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Italian Pages 294 Year 2023
Marco Mazzone Razionali fino in fondo Dal pensiero ideologico al pensiero critico Quodlibet Studio
Indice
Premessa 9
O.I
La razionalità, cominciando dal principio
IO
0.2
I due protagonisti di questo libro
12
0.3 0.4 0.5 o.6 0.7 o.8 0.9
Un primo sguardo sui processi cognitivi e neurali Precisazioni terminologiche Il pensiero ideologico: un fenomeno ambiguo
14 15 18
19 20 22
24 26
O.IO O.II
Un bilancio e alcune avvertenze: il tema della normatività Le emozioni, un problema tradizionale Ragione ed emozioni: un modello cognitivo Un corno del dilemma: la pericolosità delle emozioni L'altro corno del dilemma: il sogno della democrazia Una coda: il momento attuale, il ruolo dell'educazione
Capitolo primo L'inattuale trasparenza del soggetto 31 35 36 38 43
Opachi a noi stessi 1.2 La questione, all'osso 1.3 Resistere ai panglossiani: la posta in gioco I.I
1.4 Il punto cieco degli argomenti panglossiani 1.5 Conclusioni
Capitolo secondo La potenza dell'inconscio 45 48
2.1
Tornano le rappresentazioni mentali
2.2
Contro l'introspezione: l'anatema di Fodor sugli stati coscienti
6
INDICE
50 53 56 59 61 62 65 67
2.3 2.4 2.5 2.6 2.7
71
2.12
74 76
2.13 2.14 2.15 2.16 2.17 2.18 2.19
84 87 89 94
Processi intelligenti che fanno cose stupide Parole automatiche
Comportamenti automatici 2.9 Prendere ascensori, ma con coscienza 2.10 Contro il sonnambulismo: una concezione moderata degli scopi inconsci 2.11
81
Dal teatro cartesiano al razionalismo cartesiano Vedere sen7..a saperlo: il magico mondo dei processi automatici
2.8
68
80
Processi automatici o teatro cartesiano?
2.20
Il principio di similarità: quando gli scopi inconsci non sono onesti Sonnambuli nel tempo: il problema di Libet Il potere di veto Automaticamente morali Dare e chiedere ragioni: un'attività «dopante» Fame, disgusto, e altri fattori morali Fondamenti evoluzionistici della morale? Individuale o sociale? Artefatti naturali, individui sociali Una conclusione: spazio delle confabulazioni o spazio delle ragioni?
Capitolo terzo Il ragionamento e le sue disavventure 99 101
106 109 III
114 116 118 120
123
3.1 Ragionamento, razionalità, pensiero critico: un po' di termioologia
3.2 3.3 3.4 3.5 3.6 3.7 3.8 3.9 3.10
Macchine logiche ideali? Carte da girare, birre proibite: i problemi della deduzione Forma o contenuto? Vedere configurazioni, e gli scienziati ostinati Cercare conferme Controesempi visibili e invisibili Il venerabile problema dell'induzione Stereotipi, prototipi, e convivere con le eccezioni Menti comunicanti
INDICE
125 127 130 134 136 139 143 146
7
3.11 3.12 3- 13 3.14 3- 15 3.16 3- 17 3.18
Reti associative che non vogliono avere torto Stereotipi buoni, stereotipi cattivi Associazioni che sparano Il pr~ao detragio Monitorare l'ambiente in cerca di nemici Emozioni in rete Euristiche frugali e orologi rotti Modello duale versus teoria argomentativa
Capitolo quarto La mente riflessiva 153 154 157 158 161 165 167 169 173 175
4.1 4.2 4.3 4.4 4.5 4.6 4-7 4.8 4.9 4.10
Una sosta, per guardare indietro Non c'è due senza tre Intelligenze prepotenti Come uno specchio: la mente riflessiva Razionali per natura (ma non abbastanza) Come sappiamo quando ci serve aiuto? Mettere in riga le preferenze Il piacere di esitare Razionalità come integrazione tra emozioni Emozioni e credenze beneducate
Capitolo quinto Verso la costruzione dell'identità 179 180 184 190 194 197 199 201
5.1 5.2 5.3 5.4 5.5 5.6 5.7 5.8
205
5.9 Quasi una conclusione
Ancora automatismi Sentirsi nel giusto Perché io sono speciale ... Motivi per ragionare Ragionamento motivato e buona educazione Io credo quel che mi pare Credenze fantastiche, contenuti impliciti
Come sai che è vero? Divisione del lavoro intellettuale e sospensione dell'incredulità
8
207 210
213
INDICE
5.10 Tutta la verità, nient'altro che la verità 5.11 Il gioco del vero e del falso, e la penombra epistemica 5.12 Tirando le somme, guardando al dopo
Capitolo sesto Il pensiero ideologico 215 216 219 221
225 228 231 234 235 239 242 244 246
6.1 6.2 6.3 6.4 6.5 6.6
Un universo simbolico Due definizioni della specie umana Coalizioni ideologiche e istinto gregario? Egoisti ipocriti, menti tribali Ospitare il prossimo
Il rito sociale dell'insulto 6.7 Costruire apparenze sociali (e prenderle sul scrio) 6.8 Attori sulla scena sociale, trafficanti di moralità 6.9 Uomini di parola Moralisti ipocriti o idealisti miopi? 6.11 Individui (particolarmente) morali, comunità (discutibilmente) morali 6.12 Debiasing morale: riconoscere in noi il «moralista in cattedra» 6.IO
6.13 6.14 6.15 6.16
Violenza (e) morale L'errore fondamentale di attribuzione: l'altro come stereotipo
Il modello di Erikson Identità plurali? Trascendere le identità
267 270 273
6.17 6.18 6.19 6.20 6.21 6.22
276 278 281
6.23 La questione dell'ipocrisia linguistica 6.24 Identità simboliche, e ultra-simboliche 6.25 Le radici elitarie del PC
249 253 256 260 262 265
287
Candore radicale Per futili motivi: i valori asserviti all'identità
La logica della polarizzazione
Politicamente corretto e polarizzazione Dittatura linguistica e populismo
Riferimenti bibliografici
Premessa
o. 1 La razionalità, cominciando dal principio Siamo animali razionali? La domanda e il tema sono tradizionali in filosofia. Già in Aristotele gli esseri umani sono addirittura definiti come animali razionali: ossia, la proprietà della razionalità catturerebbe ciò che di specifico contraddistingue la specie umana tra gli altri esseri animati. Sarebbe tuttavia troppo facile, e decisamente autoindulgente, fermarsi a questa risposta. Una delle cose che la filosofia dovrebbe insegnare è che non c'è domanda, per quanto apparentemente semplice, che non abbia in sé ambiguità tali da esigere approfondimento. Così molte delle domande che ci facciamo valgono non tanto per le risposte che intuitivamente siamo inclini a dare, o per gli argomenti che, facendoci avvocati di quelle risposte intuitive, portiamo in loro favore. Le domande filosofiche valgono soprattutto in quanto ci costringono, attraverso il confronto delle risposte, ad imparare qualcosa sulla complessità dei concetti coinvolti - il che ci consente poi di riformulare le domande in modi più precisi. È, in parte, quello che mi riprometto di fare in questo libro con riferimento alla nozione di razionalità. Già la posizione di Aristotele è di una ricchezza tale che bisogna essere attenti a discernere esattamente cosa essa comporta. Non sono un esperto di filosofia antica né di Aristotele in particolare ma, come proverò a mostrare di passaggio, è sufficiente leggere con attenzione qualcuno dei suoi passi più celebri per apprezzare questa ricchezza e profondità. Aristotele è noto tra le altre cose per avere posto le fondamenta della logica, dunque della riflessione sulle leggi del pensiero. Tuttavia, quando ci
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RAZIONALI FINO IN FONDO
dice che siamo animali razionali - più precisamente, animali dotati di logos - non intende soltanto ed essenzialmente che siamo capaci di ragionamento logicamente corretto. Il termine «logos» è di fatto polisemico: è usato nel lessico greco per indicare il linguaggio, il discorso, e per traslato la struttura («logica») che linguaggio e mondo condividono e che perciò ci consente di catturare linguisticamente la realtà. Complice questa polisemia del termine, nei passi in oggetto il filosofo intende dire, tra le altre cose, che siamo animali capaci di fare alcune cose che solo il parlare umano rende possibili1.
o. 2 J due protagonisti di questo libro Nel presente libro prenderemo in considerazione due abilità di questo tipo, ed anzi un obiettivo di fondo sarà precisamente analizzare queste capacità, e argomentare che è importante coglierle come distinte. In breve, la prima è la capacità di adoperare il linguaggio per confrontare tra loro affermazioni fattuali o scelte possibili, valutandone i pro e contro. La seconda è la capacità di adoperare il linguaggio per costruire identità sociali attraverso il posizionamento ideologico - ovvero attraverso l'adesione a complessi di idee e giudizi valutativi a sfondo morale. Entrambe le capacità, com'è evidente, richiedono il possesso del linguaggio. Abbiamo bisogno del discorso - di pratiche linguistiche - per formulare descrizioni del mondo e dei corsi d'azione possibili, e discutere su quali tra queste descrizioni e azioni siano da preferire. E abbiamo bisogno di pratiche linguistiche per esprimere, e confrontare, idee e valutazioni che portano alla formazione di identità individuali e coalizioni sociali. Si potrebbe obiettare che è estremamente difficile distinguere queste due capacità. Sono completamente d'accordo. Quando confrontiamo linguisticamente posizioni e idee morali, quando ci identifichiamo con esse e ci scontriamo qualora esse divergano, siamo di norma anche impegnati nel valutare i pro e contro di affermazioni 1
Per cogliere alcuni aspetti cruciali del significato di logos in Aristotele, si veda Lo Piparo (2003). Sul tema della razionalità in generale, un magnifico testo introduttivo è Labinaz (2013), la cui lettura è consigliata a chi volesse approfondire la panoramica delle posizioni qui discusse. Un'ottima introduzione classica al tema del ragionamento è Girotto (1994).
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fattuali o scelte possibili. E, viceversa, quando siamo impegnati in attività di questo secondo tipo in genere non possiamo sottrarci a processi di identificazione personale con le posizioni che adottiamo, e di confronto (anche animato) quando esse divergono. Che dunque questi due tipi di attività siano fittamente intrecciati, e che sia difficile districarli, non lo metto in dubbio. Il mio punto, semmai, è se sia nondimeno possibile e utile tracciare questa distinzione. In filosofia c'è un argomento ricorrente, che capita di incontrare in forme e contesti differenti, e che potremmo chiamare «argomento della non-separabilità». La strategia di fondo consiste nel presentare una certa totalità come qualcosa di intero e vivo, tale che ogni tentativo di analizzarla in componenti distinte appare un'operazione astratta, che finisce con il distruggere quel che ci si proponeva di comprendere. Non ho mai trovato particolarmente convincenti argomenti di questo genere, ma so per esperienza che non è facile mostrarne l'inconsistenza. Pertanto non cercherò di fornire un contro-argomento generale. Mi preoccuperò piuttosto di descrivere nel modo più vivido che posso le due capacità; analizzare alcuni modi interessanti in cui esse interagiscono; mostrare che per dispiegare la nostra razionalità potrebbe essere importante ridimensionare l'una e sviluppare maggiormente l'altra. Se riuscirò in questi obiettivi, la fondatezza teorica e l'utilità pratica che rivendico per quella distinzione saranno dimostrate quanto basta per i miei fini. Non pretendo di più. Chiamerò la prima capacità - quella di analizzare e confrontare punti di vista esaminandone i pro e contro - «pensiero critico»; e chiamerò la seconda - la capacità di costruire identità individuali e posizionamenti sociali tramite discorsi valutativi - «pensiero ideologico». Per esemplificare, una discussione scientifica in cui si valutano senza passione i pro e contro di un'ipotesi è un caso paradigmatico di pensiero critico, mentre una discussione politica in cui ciascuno difende con veemenza una posizione in cui si identifica profondamente è un esempio di pensiero ideologico. Con questo non intendo dire che ogni discussione scientifica sia necessariamente un esempio di pensiero critico, o che ogni discussione politica sia un esempio di pensiero ideologico. Come ho detto, miravo solo a fornire esempi paradigmatici; e negli esempi forniti, il grado di identificazione personale e di passione implicati sono almeno altrettanto importanti dei domini scelti. Anzi, come vedremo tra un attimo, un punto cruciale
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del presente discorso è che pensiero critico e pensiero ideologico possono applicarsi agli stessi temi e perciò interagire tra loro. Quello che proverò a mostrare, in particolare, è che il pensiero ideologico può espandersi al di là della misura che il pensiero critico dovrebbe consentire, e può anzi giungere in questi casi a condizionare e fuorviare il pensiero critico. Per farlo utilizzerò essenzialmente risultati che provengono dalla psicologia in senso lato - dalla psicologia dell'economia, con le ricerche avviate da Kahneman e Tversky su euristiche e bias2 ; dalla psicologia sociale; dalla psicologia del ragionamento; dalla psicologia della politica - con un occhio ai generali modelli teorici sottostanti, e persino un rapido sguardo alle strutture cerebrali che quei modelli invocano. Quest'esplorazione relativamente ampia dovrebbe consentirci, tra l'altro, di dare maggior robustezza alla distinzione che provo a tracciare. Perché, come cercherò di mostrare, pensiero ideologico e pensiero critico potrebbero mobilitare in modo abbastanza differente i circuiti neurali sui quali poggiano.
o. 3 Un primo sguardo sui processi cognitivi e neurali Per un verso entrambe le capacità coinvolgono tanto i circuiti delle motivazioni - quelli da cui scaturiscono le emozioni - quanto i circuiti pre-frontali che presiedono alle funzioni cosiddette «esecutive» - ovvero, i processi controllati e coscienti di monitoraggio, selezione, inibizione delle scelte comportamentali. In altri termini, pensiero ideologico e pensiero critico esigono entrambi una collaborazione tra emozioni e processi cognitivi di alto livello. Ma, per un altro verso, le due tipologie di pensiero coinvolgono questi due sistemi mentali/cerebrali in modi quasi opposti. 2. Il termine «bias» potrebbe essere tradotto con «inclinazioni» o meglio, con connotazione peggiorativa, «inclinazioni tendenziose». Con esso ci si riferisce, nella recente psicologia del ragionamento, a tendenze automatiche e inconsce che indirizzano il pensiero in modi talvolta fuorvianti. Il termine «euristica» indica in origine un processo approssimato di soluzione di un problema, ma l'accezione che prevale nella discussione attuale è quello, comune ai bias, di meccanismi cognitivi fallibili: sebbene euristiche e bias possano produrre in molti casi risposte sufficientemente corrette, ci sono contesti nei quali questi meccanismi producono errori sistematici. Sotto il profilo linguistico, userò il termine «bias» in modo invariato al singolare e al plurale, assumendo che sia ormai assorbito in italiano nel lessico tecnico della psicologia.
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La modalità più frequente della nostra vita mentale consiste in un ampio tappeto di processi automatici, accompagnati da processi coscienti che esercitano su di essi un monitoraggio decisamente pigro (parlando più rigorosamente, si dovrebbe dire che i processi coscienti monitorano i risultati dei processi automatici). Ciò significa che i processi coscienti si limitano perlopiù ad accogliere i risultati degli automatismi, salvo che questi divergano dalle aspettative in modo così eclatante da imporre una significativa revisione. Tale revisione tuttavia comporta un dispendio di energia decisamente maggiore, e perciò i processi coscienti tenderanno a sottrarvisi così da rimanere, in assenza di violazioni importanti delle aspettative, in uno stato di minimo sforzo. Il pensiero critico comporta una sorta di innaturale (ossia, non spontanea) sospensione di questa tendenza al risparmio delle energie, così da attivare processi più robusti di controllo dei propri meccanismi automatici. Esso ha pertanto bisogno del supporto dei sistemi motivazionali, che devono spingerci ad attivare meccanismi più faticosi di vigilanza e monitoraggio anche «a freddo»: ossia in assenza di segnali esterni che ciò sia strettamente necessario. Il pensiero ideologico, d'altro canto, opera in una direzione pressoché contraria. Qui la coscienza raccoglie i suggerimenti degli automatismi e li potenzia, così da rendere ancora più difficile un loro monitoraggio critico. In pratica, non solo nel pensiero ideologico le associazioni con stati emozionali (positivi o negativi) orientano automaticamente giudizi e scelte. In più, questi giudizi e scelte pregni di emozioni entrano nella coscienza e vi si insediano, producendo uno stato di gratificazione che rende ancora maggiore il senso epistemico di conferma della loro correttezza. Ci riconosciamo coscientemente, per così dire, nei risultati degli automatismi, ci identifichiamo con essi, e dunque non sentiamo alcun bisogno di metterli in discussione. In breve, mentre nel pensiero critico le emozioni lavorano per aumentare i livelli di monitoraggio della correttezza delle nostre scelte e giudizi, nel pensiero ideologico le emozioni operano in direzione contraria, ossia nel senso di un loro accoglimento senza ulteriore controllo.
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RAZIONALI FINO IN FONDO
0.4 Precisazioni terminologiche Già da questa sommaria descrizione è chiaro che pensiero critico e pensiero ideologico, in questo libro, non sono presenti con connotazione ugualmente positiva. Non è esagerato dire che mentre il pensiero critico è l'eroe della storia, il pensiero ideologico verrà considerato soprattutto come un potenziale intralcio sulla strada del primo. In apertura è dunque opportuno fare alcune precisazioni, in parte terminologiche ma anche - a un livello più sostanziale - relative a questa disparità di giudizio. Cominciamo con l'osservare che l'espressione «pensiero critico» è ampiamente utilizzata in un ambito di ricerche piuttosto ampio, che va dalla psicologia del ragionamento alla discussione pubblica. È facile vedere che l'altra espressione, «pensiero ideologico», non gode di uguale fortuna. Basta una superficiale interrogazione su Google per rendersi conto che mentre la ricerca dell'espressione «pensiero critico» porta a una quantità di pagine nelle quali la si può ritrovare tale e quale, cercando «pensiero ideologico» troveremo invece pagine in cui le parole «pensiero» e «ideologia» sono presenti separatamente, più o meno vicine l'una all'altra. Questo è chiaro indizio di una prima disparità, legata allo stato dell'arte: delle due nozioni, solo quella di pensiero critico è stata oggetto di ampie discussioni, al punto da essere lessicalizzata. Anzi, proprio in conseguenza dell'interesse suscitato, l'espressione ha finito per essere adoperata con varie accezioni; sarà dunque necessario restringere l'attenzione a quella che qui ci interessa. Per fare qualche esempio, non saremo interessati a temi come il problem solving e il ragionamento in contesti logici; o la capacità di trasferire conoscenze apprese, poniamo, ragionando su un problema di fisica ad altri problemi simili. La nostra attenzione sarà limitata al ragionamento in contesti valutativamente carichi, che coinvolgono posizionamenti morali, sociali o politici. Ovvero, ci occuperemo delle capacità di ragionamento - inteso come attitudine ad esplorare i pro e contro di certe conclusioni nel rispetto dei diversi punti di vista - negli stessi contesti nei quali si applica il pensiero ideologico. Questa convergenza degli ambiti ci obbliga ad osservare il pensiero critico precisamente dove esso entra in oggettiva tensione e concorrenza con il pensiero ideologico. Quando quest'ultimo (con la sua
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unilaterale identificazione con un punto di vista) prevale, il primo è fortemente ridimensionato; e viceversa, lo sviluppo del secondo restringe lo spazio del primo. Detto in termini meno oppositivi, ciò su cui focalizzerò l'attenzione è l'applicazione della categoria di pensiero critico alle opinioni e scelte che ricadono nel dominio dell'ideologia. La questione è come si possa esercitare il pensiero critico nell'ambito di quelle dinamiche di posizionamento (morale, sociale, e politico) che sono un tratto così importante nella costruzione della nostra identità personale.
o. 5 Il pensiero ideologico: un fenomeno ambiguo Per un altro verso, come dicevo, non esiste una specifica letteratura sulla nozione di pensiero ideologico. Qui si tratterà dunque non di ritagliare un'accezione particolare tra quelle discusse, quanto piuttosto di provare ad isolare una nozione scarsamente esplorata. Si potrebbe persino dubitare che il tentativo di introdurre tale nozione sia giustificato: esiste davvero una modalità di pensiero specifica dell'ambito ideologico, o in definitiva non si tratta che dell'applicazione del pensiero a certi contenuti piuttosto che ad altri? Anche per questo aspetto, preferisco adottare un atteggiamento pragmatico: diciamo come minimo che «drammatizzare» la questione nei termini di una contrapposizione tra due modalità di pensiero è un utile espediente espositivo. Se poi dovesse rivelarsi qualcosa di più, diciamo un modo produttivo di porre certi problemi, tanto meglio. Più nel merito, vorrei attenuare - o almeno contestualizzare l'impressione di asimmetria nelle connotazioni che associo, rispettivamente, a pensiero critico e pensiero ideologico. Di norma si parla di pensiero critico in un'accezione essenzialmente positiva se non addirittura ideale: il pensiero critico viene discusso come un obiettivo altamente desiderabile, sebbene difficile da raggiungere, e l'oggetto del discutere è semmai se e come si possa conseguirlo. Dal momento che in questo libro si parla di pensiero ideologico principalmente come di un potenziale ostacolo al pensiero critico, si potrebbe erroneamente immaginare che io intenda il pensiero ideologico come il contraltare negativo di ciò che il pensiero critico è in positivo: come la quintessenza dell'errore nel ragionamento spontaneo. Non è que-
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sto il mio obiettivo, né questa è la posizione teorica che intendo difendere. Al contrario, considero essenziale comprendere che quel che chiamo pensiero ideologico è, in positivo, un tratto definitorio e prezioso della natura umana. Usando una categoria di Wittgenstein, si potrebbe dire: il pensiero ideologico è costitutivo della nostra «forma di vita» come esseri umani. Non si tratta di una concessione retorica: di promettere in anticipo l'onore delle armi - diciamo così - al potenziale avversario teorico per renderlo meno combattivo. È invece molto importante per l'analisi che propongo, e per la relativa strategia argomentativa, che il pensiero ideologico sia colto come qualcosa di fondamentale per il modo in cui ciascuno di noi percepisce e costruisce sé stesso. Perché questa forma di pensiero non è un incidente di percorso, di quelli che possono capitare «agli altri» - a persone afflitte da uno speciale tipo di debolezza del ragionamento - ma certo non «a noi». È semmai un tratto della nostra natura. Anche se, come ogni altro tratto della persona, può tracimare e produrre patologie. Il pensiero ideologico è infatti alla base della dimensione morale, la quale è innanzitutto adesione motivata a idee e valori, e posizionamento rispetto ad altri individui reali o possibili. Dunque, non può esservi dubbio che questo tratto riguarda tutti noi. Solo che, come cercherò di mostrare, è un tratto che tende naturalmente a tracimare. La tendenza umana al moralismo come fonte di conflitto è un tema che sta guadagnando ampia attenzione tra psicologi e scienziati cognitivi: ne sono esempi recenti Pinker (2011), Haidt (2013) e Bloom (2016), tre libri ugualmente provocatori e stimolanti scritti da affermati studiosi (nonché autori di noti best-sellers). Nelle sue grandi linee la questione è che - come cominciamo a comprendere - i nostri giudizi morali si producono in modi non trasparenti, su cui ci inganniamo: mentre siamo portati a pensare che siano fondati su principi espliciti, in realtà sono il frutto di automatismi selezionati dall'evoluzione, che operano al di sotto della coscienza e hanno funzioni di cui non siamo consapevoli. Tali automatismi includono sia motivazioni istintuali sia inclinazioni cognitive - di quelle a cui ci si riferisce oggi con il termine «bias». Esempi delle prime sono la lealtà al gruppo o il disgusto per cose (ma anche animali o persone) percepite come impure; esempi delle seconde sono l'asimmetria tra come giudichiamo le nostre azioni e quelle altrui, e il cosiddetto ra-
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gionamento motivato - ossia il diverso standard di controllo che riserviamo alle affermazioni, a seconda che si tratti di tesi a noi gradite oppure no. Complessivamente, questi automatismi operano in modo tale da produrre una divaricazione piuttosto sistematica tra la nostra intenzione di agire secondo principi quali il bene comune o l'equità, e comportamenti orientati, in particolare, ad affermare sé stessi o i gruppi di cui ci si sente parte. Tale divaricazione è così rilevante che le nostre inclinazioni morali finiscono col risultare tra le più sistematiche fonti di comportamenti iniqui, conflittuali, o addirittura violenti e distruttivi. E, come dicevo, non dovremmo commettere l'ingenuità di pensare che questi esiti riguardino solo «gli altri», non «noi». Sebbene queste considerazioni gettino un'ombra inquietante sul dominio della moralità - un dominio nel quale nulla è come appare, e le nostre migliori intenzioni producono effetti irriconoscibili e potenzialmente devastanti-, sarebbe d'altra parte difficile trarne la conclusione che della moralità conviene semplicemente fare a meno. Piuttosto, la domanda che vale la pena porsi è se sia possibile acquisire consapevolezza dei meccanismi automatici che producono giudizi e comportamenti, così da consentirci di inibirne le conseguenze indesiderabili. Ma quello che vale per la moralità vale anche per il pensiero ideologico, che a questo punto possiamo descrivere come quel processo discorsivo (di costruzione dell'identità morale, sociale e politica) nel quale gli automatismi appena descritti si manifestano, e sono in qualche misura mediati culturalmente. Così come non vorremmo che la dimensione morale fosse semplicemente soppressa, ma solo governata da una soggettività cosciente capace di indirizzarla meglio, allo stesso modo l'obiettivo non può essere quello di neutralizzare il pensiero ideologico per lasciare trionfare quello critico. Quest'ultimo, piuttosto, deve mirare a monitorare criticamente il pensiero ideologico, così da indirizzarlo meglio. Insisto, dunque: non si tratta di rendere un omaggio formale al pensiero ideologico. Si tratta piuttosto di comprendere come esso sia un aspetto costitutivo di quel che siamo e però, al tempo stesso, un aspetto che tende spontaneamente a scivolare verso la patologia - a causa delle stesse inclinazioni che lo fanno esistere. A meno che il pensiero critico eserciti un continuo controllo su di esso.
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o. 6 Un bilancio e alcune avvertenze: il tema della normativi'tà. Facciamo un breve bilancio della strada percorsa fin qui, e qualche precisazione, prima di affrontare un ultimo nodo importante. Ho suggerito che la nozione di razionalità è complessa, che ingloba di fatto diverse accezioni collegate, e tra queste ne ho isolate due che saranno oggetto delle nostre riflessioni. Ho dunque esplicitato il fatto che delle due accezioni l'una, quella di pensiero critico, è ampiamente studiata, mentre l'altra è in parte il frutto di considerazioni personali, e si giustificherà o meno in funzione di quanto essa apparirà utile per le nostre analisi. Secondo i più, la nozione di razionalità ha carattere normativo: indica cioè qualcosa per cui vi sono standard di correttezza. Ad esempio, un ragionamento può essere giusto o sbagliato, e tendiamo spontaneamente a giudicarlo o nell'uno o nell'altro modo, se solo abbiamo qualche conoscenza dell'argomento. Se ciò vale per la razionalità in generale è ragionevole assumere che valga anche per ciascuna delle sue accezioni, incluse le due qui considerate. In pratica, pensiero critico e pensiero ideologico sono aspetti della razionalità in quanto nozione normativa, e - così assumerò - funzionano essi stessi come nozioni normative: hanno (idealmente) standard di correttezza. Questo non significa che c'è da qualche parte un testo nel quale questo standard è codificato in modo esplicito. Non è nemmeno necessario assumere che uno standard di correttezza esista, in modo implicito, da qualche parte nel mondo. Si può adottare una nozione debole di normatività: ossia, la semplice idea che in questi ambiti siamo portati a domandarci cosa sia preferibile, e di conseguenza a ordinare gerarchicamente le opzioni possibili (ed eventualmente cercare mediazioni tra esse), in un modo che vorremmo valesse anche per gli altri. In altri termini, l'idea è che siamo naturalmente inclini a cercare, e costruire, standard condivisi di correttezza3. Mi propongo di non assumere, in questo libro, un impegno metafisico maggiore di quello che comporta quest'accezione debole. Condivido la diffidenza di alcuni nei confronti di una nozione di razionalità metafisicamente più «pesante». Fin qui la razionalità è stata considerata come una nozione complessa, ovvero come un complesso di accezioni tra loro collegate che 3 Si dovrebbe aggiungere: «a certe condi1foni». L'analisi di queste condizioni è un tema di fondo del presente libro.
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ci autorizzano a usare il termine, metonimicamente, con riferimento a ciascuna di esse. Pensiero ideologico e pensiero critico, in questo senso, sono forme o aspetti della razionalità. Ma per un altro verso, mi capiterà di usare il termine «razionalità» in un modo più ristretto: come equilibrio normativo tra le diverse componenti della nozione usata in senso estensivo. Quando sarà necessario, specificherò che intendo usare il termine in questo senso ristretto. In tale accezione, ad esempio, pensiero critico e pensiero ideologico possono o meno giungere a un rapporto (che ci appare) equilibrato, normativamente corretto, e dunque tale da manifestare razionalità. Come dovrebbe essere ovvio, un obiettivo centrale del presente lavoro è precisamente analizzare la razionalità in questo senso ristretto: in quanto corretto equilibrio tra quelle due componenti della razionalità. Ma è bene ribadirlo, l'elemento normativo implicito in queste formulazioni (quando parlo di «corretto» equilibrio e simili) va inteso nell'accezione debole prima specificata. Si tratta di cercare equilibri che ci appaiono - in modo rivedibile - preferibili rispetto ad altri.
o. 7 Le emozioni, un problema tradizionale Fatte queste precisazioni, è bene accennare un ultimo aspetto del modello di analisi che proporrò. Ho già fatto riferimento alla dimensione motivazionale ed emotiva. Il rapporto che la razionalità intrattiene con le emozioni appare, non da oggi, un problema difficile. Un modello tradizionale dipinge le emozioni come un potente fattore di disturbo della razionalità. Ma va detto che nella storia del pensiero questo modello è stato ripetutamente bersaglio di obiezioni: ragione per cui si potrebbe considerare altrettanto tradizionale il tentativo di riabilitare le emozioni in quanto componente indispensabile della razionalità. Ci riferiremo a queste due posizioni rispettivamente come al modello «razionalista» e a quello «emotivista» nella concezione del rapporto tra ragione ed emozioni. In anni a noi vicini, un importante contributo alla rinascita del modello emotivista della razionalità è stata la pubblicazione di L'errore di Cartesio (Damasio 1994), che contiene un'ampia e convincente formulazione neuro-cognitiva del classico argomento secondo cui senza le emozioni manca un qualsiasi criterio per ordinare le prefe-
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renze e compiere scelte tra azioni possibili - il che svuoterebbe, quanto meno, la nozione di razionalità pratica. In filosofia, un rappresentante paradigmatico di questa posizione è stato David Hume, la cui posizione è stata recentemente ripresa e sostanzialmente abbracciata dal già citato Haidt (2013) all'interno del dibattito sulla moralità. Per converso, la posizione razionalista, che guarda alle emozioni più come un pericolo che una risorsa per le decisioni morali, è stata difesa con argomenti (anche) cognitivi da Bloom (2016). La posizione che propongo qui è basata su un'ipotesi di mediazione. Per un verso, il razionalismo è effettivamente in difficoltà quando si tratta di specificare da dove la ragione trarrebbe i criteri per operare le proprie scelte. Per un altro verso, I'emotivismo tende a ignorare quello che potremmo chiamare «il problema della selezione». Se è vero in generale che solo le emozioni motivano giudizi e scelte, resta il fatto che a volte operiamo scelte che ci appaiono irrazionali e distruttive. Dunque, le emozioni sono forse una risposta alla domanda «cosa motiva e orienta le scelte?» ma difficilmente possono essere considerate, di per sé, una risposta alla domanda «cosa motiva e orienta le scelte razionali?». Sembrerebbe dunque che ci troviamo di fronte a un dilemma: le emozioni sembrano richiedere un intervento esterno, capace di operare una selezione tra emozioni costruttive e distruttive, razionali e irrazionali, e di assecondare le prime e inibire le seconde4; ma la ragione sembra non disporre di criteri propri per operare questa selezione, se è vero che solo le emozioni motivano le scelte. Dunque non c'è via d'uscita? L'ipotesi che qui esplorerò ha una componente consolidata nella letteratura psicologica e cognitiva, e una decisamente più speculativa.
o.8 Ragione ed emozioni: un modello cognitivo La componente consolidata del modello che propongo è l'idea che noi esseri umani disponiamo di una sorta di «spazio mentale» nel quale possiamo mantenere attivi e confrontare un certo numero 4 Non assumo tuttavia che una simile distinzione tra emozioni razionali e irrazionali possa essere tracciata in termini assoluti. Come si vedrà tra poco, l'idea che propongo è piuttosto un'altra: che ogni emozione è ra1fonale finché si mantiene nel posto che le spetta.
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di contenuti mentali: ad esempio un corso di azione possibile e le sue prevedibili conseguenze. Tale spazio mentale è identificabile con quella che in psicologia viene chiamata «memoria di lavoro»; mentre si adopera l'espressione «memoria a lungo termine» per riferirsi alla memoria nel senso più ovvio, ossia ai nostri depositi di conoscenze 5• Grazie alla memoria di lavoro possiamo, nelle opportune circostanze, monitorare attivamente certe relazioni tra contenuti della memoria a lungo termine che quando agiamo d'impulso non consideriamo. In breve, la memoria di lavoro consente un'analisi deliberata delle relazioni tra i contenuti della memoria a lungo termine. Come tale essa è dunque una componente importante di quei processi coscienti, di alto livello, a cui ci siamo riferiti in precedenza con l'espressione «funzioni esecutive»: processi che presiedono al controllo del pensiero e dell'agire, e che quando si dispiegano nella loro pienezza risultano faticosi, così che vi ricorriamo malvolentieri e di norma solo quando necessario. Ho già suggerito, come si ricorderà, che simili meccanismi di monitoraggio attivo possano essere la base del pensiero critico; questo consisterebbe dunque nella capacità di impiegare intenzionalmente e sistematicamente processi di controllo cosciente di norma attivati solo in condizioni di particolare necessità. In che modo questi meccanismi potrebbero aiutarci con il problema della selezione? Qui si innesta l'ipotesi speculativa che preannunciavo. L'idea di fondo è che lo «spazio di lavoro globale» di cui abbiamo detto possa costituire il luogo in cui avvengono processi di confronto e mediazione tra le emozioni. In particolare, propongo di prendere sul serio l'idea, tutt'altro che nuova in filosofia, secondo cui l'irrazionalità nell'agire non sarebbe che l'effetto della prepotenza di alcune istanze istintuali ed emotive, che finiscono col prevalere unilateralmente sulle altre. In pratica, le emozioni troverebbero un equilibrio razionale quando ciascuna riceve lo spazio che le spetta all'interno di un bilancio complessivo dell'esistenza. Con un semplice esempio, potremmo dovere mediare tra l'impulso a soddisfare un desiderio immediato (mangiare altra torta!) e l'impulso a raggiuns Il più noto modello della «memoria di lavoro» è dovuto ad Alan Baddeley. La sua interpretazione come uno «spazio di lavoro globale», che consente di far interagire contenuti mentali di tipo differente, è stata esplorata specialmente da Bcmard Baars. La nozione è stata ripresa e re-interpretata come «spazio di lavoro globale ,zeuronale » da Stanislas Dehaene (ad esempio 2014), che vi ha basato il suo modello neurologico della coscien1..a.
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gere un obiettivo più a lungo termine in conflitto con quel desiderio (sentirsi bene, soddisfatti del proprio corpo e simili). O ancora, l'impulso a soddisfare un desiderio egoistico potrebbe essere moderato per preservare relazioni personali a cui teniamo e che potrebbero esserne danneggiate. E, per un ultimo esempio, una dipendenza può essere considerata come la tirannia di un'unica preferenza emotiva che ci aliena dal godimento di tutte le altre. In casi del genere è cruciale poter ricorrere a processi attivi di memoria che consentano di richiamare le emozioni meno immediate, dando loro voce nelle scelte del soggetto. In questo quadro, la ragione non consisterebbe tanto in un meccanismo che seleziona, in base a criteri propri, le emozioni da incoraggiare e quelle da inibire. Essa assomiglierebbe piuttosto ad un'istituzione che ha il compito di ospitare le istanze in conflitto e presiederne l'autonoma conciliazione, assicurando semplicemente che il confronto sia corretto: che anche le istanze più deboli abbiano voce, che gli argomenti fattuali usati dalle istanze più chiassose non siano evidentemente falsi o impropri, e così via. Questa è l'ipotesi a cui, quanto meno, cercherò di dare corpo - ad essa mi riferirò sinteticamente come l'ipotesi dello «spazio (mentale) di conciliazione» 6•
0.9 Un corno del dilemma: la pericolosità delle emozioni
Com'è evidente, il tema delle emozioni e del loro rapporto con la razionalità è particolarmente rilevante per il fatto che qui analizziamo in particolare il pensiero ideologico, e il pensiero critico in quanto applicato allo stesso dominio - il dominio del posizionamento morale, sociale e politico. Se ci occupassimo di pensiero critico nell'ambito del problem solving logico, o della trasferibilità delle conoscenze scientifiche, dovremmo ragionevolmente concentrare la nostra attenzione sui bias cognitivi, mentre potremmo quasi tralaCome si comincerà a dire in S o. 1 o, e si vedrà più ampiamente nel quarto capitolo, un simile uso della memoria di lavoro non si ottiene gratis. Cosa garantisce che essa sia in grado di fungere da spazio di conciliazione, rispetto a uno specifico problema? Occorre produrre nel tempo una struttura di conoscenze e motivazioni relative a quel problema (quel che chiameremo un «mindware», un dispositivo mentale), capace di produrre un impulso a sospendere certi automatismi e correggerli, sopportandone il costo cognitivo. 6
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2.3
sciare il ruolo delle emozioni. I posizionamenti nel dominio morale, viceversa, chiamano in causa le emozioni in maniera ineludibile. L'ipotesi che la razionalità sia innanzitutto una questione di bilanciamento tra le emozioni, non della loro (sia pure parziale) soppressione, è analoga a quanto osservato a proposito della moralità e del pensiero ideologico: per un verso ne dobbiamo combattere continuamente gli eccessi, per un altro verso non possiamo fare a meno di essi. Similmente, a proposito del rapporto tra emozioni e razionalità, ci troviamo stretti tra due opposte difficoltà. Per un verso non possiamo semplicemente accogliere le emozioni tali e quali, nella loro scomposta immediatezza. Per un altro verso, esse appaiono nondimeno essenziali. In questo paragrafo ci concentriamo sul primo aspetto - mentre nel prossimo toccheremo il secondo. L'osservazione che senza valutazioni emotive non avremmo ragioni per agire non comporta che le emozioni, in generale, meritino il nostro assenso. Al contrario, come abbiamo visto, le azioni da esse ispirate possono anche essere irrazionali e distruttive. Persino la moralità, con le sue basi emotive, si è rivelata fonte di aggressività e violenza. La pericolosità delle emozioni ci porta ad un tema storiografico magistralmente illuminato dal bel libro di Hirschmann Le passioni e gli interessi. Fino a buona parte del diciassettesimo secolo, dunque prima della rivoluzione culturale prodotta dall'Illuminismo, era comune nella cultura europea guardare alle emozioni come ad una fonte di conflittualità storica, di violenza politica, in definitiva di grandi sofferenze umane. Autori come Machiavelli e Hobbes avevano enfatizzato l'importanza di guardare alla natura umana «quale essa è», senza illusorie idealizzazioni. Una volta illuminata da questo sguardo disincantato, la nostra natura appariva dominata da passioni violente (ambizione, smania di ricchezza, intolleranza), di cui erano preda tanto i governanti quanto i popoli governati. Si potrebbe obiettare che una posizione così pessimistica circa le emozioni avesse le proprie radici nella tradizione platonico-cristiana, la quale faceva pesare su di esse una condanna eccessiva e ingiusta, e che l'Illuminismo abbia fatto bene dunque a riabilitarle. Non è un caso che proprio un rappresentante dell'Illuminismo come Hume abbia rifondato la moralità sulle emozioni. Ma il generoso ottimismo di questa concezione lascia un'ombra dietro di sé: se da un lato essa riequilibra il giudizio ponendo enfasi su alcune emozioni pro-sociali,
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dall'altro difficilmente può cancellare l'intuizione che la conflittualità sociale e politica abbia la sua fonte proprio nel groviglio delle passioni individuali. La tradizione platonico-cristiana poteva avere peccato di eccessiva fiducia nei poteri della disciplina (razionale o religiosa che fosse) ai fini di una soluzione del problema. Nondimeno, se la terapia era sbagliata, la diagnosi appariva sostanzialmente corretta: le emozioni, qualunque sia il loro contributo come collante delle relazioni umane e della socialità, sono anche un potente fattore di aggressività e conflitto. Il libro di Hirschmann mostra come nel corso del Seicento emerga un nuovo tentativo di risolvere questo problema delle emozioni, fondato non più su religione e ragione bensì sull'interesse economico. In questo secolo si diffonde, nello specifico, l'idea dell'interesse come una «passione dolce» capace di indirizzare gli individui verso comportamenti più costruttivi. Sarebbe qui, secondo Hirschmann, lo spunto iniziale dell'argomento di Adam Smith della «mano invisibile»: l'idea che perseguendo interessi economici individuali si produca un vantaggio collettivo. Questo complesso di idee, dunque, costituirebbe in qualche modo il germe ideologico del moderno capitalismo, frutto imprevisto di una riflessione tradizionale sulla distruttività delle emozioni. Che poi il capitalismo fosse effettivamente la soluzione al problema, la storia umana dei secoli successivi fornirà ragioni sufficienti per dubitarne. Di certo, Hirschmann non nasconde il suo scetticismo al riguardo. Ma non sarebbe probabilmente equo basare su questo il giudizio sul capitalismo: che il problema della natura distruttiva delle emozioni ammetta comunque una soluzione, è tutto da dimostrare. L'idea di una gestione più razionale dei conflitti potrebbe non essere altro che un sogno a cui non sappiamo rinunciare.
0.10
L'altro corno del dilemma: il sogno della democrazia
Per un verso, dunque, le emozioni sembrano essere pericolose e ingovernabili. Per un altro verso sembrano però essenziali. Abbiamo suggerito sopra che potrebbero essere tenute a bada dal pensiero critico, attraverso il meccanismo sopra descritto dello «spazio di conciliazione». Ma la verità è che nemmeno il pensiero critico ha il potere
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di operare se manca il motore emozionale. C'è dunque un sentiero stretto da percorrere: occorre trovare il modo di usare le emozioni per salvarci dalle emozioni. Quello che proporrò, in breve, è un percorso in due tappe. La prima tappa è l'ipotesi che sia possibile reclutare le emozioni pro-sociali - l'empatia7, il piacere umano della condivisione, e simili - come leva per attivare, nel confronto con gli altri, il pensiero critico in quanto forza mediatrice tra le emozioni. Una volta ottenuto questo, la tappa successiva consiste in un'interiorizzazione del processo: esso deve diventare una sorta di nostra seconda natura, capace di esercitare una costante mediazione già all'interno della vita mentale individuale. A queste condizioni, si potrebbe infatti sperare in un percorso di educazione sociale delle emozioni capace di favorire lo sviluppo della razionalità. Diciamolo altrimenti: anche ammesso che qualche «passione dolce» - l'interesse o altro - possa agire come una mano invisibile che disinnesca il conflitto e assicura l'armonia sociale, questo presuppone comunque un sistema educativo capace di garantire che negli individui (quanto meno, in un numero sufficiente dei membri di una comunità) simili passioni dolci effettivamente prevalgano. Si potrebbe speculare che questo sia il sogno sotteso non solo all'Illuminismo, ma prima ancora al repubblicanesimo, e alle prime forme della democrazia nel mondo greco. Non si tratta, in questa prospettiva, di assumere che la nostra natura sia essenzialmente buona, pro-sociale o cooperativa. Il punto è semmai che essa - tramite la mediazione di impulsi pro-sociali - è plasmata attraverso l'educazione8: siamo animali naturalmente sociali e culturali. La pressione del gruppo sociale può essere messa al servizio dell'educazione al pensiero critico, a favore di una più equilibrata mediazione tra le emozioni. Questo specifico tipo di pressione sociale, d'altra parte, non è in conflitto con le motivazioni individuali. Se è vero quanto abbiamo detto sopra circa l'irrazionalità come prepotenza di alcuni impulsi su 7 In qualche senso del termine: come vedremo più avanti (S 2.20), Bloom (2016) sostiene che l'empatia nel senso standard, ossia come partecipazione alle emozioni altrui, produce più danni che benefici. 8 Sul ruolo dell'educazione nella visione repubblicana, si veda il bel libro di Maurizio Viroli (1999) Repubblicanesimo. Quanto alle democrazie greche, è difficile pensare che sia del tutto casuale la coincidenza temporale tra esse e il fiorire di una riflessione pedagogica.
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altri, tale squilibrio è altrettanto disfunzionale per l'individuo quanto esso è socialmente dannoso. L'opera mediatrice della ragione ha qualche possibilità di successo proprio in quanto non pretende di dire all'individuo cosa sia giusto «dall'esterno»: al contrario, consente a ciascuna emozione di rivendicare il proprio spazio, in vista di una più armoniosa realizzazione individuale. Essendo basata sulla mediazione della pluralità interna, questa via è la migliore introduzione possibile alla gestione dei conflitti intersoggettivi: essa ci prepara a mediare la pluralità sociale, e l'eventuale conflittualità che ne deriva9.
o.II
Una coda: il momento attuale, il ruolo dell'educazione
Se questa è la direzione in cui propongo di cercare la soluzione al problema, qual è lo stato attuale delle cose? Non si può nascondere che all'interno delle istituzioni culturali e formative sia diffuso un senso di emergenza sociale e politica. L'interesse per il pensiero critico prende, in questi contesti, sfumature di preoccupazione: si cerca in esso un alleato per combattere fenomeni quali (per usare etichette di moda, da prendere con le dovute cautele scientifiche) la crisi delle democrazie, il populismo, i discorsi d'odio, le false notizie e così via. Il presente libro potrebbe essere considerato come un contributo alla riflessione sul pensiero critico in questo specifico senso. Ma con un paio di qualificazioni finali. In primo luogo, bisogna conservare il senso delle proporzioni. Non c'è dubbio che il presente ponga problemi. Ma questi ci appaiono così seri anche perché vari decenni di costruzione delle nostre democrazie (decenni che verrebbe voglia di qualificare come «pacifici», se non fosse che la conflittualità storica è proseguita indisturbata, solo perlopiù fuori dai nostri confini) ci hanno abituato a standard piuttosto alti di diritti civili, a forme di governo democratico relativamente robuste, a sistemi di istruzione verso i quali abbiamo aspet9
La tesi di un sostanziale parallelismo tra gestione della pluralità/conflittualità interna (2010), nel contesto di un'analisi della nozione di «sé dialogico». Una tesi di fondo del libro è che «molti dei processi sociali, come il dialogo e la lotta per il dominio, che possono essere osservati al livello della società hanno luogo anche all'interno del sé» (ivi: 1; traduzione mia).
ed esterna al soggetto è sostenuta da Hermans e Hermans-Konopka
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tative molto alte: insomma, ci preoccupiamo di quel che potremmo perdere perché abbiamo molto da perdere. Questo ci porta a un secondo punto. Nell'invitare a conservare il senso delle proporzioni, e contestualizzare il nostro pessimismo, non intendo dire che non ci sia nulla di cui preoccuparsi. È vero per un verso che le nostre preoccupazioni potrebbero essere in parte il frutto degli alti standard di democrazia raggiunti. Ma appunto, alla luce del problema delle emozioni sopra descritto, e della nostra conoscenza della storia, è difficile non pensare che questi standard siano una felice eccezione. Dal momento che non abbiamo ragioni per credere - quanto meno, io non ne vedo - che il problema di una disciplina razionale delle emozioni sia stato risolto, c'è poco da sorprendersi dell'attuale dilagare di fenomeni di conflittualità e polarizzazione. Se, come a me pare, siamo nondimeno sorpresi, temo che la ragione sia (accanto a una certa assuefazione agli standard raggiunti) precisamente quell'oblio del problema che Hirschmann ha così bene descritto: la nostra tradizione culturale ha voluto dimenticare che le emozioni sono fonte di divisioni e conflitti. Dall'Illuminismo abbiamo ereditato l'illusione di una natura umana spontaneamente incline ai valori democratici. E così, quando ci troviamo ad affrontare un rinnovato proliferare di divisioni e conflitti (di impulsi antidemocratici, eccetera) ci scopriamo tanto più fragili per il fatto che ci mancano modelli per comprendere quello che accade. Il conflitto e la violenza ci appaiono, letteralmente, mostruosi - fuori da ogni possibile normalità, imprevedibili e inspiegabili. Abbiamo forse bisogno di recuperare una visione della natura umana decisamente più pessimistica, se vogliamo un modello teorico che ci aiuti a comprendere il problema. Altrimenti, dovremo accontentarci di lasciare al caso alle felici eccezioni della storia - la soluzione10• È dunque cruciale recuperare la consapevolezza che le emozioni, se sono una soluzione al problema della razionalità, non lo sono cer-
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L'illuminante libro di Giovanni Orsina (2.018), La democrazia del 11arcisismo, propone un'analisi delle disposizioni psicologiche che favoriscono o compromettono la democrazia. Nella sua analisi, l'oltre mezzo secolo di crescita democratica che abbiamo vissuto in Europa è effetto - in larga parte - di una reazione psicologica agli orrori della seconda guerra mondiale. Questo è un ottimo esempio di esiti felici prodotti da (funeste) contingen1.e storiche. Nessuno di noi, credo, vorrebbe dover ricorrere a un conflitto mondiale per rigenerare passioni democratiche.
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to nella loro immediatezza. Finché non siano mediate razionalmente, esse sono piuttosto il problema che la soluzione. Tale consapevolezza può aiutarci a essere meno impreparati nella gestione dei conflitti intorno a noi. La presente proposta «basata sulla consapevolezza» è coerente con un generale orientamento secondo cui il pensiero critico esige un addestramento a riconoscere i problemi generati dai nostri processi automatici. A volte ci si riferisce a questo approccio con l'etichetta di debiasing (ossia, pratiche di contrasto dei bias). Ma mi piace pensare che sia semplicemente una prosecuzione del motto fondativo della filosofia: «conosci te stesso». Solo la conoscenza dei bias cognitivi può metterci in guardia dai tipici errori che commettiamo nel ragionamento logico; allo stesso modo, è indispensabile conoscere come bias ed emozioni influenzano il pensiero ideologico se vogliamo contenerne gli esiti conflittuali. Come educatore, nutro la speranza che questa proposta possa essere d'aiuto anche ad altri che intendono formare soggetti più consapevoli di sé, dei propri automatismi, e dei meccanismi di alto livello con cui si può controllarli e mediarli. Agli studiosi che trovassero fastidioso quel po' di normativo che la presente proposta presuppone, o quel po' di ottimismo implicito nel fatto stesso di cercare una soluzione razionale al problema del pensiero ideologico, propongo una lettura puramente descrittiva della mia proposta. Come Stanovich (si veda oltre) ha analizzato le prestazioni di un piccolo gruppo di soggetti che, nei test cognitivi, riescono ad usare i processi controllati per sottrarsi ai bias, così è interessante domandarsi se alcuni soggetti potrebbero analogamente usare il pensiero critico per monitorare e indirizzare il pensiero ideologico. Se poi questa descrizione possa diventare un modello di intervento educativo, ogni lettore lo deciderà per sé.
Ringraziamenti Questo libro ha le sue radici in due diversi progetti di ricerca. Il primo {2017), decisivo nel portare la mia riflessione sul terreno dell'ideologia, era intitolato Po/itiazlly correct? Lingua, identità e comunità online tra pragmatiaz e ideologia, è stato finanziato tramite un bando dell'Università di Ottania, e vi partecipavano Davide Bennato, Emanuela Campisi, Maria Carreras Goicoechea, Marco Venuti e Francesca Vigo. Il secondo, cominciato nel 2019 e attualmente in corso, ha ricevuto un finanziamento PRIN 2017, si intitola Designing effective policies for Po/itiazlly Correet: a rbetoriazl/pragmatic model of to'tal speecb situation, e vi partecipano Adriano Bcrtollini, Emanuela Campisi, Marco Carapezza, Paolo Otstaldo, Felice Cimatti, Salvo Di Pia7..za, Lucie Donckier de Donceel, Sabina Fontana, Francesco La Mantia, Marco Ma7..zeo, Francesca Piazza, Mauro Serra, Marco Venuti e Francesca Vigo. Il progetto PRIN ha consentito di attivare un assegno di ricerca per Emanuela Campisi, il cui straordinario lavoro, sul piano dei preliminari teorici ma anche della conduzione pratica, ha reso possibili i due laboratori condotti a Catania nell'ambito del progetto, rispettivamente presso il Liceo Scientifico Boggio Lcra e il Liceo Classico Spcdalieri. In questi laboratori, e parallelamente in quelli presso l'ITCS Bcsta di Ragusa, il Liceo Scientifico Primo Levi di San Donato Milanese, e in un corso di laurea di Palermo, abbiamo sperimentato differenti metodi di educazione al pensiero critico. Tutto questo è stato reso possibile dalla preziosa collaborazione di un team di insegnanti che operano in quelle scuole: Ottavia Amata, Angela Barone, Rita Borati, Adriana Cantaro, Daniela Carugno, Pietro Garofalo, Sara Geraci. Lungo il percorso, ci siamo anche giovati della generosa consulenza di due pedagogiste, Elena Mignosi dell'Università di Palermo e Maura Striano dell'Università di Napoli Federico II, e di uno psicologo, il dott. Luca Messina. Ma non posso tacere il contributo dato, in vari passaggi del progetto, da mia moglie Teresa Garaffo: la sua sintesi di esperienza pratica e sensibilità teorica su temi di educazione al {e attraverso il) dialogo non finisce di stupirmi.
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I laboratori, insieme con le analisi di testi online condotte con Marco Venuti ed Emanuela Campisi, sono stati essenziali per incoraggiare, se non supportare, alcune delle idee qui sostenute. Marco ed Emanuela mi hanno seguito in varie idee improbabili legate al progetto: sono in debito con loro. Un altro debito speciale è quello che, nell'intero arco del progetto, ho contratto verso Paolo Labinaz, stimolatore di idee di instancabile generosità. Marco Mazzeo ha letto e commentato il libro, incoraggiandone la pubblicazione - ritengo - più per le prospettive che la sua intelligenza brillante vi ha scorto che per i reali meriti di queste pagine. Il 2021 è stato un anno di svolta del lavoro. Con alcuni amici {Enrico Biate, Claudia Bianchi, Laura Caponetto, Massimiliano Carrara, Filippo Ferraci, Cristina Meini, Sebastiano Moruzzi, Tommaso Piazza, Giuseppe Spolaore, e ancora Paolo Labinaz quale co-promotore dell'iniziativa) abbiamo cominciato, tra il scrio e il faceto, una riflessione sulle ragioni della "svolta sociale in filosofia analitica" - svolta a cui il presente libro aspirerebbe con umiltà a partecipare. Inoltre, alcune idee del libro sono state discusse in un convegno nel 2021, a cui hanno partecipato, oltre a vari amici già citati {Biate, Campisi, Donckier, Labinaz, La Mantia, Mazzeo, Serra), anche Toni Bondì, Fabrizio Macagno, Paola Pietrandrea, Chrysi Rapanta, Marina Sbisà. E ancora Cristina Meini, la quale ha incoraggiato la parte migliore delle mie recenti derive intellettuali. Mentre dei difetti rimango, ovviamente, l'unico responsabile. Non fosse altro, per un esercizio di debiasing.
Capitolo primo L'inattuale trasparenza del soggetto
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Opachi a noi stessi
C'è una vecchia storiella. Due comportamentisti fanno sesso 1 • Alla fine, l'una dice all'altro: «Per te è stato bello. E per me, come è stato?». L'umorismo della storia consiste nel surreale rovesciamento dei ruoli epistemici, che porta fino al paradosso la dottrina comportamentista secondo cui non avremmo un accesso affidabile alla nostra vita interiore. Così, l'unico modo per conoscere i nostri stati mentali sarebbe osservare i nostri comportamenti, ciò che potrebbe fare anche meglio di noi un osservatore esterno. Ultimamente, questa storiella mi è tornata alla mente con insistenza. Il fatto è che le scienze cognitive2 fin dalle loro origini (intorno 1
Il comportamentismo è un paradigma di ricerca (una teoria, o meglio una famiglia di teorie affini) che ha dominato gli studi di psicologia nella prima metà del secolo scorso, specialmente nei paesi anglosassoni. Il suo assunto di fondo è la rinuncia a qualsiasi nozione mentale: piuttosto che spiegare i comportamenti in termini di concetti, rappresentazioni mentali, desideri, intenzioni e simili, i comportamentisti ritenevano che una scienza sperimentale dovesse limitarsi a considerare entità che possono essere osservate e indagate intersoggettivamente. Le rappresentazioni mentali non soddisfano questo requisito, dato che le cogliamo (o ci illudiamo di coglierle) solo mediante l'introspezione, ossia ciascuno può osservare al massimo le proprie. In pratica, le analisi comportamentiste erano tentativi di generali1.zare classi di comportamenti dell'organismo concepiti come risposte a classi di stimoli ambientali: si parla in questo senso di «spiega1Joni stimolo-risposta». Il punto importante per i comportamentisti è che tanto i comportamenti quanto gli stimoli ambientali sono entità osservabili intersoggettivamente. 1 La scienza cognitiva (o scienze cognitive al plurale) è un paradigma di ricerca che nasce, in opposizione al comportamentismo, verso la metà del secolo scorso (idealmente, se ne fa coincidere la nascita con un convegno che si svolge nell'estate del 1956). Mentre il comportamentismo era un paradigma interno alla psicologia, le scien1.c cognitive nascono come progetto interdisciplinare, che insieme alla psicologia coinvolge la linguistica, l'intelligenza artificiale, la filosofia, le neuroscienze e l'antropologia. Le idee di fondo sono prin-
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alla metà del Novecento), e ancor più la psicologia sociale e del ragionamento degli ultimi decenni, hanno contribuito a formare un'immagine della mente umana come ben poco trasparente a sé stessa. Già il paradigma classico delle scienze cognitive assegna va un ruolo preminente ai processi che si svolgono sotto il livello della coscienza. Si è parlato in tal senso di «inconscio cognitivo», rivisitazione meno suggestiva ma più robusta sul piano sperimentale dell'inconscio descritto da Freud. Ma psicologia sociale e psicologia del ragionamento si sono spinte ben oltre. La prima ha mostrato che i processi inconsci non si limitano, per così dire, a preparare il materiale su cui operano quelli coscienti, lasciando a questi ultimi la responsabilità dei giudizi e delle decisioni del soggetto. Al contrario, giudizi personali e decisioni coscienti sarebbero modellati in profondità da processi anteriori, non accessibili alla coscienza. Per dirla più brutalmente (ma dovremo discutere se queste formulazioni siano del tutto corrette): quando crediamo di decidere e giudicare in base a valutazioni razionali consapevoli ci inganniamo; in realtà decidono e giudicano per noi meccanismi che non hanno niente a che fare con quelle valutazioni, meccanismi che sembrano anzi guidati da fattori arbitrari e in definitiva francamente irrazionali. I processi che si verificano al livello della coscienza, e che interpretiamo come deliberazioni razionali, non sarebbero altro che razionalizzazioni post hoc: confabulazioni con cui inventiamo ragioni per decisioni prese altrimenti.
cipalmente due. In primo luogo, al contrario di quanto credeva il comportamentismo, è impossibile comprendere i comportamenti intelligenti senza assumere che la mente contenga rappresentazioni interne, perché l'intelligen1..a consiste essenzialmente in operazioni su tali rappresentazioni. In secondo luogo, per comprendere i processi intelligenti è essenziale descrivere come essi operano, indipendentemente dal fatto che siano eseguiti da cervelli biologici oppure artificiali. Come diceva un famoso slogan, la mente è concepita come il software di un computer. Da qui l'importanza attribuita all'intelligenza artificiale, in base all'idea che simulare i processi intelligenti con delle macchine sia parte integrante della loro spiega1fone. Ai nostri fini è importante osservare che sebbene per un verso la scienza cognitiva si definisca in opposizione al comportamentismo (in quanto presuppone l'esistenza di rappresentazioni mentali), per un altro verso tra i due approcci c'è un elemento di significativa continuità: entrambi diffidano dell'introspezione, ossia della possibilità che il soggetto abbia accesso trasparente alle proprie opera1Joni. Il comportamentismo ne diffidava in quanto rifiutava l'idea stessa di entità e processi interni. E il cognitivismo? Perché pur ammettendo la loro csisten1..a, li considera fenomeni ampiamenti inconsci: inaccessibili alla coscien1..a. Nel presente libro cercherò di mostrare in che misura questo sia vero, e in che misura rimanga tuttavia spazio per assegnare un ruolo ai processi coscienti.
I. L'INATrUALE TRASPARENZA DEL SOGGE1TO
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La psicologia del ragionamento dal canto suo ha dato ampio so-
stegno a queste ipotesi, aprendo la stagione della sterminata riflessione sui limiti (o come qualcuno preferisce dire, sulla crisi) della razionalità. Tale riflessione è culminata nel modello delle euristiche e dei bias di cui diremo ampiamente più avanti. L'idea di fondo è che il ragionamento sia governato da meccanismi cognitivi automatici selezionati dall'evoluzione naturale, che funzionano bene in molte circostanze ma operano in modo cieco e inflessibile, producendo pertanto una quantità di errori sistematici. In più, in quest'ambito oggi è emergente, se non addirittura prevalente, una posizione che mi sembra in qualche modo chiudere il circolo: per dirla un po' teatralmente, che mette una pietra tombale su qualsiasi possibile ottimismo circa la trasparenza razionale del soggetto. È un'affermazione che può apparire paradossale, considerato che nel dibattito sulla crisi della razionalità questa posizione è stata definita «panglossiana» - con riferimento a un celebre personaggio di Voltaire di nome Pangloss che assumeva che il nostro fosse «il migliore dei mondi possibili» 3 • Alla lettera, i panglossiani suggeriscono che dovremmo guardare con maggiore ottimismo alle evidenze sperimentali sul ragionamento che si sono accumulate nell'ultimo mezzo secolo. Lungi dall'implicare che siamo irrazionali, tali evidenze mostrerebbero piuttosto che l'idea classica della razionalità modellata sulla logica formale (sulla probabilità classica eccetera) era inadeguata, e che i nostri meccanismi cognitivi sono perfettamente razionali purché applicati a problemi e contesti appropriati, che sarebbero quelli per i quali l'evoluzione naturale li ha selezionati fin dall'inizio. Teorie di questo genere vengono perciò etichettate come «ecologicoadattive»: «ecologiche» per l'importanza che attribuiscono ai contesti di applicazione appropriati, «adattive» perché assumono che i nostri processi di ragionamento siano adattamenti biologici selezionati dall'evoluzione. Tutto per il meglio, allora? Dipende. Bisogna vedere che idea di razionalità pensiamo che valga la pena di salvare. Quella dei panglossiani è una razionalità, per così dire, «a nostra insaputa». O, per dirla in modo più standard nelle scienze cognitive, è una razionalità .3 Le etichette di «panglossiani» e (vedi più avanti) «miglioristi», e le relative nozioni, sono state introdotte nel dibattito da Stanovich (2011 ).
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sub-personale (ovvero «modulare», come anche diremo). Essa è incardinata in meccanismi automatici che operano al di sotto dei processi di cui siamo coscienti, e dei quali dunque ci sentiamo padroni e responsabili. In senso proprio, non siamo noi a essere razionali, lo sono certi nostri meccanismi cognitivi. Coerentemente con l'ottimismo di cui dicevamo, queste recenti posizioni propongono una soluzione piuttosto «quietista» (di «non intervento»), rispetto alla questione se vi siano modi per migliorare le nostre prestazioni nel ragionamento, le capacità di pensiero critico e simili 4 • Nella sostanza, l'ipotesi è che ci sia ben poco da migliorare. Le nostre tendenze spontanee vanno bene così come sono, semmai si tratterà di assecondarne le inclinazioni naturali. In particolare, un'idea che torna con insistenza è la seguente. Dando per assodato che domina in noi l'inclinazione automatica a far prevalere il nostro punto di vista, nonché ad argomentare unilateralmente in funzione di questo obiettivo, non sforziamoci di correggere questa tendenza, ossia di formare soggetti capaci di analizzare criticamente le proprie posizioni, cogliendone i pro e i contro. Sarebbe inutile, o peggio controproducente. Converrà piuttosto creare situazioni di confronto dialogico in cui ciascuno farà ciò che sa fare meglio: difendere il proprio punto di vista. In tal modo, nel corso del confronto ciascuna posizione sarà difesa con le migliori ragioni, e questo favorirà l'emergere di risultati più razionali. Perché allora dico che queste posizioni mettono una pietra tombale su ogni possibile ottimismo circa il soggetto razionale? Le conclusioni appena descritte non dovrebbero apparire confortanti? Insisto: dipende dal genere di razionalità che vogliamo salvare. Quella a cui mirano i panglossiani non è qualcosa su cui il soggetto intenzionale abbia controllo; non è una qualità della propria esperienza, o della propria personalità, che si possa aspirare a sviluppare; non è una caratteristica di cui possiamo registrare i fallimenti o i successi nel corso della nostra vita mentale. Come nella storiella sulla coppia comportamentista, se un soggetto che partecipa al dialogo stia argomentando razionalmente può dirlo solo un osservatore esterno il quale constata che dalle sue considerazioni unilaterali (e dal confron-
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Come vedremo tra poco, ci sono anche posizioni di mediazione: ad esempio Paglieri
(2016).
I. L'INATTUALE TRASPARENZA DEL SOGGETTO
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to con quelle dell'interlocutore) emerge una superiore qualità degli argomenti. I soggetti, nell'atto di ragionare, non potrebbero dire nulla di utile sulla qualità di quel che accade nella loro mente.
1. 2
La questione, alrosso
Riassumendo: per ragioni diverse sia il paradigma comportamentista sia quello delle scienze cognitive, e tanto gli studi di psicologia sociale quanto quelli di psicologia del ragionamento, propongono un'immagine del soggetto come ben poco trasparente a sé stesso. Non soltanto tutti assegnano grande importanza ai processi automatici e inconsci. In più, sembrano anche suggerire che non ci sia modo per i soggetti di diventare consapevoli dei propri automatismi, tenerli sotto controllo e indirizzarli verso esiti più razionali. Da questo punto di vista, in psicologia del ragionamento l'ottimismo delle teorie ecologico-adattive è persino meno incoraggiante del pessimismo delle teorie delle euristiche e dei bias. Queste ultime potrebbero in linea di principio essere pessimiste fino in fondo, negando che si possano correggere gli automatismi. Ma nella maggior parte dei loro sostenitori prevale un diverso orientamento: essi aderiscono a «modelli duali» del ragionamento, in base ai quali accanto a quei meccanismi automatici c'è la possibilità di ricorrere a processi controllati e coscienti, capaci di correggere i primi. Viceversa, i sostenitori delle teorie ecologico-adattive (i panglossiani in genere) sono ottimisti solo nel senso che enfatizzano i casi di successo degli automatismi; ma quando si giunge alla questione se si possa migliorare le nostre prestazioni automatiche, allora alzano bandiera bianca. L'importanza di questa questione per gli scopi del presente libro dovrebbe essere chiara. L'idea di fondo che difenderò è che sia possibile potenziare il pensiero critico in quanto strumento di riflessione cosciente, monitoraggio e intervento deliberato sui risultati degli automatismi. In particolare, analizzerò questa dinamica con riferimento al potere degli automatismi sul pensiero ideologico. Dunque, se fosse vero che i soggetti non sono trasparenti a sé stessi - non hanno possibilità di riflessione e controllo sugli automatismi - l'intera strategia del libro ne sarebbe compromessa. Nei prossimi capitoli
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analizzerò più in dettaglio il potere degli automatismi (dapprima con riferimento ai processi cognitivi in generale, quindi al ragionamento, infine al pensiero ideologico); ma contestualmente esplorerò l'idea che i nostri processi coscienti non sono condannati a subirne passivamente gli effetti. L'obiettivo del presente capitolo è introdurre lo sviluppo dei prossimi capitoli mettendo a fuoco un nodo teorico cruciale, emerso nel dibattito sulla razionalità: la contrapposizione tra concezioni «trasparenti», riflessive, e concezioni puramente automatiche della razionalità. In questa prospettiva, la discussione della posizione panglossiana è particolarmente significativa: per un verso, è certamente una posizione attraente (gode in particolare del prestigio riflesso della teoria dell'evoluzione) e attrattiva (ha un discreto numero di seguaci); per un altro verso, e proprio per questo, rischia di scoraggiare molti dal percorrere la strada alternativa. Concluderò dunque questo capitolo dapprima ampliando l'esame della posta in gioco nello scontro con i panglossiani, quindi spiegando perché penso che i panglossiani (certamente in buona fede) stiano distogliendo l'attenzione da qualcosa che è presupposto anche dalla loro posizione.
1. 3
Resistere ai panglossiani: la posta in gioco
Questo libro intende fornire un contributo al già sterminato dibattito sulla razionalità, per un verso concentrando l'attenzione su alcuni meccanismi inconsci che mi sembrano particolarmente potenti nel determinare le nostre prese di posizione coscienti; ma anche provando a mostrare, per un altro verso, che la razionalità come processo deliberato conserva un ruolo importante da giocare nonostante tutto (in particolare, nonostante gli argomenti dei panglossiani). In tal modo, mi propongo due obiettivi tra loro certo non logicamente opposti, ma che comunque comportano una radicale inversione di marcia per il pensiero. Prima cercherò di scuotere seriamente alcune rassicuranti convinzioni dei lettori (o di alcuni tra loro), illuminando la potenza dei nostri processi inconsci: nel farlo, disporrò in ordine di battaglia una letteratura in parte abbastanza nota, ma da essa proverò a trarre alcune conclusioni (credo) non scontate relati-
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va mente a un ordine di fenomeni a cui mi riferisco con l'etichetta di «pensiero ideologico». A questo punto, dopo avere avuto successo sperabilmente - nel mettere in crisi la spontanea fiducia che nutriamo verso la razionalità cosciente, cercherò però di convincere i lettori che c'è un senso in cui quella fiducia può essere recuperata. Solo che si tratta di un senso piuttosto esigente, che richiede un lavoro dei nostri meccanismi cognitivi più faticosi e ai quali ricorriamo perciò meno volentieri. Insomma, la razionalità come trasparenza a noi stessi dei processi di ragionamento non è un dato di partenza - al contrario, spontaneamente e per lo più «ragioniamo» sulla base di meccanismi fuori dal nostro controllo e in parte capricciosi. Piuttosto, essa è un faticoso, e mai definitivo, punto di arrivo. Per dirla con uno slogan: il soggetto razionale che proverò a descrivere non è ciò che noi siamo spontaneamente. È semmai una possibilità insita nella nostra natura, ma che si sviluppa in modo significativo solo quando educazione ed esperienze individuali prendono una certa piega. Proprio per questo (come argomenterò ripercorrendo il dibattito sulle evidenze empiriche) per la prospettiva che propongo è cruciale l'aspetto della variabilità individuale. I test sperimentali lavorano su medie e normalizzazioni delle prestazioni individuali. In tal modo, come ha mostrato in modo illuminante Keith Stanovich ( 201 1 ), tendono a occultare precisamente la variabilità dei risultati, e più specificamente il fatto che alcuni soggetti sfuggono al genere di errori che hanno alimentato il dibattito sulla crisi della razionalità. In altre parole, una certa percentuale di soggetti manifesta una capacità di controllo razionale che consente loro di evitare gli errori sistematici commessi dai più. Se le cose stanno davvero così, il quietismo panglossiano rischia di comportare la resa al fatto accidentale che solo alcuni - per semplice fortuna, o perché aiutati da metodi educativi più efficaci - riescono a elaborare strategie riflessive più sofisticate. Mentre la maggior parte di noi si accontenta perlopiù di forme di ragionamento spontaneo meno deliberate e flessibili. Potremmo dire: il quietismo panglossiano rischia di essere una profezia che si auto-avvera. Nella misura in cui esso costituisce una posizione di successo, finisce con lo scoraggiare il tentativo di produrre soggetti più consapevoli, e pertanto rischia di contribuire ad allontanare un obiettivo già di per sé difficile. Contro questo rischio, difendo qui una concezione della razionalità come educazione individuale ad una maggiore trasparenza del soggetto.
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1.4 Il punto cieco degli argomenti panglossiani
Intendiamoci, non voglio arrivare a sostenere che non ci sia niente di corretto nell'approccio panglossiano, o nella specifica tesi «quietista» secondo cui va benissimo che i soggetti siano concentrati sulla vittoria piuttosto che sulla capacità di autocritica. Concedo senz'altro che ci siano aspetti e contesti rispetto ai quali queste affermazioni risultano convincenti - ad esempio penso che ci siano contesti nei quali la competizione delle idee è utile, e che questi includano (nei dovuti modi) la scienza, la politica, il dibattito pubblico in generale. Tuttavia credo anche che, come modello complessivo della mente umana, il modello panglossiano sia manchevole in maniera quasi programmatica. Per cominciare, proviamo a prendere sul serio l'idea che quando i soggetti competono per vincere nella discussione questo produca risultati più razionali. Come facciamo a dire che i risultati sono «più razionali» (o in qualsiasi altro modo vogliamo definire la loro superiorità epistemica)? Abbiamo bisogno di un punto di osservazione dal quale valutare la qualità delle argomentazioni prodotte. Più specificamente, dobbiamo essere in grado di apprezzare il fatto che quando il soggetto A ragiona da solo produce argomenti di qualità inferiore a quelli che emergono quando confronta le sue idee con quelle di B. Ora, cosa potrebbe essere questa maggiore qualità, se non il fatto di approdare ad argomenti (ed eventualmente a formulazioni della propria posizione) meno ingenuamente unilaterali, più robustamente difendibili dagli argomenti altrui, e cose del genere? Tuttavia, se siamo in grado di apprezzare questo genere di progressi, allora dobbiamo avere una qualche capacità di esaminare gli argomenti adottando diversi punti di vista. E questo è un punto qualificante della posizione opposta a quella panglossiana: posizione che è stata detta «migliorista» perché assume la possibilità, e l'opportunità, di migliorare le capacità di ragionamento, anche attraverso un addestramento a «decentrarsi», a sospendere riflessivamente il proprio punto di vista. Naturalmente, i panglossiani hanno a disposizione varie mosse per resistere a questo argomento. Potrebbero ad esempio sostenere che una cosa è la capacità di riconoscere la bontà degli argomenti, la quale richiede effettivamente che si sappia guardare ad essi dai
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diversi punti di vista, un'altra è la capacità di trovare argomenti, che invece è favorita da un atteggiamento mentale partigiano - si trovano più facilmente argomenti per un punto di vista a cui si aderisce in modo incondizionato5. Si potrebbe discutere se questo contro-argomento sia del tutto corretto. Ma assumendo che lo sia, è bene aver chiaro cosa esso comunque concede. Supponiamo sia vero, infatti, che il trovare argomenti efficacemente richieda l'adesione incondizionata ad un unico punto di vista. Se comunque il panglossiano concede che per apprezzare la maggiore razionalità prodotta in certe situazioni bisogna valutare gli argomenti tenendo conto dei diversi punti di vista, allora abbiamo già ottenuto un'ammissione importante: a quanto pare, siamo soggetti capaci (almeno in certi momenti) di superare l'unilateralità dei nostri punti di vista, controllando l'impulso incondizionato a «voler ragione», e questo ci consente di apprezzare la maggiore razionalità che emerge attraverso il confronto con l'altro. Tale conclusione richiama una felice osservazione fatta da Paul Bloom (2016: 267; ma Bloom la attribuisce a sua volta a John Macnamara). Se per un verso l'ampia letteratura sperimentale ha mostrato i limiti delle nostre capacità razionali (in particolare, la potenza di tendenze automatiche non sempre affidabili, bias ed euristiche, nell'indirizzare le risposte a certi compiti di ragionamento), per un altro verso essa ci mostra la nostra capacità di superare quei limiti. Come potremmo infatti tutti noi apprezzare il fatto che le risposte indotte dai bias non sono pienamente razionali se non fossimo capaci, almeno ex post, di applicare standard di razionalità differenti da quelli incorporati nei bias stessi? Pertanto, quando i panglossiani parlano di tendenze spontanee dei nostri ragionamenti che sarebbe s Se si guarda alla recente letteratura sul tema, in effetti, i sostenitori della posizione (che qui definisco) panglossiana si concentrano esclusivamente sul recupero degli argomenti. Il problema della loro valutazione è poco o per nulla considerato. Si veda ad esempio Hallsson e Kappel (2020). Torneremo su questo quando discuteremo il fenomeno del ragionamento motivato, nel quarto capitolo. Per anticipare, sosterrò che quando si tratta della capacità di valutare la bontà degli argomenti (altrui), i panglossiani tendono a dare per scontato un livello quanto meno accettabile di essa. Il che significa che presuppongono un soggetto riflessivo già abbastan1.a sofisticato. A quel punto, la tesi che non occorre promuovere tramite debiasing le capacità di ragionamento diventa vacua: si sostiene che non sia necessario sviluppare capacità che vengono comunque presupposte, senza spiegare come portare i soggetti fin n.
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controproducente provare a modificare, faremmo bene a ricordare che quelle tendenze non esauriscono le nostre capacità: quanto meno, ragionando a freddo siamo capaci di resistere ai bias. Se a questa osservazione affianchiamo il punto già richiamato con riferimento a Stanovich- ossia che alcuni soggetti sembrano particolarmente abili nel sospendere i bias ed esibire prestazioni più razionali - allora viene da domandarsi se il quietismo fatalista dei panglossiani non stia programmaticamente ignorando l'intera dimensione riflessiva della nostra razionalità, e il ruolo che questa può giocare accanto e al di là delle euristiche e bias. Nella stessa direzione, sono interessanti le considerazioni di Boudry e colleghi (2014) a proposito di quella che chiamano «innocenza epistemica». La questione è se i soggetti siano da ritenere responsabili (o appunto innocenti) riguardo ad eventuali errori di ragionamento. Prendiamo il caso della fallacia dello scommettitore, l'intuizione scorretta che - per fare un esempio - l'uscita del rosso alla roulette sia tanto più probabile quante più volte è uscito in precedenza il nero. In realtà, la probabilità statistica rimane invariata ad ogni lancio della pallina, ed è del cinquanta per cento. Nella prospettiva panglossiana, l'errore dei soggetti non meriterebbe il biasimo epistemico: in effetti, i loro sistemi cognitivi sono stati selezionati dall'evoluzione in contesti nei quali quell'aspettativa è giustificata. Consideriamo ad esempio il rapporto tra giorni di pioggia e di sole: dopo un certo numero di giorni di pioggia è sensato attendersi che tomi il sole, perché in natura si danno pattern che giustificano tale aspettativa. Detto in altri termini, con la roulette noi esseri umani abbiamo costruito una situazione del tutto eccezionale, in cui la probabilità di un certo evento non è soggetta a tendenze sistematiche (a meno che la roulette non sia truccata), al contrario di quanto avviene di norma in natura. Pertanto - ne concludono i panglossiani - le aspettative dei soggetti sarebbero del tutto razionali, in base a come vanno le cose nei contesti per i quali le nostre capacità sono state selezionate. La tesi di fondo di Boudry e colleghi è che l'argomento dei panglossiani colloca la responsabilità al livello sbagliato: esso discolpa i soggetti in quanto i loro meccanismi automatici eseguono correttamente i compiti loro assegnati dall'evoluzione. Tuttavia, i soggetti che commettono la fallacia dello scommettitore ignorano qualcosa che è alla loro portata sapere, e che dovrebbe indurli a diffidare in
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certi contesti dei propri automatismi. Se è vero che le euristiche inscritte nei nostri sistemi automatici funzionano piuttosto bene in un mondo senza casinò, in un mondo con i casinò i soggetti che ignorano le leggi della probabilità rischiano di adottare comportamenti di gioco soggettivamente irrazionali. E sarebbe una ben magra consolazione, dopo aver perso una fortuna alla roulette, constatare che ciò è dipeso da un comportamento perfettamente razionale se guardato dal punto di vista dell'evoluzione. Preferiremmo in quel caso aver adottato una strategia razionale più riflessiva, capace di resistere alle intuizioni fuorvianti inscritte nei nostri automatismi. Concludo con un'ultima considerazione che va nella stessa direzione delle precedenti. Se si guarda ai libri e articoli che sostengono tesi apparentemente panglossiane, un'attenta lettura dei dettagli rivela di norma posizioni molto più sfumate. Un esempio tipico è l'equilibrato libro di Fabio Paglieri (2016). In esso si trova già dalla prima pagina la seguente affermazione programmatica: «a guardare con attenzione, gli errori di ragionamento di cui tanti si lamentano spesso non sono neppure errori» (Paglieri 2016: 7). E tuttavia il titolo del libro, La cura della ragione, indica correttamente che esso intende fornire una terapia per problemi che effettivamente affliggono il ragionamento. Inoltre, per un verso Paglieri richiama con approvazione la cosiddetta «teoria argomentativa del ragionamento» di Mercier e Sperber, secondo cui la capacità di ragionare è un automatismo selezionato dall'evoluzione per persuadere gli altri, e pertanto la pretesa di educare individualmente i soggetti al pensiero critico rischia di essere controproducente: conviene piuttosto assecondare la tendenza a prevalere in contesti dialogici. Ma per un altro verso, il libro è attento a qualificare questa proposta con alcune avvertenze, e proporre strategie che vanno in tutt'altra direzione. Partendo dal primo aspetto, la principale avvertenza è che non tutti i contesti dialogici sono altrettanto buoni per il ragionamento, dunque i soggetti dovrebbero avere cura di scegliere contesti che facilitano buoni ragionamenti: contesti scarsamente gerarchici, con sufficiente differenziazione interna delle posizioni, e così via (Paglieri 2016: 179-180) 6• Ma un individuo capace di simili discriminazioni e 6
(2020:
Il tema è ampiamente presente in letteratura. Per una sua recente ripresa si veda Dacey 64-65).
