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Italian Pages [74] Year 2020
Marco Zanoncelli Quando l’alba verrà
ITINERARI Collana di spiritualità Dottrina esperienze testimonianze Titoli recenti Predicare la Parola, a cura di Luigi Guglielmoni – Fausto Negri Gennaro Matino, La tenerezza di un Dio diverso. Nuova edizione Raffaele Ruffo, «Non voglio essere ladro» Luigi Guglielmoni – Fausto Negri, Il Padre Nostro per la famiglia Elisabetta Fréjaville, Una favola vera Gennaro Matino, Profumo di Madre. Nuova edizione Simona Segoloni Ruta, L’amore viscerale Jacques Philippe, Se tu conoscessi il dono di Dio Giuseppe Sovernigo, Poter amare. Nuova edizione Paolo Bizzeti – Sara Selmi – Sebastiano Nerozzi, Desiderare e scegliere Edoardo Mazzacani, Una casa più larga Marco Zanoncelli, La vita a colori Jacques Philippe, La felicità inattesa Rosanna Virgili – Diana Papa, Ai ritmi del cuore Paolo Tondelli, Mi fido di te Vittorio Fusco, La gioia dell’ascolto Alessandro Flora, Dove sei? Luigi Guglielmoni – Fausto Negri, Di tutti e di nessuno Vincenzo De Florio, Ma tu, sei prete? Carmela Gaini Rebora, Oggi è la mia festa Paolo Cugini, Visioni postcristiane Georgette Blaquière, Il vangelo di Maria Marco Zanoncelli, I gesti della vita Matteo Bersani, Fino alla fine Primo Mazzolari, «Non mi sono mai vergognato di Cristo» Luciano Pacomio, Essere felici è possibile Renzo Mandirola, La gioia di seguirti Giorgio Gonella, Nel deserto il profumo del vento Marco Zanoncelli, Quando l’alba verrà (e-Book)
Marco Zanoncelli
Quando l’alba verrà Parole per un tempo nuovo Prefazione di don Luca Anelli
EDIZIONI DEHONIANE BOLOGNA
Realizzazione editoriale: Edimill srl - www.edimill.it Impaginazione: Emme2 sas, Bologna
©
2020 Centro editoriale dehoniano via Scipione Dal Ferro, 4 − 40138 Bologna www.dehoniane.it EDB®
ISBN 978-88-10-96119-3
A Simona, che è la mia alba tutte le mattine
Prefazione
Se c’è un piacere sottile, è quello di svegliarsi qualche minuto prima della sveglia. Intanto, per la soddisfazione di averle tolto il gusto di sorprenderti e farti imprecare… Apri gli occhi, ringrazi chi di dovere per averli aperti anche stavolta. È ancora buio fuori, il pensiero corre ai familiari, agli amici, alle persone affidate, a chi è in difficoltà… Resti lì, a metà tra la realtà che preme e il sogno che resiste «e nel sogno stringo i pugni, tengo fermo il respiro e sto ad ascoltare» (I. Fossati): il passaggio veloce delle rare automobili, i mezzi che raccolgono la spazzatura. Ecco, ho scordato plastica e vetro! E poi via col programma quotidiano, promemoria dalla consistenza di un post-it, improvvise urgenze, determinazioni granitiche e intuizioni magnifiche per la soluzione dei problemi. Ma ricordi che devi stendere il bucato e quel piacere sottile svanisce col baluginare della prima luce. È un piacere effimero, pochi minuti, eppure è prezioso. Quei pochi pensieri, condensati in stringate parole, più per sillabe che per discorsi, costituiscono un momento di serena
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consapevolezza: quando l’alba verrà, il «da farsi» prenderà il sopravvento sul «da dirsi». Chiameranno, vorranno risposte, pretenderanno certezze, cercheranno decisioni e prese di posizione. L’alba viene a mettere in luce ciò che nel tuo animo già prendeva forma e sostanza, ma con potenza brutale, irriguardosa dell’intimità. È giusto che sia così, non si può vivere immaginando e rimuginando. I progetti devono giungere a realtà, i buoni propositi devono tramutarsi in buoni atti. Quando viene l’alba, tutto o quasi emerge alla luce. Evangelicamente, non possiamo ritenere che le tenebre siano meglio. Esse, tuttavia, sostengono un desiderio, alimentano l’attesa, preparano l’incontro. È un bene che cedano il posto al chiarore e, se non ospitano il malvagio, sono un provvisorio e giovevole spazio dietro le quinte che, con minimi cenni, consente di allestire il palco e il fondale per l’opera di ogni giorno. Le parole di Marco assomigliano tanto a quel modesto piacere antelucano, e lo amplificano. Sono quelle che ha custodito, elaborato e messo per iscritto nella lunga penombra della quarantena, tra il cuore e il blog. Generosamente comunicativo, ne confida alcune ripetutamente, si vede che sono un’urgenza sottocutanea: paura e ansia, normalità e speranza, tempo, prima-dopo, consapevolezza, durezza e fatica, limiti-fragilitàincertezza, trasformazione e cambiamento, legami-contatti-relazioni e cura.
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Ma, quasi come un omaggio al triplice riferimento cristologico del suo patrono evangelista, Marco piazza all’inizio, a metà e alla fine del discorso quel termine che tanto gli sta a cuore: parole. Santo cielo, che paragone! Ma è pur vero che Gesù è il Verbo, anzi «una parola che deve venir pronunciata fino alla fine per essere compresa» (H.U. von Balthasar). Nell’introduzione, l’autore dice che la parola è «un’occasione umile e garbata», piccola grande alleata per sporgersi verso consueti o inediti legami e trovarvi appoggio. Certo, non la parola qualunque, il luogo comune, la nota scontata, bla bla, tatatà, come le parole di Carlo Magno ai cavalieri schierati sotto il sole: «Cose che dette dal re fanno piacere, ma erano sempre le stesse battute, da tanti anni» (I. Calvino). Per Marco la parola è un dono potente: eccolo, dunque, nella penultima chiacchierata, ammettere che la parola scritta è stata «un’istanza di ordine e un’occasione per diradare un poco la scurità della notte». E ora che per tutti viene l’alba della lettura, quelle parole passano dal gusto personale dell’introspezione alla gioia della condivisione. Emerge, dalle brume di tanti e tanti pensieri scritti, la coscienza del «magma che si agita in noi»: prima o poi solidifica e si fa terreno utile e speciale. Gli antichi romani costruirono la Via Appia sfruttando una colata lavica scesa dal vulcano dei Colli Albani: dapprima per conquistare, poi per fare commercio e giungere alle
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promettenti sponde del Mediterraneo orientale, divenuta via di pellegrinaggio per le genti del Sud verso l’Urbe cristiana. Via di comunicazione a tutto tondo, come la parola. Come in una tradizione ancestrale si rinnova, nel tempo della modernità sgretolata dal virus, il bisogno di trasmettere sapienza nei racconti di ogni sera, sulle veloci strade del web. E non sarà solo casualità se, per la via delle parole scritte per sé e narrate agli altri, Marco compone e piazza in mezzo al libro uno dei brani più riusciti e immediati, direi istintivo e primario, intitolato: «Le parole». don Luca Anelli
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Introduzione
Non sapendo quando l’alba verrà lascio aperta ogni porta che abbia ali come un uccello oppure onde, come spiaggia. (Emily Dickinson)
È lenta la vita al tempo del Coronavirus. Costretti a una solitudine innaturale, le giornate scorrono fiacche e pigre, animate da cose che si ripetono quotidianamente fino alla noia: i pasti, il lavoro da remoto (per chi se lo può permettere), i mestieri in casa, qualche faccenda domestica, il rito della spesa (che pare un evento straordinario di questi tempi…), un po’ di giardinaggio, qualche programma in TV, un buon libro o una buona lettura e tanto, tanto silenzio. Silenzio interiore, non solo attorno… un silenzio denso che stimola tante domande, molti interrogativi, dubbi e preoccupazioni: che cosa accadrà? Come usciremo da questa situazione? Che cosa cambierà nella nostra vita? Riavremo la nostra esistenza? Quando ci potremo ancora abbracciare? Perché è successo? Che senso ha questo tempo d’isolamento e di sofferenza?
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Le domande nascono furtive nella nostra testa e non è facile relegarle nello sgabuzzino delle cose da dimenticare: più le respingi più riaffiorano con maggiore forza. Forse alla fine saremo costretti a fare i conti con questi interrogativi, non tanto per trovare risposte soddisfacenti – che forse non troveremo mai –, ma per rendere questo tempo il meno insensato possibile. Scrivere si rivela una forma di resistenza, un modo per custodire queste domande e non farle esplodere come granate distruttive. La parola si offre come un’occasione umile e garbata per sopravvivere a questi giorni bui e faticosi; essa dona la possibilità di annodare alcuni fili sciolti, di ricucire quello squarcio un po’ troppo esteso e di rimettere al proprio posto qualche pezzo del puzzle impazzito della nostra esistenza. Queste pagine sono nate proprio così: nel tentativo di isolare, giorno dopo giorno, quella parola, quell’emozione, quel pensiero che fosse capace di rompere il buio della giornata, di illuminare, per quanto possibile, lo scorrere del tempo e degli eventi. Non vi troverete nulla di strutturato o di articolato: assomiglia più a un piccolo diario di bordo, uno di quelli che ciascun naufrago tiene per non perdere il senso del tempo e per alimentare la speranza che giungerà presto l’alba della rinascita.
