa Filmografia commentata
Prefazione DOMENICO MONETTI E LUCA PALLANCH
Ha fatto il partigiano nelle valli bergamasche. Ha preparato carte d’identità false per gli ebrei. Ha venduto armi a loschi trafficanti. Ha bocciato le poesie di un giovane Pasolini. Ha fatto da guida a Le Corbusier. Ha incontrato Orson Welles a Taormina. Ha diviso la povertà con Marco Ferreri e i ricordi di guerra con Fenoglio. È stato aiuto regista di Zurlini, Ettore Giannini e Rosi. Ha lavorato nella famosa Lux Film di Gualino e Gatti. Ha bocciato i provini della Loren e della Koscina… È diventato famoso nella Roma anni Cinquanta per aver fatto cadere in Lambretta Pratolini… Era il pupillo di Vittorini. Pranzava con Ferruccio Parri, Gassman e Rossellini. Andava al mare con Citto Maselli e Goliarda Sapienza. Lavorava di nascosto assieme ad Antonioni. Faceva l’attore per caso per Fellini (La dolce vita) e Germi (Signore & signori). Girava nei locali parigini Universo di notte e Nudi per vivere con Montaldo e Petri, coperti dal nom de plume Elio Montesti… Ha fatto coppia con il geniale Kim Arcalli: Jules e Kim. Insieme hanno scritto tre film di culto: Se sei vivo spara, La morte ha fatto l’uovo, Arcana. Si è ispirato a Bataille e De Sade. Ha diretto Tomas Milian, Jean-Louis Trintignant, Gina Lollobrigida, Lucia Bosè… Oreste Del Buono lo ha definito «il Polanski orobico, il Buñuel della Val Brembana»… Non ha (dis)fatto L’Italia s’è rotta perché ha rotto con Carlo Ponti per colpa di Dalila Di Lazzaro. Allora è scappata dall’Italia e ha vissuto nell’Isola di Baru, in Colombia, dove ha fraternizzato con Gabriel García Márquez…
Ha girato il mondo con il produttore Daniele Senatore, altro folle genio. Insieme hanno tirato coca nel bagno di Richard Burton. Dormito nel letto della Loren a Central Park. Accompagnato al Village Charlie Mingus. Aperto uffici a New York, Los Angeles e Cartagena… Un giorno si è ritirato in casa e ha cominciato a girare film da solo, con la videocamera, per la fantomatica casa di produzione Solipso Film… Oggi scrive…
Se non ricordo male
Il vantaggio della cattiva memoria è che si gode parecchie volte delle stesse cose per la prima volta Friedrich Nietzsche (Umano, troppo umano)
Premessa
All’inizio tutto è nato da alcune conversazioni registrate con gli amici Domenico Monetti e Luca Pallanch. Una rincorsa della memoria sollecitata da domande non perentorie, articolate sui percorsi di un’amichevole curiosità. Ne seguivano le mie chiacchiere, disinibite da un tintinnante bicchiere di whisky in mano. Sbobinate le registrazioni, sono state cancellate le domande e sono rimaste soltanto le mie chiacchiere. È stato come togliermi di colpo la sedia su cui stavo seduto e farmi andare, come si dice, col culo per terra. Tutto si tramutava in un vagante sproloquio senza più l’appoggio dialettico della conversazione, significata e calibrata dai toni di voce, dalle pause, dalla mimica. Quella che era solo una chiacchiera assumeva l’impegno di un’autobiografia e il testo non era certo all’altezza. Perciò tutto o quasi tutto è stato riscritto, ordinato in volenterosi capitoli, arricchito di nuove voci. Insomma, si è imposta la scrittura. Tutto per giustificare un abbozzo di autobiografia dal dubbio interesse. G.Q.
Genealogia L’albero genealogico della mia famiglia si perde a ritroso nel nulla, appena al di là del Novecento. Giunge fino a un bisavolo di mia madre processato per vilipendio di cadavere. Il cadavere di sua moglie. Li.bro scaricato gratis su Mar.apca.na, cercaci su Google Già piuttosto avanti con gli anni, con i figli emigrati in Francia, lui e la moglie vivevano da soli in una baita di montagna su un magro pascolo con due sole mucche nella stalla. L’autunno era già inoltrato e si preparavano ad abbandonare il pascolo per svernare, come al solito, in paese con i due animali, quando un brutale anticipo di inverno si è abbattuto sulla montagna imprigionandoli in una nevicata di tre notti e tre giorni che ha cancellato ogni sentiero. La temperatura è precipitata e per tutta la valle la neve si è trasformata in ghiaccio. La moglie non si è alzata più dalla paglia e nel giro di pochi giorni è morta di polmonite. Per conservarne il corpo e soprattutto per liberare la paglia che serviva alla sopravvivenza degli animali, il vecchio ha trasportato la moglie nel gelo della legnaia appena fuori della baita. Poiché il corpo era già indurito e rigido per la morte e per il freddo, non ha trovato di meglio che addossarlo in piedi alla parete, tra la legna, anche per ragioni di spazio. Essendo il camino della baita sempre acceso, il vecchio andava spesso nella legnaia, anche in piena notte, facendosi luce con una lampada a petrolio. La prima volta si è trovato in imbarazzo perché non sapeva dove appendere la lampada mentre si caricava di legna. Gli è venuta incontro la moglie, quasi lo volesse aiutare ancora una volta, in piedi contro la parete, con la bocca spalancata e sdentata, così rimasta nel suo ultimo disperato tentativo di catturare un po’ d’aria prima di morire. Il vecchio non ha avuto dubbi e ha agganciato la lampada a quella bocca provvidenzialmente aperta, proprio all’altezza giusta per fare luce. Così è stato per molte notti, finché è venuto un improvviso disgelo e il vecchio è potuto finalmente
scendere in paese con i due animali e con il corpo della moglie a spalle in una gerla. Fu giù in paese che fecero tante storie: in effetti, scomparsa la consistente durezza del gelo, la bocca scardinata e lacerata si era afflosciata in una smorfia spaventosa e abnorme che ha scandalizzato e insospettito i benpensanti, fino a una denuncia per vilipendio di cadavere. Ne è seguito un processo, che è durato lo spazio di due sole sedute. Il mio avo ne è uscito ampiamente assolto. Onore a quella Giustizia sensibile alla condizione umana. Di lui so solo che si chiamava Bepi. Dai figli dei figli e ancora dai figli snocciolati da quel ramo, non so come, è discesa la famiglia di cui faccio parte.
Il mio albero degli zoccoli Negli anni Cinquanta, quando ero già adulto, ho scoperto che i due grandi portali in legno dei più importanti edifici del centro di Bergamo – la mia città natale –, la chiesa di S. Bartolomeo e il Teatro Donizetti, portavano alla base una targhetta di ottone con scritto il nome dell’esecutore: Giulio Questi. Il mio stesso nome. Mio nonno. È stato mio padre a dirmelo: «Va un po’ a vedere, se non è vero». Cavolo, era vero! Le due targhette sono poi scomparse in seguito al sopravvenuto restauro di quei portali. Un peccato perché quelle due targhette sono tutto quanto so di mio nonno. Ho scoperto infatti che anche mio padre non sapeva niente di lui. Neanche ricordava di averlo conosciuto, perché era morto quando lui, figlio unico, non aveva ancora due anni. Sapeva solo che, in seguito a quella morte, sua madre era caduta in miseria e si era arrangiata facendo la sarta. Anni dopo si era risposata. Questa nonna qualche volta l’ho vista e mi inquietava: aveva un bel viso forte, fosco e zingaresco, ma non era una zingara. Pur tra mille difficoltà, ha cresciuto suo figlio, nato nell’anno 1901. Trovando qualche aiuto e qualche protezione, l’ha fatto studiare alla scuola d’arte applicata “Fantoni”, la stessa scuola forse, mi piace immaginare, dove suo padre aveva imparato così bene il mestiere di falegname e intagliatore. Mio padre è diventato invece un buon disegnatore tecnico. Finita la scuola, ha trovato lavoro in una ditta di motori elettrici e si è specializzato come disegnatore di questi apparecchi. La ditta era legata alla Westinghouse, la famosa società statunitense di apparecchiature elettriche, che lo ha richiesto per la filiale di Parigi, dove ha lavorato e vissuto per un paio d’anni. Tornato in Italia, si è sposato quasi subito. Probabilmente mia madre era rimasta incinta. E infatti si sono sposati così in fretta e furia che non avevano neppure una casa e sono andati ad abitare dalla famiglia di mia madre, che aveva cinque fratelli e quattro sorelle. I miei nonni materni venivano dalla campagna, da un borgo chiamato Sabbio Bergamasco, una frazione di Dalmine.
Avevano terra in affitto, poi i raccolti erano andati male e si erano trasferiti a Bergamo. Mia madre mi ha raccontato che ha lasciato la campagna con tutta la famiglia ed è arrivata in città su un carro: padre, madre, dieci figli e in più la nonna. Ha trovato una stalla con gli animali e si è messa a vendere il latte. Poi mio nonno ha avuto l’occasione di comprare un forno e tutti i componenti della famiglia sono diventati fornai, le femmine a vendere in negozio, i maschi a impastare e a infornare. Il primo inverno della mia vita l’ho trascorso al caldo nel locale del forno, una cesta del pane è stata la mia prima culla. E siccome per tutta la casa c’erano sacchi di farina, era pieno di topi e di gatti. Ce n’era sempre qualcuno che ronfava nella mia cesta facendomi compagnia. Sono cresciuto lì per circa un anno e mezzo, poi i miei genitori hanno trovato casa a due passi dal forno, per cui ho continuato a vivere con un piede in questa affollata famiglia piena di zii. Ho avuto negli anni tre sorelle e da ultimo un fratello, più giovane di me di diciannove anni, che è morto qualche anno fa, ancora abbastanza giovane. Era diplomato in chimica, si era messo in proprio, sperimentava vernici speciali nel suo capannone: l’ha ucciso un cancro ai polmoni. Due sorelle vivono da cinquant’anni in Sudafrica, a Johannesburg. Da tempo sono cittadine sudafricane. Ho laggiù non so quanti nipoti. Un’altra sorella vive ancora a Bergamo. Anche lì nipoti e pronipoti.
Mia madre e mio padre… Mia madre, nata nell’anno 1900, era curiosa, focosa e ardente, allegra, ma si arrabbiava per niente. Ha fatto solo le scuole elementari senza nemmeno completarle e incredibilmente è stata una grande conoscitrice di Tolstoj, Čechov e di tutta la letteratura francese dell’Ottocento, Balzac, Zola, Maupassant… una gran divoratrice di libri. La ricordo sempre intenta a leggere qualche romanzo, di sera, seduta sul tavolo di cucina, per stare vicino alla lampada. Era proprio fanatica: Čechov lo conosceva a memoria. Lei non intellettualizzava concettualmente quello che leggeva, era presa piuttosto dalla vicenda umana dei personaggi, per cui conosceva tutte le sfumature dei romanzi e dei racconti, più di un critico letterario. Era molto passionale nei sentimenti: io tendevo a scivolare via per non farmi acchiappare! Invece quando si arrabbiava, mi tirava gli zoccoli, e una volta, mentre scappavo, mi tirò persino un paio di forbici, che andarono a piantarsi, vibrando, nello stipite della porta! Mio padre invece era l’esatto contrario: un uomo che si era riscattato dalla povertà dell’infanzia, persona ordinata e d’ordine, di grande perbenismo, intelligente. Negli anni Trenta si è iscritto alla facoltà di ingegneria per corrispondenza di un’università francese. Ricordo quei fascicoli che arrivavano dalla Francia carichi di francobolli e lui che ci studiava sopra di notte. Ricordo l’odore che aveva sempre nei vestiti, l’odore della grafite delle matite. Ricordo il grosso regolo che teneva sempre nel taschino della giacca per i calcoli matematici. Ma torniamo un po’ indietro. Nel 1929, quando io avevo cinque anni, mio padre è stato licenziato. Ricordo discussioni animate tra lui e mia madre per problemi economici: la crisi del ’29, che per molti ha solamente un valore storico, io invece l’ho vissuta direttamente in famiglia per parecchi mesi. Dopo un bel po’ di disoccupazione, mio padre per fortuna ha trovato lavoro in una nuova ditta, la Marelli di Milano. Successivamente è potuto tornare alla vecchia ditta di Bergamo. Essendo antifascista, non ha mai fatto carriera.
Finita la guerra, il suo antifascismo è stato sdoganato. È stato promosso dirigente con adeguato stipendio, ma si è subito ammalato. Si è fatto liquidare e si è messo in proprio, brevettando alcuni interruttori per motori. Ha brevettato anche un parcheggio per automobili e altre piccole cose. La sua vera vocazione era quella dell’inventore. È morto nel 1954 di tumore, a soli 53 anni, ancora pieno di progetti, imbottito di morfina.
Sparare, uccidere, morire… È sempre un po’ equivoco attribuire grande valore ideologico a scelte fatte all’età di 17-18 anni. Io comunque provenivo da una famiglia antifascista e in casa mia il fascismo era oggetto di avversione e disgusto. Mio padre aveva visto nascere il fascismo da Parigi, nel ’22, leggendo gli avvenimenti sui giornali socialisti francesi. Ma, prima ancora della scelta ideologica, la necessità di diventare partigiano per me era impellente perché mi era arrivata la cartolina per andare sotto le armi. Questo è accaduto dopo l’8 settembre ’43. Io ero già in piena attività militante antifascista da un paio d’anni, nella rete clandestina del Partito d’Azione. Avrei quindi dovuto presentarmi in caserma per essere arruolato a combattere al fronte con i tedeschi. Non avevo scampo. Tutto sommato andare in montagna era molto meno pericoloso che andare sul fronte gotico sotto le cannonate e i bombardamenti. Non c’è stato niente di eroico nella mia scelta. Poi naturalmente da partigiano ho rischiato la pelle, ma in un altro modo: il rischio derivava da scelte personali. A quell’età il senso d’avventura è dominante. Ero un semplice partigiano, poi sono stato “promosso”… parola che non esisteva, quindi meglio dire che ho ricevuto l’incarico di comandante di distaccamento. Conservo ancora in un cassetto la mia stelletta che portavo cucita sulla giacca a vento. Il mio primo inverno da partigiano l’ho trascorso in una banda spontanea. Le formazioni militari organizzate in brigate infatti non sono nate subito, ma ben dopo l’8 settembre. Dai primi gruppi spontanei alla costituzione delle cosiddette brigate vere e proprie sono passati molti mesi: sono nate solo verso la fine dell’inverno e l’inizio della primavera del ’44. Erano la filiazione militare del Comitato di Liberazione Nazionale, ovvero il comando politico clandestino dove militavano i Longo, i Parri e gli altri rappresentanti dei partiti politici antifascisti. Nella mia brigata c’erano compagni di diversa provenienza: contadini e montanari del posto, operai
milanesi sfuggiti alla polizia politica, sbandati della IV Armata italiana in Francia. Dopo aver tentato invano di raggiungere le loro case più a sud, alcuni si erano arruolati nelle nostre formazioni. Ma torniamo alla mia prima banda, nell’inverno del ’43. Il nostro comandante era un ragazzo un po’ più vecchio di me, operaio e comunista. Avevamo la base nel fitto di un bosco, in uno chalet di caccia che avevamo occupato scardinando la porta. Rimasti senza viveri, siamo scesi a valle con un motocarro e in due riprese abbiamo svaligiato una piccola banca di paese e la villa di un industriale milanese. Finché una notte siamo stati circondati e attaccati da formazioni militari fasciste. Una spaventosa sparatoria nel buio fitto della notte e del bosco. Ci siamo salvati soltanto in tre, sfuggiti all’accerchiamento in modo fortunoso. Alcuni della banda sono caduti in combattimento, gli altri, circa una dozzina, sono stati fatti prigionieri e deportati in Germania. Noi superstiti ci siamo rifugiati in una piccola valle limitrofa, stretta e profonda, perennemente senza sole, in quel mese di gennaio tutto gelo e ghiaccio. Valle di cui ricordo ancora il nome che suonava quasi onomatopeico per lo scricchiolare del ghiaccio sotto i chiodi degli scarponi: Val del Vetro. Una maledetta valle di freddo e di fame. Solo dopo alcuni giorni siamo riusciti a riprendere contatto col nostro referente clandestino. Costui, venuto dalla città, mi ha comunicato inaspettatamente che proprio me cercava: dovevo raggiungere Milano per incontrare un dirigente della Montedison legato al Comitato di Liberazione Nazionale. Mi ha portato via con lui. Da Milano sono stato spedito in missione a Bologna, in una casa in via del Carro, dove sono rimasto per circa un mese con l’incarico di preparare carte d’identità false: dovevo mettere i nomi e incollare le fotografie. Per lo più di ebrei. La famiglia di antifascisti – marito e moglie, gente modesta e perbene – che mi ha ospitato, poco tempo dopo la mia partenza, è stata scoperta, presa e portata in un campo di concentramento in Germania, da dove non è più tornata. Per me il maggior rischio di quella missione a Bologna è stato il viaggio in treno di andata e ritorno. Avevo documenti falsi, ma avevo l’età e l’aspetto di uno che doveva essere sotto le armi e quindi probabile renitente. Per i renitenti alla leva era uscito da poco
un bando di condanna a morte e le pattuglie della polizia militare battevano le stazioni e i treni. Dopo questa missione estemporanea, sono tornato di nuovo sulle montagne bergamasche, finendo in un’altra banda irregolare capitanata da Del Bello, col quale sono rimasto circa un paio di mesi. Il Del Bello è stato fucilato nell’estate con altri quattro uomini per ordine del Comando generale. Ho avuto la sventura di assistere a questa mattanza. Lasciato il Del Bello, sono approdato in una brigata che si era formata nel frattempo, una brigata Giustizia e Libertà. Stanziavamo in rifugi di montagna in alta Val Seriana, sconfinando spesso in Valtellina. Gli uomini erano bravi ragazzi, ma il comandante era sbagliato: un ex tenente dell’esercito inviato dall’alto, che si era portato appresso un paio di sergenti del suo vecchio reparto. Un fanatico cattolico fondamentalista che reprimeva ogni respiro della brigata, imponendo una militarizzazione cervellotica, tutto il contrario dello spirito volontario e libertario proprio della nostra mobilitazione popolare. Per dirne una: puniva le bestemmie sequestrando le munizioni del fucile al bestemmiatore. Mezza brigata si aggirava disarmata. Ci sono stati tensioni e incidenti per cattiva gestione di comando. In uno di questi ci è scappata la morte di un giovane compagno. È toccato a me andare a seppellirlo, aiutato da un paio di compagni. Una discesa massacrante con il morto legato sul dorso di un cavallo, fino a un paese del fondovalle. In piena notte abbiamo forzato il cancello del piccolo cimitero, scavata una fossa, calato il morto con le cinture dei nostri pantaloni. A questo punto mi sono ribellato. All’alba, da incosciente, con un mozzicone di matita ho scritto una lettera per il comandante in cui denunciavo, indignato, la cattiva conduzione della brigata e il mio rifiuto di rendermi complice. Dichiaravo di ritenermi libero, di trattenere le mie armi personali e di cercare un’altra collocazione. Ho consegnato la lettera ai due compagni, che sono ripartiti per la montagna tirandosi dietro il cavallo. Cosa mi spinse a scrivere quella lettera? Sicuramente il dolore per l’inutile morte del compagno, ma altrettanto sicuramente, conoscendomi, la bellezza letteraria del gesto, degno di un personaggio di Guerra e pace. Il risultato è stato
un’immediata condanna a morte per ammutinamento e diserzione. Il comandante ha spedito pattuglie a cercarmi. Per più di un mese ho vissuto alla macchia nei boschi con l’unica difesa del mio Sten, con due caricatori di quaranta colpi, e della mia pistola Astra 7,65. Dormivo nei rifugi dei carbonai. Vivevo di polenta. Avevo i pidocchi, mi grattavo la schiena sino a farla sanguinare contro i tronchi degli alberi: si era aggiunta la scabbia. Mi sono riscattato con un colpo di fortuna. Mi era giunta voce che sul territorio si aggirava un certo comandante Mino alla ricerca disperata di volontari da arruolare senza andare troppo per il sottile. In seguito a un rastrellamento aveva perso quasi tutti i suoi uomini. Doveva in fretta e furia mettere insieme una nuova formazione sufficiente a ricevere un lancio aereo di armi. Era l’unico depositario delle parole chiave di un messaggio radio cifrato riguardante l’imminente lancio. L’ho incontrato in una piccola frazione ai margini del bosco e sono stato subito arruolato. Pochi giorni dopo, insieme a una trentina d’uomini, ho raggiunto nella neve un rifugio di montagna in una zona di laghi ghiacciati. Ormai ero al sicuro sotto le insegne del mitico comandante Mino. Nel frattempo il comandante integralista della mia vecchia formazione era stato destituito su iniziativa del Comando generale. Più tardi ho avuto l’occasione di incontrare e riabbracciare i miei vecchi compagni. Senza rancore. Sotto il comando di Mino ho passato l’inverno e la primavera ’44-’45, tra memorabili avvenimenti, sui quali alcuni anni dopo ho scritto una serie di racconti. Il nuovo gruppo era ancora sotto le insegne di Giustizia e Libertà, ma Mino aveva ottenuto dal Comando generale di organizzarsi in banda autonoma col nome di Cacciatori delle Alpi. Un gruppo di una ventina di uomini che si spostava continuamente in piena libertà. Una brigata poteva avere da un minimo di un centinaio di uomini a un massimo di trecento, con grandi problemi di approvvigionamento che andavano a pesare sul territorio e sulla popolazione. Venti uomini non creavano di questi problemi. Grande facilità di spostamento, di iniziativa, di azione. Fra le cose più folli, l’incarico che ho avuto di scendere in città a uccidere un generale dell’esercito. Sparare,
uccidere, morire… Se sei un soldato di un esercito, non vedi chi ammazzi perché spari con una mitragliatrice o con un fucile a tiro lungo o vai all’assalto ubriaco di paura. Nella guerra ravvicinata, com’era la nostra, sei più cosciente di tutto perché la gente che ammazzi la vedi da vicino, sia da viva che da morta. Io posso dire con certezza non che non provi niente, ma che non fai in tempo a provare qualcosa: se uccidi perché stai per essere ucciso, sei pieno di adrenalina e non pensi proprio a niente. La domanda diventa più lecita così: «E vent’anni dopo?». Venti e anche cinquanta anni dopo molte cose affiorano all’improvviso, a volte un solo dettaglio fotografico che esplode terribile: angoscia, paura, orrore, mai più la guerra, mai più avere vent’anni!… Sì, si maledicono i propri vent’anni! La memoria è molto più aggressiva e crudele della realtà.
Tornando a casa Il rientro nella vita civile è stato molto duro. C’è stato un grosso sbandamento in tanti di noi. Io ho avuto la fortuna di terminare la guerra con il comandante Mino, che ha pensato a noi. La liberazione è avvenuta il 25 aprile ’45 e il 30 aprile abbiamo avuto la segnalazione di un treno tedesco carico di merci fermo a Treviglio, a venti chilometri da Bergamo. Il treno era rimasto fermo perché i tedeschi erano stati fatti prigionieri. Abbiamo saccheggiato il treno, caricando una quantità di merce, che consisteva per lo più in casse di liquore di un solo tipo: Triple Sec, un liquore allora assai diffuso, dal gusto molto dolce. Ne ho bevuto golosamente mezza bottiglia e ho vomitato per un giorno intero. C’erano anche casse di cioccolato, allora molto prezioso. Il comandante Mino ha venduto tutto, due camion di roba, al mercato nero di Milano, ricavando parecchi soldi, e in base all’anzianità li ha distribuiti a ognuno di noi, per cui ce la siamo cavata tornando alla vita civile con un po’ di soldi in tasca, mica tanti. Quando siamo tornati, ci siamo accorti che la realtà era un’altra: lo Stato c’era ancora e con lo Stato dovevi fare i conti. All’inizio hanno messo i prefetti antifascisti, poi nel giro di un anno la burocrazia statale ha ripreso a funzionare e sono tornati i prefetti di carriera e lo Stato ce lo siamo ritrovati davanti. Prima il nostro sogno di libertà e di felicità aveva cancellato lo Stato. Abituati a vivere tra di noi in piena libertà, ci aspettavamo una società felice e libera, che non si è mai realizzata. Molti hanno avuto grandi delusioni, alcuni hanno intrapreso strade sbagliate, finendo col fare rapine agli uffici postali, altri non volevano deporre le armi. Anche noi abbiamo tenuto duro: ci hanno confinato fuori città, in un paese, in attesa che si calmasse tutto… non è come congedarsi dall’esercito che consegni la roba in caserma e poi te ne ritorni a casa! Io mi sono salvato perché ho avuto la fortuna di amare la letteratura, per cui la mia preoccupazione era di riprendere l’università e di avere un po’ di soldi per sopravvivere. La mia
famiglia era uscita stremata dalla guerra, senza una lira, con lo stipendio di mio padre svalutato e cinque figli a carico – andando in guerra li avevo alleggeriti di molte spese importanti –, per cui dovevo darmi da fare per procurarmi un po’ di soldi.
Armi… Per studiare all’università ho venduto con dispiacere alcune delle armi alle quali ero affezionato. A quell’età ero molto avventuroso e poco consapevole. Bisogna immaginare il dopoguerra, i ragazzi che tornavano dalla montagna: la guerra non era mai finita per loro, e un po’ pure per me, anche se io tramutavo tutto in letteratura. Insomma, ho venduto un po’ di armi. A chi? È venuto un tipo da Milano, la sua figura mi è rimasta stampata nella memoria. Gli ho ceduto un paio di rivoltelle e una Machine pistol tedesca, dalla quale mi sono separato con tanto dolore. Quando l’ho visto, non c’è stato bisogno di spiegazioni: vestito tale e quale ai gangster dei film, completo blu rigato e cappello scuro tirato sugli occhi. Malavita milanese, bande che in quel periodo si stavano formando e già imperversavano. Non so chi fosse: i nomi non si dicevano, non avvenivano presentazioni! Probabilmente un nome qualche tempo dopo stampato a caratteri cubitali sulle pagine della cronaca nera di «Milano Sera», un giornale che ti sporcava le mani d’inchiostro quando lo sfogliavi talmente le notizie erano forti. Le difficoltà economiche si facevano sentire. Alcuni miei vecchi compagni avevano saccheggiato un paio di depositi: la merce era costituita da giubbotti di pelle scamosciata per donne, giacche, roba decente, non di bassa qualità. Mi sono occupato della vendita della merce: ricevevo delle ragazze, delle signore, vendevo questa roba e poi dividevo i soldi con i miei vecchi commilitoni, piuttosto disadattati da quel che potete capire, me compreso.
…e bagagli: Svezia o Venezuela? Ho avuto due occasioni di emigrare: la prima, per andare a lavorare in Svezia, alle acciaierie, se ben ricordo, di Vasteras. Era venuta a Bergamo una commissione dalla Scandinavia: avevano bisogno di manodopera, gente giovane, e in Italia c’era una quantità di disoccupati a disposizione. Il reclutamento avveniva in un albergo vicino alla stazione e la commissione era supportata dalla Camera del Lavoro della città, quindi erano assunzioni regolari. Mi sono iscritto anch’io. Alcuni miei compagni sono partiti un paio di mesi dopo e non sono più tornati. Mi ricordo che mi scriveva un mio caro amico, diventato poi gruista in queste acciaierie: è rimasto lì e con il tempo non ne ho saputo più niente. Io non sono partito perché, nel frattempo, è nata l’occasione di partire per il Venezuela, che mi attirava assai più della Svezia. Un cambio di programma causato da una strana storia. Dietro c’era un delitto, l’uccisione di un vecchio pittore postimpressionista di un’ottantina di anni che per parecchio tempo aveva vissuto e lavorato a Parigi. Da poco era tornato a Bergamo, sua città natale, dove aveva una casa e uno studio, e lì aveva continuato a lavorare. È stato strangolato nel suo studio, una morte che ha fatto molto rumore in città perché era un vecchietto gentile e ben quotato nel mercato dei galleristi. Lo hanno trovato morto e lo studio depredato dei quadri suoi e di altri pittori francesi che aveva portato con sé da Parigi, tele di un certo valore. È stata indagata una modella che frequentava lo studio e il suo amante… Io sapevo un po’ di cose sulla ricettazione dei quadri perché me le aveva confidate un mio amico scultore, un discreto artista, poco più grande di me, che sapeva molto sull’argomento perché era amico di chi aveva ricettato i quadri, una persona benestante. Si profilava un processo per il delitto e c’era la possibilità che lo scultore venisse citato tra i testimoni per le sue conoscenze in quell’ambiente artistico. L’amico ricettatore era terrorizzato e allora ha detto allo scultore: «Tu non devi testimoniare, altrimenti ti metti nei guai e metti nei guai pure me. Ti do i soldi per andare via dall’Italia». Lo scultore aveva in testa il
Venezuela e siccome ero a conoscenza anch’io della ricettazione, il tipo ha pagato a entrambi il biglietto per il Venezuela purché scomparissimo. Siamo andati a fare i biglietti per la Guyana in un’agenzia di navigazione, soltanto che io, a causa di alcuni miei impegni, ho fatto il biglietto per il viaggio successivo della stessa nave, un paio di mesi dopo. Ho accompagnato il mio socio a Genova, l’ho visto imbarcarsi… la nave faceva impressione, era una di quelle vecchie navi decrepite rimesse in mare per i primi viaggi transatlantici del dopoguerra, si chiamava Lugano. Non ho mai raggiunto il mio amico: ho venduto il biglietto e ho ricavato un bel po’ di soldi! A poco a poco mi ero disinnamorato perché facevo tante cose, mi catturava un interesse nuovo, scrivevo, volevo fare documentari. Questo per spiegarvi il ribollire del dopoguerra, non era soltanto mio, era un ribollire diffuso, di progetti che c’erano e poi non c’erano più, si tramutavano, sfuggivano, si ripresentavano sotto altre vesti. Tutto era frenetico e vibrante e a volte pazzesco.
Bergamo-Milano, andata e ritorno Grazie ai soldi guadagnati in queste occasioni, ho ripreso l’università, dove prima avevo sostenuto solamente un paio di esami. Avevo fatto il liceo classico a Bergamo Alta, al liceo “Paolo Sarpi”, una scuola molto dura e severa. Dopo la maturità, mio padre sognava che mi iscrivessi a Ingegneria e quando ho espresso l’intenzione di iscrivermi a Lettere e Filosofia, a Milano, mi ha chiesto solo se ero sicuro. È rimasto un po’ deluso, ma dopo quella domanda non mi ha mai più detto altro. In quanto ex partigiano, ho avuto una borsa di studio dal Ministero dell’assistenza postbellica, che consisteva non in denaro, ma in una mazzetta mensile di buoni della mensa e in una cameretta alla Casa dello studente di Milano. Siccome non seguivo tutte le lezioni perché i miei interessi erano anche a Bergamo, dove collaboravo alla rivista «La Cittadella», vendevo regolarmente i buoni mensa e tornavo nella mia città. Viaggiavo in treno, spesso sul vagone bestiame, ma soprattutto sui camion che trasportavano merci o per passeggeri di fortuna, con delle panche fissate sul cassone, sui quali il viaggio costava poche lire. E così mi sono preso una pleurite, viaggiando d’inverno al freddo. Tutto ciò è molto curioso: ho vissuto da partigiano due inverni in montagna in mezzo alla neve, al gelo, alla fame, ai pidocchi e non mi sono mai ammalato, mentre frequentando l’università mi è venuta una pleurite, tanto che sono rimasto un paio di mesi chiuso in casa a curarmi! Mi è rimasta da allora una macchia sul polmone che fa sbarrare gli occhi ai medici quando mi mettono sotto i raggi X. Mi sono laureato con una tesi su Dino Campana. Ho avuto come insegnante di letteratura il prof. Bosco e come controrelatore nella discussione di laurea il filosofo Antonio Banfi, mio professore di estetica.
Quando abbiamo bocciato Pasolini Nel dopoguerra vivevo felicemente a Bergamo, una città di preti, ma c’era un gruppo di giovani che veniva dalla Resistenza. Eravamo di sinistra, laici e anticlericali e abbiamo fondato «La Cittadella», una rivista di politica e cultura, realizzata con pochissimi soldi, nella quale Giancarlo Pozzi e io ci occupavamo di letteratura. Eravamo circa dieci persone. La rivista ha avuto buona fortuna grazie alla diffusione in abbonamento in molte località d’Italia. È uscita per circa due anni, fino alle elezioni del 1948. A causa dell’esito del voto, il fronte antifascista si è spaccato e sono cominciate le grandi divisioni. Fino a quando il fronte è stato unito, sono arrivati finanziamenti facili, anche se striminziti, che ci hanno permesso di realizzare le nostre iniziative. La rivista è stata importante, al di là dell’entusiasmo di noi giovani redattori, perché sono approdate delle grandi firme. Collaboravano alla rivista Giulio Preti, Mariano Maresca, Bruno Zevi, Gianandrea Gavazzeni, Rosario Assunto, Renato Solmi, Aldo Capitini, Ferdinando Tartaglia, Delfino Insolera, Claudio Pavone, Glauco Viazzi, Enzo Santarelli, Elio Filippo Acrocca, Elio Pagliarani. Pier Paolo Pasolini ci ha mandato delle poesie in friulano che sono state bocciate da noi redattori: non capivamo il friulano! Fece scandalo Ferdinando Tartaglia, l’ex prete che predicava una religiosità nuova. Tartaglia era per me una specie di Savonarola, ispirato anche fisicamente, piccolo di statura: ha tenuto una conferenza nel più grande teatro della città – lo abbiamo affittato ed era strapieno di gente – e ha attaccato la religione ufficiale da grande predicatore eretico. Un linguaggio affascinante, parole nuove, mai sentite, un vero incantatore. La rivista aveva una pagina fissa dedicata alle religioni e alle nuove teologie. Un’altra pagina periodica della rivista era aperta alla Fai, la federazione anarchica italiana. Mi vengono in mente tanti nomi che adesso a voi non dicono nulla, ma che una volta avevano una grande importanza nella vita culturale.
In giro con Le Corbusier Nel 1949 si tenne a Bergamo il Ciam, congresso internazionale di architettura moderna, evento piuttosto raro. Noi della redazione de «La Cittadella» conoscevamo molto bene gli architetti della città organizzatori del convegno. Uno di questi mi ha chiamato: «È arrivato Le Corbusier, non è mai stato a Bergamo, vuol conoscere la città alta. Tu conosci bene il francese, te lo affido, portalo un po’ in giro». Così ho passato un pomeriggio con Le Corbusier. Mi veniva dietro, guardava meravigliato, si eccitava, si muoveva in fretta per cambiare angoli di visuale. Lo rincorrevo a fatica. Cavava di tasca un taccuino e prendeva appunti frettolosi, rapidi schizzi, insomma era tutto preso dalla sua scoperta: è così che ho fatto scoprire a Le Corbusier la mia vecchia città. Ancora oggi, quando conosco un architetto ed entro in confidenza, è più forte di me raccontargli questa storia e lasciarlo a bocca aperta.
A lezione di whisky da Orson Welles Nella redazione de «La Cittadella» c’era Corrado Terzi, di un anno più grande di me, persona molto colta e matura intellettualmente, che già allora si occupava di cinema e ne scriveva sulla rivista. Con lui abbiamo fondato un circolo del cinema, con lo stesso nome della rivista, che in città ha avuto fortuna ed è poi durato negli anni. Prendevamo i film dalla Cineteca Italiana a Milano e proiettavamo moltissimi classici sia muti che sonori. Da questa passione cinefila è nata la voglia di realizzare un documentario. Eravamo innamorati della nostra città; in particolare amavamo Bergamo Alta che rappresentava per noi una zona un po’ magica, grazie ai suoi vicoli, alle sue stradine, alle sue case silenziose, al nostro vecchio liceo. Per andare a scuola si salivano delle scalette in mezzo agli orti. Siamo riusciti a raggranellare faticosamente un po’ di soldi, grazie a una diffusa solidarietà culturale, e così Terzi e io abbiamo realizzato un documentario in bianco e nero chiamato Città alta. Era l’abc del cinema: inquadrature incollate insieme, e quando dico incollate non c’è alcuna metafora, perché si grattavano i fotogrammi e poi si attaccavano con l’acetone. Però il documentario era molto curioso, tanto che è finito alla Mostra del Cinema di Venezia… non chiedetemi come e perché! Voglio ribadire questo concetto: tutto questo accadeva in una rete postresistenziale di conoscenze e di solidarietà che la guerra ci aveva procurato. Città alta è stato visto da un dirigente del Touring Club che ci ha commissionato ben tre documentari. Questi lavori sono stati realizzati e firmati da me e Corrado Terzi: Cortina, Viareggio e Sicilia. Non chiedetemi com’erano perché non me lo ricordo, erano comunque documentari vagamente turistici, anche se il turismo non c’era ancora, stava per rinascere. Con noi c’era un operatore di Milano, Enzo Oddone. La troupe era tutta qui: tre persone.
Una cosa che non ho mai dimenticato mi è accaduta a Taormina. Mentre a metà mattina stavamo andando a cercare inquadrature in alto, salendo per la montagna, ci siamo inoltrati in una piccola frazione di vecchie case di pietra e abbiamo incontrato una bellissima ragazzina, forse dodicenne, con un vestitino corto e sbrindellato e un secchio d’acqua in testa. Abbiamo sorpassato la ragazzina e dopo pochi gradoni ci siamo trovati di fronte a una piccola locanda con una terrazza che guardava direttamente sul mare scintillante. La terrazza era deserta, c’erano tre o quattro tavoli e una sola persona, intenta a scrivere qualcosa con un mucchio di fogli davanti a sé. Era Orson Welles! Un copione? Quale copione? Ai cinefili la risposta. Era il 1949. Ho rivisto Orson Welles una seconda volta e ho copiato da lui come bere il whisky. Ero a Madrid per Se sei vivo spara. Dopo dieci giorni di lavorazione, il produttore italiano, Alessandro Jacovoni, mi ha scaricato e sono rimasto con la coproduzione spagnola che mi prendeva per matto perché chiedevo cose strane. Con le maestranze invece avevo legato molto bene. Di italiani eravamo solamente io e il direttore della fotografia Franco Delli Colli, gli altri erano tutti spagnoli. Un giorno mi trovavo in un albergo in attesa di incontrare Jacovoni, il quale ogni tanto era di passaggio, sempre di corsa, sempre in cerca di soldi. Sono andato nel bar dell’albergo e chi ho incontrato? Di nuovo Orson Welles, anche lui, come ho saputo, in cerca di soldi (per quale film? Era il 1966). Era appollaiato al bancone del bar e io mi sono seduto sullo sgabello accanto al suo. Stava gustando il “beverone”, come l’ho definito io. Alla sera, quando voglio tonificarmi, ho un bicchierone apposito dove metto tre dita di whisky, una montagna di ghiaccio e tanta acqua… Lo consiglio anche a voi, quando alla sera, verso le 18.30, 19.00, dovete lavorare per un’ora ancora: è veramente tonificante. Il whisky è un alcool pulito, come la vodka, che non devi digerire; se bevi il vino è un’altra cosa, perché il vino contiene diverse sostanze, oltre all’alcool, che impegnano lo stomaco. Questo drink che ho copiato da Orson Welles, invece, è un alcool sottile veicolato dall’acqua che raggiunge subito i vasi capillari e ti si apre tutto, diventi improvvisamente un genio, hai voglia di lavorare e inventi un sacco di cose. La differenza
tra me e Orson Welles è che io lo bevo di sera, lui lo prendeva alle 11.30 del mattino come aperitivo!
Un mondo di luci Dopo la laurea, non avevo una strada precisa: ero aperto a tutto. Per vivere ho insegnato per un anno e mezzo italiano, storia e geografia nelle scuole inferiori. All’epoca c’era l’avviamento al lavoro. Il primo anno l’ho fatto a Caravaggio, vicino a Treviglio. Andavo al lavoro in treno. Treviglio è sulla tratta ferroviaria Bergamo-Milano, a metà strada. Era il treno che avevo preso tante volte per andare all’università. Possedevo una bicicletta che lasciavo nell’osteria di fronte alla stazione. Scendevo dal treno, montavo in bicicletta e andavo a Caravaggio. L’anno successivo ho insegnato a Clusone, un altro paesotto su per la valle. Ma a Natale ho mollato tutto e sono andato a Roma per la prima volta. Durante uno di questi spostamenti in treno, ho visto delle luci enormi, particolari. Poco tempo dopo ho saputo che stavano girando Miracolo a Milano. Viaggiavo da Bergamo a Milano e osservavo questo spettacolo particolare: era la prima volta che vedevo delle luci cinematografiche… in pieno giorno poi! Erano i cosiddetti bruti che avrei poi conosciuto lavorando. Questo mondo di luci lo vedevo da lontano, dal treno…
La profezia di Vittorini Lavorando nella redazione de «La Cittadella», avevo rapporti con «Il Politecnico», la rivista di Elio Vittorini, il quale ha letto alcune mie cose e mi ha chiesto se avevo materiale per lui. Gli ho mandato un paio di racconti che lui ha pubblicato sulla sua rivista. Vittorini voleva aprire con un mio libro la collana “I gettoni”, da lui diretta per Einaudi. Avevo preso un impegno con lui e l’ho un po’ deluso, quando sono andato a Roma per fare cinema. Più che deluso, si è molto arrabbiato: «Il cinema – diceva – è una cosa effimera, che passa e scompare, lo scrivere resta, è importante». Conservo ancora le sue lettere autografe, la sua grafia grande con l’inchiostro verde. I miei rapporti diretti con gli scrittori sono stati tre: con Elio Vittorini, Beppe Fenoglio e Alberto Moravia. Con Fenoglio mi trovavo come con un fratello. A Moravia mi ha legato invece uno dei miei progetti cinematografici, ma ne parleremo più avanti.
L’amico americano Sono andato a Roma nell’anno 1950, me lo ricordo con esattezza perché c’era il Giubileo. Perché sono andato a Roma? È una storia lunga, complessa e misteriosa. Non ero mai stato a Roma ed ero pure grandicello, avevo ventisei anni. Sono rimasto incantato dalla città e dal suo cielo, un cielo alto, libero, pieno di nuvole che correvano nel vento, una di quelle stagioni romane un po’ pazze! Quasi ignoravo le case e i palazzi, ma non riuscivo a staccare gli occhi da quel cielo barocco. Ho capito che sarei tornato e ci sarei rimasto. A parte il cielo, quali erano gli altri motivi? Una storia che ha a che fare con la guerra, con la Cia e forse (con il senno di poi) con la misteriosa nascita di Gladio. Nel dopoguerra, essendo stato partigiano, conoscevo alcuni comandanti e uomini politici dell’antifascismo. C’erano anche altri fattori, come un giro di omosessualità che avevo avvertito in modo impercettibile. Voi vi starete chiedendo cosa c’entri la Cia con la mia venuta a Roma. C’era di mezzo un americano che abitava in periferia, in rapporti di conoscenza con Luchino Visconti. Questo americano era un professore universitario di storia ed era stato soprattutto un ufficiale della V Armata con compiti di intelligence. Lo ricordo piuttosto corpulento, capelli biondicci, un po’ stempiato, tipo gran bevitore. Ricordo la casa, una casetta modesta, bassa, con un terrazzo di cemento al pianterreno e un accenno striminzito di pergolato, in via Tuscolana o via Appia. Incredibilmente ricordo la bottiglia che aveva davanti a sé, una bottiglia di Mistrà Pallini. Parlava e beveva molto, allungando il liquore con l’acqua di una caraffa. Ho capito subito che era arrivato al Mistrà Pallini in un perverso percorso di bevitore incallito. Che fosse un agente della Cia l’ho capito dopo, in quel momento per me era un amico di quell’amico che già mi aveva facilitato il lavoro per il Touring Club di Milano e che mi aveva scritto per lui un biglietto di presentazione. Il professore americano conosceva molta gente che si occupava di cinema, poteva aiutarmi; il tutto in un tenue e gentile sentore di omosessualità mescolata a
segreti militari. Sì, perché, con non pochi giri di parole, l’ex ufficiale della V Armata con incarichi di intelligence mi ha fatto un discorso esplorativo sulla eventualità di un’associazione molto riservata di ex militari che avevano fatto la guerra, in vista di oscuri e pericolosi avvenimenti che di nuovo si preparavano in Europa. Erano i primi conati della nascita di Gladio? Ripensandoci, ne sono sempre più convinto. In quell’anno del Giubileo la città era piena di pellegrini, suore, preti e cardinali. Mi sono fermato una ventina di giorni in attesa di un incontro con Luchino Visconti. Ho conosciuto Riccardo Ghione, Teo Usuelli, Luigi Malerba, Marco Ferreri e i loro amici. Stavano progettando Documento mensile, una rivista filmata di racconti cinematografici che avrebbe dovuto coinvolgere numerosi scrittori e registi. Una ragione in più per tornare.
A casa di Visconti Avevo scritto un articolo su La terra trema pubblicato sull’«Avanti!». Quando ero andato a Taormina per il documentario del Touring Club, avevo visitato Aci Trezza e, tornato a casa, avevo scritto un articolo sul film di Visconti, che era stato girato là. Scrivevo di tutto allora. Negli anni Cinquanta, sempre sull’«Avanti!», avevo scritto un paio di articoli sul problema linguistico allora in voga, la questione dei dialetti e della lingua. Se ne parlava molto sui giornali di sinistra perché se ne era occupato addirittura Stalin in Unione Sovietica con degli scritti teorici e io ero intervenuto nel dibattito con i miei articoli. Non mi ricordo più bene quale fosse la mia tesi. So però che mi confrontavo in parecchi punti con le tesi di Stalin. Quando si è giovani, chi ha paura degli interlocutori? Grazie all’articolo su La terra trema sono finito a casa di Visconti; una bella casa sulla via Salaria, ricoperta di rampicanti. Luchino mi ha ringraziato dell’articolo: gli era piaciuto molto. Mi ha detto che aveva un po’ da fare e di aspettarlo. Ha chiamato un ragazzo che stava da lui e gli ha detto perentorio: «Fai compagnia al nostro amico che io finisco quel lavoretto e vengo subito». Era Franco Zeffirelli… Un tipo come lui potete immaginare come abbia preso questa cosa: non mi conosceva, non sapeva chi fossi, non ero certamente una persona importante, lo si vedeva, forse, anche da come ero vestito, per cui era scocciatissimo. È stato lì a dire due cretinate, anch’io non sapevo cosa dire, fin quando è tornato Luchino e Zeffirelli se n’è potuto andare. Nell’amabile conversazione che ne è seguita, Luchino mi ha detto che aveva in preparazione La carrozza d’oro con Anna Magnani. Gli ho detto che mi sarebbe piaciuto tanto fare l’assistente per imparare qualcosa. Mi ha risposto che era assolutamente prematuro essendo il film ancora in bilico, però ha aggiunto: «Se lo farò, senz’altro. Fatti vivo appena sai che lo faccio e ne parliamo». È stato gentilissimo. Il film però non lo ha fatto più lui. Lo ha diretto Jean Renoir.
Una nottata indimenticabile con Ferreri Dopo il contatto con Visconti sono tornato a Bergamo per alcuni giorni, il tempo di fare una valigia più grande e ripartire. Mi sono procurato trentamila lire – non avevo più soldi – da una donna che mi amava molto, più grande di me. «Scrivimi – allora non ci si telefonava, ci si scriveva lettere – fammi sapere come ti va». Lei era innamorata e anch’io le volevo molto bene, ma pensavo alle mie cose che mi trascinavano via… Venuto a Roma la seconda volta, mi sono subito aggrappato alle amicizie fresche del primo viaggio: Ghione, Usuelli, Ferreri. Il loro progetto Documento Mensile stava decollando… Grazie ai soldi della mia amica ho potuto prendere da un’affittacamere una stanza in via delle Carrozze, a ridosso di piazza di Spagna. La stanza non era tutta mia: dividevo l’affitto a metà con la persona che figurava come produttore di Documento mensile. Un tipo alto e magro dalla parlata approssimativa, pescato in provincia da Ghione e Ferreri, sbigottito di trovarsi a Roma tra artisti del cinema, ansioso per i suoi soldi, finanziatore riluttante e infelice. Gli dormivo accanto, costretto a sentire i suoi lamenti. La stanza era decente, con due letti. Cominciava a far buio e già eravamo sotto le coperte, quando abbiamo sentito bussare e ci è comparso davanti Ferreri, venuto a chiederci, in modo burbero, com’era suo solito, se potevamo farlo dormire nella nostra stanza, all’insaputa della padrona ovviamente, perché dormiva all’aperto sulle panchine da alcune notti. Ferreri! Ma non è che si lamentasse, solo non ce la faceva più sulle panchine. Si è sistemato in una poltrona di fronte ai nostri due letti e siccome faceva freddo e non c’erano coperte, si è imbottito il corpo con la carta di alcuni giornali che aveva portato con sé. Ha dormito tutta la notte così. Nella penombra della stanza vedevo quel pupazzone fatto di giornali proprio di fronte a me. La carta di giornale frusciava a ogni movimento e io non riuscivo a dormire, ma non era tanto per quello, ero
giovane, generoso, sensibile, e allora pensavo: «Io sto qua a letto bello comodo e quello lì». Mi sembrava una mostruosità, per cui non riuscivo a dormire. Straziante.
Aiuto regista di Zurlini I soldi della mia amica sono finiti in poco tempo e mi sono trovato sulla strada. Mi ha tirato fuori Mario Gallo, che avevo conosciuto da pochi giorni. Mi ha trovato un letto nel dormitorio della foresteria del partito socialista, in via Gregoriana: un camerone pieno di letti e di valigie, dove anche lui dormiva, anch’egli nuovo per Roma, appena arrivato dalla Calabria, aspirante giornalista e molto organico al suo partito. Ci accumunava la provenienza provinciale, così agli antipodi, provocando una stura di appassionati racconti paesani. Ne è nata un’amicizia molto stretta, al punto che appena ci è stato possibile, abbiamo lasciato insieme quel dormitorio e per circa due anni abbiamo diviso camere ammobiliate in diverse zone della città. Ricordo ancora le tappe: via degli Avignonesi, via Oslavia, piazzetta Mattei. Nel periodo della foresteria mi sono fatto due nuovi amici sognatori di cinema: Valerio Zurlini e Rinaldo Ricci. Con Rinaldo, di estrazione piccolo-borghese, sono diventato amico fraterno, Valerio, invece, era un signore, un borghese… non nel senso di lotta di classe, ma, come dire, sociale e di comportamento, era dieci spanne sopra di me nei rapporti sociali, nella chiacchiera intelligente, molto più maturo di me, una maturità che veniva dall’essere cresciuto non in provincia e in montagna, ma in una grande città, con rapporti ad alto livello. Mentre con Rinaldo Ricci sono diventato un fratellone, con Valerio ci siamo sempre sfottuti, senza cattiveria, con amicizia, però non sono mai diventato un fratello. Con Ricci, sì. Qualche volta andavo a casa sua e sua madre mi dava da mangiare. Rinaldo aveva già fatto l’aiuto a Valerio per un paio di cortometraggi, ma ora batteva altre strade che rendessero un po’ di più, come assistente nei lungometraggi (Rinaldo, caso unico, ha scelto di fare l’aiuto regista per tutta la sua vita, diventando il collaboratore di fiducia di alcuni dei più grandi registi italiani). Subentrato a Rinaldo, ho fatto l’aiuto per
alcuni documentari di Valerio. Documentari narrativi, molto belli. Era bravo Valerio. Ho fatto con lui quello sul jazz, Il blues della domenica sera, con la Roman New Orleans Jazz Band, quello sulle pianole, Serenata da un soldo, quello sulla libera uscita dei militari, Soldati in città, e quello sui generici del cinema, Il mercato delle facce. Per me è stata un’esperienza fondamentale, soprattutto per conoscere più a fondo la città. Alla fine di questa serie, sono riuscito a realizzare il mio primo documentario a Roma, Donne di servizio. Non mi ricordo come sia nato produttivamente, era una cosa costata pochi soldi, ma per me ha contato molto, mi ha dato coraggio. Le ragazze le ho scelte rivolgendomi al Sindacato delle lavoratrici domestiche: allora le donne di servizio venivano dal Veneto, dalla Ciociaria, dalle Marche e dall’Umbria.
Senza una lira… a pranzo da Parri In quei primi anni Cinquanta non avevo mai una lira. Però qualche volta andavo a pranzo da Ferruccio Parri, alla tavola di famiglia. Era una persona riservata, garbata, con una moglie attiva e affabile e un figlio che studiava legge. A pranzo non si parlava di politica. Mi riempivano il piatto. Ero considerato un figlio della Resistenza in difficoltà, raccomandato da amici del vecchio comando militare. Ho frequentato due delle sue abitazioni. La prima, un paio di volte, nei pressi dello zoo, in un edificio di una certa classe, probabile coda residua della sua attività governativa che lo aveva visto Presidente del Consiglio. La seconda mi pare in via Quattro Fontane o nei paraggi, un anonimo appartamento. Quando salivo le scale affamato, non mi rendevo conto che la mia vita privata si mescolava alla Storia. Pensavo solo a cosa avrei mangiato di buono.
Aspirante attrice china sopra una tazza di latte In via del Babuino c’era un bar-latteria con qualche tavolo di marmo. Ci mangiavo spesso la cena: caffelatte, pane e due uova al tegamino erano il menu sempre disponibile. Ci andavo tardi, verso l’ora di chiusura, col locale semideserto. Un paio di volte mi è capitato di vedere una giovane ragazza tutta sola a uno di quei tavoli di marmo. Sotto la luce al neon che spioveva dall’alto sembrava un quadro di Edward Hopper, un Hopper non alcolico, Ragazza china sopra una tazza di latte poteva essere il suo titolo. Era Anna Maria Pierangeli, a Roma per il suo primo o secondo film.
Io e Anna Avevo conosciuto Cesare Zavattini, in occasione, mi pare, di una proiezione del mio documentario Donne di servizio. Alcuni giorni dopo ho preso il coraggio a due mani e gli ho telefonato chiedendogli se poteva trovarmi qualcosa da fare. Mi ha dato il numero di telefono di Alberto Lattuada. L’ho chiamato e ci siamo incontrati. Mi ha detto: «Un lavoro che potresti fare per me?… io sono occupato a girare Anna, c’è da scrivere una scena ex novo e sistemarne tre. Leggiti il copione». Poi è scappato via perché già stava girando da Ponti-De Laurentiis, a via della Vasca Navale. Ho scritto queste scene, sono andato sul set e gliele ho portate. Le scene andavano bene e sono stato anche pagato. Ho così messo un piede nella Ponti-De Laurentiis, dove poi sono tornato per altri lavori. Questa è stata la mia occasione di inserimento nel cinema industriale. /,li.bro sca,ri,ca,to gra,tis su Ma,ra,p.ca,na cer-ca.ci su Go,og,le/ Devo molto a Lattuada, non per quel lavoro, ma perché era una persona squisita nei rapporti umani, molto diretto, franco, gentile, una persona che mi è piaciuta. Anni dopo è stato uno dei primi a capire La morte ha fatto l’uovo, facendomi molti complimenti.
