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Italian Pages [129] Year 2023
Quarant’anni di 416-bis c.p. Bilanci e prospettive del delitto di associazione di tipo mafioso
In copertina: Tommaso Ottieri, Matematica Romana 5, 2018, olio su tavola, 160x240 cm. Courtesy Galleria Russo, Roma.
Quarant’anni di 416-bis c.p. Bilanci e prospettive del delitto di associazione di tipo mafioso Atti del Convegno Napoli 14 novembre 2022 a cura di Giuseppe Amarelli
© Copyright 2023 – G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 http://www.giappichelli.it
ISBN/EAN 979-12-211-0149-2 ISBN/EAN 979-12-211-5390-3 (ebook - pdf)
Il presente volume è frutto di una ricerca promossa e finanziata dall’Istituto di Studi Politici “S. Pio V”.
G. Giappichelli Editore
Questo libro è stato stampato su carta certificata, riciclabile al 100%
Finito di stampare nel mese di giugno 2023 Stampa: Stampatre s.r.l. - Torino
Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/ fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org.
INDICE
pag. ELENCO DEGLI AUTORI E DEGLI INTERVENUTI
IX
INTRODUZIONE
di Giuseppe Amarelli
XI
INDIRIZZI DI SALUTO
di Giuseppe Acocella
XVII
di Vittorio Amato
XXI
di Gaetano Manfredi
XXIII
di Dina Cavalli
XXV
RELAZIONI LA PARTECIPAZIONE MAFIOSA: UNA FATTISPECIE DALLA TIPICITÀ ANCORA INCERTA
di Vincenzo Maiello
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LE NUOVE MAFIE E LA CONTROVERSA CONFIGURABILITÀ DEL DELITTO DI ASSOCIAZIONE DI TIPO MAFIOSO EX ART. 416-BIS C.P.
di Pierluigi Di Stefano
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VIII
INDICE
pag. IL CONCORSO ESTERNO TRA MÉNAGE À TROIS E QUARTO INCOMODO
di Costantino Visconti
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LA TIPICITÀ DEBOLE DEL DELITTO DI ASSOCIAZIONE DI TIPO MAFIOSO
di Gian Domenico Caiazza
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LO SCAMBIO ELETTORALE POLITICO-MAFIOSO: UNA FATTISPECIE DA RIPENSARE
di Giuseppe Amarelli
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APPENDICE PROPOSTE DI RIFORMA
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RELAZIONE ILLUSTRATIVA
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ELENCO DEGLI AUTORI E DEGLI INTERVENUTI
GIUSEPPE ACOCELLA, Rettore dell’Università Giustino Fortunato. GIUSEPPE AMARELLI, Ordinario di Diritto penale nell’Università degli Studi di Napoli Federico II. VITTORIO AMATO, Direttore del Dipartimento di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Napoli Federico II. GIAN DOMENICO CAIAZZA, Avvocato Presidente Unione Camere Penali Italiane. DINA CAVALLI, Consigliere dell’Ordine degli Avvocati di Napoli. PIERLUIGI DI STEFANO, Consigliere Corte di Cassazione. VINCENZO MAIELLO, Ordinario di Diritto penale nell’Università degli Studi di Napoli Federico II. GAETANO MANFREDI, Sindaco di Napoli già Rettore dell’Università degli Studi di Napoli Federico II. COSTANTINO VISCONTI, Ordinario di Diritto penale nell’Università degli Studi di Palermo.
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ELENCO DEGLI AUTORI E DEGLI INTERVENUTI
INTRODUZIONE di Giuseppe Amarelli
Buon pomeriggio a tutti i presenti ed un sentito ringraziamento agli illustri relatori per aver accettato l’invito ad essere qui oggi, nella cornice della Aula Spinelli del Dipartimento di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Napoli Federico II che tra due giorni festeggerà i suoi primi cinquant’anni, per provare a stilare un primo bilancio provvisorio sulla legislazione penale sostanziale antimafia a quarant’anni di distanza dalla posa della sua pietra angolare: l’introduzione del delitto di associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416-bis c.p. Prima di dare inizio ai lavori, mi sia consentito esprimere la mia sincera riconoscenza all’Istituto di Studi politici “S. Pio V” ed al Magnifico Rettore dell’Università Giustino Fortunato e già illustre docente di questo Dipartimento, Prof. Giuseppe Acocella, per il fondamentale supporto fornito per l’organizzazione di questo evento. Ci terrei, inoltre, a ricordare che il convegno odierno è stato concepito anche grazie allo stimolo continuo proveniente dall’Ateneo federiciano che, da tempo, è impegnato in prima linea negli studi sul fenomeno mafioso, oltre che con la produzione scientifica di alcuni dei suoi professori di diritto penale come Vincenzo Maiello, oggi presente tra i relatori che ne è la più autorevole espressione, o Pasquale Troncone, che vedo in aula e che lo ha trattato in una prospettiva storica, o ancora i giovani Andrea Alberico e Ilaria Giugni, anche con le iniziative editoriali del nostro Sindaco e già Ministro Gaetano Manfredi che, nelle vesti di Magnifico Rettore di quest’Università ed insieme al collega Prof. Stefano D’Alfonso, ha curato un bellissimo ed originale volume sulla Università e la lotta alle mafie appena tradotto in lingua inglese, nonché con le tante interes-
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GIUSEPPE AMARELLI
santissime attività del L.I.R.M.A.C. (Laboratorio interdisciplinare di ricerca su mafie e corruzione) e del suo validissimo Prof. Luciano Brancaccio e, last but not the least, con l’impegno didattico-formativo del Master di II livello in “Criminologia e politiche di sicurezza urbana” diretto dal Prof. Giacomo Di Gennaro. Ma veniamo ora ai contenuti, provando a delineare per sommi capi le linee generali dell’incontro odierno, nel tentativo di illustrare ai tanti presenti le ragioni che lo hanno generato e gli obiettivi che si intendono perseguire. Com’è noto, il 13 settembre 1982, sull’onda emotiva dei tragici attentati di La Torre e Dalla Chiesa, veniva varata la legge n. 646, c.d. RognoniLa Torre, con cui, tra le altre cose, si introduceva nell’ordinamento giuridico il delitto di associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416-bis c.p. In un contesto sociale e politico drammatico, veniva così edificata la ‘testata d’angolo’ della legislazione penale antimafia, andando a colmare una lacuna derivata del sistema che non consentiva sempre ed efficacemente di punire gruppi criminali peculiari come quelli siciliani dell’epoca tramite la fattispecie associativa comune di cui all’art. 416 c.p. Con uno straordinario sforzo di traduzione in linguaggio giuridico di un concetto socio-criminologico sovradeterminato, il legislatore di quel delicato frangente storico non solo ha creato due ipotesi delittuose di differente gravità, proporzionatamente calibrate sulle ben diverse figure degli apicali e dei meri partecipi, ma ha anche fornito al diritto penale una innovativa ed ancora attualissima definizione generale di associazione di tipo mafioso, descrivendone nel comma 3 della nuova figura criminosa i suoi elementi identitari: l’intimidazione, l’assoggettamento e l’omertà. Inoltre, con altrettanto ammirevole lungimiranza, ha introdotto sin da subito nel corpo della medesima norma incriminatrice una disposizione di chiusura che, guardando al futuro, ha reso immediatamente applicabile la fattispecie costruita sul modello criminologico della mafia siciliana anche alle altre realtà associative diverse da questa, ma ugualmente caratterizzate nelle loro dinamiche comportamentali dal metodo mafioso di cui al menzionato comma 3 dell’art. 416-bis c.p. Nel giro di quattro decenni, questa fattispecie ha, dunque, assunto un ruolo centrale nel sistema degli strumenti di contrasto al crimine organizzato mafioso anche se, al contempo, proprio in ragione della sua lati-
Introduzione
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tudine applicativa diretta o indiretta tramite il combinato disposto dell’art. 110 c.p. che l’ha resa applicabile anche al concorso esterno, ha dato vita a numerosi ed accesi contrasti giurisprudenziali che, sovente, sono sfociati in pronunce delle Sezioni unite. Nessun intervento legislativo ha, però, riguardato i suoi elementi identitari o le condotte tipiche e, dunque, i suoi aspetti più controversi. Il legislatore, infatti, quando è intervenuto per rimaneggiare l’art. 416-bis c.p., si è limitato a rivedere (in più occasioni) verso l’alto i limiti edittali di pena, fino ad arrivare a quelli elevatissimi attuali, nonché ad integrare talune parti definitorie come, ad esempio, quella delle finalità del sodalizio mafioso, inserendo il riferimento anche al “fine di impedire, ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti”. Gli interventi più rilevanti hanno, invece, riguardato le aggravanti, portando alla introduzione delle speciali figure circostanziali mafiose oggi rifluite nell’art. 416-bis.1 c.p., e la contiguità mafiosa, conducendo alla creazione di nuove fattispecie incriminatrici volte ad offrire una tutela rafforzata rispetto ad alcuni suoi sotto-tipi più gravi, come, ad esempio, lo scambio elettorale politico-mafioso inserito nell’art. 416-ter c.p. con l’art. 11-ter, d.l. 8 giugno 1992, n. 306. Oggi, in occasione del quarantennale di quella fondamentale scelta politico-criminale e delle successive riforme integrative o estensive del suo raggio d’azione, occorre riflettere con i più autorevoli esponenti del ‘mestiere delle leggi’ che se ne occupano attivamente – il Consigliere della Corte di Cassazione Pierluigi Di Stefano, conosciuto ed apprezzato estensore della sentenza c.d. mafia capitale del 2020, il Presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane Gian Domenico Caiazza, da tempo impegnato nella battaglia per un ripensamento del diritto penale in chiave liberale anche in settori sensibili e simbolici come quello antimafia, ed i Proff. Vincenzo Maiello e Costantino Visconti, autori di due fondamentali monografie sulla contiguità mafiosa –, sul suo attuale stato di salute, nonché su quello delle altre fattispecie limitrofe, in modo da redigere un bilancio che consenta di evidenziare se e quali siano gli aspetti che meritino di essere eventualmente ripensati con accurati interventi legislativi. Innanzi tutto, si deve ragionare sulla fattispecie della partecipazione associativa di cui all’art. 416-bis, comma 1, c.p., per chiarirne la natura
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GIUSEPPE AMARELLI
giuridica ancora sfuggente (pericolo astratto, danno, o pericolo misto a danno?) e, conseguentemente, il novero dei comportamenti che la possono integrare. In particolare, si deve valutare se le statuizioni contenute nella sentenza Modaffari delle Sezioni unite 2021 sulla rilevanza penale a tale titolo della ‘affiliazione rituale’ siano condivisibili e, soprattutto, se rispettino la struttura ‘mista’ di questo delitto associativo, nonché i principi di offensività e proporzionalità della pena; oppure se non sia opportuno introdurre una fattispecie incriminatrice autonoma che persegua tale fenomeno con cornici edittali differenti e ridotte rispetto a quelle contemplate per la partecipazione associativa dall’art. 416-bis, comma 1, c.p. Si deve, dunque, attentamente verificare se sia ragionevole o meno l’attuale assimilazione quoad poenam del mero ingresso rituale in un sodalizio mafioso, ancorché caratterizzato dalla stabile e seria messa a disposizione futura, con la ben più disvalorata condotta di effettiva militanza associativa dinamica e continuata. In secondo luogo, deve essere vagliata l’adeguatezza della definizione dei tratti identitari dei sodalizi mafiosi, i.e. il metodo mafioso, di cui all’art. 416-bis, comma 3, c.p., rispetto alle nuove dinamiche comportamentali delle vecchie mafie, sempre meno violente e sempre più invisibili, nonché a quelle prima sconosciute delle c.d. mafie nuove, vale a dire le mafie straniere, delocalizzate ed autoctone. È, invero, controverso se sia necessario un suo adeguamento tramite l’innesto di una nuova disposizione normativa che equipari il c.d. metodo corruttivo, oggi sempre più frequentemente impiegato anche dalla criminalità mafiosa, con il metodo mafioso; oppure se l’attuale conformazione sia adeguata, ben potendo applicarsi a quelle organizzazioni che operino con la forza di intimidazione realizzando anche reati corruttivi. Ancora, si deve riflettere sulla figura ancillare dell’art. 416-bis c.p., il concorso esterno, alla luce delle oramai non poche fattispecie di parte speciale che tipizzano espressamente come reati di mera condotta attività di fiancheggiamento mafioso (come gli artt. 416-ter, 375, comma 3, e 391-bis c.p.), per capire se e come questo controverso istituto di creazione giurisprudenziale, incentrato su una peculiare applicazione alla fattispecie dell’art. 110 c.p., abbia ancora significativi spazi d’azione e, soprattutto, se sia indispensabile o meno un intervento legislativo esplicito vol-
Introduzione
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to a tipizzarlo in una fattispecie incriminatrice autonoma. È, invero, da tempo dibattuta l’opportunità di una scelta di criminalizzazione espressa su tale versante: da un lato, infatti, appare utile per sottrarlo al ‘dominio’ esclusivo della giurisprudenza; dall’altro, però, è temuto perché rischia di alterare gli equilibri che oggi, dopo quattro pronunce delle Sezioni unite, si sono andati faticosamente creando sul punto. Deve essere, infine, rivalutata l’attuale formulazione del delitto di scambio elettorale politico-mafioso, frutto di una improvvida riforma del 2019 che ne ha trasfigurato i connotati, introducendo al suo interno non pochi elementi manifestamente irragionevoli, sia sul fronte dei fatti punibili, che sul piano del trattamento sanzionatorio. Pare, infatti, che tanto la modalità realizzativa alternativa della mera ‘messa a disposizione’, quanto i tetti di pena e l’aggravante della c.d. elezione del candidato siano difficilmente compatibili con i principi costituzionali che governano la materia penale. L’impressione complessiva che si trae è che, pur essendo ancora oggi indiscutibilmente cruciale il ruolo assolto dall’art. 416-bis c.p. all’interno delle politiche antimafia, sia giunto il momento di registrarne la disciplina, rimuovendo talune criticità che l’evoluzione del diritto vivente ha lasciato emergere ed evitando improprie assimilazioni quoad poenam tra forme di intraneità mafiosa attiva ed altri fenomeni meno gravi, come la pura affiliazione e la mera contiguità. Ma ho già parlato troppo. Ora non voglio sottrarre altro tempo ai nostri ospiti e passo immediatamente la parola al Sindaco Prof. Gaetano Manfredi per portare i Suoi saluti ed iniziare i lavori del convegno.
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GIUSEPPE AMARELLI
INDIRIZZO DI SALUTO di Giuseppe Acocella
Esprimo i miei più vivi ringraziamenti al Professore Amarelli per l’interessantissima iniziativa a cui ho aderito sin da subito con entusiasmo. Il suo invito mi ha consentito di ritornare, con non poca emozione, in questo Dipartimento di Scienze Politiche dell’Ateneo federiciano; la mia “Facoltà”, come si chiamava finché ci sono stato, nella quale ho trascorso lunghi e gratificanti anni della mia vita accademica e che ho lasciato solo dopo avere fatto in tempo a partecipare all’elezione del Professore Vittorio Amato a Direttore, che è oggi qui, e del quale è naturale apprezzare i grandi sforzi che sta profondendo per rilanciare la istituzione, che celebrerà il suo primo mezzo secolo di vita tra un paio di giorni con un altro significativo evento scientifico-culturale. Concentriamoci sulla giornata odierna che mi appare occasione veramente significativa, come testimonia la presenza di un così numeroso pubblico. L’Istituto di Studi Politici “San Pio V”, del quale mi onoro di dirigere l’Osservatorio sulla legalità che da un decennio produce i volumi dei Materiali per una cultura della legalità, ha subito deciso di sostenere e supportare tale iniziativa, ringraziando anzi il Professore Amarelli e tutto il gruppo di studiosi della “scuola napoletana” per averla concepita, proposta all’Istituto per il finanziamento e portata avanti con convinzione. D’altronde, l’Istituto da tempo è impegnato a seguire questi temi con la pubblicazione annuale dei Materiali per la legalità che ricordavo. L’iniziativa odierna si inserisce, senza soluzione di continuità, nelle attività di studio ed approfondimento che l’Istituto di Studi Politici e la stessa Università degli Studi di Napoli Federico II organizzano sulle questioni della legalità e delle mafie da anni, iniziative tra le quali mi piace
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GIUSEPPE ACOCELLA
ricordare per tutte quelle intraprese dai colleghi Professori Luciano Brancaccio e Stefano D’Alfonso, con il loro centro L.I.R.M.A.C., dal Prof. Giacomo Di Gennaro e prima di ogni altro dal compianto Amato Lamberti col suo “Osservatorio sulla camorra”, che quarant’anni fa promossi all’interno della Fondazione D. Colasanto che allora presiedevo. Ma altre attività si legano a questa: per esempio ci siamo rammaricati di non aver potuto celebrare – per concomitanti impegni istituzionali del Sindaco – la presentazione del libro dei Proff. D’Alfonso e Gaetano Manfredi su L’università e la lotta contro le mafie, sperando di poter rimediare al più presto, magari in occasione della pubblicazione della traduzione del volume in lingua inglese attesa a breve. Tutto questo serve, dunque, a sottolineare che l’Istituto di Studi Politici è molto impegnato a sostenere e promuovere questo tipo di ricerche, il cui merito non è soltanto quello di aver raccolto oggi, attorno al tavolo di discussione, illustri relatori, ma anche di aver scelto un metodo di ricerca particolarmente apprezzato, in cui non si presentano ex post gli esiti di una indagine già compiuta, ma si fanno dialogare de visu tra loro le voci plurali, e persino dissonanti, di tutti coloro che si interessano della legislazione penale antimafia, riservando poi la pubblicazione degli esiti della ricerca arricchiti anche da confronti come quello che oggi ha luogo. Da sempre, riteniamo che, invece di promuovere ricerche, pubblicarle e poi presentarle solo una volta che siano state completate, sia di grande interesse istituire un confronto preliminare ed in itinere con gli studiosi, con i giovani e con le istituzioni, su tematiche come queste. Non devo, poi, nello specifico, sottolineare quanto il tema che oggi si discute – i quarant’anni del delitto di associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416-bis c.p. – significhi per la definizione del perimetro della legalità. Viviamo una fase storica che sperimenta un versante assai pericoloso: quello del paventato declino dello Stato di diritto, non nei suoi aspetti formali (anzi, sempre esaltati con grande sforzo retorico), ma negli aspetti sostanziali. Siamo, cioè, di fronte ad un tempo in cui addirittura si ardisce di mettere accanto al sostantivo “democrazia” l’aggettivo “illiberale”, mentre – quale che sia il significato che storicamente è stato attribuito alla categoria “liberale”, di certo Stato di diritto e democrazia – per ragioni intrinseche ed irrinunciabili, non può mai essere e nemmeno apparire illiberale. Questo tema riguarda anche il modo con cui lo Stato
Indirizzo di saluto
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fronteggia “l’antistato” e, dunque, anche i mezzi con cui si contrastano le mafie. È appena il caso di ricordare che ci troviamo in un momento in cui troppo spesso la parola “Stato” viene vissuta male, quasi dovesse spuntare una inevitabile impopolarità. Io credo, invece, che “Stato” sia la cifra della dimensione comunitaria di contro a quella singolaristica ed egoistica, una bella parola dunque, perché lo “Stato” è il momento nel quale i poteri privati, le consorterie, sono stati ricondotti sotto un’unica voce, quella del diritto: questo intendo per “Stato”. Rileggo ogni tanto la Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni, un documento straordinario, necessario per comprendere il valore dello Stato di diritto. Per tutte queste ragioni sinteticamente compendiate – e lo dichiaro solennemente al Prof. Amarelli – l’Istituto di Studi Politici si impegna a sostenere con ogni sforzo tutti i passi di questa ricerca, fino al termine del percorso che abbiamo progettato e fino a quando sarà necessario. Mi sia, infine, consentito esprimere un personale ringraziamento al Sindaco Gaetano Manfredi che ha onorato questo momento con la sua non scontata presenza, anche perché ben possiamo immaginare quanto sia stato difficile strapparlo ai suoi tantissimi impegni istituzionali. Il Prof. Manfredi ci testimonia una volta di più quanto sia ancora saldamente radicato nel mondo universitario da cui proviene, e a cui continua attivamente ad appartenere, nonostante le significative e prestigiose parentesi politiche ed istituzionali che lo hanno impegnato in questi anni. Rinnovo i complimenti al Professore Amarelli esortandolo a non fermarsi mai e a portare a compimento questa iniziativa, con il supporto dei validissimi colleghi prima ricordati e degli illustri relatori, ai quali cedo la parola senza sottrar loro altro prezioso tempo.
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GIUSEPPE ACOCELLA
INDIRIZZO DI SALUTO di Vittorio Amato
Buon pomeriggio a tutti e, soprattutto, benvenuti nel Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Napoli Federico II che, come si ricordava poc’anzi, proprio dopodomani festeggerà i suoi primi cinquant’anni di attività: un traguardo importante che viene, tra l’altro, poco prima di quello che ci accingiamo a celebrare a breve, ossia degli ottocento anni di questo Ateneo, il più antico Ateneo pubblico del mondo. Ovviamente anche io mi unisco al coro di ringraziamenti già rivolto al Professore Amarelli e agli illustri ospiti che con le loro attese relazioni, sono certo, contribuiranno alla ottima riuscita di questa giornata. Devo, peraltro, sottolineare che il tema della legalità, nelle sue varie sfaccettature, è coltivato da una pluralità di colleghi del nostro Dipartimento, ne è testimonianza il fatto che, da oramai tanto tempo, portiamo avanti almeno due Master Universitari che hanno ad oggetto, per un verso, i beni confiscati e, per l’altro, tematiche che sono legate alla criminalità organizzata mafiosa e alle tecnologie connesse alla scienza criminologica. E, anzi, condivido con voi una assoluta novità nella nostra offerta formativa: dal prossimo anno accademico, partirà un’ulteriore laurea magistrale, la sesta di questo Dipartimento, concepita congiuntamente con quello di Ingegneria, che avrà come tema non soltanto gli aspetti criminologici, ma anche gli aspetti legati alla cyber security, che sono estremamente importanti ed attuali. Il tema specifico della giornata, come è noto, è bilancio che si vuole provare a stilare a quarant’anni dalla promulgazione, nel settembre del 1982, della c.d. legge Rognoni-La Torre, che ha introdotto il delitto di associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416-bis c.p. all’interno del codi-
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VITTORIO AMATO
ce penale con cui, per la prima volta, il legislatore ha riconosciuto espressamente l’esistenza del fenomeno mafioso e la sua specificità rispetto ad ogni altra forma di manifestazione della criminalità organizzata. Credo che il dibattito di oggi potrà sostanzialmente svilupparsi lungo due direttrici: la prima riguarda l’attualità di questo articolo e l’eventuale necessità di riformularne la fattispecie; la seconda attiene all’evoluzione nel tempo delle mafie e delle loro dinamiche comportamentali. Non essendo un giurista non mi addentro ulteriormente nello specifico delle questioni sul tappeto, ma ascolto con vivo interesse le relazioni dei nostri ospiti. Ringrazio ancora tutti per essere intervenuti così numerosi questo pomeriggio, a testimonianza del fatto che il tema della legislazione penale antimafia riscuote un elevatissimo interesse fra tutti i nostri stakeholders: vedo, infatti, con grande piacere un’aula gremita da molti studenti, operatori della giustizia e colleghi. Non sottraggo, però, altro tempo e restituisco la parola al coordinatore del panel per l’inizio dei lavori del convegno.
INDIRIZZO DI SALUTO di Gaetano Manfredi
Ringrazio tutti gli amici presenti che ho conosciuto nelle loro vesti istituzionali in Ateneo durante il mio mandato di Rettore per avermi invitato. Sono particolarmente felice di portare il mio saluto in questo prestigioso convegno su un argomento che all’apparenza potrebbe definirsi “storicizzato”, ma che è, invece, decisamente attuale come la normativa specifica in materia di contrasto alla criminalità organizzata e la sua storia evolutiva. D’altronde, sono quarant’anni che nel nostro ordinamento giuridico esiste una figura che affronta in modo peculiare una delle questioni più grandi del nostro Paese, ossia la criminalità organizzata, il suo cambiamento e l’impatto che ha avuto e continua ad avere anche sugli aspetti sociali e economici dell’Italia. In precedenza, il Direttore del Dipartimento Vittorio Amato, ha annunciato la nascita di un nuovo percorso di studi sulla cyber security, sui temi dei crimini digitali ed informatici; questo ci dà la misura di come l’evoluzione tecnologica e sociale si rifletta immediatamente sulle nuove forme di criminalità e, sicuramente, anche su quella mafiosa. Si rende necessario, dunque, fornire nuovi strumenti tecnologici agli investigatori e agli operatori di diritto, affinché la criminalità non sia più “un passo avanti” nel loro utilizzo, dal momento che, ad oggi, purtroppo, quest’ultima risulta più veloce nell’apprendere le potenzialità di tali strumenti innovativi, sfruttandoli prima che il processo regolatorio dello Stato possa disciplinare il loro impiego. La straordinaria capacità di adattamento della criminalità organizzata di anticipare e cogliere le innovazioni fa comprendere la necessità di una
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GAETANO MANFREDI
contaminazione tra le competenze giuridiche, tecniche e sociali in cui ben si inserisce un simile percorso di studi. In passato, mi sono interessato proprio di questo aspetto, ossia di come fosse necessario, da un punto di vista formativo, abbracciare un approccio multidisciplinare. La complessità della nostra società e la conseguente complessità della criminalità impongono che l’approccio degli studenti debba essere complesso, che debba esserci sempre di più un dialogo tra le varie scienze, tra i vari professionisti che si formano nei nostri atenei. Si pensi, ad es., al tema della criptovalute, forse ora poco noto ai più, ma che rappresenta una delle modalità più attuali di riciclaggio di danaro, attività notoriamente tipica della criminalità organizzata di tipo mafioso. Ma veniamo al tema più strettamente al centro del convegno: i quarant’anni dell’art. 416-bis c.p. Con l’introduzione di questa disposizione incriminatrice si è compresa la necessità di specifiche competenze e di peculiari mezzi per affrontare le mafie. Forse, l’Italia è stato il primo paese a intraprendere questa strada e, sicuramente, i risultati ci sono stati con una risposta molto più aggressiva dello Stato che è riuscito a controbilanciare l’evoluzione della criminalità. Ovviamente, c’è ancora tanta strada da percorrere, ogni risultato è un punto di partenza e non di arrivo; nondimeno, il fatto che si discuta, che si facciano dei congressi sulla questione, fa capire che siamo sul binario giusto. L’Università degli Studi di Napoli Federico II è sempre stata in prima linea su questi temi, affrontandoli con un approccio innovativo, di frontiera. Ciò fa certamente onore a questo Ateneo, ma è anche un dovere di questa Università, essendo quello federiciano l’Ateneo più grande del Mezzogiorno, il più antico e che, d’altronde, ha la sua sede nella città più grande del Sud Italia. È naturale, quasi obbligatorio, che il nostro Ateneo e i nostri docenti siano in prima linea su questo tema e che contribuiscano con iniziative come quella odierna al dibattito. Questa è un po’ una caratteristica della nostra città, da sempre formata da luci ed ombre, e l’Ateneo e la conoscenza non possono che essere portatori di luce. Grazie.
INDIRIZZO DI SALUTO di Dina Cavalli
Porto i saluti del Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli, Avv. Antonio Tafuri, che si scusa di non essere intervenuto personalmente a causa di pregressi impegni istituzionali concomitanti e improcrastinabili. Ringrazio, a nome del Consiglio tutto, il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, l’Istituto di Studi politici “San Pio V” e il Prof. Giuseppe Amarelli per aver coinvolto l’Ordine e l’Avvocatura intera nell’ambito di questo prestigioso convegno che si pone l’obiettivo di effettuare un bilancio sulle introduzioni della Legge Rognoni-La Torre in tema di lotta alla criminalità organizzata. Com’è stato osservato, nonostante gli anni trascorsi, il tema continua ad essere di grande attualità e dimostra una specifica rilevanza anche in ambito sociale ed economico. Malgrado gli ingenti colpi sferrati alla mafia da parte della Magistratura e dello Stato tutto, la criminalità organizzata dimostra di avere ancora una forza enorme, da un punto di vista politico, economico e sociale, nonché di aver ampliato le sue attività. Ai notevoli profitti derivanti dai settori tradizionali della mafia, come lo spaccio di droga, si sono aggiunti quelli derivanti da investimenti fatti nell’economia legale, creando pertanto una pericolosa infiltrazione e confusione di economie, come ben spiegato nel testo pubblicato dal Professore Amarelli. Sembra, infatti, che sia cambiato il metodo mafioso: non più il solo ricorso alla violenza, ma altresì a relazioni di scambio in cui sono coinvolte fette di economia tradizionale. Su questa tematica bisogna discutere e, certamente, si discuterà in questo convegno.
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DINA CAVALLI
Mi piace concludere con una frase di Giovanni Falcone: “la mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio, e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni”. Il convegno di oggi, che coinvolge protagonisti di eccezione che da sempre dibattono, studiano e combattono questo fenomeno, è certamente il segno che l’attenzione su questo annoso problema non sia affatto sopita. Auguro a tutti buon lavoro.