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scelte non sta semplicemente assecondando i propri automatismi: al contrario, è un soggetto che adotta strategie piuttosto sofisticate per perseguire risultati ottimali. Ma c'è di più. Per migliorare le prestazioni nel ragionamento (accanto alla ricerca di opportune situazioni dialogiche) Paglieri propone strategie cognitive squisitamente individuali, anch'esse nella direzione di una accresciuta consapevolezza e trasparenza del soggetto a sé stesso. Per cominciare, insiste sull'importanza di conoscere i bias a cui si è soggetti. A suo giudizio occorre imparare a leggere il contesto, in modo da capire quale strategia euristica possa essere più adatta al particolare problema che si deve risolvere. Perché Gigerenzer ha un bel dire che ognuno di noi è dotato di una «cassetta degli attrezzi ben adattati» (adaptive too/box), ma se qualcuno ci aiutasse a capire quale strumento funziona meglio in quali circostanze, sicuramente ne trarremmo beneficio. (Paglicri 2016: 169)
Gigerenzer è uno dei più celebri sostenitori della posizione panglossiana, noto in particolare per l'idea che la selezione naturale ci avrebbe dotato di «euristiche veloci e frugali» capaci di risolvere con poco sforzo una varietà di problemi posti dall'ambiente. Come appare chiaro, Paglieri avanza dubbi sul fatto che questi meccanismi producano spontaneamente risultati soddisfacenti, principalmente perché i soggetti spesso falliscono nell'identificare contesti di applicazione appropriati. Il suggerimento è insomma quello di analizzare il contesto, sviluppando una maggiore consapevolezza delle strategie che di volta in volta esso richiede (Paglieri 2016: 171). Ossia, prosegue Paglieri, il punto non è sopprimere o rimuovere i bias che talvolta distorcono il ragionamento - ciò che erroneamente potrebbe essere suggerito dall'espressione inglese debiasing, con cui ci si riferisce alle pratiche di correzione dei bias. Si tratta piuttosto di conoscere i nostri automatismi per imparare a farne un uso consapevole e selettivo. Di nuovo, l'enfasi è sull'educazione di un soggetto razionalmente più trasparente a sé stesso. Infine, un altro tema di fondo del libro di Paglieri è l'importanza di un «allenamento dell'attenzione» (in particolare, si vedano le pp. 187-191). Ragionare male significa, molte volte, non tanto adoperare schemi logicamente sbagliati, quanto piuttosto lasciarsi sfuggire
I. L'INAlTUALE TRASPARENZA DEL SOGGETI'O
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dettagli importanti nelle informazioni che fanno da premessa al ragionamento, o anche non monitorare la coerenza delle conclusioni con quelle informazioni. Ma questo richiamo al ruolo dell'attenzione, ancora una volta, individua la «cura della ragione» nell'educazione di capacità individuali di ragionamento - piuttosto che nell'uso di automatismi in contesti dialogici. Tanto più che il controllo attentivo è uno di quei processi cognitivi faticosi, di alto livello, che abbiamo chiamato «funzioni esecutive»: è cioè parte dell'armamentario cognitivo proprio di un soggetto razionale trasparente a sé stesso. 1. 5
Conclusioni
Insomma, Paglieri (2016) è un buon esempio di un approccio equilibrato, in cui alcune opportune concessioni al modello ecologico-adattivo coesistono con l'idea che valga la pena di promuovere capacità riflessive individuali, tese a indirizzare meglio gli automatismi. Ho suggerito che, ad analizzarle con attenzione, molte prese di posizione panglossiane contengono (magari implicitamente) qualche analogo riconoscimento del fatto che i bias possono essere meglio indirizzati da processi di alto livello. A quest'osservazione, nel paragrafo che precede, ho affiancato altre due considerazioni. Primo, chi sostiene che assecondare gli automatismi assicuri risultati più razionali di quanto si otterrebbe cercando di controllarli riflessivamente, sta già concedendo molto ai sostenitori del controllo riflessivo. Sta infatti presupponendo che sia possibile valutare i risultati come razionali indipendentemente dagli automatismi. Altrimenti l'argomento sarebbe circolare: se ne potrebbe concludere non che i risultati sono più razionali, ma solo che sono più «razionali-pergli-automatismi». Insomma, la mia impressione è che l'argomento contenga una presupposizione implicita, che tendiamo a non notare perché è fin troppo di buon senso: si tratta dell'assunzione che siamo capaci di sottoporre i risultati dei ragionamenti spontanei a forme di controllo più rigoroso, così da valutare esplicitamente la loro rispondenza a standard di correttezza. Nello stesso spirito, ho richiamato l'osservazione di Bloom che la letteratura su bias ed euristiche è anche fonte di conforto circa la
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nostra razionalità: ci dice che siamo in grado di riconoscere riflessivamente gli errori di ragionamento. Anzi, l'argomento è ancora più forte perché non dipende dal presupporre che bias ed euristiche producano errori. Supponiamo di adottare un punto di vista panglossiano, secondo cui non c'è nulla che non vada nei risultati di bias ed euristiche. Nel sostenerlo, tuttavia, stiamo già facendo un'affermazione normativa circa la loro correttezza - o almeno, così sembra in molti casi. Pertanto stiamo comunque presupponendo che i risultati di bias ed euristiche possano essere valutati dall'esterno: da un qualche tipo di processo che non richiede ulteriore valutazione, in quanto è ciò che adoperiamo per stabilire gli standard di correttezza. Questo tipo di processo, sostengo, è il ragionamento cosciente. In secondo luogo, ho richiamato le considerazioni di Boudry e colleghi (2014) secondo cui la posizione panglossiana sembra invocare l'innocenza epistemica (almeno in alcuni casi) a sproposito. Ossia: ci sono almeno alcuni casi in cui non diremmo che un soggetto ha agito razionalmente solo perché ha applicato una procedura automatica selezionata dall'evoluzione. Se quel soggetto aveva a disposizione strategie più «informate» e consapevoli, che gli avrebbero potuto evitare quello che a mente fredda ci appare come un errore, allora egli ha agito in modo irrazionale. I prossimi capitoli, come preannunciato, analizzeranno con una certa ampiezza il potere degli automatismi. Era però importante consentire al lettore di mettere in prospettiva tale analisi, fornendogli un'immagine sintetica dell'obiettivo finale. Questo capitolo dovrebbe avere chiarito che il potere degli automatismi non è l'ultima parola della storia che cerco di raccontare. Se insisterò a lungo su questo potere, è perché i processi coscienti garantiscono efficacemente il pensiero critico solo quando guidati da un'appropriata conoscenza degli automatismi. Con un'immagine: se i meccanismi automatici deragliano a causa della propria stessa potenza, i meccanismi coscienti chiamati a impedirne il deragliamento devono essere ben informati della natura del pericolo, e delle curve del percorso in cui il loro intervento è richiesto.
Capitolo secondo La potenza dell'inconscio
2. 1
Tornano le rappresentazioni mentali
Se il comportamentismo, come abbiamo visto, si caratterizzava per il rifiuto sistematico a) delle nozioni mentali e b) dell'introspezione come metodo di indagine, il cognitivismo - ossia il paradigma psicologico che si sviluppa all'interno delle scienze cognitive - ha verso quelle due assunzioni atteggiamenti del tutto differenti. Da un lato esso riabilita integralmente le nozioni mentali. Tanto radicale era stato il rigetto delle nozioni di rappresentazione e stato mentale da parte dei comportamentisti, tanto determinato è il loro recupero da parte dei cognitivisti. Ci sono probabilmente (almeno) tre diversi fattori che portano a un così radicale rovesciamento. Il primo è del tutto interno al comportamentismo stesso. Fare psicologia senza nozioni mentali non è un'impresa facile. Studiosi come Edward Tolman, cresciuti scientificamente dentro il paradigma comportamentista, cominciano a raccogliere evidenze di cui è difficile dare conto all'interno di esso. Tolman conduceva esperimenti su topi da laboratorio: ad esempio li metteva dentro labirinti e osservava se e a quali condizioni erano capaci di ritrovare del formaggio messo in una certa posizione. Sulla base di questi esperimenti, si convinse che dopo un certo numero di esperienze i topi formavano delle mappe mentali dei labirinti (si veda in particolare Tolman 1948). Era difficile spiegare altrimenti come, attraverso ripetuti tentativi, i topi potessero tenere traccia della posizione del formaggio, e raggiungerlo anche partendo da posizioni diverse. E non c'è dubbio che una «mappa mentale», comunque la si voglia concepire, sia una rappresentazione interna alla mente. Dunque Tolman riabilita una nozione mentale come essenziale per la spiegazione di comportamenti intelligenti -
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ovvero, comportamenti basati sull'elaborazione di informazione ricavata dall'ambiente. Il secondo fattore è il ruolo teorico giocato da Noam Chomsky nella nascita delle scienze cognitive. Chomsky è un linguista: anzi, un gigante della linguistica teorica. Ha sviluppato una teoria del linguaggio come sistema sintattico che non solo ha trasformato profondamente questo ambito di studi, ma ha anche impresso tracce profonde in altre discipline. Le scienze cognitive, lo abbiamo visto, sono un paradigma teorico a carattere interdisciplinare. La rifondazione della teoria della sintassi da parte di Chomsky è parte di un ragionamento più ampio che estende i suoi effetti sulla psicologia, la filosofia e l'intelligenza artificiale. L'idea di fondo è che la sintassi è un sistema di regole inscritte nella mente dei parlanti. Quest'idea comporta dunque, per un verso, una rivoluzione in psicologia: la riabilitazione - contro il comportamentismo - dell'idea che i comportamenti intelligenti siano spiegati da manipolazioni mentali di informazioni anch'esse rappresentate nella mente. Ma al tempo stesso quell'idea rivitalizza una nozione filosofica di mente già esplorata nel corso del diciassettesimo secolo. Secondo questa nozione non soltanto la mente è un contenitore di rappresentazioni, essa è anche un meccanismo per eseguire su quelle rappresentazioni computazioni basate su regole. Il pensiero, in altri termini, può essere visto come una forma di computazione, di calcolo mentale su rappresentazioni. Tra i più noti esponenti di quest'idea vi furono Gottfried Leibniz e Thomas Hobbes, del quale è particolarmente noto il seguente passo tratto dal De corpore: Per ragionamento, poi, intendo il calcolo. Calcolare è cogliere la somma di più cose l'una aggiunta all'altra, o conoscere il resto, sottratta una cosa alraltra. Ragionare, dunque, è la stessa cosa che addizionare e sottrarre; e, se qualcuno volesse aggiungervi il moltiplicare e il dividere, non avrei niente in contrario, poiché la moltiplicazione non è altro che l'addizione di termini uguali e la divisione la sottrazione di termini uguali tante volte quante è possibile. Si risolve, quindi, ogni ragionamento, in queste due operazioni della mente: l'addizione e la sottrazione. (Hobbcs 1986: parte I, cap. I, S 2)
Ma non solo la psicologia e la filosofia, anche l'intelligenza artificiale viene profondamente influenzata dalle idee di Chomsky. La sua riflessione sui livelli di complessità matematica implicati dalla sintassi
2. LA POTENZA DE.LL'INCONSCIO
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del linguaggio è ancora oggi parte dei contenuti istituzionali nei corsi di intelligenza artificiale 1 • Ma soprattutto, la teoria della sintassi chomskiana fornisce alla nascente intelligenza artificiale un modello teorico esemplare (per inciso, l'intelligenza artificiale è l'unica delle scienze cognitive la cui nascita quasi coincide cronologicamente con quella del paradigma stesso). E questo ci porta al terzo fattore. Il progetto di Chomsky (di spiegare la costruzione di frasi in termini di computazioni basate su regole sintattiche) è il primo esempio maturo del tentativo di dare corpo al paradigma dell'intelligenza artificiale. L'obiettivo di fondo di questo paradigma è appunto realizzare il sogno di Hobbes e di Leibniz: descrivere il pensiero in termini di computazioni governate da regole, che si applicano a rappresentazioni o simboli mentali. L'impetuoso sviluppo dell'informatica ha consentito la progressiva realizzazione di quel sogno, fino all'attuale onnipresenza nelle nostre vite del trattamento digitale dell'informazione. Questo successo pratico ha contribuito a spianare la strada al modello teorico che vi era sotteso. In sintesi: dopo la metà del secolo scorso gli studi di Tolman, il prestigio delle teorie di Chomsky 2 , i primi successi dell'informatica costituiscono tre potenti spinte nella medesima direzione. L'idea che dopotutto c'è una mente - concepita come un complesso di rappresentazioni mentali e di regole mentali per la loro manipolazione trionfa. Il comportamentismo è sconfitto.
1 Basta, a questo proposito, guardare Russell e Norvig (199 5 ), il manuale che costituisce tuttora la «bibbia» dell'intelligenza artificiale. 2 Chomsky (1959) offre anche argomenti espliciti contro il comportamentismo nel corso di una celebre recensione critica a Verbal Behavior, libro con cui Burrhus Skinner ( 19 57) prova a spiegare il linguaggio in termini comportamentisti. L'idea di fondo di quella recensione è che una descrizione in termini di stimolo-risposta non può catturare per ragioni di principio la creatività, e dunque imprevedibilità, dei comportamenti linguistici. Quando proviamo a considerare le produzioni linguistiche come risposte, ci troviamo di fronte alla difficoltà di individuare classi di stimoli regolari: non ci sono situazioni in cui invariabilmente diciamo una certa frase piuttosto che un'altra, e frasi che diciamo invariabilmente in una certa situazione. Per spiegare la creatività linguistica bisogna ammettere che disponiamo di qualcosa di più che semplici connessioni stimolorisposta: dobbiamo disporre di sistemi di regole, che consentono di costruire gamme virtualmente infinite di frasi.
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Contro l'introspezione: l'anatema di Fodor sugli stati coscienti
Abbiamo dunque visto come il cognitivismo respinga il primo dei due assunti del comportamentismo, ossia la condanna delle entità mentali. Ma per quanto riguarda l'altro assunto, viceversa, tra comportamentismo e cognitivismo c'è sostanziale continuità: entrambi i paradigmi considerano l'accesso cosciente del soggetto ai propri stati mentali come essenzialmente irrilevante e inaffidabile. Nel caso del cognitivismo, si tratta di un atteggiamento di fondo che sebbene molto diffuso è stato forse poco discusso in termini espliciti. Tale atteggiamento va tenuto nettamente distinto da una tesi invece ampiamente esplicitata dal paradigma cognitivista: quella secondo cui una parte preponderante dei processi mentali avverrebbe sotto la soglia della coscienza (di questa tesi ci occuperemo tra poco). È importante avere chiara la distinzione perché - come sosterrò - è possibile condividere questa tesi senza condividere l'atteggiamento di sfiducia verso il ruolo dei processi coscienti. C'è un passo di Fodor (1975) che mi pare veramente sintomatico della questione. Jerry Fodor era un filosofo della psicologia che ha avuto un peso enorme nella definizione del paradigma delle scienze cognitive. Il suo libro del 1975, The Language ofThought, è senza dubbio una pietra miliare nella costituzione di quel paradigma. In una nota del libro, Fodor si chiede come dovremmo caratterizzare gli stati coscienti degli organismi, e risponde che dovremmo prima ancora chiederci se vi siano generalizzazioni che si applicano (solo) a stati mentali coscienti [...].~in questo senso, una questione aperta se gli stati psicologici coscienti costituiscano un dominio naturale per una teoria[ ... ]. Avrei creduto che, dopo Freud, l'onere della prova fosse passato a quanti sostengono che gli stati coscienti (degli esseri umani) costituiscono di fatto un dominio teorico. (Fodor 1975: 52, nota 19; traduzione mia)
Dubitare che «gli stati psicologici coscienti costituiscano un dominio naturale» significa dubitare che essi meritino una descrizione scientifica. Fodor suggerisce insomma che non vi siano generalizzazioni interessanti che riguardano (solo) gli stati coscienti, tali che di essi si possa fare scienza. C'è in particolare una nota di sarcasmo nell'ultima frase. Fodor non si impegna nemmeno a fornire un argomento per il proprio scet-
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ticismo verso l'importanza degli stati coscienti. Gli pare sufficiente un richiamo alla scoperta freudiana dell'inconscio per scaricare l'onere della prova sull'avversario - su chi pensa che sia possibile una loro descrizione scientifica. Per inciso, Freud non gode di una fama particolarmente positiva nelle scienze cognitive. La sua concezione dell'inconscio tende ad essere considerata ben poco scientifica. Appellarsi a Freud per sostenere che tocca ai difensori degli stati coscienti fornire argomenti, suggerisce dunque che si tratti di una posizione che è difficile prendere sul serio. Perché questo sarcasmo, o comunque questo atteggiamento di sufficienza nei confronti di una nozione psicologica - quella di stati mentali coscienti - che pure (così spero!) non è del tutto scontato sia priva di importanza? C'è probabilmente una ragione teorica che vale la pena di accennare. L'intuizione di Fodor è che ciò che conta davvero è quel che fa la computazione sottostante, non come questa si manifesta alla coscienza: ovvero, contano le regole mediante le quali trasformiamo gli input percettivi in output comportamentali. E queste regole possono operare anche senza un intervento della coscienza. Facciamo un esempio. Per spiegare un comportamento (sedersi su una sedia) a partire da uno stimolo (la visione della sedia) quello che conta è la sequenza delle transizioni mentali: possiamo schematicamente immaginare una prima transizione mentale da un contenuto percettivo A a un contenuto categoriale B (dall'input visivo al suo riconoscimento come una sedia), e una successiva transizione da B allo schema motorio C (quello che presiede all'azione di sedersi). Quello che conta davvero insomma è che si riconosca la sedia, e poi si trasferisca l'informazione al sistema motorio che deve stabilire come usarla. Se tutto questo processo avviene in modo pienamente cosciente, distratto, o persino interamente automatico, fa ben poca differenza. Questa è, alla fine della fiera, l'intuizione di fondo del cognitivismo ispirato a Fodor3. 3 Il quadro dei rapporti delle scienze cognitive con la coscien1.a è, ovviamente, molto più complesso di quanto possa rendere conto qui; devo quindi accontentarmi di una brutale semplificazione a fini espositivi. Ad esempio, in molti accolgono l'idea che i processi coscienti possano svolgere un ruolo quando qualcosa va storto con i normali processi automatici. Quest'idea, tuttavia, è spesso introdotta come una concessione che non merita ulteriore analisi. In particolare, come vedremo presto, la concezione cognitivista dei pro-
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Come cercherò di mostrare, c'è in questo quadro qualcosa di vero. In molti casi il ruolo della coscienza è minimo: essa si limita a monitorare pigramente quello che accade in noi e intorno a noi, un po' come un leone nell'ora del riposo dopo il pranzo. In questi casi, i processi automatici fanno il vero lavoro e la coscienza fa poco più che assistere allo spettacolo. Ma da questo non segue che la coscienza non abbia mai un ruolo efficace nella nostra vita mentale, ovvero che i processi coscienti siano in generale epifenomenici. Insomma, Fodor ha buone ragioni per sostenere che possiamo descrivere la maggior parte dei processi cognitivi come computazioni nelle quali la coscienza non ha un ruolo attivo. Tuttavia da questo non segue, come vedremo meglio, che non esista un dominio naturale degli stati/processi coscienti degno di descrizione scientifica.
2. 3
Processi automatici o teatro cartesiano?
Il cognitivismo tende dunque ad assumere, come il comportamentismo, che l'accesso introspettivo sia irrilevante o inaffidabile. Questi due aggettivi, in realtà, implicano due affermazioni teoriche un po' differenti. L'intuizione di Fodor presentata nel precedente paragrafo riguarda la non rilevanza: a suo giudizio non è interessante considerare gli stati coscienti dell'organismo perché le computazioni avvengono allo stesso modo con o senza la coscienza. In questo contesto, la coscienza non è tanto fuorviante quanto inutile, perché i processi che contano sono quelli inconsci. C'è però un'altra linea di pensiero che ha avuto un certo sviluppo nelle scienze cognitive: quella secondo cui la coscienza è più inaffidabile che irrilevante, in quanto essa è un «luogo» mentale in cui produciamo pseudo-spiegazioni di ciò che avviene davvero al livello dei processi automatici. Noi abbiamo la sensazione di un accesso introspettivo ai nostri processi, di essere cioè in grado di dire cosa pensiamo, come ragioniamo, perché agiamo in un dato modo, e simicessi automatici (ossia inconsci) è tale da non lasciare spazio a interazioni interessanti tra di essi e i processi coscienti. Se posso dirlo con uno slogan: con gli automatismi è inutile discuterci Su questa questione ovviamente dovremo tornare, dato che la modificabilità degli automatismi è per noi un punto cruciale.
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li. In realtà in questi casi stiamo-come dicono gli psicologi- «confabulando», producendo «confabulazioni»: ossia storie inventate (alle quali finiamo per credere) per supplire alla mancanza di informazioni genuine su quello che accade. Nel resto del capitolo mi propongo di spiegare dapprima in che modo le scienze cognitive pensano ai processi automatici, in linea con l'intuizione che la coscienza sia irrilevante; in conclusione analizzerò l'idea che la coscienza sia inaffidabile in quanto sede di confabulazioni. Diciamolo francamente: l'enfasi delle scienze cognitive sui processi inconsci è anche una reazione polemica a un modello di senso comune, che in filosofia era stato nobilitato da Cartesio. Questo modello della mente è infatti detto «teatro cartesiano»: una sorta di scena su cui sarebbero proiettati i dati delle sensazioni, affinché il soggetto possa esaminarli e scegliere azioni appropriate. Questa «scena» coinciderebbe con la coscienza. In altri termini, per Cartesio i processi mentali sarebbero essenzialmente processi coscienti. Come per altri aspetti già considerati, anche per il tema della coscienza le scienze cognitive devono molto alla riflessione di Chomsky. La sua teoria della sintassi, lo abbiamo detto, assume che i parlanti dispongano di sistemi di regole mediante cui eseguire computazioni su simboli. Nello specifico, i simboli sono entità linguistiche e le regole sono quelle che presiedono alla loro combinazione sintattica. Il sistema di queste regole è chiamato da Chomsky «competenza (sintattica)». Tanto la produzione di frasi da parte del parlante quanto la loro comprensione grammaticale da parte dell'ascoltatore sono il risultato di processi di applicazione della competenza sintattica, ossia del sistema di regole della sintassi. Ora, di che tipo di processi si tratta, dal punto di vista del rapporto con la coscienza? Un'intuizione potente di senso comune è che se qualcosa è un processo cosciente, certamente lo è il parlare. Non solo siamo normalmente coscienti di quel che diciamo. Inoltre, è ragionevole dire che gli enunciati che produciamo servono precisamente a catturare l'attenzione di qualche interlocutore: gli enunciati sono «attrattori» di attenzione cosciente. Infine, una possibile descrizione del pensiero è qualcosa del genere: discorso cosciente (eventualmente interiore) con cui cerchiamo di focalizzare l'attenzione su qualcosa (un testo, un problema) e comprenderlo. Pensiamo perché siamo capaci di usare il linguaggio «con coscienza».
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Insomma, sembra che la coscienza sia il compagno di viaggio più certo e sistematico del linguaggio. Chomsky potrebbe concordare con almeno alcune delle affermazioni precedenti. E tuttavia, un punto fondativo del suo approccio è che la competenza - il sistema di regole - che presiede alle nostre capacità sintattiche non è qualcosa a cui abbiamo accesso cosciente. Il punto può apparire per certi versi ovvio. Un conto è che i parlanti siano consapevoli del contenuto semantico di quel che dicono; un altro è in che modo costruiscano - come si esprimerebbe Chomsky - «frasi sintatticamente ben formate» di una determinata lingua. Non facciamo fatica a concedere che questo specifico processo di costruzione/ analisi sintattica possa svolgersi con poco o nessun contributo dei processi coscienti. In effetti, non è su quello che si focalizza in genere la nostra attenzione mentre produciamo o comprendiamo enunciati. È quello che diremmo un processo di tipo «automatico». E si possono fare anche considerazioni un po' più tecniche. Ad esempio, noi esseri umani cominciamo ad usare il linguaggio precocemente, e senza alcuna istruzione formale. I genitori si applicano, a volte, ad insegnare ai bambini singole parole o espressioni, ma difficilmente indirizzano l'attenzione sulle forme sintattiche da adoperare. Ed è del tutto evidente che, mentre l'apprendimento della lettura o della scrittura (e persino l'apprendimento di una seconda lingua) è un processo faticoso, che richiede alcuni aspetti di istruzione formale, i bambini cominciano a usare forme sintattiche anche complesse senza ricevere alcuna istruzione formale in proposito. Infine, è certamente impressionante il confronto tra la facilità con cui ciascun bambino adopera un sistema complesso di regole sintattiche e la difficoltà del compito dei linguisti, quando essi cercano di rendere esplicito quel sistema di regole. Ogni bambino ha indubbiamente una conoscenza implicita raffinatissima della sintassi della propria lingua, tale che occorrono comunità di studiosi e anni di lavoro per ricostruirla esplicitamente in modo accettabile. Come diremo tra un attimo, Chomsky è convinto che la competenza sintattica sia una dotazione innata della nostra specie, e che ciò spieghi perché i bambini non hanno bisogno di essere istruiti al riguardo. Ma anche senza condividere la tesi dell'innatismo, si può riconoscere senz'altro questo: la padronanza delle regole sintattiche non sembra richiedere che siano apprese, o utilizzate, in modo co-
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sciente. Questo punto è così importante per Chomsky che in alcuni testi (Chomsky 1976; 1980) ha introdotto un neologismo, il verbo inglese «to cognize», per indicare il rapporto che il parlante ha con le regole del linguaggio: dire che noi «conosciamo» quelle regole gli sembra fuorviante, perché il verbo «conoscere» («to know») porta con sé l'idea di una conoscenza esplicita, ossia di qualcosa a cui abbiamo accesso cosciente. Al contrario, le regole in questione governano i nostri comportamenti senza alcun apparente contributo della coscienza, e senza alcuna consapevolezza da parte nostra circa il modo in cui ciò avvenga. Sono, in un certo senso, procedure della nostra mente computazionale inconscia. L'enfasi che Chomsky pone sul carattere automatico, inconscio, dei processi cognitivi è destinata a diventare centrale nel paradigma delle scienze cognitive. Ma prima di vedere in che modo, concediamoci un inciso di una certa importanza.
2.4 Dal teatro cartesiano al razionalismo cartesiano
Se per un verso Chomsky adotta una posizione anti-cartesiana, nel senso di rifiutare l'immagine del teatro della coscienza come modello generale della mente, per un altro verso egli si dichiara radicalmente cartesiano. Al punto che, in uno studio sui precursori storici della propria teoria (Chomsky 1966), ne individua il riferimento ideale nella Linguistica cartesiana4: ossia in Cartesio stesso, e nella Grammatica di Port-Royal a lui ispirata. In cosa essenzialmente Chomsky si riconosce cartesiano? In una parola, in virtù della sua adesione alla dottrina razionalista secondo cui il linguaggio è una conoscenza innata inscritta nella mente degli esseri umani. Questa è la sua concezione della competenza sintattica: un sistema di regole che «conosciamo» dalla nascita - con l'avvertenza già nota che non si tratta di conoscenze accessibili in modo cosciente. Non intendo soffermarmi su questa tesi teorica, o sulla questione storiografica della sua formulazione in Cartesio. Chomsky ha le sue ragioni e i suoi argomenti per essa; e la tesi ha avuto ampia fortuna ◄ Qzrtesia11 Li11guistics
è appunto il titolo di Chomsky (1966).
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per vari decenni, mentre probabilmente oggi prevale l'idea opposta secondo cui la sintassi è un sistema di regole apprese a partire dall'esperienza. La ragione per cui menzioniamo questo tema è che l'innatismo, in generale, ha giocato un ruolo primario nel paradigma delle scienze cognitive, e che ciò ha conseguenze importanti per le nostre questioni. Si consideri infatti il modello ecologico-adattivo, di cui nel primo capitolo abbiamo discusso l'inclinazione panglossiana. In quel modello si assume che le nostre capacità di ragionamento si siano evolute attraverso un processo di selezione naturale, adattandosi a problemi incontrati frequentemente nell'ambiente. Questo equivale a dire che il ragionamento è una facoltà innata. La selezione naturale avrebbe modificato la struttura della nostra mente, così da dotarci di processi mentali utili per sopravvivere e riprodurci. Il ragionamento sarebbe uno di questi processi. Ora, come si ricorderà l'inclinazione panglossiana consiste nel giudicare improduttivo, se non addirittura controproducente, il tentativo di modificare i processi spontanei di ragionamento. Una ragione per questo è appunto l'ottimismo che discende dalla tesi dell'adattamento all'ambiente: se le nostre capacità di ragionamento sono state selezionate per risolvere problemi ambientali frequenti, allora è ragionevole attendersi che funzionino piuttosto bene in molti casi. Abbiamo già cominciato a mettere in discussione questo argomento, e ci torneremo (nel terzo e quarto capitolo). In generale, i panglossiani mettono un'enfasi piuttosto unilaterale sui successi dei nostri automatismi, mentre sarebbe opportuno guardare ugualmente a successi e insuccessi. Ma vorrei qui enunciare una seconda ragione dello scetticismo panglossiano circa la possibilità di migliorare le capacità di ragionamento. Se un processo mentale è innato, il suo funzionamento deve essere relativamente rigido e prefissato. L'idea che sia possibile modificare i processi mentali in funzione dell'esperienza, viceversa, è una tipica tesi dell'empirismo - la posizione, opposta al razionalismo innatista, secondo la quale i nostri processi mentali sono ampiamente plastici e modificabili tramite l'apprendimento. Date le sue assunzioni innatiste, il modello ecologico-adattivo considera i processi di ragionamento come ben poco modificabili. La discussione tra innatisti ed empiristi è di quelle che scivolano facilmente nelle contrapposizioni ideologiche, e perciò mi piacerebbe
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evitare di prendere una posizione univoca sulla questione. Sono di fatto convinto che la plasticità dei processi cognitivi sia enorme e, nondimeno, che ci siano importanti vincoli innati. Tuttavia è onesto dire che, entro i limiti delle questioni che ci interessano, difenderò una posizione decisamente empirista per gli standard di molti innatisti5. Il tema, si ricorderà, è quello dei bias automatici nel ragionamento e della possibilità di contrastarli. Se essi fossero il prodotto di processi innati, cercare di contrastarli sarebbe verosimilmente inutile. Ora, non sosterrò che i bias possano essere neutralizzati o modificati direttamente. Da questo punto di vista, la mia posizione non è incompatibile con una certa dose di innatismo. Proverò però a sostenere che sia possibile a) analizzare i bias in modo riflessivo, b) sviluppare la capacità di riconoscerli mentre operano in noi e negli altri, c) richiamare rapidamente alla mente la sensazione che sarebbe meglio (almeno in certe circostanze) non subirli, e quindi d) adottare effettivamente schemi di ragionamento alternativi. Questa sequenza descrive, in definitiva, capacità di ragionamento che vanno oltre quelle automatiche e spontanee. Inoltre, dovrebbe essere chiaro, la mia descrizione suggerisce che tali capacità possano essere acquisite attraverso l'esperienza: che lo si scopra da sé o si venga istruiti, si tratta di apprendere una serie di cose sui bias, su come si manifestano, sui loro effetti e sulle alternative possibili. E si tratta poi di automatizzare queste conoscenze: di applicarle in modo rapido quando serve. L'idea di fondo è dunque che l'esperienza cosciente può modificare i nostri automatismi in questo senso: può generare nuovi automatismi che talvolta correggono i precedenti. È un'idea tutto sommato più vicina all'empirismo che all'innatismo. Quello che ho descritto è, fino ad un certo punto, il progetto di questo libro. Ciò che mi propongo in esso è essenzialmente descris Questo non significa che la mia posizione non conceda qualcosa ai punti di vista biologico-evoluzionisti. Come ha correttamente osservato un revisore, nel presente testo si assume la validità di una serie di tesi cognitive (incluso il tema dei bias di cui parlerò ampiamente nel terzo capitolo). Questo equivale ad accettare (almeno a titolo di ipotesi) l'idea di caratteristiche cognitive comuni a tutti gli esseri umani in quanto specie biologica, con i connessi rischi di sottovalutazione della variabilità storico-culturale. Sebbene io sia sensibile al tema, come mostra la mia insistenza sui fenomeni cognitivi culturalmente modellati (vedi più avanti S 2. 19 ), penso che un confine tra fenomeni culturali e invarianti biologiche si debba tentare di tracciarlo. Sui dettagli di questi tentativi, ovviamente, la discussione rimane aperta.
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vere in modo esplicito il pensiero ideologico, individuare alcuni esiti tendenziali cui esso conduce, spiegare per quali ragioni questi esiti mi sembrano negativi, e proporre alcuni schemi di ragionamento alternativi. Accogliere eventualmente queste analisi e farne uso quando serve sarà cura di chi legge, se lo crede. 2. 5 Vedere
senza saperlo: il magico mondo dei processi automatici
Abbiamo visto come per Chomsky l'uso della sintassi - la produzione e analisi di frasi sintatticamente ben formate - sia una capacità essenzialmente inconscia, automatica. È di nuovo Fodor, che di Chomsky è stato allievo, che si occupa di sistematizzare quest'idea in un ampio modello filosofico dei processi cognitivi. In particolare Fodor (1983) introduce la nozione di modulo mentale, e di processo modulare. Sullo sfondo c'è di nuovo la tesi innatista secondo cui alcuni processi sarebbero stati selezionati dall'evoluzione. Ho già suggerito che vi sono - come minimo - ragioni di cautela nei confronti del carattere innato della sintassi, e altrettanto si potrebbe dire per altre capacità che Fodor considera modulari. Ma di questo ho già detto, e non ci tornerò ancora. I processi modulari sono definiti comunque da una serie di altre caratteristiche importanti per i nostri fini. Per cominciare, sono «specializzati per dominio», ossia prendono solo certi tipi di input. Fodor (1983) propone che siano modulari, accanto ai processi linguistici, anche quelli percettivi 6• Prendiamo ad esempio il modulo della visione, ammesso che vi sia qualcosa del genere: Fodor tende a pensare che la visione richieda una pluralità di moduli, ma questo non cambia granché per le considerazioni che seguono. Come è evidente, un eventuale modulo della visione prenderà come input solo stimoli visivi e non, poniamo, quelli uditivi. Perciò, per descrivere in termini generali la funzione dei processi modulari Fodor parla di «sistemi di input»: tanto i processi linguistici quanto quelli percettivi sono caratterizzati dall'avere propri domini di input nella cui elaborazione sono specializzati. 6
Parlare di processi percettivi può essere fuorviante, dato che Fodor distingue tra sistemi percettivi e sistemi di input. Ai nostri fini, tuttavia, tale distinzione non è rilevante e pertanto la trascureremo.
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I processi modulari sono anche obbligati. Elaborano i propri input in modo «passivo», come avrebbe detto Kant: se c'è un oggetto davanti ai miei occhi, e gli occhi sono aperti, non posso non formare una percezione corrispondente. E sono anche processi rapidi. Queste due caratteristiche rendono i processi modulari decisamente differenti dall'immagine che abbiamo dei processi di pensiero. Ragionare su qualcosa sembra un'attività intenzionale del soggetto, che intende, poniamo, risolvere un problema. Se viceversa decidesse di abbandonarsi alla pigrizia e non risolvere il problema, non vi sarebbe alcun processo di ragionamento. E l'esito di una simile attività mentale, a differenza della percezione visiva, richiede quasi invariabilmente più che frazioni di secondo. Fin qui abbiamo esplicitato proprietà dei processi modulari che un osservatore di buon senso avrebbe potuto cogliere da sé. Che il processo della visione sia specializzato per gli stimoli visivi, rapido e obbligato, non è esattamente una sorpresa. Ma Fodor va ovviamente oltre questo, sfruttando un ampio corpo di ricerche sui processi percettivi e linguistici. Una prima caratteristica non ovvia è appunto che i processi percettivi e linguistici sono automatici, inconsci. Qui dobbiamo intenderci. Forse non siamo coscienti di percepire, poniamo, che c'è un tavolo davanti a noi? Analogamente a quanto abbiamo detto in precedenza per il linguaggio, il punto non è che non ci sia nulla di cosciente. Semplificando potremmo dire che la coscienza può eventualmente accedere al risultato finale, all'output come direbbe Foclor, di un processo modulare. Ma in che modo l'input sia trasformato in quell'output è interamente impenetrabile alla coscienza. Un aspetto importante della questione è che la ricerca in psicologia e nell'intelligenza artificiale ci ha rivelato una quantità enorme di dettagli sui processi cognitivi, mostrandoci in particolare la loro intrinseca complessità. Prendiamo appunto la visione. Il punto di partenza sono le immagini che si producono sulle nostre retine, e vengono quindi inviate al cervello. Ora, queste immagini di partenza sono sostanzialmente bidimensionali dato che la retina è una superficie approssimativamente piana. In che modo, per cominciare, le due immagini bidimensionali sulle retine diventano un 'unica immagine tridimensionale di oggetti? Diciamo la verità: basandoci sull'introspezione non ne abbiamo la minima idea. Ma il quadro che abbiamo oggi della visione è enormemente più sofisticato di così. Ad
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esempio, sappiamo che nella nostra corteccia cerebrale l'area primaria della visione è specializzata in un'analisi dell'input retinico che mira a individuare linee di discontinuità con orientamenti differenti. In altri termini, quest'area esegue una prima analisi della scena visiva per individuare possibili confini tra gli oggetti. Dopo di che, l'analisi viene trasmessa alle aree successive per ulteriori elaborazioni: semplificando, una volta stabilito per ciascuna zona del campo visivo se vi sia una discontinuità, e come sia orientata, si trasmette quest'informazione ad aree cerebrali che integrano tali informazioni per capire come la scena sia organizzata in superfici. E così via. Sappiamo anche che, ad esempio, c'è un'area specializzata per la percezione dei colori, distinta da quelle già descritte che si focalizzano sulla forma. Generalmente parlando, possiamo immaginare l'elaborazione degli input come una sequenza di livelli di analisi, che producono rappresentazioni via via più integrate e generali. L'informazione sulla presenza, nella scena visiva, di linee orientate viene integrata per individuare superfici; quest'informazione viene integrata con quella relativa al colore, e via di seguito. Fino ad arrivare ad aree che provano ad usare l'informazione sulla forma tridimensionale e sui relativi colori per riconoscere la categoria dell'oggetto (si tratta forse di un tavolo?), e quindi per intervenire su di esso (la percezione qui deve interagire con le aree che presiedono al movimento )7. Spero che questa descrizione - specie se non ne avevate mai letta prima una simile - vi abbia colpito per la sua complessità. E soprattutto, spero vi abbia colpito il fatto che tutta questa complessità ci è interamente ignota, finché ci basiamo sull'introspezione cosciente. Ciò è analogo a quanto poco sappiamo esplicitamente del sistema della sintassi - a meno di essere studiosi del linguaggio - anche se sappiamo formare un'infinità di frasi in italiano. Fodor sostiene un paio di semplici tesi circa il ruolo della coscienza in questi processi. Teniamo sullo sfondo quest'idea che si tratti di
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In realtà si potrebbe raccontare una storia assai più complessa, e questo vale anche per i rapporti tra sistema percettivo e motorio. Ad esempio, si ritiene oggi che esistano due vie per l'elaborazione dei dati visivi, una via ventrale che si concentra sulla struttura e sul riconoscimento categoriale, ed una via dorsale che invece analiz1.a l'input visivo dal punto di vista delle possibili azioni sugli oggetti. E si potrebbe continuare con la scoperta dei neuroni specchio, che conferma ulteriormente la natura complessa dei rapporti tra percezione e azione motoria. Ma per i nostri scopi, è sufficiente il grado di complessità qui esibito.
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processi scomponibili in sequenze gerarchicamente organizzate dal semplice al complesso. La prima tesi di Fodor è che i processi in questione sono bottom-up, la seconda che la coscienza procede, al contrario, in direzione top-down. Cerchiamo di chiarire.
2. 6
Processi intelligenti che fanno cose stupide
Un processo è detto bottom-up - ossia dal basso verso l'alto - se esso non utilizza informazione di alto livello, che pure è a disposizione del sistema cognitivo, per fare le proprie computazioni. Per capirci, l'area primaria della visione opera in modo bottom-up se, nella sua ricerca di linee orientate, non può adoperare alcuna informazione eccetto il dato grezzo sulla distribuzione della luce nella scena. Se ad esempio qualcuno mi ha detto che c'è un tavolo davanti a me, o se io stesso ho precedentemente riconosciuto l'oggetto davanti a me come un tavolo, questo non è di alcun aiuto alla mia area primaria della visione nel suo lavoro di individuazione di confini di oggetti. Ovviamente, un processo è top-down - dall'alto verso il basso nel caso opposto: quando parte da informazione di alto livello. Per Fodor la coscienza accede tipicamente ai risultati dei processi modulari, dunque all'informazione di alto livello che è l'esito finale di quei processi. Tanto più un processo è di basso livello, tanto meno in generale è accessibile alla coscienza. La dinamica bottom-upltop-down così descritta si presta ad un paio di considerazioni interessanti. Innanzitutto, possiamo descrivere ciascun livello dei processi modulari come un sistema di regole per trarre inferenze. Date certe distribuzioni delle onde luminose in una certa area del campo visivo (premesse dell'inferenza), in quell'area c'è (o non c'è) una discontinuità tra oggetti (conclusione dell'inferenza). Date certe discontinuità in una zona più ampia del campo visivo, in quella zona c'è (o meno) una superficie. E così via. In linea con quanto abbiamo osservato in generale per il cognitivismo, i processi mentali sono concepiti come computazioni sulla base di regole. Queste regole, nella misura in cui un processo è bottom-up, sono ipotesi sulle strutture cognitive di più alto livello (più integrate e astratte) a partire da dati circa le strutture di più basso livello. Insomma, i processi cognitivi inclusa la percezio-
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ne appaiono come forme di ragionamento, sia pure automatico. La coscienza non sembra davvero un requisito indispensabile per avere ragionamenti da premesse a conclusioni. Ma c'è un altro aspetto, che suggerisce qualche cautela sui risultati di questi ragionamenti. Le regole in base a cui eseguiamo computazioni non sono infallibili. Sono regole probabilistiche: in molti casi danno risultati corretti, in alcuni no. Peggio: i sistemi di regole possono funzionare in modo tale che, in certe circostanze, danno risultati sistematicamente sbagliati. Si pensi alle illusioni percettive. Una matita immersa nell'acqua sembra spezzata. Né questa né altre illusioni percettive destano, in generale, seria preoccupazione: si tratta di malfunzionamenti locali dei nostri sistemi cognitivi, sopravvissuti alla selezione naturale appunto perché non hanno conseguenze fatali per la sopravvivenza. Nondimeno, c'è un problema generale che merita di essere esplicitato: la natura rigidamente bottom-up di questi processi li rende piuttosto stupidi. Noi sappiamo benissimo che la matita non è spezzata. Ma il nostro sistema visivo, non avendo accesso a quest'informazione di alto livello, continua a fare computazioni - e trarre inferenze - fallaci. Non impara nulla dall'esperienza. Questo ha una morale, per noi, della massima importanza. I processi automatici sono «intelligenti» in quanto eseguono, nella maggior parte dei casi, «ragionamenti» (ossia computazioni) del tutto funzionali. Dentro questi limiti, l'introspezione è abbastanza irrilevante: con o senza monitoraggio cosciente, i processi producono gli effetti desiderati. Nella misura in cui, tuttavia, gli automatismi applicano i loro sistemi di regole rigidamente - in modo bottom-up, senza considerazione di altra informazione disponibile -, essi possono essere localmente disfunzionali, ed esserlo in modo resistente all'esperienza. Continuano a sbagliare, senza imparare dagli errori. Ed è qui che l'apprendimento cosciente può svolgere un ruolo cruciale: può dirci che la matita, dopotutto, non è affatto spezzata. Dovrebbe essere chiaro perché questo ci interessi, nella prospettiva del presente libro. Quel che accade alla percezione accade anche ai processi di ragionamento in senso proprio: possono essere rigidi e localmente fallaci. E dovrebbe anche essere chiaro quale sia il mio atteggiamento in proposito. Non sono così innatista da pensare che siamo condannati a prendere tutto il pacchetto, senza margini di intervento. Penso in particolare che si sottovaluti il potere dei processi riflessivi, e la loro capacità di riorganizzare gli automatismi (senza
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per questo spegnerli). Nondimeno considero un fatto che i nostri processi operano spesso in modo rigidamente bottom-up, producendo occasionalmente risultati stupidi. Di nuovo, riconoscere il potere degli automatismi è essenziale per comprendere quanto sia importante sottoporli a qualche forma di controllo.
2. 7
Parole automatiche
Certo, se i problemi degli automatismi si riducessero alle illusioni percettive probabilmente non varrebbe la pena di darsi pensiero. Ma questa è solo la punta dell'iceberg. Per cominciare, la percezione non è affatto l'unico dominio nel quale gli automatismi imperano. È vero il contrario: non c'è dominio cognitivo, anche tra quelli considerati di alto livello, che non ne sia ampiamente pervaso. Vedremo adesso in successione esempi tratti dal dominio delle relazioni lessicali/concettuali, da quello delle intenzioni d'azione, e da quello della formazione di giudizi morali. Per quanto riguarda il primo dominio, c'è un paradigma di ricerca piuttosto tradizionale in psicologia basato sul fenomeno del priming - parola inglese che significa, tra l'altro, «innesco» 8• L'idea di fondo è che l'esposizione a uno stimolo «inneschi», ossia pre-attivi e dunque faciliti, la successiva elaborazione di contenuti correlati. Questo può accadere con la ripetizione dello stesso stimolo: se ho già udito una parola, ad esempio, mi è più facile riconoscerla. Ma si verifica anche con stimoli differenti. Ad esempio, l'elaborazione della parola «infermiere» è più rapida se in precedenza ho udito «dottore» piuttosto che se ho udito «pane», dato che tra le prime due c'è una relazione sia lessicale (capita di sentirle negli stessi contesti linguistici) sia semantica (appartengono allo stesso dominio dell'esperienza): sono insomma parole associate in memoria, e dunque l'attivazione della prima produce una certa attivazione della seconda. Le manifestazioni di questo fenomeno sono quantitativamente «piccole ma significative» (espressione su cui torneremo). In pratica, supponiamo che i soggetti debbano discriminare tra parole italiane dotate di sen8
Per un'introduzione al fenomeno, si veda Nccly (1991).
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so e stringhe di lettere (o suoni) che assomigliano a parole dell'italiano ma non lo sono. Con l'esempio precedente, dopo avere letto (o ascoltato) lo stimolo prime «dottore» i soggetti sono lievemente più veloci a identificare come una parola «infermiere» piuttosto che, poniamo, «casa». Un aspetto singolare di questo fenomeno è il seguente. Perché vi sia priming tra uno stimolo e il successivo, non è necessario che il primo sia percepito in modo cosciente. Si parla in tal caso di priming mascherato o subliminale. Tipicamente, il modo di somministrare uno stimolo prime mascherato è ridurre i tempi di esposizione: il prime viene coperto da stimoli neutri, rimanendo visibile solo per un tempo dell'ordine dei 40-60 millisecondi, una finestra del tutto insufficiente perché i soggetti formino una percezione cosciente. Nondimeno, gli effetti di facilitazione si verificano nel modo consueto. Questo fenomeno è così robusto e affidabile che è diventato la chiave di volta degli studi empirici sulla coscienza: variando i tempi di esposizione degli stimoli è possibile individuare il momento esatto in cui la coscienza entra in attività 9• L'importanza del fattore tempo per la coscienza è un tema su cui dovremo tornare.
2.8 Comportamenti automatici Il fenomeno del priming conferma un'idea che avevamo già introdotto a proposito della sintassi e dei processi percettivi: la nostra mente è in grado di eseguire computazioni indipendentemente dalla presenza o meno della coscienza. Specificamente, nel caso del priming certi compiti cognitivi sono facilitati grazie alla percezione di una parola che ne pre-attiva altre; ma questa percezione può avvenire sia con la coscienza sia senza di essa. Quando si legge di simili fenomeni un po' curiosi, quale il priming subliminale, si può legittimamente avere il sospetto che si tratti di artefatti di laboratorio: non proprio trucchi degli psicologi per farci credere qualcosa di falso, ma, quanto meno, risultati che dipendono
9 Dehaene (2014) fornisce un'introduzione completa e affascinante a questo dominio di indagine.
2. LA POTENZA DELL'INCONSCIO
da circostanze del tutto improbabili create in laboratorio. La questione insomma è se si tratti di qualcosa che ha effetti significativi sulle nostre vite. Come cercherò di mostrare, vi sono numerose ragioni per credere che sia così. Cominciamo con l'osservare che fenomeni del genere del priming subliminale sono stati ipotizzati non solo in astratti compiti linguistici, ma anche nel dominio degli studi sull'agire. Ad esempio Neumann (1990) ha proposto che quando un soggetto esegue una determinata azione, per la quale è rilevante la presenza di un dato stimolo ambientale, la presenza dello stimolo possa essere incorporata nella rappresentazione anche senza intervento della coscienza. Le sue osservazioni in proposito lo hanno portato a sviluppare la teoria della «specificazione diretta dei parametri», che si può riassumere così: [I soggetti] cercano informazione per specificare i parametri liberi nel piano d'intenzione/azione attualmente attivo. Informazione registrata inconsciamente che assomiglia a questa di cui si andava in cerca viene selezionata cd elaborata per specificare i parametri liberi. Pertanto, l'informazione percepita in modo inconscio si tradurrà in effetti comportamentali che sarebbero mancati se la stessa informazione fosse sufficientemente dissimile da quella cercata. (Kicfcr 2007: 300; traduzione mia)
Fin qui si tratta di intenzioni e piani d'azione coscienti, che contengono parametri la cui specificazione può viceversa essere inconscia. Ma in psicologia sociale esistono interi filoni di ricerca che sembrano mostrare qualcosa di ancora più sorprendente: c'è un senso in cui le stesse intenzioni di agire potrebbero essere inconsce. Il pioniere di queste ricerche sul «perseguimento automatico di scopi» è stato lo psicologo sociale John Bargh (1989; 1990 tra gli altri)1°. Da allora, l'idea sembra avere avuto una quantità di conferme (con un'avvertenza di cui dirò tra poco). Tra gli studi più noti c'è quello in cui ai soggetti erano fornite liste di parole, all'interno di un compito sperimentale per il quale non era rilevante il significato. Tra queste liste alcune erano atte a richiamare lo stereotipo della vecchiaia (ad esempio: Florida, ruga, smemorato), altre no. L'obiettivo nascosto della ricerca era vedere se questo influenzasse i comportamenti dei soggetti immediatamente dopo. A 10
Si veda anche Bargh (2017) per una recente presentazione in volume delle sue idee.
RAZIONALI FINO IN FONDO
questo scopo furono misurati i tempi impiegati per percorrere il breve tragitto tra la stanza dell'esperimento e l'ascensore. E il risultato fu una correlazione piuttosto robusta tra l'esposizione alla lista correlata alla vecchiaia e una maggiore lentezza nel percorso. In un altro studio Barghe colleghi (2001) ricorrevano al priming mascherato. L'esposizione subliminale a parole come «sforzarsi» o «avere successo» (l'inglese succeed) era adoperata per testare l'eventuale attivazione di uno scopo di «conseguimento» nella soluzione di anagrammi. Ed effettivamente, i partecipanti sollecitati nel modo indicato mostravano prestazioni mediamente migliori di quelli che non lo erano stati. O ancora, sarebbe emerso che usare come prime nomi di persone significative per i soggetti può causare in modo automatico l'adozione di scopi associati con loro; o, per un altro esempio, pensare a un buon amico può aumentare la disposizione a partecipare a un compito successivo come un mezzo per essere d'aiuto (Dijksterhuis e colleghi 2007: 101-102). Questi studi hanno avuto una risonanza enorme. Ma sono anche stati al centro di un dibattito piuttosto acceso, ragione per cui conviene a questo punto introdurre qualche cautela. Il dibattito in questione si colloca all'interno di una più generale «crisi della replicazione», come è stata chiamata: nel corso degli ultimi decenni è emerso che molti studi influenti soprattutto in psicologia (e in medicina) sono basati su risultati sperimentali che non solo sono stati scarsamente replicati, ma che addirittura resistono ai tentativi di replicarli. Come dire, i dati adoperati potrebbero non essere scientificamente attendibili. Critiche del genere sono state rivolte espressamente alle ricerche di Barghe colleghi, ad esempio da Doyen e colleghi (2012) 11 • D'altra parte, una recente meta-analisi - ossia un'analisi quantitativa estensiva della letteratura sull'argomento - ha concluso che vi siano «piccoli ma significativi effetti delle parole prime sul comportamento», dunque in favore delle tesi di Bargh (Weingarten e colleghi 2016). «Piccoli ma significativi effetti» è abbastanza? Molto dipende da che conclusioni se ne vogliono trarre.
11
Per una riflessione metodologica sull'argomento, si veda anche Newell e Shanks
(2014).
2. LA POTENZA DELL'INCONSCIO
2.9 Prendere ascensori, ma con coscienza
Quali conclusioni intende trarre Bargh dalle sue ricerche sul perseguimento automatico di scopi? In un articolo di qualche anno fa, Huang e Bargh (2014) hanno formulato alcune proposte, a mio giudizio non ugualmente difendibili. Una prima proposta che non mi pare supportata da sufficienti evidenze è la seguente. Assumiamo che gli scopi siano «innescati» dalle circostanze (nel senso del priming associativo), con modalità quali quelle descritte nel paragrafo precedente. A questo punto, l'ipotesi di Huang e Bargh è che gli scopi attivati operino come entità indipendenti dai soggetti: sarebbero quegli scopi che di fatto controllano le azioni dei soggetti, non il sé cosciente. Quest'ultimo, dunque, «non è tanto coinvolto nella guida del nostro comportamento intenzionale quanto nell'impresa di produrre razionalizzazioni» (ivi: 134; qui e in seguito, la traduzione è mia). Esagerando un po', è come se i soggetti agissero in stato di sonnambulismo, dominati da scopi inconsci; mentre la coscienza avrebbe esclusivamente il compito di produrre a posteriori confabulazioni giustificatorie. Ad esempio, un soggetto esposto a parole relative alla vecchiaia adotterebbe perciò lo scopo di comportarsi in modo senile, salvo poi produrre razionalizzazioni coscienti del tipo «cammino piano perché mi sento stanco». Ora, i concreti fenomeni analizzati da Barghe colleghi autorizzano questa conclusione? 12 Mi concentrerò intanto sulla prima parte della loro tesi, secondo cui le azioni sarebbero essenzialmente sotto il controllo di scopi inconsci; discuteremo il tema delle confabulazioni successivamente. Per loro esplicita ammissione (ivi: 124), gli studiosi si sono concentrati su scopi momentanei, piuttosto che di lunga durata (ad esempio, diventare un medico); nonché su scopi astratti, che hanno a che fare con le modalità dell'agire (in modo senile, in modo orientato al conseguimento, in modo cooperativo), piuttosto che concreti (aprire una porta). Alla luce di questo, torniamo al nostro esempio del soggetto che raggiunge l'ascensore - per così dire - con passo senile. È appropriato descriverlo come qualcuno che è dominato da uno scopo inconscio di senilità? O non dovremmo dire piuttosto che persegue in modo cosciente lo scopo di raggiungere l'ascensore, sia pure con fare senile? 12
Ho cominciato a discutere questi temi in Mazzonc (2014).
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Una prima questione è dunque se gli studiosi stiano considerando gli scopi appropriati. Con ciò non intendo dire che si possa intrattenere un solo scopo per volta, e che nell'esempio considerato lo scopo sarebbe raggiungere l'ascensore piuttosto che agire in modo senile. Al contrario, è bene tenere presente quanto già osservato da Aristotele, e ampiamente condiviso dall'attuale psicologia dell'azione: ogni azione contiene in sé una pluralità organizzata di scopi. 1 3 Il soggetto che intende raggiungere l'ascensore ha anche lo scopo, presumibilmente, di prendere l'ascensore, di scendere al piano terra, di allontanarsi dal luogo dell'esperimento, di andare a casa propria e così via. E per un altro verso, ha anche lo scopo di fare un passo dopo l'altro come mezzo per conseguire lo scopo di raggiungere l'ascensore. Il punto dunque non è che il soggetto non possa avere sia lo scopo di raggiungere l'ascensore sia un altro scopo - quale quello di agire in modo senile. Il punto è semmai se agire in modo senile sia il tipo di cosa che consideriamo uno scopo, nel senso comune del termine. Uno scopo, nel senso comune del termine, è l'esito finale di un'azione; ed è in particolare un esito che desideriamo conseguire (sia pure, eventualmente, come mezzo per conseguire un esito ulteriore). Diventare un dottore, o aprire la porta, sono certamente scopi possibili. Agire in modo senile o essere orientato al successo non sono il genere di cose che intendiamo di solito con la parola «scopo». Mostrare dunque che si è riusciti a indurre, su alcuni soggetti e in qualche misura, comportamenti senili attraverso l'esposizione a liste di parole, senza che i soggetti ne avessero coscienza, non equivale esattamente a dimostrare che i soggetti perseguono scopi in modo inconscio. Per supportare questa conclusione in quel contesto, si sarebbe dovuto mostrare che i soggetti perseguivano inconsciamente qualcosa che a pieno titolo ci appare, in quel contesto, un loro possibile scopo- come ad esempio raggiungere l'ascensore. Per come stanno le cose, viceversa, è lecito descrivere la situazione come una in cui, presumibilmente, i soggetti perseguivano in modo cosciente lo scopo di raggiungere l'ascensore. E alcuni lo facevano in modo senile.
•.3 Il tema è più ampiamente anali1.1.ato in Mazzone (2.015; 2.018), dove viene messa insieme una letteratura un po' sparsa ma complessivamente significativa.
2. LA POTENZA DELL'INCONSCIO
2. 1 o
Contro il sonnambulismo: una concezione moderata degli scopi inconsci
Quel che ho detto, si badi, non implica che non si possano avere scopi inconsci. Ho solo argomentato che le evidenze adoperate da Bargh e colleghi per dimostrarlo non sembrano convincenti. E soprattutto, esse non sembrano autorizzare la conclusione che agiamo essenzialmente senza consapevolezza dei nostri scopi. C'è infatti una differenza importante tra dire che alcuni scopi possono essere inconsci, e dire che le nostre azioni sono essenzialmente governate da scopi inconsci. Come vedremo adesso, vi è anzi un modo semplice per suggerire - se non dimostrare - che almeno alcuni dei nostri scopi non sono coscienti. L'argomento intuitivo si basa sulle precedenti considerazioni circa la pluralità di scopi presente in ciascuna azione. Dato questo presupposto, è quanto meno ragionevole credere che non tutti gli scopi che potremmo attribuire al soggetto sono coscienti. Alcuni potrebbero persino non essere scopi espliciti: rappresentati dal soggetto, sia pure in modo inconscio. Un soggetto che si allontana dalla stanza dell'esperimento per raggiungere l'ascensore non deve certo rappresentarsi - tanto meno rappresentarsi coscientemente - i) lo scopo di raggiungere l'ascensore, ii) quello di lasciare la stanza dell'esperimento, iii) quello di scendere al piano terra, iv) quello di fare un passo dopo l'altro, e così via elencando tutti gli altri scopi che sono in qualche modo implicati dalla sua azione. Con Emanuela Campisi (Mazzone e Campisi 2013) ho proposto un modello dell'azione intenzionale basato sui seguenti assunti: le nostre azioni sono innescate da catene di attivazioni automatiche, che attraversano i sistemi percettivi e raggiungono quelli motori; in questo processo di attivazione automatica, sono attivati in genere non singoli scopi ma sistemi di scopi e sotto-scopi coerenti tra loro; tali processi automatici sono comunque accompagnati da un monitoraggio debole della coscienza, la quale, salvo deviazioni particolari dalle aspettative, si limita ad approvare i risultati dei processi automatici; la coscienza è un processo di capacità limitata, dunque non può illuminare nello stesso momento l'intera struttura degli scopi attivati automaticamente; anzi, non è nemmeno detto che la coscienza focalizzi specificamente gli scopi (cosa viene focalizzato dipende da
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una varietà di fattori contingenti); ciò che conta è che la coscienza focalizzi qualche punto della struttura coerente di rappresentazioni in cui sono inclusi gli scopi dell'azione; questa focalizzazione parziale è, in linea generale, sufficiente per consentire ai soggetti di intervenire attivamente sull'azione, bloccandola se le circostanze lo richiedono. Mi permetto di raccomandare questo modello per due ragioni. La prima è che non contiene assunzioni particolarmente controverse. La seconda è che mette insieme queste assunzioni in un quadro ragionevolmente coerente e plausibile. In particolare, un pregio del modello è che esso tiene insieme due idee importanti. Innanzitutto, riconosce il ruolo pervasivo dei processi automatici - in linea con le considerazioni di questo capitolo. Ma al tempo stesso, non descrive il soggetto delle azioni intenzionali come un sonnambulo, in preda a scopi di cui non ha alcuna coscienza. Nella proposta di Mazzone e Campisi (2013), perché un'azione sia intenzionale basta che gli scopi coinvolti siano parte della struttura di rappresentazione attivata automaticamente, e che il soggetto sia complessivamente (anche se non nei dettagli) cosciente di questa struttura e capace di bloccarne gli effetti consapevolmente. Non solo questo quadro consente di salvare l'idea che non tutti gli scopi devono essere coscienti. Esso è anche coerente con alcune affermazioni di Huang e Bargh (2014) circa i processi automatici da un lato, e circa il ruolo della coscienza dall'altro. Vediamo questi due aspetti separatamente.
2.11 I/ principio di similarità: quando gli scopi inconsci non sono
onesti Uno dei principi in cui Huang e Bargh (2014) riassumono la loro proposta è il «principio di similarità», che viene così enunciato: «il perseguimento di scopi coscienti dovrebbe reclutare processi simili e produrre esiti simili a quanto fa il perseguimento di scopi inconsci» (ivi: 127). Questo principio implica tra l'altro che perseguire scopi inconsci è, in generale, altrettanto efficace e razionale del perseguire scopi coscienti. Gli studiosi esprimono quest'idea così: la ricerca suggerisce che soggetti che sono inconsapevoli di essere impegnati nel perseguire uno scopo rispondono al mondo in modi che massimizza-
2. LA POTENZA DELL'INCONSCIO
no la probabilità di raggiungere lo scopo, ad esempio prestando maggiore attenzione a oggetti nell'ambiente che potrebbero servire a perseguire lo scopo. (lvi: 123)
Insomma, perseguire scopi in modo cosciente o inconscio è un processo simile, anche nel senso che entrambi i processi «sanno» usare le informazioni ambientali in modo appropriato. Quest'idea è legata tra l'altro ad una tesi circa le strutture di rappresentazione coinvolte. Secondo Bargh e colleghi, le rappresentazioni di scopi sono parte di una struttura triadica, che può anche essere attivata inconsciamente, a cui viene dato il nome di «abito» 1 4. Gli abiti sono infatti descritti come reti associative che includono contesti, scopi che sono regolarmente perseguiti in quei contesti, e mezzi che uno abitualmente adopera per raggiungere questi scopi [...]. Queste reti sono formate nel corso delle proprie esperienze, e consentono il perseguimento di scopi tramite la diffusione di attivazione. (Hassio e colleghi 2009: 550-5 51; traduzione mia)
Ecco dunque il quadro generale. I soggetti formano, in base all'esperienza, rappresentazioni che contengono informazioni i) sugli scopi, ii) le circostanze appropriate in cui perseguirli, e iii) le azioni mediante cui perseguirli. Ad esempio, sulla base di esperienze passate potrei avere associato i) lo scopo di gustare un gelato con ii) la campanella del camioncino dei gelati e iii) le azioni necessarie per raggiungere quello scopo - prendere i soldi e così via. A questo punto, le associazioni create consentono di attivare ciascuno dei tre elementi a partire dagli altri. Se desidero un gelato, questo attiva le informazioni sulle circostanze in cui è possibile averlo (campanella del gelataio) e le azioni conseguenti (uscire di casa coi soldi). Oppure posso udire la campanella, e questo attiverà le altre informazioni. Queste attivazioni sono potenzialmente - anche se non necessariamente automatiche, perché non richiedono più che la diffusione automatica dell'attivazione. Ma il punto è che anche qualora siano automatiche produrranno nel soggetto comportamenti efficaci. Infatti le informazioni su cui si basano i processi automatici sono le medesime a cui il soggetto ricorrerebbe se i processi fossero coscienti: sono informazio•-t La nozione di abito comportamentale è in effetti davvero tradizionale in psicologia: per un esempio vecchio di oltre un secolo, si può vedere Andrews ( 1903 ).
RAZIONALI FINO IN FONDO
ni corrette circa le circostanze in cui avere un gelato (quando suona la campanella c'è il gelataio) e le azioni da intraprendere (prendere i soldi e uscire di casa). Questo quadro si sposa naturalmente con l'idea, difesa nel presente capitolo, secondo cui i processi automatici sono basati su regole che garantiscono computazioni «intelligenti» - almeno finché si rimane dentro contesti appropriati. Si può dubitare, viceversa, che sia compatibile con l'interpretazione che Barghe colleghi danno delle evidenze raccolte, e specificamente con la tesi del «sonnambulismo». Per vederlo torniamo al nostro solito esempio del camminare verso l'ascensore. È ragionevole attribuire ai soggetti, sulla base di esperienze pregresse, abiti come il seguente: non appena hai fatto quel che dovevi in un luogo (circostanze), cammina (azione) per allontanarti dal luogo in cui hai svolto il compito (scopo). Un abito del genere può essere quindi attivato automaticamente per conseguire lo scopo di lasciare il laboratorio in cui si è svolto il compito sperimentale. Sembra invece bizzarro attribuire ai soggetti un abito tale che, quando si è esposti a parole concernenti la vecchiaia, si cammina in modo senile. In parte ciò sembra bizzarro perché non è una conoscenza che tendiamo a formare nel corso dell'esperienza, come accade con gli abiti. In parte sembra bizzarro perché, come osservato, camminare in modo senile non è il genere di cose che potremmo adottare come uno scopo. Ma se nel contesto dei processi automatici Bargh e colleghi adoperano tanto la nozione di scopo quanto quella di abito in modo idiosincratico, c'è da chiedersi come ciò potrebbe confermare il principio di similarità - l'idea che il perseguimento di scopi automatico sia simile a quello cosciente. Infatti, confrontare i due tipi di processi - e sostenere specificamente che il primo può essere altrettanto «intelligente» del secondo - esige che nei due casi si parli di scopi nello stesso senso. Se viceversa, per sostenere che agiamo come sonnambuli, ci basiamo su «scopi» che non adotteremmo come tali in modo cosciente, allora è lecito sospettare che stiamo costruendo un caso che non c'è 1 5.
•s Ovviamente, questo è fatto senza malizia. L'articolo citato di Doyen e colleghi (2.012.) conclude, con una nota di ironia, che gli esperimenti di Barghe colleghi (e altri sulla loro scia) mostrano davvero che esistono fenomeni di prittzing comportamentale. Solo che essi riguardano gli sperimentatori e i modi in cui interpretano i propri dati, non i loro soggetti.
2. LA POTENZA DELL'INCONSCIO
2.12 Sonnambuli nel tempo: il problema di Libet
Abbiamo visto che gli scopi possono (in parte) non essere coscienti, ma probabilmente non in un senso che compromette la nostra autorità su di essi. In pratica, purché consideriamo scopi genuini ossia esiti che potremmo proporci di raggiungere e non strane entità costruite all'interno di contesti sperimentali -, è plausibile che gli scopi siano cose che per un verso possiamo perseguire efficacemente in modo automatico, ma per un altro verso sono di norma incluse in piani d'azione monitorati dalla coscienza. Questo assicura non solo similarità, ma anche un 'importante interazione tra processi automatici e coscienti. Uno scopo può essere innescato in modo inconscio; può essere successivamente monitorato dalla coscienza; e può persino - quando necessario - essere revocato tramite processi coscienti più impegnativi. Il che ci riporta al tema dei processi coscienti. È corretto dire che essi, rispetto al perseguimento di scopi, non svolgano altro ruolo che costruire razionalizzazioni a posteriori? Curiosamente, accanto a quest'affermazione Huang e Bargh (2014) riferiscono anche che vi è crescente consenso scientifico intorno alle seguenti idee: che i processi coscienti siano superiori a quelli automatici nell'assicurare «funzioni integrative» (ivi: 13 3 ), e che essi supportino «abilità metacognitive» e «un più stretto controllo esecutivo» sulle azioni (ivi: 126). Spieghiamo cosa vuol dire. Con «abilità metacognitive» si intende capacità di controllo che certi processi esercitano su altri processi cognitivi. L'idea che i processi coscienti supportino abilità metacognitive è dunque coerente con l'altra, secondo cui essi eserciterebbero un «più stretto controllo esecutivo» sulle azioni innescate automaticamente. Vuole dire che i processi coscienti possono operare, metacognitivamente, controllando i processi automatici. Infine, l'idea che processi coscienti siano più efficaci nell'assicurare «funzioni integrative» va nella stessa direzione: grazie alla coscienza, possiamo controllare che azioni innescate automaticamente siano coerenti con altra informazione (inclusa quella sui nostri desideri), e in caso contrario possiamo inibire o modificare le azioni intraprese. Come dovrebbe essere chiaro, si tratta di funzioni importanti: certo ben diverse dal semplice costruire a posteriori storie plausibili ma inventate. Se le cose stanno così, la
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coscienza è lungi dall'essere epifenomenica. Essa ha un ruolo decisamente efficace. Tuttavia, la tesi che la coscienza possa svolgere un ruolo efficace sembra essere stata seriamente messa in discussione da Benjamin Libet con alcune famose evidenze sperimentali 16 • Dico subito che non considero queste obiezioni veramente problematiche. Al contrario, come vedremo, lo stesso Libet fornisce un'interpretazione dei propri dati che lascia spazio al ruolo attivo della coscienza. Nondimeno, è importante discutere i suoi risultati perché sono stati interpretati da molti come la «pistola fumante», la prova inconfutabile che la coscienza sia epifenomenica. Non meno importante, gli esperimenti di Libet hanno messo in primo piano un fattore cruciale per comprendere i processi coscienti: la loro tempistica. In pratica, Libet ha creato dei contesti sperimentali nei quali i soggetti dovevano eseguire semplici movimenti decidendo essi stessi l'istante in cui farlo, e controllavano il momento in cui prendevano questa decisione guardando le lancette di un orologio. Nel frattempo, le aree motorie dei soggetti erano monitorate con tecniche di neuro-immagine. Il risultato sorprendente fu che i soggetti, in modo abbastanza regolare, dichiaravano di prendere la decisione cosciente di agire circa mezzo secondo dopo l'attivazione di aree della corteccia motoria secondaria coinvolte in quel movimento. Insomma, il dato suggerisce che il movimento sia preparato prima che il soggetto sia cosciente della decisione di compierlo, e dunque la coscienza non può essere la vera responsabile della decisione: chi decide davvero l'azione sarebbero i meccanismi automatici. Le reazioni a queste evidenze sono state in alcuni casi decisamente estreme. Un libro molto influente in proposito è stato The 1llusion of Conscious Will (l'illusione della volontà cosciente) di Daniel Wegner (2002), il cui titolo chiarisce benissimo la tesi generale. Ma anche senza arrivare a posizioni epifenomeniche così radicali, vari studiosi hanno accolto la conclusione che la coscienza non sia un meccanismo per l'avvio e la guida dell'azione. Essa potrebbe svolgere piuttosto funzioni di «riorganizzazione cognitiva dopo che l'azione è completata» (Jeannerod 2006), o supportare il senso di agentività (ossia di possesso delle proprie azioni), al servizio della distinzione tra azioni 16
Una sintesi si trova in Libct (2004).
2. LA POTENZA DELL'INCONSCIO
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proprie ed altrui (ad esempio Pockett 2006). Sulle funzioni della coscienza torneremo tra un momento. Soffermiamoci intanto sulla questione dei tempi. L'idea che la coscienza arrivi in ritardo rispetto all'avvio delle azioni- a prescindere dai dubbi circa gli esperimenti di Libet e la loro interpretazione17 trova comunque supporto in argomenti indipendenti. Per cominciare da un argomento puramente intuitivo, consideriamo i casi nei quali rispondiamo a uno stimolo ambientale così prontamente che solo «a cose fatte» ci rendiamo conto di cosa sia successo. L'esempio tipico è la pronta reazione con cui, mentre guidiamo, rispondiamo a un pericolo improvviso. In questi casi, come si dice, la mano (o il piede) è più veloce del cervello. Più esattamente, le aree motorie agiscono più rapidamente della coscienza: non solo più rapidamente di quanto impiegheremmo a decidere una reazione, ma persino più rapidamente della nostra consapevolezza percettiva del problema. Si potrebbe obiettare che qui si tratta di riflessi, dunque di risposte primitive e piuttosto specifiche. C'è ragione di pensare che questo modello si applichi ad azioni qualsiasi? Una ragione è basata proprio sulla nozione di abito introdotta precedentemente. Se vi sono strutture di rappresentazione associative che collegano scopi del soggetto, circostanze in cui perseguirli e azioni, è possibile che le azioni siano innescate automaticamente sia dal desiderio dello scopo sia dalle circostanze ambientali appropriate (si ricordi la campanella del gelataio) più rapidamente di quanto la coscienza possa registrare. Infine, e forse più importante, una simile dinamica - per cui l'automatismo precede la coscienza - è suggerita dal più accreditato modello neuroscientifico della coscienza, quello proposto da Stanislas Dehaene 18• Secondo Dehaene, la differenza essenziale tra processi automatici e coscienti consisterebbe in una diversa dinamica di attivazione neurale. I processi automatici sono caratterizzati da attivazione localizzata e a decadimento rapido. Per capirci, se un neurone è attivato, vengono attivati i neuroni che, in tutte le direzioni, sono associati a quello mediante una connessione eccitatoria (e sono invece disattivati, eventualmente, quelli associati mediante una connessione
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Su questo si può utilmente vedere Dc Caro (2014). Si veda il già citato Dchacnc (2014).
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inibitoria). Ma quest'attivazione automatica - per semplice spreading activation (diffusione dell'attivazione) come viene chiamata in inglese - non va lontano a meno che non sia rinforzata da altri stimoli, e decade rapidamente. La coscienza emerge quando si creano degli «anelli» di attivazione, ossia quando l'attivazione è sufficientemente forte e distribuita nel cervello da produrre circoli che si auto-sostengono per intervalli temporali più ampi. Più esattamente, l'attivazione deve essere distribuita in zone distanti del cervello, che coinvolgono di norma sia le aree pre-frontali che alcune aree posteriori. Le aree pre-frontali sono le più anteriori, quelle più recenti dal punto di vista evolutivo, e soprattutto quelle che si considerano sede delle funzioni esecutive (già citate nella Premessa e nel primo capitolo) - ovvero dei processi di controllo metacognitivo. Se questo quadro si avvicina alla realtà, come sembra abbastanza confermato dalle evidenze, abbiamo una spiegazione del perché la coscienza arriva di norma «a cose fatte». I processi coscienti emergono quando una pluralità di attivazioni automatiche convergono verso un certo risultato - poniamo, un sistema di scopi. A questo punto, si crea un anello neurale che mantiene attiva un'ampia quantità di informazione, potenzialmente rilevante per eseguire il corso d'azione prescelto. Una funzione essenziale della coscienza, insomma, è focalizzare il soggetto su un singolo corso d'azione, creando al contempo uno spazio mentale in cui viene tenuto attivo un complesso di informazioni coerenti e potenzialmente utili. Ma quale sia il corso d'azione scelto, dipende di norma da una competizione automatica tra piani d'azione possibili 19• La coscienza si produce solo nel momento in cui un piano d'azione prevale, così che un complesso di rappresentazioni neurali tra loro coerenti raggiunge un livello di attivazione sufficiente. Dunque, prima gli automatismi decidono, poi emerge la coscienza.
2.13
Il potere di veto
Tuttavia, le conclusioni che Libet trae dai propri risultati non sono del tutto pessimistiche: la coscienza per lui non è puramente epi-
•9 Questo non vuol dire, ovviamente, che non sia possibile confrontare corsi d'azione in modo cosciente. Vuole dire solo che è possibile confrontarli in modo automatico.
2. LA POTENZA DELL'INCONSCIO
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fenomenica. È vero che il sé cosciente non conserva la facoltà del libero arbitrio nel senso pieno. Nondimeno - nella sua proposta esso mantiene un potere fondamentale: la «libertà di veto», ossia la possibilità di intervenire sui piani d'azione automatici impedendone l'esecuzione. È un'idea importante, che merita alcune considerazioni. Innanzitutto, è bene intendere l'ipotesi di Libet in un senso più ampio. Non si tratta solo del fatto che un'azione automatica può essere inibita in modo cosciente in una singola occasione. Tra processi automatici e coscienti si può produrre una dinamica complessa, che coinvolge orizzonti temporali più o meno ampi. Un esempio tipico e ben studiato è quello della modifica di «abiti comportamentali» (nozione introdotta nel § 2.11 ), incluse le dipendenze 20• La modifica di un abito non è qualcosa che si produca in un istante, richiede al contrario uno sforzo più o meno prolungato nel tempo: da pochi minuti per semplici compiti automatizzati, ad anni- possibilmente - nel caso delle dipendenze. Ora, la modifica di un abito può essere innescata in modi anch'essi automatici oppure coscienti. Il primo caso si verifica ad esempio quando una procedura viene modificata in risposta a stimoli ripetuti nel tempo le cui regolarità non sono facilmente riconosciute a livello cosciente. Ma si può anche adottare in modo cosciente l'intenzione di seguire una regola di comportamento, così da produrre un nuovo abito attraverso un processo controllato che si estende nel tempo. Dovrebbe essere chiara l'importanza di questo secondo aspetto ai nostri fini. Se il ragionamento - come i nostri comportamenti in generale - è ampiamente governato da automatismi, è una buona notizia sapere che questi si possono interrompere, e formarne di nuovi, in modo intenzionale. L'ipotesi di un controllo sugli automatismi, nella forma in cui qui la propongo, dipende interamente da questo ruolo metacognitivo della coscienza. Si tratta di analizzare coscientemente i bias; considerarne coscientemente alcune controindicazioni; individuare coscientemente alternative preferibili; infine imparare ad esercitare un controllo cosciente su di essi mentre sono in atto (loro riconoscimento, monitoraggio, eventuale inibizione, applicazione delle risposte alternative). 20
Sull'argomento si vedano Carden e Wood (2018); Wood e Riinger (2016).
RAZIONALI FINO IN FONDO
In questa prospettiva, come è chiaro, il potere di veto della coscienza è parte di un più ampio potere di indirizzo, costruzione nel tempo, formazione di nuovi automatismi atti a risolvere problemi che affliggono i processi spontanei.