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La paura
In questi giorni così complicati e quasi surrea li siamo tutti accomunati da un medesimo sentire; un identico sentimento abita la nostra anima, indipendentemente dal fatto che ci troviamo in zona rossa, gialla o verde, che siamo sani o malati, costretti alla quarantena o liberi di muoverci dove vogliamo: l’emozione della paura. È la paura la protagonista di questo periodo di primavera anticipata, è lei il leit motive dei discorsi, delle parole e delle narrazioni che ci scambiamo, è suo il «rumore di fondo» che ascoltiamo nelle notizie sui giornali o alla TV. Siamo tutti tornati ad avere paura, a sperimentare quella sensazione d’incertezza, di minaccia, d’instabilità e precarietà, a motivo della quale percepiamo che la nostra esistenza non è al sicuro, ma esposta a un pericolo che non possiamo controllare fino in fondo. La paura è una di quelle emozioni fondamentali che ci appartengono in quanto esseri umani, indipendentemente dalla razza, dalla lingua o dalla cultura: avere paura è «umano», tanto quanto provare gioia o dolore, tristezza o sorpresa, rabbia o disgusto.
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Eppure tutte le volte che il sentimento della paura prende dimora nel nostro animo ci sentiamo scossi nel profondo, patiamo una sensazione di provvisorietà, come se la nostra vita fosse minacciata da forze da cui non è possibile difendersi. E cosa c’è di più pauroso di un infido virus, così piccolo e invisibile, capace di muoversi liberamente tra i nostri corpi e di infettare, a suo piacimento, quelli più deboli e indifesi? È qualcosa da cui non possiamo ripararci se non chiudendoci in casa ed evitando ogni contatto sociale. Ci ritroviamo così sequestrati da questo sentimento a tal punto che le nostre vite ne sono profondamente condizionate: abbiamo cambiato il nostro stile di vita, le nostre abitudini, le nostre frequentazioni e i ritmi delle nostre giornate. Non è semplice convivere con questa emozione, riuscire a trovare un punto accettabile di compromesso che permetta una coabitazione faticosa, ma, in questo tempo, necessaria e ineludibile. La difficoltà nasce dal fatto che questo infido sentimento instilla un senso di sfiducia verso gli altri, fa nascere una diffidenza tale da condurci a vedere negli altri una perenne minaccia alla nostra salute. Eppure questa triste emozione può avere anche un effetto umanizzante aiutandoci a maturare una consapevolezza più vera e autentica della nostra identità e della nostra fragilità. Forse, quando la paura non diviene panico, essa diviene la via attraverso la quale è possibile riconoscere e
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accogliere la medesima fragilità che abita il cuore di tutti gli uomini. Provare paura propizia la sintonizzazione con le paure degli altri, con le ansie e le angosce di coloro che, vicini o lontani, patiscono il medesimo disagio. Spesso tendiamo a dimenticarcelo ma ogni giorno, a qualunque latitudine del pianeta, ci sono uomini angosciati per la fame, la malattia, la guerra e la violenza, per una morte improvvisa o un inatteso fallimento: sono tutti uomini che, come noi, provano quel sentimento di paura che sconvolge le loro vite, proprio come sta facendo con le nostre. La paura è un’emozione umana e universale, che attraversa latitudini e culture, ceti sociali e appartenenze religiose, comunità etniche e zone geografiche. La paura è capace di dividere o unire: può rendere l’altro un nemico o un compagno dello stesso viaggio.
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Il tempo
Siamo sempre di corsa, sempre di fretta, con mille cose da fare, molti impegni cui far fronte, tanti incontri, scadenze, appuntamenti. Viviamo tutti, chi più chi meno, in una perenne apnea di tempo, in una corsa continua che toglie fiato, energia e lucidità. Ed ecco che improvvisamente, come in un miracolo, ci troviamo con in mano un sacco di tempo libero, lunghe giornate vuote, ore da riempire, minuti che le usuali occupazioni hanno regalato. Certo, liberato per forza e non per nostra decisione, ma comunque vuoto, disponibile per fare ciò che da sempre avremmo voluto fare. È come se il genio della lampada avesse soddisfatto, a nostra insaputa, uno dei nostri più inconfessabili desideri: quello di avere un po’ di tempo per noi. Eppure, non so se è capitato anche a voi, tutto questo tempo vuoto da gestire dà un po’ di vertigini, un senso di stranezza e di spaesamento: e adesso cosa faccio? Come riempio la mia giornata, una volta che tutti gli impegni sono stati messi forzatamente in pausa?
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Ti ritrovi così a osservare il tempo che scorre lento, tranquillo, così come non aveva fatto da molto tempo; tempo da lasciar passare senza ansie né pressioni, un po’ così come viene. Ti accorgi che non siamo più abituati a sentire questo fluire pacato delle ore e dei minuti: le cose da fare hanno sempre come soffocato e anestetizzato questa percezione, a tal punto che essa appare oggi come qualcosa di strano e di inusuale. Prima il tempo era fatto di cose da fare, ora è fatto di minuti che passano; prima era una rincorsa alle scadenze, ora è una passeggiata tranquilla da fare a passo lento. Il punto è che questo «stagnare» del tempo ci dà «tempo» per farci domande che non avevamo mai avuto «tempo» per farci. Ci dà l’occasione per guardarci dentro e attorno, per osservare le persone, le cose e la nostra stessa esistenza con sguardo nuovo. Confessiamolo, è inusuale per noi questa situazione: in fondo scadenze e appuntamenti sono stati dei validi alleati per rimuovere quelle domande un po’ scomode che forse ci metterebbero in crisi. Chissà mai che questo tempo «liberato» da preoccupazioni e affanni non possa diventa re un’occasione propizia per noi? E trasformarsi nell’opportunità che ci è concessa di sanare i nostri occhi, così spesso offuscati da mille occu pazioni, per re-imparare a guardare la vita, le persone e persino noi stessi con uno sguardo rinnovato…
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Il digiuno
«Digiuno» è una parola della tradizione che oggi va poco di moda. Non appartiene alla nostra mentalità edonista differire la soddisfazione di un bisogno: tutto deve essere esaudito qui e ora. Ogni possibile dilazione sarebbe interpretata come un tradimento o un disconoscimento del bisogno stesso, come se solo l’immediato appagamento ne onorasse la presenza. È evidente che, partendo da questo mind setting è difficile comprendere l’atto del digiunare, sicché, nei fatti, esso resta un atto eretico e incomprensibile. Accade però che questa inattesa situazione da «isolati» ci abbia imposto una strana, ma altrettanto impegnativa, forma di digiuno, subita con un certo fastidio. Ovviamente non si tratta di un digiuno dal cibo (che fortunatamente non manca dalle nostre tavole, cosa non scontata, comunque), ma di un digiuno da una serie di altre esperienze che strutturano, non meno radicalmente del cibo, la nostra vita: un digiuno di relazioni, di incontri, di abbracci, di contatti e di amicizie, di parole dette faccia a faccia e di carezze
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scambiate. È singolare la cosa: cacciata dalla porta, l’esperienza del digiuno è rientrata dalla finestra e ci costringe, noi uomini evoluti del terzo millennio, a scendere a patti con lui. Forse è a motivo del tratto molto «carnale» e fisico che abita i miei rapporti, tuttavia confesso che sento molto la «fame» dei miei consueti legami, oggi sospesi e messi in pausa: non mi bastano i contatti telefonici né i messaggi scambiati con WhatsApp; le persone e gli amici mi piace sentirli «a pelle», percepire il calore delle loro braccia e la ruvidità del loro volto. Non è semplice per noi «fare i conti» con la fatica del digiuno, noi che abbiamo tutto a portata di mano, sempre e subito disponibile e fruibile; non è facile attraversare questi giorni solitari e tristi, poveri di relazioni e di vicinanze, giorni «di magro» in cui l’abbondanza dei legami ci è sottratta come in una quaresima fuori tempo. Eppure il digiuno non è atto insensato, non è solo una castrazione irrazionale del desiderio, né la privazione autolesionistica del piacere. Con il digiuno è possibile – anzi talora auspicabile – convivere, nella misura in cui ne recuperiamo il senso e il valore. Il digiuno – dal cibo, dai piaceri, dalle abitudini, dai rapporti – non è il semplice compiacimento della rinuncia, ma l’invito e l’educazione a instaurare un rapporto più sano con ciò a cui rinunciamo. Il digiuno «forzoso» dalle nostre amicizie, in questi tempi di coronavirus, è forse l’occasione
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che ci è offerta per «ricalibrare» i nostri legami, purificarli da insane voglie o pretese, riabitare i nostri affetti con maggiore verità e purezza. Quanti nostri legami rischiano di essere morbosi, possessivi, autoreferenziali, egoistici e narcisistici, senza che magari neanche ce ne accorgiamo? Questo digiuno, non cercato né desiderato, può trasformarsi in un percorso, non scontato né banale, per custodire i nostri affetti e le nostre amicizie in modo più sincero, più autentico e profondo. Può diventare l’occasione per riscoprire il valore di un’intimità non bramosa né vorace, di un contatto garbato e rispettoso, di una parola, che, anche se detta a distanza, sia capace di rigenerare e liberare.