RELAZIONI
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NOME AUTORE
LA PARTECIPAZIONE MAFIOSA: UNA FATTISPECIE DALLA TIPICITÀ ANCORA INCERTA di Vincenzo Maiello
1. – Giuseppe Amarelli ha, ancora una volta, avuto uno speciale merito nell’aprire uno spazio di riflessione sui quarant’anni di vita della disposizione simbolo del diritto penale della criminalità mafiosa. A noi è stato assegnato il compito di analizzarne la parte deputata a svolgere funzione incriminatrice delle condotte individuali, corrispondente alla figura della partecipazione associativa. Avendo riguardo all’esperienza applicativa formatasi nel significativo arco di tempo trascorso, vien fatto di dire che è tempo di fare bilanci, in particolare per testare lo stato di salute della fattispecie sul banco di prova dei due compiti che ogni figura di reato è chiamata a svolgere; quelli, rispettivamente, di definire il tipo di fatto punito e di stabilizzarne le linee interpretative in vista di assicurare la prevedibilità delle decisioni giudiziarie. Sono funzioni, queste, che occupano gli spazi disegnati dalle parole d’ordine della democrazia penale dei sistemi di civil law: la divisione (orizzontale) dei poteri e la dimensione di Magna Charta dei comparti disciplinari – di diritto sostanziale e processuale – che reggono le sorti della giustizia penale. A dispetto di una vita sufficientemente sedimentata, deve dirsi che il rendiconto non restituisce un saldo del tutto rassicurante perché segnala una condizione di perdurante fragilità denotativa della fattispecie. Se è accaduto, infatti, che di recente sia stato interpellato il vertice della Corte suprema per sapere se il rito di affiliazione praticato da cosche radicate nel contesto di mafie storiche, quale è la ‘ndrangheta, integri
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un’occorrenza tipologica del genus della partecipazione punibile, non può che trarsi conferma della nostra affermazione. La questione devoluta alle sezioni unite (nel procedimento a carico dei germani Modaffari) non era di quelle che rovistano nelle pieghe di aspetti applicativi di dettaglio, ma investiva il core business della figura criminosa, in pratica i gangli vitali e l’economia del suo assetto precettivo. È accaduto, così, che – dopo una lunga stagione nella quale dottrina e giurisprudenza sono state impegnate a discutere delle forme di rilevanza della contiguità mafiosa e dei problemi di configurabilità dell’associazione di stampo mafioso in rapporto a sodalizi autoctoni, ovvero a cellule delocalizzate degli storici aggregati di mafia – sia stato messo al centro lo stesso ubi consistam dell’intraneità mafiosa 1. 2. – Non era mai successo che le sezioni unite fossero state chiamate a delibare un problema interpretativo relativo ai limiti di configurabilità della partecipazione associativa di stampo mafioso 2. Pur se negli anni non erano mancati arresti della cassazione riunita contenenti affermazioni riguardanti quel delitto, nessuno di essi era nato da investiture nomofilattiche ex professo, essendo invece scaturiti da ordinanze di rimessione aventi ad oggetto questioni ermeneutiche sull’ammissibilità e sui caratteri del concorso esterno 3. Anzi, può e deve dirsi che le posizioni espresse dal vertice giurisdizionale sulla partecipazione associativa si sono collocate sugli stessi scalini della costruzione giurisprudenziale di quel controverso istituto, dando, così, origine ad una vicenda di evoluzione parallela dei due dispositivi di incriminazione. 1 I. MERENDA-C. VISCONTI, Metodo mafioso e partecipazione associativa nell’art. 416-bis c.p. tra storia e prassi, in E. MEZZETTI-L. LUPARIA DONATI (a cura di), La legislazione antimafia, Bologna, 2020, 60 ss. 2 Da ultimo, nell’ambito di una letteratura ampissima, G. INSOLERA-T. GUERINI, Diritto penale e criminalità organizzata, Bologna, 2022, 73 ss.; I. MERENDA-C. VISCONTI, op. cit., 60 ss.; S. RIONDATO-D. PROVOLO, Associazioni di tipo mafioso anche straniere, in G. FORNASARI-S. RIONDATO (a cura di), Reati contro l’ordine pubblico, Torino, 2017, 66 ss. 3 Volendo, V. MAIELLO, Il concorso esterno tra indeterminatezza legislativa e tipizzazione giurisprudenziale, Torino, 2019.
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3. – Quando interviene l’ordinanza di rimessione nel procedimento Modaffari, la giurisprudenza di legittimità in tema di partecipazione associativa aveva visto avvicendarsi quattro filoni interpretativi, parte dei quali non hanno mai definitivamente abbandonato il campo, ma hanno continuato a segnare il diritto dei tribunali ogni qual volta le esigenze dello ius litigatoris delle singole regiudicande ne avessero consigliato l’impiego. Il primo tra essi, catalogabile in sequenza diacronica, fa la sua apparizione nei primissimi anni di vigenza della disposizione e individua il partecipe nel soggetto che, col proprio agire, manifesta la volontà di appartenenza all’associazione. Più che un fatto, questo indirizzo di giurisprudenza mette a fuoco un criterio di imputazione. Di recente abbiamo cercato di individuare la ragion pratica di questo orientamento ed abbiamo pensato che dietro la concezione della partecipazione associativa come proiezione soggettiva della volontà di far parte del sodalizio si sia potuta celare l’esigenza di aggravare la risposta sanzionatoria a carico di chi avesse commesso un reato nell’interesse o a vantaggio dell’associazione. In altri termini, più che colpire la nuda relazione con la consorteria, quell’approccio sembra destinato a ri-connotare fatti di reato nel contesto di una ulteriore e più grave dimensione di rilevanza. Era però chiaro come la giurisprudenza più avvertita non avesse potuto consentire che si radicasse nel proprio seno un’impostazione che appiattisce l’incriminazione sulla disapprovazione normativa di mere proiezioni della volontà individuale. Il mutamento di registro giunge a metà degli anni ottanta con la sentenza Arslan, che segna la svolta in favore della ricostruzione in chiave causale della condotta punibile. A rilevare non è più la volontà di far parte dell’associazione, bensì la realizzazione di un contributo “minimo, seppur non insignificante, alla vita dell’associazione”. Si realizza, in qualche modo, un ritorno alla grammatica penalistica dello Stato di diritto, attraverso il ripristino dell’antecedenza dell’oggettività del facere (corrispondente, nel lessico della teoria analitica del reato, alla fattispecie materiale della tipicità) rispetto al coefficiente soggettivo della volontà. Il punto di frattura di questa ricostruzione sta nel fatto che il recupero (delle coordinate) di materialità e offensività del contributo si consuma a dan-
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no delle esigenze di determinatezza e precisione – e, quindi, di riconoscibilità e afferrabilità – del tipo criminoso di fonte legale. In pratica, l’identificazione del contributo minimo, ma non insignificante si consegna, inesorabilmente e senza residui, alla gestione dei compendi probatori. Soprattutto: questa linea ricostruttiva mostra la corda, laddove, schiacciando il fatto su una relazione di tipo causale (ancorché solo debole) non riesce a cogliere quel senso autentico della partecipazione associativa, attingibile solo facendo ricorso ad una logica che mette al centro il concetto di organizzazione e struttura della consorteria. È qui che matura il terzo filone ricostruttivo, inaugurato dalla sentenza Graci (che riprende l’elaborazione di Mutter in tema di partecipazione a banda armata contestata in rapporto ai fatti del terrorismo altoatesino della fine degli anni sessanta), la quale precede significativamente di appena un mese la sentenza delle sezioni unite Demitry che, com’è noto, scritta dal medesimo relatore, imprime il suggello all’ammissibilità del concorso esterno 4. Graci si incarica di trasferire sul piano della interpretazione della fattispecie gli esiti della cultura della organizzazione e della concezione istituzionale dell’associazione mafiosa, intesa quale ordinamento da cui scaturisce un assetto di relazioni umane finalizzato ad un peculiare programma operativo. Si tratta, all’evidenza, di un accostamento che riarticola lo scenario di tipicità della fattispecie edificato su base genericamente causale: mentre quest’ultimo si riconosce in una fattispecie monosoggettiva centrata sul contributo doloso alla vita dell’associazione, il primo promuove una figura criminosa a struttura bilaterale, di cui sono elementi qualificanti l’ingresso nel sodalizio del nuovo membro, la sua adesione alle regole dell’accordo associativo e la correlata accettazione da parte della consorteria. È anche il momento nel quale prende consapevolmente corpo, in giurisprudenza, il passaggio da una concezione culturalista della mafia ad altra come struttura organizzata presente sul territorio – concezione del 4
Sul tema si veda C. VISCONTI-G. INSOLERA, Il concorso esterno nei delitti associativi: la ragione di stato e gli inganni della dommatica, in Foro it., 1995, II, 432; G. FIANDACA, I reati associativi nella recente evoluzione legislativa, in G. MELILLO-A. SPATARO-P. VIGNA, Il coordinamento delle indagini di criminalità organizzata e terrorismo, Milano, 2004, 12.
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resto esplicitata proprio dalla costruzione che impronta il comma 3 dell’art. 416-bis c.p. Mentre la concezione causale tiene nell’ombra l’aspetto dell’organizzazione, additandola quale polo illanguidito della relazione di rilevanza del singolo contributo, il paradigma organizzatorio accolto da Graci colloca nel fuoco della tipicità quel profilo per così dire strutturale della dimensione ordinamentale del sodalizio. Secondo Graci non è partecipe colui il quale si limiti ad entrare in contatto con l’associazione mafiosa, neppure laddove dovesse per ciò stesso trarne benefici. Si tratta di un dato, quest’ultimo, che non interseca la condotta partecipativa, decretandone la conformità al modello legale, esigendo essa una assai più complessa catena di occorrenze, quali: i) l’ingresso del soggetto nell’associazione, ii) la sua accettazione da parte di questa, iii) l’adesione alle regole dell’accordo associativo con assunzione – secondo cadenze non necessariamente formali e liturgiche – dello status di membro, così da divenire titolare del potere di impartire ordini e del correlato obbligo di prestarvi obbedienza, implementando il dovere della soggezione omertosa. Quello di Graci resta un grande esempio d’interpretazione tassativizzante capace di compattare l’incriminazione entro confini semantici sufficientemente controllabili. Non è un caso che, in coincidenza e per effetto dell’accreditamento di questo modello, parte del fascio di condotte non più riconducibili allo spazio della partecipazione associativa perché privo del requisito dell’intraneità, rientra nel governo di altro dispositivo di incriminazione – quello del concorso esterno – retto da una ben diversa griglia di requisiti e condizioni di rilevanza. Certo, l’architettura dello Stato di diritto avrebbe voluto che fosse stato il legislatore, piuttosto che la giurisprudenza, a implementare le domande di copertura penalistica della contiguità associativa, ma questo appartiene al tema affidato a Costantino Visconti. Ad ogni modo, anche la soluzione ermeneutica a sfondo organizzatorio puro non è andata esente da critiche, dal momento che se è indiscutibile che sul piano della legalità la prospettiva ha migliorato l’habitat denotativo del reato – per un verso delineando un tipo più nitido, per l’altro agevolandone l’actio finium regundorum in rapporto al concorso esterno – sul versante offensivo denuncia rischi di permeabilità a ripiegamenti sintomatico/eticizzanti connessi al passaggio da un’ambientazione causale (pur se
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nella chiave retorica di declinazioni metaforiche) alla dimensione relazionale delle teorie dell’organizzazione, dallo sfondo sistemico/sociologico 5. Il rischio paventato è la fondazione della punibilità sul mero impegno ad adoperarsi in favore del gruppo e, quindi, sull’acquisizione di status protocollari e qualifiche solo nominali, non seguiti dall’agire associativo in alcuna delle sue caratteristiche forme. La prassi non ha mancato di confermare queste preoccupazioni. Intanto, diciamo che la ricostruzione in termini organizzatori della partecipazione è servita a convalidare il c.d. teorema Buscetta, ottimizzando il compendio cognitivo del primo maxi processo a “cosa nostra”. Questa performatività contingente non può fare aggio sul limite del congegno ermeneutico, come si sarebbe incaricata di dimostrare la vicenda giudiziaria di Giuseppe Greco – figlio di Michele, il papa della cupola mafiosa –, vale a dire la configurazione del reato nel caso del nudo arruolamento formale. 4. – Per ovviare a queste insufficienze, la sentenza Mannino ha proposto un paradigma organizzatorio misto, il cui merito sta nella ‘messa al bando’ di una ricostruzione della partecipazione in chiave statica e formale in favore di una sua lettura dinamico/funzionale, ove il sintagma “fare parte” diviene clausola di equivalenza semantica del “prendere parte” con conseguente sterilizzazione di ogni possibilità di scivolamento verso forme di responsabilità di autore o di posizione. Benché il rischio di questo rigurgito fosse prospettabile in relazione alle sole associazioni c.d. chiuse – nelle quali l’ingresso ha luogo esclusivamente attraverso i canali liturgici dell’affiliazione rituale – Mannino se ne fa carico e, pur in un quadro di sincretismo discorsivo, finisce per recepire gli auspici della dottrina più sensibile a istanze di garanzia che aveva proposto di inserire, tra i requisiti del modello organizzatorio, gli atti espressivi del ruolo assunto, condotte, cioè, di militanza associativa. Sul piano pratico, questa presa di posizione, che fonde la virtuosità 5
Sia consentito il rinvio a V. MAIELLO, Principio di legalità ed ermeneutica nella definizione (delle figure) della partecipazione associativa di tipo mafiosa e del c.d. concorso esterno, in G. FORNASARI-A. MELCHIONDA-L. PICOTTI-F. VIGANÒ (a cura di), I reati associativi: paradigmi concettuali e materiale probatorio, Padova, 2005, 159 ss.
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tassativizzante dell’organizzatorio puro con l’imprinting materiale dell’indirizzo causale, appare mossa proprio dall’obiettivo politico-criminale di escludere dalla rilevanza penale le mere affiliazioni rituali. 5. – La svolta, nel senso dell’organizzatorio/misto, o temperato, o sincretistico/additivo, promossa da Mannino, ha avuto difficoltà ad incidere sul diritto vivente. Si è trattato, purtroppo, di delusioni correlate alle diffuse pratiche di processualizzazione dei dispositivi penali in materia di criminalità organizzata-mafiosa, in particolare 6. L’impressione è che essa abbia moltiplicato le risorse ermeneutiche a cui la prassi attinge per connotare la variegata mappa delle collusioni mafiose, piuttosto che per sostituire in via definitiva il precedente modello 7. Il dato si presta ad una spiegazione complessa. In una visuale ad ampio raggio, se ne potrebbe prospettare la connessione col pluralismo di paradigmi del fenomeno mafioso circolanti nella cultura giudiziaria; taluni dei quali refrattari a metabolizzare una soluzione interpretativa vicina a deontologie penalistiche di matrice liberale, poiché centrate sul riconoscimento delle funzioni garantistico/selettive del concetto di fattispecie. Si vuole dire che la trasformazione della partecipazione associativa in moduli di tipicità più congeniali ad un paradigma di diritto penale normale potrebbe non aver incontrato il favore di quella parte della magistratura tuttora convinta della necessità di coltivare, in subiecta materia, versioni di lotta dei congegni punitivi. Sotto altro angolo visuale, viene però da domandarsi se questa libertà conformativa della prassi non sia stata in qualche modo agevolata da taluni limiti delle prestazioni discorsivo/motivazionali della Mannino. Ci limitiamo a segnalarne due: i) la stringatezza argomentativa; ii) l’ambiguità semantica e orientativa di taluni tra quelli che vengono definiti “indicatori fattuali”. 6 G. DI VETTA, Tipicità e prova. Un’analisi in tema di partecipazione interna e concorso esterno in associazione di tipo mafioso, in Arch. pen., 1, 2017. 7 Un resoconto in V. MAIELLO, Il concorso esterno in associazione mafiosa, in E. MEZZETTI-L. LUPARIA DONATI, op. cit., 100 ss.
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Riguardo all’una, ci permettiamo di osservare come il traghettamento di un rilevante orientamento interpretativo verso una sua assai differente declinazione avrebbe dovuto reclamare un ben più impegnativo modello di giustificazione costruito sul registro dell’analisi, piuttosto che sulla sintesi assertiva. Siamo portati a ritenere che l’impianto motivazionale – segnato da acribia, consequenzialità argomentativa, accuratezza lessicale – magnificamente messo in campo da Mannino per fondare la caratterizzazione causale del concorso esterno, avrebbe dovuto puntellare anche la chiave di ricostruzione dinamico/funzionale della partecipazione associativa 8. Con sagacia, Mannino aveva compreso che l’inquadramento del patto elettorale politico-mafioso nel contesto di punibilità del concorso esterno si sarebbe dovuto accompagnare a un discorso di particolare chiarezza e linearità, nella consapevolezza delle insidie che circondano la gestione ermeneutica dei dispositivi di punibilità della criminalità mafiosa. Su questo sfondo, ha scelto la via didascalica delle puntualizzazioni insistite e dell’impegno a cimentarsi sul terreno, sempre difficile e infido, delle esemplificazioni di genere tipologico. Pensiamo, tuttavia, che analoghe preoccupazioni di corrività applicativa avrebbero dovuto spingere Mannino a dotare la ratio decidendi in tema di partecipazione associativa di una altrettanto solida base di tensione dialettica, così come di ricchezza e precisione espositivo/argomentativa. Quanto agli indicatori fattuali, non può farsi a meno di sottolinearne il carattere sdrucciolevole e non sempre designante, ove si consideri che fra essi Mannino inserisce “i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di ‘osservazione’ e ‘prova’, l’affiliazione rituale, l’investitura della qualifica di ‘uomo d’onore’, la commissione di delitti scopo, oltre a molteplici, variegati e però significativi ‘facta concludentia’; in pratica, codici semantici – quali ‘l’affiliazione rituale’ e ‘l’investitura della qualifica di ‘uomo d’onore’” – espressivi di una caratterizzazione solo statica del rapporto associativo 9. 8
Per un medesimo ordine di idee, G. FIANDACA-A. MERLO, La partecipazione associativa è ancora in cerca di autore: le sezioni unite tra progresso e regresso, in Foro it., 2021, II, cc. 783 ss.; G. AMARELLI, La tipicità debole della partecipazione mafiosa e l’affiliazione rituale: l’incerta soluzione delle Sezioni Unite tra limiti strutturali del 416-bis c.p. e alternative possibili, in Dir. pen. proc., 2022, 786 ss. 9 F. IACOVIELLO, La Cassazione penale, Milano, 2013, 321; P. MAGGIO, Prova e valuta-
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In generale, osserviamo, poi, che l’ampiezza del catalogo vi fa confluire situazioni e dati cognitivi dal significato criminologico disomogeneo, che, ancora una volta, spiana la strada alla processualizzazione dei requisiti di fattispecie, con consequenziale frammentazione casistica del tipo, ipotecata da una logica di non dispersione della prova 10. Ora, se è vero che Mannino confina la portata di quegli indicatori entro una rilevanza solo indiziaria (in particolare nei predicati della gravità e precisione), sarebbe nondimeno farisaico negare che la loro indiscutibile ambiguità abbia concorso a pregiudicare la capacità di tenuta garantistica della sua ratio decidendi, esponendola a pratiche surrettizie di indebolimento. Ne sono prova le decisioni che, manifestando fedeltà a Mannino e raccogliendone l’invito a considerare il novero degli indicatori come catalogo aperto, hanno ritenuto prova sufficiente del delitto finanche la “partecipazione a matrimoni o funerali” 11. E non è un caso che nell’ordinanza di rimessione alle Sezioni unite si rammenta come, anche in anni a noi vicini, il giudice di legittimità abbia affermato che “ai fini dell’integrazione della condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso, non è necessario che il membro del sodalizio si renda protagonista di specifici atti esecutivi del programma zione giudiziale dei comportamenti mafiosi: i risvolti processuali, in G. FIANDACA-C. VISCONTI (a cura di), Scenari di mafia. Orizzonte criminologico e innovazioni normative, Torino, 2010, 493 ss. 10 In questo ambito si colloca A. APOLLONIO, La partecipazione all’associazione mafiosa nell’impostazione (problematica) delle Sezioni Unite, in www.giustiziainsieme.it, per il quale la tipicità partecipativa va calibrata in funzione del panorama criminologico di riferimento, poiché la sua declinazione rigida problematizza il contrasto giudiziario al fenomeno mafioso che tuttora stringe e soffoca intere aree del paese, per il tramite dell’arcaico ma sempre sinistro metodo dell’assoggettamento intimidativo. Per un antagonistico ordine di idee, L. FORNARI, op. loc. cit.; C. VISCONTI, I giudici di legittimità ancora alle prese con la “mafia silente” al Nord: dicono di pensarla allo stesso modo, ma non è così, in www.penalecontemporaneo.it, 5 ottobre 2015; G. AMARELLI-C. VISCONTI, ‘Mafia capitale’: per la Cassazione non si tratta di vera mafia, in Cass. pen., 2020, 3644 ss.; C. VISCONTI, “Non basta la parola mafia”: la Cassazione scolpisce il “fatto” da provare per una applicazione ragionevole dell’art. 416-bis c.p. alle associazioni criminali autoctone, in www.sistemapenale.it, 24 marzo 2020; G. AMARELLI, Mafie delocalizzate all’estero: la difficile individuazione della natura mafiosa tra fatto e diritto, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2019, 105 ss. 11 Cass. pen., Sez. VI, 6 dicembre 2011, n. 5909.
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criminoso ovvero di altre condotte idonee a rafforzarne la struttura operativa, essendo sufficiente che lo stesso assuma o gli venga riconosciuto il ruolo di componente del gruppo criminale”. Si testimonia, così, il ritorno al totem del paradigma puramente organizzatorio, quello della responsabilità da incardinamento statico nella struttura associativa per mera adesione alle regole di funzionamento del singolo gruppo; in pratica, l’illiceità penale dell’affiliazione inoperativa. 6. – La debolezza analitico/espressiva di Mannino è stata intuita dalla sentenza Pesce 12, giustamente definita “la presa di posizione più matura sul tema della partecipazione associativa” 13. Mannino aveva espresso un concetto dirompente ma non lo aveva, purtroppo, incasellato in un contesto di argomentazione ampia, nel quale avrebbe potuto illustrare più largamente le ragioni del superamento della concezione statica e dell’adesione a questo diverso modello. E quindi lo ha fatto in poche righe, rese ambigue da ciò che si trova tra parentesi nel discorso, quando le Sezioni unite fanno riferimento alle massime di esperienza. Ecco, tra queste Mannino inserisce anche il rituale di affiliazione, e, addirittura, il periodo di osservazione e di prova – che ahimè dovrebbe essere qualche cosa che sta fuori dalla partecipazione vera e propria, in quanto attività prodromica all’ingresso nell’associazione. Ecco, Pesce è molto chiara nel sottolineare queste potenzialità di generare malintesi della sentenza Mannino al punto da esplicitarne sul piano concettuale il senso. Per certi versi, la sentenza Pesce si è fatta carico di un compito che sarebbe stato proprio della dottrina. Questa ha lavorato molto nel tentativo di razionalizzare la giurisprudenza, tenendo in qualche modo un poco in ombra un compito a cui non può rinunciare, quello di analizzare dal punto di vista della struttura dogmatica il concetto di reato che viene in evidenza. In fondo, noi ci siamo accontentati di far conquistare spazi alle garanzie individuali agendo sul piano della razionalizzazione degli esiti probatori e abbiamo interloquito con la giurisprudenza assumendo come oggetto esclusivo quello che la giurisprudenza aveva selezionato. 12 13
Cass. pen., Sez. I, 17 giugno 2016, n. 55359. I. MERENDA-C. VISCONTI, op. cit., 65.
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E cosa aveva scelto – e ahimè con l’ultima sentenza Modaffari ribadito? Essa ha deciso di confrontarsi su questi temi rinunciando alla categoria della tipicità e risolvendo tutti i problemi sul terreno della prova. Questo è il punto. I meriti della sentenza Pesce vanno nella seguente, duplice direzione: i) un’assai opportuna opera di rifondazione – dommatica, sistematica e politico-criminale – dell’indirizzo organizzatorio/misto; ii) una, altrettanto utile, distinzione tra il piano della tipicità e quello della prova, specificando che le esemplificazioni casistiche contenute nella motivazione di Mannino non sono altro che meri “fatti utili alla argomentazione”, dunque, elementi indiziari e non frammenti della fattispecie. Sul piano dommatico, grazie ad una matura consapevolezza del metodo analitico utilizzato, Pesce ha il merito di mettere a nudo l’autentica intelaiatura di tipicità della nozione di partecipazione conforme alla flessione mista del suo archetipo organizzatorio, rimarcandone con chiarezza la struttura bifasica 14. All’impressionismo della messa a fuoco manniniana del concetto dinamico/funzionale della condotta – nella specifica connotazione di “prendere parte” alla vita dell’associazione – il nuovo arresto affianca una descrizione rigorosamente analitica del tipo, scomponendone la struttura nelle due rispettive scansioni dell’accordo d’ingresso e della sua successiva attuazione attraverso il compimento di atti espressivi dell’acquisito status di intraneità 15. Secondo Pesce, a sostegno della tesi esposta milita, in primo luogo, l’argomento sistematico del raffronto con la fattispecie dell’arruolamento di cui all’art. 270-quater c.p.: vien fatto osservare che una partecipazione appiattita sull’accordo di ingresso non seguito da alcuna forma di attivazione corrisponde ad un’ipotesi di arruolamento, vale a dire una vicenda che il legislatore ha espressamente incriminato quando ha inteso punire (ubi lex voluit, dixit). Un’ulteriore, e ancor più decisiva, convalida dell’esigenza di includere nel fatto tipico le modalità in action della qualità di membro dell’associazione, assunta attraverso il relativo ingresso, viene, poi, fatta derivare dai 14
Per questa ricostruzione di Mannino, cfr. G. FIANDACA-A. MERLO, op. cit., c. 788. V. MAIELLO, L’affiliazione rituale alle mafie storiche al vaglio delle Sezioni Unite, in www.sistemapenale.it, fasc. 5, 2021, 11 ss. 15
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canoni dell’interpretazione conforme – in chiave costituzionale e di diritto sovranazionale. Nell’ottica dell’una, la prospettiva si aggancerebbe alle implicazioni ermeneutiche dei principi di materialità e offensività; nell’angolo visuale dell’altra, sarebbe correlata al canone di proporzionalità della pena 16 e ai riflessi che, sul piano dell’interpretazione della normativa interna, si connettono alla nozione di partecipazione attiva punibile recepita in ambito UE dalla Decisione quadro n. 2008/841 del Consiglio, nell’ottica dell’armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri contro la criminalità organizzata. Di qui, la conclusione che questa complessa strumentazione ermeneutica porta “a ritenere doverosa la connotazione della condotta partecipativa in senso dinamico (partecipazione attiva), evitando scorciatoie dimostrative correlate alla avvenuta dimostrazione del ‘nudo’ accordo di ingresso o di condizioni soggettive cui non si accompagni – in virtù della valenza di precisi dati istruttori – un preciso connotato di effettiva agevolazione”. Volendo operare una sintesi concettuale – particolarmente auspicabile in una materia densa di intrecci di complessità – assai apprezzabile risulta l’accantonamento della nozione di messa a disposizione, su cui si è giocata gran parte della tradizionale ambiguità degli orientamenti interpretativi in materia, avendo essa costituito il cavallo di Troia delle operazioni di processualizzazione del tipo, di cui la fattispecie in esame rappresenta un tradizionale terreno di sperimentazione a causa della matrice socio/criminologica del suo contesto denotativo 17. Interpretata quale “messa a disposizione delle proprie energie – non seguita da alcun indicatore di attivazione”, rilevante poiché “determinerebbe l’accrescimento delle mere potenzialità operative del gruppo criminoso”, essa viene considerata da Pesce incompatibile con l’idea di inserimento dinamico, epicentro della ratio decidendi di Mannino. 16
Su tale principio, nella manualistica, v. F. PALAZZO, Corso di diritto penale, Torino, 2021, 28 ss., nonché, da ultimo, F. VIGANÒ, La proporzionalità della pena, Torino, 2021. 17 G. FIANDACA, Il diritto penale giurisprudenziale tra orientamenti e disorientamenti, Napoli, 2008; F. PALAZZO, Legalità penale, interpretazione ed etica del giudice, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2020, 542 ss.
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7. – Di qui, i consequenziali asserti: i) dell’inidoneità probatoria della semplice affiliazione rituale, in quanto indicativa dell’ingresso nel gruppo, ma non anche della successiva operatività nel ruolo; ii) della concludenza, al contrario, dell’attribuzione sia della qualità di uomo d’onore, sia di una specifica dote, entrambe implicando un attivo vissuto associativo. In fondo, come già accennato, l’ingresso formale nell’associazione non seguito dal compimento di atti di militanza associativa è una forma di arruolamento. Ma se noi riteniamo, sul piano di una dogmatica che pratica la scomposizione analitica della fattispecie, che la partecipazione associativa ha struttura bifasica costituita dall’ingresso e dallo svolgimento dell’attività, perché dovremmo negare la configurabilità del tentativo di partecipazione nei casi nei quali le informazioni probatorie asseverano solo il primo dei due elementi? Si conseguirebbero due importanti risultati: per un verso, non si rinuncerebbe al presidio della tutela penale in rapporto ad un fatto che, quando realizzato con seria consapevolezza, corrisponde ad un effettivo impegno di cooperazione con la consorteria per l’attuazione del suo programma; per l’altro verso, si modulerebbe la risposta secondo un principio di proporzionalità. Avevamo affacciato questa proposta nel commento all’ordinanza Modaffari, costato come la sentenza non l’abbia neppure considerata, avendo scelto di impostare il tema della condotta punibile sul piano della prova. Per fortuna, la dottrina ha raccolto questo elemento di sollecitazione, sostenendo come la mancata punizione del tentativo di partecipazione dovrebbe indurre il legislatore a introdurre anche nella materia del contrasto alla mafia una fattispecie che punisca il semplice arruolamento, sulla falsariga di quanto già sperimentato nella disciplina del terrorismo. 8. – Sottoponendo la sentenza Modaffari ad una lettura analitica, ne emerge una portata chiaroscurale. Sicuramente corretta è l’impostazione di partenza, in base alla quale il supremo collegio definisce i temi da esplorare, fissandoli: i) nell’individuazione del minimum della condotta di partecipazione; ii) nel valore da assegnare ai relativi indici sintomatici, tra cui il rito iniziatico dell’affiliazione rituale.
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Si tratta di un imprinting conforme al modello di motivazione imposto dal principio di stretta legalità, di cui è immediata implicazione l’antecedenza della ricostruzione del fatto tipico rispetto ai problemi della sua prova. È un punto che la sentenza rimarca in maniera esplicita. A questo impegno, tuttavia, non ha fatto seguito un discorso capace di raccoglierne con coerenza la proiezione analitico/argomentativa. L’impressione è che le sezioni unite, incalzate dall’apprezzabile esigenza di fornire al diritto vivente un protocollo di orientamento il più accurato possibile, ne siano restate prigioniere, scaricando sull’esclusivo versante degli indici probatori la risposta al quesito nomofilattico, a detrimento delle doverose istanze di ricostruzione strutturale della fattispecie criminosa espressiva del tipo legale. Il soverchio spazio riservato alla dimensione probatoria viene giustificato col rilievo della scarsa capacità denotativo/normativa della condotta di partecipazione. Si sostiene che, a differenza delle ipotesi di partecipazione qualificata (promozione e organizzazione dell’associazione), essa sarebbe condannata a prendere forma per osmosi coi singoli compendi probatori e i casi ivi raccontati. Al nichilismo di questa prospettiva, viene d’istinto opporre l’esperienza esemplare di Pesce, che – abiurando scorciatoie probatorio/concettuali e sciatte semplificazioni – testimonia come, anche sul malfermo terreno del delitto associativo di mafia, si possano aprire spazi per dare vita a relazioni virtuose tra tipicità e prova, in un senso, cioè, che ribadisca il carattere vincolante della deontologia penalistica di matrice costituzionale e la sua capacità di governo di quei crinali di tutela scivolosi sul piano politico-criminale 18. Siamo fermamente persuasi che, innanzi ad enunciati normativi aperti alle ingordigie conformatrici delle regiudicande empirico/fattuali, la risposta non possa portare alla liquidazione del concetto di fattispecie, con consequenziale sofferenza dei diritti fondamentali (fuori e dentro il processo, tra tutti: uguaglianza ed effettività della difesa) e dell’architettura costituzionale (la separazione tra legislativo e giudiziario). Sulla premessa 18
Sempre utile, G. FIANDACA, Il concorso “esterno” tra sociologia e diritto penale, in G. FIANDACA-C. VISCONTI (a cura di), op. cit., 204.
