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Italian Pages 370 [380] Year 2003
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Scienza e idee
Collana diretta da Giulio Giorello
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Gerd Gigerenzer
Quando i numeri ingannano Imparare a vivere con l'incertezza
Raffaello Cortina Editore
www.raffaellocortina.it
Titolo originale Calculated Risks © 2002 by Gerd Gigerenzer
Traduzione di Gianni Rigamonti ISBN 88-7078-843-1 © 2003 Raffaello Cortina Editore Milano, via Rossini 4 Prima edizione: 2003
INDICE
Prefazione all’edizione italiana (Sizzona Morini)
IX
Ringraziamenti Parte prima OSATE CONOSCERE!
1. L'incertezza
2. L'illusione della certezza 3. L’analfabetismo numerico 4. La comprensione
15 Dil 49
Parte seconda COMPRENDERE
LE INCERTEZZE NEL MONDO
5. Lo screening del cancro al seno 6. Il consenso (dis)informato 7.Le consulenze sull’AIDS 8. Le mogli picchiate 9. Periti e tribunali 10. L’identificazione attraverso il DNA 11. Individui violenti
VII
REALE
67 103 155 165 75: 187 ZI
INDICE
Parte terza DALL’ANALFABETISMO NUMERICO ALLA COMPRENSIONE
12. Come sfruttare l’analfabetismo numerico
233
13. Problemi divertenti
245
14. Insegnare a pensare chiaramente
263
Glossario Note
285 294
Bibliografia
I
Indice analitico
DO
VII
PREGAZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA Simona Morini
Questo libro solleva un problema piuttosto grave e urgente. Medici, avvocati, politici, professionisti, amministratori pubblici e comuni cittadini manipolano quotidianamente dati statistici di vario genere senza avere la benché minima competenza:per valutarli criticamente. Non esiste aspetto della nostra vita personale — amore, sesso, malattie, lavoro, piaceri, perver-
sioni — che non sia stato oggetto di una indagine statistica. Siamo letteralmente sommersi di dati sulla vita pubblica — disoccupazione, immigrazione, prezzi, inflazione, dati economici,
sondaggi politici ecc. Tutte le nostre paure — incidenti, calamità naturali, delinquenza, minacce nucleari e chimiche, epi-
demie, rischi ambientali - vengono accuratamente quantificate. Eppure, benché non esitiamo a qualificare questa massa di informazioni come dati “oggettivi” e “certi” e a usarla per giustificare le nostre opinioni o le nostre scelte, non abbiamo strumenti adeguati per maneggiarla. Siamo bombardati di dati e informazioni, ma non sappiamo né trattarli né valutarli. Interrogati 1000 cittadini tedeschi se 40% voglia dire a) un quarto, b) 4 su 10, c) una persona su 40, un terzo di loro ha dato una
risposta sbagliata. Giornali e discorsi politici abbondano di esempi di ignoranza delle più elementari nozioni di calcolo delle probabilità. In Italia, il fenomeno non è ancora molto diffuso, dato il peso ancora relativamente scarso degli argomenti statistici, per esempio, nei procedimenti giudiziari o nella formulazione delle diagnosi mediche. Ma negli Stati Uniti l’analfabetismo numerico rischia di diventare una piaga sociale. IX
PREFAZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA
Non saper calcolare i rischi è un problema: non è facile convincere la gente che è pericoloso eccedere con i fuochi d’artificio a Capodanno e nello stesso tempo far capire alle mamme ansiose che non èil caso di fare una tragedia se si trova un petardo in tasca al proprio figlio. Inoltre, quando questa ignoranza si estende a medici, avvocati e professionisti che fanno uso di statistiche, è chiaro che la situazione diventa al-
larmante. Mentre l’ignoranza della meccanica non ci impedisce di camminare, saltare o andare in macchina, l'ignoranza
della probabilità e della statistica ci può portare ad agire in modo contrario ai nostri interessi individuali o sociali. Ci sono siti interamente dedicati a denunciare gli errori e le mistificazioni contenute negli articoli dei giornali e nelle informazioni divulgate dai media (il migliore è Chance news, www.dartmouth.edu/-chance/). Vengono pubblicate voluminose “guide pratiche” per stabilire, sulla base del giudizio di esperti e autorevoli scienziati, quali siano gli effettivi pericoli, oi rischi, del mondo che ci circonda (per esempio, Ropeik, Gray, 2002). L’incapacità di leggere i dati matematici e la concomitante possibilità di manipolarli sono fenomeni ugualmente pericolosi e allarmanti sul piano sociale. Ignoranza e manipolazione, infatti, vanno di pari passo. Naturalmente, molti di questi problemi hanno a che vedere con la tendenza a trattare le statistiche come “dati oggettivi”. Cosa si intende comunemente per “dati oggettivi” è rivelato da alcune espressioni familiari, come per esempio che le statistiche “fotografano la realtà”. Come prescriveva nel 1861 William Farr: “la statistica dovrebbe essere la più arida di tutte le materie”. Dovrebbe limitarsi ai fatti, eliminando qualsiasi elemento di valutazione soggettiva. Ma in che senso, per esempio, il fatto che secondo l’Istat l’inflazione sia cresciuta del 25% “fotografa” la realtà per cui, quando vado afare la spesa al supermercato sotto casa, spendo il doppio di quanto spendevo un anno fa? Giustamente, le massaie insorgono. Giustamente, i tecnici precisano che il tasso di inflazione è determinato dai beni che si mettono nel “paniere”. Giustamente, l'Tstat ricorda che si tratta di valori medi, calcolati su dati tratti X
PREFAZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA
su scala nazionale e su beni diversi. Giustamente, alcuni fanno
notare quanto sia facile manipolare questi dati (basta mettere nel paniere, per dirne una, il prezzo dei biglietti ferroviari e applicare gli aumenti ai soli biglietti di supplemento!). La “realtà” di questi dati è assai sfuggente. Come ha mostrato brillantemente Darrell Huff nel suo ormai classico How to Lie with Statistics [Come mentire con le statistiche] quel che i dati statistici “fotografano” è, nella migliore delle ipotesi, un costrutto, nella peggiore un imbroglio. Così, anziché costituire uno strumento per convivere serenamente (razionalmente) con l’incertezza, il ricorso ai numeri tende a generare nuove “illusioni di certezza” o, semplicemente, “false certezze”. Ciò nonostante, questi dati sono “oggettivi” anche nel senso — as-
sai più interessante — che sono determinati in base a parametri e criteri ben precisi che consentono, appunto, di valutarli. Le cifre non sempre “parlano da sé”, come spesso si usa dire, ma dicono quel che vogliamo far loro dire, per cui devono essere lette nel modo giusto, interpretate e valutate criticamente. La capacità di leggere i dati diventa tanto più importante quanto più la raccolta sistematica di informazioni sulle persone, da semplice curiosità e strumento di informazione, si è trasformata, in alcuni campi, in un elemento di prova o in un fat-
tore di decisione. Sta avvenendo, per esempio, nel campo della medicina — dove diagnosi e cure si basano sempre di più su dati statistici — o in campo giuridico, dove il test del DNA ecerti tipi di rilevamenti statistici possono ormai essere addotti come prove nei processi. E sono proprio questi gli ambiti su cui si sono concentrate le indagini riportate in questo libro. L’autore, Gerd Gigerenzer, è professore di psicologia, direttore dell’Istituto Max Planck a Berlino, e da anni si occupa di probabilità, statistica e degli aspetti psicologici legati al comportamento in condizioni d’incertezza. In varie sue opere Gigerenzer ha insistito sul fatto che non siamo “attrezzati” ad affrontare razionalmente l’incertezza. La letteratura psicologica, a partire dai primi studi di Kahneman e Tverski negli anni Settanta, non fa che mettere in luce le varie forme in cui si manifesta la nostra “illusione di sapere”, XI
PREFAZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA
quasi che non riusciamo a staccarci dal bisogno di certezze così caratteristico della cultura occidentale postilluminista e ad accettare serenamente e razionalmente l’incerto. I nostri comportamenti effettivi di scelta in condizioni d’incertezza si discostano sistematicamente da quelli previsti dai modelli normativi di decisione razionale e mostrano un quadro abbastanza allarmante d’irrazionalità e pregiudizio. Questo è dovuto anche al fatto che, mentre siamo abbastanza “allenati” a ricer-
care certezze (la scuola ci spinge a dimostrare sempre qualcosa: teoremi, tesi, opinioni ecc.), non abbiamo nessuna dimesti-
chezza con il ragionamento probabilistico e con le indagini statistiche, in cui pure ci imbattiamo assai più spesso, nella vita di tutti i giorni, che nelle dimostrazioni della geometria euclidea 0, poniamo, nel calcolo infinitesimale!
I due principali case studies che occupano buona parte di questo libro — i dati sulle mammografie e il processo a O]. Simpson — mostrano bene il problema. Nel caso del processo al celebre giocatore, sia l’accusa sia la difesa hanno usato due argomenti apparentemente plausibili, ma entrambi scorretti. Per esempio, la difesa ha sostenuto che il temperamento violento di Simpson eil fatto che picchiasse spesso la moglie non sono indizi di colpevolezza, in quanto 4 milioni di donne all’anno sono malmenate da mariti e amanti, dai quali “solo” 1432 (cioè 1 ogni 2793) sono successivamente uccise. Peccato
che la classe di riferimento rilevante, in questo caso, non siano tutte le donne che hanno subito violenza, ma la classe, assai
più ristretta, delle donne picchiate da mariti e amanti e pos uccise da qualcuno. Entro questa classe più ristretta, 8 su 9 sono state uccise dallo stesso uomo che le picchiava. E rispetto a questa classe di riferimento, il fatto che Simpson picchiasse la moglie è un indizio di colpevolezza, anche se, ovviamente,
non una prova conclusiva. Nel caso della mammografia, poi, i dati sono spesso riportati omettendo alcune informazioni, per esempio senza tener conto dei falsi positivi, cioè dei casi di donne che, pur avendo un mammogramma positivo, 707 hanno un cancro al seno. Lo
stesso vale per i test dell'AIDS e per le “prove” del DNA. InsomXII
PREFAZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA
ma, ci sono mille modi di fuorviare o di mentire, deliberatamente o involontariamente, con le statistiche. E le informazioni, se non si è in grado di decifrarle e analizzarle criticamente,
possono paradossalmente peggiorare l’ignoranza delle persone, con conseguenze anche abbastanza drammatiche (in base a statistiche mal interpretate, alcune donne americane sono state indotte da medici irresponsabili a mastectomizzarsi entrambi iseni per evitare l’insorgenza di un tumore!). Una serie di indagini condotte da Gigerenzer e dai suoi collaboratori su medici e avvocati tedeschi e americani ha mostrato che questi stessi professionisti non hanno le competenze necessarie per valutare i dati che utilizzano per diagnosi e sentenze e sono, in generale, incapaci — a vari livelli — di ragionare e comportarsi razionalmente in condizioni di rischio e incertezza. Secondo Gigerenzer, questa situazione è imputabile al connubio di un elemento culturale (l’illusione di certezza) e di un fenomeno sociale (l’analfabetismo numerico). In un libro di alcuni anni fa, The Empire of Chance [L'impero del caso], egli ha mostrato come, con il nascere del calcolo delle probabilità, sia finalmente diventato possibile liberarsi costruttivamente dell’illusione della certezza e convivere razionalmente - e felicemente — con l’incertezza. Le leggi della probabilità — le cui estensioni teoriche più note sono il modello di decisione razionale come massimizzazione dell'utilità prevista e i modelli di inferenza cosiddetti bayesiani — costituiscono, infatti, una
“logica dell’incerto”, una sorta di “nuova arte di pensare”, in grado di indicare regole per agire e giudicare razionalmente in condizioni di incertezza. Ne è emersa una sorta di “concezione probabilistica della mente”, di cui una parte importante è il cosiddetto “ragionamento bayesiano”, relativo a una vasta classe di problemi — come appunto icase studies analizzati da Gigerenzer — in cuila probabilità di una causa (una certa malattia, il colpevole di un omicidio ecc.) deve essere inferita da un effetto osservato (per esempio, un mammogramma positivo o una testimonianza in tribunale). La regola di Bayes ci dice, in sostanza, come dobbiamo cambiare le nostre credenze e
assegnazioni di probabilità alla luce del risultato di un test, di XII
PREFAZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA
una testimonianza e, in generale, di nuove informazioni. Il problema — come già si è accennato — è che in pratica queste norme di razionalità vengono sistematicamente disattese: la realtà pullula di comportamenti incoerenti e di calcoli sbagliati. Il problema è quali conclusioni trarre da questi risultati. In un libro del 1999, Strzple Heuristics That Make Us Smart [Semplici euristiche per farci furbi], scritto in collaborazione con il suo gruppo di ricerca, Gigerenzer ha sostenuto che c’è bisogno di una “seconda rivoluzione probabilistica” che sostituisca all’immagine di una mente onnisciente — simile a quella del celebre demone di Laplace —, capace di eseguire i complessi calcoli richiesti dalla teoria di massimizzazione dell’utilità prevista o dalla regola di Bayes, l’immagine più realistica di una mente limitata, che possa però attingere a una “cassetta degli attrezzi” dotata di euristiche “fast and frugal”, “rapide ed economiche”, come lui le chiama, che ci mettano in grado di far fronte efficacemente alle situazioni di incertezza. Gigerenzer parla di una “razionalità ecologica”, che combini la struttura dell’ambiente e dell’informazione con la nozione di “razionalità limitata” a suo tempo proposta da Herbert Simon. In questa nuova prospettiva, che sembra richiamarsi alla psicologia evoluzionistica, un’euristica è “ecologicamente razionale” se si adatta alla struttura dell'ambiente. In parole povere: se funziona presto e bene (Gigerenzer, 2000; Tooby, Cosmides, 1992).
Detta così, la proposta è allettante. È bene tuttavia essere consapevoli di un aspetto teorico e filosofico importante della “seconda rivoluzione” auspicata da Gigerenzer, cioè del fatto che essa si propone esplicitamente di recuperare l’enfasi sull'incertezza della “prima rivoluzione probabilistica”, abbandonando però la centralità della teoria della probabilità come descrizione — o come norma — del comportamento razionale e dunque l’idea stessa di una logica dell’incerto. Il programma di Gigerenzer sembra quindi inserirsi nell'ormai diffusa tendenza a privilegiare una concezione delle mente come entità psicologica e “biologica”, piuttosto che “logica”: una drastica — e in effetti rivoluzionaria — inversione di rotta rispetto alla XIV
PREFAZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA
cultura del Novecento, incentrata sulla logica e sull’antipsicologismo. Alla luce di queste considerazioni si può forse comprendere meglio la tesi sostenuta da Gigerenzer in questo libro. E cioè che l’analfabetismo numerico, e in particolare la difficoltà a ragionare probabilisticamente — il secondo e più importante ostacolo da rimuovere per far fronte efficacemente all’incertezza —, non è, come comunemente si sostiene, legato al fatto che
l'architettura innata delle nostre menti non si è evoluta in modo tale da trattare l’incertezza, ma è riconducibile a una rappresentazione “esterna” dell’incertezza che non corrisponde al modo in cui funziona “naturalmente” la nostra mente. In altri termini: la difficoltà non è “dentro” le nostre teste, ma “fuori”,
nella rappresentazione del rischio che scegliamo. Secondo Gigerenzer, infatti, alcune rappresentazioni numeriche sarebbero più “naturali”, più “ecologiche” di altre. “Se un generale romano avesse voluto calcolare il numero di soldati nella sua legione, formata da LX unità di xCV uomini ciascuna, avrebbe trovato la soluzione più facilmente usando i numeri arabi, cioè moltiplicando 60 x 95. Analogamente quando un medico del XxI secolo vuole calcolare la probabilità che una donna con mammogramma positivo abbia effettivamente un cancro al seno, può rispondere in modo più facile e veloce rappresentando l'informazione con le frequenze naturali anziché con le probabilità condizionali” (Hoffrage, Gigerenzer et al., 2002, p. 343).
