Ripensare la storia universale: Giustino e l'Epitome delle Storie Filippiche di Pompeo Trogo (Italian Edition) 9783487422367, 3487422360


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SPUDASMATA - BAND 176: Alice Borgna - Ripensare la storia universale
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SOMMARIO
PREMESSA
NOTA AL TESTO
I. INTRODUZIONE
1.1. I dati noti
1.2. Un esito ambiguo
1.3. Giustino o Trogo?
1.4. Un nuovo approccio
II. POMPEO TROGO
2.1. L’autore
III. LE HISTORIAE PHILIPPICAE
3.1. La data di composizione
3.2. Il titolo
IV. GIUSTINO
4.1. L’identità
4.2. Il dibattito sulla datazione
V. LA TECNICA EPITOMATORIA
5.1. Il rapporto tra Prologi e contenuto
5.1.1 Prologi lunghi, libri brevi
5.1.2. Prologi brevi, libri lunghi
5.2. Una pagina che sa di uomo (e di donna)
VI. GIUSTINO E LA STORIA
6.1. Una storia senza spazio né tempo
6.2. Condensare e manipolare
6.3. Dalla storia alla scena
VII. LA DATAZIONE E L’IDENTITÀ: NUOVE PROPOSTE
7.1. Giustino e il IV secolo
7.2. Il filtro della scuola
7.2.1. Il tiranno e il conflitto familiare
7.3. Giustino: chi è?
7.4. Un indizio cronologico?
VIII. FORMA DI GIUSTINO, SOSTANZA DI TROGO
IX. L’ORIGINALITÀ DI POMPEO TROGO
9.1. Il problema delle fonti
9.2. Pompeo Trogo naturalista e osservatore.
9.3. L’attenzione per l’etnografia e l’elemento locale
X. IL SENSO DELLA STORIA DI TROGO E IL SUO PRESUNTO ANTIROMANESIMO
10.1. Scrivere una storia universale a Roma: una scelta ostile?
10.2. Il senso del divenire storico di Pompeo Trogo
10.3. Philippicae: le ragioni di una scelta
10.3.1. Filippo o Alessandro?
10.3.2. I Diadochi
10.3.3. Dalla virtus alla concordia
10.4. Molti Parti, pochi Romani?
10.4.1. I Parti e Carre
10.5. L’amor pacis e Roma
XI. L’ORGOGLIO GALLICO E L’IMPORTANZA DEL LIBRO XLIII
XII. TROGO E LIVIO: UNA STORIA PER ROMA?
XIII. CONCLUSIONI
XIV. BIBLIOGRAFIA
1. Edizioni critiche dell’Ep
2. Principali traduzioni
3. Opere citate
XV. INDICI
INDICE DEI LUOGHI
INDICE DEI NOMI
INDICE DEI PASSI CITATI
XVI. ENGLISH SUMMARY
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Ripensare la storia universale: Giustino e l'Epitome delle Storie Filippiche di Pompeo Trogo (Italian Edition)
 9783487422367, 3487422360

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176

Alice Borgna

Ripensare la storia universale

ISBN 978-3-487-15660-6

The only known instance of Latin universal history before Orosius, the Historiae Philippicae by Pompeus Trogus (a likely contemporary of Livy), survives solely in the form of a clumsy abridgment by a certain Justin, an otherwise unknown author of dubious chronology. Unfortunately, the apparently inexplicable inaccuracies and ineffective editing that mark Justin’s abridgment have so far made it difficult to gain a reliable insight into the Historiae Philippicae. The present book reassesses past judgements on the quality of Justin’s work and studies the peculiar features of the Epitoma as important historical indicators of its setting, audience, and chronology. Through the first systematic analysis of the editing and abridging process, it shows that Justin’s selection was the product of conscious editorial choices and of a coherent modus operandi. As a result, it will become possible to reassess some of the most debated questions on Pompeus Trogus, his work, and his attitude to Rome.

BAND 176

Alice Borgna · Ripensare la storia universale

In un’epoca imprecisata, a Roma un certo Giustino si imbatte in un raro esempio di storia universale in latino, le Storie Filippiche di Pompeo Trogo, autore pressappoco contemporaneo di Livio. Affascinato, Giustino ne compone quel che definisce breve florum corpusculum. Oggi, perduto Trogo, questa epitome potrebbe almeno preservarne il dato storico, ma non è così: gli errori e i tagli infelici che la percorrono hanno tanto distorto l’originale da non lasciarne che un’idea confusa. Colpa dello scarso acume di Giustino, tanto modesto da non essersi accorto degli enormi limiti del suo riassunto? Se, fino ad ora, gran parte della critica ha risposto alla questione in maniera affermativa, questo lavoro la riapre a partire dall’unica traccia certa lasciata da Giustino: il materiale che ha scelto di conservare e le modalità con cui lo ha cucito insieme. Lungi dall’essere stati raccolti senza criterio, i flores dell’Epitoma si rivelano connessi da un robusto filo rosso, dipanando il quale anche i molti interrogativi su Pompeo Trogo conosceranno nuove risposte.

SPUDASMATA Alice Borgna

Ripensare la storia universale Giustino e l‘Epitome delle Storie Filippiche di Pompeo Trogo

OLMS

SPUDASMATA Studien zur Klassischen Philologie und ihren Grenzgebieten Begründet von Hildebrecht Hommel und Ernst Zinn Herausgeberinnen Irmgard Männlein-Robert und Anja Wolkenhauer Wissenschaftlicher Beirat Robert Kirstein (Tübingen), Jürgen Leonhardt (Tübingen), Marilena Maniaci (Rom/Cassino), Mischa Meier (Tübingen) und Karla Pollmann (Canterbury) Band 176 ALICE BORGNA RIPENSARE LA STORIA UNIVERSALE

2018

GEORG OLMS VERLAG HILDESHEIM · ZÜRICH · NEW YORK

ALICE BORGNA

RIPENSARE LA STORIA UNIVERSALE Giustino e l’Epitome delle Storie Filippiche di Pompeo Trogo

2018

GEORG OLMS VERLAG HILDESHEIM · ZÜRICH · NEW YORK

Das Werk ist urheberrechtlich geschützt. Jede Verwertung außerhalb der engen Grenzen des Urheberrechtsgesetzes ist ohne Zustimmung des Verlages unzulässig. Das gilt insbesondere für Vervielfältigungen, Übersetzungen, Mikroverfilmungen und die Einspeicherung und Verarbeitung in elektronischen Systemen. Die Deutsche Nationalbibliothek verzeichnet diese Publikation in der Deutschen Nationalbibliografie; detaillierte bibliografische Daten sind im Internet über http://dnb.d-nb.de abrufbar.

© Georg Olms Verlag AG, Hildesheim 2018 www.olms.de E-Book Umschlaggestaltung: Inga Günther, Hildesheim Alle Rechte vorbehalten ISBN 978-3-487-42236-7

SOMMARIO PREMESSA ...................................................................................................... 7 NOTA AL TESTO .............................................................................................. 9 I. INTRODUZIONE ............................................................................................ 15 1.1. I dati noti.................................................................................. 16 1.2. Un esito ambiguo...................................................................... 18 1.3. Giustino o Trogo?..................................................................... 19 1.4. Un nuovo approccio.................................................................. 22 II. POMPEO TROGO .......................................................................................... 25 2.1. L’autore ................................................................................... 25 III. LE HISTORIAE PHILIPPICAE ......................................................................... 31 3.1. La data di composizione ........................................................... 31 3.2. Il titolo ..................................................................................... 33 IV. GIUSTINO ................................................................................................. 37 4.1. L’identità ................................................................................. 37 4.2. Il dibattito sulla datazione ......................................................... 39 V. LA TECNICA EPITOMATORIA ......................................................................... 47 5.1. Il rapporto tra Prologi e contenuto............................................. 47 5.1.1. Prologi lunghi, libri brevi....................................................... 48 5.1.2. Prologi brevi, libri lunghi....................................................... 65 5.2. Una pagina che sa di uomo (e di donna) .................................... 70 VI. GIUSTINO E LA STORIA ............................................................................... 73 6.1. Una storia senza spazio né tempo .............................................. 73 6.2. Condensare e manipolare .......................................................... 82 6.3. Dalla storia alla scena ............................................................... 104 VII. LA DATAZIONE E L’IDENTITÀ: NUOVE PROPOSTE ......................................... 107 7.1. Giustino e il IV secolo .............................................................. 107

6

Sommario 7.2. Il filtro della scuola................................................................... 110 7.2.1. Il tiranno e il conflitto familiare ............................... 112 7.3. Giustino: chi è? ........................................................................ 121 7.4. Un indizio cronologico?............................................................ 123

VIII. FORMA DI GIUSTINO, SOSTANZA DI TROGO ................................................ 129 IX. L’ORIGINALITÀ DI POMPEO TROGO ............................................................. 131 9.1. Il problema delle fonti............................................................... 131 9.2. Pompeo Trogo naturalista e osservatore..................................... 134 9.3. L’attenzione per l’etnografia e l’elemento locale........................ 147 X. IL SENSO DELLA STORIA DI TROGO E IL SUO PRESUNTO ANTIROMANESIMO ....... 157 10.1. Scrivere una storia universale a Roma: una scelta ostile? .......... 159 10.2. Il senso del divenire storico di Pompeo Trogo .......................... 163 10.3. Philippicae: le ragioni di una scelta ......................................... 170 10.3.1. Filippo o Alessandro?............................................ 171 10.3.2. I Diadochi ............................................................. 180 10.3.3. Dalla virtus alla concordia..................................... 184 10.4. Molti Parti, pochi Romani? ..................................................... 186 10.4.1. I Parti e Carre........................................................ 186 10.5. L’amor pacis e Roma.............................................................. 196 XI. L’ORGOGLIO GALLICO E L’IMPORTANZA DEL LIBRO XLIII ............................... 203 XII. TROGO E LIVIO: UNA STORIA PER ROMA? ................................................... 211 XIII. CONCLUSIONI ......................................................................................... 215 XIV. BIBLIOGRAFIA ........................................................................................ 221 XV. INDICI ..................................................................................................... 263 Indice dei luoghi ............................................................................. 263 Indice dei nomi ............................................................................... 267 Indice dei passi citati ....................................................................... 279 XVI. ENGLISH SUMMARY ................................................................................ 293

PREMESSA Questo lavoro rappresenta lo sviluppo di una sezione della mia tesi di Dottorato discussa presso l’Università degli Studi del Piemonte Orientale nel settembre 2013. Durante questo percorso ho potuto contare sulla guida severa, generosa e soprattutto paziente di tre persone, a cui va il mio ringraziamento più grande: Raffaella Tabacco, lettrice sempre acutissima, a cui sono grata anche per avermi coinvolto fin dagli inizi nel progetto DigilibLT (Digital Library of Late-antique Latin Texts); Giusto Traina, a cui devo l’idea di una riflessione complessiva su Trogo e Giustino e che da anni mi insegna a guardare oltre gli steccati delle discipline e ad affrontare la ricerca con umiltà e molto buonsenso; Ermanno Malaspina, che ha letto e riletto queste pagine aiutandomi a strutturare un ragionamento logico e chiaro. Né è mai venuto meno l’incoraggiamento della mia maestra, Giovanna Garbarino, sempre attenta, rigorosa e prodiga di ottimi consigli. Claudio Marazzini, coordinatore del dottorato, mi ha seguita con supporto costante e sincero. Dovuta menzione meritano poi le istituzioni che hanno favorito questo mio lavoro, in primo luogo il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Piemonte Orientale, così come i luoghi in cui ho trascorso proficui soggiorni di studio, in modo particolare il Ioannou Centre for Classical and Byzantine Studies di Oxford, la Facoltà di Classics dell’Università di Cambridge, la biblioteca dell’École Normale Supérieure di Parigi e la Fondation Hardt pour l’étude de l’Antiquité classique di Vandœuvres. Nel corso delle mie ricerche ho avuto modo di discutere singole questioni con numerosi studiosi, che non di rado mi hanno generosamente messo a disposizione lavori ancora inediti; ricordo in particolare Andrea Balbo, Luis Ballesteros Pastor, Edoardo Bianchi,

8

Premessa

Omar Coloru, Stefano Costa, Edward Dąbrowa, Paolo Garbarino, David Konstan, Maurizio Lana, Valeria Lomanto, Elena Malaspina, Federicomaria Muccioli, David Paniagua, John Thornton, Gabriella Vanotti e John Yardley. Altrettanto preziose sono state le conversazioni con due studiose il cui sorriso si è spento troppo presto, Laura Fiocchi e Roberta Piastri. Se questo libro non è pieno di refusi il merito è in gran parte di Gianmario Cattaneo, Elisa Della Calce, Simone Mollea e Nadia Rosso, amici prima ancora di essere colleghi. Alberto Rigolio e la sua passione per il tardoantico hanno accresciuto la curiosità con cui ho seguito le tracce di Giustino. Imprescindibile è poi stato il supporto redazionale di Olena Klejman e di tutta la Olms Verlag. Resta naturalmente mia la responsabilità di errori o imprecisioni. A Enrico, che ha camminato al mio fianco per un lungo, lunghissimo tratto del percorso che ha condotto a questo lavoro, va un grazie che è difficile esprimere a parole: nella vita esistono viaggi in cui non conta tanto la destinazione, quanto la strada percorsa insieme. “Scrivere nasce dal leggere e al leggere è grato” (Stefano Benni, Achille piè veloce). Ai miei genitori, che mi hanno circondato più di libri che di bambole, dedico questo lavoro: come dice Giustino, spero rappresenti un contraccambio. Con la medesima speranza lo avrei offerto anche a mio nonno Mario, grande narratore del passato, ma per una manciata di giorni – di ore, quasi – non ho fatto in tempo, e questa è una di quelle postille che si aggiungono con le dita che sembrano pestare non tanto sulla tastiera quanto sul cuore.

Torino, marzo 2018

NOTA AL TESTO Grande fortuna ebbe Giustino nel Medioevo1 e ancora oggi esistono più di duecento manoscritti, nessuno, però, anteriore alla riforma carolingia. Spiccano per importanza una dozzina di codici, tutti pergamenacei, variamente datati tra il IX e l’XI secolo, il periodo immediatamente precedente a quella “produzione in serie” dei manoscritti dell’Epitoma che ha generato per lo più esemplari interpolati e piuttosto contaminati. L’editio princeps comparve a Venezia nel 1470, per le cure di Nicolaus Jenson2. Escludendo alcuni tentativi precedenti, soprattutto in edizioni miscellanee Trogo/Nepote, a provare per primo a dare una sistemazione critica al testo fu Jacques Bongars in un’edizione comprensiva anche del testo dei Prologi (Paris 1581), una fatica che valse al filologo l’appellativo di sospitator Justini. Allo stato attuale degli studi, le edizioni critiche di riferimento sono:

- Iustinus, Trogi Pompei Historiarum Philippicarum Epitoma, rec. I. -

1

Ieep, Leipzig 1859 (editio minor 1872) M. Iuniani Iustini, Epitoma Historiarum Philippicarum Pompei Trogi, ed. F. Ruehl, Leipzig 1886 M. Iuniani Iustini, Epitoma Historiarum Philippicarum Pompei Trogi, ed. M. Galdi, Torino 1923 M. Iuniani Iustini, Epitoma Historiarum Philippicarum Pompei Trogi, ed. O. Seel, Stuttgart 19351 ; 19722

«Full of fact, concise and written in a simple style, the epitome became so popular in the late Antiquity and throughout the Middle Ages, that it made Justinus a household name» REYNOLDS 1983, 197. Ha messo in luce, ad esempio, le forti somiglianze tra il prologo di Giustino e quello delle Gesta Regum Anglorum di William di Malmesbury GUENÉE 1982, 380. 2 L’opera si conclude con questi versi: historias veteres, peregrinaque gesta revolvo / Justinus. Lege me! Sum Trogus ipse brevis / me Gallus Veneta Jenson Nicolaus in urbe / formavit, Mauro Principe Christophoro.

10

Nota al testo

- Marcus Junianus Justinus, Abrégé des Histoires Philippiques de -

Trogue Pompée, ed. M.-P. Arnaud-Lindet 2003 (http:// www.forumromanum.org/literature/justin/index.html) Justin, Abrégé des Histoires Philippiques de Trogue Pompée, Tome I (Livres I-X), ed. B. Mineo, Paris 2016.

Sulla tradizione di Giustino il lavoro fondamentale rimane quello di Ruehl, notevole per il gran numero di manoscritti censiti3. A Otto Seel si deve, invece, la suddivisione del gruppo dei codici più antichi in quattro famiglie, τ π ι γ 4 . Solo τ e π presentano anche il testo dei Prologi 5 , mentre γ è l’unica a riportare il nome dell’epitomatore, Giustino. La famiglia τ, solitamente definita “transalpina”, offre quello che è stato spesso considerato il testo migliore6. Il suo testimone più antico è un manoscritto antichissimo di cui rimaneva un singolo folio, un tempo appartenuto alla collezione di Ernst Fischer a Weinheim, ma di cui ora non si conosce la localizzazione7. Il fatto che, nell’VIII secolo, Alcuino

3

Cfr. RUEHL 1872. Successivamente si vedano le prefazioni alle rispettive edizioni critiche di GALDI (1923), SEEL (1935 e 1972, dove riproduce l’introduzione del 1935 con l’aggiunta di un paragrafo sul rapporto tra γ e Orosio), ARNAUD-LINDET (2003) e MINEO (2016). Imprescindibile poi il catalogo di MUNK OLSEN 1982, 537-551, così come i saggi di L.D. REYNOLDS in REYNOLDS 1983, 197-199 e PETOLETTI 2014. 4 Cfr. SEEL ed. 1972, iv. Per l’elenco aggiornato dei manoscritti che compongono le varie famiglie ottimo PETOLETTI 2014; per lo stemma codicum si vedano le ultime proposte di ARNAUD-LINDET 2003 (Introduction) e MINEO 2016, lxxx. 5 Per lo stato del testo dei Prologi cfr. SEEL ed. 1972, xiii, ARNAUD-LINDET 2003 (Introduction) e MINEO 2016, lxxx, Si pensa che τ e π, uniche famiglie a conservarli, discendano da un archetipo comune che avrebbe presentato al libro IX una lacuna di poco più di un centinaio di parole (da 9, 7, 3: ex noverca susceptum timuisse fino a 9, 7, 9: praeparatos). 6 Cfr. REYNOLDS 1983, 197. In particolare è Otto Seel che, rifiutando l’approccio disinvolto degli editori precedenti (SEEL ed. 1972, ix: «editoris non est corrigere auctorem, quod saepe fecit Ruehl, sed servare vel lapsus epitomatoris»), si affida in maniera privilegiata a τ («semper fere genuina Iustini verba repetere videtur») anche di fronte al consenso π ι γ. 7 Cfr. BRANDT 1910, 109-114; REYNOLDS 1983, 197 n. 2. A Weinheim questo folio fu catalogato col nome E. Fischer Sammlung S.N. In tempi più recenti pare essere emerso

Nota al testo

11

annoveri tra i grandi autori presenti nella biblioteca della cattedrale di York anche un Pompeius, ha indotto a supporre che si stesse riferendo proprio a quel manoscritto perduto8. La famiglia π ebbe origine in Italia, probabilmente a Verona. I più antichi testimoni di questa classe contengono, però, solo parti del testo dell’Epitoma: essi sono a loro volta derivati da un florilegio di Giustino ed Eutropio assemblato in Italia non più tardi del IX secolo 9 . A π appartengono anche manoscritti completi, ma successivi: essi presentano una lacuna comune (36, 1, 1 - 36, 2, 16). La famiglia ι, che non offre il testo dei Prologi, è nota come “italica” sulla base di una presunta origine italiana, oggi tuttavia discussa10. La famiglia γ comprende due soli testimoni, probabilmente legati per alcune parti da un rapporto diretto di discendenza11. Senza dubbio si tratta della famiglia più problematica a livello di constitutio textus: seppur a lei si debbano informazioni preziose (come il nome dell’epitomatore e il titolo dell’opera), la maggior parte delle numerose varianti testuali che presenta si distaccano nettamente da quelle delle altre tre classi12. anche un altro frammento dello stesso codice: London, British Library, 5951, f.10, su cui CRICK 1987. 8 Cfr. Alcuino, Versus de sanctis Euboricensis ecclesiae, 1546-1560: quidquid et Althelmus docuit, quid Beda Magister, / quae Victorinus scripsere Boetius atque, / historici veteres, Pompeius, Plinius ipse, / acer Aristoteles, rhetor quoque Tullius ingens (contenuto in MGH, Poetae latini aevi Carolini, I, 204). Su queste supposizioni si veda da ultimo PETOLETTI 2014, 7, con ulteriore bibliografia. 9 Così per REYNOLDS 1983, 198; cfr. anche PETOLETTI 2014, 9-12. 10 Cfr. REYNOLDS 1983, 197; PETOLETTI 2014, 14. 11 I due testimoni sono C (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 66, 21), che contiene solo alcune parti dell’Epitoma, tratte dalla seconda metà (16 - 26, 1, 8 e 30, 2, 8 - 44, 4, 3), e D (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 1860, XIV sec.). In merito si veda SEEL 1934, 272 ss. che ha persuasivamente dimostrato come D derivi da C per le parti che questo contiene, mentre ha tratto il resto o da un altro manoscritto della famiglia, oppure da γ stesso. 12 La questione è resa complessa dal fatto che, in alcuni casi, il testo di γ presenta affinità con quello che doveva leggere Orosio. RUEHL, pur esclamando nella praefatio alla sua edizione critica (p. xiii) «utinam codex C non extaret vel utinam eo supersedere

12

Nota al testo

Ho adottato il testo latino edito da Seel per i tipi di Teubner nel 1972. I luoghi in cui ho ritenuto opportuno accogliere o proporre soluzioni diverse vengono di volta in volta discussi in apposite note. Riepilogandoli, essi sono: MIO TESTO

SEEL

26,1,4

Epirorum

Epiorum

38,8,5

madebant

manabant

39,3,7

post victum hostem

post victoriam

39,4,5

cum occultis insidiis

cum occultatis insidiis

39,5,1

quod

qui

40 prol.

hiis

hi

40 prol.



40 prol.

regum

regali

40 prol.

flagitatus

flagitatus

40,1,1

peregrinosque sibi reges

peregrinosque reges sibi

41,1,5

postremum

postremum

43,5,11

originem a Vocontiis ducere

a Vocontiis originem ducere

possemus!», nel testo si sbilancia a suo favore, privilegiandone costantemente le lezioni. L’ipotesi che Orosio leggesse γ fu però confutata da SEEL 1972, 11 ss. e ID. ed. 1972, vii ss., che all’esclamazione di Ruehl risponde: «possumus, mea quidem sententia!» e nel testo si affida in maniera privilegiata a τ (cfr. supra, p. 10 n. 6). In effetti, più che supporre un contatto diretto tra Orosio e γ, va notato che Giustino e Orosio furono molto spesso copiati insieme, specialmente negli scriptoria della Britannia, della Normandia e dell’Inghilterra meridionale (cfr. MORTENSEN 1990). La stessa biblioteca di Montecassino, dove si suppone abbia avuto origine γ, doveva contenere anche Orosio; la questione, assai complicata, è ad oggi sostanzialmente aperta, come rileva PETOLETTI 2014, 19-20.

Nota al testo

13

A livello filologico (ma non solo), molte delle riflessioni che occupano le pagine che seguono sono state favorite dal lavoro all’interno del gruppo di ricerca che ha sviluppato DigilibLT, Digital Library of LateAntique Latin Texts, uno strumento che ha dato adeguata sistemazione informatica alla prosa latina tardoantica di contenuto pagano e ha permesso quelle ricerche lessicali avanzate ormai da tempo possibili per le opere del periodo precedente13. Tutte le traduzioni dei passi antichi, ove non altrimenti specificato, sono mie.

13

http://digiliblt.uniupo.it. Per una panoramica sul progetto si vedano LANA 2012; TABACCO 2014; TABACCO 2016, BORGNA 2017.

I. INTRODUZIONE Si può scrivere un testo senza lasciare in esso alcuna traccia della propria personalità? In alcuni casi si è detto di sì: “a text rather than a personality” 1 è, infatti, l’icastica definizione in cui Ronald Syme ha cristallizzato la figura di Giustino, colui che, in un’imprecisata epoca tra il II e il IV secolo d.C., durante un soggiorno a Roma compilò un’epitome dell’unica storia universale in latino a noi nota prima di Orosio, le Historiae Philippicae di Pompeo Trogo. Di questo Giustino, però, nulla sappiamo all’infuori delle poche informazioni da lui inserite nella praefatio al suo lavoro. Rimane il testo, ma dal momento che è Giustino stesso a definirlo breve florum corpusculum dell’originale2, la personalità del suo autore pare ulteriormente ridotta al semplice ruolo di compilatore di una editio minor o di una silloge di frammenti. Possiamo almeno occuparci della personalità di Trogo? La risposta è nuovamente complessa e, a ben vedere, la definizione di Syme non sarebbe neppure inadatta per l’autore dell’originale. Non solo quel che sappiamo di Pompeo Trogo è poco, ma anche nel suo caso si è parlato di uno scarso apporto personale: una teoria nata nel XIX secolo, secondo cui egli sarebbe il semplice traduttore latino di una fonte greca, ci metterebbe nuovamente nella condizione di trattare con un testo, più che con una personalità di storico e di letterato. Pertanto, quando leggiamo l’Epitoma, con chi abbiamo a che fare? Con Giustino, con Pompeo Trogo, oppure con questa supposta fonte greca? E per quale motivo è tanto complicato ottenere risposte?

1

SYME 1988, 370. Iust. praef. 4, brano citato per esteso infra, p. 20. La definizione di Epitoma è successiva, Giustino non ne parla mai in questi termini. Sulla parola ἐπιτοµή e suoi equivalenti latini ancora buoni spunti in GALDI 1922, 2-22; su breve veluti florum corpusculum ottimo GASTI 2015A, 295-296. 2

16

Introduzione

1.1.

I dati noti

Stando a quel che ci dice Giustino, Pompeo Trogo fu uno storico di origini galliche che scrisse, presumibilmente in età augustea, una storia universale in quarantaquattro libri, con ogni probabilità intitolata Historiae Philippicae3. L’originale, tuttavia, è andato perduto. A noi sono giunti:

- l’Epitoma di Giustino, la cui epoca di composizione è assai discussa4;

- i Prologi, brevi sommari a ciascun libro che in poche righe ne

riassumono il contenuto5. Tali indici sono stati trasmessi insieme con l’Epitoma, ma sono presenti solo in due famiglie del testo (τ π) e furono pubblicati per la prima volta da Jacques Bongars nel 1581 a seguito di una complessa ricostruzione filologica: «e quibus (scil. prologis) plus stercoris exhausi quam olim ex Augiae stabulis Hercules ipse». Anche in questo caso, assai scarsi sono i dati certi: le significative peculiarità dei Prologi in termini di nomi propri e di disposizione del testo mostrano la loro sostanziale indipendenza dall’Epitoma6, ma, oltre a questo, è impresa ardua il fissare qualche altro punto fermo, considerata la brevità e il carattere ripetitivo di questi sommari. Quasi tutti, infatti, iniziano con la formula fissa primo (secundo, tertio…) volumine continentur a cui, nella maggior parte dei casi, segue il pronome haec oppure il nesso res gestae a introdurre indicazioni estremamente sintetiche: i prologhi più lunghi occupano dalle 15 alle 18 righe Teubner, mentre i più brevi solo due

3

Della data di Pompeo Trogo e del significato del titolo si parlerà ampiamente infra, cap. III. 4 Cfr. infra, cap. 4.2. 5 SEEL 1972, 21 li definisce una raccolta di «großen Kapitelüberschriften». Sui prologi cfr. GALDI 1922, 105-107; LUCIDI 1975; SANTI AMANTINI 1981, 15-18; ARNAUD-LINDET 2003; MINEO 2016, lx-lxi. 6 Per SANTI AMANTINI 1981, 16, proverebbero questa sostanziale indipendenza sia il fatto che Giustino non ne tenga conto nella sua Epitoma, sia la loro comparsa in sole due classi di manoscritti. Per le differenze in termini di onomastica e disposizione del testo tra Prologi e breviario cfr. ARNAUD-LINDET 2003 (Introduction).

Introduzione

17

o tre. Tale esiguità, unita al carattere formulare della lingua, rende quindi difficilmente dimostrabile ogni supposizione in merito a origine e data di composizione, sebbene, come già notato da Marco Galdi, alcuni elementi farebbero pensare ad un autore grecofono7. Nonostante questa indeterminatezza, i Prologi rappresentano uno strumento di indubbia utilità nell’ambito dell’indagine su Trogo e su Giustino, in quanto non solo restituiscono l’ossatura di ogni libro originale, ma consentono anche di capire ‒ in linea di massima ‒ quale materiale sia stato conservato da Giustino e quale, invece, non abbia trovato spazio nella sua epitome.

- Scarsamente significative, infine, sono le citazioni indirette: a parte

38, 4-7, il brano che Giustino dice di aver tratto verbatim dal suo originale e di cui parleremo tra poco, la letteratura successiva offre scarso aiuto in questo senso: solamente tre sono i passi che riportano parole tratte dalle Historiae Philippicae, due di Prisciano e uno di Servio8.

Sebbene l’originale sia andato perduto, il materiale che ci resta non sembra, quindi, particolarmente esiguo: dal confronto con l’estensione media degli storiografi latini cronologicamente non lontani da Trogo (Livio, Cesare, Curzio Rufo) Giovanni Forni ha proposto, seppur con cautela, che ogni libro di Trogo occupasse l’equivalente di almeno trenta pagine Teubner, pertanto Giustino avrebbe conservato circa un

7

Cfr. GALDI 1922, 106: lo stesso termine prologus al posto del classico argumentum sarebbe un barbarismo corrispondente al greco περιοχή, così come il frequente uso di in excessu (rispetto a per digressionem) rimanderebbe al greco ἐν παρεκβάσει oppure διὰ παρεκβάσεως. 8 Serv. georg. 4, 386 (= frg. 110 Seel): Carpathos enim insula est Aegypti, vel, ut Pompeius dicit, insula Rhodiorum; Prisc. inst. 5, 3, 12 (= frg. 125 Seel): Trogus in XXII femininum a flamine protulit, haec flaminica: †Papicio flamen propter mortem flaminicae flaminio abiit e 6, 11, 63 ( = frg. 60 Seel): Trogus Pompeius in libro VI: inde Scepsim petit, quo se Midias interfecta socru contulerat. Is a Derculide petito colloquio. Altrettanto scarso contributo giunge dai luoghi in cui si cita il nome di Trogo, ma non ne vengono riportate le testuali parole, per una disamina dei quali si rimanda a SANTI AMANTINI 1981, 19-21.

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Introduzione

quinto del suo originale9. Per quale motivo allora ‒ ribadendo la domanda ‒ è così difficile ricavare qualche risposta da quest’opera? 1.2.

Un esito ambiguo

La ragione di tale difficoltà risiede, fondamentalmente, nell’esito dell’operazione letteraria di Giustino, in quanto se si valuta l’Epitoma servendosi del metro di giudizio della storiografia, allora essa merita un giudizio insufficiente, tali e tanti sono i fraintendimenti e i tagli poco felici 10 . Di conseguenza, sono sempre risultati poco chiari anche la natura e gli intenti di un’operazione tanto mal riuscita (una «infuriatingly irresponsible Epitoma»11, poco più di uno «hurried and slapdash exercise»12), a meno di non chiamare in causa, come in effetti è stato fatto, la scarsità dei mezzi intellettuali di Giustino. «Blosser Übersetzer»13, «careless and hasty»14 «fumbling excerptor»15, oppure «mediocre e pedissequo»16: questi sono solo alcuni dei severi giudizi che la critica ha riservato a Giustino, colpevole non solo di aver tratto da Trogo semplicemente tutto quello che attirava la sua attenzione, ma di averlo pure fatto in modo assai maldestro. Questa lunga serie di incertezze si è poi riverberata sull’originale, rispetto a cui la critica, ancora una volta, si è mossa con estrema difficoltà: dal momento che, come si è detto, non di rado l’Epitoma presenta dati storiografici palesemente errati, anche i punti in cui essa 9

Cfr. FORNI 1958, 48. Si oppone tuttavia SEEL 1972, 11 secondo cui l’Epitoma conterrebbe solo un decimo della materia di Trogo. 10 Si vedano, solo per limitarsi a pochi esempi, Iust. 12, 9, 13, dove di Alessandro ferito si dice: curatio vulneris gravior ipso vulnere fuit, ma il racconto prosegue senza illustrare né la cura né i motivi per cui essa risultò più grave della ferita. Ugualmente in 43, 1, 3-6 si assiste a un brusco passaggio dal primo al terzo re degli Aborigeni: Italiae cultores primi Aborigines fuere, quorum rex Saturnus tantae iustitiae fuisse dicitur ... post hunc tertio loco regnasse Faunum ferunt. 11 EDSON 1961, 199. 12 GOODYEAR 1992, 236. 13 SEEL 1982, 1381. 14 EDSON 1961, 199. 15 GOODYEAR 1992, 236. 16 FORNI ‒ ANGELI BERTINELLI 1982, 1311.

Introduzione

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offre informazioni di cui è l’unica fonte sono stati considerati con cautela, se non con sospetto tout court. Di conseguenza il profilo storiografico di Pompeo Trogo non è emerso in modo chiaro, né la critica gli ha riservato un trattamento più generoso rispetto al suo breviatore: un’ipotesi sorta nel XIX secolo lo vorrebbe, infatti, semplice traduttore di Timagene di Alessandria, autore di cui avrebbe condiviso lo spirito polemico nei confronti di Roma e da cui dipenderebbe anche la posizione marginale occupata dall’imperium Romanum nelle Historiae Philippicae, un dato che ha sempre suscitato un acceso dibattito17. 1.3.

Giustino o Trogo?

La prima questione che si trova a fronteggiare chi si accinga a studiare l’Epitoma riguarda, naturalmente, il tentativo di comprendere che cosa risalga all’originale e che cosa, invece, sia di mano dell’epitomatore. Come vedremo, Giustino parla della sua opera in termini di florilegio, e ciò, unito ad alcune caratteristiche dell’opera che esamineremo in seguito, induce ad escludere che egli abbia collazionato il suo originale con altri testi storiografici. Nonostante questo, tuttavia, separare le due mani è impresa tutt’altro che semplice, dal momento che Giustino parla in prima persona in soli due punti. Il primo è, naturalmente, la praefatio: Cum multi ex Romanis etiam consularis dignitatis viri res Romanas Graeco peregrinoque sermone in historiam contulissent, seu aemulatione gloriae sive varietate et novitate operis delectatus vir priscae eloquentiae, Trogus Pompeius, Graecas et totius orbis historias Latino sermone conposuit, ut, cum nostra Graece, Graeca quoque nostra lingua legi possent, prorsus rem magni et animi et corporis adgressus. Nam cum plerisque auctoribus singulorum regum vel populorum res gestas scribentibus opus suum ardui laboris videatur, nonne nobis Pompeius Herculea audacia orbem terrarum adgressus videri debet, cuius libris omnium saeculorum, regum, nationum populorumque res gestae continentur? Et quae historici Graecorum, prout commodum cuique fuit iter, segregatim occupaverunt, omissis quae sine fructu erant, ea omnia Pompeius divisa temporibus et serie rerum digesta conposuit.

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Dell’argomento si tratterà in maniera approfondita infra, cap. X.

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Introduzione Horum igitur quattuor et quadraginta voluminum (nam totidem edidit) per otium, quo in urbe versabamur, cognitione quaeque dignissima excerpsi et omissis his, quae nec cognoscendi voluptate iucunda nec exemplo erant necessaria, breve veluti florum corpusculum feci, ut haberent et qui Graece didicissent, quo admonerentur, et qui non didicissent, quo instruerentur. Quod ad te non tam cognoscendi magis quam emendandi causa transmisi, simul ut et otii mei, cuius et Cato reddendam operam putat, apud te ratio constaret. Sufficit enim mihi in tempore iudicium tuum, apud posteros, cum obtrectationis invidia decesserit, industriae testimonium habituro18. Mentre molti tra i Romani, anche di dignità consolare, hanno dato forma storiografica alle vicende di Roma in greco, una lingua straniera, Pompeo Trogo, uomo dotato dell’eloquenza del buon tempo antico, sia per emulare la gloria di costoro, sia allettato dal carattere nuovo e vario dell’impresa, ha composto in latino una storia greca e di tutto il mondo, sì che, come le nostre vicende si potevano leggere in greco, anche le vicende della Grecia si potessero leggere nella nostra lingua: certamente un’impresa che ha richiesto grande coraggio e impegno. Infatti, se molti tra gli autori che raccontano le gesta di singoli re o singoli popoli ritengono la propria opera estremamente faticosa, non dobbiamo forse ritenere che Pompeo, nei cui libri sono contenute le gesta di tutti i tempi, i re, le nazioni e i popoli, abbia affrontato il mondo intero con un coraggio degno di Ercole? Una volta tralasciato ciò che era inutile, Pompeo raccolse organizzando per successione cronologica e per serie di avvenimenti, quanto gli storici greci trattarono separatamente, ciascuno secondo il percorso a lui più adatto. Io, dunque, di questi quarantaquattro volumi (tanti infatti ne pubblicò), approfittando del periodo di riposo che trascorrevamo nell’Urbe, ho selezionato le cose maggiormente degne di essere conosciute e, tralasciate quelle che non erano interessanti per il piacere di apprendere, né erano utili per fare da esempio, ho composto una sorta di breve florilegio per offrire sia qualcosa da richiamare alla memoria a quelli che hanno studiato il greco, sia qualcosa da imparare a chi, invece, non lo ha studiato. E questo l’ho mandato a te non tanto perché tu ne venga istruito, quanto piuttosto affinché tu lo corregga e, al tempo stesso, ti tornino i conti del mio periodo di riposo, di cui anche Catone ritiene che si debba dare un contraccambio. Per quanto riguarda il presente, infatti, a me basta il tuo giudizio; presso i posteri, quando l’invidia delle malelingue sarà svanita, l’avere testimonianza della mia operosità.

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Iust. praef. 1-6. SEEL 1955, 35-43 ha sostenuto che la forma epistolare della prefazione, la richiesta di una correzione autorevole e buona parte delle parole dei paragrafi 4-5-6 si trovassero già in Trogo. Tale affermazione, tuttavia, mi sembra privare eccessivamente Giustino di una personalità artistica che, come si avrà modo di dimostrare in seguito, è tutt’altro che inconsistente; già per SANTI AMANTINI 1981, 8 n. 5 non è possibile escludere che anche Giustino abbia lavorato a Roma e dedicato la sua Epitoma a un personaggio superiore, secondo un modello che forse trovava nell’originale, ma che comunque adattava ai suoi scopi. Sul prologo si veda anche il commento di ALONSO-NÚÑEZ 1988, stringato ma non privo di buoni spunti.

Introduzione

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Dopo questo brano Giustino si inabissa nel testo per riemergere solo in un punto, alla fine del libro XXXVIII, quando torna a farsi sentire introducendo l’unico brano che dichiara di riportare direttamente da Trogo, il lungo discorso di Mitridate alle truppe: Quam orationem dignam duxi, cuius exemplum brevitati huius operis insererem; quam obliquam Pompeius Trogus exposuit, quoniam in Livio et in Sallustio reprehendit, quod contiones directas pro sua oratione 19 operi suo inserendo historiae modum excesserint. (38, 3, 11) Pur nella brevità di questa opera, ho ritenuto tale discorso degno di essere incluso in originale. Pompeo Trogo lo espose in forma indiretta, siccome ebbe a criticare in Livio e in Sallustio il fatto che oltrepassarono il limite della storiografia introducendo nelle loro opere allocuzioni dirette composte secondo il loro stile personale.

Nell’ambito degli studi sull’Epitome questo passo ha notevole rilievo. In primo luogo, ci fornisce due informazioni fondamentali: Pompeo Trogo prendeva parte attiva nel dibattito sullo stile della storiografia e conosceva le opere di Livio e Sallustio. Si tratta poi di uno dei pochissimi punti dove è possibile separare l’autore originale dall’epitomatore con qualche grado di sicurezza e quindi notare come nel cappello introduttivo, dove Giustino parla in prima persona, compaiano probabili hapax (contio directa e historiae modus), così come l’espressione oratio obliqua usata in senso tecnico20. Per quanto 19

Pro sua oratione desta qualche difficoltà, in quanto una famiglia di codici (ι) riporta la variante pro sua oratione ac ratione, una lezione che, non senza qualche fondamento (ad esempio la vicinanza con orationem dignam), ha dato origine all’emendamento di Wölfflin pro sua ratione; cfr. CATALINI 1966 e BALLESTEROS PASTOR 2013, 222. Per lo stato del testo cfr. supra, pp. 9 ss. 20 L’espressione oratio obliqua in questo senso tecnico (Quintiliano inst. 9, 2, 37 preferisce obliquae adlocutiones, egualmente senza paralleli) è tarda, cfr. Pomponio Porfirione (ad Hor. Epod. 11, 12-14) e Servio (Aen. 2, 638 e 11, 312). In precedenza il nesso compare nella Retorica a Erennio 4, 16, dove però vale per “tortuoso”: omne genus orationis … dignitate adficiunt exornationes … quae si rarae disponentur, distinctam, sicuti coloribus, si crebrae conlocabuntur, obliquam reddunt orationem. Ugualmente in Suet. Dom. 2, 3 le obliquae orationes sono le allusioni polemiche che Domiziano continua a rivolgere a Tito anche dopo la sua morte. Dell’importanza di questa terminologia “tecnica” nel passo in questione si tornerà a parlare infra, p. 111.

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Introduzione

riguarda l’oratio che segue, in generale, a parte una recente eccezione, la critica ha prestato fede alle parole di Giustino e l’ha considerata un estratto originale, utile quindi come campione dello stile di Trogo21. Sfortunatamente, però, nel resto dell’opera le due mani restano di difficile scissione: priva di patine cronologiche o geografiche evidenti, la lingua dell’Epitoma, nonostante gli sforzi degli studiosi, difficilmente aiuta a separare Trogo dal suo breviatore22. In generale, il discredito di cui Giustino è stato oggetto ha trovato riflesso anche su un piano stilistico, di conseguenza in molti casi la critica non ha resistito alla tentazione di dar soluzione al problema semplicemente attribuendo a Trogo tutto quanto nel testo è stilisticamente pregevole e, per converso, ritenere del poco brillante Giustino le soluzioni meno efficaci23. 1.4.

Un nuovo approccio

In realtà, se si acquisisce la consapevolezza della deformazione causata dai pregiudizi, gli usi attribuibili con ragionevole certezza all’epitomatore sono, ancora una volta, pochi. Con buona probabilità risalgono a Giustino le frasi di raccordo e le formule di transizione cronologica e riepilogo che ripete in maniera costante. Particolarmente iterato è interiecto deinde tempore, di cui, sommando anche le varianti interiectis quoque/deinde diebus, interiecto quoque tempore e 21

Contra BALLESTEROS PASTOR 2013, 53-54 (ripreso in BALLESTEROS PASTOR 2017), una posizione che verrà discussa in maniera più diffusa infra, pp. 99 ss. 22 « Die Sprache Iustins hat wenig Charakteristisches » rilevava già KROLL in R.E. s.v. Iunianius, col. 956. I due studi fondamentali su lingua e stile dell’Epitoma sono CASTIGLIONI 1925 e, più di recente, YARDLEY 2003. 23 Cfr. la critica che YARDLEY 2003, 25 rivolge al lavoro di FERRERO 1957: «he sometimes seems to assign usages to either Trogus or Justin on a very subjective basis: what he dislikes must belong to the epitomator, what he approves, to Trogus». Anche FORNI ‒ ANGELI BERTINELLI 1982, 1306 ritengono che quanto si muove nel solco dell’arte sallustiana e liviana possa essere considerato patrimonio di Trogo, mentre gli esiti meno felici sarebbero frutto dei momenti in cui Giustino «era costretto a volare con le proprie ali e a fare appello alle proprie non vaste risorse».

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interiecto tempore, si contano più di trenta ricorrenze 24 . Assiduo è anche l’uso di nec multo post e di ad postremum25. A segnalare un taglio di materiale vi sono poi le formule fisse dum haec aguntur/geruntur (presente quasi trenta volte)26, mentre in altri casi gli eventi eliminati vengono sbrigativamente definiti vari casus27. A fronte quindi di un dibattito caratterizzato da non pochi punti rimasti nel non liquet, questo lavoro si propone di mutare punto di vista e affrontare lo studio dell’Epitoma proprio a partire dagli unici dati in nostro possesso, ovvero il criterio e le modalità con cui Giustino ha selezionato il materiale. Uno studio sistematico della tecnica epitomatoria permetterà di verificare se davvero, come la critica ha sostenuto fino ad ora, l’Epitoma rappresenti poco più che il mediocre prodotto di un autore dall’intelligenza non particolarmente vivace, il quale a fronte di un complesso originale non ha saputo far di meglio che mettere insieme, in maniera raffazzonata e senza un piano coerente, quanto attirava la sua ondivaga attenzione, senza accorgersi (sempre per scarso acume di ingegno) che la sua riduzione non solo era poco efficace, ma soprattutto comprometteva il dato storico della monumentale impresa di Trogo. L’indagine che segue cercherà invece di capire se non sia questa stessa disomogeneità, tanto stilistica quanto di contenuti, a essere 24

Interiecto deinde tempore: Iust. 1, 5, 8; 1, 7, 11; 1, 10, 15; 2, 15, 6 (dein interiecto tempore); 3, 6, 7; 4, 4, 1; 13, 7, 4; 23, 3, 5; 28, 3, 11; 38, 9, 8. Interiectis quoque/deinde diebus: 3, 7, 5; 3, 7, 11; 5, 4, 3; 5, 10, 8; 7, 6, 16; 18, 1, 11; 18, 2, 9; 18, 7, 4; 18, 7, 9; 22, 8, 7; 23, 2, 3; 24, 5, 5; 27, 3, 8; 39, 2, 6. Interiecto quoque tempore: 7, 5, 2; interiecto tempore: 3, 6, 1; 11, 12, 3; 18, 3, 18; 22, 1, 6; 31, 1, 3. 25 Nec multo post: Iust. 2, 15, 16; 7, 5, 4; 18, 7, 18; 20, 5, 14; 22, 6, 12; 28, 4, 16; 30, 3, 7; 31, 8, 5; 32, 1, 2; 32, 1, 10; 38, 2, 2; 39, 3, 12; 41, 4, 9; 41, 5, 9; 44, 4, 8; ad postremum: 1, 2, 10; 1, 7, 17; 2, 9, 18; 2, 9, 19; 2, 11, 18; 3, 5, 15; 3, 6, 9; 4, 2, 7; 6, 2, 6; 6, 2, 12; 12, 1, 11; 12, 11, 8; 12, 15, 7; 12, 16, 12; 13, 8, 10; 14, 3, 1; 18, 4, 9; 18, 6, 5; 20, 5, 14; 23, 1, 17; 24, 3, 9; 25, 2, 5; 28, 3, 7; 30, 3, 10; 32, 2, 9; 35, 1, 11; 36, 1, 5; 37, 1, 9; 38, 10, 10; 39, 1, 7; 41, 5, 7; 41, 6, 3; 42, 2, 6; 42, 4, 8; 42, 5, 5; 43, 2, 1; 43, 4, 4; 44, 4, 2; 44, 4, 9. 26 Dum haec aguntur in Iust. 5, 5, 1; 5, 10, 6; 8, 4, 1; 11, 7, 1; 12, 1, 4; 12, 2, 16; 12, 12, 11; 13, 5, 1; 14, 5, 8; 15, 2, 1; 16, 2, 4; 18, 2, 6; 18, 5, 6; 19, 1, 10; 23, 2, 13; 29, 4, 7; 30, 3, 5; 32, 1, 4; 33, 1, 6; 34, 2, 7; 36, 1, 7; 39, 5, 2. Dum haec geruntur in 3, 2, 1; 6, 6, 1; 21, 4, 1; 24, 1, 1; 25, 3, 1; 41, 6, 6. Cfr. anche CASTIGLIONI 1925, 3. 27 Iust. 1, 7, 14; 3, 4, 11; 17, 2, 1; 18, 6, 10; 38, 9, 1; 41, 6, 6.

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significativa: è possibile rintracciare un collegamento tra il materiale che Giustino ha scelto di conservare? Si tratta davvero di una selezione quasi casuale, determinata dal gusto del momento? Quelle formule di raccordo che si ripetono in maniera costante riflettono semplicemente la «scarsa ricchezza lessicale» 28 dell’epitomatore, oppure segnalano l’omissione sistematica di determinate categorie di informazioni? E a che genere di intenti, di pubblico e di epoca possono rispondere questi tagli? Chiarite le modalità dell’intervento di Giustino sul testo originale, sarà poi possibile riaprire il dossier su Pompeo Trogo e affrontare sotto una nuova luce il problema della ricostruzione di una personalità artistica e di un pensiero storiografico della cui consistenza la critica ha non di rado dubitato. Si tenterà quindi di individuare il senso del divenire storico su cui poggiavano le Storie Filippiche: quale sia la concezione dell’uomo e del mondo di Trogo, quale il motore della storia e in che termini ciò trovi riflesso in un’opera che, già dal titolo, indica la Macedonia come punto di riferimento. Tutte queste riflessioni saranno poi utili a riconsiderare le questioni legate all’attitudine di Trogo nei confronti di Roma, al suo quadro ideologico di riferimento e alle finalità del suo progetto letterario, anche in rapporto con la storiografia a lui contemporanea. Con questo nuovo bagaglio di dati, tanto su Giustino quanto su Pompeo Trogo, potremo quindi ritornare a quel dilemma tra “text” e “personality” posto da Syme, rispetto a cui si proverà a suggerire una formulazione alternativa.

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CASTIGLIONI 1925, 94.

II. POMPEO TROGO 2.1.

L’autore

Di Pompeo Trogo non sappiamo molto, anzi. Nella pratica, i soli dati noti si limitano alle informazioni che Giustino riporta in calce al libro XLIII: in postremo libro Trogus: maiores suos originem a Vocontiis ducere1; avum2 suum Trogum Pompeium Sertoriano bello civitatem a Cn. Pompeio percepisse, patruum Mithridatico bello turmas equitum sub eodem Pompeio duxisse; patrem quoque sub C. Caesare militasse epistularumque et legationum, simul et anuli curam habuisse3. Nell’ultima parte del libro Trogo dice che i suoi antenati discendono dai Voconzi; il suo nonno Trogo Pompeo ricevette la cittadinanza da Gneo Pompeo durante la guerra contro Sertorio; uno zio paterno durante la guerra mitridatica guidò delle squadre di cavalieri sotto il medesimo Pompeo; anche il padre fu un soldato ‒ sotto Gaio Cesare ‒ e servì come responsabile della corrispondenza, delle ambascerie e perfino del sigillo.

Trogo apparteneva dunque alla stirpe dei Voconzi, una popolazione che abitava una parte della Gallia sud-orientale, i cui centri principali erano

1

Originem a Vocontiis ducere è lezione di γ (Ruehl, Galdi), mentre τπι hanno a Vocontiis originem ducere (Seel, Arnaud-Lindet). Univoco è però l’usus dell’Epitoma, che costruisce sempre ducere originem col complemento di provenienza inserito nel mezzo, cfr. 20, 1, 11: originem ab Achaeis ducunt; 32, 3, 13: originem a Colchis ducere. 2 Avum è lezione di τι, mentre le altre due famiglie (π e γ) hanno proavum, lezione che, seppur difficilior, è accolta solo da Arnaud-Lindet. Eccessive, però, le incoerenze cronologiche create da tale variante, come ben chiarito da MINEO 2016A, iii-iv (= MINEO 2016B, 195). 3 Iust. 43, 5, 11-12. Per un inquadramento su Pompeo Trogo cfr. R.E. s.v. Pompeius, n. 142 coll. 2300-2313; BREGLIA PULCI DORIA 1975, 468-477; MALASPINA 1976, 135-158; ALFONSI 1980, 75-86; SANTI AMANTINI 1981, 11-22; FORNI ‒ ANGELI BERTINELLI 1982, 1298-1301; ALONSO-NÚÑEZ 1987, 56-72; YARDLEY ‒ HECKEL 1997, 8-13, MINEO 2016A, i-xli (= MINEO 2016B).

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Pompeo Trogo

Vasio (odierna Vaison-la-Romaine) e Lucus Augusti (Luc-en-Diois)4. Da un punto di vista onomastico, se il gentilizio Pompeius deriva naturalmente dal fatto che il nonno era stato insignito della cittadinanza romana da Pompeo, più misterioso resta Trogus, la cui radice celtica significa “clan” 5 , un nomen che, seppur attestato in forme similari, compare solo in un’iscrizione in cui è stata supposta la lettura Licinio Troco o Trogo o Trogomari6. Grande era la tradizione militare della famiglia, in cui, come si è letto, si ricordavano non solo le gesta del nonno durante la guerra sertoriana, ma anche quelle di uno zio paterno, capo di alcune squadre di cavalieri dell’esercito di Pompeo. Di entrambi i personaggi si è cercata l’identificazione con nomi noti alle fonti letterarie, ma nessuno di questi tentativi sfugge alla natura di mera ipotesi7. Fondamentale è poi anche la figura del padre, di cui si sottolinea la posizione di rilievo nell’esercito di Cesare. Secondo alcuni studiosi, tuttavia, il C. Caesar menzionato dal testo non sarebbe Giulio, bensì Gaio Cesare, il figlio di Agrippa e Giulia che fu a capo di una spedizione orientale (1 a.C.-4 d.C.)8 . Tale proposta, tuttavia, in primo luogo crea incongruenze sia logiche sia di cronologia, come mostrato da Bernard Mineo, in quanto verrebbe a spostare anche il floruit del Trogo storiografo9. Esiste poi un passo del de bello Gallico che parrebbe confermare la presenza di Trogo senior al fianco di Giulio Cesare: egli sarebbe l’interprete Cn.

4

Cfr. Plin. nat. 3, 37. Sui Voconzi cfr. RIVET 1988, 286 ss.; PLANCHON ‒ TARPIN 2009; SEGARD 2009, 66-73; RÉMY ‒ DESAYE 2016, 19-35. La comunità di Vaison-la-Romaine considera Pompeo Trogo un concittadino, tanto da onorarlo con la Rue Trogue Pompée, significativamente nei pressi dell’antico sito romano della città. 5 HOLDER 1904, col. 1967. 6 ILGN (Inscriptions latines de Gaule: Narbonnaise) 38. Tra i nomi celti attestati epigraficamente troviamo infatti Troccius, Trogillus, Trogiumarus e Trogius, cfr. CIL XII, 1145; 2758, 3142a; 3961, 3962 e DELAMARRE 2007, 185. 7 BALLESTEROS PASTOR (2013, 2-3) prova a collegare lo zio con il Pompeo Macro ἡγεµών (cfr. R.E. s.v. Pompeius n. 11) di cui parla Memnone di Eraclea 30, 2 (= FGrHist 434, F 44) o il Pomponio ἵππαρχος di App. Mith. 79, 351-352 (come suggerito anche da GOUKOWSKY 2001, 208-209) e Plut. Luc. 15, 2. 8 Cfr. ARNAUD LINDET 2003 (Introduction) e BALLESTEROS PASTOR 2013, 1. 9 Cfr. MINEO 2016A, v-viii (= MINEO 2016B, 196-197). Per la datazione delle Historiae Philippicae si veda infra, cap. 3.1.

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Pompeius che Quinto Titurio Sabino manda a trattare con Ambiorige10. Le origini voconzie della famiglia di Trogo, infatti, rendono questa ipotesi tutt’altro che azzardata, né paiono fondate le perplessità di quanti rigettano tale identificazione ritenendo poco plausibile che il responsabile della cancelleria venisse scomodato per una semplice missione come interprete11. In primo luogo, nel testo di Cesare la posizione di tale mediatore è tutt’altro che subalterna: egli viene mandato a trattare direttamente con Ambiorige, il quale accetta il colloquio (forse comprendendo l’importanza del suo interlocutore?). D’altro canto, è poi probabile che Trogo iunior abbia posto una certa enfasi sul ruolo del padre: difficile, infatti, che una sola persona fosse preposta a tutte quelle delicate curatele, che dovevano invece avere natura collegiale12. Vi è poi anche un fattore stilistico a deporre in favore di Giulio Cesare: il programmatico rifiuto dell’oratio recta da parte di Pompeo Trogo trova un importante pendant nello stile di Cesare, che, come ben mostrato dalle rilevazioni statistiche 13 a Roma fu il maestro incontrastato del discorso indiretto, per cui aveva preferenza assoluta. Di conseguenza, tra i due si verrebbe a creare anche un’importante connessione di metodo: Pompeo Trogo potrebbe avere appreso dal padre, membro dello staff della cancelleria di Cesare, un’idea di storiografia asciutta e imitatrice dei resoconti ufficiali14. Nella praefatio l’epitomatore ricorda poi Trogo come vir priscae eloquentiae, una definizione di non facile interpretazione, dato che prisca eloquentia è hapax di Giustino; da qui si è supposto che Trogo avesse ricevuto la tradizionale educazione retorica destinata ai membri dell’élite15. Ragionevole pensare che tali studi siano stati affinati nella vicina Marsiglia, ritenuta centro culturale di primissimo piano (Ronald

10

Caes. Gall. 5, 36, 1-2. Così per KLOTZ in R.E. s. v. Pompeius n. 142, col. 2300. 12 Cfr. CRISTOFOLI 2010, 463-464. 13 Cfr. UTARD 2004, parziale ripresa di HYART 1954. 14 Sull’importanza di questa indicazione stilistica cfr. anche infra, p. 104. 15 Così per YARDLEY ‒ HECKEL 1997, 3. 11

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Syme la definì «university city»)16, un legame suggerito anche dagli spiccati toni positivi che il testo le riserva17. Che Trogo fosse un conservatore, almeno da un punto di vista formale, parrebbe confermato non solo dal fatto che Giustino, come abbiamo già visto, lo ricorda rimproverare a Livio e Sallustio l’inserzione di discorsi diretti, ma anche dalle parole di Plinio il Vecchio, che lo definisce auctor e severissimis18. L’interesse di Plinio, tuttavia, non fu stimolato solo dalle Historiae Philippicae, ma soprattutto dall’altra opera di cui Trogo fu autore, il De animalibus, un perduto trattato naturalistico in almeno dieci libri, al quale la Naturalis Historia dovette attingere abbondantemente19 . Ad informarci di quest’opera è il grammatico Carisio, da cui ricaviamo anche il dato che, seppure implicitamente, Trogo con le sue scelte

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Definizione di SYME 19682, 48. Strabone (4, 1, 5 C181), infatti, oltre a descrivere il vivace ambiente culturale della città, ricorda come questa fosse divenuta meta di viaggi di istruzione alternativa ad Atene, una notizia conservata anche da Valerio Massimo (2, 6, 7), che ne elogia la gravitas disciplinae. Ancora per Tacito Agricola crebbe lontano dalle lusinghe del vizio non solo grazie alla sua indole naturalmente virtuosa, ma anche perché da ragazzo sedem ac magistram studiorum Massiliam habuit, locum Graeca comitate et provinciali parsimonia mixtum ac bene compositum (Agr. 4, 3). Sull’argomento si vedano anche WOOLF 2000, 72-73; LOMAS 2004, 478. 17 Del rapporto Trogo-Marsiglia si parlerà in maniera approfondita infra, cap. XI 18 Cfr. Iust. 38, 3, 11 (citato per esteso supra, p. 21) e Plin. nat. 11, 274. Auctor severus è hapax di Plinio, che torna a usare l’aggettivo in un contesto simile solo un’altra volta (35, 137), a proposito del pittore Aristolao: Pausiae filius et discipulus Aristolaus e severissimis pictoribus fuit, cuius sunt Epaminondas, Pericles, Media, Virtus, Theseus, imago Atticae plebis, boum immolatio. La severitas di questo Aristolao (cfr. R.E. s.v. Aristolaos), altrimenti ignoto, potrebbe indicare rigore formale e povertà cromatica (cfr. Plin. nat. 35, 130: in coloribus severus, su cui si veda CORSO ‒ MUGELLESI ‒ ROSATI 1988, 447). È probabile che nel caso di Trogo il severus di Plinio vada connesso al moralismo che caratterizza l’opera, ma non si può escludere un riferimento ad una sobrietà formale bene in linea con il rifiuto di inserire discorsi diretti. 19 Sul De animalibus cfr. SANTI AMANTINI 1981, 14-15 e BORGNA 2014A. Plinio menziona Trogo alcune volte (nat. 7, 33; 10, 101; 11, 229, 274, 276; 17, 58; 31, 131) e in un caso ne riporta un brano (11, 274). Anche gli Indici della Naturalis Historia ai libri VII-XVIII e XXXI citano Trogo, ma, data la loro natura bibliografica (comprendono infatti anche opere non consultate), non è detto che Plinio si sia poi realmente servito del De animalibus per i libri in questione.

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ortografiche prendeva posizione nella polemica analogia-anomalia sulla lingua latina20. Assolutamente incerta, invece, l’esistenza di un trattato trogiano di botanica, un’ipotesi che Alfred von Gutschmid avanza sulla base di un passo in cui Plinio si stupisce che Trogo possa aver dato credito ad un’informazione falsa sulla coltivazione delle palme21: argomenti relativi al mondo vegetale, infatti, potevano essere tangenzialmente toccati anche in opere zoologiche, come già avveniva nella produzione naturalistica di Aristotele. Inoltre, l’interesse di Trogo per la storia naturale doveva permeare anche le Historiae Philippicae, come si vedrà in seguito22. Pur nella laconicità delle testimonianze, emerge ugualmente un certo apprezzamento per Trogo da parte degli antichi, una buona reputazione che trova il suo culmine nell’Historia Augusta, che per ben due volte lo annovera tra i grandi storiografi latini23. Appassionato di storia e natura, Trogo sembra quindi lontano da quella brillante carriera nelle armi che aveva caratterizzato la famiglia, un dato 20

Char. p. 129 Barwick: lactis nominativum alii volunt lac, alii lact, alii lacte ĕ postrema … nam et Cato sic dixit ‘et in Italia atras capras lacte album habere’ sed et Valgius et Verrius et Trogus de animalibus [heres] lacte dicunt; p. 173 Barwick: itaque Trogum de animalibus libro X parium numerorum et imparium non recte dixisse, sed parum et imparum. Secondo SEEL (1956, 3) Carisio avrebbe tratto le sue informazioni su Trogo dai Dubii sermonis libri VIII di Plinio; per il contributo di Pompeo Trogo nella controversia antica sul nominativo di lac e sul genitivo della III declinazione si veda GARCEA 2012, 156, 159, 219. 21 Plin. nat. 17, 58: nam folia palmarum apud Babylonios seri atque ita arborem provenire Trogum credidisse demiror. Cfr. GUTSCHMID 1856-57, 180. 22 Cfr. infra, capp. 9.2 e 9.3. 23 Cfr. SHA, Prob. 2, 7: et mihi quidem id animi fuit non Sallustios, Livios, Tacitos, Trogos atque omnes disertissimos imitarer viros in vita principum et temporibus disserendis, così come Aurel. 2, 1-2: me contra dicente neminem scriptorum, quantum ad historiam pertinet, non aliquid esse mentitum, prodente quin etiam, in quo Livius, in quo Sallustius, in quo Cornelius Tacitus, in quo denique Trogus manifestis testibus convincerentur ... habiturus mendaciorum comites, quos historicae eloquentiae miramur auctores. Su questi passi e, più in generale, sui rapporti tra Trogo e l’Historia Augusta cfr. SYME 1992, il quale, notando che Quintiliano (inst. 10, 1, 101 ss.) non annovera Trogo tra gli storici di valore, connette l’elenco dell’Historia Augusta al gusto dell’antichità per la strutturazione tetradica. In merito buoni spunti anche in CAMERON 2011, 758.

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che ha suscitato qualche curiosità nella critica. A Waldemar Heckel si deve l’ipotesi, seppur da lui stesso definita «highly speculative», che dopo la morte di Cesare la famiglia di Trogo si sarebbe schierata dalla parte di Antonio e successivamente avrebbe stretto una «uneasy peace» con Ottaviano 24 : questo sarebbe uno dei motivi per cui Trogo non avrebbe continuato la notevole tradizione militare della gens, ma, quasi al pari di Sallustio, si sarebbe rifugiato nell’otium letterario per motivi di forza maggiore. A proposito, pur non ritenendo Trogo particolarmente legato ad Antonio (come spiegare altrimenti la scelta di un titolo che, nella sua polisemia, rimandava anche alle orazioni pronunciate da Cicerone contro Antonio?), credo, tuttavia, che meriti di essere tenuta in considerazione la chiosa che commenta i reciproci scambi di cortesie belliche tra Tolemeo e Demetrio: tanto honestius tunc bella gerebantur quam nunc amicitiae coluntur (15, 2, 9), parole che sembrano lasciare aperta la questione di una progressiva messa in ombra della famiglia dei Trogi, un declino che potrebbe però essere legato non tanto ad una possibile adesione alla fazione antoniana, quanto piuttosto alle travagliate sorti di Marsiglia, come si avrà modo di chiarire in seguito25.

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Cfr. YARDLEY ‒ HECKEL 1997, 33-34. Cfr. infra, cap. XI.

III. LE HISTORIAE PHILIPPICAE Lungo i quarantaquattro libri delle Historiae Philippicae, Trogo si proponeva di raccontare una storia universale che abbracciasse le vicende dei singoli popoli a partire da età remotissime. L’opera si apriva con l’impero assiro, a cui seguivano i Medi, i Persiani, e successivamente i Macedoni, i cui avvenimenti venivano narrati in modo particolarmente diffuso, come indicato dallo stesso titolo. Dalle rovine di questo regno, crollato a causa della continua conflittualità tra gli epigoni, il racconto si spostava ai Parti, per poi concludersi sorvolando su Roma e aprirsi a ovest, alle vicende dei Galli e degli Iberi, i popoli che si stavano affacciando alla storia. Una simile prospettiva universalistica costituisce una novità assoluta nella letteratura latina, da sempre maggiormente interessata alla storia patria: lo stesso Trogo doveva essere consapevole del carattere innovativo della sua opera, dal momento che ‒ dice Giustino ‒ egli scrisse anche novitate operis delectatus1. 3.1.

La data di composizione

Indicazioni sulla data di composizione delle Historiae Philippicae ci provengono da due isolati testimoni del tredicesimo secolo. Per il De viris illustribus quo tempore scripserint di Radulfo di Diceto, cronista anglosassone morto intorno al 1202, l’opera di Trogo giungeva fino al ventinovesimo anno di Ircano principe dei Giudei2. Tale affermazione, però, trova esplicita contraddizione nel florilegio di Giustino: Ircano morì nel 30 a.C., ma il materiale di Trogo che Giustino conserva nella 1

Iust. praef. 1, citato per esteso supra, pp. 19 ss. Cfr. Radulfi de Diceto decani Lundoniensis Opera Historica: abbreviationes chronicorum, capitula imaginum historiarum, imagines historiarum, p. 20 Stubbs [= Rerum Britannicarum medii aevi scriptores 68, 1, 2]. Su Trogo e Gellio in Radulfo di Diceto ancora valido GOETZ ‒ GUNDERMANN 1926, 29 ss. 2

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chiusa del libro XLII si riferisce a fatti relativi almeno al decennio successivo3. Meno controversa, invece, pare l’informazione che ci fornisce, sempre nel tredicesimo secolo, lo pseudo Matteo di Westminster, che nei Flores historiarum, indica il 9 d.C. come data di pubblicazione delle Historiae Philippicae4. Sebbene la critica non abbia mancato di proporre ulteriori precisazioni, non è mai stato raggiunto un accordo diffuso, anche perché risulta difficile datare l’opera di Trogo sulla base del contenuto storiografico del breviario, dal momento che alcuni eventi potrebbero essere stati inseriti da Giustino. Uno degli esempi più significativi si trova in 41, 5, 8, dove si legge che i Parti omnes reges suos hoc nomine (scil. Arsaces), sicuti Romani Caesares Augustosque, cognominavere. Seel ascrive questo commento a Trogo, spostando così il suo floruit all’età di Tiberio e la pubblicazione dell’opera fra il 13 e il 30 d.C.5, ma la considerazione sembra presupporre un certo consolidato perdurare della consuetudine, come mostra anche l’uso del plurale, senza contare che Caesar e Augustus iniziarono a essere sentiti come nomi dinastici ben dopo Tiberio6. A opporsi a una datazione tiberiana è anche l’assoluto silenzio nei confronti del problema germanico e della disfatta di Teutoburgo (9 d.C.)7. 3

Cfr. Iust. 42, 5, 11-12, dove si menziona la restituzione delle insegne e dei prigionieri di Carre (20 a.C.), la resa di Fraate ad Augusto e la consegna dei figli come ostaggi (10 a.C.). 4 Cfr. Flores Historiarum, p. 97 Luard [= Rerum Britannicarum medii aevi scriptores 95, 1]: anno divinae incarnationis nono, Caesare Augusto imperii sui quinquagesimum primum agente Trogus Pompeius Chronica sua terminavit, in quibus quasi mundi praeteriti cursum ad memoriam posterorum reduxit. 5 Cfr. SEEL 1972, 178-180, data che SANTI AMANTINI 1981, 24 ritiene plausibile, pur ammettendo che si tratta di un dato né indiscutibile né sicuro; «we may safely place the final publication of Trogus’ work to about the turn of the era» secondo Yardley in YARDLEY ‒ HECKEL 1997, 6. Per MINEO 2016A, X-XII (= MINEO 2016B, 198-199) non si può completamente escludere che la composizione, seppur sviluppatasi essenzialmente sotto Augusto, sia stata terminata durante il regno di Tiberio. 6 Condivisibile il commento di BARTLETT 2014, 265, secondo cui questa affermazione, che sottende il carattere regale di Caesares Augustosque sarebbe «a mistake that Trogus would not have been foolish enough to have made in the Augustan age». 7 Come notato da TREVES 1953, 81. Non convince la proposta di SANTI AMANTINI 1981, 24, secondo cui questo silenzio potrebbe derivare dal fatto che i Germani esulavano dal programma storiografico di Trogo in quanto non erano ancora né uno stato, né un

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Sulla base di queste considerazioni, la tendenza più diffusa della critica è quella di prestare fede ai Flores Historiarum e collocare la pubblicazione finale dell’opera di Trogo tra l’ultimo decennio a.C. e il primo d.C., anche se singoli libri o gruppi potevano aver conosciuto una circolazione indipendente8. Questa datazione trova anche conferma nel fatto che è proprio al milieu culturale di età augustea e alle sue tematiche propagandistiche che Trogo sembra reagire e fare riferimento, come vi sarà modo di chiarire in seguito9. 3.2.

Il titolo

Sebbene l’opera di Trogo sia conosciuta col nome di Historiae Philippicae, la maggior parte dei codici della famiglia τ riporta un titolo più esteso: Liber historiarum Philippicarum et totius mundi origines et terrae situs. In realtà, come già notava Santi Amantini, difficilmente questa forma può essere considerata autentica, dato che il piano dell’opera non prevedeva una trattazione analitica totius mundi, mancando quasi del tutto la parte romana: più probabile quindi che l’opera di Trogo si intitolasse semplicemente Historiarum Philippicarum libri XLIV10. imperium, né un regnum: al contrario, tutta l’opera presenta una costante attenzione per l’elemento barbarico come dimostrato da MALASPINA 1976, 135-178 e BALLESTEROS PASTOR 2009A, 36. 8 Cfr. SYME 1988, 367 (le Historiae Philippicae possono essere collocate «without discomfort» alla terza decade del regno di Augusto); NIKONOROV 1998, 118 (ultimo decennio I a.C.). ALONSO-NÚÑEZ 1987, 61 (ribadito in ALONSO-NÚÑEZ 1988, 120 ss.) ritiene che la stoccata sarcastica alla Partia di 41, 4, 16 (in qua iam quasi sollemne est reges parricidas haberi) si riferisca anche all’uccisione di Fraate IV per mano del figlio Fraate V (2 a.C.), data che considera il terminus post quem, mentre il silenzio del testo su Teutoburgo indurrebbe a fissare il terminus ante quem al 9 d.C. 9 Cfr. infra, cap. 10.5. 10 SANTI AMANTINI 1981, 24-26. Eccessivamente complessa la teoria di SEEL trad. 1972, 10: quando Giustino definisce l’opera di Trogo historia Graeca et totius orbis, contenente res gestae omnium saeculorum, regum, nationum populorumque (citato per esteso supra, p. 19), starebbe in realtà parafrasando il titolo originale, che sarebbe quindi Historiae Philippicae sive Graecae et totius orbis historiae, id est omnium saeculorum.

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Ancora più problematico della forma è, però, il significato del titolo: si può sostenere che esso indichi, in qualche misura, un modello greco, lingua in cui l’aggettivo Philippikà trova pieno senso; pertanto, fin dalla prima metà del Novecento, si è pensato che Trogo volesse dichiaratamente rifarsi ai Philippikà di Teopompo, opera in cinquantotto libri (di cui ci restano solo frammenti)11 che dovette essere portata a termine almeno dopo il 336 a.C. Essa narrava principalmente le vicende di Filippo II e di Alessandro, ma, grazie a numerose digressioni, si allargava anche a fatti anteriori e non direttamente legati alla Macedonia12. Questo supposto schema di una narrazione continuata e molteplice di eventi raccordati parrebbe quindi molto vicino a quello di Trogo; in questo senso il richiamo alla Macedonia sarebbe servito ad attirare il lettore indicando un nucleo centrale, per poi aprirsi diacronicamente e geograficamente ai suoi lati. La scelta di un titolo simile, tuttavia, non può essere solamente un’imitazione di un modello greco: come ha già rilevato Seel, ai tempi di Trogo il ricordo delle Philippicae di Cicerone era troppo recente per parlare di Philippikà senza che questo contenesse, volontariamente o meno, un’allusione13. In ogni modo, pur tenendo nel giusto conto la polisemia dell’aggettivo, in Trogo Philippicus fa principalmente riferimento alla vicenda 11

Cfr. FGrHist 115, che conta più di quattrocento frammenti, un numero la cui ampiezza è stata successivamente messa in discussione dalla critica, cfr. OTTONE 2004; GAUGER ‒ GAUGER 2010, pp. 1-20. 12 Cfr. GALDI 1922, 95; MOMIGLIANO 1933, 983-996; ID. 1934, 45-56; TREVES 1953, 44; DEVELIN 1985, 110-115 (il quale successivamente in YARDLEY 1994, 6 suggerisce che il titolo richiami il caustico spirito moralizzatore impersonato da Teopompo e condiviso da Trogo); SHRIMPTON 1991, 120-125. Per FRANCO 1993, 74, il rapporto tra i due sarebbe non tanto di temi quanto di prospettiva e di metodo. Ha recentemente sostenuto questa ipotesi anche LANDUCCI 2014, 249-250, secondo cui Pompeo Trogo, affinché il suo lettore fosse subito avvertito dell’importanza del ruolo di Filippo II come fondatore di un impero universale, avrebbe deciso di inserire nel titolo un richiamo esplicito a Teopompo, lo storico che per primo aveva compreso la grandezza del personaggio senza tuttavia tacerne gli aspetti controversi. In generale sul significato del titolo Historiae Philippicae si leggano lo studio apposito di URBAN 1982B e la sintesi della questione contenuta in SANTI AMANTINI 1981, 23-34, che la ricapitola a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Successivamente, più schematico, YARDLEY ‒ HECKEL 1997, 23-25, ora LANDUCCI 2014, 249-254 e MINEO 2016A, xv-xx (= MINEO 2016B, 201-204). 13 SEEL 1972, 267-269.

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macedone, data l’indubbia centralità dell’argomento: come ricorda il prologo corrispettivo, nell’originale il tema si affacciava già nel VII libro (origines Macedonicae), per concludersi ventisei libri più avanti (libro XXXIII: guerre dei Romani contro Perseo, figlio di Filippo V e contro Andrisco, lo Pseudofilippo). Se già in questi termini la proporzione è significativa (ventisei libri su quarantaquattro), uno sguardo più attento mostra come anche la sezione compresa tra i libri XXXIV-XXXVIII fosse occupata dalle varie lotte tra i successori dei Diadochi; la proporzione va quindi aggiornata: ben trentuno libri su quarantaquattro erano riconducibili all’ambito macedone14. A suscitare un certo dibattito critico sono, però, le ragioni di tale preponderanza tematica. A Roma, infatti, le imprese di Alessandro e della sua stirpe erano materiale per certi versi scomodo: come ricorda Livio in una pagina celeberrima, tra i Greci si andava malignando che se Alessandro avesse avuto il tempo di volgere le sue mire espansionistiche verso occidente, i Romani non sarebbero stati in grado di resistergli. Id vero periculum erat, quod levissimi ex Graecis qui Parthorum quoque contra nomen Romanum gloriae favent dictitare solent, ne maiestatem nominis Alexandri, quem ne fama quidem illis notum arbitror fuisse, sustinere non potuerit populus Romanus15. Certo, c’era proprio questo pericolo, come sono soliti dire e ripetere i più sciocchi tra i Greci (quelli che contro il nome di Roma sostengono anche la gloria dei Parti) e cioè che il popolo romano non fosse in grado di sostenere la grandezza del nome di Alessandro, un uomo che ‒ io credo ‒ non era loro noto neppure per sentito dire.

