Rivolta e rassegnazione. Sull'invecchiare 8833924661, 9788833924663

Solitamente ci affrettiamo a togliere dalla vista ogni segno o richiamo della nostra debolezza, della nostra mortalità,

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Italian Pages 160 [154] Year 2013

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Rivolta e rassegnazione. Sull'invecchiare
 8833924661, 9788833924663

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Nuova Cultura- Introduzioni 288

Jean Améry

Rivolta e rassegnazione Sull'invecchiare

Presentazione di Claudio Magris Traduzione di Enrico Ganni

Prima edizione settembre I988 Seconda edizione maggio 20I3 Prima ristampajèbbraio 20I4 Seconda ristampa novembre 202r © 1968 Ernsr Klen, Srutrgart

Tirolo originale

Ober d.ts Altern. Revo/te und Resignation

© 1988, 2013 Bollari Boringhicri editore

Torino, corso Vittorio Emanuele II, 86 Gruppo editoriale Mauri Spagnol ISBN

978-88-339-2466-3

Schema grafico della copertina di Pierluigi Cerri www.bollatiboringhieri.it

Stampato in Italia dalla MicrografS.r.l. di Mappano di Caselle (T o)

Indice

De senectute di Claudio Magris Prefazione alla quarta edizione Prefazione alla prima edizione

7 17 19

Rivolta e rassegnazione Esistenza e trascorrere del tempo

23 49

I.

Divenire estranei a sé stessi

75

II.

Lo sguardo degli altri

99

III.

Non comprendere più il mondo

I25

IV.

Vivere con il morire

De senectute di Claudio Magris

La vecchiaia, dice un personaggio di Singer, il dottor Mar­ golis, citando ironicamente un proverbio polacco, non è feli­ cità. Il dottor Margolis è sradicato dalla legge e dalla tradi­ zione ebraica, è un anziano filosofo che ha imparato da Scho­ penhauer il senso della vanità e del nulla; se fosse uno di quei pii e vitali rabbini descritti più volte da Singer, vivrebbe probabilmente la vecchiezza come un'indifferente e regale maestà, come una grande libertà dai rispetti umani, grazie a quella confidenza religiosa che conferisce eternità e pienezza a ogni momento e a ogni pulsione della vita. Ogni concezione classica, religiosa o no, è incline a non lasciarsi turbare dalla vecchiezza, perché la inserisce - al pari della morte - in una visione totale entro la quale essa è un momento, che non to­ glie significato agli altri. L'individuo affidato soltanto a sé stesso, al tempo del suo vivere e del suo perire, alla sua fisi­ cità, vive la vecchiaia come angoscia, impoverimento e ridu­ zione, misero e ridicolo restringersi di gesti, pensieri e azioni oltre il quale non c'è niente, solo la miseria e l'orrore di quel declino. Nelle società tradizionali vecchiaia è sinonimo di sapienza, autorità, venerazione; 11 saggio greco e quello cinese si pre­ sentano con quest'aureola, Cicerone celebra la senectus, nel­ l'Ottocento chi aspirava ad assumere posizioni di potere e

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CLAUDIO MAGRIS

prestigio sociale cercava di apparire più anziano della sua età, la mitica profondità degli anni s'identificava, in Francesco Giuseppe, con la dignità imperiale. Nelle società dinamica­ mente produttive, nelle quali il fare non è un predicato ma la sostanza stessa dell'essere, la vecchiaia è disprezzata; un attore italiano, qualche tempo fa, ha lodato un dirigente te­ levisivo dicendo che non era «un vecchio rimbambito di cin­ quant' anni» - anche se, col passare degli anni, è possibile che l'attore cambi opinione sull'età del rimbambimento - e in Svezia, secondo recenti notizie apparse sui giornali, ai ma­ lati di cancro oltre i settantacinque anni verrebbe negata la terapia al cobalto e quelli oltre i sessantasette non potreb­ bero usufruire del by-pass. Una coalizione di forti, sani e gio­ vani - ma chi decide quando inizia o finisce la giovinezza, primavera di bellezza? - decide l'emarginazione o l'elimina­ zione del vecchio e dell'inabile, con una furia di cancellare, far sparire, radiare anche dalla coscienza le esistenze rifiutate. La vecchiaia è e sarà sempre di più protagonista del no­ stro mondo e delle sue tragedie. Non a caso la senilità è un tema così centrale nella letteratura moderna - per quel che mi riguarda, ho cercato di studiarla in Svevo, Singer, Hamsun e di rappresentarla nel mio Stadelmann. Se una volta c'era il vecchio saggio e venerato, c'era pure il vecchio tirannico ed egolatra, il signore dell' antico che s 'oppone alla vita che si rinnova e sgretola il suo potere: i vecchi invidiosi che im­ pediscono ai giovani l' amore; Gennaio che vuoi possedere la fresca Maggio, il guerriero della saga che uccide il figlio in duello, il re del mito che sacrifica il primogenito, il patriarca che gioisce malignamente di sopravvivere agli altri. Ma questo tiranno era destinato alla sconfitta, vecchio geloso beffato e punito. Al vecchio quale padrone dispotico si è sostituita da tanto tempo la figura del vecchio quale vittima debole e indifesa. Cercando di aggirare il proprio scacco, l'umanità, accorgendosi di assomigliare più alla vecchiezza che alla gio-

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ventù, ha cercato di capovolgere le carte e di trasformare la vecchiaia da simbolo di debolezza a figura del suo rimedio. Gli antichi conoscevano già questo trucco cosl moderno. Dall'alto delle mura di Troia i vecchi della città contemplano, nel terzo canto dell'Iliade, i movimenti della battaglia mentre Elena, l'impassibile oggetto della contesa, indica e descrive loro i più famosi guerrieri dell'esercito greco. Minacciati dal­ l' assalto nemico e turbati dalla bellezza di Elena, i vecchioni si difendono soltanto con una ciarliera gravità dal pericolo più vicino, la presenza della donna: la loro età veneranda e scivolosa li protegge e insieme li esautora, li condanna ma anche li autorizza a limitarsi a guardare. Esiliati dai contenuti - la guerra, l'amore - i vecchioni si rifugiano nell'avventura, infantile ed egocentrica, della forma. Sono degli esclusi cui è moralmente lecito appagarsi della ri­ nuncia: non potranno mai stendere le mani verso le armi o verso Elena, ma quest'emarginazione vitale li ripara dagli scacchi cui è esposta la vitalità e il divieto li preserva dall' as­ sillante dovere che obbliga Julien Sorel a essere ardito con Madame de Renal. La spina e l'alibi della vecchiezza tornano oggi a mordere e a sedurre come una maschera insinuante dell'ansietà. Nel­ l'universo sociale, che prescrive a ciascuno dei ruoli sempre più rigidamente definiti e reciprocamente incompatibili, la senilità appare un'allegoria della condizione umana ben più di quanto lo sia l'adulata giovinezza. Se il giovane è l'uomo potenziale aperto a ogni sviluppo della sua personalità, l'in­ dividuo, appiattito nella funzione unilaterale assegnatagli dal­ l'ingranaggio sociale ed estromesso dalla molteplicità della vita, assume sempre di più, a onta d'ogni dato anagrafico, i lineamenti senili d'una furbizia rassegnata e delusa. Invec­ chiare diviene il simbolo del sopravvivere, grazie a una tat­ tica di accomodamento con l'impossibilità di ribellione e grazie a una tecnica di ritrosia e di ritirata in minimi spazi di libertà

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CLAUDIO MAGRIS

sorvegliata, conquistati con un paziente rituale di mosse e di finte opposto al dilagare del nuovo sempre più anonimo e uniforme. La poesia riscopre la vecchiaia quale tortuosa coesistenza di inettitudine e di arroganza, trascolorante fra la miseria del vinto e la protervia del vincitore come il rapace e inerme Faust prima che il diavolo lo restituisca alla gioventù. Il vecchio è il grande anarchico in quanto, detronizzato dalla realtà, gioca con la sua facciata e si trincera in una stilizzazione della vita, fingendo ch'essa colga l'essenziale dell'esistenza e ben sapendo ch'essa invece impoverisce la sua tumultuosa ricchezza, eli­ minando ogni rischio dell'imprevedibile. Il vecchio riduce tutto a forma ma è l'unico a sapere, come Goethe, che questa cela la falsità e che il contegno è l'abito della doppiezza; egli è l'unico a conoscere la verità, il nichilismo della vita. Il più grande poeta di questa senilità vitale, di questa ma­ lattia che si fa medicina, è stato Svevo. Se la vita è una ma­ lattia della materia, la vecchiaia è la maschera più vera di questa vita intesa quale malattia, quale processo entropico ed evoluzione in perdita. Nell'ultimo Svevo la vecchiaia non è più il volto dell'inet­ titudine bensl della vita stessa, è il baluardo che argina la inettitudine o almeno la guerriglia che la tiene in iscacco, dis­ simulandola e trasformandola in un'arma nella lotta per so­ pravvivere. «La vita del vecchio - scrive Svevo - è vera­ mente selvaggia. » La vecchiaia è selvaggia perché è la pausa, è la vita - dice Svevo - privata soltanto di ciò che mai essa ebbe e cioè del futuro e quindi ridotta a puro presente, a in­ tervallo lucido e disimpegnato, a ozio svuotato di doveri e significati. Non a caso il vecchio protagonista-narratore degli ultimi racconti ne dedica uno al «mio ozio». La vecchiaia è libertà dall'obbligo di attestare a sé stessi e agli altri il pro­ prio valore, la propria capacità e vitalità. La vecchiaia è l'età in cui malattia e salute si scambiano e si confondono, indistin-

DE SENECTUTE

II

guibili come l a vitalità e l a nevrosi nel «sano immaginario », ironicamente interscambiabili come i ruoli di «sano» e «ma­ lato» nella condizione umana in generale. Dal disagio della civiltà, che estrania progressivamente l'uomo dalla natura ovvero dalla vita, l'eroe sveviano si di­ fende trovando un accomodamento con esso e cercando un rifugio tra le sue pieghe. Dal disagio della civiltà ci si salva solo vivendolo sino in fondo, identificandosi con esso sino a farne la propria natura, l'unica realmente autentica. La vecchiaia, in questo senso, è identica alla scrittura: è un testo, scritto dalla vita sul corpo dell'uomo, ma alterabile e manipolabile dalla sua intelligenza e dalla sua fantasia; è un testo sospeso sul nulla, un gioco di ghirigori e di scara­ bocchi che non obbedisce ad alcuna armonia ma si sussegue a capriccio, che non dice una verità nascosta - affiorante dal profondo sul volto o sulla pagina - ma dice e irride la propria tessitura. Jean Améry è al di là o al di qua di questa elusiva e ironica guerriglia della vecchiaia; consapevole del vuoto sottostante a quella tessitura, non si rifugia ironicamente fra le maglie di quest'ultima, ma si affaccia, al di là di esse, direttamente su quel nulla. Come negli altri libri - ma in questo, e in quello sul suicidio, con forza particolare - Améry è uno stoico, che vive e pensa obbedendo a un imperativo catego­ rico che gli prescrive chiarezza logica e rigore morale anche se egli ritiene che questi valori non si fondino su nulla; egli pensa, agisce e scrive in ossequio alle non scritte leggi degli dèi pur convinto che non esistano dèi, obbedisce a un supremo comandamento senza alcuna fede in un'istanza, trascendente o interiore, che presieda a quel comandamento; si pone al servizio dell'universale sebbene sia persuaso che nell'universo, come ha scritto Giorgio Voghera, non vi sia nulla di vera­ mente universale. Questo pudore e quest'ascetismo stoico se­ gnano la dignità e la grandezza di Améry e costituiscono

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CLAUDIO MAGRIS

- come ogni severità stoica, talora eccessiva nel negarsi qualsiasi conforto - il suo limite. Améry segue le tracce di qualcosa che, egli scrive, sembra a priori introvabile per la ragione analitica; il libro è il tac­ cuino di questo viaggio nel territorio della vecchiaia, irridu­ cibile - al pari della morte - alle categorie logiche . Il razio­ nalista affronta, con le armi dell'illuminismo, ciò che deride ogni pretesa di spiegazione illuminista; nega e sfata tutte le pretese filosofiche di dare un senso alla morte, dimostrando che essa è l'impensabile e l'insensato di cui non si può dir nulla, ma attenendosi nella sua dimostrazione a quella coe­ renza logica beffata e ridicolizzata dalla morte. Améry è un saggista, che procede con rigore concettuale e sperimentalismo sensibile, saggiando e tastando il terreno per scegliere, a ogni passo, la direzione del cammino. Ogni passo, in questo cammino, sottrae vigore al conforto, toglie di mezzo una speranza, elimina un appiglio positivo; come l'invecchiare è una progressiva diminuzione di forze e di facoltà, cosl il suo saggio è una decostruzione, una de­ molizione di illusioni, consolazioni, sicurezze, desideri. Que­ st'impavida spogliazione cede qualche volta all'acre piacere dell'eroico autolesionismo, a un insistito e quasi compiaciuto smascheramento della miseria, della precarietà, della deca­ denza, di borse sotto gli occhi e di visi che si fanno pallidi anzitempo, di sintomi senili precoci Améry non è Primo Levi, la sua ottica di uomo braccato e perseguitato è quella del ri­ sentimento, cui egli anzi ha dedicato un saggio. Il libro nasce da un grande paradosso, che gli conferisce genio e poesia. Améry si addentra nella vecchiezza ossia nel tempo dell'individuo che invecchia, nel tempo che si rap­ prende nel suo vissuto, ma sa che si tratta di un viaggio im­ possibile: se il giovane ha il proprio corpo nello spazio che lo circonda e nel quale può avventurarsi andando insieme in­ contro al proprio futuro, il vecchio ha ormai tutto il proprio

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tempo nel proprio corpo, è solo tempo trascorso e privo di realtà. Non è possibile alcun vero viaggio in questo territorio che non esiste o che è tutt'al più soltanto un affievolimento e una contrazione, un meccanismo coatto e negativo di di­ fesa, che non potendo ritornare indietro, a occupare nel mondo il posto avuto in gioventù e poi perduto, respinge il mondo, nega la res extensa divenuta nemica, la realtà fattasi ostile e reprime perfino quel desiderio di una vita diversa, che la vita - nel presente della vecchiaia - rende impossi­ bile. Jean Améry ha delle splendide pagine sulla riduzione della vecchiezza: sul corpo che anziché mediare il mondo all'io di­ viene un ostacolo che sbarra la strada, sugli altri che improv­ visamente accettano l'uomo invecchiato solo per ciò che egli è, non più, come un tempo, per ciò che potrebbe essere; sul passato che imprigiona il vecchio rendendogli estranea la realtà presente intorno a lui, i nuovi modi di fare politica o poesia, gli «ismi» aggressivi e incomprensibili; su quei gesti sempre più piccoli, grevi e difficili nei quali il vecchio esperimenta la sua progressiva miseria e il suo progressivo esautoramento, in fondo ai quali non c'è veramente niente, nessun signifi­ cato e nessun valore, soltanto la costatazione che è passato del tempo e che quel passare si è provvisoriamente conden­ sato in quelle effimere ma dolorose cicatrici, rughe, disfun­ zioni, affezioni patologiche, estinzioni. «l veci speta la morte>>, dice una grande poesia di Giotti. Il vecchio si trova, solo e sempre più solo - vecchiaia e maiattia sono due solitudini e incomunicabilità insupera­ bili - in un mondo che si trasforma e lo lascia sempre più indietro, divenendogli sempre più indecifrabile e straniero. Lo stoico Jean Améry propone un'intrepida e disillusa lotta per cercare sino alla fine di decifrare la realtà sempre più enig­ matica pur sapendo di non potervi riuscire, per autosuperarsi di continuo anche se ciò è impossibile . Ogni giorno la vec-

CLAUDIO MAGRIS

chiaia ci sospinge un metro indietro e Améry, come una tar­ taruga in una diversa gara con Achille, riguadagna tenace, su quel metro perduto, un decimetro. In questo caparbio co­ raggio c'è anche una colpa kafkiana, il puntiglioso orgoglio morale che impedisce di lasciarsi andare, di riconoscere la pro­ pria disfatta e la propria debolezza, di arrendersi all' avan­ zata della vecchiaia senza opporle una resistenza da eroe ma cercando di rubacchiare qualche pacchetto di sigarette e di portarsele di nascosto all'infermeria o magari in camera di rianimazione. CLAUDIO MAGRIS

Rivolta e rassegnazione

J'avais vécu camme un peintre montant un che­ min qui surplombe un lac dont un rideau de rochers et d'arbres lui cache la vue. Par une brè­ che il l'aperçoit, il l'a tout entier devant lui, il prend ses pinceaux. Mais déjà vient la nuit où l'on ne peut plus peindre et sur laquelle le jour ne se relèvera plus! Proust, Le Temps retrouvé

Prefazione alla quarta edizione

Nei dieci anni trascorsi da quando portai a termine queste ricerche, avrei potuto approfondire notevolmente le mie no­ zioni sull'invecchiamento. Ricordo non senza divertimento le severe critiche espresse al momento della pubblicazione del volume da un signore ormai anziano, il quale affermava che io, J.A . , una persona ancora «giovane» a 55 anni, non po­ tevo sapere molto dell'invecchiamento e della vecchiaia, e che avevo quindi affrontato un tema non di mia competenza. Rileggendo il testo mi vedo costretto, con mio profondo rincrescimento, a dare torto all'allegro vegliardo e, hélas, ra­ gione a me stesso ! Sapevo il fatto mio. Quanto ho sperimen­ tato negli ultimi dieci anni mi induce ad accentuare più che a delimitare quanto scrissi allora. È stato tutto un tantino peggio di come avevo previsto: l'invecchiamento fisico, quello culturale, l'avvicinarsi, percepito con crescente intensità, del­ l'oscuro compagno che cammina al mio fianco e insistente­ mente mi chiama, proferendo con inquietante intimità le pa­ role con le quali apostrofa anche il Valentin di Raimund: Vieni amico mio . . . Come allora, anche oggi credo che in ambito sociale si debba impiegare ogni mezzo per alleviare la sgradevole con­ dizione di chi invecchia o è già anziano . E al contempo riba­ disco però che tutti gli sforzi nobili e altamente stimabili com-

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PRE FAZIONE ALLA QUARTA EDIZIONE

piuti in questa direzione, se possono dare qualche parziale sollievo - svolgendo quindi la funzione di innocui analge­ sici - non possono tuttavia modificare, alleviare nella so­ stanza la tragica pena dell'invecchiamento. Un unico punto vorrei sottoporre a revisione e cioè quello in cui ho impiegato l'infelice espressione «storia delirante sul suicidio». In questo ambito nuove convinzioni ed esperienze mi hanno sospinto lungo una strada diversa, dando alle mie riflessioni una dimensione che allora non potevo prevedere. Per questo stesso motivo ho sentito la necessità di scrivere Hand an sich legen - Diskurs iiber den Freitod [Togliersi la vita: saggio sul suicidio], un testo che in un certo senso può essere considerato un seguito al presente volume. Bruxelles, primavera 1977

].A.

Prefazione alla prima edizione

Da null'altro legittimato se non da un'indole incline alla riflessione e, forse, da una certa pratica acquisita su questa via, sottopongo all' attenzione del lettore alcune ricerche sul­ l'invecchiamento dell'uomo. Ricerche intese non tanto come esperimenti, ma piuttosto come un seguire le tracce di qual­ cosa che alla ragione analitica era parso a priori introvabile. Le mie meditazioni intorno a questo argomento non hanno nulla a che vedere con la geriatria. L'argomento è l'individuo che invecchia nel suo rapporto con il tempo, con il proprio corpo, la società, la cultura, e infine con la morte. Chi si at­ tendesse asserzioni concrete nel senso delle scienze positive, nozioni che possano aiutarlo a disporre la sua vita in funzione di una certa condizione - quella dell'invecchiamento ap­ punto -, dal mio libro resterà necessariamente deluso: di­ verso è l'obiettivo della mia impresa. In un'epoca in cui l'intelligenza si distoglie non solo dalle vicende immediate della coscienza, ma più in generale dal­ l'uomo, al cui posto come oggetto di ricerca subentrano i si­ stemi e i codici, mi sono invece senz' altro attenuto al vis­ suto, al vécu . Questo tentativo di registrare, con la maggiore fedeltà possibile, i processi nei quali si trova invischiato chi invecchia, doveva essere compiuto sostanzialmente con il me­ todo dell'introspezione, senza tuttavia trascurare l'osserva-

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PRE FAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE

vazione e l'immedesimazione. È stato invece necessario ri­ nunciare a ogni speranza di scientificità, addirittura di rigore logico. Se da un lato mi è parso fin dal principio evidente il carat­ tere soggettivo di queste considerazioni, dall'altro ho tuttavia mirato - attraverso un riesame da diversi punti di vista dei pensieri formulati e mediante una riflessione che, senza te­ mere la contraddizione, costantemente si metteva in dubbio e correggeva sé stessa - a indirizzare l'impresa verso una sfera che fosse più-che-soggettiva, pur escludendo consape­ volmente l'obiettivo dell'oggettività o dell'intersoggettività. Mi sosteneva esclusivamente l'incerta speranza che sarei riu­ scito a rischiarare alcune realtà fondamentali degli uomini della nostra civiltà. Accettavo una scommessa: il giudizio circa senso o non-senso, valore o non-valore di quest'opera è affi­ dato totalmente al lettore, non essendo stato possibile appel­ larsi a quella terza istanza in grado di formulare un giudizio di verità. Nel rivolgermi al lettore, lo invito a seguirmi in un cam­ mino che anche a me si è dischiuso solo nel corso della ste­ sura. In questo mio procedere a tastoni ho infatti dovuto ab­ bandonare passo dopo passo tutte le speranze da sempre evo­ cate da chi invecchia, ho dovuto togliere vigore al conforto. Tutti i mezzi raccomandati, su come sia possibile accettare, addirittura attribuire valore al declino - nobiltà della rasse­ gnazione, saggezza crepuscolare, tarda pacificazione - mi parevano ignobili inganni, contro i quali si doveva mobili­ tare ogni parola. Senza che me lo fossi proposto o lo avessi anche solo previsto, queste ricerche si sono trasformate, da analisi che erano, in un atto di ribellione che tuttavia con­ traddittoriamente presuppone l'accettazione totale di ciò che è inevitabile e scandaloso. Resta da vedere se il lettore, apo­ strofato in questi termini, mi risponderà, se mi accompagnerà lungo un cammino segnato dalle contraddizioni.

2I

PRE FAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE

Per quanto abbia rinunciato a ogni strumentario scienti­ fico preesistente e abbia fatto riferimento solo a me stesso, collocandomi sul suolo incerto del mio interrogare, è tuttavia evidente che sono stato influenzato da più parti. Non sarà difficile riconoscere le fonti, al pari delle citazioni di tanto in tanto inserite nel testo e non espressamente evidenziate in quanto tali. Solo tre autori - ai quali devo molto e che forse non sono abbastanza noti - vorrei menzionare esplicitamente: il professore della Sorbona Vladimir J ankelevitc, il medico e fenomenologo tedesco Herbert Pliigge, lo scrittore francese André Gorz .' Nessun autore porta alla luce gli esiti delle sue ore d'in­ quietudine senza avvertire un senso di tormento. E quando è in gioco la sfera più personale, che nonostante l' autòdisci­ plina dell'autore qua e là osa sperare di potersi proporre come universalmente valida, allora il timore risulta ancora più mar­ cato. I libri non hanno solo un proprio destino: talvolta pos­ sono essere destino . Bruxelles, estate r968

J.A.

1 Vladimir Jankelevitc, La mori, Paris r967; Herbert Pliigge, Wohlbe/inden und Miss· befinden e Der Mensch und sein Leib, Tiibingen r962 e r967; André Gorz, Le vieillisse· ment, in «Les temps modernes», nn. r87 e r88.

Esistenza e trascorrere del tempo

Ci imbatteremo spesso, qui, nell'individuo che invecchia, donna o uomo che sia: egli si presenterà a noi in molte va­ rianti, sotto diversi travestimenti. Lo riconosceremo magari nel personaggio familiare di un'opera letteraria, altrove sarà una pura astrazione frutto dell'immaginazione, in altre parti infine sarà l'autore di queste righe a delinearsi nel profilo del­ l' anziano. Con la persona resterà indefinita anche la sua età, come impongono l'uso linguistico e la realtà. Lo osserveremo quando è intorno alla quarantina, perché talvolta il processo che cercheremo di descrivere si preannuncia assai presto. In altri esempi avrà sessant'anni, sarà quindi un individuo che in base a una vaga oggettività statistica è effettivamente sulla soglia della senescenza. In questo capitolo, in cui ci occupe­ remo dell'esistenza e del trascorrere del tempo, sarà un uomo non ancora cinquantenne, la cui morte precoce tuttavia ha giustificato il fatto che egli stesso a quell'età si sentisse ormai vecchio, e che per questo motivo dobbiamo accettare in quanto tale. Lo incontriamo mentre si reca a una matinée, per la prima volta dopo molti anni, perché da tempo ormai si è ritirato dalla fiera delle vanità alla quale in passato aveva recitato la sua parte . Indossa la finanziera, il portamento è eretto, il contegno ancora irreprensibile, sebbene il petto e lo stomaco presentino una prominenza non del tutto naturale

RIVOLTA E RASSEGNAZIONE

e in un certo senso sospetta. I folti capelli neri, che gli scen­ dono sulla nuca, e i baffi non mostrano tracce di tintura: il volto pallido che sovrasta l'alto colletto ha tuttavia la rigi­ dità cerea di una maschera, i malinconici occhi dal taglio orien­ tale sono spenti e riposano all'ombra di occhiaie livide e pro­ fonde. Definiremo questo individuo che invecchia con la sigla «A», e cosl faremo per tutti i suoi compagni di sventura che di volta in volta introdurremo nelle nostre riflessioni. A: la de­ finizione più matematica, più astratta che si possa immagi­ nare e al contempo quella che concede maggiore libertà al­ l'immaginazione e alla capacità di concretizzazione del let­ tore. Mi sia tuttavia concesso, solo in questa occasione, chia­ mare il nostro primo A con il nome datogli dal mondo: mi sia concesso chiamarlo «narratore», oppure, eccezionalmente con precisione ancora più grande, con il cognome che nel di­ partimento della Loir-et-Cher, del quale era originario, stra­ namente si pronuncia «Prii», e che noi invece conosciamo come Proust: Marcel Praust. Il cappello in mano, A - Marcel Proust - entra in casa dei suoi ospiti e si accorge che, nonostante la sua assenza pro­ lungata, la servitù lo riconosce. Ecco papà Proust, dice la gente, e poiché non ha figli è evidente che «papà» si rife­ risce all'età. Se i maggiordomi fossero più colti e capaci di esprimersi con maggiore pertinenza, direbbero che que­ st'uomo non ancora cinquantenne, nonostante il portamento eretto e i capelli non tinti, appare, in un senso difficilmente definibile, più anziano della sua età, perché su quel volto im­ mobile e pallido è anticipato il rigar martis. Il narratore ri­ vede persone che sembrano, ma l'apparenza inganna, avere avuto sorte ben peggiore della sua. Chi è quel re da fiaba che s'è messo una barba bianca e strascica i piedi come se cal­ zasse scarpe dalle suole di piombo? È il principe di Guer­ mantes: qualcosa - un «qualcosa» del quale torneremo a

ESISTENZA E TRASCORRERE DEL TEMPO

p arlare approfonditamente - lo ha ridotto cosl. E chi è quel vecchio la cui barba candida adesso non assomiglia più nem­ meno alla barba posticcia di un guitto, ma a quella di un men­ dicante? È il signore d' Argencourt, senza dubbio, il più in­ timo nemico, un tempo, del narratore! Il barone di Charlus, arrogante e superbo nel passato, si è trasformato in un tra­ gico Lear da salotto che con calore si toglie il cappello di­ nanzi a persone che nei suoi giorni migliori non avrebbe de­ gnato di uno sguardo. Bloch, l'amico di giovinezza, si chiama Jacques de Rozier e porta uno spaventoso monocolo, che di­ spensa il suo volto invecchiato dall'esprimere qualcosa. L'in­ vitato incrocia persone le cui palpebre appaiono suggellate come quelle dei moribondi e le cui labbra, mosse da un in­ cessante tremito, sembrano già borbottare le preghiere degli agonizzanti. Altri sono stati profondamente segnati dalla scle­ rosi che li ha trasformati in divinità egizie di pietra. Il narra­ tore incontra anche coloro che, se osservati da lontano, non appaiono trasformati; quando ci si avvicina per conversare, sulla pelle apparentemente ancora liscia si scoprono tuttavia gonfiori, puntolini grassi, capillari rossastri: essi suscitano un ribrezzo ancora maggiore e uno spavento più profondo degli individui nei quali la vecchiaia si manifesta apertamente nei capelli spenti, nella schiena curva, nelle gambe trascinate. L'o­ spite ne riconosce la maggior parte, li ha incontrati, ha con­ versato con loro anni orsono in occasione di un qualche diner en ville, e attraverso sclerosi e disidratazione decifra i tratti di allora. Accade tuttavia anche che lo apostrofi qualcuno i cui lineamenti, la cui voce e figura lo lasciano perplesso. Una grossa signora gli dice bonjour. A la guarda incerto, e chiede venia per l'incertezza: è Gilberte, colei che il fanciullo aveva amato a Combray e sugli Champs-Elysées. Ma cosa è vera­ mente accaduto alle persone che il narratore di Proust ritrova al ricevimento del principe di Guermantes? Non molto. Tutto. Il tempo è trascorso.