Quando sono diventato famoso… Zurlini si preparava per esordire nel lungometraggio. Grazie anche ai suoi bei documentari, per i quali cominciava ad essere conosciuto, aveva buoni rapporti, che sono diventati subito un contratto, con la mitica Lux Film di Riccardo Gualino e Guido Maggiorino Gatti. Gualino presidente, Gatti direttore generale. Col tempo li ho conosciuti, ho parlato con loro più volte, persone eccezionali che oggi nel cinema non si trovano più, intellettuali di grande portata: Gatti, raffinato musicologo; Gualino, un intellettuale con governo di industrie e di capitali, signore di aspetto aristocratico, sembrava sceso da un quadro di famiglia a olio. Valerio aveva in mente da tempo la storia di Guendalina: continuava a scrivere, ed era ossessiva la sua scrittura perché aveva una calligrafia piccola e ordinata che continuava per pagine e pagine. Mi meravigliava perché per me la scrittura era la letteratura: valeva la pena se dovevi scrivere un racconto, un romanzo. Ritenevo un po’ stravagante questo scrivere fitto fitto per il cinema perché il cinema per me lo si scriveva con gli occhi, con la macchina da presa. L’attività documentaristica e il montaggio mi avevano già segnato. Ma anche dopo, quando ho scritto le sceneggiature dei miei film, sono sempre partito da scheletriche scalette di montaggio, una numerazione di scene disadorne dove al più le uniche parole che contavano erano i dialoghi. Solo alla fine rimpolpavo un po’ il tutto per farne una versione esterna destinata alla produzione e alla distribuzione. Guendalina è rimasto lì, lo avrebbe poi fatto Lattuada due o tre anni dopo, e Zurlini ha cominciato a lavorare a Le ragazze di San Frediano, dal romanzo di Vasco Pratolini. Ho seguito un po’ il lavoro di preparazione perché ero stato assunto come suo aiuto, seguivo il procedere della sceneggiatura, che avveniva a casa di Suso Cecchi d’Amico. Nel frattempo mi ero procurato una Lambretta, la usavo per me, ma se c’era da portare Pratolini dalla Suso Cecchi, ci andavo io. Mi caricavo Pratolini sul seggiolino, lo accompagnavo e assistevo alle
discussioni sulla sceneggiatura. Era una sceneggiatura che non andava mai bene, ci hanno lavorato tantissimo tempo perché il film era legato a quattro-cinque ragazze, con il personaggiochiave del protagonista che aveva rapporti con tutte, mettendosi nei pasticci nel borgo San Frediano, e legare tutto era difficile. Non procedevano su un binario solo, ma su tanti binari che dovevano convergere al punto giusto, per questo lavoravano tanto ricominciando ogni volta da capo. È stato così che, portando Pratolini in Lambretta, sono diventato famoso in tutta Roma (esagero). Era il primo pomeriggio e stavamo attraversando Villa Borghese per andare a casa di Suso a via Paisiello. C’era una leggera bruma nell’aria, il terreno era bagnato, i cavalli delle carrozzelle avevano seminato sterco e le ruote delle automobili l’avevano spalmato: una patina grassa e viscida che luccicava sull’asfalto. Non c’erano curve e procedevamo piano, chiacchierando. Improvvisamente entrambe le ruote sono slittate e ci siamo trovati per terra, Pratolini dietro di me. Mi sono rimesso in piedi ridendo, ma girandomi l’ho visto pallido come un morto, sporco di cacca di cavallo, pallido pallido. È stato portato al pronto soccorso e ne ha avuto per alcuni mesi. Si era infatti rotto alcune costole con complicazioni polmonari. Era una persona buona, di grande forza interiore, fragile fisicamente, un po’ pesante nel corpo. Si era fatto male anche perché, penso, non aveva tono muscolare, era andato giù per terra di peso, senza reazione, frantumandosi come un lampadario di Murano. Era stato malato di polmoni, un po’ forse lo era ancora. Si era curato a lungo quella sua famosa malattia, la tubercolosi, che era affiorata in Cronaca familiare. Quando alla sera arrivavo al bar Rosati, in piazza del Popolo, dove stazionava l’intellighenzia del momento, tutti dicevano: «Guarda quello stronzo che ha rotto le costole a Pratolini»! Ero diventato famoso: ero uscito dall’anonimato! Stronzo finché vuoi, però ero presente sulla scena, stronzo tra quegli stronzoni intelligenti…
Le ragazze di San Frediano, un film interminabile Sono andato a Firenze per scegliere i posti con Zurlini e con il direttore della fotografia Gianni Di Venanzo, con il quale sono diventato poi molto amico. Erico Menczer era l’operatore di macchina, Pasqualino De Santis e Dario di Palma gli assistenti (diventati in seguito tutti importanti direttori di fotografia, da me poi incontrati nuovamente sul lavoro). Gigi Vanzi era insieme a me aiuto regista. Ho partecipato anche alla scelta delle ragazze alla Lux Film, alcune cercate e individuate fuori dalle scuole, si faceva così allora. La Podestà era la più nota. Poi abbiamo cominciato il film e non finiva mai, è durato un anno perché a un certo punto siamo tornati a Roma per montarlo, ma mancavano ancora alcune cose, per cui siamo ritornati tutti quanti a Firenze a finire il film. Valerio, che era sicuro di sé quando faceva i documentari, in questo film non andava molto dritto, aveva delle cadute psicologiche, depressive, di pessimismo, poi si riprendeva, e la lavorazione un po’ ne risentiva. Era un uomo di grandi ambizioni, non era uno che voleva fare il filmettino, voleva fare qualcosa di speciale, probabilmente questo qualcosa di speciale non veniva fuori in un film così, forse era meglio farlo alla Emmer, con molta leggerezza, mentre lui si tormentava molto per far diventare il film ciò che forse non poteva essere. Comunque, era la prima volta che avevo una bella paga, vera e lunga nel tempo.
Io e Marilù: un matrimonio fuori dalle regole Ho conosciuto Marilù Carteny nel ’52-’53 per Le ragazze di San Frediano e mi sono sposato con lei nel ’54. Se le riprese non fossero durate tanto, forse non mi sarei sposato. L’ho conosciuta negli uffici della Lux Film, a via Po, dove c’era la base produttiva. Poi siamo stati insieme a Firenze sul set. Probabilmente è nato un amore anche a causa della noia mortale di entrambi perché il film era pieno di problemi, stavamo sempre ad aspettare qualcosa. Ci siamo sposati a Roma, in Campidoglio. Lei stava lavorando in un film. Ci siamo dati appuntamento in municipio con un paio di amici come testimoni, uno era Claudio Forges Davanzati, organizzatore di film, una persona brillante e intelligente. Lei ha portato dalla sartoria due anellini delle tende – vi giuro, non abbiamo mai portato l’anello, né io né lei – che poi abbiamo buttato. Non c’erano parenti alla cerimonia. Marilù veniva da una famiglia di lontana origine spagnola ed era nata ad Anzio, dove è morta nel 2009, tormentata da una lunga malattia. Il padre era stato un operatore dell’Italcable, la società di telefoni intercontinentali che aveva una sede ad Anzio, poi era stato trasferito nella sede di Roma, dove Marilù ha fatto il Centro Sperimentale. Siamo stati assieme pienamente sette anni, ma lavoravamo tutti e due. Io ero impegnato anche esistenzialmente nel lavoro perché mi giocavo una partita decisiva: progettavo dei film che non andavano in porto. Non facevo di mestiere il regista, facevo l’inventore di film, per cui dicevano: «Che bravo!… Però pericoloso: troppo strano». Pertanto avevo seri problemi, non di soldi perché mi adattavo a fare l’aiuto, qualsiasi cosa. Lei lavorava, guadagnava, era una costumista brava. All’epoca si facevano molti film: finito un film, venti giorni dopo già ne stava facendo un altro. Ci siamo via via separati a causa del lavoro che ci ha portato spesso in paesi diversi e per lungo tempo. Quando non nascono dei figli, cambia tutto nel rapporto, cambia anche nel bene perché si può restare amici sino alla fine senza vivere insieme. Né io né lei abbiamo mai
detto: «Mi voglio risposare». Mi sono sposato con Diana, mia vecchia amica, due mesi dopo che era morta Marilù, ma non per rispettare le forme. Perché mi sono risposato? Sono sempre piuttosto arrendevole nei rapporti confidenziali. Marilù l’ho sposata perché me lo ha chiesto e io, siccome ho visto che diventava triste, ho detto: «No, no, ci sposiamo». Con Diana sono stati i nostri numerosi amici, tanto più giovani di noi, a volere una bella festa di matrimonio tra i due anziani della compagnia. Volevano una bella festa a tutti i costi e non ci davano tregua. Li abbiamo accontentati.
Giannini vs Visconti Dopo Le ragazze di San Frediano, essendo ormai entrato nel giro della Lux, ho fatto un film molto grosso e costoso, Carosello napoletano di Ettore Giannini. Ho conosciuto alla Lux Giannini e Francesco Rosi, che ha messo su il film insieme a lui, perché Carosello napoletano, prima di essere un film, era stato un lavoro di teatro musicale. Rosi, Vittorio Caprioli, Alberto Bonucci e altri attori provenivano dal Carosello teatrale. Rosi poteva soltanto preparare il film e fare una prima settimana di lavorazione perché sempre alla Lux Film partiva Senso di Luchino Visconti, per il quale aveva già un contratto. Rosi se ne è andato con Luchino e io gli sono subentrato, trovando, lieta sorpresa, il mio amico Rinaldo Ricci come collega di set. Credo che Giannini non abbia mai perdonato a Rosi di essere andato con Luchino. Grazie a Carosello ho scoperto il mondo napoletano degli attori, dei generici e delle comparse, conoscenza che ho avuto poi modo di approfondire con Rosi facendogli da aiuto ne La sfida. Ma non solo Napoli: Carosello mi ha fatto conoscere alcune star internazionali del balletto. Una curiosità forse dimenticata: la prima del film è avvenuta a Londra alla presenza della Regina. La rivalità di Giannini con Visconti era cominciata col teatro perché erano tutti e due registi teatrali importanti ed è proseguita alla Lux Film, dove si è espressa in forme di gelosia a causa degli investimenti. Investivano soldi in Senso che forse venivano sottratti a Carosello e Giannini se la prendeva perché era un uomo tignoso. Aveva una cultura specifica legata alla sua città e alla sua storia, era un autentico figlio della cultura napoletana. Aveva un senso dello spettacolo molto serrato e ritmato, che portava nel cinema, dove non è più riuscito a dirigere film, ma solo a scrivere copioni e a dirigere doppiaggi. Dopo Carosello mi ha chiamato più volte e mi ha fatto leggere il copione di Masaniello, che voleva fare con la Lux, un bel copione, ancora tutto sulla sua Napoli. È stato per lui un gran dolore non
poterlo realizzare. Ha continuato il cinema come direttore di doppiaggio, diventando subito uno dei più stimati e richiesti. Nel 1967 ha diretto il doppiaggio de La morte ha fatto l’uovo. Era con una certa commozione che lo guardavo alla consolle totalmente impegnato sul mio film. È stato per me un maestro non dimenticato: da lui ho imparato molte cose di una cultura che non conoscevo.
Non ho scoperto la Loren e la Koscina… Ho visto insieme a Ettore Giannini il provino di Sophia Loren, che cantava «Oi vita, oi vita mia». Si doveva decidere se prenderla e io ho detto a Giannini: «A me questa non piace». E forse neanche a Giannini, perché non era molto entusiasta. Poi invece l’hanno presa. Io ho bocciato due attrici, sbagliando, spinto dall’istinto: la Loren, quando si discuteva per Carosello napoletano, dando il mio parere negativo a Ettore che mi ascoltava molto, ma quella volta non mi ha ascoltato… Poi alla Lux ho fatto parte di una commissione per la ricerca di attori giovani, insieme a Luchino Visconti, Marcello Bollero e a un paio d’altri di cui non ricordo il nome, e ho bocciato duramente la Sylva Koscina, dopo un provino: «Ma questa è negata!». E invece…
Al mare con Citto Maselli e Goliarda Sapienza Sempre in quei primi anni Cinquanta frequentavo il giro di Citto Maselli e lì ho conosciuto Michelangelo Antonioni. Citto aveva qualche anno meno di me, culturalmente precoce, cresciuto in una famiglia di borghesia colta (ho avuto l’occasione di conoscere i suoi genitori e la sorella Titina, brava pittrice). Andavamo spesso a cena in uno dei tanti ristoranti di viale Parioli, anche perché sia Michelangelo che Citto abitavano in quei paraggi. Non ho mai fatto grandi discorsi con Michelangelo, se non una frequentazione amichevole: non era un uomo di grandi parole, parlava abbastanza sottovoce, con molto humour sempre, uno humour anche da interpretare perché a volta era talmente sottile che non lo raccoglievi, sembravano espressioni svagate che lasciavano trapelare ironia. Aveva simpatia per me. Con Maselli il legame era cameratesco, anche se guardingo. Per due o tre anni d’estate abbiamo fatto le vacanze insieme a Positano e a Ravello in case affittate in comune. Ricordo la magnifica casa di Ravello con la terrazza sul mare, con Goliarda Sapienza, la sua compagna, Marilù e altri amici. Per un anno o due Citto ha posseduto un motoscafo Riva, la Rolls Royce del mare. Era innamorato di quel suo motoscafo e noi tutti ne abbiamo goduto. A Roma Goliarda abitava con Citto in via Denza, la stessa casa dove abitava la fidanzata di Giulio Gianini, il direttore di fotografia col quale ho fatto i miei più bei documentari. Andavo spesso in quella casa, ai piedi di viale Parioli, dove si andava al ristorante con Michelangelo. Goliarda era una persona molto viva, intelligente, rivelatasi poi scrittrice di notevole spessore. In quel periodo, però, non ero molto felice perché avevo troppe preoccupazioni, inoltre non avevo facilità nelle frequentazioni sociali, ero inquieto, scontento, chiuso da un lucchetto che non riuscivo a scardinare.
Gli sbandati: nascita di un’amicizia In quegli anni mi capitava di fare qualche fuga improvvisa da Roma a Bergamo. Il motivo? Mi prendeva nostalgia per la mia città natale, una nostalgia che non mi sarei mai aspettato di provare. Se avevo i soldi per il biglietto, prendevo il treno e tornavo a Bergamo per una settimana, dieci giorni. In una di queste “fughe” ho saputo che Citto Maselli stava girando il suo primo film, Gli sbandati, a Ripalta Guerina, in provincia di Cremona, nella villa di Toscanini. Sono andato a trovarlo. Al film lavorava anche Prandino Visconti in qualità di sceneggiatore, ma anche di aiuto. Con lui sono diventato in seguito molto amico. Già per il cognome che portava provocava una certa attenzione, particolarmente in me che avevo conosciuto Luchino a Roma. Lo ricordo su quel set come un bel ragazzo alto con un’aria particolare che non vedevi tutti i giorni: era qualcosina di diverso da me e dagli altri. Poi, qualche anno più tardi, Prandino l’ho ritrovato in un giro più ampio di amici a Roma. Avevamo amici comuni, fra i quali Franco Arcalli. Negli anni Settanta è rimasto molto colpito dal mio film Arcana. Ha comprato una bella barca in legno lunga 12 metri che ha battezzato appunto Arcana. Con lui ho fatto un paio di traversate tra la Toscana e la Sardegna. Il ritratto fisico che ho fatto coincideva con quello che era interiormente. Non l’ho mai considerato un uomo di mestiere, di gavetta, come eravamo noi che andavamo a fare l’aiuto sui set. Improvvisamente si è messo a fare dei film. Era un ragazzo intelligente, amava fare senza dubbio il cinema perché ha girato diversi film, però secondo me non era un creatore autentico di cinema… non lo so, mi è difficile spiegarlo. Magari uno realizza brutti film, inseguendo un qualcosa, invece Prandino no, realizzava dei film di buon mestiere, ma senza quel qualcosa da inseguire appassionatamente. La nostra era una bella amicizia, sia pur non quotidiana. Quando è andato ad abitare in via Margutta, ci si vedeva più spesso. Non era un dandy aristocratico, anzi, aveva qualche rodimento che non era solo esistenziale, ma anche fisico… ricordo che era
malato ai polmoni. Portava questa sofferenza che lo nobilitava. Sin da Gli sbandati aveva problemi ai polmoni. Negli anni Cinquanta il giro delle mie amicizie si era arricchito: Gigi Vanzi, Cesare Garboli, Gianni Corbi, Claudio Forges Davanzati… Ne era nato un piccolo circolo… Ci si riuniva spesso in casa di Vanzi, con vivaci discussioni di cinema, letteratura, politica.
P.C.I. sezione Monte Mario Nel 1956 mi sono iscritto al Partito Comunista Italiano. Ho preso la tessera nella sezione di Monte Mario, dove ero andato ad abitare. L’evoluzione politica italiana basata su un moderatismo imperante, sempre più venato di neofascismo, e lo scontro internazionale che si profilava minaccioso mi fecero sentire la necessità di stringermi nei ranghi di una forza politica in grado di affrontare una lotta di quella portata. Mi venivano in mente le previsioni di quel professore americano, secondo me agente della Cia, che avevo conosciuto nel mio primo viaggio a Roma. Si stavano avverando? La mia era una scelta di tipo militare, prima ancora che politica: veniva dritta dalla mia esperienza armata nella Resistenza. Ho rinnovato la tessera per una decina d’anni. L’ho lasciata non per qualche trauma politico, ma perché il mio pessimismo si era stemperato nelle nuove speranze dei secondi anni Sessanta. Ne sentivo tutta la forza di rinnovamento. L’iscrizione al partito mi è valsa due o tre lettere di invito da parte della Commissione Culturale. Le ho lasciate cadere nel vuoto. Non me la sentivo di farmi imbrigliare – immaginavo – in qualche lavoro di analisi e direttive. Continuavo a considerare l’arte e la cultura una prateria da esplorare in totale libertà. Un solo dispiacere: non frequentare Mino Argentieri, che di quella Commissione faceva parte. Una persona che avevo conosciuto e stimavo tantissimo, col quale sicuramente sarei andato d’accordo su molte cose.
Documentari, che passione! Malgrado la scontentezza che mi faceva arricciare il naso, in quegli anni Cinquanta andavo via via realizzando una serie di documentari, alcuni occasionali, altri di mia scelta, che alla fine per i buoni risultati hanno consolato e alleggerito il mio spirito. Dopo Donne di servizio, che in bianco e nero raccontava sentimenti, intimità, nostalgie, amicizie delle donne di servizio, ho realizzato, ancora in bianco e nero, un documentario industriale per la Saint-Gobain, di cui non ricordo il titolo. Ne è seguito un altro: Giorni di fiera, a colori, un lavoro su commissione per la Fiera di Milano, che descriveva gli stand e i prodotti della Fiera. È cominciata poi la mia collaborazione con Giulio Gianini operatore.Valdarno, su una miniera di lignite a cielo aperto, modernizzata e meccanizzata. Ne raccontavo la conseguente rarefazione del lavoro, coi riflessi sulla vita sociale del vicino paese che forniva mano d’opera. Giocare: i giochi dei bambini come veicolo e acquisizione del mondo sensibile. Om ad Po: vagabondi, disadattati, spiriti polemici che hanno abbandonato la comunità sociale per vivere in solitudine e libertà negli spazi grandi e avventurosi del fiume. Avamposto: vite di uomini tra fango, acqua, fatica, povertà, nei territori estremi del Delta del Po. Argini: momenti sospesi, irrilevanze, lungo il Tevere che passa sotto i ponti di Roma. E infine un viaggio in Olanda, ancora con Gianini, due documentari prodotti dalla Documento Film, Amsterdam e Viaggio nelle terre basse. In tutti questi lavori avevo portato con me, quando era libera dai suoi impegni, Marilù, come terzo membro tuttofare della troupe. Alla fine dei documentari ho fatto con Emanuele Luzzati e Gianini il loro primo cartone animato, un Pulcinella, in bianco e nero. Aveva scritto la musica Gianfranco Maselli, molto giovane e piuttosto bravo, che non conoscevo e che non ho mai più incontrato. Loro credevano di aver bisogno del regista, mentre io in quel lavoro cosa facevo? Niente, assistevo e gli davo tutt’al più una mano, tutto quello che potevo fare. Perciò,
con il loro consenso, li ho lasciati e non mi sono mai più occupato dei loro bellissimi cartoni animati, due dei quali, La gazza ladra e un altro Pulcinella, gli sono valsi la nomination all’Oscar. Parecchi anni dopo Giulio Gianini mi ha chiamato chiedendomi di accompagnarlo in un laboratorio dove voleva riversare in beta e vhs i nostri documentari. Ci sono andato di corsa. Abbiamo così salvato temporaneamente dall’incuria del tempo un lavoro che abbiamo molto amato. Grazie all’intraprendenza di Giulio Gianini.
Forse non mi ha mai perdonato… Come ho detto, in alcuni documentari ho avuto Marilù come aiuto. Uno di questi è stato Avamposto, girato con base a Pila, sul delta del Po. Oggi il Polesine è una delle zone più ricche d’Italia, ma allora non era così. Una povertà drammatica. Impressionante la difficoltà di sopravvivenza per gli scarsi abitanti. La dura vita e la miseria del delta era il tema cogente del documentario. Era inverno: umidità, nebbia, freddo penetrante, coperte e letti quasi bagnati, cibo povero e occasionale, per noi tre quindici giorni di sofferenza distruttiva. Uniche fiammate, almeno per me, un bottiglione di grappa Casoni, buona per sterminare intere tribù di indiani da parte degli yankee. Fuggiti via da quella fossa climatica, io e Marilù abbiamo fatto la nostra prima sosta di ritorno a Firenze, in una buona trattoria in collina, finalmente seduti a una tavola con tovaglia e piatti. Nell’attesa del primo ci siamo buttati sull’ampolla dell’olio. Lo abbiamo versato nei bicchieri e lo abbiamo bevuto d’un fiato. Era l’urlo dell’organismo reso pazzo dal bisogno di grassi. Quel meraviglioso olio verde ce lo siamo ricordati per tutta la vita. Marilù è venuta con noi come aiuto anche per i documentari in Olanda. Ho scoperto su quelle terre cose meravigliose che vedevo per la prima volta. Innanzitutto, il cielo enorme sopra la terra piatta, un cielo pieno di nuvole in corsa con tutte le tonalità dei grigi fino al nero più tempestoso. Torme di gabbiani bianchi misti a corvi neri, tutti insieme in lotta contro il vento. E navi che solcavano la campagna in invisibili canali. Insomma, un innamoramento degli occhi che mi rendeva frenetico, in corsa da un’inquadratura all’altra. È stata una nave gigantesca che attraversava il prato, apparsa improvvisamente, a scatenarmi. Ho afferrato il cavalletto con la camera montata e sono corso a posizionarlo inseguito da Gianini e da Marilù. L’ho piantato nel terreno e ho sentito un grido contro le orecchie. Era Marilù, col piede rimasto sotto una punta del cavalletto. Mi sono avventato feroce: «Cristo, non muoverti! Motore, motore! Non muoverti!». La nave
passava solenne nell’obiettivo. Grosse lacrime di dolore rotolavano dai begli occhi azzurri di Marilù, immobile e silenziosa. Alla sera le ho medicato e le ho fasciato il piede, una brutta ferita sporca di terra. Ma forse non mi ha mai perdonato quella ferocia digrignante contro il suo viso, di un dobermann a cui si vuol togliere un boccone…
Io e Antonioni: come siamo caduti in basso! Ho avuto due contatti di lavoro con Michelangelo Antonioni. Una volta mi ha chiamato e mi ha detto che gli avevano offerto di fare la pubblicità per «Il Giorno», quotidiano che appena uscito, nel 1956, si era imposto all’attenzione generale grazie all’editore Cino Del Duca, molto importante e stimato. «Li vai a fare tu questi due short?», mi ha detto. «Certo», ho risposto. E così grazie a Michelangelo ho fatto due short pubblicitari per «Il Giorno», destinati alle sale cinematografiche. Uno era a colori e prendeva spunto dal logo del giornale, un ometto alla finestra che aveva un giornale in mano, mi ricordo molto vagamente, l’altro era un montaggio di attualità, quale attualità non ricordo, mi ricordo solo che ho montato un incontro di boxe, roba pescata nei repertori, in bianco e nero. Un’altra volta, pochi anni dopo e c’era la solita eterna crisi del cinema, Michelangelo mi ha chiamato e mi ha detto: «Senti, ho dovuto prendere un lavoro per guadagnare un po’ di soldi, non ho voglia, dammi una mano, mi giri qualcosa, mi fai da seconda troupe». Non meravigliatevi, non potendo fare film facilmente – solo dopo Blow-up per lui si è sbloccata la situazione, ma prima faticava a metter su un film – accettava qualche lavoro anonimo per bisogno di soldi. Ma questo era proprio il peggio, un film spazzatura tipico di quel periodo, un film di avventure sugli animali, non chiedetemi il titolo, un’opera che è rimasta anonima o forse mai nata. Era il periodo che montavano documentari a dir poco vergognosi, lontane imitazioni dei film di Jacopetti, per cui essendo pellicole facili e di poco costo, si improvvisavano produzioni: spedivano una troupe con una Arriflex e tre persone in qualche paese, tornavano, potevano anche non continuare e riprendere successivamente, e così assemblavano dei film-documentari fasulli, anche se a volte un minimo di sforzo produttivo c’era, come è capitato a me con Le schiave esistono ancora, altrettanto fasullo, che ho concorso a fare… Torniamo a questo film di Antonioni, non ricordo niente perché era del tutto irrilevante, era irrilevante per
Michelangelo ed era irrilevante anche per me, anche se drammatico per il suo squallore. Siamo finiti in una cava di pozzolana o qualcosa del genere, alle porte di Cinecittà, per girare scene di animali. Ho un ricordo fotografico: dovevamo girare uno scontro tra un leone e una tigre in una savana immaginaria, in realtà una cava di pozzolana piena di polvere, un sentiero per i camion, qualche albero. E poi dovevamo girare una cosa più complicata e più speciale, la lotta tra un pitone e una mangusta. C’era la consulenza di un personaggio televisivo molto noto, Angelo Lombardi, l’amico degli animali, con il suo assistente etiope, piccolo e magro quanto Lombardi era grande e grosso, obbediente, mi ricordo ancora il nome: Andalù. C’è stata una lunga attesa in mezzo a questa polvere, era estate, picchiava un sole terrificante. La tigre, noleggiata da un piccolo circo, è arrivata con un vecchio camion, scassato, proveniente da Catania. È scesa, stanca, suonata, aveva solo voglia di riposare, di mangiare qualcosa, sfinita, vecchia, lenta. Che pena, ragazzi! Non mi ricordo più la lotta con il leone, come sia venuta, la mia memoria si ferma qui, allo straziante arrivo della vecchia tigre sul camion targato Catania. Mi ricordo invece molto bene, per tutti gli incidenti che sono occorsi, la lotta del pitone con la mangusta. Per prendere un pitone serve un sacco lungo e stretto, con un’entrata rigida tonda e un lungo manico, in cui il pitone s’infila da solo se ne catturi la testa. Bisogna avvicinarsi e catturargli la testa con il cerchio rigido, poi il serpente spontaneamente percorre tutto il lungo sacco. Cos’è successo? La mangusta e il pitone neanche si sono guardati, ciascuno è andato dalla sua parte. Sono stati riposizionati e anche questa volta niente da fare. Il pitone era grosso e lungo e molto forte – voi sapete che il pitone si rizza e colpisce con la testa, non è velenoso, ma dà un colpo con la testa fulmineo e devastante o tutt’al più ti può strangolare. Bene. Seguendo gli ordini di Lombardi, Andalù è avanzato verso il pitone per catturarlo e riposizionarlo. Si proteggeva con uno scudo trasparente di plexiglass infilato al braccio, come quelli della polizia. L’enorme pitone si è alzato dal terreno e lo ha aspettato ondeggiando. Andalù ha continuato ad avanzare. Improvvisamente la testa del pitone è saettata in avanti sferrandogli un colpo terrificante, lo scudo di plexiglass
si è frantumato in mille pezzi e il povero Andalù è stato scaraventato nella polvere a sei metri di distanza. A questo punto l’amico degli animali si è incazzato di brutto. Ha cucito personalmente con un ago un filo di nylon nella coda del pitone e ha legato l’altra estremità a una zampa della mangusta, in modo che per forza dovevano azzuffarsi. Michelangelo, che voleva andarsene, ma aveva bisogno di soldi, non poteva fare nulla perché era tutto in mano a Lombardi, era lui il dominus degli animali. A noi non spettava che posizionare le due Arriflex e dare il motore. Ma anche così niente da fare. Si è alzato soltanto un gran polverone che ha nascosto tutto!
Aiuto regista di Rosi Ho fatto l’aiuto regista di Francesco Rosi per La sfida. Ero diventato il suo ragazzo di fiducia: gli stavo molto vicino per imparare e lui aveva molta fiducia in me. Ho lavorato molto per la scelta dei figuranti, degli attori minori, e ho conosciuto molto bene Napoli perché ero alla continua ricerca di volti e corpi attoriali adatti per il film. Ho avuto due stagioni napoletane, cinematograficamente parlando: la prima per Carosello napoletano e la seconda per La sfida. Rosi è un uomo di grande valore professionale, una persona molto quadrata, molto precisa, in un modo quasi fanatico: la precisione del dettaglio. Anche Ettore Giannini era così: puntiglioso, preciso, mai contento, sempre alla ricerca della perfezione, come Luchino. Ettore nel suo mondo, Luchino nel suo. Rosi veniva dalla scuola di entrambi.
La luce di Caravaggio Ho lavorato anche in Kean - Genio e sregolatezza grazie a Rosi. Il direttore della fotografia era Gianni Di Venanzo, che aveva lavorato anche per La sfida e che avevo conosciuto sul set de Le ragazze di San Frediano. Kean era una piéce teatrale che Vittorio Gassman portava da tempo sulla scena con successo. Si trattava ora di una trasposizione cinematografica, ma non avendo Vittorio pratica della tecnica di regia, si è occupato principalmente della messa in scena teatrale, mentre la direzione tecnico-artistica è stata svolta da Rosi. Il film è stato girato tutto in teatro, al Valle di Roma. Era dunque un’opera teatrale realizzata secondo i criteri cinematografici e in tal senso risiedeva la sua singolarità. Kean era uno dei primi film a colori e io provenivo dall’esperienza del primo film a colori importante, Carosello napoletano, con direttore della fotografia l’ingegner Portalupi, e anche quel film era stato girato per buona parte in teatro riproducendo interi quartieri di Napoli. La pellicola cambiava in quegli anni proprio perché si cercava la maggiore sensibilità e fedeltà possibili. In quel tempo il colore lo si fotografava frontalmente: si mandava più luce possibile e si fotografava secondo la direzione della luce stessa perché ogni altra angolazione diventava pericolosa per le dominanti della pellicola. Carosello napoletano era stato girato al Teatro 5 nei mesi di luglio e agosto con tutti i diecimila accesi, grandi proiettori schierati sul ponte e sbattuti sulla scena. Un inferno di calore, con le verdure delle bancarelle da cambiare continuamente perché marcivano in poche ore. Ne era venuta fuori una fotografia anche bella, però senza effetti. Per Kean c’è stata una riunione con Gassman, Rosi, Di Venanzo e il sottoscritto. In questa riunione Rosi ha tirato fuori due libroni illustrati della casa editrice Skira dedicati a Caravaggio e ha chiesto a Di Venanzo se si poteva ottenere nel film quella stessa luce, che viene di taglio, quel nero, quella stessa forza espressiva. E in tal senso Kean è stato uno dei film più coraggiosi perché per la prima volta ci si è azzardati a
realizzare, con tutte le difficoltà del tempo, effetti espressivi della luce e del colore.
Una questione privata tra me e Fenoglio Sul finire degli anni Cinquanta, in seguito alla mia attività di documentarista e al Nastro d’argento che mi era stato assegnato nel 1958 per Giocare, ho conosciuto il produttore Franco Cristaldi, che mi ha preso a stipendio mensile perché gli progettassi un film. Mi ha dato l’indirizzo del suo ufficio per discutere del contratto. Ci sono andato e con mia grande sorpresa mi sono trovato davanti la palazzina della Lux Film, quello stesso ingresso che tante volte avevo varcato qualche anno prima. Non ne sapevo niente. La Lux Film dopo tanti anni gloriosi aveva chiuso e ora c’era la Vides di Franco Cristaldi. Appena entrato sono rimasto disorientato. Era cambiata tutta la disposizione degli uffici. Una piccola stretta al cuore. La Lux Film era stata per me il tempio del cinema, Gualino e Gatti i suoi grandi sacerdoti, che avevo avuto l’onore di conoscere e che non avrei mai più incontrato. Non avevo ancora scoperto che Franco Cristaldi era della stessa classe, anche se di una nuova generazione, il più degno produttore a succedere tra quelle mura, anche lui piemontese, anche lui fautore di un cinema seriamente impegnato. Me ne sono reso conto dalle prime frequentazioni. Mi ha dato carta bianca. Non ero preparato per un film personale, ma alcune letture mi avevano colpito e ad esse ho fatto ricorso. Ho scelto un racconto di Thomas Hardy, Un semplice interludio, e ho comiciato a studiarlo prendendo appunti per una sceneggiatura. Stavo appunto costruendo una scaletta della narrazione, quando mi è arrivata una telefonata di Cristaldi: «Senti un po’ – mi ha detto – conosci i libri di Beppe Fenoglio?». «Certo, ho letto tutto quello che ha scritto: magnifico!». E lui: «Vallo a trovare e cerca di combinare per uno di quei suoi racconti sulla guerra partigiana. Quello che vuole lui. Li ho appena letti e sono splendidi». È stato così che alcuni giorni dopo sono partito per Alba con un treno notturno. Era l’inverno del ’59-’60. Alle prime ore del giorno sono sceso in una stazione di raccordo per un cambio di treno, non ricordo in quale città o cittadina, se piemontese o lombarda.
Ricordo solo che ero insonnolito, che avevo freddo, che fasci di binari luccicavano debolmente nella nebbia, che i marciapiedi erano deserti, che il mio treno sarebbe passato dopo un’ora. Con la valigia in mano ho attraversato i binari verso la vetrata illuminata del bar della stazione, tale e quale a un personaggio di un racconto di Calvino. Il locale era ancora deserto, ma già al banco la macchina dell’espresso era sotto pressione e sparava getti di vapore. Ho ordinato un cappuccino e ho addentato una brioche. Improvvisamente dalla porta a vetri sono giunte delle voci e il locale si è animato, ragazzistudenti, una decina, con le cartelle sbattute sui tavoli tra richiami e risate, pendolari di una scuola in attesa del loro treno. Un paio di ragazze sono andate di corsa al monumentale jukebox Wurlitzer e hanno messo un disco: sono partite le note di Petite Fleur dal clarinetto di Sidney Bechet. Non so che cosa mi è successo. Una lenta rarefazione si è impadronita del locale, le voci dei ragazzi si sono fatte lontane, così come la musica, io stesso sono svaporato nella lontananza, tutto è diventato irreale e indiretto, come in un racconto scritto da un autore sconosciuto che leggo per la prima volta e mi suggerisce un destino che mi fa tremare. E davvero stavo tremando, avvolto in un lenzuolo metafisico, a un passo dal leggere il mio destino. Mi sono passato la mano sulla fronte, ingoiando a fatica il boccone di brioche che avevo ancora in bocca. Per fortuna il fischio prepotente di un treno in arrivo mi ha fatto sobbalzare e, recuperate le gambe, sono uscito in fretta dal locale mescolato alla confusione dei ragazzi con le cartelle. Quasi da non credere, ma dopo tanti anni, quando penso al viaggio che mi ha portato ad Alba, mi si ripresenta il bar di quella stazione sconosciuta e lo spietato clarinetto di Sidney Bechet che mi fa quasi toccare con mano il mio destino, ancora oggi così in ritardo e ai miei occhi non ancora svelato. Quel giorno ho subito fraternizzato con Beppe Fenoglio nella trattoria dove abbiamo mangiato. Avevamo storie molto simili alle spalle: i ricordi scolastici, l’amore per la letteratura, la guerra partigiana, le brigate GL. È stato lì che mi ha parlato di Una questione privata, racconto non ancora nato ma che stava scrivendo. Me lo ha proposto per il film. Sul tavolo della trattoria ci siamo divertiti a farne una scaletta cinematografica, con le eventuali varianti. Sono tornato a Roma pieno di
entusiasmo e ci ho lavorato. Ci siamo scambiati lettere. Lui aveva terminato la scrittura del suo racconto, io avevo maturato la mia versione cinematografica che ancora non conosceva, il produttore era pronto per l’acquisto dei diritti. In quei mesi è nata sua figlia Margherita. Gli ho spedito in regalo un corredino per la neonata. Non molto tempo dopo l’ho cercato invano al telefono. I familiari mi hanno detto che era malato. In attesa, il mio progetto è rimasto accantonato. Senza più notizie, è arrivato l’inizio del ’63 e ho saputo della sua morte. Un vero dolore. Ho lasciato perdere il film. A volte mi consolo pensando che forse non avrebbe mai accettato la mia versione cinematografica. Avevo radicalmente cambiato lo stato sociale e il carattere dei due protagonisti principali. La mia personale narrazione partigiana aveva preso il sopravvento. Sarei riuscito a entrare nella finzione di un altro lasciando intatta la mia memoria che consideravo esclusiva?
Ho visto cose ad Amburgo… Con Rosi avrei dovuto fare anche I magliari e infatti l’ho preparato, sempre per la Lux Film. Era il 1959, l’anno in cui si girava La dolce vita, e sono partito con un bimotore per Monaco di Baviera, uno dei miei primi voli aerei. Poi da lì mi sono mosso in treno, visitando parecchie città tedesche dove c’erano comunità di italiani. Ero partito con un po’ di indirizzi di napoletani residenti in Germania che mi aveva dato Rosi. Sono andato a Monaco, Dortmund, Colonia, Amburgo, ho conosciuto gente e ho annotato i nomi di località dove si potevano reclutare personaggi dell’ambiente. Ad Amburgo sono rimasto molto incantato: frequentavo i magliari, professione che non c’è più, allora vendevano tappeti, oggetti vari taroccati, battendo le campagne tedesche in cerca della gente più semplice. Ad Amburgo ho conosciuto una persona che non ho più dimenticato, un magliaro che si chiamava Salvatore Cinque, mi ricordo ancora il nome, certe cose mi escono dalla mente, altre invece… Salvatore Cinque era dei quartieri spagnoli di Napoli, un piccoletto, simpatico, con una Millecento targata Napoli. Siamo stati insieme un paio di sere e mi ha raccontato una storia che mi ha molto colpito, mi ha dato un senso… io la vedevo in chiave letteraria e pensavo al Gordon Pym di Edgar Allan Poe, a questi grandi testi. Faceva parte del mio lavoro sentire queste storie… Era partito alcuni mesi prima per il posto più lontano in cui doveva andare, aveva caricato la sua Millecento di tappeti e si era spinto a vendere sempre più a nord, fin quando un giorno, in una strada deserta, aveva visto venir su una luce terribile dall’orizzonte… gli hanno detto poi che era un’aurora boreale, non sapeva che esistesse: terrorizzato, ha girato la macchina targata Napoli e inseguito dalla luce è tornato indietro, macinando chilometri senza sosta fino ad Amburgo. Era un piccolo disgraziato dei quartieri spagnoli che raccontava questa storia con una semplicità piena di meraviglia. Ad Amburgo mi sono ammalato. Battevo la Reeperbahn, entravo nei locali, dei veri e propri localacci per i marinai che
sbarcavano al porto. La Reeperbahn è una strada lunga alcuni chilometri che viene dal porto e va dritta verso il centro. L’hanno inventata per difendere il centro dalle torme dei tanti equipaggi che sbarcano, essendo Amburgo un porto enorme, e si buttano in città alla ricerca di alcol e donne. È piena di locali, strip-tease, bordelli, pub di tutti i tipi, per cui gli equipaggi in centro non riescono ad arrivare, immagino che cadendo in ginocchio tendano le mani verso un Eldorado che non conosceranno mai e li portano via ubriachi, perduti, e la città perbene è salva. Ho visto spettacoli che nemmeno vi rendete conto. Il più atroce una pedana con un giro di sedili in legno, in un ambiente lurido grande come una stanza, si sentiva un disco che suonava, c’erano le birre, marinai, si apriva la tenda, usciva una casalinga con reggipetto e mutandine, se li toglieva, c’era un water e un bidet, si sedeva, faceva pipì, si metteva sul bidet e si lavava… questo era il numero! In un locale della Reeperbahn, non certo uno di questi così luridi, una birreria nella parte alta, mi hanno raggiunto Alberto Sordi e Rosi. Sordi voleva andare a divertirsi, voleva trovare una donna, non è che lo dicesse, lo ha detto in altri termini, ha chiamato un organizzatore, si è tolto il portafoglio, ha preso pochi soldi e lo ha consegnato all’organizzatore per non essere derubato. Mi ricordo Sordi che scompare per la Reeperbahn con i soldi contati per non essere fregato! Il giorno dopo sono ripartiti e sono rimasto da solo a continuare la preparazione. Il cielo lì è sereno, poi arrivano gigantesche nuvole, come ad Amsterdam, e si alza il vento. Un giorno, tornando in albergo, camminavo giusto sulla Reeperbahn, mi sono fermato davanti alla vetrina di una rosticceria, affascinato: un girarrosto, non l’avevo mai visto prima. Come un cretino, solo con la giacchetta addosso, tirava un vento freddo, sono stato a guardare: sapete come può essere affascinante, vedi il grasso che cola sul pollo che sta sotto e poi su quello più sotto ancora, e ancora più sotto, mentre tutti girano, girano, fino all’ipnosi… non riuscivo a staccare gli occhi da quei polli, ero caduto in trance. Mi sembrava una cosa geniale, mai vista, stupenda. Tirava questo vento ghiacciato, a un certo punto ho sentito freddo. Sono andato in albergo, il giorno dopo mi è venuta una
febbre spaventosa. C’era una cameriera tedesca, bella, prosperosa, una ragazzona semplice, che entrava – era il periodo di Ciao ciao bambina di Domenico Modugno – e mi diceva ridendo «Ciao ciao pappino». Le uniche parole che sapeva. La mattina ha bussato per portare qualcosa, ha visto che ero malato, allora è andata dalla padrona e hanno chiamano un dottore. È venuto il dottore, parlava italiano perché era stato nella Wermacht, a Milano, chissà forse una SS, mi ha guardato, mi ha auscultato: broncopolmonite. Mi ha dato una cura di sulfamidici, poi pezze e asciugamani messi a scaldare nell’acqua calda, bollenti, sul petto. Mi ha curato la cameriera. Sono stato una settimana a letto, poi sono tornato a Roma stanco e debilitato.
Attore (per caso) ne La dolce vita Quando cominciavo a stare meglio, per strada ho incontrato Antonioni, siamo scesi insieme per via del Babuino e abbiamo visto in piazza del Popolo degli ombrelloni e dei diecimila accesi sugli stativi. Michelangelo mi ha detto: «Deve essere Federico che sta girando, andiamo a salutarlo». Io non conoscevo Fellini. Mi sono avvicinato con Michelangelo, loro erano molto amici e hanno iniziato subito a chiacchierare. Fellini mi teneva d’occhio e a un certo punto mi ha detto: «Tu mi fai una cosa per il film. Sì, un aristocratico romano, figlio del padrone: sei perfetto». E io: «Ma no, sono di Bergamo, che aristocratico romano! Non c’entro niente». «Sì, invece, assolutamente, sei un aristocratico». Ha chiamato un segretario: «Prendi il nome. Fatti dare il numero di telefono. Guarda che ti telefoniamo e devi venire: sei perfetto». Venti giorni dopo ero al castello. Nei film o sei l’attore protagonista e allora sai cosa stai facendo in quel momento, oppure, se non lo sei, nel giro di poche ore diventi uno che dondola sul set non sapendo quando ti chiameranno, rompendoti in modo terrificante, e così è capitato anche a me. Ero un personaggio assolutamente marginale, per cui ricordo nel castello la grande noia dell’attesa… tutte quelle cose che si conoscono bene nel mondo del cinema. Non ho quindi dei grandi ricordi. La mia partner nelle scene del castello era Nico: era una bella ragazza, non bellissima, che veniva da Parigi. Caratterialmente la ricordo molto tranquilla, apparentemente fredda, ma non ostile. Poi è diventata una star internazionale della musica. Tanti anni dopo ho letto il suo nome sul cartellone del Teatro Olimpico, a due passi da casa mia. Non sono andato a sentirla e magari a salutarla. La dolce vita era ormai così lontana e svanita da far malinconia Fellini sul set non è che stava a parlare con me. Però è nata un’intesa cordiale, tanto è vero che ci siamo frequentati successivamente. Su quel set ho conosciuto anche Ennio Flaiano e ho frequentato anche lui dopo il film. Un giorno mi
ha dato appuntamento da Rosati. Si è presentato con una copia dattiloscritta, riservatissima, del suo lavoro teatrale Un marziano a Roma. Aveva appena finito di scriverlo. Mi ha chiesto di leggerlo e di dirgli le mie impressioni. Ebbene, io ho letto il testo e anziché adagiarmi nella stima che mi aveva dimostrato, gli ho detto la verità di ciò che pensavo: che non mi era piaciuto del tutto, ovvero il primo e il secondo atto mi avevano fatto tenere il fiato sospeso, era un capolavoro l’arrivo di quel messia e gli effetti sulla gente, poi, invece, il terzo atto diventava una barzelletta e io c’ero rimasto molto male. Mi ricordo che ho detto a Flaiano, in tono enfatico e sincero, più o meno così: «Io speravo in questa rivelazione, in questo uomo che viene da lontano, che poteva essere un punto di riferimento, e poi tu, Ennio, trasformi tutto in una barzelletta! Io nei primi due atti ci credevo al personaggio e tu me lo hai distrutto!». Flaiano ha reagito a questo mio commento ridacchiando e dicendomi: «Sì, forse hai ragione, però…». Si è accontentato. Sembrava felice di quanto mi erano piaciuti il primo e il secondo atto. Un po’ di tempo dopo la fine del film, Fellini mi ha invitato un paio di volte a pranzo a casa sua, in via Margutta. Un pranzo a tre, con Giulietta Masina. Conversazioni spiritose, con qualche pettegolezzo su gente del cinema di comune conoscenza. Un’altra volta, era d’estate, mi ha dato appuntamento verso sera sotto l’obelisco di piazza del Popolo. È arrivato sulla sua Mercedes scoperta. Mi ha preso a bordo e siamo andati fino al mare di Ostia nell’aria fresca della notte. Mi ha fatto chiacchierare per tutto il tragitto. Gli raccontavo storie di personaggi stravaganti della mia città, dei miei zii fornai, del forno dov’ero cresciuto, delle zie che si erano sposate e di quelle due che erano rimaste zitelle, storie di sacchi di farina, di topi e di gatti. E tante altre storie della vita di provincia. Si divertiva un mondo e mi chiedeva i particolari. Dopo aver parlato tanto, mi è venuto un sospetto: che i miei racconti gli servissero ad alimentare le sue stesse fantasie sulla sua Rimini, nella gestazione di un nuovo film. Sono diventato subito meno ciarliero, improvvisamente, geloso delle mie storie.
Erano anni quelli in cui non c’era nemmeno bisogno di prendere appuntamento perché ci si incontrava comunque. Non c’era ancora il consumismo indifferente dell’immagine e dello spettacolo: un nuovo film, allora, creava un evento. Oggi viviamo nel clima d’indifferenza profetizzato da Flaiano in Un marziano a Roma, profezia che avevo definito barzelletta e invece no, aveva ragione. Una prima teatrale di Gassman o di Carmelo Bene era un avvenimento! Oggi, da quello che vedo io, ovvero dall’interno di casa mia guardando fuori, c’è un’indifferenza mostruosa… Qui l’ho detto e qui lo nego! Non voglio diventare un vecchio nostalgico dei bei tempi andati! Volete sapere se Fellini era un genio? Quando si parla di genio dalla nascita, secondo me bisogna riferirsi solamente ai matematici e ai grandi filosofi… Russell, Wittgenstein… oppure perché no? Nabokov, entomologo, scienziato, poliglotta, grande scrittore in più lingue. Fellini mi era simpaticissimo, ma non era un matematico: grande amicone e chiacchierone, ti faceva anche parlare e ti stava a sentire, sapeva ascoltare con grande gusto. Come lo giudico io? Beh, è importante capire com’è nato: scrittore umorista per certi giornali, ovvero un poeta di cose minori e leggere, poi via via acculturandosi, frequentando maestri di pensiero e di scrittura, per esempio Flaiano – che secondo me è fondamentale per la maturazione del regista riminese –, gli sono nate grosse ambizioni, progetti sempre più complessi, personali e profondi. Fellini non è nato genio, ma se vogliamo usare questo termine nel campo cinematografico, è solo uno che genio lo è diventato, alla grande. Ma perché mi fate dire queste stupidaggini, queste banalità? Colpa della vostra domanda così infantile! Non si domanda se uno è un genio! Io non lo so! So solo che Fellini era un grande sognatore e i suoi film erano sognati. Per realizzarli riusciva a circondarsi di persone intelligenti e professionalmente ineccepibili. Io dei collaboratori di Fellini, come ho detto, ho conosciuto particolarmente Flaiano. Lo stimavo tanto non perché fosse amico di Fellini, ma perché avevo letto tutti i suoi libri. Tempo di uccidere l’ho letto più volte, l’ho studiato a fondo. Volevo farne un film. Non ci sono riuscito. L’ha fatto Giuliano Montaldo.
Il carro armato dell’8 settembre, che noia! Ho lavorato come sceneggiatore (uno dei tanti, dei troppi) e aiuto regista ne Il carro armato dell’8 settembre: era una fragile finzione della guerra che mi ha coinvolto poco, la storia di un soldatino dell’8 settembre che rimaneva senza ordini a bordo di un carro armato e cercava di riconsegnarlo, non sapendo dove e a chi. Il film poteva essere letto come una sorta di avventura on the road. Di questo film conservo il ricordo di una noia mortale. Il set era molto povero: era un film a basso costo. C’era un attore francese, Jean-Marc Bory, che girava con il carro armato per le campagne del viterbese, ma non accadeva mai niente di memorabile sul set. Puccini era negato per fare il regista in quel tipo di cinema. Era un bravo soggettista e sceneggiatore, uomo molto intelligente, però il mestiere del regista, perlomeno nel cinema italiano di quegli anni – nel quale spesso e volentieri i film nascevano male organizzati, nel senso che non c’era una suddivisione del lavoro molto efficiente e tutto finiva sulle spalle del regista in un modo anche ingiusto –, doveva avere come requisito fondamentale una forte personalità, anche aggressiva, lucida e prepotente, persino antipatica, per portare a termine il film, altrimenti si veniva sopraffatti. Poteva capitare che l’organizzazione avesse delle falle e se il regista non aveva il carattere per risolvere la situazione, finiva nei guai. Gianni era uomo brillante, però non era adatto a dirigere un film come questo che nasceva già male dal punto di vista organizzativo. Non riusciva a tappare le falle. Ho conosciuto Gianni grazie a suo fratello, Massimo Mida, che avevo frequentato in quel gruppo di autori di cortometraggi degli anni Cinquanta. Come documentarista era molto serio, anche se non credo abbia mai girato cose ragguardevoli per originalità. Il più bravo documentarista era Vittorio De Seta. I suoi documentari erano grandi perché erano cinema allo stato puro, erano eccezionali dal punto di vista del linguaggio. De Seta aveva trovato il suo linguaggio, che era cinema cinema: immagine, suono, montaggio, ritmo. Tanti
altri documentaristi erano bravi, ma non avevano un linguaggio originale: c’era il commento parlato, il montaggio e immagini corrette, che però erano tutte cose già viste, bene o male, in altri documentari. Sul set ho stretto una forte amicizia con un grande costumista, Danilo Donati, un vero artista, anche se il film in questione non aveva bisogno di grandi costumisti! In questo film era anche scenografo. Il Ministero della Difesa non ci aveva concesso un carro armato dei suoi. Donati ne ha costruito uno, partendo da un trattore, in un garage di Capranica. Conservo l’immagine di noi due seduti su un muretto di strada, con vista del garage dal tornante sottostante. Una persona magnifica e buona. Ricordo quel film soprattutto per la nascita di questa affettuosa amicizia. Sul set c’era a volte la presenza illustre di Pasolini, tra gli sceneggiatori del film. Veniva per correggere alcuni passi della sceneggiatura o scrivere una scena nuova. Così come ricordo la preparazione di una scena notturna nella faggeta di Soriano del Cimino: sono stato a lungo seduto al buio su un tronco d’albero a chiacchierare con una ragazzina, mentre gli elettricisti tiravano i cavi delle linee e piazzavano i riflettori nel bosco, una Catherine Spaak giovanissima, che aveva una parte nel film. Fascino naturale, ma soprattutto intelligenza.
Su Pasolini, fuori dai denti… Altre volte mi è capitato di incontrare Pasolini, all’Anac, a casa di Laura Betti con Alberto Moravia e altri. Non si è mai sviluppata alcuna simpatia. Colpa mia. Chiuso e muto, mi trattenevo. Non mi piacevano i suoi romanzi, non mi piacevano i suoi film. Alcuni di questi li trovavo addirittura brutti. Nei romanzi non sopportavo la mimesi realistica. Un disastro. Non potevo certo partire da lì per muovere i primi passi verso cordiali conversazioni. C’è di peggio. Non ho mai capito (allora come oggi) i lamenti per l’omologazione sociale in corso in Italia a partire dal dopoguerra. Come se non fosse una costante, quasi una legge di natura, comune a tutte le epoche, a tutti i paesi. Intere civiltà sono state fagocitate nei secoli in processi di omologazione. Meglio per la comparsa di oggetti di plastica al mercato che per una guerra civile o una grande guerra. Certo, si perdono valori tradizionali, dialetti, mestieri, costumi di vita. C’è qualcuno che perde, che paga. Si perde in “umanità”? Che tipo di “umanità”? Dove sta di casa l’“umanità”? Le masse popolari si sono tramutate in un’unica massa di consumatori costretta tra produzione e consumo. L’associazione consumatori è diventata forza sociale con un ruolo determinante per molte leggi. La realtà è questa. Certo, anch’io sono pervaso da tristezza e dolore quando ricordo il mondo contadino della mia infanzia, le tre capre che arrivavano davanti all’uscio di casa e venivano munte sul posto per il litro di latte di noi bambini. Non voglio più tornare a Bergamo, perché quel mondo non c’è più. La campagna arrivava sotto casa mia. Ora è l’inizio della periferia. Le capre sono scomparse. Il mio terribile dialetto si sta stemperando. Lo parlano in pochi. Si parla l’italiano della televisione. Bene: questa la chiamo nostalgia per la mia infanzia, buona per i ricordi, per i sentimenti poetici dolci o strazianti. Un fatto del tutto personale, che scomparirà con me, rimpiazzato da altri individui più giovani con altre nostalgie di mondi perduti del tutto diversi. Ogni individuo ha i suoi rimpianti. La società invece non ne ha nessuno, vive solo il presente e insegue il
futuro. Tutt’al più si deve impegnare a costruire nuovi valori (per costruire nuovi poteri?). Scusate, ho perso di vista Pasolini, segno che la faccenda mi appassiona. È comunque chiaro che con lui non ero in sintonia. Tuttavia l’ho anche ammirato. Un corpo agile, un viso magnifico, intelligenza, cultura, sensibilità, passione civile. Una carica di vita incredibile che riversava nelle sue opere di scrittura e di cinema, che ha riversato persino nella sua morte. Morte, che ha sconvolto me come tutti. Mi sono però rifiutato di concorrere alla glorificazione che lo ha tramutato in un’icona. Non potevo, per onestà. Non mi piacciono i suoi romanzi e i suoi film, che ci posso fare? Inoltre detesto le icone, disponibili per sbandieramenti di ogni colore. Detesto anche l’icona del Che Guevara finita sulle Tshirts. A questo punto mi faccio da parte. Sento volare pietre e anche sputi, che per fortuna sono più leggeri.
