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Italian Pages 230 Year 2006
Scegliere un'etica
il Mulino Collezione di Testi e di Studi
Indice
Presentazione, di Luca Fonnesu Prefazione
p.
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PARTE PRIMA: L'IMPRESA DELLA FILOSOFIA MORALE
I.
La filosofia del linguaggio in etica
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II.
Difesa dell'impresa
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PARTE SECONDA: TASSONOMIA DELLE TEORIE ETICHE
III.
La tassonomia
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IV.
Il naturalismo
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V.
L'intuizionismo
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VI.
L' emotivismo
141
VII. Il razionalismo
167
6
INDICE
PARTE TERZA: KANT
VIII. Kant utilitarista?
p. 191
Riferimenti bibliogr~fici
215
Indice analitico
241
Indice dei nomi
247
Presentazione
l. Richard Mervyn Hare (1919-2002) è stato uno dei filosofi più rappresentativi dell'etica del XX secolo a partire dal suo primo libro, Il linguaggio della morale (1952), per finire con questo Scegliere un'etica (Sorting Out Ethics), pubblicato nel 1997, che raccoglie i lavori, in gran parte inediti, degli ultimi anni. Nel sottolineare il carattere rappresentativo dell'opera di Hare non si vuole ricordarne soltanto l'importanza, ma anche il carattere per più aspetti esemplare rispetto alla filosofia morale novecentesca. Il suo percorso intellettuale, infatti, rispecchia per alcuni tratti rilevanti i problemi con i quali la teoria etica contemporanea si è dovuta confrontare fino agli anni più recenti. La teoria etica del Novecento si apre con la pubblicazione dei Principia Ethica di Moore (1903 ), che inaugurano una stagione nuova della quale lo stesso Moore sembra orgogliosamente consapevole quando dichiara pubblicamente, nella prefazione dell'opera, di avere voluto fornire una sorta di «prolegomeni» ali' etica come scienza. ProgratJlmaticamente, e in sintonia con quanto negli stessi annì, su altri versanti, sta facendo Bertrand Russell, e farà in un breve lasso di tempo Wittgenstein, ciò che viene sottolineato è quell'attenzione per il linguaggio che sarà centrale in tutta la filosofia successiva. Chiarire i termini linguistici che vengono utilizzati, e chiarire in che modo le questioni vengono impostate sul piano linguistico, costituisce e deve costituire una parte importante del lavoro dei filosofi morali che, nelle parole del Moore dei Principia, hanno finora sottovalutato questo aspetto: diventa così centrale, anche in etiça; la considernzione del linguaggio e in particolare della teoria del significato. È noto quanto questo atteggiamento filosofico abbia dato luogo a una tradizione detta «analitica», e quanto nel tempo questa tradizione si sia modificata e arricchita, perdendo magari alcune
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PRESENTAZIONE
connotazioni di rigidità, e perfino scolastiche, che l'hanno contrassegnata; ma non è questo il luogo per discutere tali complessi sviluppi. Certo è che la riflessione sull'etica ne ha fortemente risentito, e che la discussione contemporanea sulle questioni morali non solo deve tenere conto di questa impostazione, ma è piuttosto da essa che riceve i propri tratti caratterizzanti. Nel dibattito etico contemporaneo, e in parte anche in quello filosofico-politico, la filosofia di tradizione anglosassone sembra avere assunto una posizione dominante; nel che, anche per chi non ne condivida, in tutto o in parte, gli assunti, si fa poco più di una constatazione. A partire dall'opera di Moore, e sulla sua scia, la riflessione sull'etica si articola in due principali ambiti di indagine che, in particolare intorno agli anni Trenta, si fanno sempre più distinti, ben più distinti che nel loro luogo di origine. L' attenzione per il linguaggio della scienza e per la conoscenza scientifica che caratterizza l'empirismo logico induce infatti uno dei suoi rappresentanti, Alfred Jules Ayer [1936], a espellere l'etica dall'ambito della conoscenza vera e propria, e a ridurre il compito della filosofia morale alla considerazione del significato dei termini etici, o alla meta-etica, che deve essere tenuta ben distinta dall'etica come ricerca dei criteri di correttezza morale delle azioni, o etica normativa, della quale i filosofi · (contrariamente a quanto pensa ancora Moore, ma anche altri filosofi significativi come Prichard, o William David Ross) non sembrano doversi occupare. È in questa prospettiva che la meta-etica assume una posizione centrale in filosofia morale, come indagine ritenuta neutrale dal punto di vista normativo e come vero campo di attività della filosofia. Nel volgere di qualche decennio, la crisi dell'epistemologia dell'empirismo logico - o di alcuni aspetti di essa - e la consapevolezza dei molti problemi cui questa impostazione dà luogo modificano però profondamente il panorama: da un lato, entra in crisi l'idea che una prospettiva meta-etica possa essere davvero neutrale sul piano normativo, dall'altro, e parallelamente, viene messa in discussione anche l'idea che i filosofi si debbano occupare soltanto di meta-etica. Oltretutto, questa concezione limitata dell'etica sembra renderla del tutto incapace di affrontare le questioni morali reali, che si ritiene non possano essere del tutto ignorate dall'attività dei filosofi. Si assiste così, nel corso degli anni, a un prepotente ritorno di interesse per l'etica