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La precarietà
Pensavamo di essere imbattibili e invece è bastato un piccolo virus a metterci ko. Se ci pensate, le società moderne vivono di questo mito del controllo, della pianificazione, del dominio; sono società dove tutto viene previsto, governato e studiato, dove le variabili fuori controllo sono bandite ed espulse dalla coscienza collettiva. Grazie a questa dinamica da «iper-controllo» abbiamo la sensazione (o l’illusione) di rimuovere ogni rischio, ogni imprevisto e ogni possibile minaccia. In fondo la tecnica ci offre sempre una soluzione per ogni problema: dalla malattia al dolore, dall’ambiente alla salute psichica. Per ogni domanda esiste una risposta ed è la scienza a farsene carico. Così facendo le nostre generazioni hanno perduto il senso della precarietà dell’esistenza. Con questo termine non intendo riferirmi al sentimento della paura o dell’angoscia, a quel disagio che nasce in presenza di una minaccia o di un pericolo. Parlo piuttosto della serena consapevolezza che nessuno di noi è eterno e che esiste una
radicale fragilità che abita la nostra vita. Siamo tutti «a tempo», impiegati «precari» dell’esistenza, gente in viaggio, pellegrina verso un altrove. Non voglio evocare pensieri millenaristici, tristi previsioni o futuri tenebrosi… assolutamente no. Parlo della serena consapevolezza del nostro limite, della dimensione intrinsecamente spaziale e temporale della nostra vita. Parlo del fatto che siamo gente esposta a molti rischi, sebbene la moderna tecnologia li abbia depotenziati e mitigati. Forse questa sventura che ci è capitata tra capo e collo, è «solo» un modo (greve e assai doloroso) per ricordarci chi siamo, di cosa siamo fatti e la fragilità che caratterizza la nostra esistenza. È l’occasione per restare umili (humus), ossia gente con i piedi per terra, consapevoli della propria dignità e del proprio limite, sopendo magari quelle pulsioni malsane che ci fanno credere onnipotenti ed eterni. Questo tempo è pure occasione (questa volta benedetta) per riconoscere la forza dei nostri legami, la potenza dei nostri affetti, la bellezza della solidarietà e la preziosità delle persone che ci stanno accanto. È la possibilità che ci è offerta per onorare chi amiamo e che diamo troppo spesso per scontato nei nostri giorni; è il modo con cui la vita ci educa al valore delle presenze di coloro che sono accanto a noi tutti i giorni, in un modo talmente mite e discreto da rischiare di essere trascurato.
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Il limite
«È il vento. Non lo vedi né lo senti sinché non trova un ostacolo, come tutte le cose che ci sono sempre state. Persino il mare sembra senza limiti, eppure canta solo quando li trova: infrangendosi sulla chiglia diventa schiuma; spezzandosi sugli scogli, vapore; sfinendosi sulle spiagge, risacca. La bellezza nasce dai limiti, sempre» (A. D’Avenia, Cose che nessuno sa, Mondadori, Milano 2011). Bella questa frase di Alessandro D’Avenia, non trovate? Bella (e provocatoria) soprattutto in questi tempi in cui ciascuno di noi sente con più intensità il peso dei limiti imposti dalla situazione sanitaria: limitazioni al movimento, al contatto, alle frequentazioni di posti e persone, una restrizione di fatto dei nostri spazi di libertà personale. I limiti sono sempre qualcosa di fastidioso perché attentano alla nostra pretesa di libertà incondizionata: sia che si tratti di limiti di natura sanitaria, sia che si parli di limitazioni alla parola o alle scelte, il senso «della misura» si impossessa
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delle nostre esistenze come un severo secondino, come qualcuno che mal tolleriamo o che sopportiamo a denti stretti. Non è semplice quindi «tessere le lodi» del senso del limite, tanto meno oggi quando migliaia di persone sono costrette dentro una zona di contenimento e milioni di altre sono impossibilitate a compiere le azioni quotidiane cui erano abituate. Il limite porta con sé un alone negativo perché, a una prima percezione, dice condizionamento, restrizione e mancanza di libertà. E in molti casi è davvero così! Ma ci sono pure casi in cui «la bellezza nasce dai limiti» come ci ricorda D’Avenia. Sono quelle situazioni in cui il limite non genera un condizionamento, ma è la condizione perché la vita sia possibile. Un po’ come il mare, che, seppure infinito, canta e suona solo quando la sua vastità si «scontra» sulle rocce, che ne costituiscono un simbolico limite. Anche il vento, stando alle parole dell’autore, genera la sua melodia solo quando trova un ostacolo. Come dire: è grazie al limite che mare e vento possono mostrare la propria presenza e bellezza. Un po’ come, ad esempio, il quadro della Gioconda: senza i suoi «confini» non ci sarebbe stato lo straordinario dipinto di Leonardo. Sono i «limiti» della tela che ne rendono possibile la «pitturabilità»: solo una tela limitata può accogliere le pennellata dell’artista. Talvolta accade così anche con la nostra vita: è solo nello scontro con il limite che comprendiamo
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la nostra identità. Esistiamo solo in quanto esseri «limitati», ossia connotati da confini precisi e invalicabili. Anzitutto di spazio e di tempo. Ci sono limiti che feriscono la nostra libertà. Ma la condizione della limitatezza appartiene alla nostra umanità ed è ciò che ci permette di esistere.
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La noia
Un’altra compagna di questi giorni surreali è «sorella noia». Abituati come siamo a correre da una parte all’altra, a fare mille cose insieme, a gestire appuntamenti, incontri, colloqui, consegne di lavoro e impegni personali, tutto questo tempo rallentato genera come un senso di svogliatezza e di noia. Anche la riduzione o l’assenza di contatti sociali certo non aiuta: vedere gente è sempre uno stimolo per fare, per sperimentare cose nuove, per saggiare esperienze diverse e originali. Stare chiusi nelle proprie case genera un po’ di spossatezza e di pigrizia: si riducono le opportunità e ci si muove in quello stato di umore a metà tra lo svogliato e il flemmatico, tra il pigro e l’indolente. Alla fine il rischio di sentirsi annoiati è davvero alto, anche quando ci si sforza di trovare qualche sollecitazione nelle cose più semplici e banali. Diceva Schopenhauer, che a onor del vero non era proprio un tipo entusiasta, che «la vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente fra noia e dolore, con intervalli fugaci, e per di più illusori, di piacere e gioia… Il godimento è solo un punto di trapasso impercettibile nel lento
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oscillare del pendolo» (A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, vol. 2, Laterza, Bari 1997, 244). Senza sposare la visione un po’ cupa del filosofo, occorre ammettere che la noia è sempre una compagna scomoda con cui convivere: sembra come se l’esistenza avesse perso il proprio interesse, come se le cose della vita mancassero di attrattiva… tutto scorre un po’ grigio, un po’ sottotono, apatico e freddo. Essere annoiati significa sperimentare il desiderio di desiderare: nel vivere la noia è proprio il desiderio a fare difetto, sicché la cosa che inconsapevolmente bramiamo è proprio l’atto stesso dell’appetire, del volere, dell’anelare a qualcosa che sia oltre noi stessi. Sebbene gli psicologi ci rassicurino sul fatto che la noia sia uno spazio benedetto di recupero delle nostre energie mentali in cui stimolare la nostra creatività, nessuno di noi lo attraversa con l’animo lieto e leggero. Sarà anche perché «non avere nulla da fare» ci forza a misurarci e confrontarci con quella persona da cui sfuggiamo sempre molto volentieri: noi stessi. La noia a volte diviene la misura dell’insensatezza delle cose, della fatica del vivere, dell’inappetenza del tempo, ma può trasformarsi anche in una proficua, seppur inattesa, occasione per stare un po’ in compagnia di se stessi, prestando ascolto a quel mondo interiore che molto spesso silenziamo colpevolmente.
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La speranza
È tempo di speranza! È tempo di coraggio! È tempo di affrontare la vita a muso duro, senza farsi spaventare dai problemi, dalle difficoltà e dall’incertezza del domani. Certo non è facile, né naturale, né spontaneo: proviamo tutti un senso di ansia e d’incertezza, di paura e di preoccupazione per il domani. Nessuno può vivere questo tempo con animo leggero e lieto, con serenità e letizia. Vivere da uomini l’oggi significa accettare di sperimentare il turbamento e l’angoscia per qualcosa che non controlliamo e per una situazione che non sappiamo come andrà a finire. Vivere da uomini di speranza significa non farsi schiacciare da queste paure, ma attraversarle con coraggio e risolutezza, con determinazione e fortezza. Eh sì, cari amici, la speranza in questi giorni bui ha il gusto amaro della sfida, della conquista e della prova. Non è un frutto a portata di mano, pronto per essere colto con disinvoltura e sfacciataggine; essa invece ha l’aspetto del terreno arido e brullo da arare e seminare, confidando che il seme buttato nella terra attecchisca e fruttifichi.
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Ci sentiamo tutti come dei moderni Noè, rinchiusi ciascuno nella propria arca, insieme ai propri cari, nell’attesa che il diluvio finisca. Ogni tanto apriamo anche noi la nostra finestra e lasciamo andare una colomba nella speranza che essa torni con una tenera foglia di ulivo, testimo nianza che il diluvio è passato. Ahimè, questo momento non è ancora giunto e così siamo costretti all’attesa fiduciosa che le acque, per quanto impetuose e minacciose, si ritireranno e che le nubi spariranno dall’orizzonte. È tempo di speranza, una speranza penosa e ingrata, ma comunque speranza, capace di annunciare, che prima o poi, l’arcobaleno tornerà a fare capolino su questa terra malata.
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La responsabilità
Chiosava il Presidente del Consiglio nell’intervista concessa recentemente a un quotidiano: «Ennio Flaiano diceva che i nomi collettivi servono a fare confusione, e che un bel giorno ti accorgi che “popolo, pubblico” siamo noi, mentre invece credevamo fossero gli altri». In fondo penso sia proprio così. Questa epidemia è iniziata un po’ pensando che fosse qualcosa che non ci riguardava: dapprima era una cosa «dei cinesi»… tanto loro sono tanti e sono lontani e, quindi, abbiamo accolto la notizia come un fatto di curiosità da settimana enigmistica. Poi i casi di contagio si sono avvicinati, ma erano comunque episodi che riguardavano altri... altri paesi, altre persone, altre comunità… Anche se la cosa ha iniziato un po’ a preoccuparci, l’abbiamo comunque tenuta «a debita distanza», dalla testa e dalle emozioni. Poi il virus ha bussato alle porte delle nostre case, è entrato nei nostri piccoli paesi, nelle nostre chiese, nei nostri bar e supermercati, nelle nostre piazze e nei nostri parchi e abbiamo
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iniziato a comprendere che quello che pensavamo fosse un «problema di altri» è diventato, improvvisamente un nostro problema. Ci siamo pure accorti che, per quanti muri possiamo frapporre tra noi e gli altri, ci sono cose, il virus in primis, che sono capaci di superare confini e limiti e di renderci tutti uguali, con brutale senso democratico. Ci siamo insomma scoperti radicalmente interconnessi, collegati l’un l’altro da un vincolo di reciproca responsabilità. La «sorpresa» di questi giorni sta proprio nel fatto che il comportamento di ciascuno di noi ha un impatto significativo sugli altri e che il destino degli uomini è affidato anche alla nostra personale responsabilità. Non che sia una novità, intendiamoci, ma questa situazione particolare ha reso questo fatto ancora più evidente e percepibile da tutti. In egual modo si è reso ancora più evidente quanto la nostra responsabilità debba valere in primis verso coloro che sono più deboli, più fragili ed esposti a rischi e malattie. Sono queste le persone verso le quali sperimentiamo un senso maggiore di cura e di attenzione. Questa responsabilità poi non ha limite spaziale di validità, non è rivolta solamente a chi ci sta accanto direttamente, ai nostri famigliari o parenti più prossimi. Essa si estende anche ai «lontani» – e questo virus ce l’ha testimoniato – verso coloro che, anche se distanti, potremmo comunque danneggiare con il nostro comportamento.