Considerato anche lo spazio che Trogo riserva ai Parti, la scelta di dare un taglio “filippico” alle sue storie è stata spesso annoverata tra le prove del suo antiromanesimo, sia intendendo la centralità della vicenda macedone come un implicito avallo dell’opinione dei levissimi, sia, a un livello più generale, come esposizione di una legge storica irre14

Cfr. URBAN 1982B, 84-85, SCHUMACHER 2000; LANDUCCI 2014, 246-247. Liv. 9, 18, 6, su cui ancora buoni spunti in MOMIGLIANO 1934, TREVES 1953, 13-38 e BRACCESI 1976; più di recente MORELLO 2002, OAKLEY 2005, 229-234, MUCCIOLI 2007, OVERTOOM 2012. Sui rapporti tra Livio e Trogo cfr. infra, cap. XII. 15

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vocabile secondo cui un impero sorge, si sviluppa e infine tramonta, un dato in evidente contrasto con la nozione dell’eterno perdurare di Roma16. A tutti questi interrogativi tenteremo di dare risposta una volta chiariti i criteri di selezione di Giustino e le sue modalità di intervento sul testo.

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Come sostenuto da LANA 1952, 201 e MALASPINA 1976, 154. Sul presunto antiromanesimo di Pompeo Trogo si ritornerà infra, cap. X.

IV. GIUSTINO 4.1.

L’identità

Se, come abbiamo visto, le notizie su Pompeo Trogo sono scarse, del tutto evanescente è la figura dell’epitomatore1. Di Giustino non si sa praticamente nulla, la sola fonte è la sua stessa opera; perfino il nome è in parte dubbio, dal momento che solo due codici riportano la forma completa Iunian(i)us Iustinus e, di questi, solo uno conserva il prenome Marcus2. Per di più, il fatto che in entrambi i casi compaia il genitivo lascia aperta la questione se il nomen fosse Iunianus o Iunianius, sebbene gli autori medievali che affermano di essersi serviti della sua Epitome adoperino tutti la grafia Iunianus. Stando alla praefatio, egli, 1

Cfr. R.E. s. v. Iunianius n. 4, coll. 956 ss. È ormai da tempo tramontata la pretesa identificazione dell’epitomatore con Giustino Martire, apologista greco attivo sotto Antonino Pio. Essa risale al domenicano Martino Polono, morto nel 1278, autore di una Chronica summorum pontificum imperatorumque de septem aetatibus che dalla nascita di Cristo arriva fino al 1247 e in cui le notizie su Pompeo Trogo e Giustino sono alquanto imprecise: il primo sarebbe un hispanus vissuto sotto Antonino Pio e Giustino il suo allievo diretto, cfr. MGH, XXII, 1972 p. 446: eo tempore (scil. Antonio Pio regnante) floruit Pompeyus Trogus nacione Hyspanus, qui tocius orbis historias a tempore Nini regis Assiriorum usque ad monarchiam Cesaris latino sermone deduxit, distinguens per libros 44; quorum abbreviacionem fecit Iustinus eius discipulus. Qui Iustinus philosophus Antonio Pio librum de christiana religione compositum tradidit et benignum eum christianis fecit. Tale identificazione, già rifiutata da Bongars, non ha altra base se non l’omonimia tra il breviatore e il martire: quest’ultimo, infatti, scrisse solamente in greco, mentre l’epitomatore ha lasciato un’opera latina in cui nulla può indurre a pensare che egli non fosse pagano, come ricorda DE SENSI SESTITO 1987, 207210. Va tuttavia ricordato come, da un punto di vista filologico, l’antico errore di Martino Polono abbia dato origine ad un’interpolazione piuttosto diffusa nei manoscritti più tardi, dove la praefatio è divenuta quod ad te imperator Antonine non tam cognoscendi causa magis quam emendandi causa transmisi. In merito si veda anche SANTI AMANTINI 1981, 8. 2 I due codici che riportano la forma completa sono C e D e quest’ultimo aggiunge il prenome Marcus. Per la situazione stemmatica dell’Epitoma cfr. supra, pp. 9 ss. Nelle epigrafi sono attestate entrambe le forme, cfr. CIL XIII, 3696 (Iunianus), 4390 (Iunianius).

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in un periodo di otium trascorso a Roma, decide di impiegare il suo tempo nella compilazione di quel che definisce breve florum corpusculum dell’opera di Trogo, una fatica letteraria che, come abbiamo letto, dedica a un personaggio di rango superiore, che rimane anch’egli ignoto3 . Se poi la menzione di un soggiorno romano (per otium, quo in urbe versabamur) lascia intendere una provenienza provinciale, oltre a questo è difficile circoscrivere l’origine di Giustino in maniera più precisa 4 . Nessun aiuto atto a fornire indicazioni cronologiche o geografiche, infatti, giunge dall’analisi linguistica del testo, dal momento che, come si è già rilevato, è la stessa natura di breviario a rendere complesso tout court il discernimento delle due mani. Neppure si può dire che la lingua dell’Epitoma presenti qualche peculiarità rilevante5. I tentativi in questo senso, come l’ipotesi che essa mostri una certa africitas sulla base della particolare vivacità culturale di quella zona tra II e IV sec. d.C. non hanno conosciuto molto seguito6, anche perché il censimento di Iunianus, Iunianius e Iustinus su base geografica ha portato, invece, a supporre un’origine nella Gallia orientale o nelle regioni del Reno7. A queste proposte vanno aggiunte quelle di quanti hanno cercato indizi sull’identità di Giustino non nella forma, ma nel contenuto del breviario, tentando di individuare un qualche nucleo di interesse particolarmente spiccato. Per limitarsi alle ipotesi più recenti, Luis Ballesteros Pastor, giudicando significativa la frequenza con cui nell’opera compaiono gli Sciti e gli elogi ad essi riservati, ha ipotizzato che Giustino provenisse da Olbia Pontica, una città sul mar Nero dove questi erano presenti in modo numericamente

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Iust. praef. 4-6, citato per esteso supra, pp. 19 ss. Sull’origine provinciale di Giustino si era già espresso STEELE 1917, 28. Di recente YARDLEY 2010, 470 ha giustamente notato come l’alternanza tra la prima persona singolare e plurale nel prologo (versabamur … feci … transmisi) possa suggerire che Giustino si trovasse a Roma al seguito di questo ignoto protettore. 5 Cfr. supra, p. 22. 6 Tale africitas fu indivuata da SORN 1894, 3-4 e recepita poi da STEELE 1917, 28-35. Contra si veda la convincente argomentazione di GALDI 1922, 111 poi ripresa da LANCEL 1985, 161-182, con un’approfondita storia della questione. 7 Cfr. MÓCSY 1982, 379-381, che riprende un’ipotesi già di SCHANZ ‒ HOSIUS 1935, 322. 4

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consistente8. Diversamente, Giuseppe Zecchini ‒ sulla scia di Ronald Syme ‒ ha ritenuto di isolare un’attenzione speciale per l’Africa, un focus da lui giudicato evidente nella scelta di conservare le origini di Cirene (libro XIII) e le origines … Phoenicum … Carthaginisque res (libro XVIII)9, un’ipotesi, tuttavia, a cui parrebbero opporsi quei passi dell’Epitoma in cui l’Africa è oggetto di giudizi tanto severi da dover supporre in Giustino un grado di fedeltà all’originale tanto alto da superare l’orgoglio patrio10. 4.2.

Il dibattito sulla datazione

Strettamente connessa al problema dell’identità è poi la questione della cronologia, da sempre oggetto di acceso dibattito11. In questo ambito, infatti, l’unico terminus ante quem sicuro è il 407, data in cui Gerolamo compone i suoi Commentarii in Danielem, nel cui prologo si legge la più antica menzione esplicita di Giustino12. Oltre a questo, tuttavia, è difficile trovare altri dati certi: tradizionalmente, la critica si è orientata per una datazione tra il II e III secolo d.C. sulla base sia di argomenti stilistico-linguistici, sia di riferimenti interni di tipo storico. Tra questi, l’elemento più significativo è rappresentato da 41, 1, 1, dove il regno 8

BALLESTEROS PASTOR 2013, 4-10, ribadito in ID. 2016, 87, proposta respinta da MINEO 2016A, xliv-xlv. 9 ZECCHINI 2016, 225, che riprende parzialmente SYME 1988, 370. 10 Ad esempio Iust. 32, 4, 11: Annibale trattò le prigioniere con tanto rispetto ut in Africa natum quivis negaret. Altrettanto poco lusinghiero è 19, 1, 10, dove si ricorda come fu necessario vietare ai Cartaginesi i sacrifici umani e il mangiare carne di cane. 11 Per una ricapitolazione della questione cfr. SANTI AMANTINI 1981, 9-11; SYME 1988, 358-361; YARDLEY ‒ HECKEL 1997, 10 n. 32, ZECCHINI 2016, 221-223; MINEO 2016A, li-lv. 12 Hier. in Dan. prol. 25, 494 Migne (= p. 775, ll. 85-86 Glorie) comprende tanto Trogo quanto Giustino nel novero degli storici necessari alla comprensione dell’ultima parte del profeta: ad intellegendas autem extremas partes Danielis, multiplex Graecorum historia necessaria est: Sutorii videlicet Callinici, Diodori, Hieronymi, Polybii, Posidonii, Claudii Theonis et Andronyci cognomento Alipi, quos et Porphyrius secutum esse se dicit, Iosephi quoque et eorum quos ponit Iosephus, praecipueque nostri Livii, et Pompei Trogi, atque Iustini, qui omnem extremae visionis narrant historiam et post Alexandrum usque ad Caesarem Augustum, Syriae et Aegypti id est Seleuci et Antiochi et Ptolomaeorum bella describunt.

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dei Parti è giudicato fiorente (Parthi, penes quos … nunc Orientis imperium est), un’affermazione che è stata intesa come un terminus ante quem, dato che dal 224 d.C. ai Parti successero i Persiani Sasanidi e nel caso di una collocazione al IV sec. d.C. tale affermazione costituirebbe l’unico anacronismo dell’opera13. Il III secolo pare essere suggerito anche da alcune considerazioni formali, come sostenuto già a fine Ottocento da Eduard Norden sulla base di elementi lessicali, una tesi poi avallata e ulteriormente sviluppata da Luigi Castiglioni nel suo dettagliatissimo studio della lingua e dello stile di Giustino14. Qualche decennio dopo, invece, Marco Galdi, notando come l’Epitoma non solo rispetti le norme della prosa numerosa, ma mostri anche alcuni usi poi scomparsi nel corso del III secolo, preferì collocare il breviatore in età antonina15. Con lui concorda anche parte della critica più recente che, pur accostandosi alle considerazioni sulle clausole con una certa prudenza, dal momento che potrebbero essere più un’eredità di Trogo che una sensibilità di Giustino 16 , pone a supporto di tale cronologia i numerosi punti di contatto, linguistici e di intenti, tra Giustino e Floro (il cui breviario è

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Così per STEELE 1917, 19-41, poi ripreso da YARDLEY 2010, 471-473. Cfr. NORDEN 1898, 300 n. 3, secondo cui il III secolo sarebbe una sorta di giusto compromesso: il II secolo andrebbe escluso in quanto nel testo compaiono alcuni termini (stagnare, adtaminare) che si diffondono successivamente, mentre il IV sarebbe improbabile a causa della forma dell’Epitome di Giustino, troppo estesa per le esigenze di quel secolo (su questa posizione si tornerà infra, pp. 108 ss.). Anche per CASTIGLIONI 1925, 88 la prova dirimente della distanza di Giustino dal II secolo risiederebbe «sopra tutto nel lessico, dove compaiono non infrequenti i vocaboli che sono propriamente di accatto». 15 Cfr. GALDI 1915, in modo particolare le conclusioni di pp. 33-34, poi riprese in GALDI 1922, 108-109, dove si nota come l’Epitoma presenti un certo numero di clausole che a partire dal III secolo iniziano ad essere evitate, come le pentasillabiche. Questa stessa varietas sarebbe ulteriore prova di un’estraneità di Giustino rispetto al III secolo, «l’età delle clausole che potremmo dire monotone». Ben più di recente, si è pronunciata in favore di una datazione all’età antonina (in modo particolare post-adrianea) anche SCHETTINO 2015, 69-79, secondo cui l’Epitoma mostrerebbe alcuni segni della cultura arcaizzante dell’epoca. 16 Cfr. il commento di YARDLEY ‒ HECKEL 1997, 13: le considerazioni di Galdi sulle clausole pentasillabiche «carry conviction», ma un tentativo di datazione così precisa su tali basi «may be dangerous in the case of an epitome». 14

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variamente datato tra il regno di Adriano e quello di Marco Aurelio)17, o tra Giustino e Granio Liciniano18 a fronte, invece, di una sostanziale diversità rispetto alle epitomi di IV secolo: una questione su cui vi sarà modo di ritornare. Un’altra data giudicata rilevante è il 321 d.C., quando il panegirista Nazario nel suo encomio di Costantino cita un aneddoto (il re neonato posto dietro l’esercito schierato) che si trova solo in Giustino, una convergenza che da alcuni è stata considerata una prova dell’esistenza del breviario a questa altezza cronologica19. Non del tutto persuasivi, invece, paiono i tentativi di ritrovare chiari indizi di una conoscenza dell’Epitoma in Ammiano Marcellino: le supposte allusioni a Giustino recentemente proposte sembrano, in realtà, troppo indeterminate per poter assumere qualche rilevanza all’interno del dibattito sulla data20. 17

Cfr. FRANGA 1988, 872-873 e YARDLEY 2010, 487-489, secondo cui proprio la lettura di Floro avrebbe fornito a Giustino (che quindi andrebbe collocato «not too long after») l’ispirazione per il suo breviario. La datazione dell’Epitoma de Tito Livio di Floro è meno incerta di quella del breviario di Giustino, dal momento che nella Praefatio si legge che essa fu composta non molto meno di duecento anni dal tempo di Cesare Augusto. Ciò conduce a decenni diversi a seconda che si prenda come punto di partenza la data convenzionale dell’inizio del principato (27 a.C.), oppure l’anno di nascita di Augusto (63 a.C.): nel primo caso la composizione dell’opera si collocherebbe sotto Marco Aurelio (161-180 d.C.), nel secondo, invece, durante il regno di Adriano (117138 d.C.). In merito FACCHINI TOSI 1990, 31-32; BESSONE 1993, 91-102. 18 Cfr. N.P. s. v. Iustinus n. 45, col. 23 (P.L. Schmidt). 19 Iust. 7, 2, 5-11; Paneg. 4 (10), 20, 1-2; cfr. EDSON 1961, 203. L’aneddoto compare anche in Amm. 26, 9, 3, seppur in una forma assai meno simile rispetto alla coppia Giustino-Nazario. Sull’importanza di questo elemento nel dibattito sulla cronologia di Giustino cfr. infra. pp. 123 ss., dove i passi verranno citati per esteso. 20 È stata ARNAUD LINDET 2003 a sostenere che «le terminus ante quem de la rédaction de l’Abrégé est la rédaction, à la fin du IVe s., des Histoires d’Ammien Marcellin qui a utilisé notre auteur à trois reprises». Tali affinità, tuttavia, sono poco perspicue: oltre al ricorrere dell’aneddoto del re neonato, una supposta convergenza di cui si tratterà in maniera più approfondita infra (cfr. pp. 123 ss.), ancor più indeterminate sono le corrispondenze tra gli altri due passi posti a supporto di questa tesi. Non convince, infatti, l’accostamento tra Amm. 22, 15, 2 (Aegyptum gentem omnium vetustissimam, nisi quod super antiquitate certat cum Scythis) e Iust. 2, 1, 5 (Scytharum gens antiquissima semper habita, quamquam inter Scythas et Aegyptios diu contentio de generis vetustate fuerit Aegyptiis). FERACO 2011, 267 parla di un “abile rovesciamento” della fonte da parte di Ammiano, un’osservazione che è quasi una prova della difficoltà con cui si può ipotizzare un rapporto tra i due. Altrettanto poco evidente è che Amm. 23, 6, 5 (unde ad id tempus reges eiusdem gentis praetumidi appellari se patiuntur Solis

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A spostare la collocazione di Giustino decisamente più avanti, a fine IV secolo, fu la proposta, avanzata per primo da Alfred Klotz nel 1913, ma argomentata solo settant’anni più tardi da Ronald Syme e recentemente sostenuta anche da Giuseppe Zecchini, secondo cui gli elementi linguistico-stilistici non avrebbero carattere dirimente 21 . Per quanto riguarda gli argomenti storici, Giustino potrebbe non aver sentito l’esigenza di correggere quello che per il IV secolo era un palese anacronismo (la dinastia arsacide sul trono di Partia), sia poiché una simile intrusione nel dettato di Trogo sarebbe andata contro il suo desiderio di compilare una pura e semplice antologia, sia in considerazione della frequente ambiguità degli autori latini,

fratres et Lunae, utque imperatoribus nostris Augusta nuncupatio amabilis est et optata, ita regibus Parthicis, abiectis et ignobilibus antea, incrementa dignitatum felicibus Arsacis auspiciis accessere vel maxima) riecheggi Iust. 41, 5, 8 (tertius Parthis rex Priapatius fuit, sed et ipse Arsaces dictus. Nam sicut supra dictum est, omnes reges suos hoc nomine, sicuti Romani Caesares Augustosque, cognominavere), dato che non solo la somiglianza è vaga, ma il contesto è quasi opposto: dove l’Epitoma segnala un’affinità di usi, i toni di Ammiano sono invece critici nei confronti dei Parti (cfr. DEN BOEFT ‒ DRIJVERS ‒ DEN HENGS ‒ TEITLER 1998, 137). 21 Cfr. KLOTZ 1913, 548; SYME 1988; ZECCHINI 2016, 221-222. A difendere la tesi di Syme da un punto di vista linguistico è stato soprattutto il suo allievo, Timothy Barnes, che in un contributo del 1998 ha sostenuto che l’uso del termine ducatus in Giustino (30, 2, 5) in combinazione con tribunatus e praefecturae indichi una data di composizione successiva al 260 d.C., quando dux avrebbe iniziato ad indicare un comando militare specifico (cfr. BARNES 1998, 589-591; per una definizione di dux nella tardoantichità cfr. LEE 2007, xxii: «senior officer in command of limitanei in a particular frontier province»). Inoltre, la già citata formula omnes reges suos hoc nomine [sc. Arsaces] sicuti Romani Caesares Augustosque nominaverunt (41, 5, 8) non sarebbe di Giustino, che avrebbe constatato il persistere della consuetudine, ma piuttosto un ibrido (piuttosto complesso, in realtà): Trogo avrebbe scritto Caesares come omaggio a Gaio e Lucio Cesare, mentre Giustino, secoli dopo, avrebbe aggiunto Augustosque avendo in mente il modello tetrarchico. Questi risultati hanno però incontrato l’opposizione di YARDLEY 2000, 633-634, il quale ha negato sia la possibilità che in Giustino vi possa essere un uso “tetrarchico” di Augustus, sia la paternità trogiana del Caesares. L’ulteriore risposta di Barnes, secondo cui anche laddove l’argomentazione di Yardley fosse convincente «that would not in itself establish a date of c 200 as correct. Positive arguments are needed», lascia la questione sostanzialmente aperta (cfr. BARNES 2004-2005, 383-384).

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specialmente tra gli epitomatori, nell’utilizzo dei termini Parthi e Persae22. In generale, però, i sostenitori della datazione al IV secolo giungono a questa conclusione a partire, più che dal testo, da una ricerca di quella che Syme definisce una «appropriate season for Justin», che viene individuata nella seconda metà del IV secolo. In questo periodo, infatti, il genere letterario del breviario storiografico conosceva buona diffusione, l’interesse per la storia orientale era stato riacceso dalle spedizioni di Giuliano e Valente, e si andava anche diffondendo una specifica attenzione per la sopravvivenza dei capolavori della classicità e della storiografia in particolare23. Simmaco (epist. 4, 18, 5) promette ad un amico di procurargli un esemplare dei Bella Germaniae di Plinio il Vecchio e, sempre nell’ambiente dei Nicomachi-Simmachi, si andava avviando l’impresa di allestire un’edizione di tutto Livio24. Da Gerolamo apprendiamo poi che allora circolava un’edizione di Tacito in trenta libri (probabilmente diciotto di Annales e dodici di Historiae25) e sempre Tacito è oggetto delle preoccupazioni dell’autore dell’Historia Augusta: in Tac. 10, 3, infatti, tra le benemerenze dell’imperatore 22

Cfr. CHAUVOT 1992, 115-118. Recentemente TRAINA 2016, 111 ha messo in evidenza come anche Ammiano Marcellino nel libro XXIII delle Storie descriva l’impero persiano senza di fatto prendere in considerazione il passaggio del potere tra Arsacidi e Sasanidi e nel suo excursus sulla Persia esalti la figura di Arsace (un parto, non un persiano) mettendolo a confronto con Augusto. Sulla medesima alternanza Parthi e Persae anche nell’Historia Augusta cfr. ZECCHINI 2016, 222-223. 23 Cfr. SYME 1988, 363: «about the middle of the Fourth Century the topic Rome and Persia acquired marked value: the campaigns of Constantius, Julian’s ambitious adventure, the expedition of Valens». ARNAUD LINDET 2003 pur ammettendo che «en l’état actuel de notre documentation, on ne peut exclure aucune datation», fissa, come abbiamo già visto (cfr. supra, p. 41 n. 20) il terminus ante quem nell’opera di Ammiano e situa Giustino all’epoca di Costanzo II e dei suoi successori in quanto epoca «qui voit un renouveau du goût pour l’histoire, sous forme de la rédaction d’œuvres courtes, réalisant une mise en ordre des connaissances historiques, tels le Livre des Césars d’Aurelius Victor, et les deux synthèses écrites pour Valens: le Bréviaire d’Eutrope et l’Abrégé de Festus». Per la proposta di connettere Giustino alla preoccupazione per la sopravvivenza dei classici cfr. ZECCHINI 2016, 227. 24 Cfr. ZETZEL 1980, 38-59 e PECERE 1986, 19-81; 210-246; CAMERON 2011, 498-526. 25 Hier. in Zach. 3, 14, dove l’opera è erroneamente definita Vitae Caesarum. Tale silloge dovette andare perduta, dal momento che le due opere sono giunte a noi da una tradizione indipendente.

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omonimo si ricorda l’iniziativa di collocare le opere dello storico di cui portava il nome in tutte le biblioteche di Roma e la committenza a spese pubbliche di dieci copie l’anno26. Parte della critica ha quindi ritenuto questo contesto culturale particolarmente adeguato anche al breviario di Giustino, sia per il suo carattere di compendio, sia per il suo contenuto di storia orientale, sia in quanto forma di conservazione, almeno parziale, di uno dei capolavori della storiografia latina: «this time was ripe for an abridgement of Pompeius Trogus»27. Questo è l’attuale status quaestionis di un problema assai controverso, che non di rado è parso arenarsi nel non liquet28. In modo particolare, la ricerca di indizi su identità e data a partire dal contenuto di singoli passi ha spesso portato gli studiosi all’individuazione di nuclei di

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Cfr. SHA, Tac. 10, 3 (ed. Hohl ‒ Samberger ‒ Seyfarth): Cornelium Tacitum, scriptorem historiae Augustae, quod parentem suum eundem diceret, in omnibus bibliothecis conlocari iussit. Ne[c] lectorum incuria deperiret, librum per annos singulos decies scribi publicitus in † evicos archis iussit et in bybliothecis poni. ZECCHINI 1991, 338 e 2016, 227 sostiene che a preoccuparsi delle sorti dello storico non fu l’imperatore omonimo (regnante tra il 275 e il 276), bensì il biografo: di conseguenza tale timore andrebbe riferito alla fine del IV secolo. Sulle difficoltà filologiche di questo passo dell’Historia Augusta cfr. BAGLIVI 1999, che congettura ine vics archis, “negli archivi pubblici delle città”. 27 SYME 1988, 364. 28 Conferma la complessità del problema anche il fatto che un profondo conoscitore dell’Epitoma quale Otto Seel si sia astenuto dal dedicare alla questione uno studio apposito e abbia egli stesso oscillato tra diverse ipotesi. Se, infatti, nella prefazione della sua edizione del 1935 si legge: «mihi quidem Iustinus fini tertii vel fortasse initio quarti saeculi tribuendus videtur», quarant’anni dopo, nella lunga monografia del 1972 il breviatore viene collocato «ums Jahr 200 n. Chr.» (SEEL 1972, 346), concetto ribadito con qualche dettaglio nell’introduzione alla traduzione tedesca dell’Epitome, dove questa cronologia viene messa in relazione col passaggio dal rotolo di papiro al codice, in quanto Giustino sembrerebbe aver lavorato già su quest’ultimo formato (SEEL trad. 1972, 19-21). Neppure univoca fu la posizione di Ronald Syme che, pur essendo uno dei principali sostenitori di una collocazione di Giustino al IV secolo, lascia aperta la possibilità di una data diversa: «some sort of case might be made for the time of the Severi (it has not been)» (SYME 1988, 361).

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interesse differenti ed è anche accaduto che la stessa porzione di testo venisse impiegata per suffragare tesi assai diverse, se non opposte29. Nelle pagine che seguono, invece, si tenterà una disamina complessiva basata sulla tecnica epitomatoria di Giustino: se questi ha preferito lasciare di sé pochissime tracce esplicite, a parte quelle poche parole della praefatio che abbiamo letto, l’unico elemento in grado di svelare qualcosa di lui sono il criterio e le modalità con cui ha selezionato il materiale e ridotto l’originale di Trogo in una forma che rispondesse ai suoi intenti; uno studio che sarà foriero di nuovi indizi anche nel campo della datazione.

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Ad esempio, il fatto che Giustino abbia conservato la digressione sulle origini di Cirene (Iust. 13, 7) è stato usato sia per supportare una datazione al regno di Settimio Severo, l’imperatore che riorganizzò la Cirenaica (ALONSO-NÚÑEZ 1995, 356), sia menzionato da Giuseppe Zecchini (uno dei più recenti sostenitori della collocazione dell’Epitoma a fine IV secolo) come conferma di un’origine africana di Giustino (cfr. ZECCHINI 2016, 225, ipotesi di cui si è già parlato supra, p. 39). Anche l’excursus scitico è stato posto al centro di differenti teorie: per BALLESTEROS PASTOR (2013, 12-13) esso costituirebbe la prova dell’origine di Giustino da Olbia Pontica e di conseguenza fisserebbe un terminus ante quem al 375, data in cui la città fu definitivamente abbandonata. All’opposto, secondo ZECCHINI 2016, 225-226 tale digressione stabilirebbe un terminus post quem al 378, data della disfatta di Adrianopoli, evento che segnò l’assurgere dei Goti (definiti “sciti” dalla lingua dotta) a presenza minacciosa all’interno dell’impero: Giustino avrebbe quindi conservato il passo proprio in virtù del suo carattere di stretta attualità.

V. LA TECNICA EPITOMATORIA Il metodo di lavoro di Giustino sembra da lui stesso illustrato nella praefatio, dove dichiara di aver composto non tanto un riassunto quanto un florilegio delle Historiae Philippicae, da cui avrebbe selezionato il materiale piacevole da apprendersi oppure utile come esempio 1 . Se questa affermazione fosse sincera, il suo intervento sarebbe da ritenersi limitato a un lavoro di armonizzazione di brani selezionati e pertanto l’Epitoma andrebbe considerata «la più completa silloge dei frammenti di Trogo»2. In realtà, un’opera di scrittura difficilmente può essere così neutra da non rivelare la mano e gli interessi di chi scrive, soprattutto laddove si selezioni un materiale più ampio, un processo che non può non essere orientato dagli intenti e dal gusto di chi decide che cosa conservare e che cosa invece tagliare. 5.1.

Il rapporto tra Prologi e contenuto

Strumento fondamentale per tentare di comprendere che cosa rispondesse, secondo Giustino, a quei criteri enunciati nella prefazione è, come si è detto, il confronto con i Prologi, un raffronto da cui si traggono innanzitutto due indicazioni di massima3. Rispetto al contenuto dell’originale Giustino ha infatti sistematicamente tagliato:

1

Iust. praef. 4, citato per esteso supra, pp. 19 ss. Per la tecnica epitomatoria di Giustino cfr. anche FORNI 1958, 50-140, poi ripreso in FORNI ‒ ANGELI BERTINELLI 1982, 13011307. Successivamente si vedano YARDLEY 2010, 473-479 e BORGNA 2014B, 61-63. 2 Definizione di FERRERO 1957, 156. TREVES 1955, 95 aveva parlato dell’Epitoma come editio minor di Trogo; non diversamente SEEL 1982, 1381. 3 Il più completo raffronto tra Epitome e Prologi resta ancora quello di FERRERO 1957, 17-153; utili, seppur limitati alla misura dei tagli di Giustino, FORNI 1957, 17-153 e ARNAUD LINDET 2003 (Annexe 1a e 1b). Elenchi molto schematici di omissioni si trovano anche in ALONSO-NÚÑEZ 1992, 27-46 e MINEO 2016A xlvii-xlix.

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1. gli episodi che riguardano la storia romana4; 2. le digressioni di carattere geo-etnografico, di cui le Historiae Philippicae erano particolarmente ricche 5 . Questi excursus, che è probabile che Trogo inserisse alla maniera erodotea, cioè alla prima menzione di un popolo o di una regione, o cadono del tutto, oppure si riducono al racconto di un solo mito6. Scendendo maggiormente nel dettaglio, per tentare di individuare i criteri della riduzione di Giustino è utile procedere ad un raffronto tra i Prologi più lunghi della raccolta, quelli cioè da cui è possibile trarre un maggior numero di informazioni circa il contenuto dell’originale, e i corrispettivi libri dell’Epitoma. 5.1.1

Prologi lunghi, libri brevi

In primo luogo, va notato come a prologhi piuttosto lunghi corrisponda il più delle volte un libro abbastanza stringato, segno già questo che Giustino e l’anonimo estensore dei sommari erano mossi da un interesse differente. Se ne può rintracciare un primo esempio nel libro IX:

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Ad esempio, scompaiono la campagna illirica contro Teuta (XXVIII), quella asiatica (XXXII), la rivolta dello Pseudofilippo (XXXIII), la guerra contro i pirati (XXXIX) e, a un livello generale, gli avvenimenti più strettamente legati alle conquiste romane in Oriente e Africa. Assai ridotte sono poi la guerra contro Pirro (XVIII), così come quella contro Perseo (XXXIII). Lo stesso svolgimento della guerra mitridatica è completamente tagliato: Giustino cita sì verbatim il discorso di Mitridate (cfr. supra, p. 21), ma quando riprende il racconto elimina bruscamente svolgimento e conclusione del conflitto: 38, 8, 1-2: sic excitatis militibus post annos tres et XX sumpti regni in Romana bella descendit. Atque in Aegypto mortuo rege Ptolomeo… 5 Cfr. il dettagliato catalogo di FORNI 1958, 53 ss., poi ripreso in FORNI ‒ ANGELI BERTINELLI 1982, 1301-1307. Sull’importanza di queste digressioni all’interno dello schema complessivo dell’opera di Trogo cfr. CLARKE 1999, 271-276. Sulle inserzioni di carattere geografico nella storiografia antica si veda DUECK 2012. 6 Cfr. prol. XIII: additae in excessu origines regesque Quirenarum, un excursus di cui Giustino (13, 7, 1-11) conserva solo il racconto della fondazione della città da parte di Batto, in cui comprende il mito di Cirene e del figlio Aristeo. Ugualmente il prologo al libro XLII cita le origines Armeniorum et situs, digressione da cui Giustino trae solamente le vicende di Giasone (42, 2, 7-3,5).

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PROLOGVS LIBRI IX Nono volumine continentur haec. Vt Philippus a Perintho summotus. Byzantii origines, a cuius obsidione summotus Philippus Scythiae bellum intulit. Repetitae inde Scythicae res ab his temporibus, in quibus illa prius finierant, usque ad Philippi bellum, quod cum Athea Scythiae rege gessit. Vnde reversus Graeciae bellum intulit victisque Chaeroneae, cum bella Persica moliretur praemissa classe cum ducibus, a Pausania, occupatis angustiis nuptiarum filiae, occisus est, priusquam bella Persica inchoaret. Repetitas res inde Persicae ab Dario Notho, cui successit filius Artaxerxes cognomine Mnemon, qui post fratrem Cyrum victum pulsaque Cnido per Conona classe Lacedaemoniorum bellum cum Euagora rege Cyprio gessit: originesque Cypri repetit. PROLOGO DEL LIBRO IX Nel nono volume è contenuto quanto segue. Come Filippo fu allontanato da Perinto. Le origini di Bisanzio, dall’assedio della quale Filippo, costretto ad allontanarsi, mosse guerra alla Scizia. Sono poi richiamate le vicende scitiche, dal momento in cui queste erano state lasciate fino alla guerra di Filippo contro Atea, re della Scizia. Tornato di là, Filippo attaccò la Grecia e dopo aver vinto a Cheronea, mentre preparava la spedizione contro la Persia e quando aveva già mandato avanti la flotta con i capitani, prima di iniziare la campagna persiana fu ucciso da Pausania, che si era nascosto in un anfratto degli allestimenti nuziali per la figlia del re. Sono quindi riprese le vicende persiane a partire da Dario Noto, a cui successe il figlio Artaserse soprannominato Mnemone, che, vinto il fratello Ciro e respinta per opera di Conone la flotta spartana a Cnido, condusse una guerra contro Evagora re di Cipro e rievoca le origini di Cipro.

Se questo era il contenuto dell’originale, la selezione operata da Giustino ha inciso sensibilmente sulla struttura originaria, visto che elimina circa la metà della materia indicata dal sommario: il risultato è un libro di otto capitoli che occupa altrettante pagine dell’edizione teubneriana. Quali argomenti ‒ e soprattutto come ‒ sono stati ridotti da Giustino? Fortemente abbreviate sono le origines Byzantii, liquidate in pochissime parole, mentre del tutto soppressa è la storia scitica dal punto in cui era rimasta in sospeso a 2, 5, 10 (morte di Dario I). Di questa sezione si conserva il conflitto tra Atea e Filippo, limitatamente però al malinteso diplomatico da cui ha origine7 e al botta e risposta 7

Atea, infatti, trovandosi in difficoltà nel corso della guerra contro Istro, aveva chiesto aiuto a Filippo promettendogli in cambio l’adozione nella successione al regno. Subito dopo, però, Istro inaspettatamente muore e così Atea si ritene sciolto dal pesante

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sentenzioso che si innesca tra i due sovrani, un momento su cui l’Epitoma si dilunga. Pochissime parole, invece, sono riservate alla guerra vera e propria (cum virtute et animo praestarent Scythae, astu Philippi vincuntur), mentre buono spazio hanno:

- l’espediente con cui Filippo cerca di mascherare le sue manovre belliche ad Atea (9, 2, 10-11);

- il nuovo dialogo a distanza tra i due (9, 2, 12-14); - il curioso incontro tra Macedoni e Triballi (di cui nel prologo non

c’è neppure menzione)8, durante il quale contro Filippo fu sferrato un colpo tanto violento da trapassargli la coscia fino ad uccidere il cavallo su cui montava (9, 3, 1-3).

Procedendo nel libro, la narrazione riserva allo scontro tra Filippo e le città della Grecia un trattamento assai sbrigativo: eliminati tutti i particolari tattico-strategici, la battaglia viene liquidata come segue: proelio commisso, cum Athenienses longe maiore militum numero praestarent, adsiduis bellis indurata virtute Macedonum vincuntur. (9, 3, 9) Attaccata battaglia, benché gli Ateniesi fossero di gran lunga superiori per numero di soldati, furono sconfitti dal valore dei Macedoni, temprato dalle frequenti guerre.

Come si può notare, Giustino omette perfino di menzionare il celebre luogo del combattimento, Cheronea, ma se i Realien vengono soppressi, lo stesso non si può dire per le note di colore: il testo ricorda infatti come tutti gli Ateniesi caddero eroicamente con ferite al petto (9, 3, 10). All’interesse del breviatore per l’aspetto umano della storia risponde anche la successiva descrizione del sobrio atteggiamento tenuto da Filippo in seguito alla vittoria e il diverso destino riservato ad Atene e Tebe, passo in cui compare anche uno dei tanti dialoghi a sfondo moraleggiante dell’opera9.

impegno nei confronti dei Macedoni, una posizione su cui Filippo naturalmente non concorda. 8 Sui Triballi cfr. PAPAZOGLU 1978, 9-86. 9 Iust. 9, 4, 8-10.

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Quanto invece registrato nella terza parte del prologo (la storia persiana sotto Dario Noto e Artaserse Mnemone, la guerra di quest’ultimo contro Evagora di Cipro e le origines dell’isola) viene tagliato completamente, mentre la lunga sezione relativa alla morte di Filippo è conservata. Qui Giustino si dilunga nel narrare sia le scabrose origini dell’odio di Pausania, sia l’altrettanto oscura serie di retroscena ad indicare una possibile connivenza di Alessandro e, soprattutto, di Olimpiade, sul cui comportamento artatamente provocatorio il racconto indugia10. Chiude il libro la lunga descrizione dell’indole di Filippo e la comparatio con Alessandro 11 , anche in questo caso diversamente dall’originale, che, come abbiamo visto, proseguiva con altre notizie. Si nota quindi come l’intervento operato da Giustino abbia sostanzialmente portato in primo piano la figura di Filippo, che diventa il centro assoluto del racconto, fino alla chiusa enfatica costituita dal suo “ritratto morale”: eppure, non è tanto la sua storia ad essere narrata, quanto piuttosto una serie di aneddoti curiosi che lo vedono come protagonista. Iniziamo dunque a incontrare alcuni dei caratteri fondamentali della tecnica epitomatoria di Giustino:

- non è interessato a dar conto, seppur in breve, di tutto quel che Trogo scriveva;

- i suoi interventi comportano un deciso stravolgimento dell’equili-

-

brio dell’originale, dal momento che figure ed episodi che Trogo diluiva in un contesto più ampio vengono invece collocati al centro e inseriti in una sequenza narrativa diversa; ha attenzione per la struttura di questi segmenti, come mostra la scelta di una conclusione riepilogativa del personaggio.

Procedendo nell’analisi dei libri dal prologo esteso, un altro esempio è costituito dal libro XV:

10 11

Iust. 9, 7, 9-14. Iust. 9, 8, citato per esteso e discusso infra, pp. 177 ss.

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La tecnica epitomatoria PROLOGVS LIBRI XV Quinto decimo volumine continentur haec. Vt Demetrius Antigoni filius Gazae victus est ab Ptolomaeo. Vt Cassander in Macedonia filium Alexandri regis interfecit, ac alterum Polyperchon. Vt Cypro Ptolomaeum vicit classe Demetrius idemque ab obsidione Rhodi summotus est. Repetita in excessu origo Rhodiorum: unde digressus Demetrius liberavit a Cassandro Graeciam. Dein pater eius Antigonus bellum cum Lysimacho et Seleuco habuit. Repetitaeque Seleuci res et regis Indiae Sandrocotti. Vt victus bello Antigonus interiit reliquiaeque imperii sunt a filio collectae. Cleonymi deinde Spartani res gestae Corcyrae et Illyrico et in Italia, cui ablata Corcyra. Rex Cassander interiit. PROLOGO DEL LIBRO XV Nel quindicesimo libro sono contenuti questi argomenti. Come Demetrio figlio di Antigono fu sconfitto a Gaza da Tolemeo. Come Cassandro in Macedonia uccise uno dei due figli del re Alessandro e Poliperconte l’altro. Come Demetrio a Cipro vinse Tolemeo con la flotta, ma dovette recedere dall’assedio di Rodi. In una digressione vengono richiamate le origini di Rodi: allontanatosi di lì, Demetrio liberò la Grecia da Cassandro. In seguito, suo padre Antigono ingaggiò una guerra contro Lisimaco e Seleuco. Sono poi riprese le vicende del re Seleuco e del re dell’India Sandrocotto. Sconfitto in guerra, Antigono morì e i resti del suo impero furono raccolti dal figlio. Seguono le vicende dello spartano Cleonimo a Corcira, in Illiria e in Italia, nel corso delle quali gli fu sottratta Corcira. Morte del re Cassandro.

A un sommario tra i più lunghi della raccolta corrisponde un libro di estensione limitata (quattro capitoli, sebbene l’ultimo sia piuttosto corposo). Della guerra tra Demetrio e Tolemeo Giustino ricorda l’atteggiamento clemente di quest’ultimo, mentre i dettagli geograficomilitari non solo vengono messi in secondo piano, ma compaiono anche in forma errata: il luogo dello scontro, che il prologo ricorda correttamente come Gaza, nell’Epitome compare come apud Galamam, lezione del consenso dei codici12. L’Epitoma narra poi un fatto non presente nel sommario, il curioso incontro tra Cassandro e gli Audariati, un popolo che aveva dovuto abbandonare la patria scacciato da una bizzarra invasione di rane e topi13. Segue una reale divergenza 12

Iust. 15, 1, 6. Per lo stato del testo cfr. supra, pp. 9 ss. Iust. 15, 2, 1-2. Nel latino Audariatas è congettura di Ruehl rispetto a Abderitas di τ π D («quod Iustinum scripsisse suspicor» commenta Seel) e Auderiates di ι. Solo 13

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tra prologo e breviario: se nel primo a uccidere i figli di Alessandro sono due persone diverse (Cassandro e Poliperconte), Giustino attribuisce entrambi gli omicidi a Cassandro14. Al successivo scontro navale tra Demetrio e Tolemeo viene sottratta ogni coordinata: scompaiono infatti il riferimento a Cipro, che il sommario correttamente registra, e le varie conseguenze politiche, come la fine dell’ assedio di Rodi, un evento che Giustino taglia completamente insieme con le origines dell’isola. Rimane, invece, un aneddoto dal tono moralistico sulla clemenza di Demetrio, che, memore della precedente generosità di Tolemeo, si mostra egualmente magnanimo (15, 2, 7-9). Nei capitoli che seguono, il distacco dalla materia delineata dal prologo è, se possibile, ancora più netto: soppressi, infatti, sia l’allontanamento di Cassandro dalla Grecia per opera di Demetrio, sia le imprese di Cleonimo di Sparta, la pagina è interamente occupata dai medaglioni di Lisimaco (che il sommario non ricorda), Seleuco e Sandrocotto, tutti e tre incentrati sui prodigia che fin dall’infanzia ne avevano preannunciato la futura grandezza15. Degno di rilievo è anche il caso del libro XXVI, dove non solo ad un prologo fitto corrisponde una forte riduzione (poco più di tre pagine Teubner), ma notevole è anche la divergenza tra i due testi, dal momento che Giustino per lo più conserva informazioni che l’estensore dei sommari invece tralascia. PROLOGVS LIBRI XXVI Sexto et vicensimo volumine continentur haec. Quibus in urbibus Graeciae dominationem Antigonus Gonatas constituerit. Vt defectores Gallos Megaris delevit regemque Lacedaemonium Area Corinthi interfecit, dehinc cum fratris sui Crateri filio Alexandro bellum habuit. Vt princeps Achaiae Aratus Sicuonem et Corinthum et Megara occuparit. Vt in Syria rex Antiochus cognomine Soter altero filio occiso, altero rege nuncupato Antiocho decesserit. Vt in Asia filius Ptolomaei regis socio Timarcho desciverit a patre. Vt frater Antigoni Demetrius occupato

Arnaud-Lindet non accoglie la proposta di Ruehl e privilegia Abderitas. Cfr. R.E. s.v. Autariatai col. 2594; PAPAZOGLU 1978, 87-129. 14 Iust. 15, 2, 3-5. Dell’importanza di questa specifica divergenza tra l’originale e l’Epitome si tratterà infra, pp. 83 ss. 15 Iust. 15, 3-4. Sandrocottus è la versione latina del re indiano Chandragypta.

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La tecnica epitomatoria Cyrenis regno interiit. Vt mortuo rege Antiocho filius eius Seleucus Callinicus regnum acceperit. PROLOGO DEL LIBRO XXVI Nel ventiseiesimo libro sono contenuti questi argomenti. In quali città della Grecia Antigono Gonata stabilì il suo dominio. Come a Megara annientò i Galli che avevano tradito, a Corinto uccise il re degli Spartani Areo e successivamente combatté contro Alessandro, figlio di suo fratello Cratero. In Siria il re Antioco detto Soter morì dopo aver ucciso uno dei due figli e fatto re l’altro, di nome Antioco. In Asia il figlio del re Tolemeo si ribellò al padre con la complicità di Timarco. Il fratello di Antigono, Demetrio, morì dopo aver occupato il regno di Cirene. Morto il re Antioco, salì al trono suo figlio, Seleuco Callinico.

Diversamente da quanto registrato nel prologo, il primo capitolo dell’Epitoma non contiene l’elenco delle città della Grecia sulle quali Antigono Gonata affermò il suo potere (sezione che viene sostituita da un riferimento indeterminato)16 , bensì le vicende aneddotiche del tiranno Aristotimo 17 . Da qui la narrazione si sposta rapidamente alla guerra di Antigono contro i Galli, un evento che, tuttavia, si riduce ad una scena di superstizione seguita da stragi ed empietà, dettagli che vengono conservati insieme con qualche commento sentenzioso18. Del tutto eliminati sono, invece, i fatti accaduti a Corinto in seguito alla morte del re spartano Areo; anche alle successive vicende belliche vengono riservati riferimenti sommari e piuttosto confusi, che si risolvono in pochissime righe (26, 2, 8-11). Ben altra estensione (tutto il terzo capitolo) ha invece l’aneddoto a sfondo passionale ambientato a Cirene: pochi tagli, infatti, pare aver operato Giustino entro una narrazione ricca di ingredienti tra romanzo e declamazione, come il triangolo fanciulla-madre lubrica-bel pretendente e la scena piccante dell’uomo colto in flagrante adulterio con la suocera (26, 3, 3-7). Degna di nota è anche la sententia che chiude il libro: ucciso il promesso sposo fedifrago e sgradito al padre, Berenice et stupra matris salva pietate ulta est et in matrimonio sortiendo iudicium patris secuta (26, 3, 8). Con queste parole il libro si chiude: terminato l’aneddoto, a Giustino 16

Si parla infatti genericamente di Peloponnensii per proditionem Antigono traditi (Iust. 26, 1, 2). 17 Iust. 26, 1, 4-10, citato per esteso e discusso infra, pp. 113 ss. 18 Iust. 26, 2, 2-6.

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non deve essere parso cognitione dignum quanto nell’originale seguiva, come le vicende di Seleuco Callinico. Procedendo con la rassegna, incontriamo il libro XXXII, dove al lungo prologo corrispondono i quattro capitoli dell’Epitome (circa sei pagine dell’edizione teubneriana). PROLOGVS LIBRI XXXII Secundo et tricensimo volumine continentur haec. Defectio ab Achaeis Lacedaemoniorum et Messeniorum, qua Philopoemen interiit. Romanorum in Asia duce Manlio adversus Gallos bellum. Regis Philippi propter ablatas sibi civitates alienatus in Romanos animus, et ob hoc alter filiorum Demetrius occisus, concitatique ab eo Basternae transire conati in Italiam. Inde in excessu dictae res Illyricae: ut Galli, qui occuparant Illyricum, rursus redierunt in Galliam: originesque Pannoniorum et incrementa Dacorum per Burobusten regem. In Asia bellum ab rege Eumene gestum adversus Gallum Ortiagontem, Pharnacem Ponticum et Prusian, adiuvante Prusian Hannibale Poeno. Res gestae Hannibalis post victum Antiochum et mors. Mortuo Seleuco filio magni Antiochi successit regno frater Antiochus. PROLOGO DEL LIBRO XXXII Nel trentaduesimo libro sono contenuti questi argomenti. La defezione dagli Achei di Spartani e Messeni, durante la quale morì Filopemene. La guerra in Asia dei Romani, guidati da Manlio, contro i Galli. L’ostilità del re Filippo nei confronti dei Romani a causa delle città a lui sottratte, ragion per cui uno dei suoi due figli, Demetrio, fu ucciso e i Bastarni furono da lui indotti a tentare di transitare per l’Italia. Segue una digressione sulle vicende dell’Illiria; si narra di come i Galli, che avevano occupato l’Illirico, tornarono nuovamente in Gallia. Origini dei Pannoni e lo sviluppo dei Daci ad opera del re Burobuste. Guerra in Asia mossa dal re Eumene contro il gallo Orziagonte, Farnace del Ponto e Prusia, che era aiutato dal cartaginese Annibale. Gesta di Annibale dopo la sconfitta di Antioco e sua morte. Morto Seleuco, figlio di Antioco il Grande, gli successe nel regno il fratello Antioco.

Dell’ampio quadro storico sulla ribellione spartana e messena contro gli Achei cade ogni riferimento agli Spartani; l’interesse di Giustino è circoscritto all’episodio della cattura e morte del vir fortis Filopemene, racchiuso tra riferimenti cronologici indefiniti. Merita riportare questo bozzetto in quanto perfetto modello di come il riassunto di Giustino non sia volto all’eliminazione dei dettagli curiosi o edificanti, a cui viene

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concesso ampio spazio, ma colpisca piuttosto il dato storico-bellico, che viene asciugato in pochissime parole, reso temporalmente generico da un nesso di passaggio e trasformato così nella semplice chiusa dell’ aneddoto. Dum haec aguntur, medio tempore inter Messenios et Achaeos de principatu primo dissensio, mox bellum ortum est. In eo nobilis Achaeorum imperator Philopoemen capitur, non quia pugnando vitae pepercerit, sed, dum suos in proelium revocat, in transitu fossae equo praecipitatus a multitudine hostium oppressus est. Quem Messenii iacentem seu metu virtutis seu verecundia dignitatis interficere ausi non fuerunt. Itaque laeti velut in illo omne bellum confecissent, captivum per universam civitatem in modum triumphi circumduxerunt effuso obviam populo, ac si suus, non hostium imperator adventaret, nec victorem Achaei avidius vidissent, quam victum hostes viderunt. Igitur eundem in theatrum duci iusserunt, ut omnes contuerentur, quem potuisse capi incredibile singulis videbatur. Inde in carcerem ducto verecundia magnitudinis eius venenum dederunt, quod ille laetus, ac si vicisset, accepit, quaesito prius, an Lycortas, praefectus Achaeorum, quem secundum a se esse scientia militari sciebat, incolumis effugisset. Quem ut accepit evasisse, non in totum dicens male consultum Achaeis expiravit. Nec multo post reparato bello Messenii vincuntur poenasque interfecti Philopoemenis pependerunt. (32, 1, 4-10) Mentre avvenivano questi fatti, frattanto tra Messeni ed Achei per la supremazia sorse dapprima una disputa, poi la guerra. Nel corso di questa fu catturato Filopemene, il celebre comandante degli Achei, non perché combattendo avesse avuto riguardo per la sua vita, ma perché, mentre richiamava i suoi alla battaglia, nel saltare un fosso cadde da cavallo e fu sopraffatto dalla moltitudine dei nemici. Sebbene questo giacesse a terra, o intimoriti dal suo valore o per rispetto del suo grado, i Messeni non osarono ucciderlo. E così, soddisfatti come se con la cattura di quello avessero risolto tutta la guerra, lo condussero in giro prigioniero per tutta la città, come in un trionfo, con tutto il popolo che gli si faceva incontro, quasi che stesse arrivando il loro generale, non quello dei nemici. E gli Achei non si sarebbero riempiti gli occhi di lui vincitore più avidamente di quanto i nemici lo guardarono da vinto. Quindi ordinarono che fosse condotto nel teatro affinché tutti potessero contemplare colui che ciascuno pareva incredibile che fosse stato catturato. Poi, condottolo in carcere, per rispetto alla sua grandezza gli diedero il veleno, che egli prese lieto come se avesse vinto. Aveva prima domandato se Licorta, prefetto degli Achei, che sapeva essere, dopo di lui, il più esperto di scienza militare fosse fuggito sano e salvo. Saputo che era scampato, morì dicendo che agli Achei non era poi andata male del tutto. Non molto tempo dopo, ripresa la guerra, i Messeni furono vinti e pagarono il prezzo della morte di Filopemene.

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Procedendo nell’analisi del libro, in conformità con la sistematica eliminazione della storia romana, cade la guerra tra i Romani e i Galli; resta, invece, l’exemplum negativo del re Antioco, che paga con la morte un tentato sacrilegio, episodio che il prologo non menziona. Della crescente ostilità da parte di Filippo V nei confronti di Roma propter ablatas sibi civitates Giustino omette completamente ogni particolare politico e in una cornice storiografica piuttosto esile inserisce l’ennesima serie di quadretti aneddotici, come la timidezza di Demetrio, il giovane figlio del re: attaccato violentemente di fronte al senato dai rappresentanti delle città greche, all’improvviso tace sopraffatto dall’emozione, un momento di impasse che commuove i senatori (32, 2, 3-5). Ampio spazio è poi lasciato alla serie di intrighi in cui lo stesso Demetrio finisce per cadere, vittima dell’ostilità del padre e dell’invidia del fratello, Perseo (32, 2, 6-10). Nel capitolo successivo (§3) si incontra uno dei pochi casi in cui Giustino salva qualcosa da una digressione: le res Illyricae non vengono completamente tagliate, ma conservate in parte seppure in misura rispondente al gusto del breviatore per l’elemento insolito. Restano, infatti:

- un aneddoto sui Tectosagi che, colpiti da una pestilenza, riescono a -

liberarsene solo rinunciando alle ricchezze accumulate con bottini e sacrilegi (32, 3, 9-12); un excursus mitologico sulle origini degli abitanti di Istro, che si dicevano discendenti dai Colchi mandati da Eeta all’inseguimento degli Argonauti (32, 3, 13-16); una curiosità sui Daci, che dopo un’ignominiosa sconfitta in guerra dovettero dormire con la testa al posto dei piedi e servire le proprie mogli come schiavi (32, 3, 16).

Il resto della digressione originale, che si estendeva fino agli incrementa Dacorum per Burobusten regem, viene completamente eliminato19; stessa sorte anche per le altre vicende elencate dal prologo: 19

Burobusten è felice intuizione (unanimemente accolta) di von Gutschmid rispetto a rubobosten/rubobusten dei codici, cfr. ILIESCU 1968, ora LICA 2000, 230-250 e VULPE

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cancellate le guerre di Eumene II contro Orziagonte, Farnace e Prusia, l’ultimo capitolo è dedicato alle ultime azioni di Annibale, sempre di gusto aneddotico, ricordate fino al nobile suicidio, a cui segue un breve riassunto del carattere del personaggio. Al pari del caso di Filippo II20, la scelta di chiudere il libro con un paragrafo ricapitolativo mostra come Giustino abbia modificato non solo la struttura, ma anche gli equilibri delle Historiae Philippicae: se nel libro XXXII dell’Epitoma Annibale viene ad occupare una posizione dominante, l’originale libro XXXII di Trogo procedeva, invece, fino alla successione di Antioco IV a Seleuco IV. Dal quadro sinora delineato emerge non solo l’indipendenza strutturale, ma anche l’impostazione antologica del breviario, data la tenuità della cornice storica che circonda i vari lacerti. Un’ulteriore conferma proviene dal XXXIV libro. PROLOGVS LIBRI XXXIV Quarto et tricensimo volumine continentur haec. Bellum Achaicum, quod Romani per Metellum et Mummium gessere, quo diruta est Corinthos. Bellum regis Eumenis cum Gallograecis 21 et in Pisidia cum Selegensibus. Res quas gessit Syriae rex Antiochus, et rex Aegypti Ptolomaeus Epiphanes. Vt mortuo Ptolomaeo relicti ab eo filii duo Philometor et Euergetes primum cum Antiocho habuere bellum, quod per Romanos finitum est, deinde inter se, quo maior est expulsus, restitutoque Romani inter fratres regna diviserunt. Vt mortuo Antiocho rege Syriae Demetrius cognomine Soter, qui Romae fuerat obses, clam fugit occupataque Syria bellum cum Timarcho Medorum rege habuit Ariarathe rege Cappadocum. Repetitae inde origines regum Cappadocum. Vt habita inter Ariarathen et Orophernem regni certamina. Vt mortuo rege Asiae Eumene suffectus Attalus bellum cum Selegensibus habuit et cum rege Prusia.

2007. La perdita di questa sezione è piuttosto grave: le fonti antiche su questo sovrano si limitano, infatti, oltre al passo di Giustino, a due luoghi di Strabone (cfr. Strabo 7, 3, 5 (C298) e 7, 3, 11 (C303), anche in questo caso con difficoltà filologiche, dato che nei codici si alternano le lezioni Βυρεβίστας, Βυρβίστας e Βοιρεβίστας) a cui si aggiungerà Iord. Get. 11 [67], che lo chiamerà però Buruista. Sul personaggio cfr. R.E. s.v. Burbista, coll. 2903-2905; N.P. s.v. Burebista(s); OLTEAN 2007, 46-54. 20 Cfr. supra, p. 51. 21 Sulla definizione di Gallogreci ad indicare i Galati cfr. STROBEL 2002 con ulteriore bibliografia.

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PROLOGO DEL LIBRO XXXIV Nel trentaquattresimo libro sono contenuti questi argomenti. La guerra acaica, che i Romani combatterono per mezzo di Metello e Mummio, nella quale fu distrutta Corinto. La guerra del re Eumene contro i Gallogreci e in Pisidia contro i Selegensi. Imprese compiute da Antioco re di Siria e da Tolemeo Epifane re d’Egitto. Morto Tolemeo, i due figli che aveva lasciato, Filometore ed Evergete, combatterono prima contro Antioco, una guerra a cui fu posta fine dai Romani, poi tra di loro, uno scontro durante il quale il maggiore fu scacciato e poi ricollocato dai Romani, che divisero il regno tra i fratelli. Morto Antioco re di Siria, Demetrio detto Soter, che era stato ostaggio a Roma, fuggì di nascosto e, occupata la Siria, si scontrò contro Timarco re dei Medi e Ariarate re dei Cappadoci. Quindi sono richiamate le origini dei re di Cappadocia. Contesa per il regno tra Ariarate e Oroferne. Morto Eumene, re dell’Asia, il suo successore, Attalo, combatté contro i Selegensi e il re Prusia.

A questo sommario corrisponde un libro breve, che occupa poco più di tre pagine Teubner. Ancora una volta alle vicende belliche viene sottratta ogni coordinata spazio-temporale: della guerra tra Romani e Achei, infatti, Giustino conserva l’atto di tracotanza di questi ultimi che, convinti di vincere, portano sul (non altrimenti specificato) luogo della battaglia svariati carri in vista del futuro bottino e fanno salire mogli e figli sulle alture affinché vedano con i loro occhi il supposto successo (34, 2, 2-5). Le imprese di Eumene contro i Gallogreci e i Selegensi e le gesta di Antioco di Siria e di Tolemeo Epifane sono tagliate e sostituite dalla abusata formula dum haec aguntur. Si salva, invece, la guerra tra Antioco e Tolemeo VI, pur nella consueta maniera di Giustino: coperti i dettagli militari da un laconico bellum infert, la maggior parte dello spazio è occupata dal grottesco ritratto del sovrano lagide, talmente impigrito dagli agi da essere divenuto mostruosamente obeso 22 . Nei successivi capitoli più che riassumere il suo originale Giustino stacca tre distinti flores:

- l’ambasceria di Popilio ad Antioco IV, exemplum di fermezza da parte del romano23;

22 23

Iust. 34, 2, 7, su cui torneremo ancora infra, p. 71. Iust. 34, 3, 1-4, di cui si parlerà anche infra, p. 198.

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- la rivendicazione del trono di Siria da parte di Demetrio I, un passo -

dai toni fortemente retorici24; una serie di intrighi interni al regno di Bitinia (34, 4).

A questi tre episodi ben circoscritti si oppone la scarsa cura di Giustino per i collegamenti interni ed i trapassi, come emerge dal brusco modo in cui la narrazione passa dalle vicende della Siria a quelle della Bitinia: Delatus in Syriam secundo favore omnium excipitur, regnumque ei occiso pupillo ac tutoribus traditur. Eodem fere tempore Prusias, rex Bithyniae, consilium cepit interficiendi Nicomedis filii, quem a se ablegatum, studens minoribus filiis, quos ex noverca eius susceperat, Romae habebat. (34, 3, 9-4, 1) Portato in Siria, fu accolto dal benevolo appoggio di tutti e, dopo l’uccisione del pupillo e dei suoi tutori, gli fu affidato il regno. Quasi nello stesso tempo, Prusia, re della Bitinia, prese la decisione di eliminare il figlio Nicomede, che teneva a Roma: lo aveva allontanato da sé spinto dalla volontà di favorire i figli più piccoli, che aveva avuto dalla matrigna di costui.

Come si può notare, il racconto si sposta da un aneddoto all’altro senza attenzione né per la comprensione generale, né tantomeno per la connessione logica tra gli eventi: Prusia, che era comparso alla fine del libro XXXII sullo sfondo delle vicende di Annibale (32, 4, 2-7), ora non solo riappare all’improvviso, ma neppure al lettore viene in qualche modo chiarito il motivo per cui, proprio in quel momento, egli prenda la decisione di eliminare il figlio. Quel che importa a Giustino è semplicemente ritagliare un flos relativo ad un intrigo familiare, e infatti l’episodio viene sì narrato in maniera compiuta, ma in forma di generico exemplum negativo dai toni moraleggianti, al solito privo un quadro storico (chi erano politicamente questi ii che avrebbero dovuto eliminare il ragazzo?) o cronologico.

24

Iust. 34, 3, 6-7: Demetrius, qui obses Romae erat, cognita morte fratris Antiochi senatum adiit: obsidem se vivo fratre venisse, quo mortuo cuius obses sit, se ignorare. Dimitti igitur se ad regnum petendum aequum esse, quod, sicut iure gentium maiori fratri cesserit, ita nunc sibi, qui pupillum aetate antecedat, deberi. Per il rapporto tra Giustino e la retorica cfr. infra, cap. 7.2.

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Sed res adulescenti ab iis, qui facinus susceperant, proditur hortatique sunt, ut crudelitate patris provocatus occupet insidias et in auctorem retorqueat scelus. Nec difficilis persuasio fuit. Igitur cum accitus in regnum patris venisset, statim rex appellatur. Prusias regno spoliatus a filio privatusque redditus etiam a servis deseritur. Cum in latebris ageret, non minore scelere, quam filium occidi iusserat, a filio interficitur. (34, 4, 2-5) Ma il piano venne rivelato al giovane da coloro che avevano assunto l’incarico del delitto e questi lo esortarono (siccome era stato sfidato dalla crudeltà del padre) a prevenire l’agguato e ritorcere la scelleratezza contro il suo responsabile. L’opera di persuasione non fu difficile. Pertanto quando egli, richiamato, arrivò nel regno del padre, subito fu proclamato re. Prusia, spogliato del regno dal figlio e ridotto alla condizione di privato cittadino, fu abbandonato anche dei servi. Mentre viveva in nascondigli, con un atto non meno scellerato di quello con cui aveva ordinato che il figlio fosse ucciso, dal figlio fu assassinato.

A conclusione di questa breve rassegna, condotta seguendo l’ordine dei libri, vi è poi il caso emblematico del XL, dove a uno dei prologhi maggiormente estesi corrisponde il più breve libro dell’Epitoma, esito di una riduzione alquanto drastica. Vale dunque la pena riportarli entrambi; iniziamo dal prologo: PROLOGVS LIBRI XL Quadragensimo volumine continentur haec. Vt mortuo Grypo rege Cyzicenus cum filiis eius bello congressus interiit, hiis deinde a filio Cyziceni Eusebe 25 extinctaque regum26 Antiochorum domo Tigranes Armenius Syriam occupavit, quo mox victo Romani abstulere eam. Vt Alexandriam post interitum Ptolomaei Lathyri substituti sint eius filii: alteri data Cypros, cui P. Clodii rogatione Romani

25

Hiis … : il luogo è molto corrotto; accolgo, come Galdi, la congettura di Ieep, che prevede, naturalmente, anche il passaggio da hi e hii dei codici all’ablativo hiis. Molto usato extinguo nei Prologi: oltre a questo, dove compare tre volte, si vedano anche prol. I; II; VI; XXXIX, ragion per cui non pare fuori luogo ipotizzare una ripetizione. Eccessivamente invasiva, a mio parere, la proposta di Gutschmid () preferita, invece, da Ruehl e Seel. 26 Regum è lezione della maggioranza dei codici di π (accettata da Galdi e ArnaudLindet), regubi, evidentemente corrotto, per τ; Seel e Ruehl privilegiano, invece, regali, congettura di Bongars. Preferisco, tuttavia, la lezione dei codici sulla base dell’usus dei Prologi, cfr. prol. XVII: regum Epiroticorum; XXXIV: regum Cappadocum; XXXVII: regum Ponticorum; regum Bosporanorum et Colchorum.

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La tecnica epitomatoria abstulerunt eam; alter seditione flagitatus 27 Alexandriae Romam profugit belloque per Gabinium gesto recepit imperium: quo mortuo successit filius, qui cum sorore Cleopatra certamine insumpto et Pompeium magnum interfecit et bellum cum Caesare Alexandriae gessit. Vt successit eius regno soror Cleopatra, quae inligato in amorem suum M. Antonio belli Actiaci fine extinxit regnum Ptolomaeorum. PROLOGO DEL LIBRO XL Nel quarantesimo libro sono contenuti questi argomenti. Morto il re Grifo, Ciziceno, venuto a guerra coi figli di lui, perì; in seguito questi furono uccisi da Eusebe, figlio del Ciziceno. Estintasi la dinastia dei re Antiochi, Tigrane di Armenia occupò la Siria. Sconfittolo rapidamente, i Romani gliela sottrassero. Ad Alessandria, dopo la morte di Tolemeo Latiro salirono al trono i suoi figli: ad uno fu data Cipro, che però gli fu tolta dai Romani su proposta di Clodio; l’altro, invece, si rifugiò a Roma incalzato da una sommossa ad Alessandria e riottenne il potere grazie ad una spedizione guidata da Gabinio. Alla sua morte gli succedette il figlio, il quale, entrato in guerra contro la sorella Cleopatra, uccise Pompeo Magno e combatté ad Alessandria contro Cesare. Dopo di lui regnò la sorella Cleopatra che, legato a sé Marco Antonio in una relazione amorosa, con l’esito della guerra di Azio segnò l’estinzione del regno dei Tolomei.

Questo, invece, è il libro corrispondente: LIBER XL Mutuis fratrum odiis et mox filiis inimicitiis parentum succedentibus cum inexpiabili bello et reges et regnum Syriae consumptum esset, ad externa populus auxilia concurrit peregrinosque sibi reges28 circumspicere coepit. Itaque cum pars Mithridatem Ponticum, pars Ptolomeum ab Aegypto arcessendum censeret, occurreretque quod et Mithridates inplicitus bello Romano esset, Ptolomeus quoque hostis semper fuisset Syriae, omnes in Tigranen, regem Armeniae, consensere, instructum praeter domesticas vires et Parthica societate et Mithridatis adfinitate. Igitur accitus in regnum Syriae per X et VIII annos tranquillissimo regno

27

I codici hanno seditione flagitatus (così per Seel, Arnaud-Lindet), lezione che crea qualche difficoltà perché la costruzione non è attestata, e pertanto il verbo è corretto da Bongars in seditione exagitatus (Ruehl, Galdi). L’uso del latino mi induce, però, a proporre seditione efflagitatus: cfr. ThlL s.v. efflagito col. 188 rr. 21 ss.; Cic. leg. agr. 2, 3: nec diuturnis precibus efflagitatus; Liv. 4, 60, 2: suis sermonibus efflagitatum. 28 Peregrinosque sibi reges è lezione di π (regis) ι γ (Galdi, Ruehl, Arnaud-Lindet); Seel segue invece τ (peregrinosque reges sibi). Preferibile, a mio parere, la lezione della maggioranza, in quanto coerente con l’usus dell’opera, cfr. Iust. 2, 7, 11: insolitis sibi versibus; 21, 2, 9: solitamque sibi saevitiam; 29, 3, 5: metuendumque sibi quoque certamen; 31, 2, 7: exitiosamque sibi fugam.

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potitus est; neque bello alium lacessere neque lacessitus inferre alii bellum necesse habuit. Sed sicut ab hostibus tuta Syria fuit, ita terrae motu vastata est, quo centum septuaginta milia hominum et multae urbes perierunt. Quod prodigium mutationem rerum portendere aruspices responderunt. Igitur Tigrane a Lucullo victo rex Syriae Antiochus, Cyziceni filius, ab eodem Lucullo appellatur. Sed quod Lucullus dederat, postea ademit Pompeius, qui poscenti regnum respondit ne volenti quidem Syriae, nedum recusanti daturum se regem, qui X et VIII annos, quibus Tigranes Syriam tenuit, in angulo Ciliciae latuerit, victo autem eodem Tigrane a Romanis alieni operis praemia postulet. Igitur ut habenti regnum non ademerit, ita quo cesserit Tigrani, non daturum, quod tueri nesciat, ne rursus Syriam Iudaeorum et Arabum latrociniis infestam reddat. Atque ita Syriam in provinciae formam redegit, paulatimque Oriens Romanorum discordia consanguineorum regum factus est. LIBRO XL Dato che i re e il regno della Siria si erano consumati in una guerra implacabile per l’odio reciproco dei fratelli e perché poi i figli erano subentrati alle inimicizie dei padri, il popolo fece ricorso ad aiuti esterni e iniziò a cercarsi re forestieri. E così poiché una parte riteneva che si dovesse far venire Mitridate re del Ponto, un’altra Tolemeo dall’Egitto, ma Mitridate si trovava coinvolto nella guerra contro i Romani, mentre, dal canto suo, Tolemeo era stato sempre nemico della Siria, alla fine tutti si trovarono d’accordo su Tigrane, re dell’Armenia, che era provvisto, oltre che delle forze sue proprie, anche di un vincolo di alleanza con i Parti e di una parentela con Mitridate. Pertanto Tigrane, chiamato al governo della Siria, regnò in assoluta pace per diciotto anni e non si trovò nella necessità né di attaccare altri né, subendo un attacco, di muovere guerra ad un altro. Ma se da un lato la Siria fu al riparo dai nemici, dall’altro fu devastata da un terremoto, nel quale morirono centosettantamila persone e molte città furono distrutte. Gli aruspici risposero che quel prodigio preannunciava un cambiamento della situazione. Infatti Tigrane fu sconfitto da Lucullo e Antioco, figlio di Ciziceno, fu nominato re della Siria dal medesimo Lucullo. Ma ciò che Lucullo aveva concesso fu successivamente revocato da Pompeo; egli, infatti, ad Antioco che reclamava il regno rispose che alla Siria, neppure se questa avesse voluto (e a maggior ragione contro la sua volontà), avrebbe dato un re che si era nascosto in un angolo della Cilicia per i diciotto anni in cui aveva regnato Tigrane, e che dopo la sconfitta del medesimo Tigrane chiedeva ai Romani la ricompensa per un’opera che altri avevano compiuto. Pertanto, come egli non avrebbe sottratto il regno al suo legittimo possessore, così, dato che Antioco l’aveva ceduto a Tigrane, non gli avrebbe restituito un regno che non sarebbe stato in grado di difendere, e questo per non rendere nuovamente la Siria preda delle scorrerie dei Giudei e degli Arabi. E così Pompeo ridusse la Siria a provincia e a poco a poco l’Oriente divenne possesso dei Romani a causa della discordia tra i re consanguinei.

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La brevità del libro suggerisce che ben scarsa parte dell’ampia materia originale abbia incontrato il gusto di Giustino: si conserva, seppur in maniera assai concisa, l’ascesa di Tigrane al trono di Siria, la sua sconfitta per mano di Lucullo e la conseguente riduzione della Siria a provincia romana29. L’apertura è, ancora una volta, problematica per chi volesse leggere l’opera di seguito, dal momento che i personaggi non vengono designati per nome, ma genericamente in termini di fratres, filii e parentes, titoli a cui difficilmente si può associare un’identità, dal momento che il libro precedente si chiudeva con le vicende del re arabo Erotimo (39, 5, 6). Condensate al massimo le notizie politiche, vi è però spazio per l’ennesima scena dialogica dai toni sentenziosi quale lo scambio di battute tra Pompeo e Antioco. Tuttavia, a ulteriore dimostrazione della scarsa attenzione di Giustino per la coerenza complessiva del suo testo, questo passo presenta alcune criticità dal punto di vista della ricostruzione storiografica: nel secondo paragrafo, infatti, ricompare un seleucide, quando poche righe prima il lettore aveva appreso della completa scomparsa della dinastia (cum … et reges et regnum Syriae consumptum esset), una notizia con cui concorda anche il prologo (extinctaque regum Antiochorum). Anche il protagonista dell’episodio crea qualche difficoltà, dato che la forma Antiochus, Cyziceni filius di Giustino indica chiaramente Antioco X, mentre in realtà si trattò di Antioco XIII, che rispetto al Cyzicenus (= Antioco IX) era il nipote30. 29

Per una dettagliata analisi di questo breve libro cfr. TRAINA 2016. Per la definizione “Siria” dell’impero seleucide cfr. LEROUGE 2005, 217-252. 30 App. Syr. 49, 249; 70, 367 e Ios. Fl. AJ 13, 369. Per RIZZO (1963, 78) questa confusione risalirebbe alla fonte orale (lo zio) qui seguita da Pompeo Trogo: «le relazioni orali sono sempre imprecise e confuse. E tale doveva essere quella ascoltata da Trogo, il quale, avendo sentito parlare di un Antioco che aveva sostenuto, alla presenza di Pompeo, il suo diritto al trono, credette di identificarlo con quell’Eusebe che presso la sua fonte trovava come ultimo rappresentante della dinastia». L’ipotesi, tuttavia, rischia di essere inficiata dal fatto che la medesima confusione compare anche in un passo dei Mithridatica di Appiano (106, 500), mentre nei Syriaca si indica, correttamente, Antioco XIII. Difficile prendere una posizione, dal momento che l’onomastica approssimativa di Giustino impedisce di comprendere anche la natura di un potenziale errore da parte di Trogo. Infatti, nel caso in cui Antiochus, Cyziceni filius fosse già nell’originale, resta poco chiaro se si trattasse di una confusione solo relativa al rapporto di parentela (figlio? nipote?) tra Antioco IX e Antioco XIII, oppure se Trogo

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È questo l’effetto prodotto dalla disattenzione di Giustino per l’onomastica dei personaggi, di cui assai spesso elimina soprannomi ed epiteti a favore, invece, dell’indicazione del rapporto di parentela reciproca, una questione che avremo modo di esaminare in maniera approfondita più avanti31. Al sistematico disinteresse di Giustino per la storia romana è invece legato il completo taglio dell’ampia sezione seguente, che secondo il prologo dalla successione di Tolemeo Latiro arrivava fino alla battaglia di Azio. Resta la notizia del terremoto, con tanto di precisazione del numero delle vittime, un prodigium che ha colpito l’attenzione del breviatore32. Ai libri politematici di Trogo non corrisponde dunque una riduzione da parte di Giustino volta a seguire i fili delle varie vicende e attenta a mantenere ossatura ed equilibri dell’originale, seppur in una forma compendiata. Rispetto alla struttura trogiana Giustino si muove con notevole autonomia e con uno spiccato interesse per l’elemento aneddotico, i botta e risposta arguti e i fatti insoliti (espedienti curiosi, incontri bizzarri…), un taglio che spesso avviene a spese della concatenazione logica dei fatti. 5.1.2.

Prologi brevi, libri lunghi

La sostanziale indifferenza di Giustino rispetto alla struttura dell’originale che abbiamo verificato nella sezione precedente, si conferma anche nel caso opposto, quello cioè dei prologhi ridotti ad un’unica riga, probabilmente derivanti da un libro di Trogo dedicato ad un solo argomento. Ad essi, infatti, non corrisponde un riassunto intendesse un personaggio differente (come Antioco X), un “mistero” che l’indicazione dell’epiteto avrebbe facilmente sciolto. Per un inquadramento storiografico cfr. SALOMONE 1973, 119-125; EHLING 2008, 231-246. 31 Cfr. infra, pp. 75 ss. 32 Ricordano il sisma anche Posidonio (frg. 231 Edelstein-Kidd) e Nicolao di Damasco (FGrHist 90, F 74). Per TRAINA 2016, 110 il fatto che Giovanni Malalas (11, 8) non annoveri questo terremoto tra i più gravi avvenuti ad Antiochia potrebbe suggerire che l’evento sia stato meno disastroso di quanto appaia leggendo solo Giustino, dove è portato in primo piano da una vertiginosa riduzione. In merito si vedano anche GUIDOBONI ‒ COMASTRI ‒ TRAINA 1994, 164-168; TRAINA 1995, 486-488.

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particolarmente breve, che in qualche misura rifletta l’unitarietà della materia trattata nell’originale; anche in questi casi, come vedremo, la storia di Pompeo Trogo viene da Giustino smembrata in flores in sé conchiusi. Esempi di estrema brevitas sono i sommari dei libri IV, XI e XLIV. Cominciamo con il libro IV: PROLOGVS LIBRI IV Quarto volumine continentur res Siculae, ab ultima origine usque ad deletam Syracusis Atheniensium classem. PROLOGO DEL LIBRO IV Nel quarto libro sono contenute le vicende della Sicilia, dalla più remota origine fino alla distruzione della flotta ateniese a Siracusa.

Alla stringatezza di questo prologo si oppone un libro di Giustino abbastanza esteso (cinque capitoli, sei pagine Teubner) e ricco di informazioni spigolate. Della digressione sulla conformazione geografica della Sicilia si salvano alcune curiositates sui vulcani (4, 1, 1-6), una nota etimologica sul nome Reggio (4, 1, 7) e l’interpretazione razionalistica dei tanti miti che riguardano l’isola, in modo particolare di Scilla e Cariddi 33 . Per quanto riguarda la storia politico-militare, ancora una volta il breviatore rende le vicende indeterminate, come mostrano le informazioni su Anassilao: Anaxilaus iustitia cum ceterorum (scil. tyrannorum) crudelitate certabat, cuius moderationis haud mediocrem fructum tulit; quippe decedens cum filios parvulos reliquisset tutelamque eorum Micalo, spectatae fidei servo, commisisset, tantus amor memoriae eius apud omnes fuit, ut parere servo quam deserere regis filios mallent principesque civitatis obliti dignitatis suae regni maiestatem administrari per servum paterentur. (4, 2, 4-5)

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Iust. 4, 1, 8-18. Della razionalizzazione del mito in Pompeo Trogo si parlerà infra, pp. 137 ss.