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che lo spirito del tempo rende irrealistica una quaestio legitimitatis per indeterminatezza linguistico/espressiva del dispositivo normativo, pensiamo, piuttosto, che possa essere perseguita la prospettiva del riempimento precettivo affidato ad una ermeneutica della selettività 19. Le considerazioni svolte consentono di penetrare nel cuore della ratio decidendi di Modaffari, di cui non può farsi a meno di sottolineare l’alternanza di luci ed ombre. Al promettente incipit della ribadita condivisione della soluzione ermeneutica di Mannino, centrata sul carattere attivo della partecipazione punibile, seguono affermazioni che lasciano francamente perplessi per la loro permeabilità ad alimentare fraintendimenti e oscurità semantiche dall’impatto divisivo. Da un canto, viene in più punti sottolineata l’irrinunciabilità della connotazione fattuale e dinamico/operativo dello stabile incardinamento della struttura organizzativa, con abiura di ogni ipotesi di assorbimento della fattispecie entro forme statiche o puramente volontaristiche di relazioni associative. Coerente con questa impostazione è l’insistita sottolineatura della crucialità ermeneutica dei principi di materialità, offensività e proporzione, dei quali è coerente estrinsecazione l’affermata essenzialità di un contributo effettivo, concreto e riconoscibile alla vita del sodalizio, pur se non attuativo del relativo programma, in piena sintonia col modello organizzatorio/misto o temperato o, ancora, sincretistico/additivo. Dall’altro, desta perplessità la precisazione secondo cui il contributo “ben potrà concretizzarsi in un momento successivo (allorquando l’affiliato dovrà concretamente dare corso alla messa a disposizione) rispetto al formale ingresso nell’associazione”. Dalle pieghe di tale asserto, parrebbe emergere il carattere solo eventuale dei facta successivi all’inserimento nel sodalizio. Il vero è che le Sezioni unite hanno inoculato nella trama del discorso un autentico buco nero – il concetto di messa a disposizione – che, come nelle dinamiche dell’universo, determina l’effetto di attrarre la fattispecie fuori dalla galassia della materialità, offensività e proporzionalità. Nella storia giurisprudenziale dei reati associativi, quella nozione è 19
Nella prospettiva di V. MANES, Dalla “fattispecie” al “precedente”: appunti di deontologia “ermeneutica”, in Dir. pen. cont., 17 gennaio 2018, 6.
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apparsa eccentrica al diritto penale delle garanzie, avendo agito quale passe-partout per l’accreditamento di una sorta di diritto libero del ‘caso per caso’, sia al fine di dare rilievo a forme collusive dalla vaga connotazione socio/ambientale e sintomatica/personologica, sia per ottimizzare gli assetti probatori di natura dichiarativa provenienti, per lo più, dai collaboratori di giustizia. Una convinta adesione a Mannino e al modello organizzatorio/misto da essa accolto – e, perciò, alla struttura bifasica sagomata con chiarezza da Pesce – avrebbe dovuto ostracizzare quel dispositivo concettuale, per la sua inadeguatezza stipulativa nel descrivere fatti, ma utile a cogliere essenze, significati cioè ideali di realtà immateriali. L’identità della partecipazione mafiosa declinata sul registro organizzatorio sincretistico/additivo è quella di una fattispecie a tutto tondo, riflessa in una ben delineata struttura di tipicità che reclama, dunque, di essere raccontata con gli strumenti dell’analisi, non, invece, della sintesi valutativa ipotecata da precomprensioni di varia natura. In questo contesto, non vi è, allora, alcuna ragione per riutilizzare la messa a disposizione: da un lato, perché non integra un requisito di fattispecie – quest’ultima componendosi di un accordo d’ingresso e atti di militanza associativa; dall’altro, perché eccentrica sul piano della ricostruzione dogmatica. A tutto voler concedere, essa potrebbe valere come perifrasi dell’effetto prodotto dalla compenetrazione organica tra agente e sodalizio, che coincide col perfezionamento della duplice, richiamata sequenza di tipicità: entrando nel gruppo (primo momento) e compiendo attività propriamente associative (seconda fase), il singolo diviene partecipe a disposizione della consorteria per l’attuazione del programma operativo. In questo specifico ambito, messa a disposizione è definizione che intercetta il senso ultimo dell’incriminazione e corrisponde al modo con cui viene inteso nella sfera parallela dei laici. Dunque, una modalità semantica adatta all’esportazione presso il grande pubblico, ma inidonea a rapportarsi alla tipicità della partecipazione, poiché ne offusca la complessità strutturale. Il suo ingresso nel messaggio nomofilattico confezionato dalle Sezioni unite finisce, quindi, per pregiudicarne la limpidezza comunicativa, necessaria a consentirgli di adempiere la sua specifica funzione orientativo/stabilizzatrice.
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È chiaro, invece, che ove la partecipazione associativa venga in rilievo non già quale fattispecie (nel significato proprio di species facti), bensì in una chiave funzionale prevalentemente probatoria – come purtroppo sembra fare Modaffari – quel concetto si vede rilegittimato nella propria congruenza stipulativa. In questo diverso contesto ricostruttivo, infatti, esso bene si presta: i) a funzionare da abbreviazione di senso e sintesi concettuale di un quid che solo in via di metafora potrebbe etichettarsi fattispecie e; ii) a costituire trait d’union coi compendi probatori. Non a caso, in Modaffari, il ritorno di fiamma della messa a disposizione avviene in parallelo con l’enfatizzazione delle massime d’esperienza, entrambe condizionandosi reciprocamente: la messa a disposizione esige come nesso di inferenza proprio un genere di sapere che non fotografa fatti ma rinvia a significati. 9. – È su queste pietre d’angolo che le Sezioni unite scolpiscono sia la tipicità della condotta di partecipazione, sia la rilevanza dell’affiliazione rituale. La prima consiste nello stabile inserimento dell’agente nella struttura organizzativa del sodalizio, purché “idoneo, per le caratteristiche assunte nel caso concreto, a dare luogo alla ‘messa a disposizione’ del sodalizio stesso, per il perseguimento dei fini comuni”. La seconda “può costituire indizio grave della condotta di partecipazione al sodalizio, ove risulti – sulla base di consolidate e comprovate massime di esperienza – alla luce degli elementi di contesto che ne comprovino la serietà ed effettività, l’espressione non di una mera manifestazione di volontà, bensì di un patto reciprocamente vincolante e produttivo di un’offerta di contribuzione permanente tra affiliato ed associazione”. Appare difficile contestare che entrambe le affermazioni rappresentino deviazioni, anche piuttosto marcate, sia dalla dichiarata adesione a Mannino e al suo paradigma organizzatorio/misto, sia dalla anch’essa enunciata necessità di tenere distinto il piano della tipicità da quella della prova. A ben vedere, l’allontanamento dall’organizzatorio/integrato non si consuma in un contesto che segna il ritorno dell’organizzatorio puro – nei profili puntuali disegnati da Graci e, poi, recepiti da Demitry – da cui Modaffari esplicitamente dichiara di prendere le distanze.
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Mentre quest’ultimo paradigma, invero, pone al centro della tipicità un patto qualificato con significative caratterizzazioni modali – l’assunzione di uno specifico ruolo associativo, l’adesione alle regole di funzionamento, il riconoscimento da parte degli altri sodali dello status di membro, il potere di impartire ordini, l’obbligo dell’obbedienza gerarchica e di omertà – il modello recepito da Modaffari si limita a indicarne l’oggetto nell’“offerta di contribuzione permanente” non ulteriormente caratterizzata, se non nei predicati della serietà ed effettività pattizio/negoziale affidati alla capacità asseverativa delle massime di esperienza. Il rischio, allora, è quello del ripiegamento verso una declinazione molto debole dell’organizzatorio puro, che prefigura scenari di ancora maggiore flessibilità nelle pratiche di uso strumentale del delitto, soprattutto in danno della fattispecie limitrofa del concorso esterno e di quello del reato continuato aggravato dalla finalità agevolativa mafiosa. Si pensi ai casi del pubblico ufficiale messo ‘a libro paga’ dell’associazione dietro promessa di una permanente strumentalizzazione delle proprie funzioni a vantaggio della medesima e del politico che, in cambio del costante appoggio elettorale a sé e/o ai candidati del proprio movimento, si impegni a realizzare gli scopi associativi. Qui, contro la configurabilità del delitto associativo, non potrebbe opporsi la specialità delle fattispecie di cui agli artt. 319 e 416-ter c.p., e, di conseguenza, si aprirebbero spazi per qualificazioni penalistiche multiple (con seri problemi di congruenza col principio di proporzione), avuto riguardo alla nota propensione della giurisprudenza a subordinare il concorso apparente di norme al solo criterio di specialità inteso in chiave rigorosamente strutturale 20. A fronte di una tipicità indebolita sul piano semantico e affievolita su quello dell’offesa, si contrappone un ruolo preponderante assegnato alle dinamiche probatorie. Tale conclusione è avallata dal riferimento alle massime di esperienza, intese quali generalizzazioni empiriche tratte dalla casistica delle vicende 20
In argomento, A. VALLINI, Concorso di norme e di reati, in G.A. DE FRANCESCO (a cura di), Le forme di manifestazione del reato, Torino, 2011, 259 ss.; più di recente, N. MADÌA, Ne bis in idem europeo e giustizia penale. Analisi sui riflessi sostanziali in materia di convergenze normative e cumuli punitivi nel contesto di uno sguardo d’insieme, Padova, 2020, 211 ss.
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di funzionamento delle associazioni mafiose, che – lungi dall’esaurire il compito ricostruttivo del giudice – accentua la complessità delle incombenze probatorie, trattandosi di un ragionamento che delinea mere ipotesi esplicative esposte alla falsificazione di spiegazioni alternative. Del resto, la virata verso la prospettiva probatoria della soluzione al quesito nomofilattico sembra essere confessata dalle stesse sezioni unite, allorché – nella formulazione del principio di diritto – convertono apertis verbis un limpido problema di configurabilità del reato in una questione processuale/cautelare di gravità indiziaria (!). L’esito dell’inopinata scelta ha il sapore del paradosso, poiché, nel mentre vengono indicate le condizioni di rilevanza dell’affiliazione rituale come possibile oggetto di una contestazione cautelare, nulla è detto in relazione al se quel fatto possa – sul piano della rilevanza generale e astratta – valere come occorrenza del delitto in esame e, in caso positivo, sulla base di quali informazioni probatorie. In altri termini, sconcerta che lo sbilanciamento del discorso sulla dimensione probatoria ha finito per lasciare senza risposta il quesito posto dall’ordinanza di rimessione: se, cioè, l’affiliazione rituale non seguita da fatti sia inquadrabile nella cornice di punibilità della partecipazione associativa. Del resto, gli stessi indicatori cui fanno riferimento le Sezioni unite sono connotati da estrema genericità e, perciò, non riescono a definire una piattaforma cognitiva che possa dirsi utile anche nella prospettiva – meno performante per le esigenze di garanzia del diritto penale di civil law – della mera prevedibilità di matrice convenzionale: “la ‘qualità’ dell’adesione ed il tipo di percorso che l’ha preceduta, la dimostrata affidabilità criminale dell’affiliando, la ‘serietà’ del contesto ambientale in cui la decisione è maturata, il rispetto delle formule rituali anche con riferimento ai ‘poteri’ di chi le sceglie, di chi presenta e di chi officia il rito dei nuovi adepti, la tipologia del reciproco impegno preso, la misura della disponibilità pretesa e/o offerta”, come si legge in Modaffari, costituiscono tutte circostanze fattuali a basso gradiente probatorio. Eppure, se al fondo di questa ampiezza di manovra ermeneutica sta l’esigenza di modulare l’applicabilità di un titolo criminoso di estremo rigore sanzionatorio alla varietà delle rappresentazioni probatorie di fatti, sarebbe stato conveniente (razionale secondo lo scopo) – oltre che rispet-
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toso dei principi (razionale secondo i valori) – impostare l’indagine in termini di stretto diritto penale. Quello che Modaffari vorrebbe che non andasse (sempre) esente da un quadro di rilevanza penale (di certo sul piano cautelare, non si sa se su quello del giudizio definitivo), vale a dire l’affiliazione rituale indicativa di una seria ed effettiva messa a disposizione, avrebbe potuto essere attratto nell’ambito di una più sicura qualificazione penalistica, nella forma del tentativo di partecipazione associativa 21. Invero, una volta dichiarata l’adesione a Mannino – e, come evidenziato, alla sua proiezione evoluta rappresentata da Pesce – si sarebbe trattato di un approdo conforme a criteri ortodossi di ricostruzione dommatica, ma anche di una soluzione feconda e plausibile sul piano politico-criminale, che, nell’arricchire l’offerta edittale, avrebbe consentito al sistema di calibrare l’intervento repressivo ai diversi stadi dell’aggressione offensiva. 10. – Dispiace dirlo ma la sentenza Modaffari davvero ha fatto riportare indietro l’orologio del progresso interpretativo su questo terreno. È una sentenza nella quale si fanno affermazioni che poi si contraddicono; è, per esempio, la sentenza nella quale si sostiene che va ribadito l’impianto discorsivo e la ratio decidendi di Mannino, salvo poi a dire che è la messa a disposizione a rilevare nella ricostruzione della fattispecie. Ecco perché poi, nel fornire risposta al quesito di diritto, si scrive che la mera affiliazione rituale rispetto alla quale non si dispone di elementi per collaudarne la serietà, di per sé non costituisce partecipazione associativa; specificando che, ove altrove si possa ricavare la serietà dell’affiliazione rituale, questa sarebbe un’occorrenza del tipo criminoso della partecipazione associativa, si contraddice Mannino tornando in pratica alla Graci. Saranno, pertanto, ancora i concreti assetti probatori delle inchieste e dei processi di mafia a definire la tipicità della fattispecie legale, sia sullo schermo dell’imputazione, sia nella proiezione della ratio decidendi. A risultare sovvertito è il regime delle righe su cui dovrebbe svilupparsi il dialogo tra diritto penale (riflesso nel tipo legale criminoso) e processo (nella sua declinazione probatoria): alla funzione del primo di perimetrare l’oggetto del secondo, si sostituisce la pretesa della prova di 21
Per questo auspicio, V. MAIELLO, op. ult. cit., 16 ss.
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strutturare ex post la materia del divieto 22. Frana, così, l’edificio penalistico della Modernità che ha costruito la sua struttura proprio sulla pietra angolare della tipicità, ideata per confinare il potere di accusa e il giudizio entro la frontiera ultima delle scelte di tutela formalizzate dalle disposizioni incriminatrici. Questa (amara) prospettiva – oltre a incidere sui piani alti delle garanzie – ha implicazioni a livello più concreto, ma non meno rilevante, degli spazi di sindacabilità dei verdetti di condanna nella sede del giudizio di legittimità. L’indebolimento strutturale del tipo normativo e il correlato irrobustimento del ruolo della prova, segnatamente del ragionamento inferenziale fondato sulle massime di esperienza, recano con sé l’indubbio restringimento dell’area dei vizi deducibili in cassazione. Il rischio è che, in assenza di un rigoroso accertamento sulla credibilità logico-razionale dell’utilizzazione nel caso concreto del criterio empirico di volta in volta selezionato, il rigore eziologico della teoria della condizione conforme a leggi ceda il passo a inferenze dominate da precomprensioni socio-criminologiche, cui si dà veste di massime di esperienza 23 insindacabili in sede di legittimità. A farne le spese è, in particolare, il parametro della violazione della legge penale, ma anche quelli inerenti alle patologie della motivazione, considerata la refrattarietà della giurisprudenza del supremo collegio a scrutinare il fondamento e la portata delle massime di esperienza, con implicita limitazione del sindacato ai casi nei quali vengano utilizzate mere congetture 24. Senza considerare che il processo di stabilizzazione giurisprudenziale, strumentale alla garanzia della legalità convenzionale, potrebbe subire battute d’arresto a causa dei “disorientamenti” giurisprudenziali che permeano il rapporto invertito tra ‘tipicità’ e ‘prova’, in relazione all’influen22
Come sembra sostenere A. APOLLONIO, op. cit. G. AMARELLI, La contiguità politico-mafiosa. Profili politico-criminali, dommatici ed applicativi, Roma, 2017, 245; G. DI VETTA, Tipicità e prova, cit., 19 ss. 24 Cass. pen., Sez. I, 22 aprile 2021, n. 31831, secondo cui possono essere sindacate “le semplici congetture, cioè fondate su mere possibilità, non verificate in base all’id quod plerumque accidit e insuscettibili, quindi, di verifica empirica”. 23
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za del dato fattuale e probatorio sull’interpretazione della fattispecie stessa: evidente è il rischio di pregiudizio per il parametro di legittimità convenzionale della accessibilità/prevedibilità degli esiti giudiziari, che potrebbe generare censure da parte della Corte di Strasburgo per la violazione dell’art. 7 CEDU. Viene da dire che Modaffari più che risolvere incertezze, le abbia dismisurate. Chi ha confidato che la prima rimessione di una quaestio iuris in tema di partecipazione mafiosa fosse anche l’ultima dovrà con ogni probabilità ricredersi.
LE NUOVE MAFIE E LA CONTROVERSA CONFIGURABILITÀ DEL DELITTO DI ASSOCIAZIONE DI TIPO MAFIOSO EX ART. 416-BIS C.P. di Pierluigi Di Stefano
1. Le nuove mafie Nel discutere della associazione mafiosa a quarant’anni dalla sua introduzione il tema che mi è stato assegnato è quello delle cosiddette “nuove mafie”. Sostanzialmente, a parte il comprendere quali siano tali organizzazioni, il tema è la adeguatezza della disposizione a disciplinare tali diverse formazioni garantendo il rispetto dei principi essenziali di tipicità e offensività. Ovvero, l’incriminazione di fatti diversi da quelli cui mirava l’originaria previsione dell’art. 416-bis c.p. può fare rischiare l’eccessiva dilatazione della norma, rendendone vaga la tipicità, con quanto ne consegue. O, all’opposto, una lettura troppo restrittiva e legata all’archetipo “mafia” classica può lasciare fuori dal fuoco della disposizione fatti sostanzialmente corrispondenti al modello tipico. L’intervallo di tempo che va dal 1982 è un periodo enorme in cui moltissimo è cambiato sia quanto al “fenomeno criminale” che quanto a consistenza e diffusione sul territorio delle organizzazioni criminali. Così come è cambiata la normativa sostanziale e processuale in tema di mafie anche con la creazione di strutture (Procure, organi di Polizia) dedicate alla attività “antimafia”. Quella che, invece, è rimasta del tutto ferma è la definizione codicistica della associazione mafiosa. E, nel mio intervento, affronterò, nei limiti di un intervento orale e cercando di semplificare, la capacità della disposi-
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zione di adattarsi, nel rispetto delle regole di tipicità e offensività, anche a diverse realtà di criminalità organizzata comparabili al “modello mafioso”. “Nuove mafie” è termine alquanto ampio che, in realtà, significa semplicemente quando e come si possano configurare organizzazioni autenticamente mafiose che non siano espressione e/o prosecuzione di quelle da sempre presenti in date aree del Sud Italia, e che quindi debbano essere oggetto di una più accurata ricostruzione probatoria. Per tali organizzazioni, infatti, gli inquirenti non possono beneficiare dell’indubbia scorciatoia probatoria che hanno quando sono in questione le “vecchie” mafie la cui caratterizzazione mafiosa è di immediata percezione per notorietà del fenomeno in quei luoghi. Non che ci siano particolari difficoltà sul piano testuale perché dalla chiara lettura dell’art. 416-bis c.p. si comprende subito che il reato di associazione mafiosa è chiaramente (stato) pensato come un modello generale utile per gestire analoghe metodiche di criminalità organizzata: non solo le cugine della mafia, ma un modello aperto 1. Difatti si parla di “tipo mafioso”, espressione che già allarga il campo e, soprattutto, l’ultimo comma dell’articolo individua non solo camorra e ‘ndrangheta’ ma allarga il campo di applicazione a qualsiasi associazione che abbia caratteristiche simili, dovunque operante. L’aggiunta finale, nel 2008, della (mera) precisazione che può trattarsi anche di organizzazioni “straniere”, risolve ogni dubbio. 1
Recuperando i lavori preparatori, è interessante leggere come la scelta della espressione “associazioni di tipo mafioso” ebbe proprio la ragione di individuare la tipologia di associazione e non semplicemente qualificare la mafia tipica, all’epoca individuata in quella operante in Sicilia e in Calabria. Si legge, in particolare, che tale espressione rendeva addirittura ridondante l’ultimo comma dell’articolo che espressamente estendeva l’incriminazione a qualsiasi analoga associazione criminale: “c’è da aggiungere che nel disegno di legge si parlava esplicitamente di norme per la prevenzione del fenomeno mafioso. Successivamente abbiamo individuato una formulazione diversa, cioè quella di ‘associazione di tipo mafioso’ al fine di poter colpire fenomeni non limitati ad una determinata parte del territorio nazionale. Di conseguenza, avendo accettato questa nuova formulazione dell’articolo, potrebbe anche risultare superflua la disposizione di cui all’ultimo comma. Resta comunque valido quanto detto in precedenza […] non credo sia inutile specificare meglio che tali disposizioni si applicano anche ad associazioni criminose analoghe, come la camorra”. All’epoca non essendo ancora nata o, comunque, diffusa, non si citava la “sacra corona unita” e il territorio pugliese.
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Del resto, nessun dubbio vi era sin dall’inizio della vita della disposizione perché già nel 1984 la cassazione interveniva in un processo relativo alla cosiddetta mafia dei casinò operante nel Nord Italia che, pur a fronte di collegamenti con mafiosi doc, vedeva comunque partecipare soggetti diversi, operatori nel settore, appunto, dei casinò. In tale occasione si affermò che: “La definizione del delitto di associazione di tipo mafioso è dato con riferimento alla mafia per la precisa identità sociologica e giuridica che questo sodalizio ha assunto. Ciò non implica che l’associazione debba avere necessariamente origine mafiosa o debba essere ispirata o collegata alla mafia, perché l’espressione di ‘tipo mafioso’ significa soltanto di modello o di stampo mafioso” 2. Di lì a poco la sentenza Teardo del 1989 3 dava una lettura ancora più ampia della disposizione, ipotizzando una mafia quasi da colletti bianchi, perché ipotizzava la configurabilità del reato di associazione mafiosa con riferimento ad un tipo di intimidazione non riferibile a condotte violente bensì alla concreta possibilità che avevano Teardo, quale presidente della Regione Liguria, e i suoi associati di utilizzare il metodo della concussione sistematica per indurre all’assoggettamento e omertà operatori economici, mettendo a rischio la loro libertà nell’esercizio delle attività economiche professionali. Dico “quasi” da colletti bianchi perché non mancavano presunti contatti con mafiosi doc che, però, non rappresentavano il dato qualificante della vicenda. Con quest’ultimo caso già si affermavano punti importanti: – una mafia può essere “piccola”; – la mafia deve essere caratterizzata da un “territorio” che, però, non va inteso in senso strettamente fisico, ma può essere più correttamente un “ambito” di soggetti appartenenti a date categorie; 2
Cass. 12 giugno 1984, n. 713. Anche Cass. 8 novembre 1984, n. 2466, affermava che “la connotazione mafiosa o camorristica di una associazione per delinquere inerisce al modo di esplicarsi dell’attività criminosa, e non già al luogo di origine del fenomeno criminale, sicché è irrilevante che, sia pure a fini strategici, la stessa possa avere dei collegamenti con quelle che potrebbero definirsi ‘case madri’, quali la mafia, la camorra o la ‘ndrangheta’”. 3 Cass. 10 giugno 1989, n. 11204.
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– il timore indotto con la condotta intimidatoria non è solo riferibile alla incolumità fisica, ma anche all’indebita compressione di diritti diversi, lì dove ne conseguano condizioni di assoggettamento e omertà. Quel che quindi può dirsi è che i recenti temi di discussione sulle “nuove” mafie o sulla “metamorfosi” di quelle “vecchie”, in realtà, non fanno che riprendere questioni già poste, e sostanzialmente risolte sul piano giuridico, nei primissimi tempi di applicazione della norma. Al di là di indubbie difficoltà di stretta definizione delle condotte rilevanti (e, quindi, della faticosa ricostruzione di una tipicità conforme ai nostri principi giuridici), ripeto, l’art. 416-bis c.p. ha certamente dimostrato una attitudine a disciplinare ad ampio raggio il fenomeno criminale della associazione di tipo mafioso, adeguandosi anche alle possibili diverse forme rispetto a quelle più tradizionali della mafia originaria. Del resto, è mia impressione, le situazioni di apparente difficoltà applicativa non sono derivate dalle problematiche “giuridiche” in sé, ma dalla scelta di fare rientrare nella fattispecie determinate vicende concrete anche a fronte della eccessiva vaghezza della “mafiosità” nel caso concreto 4. Per comprendere quali siano tali problematiche riferite alla configurabilità e, soprattutto, alla acquisizione della prova che dati gruppi criminali siano mafiosi, devono considerarsi le peculiarità del reato di associazione mafiosa, che certamente rendono non di facile e immediata replicabilità il reato al di fuori di quelle che sono le sue espressioni più tradizionali nei vari gruppi criminali operanti nelle regioni del Sud. Nonostante qualche tentativo di interpretazioni più larghe, il testo dell’articolo 416-bis, comma 3, c.p., che definisce l’associazione mafiosa, ha una lettura univoca nel richiedere che la caratteristica essenziale, e quindi la caratteristica del fenomeno mafioso, sia la condizione diffusa, per dirla semplicemente, di “paura” che incute il gruppo criminale 4 Si veda P. GAETA, Nuove mafie: evoluzione di modelli e principio di legalità, in Cass. pen., 2018, 2718 ss., che espone in modo chiaro e convincente che il tema delle nuove mafie attiene non alla questione della tipicità della fattispecie in oggetto, ma essenzialmente ad un maggiore rigore nell’apprezzamento dell’offensività in concreto, con la notazione che quanto è “più incerto è il perimetro descrittivo della fattispecie, più rigorosa e concreta dovrà essere la rilevanza dell’offensività”.
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nei confronti di una intera comunità e non solo dei diretti destinatari della loro prevaricazione. E di tale lettura univoca vi è sostanziale certezza nelle affermazioni della giurisprudenza più recente soprattutto delle Sezioni Unite nella decisione in tema di affiliazione rituale, ma anche nella sentenza “mafia capitale” (che così continua ad essere chiamata pur se di mafia, alla fine, nulla è emerso) “Fasciani” ed altre 5, che hanno definitivamente risolto talune, a mio parere, sbandate interpretative. Quindi: nel rispetto dei principi di tipicità ed offensività, sulla scorta di una interpretazione assolutamente testuale, l’associazione mafiosa dell’art. 416-bis c.p. è quella, e solo quella, i cui adepti si avvalgono della forza di intimidazione per conseguire una effettiva condizione di assoggettamento e di omertà diffusa nel contesto sociale in cui operano per perseguire diversi obiettivi, che vanno dalla ordinaria commissione di delitti alla gestione e controllo di attività economiche e appalti pubblici ed altri; quindi, come si fa notare, non necessariamente obiettivi di immediato carattere delittuoso 6. Questa, del resto, era la nozione “sociologica” e percepita della mafia che il legislatore del 1982 ritenne meritare (finalmente) un reato ad hoc, pur non limitandolo al suo archetipo, ma individuando una fattispecie generale, replicabile in altri contesti ricorrendo quelle date condizioni. E tale resta, attualmente, la condotta incriminata, salvo “volgarizzare” il “marchio” mafia e usarlo quale definizione generale di una qualsiasi associazione criminale, violenta o meno che siano i suoi metodi, o anche solo per descrivere estesi fenomeni criminali che abbiano una qualche regia. La necessità che si realizzi questa conseguenza della condotta, la condizione di succubanza diffusa dei consociati, che rappresenta, a ben vedere, l’in sé del fenomeno criminale, comporta che la mafiosità di una organizzazione è una caratterizzazione ben più complessa rispetto a quanto basta a definire una associazione per delinquere semplice, e, so5
Cass., Sez. un., 27 maggio 2021, n. 36958, Modaffari; Cass. 12 giugno 2020, n. 18125; Cass. 29 novembre 2019, n. 10255; Cass. 13 giugno 2018, n. 44156. 6 Questione, credo, alquanto teorica; invero nella mia esperienza casistica di trenta anni non ho memoria di contestazioni di associazioni mafiose per le quali non fosse noto un programma di commissione di delitti fine.