RIVOLTA E RASSEGNAZIONE

Il tempo è passato, trascorso, volato, fuggito, e noi pas­ siamo con lui, ma che dico, passiamo come fumo disperso da una tempesta di vento. Ci chiediamo cosa mai sia il tempo - questo tempo con cui, si dice, tutto scorre e trapassa: ce lo domandiamo con un'ingenuità che non si arresta davanti al ridicolo, e menti educate alla logica ci spiegano che l'in­ terrogativo, posto in termini cosi banali, è senza fondamento. Bastano poche indagini intorno al tempo per farci precipi­ tare nella più totale confusione: lo ha affermato quell'inglese dalla testa di uccello, molto intelligente e ormai molto an­ ziano, proponendoci, nella tradizione di Zenone, un diver­ tente paradosso. Il passato esiste? No, perché è già andato. Esiste il futuro? No, perché non è ancora giunto. Esiste quindi solo il presente? Certo. Ma non è forse vero che questo pre­ sente non ha in sé alcuno spazio temporale? Cosi è. Ebbene, allora è probabile che il tempo non esista. È vero: non esiste. È tuttavia possibile risolvere il paradosso di Russell. Alcuni degli interrogativi intorno al tempo possono trovare risposta, alcune menti sufficientemente acute e allenate si sono cimen­ tate in questo senso. Gli esiti delle loro riflessioni tuttavia ci interessano poco. Nel riflettere sul tempo - se non parliamo del tempo dei fisici, che è una faccenda diversa, ma del nostro tempo, che è sempre solo nostro, del tempo vissuto, del temps vécu nel riflettere sul tempo procediamo fra due zone di pericolo che sono in ugual misura mortali. Da un lato siamo minac­ ciati da ogni sorta di cupo rimuginare e dilettantesco alma­ naccare. Dall'altro abbiamo i linguaggi artificiali, apparen­ temente eruditi e tuttavia non suffragati da veri contenuti conoscitivi, dei filosofi di professione. E tuttavia dovremmo tentare di procedere, essendo il tempo, quello vissuto, o se si preferisce, quello soggettivo, il nostro problema più urgente. Problema? Uh altro termine giornalistico, dal quale emana un fastidioso odore di inchiostro da stampa! Il tempo è il no-

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stra nemico giurato e il nostro più intimo amico, l'unica cosa che possediamo in esclusiva totale, ciò che non siamo mai in grado di afferrare, il nostro tormento e la nostra speranza. È difficile parlarne. Dall'alto della Montagna incantata ci viene detto: è possibile raccontare il tempo, il tempo stesso, in quanto tale, in sé e per sé? In verità non si può, sarebbe un'impresa insensata. Nessuna persona ragionevole defini­ rebbe tale un racconto in cui si dicesse: il tempo trascorse, fuggl, il tempo finl, e cosl via. Non solo, come ha detto il Mago, non sarebbe un racconto, ma non avrebbe più nulla a che fare con il tempo, se non per il fatto che la lettura ri­ chiederebbe del tempo, sia pure un tempo molto breve. Tra­ scorrere, fuggire, fluire, non sono atti del tempo; questi pro­ cessi avvengono nello spazio, sono visibili o quanto meno spe­ rimentabili per via deduttiva. Parlando del tempo formuliamo paragoni tratti dall'universo spaziale, che, volessimo far sfoggio di erudizione, potremmo definire «metafore spazio­ morfe». n tempo non è quasi narrabile. Quasi, abbiamo detto, e non inenarrabile, ché in questo caso dovremmo imporci il silenzio, anziché sforzarci di dire qualcosa in quell'esiguo spazio che ci resta fra le due zone di pericolo. Il discorso al­ legorico è utile se è costantemente consapevole della propria natura. E alla riflessione, anche priva di valore cognitivo, siamo autorizzati se riteniamo di poter giungere a una defi­ nizione in cui altri possano riconoscersi. A, che da molto tempo si occupa degli interrogativi per lui tormentosi in merito all ' invecchiamento, all'esistenza, al trascorrere del tempo, andò a trovare un amico, un famoso fisico, nella speranza che questi gli fornisse qualche indica­ zione utile a decifrare una materia che gli risultava ostica. L'uomo di scienza s'impadronl del discorso, e nobile e otti­ mistico era il suo procedere. Il tempo? Era un problema di competenza della fisica. Se ne era occupata la fisica classica

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di Newton, per la quale il tempo in fondo non era ancora tempo: detto altrimenti, per la quale, poiché ci si occupava solo dei movimenti dei corpi nello spazio, il tempo era an­ cora reversibile. La posizione della luna, ad esempio, sulla scorta dei dati a disposizione era calcolabile sia in avanti, per l'anno 2500, che a ritroso per il r6oo. Poi, con la fisica mo­ derna, si è imposto il tempo della termodinamica, il tempo irreversibile, connesso al concetto di entropia, che è un'u­ nità di misura per l'improbabilità dell'ordine casuale delle mo­ lecole. La freccia punta verso il disordine crescente, culmi­ nante nella cosiddetta «morte termica». Per dirla alla buona e in maniera stringata: il tempo della termodinamica non è reversibile, poiché tende al degrado di tutto l'essere. Si può tuttavia parlare anche di un tempo «biologico», che provoca la strutturazione, e non la dissoluzione delle strutture. Il tempo biologico tuttavia, a lui, al fisico, non interessava, al­ meno finché le asserzioni in merito non fossero state tradotte in un linguaggio fisico-matematico. Ad A, nonostante l'impegno, non tutto il discorso risul­ tava «chiaro»; in maniera forse eccepibile, riusciva però a ri­ viverlo a livello quasi intuitivo, tanto che all'incirca sapeva di cosa stesse parlando l'amico. Tuttavia, a differenza del pro­ fessore, a lui non interessavano in alcun modo i movimenti dei corpi nello spazio, �é la morte termica, per la quale, a Dio piacendo, ci vorrà ancora qualche tempo, e nemmeno il tempo comprensibile a partire dai dati dell'evoluzione. Parlò degli anni che passano, dei ricordi che all'improvviso si pre­ sentano e che fallacemente annullano il tempo, del peso della morte che risulta percettibile nel puro farsi tempo del tempo. Con comprensibile impazienza l'uomo del sapere positivo fece un cenno di diniego; non essendo però un ottuso specialista, ma una persona di ampi orizzonti culturali, di elevata spiri­ tualità, di vaste letture filosofiche e addentro anche alle que­ stioni in cui ci eravamo imbattuti presso i Guermantes, disse:

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ho capito, durée vécue, Bergson, Minkowski,. irrazionalismo, trastullo fenomenologico. Sono perfettamente al correii te. Tuttavia Le chiedo: che significato può avere per me tutto questo, per me che nelle mie equazioni maneggio spazio e tempo, lo spazio e il tempo, visti come entità definibili ed esprimibili in formule? E in effetti, che significato poteva avere per lui? A ringraziò e se ne andò: si rendeva conto di essere un almanaccatore privo di acume ed era inoltre consa­ pevole di avere compiuto un atto inqualificabile, osando pro­ porre a uno scienziato serio i suoi immaturi pseudopensieri. Molto tempo dopo gli capitò di incontrare nuovamente l'a­ mico, in un momento in cui questi era scoraggiato e stanco, e assai meno ben disposto nei confronti di una ottimistica concretezza. Come mi è passato in fretta il tempo, disse lo scienziato. Da quanto tempo ci conosciamo? Vent'anni? Santo cielo, quanti progetti avevo allora, quante cose pensavo di fare che poi non ho fatto. E quante ne vorrei portare a com­ pimento ora, se solo ne avessi il tempo. Ma di tempo ne è già passato sin troppo e me ne resta così poco. Oh tempo biz­ zarro, tempo consumato: ma questo non fu il fisico a dirlo, lo pensò A nel suo intimo, in maniera assai meccanica, pren­ dendo nuovamente congedo dall'amico, inconsolato, forse non capace e non chiamato a recare consolazione. Ancora una volta si sovvenne, come spesso in passato, delle parole del piccolo signore di Konigsberg; parole che gli erano state familiari sin da giovane, e in cui tornava costantemente a riscoprire sé stesso e le proprie meditazioni sul tempo, per quanto logica e dialettica moderne avessero ormai espresso senza mezzi ter­ mini il loro giudizio negativo. Tempo e spazio erano, nono­ stante tutti i tentativi dei filosofi moderni di costituire una solidarietà spazio-temporale, estranei l'uno all'altro. Il tempo è la forma del senso interno, ossia dell'osservare noi stessi e la nostra condizione. Non era cosa evidente? Lo spazio A po­ teva percorrerlo in ogni momento e in esso attuare sé stesso.

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Il senso esteriore era senso dei sensi; quanto accadeva nello spazio era commentabile. Quanto invece riguardava il «senso interno» poteva difficilmente essere comunicato, e chi osava entrare in sé stesso, per indagarlo e individuarne gli oggetti, in cambio del suo coraggio otteneva ben misero compenso, e si vedeva minacciato da un Nulla spiritualmente deserto. Ogniqualvolta la questione ruotava intorno alla realtà nello spazio, era possibile, se il verb: presso le cose e gli avvenimenti del mondo, è, aggiungiamo di nostra iniziativa, fuori di sé, nello spazio che è parte di lui e che gli appartiene, che è indissolubilmente cresciuto assieme al suo io. L'individuo che invecchia è invece sempre più partecipe di un io privo di mondo. In parte diviene tempo, attraverso il passato accumulato dai ricordi dello spirito e del corpo, in parte diviene sempre più proprio corpo . In questo processo - anche quando evita lo specchio, come fanno molte per­ sone che invecchiano, perché hanno accettato il giudizio del mondo sulla bruttezza dell'appassire - subisce la stessa sorte subìta davanti allo specchio dalla nostra A: percepisce il corpo, che gli diviene cosciente come suo io, come spoglia, come qual­ cosa di esteriore, che gli viene imposto, e allo stesso tempo tuttavia come condizione più propriamente sua, alla quale sempre più si riduce e alla quale dedica crescente attenzione. Potremo sfuggire allo specchio . Ma non potremo non os­ servare le nostre mani, sulle quali sono in evidenza le vene, la nostra pancia, molle e grinzosa, i nostri piedi, le cui un­ ghie, nonostante l'impegno del pedicure, risultano ispessite e crepate. Nemmeno se fossimo ciechi potremmo sfuggire al nostro corpo; dobbiamo stare in questa nostra pelle che si squama, anche se ben volentieri la abbandoneremmo. n corpo, che come dice Sartre era il negtigé e che comprendeva sé stesso

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non comprendendosi, questo corpo che non fa più da media­ tore fra noi e il mondo e che anzi, con il respiro affannoso, con le gambe doloranti, le articolazioni tormentate dall' ar­ trite, dal mondo ci isola, diviene la nostra prigione, ma anche la nostra ultima dimora. Diviene spoglia - il concetto di «spoglia mortale » s 'impone probabilmente a chiunque invec­ chiando ripensi il suo destino terreno - e, nella stessa fra­ zione di pensiero, estrema autenticità umana, perché alla fine è sempre lui ad avere ragione. Ciò che prima era mondo in quanto era e aveva parte del nostro io, si riduce con e attraverso il corpo che appassisce; ma c'è di peggio: diviene la evidente negazione di noi stessi .

Da qualche anno ormai A segue con inquietudine il raf­ freddarsi di quello che una volta ha definito il suo sentimento del paesaggio. Monti, valli, boschi che un tempo ha amato ora sono per lui una sorta di club che lo respinge . Ha certa­ mente motivi sufficienti per porsi con scetticismo di fronte alla natura intesa come paesaggio estetico : in un'epoca ben precisa, e a lui ancora ben presente, bosco, valle, monte erano stati strumentalizzati da una letteratura di pessima qualità e da una politica ancora peggiore; coloro che all' epoca, can­ tando il paesaggio con voci alquanto stridule, affermavano di es�ere «legati alla natura », erano nemici dell'uomo, e A aveva quindi buoni motivi per schierarsi con il signor Set­ tembrini, il quale a un giovane beniamino della vita aveva spiegato con viva partecipazione come la natura fosse, consi­ derata in rapporto allo spirito, il principio cattivo e diabo­ lico. Tuttavia per A quell'italiano amico del lucido ragionare è un amabile ricordo letterario, ma non un' autorità, ed egli sa molto bene come sarebbe insensato negarsi l'emozione che suscita il profilo di una montagna o l'ondeggiare di un bosco, solo perché in un'epoca vicina, ma storicamente già assai re-

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mota, si sono imposte un'estetica del paesaggio e una misti­ ficazione della natura profondamente sospette. Impiegò un certo tempo per comprendere le cause dell' affie­ volirsi del sentimento del paesaggio che era ormai in procinto di condensarsi negativamente in un dichiarato disappunto per il paesaggio. Fu infatti nella natura, più ancora che nella città, che egli si rese conto come il mondo, che pur aveva posseduto come parte della sua persona, fosse divenuto negazione della stessa. La vetta della montagna, ormai irraggiungibile, o raggiun­ gibile solo a fatica, era il suo anti-io . L' acqua, nella quale vo­ leva nuotare, ma che sopportava solo se raggiungeva una certa temperatura, che essa tuttavia non aveva intenzione di avere, gli si negava. La valle, ridente ma piena di mosche che in gioventù non lo avevano mai infastidito e che ora invece lo facevano andare su tutte le furie, divenne la negazione del suo desiderio di espansione. Gli altri scalavano le montagne, nuotavano nei laghi, passeggiavano nelle valli: lui era ripu­ diato e rigettato su sé stesso. L'ostilità del paesaggio - della quale in questo contesto parliamo solo in senso metaforico e che tuttavia nel monde vécu è una realtà e un dato imme­ diato della coscienza - si presentò alla consapevolezza di A in quanto contraddizione della sua persona. Iniziò a evitare la natura. Adesso gli è divenuta del tutto estranea ed egli si ritira nel luogo in cui la sfida da parte di un mondo che è sua negazione, non lo mortifica a ogni istante: nella sua stanza. Quando gli amici lo invitano a partecipare a una gita dome­ nicale o a soggiornare in campagna, rifiuta ringraziando con indifferenza: non ha senso misurarsi con un avversario se questo accresce costantemente la propriaforza e supremazia, mentre noi stessi ci riduciamo costantemente. Una ragione­ vole scientificità o anche la pura e semplice osservazione del quotidiano cercheranno di dimostrarci come il caso di A sia un caso individuale, e ci spiegheranno in termini medici come sia il suo incerto stato di salute a non consentirgli di svolgere

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un'attività sportiva o semisportiva, mentre tutto il resto non sono che raffinatissime ciance . E che dire allora di quel ma­ rito e quella moglie, che pur essendo ormai scesi profonda­ mente nel pozzo dell'età, continuano a fare lunghe passeg­ giate a piedi, sentendosi «bene » e addirittura «giovani»? Ma certo: questi arzilli vecchietti esistono e ancora per un po' si affaccenderanno nel mondo e nello spazio. Uno è un po' più ammalato dell' altro; questo a quarantacinque anni è in­ vecchiato a tal punto che i suoi compagni di studio stentano a riconoscerlo, l'altro resiste valorosamente, e quando com­ pirà sessant'anni i conoscenti non lo troveranno affatto cam­ biato e brinderanno alla salute di questo giovanotto sessan­ tenne . Al di là tuttavia di queste banalità, nel tentativo di descrivere l'essenza dell'invecchiamento rifiutando la solidità del common sense e l' oggettivistica terminologia medica, resta vero ciò che dicevamo : all'individuo che invecchia il mondo non solo sfugge, ma diviene nemico, e ogni essere umano presto o tardi, provato da una stanchezza più o meno pro­ fonda, rinuncia all'impari lotta e sceglie il disimpegno . Il giorno della ritirata a bandiere spiegate , della sconfitta to­ tale di fronte a un mondo divenuto nemico giunge per tutti: è certo come la morte che esso annuncia. Volendo concisamente definire la condizione di fondo del­ l'invecchiamento, potremmo riassumerla nei concetti di pena e tormento. Penosa è la confusa semiconsapevolezza dell'in­ curabilità di un male, e tormentosa è la certezza, di norma non accettata sino in fondo, e tuttavia presente in tutto lo spazio esistenziale, che dopo ogni malattia acuta possiamo guarire in senso medico, ma che nel nostro vissuto ci alze­ remo dal letto più ammalati di quanto non lo fossimo in pre­ cedenza. Anche in questo caso siamo stretti nell' ambiguità fra estraniazione di sé e intrinsichezza di sé, tra disgusto di sé e desiderio di sé. Al livello del pensiero discorsivo il primo soverchia sempre il secondo: e questo sarei io? si chiede l'indi-

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viduo ammalato di invecchiamento e ammalato a causa del­ l'invecchiamento, quando si guarda allo specchio o quando, camminando, correndo, scalando, torna costantemente a spe­ rimentare come il mondo si faccia nemico, come il corpo che lo sorreggeva e sorreggeva sé stesso, divenga un corpus che grava in lui ed è di peso a sé stesso . In uno strato più pro­ fondo del vissuto tuttavia, là dove ancora non si parla, pre­ valgono la ricerca e il desiderio dell'io . Gli eventi vi si com­ piono seguendo un insolito percorso. L'individuo che invec­ chia, al quale il proprio corpo preclude il mondo costringen­ dolo a occuparsi di lui, del corpo, anzi a divenire corpo e nul1' altro, deve necessariamente percepire come qualcosa di esterno la « spoglia mortale» che lo riveste e che al contempo dall'interno lo denuda; e percepire nei termini dell'omicidio la morte incombente. Il primo stadio della dissociazione dell'io nel processo d'in­ vecchiamento consiste nel fatto che l'io di ieri - non inten­ diamo in questo caso un io trascendentale e facciamo invece riferimento a un io che consiste in tempo accumulato, che conserva la propria identità attraverso il ricordo -, che questo io della coscienza, dunque, vorrebbe in un certo senso disfarsi della spoglia per tornare a essere sé stesso; detto al­ trimenti, per tornare a essere ciò in cui si è costituito attra­ verso i ricordi. Si ribella contro quell'io da lui avvertito come non autentico, in cui la spoglia, che naturalmente non è solo esteriore, essendo composta anche di elementi interiori, ad esempio da uno stomaco che duole o da un cuore che non batte come dovrebbe, si appresta a trasformarlo . Se solo la mia povera carcassa mi lasciasse in pace ! esclama magari A in occasioni simili, ritenendo cosl di prendere le distanze da ciò che gli grava nell'intimo e che esteriormente lo corrompe in maniera visibile a tutti. E in realtà il processo di invec­ chiamento è un processo di materializzazione e di sostanzia­ lizzazione . Il progressivo peggioramento delle funzioni meta-

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boliche comporta un accumulo di scorie, soggettivamente av­ vertibile e riconoscibile dall'esterno, nelle cellule di tutto l'or­ ganismo. Si potrebbe forse dire, pur mantenendo una rispet­ tosa distanza dall'universo della terminologia fisica, che nel­ l'invecchiamento il corpo diviene sempre più massa e sempre meno energia. Questa massa, che l'individuo affetto da in­ vecchiamento avverte in sé in quanto tale, è l'io nuovo, ne­ mico, che si oppone al sé del passato, conservato dal tempo e costituitosi in esso, è l'io estraneo e autenticamente avverso. Tuttavia l' avverso che dall'interno ci fagocita non può re­ stare per sempre ciò che era. Il vecchio io, pur sopravvivendo come accumulazione del tempo e anzi dissolvendosi sempre più nel tempo (dato che mondo e spazio si ritraggono) , ac­ cetta diffidente una sorta di gentlemen 's agreement con l'io nuovo che si materializza nel corpo gravante. Infine si compie una simbiosi profondamente sospetta tra io-tempo-ricordo e io-corpo-presente. Si realizza una inquietante affettuosità, che non esclude e anzi accentua il disgusto di sé, della persona che invecchia nei confronti del suo nuovo io: A si palpa un punto dolente o osserva, immerso in profonde meditazioni, la pelle screpolata della sua gamba. Egli avverte qualcosa di vago, che raramente giunge al livello del pensiero discorsivo, qualcosa di profondamente ambiguo e contraddittorio che po­ tremmo riassumere come segue: povero mio stomaco, tu che mi hai servito fedelmente, digerendo quanto io ingerivo, tanto che io non ti sentivo e quindi non ti possedevo, tu che hai fatto in modo che nel mio corpo non si esaurisse la linfa vi­ tale ! povera mia gamba, tu che mi hai accompagnato per un mondo fatto di strade, di montagne, di selciato, di accelera­ tori! Adesso siete strapazzati dal tempo e dal lavoro e non ne potete più, siete entrambi stanchi, come è stanco anche il cuore che non mi consente più di salire i gradini a due a due. Misera gamba, disubbidiente cuore, stomaco ribelle: a me fate male, nemici, a me, che vorrei palparvi e proteggervi e

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compatirvi e al contempo strapparvi dal mio corpo, sostituirvi. Mi sento male al pensiero che io sono la mia gamba, il mio cuore, il mio stomaco, che sono tutte le mie cellule, ancora vive ma ormai molto restie a rinnovarsi, e che al contempo non sono tutto ciò; che quanto più mi accosto ad essi, tanto più divento estraneo a me stesso, pur divenendo me stesso. Se utilizziamo il linguaggio - vago, e incapace di imporsi allo spirito indagatore della scienza - dell'allegoria che bene o male abbiamo scelto per le nostre riflessioni, si può dire: nell'invecchiare io sono io attraverso il mio corpo e contro di lui; in gioventù io ero io, senza il mio corpo e con lui. Quaq.do avrò superato lo stadio dell'invecchiamento ed entrerò a far parte dell'esercito dei vecchi, sarò solo corpo e nient' altro, corpo in quanto progressiva perdita di energia e aumento di sostanza: sin quando, nel momento in cui anche la sostanza starà per decomporsi nei suoi .elementi, io non sarò più io, né alcuna altra cosa. L'invecchiamento è, ci sia perdonato, una volta tanto, l'uso di un termine alla moda, il momento del rovesciamento dialettico: la quantità del mio corpo che si muove in direzione dell' annientamento diviene la nuova qualità di un io trasformato. Cosa siamo in fondo noi umani? La dimora di atroci do­ lori, pensa A, svegliato nottetempo da un mal di denti. È pro­ babile si tratti di una periostite, provocata dall ' abbassamento dell' alveo gengivale, con conseguente penetrazione dei bat­ teri nella mandibola. È un dolore atroce, sarò costretto a farmi togliere il dente sul quale poggia il ponte. Questo intervento provocherà il crollo di un' ardita opera di architettura den­ taria, al quale farà seguito - a meno che non intenda aggi­ rarmi per il mondo biascicando con le labbra infossate, e pre­ cocemente invecchiato, il che purtroppo professionalmente non mi è consentito, pur essendo forse la soluzione più pra­ tica - al quale farà seguito, dicevo, la protesi dentaria: ma­ terializzazione estrema del mio corpo già fortemente materia-

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lizzato. Come ho appreso da innumerevoli barzellette più 0 meno spiritose, la protesi dentaria non è una tragedia, è solo ridicola. Quando eravamo giovani mi mordicchiavi, dice una notte la moglie concupiscente al marito, che, non intendendo cedere alla calamità del desiderio coniugale, per tutta risposta mormora di avere avuto una giornataccia; quando lei tuttavia insiste nell' opera di seduzione, pretendendo che a sua volta lui si faccia seduttore, il marito esclama rassegnato: alt right, all right, give me my teeth. Sin qui questa spiritosa barzelletta. A non è d' accordo con l' autore perché ritiene che una pro­ tesi dentaria abbia la medesima sostanza tragica del perso­ naggio di re Lear nella landa, ed è convinto che chi non può più addentare un pezzo di carne sprofondi in uno strazio osceno . La vita non è quindi solo la dimora degli atroci do­ lori che A avverte nella mandibola - tanto che non capisce quasi più in che punto stia trapanando ed egli desidera arden­ temente essere altrove, ad esempio accanto al mal di denti ma anche un' alta corte dello scherno . Come è vergognosa la povertà e la maggioranza dei turisti trova ripugnanti i pez­ zenti fellàh, cosl è evidentemente vergognoso anche il de­ clino: il mondo, inteso in questo caso come insieme sociale, non ci perdona che il processo di materializzazione che av­ viene in noi si compia davanti ai suoi occhi e ci dedica solo la buona assistenza medica e la mordace barzelletta, entrambe sorte dal desiderio della società di tenerci lontani. Tuttavia posso, pensa A alzandosi dal letto per prendere un bicchier d' acqua e un analgesico, tentare di rinunçiare a mondo, monte, valle, strada, vicino e inventore di barzellette, e di impegnarmi più a fondo nei miei dolori, che la rovina del corpo mi infligge . Non vale far finta che non sia accaduto nulla, che non mi sia svegliato in piena notte con un tormen­ toso mal di denti e la prosp ettiva di una protesi dentaria. I valorosi che non vogliono saperne del loro dolore e che lo liquidano con un gesto di virile resistenza o di femminile accet-

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tazione - non è niente, non è importante! - possono essere certi dell'onore che tributerà loro una società che non vuole essere disturbata dallo spettacolo dd decadimento. Non giun­ gono tuttavia mai, dato che rinnegano il loro dolore e non accettano ciò che è propriamente loro, al reperimento dell'io. Il corpo che solo nel dolore e soprattutto nell'invecchia­ mento - che con frequenza crescente ci reca nuovi disagi scopriamo sino in fondo, quando non può più, a causa della sua sofferenza, andare al di là di sé stesso e dissolversi nel mondo e nello spazio, il corpo, dicevamo, è un io altrettanto autenticamente io quanto lo è il tempo che l'individuo che invecchia ha stratificato in sé. Per questo motivo A, nel momento in cui prende l' anti­ dolorifico e grazie a questo si trova sospeso tra tormento e speranza di sollievo, ed è anzi proprio la speranza di non avere più dolore a schiudergli la possibilità di riflettere, appare de­ ciso a sfruttare i minuti di sospensione e a entrare in relazione con il mal di denti. Si tratta, pensa, del mio mal di denti: il desiderio di disfarmene o di collocarmi accanto ad esso o di rifilarlo magari al vicino ancora sano, facendolo passare attraverso una fessura della porta, esiste; tuttavia la soffe­ renza nella mascella, che domani probabilmente affiderò, come fanno tutti, alle cure del dentista, il quale forse potrà liberarmi dal dolore strappando, con mano esperta, qualcosa al mio io e inserendo come surrogato una res extensa di un materiale estraneo, rappresenta un sentire accentuato del mio sé, una realizzazione della mia carne nell' autonegazione della carne: è un accrescimento dell'io, ma allo stesso tempo una perdita dell'io, ossia il forzato abbandono di un io conven­ zionale, abbastanza astratto, che s 'addormenta senza dolore e che domani apparterrà al mondo, sarà mondo. Dolore e malattia sono esaltazioni della decadenza del corpo, che questo allestisce per sé e per me, affinché mi an­ nulli totalmente in lui e così facendo accresca il mio io nel