Le frequenze naturali, secondo Gigerenzer, “corrispondono al modo in cui gli esseri umani assorbivano le informazioni prima che fosse inventata la teoria della probabilità” e, a differenza delle probabilità e delle frequenze relative, “sono dati osservativi ‘grezzi’ che non sono stati normalizzati rispetto al tasso di base dell’evento studiato”. Un medico, per esempio, ha visitato 100 persone; 10 di queste presentano una nuova malattia; 8 di queste 10 hanno un certo sintomo; ma anche 4
delle 90 senza la malattia hanno quel sintomo. Se spezzettiamo questi 100 casi in quattro classi, con relativi numeri (8 con malattia e sintomo, 2 con malattia e senza sintomo, 4 col sintomo e senza malattia, 86 senza né malattia né sintomo), otteniaXV
PREFAZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA
mo le quattro frequenze naturali 8, 2, 4 e 86. Gli esperimenti condotti da Gigerenzer e dai suoi collaboratori mostrerebbero che le persone commettono meno errori nel valutare i dati (per esempio, sanno predire che in un nuovo gruppo di persone testate ci saranno 12 (cioè 8 + 4) persone con il sintomo e che, di queste, 8 saranno realmente ammalate) quando le informazioni sono loro presentate sotto forma di frequenze naturali anziché come probabilità condizionali o percentuali. Questo risultato, se valido, ha una importante conseguenza pratica. Mentre finora si è pensato che per ovviare ad alcune “irrazionalità” fosse necessario rieducare la mente — insegnare, in qualche modo, a ragionare in modo corretto —, l’analisi di Gigerenzer suggerisce appunto “euristiche rapide e fruga-
li”, riformulazioni dei dati più “adatte” a noi. A questo scopo ha anche elaborato un metodo — e un software — che insegna in un’ora ad applicare correttamente la regola di Bayes. I presupposti teorici di questo metodo, tuttavia, sono piuttosto controversi, anche tra gli psicologi. Non tutti sono d’accordo, per esempio, sul fatto che sia la formulazione in termi-
ni di frequenze naturali a facilitare il ragionamento bayesiano. Secondo Macchi e Mosconi (1998, 2000), per esempio, la riduzione degli errori è dovuta a una semplificazione dei calcoli. Secondo Girotto e Gonzalez (2001) alla “struttura”, piuttosto che al “tipo”, di informazione; nel senso che si fanno meno er-
rori quando i problemi di probabilità presentano la stessa struttura di quelli di frequenza. Per esempio, i partecipanti risolvono correttamente il problema della malattia, se le proba-
bilità sono presentate non sotto forma di percentuale (“c’è il 10% di probabilità che una persona sia ammalata”), ma di possibilità (cioè con numeri interi, proprio come le frequenze naturali, per esempio “Su 100 possibilità, una persona ha 10 possibilità di essere ammalata”) e se la domanda presenta la stessa struttura della domanda sulla frequenza. E si potrebbe citare molti altri casi. Inoltre, non pare evidente come una semplificazione nel calcolo di una regola della probabilità, il teorema di Bayes, possa in qualche modo influire sul ruolo centrale che questo stesso teorema, e quindi la probabilità in XVI
PREFAZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA
genere, ha nei processi di decisione in condizioni di incertezza. Né in che senso questa semplificazione dei calcoli renda le frequenze più “naturali”, come sostiene Gigerenzer, delle assegnazioni di probabilità, per esempio, a eventi singoli. Infine, più in generale, non sembra del tutto chiaro in che senso certe anomalie o certe abitudini sbagliate nel comportamento delle persone possano indurci ad abbandonare dei modelli teorici normativi (in mancanza di modelli alternativi, almeno). Do-
potutto, la fisica “ingenua” è aristotelica o magari newtoniana, ma non per questo la teoria della relatività risulta confutata. Di più, non è necessario insegnare a tutti la meccanica per far
funzionare correttamente una lavatrice. Basta che i comandi della lavatrice siano ben studiati o che si disponga di un buon libretto di istruzioni. Ma forse che il dibattito sulla disposizione ottimale dei tasti di una lavatrice o su come compilare un buon libretto di istruzioni e le diverse spiegazioni del fatto che alcune persone confondono il tasto di accensione con quello della centrifuga ci inducono a rivedere le leggi della meccanica? Perché allora parlare di razionalità “ecologica”, di rappresentazioni matematiche più “naturali”, di fi# con la realtà e non, più modestamente, di una razionalità “usabile”? Non ho personalmente nulla contro la buona psicologia. Le ricerche psicologiche hanno avuto il grande merito, negli ultimi anni, di denunciare la distanza esistente tra i modelli teorici e le loro applicazioni pratiche, suggerendo interessanti vie d’uscita al problema. E tuttavia, condivido ancora alcune delle ragioni per cui si è preferito passare alla logica agli inizi del Novecento. Mi sembra più prudente evitare di spingersi nelle secche delle domande sulla “natura umana”, sui meccanismi dell’e-
voluzione o su quel che è più “naturale”. In alcuni casi rischiano di generare nuove “illusioni di certezza” e nel passato si sono spesso rivelate difficili e scivolose — talvolta pericolose.
XVII
PREFAZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA
BIBLIOGRAFIA HOFFRAGE U., GIGERENZER G., KRAUSS S., MARTIGNON L. (2002),
“Representation facilitates reasoning; what natural frequencies are and what they are not”. In Cogrition, 84, pp. 343-352. HuFF D. (1954), How to Lie with Statistics. Penguin Books, Lon-
don, 1991 reprint. GIGERENZER G., et al. (1989), The Empire of Chance. How Probability Changed Science and Everyday Life. Cambridge University Press, Cambridge. GIGERENZER G., ToDD P.M., THE ABC RESEARCH GROUP
(1999),
Simple Euristics that Make Us Smart. Oxtord University Press, New York. GIGERENZER G. (2000), Adaptive Thinking: Rationality in the Real World. Oxford University Press, New York. GIROTTO V., GONZALEZ M. (2001), “Solving probabilistic and statistical problems”. In Cogrition, 78, pp. 247-276. MaccHI L., Mosconi G. (1998), “Computational features versus
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ROPEIK D., GRAY G. (2002), Risk. Houghton Mifflin Company, Boston-New York. ToOBy J., CosmIpEs L. (1992), “The psychological foundations of culture”. In BARKOV J., COSMIDES L., TOOBy J. (a cura di), The
Adapted Mind: Evolutionary Psychology and the Generation of Culture, Oxford University Press, New York, pp. 19-136.
XVII
A mia madre
RINGRAZIAMENTI
I libri hanno una storia, come gli esseri umani; sono concepiti con amore e scritti con sudore. La passione per il tema
dell’incertezza e del rischio mi è stata ispirata dagli scritti di Tan Hacking e Lorraine Daston sulle idee di caso, razionalità e pensiero statistico, mentre il lavoro di David M. Eddy sulla diagnosi medica e quello di Lola L. Lopes sui processi decisionali e il rischio mi hanno fatto capire come queste idee siano in pieno rigoglio e diano forma al mondo di oggi. Il mio interesse per il modo di pensare di medici e giuristi, ma anche per gli strumenti concettuali che possiamo offrire loro per aiutarli a capire meglio le situazioni incerte, è nato grazie a Ulrich Hoffrage, mio ex allievo e oggi mio collega e amico, che ringrazio di tutto cuore per questi dieci piacevolissimi anni di ricerca comune. Ma il lavoro comune c’è stato anche con Ralph Hertwig, Stephan Krauss, Steffi Kurzenhauser, Sam Lindsey,
Laura Martignon e Peter Sedlmeier, come con altri ricercatori dell'Istituto Max Planck per lo Sviluppo Umano. Fra i molti che pur non appartenendo al mio gruppo di ricerca hanno contribuito a far nascere in me le idee che presento in questo libro vorrei ringraziare Jonathan J. Koehler e John Monahan. I colleghi e gli amici che hanno letto e commentato le numerose versioni del manoscritto e contribuito a dar loro forma sono molti: Max Birnbaum, Valerie M. Chase, Kurt Danziger, Norbert Donner-Banzhof, George Daston, Robert M. Hamm,
Ulrich Hoffrage, Max Houck, Giinther Jonitz, Gary Klein, Jonathan J. Koehler, Hans-Joachim
Koubenec,
Steffi Kur-
RINGRAZIAMENTI
zenhiuser, Lola L. Lopes, John Monahan, Ingrid Mihlhauser, Marianne Muller-Brettl, R. D. Nelson, Mike Redmayne, Joan Richards, Paul Slovic, Oliver Vitouch, William Zangwill e Ma-
ria Zumbeel. Un grazie particolare va a Christine e Andy Thomson, rispettivamente avvocato e psichiatra, ai quali devo diversi dei casi riportati in questo libro. Valerie M. Chase ha rivisto l’intero manoscritto, e se chia-
rezza cè è dovuta in buona parte al suo intuito. Donna Alexander mi ha aiutato in tutte le fasi della lavorazione, com-
presa la preparazione delle note e della bibliografia, dandomi uno splendido sostegno critico. Hannes Gerhardt si è unito a noi nella fase finale, Wiebke Méller mi ha aiutato a trovare i te-
sti, anche nei luoghi più remoti, e Dagmar Fecht ha fatto la cosa senza la quale scrivere non sarebbe stato possibile: ha tolto di mezzo un sacco di ostacoli. La mia amatissima moglie Lorraine Daston mi ha assicura-
to il suo sostegno emotivoeintellettuale durante i quattro anni di gestazione di questo libro, e mia figlia Thalia, sempre carina e servizievole, mi ha dato consigli preziosi su come rendere più leggibile il testo. Le persone sono importanti, ma anche l’ambiente in cui si lavora lo è. In questi ultimi anni ho avuto la fortuna di approfittare della splendida atmosfera intellettuale e delle risorse della Società Max Planck, che ringrazio di tutto cuore.
PARTE PRIMA
OSATE CONOSCERE!
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1 LANCERIEZZA
...a questo mondo non c'è niente di certo, a parte la morte ele tasse. BENJAMIN FRANKLIN
L'INCUBO DI SUSAN
Durante una visita medica di routine in un ospedale della Virginia, verso la metà degli anni Novanta del Novecento, Su-
san, una madre nubile di 26 anni, fu sottoposta al test dello HIv. La ragazza usava droghe illegali, ma non per endovena, e non si considerava un soggetto a rischio; qualche settimana dopo, però, arrivò il risultato dell’esame, ed era positivo — all'epoca, l'equivalente di una diagnosi terminale. Susan ne fu sconvolta e angosciata; intanto, la notizia della diagnosi circo-
lava, i colleghi non volevano più toccare il suo telefono per paura del contagio, e alla fine Susan perse il lavoroe si trasferì in un cronicario per pazienti infetti da HIV, dove ebbe rapporti sessuali non protetti con un altro ricoverato — tanto, pensava, perché prendere delle precauzioni se il virus ce l’hai già addosso? Poiché aveva paura di infettarlo, smise anche di baciare il figlio di 7 anni, e quando gli preparava da mangiare non riusciva a sentirsi tranquilla; lo teneva fisicamente a distanza per proteggerlo, ma la cosa le dava forti sofferenze emotive. Qualche mese dopo, si ammalò di bronchite e il medico che l’aveva in cura le chiese di fare il test dell’HIv; lei si chiedeva:
“A che scopo?”.
OSATE CONOSCERE!
Ma il risultato fu negativo; allora venne riesaminato pure il campione di sangue originario — e di nuovo l’esito fu negativo. Che cosa era successo? A quanto pare, quando i dati erano stati immessi nel computer dell’ospedale della Virginia, i risultati del suo esame erano stati scambiati, inavvertitamente, con
quelli di un paziente HIV-positivo — un errore che non diede solo una disperazione infondata a Susan, ma anche una falsa speranza a un’altra persona. Il fatto che un test dell’HIV potesse dare un risultato positivo fasullo era una novità per Susan; nessun funzionario del sistema sanitario l’aveva mai informata che ogni tanto i laboratori, che eseguono sempre due test dell’HIv (ELISA e Western Blot), commettono degli errori; anzi, le era stato detto più e
più volte che i risultati degli esami erano assolutamente definitivi — o meglio, che anche se un test unico poteva dare delle false positività, quando pure l’altro esame del campione di sangue originario, quello “di conferma”, risultava positivo, la diagnosi era assolutamente certa.
Quando il suo martirio finì, Susan aveva passato nove mesi credendo di essere una malata terminale solo perché i dottori che la seguivano ritenevano — sbagliando — che i test dell’HIv fossero infallibili. Finì per citare in giudizio i suoi medici curanti per averle dato una falsa certezza che l’aveva fatta soffrire e ottenne un risarcimento generoso, col quale si comprò una casa; smise anche di usare droghe, ed ebbe una conversio-
ne religiosa. L'incubo le aveva cambiato la vita. GLI EFFETTI COLLATERALI DEL PROZAC
Un mio amico psichiatra prescrive il Prozac ai suoi pazienti depressi; ma il Prozac, come molte medicine, ha effetti colla-
terali, e così il mio amico aveva preso l’abitudine di informare i pazienti che avevano una probabilità fra il 30% e il 50% di ritrovarsi con un problema sessuale come l’impotenza o la perdita d’interesse per il sesso, se seguivano la cura. A questa notizia molti pazienti si preoccupavano, si mostravano decisa8
L'INCERTEZZA
mente ansiosi, ma — sorprendendo ogni volta il mio amico — non facevano altre domande. Ora che ha scoperto le idee presentate in questo libro, il mio amico ricorre a un metodo diverso per informare i pazienti dei rischi che corrono; adesso, spiega loro che ogni dieci persone cui prescrive il Prozac ce ne sono da tre a cinque che vanno incontro a qualche problema sessuale. Matematicamente questi rapporti numerici sono identici alle percentuali che usava in passato, ma psicologicamente c’è parecchia differenza. Gli individui informati del rischio di effetti collaterali in termini di frequenze, e non di percentuali, erano meno preoccupati dall'idea di prendere il Prozac, facevano domande tipo “Che cosa faccio se sono fra quelle tre (o cinque) persone?”, e solo davanti a queste domande lo psichiatra si è reso conto di non avere mai controllato che cosa intendessero i suoi pazienti per “probabilità fra il 30% e il 50% di ritrovarsi con un problema sessuale”. È emerso che per molti questo significava che qualcosa sarebbe andato storto forse nel 30%, forse nel 50% dei loro rapporti. Per anni e anni egli non si era accorto che quello che lui voleva dire e quello che sentivano i suoi pazienti erano due cose diverse. IL PRIMO MAMMOGRAMMA
Quando una donna compie 40 anni, il ginecologo normal. mente le ricorda che è tempo di cominciare a farsi un mammogramma ogni due anni. Provate a pensare a una qualche amica di quell’età, senza sintomi e senza precedenti di cancro al seno in famiglia: su consiglio del medico si fa il primo mammogramma, ed è positivo. Poi parlate con questa amica, che è in lacrime e si sta chiedendo che cosa vuol dire “mammogramma positivo”. Significa certezza assoluta di cancro al seno? Oppure vuol dire probabilità del 99%, del 95,90, 50%, o
ancora più bassa? Ora proverò a dare le informazioni pertinenti, sulla cui base rispondere alla domanda, in due modi diversi. Prima, le
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OSATE CONOSCERE!
presenterò in termini probabilistici, come si fa di solito nei testi di medicina; e se vi sentite confusi, non preoccupatevi perché succede a molti, e forse a quasi tutti (ed è proprio questo che voglio mostrare); poi, le darò di nuovo tali e quali, ma in una forma che sostituirà alla confusione la chiarezza. Pronti? La probabilità che una donna di 40 anni abbia il cancro al seno è di circa 1%. Se ce l’ha, la probabilità che un mammogramma di controllo dia un esito positivo è del 90%; se
non ce l’ha, la probabilità che l'esito dell'esame sia comunque positivo è del 9%. Quanto è probabile che una donna con un mammogramma positivo abbia davvero il cancro al seno?
È verosimile che la via che porta alla risposta vi sembri nebulosa; ma per un momento provate a starci nella nebbia, a vi-
vere questa confusione. Nella vostra situazione, molti pensano che la probabilità che quell’amica, dato l’esito positivo del suo mammogramma, abbia il cancro al seno sia del 90%, però non sono proprio sicuri; è che non capiscono bene come usare queste percentuali. Ma adesso darò di nuovo le stesse informazioni, però espresse usando non le probabilità ma quelle che chiamo frequenze naturali:
Provate a pensare a 100 donne. Una ha il cancro al seno, e probabilmente il suo mammogramma sarà positivo; ma sarà positivo anche per 9 delle 99 che il cancro al seno non l'hanno. Dunque, quelle con un risultato positivo sono 10; ma quante di loro hanno realmente il cancro al seno? Adesso è facile capire che una sola delle dieci con un esito positivo ha davvero il cancro, e questa è una probabilità del 10%, non del 90%. Ormai, la nebbia mentale dovrebbe essersi sollevata: un mammogramma positivo non è una buona notizia, ma se diamo le informazioni pertinenti usando le frequenze naturali riusciamo a vedere che la maggioranza delle donne che risultano positive non ha veramente il cancro al seno. 10
L'INCERTEZZA
IL TEST DEL DNA
Immaginate di essere accusati di omicidio. Vi stanno facendo il processo e contro di voi c'è una sola prova, che però potrebbe essere fatale: il vostro DNA collima con una traccia scoperta sul corpo della vittima. Che cosa implica questa concordanza? La corte chiama a deporre un perito che dichiara: “La probabilità che questa concordanza sia casuale è una su 100.000”. Vi vedete già dietro le sbarre. Ma supponiamo che il perito abbia dato la stessa notizia in una forma diversa:
“Ogni 100.000 persone, per una ci sarà concordanza”.
E qui siamo spinti a chiederci quanti sono quelli che avrebbero potuto commettere questo omicidio; e se viviamo in una città di un milione di abitanti, dieci dei nostri concittadini
hanno un DNA che collima col campione trovato sulla vittima. Sembra molto improbabile che questa concordanza, per sé sola, possa mandarvi dietro le sbarre. LA TECNOLOGIA HA BISOGNO DI PSICOLOGIA
Il dramma di Susan è un bell'esempio di illusione della certezza; i due aneddoti sul Prozac e il DNA hannoa che fare con
la comunicazione del rischio; la discussione del mammogramma col trarre conclusioni da dati numerici. Quando i numeri ingannano propone strumenti che dovrebbero aiutarci a gestire situazioni di questo tipo, cioè a capire le incertezze e spie-
garle. Un primo strumento, assai semplice, è quella che chiamo “legge di Franklin”: Niente è certo, a parte la morte ele tasse” Se Susan avesse imparato questa legge a scuola (o l’avessero studiata i medici che la curavano), avrebbe potuto chiedere ld
OSATE CONOSCERE!
subito un secondo test dell’HIv con un nuovo campione di sangue, e probabilmente si sarebbe risparmiata l’incubo di una vita con una diagnosi di infezione da HIV. Con questo non voglio dire che l’esito del secondo test sarebbe stato assolutamente certo; ma poiché l’errore era stato causato da uno scambio accidentale fra i risultati di due esami diversi, molto
probabilmente una ripetizione l’avrebbe rivelato — come accadde effettivamente in seguito. Se invece lo sbaglio fosse stato provocato dalla presenza di anticorpi molto simili a quelli dell’HIV nel sangue di Susan, il secondo esame avrebbe potuto confermare il primo; ma quale che fosse il rischio di errore,
era dovere del medico informare la paziente che l’esito del test non era certo. Purtroppo; il caso di Susan non è un’eccezione, e in questo libro conosceremo periti medici, periti legali e altri esperti che continuano a dire al pubblico dei non professionisti che l’identificazione attraverso il DNA, il test dell’Hrv e altre odierne tecnologie sono totalmente sicuri,
punto e basta. La legge di Franklin ci aiuta a superare l’illusione della certezza mettendoci sotto gli occhi la penombra di incertezze in cui viviamo, e tuttavia non ci spiega come fare un altro passo, come gestire i rischi. Tale passo viene descritto, però, nell’a-
neddoto sul Prozac, dove si propone uno struzzento mentale che può aiutarci a capire queste cose: Quando pensate a un ri-
schio, o ne parlate, usate le frequenze e non le probabilità. Le frequenze, come vedremo, possono facilitare la comunicazione del rischio per diverse ragioni. Quando il mio amico psichiatra diceva “Lei ha una probabilità fra il 30 e il 50% di ritrovarsi con un problema sessuale”, la classe di riferimento
non era chiara: quella probabilità andava riferita a un insieme di persone (per esempio, i pazienti che prendevano il Prozac), a un insieme di eventi (per esempio, i rapporti sessuali di una certa persona) o a qualche altra classe ancora? Per lo psichiatra era chiaro che l'affermazione riguardava quei suoi malati che prendevano il Prozac, ma i pazienti credevano che si riferisse ai loro singoli rapporti sessuali; così, ciascuno sceglieva una classe di riferimento basata sul suo punto di vista perso12
L'INCERTEZZA
nale. Invece, le frequenze (per esempio, “3 pazienti su 10”) chiarivano quale fosse la classe di riferimento e riducevano le possibilità di equivoco. Qui intendo proporre degli strumenti mentali che potrebbero aiutare tutti a capire meglio la miriade di incertezze del nostro attuale mondo tecnologico. La migliore delle tecnologie ha ben poco valore, se la gente non la capisce.