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Anassilao con la sua giustizia lottava contro la crudeltà degli altri tiranni e di questa moderazione trasse frutti di non poco conto. Alla sua morte, infatti, avendo lasciato i figli ancora piccoli sotto la tutela di Micalo, uno schiavo di comprovata lealtà, ci fu tanto generale rispetto per la sua memoria che si preferì obbedire ad uno schiavo piuttosto che abbandonare figli del re, e i cittadini più in vista, dimentichi della loro posizione sociale, lasciarono che la maestà del regno fosse gestita per tramite di un servo.

In coerenza col suo solito disinteresse per la geografia, Giustino non precisa neppure la città in cui si svolgono le vicende (Reggio) e anche il nome Micalo, lezione della maggioranza dei codici34, crea qualche difficoltà, dal momento che le fonti greche lo chiamano Μίκυθος35 ; imprecisa e deprivata della sua cornice geopolitica, la storia sfuma nella solita dimensione indefinita dell’exemplum edificante36. Andando avanti, negli ultimi due capitoli Giustino compendia una lunga fase di guerre rendendo nuovamente vaghi i riferimenti temporali con l’inserimento di alcune tra le sue formule standard, come interiecto deinde tempore37. Non si tratta di un intervento neutro: al contrario, esso ha pesanti conseguenze sul dato storico dell’originale, in quanto genera un rapporto di causa-effetto anche tra eventi che non hanno una relazione reciproca, come l’ambasceria dei catanesi in seguito alla quale Atene decise di inviare in Sicilia un’imponente spedizione sotto la guida di Nicia, Alcibiade e Lamaco (415) e la punizione degli strateghi ateniesi, che era avvenuta subito dopo la pace di Gela e il ritorno in patria degli stessi strateghi (424)38.

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Micalo (τ ι e D), Mecalo (π). Hdt. 7, 170, 3; Diod. Sic. 11, 48, 2; 66, 1-3. 36 Cfr. VATTUONE 2014, 264: «a Giustino non interessa nulla della sorte amara di Regio e del suo “impero” dello stretto: non solo il nome del tutore è errato, ma l’intera vicenda assume un colorito aneddotico». 37 Cfr. anche Iust. 4, 4, 4: brevi post tempore revocato ad reatum Alcibiade duo proelia pedestria secunda Nicias et Lamachos faciunt. Di queste formule di passaggio si è già parlato supra, pp. 22 ss. 38 Come noto da Thuc. 4, 65, 3; Philoch. FGrHist 328 F 127. Cfr. CATALDI 1996, 6163, SANTI AMANTINI 1981, 160; FANTASIA 2014, 137-139 (che definisce questa sezione del racconto di Giustino «selvaggiamente compressa e in parte sfigurata dal punto di vista cronologico e motivazionale»); VATTUONE 2014, 265-271; ZECCHINI in MINEO 2016A, 195-196. 35

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La tecnica epitomatoria Interiecto deinde tempore, cum fides pacis a Syracusanis non servaretur, denuo legatos Athenas mittunt [sogg. Catinienses], qui sordida veste, capillo barbaque promissis et omni squaloris habitu ad misericordiam commovendam adquisito contionem deformes adeunt; adduntur precibus lacrimae et ita misericordem populum supplices movent, ut damnarentur duces, qui ab his auxilia deduxerant. (4, 4, 1-2) Trascorso quindi del tempo, siccome i Siracusani non custodivano gli accordi di pace, i Catanesi mandarono nuovamente ambasciatori ad Atene. Questi, vestiti miseramente, con barba e capelli incolti e atteggiatisi a lutto in ogni aspetto in modo da suscitare compassione, così malandati si presentarono in assemblea; alle preghiere aggiunsero lacrime e con le suppliche e a tal punto commossero quel popolo misericordioso, che quei generali che avevano ritirato da Catania le truppe ausiliarie vennero condannati.

Se la consequenzialità tra i fatti istituita dal taglio di Giustino è arbitraria da un punto di vista storico, notevole è però il suo effetto letterario, in quanto dà immediato esito alla supplica: l’episodio viene così a strutturarsi in maniera chiara, con un inizio, uno sviluppo particolareggiato e una fine. Va poi rilevato come non solo Giustino ricordi l’aspetto e l’atteggiamento dei legati, ma lo stesso pezzo dell’ambasceria rispetti tutti i colores che la tradizione retorica prescriveva ai supplici. Allo stesso modo, poco più avanti, anche qui in contrasto rispetto al contesto di forte riduzione, Giustino riserverà discreto spazio all’orazione di Demostene (4, 5, 2-3), evidente segno di un interesse che va in questa particolare direzione. Anche negli altri due casi di prologhi ridottissimi si conferma come la tecnica epitomatoria sia volta non a dar conto dell’originale, ma a selezionare una serie di brani non per forza significativi nell’ottica di una historia universalis, quanto piuttosto rispondenti ad un gusto e ad intenti diversi e, di conseguenza, distanti dalla storiografia. Allo stringatissimo prologo al libro XI (undecimo volumine continentur res gestae Alexandri Magni usque ad interitum regis Persarum Darii, dictaeque in excessu origines et reges Cariae) corrisponde uno dei più lunghi libri dell’Epitoma (quindici capitoli, altrettante pagine Teubner). Tuttavia, pur nella brevitas dovuta al carattere monotematico dell’originale, il sommario non manca di registrare la presenza di un excursus (origini e re della Caria), che invece Giustino taglia comple-

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tamente. Il libro XI dell’Epitoma, infatti, pur essendo molto esteso, non segue tanto le vicende di Alessandro lungo una sequenza coerente e continua, ma cuce insieme aneddoti, exempla e prodigia, ancora una volta a discapito degli aspetti tattico-strategici, questi i più soggetti a tagli bruschi e imprecisioni, tanto che il racconto delle gesta del Macedone in Giustino in alcuni punti è stato definito un «historical nonsense»39. Non diversamente l’ultimo libro (XLIV), anche questo reso in maniera molto concisa dal prologo (quarto et quadragensimo volumine continentur res Hispaniae et Punicae) trova nell’Epitoma uno spazio piuttosto esteso (7 pagine Teubner), ma che si risolve nel consueto accostamento di notizie spigolate, come curiosità etimologiche (44, 1, 2), aneddoti40, exempla edificanti (44, 2, 8) e alcuni miti. Si conservano infatti le origini dei Galleci da Teucro (44, 3, 2-3), le vicende di Gerione41, ma soprattutto quelle di Habis e Gargori, che si estendono per un intero capitolo e di cui Giustino costituisce l’unica fonte 42 . Quando però dal mito si passa alla storia, l’interesse del compendiatore scema e al dettaglio riservato alla leggenda di Habis e Gargori si contrappone il brusco taglio di quanto seguiva, che finisce coperto da una delle consuete espressioni di sunto: mortuo Habide regnum per multa saecula ab successoribus eius retentum (44, 4, 14).

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Definizione di Heckel in YARDLEY ‒ HECKEL 1997, 39, il quale compila un dettagliato elenco dei punti in cui i tagli di Giustino distorcono il dato storico su Alessandro. Cfr. anche PRANDI 2015, 5. 40 Iust. 44, 2, 4: celebratur etiam bello Punico servi illius patientia, qui ultus dominum inter tormenta risu exultavit serenaque laetitia crudelitatem torquentium vicit. Si tratta, probabilmente, del medesimo episodio, che compare poco sotto, in 44, 5, 5: qui et ipse a servo Hispani cuiusdam, ulciscente domini iniustam necem, interfectus est, anche se Giustino non segnala la convergenza. 41 Iust. 44, 4, 14-16. Il riferimento a questo mito era già in 42, 3, 4 e 43, 1, 9. 42 Iust. 44, 4, 1-14. La selezione di Giustino ha qui conservato un mito che nonostante le indubbie somiglianze con analoghi greci, è stato interpretato come prodotto originale della cultura locale, come si dirà in maniera più approfondita infra, p. 154.

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5.2.

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Una pagina che sa di uomo (e di donna)

L’analisi fin qui condotta ha messo in luce come la struttura dell’originale abbia poco condizionato la tecnica epitomatoria di Giustino. Infatti, sia laddove il libro di Trogo offriva una pluralità di argomenti, sia quando, invece, era incentrato sulle vicende di un singolo popolo o di una specifica area geografica, il breviatore ha invariabilmente ritagliato episodi circoscritti, cuciti insieme con ben scarsa attenzione per la concatenazione logica generale43. Un tale esito ci permette dunque di ritornare con maggiore consapevolezza a quell’affermazione cognitione dignissima excerpsi con cui Giustino qualifica i criteri alla base della sua selezione, una dichiarazione il cui significato inizia ora a chiarirsi. Più che narrare una sequenza continua di eventi, Giustino si muove nelle Historiae Philippicae andando alla ricerca o dell’elemento insolito o della componente umana. Al primo filone va ricondotta la lunga serie di curiositates e mirabilia che l’epitomatore assai di frequente spigola dall’ampio dettato di Trogo. Oltre a questo, tuttavia, la pagina dell’Epitoma fondamentalmente hominem sapit: asciugati i resoconti di guerre e battaglie, degli aspetti politico-militari della storia Giustino preferisce conservare intrighi, espedienti, dialoghi, botta e risposta arguti, scene patetiche, reazioni di fronte alle sventure44 . Si aggiungono poi, naturalmente, ritratti e vicende aneddotiche di singoli personaggi, siano essi leggendari o eroici (e di questi Giustino ama ricordare i precoci segni di una futura grandezza)45, siano invece brutti, ridicoli o grotteschi. Soprattutto a questi monstra Giustino non lesina spazio, riservando loro capoversi interi di un testo in cui le grandi 43

Come notava già CASTIGLIONI 1925, 6 «non è affatto l’importanza dei fatti e tanto meno la loro successione e connessione quello che importa e che vale ad attrarre le cure dell’autore». 44 FERRERO 1957, 150 parla di una «abitudine dell’epitomatore a compendiare piuttosto gli eventi che non le situazioni psicologiche e le osservazioni ed i giudizi morali». 45 Numerosi, infatti, i racconti di esposizioni e salvataggi miracolosi di neonati destinati al regno. Si vedano Iust. 1, 4, 2-14 (Ciro); 15, 4, 13-20 (Sandrocotto/Chandragypta, anche se in questo caso il ragazzo viene allontanato quando è già adolescente); 23, 4, 3-11 (Gerione); 43, 2, 4-10 (Romolo e Remo); 44, 4, 2-11 (Habis). Per la rilevanza di questa particolare attenzione di Giustino cfr. infra, p. 112.

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battaglie sono liquidate in poche parole: spiccano così i bozzetti dell’effeminato Sardanapalo, di Dionigi II, grasso e semi-cieco, del mostruoso Tolemeo VI, che per la nimia sagina aveva perso addirittura il sensus hominis e del suo successore, l’altrettanto repellente Tolemeo VIII46. Vi è però una categoria in particolare ad attirare costantemente l’attenzione del breviatore: le donne. Nelle pagine dell’Epitoma, infatti, l’universo femminile si mostra in azione nelle sue mille sfaccettature, una preponderanza tematica che non trova medesimo riflesso nei Prologi, segno questo del fatto che a portarla in primo piano è stata, ancora una volta, la selezione di Giustino 47 . Molti, infatti, sono gli aneddoti che trovano scioglimento finale grazie all’intervento di una donna, che smaschera un usurpatore, riesce a leggere un messaggio cifrato o nel segreto dell’alcova rivela all’amante intrighi e congiure48. Numerose sono anche le cosiddette “donne virili” o comunque molto attive in campo politico: ampio è il risalto che l’Epitoma concede alla vicenda di Semiramide, così come a quella di Artemisia, regina di Alicarnasso e a Elissa, che giganteggia per un’intraprendenza in grado di inicere metum omnibus49. Non è solo il caso di singoli personaggi: degne di essere inserite nel compendio sono poi le virtuose Scite, così come le intraprendenti donne persiane, che, vedendo gli uomini esitare in battaglia, si fanno loro incontro cunctantibus sublata veste obscena corporis ostendunt rogantes, num in uteros matrum uel uxorum vellent 46

Iust. 1, 3, 2 (Sardanapalo); 21, 2, 1 (Dionigi II); 34, 2, 7 (Tolemeo VI, già menzionato supra, p. 59 n. 22); 38, 8, 9-10 (Tolemeo VIII, passo citato per esteso infra, pp. 88 ss.). 47 I Prologi menzionano Olimpiade (prol. XIV), Arsinoe II (prol. XVII e XXIV), Agatoclea (prol. XXX) Cleopatra II (prol. XXXVIII e XXXIX, cfr. infra, p. 77 n. 11) e Cleopatra VII (prol. XL, cfr. supra, pp. 61 ss.), figura di cui Giustino, in coerenza con il suo costante taglio della storia romana, non parla. Hanno studiato la massiccia presenza femminile all’interno dell’Epitoma COMPLOI 2002 ed EMBERGER 2008. 48 Iust. 1, 9, 9-18; 2, 10, 16; 5, 2, 5; 7, 4, 7; 27, 3, 11; 43, 4, 8. 49 Iust. 1, 2 (Semiramide); 2, 12, 22-25 (Artemisia), 18, 4-6 (Elissa). Quest’ultima compare non nella versione virgiliana del mito, bensì in quella più antica, dove ElissaDidone si suicida per non sposare Iarba, il re dei Massitani. In merito si veda BONO ‒ TESSITORE 1998, 59 ss. che definisce tale variante «decisamente orientata a sottolineare la personalità della regina». Su tutte queste figure si leggano le disamine di CAPOMACCHIA 1986; COMPLOI 2002, 341-342 ed EMBERGER 2008, 33-35 e 40-44, mentre per un inquadramento della figura della donna virile cfr. PETRONE 1995; MALASPINA 1996.

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refugere50. Oltre a queste, in coerenza col gusto di Giustino per i risvolti sanguinosi del potere, l’Epitoma presenta un catalogo assai fornito di figure femminili intriganti e malvagie: lunga, infatti, è la serie di omicidi, complotti, avvelenamenti e seduzioni incestuose che vedono come protagonista una donna51. In questo ambito particolarmente affollata è poi la categoria delle regine assetate di potere, da Olimpiade fino alle numerose sovrane tolemaiche e seleucidi costantemente impegnate in efferate contese familiari, come avremo modo di vedere in seguito52. Il fatto che tutti i flores spiccati da Giustino possano essere suddivisi in categorie definite indica pertanto che il compendio rappresenta l’esito di un progetto coerente, dotato di una struttura perspicua (l’aneddoto chiuso in se stesso) e costruito lungo linee di interesse ben individuabili: l’exemplum, la curiositas, il dialogo e la componente umana, con particolare attenzione all’elemento femminile. Ciò ha determinato anche quel profondo cambiamento di prospettiva tra epitome e originale che abbiamo spesso segnalato: la selezione di Giustino finisce per portare in primo piano temi e figure che nella storia universale di Pompeo Trogo dovevano occupare una posizione subalterna, se non lo sfondo tout court53. Da queste considerazioni sorge quindi la domanda successiva: i particolarissimi criteri con cui Giustino ha epitomato il suo originale hanno determinato solo un mutamento di equilibri rispetto alle Historiae Philippicae, oppure ne hanno in qualche misura modificato o distorto i contenuti? E con quali intenti e pensando a quale pubblico?

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Iust. 1, 6, 13 (Persiane) e 2, 1, 2-4 (Scite), su cui COMPLOI 2002, 336-343. Ad esempio Iust. 17, 1, 4; 37, 1, 4; 37, 3, 4. 52 Cfr. infra, cap. 7.2.1. 53 Oltre ai casi già citati si può ancora menzionare il libro V, dove domina Alcibiade, che il prologo neppure menziona. Probabile quindi che nel ben più ampio contesto storico di Trogo tale figura avesse un rilievo assai minore, come già notavano ANGELI BERTINELLI ‒ GIACCHERO 1974, 43. Ugualmente il libro XXI è quasi interamente dedicato alle malefatte di Dionigi II di Siracusa una centralità che non era nell’originale, dal momento che il prologo corrispettivo registra una pluralità di temi e personaggi. Parla di una tendenza da parte di Giustino «a tenere agganciata la narrazione a un personaggio una volta che lo si elegge a protagonista» FANTASIA 2014, 143. 51

VI. GIUSTINO E LA STORIA Ritorniamo ancora una volta a quei pochi dati della praefatio: durante un soggiorno romano, un tal Giustino decide di impiegare il suo otium compilando una sorta di florilegio di una storia universale scritta qualche secolo prima. Questa attività, come si è visto, è stata da alcuni critici collegata a quella preoccupazione per la salvaguardia dei grandi storiografi particolarmente viva a fine IV secolo. L’analisi condotta nelle sezioni precedenti, però, ha messo in luce come la spiccata preferenza del compendiatore per l’aneddoto sia accompagnata da una sostanziale disattenzione per il dato storico dell’originale, trattato con scarsissima accuratezza. Tale negligenza non è priva di conseguenze e determina una serie di distorsioni: alcune, come vedremo, paiono per lo più l’esito della necessità di abbreviare; altre, invece, sembrano incursioni di Giustino, che in alcuni punti non esiterebbe ad apportare lievi modifiche al testo di Trogo per meglio rispondere agli intenti da cui era mosso nella compilazione del breviario. 6.1.

Una storia senza spazio né tempo

Iniziamo da una considerazione di portata generale: il lettore che si accostasse all’Epitoma per apprendere davvero la storia universale divisa temporibus (come, dice Giustino, doveva essere l’originale di Trogo) ne rimarrebbe assai deluso, dato che il breviario è pressoché privo di coordinate riguardanti spazio e tempo1. È questo, infatti, uno degli esiti più significativi del costante ripetersi di quelle indicazioni del tutto generiche con cui Giustino collega le vicende, espressioni che, come abbiamo visto, sono poco più di nessi indeterminati sulla semplice anteriorità, contemporaneità o posteriorità degli eventi2 . Di 1

Sull’intelaiatura cronologica dell’originale di Trogo cfr. CASTIGLIONI 1925, 3; FORNI 1958, 98-102; YARDLEY ‒ HECKEL 1997, 25-29; SANTI AMANTINI 2003. 2 Cfr. supra, pp. 22 ss.

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conseguenza, la solida intelaiatura cronologica di Trogo finisce per essere completamente smantellata. Anche tutta una serie di tagli operati in maniera quasi sistematica, sebbene a prima vista mossi dalle necessità del compendiare, hanno apportato profonde modifiche all’impianto dell’originale, ridotto ad una genericità che inficia fortemente la comprensione dello sviluppo dei fatti narrati, al punto che la possibilità di una lettura continua e non “per bozzetto” diviene quasi impossibile. Appartengono a questa categoria innanzitutto quella sistematica soppressione degli eventi politici e militari che abbiamo spesso notato e che ci permette ora di affermare che quelle ricorrenti formule che segnalano l’intervento del breviatore vanno invariabilmente a coprire guerre e battaglie. Non solo: anche nei (pochi) casi in cui tali dati sopravvivono, Giustino li rende assai vaghi con espressioni come alia (gravia, pluria, multa, magna) bella, multa (secunda, periculosa) proelia, multae clades, post magnas res o anche multae urbes (civitates) captae3. Indicazioni poco precise come ceteraeque civitates banalizzano elenchi dettagliati di città alleate, nemiche o conquistate4; pari terminologia generica è riservata a intrecci storici complessi: si prenda ad esempio il costante ricorrere della parola insidiae o di formule quali per dolum o fraude, tutti nessi sotto cui spesso si nascondono sviluppi politici, anche quelli di fondamentale rilevanza per la comprensione delle vicende5.

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Alia (gravia, plura, multa, magna) bella: 7, 4, 6; 7, 5, 10; 7, 7, 1; 11, 6, 15; 24, 4, 5; 41, 6, 3; 42, 2, 4; 43, 5, 1; 44, 5, 7; multa (secunda, periculosa) proelia: 11, 15, 4; 23, 3, 4; 36, 4, 7; multae clades: 2, 7, 8; magnae res: 1, 2, 5; 6, 2, 10; 18, 7, 2; 43, 3, 4; multae urbes (civitates) captae: 3, 5, 2; 19, 3, 3; 31, 8, 9; 42, 3, 1. 4 Cfr. Iust. 3, 5, 2; 8, 4, 3; 12, 13, 1; 13, 5, 10; 34, 2, 6; 39, 1, 3. 5 Insidiae e derivati nell’opera di Giustino hanno quarantacinque attestazioni (lo stesso numero di Ammiano Marcellino, testo ben più esteso rispetto all’Epitoma). In questo senso, un ottimo esempio viene da Iust. 43, 4, 6, dove la parola insidiae è ripetuta sei volte, contando anche il participio del verbo insidiare: his incitatus rex insidias Massiliensibus struit … ut, cum nocte a praedictis apertae portae forent, tempestive ad insidias adesset urbemque somno ac vino sepultam armatis invaderet. Sed has insidias mulier quaedam regis cognata prodidit, quae adulterare cum Graeco adulescente adsolita in amplexu iuvenis miserata formae eius insidias aperuit … Quibus omnibus interfectis insidianti regi insidiae tenduntur. Tra le altre ricorrenze si vedano, ad esempio, Iust. 3, 5, 1; 7, 6, 6; 12, 13, 10; 16, 1, 8; 17, 2, 5; 27, 3, 8; 34, 4, 2; 38, 8, 11;

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Ugualmente compromessa è poi la geografia6, a partire dalla fortissima riduzione delle digressioni di carattere geo-etnografico, che Giustino taglia o limita al racconto di un fatto bizzarro, spesso un mito7 . Più grave ancora e densa di conseguenze per la comprensione generale è poi la costante eliminazione dei riferimenti topografici, soprattutto quelli delle battaglie, un’indifferenza che colpisce anche gli scontri più celebri, che spesso compaiono nel testo in una forma irriconoscibile8. Ruolo di indubbio rilievo ha poi il trattamento impreciso che Giustino riserva all’onomastica, la cui massima espressione è il taglio degli epiteti dei sovrani ellenistici. Trogo, naturalmente, li inseriva9 , ma a Giustino non devono essere parsi materiale interessante visto che li elimina in modo pressoché meccanico, conservandoli solo in un paio di casi e sempre per il loro richiamare un aspetto curioso10 . L’ordinata 38, 10, 8; 39, 4, 6. Per dolum in 2, 8, 6; 8, 3, 6; fraude in 1, 8, 9; 1, 9, 13; 5, 5, 5; 7, 5, 6; 8, 6, 3; 15, 2, 5. 6 Cfr. CASTIGLIONI 1925, 6: «anche la geografia come ordinata e continua descrizione dei luoghi non trova grazia nel nostro autore; ma se qualche elemento di essa gli sembra interessante e curioso, noi lo vediamo comparire anche isolato». 7 Cfr. supra, p. 48. 8 Cfr. i cataloghi di CASTIGLIONI 1925, 4-6 («se la cronologia degli avvenimenti è nel sunto scomparsa o ridotta a ruderi ingombranti, anche la topografia e il giusto ordine dei fatti non sono trattati con riguardi molto maggiori» e p. 6 n. 1, dove parla di «assoluta indifferenza verso il dato topografico» da parte di Giustino), così come quello di FORNI 1958, 93-98. Ad esempio, Giustino tace il nome di Platea (2, 14, 4), di Mantinea (6, 7, 10-12) o di Cheronea (9, 3, 5-9, già menzionato supra, p. 50), mentre in 5, 6 le battaglie delle Arginuse e di Egospotami sono compresse in un unico evento, così da risultare irriconoscibili. Cfr. JAL 1987, 198; FANTASIA 2014, 129; 149; 152; THORNTON 2016, 20. 9 Cfr. a titolo di esempio prol. XXIV: bellum quod inter Antigonum Gonatam et Antiochum Seleuci filium in Asia gestum est. Bellum, quod Ptolomaeus Ceraunus in Macedonia ... habuit; prol. XXVII: Seleuci bellum in Syria adversus Ptolomaeum Tryphonem: item in Asia adversus fratrem suum Antiochum Hieracem, quo bello Ancurae victus est a Gallis. Nei libri corrispondenti di Giustino, invece, si parla solamente di Antigonus e Ptolomaeus. Per la sistematica eliminazione dei soprannomi dei personaggi cfr. il catalogo di FORNI 1958, 102-109. 10 Cfr. Iust. 29, 1, 5 dove si ricorda che Tolemeo IV fu chiamato ironicamente Filopatore, perché si era impadronito del regno dopo aver ucciso i genitori: Aegyptum patre ac matre interfectis occupaverat Ptolomeus, cui ex facinoris crimine cognomentum Philopator fuit. In Iust. 39, 1, 9 si conserverebbe anche Grifo, epiteto di Antioco VIII legato alle dimensioni del naso: cui propter nasi magnitudinem cognomen Grypos fuit (Grypos è ottima correzione dell’editore cinquecentesco Bongars rispetto a

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storia ellenistica di Pompeo Trogo si trasforma così in una serie confusa di aneddoti in cui si succedono personaggi omonimi, le cui vicende risultano difficilmente collocabili in uno scenario più ampio rispetto a quello dell’exemplum. Per comprendere meglio gli effetti di questi interventi si può prendere a modello il libro XXXIX, di cui si riportano qui i primi quattro paragrafi: Antiocho in Parthia cum exercitu deleto frater eius Demetrius obsidione Parthorum liberatus ac restitutus in regnum, cum omnis Syria in luctu propter amissum exercitum esset, quasi Parthica ipsius ac fratris bella, quibus alter captus, alter occisus erat, prospere cessissent, ita Aegypto bellum inferre statuit, regnum Aegypti Cleopatra socru pretium auxilii adversus fratrem suum pollicente. Sed dum aliena adfectat, ut adsolet fieri, propria per defectionem Syriae amisit, siquidem Antiochenses primi duce Tryphone, execrantes superbiam regis, quae conversatione Parthicae crudelitatis intolerabilis facta erat, mox Apameni ceteraeque civitates exemplum secutae per absentiam regis a Demetrio defecere. Ptolomeus quoque, rex Aegypti, bello ab eodem petitus, cum cognovisset Cleopatram, sororem suam, opibus Aegypti navibus inpositis ad filiam et Demetrium generum in Syriam profugisse, inmittit iuvenem quendam Aegyptium, Protarchi negotiatoris filium, qui regnum Syriae armis peteret. (39, 1, 1-4) Dopo che Antioco fu sbaragliato in Partia insieme con l’esercito, suo fratello Demetrio venne liberato dall’assedio dei Parti e ricollocato nel regno; mentre tutta la Siria era in lutto per la perdita dell’esercito, egli, come se se le campagne partiche sue e del fratello (in cui uno era stato catturato e l’altro ucciso) fossero state un successo, decise di muover guerra all’Egitto, dato che sua suocera Cleopatra gli prometteva il regno d’Egitto come ricompensa dell’aiuto contro il fratello di lei. Ma, come suole accadere, mentre cercava di impossessarsi del regno altrui perse il suo a causa della defezione della Siria: primi a ribellarsi a Demetrio furono gli Antiocheni, che sotto la guida di Trifone contestavano la superbia del re, fattasi intollerabile dal contatto con la crudeltà partica; presto, approfittando dell’assenza del sovrano, ne seguirono l’esempio gli Apamensi e le altre popolazioni. Anche Tolemeo, re d’Egitto, il quale era stato attaccato da Demetrio, venuto a sapere che Cleopatra, sua sorella, caricate sulle navi le ricchezze dell’Egitto era fuggita in Siria dalla figlia e dal genero Demetrio, mandò un giovane egiziano, figlio del mercante Protarco, a conquistare con le armi il regno di Siria.

cypro/cipro dei codici, che non comprendendo più il soprannome, lo avrebbero trasformato nel toponimo). Sul personaggio e sui suoi soprannomi cfr. R.E. s.v. Antiochos n. 31, coll. 2480-2483; BRODERSEN 1989, 225; MUCCIOLI 2013, 247.

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Spariti i soprannomi (che il prologo conserva, ulteriore conferma della loro presenza nell’originale)11, il centro della scena è occupato dall’andirivieni di personaggi omonimi, ai cui movimenti fanno da corredo i soliti commenti sentenziosi. I pochi dati storici sono poi problematici: Tryphon, il nome dell’istigatore della sedizione secondo il consenso dei codici, non solo è ignoto a tutte le altre fonti, ma è anche pericolosamente simile a quello di un altro personaggio (l’usurpatore Trypho), che era comparso in precedenza, un’affinità forse esito di una confusione di Giustino che, ormai lo sappiamo, all’onomastica prestava ben poca attenzione12. Una banalizzazione è invece quella sottesa alla formula ceteraeque civitates, dietro a cui nell’originale si doveva nascondere un ben più preciso elenco delle città coinvolte13. È possibile dunque comprendere la storia dei regni di Siria ed Egitto leggendo Giustino? Difficilmente. Si noti infatti come, al di là della considerazione ironico-moralistica sullo scarso buonsenso di Demetrio (II), il testo non fornisca alcuna spiegazione sui motivi del suo attacco all’Egitto: il lettore viene solamente informato di una (non meglio specificata) alleanza tra questi e Cleopatra (II) e del fatto che i due fossero reciprocamente genero e suocera. Neppure questa, però, è un’indicazione chiara, dato che al matrimonio tra Demetrio II e Cleopatra Thea (figlia di Cleopatra II e Tolemeo VI) il testo aveva fatto 11

Prol. XXXIX: Nono et tricensimo volumine continentur haec. Vt extincto a Parthis Antiocho Sidete frater eius Demetrius dimissus regnum Syriae recepit subornatoque in bellum adversus eum Alexandro Zabineo interiit: filiusque eius Antiochus Grypos victo Zabinaeo regnum occupavit: dehinc cum fratre suo Antiocho Cyziceno bellum in Syria Ciliciaque gessit. Vt Alexandria mortuo rege Ptolomaeo Physcone filius eius Ptolomaeus Lathyros accepto regno expulsus est a matre Cyprum et in Syria bello petitus ab eadem, suffecto in locum eius fratre Alexandro, donec occisa per Alexandrum matre recepit Aegypti regnum. Vt post Lathyrum filius Alexandri regnarit expulsoque eo suffectus sit Ptolomaeus Nothus. Vt Syriam Iudaei et Arabes terrestribus latrociniis infestarint, mari Cilices piraticum bellum moverint, quod in Cilicia Romani per Marcum Antonium gesserunt. Vt in Syria Heracleo post mortem regis occuparit imperium. 12 Diodoto Trifone, usurpatore di Demetrio, era comparso poc’anzi, cfr. Iust. 36, 1, 7: in Syria Trypho … occiso pupillo regnum Syriae invadit e 38, 9, 3: regnum Syriae, quod per absentiam eius Trypho occupaverat. Per un inquadramento storico si vedano BOUCHÉ-LECLERQ 1913, 391 n. 1; BELLINGER 1949, 62 n. 14; SALOMONE 1973, 76, FACELLA 2016, 47. 13 Cfr. supra, p. 74.

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solo un cenno sbrigativo nel libro XXXVI. Qui narrando di come Antioco (VII Sidete) si fosse impossessato del regno approfittando dell’assenza del fratello, Giustino ne aveva ricordato il matrimonio con la regina in carica (recepta in matrimonium Cleopatra, uxore fratris)14, donna che, come si può notare, compare sulla scena all’improvviso, priva di alcun riferimento dinastico. In altre parole, la ricostruzione logica di tutti questi rapporti familiari è lasciata completamente alla deduzione del lettore, il quale, peraltro, rischia di essere ulteriormente confuso dal fatto di aver poco prima letto del matrimonio tra Demetrio II e la figlia del re parto, un’unione da cui erano nati anche dei figli15. Assai complicato, dunque, seguire la storia di questi personaggi oltre i limiti del quadretto staccato: Giustino difficilmente si preoccupa della coerenza globale della sua epitome connettendo logicamente i vari flores o segnalando la ricomparsa di personaggi che erano stati protagonisti dei libri precedenti. Un esempio analogo ci proviene dall’ulteriore lettura del libro: nel terzo capitolo, infatti, quando dal regno seleucide si passa nuovamente alla casa dei Tolemei, il racconto inizia come segue (39, 3, 1): Inter has regni Syriae parricidales discordias moritur rex Aegypti Ptolomeus regno Aegypti uxori et alteri ex filiis quem illa legisset relicto… Nel mezzo di queste discordie fratricide del regno di Siria, morì Tolemeo, re d’Egitto, lasciando il regno dell’Egitto alla moglie e a quello dei figli che lei avesse scelto…

Ancora una volta al lettore è richiesto uno sforzo sì mnemonico (riallacciarsi alle vicende del regno d’Egitto, che risalivano in larga parte al libro precedente), ma soprattuto deduttivo, dal momento che il racconto tace i passaggi chiave, in primo luogo l’esito dello scontro tra Cleopatra II e Tolemeo VIII (deve aver vinto lui, se può disporre del regno nel suo testamento…), così come l’identità storica di questa uxor (Cleopatra III) e dei suoi figli (Tolemeo IX Latiro e Tolemeo X 14

Iust. 36, 1, 9. Iust. 38, 9, 3 (matrimonio), §9 (nascita dei figli). Questa notizia è confermata anche da Appiano, Syr. 67, 356 dove la donna è però la sorella, non la figlia del re. In merito BRODERSEN 1989, 216-217; EHLING 2008, 205. 15

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Alessandro), tutte connessioni che non preoccupano l’epitomatore se non ad un livello formale assai generico. Di suo interesse è, invece, introdurre una serie di congiure di palazzo e intrighi matrimoniali, come mostra il prosieguo del libro: …videlicet quasi quietior Aegypti status quam Syriae regnum esset, cum mater altero ex filiis electo alterum hostem esset habitura. Igitur cum pronior in minorem filium esset, a populo conpellitur maiorem eligere. Cui prius quam regnum daret, uxorem ademit conpulsumque repudiare carissimam sibi sororem Cleopatram minorem sororem Selenen ducere iubet, non materno inter filias iudicio, cum alteri maritum eriperet, alteri daret. Sed Cleopatra non tam a viro repudiata quam a matre divortio viri dimissa Cyziceno in Syria nubit, eique ne nudum uxoris nomen adferret, exercitum Cypri sollicitatum velut dotalem ad maritum deducit. Par igitur iam viribus fratris Cyzicenus proelium committit ac victus in fugam vertitur. (39, 3, 1-4) …come se l’Egitto si trovasse in una condizione più pacifica rispetto al regno di Siria, dal momento che la madre, scelto uno dei due figli, era destinata a farsi nemico l’altro. Quindi Cleopatra, pur essendo più incline al figlio minore, fu costretta dal popolo a scegliere il maggiore. Tuttavia, prima di affidargli il regno, gli tolse la moglie, e dopo averlo costretto a ripudiare la sorella Cleopatra, a lui carissima, gli ingiunse di sposare la sorella minore, Selene: certo non con logica materna nei riguardi delle due figlie, dato che ad una toglieva il marito e all’altra lo dava. Ma Cleopatra, non tanto ripudiata dal marito quanto scacciata dalla madre, in seguito al divorzio dal marito sposò Ciziceno in Siria e per non portargli solo il nudo nome di moglie, sobillò l’esercito di Cipro e lo condusse al marito a mo’ di dote. E così Ciziceno, ormai pari al fratello in quanto a forze militari, lo attaccò, ma fu vinto e messo in fuga.

L’indeterminatezza di Giustino relega su un piano subalterno dati di grande importanza, uno fra tutti lo spostamento dell’esercito, che vediamo diventare quasi un semplice sfondo della vicenda passionale16. Eliminato l’aspetto politico, il racconto può così concentrarsi sul conflitto domestico, come mostra anche il lessico, particolarmente ricco di termini legati all’ambito familiare e dove gli stessi personaggi sono di preferenza qualificati sulla base del rapporto di parentela, un accumulo altrettanto evidente nella continuazione della vicenda:

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Per la ricostruzione storica degli avvenimenti cfr. HÖLBL 2001, 206; EHLING 2008, 220.

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Giustino e la storia At in Aegypto Cleopatra cum gravaretur socio regni, filio Ptolomeo, populum in eum incitat, abductaque ei Selene uxore eo indignius, quod ex Selene iam duos filios habebat, exulare cogit, arcessito minore filio Alexandro et rege in locum fratris constituto. Nec filium regno expulisse contenta bello Cypri exulantem persequitur. Unde pulso interficit ducem exercitus sui, quod vivum eum e manibus emisisset, quamquam Ptolomeus verecundia materni belli, non viribus minor ab insula recessisset. Igitur Alexander territus hac matris crudelitate et ipse eam relinquit, periculoso regno securam ac tutam vitam anteponens. Cleopatra vero timens, ne maior filius Ptolomeus a Cyziceno ad recuperandam Aegyptum auxiliis iuvaretur, ingentia Grypo auxilia et Selenen uxorem, nupturam hosti prioris mariti, mittit Alexandrumque filium per legatos in regnum revocat; cui cum occultis insidiis17 exitium machinaretur, occupata ab eodem interficitur spiritumque non fato, sed parricidio dedit; digna prorsus hac mortis infamia, quae et matrem toro expulit et duas filias viduas alterno fratrum matrimonio fecit et filio alteri in exilium acto bellum intulit, alteri erepto regno exitium per insidias machinata est. Sed nec Alexandro caedes tam nefanda inulta fuit. Nam ubi primum conpertum est scelere filii matrem interfectam, concursu populi in exilium agitur revocatoque Ptolomeo regnum redditur, quod18 neque cum matre bellum gerere voluisset, neque a fratre armis repetere, quod prior possedisset19. Ma in Egitto Cleopatra, sopportando malvolentieri di avere il figlio Tolemeo come collega nel regno, aizzò il popolo contro di lui e, toltagli la moglie Selene (atto tanto più indegno in quanto egli da Selene aveva già due figli) lo costrinse ad andare in esilio. Mandato a chiamare Alessandro, il figlio minore, lo nominò re al posto del fratello. Non contenta di aver espulso il figlio dal regno, mentre questi si trovava esule a Cipro, lo perseguitò con la guerra. Scacciatolo da lì, ella mise a morte il comandante del suo esercito perché se lo era lasciato sfuggire vivo dalle mani, sebbene Tolemeo se ne fosse andato dall’isola non perché fosse inferiore in quanto

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Cum occultis insidiis è lezione di πγ (così nelle edizioni di Ruehl e Galdi), mentre τι hanno cum occultatis insidiis (Seel, Arnaud-Lindet). Non si può individuare un particolare usus nel testo, ma la lezione di τι mi pare andare a complicare artificiosamente una frase già pesante. Inoltre, occultatae insidiae non ha paralleli, mentre occultae insidiae conosce un uso sia classico (cfr. Cic. Cat. 2, 1; Liv. 40, 8, 2; Tac. ann. 4, 67), sia più tardo (cfr. Amm. 15, 4, 7; Dyct. 2, 21; Veg. mil. 2, 25, 11). 18 Quod è lezione di πιγ (Ruehl, Galdi, Arnaud-Lindet), qui per τ (Seel). Ritengo preferibile il valore causale (già in Iust. 2, 10, 15: quaestioni res diu fuit, quod neque scriptum aliquid viderent nec frustra missas suspicarentur e 22, 4, 1: Agathocles, quod se neque viribus parem neque ad obsidionem ferendam instructum videret), dato che il congiuntivo obliquo è adeguato a riferire il parere dei sudditi. 19 Iust. 39, 4, 1 - 5, 1. L’interesse di Giustino per il conflitto familiare lo induce a conservare dettagli che non conoscono paralleli nelle altre fonti e della cui autenticità la critica ha ampiamente discusso, come l’allontanamento di Selene e la presenza di due figli; cfr. BOUCHE-LECLERCQ 1904, 94 n. 2; SALOMONE 1973, 102; BENNET 1997, 43-53. Ricostruzione storiografica in HÖLBL 2001, 211 ss. con ulteriore bibliografia.

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a forze armate, ma per ritegno nei confronti di una guerra che gli veniva mossa dalla madre. Di conseguenza Alessandro, atterrito da tale crudeltà materna, la abbandonò anch’egli, preferendo una vita tranquilla e sicura ad un regno pericoloso. Dal canto suo Cleopatra, temendo che il figlio maggiore Tolemeo per riconquistare l’Egitto venisse rifornito di truppe da Ciziceno, inviò a Grifo ingenti rinforzi e Selene in moglie, destinata a sposare il nemico del suo primo marito e tramite ambasciatori richiamò nel regno il figlio Alessandro. Tuttavia, mentre ne architettava la morte per mezzo di segrete trame, fu prevenuta e da lui stesso uccisa, rendendo in questo modo l’anima non al fato ma al parricidio. Fu senza dubbio degna dell’infamia di una tale morte lei che cacciò una madre dal talamo e rese le due figlie vedove con lo scambio del matrimonio con i fratelli e, per quanto riguarda i due figli, all’uno prima riservò l’esilio e poi la guerra, mentre all’altro dapprima tolse il regno e poi ne tramò la morte per insidie. Un assassinio così empio non rimase però impunito neppure per Alessandro. Infatti, non appena fu scoperto che la madre era stata uccisa per crimine del figlio, egli fu mandato in esilio per sollevazione popolare e, richiamato Tolemeo, gli fu restituito il regno, dato che non aveva voluto né combattere contro la madre, né reclamare con le armi al fratello ciò che aveva posseduto per primo.

Il risultato dell’intervento di Giustino su Trogo è un’evidente riduzione dello spessore storiografico della narrazione: le vicende vengono scisse in una serie di quadretti staccati, veri e propri exempla negativi, lontani dalla precisione della storiografia anche da un punto di vista stilistico20. Inoltre, anche ammesso che Giustino stia semplicemente cucendo insieme lacerti di Trogo di suo interesse (in questo caso attirato dal fatto di sangue e dal commento moralistico) è il suo stesso montaggio a stravolgere, ancora una volta, il dato storico: si noti come il testo, grazie anche a ubi primum, drammatizzi in un istantaneo rapporto di causaeffetto la morte di Cleopatra III e la cacciata in esilio di Tolemeo X Alessandro, due eventi che, in realtà, le fonti collocano a una dozzina di anni di distanza21. 20

Eripere maritum, ad esempio, compare significativamente (cfr. infra, cap. 7.2) solo nelle declamazioni minores (Quint. decl. 368, 4) e in Calpurnio Flacco, decl. 35 nella variante maritum praeripuit. In aggiunta, si noti che materno iudicio è un hapax (neppure attestato paterno iudicio) e anche la costruzione di iudicium con inter è rarissima (solo un caso, Enn. scaen. 70: iudicavit inclitum iudicium inter deas tris aliquis). Cfr. anche ThlL s.v. iudicium col. 614 rr. 55 ss., che a proposito del significato «de qualibet opinione, consilio sim.» rileva «exempla paucissima». 21 Cfr. P. Adl. Gr. 11 e P. Adl. Gr. 12, su cui SAMUEL 1962, 151-152. Eusebio riporta due diverse cronologie, entrambe però ad indicare un regno di Tolemeo Alessandro piuttosto lungo, dieci anni secondo chron. 2, 133 Sch. (98/7- 89/8), diciannove secondo

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A livello più generale, anche se Giustino si fosse semplicemente limitato a uno scarso intervento sull’originale (come da lui stesso dichiarato nella praefatio), la rassegna svolta nelle pagine precedenti ha messo in evidenza come la sistematicità con cui elimina alcuni dati è essa stessa rivelatrice del taglio che voleva dare alla sua opera e dell’interesse da cui era mosso, rispetto al quale inizia a delinearsi una certa distanza dalla storiografia. Gli avvenimenti, infatti, il più delle volte sono privi della corretta cornice spazio-temporale e mal connessi ai loro protagonisti; in questo contesto sono soprattutto Tolemei e Seleucidi, quasi sempre insufficientemente contraddistinti da un punto di vista onomastico, a destare le maggiori difficoltà di comprensione, con il loro frequente comparire nel racconto all’improvviso, senza che venga dato conto delle loro vicende precedenti o – soprattutto ‒ delle ragioni del loro atteggiamento, un carattere che inficia soprattutto la possibilità di una lettura continuativa del breviario. 6.2.

Condensare e manipolare

La disinvoltura con cui Giustino tratta la verità storica non emerge però solo dove una serie di omissioni fanno crollare la consequenzialità tra le vicende o le rendono del tutto imprecise: in alcuni punti, infatti, è possibile intuire un intervento più consapevole da parte del breviatore, che altererebbe il dettato originale per renderlo maggiormente rispondente al gusto suo e del pubblico che ha in mente. In primo luogo, come abbiamo appena visto, non di rado l’Epitoma condensa in un rapporto di stretta consequenzialità eventi accaduti a distanza di anni, una scelta probabilmente dettata dalla volontà di accentuare l’aspetto drammatico-moralistico dei fatti narrati. Un altro ottimo esempio di ciò può essere reperito nel quinto libro, dove la formula interiectis quoque diebus, usata come semplice transizione e

chron. 1, 164-166 Sch. (107/6-89/8), data tratta da Porfirio. Le monete cessano di riportare il nome di Cleopatra accanto al figlio a partire dal 102/101 a.C., cfr. SALOMONE 1973, 102.

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destituita di qualsiasi valore cronologico, comprime in un solo confuso episodio l’intera guerra navale ellespontina del 411-410 a.C.: interiectis quoque diebus, cum bellum Lacedaemonii a mari in terram transtulissent, iterato vincuntur22. Dopo alcuni giorni, sebbene i Lacedemoni avessero trasferito la guerra dal mare alla terraferma, furono nuovamente sconfitti.

Ancora più interessanti sono però quei casi in cui vi è il fondato sospetto che il breviatore abbia apportato delle modifiche al suo originale per rendere alcuni bozzetti più vivaci, foschi o piccanti. Accade nel quindicesimo libro, dove l’Epitoma descrive la morte di due figli di Alessandro Magno, uccisi insieme con le loro madri: Cassander […] ne Hercules, Alexandri filius, qui annos XIV excesserat, favore paterni nominis in regum Macedoniae vocaretur, occidi eum tacite cum matre Barsine iubet corporaque eorum terra obrui, ne caedes sepultura proderetur, et quasi parum facinoris in ipso primum rege, mox in matre eius Olympiade ac filio admisisset, alterum quoque filium cum matre Roxane pari fraude interfecit, scilicet quasi regnum Macedoniae, quod adfectabat, aliter consequi quam scelere non posset23. Cassandro, affinché grazie al favore del nome paterno non venisse designato al trono Ercole, figlio di Alessandro, il quale aveva superato i quattordici anni, ordinò che venisse segretamente eliminato insieme con la madre Barsine e che i loro cadaveri fossero sotterrati, di modo che l’assassinio non venisse rivelato dalla cremazione e, quasi come se avesse commesso una malefatta di poco conto anzitutto contro lo stesso re e poi contro sua madre Olimpiade e contro suo figlio, con pari inganno uccise anche l’altro figlio insieme con la madre Rossane, proprio come se il regno di Macedonia a cui aspirava non potesse essere conquistato altrimenti che con l’empietà.

Stando a Giustino, il responsabile di tutte queste morti sarebbe Cassandro, che avrebbe dapprima eliminato Ercole e Barsine, occultandone i cadaveri, e poi, in rapida successione, anche Rossane e il suo bambino. Ancora una volta si tratta di una notizia scorretta dal 22

Iust. 5, 4, 3, su cui ANGELI BERTINELLI ‒ GIACCHERO 1974, 48-55, ora FANTASIA 2014, 149. 23 Iust. 15, 2, 1-5.

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punto di vista storiografico, in quanto se Rossane e Alessandro IV furono effettivamente eliminati da Cassandro nel 310 a.C., Ercole fu invece ucciso in seguito (308-309 a.C.) e da Poliperconte. È possibile ipotizzare che l’errore fosse già in Trogo? La risposta ci proviene naturalmente dal prologo, che ci dimostra come nell’originale il dato storico dovesse essere corretto: Cassander in Macedonia filium Alexandri regis interfecit, ac alterum Polyperchon24 . La costruzione della scena in cui Cassandro, in un crescendo di malvagità, elimina entrambi i figli di Alessandro, è quindi di mano di Giustino, che, più che condensare il racconto, lo struttura in quadretti a tinte forti. Un esempio perfetto di una tale articolazione è il racconto delle vicende di Agatocle di Siracusa, che Giustino struttura in un bozzetto dove, asciugati i dati bellici in pochissime parole, largo spazio è invece lasciato a quei dettagli curiosi e a quegli aspetti umani della storia che invariabilmente attirano il suo interesse: Agathocles, rex Siciliae, pacificatus cum Karthaginiensibus partem civitatium a se fiducia virium dissidentem armis subegit. Dein quasi angustis insulae terminis clauderetur, cuius imperii partem primis incrementis ne speraverat quidem, in Italiam transcendit, exemplum Dionysii secutus, qui multas Italiae civitates subegerat. Primi igitur hostes illi Bruttii fuere, quia et fortissimi tum et opulentissimi videbantur, simul et ad iniurias vicinorum prompti […] Quare feritas eorum successu felicitatis incensa diu terribilis finitimis fuit. Ad postremum inploratus Agathocles spe ampliandi regni a Sicilia in Italiam traiecit. Principio adventus opinione eius concussi legatos ad eum societatem amicitiamque petentes miserunt. Quos Agathocles ad cenam invitatos, ne exercitum traici viderent, et in posterum statuta his die conscensa navi frustratus est. Sed fraudis haud laetus eventus fuit, siquidem reverti eum in Siciliam interiectis paucis diebus vis morbi coegit, quo toto corpore conprehensus per omnes nervos articulosque umore pestifero grassante velut intestino singulorum membrorum bello inpugnabatur. Ex qua desperatione bellum inter filium nepotemque eius regnum iam quasi mortui vindicantibus oritur; occiso filio regnum nepos occupavit. Igitur Agathocles, cum morbi cura et aegritudo graviores essent et inter se alterum alterius malo cresceret, desperatis rebus uxorem suam Theoxenam genitosque ex ea duos parvulos cum omni pecunia et familia regalique instrumento, quo praeter illum nemo regum ditior fuit, navibus inpositos Aegyptum, unde uxorem acceperat, remittit, timens, ne praedonem regni sui hostem paterentur. Quamquam uxor diu ne ab aegro divelleretur deprecata est, ne discessus suus adiungi nepotis parricidio posset et tam cruente haec deseruisse virum quam ille inpugnasse avum videretur. 24

Prol. XV. Sull’episodio cfr. YARDLEY ‒ WHEATLEY ‒ HECKEL 2011, 234-237.

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Nubendo se non prosperae tantum, sed omnis fortunae inisse societatem, nec invitam periculo spiritus sui empturam, ut extremos viri spiritus exciperet et exequiarum officium, in quod profecta se nemo sit successurus, obsequio debitae pietatis inpleret. Discedentes parvuli flebili ululatu amplexi patrem tenebant; ex altera parte uxor maritum non amplius visura osculis fatigabat. Nec minus senis lacrimae miserabiles erant. Flebant hi morientem patrem, ille exules liberos, hi discessu suo solitudinem patris, aegri senis, ille in spem regni susceptos relinqui in egestate lugebat. Inter haec regia omnis adsistentium fletibus tam crudelis discidii inpleta resonabat. Tandem finem lacrimis necessitas profectionis inposuit et mors regis proficiscentes filios insecuta est. Dum haec aguntur, Karthaginienses cognitis quae in Sicilia agebantur, occasionem totius insulae occupandae datam sibi existimantes magnis viribus eo traiciunt multasque civitates subigunt. (23, 1-2) Agatocle, re della Sicilia, stretto un accordo di pace con i Cartaginesi, sottomise con le armi parte delle città che, confidando nelle proprie forze, si rifiutavano di obbedirgli. Poi, quasi fosse chiuso nei ristretti confini di un’isola del cui dominio agli inizi della sua avventura politica non aveva sperato neppure una parte, passò in Italia, seguendo l’esempio di Dionigi che aveva lì sottomesso molte città. Ebbe come primi nemici dunque i Bruzzi, poiché a quel tempo sembravano i più forti e i più ricchi, così come pronti alla violenza contro i confinanti. […] Accresciuta dai fortunati successi, la loro ferocia fu a lungo tremenda per i vicini. Alla fine Agatocle, invocato in aiuto, dalla Sicilia passò in Italia nella speranza di ampliare il regno. In un primo momento i Bruzzi, atterriti dalla notizia del suo arrivo, gli inviarono ambasciatori a chiedere alleanza ed amicizia. E Agatocle, dopo averli invitati a cena affinché non vedessero traghettare l’esercito e rimandata la loro udienza al giorno successivo, salì sulla nave e li ingannò. Ma l’esito di quella frode non fu felice, dal momento che dopo pochi giorni fu costretto a ritornare in Sicilia da una violenta malattia: aggredito in tutto il corpo da un umore pestifero che avanzava attraverso tutti i nervi e le articolazioni, era travagliato quasi da una guerra civile tra le singole membra. La sua condizione disperata fece sorgere una guerra tra il figlio e il nipote, che si contendevano il regno come se egli fosse già morto: ucciso il figlio, il nipote si impadronì del regno. E così Agatocle poiché la cura della malattia e il dolore erano alquanto gravi e un male contribuiva ad accrescere l’altro, giudicando la sua situazione senza speranza, fece imbarcare sua moglie Teossena e i due bambini che aveva avuto da lei insieme con tutto il denaro, la servitù e le suppellettili regali (di cui nessun altro re fu più ricco) e li mandò in Egitto, da dove proveniva la moglie, perché non dovessero subire l’inimicizia dell’usurpatore del suo regno. Tuttavia, la moglie a lungo implorò di non essere strappata dal capezzale del malato e che al parricidio del nipote non avesse ad aggiungersi il suo allontanamento e lei non sembrasse aver abbandonato il marito con la stessa crudeltà con cui quello aveva contrastato il nonno. Diceva che sposandosi aveva stretto un vincolo non solo nella buona, ma in qualsiasi sorte e volentieri avrebbe pagato col pericolo della sua vita la possibilità di raccogliere l’ultimo respiro del marito e ottemperare al

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Giustino e la storia dovere delle esequie nel rispetto della dovuta pietà, cosa che, partita lei, nessuno avrebbe fatto. Sul punto di partire, i bambini, abbracciato il padre, con pianti sommessi non lo lasciavano andare; dall’altra parte la moglie consumava di baci il marito che non avrebbe più rivisto. Né meno compassione destavano le lacrime del vecchio. Questi piangevano il padre morente, quello i figli esuli, questi si addoloravano perché alla loro partenza il padre, vecchio e malato, sarebbe rimasto solo, quello perché li lasciava nella povertà dopo averli cresciuti nella speranza del regno. Nel frattempo tutta la reggia riecheggiava, colma del pianto di quanti assistevano a una separazione tanto crudele. In ultimo la necessità della partenza pose fine alle lacrime e la morte del re seguì la partenza dei figli. Mentre avvenivano questi fatti, i Cartaginesi, saputo quanto avveniva in Sicilia, ritenendo che fosse loro offerta l’occasione di impadronirsi di tutta l’isola si spostarono là con ingenti forze e sottomisero molte città.

Se, come vi sarà modo di vedere in seguito, alcune parti sembrano rispondere al senso del divenire storico di Trogo25, si noti come il montaggio di Giustino sia caratterizzato dalla solita indifferenza per il dato storiografico, a tal punto evidente da porre in seria difficoltà quanti hanno tentato di ricostruire la narrazione trogiana delle vicende sicelopuniche26. In primo luogo, i riferimenti sono (come sempre) del tutto generici: basti notare come non si chiarisca quali siano queste città dissidentes che vengono punite. Dalla digressione originale sulle Bruttiorum origines (ricordata anche dal prologo)27 al solito vengono spiccate informazioni aneddotiche28. Ritornato allo scontro, se Giustino ritiene di non doversi attardare a specificare chi fossero questi finitimi che chiesero l’aiuto di Agatocle, diversamente concede spazio 25

In modo particolare la pungente considerazione quasi angustis insulae terminis clauderetur, cuius imperii partem primis incrementis ne speraverat quidem, di cui parleremo anche infra, p. 169. 26 VATTUONE 2014, 61-63 definisce queste pagine «le più tormentate» e afferma che qui Trogo vada fatto trapelare «nonostante Giustino». Su Agatocle e sul racconto della sua vicenda nell’Epitoma e nelle altre fonti antiche cfr. CONSOLO LANGHER 1990, 128162; EAD. 2000, in modo particolare 317-322. 27 Cfr. prol. XXIII: repetitae inde Bruttiorum origines. 28 Iust. 23, 1, 4-15, dove si ricorda il costume dei Lucani di educare i figli nei boschi affinché fin da piccoli si abituino alla vita dura e alla parsimonia (tema di cui si parlerà anche infra, pp. 141 ss.). Discreto spazio è poi riservato all’ennesimo aneddoto con protagonista una donna, Bruzzia, che permette a un manipolo di pastori lucani (in seguito detti Bruzzi dal nome della donna), di impossessarsi del territorio che diventerà la loro sede.

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all’astuzia con cui i Bruzzi vengono tenuti all’oscuro delle manovre belliche. Si tratta poi dell’unica notizia vagamente riferibile alla campagna militare, in quanto l’inquadratura si sposta subito sul bozzetto del re malato, di cui l’Epitoma è l’unica fonte29. Anche qui, tuttavia, il lettore non viene messo nella condizione di comprendere realmente la storia al di là dell’aneddoto: ad esempio non è chiaro chi sia questo (anonimo) figlio in lotta con questo (altrettanto indefinito) nipote, entrambe figure che compaiono sulla scena all’improvviso30 . Trogo doveva certamente essere più preciso 31 , ma Giustino non si preoccupa mai di verificare la coerenza strutturale del suo testo o di dare reale spessore storiografico ai personaggi, qui particolarmente ridotti a semplici exempla negativi. Non un taglio, ma un intervento diretto di Giustino a fini di amplificatio pare, invece, la peroratio patetica di Teossena: lo proverebbero i toni retorici, la preferenza per i termini legati all’ambito familiare (a rendere le vicende ancora più confuse dal punto di vista storiografico), l’accumulo di temi stereotipati della declamazione (i doveri muliebri e la pietas per i defunti), così come alcuni elementi linguistici32. 29

Per Diodoro (21, 16) questo morbo cancrenoso sarebbe stato scatenato dal veleno che il nipote gli aveva somministrato di nascosto, imbevendone la piuma con cui Agatocle soleva pulirsi i denti dopo i pasti. 30 In precedenza il lettore aveva incontrato due altri figli di Agatocle, Arcagato ed Eraclida, che avevano accompagnato il padre nella spedizione africana e lì erano morti, cfr. Iust. 22, 5, 1 e 22, 8, 13-14. 31 Cfr. prol. XXIII: omnibus subactis rex seditione filii exheredati ac nepotis oppressus interiit. 32 Ad esempio, exequiarum officium compare solo in Tac. Ann. 16, 7: prohibendo C. Cassium officio exequiarum e SHA, Aurel. 7, 10: magnifico exequiarum officio. Parimenti debitae pietatis trova paralleli solo in Seneca (Phaedr. 631: pietate caros debita fratres colam), nelle Declamationes Maiores (10, 3, 3: debita pietate prosequebatur e 3, 11: officia praeterita debitae pietatis) e in due passi del Digesto, rispettivamente di Ulpiano (Dig. 10, 2, 50: pietate debita ductus) e Papiniano (Dig. 42, 8, 19: debitam pietatem secutus). Si sono espressi a favore di una paternità di Giustino anche CONSOLO LANGHER 2000, 321 n. 17 e YARDLEY 2003, 160. Nelle fonti vi è un solo altro riferimento alla scena dell’addio di Teossena ed è contenuto in un frammento di Timeo riportato da Polibio (Polyb. 12, 15 = FGrHist 566, F 124 B3). Qui, tuttavia, il tono è ben diverso: al termine del lungo elenco delle perversioni sessuali di Agatocle, Timeo ricorda che perfino la moglie lo pianse esclamando “τί δ᾽ οὐκ ἐγὼ σέ; τί δ᾽ οὐκ ἐµὲ σύ;”. Su questo passo si veda almeno WALBANK 1967, 361, che respinge le proposte di traduzioni più pudiche notando come l’intero contesto rimandi alla sfera erotica («the

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Si noti poi come all’accurata descrizione del lutto della reggia e della disperazione dei familiari segua un drastico taglio delle vicende belliche successive, per l’ennesima volta rese indeterminate da dum haec aguntur e dal riferimento generico alla conquista di multas civitates. Altrettanto significativo è il passo del XXXVIII libro che racconta la successione al trono tra Tolemeo VI e Tolemeo VIII. Atque in Aegypto mortuo rege Ptolomeo ei, qui Cyrenis regnabat, Ptolomeo per legatos regnum et uxor Cleopatra regina, soror ipsius, defertur. Laetus igitur hoc solo Ptolomeus, quod sine certamine fraternum regnum recepisset, in quod subornari et a matre Cleopatra et favore principum fratris filium cognoverat, ceterum infestus omnibus, statim ubi Alexandriam ingressus est, fautores pueri trucidari iussit. Ipsum quoque die nuptiarum, quibus matrem eius in matrimonium recipiebat, inter apparatus epularum et sollemnia religionum in conplexu matris interficit atque ita torum sororis caede filii eius cruentus ascendit. Post quod non mitior in populares, qui eum in regnum vocaverant, fuit, siquidem peregrinis militibus licentia caedis data omnia sanguine cotidie madebant33; ipsam quoque sororem filia eius virgine per vim stuprata et in matrimonium adscita repudiat. Quibus rebus territus populus in diversa labitur patriamque metu mortis exul relinquit. Solus igitur in tanta urbe cum suis relictus Ptolomeus, cum regem se non hominum, sed vacuarum aedium videret edicto peregrinos sollicitat. Quibus confluentibus obvius legatis Romanorum, Scipioni Africano et Spurio Mummio et L. Metello, qui ad inspicienda sociorum regna veniebant, procedit. Sed quam cruentus civibus, tam ridiculus Romanis fuit. Erat enim et vultu deformis et statura brevis et sagina ventris non homini, sed beluae similis. Quam foeditatem nimia subtilitas perlucidae vestis augebat, prorsus quasi astu inspicienda praeberentur, quae omni studio occultanda pudibundo viro erant. Post discessum deinde legatorum (quorum Africanus, dum inspicit urbem, spectaculo Alexandrinis fuit) iam etiam peregrino populo invisus cum filio, quem ex sorore susceperat, et cum uxore, matris paelice, metu insidiarum tacitus in exilium proficiscitur contractoque mercennario exercitu bellum sorori pariter ac patriae infert. Arcessitum deinde maximum a Cyrenis filium, ne eum Alexandrini contra se regem crearent, interficit. Tunc populus statuas eius et imagines detrahit. whole context suggests a more lewd interpretation ‒ “in what form of sensuality did we not indulge?” ‒ »). Sulla figura di Teossena ancora valido MANNI 1983. Del rapporto tra Giustino e la declamazione si parlerà in modo approfondito infra, cap. 7.2. 33 Madebant è lezione di γ (Ruehl), le altre famiglie hanno manabant (preferito da Galdi, Seel e Arnaud-Lindet) la cui costruzione con l’ablativo è tuttavia problematica, oltre che poco frequente (cfr. ThlL s.v. mano, col. 321 rr. 49 ss.). Diversamente, madeo è costruito di preferenza con l’ablativo (cfr. ThlL s.v. madeo, col. 33 rr. 27 ss.) non solo in epoca classica, cfr. Flor. epit. 1, 28; 2, 13; Veg. mil. 3, 10, 20.

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Quod factum studio sororis existimans filium, quem ex ea susceperat, interficit, corpusque in membra divisum et in cista conpositum matri die natalis eius inter epulas offerri curat. Quae res non reginae tantum, verum etiam universae civitati acerba et luctuosa fuit tantumque maerorem festivissimo convivio intulit, ut regia omnis repentino luctu incenderetur. Verso igitur studio principum ab epulis in exsequias membra lacera populo ostendunt et quid sperare de rege suo debeant, filii caede demonstrant. (38, 8, 2-15) In Egitto, morto il re Tolemeo, tramite ambasciatori vengono affidati a quel Tolemeo che governava a Cirene il regno e la regina Cleopatra, sua stessa sorella, come moglie. Tolemeo dunque, felice solo per aver ottenuto senza combattere il regno del fratello (per il quale era venuto a sapere che la madre Cleopatra e il favore dei notabili sostenevano il figlio del fratello), per il resto, invece, ostile a tutti, non appena entrò in Alessandria, ordinò che i fautori del fanciullo venissero trucidati. Questo stesso lo ammazzò nel giorno delle nozze con cui ne riceveva in sposa la madre e tra le braccia di lei nel bel mezzo dell’apparato dei banchetti e delle cerimonie religiose; in questo modo entrò nel talamo della sorella macchiato del sangue del figlio di lei. Dopo questo fatto non fu più clemente con quanti tra il popolo lo avevano chiamato al regno, visto che, data licenza di uccidere ai soldati stranieri, ogni giorno ovunque era un grondare di sangue; ripudiò perfino la sua stessa sorella, dopo averne violentato una figlia, vergine, che successivamente si prese in sposa. La popolazione, terrorizzata da queste azioni, si disperse chi da una parte chi dall’altra ed esule abbandonò la patria per paura della morte. Tolomeo dunque, lasciato solo insieme con i suoi in una città tanto grande, vedendosi re non di uomini, ma di edifici vuoti, con un editto cercò di attirare forestieri. Mentre questi affluivano, si fece incontro agli ambasciatori romani, Scipione Africano, Spurio Mummio e Lucio Metello, che giungevano a visitare i regni degli alleati. Eppure, quanto era parso sanguinario ai suoi concittadini, tanto ridicolo risultò ai Romani. Era infatti brutto in volto, piccolo di statura e reso più simile ad una bestia che non a un uomo dall’enormità della pancia. Tale orrore era ulteriormente accresciuto dall’eccessiva impalpabilità del suo vestito trasparente, che andava quasi a offrire di proposito alla vista quelle zone che l’uomo pudico dovrebbe celare con ogni cura. Dopo la partenza degli ambasciatori (tra questi l’Africano, mentre visitava la città, attirò l’ammirazione degli Alessandrini), ormai inviso anche ai forestieri, per paura di congiure partì in segreto per l’esilio con il figlio che aveva avuto dalla sorella e con la moglie, rivale della madre. Poi, procuratosi un esercito mercenario, mosse guerra e alla sorella e alla patria. In seguito, fatto venire da Cirene il figlio maggiore, lo uccise, affinché gli Alessandrini non lo nominassero re contro di lui. Allora il popolo abbatté le sue statue e le sue immagini. Ritenendo che ciò fosse avvenuto su istigazione della sorella, uccise il figlio che aveva avuto da lei, lo fece a pezzi, dispose il corpo in una cesta e si premurò che venisse offerto alla madre nel corso del banchetto di compleanno. Questo fatto fu atroce e luttuoso non solo per la regina, ma anche per l’intera popolazione e portò tanta afflizione in un convivio assai gioioso che tutta la reggia divampò di improvviso lutto. I notabili, passati da un festeggiamento a un funerale, esibirono al popolo le membra squarciate e con l’assassinio del figlio mostrarono che cosa dovessero aspettarsi dal loro re.

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Come sempre questi fatti, pur funzionando perfettamente come aneddoti, sono di difficile inquadramento in una cornice storiografica più ampia: in primo luogo il protagonista, Tolemeo VIII, viene introdotto ex abrupto, senza alcun legame con il contesto. Nella sua unica apparizione precedente, infatti, egli si trovava ad Alessandria, non a Cirene: come sia finito lì, al lettore non è dato di sapere34. Inoltre, a leggere solo Giustino non si capisce a chi si dovette l’iniziativa di mandare legati ad affidare il regno a un uomo che era infestus omnibus35. Ancora una volta, dunque, vediamo cadere i passaggi logici a favore di una singola scena, cioè l’assassinio tra familiari, un aspetto ulteriormente enfatizzato dal fatto che i protagonisti compaiono, al solito, senza epiteti, ma secondo il rapporto di parentela: mater, filius, soror e frater 36 . In questo modo la prospettiva del racconto muta radicalmente: omessi i dettagli politici della lotta per la successione (che evidentemente vedeva l’opposizione di due fazioni), il primo piano è completamente occupato dal sovrano tanto malvagio da inaugurare il suo regno con un’orrenda dimostrazione di forza: nel bel mezzo del banchetto nuziale Tolemeo VIII trucida il nipote (Tolomeo Neo Filopatore37) tra le braccia della madre e così, da vero tiranno tragico, torum sororis caede filii eius cruentus ascendit38. Non basta: ad un certo 34

Iust. 34, 2, 8. La morte di Tolemeo VI doveva essere narrata nel libro LII di Livio, evento di cui la Periocha corrispondente salva alcuni particolari, come il fatto che fu determinata da una grave ferita alla testa. Altri dati provengono poi da Ios. Fl. Ap. 2, 51-52, seppur in parziale contrasto con la testimonianza dell’Epitoma, come si vedrà infra, p. 92 n. 43. Per i dettagli storici cfr. SALOMONE 1973, 36-41; THOMPSON 1994, 310; HÖLBL 2001, 183-192; HUß 2001, 596-625. Per la tendenziosità della tradizione su Tolemeo VIII, che Trogo sembra seguire, cfr. NADIG 2007, 173-179. 35 Solamente più avanti Giustino attribuirà la chiamata di Tolemeo VIII a non meglio precisati populares (38, 8, 5: non mitior in populares, qui eum in regnum vocaverant, fuit). 36 Anche in questo caso il prologo conferma che Trogo li inseriva, cfr. prol. XXXVIII: ut mortuo Ptolomaeo Philometore frater eius Physcon accepto regno Aegypti seditiones populi, deinde bellum cum uxore sua Cleopatra et cum rege Syriae Demetrio habuit. 37 Cfr. R.E. s.v. Ptolemaios n. 27, coll. 1720-1721; N.P. s.v. Ptolemaios n. 11. 38 La frase ha un certo colorito poetico che confermerebbe la paternità di Giustino, se si pensa al processo di retoricizzazione e poeticizzazione che subì la prosa tarda (così anche YARDLEY 2003, 201). Se, infatti, il nesso allitterante caede cruentus ha paralleli sia in poesia (Verg. Aen. 1, 471; Ov. epist. 16, 209), sia nella prosa storiografica (Liv.

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punto (del tutto imprecisato come cronologia) questi ripudia la mogliesorella per una delle sue giovani figlie, per di più usandole violenza, una scena che ‒ pure questa ‒ ben risponde al noto topos del tiranno lubrico 39 . La realtà storica è tuttavia diversa: la scelta di prendere un’altra moglie fu marcatamente politica da parte di Tolemeo VIII, che cercava di limitare il potere di Cleopatra II e della fazione politica che si raccoglieva intorno a lei. Ugualmente anche Cleopatra III, la nipote, era ben più di una semplice virgo indifesa, ma doveva ricoprire un ruolo di una certa importanza, dato che era già stata elevata al culto dal padre, Tolemeo VI, un onore senza precedenti per una donna non ancora regina 40 . Il racconto di Giustino, però, elimina ogni possibile riferimento politico e sposta decisamente il focus sull’elemento passionale; da qui il breviatore passa direttamente al ritratto del sovrano, ridicolo e deforme e all’ambasceria dei Romani. Sempre all’interno di un contesto fortemente riassuntivo, si arriva quindi ad un (indeterminato) momento successivo in cui la moglie-sorella Cleopatra (II) riesce a cacciare l’odiato marito-fratello e Cleopatra (III) la sua stessa figlia, nuova consorte e regina. A quel punto Tolemeo VIII chiama a sé da Cirene il maximus filius (si noti come non sia perspicuo quale delle due Cleopatre dovrebbe esserne la madre) e lo uccide per non lasciare agli Alessandrini un sovrano alternativo. La reazione del popolo è una sorta di damnatio memoriae, a cui il re risponde con l’ennesimo assassinio di un possibile concorrente, questa volta chiaramente identificato come il figlio avuto da Cleopatra II. Al crimine si aggiunge la crudeltà dell’orribile trattamento riservato al cadavere, fatto a pezzi e spedito in una cesta alla madre, a mo’ di macabro regalo di compleanno; si noti anche come le reazioni della regina e della corte all’arrivo dell’orrendo dono vengano registrate con dovizia di particolari41.

4, 32, 12; 40, 12, 16; Vell. 2, 71, 1; cfr. ThlL, s. v. cruentus col. 1238, rr. 17-22), al contrario torum ascendit trova affinità unicamente in Verg. Aen. 12, 144: magnanimi Iovis ingratum ascendere cubile. GOODYEAR 1984, p. 239: «Vergil seems to be the first to use ascendere of mounting a bed», cfr. ThlL, s.v. ascendo, col. 755, rr. 69-76. 39 Su questo tema si tornerà infra, cap. 7.2.1. 40 Cfr. CHAUVEAU 1990, 157 ss. e la ricostruzione storiografica di HÖLBL 2001, 181 ss. con ulteriore bibliografia. 41 Del gusto di Giustino per le reazioni alle sventure si è già parlato supra, p. 70.

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Ricapitolando tutti questi fatti scabrosi, nello spazio di pochissime righe l’Epitoma attribuisce a Tolemeo VIII l’uccisione di tre ragazzi, il primo, assassinato nel giorno dell’insediamento, il secondo ed il terzo eliminati in rapida successione durante l’esilio. Non basta: in ben due casi Tolemeo VIII avrebbe legato l’assassinio ad una festa e ad un banchetto: le nozze nel caso del primo, il compleanno della regina nel terzo. La questione fondamentale a cui rispondere riguarda l’attendibilità del racconto, capire cioè se Giustino trovasse tutti questi omicidi già in Trogo e si limitasse a valorizzarli comprimendoli in una sequenza resa ancor più macabra dalla collocazione di seguito (come gli abbiamo già visto fare), oppure se si tratti di una vera e propria manipolazione dell’ originale. Il confronto con le altre fonti conferma il terzo assassinio, con tanto di invio del cadavere smembrato come raccapricciante omaggio: la vittima è correttamente il figlio nato da Tolemeo VIII e Cleopatra II, di nome Menfite, che aveva accompagnato il padre nell’esilio, probabilmente come ostaggio42. Nessun riscontro, invece, per gli altri due omicidi; non vi sono fonti a ricordare né l’assassinio di Tolemeo Neo Filopatore durante il banchetto nuziale, né quello dell’ignoto figlio maximus, fatto venire da Cirene e poi eliminato: in entrambi i casi l’Epitome è l’unico testo a fornire tutti questi particolari43. L’isolamento di questi dati indusse già nel XIX secolo molti studiosi a ipotizzare che Giustino si fosse in qualche misura confuso. L’episodio maggiormente sospettato di essere frutto di un riassunto frettoloso è quasi sempre stato il secondo omicidio, quello del figlio maximus; già nel 1897 Strack suggeriva di correggere il testo di Giustino maximum a Cyrenis filium in maximum ex Eirene filium, considerandolo il figlio della concubina Eirene, il cui nome è noto da Diodoro Siculo e Flavio Giuseppe, una soluzione che, tuttavia, non soddisfaceva neppure lo 42

Cfr. Diod. Sic. 34, 14 ss; Liv. perioch. 59; Val. Max. 9, 2 ext. 5. In merito CHAUVEAU 2000, 15 con ulteriore bibliografia. 43 Ios. Fl. Ap. 2, 51 si limita ad affermare che Tolemeo VIII alla morte del fratello partì da Cirene per detronizzare Cleopatra e i figli del re, mentre per Orosio (5, 10, 7) Tolemeo VIII avrebbe ucciso un nipote e un figlio proprio (filium suum quem ex sorore susceperat, nec non et filium fratris occidit).

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studioso, che così commentava: «Beweise dafür habe ich nicht»44. Pari insuccesso hanno conosciuto altre proposte avanzate dalla critica, e pertanto l’episodio è stato generalmente considerato uno dei tanti fraintendimenti del maldestro Giustino45. Si sposti tuttavia l’attenzione al primo omicidio, quello di Tolemeo Neo Filopatore, legittimo erede al trono, avvenuto durante il banchetto nuziale: esso è ugualmente senza paralleli, ma il suo carattere particolareggiato ha spesso agito come prova di attendibilità. In realtà, analizzando l’Epitoma, si nota che esiste un episodio pressoché analogo, l’uccisione dei figli di Arsinoe II da parte del suo nuovo marito, il re Tolemeo Cerauno, un fatto che Giustino riporta con la solita abbondanza di dettagli che riserva a questi quadretti: nuptiae magno apparatu laetitiaque omnium celebrantur. Ad contionem quoque vocato exercitu capiti sororis diadema inponit (sogg. Ptolomeus) reginamque eam appellat. Quo nomine in laetitiam effusa Arsinoe quia quod morte Lysimachi, prioris mariti, amiserat recepisset, ultro virum in urbem suam Cassandream invitat, cuius urbis cupiditate fraus struebatur. Praegressa igitur virum diem festum urbi in adventum eius indicit, domos, templa ceteraque omnia exornari iubet, aras ubique hostiasque disponi; filios quoque suos, Lysimachum sedecim annos natum, Philippum triennio minorem, utrumque forma insignem, coronatos occurrere iubet. Quos Ptolomeus ad celandam fraudem cupide et ultra modum verae adfectionis amplexus osculis diu fatigat. Ubi ad portam ventum est, occupari arcem iubet, pueros interfici. Qui cum ad matrem confugissent, in gremio eius inter ipsa oscula trucidantur, proclamante Arsinoe, quid tantum nefas aut nubendo aut post nuptias contraxisset. Pro filiis saepe se percussoribus obtulit, frequenter corpore suo puerorum corpora amplexata protexit vulneraque excipere, quae liberis intendebantur, voluit46.