PRESENTAZIONE
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normativa - che non tutti, benÌnteso, avevano abbandonato - e che trova un primo esito, e in un certo senso un nuovo punto di partenza, nella Teoria della giustizia diJohn Rawls, del 1971. Negli anni successivi, sarà eventualmente proprio la meta-etica a essere trascurata, magari sfumando - fin troppo - i confini tra aspetti normativi e meta-normativi. Prima di dire qualcosa su Hare, vale la pena di accennare almeno a un altro tratto della discussione etica novecentesca, questa volta riguardante in senso più stretto i problemi della meta-etica. Come si è accennato, il punto di partenza di questo ambito di indagine - che in sé non è naturalmente una novità del XX secolo, come mostrava Felix E. Oppenheim in un libro del 1968 che vale ancora ampiamente la pena di essere letto, Mora! Principles in Politica! Philosophy 1 - è stato lo studio del significato dei termini come «buono», «giusto» o «dovere»: esemplari, in questo senso, sono proprio i Principia Ethica di Moore, o un libro importante come Il giusto e il buono di William David Ross [1930]: Negli anni Cinquanta, autori come Toulmin, Nowell-Smith e lo stesso Hare, anche per l'influenza di nuove riflessioni sul significato sviluppate nel frattempo da Wittgenstein, estendono l'indagine dai termini agli enunciati, ciò che significa anche tentare di intenderne il significato attraverso il loro uso. In questa direzione, il contributo di Hare si dimostra davvero decisivo per la caratterizzazione dei giudizi morali, e quindi per circoscrivere la sfera della moralità2 • I giudizi morali, per Hare, hanno due elementi essenziali che li caratterizzano: essi sono prescrittivi e universalizzabili, come tornerà sempre a ribadire, seppur con sfumature diverse, fino a Scegliere un'etica, intersecando la teoria del significato con l'analisi del ragionamento morale. Le tesi di Hare si sono imposte ben presto nella discussione filosofica, e hanno costituito un punto di riferimento per chi si sia occupato di teoria etica3 • Il dibattito più recente, poi, anche in polemica nei confronti di Hare, ha spostato l'attenzione dal piano del significato al piano dell'ontologia: un contributo importante, in questo senso, è stata l'Etica di John L. Mackie [1977], che oltre a sostenere con decisione una teoria soggettivistica dei valori morali («Non esistono valori morali oggettivi»), ha p110mosso l'idea che l'indagine sull'ontologi•a dei valori morali non possa essere esaurita dall'indagine linguistica, sul significato. La questione dell'esistenza
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PRESENTAZIONE
di fatti morali e di valori morali oggettivi, per Mackie, non può cioè essere risolta affrontando la questione del significato dei termini e degli enunciati morali. Al problema del significato degli enunciati morali - per esempio se questi siano o meno dotati di un valore di verità (se possano essere veri o falsi), o se abbiano soltanto un significato descrittivo (come accade nel naturalismo) - è stato posto accanto, e talvolta contrapposto, il problema «ontologico» dell'esistenza di fatti moi:_ali, che ha dato luogo alla divisione tra realisti e antirealisti. E quest'ultima divisione, oggi, che appare la più diffusa, nelle diverse sfumature dei termini «realismo» e «antirealismo». 2. Si è detto del carattere «esemplare» della vicenda intellettuale di Hare: è un carattere, questo, che ritroviamo nel suo pensiero proprio in riferimento ai due aspetti or ora menzionati, il rapporto tra meta-etica ed etica normativa e la ricerca di un criterio di distinzione in meta-etica, ovvero la ricerca su quale sia l'oggetto del contendere quando si discute della natura dei giudizi morali. Per quanto riguarda il primo aspetto, la posizione di Hare va incontro a modificazioni notevoli, nel corso del tempo, mentre per il secondo essa rimane costante, anche se è consapevole del sussistere e del presentarsi, nel dibattito filosofico, di criteri alternativi al proprio. Particolarmente interessante, e particolarmente esemplare, è il