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5 L'ILLUSIONE DELLA CERTEZZA
Osate conoscere! IMMANUEL KANT
Sembra proprio che la creazione della certezza sia una tendenza fondamentale della mente umana.' Anche la percezione di oggetti visivi molto semplici rispecchia questa tendenza: a livello inconscio i nostri sistemi percettivi trasformano automaticamente l’incerto nel certo, come vediamo nei casi in cui
la percezione della profondità è ambigua o illusoria. Il cubo di Necker, che osserviamo nella figura 2.1, è ambiguo nel senso della profondità, perché il suo contorno bidimensionale non indica quale faccia stia davanti e quale dietro — eppure, quando lo guardiamo non vediamo una figura ambigua. Per noi o è in un modo o ènell’altro, salvo che dopo pochi secondi che lo fissiamo abbiamo un ribaltamento gestaltico (gestalt switch) — cioè vediamo l’altro cubo; ma, di nuovo, senza ambiguità.
Le “tavole girate”* di Roger Shepard (un'illusione di profondità che possiamo vedere nella figura 2.2) sono una bella illustrazione di come il nostro sistema percettivo costruisca un'impressione unica e certa a partire da indizi malsicuri. Probabilmente, la tavola che vedete a sinistra ha per voi una forma più allungata di quella di destra; eppure, le due superficie * La locuzione inglese, “Turning the Tables”, implica un gioco di parole intraducibile; infatti, è anche una frase idiomatica che significa, più o meno,
“Ca povolgere lgere lala situazione”, situazione” o anche he “Cambiare “Cambiare lele cartecarte inin tavola”. tavola”. [NdT]
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OSATE CONOSCERE!
Figura 2.1 Il cubo di Necker. Se fissiamo il disegno, la nostra percezione visiva fa avanti e indietro fra due cubi diversi, uno che salta fuori dalla pagina verso di noi e uno che vi affonda.
hanno forma e area esattamente uguali, come possiamo verificare ricalcando i contorni dell’una e dell’altra su un foglio di carta. Una volta proposi questo esempio durante un discorso a un pubblico di medici; speravo di scuotere il loro senso di certezza (“[i dottori] sbagliano spesso ma non hanno mai dubbi”). Uno di questi medici non credeva assolutamente che le due aree avessero la stessa forma; così, gli chiesi quanto era
pronto a scommettere e lui propose 250 dollari. Ma alla fine del mio intervento era sparito. Che cosa succede nella nostra mente? Il sistema percettivo umano costruisce inconsciamente delle rappresentazioni di oggetti tridimensionali a partire da informazioni incomplete — in questo caso, da un disegno bidimensionale. Consideriamo i lati lunghi delle due tavole: le loro proiezioni sulla retina hanno la stessa lunghezza, ma gli elementi prospettici inseriti nei disegni ci fanno pensare che il lato lungo della tavola di sinistra si estenda in profondità e quello della tavola di destra no (per i lati corti è vero il contrario); ora, il nostro sistema per-
cettivo parte dal presupposto che se si estende in profondità, una linea che sulla retina ha una lunghezza data sia in realtà più lunga di una senza profondità, e fa una correzione. È que16
L'ILLUSIONE DELLA CERTEZZA
Figura 2.2 Le tavole girate. Queste due tavole sono uguali per forma e dimensioni. L'illusione è stata ideata da Roger Shepard (1990). (Riprodotto per gentile concessione di W. H. Freeman and Company.)
sta correzione a farci sembrare più lunga e più stretta la superficie della tavola di sinistra. È da notare che qui la vittima di una certezza illusoria non è il nostro sistema percettivo, ma la nostra esperienza cosciente. Il sistema percettivo analizza informazioni incomplete e ambigue, e “vende” all’esperienza cosciente un prodotto finito che è la sua congettura migliore; le inferenze relative alla profondità, all'orientamento ealla lunghezza vengono fornite automaticamente dai meccanismi neurali di base, il che significa che, anche se arriviamo a capire qualcosa della natura dell’illusione, questa comprensione è praticamente impotente di fronte all’illusione stessa. Date un’altra occhiata alle due tavole: continuano a sembrare di forma diversa, e anche se uno capisce che cosa sta succedendo, l’inconscio continua a fornire alla mente co-
sciente questa percezione, invariata. Un grande scienziato dell’Ottocento, Hermann von Helmholtz, coniò il termine “inferenza inconscia” per indicare la natura inferenziale della percezione; l’illusione della certezza si manifesta già al livello delle esperienze percettive più elementari, quelle della grandezza e della forma. Ma l’esperienza percettiva diretta non è certo il solo tipo di credenza dove c’è “fabbricazione” della certezza. 17
OSATE CONOSCERE!
TECNOLOGIA E CERTEZZA
Le impronte digitali ormai hanno da tempo una reputazione impeccabile: sono caratteristiche uniche e irripetibili di una persona, restano immutate dalla prima giovinezza alla tarda vecchiaia e perfino i gemelli identici, pur possedendo gli stessi geni, hanno impronte diverse. Se quelle di un individuo sospettato e quelle trovate sulla scena di un delitto collimassero, quale giuria assolverebbe l’accusato? Le impronte digitali sembrano essere una prova assolutamente certa; sembrano la
grande eccezione alla legge di Franklin. L'uso delle impronte digitali fu posto su basi scientifiche da Sir Francis Galton, gentiluomo inglese dell’Ottocento, scien-
ziato dilettante e primo cugino di Charles Darwin. Galton esaminò gli archi, le spirali e i cappi da cui sono formate e stimò che ci fosse, più o meno, una probabilità su 64 miliardi che
due di esse prese a caso risultassero identiche.’ Non osservava mai l’intera impronta, ma solo certi punti (i “punti di similarità”) in cui i solchi o finiscono osi biforcano; la sua stima si
basava sull'utilizzo di tutti questi punti, che normalmente sono fra 35 e 50 per impronta. Nella pratica dei nostri giorni, tuttavia, in genere si ammette che le impronte di un sospetto e quelle scoperte sulla scena di un delitto collimino quando si trova una corrispondenza fra un minimo di 8 e un massimo di 16 di questi punti (ci sono forti variazioni); in Inghilterra, però, si usa una tecnica alternativa basata sull’impressione globale di concordanza cui arriva l’esaminatore e non sul conteggio delle concordanze punto per punto — ma con questa tecnica stabilire se c'è o non c'è concordanza diventa una questione di giudizio soggettivo. In ogni caso, la validità dei due sistemi — determinazione dei punti di similarità e impressione d’insieme — non è mai stata controllata scientificamente; d’al-
tronde, gli esperti di impronte digitali dispongono di pochissime statistiche su cui basare le proprie conclusioni. Quando poi sulla scena di un delitto si scoprono effettivamente delle impronte digitali, di solito entrano in gioco due fattori che complicano la situazione: normalmente queste im18
L'ILLUSIONE DELLA CERTEZZA
pronte sono sia incomplete sia “latenti”. Quando sono incomplete, il confronto non può essere esauriente, ma solo fram-
mentario; né l’analisi statistica di Galton né i suoi equivalenti contemporanei sono molto utili. Il secondo fattore di complicazione è che in genere le impronte che si trovano sulla scena di un delitto sono latenti, cioè bisogna o trattarle con reagenti chimici o illuminarle con raggi ultravioletti per vederle abbastanza bene da poterci lavorare. Ora, quanto è attendibile un confronto fra questi dati così “filtrati” e le impronte complete della persona sospettata, prese in condizioni ben controllate? Con questi elementi di incertezza, e con queste differenze di procedura, quanto è sicura la prova delle impronte digitali? La risposta è che non lo sappiamo; a quanto pare, non ci sono studi scientifici attendibili. Recentemente, però, il Federal Bureau of Investigation (FBI) ha effettuato un controllo di tipo nuovo, mai eseguito
prima, sull’attendibilità delle impronte digitali. Nel 1998 Byron Mitchell, condannato per aver guidato la macchina con la quale alcuni rapinatori erano fuggiti dopo un colpo fatto in Pennsylvania nel 1991, ricorse in appello. La condanna si era basata su due impronte latenti scoperte, rispettivamente, sul volante e sulla leva del cambio della macchina; FBI decise di
controllare quanto fosse attendibile la presunta concordanza e spedì sia le impronte latenti sia quelle prese a Mitchell con la normale tecnica a inchiostro a 53 laboratori legali dello Stato. Solo 35 risposero; 8 trovarono che la prima impronta non cor-
rispondeva e 6 trovarono che non corrispondeva la seconda, cioè il test diede, in media, un esito negativo una volta su cin-
que. Un risultato imbarazzante, che solleva molti dubbi sull'attendibilità delle impronte digitali; e infatti l'America’ National Institute of Justice ha finito per finanziare uno studio sulla loro effettiva validità. La prova delle impronte è stata considerata certa, prendendo per buona la stima di Galton, per più di un secolo; ma Galton aveva fatto i suoi calcoli pensando a condizioni ideali che nel mondo reale, con le sue impronte latenti o incomplete, non esistono. Quando, quasi cento anni dopo la sua opera 19
OSATE CONOSCERE!
pionieristica, venne introdotta nei tribunali l’identificazione attraverso il DNA, molti periti (ma anche l'opinione pubblica) proiettarono l’illusione della certezza su questa nuova tecnica. Nel capitolo 10 vedremo che anche l’identificazione attraverso il DNA è stata dichiarata “sicura”; ma l’idea — del tutto fan-
tastica — che le impronte digitali, la prova del DNA, il test delHIV e altre nuove tecnologie molto avanzate siano assolutamente infallibili somiglia a un sogno sempre uguale che torna, notte dopo notte, a soddisfare un profondo desiderio inconscio. AUTORITÀ E CERTEZZA
Quand'ero piccolo, una persona molto autorevole mi disse che non dovevo bere acqua dopo avere mangiato ciliege, o sarei stato malissimo e forse sarei morto. Non avevo mai messo
in dubbio queste parole; ma un giorno, dopo che avevamo mangiato tutti e due un sacco di ciliege, vidi un amico inglese portarsi alla bocca un bicchiere pieno d’acqua. Cercai di fermarlo, ma senza riuscirci: lui rise e basta, poi bevve un sorso e ‘non accadde niente. Non solo non morì, ma nemmeno si sentì
male. Quell’esperienza fu salutare per me; le mie idee sulle ciliege erano infondate, come tante altre convinzioni sul cibo e le diete. C'è in quasi tutti noi una disposizione ad accettare acriticamente idee di questo tipo; e però, quando le idee in questione riguardano gli alimenti, la salute o altre cose direttamente legate alla sopravvivenza, non si tratta di una disposizione infondata. In casi del genere, le certezze illusorie sono una risposta con un forte valore di adattamento che da millenni protegge gli umani, e soprattutto i bambini, dalla tendenza a imparare di prima mano quali siano i possibili pericoli, per esempio quali cibi siano velenosi e quali no. E analogamente, i bambini piccoli sono disposti a credere in certi valori, certe regole e certe storie senza fare domande, e questo ne facilita
l'integrazione nel gruppo sociale e nella cultura in cui sono 20
L'ILLUSIONE DELLA CERTEZZA
nati. Ma anche le convenzioni sociali — e non importa che le apprendiamo dalla famiglia o dall'intera cultura cui apparteniamo — sono una fonte di illusione della certezza, come la
percezione immediata. Le certezze illusorie sono parte integrante del nostro retaggio percettivo, emotivo e culturale; possono darci sia un’immagine utile (benché non sempre corretta) del nostro ambiente sia sensazioni di conforto e sicurezza. I reparti esoterici dei negozi di libri attestano che sono in molti ad andare in cerca di una fede facile e immediata; in tutte le epoche storiche gli esseri umani hanno creato sistemi di credenze che promettono certezze, come la religione, l’astrologia, la divinazione e al-
tri sistemi nei quali possiamo trovare conforto, soprattutto quando proviamo gravi sofferenze. La certezza è diventata un prodotto di consumo, venduto in tutto il mondo da compagnie di assicurazioni, consulenti finanziari, uomini politici in campagna elettorale — e dall’industria della salute. Nell’Europa del Seicento acquistare un’assicurazione sulla vita significava scommettere sulla sopravvivenza di una personalità eminente, per esempio sull’eventualità che il sindaco di Parigi morisse o non morisse nel giro di tre anni —, e se questa persona moriva nel periodo sul quale si era scommesso si guadagnava una piccola fortuna; oggi le compagnie di assicurazione ci hanno convinti che una polizza sulla vita è una questione di sicurezza e certezza, e che scommettere sulla propria vita per amore della tranquillità economica degli eredi è un comportamento moralmente responsabile. Anche i partiti politici fanno leva su questo desiderio di sicurezza: in Germania prima delle elezioni politiche del 1998 le strade di tutto il paese erano tappezzate di manifesti democristiani con la scritta “CERTEZZA, NON RISCHIO”, ma questa promessa non la facevano so-
lo il cancelliere Helmut Kohl e il suo partito. Anche le altre forze politiche vendevano certezza. L'illusione della certezza può essere creata e sfruttata per fini economici e politici. Pochi anni fa, per esempio, mentre in Gran Bretagna, Irlanda, Portogallo, Francia e Svizzera infuriava la malattia della mucca pazza (encefalopatia spongiforZI
OSATE CONOSCERE!