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STRACK 1897, 201 n. 33. Conosciamo Eirene da Diod. Sic. 33, 13 e Ios. Fl. Ap. 2, 55. BOUCHE-LECLERCQ 1904, 72 n. 3 ipotizzò che questo figlio potesse essere un predecessore di Tolemeo Apione a Cirene, mentre in OTTO ‒ BENGTSON 1938, 59 n. 1 la notizia è ritenuta una duplicazione dovuta ad una confusione di Giustino, una linea interpretativa poi largamente condivisa, cfr. SANTI AMANTINI 1981, 516 n. 10. 46 Iust. 24, 3, 1-8, su cui RICHTER 1987, 118-119. La notizia dell’uccisione dei ragazzi è riportata, senza dettagli, anche da un frammento di Memnone di Eraclea (FGrHist 434, F 8,7): Αὐτίκα γοῦν τὴν οἰκείαν µᾶλλον ἐκφαίνων σκαιότητα Ἀρσινόην µέν, ὡς πάτριον τοῦτο τοῖς Αἰγυπτίοις, τὴν ἀδελφὴν γαµεῖ, τοὺς ἐκ Λυσιµάχου δὲ παῖδας αὐτῇ γεγενηµένους ἀναιρεῖ. Inquadramento storico in HUß 2001, 258-259. 45

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Giustino e la storia Si celebravano le nozze con gran sfarzo e generale allegria. Tolemeo, convocato in assemblea anche l’esercito, pone il diadema sul capo della sorella e la chiama regina. Arsinoe, pazza di gioia per quel titolo, dato che aveva recuperato quel che aveva perso con la morte di Lisimaco, il suo primo marito, di sua iniziativa invitò lo sposo nella sua città, Cassandrea, per il possesso della quale tutto questo inganno era stato ordito. Preceduto dunque il marito, ella indisse in città un giorno di festa per l’arrivo di lui, ordinò che le case, i templi e tutti gli altri edifici venissero adornati e che ovunque fossero collocati altari e vittime; dispose anche che i suoi figli, Lisimaco di sedici anni e Filippo, più giovane di tre anni, entrambi di straordinaria bellezza, andassero incontro con corone sul capo. Tolemeo, per celare l’inganno, dopo averli abbracciati con slancio, oltre la misura di un affetto sincero li consumò a lungo di baci. Ma, non appena si giunse alla porta, diede ordine di occupare la rocca e di uccidere i ragazzi. E questi, poiché si erano rifugiati tra le braccia della madre, le furono trucidati in grembo, tra i suoi stessi baci, mentre lei gridando chiedeva di che gravissima colpa si fosse mai macchiata o sposandosi o dopo le nozze. Più di una volta si offrì ai sicari al posto dei figli, più di una volta abbracciandoli con il suo corpo fece scudo a quello dei fanciulli e volle ricevere i colpi a loro diretti.

Non solo l’assassinio di Tolemeo Neo Filopatore pare quasi un compendio di questa scena, ma l’Epitome offre anche non poche altre scene di morti legate a un banchetto; altrettanto ricorrente è il motivo del “figlio assassinato tra le braccia della madre”, indubbiamente una “stock scene” nel testo, come già ebbe a definirla Henriette Macurdy47. In questo senso, ritornando alla catena di omicidi del libro XXXVIII, una più recente ricostruzione ha fortemente difeso la storicità del secondo assassinio, quello del maximus filius fatto venire da Cirene e poi ucciso, che sarebbe proprio da identificarsi con Tolemeo Neo Filopatore, che alla morte del padre era sostenuto a matre Cleopatra et favore principum fratris e che quindi poteva benissimo essere proposto agli Alessandrini come nuovo faraone. Di conseguenza, questo giovane non sarebbe scenograficamente stato ucciso nel bel mezzo del banchetto nuziale (un fatto piuttosto eclatante, che avrebbe lasciato qualche traccia anche in altre fonti), ma eliminato più avanti, nel momento in cui l’esilio del sovrano in carica lo rendeva un avversario 47

MACURDY 1932, 156. Cfr., ad esempio, Iust. 1, 5, 6 (figlio ucciso e imbandito al padre); 7, 3, 5-7 (i convitati vengono trucidati da uomini travestiti da donne) e 21, 4, 3 (banchetto avvelenato). Per i figli uccisi tra le braccia della madre cfr. Iust. 9, 7, 12: in gremio eius prius filia interfecta e 26, 1, 7, che verrà citato per esteso e discusso infra, p. 113.

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pericolosissimo48. Ne deriva dunque il fondato sospetto che Giustino abbia voluto colorire la scena dell’ingresso di Tolemeo VIII ad Alessandria con la combinazione di due tra le “stock scenes” del suo repertorio, la morte violenta durante un banchetto in unione con l’assassinio del figlio tra le braccia materne, al fine di sbigottire il lettore49. Altrettanto degno di rilievo, soprattutto per i suoi aspetti lessicali è 39, 3, 5-12: Tunc Antiochiam Grypos, in qua erat Cyziceni uxor Cleopatra, obsidere coepit, qua capta Tryphaena, uxor Grypi, nihil antiquius quam sororem Cleopatram requiri iussit, non ut captivae opem ferret, sed ne effugere captivitatis mala posset, quae sui aemulatione in hoc potissimum regnum invaserit hostique sororis nubendo hostem se eius effecerit. Tunc peregrinos exercitus in certamina fratrum adductos, tum repudiatam a fratre contra matris voluntatem extra Aegyptum nuptam accusat. Contra Grypos orare, ne tam foedum facinus facere cogatur. A nullo umquam maiorum suorum inter tot domestica, tot externa bella post victum hostem50 in 48

Così infatti per HUß 2002, 42, che commenta il secondo omicidio con queste parole: «noch ein Mord im Haus des Ptolemaios? Ja, noch ein Mord! Der Mord am rechtmäßigen Thronfolger». Inoltre, già nel XIX secolo MAHAFFY 1895, 376 ss. notava che Giustino era «so liberal in his accusations of murder» che anche una «sudden and opportune death» del nipote per cause naturali sarebbe stata sbrigativamente imputata allo zio. 49 Del fatto che nell’originale gli omicidi fossero due e non tre si può trovare un indizio in Oros. hist. 5, 10, 7 (citato per esteso supra, p. 92 n. 43), che parla appunto di due assassini da parte di Tolemeo VIII, quello del nipote e quello di un figlio proprio. La questione se Orosio leggesse oltre a Giustino anche l’originale di Trogo è piuttosto discussa: si dichiarano a favore PICCIRILLI 1971, 101-106 e FABBRINI 1979, 101; contra, tra gli altri, YARDLEY ‒ HECKEL 1997, 20 ss. Questa convergenza potrebbe quindi indicare una conoscenza diretta di Trogo da parte di Orosio, tuttavia a questo passo va attribuito valore congiuntivo solo con una certa prudenza, dal momento che poche righe sopra Orosio confonde la vittima dello stuprum: non la figlia (come in Giustino), ma la madre, cfr. Oros. hist. 5, 10, 6-7: is enim sororem suam stupro cognitam ac deinde in matrimonium receptam novissime turpius quam duxit abiecit. Privignam vero suam, hoc est filiam sororis et coniugis, coniugem adscivit. 50 Post victum hostem è lezione di π, che preferisco (così anche Ruehl, Galdi) rispetto a post victoriam di τι (accolta da Seel e Arnaud-Lindet, ma a mio parere facilior) e post ductum hostem di γ. CASTIGLIONI 1925, 150 sulla base di 15, 1, 9 (devictis diversae factionis ducibus) congettura post devictum hostem. In realtà la costruzione con post victum compare tanto nell’Epitoma (32, 1, 1-2: Aetoli … nec multo post victi libertatem … amiserunt), quanto nei Prologi (prol. IX: post fratrem Cyrum victum e prol. XXXII: res gestae Hannibalis post victum Antiochum), a indizio di un uso già nell’originale.

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Giustino e la storia feminas saevitum, quas sexus ipse et periculis bellorum et saevitiae victorum eximat; in hac vero praeter commune bellantium fas accedere necessitudinem sanguinis; quippe ipsius, quae tam cruente saeviat, sororem equidem germanam esse, suam vero consobrinam, liberorum deinde communium materteram. His tot necessitudinibus sanguinis adicit superstitionem templi, quo abdita profugerit, tantoque religiosius colendos sibi deos, quo magis his propitiis ac faventibus vicisset; tum neque occisa illa virium se quicquam Cyziceno dempturum, nec servaturum reddita. Sed quanto Grypos abnuit, tanto soror muliebri pertinacia accenditur, rata non misericordiae haec verba, sed amoris esse. Itaque vocatis ipsa militibus mittit qui sororem confoderent. Qui ut in templum intraverunt, cum evellere eam non possent, manus amplexantis deae simulacrum praeciderunt. Tunc Cleopatra execratione parricidarum mandata violatis numinibus ultione sui decedit. Nec multo post repetita proelii congressione victor Cyzicenus uxorem Grypi Tryphaenam, quae paulo ante sororem interfecerat, capit eiusque supplicio uxoris manibus parentavit. Allora Grifo iniziò ad assediare Antiochia, dove si era rifugiata Cleopatra, moglie di Ciziceno. Dopo che la città fu presa, la moglie di Grifo, Trifena, nulla ebbe più a cuore che far cercare la sorella Cleopatra: non perché volesse portare aiuto alla prigioniera, ma affinché non sfuggisse ai mali della prigionia, dato che Cleopatra aveva invaso proprio quel regno per emularla e si era resa sua nemica sposando il nemico della sorella. Le rinfacciava ora di aver coinvolto eserciti stranieri in una guerra tra fratelli, poi il fatto che, ripudiata dal fratello, si era sposata fuori dall’Egitto contro la volontà della madre. Dal canto suo Grifo pregava la moglie di non costringerlo a commettere un crimine così atroce. Infatti, mai nessuno dei suoi antenati, tra tante guerre civili ed esterne, dopo aver sconfitto il nemico si era accanito contro le donne, il cui stesso sesso metteva al riparo dai pericoli delle guerre e dalla ferocia dei vincitori. Per di più in relazione a costei al comune diritto di guerra si aggiungevano i vincoli del sangue, visto che la persona contro cui Trifena voleva accanirsi con tanta crudeltà era non solo sua sorella germana, ma anche cugina di lui e zia materna dei loro figli. A tutti questi legami di sangue aggiunse anche il rispetto del tempio nel quale ella era fuggita a nascondersi: quanto più era risultato vincitore con l’aiuto e favore degli dei, tanto più doveva loro la massima riverenza; infine, con la morte della donna non avrebbe sottratto alcuna forza a Ciziceno né gliene avrebbe restituite rendendogliela. Eppure, quanto Grifo dissentiva, tanto la sorella si accendeva di femminile testardaggine, giacché riteneva che quelle parole non fossero mosse dalla compassione, ma dall’amore. E così, convocati lei stessa i soldati, li mandò ad uccidere la sorella. Ed essi, quando entrarono nel tempio, non riuscendo a trascinare via la donna, le tagliarono le mani con cui abbracciava la statua della dea. Quindi Cleopatra morì maledicendo i parricidi ed affidando la sua vendetta alle divinità violate. Non molto tempo dopo, riprese le ostilità, Ciziceno vincitore catturò la moglie di Grifo, Trifena, che poco prima aveva fatto uccidere la sorella e con il supplizio di questa sacrificò ai mani della moglie.

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Questa rivalità tra le sorelle è riportata unicamente nell’Epitoma. Nuovamente, si insinua qualche dubbio: in primo luogo nessuna fonte segnala né lo scontro tra le due, né qualche forma di contatto pregresso tra Antioco VIII Grifo e Cleopatra (IV) o un rapporto che avrebbe potuto giustificare la gelosia della moglie51. Inoltre, l’enfatica peroratio con cui Antioco Grifo tenta di convincere la moglie a risparmiare la sorella richiama i temi delle scuole declamatorie: il discorso, ricco di artifici retorici52, si sviluppa quasi didatticamente lungo una scaletta di topoi quali la gelosia muliebre, la pietas per gli dei e la debolezza femminile, considerazioni, queste ultime, difficilmente imputabili alla mano di uno storiografo, dato che non solo le principesse tolemaiche avevano sempre occupato posizioni di reale potere, ma in questo caso proprio poche righe prima Cleopatra IV aveva dato ampia dimostrazione di reale peso politico portando ad Antioco IX Ciziceno l’esercito con cui combattere il fratello53. Nell’indicare la paternità di Giustino mi sembra però decisivo il consueto accumulo dei termini relativi all’ambito familiare, come sororem germanam, suam consobrinam, liberorum materteram; questo sottolineare i rapporti di stretta parentela, del tutto consueti in regni in cui il matrimonio endogamico era prassi consueta e componente della legittimazione del potere, è più probabile che appartenga all’epitomatore, di cui abbiamo più volte constatato il forte interesse per l’intrigo domestico, mentre uno storico è assai più probabile che collocasse questi eventi in una cornice politica più ampia e coerente. Diversamente Giustino al largo spazio dedicato a questo dialogo contrappone un vertiginoso riassunto delle vicende belliche successive, condensate nella solita formula 51

Per un inquadramento storiografico di queste ultime lotte cfr. FACELLA 2016, 54-58 con bibliografia aggiornata. 52 Ad esempio, l’allitterazione complicata dalla figura etimologica foedum facinus facere, l’anafora tot ... tot, il polisindeto et ... et, l’accumulo di sinonimi propitiis et faventibus, il chiasmo occisa ... dempturum, nec servaturum reddita e i correlativi tanto ... quanto. 53 Iust. 39, 3, 3, citato per esteso supra, p. 79. Sulla scalata al potere delle regine tolemaiche, un processo iniziato con Cleopatra II, prima regina a governare da sola, e culminato in Cleopatra VII cfr. POMEROY 1984, 25; HÖLBL 2001, 197; CALABRIA – FINOCCHI 2001, 187; EHLING 2008, 215; SAVALLI-LESTRADE 2009, 146 ss.; TYLDESLEY 2016.

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laconica e del tutto vaga da un punto di vista geografico e cronologico (nec multo post repetita proelii congressione): eliminati tutti questi dati, si noti però come il breviatore non manchi di inserire la conclusione della vicenda della contesa tra le sorelle, finita con la morte anche di Trifena. Se quindi la connessione storiografica degli eventi è molto debole, lo stesso non si può dire per il singolo episodio, che Giustino bene articola in una chiara sequenza inizio-svolgimento-fine. Un altro significativo esempio di sospetta manipolazione si può trovare in 41, 6, 4-5, dove il re dei Battri Eucratide viene ucciso dal suo stesso figlio sulla via del ritorno da una campagna vittoriosa54. Multa tamen Eucratides bella magna virtute gessit, quibus adtritus cum obsidionem Demetrii, regis Indorum, pateretur, cum CCC militibus LX milia hostium adsiduis eruptionibus vicit. Quinto itaque mense liberatus Indiam in potestatem redegit. Vnde cum se reciperet, a filio, quem socium regni fecerat, in itinere interficitur, qui non dissimulato parricidio, velut hostem, non patrem interfecisset, et per sanguinem eius currum egit et corpus abici insepultum iussit. Del resto Eucratide condusse molte guerre con grande valore e pur logorato da queste, mentre subiva l’assedio di Demetrio, re degli Indi, grazie a frequenti sortite vinse sessantamila nemici con trecento soldati. Liberatosi dopo quattro mesi, ridusse l’India in suo potere. Tuttavia, mentre rientrava da questa spedizione, lungo il viaggio fu ucciso dal figlio che aveva associato al regno e costui, senza preoccuparsi di dissimulare il parricidio, come se avesse ucciso un nemico, non il padre, spinse il carro sul suo sangue e ordinò che il corpo venisse lasciato insepolto.

Nell’Epitoma, per aggiungere iniquità a crudeltà, il figlio parricida non solo non si preoccupa di dissimulare l’assassinio, ma addirittura ne profana il cadavere e ne vieta la sepoltura. Questa scena piuttosto cruda lascia però aperti i soliti dubbi, in quanto, anche in questo caso, nessuna altra fonte conferma l’omicidio né fa menzione di un governo congiunto padre/figlio. Inoltre, seppur l’assassinio di un sovrano a capo di un esercito vittorioso da parte del figlio sia storicamente ammissibile, poco probabile appare il successivo strazio del corpo, soprattutto davanti agli occhi dei soldati che da quel re erano stati appena guidati trionfalmente. 54

Sull’episodio cfr. COLORU 2009, 227-230.

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Un episodio così scabroso non sembra neppure coerente col successivo lungo e piuttosto pacifico regno del figlio, Eliocle55. Per tentare di chiarire la questione, va rilevato come poche righe prima il testo affermi che i Battriani finirono per essere sconfitti dai Parti56: sovrapponendo le due versioni ne risulta che Eucratide fu sconfitto dai Parti e ucciso da un filius. Holt ha suggerito che Giustino potrebbe aver incluso questo brano perché avrebbe ricordato ai suoi lettori un episodio analogo della storia romana, l’assassino di Servio Tullio istigato dalla sua stessa figlia, Tullia minore, che si concludeva con la medesima scena del cadavere del genitore straziato dal figlio a bordo del carro57. In questo senso, però, si potrebbe avanzare un’altra ipotesi: la storia di Tullia minore sarebbe stata per Giustino il modello in base al quale egli avrebbe trasformato un filius che trovava nell’originale in un filius suus; con il semplice inserimento di un (apparentemente innocuo) aggettivo possessivo l’epitomatore avrebbe così arricchito di un ulteriore flos a sfondo orientale, ma facilmente ricollegabile alla storia romana, quella ricca collezione di morti e parricidi (anche queste scene di repertorio, come avremo presto modo di vedere) che caratterizza il suo breviario58. A conclusione di questa sezione dedicata agli interventi di Giustino sul testo va anche ricordata la recente proposta di Ballesteros Pastor, che se pare assolutamente condivisibile quando nota nel testo l’abbondanza di passi di gusto retorico59, a mio parere si fa meno convincente nell’attribuire a Giustino un tipo di manipolazione assai più sostanziale. 55

«Piece of nonsense» già secondo TARN 1951, 220; più di recente THOMMEN 2010, 261. 56 Iust. 41, 6, 3: Bactriani… ad postremum ab invalidioribus Parthis velut exsangues oppressi sunt. 57 Cfr. HOLT 2012, 18-19. L’episodio è noto da Dion. Hal. ant. 4, 39; Liv. 1, 46-48; Ov. fast. 6, 587-608. In merito BELLANDI 1979, GLINISTER 1997, BRIQUEL 1998, ALBINI 2005. 58 Diversamente COLORU (2009, 227) ritiene che la frase qui non dissimulato parricidio, velut hostem, non patrem interfecisset più che un commento dell’epitomatore debba essere interpretata come uno stringatissimo riassunto del discorso del figlio, che nell’originale di Trogo avrebbe diffusamente spiegato alle truppe le ragioni del suo gesto. Tuttavia, considerato il gusto di Giustino per i discorsi, è più probabile che un simile brano sarebbe sopravvissuto. 59 BALLESTEROS PASTOR 2017, 81-82.

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Secondo lo studioso, infatti, Trogo non avrebbe rifiutato il discorso diretto; al contrario, la sua opera ne sarebbe stata assai ricca, come proverebbero i quattro casi presenti nell’Epitome (1, 8, 13; 2, 12, 3-7; 14, 4, 2-14; 18, 7, 10-14). Il fatto che queste quattro eccezioni rappresentino una minoranza assoluta rispetto ai quasi settanta discorsi in forma obliqua presenti nel testo60 per Ballesteros Pastor sarebbe l’esito di un complesso intervento dell’epitomatore: dalle numerose orazioni (dirette) trogiane Giustino avrebbe trascelto le sezioni di suo gusto e le avrebbe combinate insieme a formare nuovi discorsi, che avrebbe però trasformato in forma indiretta al fine di mascherare i segni del suo assemblaggio. Ovvia conseguenza è che lo stesso discorso di Mitridate sarebbe un semplice gioco letterario: Giustino non avrebbe riportato verbatim un brano di Trogo che sentiva particolarmente significativo, ma avrebbe cucito insieme in una nuova orazione in oratio obliqua una serie di lacerti tratti da almeno cinque discorsi (diretti) diversi, pronunciati da personaggi e in occasioni differenti61. Clamorosamente inventata sarebbe quindi anche l’opinione stilistica di Trogo e il rimprovero a Livio e Sallustio, una nota di colore che Giustino avrebbe inserito a mo’ di excusatio non petita della sua operazione letteraria62. Questa ipotesi, certo apprezzabile nella misura in cui attribuisce a Giustino indipendenza e statura artistica, lascia però irrisolte non poche questioni sostanziali: in primo luogo risulta poco chiaro il motivo per cui Giustino, che per tutto il testo avrebbe sistematicamente riformulato i discorsi diretti di Trogo in completo silenzio, proprio in un solo punto («paradoxically», dice lo stesso Ballesteros Pastor) decida di prendere

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Cfr. la dettagliata schedatura di ARNAUD LINDET 2003 (Annexe 3). BALLESTEROS PASTOR 2017, 90-92 (che riprende e sviluppa BALLESTEROS PASTOR 2013, 53-54). Già VAN WICKEVOORT CROMMELIN 1993, 372 aveva definito l’orazione «von Trogus fingierten», senza tuttavia argomentare la sua asserzione. Qualche dubbio, egualmente senza discussione, anche per Develin in YARDLEY trad. 1994, 238 n. 5 («there is nothing in Justin’s words to show necessarily that he is reproducing verbatim what he found in Trogus»). 62 BALLESTEROS PASTOR 2017, 90-91: «the detail added by Justin about Trogus’ rejection of direct discourse is, more than anything, an excusatio non petita, indicating that it was a device used by the epitomator as he composed his work». 61

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la parola 63 . Egualmente poco comprensibile sarebbe poi la scelta di lasciare quattro brani in forma diretta, una difficoltà a cui Ballesteros Pastor non può trovare reali soluzioni se non ipotizzando una sorta di gaffe dell’epitomatore64. Scendendo poi nello specifico del discorso di Mitridate, deve essere ricordato che quelle inesattezze stilistiche, come alcuni casi di indicativo al posto del congiuntivo in proposizioni secondarie che secondo lo studioso svelerebbero l’intervento di Giustino, in realtà sono già state ragionevolmente liquidate da Castiglioni come inevitabili in un autore programmaticamente ostile al discorso diretto quale Trogo ci viene presentato 65 . Né il fatto che Mitridate inizi la sua orazione chiedendosi se debba o meno attaccare guerra contro i Romani e poi, poco più avanti, mostri nei loro confronti aperta ostilità svelerebbe il

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Di questa difficoltà è consapevole lo stesso studioso, cfr. BALLESTEROS PASTOR 2017, 91: «the manipulation also creates some puzzling situation for the reader, because it is not uncommon for speeches included in the Epitome to be introduced without any kind of transition». 64 BALLESTEROS PASTOR 2017, 91 «we do not know the specific reasons that led Justin to put four passages in his work in quotation marks … perhaps Justin changed his mind as he composed his account and thought that when his protector was reading Book 38, he would have forgotten that he had already read some speeches in direct discourse». Lo studioso attribuisce molta importanza a questo rapporto tra Giustino e l’ignoto dedicatario dell’Epitoma: in modo particolare ritiene che la menzione dell’obtrectationis invidia (cfr. supra, p. 20) farebbe riferimento a una sorta di caduta in disgrazia di Giustino, rispetto a cui la composizione del breviario costituirebbe un tentativo di riscatto, un’esigenza che avrebbe anche orientato la selezione del materiale (p. 85). Anche questa ipotesi, tuttavia, rischia di far crollare la struttura e il senso dell’Epitoma nel suo complesso, il cui materiale finirebbe per essere stato scelto anche per «some other personal motives of which we are unaware». Si aggiunga poi che se davvero l’epitomatore voleva riacquistare il favore del suo protettore fornendogli «a dazzling display of his rhetorical skills» (ibid.) è difficile capire come una manipolazione così profonda del testo, con tanto di falsificazione del pensiero stilistico di Trogo, potesse incontrare l’apprezzamento di quello che Giustino ci presenta come un lettore colto. 65 CASTIGLIONI 1925, 37: «le applicazioni dell’indicativo in proposizioni secondarie del discorso indiretto, già multiformi nella prosa dell’estremo evo augusteo, dovevano, per giunta in un autore che aveva bandito dalle sue consuetudini letterarie il discorso diretto, essere volontariamente o involontariamente molto più frequenti che non in altri scrittori; che l’adozione di rigidi schemi e regole avrebbe accresciuto le difficoltà del comporre e portato insieme una intollerabile monotonia».

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carattere di incoerente collage del discorso66: che un generale aprisse il suo παρακλητικός λόγος definendo la guerra imminente come un atto necessario a fronte di un assalto esterno è, infatti, un ben noto topos del genere67. Anche a livello complessivo l’orazione non pare contenere evidenti aporie strutturali, ma si mostra articolata secondo una scaletta ben organizzata: - 38, 4, 1-3: giustificazione della guerra, non un bellum iniustum, ma difesa rispetto ad un’aggressione; - 38, 4, 4-12: confutazione del topos di Roma invitta; - 38, 4, 13 - 5, 2: focus sul momento presente, giudicato particolarmente adeguato ad una guerra contro Roma, allora travagliata dalle discordie interne e come sempre minacciata ai confini68; - 38, 5, 3-10: elenco delle ampie dimostrazioni di lealtà che Mitridate in passato ha offerto a Roma; - 38, 6 - 7, 5: rassegna delle ingiustizie compiute dai Romani ai danni dei re, figure che odiano per invidia nei confronti di un tipo di nobiltà (la discendenza da Alessandro Magno o dai grandi re achemenidi) estranea alla loro tradizione di ex pastori; - 38, 7, 6-10: rassicurazioni finali ai soldati. Non si tratterà di una campagna militare, ma quasi di un periodo di festa (magnamque temporis partem non ut militiam, sed ut festum diem acturos), tanta è la facilità della spedizione. 66

BALLESTEROS PASTOR 2017, 91. In merito ancora valido LANGE 1923, 18-25, ora IGLESIAS ZOIDO 2007, 35-42; ABBAMONTE 2009, 41-42. Per le affinità tra questo esordio e quello della Epistula Mithridatis (Sall. hist. 4, frg. 69 Maurenbrecher) cfr. ADLER 2011, 42. 68 In questa sezione anche il riferimento alla minaccia dei Cimbri (Iust. 38, 4, 15: simul et a Germania Cimbros, inmensa milia ferorum atque inmitium populorum, more procellae inundasse Italiam), presentata come attuale nonostante la vittoria di Mario ai Campi Raudii (101 a.C.), più che essere un anacronismo a svelare la natura di pastiche dell’orazione (così per BALLESTEROS PASTOR 2017, 92), ben si inserisce nel carattere enfatico della sezione, volta a presentare Roma come travagliata da pericoli tanto interni quanto esterni. Inoltre da più parti è stato notato come già in Cesare la menzione dei Cimbri fosse quasi antonomastica, a indicare le minacce che potevano provenire dalle tribù germaniche, cfr. PASCUCCI 1956, 372 (secondo cui il motivo dei Cimbri era divenuto «una sorta di slogan»); GIVIGLIANO 2002-2003, 35-53; BURNS 2003, 205-205. 67

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La lunga serie di punti controversi aperta dall’ipotesi di Ballesteros Pastor trova però soluzione presupponendo il meccanismo opposto, ovvero che siano i quattro interventi in oratio recta a essere di Giustino, e non il complesso viceversa. In primo luogo, va ribadito come si tratti di una una minoranza assoluta: quattro casi su circa settanta. Inoltre, analizzando queste eccezioni possiamo aggiungere che solo per due brani è effettivamente possibile parlare di discorso diretto (14, 4, 2-14: allocuzione di Eumene alle sue truppe; 18, 7, 10-14: invettiva di Malco contro il figlio Cartalone), mentre gli altri due si collocano ai margini del genere:

- 1, 8, 13 è l’imprecazione che Tamiri rivolge alla testa mozzata di -

Ciro69; 2, 12, 3-7 è il messaggio che Temistocle fa scrivere sugli scogli per dissuadere gli Ioni dal combattere contro i Greci70.

Lo scarsissimo rilievo numerico di queste eccezioni non fa dunque apparire incoerente la dichiarazione di Giustino circa la preferenza di Trogo per l’oratio obliqua, come invece avverrebbe nel caso opposto. Non si tratta poi di un’esiguità solo di occorrenze, ma anche di estensione: a fronte delle quasi centosessanta righe (ed. Teubner) del discorso di Mitridate, questi passaggi in oratio recta non spezzano mai l’unità stilistica del racconto, come invece avrebbe fatto una lunga allocuzione diretta. Pertanto, come già sostenuto da Yardley, pare assai più probabile che dietro queste sparute eccezioni, limitate in estensione e immediatamente legate alle situazioni, vi sia l’intervento del breviatore, un’ipotesi che trova ora supporto anche nei caratteri della tecnica escerptoria che abbiamo ricostruito. Se, infatti, abbiamo visto 69

“Satia te” inquit “sanguine, quem sitisti cuiusque insatiabilis semper fuisti”. Sed Atheniensium dux Themistocles […] saxis proscribi curat: “Quae vos, Iones, dementia tenet? Quod facinus agitatis? Bellum inferre olim conditoribus vestris, nuper etiam vindicibus cogitatis? An ideo moenia vestra condidimus, ut essent qui nostra delerent? Quid si non haec et Dario prius et nunc Xerxi belli causa nobiscum foret, quod vos rebellantes non destituimus? Quin vos in haec castra vestra ex ista obsidione transitis? Aut si hoc parum tutum est, at vos commisso proelio ite cessim, inhibite remis et a bello discedite”. 70

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Giustino e la storia

Giustino agire di preferenza sul carattere drammatico del racconto, pari scopo ha lo sporadico inserimento di brevi battute in oratio recta, forse ampliamento e vivacizzazione di segmenti originali71. Allo stesso modo è difficile ritenere falsa la preferenza di Trogo per il discorso indiretto, considerato come essa ben si attagli tanto al suo essere vir priscae eloquentiae, quanto all’influenza dello stile cesariano72. 6.3.

Dalla storia alla scena

A conclusione di questa indagine possiamo dunque affermare che, sia laddove la verità storica risulti distorta a causa di tagli poco accorti, sia nei punti in cui è possibile ipotizzare un intervento diretto, ben scarso è l’interesse di Giustino per la coerenza, l’attendibilità e la comprensione globale della sua opera. Un tale carattere, tuttavia, non deve indurre a giudicare l’Epitome in termini di riassunto raffazzonato, composto da un compendiatore distratto e maldestro. Tutt’altro: dall’analisi svolta è emerso come il breviario rappresenti un’opera costruita in modo consapevole, e ben organizzata intorno a nuclei di interesse identificabili; Giustino non ha tagliato senza discrezione, ma seguendo un criterio sistematico. Neppure la struttura complessiva può dirsi casuale in quanto l’opera è chiaramente articolata in una serie di episodi che, pur essendo tra di loro connessi in maniera vaga ed imprecisa, rappresentano uno spazio in sé conchiuso al cui interno è sempre possibile individuare un inizio, uno svolgimento ed una fine, spesso suggellata da una chiosa moralistica. Se ciò rappresenta un segno evidente del fatto che a Giustino non interessava la storia, ma la singola scena (data l’incuria con cui tratta l’una e la minuzia che invece riserva all’altra), la prima, ovvia, conseguenza è che egli abbia lavorato pensando ad un pubblico che avrebbe condiviso sia il suo metodo, sia le sue scelte.

71

Cfr. YARDLEY 2010, 476-479, secondo cui nell’originale di Trogo il messaggio di Temistocle probabilmente aveva forma simile a quella che si legge in Hdt. 8, 22: τὰ δὲ γράµµατα τάδε ἔλεγε. ‘ἄνδρες Ἴωνες, οὐ ποιέετε δίκαια ἐπὶ τοὺς πατέρας στρατευόµενοι καὶ τὴν Ἑλλάδα καταδουλούµενοι’. 72 Cfr. supra, p. 27.

Giustino e la storia

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Non solo: è altrettanto probabile che una tale tipologia di destinatari proprio nella peculiare forma di compendio rappresentata dall’Epitoma avrebbe trovato adeguata risposta ad una precisa serie di esigenze. A partire da queste considerazioni possiamo quindi riaprire la discussione sull’identità e sulla cronologia di Giustino

VII. LA DATAZIONE E L’IDENTITÀ: NUOVE PROPOSTE 7.1.

Giustino e il IV secolo

I risultati fin qui acquisiti ci consentono di ritornare alla questione dell’identità dell’epitomatore e della data con alcuni importanti elementi aggiuntivi. Abbiamo in precedenza visto come le proposte avanzate dalla critica oscillino tra il II e il IV secolo: agli indizi linguistici, letterari e storici dei sostenitori del II-III secolo, i fautori di fine IV oppongono per lo più ragioni legate al particolare rinascimento culturale che interessò gli ultimi due decenni del secolo. In questo periodo, infatti, l’élite intellettuale romana si mostra impegnata a salvare i grandi capolavori della storiografia latina ed è in una tale temperie che alcuni studiosi propongono di collocare l’attività di Giustino, che intendono mossa dal medesimo intento1. L’indagine condotta nelle pagine precedenti, tuttavia, ha nettamente allontanato il nostro breviatore da una simile preoccupazione letteraria: la sua coerente tecnica epitomatoria volta a staccare singoli episodi senza alcun interesse per la cornice storiografica complessiva difficilmente può portare a credere che egli con la sua epitome si proponesse di salvare il testo di Trogo. Le Historiae Philippicae, infatti, dalla riduzione di Giustino escono completamente sfigurate, del tutto mutate in struttura, equilibri e, soprattutto, profondamente compromesse nel loro valore storico. In questo senso, la considerazione che la produzione di prosa storiografica latina tra la fine del II e gli inizi del IV secolo sia assai scarsa 2 , rappresenta più un elemento a favore che non contro una collocazione del breviario in questo intervallo, data l’evidente fatica con cui il florum corpusculum di Giustino può essere posto entro i confini di tale genere letterario. Ancor più distante è poi quella 1 2

Cfr. supra, cap. 4.2. Cfr. ZECCHINI 2016, 221.

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La datazione e l’identità

“storiografia in sintesi” che conosce grande diffusione nel corso del IV secolo e destinata alla nuova classe di amministratori imperiali, un pubblico di lettori non specialisti che desiderava formarsi rapidamente una cultura di base sulla storia di quanto governava 3 . A una tale esigenza di informazione sintetica ma precisa ben rispondono, ad esempio, l’opera di Eutropio, che con dizione semplice e chiara narra i fatti storici con quel perfetto ordine cronologico totalmente assente in Giustino4, oppure la brevitas di Festo, la cui epitome è composta da trenta semplici capitoletti, o ancora l’Opusculum di Esuperanzio, che consta di soli 56 paragrafi (11 pagine Teubner)5. Queste riflessioni vanno così ad avvalorare quella tesi già sostenuta alla fine del XIX secolo da Eduard Norden, secondo cui l’Epitoma è troppo estesa per i bisogni del IV secolo («Ins vierte Jahrhundert möchte ich deshalb nicht hinabgehen, weil für die damaligen Bedürfnisse diese Epitome zu ausführlich ist»), quando, continua sulla stessa scia anche Marco Galdi, «la storia perde il suo antico vigore e si riduce a compendi più o meno smilzi e a brevi esposizioni più o meno aride»6. 3

Sulla tradizione breviaristica cfr. BANCHICH 2007, 305-311, DUBISCHAR 2010, 40-48; MÜLKE 2010; GASTI 2013, 131-134. 4 Cfr. supra, cap. 6.1. In Eutropio difficilmente gli eventi compaiono senza un’indicazione temporale: gli anni sono contati o con la datazione consolare o con quella ab Urbe Condita, a volte addirittura in entrambi i modi (Eutr. 2, 15, 1: C. Fabio Licinio C. Claudio Canina consulibus, anno urbis conditae quadringentesimo sexagesimo primo). Rispondono al medesimo interesse per la cronologia anche le correlazioni istituite tra i fatti (Eutr. 3, 21, 1: ita anno septimo decimo ab Hannibale Italia liberata est). Su Eutropio cfr. anche infra, p. 109 n. 8. 5 Soprattutto nel XIX secolo l’Opusculum fu considerato un poco felice compendio delle Historiae di Sallustio, come ancora testimonia GALDI 1922, 126: «è facile vedere che Esuperanzio non doveva essere uno scrittore d’ingegno, sì bene un mediocre compilatore». In tempi più recenti, tuttavia, ZORZETTI 1982, xiv-xviii ha mostrato come le molte imprecisioni ne indicherebbero la fonte principale in epitomatori di tradizione liviana, seppur JAKOBI 2002 continui a sostenere una derivazione esclusiva da Sallustio. 6 NORDEN 1898, 300 n.3, di cui si è già parlato supra, p. 40 n.14. GALDI 1922, 231. Si noti, a latere, come a tale esigenza paia invece rispondere l’Epitoma di Ossirinco, uno spezzone di un’epitome liviana (copre i libri 37-40 e 48-55) conservata da sei frammenti di un rotolo di papiro (POxy iv 668). Al pari di Giustino, anche la datazione di questo compendio è stata oggetto di acceso dibattito, con simili oscillazioni tra il II e il IV secolo d.C., epoca a cui mi pare avvicinarsi in virtù della brevitas e della rigida struttura cronologica. Diversamente dal respiro narrativo delle Periochae, infatti, l’Epitoma di Ossirinco trae dall’originale la rigorosa partizione temporale in anni consolari: a questa

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Niente affatto smilza e, soprattutto, per nulla arida, l’opera di Giustino è difficilmente ipotizzabile come consapevolmente pensata per un lettore alla ricerca di un agile prontuario di storia ellenistica. Ben lontani dalla nostra Epitoma sono anche gli interessi di fine IV secolo: ad esempio, rispetto al vivace dibattito culturale sui problemi di integrazione tra Romani e barbari, un tema ben visibile in Ammiano, Giustino è tanto indifferente da tagliare sistematicamente ogni digressione di carattere geo-etnografico. Ugualmente indicativa è poi quella totale noncuranza per il dato militare che abbiamo spesso segnalato: il milieu culturale di fine IV secolo, all’opposto, vede crescere l’importanza degli eserciti e dei suoi quadri7: Ammiano era stato un soldato, ugualmente di Eutropio si è ipotizzato che fosse stato uomo d’armi «oltre e prima di diventare uomo di lettere» considerato lo spiccatissimo focus sull’elemento bellico che caratterizza il suo breviario8. indicazione seguono succinte informazioni, spesso legate ad aspetti di civiltà («appartengono più alla sfera della cronaca e del costume che non alla storia vera e propria» per BESSONE 1982, 1246). Se proprio questo tratto ha fatto pensare ad una datazione più alta (cfr. FUNARI 2014, 63-65), va però notato come tali notizie, di solito assai brevi, si facciano invece leggermente più estese e circostanziate quando si tratta di gesta militari, un dato che riporta al IV secolo. Inoltre, a un livello più generale, le stringate curiosità non sono mai aneddoti sconnessi dalla cornice storica, ma particolari di colore legati a un singolo fatto o a una battaglia, quasi espedienti utili alla memorizzazione delle date. E infatti da più voci è stato affermato che l’Epitoma di Ossirinco rappresenti un manuale di storia romana per discenti di nascita egizia e formazione linguistica e culturale greca, anche questo un pubblico che aveva necessità di acquisire (e in fretta) qualche nozione sulla storia e sulla civiltà della nuova potenza dominante: nuovamente ritorniamo a un milieu di IV secolo. Su questa complessa questione si vedano almeno BESSONE 1982, JAL 1984 e FUNARI 2014 a cui si rimanda per ulteriore bibliografia e per un utile riepilogo della scholarship precedente. 7 Cfr. GASTI 2013, 123. 8 Definizione di SCIVOLETTO 1970, 36; si vedano anche le considerazioni di Fabio Gasti in BORDONE 2014, pp. xxxii-xxxiii. A confermare la maggiore vicinanza di Eutropio all’ambito militare paiono contribuire anche alcuni elementi del testo: non solo è evidente una generica preferenza per la storia militare su quella politica, ma gli aspetti tattico strategici vengono poi riportati con minuta precisione. Molto spesso, infatti, delle battaglie Eutropio elenca il numero dei soldati in campo, delle vittime, dei prigionieri, delle navi perse, degli elefanti uccisi (cfr. solo a titolo di esempio Eutr. 2, 20, 1; 3, 20, 2; 6, 20, 3). Analogo spazio è riservato anche alle liste di alleati, di città e popoli conquistati (cfr., tra i tanti, Eutr. 6, 10, 1; 7, 9, 1), non mancano neppure accurate

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La datazione e l’identità

Ricapitolando: durante un periodo di otium a Roma, Giustino ha letto la storia universale di Pompeo Trogo e ha pensato di farne una riduzione. Dall’originale, tuttavia, non ha tratto l’ossatura storiografica, come avrebbe richiesto buona parte del pubblico di fine IV secolo, né (come invece avrebbe fatto un aristocratico impegnato nella salvaguardia del patrimonio letterario precedente) ha avuto particolare cura per la sopravvivenza del contenuto, considerata la sostanziale indifferenza con cui lo ha spesso distorto. Dalle Historiae Philippicae Giustino ha invece sistematicamente estrapolato una serie di materiali catalogabili in categorie ben definite, andando così a costruire una sorta di archivio “di lavoro”. Resta quindi da chiedersi a chi potesse servire un simile strumento e cosa questo ci riveli circa l’identità di Giustino. Se Ronald Syme si dichiara tentato dal riconoscere nel breviatore un «minor civil servant in retirement»9, i caratteri della sua tecnica epitomatoria paiono indicarci con maggiore evidenza l’ambito della scuola, e della scuola di retorica in particolare. A questa ipotesi, da più parti azzardata10, cercheremo ora di dare un fondamento a partire dal testo. 7.2.

Il filtro della scuola

Torniamo nuovamente alla praefatio dell’opera e concentriamo ora la nostra attenzione su alcuni particolari11: 1.

Trogo viene elogiato non come storiografo, ma per il suo essere vir priscae eloquentiae, ad indicare in questa eloquentia un centro di interesse da parte del breviatore;

indicazioni topografiche, come quelle relative alle distanze tra le varie città (cfr. Eutr. 1, 4, 1; 1, 20, 1; 2, 12, 1), tutte informazioni che, come abbiamo più volte rilevato, Giustino omette sistematicamente. 9 SYME 1988, 370. 10 Cfr. JAL 1987, 196-198; YARDLEY ‒ HECKEL 1997, 17-18; BARTLETT 2014, 278-280, BALLESTEROS PASTOR 2017 80; 83; 93. 11 Cfr. Iust. praef. 4, brano citato per esteso supra, pp. 19 ss.

La datazione e l’identità

2. 3.

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l’Epitome viene definita florum corpusculum, metafora di lunga tradizione oratoria12; una delle finalità dell’opera, ut haberent quo instruerentur, rimanda all’ambito dell’educazione.

Ripensiamo poi alla dichiarazione di intenti: Giustino afferma di aver condotto una selezione mirata a conservare i brani che fossero cognoscendi voluptate iucunda oppure exemplo necessaria: dalle considerazioni fin qui svolte è sostanzialmente emerso che le parti “interessanti per il piacere di apprendere” sono, per lo più, mirabilia e curiositates, mentre rispondono alla categoria dell’ “utile per fare da esempio” una serie di aneddoti incentrati su figure che, seppur tratte da una historia universalis, hanno subito una sistematica decontestualizzazione13. Non si dimentichi neppure come l’unica citazione esplicita che Giustino trae da Trogo sia un’orazione, brano che, peraltro, viene introdotto da un cappello ricco di espressioni tecniche (oratio obliqua, contio directa)14. A suggerire una certa vicinanza tra Giustino e il mondo della retorica contribuiscono anche le numerose 12

Per flos in contesto retorico si veda ThlL s.v. flos col. 936 rr. 45 ss.; pensa ai Florida di Apuleio Yardley in YARDLEY ‒ HECKEL 1997, 18. Florum corpusculum va naturalmente connesso anche al greco ἀνϑολογία; cfr. TLG s.v ἀνϑολογία col. 768. 13 Cfr. GASTI 2015B, 361, che nota come l’idea di coniugare i materiali cognoscendi voluptate iucunda e quelli, invece, exemplo necessaria non sia una istanza fondamentale della storiografia («che in antico mira piuttosto a ricostruire gli eventi, esporli in uno stile conveniente, renderli così degni di conoscenza ai contemporanei che ne traggano vantaggio»); la piacevolezza della lettura è, invece, uno degli elementi costitutivi della biografia, soprattutto di quella post-svetoniana, a cui Giustino si avvicinerebbe molto. Particolarmente rilevante sarebbe, sempre secondo Gasti, l’affinità tra Giustino e Mario Massimo, autore (per quanto ne sappiamo) di biografie imperiali ricche di particolari scabrosi, testi che conobbero vasta fortuna, come lamenta Ammiano Marcellino 28, 4, 14. Su Mario Massimo si vedano BARDON 1956, 270-272; BIRLEY 1997; BIRD 1999; KULIKOWSKI 2007. 14 Cfr. Iust. 38, 3, 11, citato per esteso supra, p. 21. Si ricordi poi come in 4, 5, 2-3 (brano di cui si è già parlato supra, p. 68), pur in un contesto di forte compendio, Giustino conservi il ricordo dell’orazione di Demostene. Altrettanto significativo è 5, 9, 9: se Giustino è piuttosto sbrigativo a proposito della battaglia che segna la sconfitta dei Trenta Tiranni, non manca però di ricordare che ai ribelli giunse aiuto proprio in nome della solidarietà dovuta alla patria dell’eloquenza (Lysias, Syracusanus orator, exul tunc, quingentos milites stipendio suo instructos in auxilium patriae communis eloquentiae misit).

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affinità linguistico-lessicali (di cui hanno già dato ampiamente conto i cataloghi di John Yardley)15, oltre a convergenze tematiche come la vicenda di Alessandro Magno16 o la frequenza con cui l’Epitome conserva racconti di violenze sessuali17 e di esposizioni di fanciulli18. Non si tratta, però, solo di una semplice comunanza di temi e stili: la stessa modalità di rielaborazione del materiale trogiano rivela spesso un’impronta declamatoria. 7.2.1. Il tiranno e il conflitto familiare Iniziamo dal trattamento che Giustino riserva al tiranno, una delle figure topiche della declamazione, genere in cui il despota si presenta con caratteri fissi19. Nella maggior parte dei casi, infatti, si tratta di un personaggio a-storico e benché le modalità di acquisizione del potere siano sempre viste secondo l’aspetto istituzionale, questi aspetti compaiono in maniera marginale: sono invece le espressioni dei vizi topici del despota (sostanzialmente crudelitas, avaritia e libido) il nucleo intorno a cui il declamatore si concentra20. Seppur tratto da una storia universale, il tiranno di Giustino si presenta con caratteri non molto diversi. Prendiamo come esempio la narrazione 15

YARDLEY 2003, 181-187 e YARDLEY 2010, 476-479, liste a cui si può aggiungere Iust. 43, 2, 10, dove l’espressione aetas expositionis temporibus congruens non trova paralleli all’infuori di due luoghi delle Declamazioni Minori pseudo-quintilianee, l’argumentum della 306 (aetas cum expositionis tempore congruebat) e 338, 18 (adversarius multa probare necesse habet, habuisse se uxorem, concepisse uxorem suam, peperisse, marem peperisse, eo tempore quod ad aetatem eius de quo litigamus congruat peperisse, exposuisse, vixisse expositum). 16 Molto diffuse, infatti, erano le suasoriae a tema alessandreo, cfr. NICOLAI 1992, 88; ATKINSON 1998, 3474; MIGLIARIO 2007, 51-77. 17 Cfr. Iust. 2, 9, 2; 3, 4, 1; 9, 6, 5; 11, 4, 3; 21, 2, 10; 26, 1, 7; 38, 8, 5. Per il tema della violenza sessuale nelle declamazioni latine cfr. PACKMAN 1999, 17-36. 18 Ad esempio si vedano Iust. 1, 4, 2-14; 15, 4, 13-20; 23, 4, 3-11; 43, 2, 4-10; 44, 4, 211, brani di cui si è già parlato supra, p. 70 n. 45. Sul frequente ricorrere dell’immagine del bambino esposto nelle declamazioni latine cfr. BERNSTEIN 2009, 343-350. 19 Cfr. naturalmente i giudizi di Petr. 1, 1; Iuv. 7, 150; Tac. dial. 35. Sul tiranno nella declamazione latina si vedano TABACCO 1985; BERTI 2007, 99-110. 20 Cfr. TABACCO 1985, 14-27 e 87-126.

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delle vicende di Aristotimo, che il prologo non menziona neppure21, ma a cui Giustino dedica buono spazio: Inter hunc turbatarum provinciarum motum Epirorum quoque urbs ab Aristotimo principe per tyrannidem occupatur. A quo cum multi ex primoribus occisi, plures in exilium acti essent, Aetolis per legatos postulantibus, coniuges liberosque exulum redderet, primo negavit, postea, quasi paeniteret, proficiscendi ad suos potestatem omnibus matronis dedit diemque profectionis statuit. Illae, quasi in perpetuum cum viris exulaturae, pretiosissima quaeque auferentes, cum ad portam quasi uno agmine profecturae convenissent, omnibus rebus spoliatae in carcerem recluduntur, occisis prius in gremio matrum parvulis liberis, virginibus ad stuprum direptis. Hac tam saeva dominatione stupentibus omnibus princeps eorum Hellanicus, senex et liberis orbus, ut qui nec aetatis nec pigneris respectu timeret, contractos domum fidissimos amicorum in vindictam patriae hortatur. Cunctantibus privato periculo publicum finire et deliberandi spatium postulantibus arcessitis servis iubet obserari fores tyrannoque nuntiare, mitteret qui coniuratos apud se conprehenderet; obiectans singulis se, quia liberandae patriae auctor esse non possit, desertae ultorem futurum. Tunc illi ancipiti periculo circumventi honestiorem viam eligentes coniurant in tyranni necem, atque ita Aristotimus quinto quam tyrannidem occupaverat mense opprimitur22. Nel mezzo di questa sollevazione delle province destabilizzate, anche la città degli Epiri cadde preda della tirannide del principe Aristotimo. Questi, dopo aver messo a morte molti dei maggiorenti e averne esiliati un numero ancora più cospicuo, agli Etoli che con un’ambasceria gli chiedevano di restituire le mogli e i figli degli esuli, sulle prime rispose di no, poi, come pentendosene, diede alle matrone la possibilità di raggiungere i loro familiari e fissò il giorno della partenza. Quelle, supponendo di dover vivere per sempre in esilio insieme con i loro mariti, andavano recandosi appresso tutti i loro beni più preziosi, ma non appena si furono radunate presso la porta della città, come per partire in un’unica colonna, vennero spogliate di tutte le loro cose e gettate in carcere, ma prima i figli furono trucidati tra le braccia delle madri e le vergini trascinate allo stupro. Tra il generale sconcerto per una tirannia così feroce, uno dei cittadini più in vista della città, Ellanico, vecchio e senza figli (quindi libero da timori legati all’età o ai vincoli familiari), radunati in casa i più fedeli tra gli amici, li esortò a liberare la patria. Siccome costoro esitavano a porre fine al pericolo dello stato correndo loro un pericolo privato e chiedevano tempo per riflettere, egli, convocati i servi, ordinò che le porte venissero sbarrate e che al tiranno si dicesse di mandare qualcuno ad arrestare i congiurati, mentre a ciascuno di quelli obiettava il fatto che lui, siccome 21

Cfr. prol. XXVI citato per esteso e commentato supra, pp. 53 ss. Iust. 26, 1, 4-10. Di questo personaggio (cfr. R.E. s.v. Aristotimos n. 2) oltre a Giustino ci rimane il racconto di Plut. (mor. 250f-253f) e le menzioni di Paus. 5, 5, 1 e 6, 14, 11. In merito si legga GÓMEZ ESPELOSÍN 1991, 103-109. 22

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non poteva essere il fautore della liberazione della patria, avrebbe almeno fatto giustizia di quanti l’avevano abbandonata. Allora quelli, presi tra due pericoli, scegliendo la via più onorevole complottarono la morte del tiranno e così Aristotimo fu ucciso nel corso del quinto mese da che si era impossessato del potere.

Ancora una volta Giustino agisce sullo spessore storiografico del bozzetto, in questo caso impreciso anche da un punto di vista geografico: Epirorum, infatti, lezione dei manoscritti, non dà senso ed è quindi stata variamente emendata 23 . Manca poi del tutto un’analisi, anche sommaria, della situazione politica generale in cui si colloca il fenomeno tirannico: la vicenda si esaurisce in quanto è espressione di avaritia (la rapina degli oggetti preziosi), ma soprattutto di crudelitas, da cui Aristotimo è indotto ad agire contro i rapporti di intimità ed affetto, legami verso i quali mostra l’istintiva ostilità del despota declamatorio24. Concluso l’aneddoto sulle matrone ingannate, Giustino passa immediatamente alla scena del vir fortis che con la sua determinazione scuote la collettività apatica e mette in moto l’azione che porterà alla liberazione della città. La reale sommossa, di cui abbiamo notizia da Plutarco e Pausania25, viene però completamente 23

La correzione maggiormente accettata è quella del Faber (Tanneguy Le Fèvre), Epiorum: Ἐπειοί, infatti, è il nome già omerico degli abitanti dell’Elide, cfr. Hom. Il. 2, 619. Conservo comunque la lezione dei codici perché potrebbe essere di Giustino, considerato il suo disinteresse per la geografia. 24 Un ottimo esempio di ciò si può reperire nella XVI Declamazione Maggiore (Amici vades): due giovani, amici fin dall’infanzia, prendono insieme il mare, ma a seguito di un naufragio cadono nelle mani di un tiranno. La notizia giunge alla madre di uno di loro, la quale per il troppo piangere perde la vista: il figlio ottiene allora dal tiranno di rientrare in patria per far visita alla madre inferma, impegnandosi a fare ritorno in un giorno stabilito; l’amico si offre come garante. Una volta a casa, però, il figlio è trattenuto dalla madre, che si oppone alla partenza del ragazzo appellandosi a una legge che vincola i figli ad assistere i genitori: la declamazione è il discorso di difesa del figlio. Quel che importa rilevare ai fini del nostro discorso è come il reale intento del despota non sia quello di imporre il suo volere o fare prigionieri, bensì il mettere in discussione la possibilità stessa che tra due esseri umani possa sussistere un rapporto di amicizia, cfr. Ps.Quint. decl. 16, 3, 6 e 16, 7. Per un inquadramento generale su questa declamazione cfr. SANTORELLI 2014, 175-206. 25 In Plutarco (mor. 252a-253b) non vi è traccia del rimprovero di Ellanico ai compagni timorosi: al contrario, nel suo racconto ad impegnarsi (senza esitazione) a rovesciare il tiranno sono sia un cospicuo numero di congiurati, sia gli esuli. Pausania 5, 5, 1, pur

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tagliata e coperta da un laconico Aristotimus opprimitur. Anche questo è un elemento di gusto spiccatamente retorico: nella declamazione, infatti, il tiranno viene di preferenza abbattuto non dalla collettività (in genere inerte o paralizzata dalla paura), ma dall’iniziativa del suo alter ego, il vir fortis, che sotto la spinta di sentimenti di polarità opposta è l’unico ad agire per il bene comune26. Non diverge Giustino, che se è rapido nel tagliare complicati sviluppi politici conserva invece, e nei dettagli, le scene in cui un eroe solitario rovescia il tiranno. Lo possiamo notare anzitutto in un brano tratto dal XVI libro: Haec illum facere duo nobilissimi iuvenes, Chion et Leonides, indignantes patriam liberaturi in necem tyranni conspirant. Erant hi discipuli Platonis philosophi, qui virtutem, ad quam cotidie perfectius praeceptis magistri erudiebantur, patriae exhibere cupientes L cognatos veluti clientes in insidiis locant. Ipsi more iurgantium ad tyrannum veluti ad regem in arcem contendunt; qui iure familiaritatis admissi, dum alterum priorem dicentem intentus audit tyrannus, ab altero occupatur. Sed et ipsi sociis tardius auxilium ferentibus a satellitibus obruuntur. Qua re factum est, ut tyrannus quidem occideretur, sed patria non liberaretur. Nam frater Clearchi Satyrus eadem via tyrannidem invadit, multisque annis per gradus successionis Heracleenses regnum tyrannorum fuere27. Indignati da questo suo agire, due giovani della più alta nobiltà, Chione e Leonide, con l’intento di liberare la patria cospirarono per l’assassinio del tiranno. Costoro erano discepoli del filosofo Platone e, desiderando mostrare alla patria quella virtù nella quale si perfezionavano ogni giorno di più grazie agli insegnamenti del maestro, misero in agguato cinquanta loro parenti, fingendo che fossero loro clienti. Poi, atteggiandosi a litiganti, si diressero alla rocca del tiranno come se andassero da un re; ammessi al suo cospetto per diritto di amicizia, mentre il tiranno era intento ad ascoltare il primo che parlava, fu ucciso dal secondo. Tuttavia, anche loro morirono assassinati dalle guardie, dato che i complici giunsero in aiuto troppo non dilungandosi in dettagli, ricorda però i nomi dei congiurati (Chilone, Ellanico, Lampi e Cilone). 26 Cfr. TABACCO 1985, 51-66; LENTANO 1998, 9-32; CASAMENTO 2016. 27 Iust. 16, 5, 12-18. L’episodio è noto, con alcune varianti, anche da Acad. Index Hercul. VI, 13 (p. 35 Mekler); Memnone di Eraclea (= FGrHist 434, F 1) citato da Phot. bibl. 224 [222b] ed Eliano frg. 86 Hercher. L’Epitome è l’unico testo in cui Clearco viene ucciso a palazzo con lo stratagemma della falsa lite, altrove viene assassinato all’esterno e nel corso delle feste dionisiache. Per una discussione di tutte queste fonti ancora valido DÜRING 1951, 9-16. Sotto il nome di Chione di Eraclea circola anche un epistolario, che la maggior parte della critica (con l’eccezione di CATAUDELLA 1980 e 1981) ha però giudicato apocrifo; per una sintesi della questione cfr. ZUCCHELLI 1986.

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tardi. Per questo motivo accadde che il tiranno fu sì ucciso, ma la patria non venne liberata. Infatti Satiro, fratello di Clearco, per la medesima via si impadronì del potere e gli Eracleesi per molti anni furono asserviti ad un regime di tiranni che si succedevano l’un l’altro.

Come si può notare, a fronte del racconto perfettamente articolato dell’abbattimento del tiranno si contrappone un brusco taglio della storia successiva, eventi di cui Trogo, invece, doveva dar conto28. Tale filtro declamatorio può essere utile anche per rileggere una delle pagine più controverse dell’Epitoma, quella che narra le vicende di Pisistrato e dei suoi successori. Sed Pisistratus, quasi sibi, non patriae vicisset, tyrannidem per dolum occupat. Quippe voluntariis verberibus domi adfectus laceratoque corpore in publicum degreditur, advocata contione vulnera populo ostendit, de crudelitate principum, a quibus haec se passum simulabat, queritur; adduntur vocibus lacrimae et invidiosa oratione multitudo credula accenditur: amore plebis invisum se senatui simulat. Obtinet ad custodiam corporis sui satellitum auxilium, per quos occupata tyrannide per annos XXXIII regnavit. Post huius mortem Diocles, alter ex filiis, per vim stuprata virgine a fratre puellae interficitur. Alter, Hippias nomine, cum imperium paternum teneret, interfectorem fratris conprehendi iubet, qui cum per tormenta conscios caedis nominare cogeretur, omnes amicos tyranni nominavit, quibus interfectis quaerenti tyranno, an adhuc aliqui conscii essent, neminem ait superesse, quem amplius mori gestiat quam ipsum tyrannum. Qua voce eiusdem se tyranni victorem post vindictam pudicitiae sororis ostendit. Huius virtute cum admonita civitas libertatis esset, tandem Hippias regno pulsus in exsilium agitur. (2, 8, 6-9, 6) Tuttavia Pisistrato, quasi avesse vinto per se stesso, non per la patria, con una frode si impadronì della tirannide. Infatti, dopo essersi fatto volontariamente frustare in privato, col corpo lacerato si recò in pubblico. Convocata un’assemblea mostrò le ferite al popolo e si lamentò della crudeltà dei nobili, dai quali fingeva di aver subito tutto ciò; alle parole mescolò le lacrime e con un discorso fazioso infiammò la folla ingenua: fingeva, infatti di essere inviso ai membri del consiglio proprio in nome del suo amore per il popolo. Ottenne così l’aiuto di guardie per la custodia della sua persona: impadronitosi della tirannide grazie a costoro, regnò per trentatré anni. Dopo la morte di questo, uno dei suoi due figli, Diocle, violentata una vergine, fu ucciso dal fratello della fanciulla. L’altro figlio, di nome Ippia, mentre deteneva il 28

Cfr. prol. XVI: repetitae inde Bithyniae et Heracleoticae origines, tyrannique Heracleae Clearchus et Satyrus et Dionysius, quorum filiis interfectis Lysimachus occupavit urbem.

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potere del padre, fece imprigionare l’uccisore del fratello; questi, costretto con la tortura a fare i nomi dei complici dell’assassinio, elencò tutti gli amici del tiranno. Eliminati costoro, al tiranno che gli chiedeva se vi fosse ancora qualche complice, l’uomo rispose che non era rimasto nessuno del quale desiderasse la morte più del tiranno stesso. Con queste parole dimostrò che, dopo aver vendicato la castità della sorella, aveva sconfitto lo stesso tiranno. L’eroismo di costui fece tornare alla città il ricordo della libertà: alla fine Ippia, scacciato dal regno, fu mandato in esilio.

Ancora una volta, l’attenzione di Giustino è circoscritta al semplice episodio: dell’intera storia di Pisistrato, infatti, rimane solo la menzione dello stratagemma grazie al quale si impadronì del potere, mentre la sua complessa vicenda storico-politica è ridotta a un semplice nesso di passaggio, peraltro impreciso, dato che la tirannide di Pisistrato non fu ininterrotta come lo sbrigativo taglio di Giustino (per annos XXXIII regnavit) parrebbe suggerire29. I maggiori problemi, però, sorgono dalla vicenda dei figli, in quanto la versione di Giustino diverge in modo significativo dalle altre fonti, che, pur con qualche variante, narrano una storia pressoché omogenea30. In primo luogo il nome dell’assassinato non è Diocle (altrimenti ignoto), ma Ipparco; questi, invaghitosi senza successo di Armodio, un giovane della nobile gente dei Gefirei, indirizzò sì la propria vendetta sulla sorella di chi lo aveva respinto, ma non si trattò di un’azione dai connotati sessuali. La fanciulla, infatti, fu schernita e allontanata dalla processione a cui era stata precedentemente invitata; a seguito di tale affronto Armodio, coadiuvato dal suo amante, Aristogitone, aggredì e uccise Ipparco. Ben diversa è la storia che leggiamo in Giustino, né dal prologo, troppo succinto, proviene qualche informazione sul contenuto

29

Come ricorda anche Aristot. Ath. 17, trentatré anni è la cifra che si ottiene computando il periodo intercorso tra il colpo di stato (561/60 a.C.) e la morte (528/7 a.C). Dalle altre fonti, però, sappiamo che la tirannide di Pisistrato non fu ininterrotta; al contrario egli venne espulso da Atene diverse volte (cfr. Hdt. 1, 59-64; Aristot. Ath. 14-15). Sulla complessa questione della cronologia di Pisistrato si vedano almeno HEIDBÜCHEL 1957, 70-89; SUMNER 1961, 37-48; RHODES 1976, 219-233; GEHRKE 1990, 33-49; GOUŠCHIN 1999, 14-23; BERTI 2005, 64-79; FLAMENT 2015, 215-236. 30 Cfr. Hdt. 5, 55-61; 6, 123; Thuc. 6, 54-59; Aristot. Ath. 18. In merito cfr. FORNARA 1968, 408-409; LAVELLE 1986, 318-331; GANCI 2000, 75-94; BERTI 2005, 30-64; HORNBLOWER 2008, 433-452; PERICOLA 2008, 9-23.

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dell’originale31. Possiamo quindi giudicare questa versione come una semplice banalizzazione opera di un epitomatore sciatto e sbrigativo? In realtà, a ben vedere, questi contenuti più che aver subito una riduzione sommaria e maldestra, paiono essere passati attraverso un filtro declamatorio: il brano sui successori di Pisistrato, come sempre privo di un quadro di riferimento o di un contesto politico più ampio, non è altro che l’ossatura di un pezzo di scuola sui tiranni, in cui uno incarna la libido, l’altro la crudelitas. È soprattutto la figura di Ippia a rispondere in maniera significativa ai caratteri del tiranno declamatorio: si serve della tortura a scopo inquisitivo32 ed è sostanzialmente isolato; dominato dal sospetto e dalla paura, non si fida neppure di chi gli sta intorno, una debolezza su cui il vir fortis (che Giustino, nonostante la celebrità delle figure di Armodio e Aristogitone, presenta come anonimo)33 fa astutamente leva34. Non solo: la stessa centralità del ruolo del vir fortis nell’abbattimento della tirannide, altro tratto spiccatamente declamatorio, è una costruzione del testo in quanto Ipparco fu assassinato nel 514/13, mentre Ippia andò in esilio solo qualche anno dopo (511/10 a.C.) e in seguito all’intervento spartano35.

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Cfr. prol. II: hic origines Athenarum repetitae et reges usque ad Pisistrati tyrannidem, qua extincta Marathone vicere Persas. 32 TABACCO 1985, 98-99. Del lungo interrogatorio di Aristogitone parla anche Aristot. Ath. 18, secondo cui nella vulgata democratica egli avrebbe accusato gli amici del tiranno, mentre secondo un’altra versione avrebbe denunciato i veri complici della congiura. 33 Secondo Hdt. 6, 109 alla vigilia di Maratona Milziade avrebbe incitato Callimaco a compiere un'impresa più memorabile di quella di Armodio e Aristogitone; Isae. De Diceog. [5], 46-47 menziona i privilegi che furono concessi ai loro discendenti; Pausania ricorda le statue erette in loro onore (1, 8, 5) e la loro tomba nel Ceramico (1, 29, 15). Sul processo di mitizzazione dei due personaggi cfr. da ultimo PERICOLA 2008, 9-11. 34 TABACCO 1985, 36-45. 35 Cfr. Hdt. 5, 62-65; Thuc. 1, 20; 6, 59, 4; Aristot. Ath. 19. La tradizione sulla cacciata di Ippia da Atene è stata oggetto dello studio di FORREST 1969, 277-286; successivamente si veda ZAHRNT 1989, 297-307.

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Ugualmente significativo è il trattamento che Giustino riserva ad un altro dei suoi temi privilegiati, il conflitto familiare36, nuovamente topos della declamazione, dove è tanto presente da essere stato definito «il pezzo forte su cui si confrontano le sagaci intelligenze dei retori»37 . Epitomando una storia universale, la famiglia di Giustino è spesso quella regnante, ma, al pari di quanto accade con il tiranno, non ne vengono quasi mai seguiti gli sviluppi della vicenda storica, soprattutto negli aspetti bellico-tattici. Si prenda un motivo comune, il veleno che viene offerto a chi lo aveva preparato: esso costituisce l’asse portante sia della XVII Declamazione Maggiore (venenum effusum)38, sia di un aneddoto del XXXIX libro dell’Epitoma. Grypos porro recuperato patrio regno externisque periculis liberatus insidiis matris adpetitur. Quae cum cupiditate dominationis prodito marito Demetrio et altero filio interfecto huius quoque victoria inferiorem dignitatem suam factam doleret, venienti ab exercitatione poculum veneni obtulit. Sed Grypos praedictis iam ante insidiis, veluti pietate cum matre certaret, bibere ipsam iubet; abnuenti instat. Postremum prolato indice eam arguit, solam defensionem sceleris superesse adfirmans, si bibat, quod filio obtulit. Sic victa regina scelere in se verso veneno, quod alii paraverat, extinguitur. Parta igitur regni securitate Grypos octo annis quietem et ipse habuit et regno praestitit39.

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Basti pensare che in Giustino la parola parricidium e derivati compare più di quaranta volte, una cifra rilevante se la si paragona alle diciannove di Livio, alle sei di Sallustio e alle nove di Tacito; addirittura non è presente in Ammiano Marcellino. Se quindi non pare essere lessico storiografico, lo stesso non si può dire per la retorica: parricidium e derivati contano, infatti, una dozzina di occorrenze in Calpurnio Flacco, più di cinquanta nelle Minores e superano le centocinquanta sia in Seneca retore, sia nelle Maiores. 37 CASAMENTO 2002, 71. Sul tema dei rapporti familiari nella declamazione latina cfr. SUSSMAN 1995; LENTANO 1999, 611-614; RACCANELLI 2000, 106-133; VESLEY 2003; LENTANO 2005; BREIJ 2007; BRESCIA ‒ LENTANO 2009, 69-132. 38 Un padre che per tre volte ha tentato di disconoscere il figlio lo sorprende in una stanza appartata intento a miscelare un veleno. Alle domande del padre, che teme di aver appena sventato un attentato ai suoi danni, il figlio ribatte che ha intenzione di usare quel veleno per suicidarsi. Il padre lo sfida a dar prova di sincerità bevendo immediatamente il preparato: il figlio rifiuta la costrizione e getta il liquido a terra. A quel punto il padre lo trascina in tribunale con l’accusa di parricidio: la declamazione è il discorso di difesa del figlio. Per un inquadramento si veda almeno l’ottimo PASETTI 2011, 13-51. 39 Iust. 39, 2, 7-9. Di Antioco Grifo si è già parlato supra, p. 75 n. 10 e pp. 95 ss.

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Grifo, a sua volta, una volta recuperato il regno del padre e libero dai pericoli esterni, fu minacciato delle insidie della madre. Questa, infatti, dopo aver tradito per smania di potere il marito Demetrio ed ucciso l’altro suo figlio, affliggendosi nel vedere la sua autorità ridimensionata dalla vittoria anche di questo figlio, a lui che tornava da un’esercitazione offrì una coppa di veleno. Ma Grifo, avendo già previsto l’insidia, come a far gara di cortesia con la madre, la invita a bere lei stessa: lei rifiuta, lui insiste. Alla fine, protendendo l’indice, la smaschera, affermando che le rimaneva una sola difesa dall’accusa: bere ciò che aveva offerto al figlio. Così la regina, sconfitta da un crimine che le si era rivoltato contro, morì del veleno che aveva preparato per un altro. Assicuratosi quindi un regno tranquillo, Grifo per otto anni ebbe pace lui stesso e la garantì al suo regno.

Anche Appiano ricorda brevemente l’episodio: µετὰ δὲ Σέλευκον ὁ Γρυπὸς ἐγένετο βασιλεύς καὶ τὴν µητέρα οἱ φάρµακον κεράσασαν πιεῖν ἠνάγκασεν. (Syr. 11, 69) Dopo Seleuco divenne re Grifo e obbligò la madre a bere il veleno che quella aveva preparato per lui.

Non vi è dubbio che il potenziale drammatico venga ben più sfruttato da Giustino, che conserva l’incontro e (non a caso) il dialogo cruciale, con un personaggio forzato a scegliere tra la morte immediata o l’esposizione ad un’accusa gravissima che potrebbe avere conseguenze altrettanto letali40 . Si aggiunga che la stessa regina avvelenatrice risponde esattamente a quei caratteri della noverca declamatoria enucleati da Patricia Watson. Se nella declamazione la matrigna: 1. 2. 3. 40

è anonima; è associata al veleno; agisce per questioni di eredità41;

Cfr. per un confronto Ps.Quint. decl. 17, 17, 4-9, una delle parti più intense della declamazione, dove il figlio ricostruisce il momento cruciale dello scontro: qui l’ordine di bere (bibe), ripetuto ben sei volte, scandisce la struttura retorica del passo in un crescendo drammatico. Dell’affinità di toni tra Giustino e la XVII Declamazione ha già parlato PASETTI 2011, 72-73. 41 WATSON 1995, 93. Sul tema della matrigna nella letteratura latina, e nelle declamazioni in particolare, si vedano anche GRAY-FOW 1988; CASAMENTO 2015; PINGOUD ‒ ROLLE 2016; VALENZANO 2016.

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non diversa appare questa regina in quanto 1. 2. 3.

è anonima: Giustino ne omette l’identità (Cleopatra Thea) preferendo, al solito, indicare le persone secondo rapporto di parentela42; agisce col veleno; è mossa dal genere di eredità che riguarda un sovrano, il regno.

Ancora una volta poi, se la singola vicenda ha una sua perfetta conclusione (la morte della donna), la storia viene bruscamente omessa e il testo si limita a registrare che, in seguito all’episodio, Antioco Grifo ebbe otto anni di pace. Anche questa strutturazione, che abbiamo più e più volte sottolineato, presenta importanti affinità con le pratiche di scuola: la declamazione, infatti, solo all’apparenza può sembrare aperta, visto che non sappiamo se l’imputato fittizio fu assolto o condannato. In realtà, come ha già messo in evidenza Raffaella Tabacco, la vicenda che sta al centro del dibattito è assolutamente chiusa: l’esito del processo è un dato marginale, la cui conoscenza apporterebbe poco più di un particolare aggiuntivo43. Allo stesso modo per Giustino i nessi causa-effetto, l’onomastica precisa, i nomi di luogo e le indicazioni di tempo ‒ in altre parole, l’historia ‒ rappresentano poco più che particolari aggiuntivi, di scarso rilievo rispetto a quello che è il nucleo del suo interesse, cioè l’aneddoto di gusto declamatorio, questo sì, perfettamente articolato in inizio-svolgimento-fine. 7.3.

Giustino: chi è?

A fronte di queste considerazioni risulta difficile ritenere che Giustino abbia compilato uno sciatto e scorretto breviario pensato per contribuire (malamente) a salvare Pompeo Trogo e rivolto a lettori che volessero apprendere (altrettanto malamente) la storia orientale. Affrancando le 42

Del trattamento generico e impreciso riservato a Cleopatra Thea si è già detto supra, pp. 77 ss. 43 Cfr. TABACCO 1989, 553-557.

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vicende dal loro contesto, Giustino pare invece mostrarci nel suo divenire quel processo che trasforma i protagonisti della storia in “tipi” retorici, una de-contestualizzazione che carica le situazioni di un’esemplarità volta a renderle valide per ogni epoca44. Sappiamo che nella scuola di retorica alla storiografia ci si accostava come ad un utile serbatoio da cui trarre spunti narrativi ed exempla codificati, materiale che veniva poi disinvoltamente rielaborato tramite amplificazione o inserimento di varianti e particolari inventati, un carattere fittizio di cui gli stessi declamatori erano consapevoli45. Non molto diverso appare l’approccio di Giustino al testo di Trogo, a cui apporta pennellate di colore proprio finalizzate all’amplificatio e al supplemento di dettaglio46. Lo stesso carattere vivace dell’Epitoma, costruita intorno a bozzetti curiosi e scene scabrose, indica come pubblico gli allievi delle scuole di declamazione, a tal punto contristati dalla storiografia che Seneca Retore, per obbligarli a leggere la digressione su Cicerone nelle fonti storiografiche, si trova costretto a spargere miele lungo i bordi del poculum47 . Troppo alto, infatti, il rischio che all’apparire dell’odiata storiografia la lettura venga abbandonata e il rotolo riavvolto: per avere 44

Su questo processo cfr. BERTI 2007; MIGLIARIO 2007, 95-96; VAN MAL-MAEDER 2007, 115-146. 45 Cfr. Sen. Rhet. contr. 7, 2, 8: Popillium pauci ex historicis tradiderunt interfectorem Ciceronis et hi quoque non parricidi reum a Cicerone defensum, sed in privato iudicio: declamatoribus placuit parricidi reum fuisse, su cui cfr. NICOLAI 1992, 86; CASAMENTO 2004; LENTANO 2016. Sul rapporto tra storiografia e retorica si vedano almeno FERRILL 1978, 4 («history taught in rhetorical schools could not really be history. History as the handmaid of rhetoric is merely a bag of tricks»); NICOLAI 1992, 56-58; BLOOMER 1997, 213; GIBSON 2004, 105-110; BERTI 2007, 109; LENTANO 2009, 192. 46 Cfr. CASAMENTO 2004, 364: «è propria delle scuole di declamazione una cultura dell’enfatizzazione, una sorta di rivisitazione in chiave retorica di quella storiografia tragica sempre più di moda. I declamatori appaiono naturalmente inclini a recepire gli eventi più spettacolari e, quando quelle stesse circostanze non lo sono abbastanza, provvedono personalmente a ‘ritoccarli’ mediante mirati aggiustamenti»; GIBSON 2004, 107: «ancient students learned literature, and they learned how to manipulate historical exempla in creating spoken and written discourse, but they did not learn history». 47 Sen. Rhet. Suas. 6, 16: nolo autem vos, iuvenes mei, contristari quod a declamatoribus ad historicos transeo: satis faciam vobis. Sed fortasse efficiam ut his sententiis lectis solidis et verum habentibus recedatis; et, quia hoc [si tam] recta via consequi non potero, decipere vos cogar, velut salutarem daturus pueris potionem. Sumite pocula. Per l’analisi di questo passo, assai discusso anche sul piano filologico si vedano almeno HÅKANSON 1989, 14-19 e ROLLER 1997, 109-130.