Nelle fogne di Napoli con il Signor Bonaventura Ho fatto l’aiuto regista fisso della Ponti-De Laurentiis, alla Vasca Navale, dalle parti di ponte Marconi. Mi hanno messo a libro paga per Il re di Poggioreale di Duilio Coletti e ho fatto da aiuto a Roma in teatro e a Napoli in città. Coletti era un signore con cui non avevo nulla da spartire e con cui ho parlato poco, per un fatto generazional-culturale e lui non è che avesse voglia di parlare. Coletti non creava con il cinema, faceva, che è un’altra cosa. Metteva la macchina, faceva le inquadrature secondo le regole del montaggio, era un regista di mestiere. Ho imparato di più facendo i miei documentari, usando la macchina e stando in moviola. Ho invece imparato molto sul set de La sfida di Rosi, la sua puntigliosità nelle inquadrature, nella ricerca delle facce, che trovavo per lui nelle vie di Napoli. Da Gianni Di Venanzo ho appreso i fondamenti dell’uso delle luci. Ho imparato da lui nozioni tecniche che mi sarebbero servite. Ne Il re di Poggioreale ho fatto un po’ di seconda troupe durante la festa di san Gennaro, poi mi son dato da fare a Napoli per cercare i personaggi. Ho provocato anche delle questioni diciamo sindacali… C’erano delle scene in cui numerose comparse dovevano camminare nell’acqua delle fogne che arrivava alle ginocchia, acque fetide, senza alcuna protezione. Mi sembrava criminale gettare allo sbaraglio la salute delle persone in quel modo. Nelle fogne di Napoli ho visto cose che voi non potete immaginare. Giravamo nella zona degli alberghi di Chiaia, per meglio dire nelle fognature sottostanti gli alberghi, da cui arrivava ogni tipo di rifiuto organico. Ci si spostava su stretti camminamenti tra il muro a volta della cloaca e l’acqua di scolo. I camminamenti erano bianchicci e scivolosi, non capivo perché, non capivo cosa fosse quel bianchiccio morbido sul quale era difficile stare in piedi. L’ho capito rimuovendolo con la punta dello stivale di gomma. Erano preservativi, una moquette di preservativi usati, stratificati e incollati nel tempo, scesi dalle camere degli alberghi e depositati sui camminamenti dall’acqua di scolo
durante le piene. Ho pensato ai più vecchi strati sottostanti, sicuramente della V Armata americana, quando gli ufficiali erano alloggiati negli alberghi. Ogni tanto uno stridìo. Bande di topi che svoltavano veloci, topi scuri con gli occhi rossi come rubini. C’erano Ernest Borgnine e la moglie Katy Jurado, che litigavano spesso, scoppiettanti frizioni coniugali. Tuttavia io non avevo rapporti diretti con gli attori principali perché mi occupavo delle comparse e dei generici. Ho avuto però l’onore di conoscere Sergio Tofano, che faceva una particina, e sono stato un intero pomeriggio con lui: per me era un mito e nello stesso tempo un fantasma perché mai avrei immaginato di incontrarlo, era il Signor Bonaventura che leggevo nel «Corriere dei Piccoli» durante la mia infanzia. In un casolare di campagna fuori Napoli, mentre aspettavamo che giungesse l’ora delle riprese, ho conversato a lungo con lui: è il ricordo più bello che ho de Il re di Poggioreale. Era una persona deliziosa, anziana, delicata, magra, fragile, mi commuoveva, gli volevo bene.
Le italiane e l’amore Ho incontrato nuovamente Ferreri quando abbiamo fatto con Zavattini Le italiane e l’amore, dove c’erano un po’ tutti i giovani emergenti, chiamiamoli così, di quel periodo e c’era anche Marco. Non ho mai legato molto con lui, personalità troppo grossa per me, e siccome anch’io ho la mia, sempre con molto rispetto, non siamo mai diventati amici. Comunque l’ho incontrato in quel collettivo e ho notato fin da Le italiane e l’amore che lui aveva una maturità di fronte alla quale tutti noi eravamo dei ragazzini. Non è una cosa che dico adesso, è una cosa che mi ha colpito allora perché ha diretto un episodio, L’infedeltà coniugale, molto semplice, ma così maturo di cinema, senza ricerche formali, una maturità di contenuto. Io fin d’allora ho pensato: «Questo è cinema da persona grande», grande di età, non come noi ragazzi, e non ho sbagliato perché ha preso la sua strada e ha continuato a macinare film. Faceva anche il produttore, si era arrangiato a fare tutto, era bravo nel manovrare i rapporti per i finanziamenti, con i distributori, ci sapeva fare, aveva anche una maturità di questo tipo, che noi non avevamo. Il mio Viaggio di nozze è stato molto lodato e tanti lo hanno giudicato il pezzo migliore. Io so che il migliore era quello di Ferreri perché il mio era il più sofisticato nelle immagini, i dettagli, la fotografia, l’uso degli obiettivi, ma non era il migliore. Era molto bello anche quello di Gianfranco Mingozzi, La vedova bianca. Zavattini era una persona eccezionale, se ne parla poco, un uomo di grande generosità intellettuale. La strutturazione del film è stata concepita da lui. Il film è nato sulla scia di un libro che aveva fatto molto rumore, un po’ come in America il rapporto Kinsey sulla sessualità: Le italiane si confessano di Gabriella Parca, che raccoglieva una selezione delle lettere femminili alle quali rispondeva sui settimanali. Il produttore del film era Maleno Malenotti, con il quale avrei poi fatto altri lavori. Fra tutte le lettere presenti nel libro, ho scelto quella di una donna che, appena sposata, si lamentava della reazione del
marito alla scoperta che non fosse vergine. Mi interessava l’ambientazione della vicenda: una nave, ovvero il traghetto notturno che partiva dalla Sicilia e arrivava a Napoli. Il direttore della fotografia era Marcello Gatti, di grande qualità. L’attore maschile era Mario Colli, che avevo scelto fra i doppiatori e che spesso e volentieri prestava la voce nei documentari, mentre l’attrice femminile, Antonietta Caiazzo, l’avevo trovata tra la gente comune di Napoli: non era un’attrice, era bella, era vera, e ha fatto questo episodio con me. Qualche anno fa mi ha telefonato, probabilmente già madre, già macinata dalla vita. Mi ha commosso perché dietro c’era tutta una vita che chissà dove si era arenata, o forse soltanto approdata. Sono rimasto piuttosto sconvolto. Mi ha chiamato per un bisogno umano, per sentire una voce dei vecchi tempi, quand’era giovane, che l’aveva scelta e stimata, non per una stupidaggine.
Come nasce un film: Amori pericolosi Il progetto di Amori pericolosi risale al 1960. Sono stato convocato all’Hotel Excelsior in via Veneto, dove c’era una persona della produzione, di cui non ricordo il nome, ma che probabilmente era del giro di Peppino Amato o di Roberto Amoroso, un napoletano. Alloggiava in una suite al primo piano dell’Excelsior. Sono andato all’appuntamento, ho bussato alla porta della camera, mi ha aperto un uomo con i capelli neri, carnagione scura, faccia losca. Era nudo, coperto solo da una vestaglia di seta azzurra semiaperta. Il letto era sfatto. Mi ha fatto accomodare e mi ha raccontato il progetto del film, che era a episodi. Un episodio lo doveva fare Carlo Lizzani, un altro Alfredo Giannetti e un terzo un regista francese, il quale però aveva rinunciato. Il produttore aveva fatto il mio nome per il terzo episodio, che doveva orientarsi su un motivo forte, da grand-guignol. Questo signore che mi parlava a strappi, un po’ rude, con accento napoletano, mi sembrava sempre più il gangster di un film: mentre parlava, si cambiò tranquillamente davanti ai miei occhi, mettendosi le mutande e vestendosi senza fretta. Poi mi ha salutato dicendomi di andare da Moris Ergas per sistemare il contratto. Era a quanto pare una persona seria, però per tutto il tempo l’ho guardato sbigottito perché sembrava uscito da un film americano di gangster, di quelli che mi piacevano tanto! Ma torniamo al mio film. Probabilmente hanno chiamato me perché, essendo il film prodotto dalla Rizzoli, dovevano far lavorare la giovane protetta di Angelo Rizzoli, Graziella Granata. Il regista francese non si era detto disponibile. E allora a me, essendo debuttante, potevano imporre la ragazza. È una mia ipotesi, basata sul fatto e sull’esperienza che i film nascono sempre così, mai in un modo glorioso, ma sempre nel più miserevole dei modi. In realtà, Graziella Granata si è poi rivelata un’attrice molto impegnata e brava. Ho girato l’episodio nel 1961 e durante le riprese ho legato molto con Leonida Barboni, che ha fatto una fotografia straordinaria. Il produttore Ergas era molto soddisfatto del
girato, tanto che ne sono diventato buon amico. Ricordo che andavo a cena da lui e che c’era Sandra Milo. Il mio episodio, Il passo, ha fatto una notevole impressione sulla gente di cinema perché ritenuto originale, fuori da qualsiasi canone corrente: un incrocio tra il cinema di Buñuel e atmosfere raffinate e decadenti alla Cocteau. Era un film morboso, malato, si ispirava proprio alla Folie Baudelaire, per citare il titolo di un libro di Roberto Calasso. C’era una fotografia molto elegante: i bianchi e i neri, i gigli, i vari simbolismi. All’epoca Amori pericolosi è passato inosservato presso il pubblico. Era coprodotto dai francesi. Nel cast c’era Juliette Mayniel, allora compagna di Vittorio Gassman, brava attrice, dagli occhi bellissimi.
Frank Wolff, una persona, non un attore Ne Il passo c’era anche Frank Wolff, che era un bambinone della California. Un uomo tutto istinto. Io l’ho sentito più come una persona che come un attore. È curioso. Ci sono degli attori che li vedi come finzioni anche per come si presentano. Ci sono altri, come Wolff, che non li vedi come attori, ma come persone. Diciamo la verità: non è che Wolff fosse un grande attore, faceva diligentemente certe cose, era bravo soprattutto nei film d’azione. Aveva però una bella faccia, importante, particolare che lo contraddistingueva, soprattutto disponibile, nella sua regolarità fisiognomica, a tramutarsi con semplici lavori di trucco in ogni tipo di personaggio. Ma come attore di fino – me ne sono accorto girando Il passo – ho dovuto lasciar correre molte cose perché non ce la faceva. Era una persona, non un attore, quella che si è tagliata la gola con due colpi di rasoio, in un residence, nei pressi dell’Hotel Hilton, il 12 dicembre del 1971. Per una delusione amorosa. Non per una finzione.
Io e il Kim: l’inizio di tutto Quando gli ho fatto vedere il girato de Il passo, Ergas mi ha chiesto se conoscevo un montatore in grado di montare il materiale. Io gli ho risposto che non avevo nessuno sottomano, allora Ergas mi ha suggerito un giovane che stava lavorando in moviola al piano di sotto dell’edificio. Ho seguito il consiglio di Moris e sono andato a conoscere questo giovane con i baffi. Mi sono presentato e gli ho chiesto se voleva montare il mio girato. Lui lo ha passato in moviola e subito ha accettato. Così ho conosciuto Kim Arcalli… così siamo diventati amici per la pelle.
Che pranzi! Io, Gassman e Rossellini Gassman era rimasto piacevolmente impressionato da Il passo, forse perché rappresentava un cinema diverso che improvvisamente piombava sugli schermi. Ha cominciato a invitarmi a mangiare a casa sua. Erano pranzi per pochi intimi e ne conservo ricordi molto belli, tuttavia non sono mai diventato amico intimo di Gassman. Un po’ per una differenza di statura artistica raggiunta, un po’ per la mia natura. Però ho sempre avuto con lui dei rapporti molto cordiali: era una persona colta, comunicativa, un gran signore della parola e dello spirito. A quei pranzi ho conosciuto Rossellini. A volte eravamo in tre: io, Vittorio e Roberto Rossellini! Rossellini era una persona molto estroversa, parlava tantissimo e io stavo ad ascoltarlo. Era il periodo in cui era in polemica con il cinema e dava molta importanza alla televisione. Ricordo che raccontava dei suoi progetti televisivi e della funzione che doveva avere la televisione.
Lulu Santiago non l’ho mai dimenticata… Universo di notte è nato da un’idea del produttore Alessandro Jacovoni che in quel periodo attraversava delle difficoltà economiche e si era diviso dal suo socio Tonino Cervi. Ricordo che era un bel ragazzo, alto, molto simpatico, giovanile e alla mano. Dopo l’enorme successo di Europa di notte di Blasetti, si erano buttati tutti su questo filone, con mille film, tra i quali Universo di notte. Questi film nascevano con piccole troupe che partivano per girare, in alcune parti dell’Europa o del mondo, numeri di cabaret e varietà. Venivano ordinate alle varie troupe delle sequenze da girare. A me Jacovoni ha chiesto di girare alcune cose a Parigi, approfittando del fatto che nella capitale francese c’era Carlo Di Palma, che aveva appena finito di girare Parigi o cara di Vittorio Caprioli, con Franca Valeri e Fiorenzo Fiorentini, ed era mio buon amico. Ci eravamo conosciuti in un film in cui avevo lavorato come aiuto. Potevo finalmente averlo come operatore e direttore della fotografia, il massimo. Sono andato a Parigi per fare dei sopralluoghi e mi sono fatto aiutare da una nota agente di spettacolo, Carmen Bajot. Carlo ha chiamato degli elettricisti e con una troupe di cinque o sei persone siamo andati a girare per alcuni pomeriggi al Lido, che era il tempio del consumismo cabarattistico-turistico. Lì ho filmato le Bluebelle, corpo di ballo già allora molto noto, Yma Sumac, la famosa cantante peruviana dall’estensione vocale stupefacente, fino a quattro o cinque ottave, e un altro paio di attractions che non riesco a ricordare. Siamo stati anche per una settimana intera nel Crazy Horse, il tempio dell’arte del nudo, dove abbiamo girato il numero di Lulu Santiago, una delle stelle del Crazy. Una volta terminato di girare, abbiamo mandato il materiale a Jacovoni. Il film completato non l’ho mai visto, non so quali registi abbiano girato altre sequenze e non so neppure chi l’abbia alla fine firmato. Ma se il film non mi dice niente, non ho invece dimenticato il mondo di conoscenze cui mi ha portato.
Non posso dimenticare il Lido e suoi personaggi. Non è uno dei tanti locali della Parigi di notte, ma una vera e propria industria dello spettacolo, un grande transatlantico che ogni sera molla gli ormeggi a pieno carico. Ho assistito alla preparazione del salone, proprio del tutto simile a quello di una nave da crociera, un’immensa platea di tavolini, una corsa di sedie irte di gambe, uno svolazzare di tovaglie, un risuonare di stoviglie e ancora corse di inservienti con vasi, fiori, suppellettili, tutto approntato per la cena di centinaia di clienti, mentre sul palco e dietro le quinte battevano i martelli dei macchinisti di scena e gli elettricisti tiravano cavi e innalzavano luci, un lavoro di preparazione che si ripete ogni pomeriggio secondo tempi di esecuzione contingentati… e infine il silenzio. Non ho dimenticato un giovane macchinista di scena del Lido che, uscendo con me dal teatro, aveva in mano un libro: era Les Fleurs du mal di Baudelaire. Non volevo crederci: sembrava fatto apposta per incantare un ex liceale come me. Per concordare il mio lavoro ho dovuto incontrare il direttore, di cui non ricordo il nome, e l’amministratore, che tutti chiamavano Giuseppe, all’italiana. Erano occupati con due americani in età e corpulenti, con cappello texano, cravattina di cuoio e sigaro. Ho assistito a un rumoroso colloquio, nel quale trattavano uno scambio di attractions tra il Lido e un locale di Las Vegas. Al Crazy Horse è stata eccezionale la conoscenza di monsieur Alain Bernardin, geniale impresario e soprattutto grande artista del nudo. Ho avuto l’onore di collaborare con lui per la realizzazione del numero di Lulu Santiago: un maestro inarrivabile di puro linguaggio scenico, corpo femminile in movimento, luci, ombre, musica, tutto fuso in un solo ritmo di alta intensità emotiva, da togliere il fiato. Indimenticabile la tromba di Miles Davis negli Sketches of Spain orchestrati da Gil Evans. Grazie alla splendida fotografia di Carlo Di Palma credo di aver girato un magnifico pezzo. Chissà in quale discarica è andato perduto. Ma io Lulu Santiago non l’ho mai dimenticata. Tra le quinte del Crazy ho sentito mormorare che Monsieur Bernardin era lontano discendente di Bernardin de Saint-
Pierre, lo scrittore di fine Settecento, l’amico di Rousseau, l’autore di Paul et Virginie. Non so se sia vero o se non sia documentabile. Vorrei tanto che fosse vero e che un lungo e misterioso filo legasse Paul e Virginie a Lulu Santiago, la corte di Luigi XVI al Crazy Horse. Alain si è sparato un colpo di pistola in testa nel suo ufficio al Crazy. Aveva 78 anni. È accaduto il 15 settembre del 1994.
Paris la nuit Dopo il lavoro per Jacovoni, non riuscivo a lasciare Parigi. Mi sono fermato alcune settimane. È stato grazie a Carmen Bajot che ho conosciuto fino in fondo la Parigi di notte. Era una donna piccola, molto carina, attiva e intelligente, ex prima ballerina dell’Opera di Algeri, con due polpacci di ferro. Faceva l’agente teatrale. Aveva un suo ufficio in un palazzo degli Champs-Élysées con tre o quattro linee telefoniche. Smistava dall’Asia al Medio Oriente, da Las Vegas all’Europa, da locale parigino a locale parigino, le attractions di cui era procuratrice. Per qualche sera ho fatto il suo accompagnatore. Andavo a prenderla in ufficio di sera quando finiva il lavoro al telefono. Mi caricava sulla sua Dauphine, una Renault allora molto diffusa, e dopo una rapida cena, cominciavamo il giro dei locali che avevano sotto contratto i suoi numeri. Ho goduto del rispetto quasi reverenziale che i buttafuori e il personale avevano per Madame Bajot e il suo accompagnatore. Carmen si chiudeva subito nel privé a discutere di affari con il direttore, mentre io venivo accompagnato a un tavolo, immediatamente davanti a una piccola bottiglia di Veuve Clicquot. A volte le sedute di Carmen duravano a lungo. Avevo tutto il tempo di vedere buona parte dello spettacolo. E così di locale in locale, dai più noti ai più oscuri, fino a tarda notte. Da questo accumulo di ambienti e di conoscenze mi è venuta l’idea per un film, un film che mi avrebbe arricchito! Ma non voglio lasciare Carmen Bajot senza ricordare un episodio che mi ha piuttosto intenerito. Ha voluto portarmi a vedere suo fratello che lavorava al Circo Medrano, in una struttura permanente, in muratura. Dalla prima fila in cui eravamo me l’ha indicato col dito: un bel ragazzo coperto da un solo cache-sex, con il corpo nudo luccicante di paillettes, che dava la scalata a una piramide umana altrettanto nuda e luccicante, fino al trionfo del vertice. Il numero finale del circo, in un tripudio musicale.
Nudi per vivere: ricchi per una notte Avendo ormai un’approfondita conoscenza dei locali parigini e vedendo che tutti guadagnavano soldi grazie a questi film, tranne me, mi sono deciso a guadagnarci anch’io qualcosa. L’industria dell’erotismo, questo era il tema. Conoscevo tutte le quinte e i segreti dei locali. Così ho scritto un soggettino e sono tornato a Roma alla ricerca di soci. Ne ho parlato con gli amici Elio Petri e Giuliano Montaldo. Elio si è mostrato subito interessato, tanto che ne ha parlato a suo suocero, il produttore Lorenzo Pegoraro, anche perché questo progetto poteva essere realizzato in modo molto semplice, in economia, senza l’assillo di una continuità. Pegoraro, che in quel periodo attraversava una crisi economica (l’eterna crisi del cinema!), si è mostrato interessato a produrlo e ci ha detto che non c’era alcun problema, ma che bisognava realizzarlo al massimo in venti giorni e a bassissimo costo. Pegoraro era una persona garbata, tranquilla, senza una particolare personalità imprenditoriale, un po’ spaurito di fronte agli eventi. Abbiamo detto okay. Ci siamo organizzati in due piccole troupe formate da un operatore, un capo elettricista, un capo macchinista e qualche elettricista occasionale di supporto. Fra noi tre ci siamo divisi i numeri e gli eventi da girare. Dormivamo a Parigi nello stesso albergo, in modo tale che ci potevamo con più facilità dare il cambio: uno andava a dormire e l’altro riprendeva a lavorare con l’altra troupe, quella riposata. Orari e lavoro da fornai, come i miei zii. È andata bene: siamo riusciti a stare nel preventivo. Quando già eravamo al montaggio, ci siamo posti il problema delle firme. Ci sembrava assurdo firmare in tre un film di consumo, a cui nessuno di noi teneva particolarmente. E a me che è venuto in mente Elio Montesti, la fusione dei nostri tre nomi in un nome sconosciuto. Finito il film, il titolo lo ha trovato il nostro amico Giancarlo Fusco. Lo incontravamo da Rosati, dove andavamo sempre perché la moviola era alla Fono Roma, che stava lì dietro. Dopo aver bevuto un paio di whisky, abbiamo portato Fusco a vedere il
film, che avevamo appena chiuso. Non avevamo alcuna idea per il titolo e lui, mentre scorrevano le immagini, improvvisamente ha mormorato: «Poveracci… nudi per vivere». «Nudi per vivere!!» abbiamo gridato. Mai titolo ci è apparso più appropriato. Il film era costato poco e dovevamo dividere la torta dei guadagni in tre, più il produttore. Non avevamo ancora preso una lira ed eravamo molto ansiosi per l’uscita e l’ipotetico successo commerciale. È uscito attraverso certi distributori regionali e la prima è stata a Catania. In piena notte ci siamo attaccati al telefono per sapere dall’esercente l’incasso. E l’incasso della prima sera era favoloso!… Siamo stati ricchi per una notte. Il giorno dopo, nel pomeriggio, è arrivato un telegramma che annunciava il blocco giudiziario del film. Ne è seguito un processo. Secondo la legge del tempo l’incriminato era il produttore. Pegoraro ha dovuto presentarsi in tribunale e ha chiamato alcune persone per testimoniare sulla sua integrità morale. Fra i testimoni che garantivano per lui, c’era anche Fellini. Se l’è cavata con la condizionale. Ma non il film, che è stato condannato a morte: distruzione del negativo. È accaduto diversi anni dopo anche a Ultimo tango a Parigi, solo che l’opera di Bertolucci era un film di rilevanza artistica e ha trovato, non a caso, illustri difensori. Noi invece eravamo tre disgraziati che non avevano dietro nessuno, il nostro film non aveva grandi attori, essendo poco più di un documentario. Perché una sentenza così dura? Perché così erano i tempi (primi anni Sessanta). Il potere era tutto democristiano, la morale veniva dettata dal potere e la censura era il suo strumento. L’integralismo può anche essere cattolico e di casa. Mi sembra giusto non dimenticarlo. Nudi per vivere era una presa per i fondelli di tutte le autorità costituite. Non solo il titolo, ma anche il commento era stato ideato e scritto da Giancarlo Fusco ed era uno sfottò della doppia morale del perbenismo. Ricordo che c’era un capitolo dedicato alle perversioni sessuali, dove c’erano di mezzo generali e vescovi. Un bel po’ di anni dopo, ho avuto una bella sorpresa. Esisteva ancora una copia di Nudi per vivere! Trovata presso la
Cineteca Nazionale! Sicuramente la copia della Commissione Censura, sfuggita alla distruzione perché un documento burocratico può essere solo archiviato, ma non distrutto. Evviva la burocrazia! Tutto il resto ha potuto essere tranquillamente eliminato, negativo e copie in commercio. Perciò dopo tanti anni ho avuto la possibilità di rivedere il film. Un’operetta innocente! Elio Montesti non era che un collegiale ancora adolescente che aveva scoperto le complicazioni del sesso. In un certo senso, che delusione!
Che Grand Guignol! La preparazione di Nudi per vivere mi ha portato a un fuggevole, inaspettato, ma per me straordinario incontro. Avevo nella mia scaletta una voce che riguardava il Teatro Grand Guignol. Sempre grazie a Carmen Bajot, mi hanno procurato un appuntamento di primo pomeriggio con un rappresentante del teatro, a Le Néant, un locale in piena Pigalle, di ispirazione esistenzialista, che apriva alla sera. Il locale lo conoscevo, c’ero già stato una notte, era ampio, articolato in più sale, in un percorso di corridoi semibui. Le sale, altrettanto debolmente illuminate da luci mirate, avevano le pareti affrescate da scene erotiche di non cattiva esecuzione. Al centro di ogni sala c’era una bara, sul cui coperchio veniva servito da bere ai clienti della notte. Un uomo vestito da prete, penosamente gobbo, faceva da cicerone ai visitatori attraverso il percorso, illustrando le scene con equivoche prediche, sottolineando con una lunga canna di bambù i particolari delle scene erotiche. L’uomo aveva un nome: abbé Rémy. È stato lui che mi ha ricevuto e mi ha subito portato nella sua abitazione al piano di sopra. Tanto il locale sottostante era buio e tetro, quanto l’abitazione era piena di luce, uno stanzone con marcate tracce di liberty e una grande finestra, la cui vetrata dava su place Blanche. Già mi aspettava la rappresentante del Grand Guignol. Era Dénise Dax, l’attrice principale, con il suo accompagnatore, Michel Simon, suo protettore e amico. Non volevo credere ai miei occhi: Michel Simon, uno dei miei miti del cinema francese degli anni Trenta e Quaranta, da L’Atalante in poi. Ne è seguita una brevissima conversazione, subito interrotta dall’abbé Rémy, che se l’è portato via in un’altra stanza, lasciandomi solo con Dénise Dax, con la quale dovevo trattare il numero del Grand Guignol. Era una bella donna, alta e formosa, già nota nel mondo dello spettacolo per il suo nudo perfetto. Aveva già una proposta, il clou della pièce che andava in scena a teatro in quei giorni, non so con quale titolo, una storia sanguinolenta di occhi strappati. Ha aperto una borsetta e ne ha ricavato con delicatezza una grossa manciata di cotone idrofilo che ha socchiuso, esponendomi
due occhi freschi che mi guardavano dal bianco del cotone, due occhi d’abbacchio appena ritirati dal suo macellaio di fiducia, che la riforniva giornalmente per lo spettacolo. Conclusa la trattativa, non mi è rimasto che salutare Michel Simon e l’abbé Rémy, che mi ha fatto scendere la scala nel buio sottostante, aprendomi una porticina che dava nell’abbagliante chiarore della place Blanche. Pensai a lungo a quell’incontro. Me lo ha corredato di qualche notizia Carmen Bajot: Dénise Dax era più che intima di Michel Simon, del quale l’abbé Rémy era amico fraterno da quando lavoravano insieme in un circo, dove Rémy si era rotto le vertebre cadendo da un trapezio. Da lì la sua gobba e la sua carriera religiosa.
Petri e il bagnoschiuma Sentite questa! È accaduto nei primi giorni di lavorazione di Nudi per vivere. Noi tre, cioè Elio Montesti, alloggiavamo in un vecchio alberguccio di quart’ordine dalle parti del boulevard Saint-Germain. Come detto, ci davamo il cambio sul lavoro. Bene. Avevo fatto la notte, ero stanco morto e volevo fare un bagno rilassante prima di ficcarmi nel letto. Ho riempito d’acqua calda la brutta vasca scrostata del bagno e mi è scappato l’occhio su un flacone di schiuma da bagno Badedas, probabilmente abbandonato da un cliente. L’ho scosso, ce n’era ancora un avanzo abbondante, l’ho versato nell’acqua e mi sono immerso. Mi sono mosso, la schiuma è cresciuta, mi è salita fino al mento, Dio che bello! Era la prima volta che facevo un bagno di schiuma. Fantastico! Mi sono rilassato con un sospiro, ho sentito una voce nella mia stanza, la porta del bagno si è spalancata: era Elio Petri pronto a uscire per il suo turno, mi ha visto, è ammutolito, poi è esploso rosso in viso e ha attaccato, tutto agitato, una filippica contro la corruzione dei costumi, i miei costumi, le mollezze borghesi, le mie mollezze, la rinuncia all’impegno morale e sociale, la mia rinuncia, eccetera eccetera. Non finiva più. Da non credere e infatti non volevo crederci, pensavo che scherzasse… non scherzava, lo rivelava il suo viso rosso, l’ammucchiarsi delle parole, i suoi spruzzi di saliva. «Ma questo è un cretino!», mi sono detto, pensando anche per un momento, con un senso di colpa, che mi avesse colto in un molle atteggiamento di baiadera stanca e corrotta. Non ho risposto. Mi sono limitato a uno sghignazzo e a un gesto osceno con il dito che ho fatto uscire dalla schiuma. Non ne ho più parlato. Non volevo compromettere il lavoro appena cominciato. Ma ci ho pensato a lungo e mi ci sono arrovellato. La legnosa morale del partito comunista? L’educazione familiare? Ma Cristo! Aveva accettato di venire a Parigi a fare un film sull’industria dell’erotismo! Non poteva essere. Cosa allora? E cosa c’entrava la schiuma da bagno Badedas che l’aveva scatenato? Alla fine mi è parso di capire. Era una persona sessualmente repressa che procedeva per simboli (la schiuma?), che mi
vedeva, mosso da un sottile e velenoso astio, come la negazione del suo sforzo di virtù. Chissà, forse mi invidiava. Ancora una volta il mio irriducibile complesso di superiorità mi aveva aperto la strada della comprensione e del perdono. Dopo il film e il suo esito economico fallimentare, non ho più avuto occasione di frequentare Elio Petri, se non qualche incontro casuale attraverso gli anni. Ce ne è uno che non ho dimenticato. Ai margini del traffico di piazzale Flaminio, all’ingresso di Villa Borghese. L’ho visto in attesa, mollemente appoggiato al parafango di una MG scoperta, vestito sportivo, coppola a quadri all’inglese, visto da lontano un ozioso dandy che aspetta per un appuntamento. Mi sono avvicinato per salutarlo e tutto è crollato in una imbarazzante caricatura. Non aveva le physique du rôle. Non ce l’aveva di brutto. Troppo. Tuttavia, i film fatti e il successo avevano lasciato il segno aprendo forse la strada alla libertà dei sentimenti e dei desideri. Ho saputo che a un certo punto ha lasciato la moglie per un’altra donna. Chissà se si è mai immerso con lei in una vasca traboccante di schiuma.
Io, il cinema, la politica, la borghesia, il conformismo Montaldo e Petri sono stati sempre degli amiconi. Ci ho pensato. Ho dedotto, con dispiacere, che era molto più facile che fossero amici tra di loro che non con me. La ragione l’ho intuita ed è di tipo sottilmente ideologico, anche se eravamo tutti e tre comunisti. Io, a differenza loro, non ho mai voluto nel mio cinema occuparmi di argomenti direttamente politici o sociali, o meglio, non ne ho mai avuto la vocazione. Eppure, al di fuori del cinema, ne ho cose da dire e da raccontare. Per esempio, sulla guerra partigiana. Avendo sempre considerato il cinema una finzione che si concretizza in una realtà autonoma e definitiva, non ho mai voluto inchiodare in quella finzione la mia intima memoria di quell’esperienza, che ancora mi porto dentro indelebile. Mentre invece, nei miei racconti scritti, da quella memoria ne ho colto a piene mani. Perché dalla letteratura essa non viene compromessa, anzi viene ancora più aperta, moltiplicata, resa disponibile nel flusso di tutte le sue varianti. Il cinema sento che la distruggerebbe in una pseudorealtà. Di cose politiche che pur mi appassionano preferisco parlare nelle sedi politiche o leggendo saggi e articoli o litigando al bar. Una sola volta ho affrontato un tema direttamente politico, nel cortometraggio digitale Visitors, che tratta di partigiani e di fascisti, ma ne ho parlato in chiave esistenziale, addirittura biologica. Chissà, io forse ho sempre fatto parte, senza saperlo, inconsciamente, della cosiddetta Folie Baudelaire e cioè di tutto quel mondo poetico e artistico che irradiava da Baudelaire e che non si è mai estinto, che rappresenta qualcosa di impalpabile, una sensibilità poetica, come è stato detto, verso la realtà di un certo tipo, maledetta, controcorrente, antiborghese. Ecco, ho sempre fatto parte di quel mondo, di quella cultura, mentre Petri e Montaldo venivano dalla militanza cultural-politica e sono rimasti fedeli a questa militanza (unica vergognosa bestemmia Nudi per vivere), ovvero vestivano il cinema di abito ideologico-politico, considerato l’estremo bene, mentre io – non mi vergogno a
dirlo – ho sempre cercato la poesia, cioè qualcosa di inafferrabile, talmente inafferrabile da lasciarmi a terra come poeta mancato. Ma non ci ho mai rinunciato e l’ho sempre inseguita, sì, la poesia, distruttrice della logica sintattica della normalità e del conformismo.
Le schiave esistono ancora? Maleno Malenotti aveva messo in piedi un film che si chiamava Le schiave esistono ancora. Io avevo già incrociato Malenotti: era stato produttore de Le italiane e l’amore con Zavattini che sovrintendeva. Un giorno, Malenotti mi ha chiamato per questo film. Alla base c’era un libro di un autore che si chiamava Robin Maugham, il nipote di Somerset Maugham. Questo Robin era un baronetto, frequentatore del Nord Africa, e aveva scritto un libro sui tipi di schiavitù esistenti nei paesi africani. Aveva tenuto pure un discorso alla Camera dei Lord, quei discorsi di debutto, proprio sulla schiavitù. Comprati i diritti del libro, Malenotti si è rivolto a Folco Quilici, il quale è partito per un paese africano con una piccola troupe ed è tornato con del materiale molto bello. Malenotti però voleva un film che incassasse bene, non per niente si chiamava non Gli schiavi esistono ancora, ma Le schiave esistono ancora, perché era il produttore che aveva fatto i soldi con La donna più bella del mondo di Robert Z. Leonard e aveva prodotto Le italiane e l’amore, che per l’appunto parlava sempre di donne. In questi villaggi africani non è che Folco Quilici avesse trovato gli schiavi, aveva fatto solo un’inquadratura di un povero nero alla catena ed era tutto quello che c’era. Malenotti, che era già fuori con i soldi, mi ha chiamato e mi ha detto: «Qui dobbiamo andare avanti, inventami delle cose da assemblare con la roba di Folco, che è bella, la possiamo usare». E io ho inventato delle cose ovvie: un harem con molte donne, tutte schiave, l’intervista a un ex pilota della Raf che volava nei paesi arabi trasportando altre schiave, un’intervista a Robin Maugham che sulla schiavitù sapeva tutto… Maleno sembrava ravvivarsi. Io non ho dato molta importanza a Folco Quilici perché avevo capito qual era l’intenzione di Malenotti: raccogliere materiali diversi, di qualsiasi provenienza, purché andassero in una certa direzione. In occasione dell’unico incontro che ho avuto con Folco, lui mi ha fatto un paio di battute, come se rovinassi un progetto che invece era serio. Probabilmente se lo avesse fatto tutto Folco, avrebbe fatto un film bellissimo, magari non Le schiave
esistono ancora, ma un bellissimo documentario sulla vita di quei paesi, di questo ne sono certo. Io non ci ho pensato, ho pensato che fosse balorda l’impostazione di Malenotti e l’ho presa per ridere, infatti avevo inventato queste cose come delle boutades, e invece erano state prese come oro colato. Malenotti aveva già mandato un’altra troupe con Luciano Tovoli, che io conoscevo bene, per cui non aveva solo materiale di Folco, ma aveva anche roba di Tovoli girata in un altro paese del Nord Africa, ma anche lì schiavi non se ne vedevano. Credevo che anche Folco si rendesse conto di essere out perché Malenotti voleva altre cose, pensavo stesse anche lui al gioco, mentre Folco aveva preso, giustamente, molto sul serio quello che aveva fatto, che sarebbe finito probabilmente in un calderone di cose non serie, e aveva pure ragione. Le battute un po’ maligne me le ha dette lui, io neanche ho replicato perché ero sorpreso e dispiaciuto. Malenotti mi ha dato tanto credito che è venuto con me a Nizza, nell’entroterra, dove c’era la casa di Somerset Maugham, con ospite il nipote Robin. Ma Robin non ci ha dato appuntamento in casa. Credo che i viaggi in Nord Africa alla ricerca di schiavi e schiave nascondessero una tendenza a un certo libertinaggio omosessuale. Ho raccolto supposizioni che Malenotti condivideva con me: il vecchio lo voleva diseredare, per questo Robin era un po’ nervoso e ci ha dato appuntamento in un bar di Nizza. Abbiamo stabilito un po’ di cose da fare a Londra: prima di tutto un’intervista a Robin stesso, che avrebbe parlato del suo libro, poi quella che avevo buttato lì come una boutade, un’intervista a un finto pilota della Raf che trasportava probabili schiavi e schiave sulle rotte nordafricane, in più un’intervista a una donna che era riuscita a scappare da un harem. Mi ricordo la permanenza a Nizza, sono stato due-tre giorni in un buon albergo con Malenotti, che era una persona affabile, simpatica, ma sempre un po’ preoccupata. Per distenderci una sera siamo andati al cinema: abbiamo visto Gli uccelli di Hitchcock, appena uscito in Francia. Per Londra poi sono partito da solo. Mi ricordo l’intervista in un pub con il finto ex pilota inglese della Raf, l’intervista alla schiava fuggita, in un appartamentino, ma non era africana, era neozelandese, un tipo
tizianesco, morbida di linee, molto bella, con i capelli biondi, ramati, formosa, una bella donna, che si era trasferita in Italia per studiare l’opera lirica. Poi ho intervistato Robin. Dove? Non a casa sua, mi pare di ricordare che avesse una casa fuori Londra, forse aveva anche una piccola casa in città, ma non era adatta, per cui ci ha detto che l’intervista l’avremmo fatta a casa del suo agente letterario. Siamo andati negli uffici di questo agente, del tipo che in Italia non abbiamo idea: un ebreo di origine tedesca, non mi ricordo il nome, ma importantissimo, che aveva come clienti grandissime firme europee e americane, era un ometto piccolo, cordiale, un po’ cicciotello, di quelli che rimbalzano come fossero di gomma, una persona vivace e interessante. Siamo andati a pranzo per concordare l’intervista in un locale famoso di Londra, The Ivy, una costruzione di pietra celebre perché era il ristorante dell’ultimo pranzo dei cadetti delle famiglie importanti che si imbarcavano sulle navi nel Settecento e nell’Ottocento. A pranzo (c’era anche un giornalista del «The Sun») abbiamo concordato tutto e dopo siamo andati nell’ufficio dell’agente, che era come la redazione di un giornale, con tante scrivanie e gente che telefonava; infine ci ha portato a casa sua per farci vedere dove avremmo potuto girare. Era una casa magnifica, si affacciava su Hyde Park. Il giorno dopo abbiamo preparato il set per l’intervista. Robin era appoggiato a un classico caminetto nel bel salotto di casa e la sua prima battuta è stata: «The question is the oil», il problema è il petrolio, poi dell’intervista non ricordo più nulla. Durante la preparazione delle luci, si è fatta viva una ragazza carina, la figlia dell’agente, e si sono affacciate due donne italiane, sui 55 anni, al servizio della famiglia, le quali mi hanno detto: «Siamo della provincia di Brescia». E poi mi hanno chiesto notizie del papa. Mentre aspettavo che preparassero le luci, mi hanno chiamato e mi hanno portato, misteriose, in cucina a offrirmi qualcosa e poi mi hanno preso per mano e mi hanno accompagnato in una stanza, dove c’era una vecchia stesa sul letto, immobile, che stava morendo. Loro le hanno preso la mano e le hanno detto: «Viene dall’Italia, da Bergamo». Era la mamma dell’agente, una donna tedesca. Era bellissima, come una statua. Mi ha fatto impressione perché
sembrava intagliata nel legno da uno scultore. Muoveva solo gli occhi. Era molto lunga. Siamo tornati a Roma e il materiale è piaciuto. Si è potuto finalmente mettere addosso a questa finzione il titolo Le schiave esistono ancora: potevamo parlare di schiave perché lo aveva detto Robin nell’intervista, lo aveva detto il pilota e poi la ragazza di Londra, fuggita addirittura da un harem dov’era prigioniera. Tornati in Italia, allora che si fa? Si mette su l’harem! Dove? Negli studi di Tirrenia, dove c’erano delle costruzioni e una piscina. Mi sono trasferito a Tirrenia per un certo numero di giorni, è venuta Marilù che ha fatto i costumi e, sfruttando in teatro una costruzione già esistente, abbiamo improvvisato un quartiere arabo, fatto di un paio di stradine, che facevano ambiente, più la piscina, dove c’era l’harem. Come operatore abbiamo chiamato Aldo Tonti, sì, il bravissimo Aldo Tonti, piccolo di statura, vivace, sempre pronto allo scherzo, con la battuta facile. E sono stati reclutati tutti i personaggi a Livorno. Problema! Gli arabi non c’erano, ma c’era a Livorno una colonia di ebrei di origine yemenita, con facce perfette. Li abbiamo vestiti da arabi e abbiamo girato le scene del quartiere. Poi la piscina dell’harem, dove c’era la bionda, quella già intervistata a Londra, in mezzo alle africane, una ventina di donne. Abbiamo girato le scene più banali che vi possiate immaginare, le inquadrature delle donne in acqua, dove spiccava questa figura tizianesca dalle forme abbondanti, la pelle dorata. Subito dopo queste riprese, Malenotti ha mandato in giro altre troupe, sempre alla ricerca di schiave. Tovoli è ripartito per l’Africa e io non ho saputo più niente di questo film!
Il Tiziano sfregiato, un dolore, un enigma La schiava fuggita dall’harem, se ben ricordo, si chiamava Lizabeth. Ho già detto che era neozalandese, venuta in Italia per studiare l’opera lirica. Si era stabilita a Roma e abitava in una mansarda di un vecchio palazzo di piazza della Rotonda, a due passi dal Pantheon. Dopo il film, non l’ho più vista. Passati alcuni mesi, mi è arrivata una telefonata in piena notte. A fatica riesco a capire che era lei, una voce strascicata, pause interminabili, parole pressoché incomprensibili. Al momento, nella confusione del sonno, mi si è affacciata l’ipotesi di un tentativo di suicidio e mi sono messo a sedere in allarme, ma no, la voce continuava sullo stesso tono farfugliante con qualche piccola risata e inciampo di parole, ubriaca, ubriaca fradicia. Sono stato pazientemente a sentirla fino al suo affettuoso saluto e lei stessa ha messo giù. Sono rimasto un momento a grattarmi la testa, poi mi sono rimesso sotto le coperte per cercare di riaddormentarmi. Sono passati molti mesi ed è arrivata un’altra telefonata, questa volta di giorno, voce chiara, squillante, allegra: mi ha invitato a prendere un tè a casa sua. Ci sono andato il giorno dopo, su per le tante scale del vecchio palazzo di piazza della Rotonda, fino all’ultimo piano: dalle finestre della mansarda una visione di tetti fino alla cupola del Pantheon. Era in vestaglia, allegra ma ansiosa, eccitata. Ha messo a scaldare l’acqua del tè, ma non ce la faceva più, mi si è messa davanti, ha aperto la vestaglia e mi ha fatto vedere la novità, un seno nuovo, piccolo, che mi ha mostrato tenendolo a coppa nei palmi delle mani. Il suo meraviglioso seno tizianesco non c’era più. Con orrore ho visto alla base il cordolo bluastro di una cicatrice non ancora assorbita. Con il seno in mano aspettava a fiato sospeso il giudizio dell’autorevole regista del suo corpo nudo di schiava fuggita dall’harem. Per non avvilirla ho fatto buon viso a cattivo gioco, pur limitandomi a blandi complimenti e a leggeri rimpianti; accentuando però via via i complimenti, fino ad aprire un sorriso felice sul suo bel viso. Fischiava il bollitore sul fuoco ed è corsa a preparare il tè.
L’abbiamo bevuto masticando pasticcini. Era ridiventata seria raccontandomi in modo accorato che il problema era sempre stato il suo corpo, in particolare quel suo seno così pesante e vistoso che la rendeva infelice. Non ho più fatto obiezioni. Per una decina d’anni non ho più saputo niente di lei. Un giorno, non aspettavo nessuno, qualcuno ha suonato alla porta. Sono andato ad aprire, scocciato che avessero evitato il citofono. Ho spalancato la porta e mi sono trovato davanti uno sconosciuto che a prima vista ho scambiato per un ortolano, un ometto magro e sciupato, vestito modestamente. Si è sovrapposto subito alla mia aria interrogativa: «Sono il marito di Lizabeth. È morta ieri. Mi parlava sempre di lei. Si è fatta promettere di venirglielo a dire», parole ansimanti, il viso stretto nel dolore, ai margini del pianto. Ho balbettato cercando di realizzare, ma non ho avuto tempo per niente, dire qualcosa, farlo entrare in casa, trattenerlo, perché si è girato con un singhiozzo ed è scappato giù per la rampa di scale che portava all’uscita. Quel dolore così violento mi si è comunicato con la stessa violenza, ma non tanto per Lizabeth, quanto per quel piccolo modesto uomo che l’aveva sposata e che l’amava in quel modo struggente. Continuavo a dirmi: «Ma perché non sono stato svelto a trattenerlo, perché non l’ho abbracciato, non l’ho consolato, non mi son fatto raccontare». E pensando a Lizabeth: «Perché gli parlava di me, cosa rappresentavo per lei, io che non valgo niente».
Scrivere per vivere Non ho mai visto La donna del lago. La sceneggiatura l’ho scritta qualche anno prima che Luigi Bazzoni realizzasse il film, forse addirittura nel 1959. Ma vi devo spiegare una cosa: io inseguivo dei miei progetti, mi arrovellavo, stavo male, volevo fare un certo cinema, del resto non me ne fregava niente. Documentario? Finzione? Non sapevo che cosa esattamente volessi fare. E quando si hanno le idee così poco chiare, si soffre ancora di più. Volevo un certo cinema, che era quello che sognavo io. Per cui ogni volta che mi arrivava un lavoro utile alla mia sopravvivenza economica, mi arrabbiavo perché mi distraeva dai miei progetti. Così mi è arrivata addosso la sceneggiatura de La donna del lago. Ci ho lavorato per prendere un po’ di soldi, però la testa vagava altrove. Ricordo di averla scritta da solo, poi in seguito anche altri ci hanno messo le mani. Luigi Bazzoni era molto bravo. Non è mai riuscito a impossessarsi di grandi lavori, ma quello che ha fatto l’ha sempre realizzato molto bene, con grande classe, da autentico artista.
Mercenario ne Le soldatesse Ne Le soldatesse di Zurlini mi hanno chiamato per fare la seconda troupe e mi hanno spedito sulle montagne del Montenegro a girare degli scontri di partigiani, un freddo cane, umido da morire. Sono andato al quartiere generale dove giravano il film, a Dubrovnik, e poi sono partito con una nave verso il Montenegro. Lì c’erano un po’ di persone, delle mitragliatrici, ho girato un po’ di materiale e l’ho portato a Dubrovnik. Ho fatto il viaggio in aereo con l’operatore, che era Dario Di Palma. Il produttore era Moris Ergas, con il quale avevo già fatto Il passo.
Un incontro fulminante: Germi, il mio sosia Conoscevo Pietro Germi, ma superficialmente. Germi era una figura importante per noi più giovani, ricordo quando ha fatto la prima de Il ferroviere da Catalucci, il laboratorio di sviluppo e stampa. Aveva il film lì e hanno organizzato una proiezione invitando un po’ di gente, per cui sono andato anch’io, non so perché mi era arrivato questo invito, forse perché in quel periodo trafficavo da Catalucci con i miei documentari. Ho visto il film, che mi è piaciuto, però non era il tipo di cinema che io amavo, così prigioniero del reale, mentre io ho sempre amato un cinema che rompesse le croste del reale. Lì ho capito bene Germi: era molto teso, aveva paura delle critiche, era in tensione, per lui era un film importante, faceva anche il protagonista, per cui doveva vedere se funzionava. Non mi ricordo chi mi abbia avvicinato per Signore & signori, direttamente no perché non aveva il mio numero di telefono, probabilmente mi ha fatto chiamare da qualche segretario di produzione. Quando ho risposto di no, Germi è intervenuto al telefono di persona e mi ha detto: «Come? L’hai fatto per Fellini e non lo fai per me?». Mi sono arreso. Non l’ho fatto per soldi, non ho preso una grande paga. Come con Fellini. Il compenso è stato modesto. Germi non mi ha fatto alcun provino, non mi ricordo se mi abbia dato indicazioni, anche perché non avevo scene di grande impegno attoriale, erano sempre scene d’accompagnamento, un paio di cosette e basta, giuste per me: facevo parte di una coralità di attori veri, che erano gli altri. Sono stato a Treviso annoiandomi per venti giorni. Era un film molto corale per cui i piani di lavoro, come succede sempre in film così, non erano stabiliti in modo ferreo, si andava un po’ dietro alle necessità, alle disponibilità, per cui dovevamo aspettare a lungo, anche per giorni. Capitava di stare per tre giorni in tribuna, neanche in panchina, ad aspettare in una stanzuccia di motel tipo Agip. Voi direte: «Perché non te ne andavi in giro per Treviso?»… non è che per me Treviso fosse il massimo, anche perché Treviso era
grande come Bergamo. Non è che fuori ci fosse Londra… Non facevo poi parte del giro degli attori, per cui non mi era facile fraternizzare con loro, anche se erano tutte persone disponibili, aperte, io non avevo cose da dire… che dire a uno che fa l’attore? A cena io e Germi andavamo nella stessa trattoria. Qualche volta ci siamo messi allo stesso tavolo a chiacchierare. Mi ero portato a Treviso Herzog di Saul Bellow e avevo preso una cotta per questo libro, ne parlavo con tutti e ho fatto una testa così al ristorante, più di una volta, anche a Germi, che non aveva tempo di leggerlo, però gliel’ho messo in testa e mi ha detto poi di averlo comprato. Insomma, sono contento di aver fatto leggere Saul Bellow a Germi! Germi sul set era tranquillissimo, molto sicuro di sé, uno che andava dritto. Umanamente era una persona corretta. Una cosa curiosa: nel corso della vita si assumono fisionomie un po’ diverse, io ho un certo tipo di faccia e quando ero giovane sono passato attraverso diverse fisionomie. Nella vita in certi periodi sono venuto a coincidere con altre facce, per certi periodi, poi non più… tre facce, stando a quello che mi dicevano gli altri: Elio Vittorini, William Faulkner e Pietro Germi. Io e Germi proprio in quel periodo lì ci assomigliavamo! Un po’ di baffi biondi, magri abbastanza, non troppo. La prima volta che l’ho incontrato a tu per tu, prima del film, e forse da lì gli è nata l’idea di me come attore, era il periodo in cui facevo i documentari, anzi no, li avevo già fatti e cercavo altre cose, camminavo sulla banchina del Tevere, a Ponte Milvio – una pista ciclabile tutta disfatta, a volte passava qualcuno in bicicletta, ma era un posto di rifiuti, di cani, di vagabondi, di clochard, pieno di merda, c’era una puzza incredibile –, e da lontano ho visto uno che veniva verso di me, pensieroso. Era Germi! Ci siamo venuti incontro come in uno specchio. È così che ci siamo conosciuti da vicino: «Ciao, ciao, buongiorno». Lui: «Che odore di merda!». E io: «Sì, terribile». «Ciao, ciao». Questo è il mio incontro fulminante con Germi.
Il regista che banalizzava perfino se stesso Giulio Petroni l’ho conosciuto e basta, non lo frequentavo. Ci si vedeva alla sera da Rosati alle sette di sera. In quel periodo il cinema si recava sempre in quel caffè. Il ricordo di Petroni è di uno che banalizzava tutto quello che faceva e quello che facevano gli altri. Un grande banalizzatore. Credo che banalizzasse anche la sua vita. Per esempio, io sapevo che aveva fatto cose a Ceylon, dove era rimasto abbastanza a lungo… ecco se ci fossi stato io al suo posto, chissà quanto ne avrei parlato! Lui invece sminuiva tutto, come se fosse stato non a Ceylon, ma ad Ostia. Demoliva tutto, vedeva spesso e volentieri il peggio delle cose, soprattutto e prima di tutto di se stesso, piuttosto che degli altri. L’ultima volta che l’ho visto è stato alla Mostra del Cinema di Venezia, nel 2007, nell’ambito della retrospettiva sul western all’italiana. L’ho visto incazzato, che sputava rabbia un po’ su tutti.