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Speriamo di non perdere di vista questa consapevolezza anche quando il nemico da combattere non sarà più il Coronavirus, ma il virus del nostro egoismo e della nostra indifferenza.
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Le parole
Avete notato quanto, in questi tempi così duri, sia preziosa una telefonata, una parola ricevuta, un messaggio letto sul cellulare e nella email o un pensiero fatto arrivare in un qualunque modo? Questo forzato isolamento sta dando valore e peso a cose su cui prima sorvolavamo o che davamo per scontate: la solitudine funziona come una cassa di risonanza nella quale un semplice «Ciao, come stai?» ha l’effetto di una benedizione, una telefonata il valore di un abbraccio e una email il pregio di una carezza. A me capita frequentemente in queste giornate: accolgo ogni piccolo contatto come una grande finestra aperta sul mondo. Ogni parola, ogni minima relazione con le persone è un piccolo spillo che buca quella bolla di cui siamo tutti ostaggi. Ogni pensiero, ogni chiacchiera, persino banale, insignificante o ovvia, è come un’àncora che ti ormeggia alla vita, alla realtà e alla quotidianità delle cose. È un modo per non perdere il filo che ci tiene legati a quanto ci circonda, per non smarrire la consistenza dei legami e delle esperienze,
per non farsi travolgere da questa realtà che pare più virtuale di quella dei social. A lungo andare, infatti, in questa doverosa e necessaria prigionia, ti pare di abitare una dimensione marziana, fatta di una routine che ha le sembianze di un carcere: stessi ritmi, stessi gesti, stessi ambienti e una quotidianità che assomiglia sempre più a se stessa. Accogli così ogni «input» che viene da fuori come una ventata di aria fresca, come una folata che scombussola, fortunatamente, il tran tran giornaliero. Ritrovi così il sollievo e la gioia di un sorriso, certo fatto a denti stretti e senza molta convinzione, ma, quanto meno, capace di illuminare giornate un po’ grigie, monotone e tristi.
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La cura
Abbiamo forse un antidoto per sopravvivere a questo tempo di quarantena forzata; c’è un piccolo segreto che può aiutarci a restare uomini anche chiusi tra quattro mura, anche se costretti a una convivenza obbligata con i nostri familiari. Il segreto sta nel prenderci cura gli uni degli altri. Se la paura e l’isolamento ci spingono a pensare a noi stessi, a preoccuparci per la nostra vita e per la nostra salute, l’esperienza della cura verso gli altri ci stimola a «uscire» (metaforicamente, ovvio), a sbilanciarci, ad allargare i nostri orizzonti, anche quando essi paiono stringersi al punto tale da toglierci il respiro. Provate! È un rimedio semplice ma prezioso, a portata di mano di grandi e piccoli, di vecchi e giovani, di buoni e cattivi. Provate a vivere le vostre giornate con il pensiero e il cuore rivolto a coloro che amate: ai vostri cari – che calpestano con voi gli stessi metri quadrati, ai vostri amici e conoscenti, ai vostri colleghi o compagni di sport e a tutti coloro che abitano il mondo dei vostri affetti. Provate a
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prendervi cura della loro felicità anche in questi giorni di lontananza; provate a essere così generosamente creativi da inventarvi ogni modo per mostrare loro affetto, amicizia e vicinanza. Questi giorni «pieni di niente» sono un’ottima occasione per curarvi delle vostre relazioni, anche quelle che ultimamente avete un po’ trascurato o tralasciato. Fate una telefonata a quell’amico che non sentivate da mesi; mandate un messaggio a coloro che amate, anche solo per dire loro che li state pensando; scrivete quelle parole che avreste sempre voluto dire a chi volete bene; inventatevi mille scuse per sussurrare ai vostri amici: «Io ci sono, ti accompagno anche se non ci incontriamo!». È vero: occorre un po’ di sana fantasia per oltrepassare i muri fisici che ci dividono, è la fantasia degli innamorati che se le inventano tutte pur di sentire la voce dell’amato. La tecnologia, in questi tempi, è una preziosa alleata, non trascuratela! Una videochiamata su Skype o Hang-Out non sostituisce certo il calore di un abbraccio, ma quanta vita, quanto affetto possono passare attraverso una linea ADSL! Non lasciamoci sottrarre la nostra umanità, non rinunciamo a quel quid che ci rende uomini ricchi di passione e compassione, di cura e dedizione, d’interesse e responsabilità. Non permettiamo che il virus riduca il nostro spazio di umanità! Restiamo vivi! Restiamo autentici!
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I sopravvissuti
È passato un mese da quando tutto ha avuto inizio: quattro settimane passate in un clima surreale in cui la stranezza dei nuovi ritmi di vita si è accompagnata alla fatica di stare reclusi in casa, lontani da tutti e da tutto, e con il dolore delle persone, amici e conoscenti, che non ce l’hanno fatta. Vivi giorni lenti, talvolta infiniti, sollevato per il lavoro che, fortunatamente, riesci a fare da casa e che, Deo gratia, occupa la testa e limita i pensieri un po’ negativi e pessimistici. Comprendi come avere qualche occupazione e preoccupazione sia una fortuna di questi tempi, giacché il lavoro dona un orientamento alla giornata, uno scopo e una direzione. Si resta scossi alla notizia di chi non ha vinto la battaglia contro il virus: ogni giorno il numero dei «perduti» aumenta, creando un senso di spaesamento e di incredulità. Non riesci a capacitarti che il virus ti sia arrivato così vicino e ti abbia sottratto persone che abitavano il tuo piccolo mondo. Vivi come barricato dentro il tuo fortino,
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assediato da un nemico che non riesci a identificare, un nemico subdolo e viscido, che tenta di infiltrarsi tra le mura di casa, tra gli affetti più intimi, fino a giungere al nucleo dei tuoi legami. Inizia a nascere la sensazione di essere un sopravvissuto: vedi gente attorno a te che è stata colpita dal virus senza una ragione precisa, solo per un terribile scherzo del destino; e allo stesso modo intuisci che, per ora, tu sei stato «graziato» per una altrettanto inspiegabile ragione. Ricordate le parole di Luca? «In quella notte due saranno in un letto; l’uno sarà preso e l’altro lasciato. Due donne macineranno insieme; l’una sarà presa e l’altra lasciata. Due uomini saranno nei campi; l’uno sarà preso e l’altro lasciato» (Lc 17,34-35). È questa incertezza e provvisorietà che scuote alla radice la sicurezza del vivere; è questo non sapere che ne sarà di noi che ci turba e inquieta, che ferisce la nostra boria e arroganza, che mina la fiducia che nutriamo verso l’esistenza, facendoci sentire esposti, vulnerabili, quasi ospiti indesiderati di un mondo che fino al giorno prima sentivamo come una casa. È questa percezione che ci turba: quella di stare giocando alla roulette russa con una pistola puntata diritta alla tempia.
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L’ordinarietà
Chi avrebbe mai detto che avremmo rimpianto la solita vita, quella in cui ti svegli assonnato alla mattina, fai la colazione in silenzio, esci di casa che è ancora buio, attendi il treno in stazione al freddo maledicendo il cielo e le ferrovie che sono sempre in ritardo, aspetti una metropolitana che arriva stipata di gente, lotti per un angolo di sopravvivenza sulla carrozza, attraversi la strada con quello in macchina che impreca perché passi con il semaforo verde-arancio, arrivato in ufficio, trovi le stesse facce, insieme agli stessi problemi, alle stesse cose che ti fanno arrabbiare, alle stesse riunioni che non finiscono mai e al solito stress che ti accompagna ventiquattro ore al giorno, sette giorni su sette? Chi avrebbe mai detto che tutta questa vita, che avremmo scambiato con un’altra qualunque pescata dal mazzo, oggi ci sarebbe mancata così tanto e ne avremmo sentito così forte la nostalgia? Chi si sarebbe mai sognato che la ferialità di tutti i giorni, con la sua rituale ciclicità e la sua
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monotona ripetitività sarebbe diventata qualcosa da rimpiangere prima di addormentarsi, una presenza che avrebbe abitato i sogni che facciamo ad occhi aperti fino a divenire una meta a cui ambire e un obiettivo da raggiungere? Chi si sarebbe mai aspettato che la nostra routine quotidiana potesse esercitare tutto questo fascino e questa attrattiva, che appartenesse alla categoria «desideri» in questa esistenza da reclusi che tutti stiamo conducendo? Siamo onesti: nessuno di noi avrebbe scommesso due lire che ci saremmo rammaricati per quella vita piena di problemi che ci pareva indigesta, quelle lunghe giornate zeppe di scadenze, appuntamenti, consegne, riunioni, imprevisti, seccature e preoccupazioni, noie e fastidi. Nessuno si sarebbe mai immaginato che avremmo voluto indietro la banalità dalla nostra vita e che saremmo arrivati alla consapevolezza che, tutto sommato, la nostra esistenza non era così banale, così piatta e disgraziata come pensavamo. Mi tornano alla mente quelle straordinarie parole di Madeleine Delbrêl, che restano per me come una meta irraggiungibile: «C’è gente che Dio prende e mette da parte. Ma ce n’è altra che egli lascia nella moltitudine, che non “ritira dal mondo”. È gente che fa un lavoro ordinario, che ha una famiglia ordinaria o che vive un’ordinaria vita da celibe. Gente che ha malattie ordinarie, e lutti ordinari. Gente che ha una casa ordinaria, e vestiti ordinari. È la gente della vita ordinaria.