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la ragionevole certezza che il volumen sia srotolato fino all’umbilicum meglio tutelarsi incastonando l’excursus tra due declamazioni48. Giustino dunque, guardando a quel mondo della retorica che non solo faceva largo uso (se non abuso) di exempla49, ma dove abbondava pure l’inserimento di elementi curiosi e a tinte fosche50, ha compilato una raccolta di materiali ad uso dei futuri retori, uno strumento da compulsare per trovare spunti utili a rafforzare l’efficacia novellistica della declamazione e fornirle una patina culturale e moralistica. Eliminata la storia romana, la cui notorietà rendeva meno agevole un trattamento eccessivamente disinvolto, Giustino può quindi mettere a disposizione del suo pubblico un materiale reso “nuovo” e meno consueto dall’ambientazione vaga e per lo più orientale, un’indeterminatezza che gli consente anche di lasciare sullo sfondo la cornice fattuale per concentrarsi, invece, sull’episodio chiuso ad anello51. 7.4.

Un indizio cronologico?

Da una tale indicazione di genere discende però una considerazione utile anche nell’ambito della cronologia, soprattutto se si recupera quell’aneddoto dei Macedoni che posero il re neonato dietro le file dell’esercito e che si legge nell’Epitoma, nel panegirico che Nazario pronuncia nel 321 d.C. (quindicesimo anno di regno di Costantino e quinquennalia dei Cesari) e, in forma più succinta, in Ammiano Marcellino.

48

Sen. Rhet. suas. 6, 27: si hic desiero, scio futurum ut vos illo loco desinatis legere quo ego a scholasticis recessi; ergo, ut librum velitis usque ad umbilicum revolvere, adiciam suasoriam proximae similem, su cui NICOLAI 1992, 54-55. 49 Sen. Rhet. contr. 7, 5, 12–13: gravis scholasticos morbus invasit: exempla cum didicerunt, volunt illa ad aliquod controversiae thema redigere. Per l’importanza dell’exemplum nella teoria retorica antica cfr. VAN DER POEL 2009, 333-336. 50 Quint. inst. 2, 10, 4-5. 51 Già Elio Teone (prog. 65-66 e 72) affermava che la storia potesse essere usata per ampliare un racconto. Per il carattere novellistico che caratterizza la declamazione ancora utile BONNER 1977, 277-287, poi TABACCO 1989, 551-561; VAN MAL-MAEDER 2003, 187-200; GIBSON 2004, 110; VAN DER POEL 2009, 348. Sul gusto per il commento sentenzioso si veda l’apposito studio di BREIJ 2006, 318-326.

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Iust. 7, 2, 5-11: Argeus moderate et cum amore popularium administrato regno successorem filium Philippum reliquit, qui inmatura morte raptus Aeropum, parvulum admodum, instituit heredem. Sed Macedonibus adsidua certamina cum Thracibus et Illyriis fuere, quorum armis veluti cotidiano exercitio indurati gloria bellicae laudis finitimos terrebant. Igitur Illyrii infantiam regis pupilli contemnentes bello Macedonas adgrediuntur. Qui proelio pulsi rege suo in cunis prolato et pone aciem posito acrius certamen repetivere, tamquam ideo victi antea fuissent, quod bellantibus sibi regis sui auspicia defuissent, futuri vel propterea victores, quod ex superstitione animum vincendi ceperant; simul et miseratio eos infantis tenebat, quem, si victi forent, captivum de rege facturi videbantur. Argeo, dopo aver amministrato il regno con moderazione e amore del popolo, lasciò come successore il figlio Filippo, il quale, rapito da morte prematura, nominò erede Aeropo, ancora piccino. Ma i Macedoni si trovarono a sostenere guerre continue con i Traci e gli Illiri, e resi più forti quasi dal quotidiano esercizio con le armi di costoro, terrorizzavano le popolazioni vicine con la fama del loro valore militare. Ciononostante gli Illiri, disprezzando l’infanzia del giovanissimo re, mossero guerra ai Macedoni. E costoro, dopo essere stati sconfitti in battaglia, messo il loro re in una culla e collocatolo dietro la schiera, rinnovarono lo scontro con più ardore, come se in precedenza fossero stati sconfitti proprio perché avevano combattuto senza gli auspici del loro re e ora dovessero invece uscirne vincitori, dato che da quella convinzione avevano riacquistato fiducia nella vittoria. Allo stesso tempo erano animati anche da compassione nei confronti del piccolo, che, in caso di sconfitta, da re avrebbero reso prigioniero.

Paneg. 4 (10), 20, 1-2: Antiqua admodum res est quam proferam, sed non indigna memoratu. Illyrii quondam despicientes Aeropi regis infantiam Macedonas bello lacessierunt. Et prima quidem congressio secundum illos fuit; verum Macedones cum bellum reficerent, regem suum in cunis ad aciem detulerunt. Cum illos ira, hos miseratio, illos signorum cantus, hos pueri vagitus accenderet, mutata est ratio certaminis: vicerunt qui amore pugnabant. La storia che sto per raccontare è antica, ma non indegna di essere ricordata. Un tempo gli Illiri, spregiando l’infanzia del re Aeropo, attaccarono guerra ai Macedoni. E certamente il primo scontro fu loro favorevole, ma, rinnovando la battaglia, i Macedoni portarono vicino alla schiera anche il loro re in una culla. Essendo quindi gli uni mossi dall’ira, gli altri dalla compassione, gli uni spronati

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dal suono delle trombe, gli altri dai vagiti di un bimbo, il destino del combattimento cambiò: vinsero quelli che lottavano spinti dall’amore.

Amm. 26, 9, 3: sicut aliquando dimicaturi Macedones cum Illyriis regem adhuc infantem in cunis locavere post aciem, cuius metu, ne traheretur captivus, adversos fortius oppresserunt. come un tempo, nell’imminenza dello scontro con gli Illiri, i Macedoni posero dietro la schiera il re ancora bambino in una culla e per timore che fosse fatto prigioniero respinsero gli avversari con impeto maggiore.

Le palesi affinità tra Nazario e Giustino sono state spiegate dai sostenitori di una datazione a fine IV secolo con la possibilità che Nazario avesse letto direttamente Trogo, una tesi che innanzitutto si basa (forse con eccessiva fiducia) sul fatto che qui Giustino abbia riprodotto l’originale con particolare fedeltà52. In questo senso, anche l’evidente diversità del passo di Ammiano, se non può essere interpretata come una chiara prova che egli sì, da storiografo, leggesse direttamente il “collega” Trogo, almeno enfatizza il carattere congiuntivo delle somiglianze tra gli altri due testi53. Ad avvicinare Nazario a Giustino non sono, però, solo l’indiscutibile ricorrere di nessi e vocaboli, ma anche «un certain gout de l’orateur pour l’anecdote mythologique ou historique et pour les réflexions morales»54, che nel panegirico si riflette in una struttura resa assai esile proprio dalla particolare abbondanza di exempla tratti dalla storia e dal mito, inserti privi di qualsiasi legame reciproco che vanno a interrompere le sezioni narrative55. Inoltre, la Quellenforschung di Nazario ha individuato in 52

Cfr. SYME 1988, 361: «Nazarius had read Trogus himself whom Justin here reproduced without inordinate abbreviation or much verbal change». 53 Del rapporto Trogo-Giustino-Ammiano si è già parlato supra, p. 41 n. 20. 54 Cfr. GALLETIER 1952, 160, che collega questo gusto alla tradizione di scuola. Sugli exempla nel panegirico di Nazario cfr. L’HUILLIER 1992, 196-211; LAUDANI, 2014, 26. 55 Cfr. GALLETIER 1952, 158: «la composition nous semble vraiment très lache …jamais le discours de Nazarius n’a des contours nets…». Parla di «mancanza di consequenzialità nell’articolazione» DEL CHICCA 1985, 107; mentre NIXON ‒ SAYLOR

126

La datazione e l’identità

larga maggioranza testi legati alla retorica e all’elogio, come la produzione panegiristica precedente e il Cicerone delle orazioni cesariane, a cui si aggiungono i soliti spunti poetici per lo più virgiliani, evidenti là dove l’oratore ambisce a vette di pathos56. Si tratta quindi di una serie di fonti canonica nell’ambito declamatorio e da cui il panorama della storia resta pressoché escluso, all’infuori di un paio di ricorrenze di Sallustio, che però già gli antichi dicevano non ut historicum, sed ut oratorem legendum57. In questo senso, il profondo stravolgimento a cui Giustino sottopone l’originale di Trogo in termini di equilibri e prospettive pare avvenire proprio per avvicinarsi alle esigenze di quel pubblico di cui Nazario era un rappresentante. Per limitarsi ad un esempio, nei precetti di Menandro di Laodicea il panegirista è caldamente invitato ad includere nel suo discorso παραδείγµατα ᾽Ρωµαίων βασιλέων καὶ στρατηγῶν καὶ Ἑλλήνων ἐνδοξοτάτων, così come riferimenti ai segni divini (veri o presunti) che accompagnarono la nascita dell’imperatore, in modo da poter istituire un paragone con quelli di Romolo, Ciro o di altri grandi della storia58, tutto materiale che, come abbiamo spesso sottolineato, il breviario conserva invariabilmente. Una tale profonda consonanza di intenti rende a mio parere assai improbabile che Nazario sia andato alla ricerca di uno spunto curioso nel mare magnum dei quarantaquattro libri di Pompeo Trogo59. Molto più verosimile, date anche le evidenti affinità lessicali tra i due testi e la frequenza dell’elemento aneddotico nell’orazione, che Nazario abbia tratto questa res non indigna memoratu da quella selezione di res cognitione dignissima quale l’Epitoma di Giustino.

RODGERS 1994, 336 definisce la struttura «undisciplined». In generale, sul ruolo di mito e storiografia nell’oratoria epidittica cfr. PERNOT 1993, 739-771. 56 Per l’indagine delle fonti del panegirico cfr. NIXON ‒ SAYLOR RODGERS 1994, 337338 e soprattutto l’accurata disamina di LAUDANI 2014, 36-47. 57 Gran. Lic. 36, 30. Non si sa se Nazario conoscesse Tacito, come rileva COLOMBO 2004, 358. 58 Men. rhet. 2, 372. Per un inquadramento su questo autore cfr. RUSSELL ‒ WILSON 1981, xxiv-xl; DEL CHICCA 1985, 81-87; GASCÓ 1998; HEATH 2004, 93-131. 59 Già CAMERON 2011, 757-759 ha negato l’esistenza di una fase di «Trogus reinassance» alla fine del IV secolo.

La datazione e l’identità

127

Per questi motivi, ritengo che il 321 d.C. andrebbe considerato il terminus ante quem per l’esistenza dell’Epitoma: se Ronald Syme sosteneva che nella questione della datazione di Giustino «a reading public is a requisite», vista la palese indifferenza di Giustino per il dato storico, questo pubblico pare essere rappresentato molto più dal panegirista, che non da quanti erano coinvolti nell’«emergence of historical writing» di fine IV secolo60.

60

Cfr. SYME 1988, 361-362: per collocare cronologicamente Giustino è necessario «to cast about for a season that concords with the emergence of historical writings at the metropolis. In other words, a reading public is a requisite».

VIII. FORMA DI GIUSTINO, SOSTANZA DI TROGO Al termine di questa indagine, è possibile dare una definizione più precisa dell’Epitoma e del suo rapporto con l’originale? Si tratta di un sunto, di un’antologia, oppure di una forma ancora diversa? E, soprattutto, che livello di fedeltà all’originale possiamo attribuirle? In primo luogo, non ci possono essere dubbi sul fatto che l’Epitoma sia molto distante da una versio brevis delle Storie Filippiche, uscite dall’operazione di Giustino non solo modificate in estensione, ma anzitutto stravolte in struttura e prospettiva. Egli ha sì davanti agli occhi una Historia Universalis, ma non è l’organizzato dipanarsi cronologico di questa, dagli Assiri alla contemporaneità di Trogo, oppure geografico, da Oriente fino all’estremo Occidente ad interessarlo. A dire il vero, però, della diversità della sua opera rispetto a un semplice riassunto ci aveva già lui stesso avvertito, e per giunta fin dalla prefazione, dove parla di un breve florum corpusculum. Eppure, neanche questa è una definizione calzante. Molto lontana è infatti l’Epitome da una semplice collezione di frammenti, dal momento che il materiale di Trogo viene tagliato e cucito secondo un criterio che rivela molto più di Giustino che non delle monumentali Historiae Philippicae, le quali, deprivate della loro struttura spazio-temporale, si sgretolano in una molteplicità di aneddoti. Crollata l’impalcatura, diventa assai complicato (se non spesso impossibile) ricostruire come Trogo avesse narrato il singolo evento là dove un taglio ne abbia compromesso lo spessore storico. Tuttavia, il materiale con cui Giustino ha costruito la sua catena di episodi rimane di Trogo: l’epitomatore può sì aver, di tanto in tanto, apportato un suo tocco cromatico, ma si tratta di pennellate non solo sporadiche ma anche riconoscibili nel loro costante ottemperare all’esigenza di amplificatio retorica. Lo abbiamo segnalato spesso: densi di significato e indicativi di pubblico e intenti sono il criterio con cui Giustino ha selezionato il materiale, il modo con cui lo ha strutturato, così come la pressoché completa indifferenza alla omogeneità e alla coerenza della sua opera. Poco probabile, quindi, che un autore che

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Forma di Giustino, sostanza di Trogo

neppure si preoccupa di distinguere i vari personaggi con un’onomastica completa e corretta, oppure di segnalarne la ricomparsa a libri di distanza si sia dato pensiero di omogeneizzare il sistema storiografico sotteso alla sua raccolta di exempla. Ne consegue quindi che i fils rouges più profondi che percorrono il testo, quelli che rivelano il senso del divenire storico e l’occhio con cui si guarda al mondo, restino solido possesso di Trogo. Quali sono, dunque, questi fils rouges che possono essere rintracciati nel materiale che di Trogo si conserva nell’Epitoma? E cosa ci dicono sul loro autore? Innanzitutto, ci dicono che si tratta di un autore originale oppure di un mero traduttore di un modello greco? Possiamo quindi riaprire la questione di Pompeo Trogo a partire dal problema della sua originalità.

IX. L’ORIGINALITÀ DI POMPEO TROGO

9.1.

Il problema delle fonti

Gli antichi non sembrano avere dubbi sull’indipendenza del lavoro di Trogo: lo mostrano le parole di Giustino, che nella praefatio riconosce esplicitamente la pluralità degli auctores del suo originale, oltre ai già ricordati giudizi positivi di Plinio il Vecchio e dell’Historia Augusta1. Diverso è il caso della critica moderna, che non di rado si è posta nei confronti della ricerca trogiana con meno favore. Ad innescare il dibattito fu Alfred von Gutschmid, la cui riflessione, in verità, non ebbe il carattere monolitico spesso attribuitole dalla critica successiva, ma si articolò in diverse fasi, che vale qui la pena ripercorrere. Punto di partenza fu un’indagine delle fonti dei libri I-II, elaborata negli anni ’60 dell’Ottocento, ma pubblicata solo nel 1894, sette anni dopo la morte dello studioso. Qui, riprendendo una tesi già accennata da Arnold Heeren all’inizio del XIX secolo, secondo cui Trogo sarebbe stato un semplice compilatore di fonti greche 2 , von Gutschmid credette di poter trovare la conferma di questa scarsa originalità nelle rilevanti affinità con tre passi degli Stratagemata di Polieno e i punti corrispondenti3, tanto simili da far supporre che uno dei due autori, o entrambi, si fossero serviti di una fonte intermedia, qui ipotizzata in Dinone 4 . Quasi vent’anni dopo, nel 1882, lo studioso 1

Iust. praef. 3: quae historici Graecorum, prout commodum cuique fuit iter, segregatim occupaverunt, omissis quae sine fructu erant, ea omnia Pompeius ... conposuit, citato per esteso supra, pp. 19 ss. Giustino non menziona mai alcuna fonte, solo qualche riferimento ad auctores indeterminati (cfr. 25, 5, 3; 42, 3, 7; 44, 3, 1). Per i giudizi di Plinio e dell’Historia Augusta cfr. supra, pp. 28 ss. 2 Cfr. HEEREN 1804, 243. 3 GUTSCHMID 1894, 19: a Polyaen. 7, 6, 4; 7, 7, 1; 7, 44, 2 corrispondono rispettivamente Iust. 1, 7, 11-13; 1, 5, 10; 2, 5, 1-6. 4 Dinone (cfr. R.E. s.v. Dinon, n. 2 col. 654; FGrHist 690, LENFANT 2009, 51-74), autore attivo intorno al 340 a.C., in questa prima fase parve allo studioso ben attagliarsi

132

L’originalità di Pompeo Trogo

ritornò sulla questione in un breve articolo in cui sosteneva che Pompeo Trogo avesse usato un unico modello non solo per i libri I-II, ma per tutta la sua opera: tale fonte, tuttavia, non sarebbe più Dinone, ma il Περὶ Βασιλέων di Timagene di Alessandria, un’opera rispetto alla quale le Historiae Philippicae costituirebbero pressappoco «eine lateinische Bearbeitung»5. A garantire a questa teoria “della fonte unica” una certa fortuna fu, in larga misura, il fatto che essa finiva per giustificare l’assenza di Roma dalle Historiae Philippicae sulla base della discendenza da un autore, Timagene, tradizionalmente identificato con l’ignoto bersaglio di quella polemica di Livio contro i levissimi ex Graecis che esaltano Alessandro e sono fautori del nomen Parthicum di cui abbiamo già fatto menzione 6 . In realtà, la conclusione dirompente di von Gutschmid presentava non pochi punti controversi: in modo particolare anche nella versione del 1882 essa continuava a basarsi essenzialmente sulle stesse argomentazioni e – soprattutto – sullo stesso ridottissimo campione (i tre passi tratti dai primi due libri) che nello scritto di vent’anni prima (all’epoca ancora inedito) lo avevano indotto a postulare la dipendenza esclusiva di Trogo da Dinone. Probabile quindi che lo studioso ritenesse Dinone una delle fonti di Timagene, un passaggio che, tuttavia, egli non all’identikit di questa misteriosa “fonte intermedia” che lui stesso aveva tracciato e cioè uno scrittore che avesse tratto la storia assira da Ctesia ed Ellanico e quella persiana sempre da Ctesia, ma con l’aggiunta di Erodoto e Carone, cfr. GUTSCHMID 1894, 6971. Per una persuasiva dimostrazione del fatto che questi paralleli non provino da parte di Trogo una ripresa quasi verbatim della fonte cfr. MECCA 2001, 209-222. 5 GUTSCHMID 1882, 548: tale tesi, ricorda l’autore stesso, era già stata da lui accennata in uno scritto precedente, pubblicato nel «Literarisches Centralblatt» nel 1872. Per una ricapitolazione della questione cfr., da ultimi, YARDLEY ‒ HECKEL 1997, 30 ss., MECCA 2001 e LANDUCCI 2015, pp. 30-35. Su Timagene si veda MUCCIOLI 2012, 365-385 con ricapitolazione della bibliografia precedente; buoni spunti ancora in BRUNO SUNSERI 1976, 91-101 e SORDI 1982, 775-797. 6 Liv. 9, 18, 6, citato per esteso supra, p. 35. La dimostrazione più articolata e persuasiva dell’identificazione di questi levissimi con Timagene è ancora quella di TREVES 1953, 39-45, secondo cui l’esaltazione di Alessandro da parte di questi stoltissimi andrebbe connessa con la politica di conciliazione a Oriente voluta da Augusto. Per una ricapitolazione della questione si vedano MUCCIOLI 2007, 87-89 e ID. 2012, 369; sulla fortuna della teoria “della fonte unica” si leggano soprattutto SANTI AMANTINI 1981, 34-39; FORNI ‒ ANGELI BERTINELLI 1982, 1312-1314; YARDLEY ‒ HECKEL 1997, 3034; MECCA 2001; YARROW 2006, 149.

L’originalità di Pompeo Trogo

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rese mai esplicito, lasciando così sostanzialmente aperta la complessa questione della Quellenforschung su Timagene, un autore di cui si hanno solo scarse testimonianze e pochi frammenti7. Perplessità suscita poi l’impianto argomentativo generale: von Gutschmid, pur notando come ogni libro trogiano rappresenti un amalgama delle fonti ottimamente eseguito (un «sauber ausgeführtes Mosaik»), ne conclude che questo livello di conoscenza degli auctores precedenti sarebbe inverosimile in un storico latino8. Il carattere tranchant di una tale petizione di principio suscitò inevitabilmente un acceso dibattito scientifico che vide numerose voci levarsi in difesa dell’originalità di Pompeo Trogo 9 . Tra queste va ricordata soprattutto quella di Otto Seel, a cui si deve una tra le più decise smentite dell’ipotesi timagenica, da lui decostruita fino a svelarne la sostanziale natura di teoria accettata acriticamente: dopo Gutschmid, infatti, buona parte della critica ha evitato di attribuire a

7

L’edizione Jacoby di Timagene (FGrHist 88) contiene undici testimonia e quindici fragmenta, di cui uno considerato non autentico e due in Anhang, cfr. MUCCIOLI 2012, 366 e ora la voce Timagenes a cura di J. MCINERNEY and D.W. ROLLER della nuova versione online dei FGrHist, (cfr. http://referenceworks.brillonline.com/entries/brill-snew-jacoby/timagenes-of-alexandria-88-a88) che presenta dodici testimonia e quindici fragmenta. 8 Cfr. GUTSCHMID 1882, 549-550, che giustifica le sue conclusioni basandosi sul metodo di lavoro di Livio. 9 Già WACHSMUTH 1881, pur ritenendo verosimile la teoria di von Gutschmid, attribuì a un’iniziativa indipendente di Trogo il piano generale dell’opera, la collazione delle diverse fonti greche così come l’interesse per i Galli e per le scienze naturali. KLOTZ nella voce della R.E. (s.v. Pompeius, n. 142 coll. 2300-2313; 2305-2306) rifiutò invece del tutto l’ipotesi timagenica e sostenne che Trogo si fosse servito di un’ampia gamma di autori. Una posizione mediana fu quella di GALDI (1922, 98) che, pur attribuendo a Timagene il valore di modello principale, non escluse l’utilizzo di altre fonti secondarie. Per BELLINGER (1949, 99) «any fair study of the history of Trogus as a whole will reveal the fact that he was of too independent a mind to be a mere copyist of other men’s work», mentre TREVES 1953, 43, pur ammettendo la possibilità di una ispirazione timagenica, mise tuttavia in guardia dal persistere nel «vieto pregiudizio filologico ottocentesco della inintelligenza sterile e servile, della mera ricettività imitativa o trascrittrice degli autori latini». Per una rassegna delle varie posizioni cfr. SANTI AMANTINI 1981, 36-37; FORNI ‒ ANGELI BERTINELLI 1982, 1317-1320; YARDLEY ‒ HECKEL 1997, 30-31; MECCA 2001, 208 n.17.

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Trogo quelle capacità e meriti superiori che emergono dall’analisi del testo solo per non incrinare le basi di una visione ormai acquisita10. A questo dibattito va poi aggiunto anche un argomento sul quale, finora, la critica non si è soffermata: per von Gutschmid la scarsa originalità di Trogo risulterebbe anche dal metodo di lavoro adottato per il De animalibus, i cui frammenti esistenti rivelano una forte ispirazione aristotelica, un dato che, pur nell’esiguità di quanto rimasto, ha indotto a una pari svalutazione anche del Trogo osservatore della natura, che si sarebbe limitato a mettere insieme un serie di notizie tratte pedissequamente da Aristotele11 . In realtà, sebbene il de animalibus sia andato perduto e Giustino abbia in gran parte eliminato quelle numerose digressioni su origines, situs e reges delle nazioni ricordate dai Prologi, ciò nondimeno l’epitomatore, in conformità con il suo gusto per il curioso, ha conservato un buon numero di notizie che recano significative tracce degli interessi naturalistici di Trogo. Vediamole ora nello specifico, al fine di verificare se davvero esse rivelino scarsa autonomia intellettuale. 9.2.

Pompeo Trogo naturalista e osservatore.

Tra i molti tratti dell’opera che pertengono alla scienza, di particolare interesse sono innanzitutto le osservazioni climatologiche, e in specie 10

SEEL 1955, 18-23. Così anche HAMMOND 1983, 165: «why should Timagenes alone have had access to these earlier writers? ... Even if we suppose for argument’s sake that Timagenes did write not a general history but a history of Alexander based on these earlier writers, it is hardly possible that both Diodorus and Trogus simply excerpted or reproduced with stylistic changes the book of a living contemporary. It would be as if a writer today were to sit down and reproduce Lane Fox’s book on Alexander with only a few stylistic changes. Cui bono?». Allo stesso modo, quanti ritengono che le somiglianze tra Diodoro, Giustino e Curzio Rufo provino l’uso di Timagene come fonte intermedia dovrebbero prendere in eguale considerazione anche le differenze tra i tre, divergenze che «alone should put the Timagenes-hypothesis out of court». 11 Cfr. SANTI AMANTINI 1981, 14: «il de animalibus doveva essere, più che un lavoro originale, una compilazione tratta dalle opere zoologiche (in particolare, ma non soltanto, dalle περὶ τὰ ζῷα ἱστορίαι) di Aristotele. A quanto pare, Trogo sceglieva le notizie aristoteliche via via pertinenti all’argomento che trattava, combinandole anche da più opere del suo autore, ma senza troppa cura».

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quelle contenute nel primo paragrafo del secondo libro. Qui, a proposito della celebre disputa tra Egizi e Sciti su quale dei due popoli sia il più antico, il testo sostiene le ragioni addotte da questi ultimi che, non a caso, poggiano su argomenti fisico-razionali: la Scizia avrebbe origini più remote sia supponendo una fase primigenia in cui tutte le terre erano sommerse, sia invece ipotizzando un originario dominio del fuoco. Nel primo caso, infatti, la maggiore antichità della regione sarebbe provata dal suo carattere montuoso, dal momento che sono le montagne a emergere prima da una distesa di acqua che si va ritirando. La situazione non muta, però, neppure supponendo il mondo sorto da una massa infuocata: il freddo intenso che caratterizza la Scizia prova il suo precoce distacco dal resto, certamente avvenuto ben prima rispetto all’ Egitto, il cui clima ancora caldo indica un processo di raffreddamento iniziato in un momento successivo12. Segue una considerazione che rivela il Trogo osservatore della natura: non è vero che la vita nasce nei luoghi più adatti ad accoglierla, semplicemente ogni habitat ha generato forme di vita a lui adeguate: Quippe naturam, cum primum incrementa caloris ac frigoris regionibus distinxit, statim ad locorum patientiam animalia quoque generasse; sed et arborum ac frugum pro regionum condicione apte genera variata. (2, 1, 11-12) Infatti la natura, non appena ebbe differenziato gli incrementi del caldo e del freddo nelle diverse regioni, subito generò anche forme di vita in grado di tollerare le caratteristiche dei luoghi; ma anche le specie degli alberi e delle messi furono opportunamente adattate alla condizione delle regioni.

12

Iust. 2, 1, 5-21. Sull’intera sezione si veda BIANCHETTI 2014, 31-32, che la riconduce all’influsso sia di Posidonio (così anche per MALASPINA 1976, 147), sia di autori della scuola aristotelica come Stratone di Lampsaco e Xanto di Lidia. Per i tratti comuni con Strabone cfr. GONZÁLEZ BALLESTEROS 2009, 251-252. A livello più generale, su questo tipo di determinismo geografico, si leggano FREI-STOLBA 1987, MARCOTTE 1998, BORCA 2003. Secondo CIPRIANI 1982, 137-139 in Isidoro (Goth. 67) sarebbe ravvisabile un’influenza dello schema climatologico di Trogo. Sul rapporto tra Isidoro e Giustino ancora buoni spunti in PHILIPP 1912, 75 ss. («trotz aller Kurzungen und Umänderungen ist die Annahme einer unmittelbaren Benutzung durchaus wahrscheinlich»); successivamente REYDELLET 1970, 370.

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In aggiunta, Trogo non segue la convinzione secondo cui un clima temperato avrebbe favorito lo sviluppo delle civiltà migliori13. Al contrario, è l’inclemenza delle condizioni climatiche a far sì che i corpi si sviluppino in vigore e gli animi in tempra14, una convinzione che torna a ribadire più avanti affermando la superiorità dell’ingenium naturale degli Sciti rispetto al raffinato sapere filosofico dei Greci15. Ugualmente legato all’interesse di Trogo per l’osservazione diretta è quell’atteggiamento razionalizzante che percorre il testo in modo omogeneo: esso trova una delle sue espressioni più rappresentative nella frequenza con cui a segni misteriosi, discendenze divine e deificazioni vengono fornite spiegazioni ragionevoli16. Di particolare rilievo è la dettagliata spiegazione scientifica del fenomeno di Scilla e Cariddi (4, 1, 8-13), così come l’esegesi, del tutto biologica e derivante dall’osservazione del comportamento animale, del presunto “segnale divino” che avrebbe indicato il nuovo re di Persia: Ipsi igitur viam invenerunt, qua de se iudicium religioni et fortunae committerent, pactique inter se sunt, ut die statuta omnes equos ante regiam primo mane perducerent, et cuius equus inter solis ortum hinnitum primus edidisset, is rex esset. Nam et solem Persae unum deum esse credunt et equos eidem deo sacratos ferunt. Et erat inter coniuratos Darius, Hystaspis filius, cui de regno sollicito equi custos ait, si ea res victoriam moraretur, nihil negotii superesse. Per noctem deinde equum pridie constitutam diem ad eundem locum ducit ibique equae admittit, ratus ex voluptate Veneris futurum quod evenit. Postera die itaque, cum ad statutam horam omnes convenissent, Darii equus cognito loco ex desiderio feminae hinnitum statim edidit et segnibus aliis felix auspicium domino primus emisit. (1, 10, 3-8)

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Come, ad esempio, troviamo affermato in Ps.Hipp. Aër. 12; Aristot. Pol. 7, 6, 1 [1327b]. Un elogio del clima temperato si legge anche in Hdt. 1, 142. Sulla questione si vedano BOTTIN 1986; JOUANNA 1996; BORCA 2003, 11-40; BIANCHETTI 2014, 31-33. 14 Iust. 2, 1, 13: et quanto Scythis sit caelum asperius quam Aegyptiis, tanto et corpora et ingenia esse duriora. 15 Cfr. Iust. 2, 2, 14, citato per esteso e discusso infra, pp. 163 ss. 16 Cfr. anche Iust. 11, 11, 6-8 (responso dei sacerdoti di Ammone ad Alessandro), di cui si discuterà nei dettagli infra, pp. 172 ss. Altrettanto coerente con la tendenza razionalizzante di Trogo è la morte di Enea senza alcuna menzione della deificazione di 43, 1, 13.

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Furono loro stessi, dunque, a trovare la via attraverso la quale affidare la decisione su di loro alla religione e alla sorte. Stabilirono tra loro che in un giorno prefissato tutti all’alba conducessero i loro cavalli di fronte alla reggia: sarebbe stato re il padrone dell’animale che avesse nitrito per primo mentre il sole sorgeva. I Persiani, infatti, ritengono il sole l’unico dio e gli considerano sacri i cavalli. Fra i congiurati c’era Dario, figlio di Istaspe; a costui, bramoso di regnare, il custode del cavallo disse che se la vittoria dipendeva da quello, non c’era di che preoccuparsi. E così nel corso della notte che precedeva il giorno stabilito condusse il cavallo in quello stesso luogo e lì lo fece accoppiare con una giumenta, confidando che dal piacere di Venere sarebbe derivato quel che effettivamente accadde. Pertanto il giorno successivo, dopo che tutti si furono ritrovati all’ora stabilita, il cavallo di Dario, riconosciuto il luogo, per il desiderio della femmina subito lanciò un nitrito e, mentre gli altri rimanevano inerti, per primo diede al padrone il fortunato auspicio.

A raccontare questo aneddoto era già stato Erodoto (3, 83-87), il quale, tuttavia, al verso dell’animale aggiungeva anche una sorta di suggello divino: proprio mentre il cavallo nitriva, a ciel sereno apparve un fulmine seguito da un forte tuono, due elementi determinanti (e ben più del nitrito) a far sì che gli altri contendenti si convincano della legittimità dell’investitura di Dario e gli si prosternino come al nuovo re17. Totalmente razionale è, invece, la versione di Trogo, dove i segni divini sono sostituiti da una considerazione in elogio degli altri aspiranti al trono, che per moderatio accettano il verdetto: tanta moderatio ceteris fuit, ut audito auspicio confestim equis desilierint et Darium regem salutaverint18. Ancora più significativa è poi la versione naturalistica della leggenda di fondazione di Roma, un brano che rivela con chiarezza l’interesse di

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Hdt 3, 86, 2: ἐπιγενόµενα δὲ ταῦτα τῷ Δαρείῳ ἐτελέωσέ µιν ὥσπερ ἐκ συνθέτου τευ γενόµενα: οἳ δὲ καταθορόντες ἀπὸ τῶν ἵππων προσεκύνεον τὸν Δαρεῖον. Prima di Trogo ritroviamo questo aneddoto anche in Ctesia (FGrHist 688, F 13 citato da Phot. bibl. 72 [38a]), seppur in forma molto succinta: βασιλεύει δὲ τῶν ἑπτὰ ὁ Δαρεῖος, τοῦ ἵππου, καθὰ συνέκειτο ἀλλήλοις, πρώτου µηχανῇ τινι καὶ τέχνῃ, ἐπειδὰν ὁ ἥλιος πρὸς ἀνατολὰς ἐγένετο, χρεµετίσαντος. In seguito, sempre in forma assai breve e priva di dettagli, l’episodio è ricordato da Tolomeo Efestione (noto anche come Χέννος, “quaglia”, come riferisce la Suda π 3037, cfr. TOMBERG 1968, 6-18), riportato da Fozio (bibl. 190 [148b]); poi da Plutarco (mor. 340b), Polieno (7, 10) e Ampelio (13, 3). Ancora validi spunti in LEHMANN-HAUPT 1923, più di recente LENFANT 2004 lxxxlxxxi e ASHERI ‒ LLOYD ‒ CORCELLA 2007, 477-478. 18 Iust. 1, 10, 9. Dell’importanza della moderatio all’interno di un regno si tornerà a parlare infra, pp. 166 ss.

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Trogo per l’interpretazione razionalizzante basata sull’osservazione scientifica. Post multos deinde huius urbis reges ad postremum Numitor et Amulius regno potiti sunt. Sed Amulius cum vi aetate potiorem Numitorem oppressisset, filiam eius Ream in perpetuam virginitatem, ne quis vindex regni virilis sexus ex gente Numitoris oriretur, demersit, addita iniuriae specie honoris, ut non damnata, sed sacerdos electa videretur. Igitur clausa in luco Marti sacro duos pueros, incertum stupro an ex Marte conceptos, enixa est. Quo cognito Amulius multiplicato metu proventu duorum pueros exponi iubet et puellam vinculis onerat, ex quorum iniuria decessit. Sed Fortuna origini Romanae prospiciens pueros lupae alendos obtulit, quae amissis catulis distenta ubera exinanire cupiens nutricem se infantibus praebuit. Cum saepius ad parvulos veluti ad catulos reverteretur, rem Faustulus pastor animadvertit subtractosque ferae inter greges pecorum agresti vita nutrivit. Martios pueros fuisse, sive quod in luco Martis enixi sunt sive quod a lupa, quae in tutela Martis est, nutriti, veluti manifestis argumentis creditum. Nomina pueris alteri Remo, alteri Romulo fuere. Adultis inter pastores de virtute cotidiana certamina et vires et pernicitatem auxere. Igitur cum latrones a rapina pecorum industrie frequenterque submoverent, Remus ab isdem latronibus captus et velut ipse esset, quod in aliis prohibebat, regi offertur; crimini datur quasi greges Numitoris infestare solitus esset. Tunc a rege Numitori in ultionem traditur. Sed Numitor adulescentia iuvenis permotus et in suspitionem expositi nepotis adductus, cum eum nunc liniamentorum filiae similitudo, nunc aetas expositionis temporibus congruens anxium tenerent, repente Faustulus cum Romulo supervenit; a quo origine cognita puerorum facta conspiratione et adulescentes in ultionem maternae necis et Numitor in vindictam erepti regni armantur. (43, 2, 1-10) In seguito, dopo molti sovrani di questa città, in ultimo salirono al potere Numitore e Amulio. Amulio però, avendo spodestato con la violenza Numitore, maggiore d’età, ne ridusse la figlia Rea in uno stato di verginità perpetua, in modo che dalla stirpe di Numitore non nascesse un maschio a rivendicare il regno; il torto fu celato sotto l’apparenza dell’onore, così che la ragazza non sembrasse condannata, ma scelta come sacerdotessa. Ebbene, pur essendo stata rinchiusa nel bosco sacro a Marte, ella diede alla luce due bambini, non si sa se concepiti come conseguenza di uno stupro oppure da Marte. Saputo ciò Amulio, i cui timori erano stati moltiplicati dalla nascita dei gemelli, ordinò che questi venissero esposti e caricò la fanciulla di catene, uno sfregio per cui ella morì. Ma la Sorte, che vedeva innanzi le origini di Roma, diede i neonati da nutrire ad una lupa che, perduti i suoi cuccioli, si offrì come nutrice ai piccoli per il desiderio di alleggerire le mammelle gonfie. Dal momento che questa tornava assai di frequente dai neonati, come se fossero i suoi piccoli, il pastore Faustolo se ne accorse e dopo averli sottratti all’animale, li crebbe tra greggi di pecore in una vita agreste. Si credette che i fanciulli fossero figli di Marte o poiché erano stati partoriti nel bosco sacro a Marte, o poiché erano stati nutriti da una lupa, animale

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che è sotto la protezione di Marte, prendendo questi fatti come dimostrazioni inoppugnabili. I fanciulli furono chiamati uno Remo, l’altro Romolo. Divenuti adulti, le quotidiane gare di valore tra pastori ne accrebbero la forza e l’agilità. Un giorno, sebbene spesso e con zelo scacciassero i briganti che tentavano di rubar loro il bestiame, Remo fu catturato dai medesimi malfattori e come se egli stesso facesse ciò che impediva agli altri, venne portato innanzi al re ed accusato di esser solito insidiare le greggi di Numitore. Allora il re lo consegnò a Numitore perché lo punisse. Ma mentre Numitore era mosso a pietà dalla giovane età del ragazzo e sospettando che si trattasse di quel nipote che era stato esposto, poiché lo tenevano in sospeso ora la somiglianza con i lineamenti della figlia, ora l’età coerente con l’epoca dell’abbandono, all’improvviso sopraggiunse Faustolo con Romolo; saputa dunque da questo l’origine dei ragazzi, venne ordita una congiura: i giovani si armarono per vendicare la morte della madre e Numitore per riconquistare il regno che gli era stato sottratto.

La versione della leggenda offerta da Trogo non solo presenta alcuni particolari ignoti ad altre fonti19, ma rispetto ad un panorama letterario che identificava la lupa con una prostituta e faceva così nascere il mito da un fatto linguistico20, mostra peculiarità riconducibili agli interessi naturalistici dell’autore. Il racconto delle vicende dei gemelli è, infatti, coerentemente costruito lungo l’asse portante della biologia, rispetto a cui mai deraglia: la lupa appena sgravata ha perso i suoi cuccioli (amissis catulis), pertanto è la 19

L’Epitoma è l’unica fonte a menzionare una prigionia di Rea Silvia in un bosco sacro a Marte, altrove, invece, vi si recherebbe per attingere acqua lustrale (cfr. Fabio Pittore e Vennonio in OGR 19, 5 e 20, 1; Dion. Hal. ant. 1, 77, 1). Altrettanto isolata è la variante che la vuole morta in seguito all’iniuria delle catene, sia essa da intendersi in senso fisico, come suggerirebbe l’unico parallelo di iniuria vinculorum (Plin. nat. 17, 209: est quorundam inperitia sub ramo vitem vinculo suspendendi, suffocante iniuria. Contineri debet vimine, non artari), oppure in senso figurato, come conseguenza di un’onta intollerabile. Piuttosto diverse le altre fonti: Dion. Hal. ant. 1, 78, 5 ss. ricorda due versioni, una secondo cui la donna sarebbe stata condannata a fustigazione e morte e un’altra, meno crudele, dove Amulio, vinto dalle suppliche della figlia, affezionata alla cugina, alla fine si sarebbe limitato a tenerla imprigionata. Messa a morte senza che se ne specifichino i modi per Marco Ottavio e Licinio Macro, citati in OGR 19, 6; gettata nel mare per Servio (Aen. 1, 273); sepolta viva per Gerolamo (chron. 85a Helm). Sulle diverse versioni della morte di Rea Silvia e, in generale, della leggenda di fondazione di Roma si vedano almeno FRASCHETTI 2002, 3-29; D’ALESSIO in CARANDINI 2006, 283 ss. (pur con le perplessità segnalate da FRASCHETTI 2007) e ZIOLKOWSKI 2008. 20 Così per Valerio Anziate in OGR 21, 1; Dion. Hal. ant. 1, 84, 4; Liv. 1, 4, 7; CIL I/2 Fasti Praenestini, p. 238; Plut. Rom. 4, 3; Serv. Aen. 1, 273; Zonara 7, 1. Per lupa nel senso di prostituta cfr. ThlL s.v. lupa rr. 25 s.; FRASCHETTI 2002, 124-126.

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necessità istintiva di alleviare la dolenzia delle mammelle a spingere l’animale ad accostarsi ai neonati, riconoscendo in loro una forma di vita bisognosa di nutrimento. Fin dall’inizio è quindi evidente in Trogo uno sforzo di razionalizzazione basato sull’osservazione della natura: se nel mito l’episodio del bambino allevato da una balia animale conosce ampia diffusione, come dimostra la summa di Igino il mitografo21 e seppur altri autori menzionino il fatto che la lupa avesse appena partorito22, peculiare di Trogo è questa esplicita spiegazione biologica, poggiata semplicemente sulla scienza veterinaria, a cui è noto il comportamento di animali che, persa la propria cucciolata, si accostano ad altri lattanti23. Molto distanti sono quindi quelle versioni secondo cui la lupa addirittura allontanò i suoi piccoli in favore dei gemelli abbandonati, quasi intuendone l’importanza24. Parimenti basato sulla biologia è poi l’incontro tra il pastore e la lupa: Faustolo non si imbatte casualmente (o fatalmente) nei gemelli, ma se ne accorge notando il costante andirivieni dell’animale dal luogo in cui si celano, anche questo secondo un comportamento del tutto consueto in natura, un dato che Trogo rende esplicito con veluti ad catulos. Di conseguenza Faustolo dovette sottrarre i neonati alla fiera (subtractos 21

Hyg. fab. 252, qui lacte ferino nutriti sunt, che cita, oltre ai gemelli romani, Telefo (cerva), Egisto (capra), Eolo e Beotoo (vacca), Ippotoo (giumenta), Antiloco (cagna), Arpalice (vacca e giumenta), Camilla (giumenta). Sul ricorrere in culture diverse del mitema dell’infante abbandonato cfr. PELLIZER 1997, 81-93; HÉRITIER-AUGÉ 1993, 31, che nota come il particolare della nutrizione animale ricorra solamente in due aree ben delimitate, il mondo greco-romano (trentasei casi) e quello indiano dell’America del Nord (venticinque). Per ulteriori approfondimenti si vedano anche ROSE 1983, 290 e CASSIN – LABARRIÈRE 1997. 22 Presuppongono un legame tra il comportamento della lupa che aveva partorito da poco e la sua necessità di alleviare il turgore delle mammelle anche Fabio Pittore e Vennonio in OGR 20, 3: lupam … quae repente enixa erat, così come Dion. Hal. ant. 1, 79, 6 (che in questo punto dichiara di rifarsi a Fabio Pittore). Descrivono la lupa come appena sgravata Enn. ann. 1, 65 ( = frg. 41 Skutsch): lupus femina feta; Verg. Aen. 8, 630-632: fetam Mavortis in antro procubuisse lupam; Ov. fast. 2, 413: lupa feta; Sidon. carm. 2, 119: lupa feta. 23 Cfr. Plin. nat. 8, 165: amissa parente in grege armenti reliquae fetae educant orbum. 24 Così per Plut. mor. 315a e Flor. 1, 1. Sempre Plutarco (mor. 320d) afferma che i cuccioli della lupa erano morti, ma sottintende egualmente un apporto divino menzionando l’arrivo di un picchio (uccello sacro a Marte) a portare ulteriore cibo ai neonati.

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ferae): anche l’uso di subtraho rimanda al tipico atteggiamento difensivo-aggressivo dell’animale appena sgravato 25 . Altre versioni, invece, vedono una concessione pacifica da parte della lupa: addirittura per Dionigi di Alicarnasso all’arrivo dei pastori questa si sarebbe placidamente allontanata quasi li attendesse, un’interpretazione che nuovamente apre al sovrannaturale26. Sempre ben ancorato al dato della ragione è invece Trogo, che, se già in precedenza aveva avanzato qualche dubbio sulla reale paternità dei gemelli (incertum stupro an ex Marte conceptos), ne conclude che i neonati finirono per essere creduti figli di Marte in quanto legati a due elementi a lui sacri, la lupa e quel particolare bosco27. Anche nel seguito del racconto Trogo continua a non ammettere elementi non razionali o riconducibili a una sfera biologica; un esempio significativo riguarda la questione della prestanza fisica dei due giovani: essendo cresciuti in un contesto agreste e continuamente stimolati dalle gare di valore con i loro coetanei, i gemelli si svilupparono in forza e salute28. Nessun cenno, dunque, al fatto che la loro avvenenza fosse un indicatore fisiognomico della discendenza divinoregale, secondo una topica diffusa; neppure vi è qualche riferimento al fatto che i due fratelli spiccassero significativamente sugli altri giovani, come accade, ad esempio, in Cicerone29. Quel che si legge in Trogo, invece, è una semplice considerazione dei buoni effetti di un’educazione all’aria aperta, un tema a lui particolarmente caro, dato che ne 25

Cfr. OLD s.v. subtraho n. 2 e Plin. nat. 8, 212: feminae in partu asperiores, et fere similiter in omni genere bestiarum. 26 Dion. Hal. ant. 1, 79, 6-9. La medesima interpretazione pare essere suggerita anche da un frammento di Ennio Ann. 1, 66 ( = frg. 43 Skutsch): indotuetur ibi lupus femina, conspicit omnis. / Hinc campum celeri passu permensa parumper / conicit in silvam sese. Si noti anche la differenza di toni tra il rigore scientifico di Trogo e il gusto per il meraviglioso di Ov. fast. 2, 413-414: venit ad expositos, mirum, lupa feta gemellos: / quis credat pueris non nocuisse feram? 27 Esprimono perplessità anche Liv. 1, 4, 2; Plut. Rom. 4, 2; August. civ. 18, 21; Zonara 7, 1. A Marco Ottavio e Licinio Macro (citati in OGR 19, 5) si deve la variante di Amulio stupratore, ripresa anche da Dion. Hal. ant. 1, 77, 1. 28 Così anche per Liv. 1, 4, 8-9: cum primum adolevit aetas … venando peragrare saltus. Hinc robore corporibus animisque sumpto. 29 Cic. rep. 2, 4. Per il bell’aspetto come segno dell’origine regale dei giovani cfr. Dion. Hal. ant. 1, 79, 10; Plut. Rom. 6, 2.

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aveva già parlato nel III libro (dove ricorda che essa era prescritta per legge da Licurgo), così come nel XXIII: qui elogia il costume dei Lucani di crescere i figli nei boschi, in modo che fin da piccoli facciano l’abitudine alla parsimonia e al rigore30. Parimenti basato su dati biologici è il momento dell’agnizione da parte di Numitore, che non viene colpito da elementi fuori dalla norma, come l’aria regale del ragazzo e la nobiltà del suo animo, oppure l’indole niente affatto servile o la straordinaria prestanza fisica 31 . Molto più razionalmente, Numitore si insospettisce non solo per l’età del ragazzo, coerente con quella dell’esposizione (aetas expositionis temporibus congruens)32, ma soprattutto per la somiglianza del giovane con la figlia (liniamentorum filiae similitudo) ed è proprio quest’ultimo particolare, di cui l’Epitoma è l’unica fonte, a meritare particolare attenzione, in quanto rappresenta un notevole elemento di stacco rispetto ad Aristotele, per cui solo l’elemento maschile è principio apportatore di forma33. Non si tratta di un elemento casuale o isolato: anche le altre forme di razionalizzazione del mito presenti nel testo si pongono in termini di divergenza con la scuola aristotelica, che aveva visto l’esperienza di Palefato, autore di un trattatello intitolato Περὶ ἀπίστων, in cui una cinquantina di miti della tradizione venivano raccolti e spiegati essenzialmente su una base linguistica, come una sorta di allegoria che, ad un certo punto, comincia ad essere intesa alla lettera34. Originale è invece la maniera di Trogo, che rispetto al ben attestato modello che coinvolge Aristotele e, in misura più significativa, la sua scuola, propone un’inedita attenzione all’osservazione del reale. Si prenda in esame il mito di Gerione, di cui trattano sia Trogo, sia Palefato: 30

Iust. 3, 3, 6 (Licurgo); 23, 1, 7-9 (Lucani). Ugualmente in 37, 2, 7-9 si ricorda come Ciro il Grande, cresciuto tra boschi e pascoli, avesse lì sviluppato quelle qualità fisiche e morali da cui sarebbe dipeso lo straordinario regno. 31 Nobiltà d’animo in Dion. Hal. ant. 1, 81, 3; indole non servile in Liv. 1, 5, 6; prestanza fisica in Plut. Rom. 7, 3. 32 Questa formulazione, per la sua vicinanza al lessico della declamazione, potrebbe risalire a Giustino, come si è chiarito supra, p. 112 n. 15. 33 Cfr. Aristot. gen. anim. 767a ss., su cui mi permetto di rimandare a BORGNA 2014A, 488. 34 Cfr. R.E. s.v. Palaiphatos, coll. 2449 ss.; OSMUN 1956; STERN 1996, 1-7; SANTONI 2000, 38-43; BRODERSEN 2005; TORRES GUERRA 2010; HAWES 2014, 37-91.

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Palaeph. 24: Περὶ Γηρυόνου. Γηρυόνην δέ φασιν ὅτι τρικάρηνος ἐγένετο. ἀδύνατον δὲ σῶµα ‹ἓν› τρεῖς ἔχειν κεφαλάς. Ἦν δὲ τοιοῦτον. πόλις ἐστὶν ἐν τῶι Εὐξείνῳ πόντῳ Τρικαρηνία καλουµένη. ἦν δὲ ὁ Γηρυόνης ἐν τοῖς τότε ἀνθρώποις ὀνοµαστός, πλούτῳ τε καὶ τοῖς ἄλλοις διαφέρων· εἶχε δὲ καὶ βοῶν ἀγέλην θαυµαστήν, ἐφ᾽ ἣν ἐλθὼν Ἡρακλῆς ἀντιποιούµενον Γηρυόνην ἀπέκτεινεν. οἱ δὲ θεώµενοι περιελαυνοµένας τὰς βοῦς ἐθαύµαζον· ἦσαν γὰρ τὸ µὲν µέγεθος µικραί, ἀπὸ δὲ κεφαλῆς ἐπὶ τὴν ὀσφὺν µακραὶ καὶ σιµαί, κέρατα οὐκ ἔχουσαι, ὀστέα δὲ µεγάλα καὶ πλατέα. πρὸς τοὺς πυνθανοµένους οὖν ἔλεγόν τινες· «Ἡρακλῆς ταύτας περιήλασεν οὔσας Γηρυόνου τοῦ Τρικαρήνου» τινὲς δὲ ἐκ τοῦ λεγοµένου ὑπέλαβον αὐτὸν τρεῖς ἔχειν κεφαλάς. Gerione. Dicono di Gerione che avesse tre teste. Che un solo corpo abbia tre teste è impossibile. La cosa stava in questo modo. Sul Ponto Eussino c’è una citta che si chiama Tricarenia. Tra gli uomini di quel tempo, Gerione era famoso e si distingueva per ricchezza e altri aspetti. Aveva anche una magnifica mandria di buoi, per impossessarsi della quale Eracle uccise Gerione che gli si opponeva. Quelli che vedevano i buoi catturati si stupivano: erano, infatti, piccoli di dimensioni, lunghi dalla testa al fianco e gobbosi, privi di corna, ma con ossa grandi e piatte. E pertanto a quanti chiedevano informazioni alcuni rispondevano: “Eracle ha preso queste bestie che erano di Gerione Tricareno”. Da questa frase vi fu chi suppose che egli avesse tre teste.

Iust. 44, 4, 16: Porro Geryonem ipsum non triplicis naturae, ut fabulis proditur, fuisse ferunt, sed tres fratres tantae concordiae extitisse, ut uno animo omnes regi viderentur. D’altra parte, dicono che lo stesso Gerione non ebbe aspetto triplice, come è tramandato dalle leggende, ma furono tre fratelli così concordi da sembrare guidati da un solo animo.

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Per Palefato il mito nascerebbe da uno spostamento del significato dell’aggettivo Τρικάρηνος il cui senso geografico originario si sarebbe via via trasformato in qualificativo di caratteristiche incredibili35 . In realtà, nessuna fonte antica attesta l’esistenza di una città Τρικαρηνία: si svela così la sostanziale natura di gioco linguistico dello sforzo di Palefato, molto più una sfida erudita che non un procedimento razionalizzante basato sui dati della realtà36. A questa esigenza risponde, invece, la ben più lineare interpretazione di Trogo: sono tre fratelli talmente concordi, da sembrare condividere una sola anima37. A un livello più generale, pur non essendo dimostrabile che Trogo leggesse Palefato, tuttavia il confronto prova egualmente quanto Trogo, sebbene sotto altri aspetti possa essere legato al Peripato, in questo ambito invece se ne distacchi e, lungi da quella pedissequa imitazione di cui è stato tacciato, persegua invece una strada personale fondata sul principio di osservazione diretta e scientifica della realtà. Il brano analizzato, infatti, non rappresenta un caso isolato in quanto l’Epitoma è omogenea nel presentare la ragione come il costante punto di riferimento di Trogo: della diceria secondo cui le cavalle lusitane genererebbero figli dal vento viene fornita una spiegazione plausibile (la grande fecondità delle cavalle unita alla velocità della razza)38 e così 35

Κάρηνος significa “testa” ma anche “cima, cittadella, rocca, torre”, quindi la supposta città Tricarenia andrebbe tradotta con “Trecime” “Trerocche” o simili, cfr. SANTONI 2000, 32; STERN 1996, 55. Palefato (39) ripropone questa etimologia anche a proposito di Cerbero, semplicemente uno dei cani di Gerione da Tricarenia: di conseguenza la gente avrebbe esclamato “καλός τε καὶ µέγας ὁ Τρικάρηνος κύων!”, generando così il mito del cane a tre teste. 36 Non si tratta di un’eccezione: all’infuori di un caso (la montagna Chimera in Caria, da cui sarebbe sorto il mostro omonimo, cfr. Palaeph. 20), tutti gli altri luoghi da lui citati come origine dei miti non trovano nessun riscontro nelle fonti antiche, come notato da SANTONI 2000, 20-21: «Palefato vanta di avere viaggiato e visitato i luoghi dove si svolsero i miti trattati, ma il lettore moderno subito si chiede a che cosa gli sia servito, ammesso che l’abbia fatto davvero». 37 Parla di tre fratelli anche Diod. Sic. 4, 17, 2 e 4, 18, 2, dove Ercole viene opposto ai tre figli di Crisaore, che altrove viene indicato come padre di Gerione. Successivamente concorderà Isidoro, orig. 11, 3, 28. Per il rapporto tra Isidoro e Giustino cfr. supra, p. 135 n.12. 38 Iust. 44, 3, 1: quae fabulae ex equarum fecunditate et gregum multitudine natae sunt, qui tanti in Gallaecia ac Lusitania et tam pernices visuntur, ut non inmerito vento ipso concepti videantur.

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anche i meccanismi di eco su cui si basa il tempio di Apollo a Delfi trovano una ragione oggettiva nella particolare configurazione fisica del sito, così perfetta che Trogo, da naturalista, non può fare a meno di chiedersi se in quel luogo desti maggiore meraviglia la maestà del dio oppure quanto la natura è stata in grado di costruire39. Altrettanto razionale è poi la spiegazione del mito di Deucalione, che Trogo è l’unico a proporre in questa forma: venne creduto il capostipite del genere umano semplicemente perché, durante una violenta alluvione, si salvarono solo quanti riuscirono a trovare scampo o sui monti o presso la sua reggia in Tessaglia40. In un certo senso biologiche sono poi le radici di una storia fortemente moralistica, in cui, oltre ai filoni più topici come l’elogio del buon tempo andato oppure la critica alla ricchezza41, spesso Trogo mostra di 39

Iust. 24, 6, 8-9. Espressione di meraviglia al §7: atque ita templum et civitatem non muri, sed praecipitia, nec manu facta, sed naturalia praesidia defendunt, prorsus ut incertum sit, utrum munimentum loci an maiestas dei plus hic admirationis habeat. 40 Iust. 2, 6, 10-11. Cfr. R.E. s.v. Deukalion, coll. 261-275 e in modo particolare col. 265 per l’unicità della versione dell’Epitoma. Meno chiara, forse perché eccessivamente condensata dal taglio di Giustino, è invece la breve razionalizzazione del mito di Cecrope di cui il testo dice che venne creduto biforme in quanto fu il primo a unire la donna e l’uomo in matrimonio: regem habuere Cecropem, quem, ut omnis antiquitas fabulosa est, biformem tradidere, quia primus marem feminae matrimonio iunxit (Iust. 2, 6, 7). La stessa spiegazione si ritrova anche in Clearco (fr. 73 Wehrli = Athen. 13, 555d) e in uno scolio al Pluto di Aristofane (Schol. Arist. Plut. 773b-c-d-e), entrambi testi che si diffondono maggiormente, spiegando come, rispetto ad un periodo più antico in cui le relazioni tra i due sessi erano casuali e aperte, Cecrope avesse introdotto la monogamia a tutela della riconoscibilità della discendenza. Altri trattamenti razionalizzanti di questo mito sono quelli di Filocoro (FGrHist 328, F 93) secondo cui Cecrope fu creduto biforme perché, essendo di origine egizia, era perfettamente bilingue e anche quello di Plutarco mor. 551 e-f, che lo connette, invece, alla personalità del sovrano, da tiranno divenuto governante illuminato (o viceversa). Cfr. R.E. s.v. Kekrops coll. 119-125 e in modo particolare 123 per i vari tentativi di spiegazione. 41 Elogio del buon tempo andato in Iust. 2, 10, 11 (citato per esteso infra, p. 166); 15, 2, 9 (passo di cui si è già parlato supra, p. 30); 43, 4, 12: adeo illic bene instituta non temporum necessitate, sed recte faciendi consuetudine servantur. Critiche della ricchezza in Iust. 9, 2, 9; 12, 3, 11-12; 20, 5, 3; 25, 1, 9-10; 38, 10, 3; induce alla corruzione in 2, 14, 6; 36, 4, 12. Sulla «tendance moralisatrice» di Trogo e la sua affinità con la maniera sallustiana ancora valido RAMBAUD 1948, 180-186. Successivamente

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avere una visione del male quasi medica: malvagità e corruzione sono germi infettivi che, una volta penetrati in un ambiente, velocemente si espandono generando contagio. Un articolato esempio si può trovare nel X libro, dove il morbo dell’empietà si diffonde presso la reggia persiana: Sed Darius […] interficiendi patris consilium cepit, sceleratus, si solus parricidium cogitasset, tanto sceleratior, quod in societatem facinoris adsumptos L fratres fecit parricidas. Ostenti prorsus genus, ubi in tanto populo non solum sociari, verum etiam sileri parricidium potuit, ut ex L liberis nemo inventus sit, quem aut paterna maiestas aut veneratio senis aut indulgentia patris a tanta inmanitate revocaret42. Ma Dario […] prese la decisione di uccidere il padre; scellerato se avesse meditato il parricidio da solo, ma tanto più scellerato perché rese parricidi cinquanta fratelli, che coinvolse come complici del misfatto. Davvero prodigioso che in mezzo a una folla così grande non solo il parricidio riuscì a trovare dei complici, ma anche a passare sotto silenzio, al punto che di cinquanta figli non se ne trovò nessuno che la maestà paterna o il rispetto che si deve a un anziano o l’affetto per il proprio genitore trattenesse da un’azione tanto orrenda.

Scoperta la congiura e condannato a morte Dario, Artaserse muore di dispiacere. Il regno passa così a Oco e, con lui, il germe dell’empietà: il nuovo sovrano fa infatti strage di tutti i parenti, senza lasciarsi impietosire né dal sesso, né dall’età delle sue vittime, evidentemente temendo di non essere all’altezza dei suoi fratelli parricidi (scilicet ne innocentior fratribus parricidis haberetur). E così, veluti purificato regno, Oco può muovere guerra a una popolazione confinante, dove però trova la morte (10, 3, 1-3). Un’aperta denuncia di una diffusione quasi endemica del crimine è anche quella che commenta l’elimi-

SEEL 1927b, 559-556 e SALOMONE 1973, 100 (che parla di una «severa intonazione etica propria del Voconzio»). 42 Iust. 10, 1, 4-6. L’episodio è anche noto da Plut. Art. 26-30 (su cui si veda il commento di Domenica Paola Orsi in MANFREDINI ‒ ORSI ‒ ANTELAMI 1987, 302-308), dove tuttavia la figura di Dario è assai meno negativa, come nota RUBERTO 2014, 198204. Per un inquadramento su questa fase della storia achemenide cfr. BRIANT 1996, 699-700.

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nazione sistematica dei consanguinei di Alessandro, un motivo che tornerà anche a proposito del regno di Partia43. In questo contesto va poi messo in rilievo come, pur all’interno di un contesto di grande razionalità, Pompeo Trogo mostri di avere una sua precisa teodicea, che si esprime in un rapporto di necessità tra delitto e castigo, di probabile ispirazione posidoniana44. Se di Giustino è la scelta di conservare queste scene, l’omogeneità con cui tali azioni trovano sanzione rivela un pantheon di Trogo composto da divinità decisamente attive nel punire l’assassinio e, in modo particolare, il parricidio45. 9.3.

L’attenzione per l’etnografia e l’elemento locale

L’interesse di Trogo per l’osservazione diretta assume rilevanza anche nell’ambito della Quellenforschung, in quanto non pochi particolari, altrimenti ignoti, possono essere ricondotti al patrimonio di testimonianze oculari che era probabile circolassero all’interno di una famiglia di grande tradizione militare. Ad esempio, a proposito dell’accoglienza amichevole che gli Albani del Caucaso riservarono all’esercito romano (42, 3, 4) «è lecito indovinare e ravvisare la fonte di Trogo nella

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Iust. 15, 2, 1-5 già citato supra, p. 83. Per i Parti cfr. 42, 4, 16, passo di cui si parlerà ancora infra, pp. 189 ss. 44 Questo motivo, già presente nella tradizione ellenistica per influsso della storiografia peripatetica di Duride e Filarco (come nota SEEL 1972, 197-200), fu però ricondotto all’impostazione di Posidonio già da KAERST 1897, 643. 45 Molti gli esempi possibili: Iust. 18, 7, 18: nec multo post ipse adfectati regni accusatus duplicis, et in filio et in patria, parricidii poenas dedit; 24, 3, 10: sed nec Ptolomeo inulta scelera fuerunt; quippe diis immortalibus tot periuria et tam cruenta parricidia vindicantibus brevi post a Gallis spoliatus regno captusque vitam ferro, ut meruerat, amisit; 26, 2, 6: tanta strages fuit, ut pariter cum hominibus dii consensisse in exitium parricidarum viderentur; 27, 2, 1-3: Seleucus cum adversus civitates, quae defecerant, ingentem classem conparasset, repente velut diis ipsis parricidium vindicantibus orta tempestate classem naufragio amittit; 28, 3, 6: quod facinus dii inmortales adsiduis cladibus gentis et prope interitu totius populi vindicaverunt; 39, 3, 12 (cfr. supra, p. 96); 39, 4, 5-6 (cfr. supra, p. 80). Un catalogo completo in DE SENSI SESTITO 1987, 207-210. Sul parricidio come fil rouge del testo cfr. SEEL 1972, 270-273 e supra, p. 119 n. 36.

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tradizione orale dello zio paterno»46. Ugualmente, la descrizione della tattica militare partica di 41, 2, 7 è parsa risalire a «un étranger à celleci qui aurait peut-être même expérimenté cette tactique à ses dépenses»47. Un’altra omogenea serie di informazioni mostra poi l’attenzione di Trogo per una ricerca etnografica particolarmente attenta alla valorizzazione del patrimonio locale, uno sforzo che si fa evidente negli ultimi due libri, quelli dedicati all’Occidente. Se ne può rintracciare un primo esempio a proposito dei Saturnalia, dove, rispetto a un panorama che solitamente riconduce la festività ad una tradizione greca, Trogo ne propone, invece, un’origine tutta romana, legata alla tradizione utopica di Saturno legislatore e sovrano illuminato48 . Sempre nel medesimo libro va segnalata la menzione di un dio Lupercus, della cui esistenza il testo offre l’unica testimonianza, un dato che con troppa facilità è stato imputato a un fraintendimento di Giustino, considerando invece questi sforzi di Trogo volti alla salvaguardia del materiale locale 49 . Egualmente isolate sono le notizie della nascita di Latino come conseguenza 46

FORNI – ANGELI BERTINELLI 1982, 1314. Sugli Albani del Caucaso e sulle spedizioni dei romani nella regione cfr. l’importante saggio di CHAUMONT 1984, 45-63, successivamente BAIS 2001, 67-80 (pur con le cautele espresse da TRAINA 2002). 47 LIEBMANN-FRANKFORT 1969, 898. Concorda ALONSO-NÚÑEZ 1988-1989, 134, secondo cui alla base di tutto il libro XLI «doubtless was somebody who took part in the expedition of Antony against the Parthians», alludendo allo zio. 48 Iust. 43, 1, 3-4: Italiae cultores primi Aborigines fuere, quorum rex Saturnus tantae iustitiae fuisse dicitur, ut neque servierit quisquam sub illo neque quicquam privatae rei habuerit, sed omnia communia et indivisa omnibus fuerint, veluti unum cunctis patrimonium esset. Ob cuius exempli memoriam cautum est, ut Saturnalibus exaequato omnium iure passim in conviviis servi cum dominis recumbant. Sosteneva invece un’origine greca già Cato orat. frg. 64 Sblendorio Cugusi: Graeco ritu fiebantur Saturnalia, con cui concorda Accio (citato da Macrobio sat. 1, 7, 36). Per ulteriori approfondimenti si vedano BRELICH 1955, 78; DONAHUE 2003, 423-441; STANDHARTINGER 2008, 9. 49 Iust. 43, 1, 7: templum Lycaeo, quem Graeci Pana, Romani Lupercum appellant, constituit; ipsum dei simulacrum nudum caprina pelle amictum est, quo habitu nunc Romae Lupercalibus decurritur. Imputano l’errore a Giustino già Marbach nella voce della R.E. s.v. Lupercus n. 1 coll. 1834 ss., così anche KIRSOPP MICHELS 1953, 56 ss. Contra cfr. WISEMAN 2008, 60, secondo cui la descrizione dell’Epitoma troverebbe conferma nelle decorazioni di uno specchio bronzeo rinvenuto a Preneste.

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di uno stuprum di Ercole (di passaggio in Italia con le mandrie di Gerione) su una figlia di Fauno50 e la menzione dell’antico uso degli scettri al posto dei diademi51. Trogo, inoltre, non presenta l’etnogenesi latina come risultato della fusione di due soli elementi, l’aborigeno e il troiano, ma preferisce seguire la tradizione che prevede anche il contributo di ulteriori gruppi etnici, tra cui gli Arcadi52. Né questa fusione è risultato di un processo 50

Iust. 43, 1, 9: ex filia Fauni et Hercule, qui eodem tempore extincto Geryone armenta, victoriae praemia, per Italiam ducebat, stupro conceptus Latinus procreatur. La versione dell’Epitoma è parzialmente vicina a quella di Dion. Hal. ant. 1, 43, 1, in cui Latino nasce dall’unione tra Ercole e un’anonima fanciulla di stirpe iperborea, che l’eroe greco aveva ricevuto come ostaggio. In un secondo momento, tuttavia, Ercole aveva offerto la mano della donna a Fauno: questo è il motivo – dice esplicitamente Dionigi – per cui Latino è generalmente considerato figlio di Fauno. Secondo altre versioni, Latino sarebbe invece figlio di Odisseo e Circe (Hes. Th. 1011-1013, genealogia menzionata anche da Serv. Aen. 12, 164; Giovanni Lido mens. 1, 13; Scholia ad Apollonio Rodio 3, 200 ed Eustazio ad Od. 1796), di Telemaco e Circe (Callia di Siracusa, citato da Dion. Hal. ant. 1, 72, 5), oppure di Fauno e della ninfa Marica (Verg. Aen. 7, 45-49, su cui si vedano BALK 1968 e MORTOON 1988, 253-259). Sul passaggio di Ercole in Italia dopo la conquista dei buoi di Gerione, noto anche da Strabo 5, 3, 3 (C 230), cfr. TRAINA 1993-1994, 629. 51 Iust. 43, 3, 3: per ea tempora adhuc reges hastas pro diademate habebant, quas Graeci “sceptra” dixere. Che la ricerca etnografca di Trogo avesse caratteri originali è mostrato anche dalle difficoltà incontrate dalla critica moderna nel tentativo di comprendere a che cosa si riferisse in questo passo: un’ipotesi è quella di una connessione con la divinizzazione di Romolo e la sua metonomasia a Quirino, dal momento che quiris significava hasta in italico, come noto da Ov. fast. 2, 475-477; Plut. Rom. 29, 1 e Festo p. 43 Lindsay (cfr. CASTIGLIONI 1925, 7, ripreso da SANTI AMANTINI 1981, 562 n. 4). Secondo NENCI (1958, 38 n. 49) Giustino avrebbe invece trovato questa notizia nel racconto del ratto delle Sabine, in quanto vi sarebbe una connessione tra l’hasta e il modo in cui i Romani avevano consacrato sulle rapite la loro potestà maritale, un rito che avrebbe lasciato traccia nell’hasta caelibaris, uno spillone con cui si fissavano i capelli della sposa (cfr. Ov. fast. 2, 559-560). In effetti, già Plutarco ipotizzava un possibile collegamento tra l’acconciatura nunziale e il ratto delle Sabine (Plut. mor. 285 c-d, dove si menziona anche il culto di Iuno Curitis, patrona delle donne maritate, attestato anche da CIL I 396; II 3125). Per ulteriori approfondimenti si legga HERSCH 2010, 80 ss. 52 Iust. 43, 1, 6: regnasse Faunum ferunt, sub quo Euander ab Arcadiae urbe Pallanteo in Italiam cum mediocri turba popularium venit, cui Faunus et agros et montem … benigne adsignavit. La sequenza cronologica di Trogo è la medesima di Dionigi di Alicarnasso (ant. 1, 31-36), dove Evandro viene prima di Enea ed entrambi precedono Romolo. La tradizione di Evandro è conservata in modo coerente dagli autori di età augustea nella forma di un corpus letterario ben delimitato che oltre a Dionigi

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in cui gli esuli troiani sono gli unici apportatori di civilizzazione rispetto ad un elemento indigeno totalmente passivo e schiacciato sullo sfondo, come ad esempio avviene nel I libro di Livio; al contrario, in Trogo l’elemento locale è anch’esso dotato di usi e tradizioni, quindi in grado di collaborare alla nascita della nuova civiltà53. Se già a proposito della nascita di Roma abbiamo potuto constatare la profondità della ricerca etnografica di Trogo, è nella parte relativa alla Gallia e a Marsiglia che le notizie altrimenti ignote si fanno ancora più numerose, un probabile apporto della tradizione autoctona che, peraltro, sembra confermare l’indipendenza di Trogo da Timagene. A proposito della fondazione di Marsiglia, infatti, i due mostrano notevoli difformità, sia di cronologia sia di contesto e, ancora una volta, in Trogo l’elemento indigeno non è ridotto a sfondo passivo delle gesta dei Greci, bensì assurge al ruolo di protagonista. Temporibus Tarquinii regis ex Asia Phocaeensium iuventus ostio Tiberis invecta amicitiam cum Romanis iunxit; inde in ultimos Galliae sinus navibus profecta Massiliam inter Ligures et feras gentes Gallorum condidit […] Namque Phocaeenses exiguitate ac macie terrae coacti studiosius mare quam terras exercuere: piscando mercandoque, plerumque etiam latrocinio maris, quod illis temporibus gloriae habebatur, vitam tolerabant. Itaque in ultimam Oceani oram procedere ausi in sinum Gallicum ostio Rhodani amnis devenere, cuius loci amoenitate capti, reversi domum referentes quae viderant, plures sollicitavere. Duces classis Simos et Protis fuere. Itaque regem Segobrigiorum, Nannum nomine, in cuius finibus urbem condere gestiebant, amicitiam petentes conveniunt. Forte eo die rex occupatus in apparatu nuptiarum Gyptis filiae erat, quam more gentis electo inter epulas genero nuptum tradere illic parabat. Itaque cum ad nuptias invitati omnes proci essent, rogantur etiam Graeci hospites ad convivium. Introducta deinde virgo cum iuberetur a patre aquam porrigere ei, quem virum eligeret, tunc omissis omnibus ad Graecos conversa aquam Proti porrigit, qui factus ex hospite gener locum condendae urbis a socero accepit.

comprende Verg. Aen. 8, 51-58; Ov. fast. 1, 467-585; 2, 266-450; 5, 79-110 e Liv. 1, 5, 1-3. «Evandro agisce nella tradizione letteraria soltanto a tratti, in modo estremamente sporadico; è fuor di dubbio che soltanto in età augustea l’eroe occupa un posto di primo piano nel passato mitico di Roma» (MAVROJANNIS 2004, 7). 53 Su questo variegato apporto si vedano MARTÍNEZ-PINNA NIETO 2002, 64 e BIANCHI 2016, 153-157.

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Condita igitur Massilia est prope ostia Rhodani amnis in remoto sinu, velut in angulo maris54. Ai tempi del re Tarquinio un gruppo di giovani Focei, giunti alla foce del Tevere dall’Asia, strinse amicizia con i Romani. Da lì, spintisi in nave fino ai più remoti golfi della Gallia, fondarono Marsiglia nel territorio tra i Liguri e i violenti popoli del Galli […] I Focesi, costretti dalla scarsità e dalla sterilità della loro terra, si dedicarono con maggior zelo al mare che ai terreni: infatti, si mantenevano con la pesca, con il commercio e spesso anche con la pirateria, a quei tempi considerata attività onorevole. Così, non avendo timore di spingersi fino all’estrema costa dell’Oceano, giunsero nel golfo gallico alla foce del fiume Rodano: conquistati dalla bellezza di quel luogo, ritornarono in patria a riferire quanto avevano visto e convinsero altri a seguirli. Comandanti della flotta furono Simo e Proti. Giunsero così dal re dei Segobrigi, Nanno, nelle cui terre desideravano fondare la città, a chiedergli amicizia. Per caso quel giorno il re era occupato nell’allestimento delle nozze della figlia Gitti, che secondo il costume di quel popolo avrebbe dato in sposa ad un genero scelto durante il banchetto. E così, invitati alle nozze tutti i pretendenti, anche gli ospiti greci furono pregati di partecipare al convito. Fatta poi entrare la fanciulla, quando il padre le disse di offrire l’acqua a quello che sceglieva come marito, trascurati tutti gli altri, voltasi ai Greci offrì l’acqua a Proti, che da ospite divenuto genero, ricevette dal suocero il luogo per fondare la città. Così dunque Marsiglia fu fondata vicino alla foce del fiume Rodano, in un’insenatura remota, quasi in un angolo del mare.

Anche se Giustino non specifica chi sia il Tarquinio regnante al tempo della nascita di Marsiglia, dal prologo si sa che era Tarquinio Prisco55: ne consegue pertanto che le Historiae Philippicae vadano ascritte a quel gruppo di testimonianze che fissa la κτίσις della città intorno al 600 a.C., una cronologia che, pure nelle ambiguità del dato archeologico,

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Iust. 43, 3, 4-12. La fondazione della città come conseguenza del matrimonio tra il navarca greco e la figlia del re locale è un mitema che simboleggia la fusione tra gli indigeni e i Greci, i quali non di rado si servivano di queste unioni per installarsi pacificamente in un luogo. La versione di Trogo presenta tratti comuni con quella rinvenibile nella Costituzione dei Massalioti di Aristotele (fr. 549 Rose = Athen. 13, 576 a-b) e con il breve cenno che ad essa fa Plutarco (Sol. 2, 7). In merito si vedano LEPORE 1970, 22; MOREL 1984, 232 ss.; PANESSA 1999, xv-xxxiiii; RAVIOLA 2000, 9296; ANTONELLI 2008, 152; CHIOCCI 2008, 231; BORGNA 2014B; URSO 2016. 55 Prol. XLIII: tertio et quadragensimo volumine continentur … res usque ad Priscum Tarquinium. Origines deinde Liguriae et Massiliensium res gestae. Il medesimo sincronismo è anche in Livio 5, 34, 1-8.

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sembra concordare con le analisi stratigrafiche56. Il periodo 600/599597/596 è anche ricavabile da Solino (2, 52) se si converte in anni il dato della quarantacinquesima Olimpiade a cui il geografo assegna la fondazione della colonia. Piuttosto differente, invece, è la versione di Timagene, conservata da Ammiano: ambigentes super origine prima Gallorum scriptores veteres notitiam reliquere negotii semiplenam, sed postea Timagenes, et diligentia Graecus et lingua, haec, quae diu sunt ignorata, collegit ex multiplicibus libris […] A Phocaea vero Asiaticus populus Harpali 57 inclementiam vitans, Cyri regis praefecti, Italiam navigio petit, cuius pars in Lucania Veliam, alia condidit in Viennensi Massiliam58. Gli autori antichi, essendo incerti circa l’origine prima dei Galli, della questione ci hanno lasciato un’informazione incompleta, ma in seguito Timagene, greco per accuratezza e per lingua, raccolse da molti libri queste notizie a lungo ignorate […] In verità una popolazione asiatica da Focea navigò verso l’Italia per sfuggire dalla crudeltà di Arpalo, satrapo del re Ciro: una parte di questi fondò Velia in Lucania, un’altra Marsiglia nella regione di Vienne.