percorso di Hare in riferimento al rapporto tra meta-etica, o indagine sulla natura dei giudizi morali, ed etica normativa. Tra Il linguaggio della morale e gli scritti degli anni Settanta, che trovano un esito ne Il pensiero morale (1981), la sua posizione va infatti incontro a una sostanziale revisione. Nel libro del 1952 Hare afferma già dalla Prefazione che l'etica è «lo studio logico del linguaggio della morale», e prende quindi posizione in favore di un certo compito della filosofia morale (come analisi del linguaggio morale) e di una sostanziale neutralità di questa indagine per quel che riguarda il piano normativo (per quanto, naturalmente, il ragionare correttamente non sia ritenuto indifferente per la soluzione dei problemi pratici). Il confine tra meta-etica ed etica normativa incomincia a essere meno netto con Libertà e ragione, il secondo libro importante di Hare (1963), e viene messo decisamente in crisi nel saggio Teoria etica e utilitarismo (1976) e poi nel Pensiero morale. La teoria del linguaggio morale porta con sé una teoria del
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ragionamento morale che attraverso una semplice analisi della correttezza del ragionamento vorrebbe concludere a una specifica teoria normativa, l'utilitarismo, sulla base dell'uguale considerazione delle preferenze degli individui: si tratta della versione dell'utilitarismo detto «delle preferenze», una delle forme che ha avuto maggior diffusione negli ultimi anni. Grazie alle preferenze, la teoria del valore non solo non si concentra su un unico valore (ciò che avviene nelle versioni monistiche, come l'edonismo, per cui l'unico valore intrinseco è il piacere o la felicità espressa in termini di piacere), ma nemmeno su un valore dato, lasciando spazio alle preferenze degli individui coinvolti dall'azione. Il valore da massimizzare sarebbe quindi la soddisfazione delle preferenze degli individui. Ciò che interessa sottolineare qui non è tanto la correttezza di questa versione dell'utilitarismo - tutt'altro che' scontata, ma che ha altri sostenitori autorevoli, come l'economista John Harsanyi4 - quanto far notare che nel tempo Hare ha ritenuto di dover tenere conto dei problemi, fatti rilevare da molti, di una teoria meta-etica che pretenda di essere neutrale sul piano normativo. Il problema è se una presa di posizione normativa possa essere del tutto indipendente dalla teoria sulla natura degli enunciati morali (o meta-etica) che si assume. Questo problema ha poi un altro aspetto strettamente collegato, che ha preoccupato profondamente anche Hare: se una teoria sulla natura dei giudizi morali è completamente neutrale, la correttezza del ragionamento morale può essere del tutto compatibile con posizioni morali aberranti, quali quelle del nazista o del fanatico, che potrebbero costruire una teoria morale pur aberrante, ma coerente. È questo il rischio' che preoccupa Hare ed è anche per questo che il filosofo rispecchia il percorso dell'etica del Novecento: sullo sfondo, c'è la sostenibilità delle posizioni morali, che va dalla possibilità di giudicare negativamente il ragionamento del fanatico alla possibilità di sostenere battaglie per i diritti civili (o almeno di individuare, per queste prese di posizione, una legittimazione teorica). Indipendentemente dal fatto che si condivida la soluzione di Hare, o di altri, è certo che si tratta qui del problema fondamentale della meta-etica: il disaccordo morale, e i modi per affroni:arlo (sempre che ciò sia possibile, sul piano teoric9, e con la consapevolezza che può avere enormi conseguenze pratiche). Nel corso del tempo, meta-etica ed etica normativa sembrano per Hare diventare
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l'una funzione dell'altra: un ragionamento morale corretto e un uso corretto dei termini ha - e non può non avere - per esito una certa posizione normativa, l'utilitarismo delle preferenze. Questo atteggiamento teorico, presente in Hare a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, lo ritroviamo in Scegliere un'etica, in particolare in alcuni suoi capitoli (nella prima parte, nel capitolo 1, e poi, soprattutto, nel capitolo dedicato ad illustrare la propria posizione, il capitolo 7). Per il secondo aspetto che abbiamo menzionato (se oggetto principale dell'indagine debbano essere questioni semantiche o questioni ontologiche), si tratta del tema con il quale si apre Scegliere un'etica, di cui bisogna ora cominciare a parlare. 