Où sont-ils les gars d’antan?* Ero a casa mia insieme a Franco Arcalli detto Kim e stavamo scrivendo la sceneggiatura de La morte ha fatto l’uovo, quando qualcuno suonò alla porta. Andai ad aprire e mi trovai davanti la figura massiccia di Sandro Jacovoni, un produttore per il quale un paio di anni prima avevo girato alcuni striptease a Parigi. – Che stai facendo?, mi chiese. – Sto, insieme al Kim, a scrivere una cosa forte. Una storia di polli e di erotismo. Hai presente Georges Bataille? Ma in più ci sono i polli. – Lascia perdere, metti via tutto, non è il momento per questa roba, mi dovete scrivere un western. – No, guarda che… – Perché, avete già un produttore per quello che state scrivendo? – No, ma… – E allora? Eccolo qui il vostro nuovo produttore. Facciamo un western. Andiamo in Spagna. – Ma, scusa, non eri fallito? – Sì, ma ho trovato un tipo coi soldi e ho fondato una nuova società in cui non figuro. – Gli assegni chi li firma? – Tranquillo, il mio socio, che è pulito. Vi aspetto domattina nel mio nuovo ufficio. Avete tutto il pomeriggio e la notte per farvi venire un’idea. Bastano trenta righe, un soggettino. Ho già il contratto con un distributore e non voglio perderlo. Vi aspetto alle undici. Un bel western, ragazzi! Bello forte, mi raccomando! E Sandro Jacovoni se ne andò via di corsa, a caccia di soldi, così com’era venuto. Rimasti soli io e il Kim ci guardammo con un risolino. Poi diventammo seri e rimanemmo in silenzio, fino a quando non so chi di noi due disse «perché no?». Fu questo l’atto di
nascita di Se sei vivo spara. Era l’inverno del ’65/’66. Scene come questa accadevano in tutta Roma. Giovani autori si presentavano ai produttori con le loro sudate sceneggiature che venivano subito buttate da una parte e si sentivano dire le parole risuonate più di un secolo prima nella lontana America dei Pionieri: «Vai all’Ovest, ragazzo!». L’Ovest era la Spagna, territorio della nuova corsa all’oro, dove galoppavano i cavalli dei film western, dove si sparava dietro ogni collina, dove i treni deragliavano attaccati dai banditi, dove le comparse si accartocciavano colpite a morte, dove ronzavano le Arriflex, dove i mascherini degli obiettivi avevano il taglio vasto del Cinemascope. E fu proprio una corsa all’oro. I film western conquistavano le sale, i distributori sottoscrivevano contratti in bianco, il mercato estero comprava a scatola chiusa, gli anticipi e i finanziamenti arrivavano da ogni parte. Tutti volevano partecipare. Nacquero produttori e autori improvvisati. Soggettini di due pagine venivano comprati con assegni postdatati ai tavoli dei bar. Insieme alle pallottole cominciarono a volare le cambiali. Intellettualmente fu un ritorno all’infanzia, non solo a quella soggettiva degli autori, ma anche a quella storica del cinema, ai suoi archetipi. In una spensierata vacanza dalla realtà, il film western riproduceva se stesso moltiplicandosi all’infinito, raschiando il fondo del barile di quell’immaginario stratificatosi nelle sale cinematografiche nei lunghi pomeriggi di godimento che ogni ragazzo aveva conosciuto. Fu un fenomeno che coinvolse non solo giovani autori; anche registi già affermati, abbandonate le severe sofferenze del neorealismo, si lanciarono nelle vaste praterie della libera immaginazione sul cavallo alato dell’infanzia ritrovata. Bisogna però dire che non sempre l’innocenza dell’infanzia seppe battere le sue ali nel cielo della fantasia. Ogni volta che essa degenerò in infantilismo, il cavallo alato non riuscì ad alzarsi dal suolo. E accadde non poche volte. Western o non western, la narrazione cinematografica esige sempre una costruzione drammaturgica, magari semplice ma concreta. Per Se sei vivo spara non dovetti fare molti sforzi. La memoria mi corse incontro offrendomi a piene mani materiale
che conoscevo di persona. Era la memoria dei miei vent’anni. Avevo fatto la guerra in formazioni partigiane nelle alti valli bergamasche, sui crinali della Valtellina. L’esperienza mi aveva segnato, i ricordi si affollavano: bande armate vagabonde sulle montagne, scontri a fuoco, compagni morti, piccoli villaggi occupati e perduti, vasti territori attraversati, imboscate, tradimenti, paura. Partito per fare un film su commissione, autenticità, sincerità e passione mi travolsero nello scriverlo e nel girarlo. Immaginazione e memoria si scambiarono, si intrecciarono, si confusero. Mi ritrovai in una dimensione simile a un sogno, nella quale, camminando, rimbalzavo sul terreno senza più forza di gravità, potendo raccontare in ogni direzione. Morte e violenza, che avevo conosciuto da vicino e che mi avevano tanto ossessionato, trovarono il loro incantamento nella visione e nella narrazione. Fu per me un atto liberatorio, una catarsi. Se la concezione del film mi fu facile e altrettanto facile fu indossarlo come un vestito su misura, la sua realizzazione fu un’avventura durissima che giorno dopo giorno andò a intrecciarsi e a saldarsi con il contenuto stesso della storia che giravo. Io stesso mi sentii un personaggio del film, sperduto in una sierra pietrosa, sotto il sole a picco, fradicio di sudore, mangiando fagioli al riparo delle rocce tra lo sterco dei cavalli. Mi erano compagni banditi messicani e gringos, armati di Winchester. Riposavo all’ombra degli impiccati. Mi feci dare una pistola anch’io. Volevo uccidere il produttore. A trovarlo! Sandro Jacovoni era scomparso. Scaricatomi a Madrid, mi aveva venduto in appalto a un piccolo tedesco tarchiato (e dall’aria gaudente) che fungeva da co-produttore per la Spagna. Questo signor Neumann si era a sua volta eclissato, lasciando tutto in mano a un suo direttore di produzione, ottuso sorvegliante di un preventivo striminzito e di un piano di lavoro stretto da strangolarmi. Ero pieno di problemi realizzativi, ma non avevo un interlocutore. Era piena estate, un vento caldo tirava su Madrid, il sole picchiava feroce sulla sierra dove giravo, il lavoro era massacrante, alla sera rientravo in città sfinito, completamente ubriaco di brandy e Coca-Cola, il Cuba libre dei disperati. Ne avevo ben donde, sia per l’arsura che per il morale.
Avevo sognato per le scene più importanti il grande deserto in Almeria, ma non c’erano i soldi per andarci, e mi trovai a girare il deserto in un cantiere edile alla periferia di Madrid, sul fondo di tre collinette che le scavatrici stavano sbancando per un futuro centro residenziale. Giravo in regime di assoluto blind trust, completamente alla cieca, senza poter vedere il materiale. Il negativo partiva per Roma dove veniva sviluppato e stampato, senza far ritorno. Mi era di unico conforto Franco Delli Colli, l’operatore maestro di luci, il solo mio compatriota della troupe, al quale mi legai come un fratello. Fu proprio lui a ridarmi fiducia. Egli, infatti, telefonava ogni settimana allo stabilimento di Roma e mi riferiva che c’era molto entusiasmo tra i tecnici per quel materiale strano che usciva dalla stampatrice. Forse esagerava per tenermi su col morale. Ma io finii per crederci. In effetti cavalli e cavallanti erano ben addestrati e gli stuntmen erano in grado, con un semplice colpo di tacco, di far crollare nella polvere gli animali che cavalcavano. E belle erano le facce, non solo quelle degli attori ma anche quelle dei figuranti, che avevo scelto personalmente uno per uno, reclutandoli tra gli hippies nordamericani di Plaza Santa Ana, tra gli studenti peruviani e cileni, tra i gitani, tra i lottatori di catch. Nel sole pieno della sierra, appena schiarito nelle ombre da un paio di “bruti”, ogni cosa nell’obiettivo risultava di grande forza plastica. E la troupe spagnola lavorava bene, tutti di buon mestiere, appena un po’ stupiti dal fanatismo dei due italiani. Questa capacità era il risultato di una lunga stagione cominciata negli anni Cinquanta al servizio di grandi produzioni americane. Nel suo corso l’industria del western in Spagna si era consolidata e uomini, cavalli, armieri, stuntmen, tecnici e attori erano ormai un patrimonio specializzato. Soprattutto a basso costo. Gli italiani seppero sfruttarlo. Quell’estate del 1966 incontrai al lavoro, nei dintorni di Madrid, le troupe di Carlo Lizzani, Gianni Puccini, Alfonso Brescia, Nando Cicero. E sentii favoleggiare di altre numerose troupe in Almeria, terra mitica del western che, con dolore, non potei mai raggiungere.
Terminata l’avventura spagnola e tornato in Italia, mi sentii improvvisamente smarrito. Mi venne a mancare di colpo un mondo fantastico che mi aveva completamente posseduto, un mondo dove si parlava castigliano, un mondo di uomini semplici, immersi nella luce del sole e coperti di polvere, innocenti e crudeli, mossi da passioni nascoste, i cui stivali risuonavano sull’impiantito di legno delle verande nei villaggi deserti, eternamente attesi dai loro cavalli che nitrivano legati alle sbarre. Era quella “eternità” che mi mancava. Il mondo reale mi sembrò provvisorio e insicuro. Quella stagione è ormai lontana, morta e stramorta. Il cinema è cambiato. Tutto è cambiato. Anni fa, di passaggio per Madrid, preso dalla nostalgia, volli tornare in Plaza Santa Ana, alla Cerveceria Alemana. Era piena di gente, ma non c’era nessuno. Erano cambiate le facce, erano cambiati gli abiti, era cambiato il taglio dei capelli. Regimi politici si erano succeduti. Sentii lontano scoppiare una bomba. Era una bomba basca, alla Puerta del Sol, con molti morti tra la Seguridad. Ma io continuavo a cercare i ragazzi hippy tra la folla sconosciuta, i miei banditi gringos, con i quali avevo fumato erba sulle rive dell’Henares, figli innocenti dell’America venuti a conoscere lo spirito dell’Europa e che avevano incontrato un western all’italiana. Non c’era più nessuno; o forse, invecchiati, non li riconoscevo. Confesso che mi sentii piagnucolare: Où sont-ils les gars d’antan?, con molta compassione per me stesso. Così come, invano, cercai tra la folla frammenti d’orecchio cicatrizzati, segni inconfondibili dei lottatori di catch, che per prima cosa perdono le orecchie subendo la “cravatta” dall’avversario, maciullate e strappate via dai colpi d’avambraccio. Uomini con facce scolpite nella ferocia e cuori teneri che, come pendolari, facevano su e giù per la verticale Madrid-Barcellona-Marsiglia-Parigi a esibirsi su quelle piazze, viaggiando su vecchie macchine americane con le famiglie a bordo e le pentole di casa. Ma per quanto guardassi, non vidi che orecchie integre, pulite e gentili. Era finita un’epoca. Ma torniamo al 1967. Quando il film uscì, fu un casino. Il pubblico ci stava con entusiasmo, se pure sbigottito. La critica si divise: apprezzamenti da una parte e tanti insulti dall’altra. Di questi ne trascrivo uno per tutti: «l’infame carnaio
dell’efferato regista». A caratteri cubitali, su tutta una pagina. «Lo Specchio» del 12 febbraio 1967. Bei tempi, quando per un film ci si indignava.
Oro hondo Se sei vivo spara non ha avuto problemi di censura ministeriale perché il film è uscito regolarmente nelle sale. Al terzo-quarto giorno di programmazione a Milano una donna anziana è svenuta per le scene di crudeltà contenute nel film. È intervenuta la questura e ha bloccato il film, con relativa denuncia. Non è stata dunque la censura ministeriale, ma un intervento di ordine pubblico. Se volevo che il film uscisse di nuovo, dovevo tagliare delle scene. Così ho tagliato un paio di scene, come lo scotennamento degli indiani, e il film è riuscito. Dopo alcuni anni il negativo del film è stato venduto passando di proprietà, acquistato da un piccolo imprenditore cinematografico. Costui voleva rilanciare il film sul mercato in un’edizione abbreviata di una ventina di minuti, in linea con gli standard commerciali che si andavano diffondendo. Mi ha telefonato e mi ha chiesto se volevo fare l’operazione io stesso. Ho detto subito di sì, avendo visto la possibilità di reinserire nella nuova edizione le scene censurate alla sua prima uscita. Per sfuggire al verdetto codificato della vecchia censura, bisognava però cambiare titolo, presentandolo come un film nuovo. Ho fatto pertanto ricorso a un vecchio titolo provvisorio che aveva accompagnato il film nella sua prima gestazione: Oro hondo.
Il Leone mancato Nel ’68 mia moglie Marilù si trovava a Cartagena, in Colombia, dove era iniziata la lavorazione di Queimada, del quale era costumista. Mi ha invitato a raggiungerla. Ci sono restato una ventina di giorni. Sono stato sul set un paio di volte a trovare gli amici che ci lavoravano, Gillo Pontecorvo, Marcello Gatti, Sergio Canevari, Divo Cavicchioli. Ma non era quel set, amico e prestigioso, ad attirarmi, quanto la città di Cartagena, il suo mare, la sua campagna, la sua gente, insomma l’aria caraibica che respiravo a pieni polmoni e a occhi incantati. Allora non immaginavo che un giorno ci sarei tornato e che quel Paese sarebbe entrato così profondamente nel mio immaginario. Ma già da subito in quei primi giorni, dopo un giro nelle campagne circostanti e l’attraversamento del vasto territorio di una finca di allevatori di bestiame, mi sono buttato a scrivere per sommi capi una storia di braccianti contadini e di villaggi. Ripartito per Roma, non ho mollato la presa. Ci ho lavorato per parecchi giorni e l’ho chiusa con il titolo Più a fondo nelle foreste. Era la storia di un “redivivo” senza più memoria che cerca le tracce della sua identità durante una rivolta di braccianti tagliatori di canna da zucchero. Era ambientata in un paese sudamericano, c’era di mezzo il peyote, con magie psichedeliche. Insomma, realismo magico, sia pure per droga. Doveva essere la storia di una comunità, una storia robusta, forte, drammatica. Il mio interprete ideale era ancora una volta Tomas Milian, gli altri sarebbero stati attori minori, non conosciuti, o contadini presi dal vero, al modo neorealistico. Non ricordo attraverso quale intermediario il soggetto è finito tra le mani di Sergio Leone, che mi ha cercato. Ci siamo visti un paio di volte. Gli piaceva la storia, gli andava bene Tomas Milian, non era d’accordo sul resto. Voleva attori americani di nome per piazzare il film. Avrei dovuto creare parti ad hoc, cambiare la storia, rinnegare lo spirito del film. Leone, oltre che regista, era un vero produttore. Ma io non potevo, inseguivo farfalle. Non se n’è fatto nulla. Ho eleborato
poi il soggetto, anni dopo, in un racconto che ho intitolato Mural.
La morte ha fatto l’uovo Erano gli anni del boom economico. L’industrializzazione era una marea montante che travolgeva tutto, un inno al futuro, un frenetico impacchettamento di prodotti, senza distinzione tra inanimato e animato. I prodotti ancora vivi gridavano di terrore e di dolore. I grandi allevamenti di polli ne erano un simbolo. L’industrializzazione non tollerava barriere e tutto quanto ubbidiva alle stesse leggi. Ogni pollo era un uomo, ogni gallina una donna, ogni pulcino un bambino. Su di loro si costruiva la ricchezza. E su tutto trionfava l’uovo, bianco, liscio, perfetto, con la vita chiusa dentro. La perversione sessuale era la via di fuga dalla mercificazione della vita. Da queste considerazioni è nato il film La morte ha fatto l’uovo. Io e il Kim abbiamo cominciato a strutturarlo sulla carta prima di Se sei vivo spara, ma ci siamo fermati quando Alessandro Jacovoni ha bussato alla mia porta. Lo abbiamo ripreso in mano un anno dopo. Sognavo di fare un film con le suggestioni letterarie dei miei autori preferiti, tipo Bataille, e cinefile, il cinema noir. Su questa spinta è nata la scaletta del film. È stata sempre un’abitudine mia e del Kim partire con una scaletta, puntando dritto alla struttura del racconto. Il vantaggio di questo procedimento è che in due fogli e con poche parole si possono mettere in fila tutte le scene. La lettura e la rilettura diventa facile. Al volo si può controllare il ritmo del racconto, cambiare l’ordine delle scene se necessario. Con il Kim si elaboravano i progetti a parole, parlando, discutendo, inventando. Dopo la scaletta toccava a me la versione letteraria, il soggetto vero e proprio, lungo qualche pagina. Quando abbiamo cominciato a lavorare su La morte ha fatto l’uovo, non avevamo ancora un produttore. Malgrado ciò ho scritto al buio l’intera sceneggiatura in un continuo dibattito con il Kim. Abbiamo arricchito il copione di nuove invenzioni. Produttivamente il film nasce grazie a due fratelli, Franco e Alberto Marras, due giovani produttori che non avevano soldi, ma godevano di stima e credito presso l’Euro International Film, che ha finanziato il progetto. Durante la lavorazione hanno tenuto loro i rapporti con Marina Cicogna.
L’allevamento di polli in cui ho girato era nelle vicinanze di Roma, sulla strada per Latina, mentre per l’albergo l’interno era l’Hilton di Roma, l’esterno e altri interni erano di un autogrill ai margini della città, in un incrocio di strade e autostrade. Ho scelto un autogrill e la periferia di Roma perché meglio rappresentavano, attraverso l’invasione di grandi cartelloni pubblicitari, l’onnivora presenza del boom economico.
Scelta degli attori Quando devi scegliere gli attori, se una persona ti piace, magari a volte anche per motivi sbagliati, ne ricavi un senso di sicurezza sul lavoro. Ad esempio, Gina Lollobrigida non l’avevo scelta io, mentre Trintignant sì. L’ho raggiunto sul set di un film che stava girando a Barcellona, l’ho conosciuto, gli ho parlato, gli ho lasciato il copione. Un secondo incontro a Parigi una ventina di giorni dopo, qualche chiarimento, la sua accettazione. Dovevo trovare la protagonista femminile. Il problema era che non riuscivo a immaginarmela! Non mi andava bene nessuna. Probabilmente perché il personaggio era così borderline nella trama del racconto che qualsiasi persona vera che mi trovavo davanti mi sembrava in disaccordo con l’idea che mi ero costruito. A un certo punto all’Euro Film mi hanno detto che il film si poteva realizzare solo se c’era Gina Lollobrigida perché era un nome importante, spendibile anche per il mercato estero. Non avevo alternative. Io avevo una grande ammirazione per la Lollo per i suoi film paesani, i vari Pane, amore e…, proprio perché in quei film era deliziosa, inarrivabile. Non trovavo perciò concepibile che lei potesse vestire i panni di una signora borghese, imprenditrice industriale, anche perché io avevo da sempre questo mito di lei, della bella contadinella protagonista delle commedie del neorealismo rosa. Mi sembrava un’assurdità. La Lollobrigida poi apparteneva a quella schiera di dive che, se dai loro corda, avanzano e ti divorano! Per questo l’ho sempre trattata con una certa durezza, un po’ per quella diffidenza iniziale che vi dicevo, un po’ per difendermi, ma in definitiva si è comportata molto bene, ha fatto dei capricci solamente un paio di volte per via di un vestito. Ha accettato tutte le battute del copione e il rapporto con gli altri attori era ottimo. Alla fine sono rimasto soddisfatto della sua prova attoriale. Già durante la lavorazione del film mi convinceva sempre di più nel contesto pop delle immagini. Non è mai stata così bella, fotografata splendidamente da Dario Di Palma.
Ewa Aulin l’ho subito voluta, appena l’ho vista. Mi ricordo che sono andato a conoscerla in un dancing di Roma. Era una ragazza bellissima, magnifica, buona e gentile. Il film in Italia ha incassato discretamente ed è stato venduto molto bene all’estero, grazie alla presenza di due divi di fama internazionale come Trintignant e Lollobrigida. È uscito anche negli Stati Uniti. A quel che so, la Lollobrigida, che costava parecchio, non è stata pagata totalmente dalla Euro, ma hanno trovato un compromesso nel contratto stipulato con lei e le hanno dato il mercato americano. Quando è uscito La morte ha fatto l’uovo, Lattuada mi ha detto: «Tu non sai il casino che hai fatto con questo film: hai cambiato molte cose e tanti ne terranno conto». Ero felice perché avevo paura di questo film strano e pazzo. Me lo ha detto più avanti anche Ugo Pirro: il coraggio per fare Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto gli era un po’ venuto dal mio film. Ma mi ha colpito particolarmente Lattuada perché lui faceva tutt’altro cinema e aveva intuito che il cinema stava andando per nuove strade. È stato importante per me.
Io, Kim e il montaggio Il Kim e io eravamo fanatici teorizzatori del montaggio. Seduti l’uno accanto all’altro, in moviola, ci eccitavamo a vicenda, anche se lasciavo a lui le mani che improvvisamente si mettevano in movimento nel silenzio che subentrava. Era lui il grande realizzatore, io potevo solo stargli accanto e sostenerlo. Quel montaggio così sperimentale nasceva dalla nostra ossessione per la pubblicità, specie quella occulta di cui si favoleggiava. C’erano diverse leggende metropolitane riguardo all’inserimento di fotogrammi subliminali in alcune trasmissioni televisive, fotogrammi che non potevi leggere, ma che ti colpivano, specie se ripetuti a breve distanza, penetrando dritti nell’inconscio. All’epoca teorizzavamo follie di questo tipo! Quando si è giovani e si cominciano a fare i primi lavori, pensi e immagini di tutto, qualunque cosa ti sembra possibile. Kim aveva un talento molto raro e una pazienza incredibile, un vero artigiano che riusciva a tagliare e incollare anche due o tre fotogrammi di pellicola, per imprimere un ritmo rapidissimo. Ci sono stacchi anche di un solo fotogramma. Questo tipo di montaggio lo avevamo anticipato già con Se sei vivo spara, in alcune scene come quella della fucilazione dei messicani, che amo molto, tutta lavorata a fotogrammi ripetuti. Dopo questo esperimento iniziale abbiamo preso coraggio e ci siamo lanciati completamente con La morte ha fatto l’uovo, anche perché il mood del film ce lo permetteva. Alla fine il montaggio è diventato un principio stilistico, un vero e proprio metodo. Penso che abbiamo anticipato molte delle idee che poi sono entrate in circolazione. Il montaggio de La morte ha fatto l’uovo è diventato il lessico corrente di qualsiasi spot pubblicitario di oggi. Del resto col digitale è tutto molto più semplice.
Restaurato e… mutilato La morte ha fatto l’uovo in partenza era di due ore. Successivamente, quando hanno cominciato a vendere i film alle televisioni, il mercato esigeva una durata di non oltre i 90’ e i produttori hanno cominciato a sforbiciare, per cui non sono edizioni curate da me. La morte ha fatto l’uovo è più corto di 20’. Il personaggio di Luigi, interpretato da Renato Romano, è stato eliminato completamente. Era una figura con una coscienza esistenziale molto accentuata che entrava nella vita del protagonista del film, aveva un rilievo di tipo meditativo sui fatti che accadevano. La copia tagliata mi è capitata di vederla con mia grande sorpresa anche alla Mostra del Cinema di Venezia 2003. Purtroppo non è stata restaurata la copia integrale, ma quella tagliata. Mi è toccato rivedere un film restaurato, ma mutilato!
Il mio cinema di genere La fotografia de La morte ha fatto l’uovo è stato fortemente voluta da me dopo averne discusso a lungo con Dario Di Palma. Doveva essere una fotografia da spot pubblicitari, in una parola: pop. Anche perché il film aveva un metalinguaggio pubblicitario molto ossessivo. La fotografia è risultata strettamente funzionale al racconto. Tanto che dopo il film mi hanno chiamato molti produttori non per fare cinema, ma pubblicità… a fare spot! Infatti negli anni Settanta ho realizzato, credo, un centinaio di Caroselli. È stata una fortuna perché per alcuni anni è stata la mia unica fonte di guadagno. Il film è pieno di cartelloni pubblicitari e non c’è niente di più pop dei manifesti pubblicitari. Ma per pop intendo anche altro: l’immissione senza paura né vergogna nei miei film di tutti quei cliché di tipo popolare che fanno parte della natura stessa del cinema, soprattutto di quello commerciale, di genere. È per questo che non ho mai avuto remore ad affrontare il cinema di genere. Anzi, direi che sono ogni volta partito da un film di genere per fare altro, alterando e rendendo ambigui i contenuti. Quando, dopo tanti anni di oblio, c’è stato un sorprendente ritorno dei miei film nel boom dei dvd (penso alle numerose edizioni internazionali di Se sei vivo spara e de La morte ha fatto l’uovo e al ritorno nei festival di Arcana), mi è venuto da pensare: «I film muoiono, i generi sopravvivono». Infatti i miei film sono tornati cavalcando i generi. Nei listini commerciali correnti Se sei vivo spara è un western-spaghetti, La morte ha fatto l’uovo è dato come genere erotico, Arcana come genere horror. Tutti generi commercialmente intramontabili.
Sessualità e sentimenti La sessualità non è mai stato un tema portante dei miei film. C’è come supporto narrativo ad altre cose. Non ne ho mai avuto un grande interesse, troppo prevedibile, ripetitiva, monotona, perfino noiosa. Se nei miei film c’è, è tutto in chiave letteraria: c’è più Bataille che me stesso. Anzi mi correggo: magari sempre Bataille, ma ho fatto riferimento grossolanamente anche a certa letteratura eversiva sul sesso. Ero un paziente lettore di De Sade in quel periodo. La sessualità entra in chiave eversivo-filosofica. Il rapporto uomo-donna nel motel ne La morte ha fatto l’uovo era per l’appunto una perversione sessuale. Sarà perché la sessualità risulta più significativa nelle sue perversioni che nella sua normalità. Anche sui sentimenti ho fatto poco, forse in Arcana, ma in senso primitivo, tribale, che trascende il realismo della situazione. I sentimenti mi accendono poco. Nella mia vita privata, in cui pur vivo anche di sentimenti, mi accorgo che me ne sono sempre difeso perché so che ti possono travolgere e stravolgere. Una bomba pericolosa. Sono prudente.
Ho scoperto Jakubisko Era il 1967. Un giorno Moris Ergas mi telefona: «Senti un po’, mi hanno detto che in Cecoslovacchia stanno facendo dei film bellissimi. Vorrei comprarne qualcuno da distribuire in Italia e all’estero. Vuoi farmi da consulente per questi acquisti? Partiamo domani». Ho detto subito di sì e sono partito con lui per Bratislava. Le persone che ho incontrato erano tutte giovani, pieni di speranze e di progetti e altresì di rancore e odio per i sovietici, con non poche paure. E infatti pochi mesi dopo c’è stata l’occupazione. Chiuso in una saletta, ho visto film per un paio di giorni. Finito a Bratislava, sono partito per Praga. Altri film. Difficile ricordare titoli e nomi. Ma uno sì, i cui film ho fortemente raccomandato a Ergas: Juraj Jakubisko, geniale autore, un vero poeta del cinema, anima surrealista-visionaria. Moris mi ha ascoltato. Non troppo tempo dopo ha fatto venire a Roma Jakubisko per non so quale contratto e me lo ha affidato per un giorno intero. L’ho portato a piazzale delle Muse a mangiare un gelato e a vedere il Tevere dall’alto.
La musica dei miei film Ho conosciuto Ivan Vandor nei primi anni Cinquanta. Era il sassofonista della Roman New Orleans Jazz Band, oggetto del documentario Il blues della domenica sera di Valerio Zurlini, di cui ero stato aiuto. È stata un’esperienza bellissima: non ho mai dimenticato la ripresa della band in marcia che suonava When the Saints Go Marching In per il traffico di via del Tritone, in pieno centro, alle undici del mattino. Sono rimasto amico dei componenti della banda. Ma a un certo punto Ivan Vandor è scomparso. Gli amici jazzisti mi hanno detto, un po’ ridacchiando, che era partito per il Tibet a studiare il suono di quello strumento spropositato, quella tromba lunghissima che si appoggia sul terreno. Già, perché Vandor, oltre che sassofonista, era un musicologo, un compositore, un musicista colto e completo e di grande talento. Quando, alcuni anni dopo, ho girato Il passo, l’ho chiamato e la sua musica entrava in profondità nel film, in una fusione emozionante con le immagini. L’ho richiamato cinque anni dopo per Se sei vivo spara e mi ha fatto ancora una musica che penetra e non si dimentica. Vi chiederete: «Come mai per La morte ha fatto l’uovo non hai chiamato Vandor?». Perché, per una serie di circostanze, mi sono trovato davanti Bruno Maderna ed è stata troppo grande la tentazione di avvalermi delle sue qualità di sperimentatore da sposare con le sperimentazioni del mio film. Maderna era veneziano, come il Kim e come Luigi Nono, tutti e tre amici da tempo, e grazie al Kim li ho conosciuti. Sapevo chi era Maderna e cosa rappresentava nella musica. Gli ho dato il copione da leggere e mi ha detto subito di sì. Dirigeva un’orchestra in Germania. Appena arrivato alla Fono Roma dove registravamo, non si è accontentato dell’orchestra che ha trovato. Si è fatto portare delle lamiere per produrre di sua mano strani rumori metallici, che abbiamo usato per buona parte del film. Per la scena dell’allevamento di polli ha inventato un linguaggio tutto suo di assonanze caraibiche, ricorrendo a sillabe e parole ripetute. Più inventava, più ero felice, perché andava incontro alle invenzioni del film. Non ha preso i tempi. Ha fatto in libertà una musica di interpretazione
del film, una musica aperta, tagliabile, montabile, a disposizione.
Arcana Gaspare Palumbo, il produttore di Arcana, era un milanese che non conoscevo, della Milano bene, non so per chi lavorava, non era un intellettuale, forse un amministratore, qualcosa del genere, legato un po’ al cinema di Olmi, come conoscenze, amicizie. Aveva un direttore di produzione giovane che aveva fatto quasi tutti i film di Olmi, Alessandro Calosci, con il quale ho lavorato per Arcana. Nel 1985, quando ho fatto la serie televisiva Quando arriva il giudice, l’ho chiamato come direttore di produzione anche per quel lavoro. Palumbo l’ho visto pochissime volte, un paio di volte è venuto a Roma, ma abbiamo parlato soprattutto a Milano. Arcana è un film che costava poco, c’erano pochi soldi, una delle ragioni per cui era fattibile era perché si svolgeva quasi tutto in un appartamento, non aveva grandi costi, se non gli attori. Costi relativi: Maurizio Degli Esposti era un ragazzo di Bologna. Ero andato da un agente e sfogliando le foto ho visto la sua faccia. Non c’erano soldi, non potevo chiedere attori di nome, non lo conoscevo, l’ho scelto in base alla foto. Il suo personaggio era in una chiave monotona, non parlava quasi mai, poche battute, ma il viso si imponeva. Da quel suo non esprimersi emanava un senso di inquietudine. Lucia Bosè è stata veramente incredibile per la sua disponibilità: era già un’attrice affermata, di nome, sposata con il torero Luis Miguel Dominguín, i figli, eccetera. Io non la conoscevo, l’ho incontrata qui a Roma dal suo agente, non mi ricordo chi fosse, la Morris forse. Ho avuto io l’idea di chiamarla: lei milanese poteva essere una meridionale per il suo viso. Sapevo che dicendo la Bosè, questo Palumbo milanese sarebbe rimasto colpito… perché Milan l’è un gran Milan!… l’attrice milanese di cui la sua città era orgogliosa… Era ancora un nome che contava, anche se piuttosto assente professionalmente avendo un’altra vita. È venuta con un grande entusiasmo, la divertiva tanto la storia, che era strana, c’era la scena delle rane che la faceva ridere: «Come faccio?».
Poi invece si è convinta e si è messa in bocca due, tre, quattro piccole rane! Tina Aumont era la ragazza francese disponibile per tutti i film italiani perché stava molto a Roma in quel periodo. Era una hippie, ovvio che con lei mi sia sentito subito a mio agio. È curioso: io non entro in confidenza con gli attori dopo il lavoro, qualche volta è capitato, ma niente cene, un po’ perché il lavoro mi stanca tanto, la sera ho voglia di chiudere. Ma anche perché per me l’attore esiste nel momento in cui è sul set e fa quel personaggio, fuori mi sembra finto. Esiste finché fa quel personaggio, quando poi diventa se stesso, mi diventa estraneo, non lo riconosco. Pertanto dopo il lavoro legavo di più con gli operatori. Abbiamo girato tutto dal vero, niente studi. Un appartamento arredato in un certo modo da uno scenografo poco conosciuto, Francesco De Stefano. Mia moglie Marilù ha procurato i vestiti e seguito la fase preparatoria, e basta. Era un periodo che lavorava molto, faceva tanti film, partiva sempre. La fotografia era di Dario Di Palma, con il quale avevo già fatto La morte ha fatto l’uovo. La famiglia del film si chiamava Tarantino! Era un nome meridionale, di fantasia, l’avrò letto da qualche parte.
Apporti creativi Alla nascita di Arcana Arcalli non ha partecipato perché era occupato al montaggio di altri film. La scaletta l’ho costruita da solo, gliel’ho mostrata, ne abbiamo parlato un po’, forse un paio di volte, qualche piccola correzione, dopodiché ho scritto il copione, che gli ho fatto leggere alla fine e del quale abbiamo fatto insieme una definitiva revisione. Non era stato così per Se sei vivo spara e La morte ha fatto l’uovo che avevamo fantasticato insieme per molte serate in una comune felicità creativa. Al montaggio io ero sempre in moviola accanto al Kim perché ho un certo modo di lavorare. Giro premontando il film, cioè precostruisco il montaggio nelle riprese, per cui la chiave del montaggio sono io e devo via via illustrare il percorso al montatore, lasciandogli poi ogni libertà creativa in quello schema. In poche parole per i due primi film c’è stato un apporto del Kim fin dalla loro nascita, nel lavoro delle scalette e delle sceneggiature, non così per Arcana. Erano passati due o tre anni e lui era diventato montatore di tanti altri film, non era più neanche tanto disponibile, come persona, tutti i giorni assieme. Non poteva più stare a giocare con me, come abbiamo giocato all’inizio, andando tutte le notti in giro a bere e a progettare storie e film, ubriacandoci e tornando alle 3 del mattino. Ci vedevano sempre insieme, a tutte le ore del giorno e della notte, e ci chiamavano Jules e Kim, evocando Jules e Jim di Truffaut. Era finita quell’epoca e io mi sono ritrovato solo. Ai tempi di Arcana il Kim era maturato e richiesto professionalmente, oramai lui aveva una sua strada, non so quanti film montasse in quel periodo, era giusto disponibile per montare il mio, quando tutto sarebbe stato pronto, e così ha fatto. Pur di averlo accanto in moviola ho diviso con lui anche la firma della sceneggiatura, nel tentativo sentimentale di far rivivere i vecchi tempi. Mi sono sempre firmato “regia di Giulio Questi”. Anche se portavo un film tutto sulle mie spalle, sia nella scrittura che nelle riprese, non ho mai voluto il cartello “film di Giulio
Questi” perché sono sempre stato contrario a questa retorica professionale che esclude l’apporto di tutti gli altri.
Il misterioso suono di un violino macedone In Arcana le musiche sono di Romolo Grano, un musicista giovane e simpatico che pochi conoscevano. Qualche tempo fa (dopo quarant’anni!), anche lui invecchiato, si è rifatto vivo. Mi ha telefonato perché in Arcana c’è un pezzo musicale che avevo procurato io. Voleva sapere dove. Dove? In Macedonia per un film che poi non si è fatto e che era stato cominciato da Gillo Pontecorvo, ma occorre precipitarsi all’indietro, fino al 1965. In quel periodo Gillo aveva già pronto da tempo il copione de La battaglia di Algeri, ma il film non riusciva a partire per le molte complicazioni produttive. Nella lunga attesa aveva cominciato un altro film di carattere documentario, tratto da un libro molto in voga in quegli anni, Il mattino dei maghi di Louis Pauwels e Jacques Bergier, libro che io non conoscevo. Mi chiamò pregandomi di raggiungerlo a casa sua per una cosa urgente. A quel tempo abitava ancora in un appartamento del quartiere Nomentano, che divideva con Giuliano Montaldo e Franco Giraldi. La casa era un po’ in disordine, come tutte le coabitazioni, ma risultava magnifica per la quantità di piante in vaso, alcune anche rare, la grande passione di Gillo, che le cresceva e curava di sua mano. Era uno dei tanti aspetti della personalità di Gillo, oltre al tennis e all’immersione subacquea. Si aggiungeva ora il suo interesse per un libro di temi esoterici, parapsicologia e occultismo. Non mi meravigliava. Era un uomo che conoscevo pieno di curiosità e motivazioni. Per dirne un’altra, in quel periodo, in cui innocentemente si fumava marijuana e si provavano le prime droghe, lui aveva sperimentato l’Lsd, facendosi assistere da un medico. Una sete di conoscenza che non aveva confini e quale mancanza di confini più dell’Lsd? Non sono venuto a saperlo da altri, me lo ha confidato lui stesso raccontandomi l’incredibile viaggio che aveva fatto sotto Lsd, durato alcune ore, avventura indimenticabile che, forse per paura, non aveva più ripetuto. Ma torniamo in casa sua. La notizia bomba era che le trattative per La battaglia di Algeri si erano concluse e
lui stava facendo le valigie in fretta e furia per Algeri. Aveva il problema de Il mattino dei maghi, progetto che voleva tenere in vita durante la sua assenza. «Mi devi fare un favore, io devo partire, però se non porto del materiale, mi cade il film e non voglio che finisca nel nulla. Io ho già girato qualcosa, ma siccome è fatto a bocconi, su certi avvenimenti, tu, per esempio, potresti fare… – ha guardato la scaletta – la camminata sui carboni ardenti in Macedonia. Poi dovresti parlare con il professor…», uno psichiatra di Torino che faceva addormentare le galline, uno specialista dell’ipnosi. Quindi mi ha chiesto di andare a intervistare uno psicologo a Vienna. «Va bene, ti mando avanti queste cose che mi dici, ma dammi almeno il tempo di leggere il libro». Il giorno dopo Gillo mi ha messo in contatto con i produttori esecutivi, due fratelli siciliani, gente perbene, due bravi ragazzi, ed è subito scomparso da Roma per la sua lunga avventura in Algeria. Nel giro di un paio di settimane sono partito per Salonicco portandomi dietro un operatore, col quale avevo fatto tempo prima un documentario industriale per la Saint-Gobain. Di Salonicco ricordo solo una lunga dissestata strada commerciale piena di negozi e magazzini con esposti sul marciapiedi una marea di elettrodomestici, lavatrici e frigoriferi, una delle prime ondate di esportazione delle imprese italiane all’inizio del loro boom produttivo. Lasciato perdere il mio stupore per la folle quantità di merce, ho noleggiato un’auto e sono partito per Agia Eleni (Sant’Elena), un piccolo villaggio di campagna a circa 80 km a nord di Salonicco, in Macedonia, una pianura piatta e sconfinata di terra nera e grassa. Lì si stava preparando l’avvenimento, la camminata a piedi nudi sui carboni ardenti, lo scoop. Tale mi si è rivelato con sorpresa quando ho incontrato sul posto dei giornalisti stranieri, un giornalista di «Paris Match» con il fotografo, un altro di un giornale inglese a grande diffusione, il «The Sun» (e da lui ho avuto delle avance con bigliettino infilatomi di soppiatto nel palmo della mano!), e infine una terza giornalista di non so quale periodico francese. Miseria del giornalismo! Ma quale scoop dei carboni ardenti! Quello che ho avvertito era un sussurrare crescente di una autentica, profonda, sofferta religiosità popolare, di una ritualità del tutto intima e misteriosa, una preparazione ai carboni ardenti, per
pochi eletti, durata tre giorni. Da altri villaggi erano arrivati carri di contadini, il pope con la lunga barba bianca aveva aperto le porte della chiesa con giacigli per la notte sul soppalco dell’organo, visite di casa in casa dei parenti e dei vicini, lunghi silenzi intorno ai tavoli, rare parole, qualche bicchierino d’acquavite. Ma soprattutto quel violino che accompagnava le visite, un violino a una sola corda, penetrante, ipnotico, nel dondolare delle teste, in una leggera trance. Ecco, è questa la musica che ho registrato, una musica stridula, lacerante, mai sentita, un motivo che ritornava implacabile, dai ritmi svelti. Sì, certo, alla fine dei tre giorni ho girato la camminata sui carboni ardenti, ma non era quella che contava, erano i tre giorni di preparazione interiore che contavano, l’intima marcia in comunione di un mondo arcaico, cresciuto e nutrito da quella terra nera e grassa della Macedonia. Quella musica l’ho conservata per anni in una cassetta. Tornato a Roma, ho consegnato il materiale girato alla produzione e sono ripartito per Torino a incontrare il professore specialista di ipnosi. Volevo onorare fino in fondo l’impegno preso con Gillo. Era solo un colloquio per stabilire eventuali riprese dei suoi esperimenti. C’è una ragione se ricordo con precisione questo incontro. Innanzitutto la casa dove abitava, in un edificio massiccio, impressionante, un grande ingresso dove i passi riverberavano paurosamente, uno scalone con un lucido e nero passamano che fuggiva in alto nel buio e ringhiere pesanti, in ferro, elaborate in una vegetazione altrettanto nera e simbolica, estremamente diabolica, da paura. Ancor più spavento faceva il professore in persona, con un monocolo all’occhio, spettinato, lo sguardo un po’ folle. Mi ha fatto sedere davanti alla sua scrivania stracarica di libri e ha cominciato a mostrarmi fotografie dei suoi esperimenti, che andavano da certe galline strabuzzanti a pazienti addormentati e come morti su poltrone da dentisti, pronti ad atroci interventi con il trapano. Nella foga della dimostrazione si era tolto il monocolo poggiandolo sul piano della scrivania. Io lo ascoltavo un po’ spaventato fumando nervosamente una Gauloise, ticchettando la cenere davanti a me in un posacenere che, orrore!, si è rivelato essere, all’improvviso, il suo monocolo ormai pieno. Ho sudato freddo, in preda a
un’agitazione incontenibile. Fortuna che si è alzato a cercare un altro libro dallo scaffale. Più svelto di una scimmia ho afferrato il monocolo e ho rovesciato la cenere nella tasca della giacca riponendo in un attimo il monocolo sulla scrivania. Più disteso, ho continuato a seguire le sue dimostrazioni prendendo appunti. Poi, secondo gli accordi, sono andato a Vienna a trovare l’altro professore, di cui non ricordo più il nome – non era Freud, sono sicuro! –, ma, non so perché, di questo viaggio non ricordo niente, niente di niente, solo la grande ruota del Prater. Quando ha finito La battaglia di Algeri, che si è subito rivelato un film importante, tale da cambiare la sua vita professionale, Gillo non si è più occupato de Il mattino dei maghi, film mai nato, finito nel nulla. Passati alcuni anni, al montaggio di Arcana mi è venuta in mente la musica del violino, che avevo ancora in cassetta. L’ho fatta sentire a Grano, che si è entusiasmato. Ci ho costruito sopra un’intera sequenza: il suonatore di violino nelle campagne, i colli ondeggianti di grano, i cascinali, l’asino alzato in alto dalle corde, la famiglia del Sud che va a trovare la protagonista e tutti insieme ballano davanti al frigorifero, poi lei va in trance e inizia a vomitare rane, tutto montato insieme alla galleria del metrò dove il marito era morto come operaio, giù nel buio, accompagnato da questa musica stridula e penetrante. Così è nata quella sequenza, quella che più amo del film. Dunque Grano mi ha chiamato tempo fa e mi ha detto: «Giulio, ciao, potrei usare quella musica che abbiamo usato per Arcana perché sto facendo un lavoro e mi piacerebbe tanto metterla? Di chi sono i diritti?». Gli ho risposto: «Romolo, quella musica è anonima, l’ho registrata nelle campagne, sarà un motivo popolare che il violinista ha suonato chissà quante volte, non te lo so dire, non ha un titolo». «Allora la posso usare?». «Sì, sì, usala pure».
Suggestioni letterarie Ernesto De Martino era la grande lettura di quegli anni, era di gran moda quella cultura ed era molto viva. Avevamo fatto Le italiane e l’amore qualche anno prima e Gianfranco Mingozzi aveva scelto le “tarantate”, proprio sulla base di De Martino. Anch’io ero un lettore di quei libri, per cui, raccontando la storia di una vedova meridionale a Milano, mi appoggiavo su questo sottofondo. Infatti la sequenza delle rane, che a me piace tanto, nasce proprio da queste cose. Le letture per me sono importanti. Il resto da cosa nasce? Da quel momento sociale. Come avevo fatto La morte ha fatto l’uovo sul consumismo e la pubblicità, così in Arcana toccavo il tema del Meridione che andava al Nord, che moriva lavorando, la vedova che si inventava una professione per sopravvivere, il casermone, i bambini… L’ispirazione mi veniva dallo stretto rapporto tra gli archetipi della cultura popolare contadina e la società italiana di quegli anni, costruita sulla gente emigrata dalle campagne. Sono prototipi che una madre conserva nel profondo della sua stessa carne, vibrante di emanazioni paranormali: il rapporto di un figlio con la madre è sempre magico. Danza, musica, diavolerie, rane vomitate, asino che vola: dietro c’è la forza misteriosa dell’origine. Jung? Lasciamo perdere! Volete sapere perché Arcana non mi soddisfa fino in fondo? Perché vorrei che fosse tanto più bello! Qua e là è piuttosto monotono nelle situazioni. Oggi inventerei tanto di più, anche perché ero talmente fissato con le sequenze che ritenevo magiche, che volevo fare solo quelle e trascuravo un po’ il resto. Io amavo molto le scene dei lavori nella metropolitana, tutta quella parte, gli operai, il metrò fermo in galleria, i viaggiatori come fantasmi… erano le mie sequenze, il resto mi sembrava ordinaria amministrazione. Dato il suo sfondo sociale, potrei anche dire di Arcana qualcosa di diverso, che la sua matrice è di ispirazione neorealista, da me codificata negli stilemi di un film di genere. Horror (così è stato catalogato) è un’etichetta commerciale prima ancora che critica. Personalmente lo definirei di “genere etnografico”.
L’Italia s’è rotta… e anch’io! Un paio di anni dopo l’uscita di Arcana, io e il Kim abbiamo progettato un nuovo film, in un modo piuttosto disimpegnato, chiacchierandone al tavolino di un bar di piazza Navona, al sole invernale di una domenica mattina. Siccome l’idea ci sembrava buona, ci siamo rivisti per un altro paio di domeniche, sempre alla stessa ora e allo stesso bar. Solo di domenica perché durante la settimana Kim era occupato in altri lavori. Era la storia di alcuni ragazzi meridionali trapiantati con i genitori al Nord, a Torino, che non erano mai stati nel loro paese di origine, vuoi perché erano emigrati da piccolissimi, vuoi perché erano nati direttamente nel Nord Italia. Tre di loro, uno di essi una ragazza, decidono di partire in automobile per il Sud a vedere il paese dove sono nati. Era un film on the road. Ne abbiamo chiacchierato un po’ buttando giù una scaletta, dopodiché io mi sono chiuso in casa a scrivere la sceneggiatura. Era un film molto forte con delle avventure terribili. Il copione è finito nelle mani di Galliano Juso, un piccolo produttore che era nel nostro giro di amici di via del Babuino, il quale dopo averlo letto ha deciso di occuparsene. Ho firmato con lui un piccolo impegno, rilasciandogli un’opzione per un paio di mesi. Tempo una settimana e mi ha chiamato, dandomi un appuntamento alla Champion, la casa di produzione di Carlo Ponti, dove aveva intavolato una trattativa per la mia regia, compresa una cessione dei diritti, e dove aspettavano solo me per chiuderla con la mia firma. Dopo aver intascato un buon assegno d’anticipo, il rapporto è andato avanti con Ponti, che avevo conosciuto, con De Laurentiis, quando facevo l’aiuto regista di Coletti per Il re di Poggioreale nei teatri di posa in via della Vasca Navale. Inizialmente ero tutto contento perché pensavo che con un produttore forte come Ponti il film avrebbe visto la luce. Ho avuto con lui i primi incontri. Il film gli piaceva, aveva però delle riserve sulla sceneggiatura, e non solo. Le difficoltà nascevano perché io puntavo su un film fresco con attori
giovani e nuovi, Ponti invece mi ha lanciato subito il nome di un’attrice, una sua protetta e amica, Dalila Di Lazzaro. Mi ha lasciato interdetto: partire con la Di Lazzaro mi sembrava sbagliare strada. Le ho fatto comunque dei provini, insieme ad altri giovani attori poco noti. Per me non era nella parte che intendevo io. Ponti non solo mi voleva imporre questa attrice, ma anche modificare la sceneggiatura e allora mi sono arrabbiato. La scena che lui si ostinava a voler togliere e che per me invece era importantissima era questa: durante il viaggio uno dei due ragazzi muore annegato nella vasca di decantazione dell’olio di un frantoio. Lo tirano fuori e partono in macchina portandosi dietro l’amico morto. Sul ciglio di una strada vedono una prostituta e il ragazzo, che era legatissimo a questo suo amico morto, ferma di colpo la macchina. Offre soldi alla donna per… le pompe funebri!, luogo comune semantico che si impone alla lettera nella tetra caparbietà del protagonista, folgorazione surreale dell’assurdo. Può sembrare una barzelletta di cattivo gusto, ma nel contesto della sceneggiatura questa scena aveva il senso di una proterva ribellione ai luoghi comuni legati alla morte, che non volevo perdere. Ho avuto alcuni incontri con Ponti sempre più tempestosi. Non volevo cedere. Ponti era anche lui molto rigido, aveva uno strano ghigno, sembrava che sorridesse sempre e invece era un finto sorriso che celava una grande rabbia. Un giorno è esploso e mi ha cacciato dall’ufficio. Ha chiamato l’amministratore perché mi liquidasse. Io purtroppo non avevo più i diritti del film, glieli avevo ceduti nel contratto. Mi sono ritrovato dunque liquidato e messo fuori dalla porta! Il titolo del film, del mio film, era Fichi d’India. Ero nero di sdegno e di rabbia, con l’unica consolazione dei soldi incassati. Poi ho saputo che il film l’ha fatto Steno, con un altro titolo e un’altra sceneggiatura, L’Italia s’è rotta, tutt’altro film, con tutti attori di un certo nome sul mercato, naturalmente Dalila Di Lazzaro compresa, così come voleva Ponti. Il film non l’ho mai visto. Presumo una divertente commedia qualunquista.
A Baru con Marilù Dopo aver impostato i costumi per Arcana, Marilù è partita per altri film che l’hanno portata lontano. Ricordo un film a Bali, in Indonesia, Incontro d’amore di Ugo Liberatore, Sequestro di persona di Gianfranco Mingozzi, in Sardegna, e un ritorno in Colombia con Franco Rossi per Porgi l’altra guancia, con Bud Spencer e Terence Hill. Finito il film a Bali, non è tornata direttamente a Roma, ma ha fatto un lungo giro passando per la Colombia, dove ha comprato, con i soldi appena guadagnati, un ettaro di terra nell’isola di Baru, appena fuori della baia di Cartagena, un pezzo di terra sul quale aveva messo gli occhi fin dal tempo di Queimada. Tornata a Roma, me la ricordo intenta a fare e rifare infinite volte, con il legno di balsa, il modellino della casa che voleva costruire. L’occasione del nuovo film in Colombia, Porgi l’altra guancia, è stata decisiva. Con quei soldi, alla fine del film, con l’aiuto tecnico di un amico architetto di Cartagena, ha costruito la casa che aveva così a lungo sognato. È ritornata a Roma raggiante. Era di novembre. Il 6 dicembre siamo partiti insieme per inaugurare la nuova casa. Ricordo ancora il viaggio, una tappa a Madrid di alcune ore in cui mi sono fatto tentare da un’operazione nostalgia, andando a rivedere Plaza de Santa Ana e la Cervecería Alemana, dove otto anni prima avevo reclutato gli hippy americani per Se sei vivo spara, un mondo scomparso, che tristezza, e poi una seconda breve tappa a Santo Domingo, prima di atterrare a Cartagena. In un garage Marilù teneva una vecchia jeep, un residuato della guerra di Corea, un ammasso di ferraglia arruginita che però ancora camminava, con la quale, costeggiando la baia, abbiamo raggiunto il punto di attracco del traghetto che portava sull’isola. Finalmente! Baru si allunga per tre o quattro chilometri restringendosi, a formare un 8, fino ad avere il mare a destra e a sinistra per una larghezza di pochi metri, per poi riallargarsi. Era allora un’isola pressoché deserta, salvo un villaggio di pescatori alla sua punta estrema, in pieno mare aperto. Ricordo
ancora la corsa sobbalzante in jeep, frustati dalla vegetazione per lo stretto sentiero che percorrevamo, una corsa prima del buio, che arrivava puntuale alle sei di sera. Ed ecco la casa, a ridosso del mare. Una meraviglia di immagine e semplicità. Su una piattaforma di cemento due soli muri laterali in pietra a reggere una struttura di legno pesante e scuro simile al teak, il tetto una copertura spiovente di foglie di palma. Sull’ettaro circostante una trentina di palme da cocco e qualche albero di papaya. Sotto il cemento della piattaforma una grande cisterna per l’acqua piovana, tra i due muri di pietra la cucinasoggiorno, specularmente aperta davanti sul mare e di dietro sulla campagna; all’interno una scaletta in legno a salire nella struttura superiore, un solo stanzone con due amache appese alle travi. Niente elettricità, niente acqua potabile. Unica riserva un tanque di cinquanta litri in cucina. Il tempo di guardarmi intorno con qualche esclamazione di meraviglia e poi subito il buio. Sotto quel meridiano il sole tramonta alle sei di sera e si alza alle sei del mattino con precisione cronometrica. Al lume di una lampada a petrolio abbiamo mangiato qualcosa portato dal viaggio. Poi solo buio e un silenzio preoccupante. Alle sette di sera eravamo già nelle amache ad aspettare il sonno, tendendo gli orecchi ai misteriosi fruscii tra le foglie di palma sopra le nostre teste.
Vivere a Baru Resoconto di ogni giorno a Baru. Finalmente alle sei del mattino la luce del sole ricompariva, balzavo dall’amaca e mi affacciavo stirandomi sulla soglia della casa. Subito venivo assalito da un’invisibile nuvola di jejenes, microscopici insetti che ti obbligano a un balletto frenetico grattandoti per tutto il corpo. Non restava che buttarsi in acqua dalla piattaforma della casa e restarci per una buona mezz’ora nuoticchiando, per passare il tempo, verso la più vicina barriera di mangrovie, dove si poteva staccare dalle radici qualche patella da succhiare. Potevo così uscire dall’acqua: l’invisibile nube di jejenes era scomparsa. Arrivava invece con grande strepito una banda di un centinaio di piccoli pappagalli verdi che per una decina di minuti facevano baldoria sul tetto della casa, prima di rialzarsi in volo, mentre un picchio laborioso e colorato approfondiva di toc toc un buco nella palma più vicina. Sì, era tutto molto bello, tra colori di mare e di cielo splendenti, tirati a lustro dalla brisa, un vento monsonico che nei tre mesi invernali soffiava ininterrottamente cancellando ogni nuvola e arricciando di bianco le onde. I tropici, ragazzi, i tropici! Quanto entusiasmo! Con qualche problema di convivenza: le scolopendre e i serpenti a sonagli, uno dei quali aveva attraversato la cucina accarezzando i miei piedi nudi mentre mangiavo un piatto di fagioli. Le scolopendre, dal veleno doloroso simile a quello delle razze di mare, abitavano il tetto di foglie di palma, sopra i nostri visi, da qui quei fruscii nella notte. Il gabinetto era distante una ventina di metri all’esterno della casa, una piccola e quasi invisibile costruzione. Mi capitava di andarci di notte per ragioni impellenti con una torcia accesa nella mano sinistra e il machete nella destra, attento a dove mettevo i piedi, a non calpestare un cascavel, un serpente a sonagli appunto. Ma a tutto c’era rimedio. Non ho ancora detto che i pochi abitanti dell’isola erano tutti neri equatoriali e vivevano riuniti nel villaggio di Baru, a dieci minuti di cammino dalla nostra casa. Durante la costruzione
della casa Marilù aveva stretto amicizie. Nel paese vigeva un non dichiarato matriarcato e Marilù era sotto la protezione della più autorevole donna della comunità, la tia Maria, un’anziana magra, spiritata e ciarliera di gran voce, depositaria di tradizioni e di consigli, sciamana e levatrice. Ci ha dato dei consigli: un piccolo maiale nero, un tacchino, un gatto, liberi di battere il terreno e di frequentare la casa, e possibilmente un giovane pitone ad abitare le foglie del tetto. È ciò che abbiamo fatto: abbiamo comprato in paese il maialino nero e il tacchino e da un’amica di Cartagena abbiamo avuto in regalo un giovane gatto siamese, rivelatosi subito un selvaggio cacciatore di qualsiasi cosa in movimento. Non abbiamo trovato il pitone. Tempo una settimana e non abbiamo più visto serpenti e le scolopendre sono diventate più rare. Né eravamo più soli. Marilù aveva provveduto, fin dal tempo della lavorazione della casa, a far costruire una capanna all’ingresso del terreno dove, assegnataci da tia Maria, era venuta ad abitare una giovane coppia di sposi, Clarita e Calixto, liberi di fare uso del terreno, soprattutto dei tantissimi cocchi delle palme. Ma non bastava. Ho comprato di seconda mano in città una piccola barca Boston Whaler in vetroresina a prua piatta per i trasporti, con un motore Johnson di una ventina di cavalli, con la quale settimanalmente affrontavo il mare e raggiungevo la baia, dove al porto facevo un carico di acqua potabile in un grosso tanque, di riso e fagioli. Cioè la nostra dieta, arricchita da pesce in abbondanza, da mangiare subito appena pescato, perché per il clima e la mancanza di ghiaccio si deteriorava in due o tre ore. Roma mi sembrava lontanissima e sbiadita.