Le difformità cronologiche Trogo-Timagene sono dunque evidenti: per il primo la fondazione della città andrebbe inserita nel contesto dei grandi viaggi focei di esplorazione, come presuppone, peraltro, la motivazione della partenza (exiguitate ac macie terrae) e l’accenno al ritorno in patria (reversi domum). Diversamente Timagene collega la nascita di Marsiglia agli eventi asiatici dell’anno 546 a.C.: il tracollo del regno di Lidia, la conquista persiana della Ionia e, soprattutto, di Focea, città da cui sarebbero fuggiti quegli esuli che avrebbero fondato 56

Cfr. DE WITT 1940, 609 e VANOTTI 1999, 466. A indicare esattamente la data del 600 a.C. è lo Pseudo-Scimno (vv. 250 ss.), nome con cui si indica l’anonimo autore dell’operetta Περίοδος γῆς ἐν κωµικῷ µέτρῳ, una descrizione del mondo in trimetri giambici comici, dedicata a un re Nicomede di Bitinia, variamente identificato con Nicomede II Epifane (149-127? a.C.) o, più probabilmente, Nicomede III Evergete (127?-94). Nel XVII secolo tale scritto era stato attribuito a Scimno di Chio, una paternità poi definitivamente rifiutata da August Meineke, a cui si deve anche la denominazione di Pseudo-Scimno, per comodità rimasta in uso fino ad oggi; su questo autore cfr. MARCOTTE 2000, 1-43; KORENJAK 2003. 57 Confusione per Arpago, come già notato da DE JONGE 1953, 51. 58 FGrHist 88, F 2 = Amm. 15, 9, 2-7. Tale versione è già attestata da Igino (fr. 7 Funaioli), citato testualmente da Gell. 10, 16, 3-4.

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anche Velia. Non vi è dubbio che Trogo e Timagene siano qui difficilmente sovrapponibili, né persuadono i tentativi di trovare ugualmente un accordo59. Poco plausibile, infatti, l’ipotesi che Trogo a proposito di una città a cui si mostra così legato, come avremo modo di vedere in seguito, abbia seguito acriticamente una fonte unica senza confrontarla e rielaborarla con altro materiale, probabilmente locale60. Anche nell’ultimo libro, dedicato alla Penisola Iberica, si riscontra una particolare commistione tra fonti greche e quelle che possiamo ipotizzare come tradizioni autoctone61 . Qui spicca per importanza il capitolo IV, in quanto testo base di ogni supposizione sulla struttura 59

Hanno sostenuto comunque la derivazione Trogo – Timagene per questa sezione soprattutto NENCI 1958, 33 ss. e SORDI 1982, 781 ss., secondo cui la falsa sincronizzazione tra la fondazione di Marsiglia e quella di Velia (un errore presente anche in Isocrate, Archid. 84 e Pausania 10, 8, 6) sarebbe sorta successivamente a Timagene (che avrebbe avuto la stessa datazione alta di Trogo), probabilmente per effetto del soprannome di “Marsiglia d’Italia” con cui Velia era nota nell’antichità (SORDI 1982, 783 n. 23). Hanno invece ritenuto insanabile la divergenza TrogoTimagene, tra gli altri, MAZZARINO 1966B, 389; VALLET – VILLARD 1966, 185 n. 57; RAVIOLA 2000, 64 n. 24. 60 ALONSO-NÚÑEZ 1994, 112 ritiene tratto da fonte indigena l’intero blocco dei paragrafi 4-12; RAVIOLA 2000, 24 definisce la versione di Trogo «quanto di più genuinamente massaliota ci è pervenuto per via letteraria» e di recente anche URSO 2016, 182 si è espresso in favore della possibilità che Trogo abbia fatto ricorso a tradizioni locali. Ignote alle altre fonti sono anche la menzione di un antichissimo foedus Roma-Marsiglia (43, 5, 3, citato per esteso e discusso infra, pp. 205 ss.), così come il nome del generale Catumandus (43, 5, 5) e l’episodio dell’offerta di una collana aurea alla statua della dea (43, 5, 7). Per l’importanza di Marsiglia nelle Historiae Philippicae cfr. infra, cap. XI. 61 Per quanto riguarda le fonti greche, le notevoli concordanze con Strabone (soprattutto per le informazioni di carattere geo-etnografico raccolte nel capitolo II) rimandano al περὶ ᾽Ωκεανοῦ di Posidonio, resoconto del viaggio verso l’Iberia e lungo la costa atlantica di cui il geografo conserva il maggior numero di passi (Strabo 3, 1, 5; 3, 2, 5; 3, 5, 8; 3, 5, 9 = Posid. frr. 241, 243, 246, 247 Edelstein-Kidd), cfr. ALONSO-NÚÑEZ 1979, 639 e BLÁZQUEZ MARTÍNEZ 2006 (sui rapporti tra Trogo e Strabone in merito alle notizie sulla penisola iberica). Sempre Strabone (3, 4, 3) dice di aver tratto alcune informazioni da Asclepiade di Mirlea, un grammatico che avrebbe insegnato in Turdetania e scritto, tra le altre opere, una Περιήγησις Τουρδητανίας che potrebbe essere anche alla base del racconto di Trogo. Su Asclepiade cfr. R.E. s.v. Asklepiades n. 28; N.P. n. 8; MÜLLER 1903; SLATER 1972; ALONSO-NÚÑEZ 1978; RISPOLI 1988, 170-204; PAGANI 2007, 2-16 e 37-40.

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politica e sull’organizzazione socio-economica del misterioso regno dei Tartessi62. Ugualmente il mito di Habis e Gargori, di cui l’Epitoma è l’unica fonte (44, 4, 1-14), nonostante le indubbie somiglianze con analoghi greci, è stato interpretato come prodotto originale della cultura locale, un tratto di cui sarebbe prova anche la complessa etimologia del nome Gargoris, non attestato epigraficamente nella penisola Iberica e che potrebbe derivare da radicali dell’antico basco63. In conclusione, il superamento dell’ipotesi timagenica e, a livello più generale, della discendenza da una Mittelquelle, seppur con qualche recente eccezione64, porta ad una definitiva valorizzazione della per62

Qualche altra notizia ancora in Strabone 3, 1, 6 (C139), su cui COUNILLON 2007, 6580. 63 ALBERTOS FIRMAT (1966, 118 ss.) segnala la possibilità che Gargoris derivi da *Gargorix, cioè da una forma di radicale indoeuropeo della famiglia di *gorag “terribile”, *gorgos “spaventoso” a cui si sia aggiunto il suffisso -rix, “re”. Oppure, nel caso non si trattasse di una matrice indoeuropea, il nome potrebbe provenire da un radicale reduplicato, dello stesso tipo di Bilbilis. Si veda anche TOVAR (1959, 141-45), che ipotizza una relazione con cebada (orzo) e col basco gari (grano), un aspetto interessante perché semanticamente legato al ruolo civilizzatore di Gargori (su questo aspetto cfr. BERMEJO BARRERA 1978, 226 ss.). JORDÁ CERDÁ (1993, 272) ha messo in relazione i nomi Gargoris e Habis con alcuni toponimi e idronimi in -bis e -is rinvenibili nella zona tra Valencia e Alicante. In merito si leggano anche ALMAGRO GORBEA 2005, 48 ss. e BALLESTEROS PASTOR 2012, 5-7. 64 BALLESTEROS PASTOR (2013, 20-21; 35-37, tesi ripresa anche in ID. 2016) ha sostenuto l’ipotesi di una fonte unitaria per i libri I-XLII, che però identifica non in Timagene, ma in una misteriosa storia celebrativa delle gesta di Tigrane II di Armenia (che diventa “re dei re” nell’83 a.C.) e arricchita da informazioni sui diversi popoli e sulle loro leggende mitologiche, il cui autore sarebbe un greco conoscitore della cultura iranica, entusiasta di Atene e critico nei confronti dei Macedoni. La resa di Tigrane e gli sconvolgimenti politici successivi ad Azio avrebbero poi indotto questo misterioso autore a introdurre nel racconto la descrizione delle campagne di Pompeo in Oriente e altri due libri di storia orientale (XLI-XLII), sempre narrata da una precisa prospettiva armeno-cappadoce. A scoprire e a ricopiare questo scritto sarebbe stato il padre di Pompeo Trogo durante una spedizione in Oriente al seguito di Gaio Cesare (cfr. supra, pp. 26 ss. con relativa discussione). La costruzione di Ballesteros Pastor è certo articolata e non priva di fascino: tuttavia, porre alla base delle Storie Filippiche una così spiccata prospettiva armeno-cappadoce (con tutte le problematiche legate al carattere frammentario delle fonti, come sottolineato da TRAINA 2016), rischia di trascurare pesantemente il carattere universale della storia di Trogo, che si proponeva di narrare le vicende del mondo conosciuto seguendo l’innescarsi della translatio imperii (cfr. infra, cap. 10.2). Inoltre, secondo Ballesteros Pastor, Trogo guarderebbe anche alla Macedonia da una prospettiva iranica, presentando lo stesso Alessandro come un

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sonalità storiografica di Trogo, la cui opera parrebbe il risultato di un processo di commistione e rielaborazione di tradizioni differenti 65 . Ctesia di Cnido, Erodoto, Eforo, Teopompo, Clitarco, Duride, Geronimo di Cardia, Filarco, Timeo, Polibio e Posidonio figurano, infatti, tra i molti nomi che gli studi dedicati alla Quellenforschung delle Historiae Philippicae per gruppi di libri, hanno individuato alla base di singole sezioni del racconto 66 . Non si può escludere che Timagene occupasse il tavolo da lavoro di Trogo, ma, certamente, non da solo: in questo senso, forse, sembra più utile cercare di seguire (o individuare tout court) i modelli interpretativi di Trogo, tentando un’analisi che evidenzi, al di sotto delle possibili suture di fonti diverse, un’idea del fatto raccontato e una sua finalità67.

continuatore di Dario III, una lettura che, però, parrebbe non tenere conto del valore paradigmatico a cui assurge la dinastia nel suo complesso, come si mostrerà infra, cap. 10.3. 65 Cfr. SEEL 1982, 1381 («der Historiker Trogus weit mehr als nur ein durchschnittlicher Kompilator einer Riesenmenge historischer Materialen, nämlich ein Autor von eigener, sehr charakteristischer und bemerkenswert eindrucksvoller Physiognomie gewesen sein muss, den ernst und beim Worte zu nehmen durchaus mehr ist als ein Versuche am untauglichen Objekt») e GALIMBERTI ‒ ZECCHINI 2016, viii: «l’antica Quellenfrage trogiana si va risolvendo nell’accettazione di una pluralità di fonti, all’interno delle quali l’eventuale ruolo di Timagene va ridimensionato e individuato solo per alcune sezioni della storia ellenistica». 66 Cfr. FORNI 1958 (guerre greco-persiane); LIEBMANN-FRANKFORT 1969 (libro XLI); SANTI AMANTINI 1972 (libri XXXV- XXXVI); SALOMONE 1973 (XXXVIII, 8 - XL); RICHTER 1987 (XIII-XL); BALLESTEROS PASTOR 2006 (XXXVIII 4-7), materiale confluito in BALLESTEROS PASTOR 2013 (XXXVII, 1, 6 - XXXVIII, 8, 1). In tempi ancor più recenti presso l’Università Cattolica di Milano si sono tenuti tre cicli di seminari dedicati all’analisi del testo dell’Epitoma in termini per lo più di indagine delle fonti, i cui esiti sono raccolti in BEARZOT ‒ LANDUCCI 2014 (libri I-X), BEARZOT ‒ LANDUCCI 2015 (XI-XXX) e GALIMBERTI ‒ ZECCHINI 2016 (XXXI-XLIV). 67 Come già si augurava FRANCO 1993, 78.

X. IL SENSO DELLA STORIA DI TROGO E IL SUO PRESUNTO ANTIROMANESIMO

Affermata l’indipendenza della ricerca di Trogo, l’analisi non può prescindere dalla questione della sua presunta ostilità nei confronti di Roma, uno dei fattori che hanno contribuito a catalizzare l’attenzione della critica1. Oltre, naturalmente, alla supposta dipendenza diretta dal caustico Timagene, sono state considerate prove di tale avversione: -

l’idea stessa di scrivere una storia universale; la centralità della figura di Alessandro Magno; lo sguardo favorevole riservato ai Parti; il ruolo marginale della storia romana; i toni livorosi del discorso di Mitridate (38, 4-8), spesso giudicati eco di una perduta storiografia di tono antiromano.

Se a proposito della cosiddetta “ipotesi timagenica” si è già detto, va comunque rilevato che anche tra quanti hanno sostenuto una derivazione parziale o globale da questo modello non solo vi è stato chi ha negato che Trogo condividesse la carica polemica della sua fonte2, 1

Tra i convinti assertori vi furono SWAIN 1940, 17, che definisce Trogo «distinctly antiRoman» per il ruolo marginale occupato da Roma nel testo e per la deplorazione del suo imperialismo, così come LANA 1952, 201 e TREVES 1955, 71, 115-116. Più di recente aveva ancora individuato una «certain anti-Roman bias» ALONSO-NÚÑEZ 1987, 68 (ipotesi già esposta in ID. 1982, 131-141), una posizione poi parzialmente ritrattata in un lavoro successivo, dove afferma che l’apertura finale verso la penisola iberica renderebbe le Historiae Philippicae una sorta di espressione storiografica della monarchia universale di Augusto (ID. 1988, 129). Innovativa, ma difficilmente dimostrabile è la recente ipotesi di BALLESTEROS PASTOR (2013, 68) secondo cui a essere ostile a Roma sarebbe in realtà Giustino, che dalle Historiae Philippicae avrebbe selezionato tutti i brani in cui Roma compariva sotto una luce ambigua in ragione di un certo malcontento diffuso nella zona di Olbia Pontica, che lo studioso suppone essere patria dell’epitomatore (cfr. supra, p. 39 n. 8). 2 Già per CASTIGLIONI 1928, 635 Trogo non avrebbe colto i toni ostili della sua fonte, una tesi parzialmente ripresa da MOMIGLIANO 1933 (= 1969, 237), secondo cui Trogo,

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ma la stessa ostilità di Timagene nei confronti di Roma è stata ampiamente messa in discussione3. Per quanto riguarda, invece, l’animosità del discorso di Mitridate, già da tempo anche questa è stata persuasivamente ricondotta agli elementi topici del genere 4 . Restano quindi da analizzare il problema della storia universale come genere letterario potenzialmente sovversivo, le ragioni della centralità della vicenda macedone, il ruolo dei Parti e, infine, la scarsa rilevanza della storia romana.

nel suo essere erudito e naturalista, non avrebbe avuto alcuno scopo politico, ma si sarebbe accostato al testo di Timagene in virtù della vasta e concentrata informazione storico-geografica in esso contenuta. Ugualmente CRESCI MARRONE 1993B, 24 ha sostenuto che l’uso di una fonte antiromana, laddove confermato, non implicherebbe una complicità di obiettivi polemici; al contrario tale fonte, avulsa dal contesto originario e impiegata da Trogo in sequenza frammentaria, avrebbe subito un’attenuazione di toni e un adeguamento alla impostazione universalistica delle Historiae Philippicae. 3 Fondamentale a questo proposito è la testimonianza di Seneca (ira 3, 23, 4-8), che ricorda come Timagene, bandito dal palazzo di Augusto, trovò comunque un protettore in Asinio Pollione, nella cui casa invecchiò e non certo da reietto. L’esclusione dalla domus imperiale, infatti, non gli aveva precluso alcuna altra porta e così Timagene, conteso da tutta la città (tota civitate direptus), poté continuare a scrivere, a leggere pubblicamente i suoi scritti e perfino a ostentare la sua avversione nei confronti del princeps, ad esempio gettando nel fuoco quanto aveva precedentemente composto in suo onore. Eppure, agli occhi di Augusto Timagene non dovette mai rappresentare una reale minaccia, se a Pollione che si offriva di scacciare un ospite tanto intemperante rispondeva: fruere, mi Pollio, fruere (“goditelo, Pollione mio, goditelo”). In merito si legga soprattutto MUCCIOLI 2012, 377 ss. che persuasivamente dimostra come Timagene più che il principale esponente dell’opposizione ad Augusto andrebbe interpretato come «un inopportuno, spiacevole gaffeur, incapace di comportarsi comme il faut al cospetto del principe». Avevano già messo in dubbio la reale appartenenza di Timagene ad un filone storiografico ostile al princeps BRUNO SUNSERI 1976, 98 ss. e SORDI 1982, 796, a cui si deve la condivisibile osservazione che se Timagene fosse stato un sincero oppositore difficilmente sarebbe potuto rimanere presso Asinio Pollione e ottenere poi l’aperta simpatia non solo di Seneca, ma anche di Quintiliano e di Ammiano Marcellino. 4 «La forma di questi discorsi è consacrata da una sua regola: lo sminuire nobiltà e valore dell’avversario era necessariamente un elemento di prammatica», notava già CASTIGLIONI 1928, 629, rilevandone anche i tratti spiccatamente retorici. Successivamente si vedano gli studi di ADLER 2006, 383-407 e ID. 2011, 41-58; BALLESTEROS PASTOR 2009B e soprattutto il commento di ID. 2013, 52-75, poi ripreso in ID. 2016, seppur con le cautele espresse supra, pp. 99 ss.

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10.1.

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Scrivere una storia universale a Roma: una scelta ostile?

Forse ricalcando il suo originale, di cui non pare azzardato immaginare che prendesse le mosse da dichiarazioni programmatiche, Giustino apre la sua opera mettendo in evidenza la straordinarietà dello sforzo di Trogo, che si è cimentato nella composizione di una Graeca et totius orbis historia, anche stimolato dall’originalità della sfida5. In effetti, le Historiae Philippicae risultano essere l’unica storia universale in latino prima di Orosio6; forse ve ne furono altre più o meno simili, come il compendio cronologico di Cornelio Nepote, che Catullo elogia nel carme incipitario del Liber7, e di certo anche gli storici latini ebbero prospettive universalistiche, ma la stessa menzione della novitas operis suggerisce una non particolare diffusione del genere a Roma8. Uno dei motivi di tale scarsa fortuna, oltre naturalmente alla difficoltà (ricordata anche da Giustino con la menzione dell’Herculea audacia9 ), risiede senz’altro nel complesso rapporto tra prospettiva universale e locale insito nel genere, un problema ulteriormente complicato dalla questione del fine: la storiografia universale ha un punto di arrivo? E se sì, esso è

5

Iust. praef. 1-3, citato per esteso supra, pp. 19 ss. Non è chiaro se Orosio, oltre a Giustino, leggesse anche l’originale di Trogo, come si è già detto supra, p. 95 n.49. 7 Catull. 1, 5-8: cum ausus es unus Italorum / omne aevum tribus explicare chartis, / doctis, Iuppiter, et laboriosis. Sui Chronica di Nepote si vedano BARDON 1952, 267, ora SOLARO 2006 con ulteriore bibliografia. 8 Cicerone (Brut. 14) parla degli Annali di Attico come di un’opera dalla prospettiva universalistica: iste omnem rerum memoriam breviter ... perdiligenter complexus est; così anche in orat. 120: quem laborem nobis Attici nostri levavit labor qui conservatis notatisque temporibus, nihil cum illustre praetermitteret, annorum septingentorum memoriam uno libro colligavit. CORNELL 2010, 103-110 sostiene che anche le Origines di Catone andrebbero interpretate in tal senso («Cato’s work was a species of universal history, but with centre of gravity in Italy and the west») e che potrebbero esser state un modello di Trogo, un’influenza di cui sarebbe un indizio il riferimento a Catone che chiude la praefatio di Giustino, cfr. supra, p. 20. Sugli Annales di Ennio come storia universale si è invece espressa ELLIOTT 2013, 233-294. 9 Il riferimento alla storia universale come fatica erculea è comune a Trogo, Nicolao di Damasco (FGrHist 90, F 135) e Diodoro (1, 2, 4; 1, 3, 1-2), come notato da YARROW 2006, 124-133. 6

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di tipo, utopistico, vale a dire un progressivo avvicinamento ad uno stato di perfezione, oppure distopico, cioè il declino e la decadenza10? Tale dibattito non può prescindere neppure dallo schema interpretativo, di genesi antichissima, della successione degli imperi: anche questo è un concetto con cui Roma si rapporta con difficoltà, dato che pare minacciare la nozione stessa del suo eterno perdurare11. Autori quali Polibio e Dionigi di Alicarnasso, per citare alcuni dei cardini nella riflessione antica sulla translatio imperii, cercarono di superare questo nodo dichiarando esplicitamente la supremazia di Roma in apertura delle loro opere12, un proclama invece assente nell’esordio dell’Epitome, anche questo generalmente inteso come molto vicino se non direttamente tratto dall’originale trogiano13: 10

Nel mare magnum degli studi sulla storiografia universale uno dei punti di riferimento è ancora MOMIGLIANO 1982, che raccoglie e commenta analiticamente molta bibliografia precedente; altrettanto acuto è MAZZARINO 1966A, 484-492. Successivamente, tra gli ultimi, CLARKE 1999; ALONSO-NÚÑEZ 2000; ID. 2002; BONNAUD 2004; MARINCOLA 2007; LIDDEL‒FEAR 2010; INGLEBERT 2014. 11 «La nozione di successione degli imperi è vecchia come Erodoto» scriveva MOMIGLIANO (1984, 297). In realtà, deve essere più vecchia ancora, come nota ASHERI 2003, 11 («sorse dalla semplice constatazione che i regni nascono, arrivano ad un apice e infine periscono per essere sostituiti da altri») sulla base di alcuni versi del coro di Aesch. Pers. 584-590 che mostrerebbero come già la generazione precedente a Erodoto avesse consapevolezza di tale meccanismo. Si veda anche il parere di GABBA 2003, 76 che rileva come da Dion. Hal. ant. 1, 2, 1-4 e App. praef. 29-48 risulti chiaro come quella carica polemica che la teoria della successione degli imperi aveva assunto tra II e I sec. a.C. fosse andata progressivamente scemando e tale schema non si configurasse più come interpretazione globale della storia, se non in quanto strumento di ulteriore esaltazione di Roma, proprio in virtù della non prevedibilità di una successione. A proposito di come la propaganda augustea affrontò il problema della durata dell’impero di Roma cfr. CRESCI MARRONE 1993A, 250-255. A un livello più generale, sulla successione degli imperi si vedano, tra i molti, SWAIN 1940; FABBRINI 1983; MOMIGLIANO 1982 e ID. 1984; MAZZA 1996; FERRARY 1998; ALONSO-NÚÑEZ 2000, 3 e ID. 2002; ASHERI 2003 e MUCCIOLI 2005. 12 Polyb. 1, 2, 1-7 e Dion. Hal. ant. 1, 2-3. Cfr. WEISSENBERGER 2002, 262-281 e GABBA 2003, 74-75. 13 La mano pare quella di uno storiografo: concettualmente molto affine è, ad esempio, la sezione iniziale del de Catilinae coniuratione di Sallustio, dove si legge sia dell’originaria onestà e moderazione, sia del cambiamento introdotto dai re conquistatori (cfr. Sall. Catil. 2, su cui RAMBAUD 1948, 180-186, EARL 1972, 843 e LÜHR 1980, 133-154). Non lontano anche Liv. 28, 21, 9: insigne spectaculum exercitui praebuere documentumque quantum cupiditas imperii malum inter mortales esset. Più

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Principio rerum gentium nationumque imperium penes reges erat, quos ad fastigium huius maiestatis non ambitio popularis, sed spectata inter bonos moderatio provehebat. Populus nullis legibus tenebatur, arbitria principum pro legibus erant. Fines imperii tueri magis quam proferre mos erat; intra suam cuique patriam regna finiebantur. Primus omnium Ninus, rex Assyriorum, veterem et quasi avitum gentibus morem nova imperii cupiditate mutavit. Hic primus intulit bella finitimis et rudes adhuc ad resistendum populos terminos usque Libyae perdomuit. (1, 1, 1-5) In origine, il potere su cose, popoli e nazioni era nelle mani dei re, che giungevano a questo sommo grado di autorità non ricercando il favore del popolo, ma per la loro moderazione, riconosciuta tra gli uomini onesti. Il popolo non era regolato da alcuna legge, il volere dei capi fungeva da legge. Era costume difendere piuttosto che allargare i confini del proprio stato; ciascuno delimitava la sovranità entro i confini della propria patria. Primo fra tutti Nino, re degli Assiri, per un’inaudita brama di potere, mutò questa consuetudine antica e ormai quasi avita per i popoli. Egli per primo mosse guerra ai confinanti e soggiogò fino ai confini della Libia i popoli che non erano ancora capaci di difendersi.

L’incipit tratteggia un tempo antico caratterizzato da pace e stabilità politica, un mondo privo di leggi, ma regolato efficacemente grazie all’arbitrium di re illuminati. A mutare la situazione fu Nino che, mosso da una nova imperii cupiditas, decise di ampliare il suo regno con un’inusitata politica estera di stampo aggressivo14 . Ha così inizio la storia e, di conseguenza, l’avvicendamento delle potenze: Assiri, Medi, Persiani e Macedoni sono gli imperi che nel corso della storia si sono di recente LEVENE 2010, 294 e 298-300 ha messo in evidenza la consonanza con l’apertura degli Annales di Tacito. Per la supposta influenza di Trogo su Tacito cfr. infra, p. 176 n. 40. 14 LENFANT 2004, 22-64 ha notato come la storia dell’impero assiro di Trogo, seppur compressa da Giustino in soli tre paragrafi, presenti notevoli affinità con quella che si legge in Diodoro (2, 1-28), un dato che potrebbe far pensare a una fonte comune. Contra, da ultimo, le perplessità espresse da Giuseppe Zecchini in MINEO 2016A, 153, a cui si può aggiungere che Trogo e Diodoro paiono avere una considerazione molto diversa di Nino: sovvertitore degli antichi costumi per il primo, sovrano memorabile per le sue imprese per il secondo (Diod. Sic. 2, 1, 5; concetto ribadito in 2, 3, 1). E ancora, se Diodoro liquida i sovrani precedenti in quanto di loro non si ricorda né impresa insigne, né nome (Diod. Sic. 2, 1, 4: ὧν οὔτε πρᾶξις ἐπίσηµος οὔτε ὄνοµα µνηµονεύεται), all’opposto per Trogo il fatto stesso di aver protetto i confini pare un’azione delle più degne.

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susseguiti, una sequenza che si chiude con quello che, nella formulazione di Giustino, è un punto di forte ambiguità. Non è chiaro, infatti, a chi Trogo attribuisca l’ultima posizione, la quinta,15 in quanto nel montaggio dell’Epitoma non si capisce se a chiudere la serie delle dominazioni sia la non meglio chiarita accoppiata tra Roma e i Parti, dei quali nel libro XLI si legge che, quasi per una spartizione del mondo, ora reggono l’Oriente (41, 1, 1), oppure semplicemente Roma, che nel XLIII libro viene definita capitale del mondo intero (43, 1, 2)16. In questo secondo caso, la successione degli imperi di Trogo verrebbe ad allinearsi con quella contenuta nel misterioso frammento di Aemilius Sura17. 15

Sulla quinta posizione gravava peraltro l’ombra di una profezia contenuta nel Libro di Daniele (2, 1-45), dove il profeta viene chiamato a interpretare un sogno del re Nabucodonosor, in cui una statua formata da metalli differenti (il capo d’oro puro, il petto e le braccia d’argento, il ventre e le cosce di bronzo, le gambe di ferro e i piedi di ferro mescolato ad argilla) viene distrutta da un masso caduto dal cielo. Nell’interpretazione di Daniele i quattro metalli di cui sono composte le diverse parti della statua simboleggerebbero ciascuno un regno successivo, mentre il masso sarebbe il vero Dio; alla distruzione della statua seguirebbe dunque l’instaurarsi del regno di Dio, destinato a durare in eterno. Giuseppe Flavio (AJ 10, 11, 7) testimonia come questa profezia fu aggiornata e adattata alle dominazioni di volta in volta emergenti. Per una sintesi dei numerosi problemi critici del Libro di Daniele cfr. MAZZA 1996, 338-339 con ulteriore bibliografia; utili anche cfr. SWAIN 1940, 10-12; MENDELS 1981; MOMIGLIANO 1984 e TROIANI 2003. 16 I due passi verranno citati per esteso e discussi nei dettagli infra, pp. 186 ss. e 197 ss. 17 Vell. 1, 6, 6 contiene un frammento, probabilmente una glossa (cfr. MOMMSEN 1861, 282-287, il quale a sua volta riprende una congettura dell’umanista Delbenius), che presenta la medesima successione degli imperi dell’Epitoma di Giustino e la attribuisce ad un’opera intitolata De annis populi Romani scritta da un non altrimenti noto Aemilius Sura (Aemilius Sura de annis populi Romani: Assyrii principes omnium gentium rerum potiti sunt, deinde Medi, postea Persae, deinde Macedones; exinde duobus regibus Philippo et Antiocho, qui a Macedonibus oriundi erant, haud multo post Carthaginem subactam deuictis, summa imperii ad populum Romanum peruenit. Inter hoc tempus et initium regis Nini Assyriorum, qui princeps rerum potitus, intersunt anni MDCCCCXCV). Il fatto che l’inizio dell’impero universale romano sia collocato con estrema precisione nel momento della sconfitta di Filippo V di Macedonia e di Antioco III di Siria ha indotto a supporre che questo Sura sia stato testimone oculare delle vittorie dei Romani su Siria e Macedonia, quindi da collocarsi nel II sec. a.C. (MOMIGLIANO 1984, 88). Per una messa a punto delle questioni relative al nome e alla cronologia del personaggio, insieme con l’interpretazione del frammento cfr. ALONSONÚÑEZ 1989 e MAZZA 1996, 323-330. Per MAZZARINO 1966A, 490-491 (che riprende un’ipotesi di A. Reifferscheid), seguito poi da COTTA RAMOSINO 2005, 946 ss. il testo

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Per trovare una risposta a questo fondamentale interrogativo si dovrà andare alla ricerca dei fils rouges storiografici sottesi all’Epitoma, percorrendo i quali a partire dall’incipit sarà possibile ricostruire quale sia il meccanismo che, secondo Trogo, regola la successione degli imperi. 10.2.

Il senso del divenire storico di Pompeo Trogo

Come abbiamo letto, le Historiae Philippicae si aprono con la fine di un irenico tempo antico, causata dalla nova cupiditas imperii di Nino. Per Trogo la storia dell’uomo si sviluppa quindi come allontanamento da una condizione primigenia particolarmente felice, una concezione che trova ulteriore conferma nella lunga digressione etnografica sugli Sciti, in cui è proprio la vicinanza allo stato naturale a suscitare l’ammirazione dello storico: iustitia gentis ingeniis culta, non legibus. Nullum scelus apud eos furto gravius: quippe sine tecti munimento pecora et armenta habentibus quid inter silvas superesset, si furari liceret? Aurum et argentum non perinde ac reliqui mortales adpetunt. [...] Haec continentia illis morum quoque iustitiam edidit, nihil alienum concupiscentibus; quippe ibidem divitiarum cupido est, ubi et usus. Atque utinam reliquis mortalibus similis moderatio abstinentiaque alieni foret; profecto non tantum bellorum per omnia saecula terris omnibus continuaretur, neque plus hominum ferrum et arma quam naturalis fatorum condicio raperet, prorsus ut admirabile videatur, hoc illis naturam dare, quod Graeci longa sapientium doctrina praeceptisque philosophorum consequi nequeunt, cultosque mores incultae barbariae conlatione superari. Tanto plus in illis proficit vitiorum ignoratio quam in his cognitio virtutis. (2, 2, 5-15) La giustizia è osservata per inclinazione naturale del popolo, non sulla base di leggi. Presso di loro non vi è alcun reato più grave del furto: poiché tengono greggi e armenti senza la difesa di una struttura chiusa, che cosa resterebbe loro in mezzo di Velleio andrebbe corretto e il personaggio identificato con Mamilio Sura, autore di agricoltura e botanica (citato da Plin. nat. 18, 143 e presente negli indici del primo libro della Naturalis Historia), tematiche a cui, come abbiamo visto, anche Trogo era interessato (cfr. MAZZARINO 1966A, 490-491: Pompeo Trogo, naturalista e storico «sarebbe un buon pendant a Sura, agronomo e storico, comunque “enciclopedico”»). Tale identificazione, tuttavia, non ha incontrato il favore della critica, come ricorda MUCCIOLI 2005, 197 n. 39.

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alle foreste, se fosse lecito rubare? Non desiderano l’oro e l’argento come gli altri esseri umani. Questa sobrietà di costumi ha generato in loro anche la giustizia, dato che non bramano alcuna cosa altrui: senza dubbio la smania di ricchezze esiste solo là dove ve ne sia anche l’uso. E sarebbe bello se gli altri uomini avessero simile morigeratezza e disinteresse per i beni degli altri: di certo non si porterebbero avanti tante guerre in ogni tempo e per ogni paese né spade e armi rapirebbero più uomini del naturale succedersi dei fati. E pare davvero ammirabile che la natura dia loro ciò che i Greci non riescono ad ottenere con la lunga dottrina dei sapienti e con gli insegnamenti dei filosofi, e che i costumi raffinati siano superati nel confronto con l’incolta barbarie. L’ignoranza dei vizi ha giovato agli Sciti ben più che ai Greci la conoscenza della virtù.

Come già avveniva nell’incipit, anche qui torna ad essere posto l’accento sull’assenza di leggi: esse sono totalmente inutili in presenza di altri fattori, quali l’arbitrium di sovrani illuminati oppure, come in questo caso, l’ingenium naturale, perfettamente in grado di coltivare la giustizia anche in assenza di norme18. In questo senso, proprio come aver teorizzato la virtù non serve a nulla, se non la si mette in pratica, anche l’essere organizzati secondo il più raffinato sistema normativo può risultare assolutamente irrilevante. Lo troviamo affermato apertamente a commento dell’episodio in cui gli Ateniesi difesero i Focei seppur questi avessero profanato il santuario di Delfi: tantum facinus admisisse ingenia omni doctrina exculta, pulcherrimis legibus institutisque formata, ut quid posthac suscenseri iure barbaris possit non haberent19. Quegli ingegni, perfezionati in ogni dottrina, educati dalle più belle leggi ed istituzioni, commisero un misfatto tanto grave da non avere, da allora in poi, alcun diritto per potersi sdegnare contro i barbari.

Ad Atene, infatti, molto più onesti erano quei tempi antichi in cui la città non aveva leggi poiché, ancora una volta, bastava il volere dei

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Sul contrasto tra natura e doctrina nel pensiero di Trogo si veda l’ottima analisi di MALASPINA 1976, 143 ss. Per questa visione utopistica di una società capace di regolarsi senza particolari strutture sociali cfr. GABBA 1981, 58-60. 19 Iust. 8, 2, 12, su cui mi permetto di rinviare a BORGNA 2012, 8.

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sovrani (quia libido regum pro legibus habebatur) 20 : allora si succedettero re leggendari, una serie culminata in Codro, che addirittura sacrificò la sua vita per la salvezza della patria, un eroismo che la città decise di fissare per sempre nella memoria collettiva stabilendo di non aver altro re dopo di lui (2, 6, 16 - 7, 1). Una volta che l’uomo si sia allontanato dalla felice condizione primigenia, l’efficacia dell’azione di governo e la saldezza dello stato per Trogo sono quindi legate alla figura del governante: leggiamo infatti che Pitagora, pur avendo speso tempo nello studio delle legislazioni di Creta e Sparta, riuscì a riportare alla frugalità i crotoniati non con una serie di disposizioni, ma con la sua autorevolezza e il suo costante spendersi in prima persona (20, 4, 4-18). Ancor più interessante è l’accento posto in maniera esplicita sul potere del buon esempio che commenta l’attività normativa di Licurgo: (Lycurgus) non habentibus Spartanis leges instituit, non inventione earum magis, quam exemplo clarior: siquidem nihil lege ulla in alios sanxit, cuius non ipse primus in se documentum daret. (3, 2, 7) Licurgo stabilì le leggi per gli Spartani, che non le avevano, ma non fu più famoso per la formulazione di quelle di quanto lo fu per il suo esempio, giacché non impose per legge agli altri nulla di ciò che lui stesso, per primo, non desse personalmente l’esempio.

Iniziamo quindi a notare come Trogo paia guardare con favore al governo del singolo, un dato che sarà utile anche a proposito del suo porsi rispetto al principato21. Quali sono, però, le qualità ideali che questo 20

Iust. 2, 7, 3 L’uso del termine libido in Trogo, se riferito al potere, non ha valenza negativa, ma è nuovamente un sinonimo di arbitrium, connotato però in senso più autoritario; cfr. Iust. 8, 5, 7: reversus in regnum, ut pecora pastores nunc in hibernos, nunc in aestivos saltus traiciunt, sic ille populos et urbes, ut illi vel replenda vel derelinquenda quaeque loca videbantur, ad libidinem suam transfert. Cfr. ThlL s.v. libido col. 1330 rr. 55 ss. 21 Cfr. Iust. 21, 1, 1-2: extincto ... tyranno in locum eius milites maximum natu ex filiis eius ... suffecere ... quod firmius futurum esse regnum, si penes unum remansisset, quam si portionibus inter plures filios divideretur, arbitrantur. In 38, 2, 8 i Cappadoci rifiutano il munus libertatis, affermando di non poter stare senza un sovrano:

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uomo solo al comando deve possedere? Ritornando all’incipit leggiamo che i re del buon tempo antico salivano al potere per spectata inter bonos moderatio, una dote che anche in seguito viene di frequente posta alla base di un regno bene ordinato e che si fa spesso garante di una successione pacifica. Si ripensi, ad esempio, alla disfida per il regno di Persia, dove i pretendenti proprio per moderatio accettano il verdetto che Dario si è procurato con uno stratagemma 22 . Ugualmente interessante è 2, 10, 11, dove la contesa dinastica tra Ariamene e Serse si risolve pacificamente a favore di quest’ultimo (tanto moderatius tum fratres inter se maxima regna dividebant, quam nunc exigua patrimonia partiuntur), così come, nel IV libro, l’elogio di Anassilao di Sicilia, uomo cuius moderationis haud mediocrem fructum tulit, dato che alla sua morte i cittadini, in ossequio alla sua memoria, accettarono di essere temporaneamente governati dallo schiavo a cui era stata affidata la tutela dell’erede al trono ancora bambino23. Al polo opposto, invece, fin dall’inizio dei tempi si colloca quella imperii cupiditas con cui Nino aveva infranto il vetus et quasi avitus gentibus mos. Tutto il testo è infatti coerente non solo nel presentare sotto una luce negativa ogni forma di brama di potere, ma anche nell’indicarla come principale fattore di rovina politica. Un primo chiaro esempio può essere reperito nel libro VI: gli Spartani, non contenti di quanto conquistato in seguito alla Guerra del Peloponneso, ambiscono al possesso dell’Asia intera: Lacedaemonii, more ingenii humani quo plura habent eo ampliora cupientes, non contenti accessione Atheniensium opum vires sibi duplicatas totius Asiae imperium adfectare coeperunt. (6, 1, 1)

Cappadoces munus libertatis abnuentes negant vivere gentem sine rege posse, passo oggetto del commento di BALLESTEROS PASTOR 2013, 194, con ulteriore bibliografia. Sulla rilevanza di questa preferenza nel rapporto tra Trogo e la temperie augustea cfr. infra, pp. 200 ss. 22 Cfr. Iust. 1, 10, 9, citato per esteso supra, pp. 136 ss. 23 Iust. 4, 2, 4-5, citato per esteso supra, p. 66. Altri esempi ancora in 7, 2, 5; 7, 6, 16; 15, 1, 7-8; 23, 4, 1-2; 23, 4, 15; 32, 4, 12. Per il ricorrere del termine moderatio nei principali autori latini si vedano VIPARELLI SANTANGELO 1976 (Livio); MILITERNI DELLA MORTE 1980 (Cicerone); CHRISTES 1993 (Tacito).

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Gli Spartani, secondo il costume naturale dell’uomo che quanto più ha, tanto più desidera, non contenti di aver raddoppiato le proprie forze con l’acquisizione delle risorse ateniesi, presero ad aspirare al dominio dell’Asia intera.

La successiva serie di conflitti sorta da questa volontà di espansione si conclude però negativamente per gli Spartani, che nella battaglia di Cnido vengono annientati dalla flotta combinata persiano-ateniese, una sconfitta che pone fine alla loro egemonia: hoc initium Atheniensibus resumendae potentiae et Lacedaemoniis habendae finis fuit. Namque veluti cum imperio etiam virtutem perdidissent, contemni a finitimis coepere. (6, 4, 1-2) Questo per gli Ateniesi segnò l’inizio del recupero del potere e per gli Spartani la fine dell’egemonia. Infatti, come se insieme con il dominio avessero perduto pure il valore, iniziarono a essere disprezzati anche dalle popolazioni confinanti.

Anche il tiranno siciliano Dionigi, ritenendo la pace dannosa per il suo regno, si spinge sulla terraferma per allargare i propri confini (20, 1, 1), ma il risultato è disastroso e pungente il giudizio: nec multo post Dionysius, quem paulo ante non Sicilia, non Italia capiebat, adsiduis belli certaminibus victus fractusque insidiis ad postremum suorum interficitur. (20, 5, 14) Non molto tempo dopo Dionigi, che poco prima né la Sicilia, né l’Italia riuscivano a contenere, vinto e spezzato dai continui combattimenti, alla fine fu ucciso per il tradimento dei suoi.

Altrettanto fallimentari sono poi i tentativi espansionistici di Demetrio II di Siria, nuovamente chiosati con una nota sarcastica: dum aliena adfectat, ut adsolet fieri, propria amisit24. 24

Iust. 39, 1, 3, di cui si è già parlato supra, p. 76. Questa considerazione moraleggiante (cfr. Phaedr. 1, 4, 1: amittit merito proprium qui alienum adpetit) è generalmente considerata originale (cfr. FERRERO 1957, 134). Si oppone, però, CASTIGLIONI 1925, 11, secondo cui questi epifonemi sarebbero «opera personale del breviatore» in quanto, a suo dire, meno acuti di altri, una considerazione che non solo risente dello storico pregiudizio nei confronti di Giustino (cfr. supra, cap. 1.2), ma neppure tiene conto della profonda coerenza di questa massima con il pensiero storiografico trogiano.

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Si iniziano quindi a comprendere quali siano, a un livello più generale, i fattori che per Trogo determinano il tracollo di un regno. Il ruolo centrale, in negativo, è giocato dalla cupiditas imperii, una forza distruttiva che, se volta verso l’esterno, determina una sterile volontà espansionistica da cui uno stato è messo inutilmente in pericolo: le continue guerre finiscono per indebolire anche gli imperi più saldi, che non di rado finiscono per crollare anche per mano di avversari più deboli25. Di questo principio troviamo un’affermazione esplicita a proposito dei regni di Siria ed Egitto, che, adsiduis proeliis consumpti, finirono per diventare praedae Arabum genti, inbelli antea (39, 5, 5), e dei Battriani, che bellis fatigati ad postremum ab invalidioribus Parthis velut exsangues oppressi sunt (41, 6, 3). Altrettanto esiziali sono gli effetti della cupiditas quando, invece, si volge all’interno di un regno; in questo caso, essa è causa dell’altro elemento che per Trogo determina la dissoluzione di un impero, la discordia, un male i cui effetti non solo solo etici (in quanto causa di delitti, stragi ed empietà)26, ma anche e soprattutto politici. In questo ultimo senso, un ottimo esempio può essere rintracciato nel racconto delle rivalità tra le città greche: Graeciae civitates, dum imperare singulae cupiunt, imperium omnes perdiderunt. Quippe in mutuum exitium sine modo ruentes omnibus perire, quod singulae amitterent, non nisi oppressae senserunt. (8, 1, 1-2) Le città della Grecia, mentre ciascuna desiderava essere l’unica a dominare, tutte quante persero il potere. Poiché, mentre senza senso del limite si accanivano nella rovina reciproca, solo quando furono sottomesse capirono che quanto perdeva ciascuna, in realtà era perso per tutte.

25

Spesso anche una vittoria in battaglia si rivela foriera di pericoli, cfr. Iust. 13, 6, 1: Perdicca ... proelio victor nihil praemii praeter vulnera et pericula rettulit. 26 Cfr ad esempio Iust. 4, 3, 1-3: la discordia tra i Reggini conduce ad una strage efferata, oppure 16, 4, 6 - 5, 18 dove Clearco, dissensionem populi occasionem invadendae tyrannidis existimans, prende il potere e si abbandona a una lunga serie di scelleratezze (cfr. anche supra, pp. 115 ss.).

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Causa della rovina furono i loro contrasti, che, astutamente alimentati da Filippo27, condussero all’asservimento, un destino ancora una volta commentato con parole piuttosto amare: in alterius ope spem omnem posuisse orbis terrarum vindices, eoque discordia sua civilibusque bellis redactos, ut adulentur ultro sordidam paulo ante clientelae suae partem, et haec potissimum facere Thebanos Lacedaemoniosque, antea inter se imperii, nunc gratiae imperantis aemulos. (8, 4, 8-9) I difensori del mondo avevano posto ogni speranza nelle forze dell’altro e a causa della loro discordia e delle guerre civili si erano ridotti al punto di adulare spontaneamente quelli che poco prima rappresentavano la parte spregevole della loro clientela. Facevano questo soprattutto i Tebani e gli Spartani: in passato si erano contesi il dominio, ora il favore dei dominatori.

Non solo le poleis perdono la loro libertà a causa del continuo disaccordo, ma tale astio reciproco porta addirittura i Focei, seppur ingannati e depredati da Filippo, a trovare comunque motivo di consolazione nel fatto che i loro beni siano finiti nelle mani dei Macedoni e non in quelle delle (tanto detestate) città avversarie (8, 5, 6). Altre vittime illustri di questo male furono i Diadochi, come vedremo tra poco, così come Agatocle di Siracusa, che – commenta sarcasticamente il testo – sentendosi chiuso nei confini di un regno il cui solo possesso avrebbe dovuto rappresentare un risultato ben oltre le aspettative, decide di assalire l’Italia: da qui inizia il declino, come abbiamo già avuto modo di leggere28. Non diversamente, anche l’Oriente finisce per diventare possesso dei Romani proprio a causa della discordia tra i re consanguinei29. Per Pompeo Trogo la stabilità di un regno si basa quindi su concordia interna unita a una politica estera non sterilmente aggressiva. Se uno di 27

Iust. 8, 1, 3. Si ricorda l’abilità di Filippo nel fomentare i dissapori anche in 9, 8, 9. Iust. 23, 1, 2. Di questa vicenda e del trattamento che gli riserva Giustino abbiamo già parlato ampiamente supra, pp. 84 ss. 29 Iust. 40, 2, 5: paulatimque Oriens Romanorum discordia consanguineorum regum factus est. Già in 40, 1, 1 si sottolineava come il regno di Siria si fosse consumato a causa della continua discordia: mutuis fratrum odiis et mox filiis inimicitiis parentum succedentibus cum inexpiabili bello et reges et regnum Syriae consumptum esset. 28

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questi elementi (o entrambi), viene meno, il regno crolla e l’imperium passa ad altri. Si tratta di uno schema interpretativo piuttosto originale, in quanto la causa ultima del passaggio del potere era stata in precedenza attribuita a fattori differenti: il raffinarsi dei costumi, secondo il modello erodoteo30, oppure la ricerca del piacere, come si legge in un lungo frammento tratto dalla Vita di Archita di Aristosseno di Taranto31. In quest’ultimo caso a mettere in moto la translatio sarebbe la ricerca di quell’ἡδονή che deriva dal potere e dalle ricchezze, per impadronirsi delle quali gli uomini abbattono i più grandi imperi, proprio come fecero i Medi con gli Assiri e poi i Persiani con i Medi. Se questa visione dei mutamenti politici come determinati da cause edonistiche o economiche si combina, in altri autori (Sallustio in primis), con la teoria della cessazione del metus hostilis come ulteriore fattore di indebolimento32 , diversamente Pompeo Trogo, da naturalista, pare vedere la radice della translatio in quell’aspetto ferino dell’animo umano che spinge a volere sempre più di quanto si possiede e che porta ad un’irrazionale smania di dominio da cui si generano conflitti. Di conseguenza, è altamente probabile che siano suoi, e non di Giustino, tutti quei commenti pungenti che costantemente stigmatizzano la cupiditas imperii. 10.3.

Philippicae: le ragioni di una scelta

Fatte queste considerazioni, è possibile riaprire la questione del titolo dell’opera. Se, infatti, si analizza come il testo affronta la vicenda macedone, essa appare proprio come una delle più recenti e compiute 30

Hdt. 9, 122 su cui ALONSO-NÚÑEZ 2002, 19. Aristox. frg. 50 Wehrli, su cui si legga il fondamentale studio di ZECCHINI 1988 così come ALONSO-NÚÑEZ 2000, 13. 32 Il concetto di metus hostilis, che trova una delle sue massime teorizzazioni in Sallustio (soprattutto Iug. 41, 2 ss., ma anche Catil. 10 e hist. frg. 7, 11, 12, 16 Maurenbrecher), viene ricondotto per lo più a Posidonio, probabile fonte di Diod. Sic. 34/35, 33 (così già per KLINGNER 1928, 165 ss.), seppur non siano mancate altre proposte di derivazione quali Polibio (cfr. SCULLARD 1960, 59; NOVARA 1982, 628 ss.) o Platone (ALFONSI 1973, 383 ss.). ZECCHINI (1985, 196) non esclude che possa trattarsi di una teoria genuinamente romana. Sull’argomento si vedano anche BELLEN 1985 e LA PENNA 2008. 31

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realizzazioni del meccanismo di translatio determinato dalla cupiditas in entrambe le forme che abbiamo appena enucleato: aggressività verso l’esterno e discordia interna. 10.3.1. Filippo o Alessandro? Ereditato il regno dal padre, l’esordio al potere di Alessandro è positivo, soprattutto in virtù di un atteggiamento clemente, grazie al quale, dice il testo, riuscì ad accattivarsi la simpatia di molti, perfino degli Ateniesi (11, 3, 3). Al pari di Nino, però, Alessandro non seppe trattenersi entro i confini del suo dominio e quella campagna persiana, intrapresa come ultor della Grecia33, scatena la solita bramosia: avvistata l’Asia dalle navi, incredibili ardore mentis accensus, Alessandro divide tra gli amici tutto quel che possiede in Europa, quasi a sbarazzarsene in quanto – è la tracotante dichiarazione – a lui basterà quel che sta per conquistare (11, 5, 5). Come si è già detto, non di rado nel testo il male si diffonde biologicamente come germe: la medesima smania dilaga, infatti, anche tra i soldati che, improvvisamente dimentichi delle famiglie e di quanto hanno lasciato in patria, pensano solo alle ricchezze che li attendono (11, 5, 8-9). Prende di qui le mosse la degeneratio Alexandri, un declino che in Trogo è reso più marcato da una serie di elementi: in primo luogo i toni positivi con cui si parla di Dario, descritto come un sovrano degno e magnanimo e non secondo il più canonico modello del monarca orientale dedito al lusso e incapace di ardimento militare34. In secondo 33

Iust. 11, 5, 6-7: petens victoriam bello, quo totiens a Persis petitae Graeciae ultor electus sit. Sul retroterra ideologico della spedizione di Alessandro cfr. MUCCIOLI 2004, 113-114. 34 In Iust. 11, 6, 8 Dario accetta con fierezza la guerra che gli viene mossa, rifiutando ogni ricorso a sotterfugi (rex Persarum Darius fiducia virium nihil astu agere, adfirmans suis occulta consilia victoriae furtivae convenire), mentre in Curzio Rufo (3, 7, 1) cerca di approfittare di una presunta malattia di Alessandro. Prima della battaglia di Isso si aggira tra l’esercito per esortare personalmente ogni soldato (Iust. 11, 9, 8, un particolare che le altre fonti non riportano), un gesto che ripete anche nell’imminenza di Gaugamela (Iust. 11, 13, 6-7, con cui concorda Curt. 4, 13, 12, e 4, 14, 8-15). Nuovamente sconfitto, il Dario di Trogo vorrebbe morire insieme con i suoi (Iust. 11, 14, 3-6), ma è costretto a fuggire da quanti gli erano vicini, mentre per Curt. 4, 15, 32

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luogo, in conformità con quell’atteggiamento razionalizzante di cui abbiamo già parlato, Trogo è spesso l’unica fonte a guardare ad Alessandro con immutabile realismo, presentando invariabilmente in termini di Realpolitik eventi che, invece, altri autori offrono in modo più prudente; prima di Plutarco (peraltro più sfumato), vi è solo Trogo ad affermare che Alessandro avrebbe saputo della congiura che si andava architettando ai danni di Filippo35. Pari pragmatismo investe il responso di Ammone, di cui viene immediatamente svelato il retroscena politico: Alessandro aveva bisogno di una discendenza divina per liberarsi dalla potenziale accusa di illegittimità che gli derivava dai sospetti di adulterio che gravavano intorno ad Olimpiade. Ad Iovem deinde Hammonem pergit consulturus et de eventu futurorum et de origine sua. Namque mater eius Olympias confessa viro suo Philippo fuerat, Alexandrum non ex eo se, sed ex serpente ingentis magnitudinis concepisse. Denique Philippus ultimo prope vitae suae tempore filium suum non esse palam praedicaverat. Qua ex causa Olympiada velut stupri conpertam repudio dimiserat. Igitur Alexander cupiens originem divinitatis adquirere, simul et matrem infamia liberare, per praemissos subornat antistites, quid sibi responderi vellet. Ingredientem templum statim antistites ut Hammonis filium salutant. (11, 11, 2-7) è Dario stesso, pur dopo qualche esitazione, a decidere di fuggire. Ancora, se nell’Epitome egli si oppone fermamente a che venga distrutto il ponte in quanto – afferma esplicitamente – non vuole che la sua salvezza costi la vita a migliaia di alleati (Iust. 11, 14, 4: suadentibus deinde quibusdam, ut pons Cydni fluminis ad iter hostium inpediendum intercluderetur, non ita se saluti suae velle consultum ait, ut tot milia sociorum hosti obiciat; debere et aliis fugae viam patere, quae patuerit sibi), nuovamente meno eroico è in Curzio Rufo (4, 16, 8-9), dove, invece, tentenna sul da farsi: quo traiecto dubitavit an solveret pontem quippe hostem iam adfore nuntiabatur. Affidata la sua vendetta ad Alessandro, in quanto comune è la causa di tutti i re (Iust. 11, 15, 7-13: communemque omnium regum esse causam), muore porgendo idealmente la destra al rivale (particolari su cui concorderà Plut. Alex. 43). Per ulteriori approfondimenti si rimanda all’accurato commento di Waldemar Heckel IN YARDLEY ‒ HECKEL 1997, 114-180; sull’immagine di Dario nelle fonti antiche cfr. BRIANT 2003, 249-284. 35 Cfr. Iust. 9, 7, 1-8 (creditum est etiam inmissum ab Olympiade, matre Alexandri, fuisse, nec ipsum Alexandrum ignarum paternae caedis extitisset … his stimulis irarum utrique Pausaniam de inpunitate stupri sui querentem ad tantum facinus inpulisse creduntur) e Plut. Alex. 10, 6, secondo cui, in maniera più sfumata, ἔθιγε δέ τις καὶ Ἀλεξάνδρου διαβολή. Su questa complessa questione cfr. da ultimo LANDUCCI 2014, 238-241, con riepilogo della bibliografia precedente.

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Si diresse quindi da Giove Ammone per consultarlo sul futuro e sulla propria origine. Infatti, sua madre Olimpiade aveva confessato al marito Filippo di non aver concepito Alessandro da lui, bensì da un serpente di straordinaria grandezza. E così Filippo poco prima di morire andava dicendo apertamente che non era figlio suo. Per questo motivo aveva ripudiato Olimpiade, quasi l’avesse sorpresa ad essergli infedele. Pertanto Alessandro, volendo procurarsi un’origine divina e allo stesso tempo liberare la madre dal disonore, mandati avanti alcuni emissari, istruì i sacerdoti riguardo a cosa voleva che gli venisse risposto. Nel momento in cui entrò nel tempio, subito i sacerdoti lo salutarono come figlio di Ammone.

Particolarmente significativa è l’esplicita affermazione del fatto che i sacerdoti fossero stati precedentemente imbeccati, in quanto si tratta di una notizia di cui Trogo è l’unica fonte: altrove, invece, Alessandro si limita a ricevere la risposta desiderata36. Sempre rimanendo nell’ambito dei segnali divini, a proposito dello scioglimento del nodo di Gordio l’Epitoma si limita a registrare il comportamento arrogante del sovrano macedone, che violentius oraculo usus gladio loramenta caedit (11, 7, 16), mentre di nuovo più sfumate sono le altre fonti37. Di importanza ancora maggiore, data la sua consonanza con il senso del divenire storico di Trogo, è il racconto della morte del Macedone: se le fonti antiche si dibattono tra la versione della malattia fulminante e il

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Cfr. Arr. 3, 4, 5: ἀκούσας ὅσα αὐτῷ πρὸς θυµοῦ ἦν, ὡς ἔλεγεν, ἀνέζευξεν. Per Diod. Sic. 17, 51, 4 il sacerdote, all’approssimarsi di Alessandro lo saluta come ὦ παῖ, attribuendo il messaggio alla divinità (χαῖρε, εἶπεν, ὦ παῖ: καὶ ταύτην παρὰ τοῦ θεοῦ ἔχε τὴν πρόσρησιν); simile Curt. 4, 7, 25. Plutarco (Alex. 27, 8) riporta anche la versione, ricordata da ἔνιοι, secondo cui l’intera storia sarebbe semplicemente frutto di un’imperfetta conoscenza del greco da parte del sacerdote, che volendo rivolgersi ad Alessandro con affetto dicendogli in greco «o figlio» (‘ὦ παιδίον’), articolò per errore ‘ὧ παιδίος’ («o figlio di Zeus»), una svista di pronuncia che Alessandro si guardò bene dal correggere. 37 Arriano (2, 7-8) riporta due versioni, quella del taglio (un gesto giustificato dalla volontà di non turbare la folla, che si attendeva un compimento dell’oracolo) e quella (derivata da Aristobulo) secondo cui Alessandro avrebbe liberato il carro limitandosi a sfilare la caviglia del timone. Per Curzio Rufo (3, 1, 14-18) Alessandro si arrovellò a lungo prima di troncare la matassa, un atto con cui ‒ commenta lo storico ‒ o eluse o realizzò la predizione (sortem oraculi vel elusit vel implevit). Curzio, peraltro, concorda con Arriano nell’affermare che Alessandro alla fine si sarebbe deciso a recidere il nodo soprattutto per paura che la non risoluzione dell’oracolo deludesse gli astanti.

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rumor del veneficio, nell’Epitoma Alessandro muore indiscutibilmente per avvelenamento38. Accepto poculo media potione repente velut telo confixus ingemuit elatusque convivio semianimis tanto dolore cruciatus est, ut ferrum in remedia posceret tactumque hominum velut vulnera indolesceret. Amici causas morbi intemperiem ebrietatis disseminaverunt, re autem vera insidiae fuerunt, quarum infamiam successorum potentia oppressit. Auctor insidiarum Antipater fuit, qui cum carissimos amicos eius interfectos videret, Alexandrum Lyncestam, generum suum, occisum, se magnis rebus in Graecia gestis non tam gratum apud regem quam invidiosum esse, a matre quoque eius Olympiade variis se criminationibus vexatum. Huc accedebant ante paucos dies supplicia in praefectos devictarum nationum crudeliter habita. Ex quibus rebus se quoque a Macedonia non ad societatem militiae, sed ad poenam vocatum arbitrabatur. Igitur ad occupandum regem Cassandrum filium dato veneno subornat, qui cum fratribus Philippo et Iolla ministrare regi solebat, cuius veneni tanta vis fuit, ut non aere, non ferro, non testa contineretur, nec aliter ferri nisi in ungula equi potuerit; praemonito filio, ne alii quam Thessalo et fratribus crederet. Hac igitur causa apud Thessalum paratum repetitumque convivium est. Philippus et Iollas praegustare ac temperare potum regis soliti in aqua frigida venenum habuerunt, quam praegustatae iam potioni supermiserunt. (12, 13, 8-14, 8)

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Per Plutarco (Alex. 77) Alessandro sarebbe morto in conseguenza di una serie di attacchi febbrili: la voce dell’avvelenamento, diffusasi solo alcuni anni più tardi e in seguito ad una rivelazione fatta a Olimpiade, è ritenuta falsa dai più. Diodoro (17, 117118) menziona il veneficio come una variante presente in alcuni storici e ne dà conto senza attribuirle particolare credito. Anche Arriano (7, 27) ne parla per scrupolo di completezza, ma la bolla come una diceria non degna di fede; per Curzio Rufo (10, 10, 14-19 sezione in cui il testo è lacunoso) plerique credettero alla versione dell’assassinio di Alessandro, ma queste voci (e qui concorda con Trogo) qualunque credito avessero (utcumque sunt credita) vennero presto soffocate dalla potenza degli uomini coinvolti. Successivamente, la morte per avvelenamento sarà poi sostenuta nettamente dal Romanzo di Alessandro (cfr. Iul. Val. 3, 30-33), così come dal Liber de morte testamentoque Alexandri (cfr. Epit. Alex. 88-99). Degna di rilievo è soprattutto quest’ultima vicinanza in quanto se si segue la teoria critica secondo cui il Liber de morte deriverebbe da un’operetta greca composta durante i primi anni dei Diadochi e particolarmente favorevole a Tolemeo (cfr. HECKEL 1988, 23-26 e BOSWORTH 2000, 218 secondo cui, addirittura «we have, then, a general context for the propaganda and a probable author in Ptolemy»), la medesima propensione si trova anche in Trogo, come vedremo infra, pp. 183 ss. Per le tradizioni della morte di Alessandro cfr. le sintesi di BOSWORTH 1971; LANDUCCI 1984, 91-98; HECKEL 2007; PRANDI 2013, 202-204. Sulle complesse questioni esegetiche e di indagine delle fonti sul Romanzo di Alessandro e – soprattutto – sul Liber de morte testamentoque Alexandri si vedano almeno PFISTER 1946; MERKELBACH 1954; RUGGINI 1961; GEISSENDÖFER 1967; SEIBERT 1984; BAYNHAM 1996; FRANCO 1999; STONEMAN 2007; RAVAZZOLO 2012, 9-28.

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Presa una coppa, dopo averne bevuta metà, all’improvviso lanciò un gemito, come trafitto da una freccia, e portato via dal banchetto in uno stato di semi incoscienza fu preso da un dolore così intenso da invocare la spada come rimedio e, se qualcuno lo toccava, da sentire un male simile a quello di una ferita. Gli amici fecero correre la voce che la causa del malore fosse la sua smoderatezza nel bere, mentre in verità si trattò di un complotto, il cui disonore venne coperto dalla potenza dei successori. Artefice del complotto fu Antipatro, il quale vedeva che venivano assassinati i suoi più cari amici, che era trucidato il genero, Alessandro Lincesta, e che lui stesso, nonostante le grandi imprese compiute in Grecia, non era tanto gradito al re, ma piuttosto malvisto e anche vessato con varie calunnie dalla madre di questo, Olimpiade. Si aggiungevano i supplizi che, pochi giorni prima, erano stati inflitti crudelmente ai governatori dei popoli vinti. Da tutto ciò Antipatro dava per certo di essere stato chiamato dalla Macedonia non per prender parte alle operazioni militari, ma per subire la vendetta. Per prevenire dunque il re, istigò il figlio Cassandro (a cui aveva fornito il veleno), che insieme con i fratelli Filippo e Iolla era solito fare da coppiere al sovrano. Si trattava di un veleno tanto potente da non poter essere contenuto né nel bronzo, né nel ferro né nella terracotta; lo si poteva trasportare non altrimenti che dentro a uno zoccolo di cavallo. Ammonì poi il figlio, che non si fidasse di nessuno all’infuori del Tessalo e dei fratelli. Questo fu dunque il motivo per cui presso il Tessalo si allestì e si tenne nuovamente il banchetto. Filippo e Iolla, che erano soluti assaggiare e mescere le bevande del re, custodirono il veleno nell’acqua fredda che aggiunsero alla bevanda già assaggiata.

Commentando il passo, Santi Amantini e Heckel hanno ipotizzato che sarebbe stato Giustino a rendere più netto un dato che Pompeo Trogo avrebbe inserito con maggiore cautela, prendendo anch’egli in considerazione l’eventualità di un morbo fulminante39. Questa ipotesi di manipolazione è però ben diversa da quelle che di cui abbiamo parlato in 39

Cfr. SANTI AMANTINI 1981, 280; YARDLEY ‒ HECKEL 1997, 284-285 (successivamente ribadito in HECKEL 2007, 266). In modo particolare non persuade la spiegazione di Santi Amantini, secondo cui la prova della semplificazione da parte di Giustino sarebbe 14, 4, 12, dove Eumene, rifugiatosi presso gli Argiraspidi nel tentativo di sfuggire ad Antipatro, ma da costoro poi tradito, in una violentissima invettiva li accusò di essere in grado di compiere ogni male possibile, perfino uccidere Alessandro, se fosse stato possibile che quello cadesse per mano umana (si fas fuisset eum mortali manu cadere). Tale considerazione mi pare più l’apice di una climax retorica ascendente, che non prova del fatto che Pompeo Trogo prestasse maggior fede all’ipotesi di un malore. Inoltre, già CASTIGLIONI 1925, 20 aveva ipotizzato un intervento di Giustino, che avrebbe arricchito la tirata di Eumene proprio di questi tratti patetici («un solo vero discorso retorico vi è in tutta l’opera, quello di Eumene agli Agiraspidi, ed è tutto formato da elementi puramente emotivi: lo possiamo ritenere un rifacimento di Giustino»). Tale ipotesi, di recente sostenuta e ulteriormente sviluppata da BARTLETT 2014, 272-274, è poi perfettamente coerente con quella tecnica epitomatoria che abbiamo ricostruito supra, cap. V.

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precedenza, in quanto viene smentita dalla profonda coerenza interna del testo, un dato, che, abbiamo visto, Giustino considera scarsamente. Anche in seguito, e in più punti, si ribadisce infatti che Alessandro morì assassinato: cadde vinto insidiis suorum et fraude civili (12, 16, 12), i Macedoni si rallegrarono per la sua scomparsa come per quella di un nemico (13, 1, 7); in 13, 2, 1 si parla di occiso Alexandro e in 16, 2, 5 si legge che la tormentata casa di Cassandro finì per pagare il fio sia dell’uccisione di Alessandro sia dell’estinzione della sua famiglia (seu necis ipsius seu stirpis extinctae). Inoltre (e soprattutto), che un re degenerato abbia suscitato un odio tale da suscitare una cospirazione è perfettamente in linea tanto con il razionalismo, quanto con la costante attenzione verso gli effetti deleteri della imperii cupiditas che caratterizzano Trogo. Non è stata la sorte a uccidere Alessandro, ma, come spesso accade, la discordia da lui stesso suscitata con i suoi atteggiamenti dispotici. Anche il fatto che, successivamente, Tacito presenterà la morte del re macedone come dovuta suorum insidiis externas inter gentis, senza alcun riferimento alla possibilità di un malore, avvalora l’ipotesi che Tacito leggesse Trogo, un argomento da sempre oggetto di dibattito critico, e conferma come la versione della morte di Alessandro presente nelle Historiae Philippicae fosse semplicemente quella della congiura40. Non ha quindi fondamento la tesi secondo cui la centralità di Alessandro in Trogo sarebbe l’ennesima prova di antiromanesimo: anzi, il solido pragmatismo con cui il testo guarda al Macedone ha perfino indotto alcuni studiosi a definire ostili i toni che Trogo gli riserva41. 40

Cfr. Tac. Ann. 2, 73, 2, su cui si vedano LEVENE 2010, 304 e BARTLETT 2014, 261263. Per GOODYEAR 1992, 231 non c’è da stupirsi nel rinvenire in Tacito nessi di Trogo «a historian whose occasionally stringent and disenchanted tone might well have appealed to him». Che Tacito avesse letto la storia macedone in Trogo, lo confermerebbe anche l’affinità riscontrabile tra Iust. 13, 4, 10 e Tac. hist. 2, 75, passo oggetto di BORGNA ‒ COSTA 2016. 41 Per Heckel i tratti negativi dell’Alessandro di Trogo potrebbero derivare da alcune delle fonti principali, in modo particolare Clitarco o i suoi modelli: «Trogus’ Alexander is clearly more bloodthirsty than other found in other vulgate authors» (YARDLEY ‒ HECKEL 1997, 225). Secondo SORDI 2003, 78 la negatività del giudizio di Orosio nei confronti di Alessandro (cfr. soprattutto Oros. hist. 3, 7, 5; 3, 17, 7; 3, 18, 8-10 e 3, 20,

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Particolarmente interessante a tal proposito è la comparatio tra Alessandro e Filippo II che segue il racconto della morte di quest’ultimo: Decessit Philippus XL et septem annorum, cum annis XXV regnasset. Genuit ex Larissaea saltatrice filium Arridaeum, qui post Alexandrum regnavit. Habuit et multos alios filios ex variis matrimoniis regio more susceptos, qui partim fato, partim ferro periere. Fuit rex armorum quam conviviorum apparatibus studiosior, cui maximae opes erant instrumenta bellorum; divitiarum quaestu quam custodia sollertior. Itaque inter cotidianas rapinas semper inops erat. Misericordia in eo et perfidia pari iure dilectae. Nulla apud eum turpis ratio vincendi. Blandus pariter et insidiosus, adloquio qui plura promitteret quam praestaret; in seria et iocos artifex. Amicitias utilitate, non fide colebat. Gratiam fingere in odio, instruere inter concordantes odia, apud utrumque gratiam quaerere sollemnis illi consuetudo. Inter haec eloquentia et insignis oratio, acuminis et sollertiae plena, ut nec ornatui facilitas nec facilitati inventionum deesset ornatus. Huic Alexander filius successit et virtute et vitiis patre maior. Itaque vincendi ratio utrique diversa. Hic aperta, ille artibus bella tractabat. Deceptis ille gaudere hostibus, hic palam fusis. Prudentior ille consilio, hic animo magnificentior. Iram pater dissimulare, plerumque etiam vincere; hic ubi exarsisset, nec dilatio ultionis nec modus erat. Vini nimis uterque avidus, sed ebrietatis diversa vitia. Patri mos erat etiam de convivio in hostem procurrere, manum conserere, periculis se temere offerre; Alexander non in hostem, sed in suos saeviebat. Quam ob rem saepe Philippum vulneratum proelia remisere, hic amicorum interfector convivio frequenter excessit. Regnare ille cum amicis nolebat, hic in amicos regna exercebat. Amari pater malle, hic metui. Litterarum cultus utrique similis. Sollertiae pater maioris, hic fidei. Verbis atque oratione Philippus, hic rebus moderatior. Parcendi victis filio animus et promptior et honestior. Frugalitati pater, luxuriae filius magis deditus erat. Quibus artibus orbis imperii fundamenta pater iecit, operis totius gloriam filius consummavit42.

8) rifletterebbe quella di Trogo, che, a suo parere, Orosio doveva leggere in originale (su questa questione cfr. supra, p. 95 n.49). Recentemente PRANDI 2015, 9-13 ha definito il ritratto trogiano di Alessandro come costruito organicamente su tre elementi, tutti egualmente negativi: il terrore che incute, il contrasto con il padre e la crudeltà con cui tratta gli amici. 42 Iust. 9, 8. Nella letteratura antica sui Macedoni questo lungo epitaffio di Filippo che si trasforma in una vera e propria comparatio con il figlio è un unicum (cfr. WORTHINGTON 2010, 171), anche se la tecnica della contrapposizione tra i due ritratti ha chiare ascendenze sallustiane (cfr. soprattutto il confronto tra Cesare e Catone di Catil. 53, 6-54), come già mostrato da SEEL 1972, 498-499, n.5. Sul confronto FilippoAlessandro si veda, da ultimo, SQUILLACE 2015, con bibliografia aggiornata.

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Filippo morì a quarantasette anni, dopo aver regnato per venticinque. Da una danzatrice, Larissa, ebbe un figlio, Arrideo, che regnò dopo Alessandro. Da vari matrimoni, come è uso dei re, ebbe anche molti altri figli, che morirono in parte per cause naturali, in parte assassinati. Fu un sovrano più propenso ad allestire eserciti che banchetti, e l’armamentario bellico era per lui la massima risorsa. Quanto alle ricchezze, era più abile nel procacciarsele che non nel conservarle. E così, pur tra i bottini quotidiani, era sempre a corto di mezzi. Praticava in egual misura misericordia e perfidia. Nessun modo di ottenere la vittoria era per lui disonorevole. Parimenti cortese e insidioso, a parole prometteva più di quanto manteneva; era un maestro nello scherzare così come nel parlare sul serio. Coltivava le amicizie non per lealtà, ma secondo utilità. Era sua prassi consueta fingere benevolenza verso chi aveva in odio, seminare zizzania tra quanti andavano d’accordo e cercare poi di accattivarsi il favore di entrambi. Tra ciò possedeva eloquenza e un eloquio notevole e ricco di acume e ingegnosità, così che né all’ornato mancava la facilità né alla facilità d’invenzione mancava l’ornato. A lui succedette il figlio Alessandro, superiore al padre sia nella virtù, sia nei vizi. E così la condotta nella vittoria fu diversa dall’uno all’altro. Questo ricorreva alle guerre apertamente, quello con sotterfugi. Quello godeva nell’ingannare i nemici, questo nello sbaragliarli apertamente. Quello fu più saggio nelle decisioni, questo di animo più nobile. Il padre sapeva dissimulare l’ira, e nella maggior parte di casi anche vincerla; al contrario il figlio, una volta montato in collera, non era in grado né di rimandare né di moderare la vendetta. Furono entrambi eccessivamente dediti al vino, ma diversi erano gli effetti negativi dell’ubriachezza. Per il padre era abitudine anche dal banchetto correre contro il nemico, venire alle mani, esporsi ai pericoli in modo temerario; Alessandro diveniva crudele non contro il nemico, ma contro i suoi. Per questo motivo spesso i combattimenti restituirono un Filippo ferito, mentre non di rado Alessandro si alzò dal banchetto assassino degli amici. Il primo non voleva regnare insieme con gli amici, il secondo esercitava su di loro potere assoluto. Il padre preferì essere amato, il figlio temuto. Ebbero simile interesse per la letteratura. Il padre fu superiore in astuzia, il figlio in lealtà. Filippo fu più moderato nelle parole e nell’eloquio, il figlio nelle azioni. Nel risparmiare i vinti il figlio ebbe animo maggiormente pronto e onesto. Il padre era più dedito alla frugalità, il figlio al lusso. Con tali doti il padre gettò le fondamenta dell’impero universale, mentre il figlio diede compimento alla gloria dell’impresa tutta.

Secondo Ian Worthington Trogo, sottolineando che fu Filippo a gettare le basi dell’impero, rivelerebbe una maggior simpatia nei confronti di quest’ultimo, vero artefice di un regno che il figlio si limitò a completare43. Anche Luisa Prandi ha parlato di una certa “freddezza” nei confronti di Alessandro da parte di Trogo, a fronte di un favore più 43

Cfr. WORTHINGTON 2010, 168-174 («setting up a future worldwide empire was more important than completing that glorious enterprise» p. 174), una tesi ribadita anche in ID. 2014, 308-309.

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spiccato per Filippo II, che viene valutato ex post, mentre del figlio si fornisce questa descrizione ambigua prima ancora di iniziare il racconto delle sue imprese, quasi a voler orientare il giudizio del lettore44. Posto in questi termini di dualismo, è difficile capire verso chi andasse maggiormente la simpatia di Trogo in quanto, oltre a quest’ambigua affermazione circa la superiorità di Alessandro nel bene e nel male, sono molti i punti in cui anche di Filippo si sottolinea il carattere empio45 e pure la sua stessa morte viene posta come diretta conseguenza del gusto per il perverso che lo contraddistingueva46. Si aggiunga poi che, in realtà, questa enfatica opposizione è più frutto dell’intervento di Giustino che non di Trogo: è infatti il libro IX dell’Epitoma a concludersi con i ritratti contrapposti, suggellati dalla frase ad effetto sul carattere complementare dell’operato dei due47. Era così anche nel libro IX dell’originale? Pare di no, dato che dal prologo sappiamo che Trogo proseguiva ben oltre Filippo e passava alle vicende dell’impero persiano (dalla morte di Dario II all’inizio del regno di Artaserse Mnemone), aprendosi anche ad una digressione sulle origini di Cipro48. Tuttavia, non è solo questo dato a indicarci come Trogo non guardasse alla Macedonia in termini di opposizione tra padre e figlio: è soprattutto l’attenzione che rivolge ai successori, le cui vicende nell’economia dell’opera assumono un valore paradigmatico ancora più spiccato, a confermare come l’interesse di Trogo per la vicenda macedone avesse carattere ben più ampio.