3. Scegliere un'etica è composto di tre parti distinte, tra le quali la collocazione centrale della seconda parte, dedicata alla tassonomia delle teorie etiche, corrisponde alla sua effettiva maggiore importanza: è soprattutto questa parte, come vedremo, che rende il libro di particolare interesse, nella pur vasta produzione filosofica di Hare5 • La prima parte riguarda l'impresa della filosofia morale, e in particolare l'importanza dell'indagine filosofica sul linguaggio per la filosofia morale, la seconda, appunto, una tassonomia delle diverse concezioni sulla natura dei giudizi morali, mentre la terza, la più breve, è dedicata a mostrare, in una direzione consapevolmente poco ortodossa, la compatibilità dell'utilitarismo con l'etica kantiana, fino a suggerire una possibile interpretazione dell'etica critica come etica utilitaristica. La prima parte di Scegliere un'etica costituisce al tempo stesso un sommario del proprio pensiero e una rivendicazione dell'indagine fondata sui problemi del linguaggio. Emergono qui le caratteristiche fondamentali dei giudizi morali secondo Hare - prescrittività e universalizzabilità - insieme con la discussione dell'importanza della teoria degli atti linguistici di Austin per l'indagine etica. Alla base di questa prima parte c'è, lo si è accennato, la rivendicazione dell'impresa della filosofia morale come impresa fondata sull'indagine semantica, con l'esplicito rifiuto di accettare il nuovo terreno indicato, tra gli altri, anche da Mackie, ovvero quello ontologico. Per Hare, rimane valido il principio per cui i problemi ontologici possono essere ricondotti, se hanno un senso, ai problemi linguistici:
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ho cercato di dimostrare che la presunta disputa tra realisti e antirealisti, ammesso che sia autentica, si trasforma immediatamente in una disputa non ontologica, bensì concettuale, e che non c'è modo di formulare chiaramente questa pretesa disputa sulla questione se ci siano davvero fatti morali o proprietà morali in rerum natura senza tradurla nei termini di una disputa sul modo in cui i termini morali acquistano il significato che hanno (cfr. infra, cap. 3, par. 1, pp. 76-77).
La parte più rilevante di Scegliere un'etica, lo si è detto, e lo dichiara lo stesso Hare, è sicuramente quella centrale, dedicata alla tassonomia delle teorie etiche. Questi capitoli sono un vero pezzo di bravura ed anche al di là dell'interesse per il pensiero di Hare costituiscono un utilissimo e serrato esame della riflessione novecentesca sulla natura dei giudizi morali. Dal punto di vista della filosofia di Hare, poi, queste pagine costituiscono in sostanza l'unica occasione in cui il filosofo si confronta sistematicamente con le altre teorie del Novecento, per costruire la propria posizione nel confronto con posizioni distinte. Una figura e una tabella (cfr. infra, p. 74) ci presentano infatti da un lato la tassonomia delle teorie meta-etiche, dall'altro quali siano, a parere di Hare, i requisiti di adeguatezza di una teoria della morale. Sulla base di questi requisiti di adeguatezza, Hare si dedica all'esame di ciascuna teoria per condurre il lettore alla conclusione che soltanto la propria teoria soddisfa tutti i criteri ed è quindi davvero convincente. Non che si debba, naturalmente, condividere la posizione di Hare, ma l'operazione è davvero esemplare per la sua chiarezza, oltre che per la finezza delle singole analisi, e merita di essere presa sul se'rio. Hare fa emergere la propria teoria dall'analisi delle teorie concorrenti, e si sottopone volentieri, con un velo d'ironia, all'accusa di eclettismo, se ciò deve significare riuscire a ereditare gli elementi convincenti delle altre teorie, evitandone i difetti. Ma vediamo, sommariamente, l'impianto della sua trattazione. Le due principali famiglie dell'indagine etica sono per Hare il descrittivismo e il non-descrittivismo: tra i modi, fondati su criteri diversi,· per distinguere le teorie sulla natura dei giudizi morali, Hare ritiene infatti che questa coppia sia la più convincente e la più esaustiva, riesca cioè a raccogliere sotto di sé tutte le teorie, classifkandole in modo efficace. Non importa tornare sull'inadeguatezza (per Hare) della coppia realismo/antireali-
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smo, della quale si è già detto, ma Bare non trova - né ha mai trovato - convincente nemmeno l'opposizione tradizionale tra cognitivismo e non-cognitivismo che ha dominato a lungo nel dibattito anglosassone e che ancora oggi viene talvolta utilizzata6. Il motivo che Bare adduce, in effetti, non è peregrino: il fatto che gli enunciati possano o meno essere veri o falsi (cioè verofunzionali) -lo spartiacque tra cognitivisti e non-cognitivisti - non è in realtà secondo Bare un criterio di distinzione genuino ed efficace. La posizione non-descrittivistica, ivi inclusa la posizione del prescrittivismo universale - cioè la posizione dello stesso Bare - può infatti tranquillamente accettare che i giudizi morali abbiano anche un valore di verità, ma