me bovina, o ESB), il governo tedesco dichiarò che il paese era immune dal morbo. La frase “Il manzo tedesco è sicuro” veniva continuamente ripetuta dal presidente della Lega degli Agricoltori, dal ministro dell’ Agricoltura e da tutto un coro di pubblici funzionari,” e ai tedeschi piaceva ascoltare questo messaggio. Il manzo inglese era stato proibito, si consigliava ai consumatori di chiedere carne di bestie allevate in Germania,
si diceva loro che in altri paesi mancavano la vigilanza e i controlli. Ma quando nel 2000 i tedeschi si decisero finalmente a controllare davvero, e in un numero adeguato di casi, se il loro bestiame aveva l’ESB, si scoprì che la malattia esisteva, e l’opi-
nione pubblica venne colta completamente di sorpresa. Di. versi ministri furono costretti a dimettersi, il prezzo della carne bovina crollò, gli altri paesi proibirono il manzo tedesco eil governo riconobbe finalmente di essersi aggrappato troppo a lungo all’illusione che il bestiame nazionale fosse completamente immune dal morbo. Ciononostante, il gioco delle promesse di certezza non finì; ci fu solo un avvicendamento dei giocatori. Ora erano i supermercati e i macellai a esporre cartelli e distribuire stampati rassicuranti con la scritta “Manzo garantito immune da ESB”, e alcuni spiegavano pure che questo succedeva perché le loro mucche, per fortuna, pascolavano su prati ecologici, mente altri dichiaravano che le loro erano state controllate. Nessuno ricordava che i risultati di questi controlli sono molto spesso sbagliati, e quando i giornali diedero la notizia di una mucca che era risultata negativa e invece aveva l’ESB, per l’opinione pubblica fu un nuovo trauma. Un’altra illusione di certezza era sparita; d’altronde, il fine primario di governo, macellai e su-
permercati era quello di rassicurare, non di informare sull’ESB. Le campagne politiche e pubblicitarie mostrano che l’illusione della certezza non nasce né muore col singolo individuo; la creazione e la vendita di certezze possono coinvolgere molte parti sociali: per esempio, un’associazione professionale che nega che i suoi prodotti possano avere determinati difetti, oppure degli acquirenti desiderosi di ascoltare questo messag22
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gio e di crederci, arrendendosi all’autorità sociale. Né l’illusione è creata per tutti, o destinata a tutti; può benissimo essere
fabbricata per un pubblico specifico. Per esempio, Jay Katz, professore alla facoltà di legge di Yale, riferendo una sua discussione con un amico chirurgo sulle incertezze che affliggono la terapia del cancro al seno, racconta che tutti e due concordavano sul fatto che nessuno sa quale sia, caso per caso, la
terapia migliore;* ma quando poi chiese all’amico che consiglio dava alle sue pazienti, si sentì rispondere: “All’ultima ho detto che la cura migliore è la chirurgia radicale e le ho fatto capire che l’operazione è necessaria”. Katz gli fece notare che era incoerente: come faceva, tutto d’un tratto, a essere sicuro che
una certa linea d’azione fosse la migliore? Il chirurgo ammise di conoscere appena la signora, e però insistette che le sue pazienti, compresa questa, non avrebbero mai né capito che la scelta di una cura comportava inevitabilmente delle incertezze né sopportato di saperlo. Secondo lui, volevano l’illusione della certezza — e anche questa signora l’aveva avuta. E ora vi inviterò a guardare più da vicino l’intricatissima rete delle motivazioni delle quali è intessuta tale illusione. Osserveremo la relazione medico-paziente dall’interno, dal punto di vista di un dottore che discute i pro e i contro delle false certezze. QUELLO CHE PENSANO I MEDICI DELLA CERTEZZA E DELLA RESPONSABILITA
Nel 2000 ho assistito a una riunione di medici. Erano 60,
fra loro c'erano dei rappresentanti di organizzazioni mediche e di compagnie di assicurazione, e a tutti interessava una 7edicina basata sui dati empirici, una medicina cioè nella quale paziente e dottore basino le loro decisioni terapeutiche sui dati disponibili e non su convinzioni, preferenze o abitudini personali. Erano arrivati dagli Stati Uniti e da diversi paesi europei in una località turistica molto bella, dove sarebbero rimasti insieme per due giorni; il tema del convegno era il migliora29
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mento della comunicazione del rischio, dell'interazione dot-
tore-paziente e delle conoscenze del grande pubblico a proposito dello screening medico. L'atmosfera era rilassata; il calore umano degli organizzatori e la bellezza del paesaggio facevano nascere in noi la fiducia reciproca e ci permisero di concordare un programma comune. Il secondo giorno ci fu un dibattito molto animato sulle responsabilità dei medici e le certezze illusorie dei pazienti; qui di seguito riporto uno scambio di idee preso dalla parte centrale di questa discussione.’ Dottor A. Noi medici siamo vittime dell’immagine che abbiamo dei nostri pazienti. Crediamo che il paziente sia incapace di informarsi. Rappresentante dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (oms) Negli Stati Uniti un contatto medico-paziente dura in media cinque minuti, e le informazioni sono quasi sempre presentate in un linguaggio inintelligibile per il paziente; così, i malati tendono a sviluppare un atteggiamento fatalistico, alla “Inshallah”, e non imparano a praticare il
consenso informato. Tutto dipende dalla volontà di Dio, o del dottore; dunque, perché preoccuparsi? Secondo una stima dell'Istituto di Medicina, negli ospedali americani fra 144.000 e i 98.000 pazienti vengono uccisi ogni anno da errori e incidenti medici evitabili. È come se vivessimo in una cultura in cui la morte è desiderabile, perché è una transizione da questa vita a una vita migliore. Dottor B. Non sta esagerando un po’? Lei sta dicendo che muore più gente per gli incidenti ospedalieri che per quelli stradali, o per l'AIDS. OMS Questa stima è basata sulle cartelle cliniche degli ospedali di New York, del Colorado e dell’Utah. Si trattava di
errori evitabili, per esempio di medici che prescrivevano antibiotici a pazienti con una storia - ben documentata — di reazioni allergiche; solo che non consultavano questa documentazione. Il problema di fondo è che la medicina non è come l’aviazione; non c'è modo di verbalizzare un errore senza punire il medico che l’ha commesso. I piloti mandano dei rapporti anonimi sugli “incidenti sfiorati” a una base dati centrale, e così i colleghi possono imparare
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dai loro errori e la sicurezza del trasporto aereo migliora. È dalla seconda guerra mondiale che l’aviazione mette al primo posto la costruzione di sistemi sicuri, e da allora negli Stati Uniti gli incidenti aerei sono costantemente diminuiti. Nel 1998 l'aviazione commerciale americana non ha avuto nemmeno un morto. Ma la sanità non ha un sistema paragonabile. Dottor A. Le donne fanno lo screening per essere sicure di non avere il cancro, ma il mammogramma non dà questa certezza. Circa il 10% dei tumori passa inosservato. E lo screening può anche dare danni oltre che benefici, solo che la maggioranza delle donne non è informata. Non ne sanno niente. Dottor B. (dopo un borbottio scettico) Il consenso informato è solo una balla politicamente corretta. Se cominciassi a spiegare ai miei pazienti i benefici e i danni potenziali di una determinata cura, non ne capirebbero quasi niente. E se per giunta dicessi loro che certe cose non le sappiamo, diventerebbero nervosissimi. Dottor C. Sono d’accordo. Il 60% dei pazienti — e questa è una stima prudenziale — non ha la capacità intellettuale di prendere delle decisioni sulle cure da seguire. Specialista di cancro al seno Parliamo dei medici, non dei pazienti! Per i medici, l'aggiornamento viene soprattutto da seminari organizzati dalle case farmaceutiche: il miglior albergo della città, cene succulente, l’invito esteso ai coniugi. Ma quando i seminari di aggiornamento li propone il mio istituto, che ha un punto di vista più disinteressato, in tutto possiamo permetterci una sala delle conferenze squallida, ma soldi per offrire da bere, o anche dei panini, non ce ne sono. Riusciamo ad attirare pochissimi medici. E per quanto riguarda le capacità intellettuali delle pazienti, io ho deciso di discutere con loro i pro e i contro di una terapia or-
monale, per esempio di dire che da una parte c'è meno depressione, ma dall'altra la probabilità di cancro al seno è 1,4 volte maggiore. Il problema non è che le donne hanno un quoziente d’intelligenza troppo basso per decidere da sole: decidono e come, se le informiamo. Per me, il proble-
ma è che da quando le mie pazienti hanno cominciato a decidere da sole, i colleghi me ne mandano di meno.
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OSATE CONOSCERE!
Dottor A. Quando il nostro organizzatore ha tenuto una conferenza da noi, all’istituto, le donne se ne sono andate in massa, coi nervi a pezzi. Alcune sono finite nella medicina naturale, sono tornate alla promessa della certezza. Dottor B. Ma come posso permettere a una paziente di decidere da sola? Come si fa a essere un medico responsabile, e contemporaneamente lasciare che sia il paziente a
decidere? Professor O. Senta, io ho due figli che vanno tutti e due a scuola. Nel loro istituto la regola è che se un alunno dice che vuole andare a casa perché sta male, lo mandano dal medico scolastico che normalmente fa i raggi X a tutti i bambini. Se uno si lamenta che gli fa male una mano, lui gli fa i raggi X alla mano, se dice che gli duole il torace, gli fa i raggi X al torace, tanto per mettersi al sicuro, e poi di solito conclude che non c’è una frattura ma solo una brutta contusione. Però, certi bambini vogliono solo andarsene da scuola, così fingono di star male e gli fanno i raggi X. Ai miei due ho detto che non hanno il permesso di farsi fare i raggi e devono spiegare al dottore che il loro papà è un medico. Come padre, io ho delle responsabilità verso i miei figli, e non le devo delegare al primo medico che capita. Dottor B. Secondo me, tutto questo gran parlare di consenso informato e dei suoi costi e benefici non tocca il punto essenziale. L'incontro fra medico e paziente è un rito, e in questo rito non c’è posto per il falso esito positivo di un test.
Diversi dottori (molto agitati) Giusto, sono dei riti. È tutto lì. Presidente di un'associazione medica I pazienti vogliono essere rassicurati. Vogliono trovare sollievo alla loro ansia, vogliono essere nelle mani giuste, anche quando non stanno affatto meglio di prima. Vogliono che le loro sofferenze abbiano un'etichetta. Un medico che toglie l’ansia al paziente è un buon medico — e bisogna pur fare qualcosa, non si può stare senza far niente. Il paziente resterebbe deluso, magari si infurierebbe. La maggior parte delle medicine che prescriviamo non ha un effetto dimostrato, ma quando il paziente si applica quell’unguento è contento — e anche il dottore, e anche la compagnia farmaceutica. Radiologo Non è il denaro a spingere i medici, è il fatto di sal-
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vare la gente. Il medico come eroe. E l’eroismo è autoinganno, è il più grande ostacolo al progresso. Presidente Se il medico presenta il rischio al paziente in termini di “quante persone è necessario curare”, l’effetto placebo sparisce; dopo tutto, questa espressione, “quante persone è necessario curare”, significa che per salvare una persona bisogna curarne un certo numero, e un paziente
va dal medico per essere curato, non per sapere quanti bisogna danneggiare per curarne uno. Dottor C. Quando si tratta della salute, i riti sono inevitabili. Da un punto di vista economico, spesso lo screening non conviene affatto; i dollari delle tasse potrebbero essere
spesi per cose più utili. Ma dal punto di vista della relazione medico-paziente, conviene. Presidente L'opinione pubblica smette molto rapidamente di occuparsi di quei settori della medicina in cui si sono fatti dei veri progressi, e l’attenzione si concentra su settori e te-
rapie di dubbio valore. I medici sono troppi, i soldi troppo pochi, e nascono dei falsi incentivi: è una situazione che fa venire in mente quei topolini che, quando vivono troppo affollati, fanno cose molto strane. E poi c’è l'ideale dell’infallibilità: i pazienti vogliono credere che il dottore non sbagli mai e i medici cercano di alimentare questa illusione. oms L'incertezza fa paura ai medici. È molto difficile dire “Non lo so”.
Questa discussione ci rivela che riguardo all’illusione della certezza — la cui esistenza non è negata da nessuno degli interlocutori—1i medici hanno motivazioni, emozioni e convinzioni
complesse, e affrontano questo garbuglio in molti modi diversi. Bisogna togliere al paziente ogni illusione e rivelargli che una certa cura ha dei lati incerti? Un medico che non sa deve sempre dire “Non lo so”? Al convegno era presente un gruppo convinto che le incertezze non si dovessero mai palesare completamente. Secondo alcuni, i pazienti, tanto per cominciare, non ne avrebbero capito niente; anzi, il sapere che c'erano delle incertezze li avrebbe messi in confusione; potevano anche decidere di andare da un altro guaritore, uno capace di offrire certezze. AldI
OSATE CONOSCERE!
tri, invece, avevano in mente un vincolo oggettivo: è difficile dare a un paziente un’informazione completa sui rischi che corre durante un incontro che dura in media cinque minuti. Il paziente, dicono questi medici, non vuole essere informato
ma rassicurato, e l’incontro personale con lui è un rito volto a generare la sensazione che di lui ci si stia occupando. Il presidente dell’associazione sostenne una tesi controcorrente: rassicurare non è la scelta migliore in tutte le situazioni, ma nemmeno il consenso informato lo è. Per illustrare la sua posizione usò l’esempio dell’effetto placebo, quel fenomeno, notissimo in medicina e psicoterapia, per cui una cura tenderà
ad avere comunque un qualche effetto positivo se i pazienti credono che faccia bene. Una delle spiegazioni dell’effetto placebo è che il fatto di credere mobilita nel sistema immunitario forze che erano state tenute di riserva, così come un marato-
neta riesce a mobilitare tutte le sue riserve quando si rende conto che la linea del traguardo è vicina.!° Il presidente ricordò all’uditorio che l’effetto placebo può scomparire non appena il medico spiega al paziente i rischi effettivi insiti in una cura, cioè non appena assume un ruolo fondato sulla ragione e non sull’autorità. Se qualche volta un'illusione può curare, c'è un problema: il beneficio del conoscere non è assolu- . to, perché esiste anche l’efficacia potenziale della fede.!! Questa discussione mette anche in evidenza la possibilità che medico e paziente abbiano fini diversi, addirittura opposti. Per il medico scolastico è normale fare tutti i momenti dei raggi X, perché a lui interessa proteggersi dalla possibile accusa di avere trascurato una frattura; ma al professor O. interessa proteggere i propri figli dai raggi X, che sono dannosi. Ciascuna delle due alternative — fare i raggi o non farli - comporta benefici e costi potenziali per i suoi figli, ma sono rischi e benefici diversi da quelli del medico scolastico. E lo specialista di cancro al seno informa le sue pazienti dei pro e dei contro di una terapia ormonale, in modo che ogni donna possa decidere per conto proprio a seconda di quello che è più importante per lei; forse, quella signora preferisce abbassare la probabilità di andare in depressione rispetto a quella di contrarre il 28
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cancro al seno — o viceversa. Così, i consigli dello specialista vanno nell’interesse delle donne ma non necessariamente in quello di altri medici, i quali vogliono, senza dubbi o ripensamenti, che le donne facciaro la terapia ormonale, non che ci ri-
flettano. Il rappresentante dell’oms parlò del numero sconvolgente dei pazienti uccisi negli opedali americani, anno dopo anno, da errori medici evitabili - ma negli ospedali non sono mai stati introdotti dei sistemi di sicurezza come quelli dell’aviazione civile, che sarebbero nell’interesse dei malati. Nell’a-
viazione, la sicurezza è interesse immediato del pilota, perché se dei passeggeri muoiono in un incidente, anche lui, quasi sicuramente, morirà; ma nel rapporto paziente-medico la situazione è molto diversa. Poiché normalmente i costi e benefici dei medici sono differenti da quelli dei pazienti, è moralmente doveroso che i secondi siano informati e messi in grado di scegliere la terapia in base a queste informazioni. Le loro scelte né saranno né dovrebbero essere sempre uguali a quelle dei medici, e quando i rispettivi interessi divergono, un buon dottore lo dirà al malato. L'illusione della certezza — l’illusione che una cura dia soltanto benefici e non danni, che esista una sola terapia ottimale, che un esame diagnostico sia assolutamente certo — è un ostacolo mentale al raggiungimento di una decisione. IL SOGNO DI KANT
Il saggio “Che cos'è l’illuminismo?” del filosofo Immanuel Kant comincia così: L'illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l'incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude!"° 29
OSATE CONOSCERE!
Questo è un atteggiamento molto lucido e molto bello. La parola chiave è “coraggio” — una cosa indispensabile, perché usare la propria intelligenza può dare non solo libertà e autonomia, ma anche punizione e dolore. Pochi anni dopo avere scritto queste righe Kant si vide imporre dal governo (per paura che il suo pensiero razionale distruggesse la certezza della dottrina cristiana) di non scrivere più e non fare più lezione su argomenti religiosi. Il fatto è che uscire di minorità può significare scoprire dei punti deboli in storie, fatti, valori nei quali si è sempre creduto, e molto spesso mettere in dubbio delle certezze vuol dire mettere in dubbio l’autorità sociale. Imparare a convivere con l’incertezza è compito da far tremare, tanto per l'individuo quanto per la società. Gran parte della storia del genere umano è stata fatta da persone assolutamente certe che la loro stirpe, o la loro razza, o la loro religione fosse la preferita da Dio, o dal destino, e che di conseguen-
za si attribuivano il diritto di sbarazzarsi delle idee in contrasto con le loro, nonché dei corpi di chi ne era stato contaminato. Le società odierne sono molto più tolleranti verso l’incertezza e la diversità; tuttavia, siamo ancora lontani dal diventa-
re quei cittadini coraggiosi e bene informati che aveva in mente Kant. E un traguardo che può essere descritto con due parole latine, sapere aude, o con altrettante parole italiane: “Osate conoscere!”.
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D L'ANALFABETISMO NUMERICO
La matematica è difficile. Andiamo per negozi! BARBIE!
Si racconta che all’inizio del xx secolo il padre della fantascienza moderna, H. G. Wells, abbia profetato: “Un giorno,
per essere cittadini efficienti, il pensiero statistico sarà altrettanto necessario della capacità di leggere e scrivere”.?Alla fine dello stesso secolo il matematico John Allen Paulos ha cercato di scoprire quanto eravamo — o meglio non eravamo — andati avanti da questo punto di vista, e nel suo best-seller GY srze-
morati [Innumeracy] ha raccontato la storia di un meteorologo di una rete televisiva americana il quale, dando la notizia che c'era un 50% di probabilità che piovesse il sabato e un 50% che piovesse la domenica, ne concluse che nel fine settimana la probabilità di pioggia era del 100%! Ma l'incapacità di ragionare correttamente sulle cose incerte non è un problema soltanto americano. In Germania la parola “percentuale” è fra quelle usate più spesso dai media, ma quando un rilevamento a campione ha chiesto a 1000 tedeschi se “40%” significava (4) un quarto, (2) 4 su 10 o (0) uno su quaranta, circa un terzo degli interrogati ha dato una risposta sbagliata” Nemmeno coloro che devono prendere decisioni politiche sono immuni dall’analfabetismo numerico; una volta, per esempio, parlando del pericolo dell’abuso di droghe un ministro degli Interni bavarese sostenne che, poiché la maggioranza degli eroinomani ha fatto uso di marijuana, la 3
OSATE CONOSCERE!
maggior parte di quelli che consumano marijuana finirà nell’eroina. Possiamo vedere che questa conclusione è sbagliata nella figura 3.1: è vero che, come ci mostra la parte ombreggiata del cerchio più piccolo, la maggioranza degli eroinomani ha fatto uso di marijuana, ma questo non significa che la maggioranza dei consumatori di marijuana dipenda dall’eroina. Quella stessa parte ombreggiata che copre la maggior parte degli eroinomani copre solo una piccola frazione dei consumatori di marijuana. Il ministro degli Interni affermò che la marijuana doveva continuare a essere illegale, basandosi su una conclusione errata; e la conclusione, comunque la si pensi
sulla legalizzazione della marijuana, si basava a sua volta su un modo di pensare annebbiato. Nei paesi occidentali quasi tutti i bambini imparano aleggere e scrivere, ma ci sono ancora molti che non sanno pensare numericamente, nemmeno da adulti; è il problema che Paulos e altri hanno chiamato analfabetismo numerico. Io mi concentrerò su quella forma di analfabetismo numerico che appare più importante nella vita quotidiana: l’analfabetismo statistico, cioè l’incapacità di ragionare su incertezza e rischio; d’ora in poi, quando userò il termine “analfabetismo numerico”, intenderò sempre quello statistico. Che nessi ci sono fra
Consumatori
di marijuana
dna
Eroinomani
Figura 3.1 Consumatori di marijuana ed eroinomani. La maggioranza degli eroinomani consuma anche marijuana. Possiamo concluderne che i consu-
matori di marijuana sono in maggioranza eroinomani?
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L'’ANALFABETISMO NUMERICO
questa forma di analfabetismo e l’illusione della certezza? Ecco una breve rassegna dei più importanti.