2.14 Automaticamente morali
Fin qui, nel presente capitolo, abbiamo mostrato il potere degli automatismi nei domini della sintassi, dei sistemi percettivi e del lessico; quindi abbiamo dedicato ampio spazio al loro ruolo nell'agire intenzionale. Andiamo adesso a considerare un ultimo dominio, prima di dedicare per intero il prossimo capitolo ai processi di ragionamento: quello dei giudizi morali. Questo dominio ha un'importanza particolare per i nostri fini. Come si ricorderà, è proprio con riferimento alla dimensione morale che abbiamo definito il pensiero ideologico: lo abbiamo definito, infatti, come un uso del linguaggio volto a costruire identità sociali, attraverso l'adesione a complessi di idee e giudizi morali. È dunque essenziale chiedersi se abbiamo ragioni per credere che anche qui gli automatismi abbiano un potere significativo. Il quadro che proverò a suggerire non solo conferma questa prospettiva, ma va ancora oltre. Se c'è un dominio che rischia di assomigliare all'immagine proposta da Huang e Bargh (2014)- in cui cioè le ragioni dei comportamenti non sono quelle che appaiono, e la coscienza svolge in larga parte un ruolo di razionalizzazione a posteriori -, questo è appunto il dominio della morale. Qui insomma, per così dire, ci raccontiamo storie a cui finiamo per credere. Questo aspetto linguistico-confabulatorio, sosterrò, è profondamente costitutivo della dimensione morale: nella prospettiva che propongo, la moralità ha a che fare con il mettere in scena il nostro io a fini di organizzazione sociale. Anche se, come vedremo, questa messa in scena produce impegni per il futuro a cui (ma solo in parte) tendiamo ad attenerci. Argomentare quest'affermazione è il compito non solo di questo capitolo, ma di larga parte dei prossimi (specialmente del sesto capitolo, dedicato al pensiero ideologico). In questa lunga argomentazione farò ampio uso di un libro formidabile, Menti tribali dello psicologo sociale Jonathan Haidt (2013 ), condividendone spesso le
2. LA POTENZA DE.LL'INCONSCIO
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analisi ma segnalando alcuni punti di divergenza 21 • Qui cominciamo ad introdurre il tema, partendo da un modello del giudizio morale proposto dallo studioso già in un precedente articolo (Haidt 2001). L'articolo in questione chiarisce fin dal titolo la questione e la prospettiva adottata - il titolo recita infatti The Emotional Dog and lts Rational Tail: A Socia/ Intuitionist Approach to Mora/ Judgment. Il tema è dunque la formazione dei giudizi morali, e l'idea di fondo è che attribuire importanza prevalente agli aspetti razionali rovescia l'ordine reale di priorità: significa scambiare ciò che è appena la coda (l'elemento razionale) con il cane (la dimensione emotiva). Questo ci riporta dunque ad una posizione già presentata in Premessa (§ 0.7): l'emotivismo morale, ossia l'idea che - al contrario di quanto sostenuto dalla prospettiva razionalista - i giudizi morali sono fondati sulle emozioni. Haidt chiama «sociale intuizionista» il proprio modello. Torneremo sul «sociale» alla fine del capitolo. Quanto ali' «intuizionista», lo studioso usa il termine «intuizione» per indicare quelle componenti pre-razionali che orientano scelte e giudizi, e di cui le emozioni sono parte significativa. Nella terminologia usata fin qui, il termine equivale sostanzialmente ad «automatismi»; più esattamente indica quel genere di automatismi che giungono a produrre sensazioni coscienti. Un'intuizione, insomma, è una sensazione cosciente prodotta da automatismi. Come avremo modo di vedere, tali sensazioni svolgono un ruolo importante nella nostra vita. A proposito degli automatismi, è opportuno un inciso. Fin qui li abbiamo caratterizzati, in contrapposizione ai processi coscienti, come processi rapidi, obbligati, poco dispendiosi - e ovviamente, non coscienti. Abbiamo anche indicato ciò che li distingue dai processi coscienti al livello dell'implementazione neurale: si tratta di processi basati su una diffusione dell'attivazione neurale puramente locale e a decadimento rapido. È utile tuttavia fornire una loro definizione nei termini di alcune categorie psicologiche tradizionali. Secondo Stanovich e colleghi (2011: 104; traduzione mia) i processi automatici includerebbero
21 Il titolo originale è The Righteous Mind, che potrebbe essere tradotto come «la mente moralista». Lo slittamento della traduzione italiana è interessante, e completa l'idea di morale che ho appena proposto (secondo cui la moralità ha a che fare con il mettere in scena il sé a scopi sociali): per Haidt, la nostra mente è moralista anche perché è tribale.
RAZIONALI FINO IN FONDO
la regolazione dei comportamenti tramite le emozioni; i moduli incapsulati atti a risolvere specifici problemi adattivi che sono stati postulati dagli psicologi evoluzionistici; processi di apprendimento implicito; e l'attivazione automatica delle associazioni iper-apprese.
Le ultime due componenti dell'elenco fanno riferimento a processi di apprendimento. Un'associazione si dice iper-appresa (inglese overlearned) quando essa è automatizzata tramite ripetizione. L'apprendimento, inoltre, è detto implicito quando non richiede l'intervento della coscienza, e questo tende a coincidere con gli apprendimenti per ripetizione (dunque con le associazioni iper-apprese). Quanto alla seconda componente, essa fa riferimento ai moduli innati - in quanto selezionati dall'evoluzione per risolvere specifici problemi adattivi - che abbiamo già introdotto nel presente capitolo (§ 2. 5). Essi sono qui detti «incapsulati» in quanto, come abbiamo visto, si assume non abbiano accesso ad altra informazione se non agli input per cui sono specializzati. Semplificando, dunque, l'elenco include emozioni, meccanismi innati, e meccanismi (iper)appresi. Le ultime due categorie sono, ovviamente, mutuamente esclusive tra loro - un processo o è innato o è appreso. Per quanto riguarda le emozioni, invece, non è scontato che costituiscano una categoria complementare rispetto alle altre due. Al contrario, esse hanno una base innata ma possono essere modificate tramite apprendimento; e d'altra parte operano all'interno di meccanismi sia innati sia iper-appresi per la regolazione del comportamento. Quindi il senso dell'elenco è che i processi automatici possono essere innati o iper-appresi, e gli uni e gli altri possono coinvolgere componenti emotive. Torniamo dunque al modello intuizionista di Haidt. La questione di fondo è in che ordine intuizione e ragionamento intervengano nella formazione dei giudizi morali. Secondo un modello tradizionale, più vicino al senso comune, noi formiamo tali giudizi sulla base di intuizioni ma passando attraverso la mediazione del ragionamento. Nel dare giudizi morali saremmo motivati da ragioni che all'occorrenza siamo in grado di esibire - anzi, che esibiamo volentieri: come diremo più ampiamente, siamo moralisti. E le ragioni sono più che semplici intuizioni. Sono intuizioni mediate da considerazioni razionali. Dunque, l'ordine sarebbe questo: dapprima ci sono le intuizioni, quindi il ragionamento che esercitiamo su di esse, infine i giudizi morali.
2. LA POTENZA DELL'INCONSCIO
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Secondo Haidt, tuttavia, le cose stanno in modo affatto diverso. Noi formiamo giudizi morali direttamente sulla base di intuizioni, e solo dopo usiamo il ragionamento per giustificare i giudizi a cui siamo giunti indipendentemente. Il nostro «moralismo», secondo Haidt, è essenzialmente confabulatorio. Quali ragioni ha per sostenerlo? La tesi intuizionista di Haidt si basa su una serie di esperimenti nei quali i soggetti ascoltavano delle storie su cui poi dovevano esprimere un giudizio morale. Le storie erano però costruite in modo tale da contenere la «violazione inoffensiva di un tabù» - in inglese harmless taboo violation, in cui l'aggettivo «harmless» indica specificamente che nelle storie nessuno subiva danni di sorta. La più famosa delle storie utilizzate è quella in cui si verifica un incesto tra fratello e sorella, e anche in questo caso la narrazione era accuratamente studiata per escludere qualunque conseguenza spiacevole sia fisica sia psichica, sia per i due protagonisti sia per eventuali terzi. Dopo avere ascoltato la storia, la maggior parte dei soggetti esprimeva un giudizio di condanna morale, e alla richiesta dell'intervistatore forniva volentieri ragioni per questo. Le ragioni tuttavia facevano riferimento a possibili danni, nonostante il fatto che la storia li escludesse esplicitamente. Ma l'aspetto più interessante è quel che accadeva quando l'intervistatore confutava una dopo l'altra le ragioni, mostrando che non si applicavano al caso. I soggetti resistevano a rassegnarsi, provavano cioè a produrre nuove ragioni, e alla fine in molti casi reagivano con atteggiamenti di «moral dumbfounding» (spaesamento morale), come si esprime Haidt. Ossia, si mostravano disorientati, e ammettevano di non sapere spiegare perché, ma continuavano a pensare che «non fosse giusto». Non è azzardato interpretare questi fatti così: una volta eliminate tutte le ragioni, rimaneva solo l'intuizione che le aveva generate. Le ragioni non erano che tentativi di difendere a posteriori, di fronte a sé stessi prima che agli altri, giudizi adottati indipendentemente. Haidt suggerisce un'immagine efficace per descrivere il ruolo del ragionamento nei giudizi morali: dice che esso si rapporta alle intuizioni non come un giudice, bensì come un avvocato - o un addetto stampa. Ossia, non sottopone affatto le intuizioni a una valutazione razionale; si limita ad accettarle come sono e costruisce per esse le migliori giustificazioni di cui è capace. Probabilmente, molti di noi provano una resistenza istintiva verso queste conclusioni. Non ci piace l'idea che le ragioni con cui moti-
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RAZIONALI FINO IN FONDO
viamo i nostri giudizi morali siano sostanzialmente confabulazioni, e che i giudizi siano invece il prodotto di meccanismi non di tipo razionale - nel caso del sesso tra fratello e sorella, poniamo, semplici tabù sociali. Nondimeno, ci sono forti ragioni per considerare quel quadro molto vicino al vero. Fornirò adesso tre argomenti per questo; e un'ulteriore considerazione per spiegare perché probabilmente non dovremmo preoccuparcene troppo.
2.15
Dare e chiedere ragioni: un'attività «dopante»
Il primo argomento è basato proprio sull'analisi del perché resistiamo a questo quadro. Quel che sosterrò è che siamo affezionati a un'immagine di noi stessi molto diversa da quella proposta da Haidt. Ma proprio questo sembra dare ragione a Haidt: c'è una ragione intuitiva, non strettamente razionale, per respingere l'idea che i nostri giudizi sono motivati da intuizioni. Il punto di partenza dell'argomento è il seguente: la pratica del «dare e chiedere ragioni» è qualcosa che sentiamo come fondamentale per noi esseri umani. L'espressione tra virgolette è molto usata da Platone, ma non si tratta di un'astratta idea filosofica: essa intende catturare qualcosa che è evidente nella nostra vita sociale. Come specie sociale, noi attribuiamo grande importani.a al fatto che le nostre azioni sono soggette a giudizi di valore, e siamo spesso impegnati in pratiche discorsive nelle quali ci diciamo reciprocamente cosa è giusto o sbagliato, fornendo ragioni per questo. Tutto questo è oggetto di investimento emotivo: in altri termini, non avviene in modo neutro e indifferente per noi. Le assegnazioni di valore morale alle scelte e il fornire ragioni per queste assegnazioni sono accompagnati da un significativo coinvolgimento personale, sul piano emotivo. Noi in quanto persone ci identifichiamo con le nostre posizioni morali, e con le ragioni con cui le difendiamo. E siamo identificati socialmente con esse. È soprattutto così che costruiamo, e percepiamo, la nostra identità sociale. Su tutto questo dovremo tornare. E vedremo che qui convergono una serie di meccanismi automatici che coinvolgono le emozioni. Mi limito a citarne alcuni. Le attività (anche intellettuali) alle quali dedichiamo tempo ed energie, nonché i loro prodotti, sono oggetto di investimento affettivo. Noi ci affezioniamo a ciò a cui ci applichia-
2. LA POTENZA DELL'INCONSCIO
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mo: le posizioni morali e le ragioni per esse non fanno eccezione. E soprattutto, posizioni morali e relative ragioni producono posizionamento sociale. Ad esempio, l'atteggiamento che ho verso i migranti mi colloca idealmente all'interno di una comunità di valori e mi contrappone a un'altra comunità che ha valori differenti. Ora, l'affiliazione a una comunità non avviene senza un carico emozionale. Abbiamo persino evidenze scientifiche del fatto che fenomeni di affiliazione a gruppi sociali producono effetti sul circuito cerebrale della dopamina: il circuito detto «della ricompensa», che elargisce sensazioni di benessere (o di malessere) in risposta a stimoli ambientali. Detto brutalmente: la dopamina agisce come una droga interna che ci gratifica quando svolgiamo certe attività, o si verificano certi risultati; e comportamenti di affiliazione a gruppi hanno un effetto «dopante». Producono dipendenza, come le droghe 22• Per tutti questi motivi, l'attività di produrre ragioni in favore del nostro posizionamento morale è percepita in modo emotivamente carico: è qualcosa che ci definisce; è qualcosa su cui investiamo tempo ed energie; è qualcosa che produce affiliazione a gruppi. L'idea che questa attività potrebbe essere ingannevole ci ripugna emotivamente: smentisce la sensazione di importanza che le attribuiamo. Provate, altrimenti, a spiegare perché essa sarebbe importante. Siete sicuri che non state razionalizzando? Come minimo, ci sono buone ragioni per ritenere che la sensazione di importanza che percepite sia appunto, in prima istanza, questo: una sensazione. Avete l'intuizione che disporre di ragioni per le proprie posizioni morali sia importante. Le ragioni che fornite a sostegno di quell'intuizione vengono dopo. Proprio come sostiene Haidt.
2. I
6 Fame, disgusto, e altri fattori morali
Un secondo argomento in favore del modello intuizionista di Haidt proviene da un corpo decisamente ampio di evidenze sperimentali, che mostrano come i giudizi morali siano significativamente affetti da fattori estranei, anche piuttosto bizzarri. Haidt (2013: 115) scrive: «La faziosità estrema può letteralmente dare dipendenI dati sul ruolo del circuito della dopamina nei fenomeni di affilia1Jone sono presentati in Wcsten (2007). 12
1.a».
RAZIONALI FINO IN FONDO
Uno studio celebre in proposito è quello di Danziger e colleghi (2011). Come riferiscono con ironia gli studiosi, essi intendevano verificare se vi fosse qualcosa di vero nel modo di dire secondo cui un imputato in attesa di giudizio debba chiedersi «cosa ha mangiato il giudice a colazione». In pratica, lo studio esaminava le sentenze di alcuni giudici in funzione della distanza dalle pause dedicate ai pasti. I risultati furono piuttosto chiari: i giudizi favorevoli agli imputati scivolavano da circa il 6 5 % fino a o per ogni sessione, per tornare improvvisamente al 65% subito dopo la pausa. Se questi dati vi lasciano scettici, tenete presente che nella sua forma generale il fenomeno ha ricevuto una quantità di conferme: sensazioni sgradevoli ci rendono moralmente più severi. Non fanno eccezione quel po' di stanchezza e di fame che probabilmente proviamo dopo una sessione di lavoro ininterrotta - come mostrano i dati di Danziger e colleghi. Ma c'è un tipo di sensazioni che ha effetti anche più significativi, e assai studiati. Si tratta del disgusto. Il disgusto è una sensazione legata innanzitutto agli odori (e ai sapori), ed elaborata da un'area della corteccia chiamata «insula». Tuttavia, ci sono ampie evidenze che l'insula è coinvolta anche nei giudizi morali, in special modo nella percezione di ingiustizie1.3. Come dice Haidt, quest'area originariamente collegata al rapporto col cibo sembra avere assunto nuovi compiti, relativi al «gusto» per le persone e i loro comportamenti. In un celebre studio, Schnall e colleghi (2008) hanno testato questa correlazione attraverso questionari che chiedevano ai soggetti di fornire valutazioni morali, somministrati in condizioni neutre oppure in presenza di odori sgradevoli. I risultati hanno confermato la correlazione: odori sgradevoli ci rendono moralmente più rigidi. Un altro studio famoso è quello di Zhong e colleghi (2006), che hanno parlato di «effetto Macbeth» a proposito del rapporto tra sentimenti morali e sensazioni legate alla pulizia fisica. Il fenomeno va nelle due direzioni. Per un verso, la pulizia induce in noi sensazioni moralistiche: vogliamo tenere le «cose sporche» lontane da noi. Per un altro verso, provare sensazioni di immoralità ci spinge a desiderare pulizia fisica - come Lady Macbeth, che non può smettere di lavare le proprie mani assassine. Lo studio di Zhong e colleghi prende le 23
Si veda ad esempio Damasio (2.003).
2. LA POTENZA DELL'INCONSCIO
mosse dalla considerazione che la purificazione fisica è stata elemento fondamentale nelle cerimonie religiose per migliaia di anni. Vista in questa prospettiva, la correlazione confermata sperimentalmente tra moralismo e disgusto/pulizia appare molto meno sorprendente. Due considerazioni, a conclusione di questo argomento. La correlazione tra moralità e disgusto suggerisce che i processi coinvolti nella moralità siano non solo automatici ma anche innati. Il disgusto è considerato, secondo la classificazione di Paul Ekman (ad esempio, 1992), una delle sette emozioni di base, universali nella specie umana. È pertanto un naturale candidato all'ipotesi che si tratti di un meccanismo inscritto nelle strutture biologiche della nostra specie. Questo non implica che sia innato, per così dire, il riutilizzo del disgusto nel dominio dei fenomeni morali. Potrebbe darsi che sia così: che l'evoluzione abbia prodotto un successivo adattamento dell'insula a fini morali. Ma potrebbe anche darsi che il disgusto sia reclutato a fini morali mediante processi culturali. Come vedremo tra poco, in tutto quest'ambito è evidente un intreccio complicato tra fenomeni innati e culturali. Infine, i fenomeni descritti in questo paragrafo suggeriscono un principio relativo al funzionamento delle sensazioni - ovvero, delle intuizioni su cui basiamo i giudizi. Abbiamo detto che certe sensazioni (stanchezza e fame; disgusto) possono indurci a giudizi morali più severi. Un modo di descrivere questo fatto è il seguente: è come se l'organismo fraintendesse certi segnali. Essi indicano di per sé un disagio di altra natura; ma noi li interpretiamo come se fossero indizi della qualità morale dei fatti su cui attualmente verte la nostra attenzione. Questa considerazione si presta ad una generalizzazione della massima importanza. Le nostre sensazioni, per così dire, non portano scritte in faccia le proprie interpretazioni - nemmeno nel senso limitato di dirci quale fatto del mondo le abbia causate. Il premio Nobel Daniel Kahneman (2011), in apertura di una formidabile riflessione su cui dovremo tornare, osserva che i nostri meccanismi automatici monitorano costantemente l'ambiente, per sapere se esso contenga o meno pericoli. Più in generale, riceviamo continui segnali circa l'eventuale opportunità di aumentare la soglia dell'attenzione e l'accuratezza con cui elaboriamo gli input. Questi segnali, diciamo così, sono il primo indizio che ciò che abbiamo davanti sia per noi «buono» o
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«cattivo». Tuttavia, un punto già considerato e su cui dovremo tornare è il seguente: i nostri automatismi non sono in fin dei conti che ampi processi di attivazione associativa. Riceviamo in ogni momento una quantità di input differenti, ciascuno dei quali produce le proprie catene di associazioni. E dato che la coscienza monitora continuamente queste attivazioni, sia pure a basso regime, una parte di esse si traduce in sensazioni coscienti. Il problema è che in questo complesso di rappresentazioni attivate non ci sono camere stagne. Una sensazione di disagio che proviamo in un dato momento può essere attribuita a differenti input: sta a noi stabilire quale sia il responsabile e perché provochi disagio. E, come Kahneman e molti altri hanno mostrato, in questo sbagliamo facilmente e in modi sistematici. In una parola: disponiamo di meccanismi automatici per indicarci se c'è qualcosa di sbagliato nell'ambiente. Ma questi indizi sono indeterminati, non ci dicono né cosa ci sia di sbagliato, né in che senso sia sbagliato. Non distinguono bene tra fame, cattivi odori e ingiustizie. E questo, come è facile comprendere, è un problema decisivo per le nostre questioni.
2.17
Fondamenti evoluzionistici della morale?
L'ultimo argomento che offro in favore del modello intuizionista è basato sulla teoria dell'evoluzione. Ma farò un uso «leggero» di questa teoria. Confesso infatti che non amo in generale gli argomenti evoluzionistici: come ho già osservato si tratta di argomenti che hanno un grande prestigio, il che comporta il rischio di finire col dimostrare troppo, e troppo facilmente. Cominciamo con il mettere un po' di carne intorno al modello sociale intuizionista di Haidt. Lo studioso propone infatti una serie di altre idee decisamente interessanti. Innanzitutto, osserva che le nostre intuizioni morali - dove per nostre si intende quelle che prevalgono negli ambienti universitari dei paesi occidentali sviluppati - sono piuttosto differenti da quelle che si trovano in altre epoche storiche, in altre aree geografiche e persino in altri ambienti sociali. A partire da questa constatazione, Haidt è giunto alla convinzione che un modello credibile dei processi morali debba essere pluralista. La sua ipotesi è che non vi sia un'unica base
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biologica, bensì sei differenti «fondamenti» - sei tipi di istinti morali, per così dire. La proposta è stata perciò battezzata «teoria dei fondamenti della morale». Il primo fondamento è chiamato cura/danno, e si riferisce all'istinto di protezione verso i più deboli. Presumibilmente, esso si è affermato nella nostra specie come adattamento evolutivo a fini di protezione della prole. Un altro fondamento è chiamato da Haidt santità/degrado, e intende catturare qualcosa di cui abbiamo già parlato: il ruolo morale del disgusto fisico, manifestatosi in quei tabù e gesti di purificazione che hanno caratterizzato pratiche e riti religiosi per migliaia di anni. Anche in questo caso, non è difficile scorgere quale possa essere stata la spinta evoluzionistica. Si tratta, con le parole di Haidt, di un istinto sviluppatosi per «evitare agenti patogeni, parassiti e altre minacce diffuse attraverso il contatto fisico o la promiscuità» (Haidt 2013: 187). Più in breve, diciamo che gli altri quattro fondamenti sono: correttezza/inganno, lealtà/tradimento, autorità/sovversione e libertà/oppressione. Un nodo teorico è: quanto è fondata l'idea di sei radici innate della moralità? La questione è piuttosto controversa. È stato criticato sia il modo in cui Haidt ha difeso un approccio innatista, sia la specifica lista di fondamenti innati proposta 24 • Questo però non dovrebbe preoccuparci: il ragionamento che qui facciamo non dipende in alcun modo da questi dettagli. Anche se nel seguito farò riferimento a tratti della morale riconducibili ad uno dei sei fondamenti, ad esempio la protezione dei più deboli, non mi impegnerò sul fatto che la classificazione di Haidt sia la migliore possibile. Questo tratto, per quanto mi riguarda, potrebbe anche essere l'effetto collaterale di un principio più generale, o viceversa assorbire in sé altri tratti. È anche corretto aggiungere che se, per un verso, Haidt adotta un approccio innatista verso i sei fondamenti, per un altro insiste sul fatto che essi sono modulati culturalmente. Non solo riconosce la diversità tra la moralità prevalente nella nostra cultura e quella presente in molte società tradizionali. Inoltre una sua tesi è che, all'interno della nostra stessa cultura, destra e sinistra politica traducono i sei fondamenti in paradigmi morali molto differenti. Più specificamente, la sinistra tende a dare importanza solo a tre dei fondamenti (cura/ 24 Per due esempi, si vedano Suhler e Churchland (2011), Schein e Gray (2018).
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RAZIONALI FINO IN FONDO
danno, correttezza/inganno, libertà/oppressione), mentre la destra assegna altrettanta importanza agli altri tre (santità/degrado, lealtà/ tradimento, autorità/sovversione). Dunque, è chiaro che l'idea dei fondamenti innati non va intesa come qualcosa che determini rigidamente la morale. Ma, insisto, qui non dobbiamo nemmeno impegnarci sulla tesi che vi siano sei fondamenti innati. Ciò che prendo dal modello di Haidt è, piuttosto, l'idea che la morale sia governata da processi automatici, in particolare da intuizioni. E come abbiamo visto, i processi automatici possono essere innati o appresi- in una quantità di casi, è ragionevole pensare che siano una miscela dei due. In che senso allora intendo fornire un terzo argomento (dichiaratamente debole) in favore dell'intuizionismo morale basato sulla teoria dell'evoluzione? Quest'ultima mira a individuare tratti che ci caratterizzano come specie. E se guardiamo alla dimensione morale in questa prospettiva, l'approccio intuizionista mi pare vincente. Prendiamo a titolo di esempio proprio il tratto della cura/danno, ossia l'istinto di protezione dei più deboli. Possiamo certamente immaginare argomenti razionali per esso, incluso l'argomento che esso è utile alla protezione della prole. E possiamo generalizzare tale argomento, ad esempio così: la protezione dei più deboli non solo assicura un futuro alle nostre comunità attraverso i figli, ma assicura ad esse anche coesione attraverso l'equità. Una società in cui ciascuno, quando è in condizioni di debolezza, sa di essere protetto, è una società che siamo più disposti a difendere. Tuttavia, provate a immaginare adesso una comunità di soggetti che adottano quel tratto morale in base a simili argomenti razionali, ma senza provare alcuna tenerezza verso i bambini, alcun sentimento di protezione per i più deboli e così via. Semplicemente, non saremmo noi. Non sembra una buona descrizione di quello che siamo come specie. La teoria dell'evoluzione applicata alla psicologia, insomma, non deve rendere conto solo del perché un comportamento sia adattivo; deve anche indicare quale meccanismo potrebbe plausibilmente essere reclutato per produrre quel comportamento. Ed è difficile immaginare che il meccanismo in questione sia essenzialmente basato sulle nostre capacità di ragionamento. Un candidato decisamente migliore è un processo automatico basato sulle nostre emozioni.
2. LA POTENZA DELL'INCONSCIO
2.18
Individuale o sociale?
Abbiamo dunque analizzato tre argomenti in favore dell'approccio intuizionista alla morale. Il primo è che la nostra resistenza a questo approccio è dovuta anch'essa, dopotutto, a un'intuizione morale: assegniamo importanza al «dare e chiedere ragioni» per motivi radicati nelle nostre emozioni. Dunque, la nostra resistenza al modello è essa stessa una conferma del modello. Il secondo argomento è: abbiamo ampia evidenza che i giudizi morali sono condizionati da sensazioni razionalmente irrilevanti - in effetti, da sensazioni interpretate erroneamente come morali. Il terzo argomento è che le intuizioni basate su emozioni sembrano un candidato migliore che il ragionamento per una spiegazione evoluzionistica dei meccanismi della morale. Avevo promesso che a questo punto avrei detto qualcosa a conforto di chi respinge intuitivamente quell'approccio. Per farlo, tuttavia, è importante dire prima qualcosa su come la proposta di Haidt si ponga rispetto alla natura individuale o sociale dei meccanismi coinvolti. Manterrò la mia promessa subito dopo, discutendo il tema delle confabulazioni. Come osservato, Haidt chiama «sociale intuizionista» il proprio modello. Abbiamo ampiamente spiegato in cosa consista l'elemento intuizionista: i giudizi sono determinati dalle intuizioni, mentre il ragionamento fornisce solo ragioni a posteriori a loro supporto. Questo significa tra l'altro che per Haidt il ragionamento individuale non ha, di norma, il potere di modificare le intuizioni di partenza. Tuttavia il modello prevede un moderato spazio per simili modificazioni attraverso l'introduzione di un secondo soggetto, il quale può avere intuizioni differenti dal primo e argomentarle - ossia fornire ragioni per esse. E sebbene le intuizioni siano considerate da Haidt creature piuttosto testarde, egli assume che in questo caso le possibilità di una loro revisione siano lievemente maggiori. Ecco dunque la componente sociale del modello. Si noterà che vi sono qui elementi di convergenza con l'approccio adattivo-evoluzionista descritto nel primo capitolo. Come questo, anche il modello di Haidt suggerisce che il ragionamento svolga al meglio il proprio ruolo in un contesto sociale. Tuttavia, mi sia consentito riportare per esteso alcuni passi da Haidt (2001 ). Questi sono decisamente
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RAZIONALI FINO IN FONDO
istruttivi per le nostre questioni, e in particolare per il rapporto tra dimensione individuale e sociale. Il ragionamento può realizzarsi privatamente [...] e un simile ragionamento morale solitario può essere comune tra filosofi e tra coloro che hanno necessità cognitive sofisticate[...]. Tuttavia fin da quando Platone scrisse i suoi Dialoghi, i filosofi hanno riconosciuto che il ragionamento morale si realizza spontaneamente in contesti sociali, tra persone che possono sfidare l'uno gli argomenti dell'altro e innescare nuove intuizioni [...]. Il modello sociale intuizionista evita la tradizionale enfasi sul ragionamento cosciente privato e porta l'attenzione sul ruolo delle intuizioni morali, e delle altre persone, nel dare forma ai giudizi morali. (Haidt 2001: 820; traduzione mia)
Insomma, i nostri giudizi morali dipenderebbero innanzitutto dalle intuizioni, e in modo indiretto dalla possibilità di modificarle attraverso interazioni sociali. Tuttavia, è interessante come Haidt introduce nel passo i filosofi e «coloro che hanno necessità cognitive sofisticate». In pratica, ammette che presso queste categorie può verificarsi un «ragionamento morale solitario». In un altro passo dell'articolo è ancora più esplicito. Prende in considerazione la possibilità di ponderare privatamente una questione morale fino a raggiungere un giudizio che rovescia le proprie intuizioni di partenza, e conclude così: La letteratura sul ragionamento quotidiano (Kuhn, 1991) suggerisce che una simile abilità sia comune tra i filosofi, che sono stati estensivamente addestrati e socializzati a seguire i ragionamenti anche fino a conclusioni davvero disturbanti [... ], ma il fatto che ci siano almeno alcuni in grado di raggiungere simili conclusioni da soli e quindi argomentare per esse in modo eloquente [... ] significa che il puro ragionamento morale può svolgere un ruolo causale efficace nella vita morale di una società. (lvi: 829; traduzione mia)
Queste considerazioni suggeriscono qualcosa di abbastanza diverso dal modello. In quello, infatti, i giudizi scaturiscono direttamente dalle intuizioni, senza alcuna possibilità che il ragionamento individuale possa intervenire. Perché dunque Haidt riconosce nell'articolo una possibilità che non trova poi espressione nel modello? C'è qualche ragione per rimuovere dal quadro i «filosofi» - e le loro capacità di ragionamento individuale - come se si trattasse di un'eccezione irrilevante?
2. LA POTENZA DELL'INCONSCIO
Il tema è cruciale, quindi consentiamoci ancora qualche considerazione in proposito.
2. 19
Arte{atti naturali, individui sociali
L'idea che i filosofi costituiscano un'eccezione non rilevante potrebbe essere difesa proprio con l'argomento che essi «sono stati estensivamente addestrati». Sono pertanto in grado di adoperare il ragionamento individuale per modificare le intuizioni, ma solo in virtù di un apprendimento culturale lento e faticoso. Se dunque vogliamo identificare il meccanismo psicologico responsabile del ragionamento spontaneo, prima dell'intervento di simili forme di addestramento culturale, dobbiamo escludere dal modello le prestazioni dei filosofi. Non sono del tutto ostile a questo argomento. Penso che colga qualcosa: coglie in effetti il potere degli automatismi sul ragionamento morale. Tuttavia, come dovrebbe essere ormai chiaro (si veda il primo capitolo, specie§§ 1.3 e 1.4), ritengo incompleti i modelli che insistono esclusivamente sugli automatismi. Il modello di Haidt ci consente di illuminare la questione da un altro punto di vista. Si consideri ancora l'argomento appena esposto. Esso si presta ad un'interpretazione del genere: mentre i meccanismi spontanei che determinano perlopiù i giudizi morali sono processi psicologici genuini, il ragionamento individuale dei filosofi appunto perché frutto di un addestramento non lo è. È una sorta di costruzione culturale. Ciò spiegherebbe perché Haidt non ha bisogno di tenerne conto nel suo modello. Contro l'argomento così interpretato si può utilizzare un controargomento che ammette una formulazione filosofica piuttosto tradizionale e una versione neuroscientifica. La formulazione filosofica dice più o meno: siamo una specie naturalmente culturale. La cultura non è qualcosa di estraneo alla natura, essa è piuttosto un tratto biologico della nostra specie. Questo tema tradizionale (già Aristotele parlava di una «seconda natura» propria dell'essere umano) è tornato alla ribalta nei passati decenni. Si è sviluppata, in particolare, una riflessione sulla tendenza umana a costruire e utilizzare artefatti, e sul fatto che essi diventano parte
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integrante dei nostri processi cognitivi. Si è parlato in questo senso di «mente estesa», una mente che include gli artefatti necessari al suo funzionamento 2 s. Andy Clark, tra i protagonisti di questo filone di riflessioni, ha argomentato che l'artefatto fondamentale - quello che sta a fondamento di tutti gli altri -è il linguaggio (Clark 1997). Esso non è letteralmente un fatto biologico (anche se verosimilmente dipende da adattamenti biologici specifici della nostra specie). Si è sviluppato e fissato storicamente attraverso pratiche comunicative. È dunque un nostro artefatto. Ma una volta sviluppato, il linguaggio è diventato un elemento essenziale della nostra vita mentale, senza il quale gli stessi processi di pensiero come li conosciamo non sarebbero possibili. O si pensi, ancora, alle capacità matematiche. Senza il linguaggio, e senza gli altri supporti fisici con i quali ci aiutiamo, non sarebbe nata nemmeno l'aritmetica elementare. Le capacità matematiche, dunque i processi cognitivi sottesi, richiedono una mente estesa: che crea artefatti e li incorpora nei propri processi 26• Ora, se le cose stanno così non c'è ragione per cui i modelli psicologici dei giudizi morali dovrebbero ignorare i sofisticati processi di ragionamento dei filosofi. Non più di quanto le ricerche di psicologia del linguaggio dovrebbero ignorare i processi linguistici non innati; o più di quanto le ricerche di psicologia della matematica dovrebbero ignorare qualsiasi capacità ecceda il semplice riconoscimento percettivo di numerosità. Queste considerazioni sollevano un ulteriore dubbio: se cioè approcci come quello di Haidt o quello ecologico-adattivo, quando insistono sulla dimensione sociale piuttosto che individuale del ragionamento, non traccino una demarcazione troppo rigida tra quelle dimensioni. Per vedere in che senso, torniamo alle forme di pensiero rese possibili dal linguaggio. Lev Vygotskij ha notoriamente sostenuto che le prime forme di pensiero del bambino emergono come interiorizzazione di attività sociali, e precisamente delle pratiche discorsive con cui i genitori accompagnano semplici attività condivise (Vygotskij 1973 ). I bambini attraversano una fase in cui imitano tali pratiche discorsive nelle attività solitarie; successivamente questa forma di «linguaggio egocentrico» - come è stato chiamato - scom2.s Un'ottima introduzione all'argomento è Di Francesco e Pircdda (2012). Un libro recente e autorevole cognitivamente orientato è Heyes (2018). 16 Sull'argomento si può utilmente vedere Dehaene (2011).
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pare. La tesi di Vygotskij è che esso è diventato pensiero: discorso interiorizzato 27 • Ciò non significa necessariamente che in questo periodo emerga il pensiero come capacità universale, buona per ogni necessità. È possibile, viceversa, che quel che chiamiamo pensare sia l'uso (accompagnato da attenzione cosciente) di una pluralità di schemi, acquisiti in momenti diversi durante i processi di acculturazione. Nella fase descritta da Vygotskij, il linguaggio si limita a focalizzare l'attenzione verso schemi atti alla soluzione di semplici problemi motori. L'addestramento filosofico richiamato da Haidt potrebbe essere una tappa avanzata dello stesso processo di acculturazione, che opera con schemi a carattere meta-cognitivo. In quest'attività, potremmo dire, interiorizziamo uno schema di ragionamento più o meno parafrasabile così: data una tesi, esamina i possibili argomenti in favore e contro. E probabilmente, insieme a questo acquisiamo anche schemi più fini relativi a possibili forme ed errori del ragionamento. Una simile prospettiva è stata molto bene sintetizzata da Margolis (1987: 109; traduzione mia): «gli individui umani acquisiscono una competenza che dipende non solo dalla loro esperienza fisica nel mondo ma anche dal loro accesso a depositi di idee e schemi di ragionamento socialmente disponibili» 28 • Se questo quadro è anche solo approssimativamente corretto, l'insistenza di certi modelli sulla dimensione sociale piuttosto che sul ragionamento individuale è fuorviante. Il ragionamento individuale non è che l'uso individuale di schemi sociali di azione, interiorizzati attraverso ripetute esperienze. Il quadro appena proposto ha probabilmente per molti lettori un fastidioso sapore culturalista: come se si volesse ridurre interamente la cognizione a un fenomeno culturale. Non è affatto così. Al contrario, come preannunciavo, l'argomento può essere riformulato in termini neuroscientifici, e insieme evoluzionistici. Ciò che di solito 2.7 Deanna Kuhn, una delle più note studiose del pensiero critico, ha ripetutamente attirato l'attenzione sul fatto che la concezione dialogica del pensiero di Vygotskij prevede la successiva interiorizzazio11e dei meccanismi dialogici (Kuhn 2011; 2015; 2019). Quella concezione rende pertanto pensabili interventi educativi volti a modificare le capacità cognitive individuali. 2.8 Più esattamente, quello che qui traduco con «ragionamento» è espresso da Margolis con l'espressione «reasoning-why». Questo perché lo studioso distingue tra ragionamento come applicazione intuitiva di schemi (reaso11i11g-how), e come controllo cosciente della loro corrette1.1.a (reasoni11g-why).
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sfugge ai culturalisti è che la nostra biologia ha dovuto subire importanti adattamenti evolutivi perché diventassimo animali naturalmente culturali. Aggiungo però che spesso ciò sfugge anche a molti innatisti. Proprio perché temono di scivolare verso il culturalismo, gli innatisti tendono a rimuovere la questione della cultura concentrandosi su processi cognitivi impermeabili ad essa. È invece fondamentale comprendere che il nostro cervello è stato modificato per fare di noi animali culturali: costruttori di artefatti, tramite cui modificare ulteriormente i nostri processi cognitivi. L'adattamento evolutivo in questione, semplificando molto, è lo sviluppo della corteccia pre-frontale, che nella specie umana raggiunge le dimensioni massime in proporzione al resto del cervello. 2.9 Abbiamo già detto (§§ o. 3; 2. 12) che la corteccia pre-frontale è implicata nei processi esecutivi, ovvero nei processi di controllo metacognitivo dell'azione: progettazione, monitoraggio, inibizione di alternative, correzione dei processi in corso. Possiamo dire dunque che la corteccia pre-frontale presiede i processi intenzionali, nel duplice senso del termine: coscienti, e orientati verso scopi. A volte (raramente) pianifica coscientemente l'azione finalizzata, a volte la monitora, a volte la corregge, a volte la inibisce (o inibisce un'azione alternativa): a volte tutte queste cose insieme. Ciò dovrebbe chiarire perché quest'area sia cruciale per l'invenzione e l'uso di artefatti. Un artefatto è un mezzo per raggiungere uno scopo - o in quanto potenzia un'azione motoria, o in quanto la sostituisce. E l'azione in quanto mezzo è uno dei tre elementi che costituiscono gli abiti comportamentali (come descritti sopra): scopo, mezzo per perseguirlo, contesto in cui perseguirlo. Insomma, un'area cerebrale dedicata alla pianificazione e al controllo di alto livello dell'azione è, per questa stessa ragione, un'area dedicata agli artefatti che supportano le azioni. Per fare qualche esempio, l'area in questione sarà particolarmente attiva durante le azioni intenzionali congiunte attraverso cui per2 9 Una delle semplificazioni a cui ricorro è che, ovviamente, non è solo questione di dimensioni: è almeno altrettanto questione di con11essioni. La corteccia pre-frontale è tra le aree cerebrali più connesse con altre aree, sia corticali sia sotto-corticali. Questo le consente di fungere da «direttore d'orchestra» dei processi cognitivi (con una metafora di Goldberg 2002), dato che riceve informazioni da tutte le aree del cervello; ma probabilmente anche di svolgere un ruolo cruciale nei processi coscienti, dato che questi richiedono la formazione di anelli di attivazione tra aree molto distanti.
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seguiamo scopi sociali (poniamo, durante una battuta di caccia). E per la medesima ragione, sarà attiva durante gli scambi comunicativi richiesti da queste azioni, dato che questi scambi fungono da mezzi adatti a raggiungere scopi comunicativi funzionali all'azione ( «guarda in quella direzione!», «tu rimani lì!»). Dunque, il linguaggio come artefatto nasce sotto la guida della corteccia pre-frontale. Allo stesso modo l'area sarà attiva quando il bambino partecipa alle azioni finalizzate dei genitori, e attraverso questa partecipazione cosciente ne interiorizza schemi d'azione e usi linguistici. Comincia così una lunga avventura intellettuale, di appropriazione del repertorio di schemi sociali. E, contestualmente, di costruzione di abiti di ragionamento. Riassumendo. Non vedo ragione di escludere le abitudini di ragionamento dei filosofi da un resoconto dei processi di ragionamento. Queste abitudini non sono un mero costrutto culturale: non più di altre strutture cognitive che siamo abituati a considerare degne di descrizione psicologica (strutture che regolano i processi linguistici, il pensiero matematico e così via). È anche discutibile che sia utile, in questo contesto, la distinzione tra pratiche di ragionamento sociali e individuali. Il pensiero (linguisticamente mediato) è quasi per definizione una pratica individuale prodotta per interiorizzazione di pratiche sociali. Infine, le considerazioni che precedono non manifestano un approccio culturalista. Al contrario, esse sono fondate su considerazioni neuroscientifiche ed evoluzionistiche relative al ruolo della corteccia pre-frontale. In conclusione, quelle teorie del ragionamento che riconoscono solo il ruolo dei processi automatici ignorano, a me pare, un fatto evoluzionistico e neuroscientifico fondamentale: potremmo dire, una delle grandi rivoluzioni nell'organizzazione del cervello dei mammiferi. Senza entrare in dettagli che esulano dai nostri scopi30 , lo sviluppo della corteccia pre-frontale ha prodotto nuovi gradi di libertà e di controllo dell'azione. In pratica, ha reso possibili capacità meta-cognitive che consentono la riorganizzazione degli automatismi. Questo è ciò che ci rende una specie culturale, capace di enorme 3° Tra i dettagli che trascurerò sistematicamente c'è il fatto che «automatismi» è una categoria molto più differenziata di quanto io riconosca. Ad esempio, c'è una differenza importante tra le routine d'azione governate dalle aree sotto-corticali e i processi associativi automati1.1.ati della corteccia: questa è una delle grandi riorganizzazioni del cervello dei mammiferi. Confido tuttavia che nulla di quel che dico dipenda da queste sottigliezze.
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variabilità individuale. Ignorarlo significa presentare un'immagine di noi da cui è stato amputato proprio il tratto più specifico. E significa anche rinunciare a un potente strumento per modificare noi stessi.
2.20
Una conclusione: spazio delle confabulazioni o spazio delle
ragioni? Ci avviamo alla conclusione del presente capitolo, in cui abbiamo esplorato in lungo e in largo il potere che gli automatismi esercitano sulle nostre vite: nella sintassi, nella percezione, nelle relazioni lessicali, nell'agire rivolto verso scopi, nei giudizi morali. Un tema che abbiamo sfiorato più volte è quello delle confabulazioni. Se sono gli automatismi che governano le nostre azioni e giudizi, allora sembra che alla ragione non rimanga altro ruolo che inventare storie credibili per dare soggettivamente senso a quelle azioni e giudizi. In effetti, una posizione del genere è stata sostenuta da Bargh e colleghi a proposito del perseguimento automatico di scopi, e da Haidt in relazione ai giudizi morali (nelle storie di violazione inoffensiva di tabù). Le confabulazioni sono un fatto scientificamente ben noto. Quando i soggetti mancano di informazioni su quel che accade, inclusi i propri comportamenti, tendono a costruire storie fittizie per colmare queste lacune informative. Esempi classici in letteratura riguardano comportamenti post-ipnotici (Estabrooks 194 3 ), pazienti che hanno subito la separazione chirurgica degli emisferi cerebrali (Gazzaniga e Le Doux 1978), pazienti affetti da una forma di demenza nota come sindrome di Korsakoff (Sacks 1987). Ma il fenomeno potrebbe essere decisamente più generale, e penetrare nelle situazioni ordinarie della nostra vita. Si pensi appunto ai soggetti di Haidt. Le ragioni che offrono per difendere i propri giudizi morali non sembrano coerenti con le intuizioni che davvero li hanno causati. È come se i soggetti, in assenza di informazioni in proposito, si accontentassero di richiamare le proprie convinzioni esplicite su ciò che è giusto («non bisogna fare del male a nessuno»). Ossia, è come se ragionassero così: dato che credo sia morale non fare del male a nessuno, e ho appena espresso un giudizio morale, di sicuro lo avrò fatto in base a quel principio. Insomma, il potere degli automatismi sembra determinare quella mancanza di trasparenza razionale che abbiamo paventato nel pri-
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mo capitolo. Il soggetto agisce sulla spinta di automatismi, e quindi si trova a dovere interpretare quello che ha fatto non diversamente da come potrebbe fare un osservatore esterno. Dobbiamo, dunque, rassegnarci all'idea che la ragione sia un fantoccio animato dagli automatismi? La risposta che propongo è mista. Per un verso penso che la costruzione di pseudo-ragioni sia un problema reale, di cui abbiamo ampie evidenze nell'ambito morale e nel pensiero ideologico. In effetti, il problema mi pare abbastanza serio da dedicargli un libro. Ma penso che questa non sia l'ultima parola sulla questione. Nel primo capitolo la discussione era focalizzata sul tema della razionalità, e ho insistito sulla possibilità di andare al di là degli automatismi ricorrendo a meccanismi riflessivi di ragionamento. Le considerazioni del precedente paragrafo ci consentono di sostenere qualcosa di simile a proposito delle confabulazioni. Se esse sono un possibile punto di partenza - un rischio con cui dobbiamo fare i conti-, la trasparenza del soggetto è un possibile punto d'arrivo. Come abbiamo visto, Haidt ammette che i filosofi sono addestrati a mettere in discussione razionalmente le intuizioni. Ne prendono coscienza, e possono così valutarle e persino rigettarle. Questo tirocinio professionale non crea qualcosa di assolutamente nuovo: è semmai lo sviluppo sistematico di una capacità che occasionalmente si manifesta nei comportamenti ordinari. Consideriamo di nuovo l'esempio dei soggetti che di fronte alle obiezioni dell'intervistatore reagiscono con lo «spaesamento morale»: rimangono senza ragioni da esibire, inchiodati alle loro intuizioni. Questo è decisamente un buon punto di partenza filosofico. A partire da qui, si può focalizzare l'attenzione sulle ragioni e sulla loro validità: davvero il principio «non fare del male a nessuno» è il fondamento (unico) della moralità? O si può focalizzare l'attenzione sull'intuizione che l'incesto sia un male anche qualora nessuno ne abbia danno, e sottoporlo a ulteriore analisi. E si può, ancora, mettere i propri principi e le proprie intuizioni a confronto. Se, come Haidt sostiene, il dialogo tra soggetti diversi ha il potere di mettere in discussione le intuizioni, è proprio perché esso può produrre (a certe condizioni) situazioni che sono il seme del metodo filosofico: situazioni di potenziale spaesamento, in cui scopriamo che il nostro punto di vista non è l'unico possibile. Il tirocinio filosofico è l'interiorizzazione di queste situazioni dialogiche - analogamente a come il pensiero del bambino è l'interiorizzazione delle pratiche discorsive dei genitori. Quel tirocinio ci addestra a cercare dentro di
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noi la stessa pluralità che abbiamo riscontrato nel dialogo. E spesso, in effetti, a trovarla. Insomma, essere inclini alle confabulazioni non è un dramma. Come vedremo ancor meglio, discorso ideologico e morale sembrano intrinsecamente caratterizzati da aspetti confabulatori. L'importante è avere strumenti riflessivi per gestirlo. Questo quadro potrebbe essere di qualche conforto a quanti provano disagio verso gli argomenti intuizionisti dei paragrafi precedenti. L'intuizionismo suggeriva in effetti una prospettiva del genere: la moralità non è che l'ennesimo trucco dell'evoluzione per la sopravvivenza delle specie. Essa fa uso delle emozioni per produrre comportamenti rivelatisi adattivi. In questa prospettiva, i principi morali e le ragioni con cui li difendiamo sembrano perdere qualunque significato: rimangono appunto mere confabulazioni. Questo esito, tuttavia, non è obbligato. La ragione - in quanto articolazione cosciente delle proprie scelte - è solo uno «spazio della confabulazione» finché si limita a fare l'avvocato delle proprie intuizioni. Ma è qualcosa di differente se opera nel modo filosofico e riflessivo che ho descritto prima: esaminando con cura le proprie intuizioni, le proprie ragioni, e mettendole a confronto tra loro. Insomma: se fa debiasing. Un esempio può aiutare a capire. Paul Bloom ha pubblicato un bel libro intitolato Contro l'empatia, in cui argomenta che, contrariamente a un'opinione comune, l'empatia produce più danni che benefici alla moralità (Bloom 2016). Si può empatizzare con un bambino sofferente visto in foto, e ignorarne mille di cui non sappiamo nulla. E questo, come Bloom argomenta in modo ampio e convincente, ci spinge spesso a fare scelte sbagliate perché puramente emotive. Nel dominio morale di solito abbiamo a che fare con scelte «tutto considerato» - dobbiamo cioè tenere conto non solo di quello che provoca un'emozione immediata, ma anche di molti altri diritti soggettivi che non abbiamo sotto gli occhi. E se salvare un bambino provocasse la morte di altri mille? L'empatia è addirittura causa di comportamenti violenti. I terroristi non sono mostri incomprensibili, incapaci di empatia. Sono persone che empatizzano moltissimo, in modo unilaterale: hanno impresse nella mente le sofferenze di vittime innocenti nella propria comunità. Il libro di Bloom è uno straordinario esempio di come si possa ragionare sulle scelte morali mettendo in discussione le nostre intuizioni - e
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le emozioni su cui si basano - piuttosto che assecondarle. Questo non vuole dire che le emozioni siano in generale nemiche dell'agire morale, o irrilevanti per esso. Bloom sostiene ad esempio che sebbene l'empatia sia una cattiva consigliera, la benevolenza - un sentimento più astratto e universale - è una guida morale decisamente più affidabile. Insomma, si può sostenere che le emozioni possono essere messe in discussione razionalmente senza perciò aderire ad una concezione kantiana (ispirata al filosofo Immanuel Kant): senza affermare cioè che si può agire moralmente solo in assenza di spinte emozionali, per semplice obbedienza ai principi morali. Kant è stato molto criticato per questa posizione di astratto rigore, e in effetti c'è ragione di credere che in assenza di motivazioni affettive gli esseri umani non agirebbero affatto. Si può però interpretare Kant in un modo più generoso (senza alcuna pretesa di correttezza filologica). Egli ha forse inteso descrivere -in termini astratti- lo «spazio delle ragioni»: ossia, quello spazio nel quale possiamo esaminare riflessivamente noi stessi, e proporci di agire alla luce di questo esame. Solo la riflessione razionale, sostengono i razionalisti, ci rende pienamente umani: sottopone le nostre emozioni e intuizioni al vaglio della ragione. In realtà, nella prospettiva che propongo la ragione contrappone alle intuizioni altre intuizioni, alle emozioni altre emozioni, e ci guida così verso una valutazione oggettiva quanto possibile: sottoposta a un controllo reciproco. Abbiamo introdotto l'idea di un simile «spazio mentale di conciliazione» fin dalla Premessa, e l'analizzeremo ulteriormente nel quarto capitolo. Comunque stiano le cose con Kant e il razionalismo, in ogni modo, questo è ciò che proporremo: esiste un livello riflessivo del pensiero che si può sviluppare con l'educazione. Gli automatismi, emozioni incluse, non sono l'ultima parola.
Capitolo terzo Il ragionamento e le sue disavventure
3. 1 Ragionamento, razionali'tà, pensiero critico: un po' di terminologia Nel primo capitolo di questo libro abbiamo introdotto il dibattito sulla crisi della razionalità. Lo abbiamo fatto dentro un contesto più ampio, e con un obiettivo generale. Il contesto era la discussione di un'idea che attraversa vari domini (dal comportamentismo alle scienze cognitive ad alcune teorie della razionalità): l'idea secondo cui il soggetto non è trasparente a sé stesso. L'obiettivo era introdurre la posizione che qui difendo, secondo la quale ciò è senz'altro vero finché consideriamo la sfera dei processi automatici, ma non dovrebbe farci dimenticare che disponiamo di processi di altra natura che consentono una riappropriazione riflessiva del sé. Anche se questa riappropriazione - dobbiamo riconoscerlo - si realizza solo con difficoltà, e con risultati variabili da individuo a individuo. Nel secondo capitolo abbiamo analizzato più in dettaglio il potere degli automatismi in una serie di domini cognitivi tra cui l'agire rivolto verso scopi, e i giudizi morali. Qui farò qualcosa di analogo riguardo al dominio del ragionamento. Non mi propongo una rassegna sistematica delle teorie del ragionamento e del connesso dibattito sulla razionalità: esistono ottime introduzioni ad entrambi gli argomenti (ho già menzionato, rispettivamente, Girotto 1994 e Labinaz 2013). E nemmeno mi propongo un'analisi sistematica della ampissima letteratura sul pensiero critico (per un 'introduzione alla quale richiamo qui Paglieri 2016). La mia ricognizione sarà strettamente funzionale agli obiettivi di questo lavoro. Per cominciare, qualche parola sulla relazione tra queste tre nozioni: ragionamento, razionalità, pensiero critico. In un certo senso,
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più che di tre concetti distinti si tratta di tre diverse prospettive sul medesimo dominio. Le teorie del ragionamento mirano tradizionalmente - ossia nella tradizione filosofica - a ricostruire non tanto il modo in cui effettivamente pensiamo, quanto quello in cui è corretto pensare. Sono in questo senso teorie normative piuttosto che descrittive: indicano norme di correttezza. E sono in genere formali: mirano a catturare le forme astratte che assicurano il corretto pensare, indipendentemente dagli specifici contenuti a cui queste forme si applicano. Ma cosa è in definitiva questo «pensare» di cui si cercano le forme corrette? Con ciò intendiamo non l'avere singoli pensieri, ma il collegarli tra loro. Un ragionamento è, come anche si dice, un 'inferenza: una transizione da certi contenuti mentali ad altri contenuti mentali sulla base di regole. Un classico tipo di ragionamento è il sillogismo studiato da Aristotele, che è un collegamento tra tre pensieri (o come anche si dice, proposizioni), di cui due fungono da premesse e il terzo da conclusione: poniamo, «Socrate è un uomo» e «Gli uomini sono mortali» sono le premesse, «Socrate è mortale» è la conclusione. Questi tre pensieri contengono tre elementi: il nome «Socrate», il predicato «uomo» e il predicato «mortale». La teoria del sillogismo sviluppata da Aristotele analizza il modo in cui tre termini qualsiasi come questi possono combinarsi tra loro in due premesse e una conclusione, e in particolare mostra che alcune combinazioni consentono di ricavare necessariamente da premesse vere conclusioni vere, in virtù della sola forma delle tre proposizioni. I sillogismi che rispondono a questa caratteristica sono detti «validi»: in generale, si dice valido un ragionamento che da premesse vere consente di ottenere necessariamente conclusioni vere. Un ragionamento con questa caratteristica è detto anche deduttivo, o, in breve, è una deduzione (valida). I sillogismi validi sono quindi tipi di ragionamenti deduttivi. Per studio del ragionamento dunque si intende, tradizionalmente, lo studio delle leggi che presiedono al corretto pensare. Il dibattito sulla razionalità nasce dalla domanda se gli esseri umani si conformino effettivamente a quelle leggi, e in che modo dunque pensino. Questo passaggio, diciamo così, dal «pensiero ideale» che la logica ci insegna a come pensiamo davvero si verifica nel momento in cui lo studio del ragionamento cessa di essere un affare prevalentemente filosofico, e viene preso in carico dalla psicologia sperimentale (ciò
3•
IL RAGIONAMENTO E LE SUE DISAVVENTURE
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che avviene nel corso del '900, soprattutto nella sua seconda metà). Nei prossimi paragrafi daremo qualche cenno su come il tema del ragionamento si sviluppa in psicologia. Ma prima, insisto ancora un attimo su queste relazioni terminologiche. Per ragionamento intendiamo dunque un'attività umana, quella del pensare, sia essa ricostruita nel modo fortemente idealizzato proprio della logica filosofica oppure studiata empiricamente dalla psicologia. Per inciso, è bene puntualizzare subito che in psicologia si può eventualmente distinguere, e a volte lo si fa, tra capacità di ragionamento «spontanee» e «riflessive» 1 • Con il termine razionalità ci riferiamo ad una qualità o capacità che attribuiamo all'essere umano, quella appunto di usare il ragionamento, e nel dibattito sulla razionalità si tratta di capire se abbiamo tale capacità, in quale misura e in quali forme. Come si comprende facilmente, la posizione che si assume nel dibattito sulla razionalità dipende strettamente dalla teoria del ragionamento adottata: più si adotta una concezione del ragionamento vicina all'ideale normativo, più sarà difficile attribuire ai soggetti reali piena razionalità. Infine, con pensiero critico si intende una qualità che non tutti possediamo in uguale misura, e di cui nella letteratura specializzata ci si chiede come possa essere promossa ed educata. Si potrebbe dire, per un verso, che si tratti ancora una volta della razionalità, ovvero della capacità di esercitare il ragionamento. Tuttavia, la nozione di pensiero critico tende in più a presupporre uno scarto tra il modo in cui dovremmo, normativamente, ragionare per essere davvero razionali, e il modo in cui ragioniamo perlopiù. E suggerisce l'opportunità di colmare quello scarto.
3.2 Macchine logiche ideali?
Storicamente, la prima posizione che la psicologia sperimentale adotta sul ragionamento - e che (seguendo Elqayam 2018) possiamo chiamare «logicismo», purché facciamo attenzione a distinguere questo uso da quello corrente in storia della logica - assume che il pensiero umano sia basato sulla logica. Più precisamente, l'idea è che 1
Sempre che non si debbano distinguere non due, ma più livelli di ragionamento. Su questo torneremo tra poco.
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le forme del ragionamento corretto individuate dalla logica - dunque soprattutto le forme della logica deduttiva - costituiscano «la base del pensiero razionale umano» (Evans 2002: 979; traduzione mia). Un protagonista nell'elaborazione di questa posizione è lo psicologo Jean Piaget, che descrive lo sviluppo del ragionamento dall'infanzia all'età adulta come un progressivo sviluppo del pensiero formale, basato su strutture logiche astratte (i testi fondativi di questo approccio sono Inhelder e Piaget 1958; Henle 1962). Come vedremo, oggi il logicismo è preso in considerazione essenzialmente come bersaglio polemico, data la sovrabbondante evidenza empirica che il pensiero umano si discosta in molti modi dal ragionamento logico ideale. Tuttavia come ipotesi di partenza ha una sua giustificazione. La logica metteva a disposizione una riflessione millenaria sulle forme del ragionamento corretto, nonché un'analisi accurata degli errori di ragionamento (detti «fallacie»). Inoltre, dalla fine dell'8oo essa aveva conosciuto un'ulteriore impetuosa crescita, legata anche ad una parallela riflessione sulla matematica e i suoi fondamenti logici. Dovendo adottare un'ipotesi su cosa sia il ragionamento, perché non partire da questa ricchissima e robusta tradizione? È importante tenere presente che la teoria aristotelica del sillogismo era solo un caso particolare di deduzione, limitato a proposizioni semplici formate da un soggetto e un predicato. Deduzioni di questo tipo sono anche chiamate sillogismi categoriali perché riguardano i rapporti di inclusione tra individui e categorie: nell'esempio precedente l'individuo Socrate e le categorie di uomo e mortale. Ma vi sono anche altre regole logiche deduttive, le quali contengono tra le premesse una proposizione complessa (la loro analisi è sviluppata dapprima dagli Stoici e poi da vari filosofi medievali). Ne è un esempio la regola di inferenza detta modus ponens, che contiene tra le premesse una proposizione complessa ipotetica di forma «se P allora Q», dove P e Q sono a loro volta due proposizioni. La forma complessiva del modus ponens è dunque: Se P allora Q p
Q
in cui la linea serve a separare le due premesse dalla conclusione.
3.
IL RAGIONAMENTO E LE SUE. DISAVVE.NTURE.
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O ancora, appartiene a questa categoria il sillogismo disgiuntivo che contiene tra le premesse la proposizione complessa disgiuntiva «Po Q»: PoQ nonP
Q
Cosa comporta dunque adottare l'idea che gli esseri umani, quando ragionano, applicano reioie di questo genere (sono, per così dire, macchine logiche ideali)? E importante qui sottolineare un punto. Ciò non implica l'affermazione che siamo capaci di applicare quelle regole senza mai commettere errori. Il logicismo, insomma, non è messo in discussione dalla semplice scoperta che nel ragionamento gli esseri umani possono sbagliare (nel senso che non applicano correttamente le regole logiche di inferenza), e di fatto sbagliano in un certo numero di casi. I suoi sostenitori sono ben consapevoli di questo, e hanno strumenti per spiegarlo. Con una mossa abbastanza tradizionale, possono distinguere tra la competenza che fonda le capacità di ragionamento (nello stesso senso in cui Chomsky parlava di competenza sintattica: un insieme di regole proprie di quel dominio) e le reali prestazioni, le quali possono essere affette da limitazioni dovute a una serie di meccanismi cognitivi esterni ma necessari al ragionamento - quali l'attenzione, la memoria di lavoro e simili. In altri termini, il logicista può sostenere che il ragionamento si realizza attraverso l'applicazione di regole di inferenza deduttive, e che dunque i risultati sarebbero conformi a quelli prescritti dalla logica se non fosse per le limitazioni dovute ad altri meccanismi cognitivi a cui il ragionamento deve appoggiarsi. Ciò che mette in crisi il logicismo, dunque, non è la scoperta che sbagliamo: è piuttosto la scoperta che ci sono regolarità nei modi in cui lo facciamo. Non sembra cioè trattarsi di errori casuali, legati a problemi di carico della memoria, distrazione e simili. Ciò suggerisce che i meccanismi che presiedono al ragionamento sono tali da produrre sistematicamente risultati differenti da quelli che avremmo se applicassimo regole di inferenza deduttive. Facciamo un esempio classico (riportato da Labinaz 2013: 38). Prendiamo il seguente sillogismo categoriale:
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Tutti i francesi sono bevitori di vino. Alcuni bevitori di vino sono buongustai. Alcuni francesi sono buongustai.
Vi sembra una deduzione valida (cioè tale che la conclusione è necessariamente vera se lo sono le premesse) oppure no? Sottoposti a test del genere, molti soggetti rispondono positivamente. Se però analizzate la forma logica di questo sillogismo, vi accorgerete che non è valido. Il modo più intuitivo per farlo è ricorrere a rappresentazioni insiemistiche, che rendono evidenti le relazioni di inclusione categoriale2 • Perché allora in casi del genere tendiamo a rispondere positivamente? Perché la deduzione ci appare persuasiva indipendentemente dalla sua forma logica: in particolare, ci sembra sensata la conclusione - i francesi non sono forse il prototipo dei buongustai? e questa sensazione di correttezza si trasmette alla qualità del ragionamento. Questa è la spiegazione che oggi viene perlopiù accolta, e ad essa ci si riferisce come al bias della credenza (belief bias). L'idea è che nel giudicare la qualità di un ragionamento siamo influenzati dal fatto che la conclusione è conforme alle nostre credenze (in italiano, «credenze» è un termine tecnico che si adopera in filosofia per indicare le nostre convinzioni, ciò che assumiamo di sapere). Seragionassimo semplicemente applicando le regole dei sillogismi validi, non dovremmo sistematicamente tendere verso giudizi scorretti del genere. E come vedremo nel prossimo paragrafo, ci sono anche esempi migliori - anche se un po' più complessi - del problema. Un paio di commenti. Innanzitutto, in questo esempio ritroviamo un aspetto della nostra vita mentale che abbiamo già introdotto nel precedente capitolo (§ 2.16), e di cui avevamo preannunciato l'importanza. Lì si parlava di giudizi morali, e in particolare del fatto che essi sono influenzati da sensazioni moralmente irrilevanti (fame, disgusto) per il semplice fatto che queste sensazioni «non portano scritto in faccia» quale sia la loro causa. Posso sentirmi a disagio - o al contrario a mio agio 2. La conclusione che alcuni A sono C non segue necessariamente dalle premesse che tutti gli A sono B, e che alcuni B sono C: infatti, anche se tutti gli A (francesi) sono B (bevitori), è possibile che il sotto-insieme dei B (bevitori) che sono anche C (buongustai) non includa nessun A (francese).
3.
IL RAGIONAMENTO E LE SUE DISAVVHNTURE
105
per ragioni che non hanno nulla a che fare con una certa questione morale, e trasferire erroneamente la mia sensazione a quella questione. Analogamente, nel sillogismo dei francesi buongustai posso avere una sensazione - diciamo così - di «agio» (di correttezza) dovuta alla plausibilità della conclusione, e interpretarla erroneamente come conferma della buona qualità del ragionamento. In seguito, mi riferirò sinteticamente a questo fenomeno come al «silenzio delle sensazioni». Sebbene le sensazioni (le intuizioni) siano «rumorose» nel condizionare i nostri giudizi e scelte, lo fanno però in modo subdolo: tacendo una parte di verità che sarebbe cruciale per prendere decisioni razionali. Una seconda osservazione è che il sillogismo dei francesi buongustai ci fornisce un primo concreto esempio dei bias di cui tanto abbiamo parlato in termini generali. Si tratta di quel genere di tendenze sistematiche all'errore che hanno messo in crisi non solo la teoria logicista del ragionamento ma anche, come vedremo tra un attimo, un più generale paradigma della razionalità. Un'ultima osservazione prima di lasciare il logicismo. Forse il clima intellettuale sta cambiando negli ultimi anni, ma fino a un passato recente vari testi sul pensiero critico continuavano ad essere influenzati dalla convinzione che il ragionamento, in sostanza, non sia altro che una corretta applicazione delle regole logiche. Questo è vero in particolare per i contributi che provengono da filosofi, per ragioni che presumibilmente hanno a che fare con la loro formazione. Nella sua ricostruzione del paradigma logicista, Evans (2002: 979) fa riferimento all'importante ruolo svolto in quel paradigma dai manuali tradizionali di logica. E più recentemente, Elqayam (2018: 130: traduzione mia) osserva che «l'influente introduzione alla logica di Copi (2013) ancora definisce la logica come il modo di realizzare il ragionamento corretto e pienamente affidabile». Nei filosofi che hanno una formazione logica, è dunque normale che ciò influenzi il modo di guardare al problema dei bassi standard di ragionamento, e i conseguenti tentativi di soluzione. Anche in Italia abbiamo un paio di esempi interessanti di questo atteggiamento: libri peraltro di ottima qualità, che si propongono obiettivi quali lo sviluppo di capacità di pensiero critico (Coliva e Lalumera 2006), o il promuovere la razionalità nel dibattito pubblico (D' Agostini 201 o), ma che in definitiva si affidano essenzialmente agli
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RAZIONALI FINO IN FONDO
strumenti della tradizione logica (e alla teoria dell'argomentazione). Vorrei fosse chiaro che libri di questo genere svolgono, a mio giudizio, una funzione decisamente positiva. Come detto ripetutamente, penso che ragionamento, razionalità e pensiero critico siano fenomeni complessi, fatti di molte cose differenti; e dunque tutti gli sforzi di promuoverne un aspetto o l'altro sono benvenuti. In particolare, una solida formazione logica (e argomentativa) tradizionale è cruciale in contesti ad alta formalizzazione, e questi includono domini teorici e tecnici di vario tipo. Al tempo stesso credo che altri siano gli aspetti rilevanti quando ci avviciniamo al ragionamento spontaneo, specie su temi che coinvolgono il posizionamento ideologico. In questo ambito, è utile piuttosto guardare alla riflessione sui bias, e all'influenza di sensazioni ed emozioni sui giudizi3. 3. 3 Carte da girare, birre proibite: i problemi della deduzione
Con il sillogismo dei francesi buongustai abbiamo visto un primo concreto esempio di bias, quello della credenza. Come abbiamo detto, l'accumularsi di evidenze circa queste distorsioni sistematiche nel ragionamento ha messo in crisi il logicismo. In realtà però la crisi è più ampia, va al di là del logicismo in quanto teoria psicologica del ragionamento deduttivo. Accanto al logicismo si erano andate sviluppando altre due tradizioni di ricerca che ne condividevano l'approccio normativo: condividevano cioè l'idea di un soggetto razionale, ca pace di ragionare secondo le regole e gli assiomi previsti dalle rispettive teorie normative. Di queste due tradizioni di ricerca, l'una è la teoria della probabilità, nata nell'ambito della matematica ma con una crescente attenzione alla realtà psicologica dei ragionamenti probabilistici; l'altra è la teoria della scelta razionale, che nasce nell'ambito dell'economia e si sviluppa attraverso la collaborazione tra economia comportamentale e psicologia sperimentale - come testimoniato dal Premio Nobel in economia conferito, nel 2002, allo psicologo Daniel Kahneman. Insieme teoria della deduzione logicista, teoria del ragionamento 3 Una posizione analoga a questa è difesa nel recente Pia1.1.a e Croce rimento alle ragioni per cui si diffondono le fake ,iews.
(202.2.),
con rife-
3.
IL RAGIONAMENTO E LE SUE DISAVVENTURE
107
probabilistico e teoria della scelta razionale costituiscono una sorta di paradigma comune, il cui carattere normativo viene messo in crisi da una serie di esperimenti ormai classici, e replicati nelle forme più svariate. Come vedremo nei prossimi paragrafi, le evidenze sperimentali aprono una nuova stagione nella quale si confrontano alcuni modelli teorici, che per comodità raggrupperò sotto tre etichette: a euristiche e bias, duale, ecologico-adattivo. Quel che è certo è che il modello logicista sarà sostanzialmente abbandonato. Vi sono in particolare tre tipologie di esperimenti che hanno prodotto fiumi di letteratura. Mi concentrerò su uno di essi, proprio quello relativo al ragionamento deduttivo, che è più pertinente per i nostri scopi. Si tratta del celebre «compito di selezione di Wason», ideato dallo psicologo Peter Wason a cui va certamente il merito di avere aperto questa nuova stagione di studi sperimentali sul ragionamento. Nel compito di selezione ai soggetti sono mostrate quattro carte come nell'esempio seguente: r
A
B
r
2
5
Ai soggetti viene dunque fornita una regola condizionale relativa a queste quattro carte4, del seguente tenore: «se su una faccia c'è una vocale, sull'altra c'è un numero dispari». Il compito è indicare quali carte è necessario girare per stabilire se questa proposizione condizionale è vera. I risultati ottenuti da Wason sono piuttosto scoraggianti: solo il 4 % dei soggetti fornisce la risposta corretta (o comunque, quella che è normativamente giudicata tale), ossia che le carte da girare sono A e 2. Secondo il 3 3 % dei soggetti è sufficiente girare la sola carta A, mentre per il 46% occorre girare A e 5. Perché è irrilevante girare il 5? Perché qualunque cosa dovessimo
◄ Che la regola sia «relativa a queste quattro carte» è un aspetto importante, per ragioni che saranno chiare più avanti.
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RAZIONALI FINO IN FONDO
scoprire facendolo, non dimostrerebbe che la proposizione è vera5. Supponiamo infatti che girando il 2 troviamo dall'altro lato una vocale: in tal caso la proposizione risulterebbe falsa, qualunque cosa ci sia sull'altra faccia del 5. Per la stessa ragione non basta girare solo la A: così non possiamo escludere che la carta 2 falsifichi la proposizione, dunque non abbiamo dimostrato che essa è vera. Oltre alla A, è proprio il 2 quindi che dobbiamo girare per assicurarci che la regola non sia falsificata: dunque che sia vera. L'insuccesso con il compito di selezione è in parte riconducibile al fatto che esso coinvolge una regola logica la cui applicazione è notoriamente non facilissima sotto il profilo cognitivo, il modus tollens: Se P allora Q nonQ nonP
Infatti, controllare che la regola condizionale sia vera (che si applichi alle quattro carte) equivale a mostrare che le carte non la falsificano. In pratica, dato che la prima premessa è la proposizione condizionale «se vocale, allora numero dispari», si tratta di controllare che non si dia il caso che la carta mostri un numero pari (non Q) ma sul retro ci sia una vocale (P). Se così fosse, si violerebbe la regola del modus tollens e la proposizione condizionale (se P allora Q) ne risulterebbe falsificata. Se non siete allenati in questo genere di ragionamenti, e non riuscite a cogliere intuitivamente la spiegazione che ne ho dato, non dovete preoccuparvi. Siete in buona compagnia! Una lezione che si può trarre da esperimenti del genere è precisamente questa: che in molti casi applicare regole logiche non sembra intuitivo, a meno che non si sia stati addestrati a farlo. E in effetti, qualche anno dopo la pubblicazione dei risultati di Wason, si scoprì che le prestazioni migliora vano enormemente se il compito veniva eseguito con regole basate su concrete esperienze dei soggetti (piuttosto che su contenuti astratti
s In realtà ci sono due diverse ragioni per rui girare il 5 è irrilevante, in quanto non determina la verità del condizionale. Una ha a che fare con la specifica interpretazione che si dà del condizionale in logica, e non è pertinente per i nostri scopi dunque la tralascerò.
3.
IL RAGIONAMENTO E LE SUE DISAVVENTURE
come lettere e numeri) 6• Supponiamo ad esempio che la regola condizionale sia «Se una persona sta bevendo birra, deve essere maggiorenne». E immaginiamo che i soggetti vedano le seguenti carte. r
Beve
Beve
birra
Coca
Ha 16 anni
Ha 18 anni
Dal punto di vista formale, si tratta di un compito del tutto identico a quello somministrato da Wason. Ma se ci viene chiesto adesso quali carte dobbiamo girare per controllare che la regola sia rispettata, in genere non avremo difficoltà a capire cosa dobbiamo fare e perché. L'impatto del compito di selezione per il dibattito sulla deduzione in particolare e sul ragionamento in generale è stato enorme, e per buone ragioni. Anche il poco che ne abbiamo raccontato è sufficiente per trarne una serie di considerazioni preziose.
3.4 Forma o contenuto? Tanto per cominciare, dal confronto tra diverse versioni (più astratte e concrete) del compito di selezione si può apprendere la seguente lezione fondamentale: il ragionamento è sensibile al contenuto. Anzi, si può forse essere più radicali: il ragionamento è strettamente dipendente dai contenuti. Esso non è governato da regole di inferenza astratte, bensì da conoscenze circa il modo in cui funzionano le cose in specifici domini di esperienza. Quest'idea è stata felicemente catturata dalla proposta teorica di Cheng e Holyoak (1985), secondo cui i nostri ragionamenti sono resi possibili da «schemi pragmatici»: schemi relativi a come funzionano certe categorie di fenomeni nell'esperienza umana. 6
La prima dimostrazione è data da Johnson-Laird, Legrenzi e Legrenzi ( 1972); quella più nota che contiene l'esempio della birra da Griggs e Cox (1982).
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RAZIONALI FINO IN FONDO
In particolare, confrontando numerose varianti del compito di selezione è stato possibile escludere che sia semplicemente la concretezza del materiale utilizzato (nell'esempio precedente, la regola che limita il consumo di birra) a facilitare le nostre prestazioni. Il punto è piuttosto che siamo bravi a fare le inferenze corrette quando l'esperienza ci consente di formare schemi su come vanno le cose in specifici domini. Si noti - ci torneremo - che a quel punto applichiamo di fatto le regole logiche, anche quel modus tollens il cui impiego risulta altrimenti così difficile. Ma non le applichiamo a casi qualunque: solo a quelli nei quali l'esperienza ci ha addestrato a farlo. Quanto specifici devono essere i contenuti di esperienza? Ad esempio, apprendiamo ad applicare il modus tollens specificamente al caso della birra, al consumo di alcolici in generale, o ad un dominio ancora più ampio? La risposta corretta sembra essere l'ultima. In effetti numerosi studi sperimentali sembrano mostrare che disponiamo - tra gli altri - di schemi di ragionamento che si applicano alla «sfera deontica» (come viene chiamata) nel suo complesso: ossia alla sfera degli obblighi (e permessi) socialmente regolati7. Ciò non vuol dire necessariamente che gli schemi di ragionamento debbano avere tutti questo stesso livello di generalità. Una volta accolta l'idea che il ragionamento dipende da abitudini d'esperienza, è ragionevole ipotizzare che il grado di generalità possa variare da un dominio all'altro. Per quanto riguarda la sfera deontica, verosimilmente disponiamo di uno schema di ragionamento unitario perché in questo dominio, cruciale per la nostra vita associata, ci imbattiamo in molti casi differenti dotati di struttura analoga. Ad esempio, la regola condizionale «Se una persona sta bevendo birra, deve essere maggiorenne» funziona esattamente come quest'altra: «se vuoi andare fuori a giocare, devi prima fare i compiti». Oppure: «se vuoi andare in pensione, devi avere quarant'anni di contributi». In tale dominio, insomma, abbiamo occasione di applicare il modus tollens a una quantità di casi differenti, che vengono riconosciuti come simili tra loro e generalizzati in uno schema comune. Queste considerazioni hanno varie conseguenze. Innanzitutto, se ne deduce che non è facile trasferire ad altri domini le capacità di ra-
7 Oltre ai già citati Griggs e Cox (1982) e Cheng e Holyoak (1985), per una rassegna più aggiornata si può vedere Beller (201 o).
3.
IL RAGIONAMENTO E LE SUE DISAVVENTURE
III
gionamento sviluppate nell'ambito di un dominio. E in effetti, questa difficoltà di trasferimento tra domini costituisce un fatto ben noto (Lai 2011 ). Ma altrettanto vale per la generalizzazione di schemi di ragionamento, ossia il trasferimento da un dominio più ristretto ad uno più ampio: ad ogni nuovo livello di astrazione, occorre un nuovo addestramento. Di più, la letteratura sul pensiero critico mostra che apprendere le regole corrette sul piano formale - le regole di inferenza deduttive, le leggi della probabilità - ha effetti molto modesti sulle capacità di ragionamento con materiali concreti. Come dire: nemmeno il trasferimento dal più generale al più specifico è qualcosa di immediato. La comprensione di un dominio tende a rimanere legata ali'esperienza che facciamo di esso. Un modo di guardare a questo complesso di cose è il seguente. È come se il ragionamento spontaneo fosse un'abilità non troppo differente dalla percezione. Non si tratta cioè di un processo di ricerca, attivo e faticoso, delle corrette relazioni tra premesse e conclusioni. Si tratta piuttosto di afferrare con un colpo d'occhio una configurazione, di riconoscere - per così dire - una fisionomia familiare. E questo richiede frequentazione abituale di specifici domini di fatti e oggetti, le cui fisionomie a quel punto sono riconosciute automaticamente e altrettanto automaticamente richiamano i relativi schemi. Ad esempio, quando leggiamo la regola «Se una persona sta bevendo birra, deve essere maggiorenne» e poi osserviamo la carta con su scritto «Ha 16 anni», vediamo immediatamente questa condizione come una possibile violazione della regola, e comprendiamo immediatamente che è necessario controllare se lo sia. Nei casi in cui lo schema appropriato ci manchi, adotteremo qualche altro schema a portata di mano - tra poco torneremo su questo. Ma in linea di massima, eviteremo di applicarci più a lungo e con attenzione al problema che ci si presenta. La soluzione deve essere qualcosa che «vediamo» subito.
3. 5 Vedere configurazioni, e gli scienziati ostinati Sull'importanza di quest'immagine del «vedere» per comprendere i fenomeni del ragionamento dovremo tornare. Essa suggerisce che quando siamo impegnati nel ragionamento spontaneo questo non ci
I 12.