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prattutto, non può improvvisarsi perché non basta la mera volontà degli adepti: – secondo il modello normativo, che, ripeto, al netto della volgarizzazione del marchio descrive quello che era e che è tuttora percepito per “mafia”, per creare una associazione autenticamente mafiosa, non basta che vi sia un accordo tra i partecipanti per commettere reati, pur se con una struttura organizzativa o anche che tali reati vengano commessi, insomma non è sufficiente la potenzialità e la volontà delle parti; – il gruppo mafioso è tale quando ha ottenuto un risultato di conoscenza della sua esistenza e dell’essere temibile nel contesto nel quale opera. Come dire, non basta che vi sia una nuova iniziativa imprenditoriale ma si deve trattare di una impresa già presente sul mercato dotata di un proprio “avviamento”. A dirla semplicemente (del resto il precetto penale deve essere semplice perché deve essere chiaro a tutti): i consociati devono sapere che il gruppo mafioso esiste, devono averne paura e ritenere improponibile una seria difesa pubblica o privata (“clima di omertà diffusa”). La mafia è “pervasiva”, la sua presenza condiziona la ordinaria vita dei consociati del suo territorio. Del resto, è proprio questa notorietà criminale quella che consente alle associazioni mafiose di operare nel modo per loro più tipico, senza necessità di immediata violenza e, anzi, più fortemente sono insediate nel territorio meno è necessario che abbiano atteggiamenti concreti nell’esercizio delle loro attività più tipiche. Gli bastano allusioni, avvertimenti, etc. Chiaro, allora, che il tema essenziale non è “se” possano configurarsi delle nuove mafie, ma “quando” le stesse vengono ad esistenza: non sono in questione i temi strettamente giuridici di consumazione e perfezione di un (qualsiasi) reato permanente, ma rilevano soprattutto i temi probatori che, del resto, anche con una rapida lettura dei precedenti giurisprudenziali, si nota essere spesso confusi con quelli di principio. E, se si confondono i due piani, si creano apparenti regole generali che in realtà tali non sono. Ne è dimostrazione qualche tentativo, certamente ben argomentato
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ma poco convincente, di risolvere la difficoltà di prova con il rendere la norma, che già usa clausole generali (omertà, assoggettamento) tanto da potersi definire di “tipicità debole”, in una norma del tutto “vaga”: si è difatti sostenuto che, poiché la disposizione dell’ultimo comma dell’art. 416-bis c.p. nell’affermare che “il tipo mafioso” può estendersi a qualsiasi associazione con simili metodi richiama espressamente la sola condotta di “intimidazione”, abbia inteso creare due modelli: l’uno per la mafia classica, e classicamente insediata, e poi le altre mafie per le quali basterebbe l’atteggiamento intimidatorio e il perseguimento degli scopi 7. Sostanzialmente una associazione per delinquere con una rigida omertà interna e una vocazione, non ancora realizzata e, quindi, mera intenzione, di “assoggettare” 8. Si tratta di una interpretazione la cui vera ragione appare spesso la ricerca di scorciatoie probatorie, quando non si possa fruire della condizione in re ipsa della mafia classica 9. Si è però detto come la giurisprudenza, in particolare quella “incontrovertibile” delle Sezioni Unite, ha abbandonato tali tentativi, confermando che la condizione di assoggettamento e di omertà si debba effettivamente realizzare perché un gruppo mafioso sia tale e, soprattutto, si 7
Cass. 4 marzo 2017, n. 24851. In qualche modo si è equivocato anche sul concetto di “reato di pericolo”: l’associazione mafiosa può essere ritenuta un reato di pericolo perché per la sua sola esistenza – con la effettiva condizione di assoggettamento e omertà – è in pericolo la sicurezza e l’incolumità pubblica. Si è però anche tentato di affermare che il pericolo possa consistere nella attitudine dell’atteggiamento intimidatorio a realizzare in futuro la condizione di assoggettamento, ovvero trattarsi di un pericolo presunto (pericolo di creare una futura condizione di pericolo). Si tratta, però, di una chiara forzatura dovuta al tentativo di individuare quali mafiose quelle organizzazioni criminali che si sono date una struttura adeguata e che hanno manifestato una determinata vocazione ma che non sono ancora riuscite a “piazzarsi sul mercato”. 9 La portata della affermazione generale finirebbe per consentire di ritenere mafiose innumerevoli formazioni, anche le “baby gang”. Invero, la lettura dei casi concreti ci fa comprendere che non è tanto in questione voler trasformare in mafia ciò che non lo è quanto superare le difficoltà di prova per organizzazioni che hanno una probabile natura mafiosa. La lettura dei casi concreti, sul punto, appare illuminante e dimostra quello che mi sembra, e non solo in questa materia, l’errore di cartolarizzare il caso concreto e trasformarlo in un apparente principio. 8
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deve dimostrare con particolare attenzione proprio quando pensiamo di essere in presenza di una nuova mafia. Insomma, tutto facile sulla carta ma la mafia, poi, se tale è, bisogna provarla (o, comunque, non cercarla dove non c’è). Nulla impedisce di replicare il modello altrove, la norma non distingue tra grande e piccola mafia, come lo stesso codice non distingue tra grande e piccola estorsione, o la corruzione per quantità. Semmai, è materia di aggravanti e attenuanti. Ma, anche nelle vicende “minori” che si vuole qualificare mafiose, non si può rinunciare a quel mattone essenziale della costruzione normativa che è il carattere diffuso della intimidazione autenticamente mafiosa. La questione è sostanzialmente riferibile innanzitutto ai territori in cui non vi è la triste condizione di presenza pervasiva e percepita della criminalità mafiosa, qualsiasi essa sia. Difatti, nelle ampie parti del territorio nazionale in cui questa presenza vi è, la prova che il gruppo criminale abbia fatto uso della forza di intimidazione e la comunità locale sia succube è, quasi sempre, fondata su notorietà e richiamo di precedenti decisioni relative alla associazione in sé e/o a quelle collegate e/o anche solo alla generica presenza di attività mafiosa in zona. Una situazione tipica, riscontrata nella realtà, è quella dell’imprenditore che, vinto un appalto nella data zona, si informa di chi siano i soggetti con i quali “debba mettersi a posto” in modo da spuntare un qualche sconto: lui sa che la mafia c’è ma non quale sia, l’importante, per la sua tranquillità, è assecondarla. Quindi in simili territori, come a dire larghe parti del Sud del Paese, anche la nuova banda criminale che, se del caso, subentra ad un’altra (difficile che in tali territori vi sia un vero “vuoto” criminale), può avvalersi dello stesso avviamento di quest’ultima: sono i luoghi dove, come si legge nel dibattito parlamentare del 1982, il mafioso ottiene quel che vuole con un sorriso. Se, invece, passiamo ad ipotizzare la esistenza di “nuove” mafie in diversi territori rispetto a quelli di tradizionale presenza o di diverso tipo rispetto ai gruppi noti, ci troviamo di fronte ad un serio problema probatorio (se di mafia si tratta realmente): – non vi sono più le scorciatoie probatorie della notoria preesistenza sul territorio e, quindi, anche a fronte di condotte di intimidazione (cer-
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tamente più facili da dimostrare) non necessariamente la reazione della comunità interessata è nei termini di una supina accettazione della imposizione del potere criminale – che, si ripete, non deve riguardare le vittime di singole condotte (ad es. le estorsioni commesse “a tappeto”) ma deve riguardare la generalità dei soggetti. Questi (o, almeno, una parte significativa) deve sapere della presenza incombente della associazione criminale e ritenere ineluttabile adeguarsi ai suoi desiderata. Quindi si devono individuare, e dimostrare, le condotte che hanno indotto il gruppo sociale di riferimento a subire la imposizione reagendo con un atteggiamento omertoso, ovvero, più banalmente, ad avere paura della associazione in quanto tale. Poiché è ben difficile ottenere una prova diretta di tale “paura” per un apprezzabile campione della comunità interessata, si afferma che dovrebbero individuarsi le condotte idonee a manifestare la fama criminale. Molto probabilmente dovranno essere condotte violente o di paventata violenza; e, ovviamente, dovranno essere riferibili al gruppo criminale in quanto tale, non essendo sufficiente affermare che vi sia una particolare caratura di qualche suo singolo componente. Insomma “occorre che il sodalizio ‘dimostri’ di possedere detta forza e di essersene avvalso”. Al riguardo, vale un semplice ragionamento contro fattuale: anche nel caso di arresto di uno o più singoli componenti, deve permanere la pericolosità del gruppo 10. Quanto al grado di intimidazione/paura rilevante, anche senza necessità che si manifestino episodi di danni alle persone, deve dimostrarsi che vi siano condizioni di sostanziale prospettazione, diretta o meno, che il gruppo possa causare danni rilevanti e che tra i consociati sia comune la convinzione che la collaborazione con l’autorità giudiziaria non impedirà ritorsioni dannose per la persona del denunciante, in considerazione della ramificazione dell’organizzazione, della sua efficienza, della sussistenza di altri soggetti non identificabili forniti del potere di danneggiare chi ha osato contrapporsi. Quando tale risultato sarà stato raggiunto, la associazione potrà qualificarsi “mafiosa” proprio per essere in grado di perseguire le finalità nei 10
Cass. 9 luglio 2019, n. 9001; Cass. 13 giugno 2017, n. 41772.
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suoi settori di interesse ottenendo obbedienza con meri avvertimenti, allusioni, etc. Una volta stabilito quale sia la “tipicità” della associazione mafiosa e che proprio il legislatore ha voluto fare riferimento a un modello replicabile, si comprende che il tema della attuale estensione fuori degli ambiti della mafia tradizionale non riguarda i principi, che restano quelli già chiariti negli anni ’80 in aderenza al dato testuale. Il tema, si ripete ancora, è essenzialmente di adeguatezza della prova rispetto alle categorie generali che descrivono la fattispecie 11. Vediamo quali sono le effettive “nuove mafie” che abbiamo sperimentato in Italia (dal punto di vista della giurisprudenza). Di vicende del passato non ne mancano e le alterne vicende giudiziarie si sono correttamente incentrate sulla effettività della fama criminale diffusa delle associazioni in questione e, quindi, sulla esistenza di una condizione di assoggettamento generalizzato, si pensi ai diversi esiti delle note bande della Magliana, mala del Brenta, banda dei giostrai 12. Gli esiti sono stati altalenanti proprio perché si è trattato di associazioni criminali sviluppate fuori del contesto territoriale della mafia endemica, operanti con rigide regole interne ma con un incerto effetto sul pubblico degli “onesti”, sia per quanto riguarda la effettiva, o meno, capacità di una pressione percepita dal pubblico e non solo dalle vittime specifiche, che per quanto riguarda il ruolo, assolutizzante o meno rispetto al gruppo, dei loro capi. Varie le categorie descritte in giurisprudenza (ma anche mediaticamente) sulla scorta della analisi delle vicende concrete: mafie straniere, autoctone, delocalizzate, dei colletti bianchi, etc.
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La “tipicità debole” della norma deriva proprio dal carattere generale delle nozioni di assoggettamento, omertà esterna e dalla stessa intimidazione. 12 Mala del Brenta: Gruppo criminale veneto, operante tra anni ’80 e ’90, passato dalle rapine ad una vera e propria attività mafiosa, con a capo Felice Maniero, poi collaboratore di giustizia. Banda dei giostrai: si fa riferimento ad una associazione dedita nel Nord Italia, negli anni ’70 e ’80, ai sequestri di persona a scopo di estorsione.
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2. Mafie straniere La casistica ci restituisce numerosi casi di individuazione di gruppi di criminalità organizzata di tipo mafiosa formati da stranieri residenti in Italia o comunque italiani legati a gruppi etnico/linguistici di recente immigrazione. Il fenomeno, probabilmente neanche immaginato nel 1982 quando l’immigrazione era, in Italia, del tutto marginale, è stato però ben affrontato dall’art. 416-bis c.p. la cui formulazione ha consentito l’adeguamento ad una più particolare peculiarità di molte di tali bande criminali. Invero, nel 2008 l’art. 416-bis c.p. è stato espressamente modificato con la previsione espressa di applicabilità alle organizzazioni criminali “anche straniere”. Ma, come la giurisprudenza ha ampiamente chiarito, la disposizione era già pacificamente applicabile anche alle organizzazioni straniere e, quindi, l’adeguamento del testo non ha avuto alcun effetto innovativo. La questione, del resto, non si è posta perché vi fossero reali dubbi interpretativi ma perché, ovviamente, le difese nei processi per fatti ante 2008 si erano giocate la carta della successione di leggi e inapplicabilità per il passato. Quindi, la norma va applicata anche ad organizzazioni preesistenti alla “precisazione” legislativa. Considerando le vicende note, la peculiarità, da valutare ai fini della realizzazione del “tipo” normativo, è che i gruppi criminali stranieri spesso non operano in un contesto generale che incida sulla popolazione residente nelle aree in cui operano: ovvero, nella maggioranza dei casi noti, mancano della territorialità in senso geografico che ricolleghiamo alle mafie tradizionali quale elemento distintivo del reato. Queste associazioni solitamente operano nel più ristretto ambito del proprio gruppo etnico di appartenenza. È quanto si è registrato, in particolare, con gruppi nigeriani, cinesi e, come si rileva soprattutto nella giurisprudenza di merito, anche ucraini, moldavi, rumeni, etc. 13-14. 13
Cass. 1 marzo 1996, n. 4864, affermava in termini astratti (escludendo che ricorressero le condizioni nel caso di specie) “La astratta possibilità che tra i gruppi così distintamente operanti se ne realizzi uno, del tipo ex art. 416-bis c.p., che, avvalendosi delle condizioni di cui al secondo comma della norma predetta, si proponga di acquisire in modo diretto o indiretto la ge-
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In questi casi, si è sostenuto come il concetto di soggetti in condizione di assoggettamento possa essere agevolmente riportato non più a un gruppo geograficamente stabilito ma una comunità definita in base ad altri criteri che è quello della nazionalità di provenienza e/o lingua. Questi gruppi, nella esperienza giudiziaria, solitamente operano in tale diverso ambito con attività mirate quali traffico di esseri umani, gioco d’azzardo, gestione del mercato della droga, in condizioni di “pervasività” e controllo della vita delle date comunità. Riprendendo quanto già detto, qui la norma è apparsa abbastanza elastica pur senza perdere le caratteristiche di tipicità. Difatti, la questione è quella della “piccolezza” sia della comunità infestata dal gruppo criminale stione o, comunque, il controllo di attività economiche particolari, non deve essere escluso con riferimento a sodalizi operanti non con riferimento a un determinato ambito locale e con lo scopo di imporre il controllo indiscriminatamente nei confronti di tutti coloro che esercitano quella determinata attività economica su quel territorio, ma con riferimento, invece, a raggruppamenti sociali, in ambito aggregato di soggetti uniti da regole unitarie di comportamenti variamente obbliganti e con lo scopo di assoggettare alla propria egemonia, rispetto ad una determinata attività economica, soltanto coloro che la detta attività riservano prevalentemente al raggruppamento sociale di appartenenza. Sicché la ipotesi configurata dall’accusa – di un gruppo organizzato allo scopo di imporre, nell’ambito della comunità islamica milanese, con i metodi di cui al secondo comma dell’art. 416-bis c.p., il controllo egemonico su tutti gli esercenti attività di macelleria con vendita di carne proveniente da animali macellati secondo i riti islamico ed ebraico – non si pone in insanabile contrasto con la fattispecie delineata dall’art. 416-bis c.p., ma, per la concreta attuazione, deve trovare anche gli elementi caratterizzanti e distintivi dell’associazione di tipo mafioso rispetto a quella per delinquere, costituiti dalla utilizzazione della forma di coartazione psicologica derivante dal vincolo associativo e dalle condizioni di assoggettamento ed omertà, le quali ultime, tra loro cumulate, debbono essere frutto e conseguenza della forza intimidatrice del vincolo associativo, cui sono collegate da vincolo causale. Qualora vengano meno tali ultime condizioni ovvero se le stesse dipendano da altri fattori, che non siano la forza intimidatrice, si potrà riconoscere – in presenza degli altri elementi costitutivi – la sussistenza di una associazione per delinquere comune, ma non già quella di tipo mafioso”. 14 Cass. 30 maggio 2001, n. 35914, considerava una mafia di cinesi che “pur senza avere il controllo di tutti coloro che vivono o lavorano in un determinato territorio, hanno la finalità di assoggettare al proprio potere criminale un numero indeterminato di persone immigrate o fatte immigrare clandestinamente”. Cass. 8 giugno 2018, n. 43898, riguardava una associazione mafiosa di rumeni, operante all’interno della comunità di connazionali. Cass. 19 novembre 2020, n. 37081, riguardava una banda di nigeriani dedita alla gestione dell’immigrazione clandestina nella data comunità nonché al traffico di stupefacenti. Cass. 10 ottobre 2017, riguardava una associazione mafiosa di moldavi, “filiale” italiana del gruppo operante nel paese di origine.
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che del gruppo stesso, nonché quella della operatività in un “ambito” più che un territorio fisico. Né, nella casistica nota, si rilevano problemi particolari per quanto riguarda la individuazione del momento in cui si può ritenersi realizzata la condizione di assoggettamento diffuso. Per le bande nigeriane, per fare riferimento ad un ambito criminale per cui vi sono numerosi precedenti, si rileva che spesso i nuclei operanti in Italia sono emanazione di gruppi già esistenti nel paese di provenienza. Il dato fondamentale, perché possa qualificarsi l’associazione quale di tipo mafioso, in questi casi in cui il gruppo sociale in cui si estrinseca la attività criminale non è di particolare ampiezza, è che deve essere ben dimostrato che il rapporto tra criminali e soggetti destinatari della intimidazione è indiretto: ovvero, la condizione di “assoggettamento” non deve riguardare le vittime dei singoli reati, ancorché numerosi, ma si deve realizzare quella diffusività della condizione di assoggettamento che caratterizza la mafia. Nelle comunità di provenienza si deve riscontrare il fenomeno della rassegnazione alla presenza di gruppi criminali dominanti che controllano le condizioni essenziali di vita. La ampia casistica nota in tema di mafie straniere dimostra come si tratti di un fenomeno frequente e, ormai, “datato”. Per questo, le problematiche rilevanti, ancora una volta eminentemente probatorie, sono sostanzialmente risolte da tempo e la ampia reiterazione di casi negli stessi contesti fa tranquillamente assumere a varie bande il carattere di “nuove” mafie “storiche”, la cui esistenza si può dimostrare sulla scorta dei precedenti giudiziari, superando lo scoglio della difficoltosa ricostruzione della condizione di succubanza.
3. Le mafie delocalizzate Altra tipologia ben presente nella ampia categoria delle “nuove mafie” riguarda le associazioni criminali che vengono definite le mafie delocalizzate: ovvero, abbiamo registrato numerosi casi di organizzazioni fondate da emigrati da aree del Sud verso il Nord.
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Note, in particolare, quelle collegate, direttamente o per emulazione, alla ‘ndrangheta. Anche qui, nulla di particolarmente nuovo tanto da essere notorio che alcune aree lombarde rappresentano autentiche roccaforti della ndrangheta. Questo è un tema, invero, abbastanza complesso per la frequenza dei casi e sul quale molto si è dibattuto, in ragione delle diverse ipotesi verificate sul campo 15. Senza eccedere sul punto per il tempo qui a disposizione, segnalo che due sono tendenzialmente le situazioni tipiche. Innanzitutto, quella in cui il gruppo presente sul territorio è, in realtà, pienamente partecipe della associazione mafiosa di origine e ne svolge talune attività, quali far da “filiale” della casa madre per il commercio della droga, reinvestire i proventi dell’associazione in attività economiche, mantenere il controllo sulla comunità degli emigrati. O, in alternativa, quella in cui il gruppo è in sé nuovo e cerca di ripetere le caratteristiche delle bande criminali della zona di provenienza, sia quanto alla organizzazione e omertà interne che al controllo del territorio. In realtà, sul piano dei principi, la soluzione non sembra poi difficile salva, ovviamente, la “solita” prova necessaria in concreto 16. Il dato determinante non è tanto la derivazione dalle vecchie mafie, se il gruppo “delocalizzato” non ne è la diretta emanazione ma è semplicemente ispirato ad esse, fosse anche per effettivi collegamenti parentali o amicali. Ciò che è sempre rilevante è l’autonoma dimostrazione della ca15 Cass. 28 marzo 2017, n. 24850, in materia di “nuova articolazione periferica” della ndrangheta è certamente accurata nella distinzione tra le varie situazioni. Cass. 24 maggio 2018, n. 28722 affronta il tema dell’effetto del diffondersi della “fama” della ndrangheta in contesti geografici un tempo ritenuti refrattari o insensibili al condizionamento mafioso. Tutte sulla ‘ndrangheta, delocalizzata o emulata, anche Cass. 29 novembre 2019, n. 51489; Cass. 4 luglio 2018, n. 6933; Cass. 24 maggio 2018, n. 28722; Cass. 4 giugno 2021, n. 31920; Cass. 12 maggio 2016, n. 44667; Cass. 3 marzo 2015, n. 31666. 16 Si noti che le Sezioni Unite della Cassazione erano state investite del tema del contrasto interpretativo quanto alla necessità o meno della esteriorizzazione del metodo mafioso in caso di “mafie delocalizzate” ma che due volte, l’ultima il 17 luglio 2019, gli atti erano stati restituiti alla sezione di provenienza sul rilievo della assenza di contrasto effettivo di giurisprudenza, essendo in questione temi di prova.
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pacità della singola banda criminale di creare in proprio le condizioni dell’art. 416-bis c.p. Si è detto che, se si riconosce che la banda ha carattere di novità, va certamente dimostrato che vi sia stata una reale esternazione del metodo mafioso e, soprattutto, in linea con quello che si è detto, che vi siano state le locali ricadute in termini di assoggettamento e di omertà. Proprio in questo ambito vi è stata una lettura di parte della giurisprudenza nel senso che l’ultimo comma dell’art. 416-bis c.p., quando fa riferimento all’applicazione della disposizione anche ad altre bande diverse dalla mafia (e, giocoforza, in nuove aree del territorio nazionale), ritenga sufficiente l’attività di intimidazione e non anche che ne derivi una effettiva condizione di assoggettamento di una comunità. Ma, come ho già ricordato brevemente, si tratta di una lettura che amplia a dismisura la tipicità, equiparando l’associazione mafiosa a quella semplice se a “base violenta”, e che è stata del tutto smentita dalla giurisprudenza dominante, anche delle Sezioni Unite. Insomma, non vi è alcuna ragione per non richiedere che, dovunque si manifesti una attività di una banda criminale definibile mafiosa, ciò avvenga mediante l’effettivo avvalersi di un determinato metodo. L’ottenimento del risultato è necessario perché si realizzi la condizione, non potendosi accontentare di elementi di poca consistenza quali i rapporti personali e le regole organizzative. Quindi, al netto delle (superate) decisioni di altro segno, non si è ritenuto sufficiente che fosse presente la strutturazione interna tipica di un’organizzazione quale la ndrangheta (a cominciare dalle “ritualità” di tale organizzazione) ma anche che, nel nuovo contesto, si ricreino le condizioni di effettiva incidenza sulle condizioni di sicurezza e tranquillità e di libera determinazione della popolazione. È evidentemente diverso il caso del “distaccamento” di una associazione (tipico per la ndrangheta) che si insedia in diversa parte del territorio per esercitare attività che siano, ad es., reimpiego dei soldi del clan, o rivendita dello stupefacente importato, etc.; in tale caso, la caratterizzazione mafiosa è del nucleo centrale della associazione operante nelle aree di origine e il gruppo “delocalizzato” è, semplicemente, parte di essa. Lo schema giuridico, insomma, anche in questo caso resta relativamente semplice, le questioni non sono di principio ma attengono essen-
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zialmente all’atteggiarsi (ed alla prova) del caso concreto. Ovvio che la prova in concreto della intimidazione diffusa, anche quando la condizione ricorra, è alquanto difficile. Ma la soluzione non è la rinuncia ad una seria tipizzazione del reato applicando la disposizione sulla base dell’apprezzamento di intenzioni, atteggiamenti emulativi e/o provenienza geografica e rapporti parentali. La casistica è ampia e, anche in questi casi, le affermazioni di principio appaiono in parte condizionate dalle peculiarità dei casi concreti, anche quanto alla difficoltà di prova.
4. Mafie autoctone L’espressione mafia autoctona, tra le varie categorizzazioni che si è riusciti a trovare per i fenomeni mafiosi non classici, ben si presta a definire situazioni in cui una associazione criminale si forma in territori non tipicamente caratterizzati da criminalità organizzata endemica, su iniziativa di soggetti che non ripetono poteri criminali da altri, ed opera con metodo mafioso. Ho già citato la mala del Brenta, organizzazione ritenuta autenticamente mafiosa il cui territorio era l’area veneta, la banda dei giostrai, operante in Nord Italia, il cui core business era quello che fu il grave fenomeno criminale dei sequestri di persona a scopo di estorsione, vicende per le quali la ricostruzione dei fatti è complessa per la pluralità di processi nati per la repressione dei plurimi reati e del numero dei componenti. Più interessanti le vicende recenti, che hanno confermato come la questione non riguarda tanto il profilo delle regole giuridiche, quanto le loro applicazioni concrete. Ovvero, nulla impedisce che una mafia si formi in un territorio ristretto sino ad allora non occupato da tale fenomeno criminale, che i soggetti creino ex novo il loro potere criminale, etc. Ma perché ricorra l’associazione mafiosa è necessario che si realizzino le “solite” necessarie condizioni. E, per una nuova formazione in un nuovo territorio, è ragionevole che per poter assumere la necessaria fama criminale e attitudine alla condi-
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zione di diffuso assoggettamento, vi sia l’esercizio concreto, e ben percepibile dalla comunità, di attività violente e minacciose. Un caso molto rappresentativo delle questioni di interesse è quello della nota banda della Magliana, conosciuta ai più anche grazie alla accurata descrizione in opere letterarie e cinematografiche, fortunatamente diffuse dopo la fine del suo ciclo vitale (il che ha, sempre fortunatamente, evitato che gli esiti processuali dovessero essere valutati in conformità alle preesistenti aspettative indotte nel pubblico). Palese l’aspettativa che la banda della Magliana potesse essere ritenuta una mafia. Ma così non fu. La sentenza della cassazione del 24 marzo 1999, che annullava la condanna per associazione mafiosa, prendeva certamente atto che quella banda costituiva un gruppo stabile negli anni, numericamente ampio, particolarmente violento, dedito a una varietà di condotte criminali, con ramificazioni in contesti politici e terroristici, ma, osservava, non è questo che caratterizza la associazione mafiosa. Censurando la sentenza di appello che aveva ritenuto essere “troppo” il chiedere che il clima di assoggettamento ed omertà fosse tale da paralizzare la reazione alle prevaricazioni della organizzazione criminale, il giudice di legittimità confermava la interpretazione testuale: “il requisito dell’assoggettamento va inteso come sottomissione e come incapacità di reagire alle prevaricazioni che derivano dalla associazione mafiosa, mentre quello dell’omertà va inteso come reticenza e rifiuto di collaborare con gli organi dello Stato per timore di rappresaglie da parte della associazione. Tali requisiti devono esistere necessariamente per poter qualificare l’associazione come mafiosa”, con la precisazione “devono essere abbastanza diffusi anche se non generale”. Quanto detto da tale sentenza nel caso concreto, quindi, è il solito, e chiaro, paradigma generale: la qualifica di mafioso non può derivare semplicemente dalle modalità operative e dai metodi della organizzazione, ma dalla individuazione di fatti concreti e specifici potenzialmente idonei ad incidere dall’esterno sulla sfera di soggetti estranei ai reati. In quel caso concreto, invece, mancava del tutto una motivazione di un clima di paura diffusa derivante dalla forza intimidatrice di quel gruppo, clima che doveva riguardare la sua area di operatività (la intera città di Roma). Tale mancanza di motivazione, a quanto si comprende dalla lettura, era il segno della mancanza di prova che, a sua volta, a fronte della completezza dell’inda-
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gine, dimostrava che quella banda non era mai diventata “pervasiva”. Invece, passando a vicende più recenti, la esistenza di una autentica mafia “autoctona” è stata affermata per la banda Fasciani, ritenuta una associazione mafiosa operante nel territorio di Ostia 17. La principale sentenza di legittimità che la riguarda 18 ribadisce che la mafia è tale se vi è la condizione di succubanza della comunità locale. E lo riscontra nella vicenda concreta: tale banda criminale, che aveva una pluralità di fini illeciti, nata quale associazione semplice, era “cresciuta” acquisendo, sul campo, le condizioni per diventare “mafia”. Appunto, grazie al metodo della intimidazione e della violenza, anche con armi ed esplosivi, nei confronti delle singole vittime, ma con la volontà di “farsi intendere” dai più, la associazione era riuscita a fare percepire la sua incombenza sul territorio. In questa vicenda più moderna, si conferma come un’associazione non possa “nascere” mafiosa per mera volontà dei suoi associati, ma, lì dove non possa utilizzare il c.d. “avviamento” dei suoi predecessori, debba arrivare in concreto ad esercitare il controllo territoriale secondo le date modalità. Mafiosa è stata ritenuta anche un’altra banda operante nel medesimo territorio, con la logica di alleanza e scontro tipica delle mafie tradizionali: la sentenza della cassazione del 13 giugno 2018 19 interviene sulla banda criminale sorta intorno alla famiglia Spada e, anche in tale provvedimento, si riportano i dati fattuali di come una nuova mafia venga ad esistenza grazie al progressivo allargamento delle aree di interesse e l’affinamento delle metodiche di imposizione sul territorio. In questi due casi, i giudici non hanno avuto difficoltà a definire le regole quanto alla tipicità della condotta del reato associativo; invece, esaminando le vicende concrete, si sono posti il problema della effettiva offensività di quelle condotte, della loro attitudine ad avere quel risultato nel contesto in cui operavano. 17
Definito territorio “piccolo” ma che, ritengo, tale non sia avendo 200.000 abitanti, quindi, un ambito ben maggiore di molte associazioni camorristiche che operano tipicamente in reciproca autonomia e con dimensioni spesso ben minori, quanto ad affiliati e comunità infestata. 18 Cass. 29 novembre 2019, n. 10255. 19 Cass. 13 giugno 2018, n. 44156.
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Il caso forse più noto (anche mediatico) degli ultimi anni in questo ambito è apparentemente quello del processo “mafia capitale”. In realtà, pur se in fase di indagine sembrava essere stata individuata una organizzazione mafiosa ramificata e collegata a vari gruppi criminali – tanto da essere definita “un po’ l’archetipo (probatorio, processuale) delle ‘nuove mafie’” 20 –, lo sviluppo dibattimentale ne ha escluso la sussistenza, sostenendosi, invece, l’esistenza di una “minore” associazione il cui core business era l’inserimento nel mondo degli appalti di servizi di enti locali. Questo porta alle valutazioni generali sulla mafia operante in tali ambiti di attività pubbliche.