Sulla Sierra Nevada Il 3 gennaio del 1975, grazie alle amicizie colombiane di Marilù, abbiamo potuto far parte di una spedizione sulla Sierra Nevada, un enorme massiccio montuoso, con cima di 5.775 metri perennemente bianca di neve, grande quanto una regione, che scende fino a La Guajira, verso i confini del Venezuela. Sei persone con altrettanti muli carichi di riso e di numerosi machetes da regalare, guidati da Solìs, un indio arhuaco assai autorevole sul territorio. Una salita di alcuni giorni, dal mare cobalto su per la foresta, una cattedrale verde di piante gigantesche, attraversando torrenti gelidi e impetuosi, fino ai milleduecento metri dove cominciano i pascoli (lassù lontano, in alto, i riflessi della neve), accolti nel villaggio rituale degli indios koguis. Omaggi di riso e di machetes ai capifamiglia con particolare riguardo per il cacique don Juan Moscote, mama di tutti i mamas, gli sciamani della Sierra. Ma poi subito ignorati coi nostri regali dai complessi rituali del loro raduno, tutti un po’ ubriachi di cerrinche, il distillato di canna da zucchero. Tre giorni di preparazione sottolineati da un battito di tamburi e da bassi suoni soffiati, tre buoi macellati e processioni di carni sanguinolente inviate dal cacique alle capanne delle famiglie, con andirivieni misteriosi al rullo dei tamburi, per noi indecifrabili. Infine al mattino del quarto giorno il trionfo della cerimonia, tutto il popolo dei koguis al torrente ai margini del villaggio, radunati sulla riva, molti sulle pietre in mezzo all’acqua: donne, uomini, ragazzi, bambini, tutti insieme. Suonava qualche flauto, due mamas dondolavano danze coi bastoni d’ebano in mano. Alcuni giovani si lavavano i lunghi capelli con schiaffi rapidi nell’acqua. Il cacique don Juan Moscote era seduto su una pietra. Al suo segno i mamas hanno cessato i loro dondolii. Suonavano ancora i flauti e i bassi profondi dei gusci di tartaruga. I mamas e lo stesso cacique camminavano sulle pietre del torrente gettando foglie di coca nell’acqua e sugli uomini, le donne e i bambini, una pioggia di ayo, cangiante nell’aria, coriandoli di luce. Io stesso
ne ricevevo sul viso e sui capelli, l’ayo, la foglia di coca, da masticare, il loro nutrimento quotidiano contro la fame e la fatica delle marce nella foresta, portato da tutti nella mochila a tracolla, sollecitato in bocca da una punta di calce viva, traffiggendo il bolo insalivato delle foglie con un bastoncino tenuto insieme alla calce nel poporo, la piccola doppia zucca portata al collo. Mi sono molto commosso, un lungo brivido mi ha percorso, un vertiginoso rimpicciolimento nel tempo, all’origine di un’umanità innocente e interrogante, di cui mi son sentito parte. Un’emozione che non ho più scordato. Alla fine di quello stesso mese sono tornato a Roma pieno di entusiasmo per nuovi progetti che mi ronzavano in testa. Ho lasciato sola Marilù nella casa dell’isola, immersa nel suo sogno tropicale. Non immaginavo certo quanti viaggi di ritorno avrei fatto negli anni seguenti, al punto da essere soprannominato dagli amici colombiani “il pendolare dei Caraibi”.
Che avventure con Senatore… Ho avuto con Daniele Senatore molte avventure legate a due progetti cinematografici. Il primo progetto è stato L’attenzione, il secondo, tempo dopo, Sierra Nevada. Avevo scritto, di testa mia, senza avere un produttore, un copione tratto da L’attenzione di Moravia, un libro che mi piaceva molto. Io sono un grande estimatore di Moravia e conoscevo tutti i suoi libri. Avevo preparato la mia scaletta e poi avevo scritto il copione, che, a parte una ristrutturazione di incastri temporali, conservava le scene così com’erano, recuperando il più possibile i dialoghi del libro. Ne ho parlato con il Kim, che intanto aveva i suoi lavori, però era l’amico più vicino, gli ho fatto leggere il copione e poi, non ricordo come, il copione è finito a Senatore, al quale è piaciuto, intravedendo la possibilità di trarre un film con attori importanti. Daniele aveva prodotto Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Petri, aveva qualche anno meno di me ed era una persona un po’ massiccia, voluminosa, con una grande vitalità, anche troppa! Avendo disponibilità finanziarie, si muoveva nel giro della buona società del tempo, era amico dei ragazzi della famiglia Agnelli e di un figlio di Carlo Ponti. Aveva vissuto la swinging London degli anni Sessanta e conosceva bene la città. Parlava inglese e francese perfettamente, insomma era un ragazzo intelligente, sveglio. Mi ha detto subito: «Lo facciamo con Richard Burton. Anzitutto facciamolo leggere a Moravia». Moravia ha letto il copione e gli è piaciuto tantissimo, non ha fatto alcuna osservazione: «Sì, sì, mi pare che vada molto bene». Lo credo bene che fosse contento! Per la ragione che ho detto: erano talmente fedeli le scene, che era veramente il suo libro. A uno scrittore che legge una sceneggiatura dove ci sono tutti i suoi dialoghi, non può che piacere da morire. Abbiamo detto a Moravia che il protagonista avrebbe potuto essere Richard Burton e lui: «Eh sì, perché no».
Daniele aveva appoggi a Londra, a parte gli anni che aveva passato lì spendendo soldi dappertutto. Gli piaceva l’idea di tornarci, anche perché aveva amicizie nel campo del cinema. Un suo grande amico era Joseph Janni, un milanese stabilito a Londra da tempo, che era il produttore di John Schlesinger, un nome quindi importante a livello internazionale. Era un uomo ricco, aveva una scuderia di cavalli, per cui era legato pure al mondo delle corse. Daniele è andato a Londra, poi mi ha chiamato per dirmi di raggiungerlo e io ne ho parlato al Kim. «Senti, Kim, verresti a Londra con me?». Daniele era d’accordo: «Venite a Londra, vi sistemo io. Alloggerete in un famoso albergo stile liberty. Vi vengo a prendere con la limousine». Tutto questo per telefono da Londra. Io e il Kim: «Accidenti! Partiamo!». Arrivati a Londra, Daniele ci è venuto incontro e ci ha abbracciati: «Ho parlato con Joseph Janni e ho preparato l’appuntamento con Richard Burton». Siamo usciti dall’aeroporto e della limousine nessuna traccia: «Sai, credevo di poterla avere, ma non importa, prendiamo un taxi… anzi un autobus!» Io e il Kim ci siamo guardati: non ce ne fregava niente della limousine, però le promesse fatte… e abbiamo pensato: «Cominciamo bene!». Era solo l’inizio: niente albergo, Daniele aveva trovato una sistemazione di comodo. Ci ha portato in un appartamento tipicamente londinese, vicino alle strade del centro, le tipiche case basse, con il pianterreno giù di sotto, sprofondato, e un piano sopra, casette così, piuttosto vecchie. Ci ha aperto un giovanotto pazzo, un po’ spettinato, alto, agitato, si capiva a vista che era fatto. «E dove dormiamo?». «Uno può dormire qui, l’altro può dormire di sopra». Allora ho detto: «Bah, io posso dormire qui, neanche salgo di sopra». Era un divano di un piccolo soggiorno, mentre al piano di sopra c’era una cameretta da letto. A un certo punto è arrivata la ragazza del pazzo, un’onesta e brava ragazza che si era innamorata di questo tizio e lo aveva preso in casa. Lei lavorava tutto il giorno, tornava dopo otto ore di lavoro, faceva l’impiegata non so in quale ufficio e lui si era piazzato in casa sua ospitando degli amici! Stanchi del viaggio, siamo andati a letto. Mi sono sdraiato sul divano, con qualche coperta, ho spento la luce, a un certo
punto ho sentito un gran rumore ed è saltato fuori un grosso cane, che è venuto sul mio divano mentre dormivo. Era il suo divano, dove dormiva tutte le notti! Ho dormito con questo enorme cane peloso addosso tutta la notte! Comunque l’abbiamo presa bene: «Vabbé, le solite cose di Daniele!». La strada maestra era il film, Richard Burton, Joseph Janni, il resto erano quisquilie, per cui ci abbiamo riso sopra. Siamo andati all’appuntamento con Richard Burton, che stava dalla sorella, si era rifugiato da lei durante una delle sue rotture con Liz Taylor. Prima siamo andati a conoscere Joseph Janni, nel suo ufficio: un signore molto serio, importante, un po’ distaccato. Joseph trattava Daniele come un ragazzo un po’ matto, un po’ discolo, però era molto disponibile e simpatico, per cui ci ha dato il suo appoggio. L’appuntamento con Burton infatti l’aveva procurato lui. La sorella di Burton viveva in una strada in salita, un quartiere molto perbene, Hampstead mi pare… A casa c’era solo Richard Burton. Daniele, che aveva una gran parlantina pure in inglese, gli ha parlato del film e di Moravia e gli ha messo in mano la sceneggiatura tradotta in inglese. Avevamo in tasca della cocaina: Daniele era un grande consumatore di coca, io e il Kim più occasionali e ragionevoli. Mi ricordo che ci siamo dati il cambio per andare in bagno a fare un tiro. Eravamo incerti se offrirla anche a Burton. Lasciatagli la sceneggiatura, ci siamo salutati con grandi promesse: «Ci rivediamo a Roma, magari insieme a Moravia». Missione compiuta. Ho dormito tutta la settimana con il cane! Di giorno andavamo in giro per le strade di Londra a vedere un po’ di gente, alla sera mangiavamo in un ristorante cinese. Ogni volta grandi saluti ai camerieri e ai padroni, Daniele lo conoscevano tutti per le sue mance nei momenti d’oro, e poi magari lasciava il conto da pagare al capo cameriere, tanto era noto come uno che pagava, o meglio i soldi li aveva, non li aveva, li dimenticava a casa… «Qui siamo messi male!», ci dicevamo io e il Kim. Mi ricorderò sempre che la sera prima di partire si è scatenata una scenata a tavola tra il Kim e Daniele, il quale ha avuto una grossa crisi di pianto, in quel ristorante cinese un po’ surreale perché eravamo fuori orario e c’era la grande sala vuota, con tutti i piattini ancora sul tavolo. Il Kim
si è arrabbiato per la mancanza di soldi, aveva sperato in un soggiorno più brillante dopo tutte le promesse, magari de l’argent de poche… Confesso che la crisi di pianto di Daniele mi ha lasciato stupefatto, segno di una fragilità che non avevo immaginato. Eppure in quei giorni non l’avevo mai visto teso, nervoso, chiuso, anzi, sempre cordiale e allegro, vivo, intelligente, chiacchierone. È bastato un nostro rimprovero, un po’ duro, specialmente da parte del Kim. Quale groviglio di sensi di colpa c’era dietro la debole parete delle sue parole e della sua risata? Come un bambino di fronte a un padre severo… Il giorno dopo io e il Kim dovevamo partire. Siamo andati con un taxi all’aeroporto, ma il volo è stato cancellato per uno sciopero. La partenza è stata quindi rinviata di un giorno. Altro taxi e siamo tornati con le valigie alla casa che ci aveva ospitato. Abbiamo suonato a lungo. Non c’era nessuno. Dopo esserci guardati attorno, abbiamo forzato la finestra dell’interrato e come due ladri abbiamo scavalcato il davanzale passandoci le valigie. Ho passato la mia ultima notte a letto con quel grosso cane, al quale mi ero affezionato. Tornati a Roma, dopo un po’ di tempo, abbiamo avuto un incontro io, Daniele, Richard Burton e Moravia in un grande albergo, il Grand Hotel, vicino a piazza della Repubblica. Burton aveva letto il copione e ne era soddisfatto, ma tutto dipendeva da Daniele perché il progetto era nato sulle garanzie e sulle promesse sue. È passato del tempo senza alcuna novità, finché, a poco a poco, tutto quanto è svanito nel nulla perché Daniele non aveva soldi, credeva forse di procurarseli, sperava in finanziamenti… Vedete, Daniele Senatore era una persona molto generosa, pazza e simpatica, ma anche pasticciona. Io l’adoravo. Però i soldi veri per fare i film non li aveva e senza darlo a vedere si rodeva dentro. Era un personaggio autodistruttivo, di mezzo c’era anche la cocaina che pesava molto.
Che coca sia… Non meravigliatevi se a un certo punto di questa storia salti fuori la cocaina. In quel periodo la cocaina veniva consumata senza grandi problemi. Allora in tanti giravano con qualcosa in tasca, niente di criminale, anzi, un segno di allegria e di risate. Non era come adesso coi cani che ti fiutano. Io ho portato dalla Colombia non so quanta erba insieme a due scintillanti machetes per lavorare in giardino, cose impensabili un paio di anni dopo. Personalmente la cocaina non l’ho mai cercata, ma non l’ho mai rifiutata quando l’ho incontrata, come ai vecchi tempi dei nostri cari nonni quando non si rifiutava mai la presa di tabacco offerta dalla tabacchiera aperta. Non ho mai tirato cocaina per lavorare o per avventura. Per me è sempre stato un momento di allegria, l’esecuzione di un “inno alla gioia” nei momenti più felici di comunanza. Ma non puoi certo suonare Beethoven tutti i giorni! Il discrimine sta nell’abuso, oltre il quale tutto diventa droga a partire dal cibo, dall’alcool, dal tabacco, dai farmaci. Se è per questo, il mondo occidentale vive nella droga. Il problema vero nasce dal commercio illecito che alimenta le mafie di tutto il mondo, infettando di illegalità e di corruzione la società. In altre parole, il problema vero è il proibizionismo. Basterebbe la decima parte di quanto si spende per la repressione proibizionista per finanziare campagne di dissuasione basate sull’informazione e sulla conoscenza, così come da tempo si fa per l’alcool e il tabacco. Non certo per cancellare il consumo, ma per regolamentarlo, riportandolo entro confini di misura e di legalità, come tutte le altre sostanze in commercio. Le mafie perderebbero di colpo enormi capitali con il loro potere infiltrante e corruttivo che distorce la vita economica e morale di un paese. Dopo questa tirata antiproibizionistica, torniamo allo specifico. Confesso di avere sempre avuto un debole particolare per l’erba, privilegiandone l’uso in solitario, contrariamente alla cocaina che non ha senso al di fuori della comunicazione. Le sue virtù terapeutiche da mettere a frutto
sono varie e tante. Io ne ho scoperta una che ho praticato per lungo tempo: alcune boccate prima di andare a letto, ne segue un sonno completo e profondo, non dorme solo il cervello, ma ogni organo del corpo, in un riposo assoluto e profondo, con un risveglio di fresca e radiosa resurrezione. Niente a che vedere con un sonnifero farmaceutico che ti rincoglionisce. Ma andiamo avanti. Credo che qua e là incontreremo ancora della cocaina.
A New York nel letto di Sophia Loren! Dopo l’avventura londinese, ho ripreso i miei viaggi in Colombia. La casa di Baru era diventato il rifugio e la fuga da ogni delusione. Era diventata un riferimento anche per molti amici di Cartagena che arrivavano in barca portando spesso ospiti illustri, tra i quali Gabriel García Márquez, detto Gabo, e Kabir Bedi, l’interprete di Sandokan. Così come sempre più spesso io attraversavo la baia con il mio Boston Whaler per i carichi di acqua potabile e le visite agli amici di città. Prendevano corpo intanto i miei progetti, due puntate documentaristiche sugli indios della foresta pluviale e soprattutto la sceneggiatura di un film costruito sulla mia conoscenza della Sierra Nevada. Era una storia di cocaina (rieccola!) ambientata tra la Sierra e New York. Durante un viaggio a Roma ho portato alla Rai il progetto sugli indios, devo dire con poca fortuna, e in valigia la sceneggiatura finita di Sierra Nevada. Ho incontrato Daniele Senatore, che l’ha voluta leggere. Si è entusiasmato, probabilmente per la cocaina. «È bellissimo! Lo facciamo, lo facciamo!». Ha giurato che per un simile film, pieno di avventure, poteva avere un finanziamento sicuro negli Stati Uniti. Di fronte a tanto entusiasmo e a tante certezze ci sono ricascato. Quindici giorni dopo siamo partiti per New York, dove Daniele, che già vi era stato, aveva numerosi amici, fra i quali la signora Elettra Caporello, molto nota nel mondo dell’editoria cinematografica perché era la traduttrice dei dialoghi dall’inglese di tanti film e fonte per Daniele di tante altre conoscenze. Appena arrivati, Daniele ha detto: «Dobbiamo aprire subito un ufficio!». Detto fatto. Daniele ha chiamato un’agenzia specializzata: «Ho bisogno di un ufficio con un paio di linee telefoniche». Nel giro di tre ore una risposta: «Può andare là…», con le chiavi in mano! Insomma, mi sono trovato in società con Daniele Senatore in un ufficio al sedicesimo o ventesimo piano del Fisk Building, un grattacielo piuttosto
vecchiotto, non di quelli altissimi, in piena Manhattan, nella 42ª Strada, a un angolo di Broadway. Mi sono subito innamorato di quell’ufficio: sembrava l’ufficio dei racconti di Chandler, dei detective sfigati, un ufficietto con le finestre che davano non sulla strada, ma su un cortile profondissimo, il retro di non so che cosa, impressionante, con le finestre che non si aprivano mai, di quelle bloccate, e i mobili di ferro grigio, murati, non li potevi spostare né rubare, quegli uffici che si affittano, con due telefoni sulla scrivania di ferro, i raccoglitori anch’essi di ferro, fissati con i bulloni. Puoi aprire un ufficio in tre ore! Puoi mettere una targa fuori e hai una società, fai affari, hai il telefono… la forza dell’America è questa, poi non so cosa ci sia dietro, quello che volete! Io so che abbiamo avuto nel giro di poche ore un ufficio, di cui abbiamo preso possesso, abbiamo messo i piedi sulla scrivania e ci siamo domandati: «E ora che cavolo facciamo?». Daniele, credo per i rapporti con Joseph Janni che in quel periodo si trovava a Los Angeles, ha preso accordi con uno studio legale di New York, uno di quegli studi con più di venti avvocati… c’era una targa di ottone magnificamente lucidata con una sfilza di nomi di avvocati che non finiva mai! Da lì sarebbe venuto un finanziamento, ed erano soldi tedeschi e canadesi, mi pare di ricordare. Io nel frattempo ho conosciuto New York alla grande. Era proprio la New York de Le mille luci di New York di Jay McInerney: io e Daniele passavamo tutta la notte a bere nei loft, poi con un taxi correvamo a un’altra festa. Ho vissuto quella roba lì! Questa esperienza era molto più importante del film, di tutto, perché ti travolgeva completamente. E indovinate dove abitavamo? Siccome Daniele era amico del figlio di Ponti che studiava business non so in quale università e di quale città, avevamo le chiavi della casa del padre e abitavamo lì! L’appartamento era vicino al Plaza, a Central Park. Io dormivo nel letto della Loren o di Ponti e Daniele nel letto accanto. Il letto di Ponti, capite? Quello che qualche mese prima mi aveva cacciato dal suo ufficio! Sghignazzavo ogni volta che ci pensavo.
Un misterioso pianto notturno È una storia incredibile quella mia con Daniele, veramente. Io mi rendevo conto che combinavamo poco, ma era talmente affascinante e bella la vita che facevo che non me ne fregava niente. Ero veramente perduto in questa vita. Avevamo a disposizione la casa di Ponti e della Loren, dormivamo nei loro letti… era una casa attrezzata, non grande, c’era tutto, in pieno centro di New York. Daniele andava a trovare i suoi amici che stavano all’Hotel Pierre, il grande albergo sulla 5ª Strada, perché ogni tanto arrivavano i nipoti di Agnelli… erano questi i suoi amici! Frequentavamo spesso il Village. Ho passato serate con Charlie Mingus, il grande musicista jazz. Daniele l’aveva conosciuto a Roma, avendolo contattato per la colonna sonora di Todo modo, che era stato invece Morricone a realizzare. Mingus aveva un principio di sclerosi a placche, non ancora invalidante. Andavamo a casa sua e lo accompagnavamo in macchina al Village, dove suonava in un locale. Il fornitore di cocaina del musicista era un personaggio da film: un nero magro, svelto, agile, che scendeva da una Cadillac con il cappello in testa, un vestito elegante e vistoso e un sorriso smagliante. Passando per il retro del locale, entrava a fornire la coca… Insomma, ho vissuto da vicino la New York mitica de Le mille luci di New York! Eppure c’era qualcosa che non andava. Una notte, mentre dormivo nel letto della Loren, sono stato svegliato da rumori soffocati che provenivano dal letto di Ponti accanto al mio. Era buio, non capivo, ho acceso la luce del comodino: Daniele con le gambe fuori dal letto stava singhiozzando tenendosi il viso tra le mani, singhiozzi che non riusciva a trattenere, che lo facevano sussultare. L’ho guardato sbigottito: «Che hai, che succede, stai male?». Nessuna risposta, piangeva senza ritegno, tirando su col naso. Dalla preoccupazione sono passato all’imbarazzo. Se piange una donna o un amico mingherlino, so cosa fare, come dedicarmi, ma Daniele era un bestione alto un metro e ottanta e di almeno novanta chili, non
sapevo che dire, cosa fare. A un certo punto si è soffiato il naso in un fazzoletto che stringeva in mano e i singhiozzi si sono fatti più leggeri e radi. Ne ho approfittato per spegnere la luce. Nel buio l’ho sentito acquietarsi del tutto. Prima di addormentarmi ho pensato a quel suo pianto nel ristorante cinese di Londra, un anno prima, ma là c’era la dura rimostranza del Kim che poteva giustificarlo… Perché questo pianto in piena notte? Mancanza o abuso di cocaina?… Mancanza no di sicuro perché ogni tanto qualche tiro lo facevamo. Una scorta segreta che consumava a mia insaputa? Mi sono addormentato senza risolvere il quesito. Il mattino dopo, tutto normale, Daniele positivo e attivo come sempre. Tutti e due nel nostro ufficio (che io chiamavo l’ufficio di Marlowe) al Fisk Building, al lavoro col telefono: l’avvocato Peter Crane dello studio legale, Joseph Janni a Los Angeles, Elettra Caporello per alcuni altri incontri… Ascoltando una conversazione di Daniele al telefono ho scoperto che aveva un bel po’ di soldi su un conto corrente da cui attingeva per le nostre spese. Mi sono impuntato: ho preteso che mi pagasse un anticipo sulla sceneggiatura e sul contratto di regia. Bene, ci credereste che in quell’ufficio spoglio e tutto grigio ferro sono riuscito a strappargli diecimila dollari? Due giorni dopo coi soldi in tasca ho lasciato Daniele e sono partito per Cartagena. Ho consegnato i diecimila dollari a Marilù con l’incarico di comprare un piccolo appartamento in città, in vista del film che avrei girato per buona parte in Colombia. L’ha trovato nel giro di pochi giorni, all’ultimo piano dell’Edificio Benedetti, ai margini della città vecchia, di fronte alle antiche mura spagnole e al mare aperto. Eravamo diventati proprietari di ben due case. Dopo questo breve viaggio sono tornato a New York, riprendendo la solita vita con Daniele, che col passare del tempo diventava sempre più una vita di attese. Le telefonate all’avvocato Peter Crane erano diventate periodiche, ogni volta positive e con un rimando ottimistico. Nel frattempo abbiamo dovuto lasciare l’abitazione di Ponti e ci siamo trasferiti in un appartamentino ceduto in prestito da un amico, con la
consolazione di una vista dall’alto delle acque del fiume Hudson. Intanto però Daniele si dava da fare: ha telefonato a un’agenzia specializzata in servizi cinematografici e dopo pochi giorni mi sono ritrovato in un ampio locale con scrivanie e telefoni a selezionare un centinaio di attori minori e figuranti, da utilizzare nel troncone newyorkese del film. La speranza di realizzarlo sembrava farsi concreta. Consumavamo le mattinate al telefono nel nostro ufficietto del Fisk Building.
Un letto per due Un’improvvisa apertura su Los Angeles con la speranza di un contatto con una major di Hollywood: lunga traversata in aereo e siamo andati da Joseph Janni, in un grande ufficio di parecchi locali con tante scrivanie e telefoni. Janni ha concesso a Daniele una scrivania con una linea telefonica, un nuovo ufficio, il nostro ufficio di Los Angeles! Daniele ha affittato una grossa automobile per i nostri spostamenti. Abbiamo avuto anche l’usufrutto di una nuova abitazione, miracolo delle amicizie di Daniele, un appartamento a Beverly Hills di proprietà di Fernando Ghia, il produttore di Mission, in quel momento assente. La magnifica vista dell’appartamento era sulla piatta coltre di smog che si stendeva fino all’orizzonte sulla piana di Los Angeles. In quei giorni veniva eletto Jimmy Carter presidente degli Stati Uniti. L’appartamento era bello, ma possedeva solo un grande letto matrimoniale. Non più letti separati, ma un unico letto da spartire con Daniele, grande e grosso com’era. Un inferno. Si agitava nel sonno, si girava e si rigirava, si svegliava continuamente, non riuscivo a dormire, accendevo la luce e mi mettevo a fumare. Ricordo una notte: tutti e due esasperati per l’insonnia, abbiamo deciso di andare a fare la spesa al supermercato, alle tre di notte. Sapevamo di supermercati aperti 24 ore. Ci siamo rivestiti e in macchina siamo scesi per le tante curve deserte di Beverly Hills. Il supermercato che abbiamo raggiunto a quell’ora era raggelante, metteva paura: uno sterminato padiglione pieno di merci pressoché deserto, immerso in una diffusa luce al neon che rendeva i visi cadaverici, compresi i nostri. Due o tre inservienti neri punteggiavano lo spazio. Mi aspettavo un’irruzione di rapinatori coi fucili a pompa. Abbiamo comperato cartoni di latte, biscotti, marmellate, abbiamo pagato alla cassa deserta e ce la siamo filati in fretta. Ci siamo addormentati all’alba. A Los Angeles Daniele aveva molto da fare, una successione di appuntamenti, il mio copione in inglese passava per molte mani, tutti lo approvavano, ma le trattative che si
abbozzavano non avevano data. Aspettare, aspettare, a Los Angeles come a New York. Daniele continuava nei suoi giri frenetici, ma io non avevo niente da fare. Mi sono stufato. Ho lasciato Daniele a Los Angeles e sono partito per Cartagena via Bogotà. Ho preso visione dall’appartamento comprato da Marilù: piccolo ma perfetto come abitazione e base di lavoro per il film, simpatici i vicini di casa dell’Edificio Benedetti. Ho avuto modo di fare qualche nuotata davanti a casa. Ho passato tre giorni in compagnia di García Márquez e di un paio di altri amici alle isole del Rosario, al largo di Baru. Ho passato altri giorni nella casa di Baru, poi sono tornato nella casa di Cartagena per telefonare a Daniele, il quale nel frattempo era tornato a New York. Niente di nuovo da parte di Peter Crane. Ho deciso allora di fare una puntata a Roma, dove avevo parecchie cose in sospeso. Da quel momento è cominciato un sempre più frenetico ed esasperato pendolarismo tra Roma, New York, Miami, Bogotà, Cartagena, Baru. Di quel periodo ho ritrovato alcuni brandelli di un nevrotico diario. Li trascrivo per darvene un’idea.
Diario di un pendolare 1976 - Roma - Colombia - Roma - 1977 Roma - 21 Settembre «Esiste un tipo di indignazione improduttiva che resiste a ogni tentativo di darle espressione letteraria» (Karl Kraus). Le mie telefonate alla RAI, un balletto, Fichera, Cavallaro, Spilman, Rosso, una barriera di gomma contro la quale rimbalzo. Il mio progetto sugli Indios. Non riesco a parlare, telefoni occupati, funzionari in consiglio, segretarie, oppure da Fichera a Spilman, da Spilman a Rosso o il contrario. Ma del mio progetto niente. Indignato? Certo che sono indignato. Ma non mi scoraggio. Ci do dentro col telefono, impicciandomi col filo e con la coda della gatta sempre qui sul tavolo quando non è sui fornelli del gas (l’altro ieri le si è incendiata la coda, una cresta di fiamme bellissima, spenta con un solo passaggio di mano come se fossi Houdini). Roma - 18 Ottobre Finalmente ho parlato con Renzo Rosso, la settimana scorsa. Ha detto di no ai miei Indios. Mi rivolgerò alla 1ª Rete. Ricevuto da Valmarana. Ammirevole la sua esternazione di “servizio pubblico”. Si contorce e si sghimbescia dietro la scrivania cercando disinvoltura, sforzandosi di distruggere la figura del funzionario, rotolandosi nella polvere della strada come per farsi calpestare dai cittadini di passaggio. È pronto a sentir parlare degli Indios. Ma vuole scaletta e preventivo. Butta lì la cifra di venti milioni a puntata. Ne occorrono almeno il doppio. Cartagena - 12 Novembre L’eroico sogno televisivo si dissolve. Eccomi qui a Cartagena per il film, per Sierra Nevada. La strada per la Sierra Nevada è stata lunga: Roma-NewYork-Los Angeles-Cartagena. Daniele l’ho lasciato a Los Angeles. Non si fa vivo, non so più niente. Spero che non abbia preso un’altra botta di cocaina; come per due volte a New York. So che ne aveva, che doveva essere un
regalo per Jack Nicholson, di quella pura, in rocks, presa da Kenny il robiere di Mingus, a New York. Comunque eccomi qui ad aspettare. Il mare è grigio, pioviggina, ma l’aria diventa facilmente luminosa. Sono le sette del mattino. L’altro ieri sono arrivati Divo Cavicchioli e De Blasi, da Barranquilla, dopo un incontro con Crescenzi. Sarà un bel summit quando arriverà Daniele. Nel confronto con gli altri Daniele è un vero gigante, non solo perché è grande e grosso. Sarà riuscito a strappare quei milioni di dollari a Peter Crane? Qui sta il punto. Tutte le congetture sono inutili. Devo solo aspettare. Roma - 25 Dicembre Cazzo! cazzo, cazzo! È passato un mese e mezzo e ancora nessuna risposta da Peter Crane. Eccoci qui a Roma da più di un mese. Siamo qui tutti, io, Daniele, Elettra, Alain. Nessuna notizia di quei milioni di dollari. Per fortuna ripartiamo. Io domani per Cartagena, Daniele e gli altri dopodomani per New York. Terremo i contatti in attesa di tutti quei soldi… Atlantico - 26 Dicembre In volo per New York, destinazione Cartagena. Per la sesta volta in due anni viaggio verso i Caraibi. Ma questa volta sento che molti ponti sono caduti alle mie spalle. Mi sono rimasti pochissimi soldi, a Roma. In un certo senso non posso più tornare indietro senza aver combinato qualcosa. Le mancate notizie da parte di Peter Crane ci hanno fatto perdere un mese (per il momento). Quanto tempo perderemo ancora? Ho paura delle piogge di aprile sulla Sierra Nevada. L’ultimo viaggio due mesi fa, già un ricordo: in automobile con Marilù e Salvo e Daniele, da Cartagena (con la perquisizione della polizia dalle parti di Cienega; quando frugarono tutta l’automobile, sicuri che avessimo erba e infatti ce l’avevamo ma ben nascosta) fino a Santa Marta e a Mingueo. A Mingueo l’incontro con Mario Solìs durante un temporale; e l’incontro con l’indio Kogui Clemente Simon Gama… cazzo, cazzo, cazzo!! l’aereo inverte la rotta e torna indietro dirigendosi su Londra! a bordo c’è un giovane che sta male e che deve sbarcare! perderò di sicuro l’aereo per Cartagena!
Mar Caribe - 27 Dicembre In volo. Destino Barranquilla. Così è andata. Perso l’aereo ieri sera. Dormito all’International Hotel vicino al Kennedy. Trovato un aereo stamattina per la Colombia. Un viaggio orribile, tutta colpa di quello stronzo (giovane pallido, quasi esangue sotto i capelli biondi a spinaci) che di sicuro poteva benissimo proseguire fino a New York senza morire. Ma lui che c’entra? Forse colpa del medico che l’ha visitato sull’aereo e che non voleva prendersi responsabilità; o colpa dei regolamenti di navigazione che il comandante ha applicato. Fatto è che sono qui sul Caribe e che Cartagena è ancora tanto lontana e la dovrò raggiungere in taxi questa sera da Barranquilla. Cartagena - 28 Dicembre Eccomi qui di mattina a guardare il cielo e il mare dalle finestre dell’Edificio Benedetti. Tutto esattamente come a metà novembre. Non è cambiato niente. Ho preso il caffè, Marilù dorme, andrò a fare un bagno. Sera. A cena da Alvaro Escallon, senatore liberale di Cartagena, uomo di Mara Martinez. Personaggi: Nicolas Emiliani, medico, ubriaco, fissato con la politica, intimo amico del senatore e sua ombra; i fratelli Fuente, proprietari di una piccola emittente radio cittadina, incredibilmente “a disposizione” del senatore, suoi grandi ammiratori. Hanno assistito alla cena in piedi, facendo continuamente piccoli servizi (accostare una sedia, lighter sempre pronto, piatti portati dalla cucina, ecc.). 29 Dicembre Sono nervoso. Vorrei essere a New York. Non è vero: vorrei essere a Roma. Altro bagno. Non serve. Vorrei essere a Roma. Cominciamo bene. Penso ai cinque, sei mesi che mi aspettano. Dovrò inventare qualcosa. Già New York è più vicina a Roma. Alla sera a cena da Salvo Basile. Molta gente. Conosco Santiago Garcìa, regista di teatro popolare impegnato, pare molto bravo e importante qui in Colombia. È comunista. Mi spiega lucidamente molte cose sulla guerriglia colombiana, il FARC e il partito.
Sono un po’ più tranquillo. Nel pomeriggio ho telefonato ad Elettra, a New York. Mi dice che Peter Crane è a Londra dove si incontrerà con i finanziatori tedeschi. Mi dice che Peter Crane ha lasciato detto a Lasky di essere molto ottimista sulla conclusione dell’affare. È mai possibile che la mia vita, i miei umori, i miei sentimenti debbano dipendere da questo Peter Crane che non ho mai visto né conosciuto? 30 Dicembre Tutta la mattina in mare. Un bagno lunghissimo e molto sole. Ora sto qui in casa con questo diario in mano e molti pensieri e sentimenti contrastanti. 31 Dicembre Ieri sera ho visto e sentito nella vecchia arena dei tori i “Gaiteros” e il “Fruco y sus tesos”. Deliziosi, autentici e di grande sensibilità i primi. I secondi sono un’orchestra di “salsa”. Una pessima “salsa”. Musica e orchestra erano abominevoli per volgarità, banalità, preconfezione commerciale. Me ne sono andato prima della fine. Mi aspetta un’altra giornata, per quanto non qualsiasi: è la fine dell’anno. Il mare si è calmato. Questa mattina non c’è brisa. Dal dottor Turbay: pressione 80mn-120mx. Possibile che tutta questa agitazione venga allora soltanto da un bisogno interiore inappagato? 1 Gennaio 1977 Eccolo qua! Un anno tutto intero, tutto da scrivere se non da vivere. Stanotte festa in tutto l’edificio Benedetti con gli appartamenti aperti, sul ballatoio, da porta a porta, un po’ di fuochi artificiali, molto rum, coca per i più qualificati, odore di marijuana. Hanno ballato. È il mio terzo capodanno consecutivo in Colombia. L’anno scorso a Baru, due anni fa a Cartagena (all’Hotel Los Corales), prima del grande viaggio sulla Sierra. Un altro capodanno molti anni fa, a Cartagena, anno 68/69. Sono quattro, perciò.
Addio Kim! I miei spostamenti in aereo hanno avuto una pausa nel 1977. Per qualche mese mi sono fermato a Roma per cause mediche non di poco conto. È stato a Los Angeles che ho avvertito i primi sintomi: crampi ai polpacci. A Roma sono stato visitato da un angiologo e conseguenti esami radiologici con liquido di contrasto. Referto: arteriopatia degli arti inferiori con occlusioni a partire dalle iliache. Indispensabile un intervento chirurgico. Operazione di una certa difficoltà. Un medico amico mi ha sconsigliato gli ospedali romani, troppi chirurghi si stanno esercitando in questa operazione tentando di migliorare la statistica. Mi ha consigliato due chirurghi, uno di Milano, l’altro di Padova. Ho seguito il consiglio e ho scelto Padova. In quei giorni ho incontrato il Kim. Anche lui non stava bene. Qualcosa di più grave: un tumore intestinale. Anche lui si doveva operare. Anche lui in un ospedale del Veneto. Entrambi aspettavamo una chiamata telefonica dai rispettivi ospedali per il giorno dell’intervento. Ci siamo visti spesso. Spesso pranzavamo insieme in qualche ristorante. Parlavamo poco, eravamo pensierosi, nessun “inno alla gioia”. Lui ordinava i suoi piatti preferiti, ma li assaggiava appena e li lasciava. Non riusciva a mangiare. Le telefonate che aspettavamo tardavano, non arrivavano. Abbiamo deciso di aspettarle insieme. Mi ha proposto di aspettarle a Venezia, a casa sua. Siamo partiti. Abbiamo passato una settimana a Venezia con tristi passeggiate sotto la pioggia. Abbiamo contattato gli ospedali. Non ancora. Troppo triste Venezia. Ho deciso di lasciarla e di aspettare a Bergamo in casa di mia sorella. Dopo pochi giorni mi è arrivata la chiamata. Ho raggiunto Padova e mi sono ricoverato. Sono stato operato e tutto è andato bene. La convalescenza era lunga: l’ho consumata a Bergamo, sono tornato a camminare svelto, mi sono sentito guarito, allora sono rientrato a Roma. Ho incontrato di nuovo il Kim. Anche lui era stato operato, si era rimesso, ma non si sentiva guarito, c’era qualcosa che
non andava, qualcosa che non lo lasciava. Ci siamo visti spesso nelle settimane che seguirono. Ma i nostri pranzi al ristorante erano sempre più silenziosi, sempre più spesso i piatti ordinati dal Kim venivano appena assaggiati. Riusciva solo a bere del vino, quei vini buoni del Veneto che ha sempre preferito. L’ultimo giorno è arrivato l’imprevisto. Verso sera sono passato a trovarlo, su all’ultimo piano della sua casa di via Ripetta. Ho trovato un’inaspettata vivacità, quasi dell’allegria, dovuta alla presenza di quattro o cinque nostre amiche che mi avevano preceduto. Anche il Kim ne sembrava contagiato. Si mangiava e si beveva qualcosa portato dalle ragazze. Il Kim mi ha chiamato in disparte nella sua stanza. Aveva un cartoccetto di speed-ball, un misto di cocaina ed eroina, mistura del tutto inusuale nelle sue mani. Facciamo un tiro, il nostro ultimo “inno alla gioia”. Si è alzato il tono dell’allegria. Si è chiacchierato, si è bevuto, si è mangiato, si è dimenticato…. si è fatto tardi. Per me, ancora un poco debole, era ora di andare a dormire. Ho salutato la compagnia e sono ritornato in macchina a casa mia. Alle tre di notte sono stato svegliato dal telefono. Era una delle amiche appena lasciate. Piange: il Kim è morto. Mi sono vestito in fretta, sono montato in macchina e ho raggiunto la sua casa. Tutto era già accaduto in quelle poche ore. Mi hanno raccontato: il Kim aveva accusato stanchezza ed era andato a buttarsi sul letto della sua stanza dicendo agli altri di restare pure quanto volessero. Una mezz’ora dopo un’amica è andata in bagno e per raggiungerlo ha dovuto attraversare la camera del Kim. Passando accanto al letto lo ha sfiorato con una leggera carezza sulla fronte. È tornata indietro. La sua fronte era fredda, troppo fredda… lo ha scosso, il Kim non si svegliava dal suo sonno… Ha chiamato le amiche. Si sono attaccate al telefono per chiamare un dottore del vicinissimo ospedale di San Giacomo. Il medico, che è subito accorso, conosceva il Kim, l’aveva già avuto in cura. Ma non ha potuto che constatare la morte: la macchia scura di un ematoma sul torace era la traccia di un infarto. Era il 24 febbraio del 1978. Ho fatto una lunga telefonata a Daniele, a New York, raccontandogli della sua morte. Pochi giorni dopo, sono
ripartito per la Colombia, svuotato e stranito per la mancanza del Kim.
Tre uffici! A un certo punto il finanziamento di Peter Crane sembrava certo. Me lo ha comunicato al telefono un Daniele Senatore euforico. Non solo, mi ha raggiunto a Cartagena. Abbiamo parlato parecchio del Kim. Intanto gli ho fatto conoscere la costa colombiana. L’ho portato fin sotto la Sierra Nevada, a Mingueo, e gli ho mostrato alcuni luoghi del film. Si è entusiasmato. Ha ritenuto necessario aprire un ufficio di produzione a Cartagena, sede casa nostra nell’Edificio Benedetti, titolare Marilù, alla quale ha comperato una macchina da scrivere. Così avevamo tre uffici, a New York, a Los Angeles, a Cartagena! Quella volta siamo ritornati a New York insieme. Ma io ci sono rimasto per poco, così come ogni altra volta che ci sono tornato. D’inverno, quando tira quel vento gelido, da New York scappi volentieri. Se non fai scalo a Miami, in solo quattro ore sei a Cartagena. Da laggiù ogni settimana chiamavo Daniele a New York: «Come va? I soldi sono arrivati? Che fa st’avvocato? Che facciamo?». E lui continuava a dire: «No, guarda, arrivano, mi ha detto, l’ho visto ieri…». Insomma è andata avanti per non so quanto, un anno e più, questa storia che stava via via sfumando nel tempo. Per me si è trasformata in un dramma: avevo qualche soldo che mi aveva dato Daniele, ho lasciato la Colombia e sono tornato sparato a Roma alla ricerca di risorse. Sono stato fortunato. Ho incontrato Arturo La Pegna, già mio produttore di alcuni caroselli, e come mi ha visto: «Ah, ma sei qui! Dov’eri? Proprio te cercavo. Mi scriveresti la sceneggiatura da questo libro?», e mi ha messo in mano il romanzo La Guerre des insectes di Jean Courtois-Brieux, in vista di un film per la televisione francese. Ho detto subito di sì, ho preso un anticipo e sono ripartito per la Colombia a scrivere. Sempre meno telefonavo a New York, preso dal nuovo lavoro, per il quale, tra l’altro, La Pegna non mi aveva messo alcuna fretta. Conducevo una vita tranquilla tra l’appartamento di Cartagena e la casa di Baru, con l’intermezzo di piccole esplorazioni.
Una di queste mi ha portato lontano. Un viaggio che vale la pena di raccontare…
Il geometra di Tortona e Pluto… Mara Martinez era la directora dell’aeroporto di Cartagena, grande amica di Marilù. Un paio di volte mi è capitato di essere invitato a cena a casa sua. In una di queste occasioni Mara ha parlato di un viaggio progettato a Quibdó, nel dipartimento del Chocó, un viaggio da tempo supplicato dalla sua giovane segretaria che a Quibdó aveva la famiglia. Un orgoglioso ritorno della giovane meticcia al suo paese d’origine in compagnia della sua bionda e importante directora. Mara non è che ne avesse molta voglia e ha finito per pregare me e Marilù di farle compagnia. Alcuni giorni dopo siamo partiti con un aereo di linea per Medellín, sulla cordigliera delle Ande. Da lì ci aspettava un balzo verso le selve e i fiumi del Chocó. Non più con un aereo di linea, ma con un vecchio e scassato bimotore a elica, carico per lo più di contadini abbracciati a gabbie di animali, galli e tacchini, tenute sulle ginocchia. Il Chocó si estende in lunghezza sotto la cordigliera toccando due mari, il Caraibico a nord e l’Oceano Pacifico ad ovest. Due fiumi lo percorrono, il Rio Atrato e il Rio San Juan. La popolazione è in forte maggioranza afro-colombiana, lungo i fiumi vivono comunità di indios Emberà e Waunanas. Lasciare le montagne della cordigliera è stato emozionante, se non pauroso. Con un sospiro di sollievo abbiamo avvistato l’aeroporto di Quibdó, un grande campo di aspetto agricolo con l’unico segnale di una manica a vento afflosciata. Ai margini una baracca di legno. Eravamo arrivati. Grande festa nella famiglia della segretaria di Mara. Il buio è arrivato presto. Ci hanno trovato da dormire nel rottame di un battello in disarmo, risonante di lamiere, attraccato a una sponda del fiume, il Rio Atrato, su cui si affacciano le baracche di Quibdó. Siamo stati svegliati da voci femminili alle prime luci del giorno. Voci allegre. Mi sono affacciato a un oblò rugginoso. Una decina di donne stavano facendo il bucato nell’acqua del fiume, con un gran rumore di
panni sbattuti sulle pietre. Poiché con il sole che si alza le lamiere si fanno subito roventi, ci siamo affrettati ad abbandonare il battello. Avevamo un progetto: raggiungere le miniere d’oro un centinaio di chilometri più a sud, dove la segretaria di Mara aveva un parente che ci lavorava. Ci hanno consigliato una visita di cortesia al governatore del dipartimento. Ci siamo incamminati verso la sede, simile a una scuola elementare della periferia romana del dopoguerra, sbriciolata nella povertà del cemento, coi tondini di ferro che uscivano allo scoperto. Il governatore era un afro-colombiano, un bell’uomo dal viso gentile e triste. Era grato per la cortesia e ci ha fornito consigli e indicazioni: dove trovare una jeep con conducente per portarci a Istmina, sul Rio San Juan, dove lavoravano le draghe della Compañia Minera Chocó. Ci ha raccontato la storia della Compañia, una volta nordamericana, quotata nelle borse di New York e di Londra, abbandonata poi dagli yankees, per il calo della resa del terreno e delle acque, nelle mani di una cooperativa colombiana che la gestiva tra grandi difficoltà. Ci ha poi accompagnato fino all’esterno di quell’edificio irto di tondini rugginosi che spuntavano dai muri, salutandoci con la mano e con il suo sorriso triste. Abbiamo trovato la jeep e per un’ottantina di chilometri abbiamo percorso una strada dissestata che ci ha lasciati stremati a Istmina, un paesotto di ventimila abitanti. Abbiamo passato la notte in una locanda conradiana per la sua lontananza dal mondo, per le sue scale di legno scricchiolanti, per le cimici tra le lenzuola e soprattutto per la sua padrona, una bianca sulla quarantina dal bel viso, piena di sogni smarriti e di dolce malinconia. Al mattino mi sono intrattenuto con lei a un tavolo della locanda. Mi ha parlato di un passato felice, è corsa a prendere un album di fotografie e mi ha mostrato alcune sue istantanee in costume da bagno, giovane e ridente con le sue amiche su una spiaggia di Cartagena con il lussuoso Hotel Caribe sullo sfondo. Non mi ha raccontato come mai fosse finita in quel luogo sperduto del mondo. Ho lasciato la bionda locandiera alle sue nostalgie e sono uscito sulla strada, dove mi sono imbattuto in una scolaresca femminile delle elementari, ragazzine nere con le cartelle nell’azzurro-blu di una divisa scolastica, una folata di voci
gioiose che si allontanavano verso il fondo. Una conferma della dignità della scuola nei paesi poveri, dell’eccezionale importanza sociale di essere studenti, segnalata dall’orgoglio della divisa. Intanto Mara e la segretaria avevano trovato la lancia a motore che ci serviva per raggiungere il cuore della Compañia Minera, un isolotto giù per il San Juan dove c’era la direzione tecnica e amministrativa. Durante il percorso ho visto il paesaggio modificarsi. Ai margini del fiume per lunghi tratti la vegetazione è scomparsa, sostituita da colline di sassi tondi vomitati per anni dalle draghe. L’isolotto al centro del fiume su cui siamo approdati era in parte fittamente boscoso, il resto occupato da alcune abitazioni e uffici, costruzioni in legno sollevate dal terreno, con all’ingresso scalette di tre gradini. Ho assistito alle grida di sorpresa e agli abbracci della giovane segretaria con il suo parente, impiegato nell’ufficio amministrativo. Ed è proprio costui che mi ha parlato di un tecnico italiano che lavorava sull’isola, indicandomi la sua abitazione poco lontana. Mi sono affrettato a raggiungerla e proprio in quel momento l’unico bianco dell’isola stava uscendo di casa. L’ho fermato ai piedi della scaletta, lui altrettanto stupito per l’apparizione di una faccia bianca e soprattutto per le mie parole italiane. Era un ometto vicino ai cinquanta, ancora giovanile, un po’ timido nell’approccio, niente di tropicale, in un abito con giacca da perfetto impiegato e la borsa di pelle in una mano. Malgrado mi abbia detto che stava andando a lavorare e che era già in ritardo, sono riuscito a trattenerlo con alcune domande, alle quali ha risposto brevemente per la fretta di andarsene. Era un geometra, faceva rilevazione sui terreni con gli strumenti, proveniva da Tortona, in provincia di Alessandria, ed era stato assunto dalla Compañia, alla ricerca di tecnici in Italia, negli anni Cinquanta quando la Compañia era ancora nordamericana. Il suo contratto, che prevedeva un biglietto d’aereo all’anno per l’Italia, era stato confermato integralmente dalla nuova gestione. Malgrado si affrettasse, era rallentato dalla timidezza e dalla gentilezza. Sembrava imbarazzato per la modestia dell’abitazione. Me ne sono reso conto quando, sperando che non me ne accorgessi, ha abbattuto a terra con un colpo di mano un grosso ragno nero
che gli stava calando accanto dalla grondaia. Ho fatto finta di non vedere. Non volevo più trattenerlo, ma lui sembrava dispiaciuto, voleva che mi fermassi a bere un caffè, se ne doveva andare, ma ci avrebbe pensato sua moglie. Ha risalito i tre gradini della scaletta, ha aperto la porta e ha chiamato la moglie parlando rapidamente in lingua spagnola attraverso la soglia. È ridisceso e mi ha stretto la mano, ancora scusandosi, e si è allontanato rapidamente nel suo abito da impiegato con borsa, scomparendo nel fitto della foresta che macchia l’isola, a pochi metri dall’abitazione. Il tempo di girarmi e sulla soglia è comparsa la moglie, una grossa nera in grembiule da casalinga dal viso bonario e sorridente, piuttosto grassa, che mi ha ricordato una cantante di blues e mi ha invitato a un cafecito. Sono entrato un poco intimidito dalla sorpresa. L’interno era un grande tinello-soggiorno estremamente ordinato, con un tavolo al centro e pochi mobili, uno di essi una piccola credenza a vetrina con tazzine e chincaglieria in bella mostra. Sul ripiano una fotografia sotto vetro ha attirato la mia attenzione. «È mio figlio» mi ha detto la donna, mentre preparava il caffè. «È a Bogotà, studia all’università, studente del secondo anno… la prenda… la guardi…». Mi ha raggiunto asciugandosi le mani nel grembiule, piegando la testa per guardare insieme a me: un bel ragazzo meticcio sorridente all’obiettivo, davanti a un massiccio edificio di stile classico. «Ha vent’anni… è molto bravo a scuola». La signora era incredibilmente affabile. Sono rimasto a chiacchierare volentieri, seduti al tavolo, bevendo il caffè, finché ho sentito all’esterno voci: mi stavano cercando. Ho lasciato con dispiacere quel tinello accogliente tanto simile al mio tinello da bambino e quella mammona nera che volevo tanto abbracciare… Abbiamo lasciato l’isola e bordeggiando con la lancia ci siamo spinti fino al villaggio più vicino, che forniva mano d’opera alla Compañia. Ai legni di un vecchio molo fatiscente c’era una grossa imbarcazione che stava caricando uomini, robusti neri equatoriali del villaggio in partenza, ci hanno detto, per il turno di notte sulla draga. Ci hanno detto anche che c’era una sola draga in attività, l’altra era in avaria. Era il loro eterno problema. Le draghe avevano più di quarant’anni e
da quando i gringos se ne erano andati, era difficile trovare pezzi di ricambio. Si dovevano arrangiare con riparazioni di fortuna. Per vedere la draga li abbiamo seguiti e nel tragitto, che si faceva sempre più lungo, abbiamo incontrato sempre più spesso, lungo le rive, vasti paesaggi di colline sassose cresciute in anni di estrazione. A una svolta del fiume abbiamo sentito un gran fracasso di ferraglie ed ecco la draga, un gigantesco insetto che si spostava lentamente lungo una sponda, in un assordante movimento di pulegge, ingranaggi, nastri trasportatori, in piena attività tra un rotolio di pietre e cascate d’acqua. E giù in basso il cassone sigillato che trattiene il fango col suo oro e che viene dissigillato a terra per i lavaggi definitivi del fango. Abbiamo assistito al cambio degli operai e intanto stava già arrivando il buio della sera che ingoia tutti i meccanismi, ma non il loro fracasso, finché festoni di lampadine si accendono tramutando la draga in una nave da crociera. Così ci è apparsa mentre la nostra lancia si allontanava a pieno regime, affrontando nel buio dell’acqua il lungo viaggio di ritorno fino a Istmina. Siamo arrivati a notte alta, ancora nella locanda dagli echi conradiani, ancora altre morsicature di cimici. Col sole già alto abbiamo lasciato il Rio San Juan e con la jeep siamo risaliti verso il Rio Atrato, verso Quibdò, dove ci aspettavano alcuni giorni di vacanza e di piccole esplorazioni sul fiume. Ma non è stato così: un telegramma per Mara Martinez, arrivato alla famiglia della segretaria, ha fatto saltare ogni programma. Qualcosa di più: ha fatto scoppiare un dramma. Il telegramma veniva dagli uffici dell’aeroporto di Cartagena e chiedeva a Mara di rientrare urgentemente per un avviso d’inchiesta giudiziaria che investiva l’amministrazione dell’aeroporto. Mara ne era sconvolta, sembrava presa dal panico. Ci ha gridato di far subito le valigie. Ma come ripartire? Il bimotore che faceva andata e ritorno da Medellín c’era una sola volta a settimana. Mara è corsa all’ufficio del telefono pubblico e si è messa in contatto con l’aeroporto di Medellín, chiedendo e ottenendo un aereo di servizio che decollasse immediatamente. Siamo montati sulla jeep e siamo corsi all’aeroporto senza poter contrastare l’ansia di Mara.