RAZIONALI FINO IN FONDO
si manifesta con l'aspetto di una ricerca attiva di soluzioni, che potrebbe avere esiti diversi da quelli che di fatto ha. Piuttosto, di norma una certa maniera di vedere la situazione «salta agli occhi». Riconosciamo una configurazione come qualcosa di familiare, di ovvio. E se qualcuno dovesse spiegarci che le cose non stanno in quel modo, tenderemmo ad accogliere quella spiegazione con qualche resistenza. Avremmo la sensazione che essa non è «giusta»: ha qualcosa di innaturale, non combacia davvero con la situazione che stiamo considerando. Ad esempio, pensate di nuovo alla versione originale del compito di selezione, quella con lettere e numeri. Se non conoscevate già l'argomento, potreste avere risposto impulsivamente come molti dei soggetti originali: bisogna girare A e 5. In questo caso, la spiegazione di quale sia la risposta giusta e perché la vostra sia sbagliata probabilmente non vi avrà colpito come evidente ( «come ho fatto a non vederlo!»). Al contrario, è probabile che vi abbia lasciato una sensazione di disagio cognitivo. Uno studioso che ha elaborato ampiamente l'idea del ragionamento come riconoscimento di configurazioni è Margolis (19 87 )8 • Il suo magnifico libro illustra la propria tesi di fondo attraverso l'ampia analisi di esempi tratti dalla storia della scienza. Il che è particolarmente interessante perché la scienza ci appare come un caso prototipico di esercizio del pensiero razionale: in essa si cercano modelli corretti della realtà attraverso un metodo basato sull'esibizione esplicita dei propri ragionamenti, e sul loro controllo intersoggettivo. L'analisi di Margolis rende manifesto che anche nel cuore di un'attività di questo genere il ragionamento è soggetto ad automatismi di tipo quasi percettivo. Ossia, quando uno scienziato si abitua ad adoperare gli schemi forniti da una data teoria, tende a vedere la realtà attraverso quegli schemi. Essi, per quanto complessi, 8 Questo approccio ha un supporto teorico nella proposta di Cheng e Holyoak (198 5 ), che - come abbiamo visto - adoperano la nozione di «schema pragmatico» per spiegare le migliori prestazioni in compiti di ragionamento condizionale in specifici domini. In termini più generali, l'importan1.a della memoria semantica per il ragionamento condizionale è stata sostenuta da Markovits (2014). In entrambi gli studi si suggerisce che schemi e contenuti depositati in memoria siano cruciali nel ragionamento, in quanto facilitano il riconoscimento di configurazioni - in particolare, della struttura dei problemi logici. L'idea che ragionare sia in primo luogo contestuali1.1.are gli input (identificare loro contesti possibili) cosl da dare ad essi «senso» è stata sostenuta da Stanovich (1999) e da Evans (2006): si veda anche Thompson (2009: 185).
J.
IL RAGIONAMENTO E LE SUE. DISAVVE.NTURE
IIJ
diventano così familiari per lui che nell'interpretare i fenomeni li usa in modo fluido e immediato, senza neanche accorgersi di farlo. Gli sembra, semplicemente, ovvio che «le cose stanno così». E se emergono teorie alternative che gli chiedono di inquadrare quei fenomeni con schemi differenti, ciò susciterà in lui un senso di confusione e disagio cognitivo: percepirà in questo tentativo qualcosa di sbagliato. Di innaturale. Non dovrebbe sfuggirci il legame tra queste considerazioni e quello che abbiamo chiamato «il silenzio delle sensazioni». Una qualità dell'esperienza, ossia la familiarità di certi schemi di interpretazione e la fluidità del loro uso, tende a proiettarsi in giudizi oggettivi su come stanno le cose, su ciò che ci appare giusto o sbagliato. Attraverso queste considerazioni, Margolis fornisce una possibile spiegazione cognitiva di un puzzle che da tempo è discusso dai filosofi della scienza, in particolare dal notissimo libro di Thomas Kuhn La struttura delle rivoluzioni scientifiche (Kuhn 1962). Anche tra scienziati di prima grandezza, accade talvolta che chi è cresciuto in un certo paradigma di ricerca tenda a respingere nuovi approcci, di fronte alle crescenti evidenze in loro favore, con un'ostinazione che appare francamente irrazionale. Kuhn fa ampio uso della tesi del noto fisico Max Planck, secondo cui il trionfo di una nuova teoria assomiglia più a un caso di ricambio generazionale - la vecchia generazione è fisicamente sostituita da una nuova, cresciuta nel nuovo paradigma - che a un dibattito razionale in cui qualcuno viene convinto dagli argomenti più forti. Margolis osserva che la formazione di uno scienziato è un addestramento lungo e faticoso a leggere la realtà utilizzando certi schemi complessi. Questo produce un duplice effetto. Innanzitutto se uno scienziato, una volta formatosi in un paradigma, ne volesse acquisire e valutare uno nuovo, ciò comporterebbe da parte sua uno sforzo cognitivo importante e prolungato nel tempo. D'altra parte, mentre il vecchio paradigma funziona in modo fluido e gli trasmette sensazioni di correttezza, il nuovo che ancora non padroneggia gli trasmette viceversa sensazioni di disagio cognitivo. Perché dunque dovrebbe impiegare grandi quantità di tempo ed energie per imparare ad usare qualcosa che sembra così ovviamente sbagliato? La dinamica in questione può dunque essere sintetizzata così. Gli schemi di ragionamento abituali ci si presentano con un'automaticità
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che tende a fare scomparire dall'orizzonte le alternative: vediamo le cose in un certo modo. Al tempo stesso, ciò produce sensazioni di evidenza e correttezza che comunque tendono a far apparire eventuali alternative come ovviamente inferiori, se non semplicemente sbagliate. Questo tende a generare, persino nella scienza, fenomeni di ideologizzazione: i punti di vista tendono a produrre posizionamenti con i quali ci si identifica a livello personale, quasi morale9. Ora, come avremo modo di dire ampiamente, se una dinamica del genere si manifesta talvolta nella ricerca scientifica, è facile immaginare quanto essa possa diventare ingombrante nell'ambito del pensiero ideologico: cioè in un dominio nel quale l'attenzione è focalizzata proprio sull'adozione di punti di vista, e sui posizionamenti sociali e morali che ne derivano, piuttosto che su evidenze e argomenti a supporto di ciascun punto di vista.
3.6 Cercare conferme Abbiamo dunque tratto la prima lezione dal compito di selezione di Wason: il confronto tra alcune sue versioni mostra che la capacità di superarlo dipende dagli specifici contenuti piuttosto che dalla struttura logica. In definitiva, i soggetti hanno buone prestazioni quando il materiale è tratto da contesti di cui hanno esperienza, e per i quali hanno formato schemi che facilitano l'uso del modus tollens (tra poco vedremo meglio in che modo). Detto questo, c'è un altro filone di riflessione avviato dallo stesso Wason e legato alla seguente questione. Dando per acquisito che nella sua versione astratta il compito risulta difficile perché i soggetti non riescono a utilizzare il modus tollens, cosa ci dicono gli specifici errori commessi? Se infatti la combinazione di carte corretta è A e 2, i modi in cui i soggetti potrebbero sbagliare a causa del mancato uso del modus tollens sono diversi. Perché quasi tutti i soggetti sbagliano in uno di due modi, ossia scegliendo A soltanto (33 %), oppure A e 5 (46%)? L'ipotesi proposta da Wason (ad esempio, Wason 1968) è 9 ~ forse esemplare di questo atteggiamento la celebre frase con cui Albert Einstein, in una lettera a Niels Bohr, respingeva la teoria quantistica: «Dio non gioca a dadi con l'universo». ~ difficile non percepire in quell'affermazione una sfumatura morale, un posizionamento di ordine esistenziale.
3.
IL RAGIONAMENTO E LE SUE DISAVVHNTURE
II5
che i soggetti siano guidati dalla tendenza a cercare di verificare la regola piuttosto che falsificarla. Infatti se girando la A trovassimo un numero dispari, e se girando il 5 trovassimo una vocale, avremmo due carte che confermano la regola «se c'è una vocale su una faccia, c'è un numero dispari sull'altra». 10 Mentre, da questo punto di vista, girare B e 2 è del tutto inutile. I soggetti, insomma, non agiscono a caso. Cercano esempi della regola. Il problema è che il compito mira a qualcosa di diverso: vorrebbe mettere alla prova la capacità di cercare contro-esempi, non conferme. Questa tendenza a verificare, piuttosto che falsificare, un'affermazione è quello che oggi viene chiamato «bias della conferma». Nella sua rassegna sul tema, Klayman (1995) precisa che si tratta di un fenomeno multiforme, spesso indipendente da fattori motivazionali. In altri termini, non è che i soggetti abbiano preferenze per certe affermazioni, e cerchino perciò di confermarle. Sembra piuttosto trattarsi di inclinazioni superficiali, puramente cognitive. È questo il caso del compito di selezione di Wason: i soggetti non hanno alcun motivo personale per preferire che la regola appena appresa sia verificata, piuttosto che falsificata. Semplicemente, in assenza di uno schema che li aiuti ad applicare automaticamente il modus tollens ricorrono a una strategia di ragionamento più semplice. Nondimeno, anche se il bias della conferma nella sua forma tipica prescinde da aspetti motivazionali, esso può sommarsi ad altri fenomeni che coinvolgono le motivazioni. Prendiamo ad esempio il caso precedentemente discusso degli scienziati che resistono al cambiamento perché formatisi dentro una certa teoria. Essi vedono la realtà attraverso le lenti di quella teoria, e la qualità soggettiva di questa visione - quanto la visione appare familiare ed evidente determina un giudizio circa la validità della teoria che viene scambiato per oggettivo. Ma poiché questa preferenza consapevole per una teoria contribuisce a scoraggiare lo sforzo di acquisire teorie alternative, gli scienziati in questione tendono a non formare schemi atti a facilitare la ricerca di contro-esempi. In tal modo, aspetti motivazionali e aspetti cognitivi possono congiurare nel preservare la teoria da possibili falsificazioni. 10
Di nuovo, stiamo ignorando alcune complicazioni legate all'interpretazione del condizionale in logica (vedi sopra nota 5).
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Detto questo, è utile comprendere meglio cosa sia in gioco nel bias della conferma; per farlo, guarderemo al ruolo che esso svolge nella costruzione di conoscenza a partire dall'esperienza.
3. 7 Controesempi visibili e invisibili
Nella nostra esperienza, è razionale cercare di confermare piuttosto che falsificare un'affermazione? La risposta non è univoca. Consideriamo un esempio del genere. Sediamo in sala da pranzo, e ci viene detto: «se apri la finestra si fa corrente». Come posso vedere se è vero? Ovviamente, aprendo la finestra. Rispondere A, nella versione originale del compito di selezione, corrisponde in effetti a questa strategia. Certo, nell'esempio della finestra vi è un unico caso da controllare, e pertanto è sufficiente aprire la finestra per controllare tutto quello che occorre: o si fa corrente, e il condizionale è verificato, oppure non si fa corrente ed allora il condizionale è falsificato. Il compito di selezione è diverso in quanto i casi da controllare sono quattro, ossia le quattro carte. E, come già notato, il problema riguarda non la A ma la seconda delle due carte da girare. Riguardo a questa pluralità di casi da controllare, si aprono due questioni un po' diverse. La prima questione riguarda un aspetto specifico della struttura del compito. Un punto che non dovremmo ignorare è che il compito coinvolge il modus tollens solo perché il conseguente («è un numero dispari») individua uno di due insiemi complementari 11 • È come se si dicesse ai soggetti: «se su una faccia c'è una vocale, sull'altra c'è un numero dispari e non un numero pari». Se così non fosse, se cioè si trattasse non di due insiemi complementari bensì di due categorie qualsiasi, il modus tollens non si applicherebbe. Per vederlo basta un semplice esempio in cui non sono in gioco insiemi complementari. Consideriamo la regola «se apri la finestra, si fa corrente», e le carte che seguono: 11 In un condizionale si chiama «antecedente» la proposizione preceduta dal «se», e «conseguente» la proposizione che di solito si fa precedere da «allora». Inoltre, due insiemi si dicono complementari se insieme esauriscono l'universo di discorso. Pari e dispari sono tra loro complementari, perché nell'universo di discorso pertinente ciascun individuo o è pari, o è dispari, e non ci sono altri casi.
3.
IL RAGIONAMENTO E LE SUE DISAVVENTURE
Apri finestra
Spe1nl frl10
Il cibo si rovina
Slfa corrente
In un caso del genere, per controllare la regola è irrilevante girare «Spegni frigo», proprio come nel test di Wason è irrilevante girare B. Ma qui è altrettanto irrilevante girare «Il cibo si rovina», a differenza di quanto accade nel test di Wason con il 2. La ragione è che mentre nel test di Wason il 2 vale come «non Q» (ossia, non pari), in questo caso «Il cibo si rovina» non è la negazione di «Si fa corrente»: i due fatti sono del tutto indipendenti, ossia tra loro non c'è alcuna relazione logica. Per avere una situazione analoga al test di Wason dovremmo semmai modificare le carte, ad esempio, nel seguente modo:
Apri finestra
Non apri finestra
Non si fa corrente
Slfa corrente
Qui «Non si fa corrente» è logicamente equivalente al 2 nel test di Wason: ovvero, per controllare se la regola vale, oltre ad «Apri finestra» occorre girare «Non si fa corrente» - in quanto negazione di «Si fa corrente». Tuttavia, modificato in questo modo il test è certamente più facile da risolvere che nella versione di Wason. Pensate di nuovo alla regola: «se apri la finestra, si fa corrente». In questo caso, non trovate abbastanza chiaro che per controllare la regola occorre girare la carta «Non si fa corrente»? C'è una semplice ragione per questo: qui c'è un passaggio cognitivo in meno, anche se la struttura logica è la medesima. Insomma, nel test di Wason dobbiamo capire che il 2 vale «non Q». Qui non c'è bisogno di capirlo: lo vediamo. È immediatamente visibile che «Non si fa corrente» è la negazione di «Si fa corrente». Invece, nel test di Wason per capire che 2 vale «non dispari» occorre un passaggio inferenziale.
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RAZIONALI FINO IN FONDO
Intendiamoci: è un passaggio banalissimo! Tutti siamo capaci di riconoscere che 2 è non-dispari. Il problema però è che dovremmo effettuare questo riconoscimento mentre le nostre capacità cognitive sono impegnate a fare altro. L'attenzione è infatti focalizzata sulla regola. In queste condizioni, siamo in grado di applicare il modus tollens solo se possiamo contare su una facilitazione: bisogna che sia immediatamente evidente che, rispetto alla regola, una delle scelte possibili conta come «non Q» - o come si dice tecnicamente, conta come «negazione del conseguente». Questo spiega anche perché il compito di selezione è facilitato nei contesti deontici - ossia, quando si tratta di regole come «Se una persona sta bevendo birra, deve essere maggiorenne» o «se vuoi andare fuori a giocare, devi prima fare i compiti». Queste regole innescano aspettative d'abitudine circa il tipo di soggetti che potrebbero violare le regole (minorenni vogliosi di birra, figli svogliati nel fare i compiti), ossia pre-attivano categorie appropriate a svolgere il ruolo di «non Q ». In altri termini, accorciano il percorso mentale necessario per applicare il modus tollens, rendendo immediatamente riconoscibile l'istanza che conta come negazione del conseguente. In tal modo ci rendono immediatamente visibile la struttura del modus tollens, e dunque la soluzione del problema.
3.8 Il venerabile problema dell'induzione Riassumiamo il punto a cui siamo arrivati. Per spiegare le specifiche scelte dei soggetti nel compito di selezione abbiamo introdotto il bias della conferma, e ci siamo quindi chiesti se esso sia razionale. Abbiamo visto che, quando si tratta di casi singoli, potrebbe non esserci differenza tra cercare di confermare e cercare di falsificare l'ipotesi, dunque il problema non si pone. Il compito di selezione pone un problema in quanto bisogna controllare se la regola vale rispetto ad una pluralità di casi. Questo ci ha portato a riflettere su un aspetto della struttura del compito: in esso è difficile capire che dovremmo usare il modus tollens (ossia controllare eventuali contro-esempi) quando, tra i casi che abbiamo davanti, non riconosciamo immediatamente i possibili contro-esempi. Se invece la precedente esperienza con quei contenuti ci suggerisce che
3•
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qualcosa è un possibile contro-esempio (ce lo fa vedere come tale), allora ricorrere al modus tollens ci viene abbastanza naturale. Questo rafforza l'interpretazione del ragionamento come una forma di percezione - di riconoscimento di configurazioni. Vorrei adesso considerare un altro aspetto legato alla pluralità dei casi interessati da un'ipotesi. Il punto è che nella nostra esperienza abbiamo a che fare raramente con generalizzazioni che non ammettono eccezioni1 2 • Questo spesso è vero anche nella ricerca scientifica: molte generalizzazioni hanno valore statistico, non valgono in assoluto. In casi del genere è chiaro che l'accumulo di evidenze positive ha comunque un peso: aumenta il valore di generalità dell'ipotesi, pur senza mostrare che non vi siano eccezioni. La ricerca di conferme non è dunque un errore in sé. Essa è piuttosto una procedura standard - per così dire - del nostro sistema cognitivo, che è sensibile all'accumulo di evidenze in favore di certe generalizzazioni. Il nostro cervello è, innanzitutto, una macchina per la ricerca di regolarità nell'ambiente - una macchina per generare «induzioni», ossia generalizzazioni da casi particolari. Non è dunque strano che vada in cerca di ciò che si conforma a regolarità precedentemente individuate - anche a costo di ignorare occasionali eccezioni. Naturalmente ci sono casi in cui, viceversa, è utile essere sensibili a ciò che non si conforma a certe regolarità. Questo è esattamente quello che accade nel dominio deontico. Scoprire qualcuno che imbroglia - che beve la birra quando non dovrebbe, che cerca di andare a giocare senza avere fatto i compiti - è rilevante per la nostra vita associata. In questi casi non ci interessa tanto capire cosa si conforma alla regola, quanto piuttosto cosa la viola: i contro-esempi, appunto. Altri contesti nei quali siamo interessati a cercare contro-esempi sono decisamente più settoriali. Si tratta soprattutto di attività come la ricerca scientifica, o la filosofia: attività nelle quali andiamo in cerca di generalizzazioni possibilmente prive di eccezioni. O più esatta-
12 Con questo tema, ci stiamo lasciando alle spalle il compito di selezione di Wason. Esso, infatti, ha sl a che fare con una pluralità di casi, ma una pluralità chiusa: le quattro carte del compito. ~ solo rispetto a queste che si chiede ai soggetti di valutare se la regola valga. Uno dei possibili errori commessi dai soggetti, che li spinge a cercare conferme piuttosto che contro-esempi, è l'interpretare il compito come se la regola fosse una generaliz1.a1jone induttiva su un numero indefinito di carte. In tal caso, avrebbe senso considerare quanto ampiamente la regola è confermata.
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mente. Come dicevo, molte generalizzazioni scientifiche ammettono eccezioni. Quello che spesso accade è che una generalizzazione di forma « Tutti gli A sono F» vale date certe condizioni che possono essere localmente assenti. Nondimeno, gli scienziati usano il metodo della ricerca di falsificazioni per un'ottima ragione: da esso imparano di più. Una conferma aggiunge solo un granello di maggiore robustezza ad una generalizzazione induttiva, ma non la dimostra mai del tutto. Una falsificazione, invece, consente di acquisire una nuova conoscenza tra queste due: o l'ipotesi che abbiamo sottoposto a verifica è sbagliata; o essa ammette eccezioni, e dunque vale solo sotto certe condizioni che vanno specificate. In ciascuno di questi due casi, abbiamo imparato molto. Rimane il fatto che cercare di falsificare le ipotesi non è quel che ci viene naturale. Come abbiamo osservato, le abitudini di ragionamento degli scienziati e dei filosofi richiedono un lungo e faticoso addestramento. Una ragione è appunto questa: ragionare per contro-esempi è complicato per il nostro sistema cognitivo. Di per sé, nel ragionamento spontaneo, tende a prevalere piuttosto il bias della conferma. Detto questo, che bilancio possiamo trarre dalla precedente discussione? La nostra tendenza spontanea verso la ricerca di conferme è razionale o irrazionale? Essa non è del tutto irrazionale, nella misura in cui può contribuire ad accrescere il grado di conferma di un'ipotesi. Tuttavia, in linea con una tesi di fondo di questo libro, non dovremmo accontentarci che i meccanismi automatici producano, talvolta o spesso, risultati corretti. Ci sono diversi casi nei quali la ricerca di conferme piuttosto che di contro-esempi ha conseguenze spiacevoli. Vediamone qualcuno.
3. 9 Stereotipi, prototipi, e convivere con le eccezioni Il bias della conferma è parte di un insieme di inclinazioni cognitive che favoriscono gli stereotipi e il pensiero stereotipico. Qui si apre una questione delicata, che è bene analizzare un po' più ampiamente. La nozione di stereotipo porta spesso con sé una connotazione negativa: ossia, avere una rappresentazione stereotipata (o stereotipica) di una certa categoria sociale viene spesso iden-
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tificato con l'avere pregiudizi nei confronti di quella categoria 1 J. Quindi, dicendo che il bias della conferma è legato al pensiero per stereotipi sto probabilmente richiamando nella mente del lettore una simile connotazione negativa. In effetti, è quel che intendevo fare. Non a caso, ho parlato di «conseguenze spiacevoli» del bias. Questo però non significa che dobbiamo adottare una nozione di stereotipo del tutto negativa. Per cominciare, esistono anche stereotipi positivi: dire che i francesi sono romantici, o che l'Italia è il paese della cultura, può apparire più o meno condivisibile e accurato, ma si tratta di stereotipi che di per sé non intendono veicolare pregiudizi negativi. Ma il punto importante è un altro. Se gli stereotipi in alcuni casi veicolano pregiudizi infondati e moralmente condannabili (pregiudizi razzisti, ad esempio), questo non è che un effetto collaterale di un meccanismo in sé ampiamente razionale. Quindi, il bias della conferma ha effetti spiacevoli non perché contribuisca a produrre stereotipi, ma perché alcuni di questi veicolano pregiudizi. Perché dico che i meccanismi produttori di stereotipi sono ampiamente razionali? Perché essi sono basati su due tendenze che sono essenziali per la formazione di conoscenze: la tendenza a riconoscere regolarità, formando generalizzazioni; e quella a «convivere con le eccezioni», ossia non rinunciare alle generalizzazioni a causa di contro-esempi più o meno isolati. Che la conoscenza sia basata sul riconoscimento di regolarità non dovrebbe richiedere particolare giustificazione. Quanto al convivere con le eccezioni, lo abbiamo già osservato: persino nella scienza è raro che una generalizzazione appaia priva di eccezioni. Thomas Kuhn, nel già citato LA struttura delle rivoluzioni scientifiche, lo ha formulato in maniera memorabile. Criticando la tesi di Popper secondo cui la scienza progredisce attraverso la falsificazione delle teorie - e la loro sostituzione con nuove teorie non ancora falsificate -, Kuhn osserva che le teorie spesso nascono già falsificate. Ovvero, nel momento stesso in cui si formula una possibile generalizzazione, spesso si conoscono già casi particolari che sembrano non adattarsi ad essa. Pertanto, una teoria scientifica si sviluppa tollerando eccezioni - Kuhn le chiama «anomalie» o «rom•3 Questo nesso tra stereotipi e pregiudizi è effettivamente enfatiZ1.ato dalla ricerca nelle scienze sociali, già a partire dagli studi pionieristici di Walter Lippmann intorno al
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picapo» (puzzles)- e cercando modi per spiegarle: cercando soluzioni per quei rompicapo. Anche tra le teorie dei concetti ha un certo supporto l'idea che un concetto è una rappresentazione mentale «a prototipo»: una struttura di rappresentazione caratterizzata da una collezione di proprietà tipiche, ma non necessariamente presenti14. Ad esempio, un cane ha tipicamente la coda, ma esistono razze senza coda, e anche singoli individui a cui può mancare la coda per qualche accidente. Uno stereotipo non è molto diverso da quello che in teoria dei concetti viene chiamato prototipo, o da una legge scientifica che ammette eccezioni. È una generalizzazione più o meno accurata a seconda che il numero delle eccezioni sia più o meno ampio. Dunque, non solo è razionale che le persone tendano a costruire stereotipi - nel senso di generalizzazioni con eccezioni. Lo è anche che preferiscano mantenere le proprie generalizzazioni di fronte a contro-esempi. Non è, dopotutto, quello che accade con i prototipi (un cane rimane un cane anche senza coda)? E non è quello che fanno gli scienziati, quando lavorano per risolvere le «anomalie» di una legge generale, piuttosto che gettare via la legge al primo contro-esempio? Ma se le cose stanno così, cosa c'è dunque che non va negli stereotipi? Una prima questione, di natura quantitativa, l'abbiamo già sollevata parlando degli scienziati che resistono al cambiamento teorico. Vi è una relazione inversa tra la quantità di contro-esempi e il grado di fiducia che dovremmo avere verso una generalizzazione: più sono i contro-esempi, meno possiamo fidarci della generalizzazione. Sebbene dunque potrebbe essere arduo individuare una soglia precisa, è chiaro che al crescere del numero di contro-esempi diventa sempre più irrazionale pretendere di salvare una generalizzazione. Qui però sorge un problema. Nella nostra esperienza ordinaria, a differenza della pratica scientifica, non andiamo in cerca in modo sistematico dei contro-esempi né costruiamo appositamente situazioni che potrebbero falsificare le nostre convinzioni. Stando così le cose, quante possibilità ci sono di imbattersi spontaneamente in qualcosa che metta in discussione le nostre generalizzazioni? Molti stereotipi,
•• Un testo classico di questo approccio, promosso soprattutto dalle ricerche di Eleanor Rosch, è Rosch (1978).
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poi, riguardano gruppi sociali che conosciamo e frequentiamo poco, e in questi casi avremo poche occasioni di incontrare contro-esempi. Ma c'è di peggio. Non solo i contro-esempi capaci di farci mettere in discussione gli stereotipi potrebbero scarseggiare nella nostra esperienza. È inoltre possibile che gli stereotipi ricevano continue conferme a causa di alcuni meccanismi cognitivi in sé positivi ma capaci di produrre effetti perversi.
3. 1 o Menti comunicanti Ho già detto che il nostro cervello è una macchina per cercare regolarità e produrre generalizzazioni. Tuttavia, le regolarità non sono sempre significative: alcune potrebbero risultare addirittura fuorvianti. Vediamo perché. Un fatto importante per la nostra specie è che costruiamo conoscenza in modo collettivo, al punto che spesso facciamo fatica a distinguere tra quel che sappiamo noi e quello che sanno gli altri. La natura collettiva della conoscenza e del pensiero è diventata negli ultimi anni un tema di moda. Nel loro bel libro, Sloman e Fernbach (2017) mostrano con una quantità di esempi come questo fenomeno produca una sistematica «illusione di conoscere»: quasi su ogni argomento crediamo di sapere molto più di quello che risulta non appena dobbiamo rispondere a una domanda un po' precisa (come funziona lo sciacquone, o la bicicletta? Come si è sviluppata la Rivoluzione francese?). La causa di quest'illusione è verosimilmente la sensazione di partecipare al sapere distribuito nella nostra comunità. Dato che la bicicletta è un oggetto di uso così comune, e che la Rivoluzione francese è studiata in ogni classe di scuola superiore, come potremmo non sapere piuttosto precisamente di cosa si tratta? Non è difficile riconoscere in questo fenomeno una delle molte manifestazioni del «silenzio delle sensazioni»: familiarità e agio cognitivo ci comunicano qualcosa, ma in modo reticente e potenzialmente fuorviante 1 5. •s L'espressione «agio (cognitivo)» in italiano è piuttosto non-standard, ma ai miei occhi ha il pregio di proiettare la simmetria tra sentirsi a disagio/a proprio agio sulla coppia sentire disagio/agio. La userò tra l'altro per tradurre in italiano l'espressione «cognitive case» adoperata da Kahneman, che invece comprensibilmente il traduttore italiano preferisce rendere con «fluidità cognitiva».
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Sloman e Rabb (2016) hanno fornito una dimostrazione sorprendente di questa tendenza a percepire ciò che sanno gli altri come se fosse automaticamente qualcosa che sappiamo anche noi. In una serie di esperimenti, hanno fornito ai soggetti descrizioni piuttosto incomprensibili di presunti fenomeni naturali, quindi hanno testato la sensazione dei soggetti di comprendere quelle descrizioni in due condizioni differenti: in una si diceva che gli scienziati avevano compreso quei fenomeni, nell'altra che non li avevano compresi ancora. Bene, i soggetti davano un punteggio sensibilmente più alto alla propria sensazione di comprensione nella prima condizione rispetto alla seconda. È come se avessimo la tendenza a pensare le nostre menti e quelle altrui come direttamente comunicanti. Si consideri cosa questo potrebbe significare dal punto di vista della circolazione di stereotipi. Se qualcuno fa una certa affermazione, e non abbiamo specifiche ragioni per diffidarne, tendiamo ad accoglierla tra le nostre credenze. Non è forse vero che quando non sappiamo la strada chiediamo informazioni al primo sconosciuto, e ci fidiamo di quel che dice? Immaginate poi se sentiamo riferire una notizia molte volte, magari da persone differenti in momenti differenti. Non solo tendiamo a crederla: di più, è come se le diverse testimonianze fossero altrettante conferme della notizia. Più lo sentiamo dire, più cresce il senso di familiarità, e con esso il senso di affidabilità. Insomma, per un verso tendiamo a trattare la testimonianza degli altri come equivalente a un'esperienza diretta: entrambe producono un nostro sapere. Per un altro verso, la ripetizione delle notizie aumenta la loro credibilità, ma in modo ambiguo e potenzialmente fuorviante. Si ricordi che le sensazioni di familiarità sono reticenti sulla loro origine. Pertanto, esse non consentono di discriminare tra i seguenti casi: i) ho fatto esperienza diretta di vari episodi che confermano la generalizzazione P; ii) mi hanno riferito vari episodi che confermano P; iii) ho sentito riferire da fonti diverse un singolo episodio che conferma P. Tanto meno il senso di familiarità è in grado di distinguere tra il caso in cui le diverse fonti sono indipendenti (ciascuna si basa sull'esperienza diretta), e quello in cui ciascuna fonte si limita a ripetere quello che sente dire dagli altri. Tutto questo suggerisce che gli stereotipi siano soggetti a un serio rischio cognitivo: quello di ricevere continue «pseudo-conferme».
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Ossia, ripetizioni che solo per errore interpretiamo come conferme induttive 16 • Il quadro tracciato fin qui è dunque il seguente. Innanzitutto, potremmo non avere molte occasioni di imbatterci in contro-esempi dei nostri stereotipi. E, peggio, potremmo scambiare il rimbalzo dei pettegolezzi come un accumulo di evidenze in loro favore. Non è un bel quadro. Ma non è finita qui.
3. 1 1 Reti associative che non vogliono avere torto
Fin qui abbiamo considerato un aspetto puramente quantitativo del fenomeno: ossia se l'accumulo di contro-esempi (o conferme) possa indurci a rivedere (o al contrario rafforzare) i nostri stereotipi. Ma nelle manifestazioni del pensiero stereotipico c'è una differente questione, un po' più sottile. Consideriamo un esempio. Supponiamo che la generalizzazione «Gli A sono distratti» sia corretta con un 13 % di eccezioni, e assumiamo che questa percentuale non sia così alta da rendere la generalizzazione irrazionale. Dal punto di vista quantitativo, dunque, la generalizzazione è giustificata. Consideriamo adesso la seguente conclusione derivata da essa: «Poiché gli A sono distratti, è inutile cercare di educarli a fare attenzione». Per sapere se essa è giustificata, è rilevante chiedersi quale fattore renda conto dei contro-esempi (ossia del fatto che il 13 % degli A non sono distratti). Se ad esempio dovesse risultare che ciò dipende dall'educazione (questi soggetti hanno ricevuto un addestramento a fare attenzione), allora dovremmo abbandonare la conclusione: tutt'al contrario, sembra che educare gli A a fare attenzione sia decisamente utile. Cosa ci insegna questo esempio? Che anche se una generalizzazione è quantitativamente giustificata, tener conto dei contro-esempi è comunque importante. Se non lo si fa, si rischia di trarre conclusioni non giustificate dalle generalizzazioni. Ma quanto è probabile che, nel derivare conclusioni dalle generalizzazioni, siamo capaci di tenere conto dei contro-esempi? 16 Questo fenomeno è un aspetto del problema, di grande attualità, delle «bolle epistemiche» sui social media. Le nostre opinioni sono rinforzate dal frequentare cerchie di persone che le condividono. Uno dei modi in cui ciò accade, anche se non necessariamente il più importante, è proprio l'effetto di pseudo-conferma induttiva qui descritto.
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È lecito un certo pessimismo al riguardo. Lo abbiamo già visto a proposito del compito di selezione di Wason: la principale difficoltà che esso pone consiste appunto nel fatto che ci viene difficile richiamare i contro-esempi nel ragionamento - a meno che questa capacità sia stata specificamente addestrata nel dominio in questione. In caso contrario, prevale un meccanismo più semplice: il bias della conferma. Che sia più semplice è ovvio. Una generalizzazione richiama immediatamente istanze che la verificano, in base ad un banale meccanismo di coerenza associativa. Kahneman (2011: 91) ha proposto il seguente esempio. Supponiamo che ci venga posta la domanda «Sam è cordiale?». Gli esempi del comportamento di Sam che ci verranno in mente in questo caso - a meno che abbiamo forti e/o recenti esperienze del contrario - sono tendenzialmente diversi da quelli che verrebbero in mente se ci fosse stato chiesto «Sam è sgarbato?». Questa è la ragione per cui (laddove non abbiamo un'immagine molto precisa di noi stessi) nei test sulla personalità tendiamo a rispondere positivamente a domande tra loro opposte, come «sei timido?» e «sei sicuro di te?»: ciascuna attiva il ricordo di episodi in cui siamo stati timidi, o al contrario sicuri di noi. A ben vedere, si tratta dello stesso meccanismo incontrato parlando del priming. La memoria associativa collega i contenuti di memoria innanzitutto in base a legami di coerenza, e ciò che è più coerente è perciò richiamato in modo più pronto. In base a considerazioni del genere, Kahneman sostiene che il bias della conferma è una manifestazione particolare di un fenomeno più generale: il ragionamento spontaneo nel suo complesso è un «meccanismo per saltare alle conclusioni», basato su un principio di coerenza associativa. Kahneman è uno dei sostenitori del modello duale del ragionamento, di cui diremo più avanti: distingue cioè tra ragionamento spontaneo - a cui si riferisce come al «Sistema 1 » - e ragionamento riflessivo - che chiama «Sistema 2». Nel quadro che propone, il Sistema I è governato dal meccanismo della coerenza associativa, che tende naturalmente ad accettare ciò che meglio si conforma alle sue aspettative. Con le sue parole: «Il sistema 1 è sprovveduto e tende a credere, il Sistema 2 ha il compito di dubitare e non credere, ma a volte è indaffarato e spesso è pigro» (Kahneman 2011: 91). Insomma, gli automatismi del Sistema I tendono a governare il ragionamento, e lo fanno cercando coerenza e conferme. Ecco un esempio di come potrebbe funzionare:
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Consideriamo la frase «Mindik sarà una buona leader? E. intelligente e forte... ». Ci viene subito in mente una risposta: sì. Abbiamo scelto la migliore risposta che potessimo scegliere basandoci sulle pochissime informazioni disponibili, ma siamo saltati alle conclusioni. E se gli aggettivi seguenti fossero stati «corrotta» e «crudele»? Prendi nota di quello che non hai fatto mentre pensavi per breve tempo a Mindik come a una leader. Non hai cominciato col chiederti «Che cosa avrei bisogno di sapere prima di farmi un'opinione della qualità della leadership di qualcuno?». Il Sistema I si è messo al lavoro per proprio conto fin dal primo aggettivo: «intelligente» va bene, e «intelligente e forte» va ancora meglio. I! la storia migliore che si possa elaborare a partire da due aggettivi e il Sistema I l'ha elaborata con estrema fluidità cognitiva. {Kahneman 2011: 96)
Un aspetto importante di questo modo di procedere è che i meccanismi associativi lavorano con quel che hanno immediatamente a disposizione, senza provare a guardare al di là. Kahneman si riferisce a questo fenomeno con la sigla WYSIATI, abbreviazione di What You See 1s Ali There 1s: quello che vedi è tutto quel che c'è. Se un'informazione è, anche solo di poco, meno immediatamente disponibile - come potrebbe essere un contro-esempio rispetto alla conferma di una generalizzazione - tende a non essere richiamata. Essa non entra a far parte della «storia che ci raccontiamo». Via via che riceve nuova informazione il Sistema 1 aggiorna il quadro della situazione, ma lo fa usando solo le informazioni più a portata di mano. Meno che mai esso va in cerca attivamente di informazione potenzialmente in contrasto con la storia che ha appena costruito.
E. la coerenza, non la completezza delle informazioni, che conta per una buona storia. Anzi, si scopre spesso che sapere poco rende più facile integrare tutte le informazioni in un modello coerente. {Kahneman 2011: 98)
Ma la storia che costruiamo è poi quella in base alla quale traiamo le nostre conclusioni.
3. 12 Stereotipi buoni, stereotipi cattivi È venuto il momento di fare il punto della situazione. Il compito di selezione di Wason ha mostrato che il ragionamento spontaneo è governato dal bias della conferma, mentre incontra
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significative difficoltà nell'uso dei contro-esempi. Questa tendenza si manifesta anche nel modo in cui formiamo generalizzazioni, e le adoperiamo nel ragionamento. I nostri cervelli sono macchine che vanno in cerca di regolarità, e tollerano le eccezioni. Ciò produce rappresentazioni a prototipo, e stereotipi sociali: generalizzazioni da cui traiamo conclusioni, ignorando tendenzialmente i contro-esempi. D'altra parte, alcuni stereotipi tendono ad essere rafforzati a causa di specifici meccanismi sociali: per un verso, riguardano gruppi di cui abbiamo poca esperienza, dunque è difficile imbattersi in controesempi; per un altro verso, siamo ripetutamente esposti a racconti che confermano lo stereotipo, il che produce un effetto di pseudoconferma induttiva. Se a questo aggiungiamo i meccanismi di coerenza associativa - in virtù dei quali tendiamo a formare storie coerenti, evitando di mobilitare i contro-esempi nel ragionamento - appare evidente che gli stereotipi possono diventare un potente fattore di distorsione nel ragionamento spontaneo. Da essi rischiamo di trarre una quantità di conclusioni indebite. Ma con tutto questo, sosterrò, abbiamo solo grattato la superficie del problema. Abbiamo infatti considerato solo i suoi aspetti cognitivi, tralasciando la dimensione motivazionale. Ossia non abbiamo considerato l'intero dominio dei fenomeni legati al desiderio (nello specifico, il desiderio di credere qualcosa), e in particolare al ruolo che le credenze hanno nella costruzione delle identità ideologiche. Come vedremo ampiamente, qui c'è una molla potentissima a formare stereotipi, e produrre pensiero stereotipico. Una molla così potente da farci formare generalizzazioni di forma «Gli A sono F» anche in casi nei quali gli A che sono F, di fatto, sono una minoranza. E persino in casi nei quali nessun A è letteralmente un F. Vedremo qualche esempio in proposito. Insomma, la complessiva immagine che propongo del ragionamento basato su stereotipi non è di certo incoraggiante. Questo pessimismo è giustificato? In un bel libro recente, Lee Jussim ha risposto negativamente: con le sue parole, «c'è più accuratezza negli stereotipi di quanto gli scienziati sociali di solito ammettano» Uussim 2012: 10; questa traduzione e le altre dal libro sono mie). Con questa difesa degli stereotipi Jussim assume dichiaratamente una posizione «panglossiana», contro il pessimismo che domina il dibattito sulla razionalità: «la psicologia sociale e la psicologia cognitiva sono piene
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di ricerche che enfatizzano gli errori e i bias» (ivi: 11). La visione del soggetto che ne deriva, dice Jussim, è quella della «bassa potenza» (il testo usa l'espressione metaforica «low wattage» ): l'idea che le nostre prestazioni cognitive siano perlopiù caratterizzate da bassi livelli di energia, attenzione, e razionalità. In contrasto, la concezione minoritaria dell'alta potenza [high wattage ], alla quale aderisco ampiamente, sostiene che sebbene le persone non siano certamente perfette e siano soggette a bias ed errori sistematici e irrazionali, esse sono socialmente perspicaci e mirano a negoziare la realtà sociale in modo accurato. (lvi: 5)
Questo quadro è corretto? Personalmente ritengo di sì. Jussim vorrebbe però trarne la conclusione che si debba rigettare l'approccio che enfatizza pessimisticamente errori e bias. Egli osserva correttamente che il dibattito sulla razionalità ricorda da vicino la faccenda del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto; ma, nondimeno, rifiuta l'idea che la verità stia nel mezzo. A suo giudizio, alla fine della fiera i dati psicologici e delle scienze sociali «ineluttabilmente portano alla conclusione che il bicchiere è pieno al 90%» (ibid.). Sono consapevole che cercare di tenere la barra al centro rischia di sembrare un'astuzia retorica, o peggio un'ingenuità teorica: quella di pensare che sia possibile eludere la necessità di posizionarsi teoricamente. Penso tuttavia che molte nostre descrizioni dei fenomeni siano complementari, e ci appaiano come incompatibili solo in quanto siamo affetti da un bias ideologico: una compulsione ad assumere che, se ci sono due posizioni, una debba essere giusta e l'altra sbagliata (ne parleremo in seguito). In questo potrebbe giocare anche un bias della conferma, con la connessa tendenza a visioni semplificate per eccesso di coerenza. Nello specifico, osservo che Jussim, nel delimitare l'ambito dei fenomeni sociali di cui intende occuparsi, dichiara che essi non includeranno «pregiudizi, discriminazione, razzismo, sessismo» (ivi: 9 ). Dovrebbe essere chiaro che in tal modo si smussano inevitabilmente molti angoli delle questioni che qui ci stanno a cuore. Naturalmente, una simile delimitazione dell'obiettivo teorico è del tutto legittima, e consente comunque di mostrare ciò che interessa a Jussim: che formiamo un robusto nucleo di stereotipi sociali accurati quanto basta. D'altra parte, questa conclusione è coerente con quanto affermavo
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sopra: gli stereotipi sono il prodotto di meccanismi - l'individuazione di regolarità, la tolleranza dei contro-esempi - attraverso cui costruiamo conoscenza valida. Dunque, che gli stereotipi forniscano un'ampia base di conoscenze accurate non deve sorprenderci. Ma per respingere la prospettiva che difendo qui occorre di più. Occorre dimostrare che, data questa robusta base di conoscenze accurate, non si dà il caso che qualcosa ad un certo punto vada storto: che intorno a quelle conoscenze non tende cioè a prodursi un'ampia frangia di credenze ingiustificate e di ragionamenti scorretti, di quelli che tipicamente alimentano fenomeni di radicalizzazione dei conflitti. Di certo, nel libro di Jussim non c'è alcuna dimostrazione di questo. Stando così le cose, non vedo ragione per rinunciare alle ragioni di pessimismo analizzate qui sopra (nei§§ da 3.9 a 3.11), e a quelle anche più forti che analizzeremo in seguito. È vero che molti nostri stereotipi sociali sono piuttosto accurati e affidabili. Ma è altrettanto vero che gli stereotipi sociali producono effetti irrazionali in una quantità di occasioni, nel dibattito pubblico come negli scambi privati. Per quanto posso giudicare, l'impressione che ci siano in giro molte manifestazioni di simili irrazionalità non è una semplice illusione prospettica.
3. 13 Associazioni che sparano
Il compito di selezione di Wason ci ha dato modo di illustrare i problemi incontrati dal paradigma logicista, e introdurre contestualmente l'approccio basato su euristiche e bias. Ci siamo soffermati in particolare sul bias della conferma - ma abbiamo introdotto di passaggio anche il bias della credenza. È venuto il momento di esaminare in termini più generali questo approccio, che viene così introdotto dall'ottimo manuale di Girotto sul ragionamento: le inferenze dei soggetti non esperti dipendono dall'attivazione di euristiche, cioè di procedure non sistematiche di soluzione dei problemi, il cui uso non garantisce sempre il raggiungimento della soluzione normativamente corretta, anzi, in alcuni casi, fa produrre degli errori sistematici (biases). Per esempio, i giudizi sulla probabilità che si verifichi un dato evento possono dipendere dall'attivazione di un 'euristica, detta della «disponibilità»,
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che ci porta a giudicare più probabili gli eventi che ci vengono più facilmente in mente. (Girotto 1994: 26)
L'euristica della disponibilità è effettivamente uno degli esempi centrali di questo approccio, nonché uno dei primi ad essere analizzati dagli studiosi che hanno dato avvio ad esso: Amos Tversky e Daniel Kahneman. In un loro studio (Tversky e Kahneman 1973), ad un gruppo di soggetti (di lingua inglese) si chiedeva di provare a stimare quante parole di sette lettere terminanti in «-ing» si possono trovare in un certo numero di pagine scelte a caso in un romanzo in inglese, mentre ad un altro gruppo si poneva la medesima domanda, con un'unica differenza: invece che terminare in «-ing», le parole dovevano avere una «n» nella penultima posizione. In effetti, le parole che terminano in «-ing» sono un sottoinsieme di quelle con una «n» nella penultima posizione, pertanto la stima avrebbe dovuto essere più alta per il secondo gruppo. Numerose repliche dell'esperimento hanno viceversa confermato che i risultati sono opposti: i soggetti del primo gruppo tendono a fornire stime più alte del secondo. La spiegazione proposta dagli autori dello studio - e su cui c'è oggi generale consenso - è che i parlanti inglesi sono fuorviati dalla maggiore facilità con cui riescono a richiamare alla mente parole in «-ing» (che notoriamente costituiscono il participio presente e il gerundio dei verbi inglesi) rispetto a quelle che hanno una «n» in penultima posizione. In pratica, a questa seconda configurazione non corrisponde alcuno schema in memoria che faciliti il recupero - non c'è in inglese una classe semanticamente omogenea di parole che hanno la «n» in penultima posizione, mentre c'è una simile classe di parole in «-ing». Questa diversa facilità di recupero dalla memoria viene presa erroneamente come indizio di diversa probabilità o frequenza. Per un esempio meno lontano dall'esperienza, si consideri la seguente questione: è più facile morire di diabete o per un incidente aereo? Sebbene il diabete sia una causa decisamente più frequente, la salienza degli incidenti aerei - il loro impatto emotivo, lo spazio loro dedicato sui mass media - spingono molti a ritenerli una causa più probabile: rendono facilmente accessibili esempi di quel tipo di eventi, in sé poco probabile. Il fenomeno può essere visto come caso particolare di una tendenza più generale, che Kahneman chiama «sostituire una domanda difficile con una più facile». In un test come quello descritto, ai soggetti
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viene posta una domanda oggettivamente difficile: chi di noi possiede i dati sulla frequenza delle forme grammaticali o delle lettere in un testo? I soggetti se la cavano rispondendo in realtà ad una domanda differente: quella relativa a quanto prontamente ci vengono alla mente esempi del fenomeno. È importante osservare che i soggetti non hanno alcuna consapevolezza di effettuare tale sostituzione: tra un attimo vedremo il perché. In effetti anche i bias della credenza e della conferma possono essere inquadrati in questo schema. Nel bias della credenza (si ricordi l'esempio dei francesi buongustai, al § 3.2), la difficoltà di valutare se un sillogismo sia logicamente valido viene risolta rispondendo in effetti ad una domanda su quanto è plausibile la conclusione. E nel bias della conferma (semplificando parecchio) una domanda su cosa potrebbe falsificare un'affermazione viene sostituita con una su cosa potrebbe verificarla. Questa «aria di famiglia», per cui i diversi bias sembrano in qualche modo varianti di un unico schema, suggerisce qualcosa sui meccanismi che li determinano. In pratica, i bias sembrano presentare abbastanza regolarmente uno dei due seguenti caratteri (o entrambi): in primo luogo, sono governati dall'accessibilità associativa; in secondo luogo, coinvolgono interpretazioni fuorvianti delle proprie sensazioni. Entrambi gli aspetti, come vedremo, sembrano conseguenza del fatto che il ragionamento spontaneo è basato sulla memoria associativa. La tesi che il Sistema I vada identificato con le operazioni della memoria associativa è esplicitamente sostenuta in Morewedge e Kahneman (2010); ma il tema dell'importanza dei processi associativi percorre buona parte della sintesi che Kahneman (201 1) fornisce del proprio approccio. Si consideri di nuovo l'idea che euristica della disponibilità, bias della credenza e bias della conferma rispondano ad una medesima logica di sostituzione di una domanda più difficile con una più facile. Kahneman spiega questa logica come risultato di un meccanismo di diffusione dell'attivazione all'interno della memoria associativa. Perché in pratica sostituiamo una domanda difficile con una facile? Non certo per un'astuzia deliberata. Semplicemente, come già osservato (§ 2. 16), la memoria associativa non ha camere stagne. Pertanto, una qualunque domanda innesca un processo di attivazione di contenuti anche non direttamente pertinenti, e il Sistema
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è troppo pigro per controllare se siano effettivamente pertinenti. Kahneman descrive il fenomeno nei seguenti termini: 2
spesso calcoliamo molto più di quanto vogliamo o di quanto sia necessario. Definisco questa computazione in eccesso «schioppo mentale». f: impossibile mirare a un singolo punto con uno schioppo, perché la rosa di pallini va in tutte le dire-Lioni, e sembra quasi altrettanto difficile per il Sistema 1 non fare più di quanto il Sistema 2 gli ordini di fare. (lvi: 107)
La dinamica, insomma, è quella che abbiamo già osservato in precedenza. I meccanismi associativi tendono ad attivare informazione coerente, ma non esercitano un controllo attivo sui risultati. Essi «sparano» in ogni direzione, e si accontentano poi del risultato quale che sia - purché non troppo distante dalle aspettative. Come abbiamo visto, nel ragionamento spontaneo non viene esercitato alcuno sforzo per controllare se tra le informazioni a disposizione ci siano contro-esempi. Ma allo stesso modo, non viene esercitato uno sforzo per controllare che i risultati siano effettivamente la risposta al compito cognitivo assegnato. È così che euristica della disponibilità, bias della credenza e bias della conferma ci mettono fuori strada: se la domanda è difficile, finiamo con l'accogliere come risposte appropriate conclusioni non pertinenti rispetto alla domanda. Con un esempio più vicino alla nostra esperienza, lo schioppo mentale è la ragione per cui quando discutiamo o litighiamo scivoliamo spesso da un argomento all'altro senza troppa coerenza. Il pensiero associativo opera per procedimenti metonimici, per contiguità concettuale: una cosa ne richiama un'altra più o meno imparentata, e così via. Ma di norma non ce ne accorgiamo: accettiamo risposte che in realtà corrispondono a domande diverse da quelle di partenza. Per cui alla fine ci si trova a discutere di qualcosa di molto diverso dal problema iniziale. Uno dei problemi cruciali per il pensiero razionale è precisamente «tenere il punto»: non lasciarsi continuamente distrarre da questioni non pertinenti. Non è facile riuscirvi senza addestramento. E ogni volta che falliamo, si produce un groviglio che rende impossibile analizzare in sé la questione in oggetto.
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3.14 Il prezzo dell'agio Abbiamo considerato la prima delle caratteristiche che sembrano comuni a molte euristiche e bias, ossia il fatto che sono governati da meccanismi di accessibilità associativa. Consideriamo adesso l'altra caratteristica: essi coinvolgono interpretazioni fuorvianti delle proprie sensazioni. I due fenomeni sembrano operare insieme nella «sostituzione di una domanda difficile con una più facile». Prendiamo di nuovo come esempio lo studio di Tversky e Kahneman sulla stima di probabilità - rispettivamente - di parole in «-ing» e di parole con la «n» in penultima posizione. La prima cosa che accade è che i soggetti cercano nella memoria associativa esempi di una categoria o dell'altra, e trovano molto più facilmente esempi della prima. Qui si innesta un secondo fenomeno: la facilità con cui gli esempi vengono recuperati produce una sensazione di agio cognitivo, che i soggetti interpretano in termini di maggiore probabilità. La sostituzione delle domande consiste essenzialmente in un'interpretazione erronea delle proprie sensazioni: la sensazione prodotta dalla facilità di recupero viene interpretata come segno di probabilità. È bene tenere distinti i due meccanismi. L'accessibilità associativa riguarda innanzitutto il «cosa» è attivato (e può trattarsi di contenuti mentali ma anche di sensazioni associate a contenuti; vedi più avanti § 3.16). L'altro meccanismo riguarda invece il «come» è usato ciò che è attivato: in particolare, il modo in cui sono interpretate le sensazioni che accompagnano l'attivazione dei contenuti mentali. Nell'esempio che precede, come ho detto, i due meccanismi lavorano insieme, in quanto il recupero associativo di istanze in memoria suscita sensazioni di maggiore o minore agio cognitivo, e questo è interpretato come segno di probabilità. Ma, come è stato osservato, recupero di istanze in memoria e interpretazione delle sensazioni possono essere talvolta al servizio di due modalità alternative di ragionamento (si veda in particolare Verschueren e colleghi 2005). Da un lato, l'accessibilità associativa consente di recuperare esempi e contro-esempi rilevanti (ivi: 10), su cui applicare schemi di inferenza atti a testare la validità delle affermazioni. È quanto abbiamo visto nel compito di selezione di Wason: la capacità di recuperare contro-esempi consente di applicare il modus tollens nella verifica di una regola condizionale.
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Dall'altro lato la rete associativa produce una stima sintetica, ancorché imperfetta, della probabilità di esempi e contro-esempi: dunque una sensazione globale della credibilità delle affermazioni, senza alcun effettivo recupero di istanze particolari. Verschueren e colleghi la descrivono infatti come una «sintesi soggettiva della disponibilità, facilità di recupero, e/o familiarità di queste istanze [gli esempi o contro-esempi]», e commentano che essa è «relativamente più importante che l'effettivo numero di queste istanze» (ivi: 9 ). Si tratta cioè di una stima fallibile, in quanto non discrimina tra effettivo numero di esempi/contro-esempi e altri fattori spuri quali accessibilità, familiarità, ripetizione frequente nell'esperienza. Questa seconda modalità di ragionamento consiste dunque in una stima intuitiva della credibilità dell'affermazione in sé, senza alcun recupero di specifiche istanze dalla memoria. Nell'euristica della disponibilità, viceversa, la stima di probabilità passa attraverso un recupero di esempi della regola. Ma in entrambi i casi, quella stima dipende da un'interpretazione fallibile delle sensazioni. Kahneman (2011) dedica un'analisi illuminante a questo meccanismo di interpretazione delle sensazioni. Per spiegarlo, introduce la nozione di «agio cognitivo» (cognitive ease, che il traduttore italiano preferisce rendere con «fluidità cognitiva») 17• E spiega che esso può essere prodotto da cause molto differenti, e produrre a sua volta effetti un po' differenti tra loro (ossia, appunto la famiglia di sensazioni che ci interessano). Ampie ricerche dimostrano che tra le possibili cause dell'agio cognitivo vi sono le seguenti: la familiarità, ossia le ripetute esperienze con qualcosa; il fatto che un certo contenuto sia pre-attivato tramite priming; il fatto che nell'elaborare un certo contenuto siamo in uno stato di buonumore; e persino il fatto che un certo contenuto sia scritto con caratteri molto leggibili. Come si vede, sono davvero cause molto differenti, ma con un tratto in comune: tutte corrispondono a condizioni che facilitano l'elaborazione di un contenuto mentale. La morale è quindi che l'agio cognitivo è prodotto da qualsiasi cosa riduca i costi di elaborazione. Fin qui ci eravamo soffermati in particolare su una di queste cause, la familiarità con il contenuto - e dunque l'averne fatto esperienza ripetuta. Ma ogni altra condizione capace di facilitare l'elaborazione produce quell'effetto. •1
Sull'espressione «agio cognitivo» si veda sopra la nota 15, p. 12.3.
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Non meno interessante è vedere quali siano gli effetti dell'agio cognitivo. Tra essi vanno inclusi, nel quadro proposto da Kahneman, la sensazione di familiarità e quella di mancanza di sforzo. E fin qui, non siamo sorpresi: si tratta di effetti parzialmente coerenti con le cause. Anche se non dovrebbe sfuggirci, già qui, la possibilità di distorsioni del giudizio: potrei trovarmi in uno stato di agio cognitivo perché quello che leggo, poniamo, è molto leggibile (stampato a caratteri grandi e nitidi), e provare a causa di ciò una maggiore sensazione di familiarità con il contenuto di quella che avrei se la stampa fosse di cattiva qualità. O si potrebbe produrre l'illusione che un nome appartenga ad una persona famosa tramite un priming mascherato: esponendo i soggetti per una frazione di secondo al nome mai udito prima, e successivamente testando esplicitamente la sensazione di celebrità che quel nome suscita. Ma è decisamente più sorprendente il fatto che l'agio cognitivo ha tra i propri effetti una sensazione di positività, e addirittura una sensazione di verità. Kahneman non manca di esplicitare quali rischi siano insiti in questo quadro. Da esso segue che si può suscitare una sensazione di verità in modi che con la verità hanno ben poco a che fare: Qualunque cosa renda più facile ai meccanismi associativi di funzionare bene tenderà anche a viziare le credenze con errori sistematici. Un modo sicuro di indurre la gente a credere a cose false è la frequente ripetizione, perché la familiarità non si distingue facilmente dalla verità. Le istituzioni autoritarie e i venditori di prodotti sono sempre stati a conoscenza di questo dato. (Kahneman 2011: 70)
L'agio cognitivo, insomma, comporta dei rischi non indifferenti. Esso può essere sfruttato per ingannarci. Ma, come vedremo meglio, consente di produrre inganni perché è, prima di tutto, un potente fattore di auto-inganno.
3.15 Monitorare l'ambiente in cerca di nemici Ma cosa è dopotutto questo agio cognitivo, e perché produce gli effetti che abbiamo descritto? Per spiegarne la natura, Kahneman fa riferimento alla facilità di elaborazione: più questa è alta, maggiore sarà l'agio cognitivo. Tuttavia, ci si potrebbe porre l'ulteriore doman-
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da: e perché la facilità di elaborazione dovrebbe produrre sensazioni di positività? Una risposta ampiamente accettata è quella secondo cui l'agio cognitivo - e la famiglia di sensazioni che produce - è un meccanismo elementare che l'evoluzione ha selezionato per monitorare l'ambiente a fini di sopravvivenza. Esso è descritto nei seguenti termini da Haidt (2012):
I cervelli valutano tutto in termini di rischio o beneficio potenziale per l'io, quindi adeguano il proprio comportamento per ottenere quantità maggiori di ciò che è buono e quantità minori di ciò che invece non lo è. I cervelli degli animali fanno queste valutazioni migliaia di volte al giorno senza bisogno di alcun ragionamento cosciente, tutto al fine di ottimizzare la risposta del cervello alla domanda fondamentale della vita animale: avvicinarsi o evitare? {Haidt 2013: 72-73)
In questa prospettiva la cognizione va dunque pensata come un meccanismo di risposta all'ambiente, con le valutazioni affettive che svolgono un essenziale ruolo di indirizzo. Haidt dichiara qui la propria adesione alle idee di Robert Zajonc, uno psicologo sociale che a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso ha rivitalizzato la tradizione ottocentesca del «primato affettivo», e con ciò aperto la strada a un importante filone di ricerche sul ruolo delle emozioni nella cognizione. In contrasto con gli approcci allora prevalenti, che privilegiavano una visione puramente cognitiva delle risposte all'ambiente, Zajonc ha difeso l'idea che le elaborazioni cognitive siano precedute - e di fatto guidate - da reazioni emotive immediate 18 • Praticamente ogni cosa nell'ambiente produce un impulso emotivo per quanto piccolo, di segno positivo oppure negativo. E questo impulso è cruciale per stabilire la direzione delle successive elaborazioni: in linea generale, tenderemo a evitare ciò che è negativo, e avvicinarci a ciò che è positivo.
~ bene qui fare attenzione all'ambiguità dell'aggettivo «cognitivo». Con esso si può indicare la totalità dei processi mentali, includendovi quelli di natura affettiva; oppure quel sotto-insieme dei processi mentali che hanno come finalità primaria la formazione di credenze, ad esclusione dunque dei processi affettivi. Il contesto dovrebbe suggerire se si tratti dell'una o dell'altra accezione. Un indizio importante è l'uso di avverbi come «puramente»: quando, come appena sopra nel testo, si parla di processi «puramente cognitivi», si intende escludere in genere la componente affettiva. 18
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Zajonc è tra l'altro celebre per la scoperta dell' «effetto di mera esposizione»: la semplice familiarità con un oggetto tende a produrre una sensazione positiva verso di esso. Questa è la ragione per cui certe canzoni, o certe persone, ci piacciono di più quando le ascoltiamo, o le vediamo, per la seconda o la terza volta. Ed è ovviamente uno dei meccanismi alla base della pubblicità: rendere un oggetto familiare è un modo per farlo apparire più piacevole. Kahneman si richiama implicitamente a questa nozione, quando descrive l'agio cognitivo come qualcosa che ha tra le sue cause la familiarità e tra i suoi effetti una sensazione di positività. Ma perché, nel monitorare l'ambiente, l'organismo dovrebbe assegnare una valenza positiva alla familiarità? Una possibile spiegazione è che «la valenza positiva possa essere il risultato di una predisposizione alla cautela quando si incontrano oggetti non familiari e potenzialmente pericolosi» (Thompson 2009: 176-177). Insomma, un senso di familiarità ci rassicura perché suggerisce che non ci sia nulla da temere. Tuttavia, tra le cause dell'agio cognitivo Kahneman elenca anche una scrittura chiara e visibile. A prima vista, questo sembrerebbe inconciliabile con l'ipotesi di un meccanismo di monitoraggio per discriminare ciò che è rassicurante o pericoloso per l'organismo. Tuttavia, le cose cambiano se descriviamo il fenomeno in termini di chiarezza del segnale visivo. Sotto questa descrizione, esso appare di nuovo un indizio atto a rassicurarci (piuttosto che allarmarci): finché vedo chiaramente, non devo temere pericoli nascosti. In tal caso, una scrittura ben visibile produce agio cognitivo in quanto ben visibile, non in quanto scrittura. Per un verso, dunque sensazioni positive e negative hanno originariamente la funzione di indizi per valutare se siamo in pericolo o meno. Per un altro verso, una loro caratteristica importante è che possono essere associate a oggetti differenti da quelli per cui l'evoluzione le ha selezionate. Lo abbiamo visto parlando del disgusto. Esso ha probabilmente basi innate(§ 2.16), in quanto strumento per individuare alimenti che hanno minacciato la sopravvivenza della specie. Ma viene reclutato per connotare negativamente fenomeni appartenenti a un dominio del tutto differente: quello morale. Diciamolo in modo più generale. Il funzionamento delle sensazioni è caratterizzato da una sostanziale mancanza di differenziazione
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(non abbiamo sensazioni distinte, ciascuna per un dominio di oggetti) e dal conseguente rischio di fraintendimento-e-sostituzione (interpretiamo la sensazione causata da X come se fosse causata da Y). In conseguenza di ciò, sensazioni che servono in origine per altro (individuare sostanze pericolose da mangiare, o cose poco visibili e poco familiari) possono essere riutilizzate in altri domini dell'esperienza. Consideriamo come potrebbero emergere, in questa prospettiva, le intuizioni morali. È ragionevole che le persone e i loro comportamenti suscitino valenze affettive positive e negative, dato che anche il nostro prossimo, come il cibo o gli animali, può essere a seconda dei casi qualcosa che favorisce o minaccia la nostra sopravvivenza. Là fuori nel mondo ci sono amici e nemici. Tuttavia, nel dominio morale sensazioni positive o negative vengono indirizzate a persone e comportamenti anche quando non è in gioco la nostra sopravvivenza o incolumità. In tal modo, un meccanismo nato per comprendere se ciò che abbiamo di fronte è rassicurante o pericoloso, adatto o meno alla nostra sopravvivenza, viene reclutato per segnalare che qualcuno condivide o meno i nostri valori, che un comportamento è giusto o sbagliato in senso morale e così via. Dovremo ricordarci di questo quando analizzeremo il posizionamento ideologico. Fenomeni che al livello cosciente percepiamo come fondati su motivazioni ideali sono ampiamente condizionati da dinamiche molto più primitive: da automatismi affettivi finalizzati al monitoraggio dei pericoli.
3. 16 Emozioni in rete Abbiamo detto che euristiche e bias sono in generale caratterizzati da due aspetti: il recupero associativo di contenuti; l'interpretazione erronea di sensazioni. Ci siamo dapprima occupati del primo aspetto: come funziona il recupero associativo di contenuti. In particolare, abbiamo soffermato l'attenzione sulla difficoltà di recuperare contro-esempi; sulla tendenza ad attivare informazione coerente; sulle sostituzioni dovute allo «schioppo mentale» associativo. D'altra parte, abbiamo visto che anche le sensazioni sono a volte recuperate insieme con i contenuti, e soggette a simili sostituzioni as-
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sociative. Ad esempio, possiamo interpretare una sensazione di familiarità come un indizio di probabilità. Ciò suggerisce che le sensazioni siano governate dalle medesime dinamiche associative osservate nel recupero di contenuti dalla memoria semantica. Una possibilità è che le sensazioni siano anch'esse componenti della memoria semantica. Quest'idea è stata effettivamente sostenuta sia in termini generali (come teoria delle emozioni) sia con riferimento all'analisi di specifici ambiti (ad esempio in psicologia della politica). Vediamo in che modo. Un modello delle emozioni che gode di un certo credito è quello proposto da Bower (1981; Bower e Cohen 1982). Esso è a sua volta basato sul modello della memoria a rete semantica proposto da Collins e Loftus (197 5) e successivamente sviluppato da Anderson (1976). In quel modello, conoscenze e credenze sono catturate da connessioni tra nodi in una rete associativa, che rappresentano concetti e schemi in memoria. I processi consistono in riattivazioni dei nodi per diffusione dell'attivazione, e quando le attivazioni superano una certa soglia si assume che i contenuti diventino coscienti. Pur nella schematicità di questa sintesi, è chiaro che si tratta di un modello ampiamente convergente con il quadro fin qui proposto: i processi cognitivi sono concepiti come riattivazioni dei contenuti in una rete associativa, con differenti dinamiche di attivazione per processi automatici e coscienti. In continuità con quel modello, Bower propone che anche le emozioni siano rappresentate nella rete semantica come nodi associati ai contenuti concettuali. Un modello di questo tipo è adottato da Lodge e Taber (2013), nella loro ampia analisi dei processi cognitivi coinvolti nelle scelte politiche. Il quadro che propongono ci è familiare per molti aspetti. In primo luogo, essi enfatizzano l'importanza dei meccanismi automatici. In secondo luogo, difendono l'idea di un meccanismo duale del pensiero e del ragionamento, guidato dall'affettività. Ovvero, respingono l'idea tradizionale secondo cui i soggetti tenderebbero a compiere scelte razionali in politica, attraverso processi coscienti di deliberazione. Piuttosto, il ragionamento spontaneo è governato da automatismi a base emotiva, e il pensiero riflessivo tende a intervenire in un secondo momento, di norma per giustificare a posteriori qualsiasi cosa gli automatismi abbiano deciso. Insomma, contro
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l'idea di un elettore razionale Lodge e Taber propongono quella di un «elettore che razionalizza» (questo è il titolo del loro libro, The Rationalizing Voter ). In terzo luogo, gli studiosi propongono che il meccanismo chiave dei giudizi politici sia un'euristica appartenente al Sistema 1: I' «euristica della simpatia» (likeability heuristics). Essa lega automaticamente affetti positivi e/o negativi ad oggetti sociali familiari nella memoria a lungo termine. Una volta associate, queste sensazioni di positività o negatività influenzano fortemente pensiero e ragionamento. Ciò che specialmente suscita il nostro interesse come scienziati politici verso i modelli duali del pensiero è la scoperta che processi inconsci sono continuamente al lavoro, con effetti che sembrano massimamente influenti anche quando i più esperti tra noi riflettono con impegno su una questione e pesano accuratamente i pro e contro nell'atto di formare opinioni e prendere decisioni. {lvi: 2; questa traduzione e le altre dal libro sono mie)
L'euristica della simpatia, insomma, implica che giudizi e scelte (in politica e altrove) siano sotto l'influenza delle valutazioni affettive associate ai contenuti. Ma queste valutazioni affettive dipendono a loro volta da una pluralità di fattori - tra i quali, a titolo di esempio, l'ormai ben noto effetto familiarità (ciò che è familiare è buono) e l'attrattività fisica (quello che gli autori chiamano l'effetto «bello è buono»). Insomma, se ci si vuole dedicare alla carriera politica essere già famosi ed essere «un bel viso» sono vantaggi non da poco. In quarto luogo, Lodge e Taber adottano il modello della memoria semantica di Collins e Loftus (1975) e Anderson (1976), assumendo che i processi automatici operino attraverso l'attivazione associativa delle rappresentazioni in memoria. Ma adottano quel modello, specificamente, nella versione di Bower secondo cui sono parte della rete anche valutazioni affettive. Ad esempio, nella mente di un elettore i nodi concettuali che rappresentano i propri politici di riferimento saranno associati a valutazioni affettive positive, e quelli che rappresentano gli avversari saranno associati a valutazioni negative. Queste valutazioni saranno richiamate ogni volta che si attivano i relativi concetti, estendendosi a qualsiasi cosa li concerna. Quando un individuo è esposto a una comunicazione, i concetti presenti nel messaggio - che siano percepiti coscientemente o no - cominciano ad attivare i corrispondenti concetti nella memoria a lungo termine. Una volta
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che il concetto è attivato, la sua attivazione si diffonde a tutti i concetti correlati (Collins e Loftus 1975), sia che si tratti di una connessione semantica o affettiva. (lvi: 17)
Questo genere di considerazioni sposta l'asse delle considerazioni relative agli automatismi. Per quanto importante sia comprendere come operano gli automatismi di natura cognitiva - dalla percezione, al priming associativo di concetti, ai bias (della credenza, della conferma, della disponibilità e così via) -, è importante tenere presente che i processi cognitivi sono innescati primariamente da reazioni emotive all'ambiente, le quali ci dicono di volta in volta che genere di risposta sia più appropriata. Ciò accade non soltanto in virtù di inclinazioni innate, per cui ad esempio uno stimolo familiare o ben visibile ci appare in una luce positiva. Ma anche tramite valutazioni affettive apprese che sono depositate nella memoria associativa, richiamate in ogni circostanza con estrema rapidità, e tali da condizionare i successivi processi di elaborazione dell'informazione. Avremo modo di apprezzare meglio il potere delle valenze affettive sul pensiero quando parleremo del «ragionamento motivato»: il fenomeno per cui la formazione di credenze è influenzata da ciò che ci piace o dispiace. Ci torneremo nel quinto capitolo. Ma c'è un punto più generale che conviene introdurre fin da adesso. L'influenza delle valenze affettive sui processi di pensiero si manifesta, tra l'altro, in una generale tendenza verso la polarizzazione duale. Ossia, il meccanismo della valenza affettiva porta a classificare ogni cosa, persona, idea o situazione in base a un'elementare logica duale: proietta sulle cose un alone di positività o negatività, le contrassegna come rassicuranti o minacciose, amiche o nemiche - sia pure in un senso pre-ideologico. Questo meccanismo di divaricazione duale della realtà si manifesta in ogni dominio dell'esperienza. Le persone ci stanno simpatiche o antipatiche. Le canzoni ci sembrano belle o brutte. E, ovviamente, azioni individuali e posizioni politiche ci sembrano giuste o sbagliate. Ma la medesima logica si insinua in ambiti davvero insospettati. Come abbiamo già visto, persino di fronte a due modelli teorici tendiamo a dare per scontato che uno debba essere giusto e l'altro sbagliato, e abbiamo preferenze intuitive che si colorano senz'altro di tonalità affettive: un modello ci piace e vorremmo vederlo vincere, l'altro ci disturba e vorremmo vederlo soccombere. L'intero universo tende a trasformarsi in un derby.
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Come vedremo, il pensiero ideologico per un verso si nutre di questa inclinazione al dualismo valutativo, per un altro verso la potenzia. Le preferenze emotive polarizzate (secondo la logica buono/ cattivo) portano alla formazione di coalizioni, ma la formazione di coalizioni produce a sua volta emozioni legate all'affiliazione al gruppo, le quali rafforzano ulteriormente la polarizzazione.
3.17 Euristiche frugali e orologi rotti Abbiamo introdotto il modello a euristiche e bias, analizzando i meccanismi associativi sottesi e il ruolo che vi svolgono le sensazioni. Il resoconto è stato largamente improntato alla proposta originaria di Tversky e Kahneman. Ma è opportuno rendere conto di un diverso approccio alle euristiche: quello proposto da Gerd Gigerenzer e dai suoi collaboratori. Gigerenzer è uno dei principali sostenitori della prospettiva ecologico-adattiva - che abbiamo già introdotto nel primo capitolo 19 • L'idea di fondo è che la tesi della nostra tendenziale irrazionalità è scorretta, e gli esperimenti che sembrano testimoniare in suo favore partono da presupposti sbagliati. Questi esperimenti presuppongono infatti una concezione formale e normativa del ragionamento, e interpretano come un difetto di razionalità il fatto che i soggetti falliscano nel conformarsi a quel modello. Ma la nostra razionalità è frutto di un adattamento evoluzionistico all'ambiente ai fini della sopravvivenza. Pertanto, invece di sottoporre i soggetti a test che vertono su compiti astratti e totalmente de-contestualizzati (si pensi al compito di selezione di Wason), dovremmo testare le loro capacità in compiti molto più vicini all'esperienza. Facendolo, ci si renderebbe conto che i soggetti adoperano «euristiche veloci e frugali», procedimenti di pensiero non impeccabili dal punto di vista normativo ma capaci di produrre risultati del tutto razionali in contesti appropriati. Questo approccio è detto «ecologico» nel senso, abituale in psicologia, di «aderente all'esperienza reale»: un esperimento è ecologico se evita di creare in laboratorio situazioni insolite e poco aderenti all'esperienza. Ed è detto «adattivo» con riferimento alla nozione 19
Per un quadro complessivo della sua posizione, si può vedere Gigerenzer (2007).
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evoluzionistica di adattamento all'ambiente tramite selezione naturale. Infine, è chiaro che l'approccio si colloca all'interno del paradigma che abbiamo chiamato «panglossiano»: nel dibattito sulla razionalità, Gigerenzer sta ovviamente dalla parte degli ottimisti, quanto meno nel senso di considerare i soggetti come essenzialmente razionali - sia pure dentro i limiti specificati. Come abbiamo visto nel primo capitolo, i panglossiani non sono invece ottimisti circa le possibilità di interventi migliorativi sui processi di ragionamento. La posizione di Gigerenzer è in questo senso alternativa a quella di Kahneman: quest'ultimo guarda a euristiche e bias specialmente in quanto deviazioni dalla razionalità, ma crede anche che il ricorso al Sistema 2 possa occasionalmente consentire di intervenire sugli errori del Sistema 1. A che tipo di evidenze fa appello Gigerenzer per le sue affermazioni? Gli studi più celebri sono quelli relativi ali' «euristica del riconoscimento» (Gigerenzer e Goldstein 1996). In un esperimento, a un campione di soggetti costituito da studenti statunitensi e tedeschi veniva chiesto quale tra le due seguenti città americane avesse più abitanti, San Diego o San Antonio. La risposta corretta è San Diego. Tuttavia, in modo a prima vista sorprendente, mentre tutti gli studenti di nazionalità tedesca risposero correttamente, solo il 62 % di quelli statunitensi diedero la risposta corretta. L'interpretazione di Gigerenzer e Goldstein è che i soggetti tedeschi si erano basati su una semplice euristica: poiché il nome «San Diego» mi è familiare, mentre «San Antonio» non lo è, è probabile che la prima sia più grande della seconda. Dal momento però che per gli americani entrambi i nomi sono in qualche misura familiari, tale euristica non poteva essere usata con uguale efficacia. L'euristica del riconoscimento è basata in definitiva sulla familiarità, così come l'euristica della disponibilità di Kahneman e Tversky. Ma Gigerenzer mostra che ricorrere a un giudizio basato sulla familiarità può, a certe condizioni, fornire risultati razionali - addirittura, tanto più corretti quanto più ci affidiamo ad essa per mancanza di informazioni. C'è quindi una sorta di rovesciamento dei risultati: la sensazione di familiarità, in compiti ecologici (ossia in contesti appropriati), non sarebbe causa di errori bensì di inferenze corrette. Ho già fornito nel primo capitolo alcune ragioni per respingere le conclusioni più forti dei panglossiani: in particolare, ho sostenuto
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che essi tendono a presupporre implicitamente quelle capacità riflessive (di debiasing) che negano esplicitamente. E sono tornato sull'argomento a proposito degli stereotipi, sostenendo che l'accuratezza di molti stereotipi sociali non deve farci dimenticare i loro frequenti effetti indesiderati. Ma in queste due occasioni non ho affrontato in modo diretto la tesi panglossiana che bias ed euristiche siano di norma razionali. Un'equilibrata discussione di questo punto si trova nel già citato Boudry e colleghi (2014). Una tesi di fondo dell'articolo è che si dovrebbe analizzare caso per caso se gli esperimenti usati per sostenere la nostra tendenziale irrazionalità - o, viceversa, la nostra razionalità - siano convincenti. Nello specifico, gli studiosi concludono che alcuni degli esperimenti classici in favore dell'irrazionalità sono, come sostiene Gigerenzer, semplicemente mal congegnati. Ma altri risultati sono robusti. E reciprocamente, si può dubitare che Gigerenzer tragga conclusioni appropriate da alcune delle evidenze ottenute. Il rischio è che da una parte e dall'altra si costruiscano situazioni atte a produrre i risultati attesi, ignorando quelle in cui i risultati sono opposti. Con riferimento a Gigerenzer, ed estremizzando un po', il rischio è quello di trarre conforto dal fatto che - come si usa dire - anche un orologio rotto segna l'ora giusta due volte al giorno. Si tratta di un'estremizzazione ingenerosa, dato che il meccanismo della familiarità (come altre euristiche) non è davvero un orologio rotto: è invece un meccanismo utile a produrre conoscenza corretta. Ma appunto per questo, che in determinate circostanze - come nell'esempio di San Diego - esso produca risultati affidabili non deve sorprenderci. Il punto cruciale è se le circostanze nelle quali, al contrario, le euristiche falliscono siano così marginali da poterle ignorare; o se sia invece istruttivo analizzare questi errori. Vorremmo sapere insomma, se capita che l'orologio occasionalmente si guasti, e se ci sia modo di ripararlo. Ho fornito alcune ragioni per credere che sia così. D'altra parte, come osservano Boudry e colleghi, la nozione di razionalità si applica primariamente agli individui. E gli individui, pur condividendo i medesimi meccanismi evoluzionistici, sono talvolta più e talvolta meno razionali. Dunque, anche volendo concedere che i meccanismi che condividiamo siano perlopiù razionali, resta lecito chiedersi in cosa consista questo di più, o di meno, di razionalità che
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attiene ai comportamenti individuali. Ho già riportato le seguenti parole di Paglieri (2016: 169): «Gigerenzer ha un bel dire che ognuno di noi è dotato di una "cassetta degli attrezzi ben adattati" (adaptive toolbox), ma se qualcuno ci aiutasse a capire quale strumento funziona meglio in quali circostanze, sicuramente ne trarremmo beneficio». Ecco il punto. Concediamo pure che vi sia una «cassetta degli attrezzi» che condividiamo, e che funziona bene in molte circostanze ma produce guasti in altre. Resta il fatto che alcuni individui ne hanno maggiore consapevolezza di altri, e imparano meglio di altri a discriminare tra i due tipi di circostanze. È questo genere di capacità, variabile da individuo a individuo, che vorremmo essere in grado di spiegare. E possibilmente, potenziare.
3.18 Modello duale versus teoria argomentativa Se l'argomento del precedente paragrafo è corretto, dobbiamo trovare un punto di equilibrio tra due prospettive: i panglossiani hanno probabilmente ragione nel dire che euristiche e bias producono spesso risultati soddisfacenti, e persino nel dire che alcuni esperimenti intesi a dimostrare il contrario sono mal congegnati; hanno torto però nel minimizzare i danni prodotti dai bias, e nel suggerire che non sarebbe opportuno sviluppare capacità di debiasing. Ma detto questo, l'altra parte della questione è: siamo capaci, dopotutto, di sviluppare simili capacità? Abbiamo cioè le risorse cognitive per prendere consapevolezza dei nostri bias e delle circostanze in cui essi producono guasti, nonché di introdurre gli opportuni correttivi? Rispondere a questa domanda richiede di prendere in considerazione un altro modello del ragionamento, che tuttavia è complementare piuttosto che alternativo al modello a euristiche e bias. Si tratta del modello duale della cognizione e del ragionamento 20 • Abbiamo già fatto ricorso ripetutamente all'idea che i processi cognitivi spontanei sono automatici, operano tramite logiche puramente associati10 Tra i principali esponenti di questo approccio vi sono Jonathan Evans e Keith Stanovich; due articoli di rassegna sull'argomento sono Evans (2008) e (2018). Stanovich (2011: 18) conta 27 versioni, più o meno simili tra loro, della distinzione tra pensiero automatico e riflessivo.