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processo flogistico, che se da un lato mi riduce nella mia fun­ zionalità, dall'altro mi accresce in quell'immediato che ap­ partiene solo a me. L'analgesico fa effetto, il dolore si attenua. A tira un so­ spiro di sollievo e sfugge alla problematica euforia del dolore, che del resto si è impossessata di lui solo quando aveva già inghiottito l'antidolorifico e cosl bevuto la sua speranza di libertà dal dolore. Rientra nell'ambito reattivo della norma­ lità. È libero, come chiunque venga liberato da un tormento. È male avere un dolore fisico, è un bene essersene liberati. A non rimpiange la conquista dell'io procuratagli dal mal di denti. Ciò che si ripresenta adesso, nel momento dell' aile­ viamento, è una volta di più la sensazione di estraniazione di sé provocata dal deterioramento fisico, segnalato dal mal di denti. Cosa sono diventato? Mentre gli occhi gli si chiu­ dono e il sonno si avvicina pensa: ecco, sono un uomo con i denti malandati, un organismo che non oppone più resistenza all'irruzione e alla diffusione dei microbi. Un essere umano che invecchia. Domani il dentista, la tenaglia, l'estrema ma­ terializzazione del mio corpo sotto forma di protesi, per' la quale dovrò sborsare molti soldi. Sono ancora io quello che sta addormentandosi, liberato da questo dolore, ma preda di altri, peggiori, che certamente verranno ad affliggermi? Sono ancora io? Give me mr_ teeth, finirà cosl, prima della fine. Che sfacelo vergognoso. E un bene il sonno; dire che la morte è meglio non ha senso; la cosa migliore sarebbe non venire al mondo: questa è una formula vuota con la quale ha fatto i conti la logica formale. Lasciamo che quest'uomo tormentato dal mal di denti si addormenti: sulla soglia del sonno il suo riflettere si è fatto incerto, ha rinunciato a sé stesso, e a questo punto non ci serve più. Al di là dell'esperienza notturna vissuta dal no­ stro personaggio immaginario, registriamo tuttavia come nel dialogo muto tra conquista di sé ed estraniazione di sé

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- dall'individuo che invecchia vissute entrambe nel tor­ mento e nella tribolazione - in primo piano si ponga l' estra­ niazione, perché l'ampliamento dell'io provocato dal dolo­ roso processo del corpo nel farsi sostanza, solo raramente viene sperimentato come tale, sebbene possa sempre essere riconosciuto in. base a determinati sintomi, quali il fatto che un A qualunque si tasti preoccupato gli arti doloranti, o che prenda la fastidiosa abitudine di tediare il prossimo con il racconto dei suoi mali, o che si abbandoni inerme alla sua svogliatezza, assimilandosi ad essa. Solo la sensazione di estra­ neità nei confronti del nuovo io, di norma, giunge all' attua­ lizzazione sul piano riflessivo. Successivamente, cercando di ricostituire discorsivamente il sentimento di estraniazione, l'individuo che invecchia può certamente pensare che la res extensa stia prendendo il con­ trollo su di lui, e può schierarsi a favore della res cogitans che si ribella a questo stato di cose; detto altrimenti, ritiene ma­ gari che l' «io spirituale », in quanto suo io autentico, si con­ trapponga, debba contrapporsi, all a presa del potere da parte della physis, e con provocatoria contentezza dice: non sarà certo l' asma a impedirmi di vivere. Allora egli - ma chi è «egli » veramente? - si contrappone all' asma, ripudia la res extensa, non accetta il proprio corpo. Resterebbe da indagare - e confesso che di fronte a simili riflessioni per ora pro­ cedo solo a tastoni e non me la sento di approfondire la ri­ cerca - se la distinzione cartesiana tra res extensa e res cogi­ 1 tans corrisponda a una realtà sperimentata negli strati più pro� fondi, o se invece i due aspetti non siano inscindibilmente uno, e prop:·io nella sou/france vécue non si contrappongano con successo a ogni tentativo di dissociazione. Si tratterebbe di capire se l'io che, altèro, si ribella a un non-io, l'io dunque che fra virgolette definiamo «vero », l'io della res cogitans, che considera non-io anche il corpo in declino e che di conse­ guenza si diverte a parlare del «maledetto stomaco », o della

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gamba che fa tremendamente male, sia davvero qualcosa di più di questo stomaco o di questa gamba. Si tratterebbe di capire se l'istante di esaltazione nel tormento, durante il quale A si è totalmente abbandonato al mal di denti in quanto suo, annullandosi infine definitivamente nel processo flogistico, sia stato l' autentico momento di verità. Quanto andiamo affermando in questa sede contraddice con molta chiarezza sia l'esperienza quotidiana, sia l' infra­ struttura emotiva dei concetti di malattia e salute nel suo com­ plesso; simili considerazioni dovrebbero infatti portare alla conclusione che l'essere umano aspirerebbe alla condizione di malato. Mentre appare evidente che cosl non è. Vogliamo essere sani, non ammalati, vogliamo sentirei giovani, non vecchi, e di norma ce ne infischiamo della possibilità di una conquista dell'io attuata grazie al dolore. In questo ambito tuttavia risulta di scarsa utilità richiamarsi a una normalità del pensare e del sentire tipica dell'esperienza quotidiana: la normalità è infatti un concetto inerente all'efficienza sociale, mentre noi facciamo il tentativo, forse fragile, ma nel nostro contesto indispensabile, di accostarci a una reatà soggettiva vissuta. Sappiamo che A, svegliandosi nottetempo per il mal di denti, minacciato dalla tenaglia, dall'estrazione e da una protesi profondamente materiale, intendeva disfarsi della tor­ mentosa avversità (altrimenti non avrebbe preso quell' anti­ dolorifico) , sappiamo che temeva l'intervento del dentista e che in misura ancora maggiore era spaventato all'idea della protesi, cosl simile a una scultura surrealista. Sappiamo che in quel momento A divenne estraneo a sé stesso . E con al­ trettanta certezza sappiamo che nel mal di denti divenne in un modo nuovo sé stesso. Il piccolo e innocuo tormento che qui esemplarmente rappresenta i disagi dell'invecchiamento, sebbene anche un giovane possa soffrire di mal di denti, l'ha aiutato a trovare il proprio io o un nuovo io. Il dolore ha fatto del suo corpo - che deve appartenere al mondo, perché

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cosl vuole la società e cosl vuole il desiderio di ciascuno di evitare la morte sociale - un suo possesso che non deve più dividere con gli altri. Lo ha privato di un ulteriore pezzo di mondo, o detto altrimenti, in un crescendo gli ha fatto com­ prendere il mondo in quanto sua negazione. In questo caso, a rimetterei è stata la società, che non sa cosa farsene di uno che, perdita del mondo qui, conquista dell'io là, alla fine per colpa del mal di denti non è in grado di compilare la dichia­ razione dei redditi. Chi ha l'ultima parola? Il corpo, che trasmette a chi in­ vecchia una nuova consapevolezza di sé? O la società, che a ogni essere umano impone un io che deve restare sano, ossia efficiente, e che in quanto res cogitans si oppone all'io cor­ poreo che si annulla nella res extensa? All 'interrogativo è pres­ soché impossibile rispondere; ma siamo in ogni caso costretti a circoscrivere energicamente quanto abbiamo sostenuto a proposito del momento della verità in cui un dolore ci svela come autentico l'io corporeo. Perché l'io spirituale, che l'in­ dividuo che invecchia reca in sé e che nel ricordare consiste di tempo vissuto, se anche si è costituito mediante la reazione del prossimo al nostro esistere, in ultima analisi si dimostra però sempre come il più forte, cosicché alla fine per vie tra­ verse torniamo ai risultati della superficiale esperienza quo­ tidiana e al concetto di normalità, che poco sopra abbiamo cercato di ridurre nei limiti a lui propri. Perché in nessun caso sfuggiamo allo sguardo e al giudizio degli altri. Da giovane, A iniziò una lettera con mon chéri: dato però che in quel momento l'amato non amava già più, il mon chéri risultò privo di legittimazione sociale, di legittimazione co­ municativa interpersonale, svanl e si spense. A era, indipen­ dentemente dalle sue condizioni fisiche e spirituali, in sostanza una donna abbandonata e questo frammento di abbandono era parte dell'io che essa, più tardi, faceva riemergere nel ri-

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cordo, al pari dei precedenti giorni di trionfo, quando le let­ tere che lei scriveva a mon chéri trovavano giustizia e giusti­ ficazione nelle lettere che lui scriveva a ma chérie. E poiché l'io in quanto coordinata sociale deve bene o male essere ac­ cettato, anche l'estraniazione di sé di chi è affetto da invec­ chiamento risulta non solo più perseverante della conquista dell'io avvenuta grazie al dolore e alla materializzazione del corpo, ma anche più decisivo : è più reale se si vuole , essendo il reale al contempo ciò che è agito e ciò che agisce . Ad agire sono gli altri, più che il corpo, perché anche il corpo delle sofferenze, anzi soprattutto questo, è loro preda; e l' agire vuole afferrare gli altri, senza i quali non può esi­ stere . Quanto dicevamo poc' anzi è vero (e non intendiamo ritrattare nulla) : la nausea di A di fronte alle macchie gialle è imposta dall'esterno, ossia dall'esperienza, che simili de­ turpazioni provocano la nausea a chi non è deturpato, mentre in realtà la deturpazione appartiene a lei, ad A, ed essendo sua proprietà non ne può provare un disgusto originario. Bi­ sogna però considerare quanto hanno già aggiunto mondo e vita, considerare quindi che l'originarietà non conta e che l'io sociale, sebbene inculcatoci dalla società, è qualcosa a noi proprio quanto l'io che sperimenta sé stesso nella fisica im­ mediatezza. Poiché la società non sa che farsene di una per­ sona alla quale il mal di denti toglie la capacità di ragionare, ad A serve poco sperimentare in termini di euforia, nella so­ spensione tra tormento e speranza di sollievo, il momento di verità del suo io. Deve rassegnarsi . Ciò che noi definiamo realtà, è un campo di forze di tensioni sociali, di azioni e rea­ zioni. La sua energia plasmatrice dell'io non ci abbandona finché esistiamo . L'io inculcato, in ultima analisi, non è altro che l'io, ed è necessaria una particolare dissociazione dell'io per scoprire, al di là del nostro io sociale, l'io dato solo ed esclusivamente dal corpo . L'ambiguilé di estraniazione di sé e di intrinsichezza di sé implicita nell' invecchiamento - e in

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nessun istante dobbiamo dimenticare che l'invecchiamento è una malattia e che come tale è da noi vissuto - questa am­ biguiM non nasce quindi solo dal fatto che noi da un lato av­ vertiamo sempre più il nostro corpo come spoglia mortale, mentre dall'altro questa stessa spoglia attecchisce per cosl dire a noi; essa si manifesta anche nella contraddizione tra l'io sociale e l'io che nasce a partire dal corpo sofferente, l'io cor­ poreo, che è allo stesso tempo rivestimento e cosa rivestita. A non sa che farsene del suo corpo decrepito che gli procura mal di denti, al quale farà seguito la perdita dei denti. Può certamente entrare in rapporto con il suo dolore e giungere a qualcosa che egli chiamerà forse la sua «consapevolezza». Ma questo può accadere solo nottetempo: sia perché la so­ cietà esige che, senza dolore e a mente sgombra, compili la sua dichiarazione dei redditi, sia perché lui stesso, essendo «mondo », essendo società e vedendo sé stesso con gli occhi di questa, non può accettare l'incombente io-senza-denti, che è rifiutato, espulso dal mondo . A percepisce sé stesso come crede lo percepisca la società: per questo vuole conservare l'io che si è portato dietro da quando in gioventù aveva denti robusti, e sbarazzarsi a ogni costo di quell' altro che notte­ tempo ha definito « autentico ». Quale io trasferiamo dal passato nell'invecchiamento? A dieci anni sedevamo sui banchi di scuola . A venti baciavamo una ragazza. A trenta, suscitando l'invidia dei colleghi, face­ vamo carriera, e a quaranta ci accorgevamo di piacere ancora alle donne. Ogni volta eravamo un io. A quale ci aggrappiamo invecchiando, sapendo, o solo figurandoci, che proprio in questo eravamo più noi di quanto non lo fossimo stati in uno precedente o successivo? Da giovane un tale aveva capelli folti e ondulati; adesso le poche ciocche grigie che gli rimangono sulle tempie a incorniciare la pelata, sono un ornamento pit­ toresco, arruffato ma portato con orgoglio. Una donna crede di ricordare che a trent ' anni affascinava gli uomini grazie al

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suo seno rigoglioso; a cinquantacinque preferisce quindi abiti molto scollati, sebbene la pelle intorno al seno sia già flac­ cida e di una tonalità brunastra. In realtà quel tale dai radi ciuffi arruffati in gioventù non veniva ammirato per i suoi capelli ondulati, ma per la sua conversazione brillante, e la signora scollata mieteva successi non per il suo seno rigoglioso, ma grazie ai suoi occhi vivaci e intelligenti. È vero che l'io che portiamo con noi è una creazione della società, anche in questo senso non intendiamo ritrattare nulla. Tuttavia nel ricordo abbiamo ristrutturato, reinterpretato il nostro io sociale. L'io che in quanto propriamente nostro vogliamo contrap­ porre al declino dell'invecchiamento, questo io, in riferimento al quale crediamo di dover considerare e sentire come estraneo e avverso quello nuovo, maculato di giallo o senza denti, nella realtà non sempre è esistito . L'immagine esterna di noi stessi è una vaga realtà statistica: a cinquecento altri eravamo anti­ patici, solo a una minoranza di cinquanta eravamo simpatici; quindi in «realtà», una realtà che possiamo proporre solo fra virgolette , eravamo antipatici . Il problema è che non cono­ sciamo la statistica e che il nostro io sociale non solo è stato costruito dagli altri, ma in gran parte è sorto in base a pure e semplici supposizioni. La realtà dell'io sociale, che quoti­ dianamente sperimentiamo in quanto tale e alla quale ci sot­ tomettiamo, è in ultima analisi altrettanto ambigua quanto l' io-del-mal-di-denti di A. Può più o meno coincidere con la statistica a noi ignota, ma non c'è da fidarsi. Invecchiando diveniamo estranei a noi stessi: doppiamente e in maniera imperscrutabile, perché quando A davanti allo specchio, scuo­ tendo la testa, dice «quella non sono più io », il soggetto le risulta altrettanto sconosciuto quanto il predicato verbale . Il risultato di simili riflessioni dovrebbe essere che l'io, che nella malattia dell'invecchiamento si dissocia più volte - nel corpo che ho io, nell' « altro » corpo, che nel dolore ha me,

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nella res cogitans e nella res extensa del mio sé, nell'io ambigua­ mente derivato dalle reazioni del prossimo, che noi conser­ viamo in quanto tempo vissuto, e nell'io dell'invecchiamento che quotidianamente si modifica - l'assurdo risultato, dice­ vamo, di un simile indagare nelle nostre più intime faccende, dovrebbe essere che un io vissuto, un'identità autentica non esiste . Tutto ciò può essere considerato un esercizio intellet­ tuale banale e privo di valore, poiché la dissociazione dell'io risulta in ogni istante annullata da un' associazione dell'io . L'interrogativo circa la realtà dell'io è apparente: come era ap­ parente l' affermazione di Ernst Mach secondo cui l'io è un fascio di sensazioni, perché l' affastellamento annulla i sin­ goli elementi del fascio in quanto tali . Con buon diritto e a ragione diciamo «io», per quanto davanti allo specchio si possa scuotere la testa e dubitare di noi stessi, per quanto nottetempo ormai solo al dolore si voglia attribuire l'energia in grado di plasmare l'io, per quanto si riconosca che l'im­ magine di noi stessi che ci portiamo appresso ci è stata im­ posta dalla società, senza tuttavia in questo senso poter sa­ pere se anche questa non . sia un'illusione delle nostre con­ getture. In fondo è vero che è la nostra superficie cutanea a delimitarci: quanto accade al di qua di questo confine siamo noi; quanto accade al di là del confine è l' altro . La maniera fenomenologica di percepire - che non accetta il contrasto tra interno ed esterno, che inserisce lo spazio in noi e noi nello spazio, cosicché io sono sia me stesso che il mio mondo spaziale - mira al nocciolo del vissuto e al contempo manca il bersaglio . È vero che nelle stratificazioni dell'immediata­ mente vissuto siamo al contempo «noi » stessi e «mondo »: ma è altrettanto vero che in quello stesso ambito noi facciamo sempre una distinzione . Nel monde vécu e nel tentativo di ricostituirlo nel pensiero non valgono più i principi della lo­ gica, questo è il problema. L' ambiguiM si trasforma in anti­ nomia.

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Eppure dobbiamo, se vogliamo riflettere sulla nostra con­ dizione, accettare la contraddittorietà logica, accettare l' as­ surdità e il rischio che comporta ogni confusione di idee . È l'invecchiamento che ci espone e ci abilita a simili riflessioni. Il mondo, la cui raffigurazione è la logica, già si sottrae. Una riflessione che, essendo incentrata sull'assoggettare il mondo, ha dovuto mutuare dalla logica una raffigurazione del mondo, nel momento in cui abbiamo superata la china e iniziata la discesa, sempre più rapida, sempre più veloce, non è già più affar nostro. La contraddizione originaria, la morte, è in attesa e ci costringe a formulare frasi impure sul piano logico, del tipo «quando non ci sono più». È già in noi, e crea spazio per l'ambiguità e la contraddizione. Diveniamo io e non-io. Possediamo l'io racchiuso nella pelle e possiamo al contempo sperimentare come i confini siano sempre stati e tuttora siano fluttuanti. Diveniamo più estranei e più in­ trinseci a noi stessi. Nulla più è scontato. Le evidenze non sono più credibili. L'estraniazione di sé diviene estraniazione dell'essere, per quanto si assolva diligentemente ai compiti del giorno, si compili la dichiarazione dei redditi, si vada dal dentista. Abbiamo detto che nell'invecchiamento il mondo diviene la nostra negazione? Altrettanto correttamente avremmo potuto affermare che siamo in procinto di divenire la negazione di noi stessi. Il giorno e la notte si annullano nel crepuscolo.

Lo sguardo degli altri

Al lettore attempato consigliamo il volume La Quarantaine,

di Jean-Louis Curtis . Un libro non grande, ma bello nel suo tono meditativo, sulla sorte di due coppie di sposi che si tro­ vano al culmine della vita. Nel titolo si gioca argutamente con il doppio significato della parola quarantaine, con la quale s ' allude sia al decennio fra i quaranta e i cinquanta, sia alla quarantena, all'isolamento igienico cui sono condannate le persone non più giovani. André, notaio di provincia, distinto patrizio originario della zona pirenaica, uomo facoltoso e non privo di cultura, per la prima volta dopo molti anni si ritrova a Parigi senza se­ guito familiare. L'uomo, che è sulla soglia dei cinquanta, è sceso al Ritz, piccolo e costoso omaggio sentimentale a Marcel Proust . La prima sera fa una puntatina al Lido sugli Champs Elysées . Le ragazze sono carine, si suona un buon jazz; poi torna nella sua stanza d' albergo, osserva piace Vendome, che dai tempi del suo ultimo soggiorno a Parigi si è trasformata in un autodromo . Intende dedicare le ore serali del giorno successivo al teatro, è in programma un lavoro della scuola brechtiana assai lo­ dato dalla critica. Nel bel mezzo della rappresentazione la noia, ieri ancora amorfa e inconfessata, diviene manifesta. Dopo il secondo atto lascia scontento il teatro . L'impresa di

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fare una passeggiata si risolve in un disastro. L'odore nau­ seabondo dei gas di scarico mozza il respiro e gli impedisce di gironzolare tranquillamente come da settimane sperava di fare. Cerca rifugio in un caffè, ma anche questa è un'impresa disperata: né al Flore, né al Deux-Magots c'è un posto libero. Tutto ciò per A sarebbe ancora accettabile, se non avesse sempre più forte l'impressione di essere invisibile. Nessuno s'accorge di lui. A quanto pare, pensa, in questa città se si ha più di venticinque anni non si esiste. La mattina succes­ siva, profondamente irritato, parte. Qualche settimana più tardi subisce un infarto. Si potrebbe affermare che quello di A è un caso molto per­ sonale, inapplicabile alla stragrande maggioranza dei suoi coe­ tanei: la sua sensazione di essere invisibile o di non apparire è spiegabile a partire da uno stato d'animo del tutto indivi­ duale, da una casuale depressione, e forse anche da un ma­ lessere fisico preavvertito. A questo si può tuttavia obiettare che la sua sconfitta di Parigi ha poco a che fare con la con­ tingenza della sua persona, che essa è invece caratteristica della struttura sociale ed economica di un'epoca in cui, inci­ tati e fustigati dalle esigenze di produzione ed espansione nel proprio campo, si è riconosciuto come solo la gioventù sia abile al lavoro e al piacere, e in cui di conseguenza predo­ mina un'atmosfera che potremmo genericamente definire di idolatria della gioventù. È un argomento da non sottovalu­ tare. Lo confermano alcuni dati desumibili da quelle semplici pubblicazioni che sono le offerte di lavoro dei giornali: si cer­ cano redattori capo, direttori, ingegneri per mansioni diret­ tive - per non citare che alcuni dei termini con i quali la se­ conda metà del nostro secolo definisce il «manager» - ma tutti sotto i quarant'anni. In questa sede non vogliamo tut­ tavia occuparci, per il momento quanto meno, dei destini pro­ fessionali degli individui che invecchiano o che sono già vecchi, il cui numero cresce progressivamente in un mondo

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che sempre meno sa come utilizzarli. La nostra riflessione è volta al problema in generale dell' età sociale che lo sguardo degli altri ci attribuisce, e in senso lato al nostro destino in quanto singoli che non possono vivere senza gli altri, ma nem­ meno con essi e contro di essi, all'assurda e contraddittoria condizione di fondo dell'essere umano che vorrebbe regnare da solo sulla sua proprietà - il mondo! - mentre in realtà sa che mondo e proprietà esistono solo quando altri gli conten­ dono il suo posto e il suo possesso. Come di quasi tutte le con­ traddizioni che alterano la nostra esistenza, anche di questa ri­ sulta pienamente consapevole solo l'individuo che invecchia. Cosa intendiamo per età sociale? Nella vita di ogni essere umano esiste un punto del tempo, o se vogliamo usare la più precisa terminologia matematica, l'intorno di un punto, in cui egli scopre di essere solo ciò che è. D'un tratto si rende conto che il mondo non gli fa più credito di un futuro, non accetta più di considerarlo per ciò che potrebbe essere. Al­ l'immagine che si fa di lui, la società non sovrappone più le possibilità che egli credeva gli fossero ancora concesse. Egli scopre di essere - non per giudizio proprio, ma come imma­ gine speculare dello sguardo degli altri, che ben presto tut­ tavia egli interiorizza - un individuo senza potenzialità. Nessuno più gli chiede: cosa farai? Tutti impassibilmente e senza cedere al sentimento stabiliscono invece: questo hai già fatto. È costretto a sperimentare che gli altri hanno fatto un bilancio e gli hanno presentato un saldo che è lui. Lui è inge­ gnere elettrotecnico, e 'tale resterà. È impiegato delle poste, beh, forse dandosi da fare e, con un po' di fortuna, potrà diventare direttore del suo ufficio, e chiusa lì. È pittore, noto o ignoto: se si è accumulato in una somma di avvenimenti esistenziali e creativi, il successo continuerà a restargli fedele, anche se sul mercato dell' arte vi sono oscillazioni e i suoi quadri oggi sono magari meno quotati di ieri; se invece il suc­ cesso - ossia ciò che succede, gli esiti della sua arte - non

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c'è stato, allora a caratterizzarlo continuerà a essere ciò che non-è-successo, inteso come negazione della sua esistenza ar­ tistica. A prescindere da chi è A, egli non sarà comunque più un grande cacciatore, né un uomo di Stato, né un attore, né un criminale professionista. Quanto egli definisce la sua «vita» - la somma del messo-in-atto e del non-messo-in-atto - de­ termina quella che ancora ieri parimenti considerava la sua vita, ossia gli anni che ancora gli restano. A questo punto già li intravede come una ripetizione uniforme e monotona del tempo passato . È certo vero che solo la morte mette il punto finale, e che solo il termine di una vita attribuisce verità al principio e a tutti gli stadi intermedi . Il gioco - almeno teoricamente non è concluso fin quando non c'è stata l'ultima battuta. Si assiste a svolte, a partenze, a sovvertimenti, a fughe, cosicché uno stadio caratterizzato dalla cristallizzazione e dalla fossi­ lizzazione può rivelarsi infine come una semplice fase di tran­ sizione. Gauguin. Un impiegato di banca rifiuta il saldo dell'io presentatogli dalla società: la sua morte sull'isola di La Do­ minica dice la verità sull'esistenza dell'impiegato di banca, e la distrugge. Quanti sono i Gauguin che possono essere chia­ mati a testimoniare? In un mondo che va socializzandosi at­ traverso interazioni e interdipendenze, il numero di chi sfugge si ridurrà sempre più. I saldi dell'io, che risultano dai bilanci fatti dalla società, sono accettati, interiorizzati e infine esatti. L'essere umano è ciò che compie nella società. L'individuo che invecchia, il cui agire è già stato quantificato e soppe­ sato, è condannato. Ha perso anche se ha vinto, ossia anche se il suo essere sociale, che determina ed esaurisce tutta la sua coscienza, ha un elevato valore di mercato. Al suo oriz­ zonte non si profilano più fratture e sovvertimenti, morirà, come ha vissuto, da soldato e uomo di coraggio . È necessario chiedersi in cosa consista il verdetto della so­ cietà e quali possibilità vi siano di respingerlo. In fin dei conti

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il giudizio, maturato nel corso della nostra vita attiva per un

consenso che via via si consolida, non è stabilito a priori. Il nostro essere sociale, che una volta entrati nella fase dell'in­ vecchiamento è il nostro essere puro e semplice, si definisce in un dialogo. Noi parliamo, la società risponde. Il nostro fare e agire è il primo atto di una realtà sociale. Il secondo, che si riflette sul primo e cosl facendo gli dà una dimensione, è un replicare a parole o a fatti. Credo di parlare da poeta - per fare un esempio - e sfido la società attraverso la mia parola poetica. Solo se la società accetta la mia sfida sarò stato - agendo - poeta. Quello che in molti sensi definiamo un gioco - spettacolo del teatro universale ' strutturato in funzione della fine, puro ludus, gioco d' azzardo con puntata massima - non è vinto e non è perso finché siamo giovani. Oggi ancora bussiamo alla porta di un sordo, ma domani ci verrà aperto: in questo pos­ siamo avere fiducia e sperare, perché la fiducia e la speranza della società sono con noi e nessun nostro simile vuoi fare la fi­ gura dello stupido. Solo quando invecchiamo e abbiamo rac­ colto un gran numero di risposte, solo quando la società ha fatto un inventario delle repliche che ci sono state date, essa si sente sicura del nuovo giudizio che deve formulare, e lo for­ mula automaticamente in base al risultato dell'inventario. Chi non apre le porte a questo punto non rischia più di fare la fi­ gura del sordo: insieme al nostro bussare ha sentito anche la voce di ciò che è stato; e di lei ci si può fidare. Adesso il dia­ logo si cristallizza in una monotona litania, che terminerà solo con la nostra fine. Poniamo interrogativi eternamente uguali, perché riceviamo risposte eternamente uguali, e queste le rice­ viamo perché quelli sono sempre gli stessi. Sarebbe bene sapere se non vi sia una qualche possibilità di sfuggire alla sentenza· della società, che ha i tratti del ver1

[ Welt- Theatenpiel, espressione dall'ampio spettro semantico per i molteplici significati

che può assumere il termine Spie/: gioco, recita, spettacolo teatrale, esecuzione musicale.]