Ogni fretta è risultata del tutto inutile: il campo era deserto, la baracca era deserta, seduti sulle valigie abbiamo aspettato scrutando il cielo. All’orizzonte non passavano che uccelli, vaghi puntini nell’azzurro che ogni volta ci facevano sobbalzare. Eppure dopo un paio d’ore uno di questi puntini persisteva, si avvicinava, si ingrandiva… siamo balzati in piedi… era un aereo, un piccolo aereo che scendeva ondeggiando e, toccato il terreno, è sobbalzato verso di noi come su un campo di patate, fermandosi a una trentina di metri. Abbiamo fatto pochi passi indecisi… quell’aereo ci sembra terribilmente piccolo, un giocattolo… eppure lo sportello si aperto e ne è sceso un pilota, allampanato, in tuta di volo e con gli occhialoni, del tutto simile a Pluto, l’amico di Topolino. È avanzato verso di noi, sempre più sbigottiti, letteralmente piegato in due, con una mano che si teneva il fianco come ferito, ne udivamo i gemiti forti man mano che si avvicinava. «Il colpo della strega – ci dice subito torcendo la faccia – terribile, terribile… ma ce la farò, ce la farò… non preoccupatevi». Sempre piegato in due, si è presentato a Mara, ha buttato giù un antidolorifico e dato disposizioni severe per la partenza. Il problema era la distribuzione dei pesi a bordo. Eravamo ai limiti delle possibilità di quel monomotore a elica, quel piccolo Cessna 172, che doveva dare la scalata alla cordigliera. Ha chiesto il peso di ognuno di noi, ha valutato le valigie soppesandole con gemiti e smorfie di dolore, ci ha distribuito in posti perentori dai quali non dovevamo muoverci, ha bilanciato gli squilibri dei corpi con il peso delle valigie distribuite con pensierose correzioni. Alla fine di una breve meditazione ha deciso che non si poteva fare di meglio, ci ha consigliato di stare aggrappati a qualsiasi sporgenza che trovavamo sottomano e dopo un’ultima occhiata di controllo ha deciso di decollare. Ha acceso il motore, a passo d’uomo ha fatto un’inversione a U, ha aumentato la velocità, ha cominciato a correre, si ballava e si traballava sul terreno sconnesso, il motore, sempre più su di giri, è diventato un urlo disperato e assordante, si correva ancora di più, si correva, si correva, ma ancora non ci si alzava, fortuna che quel campo di patate era infinito, sentivo pregare la giovane segretaria e peggio ancora vedevo le labbra di Mara muoversi in fretta, anch’esse in preghiera, e ciò mi spaventava perché di voli se
ne intendeva, infine il velivolo si è staccato da quel terreno infame e ha continuato senza più scosse guadagnando in altezza, metro su metro, mentre il motore sembrava strozzarsi a forza di urlare. Mi sono affacciato al finestrino e ho visto il nastro argentato del Rio Atrato allontanarsi sotto di me. L’aereo stava prendendo quota. Il motore si è acquietato. Abbiamo respirato rilassati. Siamo andati dritti verso la cordigliera. Non voglio insistere con le emozioni che ritornavano violente non appena le montagne andine ci sono apparse davanti, una continua ricerca di quota con tonfi nei vuoti d’aria, pareti di roccia accanto ai finestrini, picchi aggirati, virate per i canyons e poi ancora su, sempre più su… finalmente l’altipiano con le prime coltivazioni di caffè, finalmente le prime case, finalmente Medellín e il suo aeroporto. Siamo sbarcati barcollando, tirandoci dietro le valigie. Nessuna pausa. Non abbiamo avuto tempo di tirare il fiato. Era in partenza un aereo di linea per Cartagena, che abbiamo preso al volo. Così è finito il viaggio. Tempo dopo ho rivisto Mara Martinez allegra e spensierata. Ogni preoccupazione pareva scomparsa. Quanto a me, non ho più dimenticato la Compañia Minera Chocó e il geometra di Tortona. Senza contare Pluto, il pilota di quel Cessna.
Diario, ultima pagina 1981 9 Febbraio Lunedì. Sierra Nevada: il fiume di S. Francisco e di San Antonio si chiama Rio Garavito. È un’affluente del Rio Ancho. 10 Febbraio Martedì. Eduardo Camacho: Las Bovedas, il forte, il palazzo del presidente. 11 Febbraio Mercoledì. Al cinema: Shining. 15 Febbraio Domenica. G. García Márquez a casa mia. Telefono pubblico non funziona, mi chiede di usare il mio. Telefona a Panama al Generale Torrijo, parlano della Canal Zone e dei problemi relativi al trasferimento della giurisdizione. Beviamo un caffè e restiamo a chiacchierare. Mi racconta molte cose sulla vita privata di Fidel e sulle misure di sicurezza. Verso sera da Divo. 16 Febbraio Lunedì. Meteorologia della Sierra Nevada. Lluvia: poquito Mayo. Después veranillo de San Juan hasta mitad de Julio. Después lluvia dura hasta diciembre. Carretera lado de Minja hasta antenna TV. 18 Febbraio Mercoledì. A la Isla del Pirata con Gabo e Mercedes. SI PUÒ PASSEGGIARE INVANO SOTTO LE PALME. 19 Febbraio Giovedì. Ritorno a Cartagena. 21 Febbraio
Sabato. A Turbaco. Oscar, Arsenio, Camacho e parenti. 22 Febbraio Domenica. Cartagena-Miami-New York. 23 Febbraio Lunedì. Roma.
Ritorno a Roma Avevo terminato la sceneggiatura de La Guerre des insectes, mi ero stancato di volare a New York o anche solo di telefonare, quel finanziamento non arrivava e non è mai arrivato, avevo deciso di tornare a Roma in cerca di lavoro. Ho salutato Marilù, che non avrei più rivisto per cinque anni. Daniele Senatore non si è più fatto vivo. Mi è capitato d’incontrarlo anni dopo, casualmente, a Roma. Dopo avventure così calde ma senza esito, non si ha più voglia di frequentare una persona che ti ricorda un fallimento. Anche se è stata una bella avventura di cui gli sono ancora grato.
Io e la televisione: La guerra degli insetti I miei rapporti con la televisione sono nati per via del produttore Arturo La Pegna, una persona divertente con la quale si diventava facilmente amici. Era un produttore pubblicitario abbastanza forte, legato alla pubblicità della Birra Peroni. Dopo La morte ha fatto l’uovo ero stato contattato da un produttore di Milano che mi aveva fatto girare dei caroselli, proprio grazie a quel film che aveva i ritmi, la fotografia, il montaggio e l’estetica pop della pubblicità. Poi sono stato contattato qui a Roma da La Pegna e anche per lui ho girato dei caroselli. Per due anni ho fatto i caroselli della Peroni, poi la Gilette e tanti altri. Alcuni erano progettati dal famoso studio pubblicitario torinese Testa. Il grande Armando Testa era davvero un uomo di talento, un vero creativo, maestro nella grafica e nella pittura. È stato in quel periodo che è nato il mio rapporto con la televisione. Tramite La Pegna ho avuto un contratto per girare uno sceneggiato tratto dal romanzo I beati Paoli di Luigi Natoli, ma è rimasto un progetto irrealizzato. Ho scritto solamente il copione. Un secondo contatto con la televisione, questa volta francese, è avvenuto quando andavo su e giù dalla Colombia a Roma: sempre attraverso La Pegna mi è stata commissionata, come detto, la sceneggiatura dal romanzo La Guerre des insectes di Jean Courtois-Brieux. Un insetto era entrato nelle granaglie imbarcate sulle navi e questo insetto si era riprodotto come un virus. Ho scritto la sceneggiatura a Cartagena. L’unico contatto diretto con la produzione francese è stato quando sono andato a Parigi a ritirare i soldi. Il film, realizzato in Francia nel 1981 da Peter Kassovitz, non ho mai avuto occasione di vederlo.
L’uomo della sabbia e Vampirismus Il primo progetto televisivo che è andato compiutamente in porto con la mia regia, alla fine degli anni Settanta, è stato L’uomo della sabbia. C’era stata la grande riforma della Rai qualche tempo prima e nel settore della fiction ho subito incontrato persone di qualità, ad esempio Canepari, piemontese, del Pci, una persona aperta e perbene, e Roberta Carlotto. Non era certo la Rai che è venuta dopo. Mi hanno detto che volevano realizzare delle trasposizioni televisive da racconti dell’Ottocento. Avevano chiamato addirittura Italo Calvino a scegliere i racconti delle eventuali trasposizioni. In questa lista, frutto della selezione di Calvino, ho trovato L’uomo della sabbia di E.T.A. Hoffmann, racconto che conoscevo. Il produttore esecutivo era ancora La Pegna. È stata una bella avventura. La stanza dove viveva il protagonista è stata allestita scenograficamente in un vecchio palazzo di via dei Prefetti, mentre gli esterni sono stati girati nella Viterbo medievale e nella foresta di Manziana. Gli attori erano Gerardo Amato e Saverio Vallone. In Rai sono rimasti soddisfatti e mi hanno richiamato per realizzare un altro film di questa stessa serie, Vampirismus, ancora una trasposizione da un racconto di Hoffmann. Ma stavolta era una produzione interna Rai perché le produzioni esterne costavano e i budget erano risicati. L’uomo della sabbia era stata una produzione esterna, Arturo La Pegna aveva un budget così piccolo che non riusciva a concludere il film e aveva chiamato me, il direttore della fotografia Blasco Giurato, lo scenografo Guido Josia e il resto della piccola troupe per proporci: «Perché non vi mettete in cooperativa, guadagnando poco, ma almeno riusciamo a finire il film perché i soldi non bastano?». Così in parte avevamo lavorato gratis. Forse a causa di questi problemi Vampirismus è stato prodotto internamente dalla Rai. Il film è stato girato questa volta non su pellicola, ma in elettronica, ed è stato affidato agli studi Rai di Napoli, dove ho trovato dei magnifici tecnici con i quali ho lavorato molto bene. È stato realizzato interamente in teatro. Francesca Archibugi era la
protagonista femminile: era una ragazzina sottile, magra, giovane. L’ho ripresa nuda, facendola illuminare in un modo perfetto. Naturalmente fare un nudo integrale in televisione in quegli anni non era così naturale. I funzionari si sono spaventati, mi hanno detto che dovevo tagliare. Messo alle corde, ho tagliato non poco, ma comunque un momento del nudo è rimasto, anche perché non era per niente offensivo, sembrava un quadro del Cranach, magnifico! Era una storia di morti mangiati al cimitero: un uomo sposato con una ragazza che di notte esce di casa come una sonnambula raggiungendo il vicino cimitero e poi torna misteriosamente pallida. Anche in questo mio film ho messo una nota erotica, sottolineata da un angosciato voyeurismo (con i buchi delle serrature come percorso di sguardi indiscreti) e soprattutto da un uovo, che doveva rappresentare la chiave di tutto. Mi ricordo che Canepari ha esclamato: «Ah!… Ma tu hai la mania delle uova! È il tuo logo personale!». Le uova facevano parte dei giochi erotici… Bataille, sempre Bataille.
Inventando storie con David Grieco Claudio Manenza, che era stato fotografo de La morte ha fatto l’uovo, lavorava in un ufficio di produzione della Rai che progettava programmi musicali. Probabilmente per via di Manenza, mi hanno chiamato e mi hanno chiesto di girare un documentario musicale su Lucio Battisti, all’interno di una serie chiamata Videosera, ideata da Claudio Barbati e dallo stesso Manenza. Io ho accettato ben volentieri, anche perché la musica di Battisti mi è sempre piaciuta. Essendo un’inchiesta giornalistica, dovevo scegliere il giornalista con il quale avrei lavorato. Mi è venuta in mente una rubrica, scritta molto bene, dedicata alla musica rock su «l’Unità». Non è che fossi particolarmente attratto dal rock, ma la scrittura buona la so riconoscere. L’autore di quella rubrica era David Grieco, che non conoscevo. L’ho contattato e ci siamo dati appuntamento a piazza Risorgimento, all’angolo con via Cola di Rienzo, nella classica maniera del giornale in mano per riconoscersi. Abbiamo subito fraternizzato e abbiamo cominciato a lavorare insieme per questo documentario dal titolo A proposito di Lucio Battisti. Era un documentario su Battisti ma senza Battisti perché da tempo aveva smesso di concedere interviste e di apparire in televisione. Ci siamo appoggiati sulle sue canzoni e sulle persone che lo avevano conosciuto. Abbiamo cominciato una peregrinazione con una piccola troupe per realizzare le varie interviste. Ci muovevamo verso Milano e Genova. La più importante è stata quella con Mogol, realizzata a casa sua. Ho girato altro materiale che faceva base di montaggio per le canzoni. Ricordo di aver girato a Castelnuovo di Porto, sulle scale, per i vicoli, sui palazzi. Era il 1980. Contestualmente è nata un’amicizia con Grieco e insieme ci siamo messi a scrivere storie. Una di queste era ispirata a un fatto di cronaca: un giudice si era arrabbiato terribilmente con un imputato perché mentiva spudoratamente. Da qui ci è venuta l’idea di un giudice che viene cacciato dalla magistratura perché durante un processo è talmente indignato dalle menzogne di un imputato che gli rompe in testa una bottiglia d’acqua minerale. Come in tutti i telefilm, perde la
moglie, anche se le rimane amico, e finisce per vivere come un barbone su un galleggiante del Tevere, grazie all’ospitalità di uno zio. Vive in una cabina dei bagni, dove in qualità di avvocato-detective riceve i suoi clienti, piccoli balordi che lui a suo tempo ha condannato, ma che in fondo gli sono rimasti amici. Il protagonista era Jean-Luc Bideau. A interpretare la moglie separata, ma sempre tollerante con il marito, era Mimsy Farmer. Tra gli attori c’era anche Claudio Cassinelli, morto pochi anni dopo in un incidente aereo. Il luogo dove ho girato più spesso era sotto il ponte di piazza Cavour, dove c’era il galleggiante. Ho diretto Quando arriva il giudice nel 1984. La serie televisiva è stata interamente progettata e scritta da Grieco e da me. Quando mai un autore progetta una serie e scrive cinque storie, va alla Rai e gli dicono di sì? Ve la immaginate oggi una situazione simile? Nel 1990 ho realizzato, sempre per la Rai, Non aprite all’uomo nero, un thriller-noir scritto insieme all’amico Grieco. Durava un’ora e mezza e aveva come attori principali Giuliano Gemma e Aurore Clément. Una storia che partiva da sedute psicanalitiche per aggrovigliarsi in verità nascoste, accompagnate da due omicidi, con pesantezze dichiarate da film di genere. Dal giorno del nostro primo incontro con un giornale in mano per riconoscerci in piazza Risorgimento, tra me e Grieco è scattata una sintonia che mi ha strappato dalla solitudine autoriale per portarmi sui terreni concreti dell’offerta televisiva. Come fiammiferi che urtandosi tra loro sfrigolano una fiammata violenta, la nostra immaginazione si è scatenata in una continua invenzione di storie. Merito del disinibito approccio di David ai contenuti narrativi e alla sua diretta conoscenza psicanalitica, generatrice di trame spericolate. Gli andavo dietro volentieri. Battere sentieri nuovi mi eccitava. David aveva circa trent’anni meno di me e i suoi sentieri imparavo a conoscerli. Insomma è stato un periodo di grande creatività. Alcune storie sono diventate vere e proprie sceneggiature rimaste sepolte. Ricordo un paio di titoli: Madre paura e Terapia del delitto.
Il segno del comando Con Il segno del comando sono passato dalla Rai alla Fininvest. C’era sempre di mezzo La Pegna, che aveva in mano i contratti con la Peroni, per cui aveva un certo potere ed era un cliente della Fininvest per conto della Peroni. La Pegna aveva l’ambizione di fare il produttore tout court e aveva già prodotto per la televisione La baronessa di Carini, un feuilleton, remake dello sceneggiato degli anni Settanta L’amaro caso della baronessa di Carini. Gli è allora venuto in mente di fare il remake anche di un altro sceneggiato della Rai degli anni Settanta, Il segno del comando. Nel frattempo avevo fatto conoscere a La Pegna il mio amico David Grieco. La Pegna aveva una figlia molto bella sui 22-23 anni di nome Olivia. Grieco aveva messo gli occhi sulla ragazza, gli piaceva molto, io ovviamente non ne sapevo nulla. Un bel giorno La Pegna mi ha chiamato attraverso Grieco e mi ha offerto di realizzare il remake de Il segno del comando. Io inizialmente ho detto di no, non m’interessava perché era uno sceneggiato, non era roba per me. È venuto allora a casa mia David Grieco dicendomi: «Ma tu sei scemo, non buttare via il lavoro così! Lo dobbiamo fare assolutamente! Non preoccuparti, scrivo io il copione». Probabilmente oltre alla voglia di lavorare, voleva stare in qualche modo legato a questa Olivia! In quel periodo io ero impegnato a scrivere dei racconti, non avevo molta voglia di affrontare un nuovo film e per di più uno sceneggiato. Grieco da gran lavoratore ha preparato questo copione in un mese e mezzo. L’ho letto e ho scoperto con stupore che era completamente diverso dall’originale. Intanto la vicenda era ambientata a Parigi e non più a Roma. Ricalcava le vicende del libro di Giuseppe D’Agata e quindi era un feuilleton, però aveva dei caratteri non banali. Poi il fatto di poter stare a Parigi, città che ho sempre adorato, mi ha fatto accettare la proposta. Ci siamo messi alla ricerca degli attori e tra le varie possibilità abbiamo scelto Robert Powell. Aiutati da Olivia, abbiamo contattato altri attori per formare un cast internazionale. Sempre con Olivia sono andato a fare dei sopralluoghi non solo a Parigi, ma anche a Londra, perché
inizialmente il copione prevedeva alcune scene londinesi all’inizio. Poi non se ne è fatto più nulla perché sono riuscito a trovare un luogo a Parigi identico a quello descritto in sceneggiatura. Contemporaneamente si è sviluppata la storia d’amore tra David e Olivia. Per cui è una storia parallela: la nascita di una storia d’amore e quella di un film! Io nel frattempo mi sono stabilito a Parigi e Olivia ha seguito la produzione per conto della C.E.P., la società di suo padre. Tutta la troupe era francese, anche il personale di produzione. Mi hanno dato un direttore della fotografia da sogno: Edmond Richard. Aveva fatto film con Buñuel e con Orson Welles! Era una persona alla mano, di immediata comunicazione, all’incirca della mia stessa età. Mi sono trovato con un ottimo cast e ho cominciato a girare. Non ho mai toccato una parola della sceneggiatura di David Grieco, ho rispettato il copione esattamente com’era la prima volta nella mia vita. Ho lavorato con molto distacco, cercando l’immagine, la luce, la bella inquadratura fotografata da Edmond. A Roma ho avuto un ottimo montatore, Franco Fraticelli. Le musiche, molto belle, le ha composte Luis Bacalov. Il risultato finale è stato un prodotto di grande impatto visivo, nonostante fosse un feuilleton vecchia maniera. Un racconto di gusto ottocentesco benché in panni moderni, con delle trovate visive interessanti. È stato un lavoro pesante, duro, però mi sono divertito a farlo, con un finale però spiacevole. Gli uomini della Fininvest non si erano mai fatti vivi, era venuto solo una volta un ufficio stampa per fare due chiacchiere, poi erano scomparsi e io non ne ho saputo più nulla. Il film durava tre ore, quindi era strutturato in due puntate, ma prima ancora della fine delle riprese è nata una guerra tra Alberto La Pegna e la Fininvest. Il motivo? Il film era visto come una produzione imposta, ricattatoria, al di fuori delle strutture decisionali della Fininvest. Terminato il film, nessuno ne ha più parlato e per un paio d’anni non l’hanno mandato in onda. Sono venuto a sapere poi che è continuata una lotta sorda tra le strutture della Fininvest e La Pegna, una lotta durata due anni. Tra l’altro, io avevo un contratto con La Pegna, non con la Fininvest, con la quale non avevo alcun rapporto. Poi La Pegna mi ha detto di essere sceso a compromessi con la Fininvest e che forse il film sarebbe andato finalmente in onda. In onda ci è andato, ma
tagliato della metà, in una sola puntata, a Ferragosto! È stato distrutto! Io conservo per fortuna la versione integrale e ho potuto almeno farlo vedere a qualche amico… David e Olivia? Si sono sposati e hanno avuto tre figli.
L’ispettore Sarti La prima serie de L’ispettore Sarti, interpretato da Gianni Cavina, non l’ho mai vista né prima né dopo. Per la seconda serie hanno chiamato me perché era una coproduzione tra la Rai e la televisione tedesca e in Germania godevo di una certa stima per via dei miei vecchi film, che in quel Paese avevano avuto una notevole risonanza. Se sei vivo spara, quando è uscito in Germania, così come in Giappone, è diventato molto popolare, tanto che qualche mese dopo l’uscita del film una troupe televisiva tedesca era venuta a intervistarmi a Roma! La Rai ha fatto il mio nome e la produzione tedesca ha accettato. È stata l’unica ragione per cui ho potuto fare questa serie. Il produttore esecutivo era Leo Pescarolo, che mi ha chiamato e mi ha mandato in Rai, dove ho incontrato Max Gusberti che si occupava di coproduzioni. Tutto bene. Ma quando ho potuto leggere i sei copioni, scritti da coppie di sceneggiatori diverse (uno firmato da Paolo Virzì, che non aveva ancora esordito alla regia), sono rimasto sbalordito, non mi piacevano per niente, o se volete non era roba che si adattava al mio tipo di cinema. Ho chiesto la possibilità di risistemarli e come un matto mi sono buttato a lavorare da solo, senza che risultassi accreditato. Ho riscritto scene intere e una quantità di dialoghi. Nell’insieme è stato un tour de force pauroso perché sono riuscito a fare cinque film di un’ora e mezza in cento giorni lavorativi… una media di venti giorni a film. Ero sfinito! Anche perché il cast (alcuni attori erano tedeschi) era sempre diverso, ad eccezione del protagonista, Gianni Cavina, della sua ragazza nel film, Cristiana Borghi, e dell’aiutante del commissario, che non era più il già previsto Tino Schirinzi, che si era ammalato, bensì Salvatore Calaciura, un bravissimo attore siciliano. Secondo un preaccordo produttivo il sesto film è stato fatto in Germania, diretto da Marco Serafini, un regista di casa in quel Paese. I tedeschi sono rimasti più che soddisfatti. Non c’è stato alcun problema di postproduzione, anche perché sono andato io personalmente in moviola a tagliare quello che c’era da
tagliare, dando così i ritmi insieme al montatore Giancarlo Cersosimo. Cavina era un attore con grande fragilità emotiva, ma era proprio questa fragilità che lo rendeva così bravo e sensibile, un eccellente attore, forse non ricco di glamour, ma di forte presenza sullo schermo. Durante le riprese ho incontrato Loriano Macchiavelli, venuto qualche volta sul set. Dietro il mio lavoro c’erano i suoi racconti.
I miei racconti nel cassetto Era dai lontani tempi de «La Cittadella» e de «Il Politecnico» che non scrivevo più, se non per il cinema. Negli anni Ottanta mi è venuto un bisogno impellente. L’archivio della mia memoria si era messo a ribollire, colmo e traboccante di cose che non dovevo perdere perché mi pareva di buttare via la mia stessa vita. Soprattutto mi si ripresentavano i momenti della mia educazione esistenziale, cioè la guerra. Dovevo ritrovarmi e confermarmi. Non potevo non scriverne. Mi sono messo al lavoro, ne ho ricavato alcuni racconti e, sulla spinta, altri, successivi alla guerra. Ho scritto per me stesso, non per pubblicare. Ho recuperato nel gruppo un paio di quelli vecchi, già pubblicati su «Il Politecnico», e con il titolo 14 racconti ho realizzato col computer un libro in una dozzina di copie che ho fatto circolare fra gli amici e le persone che me lo chiedevano. Sono piaciuti, hanno interessato, alcuni sono stati richiesti e pubblicati qua e là, nel tempo, su giornali e riviste. Ricordo «Nuvole» dello storico Giovanni De Luna, «Studi e ricerche di storia contemporanea», rivista di Bergamo, «Diario» di Deaglio, «Alias», l’inserto de «il Manifesto», altri che non ricordo. Quel mio libro semiclandestino, scoperto da una ragazza in una biblioteca di Bergamo, è stato anche oggetto di una tesi di laurea. Sono molto legato a quei 14 racconti. Sono il mio tesoro segreto, la mia vera autobiografia, quella profonda e nascosta che dona un senso definitivo ad alcuni capitoli della mia vita. Una autobiografia di cui io solo detengo la chiave. Mi conforta quanto scrive Proust nella Recherche: «La vera vita, la vita finalmente riscoperta e illuminata, la sola vita, dunque, pienamente vissuta, è la letteratura».
All’inferno coi soldi! De L’ispettore Sarti Pescarolo era rimasto soddisfatto anche perché nelle riprese non avevo sgarrato di un solo giorno malgrado il tour de force. Soddisfatti anche alla Rai, nessuna contestazione, tutto perfetto. Allora Pescarolo mi ha detto: «Voglio fare un film con te. Perché non scrivi una bella storia forte sull’usura che da un po’ di tempo è un argomento che sta su tutti i giornali?». Ho accettato con entusiasmo. Ho buttato giù uno scalettone sulla cui base, con la collaborazione di Berto Pelosso, ho scritto una sceneggiatura molto forte, pulp, ambientata nel mondo duro dell’usura con un collegamento al mondo del cinema. Il titolo: All’inferno coi soldi!. Ma Pescarolo non sembrava soddisfatto, continuava a suggerire cambiamenti. Ho scritto una seconda versione e poi una terza, sempre con le critiche di Pescarolo, al punto che mi è venuta la convinzione che volesse prendere tempo in attesa di trovare un distributore con relativo anticipo di finanziamento. E intanto mi faceva lavorare a vuoto! È finita con una terribile litigata e con la rottura di ogni rapporto. Avevo buttato via un anno di lavoro e non ero nemmeno pagato… Peccato! Il mio era un film tutto racconto, che travolgeva molti schemi… Dopo un po’ di tempo, sbollita la rabbia, ho ripreso in mano il copione e mi sono detto: «Questo è un bellissimo romanzo pulp, di quelli forti». Ricominciando da capo, mi sono messo al lavoro e l’ho scritto in alcuni mesi come racconto-romanzo. Gli ho dato un nuovo titolo, Effetti e scadenze. Si fa leggere piuttosto bene perché alla base c’è il montaggio di una sceneggiatura a dettare i ritmi del racconto. Anche questo l’ho stampato da solo. Sono un po’ infantile: a me i libri piacciono, il computer mi piace, riuscire a fare un libro con il mio computer è il massimo della soddisfazione. Ne faccio qualche copia e dico: «Ecco il mio libro!». Il libro ce l’ho e poi lo presto per farlo leggere. Non ho mai perseguito lo status dell’autore di mestiere, mai, né nel cinema né nello scrivere. Non chiedetemi il perché, non lo so. O forse sì: far parte di
uno status sociale, in cui una conclamata professione fatalmente mi recinge, mi soffoca e mi deprime.
Addio vecchi denti, nuovo cinema Avevo giurato a me stesso di non perdere più tempo né con produttori cinematografici, né con commissioni ministeriali e relative clientele, né con funzionari della Rai sacerdoti del marketing, né con la brutalità commerciale dei distributori. Stop. Basta Cinema. Basta Televisione. Sono tornato con sollievo al mondo solitario della scrittura letteraria, mia vecchia passione. Eravamo già nel 2002. Da tempo sognavo, come passatempo diversivo all’impegno letterario, una videocamera. Mi tratteneva dall’acquisto il timore di finire anch’io col fare deprimenti filmetti sulle vacanze estive. Eppure mi ero innamorato di quella piccola Canon che vedevo sempre esposta nella vetrina di un negozio proprio di fronte allo studio del dentista che in quel periodo frequentavo. In un giorno indimenticabile del mese di gennaio sono andato dal dentista. Nell’unica seduta di un pomeriggio ho subito l’estrazione di 12 denti, gli ultimi che possedevo. Alcuni non volevano venir via. Si è dovuto intervenire con trapani, scalpelli a percussione, leve, tenaglie. Uscito da quel gabinetto di tortura, ubriaco di novocaina, sono passato davanti alla vetrina, dietro la quale luccicava la Canon. Avevo la bocca piena di sangue e gli occhi di lacrime. Sentivo il disperato bisogno di una compensazione consolatoria, di qualcosa da amare. Sono entrato nel negozio e ho comprato la Canon MVX1i al prezzo di 2.000 euro. Tornato a casa, mi sono vergognato del mio cedimento emotivo che aveva generato un inconsulto atto consumistico di tipo high-tech. Perciò, senza neanche guardarla, ho nascosto la Canon in un armadio. Col passare dei giorni, superato lo shock dell’estrazione e dell’acquisto, la Canon è passata dall’armadio alla mia scrivania, dove è rimasta inattiva per un bel po’, tra i fogli da scrivere e gli amati libri. Ogni tanto ci giocavo. L’accendevo e cercavo nel mirino immaginarie inquadrature. Finivo fatalmente sugli oggetti che avevo intorno.
Abito al quarto piano e la mia casa è sempre piena di luce, una luce che si modifica di ora in ora. Accendevo, guardavo, mi incantavo. Gli oggetti di tutti i giorni nella videocamera prendevano un’enorme importanza. L’effetto macro li esaltava. Messi insieme costituivano un mondo. Il mio mondo. Ci potevo fare un film. E il protagonista da mettere in relazione con gli oggetti? In quel periodo abitavo da solo. Non avevo scelta. Io stesso. E l’antagonista per accendere la scintilla drammaturgica? Quell’altro, quello che vive con ciascuno di noi, il nostro doppio. Cioè ancora io. Il cast era al completo. Non mi mancava niente. È stato così che ho fatto Doctor Schizo e Mister Phrenic. Un tema semplice, riassunto dal titolo, un tema che tutti conoscono perché tutti in qualche modo lo vivono. Alla fine ho messo in apertura un cartello con il nome di un’immaginaria casa di produzione. Avendo fatto tutto da solo, non poteva essere che la Solipso Film. Nel giro di cinque anni ho girato sette di questi film da me stesso interpretati, alcuni a viso scoperto, altri a viso mascherato, altri in modo misto con una moltiplicazione di personaggi nello stesso film. Qualche proiezione privata, qualche festival, addirittura un paio di volte il festival di Venezia per due dei film, qualche affaccio sul web con interviste… insomma i film si sono fatti conoscere e hanno destato un certo interesse. Infine un piccolo miracolo. Sono usciti in un cofanetto di due dvd editi dalla Ripley’s Home Video con il titolo by Giulio Questi. Con mia eterna gratitudine e affetto al coraggioso produttore Angelo Draicchio.
La luce invece dell’inchiostro Racconti cinematografici in prima persona nei quali l’io narrante è travestito da io narrato. Questa è stata la mia prima e immediata definizione dei miei film digitali. Il concetto di racconto si è subito imposto. Forse perché avevo appena scritto racconti letterari a quella stessa scrivania su cui avevo appoggiato la videocamera, la stessa partenza della scrittura. Ho già detto che in quel periodo vivevo da solo e la mia casa disordinata era piena di oggetti, di libri, di scaffali. La mia casa era come una scrivania allargata su cui scrivevo con la videocamera, la luce invece dell’inchiostro. I film della Solipso nascono allo stesso modo della scrittura: avendo l’editing sul computer, appena giro delle scene, le scarico subito e le rivedo, le cose che non mi piacciono le rigiro, oppure no, comunque abbozzo già il montaggio, perché giro montando. Non è che giro delle scene con tante angolazioni e poi un montatore le monterà, qui tutto segue un mio discorso, in pratica un discorso di scrittura cinematografica. Controllo subito il periodo che ho girato e lo correggo, dopodiché passo al periodo successivo, come nella scrittura con la penna. Quando scrivi che fai? Cancelli, torni indietro, rileggi, sposti magari una frase. Così come il mio film, periodo dopo periodo. Ho usato iMovie, che ho adorato e ho a lungo adoperato. Ora, per ragioni di aggiornamenti di software, sono passato all’uso di Final Cut, però adoro il vecchio iMovie perché è come la vecchia moviola: scarichi le inquadrature che vanno tutte in uno scaffale, come nelle vecchie moviole, dove c’erano i rullini delle inquadrature con il numero scritto con l’inchiostro bianco sulle code che pendevano… cara vecchia moviola! caro vecchio iMovie!
Pietà per il protagonista Già la scrittura o il teatro possono espletare funzioni salutari per la psiche, ma con il cinema solipsistico le funzioni risultano potenziate, venendo messo in gioco il tuo corpo e il tuo viso in modo ravvicinato. La videocamera è spietata. Fruga ogni dettaglio della tua figura, può farti inorridire, non ti sei mai visto così, ti credevi diverso, più accettabile, più bello. Cancelli tutto e rifai. Ancora peggio. Niente da fare. Rinunci allora all’assoluto e ti accontenti del relativo. Non guardi più se ti piaci, ma se sei funzionale alla circostanza drammaturgica, se l’espressività è sufficiente, se è in grado di venire assorbita dal contesto. Interviene una sorta di “pietas” per te stesso, ne accetti i difetti, li riconosci come connotati della tua persona. In altre parole, fai una vera conoscenza di te, diretta, senza equivoci o bugie, non più come riflesso distorto e approssimativo dell’inespressa accettazione da parte degli altri. Insomma, una bella cura psicanalitica. Mi si potrà obiettare: non esiste già lo specchio per questo? No. È un’altra cosa. Nello specchio ci si riconosce, non ci si conosce. Nello specchio sei come appari agli altri. Tu stesso che guardi sei un altro. E altro è anche quello che viene guardato. Sei sempre in una posa frontale. Anche se salti o balli sei sempre in posa, sei sempre come ti vedono gli altri. Sono le angolazioni delle inquadrature, sono le forzature dei dettagli che ti disvelano a te stesso. L’obiettivo della videocamera ti vede e ti registra di fronte, di profilo, di nuca, dall’alto, dal basso, esplora il tuo orecchio, il tuo naso, la tua bocca. Non c’è scampo. Sei quello che sei. Devi imparare ad accettarti.
Ultima provocazione Mi domando: perché il cinema italiano è così piccolo e conforme? Magari grazioso, riuscito, ma conforme, spaventosamente conforme, perché? Perché è tutto basato su finanziamenti esterni alla creazione del film e ogni finanziamento detta la sua legge. Primo finanziamento: la commissione ministeriale che dà l’ok secondo il conforme trend culturale del momento. Poi i soldi che ti dà la televisione, altro marketing che arriva immediato sul film, poi il distributore legato agli attori… chi sono gli ultimi attori giovani che hanno fatto guadagnare tanti soldi? Allora quelli ci devono essere. Tutto condizionato, per cui non c’è più invenzione, non c’è più creatività fuori dalle regole correnti. Magari roba ben fatta, perfino bella, ma piccola e conforme. Penso a certi improvvisati produttori del dopoguerra che ipotecavano la propria casa per amore del cinema, che spesso era l’innamoramento per una donna, per un’attrice. Che bello! Un film che nasceva per un atto d’amore, a volte sciagurato! Non è che la rovina del cinema italiano è il finanziamento pubblico?… Aiuto!! Mi stanno massacrando!…
Un rapido saluto Rileggendo dall’inizio queste pagine mi rendo conto solo ora che le persone citate sono quasi tutte morte. Sembra il resoconto da una fossa comune. Mi affretto perché sento franare il terreno sotto i miei stessi piedi. Le affermazioni di Giulio Questi sull’uso di droga e alcool sono frutto di esperienze personali ed esprimono opinioni egualmente personali. * Prefazione di Giulio Questi al volume curato da Antonio Bruschini & Federico de Zigno, Western all’italiana. The Wild the Sadist and the Outsiders, Glittering Images - Edizioni d’essai, Firenze 2001, pp. 5-7.
Filmografia commentata
Cinema Città alta (1949) Regia: Giulio Questi, Corrado Terzi; operatore: Arrigo Cinotti; origine: Italia; produzione: Record Film; durata: 13’ «Nasce, firmato dai due, girato nel 1948 e presentato con successo nella selezione ufficiale italiana alla Mostra di Venezia del 1949, distribuito nelle sale nel 1950, Città Alta, un documentario che ha meritate pretese “creative” e che non si limita certo a registrare luoghi (comuni) e momenti di vita (folkloristici) della Bergamo medievale, come sarebbe stato a uso a quei tempi in cui il cortometraggio sovente debordava nell’enfasi. La critica del tempo, quasi tutta favorevole (da Alberico Sala a Franco Gandini), sottolinea ora l’aspetto neorealistico del cortometraggio […], ora la sua genuinità localistica, ora la successione di antiche stampe, ma oggi è più facile avvertire la derivazione di Città Alta da ben altri modelli: il cinema francese del primo Carné […], del primo Clair (con quella musica da organetto di Barberia spesso presente) o – per risalire più addietro – del primo Cavalcanti, quello di Rien que les heures. Certo v’è un po’ di retorica nel commento (peraltro letto benissimo dallo stesso Corrado, che lascia memoria della sua voce giovanile), certo v’è qualche eccesso di inquadrature sghembe, certo v’è qualche ingenuità didascalica, ma l’insieme, oltre che gradevole e stimolante, resta una bella testimonianza di realismo poetico, tanto per restare nell’ambito di un cinema da sempre caro a Terzi» (Lorenzo Pellizzari, a cura di, Corrado Terzi. La quadratura del cinema. Scritti 1940-1995, Centro Cinema Città di Cesena, Società Editrice «Il Ponte Vecchio», Cesena 1997, p. 18). Sicilia (1950) Regia: Giulio Questi, Corrado Terzi; aiuto regia: Giuseppe Signorelli; fotografia: Enzo Oddone; musica: Mario Nascimbene; origine: Italia; produzione: Touring Club Italiano; durata: ?
La vita e le bellezze naturali dei piccoli paesi siciliani: Sant’Alfio, Taormina, Castelmola, Acitrezza, Riposto, Giarre. Cortina (1950) Regia: Giulio Questi, Corrado Terzi; fotografia: Enzo Oddone; origine: Italia; produzione: Touring Club Italiano; durata: ? Le bellezze di Cortina. Vita di ogni giorno (1950) Regia: Giulio Questi, Corrado Terzi; fotografia: Enzo Oddone; origine: Italia; produzione: Romor Film; durata: 12’ Conosciuto anche con il titolo Storia di un giorno. Il documentario illustra la vita di ogni giorno degli operai delle fabbriche di Milano. Viareggio (1952) Regia: Giulio Questi, Corrado Terzi; fotografia: Enzo Oddone; origine: Italia; produzione: Touring Club Italiano; durata: 9’ La vita balneare e la bellezza della spiaggia. Donne di servizio (1953) Regia: Giulio Questi; fotografia: Pier Ludovico Pavoni; origine: Italia; produzione: Gisella Salvati; durata: 12’ «Donne di servizio rifiuta la definizione di “documentario”: è qualcosa di diverso, qualcosa di più. […] In trecento metri Giulio Questi è riuscito ad impostare un argomento e a svolgerlo fino in fondo. Le donne di servizio di una grande città sono in questo film con tutta la loro semplicità, il loro romanticismo domenicale e il loro pesante lavoro dei rimanenti giorni della settimana: lunghi giorni sempre uguali, dall’acquaio alla sala da pranzo, la spesa, la cucina e il bucato. Vengono dalla campagna, hanno voglia di lavorare, sono sole in una città grande che non conoscono. Cambiano i padroni ma il lavoro non cambierà mai, si muovono affaccendate in ambienti borghesi nitidi e lussuosi, come loro non avranno nemmeno dopo sposate. Ma ciò che le rinfranca è questo pensiero di una casa propria e di un uomo. Eccole, la domenica – giornata tutta per loro – alla scoperta della città,
che è poi la scoperta “dell’uomo”. Giulio Questi ha dato prova del suo rigore artistico e della sua misura poetica svolgendo questo tema sentimentale con un’opportuna scelta d’immagini. Là dove sarebbe stato facile – e rovinoso – fare dell’umorismo alle spalle del personaggio e della sua condizione umana, Questi ha saputo esprimersi con spirito e comprensione. E ne è risultata forse la parte più bella, più intensa e poetica del film. Le giovani donne di servizio passano la domenica al ballo o ai margini della città, dove c’è un palmo di erba dove sdraiarsi e ascoltare le belle frasi d’amore, tanto simili a quelle lette nel giornale a fumetti. […] E mentre sogna a occhi aperti, la mano in quella dell’innamorato, la donna di servizio torna ad essere la ragazza della provincia, si sente felice. E anche se l’innamorato un giorno la pianterà, anche se nel dolore vorrà buttarsi nel fiume […], la ragazza tornerà a sognare e ad innamorarsi, la domenica, al ballo o su un palmo di erba, nel sole. E passando davanti ai lussuosi negozi di abbigliamento si fermerà ad ammirare il bianco abito da sposa. Al di là di tutto quel candore di veli c’è il compimento dei suoi desideri, che una delusione d’amore e la fatica di ogni giorno non bastano a cancellare» (C.[orrado] T.[erzi], in «Il Lavoratore Bergamasco», 2 gennaio 1953; poi in Pellizzari, a cura di, Corrado Terzi. La quadratura del cinema. Scritti 1940-1995, cit., pp. 179-180). Giorni di fiera (1955) Regia: Giulio Questi; fotografia: Giulio Gianini; origine: Italia; produzione: Cinestudio A.B.C.; durata: 10’ Rassegna dei giorni di animazione e aspetti creati dalla folla in visita nella più grande Fiera d’Italia e di Europa: Milano. Pappo, Peppe e Pippo in un giorno di paga (1956) Regia: Giulio Questi; fotografia: Giulio Gianini; musica: Gino Marinuzzi Jr.; direttore produzione: Giuliano Montaldo; origine: Italia; produzione: Lo Specchio; durata: 10’ Interpreti: Giancarlo Cobelli, Massimo De Rita, Dario Fo I tre protagonisti, Pappo, Peppe e Pippo, in una pausa di lavoro al cantiere edile, stanno mangiando. Risulta chiaro dalle
loro azioni che Pappo è un goloso, Peppe un avaro e Pippo un saggio. Suona la sirena e i tre riprendono il lavoro. Alla fine della giornata si recano alla cassa per ritirare la paga. Più tardi Pippo, a casa, sta lavando e stirando i soldi. Pappo esce dall’osteria ubriaco e si gioca tutta la paga ai dadi. Peppe durante la notte si sveglia di soprassalto sentendo i topi che gli stanno mangiando i soldi sotto il letto, con sua grande disperazione. Pippo il saggio, invece, nella sua casetta con la famiglia, sta dividendo il salario per il fabbisogno quotidiano della casa. Solo lui ha trovato il giusto equilibrio nella vita. Argini (Omaggio al Tevere) (1957) Regia: Giulio Questi; fotografia: Giulio Gianini; musica: Mario Nascimbene; direttore di produzione: Giuliano Montaldo; produzione: G. Questi; durata: 9’ Conosciuto anche con il titolo Sotto i ponti. Argini, insieme a Om ad Po e Avamposto, è stato presentato alla 66ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (2009), all’interno della retrospettiva Questi fantasmi 2, curata da Sergio Toffetti e organizzata dalla Cineteca Nazionale. «Omaggio al Tevere spiega solo in parte il soggetto, il cortometraggio è dedicato non al fiume della città ufficiale ma agli aspetti minori e oleografici della vita periferica e suburbana» (66. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica 2009, Electa, Milano 2009, p. 329). Giocare (1957) Regia: Giulio Questi; fotografia: Giulio Gianini; origine: Italia; produzione: G. Questi; durata: 9’ Indagine affabile e seria nel mondo che sta al di sotto dei 10 anni, quell’età magica in cui l’uomo costruisce i primi incancellabili simboli della propria personalità. Nei grandi cortili, nei prati liberi della periferia, nei vicoli angusti della vecchia città, nelle soffitte polverose, nei giardini pubblici, nel chiuso delle stanze, allorquando il gioco del bambino diventa creazione solitaria. Vincitore del Nastro d’argento quale miglior cortometraggio.
Viaggio nelle terre basse (1958) Regia: Giulio Questi; fotografia: Giulio Gianini; origine: Italia; produzione: Documento Film, durata: 10’ Visioni d’Olanda intese a mettere in evidenza le caratteristiche note e quelle meno note di questo Paese così originale che ha per montagne le nubi e il cui paesaggio è caratterizzato da una grande dimensione fatta di terra e di cielo. La storia degli uomini che la popolano è la storia di una lotta secolare contro il mare, una storia di marinai e pescatori diventati contadini. Amsterdam (1958) Regia: Giulio Questi; fotografia: Giulio Gianini; origine: Italia; produzione: Documento Film; durata: 10’ Impressioni di una visita ad Amsterdam, osservata nei suoi diversi aspetti di città moderna, città portuale, città industriale, città artistica. Il segreto di questa tipica metropoli dei Paesi Bassi e il fascino sono penetrati e svelati dalla macchina da presa che fruga negli angoli più caratteristici e significativi. Valdarno ’58 (1958) Regia: Giulio Questi; fotografia: Giulio Gianini; origine: Italia; produzione: Documento Film; durata: 10’ Nel Valdarno è in corso una tipica rivoluzione industriale. Le macchine hanno sostituito l’uomo nell’escavazione della lignite. Dove prima lavoravano 2000 minatori, ora lavorano alcune macchine e pochi tecnici. Il mestiere del minatore in Valdarno è praticamente finito. Gli uomini sono costretti a cercarsi un altro lavoro. Il documentario indaga sui problemi economici e umani sorti nella regione in seguito all’avvento delle macchine. Om ad Po (1958) Regia: Giulio Questi; fotografia: Giulio Gianini; musica: Mario Nascimbene; direttore di produzione: Giuliano Montaldo; produzione: Maria Luigia Carteny; durata: 10’ I protagonisti del documentario sono, appunto, gli om ad Po, i «vecchi sdegnosi e irascibili; uomini che, abbandonata la
famiglia e il paese, hanno legato il proprio destino alle fortunose vicende del grande fiume, asserragliandosi in un esilio polemico e senza compromessi» (voce off). Avamposto (1959) Regia: Giulio Questi; fotografia: Giulio Gianini; montaggio: Enzo Alabiso; organizzazione: Giuliano Montaldo; produzione: M. L. Carteny; durata: 11’ Conosciuto anche con il titolo Metano biologico. «Il ritmo delle stagioni, la vita nei suoi aspetti più minuti e quotidiani nel paesaggio metafisico del Po di Tolle, la striscia di terra più desolata e suggestiva del Delta» (66ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica 2009, cit., p. 329). Viaggio di nozze, episodio de Le italiane e l’amore (1961) Regia: Giulio Questi; soggetto e sceneggiatura: G. Questi; fotografia: Marcello Gatti; musica: Gianni Ferrio; montaggio: Eraldo Da Roma; suono: Amelio Verona; direttore di produzione: Luigi Ceccarelli; origine: Italia/Francia; produzione: Maleno Malenotti per Magic Film, Consortium Pathé; durata: 11’ Interpreti: Antonietta Caiazzo, Mario Colli Le italiane e l’amore è ispirato al libro Le italiane si confessano di Gabriella Parca, edito da Parenti, ed è un’inchiesta condotta da Cesare Zavattini. Viaggio di nozze insieme a Il passo, episodio di Amori pericolosi, è stato presentato alla 66ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (2009), all’interno della retrospettiva Questi fantasmi 2, curata da Sergio Toffetti e organizzata dalla Cineteca Nazionale. «Durante il viaggio di nozze il marito scopre che la moglie non è vergine: le conseguenze saranno ineluttabili e drammaticamente definitive. Episodio de Le italiane e l’amore, film composto da undici storie realizzate da altrettanti registi. Casi autentici, tratti da alcune lettere inviate ai giornali, raccolte da Gabriella Parca nel suo libro Le italiane si confessano e scelte in seguito da Cesare Zavattini» (66ª
Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica 2009, cit., p. 330). «Il mio Viaggio di nozze fu stralodatissimo e per molti passò per il migliore pezzo […] perché era il più sofisticato nelle immagini, i dettagli, le foto, l’uso degli obiettivi» (Giulio Questi, Ibidem). «È quasi un film a episodi. Quindi, vede che non ha una sua carica di novità e di rottura quanto dovrebbe avere. Riconosco, in altre parole, la mia colpa di non sufficiente nitidezza e novità e profondità, la mia colpa di impostazione. Le inchieste si possono fare in cento modi: io potevo anche prendere dieci donne – una per ogni parte d’Italia, che ci stessero – e fare la storia di dieci donne […]. Ne Le italiane e l’amore, come è oggi, non c’è altro – in fondo – che una educata profilazione di temi abbastanza importanti per la vita del Paese; di temi che di solito non sono affrontati: ma questi temi non hanno né la violenza né la pluridimensionalità che dovrebbero avere. È tutto un po’ a una sola dimensione, e il film si accontenta di una specie di “illustrazione” dei casi, e non di una presa all’interno e di un’apertura di questi casi» (Cesare Zavattini, in Lorenzo Pellizzari, a cura di, Una conversazione con il medesimo, in «Cinema e Cinema», n. 20, luglio-settembre 1979, p. 77). «Le italiane e l’amore è in sostanza un inventario, redatto con molto impegno, delle molteplici schiavitù che tengono in soggezione la donna italiana. È un itinerario che induce a riflessioni amare e dolenti su certi vizi della società italiana. A questo punto voi direte: com’è il film? Alcuni episodi sono chiari come quelli di Questi, di Maselli, di Vancini, di Risi, di Nelli, di Ferreri, di Macchi, altri un po’ squallidi: ma la comune vibratile atmosfera toglie a questa antologia quei pericoli di meccanica frammentarietà che di solito inceppano i film a episodi» (Maurizio Liverani, in «Paese Sera», 24 dicembre 1961). «L’equivoco fondamentale del film, presentato come un’inchiesta condotta da Zavattini, sta peraltro nella sua ibrida natura. Scegliere attori non professionisti va bene, ma non basta per dare verosimiglianza a una lettera mandata alla
“piccola posta” di un settimanale. O si fa un documentario o si fa un film a soggetto: i due generi coesistono soltanto laddove la sceneggiatura è eccellente. Non a caso, degli undici episodi di cui è fatto Le italiane e l’amore, solo quelli prevalentemente descrittivi, come lo spezzone sull’asilo delle vecchie, una parte del Successo, di La prova d’amore, di Ragazze madri, e il cortometraggio su Il morso della tarantola (che non per nulla fu presentato a Firenze al festival del cinema etnografico e sociologico), attirano l’interesse del pubblico. Ma vedete di quale natura è questa attenzione: gli spettatori ridono quando sentono le vecchine che raccontano i loro amori di gioventù, quando il regista ha mescolato ai ballerini di una pista danzante popolare dei tipi stravaganti; si inteneriscono quando vedono dei bambini fare pipì. Credono che il film consiste in queste frange. Laddove Zavattini e i suoi undici registi della nouvelle vague intendevano lanciare un grido di dolore, condannare il napoletano che sfregia la ragazza che l’abbandona, il padre falsamente comprensivo, il marito che non perdona alla moglie il peccato di gioventù, il giovanotto che chiede alla fidanzata la prova suprema, e ottenutala la pianta, le madri ipocrite che impongono ai bambini di credere alla cicogna» (Giovanni Grazzini, in «Corriere della Sera», 26 gennaio 1962). «Inteso come “rapporto” sul tema indicato nel titolo, Le italiane e l’amore, francamente, delude. Gli argomenti ci sono tutti o quasi, ma trattati con disparità stilistiche notevoli, e senza un chiaro orientamento comune: indagini effettuate più o meno dal vivo si alternano con brevi racconti sceneggiati o con brani puramente documentari: in complesso, sembra prevalere la perniciosa teoria secondo la quale basta registrare una realtà per interpretarla, e il risultato è, spesso, di una certa ovvietà. […] Dei diversi episodi, i migliori ci sono sembrati: Le adolescenti di Francesco Maselli, che disegna un delicato ritratto di ragazza al primo contatto con l’amore e con la cinica “saggezza” dei grandi; Il successo di Giulio Macchi, una inchiesta di tipo televisivo sulle aspiranti attrici e cantanti; Viaggio di nozze di Giulio Questi, che con acre sarcasmo rappresenta il contrasto sorto fra due coniugi la notte stessa del matrimonio, avendo il marito scoperto che la moglie è già stata di un altro uomo; La vedova bianca di Gianfranco Mingozzi,
una incisiva pagina sulle “tarantolate” di Puglia. Da ricordare anche, per la pungenza della questione affrontata (d’altronde con una certa timidezza), La separazione legale di Florestano Vancini; per la concitazione delle immagini, La sfregiata di Piero Nelli; per la disinvoltura dei piccoli attori, I bambini di Lorenza Mazzetti, che concerne l’educazione sessuale dei figli» (Aggeo Savioli, in «l’Unità», 23 dicembre 1961). «Film a episodi, e non film-inchiesta, ci appare dunque Le italiane e l’amore, che è – a suo modo, e come, per altri versi, Il giudizio universale – l’antologia di certe intuizioni, di certi spunti raccolti e forzatamente accantonati, nel corso degli ultimi quindici anni, dallo scrittore di Luzzara: elementi validi e stimolanti in sé ma che avrebbero dovuto essere composti in una costruzione più virilmente sorvegliata da Zavattini stesso; uno Zavattini, a esempio, che si collocasse finalmente al di qua della macchina da presa. […] Acquistano così una validità autonoma tre o quattro episodi, proprio quelli che – per ironia della sorte – maggiormente contrastano con il tono dell’inchiesta, esprimendo invece un’esigenza narrativa, di approfondimento socio-psicologico, un’ambizione al personaggio: i “racconti”, le “novelle” di Vancini (La separazione legale), di Questi (Viaggio di nozze) e, con qualche riserva, di Gian Vittorio Baldi (La prova d’amore). Sono gli stessi – ed è elemento da meditare – che dimostrano di aver meglio compreso il tema-base, che a esso sono rimasti più fedeli e in modo più pertinente, che hanno saputo raggiungere una civile commozione, un’intima capacità di persuasione e un’assoluta autenticità. Insieme al delicato ma incisivo Le adolescenti di Maselli, questi tre episodi, questi tre “racconti”, lontani dalle tinte a effetto, vicini alla nostra problematica quotidiana, sobri ed efficacemente narrati, basterebbero da soli a garantire una validità e importanza al film, che anche altrove ha perlomeno il merito di aver provocato un esame di coscienza: nello spettatore, inducendolo a riflettere su questioni ancora tabù; nel critico, fornendogli le chiavi e gli esempi per un confronto di gusti e tendenze e confermandogli l’esistenza di una nuovissima leva di cineasti degni di considerazione; negli
autori, per motivi analoghi» (l.[orenzo] p.[ellizzari], in «Cinema nuovo», n. 156, marzo-aprile 1962, pp. 140-141). «Le italiane e l’amore è una generosa mobilitazione di dieci giovani registi scatenata da Zavattini. Il pretesto è un libro di Gabriella Parca, Le italiane si confessano, che raccoglie le lettere inviate dalle lettrici di un giornale femminile e ha avuto molto successo. Da queste lettere hanno preso spunto i registi del film, che manca tuttavia di un punto di vista preciso. Lo spettatore esce dal cinema consapevole che la situazione della donna in Italia è precaria, ma non ha avuto dati né strumenti per affrontare il problema criticamente. Nel film c’è molta brutta roba, realismo superato, descrittivismo di terz’ordine, falsa cronaca in stile televisivo: nessuno ha guardato per il sottile a quello che si buttava nel calderone. […]. Buono invece, pur nei limiti imposti dal metraggio, l’episodio su La prima notte di quiete, ambientato da Giulio Questi sulla nave Napoli-Palermo: qui c’è un impegno non casuale, un gusto avvertibile, la presenza di un regista» (Tullio Kezich, Il Film Sessanta. Il cinema degli anni 1962-1968, Il Formichiere, Milano 1979, p. 133). Universo di notte (1962) Regia: Alessandro Jacovoni; collaborazione alla regia: Giulio Questi, Giuliano Montaldo, Gian Luigi Polidoro [non accreditati nei titoli di testa e di coda]; commento: Giulio Castaldo, Nico Rienzi; voce: Nico Rienzi; operatori: Vittorio Vitrotti, Luigi Kuveiller, Filippo Carta, Bernardo Mario; musica: Roberto Nicolosi; montaggio: Nina Messeri; fonici: Ferdinando Pescetelli, Nino Renda; origine: Italia; produzione: Franco Interlenghi per Ajace Compagnia Cinematografica, Euro International Film; durata: 103’ Interpreti: Antonio con il suo balletto e i suoi chitarristi, Mina, Vince Taylor et ses Play-Boys, Hazel Rogers e Bob Curtis, Stoney and Sylvia, Norman Davis Dancer’s, Little John, Poupee La Rose, Lou Lou Santiago, Sibilla Seymour, Bayanihan - Philippine Dance Company, Matdson, Bassi, Kazbek e Zari, Les Elwardos, Miriam, La Vedova, Paule Wang.