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Gente che s’incontra in una qualsiasi strada. Costoro amano il loro uscio che si apre sulla via, come i loro fratelli invisibili al mondo amano la porta che si è rinchiusa definitivamente sopra di essi. Noialtri, gente della strada, crediamo con tutte le nostre forze che questa strada, che questo mondo dove Dio ci ha messi è per noi il luogo della nostra santità. Noi crediamo che niente di necessario ci manca. Perché se questo necessario ci mancasse Dio ce lo avrebbe già dato» (M. Delbrêl, Noi delle strade, Gribaudi, Torino 1988). Forse se questo tempo tremendo ci saprà restituire la consapevolezza del valore dei nostri giorni, della preziosità della monotonia che patiamo, alla fine potrebbe anche non essere passato inutilmente.
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La resistenza
Facevo due conti: questa settimana taglio il traguardo delle cinque settimane di isolamento. All’inizio un po’ meno rigido, come tutti, poi col passare del tempo sempre più stretto e severo. Quasi un mese e mezzo di contatti sociali ridotti al minimo e prevalentemente filtrati da strumenti virtuali. Il punto è che non abbiamo ancora una chiara prospettiva di uscita sicché ci attende, ahimè, un lungo periodo di quarantena. Se la sfida dei primi giorni era «adattarsi», cercando di trovare un proprio modus vivendi nella nuova situazione, ora l’obiettivo si è trasformato in un più crudo e difficile «resistere!». Il tempo che passa, lo stravolgimento delle abitudini e dei ritmi di vita, l’assenza delle solite cose, delle abituali libertà, dei contatti e degli incontri, stanno rendendo sempre più faticosa questa vita da carcerati. Quello che prima poteva essere affrontato come una strana (anche se fastidiosa) novità, ora è diventato un pesante fardello, una ripetitività che diventa monotonia, grigiore e piattezza.
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Come in una qualunque maratona, all’entusiasmo e allo sprint iniziale subentra la stanchezza, la fatica, il peso del passo compiuto sempre con meno convinzione e passione. Certo, resistere, come se fosse facile… Come se non affiorasse continuamente e sempre più lacerante la voglia di normalità, di amicizie, di strette e di abbracci, di saluti e di incontri. Resistere… una bella parola, un invito giusto, ma duro da soddisfare, soprattutto quando l’attraversata del deserto diviene lunga. Forse resistere è possibile solo avendo la capacità e la pazienza di accedere a quel bacino di senso che ciascuno di noi si porta dentro, in fondo al cuore, nella profondità dell’anima. Come moderni Drogo destinati alla Fortezza Bastiani possiamo anche noi scrutare l’avanzata dei Tartari solo se avremo bisacce piene e acqua a sufficienza, solo se disporremo di munizioni abbondanti e cibo per resistere alla fame. La resistenza, qualunque resistenza, quella al Covid-19 come quella a una qualunque malattia o fatica, dolore o lutto, non ha nulla di naturale o di spontaneo: essa è sempre una decisione, una scelta della volontà, un atto di sacrificio e di ragione. Ma la resistenza, come un fuoco che arde, necessita di legna secca e buona da bruciare; serve combustibile, di qualunque natura, purché capace di non far spegnere la fiamma. Ecco allora che questi giorni ci chiedono di non dimenticare di fare «scorte di legna», così da
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sostenere il fuoco, illuminare la notte e donare un po’ di tepore alle membra. Amici miei, è tempo di scavare in fondo e accedere a quel «mare» di senso, di significati, di motivazioni, di valori e di ideali che possano darci la forza della resistenza. Per alcuni può essere la fede, per altri il rigore morale, per altri ancora l’ispirazione ai valori universali o una sana passione per l’umanità. Qualunque sia il vostro «mare», è tempo di tuffarsi dentro, di attingere alla sua profondità, di dissetarsi alle sue acque e di lasciarsi cullare alla dolcezza delle sue onde.
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Lo spezzare il pane
La bella notizia di oggi è una serie di sacchetti della spesa che alcune persone di buon cuore hanno lasciato di fronte a una chiesa di Lodi, insieme a un cartello che spiega lo scopo di quelle buste: «Se non ce la fai, non ti devi vergognare. Prendi pure». Si tratta di ordinari sacchetti biodegradabili – di quelli che distribuiscono i supermercati – e contengono frutta, pane e altri beni alimentari. Scelgo questa immagine sapendo bene che in realtà sono migliaia le iniziative che in ogni paese si stanno attivando per aiutare tutti coloro a cui questa crisi sanitaria ha tolto il pane. Sono quelli che vivono «al pelo» già in condizioni normali e che in questa situazione di lockdown si trovano senza sostentamento. Appartengono a questa sfortunata categoria anche coloro che lavorano in nero e che, in quanto tali, non godono di alcun sussidio o contributo pubblico. Si trovano semplicemente senza stipendio. Punto. Non so se si tratta di buon cuore, filantropia, carità cristiana o solidarietà umana, compassione o semplice commiserazione, e forse, al netto delle cose, non interessa realmente saperlo. Quello che
importa, e che è bene sottolineare, è il fatto che un essere umano come noi, non so se ricco o povero, istruito o analfabeta, intelligente o stupido, abbia pensato che qualche suo simile potesse sentire il buco della fame proprio come lui e abbia così pensato di fare un gesto tanto semplice quanto rivoluzionario: quello di spezzare il pane. Non ha nulla di naturale o spontaneo lo spezzare il pane: provate con il vostro cagnolino, vedete se è disponibile a condividere il cibo con un suo simile… L’istinto ci spinge ad accaparrare, a trattenere per noi stessi e per quelli del nostro branco; a conquistare, a predare per garantire la nostra sopravvivenza. Azzannare il pane è qualcosa che facciamo «senza sforzo», come un gesto che asseconda la nostra origine animale. Il gesto dello spezzare il pane crea uno iato, una frattura, una sospensione della pulsione animale; sa interrompere la bramosia avida e famelica verso il cibo e istituisce uno spazio di libertà, di consapevolezza e di umanità. L’atto del condividere è quello in nome del quale rinunciamo a una soddisfazione individualistica e aggressiva del nostro appetito e ci concediamo uno spazio simbolico in cui riconoscere e onorare la presenza dell’altro, nostro simile. Quanta umanità allora dietro quel sacchetto lasciato per terra sul sagrato della chiesa! Quanta promessa di rapporti veri, di responsabilità condivise e di fraternità quotidiane. Benedetto pane spezzato!
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La reclusione
Il protrarsi della quarantena genera, giorno dopo giorno, un senso di costrizione, d’ingabbiamento e di oppressione. Comprendi benissimo che questa segregazione, per nulla volontaria, è per il bene tuo e delle persone che vivono con te, ma, ciononostante, affiora sempre di più la percezione d’insofferenza e d’impazienza per quello che sta accadendo. Le cose di sempre ti mancano: senti il vuoto della vita «normale», del tuo lavoro, delle tue amicizie, del rapporto con le persone, di quei tatti e con-tatti che riempiono le giornate. Avverti dentro di te che il tuo bisogno di vita, di vita fisica – di movimento, d’incontri, di libertà – e di vita spirituale – di mete da perseguire, di persone da accudire, di progetti da realizzare – viene continuamente frustrato, deluso e inappagato. C’è uno slancio vitale che non trova soddisfazione, ma che subisce repressione e rinvii. Cerchi di convincerti che la dilazione del desiderio è un atto di educazione personale, di custodia dell’interiorità, di controllo di se stessi, ma il
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tempo, ahimè, non gioca a tuo favore: questa convinzione, cui cerchi di aggrapparti, si sbriciola giorno dopo giorno sotto il peso delle giornate, sicché a ogni nuova alba ti accorgi che è sempre più difficile vivere la resistenza, mantenere quel presidio di umanità che ci tiene in vita. Nel primo periodo della quarantena, questa «fame di vita» era qualcosa che potevi facilmente controllare e, in qualche modo, incanalare in interessi e attività alternative: la lettura, qualche hobbies, un buon film, una serie TV, il giardinaggio, il riordino della casa, ecc. Oggi questo riorientamento diventa sempre più difficile e faticoso: i mille surrogati che ti sei inventato mostrano tutta la loro insufficienza e provvisorietà sicché la fame di vita vera e autentica emerge con drammatica intensità. Sperimenti una voglia di «normalità» che un po’ ti sorprende: la velleità di prendere un treno, di andare in chiesa, di entrare in ufficio, di camminare in un parco pubblico, di incontrare qualcuno in carne e ossa… insomma di tornare a quelle cose da cui hai sempre sognato di fuggire. Stare «in gabbia» fa nascere e accrescere la nostalgia della vita «libera», quella che, sebbene ti lamentassi di mille cose a ogni passo, ora vorresti tornare ad abitare.