Ilusione della certezza. La legge di Franklin è uno strumento mentale utile a superare questa illusione e a effettuare la transizione dalla certezza all’incertezza. Questa transizione la rea-
lizzò, per esempio, Susan, la donna di cui ho parlato nel primo capitolo, quando finalmente scoprì (in quel modo così tortuoso) che negli esami dell’HIV possono verificarsi degli errori di laboratorio. - Ignoranza del rischio. Si tratta di una forma elementare di analfabetismo numerico: una persona non sa (nemmeno grosso modo) quanto sia grande un certo rischio personale o professionale. È un caso diverso dall’illusione della certezza, perché il soggetto sa che possono esserci delle incertezze, ma ne ignora l’entità. Per superare l'ignoranza del rischio lo strumento più importante è la ricerca di informazioni (per esempio, la consultazione di pubblicazioni scientifiche). Descriviamo un caso nel capitolo 7, quando dettagliamoivari rischi — comprese le false positività — che comporta l’esame dell’HIv. Comunicazione scorretta del rischio. In questa forma di analfabetismo numerico una persona è al corrente dei rischi, ma non li sa comunicare in modo che anche gli altri li capiscano. Lo strumento mentale col quale possiamo superare la comunicazione scorretta è una rappresentazione del rischio che ne faciliti la comprensione. L’aneddoto sul Prozac (capitolo 1) è un buon esempio di questa incapacità di comunicare il rischio in modo comprensibile e di trovare un modo per superarla.
Pensiero annebbiato. In questa forma di analfabetismo numerico una persona è informata sui rischi, ma non ne sa ricavare
conclusioni o inferenze. I medici, per esempio, molto spesso conoscono sia la percentuale di errori di un determinato esame sia il tasso di base di una malattia, ma non sanno inferire
da queste informazioni la probabilità che un paziente con un 33
OSATE CONOSCERE!
esito positivo di un certo esame abbia effettivamente una certa malattia (capitolo 1). La rappresentazione in forma di frequenze naturali è uno strumento mentale che rende più facile arrivare a una conclusione corretta (capitolo 4). L’analfabetismo numerico - cioè l’ignoranza del rischio, la sua comunicazione scorretta o il pensiero annebbiato — diventa un problema non appena dalla terra promessa della certezza veniamo cacciati in un mondo nel quale regna la legge di Franklin. Ma io vorrei sottolineare che questa forma di analfabetismo non è soltanto un problema di singoli cervelli; l’ignoranza e la comunicazione scorretta di determinati rischi possono anche, per esempio, essere prodotte e perpetuate a proprio vantaggio da un gruppo sociale. IL RISCHIO
Il termine “rischio” ha diversi significati; quello in cui lo uso io ha a che fare con l’incertezza, ma non necessariamente con cose pericolose come, per esempio, un incidente aereo. Si
può essere incerti anche a proposito di un fatto positivo — poniamo, di un atterraggio ben riuscito. Ma c’è anche un’altra ragione per non riferire questa parola soltanto a esiti negativi: quell’esito che è negativo da un certo punto di vista può essere positivo da un altro. Se uno perde un mese di stipendio al gioco, il risultato è negativo per lui, ma positivo per il casinò. In questo libro chiamo rischio un’incertezza quando è possibile esprimerla numericamente, come probabilità o frequenza, sulla base di certi dati empirici; il numero in questione non è necessariamente fisso, ma può essere aggiornato alla luce dell'esperienza. Quando, mancando dati empirici, è invece impossibile o sconsigliabile assegnare dei valori numerici alle alternative possibili, uso invece di “rischio” il termine incertezza, tuttavia, l'incertezza non implica il caos: per esempio, è incerto il tempo in cui sarà trovata una cura per il cancro, ma
ciò non ha niente a che fare col caos. 34
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Quand'è che un’incertezza può essere chiamata rischio? La risposta dipende da come intendiamo la probabilità, e i più importanti modi di intenderla sono tre: come grado di credenza, come propensità (altri dice propensione) e come frequenza. Qualche volta i gradi di credenza sono detti anche probabilità soggettive. Fra le tre interpretazioni della probabilità, quella soggettivistica è la più liberale riguardo alla possibilità di esprimere le incertezze come probabilità quantitative, cioè come rischi; infatti, è possibile assegnare una probabilità soggettiva anche a un evento unico, del tutto nuovo.
I gradi di credenza. Prendiamo il racconto che fa il chirurgo Christiaan Barnard del suo primo incontro con Louis Washkansky, che poco tempo dopo sarebbe stato il primo uomo a subire un trapianto di cuore. Washkansky era seduto a letto e leggeva un libro; Barnard si presentò, disse che gli avrebbe sostituito il cuore con uno sano e aggiunse: “C’è una possibilità che Lei torni a vivere normalmente”. Washkansky non chiese né quanto era grande questa possibilità né quanto sarebbe vissuto né che cosa comportava il trapianto; disse solo
che era disposto ad andare avanti e tornò a leggere il suo libro (un racconto di avventure di cow-boy). A Barnard seccava molto che al paziente quella storiaccia interessasse molto più di un grande momento della storia della medicina e del rischio che rappresentava per lui; ma la moglie dell’uomo, Ann, gli chiese: “Che probabilità gli dà?”, e lui, senza esitare o dare spiegazioni, rispose: “80%”. Diciotto giorni dopo
l'operazione Washkansky morì. L'“80%” di Barnard rispecchiava un grado di credenza, ovvero una probabilità soggettiva. Per la concezione soggettivistica è sempre possibile trasformare un’incertezza in rischio, anche in situazioni completamente nuove, purché siano soddisfatte le leggi della probabilità - per esempio, quella per cui la somma delle probabilità di un insieme di alternative esaustivo ed esclusivo (come sopravvivenza e morte) deve essere uguale a 1. Perciò, per
questa interpretazione l'affermazione di Barnard che Washkansky aveva un 80% di probabilità di sopravvivere aveva DD
OSATE CONOSCERE!
senso, a patto che il chirurgo assegnasse al paziente anche un 20% di probabilità di non sopravvivere; e dunque “180%” di Barnard può essere considerato incertezza quantificata, cioè rischio. Le propensità. Nella teoria propensistica la possibilità di trasformare le incertezze in rischi è molto più limitata. Le propensità sono proprietà degli oggetti; è una propensità, per esempio, la simmetria fisica di un dado (se è costruito osservando una simmetria perfetta, la probabilità di ottenere un sei è di 1/6). L'essenza dell’interpretazione propensistica della probabilità sta appunto in questo riferimento a una struttura, un meccanismo o un carattere fisico che determina il rischio di un evento. Si noti la differenza fra l’interpretazione propensistica e quella soggettivistica: non basta che le probabilità soggettive di una persona riguardo all’esito del lancio di un dado siano coerenti, cioè soddisfino le leggi della probabilità, ma quello che conta è la struttura del dado. Se questa struttura è ignota, le probabilità non esistono. Per questa posizione la stima barnardiana dell'’80% non può essere considerata probabilità o rischio, perché quello che si sa dell’intervento sul cuore non basta a valutarne le propensità.
Le frequenze. Per un frequentista una probabilità deve basarsi su un numero elevato di osservazioni e si identifica con la frequenza relativa di un evento entro una classe di riferimento ben specificata — per esempio, la frequenza relativa del cancro polmonare fra i maschi bianchi americani che hanno fumato sigarette per almeno venti anni. Se non c’è classe di riferimento, non c'è probabilità. Ai frequentisti non interessano le credenze di una persona intorno all’esito del lancio di un dado, né hanno bisogno di studiare la struttura del dado stesso per determinare la probabilità che esca un sei; questa probabilità la determinano empiricamente, facendo molti lanci e calcolando la frequenza relativa dei casi in cui è venuto fuori un sei. Perciò, per loro la stima dell’80% fatta da Barnard non ha significato (perché fatta in un’epoca in cui non c'erano opera36
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zioni paragonabili a un trapianto cardiaco); anzi, i frequentisti puri e duri rifiutano integralmente l’idea di probabilità di un evento singolo come, per esempio, la permanenza in vita di una certa persona. E chiaro, dunque, che nel passaggio dall'incertezza al rischio i frequentisti sono molto prudenti; per loro si può parlare di rischio solo quando esiste un’ampia documentazione empirica. I tribunali, per esempio, tendono a
essere frequentisti, a considerare probatoria la valutazione di un rischio solo quando è basata su frequenze empiriche, e non su opinioni.
Questi concetti di probabilità così diversi possono produrre stime di rischio che variano drasticamente. Qualche anno
fa ho fatto una visita guidata alla Daimler-Benz Aerospace (DASA), la casa produttrice del razzo spaziale Ariaze, usato
per mettere in orbita vari satelliti. Davanti a un grande cartello che elencava i 94 razzi lanciati fino a quel momento (gli Ariane 4 e 5), chiesi al mio cicerone quale fosse il rischio di incidente e lui mi rispose che c’era una sicurezza di circa il 99,6%. Era una cifra sorprendentemente alta; sul cartello vedevo otto asterischi, cioè otto incidenti; è vero che molti di
questi asterischi erano collocati a fianco dei primi lanci, ma erano andati male anche i lanci 63, 70 e 88. Chiesi alla guida come si potessero conciliare quegli otto incidenti con una sicurezza del 99,6%, e lui mi rispose che la DASA non contava il
numero degli incidenti, ma calcolava la sicurezza a partire dalle caratteristiche strutturali delle singole parti del razzo; aggiunse pure che il conteggio degli incidenti doveva comprendere gli errori umani e osservò che, per esempio, dietro uno degli otto asterischi c’era stato un malinteso fra un operaio che non aveva messo una vite e quello del turno successivo, che invece aveva supposto che chi l’aveva preceduto l’avesse fatto. Dunque, questa valutazione del rischio di incidente in un Arzaze si basava su una propensità, non su una
frequenza. In questo libro metterò in primo piano quei rischi che possiamo quantificare basandoci su frequenze — il che significa DI
OSATE CONOSCERE!
non che nella valutazione del rischio contano solo le frequenze, ma che queste ultime, quando sono disponibili, ci danno una buona base di partenza. L'IGNORANZA DEL RISCHIO
Chi è informato sui rischi? La risposta dipende dalla cultura di appartenenza e dall’evento, o dall’azzardo, in gioco. Poniamo, per esempio, che le previsioni del tempo dicano che per domani c’è una probabilità di pioggia del 30%: a noi sembra, quanto meno, di capire che cosa dicono. Ma esprimere l’incertezza del tempo in termini probabilistici, per quanto ci appaia naturale, è un fenomeno culturale recente: prima del 1965 il servizio meteorologico nazionale americano dava previsioni del tipo “tutto o niente”, come “Domani non pioverà”, al massimo premettendo un “È improbabile che...”. In Germania si è cominciato a parlare di probabilità nelle previsioni del tempo solo intorno al 1990, e in Francia si fanno ancora, in larga misura, previsioni non probabilistiche. Certe culture hanno una fame di numeri insaziabile — medie di battute valide nel baseball, goal segnati da una squadra di calcio, indici di mercato —, mentre altre sono più riluttanti a esprimere le incertezze in forma numerica; in generale le democrazie hanno, tendenzialmente, più voglia di numeri, e sono più motivate a rendere trasparente il rischio, rispetto a quasi tutti gli altri sistemi sociali. LA PROMOZIONE DELLA PUBBLICA IGNORANZA
E però le democrazie ospitano anche gruppi poco interessati a che l'opinione pubblica conosca certi rischi. Negli anni Cinquanta del Novecento, per esempio, l'industria americana del tabacco avviò una massiccia campagna volta a convincere il grande pubblico che il fumo non era pericoloso; proprio in quegli anni, infatti, l’idea che le sigarette fossero una grave causa di malattia stava diventando opinione concorde della 38
L’ANALFABETISMO NUMERICO
comunità scientifica del paese — e l’industria investì centinaia di milioni di dollari per creare una certezza illusoria.” Quando, in seguito a un rapporto del us Surgeon General nel 1964, l’illusione crollò, l’industria del tabacco lanciò una seconda campagna volta a intorbidare le acque e a generare “dubbi” sull'entità effettiva del rischio, e per decenni le principali riviste a diffusione nazionale che ospitavano la sua pubblicità non parlarono mai o quasi mai dei dati scientifici sui pericoli del fumo. Un’ampia frazione dell’opinione pubblica ne ricavò l’impressione che la questione degli effetti del fumo sulla salute fosse ancora aperta; eppure, già a metà degli anni Cinquanta del Novecento i dati a disposizione della American Cancer Society dicevano che le persone che fumavano due pacchetti di sigarette al giorno morivano, in media, sette anni prima dei non fumatori. Oggi la maggioranza degli esperti ritiene che il tabacco causi fra 180 e il 90% dei cancri polmonari. Il tabacco uccide più di 400.000 americani all’anno, soprattutto col cancro ai polmoni ei disturbi cardiaci; in Germania si valuta che le vittime siano 75.000; e il numero dei cinesi che muoiono
ogni anno di cancro polmonare sfiorerà fra breve il milione. Il caso del fumo di sigarette è un esempio di come la consapevolezza pubblica di un pericolo per la salute possa essere indebolita da una doppia linea difensiva. Prima, si fabbrica un’illusione di certezza — il fumo non è pericoloso, punto; poi, quando l’illusione crolla, si ammette che esistono delle incertezze, ma si sparge il dubbio: veramente conosciamo irischi effettivi oppure no? AL DI LÀ DELL'IGNORANZA: SPESSO SI TRATTA SOLO DI FARE I CONTI
Ma l’ignoranza non è sempre manovrata da cricche affaristiche o da altri gruppi interessati a non far conoscere alcuni rischi al pubblico: esistono anche situazioni nelle qualii fatti sono sotto gli occhi di tutti e basterebbe un piccolo sforzo mentale per collegarli. Quante probabilità abbiamo, nel corso di tutta la vita, di
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OSATE CONOSCERE!
morire in un incidente stradale? Non ci vuole calcolo. Sulle strade degli Stati Uniti muoiono 40.000 e le 45.000 persone all’anno,* e dato che milioni di abitanti, questo significa che ogni
molto afare il in media fra le il paese ha 280 anno circa un
americano su 7000 viene ucciso in un incidente. Se poi suppo-
niamo che questo dato resti grosso modo stabile nel tempo, possiamo anche calcolare la probabilità che un americano muoia di questa morte nell’arco di tutta l’esistenza: circa una su 90, data una vita media di 75 anni. In altre parole, circa un
americano su 90 perderà la vita per un incidente stradale entro i 75 anni (e quelli che fanno questa morte viaggiano in maggioranza su auto private). Ma gli americani rischiano di morire sulle strade più dei tedeschi o degli inglesi? In un anno medio, sulle strade tedesche muoiono 8000 persone; e poiché il paese ha circa 80 milioni di abitanti, un rapido calcolo ci dirà che circa un tedesco su 10.000 muore in un anno per un incidente di macchina —il che vuol dire circa una persona su 130 nell’arco di una vita di 75 anni. Anche in Germania la maggioranza di queste persone perde la vita mentre viaggia, da autista o da passeggero, su un’auto privata.” È da notare che la loro mortalità più elevata non implica che gli americani abbiano una guida più pericolosa di quella dei tedeschi, ma solo che vanno di più in macchina, anche perché i trasporti pubblici sono insufficienti. Nel Regno Unito (Irlanda del Nord compresa) le strade sono più sicure che negli Stati Uniti e in Germania: calcolando anche qui una vita media di 75 anni, muore in incidenti stradali “solo” una persona su 220. Tuttavia, le strade americane non sono affatto le più pericolose del mondo occidentale. Ci sono due paesi europei, la Grecia e il Portogallo, che si staccano nettamente da tutti gli
altri. In entrambi muore ogni anno per un incidente stradale circa una persona su 4000: come dire che calcolando una vita media di 75 anni circa un portoghese (o un greco) su 50 viene ucciso sulle strade." Per fare queste stime basta conoscere il numero di quelli che anno dopo anno muoiono per un incidente stradale e la 40
L'’ANALFABETISMO NUMERICO
popolazione del paese; e sono dati facilmente accessibili, per qualsiasi paese e qualsiasi stato (anche se si tratta di stime grossolane, perché non considerano la possibilità che il comportamento di chi guida e le tecnologie di sicurezza cambino drasticamente nel tempo). Non sto parlando degli impressionanti rischi della guida per indurre i lettori a passare al trasporto pubblico: moltissimi hanno sentito dire che “L’aeroplano è più sicuro dell’automobile”, eppure questo argomento non cambia il loro comportamento - forse per la forza dell'abitudine, forse per la paura di volare, forse perché andare in macchina è piacevole. Tuttavia, il fatto di conoscere i rischi reali permette a ogni singolo individuo di decidere per conto proprio, di confrontare i rischi dell’uso della macchina coi benefici e di arrivare a una decisione informata. L'attacco terroristico dell’11 settembre 2001, per esempio, costò circa 3000 vite umane; ma quello che venne dopo, quando milioni di persone decisero di viaggiare in auto e non più in aereo, potrebbe esserne costate molte di più. LA PUBBLICITÀ DEI NUMERI
La pubblica ignoranza del rischio ha una base storica, e l’esistenza di statistiche pubbliche è una conquista culturale recente, al contrario delle storie, dei miti, dei pettegolezzi che plasmano le nostre menti da quando il genere umano ha una cultura. Per gran parte del Settecento e dell’Ottocento i dati statistici rimasero un segreto noto solo a un’élite e sottratto all'opinione pubblica (sono secoli che i politici riconoscono l’importanza delle statistiche, per esempio di sapere quanto è numerosa una popolazione). Napoleone aveva una fame leggendaria dei dati del suo Bureau de statistique!’ e voleva sempre conoscere subito tutte le cifre; alla sua corte circolava il detto “Se vuoi qualcosa dall'Imperatore, dagli delle statistiche”. Ma la disponibilità a rendere pubblici i dati economici e demografici è un fenomeno recente; solo intorno al 1830 le statistiche, o almeno certe statistiche, cominciarono a essere
pubblicizzate. Da allora, una “valanga di numeri stampati”, 41
OSATE CONOSCERE!
per prendere a prestito un’espressione del filosofo Ian Hacking, ha trasformato la vita moderna in uno sterminato oceano di informazioni che ci vengono propinate da televisione, giornali, Internet... E in questo senso possiamo dire che, sebbene le incertezze siano vecchie, i rischi sono relativamente NUOVI.