non è questo aspetto che ne spiega la specificità come giudizi morali. Il fatto è che la sintassi e le condizioni di verità non sono sufficienti, dal punto di vista del non-descrittzvismo, per determinare interamente il significato dei giudizi morali, ma non è sufficiente per caratterizzare i giudizi morali nemmeno la semplice negazione che abbiano un valore di verità (come pensa chi si serve di questo criterio), perché in realtà lo possono avere. Di qui la convinzione della necessità di un nuovo criterio e la divisione proposta da Bare tra descrittivismo, per il quale i significati delle asserzioni morali sono determinati interamente dalla sintassi e dalle condizioni di verità, e il non-descrittivismo, che lo nega. Tanto il descrittivismo quanto il non-descrittivismo hanno nello schema di Bare varianti, o sottodivisioni, che corrispondono alle grandi correnti della meta-etica del Novecento. Il descrittivismo comprende il naturalismo e l'intuizionismo (che si differenziano nel riconoscimento di proprietà genuinamente morali come condizioni di verità, negate dal naturalismo e affermate dall'intuizionismo), mentre il non-descrittivismo comprende la posizione emotivistica di Ayer e di Stevenson, da un lato, e il prescrittivismo universale di Bare, dall'altro, che costituisce la forma razionalistica del non-descrittivismo. Bare prende accuratamente in esame le diverse teorie, tentando di mostrare quanto il naturalismo e l'intuizionismo, che sono le forme principali del descrittivismo, cadano necessariamente, per motivi in sostanza affini, proprio in quel relativismo che intendono combattere (entrambi si scontrano con il problema del disaccordo morale). Più affine, Bare si sente nei confronti della posizione non-descrittivistica rappresentata dalle tesi di Ayer o di Stevenson, il cosiddetto
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emottvtsmo: queste hanno però il sostanziale difetto di non lasciare alcuno spazio per l'argomentazione razionale. Questo tema - del resto, banale os'servarlo, del tutto classico -, oltre a segnare la differenza con la tradizione emotivistica, è una delle preoccupazioni fondamentali di Hare, tanto da spingerlo a denominare la propria teoria, come s'intitola il settimo capitolo del libro che chiude la tassonomia, come razionalismo, owero come una variante razionalistica del non-descrittivismo. È poi sufficiente scorrere l'elenco dei requisiti di adeguatezza delle teorie etiche per vedere quale enorme spazio vi abbiano proprio i requisiti vòlti a tutelare l'utilizzo della razionalità nell'affrontare le questioni morali, e perfino quelle così spinose come il disaccordo: accanto a neutralità, praticità, incompatibilità troviamo, infatti, logicità, argomentabilità e conciliazione (gli ultimi due requisiti, sia detto en passant, sono per Hare requisiti che mancano a tutte le teorie fuorché al proprio prescrittivismo), dove la conciliazione è lo strumento che permette se non altro di cercare di affrontare i casi di disaccordo morale, anche se, Hare lo riconosce lucidamente, non sempre è in grado di risolverli. Hare pensa così di conservare all'etica una sua oggettività, certo intendendo l'oggettività in una direzione che la vede dipendere dalla razionalità dell'argomentazione, non dalla realtà di proprietà esterne: Con «oggettività» non intendo «corrispondenza ai fatti» o qualcosa del genere: lascio tutto questo ai descrittivisti; è una strada senza via d'uscita. Con «oggettivo» intendo, piuttosto, «tale che chiunque rifletta in modo razionale e sia in possesso della conoscenza dei fatti non morali deve accettarlo» (cfr., infra, cap. 7, par. 4, p. 176)7 .
•
La terza e ultima parte del libro, il capitolo sullo «utilitarismo» di Kant, è costituita da un saggio già pubblicato da Hare nel 1993 e che ha suscitato un certo interesse sia tra i filosofi morali sia tra gli studiosi di Kant 8 • In realtà, Hare non riesce a dimostrare che l'impianto dell'etica kantiana è di tipo utilitaristico; e del resto Hare è del tutto consapevole di non compiere un'operazione esegetica, rispetto a Kant, ma di tipo prettamente teorico. Né si possono condividere i curiosi argomenti di Hare per spiegare la > con «esattamente come questa persona» o «esattamente come questo atto», perché, dopo tutto, così facendo trasformerebbe la descrizione in una descrizione formulata in termini di proprietà universali [H 1955a; FR, par. 2.2]. Questa, però, non è la sede adeguata per addentrarsi in grovigli metafisici del genere. Comunque, questa via è troppo breve. È troppo breve perché ci sono proprietà universali relazionali le quali conno-
I:INTUIZIONISMO