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Fare ordine
Sospeso il campionato di calcio, pare che sia nato un nuovo sport nazionale: quello di mettere in ordine la casa. Costretti a vivere in pochi metri quadrati e a limitare spostamenti e camminate all’aperto, ci siamo tutti concentrati in una delle poche cose rimasteci: sistemare gli oggetti di casa. È tutto un gran sistemare, riordinare, ras settare, organizzare e pulire: armadi pieni di vestiti vengono svuotati e sistemati da cima a fondo; scatoloni, finiti in cantina da non si sa quanto, rivedono la luce, insieme al loro contenuto. È così che riemergono vecchie foto di quando si era bambini, istantanee di altri tempi, quando la vita scorreva lenta e serena in bianco e nero. Ritrovi vecchi quaderni o libri dimenticati da tempo, quel cappello da sole che usavi per il campeggio e quella cartolina un po’ logora, ricordo della prima vacanza all’estero. Con indomito coraggio apri poi quell’ultimo cassetto, rimasto chiuso negli ultimi dieci anni, zeppo di ogni sorta di aggeggi andati in disuso: un vecchio caricatore di cellulare ormai
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inutilizzabile per i più moderni smartphone, un set di viti tolte da non sai più quale armadio, una vecchia radiolina FM che farebbe invidia ai mercatini delle pulci, una scatola di puntine ormai arrugginite e quel portachiavi che avevi perso e ti chiedevi che fine avesse fatto. E che dire poi dei cassetti rigonfi di vestiti che non usi da stagioni immemori? Quella maglietta che non hai mai avuto il coraggio di buttare e quel maglione ormai infeltrito che ti ricorda tanto quell’estate in montagna; oppure quel paio di pantaloni che tenevi per l’occasione giusta, peccato che non si sia presentata. Insomma ci siamo tutti, chi più chi meno, impegnati in quest’opera di «cura della memoria», in una attività che avevamo destinato a tempi vuoti e che oggi, un po’ inaspettatamente, sono giunti. È singolare questo tempo in cui siamo costretti a fermarci e mettere ordine nella nostra casa, tra le nostre cose, in mezzo ai pezzi di memoria che ci portiamo dietro, a cimeli del passato che sanno ancora scaldare il cuore e crearci quel brivido di nostalgia lungo la schiena. La cosa strana è che questo movimento di sosta sia coinciso con uno sguardo all’indietro, con un tuffo nella memoria da cui far riaffiorare testimonianza del passato, tracce di chi eravamo e la storia da cui proveniamo. Forse, se osserviamo con attenzione, quell’opera di pulizia e di riordino degli spazi della nostra
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casa va di pari passo con la medesima attività compiuta dentro di noi, dentro la nostra anima. Riprendere tra le mani quelle buffe anticaglie è il modo con cui il nostro corpo si riappropria e si confronta con pezzi del nostro passato, con lampi di ieri che si sporgono sull’oggi, con schegge di esperienze che ci hanno reso quello che siamo. Non è un tempo perso, allora, quello speso dentro a scatoloni coperti di polvere o scatole dal contenuto ignoto: talvolta le soste forzose della vita possono diventare occasioni feconde per mettere ordine dentro e fuori, per ridefinire priorità e lasciare che vecchie consapevolezze riaffiorino alla nostra coscienza. La cura degli oggetti e la cura del nostro mondo esteriore e interiore sono sempre qualcosa che vanno di pari passo: la carne di cui siamo fatti testimonia questa nostra profonda e radicale apertura al mondo sicché, quando l’io vuole ritrovarsi, la strada delle cose si mostra sempre come un percorso promettente.
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I veri amici
Non so se è capitato anche a voi, ma questo periodo d’isolamento ha prodotto un effetto naturalmente selettivo sulle cose della nostra vita: l’interruzione brusca e imprevista dei nostri ritmi quotidiani ha fatto emergere le cose che per noi sono davvero importanti rispetto a ciò che si è rivelato, nei fatti, secondario e irrilevante. Accade un po’ come quando il contadino sull’aia divideva il grano dalla pula: a ogni colpo deciso del setaccio, il buon seme restava a terra mentre la parte inutile si disperdeva nell’aria. La stessa cosa è accaduta alla nostra vita: i mille scossoni ricevuti da questa situazione pandemica ci hanno portato a individuare quelle dimensioni, quelle esperienze e situazioni che sentiamo davvero vitali e quelle altre delle quali possiamo fare tranquillamente a meno. Questo tempo possiede davvero una dimensione di «rivelazione»: è stata proprio la dimensione dell’assenza che ha fatto maturare il senso di indispensabilità di alcune cose così come ci ha reso consapevoli di quanto pensavamo necessario e
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che, a conti fatti, non lo era. Probabilmente senza questa esperienza di crisi non saremmo giunti a tale consapevolezza: in fondo la parola «crisi» deriva dal greco krino che indica appunto l’atto del separare il grano dalla pula da parte dei contadini. Come a dire: ogni periodo di crisi esige e implica questa faticosa esperienza di separazione, di discernimento e di selezione di quanto è buono da quanto è insignificante. È accaduto con gli impegni che pensavamo improcrastinabili, con quelle scadenze che non potevamo mancare, con quegli incontri cui non potevamo disertare: lo stravolgimento dei ritmi della nostra giornata ha fatto emergere i momenti che ci mancano su quelli di cui possiamo fare a meno. La stessa cosa è capitata un po’ anche con i nostri legami e le nostre amicizie: la vita, un po’ per abitudine e un po’ per inerzia, ti porta a frequentare un giro circoscritto di persone, che incontri talvolta senza troppa convinzione. Ecco che il lockdown dei rapporti, inevitabile con la situazione di quarantena, ha davvero funzionato come la scossa data al setaccio per filtrare il seme buono: quei legami che erano vitali sono emersi in tutta la loro evidenza mentre quelli che erano, come dire, di circostanza si sono naturalmente allentati. Non ci è stato richiesto un grande sforzo per questa operazione di selezione: nessuna fatica o cupa riflessione. È stato il cuore stesso, con la sua immediata semplicità, a indicarci la via: quelle persone di cui abbiamo conservato una accesa
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malinconia, quelle che più spesso abbiamo sentito il bisogno di contattare, quelle che più frequentemente hanno abitato i nostri pensieri e a cui più frequentemente abbiamo rivolto la classica domanda «Come va?», ebbene proprio loro si sono dimostrate come capaci si sostenere la prova della distanza e della lontananza. Coloro che invece sono un po’ spontaneamente scomparsi dalla nostra testa e dal nostro cuore, si sono naturalmente e mestamente congedati dalla nostra esistenza. Come dicevo, nulla di violento e di aggressivo; nessun risentimento o maldicenza, nessun rancore o malanimo: nella vita le cose tendono ad assumere il posto che era loro destinato. Alcuni si muovono lentamente ma costantemente verso il centro della nostra esistenza, altri, inspiegabilmente, tendono a restare un poco ai margini, in quella periferia degli affetti che coincide con la loro irrilevanza.
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Il mondo
Portando il cane a spasso in questi giorni mi sono accorto di una cosa sorprendente: i parchi attorno a casa mia sono pieni di coniglietti selvatici. Ieri sera ne avrò contati una ventina dentro il prato circondato dal nastro biancorosso che impedisce l’ingresso. Stavano in piedi nell’erba per nulla preoccupati dei passanti, che, stupiti e meravigliati, li ammiravano da lontano. Sembravano un plotone di quei nanetti da giardino che vedi in alcune abitazioni: alcuni stavano ritti, altri sdraiati o appallottolati, incuranti della minaccia di cani o uomini che solitamente battono quel terreno. È proprio così: la natura ha fatto il suo corso senza lasciarsi condizionare dal Coronavirus. Anzi, l’assenza forzata dell’uomo e della sua presenza invadente ha permesso un germoglio di vita davvero sorprendente: lo prova la nutrita colonia di coniglietti di fronte a casa mia così come l’erba e le piante che crescono rigogliose e selvagge un po’ ovunque. È come se la ritrazione dell’uomo dall’ambiente naturale fosse coincisa con l’espansione della
vita naturale; anzi, a dire il vero, sembra che proprio tale assenza sia stata il motivo dell’abbondanza di vita. Fa pensare questa cosa, non trovate? Questo fatto forse ci costringe a prendere consapevolezza del potere e dell’influenza che ciascuno di noi, anche senza volerlo, ha sulla natura. La nostra sola presenza rischia di provocare, in qualche modo, una specie di assenza di qualcun altro, della natura, degli animali o della vegetazione. In altre parole il nostro semplice esserci non è irrilevante per le altre creature, animali o vegetali, che abitano con noi. Come non ricordare a questo proposito i pesci che sono tornati ad abitare le acque di Venezia? O i delfini che possono giocare indisturbati nei mari aperti? O gli animali che si sono riappropriati del proprio territorio non più disturbati o minacciati dalla presenza umana? Non sogno un mondo senza uomini, né una natura che cresca a discapito dell’umanità. Penso però che mentre stiamo gradualmente mettendo il naso fuori di casa, forse varrebbe la pena farlo con una maggiore premura e responsabilità verso coloro che la nostra presenza ha, involontariamente, allontanato.
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Il coraggio
Tornavo a casa dopo una commissione, camminando per vie deserte, attraversando un paese che pareva davvero irriconoscibile: nonostante la giornata di sole non c’era anima viva in giro, nessun pedone, nessuna bicicletta per le strade, solo qualche macchina a rompere furtivamente un silenzio inquietante. Mi è caduto l’occhio su un balcone, dove era appeso uno di quegli striscioni disegnati su suggerimento di alcune maestre del paese nei primi giorni della quarantena: mostrava un grande arcobaleno colorato sovrastato dalla scritta: «Andrà tutto bene». Quel lenzuolo bianco doveva averne visti di sole e di pioggia perché le scritte e il disegno apparivano scoloriti e la stoffa leggermente ingiallita. Quel cartello, che doveva «gridare al mondo» la fiducia in un’uscita positiva dalla crisi, ha perduto un po’ la propria forza, tanto che, a osservarlo oggi, più che un urlo pareva un leggero sussurro. È proprio questo l’effetto del tempo che scorre: ingiallisce i tessuti, scolora le parole, fiacca gli entusiasmi, smorza l’euforia e placa l’ardore.