Come ho già accennato, la sempre maggiore pubblicizzazione dei dati statistici nel corso dell'Ottocento e del Novecento è legata all'ascesa delle democrazie nel mondo occidentale." Una democrazia mette a disposizione di ognuno una quantità enorme di informazioni, ma spesso i suoi cittadini hanno interessi molto selettivi; per esempio, un giovane maschio americano avrà più probabilità di conoscere le statistiche del baseball e meno di sapere che la sua possibilità di morire durante un viaggio in moto è circa 15 volte maggiore di quella di morire durante un viaggio in macchina sulla stessa distanza.” Oggi i numeri sono pubblici, ma il pubblico in generale non li sa leggere. DALLA COMUNICAZIONE SCORRETTA DEL RISCHIO A QUELLA CORRETTA
L’aneddoto del capitolo 1 sul Prozac è un esempio di comunicazione scorretta del rischio, di incapacità di comunicarlo in modo comprensibile. Esistono forme di comunicazione che migliorano la comprensione e altre che non la migliorano; spesso, la comunicazione scorretta del rischio è la regola più che l'eccezione e può essere difficile da smascherare, come ci mostrano le ambigue probabilità dell’aneddoto sul Prozac. Le asserzioni sulla probabilità di un evento singolo, tipo “Lei ha una probabilità fra il 30 e il 50% di ritrovarsi con un problema sessuale” sono un terreno fertilissimo per la comunicazione scorretta, e uno strumento mentale atto a farci superare questo problema è quello di specificare una classe di riferimento — cosa che peraltro è automatica quando usiamo asserzioni sulle
frequenze, non su eventi singoli. 42
L’ANALFABETISMO NUMERICO
Le principali forme di rischio che spingono a una comunicazione scorretta sono tre: l’uso di probabilità di eventi singoli, i rischi relativi e le probabilità condizionali. E sembra proprio che oggi queste siano anche le forme di comunicazione del rischio più usate. LA PROBABILITÀ DELL'EVENTO SINGOLO
Comunicare un rischio come probabilità di un evento singolo significa fare un’affermazione del tipo “La probabilità che accada un certo evento è dello X %”, e un enunciato di questo genere può generare confusione per due ragioni. La
prima è che, per definizione, enunciando la probabilità di un singolo evento non si specifica quale sia la classe di riferimento; la seconda è che se l'evento è unico, cioè non se ne cono-
scono altri paragonabili, allora verosimilmente la stessa stima probabilistica non sarà che un tentativo di indovinare più o meno casuale, che può far pensare che ci sia precisione là dove in realtà regna solo incertezza. Proverò a fare qualche esempio.
L’affermazione che “C’è una probabilità del 30% che domani piova” è un’asserzione probabilistica intorno a un singolo evento, dato che domani o pioverà o non pioverà, mentre se si dichiara che in maggio pioverà 10 giorni, si dice una cosa su una frequenza — una cosa che può essere vera o falsa, mentre della probabilità di un evento singolo, per sé presa, non si potrà mai dimostrare che è errata (a meno che sia uguale a zero o uno). Ora, le probabilità di eventi singoli possono generare una comunicazione scorretta perché persone diverse penseranno, tendenzialmente, a classi di riferimento diverse. Succe-
de anche con cose terra terra come, appunto, “C’è una probabilità del 30% che domani piova”: per alcuni questo significa che pioverà il 30% del tempo, per altri che pioverà nel 30% della loro zona, per un terzo gruppo che pioverà nel 30% dei giorni somiglianti a domani, e le tre interpretazioni sono, più o meno, altrettanto diffuse: ma quella che ha in mente chi prepara le previsioni del tempo è l’ultima. Tuttavia, non si deve 43
OSATE CONOSCERE!
dare la colpa alla gente se ci sono interpretazioni così diverse: l'affermazione che “C’è una probabilità del 30% che domani piova” è ambigua. La stima dell’80% fatta da Barnard è un esempio dei problemi specifici delle asserzioni su eventi unici. Forse Ann Washkansky ne ricavò l'impressione che una probabilità così alta desse delle speranze, ma il suo significato era ambiguo. Barnard non disse a che cosa si riferiva — alla probabilità che Washkansky superasse l’operazione, che sopravvivesse per un giorno o magari per un anno, o a qualche altra cosa ancora. Si trattava, inoltre, del primo trapianto di cuore della storia; non c'erano casi paragonabili su cui Barnard potesse basare la sua stima. Forse, la sua risposta rassicurò la signora Washkansky; ma non le diede nessuna informazione. I RISCHI RELATIVI
Quanto è benefico un farmaco che abbassa il colesterolo,
rispetto al rischio di una malattia delle coronarie? Nel 1995 furono presentati in un comunicato stampairisultati di uno studio sulla prevenzione coronarica nella Scozia occidentale: “Le persone con un colesterolo elevato possono ridurre rapidamente [...] il rischio di morte del 22% prendendo una medicina prescritta da molti medici, il Pravastatin sodico. È questa la conclusione di uno studio epocale presentato oggi all’assemblea annuale dell'American Heart Association”. La stampa presentò i benefici di questa medicina anticolesterolo, come quelli della maggior parte delle cure mediche, sotto forma di riduzione del rischio relativo. Che significa “22%”? Secondo alcuni studi, c'è una maggioranza convinta che, date 1000 persone col colesterolo elevato, si potrà impedire che 220 di queste siano vittime di attacchi cardiaci; ma le cose non stanno esattamente così." La tabella 3.1 ci mostra il risultato effettivo dello studio: su 1000 persone che presero il Pravastatin per 5 anni ne morirono 32, mentre su 1000 che non prese-
ro il Pravastatin ma un placebo ne morirono 41. I tre modi riportati di presentare il risultato grezzo (una riduzione com-
44
L’ANALFABETISMO NUMERICO
Tabella 3.1 Riduzione della mortalità totale fra le persone che fanno uso di una medicina che riduce il colesterolo (Pravastatin). I soggetti studiati avevano livelli di colesterolo altamente rischiosi e sono stati in cura 5 anni. (Da Skolbekken, 1998.)
Medicina
Decessi (ogni 1000 persone con colesterolo elevato)
Pravastatin (abbassa il colesterolo)
52
Placebo
41
plessiva della mortalità da 41 a 32 ogni 1000 persone) sono tutti corretti, ma fanno pensare a benefici di entità diversa e possono indurre reazioni emotive differenti nel cittadino comune. Tre modi di presentare il beneficio Riduzione del rischio assoluto. È la proporzione dei pazienti che muoiono senza la cura (e con il placebo) meno quella dei pazienti che muoiono con la cura. Il Pravastatin abbassa il numero dei decessi da 41 su 1000 a 32 su 1000; quindi, la riduzione del rischio assoluto è di 9 su 1000, cioè lo 0,9%.
Riduzione del rischio relativo. È uguale alla riduzione del rischio assoluto divisa per la proporzione dei pazienti che muoiono senza la cura. Con questi dati essa è di 9 diviso 41, cioè del 22%; il Pravastatin riduce cioè del 22% il rischio di morte.
Numero di soggetti che è necessario curare, 0 NNC. È il numero di persone che devono partecipare al programma terapeutico per salvare una vita; lo si deriva facilmente dalla riduzione del
rischio assoluto. Qui il numero di persone che bisogna curare per salvare una vita è 111, perché la medicina impedisce 9 decessi su 1000 casi, cioè circa 1 su 111.
La riduzione del rischio relativo fa molto più colpo di quella del rischio assoluto, perché irischi relativi sono più grandi, nu45
OSATE CONOSCERE!
mericamente, di quelli assoluti e fanno quindi pensare a benefici maggiori di quelli effettivi. I rischi assoluti sono uno strumento mentale che ci fa capire meglio i benefici effettivi; un altro strumento mentale, in alternativa al rischio relativo, consi-
ste nel presentare questi benefici in termini di numero di soggetti che è necessario curare per salvare una vita. Con uno strumento di questo tipo vediamo subito che su 111 persone che hanno inghiottito quelle pillole per 5 anni una ne ha ricavato il beneficio e le altre 110 no; è un caso molto diverso da quello della penicillina e di altri antibiotici, che subito dopo essere stati introdotti ebbero effetti positivi veramente spettacolari. LE PROBABILITÀ CONDIZIONALI
La probabilità che un esame scopra realmente una malattia può essere data in varie forme (capitolo 1). La più frequente è quella della probabilità condizionale: Se una donna ha il cancro al seno, la probabilità che un mammogramma dia un risultato positivo è del 90%, ma molti — e fra questi anche numerosi medici — confondono questa asserzione con un’altra, cioè: Se
una donna ha avuto un mammogramma positivo, la probabilità che abbia il cancro al seno è del 90%. In altre parole, la probabilità condizionale che dato l’evento B si verifichi l'evento A viene confusa con la probabilità condizionale che dato l’evento A si verifichi l’evento B; e questa non è la sola confusione possibile, perché c’è anche chi scambia la probabilità di A_dato B con quella di A e B. Ma possiamo rendere meno frequenti simili equivoci rimpiazzando, come spiegherò nel prossimo capitolo, le probabilità condizionali con le frequenze naturali. IL DIRITTO A UN'INFORMAZIONE CHIARA
Nonostante la confusione potenziale creata da queste forme di comunicazione, normalmente per parlare di rischio si usano la probabilità dell'evento singolo, la riduzione del rischio relativo e la probabilità condizionale; la stampa e la pubblicità delle compagnie farmaceutiche, per esempio, descrivo-
46
L’ANALFABETISMO NUMERICO
no i benefici di una nuova cura soprattutto in termini di rischio relativo. Ora, tutti oggi riconoscono che l'opinione pubblica ha il diritto di essere informata, ma non tutti pensano che abbia anche quello di esserlo in forma chiara e non fuorviante. Io vorrei esortare, per quanto posso, le associazioni mediche,
giuridiche o di altro tipo a fare propria una scelta etica che imponga di parlare di rischi in forma chiara, utilizzando i rischi assoluti e le frequenze relative, e non modi di esprimersi che possono più facilmente confondere il pubblico. Qui introdurrò una serie di strumenti mentali che servono a presentare i rischi in modo che la gente comune sia in grado di capire. DAL PENSIERO ANNEBBIATO ALLA COMPRENSIONE
L'ignoranza dei rischi in gioco e la loro comunicazione scorretta sono due facce dell’analfabetismo numerico; ma c’è anche una terza faccia, il problema dell’inferenza scorretta a partire da una statistica. Abbiamo questo terzo tipo di analfabetismo numerico quando le inferenze non funzionano perché so-
no annebbiate da certi modi di rappresentare il rischio; dunque, questo pensiero annebbiato diventa possibile solo dopo che i rischi sono stati comunicati. Nel capitolo 1 l'esempio della mammografia ci ha presentato uno strumento che serve a raggiungere la chiarezza mentale, una tecnica per tradurre le probabilità condizionali - che non ostacolano solo la comunicazione del ma anche le inferenze corrette da/ rischio — in frequenze naturali. Perché anche persone coltissime hanno tanta difficoltà a fare inferenze basate sulle probabilità? Una possibile ragione è che la teoria della probabilità, che si occupa proprio di inferenze effettuate a partire da informazioni incerte o incomplete, si è formata in epoca relativamente recente. Ian Hacking, che ama i numeri precisi, fa risalire la sua nascita al 1654, quando due matematici, Blaise Pascal e Pierre de Fermat, si scambiarono alcune lettere, oggi famose, sulle scommesse. Qualcuno ha detto che questa comparsa così tardiva — succes47
OSATE CONOSCERE!
siva a quella di quasi tutti i concetti filosofici cruciali — della nozione di probabilità matematica è “lo scandalo della filosofia”.!” Prima di Pascal e Fermat anche grandi pensatori avevano avuto difficoltà a capire il rischio; l'esempio che ci illustra meglio questo fatto ce lo dà Girolamo Cardano, un medico e matematico italiano del Cinquecento che fu autore di uno dei primi trattati sulla probabilità: secondo Cardano — giocatore notorio — dati sei lanci qualsiasi, ogni singola faccia di un dado uscirà esattamente una volta. Certo, questa affermazione faceva a pugni con la sua esperienza di una vita al tavolo da gioco, e Cardano risolse l’incongruenza invocando l’intervento della fortuna (fra l’altro, credeva fermamente nella propria). Si era affidato all’intuizione, come quella bambina alla quale il pediatra doveva fare un’iniezione e che, spaventata perché il padre aveva firmato un modulo di consenso su cui stava scritto “Sono al corrente del fatto che un bambino su 10.000 ha una reazione allergica grave”, volle a tutti i costi parlare col dottore e gli chiese: “Mi dica a che numero è arrivato”. Nel resto di questo libro presenterò degli strumenti mentali che servono a superare l’analfabetismo numerico e sono facili da imparare, applicare e ricordare. Privilegerò tre tipi di strumenti: la legge di Franklin (che serve a superare l’illusione della certezza), alcuni accorgimenti per comunicare il rischio in modo intelligibile e l’uso delle frequenze naturali, che trasforma il pensiero annebbiato in comprensione. Superare l’analfabetismo numerico è come portare a termine un programma di alfabetizzazione statistica in tre passi: il primo sconfigge l’illusione della certezza, il secondo ci insegna quali siano i rischi effettivi degli eventi e delle azioni che ci interessano, nel terzo impariamo a parlare di rischi in modo comprensibile e a fare inferenze senza restare vittime di un pensiero annebbiato. Il punto fondamentale è che l’analfabetismo numerico non è semplicemente nella nostra mente, ma anche nelle rappresentazioni del rischio che scegliamo.
48
4 LA COMPRENSIONE
Risolvere un problema significa solo rappresentarlo in modo da rendere trasparente la soluzione. HERBERT A. SIMON, The Sciences of the Artificial
Una sera, dopo essere uscito dal ristorante in una deliziosa cittadina della Toscana, cercai la mia Renault giallo-verde nel parcheggio, ma non c’era. Vidi però una Renault azzurra — stesso modello, colore sbagliato — e mi sembra ancora di sentire le mie dita che esitavano a mettere la chiave nella serratura,
ma la portiera della macchina azzurra si aprì e su di essa tornai a casa. Il mattino dopo guardando fuori della finestra vidi che c'era una Renault giallo-verde sotto il sole forte. Che cos'era accaduto? Nella luce artificiale del parcheggio la costanza del colore mi aveva piantato in asso; ma ora, col ritorno del sole, funzionava di nuovo correttamente. La costanza del colore,
che è un bell’esempio di adattamento del sistema percettivo umano, ci permette di assegnare a un oggetto sempre lo stesso colore nelle più svariate condizioni di illuminazione naturale — nella luce azzurrina del giorno come in quella rossastra del tramonto. Ma con un'illuminazione artificiale come quella prodotta, per esempio, dai vapori di sodio o di mercurio può venir meno.
La percezione umana dei colori è adattata alle proprietà spettrali della luce solare naturale: d’altronde, è vero in generale che i nostri sistemi percettivi sono stati plasmati dall’ambiente nel quale vissero i nostri antenati, che spesso chiamia49
OSATE CONOSCERE!
mo “ambiente dell’adattamento evolutivo”,' la loro autoregolazione, per quanto non infallibile, può essere straordinariamente fine. Il sistema visivo umano è molto superiore a qualsiasi cinepresa nel registrare la costanza dei colori al variare dell’illuminazione; ma tutta la nostra morfologiae fisiologia, dal sistema nervoso a quello immunitario, rispecchia adattamenti assai ingegnosi. La struttura tubulare delle ossa, per esempio, ne massimizza la forza e la flessibilità e allo stesso tempo ne minimizza il peso (a parità di massa un osso è più forte di una sbarra d’acciaio massiccio), e le migliori valvole cardiache artificiali non si aprono e chiudono con la stessa efficienza di quelle naturali. Tuttavia, anche questi sistemi così efficienti possono andare a pezzi (nel caso delle ossa in senso letterale) quando certe proprietà molto stabili dell'ambiente cui sono adattati cambiano.” Possiamo farci una ragione dell’analfabetismo numerico per analogia con le disfunzioni della costanza dei colori. Come certi tipi d’illuminazione possono migliorarla e certi altri disturbarla, così esistono rappresentazioni numeriche che facilitano il pensiero statistico e altre che l’ostacolano. A mio parere, fondamentalmente il problema dell’analfabetismo numerico non è “dentro” la nostra mente, non è dovuto, come
sostengono alcuni, a un’architettura innata della mente che non si è evoluta in modo da fare fronte alle incertezze; la mia
ipotesi è che possa essere ricondotto a forme di rappresentazione esterna dell'incertezza che non corrispondono alla struttura della mente (più o meno come il collasso della costanza dei colori può essere ricondotto all’illuminazione artificiale). Questo discorso vale per due tipi distinti di analfabetismo numerico, la comunicazione scorretta del rischio e il pensiero annebbiato — due malattie che si curano restituendo la rappresentazione esterna dell'incertezza a una forma cui la mente umana abbia avuto modo di adattarsi.
50
LA COMPRENSIONE
COME PENSA UN MEDICO
Il dottor Konrad Standing? dirige un reparto di una clinica universitaria, ed è una figura di primo piano nella ricerca e nell’insegnamento, con un'esperienza professionale più che trentennale. Non molti anni fa gli chiesi se i medici del suo ospedale erano disposti a partecipare a uno studio sull’intuizione diagnostica condotto da me, insieme coi miei collaboratori, all’Istituto Max Planck, e lui, che sembrava piuttosto in-
teressato all’argomento, mi assicurò che avebbe incoraggiato i suoi colleghi a partecipare, e per dare un esempio si offrì volontario. Il primo problema diagnostico sul quale lavorò riguardava quella procedura di routine della quale ho brevemente parlato nel capitolo1, lo screening del cancro al seno: Per facilitare la diagnosi precoce del cancro al seno le donne, da una certa età in poi, vengono incoraggiate a sottoporsi a intervalli regolari a controlli sistematici, anche se non hanno alcun sintomo conclamato. Lei immagini di condurre, in una certa regione del paese, uno screening mammografico del cancro al seno, e supponga che riguardo alle donne fra 140 ei 50 anni di questa regione, asintomatiche, che si sottopongono a una mammografia regolare si sappiano le seguenti cose:
La probabilità che una di loro abbia il cancro al seno è dello 0,8%. Se una donna ha il cancro al seno, la probabilità che il
suo mammogramma risulti positivo è del 90%; se non ha il cancro al seno, c'è comunque una probabilità del 7% che il suo mammogramma sia positivo. Immaginiamo, dunque, una don-
na con un mammogramma positivo: quanto è probabile che abbia effettivamente il cancro?