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ve, richiedono poco sforzo; mentre i processi riflessivi sono al contrario faticosi, implicano attenzione, e - sperabilmente - consentono un controllo più rigoroso sui risultati dei processi spontanei. Abbiamo anche visto che Kahneman è solito riferirsi a questi due tipi di processi come, rispettivamente, Sistema I e Sistema 2 della cognizione 21 • Dunque, Kahneman è al tempo stesso tra coloro che hanno dato vita al modello a euristiche e bias, ma anche uno dei principali sostenitori del modello duale della cognizione 22.. La ragione è che il modello duale risolve naturalmente un problema teorico dell'altro modello. Dati sperimentali come quelli basati sul compito di selezione di Wason mostrano che non ragioniamo seguendo i principi normativi previsti dal modello logicista. Bisogna dunque concepire processi di ragionamento differenti da quelli puramente logici, capaci di soddisfare i vincoli suggeriti dalle evidenze raccolte: processi legati ai contenuti, ai domini di esperienza, alla familiarità delle istanze - verosimilmente, processi automatici basati sulla memoria associativa. Tuttavia l'intuizione di molti psicologi del ragionamento è che questo non ci rende del tutto incapaci di utilizzare, magari con un addestramento appropriato, metodi di ragionamento più astratti e formali: vicini a quelli previsti dall'approccio normativo. Il modello duale tiene insieme queste due esigenze. Il Sistema I fornisce la risposta alla domanda: come ragioniamo perlopiù, in condizioni spontanee e rilassate? Il Sistema 2, d'altra parte, consentirebbe di spiegare i casi, decisamente meno frequenti, nei quali ragioniamo in modo più competente e riflessivo. Questo quadro è corretto? Ossia, è vero che il Sistema 2 consente modalità di ragionamento in grado di vincere i bias? Per cominciare, esiste una sterminata letteratura psicologica sul fatto che noi esseri umani siamo capaci di processi riflessivi (che coinvolgono la corteccia pre-frontale): processi che operano in modo più flessibile rispetto agli automatismi, all'occorrenza astraendo e de-contestualizzando le informazioni, e producendo ragionamenti ipotetici e contro-fattuali - ossia nei quali immaginiamo stati di cose alternativi a quelli dati 23 • Questo ci consente anche di realizzare pro11
Questa tcnninologia è stata in effetti introdotta da Stanovich (1999). Come scrive Kahneman (2.000: 682.; traduzione mia), « Tversky cd io abbiamo sempre pensato all'approccio per euristiche e bias come ad una teoria dei due processi». 1 J Per limitarsi ad alcuni articoli celebri, si vedano Miller e Cohen (2.001 ); Miller e colleghi (2.002.); Fuster (2.001 ); Schneider e Shiffrin (1997); Schneider e Chein (2.003). Ma 11
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cedimenti più sofisticati di verifica delle ipotesi, e di trarre conclusioni deduttivamente valide (Labinaz 2013: 89). Abbiamo già introdotto queste capacità sotto una diversa luce, quando abbiamo parlato (§ 2.19) della corteccia pre-frontale, e dei processi esecutivi che essa implementa. Tramite questi siamo in grado di esercitare un controllo cosciente di alto livello sui processi automatici, con effetti di inibizione e correzione degli automatismi. Le nostre capacità di ragionamento logico astratto sono, in definitiva, solo un uso specializzato di tali capacità più generali. Si tratta di un fenomeno talmente noto che non dovrebbero esserci dubbi sulla possibilità di realizzare, tramite esso, forme di ragionamento più controllate e riflessive. Nondimeno, c'è un'obiezione a quest'affermazione che gode di qualche credito. Proprio le evidenze sperimentali che provengono dalla letteratura sui bias - è stato sostenuto - mostrerebbero che il Sistema 2 non è in grado di svolgere il ruolo di debiasing che gli si vorrebbe attribuire. Quest'obiezione proviene in particolare da una teoria riconducibile alla famiglia degli approcci ecologico-adattivi e panglossiani: si tratta della teoria argomentativa del ragionamento proposta da Mercier e Sperber (2011). Secondo questi studiosi, le nostre capacità di ragionamento dipenderebbero da un modulo cognitivo selezionato dall'evoluzione per soddisfare un bisogno sociale: quello di argomentare in pubblico, così da persuadere gli altri ad agire in modo conforme alle nostre credenze e/o ai nostri desideri. Si tratterebbe pertanto di una capacità funzionale alla comunicazione con gli altri, piuttosto che al pensiero individuale. Ciò spiegherebbe perché nel ragionamento siamo guidati dal bias della conferma, ovvero dall'impulso ad accettare i giudizi prodotti dal Sistema 1, e cercare argomenti in loro favore. La ragione è che il modulo del ragionamento non è stato selezionato per valutare criticamente giudizi e convinzioni individuali, bensì per difenderli in pubblico. E in effetti, ci sono ampie evidenze del fatto che siamo capaci di riconoscere gli errori nei ragionamenti altrui meglio che nei nostri, e che reciprocamente siamo più capaci di correggere i nostri ragionamenti quando discutiamo con altre persone (Paglieri 2016: 96-99). è utile anche considerare i 27 diversi riferimenti bibliografici fomiti da Stanovich (1999), al quale rinvio qui sopra (nota 20).
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Insomma, ci sarebbe una ragione evoluzionistica per cui il bias della conferma domina il ragionamento individuale: quest'ultimo poggia su un'inclinazione innata ad argomentare, allo specifico scopo di imporre il nostro punto di vista in società. È dunque inutile cercare di contrastare tale tendenza. Meglio assecondarla per correggere i ragionamenti altrui, e semmai lasciare che siano gli altri a correggere i nostri nel corso di confronti pubblici. Dovrebbe essere evidente la convergenza tra queste posizioni e il modello sociale intuizionista di Haidt (§ 2.14). Anche in quel modello gli automatismi governano i giudizi individuali senza alcun intervento da parte del ragionamento riflessivo, e solo l'interazione con altri soggetti può modificare - limitatamente - le intuizioni di partenza (gli automatismi). Che sostegno hanno gli argomenti contro il debiasing formulati da questa prospettiva? Riescono essi a dimostrare che il Sistema 2 non è in grado di esercitare un controllo sugli automatismi - contrariamente a ciò che la letteratura sui processi riflessivi sembra mostrare ampiamente? Pur non considerando giustificata tale conclusione, ritengo che gli argomenti in questione siano decisamente istruttivi. Vale dunque la pena di analizzarli. Un primo argomento è già stato discusso(§ 2.19), e sarà sufficiente riprenderlo brevemente. Si tratta del fatto che i processi riflessivi sono in grado di dispiegare pienamente i loro poteri solo a condizione che si riceva un addestramento culturale piuttosto sofisticato. Questo implica forse che il Sistema 2 sia in linea di principio impotente nei confronti dei bias? Haidt (2001; 2013) sembra tendere verso questa conclusione. Da un lato, egli concede che tramite addestramento i filosofi sviluppano capacità di ragionamento che consentono loro di mettere in discussione le proprie intuizioni di partenza (gli automatismi). Dall'altro, il suo modello sociale intuizionista non tiene conto di questo. Esso è basato sull'idea che le intuizioni determinano i giudizi direttamente, e il ragionamento si limita a difendere i giudizi così prodotti. L'idea di fondo sembra dunque essere: il ragionamento riflessivo, con la sua capacità di esercitare un controllo sugli automatismi, non è un fenomeno psicologico genuino. È solo un fenomeno culturale - tra l'altro ristretto ad una comunità minuscola; magari interessante per la sociologia o la storia delle idee ma non significativo per una teoria psicologica di come ragioniamo in generale. Ho osservato che in base a questo argomento dovremmo presumibilmente rinunciare a interi domini della psicologia contempora-
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nea, dalla psicologia del linguaggio a quella della matematica. Molti fenomeni considerati genuinamente psicologici dipendono da strutture cognitive apprese. Ma soprattutto, il rischio è che si adoperi un «trucco magico» per fare sparire un dominio di fatti. Supponiamo che ci sia davvero un senso in cui le capacità riflessive prodotte culturalmente non contano come psicologiche. A meno che l'argomento non riesca a dimostrare qualcosa di più, ossia che quelle capacità non esistono, non so quanto sia interessante discutere quale disciplina scientifica se ne debba occupare. E nondimeno, l'argomento non va preso sottogamba. Esso richiama l'attenzione su un fatto cruciale: il genere di razionalità che stiamo cercando di comprendere presuppone abitudini di pensiero costruite attraverso pratiche sociali. Si tratta di processi psicologici che hanno un fondamento sociale. Su questo dovremo tornare. Ma c'è un secondo argomento che vale la pena di considerare. Il punto è che la teoria duale, basata sulla coppia Sistema i/Sistema 2, vincola l'immagine che ci facciamo delle forme di ragionamento possibili. Si pensi di nuovo al modello di Haidt, che prevede tre componenti: intuizioni, assimilabili ai meccanismi del Sistema 1; giudizi, che sarebbero le credenze o le scelte prodotte da questi meccanismi; e infine ragionamento, nel senso delle procedure linguistiche esplicite con cui forniamo ragioni in favore dei giudizi. Ora, finché pensiamo al ragionamento come distribuito su due livelli, è difficile andare al di là del modello di Haidt. Gli automatismi responsabili delle intuizioni costituiscono un primo livello di ragionamento; il secondo è, per così dire, occupato da quelle forme di ragionamento verbale - ampiamente attestate dalla letteratura, inclusi gli esperimenti di Haidt sui giudizi morali - con cui razionalizziamo le credenze e le scelte che formiamo automaticamente. Insomma, se mettiamo insieme il modello duale con le evidenze del ruolo del bias della conferma sul ragionamento, è difficile sfuggire alla seguente conclusione: il secondo livello del ragionamento è inadatto ad esercitare un controllo sui bias. Tutt'al contrario, esso appare essenzialmente governato da un bias, quello per cui tendiamo ad accogliere i giudizi prodotti automaticamente e a difenderli come farebbe un avvocato o un addetto stampa. Questa conclusione è riassunta (e fatta propria) da Paglieri con le seguenti parole:
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tale bias [della conferma] limita drasticamente l'efficacia del ragionamento solitario come meccanismo di correzione degli errori intuitivi - il che suggerisce che non sia questa la sua funzione principale, con buona pace della teoria dei due sistemi. (Paglieri 2016: 96)
Dunque l'esistenza del bias della conferma mostrerebbe (contro quel che presuppone la teoria dei due sistemi) che il ragionamento individuale non ha la funzione di correggere gli errori prodotti dagli automatismi: lo dimostra il fatto che quel bias «limita drasticamente» la nostra capacità di correggere gli automatismi. In questo argomento forse gioca anche l'intuizione analizzata precedentemente: poiché il bias della conferma determina quel che accade perlopiù nel ragionamento spontaneo, allora il modello psicologico deve catturare questo fatto prevalente - non i casi eccezionali in cui riusciamo a correggere gli automatismi. Ma vi è certamente un elemento ulteriore. Se vi sono solo due livelli del ragionamento (quello degli automatismi, e quello in cui produciamo ragioni verbalmente espresse) allora al secondo livello va collocato un meccanismo capace di rendere conto del bias della conferma. È quello che accade nel modello di Haidt, dove «ragionamento» è adoperato per significare «giustificazione verbale dei giudizi prodotti dagli automatismi» - dunque loro razionalizzazione. In altri termini, per mettere in discussione la conclusione di Paglieri bisognerebbe creare lo spazio teorico per un terzo livello. Accanto ai puri automatismi, e ai processi verbali con cui giustifichiamo i loro risultati, dovremmo poter inserire un diverso meccanismo di ragionamento. Come vedremo nel prossimo capitolo, questa è esattamente la direzione in cui il modello duale si è sviluppato nel passato decennio.
Capitolo quarto
La mente riflessiva
4. I Una sosta, per guardare indietro Rivediamo in breve il cammino percorso fin qui. Nel primo capitolo abbiamo introdotto in termini generali l'alternativa di fondo: dobbiamo accettare o no l'immagine di un soggetto incapace di riflettere su sé stesso e correggersi, come suggerito dal punto di vista panglossiano? Nel secondo capitolo abbiamo visto quanto sia ampio, in effetti, il potere degli automatismi, a partire da processi cognitivi di basso livello (percezione), passando per l'elaborazione semantica e la realizzazione delle azioni, per arrivare fin dentro la sfera dei nostri giudizi morali. Nel terzo capitolo, quindi, abbiamo analizzato più a fondo il potere degli automatismi nel dominio del ragionamento. La pluridecennale riflessione sui limiti della ragione ha evidenziato una quantità di bias che distorcono il ragionamento in modi sistematici: in particolare, abbiamo descritto i bias della credenza e della conferma, l'euristica della disponibilità. Più in generale, abbiamo individuato alcune dinamiche di fondo comuni ai differenti bias: questi sono caratterizzati a) dalla ricerca di coerenza (con l'esclusione dell'informazione non coerente), b) dalla tendenza a lavorare con i contenuti immediatamente disponibili, c) da fenomeni di sostituzione per contiguità (ad esempio rispondere a una domanda diversa, o interpretare i contenuti - specialmente le sensazioni - sulla base di contingenze accidentali). Tali caratteristiche sembrano dipendere dal fatto che il sistema degli automatismi opera attraverso una dinamica associativa: i contenuti sono rappresentati all'interno di reti che si attivano secondo logiche di coerenza e contiguità, senza consapevolezza di
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ciò che rimane inattivo e senza chiari confini tra un'elaborazione e l'altra. Abbiamo visto, in particolare, come processi di sostituzione possono affliggere la costruzione di stereotipi, creando fenomeni di pseudo-induzione: ripetizioni delle notizie interpretate come ripetizioni di conferme. A questo quadro abbiamo aggiunto poi la tesi del primato affettivo: le elaborazioni cognitive sono profondamente influenzate da precedenti valutazioni, positive e negative, che scaturiscono da un monitoraggio immediato e costante dell'ambiente. Le valutazioni emotive possono quindi essere fissate tramite apprendimento, diventando componenti stabili nella rete della memoria associativa. In tal modo, esse tendono a dividere il nostro universo di esperienza in due campi contrapposti: l'ambito di ciò che è contrassegnato come familiare e amico, e quello opposto delle cose estranee e nemiche. È venuto adesso il momento di domandarsi se siamo in grado di sottoporre a qualche controllo, tramite processi riflessivi, questo complesso di automatismi cognitivi ed emotivi. Il terzo capitolo si è chiuso sulla discussione del modello duale, che sembra non lasciare lo spazio teorico per una simile opzione: sembrano esserci evidenze che anche i processi coscienti sono soggetti al bias della conferma. Ma come stiamo per vedere, il modello duale non è l'ultima parola.
4.2 Non c'è due senza tre
Nell'introduzione a un volume sul modello duale in psicologia sociale, Gilbert (1999: 3-4; traduzione mia) scrive: Pochi degli psicologi i cui capitoli appaiono in questo volume sosterrebbero che i processi duali nei loro modelli corrispondono necessariamente all'attività di due distinte strutture cerebrali [... ]. Gli psicologi che difendono i modelli duali non si limitano necessariamente a due [processi]. Pochi protesterebbero se i loro modelli fossero riformulati in termini di tre processi, o quattro, o persino cinque. In verità, il solo numero che essi non accetterebbero volentieri è uno, perché la tesi dei processi duali in psicologia spesso non è tanto una tesi su quanti processi ci sono, ma piuttosto su quanti processi non ci sono. E la tesi è propriamente questa: non cc n'è un solo tipo.
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Questo brano viene citato con approvazione da Stanovich (2011). Stanovich è uno degli studiosi a cui dobbiamo la formulazione del modello duale; ma ha poi costruito un modello tripartito di particolare interesse per noi, nel quale il terzo livello è ottenuto tramite uno sdoppiamento del Sistema 2 1 • Più precisamente, Stanovich ( 201 1) propone di distinguere le seguenti componenti del pensiero: la «mente autonoma», ossia che opera fuori dal controllo cosciente del soggetto e coincide dunque col Sistema 1 (Stanovich si riferisce ad essa anche con la sigla TASS, che sta per «The Autonomous Set of Systems», per indicare la natura plurale dei meccanismi automatici); la «mente algoritmica», che è il meccanismo responsabile dei comportamenti intelligenti coscienti ma ancora sotto il controllo dei bias; e una terza componente chiamata «mente riflessiva». Ma procediamo con ordine. Una virtù dell'approccio di Stanovich è la sua rigorosa attenzione ai dati, e a un loro uso metodologicamente avvertito. Un primo aspetto di questo è la sua riflessione sui risultati ottenuti nei compiti cognitivi che hanno alimentato il dibattito sulla razionalità. Il punto cruciale è il seguente: in tutti quei compiti, persino nel compito di selezione di Wason che è tra i più difficili, c'è una percentuale di soggetti che hanno successo. Il dato è robusto, e porta Stanovich a concludere: Ci sono pochi e controversi compiti nella letteratura su euristiche e bias nei quali tutte le persone comuni non addestrate si trovano in disaccordo con gli esperti. Cc ne sono sempre alcuni che scelgono in accordo con essi. Pertanto, l'opposizione rilevante non è persone comuni non addestrate versus esperti [... ], bensì esperti più alcune persone comuni versus individui non addestrati. (Stanovich 2011: 13; questa traduzione e le altre dal libro sono mie)
Insomma, sebbene la maggior parte degli individui testati facciano scelte che si raggruppano intorno a specifici schemi di errore - i bias appunto -, c'è sempre una minoranza che «dà la risposta normativa standard» (ibid.). Questo dato dovrebbe già essere sufficiente a gettare qualche dubbio sull'idea che sfuggire ai bias sia un fatSolo recentemente mi sono imbattuto in Sauer (2019 ), che elabora un approccio alla filosofia della morale basato sul modello tripartito di Stanovich. Sebbene non abbia potuto dame conto qui, voglio almeno segnalarlo come un utile riferimento. 1
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to puramente culturale, legato a specifiche forme di addestramento professionale. Ma Stanovich fa un'ulteriore considerazione legata alle evidenze. Si tratta del fatto che i test psicologici delle capacità cognitive generali possono essere distinti in due tipologie, che tendono ad aggregarsi quanto ai risultati ottenuti: nel senso che sistematicamente alcuni soggetti ottengono risultati migliori in una di esse, altri nell'altra. L'osservazione scaturisce da un'ampia riflessione sui famosi «test di intelligenza» e su ciò che a essi sfugge ( What Intelligence Tests Miss è il titolo di Stanovich 2009 ). Secondo Stanovich, c'è una componente delle nostre capacità cognitive che, appunto, non è catturata dai test di intelligenza. Questi mirano a testare prestazioni che gli psicologi definiscono «ottimali» o «massimali», in contrasto con quelle «tipiche». Nei test che verificano prestazioni massimali ai soggetti vengono fornite istruzioni tese a focalizzare (e dunque massimizzare) le prestazioni. Viceversa, i test che verificano prestazioni tipiche hanno scarsi vincoli nel senso che «l'interpretazione del compito è in qualche misura determinata dal partecipante» (ivi: 39 ). Sono insomma test più aperti, e Stanovich li considera misuratori del pensiero critico. Ora, il dato metodologico interessante è che «la correlazione tra prestazione tipica e massimale è sorprendentemente bassa attraverso una varietà di domini» (ibid.). Ossia, appunto, i soggetti che ottengono punteggi alti in un tipo di compito o nell'altro formano classi distinte. Queste considerazioni sono importanti perché, di nuovo, suggeriscono l'esistenza di due costrutti psicologici genuini e piuttosto robusti. Nel loro insieme, le evidenze sembrano cioè mostrare che l'intelligenza - intesa nel senso del perseguire prontamente e con efficacia obiettivi prefissati - è una capacità distinta da quella che consiste nell'adottare, come si esprime Stanovich, «stili cognitivi» (o «disposizioni di pensiero») consapevoli della pluralità degli obiettivi e soluzioni possibili. È la prima capacità che Stanovich chiama «mente algoritmica», mentre chiama la seconda «mente riflessiva». Il tema merita certamente di essere approfondito.
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4. 3 Intelligenze prepotenti Stanovich concede senz'altro che l'intelligenza, intesa come la capacità misurata dai test d'intelligenza, è sotto il governo dei bias. Egli descrive questa capacità - che nella sua terminologia coincide con la mente algoritmica - come «cognizione associativa seriale con un bias focale» (Stanovich 2011: 61). Spieghiamo di che si tratta. Gli automatismi e i processi coscienti sono distinti, tra le altre cose, dal fatto che i primi sono processi che si svolgono in parallelo mentre i secondi sono seriali. In altri termini, nei processi automatici diversi flussi di informazioni sono elaborati contemporaneamente in parallelo. Possiamo identificare dei suoni e contemporaneamente elaborare informazione visiva senza relazione con quei suoni. Viceversa, i processi coscienti coinvolgono un'unica sequenza di elaborazione, appunto quella che si dipana sotto il controllo della nostra attenzione cosciente; si può elaborare un flusso di informazioni differente solo interrompendo il processo di elaborazione in corso. Per esprimere questo fatto, Stanovich ricorre a un'immagine frequentemente utilizzata: quella dell' «avarizia cognitiva». I modelli duali descrivono la cognizione del Sistema I come cognitivamente avara, nel senso che essa realizza un equilibro tra efficacia e risparmio delle energie: si accontenta di risultati non sempre felici, in cambio di sforzi di elaborazione ridotti al minimo. Ora, osserva Stanovich, a volte si sottovaluta il fatto che non solo il Sistema 1, anche il Sistema 2 è un «avaro cognitivo». Pur pagando il costo dell'attivazione di rappresentazioni coscienti, ove possibile si limita a elaborarle nel modo più economico possibile. La nozione di bias focale intende catturare esattamente questo. L'idea è che «l'elaboratore di informazioni è fortemente orientato a considerare solo il modello cognitivo che viene costruito più facilmente» (ivi: 66). In pratica, i processi automatici basati sulla memoria associativa tendono a favorire certe interpretazioni degli input - abbiamo già osservato che le nostre credenze ci indirizzano a «vedere» le cose in certi modi piuttosto che altri. Ora, sottolinea Stanovich, questo determina l'emergere di un «modello focale», prodotto dagli automatismi associativi ma che poi, una volta rappresentato nella memoria di lavoro, cattura in modo esclusivo l'attenzione cosciente del sistema cognitivo. Formando un simile modello, la mente
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algoritmica rappresenta un unico stato di cose, lo accetta come vero, e rinuncia a considerare informazione che potrebbe smentire o moderare le conclusioni tratte dal modello (ivi: 67). Convergono qui bias della conferma, e quello che Stanovich e colleghi (2013) chiamano myside bias: il fatto che tendiamo a generare e valutare evidenza, e mettere alla prova ipotesi, in modo da favorire opinioni e atteggiamenti precedenti. La differenza con il bias della conferma è che quest'ultimo ha carattere più neutrale: esso - lo abbiamo visto - tende alla conferma di qualsiasi ipotesi stiamo attualmente considerando, anche se non radicata nelle nostre credenze. Una delle osservazioni cruciali di Stanovich e colleghi (2013) è che, in base all'evidenza sperimentale, misura dell'intelligenza e capacità di resistere al myside bias non sono correlati. Ovvero, è possibile avere un'intelligenza elevata, e nondimeno essere significativamente soggetti a questo bias. In breve: si può essere intelligenti e prepotenti - usare l'intelligenza per difendere unilateralmente i punti di vista determinati dagli automatismi della memoria semantica. La capacità di evitare il myside bias sembra dunque dipendere da altre capacità: precisamente da quel genere di pensiero che Stanovich chiama «mente riflessiva».
4.4 Come uno specchio: la mente rif/,essiva A quanto pare dunque l'intelligenza, in quanto attività della mente algoritmica, accetta senza riserve i modelli del mondo prodotti dagli automatismi, e produce unilateralmente ragionamenti coerenti con quei modelli. Si comporta insomma come un avvocato o un addetto stampa, per usare le immagini di Haidt (2013). E, come previsto dal modello sociale intuizionista di Haidt ma anche da quello di Mercier e Sperber (2011), lungi dal correggere i bias essa opera sotto la loro guida. Per andare oltre questo quadro occorre prendere in considerazione quelli che la psicologia ha chiamato «stili cognitivi» o «disposizioni di pensiero». Esempi di stili cognitivi per i quali esiste un'ampia letteratura sperimentale sono i seguenti: il pensiero attivo di mentalità aperta (actively open-minded thinking); il bisogno di cognizione (need for
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cognition, ossia la tendenza a riflettere a lungo prima di agire); la considerazione delle conseguenze; il pensiero superstizioso; il dogmatismo; ed altri ancora (Stanovich 2011: 3 5). In pratica, il genere di propensioni che le misure sperimentali relative a queste disposizioni di pensiero riflettono sono: la tendenza a raccogliere informazione prima di prendere una posizione, la tendenza a considerare vari punti di vista prima di giungere a una conclusione, la disposizione a pensare estensivamente su un problema prima di rispondere, la tendenza a calibrare il grado di for1..a della propria opinione in funzione del grado di evidenza disponibile, la tendenza a pensare alle conseguenze future prima di intraprendere un'azione, la tendenza a pesare esplicitamente pro e contro delle situazioni prima di prendere una decisione, e la tendenza a cercare le sfumature cd evitare l'assolutismo. In breve, differenze individuali nelle disposizioni di pensiero misurano differenze relative al modo in cui le persone organizzano gli scopi, ai loro valori epistemici, e alle modalità di auto-regolazione epistemica - differenze nel modo in cui opera la mente riflessiva. {lvi: 36)
Capacità di questo tipo non sono strettamente correlate con punteggi alti nei test di intelligenza: un diverso tipo di test, come abbiamo visto, è richiesto per misurarle. Una delle capacità tipicamente associate alla mente riflessiva è la flessibilità cognitiva (su cui esiste una vasta letteratura sperimentale). Ma ve ne sono altre, altrettanto consolidate sperimentalmente: l'auto-controllo, la capacità di sospendere corsi d'azione e intraprendere simulazioni mentali slegate dal contesto immediato, il pensiero ipotetico e contro-fattuale, ma anche tratti legati alla sfera motivazionale tra i quali - a titolo di esempio - la disposizione al perdono (ivi: 51; Pronk e colleghi 2010). Non è difficile vedere che questo quadro, pur nella sua complessità, è riducibile a un principio sostanzialmente unitario. La mente riflessiva consiste nella capacità di riflettere in senso etimologico: di rispecchiare i propri processi, metterli sotto una lente e valutarli, anche alla luce di alternative non immediatamente visibili. In questo rispecchiamento, la mente riflessiva mette sotto esame i risultati della mente autonoma e di quella algoritmica. Pertanto, mette sotto esame anche i bias. Sospende azioni, credenze e sentimenti adottati automaticamente. Esercita capacità di auto-controllo e inibizione su comportamenti d'abitudine, si distanzia dalle proprie emozioni (si veda la disposizione al perdono), esplora attivamente alternative.
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Stanovich insiste, a questo proposito, su due nozioni fondamentali: quella di «disaccoppiamento cognitivo» (cognitive decoupling), e quella di meta-rappresentazione. Cominciando dalla prima, il disaccoppiamento cognitivo è stato discusso in modi correlati ma in qualche misura differenti da una quantità di differenti ricercatori provenienti da differenti prospettive, non limitate a: psicologia sperimentale, psicologia evoluzionistica, intelligenza artificiale, e filosofia della mente. {Stanovich 2011: 48) 2
Si tratta della capacità di mantenere distinte le rappresentazioni prodotte dall'immaginazione da quelle del mondo esterno, così da usare le prime in attività cognitive di esplorazione del possibile. Il disaccoppiamento è essenziale perché, ovviamente, non è bene confondere le azioni che abbiamo intrapreso, o intendiamo intraprendere, con le alternative che stiamo meramente esaminando con il pensiero. Quanto alle meta-rappresentazioni, esse sono rappresentazioni di secondo livello con cui cioè rappresentiamo altre rappresentazioni. Ad esempio è possibile formare credenze relativamente ad altre credenze, come quando dico «ho imparato P dal mio professore di filosofia», in cui P è una mia credenza, e la più ampia proposizione che la include esprime qualcosa che so (o presumo di sapere: potrei ricordare male) su quella mia credenza. Disaccoppiamento cognitivo e meta-rappresentazioni sono altrettanto essenziali per produrre il genere di rispecchiamento - di riflessione - di cui stiamo parlando. C'è tuttavia una terza componente, non meno importante, da considerare: l'attenzione. A giudizio di Stanovich, la memoria di lavoro non dovrebbe essere considerata solo un meccanismo per mantenere attiva l'informazione utile ai processi in corso. &sa va considerata più in generale come un meccanismo per la gestione dell'attenzione. Quando un certo modello della realtà, o un piano d'azione, entra nella nostra memoria di lavoro, questa può a) mantenerlo attivo per il tempo necessario allo svolgimento del compito o dell'azione, ma può anche b) spostare l'attenzione su contro-indicazioni di quel modello o azione, e c) volgere l'attenzione verso modelli e ipotesi di azione alternativi, nonché d) inibire il modello o l'azione iniziali. 2. Stanovich riporta un'ampia bibliografia di riferimento sul tema. Per limitarci ad alcuni testi classici, si vedano Carruthers (2.000; 2.006) e Suddendorf (1999).
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Insomma, data una certa rappresentazione nella memoria di lavoro, quest'ultima può attivare meta-rappresentazioni che veicolano atteggiamenti verso di essa (ad esempio, valutazioni negative legate a esperienze precedenti), ed eventualmente può attivare scenari alternativi in modalità «disaccoppiata», ossia come semplici esplorazioni nell'immaginazione. Attenzione, meta-rappresentazioni e disaccoppiamento cognitivo sono dunque componenti di un sistema unitario: la mente riflessiva. Si noti che la gestione dell'attenzione richiesta per attivare il pensiero in modalità disaccoppiata - sospendendo la prepotenza degli automatismi e distanziandosi dal qui ed ora della situazione presente - comporta uno sforzo cognitivo decisamente consistente3. La mente algoritmica, con la sua obbedienza meccanica ai bias, lascia il posto all'impegno attivo della mente riflessiva.
4. 5 Razionali per natura (ma non abbastanza) Abbiamo dunque introdotto la mente riflessiva, caratterizzandone per grandi linee struttura e funzioni. Questo ci consente di affrontare in modo più specifico una questione già discussa: se si tratti di una capacità essenzialmente culturale e sociale, o viceversa di un costrutto psicologico genuino. Come è ormai chiaro al lettore, difenderò la seconda opzione, ma senza per questo escludere l'importanza della dimensione culturale. Partiamo da un'acuta considerazione di Stanovich. Le disposizioni di pensiero caratteristiche della mente riflessiva non sono qualcosa che i soggetti dovrebbero tendere a massimizzare - secondo il principio «più ce n'è, meglio è». È evidente infatti che esitare infinitamente, poniamo, prima di prendere ogni minima decisione non è una strategia consigliabile .
.3 ~
bene avere chiara, a questo proposito, la differenza tra il pensiero in modali-
tà disaccoppiata e il semplice «mind wandering», la divagazione mentale. Come osserva Stanovich (2011: 70), quest'ultima è un caso di cognizione associativa seriale guidata da
automatismi (vedi sopra), e come tale comporta uno sforzo mentale molto modesto. Ciò che presenta costi significativi, viceversa, è il ricorso al pensiero in modalità disaccoppiata in quanto dispositivo per resistere agli automatismi, piuttosto che assecondarli.
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Riflessività e flessibilità nelle credenze sono stili cognitivi «buoni» (per la ragione che la maggior parte delle persone non ha valori abbastanza alti su queste dimensioni, così che «di più» sarebbe meglio}, ma non si assume che debbano essere massimizzate. (lvi: 39}
Stanovich ritiene insomma che sia un bene aumentare il grado di riflessività non perché «più ce n'è, meglio è», bensì perché quella che esercitiamo spontaneamente è scarsa, e ci lascia ampiamente sotto la tirannia dei bias. Ma «scarsa» non vuol dire «assente». Dicendo che i valori della maggior parte delle persone non sono «abbastanza alti», Stanovich sta comunque suggerendo che una certa dose di riflessività sia comunque presente. Non si tratta di qualcosa che va creato dal nulla. Se infatti consideriamo le diverse componenti del costrutto psicologico che abbiamo descritto, è facile vedere che queste si manifestano - sia pure in misura variabile - in ogni essere umano. Tutti siamo capaci di meta-rappresentazioni, di gestione complessa dell'attenzione, di disaccoppiamento cognitivo. Stanovich richiama anche alcune robuste evidenze in questa direzione, specialmente provenienti dalla psicologia dello sviluppo. Faccio un unico esempio, relativo alle capacità di auto-controllo. Qui gli studi classici sono quelli di Walter Mischel e colleghi sulla capacità dei bambini di rinviare la soddisfazione di un desiderio. Bambini di quattro anni avevano la possibilità di scegliere tra una ricompensa immediata (un biscotto Oreo) oppure una più grande (due Orco) ma a condizione di aspettare un quartod'ora4. Circa la metà dei bambini riuscì ad attendere. Il dato interessante è che i soggetti furono esaminati a distanza di anni, con risultati che Kahneman riassume così: Dicci o quindici anni dopo, risultava esserci un grande divario tra i bambini che avevano resistito alla tentazione e quelli che non vi avevano resistito. Quelli che vi avevano resistito avevano maggiore controllo esecutivo nei compiti cognitivi, in particolare nella capacità di riallocarc la loro attenzione in maniera efficace. Divenuti giovani adulti, mostravano meno tendcn1..a ad assumere droghe. Emerse una notevole differenza nell'attitudine intellettuale; i raga1..zi che avevano mostrato più autocontrollo a quattro anni registravano punteggi assai più alti nei test d'intelligenza. (Kahncman 2011:
53}
"' In un'altra versione si trattava di marshmal/ow: per questa ragione è noto anche come «test dei marsbmallow».
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Poco dopo Kahneman aggiunge alla lista anche una maggiore capacità, da parte di questi soggetti, di «controllare le emozioni». Incidentalmente, è opportuno precisare che il riferimento finale ai test d'intelligenza va preso in senso generico. Kahneman non adotta la distinzione di Stanovich tra mente algoritmica (misurata dai test d'intelligenza in senso stretto) e mente riflessiva. In particolare, il contesto in cui appare la citazione rende chiaro che ha in mente il test di riflessione cognitiva di Shane Frederick: dunque un compito che secondo la classificazione di Stanovich ricade in pieno nelle capacità di controllo riflessivo (in particolare, coinvolge in modo cruciale l'inibizione degli automatismi). L'esperimento di Mischel è interessante per vari aspetti. In primo luogo, conferma che le capacità riflessive costituiscono un grappolo di capacità correlate. Auto-controllo della volontà, delle emozioni, dei processi cognitivi, controllo dell'attenzione, sono evidentemente in larga misura aspetti della stessa capacità, la quale costituisce un costrutto psicologico stabile nel tempo. Gli stili cognitivi, o disposizioni di pensiero, sono insomma realtà psicologiche robuste. In secondo luogo, il numero dei bambini che superano il test (circa la metà) suggerisce che si tratti di capacità in qualche misura ben distribuite. D'altra parte, come osserva esplicitamente Kahneman, i dettagli del compito lo rendono relativamente difficile. Il che significa che la metà dei bambini che lo falliscono non sono verosimilmente privi di auto-controllo: semplicemente, non he hanno in una misura sufficiente per quel compito. La morale sembra essere dunque che le capacità in oggetto sono parte della dotazione cognitiva propria della nostra specie, anche se - ripetendo la citazione precedente da Stanovich - «la maggior parte delle persone non ha valori abbastanza alti su queste dimensioni». Non abbastanza alti per tenere a bada i nostri automatismi tutte le volte che sarebbe desiderabile - o almeno, la maggior parte di esse. Trattandosi di una capacità naturale, ma che padroneggiamo solo in modo imperfetto nei processi spontanei, la capacità riflessiva soddisfa pienamente la descrizione che Aristotele dava delle abilità sottese alla retorica e dialettica (grosso modo, rispettivamente, l'abilità di argomentare persuasivamente e il ragionamento):
RAZIONALI FINO IN FONDO
entrambe riguardano oggetti la cui conoscenza è in un certo qual modo patrimonio comune di tutti gli uomini e che non appartengono a una scienza specifica. Da ciò segue che tutti partecipano in certo senso di entrambe, perché tutti, entro un certo limite, si impegnano a esaminare e sostenere un qualche argomento, o a difendersi e ad accusare. Gli uomini, per la maggior parte, fanno tutto ciò o senza alcun metodo, o con una familiarità che sorge da una disposizione acquisita. E dal momento che entrambi i casi sono possibili, è evidente che anche in questa materia si può seguire un metodo; è possibile infatti esaminare la causa per cui raggiungono il loro scopo tanto quelli che agiscono con familiarità quanto quelli che lo fanno per impulso spontaneo, e tutti ammetteranno che questa sia la funzione di una tecnica. (Aristotele 1983: 3)
Per Aristotele una tecnica è lo sviluppo di un metodo atto a perfezionare una capacità spontanea. Un simile metodo viene costruito a partire dall'esperienza, osservando cosa funziona di più e di meno nell'esercizio delle capacità argomentative e persuasive. Una volta costruito, il metodo può essere trasmesso attraverso una pratica - un addestramento guidato da esperti - così da migliorare le prestazioni spontanee. Si potrebbe avere l'impressione che l'intera educazione presso la nostra specie sia un addestramento delle capacità riflessive. In parte è proprio così. L'educazione richiede un continuo esercizio dell'attenzione (i genitori, gli insegnanti, chiedono l'attenzione del discente), dell'auto-controllo (a cominciare da quello richiesto, a scuola, per rimanere seduti per ore ad ascoltare), e così via. Tuttavia, una tesi di fondo di questo libro è che l'educazione come formazione del soggetto razionale è tanto più efficace quanto più è illuminata dalla consapevolezza dei meccanismi che si oppongono al controllo di sé. Occorre un'analisi degli automatismi. In sintesi, la mente riflessiva non è qualcosa che l'educazione debba creare dal nulla: essa costituisce una capacità spontanea della nostra specie. Ma è una di quelle capacità che si sviluppano in modo significativo solo quando vengono opportunamente educate. E - per insistere sul punto per noi centrale - quest'educazione passa attraverso una maggiore consapevolezza del potere degli automatismi.
4.
LA MENTE RIFLESSIVA
4.6 Come sappiamo quando ci serve aiuto? La mente riflessiva, abbiamo detto, è costituita da meccanismi per la gestione dell'attenzione, per le meta-rappresentazioni, e per il disaccoppiamento cognitivo (che potremmo chiamare, con espressione più tradizionale e amichevole, «immaginazione attiva»). Essa svolge funzioni di monitoraggio delle azioni e delle informazioni associate; va in cerca di contro-indicazioni e contro-esempi; esplora possibilità alternative; eventualmente inibisce gli automatismi. C'è però un punto cieco in queste considerazioni. Se è vero infatti che il nostro sistema cognitivo è avaro (mira ad evitare gli sforzi), e che la mente riflessiva è un meccanismo faticoso, cosa ne determina l'attivazione? Abbiamo detto fin dalle prime pagine che processi coscienti più costosi sono di norma attivati quando i soggetti registrano deviazioni importanti dalle proprie aspettative. Agire con l'intenzione di raggiungere un obiettivo e fallire, ci dispone senz'altro ad esercitare un impegno maggiore. Se è vero, d'altra parte, che ciò che motiva all'azione sono essenzialmente le emozioni (in generale, gli stati affettivi), è ragionevole pensare che non siano i fallimenti in sé a innescare processi cognitivi più impegnativi, quanto piuttosto stati affettivi ad essi associati. Abbiamo qualche evidenza che le cose stiano effettivamente così? La psicologa Valerie A. Thompson è nota per i suoi studi, nell'ambito del ragionamento, su una famiglia di «esperienze» o «sensazioni meta-cognitive» che innescano l'intervento del Sistema 2 (ma la studiosa si riferisce chiaramente alla sua componente più dispendiosa, quella che Stanovich chiama «mente riflessiva»). Torneremo su questo più avanti. In effetti, la proposta della Thompson ha un limite che lei stessa riconosce: le sensazioni meta-cognitive in questione possono spesso produrre giudizi erronei (Thompson 2009: 175). In particolare - e questa non giunge come una sorpresa - tendono a tranquillizzarci sulla bontà dei risultati ottenuti in numerosi casi nei quali faremmo meglio a dubitarne. Come sappiamo, il monitoraggio pigro del Sistema 2 causa l'impressione che tutto vada per il meglio anche quando gli automatismi producono risultati insoddisfacenti. Stando così le cose, c'è modo di diventare più vigili, più consapevoli di quel che può andare storto e più capaci di correggerlo? Come
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si sviluppa, insomma, la mente riflessiva? Stanovich (2011) indica due ingredienti essenziali per una mente riflessiva ben funzionante. Il primo ingrediente è un complesso di conoscenze che Stanovich chiama «mindware», un neologismo coniato sul modello delle parole «software» e «hardware». Le conoscenze in questione hanno natura essenzialmente meta-cognitiva: si tratterebbe infatti di istruzioni su cosa fare con i risultati dei nostri processi cognitivi. È evidente infatti che la mente riflessiva non può intervenire sui risultati degli automatismi a meno che non disponga di certe conoscenze in proposito: Affinché si possa sovrastare una risposta innescata da T ASS [cioè, come abbiamo detto, dal sistema degli automatismi] con informazione alternativa o con una regola appresa, bisogna avere precedentemente appreso l'informazione o la regola. (Stanovich 2011: 97)
Dunque, il cosa fare che va appreso contiene regole su come indirizzare l'elaborazione in una direzione alternativa agli automatismi. Ma il mindware deve, ovviamente, contenere anche informazioni sulle circostanze nelle quali ciò è richiesto: deve sapere quando applicare quelle regole al fine di correggere gli errori indotti dai bias - smascherando le sensazioni ingannevoli di correttezza che li accompagnano. Insomma, come suggerisce l'ampia discussione contenuta in Stanovich (2011), il mindware deve includere la conoscenza dei bias: dei modi in cui si manifestano, delle loro conseguenze che richiedono correzioni, dei modi in cui correggerle. Infatti è possibile intervenire sugli automatismi solo nella misura in cui si è preparati a riconoscerli, e a prevedere i loro guasti. Queste considerazioni sono coerenti, per un verso, con l'idea ben espressa da Paglieri (2016) secondo cui la «cassetta degli attrezzi adattivi» (euristiche e bias) di cui disponiamo sarebbe meglio utilizzata se avessimo qualche consapevolezza dei contesti appropriati per utilizzarli o non utilizzarlis. Come suggerisce Aristotele, bisogna analizzare il ragionamento spontaneo così da discriminare quando esso funziona bene e meno bene, e ricavare da questo un metodo, una tecnica. Per un altro verso, queste considerazioni sul mindware (in quanto conoscenze sui bias atte ad attivare il ragionamento riflessivo) richia-
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mano un altro tema che abbiamo discusso: l'immagine del ragionamento come riconoscimento immediato di configurazioni(§ 3.5). Infatti non dobbiamo solo sapere quando i bias rischiano di produrre guasti -e dunque faremmo bene ad attivare la mente riflessiva. Bisogna inoltre che il riconoscimento di queste situazioni sia automatico: in caso contrario, avremmo bisogno di processi riflessivi che ci dicono quando attivare processi riflessivi. Un circolo vizioso. Insomma, i mindware richiesti per innescare processi riflessivi potrebbero essere descritti così: complessi di conoscenze basate sull'esperienza, esercitate al punto da diventare automatiche, e che hanno per oggetto gli automatismi, i contesti (e modi) in cui si manifestano, gli errori che producono, e le loro possibili correzioni. Vi è poi un secondo ingrediente che, secondo Stanovich, caratterizza una mente riflessiva ben funzionante: è la componente motivazionale, che costituisce il vero motore del meccanismo. Come abbiamo osservato ripetutamente, non sono le conoscenze ma le componenti affettive che spingono le persone ad agire. La stessa capacità di costruire mindware capaci di correggere i bias non si spiegherebbe altrimenti: perché dovremmo mobilitare l'attenzione, in modo prolungato nel tempo, abbastanza da imparare a riconoscere i bias e correggerli? Il tema merita di essere approfondito.
4. 7 Mettere in riga le preferenze Accanto alle meta-rappresentazioni con cui catturiamo conoscenza sui bias e le possibili alternative, Stanovich introduce una nozione dichiaratamente meno consolidata in letteratura, che anzi costituisce in qualche misura una sua proposta originale: la nozione di Master Rationality Motive. La chiamerò, per semplicità, motivazione riflessiva (nel senso di «motivazione all'uso della mente riflessiva»). Stanovich (2011: 81) la descrive come «la motivazione che guida la ricerca di integrazione razionale attraverso la propria gerarchia di preferenze». Vediamo di che si tratta. È importante, in prima approssimazione, capire come questa motivazione sia correlata con una sensazione negativa, la «sensazione di alienazione» (feeling of alienation) nei confronti delle nostre stes-
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se azioni. Tale sensazione si manifesta quando i risultati degli automatismi non corrispondono alle nostre preferenze esplicite. Un caso significativo è quello della «debolezza della volontà», che comporta un conflitto tra due desideri: un desiderio associato a determinati automatismi d'abitudine, e un secondo desiderio che si oppone in modo inefficace alla realizzazione del primo 6• È tipicamente il caso delle dipendenze - da alcol, fumo e così via. Quando cominciamo a combatterle, i fallimenti sono contrassegnati appunto da una sensazione di alienazione: gli automatismi e i conseguenti comportamenti ci appaiono estranei - qualcosa che ci si impone contro la nostra volontà. In questi contesti, la motivazione riflessiva può essere pensata come il desiderio di sfuggire ai fallimenti dovuti alla debolezza della volontà, in quanto essi producono una sensazione di alienazione. Si tratta dunque sostanzialmente di una meta-motivazione, che può avere per oggetto altre motivazioni: essa è cioè un desiderio di integrazione razionale tra le proprie motivazioni, azioni e conoscenze. Stanovich suggerisce che questa ricerca di integrazione passi attraverso l'organizzazione della gerarchia delle preferenze. Torniamo ali' esempio delle dipendenze: come è possibile integrare, poniamo, il desiderio di bere smodatamente alcolici e quello di non distruggere la propria vita a causa del bere? L'integrazione tra questi desideri richiede inevitabilmente una loro gerarchizzazione. Bisogna scegliere cosa è più importante - ed eventualmente, quanto spazio si può dare al desiderio meno importante affinché non ostacoli quello più importante. Qui dunque l'innesco è interno: una sensazione di fallimento rispetto a qualche nostro desiderio esplicito. Ma la motivazione riflessiva può essere sollecitata anche dall'esterno - da giudizi altrui capaci di mettere in discussione nostri comportamenti o giudizi. Si pensi a quelle situazioni dialogiche che secondo Haidt (e, in parte, secondo Mercier e Sperber) consentono di mettere in discussione credenze e giudizi generati da automatismi. In realtà, come abbiamo notato, non tutti i contesti dialogici producono questi effetti (si veda sopra, § 1.4). Ma certamente alcuni lo fanno più di altri. È un'assunzione ragionevole che ciò dipenda, tra le altre cose, da quanto un contesto è capace di mobilitare la motivazione riflessiva. Ad esempio, se 6
Stanovich richiama un'ampia letteratura psicologica e filosofica sull'argomento. Per limitarci a un solo esempio sul terreno della psicologia, si può vedere Ainslie (2001); per altri riferimenti si veda Stanovich (2011: 94, nota 1).
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un interlocutore argomenta contro un mio giudizio morale in modi costruttivi piuttosto che conflittuali, è più facile che io sia disposto a prendere in considerazione le sue intuizioni. Ancora, un interlocutore che stimo può mettermi maggiormente in crisi. Fattori quali l'atteggiamento costruttivo dell'interlocutore, o la stima per lui, mi inducono tendenzialmente a trattare il suo punto di vista come se fosse mio. Producono quindi uno stato di conflitto tra i miei giudizi o credenze, e quelli che occasionalmente prendo in considerazione come se fossero miei: uno stato di conflitto che presumibilmente innesca la motivazione riflessiva, ossia l'impulso all'integrazione razionale. Finora ho suggerito che la motivazione riflessiva possa essere innescata sia da sensazioni di alienazione endogene (nate dall'interno), sia da situazioni dialogiche. Ma in entrambi i casi, abbiamo assunto che essa sia qualcosa di dato, che viene semplicemente innescato in determinate situazioni. Consideriamo adesso una diversa questione: se, e in che modo, la motivazione riflessiva possa essere più o meno sviluppata negli individui, come conseguenza dell'esperienza e/o dell'educazione. In generale, come abbiamo visto sopra (§ 4. 5), c'è ragione di credere che la mente riflessiva sia un costrutto psicologico robusto, di cui siamo dotati tutti, e che tuttavia si sviluppa di più o di meno da un individuo all'altro. Una prima componente di essa sono i mindware, ed è del tutto plausibile che questi - in quanto complessi di conoscenze - siano variabili da individuo a individuo. La domanda è: la motivazione riflessiva è altrettanto variabile? Un'analisi estensiva della letteratura sulle disposizioni di pensiero potrebbe forse rispondere più rigorosamente a questa domanda; ma preferisco seguire un percorso diverso, più sintetico e speculativo, che prova a tenere insieme considerazioni sulle disposizioni di pensiero e sull'identità personale. Ciò consentirà di elaborare un'immagine più ricca della motivazione riflessiva.
4. 8 Il piacere di esitare Potrebbe essere riduttivo concepire la motivazione riflessiva esclusivamente come risposta automatica al disagio prodotto dalla mancanza di integrazione. Sembra più interessante - e plausibile - considerarla (anche) come un tratto positivo della personalità. Questo
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significa che tale motivazione non soltanto può variare quantitativamente da un individuo all'altro: in più, essa è verosimilmente parte della percezione consapevole di sé, del nostro sistema cosciente di credenze e motivazioni. Si pensi a disposizioni di pensiero come, rispettivamente, il pensiero attivo di mentalità aperta da un lato e il dogmatismo dall'altro. La scarsa propensione del dogmatico a confrontare e modificare i propri giudizi non è di certo del tutto inconsapevole: al contrario, una certa inclinazione ai posizionamenti netti - a non «fare compromessi» con i punti di vista altrui - fa parte del modo in cui il dogmatico percepisce sé stesso. Analogamente (ma in direzione contraria), coloro che manifestano il pensiero attivo di mentalità aperta assegnano consapevolmente un valore positivo alla pluralità dei punti di vista, e ali' esame critico dei propri giudizi. In pratica, ciò che sto suggerendo è che qui operino due meccanismi distinti. Ad un primo livello vi è la comune inclinazione automatica all'integrazione dei nostri stati mentali. Al di sopra di questo meccanismo comune si formano, in funzione dell'esperienza, differenti costrutti meta-cognitivi costituiti da credenze e motivazioni: alcuni maggiormente orientati verso l'integrazione della pluralità (sia essa interna o esterna), altri verso la negazione di essa. Tali diversi orientamenti verso la pluralità producono disposizioni di pensiero, e dunque tipi di personalità, differenti7. La motivazione riflessiva (il Master Rationality Motive di Stanovich) va pensata (anche) come l'assegnazione di un valore positivo all'integrazione della pluralità, in quanto parte di disposizioni di pensiero coerenti con questo orientamento. Per comprendere il funzionamento della motivazione riflessiva è importante una considerazione. L'abbiamo appena descritta come assegnazione di un valore positivo al risul'tato del processo: ossia all'integrazione di una pluralità di preferenze, giudizi o credenze. Ma questo valore positivo deve in qualche modo riverberarsi sullo stato iniziale del processo, che è uno stato di assenza di integrazione. Si ricordi che gli stati affettivi, positivi e negativi, hanno una funzione comportamentale: servono a dirigere i soggetti verso qualcosa, o ad allontanarli da qualcosa. Dunque, se all'assenza di integrazione fosse 7 Un tema che dovremo riprendere più avanti (S 6.18) è la distinzione tra, rispettivamente, disposizioni di pe11siero e ideologie orientate al pluralismo. Come diremo, si tratta di due cose molto diverse.
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associato uno stato affettivo negativo i soggetti ne sarebbero allontanati: tenderebbero cioè ad evitare situazioni in cui c'è una pluralità, e potenzialmente un conflitto, tra preferenze. Dobbiamo perciò supporre che, al contrario, nei soggetti riflessivi l'esitazione tra possibili punti di vista produca uno stato affettivo (sia pur debolmente) positivo, piuttosto che uno negativo. Un'interessante distinzione terminologica in tal senso è introdotta da Hermans e Hermans-Konopka (2010), all'interno di una riflessione sulla costruzione dell'identità nel mondo globalizzato. Si tratta della distinzione tra ansia/insicurezza da un lato, e incertezza dall'altro. L'esperienza dell'incertezza - affermano gli studiosi - è qualcosa di ineludibile in un mondo complesso; ma quando raggiunge elevati livelli di intensità, essa si trasforma in insicurezza e ansia (ivi: 3 ). L'idea è dunque che gestire situazioni complesse presupponga una certa capacità di sopportare (come minimo) l'incertezza, evitando che si tramuti in ansia. La gestione dell'insicurezza/ansia è chiaramente un problema intrinseco alle situazioni di conflitto tra preferenze. Si ricordi l'esperimento di Mischel, in cui era testata la capacità di bambini di quattro anni di posporre una gratificazione. Il conflitto in quel caso era tra una gratificazione immediata ma minore, e una maggiore ma dilazionata. La metà dei bambini che riesce nel compito lo fa, come si esprime Kahneman (2011: 52), «distogliendo gli occhi dalla ricompensa tentatrice». Mostra cioè un certo disagio di fronte all'incertezza prodotta dall'alternativa, disagio che supera utilizzando una strategia diversiva: si distrae intenzionalmente. Anche nel trattamento delle dipendenze è importante lo sviluppo di strategie per deviare l'attenzione dall'oggetto del desiderio. Entrambi sono casi di debolezza della volontà, di fronte a preferenze a cui si vuole resistere: dunque solo elaborando strategie diversive è possibile aggirare le preferenze più forti. Si può tuttavia immaginare che ripetuti episodi di successo accrescano l'autostima dei soggetti. Ossia, ogni volta che le strategie diversive consentono di vincere gli automatismi i soggetti aumentano la fiducia nella propria capacità di resistere alle tentazioni. Ma insieme all'immagine di sé si modifica verosimilmente la percezione dei conflitti tra preferenze: a questi è ora associato per un verso un generico senso di familiarità, per un altro il ricordo dei passati episodi di successo. Per entrambi gli aspetti, di fronte a nuove situazioni di questo tipo il soggetto tenderà ad attivare uno stato affettivo positivo: percepisce
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adesso di essere in grado di gestirle, e non le connota più come situazioni minacciose. Giochiamo volentieri a un gioco in cui siamo bravi. Attraverso esperienze del genere, nelle quali il conflitto tra preferenze è inevitabile, si può imparare a gestire lo stato di incertezza che ne deriva. Si formano in tal modo disposizioni di pensiero che preparano i soggetti a cercare attivamente altre - meno evidenti - situazioni di conflitto. Ad esempio, la soddisfazione attuale di una preferenza può essere incompatibile con la soddisfazione futura di un'altra: ma questa relazione temporale può non essere immediatamente visibile al soggetto. Oppure, una gratificazione egoistica potrebbe essere in conflitto - in modo non auto-evidente - con le gratificazioni sociali/ relazionali prodotte da un gesto più disinteressato. Una volta che il soggetto si abitua ad accogliere situazioni di conflitto (o semplice incertezza) come potenzialmente positive, gli è possibile esplorare la propria esperienza in cerca di questi conflitti meno evidenti. L'impulso all'integrazione può così diventare una forza attiva. Oltre all'accresciuta autostima, nell'esperienza dei bambini che imparano a dilazionare la gratificazione si produce un ulteriore elemento di rispecchiamento. Il loro successo è un successo su sé stessi: sui loro propri automatismi. Nello sviluppo della motivazione riflessiva, dunque, dobbiamo distinguere queste tre componenti: il soggetto a) accresce la propria autostima, b) valuta più positivamente le situazioni di incertezza tra preferenze, e c) aumenta il senso di distanza (e dunque il grado di vigilanza) verso una parte di sé: quella costituita dai propri automatismi. Fin qui abbiamo considerato l'emergere della motivazione riflessiva nel dominio delle preferen.ze. Il soggetto giunge a connotare positivamente i conflitti che derivano da preferenze automatiche. Ma la stessa dinamica la ritroviamo nel dominio delle credenze. La motivazione riflessiva ci conduce a vedere la complessità epistemica - i conflitti, attuali o potenziali, tra le proprie credenze - come qualcosa che non sentiamo il bisogno di evitare. La ricerca di coerenza si sposta ad un livello del tutto nuovo, che include la ricerca attiva di controesempi e contro-argomenti. Il piacere di esitare è la chiave in grado di aprire le porte della mente riflessiva.
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4.9 Razionalità come integrazione tra emozioni Prima di lasciare il tema della mente riflessiva, un paio di considerazioni conclusive. Per cominciare, le analisi dei paragrafi precedenti ci danno strumenti per descrivere più chiaramente il rapporto tra razionalità ed emozioni. La razionalità - avevamo anticipato nella Premessa (specialmente nel § o.8) - non dispone di criteri propri per valutare le emozioni. Secondo un'idea tradizionale in filosofia, e della quale Hume è stato tra i più limpidi sostenitori, solo le emozioni possono motivare i comportamenti. Quest'idea è qui sostanzialmente preservata. La mente riflessiva impone sul potere degli automatismi un'istanza superiore di razionalità. Ma da cosa essa trae la propria autorità ed efficacia? In primo luogo, la mente riflessiva fa leva essa stessa su uno stato affettivo, che abbiamo chiamato «motivazione riflessiva». In secondo luogo, tale stato affettivo di secondo livello opera come motivazione all'integrazione tra preferenze - ossia tra stati affettivi di primo livello. È una partita che si gioca, in buona sostanza, interamente sul terreno delle emozioni. È vero che abbiamo descritto la mente riflessiva come una struttura che coinvolge tre diverse componenti: meta-rappresentazioni, memoria di lavoro (come meccanismo per la gestione dell'attenzione), e immaginazione attiva (con la sua capacità di disaccoppiamento cognitivo). Inoltre, accanto alla motivazione riflessiva abbiamo anche introdotto i mindware, ossia strutture di conoscenza sulle circostanze e modi in cui la mente riflessiva debba intervenire. Ma non dovrebbe sfuggire come queste componenti formino un dispositivo unitario, al servizio della partita giocata dalle emozioni: un dispositivo finalizzato a creare l'arena nella quale le emozioni possono confrontarsi, e mediarsi tra loro. Innanzitutto, la memoria di lavoro crea quello che in Premessa abbiamo chiamato lo «spazio mentale di conciliazione» della pluralità interna: è l'arena mentale in cui si gioca la partita tra le emozioni. L'immaginazione attiva, d'altro canto, è la capacità di richiamare in memoria di lavoro informazione meno immediatamente accessibile, inclusa quella affettiva. Una mente riflessiva ben allenata consente ai soggetti di sostenere i costi dell'inibire automatismi, del richiamare informazio-
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ne meno accessibile, del sopportare l'incertezza dovuta alla pluralità, e dell'esplorare modi per integrare quella pluralità. Ma ciò che va richiamato e integrato sono, innanzitutto, preferenze: stati affettivi. Quanto ai mindware, essi sono appunto meta-rappresentazioni funzionali al processo di richiamo e integrazione delle preferenze. Grazie alla rappresentazione oggettivata dei bias possiamo prevederne le conseguenze, e gli stati affettivi associati. Questi stati affettivi costituiscono il contrappeso mediato delle motivazioni immediate ad agire: la preferenza per un beneficio attuale deve confrontarsi con la rappresentazione di un danno futuro, la preferenza per un vantaggio egoistico deve confrontarsi con un costo sociale o relazionale, e così via. Questo quadro consente anche di superare una difficoltà teorica delle teorie emotiviste della razionalità, ben riassunta dal famoso motto di Hume secondo cui non sarebbe irrazionale preferire che il mondo finisca piuttosto che subire un graffio. Hume era disposto ad accettare questa (presunta} conseguenza. Egli sposava, in generale, quella che viene chiamata una «concezione sottile» (inglese thin) versus «ampia» (broad) della razionalità: l'idea che si può discutere della razionalità dei mezzi in quanto più o meno efficaci per raggiungere scopi, ma non della razionalità degli scopi in quanto tali 8• Per Hume, la razionalità degli scopi non è oggetto di discussione in quanto essi sono dettati dalle emozioni, e dunque razionali per definizione. Se le emozioni mi spingono a prendermi cura solo di me stesso, allora è razionale (o comunque, non è irrazionale) farlo e ignorare il resto del mondo. In quanto abbiamo proposto, viene accolta l'idea che non vi sia alcuna autorità esterna a cui appellarsi contro le emozioni. Tuttavia, la conclusione di Hume presuppone un'ulteriore assunzione circa le emozioni, così estrema da far pensare che serva solo a rendere filosoficamente incisiva (provocatoria?} l'intuizione emotivista. Si tratta dell'idea che gli esseri umani siano guidati da emozioni puramente egoistiche, in particolare legate al benessere fisico. Non dovrebbe essere necessario insistere su quanto quest'idea sia riduttiva, di fronte alla ricchezza dei bisogni sociali e simbolici propri della nostra specie - di questi parleremo ampiamente nei prossimi capitoli. È l'intera gamma di queste emozioni che ci chiede ascolto, ed esige integrazione da parte della mente riflessiva. 8
Questa ben nota distinzione è dovuta a Elster (1979).
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Perciò, no, non ci sembra razionale preferire che l'intero mondo sia distrutto piuttosto che subire un graffio.
4.10
Emozioni e credenze beneducate
Insomma, la razionalità può essere descritta come un processo meta-cognitivo di integrazione degli stati affettivi e cognitivi. In una parola, essa è un processo di auto-regolazione emotivo-cognitiva del soggetto. Ma che il soggetto possieda questa capacità in una misura più o meno soddisfacente, dipende dagli accidenti dell'esperienza e dell'educazione. Per un verso, è vero, abbiamo descritto la mente riflessiva come un costrutto psicologico robusto, con una chiara base biologica. La corteccia pre-frontale, in particolare, sembra avere tutte le caratteristiche necessarie per operare come regista dei processi riflessivi: essa è connessa con le principali vie cerebrali che forniscono informazione sul mondo e su noi stessi (inclusi gli stati affettivi); è il perno delle attivazioni cerebrali distribuite da cui emergono coscienza e memoria di lavoro; ha capacità di progettazione, monitoraggio, inibizione di alternative, correzione dei processi in cors9. Questo vuol dire che, in quanto individui, nasciamo con la predisposizione biologica necessaria per avere una mente riflessiva. Ma tutto ciò non impedisce che, a partire da quella base biologica comune, la mente riflessiva possa essere più o meno sviluppata come conseguenza dell'esperienza e/o dell'educazione. Alcune teorie della corteccia pre-frontale, in particolare, assumono che essa svolga un ruolo di natura «rappresentazionale» più che «processuale»: che essa cioè governi i comportamenti umani in quanto ospita uno specifico genere di rappresenuzzioni, piuttosto che uno specifico tipo di processi. In pratica, la tesi è che la corteccia pre-frontale costituisca il livello più alto delle aree cerebrali dedicate alla rappresentazione delle azioni: essa sarebbe la sede, per così dire, dei piani d'azione e delle strategie di alto livello 10• Ciò è del tutto compatibile con l'idea di disposizioni di pensiero individuali costrui-
9 10
Sulla corteccia pre-frontale si veda sopra, SS 2.12, 2.19, S 3.18. Si vedano in particolare Fuster (2001; 2003); Miller e colleghi (2001; 2002).
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te in base all'esperienza: ovvero, strategie meta-cognitive costituite da complessi coerenti di preferenze e credenze. Non è difficile vedere come lo sviluppo della mente riflessiva possa essere catturato in termini rappresentazionali - per quanto riguarda specificamente il ruolo delle preferenze. Consideriamo di nuovo l'idea (vedi sopra, § 3.16) che gli stati affettivi possano essere rappresentati come nodi in una rete associativa. Ecco alcuni modi in cui l'esperienza può modificare la rete. In primo luogo, l'esperienza può rafforzare le connessioni tra certi comportamenti e i relativi esiti, inclusi gli stati affettivi associati. Ad esempio, a un certo comportamento alimentare potrei associare l'esito «mangiare troppo cioccolato mi farà stare male!», accompagnato da uno stato affettivo corrispondente. Questo faciliterà in futuro la previsione, a partire dai comportamenti, degli esiti indesiderati. In secondo luogo, rappresentare tali connessioni può modificare le nostre gerarchie di preferenze. In pratica, si può creare un'associazione tra le preferenze immediate soddisfatte dal comportamento ( «il cioccolato è buono!») e gli eventuali esiti indesiderati ( «mi farà stare male!»), tale da controbilanciare il grado di positività precedentemente assegnato alle prime. In terzo luogo, episodi in cui abbiamo risolto conflitti tra preferenze possono generare uno stato affettivo positivo associato a questo genere di situazioni - quella che abbiamo chiamato «motivazione riflessiva». Infine, date specifiche situazioni di conflitto, possiamo associare ad esse classi di soluzioni che si sono rivelate efficaci (ad esempio, strategie diversive). Queste considerazioni ci danno un'idea, per quanto parziale, di come l'esperienza possa accrescere le nostre capacità riflessive. Ma è difficile negare che sia l'educazione a giocare, su questo terreno, la parte del leone. Tra educazione ed esperienze dialogiche ci sono importanti elementi di continuità. Abbiamo detto (§ 4.7) che le situazioni dialogiche contribuiscono a sviluppare la motivazione riflessiva solo se presentano certe caratteristiche: ad esempio, se stimiamo l'interlocutore, e se questi adotta un atteggiamento costruttivo nel dialogo. La ragione è che queste caratteristiche ci spingono a «introiettare» le sue credenze e preferenze, così da essere costretti a confrontarle con le nostre. Ora, l'efficacia dell'educazione è legata agli stessi fattori che rendono efficace il dialogo. Accettiamo più volentieri di essere educati da persone che stimiamo, e che ci trattano in modo costruttivo.
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C'è però un altro modo in cui l'educatore può garantirsi una presa solida sul soggetto. Si tratta non tanto di influenzare il soggetto dall'esterno, con le proprie preferenze/credenze. Bensì di ritrovare dentro il soggetto stesso preferenze o credenze in conflitto con quelle attualmente prevalenti in lui. In tal caso, l'effetto è ancora più robusto: invece che introiettare preferenze/credenze altrui e trattarle «come se» fossero proprie, ci si trova a fronteggiare una genuina pluralità interna che esige integrazione. Naturalmente, questa strategia non è di facile attuazione. Presuppone che si entri in relazione con i soggetti al punto da potere esplorare, con la loro collaborazione, la loro pluralità interna. A questo punto, l'educatore può svolgere un'azione che nel gergo pedagogico viene chiamata di «impalcatura» (inglese scaffolding): ossia, di fronte alla situazione problematica l'educatore fa da supporto al processo mediante cui il soggetto perviene autonomamente alla soluzione11 • Ad esempio, nel momento in cui il soggetto fronteggia un conflitto tra le proprie preferenze l'educatore può adottare un atteggiamento rassicurante circa la possibilità di gestirlo, e facilitare il recupero di strategie effettivamente efficaci nel gestirlo. E di nuovo, questa strategia educativa ha un chiaro corrispettivo nel dialogo: il miglior modo di spingere un interlocutore a prendere in considerazione un punto di vista diverso da quello che adotta automaticamente è trovare dentro di lui punti di vista alternativi. Questo insistente parallelismo tra educazione (della mente riflessiva) e dialogo non giunge come una sorpresa. Già Haidt - nel suo modello sociale intuizionista - sosteneva che il dialogo è una forma di educazione reciproca: tramite l'interazione sociale possiamo modificare le intuizioni prodotte dagli automatismi individuali. Il punto su cui insisto è che, nell'educazione in quanto pratica prolungata nel tempo, simili interazioni possono produrre risultati cognitivi permanenti: disposizioni di pensiero riflessive. D'altra parte, ciò non sarebbe possibile se il nostro cervello non contenesse strutture predisposte
11 La nozione di impalcatura è stata introdotta in pedagogia da Jerome Bruner e colleghi (Wood e colleghi 1976), sulla scia di idee di Vygotskij. Come già osservato, Vygotskij aveva sostenuto che le capacità di pensiero dei bambini sono costruite interiorizzando le strategie discorsive adoperate dagli adulti, in situazioni nelle quali adulti e bambini sono impegnati insieme nella soluzione di problemi. La nozione di impalcatura di Bruner fa tesoro di quest'intuizione. L'idea è modellare il processo consapevole di educazione su ciò che accade in quelle situazioni spontanee.
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al pensiero riflessivo (al «pensiero critico»), ed educabili in tal senso. Haidt e i panglossiani tendono a trascurare che c'è in noi più che gli automatismi, e più che la mente algoritmica: c'è la mente riflessiva. Insomma, quando i panglossiani suggeriscono che per ottenere ragionamenti migliori si debba ricorrere al dialogo piuttosto che all'educazione individuale dei processi cognitivi, ci chiedono di credere a una separazione fittizia. Non esiste un dialogo costruttivo tra individui che non sia al tempo stesso esercizio di una capacità cognitiva individuale - capacità di dialogo costruttivo con gli altri e, al tempo stesso, con la propria pluralità interna.
Capitolo quinto Verso la costruzione dell'identità
5. 1 Ancora automatismi Con l'analisi della motivazione riflessiva abbiamo completato un pezzo del nostro percorso. Per grandi linee abbiamo fin qui considerato il potere degli automatismi sul ragionamento, e individuato nella mente riflessiva un meccanismo in grado di intervenire su di essi. La mente riflessiva è stata descritta innanzitutto come un complesso di capacità: la capacità di meta-rappresentare la nostra vita mentale, e in particolare cogliere certe regolarità nei processi automatici; quella di esercitare un disaccoppiamento cognitivo rispetto all'agire immediato guidato da automatismi, esplorando contenuti meno immediatamente accessibili; e la capacità, implicita in questa esplorazione attiva, di gestire e indirizzare l'attenzione. Tali capacità presuppongono (oltre alla memoria di lavoro) due componenti: i mindware (complessi di conoscenze sui bias, i loro risultati prevedibili, le nostre preferenze, e i modi in cui i bias possono essere corretti per migliorare l'accordo tra preferenze e comportamenti), e insieme una motivazione a gestire conflitti tra preferenze (e tra credenze). Questo quadro completa la rassegna dei principali approcci al ragionamento. Il modello triadico di Stanovich rappresenta, nella presente prospettiva, il punto più avanzato della riflessione sulla razionalità. Per un verso esso incorpora le intuizioni sui limiti della razionalità, in particolare le evidenze circa i guasti prodotti dai bias. Per un altro verso recupera l'intuizione del modello duale che siano possibili - a correzione dei bias - processi riflessivi di ragionamento. Ma lo fa rispondendo in modo credibile all'obiezione dei modelli adattivo-ecologici, secondo cui i processi coscienti sarebbero ancora
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soggetti al bias della conferma: il modello triadico riconosce che vi sono effettivamente processi coscienti governati dai bias, ma li considera come un livello distinto dalla mente riflessiva. Il presente capitolo sarà dedicato all'analisi di alcuni ulteriori automatismi che condizionano il ragionamento. Non si tratta tuttavia di un semplice ampliamento del tema. Come abbiamo chiarito nel frattempo, la conoscenza degli automatismi è essenziale per la costruzione di mindware che ne consentano la correzione. Gli specifici automatismi che adesso analizzeremo ci avvicinano alla questione delle patologie del pensiero ideologico. Si tratta infatti di meccanismi che svolgono un ruolo nella costruzione dell'identità, ma specialmente nel senso di generare una rappresentazione della realtà modellata sull'opposizione tra noi e «gli altri». Considereremo, nell'ordine, tre categorie di automatismi: le esperienze meta-cognitive che secondo Valerie Thompson dovrebbero innescare la mente riflessiva, ma che spesso risultano fuorvianti; alcuni bias che producono un'asimmetria sistematica tra giudizi su noi stessi e sugli altri; il fenomeno del «ragionamento motivato», ossia l'asimmetria nel modo in cui ragioniamo in funzione degli stati affettivi (positivi versus negativi) associati alle credenze.
5. 2 Sentirsi nel giusto Abbiamo già parlato ampiamente delle sensazioni positive e negative che risultano dal continuo monitoraggio dell'ambiente, e del fatto che queste danno luogo a fenomeni di sostituzione: dal momento che non hanno scritto in faccia cosa le ha causate, capita che le attribuiamo erroneamente a qualcos'altro. Abbiamo anche inquadrato il fenomeno nella categoria di Kahneman dell'agio cognitivo. L'agio cognitivo può avere cause molto differenti tra loro (priming, visibilità, frequenza del fenomeno e così via), genericamente riconducibili alla facilità di elaborazione. &so può avere inoltre effetti differenti, che non necessariamente sono correlati con le cause nel modo a ppropriato: la ripetizione dello stimolo, ad esempio, può produrre una sensazione di verità. Possiamo anche intendere l'agio cognitivo come il nome generico della sensazione, che può essere interpretata di volta in volta come una sensazione di familiarità, di verità o altro.
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Abbiamo inoltre anticipato che Valerie Thompson ha studiato una famiglia di sensazioni (o come anche le chiama, «esperienze») meta-cognitive, le quali avrebbero un ruolo nell'innescare la mente riflessiva. Si tratta, in definitiva, dello stesso argomento, affrontato con una focalizzazione un po' differente. Per un verso, si può guardare alle sensazioni meta-cognitive come indicatori spesso affidabili dell'opportunità di ricorrere a processi di ragionamento più accurati e faticosi. Per un altro verso, si può riconoscere con Kahneman che in molte circostanze questo meccanismo fa cilecca: ci rassicura quando non dovrebbe - e talvolta ci mette in allarme per le ragioni sbagliate. D'altra parte, Thompson (2009: 175) non manca di riconoscere che le sensazioni meta-cognitive «possono produrre giudizi erronei». Il punto sul quale, semmai, la sua posizione si differenzia da quella di Kahneman è l'enfasi posta sulla natura meta-cognitiva del fenomeno (ivi: 18 6). L'idea di fondo è che gli output dei processi spontanei di ragionamento sono conferiti alla consapevolezza cosciente accompagnati da un 'esperienza metacognitiva che è ampiamente, anche se non esclusivamente, determinata dalla facilità [fluency] con cui quegli output sono stati prodotti. {Thompson 2009: 177; traduzione mia)
Insomma, i processi di ragionamento producono per Thompson un risultato duplice: una conclusione cognitiva, e una sensazione meta-cognitiva che l'accompagna e suggerisce quanto la prima sia da giudicare affidabile. Per inciso, come si vede, anche la causa individuata per quella sensazione è la medesima proposta da Kahneman: la facilità di elaborazione (qui fl,uency). È possibile immaginare che questa famiglia di sensazioni derivi dai sistemi primitivi per il monitoraggio affettivo dell'ambiente (ancora una volta, come suggerito da Kahneman). Dal momento in cui nella nostra mente si sono evolute capacità riflessive, quei meccanismi di monitoraggio acquisirebbero una nuova funzione: dare indicazioni non su quanto possiamo fidarci dell'ambiente, bensì su quanto possiamo fidarci dei nostri processi automatici. D'altronde, gli stati affettivi svolgono funzioni simili nei due casi. Ad esempio, se la situazione è familiare ci sentiamo rassicurati rispetto a possibili pericoli esterni. Ma è altrettanto ragionevole sentirsi rassicurati, sul piano meta-cognitivo, se una conclusione è raggiunta sulla base
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di informazione familiare: questo suggerisce che sappiamo di che si tratta (più tecnicamente, suggerisce che l'inferenza sia giustificata da regolarità nell'esperienza). Allo stesso modo, avere una percezione visiva chiara per un verso ci tranquillizza su quel che c'è nell'ambiente; per un altro ci tranquillizza sull'affidabilità dei processi percettivi in quelle circostanze. Quali sono, specificamente, le sensazioni meta-cognitive in questione? Thompson (ivi: 174-6) ne considera numerose, dietro le quali c'è una rilevante letteratura sperimentale: la sensazione di comprensione di un testo; la sensazione di essere nel giusto (feeling of rightness); la sensazione di familiarità; la sensazione di certezza; la sensazione di conoscenza, ossia la stima della probabilità che saremo in grado di riconoscere correttamente qualcosa; il giudizio di apprendimento Uudgment of learning), ossia la stima della probabilità che saremo in grado di richiamare in memoria qualcosa che abbiamo appena imparato; il giudizio di verità. Come si vede, si tratta di un grappolo di sensazioni (e giudizi derivati da quelle sensazioni) simili tra loro, ma in qualche misura differenti. La loro logica di funzionamento ci è ormai nota: c'è una varietà di fattori che influiscono sulla facilità di elaborazione, e questa produce una generica sensazione positiva (agio cognitivo) che i soggetti interpretano di volta in volta in uno di questi modi, a seconda della «domanda» che si stanno ponendo. Si tratta adesso di inquadrare questo fenomeno dentro una cornice più ampia: mettere insieme questo e altri pezzi del puzzle fin qui esaminati separatamente, per vedere cosa ci dicono su come ragioniamo come persone intere. Abbiamo descritto i processi cognitivi come processi di attivazione in una rete neurale, con due modalità differenti: processi locali e a decadimento rapido (ossia processi automatici); processi distribuiti e sostenuti nel tempo (ossia processi coscienti). In realtà, abbiamo aggiunto che i processi automatici sono di norma inglobati dentro più ampi processi in parte coscienti. In pratica, gli stimoli ambientali attivano una pluralità di elaborazioni automatiche che si rafforzano se sono tra loro compatibili, e viceversa competono se incompatibili. Le coalizioni più attivate vincono la competizione e si guadagnano un posto nella memoria di lavoro: vengono illuminate dall'attenzione cosciente. Ma in realtà, solo una parte molto piccola della coalizione vincente è nel fuoco della coscienza. E soprattutto, come previsto
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dalle teorie dei due sistemi, nella stragrande maggioranza dei casi la coscienza si limita a lavorare a basso regime, con un monitoraggio pigro dei risultati. L'ipotesi di Thompson, più precisamente, è che alla coscienza si affaccino due differenti ordini di informazioni: i risultati in senso proprio delle elaborazioni automatiche, e certe sensazioni meta-cognitive relative alla loro facilità di elaborazione. Queste sensazioni, se di polarità negativa, avrebbero la funzione di attivare processi riflessivi più costosi. Ma come abbiamo detto, qualunque fattore capace di produrre facilità di elaborazione produrrà sensazioni di polarità positiva: sensazioni di verità, di correttezza (rightness ), di certezza. Ed esse rassicureranno il sistema, suggerendo che non occorre attivare i processi riflessivi. L'insieme dei meccanismi appena descritti può fuorviarci - come abbiamo visto - in una varietà di modi. I processi associativi automatici si limitano a lavorare con l'informazione attivata (WYSIATI): non cercano attivamente contro-esempi e non ragionano in modo contro-fattuale (non ricorrono di norma al modus tollens quando necessario). E quando una coalizione prende il sopravvento su quelle concorrenti, tende a inibire queste ultime - ossia a spegnerle. Come si dice, la logica associativa è una logica «the winner takes ali»: la versione del mondo prevalente cancella le alternative possibili. Inoltre, anche quando occasionalmente cerchiamo di richiamare altra informazione, si tratta di informazione coerente: ossia, cerchiamo conferme più che falsificazioni (bias della conferma). Nel complesso, i processi automatici lavorano in base a un principio di coerenza, cancellando il pluralismo interno. Il meccanismo della familiarità completa il quadro. È la più potente causa di agio cognitivo, capace di produrre sensazioni di verità, di correttezza e simili. Essa suggella perlopiù i risultati dei processi automatici con il marchio della propria approvazione. E - come abbiamo visto nel caso degli scienziati che resistono al cambiamento dà a un singolo punto di vista un vantaggio difficilmente colmabile rispetto ad altri punti di vista, solo perché con questi ultimi abbiamo meno familiarità. Un punto cruciale è che la familiarità può non dipendere da quanto qualcosa sia regolare nella realtà. Essa dipende anche da quanto facciamo uso di certi schemi di interpretazione della realtà. E questo
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ci espone, tra l'altro, al rischio che ci appaia vero e certo quel che, semplicemente, sentiamo dire o diciamo spesso. Insomma, è bene che la mente riflessiva lo sappia: le sensazioni meta-cognitive saltano spesso e volentieri alla conclusione che noi abbiamo ragione, e gli altri hanno torto. E negli «altri» dobbiamo includere altre versioni possibili di noi stessi.