So

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detto in virtù della sua massa opaca, quantitativamente mi­ surabile, se sia possibile evitarla anche nella fase dell'invec­ chiamento e della vecchiaia, quando risulta ormai concentrata sino all'impenetrabilità. Chi sei? chiede l'alienista al paziente. Talleyrand. Talleyrand trema nella sua troppo ampia divisa da detenuto-folle, strascica i piedi impantofolati, scucchiaia la zuppa da una scodella di legno. Resta Talleyrand: il .ver­ detto della società non lo riguarda. Oppure seguiamo il grande pittore A al Café du Dome a Montparnasse. Il suo nome non è registrato in nessuna opera di consultazione, da anni non espone, nelle gallerie i suoi quadri non figurano nemmeno nelle sale secondarie. Chi sei? Sono un grande artista, ma do­ vete capire, il mercato, il giro, la moda, tutto è contro di me. Il verdetto della società può essere respinto oscurando total­ mente la scena, o, detto altrimenti, negando quel principio di realtà che Talleyrand rifiuta in manicomio. Ma si può met­ tere in atto il rifiuto anche oscurando solo una parte del pal­ coscenico, come il pittore A fa con l'universo limitato della sua professione. Nessuno dei due, né Talleyrand in mani­ comio, né il pittore A, ha. un'età sociale. Bussano alle porte, instancabili, e se ne infischiano se non viene loro aperto. Par­ lano nel vuoto e rinunciano alla replica. La società dice loro: se foste davvero quel che pretendete di essere, un grande pit­ tore e Ta1leyrand, noi ne saremmo al corrente. Loro non sen­ tono , il verdetto non li raggiunge. I folli non sono molti. A nche i l nu mero di chi è folle a metà o per u n quarto non è molto elevato. La maggior parte della gen t e è « n o r m ale » , il che nel nostro caso significa: a una certa età acce t t a il giudizi l' della società. ()uando era gio­ vane, con maggiore o minore coraggio (è un problema di at­ t i tudini individuali ) , ha provato e riprovato a muoversi verso una possibilità, che era una possibilità app unto perché la so­ cietà la riconoscev a a nco r a in quanto tale . Nell 'invecchia­ mento invece l a sua realtà è la sua età, la sua età sociale, che

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la concerne al pari di quegli strati del tempo che sono memo­ rizzati nel ricordo o di quell'altro momento che essa, nel tor­ mento e nella fatica di un corpo non più efficiente, sperimenta come perdita del mondo . Questa età sociale non è tuttavia mai determinabile in termini generali, varia a seconda del­ l' epoca, delle strutture sociali, dei vari ambiti di rapporti in cui un essere umano è inserito. Quando a quarantatré anni divenne presidente degli Stati Uniti, Kennedy era giovane, mentre non è tale il quaranta­ treenne assistente di un professore universitario. Oppure, fa­ cendo un esempio opposto: Thomas Buddenbrook divenne senatore quando aveva più o meno quarant'anni; ma a quel­ l'età era un uomo molto maturo, già quasi anziano, proprio a causa della dignità e dell'aura paterna che da quella carica emanava. Christian, il suo dissoluto fratello, angustiato da quel vago tormento alla gamba e con una certa simpatia per le prime colazioni a base di champagne, sul letto di morte era ancora un fanciullo precocemente invecchiato . L'età so­ ciale è determinata da un intreccio di cause, troppo complesso per proporci di sbrogliarlo in questa sede. Le nostre ambi­ zioni sociali non sono che uno dei numerosi filoni. Un fun­ zionario statale subalterno, ad esempio, a quarantacinque anni è un vecchio, solo se un tempo ha mirato a una posizione più elevata. Se invece non si è mai preoccupato di avanzare nella gerarchia, se né alla famiglia, né agli amici, né ai superiori ha mai fatto cenno delle sue speranze di carriera, la sua età sociale resta indeterminata e indeterminabile. Non ha rile­ vanza sociale se nella sua posizione subordinata egli abbia trenta o cinquanta anni. Senza storia vegeta nel suo ufficio, è un uomo senza biografia: e solo il peso del ricordo o il corpo che gli grava gli fanno capire un giorno di essere invecchiato . In accordo con la sua scarsa ambizione, il giudizio della so­ detà venne formulato quando era ancora assai giovane. So­ cialmente senza età o vecchio sin da giovane - i due termi-

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ni a questo punto si equivalgono - scivola inerte verso la fine. Ammesso che nella nostra epoca, al di là di tutte le diffe­ renze strutturali, nazionali e individuali, esistano criteri atti a determinare l'età sociale, ammesso che sia possibile circo­ scrivere l'intorno del punto in cui il giudizio della società ac­ quista piena validità e il mondo non ci consente più di muo­ verei autonomamente verso l'obiettivo che noi stessi riteniamo possibile, ammesso tutto questo, potremo trovare l'orienta­ mento nell' ambito del possesso, nel quale rientra anche il va­ lore di mercato che comunque rappresentiamo. Perché noi non siamo di casa in un mondo dell'essere, bensl dell'avere, o più precisamente di un essere che è dato solo dall'avere. Ciò che un individuo è, che egli rappresenta, è determinato da ciò che ha. Dall'essere umano l'ordine generale pretende che abbia - un possesso quantificabile, o un valore di mer­ cato che rappresenti o garantisca un possesso - ed egli entra nella fase sociale d'invecchiamento non appena ha. Se non ha niente gli viene forse risparmiato l'invecchiamento sociale, ma deve al contempo sperimentare come non gli siano con­ cesse né essenza sociale, né esistenza umana. È cretino dalla nascita, e non ha imparato niente, dice la voce popolare; è povero dalla nascita, e non ha guadagnato niente, diciamo noi. Non ha né posizione né consistenza, è l'immaginario Tal­ leyrand o il genio da mansarda. La società dell'avere neutra­ lizza l' individuo autonomo che, incalzato dall'esigenza di avere, allo sguardo degli altri non è in grado di contrapporre u n a personalità centrata su sé stessa, una personalità che si col l o ca in una prospettiva. È possibile trovare l 'orien tamento seguendo le indicazioni del l ' av e re : e t u t t avia si fatica a l oca l izza r e i punti dell'invec­ chiamento, perché la circostanza dell'avere o l'esigenza di avere ci ri gu a rd a no in fasi di vita che v ariano a seconda dei casi. Per alcuni il destino d eli ' avere si concretizza m ol t o

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presto, sin dalla culla: chi ad esempio è destinato a ereditare, troverà ad attenderlo, gli si imporranno quindi, ben prima che egli sia presente a sé stesso, la fabbrica o lo studio legale del padre. Per un altro il processo ha invece inizio al liceo, dove la sua disposizione per la matematica lo spinge verso la carriera del fisico o dell'ingegnere, che è sicuro del suo va­ lore di mercato; per il terzo inizia all'università o nei primi anni di esercizio di una professione. E tuttavia è fuor di dubbio: l' avere che impone un essere, che a sua volta deter­ mina la struttura della coscienza, per ogni essere umano ri­ sulta fatale in un duplice senso. Da un lato, infatti, lo priva della sua disponibilità, della possibilità di iniziare in ogni mo­ mento da zero, di progettare la sua vita a partire dalla pro­ pria volontà, senza o addirittura contro la società. Dall'altro lo condanna, quando gli si sottrae - in seguito all'espropria­ zione di mezzi economici posseduti - o quando non si ac­ cumula - a causa della carenza del cosiddetto know how, l'abilità pretesa dalla società e ricompensata dal valore di mer­ cato - lo condanna - dicevo - al vuoto sociale, a essere una forma cava che non comporta però la disponibilità del punto zero, avendo la società già disposto che egli non debba più poter disporre. Il potere integrante dell'avere è molto grande. Il possesso o il valore di mercato di un individuo lo rendono tanto più arrendevole in quanto si tratta di catene che, al pari dei gioielli, tutto sommato si portano volentieri. A è un giornalista quarantenne, che redige articoli su com­ missione. La sua abilità, la sua penna lesta, come viene defi­ nita con approvazione dai suoi committenti, garantisce alla sua merce scritta un determinato valore commerciale. Vive. Non proprio nel lusso o nella sicurezza, ma nemmeno in ristrettezze o dovendo temere lo spettro oscuro della miseria. Scrive e vende quanto ha scritto, abita in una casa decorosa, ha un'automobile, durante le ferie viaggia. Talvolta prima

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di prendere sonno è assalito dai ricordi: era seduto in una mansarda, uno zero. Non pensava che quanto scriveva avrebbe mai trovato un acquirente e per questo annotava quello che gli pareva e come gli pareva. Era il vasto orizzonte a tenerlo in vita: non essendo niente, era tutto. La sua po­ tenzialità era tutto il mondo, tutto lo spazio. Era un poten­ ziale rivoluzionario e un potenziale clochard, un potenziale ruffiano e un potenziale filosofo. Era giovane. Era giovane di anni e nel corpo, e se davanti a sé aveva spazio era perché in lui non si era ancora accumulato troppo tempo. Era però giovane anche nella sua esistenza sociale, più giovane del dot­ tore in medicina suo coetaneo, che sta «curando a morte» i suoi primi pazienti, o dell'attore che in un album incolla le prime critiche al suo lavoro. Adesso non lo è più. Adesso è perché ha, per quanto poco sia. La società gli ha attribuito un'età sociale, dopo avergli fatto capire di tollerare gli eterni giovinetti solo in manicomio. Ha un'età sociale e talvolta av­ verte con profondo turbamento di approvare questo fatto. Pagare le tasse, ed essere un cittadino che i vicini salutano sulle scale ! La somma di un susseguirsi di vergognose capito­ lazioni per qualche momento lo colma di sciocco orgoglio. Si vergogna di essere giunto a tal punto, e del fatto che un essere imposto dall' avere lo abbia privato dell'essere senza avere, dell'essere in permanente divenire. Allora si chiede se sia immaginabile un ordine sociale in cui avrebbe potuto es­ sergli risparmiata questa ridicola vittoria, che è una squal­ lida sconfitta, un sistema in cui l'essere non sia un avere e nemmeno un avere-sapere (perché forse questo avere-sapere non sarebbe trasferibile in una categoria di possesso), ma ri­ manga l'essere del divenire: essere e divenire con gli altri, il cui sguardo non lo sopraffarebbe, e anzi lo aiuterebbe a tornare costantemente a essere zero e a ricostituirsi a partire da zero. Tutto ciò si chiede A, e non trova risposta, e sa che molto probabilmente anche questo non trovare era già stato

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deciso nelle successive circostanze delle sue capitolazioni e in ciò che complessivamente ha avuto. Si è ormai annullato nelle cose, per quanto insignificanti possano essere, e poiché le ha, non può più desiderare di non averle . Le catene che può perdere sono identiche a quelle di tanti altri che divi­ dono il suo destino, sono leggere e gradevoli da portare, sono i gioielli di un'esistenza distrutta, di un 'esistenza che, strut­ turandosi nel sociale, vede disintegrarsi la propria dimensione umana. È invecchiato. La colpa è della società. La colpa è sua, nella misura in cui, anziché trasformarsi in folle o in un Che Guevara che muore dissanguato, si è piegato ai dettami della società. Lo sguardo degli altri, che rappresenta il mondo dell'avere, non tange Guevara, Gauguin, il megalomane del manicomio e il suo lontano parente del Café du Dome, come del resto non tange i nababbi, il cui possesso è tanto grande da non significare più niente per loro e da non determinarli più . Ali Khan era giovane quando si schiantò in macchina e il duca di Windsor morirà come Christian Buddenbrook, da vegliardo-bambino. Gli altri, prima o poi, raggiungono un'età sociale, la maggior parte nel momento in cui si presentano alla società in quanto produttori-consumatori nei quali vale la pena investire. A un certo punto hanno da difendere una proprietà, da offrire il sapere che possiedono, da pensare al coniuge o ai figli. Determinati dal loro avere, che vogliono incrementare o anche solo conservare - entrambe cose che esauriscono tutto l'essere umano - si dannano l'anima e un certo giorno si rendono conto che la vita è giunta a una svolta dove il loro essere-avere è irrevocabile: allora sono persone che invecchiano. Le porte restano chiuse. A chi le chiede un parere la società risponde: fai quello che hai fatto sino a ieri e all' altro ieri, fai ciò a cui ti destina il tuo passato; o non fare niente. Cercasi: esperto di tecnica bancaria, cui verrà affidata la nostra filiale, età massima quarant'anni; esperto

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vendite settore tessile, conoscenza inglese, per riorganizza­ zione nostra azienda, età massima 45 anni; cercasi impiegato, rappresentante, capo laboratorio, ingegnere, redattore, pub­ blicitario, giovane, dinamico, motivato, lavoratore, gentile ed energico. Il capo del personale ha lo sguardo dell'altro: non pretende solo un'età sociale, che corrisponde alla logica dell'investimento, ma anche, è evidente, esperienza in una determinata professione. Non assume un principiante qua­ rantenne. Un tale X, che dai ventitré ai quarant'anni ha cal­ colato i corsi dei cambi, misurato i tempi del lavoro a cot­ timo, creato immagini pubblicitarie o scritto articoli su com­ missione, per altri venti, venticinque anni farà la stessa cosa. Talvolta, alzando gli occhi dal lavoro si chiede: sarà cosl in eterno? e avverte l'angoscia. Sarà cosl, non proprio in eterno, ma certo per un'eternità della sua esistenza; fin quando glielo consentono il suo cervello smemorato, le sue membra pesanti e le vigenti norme legislative. Arriva poi quello che la società chiama il ben meritato ri­ poso: che per l'uno significa una considerevole pensione di funzionario statale, per l'altro un misero vitalizio, ma per en­ trambi l'esilio dal farsi della realtà storica, e il poco rassicu­ rante interrogativo: in fin dei conti quando ho vissuto? Quando ho smesso di vivere la mia vita come un processo di costante rinnovamento e di permanente contraddizione? Simili momenti di dubbio sono fortunatamente rari. Quel tale - si tratti del pensionato o dell'uomo «nel fiore degli anni » che ancora gesticola animatamente - che ac­ cresce o difende i suoi averi, accetta il giudizio espresso sul suo conto dalla società, accetta l'età sociale. Si accontenta di un io che non si oltrepassa, e che ciò nonostante non ri­ posa pacificato in sé stesso, perché la morte esistenziale che la rassegnazione sociale ha in sé resta inaccettabile quanto quella fisica. Ancora è giorno, si dice ogni essere umano, dan­ dosi coraggiosamente da fare. Ma la notte è sopravvenuta

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prima ancora di essere calata, ed egli può agire solo in quanto la società lo richiede, lo consente o lo impedisce . Vi sarebbe molto da obiettare; in particolare il fatto che la metafora della notte che scende è un cliché lacrimevole e, quel che è peggio, inesatto. Non è forse vero che proprio i vertici e le colonne portanti della società sono persone attempate, troppo attempate addirittura, e che la generazione al potere è quella dei cinquantacinque-settantenni? Capi di Stato e primi ministri, influenti docenti universitari, presi­ denti di consiglio di amministrazione, membri di accademie, sono tutti avanti con gli anni. Per quanto concerne invece le piccole esistenze anonime, la società si sta già adoperando al fine di mettere loro a disposizione dei posti, è solo uria questione di ingegneria sociale; anche a loro in futuro, nella misura in cui si allunga la vita media, saranno garantite o quanto meno rese possibili una «vita sensata» e una vecchiaia de�na di essere vissuta. E meglio andarci cauti con il tema della drammaticità della vecchiaia e le metafore crepuscolari . Le giornate si fanno sempre più lunghe per coloro che comandano, ma anche per gli altri, che sono al seguito. Nella casa del padre nostro vi sono molte dimore e alcune assomigliano a ben organizzati ospizi per anziani. Un giovane fisico però ribatte: nel nostro settore g l i uo­ mini e le donne di una certa età raccolgono gli onori ufficiali e la mer i t a t a fa m a : ma siamo noi, quelli fra i venticinque e i t rentacinque anni, a fare le scoperte. Alle spalle d e i capi­ tani d ' industria, dai capelli argentei e dall'indomita energia , della quale parla la stampa a loro favorevole, agiscono da sug­ geritori dei giovanotti brillanti, e sono loro che contano, è alla loro più acuta intelligenza che gli anziani, con maggiore o minore contegno, si sottomettono. In misura ancora mag­ giore che per gli Ognuno, la sentenza della so ci e t à che costringe a restare ciò che si era, si applica a chi in apparenza

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detiene un potere. Il presidente di un'impresa industriale, che ormai da tempo ne ha ceduto l'effettivo controllo discre­ zionale a un gruppo di giovani collaboratori, il famoso pro­ fessore, che sul piano intellettuale è stato ormai superato dal suo assistente trentenne e non fa che collezionare onorificenze e lauree honoris causa, tutti recitano esattamente il ruolo loro attribuito, al pari dell'autorevole vecchio che nelle grandi que­ stioni nazionali esprime il suo decisivo parere: intransigen­ te, ma intuibile nei suoi contenuti e di conseguenza manipo­ labile; questo e quelli sono prigionieri del proprio passato. I primi non agiscono in realtà più, su essi è veramente calata la notte del cliché, solo i segretari ormai si inchinano ancora. L'altro può anche tuonare, come Gorm Grymme, ' e semina­ re fulmini al pari di Giove, il suo dire e il suo agire restano legati al testo del ruolo politico recitato in precedenza, tanto che anche sopra il suo capo altero è già calata la notte, per quanto rischiarata da magnifiche stelle. Quali speranze possono allora nutrire gli anonimi, una volta che la società ha decretato la loro età sociale, il loro invec­ chiamento? Il postino resta postino, come de Gaulle resta l'homme historique, solo che è meglio e più agevole essere il monumento, piuttosto che la nullità di sé stessi. Ma quando quel tale non è più nemmeno postino ed è stato privato an­ che della possibilità di considerare la consegna di una racco­ mandata un atto decisivo per le sorti dello Stato, allora toc­ ca a lui dare un senso agli anni che gli restano per fare qual­ che lavoro di bricolage in giardino. Un' «esistenza sensata». Appunto. La società potrà anche occuparsi di lui attraverso l'assistenza sociale o procurandogli un'occupazione part-time, della quale si potrebbe benissimo fare a meno. Non è tanto stupido da non capire che lo si lascia fare, da non capire che è un peso e un'inutile bocca da sfamare ! Forse ci si occuperà 1 [Gorm (86o ca. - 9 3 6), re di Danimarca, è il protagonista della ballata Gorm Grymme (Gorm il crudele) di T. Fontane.]

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di lui, il che naturalmente è meglio che abbandonarlo a sé stesso e alla sua misera pensione. Se non suonasse arrogante, se non apparisse cosl insolentemente reazionario, verrebbe da aggiungere che la sua miseria e il suo isolamento sociale sono pur sempre la sua iniquità e contribuiscono a costituirgli un io - un io di lamento e accusa - mentre assistenze e cure lo trasformano nell'altro di fronte a sé stesso: un individuo totalmente determinato dalla società, che non è più nemmeno in grado di suscitare la cattiva coscienza nel mondo che è con lui e in quello che è contro di lui. L'invecchiamento sociale è senza dubbio determinato in misura decisiva, tra gli altri fattori, dal nostro mondo dell'a­ vere. Sarebbe invece illecito ridurre il fenomeno dell'invec­ chiamento e della vecchiaia causato dallo sguardo degli altri ad alcuni problemi inerenti alla struttura sociale dell'economia di mercato e di profitto. Ci imbattiamo infatti costantemente nella realtà del corpo - del corpo infermo in questo caso che non solo fornisce alla qualità soggettiva dell'invecchia­ mento il suo colore specifico, ma che primariamente e im­ mediatamente provoca le conseguenze sociali. Invecchiando non si diventa più belli, disse una volta Erich Kastner in una sua innocente poesia. Questa banalità invalicabile e non ri­ ducibile vale sempre . Non si diventa più belli, né più agili, e nemmeno più intelligenti, e questo il mondo - inteso come somma statisticamente rilevabile di opinioni, sentimenti, reazioni individuali - lo sa e lo fa capire all'individuo che invecchia e all' anziano, che oggi non ha più il valore della rarità e che quindi non è più il venerabile vegliardo, imago della divinità. Chi invecchia diventa brutto: brutto è ciò che si odia. Diventa debole, il che nel linguaggio corrente equi­ vale a esprimere una valutazione di merito, o meglio di de­ merito: si parla di un'opera teatrale debole, ma anche della debolezza della Borsa e in ultima analisi una persona debole suscita tanto poca autentica compassione quanto un dramma

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malriuscito o i ribassi della Borsa. Alla persona che invec­ chia o anziana sono associati numerosi aggettivi dal signifi­ cato negativo molto spesso caratterizzati dal prefisso «in-»: è incapace di sopportare uno sforzo fisico prolungato, è inetto, inabile a questa o quella mansione, è incorreggibile, inutile, indesiderato, insano, è insomma non-giovane. Volendo si può interpretare il prefisso negativo, espressione di una negazion� che ha profonde radici emozionali, come la nientificazione o l'annientamento dell'individuo che invecchia messo in atto dalla società. Quest'ultima tuttavia distrugge solo un qual­ cosa che è già segnato dal nulla, un nulla il cui nunzio con­ creto è il decadimento fisico. L'avversione dei giovani nei confronti degli anziani, innegabile anche se trasmutata in ri­ spetto, fa della venerabilità degli anziani una sbiadita con­ venzione. È possibile che si tratti di timore del nulla, di resi­ stenza nei confronti di un non-essere che si è già fatto largo nell'esserci. Il «mondo» annienta l'individuo che invecchia, renden­ dolo invisibile come A, il notaio di provincia che vorrebbe passeggiare per le strade di Parigi e che tuttavia non può più farlo, perché viene negato dalle moltitudini che lo ignorano. Lo sguardo degli altri che lo attraversa come potrebbe attra­ versare una materia trasparente, lo annienta. Lascia la capi­ tale e torna nella sua cittadina nei Pirenei, perché alla lunga il non apparire risulta insopportabile, perché l'essere umano ambisce a esistere per gli altri. Tutto qui. Il suo creatore, lo scrittore Jean-Louis Curtis, non ha voluto dirci altro della sua fallita avventura di viaggio. Il libro La Quarantaine non menziona un fenomeno strano, ossia il fatto che il «mondo» che condanna A all'invisibilità non è in fin dei conti com­ posto solo da giovani: lungo i boulevard dove il notaio è an­ nientato dagli sguardi vuoti s'incontrano anche numerosi an­ ziani. È un bene che chi invecchia si renda conto che la so­ cietà, indipendentemente dalla sua piramide demografica, ac-

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cetta la sentenza di annientamento emessa da giovani e gio­ vanissimi: e a nulla valgono in questo senso gli onori, pub­ blici o privati, tributati a chi invecchia. Chi invecchia non è tale solo per i giovani ma anche per i coetanei: questi vol­ gono a loro volta lo sguardo ai giovani, anche se lo sguardo non è contraccambiato, non sono solidali con il compagno di sventura, cercano di prendere le distanze dai segni di ne­ gazione dell'esistenza che leggono nei suoi tratti. Non signi­ fica che amino i giovani, ma solo che si aggrappano ad essi, mossi da assurda nostalgia e inconfessata invidia. Contro la sentenza emessa nei confronti di chi invecchia da giovani e anziani - ma sempre sulla scorta delle leggi dei giovani e del loro timore di fronte alla rovina - non si può ricorrere in appello. Gli onori, che tanto spesso vengono tributati agli individui che invecchiano e ai vecchi, non hanno peso e non dimostrano niente. Non dimostrano niente nemmeno quando la venerazione per l'autorevole vecchio s'inserisce in una cornice di solen­ nità, quando è magari un lungo applauso di mani giovani ad accompagnare nella sua esibizione quella strana entità che è l'anziano. A assiste a una delle ormai rare conferenze di Jean-Paul Sartre, che vent'anni or sono era il dio dei giovani e che anche oggi ama presentarsi soprattutto alla gioventù, avendo sempre considerato il futuro la dimensione umana più autentica e avendo sempre disprezzato sia la ricerca del tempo perduto sia il concetto romantico di amore-morte. «Le faux , c'est la mort », ha scritto; la sua parola non è rivolta quindi a chi ha già lo sguardo velato e la voce resa roca dal falso, bensì ai giovani che ancora sono ciò che promettono di diventare, che si mettono in marcia verso ciò che li attende, verso l'avveni­ mento nel mondo e nello spazio, in rapporto al quale misu­ rano il loro io e per affrontare il quale devono costituirlo . Nell'aula magna di una grande università dell'Europa occi-

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dentale , S artre spiega agli studenti l' attività del Tribunale Russell . A ci è andato non tanto per l' argomento, sul quale è sufficientemente informato, quanto per l' oratore : da anni nutre per lui un profondo rispetto che ha generato una grande intimità del cui carattere unilaterale non si rende quasi più conto . È invecchiato con S artre . Solo sette miseri anni, del resto, separano lui , il più giovane , dal Maestro; sette anni, tuttavia, che in quanto entrambi, il filosofo e il suo disce­ polo lettore, scendono i gradini della scala, si riducono a un lasso di tempo insignificante:: : tanto che A si sente addirit­ tura coetaneo dell'oratore. Lo ha già visto una ventina d' anni or sono . Allora Sartre era la gioventù e non parlava solo per il futuro ma, giustamente, anche in suo nome . Era all'inizio e insieme già al vertice della sua fama; il suo esistenzialismo era la parola definitiva nella storia del pensiero . Sono pas­ sati poco più di vent'anni. Il filosofo del 1 9 46, che all' epoca, nonostante la sua «bruttezza», spesso citata e da lui stesso autobiograficamente descritta, esercitava una forte attrazione fisica, e dal quale emanava un che di virile e potente, è di­ ventato , Dio mio, un signore fragile e stanco, è un uomo in­ vecchiato , dal volto flaccido e grigiastro, dal corpo smagrito e dalla voce sforzata e aspra: cosl invecchiato dal tempo che grava in lui , che A per qualche secondo stenta a riconoscere il Sartre conosciuto nella primavera del 1 9 46. È profondamente toccato da come possa ridursi un uomo, un fatto molto semplice, da sempre saputo e che tuttavia si ripropone in forma sempre inedita. A sa, come tutti, che il grande filosofo, in onore del quale adesso gli studenti si al­ zano in piedi, è assai ammalato; la sua età biologica deve quindi per forza essere molto superiore all' età cronologica e il suo declino fisico non può avere validità esemplare per l'età di un sessantatreenne . Mentre l'oratore parla, come è sua con­ suetudine con grande rigore logico, con formulazioni dialet­ ticamente ardite, in grado di fissare in una immagine pre-

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gnante l' avvenimento politico, mentre difende con argomen­ tazioni filosofiche il Tribunale Russell contro la guerra ame­ ricana nel Vietnam, A, che segue la conferenza distrattamente, si rende conto che non è poi tanto la gracilità fisica di Sartre a suscitare in lui un sentimento di dolorosa e rassegnata te­ nerezza, quanto piuttosto la sua età sociale. Anche il filosofo della libertà è ormai prigioniero , non della sua fama e della sua reputazione, come ha affermato l'oratore che ha intro­ dotto la conferenza, perché proprio a queste Sartre è sfug­ gito, bensì del tempo che si è sedimentato in lui: tanto che egli ormai recita solo i testi del ruolo da lui avuto nella vita, è ormai solo ciò che ha compiuto; e proprio per questo è de­ terminato dalla società, che ha fatto il bilancio della sua opera e della sua vita e lo costringe a essere appunto Jean-Paul Sartre e non altri: l'uomo che ha scritto determinati libri e non altri, che nel 1 948 fondò un partito che non divenne nemmeno una setta, che rifiutò il premio Nobel e che come filosofo della trasgressione fissò a sé stesso quei confini che ora, essendo invecchiato, avendo dinanzi forse ancora quindici, ma forse solo cinque anni, non sono più superabili. Con voce purtroppo un po' aspra parla, esorta, analizza, tiene in esercizio un'intelligenza tuttora acutissima, comanda. Duemilacinquecento persone ascoltano con grande attenzione. È evidente che all'oratore stare in piedi costa fatica . Punta alternativamente le mani molto in alto sui fianchi, quasi vo­ lesse aiutare il corpo a sorreggere il proprio peso. Le ciocche dei capelli, vent' anni or sono ramati e fitti, e adesso grigi e radi, coprono a stento una testa quasi calva. Nemmeno questo è sostanziale, pensa A, sebbene la sua dolente tenerezza ne risulti intensificata, quasi si trovasse lui stesso laggiù e do­ vesse sorreggere, con le mani appoggiate sui fianchi, il peso del suo corpo gravante. PiÒ del declino fisico di questo grande uomo, e più della consapevolezza - che gli fa avvertire la pena della propria senescenza - che S artre anche invec-