5. Mafia delle commesse pubbliche Di forte interesse, soprattutto perché lungamente dibattuto nella dottrina e anche nella giurisprudenza degli ultimi anni, nonostante la casistica numericamente assai limitata e le scarse conferme processuali, è il tema della formazione di autentici gruppi criminali di caratterizzazione mafiosa nel contesto delle attività della pubblica amministrazione, praticamente mafia e appalti (pubblici). In questo caso non si discute della infiltrazione delle “solite” associazioni mafiose. Del resto, leggiamo testualmente nell’art. 416-bis c.p. che uno degli obiettivi tipici dell’organizzazione di tipo mafioso è proprio l’acquisizione e gestione di commesse pubbliche (concessioni, autorizzazioni, appalti e servizi pubblici). Ed è un settore tipico delle mafie “vecchie” proprio perché l’intervento nel settore dei lavori e servizi pubblici è uno sbocco naturale per il denaro accumulato illecitamente e le date metodiche mafiose favoriscono la loro espansione in questi ambiti, potendo facilmente condizionare la concorrenza. Anche l’aggravante di cui al comma 6, dell’art. 416-bis c.p., che riguarda proprio l’inserimento in attività economiche, depone nello stesso senso. Il tema di interesse, invece, è se possa costituire una “nuova” e “atipica” mafia una organizzazione che operi essenzialmente nel contesto della gestione di tali attività, esprimendosi in questo ambito con un atteggia20
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mento di intimidazione, e una conseguente condizione di assoggettamento diffuso, che non è di tipo violento bensì di altro genere. Ripeto, come ho già detto all’inizio, che l’art. 416-bis c.p. fa riferimento a qualsiasi modalità seria di intimidazione, non esclusivamente quella che incide sulla incolumità personale, secondo un concetto antico di “mafia e lupara”. Riprendiamo quindi la vicenda emblematica già indicata sopra. I giudici di cassazione che nel 1989 annullarono il processo a carico del presidente della Regione Liguria Teardo che aveva escluso che ricorresse il reato di associazione mafiosa, ritennero infatti plausibile che costui avesse, con il proprio gruppo criminale, utilizzato metodi di intimidazione e sudditanza psicologica proprio nel contesto delle attività delle imprese operanti nel settore degli appalti pubblici. In particolare, si sosteneva che l’atteggiamento di omertà ben può essere “dovuto alla paura non tanto di danni all’integrità della propria persona ma anche solo all’attuazione di minacce che possono comunque realizzare danni rilevanti; … che sussista la diffusa convinzione che la collaborazione con l’autorità giudiziaria, denunciando il singolo che effettua l’opera di intimidazione, non impedirà che si abbiano ritorsioni dannose per la ramificazione dell’associazione”. Questo veniva detto in riferimento alle vittime di concussioni che avevano ragione di ritenere che, nel ribellarsi a tali imposizioni, potessero mettere a rischio la loro pratica possibilità di continuare a lavorare con la prospettiva allarmante di chiudere le proprie imprese. A quanto ricordi fu allora, del resto, che si coniò l’espressione “concussione ambientale”: situazione in cui la vittima accetta supinamente l’imposizione “con un sorriso”, conscio di non potere fare altrimenti. Quindi, nei primissimi anni di applicazione del reato di associazione con una interpretazione sostanzialmente estensiva, si riteneva possibile configurare l’associazione mafiosa in un contesto ben diverso da quello classico della minaccia con mezzi violenti e paura tendenzialmente riferibile alla incolumità fisica. Ciò è quanto si è ripreso più di recente sostenendo, nuovamente, che la forza di intimidazione può essere diretta anche a colpire non soltanto la vita e la incolumità personale, ma anche le condizioni esistenziali
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economico – lavorative di categorie di soggetti: ne deriva una condizione di assoggettamento ed un atteggiamento di omertà per il timore diffuso delle impossibilità di ottenere risultati con la denuncia del singolo responsabile di tali condotte 21. Anche in questo caso si ribadiva che, come si è detto per le mafie straniere, la territorialità “geografica” è un concetto riferibile alle mafie più tradizionali, ma non è un elemento determinante del modello mafioso, giacché quest’ultimo consente che l’effetto sia ottenuto nei confronti di una categoria più particolare, quale la comunità degli imprenditori, purché indeterminata non esaurendosi nei soggetti condizionati, nelle sole vittime dirette delle indebite pressioni. Si tratta di un tema che ha avuto un enorme spazio in dottrina (ma anche mediatico, prima ancora del processo) in ragione dell’unica vicenda “mafia capitale”, caratterizzata da alterne vicissitudini, più che in diritto, sulla ricostruzione in fatto 22. Ma, al di là del caso concreto, introduce un ben possibile ambito teorico di adattamento del reato di associazione mafiosa. 21
Cass. 10 aprile 2015, n. 24535, in tema di misure cautelari nel procedimento “mafia capitale”. In fase di indagine, rammento, era stata ipotizzata l’esistenza di una mafia autoctona tentacolare con settore di attività anche negli appalti di servizi. 22 Nota Cass. 12 giugno 2020, n. 18125 che: secondo l’ipotesi di accusa in fase di indagine, confermata dal giudice di legittimità in fase cautelare, i soggetti operanti nel contesto della P.A. erano collegati ad un ben solido gruppo sostanzialmente mafioso operante ad ampio raggio – legami con mafie tradizionali, in primis la ndrangheta, dotazioni di armi, controllo del territorio, reinvestimento di profitti dell’associazione nelle attività economiche, gestione apicale da parte di C., e, soprattutto, “la percezione esterna della forza intimidatrice espressa dal sodalizio è stato un elemento centrale, secondo l’esito delle prime indagini, per l’acquisizione degli appalti”. Escluso, però, all’esito del dibattimento, che esistesse tale più grande associazione, secondo la diversa ipotesi dei giudici di appello ve ne era una minore formata da tredici persone. Ma, rilevava la Cassazione in base ai fatti riportati nelle sentenze di merito, la carica di intimidazione era esclusiva del solo C. il quale, però (a fronte della assenza di violenze o minacce concrete, e dell’esercizio del “comune” metodo corruttivo), era del tutto sconosciuto a parte degli associati, e soprattutto, a tutti i soggetti, amministratori, politici locali e imprenditori concorrenti, interessati agli appalti (le ipotetiche vittime “dirette”). Ovviamente, su queste premesse, non era in questione alcuna condizione di assoggettamento e omertà dell’ambito di interesse. Ma la vicenda è stata “cartolarizzata” quale ipotesi mafiosa ed è ancora valutata come tale, prescindendo dai fatti realmente accertati.
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6. Nota finale Il dato dei pochi casi e gli esiti altalenanti, soprattutto dei processi riferiti all’ambito della “Mafia delle commesse pubbliche”, mi portano ad alcuni spunti finali, del tutto personali e un po’ epidermici, che richiederebbero altro approfondimento ma spero siano chiari nelle linee essenziali. Nell’unico processo recente di mafia degli appalti, il trattamento sanzionatorio riservato per i reati di associazione per delinquere “semplice”, corruzioni ed estorsione dal primo giudice fu ben severo, pur escludendo il Tribunale qualsiasi connotazione mafiosa del contesto degli appalti, alla luce della diversa situazione emersa nel dibattimento. Il giudice di appello, sostanzialmente confermando le stesse relazioni criminali ma ritenendo che all’interno di queste si collocasse anche una attività di intimidazione, riteneva integrato il reato di associazione mafiosa e la aggravante di mafia; ciononostante, riduceva sensibilmente le pene (trattandosi di una “piccola” mafia). Ovvero, nel caso concreto, l’uso di strumenti più semplici quale il reato di associazione per delinquere ex art. 416 c.p. consentiva di raggiungere adeguati, e più seri, livelli repressivi. Partendo da questo caso, mi sembra che, per la individuazione di attività criminali che secondo una comune percezione (che non corrisponde al dato giuridico) possono definirsi “mafiose”, l’uso dell’art. 416-bis c.p. appare limitante perché richiede una prova che, al di fuori di determinati contesti, non è certamente facile: quella della succubanza diffusa. È una prova difficile e, soprattutto, questa difficoltà può anche essere traccia che si tenta di ritenere mafiosa una associazione che non lo è affatto. O non lo è ancora. E questo finisce per essere causa di decisioni altalenanti sulle cui conseguenze è superfluo discutere. La questione, perciò, che mi pongo in riferimento sia alla normativa vigente che alle presunte necessità di adeguarla per colpire fenomeni che non sono altrimenti adeguatamente disciplinati è la seguente: sicuro che non si possa rispondere con altri strumenti esistenti? Se consideriamo quello che si dovrebbe poter fare in un processo, ovvero avere una imputazione chiara e condotte ben definite rispetto a cui portare prove per decidere se il fatto è stato commesso o meno, lo schema della associazione per delinquere “semplice” con, eventualmente, gli
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specifici reati fine accertati, si presta certamente a disciplinare un “fenomeno criminale” per la sua repressione secondo le comuni regole del diritto penale. Mi sembra un buon mattone per una robusta costruzione. Mi sembrano in tali termini anche i modelli internazionali che fondano il concetto di “criminalità organizzata” su basi più semplici e, direi, efficaci, purché si individuino i giusti livelli sanzionatori e gli strumenti processuali (cosa non difficile. Del resto, in vari casi, la nostra legislazione, ad es. in materia di intercettazioni, pone sullo stesso piano criminalità organizzata in generale e mafiosa in particolare). Ad esempio, per la Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale del 2000 “Gruppo criminale organizzato” indica un “gruppo strutturato, esistente per un periodo di tempo, composto da tre o più persone che agiscono di concerto al fine di commettere uno o più reati gravi o reati stabiliti dalla presente Convenzione, al fine di ottenere, direttamente o indirettamente, un vantaggio finanziario o un altro vantaggio materiale” e “Reato grave” indica la condotta che costituisce un reato sanzionabile con una pena di almeno quattro anni di reclusione. Quindi, la questione è che la criminalità organizzata ha una dimensione ben più ampia di quella mafiosa con la quale certamente si intreccia, ma sembra che la peculiarità di quest’ultima non la contraddistingua più di tanto al di fuori delle aree tradizionali. Questo lo dimostra anche il fatto che larga parte dei reati della criminalità organizzata 23 che allarmano Italia e altri paesi U.E. prescindono da modalità “mafiose” della loro gestione (ovvio che possono essere, e sono commessi, anche dalle mafie con i loro profitti realizzati aliunde. Ma la “mafiosità” non incide): traffico di droga, armi, tratta di esseri umani, riciclaggio di denaro in particolare. Lo stesso ambito della corruzione, soprattutto nelle commesse pubbliche, prescinde sostanzialmente dal ricorso a modalità “mafiose”, essendo piuttosto probabile che in questo ambito si riciclino profitti realizzati altrove. In questo credo che il tema delle nuove mafie sia, in contesti diversi da quelle straniere e le poche “autoctone”, un po’ sopravvalutato: – da un lato, lo strumento è poco duttile: la ricerca di una caratteriz23
Strategia dell’UE per la lotta alla criminalità organizzata 2021-2025.
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zazione di tal tipo è sicuramente assai difficile, se vogliamo rispettare la tipicità e la offensività, cercando la sua caratteristica di creazione di un clima di assoggettamento e omertà fuori dall’esercizio di una “classica” intimidazione con minaccia e violenza; – dall’altro, non ne vedo la particolare utilità: se la finalità è quella della repressione dei fenomeni criminali, questa si ottiene con più semplici figure di reato sanzionate con pene proporzionate. Del resto, se si guarda ai temi affrontati anche dalla giurisprudenza più recente (per tutte le Sezioni Unite 2021 nel caso Modaffari) si comprende che, in realtà, il fenomeno della associazione mafiosa continua ad essere fondamentalmente riferibile alle mafie tradizionali (comprese le straniere). Per il resto, il dibattito è molto ampio ma alquanto virtuale, mancando di reali situazioni cui fare riferimento. Ora, mi chiedo: qual è la ragione per utilizzare il complesso strumento della associazione mafiosa cercando di comprimere realtà diverse per farle rientrare in tale contenitore? Per gestire gli altri fenomeni criminali non sembra strettamente necessario allargare il concetto di mafia in quanto tale. Ci sono le normali associazioni criminali che, sulla base di un concetto più moderno e più efficace, possono essere collegate ad una diversa gravità in base al tipo di attività che sono finalizzate a commettere. In questo basti considerare il reato di associazione per delinquere finalizzato al traffico di stupefacenti (sostanzialmente la maggiore fonte di profitti anche per le mafie), sino al 2015 colpita con pena molto maggiore, di prova molto più agevole e, in definitiva, particolarmente idoneo nella sua funzione repressiva. Lo stesso art. 416 c.p. è stato modificato prevedendo associazioni “specializzate” per le quali le pene sono ben superiori a quelle comuni. Probabilmente, un adeguato risultato potrebbe essere raggiunto sfruttando il suggerimento dei modelli internazionali di distinguere, e sanzionare più gravemente, l’associazione per delinquere finalizzata a reati gravi e non, come è ora, indistinta per qualsiasi reato.
IL CONCORSO ESTERNO TRA MÉNAGE À TROIS E QUARTO INCOMODO di Costantino Visconti
1. – Proprio per onorare la vocazione interdisciplinare del Dipartimento di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Napoli Federico II che ha organizzato il nostro incontro odierno, desidero proporvi alcune considerazioni a sfondo politico-sociale, oltre che strettamente penalistiche, sul tema del concorso esterno in associazione mafiosa. In quest’ottica, azzarderei a muovermi come in un ‘set terapeutico’, provando cioè a riguardare il tema “dal di fuori”, con lo spirito dell’osservatore disincantato e il più possibile scevro da pregiudizi. D’altro canto, in questa sorta di teatro penalistico ove si è esibito il concorso esterno in associazione di tipo mafioso, ho svolto un ruolo molto prossimo allo spettatore, ossia quello dello studioso tempo-pienista, ripiegato sui libri, sulla ricostruzione “a freddo” della giurisprudenza, certamente militante per l’affermazione dei principi cari a noi penalisti ma non direttamente catapultato sulla scena. E però il concorso esterno ha imperversato per tantissimo tempo nell’arena politico-mediatica, nelle aule di giustizia ha costituito campo di battaglia tra gli attori processuali, una battaglia per la libertà degli imputati e insieme per la libertà di tutti i cittadini trattandosi di reati tanto oppressivi come l’associazione di tipo mafioso. Cercherò quindi di alimentare vieppiù lo spirito dello spettatore con l’intento di cogliere aspetti della storia che forse indossando altre vesti risulterebbero meno afferrabili. L’ispirazione me la suggerisce un grande romanzo, “La donna giusta” di Sandor Màrai, una storia d’amore, un triangolo sentimentale, raccontata di volta in volta dai tre protagonisti. Una medesima vicenda umana che però
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dà vita a tre narrazioni diversissime tra loro in cui perfino semplici e nudi fatti assumono significati multipli e perfino inconciliabili a seconda della voce che li racconta. Ebbene, la storia quarantennale del concorso esterno nell’associazione di tipo mafioso, a seconda del punto di vista da cui proviene il racconto, si presta anch’essa a molteplici e diverse narrazioni talora in conflitto tra loro ma non per questo inattendibili. Citiamo rapidamente le ali estreme. Per alcuni protagonisti giudiziari impegnati nel contrasto alla criminalità organizzata, il concorso esterno ha rappresentato il salto di qualità penalistico volto a prosciugare la zona grigia delle connivenze filo-mafiose. Per altri, invece, l’istituto ha assunto le sembianze del “mostro giuridico” artatamente congegnato dalla magistratura per dispiegare una repressione a tutto spiano e non curante delle garanzie penalistiche. Ora, piuttosto che ricercare una sintesi mediana tra gli opposti estremismi (il che sarebbe possibile e anche auspicabile in altri contesti), preferisco qui limitarmi a riconoscere che addirittura entrambi contengono elementi di verità di cui l’intero racconto non può fare a meno se lo si vuole tenere ancorato a quel che è accaduto. 2. – Il primo aspetto che mi viene in mente proprio incrociando lo sguardo degli studenti e degli studiosi di scienze politiche, è che rispetto alla narrazione giuridica tradizionale, nella vicenda del concorso esterno occorre inserire un protagonista nuovo o meglio non rituale. Nel mondo del diritto, infatti, siamo abituati a insegnare che i tre pilastri reggenti l’esperienza giuridica si incarnano nei “formanti” legislativo, giurisprudenziale e dottrinale. Ebbene, il reato di associazione di tipo mafioso, e in particolare il concorso esterno, racconta qualcosa che, secondo me, è estendibile a tutta l’esperienza giuridica degli ultimi decenni. A fianco dei tradizionali formanti, se guardiamo bene, ce n’è infatti un quarto che passo dopo passo ha cominciato a nutrire o comunque condizionare l’esperienza penalistica: quello mediatico. Un formante tanto vitale quanto insidioso che condiziona gli altri tre, apertamente o in modo subdolo. Da questo punto di vista, la vicenda del concorso esterno è esemplare. Io l’ho vissuta sin dall’inizio da apprendista studioso e l’interrogativo che veniva posto ai giuristi era: deve rispondere penalmente solo il mafioso arruolato nell’organizzazione oppure anche chi favorisce l’associazione mafiosa senza farvi parte, a maggior ragione se è un “collet-
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to bianco”? Questa domanda agitava la pubblica opinione nei primi anni Novanta dopo le stragi del ’92. Ed è sulla scorta di questo ingombrante interrogativo, (im)posto dal formante mediatico a tamburo battente e senza ulteriori mediazioni, che si sono forgiate in un senso o in un altro le risposte giuridiche fornite via via dai tre formanti tradizionali. Con tutte le inevitabili contraddizioni che esplodono quando per affrontare problemi seri in contesti complessi si imbocca la scorciatoia di semplificare domande e risposte. Se vogliamo, da questa angolazione, la storia del concorso esterno racconta anche il progressivo prender piede in Italia del populismo penale 1, fenomeno dal cuore antico ma oggi considerato da molti di noi uno dei frutti più indigesti della contemporaneità. Un altro aspetto che emerge da uno sguardo retrospettivo e il più possibile “terapeutico” sul concorso esterno, è la genesi del tutto peculiare delle soluzioni sperimentate dalla giurisprudenza. Pressoché per tutti gli anni Novanta, infatti, la giurisprudenza nomofilattica sul controverso istituto si forma in procedimenti cautelari, dimensione di per sé assai tormentata in quanto si assiste a un mescolamento ad alta intensità, a un meticciamento tra diritto sostanziale e riflessi probatori che rimarrà del resto il carattere distintivo dell’intera materia associativa – come ha ben spiegato nell’incontro di oggi Enzo Maiello con riguardo al limitrofo tema della partecipazione associativa –. Il che ha riproposto la vecchia ma sempre attuale speculazione sull’ardimentosa impresa di garantire, rispettivamente, al discorso sulla tipicità penalistica e a quello riflesso sulla prova processuale, statuti concettuali e argomentativi ben separati, distinti ma non distanti. Ed ecco perché – e lo vedremo qui appresso – la discussione giurisprudenziale (e a tratti anche quella dottrinale) sui confini applicativi del concorso esterno assomiglia a un laboratorio a cielo aperto dei discorsi apertamente a doppia trama intrecciata, una sostanziale, l’altra probatoria. 3. – Ciò premesso, a mente fredda e con il senno del poi, darei atto a una parte considerevole della giurisprudenza di aver profuso uno sforzo 1
Sulle tendenze populiste emerse nella legislazione penale contemporanea, ex multis, G. FIANDACA, Populismo politico e populismo giudiziario, in Criminalia, 2014, 102 ss.; D. PULITANÒ, Populismi e penale. Sulla attuale situazione spirituale della giustizia penale, ivi, 123 ss.
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straordinario per rispondere alla semplicistica domanda (retorica propensa al sì) assillantemente posta dal formante mediatico (e politico-sociale) sulla punibilità del colletto (più o meno) bianco colluso con la mafia, senza tradire i principi penalistici e costituzionali. Basti ricordare che sul concorso esterno abbiamo avuto addirittura quattro sentenze delle Sezioni Unite nello spazio di circa quindici anni che hanno risposto alla stessa domanda sempre allo stesso modo 2, ossia ribadendo la configurabilità in punto di diritto del concorso esterno, ma precisando e limitandone progressivamente i confini applicativi. Credo che uno spaccato esperienziale del genere costituisca un unicum nel panorama repubblicano della giustizia penale. Le quattro sentenze trovano spiegazione, in realtà, proprio nell’impegno profuso dai settori più avvertiti della giurisprudenza – soprattutto quella di legittimità, ma non solo – in un minuzioso e a tratti raffinato lavoro di contenimento della capacità espansiva del concorso esterno alimentata dal singolar connubio tra formante mediatico e agguerrite frange giudiziarie. Riguardandolo oggi, quando i bagliori dei bombardamenti mediatici somigliano più a un crepuscolo che a una battaglia in corso, va considerato un lavoro meritorio e forse troppo poco riconosciuto nelle schematizzazioni correnti. D’altronde, l’applicazione della clausola generale del concorso di persone al reato associativo trovava ostacoli tutt’altro che irresistibili negli arnesi della dogmatica frequentata abitualmente dai penalisti, e per negarla si sarebbero dovute far valere le nobili ragioni condensate nella preservazione di confini certi all’area della punibilità, ragioni che però facevano a pugni con l’oggettiva tracotanza delle organizzazioni mafiose e dei loro complici. Insomma, nel “luccichio delle sciabole”, impegnarsi in favore di un diritto penale “ridotto” in materia di complicità alle mafie facilmente avrebbe ingenerato il fraintendimento di un sotterfugio per garantire l’impunità ai soliti noti. 2
Il riferimento è alle note pronunce Cass., Sez. un., 5 ottobre 1994, Demitry, in Riv. it. dir. proc. pen., 1998, con nota di F. BERTOROTTA, Concorso eventuale di persone e reati associativi, 1305 ss.; Cass., Sez. un., 27 settembre 1995, Mannino, in Cass. pen., 1996, con nota di E. AMODIO, Orario degli uffici giudiziari e garanzie costituzionali, 1087 ss.; Cass., Sez. un., 30 ottobre 2002, Carnevale, in Foro it., 2003, con osservazioni di G. FIANDACA, 453 ss.; Cass. pen., Sez. un., 12 luglio 2005, Mannino, in Foro it., 2006, con nota di G. FIANDACA-C. VISCONTI, Il patto di scambio politico-mafioso al vaglio delle sezioni unite, 80 ss.
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Assai interessante, oltretutto, è il percorso battuto via via dalla giurisprudenza in quest’opera di contenimento del concorso esterno poiché ha fatto leva in vario modo su dispositivi interpretativi ambivalenti, un po’ facendo ricorso a concetti di diritto sostanziale, un po’ al linguaggio probatorio. Nella sentenza Demitry del 1994 3, una volta affermata la necessità che il contributo del concorrente nell’associazione avesse rilevanza causale rispetto alla vita dell’associazione, è stato escogitato il requisito della “fibrillazione” dell’organizzazione mafiosa quale presupposto fattuale per qualificare come “salvifica” e quindi punibile la condotta del fiancheggiatore non affiliato. Una sorta di metafora “sanitaria” a cui non sono state risparmiate critiche pungenti e convincenti sotto molteplici punti di vista, ma che a ben vedere aveva lo scopo di relegare la punibilità del fiancheggiatore a contesti di extrema ratio nella vita dell’associazione. Poi la sentenza Carnevale nel 2001 4 ha divelto questo riferimento criminologico adagiandosi sulla più collaudata “idoneità causale” del contributo esterno nell’ottica del mantenimento o rafforzamento dell’associazione. Infine, la Mannino nel 2005 5 ha addirittura importato l’impianto utilizzato nelle imputazioni individuali per i reati di evento, richiedendo un ancor più stringente accertamento del nesso causale tra condotta e impatto favorevole sul sodalizio da condurre con il metodo della sussunzione sotto leggi scientifiche. A conti fatti, possiamo ben dire che la Cassazione riunita ha fatto (scritto) di tutto per rendere accettabile uno schema incriminatorio che ai primi passi prometteva (minacciava) stragi di principi e garanzie penalistiche. E se pensiamo che sempre negli anni Novanta del secolo scorso, la Cassazione in sede cautelare fa sparire senza colpo ferire l’atto oggetto della corruzione dai requisiti oggettivi del tipo criminoso sull’onda delle inchieste di “Mani pulite”, il lascito nomofilattico sul concorso esterno si lascia apprezzare ancor di più. Senza contare che anche su versante soggettivo del concorso esterno la Cassazione si è prodigata per contenerne la vis espansiva. Pure stavolta abbiamo una regola generale di matrice dogmatica, un distillato di tradizione interpretativa: si può concorrere con dolo eventuale in un reato a 3
Cass., Sez. un., 5 ottobre 1994, Demitry, cit. Cass. pen., Sez. un., 30 ottobre 2002, Carnevale, cit. 5 Cass. pen., Sez. un., 12 luglio 2005, Mannino, cit. 4
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dolo specifico. Dunque, applicando tale regola, si sarebbe potuto configurare il concorso esterno in casi in cui l’extraneus si limitasse ad accettare il rischio di favorire l’associazione di tipo mafioso, spingendo così l’incriminazione verso aree dell’ordinario agire quotidiano in forme assai inquietanti. Anche su questo punto abbiamo assistito a un intervento risoluto, dapprima con la sentenza Carnevale e poi con la sentenza Mannino che hanno affermato la necessità che il dolo del concorrente esterno deve investire addirittura il programma criminoso, quasi come se fosse un partecipe, e in ogni caso escludendo che fosse sufficiente il dolo eventuale. 4. – Passando al formante dottrinale, possiamo ben dire anche stavolta che gli studiosi di professione hanno combattuto la loro buona battaglia (forse anche senza perdere la fede!) 6. Prima con un fuoco di 6
Cfr., fra i tanti, G. BORRELLI, Tipizzazione della condotta e nesso di causalità nel delitto di concorso in associazione mafiosa, in Cass. pen., 2005, 3732 ss.; A. CAVALIERE, Il concorso eventuale nel reato associativo. Le ipotesi delle associazioni per delinquere e di tipo mafioso, Napoli, 2003; A. CENTONZE, Il concorso eventuale nei reati associativi fra vecchi dubbi e nuove conferme giurisprudenziali, Dir. pen. cont., 2016; G. DE FRANCESCO, Paradigmi generali e concrete scelte repressive nella risposta penale alle forme di cooperazione in attività mafiosa, in Cass. pen., 1996, 3487 ss.; F. DE LEO, Aspettando un legislatore che non si chiami Godot. Il concorso esterno dopo la sentenza Mannino, in Cass. pen., 2006, 1994 ss.; G. DE VERO, Il concorso esterno in associazione mafiosa tra incessante travaglio giurisprudenziale e perdurante afasia legislativa, in Dir. pen. proc., 2003, 1327 ss.; M. DONINI, Il concorso esterno “alla vita dell’associazione” e il principio di tipicità penale, in Dir. pen. cont., 2017; G. FIANDACA, La contiguità mafiosa degli imprenditori tra rilevanza penale e stereotipo criminale, in Foro it., 1991, 472 ss.; ID., Accordo elettorale politico-mafioso e concorso di esterno in associazione mafiosa. Una espansione incontrollata del concorso criminoso, ivi, 1996, 127 ss.; ID., Il concorso esterno agli onori della cronaca, ivi, 1997, 1 ss.; G. FIANDACA-C. VISCONTI, Il concorso esterno come persistente istituto polemogeno, in Arch. pen., 2012; I. GIUGNI, Il problema della causalità nel concorso esterno, in Dir. pen. cont., 2017; V. MAIELLO, Il concorso esterno tra indeterminatezza legislativa e tipizzazione giurisprudenziale. Raccolta di scritti, Torino, 2014; ID., Concorso in associazione per delinquere e concorso in associazione mafiosa: simul stabunt e simul cadent, in Dir. pen. proc., 2017, 1025 ss.; ID., Il cantiere sempre aperto del concorso esterno, in Sist. pen., 2021; A. MANNA, L’ammissibilità di un cd. concorso esterno nei reati associativi, tra esigenze di politica criminale e principio di legalità, in Riv. it. dir. proc. pen., 1994, 1187 ss.; T. PADOVANI, Note sul cd. concorso esterno, in Arch. pen., 2012; C. VISCONTI, Contiguità alla mafia e responsabilità penale, Torino, 2003; ID., Il tormentato cammino del concorso “esterno” nel reato associativo, in Foro it., 1994, 561 ss.;
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fila per mettere in discussione la stessa configurabilità in diritto del concorso criminoso nel reato associativo, poi sottoponendo a critica serrata le varie soluzioni interpretative sfornate dalla giurisprudenza e comunque sollecitando a ogni piè sospinto il legislatore a intervenire tipizzando l’area della punibilità con proposte specifiche variamente articolate. Beninteso, a volte si è innamorata di schemi logico-ricostruttivi dogmaticamente forgiati senza porsi il problema delle eventuali conseguenze applicative. Ad esempio, un tema ricorrente agitato da diversi studiosi ha posto la questione se ricostruire il contributo punibile dell’extraneus quale concorso nell’associazione o come concorso nelle singole condotte associative, in omaggio alla teoria dell’accessorietà in ambito concorsuale. Era davvero meglio ri-costruire il concorso esterno nelle singole condotte piuttosto che nell’associazione nel suo complesso? A bene vedere, gli effetti pratici verosimilmente avrebbero contraddetto gli intendimenti originari, poiché tenendo fuori dalla tipicità concorsuale la dimostrazione di un rapporto causale tra singolo contributo e la vita dell’associazione nel suo complesso, avremmo assistito a un effetto risucchio nel penalmente rilevante o nel più gravemente punibile nei confronti di condotte a bassa offensività in quanto dirette a sostenere i singoli mafiosi, anche con micro-apporti. Un modo di impostare la questione che è stato spazzato via dalla sentenza Carnevale con ampia motivazione, per lo più incentrata appunto sulla necessità di evitare il rischio di una incontrollata estensione della punibilità. Di recente autorevole dottrina è tornata sulla questione, sostenendo la tesi del concorso nella partecipazione invece che nell’associazione, forse più per fedeltà a pregiudiziali dogmatico-penalistiche che per individuare soluzioni migliori rispetto a quelle sperimentate dalla giurisprudenza negli ultimi trent’anni. Del resto a me è capitato più volte di rimanere intrappolato nelle categorie concettuali che mi sembravano in astratto più nitide ma allo stesso tempo più lontane dalla realtà: lo studioso, d’altro canto, corre sempre il rischio della dissociazione dal contesto empirico. Ad ogni modo, la dottrina, ha tutto sommato vissuto da protagonista la querelle sul concorso esterno, combattendo nobilmente battaglie perse ID., Il concorso esterno nell’associazione mafiosa: profili dogmatici ed esigenze politico criminali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, 1303 ss.