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Riflettevo che in fondo quei «colori un po’ smunti» rispecchiano anche i nostri animi un po’ spenti e rassegnati dopo molti giorni di isolamento e di quarantena. Alle canzoni sui balconi, agli eventi celebrati sui tetti, ai riti collettivi, agli inviti entusiasti a resistere, alle esortazioni ad avere coraggio, si è sostituito un silenzio introverso e impaziente e un umore più mesto al limite della tristezza e della rassegnazione. D’altra parte è comprensibile: dopo un po’ di tempo l’adrenalina scende, l’entusiasmo cala e il fervore dell’inizio lascia spazio alla stanchezza e alla monotonia. È forse solo allora che l’ottimismo è chiamato a trasformarsi in speranza, proprio nel momento in cui lo sguardo positivo sul futuro richiede sforzo, convinzione e volontà. Quella predisposizione positiva, a volte un po’ istintiva e superficiale, non basta a reggere il peso del tempo: giorno dopo giorno si scioglie come neve al sole e si dissolve come quelle bolle di sapone che sono belle a vedersi, ma resistono un battito d’ali. Penso che questo periodo così lungo e quest’attesa decisamente protratta e inaspettata nel tempo si sia rivelata una prova per la nostra capacità di sperare; è stato come un esercizio collettivo di pazienza e di sopportazione, in cui a ciascuno è stato chiesto di trovare motivi per non disperare, per continuare la lotta e non mollare il campo. Proprio come quel lenzuolo scolorito, anche il nostro coraggio e la nostra determinazione sono stati sottoposti alla prova del tempo e al
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logoramento delle intemperie, alla fatica di rinnovarsi ogni giorno, consapevoli che l’impeto iniziale non avrebbe più sostenuto lo sforzo. Il coraggio, insieme alla speranza, è quell’arte talvolta faticosa di chi attende il futuro, nonostante non ci sia alcun segno premonitore, n essun indizio attendibile o testimonianza concreta. È facile attendersi una giornata di sole quando assisti a un’alba straordinaria e luminosa in un cielo azzurro terso; non è così difficile prevedere un temporale quando grosse nubi nere si scorgono all’orizzonte, insieme a un vento impetuoso che fa danzare gli alberi. Assai più difficile è confidare di giungere al rifugio quando nessuna indicazione sul sentiero ne indica la distanza; così come è un po’ innaturale sperare nella pioggia capace di irrigare un campo arido quando nel cielo non si vede alcuna nuvola. Forse la speranza muove i suoi primi deboli passi proprio quando l’evidenza degli occhi inizia a perdere consistenza e il cuore teme di potersi smarrire. Scriveva Václav Havel che «la speranza non ha niente a che vedere con l’ottimismo. La speranza non è la convinzione che ciò che stiamo facendo avrà successo. La speranza è la certezza che ciò che stiamo facendo ha un senso. Che abbia successo o meno» (V. Havel, Lettera all’amica Olga, 17 gennaio 1981).
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Il dopo
Ho tante paure in questo periodo e una preoccupazione. Le paure, come potete immaginare, sono legate alla salute mia e delle persone a cui voglio bene: ce la faremo a superare indenni questo tempo così difficile? Avremo ancora la possibilità di abbracciarci, di stare insieme in una stanza, di prendere una pizza o un aperitivo, di andare al cinema o a teatro? I nostri figli riusciranno a vivere sereni in un mondo che non sia continua preda di epidemie o virus mortiferi? Sapremo nuovamente nutrire fiducia nel futuro o saremo condannati a una depressione non solo economica ma anche esistenziale? Riavremo le nostre vite, non tanto nelle modalità concrete con cui le vivevamo, ma per l’intensità e la bellezza che le connotava? O saremo destinati a un perenne distanziamento sociale che intristirà le nostre vite fino a spegnerle? Se queste sono la paure – immagino comuni a molte persone – la mia preoccupazione invece è assai più semplice ed elementare: sapremo far tesoro di quello che sta accadendo?
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Stiamo tutti attraversando un periodo davvero faticoso, fatto di molte sofferenze e rinunce, tanti sacrifici e privazioni, un tempo che ci ha tolto la vita di sempre e ci ha costretto a ritmi e stili di vita inusuali e talvolta fastidiosi. Abbiamo perso amici e conoscenti, abbiamo rinunciato alle nostre amicizie, a tanti contatti sociali e lavorativi. E poi, quando sarà cessato questo tsunami, che cosa ci accadrà? Avremo imparato qualcosa da questo momento di prova o torneremo alle nostre vite abituali come se nulla fosse successo? Riprenderà il solito spettacolo, il medesimo show, la stessa programmazione di sempre o questo tempo di «intervallo forzato» ci sarà servito a diventare persone diverse? Riavvolgeremo il film della nostra vita agli ultimi giorni di febbraio quando tutto ebbe inizio e faremo finta di nulla o qualcosa d’importante e vitale sarà emerso in questa quarantena? Vedete: non è scontato né automatico cambiare e migliorare. Non basta che le cose ci capitino perché esse ci cambino. Decisamente no! Il cambiamento, qualunque cambiamento, nasce sempre da una decisione, da una determinazione dello spirito e della volontà. Certo, sollecitato e incalzato da quanto ci accade, ma senza un nostro coinvolgimento, senza una nostra intima decisione, nulla cambia e la vita continua sempre uguale. Vale per la nostra vita privata, per le cose che ci accadono come individui: un successo, un fallimento, una morte o un addio, una sofferenza o
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una gioia, un risultato raggiunto o un traguardo mancato; ogni cosa appella la nostra libertà e responsabilità e chiede di essere assunta e interiorizzata come fattore di crescita e di cambiamento. Lo stesso vale per la nostra consapevolezza sociale: non bastano l’epidemia, la forzata reclusione in casa, la sospensione dei contatti sociali, la chiusura di luoghi di divertimento e di svago, l’affollamento di ospedali e sale di rianimazione... Ebbene non basta tutto questo per modificare il nostro stile di vita, se, insieme, non decideremo che è venuto il tempo per farlo. Questo tempo sta colpendo in profondità la nostra vita su vari livelli e certamente il livello più visibile è quello dei nostri comportamenti: non usciamo di casa e se lo facciamo ci dobbiamo proteggere; evitiamo i posti affollati, teniamo distanti le persone, evitiamo i contatti, rinunciamo ad appuntamenti e incontri. Ma questa quarantena intacca anche i nostri atteggiamenti, ossia il modo abituale con cui affrontiamo le cose della vita. Esso incide sulla nostra predisposizione verso il mondo, le cose e gli eventi: siamo tutti un po’ più sospettosi, più cauti, ma allo stesso tempo più attenti alle sofferenze degli altri, più compassionevoli; viviamo più stupore e meraviglia per le piccole cose che accadono sotto i nostri occhi e a cui prima davamo poca importanza. Alcuni di noi sono diventati più cinici e presuntuosi, altri più generosi ed empatici, altri ancora più polemici e insofferenti.
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Eppure, se osserviamo più in profondità, questo tempo ha influenzato non solo comportamenti e atteggiamenti, ma ha raggiunto il nucleo intimo e vitale dei nostri valori, di quelle cose che riteniamo importanti nella nostra vita, quei principi che ispirano la nostra esistenza e illuminano come dei fari le nostre scelte. Forse quelle cose che ritenevamo «intoccabili» nella nostra vita – soldi, carriera, prestigio, ammirazione, successo – hanno perso vigore e interesse e magari altre hanno scalato la classifica della nostra top ten. Intendiamoci: per alcuni potrebbe essere accaduto anche il viceversa, ossia che le cose di sempre si siano rivelate cose buone e affidabili su cui fondare l’esistenza. Ebbene, la mia preoccupazione – per me, per i miei figli e i miei amici, per coloro che in qualche modo condividono la mia esistenza – è proprio questa: che ne sarà di noi quando tutto sarà passato? Sapremo far tesoro di quello che abbiamo vissuto, sapremo imparare da quanto ci è successo o tutto scorrerà come l’acqua sulla pietra, lasciandola asciutta dopo un’ora al sole? Saremo all’altezza della nostra storia, sapendo cogliere quei «segni dei tempi» che la vita ha messo sul nostro cammino? Sapremo fare di questo tempo di pandemia un momento doloroso e tragico, ma generatore di vita e di umanità o resterà solo un tempo sfortunato da dimenticare e cancellare dai libri di storia? Sapremo diventare più uomini, sciogliendo la nostra libertà dalla necessità degli eventi?