5. 3 Perché io sono speciale... Fin qui abbiamo analizzato gli automatismi mediante i quali prevalgono i punti di vista per noi più familiari (idea sintetizzata nel myside bias studiato da Stanovich e colleghi 2013, vedi sopra § 4.3). Tali automatismi agiscono dunque come un dispositivo di difesa: riaffermano continuamente la visione del mondo prevalente in noi, proteggendola dal dubbio. Ma con questo abbiamo solo scalfito la superficie del problema. Gli automatismi hanno un ruolo importante anche nella costruzione dell'identità personale, a cominciare dalla formazione di un'immagine del sé. Ed è in questi processi di costruzione dell'identità che il sistema cognitivo scava un vero fossato difensivo intorno al sé, separandolo dal resto del mondo. Il problema è che per valutare i nostri comportamenti e quelli altrui non usiamo lo stesso metro: anzi, non usiamo nemmeno gli stessi schemi di spiegazione. A causa di ciò, formiamo un'immagine positiva di noi stessi che rende molto difficile metterci in discussione. Analizziamo questo fenomeno con l'aiuto di qualche storia. La prima è un aneddoto personale raccontato da Kahneman. Nei primi anni della sua carriera, lo studioso aveva ottenuto mandato dal Ministero della Pubblica Istruzione israeliano per scrivere, insieme a un gruppo di colleghi, un manuale sui processi decisionali per le scuole superiori. Dopo circa un anno di lavoro, Kahneman propose ai colleghi che collaboravano con lui un esercizio di previsione: ciascuno avrebbe dovuto scrivere per conto proprio quanto tempo giudicava necessario per portare a termine il libro. Le previsioni furono in media di due anni, con oscillazioni di sei mesi intorno a quella scadenza. A quel punto venne in mente a Kahneman di analizzare la questione da un altro punto di vista: chiese a un membro del gruppo con ampia esperienza di progetti simili quanto fosse probabile, in base ai precedenti, che completassero il lavoro, e in quanto
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tempo. L'effetto di questa domanda fu piuttosto sorprendente. Il collega stesso a cui la domanda era rivolta, soffermando l'attenzione sui precedenti, fu stupito nel rendersi conto che essi erano andati a buon fine solo nel 60 per cento circa dei casi, e nessuno era stato portato a termine in meno di sette anni. Kahneman commenta così: Avremmo dovuto rinunciare quel giorno. Nessuno di noi era disposto a investire altri sei anni del suo tempo in un progetto che aveva il 40 per cento di probabilità di fallire. (Kahneman 2011: 273)
Ma non rinunciarono, anzi misero da parte quella valutazione come irrilevante. La nuova previsione ci pareva ancora irreale, perché non riuscivamo a immaginare come potesse occorrere tanto tempo per portare a termine un progetto che pareva così fattibile. Non c'era nessuna sfera di cristallo che ci svelasse la strana sequenza di eventi improbabili situati nel nostro futuro. Vedevamo soltanto un piano ragionevole che avrebbe dovuto produrre un libro in circa due anni, ma che contrastava con dati statistici i quali indicavano che altri gruppi avevano fallito o impiegato un tempo assurdamente lungo per portare a termine la loro missione. (Kahneman 2011: 2 72-273)
Chi aveva ragione, le intuizioni individuali o i dati statistici? A quanto pare, i secondi. Il libro fu portato a termine circa otto anni dopo, da un gruppo di lavoro in parte differente (Kahneman aveva rinunciato per cambiamenti importanti nella sua vita). Il Ministero nel frattempo aveva perso interesse nel progetto e non fece mai uso del manuale. La morale che Kahneman e Tversky trassero da questa vicenda (e da una quantità di evidenze connesse) fu la necessità di tracciare una distinzione tra quelle che chiamarono «visione dall'interno» e «visione dall'esterno» nei processi di pianificazione. La visione dall'interno è responsabile di quella che Kahneman chiama «fallacia della pianificazione» (ivi: 2 76 e seguenti): in pratica, chi è coinvolto nella progettazione di una qualsiasi iniziativa tende a un eccesso di ottimismo, a causa della tendenza a sottovalutare gli imprevisti. Il fenomeno è confermato da un'analisi sistematica dei dati relativi a previsioni economiche di ogni tipo, nel settore dei lavori pubblici come nelle faccende private.
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Questo fenomeno non appare sorprendente, se ripensiamo alla scarsa capacità del nostro sistema cognitivo nel richiamare controesempi o contro-indicazioni. Si aggiunga che chi partecipa a un'iniziativa di propria spontanea volontà già solo per questo vi associa sensazioni positive. Quando dunque un soggetto «guarda dentro di sé» in cerca di informazioni utili a stimare le probabilità di successo dell'impresa, questo è ciò che vede: la propria ferma intenzione di realizzarla, insieme a informazione sui contenuti dell'impresa (l'obiettivo, le altre persone coinvolte e così via), accompagnata da una sensazione positiva che suggerisce fiducia nei confronti di quei contenuti. Il soggetto non vede nulla che suggerisca motivi di preoccupazione: e quel che non si vede per il sistema cognitivo non c'è (WYSIATI). Cercare contro-esempi o contro-indicazioni richiederebbe uno sforzo cognitivo importante, che le sensazioni meta-cognitive non incoraggiano minimamente a fare. Kahneman vede la fallacia della pianificazione come parte di una più generale disposizione all'ottimismo: La fallacia della pianificazione è solo una delle manifestazioni di un bias ottimistico pervasivo. Quasi tutti noi consideriamo il mondo più benevolo, i nostri attributi più positivi e i nostri obiettivi più raggiungibili di quanto non siano realmente. [...] Per quanto riguarda la sua influenza sulle nostre decisioni, il bias ottimistico è forse il più importante dei bias cognitivi. {lvi: 282)
Tuttavia, è bene notarlo, l'ottimismo che Kahneman ha in mente è soprattutto quello che si manifesta in campo economico, quando le persone avviano attività d'impresa. Il capitolo da cui è tratta la citazione è intitolato infatti «Il motore del capitalismo», e la sua tesi di fondo è che l'intraprendenza incoraggiata dal capitalismo fa leva su «illusioni imprenditoriali» (ivi: 283) che spingono a sottovalutare i rischi di insuccesso. Questa notazione è importante perché riconduce l'ottimismo dentro il quadro sopra considerato: siamo ottimisti nel senso di sopravvalutare le possibilità di successo delle nostre iniziative, e lo siamo in quanto adottiamo la visione dall'interno. Ossia, le nostre valutazioni guardano soprattutto dentro di noi, all'intenzione di avere successo - mentre tendiamo a ignorare come, a dispetto delle intenzioni individuali, le cose vanno nella maggior parte dei casi.
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Insomma, l'ottimismo in questione dipende dal percepire sé stessi come soggetti guidati da intenzioni, e capaci di perseguirle con successo. Tale percezione si manifesta tra l'altro nella «tendenza delle persone ad attribuire il successo a fattori interni e il fallimento a fattori esterni» (Gilovich 1991: 79). Dato che siamo (nella nostra percezione) intenzionati ad avere successo, e capaci di averlo, se qualcosa va storto dovrà senz'altro dipendere da fattori esterni- indipendenti dalla nostra volontà, e sostanzialmente imprevedibili. Questa generale sopravvalutazione di sé e delle proprie capacità è un tema ben noto alla psicologia sperimentale: Uno dei risultati meglio documentati in psicologia è che le persone comuni pretendono di credere cose estremamente lusinghiere di sé- credenze che non reggono a un'analisi oggettiva. [...] Ad esempio, una larga maggioranza del grande pubblico pensa di essere più intelligente, più imparziale, meno soggetta al pregiudizio, e più abile alla guida di un 'automobile che la media delle persone. (lvi: 77; traduzione mia)
Il fenomeno viene chiamato «illusione di superiorità» (o superiorità illusoria, illusory superiority). A titolo di esempio, Gilovich (ibid.) riporta i risultati di un'analisi estensiva condotta su un milione di studenti di scuola superiore: il 70% di loro giudicò di avere doti di leadership superiori alla media e solo il 2 % descrisse sé stesso come al di sotto della media. In termini di capacità relazionali il 60% degli studenti riteneva di piazzarsi nel 10% superiore, e il 25% nell'1% superiore. Risultati del genere non si spiegano con l'ipotesi che i liceali abbiano scarse capacità di giudizio di sé: un'analisi sui docenti universitari ha mostrato che il 94 % di loro giudicava di essere al di sopra della media della propria categoria! Qui c'è in gioco chiaramente una tendenza sistematica. Abbiamo dunque, per così dire, due forme gemelle di ottimismo. Nel caso della fallacia della pianificazione, analizzata da Kahneman e Tversky, l'ottimismo è rivolto verso i risultati delle proprie pianificazioni; nel fenomeno della superiorità illusoria, descritto da Gilovich, l'ottimismo concerne invece la valutazione di sé. Ma in definitiva sembra trattarsi di due facce dello stesso fenomeno: si è ottimisti verso i risultati dei propri piani in quanto si ha un'alta stima di sé. Inoltre, le ipotesi proposte per spiegare i due fenomeni sono del tutto analoghe. Se per la fallacia della pianificazione Kahneman e Tversky
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hanno chiamato in causa la «visione dall'interno», per spiegare l'illusione di superiorità Pronin e Kugler (2007) hanno parlato di una «illusione introspettiva». Emily Pronin ha dedicato numerosi studi a una particolare manifestazione dell'illusione di superiorità, che ha chiamato bias del punto cieco (blind spot bias), e al modo in cui essa è causata dall'illusione introspettiva. Con questo bias tocchiamo un tema imbarazzante. Perché fino a qui, i miei lettori possono essersi consolati con l'idea che stiamo descrivendo quel che succede perlopiù, ma non necessariamente quel che accade loro. Anche leggere dell'illusione di superiorità potrebbe non avere turbato troppo questa convinzione: dopotutto, anche se apprendo che molte persone tendono erroneamente a pensare di essere nel 10% più in gamba della popolazione, questo non esclude la possibilità che io sia davvero in quel 10%! Ma la scoperta del bias del punto cieco è davvero seccante. Si tratta del fatto che tendiamo a riconoscere l'impatto dei bias sui giudizi degli altri, ma a negare che essi abbiano impatto sui nostri. Il che non è sorprendente, alla luce di quanto abbiamo detto circa i processi di introspezione cosciente. I bias sono automatismi, e come tali operano per definizione fuori dal fuoco della coscienza. Quando dunque guardiamo alla nostra vita mentale, non vediamo i bias bensì qualcosa di molto differente: vediamo credenze e giudizi supportati da argomenti che percepiamo come convincenti, a cui siamo giunti attraverso un confronto con punti di vista e argomenti alternativi, non altrettanto convincenti. Se pertanto ci viene rivelato che le persone sono affette da bias, noi «vediamo» chiaramente che questo non è ciò che accade a noi. Qui c'è un aspetto dell'ottimismo verso noi stessi meno innocente dei precedenti. Finché ci limitiamo a sopravvalutare noi stessi, e le prospettive di successo dei nostri piani, si può pensare che non facciamo torto al prossimo - se non nel senso limitato che ci consideriamo più bravi della media. Con il bias del punto cieco, però, emerge una dimensione nuova. Qui valutiamo noi stessi e gli altri in modo significativamente diverso, e in definitiva ingiusto verso gli altri. Ma è peggio di così. Non solo la valutazione delle capacità cognitive nostre e altrui è poco equa. Di più, questa asimmetria nel giudizio tende a colorarsi di connotazioni moralistiche. Noi ci percepiamo come «migliori» degli altri in un senso morale. Per comprendere in
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che modo, dobbiamo considerare un altro aspetto delle asimmetrie di giudizio noi-altri studiate da Pronin. Abbiamo già visto che l'illusione di superiorità si manifesta tra l'altro come tendenza «ad attribuire il [nostro] successo a fattori interni e il fallimento a fattori esterni» (Gilovich 1991: 79 ). Ora, questo schema di spiegazione tende a invertirsi quando si tratta degli altri: in quel caso siamo inclini ad attribuire il fallimento a tratti della personalità, piuttosto che a fattori esterni. Pronin (2008) descrive questo fenomeno con una breve storia. Se una persona arriva in ritardo a un colloquio di lavoro, tenderà ad attribuirlo a cause esterne quali il traffico, ma l'intervistatore tenderà ad attribuirlo a irresponsabilità personale. Il fatto è che quando giudichiamo noi stessi abbiamo accesso a informazioni relative alle sensazioni che precedono, accompagnano e seguono l'azione: sappiamo che desideriamo arrivare puntuali, ne abbiamo la ferma intenzione, e percepiamo ogni inciampo sul cammino come una sfortuna - anche se magari si tratta di inciampi piuttosto prevedibili. In una parola, nel giudicare noi stessi ci basiamo essenzialmente su sensazioni e intenzioni (è la visione dall'interno di Kahneman, o l'illusione introspettiva di Pronin e Kugler), e queste raccontano una storia di buona volontà ostacolata da fattori esterni. Viceversa, nel giudicare gli altri adottiamo la visione dall'esterno: osserviamo i comportamenti, e li prendiamo come indizi statistici della personalità. Se una persona arriva in ritardo a un importante appuntamento, verosimilmente non è persona puntuale e responsabile. È una generalizzazione (uno stereotipo) non infallibile nell'interpretazione dei comportamenti, ma di certo è abbastanza plausibile. La lezione dovrebbe essere chiara. Tendiamo a formarci un'immagine morale di noi stessi come ispirati «dalle migliori intenzioni», e capaci perlopiù di realizzarle, salvo che gli accidenti esterni si mettano di traverso: un'immagine che oscilla tra ottimismo morale e auto-indulgenza verso i fallimenti. Ma quando si tratta dei fallimenti degli altri diventiamo rigidi moralisti, senza concedere le attenuanti delle circostanze sfavorevoli. Si arriva in ritardo perché si è ritardatari. I fallimenti altrui appaiono come ovvie conseguenze di tratti della personalità. Facciamo il punto della situazione. Nel paragrafo precedente abbiamo analizzato meccanismi che producono la sensazione di essere nel giusto sotto il profilo cognitivo. In questo paragrafo abbiamo de-
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scritto alcuni dispositivi di formazione dell'identità personale, i quali tendono a produrre una sistematica asimmetria tra le immagini di noi stessi e degli altri. Alla luce di queste immagini, non solo abbiamo ragione su specifiche questioni: siamo più razionali degli altri. Non solo il nostro punto di vista è corretto: è il punto di vista di una persona che vuole solo ciò che è giusto, vede la realtà correttamente, e persegue i propri obiettivi con particolare abilità (salvo per l'interferenza di fattori esterni). Lo vediamo continuamente. Gli altri farebbero bene a rivedere i propri giudizi, credenze e azioni. Non così noi.
5.4 Motivi
per ragionare
L'ultimo degli automatismi che intendiamo discutere in questo capitolo è quello noto come «ragionamento motivato»: si tratta, in termini generali, dell'influenza che i nostri stati affettivi esercitano sui processi di ragionamento. Questo fenomeno è una conseguenza abbastanza ovvia del «primato affettivo» descritto da Robert Zajonc (vedi sopra,§ 3.15). Se è vero che gli stati affettivi si attivano con estrema rapidità e tendono a influenzare i successivi processi cognitivi, in un certo senso tutto il ragionamento è «motivato». Pertanto con «ragionamento motivato» conviene intendere quegli episodi nei quali l'influenza delle emozioni è più evidente: nei casi estremi, fino al punto che l'esito ci appare decisamente irrazionale. In questi casi i soggetti adottano credenze chiaramente non supportate dall'evidenza, o addirittura per le quali si dispone di abbondante evidenza contraria. A conferma del fatto che il ragionamento motivato è un fenomeno pervasivo, che al limite coincide con il ragionamento in generale, ripensiamo al caso degli scienziati che resistono al cambiamento. Non si può certo dire che essi non abbiamo argomenti per sostenere le loro posizioni, o che tali argomenti siano deliranti. Nondimeno, la presa che questi argomenti esercitano su di loro sembra derivare almeno in parte da fattori affettivi: in particolare da sensazioni meta-cognitive positive, interpretate in termini di «giustezza» o verità. È perciò una questione di grado. Considerare il ragionamento motivato un fenomeno a sé significa studiare non qualunque influen-
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za degli affetti sul ragionamento, ma solo quei casi nei quali i fattori affettivi hanno conseguenze particolarmente evidenti. Un'analisi molto accreditata di questi casi è quella fornita da Thomas Gilovich (1991; Epley e Gilovich 2016; cfr. anche Ditto e Lopez 1992) 1 • L'idea è che qui operi un nuovo tipo di asimmetria: a seconda che desideriamo credere una certa affermazione oppure no, adottiamo un atteggiamento epistemico differente. È come se nei due casi dice Gilovich - ci ponessimo domande del tutto differenti. Quando vogliamo credere un certo pensiero p, ci domandiamo: «posso crederlo?», ossia è possibile trovare argomenti o evidenze in suo favore? Viceversa, se un pensiero q ci è sgradito, la domanda che ci facciamo è «devo crederlo?», dunque andiamo in cerca di argomenti o evidenze che dimostrano il contrario. Questo meccanismo sembra avere - almeno in parte - radici in un fenomeno che già conosciamo, ossia il bias della conferma. Quando desideriamo credere qualcosa ci limitiamo ad assecondare i normali processi associativi, che tendono spontaneamente alla ricerca di conferme. Ci sono tuttavia circostanze che spingono, viceversa, ad aumentare il livello di «vigilanza epistemica»: ci rendono cioè sospettosi e orientati a cercare possibili contro-evidenze. Ne sono un esempio i contesti deontici, quelli che riguardano le regole sociali e le loro possibili violazioni. Ma un effetto analogo si produce quando assegniamo un valore affettivo negativo a un'affermazione: questo ci spinge a cercare contro-esempi, e ci dispone ad accoglierli favorevolmente - poiché il disagio che l'affermazione suscita è interpretato come indizio che essa non è convincente. Nel quadro proposto da Gilovich i soggetti non si comportano dunque in modo del tutto irrazionale. Non possono credere a piacere tutto quello che vogliono, dal momento che sentono il bisogno di giustificare ciò che credono: le persone motivate a raggiungere una certa conclusione mirano a essere razionali e a costruire una giustificazione della conclusione da loro desiderata che persuaderebbe un osservatore spassionato. F.sse traggono la conclusio-
1 Ma come vedremo, si può dubitare che quest'analisi si applichi davvero a casi in cui gli stati affettivi hanno effetti massimamente evidenti. ~ più corretto dire che l'analisi si applica a casi intermedi: che stanno a metà strada tra la normale interfcrcn1.a degli stati affettivi sulla formazione di credenze e i casi davvero estremi.
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ne desiderata solo se possono raccogliere evidenza necessaria a supportarla. (Kunda 1990: 482-483; traduzione mia)
In pratica, le preferenze non possono agire direttamente sul fatto di credere o meno in un'affermazione. Lo fanno solo indirettamente, attraverso il condizionamento che esercitano sulla raccolta di evidenze: sebbene potremmo non essere capaci di governare quali credenze formiamo sulla base dell'evidenza, possiamo governare le nostre attività di raccolta dell'evidenza. (Levy 2007: 144; traduzione mia)
Governiamo la raccolta di evidenze appunto adottando procedure differenti a seconda che si tratti di affermazioni che ci piacciono o ci dispiacciono: orientate verso la ricerca di conferme nel primo caso, verso la ricerca di smentite nel secondo. Tramite questo meccanismo, come sintetizzano Epley e Gilovich (2016), le persone possono ancora giungere a credere ciò che vogliono credere, ma non attraverso pure fantasticherie [wishful thinking] bensì attraverso genuini processi di pensiero che sembrano sensati alle persone che vi ricorrono. (lvi: 137; traduzione mia)
Facciamo dunque il punto. Il ragionamento motivato è un procedimento in qualche senso razionale che però produce conclusioni in varia misura irrazionali. Per un verso esso non consente di credere tutto quel che ci pare: siamo comunque soggetti al vincolo di trovare qualche evidenza (positiva o negativa). In questo senso, non si tratta di un puro fantasticare. Ma il modo di cercare evidenze è esageratamente accomodante in alcuni casi ed esageratamente esigente in altri. Fino al punto che il confine tra ragionamento tendenzioso e pura fantasticheria potrebbe diventare sottile. In effetti, c'è una letteratura che enfatizza precisamente la somiglianza tra processi di formazione di credenze e processi di pura immaginazione. Le credenze dovrebbero, in linea di principio, essere differenti dai prodotti dell'immaginazione per due aspetti: il loro fondamento nell'evidenza empirica; e le loro conseguenze comportamentali (inclusi i comportamenti verbali: l'inclinazione ad asserirle e quella a trame inferenze). Ora, ci sono pensieri verso i quali le persone sembrano avere un atteggiamento misto. Per quanto attiene ai comportamenti conseguenti, li trattano come credenze: in particolare
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li asseriscono con convinzione e ne traggono le relative inferenze. Ma quanto all'evidenza richiesta, i soggetti sembrano trattarle alla stregua di prodotti dell'immaginazione: si accontentano di pochissimo. Per questa ragione, in letteratura è stata ampiamente esplorata l'ipotesi di entità intermedie. In particolare Andy Egan (2009) ha proposto la nozione di «bimagining» come ibrido di credenza e immaginazione (belief e imagining) 2 • A questa soluzione altri preferiscono l'idea di una transizione graduale tra credenze e pseudo-credenze prodotte dall'immaginazione: ad esempio, secondo Matthews (2013: 104; traduzione ed enfasi mie) «gli stati cognitivi della nostra mente sono più o meno simili-a-credenze [belief-like] ». In entrambi i casi, l'idea è che alcune credenze possano essere parecchio simili ai prodotti dell'immaginazione: sono rappresentazioni della realtà «fabbricate» con scarsissimo rispetto dell'evidenza3. Ci troviamo dunque di fronte a due approcci un po' differenti al problema. Gilovich e colleghi enfatizzano la componente razionale dei processi in gioco, e coerentemente considerano ragionamento motivato e fantasticheria fenomeni distinti. Altri invece suggeriscono che la formazione di credenze possa avvicinarsi indefinitamente alla fantasticheria, producendo esiti ben poco razionali. D'altra parte, entrambi potrebbero avere ragione. Se davvero l'influenza degli stati affettivi sul ragionamento varia in modo graduale, è possibile che Gilovich abbia in mente casi in cui i risultati sono relativamente razionali, mentre altri autori guardano a casi più estremi. Sono proprio questi casi estremi che ci interessano di più, in quanto tipici del pensiero ideologico nei suoi aspetti patologici. Essi pongono una sfida teorica che è il caso di analizzare più ampiamente. Prima di farlo, però, è opportuno introdurre una digressione. La distinzione che qui stiamo provando a tracciare tra casi moderati e casi estremi di ragionamento motivato ci riporta al dibattito tra riformisti e panglossiani, e rende conto almeno in parte del loro dissenso. Concediamoci dunque questa digressione, subito dopo torneremo all'analisi dei casi estremi. 1 Su questo tema si può vedere anche Ichino (2019), e l'utilissima bibliografia di Ichino e colleghi (2016). 3 Oltre alla letteratura già citata, vi è un'altra celebre proposta di introdurre una nozione «impura» da affiancare a quella di crede111.a in senso proprio: si tratta di Tamar Gendler (2008), che ha introdotto la nozione di «alief» (una variante della credenza, belief, ma caratteri1.zata dal fatto di essere associativa, automatica e a razionale (ivi: 641 ).
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5. 5 Ragionamento motivato e buona educazione
I panglossiani sono convinti che dovremmo guardare con maggiore ottimismo agli automatismi che governano il ragionamento spontaneo, e che faremmo bene ad assecondarli piuttosto che combatterli. In particolare, ritengono che non dovremmo cercare di correggere la tendenza dei soggetti a cercare unilateralmente argomenti in favore del proprio punto di vista. Conviene piuttosto sfruttare questa tendenza, costruendo situazioni in cui ciascuno difende al meglio le proprie convinzioni: ciò produrrà un guadagno epistemico, dato che ciascuno è bravo a trovare buoni argomenti per ciò che crede. Ora, com'è evidente è possibile riformulare questa posizione nei termini della nozione - discussa nel paragrafo precedente - di ragionamento motivato. L'idea, infatti, è che non dovremmo combattere il ragionamento guidato da preferenze, perché in situazioni dialogiche esso è capace di produrre esiti più razionali di quelli che otterremmo se ciascun soggetto ragionasse in modo spassionato. In un recente articolo, Hallsson e Kappel (2020) hanno sostenuto precisamente questa tesi. Ritengo utile confrontare le loro argomentazioni con le considerazioni sui panglossiani qui proposte (nel primo capitolo). La morale di questo confronto - lo anticipo - è che Hallsson e Kappel hanno in mente casi moderati di ragionamento motivato: casi nei quali, come sostiene Gilovich, le procedure coinvolte rimangono sostanzialmente razionali, ed è per questo che si produce dopotutto un guadagno epistemico. Ma questa delimitazione lascia fuori proprio i casi più problematici, e più interessanti. In tal modo, inoltre, gli studiosi reintroducono tacitamente quell'elemento di razionalità riflessiva che i panglossiani dichiarano di volere tener fuori dal loro resoconto. Vediamo in che senso. La tesi di fondo di Hallsson e Kappel (2020: 2824; qui e in seguito, la traduzione è mia) è che «il ragionamento motivato può facilitare una divisione deliberativa del lavoro epistemico tra persone che sperimentano un disaccordo». La nozione di divisione del lavoro epistemico è basata sull'idea che la conoscenza umana sia un fenomeno collaborativo. Gli studiosi la introducono richiamandosi al fenomeno della testimonianza: non è necessario che ciascuno veda ogni cosa, la testimonianza di uno fornisce ad altri ragioni per credere. Ma essi propongono di esten-
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dere quell'idea al modo in cui, nel ragionamento motivato, data una certa tesi p, due soggetti S1 e S2 con preferenze differenti tenderanno rispettivamente a cercare ragioni a favore e contro p: Supponiamo che nel corso del loro scambio essi riescano a separare le buone ragioni dalle cattive, e arrivino a una buona posizione epistemica rispetto a p - una che è migliore di quella che avrebbero potuto raggiungere con le stesse risorse senza dividersi il lavoro epistemico. Qui S1 e S2 dipendono l'uno dall'altro[ ...] in quanto dividono la ricerca e lo scrutinio critico delle ragioni. Chiamiamo questa una divisione deliberativa del lavoro epistemico [... ]. (lbid.)
Insomma, l'idea è che se due soggetti hanno preferenze opposte rispetto a una certa tesi, il loro ragionamento motivato produrrà (nel corso del dialogo) un vantaggio epistemico. L'articolo respinge esplicitamente l'ipotesi che, di fronte al disaccordo, sarebbe razionale per ciascun soggetto diminuire la fiducia verso il proprio punto di vista preferito. Se lo facessero, diminuirebbe appunto l'efficacia dovuta alla divisione del lavoro epistemico. Gli autori descrivono quest'efficacia essenzialmente in termini di capacità di recuperare dalla memoria ragioni a favore del proprio punto di vista, e contro quello opposto: Il ragionamento motivato può aumentare l'abilità del soggetto di trovare buone ragioni in favore del proprio punto di vista, e di criticare le ragioni contro di esso, in confronto al ragionamento più disinteressato. (lbid.; corsivo mio)
Ora la questione cruciale è: come si passa dal semplice richiamare (e contrapporre) argomenti al constatare che un guadagno epistemico è stato conseguito? Per giungere a questo esito bisogna andare oltre il ruolo delle preferenze nel facilitare il recupero di argomenti. Occorre una disposizione dei soggetti a riconoscere quali argomenti siano buoni dal punto di vista di entrambi i partecipanti al dialogo. In effetti, nella prima delle citazioni che precedono, la divisione deliberativa del lavoro epistemico è introdotta sulla base di un'assunzione: che i due soggetti riescano a «separare le buone ragioni dalle cattive», e grazie a questo arrivino a una posizione epistemica migliore di quella che avrebbero raggiunto senza ragionamento motivato. Ma questa non è un'assunzione innocente. Comporta che i soggetti
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non siano talmente condizionati dalle proprie preferenze da restare sordi alle ragioni dell'altro - come invece, purtroppo, spesso accade. È necessario, in altri termini, che il ragionamento motivato incontri un freno. E ciò significa che gli autori hanno in mente soggetti (in qualche misura) educati ad atteggiamenti di tolleranza riflessiva verso punti di vista opposti al proprio. È solo a questa condizione che la divisione deliberativa del lavoro epistemico produce il guadagno epistemico previsto. Ma se si presuppone questa auto-limitazione del ragionamento motivato, è dubbio che ci si collochi ancora dentro una prospettiva panglossiana. I panglossiani sono tipicamente ottimisti quanto ai risultati dei puri automatismi, e pessimisti quanto all'educabilità dei procedimenti di ragionamento. Ma qui, al contrario, si sta implicitamente assumendo che i soggetti riescano a contenere gli automatismi in virtù di forme «educate» - nel duplice senso della parola - di ragionamento riflessivo. Oltre che verso gli automatismi, i panglossiani dichiarano ottimismo anche verso un altro fattore: la partecipazione a interazioni dialogiche in quanto tali. Ma anche per questo aspetto l'ottimismo sembra dipendere da assunzioni non del tutto esplicitate: in particolare, dall'imposizione di vincoli circa il tipo di interazioni dialogiche interessate. Queste devono essere caratterizzate da contesti scarsamente gerarchici, varietà interna delle posizioni e così via (vedi sopra, § 1 .4 ). In pratica, esplicitamente o meno, si pensa a situazioni «protette», nelle quali i soggetti sono piuttosto educati nel gestire la pluralità delle posizioni in gioco, e/o il dialogo è tenuto dentro confini di rispetto reciproco da una cornice educativa istituzionale (che si tratti di una forma di «educazione simmetrica», quale un convegno scientifico o altra forma istituzionalizzata di dialogo tra pari; oppure di una essenzialmente «asimmetrica», quale un dibattito in classe guidato dal docente). In ogni caso - questo è il punto cruciale - si tratta di situazioni molto differenti da quelle di molti dibattiti pubblici e privati, nei quali il ragionamento motivato può straripare senza che vi siano argini a contenerlo. La morale è semplice. L'ottimismo panglossiano non può essere usato come argomento contro l'educabilità del ragionamento, dato che in realtà presuppone ciò che dovrebbe negare. Presuppone cioè menti educate riflessivamente, e contesti orientati in senso educativo.
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In altri termini, presuppone che il ragionamento motivato sia contenuto entro limiti che non pregiudicano la razionalità. Senza questa presupposizione, nulla impedisce che le preferenze si espandano incontrollate - fino a produrre atteggiamenti di chiusura irrazionale verso gli argomenti altrui. In quanto presuppone l'educazione delle menti riflessive senza dichiararlo, la prospettiva panglossiana non fornisce alcuna indicazione circa il modo in cui questa possa essere realizzata. La mia proposta è che le menti riflessive siano educate attraverso la creazione di disposizioni di pensiero consapevoli dei costi degli automatismi, e ispirate dal desiderio di evitarli. Con riferimento al ragionamento motivato, essere consapevoli dei costi degli automatismi significa analizzare i casi estremi, nei quali le preferenze soggettive straripano. È a questo genere di casi che adesso ci rivolgiamo.
5.6 Io credo quel che mi pare Abbiamo descritto le forme estreme di ragionamento motivato come situazioni nelle quali il confine tra credenze e immaginazione tende a scomparire. Con questo genere di situazioni in mente, David Coady (2012) difende l'idea che - in un certo senso -si può credere qualsiasi cosa si voglia. Quest'idea, Coady ne è consapevole, si scontra con un'intuizione che ha radici piuttosto salde sia nel senso comune sia in filosofia. Facciamoci la seguente domanda: se ci dicessero «Ti darò un milione di euro se credi che p» - dove «p» è qualcosa di chiaramente falso, ad esempio «Babbo Natale esiste» - potremmo convincerci che p solo perché lo desideriamo fortemente? Ciò non sembra possibile. Abbiamo l'intuizione che il nostro sistema cognitivo sia «obbligato» a prendere atto dell'evidenza, e che questo processo passivo di ricezione dell'informazione non possa essere modificato da ciò che vogliamo o desideriamo. Se è così, non c'è nessun possibile stato intermedio tra credenza e immaginazione: quando immaginiamo, e desideriamo credere, che le cose stiano in un certo modo, nel nostro sistema cognitivo si produce uno stato mentale del tutto distinto dalla credenza, che invece è il risultato di informazioni percettive.
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Questa concezione della credenza ha però una conseguenza spiacevole. Essa sembra implicare che non sia possibile credere qualcosa senza nessuna evidenza (o peggio, in presenza di forte evidenza contraria). Se una persona si comporta come se credesse qualcosa contro l'evidenza, le cose sono due: o sta solo facendo finta di credere, oppure il suo sistema cognitivo è seriamente compromesso. È una conseguenza indesiderabile non tanto perché non possa accadere che la gente menta, o perda il senno. Ma perché se si ricorre troppo a questo genere di spiegazioni (specialmente la seconda), ogni caso di dissenso profondo diventa un fossato invalicabile. Non solo in questi casi non possiamo più dialogare con gli altri. Non possiamo neanche più comprenderli - non in quanto soggetti razionali. Non riusciamo ad attribuire loro ragioni, sia pure insufficienti, per quello che dicono. Sono persone che fantasticano, e pretendono di credere alle loro fantasticherie. Ci troviamo dunque di fronte a un dilemma. L'idea che si possa credere a piacere sembra intuitivamente inaccettabile. E tuttavia, sembra altrettanto inaccettabile l'idea che non si possa credere a piacere - nel senso che ciò che crediamo dipenderebbe rigidamente dall'evidenza. Quest'idea è difficile da accettare perché, dato che le persone si comportano spesso come se credessero cose con scarsissima evidenza, ci costringe in troppi casi ad assumere che quei comportamenti siano folli: privi di qualunque ragione. C'è un modo per uscire dal dilemma? Una strada sarebbe mostrare che certe credenze irrazionali, con poca o nessuna evidenza a supporto, sono comunque un risultato - per quanto deviante - dei normali processi di formazione di credenze. È in fondo la direzione in cui si muove la proposta di Gilovich. Il meccanismo da lui descritto è basato sulla ricerca di evidenze, e proprio per questo Gilovich lo descrive come razionale. Nondimeno esso produce risultati più o meno fuorvianti, nella misura in cui la ricerca di evidenze è pregiudizialmente orientata in favore di ciò che si vuole - e contro ciò che non si vuole - credere. Pertanto, il meccanismo in questione consente di giungere a credenze in qualche misura irrazionali, senza rendere incomprensibilmente irrazionale il modo in cui i soggetti le formano. Il problema, come già osservato, è che la proposta di Gilovich funziona bene quando le deviazioni dalla razionalità sono modeste. Più le credenze si avvicinano alle fantasticherie, meno la ricerca di
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evidenze vi svolge un ruolo apprezzabile. Riprendendo l'esempio precedente, se uno giunge a credere che Babbo Natale esiste, è difficile capire che tipo di evidenza abbia potuto indurlo a credervi. Dobbiamo dunque capire se, e come, sia possibile ricondurre questi casi estremi a meccanismi normali di formazione delle credenze.
5. 7 Credenze fantastiche, contenuti impliciti Per analizzare il caso estremo delle «credenze fantastiche» (chiamerò così le credenze che tendono verso la fantasticheria) prenderemo un esempio decisamente delicato. Il lettore ci vorrà giustificare. Dato che il punto finale a cui miriamo è l'analisi dei conflitti ideologici fino alle loro forme più estreme, non possiamo fare a meno di confrontarci con materiale potenzialmente disturbante. L'esempio, proposto da Levy (2007) e discusso da Coady (2012), è quello «del Dr Fritz Klein, un medico di un campo di concentramento che cercò di riconciliare il suo ruolo nell'olocausto con il suo giuramento ippocratico affermando (e, assumeremo, credendo) che "L'ebreo è un'appendice cancrenosa sul corpo dell'umanità"» (Coady 2012: 16). Con un esempio del genere, è difficile applicare la proposta di Gilovich. Quali evidenze potrebbero avere condotto il dottor Klein a una simile conclusione? È discutibile persino che a essa sia possibile dare un senso letterale. Dobbiamo dunque rassegnarci a riconoscere che il dottor Klein - come si usa dire - «o era pazzo o era in malafede» (mentiva sapendo di mentire)? Il problema è che simili credenze fantastiche sembrano a volte diffondersi in intere popolazioni - è un fatto che il nazismo, come molte dittature, avesse un grado di consenso interno largamente maggioritario. Ma anche lasciando da parte questi casi estremi, pseudo-credenze si diffondono di continuo in gruppi di popolazione di varia ampiezza. La follia individuale non è quindi una spiegazione plausibile. Perciò, come osservato, conviene provare a estendere la strategia di Gilovich: vedere cioè se sia possibile spiegare casi del genere come effetti - infelici - dei normali meccanismi di formazione delle credenze. Una prima cosa da osservare è che la credenza discussa da Levy interessa il dottor Klein in modo strumentale. Essa serve infatti a
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giustificare un certo comportamento, assicurando che questo non risulti incoerente rispetto a un altro suo comportamento: il giuramento fatto in quanto medico. Possiamo ricostruire ciò nei termini di un'inferenza da due premesse a una conclusione: Come medico devo fare il possibile per salvare vite umane. Gli ebrei sono una malattia sul corpo dell'umanità. Ho il dovere di rimuovere gli ebrei dal corpo dell'umanità.
Dire che la credenza ha valore strumentale significa che è come se Klein avesse ragionato a ritroso. Come medico nazista, gli era ordinato di sterminare gli ebrei. Ma era difficile non vedere in questo una contraddizione col giuramento ippocratico. Pertanto, gli serviva una premessa che eliminasse questa contraddizione: una premessa strumentale all'obiettivo di restituire coerenza alla conclusione, data l'altra premessa. Tornerò su questo aspetto del valore strumentale della credenza. Ma prima vorrei notare che l'inferenza di Klein è sottoposta a due tipi di pressione da parte del contesto sociale. C'è una pressione che si esercita direttamente sulla conclusione. Klein è un medico militare in un paese in cui vige una dittatura, e i suoi superiori gli danno un certo ordine. Questo, al di là del suo dovere di eseguire l'ordine, produce su di lui una pressione di natura epistemica e meta-cognitiva: nella misura in cui Klein assegna un valore positivo al regime nazista, ogni ordine che riceve porta con sé una «sensazione di giustezza» (feeling of rightness) che è conseguenza di quest'adesione emotiva. Il regime non può dare ordini sbagliati. Ora, dal momento che la conclusione è percepita come giusta, una premessa coerente con essa guadagna già per questo un certo credito. D'altra parte, la premessa strumentale non è qualcosa che Klein ha dovuto trovare da sé. Gli è fornita anch'essa dal regime a cui aderisce convintamente. E nella sua comunità l'affermazione è ripetuta di continuo, producendo un effetto di familiarità - e con esso, come sappiamo, una corrispondente sensazione di verità. Sulla credenza strumentale di Klein convergono dunque varie pressioni meta-cognitive, che gli rendono difficile guardarla con diffidenza. Ma questo sembra ancora insufficiente per spiegare il risultato. Davvero pressioni del genere potrebbero indurci a ignorare del
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tutto il rapporto con l'evidenza, fino a considerare vera un'affermazione così insensata? È qui che il carattere «strumentale» della credenza entra in gioco. Dal momento che la credenza non interessa in sé ma solo come mezzo per giustificare una certa conclusione, essa non è - per così dire - nel fuoco principale dell'attenzione. Non appare perciò come qualcosa che meriti di essere indagato ulteriormente. Questa considerazione è in linea con un'idea che ha ampio credito negli studi di pragmatica: quella secondo cui, nella comunicazione, la vigilanza epistemica verso un contenuto diminuisce se questo viene collocato in posizione periferica, lasciandolo implicito o presupponendolo invece di affermarlo. Se dico «quando è passato col rosso, il signor Bianchi andava veloce», sto affermando che il signor Bianchi andava veloce ma non che è passato col rosso: questo lo sto solo presupponendo. Ora, ci sono ampie evidenze che il contenuto presupposto è meno focalizzato, con la conseguenza che più difficilmente la sua verità viene messa in discussione (cfr. Lombardi Vallauri 2019). Così, in un momento di distrazione, il signor Bianchi potrebbe negare l'affermazione ( «no, andavo piano!») e con ciò cadere nel tranello di ammettere l'infrazione presupposta (di essere passato col rosso). Il tema è giustamente considerato delicato per le sue potenziali conseguenze sul dibattito pubblico4. Se i «contenuti impliciti» come li chiamerò sinteticamente - tendono ad essere accolti come veri senza controllo, ciò può costituire un potente strumento di manipolazione degli individui, e dell'opinione pubblica. Tuttavia, sebbene queste tesi sugli impliciti colgano un punto importante, ritengo che vadano integrate in due sensi.
5. 8 Come sai che è vero? Divisione del lavoro intellettuale e sospensione dell'incredulità In primo luogo, il fatto che il contenuto sia espresso in modo implicito non sembra sufficiente a produrre gli effetti descritti. ◄ Ampie analisi di questo tema sono offerte da Sbisà (2015) e dal già citato Lombardi Vallauri (2019).
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Se in particolare un contenuto è tale da suscitare sensazioni di diffidenza (si pensi ai contesti deontici, o a contenuti cui associamo valenza negativa), non basterà collocarlo in posizione non focalizzata per farlo accogliere come vero. È qui che diventano importanti i meccanismi meta-cognitivi sopra descritti (familiarità, sensazioni positive circa la fonte dei contenuti), e altri che indicheremo tra poco. Questi meccanismi segnalano al sistema cognitivo - correttamente o meno - che certi contenuti sono credibili. Solo a questo punto la loro collocazione periferica porterà a farli accettare senza ulteriore analisi. Insomma, verosimilmente è possibile far passare inosservati (e fare accettare come veri) contenuti a cui associamo sensazioni positive, ma non contenuti a cui associamo sensazioni negative. Ma c'è un secondo risvolto importante. Suggerire che la collocazione non focalizzata dei contenuti sia sufficiente per la loro accettazione rischia di portare con sé un'idea ingenua: quella secondo cui sarebbe un compito banale valutare le evidenze a supporto di una credenza - a condizione che questa sia nel fuoco dell'attenzione. In altri termini, rischia di passare l'immagine secondo cui basta «andare a vedere» se vi siano evidenze sufficienti. I soggetti non coglierebbero la verità nella misura in cui rinunciano a guardare nella direzione giusta - ma purché guardino, il risultato non può essere controverso. C'è una ragione essenziale per cui le cose verosimilmente non stanno così, e un'ulteriore osservazione da fare al margine. Cominciamo dal primo punto. Abbiamo già parlato(§ 3.10) della nostra tendenza a non distinguere tra quel che sappiamo noi e quel che sanno gli altri - la tendenza a percepirci come menti collettive. Questo meccanismo contribuisce a spiegare la diffusione degli stereotipi attraverso il passaparola: tendiamo ad accogliere ciò che sentiamo dire da altri come parte di ciò che sappiamo noi. Ma un altro aspetto importante di questo operare come menti collettive è quello che potremmo chiamare I' «effetto deferenza» verso persone o categorie cui riconosciamo specifiche competenze. Ciò è parte del fenomeno della divisione del lavoro intellettuale. Non possiamo fare (e sapere) tutto. I saperi specialistici sono coltivati da persone addestrate a quello scopo: persone che acquisiscono non solo determinate conoscenze, ma anche metodi per verificare (e falsificare) ipotesi nei rispettivi domini.
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In conseguenza di questa divisione del lavoro intellettuale, e del connesso effetto deferenza, ci sono affermazioni che accettiamo senza controllo, assumendo che altri provvedano alle verifiche opportune. È come se nel deposito delle nostre credenze ci fossero porte che non occorre mai aprire. Di più: anche se volessimo e potessimo guardare dentro quelle stanze, verosimilmente non avremmo idea di quali siano i dati rilevanti; non avremmo accesso facilmente a quei dati; e anche qualora vi avessimo accesso, non saremmo capaci di interpretarli. Insomma, in molti casi tra portare l'attenzione su una credenza e andare a verificarla c'è un abisso che sappiamo di non potere colmare - e non abbiamo nemmeno un grande interesse a farlo. Queste considerazioni suggeriscono cautela verso l'idea che le credenze siano pensieri per i quali disponiamo di evidenza. In molti casi, adottiamo credenze per le quali individualmente non abbiamo - né potremmo procurare - alcuna evidenza diretta, senza per questo essere irrazionali. Ci affidiamo al controllo epistemico di altri. Molti lettori potrebbero acconsentire alle considerazioni che precedono, e nondimeno ritenere che nei casi di credenze fantastiche si vada ben oltre. Le persone giungono a credere cose francamente assurde, per le quali è difficile pensare che chiunque possa procurare evidenza. Introduciamo allora un'ulteriore osservazione. Il fatto che la gente giunga a credere cose francamente assurde non vuol dire di per sé che si comporti in modo irrazionale. Tutte le forme di pensiero rigoroso, la filosofia in primo luogo, e la scienza poi, ci insegnano a non fidarci delle intuizioni di senso comune. Molte verità scientifiche si sono affermate sfidando simili intuizioni: a cominciare dalla scoperta che è la terra a girare intorno al sole, e non il contrario, a dispetto di un'apparente evidenza percettiva. E per fare un altro esempio classico, molti di noi hanno appreso la relatività speciale di Einstein con esempi come il paradosso dei due gemelli. In base alla teoria, se uno di due gemelli fosse spedito su un'astronave che viaggia ad una velocità prossima a quella della luce, al suo ritorno sulla terra troverebbe che il suo gemello è invecchiato più di lui - il tempo sarebbe passato più velocemente sulla Terra. La scienza, insomma, ci chiede continuamente di accettare idee che, con il metro del senso comune, sono assurde.
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D'altra parte, non c'è bisogno di scomodare la scienza. Anche la nostra esperienza ordinaria ci mette di fronte a «rovesciamenti dell'ovvio»: circostanze nelle quali sembra ovvio, sulla base di quel che vediamo, che le cose stiano in un certo modo, salvo che un'informazione nuova improvvisamente ci mostra che l'ovvio era falso. Il punto è che esperienze del genere ci predispongono ad adottare, in determinate circostanze, un atteggiamento che potremmo chiamare di «sospensione razionale dell'incredulità». La nozione di sospensione dell'incredulità è adoperata, in teoria della letteratura, per indicare l'atteggiamento con cui i lettori accettano in un testo letterario cose incompatibili con l'esperienza ordinaria. Qui si tratta di un fatto un po' diverso, che riguarda non la letteratura di finzione ma l'indagine della realtà. In questi contesti si può formare un'analoga disposizione a «sospendere l'incredulità» verso credenze apparentemente assurde. Ciò è razionale, nella misura in cui capita che simili credenze - in conflitto con evidenze di senso comune - si rivelino vere in base a standard più rigorosi di evidenza. Ma ovviamente, ciò non significa affatto che ogni credenza assurda soddisfi standard più rigorosi. Quella disposizione si presta dunque ad essere sfruttata in modi impropri, per «vaccinare» dall'evidenza credenze che invece faremmo meglio ad abbandonare 5• I teorici del complotto, ad esempio, sono sempre pronti a dire «lo so che sembrano esserci molte evidenze del contrario; ma queste evidenze sono state fabbricate appunto per convincerci che ... ». E, per tornare al nostro esempio del dottor Klein, in vari film sulle persecuzioni degli ebrei si sente sostenere l'argomento «gli ebrei sono subdoli, hanno tutta l'apparenza di essere umani, ma non bisogna lasciarsi ingannare». Non so se questo argomento fosse adoperato realmente. Ma certamente è plausibile che lo fosse. Dal momento che impariamo a sospendere razionalmente l'incredulità - a rigettare l'evidenza come occasionalmente ingannevole - questa mossa può essere abusata, per vaccinarci da obiezioni contro le nostre credenze fantastiche.
s ~ stato McGuire ( 1961 ) a introdurre la nozione metaforica di vaccinazione (inoculation) per indicare una strategia argomentativa orientata a disinnescare preventivamente una po~ibile obie1fone. Da allora la nozione si è guadagnata ampio spazio nelle teorie di psicologia sociale della comunicazione. Come o~rvano Piaz1.a e Croce (2.02.2.: 88-91), oggi la nozione viene recuperata anche nella prospettiva del contrasto alle fake news.
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5.9 Quasi una. conclusione Abbiamo esplorato una serie di meccanismi variamente coinvolti nel ragionamento motivato. Probabilmente nessuno di essi da solo può spiegare casi estremi di credenze fantastiche. Ma forse l'insieme di essi può farlo. Torniamo al nostro esempio del dottor Klein. Egli forma una credenza su cui convergono diverse sensazioni positive: i) in quanto essa consente di trarre una conclusione desiderata; ii) in quanto proviene da una comunità con cui egli si identifica; iii) in quanto è familiare. Questa credenza inoltre è collocata, presumibilmente, in una posizione non focalizzata - nel senso che lo interessa solo in modo strumentale. Non è dunque oggetto di particolare attenzione. E proprio per questo, le sensazioni positive possono diffondere indisturbate il loro alone di verità. Ciò non toglie che la credenza abbia un che di paradossale, specie se si considera che il dottor Klein è un medico. Nondimeno siamo abituati a non indagare ogni credenza, e affidarci ad altri per la loro verifica. E l'apparenza paradossale di quella specifica credenza non costringe, di per sé, a respingerla come irrazionale. Molte verità, scientifiche e non, sovvertono le nostre intuizioni di senso comune. Quelli descritti sono meccanismi che intervengono nei normali processi di formazione di credenze. Come tali non hanno in sé nulla di irrazionale, sebbene in certe circostanze possano avere esiti decisamente irrazionali. Questo ci rende comprensibile come il dottor Klein possa essere giunto alla sua credenza: cosa possa essere andato storto nei suoi processi di ragionamento. La sua credenza non ci appare per questo meno mostruosa moralmente. Ma non ci appare priva di una spiegazione razionale. Questo guadagno esplicativo, tuttavia, potrebbe avere un costo. Il quadro che abbiamo tracciato è così complesso che potremmo dubitare di avere strumenti per decidere quali esiti, in definitiva, sono razionali. Come discriminare ad esempio tra usi corretti e scorretti della sensazione di familiarità, o viceversa della sospensione dell'incredulità? In quali casi dobbiamo fidarci del nostro «senso comune» (delle sensazioni che provengono dall'esperienza), e in quali invece sospendere questa fiducia? È legittimo pensare che non ci sia nessun algoritmo capace di dirci in partenza chi ha ragione e chi ha torto.
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D'altra parte, questo libro non si propone di fornire un simile algoritmo. La razionalità qui è descritta piuttosto come una disposizione dinamica, che si costruisce attraverso un processo di equilibrio riflessivo tra le nostre capacità. Si tratta di portare l'attenzione sui meccanismi con cui costruiamo conoscenza, e cercare caso per caso di usarli al meglio mediante un bilanciamento reciproco. Questo risponde alle concrete domande che precedono? Proviamo a capirlo. In pratica, abbiamo insistito sulla strategia del debiasing, e sull'educazione della mente riflessiva come insieme di disposizioni orientate a questo scopo. L'idea di fondo è che gli automatismi tendano a sopprimere la pluralità (interna ed esterna, delle preferenze come delle credenze). E forse questa è la chiave per rispondere a quelle domande. Il debiasing riflessivo è parte della costruzione di personalità pluraliste: che si propongono di cercare attivamente i punti di vista soppressi dagli automatismi, e di promuovere processi di mediazione. Abbiamo analizzato più in dettaglio questa ricerca della pluralità (e della sua mediazione) con riferimento alle preferenze. Ma lo stesso discorso si applica alle credenze: anche per esse è essenziale la ricerca delle alternative, e la loro mediazione. Torniamo alla credenza fantastica di Klein. Non possiamo dire, in assoluto e per ciascun caso, se sia più razionale ascoltare la voce del senso comune, o piuttosto sospendere l'incredulità. Ma possiamo fare quel che il dottor Klein, presumibilmente, non ha fatto: data la premessa p con cui giustifichiamo il giudizio q, considerare anche l'alternativa non p, e chiederci se la nostra preferenza per p possa dipendere da qualche bias (subisco la pressione della mia comunità? l'effetto familiarità? il bias della conferma? la mia credenza è motivata da preferenze?). E possiamo decidere di controllare se la credenza dispone di sufficiente evidenza (su questo torno tra un attimo). Un soggetto che tende ad adottare simili atteggiamenti non potrà certo disfarsi di tutte le credenze erronee. Il processo è infinito, e dobbiamo rassegnarci all'idea che tra le nostre credenze ce n'è sempre qualcuna sbagliata - e purtroppo non sappiamo quali. Ma in questo come in altri campi, la quantità è importante. Conta se le credenze sbagliate sono poche o molte. E conta se una credenza ha a supporto poca o molta evidenza - anche concedendo che l'evidenza non sia mai definitiva e assoluta. Soprattutto, la complessità del quadro non giustifica lo scetticismo di fronte a dati psicologici robusti. È vero che non è facile con-
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vincere qualcuno che sta adottando una credenza fantastica; ed è vero che in alcuni casi le questioni sono oggettivamente controverse. Nondimeno, i bias e la mente riflessiva sono fenomeni ampiamente confermati dalle evidenze, come lo sono disposizioni di pensiero quali il dogmatismo da un lato, e il pensiero attivo di mentalità aperta dall'altro. Tutti siamo dogmatici in qualche momento e rispetto a qualche credenza. Ma se vi trovate davanti un soggetto tendente al dogmatismo, potete riconoscere un complesso di atteggiamenti mentali piuttosto caratteristici. La buona notizia è che, nelle opportune condizioni, ci si può lavorare.
5. I o Tutta la verità, nient'altro che la verità. Una riflessione conclusiva. Nei due paragrafi precedenti abbiamo fatto due affermazioni che possono apparire in contraddizione tra loro. Per un verso (§ 5.8) abbiamo messo in guardia dall'idea ingenua che per giustificare una credenza basti «andare a vedere» come stanno le cose: che la ricerca delle evidenze sia cioè un processo banale. Per un altro verso, nel tirare le somme del nostro discorso sul dottor Klein (nel§ 5.7) abbiamo suggerito che egli avrebbe fatto bene a controllare se vi fosse sufficiente evidenza a supporto della sua credenza. Come stanno dunque le cose? Controllare l'evidenza è o meno parte delle strategie razionali che faremmo bene ad adottare? Ed è possibile, innanzitutto? Il tema è importante e coinvolge una nozione centrale nelle questioni epistemiche: quella di verità. Ed è chiaro che la questione della verità, e dell'accesso all'evidenza, è sullo sfondo di qualsiasi ragionamento sull'ideologia: i nostri posizionamenti ideologici devono fare i conti con l'evidenza oppure no? A conclusione del presente capitolo è perciò opportuno dedicarvi un po' di spazio. Introdurrò il tema con un aneddoto personale. Qualche tempo fa, nel corso di un convegno organizzato con alcuni colleghi su temi legati al pensiero ideologico, è nata una divergenza riguardo alla seguente questione: quanto è importante la verità nel dibattito pubblico? Si sono formati due partiti, coloro che sostenevano che è importante e coloro che lo negavano. La discussione era concentrata intorno a un caso esemplare: la falsa scoperta di armi di
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distruzione di massa in Iraq, con cui a suo tempo Bush junior e Blair motivarono la missione di guerra in quel paese. Quelli tra noi che negavano l'importanza della verità in un caso del genere, argomentavano che l'opinione pubblica è ben poco interessata alle evidenze. Orientamenti e convinzioni ideologiche sono decisamente più rilevanti. D'altra parte, si trattava di un caso in cui era difficile valutare cosa contasse come un'evidenza: occorreva un expertise tecnico alla portata di pochi. Il resto della comunità tende di norma a prendere per buono quel che viene detto da esperti e autorità, almeno finché è coerente con le proprie convinzioni ideologiche. Si tratta di argomenti a prima vista del tutto condivisibili. D'altra parte, chi sosteneva l'importanza della verità usava il seguente argomento: per quale ragione Bush e Blair avrebbero dovuto impegnarsi in un'affermazione falsa, con conseguenze politiche potenzialmente serie (di fatto costò a Blair un'uscita ingloriosa dalla scena pubblica), se questo non fosse stato necessario a giustificare le proprie scelte? Evidentemente la presenza di armi di distruzione di massa era ritenuta premessa essenziale per la decisione di andare in guerra. Ma è chiaro che era tale solo assumendo che si trattasse di una premessa vera. Se fosse stata notoriamente falsa non sarebbe servita allo scopo. E in effetti, anche questo argomento appare plausibile. È possibile conciliare le due posizioni? L'analisi del caso di Klein suggerisce come potremmo farlo. Come abbiamo visto, le credenze sono caratterizzate per un verso dal loro fondamento nell'evidenza, per un altro dai comportamenti che autorizzano. Ora, quel che accade quando le credenze tendono verso la fantasticheria è che i due aspetti divergono. Nel nostro esempio, Klein adotta i comportamenti conseguenti alla credenza, ma non si interessa dell'evidenza che dovrebbe supportarla. Per il primo aspetto, dunque, la verità conta: si ha bisogno di credere un certo stato di cose p (di assumerlo come vero) per giustificare una determinata conclusione q. Ma per il secondo la verità non conta: non si è interessati all'evidenza appropriata. Questa salomonica conclusione, che concede un po' di ragione ad entrambi gli interlocutori, non dissolve però del tutto la contrapposizione che si è manifestata in quel convegno. Vi era una questione ulteriore che ci divideva. I sostenitori della tesi «la verità non conta» intendevano anche sostenere che non è utile o possibile educare i sog-
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getti al rispetto della verità; i loro oppositori sostenevano ovviamente il contrario. Vale la pena di analizzare questa ulteriore questione, perché come si vedrà essa ci introduce ai temi del prossimo capitolo. Perché non sarebbe utile/possibile educare al rispetto della verità? Giudico questa tesi troppo pessimistica, ma credo che vi sia alla base un'intuizione condivisibile. L'intuizione è che sul terreno della discussione pubblica - dove sono coinvolti giudizi ideologici - le nozioni di evidenza e verità sono particolarmente problematiche. Non si tratta solo delle considerazioni fatte in precedenza, secondo cui può essere necessaria una formazione specialistica per acquisire e interpretare le evidenze. Piuttosto, quando si tratta di giudizi ideologici che cosa conta come evidenza per una credenza è altrettanto controverso della credenza stessa, perché dipende dal complessivo quadro di credenze, sentimenti e valori adottato. Un modo per riformulare quest'idea è il seguente. Abbiamo visto come le credenze possano scivolare verso l'immaginazione. Ora, nel dominio dei giudizi ideologici sembra non esservi un modo neutrale per stabilire in che misura un dato giudizio sia credenza o immaginazione: in che misura cioè sia giustificato da fatti o piuttosto motivato da preferenze. Ciascuno traccia la distinzione tra fatti e preferenze a modo proprio, col risultato che i suoi giudizi finiscono per trovarsi sempre dalla parte giusta: quella della verità. In altri termini, nella discussione pubblica ciascuno tenta di sequestrare la verità a vantaggio del proprio punto di vista. È comprensibile che, di fronte a un simile quadro, si possa giudicare l'appello alla verità come troppo simile alla malattia per costituire la cura. La verità non è nella disponibilità del soggetto: quanto meno, non in un modo che consenta di separarla asetticamente dalle preferenze. Pertanto, educare i soggetti alla ricerca della verità pura - impermeabile alle preferenze - non può essere un obiettivo. Che si ragioni in questo modo, dicevo, è comprensibile: ma non mi pare in definitiva una buona idea. Proporrò adesso una formulazione che mi sembra più promettente. Ma prima, vorrei insistere ancora un momento su un elemento di convergenza.
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5.11
Il gioco del vero e del falso, e la penombra epistemica
Un merito dell'approccio che stiamo discutendo è che consente di cogliere l'intreccio essenziale tra nozioni epistemiche e pratiche linguistiche. Mi spiego. La nozione semplicistica di verità, come qualcosa di banalmente accessibile al soggetto, suggerisce che vi sia una sorta di standard epistemico ovvio per qualunque parlante. Ciascuno di noi conoscerebbe, per così dire, il gioco del vero e del falso, in un modo che consente di applicare quelle nozioni (e la connessa nozione di evidenza) senza ambiguità in qualunque contesto. Domandiamoci tuttavia: in che modo, e con quali strumenti, lo avremmo appreso? E prima ancora, esiste un simile standard comune a qualsiasi dominio del l'esperienza? Prendiamo ad esempio la matematica, e la biologia. La ricerca di evidenze nei due campi è qualcosa di molto differente. Ci sono nondimeno generalizzazioni che possiamo cogliere? E se è così, possediamo questi principi generali in modo innato, o dobbiamo provare a ricostruirli da una pluralità sparsa (e potenzialmente irriducibile) di esperienze? Ma il quadro è in realtà molto più ampio e complesso, se consideriamo quel che accade fuori dall'ambito dei saperi disciplinari. Pensiamo ad esempio al fenomeno delle «bugie bianche»: il genere di cose che diciamo in società per non dispiacere a qualcuno. Si potrebbe sostenere che, appunto, le consideriamo bugie, quindi ciò conferma che sappiamo esattamente dove tracciare il confine tra vero e falso. Ma non è così semplice. Dove passa il confine tra una bugia bianca e un'affermazione convinta? Quando qualcuno, indossando un vestito, ci chiede «come mi sta?» non è così chiaro in che misura il nostro giudizio attinga a parametri oggettivi, e quanto dipenda da una varietà di fattori soggettivi (incluso il rapporto con la persona e l'umore del momento) che ci abituiamo a trattare come non inappropriati in quei contesti. Non è mica una questione di vita e di morte! Possiamo persino scherzarci su. O stiamo anche, in qualche misura, dicendo la verità mentre scherziamo? E sapremmo rispondere in modo assolutamente certo alla precedente domanda? In alcuni casi probabilmente sì, ma in altri meno. E che dire ancora dei discorsi con cui analizziamo il carattere e le scelte delle persone, o quelli in cui valutiamo entità astratte (incluse
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2.11
istituzioni, caratteri nazionali e così via)? Sono, tra l'altro, discorsi pieni di componenti metaforiche. Quanto ci impegniamo sulla loro verità, e quali standard e metodi utilizzeremmo per raccogliere evidenze per quelle «verità»? Potremmo descrivere questa situazione di indeterminazione nei termini di una «penombra epistemica» - espressione modellata su quella di «penombra della credenza», con cui Matthews (2013) indica un'area di indeterminazione tra credenza e fantasticheria. Ovvero, giochiamo il gioco del vero e del falso con criteri che variano molto da caso a caso, e che hanno comunque importanti margini di vaghezza. Quello che sto suggerendo dovrebbe essere chiaro. E ci riporta a considerazioni precedenti sul carattere presumibilmente acquisito delle nostre procedure di ragionamento (si veda § 2. I 9; § § 3.4 e 3. 5). Una delle principali lezioni del dibattito sulla razionalità è che il ragionamento dipende ampiamente dai contenuti, dunque dall'esperienza in specifici domini e dagli schemi che ne ricaviamo. E questo suggerisce un quadro compatibile con le affermazioni di Vygotskij secondo cui il pensiero è interiorizzazione di pratiche verbali: impariamo a pensare e ragionare praticando il pensiero e il ragionamento in specifiche situazioni. Nello stesso spirito, dobbiamo forse riconoscere che impariamo il gioco del vero e del falso attraverso una varietà di pratiche con standard di evidenza assai differenti tra loro. Vi sono senz'altro alcuni casi che la nostra cultura considera paradigmatici (ad esempio nell'educazione dei bambini, ma ovviamente anche nella pratica delle scienze). Ma intorno ad essi c'è tutta una penombra epistemica di casi nei quali gli standard e i relativi metodi sono decisamente rilassati o vaghi. E un aspetto importante è che, a quanto pare, non abbiamo alcuna consapevolezza di questa varietà di standard: tendiamo a trattare la verità come una nozione semplice e unitaria 6• Tanto che potrem-
t bene esplicitarlo: quando parlo di «giocare il gioco del vero e del falso» sto pensando alla nozione di «gioco linguistico» di Ludwig Wittgenstein (1953), ossia all'idea del linguaggio come un insieme di pratiche umane fatte di parole, di contesti e di azioni insieme, caratteri1.1.ate da più o meno significative regolarità ma anche da margini indeterminati di variabilità. Su questo sfondo teorico, dovremmo concretamente pensare al gioco del vero e del falso in termini di scambi linguistici nei quali impieghiamo le parole «vero» e «falso». Quel che sto affermando, dunque, è che apprendiamo a usare quelle parole in contesti piuttosto differenti e con standard d'uso piuttosto differenti, sia pure legati tra 6
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mo scivolare, durante una stessa conversazione, da uno standard di evidenza all'altro senza accorgercene affatto. D'altra parte, abbiamo visto come i giudizi automatici circa la verità dipendano dalle nostre sensazioni meta-cognitive, e come queste non discriminino tra cause molto varie - sia cognitive sia affettive. Credo dunque che si possa senz'altro concordare con questa affermazione: via via che ci allontaniamo dai casi paradigmatici, e ci addentriamo nella penombra epistemica, discriminare tra evidenze e preferenze diventa sempre più difficile. (E non è del tutto banale nemmeno nei casi paradigmatici: pensiamo, ancora una volta, agli scienziati che resistono al cambiamento.) Ciascuno tende a tracciare quella linea in base alle proprie intuizioni, e non c'è un algoritmo per decidere quale sia il modo giusto. Da questo dobbiamo trarre la conclusione che non è possibile/ utile educare i soggetti alla ricerca della verità, e al rispetto per essa? Quando noi filosofi incliniamo verso quest'idea, temo che siamo vittime di un'illusione prospettica. Noi siamo persone (in qualche misura) addestrate a cercare e considerare contro-esempi, a valutare argomenti a favore e contrari, e dunque a cercare la verità con metodi sofisticati che tengono conto della pluralità dei punti di vista possibili. Abbiamo anche una certa consapevolezza della varietà degli standard epistemici, e dell'intreccio complicato tra evidenze e preferenze. In questo quadro, se uno tra noi si appella all'importanza della verità, c'è il rischio che stia portando la discussione un passo indietro: come se battesse i pugni sul tavolo per difendere un punto di vista ovviamente giusto, invece di accettare la difficoltà di discutere nel merito le diverse posizioni, con tutte le sfumature del caso. Ma quando si tratta di educazione (ad esempio, dei nostri studenti) al pensiero critico, il tema è tutt'altro. Abbiamo di fronte soggetti non addestrati a decentrare il proprio punto di vista; poco abituati a cercare contro-esempi, e a considerare le obiezioni senza pregiuloro - per usare un'altra nozione celebre di Wittgenstein - da «somiglian1.c di famiglia»: da una rete di parentele che non escludono gradi anche significativi di variabilità. E per concludere sul tema, è ancora Wittgenstein (1953) a metterci in guardia dall'inclinazione a pensare che, solo perché usiamo una stessa parola, stiamo designando in tutti i casi lo stesso oggetto. La polisemia, la coesisten:za di una pluralità di significati più o meno imparentati per una singola parola, è un fatto linguistico ben noto e generale. Non dovremmo dimenticarcene, è il messaggio di Wittgenstein, quando ragioniamo sulle cose: in questo specifico caso, sulla nozione di verità.
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dizio quanto è possibile; poco consapevoli dell'intreccio tra evidenze e preferenze nei loro ragionamenti. In questo contesto, l'appello all'importanza della verità ha un significato del tutto differente. Un appello del genere è componente essenziale di una educazione della mente riflessiva. Questa ha il compito di provare a correggere i nostri automatismi quando necessario, e una parte importante di tale compito è vedere dove i bias distorcono la nostra percezione della realtà. Anche qui, non c'è un algoritmo. Costruire la propria mente riflessiva è un lavoro di pazienza, simile alle discussioni sofisticate che si svolgono tra esperti. Non è che queste discussioni non arrivino da nessuna parte. È vero però che sono il frutto di processi di equilibrio riflessivo, in cui (specialmente nelle scienze sociali e psicologiche, ma non solo in esse) per stabilire come stanno le cose bisogna sforzarsi di separare evidenze e preferenze, ma questa separazione passa a sua volta attraverso una valutazione di come stanno le cose. C'è un percorso a spirale da compiere. Ma non è un'impresa impossibile, come i progressi nei saperi disciplinari dimostrano. 5. 12 Tirando le somme, guardando al dopo Per dirla in termini un po' differenti. È vero che le persone tendono ad assumere la verità del proprio punto di vista: non hanno davvero bisogno di incoraggiamenti in quel senso. Ma nel contesto di un approccio di debiasing quello che stiamo chiamando «appello alla verità» è una cosa del tutto diversa. Persino opposta. È un invito a cercare - contro il bias della conferma - contro-esempi, evidenze contrarie ai punti di vista preferiti. È insomma un invito a cercare vincoli alle proprie pretese di verità. Un invito a esitare. Ad aprire uno spazio mentale nel quale la pluralità, interna ed esterna, possa essere riconosciuta e mediata. Insistere sulla verità, dunque, non significa affatto assecondare chi traccia la distinzione tra evidenze e preferenze a proprio vantaggio. Non dovremmo, per timore di questo, rinunciare a fare appello alla verità. Non dovremmo proprio perché viviamo in una penombra epistemica, in cui evidenze e preferenze sono mescolate in modi difficili da riconoscere - con conseguenze che possono essere molto spiacevoli. Il fenomeno delle fake news, su cui tanto inchiostro viene
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versato, appare molto meno sorprendente su questo sfondo. Esso è una manifestazione, con mezzi nuovi, di un fatto vecchio quanto la conoscenza: la sospensione dell'incredulità - della vigilanza epistemica - motivata da preferenze. Contro questa invadenza delle preferenze, è cruciale richiamare l'attenzione sull'importanza delle evidenze e sui complessi metodi attraverso cui cerchiamo di procurarle. Ciò è necessario se ci interessa la verità: se vogliamo domandarci come stanno le cose, provando a separare credenze e fantasticherie. Insomma, insistere sulla verità significa invitare i soggetti che educhiamo a i) indirizzare la mente riflessiva su come tutti noi formiamo credenze motivate da preferenze, ii) inibire l'attitudine spontanea a tracciare la distinzione tra evidenze e preferenze in un modo che lascia tutte le evidenze (tutta la verità) dalla nostra parte, e tutte le preferenze dalla parte dell'altro, iii) provare ad apprendere (in modo sempre rivedibile) l'arte di procurare evidenze più solide. Insistere sulla verità in questo contesto è un invito alla riflessione critica su noi stessi: su quanto siamo fallibili, e su un repertorio di tecniche per provare a esserlo meno. Questo compito incontra un ulteriore ostacolo non appena entriamo sul terreno della nostra identità simbolica - e specificamente delle nostre ideologie. Diventa essenziale allora costruire specifici mindware: analisi dei processi spontanei di posizionamento ideologico, che ci aiutino a gestirli. È questo l'obiettivo del prossimo capitolo.
Capitolo sesto Il pensiero ideologico
6. 1 Un universo simbolico Nell'introduzione a un suo libro sui fenomeni socio-culturali alla base delle società umane (parentela, matrimonio, controllo sociale, ecc.), l'antropologo John Beattie scriveva: Il funzionamento di un formicaio, o la sociologia di un alveare, possono essere descritti intelligibilmente senza riferimento agli stati mentali degli attori[ ... ], circa i quali abbiamo poca o nessuna informazione. Ma il modo in cui funziona una comunità umana non può essere descritto adeguatamente senza un simile riferimento. Perché gli esseri umani hanno cultura, sistemi di credenze e valori che sono essi stessi cause potenti dell'agire, mentre, per quanto ne sappiamo al momento, formiche e api non ne hanno. A differenza degli altri animali, gli esseri umani vivono in un universo simbolico, e uno dei principali temi di questo libro è che questa è una delle loro caratteristiche più importanti. (Bcattie 1966: 13; traduzione mia)
Noi esseri umani, ci dice Beattie, viviamo immersi in un universo simbolico: i nostri sistemi di credenze e valori spiegano in misura determinante il nostro agire - un fenomeno che è del tutto specifico della nostra specie. Questo genere di considerazioni sposta la nostra riflessione a un nuovo livello. Nei capitoli precedenti abbiamo analizzato il potere degli automatismi, e più specificamente il loro ruolo nel ragionamento. Siamo arrivati alle soglie della costruzione dell'identità individuale. Abbiamo infatti esaminato alcuni automatismi del ragionamento che influiscono in modo significativo sulla percezione di noi stessi e degli altri. In pratica, a causa di quella che è stata chiamata l'illusione introspettiva, vediamo noi stessi attraverso il filtro delle nostre migliori intenzioni, laddove giudichiamo gli altri sulla base dei loro fallibili comportamenti. Inoltre abbiamo indagato il ragionamento motivato,
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ossia il fenomeno per cui gli stati affettivi influiscono sul ragionamento fino a generare credenze svincolate dell'evidenza. L'esempio di ragionamento motivato che abbiamo analizzato ampiamente - quello del dottor Klein - ci ha introdotto al tema del potere che le pressioni sociali esercitano sui nostri giudizi. Tra gli stati affettivi, quelli legati ai posizionamenti ideologici sono senza dubbio potenti. Con queste considerazioni abbiamo dunque sfiorato il tema della genesi della nostra identità simbolica. Essa nasce al crocevia tra percezione di noi stessi in paragone agli altri, e percezione delle nostre appartenenze ideologiche. Ma una volta generata, l'identità simbolica diventa una forza efficace: come ci ricorda Beattie, i nostri sistemi di credenze e valori diventano «essi stessi cause potenti dell'agire». Di questo parleremo nel presente capitolo: dell'identità simbolica, dei posizionamenti sociali che contribuiscono a determinarla, e dei modi in cui l'identità simbolica si manifesta - ovvero, degli effetti che produce. Ritroveremo, in questo dominio di fatti, un copione ormai noto. I meccanismi ordinari della costruzione dell'identità, in quanto operano automaticamente e senza controllo, producono alcune patologie sociali che sono ampiamente sotto i nostri occhi. Inoltre, come è ovvio, ritroveremo all'opera molti degli automatismi già descritti. Il pensiero ideologico non è altro che l'applicazione dei meccanismi di ragionamento già introdotti - e di alcuni altri che introdurremo - alla costruzione dell'identità ideologica. Analizzare questi fenomeni è dunque essenziale per il loro debiasing. Si tratta di fornire alla mente riflessiva i mindware necessari per tenere sotto controllo il pensiero ideologico 1 •
6.2 Due de-fìnizioni della specie umana Se si dovessero scegliere solo dieci righe per descrivere la specie umana, le seguenti - tratte dalla Politica di Aristotele - sarebbero certamente tra le favorite. Esse contengono tra l'altro due tra le più • Piazza e Croce (2.02.2.) offrono una preziosa introduzione al tema delle fake 11ews, in cui, analogamente a quanto faccio qui, si distingue tra fattori cognitivi e fattori legati al posizionamento sociale. Rispetto alla loro ricostruzione, qui insisto sull'idea che anche al secondo di questi livelli sia essenziale intervenire sulla formazione degli individui (piuttosto che tramite procedure normativo-istituzionali).
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fortunate definizioni degli esseri umani: quelle di «animale politico» e «animale dotato di parola» (anche se le espressioni più spesso utilizzate dalla tradizione sono «animale sociale» e «animale razionale»). A partire da queste due definizioni, la nostra identità simbolica viene sintetizzata in una formulazione forse insuperata (si noti, di passaggio, che Beattie prende da qui il paragone con le api). Essa è descritta come un'identità politica costruita attraverso la parola: Ond'è manifesto che la città [polis] è un fatto naturale e che l'uomo è animale per natura politico [...]. t quindi manifesto che l'uomo è animale socievole in grado maggiore delle api e di ogni animale che vive in gregge. Niente infatti, secondo noi, la natura fa invano; solo l'uomo fra tutti gli animali ha la parola. La voce può esprimere dolore e piacere, perciò l'hanno anche gli altri animali (fin qui infatti giunge la loro natura, d'avere la sensazione del dolore e del piacere e significarlo), ma la parola ha il fine di manifestare ciò che è utile e ciò che è dannoso, e per conseguenza anche ciò che è giusto e ciò che è ingiusto. Questo infatti è il carattere proprio dell'uomo rispetto agli altri animali, che lui solo ha la nozione del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto e di tutte le altre antitesi morali. L'associazione degli esseri forniti di queste nozioni crea la famiglia e la città.
Di passaggio, notiamo che Aristotele considera la città - e con essa il linguaggio - un fatto naturale2 • È un tema che abbiamo già affrontato (§ 2. 19 ): siamo una specie che per natura costruisce fatti culturali. Si pensi, d'altronde, alla citazione di Beattie: la sua indagine sulle strutture culturali è introdotta dalla considerazione che vivere in un universo simbolico - culturalmente costruito - è ciò che ci caratterizza come specie biologica. Entrando più nel merito, Aristotele usa una delle due definizioni per giustificare l'altra. Noi soli, dice Aristotele, siamo dotati di linguaggio, 1
L'idea che le città siano un fatto naturale, come ha notato un revisore di questo libro, è discutibile. I fenomeni storicamente collocati- come è il caso delle città, che emergono solo a un certo punto della storia umana - non sembrano buoni candidati per essere fatti di natura. Ci sono nondimeno po~ibili lince di difesa per quell'idea. In particolare, non siamo tenuti ad un'interpretazione restrittiva, secondo cui Aristotele ha in mente letteralmente le città greche del suo tempo, piuttosto che una generica tenden1.a umana a formare gruppi e coalizioni. Quanto meno, quest'interpretazione generica è quella interessante per la nostra prospettiva. Analogamente, non prenderò il sistematico ricorso di Haidt alla no1Jone di fenomeni «tribali» nel senso di un riferimento restrittivo alle «tribù», in quanto specifico stadio storico di organi1.1.azione sociale. Il nostro tema è piuttosto (quella che appare come) la generale tenden1.a umana, sottesa alle più diverse forme di organi1.1.azione sociale, a formare coalizioni.
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e la natura non fa niente a caso. Per quale ragione dunque ci ha dotati della parola? Per rendere possibile, in particolare, una specifica pratica linguistica: quella del discutere circa il bene e il male, il giusto e l'ingiusto. Ed è questa pratica linguistica che fa sì che gli esseri umani si associno tra loro, in organizzazioni quali la famiglia e la città - la polis. Dunque, è perché abbiamo il linguaggio che siamo animali politici. La contrapposizione che Aristotele traccia tra «la voce», che possiedono anche gli altri animali, e «la parola» (il logos, il linguaggio) che è propria solo degli esseri umani, è fondata sull'altra contrapposizione tra le coppie dolore/piacere da un lato, e bene/male (giusto/ ingiusto) dall'altro. Nel linguaggio, gli esseri umani confrontano le loro visioni della realtà e i loro valori. Fanno dunque più che esprimere piacere e dolore: si forniscono l'un l'altro ragioni, a favore delle credenze e preferenze individuali, o anche contro di esse. Questo brano tiene dunque mirabilmente insieme due aspetti che tuttavia, per i nostri scopi, è opportuno considerare separatamente. Per un verso, c'è qualcosa che ci unisce nella pratica del dialogo. Se ci forniamo l'un l'altro ragioni, è perché sentiamo l'altro come simile a noi: un essere dotato di linguaggio (di logos, di ragione), a cui siamo tenuti a fornire ragioni, e che è tenuto a fornirle a sua volta. Per un altro verso, c'è quel che ci divide. Se discutiamo tra noi del giusto e dell'ingiusto, è perché il linguaggio è un'arena nella quale si confronta una pluralità di opzioni possibili. Le famiglie competono tra loro per le scelte della città; le città competono tra loro per la supremazia nella regione (e questa è una competizione materiale, ma anche tra modelli culturali e politici). Il linguaggio ci unisce; nel linguaggio ci dividiamo. Ma un punto ulteriore è che, nel dividerci, torniamo a unirci su scala più ridotta. La linea di divisione non separa ciascuno da ciascun altro. Come giusto e ingiusto sono due, così tende a prevalere una logica binaria nella discussione. Se si discute una tesi, o una scelta da compiere, l'uditorio tenderà a dividersi in due gruppi - favorevoli e contrari - uniti al loro interno. Come abbiamo osservato parlando delle basi biologiche della morale (§ 2.16), questo corrisponde alla logica binaria delle sensazioni con cui reagiamo all'ambiente. Ogni stimolo ci appare come rassicurante o minaccioso, amico o nemico. Trasferendosi nella sfera morale, questa dualità - come ci siamo espressi - trasforma ogni discussione in un derby. Basta una piccola inclinazione per la scelta p per fare di noi membri del partito a cui tocca fornire ragioni per p, e contro l'alternativa q.