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ma anche interagendo bene con parte della giurisprudenza nel comune intento di arginare l’espansione incontrollata della fattispecie criminosa. Leggendo attentamente le sentenze più importanti della Cassazione ma anche dei giudici di merito, infatti, emergono spesso veri e propri dialoghi tra dottrina e giurisprudenza che testimoniano un fecondo scambio culturale tra i due mondi. 5. – Quanto al terzo formante, il legislatore non si è mai assunto la responsabilità di legiferare, ponendo così un confine netto fra penalmente lecito ed illecito. Si contano decine di proposte di legge, alcune pure ben congegnate, ma mai coltivate in sede parlamentare. Qualsiasi fosse la maggioranza politica, le ipotesi di riforma con oggetto la tipizzazione della condotta punibile sono state scoraggiate (rectius: impallinate) dal formante mediatico. Ricordo ad esempio che quando fu organizzato un convegno da un partito in Parlamento, credo fosse il 1996, per lanciare una proposta formulata dal prof. Fiandaca diretta a tipizzare il concorso esterno, arrivò una scomunica dal Brasile dove un pool di magistrati della procura di Palermo, pur impegnati in interrogatori investigativi, si premurarono di far sapere a mezzo di comunicato stampa il loro parere: il concorso esterno non si doveva toccare e ogni iniziativa in tal senso avrebbe indebolito la lotta alla mafia. E infatti quel partito abbandonò subitamente l’idea. Al contrario, tanti anni dopo, ha imperversato a lungo la campagna mediatica a sostegno della proposta di riformare il reato di scambio politico-mafioso nella direzione opposta, ossia allargarne l’ambito di punibilità. Una campagna condotta da tanti organi mediatici e attori politico-sociali che ha costretto il Parlamento a intervenire addirittura più volte sulla fattispecie, con rimaneggiamenti uno peggiore dell’altro all’insegna del “punire tutto e più severamente” e che alla fine ha prodotto – ora sì! – un vero “mostro giuridico”, cioè l’attuale art. 416-ter c.p. 7. A 7
Come noto, l’art. 416-ter c.p. è stato rimaneggiato in senso repressivo nel 2014 con la legge n. 62 e nel 2019 con la legge n. 43. Amplius, sulla riforma del 2014 G. AMARELLI, La contiguità politico-mafiosa, Roma, 2017, 264 ss.; ID., La riforma del reato di scambio elettorale politico-mafioso. Una più chiara graduazione del disvalore delle condotte di contiguità mafiosa?, in Dir. pen. cont., 2014; C. VISCONTI, Verso la riforma del reato di scambio elettorale politicomafioso: andiamo avanti, ma con giudizio, ivi, 2013; e su quella del 2019 G. AMARELLI, L’en-
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un certo punto, per alcune forze politiche era diventato un “mantra”, come se dalla riforma finalizzata a estendere la punibilità del reato di scambio elettorale politico-mafioso dipendessero le sorti dell’intera lotta alla mafia, perché finalmente per questa via si sarebbero messe in ginocchio le complicità politiche alle organizzazioni criminali. Basterebbe consultare un repertorio giurisprudenziale per rendersi conto che in realtà le riforme attuate non hanno generato un granché di controllo penale aggiuntivo sui fenomeni di complicità tra mafia e politica e chissà, forse la macchinosa formulazione della fattispecie ora vigente ne ha perfino scoraggiato l’applicazione. Anche al formante legislativo, ciononostante, si può riconoscere un merito, in quanto se da un lato non ha avuto il coraggio di intervenire direttamente sul concorso esterno, dall’altro e (per dir così) alla chetichella ha introdotto una serie di nuove fattispecie che in qualche modo risultano ispirate all’obbiettivo politico-criminale di offrire alla prassi alternative repressive riguardanti comunque l’area della contiguità filo mafiosa. Lo ha bene messo in evidenza Giuseppe Amarelli in un recente saggio, indicando nel reato di “Agevolazione ai detenuti e internati sottoposti a particolari restrizioni delle regole di trattamento e degli istituti previsti dall’ordinamento giudiziario” di cui all’art. 391-bis c.p. introdotto nel 2009, e nel reato di depistaggio aggravato ex art. 375, comma 2, c.p., introdotto nel 2016 (oltre che nelle improvvide riforme dell’art. 416-ter c.p.) 8, i contorni di una strategia legislativa volta a tipizzare con fattispecie ad hoc le forme ricorrenti di collusione con la mafia e così sottrarle il più possibile al campo di intervento del concorso esterno. Alla stessa logica risponde anche l’eccentrica fattispecie introdotta nel 2010 e oggi prevista dall’art. 76, comma 8, del c.d. Codice antimafia che incrimina il candidato alle elezioni che “si avvale concretamente” di un soggetto sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, nonché l’ammodernamento con l’inserimento di nesima riforma dello scambio elettorale politico-mafioso tra molte ombre e nessuna luce, in Dir. pen. proc., 2019, 9 ss. 8 Cfr. G. AMARELLI, Contiguità mafiosa e controllo penale: dall’euforia giurisprudenziale al ritorno alla legalità, in Materiali per una cultura della legalità, a cura di G. Acocella, Torino, 2018, 87 ss.
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ulteriori condotte punibili del reato di assistenza agli associati di cui all’art. 418 c.p. varato nel 2001 9. Se aggiungiamo, poi, le fattispecie storicamente preesistenti al divampare della discussione sul concorso esterno (favoreggiamento aggravato e la circostanza aggravante del fine di agevolare un’associazione mafiosa), a uno sguardo diacronico può ben dirsi che al formante legislativo non si può rimproverare di essere rimasto del tutto inerte rispetto alla tema del se e come reprimere il collaborazionismo in favore della mafia. 6. – Ora, raccontata così, “dal di fuori” la storia del concorso esterno sembrerebbe quasi una storia di successo; ma basterebbe adottare il punto di vista “dal di dentro”, ad esempio quello di chi si è trovato indagato o imputato per concorso esterno con accuse formulate in modo vago e inafferrabile, o di chi ha ottenuto dopo lungo tempo e con assai strazio una sentenza di assoluzione con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, per capovolgere la narrazione e piuttosto presentarla come una Via Crucis. E una simile presa d’atto sarebbe sufficiente per convincersi che sì, varrebbe davvero la pena raccogliere l’invito degli organizzatori del convegno di oggi volto a riaprire il cantiere delle riforme per dare un volto legale, finalmente ben definito, al concorso esterno. Facciamolo pure, quindi. Sapendo, però, che ogni qual volta il formante legislativo si mette in moto il “quarto incomodo”, il formante mediatico, è sempre pronto a dire la sua, a intonare il “crucifige”. Lo abbiamo visto negli ultimi tempi con la vicenda dell’ergastolo ostativo: neanche le compassate e prudenti prese di posizione della Corte costituzionale per una rivisitazione dell’istituto più conforme al principio di rieducazione 10, hanno consentito al formante legislativo di adeguarvisi 9
Come noto, il d.l. 18 ottobre 2001, n. 374, ha infatti inserito tra le condotte incriminatrici quelle consistenti nel fornire agli associati ospitalità, mezzi di trasporto e strumenti di comunicazione. 10 Cfr. l’ordinanza ad incostituzionalità solamente prospettata resa dalla Corte costituzionale nel maggio del 2021 (Corte cost., ord. 11 maggio 2021, n. 97, in Giur. cost., 2021, con nota di A. PUGIOTTO, Leggere altrimenti l’ord. n. 97 del 2021 in tema di ergastolo ostativo alla liberazione condizionale, 1182 ss.).
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senza subire pesantemente i condizionamenti in senso opposto del formante mediatico. D’altro canto, cambiano i governi e le maggioranze politiche, e tuttavia a volte si ha la sensazione che nulla cambi dall’ottica di un auspicabile diritto penale non ipertrofico e più razionale: ieri si sfornava l’omicidio stradale, oggi il reato di rave party 11.
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V. il nuovo art. 434-bis c.p., introdotto dal d.l. n. 162/2022 convertito con modificazioni con l. n. 199 del 2022. Cfr. per osservazioni critiche a prima lettura A. CAVALIERE, L’art. 5 D.L. 31 ottobre 2022, n.162: tolleranza zero contro le “folle pericolose” degli invasori di terreni ed edifici, in Critica del diritto, 2022; C. RUGA RIVA, La festa è finita. Prima osservazioni sulla fattispecie che incrimina i “rave party” (e molto altro), in Sist. pen., 2022; ID., Indietro (quasi) tutta. Sulla nuova fattispecie di invasione di terreni o edifici altrui pericolosa per la salute o incolumità pubblica, ivi, 2023; L. SIRACUSA, La spada penale trafigge i rave party. Osservazioni attorno al nuovo reato di “Invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi (art. 434-bis c.p.)”, in Giustizia insieme, 2022.
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LA TIPICITÀ DEBOLE DEL DELITTO DI ASSOCIAZIONE DI TIPO MAFIOSO di Gian Domenico Caiazza
Ringrazio l’Università degli Studi di Napoli Federico II, il Dipartimento di Scienze Politiche e l’Istituto di Studi politici “San Pio V” per aver voluto ascoltare anche la voce dei Penalisti italiani. L’Avvocato penalista, d’altronde, è colui che vive quotidianamente i problemi legati alla tipicità sgranata di una norma penale come l’art. 416-bis c.p. Ritengo sia giusto attribuire al legislatore la responsabilità per la scelta del modello incriminatorio utilizzato nel caso di criminalità organizzata; un legislatore che ha ritenuto insufficiente quanto previsto all’art. 416 c.p. per poter ricomprendere le peculiari associazioni di tipo mafioso, scegliendo dunque di configurare il reato di cui all’art. 416-bis c.p. (è questa, probabilmente, la cifra del legislatore in materia penale, che spesso sceglie di destrutturare il modello di riferimento, propendendo per l’introduzione di nuove fattispecie “bis”, “ter”, “quater” etc.). Il reato di cui si discute descrive concetti di tipo sociologico, legati all’osservazione del fenomeno (come l’intimidazione, l’omertà). La norma fotografa le caratteristiche di un fenomeno nel periodo storico in cui è stata elaborata, ferma restando, all’ultimo comma, l’introduzione di una clausola generale, con il rischio di estendere il precetto a situazioni del tutto distinte dal fenotipo originale. Così facendo, il legislatore candida la giurisprudenza di legittimità a governare un fenomeno interpretativo complesso e pericoloso. Come penalisti, viviamo quotidianamente la tonnara dei processi di associazionismo mafioso. La categoria ha infatti seguito i diversi e distinti filoni giurisprudenziali che si sono registrati, in costante attesa di un pronunciamento delle Sezioni Unite, osservando le
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vicende processuali di persone che hanno scontato il costo della tipicità della norma. Il tema del 416-bis c.p. va poi considerato in senso ampio, poiché da questa disposizione è gemmato il c.d. “doppio binario”. Attorno ad una norma speciale, che descrive un fenomeno speciale (di grande allarme sociale) è infatti stato concepito un rito processuale speciale. L’attuale sistema processuale in materia di criminalità mafiosa è doppiamente patologico. È patologico perché rappresenta un allontanamento dai normali schemi procedimentali; inoltre, per mezzo delle disposizioni del codice di rito, si estende al di là dei confini dell’art. 416-bis c.p., applicandosi a fattispecie del tutto distinte. Il doppio binario si espande infatti in modo anomalo, seguendo un’idea, a mio parere, errata: l’idea dell’emergenza. Secondo questo concetto, un fenomeno grave deve essere concettualmente qualificato come emergenza, imponendo dunque l’utilizzo di strumenti eccezionali di tipo derogatorio. È un’idea che, a ben vedere, è antecedente all’art. 416-bis c.p., essendo già stata applicata in relazione al fenomeno del terrorismo. Anche quello era certamente un fenomeno gravissimo, in cui delle associazioni si proponevano come obiettivo dichiarato quello di realizzare uccisioni, stragi. A tale fenomeno si reagì in senso derogatorio con il Decreto Cossiga: custodie cautelari portate a 12 anni e 6 mesi come termine massimo, fermi di polizia della durata di 3 giorni (senza che il soggetto sottoposto a fermo potesse avvertire il suo avvocato o i suoi familiari), la possibilità di perquisire interi quartieri. Richiamo il Decreto Cossiga poiché è espressione di quella idea innanzi richiamata, ossia che in presenza di un’emergenza sociale gravissima lo Stato può permettersi di derogare i propri principi di riferimento. Quanto evidenziato non può che indebolire il patto sociale. Inoltre, tale dinamica si riflette sulla necessità di intervento della Corte costituzionale, chiamata a individuare soluzioni interpretative che possano ricondurre quelle norme nell’alveo del dettato della Carta fondamentale. Ciò è senza dubbio errato. Esistono, invero, delle emergenze, ma non sono quelle di cui trattiamo. Il fenomeno mafioso è endemico, tutt’altro che emergenziale. L’emergenza è, ad esempio, quella sanitaria che abbiamo vissuto in questi anni; circostanze obiettivamente extra ordinem che hanno portato a de-
La tipicità debole del delitto di associazione di tipo mafioso
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roghe delle libertà costituzionali (ad esempio, i divieti di circolazione, le autodichiarazioni, etc.). La mafia, invece, non è un’emergenza, ma un grande problema endemico nella nostra società, che dev’essere però affrontato con gli strumenti propri di uno Stato di diritto. Vorrei condividere una riflessione di un uomo politico considerato da tutti fedele ai principi costituzionali. Marco Pannella, intuendo in modo visionario i termini essenziali della vicenda, in materia di terrorismo, asserì che sarebbe stata addirittura preferibile l’introduzione di Tribunali speciali in luogo di normative speciali che derogavano i principi di garanzia dell’ordinamento giuridico. Era meglio, pertanto, l’introduzione di un Tribunale speciale che la creazione di un doppio binario destinato a contaminare l’intero settore penale. Nei precedenti interventi, si ricordava il Decreto rave che ha introdotto una fattispecie pericolosissima e dalla difficile definizione. Tuttavia, ritengo che la cosa più grave sia aver inserito tale reato nel catalogo del codice antimafia ai fini dell’applicazione delle misure di prevenzione personali. Questo è il frutto malato del doppio binario. Ritornando a quanto affermato dal Pannella, è possibile considerare che diverse democrazie hanno preferito affrontare problemi seri con Tribunali speciali, senza prevedere deroghe all’interno dei settori ordinari. È il caso, ad esempio, dell’Inghilterra che ha gestito i fatti accaduti durante la guerra civile con un Tribunale speciale, salvaguardando l’uniformità e l’integrità dell’ordinamento. In conclusione, in materia di associazionismo mafioso, non si può non registrare un tentativo fallito del legislatore che ha impegnato la giurisprudenza di legittimità a contenere e determinare ciò che sarebbe compito del legislatore stesso. A tale fallimento si affianca una distorsione dei principi dell’ordinamento e, specularmente, lo snaturarsi delle stesse misure concepite in tema di reati mafiosi che oggi trovano applicazione in contesti del tutto differenti (è il caso, ad esempio, di quanto è accaduto con il Decreto Spazza Corrotti, che è giunto sostanzialmente ad equiparare, sempre in nome della emergenza, i reati di mafia ai reati contro la Pubblica Amministrazione). È necessario dunque comprendere e riflettere su ciò che è accaduto, verificare quali sono state le reazioni a un fatto grave, qual è la mafia, per il quale si sono imboccate strade sbagliate e strumenti erronei. Come
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Avvocati, forniamo il nostro contributo, che spesso confluisce, com’è il caso dei ricorsi, nelle pronunce della giurisprudenza di legittimità che cercano di ricondurre la norma sui binari dell’ordinamento. In tema di mafia, spero in una risposta forte dello Stato, una risposta speciale che non sia, però, l’introduzione di norme derogatorie, ma una risposta in termini di strumenti da fornire agli inquirenti, e prima ancora alle forze di Polizia in termini di controllo del territorio. Il processo e il diritto penale devono rimare fuori dall’idea di combattere il fenomeno. Nei processi si accertano le responsabilità individuali, non si accerta né tantomeno si combatte un fenomeno sociale.
LO SCAMBIO ELETTORALE POLITICO-MAFIOSO: UNA FATTISPECIE DA RIPENSARE di Giuseppe Amarelli
1. La vita travagliata del delitto di scambio elettorale politico-mafioso e l’ultima poco convincente riforma del 2019 Il delitto di scambio elettorale politico-mafioso, dopo la sua introduzione in piena emergenza stragista nel 1992 all’interno dell’art. 416-ter c.p. 1, è stato protagonista negli ultimi anni di una vita legislativa particolarmente tribolata, conclusasi con un ultimo intervento novellistico di 1
Com’è noto, il delitto di cui all’art. 416-ter c.p. è stato introdotto nel nostro sistema penale solo con la legge n. 356/1992 sull’onda emotiva degli attentati di Capaci e Via D’Amelio. Tuttavia, nonostante i buoni propositi, era stato immediatamente condannato alla desuetudine applicativa a causa di una improvvida formulazione letterale che, tra le altre cose, ne aveva ridotto lo spazio operativo ai soli (rarissimi) patti elettorali aventi ad oggetto la promessa di voti in cambio di quella della erogazione di denaro (sul punto cfr. C. VISCONTI, Il reato di scambio elettorale politico-mafioso, in Ind. pen., 1993, 273 ss.). Per ovviare ad una simile situazione di tacita abrogazione, la giurisprudenza aveva sperimentato discutibili soluzioni ermeneutiche cripto-analogiche come, ad esempio, Cass. pen., Sez. VI, 11 aprile 2012, n. 20924, in Cass. pen., 2013, 1927, con cui si era forzata la littera legis dell’art. 416-ter c.p. applicandolo anche a scambi elettorali aventi ad oggetto la promessa di altri vantaggi economici e non solo di denaro. Criticamente si veda C. VISCONTI, Verso la riforma del reato di scambio elettorale politico-mafioso: andiamo avanti, ma con giudizio, in www.penalecontemporaneo.it, 17 giugno 2013, 4. Sul punto, per una ricostruzione della origine e della evoluzione legislativa della fattispecie sia consentito rinviare al nostro G. AMARELLI, La contiguità politico-mafiosa. Profili politico-criminali, dommatici ed applicativi, Roma, 2017, 199 ss.; in argomento cfr. anche G. DE FRANCESCO, Il delitto di scambio politicomafioso fra tradizione e innovazione, in Leg. pen., 2014, 219 ss.
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matrice prevalentemente populistico-penale 2, foriero, come si vedrà, di molti dubbi di costituzionalità. Dopo la radicale riformulazione del tipo criminoso operata con la legge n. 62/2014 allo scopo di restituire finalmente effettività ad una fattispecie che, invece, era rimasta sostanzialmente inapplicata nella prassi giurisprudenziale a causa di una impropria descrizione letterale dei fatti penalmente rilevanti 3, e dopo una successiva e opinabile rimodulazione in peius delle cornici di pena effettuata con la legge 23 giugno 2017, n. 103 4, l’art. 416-ter c.p. è stato, infatti, nuovamente modificato con la legge 21 maggio 2019, n. 43 5. Tuttavia, i significativi cambiamenti in malam partem apportati in questa occasione dal legislatore, non essendo fondati su ragioni oggettive realmente esistenti, ma rispondendo prevalentemente (se non esclusivamente?) a errati apprezzamenti politico-criminali di tipo simbolico 6 e 2
L’emersione di correnti populiste in ambito penale era già stata segnalata in anticipo da G. FIANDACA, Populismo politico e populismo giudiziario, in Criminalia, 2014, 102; D. PULITANÒ, Populismi e penale. Sulla attuale situazione spirituale della giustizia penale, ivi, 123 ss. Da ultimo si veda E. AMATI, L’enigma penale. L’affermazione politica dei populismi nelle democrazie liberali, Torino, 2021, passim; ID., Insorgenze populiste e produzione del penale, in www.discrimen.it, 3 giugno 2019. 3 In argomento sia consentito rinviare ancora al nostro G. AMARELLI, La contiguità politico-mafiosa, cit., 210 ss. 4 Con tale riforma il compasso sanzionatorio è stato innalzato sia nel minimo che nel massimo, portando la pena da sei a dodici anni di reclusione e riavvicinandola sensibilmente a quella comminata per il delitto di cui all’art. 416-bis c.p., senza, però, arrivare all’effettiva parificazione. In argomento cfr. G. AMARELLI, Prove di populismo penale: la proposta di inasprimento delle pene per lo scambio elettorale politico-mafioso, in www.penalecontempora neo.it, 2 maggio 2017. 5 Per un primissimo commento alla riforma si veda A. CISTERNA, Voto di scambio: la legge pubblicata in Gazzetta, in http://www.quotidianogiuridico.it, 28 maggio 2019; P. MOROSINI, Inquinamento mafioso della politica e legge penale, in www.questionegiustizia.it, 5 giugno 2019. Per una disamina più approfondita cfr. G. PANEBIANCO, La nuova configurazione del delitto di scambio elettorale politico-mafioso, in www.legislazionepenale.eu, 18 ottobre 2019; P. INSOLERA, Art. 416 ter c.p. scambio elettorale politico mafioso: storia di una fattispecie senza pace, in www.penalecontemporaneo.it, 2019, 26 settembre 2019; M. DELLAGIACOMA, Il delitto di scambio elettorale politico-mafioso post 2019: quale pena per il politico e per l’esponente mafioso?, in www.sistemapenale.it, 15 gennaio 2021. 6 Sull’impiego in chiave emergenziale e simbolico-espressiva del diritto penale si rinvia,
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a obiettivi di facile aggregazione di consenso sociale 7, appaiono decisamente non convincenti ed, anzi, portano a ritenere necessario, oggi, dopo circa quattro anni di vigenza, un ennesimo (e si spera risolutivo) intervento legislativo, in modo da eliminarli quasi tutti e restituire alla fattispecie un volto decisamente più compatibile con i principi di offensività, proporzionalità e rieducazione. Appare, invero, frutto di una deformata rappresentazione del pregresso assetto legislativo sostenere l’indefettibilità, per ragioni di sicurezza collettiva, da un lato, dell’ampliamento del perimetro della fattispecie alla mera disponibilità del candidato a soddisfare le esigenze del sodalizio inopinatamente ridotto dalla vecchia riforma, e, dall’altro, del ripristino del rigore punitivo della originaria formulazione del 1992 dell’art. 416-ter c.p. “concepita e studiata da Giovanni Falcone”. La prima soluzione, infatti, non tiene conto della necessità di circoscrivere lo spettro d’azione della figura delittuosa ai soli casi di voto di scambio espressivi di una seria e concreta possibilità di infiltrazione mafiosa nelle istituzioni pubbliche, per evidenti ragioni di coerenza con i principi costituzionali di precisione-determinatezza, offensività ed extrema ratio 8. Mentre l’invocazione del ritorno alla assimilazione quoad poenam tra ex multis, a S. MOCCIA, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, 2ª ed., Napoli, 2000, passim. 7 I peculiari rapporti tra consenso sociale e processi di criminalizzazione sono indagati da C.E. PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, 850 ss.; da ultimo, sul punto, cfr. G. INSOLERA, Consenso e diritto penale, in www.discrimen.it, 6 giugno 2019. 8 Peraltro, come rileva C. VISCONTI, Contiguità alla mafia e responsabilità penale, Torino, 2003, 399, non si deve trascurare che l’intera attività politica in una democrazia rappresentativa – dal momento iniziale della individuazione dei candidati e della presentazione delle liste, passando per quello delle campagne elettorali che si svolgono prima delle consultazioni, fino a quello dello svolgimento dei mandati dei candidati eletti – ha sempre un’ineliminabile componente ‘compromissoria’, dipendendo la decisione di candidarsi, così come le preferenze espresse nelle urne e, in un secondo momento eventuale, il consenso sull’operato politico, da accordi più o meno vincolanti stipulati in precedenza tra candidato ed elettore. Incriminare indistintamente ogni forma di intesa elettorale, anche quella avente ad oggetto una mera disponibilità futura ed indeterminata del candidato, significa rischiare di comprimere in maniera indebita spazi fisiologicamente esistenti nelle elezioni politiche ed amministrative.
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il delitto di scambio elettorale e quello di partecipazione associativa mafiosa di cui all’art. 416-bis, comma 1, c.p. omette di considerare che nel corso degli anni l’intera normativa penale di settore è radicalmente cambiata e che il testo del delitto di scambio elettorale, all’esito della modifica bifasica degli ultimi anni, risultava simmetrico e razionale rispetto ad essa. La precedente previsione di una cornice di pena autonoma e ridotta per il voto di scambio rispetto alla partecipazione associativa non era il frutto di una decisione di favore per i contigui alla mafia (sic!), ma la presa di coscienza del fatto che la stipula di un mero patto elettorale politico-mafioso presenti un disvalore sensibilmente diverso rispetto alla affiliazione operativa ad un sodalizio mafioso e possa riguardare anche intese con soggetti non ‘intranei’ ad esso, ma che promettano solamente di avvalersi del metodo mafioso. Senza trascurare che la diversa opzione del legislatore del recente passato si innestava in una nomografia della contiguità politico-mafiosa molto chiara e coerente, in cui si affiancavano armonicamente – in chiave di progressivo e crescente disvalore – tre differenti figure delittuose: il delitto di corruzione elettorale aggravato dall’art. 416-bis.1 c.p. per i casi di acquisto al dettaglio di voti con modalità o finalità mafiose; il delitto di scambio elettorale di cui all’art. 416-ter c.p. per le ipotesi di mere pattuizioni elettorali aventi ad oggetto la promessa di voti ‘mafiosi’ versus denaro o altra utilità; ed il delitto di concorso esterno di cui al combinato disposto degli artt. 110 e 416-bis c.p. per le più gravi situazioni di effettivo contributo rafforzativo o salva-vita prestato da un candidato non affiliato a favore di un clan mafioso. Il delitto in parola serve, infatti, a fornire una tutela anticipata ad un sotto-tipo della contiguità politico-mafiosa, quella c.d. elettorale, di particolare gravità 9, in quanto lesivo di alcuni dei valori basilari su cui si fonda una moderna repubblica democratica, come il principio ed il metodo democratico di cui, rispettivamente, agli artt. 1 e 49 Cost., la libertà di mandato di cui all’art. 67 Cost., ed il diritto di voto di cui all’art. 48 Cost. 10. Ma tali obiettivi di tutela, per quanto rilevanti, non possono 9 Sulle diverse forme della contiguità mafiosa cfr. C. VISCONTI, Contiguità alla mafia, cit., 400 ss. 10 Su tali profili sia consentito rinviare più ampiamente al nostro G. AMARELLI, La conti-
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mai condurre ad oltrepassare i limiti della stretta necessità tanto nella estensione della sua portata applicativa, quanto nella dosimetria sanzionatoria.
2. Le principali novità apportate nel 2019 Ma prima di addentrarci nelle critiche, è opportuno dare conto delle diverse novità apportate dalla riforma del 2019, in modo da poter meglio cogliere la natura pleonastica di alcune e quella di dubbia costituzionalità di altre. In particolare, il legislatore, dopo aver scartato in sede di approvazione definitiva dei disegni di legge presentati talune soluzioni ancora più estreme 11, quali l’idea di indicare come unico soggetto attivo del reato a guità politico-mafiosa, cit., spec. 136 ss. e alla dottrina anche di stampo sociologico ivi richiamata che ravvisa nella dimensione relazione con la società civile, e, soprattutto, con la politica, la vera cifra identitaria dell’attuale fenomeno mafioso. Conviene con tale assunto di fondo anche P. MOROSINI, Inquinamento mafioso della politica e legge penale, cit., nella premessa al suo commento alla riforma in questione. Nutre, invece, riserve sulla necessità di una fattispecie autonoma in materia di scambio elettorale politico-mafioso, reputando sufficienti quelle già esistenti in materia di reati elettorali, A. CAVALIERE, Lo scambio elettorale politico-mafioso, in AA.VV., Trattato di diritto penale, a cura di S. MOCCIA, vol. I, I delitti contro l’ordine pubblico, Napoli, 2006, 649. 11 Ci si riferisce ai disegni di legge C. 1302 Giarrusso e C. 766 Colletti, consultabili in https://temi.camera.it/leg18/dossier/OCD18-11670/modifica-articolo-416-ter-del-codice-pe nale-materia-voto-scambio-politico-mafioso-1.html. Più precisamente, il d.d.l. C. 1302 proponeva di riscrivere il delitto di cui all’art. 416-ter c.p. nel seguente modo: “Chiunque accetta, direttamente o a mezzo di intermediari, la promessa di procurare voti da parte di soggetti la cui appartenenza alle associazioni di cui all’articolo 416-bis sia a lui nota in cambio dell’erogazione o della promessa di erogazione di denaro o di qualunque altra utilità o in cambio della disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione mafiosa è punito con la pena stabilita nel primo comma dell’articolo 416-bis. // La stessa pena si applica a chi promette di procurare voti nei casi di cui al primo comma. // Se chi ha accettato la promessa di voti di cui al primo comma è eletto, la pena è aumentata della metà. // In caso di condanna per i reati di cui al presente articolo, consegue sempre l’interdizione perpetua dai pubblici uffici”. Mentre il d.d.l. C. 776 recava la seguente proposta: “Chiunque chiede, accetta od ottiene, ovvero si adopera per far ottenere la promessa di procurare voti prevista dal terzo comma dell’articolo 416-bis in cambio dell’erogazione o della promessa di erogazione di denaro o di altra utilità, per sé o per altri, è punito con la reclusione da sei a dodici anni”.
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parte promittente il ‘mafioso’ e non ‘chiunque prometta di procacciare voti con metodo mafioso’, quanto quella di incriminare solo i casi in cui fosse nota l’appartenenza mafiosa del promittente, nonché quella di sopprimere il comma 2 che estende le pene previste per il promissario al promittente, che se approvate, avrebbero prodotto una incomprensibile frustrazione delle velleità securitarie perseguite, finendo – al contrario – per ridurre sensibilmente l’ambito di operatività della fattispecie di cui all’art. 416-ter c.p., rispetto a quello co-definito nel corso degli ultimi anni dal diritto vivente, è intervenuto innanzi tutto sulla descrizione del comportamento incriminato.
3. Gli interventi pleonastici sul novero dei soggetti attivi Più precisamente, il primo elemento di novità che balza agli occhi riguarda il novero dei soggetti attivi, rispetto al quale è stata sostituita, per ambo le parti del sinallagma illecito, nei rispettivi commi 1 e 2 dell’art. 416-ter c.p., la generica descrizione originaria con una elencazione più analitica che individua espressamente come possibili autori tanto i diretti interessati (i.e. il promissario ed il promittente i voti) quanto eventuali mediatori. Tuttavia, l’idea di avvicendare il “chiunque” con cui si designavano entrambi i protagonisti del patto nella vecchia formulazione con la più dettagliata locuzione chiunque “direttamente o a mezzo di intermediari” risulta del tutto superflua, limitandosi ad esplicitare un profilo già pacifico sotto la vigenza dell’altro testo legislativo e non producendo quel dichiarato effetto espansivo dell’area di operatività della fattispecie sbandierato dal legislatore. L’ampiezza della pregressa formula descrittiva del soggetto attivo già consentiva di considerare configurato il delitto in questione nel caso di stipula del patto elettorale politico-mafioso tramite un intermediario, sia come autore ex se del delitto, sia, ancor più facilmente, quale concorrente eventuale ai sensi dell’art. 110 c.p., tanto nelle vesti di ausiliatore unilaterale della condotta sia del promittente che del promissario, quanto in quelle di agevolatore bilaterale.