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chiando deve restare Sartre e può quindi commemorare Che Guevara senza poter più diventare un Che Guevara, lo com­ muove l'idea che i duemilacinquecento giovani attenti e ri­ spettosi stanno sottraendo a quell'uomo invecchiato i suoi ultimi anni di vita: con il loro puro e semplice essere giovani e con il loro uscire nel mondo che appartiene a loro e solo a loro . Leggeranno libri che non sono quelli di Jean-Paul Sartre, diversi da quelli che leggeva Jean-Paul Sartre. Vi­ vranno in un mondo senza Sartre: nel mondo anti-S artre che sconfina da sé stesso, mentre l'immagine, la parola e l' agire di colui che sarà ormai morto saranno pietrificati e immobili come la sua lapide. In loro il futuro è predisposto nell'essere giovani, il che significa disponibilità a prendere possesso del mondo e al contempo a perdersi confluendo in esso . Ma dato che questo mondo futuro senza Sartre è in loro, nei loro pro­ getti di fare questa e quella cosa, di scrivere libri, di salire su un podio, di vedere film e di andare nel Congo, dato che portano in sé il mondo anti-Sartre, divengono essi stessi ne­ mici di S artre . Nell' aula ad anfiteatro ancora una volta si al­ zano e applaudono . Non possono sapere che la stima che di­ mostrano a quest'uomo invecchiato che raccoglie le sue carte e con i suoi piccoli piedi si dirige verso l'uscita, è in realtà disistima e verdetto negativo . Dovrebbero essere vecchi essi stessi per sperimentare come il rispetto dimostrato a colui che era ed è si trasforma in disprezzo: perché l'osservazione rispettosa di ciò che è stato non consente più di credere che questo possa ancora divenire. Il loro omaggio è cupo come un necrologio . In esso anticipano la morte del filosofo . Ap­ plausi, bravo, bravo ! Ma ora torniamo a noi stessi e nel mondo ! Un vecchio grande e buono. Dopo di lui ve ne sa­ ranno di più grandi e di migliori e noi, i giovani, saremo pre­ senti . L'enorme sala si svuota. Tornando verso casa nella città fredda, che con le sue strade e i suoi edifici moderni è cambiata al punto che risulta diffi-

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cile orientarsi e non imboccare le strade contromano, A è solo. È con Jean-Paul Sartre, la cui età sociale è la sua, sebbene egli abbia sette striminziti anni in meno . A differenza del suo grande compagno, che in questo momento forse in una stanza d' albergo esausto si riposa, non è un grande filosofo . Anche lui tuttavia è già ciò che era, e anche a lui i giovani, che uscendo dalla conferenza attraversano la strada, sottrag­ gono quel mondo che sono in procinto di trasformare da suo in loro . È gradevole osservarli . Provocano sgomento . È pos­ sibile, anzi necessario, renderli edotti. Eppure si prova sempre vergogna di fronte ai loro abbracci, ai libri che progettano , ai partiti che fonderanno . Tutto appare così semplice: la so­ cietà ci impone un' età sociale. Ci annienta non appena questa ha raggiunto il punto in cui si fa il bilancio di ciò che ab­ biamo o non abbiamo compiuto; nel farlo segue le leggi non scritte e sempre nuove della gioventù che ha dalla sua il di­ venire e il futuro . La nostra estinzione sociale nella vecchiaia è ormai decisa, che ci chiamiamo Sartre o signor X, che ci accompagnino applausi e flash o che si percorrano le strade nell' anonimato . Siamo fatti come coloro che sono così e così, e che hanno questo o quello: e perciò siamo esclusi da quanto diviene. n futuro è già finito. Il nostro io sociale ci è imposto, per quanto in ore di solitudine possiamo essere inclini a coc­ colare un fittizio io «autentico » . Ci resta allora solo la scelta fra essere Talleyrand in manicomio o il grande pittore al Café du Dome? Certamente no. Potremmo - ed è quanto la maggioranza per sua fortuna fa, in vista di una vecchiaia grottescamente serena - rifiu­ tarci sia di accettare il verdetto , sia di respingerlo aperta­ mente, e cercare una via d' uscita nell' autoinganno , al quale tuttavia non crediamo mai sino in fondo : allora non saremo né degli annientati, né dei malati di mente , ma appunto in­ dividui che invecchiano e anziani, saremo dei qualcuno e degli ognuno, smarriti nella monotonia della normalità. Come sta?

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Bene, data l'età, date le circostanze. Un sorriso falso da parte di chi chiede e imbarazzato da parte dell'interrogato. Più o meno le cose si sistemano, chi lo negherebbe? Il mondo, che non dovendosi fare scrupoli, resta favorevolmente impres­ sionato, parla di atteggiamento positivo . Da noi si esige che invecchiamo - come si dice - con dignità, senza ribellione, senza lamento: e questa esigenza, che è tutt'uno con la no­ stra debolezza e inerzia, noi infine soddisfacciamo. L' atteggiamento positivo e l'invecchiare con dignità, senza lamenti, presentano due aspetti . S i può inseguire il divenire e - diffuso scherzo dell'autoinganno - «restare giovane coi giovani ». Con le sue strutture economiche la società fornisce un notevole aiuto in questo senso . La vita inizia a quaranta, a cinquant' anni . « How to retire happily at fifty-five in Cali­ fornia. » «W omen can be sexually happy after the meno­ pause. » L' abito fa il monaco, si vesta giovane, e sarà gio­ vane . La stessa società che annienta chi invecchia costrin­ gendolo nella camicia di forza di un essere immutabile, o che addirittura lo espelle dal processo economico , lo invita a consumare la sua vecchiaia come in passato ha consumato la sua gioventù . La tentazione è grande, perché è vero che chi cede in un modo o nell' altro riesce ad afferrare qua e là una briciola di mondo : c'è chi si veste giovane e alla moda, sposa una donna giovane , a sessant' anni balla trafelato il jerk; chi rincorre il tempo a velocità vorticosa e se possibile lo precede, con imbarazzante sollecitudine si dichiara affa­ scinato da conquiste spaziali, da discoli disobbedienti e dai novissimi romanzi , che a suo dire lo entusiasmano, sebbene sotto sotto aneli alla tranquillità e a leggere Fontane. In realtà queste persone rimaste cosl meravigliosamente giovani non vivono in accordo con la società, ma solo con la sua facciata economica e pubblicitaria. Fanno quanto loro ordinano di fare avvisi e manifesti pubblicitari, articoli di giornale, ma anche serie indagini sociologiche, a loro volta tuttavia redatte in

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funzione del sistema e date alle stampe per assecondarne i fini . È molto rassicurante, a quanto pare , avere la possibilità di ubbidire . Ed è di secondaria importanza in questo senso se il comandante emanando l' ordine è in malafede e se chi ubbidisce si piega contro il proprio ragionevole giudizio . L' «atteggiamento positivo» verso l'invecchiamento può as­ sumere anche un carattere del tutto diverso, non sanzionato dal sistema economico, ma tradizionalmente tenuto in alta considerazione: intendiamo la fuga nell' idillio . In questo caso chi invecchia non nega l' annientamento operato dalla società rincorrendo affannosamente il tempo; egli, al contrario, ne approva il passo forzato sottraendosi a esso. Invecchiare è una cosa bella e buona. Sono stato giovane, posso dire la mia, sono vecchio, la mia parola ha dunque un peso. Da tempo ormai si è creato il suo orticello che cura amorevolmente: non mi turbare, oh mondo, non mi turbare . È soddisfatto che la società gli conceda la pace del nulla, obbligandolo a essere ciò che è ed era . Da lui non ci si aspetta più molto, solo che ripeta il passato e ciò che è stato ucciso con le parole : è un grande sollievo. Per lui è il momento del raccolto, dice. Stando alla finestra con volto sereno, osserva il mondo attraverso un binocolo rovesciato. Quel rincorrersi e affannarsi del mondo, ai suoi occhi appare molto piccolo . Les jeux sont faits, e quindi non deve più partecipare al gioco, può limitarsi a sbirciare e a dare amichevoli consigli, la sua parte l'ha fatta, che siano gli altri adesso a mostrare cosa sanno fare : senza invidia os­ serva come si consumano . Mio Dio, a quanti spettacoli ho assistito : ho visto rovesciare monarchie, sorgere paesi, filo­ sofie conquistare il mondo e svanire nell' arco di vent ' anni, andare e venire mode, nascere e morire gente; bisogna richia­ marsi alla grandezza e all'eternità, e al patrimonio che cia­ scuno porterà con sé. Al pari di chi irrequietamente resta gio­ vane, anche chi vive l'invecchiamento e la vecchiaia nell'i­ dillio non si rende conto dell' annientamento operato dalla

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società: i primi s'illudono di poter raggiungere il tempo che li travolge, gli altri semplicemente lo negano, contrapponen­ dogli la poesia concettuale dell'eternità. Entrambi vivono nella menzogna e nella mauvaise /o i. Chi invece tenta di vivere la verità della sua condizione di individuo che invecchia, se da un lato rinuncia alla men­ zogna, dall'altro non sfugge però all'ambiguità che alla fine deve rivelarsi necessariamente come aperta contraddizione. Accetta l'annientamento, ben sapendo che accettandolo potrà salvarsi solo se, nella rivolta, si ribellerà ad esso, ma che - e in ciò si esprime appunto l'accettazione intesa come ri­ conoscimento di una realtà irrefutabile - la sua rivolta è de­ stinata a fallire . All'annientamento dice al contempo no e sl, perché solo nella negazione senza prospettive egli può affron­ tare l'inevitabile in quanto sé stesso. Non si smarrisce nell'u­ niformità di una normalità che si espande fuori di sé, né cerca rifugio in manicomio, né inganna sé stesso con la maschera giovanile o con la menzogna dell'idillio della vecchiaia. È, come ordinato dalla società, ciò che è, un nulla, ma proprio nell'accettazione dell'essere-nulla è qualcosa. Fa sua la nega­ zione provocata dallo sguardo degli altri e si rivolta contro di essa. Affronta un'impresa che non potrà condurre a ter­ mine. È la sua occasione, è forse l'unica sua possibilità di in­ vecchiare in maniera autenticamente decorosa.

Non comprendere più il mondo

Chi raggiunge la soglia - questi assai presto negli anni, quegli un po' più tardi, l'uno armato di sincerità, l' altro irre­ tito da un autoinganno che tuttavia perlopiù si rivela fragi­ le - a un certo punto è costretto a riconoscere di non capire più il mondo. Questo aspetto dell'invecchiamento sociale, l'in­ vecchiamento culturale, nel senso più ampio si manifesta di norma in un lento e non drammatico processo di successive esperienze . Dapprima vi è sovente solo una vaga avversione nei confronti di quella cosa che, chi invecchia, fra sé e sé de­ finisce il « gergo culturale » dell'epoca; egli tuttavia non si chiede se non usi anche lui un gergo consimile, anche se ormai superato, e non, come ritiene, una lingua pura, la lingua per eccellenza. Nella lettura di determinati libri e riviste avver­ tirà un leggero disagio e avrà la tendenza a rifiutare, con una rassegnata alzata di spalle, la moda, lo snobismo, i vari «ismi», la prepotenza verbale; un atteggiamento che spesso tuttavia reprimerà non essendo gradevole trovarsi isolati nella pro­ pria retrograda ostinazione. Dalla storia del pensiero una per­ sona colta ha appreso che la scontata resistenza nei confronti del nuovo e dell'inusitato è un fenomeno che si ripresenta costantemente. Saprà cosa accadde a Parigi nel 1 8 74, alla prima esposizione degli impressionisti, saprà perché dovette avvenire in quei termini, e per quale motivo la resistenza

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contro Monet e i suoi amici si esaurl infine in un sentimento di vergogna. Tuttavia oggi non sarà in grado di convertire senz 'altro il fastidio che avverte per il lettrisme, per l'infra- o l'ultra­ lettrisme in una tolleranza manifesta, a sua volta solo una forma di non-comprensione . La riluttanza di chi invecchia non è limitata a quelle manifestazioni culturali che richiedono un impegno intellettuale, un adattamento della sua sensibi­ lità, ma si estende anche a processi del tutto secondari, come quelli inerenti alla moda dell' abbigliamento. Ogniqualvolta sfoglia delle riviste di moda, A - pur sa­ pendo assai bene che alla prossima occasione si farà confe­ zionare i vestiti seguendo, e moderatamente attenuandoli, i dettami della moda - avverte un palese disagio nei con­ fronti dei nuovi modelli che le paiono assurdi, e anche questa volta A è spiacevolmente sorpresa dalla loro manifesta stra­ vaganza. Come è accaduto in altre occasioni simili, prende il suo album delle fotografie, per ritrovare quella che, in con­ trasto con l' irritante linea imposta quest' anno dagli stilisti, a suo parere era una moda davvero carina ed elegante. Sin dal primo sguardo alle foto che risalgono alla fine degli anni trenta accade nuovamente quanto, prima ancora di prendere in mano l' album, presagiva sarebbe successo, ma che nel bel mezzo del presentimento, pur istruita dall'esperienza, aveva negato a sé stessa: la moda di quando era giovane, la sua moda, che rappresenta una parte fondamentale del suo io edificato dal ricordo, davanti ai suoi occhi si trasforma in qualcosa di impossibile, in qualcosa di altrettanto grottesco dei modelli cui dovrà abituarsi nella prossima stagione . Eccola ripresa sotto un albero . I morbidi capelli ondulati con precisione in­ torno al volto, la gonna sino alle caviglie, la giacca dalle spalle imbottite e dal taglio ridicolmente concavo, l'indescrivibile cappello floscio, uno sguardo che, scuotendo la testa, non può fare a meno di definire a pesce lesso . Come è possibile che

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a lei e agli altri tutto ciò un tempo piacesse? A si rende conto come anche il più banale succedersi di avvenimenti non segua mai un percorso lineare . Se tutto fosse come, senza pensarci molto, diciamo e ripetiamo sia - ciò che è fuori moda è strano e imbarazzante perché è a noi noto da tempo e perché eravamo presenti quanto venne travolto dal tempo, mentre ciò non accade con la storia, con quanto è ignoto-da-tempo, alla cui triste capitolazione non abbiamo assistito personal­ mente - se davvero le cose stessero in questi termini, non si spiegherebbe come mai il vissuto cessi di essere ridicolo allorquando , oltre che osservato, è anche ricordato. A chiude l' album, chiude gli occhi, s' immerge in ciò che è stato : ri­ cerca e insegue il cappellino, la giacca ovattata, la gonna alla caviglia, come qualcosa di propriamente suo, rivive lo sguardo e torna a essere assolutamente certa del suo effetto delizioso . Adesso che A crede di poterli nuovamente accarezzare, i ca­ pelli ondulati riacquistano la grazia che avevano nel 1 9 3 8 . L a ferita è rimarginata . A può tornare ad avere fiducia nel­ l' avversione per il nuovo modello, che osservando le vecchie fotografie aveva dovuto accantonare imbarazzata . Natural­ mente raccomanderà alla sarta di ispirarsi alle creazioni della moda, tuttavia porterà i vestiti contro le sue convinzioni, come concessione purtroppo necessaria alla società. Lei stessa resterà, indipendentemente dal travestimento moderno, la ra­ gazza di allora, e si terrà alla larga da fotografie che possano mettere in dubbio la consapevolezza che ha di sé stessa: le mostrano la moda di allora infranta, rovinata, trasformata dallo sguardo di oggi; nel ricordo il guardaroba di allora riac­ quista la sua autenticità. L'irrealtà di un avvenimento che non può essere trasposto dalla oggettiva fisicità del processo cerebrale all'esistenza soggettiva dello sguardo che ricorda è più reale della concreta realtà della fotografia. Detto questo non si è detto ancora nulla circa l'estrania­ zione culturale dell'individuo che invecchia, di quella irrita-

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zione che, con tutta la buona volontà, tenacemente erompe contro il nuovo che s'avvicina. Ma forse si è fatto un primo passo. Possiamo astrarre dall'esperienza di A, questa espe­ rienza del tutto banale che chiunque invecchi, uomo o donna che sia, può sempre riprodurre a suo piacimento, e riferirei ai dati di fondo che essa cela. Quando sfoglia l'album delle fotografie A considera la moda di allora nel sistema di segni del presente, nel quale è inserita nonostante la sua resistenza; e nel processo del ricordare riferisce quelle stesse circostanze della moda al sistema di segni di allora, al quale è ugualmente legata, avendo costruito il suo io sulle reminiscenze. L'alienazione culturale di chi invecchia si spiega esclusi­ vamente a partire dalla diffkoltà a orientarsi in un ordine di segni sconosciuto, anzi a orientarsi fra segnali del tutto nuovi. Al pari dell'automobilista che perdeva ogni sicurezza e procedeva titubante e vagamente angosciato se si recava per la prima volta in Inghilterra all'epoca in cui i segnali stra­ dali non erano ancora stati conformati a quelli del continente, chi invecchia vaga attraverso i segni culturali dell'epoca. Per A, che si sente turbata dalla moda di quest'anno, una coscia femminile mezza scoperta conserva il significato che aveva quando era giovane: disponibilità erotica ammessa in maniera provocatoria e di conseguenza - ancora una volta la sintassi dei segni di allora - indecenza. Nel sistema del presente in­ vece i segni sono disposti in maniera diversa. La coscia nuda non è più una dichiarazione di disponibilità erotica; e questa a sua volta non rappresenta più una provocazione; e la pro­ vocazione non può più essere associata al concetto di inde­ cenza. Ciò che infatti chiamiamo il senso di un segno forse non è necessariamente il designato, quanto piuttosto il rap­ porto tra un segno e l'altro, e il sistema dotato di senso con­ siste nelle relazioni di ogni segno con tutti gli altri. Quanto più l'individuo che invecchia tenta di trovare una collocazione ai fenomeni culturali dell'epoca sulla scorta dei

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punti di riferimento del passato, che era il suo tempo perché gli prometteva un futuro, un mondo e uno spazio, tanto più egli diviene estraneo alla sua epoca. L'estraneità si manifesta sotto forma di insicurezza, che a sua volta si oggettivizza nel­ l'indignazione e nel rifiuto impotente. Un sessantenne che oggi segua il dibattito intellettuale tenderà sovente a consi­ derare il conflitto razionalismo-irrazionalismo, la disputa Bergson-Benda ancora come una sorta di spartiacque spiri­ tuale. Quando si accorge che i marxisti, da lui certamente e non a torto considerati campioni dell'esercito razionalista, adesso per certi versi si riconoscono in Heidegger, lo spirito dell'epoca deve apparirgli fuorviato, anzi autenticamente dis­ sociato: la matematica filosofica della sua epoca si trasforma in quadrato magico. La stessa paura, lo stesso panico lo co­ glie quando in un film contemporaneo il flashback non ha più una logica temporale ed egli, nel bel mezzo del nuovo ordine di segni, non solo non è più in grado di dare un giu­ dizio estetico sul film, ma fa anche molta fatica a seguire la trama, che tuttavia spesso, nel senso della sintassi dei segni del passato, non è più tale. Come stenta a orientarsi in una città che di anno in anno, di mese in mese modifica la sua topografia, come risulta inutile il suo vecchio atlante, dato che ormai le colonie britanniche e francesi si sono trasfor­ mate in Stati i cui nomi stenta a ricordare, così l'individuo che invecchia si aggira disperato nel groviglio di nuove suc­ cessioni di toni, strumentali o concrete non fa differenza, di nuove parole e nuovi periodi. Con lui bisogna avere pazienza: pazienza con la sua incapacità a comprendere nuove strut­ ture poetiche, che si manifesta sotto forma di ottusità rea­ zionaria, e pazienza con la sua tolleranza e l'affrettata, ma illegittima, accettazione di tutto ciò che il giorno gli apporta, anch'esse dettate dalla medesima incapacità di comprendere. Nel nostro contesto è importante sottolineare che i sistemi di segni nel mondo contemporaneo sono molto differenziati.

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Certo, un sovrasistema è sempre l' esito di un complesso pro­ cesso equilibrante . Questo sovrasistema attualmente colloca ad esempio lo strutturalismo in una posizione preminente ri­ spetto all'esistenzialismo, antepone il nouveau roman, che si affranca dalla cronologia e non è più vincolato alla descri­ zione dei personaggi, al romanzo realista, considera il mar­ xismo di un Marcuse, che si rifà precipuamente a Hegel, più avanzato di quello di Max Adler, di matrice kantiana. Ter­ mini come «il cinema dei papà»' sono ormai accettati anche dalla stampa quotidiana, li usa persino chi invecchia, e cosi facendo accoglie, sia pure con diffidenza e disagio, la scala di valori che essi propongono . All' interno del sovrasistema di volta in volta dominante, si formano, talora in contraddi­ zione con questo, ma mai in piena autonomia, dei sistemi par. ticolari, intersecati fra loro : labili sistemi del gusto nell' am­ bito estetico, schemi intellettuali altrettanto !abili e incerti nella sfera intellettuale-razionale . Chi spiritualmente si col­ loca nel sistema del neopositivismo, ha punti di orientamento diversi dallo strutturalista, il quale a sua volta ha riferimenti diversi non solo rispetto al. primo, ma anche rispetto al mar­ xista, all'esistenzialista o al fenomenologo . In comune hanno però la loro indipendenza da sistemi superati: la filosofia della vita impostasi negli anni a cavallo fra i due secoli, è loro estranea e indifferente, e in questo senso si muovono tutti all'interno della globalità della loro epoca. Quanto più un si­ stema è vasto tanto più astratto e contemporaneamente in­ differenziato è per il soggetto. Il sovrasistema, o sistema epo­ cale, ha minore presa immediata sul singolo individuo del­ l' ordinamento più ristretto in cui questi è inserito. Allo strut­ turalista i concetti della sua filosofia interessano più dei con­ cetti del marxismo, ma ha in comune con i marxisti una mag­ giore facilità di accedere all'ordinamento marxista che non 1 [L'originale ha Papas Kino, espressione mutuata da Opas Kino, il «cinema dei nonni, degli esordi>>, con la quale l'autore designa la fase intermedia della storia della cinematografia.]

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a quello di un Theodor Lessing o di un Ludwig Klages . II sistema più ristretto e concreto è in ogni caso quello indivi­ duale, il cui centro non è più lo « spirito dell'epoca», né questa o quella dottrina, ma il singolo stesso nella sua persona: in questo ambito i punti di riferimento divengono fatti psichici, appaiono influenzati sul piano emozionale, hanno densità esi­ stenziale . Proprio perché ogni individuo è il centro di un determi­ nato sistema di segni, proprio perché il centro di riferimento del sistema è la sua stessa esistenza che ha disposto i punti di riferimento - in un determinato modo, e non in un al­ tro - proprio per questo all'individuo che invecchia risulta tanto difficile comprendere i segni di un' epoca sorta sl da­ vanti ai suoi occhi, ma sempre meno ordinata da lui . Avrà qualche difficoltà a ritenere irrilevanti, ossia solo storicamente interessanti, i dialoghi di Ulrich con l' amico W alter nell' Uomo senza qualità, le operationes spirituales dei signori Naphta e Settembrini, l' anticlericalismo di un Jean Barois . Oppure gli succederà quel che successe ad A nell'osservare le sue vec­ chie foto : delle discussioni condotte nell' aria rarefatta di Davos dal gesuita ebreo e dal massone italiano, sorriderà forse se a esse si sarà accostato dopo avere letto un dialettico mo­ derno ; ma se accantona per qualche istante il suo dialettico, nel ricordo vivrà, come accade ad A per la moda del 1 9 3 8 , quelle discussioni come fondamentali e considererà infine l'a­ cume dialettico attuale come un susseguirsi di chiacchiere ba­ nali o boriose. Perché il più ristretto di questi sistemi, ossia quello il cui centro di energia e di ordine è il suo io , è consti­ tuens di questo io: ogni relazione, ogni figura di questo si­ stema è parte di lui stesso . Se è vero che per l'individuo che invecchia il sovrasistema della sua epoca e la maggior parte . dei sottosistemi che si sono formati in quel periodo, conten­ gono solo elementi profondamente modificati del suo sistema personale , allora la sua estraniazione risulta totale e le vie

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d'uscita che gli restano non fanno che accentuarla ulterior­ mente . Se ai sistemi esistenti risponde con un netto rifiuto - ma su, quella che al giorno d' oggi viene fatta passare per filosofia sono solo parole senza senso, quella che ci viene pre­ sentata come arte non sono che desolanti scarabocchi, la pre­ sunta poesia nient'altro che ciarlataneria anarcoide - abban­ dona il suo tempo, si isola dal mondo, diventa un originale . Se invece si sforza di accettare i nuovi sistemi, a prezzo in ogni caso della distruzione del suo sistema individuale, al­ lora rinuncia a ciò che sino a ieri era propriamente suo, di­ viene per cosi dire im-proprio e in questa ambigua transa­ zione non ci guadagna nemmeno il riconoscimento dei reggi­ tori del sistema dominante , che se da un lato, a ragione, di­ ranno di apprezzare la sua buona volontà e gli attesteranno di essere « aperto » nonostante l'età, dall ' altro non manche­ ranno di sottolineare come necessariamente gli faccia dife t t o l a giusta comprensione delle cose . I l ch e non è del tutto i ne­ satto . I nuovi segni e le loro relazioni acquistano p i e n a v a l i dità e sono accessibili solo a chi partecipa alla loro invenzione e al loro ordinamento , possono essere appresi solo nella crea ­ zione . L'ospite estraneo proveniente dal passato, faticherà sempre a orientarsi in essi, al pari dell' automobilista fra se­ gnali stradali sconosciu t i . D a molto tempo ormai A si sforza· di tenere dietro a quel moderno critico letterario , tanto acuto quanto veemente, che sem;a mezzi termini ha definito l' amico poetico della sua gio­ ventù, lo svizzero di origin�: sveva Hermann Hesse, uno scrit­ tore kitsch . Certo , nemm eno iui, A, è stato del tutto fedele al povero Hermann Hesse, e se oggi tornasse a leggere l'epi­ sodio in cui Demian e il suo romantico amico Pistorius in­ sieme contemplano la brace, p ro b a bilmente avvertirebbe anche lui nn certo i m b a r a zz o L ' amore di Peter C amenzind per Rosi Girtanner, questa figliola di estrazione borghese, gli .