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6. 3 Coalizioni ideologiche e istinto gregario Nel linguaggio, dunque, ci dividiamo. Ma lo facciamo formando coalizioni. Questo è essenziale per la nozione di pensiero ideologico qui proposta. Fin dalla premessa, ho definito questa modalità di pensiero come l'attitudine a costruire identità individuali e posizionamenti sociali tramite discorsi valutativi. I discorsi valutativi, come ci dice Aristotele, determinano partizioni sociali e politiche. Organizzano il corpo sociale in partiti e coalizioni di vario genere, e ci posizionano in essi. Una tesi di fondo di questo libro è che possiamo analizzare a sé il pensiero ideologico, insieme con la pratica discorsiva in cui si manifesta, separandolo da altre forme di pensiero e discorso. Nel brano di Aristotele, tuttavia, il discorso ideologico è presentato in simbiosi inestricabile con quella che qui consideriamo invece una pratica discorsiva distinta: il discorso attraverso cui esercitiamo il pensiero critico. Abbiamo definito il pensiero critico come l'attitudine ad analizzare e confrontare punti di vista esaminandone i pro e contro. E certamente il brano descrive una sola e medesima pratica linguistica, in cui le partizioni ideologiche sono prodotte tramite un confronto razionale tra punti di vista: un confronto in cui ciascuno fornisce ragioni, così che si possa intersoggettivamente esaminare i pro e contro. Ora, non mi sfugge questa unità tra pensiero critico e pensiero ideologico: ossia, il fatto che laddove vi è l'uno di norma vi è anche l'altro. Se esaminiamo punti di vista non possiamo fare a meno, in qualche misura, di posizionarci. E se ci posizioniamo, dobbiamo in qualche misura esaminare i punti di vista a disposizione. Ma nelle due frasi precedenti, l'espressione «in qualche misura» è cruciale. Una ragione per cui ritengo legittima la separazione è, appunto, che le due modalità di pensiero si manifestano con distribuzioni molto varie. In alcuni casi, l'enfasi può essere principalmente sull'esame dei pro e contro; in altri sul posizionamento ideologico. E soprattutto, in casi estremi il posizionamento ideologico può prevalere a tal punto da lasciare ben poco spazio al pensiero critico. È una dinamica che abbiamo già analizzato a proposito della formazione di credenze tramite ragionamento motivato. Non si può negare che dietro ogni credenza vi siano motivazioni e stati affettivi - anche nel caso di credenze per le quali abbiamo rigorose dimostrazioni o sovrabbondante evidenza. Tuttavia, è altrettanto chiaro che ci sono casi nei quali le motivazioni
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esondano, e riducono quasi a zero l'attenzione alle evidenze e contro-evidenze. Questa mi pare una ragione sufficiente per analizzare il ruolo degli stati affettivi nella formazione di credenze. E per la stessa ragione mi pare opportuno analizzare come operi il pensiero ideologico, e come esso possa, in casi estremi, annichilire il pensiero critico. Un'altra ragione per analizzare il pensiero ideologico a sé, separatamente da quello critico, è legata alle spiegazioni cognitive dei due fenomeni. Perché le basi cognitive sono parzialmente differenti. Certo, in entrambi sono presenti componenti intellettive e affettive. In particolare: in entrambi sono presenti stati affettivi che fungono da motivazioni; in entrambi c'è una componente di monitoraggio da parte della coscienza. Tuttavia, come sappiamo, la coscienza può limitarsi a monitorare pigramente i processi, avallando le conclusioni degli automatismi, oppure impegnarsi in forme di attività molto più dispendiose. Il pensiero critico - con la sua inibizione attiva dei risultati automatici, la ricerca attiva di contro-esempi, e il confronto attivo tra opzioni - sta certamente dal lato delle forme più dispendiose della coscienza3 • Mentre il pensiero ideologico è incline a fenomeni come il bias della conferma e il myside bias (la tendenza a far prevalere le opinioni depositate in memoria). In altri termini, esso tende ad avallare i risultati degli automatismi, risparmiando sugli sforzi coscienti. Ma c'è anche un'altra importante differenza, che riguarda le motivazioni affettive. Il pensiero critico è basato su quella motivazione riflessiva che abbiamo ampiamente analizzato nel precedente capitolo: una motivazione meta-cognitiva, di alto livello. Sostanzialmente si tratta, lo abbiamo visto, di una motivazione a monitorare e rivedere preferenze e credenze, con lo scopo di mediare armonicamente la propria pluralità interna. E di conseguenza, anche la pluralità a cui siamo esposti dall'esterno. Il pensiero ideologico ha motivazioni molto differenti. Una in particolare merita un'indagine a sé. Si tratta di quello che viene chiamato «istinto gregario» -secondo dizionario, «gregario» si riferisce alla tendenza di certe specie animali a vivere in gruppi (famiglie, branchi 3 Anche se, lo abbiamo detto, il pensiero critico funziona in modo tanto più efficace quanto più è automati1.1.ato: ossia, quanto più i mindware sono codificati nella memoria a lungo termine, cosl che l'esposizione a circostan1.c in rui tipicamente i bias producono i loro guasti innesca associativamente la relativa ricerca di contro-esempi e contro-indica1Joni.
6.
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2.2.1
e simili), di carattere permanente o temporaneo. Ma l'istinto gregario non è la sola motivazione affettiva rilevante in questo contesto: esso interagisce con quelle sensazioni di base che risultano dal continuo monitoraggio dell'ambiente. In pratica, nel formare coalizioni è cruciale l'assegnazione di valutazioni positive e negative. Abbiamo sensazioni positive o negative verso idee, credenze, ma anche situazioni, libri, stati atmosferici: la lista è praticamente infinita. Queste sensazioni ci spingono a sentirci affini a certe persone, con cui le condividiamo, piuttosto che ad altre, e con le prime tendiamo a formare spontaneamente coalizioni. Ma è vero anche l'inverso: se qualcuno fa parte della nostra stessa coalizione, tendiamo ad associare sensazioni positive a Iui e a ciò che lo concerne. A questo punto del percorso, ci è ormai chiaro quanto le motivazioni siano cruciali per i processi cognitivi. Anche nell'ambito ideologico - possiamo assumere - automatismi e impulsi affettivi entrano in gioco per primi e condizionano l'elaborazione seguente. Pertanto, è evidente che il confronto dei punti di vista e delle ragioni è lungi dall'essere tutta la storia. Può persino accadere, come diremo, che scegliamo credenze e ragioni in conseguenza di affiliazioni decise indipendentemente. Tutto questo, come si vede, ha poco a che fare con il pensiero critico. Il che non toglie che le pratiche discorsive di posizionamento sociale e quelle di valutazione di pro e contro siano fittamente intrecciate. Nei paragrafi che seguono analizzeremo più ampiamente, innanzitutto, l'istinto gregario. Quindi faremo un passo ulteriore, che ci porta in pieno dentro la sfera del simbolico: vedremo cioè come il linguaggio funzioni in quanto strumento di posizionamento sociale. Il pensiero ideologico nasce infatti all'incrocio tra motivazioni (quali quelle qui sopra indicate) e alcuni dispositivi comunicativo-linguistici. 6.4 Egoisti ipocriti, menti tribali Nel corso del presente libro abbiamo fatto, e faremo ancora, ampio uso delle idee dello psicologo sociale Jonathan Haidt. Le sue riflessioni ci hanno fatto da guida nella comprensione dei fenomeni morali, sia pure con alcuni importanti deviazioni dalla via che egli traccia. È venuto il momento di completare il confronto con il suo modello. Per anticipare i risultati, per un verso accoglieremo le sue
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RAZIONALI FINO IN FONDO
considerazioni sul ruolo degli istinti (gregari e non) nella dimensione morale. Ma per un altro verso, metteremo in discussione le conclusioni che ne trae circa la nostra identità simbolica. In particolare, difenderò l'idea che tale identità non sia solo confabulatoria - come Haidt suggerisce. O quanto meno, è confabulatoria in un senso meno cinico di quanto Haidt ci inviti a credere. Ma procediamo con ordine. Nel secondo capitolo abbiamo introdotto il modello sociale intuizionista di Haidt relativamente alla formazione dei giudizi morali. Lo abbiamo accolto come una descrizione corretta di una parte dello scenario: quella relativa al potere degli automatismi sul ragionamento morale. Ma al di là di questo potere c'è molto altro. C'è il dominio della mente riflessiva: una riorganizzazione degli automatismi capace di innescare processi coscienti, ai fini di un controllo di alto livello del ragionamento. Come Haidt tende a riconoscere, educare la mente riflessiva è possibile, ed è quello che mira a fare - in qualche senso - la filosofia (e, con obiettivi più settoriali, la formazione scientifica). Ma questo riconoscimento non è sufficiente a fargli modificare il nucleo sociale e intuizionista del suo modello, che rimane ispirato a un sostanziale scetticismo circa le capacità individuali di ragionamento riflessivo. In atri termini, per usare un'immagine, Haidt non crede alla «trasparenza del soggetto» (si veda il primo capitolo). Non solo nega che siamo trasparenti a noi stessi come punto di partenza - e fin qui lo seguiamo senz'altro. Ma nega anche che sia possibile concepire la trasparenza a sé stessi come obiettivo, sia pure parziale e rivedibile. L'immagine del soggetto morale che ci propone - a quanto pare, inappellabile - è quella di un «ipocrita moralista». Le nostre posizioni morali esplicite non sarebbero solo confabulatorie, dunque razionalizzazioni a posteriori di processi automatici. Sono, peggio ancora, al servizio di quei processi automatici. Come un avvocato che non discute la moralità dei propri clienti, così il ragionamento morale giustifica senza discussione le intuizioni generate dagli automatismi. Si può discutere - e lo faremo ancora - se questa visione cinica sia l'ultima parola, o se nella nostra mente vi siano le risorse per redimere (parzialmente e provvisoriamente) gli automatismi. Ma come analisi del potere degli automatismi, non c'è dubbio che la sua descrizione sia ampiamente convincente. Specificamente, Haidt descrive le intuizioni a fondamento della morale come un bilanciamento di istinti egoistici ed istinti «gruppisti» (groupish) - espressione con cui indica motivazioni di tipo gregario. Ma
6. IL PENSIERO IDEOLOGICO
2.2.3
con una netta prevalenza dell'egoismo. Una metafora chiave del libro è, infatti: «siamo per il 90 per cento scimpanzé e per il 10 per cento api» (dove gli scimpanzé sono assunti come paradigma dell'egoismo, le api degli istinti gregari). Quindi, le posizioni morali che esibiamo davanti al prossimo - e persino davanti a noi stessi - sono in buona parte al servizio del nostro egoismo, e in parte minore al servizio dell'istinto gregario: Noi siamo davvero degli ipocriti egoisti, così bravi nell'esibire un'immagine virtuosa da ingannare persino noi stessi. [... ] Noi non siamo sempre degli ipocriti egoisti: abbiamo anche la capacità, in particolari circostanze, di frenare il nostro io meschino e diventare come le cellule di un organismo più grande, o come le api di un alveare che lavorano per il bene del gruppo. Queste esperienze sono tra quelle che spesso scaldano di più il cuore, anche se il nostro spirito gregario può renderci ciechi ad altre questioni morali. La nostra natura di api facilita l'altruismo, l'eroismo, la guerra e il genocidio. (Haidt 2013: 8)
È interessante che in questo passo l'altruismo compaia accanto all'eroismo, la guerra e il genocidio. Per Haidt l'istinto gregario è anch'esso, come l'egoismo, una motivazione selezionata dall'evoluzione darwiniana. Ma di certo non è selezionata specificamente per correggere con l'altruismo il nostro egoismo di base. Piuttosto, il punto è che la competizione tra gruppi favorisce «quelli composti di individui caratterizzati da un'autentica attitudine al lavoro di squadra, disposti a collaborare e ad adoperarsi per il bene degli altri membri» (Haidt 2013: 240-241). In pratica l'istinto gregario si manifesta anche in forme di altruismo e cooperazione, ma rigidamente confinate all'interno dei gruppi; e la ragione è che in definitiva esso non è al servizio della cooperazione bensì della competizione - sia pure della competizione tra gruppi piuttosto che tra individui4. È stato selezionato per la difesa del «nido comune» in ambienti nei quali un gruppo era regolarmente «esposto al rischio di attacchi da parte di gruppi vicini» (Haidt 2013: 258). Insomma, l'istinto gregario emerge allo scopo di creare coesione tribale nei gruppi (a correzione del nostro egoismo di fondo), e i suoi effetti sono evidenti in una pluralità di domini umani, dallo sport alla religione:
◄ Significativamente, Haidt (2013) dedica ampio spazio a giustificare l'idea che la selezione darwiniana ammetta non solo la competizione tra individui ma anche quella tra gruppi - idea che per vari decenni è stata giudicata inaccettabile.
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Sì, le persone sono spesso egoiste, e molti aspetti del nostro comportamento morale, politico e religioso possono essere intesi come modi a malapena celati di perseguire l'interesse personale. [... ] Ma è altrettanto vero che le persone sono gruppiste. Ci piace entrare a far parte di una squadra, iscriverci a club, leghe e associazioni; assumiamo identità di gruppo e lavoriamo spalla a spalla con estranei per conseguire obiettivi comuni con un entusiasmo tale che le nostre menti sembrano progettate apposta per la cooperazione. Non penso si possano comprendere la moralità, la politica o la religione finché non si ha un 'idea precisa del gruppismo umano e delle sue origini. (Haidt 201 3: 2 3 9)
Proprio perché il gruppismo non nasce per l'altruismo e la cooperazione, bensì per assicurare la prevalenza di un gruppo sugli altri, è un istinto che può sfociare nella guerra e nel genocidio. Le nostre stesse identità simboliche diventano parte del «nido comune» che abbiamo l'istinto di difendere, se necessario fino alla morte (nostra o altrui): Le api costruiscono alveari con la cera e le fibre del legno, e poi combattono, uccidono e muoiono per difenderli. Gli esseri umani costruiscono comunità morali fatte di norme, istituzioni e divinità comuni e tuttora, nel ventunesimo secolo, combattono, uccidono e muoiono per difenderle. (Haidt 2013: 264)
Le nostre scelte morali - come notava Aristotele - ci dividono in tribù; i conflitti per difenderle rischiano continuamente di diventare questione di vita e di morte. Tiriamo dunque le somme. La spiegazione evoluzionistica della morale proposta da Haidt conferma che faremmo bene a distinguere il pensiero ideologico da altri aspetti della nostra natura. In particolare, la nostra attitudine a posizionarci politicamente attraverso il gioco linguistico del giusto e dell'ingiusto ha due funzioni piuttosto diverse. Per un verso mira a valutare pro e contro intersoggettivamente, fino a modificare talvolta le intuizioni, e riorganizzare le gerarchie di preferenze. Ma per un altro verso, il posizionamento risponde a una mera logica di esibizione delle affiliazioni sociali. Siamo i membri di una squadra, e ci si aspetta da noi che facciamo la nostra parte. L'istinto gregario è stato selezionato innanzitutto per questo: per combatterci, non per dialogare 5• s Come ogni formulazione sintetica, questa è una semplificazione. Haidt richiama opportunamente un altro fattore nella nascita di questo istinto: la prote1Jone della prole.
6.
IL PENSIERO IDEOLOGICO
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Se le nostre considerazioni del quarto capitolo (e alcune altre che faremo circa l'identità simbolica) sono corrette, il secondo aspetto il posizionamento politico a scopo gregario - non deve sempre vincere necessariamente. L'evoluzione ci ha dotati dell'istinto gregario, ma ci ha dotati anche di una mente riflessiva educabile. E i due meccanismi hanno una partita da giocare. Nondimeno, Haidt ha ragione su questo: non possiamo nemmeno cominciare a giocare quella partita se non comprendiamo la potente dinamica dei nostri automatismi. Non dovremmo cioè dimenticare che, ogni volta che discutiamo di credenze e preferenze, c'è sempre in agguato il tifoso di calcio. Anzi, il membro di una tribù in assetto di guerra.
6. 5 Ospi'tare il prossimo
Siamo animali politici. Questo significa - tra le altre cose - che la relazione con gli altri non è qualcosa di accidentale che ci capita. L' «altro» è da sempre dentro di noi: a cominciare dalla motivazione che ci porta a creare coalizioni e tribù. Questa motivazione può essere descritta, più concretamente, come un sistema di «ricompense e punizioni neurali», che ci gratificano quando agiamo - o formiamo credenze - in accordo con la nostra tribù, e ci causano sofferenza nei casi opposti. Ho già accennato alle ricerche di Drew Westen, capaci di mostrare - per dirla con Haidt (2013: 115) -che la partigianeria «può letteralmente dare dipendenza». Westen ha adoperato tecniche di neuro-immagine per analizzare come reagiscono i circuiti neurali della ricompensa in situazioni del seguente tipo. Ai soggetti vengono mostrati i propri politici di riferimento dapprima in una situazione in cui sembra che abbiano agito in modo ipocrita, successivamente in una situazione che li riabilita fornendo un contesto che giustifica l'azione precedente. La risonanza magnetica rivela che di fronte all'apparente ipocrisia il cervello reagisce con emozioni negative, di disagio, ma che quando la Qui vi è forse la radice dell'altruismo all'interno dell'istinto gregario. La difesa del gruppo non è solo lotta contro i nemici, è anche cooperazione a sostegno di chi ha più bisogno (all'interno del gruppo). Ciò non diminuisce il potere dell'istinto gregario nel produrre fenomeni di «tribalismo».
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situazione è risolta positivamente si attiva il circuito della dopamina. Quest'ultima è un neuro-trasmettitore responsabile dei meccanismi di dipendenza, prodotto dal cervello in risposta alle droghe ma più in generale in situazioni gratificanti. Perciò Haidt conclude: Questo spiegherebbe perché le persone molto di parte sono così ostinate, intolleranti e legate a convinzioni che spesso sembrano bizzarre o paranoiche. Come i topi che non riescono a smettere di premere il pulsante [si riferisce a un pulsante che attiva una stimolazione elettrica verso i centri della ricompensa cerebrale, e che i topi premono fino a morirne di fame], le persone faziose possono essere semplicemente incapaci di trattenersi dal pensare cose strane. (Haidt 2013: 114}
A rigore, l'esperimento di Westen riguarda la reazione di un soggetto alla visione di immagini di una singola persona. Ci si potrebbe dunque chiedere in che senso esso concerna l'istinto gregario, che dovrebbe invece essere rivolto verso gruppi. Qui c'è un punto cruciale per la comprensione di questi fenomeni. La loro dimensione «gruppale» può non essere evidente all'esterno, proprio perché essa è già radicata all'interno delle menti individuali. L'idea di fondo è stata catturata con acume da George Herbert Mead (1934), uno dei fondatori della psicologia sociale. A lui dobbiamo la nozione di «altro generalizzato»: un complesso di conoscenze e atteggiamenti con cui ciascuno cattura l'organizzazione di un'attività o processo sociale, inclusi ruoli e prospettive che i diversi attori occupano in quell'attività o processo. E fanno parte di queste rappresentazioni, ovviamente, anche i valori che quel gruppo e i relativi individui assegnano a cose e situazioni. La nostra natura gruppale si manifesta innanzitutto nel fatto che la costruzione stessa dell'identità personale presuppone queste rappresentazioni strutturate - presuppone la costruzione dell'altro generalizzato in noi. E reciprocamente, il funzionamento dei gruppi è possibile solo nella misura in cui ciascun individuo se ne rappresenta struttura e processi. Questo ricondurre le ampie attività di ciascuna totalità sociale o società organizzata come tale nel campo di esperienza di ciascun individuo coinvolto o incluso in quella totalità è, in altre parole, la base essenziale e il prerequisito del pieno sviluppo di quel sé individuale: solo nella misura in cui egli adotta gli atteggiamenti del gruppo sociale organizzato [... ], egli
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può sviluppare un sé completo o esercitare il genere di sé completo che ha sviluppato. E d'altra parte, i complessi processi cooperativi e le attività e il funzionamento istituzionale della società umana organizzata sono a loro volta possibili solo nella misura in cui ciascun individuo coinvolto in essi o appartenente a quella società è capace di adottare i generali atteggiamenti di tutti gli altri individui coinvolti [... ] - e può regolare il proprio stesso comportamento conformemente. (Mead 1934: 15 5; qui e in seguito, la traduzione è mia}
Insomma, l'individuo si costituisce come tale costruendo dentro di sé un'immagine delle varie comunità di cui si sente parte integrante, con i loro valori, ruoli, attività e simboli. Tra queste comunità che definiscono l'identità individuale vi sono, ovviamente, quelle politiche: In politica, ad esempio, l'individuo si identifica con un intero partito politico e adotta gli atteggiamenti organizzati di quell'intero partito verso il resto della data comunità sociale e verso i problemi con cui quel partito si confronta; e di conseguenza egli reagisce o risponde nei termini degli atteggiamenti organizzati di quel partito come un tutto. Egli entra così in uno speciale insieme di relazioni sociali con tutti gli altri individui che appartengono a quel partito politico. {lvi: 156-157}
La reazione dei soggetti di Westen, dunque, non andrebbe in-
terpretata come risposta nei confronti di un singolo individuo - il politico osservato. Piuttosto, il politico funge da rappresentante individuale di un'intera comunità morale. Ed è attraverso la rappresentazione di questa intera comunità - con i suoi ruoli, persone, credenze e valori - che il soggetto costruisce la propria identità, posizionandosi socialmente in essa, e grazie a essa. Da questo punto di vista, le reazioni che un soggetto ha verso il proprio politico di riferimento potrebbe averle verso una bandiera, o altri oggetti che fungano da simbolo della propria tribù. Questi simboli innescano reazioni affettive nella misura in cui richiamano le complesse strutture di rappresentazione associate. Mettiamo insieme i pezzi del nostro mosaico. Fin qui avevamo definito il pensiero ideologico come «l'adesione a complessi di idee e giudizi valutativi a sfondo morale» - complessi che sono costruiti tramite pratiche discorsive, e che a loro volta determinano identità individuali e posizionamenti sociali. Adesso stiamo precisando che questi complessi di idee e giudizi sono rappresentati nelle menti indi-
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viduali, nella forma non solo di sistemi di credenze con valori associati, ma anche di immagini- più o meno astratte - di gruppi e ruoli, situazioni e attività nella sfera sociale.
6.611 rito sociale dell'insulto L'importanza di queste rappresentazioni dei gruppi sociali - catturata da Mead (1934) con la nozione di altro generalizzato -è evidente in vari ambiti di ricerca, che includono la teoria del linguaggio e la sociologia. Esploreremo adesso questi sviluppi teorici, che ci aiutano a comprendere come la nostra identità ideologica abbia una natura rituale. Questo ci consentirà, a sua volta, di correggere in parte la tesi di Haidt secondo cui saremmo dei moralisti ipocriti. Cominciamo dal linguaggio. Un buon punto di partenza è il ricco filone di ricerche su slur e hate speech6 • Incidentalmente, a giustificazione del fatto che userò queste espressioni in inglese, va detto che almeno nel caso della prima un esatto equivalente italiano non esiste. L'espressione slur in inglese è usata per indicare quelle parole offensive che colpiscono categorie sociali definibili indipendentemente dalle offese stesse. A titolo di esempio, mentre la categoria degli stupidi non può essere definita in alcun modo che possa apparire come neutrale, le persone di colore, o che hanno preferenze non eterosessuali, sono oggetto di offese in quanto appartenenti a queste categorie indipendentemente definibili. Quanto a «hate speech», l'unica ragione che ho per usare l'inglese è che l'espressione italiana «discorsi d'odio» è meno efficace nel richiamare alla mente il dibattito attuale. È evidente che con gli slur e I'hate speech ci troviamo in pieno nell'arena ideologica, in particolare in quelle sue manifestazioni che fanno guardare al pensiero ideologico come a un serio problema. Tuttavia, è importante tenere a mente la natura duplice del fenomeno: dato per scontato che le strutture di pensiero ideologiche ci condizionano costantemente, per un verso esse rischiano ad ogni passo di generare conflitti irrazionali, ma per un altro costituiscono un principio di organizzazione dei comportamenti senza il quale 6
Anche in questo caso, seguo la convenzione secondo cui parole inglesi introdotte nell'uso corrente dell'italiano non prendono la «s» al plurale.
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non potremmo essere la specie sociale che siamo. Si può riuscire a sorvegliare riflessivamente il tipo di altro generalizzato, e dunque di ideologia, che ospitiamo in noi. Non si può fare del tutto a meno delle ideologie. Detto questo, la letteratura sugli slur e altre parole offensive ha opportunamente insistito sul fatto che queste espressioni portano con sé un implicito riferimento a raggruppamenti sociali, e alle loro differenti credenze e valutazioni. Scrive ad esempio Nunberg (2018: 273; traduzione mia): S/urs cd espressioni che veicolano pregiudizi [Nunbcrg conia qui l'espressione prejudicia/s] comportano un particolare genere di atti linguistici di affilia-
zione, che si accompagnano a parole che denotano una categoria socialmente controversa. Con ciò intendo che le persone sono generalmente consapevoli che c'è una significativa differen1..a di opinione o atteggiamento circa quella categoria, che corrisponde a un'indipendente divisione sociale tra gruppi che hanno una distinta convenzione linguistica per riferirsi ad essa.
In altri termini, l'uso degli slur presuppone varie distinzioni sociali. C'è in primo luogo un gruppo «socialmente controverso» a cui si riferiscono. Ma soprattutto ci sono (almeno) due ulteriori gruppi sociali caratterizzati da una varietà di tratti distintivi indipendenti (differenti credenze, valori, leader, simboli e così via) ma che si distinguono anche per il fatto che l'uno, ma non l'altro, è disposto a usare lo slur nei confronti del primo gruppo. Chi usa lo slur compie dunque un atto di affiliazione nei confronti di un gruppo, in contrapposizione ad (almeno) un altro gruppo, mediante l'atteggiamento che adotta nei confronti di un terzo gruppo. Per cogliere l'importanza di questa struttura, N unberg propone di confrontare l'uso di slur con il seguente caso. È possibile odiare i cani, ma la categoria degli odiatori di cani non costituisce un gruppo sociale atto a formare una comunità consapevole con proprie credenze e valori, e contrapposta alla categoria degli amanti dei cani. Quanto meno, un simile gruppo non esiste ancora. Se esistesse, verosimilmente disporrebbe di un termine proprio per riferirsi ai cani, termine che a questo punto sarebbe caricato di una connotazione denigratoria. Tale connotazione sarebbe legata a ragioni per cui i cani, e coloro che li amano, meritano di essere denigrati, ad altre proprietà che coerentemente caratterizzano gli amatori dei cani, e così via. Lo
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slur canino, pertanto, non sarebbe semplicemente una parola per riferirsi a una categoria connotandola in modo denigratorio: sarebbe al tempo stesso un distintivo di appartenenza a un partito, che si contrappone a un altro partito sulla base di un sistema di credenze e valorF. Chi la pronuncia compirebbe per ciò stesso, come si esprime Nunberg, un atto linguistico di affiliazione a un gruppo. Per inciso, proprio per questa loro natura - è stato affermato slur e parole denigratorie possono svolgere un ruolo importante per la teoria del linguaggio: In filosofia del linguaggio, esaminare il ruolo e la significatività delle parole denigratorie serve a contrastare la nostra tendenza a divorziare le teorie del significato dai contesti sociali nei quali il fenomeno è collocato, e dagli atti comunicativi, atteggiamenti e interessi condivisi che quei contesti incorporano. (Whiting 2007: 191; traduzione mia) 8•
Le espressioni denigratorie portano insomma l'attenzione degli studiosi sul fatto che l'uso delle parole è una forma di azione (Hornsby 2000: 89 ). Specificamente, nel caso degli slur, si tratta di una complessa azione sociale con una componente rituale - come ha osservato Judith Butler (1997). Tale azione si pone cioè in continuità con una storia di azioni precedenti, dalle quali la presente attualizzazione trae il suo potere rituale: quell'azione riecheggia azioni precedenti e accumula la forza dell'autorità attraverso la ripetizione o citazione di una serie di pratiche che vengono prima e sono dotate di autorità. Non è semplicemente che l'atto linguistico ha luogo all'interno di una pratica, ma l'atto è esso stesso una pratica ritualizzata [... ]. Il o la parlante che enuncia la propria denigrazione razziale sta dunque citando quella denigrazione, sta costruendo una comunità linguistica con una storia di parlanti. (Butler 1997: 73}
7 Prendo a prestito l'espressione da Haidt (2.013: 111 ), che parla di «distintivi di appartenen1.a sociale». 8 In questa prospettiva, Whiting (2007) cita l'importante contributo di Homsby (2.000). Ha dedicato studi molto interessanti al tema Marina Sbisà (ad esempio, Sbisà 2.014; 2.015). Beaver e Stanlcy (2019) hanno portato alle estreme conseguenze quest'idea, proponendo una "filosofia del linguaggio non-ideale". Essi sostengono cioè che le teorie del significato tradizionali non consentono di spiegare i fenomeni di hate speech, e provano a gettare le basi per un paradigma alternativo.
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Insomma, gli slur sono dispositivi linguistici decisamente complessi. Per un verso presuppongono un 'intera struttura sociale, costituita da tre distinti gruppi con precise relazioni tra loro (il primo connotato dispregiativamente dalla parola, e gli altri caratterizzati dall'opposta motivazione ideologica a usare e, rispettivamente, non usare quella parola); e insieme, presuppongono la rappresentazione dentro la mente individuale di questa struttura sociale, con le credenze e i valori connessi. Per un altro verso, essi presuppongono una storia di usi precedenti fissati convenzionalmente, tali che la loro riattualizzazione determina una sorta di messa in scena rituale. Ovvero, chi usa lo slur è in qualche misura consapevole che sta ripetendo una mossa tratta da un repertorio sociale, e che la sua forza offensiva gli proviene da questo carattere convenzionale. L'esistenza di una convenzione, in altri termini, assicura l'individuo di non essere solo nella sua azione: egli parla a nome e per conto di una comunità, anche se questa non è fisicamente presente. Chi pronuncia lo slur è un sacerdote che officia un rito sociale sia pure un rito di aggressione.
6.7 Costruire apparenze sociali (e prenderle sul serio) La natura rituale - convenzionale e sociale - delle espressioni linguistiche è un tema centrale della riflessione di John Langshaw Austin (1962), uno dei fondatori della tradizione di ricerca che va sotto il nome di «pragmatica» del linguaggio. In particolare, a lui dobbiamo una nozione straordinariamente feconda, che ha avuto sviluppi non solo in linguistica e filosofia del linguaggio ma anche in sociologia, antropologia e studi di genere: quella di enunciato (e atto) performativo9. Si potrebbe dire che il potere rituale di offendere - proprio degli slur e delle parole denigratorie in generale - è un caso particolare del potere dei performativi. Vediamo di che si tratta. Un'idea centrale di Austin è che dobbiamo guardare al linguaggio come a una forma d'azione. Questo è vero in generale, ma vale in modo 9 Per una visione panoramica del ruolo dei performativi nel contesto di una teoria della «performance», si può utilmente vedere Shepherd (2016). Per una fondamentale introduzione alla teoria degli atti linguistici di Austin, si veda la recente raccolta di articoli di Marina Sbisà (2023).
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particolare per una classe di enunciati che sfugge in modo lampante all'idea tradizionale secondo cui il linguaggio servirebbe essenzialmente a rappresentare e comunicare la realtà. Si tratta appunto degli enunciati performativi, che non si limitano a constatare la realtà ma in qualche modo la creano: sono azioni, capaci di produrre realtà sociale. Quando diciamo «prometto che p» non stiamo descrivendo una promessa che sussista indipendentemente, la stiamo piuttosto portando all'esistenza per il solo fatto di pronunciare le parole appropriate nella situazione appropriata. Il verbo promettere è in buona compagnia: c'è una quantità di altri verbi che si comportano nello stesso modo. Noi possiamo battezzare qualcuno (o qualcosa), dichiarare aperta la seduta (ma anche dichiarare qualcuno laureato in una certa disciplina, dichiarare due individui marito e moglie, dichiarare aperta la stagione di caccia, eccetera), condannare o assolvere un imputato, prendere i voti religiosi, scommettere del denaro sul fatto che si verificherà q, e così via. Nella sua analisi, Austin individua alcune condizioni necessarie (dette «condizioni di felicità» o «di buona riuscita») per eseguire un atto performativo, la principale delle quali è l'esistenza nella comunità di una procedura convenzionale per la sua esecuzione. Tale procedura fissa le circostanze e i ruoli personali richiesti da quell'azione performativa, ma anche gli effetti convenzionalmente prodotti da essa. Ad esempio, una scommessa produce degli obblighi e dei diritti per coloro che vi partecipano (effetti convenzionali), e impone dei prerequisiti quanto ai ruoli e alle circostanze in cui eseguirla (occorrono almeno due partecipanti ciascuno dei quali deve impegnarsi, in caso di sconfitta, a dare all'altro qualcosa che sia nella sua reale disponibilità, e così via). A conferma dell'idea che le parole denigratorie siano un caso particolare di espressioni performative, ritroviamo in queste ultime la complessa struttura che avevamo osservato nelle prime. Innanzitutto, l'esecuzione di atti performativi presuppone rappresentazioni mentali delle pratiche linguistiche convenzionali, con i relativi ruoli, circostanze, ed effetti sociali. Inoltre, il fatto che queste pratiche siano convenzionali significa che vi è una storia di usi precedenti, di cui i soggetti sono in qualche misura consapevoli e che contribuisce a determinare il loro potere presente. È stato un allievo di Austin, John Searle, che ha sviluppato queste idee in una vera e propria teoria delle ontologie sociali: del modo in cui noi esseri umani costruiamo la realtà sociale. L'idea di fondo di Searle ( 199 5) è che mentre gli oggetti materiali (montagne, atomi
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2.33
o cervi) hanno una modalità di esistenza indipendente dalle menti umane, vi è una ricca categoria di entità la cui esistenza dipende invece dalle nostre intenzioni: esse esistono nell'esatta misura in cui noi esseri umani le trattiamo come esistenti. Searle chiama questo genere di entità «fatti istituzionali». Lo stesso linguaggio - in quanto codice socialmente condiviso -è considerato da Searle un fatto istituzionale: anzi, il fatto istituzionale fondamentale. Le lingue umane esistono perché le usiamo, trattandole come esistenti. Quando una comunità perde interesse per una lingua - come sta accadendo nel nostro paese con i dialetti - questa semplicemente cessa di esistere. Searle considera, inoltre, le lingue come il fatto istituzionale fondamentale in quanto grazie a esse possiamo costruire tutte le altre realtà istituzionali. È precisamente qui che entrano in gioco i performativi. La nostra realtà sociale è una fitta trama di istituzioni, ruoli, obblighi e diritti. E queste istituzioni, ruoli, obblighi e diritti sono quasi invariabilmente istituiti da atti di tipo linguistico. Essere marito e moglie, ad esempio, è il prodotto di un atto performativo che ha il potere di produrre certi obblighi e diritti giuridici. Ma chi celebra questo atto performativo, prete o sindaco, è stato a sua volta nominato tale mediante un performativo. Gli stessi sistemi di leggi che governano le nostre comunità (e istituiscono, insieme a molte altre cose, il ruolo di sindaco e le sue prerogative) sono performativi produttori di diritti e obblighi, e queste leggi sono promulgate da persone che hanno ruoli istituzionali creati mediante atti performativi. E così via. Dovrebbe essere chiaro quanto pervasivo sia questo fenomeno. E questo contribuisce a spiegare cosa intendesse Beattie nella citazione con cui abbiamo aperto il presente capitolo. Noi esseri umani viviamo in un universo simbolico: viviamo dentro una realtà fatta - oltre che di montagne, di cervi e di atomi - di una quantità di altre cose che non esistono se non nelle (e grazie alle) nostre menti. Una realtà fatta di sindaci, di mariti e mogli, di preti, di Costituzioni e leggi, di Federazioni sportive, di diritti e di obblighi, di avvocati, di gruppi sociali, di onore, di religioni, di insulti, e potremmo continuare a lungo. Alcune delle cose cui teniamo di più, come la libertà di parola e la democrazia, fanno parte di questo repertorio di entità che esistono solo finché le trattiamo come esistenti 10 • • 0 In Mazzo ne (2.017) ho insistito su questo tema della natura costruita dei diritti e della democrazia, e sulla necessità di «manutenzione» che ne consegue.
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6. 8 Attori sulla scena sociale, trafficanti di moralità Ma fanno parte di questo repertorio di «apparenze reali» - alle quali noi diamo realtà con le nostre aspettative e i nostri comportamenti - anche la nostra identità personale, e la dimensione morale. Questo ci porta all'altro ambito nel quale è presupposta la nozione di altro generalizzato di Mead: la sociologia, e in particolare le analisi micro-sociologiche che Erving Goffman dedica al rapporto tra costruzione della realtà sociale e delle identità individuali. Come riassume bene Giglio li (1969: XIV-XV), l'idea centrale del lavoro di Goffman (specialmente, Goffman 1969) è quella della «natura cerimoniale dell'identità», ossia della «costituzione rituale dell'individuo». In pratica, l'individuo non è che il prodotto dei rituali di interazione sociale. Il sé (self) è il codice indispensabile per conferire significato a tutte le attività sociali e per fornire una base per organizzarle. Ma, in realtà, siamo obbligati ad esibire un sei{ non perché davvero l'abbiamo, ma perché la società ci obbliga a comportarci come se l'avessimo. [Abbiamo] l'impressione che dietro a tutte le immagini di sé stesso che l'individuo presenta vi sia un 'identità ultima e definitiva che organi1~ e gestisce tutte le altre. Ma si tratta di una impressione illusoria. Dietro questa immagine multistratificata dell'individuo non vi è niente. ~ solo la complessità e la differenziazione della società che fornendo molteplici pubblici, ruoli e occasioni rende possibili queste numerose sfaccettature del sei{. (Giglioli 1969: XVII-XVIII)
Insomma, il sé descritto da Goffman non è che l'ombra proiettata dall'altro generalizzato di Mead. Ovvero, è il calco lasciato sull'individuo dalla trama delle relazioni sociali a cui si conforma. Goffman esprime questa concezione, puramente rituale e performativa, dell'identità ricorrendo a un corredo di metafore teatrali: In questo studio il sé rappresentato è stato visto come una specie di immagine - in genere attendibile - che l'individuo, su un palcoscenico e nelle vesti di un personaggio, cerca con ogni mezzo di far passare come suo proprio. Ma se l'individuo è visto in questo modo - tanto che gli viene attribuito un sé - quest'ultimo non ha origine nella persona del soggetto, bensì nel complesso della scena della sua azione [... ]. Una scena ben congegnata e rappresentata induce il pubblico ad attribuire un sé a un personaggio rappresentato, ma ciò che viene attribuito - il sé - è il prodotto di una scena che viene rappresentata e non una sua causa. Il sé, quindi, come
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personaggio rappresentato non è qualcosa di organico[ ... ]; è piuttosto un effetto drammaturgico. (Goffman 1969: 288-289)
Questa concezione performativa e rituale del sé è senza dubbio disorientante. Siamo abituati a pensare a noi stessi come una realtà che permane al di sotto delle sue mutevoli manifestazioni sociali: che genera, in effetti, quelle manifestazioni. Invece, sembra che le cose stiano esattamente al contrario: è la messa in scena che genera il soggetto - o l'illusione di esso. L'identità appare essere una confabulazione. L'identità confabulatoria ha inevitabilmente una dimensione morale. Anzi, osserva Goffman, la natura delle prescrizioni sociali è così pervasiva che siamo totalmente immersi in un mondo morale. Solo che, similmente a quanto suggerisce Haidt, dentro questo mondo in definitiva non siamo che dei moralisti ipocriti: Nella loro veste di attori gli individui hanno interesse a mantenere l'impressione che essi stiano vivendo all'altczi.a dei molti standard [morali] secondo i quali essi e i loro prodotti verranno giudicati. Siccome questi standard sono così numerosi e onnicomprensivi, gli individui-attori vivono più di quanto possiamo credere in un mondo morale. Ma in quanto attori, gli individui non sono tanto interessati al problema morale di realizzare questi standard, quanto a quello a-morale di costruire un'impressione convincente del fatto che questi siano raggiunti. La nostra attività, quindi, ha soprattutto a che fare con questioni morali, ma, in quanto attori, non la consideriamo nelle sue conseguenze morali: come attori siamo dei trafficanti di moralità. [... ] Per adoperare una diversa immagine: il fatto stesso che sia utile e perfino necessario apparire sempre sotto una luce morale uniforme, cd essere un personaggio socializi.ato costringe l'individuo a diventare un esperto delle arti del palcoscenico. (lvi: 287-288)
Siamo dunque dei moralisti ipocriti, più interessati ad apparire morali che ad esserlo? È il momento di affrontare esplicitamente questo nodo cruciale.
6.9 Uomini di parola Rispondere a questa domanda - «siamo davvero dei moralisti ipocriti?» - implica la necessità di confrontarsi fino in fondo con la nostra natura di animali simbolici: di animali che vivono, come si espri-
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me Beattie, in un universo simbolico. Significa indagare la struttura simbolica della nostra identità di esseri umani. Quello che sosterrò, lo anticipo, è che quella descrizione colga una parte della verità. Una parte, certo, molto importante per i nostri fini. Perché essa è il risultato dei nostri automatismi, e produce quel genere di conflitti ideologici che ci siamo proposti di comprendere e imparare a sorvegliare. Dovremo perciò analizzare un po' più in dettaglio le principali manifestazioni della nostra natura di moralisti ipocriti: di persone che mettono in scena, esibiscono persino, la propria moralità allo scopo di posizionarsi socialmente. E che traggono da questo una soddisfazione simbolica che può persino mettersi di traverso, e impedirci di agire moralmente. Come osserva Haidt, l'esibizione di moralità che manifestiamo con i nostri giudizi e argomentazioni morali è ampiamente al servizio degli impulsi automatici. Siamo moralisti per auto-promozione. La nostra moralità è in questo senso una prosecuzione con altri mezzi del nostro «egoismo» e del nostro «gruppismo»: del nostro istinto di affermare noi stessi, e il gruppo di cui facciamo parte. Ma prima di esaminare più ampiamente queste idee è opportuno, allo scopo di metterle in prospettiva, chiarire in che senso esse colgono solo una parte della verità. Ciò è importante per varie ragioni. Incluso il fatto che stiamo parlando di ciascuno di noi. Ed è davvero troppo cercare di convincerci che siamo - letteralmente e senza riserve - dei moralisti ipocriti. Ci sembra che questo non ci renda del tutto giustizia. Intendo spiegare adesso perché penso che abbiamo ragione. Vorrei partire da un brano del filosofo Daniel Dennett che mi ha sempre colpito. Dennett è noto tra l'altro per la tesi provocatoria che le intenzioni non esistono: sono entità che attribuiamo al prossimo per spiegare i suoi comportamenti, ma non hanno alcuna reale esistenza ed efficacia nel determinare quei comportamenti. Ma c'è un passo molto interessante del principale libro in cui sostiene questa tesi (Dennett 1993 ), che mi sembra aprire lo spazio per una formulazione molto meno provocatoria e radicale: quella secondo cui le intenzioni sono un effetto di linguaggio, capace però di produrre a sua volta effetti reali. Il contesto del brano è una discussione dei desideri. E il punto di partenza è la generale tesi dennettiana secondo cui gli stati mentali
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(dunque anche i desideri) sono qualcosa che attribuiamo, non qualcosa che esiste di per sé: La capacità di esprimere desideri nel linguaggio dà il via all'attribuzione di desideri. «Desidero un'omelette ai funghi, del pane francese, del burro e mezza bottiglia di Borgogna bianco leggermente ghiacciato». Come si potrebbe iniziare ad attribuire il desiderio di qualcosa di così specifico, in assenza di una tale formulazione verbale? Come potrebbe, infatti, un essere vivente giungere a contrarre un desiderio così specifico, senza l'ausilio del linguaggio? [... ] le nostre abitudini linguistiche ci obbligano costantemente a dare - o ad ammettere - un'espressione verbale precisa a convinzioni che mancano di quei rigidi limiti che conferisce loro la verbalizzazione. {lvi: 37-3 8}
Come si vede, la tesi di fondo sembra essere: la formulazione verbale non esprime qualcosa che preesiste davvero. Sarebbe impossibile avere un desiderio così specifico, sono solo le nostre pratiche linguistiche che ci obbligano a dare forma specifica a qualcosa di essenzialmente indeterminato. Sennonché, Dennett aggiunge a questo punto qualcosa di inaspettato. Suggerisce cioè che l'enunciazione verbale dei desideri modifichi di fatto le regole del gioco, «dal momento che, una volta che li abbiamo enunciati, essendo noi uomini di parola, acquisiamo un interesse a soddisfare esattamente il desiderio che abbiamo espresso, e nessun altro» (ibid. ). Questo è esattamente il nodo. Se la formulazione linguistica è qualcosa che prendiamo sul serio, al punto che la soddisfazione del desiderio resta impigliata ad essa e non accettiamo facilmente qualcosa di diverso da quel che abbiamo chiesto, allora c'è un senso in cui desideri e intenzioni esistono, dopotutto. Le pratiche linguistiche proiettano fuori di sé entità che condizionano l'agire in modo del tutto reale. Questa è precisamente la logica dei performativi, e delle realtà sociali che costruiamo con essi. Concediamo pure, ad esempio, che le leggi non siano che performativi, e non abbiano esistenza se non nella misura in cui noi le trattiamo come esistenti. Ciò ne fa forse qualcosa di irreale? O pensiamo di nuovo agli insulti. Essi traggono la loro forza da una storia di usi anteriori, ma solo perché e in quanto noi li rimettiamo in scena e riconosciamo loro quella forza. E nondimeno, ciò non rende quella forza meno reale, negli opportuni contesti.
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Proviamo dunque a trasferire queste considerazioni sul terreno della morale. Il tema non è così lontano da quello, discusso da Dennett, dell'esistenza o meno delle intenzioni. In fin dei conti, la morale è una questione di buone intenzioni: di intenzioni di fare il bene. Intenzioni di questo tipo, dunque, esistono? Oppure non sono altro che confabulazioni di soggetti che mirano in realtà a soddisfare interessi (propri, o dei gruppi con cui si identificano)? L'argomento generale che precede suggerirebbe una risposta positiva alla prima domanda: una volta che adottiamo buone intenzioni, essendo «uomini di parola», acquisiamo un interesse a perseguirle effettivamente. Quindi le (buone) intenzioni sono effetti di linguaggio abbastanza reali da produrre, a loro volta, effetti sui comportamenti. Credo si possa aggiungere un paio di considerazioni a sostegno di quest'idea. Si guardi ai dati sperimentali che Haidt cita a favore della tesi secondo cui saremmo moralisti ipocriti. Ad esempio, nell'esperimento realizzato da Bersoff (1999) i soggetti eseguono un compito per cui è promesso loro del denaro. A cose fatte, devono riscuotere quel denaro esibendo una nota scritta con l'importo, ma il cassiere si sbaglia e dà loro una somma maggiore. Solo il 20% dei soggetti dell'esperimento di Bersoff segnalava al cassiere l'errore, percentuale che saliva al 60% in caso il cassiere chiedesse espressamente se l'ammontare ricevuto era corretto. Esaminando una serie di evidenze di questo genere, Ariely conclude: Quando ne hanno l'opportunità, molte persone oneste imbrogliano. Di fatto, viene fuori che non si tratta di poche mele marce che guastano la media, ma che la maggior parte delle persone imbroglia, e che lo fa a piccole dosi. (Ariely 2008: 201; citato da Haidt 2013: 107)
Ora, Haidt (2013: 107) ne trae la seguente morale: I soggetti non cercavano di farla franca arraffando il più possibile. Piuttosto, [...] imbrogliavano solo fino al punto oltre il quale essi stessi non sarebbero più riusciti a trovare una giustificazione a tutela della fiducia che riponevano nella propria onestà. Morale della favola: quando nel corso di un esperimento gli individui dispongono dell'anonimato garantito e della capacità di negare in modo plausibile, la maggior parte di essi imbroglia.
La «morale della favola» di Haidt, però, si presta a due interpretazioni piuttosto differenti. Leggetela dapprima pensando che gli
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individui imbrogliano purché possano «negare in modo plausibile» davanti agli altri. Adesso leggetela pensando invece che essi imbrogliano purché sia possibile «negare in modo plausibile» ai propri stessi occhi. Fa una certa differenza, no? Nel primo caso sarebbero davvero degli ipocriti. Nel secondo caso no. Sono magari inclini all'auto-inganno, ma non fingono scrupoli morali che non hanno. I dati di Bersoff e le parole di Ariely spingono in questa seconda direzione. I soggetti «imbrogliano a piccole dosi», non arraffano il più possibile, e questo perché oltre una certa soglia non potrebbero trovare giustificazioni coerenti con la «fiducia che riponevano nella propria onestà». Si consideri anche il fatto che, nell'esperimento di Bersoff, il 60 % dichiara di avere ricevuto una somma più alta del dovuto piuttosto che mentire, quando si tratta di rispondere a una domanda esplicita. Questo potrebbe significare che i soggetti si comportano moralmente quando hanno ragione di temere che potrebbero essere scoperti; ma potrebbe anche significare che si comportano moralmente quando l'alternativa è un comportamento incompatibile con l'immagine positiva che hanno di sé. Insomma, nell'interpretazione che suggerisco l'intenzione di agire bene è in qualche misura efficace: essa vincola i comportamenti, quanto meno nel senso che ci induce a non commettere scorrettezze troppo palesi. Non ha dunque un'esistenza puramente confabulatoria. Incidentalmente, questo potrebbe spiegare perché non soltanto le comunità umane non sono in generale una giungla priva di regole, ma in più, negli ultimi secoli, esse hanno visto realizzarsi un'espansione dei diritti individuali. Nuovi modelli culturali hanno indirizzato le intenzioni individuali verso questo obiettivo in modi (in qualche misura) efficaci.
6. 1 o Moralisti ipocriti o idealisti miopi? Quest'interpretazione delinea un quadro analogo a quello che abbiamo descritto per il ragionamento motivato. Come accadeva lì sul piano epistemico, così qui sul piano morale i soggetti evitano perlopiù - di spingere la confabulazione oltre un certo limite. Come non si può credere quel che si vuole (salvo casi estremi, ad esempio in presenza di pressioni sociali molto forti), così non si può agire come si vuole. Altrimenti si rischia di mettere gravemente in discussione la
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propria fiducia in sé stessi: che si tratti della fiducia nel proprio status di soggetto epistemico, o in quello di soggetto morale. Questo quadro, va aggiunto, è coerente con alcune nostre considerazioni precedenti, quali quelle relative alla «visione dall'interno» descritta da Kahneman e Tverski - di cui c'è ampia evidenza in letteratura. Richiamiamo in breve la questione. Tendiamo ad avere un'immagine esageratamente positiva di noi stessi, a causa del fatto che abbiamo un accesso introspettivo molto parziale alla nostra vita mentale: focalizzato sulle intenzioni, sui successi che otteniamo grazie alle azioni che intraprendiamo e, nei casi di insuccesso, sui fattori esterni che ci impediscono di realizzare quelle intenzioni. Inoltre, nel richiamare informazione siamo affetti da bias di vario genere. In particolare, tendiamo a recuperare i) informazioni coerenti con le tesi che stiamo esaminando (bias della conferma); ii) informazioni coerenti con i punti di vista che abbiamo codificato in memoria (myside bias); infine iii) informazioni coerenti con le preferenze (ragionamento motivato), ossia favorevoli alle tesi che vogliamo confermare, e sfavorevoli a quelle che vogliamo respingere. Ora, si pensi a un soggetto che sta esaminando la conformità dei propri comportamenti ai propri principi morali. Dal momento che sta considerando questi principi, per il bias della conferma tenderà a recuperare casi nei quali il proprio comportamento è stato coerente con essi (o argomenti per conciliare i propri comportamenti attuali con quei principi). Dal momento che si tratta di principi consolidati nella sua memoria di lavoro, questo indurrà un recupero guidato dal myside bias. Dal momento che si tratta di principi contrassegnati da una preferenza affettiva, il suo atteggiamento nei confronti dell'evidenza recuperata sarà contrassegnato da ragionamento motivato - si accontenterà di evidenza molto scarsa per decidere che i comportamenti sono coerenti con i principi. Se mettiamo insieme tutto questo, le conclusioni sembrano scontate. Non c'è ragione di aspettarsi che, quando si comportano da «ipocriti moralisti», i soggetti siano davvero ipocriti: che fingano scrupoli morali che non hanno. È molto più ragionevole pensare che si tratti di una genuina forma di auto-inganno. Potremmo dire: siamo degli «idealisti miopi», che per una serie di meccanismi cognitivi non si accorgono dei propri fallimenti morali. O li minimizzano, o li attribuiscono a fattori esterni fuori dal loro controllo. Insomma, vediamo
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difficilmente il gap tra i nostri principi e i nostri comportamenti, e quando lo vediamo ne scarichiamo la responsabilità all'esterno. Il nostro motto è qualcosa come: «Io vorrei fare il bene, sempre e rigorosamente: purtroppo il mondo molte volte mi mette i bastoni tra le ruote». In particolare, tra i fattori esterni che impediscono la realizzazione delle nostre intenzioni morali ci sono gli altri: nella visione dall'interno, il mondo ci appare pieno di persone che ci impediscono di realizzare il bene. In tal modo, visione dall'interno, bias e ragionamento motivato si saldano con l'istinto gruppista. Il mondo si divide in un «noi», fatto di persone come me che mirano a realizzare il bene, e un «loro», una coalizione più o meno organizzata di nemici del bene. Riassumendo, se torniamo alle parole della Politica di Aristotele dovremmo essere in grado di vederle adesso sotto una nuova luce. Come abbiamo visto, siamo «uomini di parola»: partecipiamo a pratiche verbali di discussione sul giusto e l'ingiusto, e nel farlo fissiamo principi che prendiamo sul serio, e a cui dunque cerchiamo - e perlopiù crediamo - di attenerci. I principi che scegliamo determinano l'immagine che abbiamo di noi stessi, e producono al tempo stesso partizioni nel corpo sociale. Ossia, determinano coalizioni di amici, quelli che condividono i nostri principi, e nemici, quelli che vi si oppongono. D'altra parte, tendiamo naturalmente a proiettare intorno a noi l'immagine di nemici. Per un verso, ciò accade perché i nostri sistemi primitivi di monitoraggio ci inviano sensazioni di disagio, che tendiamo a interpretare come segnali di un ambiente ostile - e questo ambiente spesso si identifica col prossimo. Per un altro verso, ciò si produce perché la visione dall'interno ci suggerisce che il mondo esterno, di cui gli altri sono una componente importante, ci impedisce di realizzare le nostre migliori intenzioni. E infine, perché il nostro istinto gregario conferma le due sensazioni precedenti, suggerendoci fortemente che «noi» e «gli altri» siamo differenti. Insomma, come «uomini di parola» fissiamo identità morali che producono coalizioni, prendiamo terribilmente sul serio queste identità, e cerchiamo di conformarci ad esse in modi decisamente imperfetti ma con scarsa consapevolezza di questo gap. Se siamo moralisti ipocriti, lo siamo a nostra insaputa. Siamo, almeno nella stessa misura, idealisti miopi.
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6.11
Individui (particolarmente) morali, comuni'tà {discutibilmente)
morali Un ultimo commento ai dati forniti da Bersoff e Ariely. Finora li abbiamo discussi considerando le tendenze generali: ossia il fatto che «la maggior parte delle persone imbroglia». Abbiamo sostenuto che queste tendenze fanno di noi degli idealisti miopi, più che (o almeno, altrettanto quanto) dei moralisti ipocriti. Tuttavia, per analogia con considerazioni precedenti sui compiti di ragionamento (suggerite da Stanovich 2011), potremmo domandarci cosa accade con gli individui le cui prestazioni si collocano al di sopra della media. Una possibilità è che anche qui abbiamo a che fare con soggetti le cui capacità riflessive sono più esercitate, e perciò maggiormente capaci di vedere e controllare l'effetto dei propri bias. È esattamente quello che vorrei sostenere. Se infatti assumiamo che, perlopiù, i soggetti imbrogliano non perché scelgono di agire immoralmente, bensì perché riescono a mettere d'accordo le proprie azioni con i propri principi, individui consapevoli di queste astuzie involontarie degli automatismi potrebbero essere più «vaccinati» contro di esse. Prendiamo, ad esempio, un individuo consapevole che il ragionamento motivato ci porta ad abbassare gli standard (epistemici o morali), e dunque a diventare accomodanti verso la coerenza tra evidenze e tesi preferite, o tra propri comportamenti e principi morali. Un individuo consapevole di questo avrebbe maggiore difficoltà a «credere a sé stesso», se volesse abbandonarsi ai propri automatismi. Pertanto, a parità di meccanismi cognitivi, e data la medesima inclinazione alla coerenza tra principi e comportamenti, un individuo del genere tenderebbe ad adottare comportamenti morali più coerenti. Tocchiamo qui un punto decisivo per la prospettiva che difendo. Perché, in un certo senso, quello che ho detto a proposito dell'idealismo miope offre un'immagine fin troppo «democratica» della nostra moralità. Se, per così dire, «assolviamo» moralmente individui e comunità nella misura in cui essi trovano il modo di mettere d'accordo principi e (propri) comportamenti, se cioè ci accontentiamo di questo per decidere cosa sia moralmente accettabile e cosa no, sembra che i nostri criteri finiscano per assolvere qualunque comportamento o sistema di principi. Perché il fatto è che, eccetto forse casi assolutamente eccezionali, nessuno di noi sceglie i propri comportamenti in
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esplicito spregio dei principi morali. Al contrario, quel che Aristotele dice a proposito del nostro interesse per il giusto e l'ingiusto riguarda tutti noi. Inclusi i nazisti, e i criminali. Tutti sentiamo il bisogno di giustificare nell'arena pubblica (di fronte ai nostri «altri generalizzati») i nostri comportamenti e sistemi di valori. Come mi è capitato di scrivere: Certi crimini - si potrebbe pensare - sono ovviamente tali, e chi li ha commessi li giustifica solo per difendersi, ben sapendo di avere commesso un crimine. Quest'ipotesi sottovaluta, credo, il bisogno primario di sentirsi giustificati.[ ...] quando non si tratta di azioni occasionali e sostanzialmente involontarie, bensì di azioni in qualche misura sistematiche, allora a queste corrisponde di norma l'adozione di principi coerenti con quelle azioni. I criminali abituali hanno complessi di credenze e sistemi di valori coerenti con il loro stile di vita. {Mazzone 2017: 63)
Insomma, la definizione di idealisti miopi si applica a tutti noi, e per così dire ci assolve tutti. Torneremo su questo punto, perché esso è essenziale per comprendere la natura dei conflitti ideologici. È essenziale cioè comprendere che, per quanto ciò possa apparire incomprensibile a ciascuna delle parti, quando una coalizione si contrappone alla nostra ha motivazioni morali per farlo. Anche «gli altri» sono, come «noi», più idealisti miopi che moralisti ipocriti. Ma al momento mi interessa sottolineare un altro aspetto. Dato che è possibile costruire sistemi di valori che consentono di giustificare qualsiasi comportamento, se vogliamo tracciare una qualsiasi discriminazione morale - ossia provare minimamente a gerarchizzare le preferenze - dobbiamo introdurre nel quadro un elemento ulteriore. L'elemento che propongo è lo stesso che ho individuato nel dominio del ragionamento: è un principio di pluralismo, e di mediazione tra i punti di vista. A meno di accettare un radicale relativismo, per cui ogni sistema di preferenze è legittimo, l'unica obiezione intersoggettivamente difendibile (non puramente «di parte») che mi pare si possa fare a un sistema di preferenze, è che esso produce più conflitto di quanto sia necessario. Che esistono alternative meno conflittuali (quando esse esistono). E che tutto sommato, adottare quelle alternative potrebbe essere un vantaggio anche per noi: per la nostra pluralità interna, per l'armonia tra le diverse voci dentro di noi, come per il più armonico funzionamento delle interazioni sociali e politiche.
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Si potrebbe obiettare che non sempre si riesce a convincere le persone di questo. Condivido. Mi pare anzi evidente che sia così. Il mio punto è un altro, e cioè: come educatore non vedo contro-indicazioni nel fare ogni sforzo possibile in quella direzione. Ossia, nel cercare di promuovere atteggiamenti riflessivi, orientati verso il contenimento dei propri bias e la mediazione della pluralità dei punti di vista. Di fatto, i soggetti che sviluppano maggiormente, per esperienza e/o per formazione, un simile atteggiamento riflessivo producono prestazioni di ragionamento più razionali, e prestazioni morali più coerenti. Indagare, come stiamo facendo, i meccanismi di costruzione dell'identità ideologica è parte di questo proposito educativo. Serve a fornirci strumenti per promuovere una maggiore consapevolezza riflessiva. 6. 12 Debiasing morale: riconoscere in noi il «moralista in cattedra» Riassumiamo l'ultimo tratto del cammino percorso. L'immagine degli esseri umani come «moralisti ipocriti», pur cogliendo senz'altro qualcosa, rischia di suggerire che mettiamo in scena la nostra moralità con l'intenzione di ingannare il prossimo. Abbiamo proposto, a parziale correzione, la nozione di «idealisti miopi». L'ipotesi è che ci proponiamo davvero di essere all'altezza degli elevati standard morali che mettiamo in scena, solo che - per così dire - a quella distanza la nostra vista si fa sfocata. Quando si tratta di noi stessi, in particolare, ogni circostanza esterna è buona per giustificare fallimenti morali che, se si trattasse degli altri, attribuiremmo ai loro difetti morali. Prima ancora che gli altri, la nostra messa in scena inganna dunque noi stessi. Nel paragrafo che precede abbiamo esaminato un risvolto di quest'idea: il fatto che essa sembra giustificare troppo. Se tutti adottiamo principi morali compatibili con i nostri stili di vita, e ci sforziamo di applicarli al meglio, nessuno dunque merita biasimo per le proprie azioni? O meglio: non c'è dunque spazio, in quel quadro, per mettere in discussione l'operato morale di ciascuno? Non è necessariamente così. Mi sembra che, pur accettando quella premessa, vi siano due differenti direzioni in cui rimane possibile mettere in discussione le nostre attitudini morali.
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Per un verso, come detto sopra, è possibile confrontare tra loro i differenti codici morali, esaminandone le conseguenze. Qualunque sia il nostro codice morale, si può scommettere che produrrà la sua dose di conflitti e danni. F.saminare il proprio codice alla luce di quelli altrui ci aiuterà a riconoscere queste conseguenze, e magari a orientarci diversamente. A cercare mediazioni tra i codici. Non si può escludere che, alla luce di tale confronto, alcuni codici rivelino livelli di conflittualità maggiori che altri. In altri termini, sebbene non vi siano codici interamente giusti e altri interamente sbagliati, è possibile avviare un confronto su come gerarchizzare le preferenze tra principi morali. Ma c'è spazio per operazioni di debiasing che non comportano un confronto tra codici morali. È a questo genere di fenomeni che adesso volgeremo l'attenzione. In particolare, si può diventare consapevoli dell'asimmetria che abbiamo descritto: quella per cui tendiamo a giustificare i nostri fallimenti morali facendo appello a circostanze esterne, mentre biasimiamo i fallimenti morali del prossimo come conseguenza dei suoi difetti morali. Acquistare tale consapevolezza significa avviare un miglioramento che comincia da noi stessi, ma tende ad estendersi agli altri. Più riconosciamo i disallineamenti tra i nostri principi e comportamenti, più siamo capaci di agire sul prossimo. Infatti, un modo in cui certamente non riusciremo a modificare i comportamenti altrui è mettendoci in cattedra moralmente. In pratica, lo abbiamo visto, c'è un intero complesso di automatismi psicologici che congiura nello spingerci a diventare dei «moralisti in cattedra». Proviamo a mettere in fila i principali: a causa di alcuni bias cognitivi, le nostre interpretazioni della realtà tendono alla coerenza interna, e le interpretazioni alternative vengono messe a tacere; c'è un'asimmetria di fondo, per cui tendiamo a percepire noi stessi come migliori degli altri (in particolare, abbiamo buone intenzioni e siamo abili nel perseguirle, salvo interferenze esterne); sotto il profilo valutativo tendiamo a organizzare l'esperienza intorno a due poli ciò che è amico-buono-giusto vs. ciò che è nemico-cattivo-ingiusto con scarsa capacità di discriminare tra le ragioni per cui qualcosa è assegnato a una categoria piuttosto che all'altra; tendiamo a organizzarci in gruppi sulla base dei valori, e questa adesione a gruppi e sistemi di valori è costitutiva della nostra identità, e produce gratificazione. Non è difficile vedere come, sommando questi elementi, si ottenga un risultato quasi obbligato: un moralista in cattedra. Ovve-
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ro, un individuo che annette la massima importanza ai propri sistemi di valori, incline ad attribuirsi una superiorità morale nella capacità di applicare quei valori, e che ottiene una gratificante conferma della propria identità dal mettersi in cattedra moralmente. Come dicevo, questo complesso di automatismi e la figura del «moralista in cattedra» che ne deriva si manifestano anche in assenza di divisioni ideologiche: possiamo fare la morale a qualcuno che riconosciamo come membro del nostro gruppo, biasimando la sua scadente adesione al codice morale condiviso. Quando, d'altra parte, questi fenomeni incrociano il dominio dei complessi di idee e valori, essi alimentano alcune distorsioni proprie del pensiero ideologico.
6.13 Violenza (e) morale
Un fatto che merita attenzione è che i fenomeni di subordinazione e violenza presso la nostra specie sono di norma accompagnati da una presunzione di superiorità morale, usata come giustificazione. Se da un lato ci mettiamo volentieri in cattedra per fare la morale a chi si conforma al nostro stesso codice, dall'altro lato quando abbiamo di fronte persone che non condividono i nostri valori le prediche morali ci appaiono chiaramente insufficienti. In casi del genere, è intuitivo, si tratta piuttosto di «tenere le persone al proprio posto». Con tutta la fermezza che occorre. Sono insomma casi in cui l'esercizio della morale tende ad accompagnarsi con l'uso della forza. In effetti, se analizziamo le due categorie di fenomeni più a fondo, sotto questo profilo la differenza sembra essere più di grado che di sostanza. Anche laddove i codici siano condivisi, il mettersi moralmente in cattedra porta con sé ineliminabili elementi di violenza. Intanto, per le sue possibili conseguenze: perché il giudizio morale è un'attività che divide e crea conflitto. Non a caso, uno dei principi fondamentali del metodo elaborato da Marshall Rosenberg per la comunicazione non-violenta è rinunciare ai giudizi morali, sostituendoli con descrizioni fattualP 1 • L'idea di fondo di Rosenberg è che i giudizi morali sono, in realtà, una forma di posizionamento conflittuale, con cui miriamo ad affermarci sull'altro piuttosto che aprire 11
Vedi ad esempio Rosenbcrg (2003).
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un vero confronto. Essi tendono perciò a portare inevitabilmente verso un'escalation: ogni mio posizionamento morale produce un tuo più rigido contro-posizionamento e così via, con esiti che possono sconfinare nella violenza in senso letterale. Ci sono, è vero, contesti in cui questa escalation è improbabile: ma non è detto che siano del tutto esenti da violenza. Si tratta tipicamente dei contesti nei quali la relazione è gerarchica, inclusi i contesti educativi. È connaturato con la gerarchia il fatto che il biasimo morale possa essere esercitato solo in una direzione, dall'alto verso il basso. Più in generale, nella sua forma spontanea la gerarchia espunge la possibilità del dialogo: del confronto tra le posizioni. Come tale, essa sembra asciugare l'acqua agli esiti violenti. Ma com'è ovvio, lo fa ad un costo: quell'esercizio di violenza che consiste nel togliere all'interlocutore il diritto di parola, e dunque subordinarlo. E in definitiva, l'inibizione del conflitto in questi casi è sempre precaria, dato che la subordinazione genera un impulso naturale a sfidare chi detiene l'autorità. Con questo, sia chiaro, non intendo incoraggiare l'utopia di un mondo privo di relazioni gerarchiche e di violenza. Non voglio nemmeno sostenere il contrario, assumendo come verità indiscutibile che la gerarchia - con quella dose di violenza che le è connaturata - sia un dato ineliminabile. Mi limito a osservare che, per come vedo le cose, quando chi ha migliori strumenti per decidere non è messo nelle condizioni di farlo, o non si prende la responsabilità di farlo, seguono guasti peggiori. Prendiamo il caso dell'educazione. Oggi c'è una sensibilità molto elevata (in alcune aree del mondo) verso i diritti dei bambini, con il conseguente rifiuto di ogni forma di «violenza educativa». Questo rifiuto può spingersi fino a rigettare l'esercizio dell'autorità in quanto tale. È un bene? Istituzioni educative e genitori erano un tempo più inclini ad accogliere il principio secondo cui «ogni formazione è una deformazione»: ossia, l'idea che non è possibile educare senza esercitare qualche pressione sull'individuo per modificarlo. Questa idea solleva oggi tutte le legittime perplessità del caso. Chi ha il diritto di modificare altri individui, scegliendo per loro cosa è giusto? Non è forse vero che, come suggerisce l'etimologia del termine «educazione», si tratta semmai di estrarre dall'individuo le sue potenzialità - non certo «modificarlo» o «deformarlo»? Queste obiezioni sono certamente appropriate come correttivo a forme autoritarie di edu-
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cazione. Ma se prese in assoluto rischiano di farci ignorare qualcosa su cui abbiamo richiamato l'attenzione fin dalla premessa: dentro ciascuno c'è una pluralità di inclinazioni, e spesso le più baccanose e prepotenti non sono quelle che faremmo bene a seguire. L'educatore che si rifiuta di esercitare l'autorità che gli deriva dall'esperienza, di fatto lascia il soggetto in balìa dei propri conflitti interiori. Conflitti nei quali vince l'inclinazione più forte, non necessariamente quella che ha le migliori ragioni. Se questo è il quadro, c'è un modo in cui possiamo aiutare un altro individuo a trovare il proprio equilibrio, ossia aiutarlo a regolare la violenza interna, senza esercitare violenza su di lui? Temo che la risposta che propongo lascerà qualcuno insoddisfatto. Essa è: si può e si deve ridurre questa violenza a un minimo omeopatico, e insieme esercitarla nel modo giusto. L'obiettivo, d'accordo, non deve essere l'indirizzare qualcuno dove vogliamo noi. Deve essere piuttosto aiutarlo a trovare la sua strada. Ma questo richiede un lungo percorso in cui il soggetto acquista una maggiore trasparenza a sé stesso: impara a riconoscere la propria pluralità interna (il conflitto tra i propri desideri immediati e quelli a lungo termine, tra l'immediata affermazione di sé e il desiderio di relazione con gli altri, e così via), impara ad ascoltare i desideri meno immediati, diventa capace di riorganizzare di conseguenza le proprie gerarchie di preferenze, esercitando sugli automatismi il controllo necessario per questa riorganizzazione e per l'effettivo perseguimento dei desideri meno immediati. E il problema è che tutti, in varia misura, resistiamo a questo percorso verso una maggiore trasparenza. I desideri immediati, e più in generale i nostri automatismi, sono forti e piuttosto prepotenti. Non vogliono essere contenuti. Ma se non vengono contenuti, l'esito del conflitto interno è scontato, e non è favorevole né all'individuo né alla società di cui fa parte. Facciamo il punto. Ho messo in guardia il lettore: la nostra natura di moralisti in cattedra porta con sé una carica di violenza - sia essa rivolta verso altri membri della propria comunità morale, o, ancor più, verso (membri di) comunità morali differenti. In entrambi i casi, il nostro moralismo risponde a un medesimo bisogno di auto-affermazione: affermazione individuale su altri individui della comunità, o affermazione su altre tribù morali in nome della propria. La moralità spontanea, ancora una volta, si rivela qualcosa di molto diverso
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da quel che crediamo: essa opera come un meccanismo di subordinazione dell'altro. Per un altro verso, tuttavia, ho sostenuto che non si possa fare a meno di una certa dose di violenza e subordinazione, se vogliamo educare gli individui. L'educazione - ho proposto - presuppone una relazione asimmetrica, dunque gerarchica, e l'esercizio di dosi minime di violenza. Quale sarebbe allora la differenza tra fare i moralisti in cattedra, atteggiamento da cui metto in guardia, e assumersi legittimamente le proprie responsabilità di educatori? La mia risposta non sorprenderà il lettore: credo che vi sia una differenza significativa, e che questa consista essenzialmente nella trasparenza a sé stessi richiesta nel secondo caso. La questione merita di essere approfondita.
6.14 L'errore fondamentale di attribuzione: l'altro come stereotipo Per cominciare, un educatore trasparente a sé stesso è consapevole che l'esercizio dell'autorità morale è un'attività gratificante (in quanto affermazione della propria identità), e come tale ha conseguenze indesiderate da cui bisogna guardarsi. In particolare, tanto più i propri comportamenti soddisfano bisogni individuali di rassicurazione/ gratificazione, tanto meno sono efficaci sul piano educativo. Anzi, producono un contro-posizionamento morale che porta verso il conflitto malsano. Il messaggio di fondo che il moralista-in-cattedra manda è: «tu sei moralmente inadeguato, e io ti sono moralmente superiore». Entrambi gli aspetti sono nefasti. Dicendo all'altro che gli sono superiore lo colpisco nel suo bisogno di non essere sottomesso, di essere rispettato come persona alla pari di chiunque altra. Dicendogli che è moralmente inadeguato sopprimo lo spazio psicologico necessario per migliorarsi. Un conto è commettere un errore, ciò che capita a chiunque; un altro è essere individui inadeguati, come tali intrinsecamente destinati all'errore. Nel secondo caso, si è come in trappola: non c'è modo di impegnarsi per non ripetere l'errore. Dunque il messaggio del moralista in cattedra, in definitiva, non chiede al destinatario di migliorarsi: gli chiede solo di provare vergogna, e riconoscere la propria inferiorità. E siccome l'interlocutore ha automatismi che mirano a preservare la propria immagine di sé esattamente come noi,
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si può scommettere che la risposta sarà un contro-posizionamento conflittuale. Quello che ciascuno percepisce come un esercizio di moralità (la propria) è in definitiva uno scontro per difendere - o fare prevalere - la propria immagine di sé. Il messaggio di fondo di un educatore trasparente dovrà perciò essere radicalmente differente. Non «sei inadeguato (e io sono migliore di te)», bensì «tu sei migliore di così». Qualcosa nel tuo comportamento non ha funzionato, ma tu hai le risorse per fare meglio. L'atteggiamento del moralista-in-cattedra contiene un aspetto che è stato indagato in psicologia sotto il nome di «errore fondamentale di attribuzione» 12 • Si tratta della tendenza ad esagerare il ruolo svolto da disposizioni caratteriali (fattori interni) nella spiegazione dei comportamenti, sottovalutando l'importanza delle circostanze esterne. In definitiva, si tratta di un lato dell'asimmetria - già più volte richiamata - per cui tendiamo ad attribuire i nostri fallimenti alle circostanze, ma quelli altrui a tratti della personalità. L'errore fondamentale di attribuzione è insomma l'atteggiamento giudicante che, in quanto moralisti-in-cattedra, riserviamo agli altri. Mentre tendiamo a de-responsabilizzarci, addossiamo al prossimo più responsabilità morali di quante gliene competano. L'errore fondamentale di attribuzione consiste, in pratica, nel ricorso improprio a categorie psicologiche disposizionali che si presume forniscano la spiegazione dei comportamenti. Dalla constatazione che sei in ritardo salto alla conclusione che sei un ritardatario; dall'osservazione che non hai eseguito i tuoi compiti salto al giudizio che sei pigro. Queste categorie sono essenzialmente delle generalizzazioni, più o meno corrette: sono stereotipi nel senso già analizzato nel terzo capitolo. Dal momento che certe disposizioni caratteriali possono causare comportamenti conseguenti (ad esempio, una disposizione alla pigrizia causa comportamenti pigri), è un'ipotesi non irragionevole che uno specifico comportamento sia l'effetto della disposizione caratteriale congruente. Il problema è che tendiamo a esagerare il ruolo dei fattori interni - delle disposizioni caratteriali quando si tratta degli altri: il problema insomma è il nostro moralismo asimmetrico. 11
Un'analisi del fenomeno è in Sabini et al. (2001), che attribuiscono a Ross (1977) la sua prima formulazione.
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Il problema del ricorso eccessivo a stereotipi negativi è ulteriormente aggravato dalla tendenza alla coerenza, che abbiamo visto essere un tratto caratteristico degli automatismi del Sistema 1. Essa agisce tanto sul piano strettamente cognitivo quanto su quello emotivo. Sul piano cognitivo, una volta attivata una certa categoria disposizionale («S è pigro») i legami associativi richiameranno informazione coerente: episodi che confermano quel giudizio, o tratti disposizionali associati. Sul piano emotivo, la coerenza si manifesta nella forma dell' «effetto alone» (analizzato da Nisbett e Wilson 1977): la polarità di valutazione (positiva o negativa) che attribuiamo a qualcuno in virtù di una certa caratteristica tende ad estendersi anche alle altre caratteristiche. In altri termini, i giudizi sulle persone tendono a essere totalizzanti. E questo tanto più quanto maggiore è la carica emotiva coinvolta. Questa dinamica è esperienza comune. Quando si genera un dissenso, anche con persone delle quali fino a un momento prima avevamo una valutazione positiva, improvvisamente ci vengono in mente episodi che avevamo ignorato, e che confermano il nostro biasimo attuale. E la valutazione negativa d'un tratto colora l'intera immagine che abbiamo di quelle persone, al di là del fattore scatenante. Così, discussioni innescate da fatti di poca importanza finiscono col diventare Giudizi Universali: ogni aspetto e comportamento del nostro interlocutore diventa una prova a carico, in un processo alla persona nella sua interezza. Un aspetto da non trascurare, in questa dinamica dei conflitti verbali, è quello puramente quantitativo. Come abbiamo detto, gli stereotipi sono generalizzazioni da singoli comportamenti. Catturano tendenze statistiche, non regole infallibili. Ammettiamo pure che il soggetto S sia pigro, ossia abbia un'inclinazione a evitare la fatica. Questo non significa che non si impegna mai in nulla. In realtà, nessuno è perfettamente pigro, proprio come nessuno è del tutto esente da pigrizia. Le disposizioni caratteriali sono questione di grado: stabilire dove collocare il confine tra pigrizia accettabile e patologica è in qualche misura arbitrario. Pertanto, discutere costruttivamente con S riguardo al fatto che sia o meno pigro richiederebbe una paziente e fine attenzione a questi aspetti quantitativi: quanto spesso rinuncia a impegnarsi, in quali casi potrebbe essere positivo impegnarsi di più ( «forse, per questo aspetto puoi essere meglio di così?»). Ma questa
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attenzione ai dettagli, alle sfumature, non è pane per il moralista-incattedra. Il suo ricorso a stereotipi negativi si inscrive piuttosto all'interno di quei fenomeni di polarizzazione che sono caratteristici della valutazione affettiva della realtà (si veda § 3.15): S è pigro (o quel che è) nel senso che appartiene al dominio sbagliato dell'esistenza. Noi siamo Giusti, lui è Sbagliato. Non ci sono gradazioni possibili. Osservo di passaggio che essere un «educatore trasparente a sé stesso», di fronte a questioni di questo genere, comporta una difficoltà emotiva prima ancora che cognitiva. Non si tratta solo di avere consapevolezza astratta dei rischi di moralismo, di uso improprio di stereotipi negativi e simili. Dobbiamo tenere a mente che il moralismo scaturisce da dinamiche emotive profonde, di natura difensiva/ offensiva. Esso manifesta un bisogno di affermazione di sé, ma anche di difesa dalle minacce esterne. In pratica, quando formiamo una valutazione negativa di qualcuno, questo porta con sé una sensazione di minaccia. Vicino a noi c'è un nemico, qualcuno che costituisce un pericolo: per noi, per i nostri valori, per la nostra costruzione di senso. Questo spiega perché l'elemento conflittuale tende a scatenarsi con particolare violenza quando si tratta di persone a cui teniamo, e su cui facciamo investimenti emotivi (partner, figli): in questi casi, ci ritroviamo con il Nemico in casa. Qualcuno a cui teniamo è attratto nell'orbita di forze malvage, è passato al campo del Nemico. Per non trasformarci in moralisti-in-cattedra, dobbiamo avere la capacità emotiva di reggere l'ansia: sopportare il senso di minaccia che ci invade. La buona notizia è che (come osservato nel§ 4.8) se cominciamo a resistere, col tempo guadagniamo fiducia in questa strategia: la nostra mente riflessiva forma un mindware che opera automaticamente in tal senso. Impariamo che sopportare l'incertezza - mettere a tacere il moralista-in-cattedra e fare lavorare l'educatore-trasparente - produce i suoi frutti, e tendiamo a comportarci di conseguenza. Per riassumere, in questo paragrafo abbiamo dato una prima indicazione su come essere educatori-trasparenti-a-sé-stessi piuttosto che moralisti-in-cattedra. Si tratta di evitare l'errore fondamentale di attribuzione: quello di giudicare moralisticamente i comportamenti altrui, attribuendoli a disposizioni caratteriali più di quanto sia appropriato. Dobbiamo, in altri termini, limitarci a discutere specifici comportamenti sui quali riteniamo possibile e opportuno un miglioramento, evitando di ricondurli a stereotipi negativi. Abbiamo
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già presentato (in § 6. 13) le analoghe considerazioni di Rosenberg, nell'ambito della teoria della comunicazione non violenta: «le parole giudicanti», come le chiama lui, innescano spirali di crescente ostilità. È importante non considerare questa indicazione come un semplice stratagemma per evitare l'escalation del conflitto: come se si trattasse di tacere una verità scomoda - «anche se S è pigro, è meglio non dirlo». Al contrario, un punto della questione è precisamente non assecondare la nostra tendenza naturale a moraleggiare: a coprire i fatti con i nostri pregiudizi morali. Correggere l'errore fondamentale di attribuzione è un progresso verso l'aderenza ai fatti. Vedremo adesso che questo legame tra errore fondamentale di attribuzione e ricerca di maggiore aderenza ai fatti emerge in modo interessante nell'ambito della teoria delle organizzazioni.