I direttori di reparto non sono abituati a veder esaminare il proprio modo di ragionare, e mentre cercava di capire che cosa avrebbe dovuto dire a quella signora il dottor Standing era chiaramente assai teso. Rimuginò un poco sui dati e finalmente concluse che in caso di mammogramma positivo la probabilità che la donna avesse il cancro al seno era del 90%, ma poi 3A
OSATE CONOSCERE!
aggiunse, nervosamente: “Ma no, che fesseria. Non ci arrivo.
Dovrebbe provare con mia figlia, che è studentessa in medicina”. Capiva che la sua stima era sbagliata, ma non riusciva a costruire un ragionamento migliore; si era rotto la testa per 10 minuti in cerca di una risposta, ma non sapeva come ricavare
un’inferenza corretta da quelle probabilità. Se questo problema annebbia anche la vostra mente, come quella del dottor Standing, non disperatevi. Se vi sentite così, è perché siamo arrivati al punto cruciale della tesi che vorrei illustrare. Analfabetismo numerico? Sì, che nasce da un pensiero annebbiato. E la cura? La stessa che c’è per le crisi della costanza del colore. Quando, sotto le lampade al sodio, la co-
stanza del colore ci pianta in asso, la soluzione sta fuori della mente, non dentro: abbiamo bisogno di recuperare quel tipo di stimolo che il cervello ha incontrato durante quasi tutta la sua evoluzione e al quale, di conseguenza, il meccanismo della costanza del colore si è adattato, la luce del sole. In questa analogia le probabilità fanno la parte delle lampade al sodio — ma nel problema della mammografia che cos'è che corrisponde alla luce naturale? La risposta che propongo è “Le frequenze naturali”,cioè i puri e semplici conteggi degli eventi. Cerchiamo di trasformare l’analfabetismo numerico del dottor Standing in comprensione parlandogli di frequenze naturali anziché di probabilità: Ogni 1000 donne, 8 hanno il cancro al seno. Fra queste 8 donne col cancro 7 avranno un mammogramma positivo. Fra le 992 restanti, che il cancro non l'hanno, circa 70 avranno ugualmente un mammogramma positivo. Immaginiamo un campione casua-
le di donne che dopo un controllo presentano un mammogramma positivo: quante di loro hanno veramente il cancro al seno?
Le informazioni sono le stesse di conducono alla stessa conclusione, ma cile vedere qual è la risposta. Fra le 77 mammogramma positivo solo 7 hanno
prima (arrotondate) e adesso è molto più fa(70 + 7) donne con un il cancro al seno — vale
a dire 1 su 11, ovvero il 9%: molto ma molto meno della stima 92
LA COMPRENSIONE
del 90% fornita dal dottor Standing. Quando le stesse informazioni gli furono date in frequenze naturali, il suo analfabetismo numerico si trasformò in comprensione: con le frequenze “vedeva” la risposta, tanto che osservò, sollevato: “Ma è così facile!”, e aggiunse addirittura “È divertente!”. Non aveva più bisogno di ricorrere alla figlia. COME TRASFORMARE IN COMPRENSIONE L’ANALFABETISMO NUMERICO DEI MEDICI
Le frequenze naturali ci aiutano sempre a schiarire le idee ai medici, come accadde col dottor Standing? Io e Ulrich Hof-
frage ne abbiamo esaminati 48, con una media di 14 anni di carriera professionale, che venivano da due grandi città tedesche. Circa due terzi lavoravano in un ospedale — privato, pubblico o universitario —, i rimanenti esercitavano la professione privata; fra loro c'erano radiologi, ginecologi, internisti, dermatologi e altri specialisti, e come status professionale andavano dai giovani appena usciti dalla facoltà di medicina ai primari di reparto ospedaliero. Abbiamo domandato atutti di fare la stessa cosa che avevamo chiesto al dottor Standing, cioè valutare la probabilità che una donna fra i 40 e i 50 anni che in un controllo di routine aveva avuto un mammogramma positivo fosse malata di cancro; a metà di loro abbiamo dato le
informazioni pertinenti in probabilità, mentre l’altra metà le ha ricevute — ed erano le stesse — in frequenze naturali.” Con le probabilità il consenso è mancato in modo allarmante, come mostra il lato sinistro della figura 4.1: le stime andavano dall’1% al 90%. Un terzo del gruppo, quindi 8 su 24, giunse come il dottor Standing alla conclusione che la probabilità di un cancro al seno, dato un mammogramma positivo,
era del 90%; un altro terzo stimò che questa probabilità fosse fra 1150 el’80%; altri 8 ritenevano invece che fosse al massimo
del 10% e 4 di questi la ponevano all’ 1%, cioè uguale al tasso di base della malattia; la stima mediana era del 70%. Una paziente si sarebbe spaventata, giustamente, davanti a opinioni 53
OSATE CONOSCERE!
mediche così diverse. Solo 2 di questi dottori ragionarono correttamente, fornendo una stima di circa l'8%; e per la ve-
rità altri 2 arrivarono a valori poco diversi, ma per ragioni erronee — per esempio, uno confuse il tasso delle false positività con la probabilità che una paziente con un mammogramma positivo avesse il cancro al seno. Quando le informazioni erano presentate in termini probabilistici la maggioranza dei medici da noi studiati sopravvalutava grossolanamente, proprio come il dottor Standing, il rischio di cancro al seno con un mammogramma positivo; e ciò nonostante lunghe riflessioni sul problema. Ma era evidente che non prendevano il test alla leggera: essere esaminati — una situazione che incontravano raramente, o mai — li rendeva tesi ‘ e nervosi. 100 90
00000000
80
70 60 50
(%) Stime40 30 20
Stima
10
corretta
Probabilità condizionali
Frequenze naturali
Figura 4.1 Stizze della probabilità di cancro al seno con uno screening mammografico positivo. Su 48 medici metà ricevette le informazioni pertinenti in probabilità condizionali, mentre all'altra metà furono date in frequenze naturali. Ogni punto rappresenta un dottore; le ordinate mostrano le rispettive stime della probabilità di un cancro al seno dopo un esame positivo. Con le probabilità i soggetti si contraddicevano spesso; con le frequenze naturali le contraddizioni scomparivano, a parte cinque casi “disperati”, e le stime si addensavano intorno a quella giusta. (Da Gigerenzer, 1996a, e HoffrageGigerenzer, 1998.)
54
LA COMPRENSIONE
E come se la cavarono con le frequenze naturali? La metà destra della figura 4.1 ci fa vedere che in larga misura quell’inquietante equivocità delle risposte scompare; la maggioranza diede la risposta corretta o ‘ci andò vicina, e solo cinque dei medici ai quali le informazioni erano state fornite come frequenze naturali conclusero che la probabilità di cancro al seno, dato un mammogramma positivo, era superiore al 50%. Il semplice fatto di usare le frequenze naturali aveva trasformato in comprensione l’analfabetismo numerico di molti di loro, anche se non di tutti. Il pensiero annebbiato è una particolarità dei medici tedeschi studiati da noi? Non sembra proprio. David Eddy, che è
stato consulente dell’amministrazione Clinton per la riforma del sistema sanitario, ha chiesto a vari medici americani di va-
lutare la probabilità che una donna con un mammogramma positivo abbia il cancro al seno. Sostanzialmente aveva fornito le stesse informazioni che avevamo fornito noi, solo che era-
no serzpre formulate in termini probabilistici e non come frequenze naturali. Ebbene, 95 medici su 100 stimarono che la probabilità di cancro al seno fosse di circa il 75%, cioè dieci volte maggiore di una valutazione realistica. To sono grato a quei dottori che hanno partecipato volontariamente al nostro studio: ci hanno permesso di dimostrare (ed era la prima volta) che una rappresentazione in termini di frequenze può aiutare dei medici esperti a fare valutazioni diagnostiche migliori. Ma che cosa implica questa scoperta? Non che i medici (o i pazienti) siano da criticare per la loro incapacità di ragionare in termini probabilistici; casomai, che
nei manuali di medicina e nelle interazioni fra dottore e paziente i rischi vanno presentati in un modo che riesca naturale alla mente umana. Le frequenze naturali sono un modo semplice, non dispendioso ed efficace di migliorare l'intuizione diagnostica.
DD
OSATE CONOSCERE!
LA COMPRENSIONE VISTA DALL'ESTERNO
Perché il fatto di presentare le informazioni in termini di frequenze naturali anziché di probabilità favorisce la comprensione? Le ragioni sono due: la semplicità computazionale (è la rappresentazione stessa a fare una parte del calcolo) e il primato sul piano dell’evoluzione e dello sviluppo (la nostra mente è adattata alle frequenze naturali). LA RAPPRESENTAZIONE FA UNA PARTE DEL CALCOLO
La figura 4.2 illustra la differenza fra frequenze naturali e probabilità. A sinistra abbiamo delle frequenze naturali disposte ad albero; l’albero rappresenta il modo in cui una persona incontrerebbe delle informazioni statistiche attraverso la propria esperienza diretta. A destra le stesse informazioni vengono fornite come probabilità (ed è così che sono presentate agli studenti nella maggior parte dei libri di testo di medicina). I numeri sono ancora quelli incontrati nel problema del
cancro al seno che il dottor Standing aveva trovato così difficile; i fumetti coi “pensierini” mostrano i calcoli necessari nei due casi per rispondere alla nostra domanda. Entrambe le equazioni sono varianti della regola di Bayes, che ha preso il nome dal pastore protestante (dissenziente) britannico al quale è attribuita, il reverendo Thomas Bayes
(1702 (?)-1761).° Si vede subito che calcolare la probabilità di una malattia dato un esame positivo è più facile quando l’informazione è fornita in termini di frequenze naturali: p (malattialpositivo) =
a a+
La regola di Bayes con le frequenze naturali
Nella figura 4.2 a è il numero dei soggetti con un esame positivo e la malattia (7) e 6 quello dei soggetti con un esame positivo ma senza la malattia (70). Con le probabilità, invece, il
calcolo è più impegnativo: 56
LA COMPRENSIONE
p(malattia)p(positivolmalattia) alatti itivolmalatti
o
p(malattia)p(positivolmalattia) + p(non malattia)p(positivolnon malattia) La regola di Bayes con le probabilità condizionali
Questa regola equivale a quella, più semplice, riportata sopra: entrambe ci dicono qual è la proporzione degli esiti positivi corretti (al numeratore) sulla totalità degli esiti positivi (al denominatore). La sola differenza è che nella seconda versione ogni frequenza naturale è stata sostituita dal prodotto di due probabilità. Quali? Ce lo spiega la tabella 4.1. Un esame ha in generale quattro esiti possibili: quando una persona ha una malattia, il test può essere positivo (positività Frequenze naturali e
Probabilità
1000 donne "O
8 malate
p(malattia)
992 sane
"4 E
p(poslmalattia)
va e
Il p(poslnon
7
1
70
922
ilmalattia)
positive
negativa
positive
negative
|
===
p(malattialpositivo)
p(malattialpositivo)
di
0,008 x 0,90
iu
— 0,008 x 0,90 + 0,992 x 0,7 È
O
© ©\00° NE
O00(0 © ZA
Figura 4.2 Le frequenze naturali facilitano i computi bayesiani. La persona dal viso felice ha avuto le informazioni pertinenti in frequenze naturali e può stimare la probabilità della malattia dato un test positivo (o un sintomo) con facilità; infatti, deve considerare due soli numeri, quello delle pazienti
con un test positivo e la malattia (4 = 7) e quello delle pazienti con un test positivo, ma senza la malattia (6 = 70). La persona dal viso infelice ha avuto le stesse informazioni in linguaggio probabilistico, e per lei fare questa stima è difficile. La struttura della sua equazione è identica a quella usata dalla persona felice, 4/(4 + 2), ma le frequenze naturali 4 e 5 sono state trasformate in probabilità condizionali rendendo la formula molto più complessa.
DI
OSATE CONOSCERE!
Tabella 4.1 Risultati degli esami. Un esame può dare quattro esiti possibili: (2) positivo, essendoci la malattia (o qualche altra condizione ignota), (5) positivo senza malattia, (c) negativo essendoci la malattia, (4) negativo senza malattia. Le percentuali dei casi in cui si verificano questi quattro esiti sono dette, rispettivamente, (4) sensibilità (o proporzione delle positività vere),
(5) proporzione delle positività false, (c) proporzione delle negatività false e (d) specificità (proporzione delle negatività vere). Le due aree ombreggiate indicano i due tipi di errore possibili. La frequenza delle positività vere e di quelle false sono, rispettivamente, la 4 e la della regola di Bayes. Malattia Risultato dell’esame
Positivo
Sì
(a)
(6,
sensibilità
n.
| tasso difalse positività.
@d
Negativo
vera) o negativo (negatività falsa). La probabilità p(positivolmalattia) è la sensibilità dell'esame; la sensibilità della
mammografia è la proporzione delle donne con un risultato positivo fra quelle col cancro al seno (di solito varia fra 80% e il 95%, con valori più bassi fra quelle più giovani). La somma delle proporzioni di questi due esiti (sensibilità e tasso di false negatività) è uguale a 1. Quando una persona non ha la malattia, l'esito può essere positivo (falsa positività) o negativo (negatività vera). Anche qui la somma delle rispettive proporzioni — tasso di false positività e specificità — è uguale a 1. La probabilità p(positivolnon malattia) è il tasso di false positività di un esame; il tasso di false positività della mammografia è la percentuale delle donne con un esito positivo fra quelle che non hanno il cancro al seno; varia fra il 5 e il 10% e ha valori più elevati fra le più giovani.
Fra i quattro esiti possibili, due (quelli ombreggiati nella tabella 4.1) sono errati. Le proporzioni di questi due errori sono interdipendenti: se il tasso di false positività di un esame dimi-
nuisce, quello di false negatività aumenta, e viceversa. Le
quattro probabilità della tabella 4.1 sono dette condizionali 58
LA COMPRENSIONE
perché esprimono la probabilità di un certo evento (per esempio, un esito positivo) nell'ipotesi che se ne verifichi un certo altro (per esempio, la malattia) — dato cioè questo altro evento. La probabilità non condizionale p(malattia) è il tasso di base della malattia stessa; in altre parole, il tasso di base è la pro-
porzione delle persone con una determinata malattia su una certa popolazione e in un momento specifico — ed è ben noto che le probabilità condizionali ci fanno confondere, il tasso di base no. Ma adesso capiamo finalmente la ragione esatta per cui le cose stanno così. Quando trasformiamo le frequenze naturali in probabilità condizionali, togliamo di mezzo il tasso di base (è la cosiddetta rorzzalizzazione), cosa che ha il vantaggio di far cadere tutti i valori risultanti in uno stesso intervallo, quello fra 0 e 1, ma anche lo svantaggio che quando facciamo inferenze a partire dalle probabilità anziché dalle frequenze naturali dobbiamo ri-moltiplicare queste probabilità condizionali peri rispettivi tassi di base." Ricapitolando, le frequenze naturali facilitano le inferenze effettuate sulla base di informazioni numeriche. È la rappresentazione a eseguire una parte del ragionamento fornendoci direttamente il risultato di certe moltiplicazioni che dovremmo fare noi, se ci venissero fornite delle probabilità. È in questo senso che la comprensione può venire alla mente dall’esterno.* LA MENTE È ADATTATA ALLE FREQUENZE NATURALI
Le frequenze naturali derivano dal processo che ha messo gli umani e gli animali di fronte all'informazione sul rischio per la maggior parte della loro evoluzione, mentre le probabilità, le percentuali e altri modi formalizzati di rappresentarsi il rischio sono relativamente recenti. Gli animali possono regi* Gioco di parole intraducibile. Insight significa “comprensione” ma anche, letteralmente, “visione interna” (iv = “dentro”, sight = “visione”).
[NdT]
DI)
OSATE CONOSCERE!
strare le frequenze di eventi importanti con buona precisione; i topi, per esempio, sono capaci di “contare” più o meno fino
a 16, tanto che riescono a premere una leva un certo numero fisso di volte per ottenere una dose di cibo." Anche noi siamo abbastanza precisi quando si tratta di registrare frequenze (anche se non così precisi come credeva David Hume, il quale sosteneva che un uomo distingue intuitivamente, cioè senza registrare il numero delle occorrenze su un supporto esterno, un evento che accada 10.000 volte da uno che ne accada 10.001). La mente umana registra le frequenze degli eventi con poca fatica, quasi inconsapevolmente e senza interferenze di altri processi,” così come fa con le posizioni spaziali e temporali degli oggetti. È stato osservato che già pochi giorni dopo la nascita i lattanti sanno distinguere i gruppi di un solo 0ggetto, di due e di tre (gli oggetti in questione possono essere puntolini neri o giocattoli), e lo studio di come contano i bambini indica che le loro intuizioni sui numeri sono naturalmente imperniate sui casi discreti e non sulle frazioni (come le probabilità condizionali). Se, per esempio, mostriamo a dei soggetti di 3 o 4 anni cinque forchette una delle quali è spezzata in due e chiediamo loro quante forchette vedono, la maggior parte risponderà sei." Anche i matematici, come i bambini, da principio hanno
ragionato in termini di frequenze e solo più avanti sono passati a frazioni, percentuali e probabilità. (Per Pitagora e i suoi seguaci erano numeri solo gli interi positivi, non le frazioni o le quantità negative. Dice una leggenda che il matematico Ippaso di Metaponto fu gettato in mare da una nave per avere dimostrato
che esistono numeri irrazionali, mandando
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frantumi l’idea pitagorica che il mondo fosse retto dagli interi.) Storicamente, le probabilità e le percentuali sono modi piuttosto recenti di rappresentarsi le incertezze: la teoria matematica della probabilità è nata intorno alla metà del Seicento e la notazione percentuale è diventata pratica comune solo nell’Ottocento, dopo che a Parigi, con la Rivoluzione francese, era stato introdotto il sistema metrico (ma era usata soprattutto per esprimere coefficienti fiscali e tassi d’interesse, non 60
LA COMPRENSIONE
per parlare di incertezze). L’uso delle probabilità e delle percentuali per esprimere l’incertezza nel linguaggio comune (per esempio, in meteorologia o nelle statistiche sul baseball) si è consolidato solo nella seconda metà del Novecento, e nel
corso di quasi tutta la sua evoluzione la mente umana non ha imparato quello che ha imparato sul rischio in termini di probabilità e percentuali.