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appare assai filisteo, e anche la passione di Harry Haller, il lupo della steppa, per la sua androgina Hermine gli sembra, quando il libro gli capita fra le mani, da un lato troppo cal­ cato e dall' altro buffo . In fondo la vicenda di un cinquan­ tenne che si accorge, con un certo ritardo, quanto sia grade­ vole fare l' amore con una bella ragazza, è in sé banale e non avrebbe meritato tanta attenzione . Ma impiegare cosl senza mezzi termini la definizione kitsch ad A sembra un po' esa­ gerato . Lui stesso vorrebbe proporsi una più moderna enfasi critica e contemporaneamente consigliare al critico in que­ stione quella tolleranza verso il vecchio che lui è disposto ad avere nei confronti del nuovo, ben sapendo fra l' altro che tolleranza in questo caso non è uguale a tolleranza e che il nuovo ha sempre ragione, per il semplice fatto che è più avanti nel tempo . Che valenza hanno il kitsch e l'invecchiamento culturale? si chiede A. Accade quel che accade nella moda, dove la creazione di ieri, proprio perché purtroppo è di ieri, per questo unico, ma sufficiente motivo, appare imbarazzante e ridicola e provoca un senso di dolorosa vergogna? È proba­ bile . È in ogni caso degno di nota come sia nella moda, sia nell'estetica letteraria ciò che è storico - anche quando non è santificato dalla cultura tradizionale - non subisca questo processo : Lohenstein e Hofmannswaldau sono strani, ma al pari della esibizionistica moda maschile del Rinascimento, non sono ridicoli . Provoca risate e un senso di dolore e vergogna, è quindi kitsch, sempre ciò che ieri è stato vissuto come moda, pensa A. H esse, l' aggettivo «leggiadro », sono criticati oggi perché risalgono a ieri ed erano popolari ieri; detto altrimenti perché sono stati logorati, svalutati dall'uso di massa. Kafka, che scriveva i suoi gelidi raccapricci negli stessi anni in cui Hesse si abbandonava alla leggiadria, non venne coinvolto nel processo di trasformazione in kitsch, che è un processo storico anche quando si ha a che fare con il kitsch contem­ poraneo . E non tanto perché la sua opera sia costituita da

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elementi molto diversi da quelli impiegati da Hesse - ed è poi vero che lo sono, ed è pura coincidenza che proprio Hesse sia stato fra i primi a richiamare l' attenzione su Kafka? quanto perché a differenza dello svizzero-svevo, il praghese per i contemporanei non fu mai di moda . La moda di Kafka esplose solo quando Kafka ormai non c ' era più; per questo poté presentarsi con la fama dell' antimoda, costituirsi in una dimensione storica e al contempo rivolta al futuro. Per A il tentativo di chiarirsi i processi di evoluzione este­ tica e intellettuale, di dare, per quanto possibile, una legitti­ mazione storica alla sua inattualità culturale - perché non vi è dubbio che sia incurabilmente inattuale,- dato che la dimen­ sione kitsch del leggiadro riesce a capirla ma non a viver­ la - è un sollievo assai astratto e teorico . Tanto per comin­ ciare, non dubita che quella mente critica sbagliava di grosso perché non si sforzava di scoprire in quali rapporti, nell' am­ bito del sistema in cui si collocava il giovane Hesse, il «leg­ giadro » si ponesse con altri segni. Quale correlazione aveva l' aggettivo incriminato con le singole componenti estetiche del linguaggio quotidiano dell' epoca, con la moda, con il lin­ guaggio della lirica dei libri di testo e con l' altro linguaggio che allora era «moderno », con le strutture musicali e figura­ tive allora diffuse? Le giovani ragazze alla Rosi Girtanner al pianoforte suonavano il Mormorio di primavera di Sinding . Si leggeva Liliencron . Storm era morto da poco . Leggiadro non era ancora leggiadro, Hesse non ancora Hesse, cosl come l'Holderlin del r 8oo non era Holderlin . Giudicando e assol­ vendo con tanta severità segni che avevano avuto un senso solo all'interno di una classe di segni, quell' energico critico non aveva tenuto presenti queste cose, pensa A. D' altra parte, il severo giudice di Hesse non può essere liquidato troppo sbrigativamente : in quanto uomo del proprio tempo ha fatto uso del suo diritto di dare un contributo al sistema di segni del proprio tempo, ha collocato i segni di Hesse in nuove cor-

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relazioni, e cosl facendo ne ha rovesciato il valore, li ha modi­ ficati. Un intervento legittimo, perché i sistemi non sono sta­ tici ma si collocano all'interno di un processo di rinnovamento perenne. Leggiadro e Hesse, Holderlin e i muri che muti se ne stanno nel vento, 1 Dehmel, già che ci siamo, e « djagloni gleja klirrlala»,' tutto da un anno all' altro passa in un nuovo ordine di segni e modifica il suo significato . Il critico ha agito nella funzione di chi mette ordine nei segni, di chi attribuisce o to­ glie significati. Bisogna quindi !asciarlo agire . Non c'è niente da fare . Ad A non si chiede nemmeno se sia o non sia d' accordo con una certa procedura. Le sue con­ siderazioni, il susseguirsi di riflessioni di una persona che in­ vecchia, s 'infrangono a una soglia del pensiero, davanti alla quale deve riconoscere che, sebbene quella mente acutamente critica non abbia ragione in tutto e per tutto, lui, A, nei suoi confronti non avrà mai ragione. Per lui infatti questi fenomeni del passato hanno un valore del tutto particolare che non può essere cancellato : sono segni all'interno del suo sistema indi­ viduale . I loro vincoli di correlazione si ricollegano non solo a punti di riferimento determinabili intersoggettivamente - leggiadro in questo senso non si associa esclusivamente alle fanciulle che suonano il Mormorio di primavera di Sin­ ding o ai saggi pubblicati in quegli anni nella vecchia « N eue Rundscham> - ma anche a precise circostanze personali, alle case, strade , città, in cui visse, alle ragazze che amò, ovvia­ mente, ma anche a cose molto più insignificanti: agli abiti che indossò, ai caffè che frequentò . È semplicemente impos­ sibile evadere dal sistema individuale, la cui fragranza di vita ciascuno porta con sé attraverso gli anni . A capisce improv­ visamente perché il musicista Ernest Ansermet , in passato esponente dell' avanguardia, abbia scritto un libro profonda1

[F. Hi:ilderlin, Hiilfte des Lebens (Metà della vita).] [Sono le parole, prive di senso comune, che servono da refrain nella lirica di R. Dehmel, Trinklied (Canto conviviale) .] 2

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mente reazionario sulla musica seriale. Comprende come l'ex ri­ belle Kokoschka, ormai invecchiato, in un'occasione mòlto im­ barazzante, della quale A fu testimone, abbia potuto dire delle autentiche enormità sull'arte moderna. Come lui, che è molto più giovane di Kokoschka e di Ansermet, non riesce a prendere le distanze dalla leggiadria, o detto altrimenti non riesce a inse­ rire questa leggiadria in una nuova classe di segni, poiché questi, in quanto segni del suo sistema individuale, sono concresciuti con la sua persona, cosl il grande direttore d'orchestra e il grande pittore non possono pensare che la loro avanguardia del 19 10 non abbia conquistato l'ultimo e più avanzato avamposto. Dandosi un po' da fare, pensa, potrà effettivamente ap­ prendere nuovi segni, farsi un'idea, almeno parziale, degli or­ dini attuali. La poesia. Non è finita con Liliencron, che amò a sedici anni, con Rilke, che lesse più tardi, con Heym, Trakl, W erfel, Ehrenstein che seguirono e divennero elementi del suo sistema individuale. Tutto è andato e continuerà ad an­ dare avanti. Ma ora ha dinanzi a sé una poesia: him hanfang 'war das wort hund das wort war bei gott hund gott war das wort hund das wort hist fleisch geworden hund hat hunter huns gewohnt.

E dopo alcune sbalorditive varianti la poesia termina con i versi: schim schan schlang schar das wort schlund schasch wort schar schlei schlott schund flott war das wort schund schasch fort schist schleisch scheschlorden schund 1 schat schlunter schlims scheschlohnt. 1

[Si tratta di due strofe della poesia dello scrittore austriaco E. Jandl, fortschreitende Ai primi versetti del Vangelo secondo Giovanni («lm Anfang war das Wort, und das Wort war bei Gott. Und Gott war das Wort l und das Wort ist Fleisch geworden und hat unter uns gewohnt» - «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, anzi il Verbo era Dio l E il Verbo divenne carne ed ha abitato fra noi>>) Jandl ha aggiunto, all'inizio o all'interno delle parole, alcune consonanti o gruppi consonantici. Si è rinunciato a proporre una traduzione che non avrebbe potuto comunque rendere i valori fonici della poesia.]

riiude (rogna progressiva) .

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III

Ebbene sl . Non vi è niente di empio, né di infamante; e nemmeno è a tal punto una novità da farci mettere le mani nei capelli dalla sorpresa. Sul volto di A non si scorge né il sorriso del filisteo, né l'espressione indignata del conserva­ tore . Ha letto alcuni testi teorici che gli hanno in qualche modo chiarito la sintassi di simili segni. Si sforza onestamente. Ma è fatica sprecata, non riesce ad abituarsi - oh, « dja­ gloni », dove sei? - al « schlunter schluns ». E all'improvviso si rende conto di un fatto inquietante, capisce che per chi invecchia non è solo il corpo a trasformarsi da portante in gravante, in peso quindi: anche la cultura, al pari del cuore insufficiente, dello stomaco delicato, del muscolo masticatorio indebolito, diviene tormento e pena. È un tormento essere costretti ad apprendere ogni giorno nuovi segni e sistemi . Fra il 1 9 45 e il 1 9 48 A fece non poca fatica a decifrare la mappa spirituale dell'esistenzialismo francese. Non appena ebbe rag­ giunto la certezza di averla com presa, fu c o s t re t to a speri­ mentare come i topoi regis t ra t i non venissero più accettati , come fossero stati tracciati nuovi confini . Lacan, Foucault , A l t h usser s t a v a no inven tando nuovi sistemi di segni, promul­ g ando nuovi codici che A si dichiarava incapace di tradurre in se g ni sartriani. È molto penoso, per chi è abituato a par­ lare la lingua di Proust, cercare di apprendere quella di Le Clézio . N aturalmente può, se accetta di fare uno sforzo e de­ cide di studiare degli scritti di estetica, venire più o meno a capo di « schasch fort schist schleisch >;. . Tanto di cappello di fronte a simili manifestazioni, che suscitano in lui un senso di ri spetto frammisto ad avvilimento, nonché la consapevo­ lezza della propria inattualità. Ma è fuori dubbio che si sente più a suo agio quando può scansarie. Al pari delia moutélg!1 ll c h e non è più i n grado d i scalare e che quindi è l a negazione del l a sua rersona, anche il linguaggio dei segni della cultura moderna gli si presenta come negazione del suo io: certo, in questo caso egl i può di rsi che i negatori hanno ragione nei

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suoi confronti, come i romantici avevano ragione - la ra­ gione del tempo che passa - nei confronti del malcontento vecchio Goethe; tuttavia non può rallegrarsi della distruzione della sua individualità che avviene parallelamente alla de­ molizione del suo sistema di segni . Deve ripudiare quanto il trascorrere del tempo - che si può o meno definire pro­ gresso, non è questo che conta - ha respinto, sospinto nella tomba. Non ha voglia di presentarsi all' allegro banchetto fu­ nebre . E come la sua coetanea ripone l' album delle fotografie, chiude gli occhi e nel processo del ricordare può - ancora una volta in funzione di tutti i sistemi di segni di ieri - con­ siderare deliziosi i segni della moda passata, così A recita i versi di Dehmel che nessuno oggi vuoi più ascoltare . Ma, sia detto per inciso, con la coscienza sporca, perché sa che del «djagloni » non ci si può vantare più di tanto; inoltre ha la sgradevole sensazione di comportarsi come quel vecchio folle che con le lacrime agli occhi canticchia le canzonette della sua gioventù . L' esistenza culturale dell' uomo è una manifes tazione di quella sociale . Ciò che vale nel complesso per la sua esistenza sociale , vale quindi anche per le sue possibilità culturali . In un determinato momento - o meglio in un momento inde­ terminato, che varia a seconda delle diverse correlazio­ ni è solo ciò che già è. Quel momento segna la fine delle possibilità di andare oltre sé stessi in senso culturale . La quan­ tità degli elementi formativi che concorrono a determinare la coscienza già accumulata è talmente grande da assumere la qualità dell' immobilità. C ome accade con il corpo che in­ vecchiando diviene sempre più massa e sempre meno energia, così accade con lo spirito inteso come ricettacolo culturàle : lento e pesante per propria natura per il tempo trascorso, esso, preda di una inerzia crescente, non è più in grado di muo­ versi quando è sollecitato da nuovi segni . -

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A quale età l' essere umano deve confrontarsi con questa avversità? È una sventura che capita a tutti? È possibile im­ maginare individui i cui sistemi, fatti propri o addirittura creati in gioventù o al più tardi nella mezza età, anticipino gli ordini momentaneamente validi: invecchiando o da vecchi essi potrebbero con legittima soddisfazione osservare lo « spi­ rito del tempo » inseguirli pigramente, e assistere alla improv­ visa ratifica del loro sistema da parte della maggioranza cul­ turale; per costoro ad esempio il problema nemmeno si por­ rebbe . Nessuno, credo, può dare risposta al primo interroga­ tivo . L'invecchiamento culturale, il ridursi della capacità e della volontà ricettive, la stanchezza e la rassegnazione di fronte alle esigenze che ogni nuovo giorno pone, sono fat­ tori individuali quanto il processo d'invecchiamento fisiolo­ gico . Forse sono i cinquant' anni il punto di svolta, ma non è che una vaga stima, non esistendo dati statistici precisi. Alla seconda ipotesi si può invece trovare una risposta immediata. È vero che nessuno può dire : io anticipo il mio tempo . Nes­ suno può dire cosa sia avanguardia; possiamo solo costatare cosa è stato avanguardia. Tuttavia molti spiriti creativi hanno potuto costatare soddisfatti e in pace con sé stessi di essersi lasciati alle spalle il proprio tempo . Invecchiando, Arnold Schonberg ha potuto osservare come il sistema che lui consi­ derava centrale, la musica dodecafonica, divenisse il sistema dominante. A partire dall'impressionismo, quei grandi pit­ tori, di cui in gioventù erano denigrati ordinamenti e norme pittoriche , hanno in gran parte assistito al trionfo dei loro sistemi . Questo tuttavia non esclude due cose : e cioè, da un lato, che i loro sistemi centrali, temporaneamente vincenti, possano essere stati superati e sostituiti da altri, quando loro erano ancora in vita, e dall'altro che nell' ambito di determi­ nati sistemi particolari essi possano, ancora nella mezza età, essersi sentiti culturalmente invecchiati. Un grande musicista che ha sempre anticipato la sua epoca musicale può essere

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ottuso e retrogrado di fronte all'arte cinematografica. Chi crea un nuovo sistema di segni in ambito poetico, può nello stesso tempo avere un gusto profondamente conservatore nell'·arte figurativa. La difficoltà che incontriamo nel fissare teorica­ mente in frasi anche solo approssimativamente irrefutabili l'invecchiamento culturale, l'alienazione che ne consegue, il rifiuto del mondo causato dall'incomprensione del mondo, dipende dalla mobilità e inafferrabilità di ciò che qui abbiamo chiamato sistema. Siamo forse costretti a rinnegare il con­ cetto di sovrasistema dominante, che, facendo ricorso a un uso più antiquato della lingua, possiamo anche definire spi­ rito del tempo o spirito dell'epoca? no e sl. No, perché è evi­ dente che- un tale sistema esiste, se i contorni spirituali di un'epoca vengono considerati da una certa distanza e con una superficialità che corrisponde alla vita culturale quotidiana. Se prendiamo il preseme del 1 968, anno in cui sono scritte queste righe , è possibile riconoscere un certo numero di punti di riferimento, collegando i quali risulteranno visibili i con­ torni dello spirito dell'epoca. Nouvelle critique, cinema nuovo, poesia sperimentale, teatro dell'assurdo, pop art e happening, e chi più ne ha più ne metta di questi sprazzi di luce, di questi slogan, tutto ci si presenta, per quanto contraddittori i feno­ meni siano fra loro, come Gesta/t, come un'unità che viene tenuta insieme da qualcosa di più che non qualche data. E d'altra parte invece sì , si deve fare a meno del concetto di sovrasistema se lo sguardo non è più solo superficiale, perché in questo caso i dati di fatto perdono tutte le caratteristiche che fanno di loro un'unità. Lo spirito del tempo o il sovrasi­ stema si trasforma in un'infinità di sistemi singoli, in una quanti tà informe. Allora anche l'idea della contemporaneità culturale risulta inutilizzabile poiché l!Uesta si riduce effetti ­ vamente al fatto astratto della semplice cronologia. Una So­ cietà degli amici di André Gide si abbandona ai suoi trastulli i n tellettuali all ' i nterno del sistema di segni gidiano, e non

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si preoccupa del gruppo di giovani scrittori d' avanguardia che a Parigi ruota .intorno alla rivista « Tel quel ». I neoposi­ tivisti anglosassoni lavorano instancabili ai loro ordinamenti, e non si rendono conto dell' esistenza di movimenti come il neomarxismo e lo strutturalismo . Per gli estimatori della musica concreta la dodecafonia è ormai superata. I compo­ sitori di musica seriale a loro volta sostengono che la mu­ sica concreta si sarebbe cacciata in un vicolo cieco. La contraddizione implicita nell'esistenza di un sovrasi­ stema dominante - anche se esistesse solo per un conser­ vatore che respinge come frottole neomoderne la pittura astratta e quella neorealistica, la musica seriale e quella con­ creta, le analisi neopositiviste e quelle strutturaliste - il fatto quindi che al contempo vi sia e non vi ·sia qualcosa come lo spirito del tempo, a prima vista può apparire ba­ nale: del resto esiste la foresta ed esistono le singole zone di questa foresta e infine i singoli alberi. Nel contesto del­ l'invecchiamento culturale tuttavia questa contraddizione in sé banale, che è possibile risolvere considerando sovrasistema, sottosistema e infine anche singoli fenomeni come possibili ipotesi nella descrizione della realtà, diviene un problema esistenziale che in quanto tale si pone al di là delle cate­ gorie del banale e del rilevante. L'essere umano che va in­ contro a invecchiamento culturale si trova comunque, anche quando è libero da arroganza conservatrice - che è poi sempre solo la pusillanimità di chi finisce sotto la ruota in un mondo estraneo ed enigmatico . Ha poca importanza per lui che il sovrasistema di volta in volta dominante sia un insieme di sottosistemi in parte diversi e divergenti fra loro, che in realtà non esista una contemporaneità cultu­ rale, che tutti i sistemi contengono anche elementi dei suoi sistemi, che in un futuro a lui posteriore alcune componenti dei suoi sistemi possano grandiosamente risorgere in forma modificata. Ciò che importa, e che lo colpisce nel profondo,

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è la smentita che l' epoca in perenne e quotidiana partenoge­ nesi oppone al suo sistema individuale . E la smentita, che egli riconosce in ogni articolo di giornale, che trova confer­ mata in ogni mostra d' arte moderna, che è implicitamente espressa in gran parte dei più recenti prodotti editoriali, al giorno d'oggi si presenta in una forma particolarmente of­ fensiva. La densità dell'informazione ha come conseguenza che ogni nuovo sistema di segni, con una radicale contrazione tempo­ rale, appena sorto si prende la libertà di rivolgersi a vasti set­ tori dell'opinione pubblica, che esso si democraticizza in ma­ niera distorta, infiltrandosi, ridotto a sigle parole d'ordine, anche nella conversazione quotidiana. L 'individuo soggetto a invecchiamento culturale può impegnarsi allo spasimo, non riuscirà mai a essere «in » . Con molta buona volontà, domi­ nando con lodevole sforzo e con successo la sua avversione, ha appena letto un libro del filosofo alla moda McLuhan, cer­ cando di ragionarci sopra; e a un certo punto sente uno stu­ dente liceale dire en passant: « the medium is the message ». In questo modo non viene solo disattivato il suo sistema di segni individuale, appaiono anche ridicolizzati il suo sforzo e la sua buona volontà. Il fatto che il liceale, che ha raccolto questo slogan in un qualche articolo divulgativo, con la sua passiva rimasticatura sminuisca il valore di questa filosofia alla moda e apparentemente confermi la sua scarsa conside­ razione per siffatte riflessioni, per l' individuo che invecchia non è una consolazione . Al contrario. Egli si accorge come i processi di formazione, divulgazione e svalutazione si sus­ seguano con crescente rapidità, e questa consapevolezza lo scoraggia definitivamente, non solo perché questo processo fa risaltare nella maniera più radicale la vanità del suo im­ pegno, ma anche per un altro motivo : in questo modo fra il sovrasistema - che a ogni istante mostra tratti differenti e a causa del suo dinamismo appare irraggiungibile -, fra lo

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spirito dell'epoca, insomma, e il suo sistema individuale, svi­ luppatosi intorno a un patrimonio pluridecennale, s 'inseri­ scono sempre più altri sistemi, con la conseguenza che il suo viene allontanato sempre più e alla fine a lui stesso ri­ sulta irriconoscibile. In questo contesto egli non si pone nem­ meno il legittimo interrogativo se l' accelerazione debba es­ sere considerata progresso . A meno di non volersi attestare sulla posizione, inattaccabile certo, ma anche priva di spe­ ranza, del conservatore intransigente - per il quale il pro­ prio sistema individuale rappresenta il culmine e il punto d ' arrivo dell'evoluzione culturale, e tutto il resto è solo in­ ganno e follia - e a meno di non voler diventare uno zo­ tico scioccamente fiero del suo dire no, deve accettare l ' ac­ celerazione in quanto fenomeno autentico, deve addirittura comprendere nell' autenticità dell' accelerazione ciò che egli vorrebbe definire moda e snobismo, e infine considerare un giovanotto sveglio quel liceale che ha orecchiato McLuhan, e che solo ieri egli sarebbe stato disposto a giudicare un in­ solente chiacchierone . A questo punto nessuna novità gli apparirà tanto bizzarra o insignificante da non doverle con­ cedere credito, da non doverla addirittura trattare con ri­ spetto . E con ogni nuova concessione fatta allo spirito del­ l' epoca, andrà in frantumi un pezzo del suo mondo, come accade ai pur sempre solidissimi hotels de maftre sui boule­ vard che vengono demoliti per edificare al loro posto case con appartamenti dalle pareti quasi trasparenti . Al pari della cinquantenne che ordina alla sarta il nuovo modello , seb­ bene preferisca, sul far della sera, chiudere gli occhi e rivi­ vere come eleganti la giacca e il cappellino di trent' anni fa , anche chi fa l'esperienza dell'invecchiamento culturale man­ tiene il passo . Ma se a lei non sta bene la moda di oggi, a lui non stanno bene gli happening . La consapevolezza dell'inattualità può risultare - se non si fossilizza in una posizione difensiva di negazione dell'epoca -

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estremamente tormentosa, paragonabile a un dolore fisico continuo. Il percorso temporale lungo il quale ci stiamo mo­ vendo è nemico dell' anziano, in misura probabilmente mag­ giore rispetto a tutti i percorsi del passato. Poiché dipen­ dono dalla curva di vitalità e di sensibilità, i nuclei centrali di ogni sistema culturale individuale si formano in gioventù. Se il sistema individuale viene sopraffatto da un sovrasi­ stema che si rinnova con un dinamismo inarrestabile e che entra in campo con tutta l'ostentazione che gli deriva dai moderni mezzi di comunicazione, l'individuo che invecchia, soverchiato dalla cultura-fardello contemporanea, subisce una perdita dell'io e del mondo che nulla potrà mai compen­ sare . In questo senso non ha alcuna importanza il fatto che i sovrasistemi di volta in volta dominanti e fra loro interse­ cati, lascino sussistere quegli ordinamenti che in senso cul­ turale sono considerati « storici », ossia tramandati e consa­ crati dalla cultura. I valori formativi trasmessi e accettati, all'interno dei sistemi individuali hanno un'importanza assai limitata, a meno che l'individuo in questione non abbia una professione formativa di tipo storico, non sia quindi filo­ logo, insegnante di storia, storico dell'arte o simili. Per l'uomo di cultura non specializzato e professionalmente non concentrato su strutture formative del passato, il sistema individuale è determinato da segni che venivano conside­ rati moderni quando era giovane e tutt'al più negli anni della sua maturità. Ai giorni nostri il sistema individuale di un cinquantenne di cultura non è specificamente caratterizzato da Omero, ma da Kafka, non da Kant ma da Husserl, più facilmente da Nolde che non dal Tintoretto. Ogni sovrasi­ stema integra in maniera più o meno felice i sistemi storici. Ciascuno distrugge quelli di ieri e dell' altro ieri, proprio quelli quindi che nel modo più vario hanno contribuito a com­ porre i sistemi individuali di chi invecchia.