Nei vari Paesi del mondo gli spettacoli diurni e notturni di varietà offrono un campionario di giochi, danze, musiche, combattimenti, esibizioni sensuali. «Non meriterebbe sprecare il tempo e lo spazio per parlare di due film [l’altro è Le dolci notti di Giuseppe Maria Scotese, n.d.r.], che non hanno alcun valore, se non fossimo sorretti dall’idea di chiarire, in poche parole, qual è l’atteggiamento nostro nei riguardi di simili prodotti della più scontata e risibile banalità evasiva. Crediamo che il successo di questi film sia dovuto alla morbosità sensazionale dei suoi numeri, ma soprattutto pensiamo che esista ormai una mania congenita di voler forzatamente condurre lo spettacolo cinematografico in un contorno di stupefacente sonnambulismo, accrescendo così la corruzione del gusto e portando l’uomo di oggi verso forme di convivenza barbarica» (Candido, in «Cineforum», n. 19, novembre 1962, p. 970). Nudi per vivere (1963) Regia: Elio [Petri] Mont[aldo] [Qu]esti; commento: Giancarlo Fusco; voci narranti: Nando Gazzolo, Pino Locchi; fotografia: Giuseppe De Mitri, Ennio Guarnieri; scenografia: Giovanni Checchi; musica: Ivan Vandor; montaggio: E. Montesti; organizzatori generali: Filippo Ottavi, Franco Venier; organizzatore degli spettacoli: Carmen Bajot; aiuto regia: Bernard Bertrand; operatori alla macchina: Franco Bruni, Claude Cattelani; fonico: Enzo Silvestri; origine: Italia; produzione: P3 G2 Cinematografica; durata: 78’ Interpreti: Le Ballet Negro Africain, La Troupe du Cycle de l’Avant - Gard aux Usa, Act de San Francisco, Chet Baker, Les Artistes du Club Drout, Dupont e Pondu, Nancy Holloway, Les Marionnettes Regens, Patrick Maurandi, Micaeli, Les Oscar’s, Lana Purna, Françoise Soleville, Il Balletto di French Can Can di Roger Stefani, Rapha Temporel Il film è stato riportato alla luce all’interno della retrospettiva Questi fantasmi 2, curata da Sergio Toffetti e organizzata dalla Cineteca Nazionale alla 66ª edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (2009).
«Lungometraggio composto da una serie di numeri di varietà ripresi in vari locali notturni, sulla falsa riga dei tanti sexy movies degli anni Sessanta. Questo tipo di inchiesta sociologica, che riconosce come precursore Europa di notte di Alessandro Blasetti, viene realizzata da un trio di giovani cineasti che si nascondono dietro uno pseudonimo, composto dalla somma dei loro nomi» (66ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica 2009, op. cit., p. 300). «Blasetti, che era stato il primo a fare i film a episodi con Altri tempi, inventò un altro tipo di cinema, che ebbe altrettanto successo. Fece Europa di notte, con numeri di varietà presi qua e là nei locali, e con numeri di spogliarelli molto castigati, e il film fece un sacco di soldi. […] Sulla scia di questi film e di altri dello stesso tipo, mi chiamarono per fare Nudi per vivere, che fu una strana operazione. La regia è firmata Ennio Montesti, un mischietto di Petri, Montaldo e Testi [sic!]. Il film fu sequestrato perché era un po’ troppo avanzato per l’epoca. Loro si erano prestati a fare questa regia perché erano molto amici e volevano dare una mano al produttore Pegoraro, che aveva dei problemi ed è il suocero di Petri» (Claudio Mancini, in Franca Faldini e Goffredo Fofi, a cura di, L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1935-1959, Feltrinelli, Milano 1981, pp. 383-384). Il passo, episodio di Amori pericolosi (1964) Regia: Giulio Questi; soggetto e sceneggiatura: G. Questi; fotografia: Leonida Barboni; scenografia: Luigi Scaccianoce; arredamento: Ermanno Manco; costumi: Marilù Carteny; musica: Ivan Vandor; montaggio: Franco Arcalli; aiuto regia: Rinaldo Ricci; operatore alla macchina: Elio Polacchi; direttore di produzione: Carlo Murzilli; origine: Italia; produzione: Moris Ergas per Zaebra Film, Fulco Film, Aera Film; durata: 34’ Interpreti: Juliette Mayniel, Frank Wolff, Graziella Granata, Piero Morgia Didascalia iniziale dopo i titoli di testa: «Se il passo di tua moglie è troppo pesante non ucciderla. Verrà un’altra donna che avrà lo stesso passo se questo passo è dentro di te. Non lo
sapeva Gerard Garnier, capitano d’artiglieria, che tra sogno e realtà cercava una soluzione… Francia 1912». «Un ufficiale, d’accordo con la bella cameriera di cui è innamorato, decide di sbarazzarsi della moglie semiparalizzata alle gambe, avvelenandola. La donna ingerisce il veleno ma, resasi conto dell’atroce piano dei due amanti, riesce, benché agonizzante, a sparare alle gambe della cameriera, che resterà a sua volta invalida per tutta la vita. L’episodio è tratto dal film antologico Amori pericolosi che include episodi di Carlo Lizzani e Alfredo Giannetti» (66ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica 2009, cit., p. 331). «Il passo fu un esperimento molto raffinato e al contempo molto pop perché si basava su una storia popolare con un’estetica e un gusto alla Cocteau. C’era una fotografia molto elegante: i bianchi e i neri… i gigli, i vari simbolismi. Per la gente di cinema questo film fece molta impressione, tanto che ricevetti molti attestati di stima» (Giulio Questi, Ibidem). «Si tratta di tre brevi film raccolti sotto un titolo insignificante, quanto – ci siamo ormai abituati – premeditatamente ambiguo. Se il primo episodio (diretto da Questi) veicola una tematica vecchia e decrepita con una ricercatezza formale fra decadentismo di maniera ed un naturalismo frainteso, il fumettistico racconto d’appendice, presentatoci da Lizzani, scade nel ridicolo rimpasto degli elementi più scadenti e populisticamente retorici e nel più smaccato cattivo gusto di certo cinema italiano di vent’anni fa. In una ricerca stilistica discutibilissima e limitata, Questi ha provato a filmare ricordi libreschi, che vanno dalle paure ossessive di Poe a certa letteratura d’ambiente, e con influenze surrealistiche volgarizzate nel gioco dilettantistico di facili figurazioni simboliche […]. Questi gli «amori pericolosi»? Ci sembra soltanto di trovare in tutto ciò il pericolo, ben più grave e indegno, di una totale assenza (non di contenuti… che sarebbe troppo!) di buon gusto o anche soltanto di pudore, nel contrabbandare simili prodotti come cinema impegnato […] e volere per questo farli accettare a una critica, che invece proprio in essi deve vedere i ridicoli mostri, le grottesche bassezze, le comode ambiguità di
un mondo, chiamato ormai troppo vagamente, borghese» (a. [lberto] a.[bruzzese], in «Cinema 60», n. 45, settembre 1964, pp. 61-62). «Eh sì, si tratta proprio – scusateci la battuta – di “amori pericolosi”. A corto di “idee”, si fa per dire, i nostri autori arrivano a rispolverare il grandguignol, a scopiazzare il Carné, l’Ophüls e il Duvivier dei cosiddetti tempi eroici, ad ambientare in Ungheria (pardon, in Francia) le proprie rosee o truci vicenduole» («Cinema nuovo», n. 172, novembredicembre 1964, p. 447). «Il film Amori pericolosi si autodefinisce grandguignol. Fino a qual punto sia valida tale definizione si vedrà. Resta tuttavia il sospetto che la rispolveratina del genere teatrale sia più che altro un pretesto di più per mascherare delle intenzioni che restano nel limbo. Anzitutto mancano, nei tre episodi, i veri caratteri del Grand Guignol. Ci sono, è vero, delle relazioni per così dire temporali, ma esse si muovono in una prospettiva sbagliata perché l’unica presenza è quella di far morire uno dei protagonisti. Nel primo episodio, Il passo, nonostante il regista Giulia [sic!] Questi tenti di costruire un clima ambientale da incubo surrealista, con inquadrature che erano audaci una trentina d’anni fa con, per dire, Carnet du bal di Duvivier, manca nel segno quando decide di dimostrare che l’uomo propone e Dio dispone e quando, vedi caso, la moglie zoppa muore lasciando azzoppata la bella amante del marito, la domestica. […] Ma tutto questo quale necessità spettacolare può avere? Non dico quale criterio artistico, perché sarebbe chiedere troppo; dico proprio se c’è qualora che posso farci credere [sic!] essere importante dal punto di vista spettacolare disseppellire un genere legoro [sic!] e vecchio, assai lontano dalla nostra mentalità e tutt’affatto adeguato alle normali pratiche dello spettacolo cinematografico. Cosa può significare questo film nei riguardi di tanti film in cui l’emozione è più violenta e la tecnica posta in atto è tale da far raccapricciare sul serio? Sorge il sospetto allora che i tre registi abbiano voluto giocare piuttosto sottilmente con un costume antico ed abbiano reso un servigio pessimo alla comprensione del perché un genere come il Grand Guignol ebbe fortuna a suo tempo. A meno che non si
voglia altro: e dicendo piuttosto maldestramente che non è il caso di prendere sul serio tante fallaci emozioni se poi, come tutti sappiamo, emozioni ne abbiamo provate di più e più intense. O che forse sta qui il significato del film? Che forse i tre autori non abbiano voluto dirci che di fronte a Dachau o ad Hiroshima i vari sezionamenti di corpi, le impiccagioni o le fuoriuscite di sangue falso, sono giochetti da bambini?» (Francesco Dorigo, in «Cineforum», n. 41, gennaio 1965, pp. 68-69). Se sei vivo spara (1967) Regia: Giulio Questi; soggetto e sceneggiatura di Franco Arcalli e G. Questi, da un’idea di Ma Del Carmen [María del Carmen Martínez Román, n.d.r.]; collaborazione alla sceneggiatura: Benedetto Benedetti; fotografia: Tonino Delli Colli; scenografia: José Luis Galicia, Jame Perez Cubero; architetto: Enzo Bulgarelli; musica: Ivan Vandor; montaggio: F. Arcalli; organizzatore generale Alex J. Rascal; direttori di produzione: Angel Roson, Renato De Pasqualis; segretaria di edizione: Marisol De Villanueva; operatore 1ª unità: Ricardo Poblete; operatore 2ª unità: Roberto Marrama; fonico: Goffredo Salvatori; origine: Italia/Spagna; produzione: G.I.A. Cinematografica, Hispamer Film (Madrid); durata: 100’ Interpreti: Tomas Milian, Marilù Tolo, Piero Lulli, Milo Quesada, Paco Sanz, Miguel Serrano, Angel Silva, Sancho Gracia, Mirella Panfili, Raymond Lovelock, Roberto Camardiel, Patrizia Valturri Altri titoli: Oro hondo, Oro maldito, Django, Kill! (If You Live Shoot!), Tire encore si tu peux, Töte, Django Se sei vivo spara è stato riproposto alla 61ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (2004) all’interno della retrospettiva Western all’italiana - Storia segreta del cinema italiano 4, curata da Marco Giusti e Manlio Gomarasca. «Per assalire una carovana militare che porta oro, Oax ed i suoi banditi si accordano con un gruppo di messicani guidati da un mezzosangue. Ma dopo il colpo, anziché spartire il bottino, i banditi uccidono tutti i messicani dopo averli
beffeggiati e si avviano al paese più vicino per godersi gli sporchi guadagni. L’oro che essi possiedono suscita la cupidigia di due maggiorenti del villaggio, l’oste Tembler e l’ipocrita Acherman, i quali inducono la folla a massacrare Oax ed i suoi e poi, di nascosto, si spartiscono il bottino. Ma ecco arrivare in paese oltre al mezzosangue – creduto morto da tutti – accompagnato da due indiani che lo hanno curato delle sue gravi ferite, anche Zorro, un feroce tirannello locale che pretende la consegna dell’oro. Nella complicata situazione, i primi a pagare lo scotto sono Tembler, la sua amante Florit ed il figlio Evans il quale si uccide dopo essere caduto nelle mani di Zorro e dei suoi crudeli sicari. Quindi è la volta di Acherman, che pensa di salvarsi gettando la moglie nelle braccia del meticcio perché lo difenda da Zorro. Ma la moglie dà fuoco alla casa, provocando così la morte di se stessa e del marito, mentre il mezzosangue stermina Zorro ed i suoi uomini» (www.cinematografo.it). «Allora si andava a lavorare in Spagna, dove Franco imperava e le maestranze costavano poco. Fatto sta che mi spedirono a Madrid, dove il film era stato subappaltato a una specie di produttore tedesco, un tizio pelato, grassoccio, sudaticcio e che lavorava nel cinema solo per insidiare le comparse più graziose. Arrivo a Madrid sognando l’Almeria, quei paesaggi desertici e bruciati già visti nei primi film di Leone… E mi dicono: niente Almeria, costa troppo, qui non c’è una lira. Ma io devo girare nel deserto, rispondo! Niente deserto. […] Disperato […] comincio a cercare esterni nella periferia di Madrid quando, un giorno, mi imbatto in un cantiere e ho la folgorazione: le ruspe stavano sventrando due colline per costruire un quartiere residenziale, era terra bianca, abbagliante. Un mese prima avrei trovato colline verdi, un mese dopo una città! […] Sai come si riconosce un lottatore? Dai moncherini che ha al posto delle orecchie, a causa delle prese violente e ripetute. Quelli erano grandi. Mi hanno salvato la vita. Durante i primi giorni di riprese mi schiacciai una vertebra andando a cavallo. Potevo dormire solo sul pavimento. La mattina mi venivano a prendere, mi sollevavano diritto come uno stoccafisso e mi caricavano in macchina per andare sul set: là, i lottatori mi massaggiavano un po’ e mi mettevano in sesto, quel tanto che bastava per girare. Poi, la
sera, tornavo in camera e cascavo per terra. Mi facevo portare la cena su un vassoio e la “brucavo” stando sdraiato. […] In quel film ho raccontato la Resistenza. Come io l’ho vissuta. I banditi di Sorro [sic!] sono vestiti di nero perché sono fascisti. Gli indiani e gli altri poveracci sono i partigiani» (Giulio Questi, in Alberto Crespi, Il mio western, la Resistenza, in «l’Unità», 24 aprile 1994). «Come aiuto regista ho fatto il cinema intellettuale, e poi, accanto a questo, ho avuto delle esperienze opposte ma esaltanti. Per esempio quella del western all’italiana. Ricordo che partii da Roma per Madrid per farne uno e ritornai in Italia un anno dopo perché in Spagna trovai lavoro con altri film italiani che si giravano laggiù: ne terminava uno e se ne iniziava un altro. La mia esperienza più incredibile fu con un western diretto da Gianni Puccini. Se c’era un uomo nel cinema italiano che non sapeva proprio neppure lontanamente cosa fosse il western, questo era lui. […]. Ultimato questo western, ebbi una esperienza che era proprio l’opposto con Giulio Questi, il quale invece, essendo uno con un grosso talento che da tempo attendeva di debuttare nel lungometraggio, colse l’occasione del momento favorevole di questo genere e fece un film tutto delirante, tremendo, pieno di eccessi… La lavorazione di Se sei vivo spara fu affascinantissima. Addirittura certe cose ce le autocensuravamo durante le riprese, e ciò nonostante quello fu l’unico western all’italiana che tre giorni dopo l’uscita fu ritirato dalla magistratura. C’era stata una serata memorabile, con un pubblico scioccatissimo di fronte a questi banditi tutti omosessuali, tutti in nero. C’erano delle scene alla Cocteau e inoltre (ma meno male che nella versione finale non si capiva, perché era stata molto tagliata durante le riprese) il ragazzo moriva perché era stato violentato da tutti gli omosessuali vestiti di nero, mica si suicidava… Delirante era anche l’uso degli esterni, e devo dire che lo scioccato ero io per certi risultati visivi ottenuti da Questi da un paesaggio che non era poi così straordinario… Kim Arcalli, in quel film, è stato importante, ne è stato il coautore, credo. Così come per La morte ha fatto l’uovo. Kim tendeva sempre a diventare coautore, tanto è vero che quando montava un film finiva per
scrivere quello successivo di quel regista» (Gianni Amelio, in Faldini, Fofi, a cura di, op. cit., p. 299). «Fare un western “impegnato” è difficile. Questi ci è riuscito, in parte, a livello delle immagini. Ha rifiutato cioè la sola ideologizzazione del dialogo. Non si è servito, in sostanza, di soluzioni cinematografiche innocue e collaudate applicando ad esse una o due battute allusive. Al contrario, ci ha dato un film (almeno parzialmente) interessante, girandolo con abilità tecnica e fornendo le immagini di una espressività tale da cogliere i rapporti interni del discorso ideologico. Per cogliere questo rapporto Questi usa una tecnica estremamente funambolica. Gioca molto sul piano formale (inserimento di fotografie fisse, stacchi improvvisi, uso prolungato del primo piano, movimento costante della macchina da presa). È presente, in questo eccesso di virtuosismo cinematografico, il pericolo del formalismo inutile e gratuito. A questo pericolo Questi non si sottrae completamente. Nella prima parte del film l’uso del mezzo cinematografico è in Questi pertinente e necessario: precisa l’ideologia “fascista” dei personaggi, chiarisce le motivazioni della violenza […]. L’introduzione nella vicenda del boss del paese e dei suoi pistoleros in divisa risulta estranea e forzata. È evidente qui lo sforzo di Questi di ideologizzare al massimo: il regista non tiene conto delle mediazioni necessarie, si perde in simbolismi, allusioni e citazioni irrisolte e banali. Così il discorso si fa confuso ed inespresso e a tratti ridicolo […]. Qui il film rivela i suoi grossi limiti, scopre le sue debolezze che sono, in primo luogo, un eccesso di formalismo che a lungo andare diventa estraneo alla vicenda, pura esibizione di virtuosismo tecnico. E poi anche ideologiche: Questi ha scelto un discorso contro i falsi miti del west e su questo siamo d’accordo. Ma rispunta il pericolo del discorso personale, della compiacenza e della inutilità: il che significa tornare a vecchie soluzioni. Infatti la seconda parte del film denota (con lo spostarsi dell’azione dal paese al quartier generale del grande proprietario) la incapacità di portare alle estreme conseguenze il discorso abbozzato nella prima mezz’ora di proiezione. Il film chiude con soluzioni stereotipe a cui il western italiano ci ha abituato (e con cui, francamente, ci ha, a sufficienza, annoiato)» (Massimo Negarville, Se sei vivo spara. Anatomia della violenza o
violenza dell’anatomia?, in «Ombre Rosse», n. 1, maggio 1967, pp. 59-60). «Se sei vivo, spara è un western italiano dagli umori insoliti nel novero di una produzione monotona, pletorica e standardizzata. […] Il film manifesta doti e qualità immediatamente riconoscibili. Gli ingredienti della ricetta sono i soliti e inevitabili: sparatorie, sadismo, […] sangue che cola da ogni parte, ceffi patibolari indaffarati a scannarsi vicendevolmente. Ciò nonostante la pasta che da questa farina vien fuori è diversa, ha un vago sapore anarchico e buñueliano, pizzica sotto la lingua, non si lascia smaltire con facilità perché contiene una goccia, ma una goccia sola, di acido prussico. La violenza, che fa bella mostra di sé, non è governata dalle regole di un gioco gratuito e compensativo, irrita invece di solleticare, implica un giudizio di natura morale che investe i benpensanti, i difensori dell’ordine costituito, la “brava gente” tratteggiata nella sua vocazione all’ipocrisia e nella crudeltà di cui si rivela capace allorquando il demone del linciaggio e della giustizia sommaria la tenta irresistibilmente. Buoni e cattivi si confondono, varcano ogni limite tollerabile, padroneggiati da una passione cieca e crudele: il denaro. […] Niente di nuovo, si obietterà, ma non è vero perché, contrariamente agli altri western all’italiana, in Se sei vivo, spara non si innalza il dio quattrino, l’oro, a entità assoluta e assolutizzante cui rapportare tutti gli atti umani, incluse le operazioni di polizia, ma lo si getta nella polvere con ghigno beffardo e pessimistica saggezza. La novità, all’interno del “filone” autarchico, non è di poco rilievo anche se confessa, fra le righe di una trasparente polemica antiborghese, uno scetticismo che sembra concernere più la nostra specie che le prerogative di una classe. Come tutti i favolisti accaniti e impietosi, avversi alle cadute sentimentali e alla falsa coscienza dei buoni propositi, Questi forse involontariamente lascia balenare sottopelle un risentimento, una indignazione da moralista arrabbiato e deluso. Non crediamo, però, che il suo intento principale sia stato quello di fustigare […]. Altre suggestioni lo attirano ed esse sono rintracciabili nel clima allucinato e onirico in cui la vicenda si ingarbuglia e si avvia verso l’approdo finale, nell’impasto di connotazioni naturalistiche e di evocazioni al limite del surreale,
nell’intellettualistica inclinazione a recuperare espedienti feuilletonistici e grandguignoleschi per innestarli in un contesto formale e figurativo prezioso e ricercato. Un film di testa il suo, né volgare né sbracato, e compiaciuto delle mostruosità, delle torture, dei brutali e rudimenti interventi operatori che espone in vetrina con la malizia di un sogno popolato di mostri e incubi ossessionanti. Un film ben fatto che di talento si nutre, e che tuttavia c’infila una pulce nell’orecchio: perché sprecare tanta bravura, ingegno, intelligenza e sicurezza registica per cose di relativo interesse, per alchimie da scommessa, per un parlar tra le pieghe di corpi estranei quando sarebbe necessario occuparsi meno del far West e del Nuovo Messico e più delle faccende che ci riguardano da vicino?» (m.[ino] a.[rgentieri], in «Cinema 60», nn. 62-63, 1967, pp. 108-109). «Il secondo esordio, tante volte rimandato, è quello del bergamasco Giulio Questi: Se sei vivo spara è tributario più a Edgar Allan Poe che a Bert Harte, più a Roger Corman che a John Ford. E in qualche modo si inserisce nel “revival” del surrealismo ormai manifesto in letteratura e nelle arti figurative. Le ineffabili crudeltà del film toccherebbero punte insopportabili se non si rifacessero all’aggressività sorniona di Buñuel e Dalì in Un chien andalou. L’antieroe è Tomas Milian, truccato in maniera da somigliare anche fisicamente al regista: e si muove in un magma narrativo deliberatamente insensato e provocatorio. Siamo molto lontani dal film d’azione, in una zona da confessione psicoanalitica; ma rischiarata, almeno così ci pare, da una legittima misura di divertimento. C’è da rallegrarsi, almeno per i casi di Giraldi e di Questi, che la moda del “western” autarchico abbia offerto l’occasione di due esordi non banali. Ma le prossime volte questi registi dovranno proprio dirci se scherzano o fanno sul serio» (Tullio Kezich, Il «western» è vivo: ma vivo come?, in «Bianco e Nero», nn. 1-2, febbraio 1968, p. 128). «Nei Professionisti le due ore di proiezione sono quelle – piene e ben spese – necessarie alla storia. Nel sonnifero Il buono, il brutto e il cattivo delle tre ore e mezzo, tre sono di troppo. Ma i nostri registi di western si sentono superiori agli americani non solo in mestiere, ma anche in democratismo. Le
grottesche dichiarazioni di copertura ideologica dell’ultima e più infame ondata di western italiani (lasciata dai produttori come ultima chance di sopravvivenza del genere, dopo quella “calligrafica”, ad autori e sceneggiatori di “sinistra”), dimostrano ancora meglio la loro volgare insipienza se confrontate al western di Brooks. Discorsetti “progressisti” tra una tortura e l’altra sono ormai di moda. Da Lizzani a Vancini, i rottami del neorealismo ci si rivoltano a loro agio. Dalle imitazioni di Damiani (Quien sabe?), meno violento è vero, ma che vanamente inseguono nella copia il “tono” dei Mann, Hawks e Aldrich di tempo fa (ed è solo ridicolo che Volonté si sbrachi a rifare il verso ad Antonio Quintana, Quinn per i gringos, o a Lancaster…), giù giù fino ai nazi-jacopettismi del macellaio Questi (Se sei vivo spara), ex pupillo di Zavattini e Visconti, il cinema italiano tira con scacciacani da farsa ai fantasmi della sua impotenza» (Goffredo Fofi, Capire con il cinema. 200 film prima e dopo il ’68, Feltrinelli, Milano 1977, p. 128n.). «Il western più violento, strano e pop che sia mai stato girato in Italia, concepito da Giulio Questi e Kim Arcalli come folle operazione sul genere. Gran fatica per il suo regista che lo definisce “sudore, polvere e sangue”. Per Tomas Milian, invece, è davvero un film d’autore. “Era come lavorare con Antonioni, in un certo senso, perché Questi è un intellettuale rivoluzionario. È stato aiuto regista, sceneggiatore, tutto” (Nocturno). Rivisto oggi, è probabilmente uno dei capolavori del genere e il miglior film di Questi e Arcalli, anche perché vive molto del rapporto tra regia e montaggio. […] Il film, malgrado le difficoltà tecniche, non sembra neanche povero, grazie alle bellissime immagini di Franco Delli Colli, a lungo considerato il fratello minore di Tonino Delli Colli, e un montaggio che sembra fatto in Avid da Franco Arcalli che va contro ogni regola di buon cinema del tempo. Assolutamente pop. Ivan Vandor poi costruisce una musica assolutamente anomala per un western. Circolano impiccati che sembrano ripresi dal Manoscritto trovato a Saragozza di Potocki e indiani che sembrano aver letto Il libro tibetano dei morti. Un giovanissimo Lovelock è stuprato da una banda di fuorilegge gay (almeno così si intuisce, visto che poi si ucciderà), cavalli sventrati, indiani scotennati, pallottole colte al volo col
coltello, impiccati con la lingua di fuori. […] Il film, uscito a febbraio del 1967 vietato ai minori di 18 anni, fu sequestrato l’8 marzo dello stesso anno. Con due tagli, lo scotennamento e l’operazione col coltello, tornò in sala sette giorni dopo. A questo punto il film scompare dalla circolazione e viene ridistribuito nel 1975 con un altro titolo, Oro Hondo, solo come cibo per i fans di Tomas Milian. In questa seconda versione furono fatti ulteriori tagli, ma vennero reintegrate le due scene tolte dalla censura. […] Per Laurence Staig e Tony Williams è semplicemente “un capolavoro di surrealismo”. Secondo Alex Cox era “disturbante, amaro e, forse, il western più importante di tutti”. Proprio Cox vede alcune somiglianze tra il finale tragico del film e una tragedia di Middleton, Women Beware Women, e trova che nessun film americano moderno abbia un simile sguardo cupo sul mondo e sul male. […] Il film ebbe un immediato successo in Germania e in Giappone. Purtroppo Giulio Questi non girerà mai un secondo western, anche se avrebbe dovuto iniziarne uno, scritto assieme a Dardano Sacchetti per Dino De Laurentiis. Solo che, racconta Sacchetti, proprio il giorno del primo incontro organizzativo, De Laurentiis scappò in America. La grande riscoperta del nostro film di genere ci ha portato, finalmente, a versioni in Dvd perfette. Il film rimane, anche a rivederlo dopo tanti anni, maledetto e incantevole. Joe Dante lo adora. […] Frasi di lancio: “La critica entusiasta, il pubblico allibito, la censura in allarme!!! Tomas Milian, la rivelazione della Resa dei conti, nella sua più strabiliante interpretazione. Il film è severamente vietato ai minori di 18 anni, perché trattasi di un esperimento allucinante ai limiti del proibito. Dato il crudele realismo delle scene se ne sconsiglia la visione alle persone facilmente impressionabili”» (Marco Giusti, Dizionario del western all’italiana, Oscar Mondadori, Milano 2007, pp. 466468). La morte ha fatto l’uovo (1968) Regia: Giulio Questi; soggetto e sceneggiatura: Franco Arcalli e G. Questi; fotografia: Dario Di Palma; scenografia: Sergio Canevari; costumi: Marilù Carteny; musica: Bruno Maderna; montaggio: F. Arcalli; direttore di produzione: Sergio Merolle; aiuto regista: Mario Pippa; segretaria di edizione: Lina
D’Amico; operatore alla macchina: Blasco Giurato; fonico: Eugenio Rondani; origine: Italia/Francia; produzione: Summa Cinematografica, Cine Azimut, Les Films Corona (Parigi); durata: 101’ Interpreti: Gina Lollobrigida, Jean-Louis Trintignant, Ewa Aulin, Jean Sobieski, Renato Romano, Giulio Donnini, Cleofe Del Cile, Vittorio Andrè, Biagio Pelligra, Monica Millesi, Ugo Adinolfi, Aldo Bonamano, Livio Ferraro, Margherita Horowitz, Giuliano Raffaelli, Giancarlo Sisti, Conrad Andersen, Rina De Filippo, Mario Guizzardi, Barbara Pignaton, Jean Rougeul, Ludmil Trifonov Altri titoli: La mort a pondu un oeuf, Die Falle La morte ha fatto l’uovo, restaurato per l’occasione dalla Cineteca Nazionale, venne presentato alla 60ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (2003) all’interno della retrospettiva L’industria dei prototipi, curata da Steve Della Casa. «Anna una donna bellissima, possiede un allevamento di polli, ed un marito che è un maniaco sessuale. Sovente si incontra in un motel con qualche prostituta dove ha modo di sfogare, per finta, il suo latente sadismo. L’allevamento di polli, razionale, perfetto, funziona a meraviglia ed è tutto automatico. Anna e Marco sorvegliano le macchine, assieme ad una giovane bionda: Gabri, cugina di Anna che essa ha accolto in casa dopo la morte dei genitori in un incidente d’auto e che diventa amante di Marco. Per essere libero, ed avere tutta Gabri per sé Marco sta preparando una trappola mortale ad Anna in alto sul terrazzino della macchina trituratrice. Ma Gabri la sua vera complicità d’amore ce l’ha con Mondaini, un grafico che lavora per gli allevatori. Anche lui giovane. Ambedue sono convinti che il mondo debba loro appartenere di diritto, che basti eliminare un qualche ostacolo per impossessarsene. E gli ostacoli sono Anna e Marco. Alla fine di una festa data alla villa – durante alla quale gli ospiti si sono esibiti in un grottesco ed illusorio gioco della verità – Anna rinviene una lettera anonima: qualcuno che sa, le spiega quali aberrazioni Marco, suo marito, abbia l’abitudine di inscenare con le prostitute del motel. Ed Anna vuole conoscere
finalmente la verità, scoprire quale specie di uomo abbia sposato. Diventa anche lei una prostituta. Intanto giù, all’allevamento, dalle sperimentazioni dei biologi nasce il super pollo senza ossa, senza testa, tutto carne. Marco, Anna, Mondaini e Gabri corrono freneticamente inseguendo quelli che ancora hanno il nome di sentimenti, facendo scattare le trappole che hanno preparato, incontrando il loro insospettato destino. I meccanismi mortali che essi hanno predisposto per gli altri finiscono invece per travolgere ciascuno di essi. Qualcuno telefona alla polizia che una donna è stata strozzata al motel. La macchina trituratrice inghiotte e trasforma in mangime un uomo vivo. La polizia non scopre nessun cadavere nella camera del motel. Ma arresta finalmente i due assassini all’allevamento» (Francesco Dorigo, in «Cineforum», n. 75, maggio 1968, pp. 359-360). «La morte ha fatto l’uovo è nato con felicità. […] Era un film strano per quegli anni 1966-67, a basso costo. Anche in questo film ci fu un lavoro molto legato tra di noi [Kim Arcalli, n.d.r.]. […] Il nostro gioco era proprio sul genere, non sullo stile. Ma era un gioco cosciente e fummo i primi a tentarlo. Ci gloriavamo molto di fare del cinema kitsch. Fare un giallo con una storia di polli e prendere la Lollobrigida come protagonista a quel tempo era un’operazione kitsch. Erano gli anni in cui noi abbiamo creduto ad una cultura pop. Eravamo felici di questa scoperta pop. Ci sbeffeggiavano a quel tempo, non solo i critici. Eravamo fuori dal cinema ufficiale. Appena fai delle cose che escono dalla via culturale del momento sei segnato» (Giulio Questi, in Marco Giusti, Enrico Ghezzi, a cura di, Kim Arcalli: montare il cinema, Marsilio, Venezia 1980, p. 69). «È abbastanza evidente che l’autore ha voluto attaccare la cosiddetta civiltà del consumo, in apparenza razionalissima, in sostanza (direbbe Goya) sonno della ragione e perciò generatrice di mostri. Infatti: mostri, i superpolli dell’allevamento di Anna; mostro, Marco, col suo sadismo; mostri Gabri e Mondaini; mostri, infine, gli industriali della pollicoltura. È pure evidente che Giulio Questi ha voluto dare, alla sua polemica anticonsumistica, il sostegno di una storia orripilante ed erotica, a mezza strada tra l’Hitchcock de Gli
uccelli e il Robbe-Grillet di Trans-Europ-Express. Infine, è evidente che non ci troviamo di fronte ad un film “fatto bene” cioè di confezione, bensì da un film d’autore nel quale, bene o male, si è tentato di far del cinema d’arte e non di cassetta. Detto e concesso tutto questo, siamo tuttavia costretti ad osservare che i due livelli del film, quello polemicoconcettuale e quello realistico-visivo, non coincidono quasi mai. L’aggressione satirica e polemica è basata, di solito, su due elementi: un pensiero lucido e rigoroso e un distacco perfetto dalla materia, ridotta quest’ultima ad illustrazione esemplificatrice del pensiero. Ora il pensiero di Giulio Questi non è né lucido né rigoroso, anzi più che di pensiero si dovrebbe parlare di razionalizzazione di oscuri impulsi; e, comunque, la mancanza di distacco fa sì che alla fine la parte realistica soverchi del tutto quello concettuale. Ne segue che la polemica contro la civiltà del consumo, che avrebbe dovuto essere il pernio della vicenda, diventa invece un mero pretesto per l’espressione di un gusto spiccato e piuttosto genuino della crudeltà, del sangue e della morte. La spia a queste malcelate preferenze del regista la fanno da una parte la violenza plastica delle immagini truculente e raccapriccianti, di cui è pieno il film; dall’altra l’improbabilità esangue e maldestra della psicologia dei personaggi. Giulio Questi ha certamente un temperamento robusto; ma come certi seicentisti barocchi, è portato ad eccedere, annullando così con l’eccesso gli effetti stessi che si riprometteva di creare. E poi si decida; o la polemica sociale e di costume senza troppi orrori, oppure il film dell’orrore senza implicazioni morali» (Alberto Moravia, Una scatola di mostri, in «L’Espresso», 21 gennaio 1968; poi in Alberto Pezzotta, Anna Gilardelli, a cura di, Alberto Moravia. Cinema italiano. Recensioni e interventi 1933-1990, Bompiani, Milano 2010, pp. 691-692). «L’influenza della pubblicità sul costume è, in genere, un tema “tabù” per il cinema italiano, che pure potrebbe trovarvi splendidi motivi di vendetta nei confronti della concorrenza, sempre più spietata, condotta dal piccolo schermo […]. Salutare si rivela, quindi, l’esperimento di Giulio Questi, che con La morte ha fatto l’uovo ha recato un contributo ampiamente valido alla rappresentazione del ruolo sempre più deciso giocato dal battage pubblicitario nella nostra vita
privata. […] Forse il film di Questi è più di un atto d’accusa; e registra anzi, sia pure non passivamente, un processo irreversibile, giunto alle ultime battute di una cocciuta, ferma, inflessibile conquista della legittimità. La grave meditazione di Giulio Questi trova riscontri quotidiani nel monopolio televisivo, nell’assurda concentrazione dei grandi capitali, nei crescenti trust di vendita, fenomeni confluenti verso un risultato disastroso: l’imbavagliamento del consumatore, la sua definitiva sconfitta sul piano della contrattazione» (Gregorio Napoli, in «Film Mese», n. 13, gennaio 1968, p. 2). «Bizzarro fin dal titolo, ecco un altro saggio dell’estro di Giulio Questi: un cineasta attivo da vent’anni nel cinema italiano, documentarista premiato, attore occasione per Fellini […] e Germi […]. Questi ha rimandato a lungo l’esordio nel lungometraggio […]; poi ha fatto Se sei vivo spara, un western con Tomas Milian per cui si fece il nome di Buñuel. Alla lezione del vecchio surrealista spagnolo si richiama anche La morte ha fatto l’uovo, dove c’è addirittura una scena che sembra una citazione da L’angelo sterminatore: il gioco di società che consiste nel togliere tutti i mobili da una stanza e chiudervi dentro una coppia per volta, un uomo e una donna. Ma Buñuel si muove tra morbosità e atti di violenza con una riserva inesauribile di umorismo: ne deriva un atteggiamento sempre provocatorio e dissacrante, privo d’ogni compiacimento. In Questi, invece, il gioco ai margini dell’orrore sembra coinvolgere il regista: se non manca di macabra fantasia e di lucidità stilistica, è spesso povero di ironia. Per di più i dialoghi, dovuti allo stesso regista e a Franco Arcalli, non sono al livello di una confezione per altri aspetti molto aggiornata: e basti ricordare la colonna musicale di Bruno Maderna. Anche gli attori risultano inadeguati: a cominciare da una Lollobrigida troppo lontana dal suo habitat consueto e non abbastanza attrice da dissimulare un commovente stupore» (Tullio Kezich, Dieci anni al cinema 1967-1977, Edizioni Il Formichiere, Milano 1977, pp. 365366). «Dopo un paio di film irrilevanti, Maderna ha fatto sentire positivamente il peso del musicista creatore in La morte ha fatto l’uovo di Questi, in accordo con le intenzioni sarcastiche
e dissacratorie del regista, violento disintegratore di miti. La partitura di questo film è basata infatti su titillamenti metallici, su effetti vetrosi ed astratti, accostati con effetto dissonante e più vicini al suono svuotato di ogni contenuto, di ogni sostanza riflessiva, che all’organizzazione dei suoni; talvolta “accelerato” in una strana deformazione che è eloquentemente la deformazione stessa della mentalità dei personaggi del racconto» (Comuzio, in «Cineforum», cit., pp. 356-357). Arcana (1972) Regia: Giulio Questi; soggetto e sceneggiatura: Franco Arcalli, G. Questi; fotografia: Dario Di Palma; scenografia: Francesco De Stefano; costumi: Marilù Carteny; musica: Romolo Grano, Berto Pisano, orchestrata e diretta da B. Pisano; montaggio: F. Arcalli; aiuto regista: Daniele Sangiorgi; operatore alla macchina: Blasco Giurato; segretaria di edizione: Angela Frigerio; fonico: Attilio Torricelli; origine: Italia; produzione: Produzione Palumbo di Gaspare Palumbo; durata: 111’ Interpreti: Lucia Bosè, Maurizio Degli Esposti, Tina Aumont, Rosaria, Dario Viganò, Gianfranco Pozzi, Annarella De Faveri, Renato Paracchi, Giovanni Ricci, Ferruccio Fantini Il film, restaurato per l’occasione dalla Cineteca Nazionale, venne presentato alla 65ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (2008) nella retrospettiva Questi fantasmi. Cinema italiano ritrovato (1946-1975), curata da Tatti Sanguineti e Sergio Toffetti. «Maria delle Rose è una vedova meridionale: suo marito, un povero manovale, è morto in un incidente sul lavoro in una galleria della grande città industriale. La magia e la divinazione, antichi retaggi della campagna meridionale, sono il suo modo di sopravvivere, il mezzo per mantenere se stessa e il figlio ventenne. Il ragazzo crede ciecamente in questi poteri ed è convinto che con essi si possa fare violenza sugli stessi clienti, mediocri rappresentanti di una realtà colpevole della morte di suo padre. Per sua madre, invece, l’esercizio della magia non è che un inganno per arricchirsi. Il figlio, quando si rende conto della ciarlataneria di sua madre, se ne indigna. Di notte la raggiunge nella sua camera da letto e la sottopone alla tortura fisica. Vuole la “formula vera”, la
formula magica che contenga i termini della nascita, dell’amore e della morte. Sotto la tortura che la promuove a vera strega, Maria delle Rose rivela i suoi segreti. Il figlio scompare di casa. Va in giro per la città alla ricerca degli elementi dell’esorcismo confessati dalla madre. La ricerca lo porta nella galleria del sotterraneo cittadino dove è morto suo padre, popolata da uomini prigionieri del buio e del lavoro che attendono la liberazione. L’esorcismo acquista tutto il suo potere reale. Il ragazzo ha in mano una forza nuova, in grado di far precipitare la realtà verso le sue estreme conseguenze, di comunicare con gli aspetti più oscuri e segreti degli uomini. Imprigiona così la città in una ragnatela di oggetti magici capace di scatenare la rivolta delle forze oscure del sotterraneo. Il rito raggiunge finalmente il suo apice quando il panico si diffonde nella città e la violenza dai sotterranei sempre più montante esplode furibonda e liberatrice» (dal pressbook del film). «A un certo punto mi venne l’idea di Arcana. Intanto Kim si era affermato. Non passavamo più le giornate assieme. Avevo già scritto un altro film, Più a fondo nella foresta, che non riuscii a varare. Anche Arcana, ideato assieme a Kim, nessuno lo voleva fare. Poi trovammo una produzione milanese. Lo facemmo per una distribuzione piccolissima. Non avevamo attori. […] Il distributore è fallito mentre stavamo stampando le copie del film. Per questo ne furono stampate solo cinque e queste girarono in Italia. La storia è quella dei meridionali a Milano, con temi emblematici e surreali» (Giulio Questi, in Giusti, Ghezzi, a cura di, Kim Arcalli: montare il cinema, cit., p. 70). «Abbiamo cercato di seguire un filo conduttore nella vicenda oscura, sospesa tra sogno e realtà, di questo Arcana di Giulio Questi. Il film, dunque, prospetterebbe un contrasto tra il mondo contadino superstizioso e arretrato e il mondo moderno e progressivo del lavoro e delle classi. D’altra parte, il mondo moderno non sarebbe alla fine tanto diverso da quello arcaico e primitivo. Le masse, con la loro ignoranza e la loro debolezza, l’industrialismo con la sua potenza oscura, giustificherebbero anche qui le disperate pratiche magiche. Tuttavia questo contrasto è appena accennato; e, alla fine,
Arcana va considerato come un film sulla magia e sull’incesto. Circa la magia, bisogna riconoscere che il regista Giulio Questi già nel suo primo film, La morte ha fatto l’uovo, aveva dimostrato una particolare attrazione tra decadente e kitsch (curiosamente viene fatto di pensare alle acqueforti di un Alberto Martini) per gli aspetti laidi, macabri, gelidi e misteriosi della realtà. Arcana conferma l’autenticità di questa tendenza. […] A proposito della magia non si finirebbe, d’altra parte, di discorrerne. Limitiamoci ad osservare che essa sembra essere un tentativo contradditorio di dominare la paura con la paura; cioè di trasferire la propria paura su oggetti e pratiche paurose, in modo da formare un sistema simbolico che coinvolga al tempo stesso il mago e i fedeli. Così, chi pratica la magia, sia egli l’autentico stregone africano o, com’è il caso in Arcana, l’emigrata lucana della periferia milanese, in fondo sceglie apposta, tra i tanti aspetti della realtà, i più schifosi e spaventevoli non tanto perché spera di domare la realtà stessa quanto perché vuole confermarsi nella sua idea che essa è indomabile. Come diceva Tolstoj di Andrejeff: “Egli vorrebbe farci paura; ma non riesce che a far paura a se stesso”. Detto questo, bisogna aggiungere che se è vero, come crediamo che sia vero, che il punto di forza del film è l’influenza arretrata e incestuosa della madre e lo sforzo del figlio per liberarsene, allora il regista avrebbe dovuto prendere le parti della ragione e mostrarci con chiarezza gli sviluppi di questa difficile educazione sentimentale. Invece Questi ha preferito fornirci una rappresentazione […] onirica della vicenda, con il risultato di irretirsi lui stesso in sogni e immagini non sempre convincenti e di sufficiente spessore espressivo. La volontà ha prevalso sul sentimento della cosa; spesso il linguaggio cinematografico di Questi “dice” invece di rappresentare, “parla” invece di evocare. L’interpretazione di Lucia Bosè è eccellente; a lei si debbono i momenti più sensibili e convincenti del film» (Alberto Moravia, Circe tra le ciminiere, in «L’Espresso», 25 giugno 1972; poi in Pezzotta, Gilardelli, a cura di, Alberto Moravia. Cinema italiano. Recensioni e interventi 1933-1990, cit., pp. 892-894). «Arcana di Giulio Questi è un film insolito, arduo e acuto, l’opera di un regista d’ingegno che va cercando la sua verità, e che non subisce le mode o invoca, a eccitare una pigra
immaginazione, pretesti dai fatti di cronaca. Curioso degli eventi della cultura, Questi ha cercato con esito spesso incerto ma che, quando coglie nel segno, risulta sorprendente di applicare al racconto cinematografico il metodo degli strutturalisti: volgendo in norme e ripetizioni colte nelle giunture della narrazione riferimenti a “costanti” dell’organismo narrativo. Risolvendo insomma negli elementi costitutivi i processi mentali che vi vengono inventariati. Arcana […] ha momenti di debolezza nelle parti più propriamente narrative, riscattati superbamente da episodi lirici, come quello, stregato, della danza e dell’asino legato alla fune. Nuovo è pure lo sguardo su una Milano sconosciuta e sorprendente il commento musicale stridulo e torvo, insistente e protervo» (Pietro Bianchi, Questi cerca la sua verità, in «Il Giorno», 24 giugno 1972). «Trascrivo l’incipit: “Il primo film paranormale realizzato in Italia e nel mondo. I territori inconfessabili, le tentazioni masochistiche e autodistruttive della nostra società…”. E, di seguito al cast, un comunicato non meno inquietante: “Lucia Bosè e Giulio Questi, protagonista e regista del film, presenzieranno allo spettacolo delle ore 22, al quale interverranno molti professori astrologhi e parapsicologi. Lucia Bosè riceverà in tale occasione dal presidente dr. Franco Torti l’ambito premio nazionale dell’ascesa, il Jumbo Jet d’Oro 1971-72, premio che non ha potuto ritirare a Sanremo. L’addobbo e il benvenuto floreale alle gentili Signore verrà offerto dalla Finart. L’omaggio Margaret Ascot Cosmetic International e quello della ditta Badedas verrà fatto distribuire da Marcel Weber. A tutti gli intervenuti verrà offerto il mensile Arcana”… Voi magari credete a una fine, macché, continuazione sempre più inquietante: “Al termine della prima mondiale del film Arcana alla discoteca Ciak in Viale Vittorio Veneto 32, l’assessore del Turismo e Spettacolo di Milano, dr. Paolo Pillitteri, premierà col Ciak d’Argento 1972 i seguenti personaggi: Lucia Bosè per le sue alte capacità artistiche, Gaspare Palumbo per le sue intelligenti produzioni, Franco Torti per le sue regie teatrali e televisive”. Pensate che l’affare Arcana si sia esaurito con questi Ciak d’Argento suonati dall’infaticabile assessore Pillitteri? Mancano altri comunicati ufficiali o ufficiosi in proposito. […] Però, scusate, avrei
ancora un’invocazione da rivolgere all’assessore Pillitteri, già che ci sono. Dr. Pillitteri, lei sgobba come un pazzo per la cultura e per l’arte milanesi, ogni giorno mi arriva un suo invito a qualche manifestazione di rilievo. […] Lei sgobba come un pazzo, dunque, ma vorrei che si mettesse una mano sulla coscienza, si domandasse se lo ritiene giusto. Io no, dr. Pillitteri. […] Se lei devolvesse il denaro necessario a stampare questa quantità d’inviti inopportuni e a organizzare la relativa quantità di manifestazioni fasulle all’incremento di compenso e arruolamento di spazzini, mi creda, contribuirebbe, sì, sul serio alla causa della pulizia e della civiltà, quindi implicitamente della cultura e dell’arte milanesi. […] Se per abitudine non vede più la sporcizia e l’inciviltà della metropoli in cui viviamo, guardi bene il film Arcana: la Milano che appare quale un incubo di sfondo alle vicende allucinate della madre strega […] non è affatto immaginaria, caso mai è una riduzione eufemistica di quella reale. La rivelazione di Milano come città infetta è, anzi, un non piccolo pregio del film di Giulio Questi, regista bergamasco peggio che inquieto e inquietante, seguace ed eversore dei maestri dell’insolito. Non piccolo e non solo. Infatti, Arcana nei suoi pregi e nei suoi difetti è sicuramente un film d’autore. Il Polanski orobico, il Buñuel della Val Brembana vi racconta a sussulti, strappi, sfagli la fosca, eppure spesso divertita, avventura di Lucia Bosè […]. È vero che Giulio Questi ha premesso che il film presenta un gioco di carte e che ogni spettatore è stimolato a farsi i giochi suoi, ma il finale mi pare un momento deboluccio. È troppo evidente che Giulio Questi, come ha costruito i rapporti madre-figlio-ragazza un poco al modo del Polanski di Rosemary’s Baby, qui ha voluto richiamarsi ostentatamente al Buñuel di Angelo Sterminatore. Ma la cosa gli riesce e non gli riesce, la citazione ricorda maggiormente certe scene di I cannibali di Liliana Cavani. Pazienza. Il film non è consigliabile ai detentori di stomaci delicati. A un dato momento, pensate, Lucia Bosè si cava persino dei rospetti di bocca. Io, però, suggerirei di non scandalizzarsi troppo. In fin dei conti, sono in tanti a mangiar le rane. Cotte o crude, che differenza fa? L’importante è che abbiano fatto il bagno prima. In questo senso, vi posso tranquillizzare. Lo hanno fatto. Sono rane pulite e civili. Di
importazione. Non sono milanesi» (Oreste Del Buono, Il comune spettatore, Garzanti, Milano 1979, pp. 313-315). «L’impostazione decisamente sociologica della cultura cinematografica italiana ha prodotto due positivi risultati paralleli: una fioritura di film di eccezionale valore realistico e una scuola critica insolitamente agguerrita nel riscontrare l’opera sull’ambiente che essa ritrae e rispecchia. Ma tale impostazione ha anche creato una forma di terrorismo verso i registi che si discostano dall’estetica realista, che è poi in fondo quella del “rispecchiamento” lukacsiano. La scomunica tende a piovere sugli autori isolati che invece di volgersi al reale ascoltano l’inconscio e si muovono verso la fantasia e la deformazione. La loro fatica, anche quando sia seria e ispirata, riceve assai meno attenzione e ascolto che non i sottoprodotti dell’estetica realista dominante, benché tali sottoprodotti siano manifestamente il frutto di una tecnica di assemblaggio che colleziona pezzi risaputi: un parafango della Peugeot, un retrotreno della Fiat, una [sic!] motore dell’Alfa. Si discutono seriamente opere dove la fatica dell’autore si limita ad accostare e connettere motivi già sfruttati e sperimentati dal realismo dominante. È che tali opere presentano un panorama risaputo che mette a suo agio il critico, il quale può applicarvi le sue formule, in analogia col formulario impiegato dal realizzatore. Ecco perché Arcana di Giulio Questi è un film destinato a raccogliere scarsa attenzione e scarsissimi consensi. Lo stesso Questi sembra così consapevole di aver affrontato un tema impopolare perché esoterico […] da aver nella seconda parte convogliato il suo film verso lidi opposti: la presa di coscienza sociale da parte del personaggio maschile e l’adesione alla rivoluzione. Esito incongruo rispetto alle premesse, almeno sul piano stilistico, e che dirotta l’arcano fremito di Arcana (ci passi l’allitterazione) verso una contestazione di maniera e una presa di coscienza tutta fisicità e attivismo. Quest’“omaggio” di Questi ad alcuni temi impegnati, sentiti però nel contesto del film più come moda che come genuina esigenza narrativa interna, sancisce un parziale insuccesso per mancanza di coraggio e di coerenza sino in fondo: coerenza con l’immaginario, il surreale, il magico, cioè con la
dimensione “meravigliosa” che per i primi due terzi faceva di Arcana un’opera per certi aspetti genialmente bunueliana. Sennonché solo una supina acquiescenza a un’estetica dell’“oggetto finito” (che è poi l’oggetto di consumo) e un passivo privilegiare un tipo comodo di fruizione che predilige l’opera senza incrinature potrebbe indurci a valutare Arcana film di secondo piano rispetto ai tanti (troppi) di cui si dice bene perché non escono dalle regole canoniche che si limitano a chiedere un buon assemblaggio di prefabbricati pezzi e materiali realistici. Arcana sta a sé, è un esempio di cinema “inopportuno”, e come tale la proponiamo alla attenzione di quegli spettatori la cui capacità di ascolto e di sintonia non si limita a una esigua banda di onde. […] Giulio Questi rievoca temi della letteratura magica e alchimistica, favole junghiane archetipiche, li fonde col corredo delle leggende popolari e della demonologia, li ambienta nel suburbio cittadino, quest’inferno che sta a mezza strada fra la campagna perduta e la città non ancora conquistata. Il lucido delirio alterna, nella seconda metà, il meraviglioso alla sconnessione. Ma dobbiamo proprio rinfacciare a Questi i suoi errori, che sono quelli di chi crede ancora un po’ troppo rispetto ai tempi, nel senso romantico dell’ispirazione?» (Sergio Frosali, in «Sipario», nn. 315-316, agosto-settembre 1972, p. 52). «Da anni gli ammiratori di Giulio Questi, tra i quali ci sono i più bei nomi del cinema italiano, aspettano che il regista bergamasco realizzi un’opera all’altezza di una reputazione un po’ clandestina e tuttavia invidiabile. Acuto documentarista, salvatore in extremis di film altrui giudicati incurabili, autore in proprio di alcune prove stimolanti, Questi propone in Arcana le vicende di una strana coppia di meridionali immigrati, madre vedova e figlio nevrotico, che si difendono dalla metropoli del Nord facendo appello ai segreti ancestrali della magia. […] Partito da un’idea davvero inedita e folgorante, il film rivela cammin facendo un certo imbarazzo del regista a padroneggiare la sua materia: e lo scioglimento, con uno scontro inopinato fra la polizia e dimostranti in cui la protagonista viene uccisa, risulta debole. La misura dell’estro di Questi è data piuttosto dalla sequenza del ballo rituale, in cui al suono di un violino fatato (la registrazione del tema fu
fatta dal regista anni fa in Macedonia, durante i riti degli anastenaridi che passeggiano sul fuoco senza bruciarsi) vediamo un asino issato sul tetto di una casa e la Bosè che sputa rospi veri dalla bocca. Stupendamente fotografata da Dario Di Palma, ben servita dalla regia, impegnata allo spasimo, l’attrice non ha tuttavia la veemenza popolaresca e meridionale che il personaggio avrebbe richiesto» (Kezich, Dieci anni al cinema 1967-1977, cit., p. 44). «Può, uno spettatore, fidarsi di un critico? Per principio, non può: la critica è un pretesto, o se volete un modo per esprimersi. Lo spettatore vede nel film un’occasione di passatempo. Il critico vi trova, quando ve le trova, delle occasioni per monologare sull’arte. Il critico, in genere, è il più frustrato degli spettatori, ma qualche volta è anche un uomo colto che sa scrivere della propria cultura commisurandola a quella altrui. Ne discende che le opinioni di un critico su un film sono sempre diverse dalle opinioni di un altro critico sullo stesso film. E non è detto che entrambi i critici siano dei critici colti. O frustrati. Possono anche essere dei presuntuosi. Dei presuntuosi frustrati. L’inutilità della critica come tentativo di avvicinare l’opera d’arte al suo pubblico viene messa in piena luce da Arcana, il terzo film di Giulio Questi (Se sei vivo spara, La morte ha fatto l’uovo sono i due precedenti). Il pubblico rifiuta Arcana nello stesso modo in cui rifiuta la critica: con il subconscio. E il critico frustrato è portato a cercare affannosamente le ragioni di quel rifiuto, si fa complice del rifiuto del pubblico, se ne appropria. Soffrendo, ma se ne appropria. Il critico non frustrato, invece, cerca di capirci qualcosa indipendentemente dal rifiuto del pubblico, ma senza dimenticarlo. Perché di fronte ad Arcana il rifiuto del pubblico è globale, violento, dirompente come una mandria di bufali in corsa nella prateria, sì da far pensare che non si fermerà lì, travolgerà la settima arte tutta intera, la sacrificherà sull’ara del “buonsenso” offeso, della “chiarezza” (leggi elementarietà) insozzata, del “divertimento” (leggi grossolanità) profanato. A questo punto, è lampante che Arcana è uno di quei rarissimi film di cui il critico, frustrato o no, deve assolutamente impadronirsi, a costo di commettere delle
vistose effrazioni, perché è ormai chiaro che abbiamo di fronte un’opera pro-vo-ca-to-ria. Mi dicono che il terzo film di Giulio Questi ha la vita difficile: gli esercenti lo evitano come la peste; a Milano – si racconta – ha avuto una “uscita” difficile e ha “resistito” solo pochi giorni, pochissimi. In altre parole, stiamo occupandoci di un film che quasi nessuno ha visto e vedrà. Ma dal momento che Zoom non è il Monthly Film Bulletin, perché dovremmo preoccuparci se Arcana non ha la stessa carriera di Love Story? Nel numero scorso abbiamo dedicato due pagine a Pilvilinna. Chi mai riuscirà a vedere Pilvilinna, in Italia? Gli indici di gradimento dello spettatore, quando si tratta di cinema finlandese, fluttuano voluttuosamente sotto lo zero. Per richiamarci a una felice intuizione di Luigi Chiarini, diciamo pure che, nel mondo del cinema, tra il film e lo spettacolo la differenza è atroce, globale. Noi, qui, ci occuperemo sempre di film, raramente di spettacoli cinematografici, i quali – per esser spettacoli – implicano la presenza e la complicità di una congrua platea con la quale sono scesi a patti. E purtroppo, occupandoci di film, dobbiamo cercare là dove in genere i pochi film se ne stanno: lontanissimi dalle nostre comode sale ad aria condizionata e da un pubblico armato di gassose americane. Solo così, la critica acquista (o riacquista) un senso: non più il quotidiano e idiota tentativo di “far capire” l’arte al volgo (che preferisce leccare gelati e adocchiare la vicina di poltrona che forse ci sta), ma un modo urbano di accostare un’opera intelligente per capirla e inquadrarla e soprattutto per assimilarne qualcosa. Arcana, sia chiaro, non è un film “per pochi amici intelligenti”, etichetta che lo renderebbe odioso: è un film difficile, realizzato da un uomo colto che rifugge dalle pappe fatte. Probabilmente il suo produttore ha rischiato molto, ma ci dicono che è persona non meno intelligente del suo regista. Non impugnerà dunque lo scarno esito commerciale di un’opera che già sulla carta nasceva senza lusinghe del genere. E perché Arcana si faccia definire un film difficile, è presto detto: lascia allo spettatore il compito di mettere in ordine il racconto, gli propone almeno tre diversi
modi di lettura, introduce nel cinema italiano alcuni temi inediti e si rifiuta di sfruttarli nel senso più volgare del termine. C’è anche una lettura psicanalitica, a ben guardare, ma così ben mimetizzata da far pensare che Giulio Questi se la riserbi tutta per sé solo. Le apparenze sono queste: in una città dell’Italia del Nord, Milano, una donna siciliana ancor giovane, vedova da poco, con un figlio sui diciott’anni, tira a campare facendo la chiromante, vendendo amuleti contro il malocchio, facendo fatture e inventando misture e filtri d’amore. Il ragazzo collabora, ma è insoddisfatto delle arti magiche della madre. I rapporti fra i due si trasformano, fin quando il giovane, convinto di essere figlio di un’autentica strega, impone alla madre di passare dalla magia bianca alla magia nera. Glielo impone puntandole il coltello alla gola, procurandole un salutare terrore che, rimescolando gli atavici e assopiti poteri, li riporta in luce. Inizia così una seconda, breve stagione di strani eventi e di inquietanti influssi che a poco a poco dilagano dall’appartamento all’intera città, fin quando quest’ultima reagisce e sopprime madre e figlio, in una strage che elimina anche non pochi altri “complici”. Queste le apparenze, che come al solito ingannano. Arcana è altro. C’è una lettura confortata dagli elementi sociologici sparsi ovunque. La tipica famiglia di immigrati: lui, operaio, lascia la pelle nei lavori del metrò e questa sua morte orribile (riveduta dalla fantasia del figlio in una sequenza che ci è sembrata il brano più bello del film, il più significante e persino il più divertito, con quel cadavere rimasto lì a marcire tra il frastuono dei treni sotterranei e il loro veloce lampeggiare di luci, un cadavere così poco riverente di ogni luogo comune riguardante le umane spoglie) distrugge ogni speranza, nella moglie e nel figlio, di vivere come avevano sperato. Per campare non resta che far rinascere in piena metropoli, gli scampoli di una tipica cultura del profondo Sud (siculo, calabro, pugliese? Non ha importanza): le superstizioni proprie e altrui. Ernesto De Martino e James Frazer sono stati a lungo, è evidente, delle fruttuose letture de chevet di Giulio Questi, che conosce il significato preciso di operazioni “magiche” del tipo
Arcana. Le arti magiche del Sud valgono anche al Nord, fra una popolazione alienata, che nella giungla della falsa razionalità (quella dell’edilizia speculativa, della motorizzazione à tout prix, della tv, dei consumi, ecc.) ha smarrito se stessa, il senso del proprio valore animale, della propria potenza umana. La madre, senza saperlo, vive di questa crisi. Che tuttavia è anche in lei. Alla saggezza di un tempo si sostituisce ora, giorno dopo giorno, una disperata follia. Il figlio si scaglia contro la madre, si ribella a quella condizione di falsità totale di rapporti fra loro e col resto del tessuto sociale. Se follia dev’essere, che lo sia fino in fondo. Per arricchirsi. O per fare la rivoluzione. Ma quando la magia, cioè un elemento nuovo che turba l’ordine delle cose, si insinua fra le antenne della televisione sui tetti o alle uscite delle stazioni del metrò, la città impazzita reagisce, una reazione cieca, da belva ferita e terrorizzata. E questo perché “noi stiamo sulle fondamenta erette dalle generazioni che ci hanno preceduto e possiamo solo debolmente apprezzare quanto siano costati all’umanità i suoi penosi e prolungati sforzi per alzarsi fino al punto, non molto alto in fin dei conti, che abbiamo raggiunto” (James Frazer, Il ramo d’oro). Così, abbiamo letto una seconda volta Arcana da un’angolazione più complessa. E a questo punto ogni altra lettura ci conduce sempre più vicini al meccanismo costruito da Giulio Questi per sperimentare la sua idea di un cinema che ha da essere l’opposto di quello tentato (con scarso e discontinui risultati) dai Carmelo Bene o dagli Andy Warhol. Bene e Warhol sentono il bisogno di scardinare la forma ancor prima di tentare l’inserimento di nuovi contenuti. E scardinare la forma è sempre pericoloso, legittimando in noi il sospetto che non si sappia rispettare le vecchie regole del gioco nella pretenziosa convinzione di possedere in blocco le chiavi di un nuovo linguaggio. Godard ha reso sempre più diafane le sue idee politiche man mano che si è allontanato da un certo modo “facile” di esporle. Al contrario di costoro, Giulio Questi ha un intelligente rispetto per la lezione che, da Griffith a Jean Vigo, stabilisce
un chiaro tracciato estetico di sicura presa espressiva. Dove Giulio Questi si rivela fragile, pertanto, non è nelle idee, nel disegno generale, nel linguaggio, ma nella sua ansia di intrecciare tutti i significati, un’ansia che rivela la sua poca fiducia nelle proprie capacità intellettuali, nella propria sensibilità. Par quasi di vedere, dietro le immagini, man mano che il racconto procede, e procedendo s’impegna sempre più, la paura di non dominare la trama. E d’altra parte, la tesa preoccupazione di non ricorrere mai al “già visto” è fonte di gelo e di impaccio. Arcana aveva bisogno di un totale abbandono, nel pieno senso romantico del termine, perché le immagini debbono venire sempre costruite con un pieno rispetto del loro significato “relativo”. Nel cinema, le immagini valgono su tre diversi piani: in sé, in funzione delle precedenti, in funzione delle successive. Vomitar rospi è un diffuso modo di dire. Quando Lucia Bosè (Giulio, sei un sadico nel senso più nobile della parola!) vomita rospi, non era ancora abbastanza chiaro che ciò sarebbe potuto accadere. Non era chiaro, perché quanto vediamo “prima” non è abbastanza eloquente nella sua volontà di sgomberare il terreno degli equivoci. Quando la Bosè vomita rospi, insomma, non siamo ancora pronti ad accettarlo. Al contrario, accettiamo al volo i bambini che “mangiano” il figlio della maga o i “piatti che volano”. Segno che Giulio Questi, seppure in modo discontinuo, ha saputo organizzare il suo mondo poetico e dargli forza e significato. In Arcana, poi, confluiscono vistosamente alcune personali nostalgie del regista per film “impossibili”, per un Sud da cui è rimasto affascinato in diverse occasioni (a cominciare da una lontana visita alla Sicilia nel 1951, per un documentario commissionato dal Touring Club; una Sicilia proibita alla macchina da presa perché quest’ultima aveva il rigido compito di illustrare il già visto, onorato dalla firma del committente, ma una Sicilia straripante di promesse), per un tipo di cinema che parli il più direttamente possibile alla ragione dello spettatore (e quale mezzo è più adatto e immediato delle immagini organizzate per un discorso al nostro subconscio, dal momento che laggiù si è rifugiata la parte migliore di noi, la
sola che la “civiltà” non riesce a contaminare?), sollecitandone la capacità di fantasticare. Fedele – giustamente – agli amori di gioventù (una tesi di laurea su Campana, se non erro), Giulio Questi è un innovatore per vocazione, temperamento e raziocinio. Ha un sarcasmo che, nel cinema italiano, è privilegio di pochi (si fa per dire: indicateci gli altri, per cortesia); è sempre giovane provocatore della pubblica quiete, che considera la condizione ideale del perfetto imbecille un fortino da espugnare. Sa che l’Italia non è altro che un’immensa provincia, culturalmente parlando; che è una zona del mondo tagliata fuori dalle correnti più impetuose dell’evoluzione civile. E si affanna per non esser travolto, come tutti gli altri, dai piacevoli risultati del successo commerciale. Senza rendersene conto, con Arcana, Giulio Questi ha stabilito un’identità fra sé e il giovane protagonista; come costui viene “punito” dalla città per aver introdotto nel razionale tessuto urbano l’angoscioso dubbio del fallimento, così Giulio Questi suscita le ire dello spettatore messo a tradimento di fronte alla sua stupidità, al suo laido bisogno di conforto, di viscerale fascismo. Qui, come accennavamo più sopra, s’innesta quella lettura psicanalitica che, tuttavia, ci sembra coinvolgere solo il suo autore. A una revisione della società contemporanea in chiave freudiana, Giulio Questi non è ancora pronto. Ma lo sarà fra non molto» (Corrado Terzi, in «Zoom», n. 3, settembre 1972; poi in Pellizzari, a cura di, Corrado Terzi. La quadratura del cinema. Scritti 1940-1995, cit., pp. 203-207. Da notare il riferimento alla comune esperienza con Giulio Questi per il documentario siciliano commissionato dal Touring Club Italiano).