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tano relazioni con un individuo, quali «madre di» e «amante di». Nell'espressione «madre di Giacomo» «Giacomo» denota un individuo. Ciò nonostante, i doveri verso la propria madre possono essere proprietà universali condivise da chiunque sia un figlio, o un figlio di un tipo specifico. Ecco perché i giudizi interessati di tipo prudenziale sono in un certo senso universalizzabili. Essi sono giudizi su relazioni con un individuo, cioè con se stessi. Se, utilizzando per così dire un gergo prudenziale, devo fare una certa cosa in una certa, precisa situazione, allora, dal punto di vista della prudenza, sarebbe saggio da parte di chiunque si trovasse nella stessa situazione fare la stessa cosa. Se, per esempio, data la situazione, fosse nel mio interesse dire la verità (farne una confessione completa), sarebbe nell'interesse di qualµnque persona simile a me che si trovasse in una situazione simile fare la stessa cosa, cioè dire la verità. Lo stesso vale se a «dire la verità» sostituiamo «dire una menzogna», benché in questo caso il giudizio morale e il giudizio prudenziale possano divergere. Se è nell'interesse di una persona dire una menzo'gna, sarebbe nell'interesse di qualunque persona simile che si trovasse precisamente nella stessa situazione dire una menzogna. Ciò che ci interessa ora, comunque, non è la prudenza (ossia ciò che devo fare nel mio personale interesse), ma ciò che devo fare a causa delle mie relazioni con altri individui, per esempio i doveri verso mia madre perché è mia madre. J.E. Hare [1996, 151 s.] ha giustamente distinto tipi differenti di universalizzabilità: c'è l'universalizzabilità rispetto a tutti gli agenti, ma c'è anche l'uqiversalizzabilità rispetto a tutti i destinatari delle azioni (per esempio, alle vittime); e ci sono anche altri sensi in cui i giudizi possono essere universalizzabili. Un giudizio può essere universalizzabile in uno di questi sensi, ma non in altri. Un giudizio prudenziale, per esempio, è universalizzabile rispetto agli agenti, ma non rispetto ai destinatari delle azioni. Esso si riferisce al mio interesse di agente, ma non al mio interesse di destinatario: posso trattare gli altri destinatari come voglio, purché la mia azione assicuri il mio interesse. Il fatto che le relazioni con degli individui, qua relazioni, possano essere universali (sono predicati universali a due o più posti, benché gli individui stessi noh siano universali) apre la strada a molti doveri che possiamo essere in dubbio se quali-
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TASSONOMIA DELLE TEORIE ETICHE
ficare come doveri morali. Per esempio, i doveri che ho verso il mio paese perché è il mio paese sono doveri morali o, per usare un'espressione di Simon Blackburn [1984, 186], sono soltanto doveri smorali (shmoral)? In altre parole, sono doveri che possono essere completamente universalizzati rispetto a tutti i destinatari in tutte le situazioni o soltanto rispetto a tutti gli agenti? E se ho dei doveri morali verso il mio paese, ho dei doveri morali verso la mia famiglia, verso la mia tribù, verso il mio genere o verso la mia specie (in breve, verso il mio gruppo di appartenenza) che non ho verso altri gruppi di persone? Naturalmente posso avere il dovere morale di mantenere le mie promesse e non le promesse delle altre persone [H 1992e, ii, 1259]. Questo, ovviamente, metterebbe in pericolo uno dei cardini del tipo di argomentazione morale che sostengo. Presumibilmente la soluzione kantiana a questo problema (se mi è concesso mettere delle parole in bocca a Kant) è che verso la mia famiglia ho soltanto quei doveri che sono disposto ad ammettere che le persone simili a me abbiano verso le loro famiglie. E lo stesso vale se a «famiglia» sostituiamo uno qualunque degli altri gruppi ristretti che ho menzionato. Dm:ante una conversazione Blackburn mi ha suggerito che la differenza tra lui e me può essere espressa nei termini della differenza tra Hume e Kant. Ritengo di essere ancora un seguace di Kant, e ritengo che Blackburn sia ancora un seguace di Hume. Il vantaggio di Kant su Hume consiste nel fatto che Hume non può compiere la mossa che ho appena compiuto. Egli fa affidamento sulla simpatia umana come fondazione della moralità, laddove Kant fa affidamento sulle volontà di tutti gli esseri razionali. A questo proposito può essere utile ricordare le tesi sostenute da Peter Singer e da Derek Parfit. Singer [1981, cap. 4] ha avanzato l'ipotesi che la capacità di ragionare, essa stessa geneticamente utile e, quindi, favorita dall'evoluzione, possa, per così dire, impossessarsi di noi e spingerci al di là di ciò che l'interesse dei nostri geni richiede. Non riusciamo, quindi, a trovare alcuna buona ragione per limitarci agli interessi del nostro villaggio o della nostra tribù. È nel nostro interesse e in quello dei nostri geni proteggere i membri della nostra tribù; ma è difficile fermarsi qui. E così la ragione ci incoraggia ad andare oltre e a cercare di promuovere gli interessi di altre tribù e perfino di altre specie . .Io stesso ho suggerito l'ipotesi