44

Cfr. PRANDI 2015, 8-9, secondo cui perfino dietro l’elogio delle truppe di Alessandro (Iust. 11, 6, 4-6) si celerebbe un encomio di Filippo, il generale che aveva effettivamente scelto e formato quelle milizie. 45 Cfr., ad esempio, Iust. 8, 3, 13 e 15; 8, 6, 4-8. 46 Iust. 9, 6, 4-8: Pausania, l’assassino, cercava vendetta per un umiliante episodio di violenza sessuale di cui era stato vittima e per cui aveva chiesto invano giustizia a Filippo. 47 Di questa strutturazione del narrato da parte di Giustino si è già ampiamente parlato supra, p. 51. 48 Cfr. Prol. IX, citato per esteso supra, p. 49.

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10.3.2. I Diadochi Lontano da quella visione di eredi indegni della Grecia classica, elementi generatori di un’anarchia generale a cui solo la conquista romana riuscì a fungere da correttivo, per Trogo i Diadochi costituivano un gruppo di eccellenza assoluta49. Se già a proposito della battaglia presso il fiume Granico si affermava che i Persiani furono vinti non minus arte Alexandri quam virtute Macedonum (11, 6, 11), morto il sovrano a contendersi il regno restano un gruppo di fedelissimi che Trogo tiene in altia considerazione. Lo troviamo reso esplicito nel XIII libro: sed nec amici Alexandri frustra regnum spectabant. Nam eius virtutis ac venerationis erant, ut singulos reges putares; quippe ea formae pulchritudo et proceritas corporis et virium ac sapientiae magnitudo in omnibus fuit, ut qui eos ignoraret, non ex una gente, sed ex toto terrarum orbe electos iudicaret. Neque enim umquam ante Macedonia vel ulla gens alia tam clarorum virorum proventu floruit, quos primo Philippus, mox Alexander tanta cura legerat, ut non tam ad societatem belli quam in successionem regni electi viderentur. Quis igitur miretur talibus ministris orbem terrarum victum, cum exercitus Macedonum tot non ducibus, sed regibus regeretur? (13, 1, 10-14) Ma gli amici di Alessandro non ambivano al potere senza ragione. Infatti erano uomini di tale valore e ispiravano tanta riverenza che li avresti creduti altrettanti re, dato che furono tutti di sì bella presenza, alta statura, prestanza fisica e sapienza che chi non li conosceva li avrebbe giudicati uomini selezionati non da un solo popolo, ma da tutto il mondo. E in verità mai in precedenza né la Macedonia né alcuna altra gente si segnalò per l’aver cresciuto tanti uomini illustri, che Filippo prima e Alessandro poi avevano scelto con sì grande cura che sembravano essere stati selezionati non tanto come commilitoni quanto come eredi al trono. Chi dunque potrebbe meravigliarsi che grazie a tali aiutanti l’intero mondo fu sottomesso, da momento che l’esercito dei Macedoni non era guidato da generali, ma da tanti re?

Oltre a questo elogio, nuovamente sintomatico del favore con cui Trogo guarda alla figura regale (i reges sono infatti collocati ben più in alto dei duces), notevole apprezzamento emerge anche dai ritratti di ciascun diadoco: di Perdicca si sottolinea il connubio tra straordinaria forza 49

Si vedano, ad esempio, Plutarco (mor. 337a) o Elio Aristide (or. 14 K, 27), la cui raffigurazione negativa secondo OLIVIER 1953, 915 sarebbe una chiara risposta a Trogo.

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d’animo e singularis facundia (13, 4, 1), mentre un vero elenco di omina a preannunciare un ruolo carismatico è quello che compone i medaglioni dedicati a Lisimaco e Seleuco50. Il motivo della rising from obscurity, è invece incarnato da Tolemeo, che, pur di umili natali, grazie al suo valore diventò uno dei fedelissimi di Alessandro51. Siano essi nobili di nascita o per valore, o per entrambi (come Lisimaco), questo non modifica l’alta considerazione in cui Trogo tiene i Successori. L’instabilità dei loro regni, infatti, non viene mai imputata a una loro incapacità o a una discontinuità di mores, anche bellici, rispetto al passato52. Per qual motivo, dunque, uomini tanto grandi hanno frantumato l’impero di Alessandro? Trogo ha pochi dubbi: qui numquam sibi repperissent pares, si non inter se concurrissent, multosque Macedonia provincia Alexandros habuisset, nisi Fortuna eos aemulatione virtutis in perniciem mutuam armasset. (13, 1, 15) 50

Cfr. Iust. 15, 3 (Lisimaco) e 15, 4, 1-9 (Seleuco). In generale sui toni positivi dei ritratti dei Diadochi cfr. CRESCI MARRONE 1993B, 22, che ne sottolinea il carattere di novità; LANDUCCI 2015, 25; BORGNA ‒ COSTA 2016, 126-127, a cui si rimanda anche per un’analisi della figura di Tolemeo all’interno dell’Epitome. Su Perdicca cfr. YARDLEY ‒ WHEATLEY ‒ HECKEL 2011, 62-63, per Lisimaco cfr. LANDUCCI 1992, 1720 e YARDLEY ‒ WHEATLEY ‒ HECKEL 2011, 254-269. 51 Iust. 13, 4, 10: prima Ptolomeo Aegyptus et Africae Arabiaeque pars sorte venit, quem ex gregario milite Alexander virtutis causa provexerat. Questa notizia, spesso sospettata di essere uno dei tanti errori dell’Epitoma, in realtà potrebbe essere un relitto prezioso («appears to contain a kernel of truth» anche per YARDLEY ‒ WHEATLEY ‒ HECKEL 2011, 88). La paternità di Tolemeo è da sempre una questione spinosa: infatti, oltre alla ben nota tradizione secondo cui sarebbe figlio di Lago, uno dei luogotenenti di Filippo, esiste anche un secondo filone che lo vorrebbe nato dallo stesso Filippo II e quindi fratellastro di Alessandro (cfr. Curt. 9, 8, 22 e Paus. 1, 6, 2). A queste va poi aggiunta una terza variante, più tarda e con evidente natura propagandistica, in cui il problema dinastico viene drasticamente risolto con il ricorso alla discendenza da Ercole (come attestato da OGIS 54), un estremo tentativo di nobilitazione che non fa che confermare la presenza di qualche aspetto poco chiaro. Una prova ulteriore giunge anche da un aneddoto di Plutarco (mor. 458 a-b): per farsi beffe di un grammatico incompetente, Tolemeo gli chiede chi sia il padre di Peleo. “Risponderò” ‒ è la pungente replica del grammatico ‒ “solo dopo che Tolemeo avrà detto chi sia il padre di Lago”. Per un’approfondita rassegna sulla questione cfr. lo studio apposito di COLLINS 1997. Per la figura di Tolemeo nell’Epitoma mi permetto di rinviare a BORGNA ‒ COSTA 2016, 125-133. 52 Ad esempio in Iust. 12, 4, 5-7 si sottolinea la continuità nell’efficace reclutamento militare macedone tra Alessandro e i successori.

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E questi non avrebbero mai trovato loro pari se non fossero venuti a contrasto tra loro e la Macedonia, una provincia, avrebbe avuto più di un Alessandro, se la sorte non li avesse armati alla rovina reciproca per competizione nel valore.

Ancora una volta, quindi, seppur sorta da nobili motivi (la aemulatio virtutis), è la discordia a giocare il ruolo fondamentale nel processo di decadenza, una forza chiamata in causa direttamente, quando a commento delle ultime parole di Alessandro morente, che lascia il regno al dignissimus, si legge che egli in questo modo lanciò tra i suoi amici il malum Discordiae53. Ed è sempre a proposito dei Diadochi che Trogo si fa esplicito nel rivelare i motivi per cui ritiene che il governo di uno solo sia da preferire alle forme che prevedono, invece, una pluralità di attori: la parità alimenta la discordia (aequalitas discordiam augebat, 13, 2, 3), altrove definita adsiduum inter pares malum (16, 3, 1)54. Incapaci dunque di opporre moderatio a queste spinte centrifughe, i Diadochi iniziarono il solito processo di degrado. All’inizio ciò è evidente soprattutto da un punto di vista morale, come prova il cruento assassinio di Olimpiade, un episodio in cui – commenta il testo – i successori mostrarono di aver ormai dimenticato perfino il debito di riconoscenza che li legava alla stirpe di cui la donna era uno degli ultimi rappresentanti 55 . A lungo andare, tuttavia, le implicazioni di questa corruzione diventano in specie politiche: questi uomini, a cui non manca certo la virtus, sono però quasi tutti drammaticamente privi di 53

Iust. 12, 15, 11. Ha analizzato “the politics of distrust” imperante presso la casa macedone HECKEL (2002, 81-95), secondo cui questo clima di sfiducia reciproco sarebbe stato consapevolmente alimentato da Alessandro quando era ancora in vita, fatto di cui si troverebbe conferma anche nell’Epitoma, in modo particolare nelle parole con cui Alessandro preconizza la serie di lotte che seguiranno la sua morte (12, 15, 6): tum ipse ... illud scire vaticinarique se ac paene oculis videre dixit, quantum sit in hoc certamine sanguinis fusura Macedonia, quantis caedibus, quo cruore mortuo sibi parentatura. 54 Cfr. anche Iust. 11, 7, 10, in cui l’oracolo risponde che per comporre le discordie è necessario un re: consulentibus de fine discordiarum oracula responderunt regem discordiis opus esse. 55 Iust. 14, 6, 7-8: inmemores prorsus quod per filium eius virumque non solum vitam ipsi inter finitimos tutam habuissent, verum etiam tantas opes imperiumque orbis quaesissent. L’importanza della pacificazione dei confini torna anche in 41, 1, 6 a proposito dei Parti (passo di cui si parlerà infra, pp. 186 ss.).

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moderatio56 e, pur avendo sperimentato quanta forza possa sprigionarsi dalla concordia57, non sanno trarre da ciò un insegnamento politico. Di conseguenza il regno macedone inizia a disintegrarsi: sic Macedonia in duas partes discurrentibus ducibus in sua viscera armatur, ferrumque ab hostili bello in civilem sanguinem vertit, exemplo furentium manus ac membra sua ipsa caesura. Sed Ptolomeus in Aegypto sollerti industria magnas opes parabat. Quippe et Aegyptios insigni moderatione in favorem sui sollicitaverat et reges finitimos beneficiis obsequiisque devinxerat58. E così, poiché i generali si dividono in due fazioni, la Macedonia si arma contro le sue stesse viscere e da una guerra contro nemici esterni rivolge la spada contro il sangue dei suoi cittadini, per tagliarsi, come fanno i pazzi, le sue stesse mani e membra. Ma Tolemeo in Egitto con intelligente operosità preparava un grande regno. Infatti, con insigne moderazione si era accattivato il favore degli Egiziani e grazie a benefici e manifestazioni di rispetto aveva legato a sé i re confinanti.

Come si può notare, in questo drammatico panorama, spicca per contrasto Tolemeo: mentre gli altri reges continuano a combattersi reciprocamente, ciascuno alla ricerca di un ampliamento del proprio domi56

Iust. 15, 1, 1: Perdicca et fratre eius, Eumene ac Polyperconte ceterisque ducibus diversae partis occisis finitum certamen inter successores Alexandri Magni videbatur, cum repente inter ipsos victores nata discordia est. 57 Iust. 16, 2, 1: Ptolomeus, Seleucus et Lysimachus, experti priore certamine, quantae vires essent concordia, pacta societate adunatisque exercitibus bellum adversus Demetrium transferunt in Europam. 58 Iust. 13, 6, 18-19. La stessa immagine era già stata usata per descrivere la Grecia nel periodo della guerra del Peloponneso, 3, 2, 1: Graecia omnis ducibus Lacedaemoniis et Atheniensibus in duas divisa partes ab externis bellis velut in viscera sua arma convertit. YARDLEY 1997, una nota dedicata appositamente al paragone tra questi due luoghi, ritiene che essi siano di mano di Giustino, date le somiglianze con Lucan. 1, 3: in sua victrici conversum viscera dextra e Quint. decl. 321, 9, 1: huic necessitudini qui dare venenum potest non oculos effodiet suos, non manus in viscera sua armabit? In realtà, la fonte ultima sembra essere Verg. Aen. 6, 833: neu patriae validas in viscera vertite viris, identificato anche come modello di Lucano (cfr. GETTY 1940, 26; ROCHE 2009, 104-105), da cui si sarebbero generati gli usi successivi (infatti lo stesso YARDLEY 1997, 347 n. 3 nota come manus ... armare sia comune nella retorica antica, non solo latina ma anche greca). Credo, tuttavia, che in questo caso sia più probabile una paternità trogiana: l’immagine, seppur nota e consueta nella retorica, esprime però la plastica raffigurazione di un meccanismo che Trogo costantemente deplora.

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nio, lui solo va preparando un regno solido, non a caso sotto l’esplicita guida di quella moderatio (addirittura insignis) che caratterizzava i sovrani del buon tempo antico e che pare seguire anche nel rispetto mostrato per i sovrani confinanti59. 10.3.3. Dalla virtus alla concordia Se il trattamento che Giustino riserva al materiale di Trogo spesso ci impedisce di comprendere la cornice geo-cronologica in cui i singoli eventi venivano inseriti, così come il loro svolgimento nei dettagli politici e militari, nondimeno resta possibile rintracciare almeno i Leitmotive del pensiero storiografico su cui le Historiae Philippicae dovevano poggiare. In questo senso è soprattutto la vicenda macedone a offrirci, coerente ed articolato, il senso del divenire storico di Trogo, alla cui base non vi è tanto la canonica opposizione tra virtus e fortuna60, quanto piuttosto quella tra concordia e discordia. Così come Alessandro fu vittima non tanto del fato, quanto dell’odio da lui stesso suscitato, per i Diadochi la virtus è sì un importante motore di ascesa politica (come nel caso di Tolemeo, per cui il testo mostra indubbia simpatia), ma senza moderatio non basta a conservare un imperium. Emblematici sono quindi Seleuco e Lisimaco, che a più di settant’anni continuano a combattersi: non a caso torna qui, per l’unica volta, quel nesso imperii cupiditas che era stato posto a motore della storia.

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Un simile spirito di cautela caratterizza il Tolemeo di Trogo fino all’ultimo gesto del suo regno (Iust. 16, 2, 7-9), quando, avendo scelto come erede (contra ius gentium) il figlio minore, per garantirgli una successione legittima si pone tra i suoi satellites, continuando così a fungere da buon esempio e a garantire un clima di concordia assai raro nelle vicende dei Diadochi. 60 Cfr. CRESCI MARRONE 1993B, 25: «nell’esposizione trogiana non si scorge per Alessandro, come peraltro per altri popoli egemoni, un’impostazione al proposito netta e coerente; virtù e fortuna sembrano infatti cooperare nello svolgimento degli eventi e quindi la loro indifferenziata ed anodina attribuzione non consente di evincere alcuna preferenza politica o posizione polemica dello scrittore»; PRANDI 2015, 7 n.19: «per la verità nessun passo di Giustino appare veramente centrato o esplicito sullo spazio della fortuna o felicitas e della virtus di Alessandro». Sul tema cfr. anche MINEO 2016A, xlxli (= MINEO 2016B, 214-215).

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Itaque et ii, qui caedibus superfuerant, et ii, qui exercitibus praeerant, certatim ad Seleucum deficiunt eumque pronum iam ex aemulatione gloriae bellum Lysimacho inferre conpellunt. Ultimum hoc certamen conmilitonum Alexandri fuit et velut ad exemplum fortunae par reservatum. Lysimachus quattuor et LXX annos natus erat, Seleucus septem et LXX. Sed in hac aetate utrique animi iuveniles erant imperiique cupiditatem insatiabilem gerebant; quippe cum orbem terrarum duo soli tenerent, angustis sibi metis inclusi videbantur vitaeque finem non annorum spatio, sed imperii terminis metiebantur (17, 1, 7-12) E così, sia quelli che erano scampati alla strage, sia quelli che avevano il comando degli eserciti facevano a gara nel passare dalla parte di Seleuco e lo indussero a muovere guerra a Lisimaco, cosa a cui peraltro era già propenso per competizione di gloria. Questo fu l’ultimo scontro tra i commilitoni di Alessandro, una coppia di contendenti quasi tenuta in serbo a mo’ di emblema del destino. Lisimaco aveva settantaquattro anni, Seleuco settantasette. Eppure, anche a questa età erano entrambi giovani nell’animo e avevano addosso un’insaziabile smania di potere, giacché, pur possedendo tra due soli tutto il mondo, a loro pareva di essere richiusi in confini angusti e misuravano la lunghezza della vita non in numero di anni ma in estensione dell’impero.

Intesa in questo senso, la vicenda macedone ha sì un valore paradigmatico, ma che rispetto a Roma non pare affatto antagonista, bensì ammonitorio. Anche lo spazio riservato ad Alessandro non va interpretato in senso ostile: come si è già avuto modo di notare, il ritratto del sovrano macedone non assume mai connotati particolarmente encomiastici, né occupa un ruolo centrale in assoluto: “filippico” ad ampio raggio è invece l’interesse di Trogo. Si può quindi concludere come la centralità della vicenda macedone non sia tanto la rappresentazione plastica di una legge storica ineluttabile (e a cui è soggetta anche Roma), quanto piuttosto un perfetto caso-studio, non troppo lontano nel tempo e nello spazio, dei fattori che portano al crollo di un regno.

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10.4.

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Molti Parti, pochi Romani?

L’analisi condotta fino a qui ha mostrato come Pompeo Trogo leghi la stabilità di un impero al valore della concordia. Sappiamo che l’epoca di Augusto fu caratterizzata da un’insistita propaganda sulla pax. Possono queste due considerazioni essere indipendenti? A mio avviso no, e lo dimostreremo analizzando le ultime due presunte prove dell’ antiromanesimo di Pompeo Trogo: lo sguardo favorevole riservato ai Parti e l’assenza di Roma dal testo. 10.4.1. I Parti e Carre Parthi, penes quos velut divisione orbis cum Romanis facta nunc Orientis imperium est, Scytharum exules fuere. Hoc etiam ipsorum vocabulo manifestatur, nam Scythico sermone exules “parthi” dicuntur. Hi et Assyriorum et Medorum temporibus inter Orientis populos obscurissimi fuere. Postea quoque, cum imperium Orientis a Medis ad Persas translatum est, veluti vulgus sine nomine praeda victorum fuere. postremum 61 Macedonibus triumphato Oriente servierunt, ut cuivis mirum videatur ad tantam eos felicitatem per virtutem provectos ut imperent gentibus, sub quarum imperio veluti servile vulgus fuere. A Romanis quoque trinis bellis per maximos duces florentissimis temporibus lacessiti soli ex omnibus gentibus non pares solum, verum etiam victores fuere; quamquam plus gloriae est inter Assyria et Medica Persicaque memorata olim regna et opulentissimum illud mille urbium Bactrianum imperium emergere potuisse quam longinqua bella vicisse, praeterea cum gravibus Scythicis et vicinalibus bellis adsidue vexati variis periculorum certaminibus urgerentur62. I Parti, che, quasi per una spartizione del mondo con i Romani, ora hanno il dominio sull’Oriente, erano esuli degli Sciti. Questo è anche rivelato dal loro stesso nome, infatti in lingua scitica gli esuli sono detti “Parti”. Essi, al tempo sia degli Assiri sia dei Medi, erano i meno noti tra i popoli dell’Oriente. Anche in seguito, quando il dominio dell’Oriente passò dai Medi ai Persiani, rimasero preda dei vincitori come volgo senza nome. Alla fine, furono assoggettati ai Macedoni che avevano trionfato sull’Oriente: per questo motivo può sembrare straordinario a chiunque che essi, 61

postremum è mia congettura. π ι e γ hanno, infatti, postremo (Ruehl, Galdi, Arnaud-Lindet), mentre Seel segue postremum di τ. Dall’analisi del testo emerge però un massiccio uso di ad postremum, di cui si contano quaranta ricorrenze, rispetto alle sei di postremum da solo e alle quattro di postremo (si notino, solo in questo libro 41, 5, 7; 41, 6, 3; 41, 6, 6); mi pare pertanto plausibile postulare la caduta di ad, visto che poco prima c’è ad Persas e si può immaginare un errore colonnare. 62 Iust. 41, 1, 1-9. Per un’analisi dettagliata dei libri partici di Giustino cfr. LIEBMANNFRANKFORT 1969; LEROUGE 2009; BORGNA 2015A; MUCCIOLI 2016.

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grazie al loro valore, siano assurti a tanto successo da dominare quelle genti sotto il cui dominio furono quasi come schiavi. Assaltati anche dai Romani ai tempi del massimo splendore con tre guerre condotte dai generali più valorosi, soli tra tutti i popoli non furono soltanto loro pari, ma ne uscirono addirittura vincitori, seppur sia motivo di maggiore gloria l’essere riusciti ad emergere tra quei regni, un tempo tanto celebri, degli Assiri, dei Medi, dei Persiani, per non parlare di quel ricchissimo impero delle mille città dei Battriani, che non l’aver vinto guerre lontane, tanto più che, continuamente tormentati da dure guerre contro gli Sciti e i loro vicini, erano esposti ai rischi di varie lotte.

Questo passo è spesso stato annoverato tra le più significative prove dell’ostilità di Trogo per Roma, in quanto vi si legge un esplicito riconoscimento della potenza dei Parti, una considerazione che molti hanno ritenuto inammissibile dalla propaganda ufficiale 63 . In modo particolare l’affermazione Parthi, penes quos velut divisione orbis cum Romanis facta nunc Orientis imperium est è stata collegata alle parole con cui Alessandro rigetta l’offerta di pace di Dario, a dimostrare che Trogo postulerebbe come impossibile la coesistenza di due imperi universali: ad haec Alexander gratiarum actionem ab hoste supervacaneam esse respondit […] polliceturque praestaturum se ea Dario, si secundus sibi, non par haberi velit. Ceterum neque mundum posse duobus solibus regi, nec orbem summa duo regna salvo statu terrarum habere. (11, 12, 11-15) A queste parole Alessandro rispose che i ringraziamenti da parte di un nemico erano inutili […] e promise che avrebbe accordato a Dario quanto chiedeva a patto che questo accettasse di essergli considerato inferiore e non pari. Del resto, né il mondo poteva essere guidato da due soli, né la terra contenere senza pericolo due sommi regni.

Altrettanto polemica è stata considerata la menzione del fatto che i Parti, aggrediti tre volte dai Romani, soli tra tutti i popoli risultarono 63

«Esprimersi così riguardo ai Parti lo poteva soltanto uno scrittore non romano» rilevava CASTIGLIONI 1925, 12; ancora più severo LANA 1952, 203, secondo cui questa affermazione era inammissibile dal punto di vista della propaganda ufficiale. Anche per LIEBMANN-FRANKFORT 1969, 898, una tale constatazione «qui ne ménage pas la susceptibilité romaine» sarebbe difficilmente attribuibile ad un «historien inconditionnellement romanophile». Per una breve ricapitolazione della questione cfr. LEROUGE 2007, 119.

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non pares solum, verum etiam victores64. Se non si può negare che qui Trogo riconosca e forse ammiri la virtus militare dei Parti, qualità che li ha portati a dominare quei popoli cui erano in precedenza assoggettati come vulgus sine nomine65, va anche notato come Trogo non li presenti come invitti tout court: altrove, infatti, ne registra alcune sconfitte militari (36, 1, 4), né, come abbiamo già detto, Trogo lega la felicitas imperii al valore in armi66. Allo stesso modo, l’esplicita affermazione che per i Parti sia motivo di maggiore gloria l’essere riusciti a emergere tra regni tanto famosi e aver pacificato i confini, piuttosto che l’aver vinto bella longinqua, pare proprio alludere alle guerre contro i Romani, che vengono ridotte a episodi estemporanei, elementi di importanza inferiore rispetto all’aver stabilito una solida supremazia tra le popolazioni attigue67. In questo senso, anche la precisazione geografica nunc Orientis imperium est andrebbe inserita in un più vasto quadro di consapevolezza geopolitica da parte di Trogo, che da storiografo universale riserva al mondo uno sguardo più ampio rispetto al Romacentrismo che caratterizza molta della storiografia latina68. Tale visione, peraltro, non è un unicum delle Historiae Philippicae, ma si trova anche 64

«Certainly has an anti-Roman bias» secondo ALONSO-NÚÑEZ 1988-1989, 133. In precedenza, anche LANA 1952, 205 si era espresso per una simile interpretazione: «è chiaro, dunque, che i Parti sono destinati a raccogliere l’eredità dell’impero universale di Roma, perché essi soli hanno saputo vincere i Romani, anche se, per comprensibili motivi di prudenza, Trogo non lo afferma esplicitamente». 65 Il nesso è assolutamente inusuale, paralleli solo in Sil. 12, 317: coit et sine nomine vulgus e negli Argumenta Aeneidis, Decasticha: 10, 6: cadit et sine nomine vulgus. Ha sfumatura poetica, in quanto si tratta di una formula esametrica nell’ordine delle parole ed è presente, ad esempio, in Virgilio, cfr. Aen. 2, 558: sine nomine corpus; 6, 776: nunc sunt sine nomine terrae; 9, 343: multam in medio sine nomine plebem. 66 Cfr. supra, p. 168. 67 Per l’importanza di questo dato anche per i Macedoni, cfr. supra, p. 182 n.55. 68 Assai condivisibile MAZZARINO (1966A, 489), che rileva come le contraddizioni trogiane nel rapporto tra Roma e Parti siano tali «solo se si parta da un punto di vista esclusivamente romano, per esempio liviano. Da un punto di vista “universale”, queste incongruenze spariscono». Anche FORNARA 1983, 53 nota come la storiografia latina costituisca una categoria a sé stante in quanto: «the Romans wrote the history of their city and only incidentally that of the world». Non diversamente per MUCCIOLI 2016, 139 le posizioni che tendono ad accentuare l’ostilità di Trogo nei confronti di Roma sarebbero quantomeno «sopra le righe». Per la divisione del mondo in due sfere di influenza cfr. SONNABEND 1986, 209 ss. e TRAINA 2010A, 5, che rileva come solo dopo Carre si possa effettivamente parlare di due blocchi contrapposti divisi dal’Eufrate.

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in un autore non certo polemico come Strabone69 e pure Tacito metterà esplicitamente sullo stesso piano la vis Parthorum e la Romana potentia70. Si aggiunga che Trogo, in maniera perfettamente affine alla polemica alimentata da Ottaviano prima dello scontro con Antonio, vede nell’ Oriente uno spazio corrotto e corruttore, come mostra la considerazione moraleggiante a commento della spartizione delle città sottratte ad Antioco III: captas civitates inter socios divisere, muneri Romano aptiorem Asiam quam possessioni voluptariae iudicantes; quippe victoriae gloriam Romano nomini vindicandam, opum luxuriam sociis relinquendam. (31, 8, 9) I Romani spartirono tra gli alleati le città conquistate, ritenendo che l’Asia fosse più adatta ad essere un dono romano che non un possesso edonistico: certamente al nome romano doveva essere tributata la gloria della vittoria, ma la mollezza delle ricchezze andava lasciata agli alleati.

I maggiori spunti di riflessione provengono però dal trattamento che il testo riserva alla battaglia di Carre: Post haec bellum cum Romanis gessit (sc. Orodes) Crassumque imperatorem cum filio et omni exercitu Romano delevit. Huius filius Pacorus missus ad persequendas Romani belli reliquias magnis rebus in Syria gestis in Parthiam patri suspectus revocatur, quo absente exercitus Parthorum relictus in Syria a Cassio, quaestore Crassi, cum omnibus ducibus trucidatur. His ita gestis non magno post tempore Romanis inter Caesarem Pompeiumque civile bellum oritur […] et post belli finem rursum Pacoro duce inita cum Labieno societate Syriam et Asiam [sogg. Parthi] vastavere castraque Ventidi, qui post Cassium absente Pacoro exercitum Parthicum fuderat, magna mole adgrediuntur. Sed ille simulato timore diu continuit se et insultare Parthos aliquantisper passus est. Ad postremum in securos laetosque partem legionum emisit, quarum impetu fusi Parthi in diversa abiere. Pacorus cum fugientes suos abduxisse secum legiones Romanas putaret, castra Ventidi, veluti sine defensoribus, adgreditur. Tum 69

Strabo 11, 9, 2 (C515): καὶ νῦν (scil. οἱ Παρθυαῖοι) ἐπάρχουσι τοσαύτης γῆς καὶ τοσούτων ἐθνῶν ὥστε ἀντίπαλοι τοῖς Ῥωµαίοις τρόπον τινὰ γεγόνασι κατὰ µέγεθος τῆς ἀρχῆς. In merito cfr. TISÉ 2001, 129; per il rapporto tra Strabone e la storia partica cfr. ora DĄBROWA 2015, 1-19, con ulteriore bibliografia, per la rappresentazione dell’Imperium Romanum all’interno della Geografia, con particolare riferimento all’Armenia cfr. TRAINA 2017, 93-101. 70 Tac. ann. 2, 60, su cui si rimanda a PARATORE 1966, 543; NOÈ 1984, 131.

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Ventidius reliqua parte legionum emissa universam Parthorum manum cum rege ipso Pacoro interficit; nec ullo bello Parthi umquam maius vulnus acceperunt. Haec cum in Parthia nuntiata essent, Orodes, pater Pacori, qui paulo ante vastatam Syriam, occupatam Asiam a Parthis audierat victoremque Pacorum Romanorum gloriabatur, repente filii morte et exercitus clade audita ex dolore in furorem vertitur. Multis diebus non adloqui quemquam, non cibum sumere, non vocem mittere, ita ut etiam mutus factus videretur. Post multos deinde dies, ubi dolor vocem laxaverat, nihil aliud quam Pacorum vocabat; Pacorus illi videri, Pacorus audiri videbatur, cum illo loqui, cum illo consistere; interdum quasi amissum flebiliter dolebat. Post longum deinde luctum alia sollicitudo miserandum senem invadit, quem ex numero XXX filiorum in locum Pacori regem destinet. Multae paelices, ex quibus generata tanta iuventus erat, pro suis quaeque sollicitae animum senis obsidebant. Sed fatum Parthiae fecit, in qua iam quasi sollemne est reges parricidas haberi, ut sceleratissimus omnium, et ipse Phrahates nomine, rex statueretur. Itaque statim, quasi nollet mori, patrem interfecit; fratres quoque omnes XXX trucidat. (42, 4, 4 - 5, 1) Dopo queste vicende Orode combatté una guerra contro i Romani e annientò il generale Crasso insieme con il figlio e tutto l’esercito romano. Il figlio di Orode, Pacoro, mandato ad incalzare quanto rimaneva dell’esercito romano, pur avendo compiuto grandi azioni in Siria, fu richiamato in Partia perché divenuto sospetto al padre. Durante la sua assenza l’esercito dei Parti rimasto in Siria fu trucidato insieme con tutti i comandanti da Cassio, questore di Crasso. Non molto tempo dopo questi avvenimenti tra i Romani scoppiò la guerra civile tra Cesare e Pompeo […] e dopo la fine della guerra, di nuovo sotto il comando di Pacoro, stretta un’alleanza con Labieno, i Parti devastarono la Siria e l’Asia e attaccarono con notevoli forze l’accampamento di Ventidio, colui che dopo Cassio, durante l’assenza di Pacoro, aveva sconfitto l’esercito partico. Tuttavia Ventidio, simulando timore, si trattenne a lungo dentro l’accampamento e per un po’ di tempo tollerò che i Parti lo sbeffeggiassero. Alla fine scagliò una parte delle legioni contro i nemici, che se ne stavano senza sospetto e in allegria: i Parti furono sbaragliati dal loro attacco e fuggirono in diverse direzioni. Pacoro, credendo che i suoi nella fuga si fossero trascinati dietro le legioni romane, assalì l’accampamento di Ventidio pensando che fosse rimasto senza difesa. Allora Ventidio, fatto uscire il resto delle legioni, sterminò tutto l’esercito parto insieme con lo stesso re Pacoro: mai, in nessuna guerra, i Parti ricevettero un colpo più grave. Quando queste notizie furono annunciate in Partia, Orode, padre di Pacoro, che poco prima aveva sentito dire che i Parti avevano devastato la Siria e occupato l’Asia, e che si gloriava di Pacoro come vincitore dei Romani, udito inaspettatamente della morte del figlio e della strage dell’esercito, impazzì per il dolore. Per molti giorni non parlò ad alcuno né prese cibo né emise una sola sillaba, tanto che sembrava divenuto addirittura muto. In seguito, dopo molti giorni, quando il dolore gli ebbe sciolto la voce, non invocava nient’altro che il nome di Pacoro: gli sembrava di vedere Pacoro, di udire Pacoro, di parlare con lui, di stare insieme con lui, ma talvolta lo piangeva sommessamente come morto.

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Infine, dopo un lungo lutto, un’altra preoccupazione assalì l’infelice vecchio: quale tra i suoi trenta figli designare re al posto di Pacoro. Le numerose concubine, dalle quali era stata generata tanta gioventù, non davano requie all’animo del vecchio, ciascuna in ansia per i propri figli. Ma il destino della Partia, in cui ormai è quasi consueto avere re parricidi, fece in modo che diventasse sovrano il più perverso di tutti, anch’egli di nome Fraate. E così per prima cosa uccise il padre, quasi non si decidesse a morire; trucidò anche tutti i trenta fratelli.

Nella riduzione di Giustino, a Carre vengono dedicate pochissime parole, probabile riflesso di un atteggiamento simile in Trogo, data anche la grande notorietà dell’evento. Pur nella brevitas dell’episodio si nota comunque come tale sconfitta venga inserita in una cornice più ampia, all’interno della quale diviene un semplice episodio sfortunato, quasi subito riscattato dalle gesta di Cassio. In altre parole, a Carre non viene attribuito alcun valore escatologico, in quanto all’insuccesso di Crasso hanno fatto immediato seguito altre battaglie che i Romani hanno vinto con onore. Ciò emerge in modo chiaro dal racconto dell’astuzia bellica di Ventidio, a cui fa da contraltare la disperazione di Orode: proprio quando credeva di aver vinto Roma, il re parto subisce una sconfitta terribile in cui, oltre a gran parte dell’esercito, perde anche il figlio Pacoro, l’erede al trono. L’accurata descrizione del dolore inconsolabile del re riduce immediatamente la portata di quanto avvenuto in precedenza 71 : se il sovrano in carica ai tempi di Carre muore folle di disperazione a causa della disfatta inflittagli da mano romana, ciò dimostra, sostanzialmente, che, nel ben più complesso quadro dei rapporti tra Roma e i Parti, quelle tre sconfitte di cui si parlava all’inizio del libro XLI sono semplici incidenti di percorso che trovano pronta vendetta nelle imprese successive di altri comandanti, una deduzione resa peraltro esplicita dall’ammissione che mai, in nessuna guerra, i Parti ricevettero un colpo più grave di quello inferto loro da Ventidio72. Dunque, seppur con parole diverse, sembra proprio 71

Non si tratta in questo caso di un’amplificatio retorica di Giustino, in quanto la notizia trova conferma in Cassio Dione 49, 23, 3. 72 Tale commento conferma ulteriormente che nel 39 a.C. la morte di Pacoro dovette essere celebrata come l’autentica vendetta di Carre, così come è suggerito da Cassio Dione 49, 21, 2 (ripreso da Eutropio 7, 5), a cui si deve il particolare che essa avvenne nello stesso giorno in cui, quindici anni prima, era stato ucciso Crasso. Sulla questione

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che Trogo stia qui riprendendo l’antico topos dei Romani a volte sconfitti in battaglia, ma invitti in guerra, presente già in Lucilio73. Se si affronta la questione da questa prospettiva, allora la già citata risposta di Livio ai levissimi ex Graecis, che per odio verso Roma esaltano il nome dei Parti e celebrano l’invincibilità di Alessandro, diventa vicinissima a Trogo, non a lui opposta. Anche Livio, infatti, dice che è ben sciocco paragone quello tra le vicende di un singolo re, morto il quale il regno è miseramente crollato, e il popolo romano, che nei suoi ottocento anni di battaglie è stato guidato da comandanti tali e tanti che ciascuno di loro avrebbe potuto vincere o morire senza alcun danno per lo stato74. Inoltre, ritornando alla centralità del valore della concordia, si noti come questo elemento sia totalmente assente presso la reggia del vecchio Orode, che finisce vittima degli intrighi delle sue numerose concubine e, in ultimo, assassinato dal suo stesso figlio in una vera e propria strage di famiglia75. Difficile dunque credere che un regno dove sale al trono lo sceleratissimus omnium in quanto iam quasi sollemne est reges parricidas haberi venisse presentato come elemento sano in contrapposizione a una Roma sulla via della decadenza. In aggiunta, se si pensa ai vari inviti che molti intellettuali dell’epoca continuarono a rivolgere al princeps affinché riaprisse le ostilità verso Oriente, il testo di Trogo pare degno di ulteriore rilievo, in quanto particolarmente affine alla pubblicistica ufficiale, che nel tema dei Parthica signa recepta aveva creato il motivo del Parto supplice che spontaneamente si sottomette ad Augusto senza bisogno di un’ulteriore campagna militare76. Si pensi, ad esempio, a Ovidio, che, se nell’Ars del reale impatto su Roma della sconfitta di Carre cfr. PARATORE 1966, 533; TRAINA 2010A, 105 ss.; e mi permetto di rinviare anche a BORGNA 2015A, 104-106 e 2015B. Sul ruolo di Ventidio cfr. ROHR VIO 2009, 126-155. 73 Lucil. frg. 613-614 Marx ( = 683-684 Krenkel): ut Romanus populus victus vi et superatus proeliis / saepe est multis, bello vero numquam, in quo sunt omnia. Sulle sconfitte dei Romani si veda il saggio di TRAINA 2010B. 74 Liv. 9, 18, 6, citato per esteso supra, p. 35. 75 Confermata da Plut. Crass. 33; Dio.Cass. 49, 23, 3-5. 76 Tra i molti esempi possibili si vedano Hor. carm. 1, 2, 51-52; Prop. 3, 4, 7-10; 3, 5, 47-48. Sul complesso problema del rapporto tra la politica estera ufficiale e certe

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Amatoria prefigurava Gaio Cesare vincitore dei Parti e ultor di Carre, rovesciando così l’ortodossa celebrazione della vendetta pacifica e quindi potenzialmente denunciando l’assenza della vittoria in armi77, all’indomani della sua relegazione a Tomi si affretta ad allinearsi e a presentare il Parto come pronto alla sottomissione78. Nessuna formulazione ambigua, invece, si legge in Trogo, ma un lungo elogio dell’abilità diplomatica di Augusto: Caesar et legatione Phrahatis audita et Tiridatis postulatis cognitis (nam et ipse restitui in regnum desiderabat, iuris Romanorum futuram Parthiam adfirmans, si eius regnum muneris eorum fuisset) neque Tiridaten dediturum se Parthis dixit, neque adversus Parthos Tiridati auxilia daturum. Ne tamen per omnia nihil a Caesare obtentum videretur, et Phrahati filium sine pretio remisit et Tiridati, quoad manere apud Romanos vellet, opulentum sumptum praeberi iussit. Post haec, finito Hispaniensi bello, cum in Syriam ad conponendum Orientis statum venisset, metum Phrahati incussit, ne bellum Parthiae vellet inferre. Itaque tota Parthia captivi ex Crassiano sive Antoni exercitu recollecti signaque cum his militaria Augusto remissa. Sed et filii nepotesque Phrahatis obsides Augusto dati, posizioni degli intellettuali dell’epoca, insuperato LA PENNA 1963, 74 ss.; ora utile anche CRISTOFOLI 2008, 173-196. Recentemente TRAINA 2010A, 105 ss. ha messo in luce come la sconfitta di Carre fu elaborata all’interno di un processo rappresentativo che, soprattutto sotto Augusto, spostò progressivamente la responsabilità della disfatta sul solo Crasso, di cui si venne progressivamente a creare una “leggenda nera” di comandante incapace. Sul tema della rivalità Roma-Partia cfr. da ultimo anche OVERTOOM 2016. 77 Ov. ars 1, 177-201, versi che secondo BRACCESI 1976, 190-193, contribuirono all’esilio di Ovidio una volta venutagli a mancare la protezione di Gaio Cesare. Ugualmente trasgressivi per CRESCI MARRONE 1993A, 261-262, che li mette a confronto con il componimento, verosimilmente scritto per la medesima circostanza, di Antipatro di Tessalonica, che raffigura invece i Parti nell’ortodossa immagine della resa spontanea (Anth. Pal. 9, 297). Una posizione più moderata è quella di HOLLIS 1977, 7173 che, pur rilevando la possibile stranezza del passo («such language…may surprise us at this date, when lost standard of Carrhae were safely back in Rome, restored through negotiation, and the Roman and the Parthian realms had apparently settled down to a comfortable coexistence»), non lo ritiene potenzialmente ostile, bensì «a great propaganda exercise for an expedition that was never meant to do more than show the flag». Si vedano anche SYME 1978, 8-13, PIANEZZOLA 1991, 210-211 e LUTHER 2010, 103-115. 78 Ov. trist. 2, 227-228: nunc petit Armenius pacem, nunc porrigit arcus / Parthus eques timida captaque signa manu, su cui si vedano BRACCESI 1976, 194; CICCARELLI 2003, 169-170 (che nota l’enfasi posta sulla resa dei Parti, attuata tramite l’enjambement e la menzione del nome ritardata, ma in posizione incipitaria) e INGLEHEART 2010, 218-220 con ulteriore bibliografia.

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plusque Caesar magnitudine nominis sui fecit, quam armis facere alius imperator potuisset. (42, 5, 8-12) Cesare, udita sia la richiesta di Fraate, sia conosciute le istanze di Tiridate (infatti anche lui desiderava essere restaurato sul trono e affermava che la Partia sarebbe stata sotto la giurisdizione romana, se il regno fosse stato un loro dono) non disse che avrebbe consegnato Tiridate ai Parti, ma neppure che avrebbe fornito aiuti a Tiridate contro i Parti. Tuttavia, affinché non sembrasse che di tutte le richieste nulla era stato ottenuto presso Cesare, a Fraate restituì il figlio senza alcun riscatto e ordinò che Tiridate venisse fornito di una ricca provvigione per tutto il tempo in cui avesse voluto rimanere presso i Romani. Dopo questi avvenimenti, terminata la guerra ispanica, Cesare, giunto in Siria per riordinare la situazione in Oriente, fece temere a Fraate di voler attaccare la Partia. E così in tutta la Partia furono radunati i prigionieri dell’esercito di Crasso o di Antonio, e insieme con questi vennero riportate ad Augusto anche le insegne militari. Ma anche i figli e i nipoti di Fraate furono consegnati ad Augusto e Cesare con la grandezza del suo nome fece più di quanto un altro condottiero avrebbe potuto fare con le armi.

Chi ha voluto vedere in Trogo un antiromano ha liquidato questa evidentissima apologia di Augusto come di maniera79. In realtà, essa trova perfetta corrispondenza nel passo in cui Strabone, pur ammettendo il valore dei Parti, osserva come essi abbiano finito per restituire le insegne e mettersi nelle mani dei Romani, una coincidenza con Trogo evidente sia nel riconoscere la potenza partica come parziale contraltare di quella romana, sia nell’elogio del genio diplomatico di Augusto80. Né lontano pare Livio secondo cui il mondo è ormai sottomesso a Roma, tam bello quam amicitiis81.

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Cfr. FERRERO 1957, 145: «il riconoscimento del prestigio romano e l’acuta interpretazione dell’efficacia della diplomazia augustea è occasione per illuminare l’invincibilità militare della Partia». Per LANA 1952, 204, Trogo, non potendo tacere questo successo diplomatico, ne negherebbe il significato sminuendolo e riducendolo nel ristretto limite delle reciproche cortesie, una svalutazione a cui risponderebbe polemicamente Velleio 2, 94, 4: cuius rex quoque Parthorum tanti nominis fama territus, liberos suos ad Caesarem misit obsides (dove però il Caesar è già Tiberio). 80 Strabo 6, 4, 2 (C288): οἱ (scil. Παρθυαῖοι) δὲ νῦν µετίασιν ἐνθένδε πολλάκις τὸν βασιλεύσοντα, καὶ σχεδόν τι πλησίον εἰσὶ τοῦ ἐπὶ Ῥωµαίοις ποιῆσαι τὴν σύµπασαν ἐξουσίαν. In merito DĄBROWA 2015, 10 ss. con ulteriore bibliografia. 81 Liv. frg. 55 Weissenborn. Cfr. naturalmente R. Gest. div. Aug 32: ad me rex Parthorum Phrates Orodis filius filios suos nepotesque omnes misit in Italiam non bello

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Per concludere, ritorniamo a quell’affermazione con cui Alessandro postula l’impossibilità della coesistenza di due imperi universali e che è spesso stata interpretata come indicativa del sentire trogiano 82 : in primo luogo, essa – presente anche in Diodoro (17, 54, 5) e Plutarco (mor. 180b) – va commisurata alla topica del personaggio, come già correttamente sottolineato da Waldemar Heckel: «the words reflect Alexander views, not Trogus’ philosophy of world empire»83. Si aggiunga però un’ulteriore considerazione: Alessandro non respinge tout court le offerte di Dario, anzi, è disposto ad accettarle qualora questi gli si sottometta84. Dario rifiuta e la guerra procede. All’opposto i Parti non solo hanno restituito le insegne e i prigionieri, ma hanno pure consegnato i figli come ostaggi, quasi piegandosi a quell’aperta ammissione di inferiorità che, secoli prima, Alessandro aveva richiesto al re persiano per fermare il conflitto. In questo senso, ritornando ancora una volta alla chiusa del libro XLII, si noti come i Parti recedano perché impressionati dalla magnitudo del nome di Augusto, più che dalle armi, un particolare che deve essere messo in parallelo con quel terror che invece suscitava Alessandro, un elemento che Trogo connota sempre in modo negativo85. Di conseguenza, se nel testo il regno del Macedone è superatus, sed amicitiam nostram per liberorum suorum pignora petens, su cui CANALI 1973, 162, ora SCHEID 2007, 80-83 e COOLEY 2009, 254-255, con ulteriore bibliografia. 82 Iust. 11, 12, 15 citato per esteso supra, p. 187. 83 YARDLEY ‒ HECKEL 1997, 163. Sulla prospettiva ecumenica di Alessandro “re dell’Asia” cfr. MUCCIOLI 2004, 105-116. 84 Richiesta che, peraltro, Alessandro aveva già avanzato, cfr. Iust. 11, 12, 3-4: interiecto tempore aliae epistulae Darii Alexandro redduntur, quibus filiae matrimonium et regni portio offertur. Sed Alexander sua sibi Dari rescripsit iussitque supplicem venire, regni arbitria victori permittere. 85 Cfr. Iust. 11, 6, 15: non tam armis quam terrore nominis sui vicit, e soprattutto 12, 13, 2, a proposito delle ambascerie ecumeniche che giunsero a Babilonia da Alessandro nel 323: adeo universum terrarum orbem nominis eius terror invaserat. Nell’Epitome, infatti, quella che altrove è menzionata come una prestigiosa occasione di riconoscimento dei successi del giovane monarca, «viene posta sotto il segno esclusivo di una paura, si potrebbe dire, altrettanto ecumenica, da lui suscitata» rileva PRANDI 2015, 11-12. L’atmosfera fortemente impressionante che caratterizzava le udienze di Alessandro è menzionata anche da altre fonti: Efippo (FGrHist 126 F 5) ricorda le essenze che venivano fatte bruciare negli ambienti, mentre da Arriano (7, 23, 2) si sa che l’effetto finale di questi espedienti era la creazione di un contesto quasi sacro, volto a indurre quel timore reverenziale che si doveva ad una divinità. Diversa è l’Epitome,

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caratterizzato da un’atmosfera cupa e violenta, l’operato di Augusto rappresenta esattamente il polo opposto, luminoso e positivo. Trogo rispecchia così quell’antitesi tra conquista e governo su cui lo stesso princeps pare aver misurato la sua distanza dal sovrano macedone. Un aneddoto di Plutarco, infatti, racconta che Augusto reagì con stupore nell’apprendere che Alessandro a trentadue anni dichiarava di aver già ottenuto tutto quel che desiderava: come poteva essersi accontentato di impadronirsi del mondo e non di governarlo?86 10.5.

L’amor pacis e Roma

Se, come abbiamo visto, Trogo non lesina elogi ad Augusto, a cosa si deve l’etichetta di oppositore spesso attribuitagli dalla critica? Una delle ragioni risiede nel carattere sporadico e marginale di questi riferimenti: nel disegno universale di Pompeo Trogo, infatti, la storia romana più che una presenza è un’assenza illustre, al punto che Piero Treves definì le Historiae Philippicae una “storia senza Roma”87. Prima di addentrarci in considerazioni ulteriori, va tuttavia ricordato come questa lacuna sia stata certamente accentuata da Giustino, che, omettendo quasi tutti gli episodi della storia romana, ha contribuito ad aggravare uno squilibrio probabilmente meno evidente nel ben più ampio originale88. Ad ogni modo, per comprendere se questa mancanza abbia o meno un valore negativo, è utile partire da 43, 1, 1, incipit del libro che apre la sezione finale, dedicata all’Occidente, dove Giustino lascia spazio ad alcune importanti considerazioni di Trogo.

dove l’accento è costantemente posto sul puro terrore che Alessandro suscitava in quanti gli stavano intorno. Il sintagma terror nominis ritorna anche in Iust. 24, 4, 7 e 25, 2, 10 a proposito dei Galli e sempre in contesti in cui si vuole mettere in evidenza un carattere violento e crudele. 86 Plut. mor. 207d. 87 TREVES 1953, 44. 88 Cfr. supra, p. 48.

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Parthicis orientalibusque ac totius propemodum orbis rebus explicitis ad initia Romanae urbis Trogus veluti post longam peregrinationem domum revertitur, ingrati civis officium existimans, si, cum omnium gentium res gestas inlustraverit, de sola tantum patria taceat. Breviter igitur initia Romani imperii perstringit, ut nec modum propositi operis excedat nec utique originem urbis, quae est caput totius orbis, silentio praetermittat. (43, 1, 1-2) Dopo aver esposto le vicende dei Parti e dell’Oriente e di quasi tutto il mondo, Trogo, come rientrando a casa dopo un lungo viaggio, si volge agli inizi della città di Roma, ritenendo che sarebbe opera di un cittadino ingrato se, dopo aver illustrato le imprese di tutti i popoli, tacesse della sola patria. E così riassume in poche parole i primordi dell’impero Romano, in modo da non superare il limite prefissato per l’opera, senza però comunque passare sotto silenzio l’origine della città che è capitale del mondo intero.

Questo periodo, sia esso o no citazione testuale dell’originale, come molti hanno inteso89 , fornisce alcuni dati rilevanti: innanzitutto l’avverbio breviter segnala come nell’originale la parte dedicata alla storia romana dovesse essere limitata, ipotesi confermata anche dal prologo corrispettivo, secondo cui le res Romanae giungevano usque ad Priscum Tarquinium. In secondo luogo, Roma viene definita domus, patria, caput totius orbi e uno spazio nei cui confronti Trogo proverebbe un civis officium90. Si tratta di una semplice captatio benevolentiae da parte di Trogo, possiamo parlare di sincero lealismo o, diversamente ancora, si tratta di un intervento di Giustino? Il confronto con il resto dell’opera avalla la seconda ipotesi: molti, infatti, sono i luoghi già dei libri precedenti in cui compaiono Romani onesti, rispettosi dei mandata patriae e non facilmente corruttibili. Pirro invia a Roma ingenti doni, ma non trova nessuno che sia disposto ad

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SEEL (1956, 183) classifica interamente i §§ 1-2 come un frammento originale (Pomp. Trog. frg. 161 Seel), commentando «hic verba Trogi ipsius in oratione sciliet obliquam transposita, Iustinus simili modo atque in praefatione praebere videtur» (così anche CASTIGLIONI 1925, 4 e FERRERO 1957, 145). 90 L’accostamento di officium, una delle parole chiave del linguaggio politico, a una connotazione negativa è peraltro inedito. Dominanti, infatti, i riferimenti all’officium civis boni, come dimostrano le numerose attestazioni lungo i secoli: a titolo di esempio cfr. Cic. fam. 9, 16, 5; Quint. inst. 12, 11, 1; Sen. ben. 6, 37, 3; Apul. met. 3, 5.

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accettarli91; ai figli di Ariarate V di Cappadocia i Romani restituiscono un regno più ampio di quanto avesse loro lasciato il padre92. Ugualmente significativo è il brano del libro XXXIV dove Popilio, mandato ad intimare ad Antioco IV di tenersi lontano dall’Egitto, respinge il bacio che il seleucide gli offriva in ricordo dell’antica amicizia in quanto nessun rapporto privato può frapporsi ai doveri della patria93. Anche Scipione Africano è spesso al centro di episodi che ne mettono in evidenza l’altissima levatura morale e la costante attenzione per il dovere civico94. Non si tratta, però, di semplice lealismo: se si riconsiderano tutti i valori su cui Trogo fonda la saldezza di uno stato fin qui messi in evidenza, 91

Iust. 18, 2, 7: Cineas Romam cum ingentibus a Pyrro donis missus neminem, cuius domus muneribus pateret, invenit. A questo racconto, per contiguità tematica, segue immediatamente un altro aneddoto sulla temperanza romana (§8-9): huic continentiae Romanorum simile exemplum isdem ferme temporibus fuit. Nam missi a senatu Aegyptum legati cum ingentia sibi a Ptolomeo rege missa munera sprevissent, interiectis diebus ad cenam invitatis aureae coronae missae sunt, quas illi ominis causa receptas postera die statuis regis inposuerunt. Su questi episodi si vedano gli studi di SCHETTINO 2009, 173-184 e EAD. 2015. 92 Iust. 37, 1, 3: fidiorque populus Romanus in socii filios quam mater in liberos fuit; quippe hinc parvulis auctum regnum, inde vita adempta. 93 Iust. 34, 3, 1-2: mittitur itaque legatus Popilius ad Antiochum, qui abstinere illum Aegypto aut, si iam incessisset, excedere iuberet. Cum in Aegypto eum invenisset osculumque ei rex obtulisset (nam coluerat inter ceteros Popilium Antiochus, cum obses Romae esset), tunc Popilius facessere interim privatam amicitiam iubet, cum mandata patriae intercedant. Pronunciate queste parole, servendosi di un bastone Popilio traccia sul terreno un ampio cerchio intorno al sovrano e ai suoi consiglieri, ordinando loro di consultarsi lì circa la condotta da tenere con i Romani, una risolutezza che intimorisce Antioco e lo induce ad assicurare immediatamente obbedienza al Senato. Per un inquadramento storiografico dell’episodio cfr. MITTAG 2006, 214-222; ID. 2014; FACELLA 2016, 35-42 94 Cfr. Iust. 31, 7, 5-7: Scipione si oppone a che il figlio, prigioniero dei nemici, gli venga restituito senza riscatto: anche lui, al pari di Popilio, afferma che i diritti della patria devono essere anteposti non solo ai figli, ma alla stessa vita (sed Africanus privata beneficia a rebus publicis secreta dixit, aliaque esse patris officia, alia patriae iura, quae non liberis tantum, verum etiam vitae ipsi praeponantur). Ugualmente significativi sono 31, 8, 8 (Scipione rifiuta di incrudelire contro lo sconfitto Antioco III, in quanto Romanos neque, si vincantur, animis minui neque, si vincant, secundis rebus insolescere) e 38, 8, 8-11 dove l’eroe romano viene messo in paragone con il grottesco Tolemeo VIII, oscenamente obeso e abbigliato in maniera sconveniente, passo che è stato citato per esteso supra, pp. 88 ss.

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ne emerge, indiscutibile, la profonda coerenza con la temperie augustea. Anzitutto ben chiara è la vicinanza tra lo spiccato amor pacis che percorre il testo, inteso come rifiuto di ogni forma di guerra, anche espansionistica, e quella pax che Ottaviano pone tra i valori fondativi del suo stato95. Se nella Roma repubblicana era centrale il nesso bellumpax, dopo Azio questo viene progressivamente sostituito da un nuovo binomio, quello tra imperium e pax, come è reso esplicito nelle Res gestae 96 . Grazie al princeps la pace viene quindi a coincidere con l’ordine costituito e, al tempo stesso, se ne fa garante, essendo una condizione idealmente destinata a essere eterna e totale97: essa, infatti, non trova espressione solo all’interno dell’impero di Roma, ma si riverbera anche sulle altre popolazioni che spontaneamente si adeguano al nuovo corso e vi si sottomettono, proprio come presentato da Trogo98. Si aggiunga poi che la visione augustea di un’ecumenicità fondata non più sulla sola forza militare, ma anche sulla pace, determinò la nascita di una nuova consapevolezza geopolitica, quella di un mondo che comprendeva due poli: a Occidente Roma e a Oriente i Parti, seppur in 95

Sul valore della pax durante il regno di Augusto si vedano, tra i molti, FABBRINI 1974 (p. 433: «la tematica della pace di Augusto non è mera giustificazione ideologica di questo o quell’avvenimento, ma è programma politico centrale di tutta la sua opera, anzi, il suo unico vero programma e ben lo vedevano i contemporanei»), GRUEN 1985; CAMPBELL 1993, 227; NICOLET 1988, 79 ss.; ZANKER 1989, 79 ss.; 172 ss.; 215-ss; BRUNT 1990 96-109; 443-480; WOOLF 1993; MATTERN 1999, 172-188; CAMPBELL 2002, 122-132; RICH 2002. Sul diffuso e generalizzato desiderio di otium nella società romana tardo repubblicana e poi Augustea cfr. SYME 1939, 531; PANI 2013, 51-57 e mi permetto di rinviare anche a BORGNA 2016, 59-61. 96 R. Gest. div. Aug. 29: Ianum Quirinum, quem claussum esse maiores nostri voluerunt cum per totum imperium populi Romani terra marique esset parta victoriis pax, cum priusquam nascerer, a condita urbe bis omnino clausum fuisse prodatur memoriae, ter me principe senatus claudendum esse censuit, su cui si vedano almeno SCHEID 2007, 76-78 e COOLEY 2009, 241-245, con ulteriore bibliografia. 97 Cfr. LOPEZ 2002, 107: «l’imperium trova la sua ragion d’essere in una formidabile operazione di reductio ad unum e la pax Augusta disegna l’orizzonte ideale e culturale entro il quale agisce lo Stato imperiale romano, definendo una politica che sancisce la fine del vecchio, tradizionale espansionismo: l’orbis Romanus è ormai costituito; la pax non è più proiettabile verso l’esterno, ma agisce all’interno dell’orbis, segnala conquiste non più tracciabili per linee orizzontali». Cfr. anche FABBRINI 1974, 432-442; CRESCI MARRONE 1993A 225-280; BRIZZI 2005, 13. 98 Cfr. ROSE 2005: anche l’iconografia augustea raffigura i Parti come un popolo che contribuisce alla pax. Cfr. anche WIESEHÖFER 2010, con ulteriore bibliografia.

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una posizione leggermente subalterna. In questo senso, il prendere atto da parte di Trogo di una divisione del mondo in due sfere di influenza più che ostile a Roma pare, ancora una volta, ben coerente con il (difficoltoso) tentativo di Augusto di far accettare una politica estera non aggressiva, che sappia respingere la cupiditas imperii e, al pari del buon tempo antico, preoccuparsi più di proteggere i confini che non pensare ad allargarli, una condizione di stabilità che rende lo stato più forte contro eventuali nemici99. E ancora: per Trogo un impero è saldo non solo quando è prudente in politica estera, ma anche (e soprattutto) quando è governato con una moderatio che sappia contrastare il sorgere della discordia, una condizione che, come abbiamo visto, si realizza più facilmente quando il governo è nelle mani di uno solo100. E proprio come nelle Historiae Philippicae la concordia è favorita dall’intervento di un singolo, parimenti la propaganda augustea fa dipendere dall’azione di un pacator la possibilità che la pace da pura aspirazione diventi realtà effettuale101. A un livello più generale, vi è quindi una rilevante affinità tra quei sovrani illuminati del buon tempo antico di cui Trogo parlava nell’incipit dell’opera e il princeps, non solo per la sua avveduta politica estera, ma anche per la capacità di governare più col buon esempio che con la legge e nel rispetto dei mores. Anche qui, infatti, vi è perfetta corrispondenza con la propaganda augustea, dove il rispetto «ossessivamente mostrato» 102 per il mos maiorum è spesso accom-

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Trogo lo fa affermare allo stesso Mitridate nel suo discorso: attaccare guerra adversus vacuos et quietos rappresenta un maius negotium (Iust. 38, 5, 1). 100 Non stupisce dunque che il testo non riveli alcuna nostalgia degli ordinamenti repubblicani; anzi, il fatto che i generali di Alessandro vengano paragonati al senatum priscae alicuius rei publicae (Iust. 11, 6, 6) pare segnare una distanza, anche cronologica, rispetto ad una forma di governo che anche a Roma è ormai superata. 101 Cfr. PICONE 1992, 192: «il bene inestimabile costituito dalla rimozione delle contese ha bisogno di un supremo garante, dotato di poteri divini, che gli consentano il governo del mondo in una condizione di generale pacificazione». Sull’enfasi posta dalla propaganda augustea sull’azione pacificatrice del princeps cfr. GRUEN 1985, 54-55. 102 CANALI 1973, 164. Sul tema si vedano anche ZECCHINI 2001; BETTINI 2000; IACOBONI 2014, 286-288; BORGNA 2016.

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pagnato dall’accento posto sull’utilità del buon esempio103. Esplicite, in questo senso, sono le Res Gestae, dove il princeps con le sue stesse azioni diventa non solo l’interprete, ma anche il rielaboratore di un nuovo sistema etico-normativo in cui l’esempio, in qualche misura, vale più della lex104. Augusto, infatti, afferma di aver lasciato non tanto leggi a cui obbedire, ma esempi da imitare: legibus novis me auctore latis multa exempla maiorum exolescentia iam ex nostro saeculo reduxi et ipse multarum rerum exempla imitanda posteris tradidi105. Con nuove leggi, promulgate su mia iniziativa, ho dato nuovo vigore a molte consuetudini dei nostri avi che nel nostro tempo stavano ormai cadendo in disuso e io stesso ho consegnato ai posteri molti esempi da imitare.

In conclusione, se la storia universale di Pompeo Trogo si apriva con un inedito atteggiamento offensivo del re degli Assiri, che con la sua 103

PEACHIN 2007, 93: «for Augustus and for the Romans of the early Empire, the exemplum was, in very real and very large part, the fundament of res publica». In generale, sul rapporto tra exemplum e mos cfr. HÖLKESKAMP 1996, 316-318; LOWRIE 2007, 102-112. 104 Come nota ancora PEACHIN 2007, 89: «the Romans had long been used to a rather lose form of constitution». A ciò faceva da contraltare un notevole attaccamento all’exemplum «as a mechanism for explaining why they did do, or should do, or could do, many (if not most) things altogether». In merito si vedano anche LENDON 1997, 129-130; PANI 2010, 97-100; BUONGIORNO 2013, 221-223; PANI 2013, 21; BORGNA 2016, 47-57. 105 R. Gest. div. Aug. 8. La versione greca è ancora più chiara circa il porsi di Augusto a paradigma per gli altri: καὶ αὺτὸς πολλῶν πραγµάτων µείµηµα ἐµαυτὸν τοῖς µετέρει τα παρέδωκα, cfr. RAMAGE 1987, 31; EDER 1990, 82; CHAPLIN 2000, 196; SPAGNUOLO VIGORITA 2002, 5-10; LOWRIE 2007, 106; PEACHIN 2007, 78-80. Vari episodi della biografia di Augusto confermano questa politica: in modo particolare, come notava già Svetonio (Aug. 34, 2), fu a proposito della legislazione eticomatrimoniale che l’azione personale come exemplum costituì un tratto ideologico dominante. Sempre Svetonio (Suet. Aug. 89, 2) ricorda poi come Augusto raccogliesse e compilasse raccolte di praecepta ed exempla da diffondersi presso i suoi amici e familiari. Anche la letteratura mostra tracce di questa politica: si pensi ad Ovidio, che in met. 15, 834 fa dire a Giove che Augusto exemplo suo mores reget (ma anche trist. 2, 233-234: urbs quoque te et legum lassat tutela tuarum / et morum, similes quos cupis esse tuis), su cui BARCHIESI 1994; HARDIE 1997, 192; WHEELER 1999, 105. Sulla connessione lex-exemplum in Augusto cfr. anche BELLEN 1987, 308-348; SPAGNUOLO VIGORITA 1992, 25-27; BORGNA 2016, 53-57.

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brama di potere mette in moto il meccanismo della translatio imperii, il punto di arrivo è di segno opposto: nec prius perdomitae provinciae iugum Hispani accipere potuerunt, quam Caesar Augustus perdomito orbe victricia ad eos arma transtulit populumque barbarum ac ferum legibus ad cultiorem vitae usum traductum in formam provinciae redegit106. E gli Ispani non poterono essere sottomessi al giogo di terra domata prima che Cesare Augusto, conquistato il mondo, rivolgesse contro di loro le sue armi vittoriose e riducesse in forma di provincia quel popolo barbaro e feroce, conducendolo con le leggi ad uno stile di vita più civile.

Con perfetto procedimento ad anello, alla catena di conflitti messi in moto da Nino si oppone un mondo cristallizzato in uno stato di pace e di vita cultior: suo promotore e custode è Ottaviano Augusto, rispetto al quale i toni sono ‒ ancora una volta ‒ indiscutibilmente celebrativi107. Ottenuta una chiara ammissione di inferiorità dai Parti, il princeps può quindi distogliere la sua attenzione dal (corrotto) Oriente e rivolgere la sua attività civilizzatrice verso Occidente, terra di popoli fieri e più vicini all’ingenium naturale, uno spazio verso cui Pompeo Trogo mostra di avere un particolare interesse, come vedremo nel capitolo seguente.

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Iust. 44, 5, 8. Il periodo è stato spesso considerato originale di Trogo, cfr. SALOMONE 1972, 28 n.3; FORNI ‒ ANGELI BERTINELLI 1982, 1305. 107 «Tono claramente laudatorio y propagandístico» anche per LÓPEZ CASTRO 1992, 226. Già SEEL 1955, 71 ss. aveva visto nella storia di Trogo un intento teleologico, nel senso che le Historiae Philippicae mostrerebbero una concezione della storia universale «auf Rom hin», una conclusione ribadita anche in SEEL 1972, 85 e 93; SEEL trad. 1972, 550. Sulla stessa linea anche URBAN 1982A e ID. 1982B. Non diversamente ALONSONÚÑEZ, 1988, 129 vede nelle Historiae Philippicae una sorta di espressione storiografica della monarchia universale di Augusto (concetto ribadito in ID. 1990, 84 e 1992, 112-115: «la sentencia final de la obra resume la actitud favorable del escritor galo-romano hacia el régimen de Augusto»). Di recente anche MINEO 2016A, xxxii (= MINEO 2016B, 211), connettendo questa chiusa a quella del libro XLII (sottomissione dei Parti), sottolinea come nell’ambito del dibattito sull’atteggiamento di Trogo nei confronti di Roma sia difficile liquidare un elogio del princeps tanto ben strutturato.

XI. L’ORGOGLIO GALLICO E L’IMPORTANZA DEL LIBRO XLIII Tra i caratteri particolari delle Historiae di Trogo spicca l’inedita prospettiva volta a Occidente: se, infatti, a quel tempo circolavano profezie sul prossimo ritorno del potere in Oriente1, lo sguardo di Trogo si apre invece in senso opposto, verso Ovest, a svelare un patriottismo in cui cittadinanza romana, origine gallica e radici elleniche trovano un perfetto amalgama2. Particolarmente adeguato a mostrare i tria corda dello storico è il libro XLIII: come abbiamo già visto, esso si apre con Trogo che si definisce civis: esaurite in pochi paragrafi le origini di Roma, la narrazione si sposta rapidamente alle vicende di Marsiglia, che prendono le mosse da una tappa alla foce del Tevere dei suoi fondatori, i Focei, occasione in cui nasce un rapporto di amicitia con i Romani: ex Asia Phocaeensium iuventus ostio Tiberis invecta amicitiam cum Romanis iunxit3. Il racconto vero e proprio della nascita della città, sorta pacificamente come conseguenza di un matrimonio d’amore, offre poi a Trogo lo spunto per 1

Si vedano le profezie contenute in un frammento di Antistene (FGrHist 257, F 36). Per un inquadramento cfr. MOMIGLIANO 1984, 89-90 e ZECCHINI 1984, 123 ss. 2 Nell’opera, infatti, non rari gli elogi nei confronti dei Galli, di cui si rileva la virtus militare (Iust. 25, 2, 8-10; 32, 1, 3) e più di una volta viene menzionato l’episodio del sacco di Roma (Iust. 28, 2, 4-8; 31, 5, 9). Per il Gallisches Bewußtsein di Pompeo Trogo cfr. URBAN 1982A, 1424-1433. Analoghe forme di patriottismo possono essere rinvenute, ad esempio, in Nicolao di Damasco a proposito della Siria, cfr. ALONSONÚÑEZ 2000, 100. Si legga anche VANOTTI 1992, 189 secondo cui già la pagina di Strabone mostrerebbe una vita in cui la lealtà di fronte all’impero romano può coesistere con una orgogliosa consapevolezza del primato ellenico. 3 Iust. 43, 3, 4 (parzialmente già citato supra, pp. 150 ss.). Interessante, ma difficilmente dimostrabile l’ipotesi di ANTONELLI (2008, 120), che connette questa tappa alla discussa testimonianza di Procopio (Pers. 8, 22, 7-8), il quale tra i monumenti superstiti della più antica storia romana annovera (e descrive minuziosamente) una grande nave a cinquanta remi che la tradizione riteneva esser stata “la nave di Enea”, le cui caratteristiche rimanderebbero alla pentecontera, l’imbarcazione con cui secondo Hdt. 1, 164 i Focei avrebbero navigato alla scoperta dell’Occidente. Per ulteriori approfondimenti si leggano almeno QUILICI 1998; GHILARDI 2006-2009, 109-111; CESARETTI 2009, 24-28.

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un più ampio elogio volto a mettere in evidenza il fondamentale apporto civilizzatore di Marsiglia rispetto ai territori circostanti: se per Strabone (4, 1, 5 C180-181) i barbari dell’entroterra marsigliese si sono ammansiti grazie al dominio romano, diverso è invece il quadro che ci offre Trogo: ab his igitur Galli et usum vitae cultioris deposita ac mansuefacta barbaria et agrorum cultus et urbes moenibus cingere didicerunt. Tunc et legibus, non armis vivere, tunc et vitem putare, tunc olivam serere consuerunt, adeoque magnus et hominibus et rebus inpositus est nitor, ut non Graecia in Galliam emigrasse, sed Gallia in Graeciam translata videretur4. I Galli, messa da parte e mitigata la barbarie, appresero da questi uno stile di vita più civile e impararono a coltivare i campi e a cingere di mura le città. Allora si abituarono a regolarsi con le leggi, non con le armi, a potare la vite, a piantare l’ulivo: a uomini e cose fu imposto un così grande grado di civiltà che pareva non che la Grecia fosse emigrata in Gallia, ma che la Gallia fosse stata spostata in Grecia.

Andando avanti nel passo, della città viene ribadito come fin dalla nascita ne si intuisse un destino di grandezza. A nulla servirono le molte guerre con cui i popoli confinanti cercarono di distruggerla, in quanto Marsiglia ne uscì sempre invitta, tanto per l’abilità dei suoi cittadini, quanto in virtù di una speciale protezione degli dei: quando infatti tutti i popoli confinanti, per timore e invidia, si unirono per distruggerla velut ad commune extinguendum incendium, al generale nemico comparve in sogno una dea corrucciata a dissuaderlo dall’impresa 5 . Vengono poi ricordate le vittorie della città sui Cartaginesi e i buoni

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Iust. 43, 4, 1-2 su cui URBAN 1982A, 1430; URSO 2016, 178. Per le guerre cfr. Iust. 43, 3, 13: sed Ligures incrementis urbis invidentes Graecos adsiduis bellis fatigabant; 43, 4, 3: adfirmante quodam regulo, quandoque Massiliam exitio finitimis populis futuram, opprimendamque in ipso ortu, ne mox validior ipsum obrueret ... his incitatus rex insidias Massiliensibus struit. Per l’invincibilità di Marsiglia cfr. 43, 3, 13: qui pericula propulsando in tantum enituerunt, ut victis hostibus in captivis agris multas colonias constituerint e 43, 4, 10: quibus omnibus interfectis insidianti regi insidiae tenduntur. Caesa cum ipso rege hostium septem milia. La dea appare in sogno al comandante nemico in 43, 5, 5-7. 5

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rapporti intrattenuti con gli Ispani6 , ma a spiccare è l’insistenza sul rapporto tra Marsiglia e Roma, un’amicizia di cui si elogia sia l’antichità, sia la fedeltà con cui fu sempre custodita. Come si è già visto, i contatti tra i due popoli vengono ricondotti ad un tempo remotissimo, un dato che Pompeo Trogo tiene a ribadire: cum Romanis prope ab initio conditae urbis foedus summa fide custodierunt auxiliisque in omnibus bellis industrie socios iuverunt. (43, 5, 3) custodirono con somma lealtà i patti stretti con i Romani fin quasi dalla fondazione della città e in tutte le guerre vennero in soccorso degli alleati con truppe ausiliarie.

Tale notizia riveste un indubbio interesse perché, se anche Strabone ricorda relazioni di amicizia tra Roma e Marsiglia risalenti a prima della guerre puniche, a parte l’Epitoma non sono rimaste testimonianze di un vero foedus7 . Non sembra però un errore di Giustino, bensì un altro relitto prezioso, dato che pare trovare conferma in alcune clausole del trattato romano-cartaginese del 508 a.C., noto da Polibio (3, 22, 1); in modo particolare quelle che limitavano il commercio marittimo degli alleati di Roma sarebbero inconcepibili laddove non si presupponesse,

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Iust. 43, 5, 2: Karthaginiensium quoque exercitus, cum bellum captis piscatorum navibus ortum esset, saepe fuderunt pacemque victis dederunt. Anche Tucidide 1, 13, 6, ricorda una sconfitta (non molte, come sembrerebbe sottintendere saepe) inflitta ai Cartaginesi dai Massalioti, notizia ripresa quasi letteralmente da Dionigi di Alicarnasso (Thuc. 19) e Pausania (10, 18, 7). Difficilissimo capire a quale conflitto ci si riferisca: «si tratta di un problema a più incognite, anzi, a sole incognite» secondo RAVIOLA 2000, 83 n. 85. Per GRAS 1987, 165 ss. questa andrebbe riferita al contesto della battaglia di Alalia (535 a.C. ca.); altri studiosi collegano questo passo, invece, ad un frammento di Sosilo (FGrHist 176 F 1), in cui si fa riferimento ad un episodio della seconda guerra punica ed in cui compaiono i Massalioti, cfr. MAZZARINO (2003, 50 ss.), a cui si rimanda per l’attenta rassegna delle ipotesi, tutte egualmente indimostrabili. I buoni rapporti con gli Ispani sono invece ricordati in 43, 5, 3. 7 Cfr. Strabo 4, 1, 5 (C180) che parla genericamente di una πρὸς Ῥωµαίους φιλία, assimilabile a Phocaeensium iuventus … amicitiam cum Romanis iunxit di Iust. 43, 3, 4. Dei buoni rapporti Roma-Marsiglia nell’Epitoma si era parlato già in 37, 1, 1, dove gli ambasciatori massalioti riescono a evitare la distruzione dell’antica madrepatria Focea.

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celata in filigrana, la presenza di Marsiglia come vera alleata 8 . Che Trogo tenesse particolarmente a insistere su questo rapporto è mostrato anche dal racconto dell’episodio del sacco di Roma: revertentes a Delphis Massiliensium legati, quo missi munera Apollini tulerant, Massiliensium legati audiverunt urbem Romanam a Gallis captam incensamque. Quam rem domi nuntiatam publico funere Massilienses prosecuti sunt aurumque et argentum publicum privatumque contulerunt ad explendum pondus Gallis, a quibus redemptam pacem cognoverant. Ob quod meritum et immunitas illis decreta et locus spectaculorum in senatu datus et foedus aequo iure percussum. (43, 5, 8-10) Tornando da Delfi, dove erano stati mandati a portare doni ad Apollo, gli ambasciatori dei Marsigliesi sentirono dire che la città di Roma era stata presa ed incendiata dai Galli. Una volta annunciata questa notizia in patria, i Marsigliesi reagirono con una pubblica dimostrazione di lutto e raccolsero oro e argento pubblico e privato per raggiungere il peso richiesto dai Galli, da cui erano venuti a sapere che i Romani avevano comprato la pace. Per questo merito fu decretata loro l’immunità, riservato un posto tra i senatori durante gli spettacoli e l’alleanza fu rinnovata a condizioni eque.

Il periodo, nuovamente denso di particolari ignoti in tale forma ad altre fonti, ha suscitato un vivace dibattito critico in merito all’attendibilità di queste notizie, le quali hanno non di rado trovato conferma nell’incrocio dei dati, a riprova di quell’attenzione di Trogo per l’elemento locale di cui si è già parlato9. Ad esempio, la menzione di Delfi è stata ricollegata al donario romano che pochi anni prima era stato lì consacrato nel tesoro dei Marsigliesi e che costituiva un cardine

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Si tratta di un’interpretazione di NENCI 1958, 70 ss., parzialmente anticipata già da DE WITT 1940, 608 ss. SORDI (1982, 785), partendo dal presupposto che Trogo stia attingendo a Timagene, ritiene questo foedus inesistente e lo riconduce ad un errore di Trogo, che avrebbe utilizzato un termine tecnico per indicare solamente quella φιλία di cui parla Strabone e che entrambi avrebbero letto in Timagene; tuttavia mi pare poco probabile che Trogo sia impreciso a proposito di un’area geografica a cui era particolarmente legato e di cui si mostra ben informato, considerato l’alto numero di informazioni di cui è l’unica fonte. Sui trattati romano-cartaginesi cfr. ora SCARDIGLI 2011, 28-38. 9 Cfr. supra, cap. 9.3.