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L’àncora di salvezza
Forse ognuno di noi ha necessariamente dovuto trovare un’àncora di salvezza in questo tempo triste, qualcosa cui aggrapparsi tenacemente per non cadere nella noia, nella tristezza o, peggio ancora, nella disperazione. Ci serve una roccia cui appigliarci, un punto fermo da afferrare, non tanto per andare chissà dove, ma solo per restare dove siamo, per non perderci dalle mani, per custodirci, per quanto possibile. In altre parole: per restare uomini e rimanere vivi. Penso che ciascuno di noi abbia dovuto individuare una strategia per affrontare questo tempo così surreale, per conservare la propria lucidità mentale e non sopire quella voglia di vita che ci freme dentro. So di amici che si sono costruiti delle piccole palestre in miniatura in casa propria, dedicando una stanza a luogo non solo di allenamento fisico, ma anche di rigenerazione mentale e spirituale; altri si sono buttati cuore e testa nella cucina, affinando quelle doti culinarie che avrebbero da sempre voluto coltivare; per altri ancora è stato il giardino la «valvola di sfogo»,
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quel luogo in cui prendersi cura delle piante e con esse anche un po’ di se stessi e della propria anima; qualcuno ha fatto del riordino della casa la propria mission di questi mesi, in modo tale che la cura degli oggetti esterni propiziasse anche la cura di ciò che sta dentro e l’ordine creato nella casa aiutasse a ristabilire anche l’ordine interiore un poco compromesso. Uniquique suum, direbbero gli antichi, a ciascuno il suo, a ciascuno la propria àncora di salvezza, a ognuno la propria exit strategy da questa situazione, a ognuno il proprio salvagente a cui aggrapparsi per passare la tempesta. Qual è stata la mia via di fuga? Non è difficile immaginarlo, alla fine di questo libro: personalmente mi sono aggrappato alla scrittura. Lo scrivere è diventato una vera tattica di sopravvivenza, il modo per non perdere me stesso, i miei affetti, i legami che mi uniscono alle persone che amo e, più di tutto, il senso del cammino che sto percorrendo nella mia esistenza. Questo periodo di reclusione ha fatto emergere in me, come penso in molti di noi, un caleidoscopio di emozioni e di sentimenti raramente provati in precedenza: tanto disorientamento, stupore, preoccupazione, rabbia, ansia, timore, speranza e fiducia, tensione e angoscia, noia e inedia, voglia di fare e allo stesso tempo tanta pigrizia e indifferenza, passione per le persone e fastidio per il loro comportamento e molto molto altro ancora. Mi sono sentito come messo in un frullatore
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che girava impazzito, creando le più diverse e incomprensibili emozioni dentro il mio animo. Come tentare di mettere ordine a questa maionese impazzita? Come tentare di non farsi sopraffare da questo vortice emotivo e da questo sequestro delle sensazioni? Il punto più delicato ed essenziale della faccenda sta nel fatto che, in questa «bolla esistenziale» in cui siamo finiti, rischiamo di perdere il senso di quello che siamo e di quello che facciamo: come se il filo del racconto della nostra vita si sia improvvisamente interrotto, spezzato, lasciato sospeso nell’aria senza alcuna possibilità di un punto di atterraggio. Se prima il ritmo della vita, la regolarità degli appuntamenti, degli incontri, delle mete da perseguire e delle scadenze da soddisfare, aveva, quanto meno, il merito di rendere esplicita e chiara la direzione della nostra vita, ebbene questo tempo di sospensione invece rischia di offuscare il traguardo del nostro viaggio e, peggio ancora, il senso del nostro andare. La scrittura in questo tempo strano ha funzionato per me come un’istanza di ordine e un’occasione per diradare un poco l’oscurità della notte. Dare parola alle emozioni, nominare quanto agita il tuo animo, esprimere con il linguaggio le sensazioni che ci abitano, sono un modo, mite ma assai efficace, per far emergere a livello di coscienza il magma che si agita dentro. Quell’insofferenza, quel fastidio, o anche quella gioia e quell’entusiasmo entrano a far parte della storia
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della nostra vita nella misura in cui esse obbediscono al processo lento e nobile della nominazione. Quando qualcosa viene nominato, espresso, chiamato per nome, esso può essere, come dire, «digerito», elaborato, compreso. Possiamo decidere di allontanarci da quell’emozione o di accoglierla, ne possiamo comprendere la ragione e così smorzare il suo potere distruttivo. Ciò che viene nominato passa dallo stato di informe magma incandescente e diviene materia fredda plasmabile e modellabile, utile per costruire l’edificio della nostra esistenza. Ancora di più scrivere è un modo per non perdere la bussola del tempo, per non smarrire la direzione e la rotta. Quando scrivi di qualcosa è come se stessi cercando di ricucire quell’evento di cui parli con il resto delle tue esperienze; è la possibilità che ti è offerta per fare emergere timidamente un senso nascosto dentro le cose che capitano, fuori e dentro di te, come a preservarne il valore esistenziale per la tua vita e quella dei tuoi cari. In questo periodo così faticoso e difficile confesso che la scrittura si è offerta, con molta riservatezza, come un sostegno affidabile, come una piccola e tenue luce che è però capace di illuminare qualche metro attorno a me; grazie alla parola proferita e scritta mi è stata concessa la grazia di custodire la mia umanità, di non smarrire il senso delle cose e degli affetti, e, in fin dei conti, di restare me stesso.
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Congedo
La speranza che nutro per me, per i miei figli e per le persone cui voglio bene è che questo tempo, così duro e impegnativo, non passi inutilmente. Siamo tutti entrati in un tunnel che non sappiamo ancora quanto lungo sarà; e ci siamo entrati senza che nessuno ci abbia chiesto il permesso, come sospinti da un destino che non ci ha lasciato scelta. Ebbene auguro a me stesso per primo e a ciascuno di noi di uscire da questo cono d’ombra un poco cambiati e, se possibile, migliorati. Sarebbe davvero un peccato se la fatica di questi giorni, l’affanno che proviamo, l’ansia che ci affligge passassero come fa l’acqua sulla pietra, senza lasciare alcun segno del suo passaggio. Spero che questa sosta forzata, questa tappa imprevista dell’esistenza, diventi l’occasione per riprendere in mano la nostra vita, per imparare da quello che sta succedendo, per illuminare quegli aspetti della nostra esistenza che poco conosciamo o che frequentemente evitiamo e rimuoviamo. Non è un tempo piacevole, ma facciamo in modo che diventi almeno un tempo favorevole:
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favorevole per riprendersi tra le mani, favorevole per custodire la propria vita, riconoscendo e onorando le cose che davvero sono importanti; favorevole per accorgerci finalmente di quello che ci sta attorno: le cose, le persone, le occasioni e gli ambienti; favorevole per definire priorità e urgenze, quelle vere; favorevole per imparare a gustare la lentezza del tempo, la potenza dei legami che restano o che si spezzano, la profondità di uno sguardo e il valore delle piccole cose. La vita ci cambia nella misura in cui siamo disponibili a lasciarci plasmare dalle sue mani, talvolta dure e spietate. E la vita ci insegna attraverso le cose che ci capitano, le vicende che ci fa attraversare, le persone che incrociamo e le parole che ci scambiamo. Le cose sono le nostre prime maestre; sono loro a dischiudere percorsi di crescita e di cambiamento e a trasformarci in chi scegliamo di essere. Vivo quest’attesa nel mio cuore: che questo tempo diventi un passaggio sensato nelle nostre esistenze, non perché avremo capito la ragione di questo accaduto, ma perché esso si sarà trasformato in un momento di grazia per la nostra vita.
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Ringraziamenti
Ogni cammino, come lo è stato questo libro, regala sempre dei compagni di viaggio che rendono meno faticoso il procedere e che sanno donare ragioni e speranze per non arrendersi. A loro va il mio sentito ringraziamento: a don Luca Anelli, per la bella prefazione e soprattutto per il sostegno e l’affetto in questo tempo di fatica personale e comunitaria; ad Antonella Bottazzi per l’editing delle bozze; a Katuscia F. Pontilunghi per la ricca e profonda recensione; a Maria Teresa Malvicini, ormai mia abituale complice in questi «viaggi fuori rotta»: la sua amicizia e la sua costante e paziente vicinanza sono uno stimolo a fare sempre meglio e una consolazione quando le cose prendono una brutta piega.
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A proposito di questo volume
È stata lenta la vita al tempo del Coronavirus. Costretti a una solitudine innaturale, le giornate sono trascorse fiacche e pigre, animate da cose che si ripetevano quotidianamente, fino alla noia. Silenzio interiore, non solo attorno… un silenzio denso che ha stimolato domande, dubbi e preoccupazioni: che cosa sarebbe accaduto? Come ne saremmo usciti? Cosa sarebbe cambiato nella nostra vita? Che senso dare a quel tempo d’isolamento e di sofferenza? Scrivere si è rivelata una forma di resistenza, un modo per custodire le domande e non farle esplodere come granate distruttive. La parola si è offerta come un’occasione umile e garbata per sopravvivere ai giorni bui e faticosi dell’isolamento. Queste pagine sono nate così: nel tentativo di cogliere, giorno dopo giorno, una parola, un’emozione, un pensiero che fosse capace di rompere il buio della giornata, di illuminare lo scorrere del tempo e degli eventi. Assomigliano a un piccolo diario di bordo, uno di quelli che ciascun naufrago tiene per non perdere il senso del tempo e per alimentare la speranza che giungerà presto l’alba della rinascita.
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Marco Zanoncelli, laureato in Fisica e in Scienze religiose, lavora come analista informatico per progetti internazionali. Impegnato in attività di carattere educativo e caritativo, cura il blog https://qiqajonblog.wordpress.com/. Con EDB ha pubblicato La vita a colori (2018) e I gesti della vita (2019).
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Indice
PREFAZIONE di don Luca Anelli ............. pag. 6 INTRODUZIONE ....................................... » 10 LA PAURA .................................................. » 12 IL TEMPO .................................................. » 15 IL DIGIUNO ............................................... » 17 LA PRECARIETÀ ....................................... » 20 IL LIMITE .................................................. » 22 LA NOIA ..................................................... » 25 LA SPERANZA ........................................... » 27 LA RESPONSABILITÀ .............................. » 29 LE PAROLE ................................................ » 32 LA CURA .................................................... » 34 I SOPRAVVISSUTI .................................... » 36 L’ORDINARIETÀ ....................................... » 38 LA RESISTENZA ....................................... » 41 LO SPEZZARE IL PANE ........................... » 44 LA RECLUSIONE ...................................... » 46 FARE ORDINE ........................................... » 48 I VERI AMICI ............................................. » 51 IL MONDO ................................................. » 54 IL CORAGGIO ............................................ » 56
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IL DOPO ..................................................... » L’ÀNCORA DI SALVEZZA ........................ » CONGEDO .................................................. » RINGRAZIAMENTI ................................... » A PROPOSITO DI QUESTO VOLUME .... »
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