L'INTUIZIONISMO
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che quello che vale per la facoltà della ragione possa valere anche per la dote naturale del linguaggio, che ne è il veicolo [H 1981b]. Dopo tutto, quindi, forse il linguaggio morale è superiore al linguaggio smorale. Anche Parfit [1984, capp. 6 ss.] porta argomenti a favore dell'estensione del nostro interesse al di là dello stretto interesse personale. Secondo Parfit le stesse argomentazioni grazie alle quali la prudenza prevale sulla «teoria degli obiettivi attuali» possono essere usate per conferire la vittoria alla moralità universale sulla prudenza. Seguendo questa linea si può sostenere che tali argomentazioni possono essere usate anche per conferire la vittoria a Kant su Hume. Sebbene, cioè, siano ammissibili termini singolari nei giudizi morali, essi devono dipendere da una regola universale secondo la quale chiunque abbia una relazione di questo tipo con un individuo o con un gruppo ha doveri simili verso quell'individuo o quel gruppo. Se Parfit e Singer hanno ragione, abbiamo una soluzione al problema delle smoralità. ·Esse possono valere come moralità soltanto se dipendono da una regola universale di tal genere. Le smoralità, però, non sono escluse dalla logica più di quanto lo sia la prudenza. Nel Pensiero morale [MT, parr. 11.2 ss.] ho ammesso che un amoralismo coerente è un'opzione possibile, e lo stesso vale per lo smoralismo. Sempre in quel libro [ibidem, par. 1.5] ho ammesso che chi non è disposto a usare il linguaggio morale ha a disposizione linguaggi alternativi ad esso. Il caso estremo è l'imperativo esplicito, il linguaggio che esprime semplici desideri o «obiettivi attuali» individuali. Fra questo e il linguaggio della morale, però, ci sono altri tipi di linguaggio smorale. La domànda è «perché dovremmo usare il linguaggio morale e preferirlo a questi ultimi?». Sono sicuro di preferire io stesso l'uso del linguaggio morale e di poter, quindi, seguire Moore [1903, 6; trad. it. 1964, 73] e dire che, nel senso in cui lo uso, i giudizi morali espressi con esso sono universalizzabili. Sono altrettanto sicuro che Blackburn e io ci troveremo d'accordo sulla maggior parte dei nostri giudizi morali, anche se non mi è chiaro quali argomenti egli potrebbe portare a favore di essi. Probabilmente invocherebbe Hùme, le cui vedute non diverg~no da quelle di Kant tanto quanto si tende a credere, né sull'epistemologia né· sull'etica, benché le loro indoli fossero molto diverse. Nel paragrafo 3 del capitolo 7
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TASSONOMIA DELLE TEORIE ETICHE
vedremo che l' argomentabilità e, con essa, la possibilità di conciliare le posizioni morali contrastanti sono requisiti di una teoria etica soddisfacente. Esse sono ciò che rende possibili le prescrizioni morali oggettive, accettabili per tutti coloro che riflettono in modo razionale [H 1993g]. Ci si può aspettare che le prescrizioni smorali, al contrario, benché possano essere razionalmente accettabili per gli agenti in quanto promuovono i loro interessi e quelli dei gruppi a cui essi appartengono, non siano accettabili per le loro vittime, le quali, come diceva Kant, non possono condividere i fini delle azioni prescritte (cfr., infra, cap. 8, par. 2). Questa è una delle ragioni per cui preferisco usare il lin guaggio morale. Un'altra ragione è prudenziale nel senso più ampio. Nel Pensiero morale [MT, parr. 11.2 ss.] ho detto che se stessimo educando un bambino pensando solo al suo interesse, gli insegneremmo a usare il linguaggio morale e a seguire le prescrizioni morali. Alla luce delle cose terribili avvenute nel corso dei secoli fino a oggi in nome di sistemi smorali che non sono morali in senso pieno sento l'urgenza di risolvere i nostri problemi facendo ricorso alla moralità. Questa, forse, è l'unica strada, specialmente per occuparsi dei problemi dei nostri rapporti con le altre specie. Per essere chiari dobbiamo distinguere due domande: che cosa richieda la logica del linguaggio morale, in quanto opposto al linguaggio smorale, e come motivare la gente a usarlo. Se la risposta che ho dato alla prima domanda è giusta, rimane tuttavia la seconda. Questa, però, non è una domanda pertinente alla teoria etica in senso stretto. Finora non sono riuscito a individuare la soluzione per questi problemi e devo, quindi, lasciare una parte del lavoro incompiuta, come ho fatto in Libertà e ragione [FR, par. 7.4] e nel Pensiero morale [MT, par. 5.6]. Da allora ho fatto qualche passo avanti, e spero che io o altri ne faremo ancora. Ecco una delle ragioni per cui ho lasciato un angolo della mia tassonomia aperto per chi verrà dopo (cfr., infra, cap. 6, par. 7). Per ora, però, mi sento incline a sostenere Kant contro Hume. 9. Siamo così giunti alla fine della mia discussione e classificazione delle teorie descrittiviste. Abbiamo scoperto che in tutte c'è qualcosa di sbagliato: il difetto che esse hanno in comune è che tutte, se vengono esaminate a fondo, cadono ine-