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Anzi, per una assurda eterogenesi dei fini, tale puntualizzazione potrebbe sortire esiti diametralmente opposti rispetto a quelli auspicati, dando vita sul versante del diritto intertemporale ad una sorta di amnistia mascherata per gli scambi elettorali realizzati dagli intermediari. Non è da escludersi che la giurisprudenza possa interpretarla da un punto di vista diacronico – come di recente ha fatto in occasione di altre riforme che avevano un’analoga veste innovativa solo apparente, quale, ad esempio, quella relativa al delitto di traffico di influenze di cui all’art. 346-bis c.p. rispetto al millantato credito ex art. 346 c.p. 12 (prima della loro recentissima riformulazione nel 2019) – come una ‘nuova incriminazione’ ex art. 2, comma 1, c.p. diretta a punire fatti prima non presi in considerazione dalla pregressa disposizione, determinando così il proscioglimento di tutti gli indagati o imputati per le intermediazioni realizzate nella vigenza del vecchio testo perché al momento del loro compimento ‘non costituivano reato’. Sempre sul fronte dei soggetti attivi del delitto nel 2019 è stata introdotta un’altra novità per il solo procacciatore dei voti, precisandosi che può essere anche un appartenente alle associazioni di cui all’articolo 416bis c.p., oltre che chiunque si impegni a procurare voti mediante il metodo mafioso. Anche questa opzione, però, è priva di una vera vis innovativa, creando anzi più problemi di quelli che mirava a risolvere. Non solo pure in tal caso la formulazione pregressa già annoverava questi soggetti tra i possibili autori del delitto, rivolgendosi indistintamente a chi prometteva di procurare i voti senza distinzioni di sorta, ma, in più, una simile specificazione alimenta non pochi dubbi su come debba intendersi questa categoria di soggetti “appartenenti” a clan mafiosi; vale a dire, se a tal fine si debba richiedere la condanna definitiva per il delitto di cui all’art. 416-bis c.p., oppure ci si possa accontentare della più generica nozione di appartenente elaborata in materia di misure di prevenzione e comprensiva, quindi, oltre che dei meri indiziati del delitto di 12
Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 2 febbraio 2016, n. 23355 con nota di M. GAMBARDELLA, Corruzione, millantato credito e traffico di influenze nel caso ‘Tempa Rossa’: una debole tutela legittima, in Cass. pen., 2016, 3591.
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associazione mafiosa, anche dei concorrenti esterni, dei favoreggiatori personali aggravati, ecc. 13. Inoltre, essa pone il problema non secondario della conoscenza da parte del candidato della ‘caratura mafiosa’ del promittente i voti, aprendo così le porte a pericolose contestazioni allargate del delitto passibili di una eventuale confutazione successiva all’esito di un vaglio più attento del materiale probatorio in cui si dimostri la non conoscenza di tale aspetto da parte del promissario.
4. Le modifiche della condotta incriminata ed i dubbi di costituzionalità circa la punibilità della mera disponibilità Per quanto attiene alla condotta tipizzata, la prima modifica apportata ha riguardato l’oggetto della prestazione corrispettiva del promissario ed è consistita nell’aggiunta dell’aggettivo indefinito “qualunque” prima della locuzione “altra utilità”. Anche questo intervento, però, risulta del tutto irrilevante, dal momento che è privo di qualsiasi funzione incriminatrice, non incidendo affatto sul raggio di azione della fattispecie. Il sintagma “altra utilità” già esistente in precedenza viene difatti tradizionalmente inteso in un’accezione amplissima che non necessita di 13 Di recente, sulla nozione di appartenenza mafiosa in materia di misure di prevenzione si è pronunciato il massimo organo nomofilattico nella più autorevole delle sue composizioni con Sez. un., 4 gennaio 2018, n. 111, in Dir. pen. proc., con nota di L. DELLA RAGIONE, 2019, 83 ss., in cui è stato affermato che “nell’ampio concetto di appartenenza, richiamato nell’art. 4, d.lgs. n. 159/2011, quale condizione legittimante l’applicazione della misura, si ritengono rilevanti anche condotte non connotate dal vincolo stabile, ma astrattamente inquadrabili nella figura del concorso esterno di cui agli artt. 110 e 416-bis c.p., […] mentre risulta estranea a tale concetto la mera collateralità che non si sostanzi in sintomi di un apporto individuabile alla vita della compagine”. Peraltro, dalla recente introduzione nell’art. 4, d.lgs. n. 159/2011 del riferimento all’art. 418 c.p. “non può che desumersi conferma dell’impossibilità di qualificare come appartenenza la condotta che, nella consapevolezza dell’illecito, si muova in una indefinita area di contiguità o vicinanza al gruppo, che non sia riconducibile ad un’azione, ancorché isolata, che si caratterizzi per essere funzionale agli scopi associativi”.
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alcun rafforzamento ulteriore. Com’è noto, la giurisprudenza formatasi in materia di altre fattispecie (per tutte, i delitti di concussione e corruzione) ha chiarito che, sebbene esso segua il termine denaro, non possa essere interpretato in un’accezione meramente economico-patrimoniale, dovendosi altresì riferire a qualsiasi vantaggio il soggetto tragga per sé o altri, come ad esempio quello sessuale, quello di carriera, quello dell’onore e del prestigio personale, ecc. 14. Sicuramente più problematica è la seconda modifica apportata sul versante della condotta del promissario, vale a dire quella mirante ad estendere la gamma delle sue controprestazioni, affiancando all’accettazione della promessa o della dazione del denaro o di altra utilità anche la locuzione, introdotta da una ‘o’ avversativa, “in cambio della disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione mafiosa”. Una simile opzione politico-criminale risulta potenzialmente in contrasto con i principi di determinatezza, offensività ed extrema ratio, ampliando in modo indebito ed eccessivo le maglie del delitto in esame. In primo luogo, collega il disvalore del fatto ad un concetto inafferrabile e vago come quello di disponibilità futura ed indistinta nell’an, nel quando e nel quomodo del candidato o dell’intermediario a soddisfare “interessi o esigenze” (altri due concetti decisamente polisenso) dell’associazione mafiosa, introducendo quindi un elemento distonico rispetto al principio di precisione di cui all’art. 25, comma 2, Cost. e di accessibilità dei comandi legali e prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie di cui all’art. 117, comma 1, Cost. rispetto all’art. 7 CEDU 15. Una locuzione così sfrangiata e priva di un contenuto ben definito o definibile in via interpretativa appare difficilmente capace di resistere al vaglio di legittimità costituzionale dopo la recente decisione della Consulta n. 115/2018 con cui è stata chiusa la vicenda Taricco 16 e che ha 14
Sulla accezione ampia della nozione di “altra utilità” in materia di reati contro la p.a. si veda, ex multis, M. PELISSERO, Concussione e induzione indebita a dare o promettere utilità, in C.F. GROSSO-M. PELISSERO, a cura di, Reati contro la pubblica amministrazione, Milano, 2015, 215. 15 Per le critiche mosse contro una simile modifica ampliativa dell’art. 416-ter c.p. si rinvia al nostro La contiguità politico-mafiosa, cit., 264 ss. 16 Per un commento alla decisione della Corte costituzionale si veda C. CUPELLI, La
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conferito al principio di determinatezza una nuova e rafforzata dimensione autonoma e rigida nell’alveo della legalità penale. A corroborare l’impressione circa l’insanabile imprecisione di questo sintagma e, quindi, la assoluta indeterminatezza della sua base legale, contribuiscono le ancor più recenti pronunce gemelle della Consulta in materia di misure di prevenzione, nn. 24 e 25/2019, in cui è stata riaffermata la portata inderogabile del principio di determinatezza in materia penale 17 ribadendo che “nei paesi di tradizione continentale [quale l’] Italia” è indispensabile l’esistenza di un “diritto scritto di produzione legislativa” rispetto al quale “l’ausilio interpretativo del giudice penale non è che un posterius incaricato di scrutare nelle eventuali zone d’ombra, individuando il significato corretto della disposizione nell’arco delle sole opzioni che il testo autorizza e che la persona può raffigurarsi leggendolo”. Ulteriore conferma indiretta la si può ricavare dalla ancora più recente decisione della Corte costituzionale n. 98/2021 con cui sono stati ribaditi una volta di più i caratteri che deve presentare a monte la legge penale e a valle il potere interpretativo del giudice. Peraltro, come si accennava, anche laddove si escludesse che il parametro alla cui stregua valutare la legittimità di questa nuova disposizione sia il principio di determinatezza ex art. 25, comma 2, Cost., la soluzione non muterebbe perché si potrebbe pervenire al medesimo esito usando quale referente il principio di prevedibilità delle decisioni giudiziarie in ambito penale di cui all’art. 117 Cost. rispetto all’art. 7 CEDU, come ha fatto proprio la Corte costituzionale in relazione al delitto di cui all’art. 75 del codice antimafia quando, accogliendo la questione, ha ulteriormente precisato che “l’attività interpretativa del giudice, anche nella forma dell’interpretazione adeguatrice costituzionalmente orientata, può sì perimetrare i confini della fattispecie penale circoscrivendo l’area della condotta penalmente rilevante. Ma rimane pur sempre un’attività dichiarativa” che presuppone, quindi, un dato letterale sufficientemente predefinito, capace di renderla ragionevolmente prevedibile da parte dei consociati. Corte costituzionale chiude il caso Taricco e apre a un diritto penale europeo ‘certo’, in www. penalecontemporaneo.it, 4 giugno 2018. 17 Sul punto si rinvia a V. MAIELLO, La prevenzione ante delictum da pericolosità generica al bivio tra interpretazione tassativizzante e legalità costituzionale, in Giur. cost., 2019, 332 ss.
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Va, inoltre, rilevato che l’inclusione di questa ulteriore modalità realizzativa era stata già scartata durante i lavori parlamentari della precedente riforma del 2014 (addirittura anche su indicazione delle principali procure antimafia del meridione) proprio perché foriera, a causa della sua genericità, di una estensione eccessiva del raggio di azione della fattispecie capace di introdurre pericolosi cortocircuiti nella già delicata dialettica tra potere politico e potere giudiziario; nonché era stata messa in discussione dalle Sezioni unite nella nota sentenza Mannino del 2005 in quanto permeabile da precomprensioni personali o intuizioni e giudizi etici del singolo giudice del caso concreto, a causa della sua porosità 18. Per giunta, nel momento in cui consente la punibilità anche di una mera disponibilità aperta e futura ad assecondare i desiderata dell’associazione segna un’anticipazione irragionevole ed eccessiva della tutela penale a condotte prodromiche all’offesa dei beni giuridici tutelati dalla fattispecie. Rispetto a simili comportamenti, infatti, la presunzione di pericolosità legislativa non pare poggiare su valutazioni ragionevoli ed attendibili, dando vita ad una ipotesi delittuosa contrastante con il principio di offensività e con quello di extrema ratio in quanto diretta a punire condotte lontane da una concreta messa in pericolo degli interessi in gioco. Infine, sembra inserire nel sistema una disarmonia evidente se la si raffronta con la disciplina prevista per altri reati-accordo dalla struttura analoga, come le fattispecie corruttive da poco riformate. In quell’ambito, com’è noto, è stata configurata nel novellato art. 318 c.p. una fattispecie meno grave per la mera vendita indeterminata della funzione da parte del pubblico ufficiale o i.p.s. (nonostante con i due interventi modificativi del 2015 e del 2019 sia stata innalzata la cornice edittale), vale a dire per il mercimonio della disponibilità futura ed incerta a compiere favori a vantaggio del privato corruttore, ed una fattispecie più grave nell’art. 319 18
Sez. un., 12 luglio 2005, n. 33748, Mannino, in Foro it., 2006, II, 86 ss. con nota di G. FIANDACA-C. VISCONTI, Il patto di scambio politico-mafioso al vaglio delle Sezioni Unite, ha infatti affermato che per la possibile rilevanza penale a titolo di concorso esterno di un patto elettorale politico-mafioso “non basta certamente la mera ‘disponibilità’ o ‘vicinanza’, né appare sufficiente che gli impegni presi dal politico a favore dell’associazione mafiosa, per l’affidabilità e la caratura dei protagonisti dell’accordo, per i connotati strutturali del sodalizio criminoso, per il contesto storico di riferimento e per la specificità dei contenuti del patto, abbiano il carattere della serietà e della concretezza”.
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c.p. per la vendita di un atto determinato o determinabile contrario ai doveri d’ufficio 19. Come ha avuto modo di chiarire di recente anche la giurisprudenza, la risposta penale in materia di delitti-accordo di natura corruttiva è stata cioè congegnata in maniera progressiva, costruendo le due ipotesi descritte come forme crescenti di aggressione ai medesimi beni giuridici 20. Per ragioni di coerenza sistematica, nonché per rispondere ad esigenze di proporzionalità-ragionevolezza della pena, l’incriminazione nell’art. 416-ter c.p. anche della mera disponibilità generica del politico, se proprio la si voleva realizzare, andava allora costruita secondo lo stesso rapporto progressivo utilizzato per i reati di corruzione e, quindi, prevedendo per questo sotto-tipo dello scambio elettorale politico-mafioso una forbice edittale ridotta o in una fattispecie autonoma o, più semplicemente, in una circostanza attenuante speciale.
5. La modifica del trattamento sanzionatorio ed i dubbi di legittimità della sproporzionata equiparazione delle pene alla partecipazione associativa Sicuramente il profilo che più desta preoccupazioni nella riforma è quello relativo al versante sanzionatorio, dove il legislatore – mosso dalle già descritte e parziali finalità simbolico-securitarie – ha operato un ulteriore ed irragionevole inasprimento delle pene comminate per l’ipotesi base dell’art. 416-ter c.p., peraltro già irrigidite – come si è detto – nel 19
Segnala la ragionevolezza di questa distinzione quoad poenam V. MONGILLO, La legge “spazzacorrotti”: ultimo approdo del diritto penale emergenziale nel cantiere permanente dell’anticorruzione, in www.penalecontemporaneo.it, 27 maggio 2019, spec. 245; diversamente, per una critica verso la differenziazione dei sottotipi corruttivi in più fattispecie incriminatrici autonome e per la loro sostituzione con un’unica macro-figura delittuosa onnicomprensiva cfr. M. GAMBARDELLA, Il grande assente nella nuova “legge spazzacorrotti”: il microsistema delle fattispecie di corruzione, in Cass. pen., 2019, 44 ss. 20 Cass. pen., Sez. VI, 27 settembre 2016, n. 40237, ha stabilito che tra gli artt. 318 e 319 c.p. non può sussistere un concorso di reati, trovandosi le due fattispecie in un rapporto di progressione criminosa scandito dalla specialità unilaterale a favore dell’art. 319 c.p.
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2017, reintroducendo la superata e vecchia equiparazione con quelle previste per il delitto di associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416-bis, comma 1, c.p. Tale opzione appare, invero, manifestamente irragionevole, introducendo una assurda parificazione tra situazione fortemente eterogenee come quelle della partecipazione associativa e del concorso esterno, da un lato, e del mero scambio elettorale, dall’altro. Assimilare il trattamento sanzionatorio del delitto di cui all’art. 416-ter c.p. – forma di mera agevolazione occasionale delle attività mafiose – con quello del delitto di cui all’art. 416-bis c.p. – forma di partecipazione permanente e dinamica alle stesse – significa operare una scelta politico-criminale palesemente sproporzionata che finisce con il conferire il medesimo disvalore penale a condotte sensibilmente differenti nella sostanza 21. Difficilmente una simile opzione legislativa potrebbe superare il vaglio della Corte costituzionale, risultando in contrasto con i principi di cui agli artt. 3 e 27, comma 3, Cost., sia all’esito di un più moderno giudizio diadico o ordinale di proporzionalità interna tra gravità del fatto e gravità della sanzione connessa 22, di recente avallato dai giudici costituzionali in tante pronunce come, ad esempio, le nn. 222/2018, 40/2019 23 e, da ultimo, la n. 95/2022 24; sia all’esito di un più tradizionale giudizio triadico o cardinale di proporzionalità esterna che impieghi come tertium comparationis il delitto non tanto di partecipazione associativa, quanto di concorso esterno che contempla la stessa cornice edittale 25. 21 Sul punto cfr. G. PANEBIANCO, La nuova configurazione del delitto di scambio elettorale politico-mafioso, cit., 18 ss.; P. INSOLERA, Art. 416 ter c.p. scambio elettorale politico mafioso: storia di una fattispecie senza pace, cit., 38 ss.; M. DELLAGIACOMA, Il delitto di scambio elettorale politico-mafioso post 2019: quale pena per il politico e per l’esponente mafioso?, cit. 22 Sul principio di proporzionalità della pena e sulla sua recente rivitalizzazione si veda per tutti F. VIGANÒ, La proporzionalità della pena, Torino, 2021. 23 Le due sentenze sono consultabili in www.penalecontemporaneo.it, con i commenti, rispettivamente, di A. GALLUCCIO e di C. BRAY. 24 Sul punto sia consentito un rinvio per approfondimenti al nostro G. AMARELLI, Proporzionalità della pena e sanzioni amministrative-punitive, in Giur. cost., 2022. 25 Cfr. sul punto R. BARTOLI, Dalle ‘rime obbligate’ alla discrezionalità: consacrata la svolta, in Giur. cost., 2019, 2573 ss.; ID., La Corte costituzionale al bivio tra “rime obbligate” e discrezionalità? Prospettabile una terza via, in www.penalecontemporaneo.it, 18 febbraio 2019;
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Come ha, infatti, espressamente affermato la Consulta nella menzionata sentenza n. 222/2018, “la determinazione del trattamento sanzionatorio per i fatti previsti come reato è riservato alla discrezionalità del legislatore, in conformità a quanto stabilito dall’art. 25, comma 2, Cost.; tuttavia, tale discrezionalità incontra il proprio limite nella manifesta irragionevolezza delle scelte legislative, limite che – in subiecta materia – è superato allorché le pene comminate appaiano manifestamente sproporzionate rispetto alla gravità del fatto previsto quale reato. In tal caso, si profila infatti una violazione congiunta degli artt. 3 e 27, Cost., giacché una pena non proporzionata alla gravità del fatto (e non percepita come tale dal condannato) si risolve in un ostacolo alla sua funzione rieducativa”. In un’ottica intrinseca, le sanzioni comminate risultano già manifestamente sproporzionate perché rapportate ad una mera condotta, peraltro di natura solo pattizio-consensuale e, ancor di più, se si tiene conto che oggi sono agganciate anche alla promessa della messa a disposizione futura ad assecondare gli interessi della consorteria. Ma l’irragionevolezza delle cornici di pena emerge in modo ancor più netto all’esito di un giudizio triadico con la fattispecie di associazione di tipo mafioso e la omologa figura del concorso esterno. Le pene elevatissime comminate dall’art. 416-bis c.p. per il solo ‘far parte’ si fondano, infatti, su un modello misto di partecipazione associativa mafiosa che richiede tanto l’affectio societatis, quanto il permanente contributo dinamico dell’intraneo alla vita del sodalizio 26; la loro estensione al concorso esterno si basa sul disvalore peculiare che questo tipo di condotta può assumere quando l’extraneus, pur privo del profilo organizzatorio, apporti all’intero gruppo criminale un contributo effettivamente rafforzativo o salvifico 27. Una loro ulteriore dilatazione alla semplice promessa politico-elettoP. INSOLERA, Discrezionalità legislativa in materia penale-sanzionatoria ed effettività della tutela dei diritti fondamentali, in Ind. pen., 2019, 93 ss. 26 V. MAIELLO, Il concorso esterno tra indeterminatezza legislativa e tipizzazione giurisprudenziale, Torino, 2014, 101 ss. 27 I. GIUGNI, Il problema della causalità nel concorso esterno, in www.penalecontemporaneo.it, 7 ottobre 2017.
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rale, sganciata dai possibili esiti per le sorti del sodalizio, non troverebbe alcuna base logica su cui fondarsi. Anzi, come si vedrà infra, potrebbe dare vita ad esiti davvero paradossali nel caso di effettiva elezione, finendo con il punire più severamente un extraneus per un fatto di mera condotta rispetto ad un partecipe con ruoli operativi o a un concorrente esterno per un reato di evento. La precedente divaricazione della forbice edittale tra le due fattispecie di cui agli artt. 416-bis e 416-ter c.p. era, invece, decisamente più coerente con il principio di proporzionalità e ragionevolezza della pena, oltre che con quello rieducativo, riflettendo il differente disvalore delle condotte della partecipazione, ma soprattutto del concorso esterno, da un lato, e dello scambio elettorale, dall’altro. 5.1. Gli analoghi dubbi per la circostanza aggravante ‘elettorale’ A censure sostanzialmente analoghe si espone anche la seconda novità inserita sul piano dell’apparato sanzionatorio del delitto di scambio elettorale politico-mafioso: l’aggravante speciale ad effetto speciale di cui al nuovo comma 3 dell’art. 416-ter c.p. che contempla un aumento fisso della metà della pena base nell’eventualità in cui il candidato alle elezioni risulti eletto “a seguito” della promessa elettorale di ‘natura’ mafiosa 28. Innanzi tutto, l’inasprimento punitivo è incentrato su di una situazione oggettivamente ‘neutra’ che può, cioè, verificarsi per le ragioni più disparate, potenzialmente anche del tutto indipendenti dallo scambio elettorale precedente, e quindi sganciata da un collegamento causale con l’accordo illecito statuito tra le due parti. Peraltro, l’eventuale nesso di relazione tra il patto elettorale e l’elezione sarebbe sostanzialmente insuscettibile di una verifica processuale rispettosa dello standard probatorio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, potendosi solo presumere la sua esistenza sulla scorta della analisi di una certa circoscrizione elettorale – quella, ad esempio, dove opera il clan in 28
Sul punto cfr. G. PANEBIANCO, La nuova configurazione del delitto di scambio elettorale politico-mafioso, cit., 27 ss.; P. INSOLERA, Art. 416 ter c.p. scambio elettorale politico mafioso: storia di una fattispecie senza pace, cit., 28 ss.; M. DELLAGIACOMA, Il delitto di scambio elettorale politico-mafioso post 2019: quale pena per il politico e per l’esponente mafioso?, cit., 19 s.
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cui risultino dati decisamente superiori a quelli rilevati altrove –, ma non potendo riscontrarla in concreto, essendo il voto segreto. Non si potrà cioè mai acclarare in giudizio, ascoltando i singoli elettori ‘compulsati’ dal promittente i voti con metodo mafioso, se questi abbiano effettivamente ‘rispettato le consegne’ nel segreto dell’urna, nonché se quei voti, non determinabili precisamente in termini numerici, abbiano inciso causalmente sull’esito della consultazione elettorale. Ma soprattutto, una simile opzione politico-criminale finisce con il dare vita ad esiti manifestamente irragionevoli che portano a irrogare sanzioni più elevate nei confronti del patto elettorale politico-mafioso avente ad oggetto una mera disponibilità futura e incerta, rispetto tanto al concorso esterno, quanto alla partecipazione associativa e, addirittura, alla direzione associativa. Partendo, infatti, dalla stessa pena base ed applicando l’aumento sanzionatorio fino alla metà, il rischio è che un extraneus privo anche della qualifica di concorrente esterno possa essere punito con una pena di ventidue anni di reclusione ben più severa di quella di diciotto anni prevista per i vertici di una consorteria mafiosa dall’art. 416-bis, comma 2, c.p. Senza tralasciare che una variazione di pena così consistente, ma non modulabile in base alle peculiari situazioni di fatto, impedisce quella individualizzazione della risposta sanzionatoria che è alla base della istanza rieducativa a cui tutte le sanzioni penali devono tendere per espressa indicazione costituzionale di cui si è detto poc’anzi.
6. Cenni alla pena accessoria e alla sua problematica natura fissa L’ultima novità introdotta è quella, probabilmente meno problematica, contenuta nel comma 4 dell’art. 416-ter c.p., vale a dire l’introduzione dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici per i condannati per il delitto di scambio elettorale politico-mafioso. Oltre a muoversi in linea di continuità con la recente riscoperta dell’importanza delle pene accessorie avvenuta con la già citata legge n. 3/2019 nell’ambito dei reati contro la pubblica amministrazione, appare comunque in sé più razionale delle altre, limitandosi a prevedere che un
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candidato condannato a titolo definitivo per un delitto legato al futuro esercizio di funzioni pubbliche cruciali, quali sono quelle a cui si accede su base elettiva, non possa più ricoprire incarichi istituzionali o politici. Certo, anche in questo caso la durata perpetua e non graduabile della pena non consente l’individualizzazione della risposta punitiva e la modulazione dell’entità della misura interdittiva sulla gravità complessiva del comportamento del reo, alimentando così dubbi sulla sua legittimità costituzionale per contrasto ancora una volta con i principi di rieducazione e proporzionalità della pena già richiamati poc’anzi. Proprio la Corte costituzionale con la sentenza prima richiamata n. 222/2018 ha, di recente, censurato la pena accessoria fissa della inabilitazione decennale dall’esercizio di una impresa commerciale e della incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa prevista dall’art. 216, ultimo comma, l.f. nel caso di condanna per il delitto di bancarotta, ritenendo che, anche sul versante delle sanzioni penali accessorie, la “rigidità applicativa non può che generare la possibilità di risposte sanzionatorie manifestamente sproporzionate per eccesso – e dunque in contrasto con gli artt. 3 e 27, Cost. – rispetto ai fatti […] meno gravi; e appare comunque distonica rispetto al […] principio dell’individualizzazione del trattamento sanzionatorio”.
7. La necessità di un nuovo intervento legislativo All’esito della ricognizione delle novità introdotte dal legislatore del 2019, sembrano corroborati i dubbi avanzati circa la difficile compatibilità costituzionale tanto dell’allargamento del novero delle modalità realizzative della fattispecie delittuosa di cui all’art. 416-ter c.p. anche alle condotte meramente ‘disposizionali’, quanto dell’entità della risposta punitiva edittale parificata nell’ipotesi base a quella della partecipazione associativa e quantificata nella ipotesi aggravata di cui al comma 3 in termini superiori rispetto alla condotta di direzione associativa. Per quanto attiene al primo aspetto, appare opportuno procedere tramite un nuovo intervento novellistico alla soppressione della modalità alternativa della c.d. messa a disposizione del candidato, dal momento
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che risulta in contrasto sia con il principio di precisione e determinatezza ex art. 25, comma 2, Cost., in ragione della assoluta genericità e vaghezza del concetto ‘disposizionale’ su cui si impernia (cosa si intende per messa a disposizione penalmente rilevante? Quale deve essere il grado di serietà della promessa? Quale il grado di specificità? Quale il livello di vincolatività?), sia con il principio di offensività sempre ex art. 25, comma 2, Cost. ma sotto altro profilo 29, determinando una anticipazione eccessiva dell’area di intervento del tipo criminoso rispetto a situazioni che esprimono una potenzialità lesiva decisamente ridotta. Senza trascurare le frizioni che solleva anche tale opzione legislativa sul piano della proporzionalità della pena e del finalismo rieducativo di cui al combinato disposto degli artt. 3 e 27, comma 3, Cost., a causa della equiparazione che ha determinato quoad poenam tra una condotta dal disvalore diafano e le altre modalità realizzative delittuose preesistenti ben più disvalorate. Peraltro, una simile scelta si pone in aperto contrasto con l’attuale indirizzo politico-criminale del legislatore repubblicano che, su questo fronte, è diametralmente opposto: come hanno dimostrato, ad esempio, le riforme del 1990 del peculato (con cui la distrazione è stata stralciata dall’art. 314 c.p. e riassorbita nel ben meno grave delitto di abuso d’ufficio di cui all’art. 323 c.p.) e quella più recente della concussione del 2012 (con cui l’induzione è stata separata dalla costrizione e collocata nella autonoma figura delittuosa meno grave di cui all’art. 319-quater c.p.), la tendenza è quella di rimuovere le assimilazioni presenti nella impostazione originaria della parte speciale del Codice Rocco, in quanto espressione di una tralaticia visione autoritaria ed ancorata alla logica della equivalenza delle condizioni, privilegiando, invece, una attenta differenziazione già a livello generale ed astratto delle condotte espressive di una vis lesiva marcatamente diversa. Anche per quanto concerne il versante sanzionatorio, si auspica un analogo intervento legislativo volto a rinnegare quello del 2019 e, specificamente, a sopprimere entrambe le novità in quella occasione introdotte. Tanto la scelta di parificare le pene edittali della fattispecie base dello 29
In tal senso, ribadisce l’ancoraggio costituzionale all’art. 25, comma 2, Cost., la recente sentenza di Corte cost. n. 211/2022.
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scambio elettorale a quella della partecipazione associativa e, quindi, del concorso esterno di cui all’art. 416-bis, comma 1, c.p., quanto, ancor di più, la decisione di introdurre nell’art. 416-ter, comma 3, c.p. una aggravante c.d. elettorale obbligatoria ad efficacia speciale, risultano davvero poco coerenti con i principi appena richiamati di cui al combinato disposto degli artt. 3 e 27, comma 3, Cost. In una prospettiva de iure condendo, sul versante della pena base si dovrebbe tornare quanto meno al compasso sanzionatorio della versione del 2017 dell’art. 416-ter c.p., se non, preferibilmente, a quello della versione della riforma organica del 2014. Sul fronte della circostanza aggravante speciale, invece, si dovrebbe molto più semplicemente procedere alla sua soppressione.