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Spossato dalla lettura, su varie riviste, di alcuni saggi di carattere filosofico, sociologico e metalinguistico, A si riposa. Dallo scaffale ha preso alcuni volumi non proprio recenti, per rinfrancarsi, per ritrovarsi in essi. Ma li ha riposti; non pos­ sono competere con quei saggi di una intelligenza addirittura maligna che egli ha studiato con disperata risolutezza e cor­ redato di annotazioni che, se ne rende conto, non colgono nel segno . Come non potrebbe competere con un venticin­ quenne nella conquista dell 'esuberante bellezza di una ra­ gazza, come non sarebbe in grado, pur essendo stato a suo t e m p o u n buono sciatore , di superare un trentenne nella di­ scesa, così. adesso . non può trionfare su Phili p pe Sollers, ri­ leggendo J ulien Green . Il g io r n o in c ui lessi Adrienne Mesurat, e quest' opera mi d is s e l'ulf!!Jla parola sul roman z o modern o , e f i ni t o , finito p e r sempre . Scomparso p e r s e m pre anche i l momento in c u i i o s tesso s c r i s si che do p o l ' esperi men to del ­ I ' Ulisse no n era più possibile c o nce p i re u n a l t ro romanzo . Per una trentina d' anni ho ma nte n u t a viva la mia consapevolezza spirituale e og g i, se non vogl i o vivere come quell ' amico set­ tantenne che a ogni occasione si cava di tasca un volume d i Holderlin e dice : leggo questo e m i bas t a ! , oggi devo ammet­ tere di avere per trent' anni sempre solo barattato un errore con un altro . L' ovvia considerazione che tutto passa perché all 'orizzonte sorge sempre qualcosa di nuovo, l' antichissima saggezza secondo cui non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume, appare banale solo se si osa l'impossibile, se si osa uscire dallo spazio del vissuto . Verso quale meta? Verso un mondo privo di segni e di sistemi, un mondo vuoto, un antiuniverso. Allora forse potrò dirmi che non fu un susseguirsi di errori quando con Dehmel e Rilke e Benn e Green e Proust e Joyce, nell' arco di alcuni anni edificai il mio cosmo, il mio sistema, ma furono appunto stadi, e che proclamando la fine del ro­ manzo nell'epoca postjoyciana avevo ragione come oggi hanno

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ragione, e domani avranno torto, Sollers e i suoi amici con i loro romanzi. Stadi, sl, ma di cosa? Di un'evoluzione . Che dovrebbe condurre dove? Chi non è in grado di dare una ri­ sposta a questo interrogativo non è legittimato a parlare di stadi, può solo elencare avvenimenti . Mi accorgo di essere sul punto di cedere a una tentazione che è pericolosa quanto la fossilizzazione sulla difensiva, che è nemica del tempo, o quanto il suo opposto, l' accettazione affrettata, supplichevole di tutto ciò che il giorno mi apporta. Mi accorgo di voler con­ siderare la mia sequenza di errori e l' intera storia dello spi­ rito a me nota sub specie aeternitatis, il che equivale, in ogni senso, a un non considerare. L' eternità assomiglia al Mare del Nord nei giorni senza vento ma nebbiosi, quando il mare si fonde con il cielo coperto, quando è impossibile distinguere l'orizzonte. Quanto io correlo alla bigia eternità priva di segni, è correlato al nulla e ciò che è correlato al nulla viene distrutto nell' atto stesso del non correlare. Considerare gli avvenimenti culturali nella prospettiva dell'eternità rappresenta per chi sperimenta l'invecchiamento culturale, una certa soddisfa­ zione, ma costituisce al contempo il più triste degli autoin­ ganni . La verità è, si dice A non senza avvertire una leggera vertigine, che da un lato non è ragionevolmente possibile op­ porsi al tempo, né è consentito rincorrerlo; e dall' altro che non si può nemmeno usare l'espediente di estraniarsi dallo scorrere del tempo, attenendosi a un'eternità che è un nulla. « Schat schlunter schluns » è equiparabile a «djagloni », a Gry­ phius e a cos ' altro mai. Un sistema vale l' altro, ha l'identico valore o non-valore : chi dice questo tanto varrebbe tacesse. Posso cercare una consolazione dicendomi che quanto adesso sembra essere vittima della distruzione operata dal tempo, proprio dal tempo viene conservato. Ciò che per qualche decennio mi ha colmato e affa�tellato, da Dehmel a Benn, da Hesse a Proust, da Cézanne a Francis Bacon, tutto ciò ha, nei giorni che furono miei, soddisfatto quanto quei

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giorni d a m e esigevano; l a ruota lo h a investito, m a investen­ dolo lo ha anche portato via ·con sé: nulla è mai perduto per sempre . Consolazione, giochetti intellettuali. Il conservare nella distruzione è una struttura storico-filosofica priva d'im­ portanza nell'ambito esistenziale. Seguire le tracce di Proust nell'opera di Nathalie Sarraute è compito degli storici della letteratura. Il mio Proust, che lessi per la prima volta in un certo periodo, in una stanza che solo per me si ricollega a questo autore, circondato da una fragranza dell'esistenza che solo nel ricordo posso ancora rievocare - questo Proust non riesco a ritrovarlo nei libri di Madame S arraute . C ome parte della mia esistenza è stato raggiunto e superato da questa scrit­ trice . Cosa posso fare? Posso tentare di superare me stesso, affrontando la Sarraute e infrangendo cosl il patto di vita che un tempo avevo stipulato con Proust . Posso compiere questa stessa operazione di distacco denunciando il contratto cultu­ rale - che è anche un legame con me stesso - che mi lega agli ormai superati amici XYZ . Prendo le distanze da Fran­ çois Mauriac, i cui paesaggi silvestri e la cui cupa nobiltà vi­ nicola sono parte di me, per arrivare, semmai, sino a suo fi­ glio Claude . Ma non giungerò a destinazione: Claude Mau­ riac è socio di un club che non mi accetta. È, o vuole essere, uno scrittore del domani e quindi rientra nella schiera di co­ loro che domani ancora ci saranno . Come il matematico mu­ sicista Jannis Xenakis, che compone con il computer . Ma do­ mani - e ciò può significare fra dieci minuti, fra un anno, fra dieci anni, al più tardi però fra tre lustri - io non ci sarò più . Non ha senso che spezzi le catene che mi legano al vec­ chio Mauriac . La libertà che cosl facendo conquisterei, non mi servirebbe. Restare incatenati è una forma di vergognosa rassegnazione. Gettarsi nello spazio vuoto, e per me inabita­ bile, di una libertà che annulla sé stessa, è un atto dettato dal panico . E non sentire più in quanto tali i vincoli, non più in quanto tale la libertà, istallarsi nella nebbiosa eternità

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del Mare del Nord, dove i vincoli non sono distinguibili e la libertà non è più sperimentabile, tutto questo cos'è? È evidente: è la morte. L'invecchiamento culturale contro il quale, come per il declino fisico, non c'è rimedio, è il mes­ saggio totalmente negativo, è l'annuncio della fine. Ogni ap­ passire di un sistema culturale di segni è morte o simbolo di morte. L'individuo che invecchia assiste al «muori». Dal quale assai presto scaturirà, escludendolo del tutto, un «divieni». Ospite mesto qui sulla terra spenta, 1 sente il calpestio, sente il trottare. E come si aggrappa alla vita, cosl fa ricorso, pro­ fondamente turbato, ai sistemi passati, scaduti, consumati. Erano la sua vita e perciò ancora lo sono . La questione è che questa vita ha la caratteristica - spaventosa e paradossale, contenente in sé la contraddizione dell'esistenza umana, un'e­ sistenza circondata dalla morte, indirizzata verso la morte, che solo dalla morte acquista il suo significato - di essere morta. Nelle sue correlazioni culturali la vita di chi invec­ chia, che altrove abbiamo definito ricordo-del-tempo-dell'io, contrapponendola all'esistenza giovane, che promette spazio e mondo, è un cadavere. Mentre chi invecchia crede di poter ancora attingere da loro energie vitali, il leggiadro Hesse, il Dehmel del canto conviviale, il François Mauriac tormentato dai dubbi, sono passati, e sono ormai in stato di putrefazione. La dignità dell'invecchiamento culturale - al pari di quella dell'invecchiamento sociale, nel quale si colloca - può realizzare sé stessa solo in una rivolta contraddittoria che ri­ solva l'antinomia. I nuovi sistemi esistono. L'individuo che invecchia deve, senza nutrire speranze, accingersi a decifrarli quotidianamente sino alla fine. Se non vuole rinunciare al proprio io, non deve abbandonare quegli ordinamenti che stanno subendo la putrefazione; consapevole della sinistra ne­ crofilia del proprio comportamento spirituale, deve serbare 1

[J. W. Goethe, Der west-iistliche Divan (Divano occidentale-orientale).]

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loro una fedeltà priva di valore . Detto altrimenti : anche in questa occasione deve, impegnandosi senza prospettive di suc­ cesso nell'opera di autosuperamento, al contempo accettare e rifiutare la propria distruzione . Non capisce più il mondo; il mondo che lui capisce non è più . La coazione a capire l'incomprensibile non lo abban­ dona, come non lo abbandonano gli stretti legami con il pas­ s ato. Non è un eroe, solo uno come tanti: eroico come uno dei tanti che invecchiano e che moriranno .

Vivere con il morire

Si fanno sentire le malattie . Sul volto del medico di tanto in tanto affiora, mitigata dall'ottimismo clinico, la preoccu­ pazione professionale . Muoiono amici coetanei. In base alle statistiche restano ancora quindici anni . L'individuo che in­ vecchia pensa alla morte. Dapprima come si pensa a un av­ venimento oggettivo, nelle categorie di chi sopravvive. Si au­ gura che tutto avvenga secondo consuetudine. La famiglia dovrà essere, per quanto possibile, sistemata, il funerale av­ venire in questa o quella forma: e per questo si dettano le ultime volontà. Una volta sbrigati questi particolari voluti dalle convenzioni e da chi sopravvive, l'individuo in questione giunge a sé stesso . È diret tamente coinvolto dal fatto che in un tempo assai breve non esisterà più (considerati retrospettivamente, gli ul­ timi vent' anni sono passati incredibilmente in fretta ! ) e av­ verte il bisogno di meditare sulla morte. Molto presto si ren­ derà conto non che simili riflessioni non possono condurre ad alcun risultato, perché questo lo ha sempre saputo, ma che esse sono impossibili. Pensare alla morte, scrive il filosofo Vladimir Jankelevitc nel suo sconsolante libro La Mort, è «penser l'impensable ». Intorno alla morte non c'è proprio nulla da pensare; il genio e il semplicione di fronte a questo argomento subiranno un'identica disfatta. La morte non è

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nulla, è un nulla, una nullità. I pensieri intorno ad essa si comprimono sino a una dimensione infinitamente piccola , anche se sono, in base alla legge della compensazione, estre ­ mamente densi. Ma si tratta di pensieri? Difficile rispondere. Chi accetta di pensare l'impensabile ha comunque a disposi­ zione le parole, che le si voglia o meno definire pensieri. An­ ch'esse si riducono a pochissime. Il pensare la morte diviene una monotona e maniacale litania che innegabilmente somi­ glia a certi prodotti della poesia moderna: sto per morire, per - morire io sto, sto per morire, mo-ri-re, mo-rire, sto per mo- . Oppure in francese: «je vais mourir mourir je vais je vais mou­ rir, rire, rire, je vais mou-. » In questo stesso modo futile si possono impiegare tutte le lingue, perché se è vero che i con­ fini della mia lingua sono i confini del mio mondo, è vero altresl che i confini del mio mondo sono i confini della mia lingua, e al cospetto della morte, del mio antimondo, si evi­ denzia anche l'impotenza della mia lingua. La lingua e il pensiero privi di potere non abbandonano tuttavia l'individuo che invecchia; nemmeno se egli disprezza la litania, e alla morte, all'inevitabile sconfitta totale, intende contrapporre la dignità della sua essenza umana pensante. Al­ lora egli forse penserà al morire, o meglio al progressivo mo­ rire, di fronte al quale la paura è giustificata; comporta in­ fatti tormenti fisici di diversa entità e abitualmente si dice: non ho paura della morte ma della malattia e del dolore. Chi oserebbe con rapida parola controbattere? I tormenti del mo­ rire sono stati descritti centinaia di volte con atroce insistenza. Si legga La morte del padre di Martin du Gard: «Gli attacchi diventavano via via più frequenti; e la loro violenza era tale che, al cessare di ognuno, non meno spossati dell'infelice, quelli che lo assistevano si lasciavano andare a sedere e pas­ sivamente lo guardavano soffrire. Sicché gli intervalli tra un attacco e l'altro li riempiva un urlo incessante, un long hurle­ ment . . » Esistono infinite altre descrizioni simili. Non pochi .

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hanno personalmente assistito ad agonie come quella com­ battuta dal vecchio padre Thibault, hanno tenuto la mano madida di sudore a qualcuno che invano continuava a ribel­ larsi: e infine dovettero accompagnarla al cimitero, questa brava persona. Per questo l'individuo che invecchia - che è direttamente coinvolto da quando il medico, per non sca­ dere in un insulso chiacchiericcio, si mostra preoccupato ma al contempo ottimista - si attiene al morire e accantona l'impensabile, la morte. Provvisoriamente . Sarà costretto, se non si stanca troppo facilmente e non tende alla rasse­ gnazione, a tornare ad essa. Anche il morire è di questo si renderà conto in seguito - vivere, cosl come vivere è un costante morire. « Conosco la morte - dice nella Montagna incantata il consigliere di corte Behrens, una volta tanto se­ riamente e senza scontata giovialità, alla madre di Joachim Ziemssen, ormai condannato - .sono un suo vecchio fun­ zionario, mi creda, la si sopravvaluta! Le posso dire che non conta quasi nulla: le eventuali angherie che precedono non si possono onestamente attribuire alla morte, sono faccende vivacissime e possono condurre alla guarigione e alla vita. » Sono in primo luogo le faccende vivacissime a tenere oc­ cupato l'individuo che invecchia: cosl almeno egli crede, prima di essere sceso ancora più a fondo nel pensiero della morte, nel contropensiero . E queste vicende, vagamente pa­ ragonabili al bisogno di sistemare le questioni inerenti al­ l' assicurazione sulla vita e all' eredità, sono da un lato di or­ dine fisico e dall' altro sociale . Non è la stessa cosa temere di morire per un infarto, che nel migliore dei casi stronca un essere umano nel giro di qualche minuto, o in seguito a crisi di uremia che si trascinano per settimane, come accade a padre Thibault, al quale infine il figlio medie� non volendo più assistere allo strazio, pratica un'iniezione liberatoria. E cambia anche se un povero diavolo muore all'ospedale, solo, sotto lo sguardo indifferente delle infermiere, o un ricco -

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muore in una clinica di lusso: i fiori sul tavolo, i medici ben rimunerati, un' accuratezza personalizzata, le visite dei parenti consentite a tutte le ore non lo aiutano forse quando si avvicina il veloce trapasso, ma rendono più facilmente sopportabili le fasi di assenza del dolore; e poi, anche nel momento del morire, c'è la bella vita che ha sempre drasti­ camente differenziato la sua esistenza da quella miserabile dei poveri. È necessario ribadire che se è vero che siamo tutti uguali di fronte alla morte - il che non significa quasi niente, o meglio non fa che sospingere l'esigenza di ugua­ glianza verso la vergognosa non-obbligazione della metafi­ sica - non siamo però tutti uguali di fronte al morire . « Con i soldi è più facile piangere » recita un proverbio degli ebrei orientali. Con i soldi è anche più comodo morire; questo e solo questo dovrebbe essere il significato dell' ambiziosa richiesta di Rilke che si rivolge a Dio chiedendogli di dare a ciascuno la sua propria morte . ' Al pari della vita perso­ nale, separata dal fluire della massa, anche il morire proprio o individuale è acquistabile con il denaro . E la questione sociale del morire è tanto irrisolta quanto la problematica sociale nel suo complesso che una parte interessata sfaccia­ tamente presenta come già chiarita . O morte, dov'è il tuo pungiglione? Il povero dà una risposta precisa: nell' ospizio, all'ospedale, nell' appartamento mal riscaldato, dove il mo­ ribondo deve trascinarsi lungo tutto il corridoio per raggiun­ gere la toilette. Al pari dell' interrogativo circa la sofferenza fisica più o meno accentuata, circa le « angherie» che precedono la morte, anche il tema del morire sociale non può essere celato, e ma­ gari accantonato, dietro riflessioni antologiche. D ' altra parte l' essere umano pensante non può non indirizzare l'indagine verso la morte, andando oltre le realtà del morire, in piena 1

[R. M . Rilke, Das

Stunden-Buch

(Il libro delle ore).]

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consapevolezza dell'irrealizzabilità dell'impresa e imponen­ dosi una rigida disciplina che eviti la litania dell'idea coatta. In questo processo resterà costantemente impigliato nelle con­ traddizioni che da un lato separano la morte e il morire, e dall' altro tornano sempre a contraddittoriamente negarli; la morte è vuota senza il morire, che a sua volta è privo di con­ tenuto senza la vuota morte. Dapprima si spalancherà l'abisso che separa la vitalità del morire dalla totale desolazione della morte: ed esso non è solo la banale costatazione che un mo­ ribondo gemente è qualcosa di diverso da un silenzioso ca­ davere . Già a questo punto tuttavia appare chiaro - il che ci consente di individuare l' ambiguo e inspiegabile rapporto tra morte e morire - come il morire, inteso non come il quasi-nulla del trapasso, ma piuttosto come il progressivo mo­ rire comprensibile in un orizzonte temporale, sia un concetto discutibile sul piano logico . Se si permane nell' ambito del­ l' empiria quotidiana, è naturalmente possibile parlare del mo­ rire. Antoine Thibault, il giovane medico che si è accorto che i reni del padre non filtrano più, sa che il vecchio sta per mo­ rire . In senso stretto però, poiché non si è morti prima di essere morti, nessuno muore al presente . Si può sempre e solo dire che qualcuno è morto. La parola morire nel linguaggio logico è utilizzabile solo nella forma del passato, dato che in quanto concetto appare giustificata sul piano logico solo a morte avvenuta. Ciò significa che, quando si occupa della pro­ pria fine, l'essere umano si imbatte sempre nella morte. L'im­ pensabilità della morte rende però vani tutti i suoi sforzi, la sua nulli tà disattiva tutte le leggi della logica. La mia morte, è un problema apparente : finché io sono, lei non è, e quando lei è, io non sono più. Sono cose che sappiamo sin dall' anti­ chità e il saperle non è mai servito a nessuno; per chi si avvi­ cini alla morte non è altro che una battuta di dubbio gusto . È vero, è falso . È saggezza e follia. In realtà ogni considera­ zione soggettiva sulla propria morte racchiude in sé un

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problema logico. Io non sono. L' «io sono » in questo caso non esclude il «non»? No, se nell'affermarlo io per così dire mi estraggo da me stesso e considero il mio non-essere o non-esser-ci come un fattore oggettivo, o detto altrimenti dal punto di vista di chi sopravvive. È vero, l' «io sono» non ammette il «non» se rimango in me stesso e comprendo il mio io negli unici termini che per me hanno senso: come un io che c'è. L'avvenimento del mio morire, il dato di fatto della mia morte, che nonostante la problematicità logica riguarda me più che tutti gli altri e mi coinvolge più di ogni altra cosa, è comprensibile solo per chi sopravvive ed è solo da questi inseribile nel corso delle cose. In un famoso esempio di umo­ rismo nero, rivolgendosi alla moglie un marito dice «quando uno di noi morirà, mi ritirerò nella nostra casa di campagna». Nei tribunali francesi, quando un imputato muore nel corso del processo, il presidente della corte si alza e recita la for­ mula: «L'accusé est décédé, l' action publique est éteinte. » È morto, il procedimento è chiuso: la circostanza oggettiva della morte di un essere umano che ormai non è più, contro il quale non si può procedere, che non può più essere tas­ sato, né retribuito, né manda.to in guerra, né spedito in un ospizio per anziani, non potrebbe essere descritta con mag­ giore chiarezza ed efficacia. Il problema è però che per un essere umano la propria vita non è mai un fatto pubblico, per quanto egli sia socialmente determinato. Il fatto che egli ci sia e riesca a immaginare un mondo senza il suo esserci, ma non il proprio non-esserci, è il motivo di fondo della sua esistenza. In certi momenti questo motivo, per quanto possa essere un insopportabile controsenso, diviene per lui il senso del mondo tout court. «Io la sputo fuori, perché non è roba per me» dice Gia­ cobbe nella tetralogia di Thomas Mann, allorquando gli viene comunicata la falsa notizia della morte del figlio Giuseppe.

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Allo stesso modo ognuno sputa fuori l'inaudita pretesa per cui dovrebbe accettare senza tante storie, perché in fin dei conti tutti muoiono, la propria morte e il proprio non-essere. La sputa fuori con profondo ribrezzo, no, non è roba per lui. Tutti sono tutti, e lui è lui, e se muoiono tutti gli altri è triste, ma che lui debba non essere è uno scandalo, è impossibile. Nel modo più orrendo e contro natura l'essere umano torna però a ingerire ciò che ha sputato fuori. Non è roba per lui, eppure deve trangugiarla. Non vuole morire, eppure morrà. Non può pensare alla morte, eppure deve farlo. Questo in­ terrogativo cosl palesemente apparente, l'esplorazione della negatività limite, il pensare il nulla che è al contempo un non­ pensare: è l'ultimo ed estremo interrogativo sull'essere che l'uomo si pone. «Le faux, c'est la mort» scrive Jean-Paul Sartre. Il filosofo prende cosl le distanze dalla morte che tra­ sforma l'esistenza in un'essenza opaca, in un etre pietrificato che è ormai solo un avoir-été. Chi entra in relazione con la morte affronta qualcosa di più di una liaison dangereuse: è un rapporto oscenamente incestuoso. Con altrettanto diritto si può però dire che la morte è l'unica verità, poiché essa è il futuro di tutti i futuri. Ogni passo che compiamo ci conduce a lei, ogni pensiero che pensiamo alla fine s'infrange contro di lei. La sua verità perfettamente vuota, la sua realtà irreale sono il compimento insensato della nostra vita, sono il no­ stro trionfo sulla vita, che solo nel nulla del trapasso avremo dominato appieno, sono la nostra disfatta totale. La morte è la contraddizione originaria che in quanto «non» assoluto comprende in sé tutte le negazioni pensabili. È de­ finibile solo negativamente, è dissoluzione anche dell'ultima dei miliardi di cellule che costituiscono il nostro organismo. Solo a partire dalla morte diviene possibile il pensiero nega­ tivo, solo la sua irreversibilità dà alla negazione il suo senso totalizzante. Solo attraverso la morte degli altri, di cui ospe­ dali, imprese funebri e necropoli ci danno notizia in termini

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mitigati e celati, sperimentiamo che qualcosa c'era e adesso non c'è più. Un oggetto si decompone e tuttavia rimane an­ cora ritracciabile in una differente consistenza fisica. L'es­ sere umano che è morto, invece, non c'è più, parti sans laisser d'adresse, per sempre; irrigidendosi e diventando una cosa, che in quanto tale si decompone come ogni altra, è diven­ tato la negazione di sé stesso. Quanto avviene di lui dopo la morte non è altro che l'auto parodia di un macabro e vano tentativo di annullare la negazione. Il «caro estinto», the loved one del cui insensato destino post mortem narra l'omonimo film di Evelyn Waugh, non è un caro estinto, ma non è, e il raccapriccio che suscitano quei preparativi - nel corso dei quali i cadaveri sono truccati e successivamente seppelliti sotto i cipressi per l'eterno riposo, che tale non è poiché il con­ cetto di riposo comporta quello di una nuova fase di inquie­ tudine di vita - è, mutatis mutandis, quello suscitato da ogni funerale solenne. L'esperienza della morte degli altri nei termini del non­ essere-più da parte di qualcosa che era, se è il presupposto di ogni pensare negativo, quindi dialettico, è però, al con­ tempo, anche il rifiuto di ogni dialettica: la negazione della negazione della negazione. La sconsolante cognizione del non­ essere, che non è cognizione autentica e che tuttavia da lungi ci consente di intravedere un'ombra misteriosa e fugace, ci spiana il cammino verso il pensiero dialettico-negativo, e tut­ tavia lo preclude non appena iniziamo a percorrerlo, perché la morte è il negativo che non ha in sé alcuna positività. Com­ prendiamo il «non» assoluto, di cui abbiamo bisogno per po­ tere usare quello relativo, solo a partire dalla morte, ma in questo modo comprendiamo questo stesso «non» tanto poco quanto la morte. La morte in quanto contraddizione di ogni pensiero positivo come di ogni pensiero negativo, è il non­ senso che si ripercuote su ogni senso, è mistero e banalità, necessità di riflessione e sua impossibilità, negazione della

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vita nella vita, che s arebbe inimmaginabile e priva di valore senza il confine della morte, e che al contempo, dovendo ter­ minare, perde ogni valore . Chi parla della morte, a differenza del medico che costata una morte clinica ai giorni nostri non più facilmente definibile, o del giudice che deve archiviare un procedimento nei confronti di un defunto, non può che sostenere controsensi contraddicendosi, oppure rifugiarsi nella metafora. L'espressione metaforica, alla quale nemmeno noi, nemmeno quando abbiamo cercato in tutti i modi di evitarla, siamo sfuggiti, è la via più facile e più bella. Il morto riposa e dorme. « Sta bene » dice in un aneddoto di Polgar il parente di un defunto; al che un altro sfacciato gli chiede brutalmente: « C ome fai a saperlo?» Sl, il parente che consola sé stesso e gli altri familiari assicurando che nella morte si sta bene, non può sapere come stanno le cose. Il morto - ma cosa signi­ fica: il mort.o? Il nulla sarebbe più corretto, anche se inutile, dire, perché il cadavere, che molto presto si decomporrà, non è un « morto » - il morto dunque, per rifarci all'uso lingui­ stico, non sta né bene né male. Non riposa e non dorme, perché alla requie deve seguire l'inquietudine, al sonno il ri­ sveglio . Al più potremmo dire che il « non » non sta, ma sa­ rebbe una considerazione tautologica della quale possiamo fare a meno . Con la sua morte il morto non traccia solo i confini della propria lingua ma anche quelli della nostra sul suo essere morto . « Requiescat in pace », è certamente una bella espres­ sione e giustamente Hans Castorp la tiene in maggiore con­ siderazione dell' «evviva», che è più una sorta di schiamazzo. Si tratta però di un'espressione metaforicamente vuota, dato che nessuno riposa in pace, sebbene glielo si auguri. La morte non indossa una gorgiera spagnola, né è la bella donna scura di nome Maria Casarès dell'Otphée di Cocteau , bensl vuota inconoscibilità . Comunque si affronti la morte, si sbaglia. « Non esprimibile in linguaggio logico » afferma, a ragione,

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Rudolf C arnap dopo un'analisi semantica di una frase di Heidegger riguardante il nulla. Il linguaggio metaforico non può produrre altro che chiacchiere: se ne rende conto chiunque ascolti i discorsi sulla pace eterna che un defunto finalmente troverebbe dopo una vita travagliata (e trava­ gliate lo sono tutte) . Parlare di pace della morte significa temere la non-pace della vita. Per il resto possiamo prescin­ dere dalla metaforica della morte come dalla giusta afferma­ zione che quando uno è morto esiste solo un «non» che non è. A meno che . . . Certo, a meno che il sopravvissuto amico delle metafore, convinto assertore del benessere del defunto, non creda alla vita eterna e abbia definito questa sua fede. L'autore di queste righe non ha alcun rapporto con l'assurda speranza - che solo nella mediazione della mitologia può avere un qualche senso - di una vita dopo la morte. È perfettamente d'ac­ cordo con Jean Rostand, il quale in termini semplici ma per­ suasivi ha detto: «Quando cadremo, credo che sarà per sempre, e che non potremo poi rialzarci come gli attori uc­ cisi in scena. » Chiunque abbia rinunciato alla speranza biomorfa e mi­ tica di un'esistenza oltre il confine tracciato dalla morte, non potrà non fare il tentativo, a priori destinato al fallimento, di pensare alla propria morte. È certamente vero, come ha detto Freud, che «nel subconscio ciascuno di noi è convinto della propria immortalità», e crediamo che questo non av­ venga tanto per un «naturale» aggrapparsi alla vita, quanto piuttosto in seguito alla impensabilità della propria morte; tuttavia questa convinzione è fragile, e vacillante al pari della speranza di vita futura in coloro che si definiscono credenti. Padre Thibault era un uomo di fede, promotore e presidente onorario di numerose associazioni cattoliche. Ma quando la situazione si fece seria, il suo Dio e l'immortalità in questo Dio evidentemente non contarono più di tanto. Sa che la fine

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è prossima. «Per gli altri, la morte non è che un concetto, ordinario, impersonale. Per lui, è tutto il presente, l'unica realtà! È lui stesso, la morte! », e cosl decide di chiamare il confessore. Il quale dice quel che la professione gli comanda di dire. Per lui il vecchio Thibault è ormai irraggiungibile. «Un momento, per forza d'abitudine, cercò di evocare l'idea di Dio, nella speranza di trovare in essa scampo. Ma a questo slancio dell' anima mancarono subito le ali. La vita eterna, la grazia, Dio: linguaggio diventato inintelligibile; vuote pa­ role, di nessun soccorso davanti alla terrificante realtà. » Nes­ suno crede alla propria morte. Ha ragione Freud. Quando ci si gioca il tutto per tutto, nessuno confida nella speranza dell'aldilà: ha ragione Martin du Gard, l'autore dei Thibault. Ogni essere umano presto o tardi deve pensare l'impensa­ bile. Presto o tardi. Il momento in cui ha inizio il vuoto in­ dagare, l'indagare del vuoto, è incerto. Consapevoli di dire solo qualcosa di vago, si può tuttavia parlare dell'invecchia­ mento come della fase in cui c'imbattiamo nel pensiero della morte . Per un giovane - e come non siamo in grado di pre­ cisare il punto in cui l'essere umano si rende conto di invec­ chiare, cosi non delimitiamo esattamente la fase dell'essere giovane - la morte non è qualcosa che lo riguardi, per quanto magari abbia già assistito al funerale di qualche pa­ rente stretto. Va in guerra, se non con gioia, comunque senza temere più di tanto la morte; non ha paura di andare ad alta velocità sull'autostrada e persino una grave malattia il più delle volte non lo terrorizza. «Saggezza del corpo », che sa di poter contare sulla propria capacità di resistenza? È un interroga­ tivo da rivolgere ai biologi. Fiducia nell'esperienza comples­ siva - venutasi accumulando come una statistica che anti­ cipa ogni statistica - che i giovani hanno davanti a sé una vita più lunga degli anziani? Rivolgersi, con preghiera di ri­ sposta, alla psicologia. L'individuo che invecchia crede di com­ prendere due cose: da un lato che il timore di fronte alla