6. 1 5 Candore radicale In un bel libro sul management aziendale, Kim Scott (2017) richiama l'attenzione su quanto possa essere devastante per un'organizzazione un clima che non incoraggia le persone a parlare con franchezza. Il problema è che le organizzazioni sono tipicamente gerarchiche e, come abbiamo osservato, le relazioni gerarchiche consistono tra l'altro in prescrizioni asimmetriche su quel che si può dire o meno. Chi è in posizione superiore ha il diritto/dovere di valutare, e dunque criticare il lavoro di chi è subordinato; mentre non vale il reciproco. Anzi, a prima vista potrebbe sembrare che le critiche a chi guida l'organizzazione vadano assolutamente evitate, per non alimentare un dissenso che rischia di pregiudicare la coesione dell'azione collettiva. Kim Scott articola con molta chiarezza una tesi opposta. Naturalmente, coesione e coerenza nel perseguire gli obiettivi dell'organizzazione sono importanti. Ma, una volta compreso che come soggetti siamo fallibili, e che i migliori risultati nel formare opinioni e decisioni si ottengono attraverso il confronto con gli altri, diventa essenziale separare la presa di decisione - che rimane responsabilità di qualcuno - dai processi con cui si formano opinioni e decisioni che invece devono essere processi orizzontali. In un'organizzazione che funziona, tutti devono sentirsi in diritto di esprimere le proprie opinioni motivate, e persino le proprie critiche, a chiunque altro.
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Uno degli aspetti di interesse del libro è che l'autrice ha avuto ruoli di grande responsabilità in aziende del calibro di Google e Appie, e ha guidato un paio di avventure aziendali per proprio conto. Questo le consente di raccontare di prima mano cosa succede nelle aziende digitali, in particolare esplicitando i principi in base ai quali capitani d'azienda come Steve Jobs e Larry Page hanno governato le loro leggendarie organizzazioni. E quel che emerge è che non solo questi principi prevedono la critica motivata: di più, Jobs, Page e gli altri di cui il libro racconta si sforzano di creare una cultura d'azienda in cui ciascuno si senta incoraggiato a criticare l'operato di chiunque altro, a cominciare dai CEO. Scott riporta le seguenti parole di Steve Jobs: Non mi dispiace di avere torto. E sono disposto ad ammettere di avere torto spesso. Di questo davvero non mi importa molto. Quello che mi importa è che facciamo la cosa giusta. (Scott 2017: XXXI; traduzione mia}
Questa disposizione alla critica, e alla sua accettazione da parte di chi la riceve, è buona parte di quel che Scott intende con l'espressione che dà il titolo al libro, Qzndore radicale13 • E buona parte del libro è dedicata a convincere il lettore della sua importanza, e ad analizzare gli strumenti che possano aiutare a realizzare l'obiettivo. Perché è un fatto che criticare gli altri «a freddo» è un'attività innaturale: si scontra per un verso con l'imbarazzo di aggredire l'immagine dell'interlocutore, in contrasto con quello che l'educazione di norma prescrive, e per un altro con il timore di innescare un conflitto psicologicamente costoso. È importante ribadire che questa valorizzazione della comunicazione «orizzontale» non comporta affatto una messa in discussione della struttura gerarchica delle organizzazioni, quanto al prendere decisioni. Chi ha responsabilità decisionali se le deve assumere fino in fondo. Anzi, l'autrice descrive quella che chiama «empatia rovinosa» come uno degli errori più frequenti e perniciosi nel management. Il libro è ricco di casi nei quali non prendere al momento giusto decisioni difficili, fino al licenziamento, si è rivelato disastroso non solo 13 Il titolo del libro, Radical Ca11dor, è stato tradotto in italiano con «sincerità radicale». Personalmente, preferisco usare l'espressione «candore radicale», che cattura meglio la disposizione emotiva sottesa. Analogamente, ho preferito tradurre il testo sopra citato, dal momento che la traduzione italiana non rende del tutto giustizia all'enfasi di jobs sulla coppia di nozioni torto-ragione.
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per l'organizzazione ma anche per la persona in questione. Non è dunque una questione di «buonismo» democratico. Il punto è piuttosto che in ogni organizzazione ci sono disfunzionalità e inefficienze attuali che richiedono correzione, o progetti mal concepiti i cui difetti renderanno inevitabili futuri danni: e la varietà dei punti di vista è preziosa per scorgere queste disfunzionalità e difetti. Persone capaci di domandarsi «cosa non funziona in questo processo», o «cosa può andare storto in quel progetto», ed esporre pubblicamente le loro motivate obiezioni, possono far fare un balzo in avanti all'organizzazione, o risparmiare perdite più o meno gravi. Insomma, sviluppare per un verso il senso critico, e per l'altro la capacità di ricevere le critiche con apertura mentale, è questione di buon funzionamento delle organizzazioni: in definitiva, di affari. Si può legittimamente discutere, sul piano teorico, la posizione che qui difendo circa l'importanza del debiasing (dell'autocritica); così come si può essere filosoficamente scettici quando Socrate dichiara che preferisce avere torto, perché questo lo avvicina alla verità. Resta comunque un fatto: ascoltare il punto di vista altrui (contro l'impulso ad affermarsi) sembra produrre, nel contesto delle organizzazioni, risultati evidenti. Specificamente, produce una migliore aderenza ai fatti, e consente perciò corsi di azione più efficaci. I grandi protagonisti della rivoluzione digitale sembrano avere fatto propria in pieno la lezione di Socrate. Potremmo riassumere questo paragrafo in un principio: «incoraggia l'altro ad esprimere il suo punto di vista (e ascolta con mente aperta l'eventuale critica)». Come si ricorderà, andavamo in cerca di una risposta alla domanda: cosa distingue il moralista-in-cattedra dall'educatore-trasparente-a-sé-stesso? Infatti anche il secondo, come il primo, si pone in una posizione di superiorità gerarchica, ed esercita autorità -sia pure con «omeopatica» violenza. Il moralistain-cattedra, tuttavia, mira a ridurre l'interlocutore al silenzio, mentre l'educatore-trasparente-a-sé-stesso intende approfittare dei benefici del dialogo. È capace di assumersi le sue responsabilità decisionali, ma non senza avere prima guadagnato, attraverso il confronto, una migliore comprensione delle cose. Come è chiaro dal presente paragrafo, qui si può intendere la nozione di «educazione (trasparente)» in senso ampio: come un'attività (anche in regime di reciprocità) tesa a sviluppare nel prossimo la mente riflessiva, a prescindere da età e ruoli sociali. Infatti, esercitan-
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do il debiasing su sé stesso, l'educatore trasparente non solo ottiene i benefici immediati di un dialogo alla pari. In più, fornisce all'interlocutore un modello di comportamento: esibisce la propria fiducia verso questa strategia, richiamando l'attenzione dell'interlocutore sui relativi vantaggi. È interessante osservare il legame tra il principio qui introdotto dell'accogliere il punto di vista altrui e quello, presentato in precedenza, dell'evitare l'errore fondamentale di attribuzione. OJndore radicale insiste molto anche su questo secondo aspetto: le critiche in azienda non devono riguardare le persone, bensì i comportamenti. Non si deve dire «tu sei sbagliato» bensì «in questa circostanza non hai agito per il meglio». Ora, il legame dovrebbe essere chiaro: resistere alla tentazione moralistica di screditare l'interlocutore è una precondizione essenziale, se vogliamo incoraggiarlo a manifestare il suo punto di vista. L'educazione trasparente passa attraverso il rispetto della persona e la scommessa sulle sue possibilità di crescita. In effetti, il nucleo concettuale di OJndore radicale è l'idea che l'essenza del buon management è avere a cuore le persone che lavorano con te, e la loro crescita personale e professionale. Data questa premessa, è del tutto coerente l'invito a non saltare da specifici comportamenti sbagliati a giudizi moralistici sulla persona (avendo cura di riconoscere, tuttavia, quando ripetuti sforzi di modificare certi comportamenti non hanno buon esito). Analogamente, riconoscere la soggettività degli altri come simile alla nostra, altrettanto soggetta a limiti cognitivi ma altrettanto capace di cogliere la realtà dal proprio punto di vista, apre la possibilità di approfittare del punto di vista altrui per migliorare la nostra comprensione dei fatti.
6. 16 Per futili motivi: i valori asserviti all'identità
Negli ultimi paragrafi abbiamo analizzato la fisionomia del moralista-in-cattedra, e proposto l'alternativa dell'educatore-trasparente-a-sé-stesso. Praticare questa alternativa richiede lo sviluppo della mente riflessiva, e in particolare il debiasing degli automatismi che determinano il moralismo - inteso come la messa in scena della propria superiorità morale. Specificamente, abbiamo indicato due obiettivi fondamentali per questo debiasing: a) guarda l'altro come persona,
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per le sue potenzialità, evitando l' «errore fondamentale di attribuzione», e b) ascolta (anzi, sollecita) il punto di vista dell'altro, così da ottenere attraverso il dialogo una migliore aderenza ai fatti. Come osservato, il moralismo può essere esercitato anche nei confronti di chi condivide i nostri principi morali. In conclusione, tuttavia, focalizzeremo l'attenzione sul conflitto tra principi (o tra codici) morali. Ci soffermeremo su due aspetti: la facilità con cui si producono conflitti morali tra gruppi, e i fenomeni di polarizzazione che li caratterizzano. Cominciando dal primo aspetto, si sbaglierebbe a pensare che i principi costituiscano la motivazione primaria dei conflitti morali. Di norma, il conflitto nasce da cause molto più «leggere»: per futili motivi. Ha fornito ampia evidenza di questo un esperimento tra i più famosi della psicologia sociale: l'esperimento di Robbers Cave, dovuto a Muzafer Sherif e collaboratori (Sherif 1988). Gli studiosi analizzarono (e manipolarono) i comportamenti di venti dodicenni in un campeggio, descrivendo in particolare l'emergere di una spirale conflittuale tra le due squadre, i Serpenti a sonagli e le Aquile, in cui erano stati divisi per competere in una serie di gare sportive. Va osservato che la distribuzione dei ragazzini era stata casuale: provenivano da scuole differenti, non si conoscevano tra loro, ed erano di estrazione culturale e sociale simile. Non vi erano dunque presupposti di alcun tipo, in particolare per quanto riguarda i sistemi di valori culturali, che avrebbero potuto motivare l'emergere di stereotipi culturali negativi verso l'altro gruppo, e i conseguenti sentimenti di ostilità. E tuttavia, questo è esattamente quel che accadde. Il fattore di innesco fu l'accusa di slealtà nelle competizioni, rivolta dai Serpenti a sonagli alle Aquile. Questo portò le Aquile, per ritorsione, a rubare e bruciare la bandiera dei Serpenti a sonagli. A questo seguì la prevedibile escalation, fino alle rappresaglie punitive notturne e all'uso di armi improvvisate. Molti dei fenomeni cognitivi che abbiamo descritto nel presente libro appaiono esemplificati nella vicenda. L'accusa di slealtà iniziale, per cominciare, è solo un aspetto di un fenomeno più generale. Per tutto il corso del torneo, i membri di ciascuna squadra tendevano a dare la colpa delle sconfitte alla sfortuna (a una palla sgonfia, al brutto tempo), laddove attribuivano le vittorie alla propria bravura (senza alcuna menzione delle circostanze ester-
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ne). Conosciamo bene questa asimmetria tra giudizi di sé e degli altri: i nostri successi ci appaiono dovuti a tratti del carattere, gli insuccessi a circostanze esterne; mentre vale esattamente il contrario quando si tratta degli altri. E come abbiamo visto, questa asimmetria tende a colorarsi immancabilmente di connotazioni morali: gli altri meritano i loro fallimenti, non meritano gli eventuali successi. Non solo i successi altrui ci sembrano dipendere da circostanze esterne, che non hanno nulla a che fare con meriti personali: di più, l'asimmetria giunge a manifestarsi direttamente nella valutazione della correttezza propria e altrui. Lo stesso comportamento che in un membro della nostra squadra giudicheremmo come corretto, ci appare scorretto se messo in atto da un avversario. È evidente la parentela di questo meccanismo con il ragionamento motivato: l'evidenza richiesta per giudicare corretto o meno un comportamento varia significativamente, a seconda che si tratti di un compagno di squadra o di un avversario. Da qui all'accusa di slealtà il passo è brevissimo. Un altro aspetto interessante è come, a partire da tratti contingenti, si formano stereotipi morali di sé e degli altri. Nell'esperimento di Robbers Cave, la squadra dei Serpenti giunge ad autodefinirsi come quella dei «duri», mentre le Aquile si autodefiniscono come i «giusti». Ciascun gruppo trae dalla propria storia, e dalle proprie caratteristiche più manifeste, un aspetto per cui distinguersi vantaggiosamente dagli avversari. Laddove si coglie una (presunta o reale) superiorità, lì si pianta la bandierina dell'identità: questo tratto caratteriale diventa ciò che conta. Abbiamo già parlato dell'illusione di superiorità (§ 5.3). Come ha osservato Schelling (2008), uno dei trucchi con cui nutriamo quest'illusione è la scelta dei parametri più convenienti. Ad esempio, a proposito dell'illusione diffusa di essere guidatori più abili degli altri, Schelling scrive: i guidatori accorti daranno peso all'accortezza, quelli abili all'abilità, e quelli che pensano, anche se non lo sono, di essere almeno educati danno importanza alla cortesia e si piazzano nelle posizioni alte della propria classifica. {È lo stesso ragionamento in base al quale ogni bambino ha il cane migliore del quartiere). {Schelling 2008: 74)
Questo fenomeno illustra un punto importante: la scelta dei valori e dei principi sembra essere una conseguenza quasi marginale del nostro bisogno di identità e distinzione dagli altri. Non è che ci ritenia-
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mo superiori per la nostra capacità di aderire a certi standard morali. In qualche misura, funziona esattamente al contrario: scegliamo gli standard morali in modo da garantirci la nostra superiorità. Un altro aspetto della questione è che le identità morali sono «gruppali»: sono le tessere di riconoscimento per l'adesione a un gruppo. La costruzione dell'identità svolge in effetti un ruolo duplice: se per un verso serve a distinguerci e farci sentire speciali, dall'altro serve a garantirci relazioni sociali e, specificamente, appartenenza a un gruppo - serve a «conformarci» a uno standard. Così, una forte motivazione per aderire a un codice morale è il desiderio di affiliarsi a un gruppo esistente: la propria famiglia, un gruppo di coetanei eccetera. Si pensi alle ideologie politiche, che tipicamente godono di un'esistenza di lungo periodo. Rispetto al caso precedente, qui i valori non emergono in modo pressoché casuale dalle vicende, per un bisogno spontaneo di identità e differenziazione; essi preesistono, e sono quelli del gruppo cui si aspira ad affiliarsi. Quel che è comune è la sostanziale casualità nella scelta dei valori. Tale scelta non discende da un confronto ragionato tra opzioni morali: dipende piuttosto dalla posizione che ci capita di occupare tra le coalizioni in campo. I bisogni emotivi, non il ragionamento sui valori, producono le scelte (si ricordi il «primato affettivo» di Zajonc e il «modello sociale intuizionista» di Haidt) 1 4.
14 Questo non vuol dire che l'individuo scelga sempre di conformarsi ai gruppi cui di fatto si trova ad appartenere. Bisogni personali e disposizioni caratteriali possono farlo sentire estraneo ad essi. Ma, in primo luogo, abbiamo già ripetutamente osservato che ciò è caratteristico degli automatismi: il loro potere, per uno specifico aspetto, non si estende quasi mai alla totalità dei casi (anche prescindendo dal fatto che l'istinto gruppale può trovare un bilanciamento nell'altra componente, l'impulso alla differenziazione). In secondo luogo, anche in questi casi gli automatismi che abbiamo descritto presumibilmente svolgono qualche ruolo. Ad esempio, non è scontato che si riesca a dare forma a una posizione morale senza sentirsi accolti da una comunità, almeno ideale, che in quella posizione si riconosce. E da questa adesione tendono a seguire le consuete asimmetrie di giudizio. Dobbiamo evitare di ragionare su queste vicende a partire dalle storie che tendiamo a raccontarci circa noi stessi: storie di individui moralmente sensibili che aderiscono a codici sulla base di intuizioni morali giuste, che consentono loro di resistere alle pressioni sociali, applicando poi quei codici con equilibrio - ossia, senza i fenomeni di cecità alle buone ragioni altrui di cui diremo tra poco. ~ il genere di storie con cui ciascuno legittima le proprie posizioni morali. Ma sono esse stesse un frutto dei nostri automatismi.
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6.17 Il modello di Erikson
L'intreccio tra morale e identità è stato acutamente analizzato dallo psicologo Erik Erikson, all'interno di un più ampio quadro teorico. Nella sua prospettiva, «lo sviluppo dell'essere umano non comincia o finisce con l'identità; l'identità stessa deve diventare relativa per la persona matura» (Erikson 1968: 42; le traduzioni da questo testo sono mie). Erikson propone una vera e propria teoria dello sviluppo morale dell'individuo. In essa, la costruzione dell'identità occupa un posto di grande rilievo, ma come una fase che va in linea di principio superata: oltre l'infanzia, in cui si formano le basi morali della nostra identità, e oltre la fase ideologica della giovinezza, solo un'etica adulta può garantire alle generazioni future un'equa opportunità di sperimentare l'intero ciclo della nostra umanità. E solo questo consente all'individuo di trascendere la propria identità. (lbid.}
Insomma, l'obiettivo finale del processo che passa attraverso la costruzione dell'identità è il trascendimento dell'identità. Per Erikson, la costruzione dell'identità comincia nell'infanzia e raggiunge il proprio culmine attraverso i posizionamenti ideologici propri dell'adolescenza e della giovinezza. Questa seconda fase è essenziale per la costruzione di un io adulto: consente di esplorare sistemi di idee e valori, confrontandoli tra loro; e attraverso questo, consente di cogliere sé stessi come soggetti morali - individui che fanno le proprie scelte, a partire da un confronto delle opzioni in campo. Tuttavia, abbiamo ormai ampi strumenti per comprendere come questo confronto sia molto meno spassionato di quanto appaia introspettivamente. Ma procediamo con ordine. Erikson definisce la fase iniziale del processo, quella propria dell'infanzia, come «stadio morale». In essa il bambino comincia ad acquisire norme e valori, ma le applica con una logica tutto-o-nulla, ben poco sensibile all'ambiguità delle circostanze e con un focus sulla punizione. Complessivamente, c'è «scarsa consapevolezza di un mondo in cui coesistono varie autorità» (Coté e Levine 1987: 298; le traduzioni da questo testo sono mie). In questa fase il bambino è altamente sensibile ai propri bisogni, incline a sentenziare «non è giusto I» quando la loro soddisfazione non è comparativamente
6. IL PENSIERO IDEOLOGICO
equa, ma in realtà anche quando i suoi bisogni semplicemente non sono soddisfatti. In questi casi, il legame tra morale e affermazione di sé è particolarmente evidente. Per un altro verso, il bambino forma un'idea di autorità morale esterna a sé, modellata sui genitori. Si comincia a formare, in altri termini, quell'immagine dell' «altro generalizzato» descritta da Mead: l'altro come norma sociale, come «si fa così», a cui conformarsi. Ma, come dicevamo, manca ancora la consapevolezza della pluralità dei codici sociali. La norma è assolutizzata, in definitiva mitizzata, come se si trattasse di un ordine cosmico la violazione del quale va esorcizzata con severe punizioni. La consapevolezza della pluralità dei codici cresce durante la seconda fase, lo «stadio ideologico» tipico dell'adolescenza e giovinezza. Questa fase riflette una crescente ma non completa tolleranza dell'esperienza altrui come potenzialmente valida [... ] sebbene siano riconosciute prospettive multiple con diverso orientamento ideologico, ad esse non è accordato sempre uguale rispetto. Piuttosto, permane un certo grado di egocentrismo circa la propria prospettiva. (Coté e Levine 1987: 298)
In un certo senso, il riconoscimento della pluralità è qui strettamente funzionale alla necessità di costruzione dell'identità ideologica. Dato che questa è fondata sulla differenziazione - «io sono diverso da loro» - serve una pluralità di codici per poter opporre la posizione «giusta» ad altre «sbagliate». Dentro questo orizzonte l'asimmetria nelle valutazioni, non l'equità, è il naturale correlato della pluralità. Ed è qui che la polarizzazione affonda le sue radici: l'altro, in fin dei conti, esiste principalmente come qualcosa cui opporsi. Solo con la fase adulta, che Erikson chiama «stadio etico», gli individui raggiungono una prospettiva più equa sulla pluralità delle posizioni: La prospettiva dell'individuo a questo stadio è universale nel senso che altre persone, gruppi e idee non sono da considerare invalidi solo perché percepiti come differenti. Piuttosto, nello stadio etico c'è una consapevolezza che nessun sistema di credenze, incluso il proprio, è privo di difetti o copre tutte le contingenze. (lvi: 299)
Erikson è consapevole che lo stadio etico delinea una condizione ideale, che si può realizzare solo occasionalmente e parzialmente, non un'acquisizione stabile. In pratica, quindi, la moralità adulta ap-
RAZIONALI FINO IN FONDO
pare contrassegnata dall'equilibrio instabile tra una nuova istanza di universalità che cerca di affermarsi e ampie sopravvivenze degli stadi precedenti, quello morale dell'infanzia e quello ideologico dell'adolescenza, che resistono.
6.18 Identità plurali? Abbiamo visto come, nel modello di Erikson, lo stadio più adulto della moralità sia caratterizzato da un genuino pluralismo. È una tesi sovrapponibile a quella, tipica della cultura post-moderna, di un soggetto plurale e fluido? 1 5 Bisogna vedere come la si intende. Di certo, è lontana da Erikson l'idea di identità plurali o fluide. La sua concezione dello stadio etico comporta piuttosto - lo abbiamo detto - il trascendimento delle identità. È un punto importante, e merita di essere approfondito. Potremmo dire: l'idea di «identità plurali» è una sorta di contraddizione in termini, che rischia di snaturare ciò che c'è di buono sia nella nozione di «identità» che in quella di «plurale» (o «pluralista»). 16 Partendo dal primo aspetto, il processo di costruzione dell'identità è un passaggio essenziale per dare coerenza al sé e al mondo: le persone hanno bisogno di agire, risolvere problemi, prendere decisioni in un mondo relativistico. Esse hanno bisogno di una cornice di riferimento atrinterno della quale sono in grado di decidere quali opzioni, possibilità, stili di vita, soluzioni di problemi, ruoli, principi morali, e così via sono migliori o più credibili di altri. (Berzonsky 2005: 134; le traduzioni da questo testo sono mie)
Come scrive Erikson (1968: 27), «senza una semplificazione ideologica dell'universo l'ego adolescente non può organizzare l'esperienza in funzione delle sue specifiche capacità e del suo crescente coinvolgimento». Lo sviluppo dell'identità procede dunque di pari •s Per una descrizione simpatetica delle «identità fluide», si veda Rattansi e Phoenix (2005); per una discussione critica Bcrzonsky (2005) e Ma1.zone (2020).
16 t importante ribadire in che senso qui si parli di identità plurali: non nel senso di codici comportamentali sensibili ai diritti delle minoran1.e, bensl in quello post-moderno di identità non definite, aperte tra varie possibilità. Sebbene come diremo i due temi siano di fatto intrecciati, è bene discuterli separatamente.
6. IL PENSIERO IDEOLOGICO
passo con quello dell'agire autonomo e responsabile: più il soggetto si fa un'idea coerente del mondo e del proprio posto in esso, più è capace di agire come qualcuno che attribuisce a sé stesso, e a cui gli altri attribuiscono, responsabilità per le azioni compiute. In questo consiste, in definitiva, l'ingresso nell'età adulta. Per quanto dunque sia auspicabile - e certamente lo è - che l'identità non sia fissata rigidamente una volta per tutte, nondimeno senza una sia pure provvisoria fissazione dell'identità è dubbio che il soggetto possa avere uno sviluppo normale. Il punto non è, dunque, se i nostri sé siano plurali o no: ovviamente lo sono. Ma ciò non vuol dire che possiamo ritenerci - sempre e del tutto - soddisfatti di questa pluralità, senza aspirare a risolvere i conflitti attuali o potenziali tra le differenti componenti del nostro sé. La costruzione dell'identità durante l'adolescenza e la gioventù è essenzialmente un faticoso tentativo di realizzare una sintesi coerente all'interno di una molteplicità di opzioni, bisogni, e valori. Messa di fronte a questa pluralità e ai conflitti che ne derivano, la gioventù può impegnarsi in un processo mentalmente costoso di osservare, valutare e selezionare opzioni di vita;[ ... ] oppure può opportunisticamente adottare e abbandonare ruoli, atteggiamenti sociali e presentazioni pubbliche al passaggio da una situazione all'altra. (Bcrzonsky 2005: 132; traduzione mia)
Nel secondo caso avremo quello che è chiamato «stato di identità diffuso» (diffusion identity status), ovvero «giovani con un senso indefinito [pastiche sense] della propria identità» (ibid. ), una condizione che può sfociare in confusione e ansietà (Hermans e HermansKonopka 2010: 28). Insomma, per un verso l'identità che costruiamo nel corso dell'adolescenza e giovinezza è precisamente un tentativo di sintesi, e perciò superamento, della pluralità. L'idea di un'identità plurale rischia di additare un compito contraddittorio e impossibile, che di fatto rischia di generare soggettività opportunistiche, o confuse, o entrambe le cose. Questo genere di pluralità non farebbe un buon servizio all'identità, e a quanto di positivo vi è associato: a cominciare dal senso di responsabilità. Ma per un altro verso, questo genere di identità non farebbe un buon servizio al pluralismo. Circola un'immagine fuorviante di cosa
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sia essere inclusivi, ossia accogliere la pluralità e la diversità. Tendono a considerare sé stesse «inclusive» persone che, per sensibilità e cultura morale, guardano a certe categorie sociali in modo simpatetico, e dunque non devono sostenere alcun costo psicologico per accettarle. Ma ciò ha poco a che fare col genuino pluralismo. Questo comporta piuttosto la capacità di tollerare (e persino interagire costruttivamente con) comportamenti e posizioni che giudichiamo negativamente, e dunque facciamo fatica ad accettare. Senza dubbio, una simile capacità richiede di andare oltre la propria identità: di metterla tra parentesi, per considerare più da vicino punti di vista che istintivamente consideriamo incompatibili col nostro. (Per riuscirvi dobbiamo verosimilmente ricorrere a quell'insieme di dispositivi cognitivi che abbiamo chiamato «mente riflessiva».) Tuttavia, mettere tra parentesi la nostra identità in questo modo sembra richiedere soggettività ben diverse da quelle, confuse e opportunistiche, che abbiamo descritto più sopra. Al contrario, servono soggetti dotati di un'identità robusta: che abbiano sperimentato la propria pluralità interna, i costi richiesti per mediarla, ma anche i vantaggi di questa mediazione. E che proprio grazie a questa esperienza siano disponibili a confrontarsi con la pluralità dei punti di vista altrui, e a tentare di mediarla con il proprio punto di vista. Detto altrimenti, quello che suggerisco è di distinguere il livello dell'identità, ossia il livello al quale facciamo le nostre (provvisorie) sintesi ideologiche, dal livello dell'etica adulta di Erikson: ossia, il livello al quale si colloca semmai una disposizione di pensiero pluralista (nel senso che Stanovich dà all'espressione «disposizione di pensiero»: quello di una strategia metacognitiva). La differenza non è piccola. Un'identità pluralista, nel senso di una presa di posizione ideologica in favore del pluralismo inclusivo, ha varie controindicazioni 17• Innanzitutto produce un'illusione di pluralismo a costo zero: ci culliamo nell'idea di essere pluralisti, quando in effetti siamo in•1 Qui siamo passati dalla nozione post-moderna dell'identità plurale (indefinita) a quella dell'identità pluralista come adesione a un codice di comportamento inclusivo. Come dicevo, le due nozioni vengono spesso intrecciate: l'identità plurale sarebbe come tale la più adatta a garantire comportamenti inclusivi. Tuttavia, mentre la nozione di identità pluralista - al di là dei problemi che qui descrivo - non è contraddittoria, quella di identità plurale mi sembra che lo sia, per le ragioni sopra esposte. Quanto alle controindicazioni che attribuisco all'identità pluralista, spiegherò tra poco che esse sono da attribuire (a certe condizioni) al fatto che essa è una ide11tità, non al fatto che sia pluralista.
6.
IL PENSIERO IDEOLOGICO
elusivi solo nelle direzioni selezionate dai nostri automatismi. Inoltre, coerentemente, un'identità pluralista è soggetta a tutte le asimmetrie valutative proprie degli automatismi: si vedono solo i pregi della propria posizione, e i difetti della posizione alternativa (su questa formulazione dell'asimmetria torneremo tra poco). Infine, a conferma del fatto che si tratta di un posizionamento ideologico con funzione identitaria, un'identità pluralista suscita inevitabilmente fenomeni di contro-posizionamento ideologico, con le relative conseguenze di polarizzazione e conflitto. Mentre una disposizione di pensiero pluralista ha come obiettivo il dialogo con l'altro (l'altro «vero», quello con cui siamo in disaccordo), l'identità plurale/pluralista soddisfa una diversa esigenza. Mette in scena sé stessa, sul palcoscenico sociale.
6. 19 Trascendere le identità Qualche lettore potrebbe scorgere, giustamente, un nesso tra le precedenti considerazioni sulle identità plurali/pluraliste e il tema del politicamente corretto. E a questo lettore potrebbe dunque capitare di domandarsi se io non stia di fatto criticando il politicamente corretto. In altri termini, il mio messaggio implicito potrebbe essere qualcosa come: è sbagliato adottare una posizione ideologica basata sul principio del pluralismo inclusivo. Questa è l'impressione che si potrebbe ricavare leggendo, qualche capoverso più su, le righe sulle controindicazioni dell'identità pluralista. Ma non è ciò che intendo. Ci sono tre diverse ragioni per cui è utile chiarirlo. In primo luogo, questo ci dà l'opportunità di fornire una precisazione sul rapporto tra identità e disposizione di pensiero pluralista. In secondo luogo, ci consente di mettere a fuoco il fenomeno della polarizzazione come elemento centrale del pensiero ideologico. Infine, ci permette di fare qualche breve considerazione sul politicamente corretto come ideologia - e, come dirò, penso che quella del politicamente corretto sia una delle questioni cruciali del nostro tempo. Partiamo dal primo aspetto. La descrizione che ho fornito dell'identità pluralista è effettivamente unilaterale: l'attenzione è focalizzata sugli aspetti negativi. In realtà, è una descrizione - per così dire -
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dell'identità pluralista nella sua forma «pura»: ossia, in quanto si accompagna a una disposizione di pensiero tendente al dogmatismo, la quale perciò enfatizza, appunto, gli aspetti identitari. Consideriamo invece una disposizione di pensiero di orientamento opposto: segnatamente, quell'atteggiamento metacognitivo che (a partire da § 4.4) abbiamo chiamato «pensiero attivo di mentalità aperta», in definitiva sovrapponibile a quella che qui abbiamo definito «disposizione di pensiero pluralista». In tal caso, il ruolo dell'identità tende ad essere mantenuto nei limiti che le competono: fornire un modello provvisorio utile a indirizzarci, nella consapevolezza che, come ogni modello, esso è parzialmente fallace. Disporre di un simile modello è indispensabile. Non solo esso garantisce la sintesi dell'esperienza necessaria per guidare la formazione dei giudizi e l'agire, ma è anche il punto di vista che portiamo all'interno del dialogo. Il pluralismo non ci chiede di rinunciare al nostro punto di vista: ci chiede solo di metterlo tra parentesi quel tanto che basta per ascoltare punti di vista differenti. In definitiva, il nostro punto di vista rimane per noi centrale, ma come qualcosa di cui ci preme riconoscere i punti di forza e quelli di debolezza. Ciascuna delle controindicazioni descritte nel precedente paragrafo è in varia misura mitigata dall'adozione di una disposizione di pensiero pluralista. In primo luogo, si può adottare un'identità pluralista senza illudersi che ciò preservi da chiusure ideologiche. Al contrario, la disposizione di pensiero pluralista porta con sé una consapevolezza, quanto meno implicita, di quel rischio. In secondo luogo, ciò riduce il rischio di considerare solo i pregi della propria posizione e i difetti di quella altrui. E di conseguenza, si riducono anche i rischi di generare un'escalation provocando contro-posizionamenti ideologici. Quello che mi propongo, dunque, non è scoraggiare l'assunzione di un'identità pluralista: bensì scoraggiare, piuttosto, la sua assunzione dogmatica. Come ci dice Erikson, le identità sono qualcosa che dovremmo mirare a trascendere - senza abbandonarle del tutto. Nei termini di questo libro, esse sono il frutto di automatismi che dovremmo riportare sotto il controllo della mente riflessiva.
6. IL PENSIERO IDEOLOGICO 6.20
La logica della polarizzazione
Le identità, lo abbiamo visto, sono necessarie, ma anche rischio-
se. E le ragioni per cui sono rischiose sono le stesse che le rendono necessarie. Il che vuol dire che producono i loro danni per ragioni intrinseche a ciò che sono. Abbiamo bisogno delle identità ideologiche perché conferiscono unità e comprensibilità a noi stessi, e al mondo in cui ci troviamo ad agire. Danno un senso al caos della realtà. Ci forniscono in un pacchetto unico un modello della realtà, dei valori in cui credere, dei gruppi a cui appartenere. Persino un'idea di dove la Storia dovrebbe andare. Non è difficile vedere perché si portano dietro, come la loro ombra, il germe del conflitto. Nel mettere ordine, dare unità e conferire senso, le identità ideologiche determinano una selezione, basata su un principio di coerenza. Ciò che resta fuori dal cosmo ordinato che abbiamo costruito, è caos. È minaccia alla nostra costruzione di senso. D'altra parte, l'identità sociale si costruisce essenzialmente per differenze, per opposizioni. L'esistenza di un nemico, di un male cui ci si oppone, è parte della costruzione di senso. È la minaccia al nostro orizzonte di senso che abbiamo accettato di incorporare dentro questo orizzonte: non possiamo ignorare del tutto l'esistenza del negativo, ma possiamo inserirlo in una narrazione del conflitto tra Bene e Male cui prendiamo parte. La costruzione dell'identità è, ipso facto, costruzione di un Nemico. Tutto questo costituisce solo un enorme errore, di cui dovremmo sbarazzarci? Non proprio. È piuttosto qualcosa di simile a un racconto mitologico, che incorpora in sé elementi di realtà. Il punto è capire attraverso quali meccanismi i nostri automatismi producono quel racconto mitologico, per contenerne gli effetti disfunzionali: per riportare la descrizione a una maggiore aderenza alla realtà. Ci sono due aspetti su cui porteremo ancora una volta l'attenzione, per considerare la loro manifestazione nel dominio delle ideologie. Il primo è la soppressione della complessità e contraddittorietà del reale, in favore di un'assunzione di profonda unità e coerenza. Il secondo è l'asimmetria nei giudizi, l'esito finale della quale è che l'altro ci diventa del tutto incomprensibile - se non in termini mitologici, come manifestazione del Male.
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RAZIONALI FINO IN FONDO
Partiamo dalla soppressione della complessità, ma come si vedrà i due aspetti sono strettamente correlati. Prendiamo di nuovo come esempio il pluralismo inclusivo in quanto cornice ideologica di riferimento. Chi lo accoglie potrebbe avere difficoltà a prendere sul serio l'idea di dovere sospendere il proprio punto di vista, così da metterlo in discussione attraverso l'ascolto di quello altrui. Cosa c'è dopotutto da mettere in discussione nell'idea del pluralismo inclusivo, o da apprendere tramite l'ascolto di chi vi si oppone? Questa intuizione di inattaccabilità, intendo suggerire, è l'effetto di un'illusione di profonda unità. Tutte le credenze riconducibili a quell'idea, tutte le sue manifestazioni, vengono in qualche modo saldate in un corpo unico. Tutte ci sembrano contribuire nel conferire a quell'idea la sua forza morale, e reciprocamente trarre forza da essa. Sono manifestazioni tra loro solidali, alleate per il trionfo di ciò che è Giusto. E chi vi si oppone non può farlo per altra ragione che per la propria adesione, irrazionale, alla parte avversa: quella del Male. Ma davvero, tra le manifestazioni riconducibili al pluralismo inclusivo, non c'è nulla che ci abbia disturbato come inappropriato, o eccessivo? Episodi che abbiamo trovato francamente discutibili? Se abbiamo provato sensazioni di questo genere, probabilmente le abbiamo relegate tra i dati da ignorare. Nel paragrafo dedicato alla formazione di stereotipi (§ 3.9) abbiamo parlato del «tollerare le eccezioni»: la gran parte delle generalizzazioni che facciamo ammettono eccezioni, che possono essere ignorate come poco rilevanti. Ed ecco una cruciale asimmetria: quel che ci disturba nel nostro campo viene relegato a eccezione non rilevante, fino a scomparire sostanzialmente dal quadro; mentre quel che ci disturba nel campo avverso ci appare cruciale, tale da definire la natura dell'avversario. Un altro modo di rappresentare questa asimmetria lo abbiamo già introdotto di passaggio: tipicamente, vediamo le opportunità dei nostri sistemi di credenze e valori, vediamo i rischi dei sistemi di credenze e valori antagonisti. Questa mossa sottrae il confronto alla dimensione quantitativa e comparativa, nella quale ciascun punto di vista apparirebbe portatore di vantaggi e svantaggi, e si tratterebbe di commisurarli (o cercare mediazioni che ottimizzino il bilancio). Guardando solo i vantaggi della nostra posizione, solo gli svantaggi di quella altrui, il confronto viene mantenuto nella dimensione mitologica del conflitto tra il Bene e il Male. Potremmo dire: nei con-
6.
IL PHNSIERO IDEOLOGICO
flitti morali (anche quelli non ideologici), si tratta di stabilire «chi ha ragione», non «quali sono le ragioni di ciascuno». Anche ammesso che vi siano ragioni plurime, si assume che queste stiano interamente (o almeno sostanzialmente) da una parte: che non valga neanche la pena di considerare le ragioni altrui. Tale tendenza verso giudizi asimmetrici assoluti è un prodotto spontaneo del bias della conferma, del ragionamento motivato, in generale della tendenza dei nostri automatismi verso la coerenza: questa fa scomparire dall'orizzonte ciò che non si conforma con il quadro vincente. La scomparsa delle ragioni altrui, dei vantaggi delle posizioni alternative, si manifesta anche nell'affermarsi di una logica del «tanto più, tanto meglio». Nel dominio del pluralismo inclusivo, ad esempio, si è affermata la nozione di «micro-aggressione». In pratica, partendo dall'assunzione corretta che le minoranze oppresse abbiano subito e subiscano vere e proprie aggressioni (oltre che prevaricazioni), si incoraggia l'idea che vi sia un continuum di aggressioni, dalle più gravi alle più lievi, e che non si dovrebbero consentire nemmeno le più lievi. Queste ultime infatti aprirebbero la strada alle prime, e comunque procurerebbero disagio a chi le subisce. Vi è tuttavia crescente evidenza dei rischi, e delle conseguenze paradossali, di questo atteggiamento: ne è un esempio il tema della «canee) culture», ossia la pretesa di cancellare pezzi fondamentali della letteratura e della cultura per evitare le micro-aggressioni che conterrebbero. L'idea di micro-aggressione presuppone una prospettiva asimmetrica, per cui di una certa posizione ( «sopprimiamo le aggressioni verso le categorie deboli o discriminate») si vedono solo i vantaggi, di quella alternativa solo i rischi. Basta passare a un confronto più simmetrico, che di entrambe le alternative consideri vantaggi e svantaggi, per capire che una logica del «tanto più, tanto meglio» è sconsigliabile: sopprimere «aggressioni» irrilevanti (se non inesistenti) ha vantaggi troppo modesti rispetto agli svantaggi evidenti. Queste considerazioni ci portano verso un terreno delicato: quello del politicamente corretto, e delle «politiche linguistiche» che ne costituiscono la manifestazione centrale.
RAZIONALI FINO IN FONDO
6.21
Politicamente corretto e polarizzazione
Alcuni lettori avranno senz'altro notato che, nel presente libro, non ho usato le forme linguistiche oggi largamente impiegate per evitare discriminazioni di genere. Specificamente, ho fatto ricorso al maschile generico quando l'ho ritenuto utile 1 8• Non si è trattato di un caso. È venuto il momento di spiegarne le ragioni. Un modo sintetico per dirlo è richiamare le precedenti considerazioni sulle micro-aggressioni. Il linguaggio del politicamente corretto tende a mettere in uno stesso calderone fenomeni genuinamente aggressivi e altri che - almeno per me - non è affatto chiaro che lo siano. Il maschile generico, per la mia sensibilità, rientra nella seconda categoria. Questo significa che, sempre in base alle mie intuizioni, i costi dell'adottare convenzioni atte a evitare il maschile generico sono spesso superiori ai vantaggi. Vi sono costi cognitivi: il maschile generico è una convenzione decisamente più semplice di quelle usate per evitarlo. Queste ultime pongono talvolta problemi non banali a chi scrive, e soprattutto complicano il lavoro di recupero semantico per chi legge, spezzando e allungando le frasi. (Spero che i lettori abbiano notato, in generale, la mia attenzione a evitare frasi più complesse del necessario: considero la leggibilità dei testi un valore morale.) E ci sono costi sociali, che come dirò tra un attimo mi appaiono un tema piuttosto serio. Si noti che mi guardo bene dal farne una questione ideologica, e invito il lettore a fare altrettanto. Per chi aderisce convintamente al politicamente corretto, la lettura dei passi in cui ho adottato il maschile generico ha verosimilmente prodotto una serie di piccoli shock (micro-aggressioni?): sensazioni (sia pure minimamente) sgradevoli, come effetto della mia scarsa attenzione a un tema percepito come importante. Chiedo a questi lettori di resistere alla tentazione di interpretare queste sensazioni in termini di posizionamento morale. Per quanto mi riguarda, non penso che usare il maschile generico sia Giusto, e non guardo a quelli che credono altrimenti come ai membri di una tribù ostile. Attribuisco al maschile generico una vittoria ai punti, come sommatoria dei vantaggi e degli svantaggi, e sono disposto a ridiscutere la questione di fronte a nuove ragioni. 18
Il «maschile generico» è l'uso di espressioni grammaticalmente maschili per riferirsi ad individui di genere biologico sia maschile sia femminile.
6. IL PENSIERO IDEOLOGICO
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Ampliando lo sguardo in prospettiva storica, d'altra parte, credo che la battaglia contro il maschile generico abbia svolto un ruolo positivo. Quella battaglia, nel contesto di varie altre, ha contribuito a mettere il tema delle minoranze e dei loro diritti al centro del dibattito pubblico. Ma anche idee che in una data fase storica svolgono un ruolo progressivo possono diventare regressive in altri momenti. Si può guardare al politicamente corretto come a un nodo ideologico cruciale del nostro tempo. Esso costituisce, in un certo senso, il punto di arrivo attuale di una questione che ha le sue radici nell'Illuminismo: quella della persona come portatrice di diritti universali. I nemici dichiarati del politicamente corretto tendono a non cogliere i benefici di cui loro stessi godono in virtù dell'espansione dei diritti civili. Ma l'adesione identitaria al politicamente corretto comporta forme di cecità analoghe e complementari, contribuendo alla polari21~zione del dibattito 1 9. Prendiamo ad esempio la politica delle quote. In una prospettiva non ideologica, dovrebbe essere possibile considerarne i pro e i contro riconoscendo che in certi contesti sono utili ed eque, mentre in altri potrebbero non esserlo affatto. Consideriamo contesti nei quali l'esistenza di quote riservate sottrae opportunità professionali e personali a persone più capaci. Questo - se lo si guarda senza pregiudizi - ha evidenti costi sociali. Ma anche altrettanto evidenti costi individuali. In più, questi costi individuali sono violazioni dei diritti della persona. Questo non vuol dire che non possano esservi ragioni di necessità per sospendere, localmente e provvisoriamente, alcuni diritti. Recentemente alcuni diritti relativi alla libertà di movimento sono stati sospesi a seguito della pandemia da COVID-19, e molti di •9 Questa cecità cognitiva colpisce l'idea stessa di diritti universali, che è un fondamento del pluralismo inclusivo. In nome della polemica contro l'universale, accusato di essere una finzione dietro cui si nasconde la supremazia del maschio bianco occidentale, il politicamente corretto invoca piuttosto principi di pluralità e differeni.a. Ma la rinuncia a un'idea forte di universalità e l'enfasi sulla differen1.a tendono a sopprimere lo spazio della mediazione. Il pluralismo è pensato come semplice sommatoria di identità che non hanno bisogno di entrare in relazione tra loro, confrontarsi, e pagare i costi di una mediazione. Insieme con l'universale, tende a scomparire dal quadro la solidarietà sociale tra identità differenti. Prevale un individualismo narcisistico (Mazzone 2.02.0; vedi anche sotto SS 6.2.4 e 6.2.5) che però sega il ramo su rui crescono i diritti individuali. I diritti e bisogni di qualcuno, infatti, sono i costi di qualcun altro. Laddove ciascuno ha diritti «differenti», unici, da reclamare - e nessuno si ritiene impegnato a garantire diritti universali - non si vede cosa potrebbe garantire quei diritti.
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noi pensano che ciò sia stato opportuno - e moralmente giustificato dal rispetto di altri diritti. Ma appunto, è importante avere consapevolezza del fatto che la politica delle quote comporta costi, e viola persino alcuni diritti. Non è una misura sempre e assolutamente Giusta, che non si possa discutere. Queste considerazioni sul bilanciamento dei diritti in gioco sono cruciali per il debiasing del pensiero ideologico. Uno dei meccanismi che rendono impossibile il dialogo è la pretesa di un monopolio della morale: con l'altro non si può discutere l?erché è sordo alle questioni morali. Semplicemente, non è morale. E facile per gli automatismi morali giungere a questa conclusione. Come abbiamo osservato, essi selezionano i parametri in base a cui valutare cosa è moralmente rilevante. Ma una volta scelto il campo di gioco e le regole, è evidente che chi non si conforma è fuori dal gioco. Per chi aderisce al politicamente corretto in modo identitario, coloro che vi si oppongono non lo fanno per difendere altri codici morali, altri diritti: semplicemente, sono incomprensibilmente ostili agli unici principi morali concepibili. Con questo non voglio sostenere che tutti i codici morali siano altrettanto buoni. Al contrario, ho sostenuto a più riprese l'idea antirelativistica che dovremmo perseguire mediazioni: il che comporta il tentativo di individuare principi condivisi di gerarchizzazione delle preferenze. Analogamente, non sostengo che si possa sempre dialogare. Ci sono circostanze in cui lo scontro non è evita bile: casi in cui c'è qualche reale aggressione da impedire, con la forza se necessario, possibilmente prima che qualcuno si faccia male. Tuttavia, è essenziale imparare a discriminare tra i differenti gradi del conflitto, e delle relative aggressioni. In particolare, dobbiamo imparare a resistere al disagio provocato dalle altrui «micro-aggressioni» tutte le volte che sia possibile, accettando la sfida di un dialogo tra soggetti morali alla pari. Trattare come casi estremi ( «con loro non si può discutere!») tutti i casi intermedi di conflitto tra identità, significa asciugare l'acqua nella quale nuota la democrazia. La polarizzazione, della quale oggi tanto si parla in relazione ai media digitali, non dipende in modo essenziale da questi ultimi. È piuttosto un fenomeno connaturato al pensiero ideologico - anche se fattori esterni possono certamente contribuire a modularne l'intensità. Il confronto delle posizioni (digitale o no) è tanto più polarizzato
6. IL PENSIERO IDEOLOGICO
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quanto più siamo vittime della logica identitaria, secondo la quale noi siamo morali, il nostro interlocutore non lo è. Ci sfugge il dato di fondo che l'altro è, in definitiva, molto più simile a noi di quanto siamo disposti ad ammettere. È un idealista miope, che non vede quanto il suo codice morale dipenda dai propri bisogni e dai propri automatismi, su quante asimmetrie valutative esso poggi, e quanto imperfetta sia la sua stessa applicazione di quel codice.
6.22
Dittatura linguistica e populismo
Ho cercato di dire in breve perché penso che la questione del politicamente corretto (per brevità, qui di seguito userò la sigla PC) sia storicamente importante, e perché nondimeno faremmo bene a evitare un'adesione identitaria ad esso. Ho lasciato però in sospeso un tema. Parlando del linguaggio inclusivo, ho menzionato i suoi costi sociali: è venuto il momento di chiarire in che senso. Questo serve anche a prevenire una possibile obiezione. Mentre la politica delle quote ha conseguenze pratiche che possono essere considerate dei costi, quali sarebbero i costi di un linguaggio inclusivo? (A parte i costi cognitivi che ho indicato, forse non così significativi.) Non si tratta forse di accorgimenti in sé innocui, che possono avere d'altra parte un impatto simbolico positivo sulla società? Non sorprendentemente, il tema è attraversato da un confine ideologico. Alla domanda che ho appena formulato, i favorevoli al PC risponderebbero positivamente. Ma i contrari protesterebbero che il PC ha costi pesantissimi: esso pretende di instaurare una dittatura sul linguaggio. Su questa divergenza, che potrebbe apparire astratta e poco rilevante, passa una delle faglie politiche del nostro tempo. Ciò è reso visibile, negli ultimi decenni, dall'affermarsi di posizioni politiche etichettate come «populiste». Un tratto distintivo di queste posizioni è stato precisamente la polemica con il PC, con particolare riferimento alla sua dittatura linguistica e all'ipocrisia che la caratterizzerebbe. Contro questo connubio di dittatura e ipocrisia, si è invocato un linguaggio libero di dire la verità senza perniciosi «buonismi». È fin troppo facile, per chi non condivide queste posizioni, liquidarle come pretestuose. Ma il populismo anti-PC è un controposizionamento quasi inevitabile, in quanto risposta al PC. In questo
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senso, i sostenitori del PC hanno la loro parte di responsabilità nei fenomeni di polarizzazione in corso e, in un senso che proverò a chiarire, nella stessa nascita del populismo 20• Per cominciare, partiamo proprio dalle accuse di dittatura linguistica. Si può negare che vi sia ormai un intero repertorio di episodi che forniscono ragioni ai critici del PC? Carriere professionali e vite private - nei campus universitari, nelle istituzioni, nelle aziende sono state seriamente danneggiate, per dubbie accuse circa presunte offese a membri di minoranze discriminate 21 • L'espressione «dittatura linguistica» appare meno inappropriata, quando si pensi a episodi di questo genere. Un esempio molto noto, per fortuna risolto senza danni, è quello del docente statunitense sospeso dal lavoro e sottoposto al giudizio di una commissione per avere pronunciato un'espressione cinese che negli USA ha lo stesso suono di un insulto razziale, nonostante il contesto (una lezione di cinese) fosse chiarissimo e per nulla offensivo (cfr. ad esempio Lo 2021). Questi episodi sono la punta dell'iceberg. Il fenomeno già citato della «cancel culture» costituisce un'altra evidenza del fatto che si tratta di una tendenza ampia e rilevante. Ovviamente, quanto ampia o rilevante è una delle questioni controverse sul terreno ideologico. I nemici del PC tenderanno a considerarla una sua proprietà caratterizzante (in senso ovviamente negativo); i sostenitori a derubricare gli episodi come eccezioni irrilevanti. Questo diverso atteggiamento ha ricadute sulla questione del rifiuto del maschile generico. I sostenitori del PC tenderanno a pensare questa misura linguistica come legittima, e del tutto differente da quei casi estremi e devianti. Per i detrattori è vero il contrario. Per quanto vi siano certamente differenze, c'è un elemento comune: l'interferenza impropria con la sfera della libertà individuale. Il PC pretende di prescrivere come dobbiamo parlare, e perseguita chiunque venga sospettato di non conformarsi. Si può discutere se questa descrizione fotografi una realtà statisticamente significativa. Più difficile è negare che colga qualcosa. Che il 20 Responsabilità, insisto, in senso non moralistico. Come ho detto, ritengo che fare emergere il conflitto sia stato in sé positivo. Il punto è sviluppare la capacità di gestirlo. Ma per questo, bisogna a sua volta sviluppare la capacità metacognitiva di trascendere la propria idetitità. 21 Esempi di questi fenomeni, e considerazioni complessivamente equilibrate (non pregiudizialmente ostili al PC) sul tema, si trovano in Friedman (2018) e Lukianoff e Haidt (2018).
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tema non sia da liquidare come una pretestuosa invenzione dei populisti lo dicono anche le riflessioni di Judith Butler ( I 997, vedi anche Mazzone 2020), nota studiosa femminista, sul necessario bilanciamento tra politiche linguistiche normative (in difesa delle minoranze) e libertà di parola. La sua idea di fondo è che interventi normativi sul linguaggio (prescrizioni e divieti) dovrebbero essere ridotti a un minimo, dal momento che (tra l'altro) essi costituiscono un'arma a doppio taglio: possono essere adoperati a difesa di categorie deboli, ma anche contro di esse, producendo una sorta di diritto di censura al servizio della maggioranza. Il suggerimento di Judith Butler è di restituire gli scontri ideologici - in tutti i casi in cui non sia necessario contenerne la violenza - al terreno che è loro proprio: quello del confronto nello spazio pubblico della società. Questo richiamo a ciò che è proprio degli scontri ideologici evidenzia un punto importante. Le politiche populiste possono essere accusate magari di cavalcare l'ostilità al PC, ma di certo non possono essere accusate di crearla. Rivolgere loro una simile accusa vorrebbe dire non comprendere che vi è in gioco un genuino scontro tra blocchi ideologici. Ovvero, vi sono sistemi contrapposti di credenze e valori che portano le persone a valutare in modi opposti le questioni: ad esempio, le politiche linguistiche del PC. Come dovrebbe essere chiaro, non sto suggerendo che le posizioni ostili al PC «abbiano ragione». Sostengo piuttosto che hanno alcune ragioni, ad accusare la dittatura linguistica del PC. Alcuni dispositivi (complessi di idee, istituzioni, pratiche) nati con le migliori intenzioni per la difesa di diritti individuali, si sono irrigiditi in un blocco ideologico che produce guasti non indifferenti: limitazioni di vario genere alle libertà individuali. Si può rimproverare al blocco ideologico contrapposto di guardare a questi fenomeni in modo unilaterale. Ma la verità è che anche i sostenitori del PC fanno di norma altrettanto, in modo simmetrico: tendono a ignorare ciò che metterebbe in discussione il loro posizionamento identitario. In tal modo, sfugge loro quanto della posizione altrui sia contro-posizionamento. In altri termini, quanto il populismo attuale sia una reazione alle numerose conseguenze indesiderate del PC. Fintanto che ciascuna delle due parti è interamente concentrata sul mettere in scena la propria identità, e si rifiuta di riconoscere le (buone) ragioni dell'altro, la polarizzazione è l'unico esito possibile.
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6.23 La questione dell'ipocrisia linguistica Abbiamo esaminato gli elementi di verità contenuti - così a me pare - nell'accusa di dittatura linguistica rivolta al PC. Il modello della realtà dei pro-PC, come tutti i modelli, ha alcune conseguenze indesiderabili: tra queste, vi sono appunto i fenomeni di «dittatura linguistica» sopra considerati, che alimentano contro-posizionamenti anti-PC. D'altra parte, abbiamo visto, l'adesione identitaria al PC rende i suoi sostenitori ciechi alle conseguenze indesiderate, e di conseguenza rende per loro incomprensibili i contro-posizionamenti. E questo contribuisce a innescare una spirale di polarizzazione. Cosa possiamo dire sull'altra accusa, quella di ipocrisia linguistica? Su un piano più teorico, essa è legata al fatto che il PC comporta una sorta di continua rincorsa ai termini non offensivi. Come ha osservato O'Neill (201 1 ), i termini offensivi nascono spesso come termini neutri. È l'uso ripetuto in situazioni di scherno e/o aggressione verbale che associa ad essi una connotazione offensiva. Di conseguenza, gli anti-PC vedono qualcosa di futile, anzi fuorviante, nel correggere continuamente il linguaggio, finendo per proporre termini sempre più artificiosi. L'argomento che la continua ricerca di eufemismi testimoni un atteggiamento ipocrita verso il linguaggio è, senza dubbio, in sé discutibile. Ma l'analisi di O'Neill non si limita a questo: essa contiene un punto teorico serio, anzi a mio giudizio cruciale. Il punto è che non si dovrebbe guardare alle parole offensive isolandole dall'uso. Anche una parola neutra può essere usata - in certi contesti e se accompagnata da certi atteggiamenti - in modo decisamente offensivo e violento. È proprio così che i termini neutri diventano offensivi! E vale anche il reciproco. Si può usare un termine in sé offensivo (o un termine ad esso omofono: si ricordi il caso del docente di cinese) senza alcuna intenzione offensiva. Tra i sostenitori del PC c'è una tendenza a considerare le parole come offensive in quanto tali, indipendentemente dall'uso che se ne fa. Ad esempio, alcuni negherebbero che si possa citare un termine offensivo in un contesto scientifico, anche solo per analizzarlo criticamente. L'argomento fornito è che la parola offensiva porta associate con sé le proprie connotazioni offensive, dunque produce comunque il relativo «danno» psicologico. Dovremmo pertanto considerare l'effetto della parola come offensivo, anche quando contesto
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e atteggiamento del parlante dicono il contrario. Questo argomento dipende dall'assunzione (sopra esaminata) che ciò che conta è la sensazione di micro-aggressione prodotta, e che nessuna aggressione è abbastanza piccola da poter essere ignorata. Abbiamo già messo in guardia nei confronti della nozione di micro-aggressione. Essa ha il difetto di erodere lo spazio di tolleranza per le divergenze ideologiche, e dunque le possibilità di dialogo. Invece di sopportare il disagio prodotto dai comportamenti altrui che confliggono con i nostri codici morali, si invoca la censura nei loro confronti. Questo atteggiamento, abbiamo suggerito, è frutto dei meccanismi identitari, che portano a ignorare asimmetricamente le controindicazioni del nostro modello: si vedono i costi - per quanto minimi - delle micro-aggressioni, ma non quelli della loro censura. Questo tema dei costi richiede un'analisi più ampia. Per cominciare, la censura delle micro-aggressioni comporta costi a carico degli stessi individui che mira a proteggere. Come è stato osservato, un ambiente culturale da cui espungiamo qualsiasi cosa (comportamenti, parole, prodotti culturali) sia sospettata di provocare disagio, rischia di impoverire enormemente il raggio delle esperienze e produrre una generazione di soggetti fragili e insicuri (si veda Lukianoff e Haidt 2018). Come per ogni altra cosa, si impara a gestire i disagi e i conflitti con la pratica, specie in ambienti che forniscano le impalcature educative per la loro analisi. Quando la canee/ culture, ispirata dal proposito di evitare micro-aggressioni, cerca di eliminare dagli ambienti accademici ogni possibilità di incontrare disagio e conflitto, non rende un buon servizio né alla cultura né agli individui. Ma c'è un ulteriore costo sociale e politico su cui vorrei richiamare l'attenzione, e che forse costituisce la spiegazione profonda dell'accusa al PC di ipocrisia. Quando i pro-PC insistono su questioni come il maschile generico, o le micro-aggressioni provocate da singole parole (anche se in contesti non offensivi), producono negli anti-PC la forte impressione di badare anche troppo alle parole, e ben poco alla sostanza delle cose. E, per dire la verità, penso che gli anti-PC abbiano ragione in più di un senso. Credo anche che questa sia una sorgente profonda dello scontro politico in atto nei paesi occidentali. Al di sotto delle divergenze su specifiche questioni sociali, ad esempio l'immigrazione o l'integrazione europea, una parte della popolazione ha la percezione che esista un gruppo sociale le cui con-
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dizioni di vita proteggono i membri dai costi di quelle scelte (perché, come per ogni cosa, ci sono costi dell'immigrazione e dell'integrazione europea). E questo gruppo sociale cerca - «ipocritamente» di spostare il focus del dibattito pubblico da quei costi materiali verso questioni piuttosto irrilevanti di linguaggio, con l'effetto per giunta di provare a imporre - attraverso tali politiche linguistiche il proprio modello culturale. Proverò in conclusione a motivare queste considerazioni. Per prima cosa esaminerò alcuni aspetti per cui i pro-PC sembrano badare troppo alle parole, piuttosto che alla sostanza delle cose. Questo consentirà di mettere a fuoco una distinzione cruciale nelle attuali dinamiche dell'identità simbolica. Quindi difenderò l'idea che la linea di divisione tra pro- e anti-PC, con la relativa divergenza circa la centralità o meno delle parole, corrisponda davvero a dei blocchi sociali approssimativamente riconoscibili.
6. 24 Identità simboliche, e ultra-simboliche Partiamo ancora una volta da una strategia argomentativa ampiamente utilizzata (o almeno presupposta) dai pro-PC: quella del continuum delle aggressioni. Ho presentato alcune ragioni per dubitarne. In particolare, ho proposto l'argomento condizionale che se le micro-aggressioni vanno considerate aggressioni a pieno titolo (e perciò censurate), ne seguono conseguenze indesiderate: si annulla lo spazio per il confronto delle posizioni e per il dialogo; si educano personalità fragili e insicure; si produce il contro-posizionamento ideologico che alimenta il populismo. Questo argomento, tuttavia, non tocca la verità o meno della premessa. Può darsi che una tesi abbia conseguenze indesiderate, e tuttavia sia vera. Così, potrebbe darsi che la tesi del continuum delle aggressioni abbia conseguenze indesiderate, e nondimeno le micro-aggressioni siano aggressioni genuine che andrebbero in linea di principio impedite. Proviamo allora ad esaminare la questione direttamente22• 2.2. Un differente modo di esaminarla, ancora più diretto, è domandarsi se si possa realmente parlare di «danni» provocati dalle micro-aggressioni. Contro questa idea si veda Jay (2009), e le eviden1.c discusse in Lilienfeld (2017). Più favorevole all'idea di vantaggi delle politiche linguistiche del PC è Maass et al. (2014).
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Consideriamo tre fenomeni quali a) l'uso del maschile generico, b) i pregiudizi sulle donne nei posti di lavoro, c) la violenza sulle donne. Si tratta davvero di fenomeni intrinsecamente simili disposti lungo un continuum, di modo che intervenire su a) promette di avere ricadute su b) e c)? Non è facile immaginare attraverso quali meccanismi ciò potrebbe accadere. Forse l'esercizio richiesto dal modificare le abitudini linguistiche aumenta le capacità di auto-controllo anche relativamente a b) e c)? Se così fosse, qualunque esercizio atto a modificare un'abitudine avrebbe lo stesso effetto: questo è poco verosimile, e peraltro renderebbe le politiche linguistiche superflue. Forse però le politiche relative ad a) richiamerebbero l'attenzione cosciente sui diritti delle donne, con effetti positivi sugli altri punti? In primo luogo, è estremamente difficile che questo possa avere effetti su c): la violenza dipende da dinamiche emotive profonde, intervenire sulle quali richiede una riorganizzazione della personalità decisamente più seria. Ma anche limitandosi a b ), dovremmo similmente presupporre che i pregiudizi sulle donne siano un fenomeno superficiale. Se invece, come è plausibile, quei pregiudizi sono radicati in sistemi automatici di credenze e comportamenti, non è affatto chiaro che intervenire sui comportamenti linguistici coscienti abbia effetti su di essi. Al contrario, esiste una ricca letteratura sperimentale, anche con specifico riferimento alle categorie etniche e di genere, che mostra l'esistenza di un divario tra le credenze di cui siamo consapevoli e quelle implicite che governano i comportamenti (cfr. Kurdi e Banaji 2022). Un conto è quel che le persone (anche in buona fede) dicono di pensare di certe categorie, un altro conto è il modo in cui gli stereotipi sociali influenzano le scelte effettive. Insomma, è difficile prendere sul serio l'idea che portare l'attenzione sulle parole (sul maschile generico, ma anche verosimilmente su altri fenomeni linguistici) possa produrre gli effetti che i pro-PC auspicano. «Mettere a posto il linguaggio» in quel senso non sembra avere grandi effetti sulla realtà. L'accusa di ipocrisia, certo, fa torto alle buone intenzioni dei pro-PC. Ma è difficile negare che l'esito sia quello: mettere a posto le parole, lasciando la realtà com'è. Perché, ammesso che sia così, i pro-PC commetterebbero questo errore di valutazione? Ad un primo livello della questione, come abbiamo osservato, tutti tendiamo a costruirci identità simboliche che manifestano una dinamica di quel genere. Usiamo le parole per tesserci un vestito sim-
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bolico, del quale siamo solo in parte all'altezza. Perciò, per un verso «le parole sono importanti» (non sono «solo parole»): operano effetti, guidano i comportamenti. Ma, per un altro verso, parole e identità simboliche tendono ad appagarci moralmente, sostituendo azioni di cui non siamo capaci e occultando l'inadeguatezza di quelle che effettivamente compiamo. Siamo tutti, con le parole di Haidt, moralisti ipocriti: usiamo le parole per occultare i fatti. Ma questa dinamica, proprio perché riguarda trasversalmente tutte le identità simboliche, non è sufficiente a spiegare le specificità del PC. Tanto i pro- che gli anti-PC costruiscono identità simboliche. Specifico del PC è semmai il fatto che le norme morali riguardano espressamente comportamenti linguistici/simbolici. Potremmo dire: in questi casi abbiamo a che fare con identità ultra-simboliche. Anche per gli anti-PC «le parole sono importanti»: esprimono valori (i propri come quelli altrui) intorno ai quali, dunque, si è pronti a ingaggiare battaglia. Ma essenzialmente, nella loro prospettiva, ciò che le parole consentono di normare sul piano morale sono comportamenti non-linguistici (non-simbolici). Il PC, al contrario, mette al centro le norme sui comportamenti linguistici e simbolici. Con tutti gli errori di valutazione che - se la mia analisi è corretta - ne seguono. Detto altrimenti, per il PC la questione delle politiche linguistiche non è una questione accessoria: il suo universo morale è anzitutto un universo di simboli. E questo carattere ultra-simbolico ha ricadute sulle dinamiche identitarie. In alcuni sondaggi che abbiamo condotto (cfr. Campisi, Mazzone e Venuti 2023) su Twitter relativamente a come identità di genere differenti si confrontano su temi di comune interesse, è emerso un prevalere degli scambi conflittuali sull'espressione di solidarietà tra categorie. L'ideale dell'inclusività sembra spesso sopraffatto da una logica di differenziazione identitaria. E questo ha senso, nella prospettiva che propongo. Per gli anti-PC l'identità è un fatto essenzialmente collettivo. Il principio di differenziazione simbolica, nel loro caso, distribuisce come di consueto gli individui in un in-group e un out-group, ma esaurisce la sua funzione in questa demarcazione dell'universo morale. Detto altrimenti, l'anti-PC non ha problemi a sentirsi «uno come gli altri», portatore di un'identità morale di gruppo. Questo non significa che siano meno individualisti dei pro-PC: ma l'individualismo che li caratterizza è innanzitutto quello delle libertà economiche. Al contrario, per i pro-PC la diffe-
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renziazione simbolica - la «diversità» - è l'essenza dell'identità. Ciascuno è legislatore del proprio universo simbolico e la sua individualità si esprime soprattutto nell'identità simbolica che si costruisce. La sopravvalutazione del potere delle parole che abbiamo argomentato all'inizio del paragrafo è coerente con questo scenario. Parole e simboli si trovano investiti di un'importanza fondamentale: non sono strumentali rispetto al mondo delle cose e delle azioni, o comunque vincolati da esso. Hanno in sé un potere assoluto, un'efficacia indipendente dai contesti d'uso 23 • In conclusione, intendo suggerire che questo atteggiamento culturale ammette una spiegazione sociologica. Il PC nasce da un blocco sociale riconoscibile, professionalmente incline ad attribuire un'importanza speciale alle parole e relativamente al riparo dai costi di alcuni processi socio-economici in corso 24 • L'accusa di ipocrisia si spiega in questo contesto: è la reazione di un differente blocco sociale, per il quale l'enfasi dei pro-PC sulle parole mira a nascondere, ma in effetti manifesta, la loro condizione di privilegio.
6. 2 5 Le radici elitarie del PC Che esista un blocco sociale pro-PC omogeneo è tutt'altro che ovvio. Se è vero in generale che le generalizzazioni sono di norma solo parzialmente giustificate (ammettono eccezioni), ciò vale in particolare per i tentativi di identificare raggruppamenti ideologici. Le idee circolano sulle gambe delle persone, che se ne appropriano in modi talvolta indipendenti dai gruppi sociali. Le abitudini di un gruppo privilegiato, per esempio, tendono a essere imitate da membri di gruppi differenti. Dico questo per mettere le mani avanti: la storia che provo a raccontare è un'ampia generalizzazione, con tutti i rischi del caso. Ma è una storia che mi pare interessante e istruttiva. Essa è raccontata dal politologo Mark Lilla (2018), in un bel libro dedicato non al PC, ma al tema strettamente connesso della «politica identitaria» (identity politics )2 5. Il riferimento è prevalentemente alla si1.3 Sull'attribuzione alle parole, da parte dei pro-PC, di un «potere magico», si veda Butler (1997), Maz1.0ne (2.020). 24 t interessante osservare che uno dei primi scritti contro il PC, il pamphlet dello scrittore Tom Wolfe (1970), è il testo che ha coniato l'espressione «radical chic». 2 s Oggi tende a prevalere l'espressione "politica delle identità". Ho adoperato "politica identitaria" per uniformità con Lilla (2018).
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tuazione statunitense e alle politiche del Partito Democratico americano, ma Lilla descrive anche la crescente espansione del fenomeno in Europa. Il termine «identità», racconta Lilla, ha cominciato a essere usato nell'accezione politica in questione negli anni settanta, in riferimento alle diverse identità di gruppi e minoranze. [...] In quel contesto, segnato dall'emergere della cosiddetta New Left, la sinistra che andava a cercare un collante nella battaglia per i diritti civili, è nata la retorica dell'orgoglio: orgoglio nero, orgoglio gay e, a seguire, orgoglio di qualunque altro gruppo discriminato. Ma mentre l'energia politica della New Left andava dissipandosi e l'uomo americano diventava sempre più concentrato sulle piccolezze del proprio sei{, la parola identità è stata impiegata per indicare il nostro io interiore, un'entità irripetibile che reclamava protezione. {lvi: 11)
Secondo Lilla, l'identità è l'unico punto su cui, in quella congiuntura storica, i liberal americani riescono a trovare un accordo. Ma questo comune denominatore comporta la scomparsa dell'interesse per l'economia e la politica estera, e in generale di un progetto complessivo di società. La politica identitaria[ ...] non offre una visione comprensiva della società, dell'economia e della cultura, non sviluppa alcun interesse per la politica estera. Chiusa com 'è nella prigione della soggettività, non è in grado di offrire una chiave interpretativa per spiegare il mondo. {lvi: 10)
Un punto su cui Lilla insiste è che la politica identitaria non è «di sinistra», come invece si sostiene che sia. Essa non propone una visione complessiva della società, in particolare una incentrata sulla difesa dei deboli. Benché abbia le sue radici nelle rivendicazioni di gruppi discriminati, finisce per ripiegare su una concezione essenzialmente individualista. All'individualismo economico della destra oppone una diversa forma di individualismo: Con il sorgere della coscienza dell'identità, l'interesse per i movimenti impegnati su temi specifici è cominciato in parte a scemare, e si è radicata la convinzione che i movimenti più significativi per l'io fossero, com'era prevedibile, quelli che si concentravano proprio sull'io. Come hanno scritto senza troppi giri di parole le autrici femministe del Collettivo Combahee River nel loro manifesto del 1977, «le azioni politiche più profonde e po-
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tenzialmente più radicali vengono direttamente dalla nostra identità, e non dal mettere fine all'oppressione altrui». (lvi: 87-88)
Lilla fornisce così una storia plausibile di come - a partire dalla difesa delle minoranze - si sia formato un blocco ideologico-politico intorno alla nozione di identità simbolica individuale. Un'altra parte della sua storia riguarda le basi sociali di questo blocco politico. Nella sua ricostruzione, si è verificato un cambiamento importante quanto alla provenienza sociale delle persone attive nello schieramento liberal: fino agli anni sessanta, chi era attivo nelle politiche liberal e progressiste proveniva in gran parte dalla classe operaia e dalle comunità agrarie, e si era formato nelle s~Lioni politiche locali o nelle fabbriche. Quel mondo non esiste più. Oggi attivisti e politici si formano quasi esclusivamente nei college e nelle università, e lo stesso vale per i professionisti nell'ambito legale, del giornalismo e dell'educazione. L'educazione politica liberale oggi avviene, se avviene, all'interno di campus universitari isolati socialmente e geograficamente dal resto del paese. (lvi: 68-69)
Questo è un punto cruciale. La polarizzazione tra i due blocchi - a favore e contro la politica identitaria - che ha segnato le vicende politiche degli ultimi decenni negli USA, è innanzitutto una spaccatura fisica. Ci sono due mondi separati: quello dei campus (nonché delle istituzioni e delle professioni che da essi provengono), e quello che sorge subito fuori. La politica identitaria nasce e vive innanzitutto dentro campus universitari sostanzialmente isolati dal mondo. Addirittura, Lilla suggerisce che questa collocazione sia stata - almeno in parte - il frutto di una scelta strategica: quella che lui chiama «laritirata della New Left nelle università americane» (ivi: 68). In seguito al fallimento politico culminato nell'era reaganiana, una generazione di liberal avrebbe mutato strategia: Non essendo riusciti a rovesciare il capitalismo e a smantellare il complesso militar-industriale, sono partiti alla volta delle cittadine universitarie di tutta l'America nella speranza di mettere in pratica un tipo diverso di politica all'interno delle istituzioni educative stesse. (lvi: 84)
Questo tentativo è in definitiva riuscito? La risposta di Lilla è: sì e no. È riuscito quanto all'egemonia che i liberal sono giunti a esercitare nell'accademia e in alcuni settori della società. Decisamente no,
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tuttavia, quanto ai propositi di modificare, a cascata, il resto della società. Lasciatemi citare un ultimo brano in cui Lilla, con efficacia polemica, racconta come i liberal si siano felicemente accomodati a uno stile di vita privilegiato nelle università americane: Queste città universitarie si distinguono ancora dal resto d,America e sono posti molto piacevoli dove vivere, benché abbiano ormai perduto gran parte del proprio fascino utopico. Per la maggior parte sono diventate la mecca di una nuova cultura consumistica della classe più istruita, piene di complessi di uffici ultratecnologici e con case sempre più costose. Posti in cui si può fare un salto in libreria, vedere un film straniero, comprare vitamine e candele, mangiare un pasto dignitoso concluso con un caffè espresso, e poi magari andare a un workshop per pulirsi la coscieni.a. :F. un,ambientazione perfettamente borghese e seni.a traccia di demos, tranne che per i senzatetto, il cui lavoro è rendere realistica la scenografia per i residenti. {lvi: 8 5-86)
Questo brano è deliberatamente polemico e unilaterale: certamente non tutte le persone che si riconoscono nella politica identitaria o nel politicamente corretto conducono vite privilegiate nei campus americani. Ma il quadro che propone è degno di attenzione. Di sicuro, esso non proviene da un populista anti-PC. È più corretto considerarlo un esempio di riflessione auto-critica dal fronte liberal: se si vuole, un tentativo di debiasing dei meccanismi ideologici presenti nella politica identitaria (e nel politicamente corretto). Il quadro che se ne può trarre - con qualche libertà da parte mia - è di questo tipo. La politica identitaria nasce da un raggruppamento sociale tendenzialmente benestante, egemone per qualche decennio innanzitutto nelle università (poi in alcune professioni, nel giornalismo, nella scuola), caratterizzato da un alto livello di cultura, e specificamente molto sensibile alle dinamiche simboliche. La sua costruzione identitaria si ispira a movimenti sociali di categorie svantaggiate, ma viene elaborata in ambienti che conducono un'esistenza sostanzialmente isolata da quelle categorie, di cui condividono ben (>OCO gli svantaggi. (Ci sono alcuni aspetti che fanno eccezione, lo so. E così per ogni generalizzazione. Si tratta di capire quante e quali eccezioni.) Elaborare le proprie analisi, e strategie di intervento, in questa condizione di isolamento ha fatto sì che prevalessero temi e interessi piuttosto auto-referenziali, distanti da quelli delle categorie più svantaggiate. Si spiega così lo slittamento da temi socio-economici
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più sostanziali verso il tema dell'identità personale, e specificamente verso una sua declinazione ultra-simbolica. A questo quadro va aggiunto il generale impoverimento della classe media nei paesi occidentali, nel più ampio contesto dei fenomeni di globalizzazione. Si può discutere se il tema dell'immigrazione sia un falso problema, creato ad arte dai populisti per creare consenso, e se molti dei disagi che hanno colpito la classe media non provengano piuttosto dalla globalizzazione26 • Questo però cambia poco, dal nostro punto di vista. La questione è decisamente più generale. Lo spostamento da un'analisi socio-economica del disagio (quali ne siano le cause) a una visione politica incentrata sull'identità simbolica ha creato un vuoto di rappresentanza per una quantità di istanze genuine; e questo vuoto, a sua volta, ha prodotto un'ondata storica di risentimento nei confronti del gruppo sociale portatore di quell'ideologia. Per la destra populista è stato facile riempire quel vuoto, ed essa si è reso il compito ancora più facile fornendo rappresentanza non tanto a quelle legittime istanze, quanto al conseguente risentimento antiPC: dando cioè una risposta su un piano essenzialmente ideologico. Dato questo quadro, tuttavia, criticare il populismo anti-PC per il suo approccio demagogico e ideologico serve a poco, se non si riconosce che esso è una risposta pressoché obbligata al posizionamento altrettanto ideologico del PC. Questo posizionamento ha rimosso dall'orizzonte dei problemi una quantità di questioni reali, sostituendole con succedanei simbolici. Il mio suggerimento è che occorre un cambio di direzione radicale. Le università e gli studiosi, che hanno avuto un ruolo nel porre il problema - reale - dei diritti di categorie svantaggiate, ma purtroppo anche nella deriva ideologica che ne è seguita, dovrebbero rimettere al centro alcuni ingombranti frammenti di realtà: non continuare a coprirli con un velo di questioni simboliche. La forbice tra chi ha e chi non ha va aumentando, e non solo in termini strettamente economici. Ci sono ampie fasce della popolazione che mancano di competenze linguistiche e matematiche di base, per non parlare della capacità di comprensione di questioni tecniche, economiche e politiche oggi fondamentali. Queste fasce sono, a maggior ragione, tagliate fuori dai vantaggi della globalizzazione 2 7: non 26 2
Cfr. su questo punto Raplcy (2.022).
Fricdman (2018) propone un'analisi critica del PC, descritto come un'ideologia della globali1.1.azione. t un'analisi che presenta, a mio giudizio, alcune rigidità, ivi inclusa 7
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conoscono l'inglese o altre lingue straniere, non hanno competenze digitali, non hanno fatto l'Erasmus o analoghe esperienze all'estero. Scuola e università continuano a fallire nel fornire loro un ascensore sociale28 • Continuare a fare la morale a queste persone, pretendendo che si convincano dei vantaggi dell'Europa, dell'immigrazione o della globalizzazione (o anche soltanto chiedendo loro un linguaggio politicamente corretto), a me pare effettivamente un po' ipocrita. Dovremmo smettere di farlo. E riflettere piuttosto su come metterli in condizione di partecipare a quei processi, godendo almeno in parte dei loro benefici - o se non altro, contenendone i danni. Per cominciare, dovremmo aprire un dialogo con questi gruppi sociali, basato sulla consapevolezza della parzialità e fallibilità della nostra posizione. La questione è storicamente e politicamente nodale, e mi pare un buon punto di partenza per una pratica di debiasing ideologico.
una valutazione negativa della globaliz1.azione che suona alle mie orecchie troppo veteromarxista. II PC sarebbe a sua volta una sorta di sovra-struttura culturale della globalizzazione economica. Oltre a una valutazione troppo unilaterale (dunque ideologica) della globaliu.azione, trovo discutibile anche questo giudizio sul PC, le cui origini - come ho cercato di dire - hanno motivazioni piuttosto differenti. Nondimeno, credo che Fricdman colga un punto: se la globali1..zazione è una sorgente di problemi per un'ampia fascia della popolazione, questi problemi non affliggono la base sociale del PC. Cosl, il PC finisce per essere, più che l'ideologia della globalizzazione, l'ideologia di persone che vivono a proprio agio in un mondo globali1.zato. 28 Per un'analisi di questo punto corredata da dati, si può vedere Conte~i (2.016).
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