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APPENDICE
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NOME AUTORE
PROPOSTE DI RIFORMA
Alla luce dei lavori del convegno, si propongono le seguenti modifiche legislative alla disciplina penale sostanziale in materia di associazioni di tipo mafioso. A) Introdurre nell’art. 416-bis c.p. “Associazioni di tipo mafioso anche straniere”, dopo il comma 1, il seguente nuovo comma 1-bis: “1-bis. Chiunque si affilia ad un’associazione di tipo mafioso in modo univoco e con seria e stabile messa a disposizione a favore della stessa è punito con la reclusione da quattro a otto anni”. Oppure, in alternativa, il seguente nuovo comma 1-bis: “1-bis. Per la sola affiliazione accompagnata da una seria e stabile messa a disposizione a favore dell’associazione la pena della reclusione è da quattro a otto anni”. O ancora: “1-bis. Chiunque entra a far parte stabilmente di un’associazione di tipo mafioso è punito con la reclusione da quattro a otto anni”. A.1) Introdurre nell’art. 416-bis, comma 4, c.p. dopo le parole “Se l’associazione è armata si applica la pena della reclusione da dodici a venti anni nei casi previsti dal primo comma” le seguenti parole: “da cinque a dieci anni nei casi previsti dal comma 1-bis e” B) Dopo l’art. 416-ter c.p. “Scambio elettorale politico-mafioso”, introdurre il seguente articolo:
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PROPOSTE DI RIFORMA
“Art. 416-quater. Concorso esterno. Fuori dei casi di cui all’articolo 416-bis c.p. e salvo che il fatto non costituisca più grave reato, chiunque estraneo (O, IN ALTERNATIVA: ‘non facente parte della’) all’associazione di tipo mafioso fornisce intenzionalmente un contributo concreto e rilevante in grado di agevolare le sue attività è punito con la reclusione da tre a otto anni. La pena è della reclusione da dieci a quindici anni se dal fatto deriva la conservazione o il rafforzamento dell’associazione. Alla presente disposizione non si applicano l’art. 110 c.p. e le altre norme sul concorso di persone nel reato”. B.1) Inserire nell’art. 51, comma 3-bis, “Uffici del pubblico ministero. Attribuzione del procuratore della Repubblica distrettuale” c.p.p., dopo le parole “416-ter,” le parole “416-quater,”. Inserire nell’art. 4-bis, comma 1, l. 26 luglio 1975, n. 354, c.d. Ordinamento penitenziario, rubricato “Divieto di concessione dei benefici e accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni delitti”, dopo le parole “416-ter,” le parole “416-quater”. C) All’art. 416-ter c.p. “Scambio elettorale politico-mafioso” sono apportate le seguenti modifiche: 1) Le parole “o in cambio della disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione mafiosa” sono soppresse; 2) Le parole “pena stabilita nel primo comma dell’art. 416-bis” sono sostituite dalle parole “reclusione da sei a dodici anni”; 3) Il comma 3 dell’art. 416-ter c.p., recante la seguente aggravante “Se colui che ha accettato la promessa di voti, a seguito dell’accordo di cui al primo comma, è risultato eletto nella relativa consultazione elettorale, si applica la pena prevista dal primo comma dell’articolo 416-bis c.p. aumentata della metà”, è soppresso. Vincenzo Maiello Giuseppe Amarelli Costantino Visconti
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1. Gli scopi delle proposte di riforma All’esito dei lavori del convegno, e tenuto conto del dialogo successivamente sviluppatosi tra i vari componenti del gruppo di ricerca, si è ritenuto utile (ad eccezione di quanti ricoprono ruoli istituzionali che non consentono per ragioni di opportunità di esprimere opinioni particolari) avanzare alcune possibili proposte di modifica della attuale legislazione penale sostanziale antimafia in modo da appianare le aporie oggi esistenti. Naturalmente le soluzioni prospettate non hanno carattere assertivo, portata definitiva o ambizione risolutiva, ma, esattamente all’opposto e molto più modestamente, intendono contribuire a fornire un primo punto di partenza da cui, si auspica, possa prendere le mosse un dibattito aperto e democratico nel discorso pubblico e nelle adeguate sedi politiche per valutare le eventuali migliorie da apportare alla disciplina incriminatrice recata dagli artt. 416-bis ss. c.p. In ogni caso, al di là della condivisibilità o meno dei contenuti, questi suggerimenti di possibili correttivi normativi costituiscono un tentativo, molto probabilmente inidoneo, di ridurre il divario oggi esistente nella percezione collettiva tra le hard scienses e le soft scienses, contribuendo a fornire un risvolto concreto e percepibile anche agli esiti di ricerca di queste ultime.
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2. La decisione di non modificare la definizione di metodo mafioso per le c.d. nuove mafie In primo luogo, dopo accorte valutazioni e tenendo in attenta considerazione la giurisprudenza della Cassazione stabilizzatasi sul punto (per tutti Cass., Sez. VI, 12 giugno 2020, n. 18125, c.d. “mafia capitale”), si è scartata la possibilità di integrare la definizione di associazione di tipo mafioso contenuta nell’art. 416-bis, comma 3, c.p. per adeguarla alle c.d. nuove mafie, soprattutto quelle che agiscono con modalità più mimetiche rispetto alle tradizionali e facendo leva su metodiche prevalentemente corruttive. Nonostante la suggestione esercitata dai nuovi fenotipi della criminalità associativa mafiosa delineati dalle scienze sociali (le c.d. mafie straniere, autoctone e delocalizzate) ed approdati in tante recenti occasioni, sempre più frequentemente, al vaglio della giurisprudenza, la definizione normativa oggi esistente è apparsa più che idonea a soddisfare le esigenze di tutela da queste prospettate. L’elemento identitario di un gruppo criminale mafioso, ciò che lo differenzia strutturalmente da qualsiasi altra organizzazione criminale e conduce ad attribuirgli il crisma di ‘vera mafia’ secondo un paradigma giuridico e, prima ancora, criminologico, è proprio il modus operandi incentrato sulla forza di intimidazione promanante dal vincolo associativo (e non dal singolo partecipe) ed i suoi conseguenti esiti diretti di assoggettamento ed omertà ‘diffusi’. Solo se si prova l’effettiva esteriorizzazione del metodo mafioso con l’avvalimento della sua vis intimidatrice (non necessariamente veicolata mediante minacce o violenza esplicite, soprattutto nei contesti territoriali o sociali dove il gruppo è già stabilmente radicato e riconosciuto, avendo una rinomata ‘fama criminale’) e si dimostra che la popolazione dell’area geografica o della cerchia di persone in cui opera il sodalizio è succube ed omertosa (ad es. alto tasso di delitti violenti, assenza di denunce, rare testimonianze, frequenti ritrattazioni, ecc.), si può ravvisare l’esistenza di un sodalizio che è definibile mafioso. Questa cifra peculiare delle mafie implica l’inopportunità di immaginare un allargamento normativo della vigente nozione di metodo mafioso, introducendo nell’art. 416-bis, comma 3, c.p. una assimilazione ad es-
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so del metodo corruttivo sovente impiegato in tempi recenti dalla criminalità organizzata per la captazione illecita di denaro o risorse pubbliche. Il diffuso ricorso a pratiche di mercimonio di pubblici funzionari per infiltrarsi nel settore degli appalti e dei finanziamenti/contributi/agevolazioni pubblici non basta ad integrare il delitto di partecipazione o direzione mafiosa che – è necessario ribadirlo – è fattispecie incriminatrice associativa di tipo misto, vale a dire è figura delittuosa per la cui configurazione è indispensabile l’accertamento non solo della struttura stabile ed organizzata del gruppo e del suo programma criminoso, ma anche delle sue ordinarie dinamiche comportamentali che producono già ex se (a prescindere dalla commissione di altri delitti-scopo) significative limitazioni delle libertà e dei diritti fondamentali dei consociati che con esso si relazionano. Ciò, però, non significa asserire che se c’è metodo corruttivo non ci può essere mafia; ma più semplicemente che il metodo corruttivo non può essere assimilato normativamente al metodo mafioso esprimendo un disvalore sensibilmente diverso. In altre parole: se i due modi agendi sono differenti e non possono integrare entrambi la fattispecie di cui all’art. 416-bis c.p. per la sua menzionata struttura associativa mista, è però probabile che tra i reati-scopo di una associazione mafiosa ci sia la commissione di corruzioni o altri gravi delitti contro la pubblica amministrazione strumentali alla captazione illecita di appalti e finanziamenti pubblici.
3. Gli aspetti della legislazione penale antimafia sostanziale da emendare Una volta esclusa questa eventualità riformistica, si è addivenuti alla conclusione che gli interventi modificativi necessari per appianare le criticità più evidenti emerse nel corso di quarant’anni di applicazione della legislazione penale antimafia sostanziale devono concernere, invece, i seguenti tre aspetti: A) l’affiliazione rituale ad un sodalizio mafioso; B) il concorso esterno; C) la disciplina del delitto di scambio elettorale politico-mafioso.
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3.1. L’affiliazione rituale ad un sodalizio mafioso Più in particolare, per quanto concerne il primo profilo, si è ritenuto opportuno prospettare l’introduzione di un nuovo comma 1-bis all’interno dell’attuale art. 416-bis c.p. in cui prevedere una fattispecie incriminatrice autonoma di “affiliazione rituale” diretta a descrivere chiaramente tale comportamento, ma a punirlo con pene ridotte rispetto a quelle elevatissime contemplate per la partecipazione associativa dall’art. 416-bis, comma 1, c.p. La recente decisione delle Sezioni unite 2021 Modaffari, con cui, all’esito di un contrasto interpretativo sul punto, si è sancita la possibile configurabilità del delitto di partecipazione mafiosa anche in caso di mera affiliazione rituale connotata da una stabile e seria messa a disposizione del clan, ha delineato uno scenario assolutamente poco convincente, in cui (nonostante un tentativo di ridurre il problema ad una questione probatoria) la tipicità della condotta partecipativa è stata dilatata in modo esasperato fino a ricomprendervi, accanto ad attività plurime di durata prolungata, comportamenti istantanei dotati di un disvalore ben minore. Ed infatti quella sentenza non solo ha nella sostanza contraddetto il modello di partecipazione c.d. mista (imperniato tanto sulla affiliazione al clan, quanto sulla militanza dinamica, continuativa e concreta successiva) che hanno scolpito le stesse Sezioni unite nella sentenza 2005 Mannino e che pure in questa occasione si è dichiarato di voler rispettare, ma ha anche equiparato quoad poenam, in modo manifestamente irragionevole, sproporzionato ed in contrasto con il principio di offensività, due situazioni profondamente eterogenee come, appunto, la più disvalorata e complessa condotta di partecipazione ‘mista’, che richiede prolungati contributi dinamici e continuativi del sodale a vantaggio del clan, e la mera affiliazione all’associazione non ancora seguita da alcun atto di militanza attiva. A sostegno di tale opzione depongono una pluralità di argomenti. In primo luogo, coerentemente con il principio di legalità penale, di cui all’art. 25, comma 2, Cost., nelle sue articolazioni della riserva di legge, della precisione e del divieto di analogia, di recente rivitalizzate dalla Corte costituzionale in alcune notissime pronunce come le nn.
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115/2018, 24/2019 e 98/2021, serve a scandire in modo chiaro ed inequivoco all’interno di una espressa disposizione di legge la rilevanza penale di questa condotta, sottraendo il suo apprezzamento al discrezionale e sempre potenzialmente mutevole giudizio della giurisprudenza e fugando ogni incertezza sulla punibilità o meno a titolo di tentativo di partecipazione ex art. 56 c.p. In secondo luogo, risolve espressamente ogni residuo dubbio circa la rilevanza penale della mera affiliazione e le condizioni specifiche che questa deve possedere per integrare una ipotesi delittuosa, assicurando così i caratteri della accessibilità della fattispecie incriminatrice e della prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie oggi ritenuti centrali nell’ottica del principio di legalità convenzionale così come co-definito dall’art. 7 CEDU e dall’interpretazione che di questa norma fornisce la Corte di Strasburgo. Inoltre, la punibilità a titolo differenziato di tali condotte si desume anche dagli studi delle scienze socio-criminologiche che si interessano del fenomeno mafioso. Queste, infatti, se per un verso segnalano l’importanza che assume nelle mafie tradizionali il momento dell’ingresso formale nel clan con il rito iniziatico, all’esito di un periodo di osservazione e ‘prova’ – costituendo il momento a partire dal quale, di norma, il soggetto si mette a disposizione del gruppo in modo serio, duraturo e ‘fedele’ – per altro, lasciano intendere come esso abbia una ridotta gravità oggettiva rispetto alla effettiva partecipazione dinamica e duratura alla vita attiva del sodalizio. Ancora, la previsione in forma autonoma e differenziata di tale condotta delittuosa risulta sul piano strettamente penalistico coerente con i principi di offensività e proporzionalità, ragionevolezza e rieducazione della pena di cui agli artt. 25, comma 2, 3 e 27, comma 3, Cost., assicurando un trattamento sanzionatorio differenziato rispetto a condotte dotate di disvalore marcatamente differente. Infine, sembra indirettamente imposta da ragioni di coerenza sistematica, dal momento che per la criminalità terroristica è già attualmente previsto, rispettivamente, negli artt. 270-bis e 270-quater c.p., lo sdoppiamento della risposta penale in due fattispecie incriminatrici di differente disvalore, una per la condotta più grave di partecipazione associativa, sostanzialmente corrispondente a quella tipizzata nell’art. 416-bis,
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comma 1, c.p., l’altra per quella meno grave del mero arruolamento, che, mutatis mutandis, presenta evidenti tratti di affinità con l’affiliazione mafiosa. Ad un raffronto sinottico tra i due comparti penalistici, l’attuale conformazione unitaria della disciplina mafiosa, in cui sono assimilate in un solo tipo delittuoso le due condotte e, dunque, parificate in termini di disvalore, appare poco ragionevole. Naturalmente, data la differenza empirico-criminologica tra i due fenomeni delinquenziali e la conformazione chiusa e gerarchica di quello mafioso che rende configurabile l’affiliazione solo da parte di chi è già un vertice dell’associazione e mai da chi non è strutturalmente e stabilmente intraneo, si ritiene in questo caso di concentrare l’incriminazione sul solo affiliato, evitando di punire (come, invece, avviene nell’art. 270-quater, comma 1, c.p.) anche l’affiliatore, rientrando il reclutamento di nuove leve tra le attività tipiche degli apicali del sodalizio, già incorporate nel disvalore dei fatti di cui all’art. 416-bis, comma 2, c.p. Da ultimo, sono utili altre due brevissime precisazioni esplicative: una sulla scelta sistematico-classificatoria di inserire l’affiliazione in un comma 1-bis; l’altra sulla modalità seguita per la descrizione di tale condotta. Sotto il primo profilo, a rigor di logica, la soluzione più lineare ed armonica poteva apparire quella della integrale riformulazione dell’art. 416-bis c.p. secondo un ordine di progressione crescente del disvalore delle varie condotte considerate e, dunque, inserendo in un nuovo primo comma la mera affiliazione e facendo scalare nei commi successivi le condotte gradualisticamente più gravi di partecipazione e direzione associativa. Tuttavia, si è ritenuto privilegiare la costruzione di un nuovo comma 1-bis per ragioni di praticità e, quindi, per non stravolgere la fisionomia dell’art. 416-bis c.p. riverberando effetti a cascata sui rinvii già oggi esistenti ai suoi commi 1 e 2, nonché per rispettare la consuetudine normativa seguita in caso di interventi novellistici diretti ad integrare in aggiunta il testo di disposizioni preesistenti. Peraltro, questa struttura appare comunque logica e coerente poiché vede aprirsi l’art. 416-bis c.p. con la previa descrizione della condotta base ordinaria e più diffusa, quella della partecipazione, e poi proseguire con la illustrazione delle altre condotte, rispettivamente, di minore e maggiore gravità, della affiliazione e della direzione associativa.
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Quanto, invece, alle possibili tecniche di descrizione della nuova condotta di affiliazione, si è pensato di recepire il diritto vivente formatosi sul punto e di costruire un tipo criminoso in cui si fa un cenno esplicito alla affiliazione e si definiscono espressamente i caratteri oggettivi ed univoci che questa deve possedere per integrare un fatto penalmente rilevante in modo coerente con i principi di offensività, rieducazione e proporzionalità della pena, ed evitando di costruire un reato incentrato solo sul tipo d’autore. Si è, però, evitato di esplicitare il carattere rituale della affiliazione, in modo da poter consentire la configurabilità della fattispecie anche in quelle associazioni comunque considerate di tipo mafioso sulla scorta degli stringenti requisiti di tipicità fissati dall’art. 416-bis, comma 3, c.p. che non contemplino, però, una procedura iniziatica rituale per formalizzare la cooptazione di nuovi sodali. La precisazione circa l’oggettiva univocità e la stabilità nel tempo della messa a disposizione, invece, si ritengono necessarie per evitare una rarefazione eccessiva del tipo criminoso e, soprattutto, una sua provabilità processuale agevolata tramite mere dichiarazioni di collaboratori di giustizia circa la sola avvenuta affiliazione. Tra le varie opzioni prospettate, parrebbero preferibili le prime due perché la terza, recante la previsione della punibilità del mero ‘entrare a far parte di una associazione mafiosa’, potrebbe prestare il fianco ad interpretazioni estensive di matrice soggettivizzante. Infine, sul piano del trattamento sanzionatorio si è reputato opportuno, da un lato, di approssimare le pene previste per la affiliazione a quelle previste dal combinato disposto degli artt. 56 e 416-bis, comma 1, c.p. per il tentativo di partecipazione; e, dall’altro, di conservare uno ‘scarto’ con le cornici edittali della fattispecie di partecipazione vera e propria, evitando di sovrapporre il massimo comminato per la sola affiliazione con il minimo previsto per quest’ultima. 3.1.1. La modifica dell’aggravante delle associazioni mafiose armate
In seguito alla previsione di tale nuova fattispecie incriminatrice, si propone anche la modifica dell’art. 416-bis, comma 4, c.p., dal momento che gli aumenti di pena ivi comminati a mezzo di circostanze aggravanti indipendenti per le ipotesi di associazioni mafiose armate sono computa-
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ti autonomamente per ciascuna differente ipotesi delittuosa contenuta nei commi 1 e 2 della stessa disposizione (per la precisione, per il partecipe la cornice edittale va da dodici a venti anni di reclusione, mentre per il ‘dirigente’ la stessa pena va da quindici a ventisei anni). Ragion per cui, per ovvie esigenze di coerenza intra-sistematica, nell’eventualità della introduzione di una terza figura di reato per la mera affiliazione all’interno di un nuovo comma 1-bis dell’art. 416-bis c.p., appare necessario contemplare all’interno del comma 4 del medesimo articolo un trattamento sanzionatorio aggravato differenziato anche per tali ipotesi. 3.2. La necessità di una modifica minima dell’art. 416-bis c.p. In ogni caso, si segnala che anche laddove non si ritenesse necessario procedere in tal senso, introducendo una nuova sotto-fattispecie ad hoc, la soluzione patrocinata dalle Sezioni unite Modaffari del 2021 ed i suoi esiti interpretativi risultano comunque in contrasto con la vigente struttura e conformazione letterale del delitto di partecipazione associativa. Ed invero, per poter ragionevolmente sostenere la possibilità di punire anche il mero affiliato ai sensi della medesima fattispecie, sarebbe necessaria una modifica dell’art. 416-bis, comma 1, c.p. diretta ad estendere il novero delle condotte penalmente rilevanti, affiancando esplicitamente alla partecipazione anche la mera affiliazione. L’esperienza giurisprudenziale formatasi soprattutto in materia di delitti di corruzione insegna, infatti, che solo se strutturato formalmente come ‘reato a schema duplice’, vale a dire integrabile tanto nella formula piena della partecipazione necessariamente dinamica, che in quella contratta della mera affiliazione, è possibile sussumere nella stessa fattispecie condotte dal disvalore eterogeneo come la partecipazione attiva e costante e l’actio praecedens della mera affiliazione. La configurabilità del delitto in parola anche in una forma dimidiata e sussidiaria deve, infatti, necessariamente essere prevista già dalla fattispecie legale di riferimento, come avviene appunto nelle tante ipotesi incriminatrici in materia di corruzione di cui agli artt. 318 e ss. c.p., o (per restare in ambiti disciplinari più omogenei a quello in trattazione) nel de-
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litto di scambio elettorale politico-mafioso di cui all’art. 416-ter c.p., dove è sancita la punibilità tanto della promessa di denaro o altra utilità seguita dalla effettiva dazione, quanto della mera ‘nuda promessa’.
4. Il concorso esterno Per quanto attiene al concorso esterno, invece, alcuni dei partecipanti al gruppo di ricerca hanno manifestato riserve circa una sua tipizzazione legislativa perché potrebbe generare confusione in un settore particolarmente delicato quale quello della contiguità mafiosa e che, nel tempo, grazie al contributo anche della giurisprudenza di legittimità, ha trovato un suo delicato equilibrio. Si è osservato che una simile opzione potrebbe produrre problemi sia sul versante diacronico, facendo sorgere il dubbio che, in assenza di una previa figura legale, i fatti commessi prima dell’entrata in vigore della fattispecie incriminatrice ad hoc possano essere considerati non più punibili in forza del principio di irretroattività e di una applicazione formalistica del criterio strutturale, oggi considerato dirimente per risolvere i problemi di successioni di leggi penali nel tempo; sia su quello sincronico, innescando incertezze applicative in una materia che, dopo i ripetuti interventi delle Sezioni unite del 1994, 2002 e 2005, ha trovato una adeguata stabilità grazie ad una tipizzazione giurisprudenziale (decisamente eccedente rispetto alla fattispecie plurisoggettiva eventuale co-definita dal combinato disposto degli artt. 110 e 416-bis c.p., ma a conti fatti) coerente con i principi di offensività e proporzionalità della pena. Tuttavia, secondo altri componenti il panel dei relatori del convegno, in un sistema penale legicentrico, ancora saldamente incentrato ai sensi dell’art. 25, comma 2, Cost. sul principio di legalità formale dei reati e delle pene e, soprattutto, sulla sua pietra angolare, il principio di riserva di legge parlamentare, deve essere il legislatore ordinario a farsi carico della responsabilità politica della definizione del reato di c.d. concorso esterno e del suo trattamento sanzionatorio. Quanti hanno condiviso tale secondo angolo prospettico, hanno ritenuto che la opzione migliore, in caso di intervento legislativo in subiecta
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materia, sia quella della introduzione di una fattispecie incriminatrice autonoma in un nuovo ipotetico art. 416-quater c.p., rubricato proprio “Concorso esterno”, diretta a punire le condotte intenzionalmente dirette ad agevolare le attività delle consorterie mafiose. Si ritiene, infatti, che le difficoltà probatorie notevolissime che ha generato la costruzione in chiave causalmente orientata del concorso esterno sul piano dell’accertamento tanto del nesso eziologico quanto del dolo, rendano più opportuno evitare di costruire l’immaginata fattispecie incriminatrice come reato c.d. di evento. L’opzione più ragionevole pare quella di concepirlo, invece, come delitto di pericolo concreto supportato dal dolo intenzionale (non specifico), in cui si incrimina la mera condotta dell’extraneus che risulti effettivamente in grado di agevolare l’associazione e che, sul piano psichico, sia consapevolmente ed univocamente diretta verso il raggiungimento di tale risultato. Naturalmente, la forgiatura come reato di mera condotta del concorso esterno incide anche sul trattamento sanzionatorio, portando a comminare, in conformità con i principi di offensività e proporzionalità-ragionevolezza del trattamento punitivo, delle pene ridotte rispetto a quelle attualmente applicabili a tale fenomeno criminoso che sono, invece, le medesime (elevatissime) della partecipazione associativa. Tuttavia, in considerazione dell’elevato disvalore che alcuni contributi forniti dall’esterno alla vita associativa possono presentare, rendendoli paragonabili, sul piano dell’offesa, all’apporto stabile fornito da taluni partecipi, e dell’orientamento giurisprudenziale sedimentatosi sul punto dopo i reiterati interventi delle Sezioni unite in precedenza già richiamati, è prevista un’ipotesi aggravata in cui trova ancora spazio l’equiparazione sanzionatoria con la partecipazione associativa, quella in cui il contributo del concorrente esterno abbia effettivamente prodotto con il proprio apporto la conservazione o il rafforzamento dell’organizzazione mafiosa. Si reputa, inoltre, necessario completare la disciplina normativa inserendo in apertura della nuova fattispecie una clausola di sussidiarietà aperta che, oltre a considerarla ovviamente alternativa e complementare alla partecipazione associativa, fa anche salva la punibilità delle condotte di contiguità mafiosa sulla scorta di ipotesi delittuose eventualmente già esistenti nell’attuale sistema penale.
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In questo modo, infatti, si evita di dover rivedere l’intero insieme disordinato di fattispecie incriminatrici già in vigore che, all’esito di interventi normativi susseguitisi isolatamente nel tempo, puniscono espressamente con pene più elevate di quelle proposte per l’ipotesi base alcuni sotto-tipi di contiguità alla mafia, come ad esempio lo scambio elettorale politico-mafioso di cui all’art. 416-ter c.p. o il depistaggio aggravato di cui all’art. 375, comma 3, c.p. Infine, per evitare in radice il rischio di ulteriori possibili dilatazioni in sede interpretativa della fattispecie del concorso esterno tramite l’applicazione delle norme sul concorso eventuale di persone nel reato di cui agli artt. 110 e ss., si propone l’inserimento in chiusura dell’art. 416-quater c.p. di un ulteriore comma in cui si esclude apertis verbis tale eventualità. 4.1. Le modifiche sul versante processuale Siccome si propone di creare la nuova figura delittuosa in un articolo ulteriore rispetto a quelli già esistenti, si prospettano anche alcune inevitabili modifiche sul fronte processuale per evidenti ragioni di coerenza sistematica. In particolare, si propone l’introduzione dell’art. 416-quater c.p. nel novero delle fattispecie elencate dall’art. 51, comma 3-bis, c.p.p., in modo da consentire l’estensione nei suoi confronti di tutta la disciplina processuale e di prevenzione dettata per i reati a matrice mafiosa, dal momento che il doppio binario processuale e praeter delictum è attivato rispetto a tutti i reati contemplati in quella disposizione del codice di rito. Inoltre, si sollecita l’inserimento del nuovo articolo anche nel catalogo dei reati ostativi di cui al comma 1 dell’art. 4-bis della legge n. 354/1975, c.d. ordinamento penitenziario, al fine di subordinare la concessione dei benefici penitenziari e l’accesso alle misure alternative alla detenzione o alla collaborazione con l’autorità inquirente o alle nuove condizioni introdotte dal recentissimo d.l. n. 162/2022. Il novero di tali fattispecie ostative è, infatti, composto in modo tassativo con la esplicita indicazione delle stesse, senza il rinvio generico a quelle elencate dall’art. 51, comma 3-bis, c.p.p., ragion per cui in caso di previsione di un nuovo articolo recante una figura delittuosa autonoma a matrice mafiosa si deve provvedere all’adeguamento nominatim.
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A tale proposito va fatta un’ultima precisazione. Pur essendo stato dilatato oltremodo il catalogo delle fattispecie ostative, includendovi negli ultimi anni anche talune prive di quel disvalore rafforzato e di quelle peculiarità criminologiche che possono, comunque con non poche difficoltà, legittimarlo, in questo caso l’inserimento appare coerente, ragionevole e non sproporzionato, dal momento che la fattispecie del concorso esterno presenta profili lesivi analoghi a tutte le altre a carattere mafioso già oggi incluse nell’art. 4-bis o.p.
5. La disciplina del delitto di scambio elettorale politico-mafioso Per quanto attiene al delitto di scambio elettorale politico-mafioso, si propongono una serie di interventi legislativi diretti a riportare lo statuto di tipicità della fattispecie di cui all’art. 416-ter c.p. a quello antecedente alla improvvida riforma del 2019 che tanti dubbi di legittimità costituzionale ha sollevato. In particolare, si ritiene innanzitutto necessario sopprimere la modalità realizzativa alternativa della mera ‘messa a disposizione’ del promittente i voti con metodo mafioso innestata nel corpo della fattispecie in quella occasione, data la assoluta vaghezza ed indeterminatezza del concetto che, peraltro, aveva già portato l’allora Procuratore Nazionale Antimafia Roberti a considerarla inadeguata quando venne prospettata e poi stralciata durante i lavori preparatori della prima riforma del 2014 per l’evidente incompatibilità con il principio di precisione di cui all’art. 25, comma 2, Cost. In secondo luogo, si propone la rimodulazione della cornice di pena, ritoccando verso il basso l’attuale forbice edittale plasmata dal legislatore del 2019 dal momento che equipara quoad poenam, in modo manifestamente irragionevole e sproporzionato, una mera condotta a carattere pattizio con un delitto con macro-evento come il concorso esterno o addirittura alla condotta dell’intraneo all’associazione mafiosa. Sotto questo aspetto, si prospetta di comminare in luogo dell’odierno compasso sanzionatorio della reclusione da dieci a quindici anni, quello più adeguato della reclusione da sei a dodici anni che era stato inserito
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nel 2017, anche se non sarebbe da escludere il ritorno alla cornice di pena ancor più mite della versione della riforma del 2014. Tale differente dosaggio punitivo risulta decisamente più ragionevole sia all’esito di un giudizio di proporzionalità intrinseco-assoluto, dimostrandosi adeguato al ridotto disvalore del mero patto elettorale politicomafioso rispetto al concorso esterno causale e, a fortiori, alla partecipazione associativa; sia sulla scorta di un giudizio di proporzionalità estrinseco-relativo, rivelandosi sotto questo versante affine a quello previsto per un’altra ipotesi grave di contiguità mafiosa espressamente tipizzata dal legislatore, il depistaggio aggravato di cui all’art. 375, comma 3, c.p. La maggiore severità del trattamento sanzionatorio rispetto alla ipotesi ‘comune’ e ‘residuale’ di concorso esterno di cui al prospettato nuovo art. 416-quater c.p. rinviene un fondamento nel peculiare disvalore degli scambi elettorali politico-mafiosi e nella loro capacità, anche quando configurati nello ‘schema secondario’ del mero accordo, di esporre a pericolo un nutrito fascio di interessi giuridici fondamentali. Infine, rispetto a questa ipotesi delittuosa si prospetta la soppressione della aggravante elettorale inserita sempre con la menzionata riforma del 2019 nel comma 3 della fattispecie di cui all’art. 416-ter c.p., dal momento che risulta illegittima costituzionalmente per contrasto con gli artt. 3 e 27, comma 3, Cost., sia per la sua natura fissa (contempla, infatti, un aumento obbligatorio ed automatico, non graduabile, della metà della pena base), sia per il suo ancoraggio ad un dato potenzialmente neutro come l’effettiva elezione del candidato (potendo essere raggiunta anche senza i voti ‘mafiosi’ e, soprattutto, essendo impossibile dimostrare anche in caso di elezione se quei voti la abbiano condizionata o meno), sia per la sua manifesta sproporzione per eccesso, portando a definire un quadro sanzionatorio per il mero patto elettorale ben più grave di quello contemplato per la direzione di un sodalizio mafioso. Entrambe le modifiche prospettate sul fronte sanzionatorio appaiono indifferibili alla luce della recente e sempre più diffusa giurisprudenza costituzionale sul principio di proporzionalità della pena (dalla sentenza n. 236/2016, alle più recenti sentenze nn. 222/2018, 40/2019 e 95/2022), con la quale tante scelte repressive sono state oggetto di interventi della Corte costituzionale ablativi secchi, a rime obbligate o, in alcuni casi recenti, anche a versi sciolti.
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RELAZIONE ILLUSTRATIVA
Si avverte oggi sempre più pressante l’esigenza che sia le pene edittali che gli aumenti sanzionatori circostanziali siano calibrati già a monte dal legislatore in modo non irragionevole: dal combinato disposto degli artt. 3 e 27, comma 3, Cost. si evince, infatti, che la proporzionalità intrinseca ed estrinseca delle cornici edittali è condizione necessaria per una possibile concretizzazione degli obiettivi di risocializzazione. Vincenzo Maiello Giuseppe Amarelli Costantino Visconti