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morte o l'urgenza del pensiero della morte hanno gradazioni diverse, a seconda che ci si attenda una morte dall'esterno - provocata da incidente, da mano nemica - o dall'interno; dall'altro che anche questa morte dall'interno per il giovane, eersino se è gravemente malato, ha scarso valore di realtà. E necessaria una vasta esperienza di tracollo fisico, di energie che svaniscono, di memoria più labile, un'esperienza di de­ cadimento e di disagio in tutte le loro forme, perché la morte, da faccenda oggettivamente impersonale, divenga condizione propria. Affermare che si è inseriti in un lento processo di morte, che si muore ogni giorno un po' , che la morte cresce in noi, è forse usare analogie e metafore insostenibili sul piano logico: nell'ambito del vissuto simili metafore di morte sono realtà sperimentata. L'individuo che invecchia, se non de­ cide, con cattiva coscienza e con scarso successo, di rimuo­ verla, se non si estrania in un'efficienza operativa, si sente effettivamente morire, molti anni prima della sua vera dipar­ tita. La sua perdita del mondo in senso fisico, sociale, cultu­ rale gli conferma quanto in passato considerava, senza esserne turbato, solo una verità teorica: che è un moribundus. Si pre­ senta la tentazione della litania maniacale. Sto per morire, per morire io sto, mo-rire, mo-rire. Adesso egli dipende dalla morte, che non è più una delle possibilità. Ma poiché rico­ nosce assai in fretta che la nullità annientante consente solo il lirico balbettio di morte, nel pensiero torna di continuo alle vivacissime faccende del morire. Non ritrattiamo nulla: il verbo morire può logicamente es­ sere utilizzato solo nelle forme del passato, poiché risulta le­ gittimato solo dalla morte già sopraggiunta. Poiché tuttavia la contraddizione della morte - che offusca tutta la nostra vita - invalida ogni logica - che è sempre logica di vita - e ogni pensiero positivo, i pensieri della morte devono, contro logica, concretizzarsi nei pensieri del morire. La persona in questione si dirà allora forse che, non potendo pensare la mor-

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te, deve con il pensiero ruotarle intorno: e si cimenterà di continuo in questo aggiramento, pur compiendo sempre solo dei semicerchi. Sto per morire, si dice chi invecchia. Quando? Dove? Come? Ma soprattutto: come? Da qualche anno ormai è toccato anche ad A. Compleanni con numeri incredibilmente alti e disagi fisici d'ogni tipo non gli consentono più di vivere alla giornata, ottusamente, o come l'eroico vicino di cui dicevamo. Dovrebbe avere confidenza con la morte: non con quella degli altri, come il èonsigliere di corte dottor Behrens, che presso il sanatorio Berghof è il vecchio funzionario della morte, bensl con la propria. Per anni ha vissuto in condizioni - che non sono argomento delle no­ stre riflessioni - in cui poteva aspettarsi la morte di giorno in giorno, di ora in ora. Ha visto andarsene i suoi simili nei modi più impensati. I compagni crepavano è l'unica espressione consentita - come capitava, di tifo, dissenteria, fame, per le percosse subite, prendendo una boccata di Cy­ clon B . È passato indifferente su cumuli di cadaveri, ha per­ corso corridoi sotterranei dove alcuni suoi compagni erano stati appesi a enormi ganci di ferro. In che stato d'animo ero allora? si chiede A; e si dà una risposta che gli altri, ne è con­ sapevole, accoglieranno con diffidenza: non avevo paura. Non ero coraggioso, perché c'erano molte cose che mi terrorizza­ vano. Ero giovane. E la morte che mi minacciava, veniva dal­ l'esterno: dolce è la morte che c'infligge il nemico. Veniva dall'esterno anche quando non era conseguenza delle basto­ nate o del gas. La dissenteria e il flemmone erano attacchi sferrati da un mondo nemico: in quanto tali erano terrificanti; ma non suscitavano paura come accade invece per il lento morire - l'intimo nemico che nel declino dall'interno si è unito a me - con il quale ho a che fare adesso, nel momento in cui sono invecchiato e talune diagnosi mediche non pro­ prio piacevoli, unite ad alcune cifre, mi fanno capire che sono su una brutta china. Il morire in seguito a omicidio, che nel ·

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mio caso allora aveva potuto essere inteso anche come un omi­ cidio dall'interno, è un attacco del mondo contro la mia per­ sona. Sono colpito da un tubo d'acciaio, da un colpo di fu­ cile, da un'improvvisa febbre. Mi ritrovo - mi ritrovai, lo ricordo perfettamente - nella condizione dell'uomo che perde la sua fiducia nel mondo, perché nella sua miseria non può attendersi aiuto. Il morire era terrore. Adesso è horror e angor. Dovevo aspettarmi sempre di es­ sere letteralmente schiacciato, o quasi schiacciato da uno sti­ vale: e nessuno avrebbe degnato di un solo sguardo il mio corpo pesto, né mi avrebbe portato aiuto. Una simile atro­ cità aveva un che di repentino, di incomprensibile, era qual­ cosa di totalmente estraneo, ma sebbene fossi indifeso, por­ tuttavia esisteva uno stato d'animo irrazionale di fondo in cui erano collocati i presupposti di una possibile azione di­ fensiva. E oggi? Non mi nego niente. Per un'inezia vado dal medico. È gentile, i suoi strumenti e il suo ricettario sono a mia disposizione. A circa venti gradi sotto zero mi trasci­ navo per giorni e giorni, non saprei per quanti chilometri, lungo strade innevate e di tanto in tanto sentivo uno sparo che uccideva un compagno. Lo spavento esterno forse mi fa­ ceva brevemente sussultare, ma dall'angoscia ero risparmiato. Quando sono stanco e non me la sento di guidare la mac­ china, prendo un taxi; tutto è abbastanza comodo e nessuno rifiuta un servizio a chi può sganciare qualche banconota. Ma l'angoscia, questo stato d'animo sordo che non mi fa mai tre­ mare ed è però straordinariamente insistente, è con me e len­ tamente diviene parte della mia persona, tanto che in fondo non posso più dire ho l'angoscia ma sono angoscia, sebbene questo essere angoscia non mi impedisca di fare il mio lavoro, sebbene gli altri non siano al corrente della sua esistenza e il mio ostentato buon umore non ne risulti sminuito. Ho il forte sospetto che gli altri individui che invecchiano, che ma­ gari organizzano allegri picnic, vanno a teatro, si fanno con-

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fezionare vestiti alla moda, non stiano molto meglio. Quanto a me, all'uomo non particolarmente eroico ma nemmeno troppo pavido che partecipò alle lunghe marce di morte di allora, almeno so che quanto più mi abbandonano le speranze di vita, tanto più divento angoscia di morire . La densità on­ tica della mia esistenza si attenua e lo spazio vuoto è colmato dalla pura negatività dell' angoscia di morire. Il lento avvici­ narsi di ciò che infine sarà il mio morire ha dato alla mia vita un tono particolare, molto sgradevole e a me in precedenza del tutto ignoto . Non so più con precisione come avvenne, dove cominciai a sentire il passo, il calpestio, il trottare. Un sentirsi troppo repentinamente stanchi qua, il fiato corto, un improvviso dolore là; sebbene non sia in grado di ricordarlo, retrospettivamente diviene realtà. Solo quando svariati di­ sagi si erano ormai sedimentati, l'invecchiamento e l' aspet­ tativa del morire si presentarono come elementi costitutivi. Angoscia, angor, angustiae, oppressione . Penso spesso alle strade innevate del 1944 e alla buona morte per omicidio, che di me non volle saperne. Non esiste morte più dolce, in­ vero: ma non a tutti si offre l'occasione. Un'idea inaccettabile, se si considera a quali atrocità rea­ zionarie essa potrebbe offrire un alibi! E quale follia augu­ rarsi, per l' angoscia di morire, che la morte sia già avvenuta! Ma è solo la follia della contraddizione della morte, a impe­ dire ogni riflessione . È però vero, ne sono convinto, che con il morire si hanno minori difficoltà se non si ha il tempo di stringere rapporti d' intimità con l'inevitabile e l'inimmagi­ nabile; detto altrimenti, se nel corso dell'inesorabile processo d'invecchiamento, questo avvenimento incomprensibile e ine­ luttabile non abbiamo avuto il tempo di. . . che verbo inserire a questo punto? Non va bene «presentire», trattandosi di qual­ cosa di totalmente ignoto. Possiamo ridurre tutto al concetto di temere? Temo il morire, con il quale invecchiando ho sta­ bilito un rapporto di intima inimicizia, al quale mi lega una

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fallace intimità. Non lo conosco - come potrebbe, chi vive, conoscerlo? - e sono perciò costretto a ricollegarlo a espe­ rienze di vita, se voglio andare oltre i soliti angoscia e « te­ mere», ben sapendo fra l' altro che questo andare oltre al quale aspiro non può che essere un espediente. Credo mi angosci l' angustia. Non mi pare del tutto illecito paragonare il mo­ rire a un restringimento della mia vita. Il corpo dice la sua, è dello stesso parere . Essere abbandonati dalla vita, mandare l'ultimo respiro, l'ultimo « sospiro » come diceva una persona a me molto cara, è per me sinonimo di soffocare, sebbene anche la scienza medica respinga forse questo termine per la sua imprecisione. Come tutti del resto, so bene cosa sia il respirare che allora mi verrà impedito. Mi è talvolta man­ cato il fiato, come capita a tutti: in quel momento ho com­ preso che il desiderio di libertà è riconducibile all' imperioso bisogno di respirare liberamente. Nel morire, invece, la quan­ tità di ossigeno che tanto desidero per me, non mi verrà più concessa. Privato della libertà di réspirare verrò privato di tutte le libertà. Devo andare avanti, è questa l'infamia, con la paura che mi manchi l' aria, con un timore che molto pro­ babilmente conoscerò sempre meglio . Per A, che crede di sapere non poche cose sulla morte e sul morire, la presenza della morte nella vita è dunque il lento appassire che si manifesta a chi invecchia; e questo a sua volta lo riconduce all' angoscia del restringimento e del soffoca­ mento. A chi dall'angustia incombente anela invano all' am­ piezza, concediamo che l' affanno è un fenomeno del tutto particolare che in un certo senso volge ogni riflessione all' as­ surdo, all' antipensiero della morte. Non è necessario essere un medico e un paziente per sapere che l' affanno in chi ne è vittima suscita il bisogno di respirare a fondo e non di es­ sere ingannato dall'idea di una liberazione grazie alla morte. Questa liberazione non esiste. Chi soffre può essere liberato

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dal suo tormento solo per essere condotto verso una vita priva di tormento, verso la pacificazione di un io liberato dall' as­ sillo: non può mai essere liberato da questo io . Solo se, ad esempio nel caso di un carcinoma con metastasi ossee, l'es­ sere umano non ha più dolore, e nella sua totalità fisica e psi­ chica è dolore e nient'altro, può emergere l' assurdo desiderio di negazione, di antiio del nulla. Ma persino in questa tor­ tura estrema, inflitta al malato dal proprio corpo, il soffe­ rente, per quanto possa avere pregato il medico di porre fine allo strazio con un'iniezione, quando la fine sarà in vista chie­ derà di respirare. Sembra quindi che, nonostante il controsenso logico, l'an­ goscia di morire, che si concretizza nell' affanno, alla fine sia proprio angoscia della morte; detto altrimenti, sembra che nel pensiero del morire non riusciamo ad attenerci alle viva­ cissime faccende dell'ultimo evento, ma veniamo sempre ri­ mandati al pensiero della morte nella sua impossibilità: da un lato perché il morire diviene tale solo a partire dalla morte, dall' altro perché - e qui ci soccorre l' esperienza di A e di ogni essere umano in fatto di affanno - il sofferente non aspira mai al respiro ultimo, «liberatorio ». L' angoscia di mo­ rire o di soffocare si trasforma perciò in orrore di fronte alla morte, che per saggezza antica non deve riguardarci. E a questo punto il passo successivo nell'esplorazione di quanto non è conoscibile risulta facile, sin troppo facile forse: tanto che è meglio proporre come interrogativo ciò che nella forma affermativa risulterebbe sin troppo evidente . Non ne con­ segue allora forse che non solo l' angoscia di morire, ma in genere ogni forma di angoscia, è riconducibile all' angoscia della morte? Non intendiamo limitare la validità delle rifles­ sioni di A, secondo il quale è necessario distinguere fra terror da un lato e horror e angor dati' altro, fra la morte che ci viene inflitta dall'esterno, come qualcosa di estraneo, e quella più difficile che - detto metaforicamente - cresce in noi dall'in-

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terno, nella peggiore delle intimità. È però certo che nel «so­ spirare», horror e terror tornano a fondersi nell'angoscia di morte; e l'interrogativo circa la riducibilità di ogni stato di paura al timore di soffocare o di morte può essere posto, ma non può ricevere una risposta sbrigativa. Ci tranquillizziamo quando il medico diagnostica che i dolori che sentiamo non sono gravi. Il paziente accetta più facilmente dei forti e tor­ mentosi dolori reumatici, dei quali tuttavia è risaputo che non portano alla morte, che non una malattia circolatoria o del sangue, inizialmente indolore ma mortale. Nel suo Wohlbe­ finden und Missbefinden, un libro di incomparabile ricchezza di idee, il medico e fenomenologo tedesco Herbert Pliigge narra di un industriale quarantacinquenne, definito «dina­ mico», che, dopo essersi scusato per avere incomodato un pro­ fessore per un'inezia, gli chiede un appuntamento per quelli che reputa dei dolori reumatici alla spalla sinistra. Dalla vi­ sita risulta però che non si tratta affatto di reumatismi bensl con tutta evidenza di angina pectoris; appresa la diagnosi, nel paziente avviene uno strano mutamento: sebbene fisicamente non soffra più di prima, la determinazione e il dinamismo sono scomparsi. «Quindici giorni dopo appariva invecchiato - scrive Herbert Pli.igge - il suo comportamento era for­ zato, l'elasticità scomparsa. Adesso vive valutando le proprie forze, ha smesso di fumare, ha assunto un autista. Adesso "avverte" il suo cuore ed è depresso. » Ha, ci sia consentito aggiungere, l'angoscia, l'angoscia di morire, ha angoscia della morte, angoscia di quello che sarà il suo ultimo respiro. «L'an­ goisse diffuse, l'angoisse ultime, enfin, s'appelle la mort» scrive Vladimir Jankelevitc. Ogni angoscia è angoscia della morte, ogni cura si propone di preservarci dalla morte, tutto ciò che facciamo «per la nostra salute» è una misura difen­ siva contro la morte. Tutta la nostra vita è finalizzata all'as­ surdo sforzo di evitare l'inevitabile: quanto più «muoriamo», quanto più ci avviciniamo all'ultimo respiro, tanto maggiore

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è la disperazione con cui lottiamo contro una cosa alla quale dovremmo invece ragionevolmente rassegnarci. Ragionevol­ mente? Ci muoviamo in una sfera dove ogni ragionevolezza ha fine, poiché si ha a che fare con la morte, l' antiragione assoluta. Rassegnarsi significa accettare la morte. Questo a sua volta significherebbe rifiutare immediatamente la vita. Entrambe le ipotesi sono impraticabili. Ogni rifiuto deve ga­ rantirci una qualche alternativa, per miserabile che possa es­ sere . Ma nella sua totale estraneità e inafferrabilità la morte non è un'alternativa. Essa è il falso, poiché non possiamo pen­ sarla, e il vero, poiché è per noi assolutamente certa. Di fronte all' opacità del no che ci viene opposto e al contempo asse­ gnato, risultiamo annientati ancor prima di divenire il « non». Come ci comportiamo? Mormoriamo la litania mano­ maniacale? Troviamo un accordo con la negatività completa? Cerchiamo di sfuggire alla morte nella morte? Viviamo alla giornata, facendo finta di non esserle già stati promessi? Nell' ambito psicologico individuale questi interrogativi avranno risposte assai differenziate. C ' è il tipo che anche in­ vecchiando o da vecchio « non si fa problemi ». Vive, almeno cosl appare e cosl assicura, in maniera equilibrata, morire e morte non lo riguardano . Vi sono altri, definiti disturbati, che per sfuggire alla morte si rifugiano nella morte, figuran­ dosi magari che l'atto che sigilla irrimediabilmente la loro non­ libertà, il suicidio, ribadisca invece la loro libertà. Nietzsche, se non l' avesse preceduto la follia, avrebbe forse agito cosl; ha infatti scritto: « Solo la morte nelle condizioni più sprege­ voli è una morte non libera, una morte non a tempo giusto, una morte da codardo. S i dovrebbe, per amore alla vita: vo­ lere una morte diversa, libera, consapevole, senza alcunché d 'improvviso . »' Una storia delirante sul suicidio . Si narra di valorosi che tranquilli guardano in faccia alla 1

[F. Nietzsche, Giitzen-Diimmerung (Crepuscolo degli idoli) .]

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morte (come se la morte avesse davvero un volto, come se ci fosse davvero qualcosa da vedere) e che muoiono conser­ vandosi eretti, sfidando il geotropismo e la forza di gravità dell'invecchiamento che tenderebbe ad attrarli verso terra. Si narra di persone serene, che serenamente si avviano alla fine; di altre, in preda al panico, che alle prime avvisaglie della fine levano alti lai e non cessano più di lamentarsi, tanto che anche i loro cari, il cuore ricolmo di impazienza, li ab­ bandonano al loro destino; e quando infine sopraggiungerà la morte, tireranno un sospiro di sollievo: avrà liberato loro, non il lamentevole malato. Forse però, al di là di tutte le pe­ culiarità individuali, esiste - e con ciò abbandoniamo l' am­ bito psicologico - un comportamento sostanzialmente iden­ tico, determinato dalla identicità del destino di fondo, di fronte alla morte e al morire: un comportamento in cui il va­ loroso e il vigliacco, il vigoroso e il malaticcio, colui che sere­ namente riposa in sé stesso e l'irrequieto nevrotico si incon­ trano su un piano di totale uguaglianza. Tutti invecchiando giungono a un compromesso con la morte. Non firmano la pace, ma solo, per quanto il termine possa infastidire, un malsano compromesso. Non che appren­ dano a morire. Non lo si apprende nell'intimità, che consiste proprio nella consapevolezza dell'inapprendibilità, nella ri­ duzione del «pre-avvertire» all' angoscia, nell'insopportabile sensazione di angustia, nello horror assoluto di fronte all'ul­ timo respiro. Il malsano compromesso consiste nell'equilibrio precario - di volta in volta turbato in maniera più o meno accentuata ma mai, nemmeno nell'ipocondriaco nevrotico, del tutto assente - di paura e speranza, di ribellione e rassegna­ zione, di rifiuto e accettazione. L'individuo che invecchia, per il quale il morire da questione oggettiva e generale si tra­ sforma in questione personale, tenta di neÙtralizzare la vici­ nanza del Grande Momento, che gli si evidenzia sulla scorta dei dati statistici e delle diagnosi dei medici, attraverso una

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fiducia ogni giorno più irrazionale e sempre meno fiduciosa in sé stessa. Ogni rinvio - in seguito a un attacco, a una grave malattia, a una grave operazione - ha per lui il signi­ ficato di un ricorso in appello presso un tribunale che egli crede possa effettivamente assolverlo. Illusione: perché in questo caso davvero sospendere non equivale ad annullare e i giudici non pensano proprio di rinviarlo in cassazione. Ma questo non impedisce a chi invecchia di lasciarsi ingannare da un'illusione che conosce per tale. In Finlandia pare esista una preghiera della sera che dice: Signore, ti seguo volentieri, se mi chiami a te, ma non questa notte. Chi sa di avvicinarsi alla morte agisce in un equilibrio precario, come chi recita la preghiera. Vuole morire (in realtà non vuole, ma sa di dover morire e quindi afferma di essere preparato) , ma non questa notte, non proprio in questo momento. Ogni notte è questa notte, e ogni ora è questa ora e ogni volta ci si appella al tribunale. Vivere con il morire non significa giungere alla comprensione della propria finitezza. Né implica abituarsi al non-senso del nulla. L'abitudine non è altro che un certo esercizio nell'aspettativa vuota e fallace, nell'auto-inganno di cui si è vittime nel non esserlo, poiché in fin dei conti si sa che a un certo punto, e molto presto, il verdetto diviene esecutivo e viene eseguito. Il ristabilimento dell'equilibrio risulta facilitato dalla sor­ prendente abilità con cui chi invecchia riesce a trovare una collocazione in un senso del tempo imposto dalle circostanze. Diviene, dicevamo in precedenza, sempre più tempo nel ri­ cordare, dato che mondo e spazio gli si sottraggono. Aggiun­ gevamo che non si doveva parlare di tempo-rivolto-al-futuro: obiettivo dell'attesa era la morte, negazione di ogni eventua­ lità, che annullava quindi il senso del termine futuro. Non cambiamo parere. Ci vediamo tuttavia costretti, se non a rein­ trodurre la dimensione del futuro, che per chi invecchia è priva di senso, almeno a sostituirla con qualcosa di nuovo e di

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diverso . Il futuro, ciò a cui andiamo incontro, è, dicevamo, spazio nella realtà del vissuto; l'individuo che invecchia per­ dendo lo spazio perde il futuro. In cambio ne ha un senti­ mento incerto, addirittura inaffidabile, di indifferenza tem­ porale, che non solo non esclude, ma anzi include la sua an­ goscia, rendendogliela tuttavia sopportabile. Volge lo sguardo verso un passato di anni che cambiano come quinte, di fasi di vita, che nel processo del ricordare modificano costante­ mente il loro valore. Eppure egli ha sempre l'impressione che ogni lasso di tempo del passato sia brevissimo, mentre gli ap­ pare infinitamente grande lo stesso percorso nell'incerto e dubbio avvenire. Proprio perché deve prevedere la possibi­ lità che gli sia rimasto solo qualche anno di vita, decide di vivere per cosl dire sperando nella provvidenza, la quale cer­ tamente allungherà all'infinito l'arco di tempo a disposizione. Quattro anni fa era in vacanza in una qualche città: sembra ieri . Fra un anno non ci sarà più: quanto è lungo un anno! La dilatazione di una posterità che perde di densità ontica fa parte del processo di equilibrio e di adattamento, al pari dell'illusorio ricorrere in appello. Speranza? Con questo con­ cetto ci accosteremmo alla teologia, a un pensiero trascen­ dente che, per dirla con Gabriel Marcel, considera «la spe­ ranza» come il materiale «del quale è fatta la nostra anima». Risparmiamoci simili ingenuità. Stringendo il suo malsano compromesso, l'individuo che invecchia agisce da creatura del­ l' angoscia costretta a insorgere nell'angoscia contro l'angoscia. Creatura della negazione, che non ha in sé alcuna positi­ vità dialetticamente descrivibile, sfugge con la coscienza sporca a un no che torna sempre a riagguantarlo . Gioca a na­ scondino con la morte, anche quando tenta di affrontarla. A padre Thibault, tormentato dall'uremia, il figlio decide di fare un'iniezione . «Provava una specie di distensione - scrive Roger Martin du Gard - un bisogno di riposo de­ lizioso perché esente da ogni senso di stanchezza. Pure non

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aveva cessato di pensare alla propria morte; ma siccome ad essa non credeva più, gli diventava facile, piacevole anzi, di­ scorrerne. » Ogni individuo che invecchia è un padre Thibault anche quando si sente ancora sano e vigoroso. Se non ne è minacciato direttamente, accetta la propria morte come un avvenimento oggettivo, come se si dicesse: naturalmente morrò, ma ci vorrà ancora un po' di tempo, il che equivale a dire un tempo incalcolabile, lunghissimo. Si ribella, senza speranza, quando crede di essere veramente in vista del tra­ passo e come ultima e unica caratteristica sua propria non gli resta che la morte nella sua nullità. «Ancora un minutino, signor boia» implorava la contessa Dubarry sul patibolo. Questa frase ha lo stesso significato della preghiera finlan­ dese, è espressione dello stesso tragico errore che ci porta a pensare che sospendere equivalga ad annullare, che l'attimo successivo sia, meno di questo, radicalmente e irrevocabil­ mente l'ultimo. Il limitatissimo lasso di tempo che conduce da un istante all' altro, assume, quando viene concessa solo una brevissima tregua, lo stesso ignobile carattere di infini­ tezza che assumono l'anno o il decennio che un essere umano si augura di avere davanti. Chi invecchia, vegeta stabilendo un compromesso mendace con l'ineluttabilità della sua condizione, di cui divenne con­ sapevole nel momento in cui, in un'occasione qualsiasi, av­ vertl di invecchiare . Non per questo è uno spregevole bu­ giardo e la sua mauvaise foi non è quella del normale impo­ store. La non-verità alla quale si rassegna, il malsano com­ promesso che accetta, non sono altro che il corrispondente psichico - imposto dall'assurdità del suo stato di fondo appunto di questa condizione: quanto più il falso, o meglio la falsatrice, la morte, lo sovrasta, tanto più falsa risulta la sua vita. Quanto più il no si avvicina, tanto più confuso e insincero diviene il suo sl. Quanto più l'anello dell'angustia, dell'angor, si stringe intorno a lui, tanto più vano e perciò

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disperatamente inautentico è il suo desiderio di espansione e ampiezza. Fermati! dice all'attimo, pur sapendo che esso non è bello e non si fermerà da lui. Recita molti ruoli - quello del valoroso, di colui che tranquillamente s ' ar­ rende, dell'irrequieto, dell'orgoglioso ribelle - ma non riesce a interpretarne nessuno in maniera credibile dato che tutti i testi prevedono la non-credibilità e la non-recitabilità. Ac­ costa e scinde di continuo morte e morire, distingue l'estranea morte per omicidio dall'intimo nemico che lentamente con­ cresce in lui, rimugina sull a paura e sul tempo concesso al fallace conforto. È tutto inutile. Il controsenso della morte nega tutto ciò che egli può pensare e al tempo stesso lo co­ stringe a insistere nelle sue riflessioni. Le preoccupazioni di cui farsi carico sono l'incerta immagine riflessa della preoc­ cupazione della morte: nessuno può quindi dedicare la vita a quelle e accantonare questa. Uno pensa alla sua influenza, ai debiti, all'amante infedele. Come potrebbe allora non pen­ sare alla morte, dato che l'influenza è curabile, i debiti sono pagabili, la femmina infedele sostituibile, mentre con la morte, che a tutto mette fine, non si può fare niente? A è immerso sino al collo, sino alla bocca in pensieri della morte, che non gli daranno gloria letteraria. Lo si lasci fare. È un A, un indi­ viduo che invecchia, la gloria per lui ha poca importanza. « Chi non vuole morire giovane, deve cercare di invec­ chiare» dice una di quelle banalità in cui si conciliano non­ senso, profondità e chiarezza di pensiero. Nessuno vuole mo­ rire giovane, nessuno vuole invecchiare: potrebbe essere questa la banalità complementare che tuttavia amplia la prima di quella insondabile dimensione che è l'inaccettabilità, uni­ versalmente accettata, della nostra esistenza esistente nell ' au­ todistruzione. L'invecchiamento, con il quale emergono e di­ vengono per noi evidenti il non e l' «in-» della nostra esistenza, è una regione di vita desolata, priva di ogni ragionevole con-

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solazione; non ci si dovrebbero fare illusioni. Nell'invecchia­ mento diveniamo il senso interno, orfano del mondo, del tempo puro. Invecchiando diveniamo estranei al nostro corpo e al contempo più intimamente legati alla sua massa inerte di quanto non lo siamo mai stati. Quando abbiamo superato il culmine della vita, la società ci vieta di progettare noi stessi, e la cultura si trasforma in cultura-fardello che non compren­ diamo più e che anzi ci fa capire che, essendo noi dei ferri vecchi dello spirito, il nostro posto è fra i rifiuti dell'epoca. Invecchiando, infine, dobbiamo vivere con il morire: una pre­ tesa scandalosa, un'umiliazione senza pari, che incassiamo non con umiltà ma da umiliati. Tutti i sintomi di questo male in­ curabile sono riconducibili all'incomprensibile azione del virus della morte, con il quale veniamo al mondo. Non era viru­ lento, quando eravamo giovani. Sapevamo della sua esistenza, ma non ci riguardava. Con l'invecchiamento esce dalla sua latenza: è una questione che ci riguarda, l'unica, sebbene esso non sia nulla, e all'abominevole kitsch dell'idillio rischiarato dal tramonto siano comunque preferibili la litania maniacale, il chiacchiericcio poetico sulla morte. «Vecchiaia dovrebbe ardere quando cade il giorno» dice Dylan Thomas. 1 A è riuscito a turbare l'equilibrio, a svelare il compromesso, a distruggere il quadro di genere, a scacciare la consolazione? Lo spera. I giorni si assottigliano e si prosciugano ed egli ha sentito il desiderio di dire la verità.

1 [ D . Thomas, D o not Go Gentle Into that Good Night (Non andartene docile i n quella buona notte).]