J.:!NTUIZION!SMO
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vitabilmente nel relativismo. Questo, a mio parere, è un risultato sorprendente, perché l'obiettivo principale della maggior parte dei descrittivisti è stato quello di evitare il relativismo. Quanto ali' evitarlo, però, essi hanno sbagliato strada. Di fatto, come vedremo, è solo abbandonando il descrittivismo che possiamo arrivare ad ottenere un certo tipo di oggettività nelle nostre asserzioni morali. Penso che Kant lo avesse capito. È perché quando riflettiamo in termini morali ricerchiamo prescrizioni per l'azione, non descrizioni delle azioni, che la nostra riflessione ha dei vincoli [H 1996c]. Ci sono certe massime (per usare il termine di Kant) che non possiamo volere che diventino leggi universali; e le massime sono un tipo di prescrizioni. Anticipando in parte quello che dirò in seguito posso affermare che la ragione per cui una teoria prescrittivista può evitare di cadere nel relativismo è che l' elementd prescrittivo presente nel significato delle asserzioni morali e, soprattutto, la /orma che esso ha può essere condivisa tra culture che hanno costumi differenti, mentre il significato descrittivo non può esserlo. È perché tutte le diverse culture prescrivono, e prescrivono in una forma universale (condividono quella parte del significato delle loro asserzioni morali), che nel loro ragionamento tutte sono vincolate dalle proprietà logiche formali di ciò che dicono, proprietà che sono le stesse quale che sia il contenuto delle loro opinioni morali. Ma forse questo punto non risulterà chiaro fino a quando non avrò delineato la mia teoria. Nel prossimo capitolo passerò all'altro ramo della classificazione delle teorie etiche e mi occuperò della classificazione delle teorie non-descrittiviste. Comincerò con l'emotivismo, di cui Axel Hagerstrom è stato un pioniere, e ne discuterò i pregi e i difetti; il suo principale difetto consiste nel fatto che esso conduce all'irrazionalismo e rende impossibile anche il più elementare ragionamento morale. Poi presenterò una teoria che non ha questo difetto, e nemmeno i difetti del descrittivismo.
Capitolo sesto
L' emotivismo
1. Nel capitolo 5 ho provvisoriamente concluso la trattazione delle teorie descrittiviste. Abbiamo visto che tutte le teorie di quel genere sono destinate a cadere nel relativismo, il che è l' opposto di ciò che la maggior parte dei loro sostenitori vorrebbe. Nei capitoli 6 e 7 intendo parlare delle teorie non-descrittiviste e chiedermi se possano evitare di cadere nel relativismo. Sorprendentemente (per qualcuno) scopriremo che ciò che può rendere una teoria non-descrittivista capace di evitare il relativismo è un elemento non descrittivo presente nel significato delle asserzioni morali (cfr., infra, cap. 7, par. 3). Questo elemento, però, non è stato ben definito dal primo tipo di teoria non-descrittivista che discuterò, l' emotivismo. Tuttavia coloro che propongono l' emotivismo, il primo dei quali nell'età contemporanea è stato Axel Hagerstrom [1911], hanno compiuto un passo importante, avanzando l'ipotesi che nel significato delle asserzioni morali ci sia un altro elemento ulteriore rispetto alla loro sintassi e alle loro condizioni di verità. Se non avessero compiuto questo passo, non sarebbe stato possibile in seguito progredire verso una teoria etica oggettivista: 'Prima che questo passo possa essere compiuto, infatti, si deve respingere il descrittivismo. Nelle prossime pagine criticherò l'emotivismo in generale e non singoli autori, e naturalmente non Hagerstrom. Poiché molti emotivisti contemporanei commettono errori che non sono essenziali per l' emotivismo stesso, elaborerò una mia versione di una teoria emotivista che illustra con la massima chiarezza le virtù e i difetti dell' emotivismo. Questa teoria non vuole essere una caricatura, né un bersaglio di comodo. Intendo far sì che essa rappresenti il inèglio ché l' emotivismo può fare. Un esempio mostrerà quello che ho in mente. Nel 1944 Charles Stevenson ha p rese:o.tato la più completa esposizione che sia mai stata fatta della teoria emotivista (a meno 0
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TASSONOMIA DELLE TEORIE ETICHE
di non includere Allan Gibbard [1990], che ovviamente è stato profondamente influenzato da Stevenson; Gibbard si definisce