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importante dell’accordo tra le due città10. Vi è stato poi chi ha ritenuto poco plausibile l’ipotesi di un publicum funus per Roma a Marsiglia e, sebbene si tratti della lezione della maggioranza delle famiglie, non sono mancate proposte di correzione11. Il testo tràdito, però, trova supporto nella grammatica, in quanto funus è difeso dalla reggenza di prosequor, piuttosto consueta 12 , né pare improbabile che qui Trogo ricordi un avvenimento realmente accaduto ed entrato a far parte della memoria locale. La scelta di un nesso attestato servirebbe ad avvicinare il concetto ai suoi lettori, secondo una tecnica non infrequente nel testo, definita da Otto Seel come applicazione di color Romanus13. Rimanendo sempre in questo paragrafo, a salvare Roma non sarebbe stato tanto Camillo (neppure menzionato), quanto, sostanzialmente, i Marsigliesi, che si sarebbero spogliati dei loro stessi averi per correre in soccorso degli alleati14: tale merito avrebbe garantito l’immunitas alla città, un privilegio che, essendo ricordato da Pompeo Trogo per primo,

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Liv. 5, 25, 7; 28 ss.; App. Ital. 8, 1; Diod. Sic. 14, 93, 4; Plut. Cam. 8. In merito si vedano NENCI 1958, 78 ss.; SORDI 1960, 98 ss. Sul sacco di Roma cfr. ROBERTO 2012, 3-17. 11 Cfr. GOODYEAR (1992, 230): «a public funeral for Rome at Massilia seems not merely odd, but premature and ill-omened». Funere per τπι, mentre la famiglia γ ha munere, accolta anche da CASTIGLIONI (1925, 116). Per quanto riguarda le proposte di emendamento si ricordano, tra le altre, luctu (Faber), che di certo ha il significato corretto (seppur paleograficamente difficile da sostenere) e maerore (Goodyear). 12 Cfr. Liv. 38, 55, 2: ad Portam Capenam mulsum prosecutis funus dedisse; Plin. nat. 7, 119: quin et funus eius … tota Graecia prosecuta est; Sen. tranq. 12, 4: funus ignoti hominis prosecuturi; nat. 3, 18, 6: quotusquisque funus domesticum ad rogum prosequitur? Apul. met. 8, 6: funus vero toto feralem pompam prosequente; Suet. Cal. 13, 1: funus Tiberi prosequens. 13 Con l’espressione color Romanus Otto Seel indica il frequente impiego da parte di Trogo di una terminologia romana per magistrature, cariche civili e gradi militari di altre culture, così come per avvenimenti storici, organizzazioni e classi sociali straniere. Cfr., ad esempio, Iust. 38, 8, 5 dove si parla di populares per indicare una delle fazioni in lotta nel regno d’Egitto; 39, 1, 8: nel regno di Siria vi è un praefectus; 42, 4, 1: il re Mitridate viene cacciato dal senatus Parthorum. Un ampio catalogo di questi usi lungo tutta l’opera in SEEL 1972, 88 ss. 14 Cfr. NENCI, 1958, 30; MANSUELLI 1986, 166; RAVIOLA 2000, 95. MAZZARINO 1966A, 489 ritiene che la versione di Trogo possa essere considerata «una implicita polemica contro la leggenda liviana di Camillo».

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era probabilmente quello di maggiore importanza15. Segue, tra le ricompense, un misterioso locus spectaculorum in senatu, un’espressione che è hapax dell’Epitoma e che è stata variamente interpretata come un “posto riservato – di rango senatorio – negli spettacoli”16, oppure come un possibile riferimento alla graecostasis, la piattaforma da cui i delegati stranieri potevano assistere alle sedute del senato, nota da Varrone17. Questo ricorrente accento posto sulla lealtà dei Marsigliesi nei confronti di Roma, ancora una volta non mi pare presupporre da parte di Trogo una prossima translatio imperii verso l’Occidente, quanto piuttosto una volontà di difendere l’esistenza e la funzione politica dei centri diversi da Roma, ma a lei legati da patti di fedeltà. Non solo: in questa evidente apologia di Marsiglia, in modo particolare dell’antichità del suo legame con Roma e della serietà con cui fu custodito, si può vedere anche un importante intento programmatico; dopo le guerre civili, infatti, la memoria dell’antica amicitia tra le due città era stata offuscata e del fatto che ancora in età augustea perdurasse un generico sfavore nei confronti dell’antica colonia focese si può scorgere un riflesso in Livio, che nel raccontarne la fondazione usa toni assai meno lusinghieri rispetto a quelli di Trogo. De transitu in Italiam Gallorum haec accepimus: Prisco Tarquinio Romae regnante […] ibi cum velut saeptos montium altitudo teneret Gallos, circumspectarentque quanam per iuncta caelo iuga in alium orbem terrarum 15

L’immunitas è stata collegata all’istituto dell’hospitium publicum (cfr. DAREMBERG – SAGLIO s.v. hospitium, 301; DE WITT 1940, 608; SORDI 1960, 111 ss.), una delle forme più antiche ad ancora oscure dello ius gentium applicato dai Romani, che dava soprattutto diritto ad una residenza giuridicamente tutelata in una città diversa dalla propria; sul tema si legga BALBÍN CHAMORRO 2006, 207-235. 16 Così traducono Chambry e Thély Chambry, Santi Amantini, Yardley, CastroSánchez, Arnaud-Lindet e Laser. Tale interpretazione parrebbe suggerita da un passo di Svetonio, Dom. 8, 3: (sc. Domitianus) licentiam theatralem promiscue in equite spectandi inhibuit. 17 Varro ling. 5, 155: ubi nationum subsisterent legati qui ad senatum essent missi; is graecostasis appellatus. Contra EBEL (1976, 12 ss.), secondo cui l’accesso alla graecostasis non costituiva un onore, in quanto si trattava del luogo in cui i legati delle città che avevano presentato istanze al senato romano attendevano l’esito della consultazione dell’assemblea. Sulla graecostasis si vedano, da ultimi, STOUDER 2009, 173-185 e KRITZER 2010, 71-90.

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transirent, religio etiam tenuit quod allatum est advenas quaerentes agrum ab Salvum18 gente oppugnari. Massilienses erant ii, navibus a Phocaea profecti. Id Galli fortunae suae omen rati, adiuvere ut quem primum in terram egressi occupaverant locum patientibus Salvis communirent19. Quanto al passaggio dei Galli in Italia abbiamo appreso questo: mentre a Roma regnava Prisco Tarquinio […] là, poiché l’altezza delle montagne teneva i Galli quasi chiusi in un recinto e mentre si guardavano intorno domandandosi per quale parte di quei gioghi uniti al cielo potessero mai passare in un altro mondo, furono trattenuti anche da uno scrupolo religioso, in quanto venne loro riferito che stranieri alla ricerca di terre erano aggrediti dal popolo dei Salvi. Si trattava dei Marsigliesi, giunti per mare da Focea. I Galli, ritenendo ciò un presagio del loro stesso destino, col benestare dei Salvi li aiutarono a fortificare quel luogo che avevano occupato per primo appena sbarcati dalle navi.

La Marsiglia di Livio non è punto di riferimento, elemento civilizzatore e nemico invincibile per le popolazioni confinanti, ma debole, bisognosa di supporto e, soprattutto, come emerge anche da altri passi, piuttosto irrilevante nella storia romana20. Questa divergenza può ben essere ricondotta alle particolari condizioni in cui si trovava la città dopo il 49 a.C.: allo scoppio della guerra tra Cesare e Pompeo la città, pur dopo molte esitazioni, aveva finito per appoggiare il secondo, nel rispetto dell’antica fedeltà alla legalità senatoria: di qui, l’assedio di Cesare, la strenua resistenza e la capitolazione finale21. Seguirono anni

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Rispetto alla lezione dei codici Salvum (così come, poco oltre, Salvis) OGILVIE 1965, 711 riprende una proposta del filologo ottocentesco Madvig e corregge in Salluvium (e poi, egualmente, Salluviis), il nome latino con cui era solitamente conosciuta questa tribù. 19 Liv. 5, 34, 1-8, su cui si veda RAVIOLA 2000, 95. 20 Ad esempio, Livio è l’unica fonte che, a proposito delle guerre puniche, ricorda sì i Marsigliesi al fianco dei Romani (cfr. Liv. 21, 25, 1; 31, 26, 3; 36, 19, 13; 37, 36, 1), ma non spende grossi elogi per la loro fides (una sola considerazione positiva in 34, 9, 10). Tale diminutio è ben evidente nel racconto della II guerra punica, dove il fondamentale ruolo strategico e logistico della città viene da Livio fortemente ridimensionato. 21 In un primo tempo i Massalioti avevano rivendicato il diritto alla neutralità, sostenendo di aver ricevuto eguali benefici tanto da Cesare quanto da Pompeo, cfr. Caes. civ. 1, 35, 4-5. Sulla questione si vedano almeno NENCI 1958, 29 (che sottolinea come tale aspirazione alla neutralità fosse ben coerente con la natura di porto e scalo commerciale della città); JOLIVET 2013, 147 (per le difficoltà incontrate da Cesare nel

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particolarmente difficili per Marsiglia, testimoniati anche dalla crescente solidarietà da parte di chi si sentiva in qualche modo a lei legato: non solo un greco come Strabone spende parole di elogio, ma pure Cicerone dopo la morte di Cesare ricorda i meriti della città con particolare frequenza e calore 22 . Di conseguenza non stupisce che Pompeo Trogo, un gallo, si schieri al fianco della sua terra e, mettendo in connessione la più antica storia romana con il viaggio dei fondatori di Marsiglia, ricordi ai lettori l’importanza del centro, il suo ruolo nel processo di civilizzazione del circondario e l’antichità dell’alleanza con Roma. Non a caso il libro si chiude con quella menzione della famiglia di Trogo e della sua tradizione militare a cui più volte abbiamo fatto riferimento: non sappiamo come nell’originale questa nota autobiografica si inserisse all’interno della narrazione, ma è comunque suggestivo pensare che essa fungesse da ulteriore dimostrazione della lealtà e della fedeltà di chi proveniva da un’area che aveva perso il favore di Roma.

tentativo di giustificare l’attacco a Marsiglia) e ora URSO 2016, 185-188 con bibliografia aggiornata. 22 Cfr. Strabo 4, 1, 5 (C180): κατὰ δὲ τὴν Ποµπηίου πρὸς Καίσαρα στάσιν τῷ κρατηθέντι µέρει προσθέµενοι τὴν πολλὴν τῆς εὐδαιµονίας ἀπέβαλον. Per quanto riguarda Cicerone si vedano, tra i molti, off. 2, 28: Massiliam vidimus et ex ea urbe triumphari, sine qua numquam nostri imperatores ex transalpinis bellis triumpharunt; Phil. 2, 94: quis enim cuiquam inimicior quam Deiotaro Caesar? aeque atque huic ordini, ut equestri, ut Massiliensibus, ut omnibus quibus rem publicam populi Romani caram esse sentiebat; Phil. 8, 18: quo usque enim Massiliam oppugnabis? ne triumphus quidem finem facit belli, per quem lata est urbs ea sine qua numquam ex Transalpinis gentibus maiores nostri triumpharunt. Elogi anche in Polyb. 3, 95, 2 e ancora in Val. Max. 3, 6, 7. Per la difficile situazione della città in seguito alla vittoria di Cesare ancora valido NENCI 1958, 29 ss.

XII. TROGO E LIVIO: UNA STORIA PER ROMA? L’analisi condotta nelle sezioni precedenti ha messo in rilievo un Trogo ben integrato nella Roma del principato, a cui non va attribuito uno sguardo ostile solo perché l’ampiezza della sua visione lo differenzia rispetto all’abituale etnocentrismo della storiografia latina. La decostruzione dell’antiromanesimo di Trogo ci ha così ricondotto al parere degli antichi, che guardarono a lui non come ad un oppositore, ma come ad un autore di storia greco-orientale: ne è una prova il giudizio di Agostino, che classifica l’historia di Trogo come Graeca vel potius peregrina1 . E infatti, come abbiamo letto, nell’incipit del libro XLIII Trogo affermava che la storia romana sarebbe stata trattata breviter in modo da non eccedere il modus propositi operis, una dichiarazione che possiamo interpretare da un punto di vista sia quantitativo, sia tematico. Ma se Trogo si proponeva ‒ e in modo programmatico ‒ di raccontare la storia intorno a Roma, non può essere un caso che la sua opera costituisca l’esatto tassello mancante ai Libri ab Urbe condita di Tito Livio per andare a comporre la storia di tutto il mondo. Tra i due si conferma quindi un rapporto di complementarità e non di antagonismo2, come pare preannunciare lo stesso Livio, quando proclama, quasi a passare il testimone a Trogo, di non potersi diffondere nei dettagli delle guerre intestine alle genti straniere, oppresso com’è da un compito tanto gravoso quale il racconto della storia di Roma.

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Aug. civ. 4, 6, su cui si veda almeno BUSETTO 2014, con ulteriore bibliografia. Hanno individuato spunti anti-liviani LANA 1952, 200 n. 46 e TREVES 1953, 85 e 89. Più di recente BALLESTEROS PASTOR 2009A, 38-39 ha ipotizzato, seppur con molta cautela, un’ostilità di senso opposto, cioè di Livio nei confronti di Trogo. Tuttavia, già STEELE 1917, 23-24, a proposito dello scarso spazio dedicato a Roma da Trogo commentava «Trogus avoided what had already been given by Livius», come, ad esempio la campagna sertoriana («Livy described it in such details that Trogus did not write anything about it»). Hanno parlato di complementarità anche JAL 1987, 203; YARDLEY ‒ HECKEL 1997, 16; MINEO 2016A, xxxiii (= MINEO 2016B, 212). 2

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Sed externorum inter se bella, quo quaeque modo gesta sint, persequi non operae est satis superque oneris sustinenti res a populo Romano gestas perscribere3. Ma il raccontare come si siano svolte ad una ad una le guerre delle genti straniere fra di loro non spetta a me, a cui basta e avanza il peso del narrare per esteso le imprese del popolo romano.

I due potevano certo avere idee divergenti in merito allo stile della storiografia e in modo particolare sull’opportunità o meno di inserire discorsi diretti, ma non può essere negato né il carattere concomitante della materia, né (soprattutto) l’affinità dei valori propugnati, in particolar modo la concordia, forse il monito che più frequentemente risuona anche nelle Storie di Livio dove, al pari delle Historiae Philippicae, rappresenta un bene assoluto, da cui dipende la salute dello stato, anche qui indipendentemente dalla forza bellica e dal numero dei nemici. L’esercito di Roma, infatti, può temere sagittas, saltus impeditos, avia commeatibus loca, tuttavia, mille acies graviores quam Macedonum atque Alexandri avertit avertetque, modo sit perpetuus huius qua vivimus pacis amor et civilis cura concordiae4. ha respinto e respingerà mille eserciti più minacciosi di quello dei Macedoni e di Alessandro, a patto che durino in eterno l’amore della pace in cui viviamo e la cura della concordia civile.

Ovvia conseguenza è che ambo le opere abbiano pari finalità di ammaestramento moralistico: la storia senza Roma di Trogo non è quindi una storia contro Roma, ma una storia per Roma. Dispiegando di fronte agli occhi dei suoi lettori quella parte della storia che era rimasta fuori dalla trattazione di Livio, Trogo doveva indagarne i meccanismi di sviluppo con un solido senso del divenire e dell’ef3

Liv. 41, 25, 8. Analoga dichiarazione in 33, 20, 13: non operae est persequi ut quaeque acta in his locis sint, cum ad ea quae propria Romani belli sunt vix sufficiam. 4 Liv. 9, 19, 16-17 su cui cfr. OAKLEY 2005, 260-261: la menzione di frecce, terreni montuosi e luoghi di difficile rifornimento alluderebbe proprio alle campagne contro i Parti e in Armenia. Sulla concordia in Livio cfr. WALSH 1961, 66-69; BROWN 1995, 316-318; MINEO 2015A, 131-135; MINEO 2015B, 140-145; VASALY 2015, 132-141.

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fettivo nesso causale che regola gli avvenimenti. Il risultato, con ogni probabilità, era un testo di consiglio ai suoi concittadini (e al princeps), non di opposizione, un’opera che mostrava (e quindi insegnava) come si potesse conservare un impero. Si è anche detto che l’origine provinciale abbia giocato un ruolo non secondario nella scelta di scrivere una historia universalis; la provenienza di frontiera degli storici universali, infatti, può quasi essere definita una costante, come testimonia Strabone, che lamenta come gli storiografi romani mostrino ben scarso interesse nell’implementare le conoscenze sviluppate dai Greci5. Per questo motivo, come nel mondo greco “nascere ai margini” aveva stimolato un interesse anche per le realtà esterne, ugualmente Pompeo Trogo, provenendo da una fertile area di contatto tra Roma, Grecia ed Occidente quale era quella che gravitava culturalmente intorno a Marsiglia, si interessò a un panorama più ampio rispetto a quello della storiografia latina tradizionale. Se l’ellenismo, epoca di grandi conquiste, aveva favorito lo svilupparsi di una prospettiva universalistica nella storiografia, allo stesso modo essa fu successivamente rafforzata dall’imposizione del dominio romano sul Mediterraneo e sull’estremo Occidente, eventi in seguito ai quali i confini del mondo conosciuto si erano nuovamente ampliati. In questo senso il genere della storiografia universale non forniva a Trogo uno strumento per esprimere ostilità nei confronti della sua stessa patria, quanto piuttosto uno schema interpretativo del divenire storico, utile a dare al lettore un senso di unità nella diversità. 5

Strabo 3, 4, 19 (C166). Eforo proveniva da Cuma Eolica (Asia Minore), Posidonio da Apamea (Siria), Nicolao da Damasco, Timagene da Alessandria e Strabone da Amasea Pontica. In merito si vedano MORTLEY 1996, 1-2; CLARKE 1999, 255 (chi proveniva da zone di frontiera sarebbe stato particolarmente stimolato dall’universalismo temporale e spaziale dell’impero di Roma, da cui avrebbe tratto un punto di vista più ecumenico); YARROW 2006, 126-128 («in the universal histories, the treatment of the Roman empire is clearly influenced by the global perspectives of their authors, which allowed them to see Rome from many different angles and convey some of those diverse points of view to their audience»); ENGELS 2010, 77 (la costante dell’origine provinciale potrebbe aver giocato un qualche ruolo nell’accresciuta importanza della geografia e dell’etnografia nelle opere di questi autori). Per MUCCIOLI 2012, 369 la stessa attenzione mostrata da Timagene verso altre regalità, più che ostile a Roma sarebbe un riflesso della sua provenienza da un melting pot di culture quale Alessandria.

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L’opera di Trogo è dunque una storia «universale, ma policentrica»6, in cui iniziano a trovare spazio anche i nuovi cittadini con le loro esigenze culturali e le loro tradizioni.

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Recupero qui l’efficace definizione di Gianfranco Gianotti in GIANOTTI ‒ PENNACINI 1982, 225.

XIII. CONCLUSIONI Horror vacui: questa è la sensazione che, non a torto, Otto Seel ritiene che gli studiosi abbiano spesso provato di fronte alla scarsità di informazioni tanto su Pompeo Trogo quanto su Giustino1. E forse fu proprio il tentativo di dare sostanza a una così evidente impalpabilità a generare quelle teorie forti, non di rado di segno opposto, che hanno caratterizzato la critica di entrambi. Comporre una storia universale a Roma, lo abbiamo visto, era impresa complicata, tanto complicata che alcuni hanno pensato che, alla fine, Trogo non vi si sarebbe cimentato davvero, ma avrebbe semplicemente adattato al latino un originale greco. Il problema è che non si tratterebbe di una fonte qualunque, bensì di Timagene di Alessandria, erudito, poligrafo, e, soprattutto, l’uomo che ad un certo punto si allontana dal princeps fino a diventarne un (fin troppo) ostentato oppositore. Di conseguenza, Pompeo Trogo proporrebbe in latino l’opera di questo scomodo autore per mostrare come l’impero di Roma non sia universale (si trova infatti a dividere l’imperium mundi con i Parti) e neppure eterno, ma destinato a perire come tutti gli altri e forse per mano degli stessi Parti, che già per tre volte hanno dato prova di superiorità militare. E questa immagine, certo non priva di fascino, di una voce dissidente che nel bel mezzo dell’era di Augusto si solleva dalla Gallia a contraddire la propaganda ufficiale su Roma eterna e dominatrice incontrastata del mondo, ha conosciuto buona fortuna, non a caso soprattutto verso la metà del XX secolo, quando ben vivo era il ricordo dell’uso che i recenti totalitarismi avevano fatto della storia romana e, nel caso italiano, della figura di Augusto in particolare2. 1

Cfr. SEEL trad. 1972, 19. La ricorrenza del bimillenario augusteo (1937) indusse Mussolini ad un progressivo abbandono del parallelo tra la sua figura e quella di Giulio Cesare, in favore, invece, di una propaganda volta a presentarlo come il nuovo Augusto. La costruzione dell’analogia, però, non fu priva di difficoltà, soprattutto a causa della minore evidenza 2

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Conclusioni

In realtà, l’analisi che abbiamo condotto ci ha rivelato i tratti di un’opera che non vuole avere valenza polemica, quanto piuttosto pedagogica. Non diversamente dal teatro di Seneca, anche nel caso delle Historiae Philippicae i punti controversi trovano risposta se si presuppone un intento non di opposizione, ma di ammaestramento. Guardando alla storia con l’occhio del naturalista, Trogo vede la radice dei mali in quell’aspetto ferino dell’animo umano che spinge ad una funesta cupiditas di potere, da cui nascono contrasti e instabilità politica. Concordia e discordia, non virtus e fortuna costituiscono quindi gli elementi della coppia oppositiva che regola il divenire storico di Trogo: la virtù, così come la sorte, può aiutare a raggiungere il potere, ma per mantenerlo serve un’intelligenza politica che si esplichi nel rispetto della pace, dell’ordine e nel sapersi trattenere nei propri limiti, anche territoriali, secondo una logica enunciata chiaramente fin dall’incipit. Emblema di questo meccanismo sono i Macedoni, dai quali deriva dunque il titolo dell’opera; vicine nel tempo e nello spazio, le vicende di Filippo, Alessandro e dei loro valenti ma litigiosi successori servono a Trogo per mostrare ai suoi contemporanei che cosa accade quando il potere non sa accontentarsi di alcun limite: esso finisce per sbriciolarsi sotto la spinta centrifuga delle discordie interne. E infatti non fu la fortuna a strappare alla vita Alessandro appena trentatreenne, ma – ben più realisticamente – il veleno propinatogli da quanti non potevano più tollerarne la tracotanza. Al contrario, un atteggiamento morigerato genera concordia e, in ultima analisi, pax, la cui custodia è meglio che venga affidata ad un singolo che sappia imporsi non con il ricorso alle armi o al terror (entrambi elementi che finiscono per creare discordia), ma con la magnitudo del suo nome. Già da questa considerazione risulta difficile ritenere Trogo in opposizione rispetto a una temperie culturale in cui vengono elaborati quei valori che, in breve tempo, sfoceranno in preghiere dove princeps, status e pax coincidono3. della dimensione guerriera di Augusto: a Mussolini, infatti, era ben più congeniale Giulio Cesare, con cui (soprattutto in seguito alla conquista dell’Etiopia) condivideva un potere a base carismatico-militare. In merito cfr. GIARDINA 2014, 56-72, con ulteriore bibliografia. 3 Cfr. Vell. 2, 131, 1-2: custodite, servate, protegite hunc statum, hanc pacem, , eique functo longissima statione mortali destinate successores.

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Allo stesso modo, leggere nelle affermazioni sulla divisione dell’imperium tra Romani e Parti o nelle riflessioni sul valore bellico di questi ultimi la volontà di smascherare il carattere fittizio della pacificazione orientale e la fondamentale passività di Roma rispetto agli arcinemici, in realtà non tiene conto di due elementi. Il primo è il carattere episodico attribuito a queste sconfitte (perfino a Carre), mentre il secondo, più generale, è lo sfavore con cui Trogo guarda alla reggia partica, un ambiente discorde e dove è consuetudine che il potere vada a scellerati e parricidi, una negatività che probabilmente riflette quella polemica anti-orientale alimentata da Ottaviano prima dello scontro con Antonio. Non sono però solo singoli passi ad avallare tale conclusione: come abbiamo visto, il testo è percorso da un costante amor pacis, che culmina negli aperti elogi della potenza e del genio diplomatico di Augusto: secondo la filosofia della storia di Trogo la sistemazione incruenta della questione orientale non è né una resa camuffata da vittoria, né una tacita ammissione di debolezza, ma una scelta estremamente accorta, che allontana Roma da quell’esiziale cupiditas imperii, che si fa ancor più pericolosa quando rivolta a Oriente, spazio corrotto e corruttore. È invece verso Occidente, terra di alleati antichi e fedeli, così come di popoli fieri e maggiormente vicini all’ingenium originale che è possibile portare avanti una benefica attività civilizzatrice. Risparmiare i sottomessi, governare i popoli, portare pace e civiltà: se dovessimo dare forma poetica a questi moniti di Trogo, forse il risultato non ci porterebbe molto lontano dalla celebre apostrofe di Anchise4, una conferma, l’ennesima, della consonanza delle Historiae Philippicae con la propaganda augustea. Ugualmente forte è poi la convergenza con Livio: forse i due potevano essere in polemica letteraria e avere idee diverse sul modus historiae, ma non vi può essere dubbio circa il carattere complementare della loro L’integrazione hunc principem, suggerita già da Giusto Lipsio e generalmente accolta dagli editori di Velleio, si impone per la necessità dell’accordo con il successivo eique functo. Facendo riferimento alla legislazione del 28 a.C. parla di pax et princeps anche Tac. ann. 3, 28, mentre per Lucan. 1, 670, cum domino pax ista venit. Cfr. anche SYME 1939, 509-524; GRUEN 1985, 51-53. 4 Verg. Aen. 6, 851-853.

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materia e l’affinità del loro messaggio. Se Livio aveva posto Roma tanto sul palcoscenico quanto in platea, Trogo cambia gli attori, ma non il pubblico: sempre Roma, infatti, è il destinatario del suo fondamentale invito all’ordine e alla pace, entrambi valori tanto cari all’ideologia ufficiale. Anzi, se le simpatie repubblicane di Livio gli avevano guadagnato il celebre epiteto di Pompeianus da parte di Augusto5, nessuna nostalgia mostra Pompeo Trogo per una forma di governo che, basandosi sull’uguaglianza tra pari, è particolarmente soggetta alla discordia, mentre è costante il favore mostrato per la figura dell’uomo solo al comando. L’horror vacui di cui ha parlato Seel è poi particolarmente evidente nel caso di Giustino: un soggiorno a Roma e un personaggio a cui dedicare l’opera è tutto quel che di se stesso rivela nella praefatio, terminata la quale egli pare inabissarsi in un testo che è lui stesso a definire raccolta di excerpta. “A text rather than a personality” è quindi, come abbiamo detto in apertura, la celebre definizione con cui Ronald Syme ne coglie l’impalpabilità6. Dall’analisi della sua tecnica epitomatoria è però emerso come Giustino, in realtà, non si inabissi affatto: semplicemente scompare dalla nostra vista perché va a chiudersi nella cabina di regia, o meglio di montaggio. Dal momento che si propone di comporre un florilegio, non un riassunto volto a ricostruire l’ossatura dell’originale, è quindi la selezione del materiale degno di essere conservato e le modalità di inserimento dello stesso a svelarci interessi, finalità e pubblico. Lo abbiamo sottolineato più e più volte: se si giudica l’Epitoma come manuale di storia, allora non solo questa merita un voto insufficiente, ma risultano anche di difficile comprensione natura e intenti di un’operazione così mal riuscita, a meno di non chiamare in causa (come in effetti abbiamo visto accadere) la scarsità dei mezzi intellettuali di Giustino, che, pur volendo comporre un prontuario di storia, sarebbe stato di ingegno tanto limitato da non capire che gli elementi che andava 5

Tac. ann. 4, 34. Già per CASTIGLIONI 1925, 145 «la personalità di Giustino si perde interamente in questa disuguaglianza, nella sproporzione del riassunto». Non diversamente per SEEL (trad. 1972, 21) uno dei maggiori meriti di Giustino sarebbe proprio il suo essere «weitgehend physiognomielose». 6

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sistematicamente eliminando, come onomastica, toponomastica, nessi causa-effetto e cronologia, in realtà della storiografia sono i pilastri portanti. Se, invece, si cambia punto di vista e metro di giudizio, allora quei lacerti di Trogo che paiono accostati in modo incoerente si rivelano i tasselli costitutivi di una composizione tutt’altro che casuale. La difficoltà di questo passaggio sta però proprio nel fatto che, seppur possa apparire in qualche misura paradossale, alle Historiae di Trogo Giustino sottrae proprio l’historia e lo fa non per scarso acume, ma semplicemente perché ai suoi intenti rispondeva non la logica successione degli eventi, quanto piuttosto una serie di bozzetti e raccontini curiosi nel loro essere straordinari, cruenti, piccanti. Da questo intervento strutturale la storia di Trogo non può che uscire completamente sfigurata, spesso compromessa: lo mostra chiaramente la difficoltà con cui la critica si è misurata con il dato storico dell’Epitome, finendo non di rado per trascurarlo o tributargli scarso valore. Di conseguenza, è assai difficile considerare l’Epitoma come l’esito di un progetto teso a fornire alla cultura latina dell’occidente un agile manuale sul quale apprendere la storia non romana o una risposta alla preoccupazione che Trogo si perdesse. La scuola di retorica è invece il destinatario di un progetto letterario che da questo punto di vista diventa sì sensato e coerente: Giustino non ha realizzato (malamente) un prontuario di storia su cui apprendere (altrettanto malamente) le vicende orientali, ma un repertorio di materiali ad uso dei futuri retori, un’antologia di curiosità ed exempla abbastanza vivace da tener desta l’attenzione di una tipologia di lettori che per la storiografia mostrava una certa insofferenza. Non a caso, ancora oggi l’Epitoma continua a indicarci l’esercizio scolastico (e non la nozione) come sua finalità privilegiata: basta infatti sfogliare un qualsiasi versionario ginnasiale per trovare molti degli aneddoti di Giustino proposti all’esercizio degli studenti, ma non è certo la purezza della lingua o la concinnitas del periodare ad aver determinato tale fortuna, come mostra la quasi costante comparsa dell’indicazione «da Giustino» in calce ai brani, segnale questo di un paziente intervento di regolarizzazione morfologica e sintattica da parte del curatore moderno. Quel che invece continua a rendere l’Epitoma particolarmente adatta a certe esigenze della scuola è la misura dei suoi

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Conclusioni

aneddoti, brevi ma con una chiara articolazione interna (iniziosvolgimento-fine): se oggi servono a stimolare l’esercizio degli studenti proponendo alla traduzione un episodio curioso, ai tempi dell’epitomatore essi rappresentavano gli elementi costitutivi di quel repertorio di materiali a cui il retore attingeva per impreziosire il suo discorso. Davvero dunque di Giustino e, in certa misura, anche di Pompeo Trogo abbiamo un testo e non una personalità? In realtà, a ben vedere, l’Epitoma Historiarum Philippicarum ci mostra più le personalità dei due autori, che non un testo coerente. Smantellata, infatti, l’intelaiatura storiografica della sua opera, quasi esplosa in una serie di aneddoti, di Pompeo Trogo, auctor e severissimis, ci restano la razionalità del naturalista, la solida morale, il culto per la pax e concordia e la richiesta di uno spazio culturale per i tutti i cittadini di un impero policentrico. Allo stesso modo di Giustino giungono a noi – se non proprio una personalità – almeno i chiari confini di un ambiente di riferimento e di una tipologia di destinatari.

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Sfortunatamente il secondo volume, dedicato ai libri XI-XXIII, è uscito quando il presente lavoro era già in bozze (febbraio 2018), pertanto non è stato possibile tenerne conto.

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XV. INDICI INDICE DEI LUOGHI

Adrianopoli Africa Alalia Alessandria Alicante Alicarnasso Amasea Pontica Antiochia Apamea Arginuse Armenia Asia Atene Azio Babilonia Bisanzio Bitinia Britannia Cappadocia Caria Carre Cassandrea Catania Caucaso Cheronea Chimera Cilicia Cipro Cirenaica Cirene

45 n.29 39; 48 n.4, 181 n.51 205 n.6 19; 62; 89; 90; 95; 132; 213 n.5; 215 154 n.63 71; 141; 149 n.52; 160; 205 n.6 213 n.5 65 n.32; 95; 96 213 n.5 75 n.8 62; 63; 154 n.64; 189 n.69; 212 n.4 53-55; 58; 59; 75 n.9; 150; 151; 166; 167; 171; 189; 190; 195 n.83; 203; 213 n.5 28 n.16; 50; 67; 68; 117 n.29; 118 n.35; 154 n.64; 164 62; 65; 154 n.64; 199 195 n.85 49 60; 152 n.56 12 59; 198 68; 144 n.36 32 n.3; 188 n.68; 186; 189; 191-193; 217 93; 94 68 147; 148 n.46 49; 50; 75 n.8 144 63; 77 n.11 49; 51-53; 61; 62; 76 n.10; 77 n.11; 79; 80; 179 45 n.29 39; 45 n.29; 48 n.6; 54; 88-94

264 Cnido Corcira Corinto Creta Cuma Eolica Damasco Delfi Egitto

Egospotami Etiopia Europa Focea Gallia Gaugamela Gaza Gela Gordio Granico Grecia Illiria India Ionia Isso Istro Italia

Libia Lidia Luc-en-Diois Lucus Augusti Macedonia Mantinea

Indice dei luoghi 49; 155; 167 52 53; 54; 58; 59 165 213 n.5 65 n.32; 159 n.3; 203 n.2; 213 n.5 145; 164; 206 17 n.8; 39 n.12; 41 n.20; 48 n.4; 58; 59; 62; 63; 75-81; 84; 85; 88; 89; 90 n.36; 95; 96; 135; 168; 181 n.51; 183; 198; 207 n.13 75 n.8 216 n.2 171; 183 n.57 152; 205 n.7; 209 25; 38; 55; 150; 151; 204; 215 171 n.34 52 67 173 180 20; 49; 50; 52-54; 168; 171; 174; 175; 180; 183 n.58 204; 207 n.12; 213 52; 55 52; 98 152 171 n.34 57 11; 18 n.10; 29 n.20; 52; 55; 84; 85; 102 n.68; 108 n.4; 148 n.48; 149; 152; 153 n.59; 167; 169; 194 n.81; 208; 209 161 135 n.12; 152 26 v. Luc-en-Diois 24; 34; 52; 75 n.9; 83; 84; 154 n.64; 162 n.17; 174; 175; 179; 180-183 75 n.8

Indice dei luoghi Mar Nero Maratona Marsiglia Megara Montecassino Normandia Olbia Pontica Partia Peloponneso Perinto Persia Pisidia Platea Ponto Ponto Eussino Preneste Reggio Reno Rodano Rodi Scizia Sicilia Siracusa Siria

Sparta Taranto Tebe Tessaglia Teutoburgo Tevere Tomi Turdetania Vaison-la-Romaine Valencia Vasio

38; 143 118 n.33 27; 28 n.17; 30; 150-153; 203-210; 213 53; 54 12 n.12 12 n.12 38; 45 n.29; 157 n.1 33 n.8; 42; 76; 147; 189-191; 193; 194 166; 183 n.58 49 43 nn. 22-23; 49; 136; 166 58; 59 75 n.8 55; 63 v. Mar Nero 148 n.49 66; 67 38 150; 151 17 n.8; 52; 53 49; 135 66; 67; 84-86; 166; 167 66; 72 n.53; 84; 149 n.50; 169 39 n.12; 53; 54; 58; 59-64; 75 n.9; 76-79; 90 n.36; 162 n.17; 167-169; 189; 190; 193; 194; 203 n.2; 207 n.13; 213 n.5 53; 165 170 50 145 32; 33n.8 151; 203 193 153 n.61 26 154 n.63 v. Vaison-la-Romaine

265

266 Velia Venezia Verona Vienne Weinheim York

Indice dei luoghi 152; 153 9 11 152 10 11

INDICE DEI NOMI

Accio, Lucio Adriano Aeropo Agatocle (tiranno di Siracusa) Agatoclea Agrippa, Marco Vipsanio Alcibiade Alcuino Alessandro (figlio di Cratero) Alessandro (figlio di Tolemeo Fiscone) Alessandro (Lincesta) Alessandro Magno

Alessandro IV (figlio di Al. Magno e Rossane) Ammiano Marcellino

Ammone Amulio Anassilao Anchise Andrisco Annibale Antigono Gonata Antigono Monoftalmo Antiloco Antioco I Soter Antioco II Teo Antioco III il Grande Antioco IV Epifane

148 n.48 41 124 84-87; 169 71 n.47 26 67; 72 n.53 10; 11 n.8 53; 54 v. Tolemeo X Alessandro 174; 175 18 n.10; 34; 35; 51-53; 69; 79; 83; 84; 102; 112; 132; 136 n.16; 147; 154 n.64; 157; 171-185; 187; 192; 195; 196; 200 n.100; 212; 216 84 41; 42 n.20; 43 nn. 22-23; 74 n.5; 109; 111 n.13; 119 n.36; 123; 125; 152; 158 n.3 136 n.16; 172; 173 138; 139 n.19; 141 n.27 66; 67; 166 217 35; 48 n.4 39 n.10; 55; 58; 60; 95 n.50; 108 n.4 53; 54; 75 n.9 52 140 n.21 53; 54 53; 54 55; 57; 162; 189; 198 n.94 55; 58; 59; 198

268 Antioco VII Sidete Antioco VIII Grifo Antioco IX Ciziceno Antioco X Eusebe Antioco XIII Asiatico Antipatro Antipatro di Tessalonica Antonino Pio Antonio, Marco Anziate, Valerio Apollo Apuleio, Lucio Arcagato Areo Argeo Ariamene (figlio di Dario) Ariarate V di Cappadocia Aristeo Aristogitone Aristolao Aristosseno di Taranto Aristotele Aristotimo Armodio Arpago Arpalice Arpalo Arrideo Arsinoe II Artaserse II Mnemone Artemisia Asclepiade di Mirlea Atea Attalo II di Pergamo Attico, Tito Pomponio Augusto

Indice dei nomi 76-78 61; 62; 75 n.10; 77 n.11; 80; 81; 95-97; 119-121 61-64; 77 n.11; 79-81; 95-97 61; 62; 64; 65 64 174; 175 193 n.77 37 n.1 30; 62; 77 n.11; 189; 193; 194; 217 139 n.20 145; 206 111 n.12 87 n.30 53; 54 124 166 58; 59; 198 48 n.6 117; 118 28 n.18 170 11 n.8; 29; 134; 142; 151 n.54 54; 113-115 117; 118 v. Arpalo 140 n.21 152 177; 178 71 n.47; 93; 94 49; 51; 146; 179 71 153 n.61 49; 50 58; 59 159 n.8 v. Ottaviano, Gaio Giulio Cesare

Indice dei nomi Barsine Batto Beotoo Bruzzia Burobuste Callia di Siracusa Callimaco Camilla Camillo, Marco Furio Carisio Carone Cartalone Cassandro Catone, Marco Porcio (il Censore) Catone, Marco Porcio (l’Uticense) Cecrope Cerbero Cesare, Gaio Giulio Cesare, Gaio (figlio di Agrippa e Giulia) Cesare, Lucio (figlio di Agrippa e Giulia) Chandragypta Chilone Chione di Eraclea Cicerone, Marco Tullio Cilone Circe Ciro (il Giovane) Ciro II (il Grande) Clearco Cleonimo Cleopatra II Cleopatra III Cleopatra IV Cleopatra VII Cleopatra Thea

269

83 48 n.6 140 n.21 86 n.28 55; 57 149 n.50 118 n.33 140 n.21 207 28; 29 n.20 132 n.4 103 52; 53; 83; 84; 174-176 20; 159 n.8 177 n.42 145 n.40 144 n.35 17; 25-27; 30; 62; 102 n.68; 177 n.42; 189; 190; 209; 210; 215 n.2 26; 42 n.21; 154 n.64; 193 42 n.21 v. Sandrocotto 115 n.25 115 30; 34; 122; 126; 141; 159 n.8; 166 n.23; 210 115 n.25 149 n.50 49 70 n.45; 103; 126; 142 n.30; 152 115; 116; 168 n.26 52; 53 71 n.47; 76-78; 88-92; 94; 97 n.53 78-82; 91 95-97 71 n.47; 97 n.53 77; 78; 121

270 Clitarco Codro Conone Costantino Costanzo II Crasso, Marco Licinio Cratero Crisaore Ctesia Daniele Dario (figlio di Artaserse Mnemone) Dario I (il Grande) Dario II Noto Dario III Codomanno Demetrio (figlio di Filippo V) Demetrio (il Bello) Demetrio (Poliorcete) Demetrio (re degli Indi) Demetrio I Soter Demetrio II Nicatore Demostene Deucalione Didone Dinone Diocle Diodoto Trifone Dionigi I (il Vecchio) Dionigi II (il Giovane) Duride Eeta Eforo Egisto Eirene Eliocle Elissa Ellanico (cospiratore) Ellanico (storico)

Indice dei nomi 155; 176 n.41 165 49 41; 123 43 n.23 189-194 53; 54 144 n.37 132 n.4; 137 n.17; 155 39; 162 n.15 146 49; 103 n.70; 136; 137; 166 49; 51; 179 68; 155 n.64; 171; 172; 187; 195 55; 57 53; 54; 30; 52; 53; 153 n.57 98 59; 60 76-78; 90 n.36; 119; 120; 167 68; 111 n.14 145 v. Elissa 131; 132 116; 117 77 n.12 84; 85; 167 71; 72 n.53 147 n.44; 155 57; 155; 213 n.5 140 n.21 92; 93 n.44 99 71 113; 114 n.25 132 n.4

Indice dei nomi Enea Ennio, Quinto Eolo Eracle Eraclida Ercole (eroe greco) Ercole (figlio di Alessandro Magno) Erodoto Erotimo Esuperanzio Eucratide Eumene (uno dei Diadochi) Eumene II Eutropio Evagora Evandro Farnace I Fauno Faustolo Filarco Filippo (figlio di Antipatro) Filippo (figlio di Lisimaco) Filippo I di Macedonia Filippo II di Macedonia Filippo V di Macedonia Filocoro Filopemene Flacco, Calpurnio Floro, Lucio Anneo Fraate IV Fraate V Gabinio, Aulo Gargori Gellio, Aulo Gerione Gerolamo, Sofronio Eusebio Geronimo di Cardia

271

136 n.16; 149 n.52; 203 n.3 141 n.26; 159 n.8 140 n.21 v. Ercole (eroe greco) 87 n.30 20; 143; 144 n.37; 149; 181 n.51 83; 84 48; 132 n.4; 137; 155; 160 n.11; 170 64 108 98; 99 103; 175 n.39; 183 n.56 55; 58; 59 11; 108; 109; 191 n.72 49; 51 149 n.52 55; 58 149 138-140 147 n.44; 155 174; 175 93; 94 124 34; 49-51; 58; 169; 171-181; 216 35; 55; 57; 162 n.17 145 n.40 55; 56 81 n.20; 119 n.36 40; 41 n.17 32 n.3; 33 n.8; 190; 191; 193; 194 33 n.8 62 69; 154 31 n.2 69; 70 n.45; 142-144; 149 39; 43; 139 n.19 155

272 Giove Gitti Giulia maggiore Giuliano Giustino Martire Granio Liciniano Habis Iarba Iolla Ipparco Ippia Ippotoo Ircano Isidoro di Siviglia Istaspe Istro Labieno, Tito Lago Lamaco Lampi Larissa Latino Lenate, Gaio Popilio Leonide Licorta Licurgo Lisimaco Lisimaco (figlio del precedente) Livio, Tito

Longino, Gaio Cassio Lucullo, Lucio Licinio Macro, Gaio Licinio Macro, Pompeo

Indice dei nomi 172; 173; 201 n.105 150; 151 26 43 37 n.1 41 69; 70 n.45; 154 71 n.49 174; 175 117; 118 116-118 140 n.21 31 135 n.12; 144 n.37 136; 137 49 n.7 189; 190 181 n.51 67 115 n.25 177; 178 148; 149 n.50 59; 198 115 56 142; 165 52; 53; 93; 94; 116 n.28; 181; 183 n.57; 184; 185 93; 94 17; 21; 28; 29 n.23; 35; 41, 43; 90 n.34; 100; 119 n.36; 132; 133 n.8; 150; 151 n.55; 166 n.23; 192; 194; 208; 209; 211-214; 217-218 189-191 63; 64 139 n.19; 141 n.27 26 n.7

Indice dei nomi Malco Manlio, Vulsone Marco Aurelio Marica Marte Martino Polono Massimo, Mario Menandro di Laodicea Menfite Metello, Lucio Metello, Quinto Cecilio Micalo Milziade Mitridate II re dei Parti (detto il Grande) Mitridate VI Eupatore re del Ponto Mummio, Lucio Mummio, Spurio Nabucodonosor Nanno Nazario Nepote, Cornelio Nicia Nicolao di Damasco Nicomede II di Bitinia Nicomede III di Bitinia Nino Numitore Oco Odisseo Olimpiade Orode Oroferne Orosio Orziagonte Ottaviano, Gaio Giulio Cesare

273

103 55 41 149 n.50 138-141 37 n.1 111 n.13 126 92 88; 89 58; 59 66; 67 118 n.33 207 n.13 21; 48 n.4; 62; 63; 100-103; 157; 158; 200 n.99 58; 59 88; 89 162 n.15 150; 151 41; 123-126 9; 159 67 159 n.9; 203 n.2; 213 n.5 60; 152 n.56 152 n.56 161; 163; 166; 171; 202 138; 139; 142 146 149 n.50 51; 71 n.47; 72; 83; 172-175; 182 189-192 58; 59 10 n.3; 11 n.12; 15; 92 n.43; 95 n.49; 159; 176 n.41 55; 58 30; 32; 33 n.8; 41 n.17; 43 n.22;

274

Ottavio, Marco Pacoro Palefato Papiniano, Emilio Paolo Pausania (assassino di Filippo II) Peleo Perseo Pirro Pisistrato Pitagora Pittore, Quinto Fabio Platone Plinio, Gaio Secondo (il Vecchio) Polibio Polieno Poliperconte Pollione, Gaio Asinio Pompeo, Gneo (Magno) Porfirio Posidonio Prisciano Protarco Proti Prusia Pseudofilippo Pulcro, Publio Clodio Quintiliano, Marco Fabio Quirino Radulfo di Diceto Rea Silvia Remo Romolo

Indice dei nomi 132 n.6; 157 n.1; 158 n.3; 186; 189; 192-196; 199-202; 215; 217; 218 139 n.19; 141 n.27 189-191 142-144 87 n.32 49; 51; 172 n.35; 179 n.46 181 n.51 35; 48 n.4; 57 48 n.4; 197 116-118 165 139 n.19; 140 n.22 115; 170 n.32 28; 29; 43; 131 87 n.32; 155; 160; 170 n.32; 205 131; 137 n.17 52; 53; 84; 183 n.56 158 n.3 25; 26; 62-64; 154 n.64; 189; 190; 209 82 n.21 65 n.32; 135 n.12; 147 n.44; 153 n.61; 155; 170 n.32; 213 n.5 17 76 150; 151 55; 58-61 v. Andrisco 61; 62 21 n.20; 29 n.23; 158 n.3 149 n.51 31 138; 139 n.19 70 n.45; 138; 139 70 n.45; 126; 138; 139; 149 nn. 51-52

Indice dei nomi Rossane Rufo, Curzio Sallustio, Gaio Crispo Sandrocotto Sardanapalo Satiro Saturno Scimno di Chio Scipione, Publio Cornelio (Africano) Selene Seleuco I Nicatore Seleuco II Callinico Seleuco IV Filopatore Seleuco V Filometore Semiramide Seneca, Lucio Anneo (il Filosofo) Seneca, Lucio Anneo (il Retore) Serse Sertorio Servio Servio Tullio Settimio Severo Simmaco, Quinto Aurelio Simo Strabone

Stratone di Lampsaco Sura, Aemilius Sura, Mamilio Tacito, Publio Cornelio Tamiri Tarquinio Prisco

275

83; 84 17; 134 n.10; 171 n.34; 173 n.37; 174 n.38 21; 28; 29 n.23; 30; 100; 108 n.5; 119 n.36; 126; 160 n.13; 170 52; 53; 70 n.45 71 115; 116 148 152 n.56 88; 89; 198 79-81 52; 53; 75 n.9; 181; 183 n.57; 184; 185 54; 55; 147 n.45 55; 58 120 71 87 n.32; 158 n.3; 216 119 n.36; 122 103 n.70; 166 25 17; 21 n.20; 139 n.19 99 45 n.29 43 150; 151 28 n.16; 58 n.19; 135 n.12; 153 n.61; 154 n.62; 189; 194; 203 n.2; 204; 205; 206 n.8; 210; 213 135 n.12 162 163 n.17 28 n.16; 29 n.23; 43; 119 n.36; 126 n.57; 161 n.13; 166 n.23; 176; 189 103 150; 151; 208; 209

276

Indice dei nomi

Telefo Telemaco Temistocle Teopompo Teossena Teucro Teuta Tiberio Tigrane II di Armenia Timagene di Alessandria Timarco Timeo Tiridate Tolemeo Apione Tolemeo Cerauno Tolemeo Efestione Tolemeo (detto il Figlio) Tolemeo (I Soter) Tolomeo II Filadelfo Tolemeo IV Filopatore Tolemeo V Epifane Tolemeo VI Filometore Tolemeo (VII) Neo Filopatore Tolemeo VIII Evergete II Fiscone Tolemeo IX Latiro Tolemeo X Alessandro Trifena Trifone Trogo, Pompeo (nonno dello storico) Trogo, Pompeo (padre dello storico) Tullia minore Ulpiano, Eneo Domizio Valente Venere Vennonio

140 n.21 149 n.50 103; 104 n.71 34; 155 84; 85; 87; 88 n.32 69 48 n.4 32; 194 n.79 61-64; 154 n.64 19; 132-134; 150; 152-155; 157; 158; 206 n.8; 213 n.5; 215 53; 54; 58; 59 87 n.32; 155 193; 194 93 n.45 75 n.9; 93; 94 137 n.17 53; 54 30; 52; 53; 174 n.38; 181; 183; 184 198 n.91 75 n.10 58; 59 58; 59; 71; 77; 88-91 90; 92-94 48 n.4; 58; 59; 71; 76; 77 n.11; 78; 88-92; 95; 198 n.94 61-63; 65; 77 n.11; 78; 80; 81 78; 80; 81 95-98 76; 77 25 26 99 87 n.32 43 136; 137 139 n.19; 140 n.22

Indice dei nomi Ventidio, Publio Basso William di Malmesbury Xanto di Lidia

189-192 9 n.1 135 n.12

277

INDICE DEI PASSI CITATI

Aesch. Pers. 584-590

160

Alcuin. Versus de sanct. Euboric. Eccl. 1546-1560 11

64

Apul. met. 3, 5 8, 6

197 207

Argumenta Aeneidis, Decasticha 10, 6 188

Amm. 15, 4, 7 15, 9, 2-7 22, 15, 2 23, 6, 5 26, 9, 3 28, 4, 14

80 152 41 41; 125 41 111

Ampel. 13, 3

137

Anth. Pal. 9, 297

193

Anthisth. FGrHist 257, F 36 203 App. Ital. 8, 1

70, 367

207

Mith. 79, 351-352 106, 500

26 64

praef. 29-48

160

Syr. 11, 69 49, 249 67, 356

120 64 78

Aristid. or. 14 K, 27

180

Aristot. Ath. 14-15 17 18 19

117 117 117; 118 118

gen. anim. 767a ss.

142

Pol. 7, 6, 1 [1327b]

136

Aristox. frg. 50 Wehrli

170

Arr. 2, 7-8 3, 4, 5 7, 23, 2 7, 27

173 173 195 174

Athen. 13, 555d 13, 576 a-b

145 151

280 Aug. civ. 4, 6 18, 21 Caes. civ. 1, 35, 4-5

Indice dei passi citati

211 141

209

Gall. 5, 36, 1-2

27

Calp. decl. 35

81

Cato orat. frg. 64 Sbl. Cugusi 148 Catull. 1, 5-8

159

Char. p. 129 Barwick p. 173 Barwick

29 29

Cic. Brut. 14

159

Cat. 2, 1

80

fam. 9, 16, 5

197

leg. agr. 2, 3

62

off. 2, 28

210

orat. 120

159

Phil. 2, 94 8, 18

210 210

rep. 2, 4

141

Clearch. frg. 73 Wehrli

145

Ctes. FGrHist 688, F 13 137 Curt. 3, 1, 14-18 3, 7, 1 4, 7, 25 4, 13, 12 4, 14, 8-15 4, 15, 32 4, 16, 8-9 9, 8, 22 10, 10, 14-19

173 171 173 171 171 171 172 181 174

Dig. 10, 2, 50 42, 8, 19

87 87

Dio.Cass. 49, 21, 2 49, 23, 3-5

191 191; 192

Diod.Sic. 1, 2, 4 1, 3, 1-2 2, 1-28 2, 1, 4 2, 1, 5 2, 3, 1 4, 17, 2 4, 18, 2 11, 48, 2 11, 66, 1-3 14, 93, 4 17, 51, 4 17, 54, 5

159 159 161 161 161 161 144 144 67 67 207 173 195

Indice dei passi citati 17, 117-118 21, 16 33, 13 34, 14 ss. 34/35, 33

174 87 93 92 170

Dion.Hal. ant. 1, 2-3 1, 31-36 1, 43, 1 1, 72, 5 1, 77, 1 1, 78, 5 1, 79, 6-9 1, 79, 10 1, 81, 3 1, 84, 4 4, 39

160 149 149 149 139; 141 139 140; 141 141 142 139 99

Thuc. 19

205

Dyct. 2, 21 Enn. ann. 1, 65 1, 66 scaen. 70

80

140 141 81

Ephipp. Hist. FGrHist 126, F 5

195

Epit. Alex. 88-99

174

Eus. chron. 1, 164-166 Sch. 2, 133 Sch.

82 81

281

Eust. ad Od. 1796

149

Eutr. 1, 4, 1 1, 20, 1 2, 12, 1 2, 15, 1 2, 20, 1 3, 20, 2 3, 21, 1 6, 10, 1 6, 20, 3 7, 5 7, 9, 1

110 110 110 108 109 109 108 109 109 191 109

Fest. p. 43 Lindsay

149

Flor. epit. 1, 1 1, 28 2, 13

140 88 88

Gell. 10, 16, 3-4

152

Gran. Lic. 36, 30

126

Hdt. 1, 59-64 1, 142 1, 164 3, 83-87 3, 86, 2 5, 55-61 5, 62-65 6, 109 6, 123 7, 170, 3 8, 22 9, 122

117 136 204 137 137 117 118 118 117 67 104 170

282 Hes. Th. 1011-1013

Indice dei passi citati

149

Ap. 2, 51-52 2, 55

90; 92 93

Hier. chron. 85a Helm

139

Isae. De Diceog. [5], 46-47

118

in Dan. prol. 25, 494 Migne

39

Isid. Goth. 67

135

orig. 11, 3, 28

144

Isoc. Archid. 84

153

Iul. Val. 3, 30-33

174

Iust. praef. 1-6 1 3 4

20; 38; 159 31 131 15; 47; 110

1, 1, 1-5 1, 2 1, 2, 5 1, 2, 10 1, 3, 2 1, 4, 2-14 1, 5, 6 1, 5, 8 1, 5, 10 1, 6, 13 1, 7, 11-13 1, 7, 14 1, 7, 17 1, 8, 9 1, 8, 13 1, 9, 9-18 1, 10, 3-8

161 71 74 23 71 70; 112 94 23 131 72 23; 131 23 23 75 100; 103 71; 75 136

in Zach. 3, 14 Ps.Hipp. Aër. 12 Hom. Il. 2, 619

43

136

114

Hor. carm. 1, 2, 51-52

192

Hyg. fab. 252

140

Ioh. Lid. mens. 1, 13

149

Ioh. Malal. 11, 8

65

Iord. Get. 11 [67]

58

Ios.Fl. AJ 10, 11, 7 13, 369

162 64

Indice dei passi citati 1, 10, 9 1, 10, 15 2, 1, 2-4 2, 1, 5 2, 1, 5-21 2, 1, 13 2, 2, 5-15 2, 2, 14 2, 5, 1-6 2, 5, 10 2, 6, 7 2, 6, 10-11 2, 6, 16 - 7, 1 2, 7, 3 2, 7, 8 2, 7, 11 2, 8, 6 2, 8, 6 - 9, 6 2, 9, 2 2, 9, 18 2, 9, 19 2, 10, 11 2, 10, 15 2, 10, 16 2, 11, 18 2, 12, 3-7 2, 12, 22-25 2, 14, 4 2, 14, 6 2, 15, 6 2, 15, 16 3, 2, 1 3, 2, 7 3, 3, 6 3, 4, 1 3, 4, 11 3, 5, 1 3, 5, 2 3, 5, 15 3, 6, 1 3, 6, 7 3, 6, 9 3, 6, 18-19 3, 7, 5 3, 7, 11 4, 1, 1-6

137; 166 23 72 41 135 136 163 136; 163 131 49 145 145 165 165 74 62 75 116 112 23 23 145; 166 80 71 23 100 71 74 145 23 23 23 165 142 112 23 74 74 23 23; 168 23 23 183 23 23 66

4, 1, 7 4, 1, 8-13 4, 1, 8-18 4, 2, 4-5 4, 2, 7 4, 3, 1-3 4, 4, 1-2 4, 4, 4 4, 5, 2-3 5, 2, 5 5, 4, 3 5, 5, 1 5, 5, 5 5, 6 5, 9, 9 5, 10, 6 5, 10, 8 6, 1, 1 6, 2, 6 6, 2, 10 6, 2, 12 6, 4, 1-2 6, 6, 1 6, 7, 10-12 7, 2, 5-11 7, 3, 5-7 7, 4, 6 7, 4, 7 7, 5, 2 7, 5, 4 7, 5, 6 7, 5, 10 7, 6, 6 7, 6, 16 7, 7, 1 8, 1, 1-2 8, 1, 3 8, 2, 12 8, 3, 6 8, 3, 13 8, 3, 15 8, 4, 1 8, 4, 3 8, 4, 8-9 8, 5, 6 8, 5, 7

283 66 136 66 66; 166 23 168 23; 68 67 68; 111 71 23; 83 23 75 75 111 23 23 166 23 74 23 167 23 75 41; 124; 166 94 74 71 23 23 75 74 74 23 74 168 169 164 75 179 179 23 74 169 169 165

284 8, 6, 3 8, 6, 4-8 9, 2, 9 9, 2, 10-11 9, 2, 12-14 9, 3, 1-3 9, 3, 5-9 9, 3, 10 9, 4, 8-10 9, 6, 4-8 9, 6, 5 9, 7, 1-8 9, 7, 9-14 9, 7, 12 9, 8 10, 1, 4-6 10, 3, 1-3 11, 3, 3 11, 4, 3 11, 5, 5 11, 5, 6-7 11, 5, 8-9 11, 6, 4-6 11, 6, 8 11, 6, 11 11, 6, 15 11, 7, 1 11, 7, 10 11, 7, 16 11, 9, 8 11, 11, 2-7 11, 11, 6-8 11, 12, 3-4 11, 12, 11-15 11, 13, 6-7 11, 14, 3-6 11, 14, 4 11, 15, 4 11, 15, 7-13 12, 1, 4 12, 1, 11 12, 2, 16 12, 3, 11-12 12, 4, 5-7 12, 9, 13 12, 11, 8

Indice dei passi citati 75 179 145 50 50 50 50; 75 50 50 179 112 172 51 94 51; 169; 177 146 146 171 112 171 171 171 179; 200 171 180 195 23 182 173 171 172 136 23; 195 187; 195 171 171 172 74 172 23 23 23 145 181 18 23

12, 12, 11 12, 13, 1 12, 13, 2 12, 13, 8 - 14, 8 12, 13, 10 12, 15, 6 12, 15, 7 12, 15, 11 12, 16, 12 13, 1, 7 13, 1, 10-14 13, 1, 15 13, 2, 1 13, 2, 3 13, 4, 1 13, 4, 10 13, 5, 1 13, 5, 10 13, 6, 1 13, 6, 18-19 13, 7, 1-11 13, 7, 4 13, 8, 10 14, 3, 1 14, 4, 2-14 14, 5, 8 14, 6, 7-8 15, 1, 1 15, 1, 6 15, 1, 7-8 15, 1, 9 15, 2, 1 15, 2, 1-5 15, 2, 7-9 15, 3-4 15, 4, 13-20 16, 1, 8 16, 2, 1 16, 2, 4 16, 2, 5 16, 2, 7-9 16, 3, 1 16, 4, 6-5 16, 5, 12-18 17, 1, 4 17, 1, 7-12

23 74 195 174 74 182 23 182 23 176 180 181 176 182 181 176; 181 23; 74 74 168 183 44; 48 23 23 23 100; 103; 175 23 182 183 52 166 95 23 52; 53; 75; 83; 147 30; 53; 145 53; 181 70; 112 74 183 23 176 184 182 18, 168 115 72 185

Indice dei passi citati 17, 2, 1 17, 2, 5 18, 1, 11 18, 2, 6 18, 2, 7 18, 2, 8-9 18, 3, 18 18, 4, 9 18, 4-6 18, 5, 6 18, 6, 5 18, 6, 10 18, 7, 2 18, 7, 4 18, 7, 9 18, 7, 10-14 18, 7, 18 19, 1, 10 19, 3, 3 20, 1, 1 20, 1, 11 20, 4, 4-18 20, 5, 3 20, 5, 14 21, 1, 1-2 21, 2, 1 21, 2, 9 21, 2, 10 21, 4, 1 21, 4, 3 22, 1, 6 22, 4, 1 22, 5, 1 22, 6, 12 22, 8, 7 22, 8, 13-14 23, 1-2 23, 1, 2 23, 1, 4-15 23, 1, 7-9 23, 1, 17 23, 2, 3 23, 2, 13 23, 3, 4 23, 3, 5 23, 4, 1-2

23 74 23 23 198 23; 198 23 23 71 23 23 23 23 23 23 100; 103 23; 147 23 74 167 25 165 145 23; 167 165 71 62 112 23 94 23 80 87 23 23 87 85 169 89 142 23 23 23 74 23 166

23, 4, 3-11 23, 4, 15 24, 1, 1 24, 3, 1-8 24, 3, 9 24, 3, 10 24, 4, 5 24, 4, 7 24, 5, 5 24, 6, 8-9 25, 1, 9-10 25, 2, 5 25, 2, 8-10 25, 2, 10 25, 3, 1 25, 5, 3 26, 1, 2 26, 1, 4-10 26, 1, 7 26, 1, 8 26, 2, 2-6 26, 2, 6 26, 2, 8-11 26, 3, 3-7 26, 3, 8 27, 2, 1-3 27, 3, 8 27, 3, 11 28, 2, 4-8 28, 3, 6 28, 3, 7 28, 3, 11 28, 4, 16 29, 1, 5 29, 3, 5 29, 4, 7 30, 2, 5 30, 2, 8 30, 3, 5 30, 3, 7 30, 3, 10 31, 1, 3 31, 2, 7 31, 5, 9 31, 7, 5-7 31, 8, 5

285 70; 112 166 23 93 23 147 74 196 23 145 145 23 203 196 23 131 54 54; 113 94; 112 11 54 147 54 54 54 147 23; 74 71 203 147 23 23 23 75 62 23 42 11 23 23 23 23 62 203 198 23

286 31, 8, 8 31, 8, 9 32, 1, 1-2 32, 1, 3 32, 1, 4-10 32, 1, 10 32, 2, 3-5 32, 2, 6-10 32, 2, 9 32, 3, 9-12 32, 3, 13 32, 3, 13-16 32, 4, 2-7 32, 4, 11 32, 4, 12 33, 1, 6 34, 2, 2-5 34, 2, 6 34, 2, 7 34, 2, 8 34, 3, 1-4 34, 3, 6-7 34, 3, 9 34, 4 34, 4, 2-5 35, 1, 11 36, 1, 4 36, 1, 5 36, 1, 7 36, 1, 9 36, 4, 7 36, 4, 12 37, 1, 1 37, 1, 3 37, 1, 4 37, 1, 9 37, 2, 7-9 37, 3, 4 38, 2, 2 38, 2, 8 38, 3, 11 38, 4-8 38, 4, 1-3 38, 4, 4-12 38, 4, 13 - 5, 2 38, 5, 1

Indice dei passi citati 198 74; 189 23, 95 203 23; 56 23 57 57 23 57 25 57 60 39 166 23 59 23 23; 59; 71 90 59; 198 60 60 60 61; 74 23 188 23 77 78 74 149 205 198 72 23 142 72 23 165 21; 28; 111 17; 157 102 102 102 200

38, 5, 3-10 38, 6 - 7, 5 38, 7, 6-10 38, 8, 1-2 38, 8, 2-15 38, 8, 5 38, 8, 8-11 38, 8, 11 38, 9, 1 38, 9, 3 38, 9, 8 38, 9, 9 38, 10, 3 38, 10, 8 38, 10, 10 39, 1, 1-4 39, 1, 7 39, 1, 8 39, 1, 9 39, 2, 6 39, 2, 7-9 39, 3, 1-4 39, 3, 5-12 39, 4, 1 - 5, 1 39, 5, 2 39, 5, 5 39, 5, 6 40, 1, 1 40, 2, 5 41, 1, 1-9 41, 2, 7 41, 4, 9 41, 4, 16 41, 5, 7 41, 5, 8 41, 5, 9 41, 6, 3 41, 6, 4-5 41, 6, 6 42, 2, 7 - 3,5 42, 2, 4 42, 2, 6 42, 3, 1 42, 3, 4 42, 3, 7 42, 4, 1

102 102 102 48 89 90; 112; 207 71; 74; 198 74 23 77; 78 23 78 145 75 23 74; 167 23; 74 207 75 23 119 78; 79; 97 23; 95; 147 75, 80; 147 23 168 64 169 169 39; 162; 182; 186 148 23 33 23; 186 32; 42 23 23;74;99;168;186 98 23; 186 48 74 23 74 69; 147 131 207

Indice dei passi citati 42, 4, 4 - 5, 1 42, 5, 5 42, 5, 8-12 42, 5, 11-12 43, 1, 1-2 43, 1, 3-4 43, 1, 3-6 43, 1, 6 43, 1, 7 43, 1, 9 43, 1, 13 43, 2, 1-10 43, 3, 3 43, 3, 4-12 43, 3, 13 43, 4, 1-2 43, 4, 3 43, 4, 4 43, 4, 6 43, 4, 8 43, 4, 10 43, 4, 12 43, 5, 1 43, 5, 2 43, 5, 3 43, 5, 5-7 43, 5, 8-10 43, 5, 11-12 44, 1, 2 44, 2, 4 44, 2, 8 44, 3, 1 44, 3, 2-3 44, 4, 1-16 44, 4, 2 44, 4, 2-11 44, 4, 3 44, 4, 8 44, 4, 9 44, 4, 14-16 44, 4, 16 44, 5, 5 44, 5, 7 44, 5, 8

23; 147; 190 23 194 32 162; 196; 197 148 18 149 148 69; 149 136 23; 70; 112; 138 149 74; 151; 203; 205 204 204 204 23 74 71 204 145 74 205 153; 205 153; 204 206 25 69 69 69 131; 144 69 69, 154 23 70; 112 11 23 23 69 143 69 74 202

287

Iuv. 7, 150

112

Liv. 1, 4, 2 1, 4, 7 1, 4, 8-9 1, 5, 1-3 1, 5, 6 1, 46-48 4, 32, 12 4, 60, 2 5, 25, 7 5, 28 ss. 5, 34, 1-8 9, 18, 6 9, 19, 16-17 21, 25, 1 28, 21, 9 31, 26, 3 33, 20, 13 34, 9, 10 36, 19, 13 37, 36, 1 38, 55, 2 40, 8, 2 40, 12, 16 41, 25, 8 frg. 55 Weiss.

141 139 141 150 142 99 91 62 207 207 209 35; 132; 192 212 209 160 209 212 209 209 209 207 80 91 212 194

perioch. 52 59

90 92

Lucan. 1, 3 1, 670

183 217

Lucil. 613-614 Marx

192

Macr. Sat. 1, 7, 36

148

288

Indice dei passi citati

Memn. FGrHist 434, F 1 115 FGrHist 434, F 8,7 93 FGrHist 434, F 44 26 Men.rhet. 2, 372

126

Nic.Dam. FGrHist 90, F 74 65 FGrHist 90, F 135 159 OGR 19, 5 19, 6 20, 1 20, 3 21, 1

139; 141 139 139 140 139

Oros. hist. 3, 7, 5 3, 17, 7 3, 18, 8-10 3, 20, 8 5, 10, 6-7

176 176 176 176 92; 95

Ov. ars 1, 177-201

trist. 2, 227-228 2, 233-234

193 201

Palaeph. 20 24

144 143

Paneg. 4 (10), 20, 1-2

41; 124

Paus. 1, 6, 2 1, 8, 5 1, 29, 15 5, 5, 1 6, 14, 11 10, 8, 6 10, 18, 7

181 118 118 113; 114 113 153 205

Petr. 1,1

112

Phaedr. 1, 4, 1

167

Philoch. FGrHist 328, F 93 145 FGrHist 328, F 127 67 193

epist. 16, 209

90

fast. 1, 467-585 2, 266-450 2, 413-414 2, 475-477 2, 559-560 5, 79-110 6, 587-608

150 150 140; 141 149 149 150 99

met. 15, 834

201

Phot. bibl. 72 [38a] 190 [148b] 224 [222b]

137 137 115

Plin. nat. 3, 37 7, 33 7, 119 8, 165 8, 212 10, 101 11, 229 11, 274

26 28 207 140 141 28 28 28

Indice dei passi citati

289

11, 276 17, 58 17, 209 18, 143 31, 131 35, 130 35, 137

28 28; 29 139 163 28 28 28

Sol. 2, 7

151

Polyaen. 7, 6, 4 7, 7, 1 7, 10 7, 44, 2

131 131 137 131

Plut. Alex. 10, 6 27, 8 43 77

172 173 172 174

Polyb. 1, 2, 1-7 3, 22, 1 3, 95, 2 12, 15

160 205 210 87

Art. 26-30

146

Cam. 8

207

Crass. 33

192

Luc. 15, 2

26

mor. 180b 207d 250f-253f 252a-253b 285c-d 315a 320d 337a 340b 458a-b 551e-f

195 197 113 114 149 140 140 180 137 181 145

Rom. 4, 2 4, 3 6, 2 7, 3 29, 1

141 139 141 142 149

Pomp. Trog. prol. I II IV VI IX XI XIII XIV XV XVI XVII XXIII XXIV XXVI XXVII XXX XXXII XXXIV XXXVII XXXVIII XXXIX XL XLIII XLIV

61 61,118 66 61 49; 95; 179 66; 68 48 71 52; 84 71, 116 61 86; 87 71; 75 53, 113 75 71 55, 95 58; 61 61 71, 90 61, 71, 77 12; 61, 71 151 66; 69

Porph. Hor. epod. 11, 12-14

21

290 Posid. frg. 231 E-K frg. 241 E-K frg. 243 E-K frg. 246 E-K frg. 247 E-K Prisc. inst. 5, 3, 12 6, 11, 63

Indice dei passi citati

65 153 153 153 153

17 17

Procop. Pers. 8, 22, 7-8

203

Prop. 3, 4, 7-10 3, 5, 47 - 48

192 192

Ps.Quint. decl. 10, 3, 3 10, 3, 11 16, 3, 6 16, 7 17, 17, 4-9

87 87 114 114 120

Quint. decl. 306 321, 9, 1 338, 18 368, 4

112 183 112 81

inst. 2, 10, 4-5 9, 2, 37 10, 1, 101 ss. 12, 11, 1

123 21 29 197

R. Gest. div. Aug. 8 201 29 199 32 194

Radulf. Dic. p. 20 Stubbs

31

Rhet. Her. 4, 16

21

Sall. Catil. 2 10 53, 6-54

160 170 177

hist. frg. 7 Maur. frg. 11 Maur. frg. 12 Maur. frg. 16 Maur. frg. 69 Maur.

170 170 170 170 102

Iug. 41, 2 ss.

170

Schol. Apoll. Rhod. 3, 200 149 Scymn. 250 ss.

152

Sen. ira 3, 23, 4-8

158

nat. 3, 18, 6

207

Phaedr. 631

87

ben. 6, 37, 3

197

tranq. 12, 4

207

Indice dei passi citati Sen. Rhet. contr. 7, 2, 8 7, 5, 12–13

122 123

suas. 6, 16 6, 27

122 123

Serv. Aen. 1, 273 2, 638 11, 312 12, 164 georg. 4, 386

139 21 21 149 17

291

3, 5, 8 3, 5, 9 4, 1, 5 5, 3, 3 6, 4, 2 7, 3, 5 7, 3, 11 11, 9, 2

153 153 28; 204; 205; 210 149 194 58 58 189

Suet. Aug. 34, 2 89, 2

201 201

Cal. 13, 1

207

Dom. 2, 3 8, 3

21 208

SHA Aurel. 2, 1-2 7, 10

29 87

Suid. π 3037

137

Prob. 2, 7

29

Symm. epist. 4, 18, 5

43

Tac. Agr. 4, 3

28

ann. 2, 60 2, 73, 2 3, 28 4, 34 4, 67 16, 7

189 176 217 218 80 87

dial. 35

112

hist. 2, 75

176

Tac. 10, 3 Sidon. carm. 2, 119

43

140

Sil. 12, 317

188

Sosyl. FGrHist 176, F 1

205

Strabo 3, 1, 5 3, 1, 6 3, 2, 5 3, 4, 3 3, 4, 19

153 154 153 153 213

292

Indice dei passi citati

Theon prog. 65-66 72

123 123

Thuc. 1, 13, 6 1, 20 4, 65, 3 6, 54-59 6, 59, 4

205 118 67 117 118

Timae. FGrHist 566, F 124 B3 87 Timag. FGrHist 88, F 2

152

Val. Max. 2, 6, 7 3, 6, 7 9, 2 ext. 5

28 210 92

Varro ling. 5, 155

208

Veg. mil. 2, 25, 11 3, 10, 20

80 88

Vell. 1, 6, 6 2, 71, 1 2, 94, 4 2, 131, 1-2

162 91 194 216

Verg. Aen. 1, 471 2, 558 6, 776 6, 833 6, 851-853 7, 45-49 8, 51-58 8, 630-632 9, 343 12, 144

90 188 188 183 217 149 150 140 188 91

Zonar. 7, 1

139

XVI. ENGLISH SUMMARY The only known instance of Latin universal history before the Christian Orosius, the Historiae Philippicae by Pompeus Trogus are unfortunately lost in their original and survive only in the form of a clumsy abridgment by a certain Justin, an otherwise unknown author of very dubious chronology. As Otto Steel expressed so aptly, our complete lack of information about Justin and his text can generate a sense of horror vacui in the minds of scholars; but this consideration is equally true for those who face the challenge of studying Trogus - so much about his life and work is disputed, not least his attitude to Rome. At the origin of the problem stands the very nature of Justin’s Epitoma, which is notoriously marred by historiographical inaccuracies, inexplicable omissions, and an apparently ineffective editing. Some have even questioned Justin’s own aptitude for the task, for, if he indeed intended to compose a historical abridgement, he did not seem to realize that his rewriting seriously compromised the historical value of the information that he transmitted. The present book proposes a radically new understanding of Justin’s Epitoma, and intends to make justice to the type of textual reception that the work represents. A systematic analysis of Justin’s modus operandi shows that the selection of the material from Trogus was not indiscriminate as is often suggested; rather, Justin carefully selected passages according to a set of identifiable criteria. Even though the connection and correlation of the anecdotes do not respond to strictly historiographical criteria, their arrangement is nonetheless coherently articulated according to a common structure beginning-developmentconclusion. Justin was not so much concerned about history as he was about selected scenes and events which he reported in detail and with gusto, and he did so for a like-minded audience - a consideration that will also contribute to the establishment of a firmer chronology for his work.

294

English Summary

Only once we have discerned, in their own right, the concerns that guided Justin, it becomes possible to turn to Trogus. Justin removed the chronological and geographical framework of the Historiae Philippicae, effectively rewriting the text as series of anecdotes that nonetheless preserved the interest in natural history by its author, his rationality, his solid moral, and his devotion to pax and concordia. In his view, these two qualities had to be the necessary underpinnings of a polycentric empire in which the cultural traditions and needs of new citizens can be accommodated. Some of the most disputed aspects of Trogus’ work should therefore be understood in terms of teaching and admonition rather than in terms of opposition to Rome. By means of his naturalist outlook, Trogus saw the origin of evil in that savage aspect of the human character that desperately strives for cupiditas of power and ultimately causes political unrest and instability. Concordia and discordia, in lieu of virtus and fortuna, are the two oppositional forces that move human history forward according to Trogus’ understanding of it. Rather than celebrating an enemy, the account of the history of Macedon, so emblematic to give the work its title, was indeed to be taken as an admonition for Rome. Not far in space or in time, the dynasty of Macedon stood as a clear example of the raise and fall of a kingdom: while virtue, and so also fate, can help rise to power, political acumen is necessary to maintain it, but as long as this is united to the appreciation of peace and order, and the capability to keep oneself within human and territorial limits. This was the message that Trogus, not unlike Livy, intended to send his readers.