Pubblicità La tarantella di Pulcinella (1959) Regia: [Giulio] Gianini, [Emanuele] Luzzati, [Gianfranco] Maselli, [Giulio] Questi; produzione: Barilla Alimentare S.p.a.; durata: 2’ «Prima apparizione del Pulcinella creato da Gianini ed Luzzati, protagonista di un Carosello commissionato dalla Barilla per reclamizzare la pasta. Il Carosello non venne accettato dal committente ed è rimasto fino ad oggi inedito [il corto è stato presentato alla VIII edizione del Sottodiciotto Filmfestival - Torinoschermigiovani, 6-15 dicembre 2007, n.d.r.» (http://www.sottodiciottofilmfestival.it/vecchia_versione/speci ale_su_pulcinella.php). Il modo nuovo di essere Bitter - Analcolico Trilly (1970) Regia: Giulio Questi; produttore: Franco Fusco; direttore di produzione: Pietro Ricciardelli; produzione: Union Film; durata: 2’ «Per il lancio del nuovo analcolico Trilly si ricorre a forti situazioni. Ad esempio a una bella metafora del cinema di Luis Buñuel, tratta dal suo film L’angelo sterminatore. In un club dove si gioca a scacchi i soci rimangono bloccati dentro un salone da uno strano ruggito. Non è un leone, ma Trilly, il nuovo bitter che sta arrivando. Curioso» (Marco Giusti, Il grande libro di Carosello. E adesso tutti a nanna…, Frassinelli, Roma 2004 [prima ed. Sperling & Kupfer, 1995], p. 244). Questo è un… - Olio Topazio (1970) Regia: Giulio Questi; fotografia: Dario Di Palma; produttore: Giuseppe Brun; produzione: Brera; durata: 2’ «Situazioni da thriller, ad esempio, un curioso inseguimento per la metropolitana di Milano, poi a piazza Duomo. Ma le storie si sviluppano poi romanticamente. Vedremo anche un
gruppo di ragazzi che porta un letto per strada e, comunque, le situazioni si fanno decisamente giovanili. Carosello un po’ slegato dal prodotto, ma molto ben fatto, molto fascinoso. I modelli sono tanti, dal Free Cinema alla Nouvelle Vague» (Ivi, p. 147). Una storia d’amore del 1880 - Salumi Citterio (1971-19721973-1974-1975) Regia: Giulio Questi, Moraldo Rossi; sceneggiatura: Iaia Fiastri, Luisa Montagnana; fotografia: Giuliano Giustini, Dario Di Palma; direzione creativa: Armando Testa; art: Enrico Barbalonga; copy: Delia Castelletti; produzione: Cine Edizione Pubblicità; durata: 2’ «Il più famoso carosello Citterio e un’ottima idea creativa della Testa. Tutto in rima, ambientazione fine ’800. Il titolo suona così sulle pagine del Radiocorriere: “Una storia d’amore del 1878 nella cornice del 24 pollici. Una delicata storia d’amore in una suggestiva cornice di salumi”. Il bel tenente fa la corte alla contessina Ortensia. Insieme giocano al cerchio, ad esempio. Poi raccolgono romanticamente dei fiori sul prato. In un episodio del 1973 (ambientato però nel marzo 1878) il conte vede la contessina nel pieno delle grandi manovre. Lascia la truppa per lei. La stringe. E dice il celebre claim “Contessina avrei un desiderio: vorrei mangiare due fette di Citterio”. Molto divertente. Poi, in un episodio del 1974 (ambientato nel marzo del 1879), i due si incontrano cavalcando nei boschi. Nel codino spunta, nei panni del salumiere, Tom Felleghi. Alla fine di un episodio dello stesso anno lui la chiede in sposa. Anche in un episodio del 1975 (ambientato nel 1878), mentre la contessina dipinge, il bel tenente la chiede in sposa» (Ivi, pp. 161-162). Ti va l’idea? - Liquore Cremidea Beccaro (1973) Regia: Giulio Questi, Gillo Pontecorvo, Gianni Vernuccio; produzione: BBE; durata: 2’ «Serie un po’ scombinata per un liquore abbastanza nuovo nel mercato italiano, una crema whisky. Le scenette ci mostrano delle feste con dei giochi. […] Tra gli attori troviamo il comico Gastone Pescucci e una giovane Marina Lotar
Frajese. La serie varia un po’ l’anno successivo, il 1972, ma rimane scombinata. […] Del 1973 è un episodio di giovani nel bosco che si rincorrono, con molti trucchi ottici e di montaggio. […]. Serie alquanto bizzarra. Giuseppe Brun ricorda che le regie della serie della BBE erano di vari registi, Gianni Vernuccio, Giulio Questi, ma anche Gillo Pontecorvo che diresse gli ultimi episodi ambientati in una cantina» (Ivi, p. 74). Arte - Carrara e Matta (mobili, angoliere) (1974) Regia: Giulio Questi; agenzia: Testa; produttore: Arturo La Pegna; produzione: Cine Edizione Pubblicità; durata: 2’ «Serie di scenette tutte dedicate all’arte. In un episodio a parlarne è uno scultore. La serie vinse il premio Trofeo Roma del 1974» (Ivi, p. 137). Campagna - Nutritivi Pandea (1974) Regia: Gillo Pontecorvo, Giulio Questi; produttori: Giuseppe Brun, Paolo Malgara; origine: Italia; produzione: BBE; durata: 2’ «Una famiglia vive in campagna. Si sveglia ogni mattina all’alba, fa gite in calesse, ma soprattutto una vita sana. Tipico carosello anni ’70. Ben diretto da Giulio Questi» (Ivi, p. 148). Cinzano Soda aperitivo (1974) Regia: Giulio Questi; fotografia: Dario Di Palma; produzione: Cine Edizione Pubblicità; durata: 1’ Cronache d’oggi - Lame Gillette G II (1974) Regia: Giulio Questi; produttore: Arturo La Pegna; produzione: Cine Edizione Pubblicità; durata: 2’ «Bellissima serie dedicata a ragazzi che compiono imprese a difesa della natura. Mettono dei segnali in una foresta, aiutano gli uccelli caduti dal nido, ma si spingono anche oltre, salvando le folaghe da una caccia spietata. Alla fine li vediamo tutti insieme in una posa da foto di gruppo. La più bella serie diretta da Giulio Questi (regista di film curiosi come La morte ha fatto l’uovo), e quella che lui ricorda con maggior piacere.
Grande ritmo di montaggio e uso del bianco e nero molto violento, da reportage anni ’70, appunto» (Ivi, p. 258). Stare insieme - Talco Felce Azzurra (1974) Regia: Vico Guastoni, Giulio Questi, Nelo Risi, Paolo Taviani; fotografia: Aldo Scavarda; direttore creativo: Carlo Ciarli; produttori: Giuseppe Brun, Paolo Malgara; durata: 2’ «Una ragazza, Pamela, al mare o in altre situazioni è inseguita dalla voce profonda di Alberto Lupo che declama poesie d’amore per lei. Stracult carosellistico romantico di serie B. Assolutamente da evitare o da adorare. Negli episodi del 1973 Alberto Lupo si esibisce come attore in un set sotto gli occhi di un regista (Fulvio Mingozzi). Pamela è anche lei un’attrice e fa il bagno in una coppa gigante di champagne. Interessante. Grandi i dialoghi soprattutto degli anni successivi, quando la serie diventa solo poetica e Alberto Lupo recita da solo sulla spiaggia ricordando lei: «Le nostre ombre scalze sulla rena, Pamela…». Le regie erano divise tra Paolo Taviani, Giulio Questi, Nelo Risi, Vico Guastoni, che ricorda di aver diretto episodi sulle spiagge di Sperlonga e di Nervi. Cosa dire…» (Ivi, p. 414). Oilà Susanna - Sapone per bucato Sole Bianco (1974-1975) Regia: Giulio Questi, Moraldo Rossi; direttore creativo: Silvano Guidone; copy: Delia Castelletti; produttori: Arturo La Pegna, Mario Testa; produzione: Cine Edizione Pubblicità; durata: 2’ «Lo studio Testa rispolvera le lavandaie che vanno a lavare il bucato al fiume. Al ritmo di “oilalà Susanna” seguiamo prima, nella serie del 1974 e del 1975, prodotte dalla Cep, e dirette da Giulio Questi e Moraldo Rossi tra le spiagge di Maccarese e di Formello, un gruppo di lavandaie che vanno al fiume in bicicletta. Tra loro si distingue la più carina, cioè Oriella Dorella, reduce dal carosello precedente [L’uomo o ti vizia o L’uomo è meraviglioso - sapone per stoviglie Sole Piatti, n.d.r.]. In un primo tempo le lavandaie cantano in bicicletta motivi popolari, come Vola il cardellino e poco più. Poi, ma siamo già nel quinto ciclo del 1975, Oriella Dorella
viene corteggiata da un giovanotto in sidecar, poi da altri due in bicicletta» (Ivi, p. 506). Miraggio nel deserto o Chiamami Peroni - Birra Peroni (1975) Regia: Franco Giraldi, Giulio Questi, Moraldo Rossi, Enrico Sannia, Florestano Vancini; ideazione, direzione creativa: Armando Testa; soggetto: A. La Pegna, A. Testa; fotografia: Dario Di Palma; produttore: Arturo La Pegna; produzione: Cine Edizione Pubblicità; durata: 1’ «Uno dei più celebri caroselli in assoluto. In un deserto ricostruito, benissimo, in studio due esploratori, Francesco Mulè e Ignazio Leone, sperduti e assetati assistono a una serie di miraggi. Vedono tre ragazze che si fanno il bagno in un’oasi e, soprattutto, alla fine, una bionda spumeggiante interpretata da Solvi Stubing e proveniente dalla serie precedente. “Come ti chiami?”, le chiede singhiozzando l’assetato, sotto tutti i sensi, Mulè. E lei: “Chiamami Peroni, sarò la tua birra”. Questo è il primo episodio della serie, diretto benissimo da Enrico Sannia. Ma anche gli altri registi che lo seguiranno, Moraldo Rossi, Giulio Questi, Franco Giraldi, Florestano Vancini, avranno la mano felice mettendo in piedi delle scenette sempre divertenti, lievi, ironiche, anche se alla fine questa situazione iniziale verrà ripetuta alla consunzione. […]. Poi, nel 1975, è la volta di un giovanissimo Claudio Lippi fare il fuggiasco dalla civiltà. Le regie sono quasi tutte di Giulio Questi e di Florestano Vancini, che ricorda di aver lavorato alla serie con una ragazza australiana. La bionda a cavallo gli ruba in un episodio la tromba, in un altro il cappello nella giungla» (Ivi, p. 89). Spesso le parole non servono - Fernet Tonic Branca (1975) Regia: Giulio Questi; produttori: Giuseppe Brun, Paolo Malgara; produzione: BBE; durata: 2’ «Come spiega il titolo, spesso le parole non servono. Così, per lanciare il Fernet Tonic si ricorre a una serie documentaristica di sole immagini e musica. Ecco un aliante che vola su un lago. Le parole servono solo per ordinare il Fernet Tonic degli eroi che abbiamo visto in volo» (Ivi, p. 98).
Miraggio nel deserto o Chiamami Peroni - Birra Nastro Azzurro (76) (1976) Regia: Giulio Questi; ideazione, direzione creativa: Armando Testa; soggetto: Arturo La Pegna, A. Testa; fotografia: Blasco Giurato; produzione: Cine Edizione Pubblicità; durata: 1’ «Lippi tornerà nel 1976. In un episodio lo vediamo dormire sul divano ma nella giungla. Non è più così ostile alla bionda. Lei, in un episodio, gli vuole regalare un’arpa. Nel programma televisivo Carosello che passione di Luciano Emmer, vediamo il povero Armando Testa difendersi dalle accuse di maschilismo di un gruppo femminista come Adele Cambria, Grazia Francescato, Miriam Magnaghi» (Ibidem).
Televisione L’uomo della sabbia (1979) Regia: Giulio Questi; soggetto: dal racconto omonimo di E.T.A. Hoffmann; sceneggiatura: Mauro Marchesini, G. Questi; fotografia: Blasco Giurato; scenografia e costumi: Guido Josia; musica: Luis Bacalov; montaggio: Gabriella Cristiani; fonico: Robert Forrest; direttore di produzione: Antonio Barone; aiuto regia: Luigina Lovari; operatore alla macchina: Silvano Tessicini; origine: Italia; produzione: Arturo La Pegna per C.E.P., Rai; durata: 70’ Interpreti: Donato Placido, Francesca Muzio, Saverio Vallone, Barbara Pilavin, Luca Dal Fabbro, Mario Feliciani, Ferruccio De Ceresa Film televisivo andato in onda su Rete 2 il 20 maggio 1981, all’interno della serie I giochi del diavolo - Storie fantastiche dell’800, a cura di Roberta Carlotto. La miniserie era composta da sei episodi, ciascuno tratto da un racconto fantastico di un autore dell’Ottocento: L’uomo della sabbia di Giulio Questi, La venere d’Ille di Mario Bava, La presenza perfetta di Piero Nelli, La mano indemoniata di Marcello Aliprandi, Il diavolo nella bottiglia di Tomaso Sherman e Il sogno dell’altro di Giovanna Gagliardo. I film erano tratti da racconti dei E.T.A. Hoffmann, Prosper Mérimée, Henry James, Gérard de Nerval, Robert Louis Stevenson e Herbert George Wells. I racconti per la trasposizione televisiva erano stati scelti da Italo Calvino. L’uomo della sabbia, girato in 16 mm, venne presentato in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1979. «Le attese della vigilia sono alte, ma il risultato scontenta molti. […] La messinscena, insomma, strozza sul nascere la tensione fantastica e l’intreccio di reale e immaginario: il risultato galleggia, secondo Gualtiero Pironi, “in uno spazio intermedio e indeterminato in cui si intravvede sì il fantastico ma anche la sua stessa impossibilità”. È il caso di L’uomo
della sabbia, il capolavoro dello scrittore tedesco, affidato a Giulio Questi, lontano dal cinema da Arcana (1972): la complessa tematica del racconto va perduta nella trasposizione tv, che al di là di occasionali trovate visive (il protagonista Nataniele [Donato Placido] e l’amico Lotario [Saverio Vallone] discutono di filosofia mentre tirano di scherma come in una celebre scena di La via lattea) non riesce a trasmettere il nucleo perturbante del racconto, in cui Hoffmann scopre l’inconscio con un secolo di anticipo sulla psicoanalisi e ispira il saggio Das Unheimliche di Freud. Facendo evocare al protagonista Nataniele i propri incubi infantili (è ossessionato dall’inquietante figura dell’“uomo della sabbia” che cava gli occhi ai bambini, e identifica il babau nell’ambiguo avvocato Coppelius, che ritiene implicato nella morte del padre) Hoffmann mette in scena una paura della mutilazione che allude alla castrazione, secondo quanto teorizzato da Freud. Il regista rinuncia a visualizzare la scena del primo incontro tra il piccolo Nataniele e Coppelius, di modo che il dramma di Nataniele adulto – il quale crede di riconoscere lo stesso Coppelius nell’ottico Coppola – perde la propria ragione d’essere. Questi è più interessato all’ulteriore perturbante rappresentato da Olimpia, la bellissima fanciulla di cui Nataniele si innamora, non sapendo che si tratta di un automa; e nella sequenza del debutto in società della bambola meccanica, il regista ritrova a tratti la vena antiborghese di La morte ha fatto l’uovo» (Roberto Curti, Fantasmi d’amore. Il gotico italiano tra cinema, letteratura e tv, Lindau, Torino 2011, pp. 385-386). Videosera: a proposito di Lucio Battisti (1980) Programma ideato da Claudio Barbati e Claudio Manenza, realizzato da David Grieco e Giulio Questi; durata: 49’ Dall’interno della sede radiofonica di Radio Blu di Roma, i conduttori parlano di Lucio Battisti: l’attualità della sua musica, il rapporto che i giovani hanno con il cantautore, i pochi passaggi radiofonici delle sue canzoni. Un percorso nella carriera e nella complessa personalità di questo grande cantautore, fra interviste (la discografica Christine Leroux parla del significato che Battisti dà all’amicizia di una donna; David Shell Shapiro e Alessandro Colombini del silenzio che
si era creato intorno a Battisti e dei rapporti non idilliaci che la critica musicale ha avuto nei confronti del cantante; Maurizio Vandelli, Alberto Radius, Gianfranco Manfredi del carattere schivo di Battisti e del suo modo di lavorare; Gigi Vesigna, Giaime Pintor e Dario Salvatori spiegano il segreto del successo di Battisti attraverso l’analisi di alcune sue canzoni). Vampirismus (1982) Regia Giulio Questi; soggetto: da un racconto di E.T.A. Hoffmann; sceneggiatura: G. Questi; fotografia: Angelo Sciarra; scenografia: Antonio Capuano; costumi: Elena Mannini; montaggio: Orlando Marino; aiuto regia: Elena de’ Medici Porpora; fonico: Antonio Gambi; operatori di ripresa: Giandomenico de’ Medici, Massimo Palmieri, Giorgio Soccodato; origine: Italia; produzione: Rai; durata: 60’ Interpreti: Antonio Salines, Roberto Tesconi, Gino Maringola, Mariagrazia Marescalchi, Francesca Archibugi, Adolfo Geri, Gerardo Panipucci, Donato Placido, Paolo Poiret Vampirismus andò in onda su Rete Due il 24 luglio 1982, all’interno della serie Il fascino dell’insolito - Itinerari dalla letteratura gotica alla fantascienza, a cura di Angelo Ivaldi e Biagio Proietti. Gli altri episodi furono diretti dallo stesso Proietti, Mario Chiari, Massimo Manuelli, i fratelli Frazzi, Fabio Piccioni, Augusto Zucchi, Enrico Colosimo. «La Rete 2 alle 20.40 per il ciclo Il fascino dell’insolito presenta un racconto di Ernst Amadeus Hoffmann, […] che sconvolse gli animi col suo Vampirismus, ora portato in tv per la regia di Giulio Questi. Ancora i vampiri non avevano imparato – dalle pagine di Bram Stoker – a piovere alle spalle delle vittime mostrando gli sviluppati canini: le donne colpite dalla maledizione preferivano ritrovarsi nottetempo al banchetto fra le tombe e condurre il giorno una vita normale. Antonio Salines, Francesca Archibugi e Maria Grazia Marescalchi, freschi però di tutto quanto è stato detto e fatto sui vampiri in questo paio di secoli, evitano i modelli alla Klaus Kinski e si perdono in lunghi monologhi mentre lo spettatore attende “l’insolito” (e tardivo) evento: il vampirismo. Senza affanno assistiamo al truculento pasto, alle convulsioni diaboliche dell’astinenza, diluite in un’atmosfera
placata in cui i protagonisti sono sempre intenti a parlare d’altro» («l’Unità», 24 luglio 1982). «A dispetto del titolo, non è una storia di vampiri quanto di ghouls. Il conte Ippolito (Antonio Salines) accoglie come ospiti un’anziana donna (Mariagrazia Marescalchi) dal losco passato e la di lei poco più che adolescente figlia Aurelia (Francesca Archibugi), e, attratto dalla fanciulla, lascia che le due si insedino in casa, per poi sposare Aurelia, e scoprire che di notte la giovane sposa vaga per cimiteri dissotterrando e divorando cadaveri. Seguendo la traccia di Hoffmann, Questi divaga dal modello aristocratico del vampiro. Ippolito è un gentiluomo raffinato e alieno dalle cose del mondo […], mentre la “baronessa” è un’arrampicatrice sociale che si stabilisce in casa sua – in un’ironica parafrasi della regola per cui il vampiro deve essere invitato a entrare dalla vittima – come un parassita, abboffandosi di tè e pasticcini, ed è malvista dalla cerchia di aristocratici di cui Ippolito fa parte. Inoltre il soprannaturale non trova cittadinanza nel racconto: quella di Aurelia è una patologia mentale, una nevrosi frutto di traumi sessuali, e le sue scorribande notturne paiono la risposta viscerale alla sua esistenza diurna di sposa remissiva. Anche l’aspetto estetico ed estatico della vampirizzazione viene meno: dalla suzione alla masticazione, niente morsi alla giugulare, ma arti putrefatti divorati con ferina ingordigia, con un’insistenza sui particolari macabri e raccapriccianti che, secondo Roberto De Pol, anticipa “l’evoluzione di una certa moderna letteratura dell’orrore dove la causa scatenante dell’orrido non è il soprannaturale, ma la stessa follia umana o appunto un morbo sconosciuto e comunque l’effetto orrorifico risulta più importante che non la sua origine”. Se in Hoffmann, come ebbe a notare Furio Jesi, “il vampiro che si ciba di carne demolisce una concezione illuministica, razionale dell’uomo e del corpo umano” e il senso dell’apologo adombra una riflessione sulla crisi dell’aristocrazia, Questi appare invece più incerto: appaia lotta di classe in nuce e lotta dei sessi, ma è frenato nella descrizione dell’origine sessuale della patologia di Aurelia, e paga l’infelice scelta della futura regista Archibugi (a cui
chiede anche un paio di scene di nudo) nei panni di Aurelia. Ma la dimensione teatrale, addirittura claustrofobica, stavolta non è un impedimento ma un inatteso atout: la storia si svolge per intero nel palazzo di Ippolito, e l’unico rapporto con l’esterno è una grande vetrata nel salone che dà su un giardinocimitero dove avranno luogo il funerale della baronessa, il matrimonio e la scoperta delle attività notturne della sposa. A raffigurare un mondo chiuso e a sua volta, suo malgrado, putrescente» (Curti, Fantasmi d’amore. Il gotico italiano tra cinema, letteratura e tv, cit., pp. 392-393). Quando arriva il giudice (1986) Regia: Giulio Questi; soggetto e sceneggiatura: David Grieco, G. Questi; fotografia: Blasco Giurato; scenografia: Paolo Biagetti; costumi: Maurizio Monteverde; montaggio: Gabriella Cristiani; fonico: Fabio Ancillai; origine: Italia; produzione: Rai Due, Faso Tv, Cinecittà; durata: 60’ circa a puntata Interpreti: Jean-Luc Bideau, Mimsy Farmer, Teresa Ann Savoy, Clarita Gatto, Franco Fabrizi, Giuseppe Cederna, Claudio Cassinelli, Erika Blanc, Renato Scarpa, Toni Ucci, Elsa Vazzoler Cinque puntate andate in onda su Rai Due nel mese di luglio del 1986. «Sulla carta quella di Quando arriva il giudice sembra un’operazione interessante. E il primo dei cinque episodi (lo vedremo stasera alle 20.30, Rai Due) conferma l’impressione: personaggio simpatico, ambientazione credibile, situazioni narrative che si snodano con una certa fluidità. Il soggetto di Giulio Questi – che firma anche la regia – e di David Grieco (35enne, ex critico cinematografico, sceneggiatore da qualche anno, ha lavorato con Sergio Citti) risale a tre anni fa. Alla Rai si sono affiancati nella produzione Cinecittà e Achille Manzotti, produttore decisamente “commerciale” che però, da quando ha consentito a Nanni Moretti di fare sia Bianca che La messa è finita, è visto da non pochi cineasti come una delle rare speranze del cinema italiano. Giulio Questi è un personaggio dal percorso accidentato; la sua già lunga storia inizia nei primi Cinquanta: dapprima documentarista, […] è stato poi anche attore e quindi negli anni Sessanta autore di
film di genere (western, thriller). Dopo alcuni episodi sfortunati (doveva fare L’attenzione da Moravia, poi saltato) è entrato con entusiasmo nella tv. Quando arriva il giudice, dunque. Grandi modelli letterari e cinematografici – soprattutto Marlowe, la più celebre creatura di Raymond Chandler – illuminano molto palesemente “l’occhio privato” inventato da Questi e da Grieco: un ex giudice che ha mollato carriera, sicurezza, prestigio un po’ per via di un incidente di percorso un po’ per desiderio di cambiare e di vivere più intensamente, fa l’investigatore e il suo ufficio, che come il suo aspetto è molto malandato – alla Colombo –, sta sul galleggiante di uno stravagante zio fiumarolo (il Tevere, ha detto il regista, è stato all’origine del progetto). Chi è ancora il Giudice (malgrado non lo sia più, tutti continuano a chiamarlo così)? È un uomo sposato ma separato dalla moglie che ama e lo ama ancora; nonostante la sua attività non gira mai armato; possiede una spyder; fuma il Toscano. Un filosofo più che un poliziotto, un uomo (molto sconclusionato all’apparenza, ispirato da un grande rigore morale nella sostanza) molto prima che un detective. Si accontenta di farsi dare – quando lo pagano – 50 mila al giorno più le spese. Pare che Quando arriva il giudice, sfruttando primo e terzo episodio (L’uomo che sapeva troppo poco e Siamo a cavallo) sarà anche un film. Davvero eccellente la scelta e la prestazione dello svizzero Jean-Luc Bideau nel ruolo di protagonista […]: più intelligente di Elliot Gould, più acuto di Peter Falk. Azzeccato anche il contorno di Toni Ucci (lo zio fiumarolo) e di Mimsy Farmer (la moglie). Due osservazioni. Prima. Allestire delle strutture poliziesche davvero funzionanti è molto difficile. E non fa parte della nostra tradizione. Non è un caso che, come in tante precedenti occasioni, anche Questi sia riuscito più sul versante umoristico e “morale” che non su quello poliziesco. Non è un telefilm Usa, si dirà, ma un telefilm europeo-italiano. D’accordo, va bene; ma resta il fatto che la padronanza dei meccanismi di suspense, qui da noi, è cosa assai rara. Seconda. È un po’ un’occasione sprecata. Perché? Cinque episodi non fanno né la compattezza del film né la familiarità della serie. Inventato un personaggio valido lo si poteva forse sfruttare un po’ più a lungo» (Paolo D’Agostini, in «la Repubblica», 3 luglio 1986).
Non aprite all’uomo nero (1990) Regia: Giulio Questi; soggetto e sceneggiatura: David Grieco, G. Questi; fotografia: Mario Vulpiani; scenografia: Paolo Biagetti; costumi: Nicoletta Ercole; musica: Pino Donaggio; montaggio: Franco Fraticelli; supervisione alla produzione: Mario Cotone; direttore di produzione: Gino Santarelli; fonico: Gianni Zampagni; aiuto regia: Stefano Consiglio; segretaria di edizione: Susanna Pellegrini; operatore: Claudio Morabito; origine: Italia; produzione: Lida Berardi per Rai; durata: 90’ Interpreti: Aurore Clément, Giuliano Gemma, Claudia Muzii, Stefania Orsola Garello, Renato Cecchetto, Yves Collignon, Carla Cassola, Riccardo Parisio Film per la televisione andato in onda il 26 dicembre 1990 su Rai Due. «La paziente di una psichiatra si uccide. O almeno così pare. La donna, aiutata da una amica (che muore a sua volta in circostanze drammatiche), cerca di scoprire le vere cause della morte. Infine l’inattesa verità: a tentare l’omicidio è stato il compagno della psichiatra, uno schizofrenico» (Roberto Poppi, Dizionario del cinema italiano. I film. Dal 1980 al 1989. Vol. 5, tomo 2, M-Z, Gremese, Roma 2000, p. 79). Il segno del comando (1992) Regia: Giulio Questi; soggetto: dal romanzo omonimo di Giuseppe D’Agata; sceneggiatura: David Grieco, G. D’Agata; fotografia: Edmond Richard; scenografia: Emile Ghigo; costumi: Mic Cheminal; musica: Luis Enriquez Bacalov; montaggio: Franco Fraticelli; organizzatore generale: Alain Bessaudou; direttore di produzione: Denise Cassotti; assistenti alla regia: Josette Barnetche, Xavier Lavant, Lucile Christol, Pierre-Yves Gayraud; produzione: Arturo e Olivia La Pegna per Reteitalia, Pat Inc., Avenir Production; durata: 212’ Interpreti: Robert Powell, Elena Sofia Ricci, Jonathan Cecil, Fanny Bastien, Paolo Bonacelli, Sonia Petrovna, Maxime Leroux, Alexandra Stewart, Michel Bouquet, Anik Belaubre, Bernard Charnacè, Jacques Ciron, Eric Civanian, Muse D’Albray, Francois Dalou, Charles Antoine Decroix, Henri Delmas, Andrè Dumas, Martine Ferriere, Bernard
Freyd, Suzel, Goffre, Sophia La Hayville, Valerie Leboutte, Fabiene Mai, Sandrine Manciet, Bernard Musson, Jean-Marie Robain, Pierre Vial Girato a Parigi nell’estate del 1988, ma trasmesso solamente quattro anni dopo, il 19 agosto su Canale 5 alle 20.30, in una versione ridotta di 90’ (il film doveva essere in due puntate e venne compresso in un’unica puntata). «Vent’anni dopo. Esattamente ventun anni fa – correva il 1971: (come correva, com’è passato presto) – Il segno del comando […]. È una storia gotica. Pugnali nella notte, ombre e fantasmi del passato. Luoghi misteriosi. Ritratti che parlano. Personaggi che si reincarnano. E l’altro ieri, mercoledì sera – vent’anni dopo – Il segno del comando è tornato. In un film per la tv sceneggiato da David Grieco e Giuseppe D’Agata, diretto da Giulio Questi. I protagonisti di allora: Ugo Pagliai e Carla Gravina. I protagonisti di oggi (cioè ieri, l’altro ieri) Robert Powell […] ed Elena Sofia Ricci. La storia: la stessa o pressappoco. C’è un giovane professore di Cambridge, studioso di Byron, che trova in un manoscritto del suo amato poeta una indicazione conturbante. Che rinvia ad una predizione, che rinvia ad una maledizione. C’è stato nella storia un personaggio enigmatico che nasce il 30 giugno 1750 e muore esattamente quarant’anni dopo, nel giorno del suo compleanno. Niente di male, fin qui. Ma ce n’è stato un altro. Data di nascita: 30 giugno 1850, data di morte: 30 giugno 1890. Al professore-protagonista passa un bel brivido per la schiena (e vorrei veder voi al suo posto). Si ricorda di essere nato esattamente il 30 giugno 1950 (Anno Santo). Si rende conto che manca una settimana al suo fatale compleanno: 30 giugno 1990. Vuoi vedere che tocca anche a lui la stessa sorte? Vuoi vedere che egli altro non è che l’incarnazione di quel curioso personaggio che nasce e muore a scadenze fisse? Ma in una settimana quante ne possono succedere. Perché non è detto che debba finire tutto per forza male, come al solito. Se gli riesce di indovinare una certa misteriosa piazza parigina: con una fontana in mezzo, con sopra un angelo; se gli riesce di trovare, a dodici passi da quell’angelo, il “segno del comando”, può sfuggire al suo lugubre, gotico destino: è salvo. C’è una spiegazione che dia conto del successo di una
storia gotica come questa: e di tutte le storie gotiche (castelli, pugnali, fantasmi) che ci raccontiamo a far tempo dal Settecento? Ce ne sono tante. […] Mi limito a riferire l’ultimissima, dovuta ad uno studioso americano che si chiama Walter Kendrick (The thrill of fear: Il brivido della paura, New York 1991). Se i morti tendono a ritornare, da duecentocinquant’anni a questa parte, è perché non li abbiamo seppelliti bene. Li abbiamo sepolti in fretta. Fino a duecentocinquanta anni fa, noi la morte la guardavamo in faccia. Ci tenevamo il cadavere del caro estinto in casa, per un po’ di giorni. Sentivamo l’odore dolciastro e sgradevole della decomposizione. […] Ci si aspetta che si faccia vivo dall’aldilà con un miracolo. Altro che miracolo. Con sorpresa di tutti ci si rende conto che il cadavere comincia a decomporsi, a puzzare. Niente da fare. La morte è la distruzione, la decomposizione fisica (con tutte le conseguenze olfattive) della persona. Inutile negarselo. Ce lo siamo negato. L’abbiamo rimosso. Cerchiamo di non saperlo. E i morti tornano – nei film nei fumetti nei romanzi – per rammentarcelo. Bei discorsi da fare negli ultimi giorni delle vacanze, direte. Avete ragione. Ma questo è il discorso, dovevo nasconderlo? Se l’avessi fatto, avrei dovuto occuparmi più distesamente del Segno del comando visto mercoledì sera su Canale 5. È bello, è brutto? È recitato bene, è recitato male? Mi trovo in grande imbarazzo. Non so dirlo. Perché questo nuovo Segno del comando che abbiamo visto l’altra sera è un cadavere, ampiamente mutilato. Doveva essere diviso in due puntate. È stato trasmesso in una puntata sola, abbreviata. Doveva durare cento minuti in più, è durato cento in meno. Doveva essere trasmesso due anni fa (considerate la data fatidica: 30 giugno 1990…), è stato trasmesso solo adesso, dopo essere stato conservato per due anni in una cripta. Perché? E chi lo sa. Va a capire. Viviamo nella civiltà dell’informazione. Quindi, come al solito, ci raccontano di tutto e non ci fanno capire niente. Una cosa è sicura. Il segno del comando: film costosissimo, con non pochi elementi di pregio, da quel che si è intravisto (il direttore della fotografia era per esempio Edmond Richard, fotografo di Orson Welles, di Buñuel, di Fellini) doveva essere, per qualche ragione a noi sconosciuta, imbarazzante. È stato sepolto in fretta. Poi si
lamentano: quando i morti tornano, per darci fastidio. Teniamoci pronti per il terzo Segno del comando: fra vent’anni» (Beniamino Placido, Seppellite in fretta quel segno del comando, in «la Repubblica», 21 agosto 1992). L’ispettore Sarti 2 (1994) Regia: Giulio Questi; durata: 90’ a puntata Interpreti: Gianni Cavina, Cristiana Borghi, Nicola Pistoia, Salvatore Calaciura, Roberto Accornero, Daniela Poggi, Leonardo Treviglio, Giulia Urso, Daniela Morelli Giulio Questi ha diretto la seconda stagione di telefilm sul celebre ispettore creato da Loriano Macchiavelli. La serie si componeva di sei episodi. I primi cinque sono stati diretti da Questi e girati in Italia (La ghironda dagli occhi azzurri, Pressing col morto, Brindisi di compleanno, Il patto, L’ombra dell’angelo). Il sesto, Overdose, è stato invece girato in Germania per esigenze di coproduzione ed è stato diretto da Marco Serafini. Sono andati in onda su Rai Due dal 3 maggio al 7 giugno 1994. Regista e sceneggiatore del primo ciclo di telefilm è stato Maurizio Rotundi. Sulla scorta dei romanzi del giallista Loriano Macchiavelli, la serie porta in scena un poliziotto “all’italiana”: Gianni Cavina veste l’impermeabile dell’ispettore Sarti per le vie di una Bologna inedita, dark e notturna, piena di misteri e poco godereccia. Attorno alla figura del protagonista ruotano quelle dell’amico informatore intellettuale-anarcoide Rosas, della misteriosa fidanzata Leda, del commissario Raimondi. «“Quando mi sono trovato in mano le sceneggiature dell’ispettore Sarti, tutte assieme, mi sono spaventato. Le braccia mi si sono piegate. Almeno dieci chili! Poi le ho lette e mi sono spaventato ancora di più. Troppa roba. Troppi fatti, troppi dialoghi, troppo di tutto. Allora sono andato a Bologna per conoscere Gianni Cavina, ovvero l’ispettore Sarti in persona”. E a Bologna, a contatto con Cavina e con la sua vitalità “ingombrante”, Giulio Questi ha capito come girare i cinque episodi de L’ispettore Sarti: un poliziotto, una città che andranno in onda dal 3 maggio, ogni martedì, su Rai Due. L’unico modo era lasciar perdere i copioni e affidarsi a corpo
morto al personaggio. “Un uomo-natura”, dice Questi, un “eccesso fisiologico ed emotivo” in cui ogni difetto si trasforma in una virtù. Ora li vedremo, questi episodi. Non è la prima volta che l’ispettore Sarti arriva in tv. Ci ritorna grazie alla produzione di Max Gusberti e Francesco Tarquini per la Rai, di Leo Pescarolo (che ora vorrebbe far girare a Questi anche un film, sul tema dell’usura) e Guido De Laurentiis per la Ellepi. Giulio Questi ci ha già girato per la tv la serie Arriva il giudice, scritta assieme a David Grieco e interpretata da Jean-Luc Bideau: “Ma quella era più raffinata, un tentativo di ricreare un modello letterario, di ritrovare Philip Marlowe sul Tevere. L’ispettore Sarti è più sanguigno”» (Questi, in Crespi, Il mio western, la Resistenza, cit.).
Il cinema digitale di Giulio Questi Doctor Schizo e Mister Phrenic (2002) Regia: Giulio Questi; origine: Italia; produzione: Solipso Film; distribuzione: Ripley’s Film; durata: 15’ In genere le convivenze sono difficili. Ma ancora di più difficile è la convivenza col proprio doppio se una persona vive sola. In questo caso la schizofrenia è in agguato in ogni angolo della casa. Lettera da Salamanca (2002) Regia: Giulio Questi; origine: Italia; produzione: Solipso Film; distribuzione: Ripley’s Film; durata: 21’ Nel pieno della notte, mentre il protagonista è intento a sfogliare un libro, qualcuno suona alla porta. Lo sconosciuto è un uomo senza volto, ma col cappello. Ha con sé una lettera importante da consegnare. Tatatatango (2003) Regia: Giulio Questi; origine: Italia; produzione: Solipso Film; distribuzione: Ripley’s Film; durata: 14’ Un anonimo appartamento. Due uomini e una donna. Un classico triangolo per un dramma della gelosia. Un tango di Gardel… Mysterium noctis (2004) Regia: Giulio Questi; origine: Italia; produzione: Solipso Film; distribuzione: Ripley’s Film; durata: 35’ Un blackout in una notte senza fine. Alla luce delle candele il protagonista tiene un diario. Ma nel silenzio nascono incubi e ossessioni d’ogni tipo (anche cinefile). Ma l’alba tanto attesa è una falsa salvezza. Repressione in città (2005) Regia: Giulio Questi; origine: Italia; produzione: Solipso Film; distribuzione: Ripley’s Film; durata: 26’
Due agenti della squadra speciale Gay-Lussac al servizio della Società del Gas penetrano nell’appartamento di un pacifico utente mentre sta facendo il bagno. Lo accusano di aver sottratto molecole alla Società mediante un magnete applicato sui tubi dell’impianto di casa allo scopo di arricchire la propria anima. Vacanze con Alice (2005) Regia: Giulio Questi; origine: Italia; produzione: Solipso Film; distribuzione: Ripley’s Film; durata: 18’ Suggestionato dalla lettura di Alice nel paese delle meraviglie, un anziano signore in vacanza evoca una bella bambina che, perdutasi in un bosco, gli chiede aiuto. Ben presto verranno svelate le reali intenzioni dell’uomo e la sua pedofilia verrà punita dalla bambina che egli stesso ha evocato. Visitors (2006) Regia: Giulio Questi; origine: Italia; produzione: Solipso Film; distribuzione: Ripley’s Film; durata: 22’ Sono passati sessant’anni dalla guerra civile degli anni 1944-1945, ma i morti non hanno pace, aggirandosi come anime in pena. Non possono scomparire finché sia ancora in vita qualcuno che li abbia in qualche modo conosciuti. Lola (2009) Regia: Giulio Questi; musica: Stefano Galeone; origine: Italia; produzione: Solipso Film; durata: 30’ «Il tempo è una convenzione. Se essa viene scardinata, tutte le altre cadono infrante. Una lettera: Lola, una strip-teaseuse del Crazy Horse di Parigi. Riaffiora un amore di cinquant’anni fa. Senza più barriere» (66ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica 2009, cit., p. 337).
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nel mese di agosto 2014 da Rubbettino print per conto di Rubbettino Editore srl 88049 Soveria Mannelli (Catanzaro) www.rubbettinoprint.it
CINEMA Franz Kafka/Orson Welles: il processo, a cura di Luigi Cimmino, Daniele Dottorini, Giorgio Pangaro Il portaborse vent’anni dopo, a cura di Italo Moscati Dal cuore della tenebra all’Apocalisse. Francis Ford Coppola legge Joseph Conrad, a cura di Luigi Cimmino, Daniele Dottorini, Giorgio Pangaro Strane storie. Il cinema e i misteri d’Italia, a cura di Christian Uva Giacomo Ravesi, La città delle immagini. Cinema, video, architettura e arti visive Andrea Minuz, Viaggio al termine dell’Italia. Fellini politico Sergio Castellitto. Senza arte né parte, a cura di Enrico Magrelli Così bella così dolce. Dalle pagine di Dostoevskij al film di Bresson, a cura di Francesco Bono, Luigi Cimmino, Giorgio Pangaro Kristin Thompson, Storytelling. Forme del racconto tra cinema e televisione Paola Dalla Torre, Sognando il futuro. Da 2001: Odissea nello spazio a Inception Istantanee sul cinema italiano. Film, volti, idee del nuovo millennio, a cura di Franco Montini e Vito Zagarrio In nome della legge. La giustizia nel cinema italiano, a cura di Guido Vitiello Alan O’Leary, Fenomenologia del cinepanettone Victor Rambaldi, Carlo Rambaldi. Una vita straordinaria Morte a Venezia. Thomas Mann / Luchino Visconti: un confronto, a cura di Francesco Bono, Luigi Cimmino, Giorgio Pangaro Giuseppe Ghigi, Le ceneri del passato. Il cinema racconta la Grande guerra Giulio Questi, Se non ricordo male. Frammenti autobiografici, raccolti da Domenico Monetti e Luca Pallanch