LA RAPPRESENTAZIONE È IMPORTANTE
Una buona rappresentazione numerica è decisiva per l’efficienza del pensiero, e questo non vale solo per la comprensione del rischio. Le lingue naturali conservano le tracce di diversi tentativi di trovare una rappresentazione adeguata dei numeri; l'inglese, per esempio, non usa sistematicamente un sistema a base 10, ma per i primi 12 numeri ha dei nomi che sono vestigia di un sistema a base 12 più antico; questo sistema duodecimale veniva usato anche per le unità monetarie e di lunghezza (per esempio, c'erano dodici penny in uno scellino e ci sono dodici pollici in un piede). Nei paesi di lingua inglese i bambini devono anche imparare, per i numeri da 13 a 20, dei nomi completamente a sé (per esempio zbirteer, fourteen) che sono un residuo di un sistema a base 20 più antico; e i bambini francesi devono sbrigarsela con altri residui di questo sistema a base 20, per esempio quatre-vingt-dix (quattro-venti-dieci), che vuol dire novanta. Anche nei paesi di lingua tedesca i ragazzini devono imparare un miscuglio di termini eterogenei per esprimere i numeri da 1 a 20, come i coetanei di lingua inglese, ma in più hanno anche un’altra difficoltà: nel tedesco parlato i numeri a due cifre si dicono in un ordine inverso rispetto a quello scritto, per esempio vierundzwanzig, “quattro e venti”, significa 24. Il cinese, invece, usa sistematicamente la
base 10, tanto che i nomi dei numeri a due cifre sono generati da una regola molto semplice: 11 si dice “dieci uno”, 12 “dieci due”, e così via; 20 si dice “due dieci”, 21 “due dieci uno”, e
così via. 61
OSATE CONOSCERE!
Le diverse rappresentazioni linguistiche dei numeri possono rallentarne o accelerarne l'apprendimento, a seconda della lingua. Un gruppo di psicologi guidato da Kevin Miller ha chiesto a bambini americani e cinesi della stessa età di dire più numeri che potevano a partire da 1: a quattro anni i bambini americani arrivavano in media a 15, mentre quelli cinesi riuscivano a contare fino a 40, e probabilmente una delle ragioni della riuscita meno buona dei primi è che la rappresentazione dei numeri a due cifre è meno trasparente in inglese che in cinese. Spesso, il ruolo decisivo della rappresentazione nel pensiero viene minimizzato a causa di un’idea di razionalità per cui, quando due enunciati sono matematicamente o logicamente identici, rappresentarli in una forma piuttosto che in un’altra non dovrebbe avere importanza — e quei dati empirici che dicono che ne ha sono considerati un segno dell’irrazionalità umana. Così, però, si ignora il fatto che trovare una buona
rappresentazione di un problema è essenziale per risolverlo e che il giocare con rappresentazioni alternative è uno strumento del pensiero creativo. Il fisico Richard Feynman ha osservato che rappresentazioni distinte della stessa legge fisica, benché matematicamente equivalenti, possono suscitare in noi
immagini mentali diverse — e innescare di conseguenza nuove scoperte." Le rappresentazioni esterne non sono solo degli input iner-
ti forniti a una mente che poi ci lavorerà sopra: possono svolgere una parte del ragionamento o del calcolo, rendendo più accessibili certe parti di un’informazione che rimane sempre la stessa. Nella rappresentazione numerica in cifre arabe, per esempio, vediamo subito se un numero è una potenza di 10 ma non se è una potenza di 2, mentre per i numeri binari vale la conversa. Inoltre, i numerali arabici sono più adatti di quelli romani alla moltiplicazione e alla divisione, e questa differenza ci aluta a capire come mai la civiltà araba classica fosse molto più avanti in matematica di quella romana e del primo Medioevo europeo. Immaginiamo di voler moltiplicare fra loro i numeri XIX e XXXIV: col sistema arabico basta moltiplicare le 62
LA COMPRENSIONE
singole cifre del primo fattore (19) per le singole cifre del secondo (34) e scrivere i risultati in modo che cifre consecutive rappresentino le unità, le decine, le centinaia e così via; ma coi numerali romani, che pure formano un sistema a base 10, questo è impossibile, perché le singole cifre non corrispondono a potenze di 10. E la conseguenza è che il sistema numerico romano non facilita la moltiplicazione e la divisione. In questo capitolo ho descritto uno strumento che può aiutarci a snebbiare la mente: passare dalla rappresentazione del rischio mediante probabilità a quella mediante frequenze naturali. Le probabilità — più esattamente, le probabilità condizionali — rallentano, tendenzialmente, le nostre inferenze;
mentre le frequenze naturali richiedono meno calcoli e hanno una forma uguale a quella che ha avuto, per quasi tutto il corso dell’evoluzione, l’esperienza umana. Le frequenze naturali non aiutano solo gli inesperti ma anche gli esperti, come ci mostra il caso del dottor Standing, e il recupero di questa rappresentazione “originaria” può trasformare l’analfabetismo numerico in comprensione.
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PARTE SECONDA
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
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D LO SCREENING DEL CANCRO AL SENO
Spero moltissimo che le donne non vengano tormentate per farlo a tutti i costi [lo screening del cancro al seno]. Devono essere loro a decidere, e si deve fornire una versione veritiera dei fatti sia all’opinione pubblica sia alle singole pazienti. E non sarà quella che vogliono sentire. M. MAUREEN ROBERTS
direttrice clinica del Progetto di Edimburgo per lo screening del cancro al seno
Poco prima di morire lei stessa per un tumore alla mammella, Maureen Roberts, direttrice clinica di un’iniziativa che
portava il nome di Progetto di Edimburgo per lo screening del cancro al seno, scriveva, a proposito della mammografia: “Non possiamo più ignorare la possibilità che, per deludente che sia la cosa, lo screening non riduca la mortalità delle donne in nessun gruppo di età”, e proseguiva con un’osservazione
su quello che chiamava “lavaggio del cervello” dei medici e dell’opinione pubblica: “C’è anche un’atmosfera di evangelizzazione [nei programmi nazionali di screening], e pochi mettono in discussione le cose che si fanno”.' La dottoressa Roberts parlava dello screening mammografico, non della mammografia in sé e per sé; lo screening mammografico è un controllo di massa eseguito soprattutto su donne sane, e in una situazione del genere il pensiero statistico diventa, come vedremo, della massima importanza. La mammografia si usa anche in altri casi, per esempio su pazienti con sintomi già noti — co-
me la presenza di una massa tumorale, scoperta durante un 67
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
esame clinico — di cancro al seno, ma i benefici e i rischi dello
screening di massa non possono essere estesi direttamente a queste altre situazioni. In Germania lo screening di massa del cancro al seno è stato introdotto negli anni Trenta del Novecento, non tanto perché i raggi X fossero una scoperta tedesca quanto perchéi tedeschi, pungolati dai sindacati e da quei partiti politici che rappresentavano gli interessi della classe operaia, erano stati fra i primi a rendersi conto che le sigarette, l’amianto, il catra-
me e il radio implicavano un rischio di cancro.’ I medici venivano esortati a non sottovalutare l’importanza di una diagnosi precoce, e quelli che non eseguivano controlli mammografici erano accusati di complicità nella morte di migliaia e migliaia di donne all’anno. La radio e i giornali esortavano ogni donna a sottoporsi a un controllo annuale o biennale dopo i 30 anni; ne furono mammografate centinaia di migliaia, e si arrivò a dire che l’autoesame mensile del seno era un dovere morale per ognuna. Ma la seconda guerra mondiale mise la sordina alle speranze dei medici tedeschi di combattere il cancro, e in America una campagna paragonabile cominciò solo trent’anni dopo. Sono passati più di dieci anni da quando la dottoressa Roberts espresse la sua opinione professionale sullo screening, ma nell'America settentrionale le donne si sentono ancora dare consigli contraddittori.’ I dissensi riguardano tutte e tre le forme di controllo, mammografia, esame clinico del seno e autoesame; per quanto riguarda la mammografia, il disaccordo più importante è quello sull’età alla quale comincerebbe a dare un beneficio. La American Cancer Society e il National Cancer Institute consigliano rispettivamente una mammogra-
fia e un esame clinico del seno annuali o biennali dopo i 40 anni; la us Preventive Service Task Force e la Canadian Task
Force on the Period Health Exam raccomandano una mammografia annuale o biennale a partire dai 50. Quanto all’autoesame e all’esame clinico del seno il dissenso è più radicale: non tutti li consigliano. Secondo la Us Preventive Service Task Force si potrebbe anche fare una mammografia senza esame 68
LO SCREENING DEL CANCRO AL SENO
clinico perché non ci sarebbe nessuna prova che il secondo accresca i benefici della prima, mentre le altre tre organizzazioni lo raccomandano. Infine, l'American Cancer Society consiglia anche un autoesame mensile a tutte le donne dai 20 anni in su, mentre nessuno degli altri gruppi è favorevole all’autoesame, a nessuna età.
Quali fra questi consigli così diversi dovrebbe seguire una donna, ammesso che debba seguirne qualcuno? Per rispondere a questa domanda bisogna conoscere beneicosti e i benefici di uno screening, ma anche così la decisione può variare da persona a persona, perché benefici e rischi uguali hanno valori differenti per donne diverse. La conoscenza dello screening è meno ampia di quanto si potrebbe pensare. In alcune rilevazioni è venuto fuori, per esempio, che più di un terzo di un campione di donne afroamericane della Florida meridionale e un terzo di un campione di donne ispaniche dello Stato di Washington dichiarava di non avere mai sentito parlare della mammografia. E c’è anche chi non capisce affatto la natura dello screening: da un’altra rilevazione è emerso che 4 australiani su 5 (uomini e donne) non sapevano che è destinato a soggetti asintomatici.*' Elenco qui di seguito cinque degli equivoci più diffusi a questo proposito.
Chiariamo cinque fraintendimenti molto comuni Gli esami di screening sono destinati a persone con sintomi con-
clamati? No, lo screening è per soggetti asintomatici. Il suo fine è la diagnosi precoce.
Lo screening riduce l'incidenza del cancro al seno? No. La diagnosi precoce non è prevenzione.
La diagnosi precoce implica una riduzione della mortalità? Non in tutte le forme di cancro. Può accadere che porti a una riduzione della mortalità, ma non è detto che accada; se, per
esempio, non esiste una terapia efficace non ha alcun effetto in 69
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
questo senso. E in questi casi una diagnosi precoce non allunga la speranza di vita ma solo il tempo in cui una paziente deve convivere col cancro sapendo di averlo. I cancri al seno continuano tuttia progredire? No. La mammo-
grafia individua anche una forma di cancro al seno che si chiama “carcinoma duttale in situ”, e anzi i tumori scoperti dallo screening su donne relativamente giovani sono in maggioran-
za proprio carcinomi duttali in situ. Il loro decorso clinico non è ancora ben compreso, ma almeno la metà di queste lesioni non sembra affatto progredire. La diagnosi precoce è sempre un beneficio? No. Quando, per esempio, un cancro non progredisce, o progredisce così lentamente che nell’arco di vita di una donna non ha alcun effetto,
una diagnosi precoce non aiuta questa donna, che anzi ne avrà un danno e nessun beneficio, perché molto probabilmente si sottoporrà a un intervento invasivo, per esempio a una ma-
stectomia totale oppure a una nodulectomia con irradiazione, e la qualità della sua vita peggiorerà di molto.
A parte questi fraintendimenti di base, quali sono i costi e i benefici, reali e percepiti, di uno screening mammografico? I BENEFICI
Lo screening mammografico ha lo scopo di ridurre la mortalità da cancro al seno grazie a una diagnosi precoce. Non può prevenire il cancro. Ma come si faa stabilire se e quando serve veramente allo scopo? I dati migliori sono quelli che ci vengono dai confronti casualizzati: si prende un gran numero di donne ele si assegna, del tutto a caso, a un gruppo di screening o a un gruppo di controllo. Quelle del gruppo di screening vengono esaminate aintervalli regolari; in caso di mammogramma positivo sono richiamate, si fa un nuovo mammo-
gramma o una biopsia, e se c’è una diagnosi di cancro sono 70
LO SCREENING DEL CANCRO AL SENO
sottoposte a mastectomia (rimozione di tutto il seno) o nodulectomia (rimozione del solo tessuto malato) e a radiazioni. Le donne del gruppo di controllo non fanno lo screening. Dopo un periodo prestabilito, per esempio 10 anni, i due gruppi vengono messi a confronto per stabilire quante vite lo screening ha salvato; l’assegnazione delle donne all’unooall’altro è stata casuale, per cui se si osserva una qualsiasi differenza nella mortalità la si può attribuire allo screening e non a un dislivello iniziale fra i due gruppi riguardo a fattori come l'età, il livello sociale o la salute. Sono stati fatti dieci confronti casualizzati di massa che hanno coinvolto in tutto mezzo milione di soggetti in Canada, Scozia, Svezia e Stati Uniti per stabilire se sottoporsi a uno screening mammografico diminuisca la probabilità che una donna muoia di cancro al seno. Quali sono stati i risultati? COME INFORMARE DEI BENEFICI?
I dati appariranno diversi, e potrebbero addirittura essere fraintesi, a seconda di come sono presentati. Consideriamo,
per cominciare, il beneficio complessivo dello screening mammografico per tutti i gruppi di età (dai 40 in su) evidenziato da quattro confronti casualizzati svedesi.° La tabella 5.1 ci mostra i risultati.
Quattro modi di presentare il rischio Riduzione relativa del rischio. Un primo modo di presentare il rischio è quello di dire che lo screening mammografico riduce il rischio di morire di cancro al seno del 25%, ovvero che è del
25% la riduzione del rischio relativo. I servizi sanitari amano molto descrivere un beneficio in termini di rischio relativo, ma questo equivale ad aprire la porta alla comunicazione scorretta. Che cosa significa una riduzione del rischio relativo del 25%? Molti credono, sbagliando, che voglia dire che su 100 donne che partecipano allo screening 25 saranno salvate; ma per capire il significato dei rischi relativi proviamo a tradurli 71
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
Tabella 5.1 Riduzione della mortalità per cancro al seno delle donne dai 40 anni in su in un periodo di 10 anni. Il risultato numerico grezzo (arrotondato) proviene da quattro confronti casualizzati condotti su circa 280.000 donne in Svezia. (I dati sono presi da Nystròm et al., 1996, citato in Muhlhauser e Holdke, 1999.)
Trattamento
Decessi (ogni 1000 donne)
Senza screening mammografico
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Con screening mammografico
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in denaro mentale sonante, cioè in casi concreti. Consideria-
mo 1000 donne che non avevano partecipato allo screening e 1000 che l’avevano fatto (tabella 5.1): nel giro di 10 anni erano morte di cancro al seno 4 donne del primo gruppo e 3 del secondo,’ e questo calo da 4 a 3 è una riduzione del rischio relativo del 25%. Riduzione del rischio assoluto. La riduzione del rischio assoluto è di 4 meno 3, cioè 1 su 1000, corrispondente allo 0,1%.
In altre parole, se 1000 donne partecipano allo screening per 10 anni, una di loro, probabilmente, verrà salvata dalla morte
per cancro al seno. Numero su cui è necessario intervenire.
Esiste un terzo modo
di comunicare i benefici dello screening: indicare il numero di persone su cui è necessario intervenire per salvare una vita. Più
tale numero è piccolo, più l'intervento è efficace. In questo caso è uguale a 1000, dal momento che tante sono le donne che devono partecipare al programma perché una vita sia salvata. Aumento della speranza di vita. Possiamo infine esprimere il beneficio anche come aurento della speranza di vita. Quella delle donne che partecipano allo screening dai 50 ai 69 anni cresce in media di 12 giorni.*
Questi quattro modi di presentare i dati grezzi sono tutti corretti, ma fanno pensare a benefici più e meno grandie suscipe.
LO SCREENING DEL CANCRO AL SENO
tano nelle donne una disposizione più e meno forte a partecipare a uno screening, nonché reazioni emotive diverse. Quan-
do la riduzione del rischio è presentata in termini relativi è facile che nascano equivoci. Numericamente il rischio relativo è sempre maggiore di quello assoluto (da un lato, per esempio, può esserci una riduzione del rischio relativo del 25 % e dall’altro una riduzione del rischio assoluto di una vita su 1000), per cui quelle organizzazioni che vogliono impressionare gli utenti con i benefici di un certo intervento in genere presentano questi benefici (contando sull’analfabetismo numerico del pubblico) in termini di riduzione del rischio relativo. Ma il rischio relativo non dice nulla sul beneficio assoluto di un intervento: per esempio, una riduzione del 25% vuol dire che quell’intervento salva molte vite se la malattia è frequente, ma pochissime se è rara. Possiamo invece arrivare a una comunicazione tra-
sparente del rischio usandoirischi assoluti, il numero di persone su cui è necessario intervenire e l'aumento della speranza di vita — ma è raro che le organizzazioni sanitarie usino questi pa-
rametri; preferiscono rivolgersi al pubblico in termini di riduzione del rischio relativo. Nel capitolo 12 vedremo che in molti casi esistono ragioni istituzionali per presentare i benefici in questi termini — per esempio, spesso chi chiede dei fondi per una ricerca medica si vede costretto, dato l’analfabetismo nu-
merico delle autorità sanitarie che valuteranno la sua proposta, a parlare di riduzione del rischio relativo. Fa più colpo. Si può raggiungere la trasparenza anche riferendosi, nell’esprimere i benefici di un certo intervento, a una situazione più familiare — dicendo, per esempio, che partecipare a uno scree‘ning mammografico annuale che assicuri una riduzione del rischio relativo del 25% ha sulla speranza di vita un effetto pressappoco uguale a quello di fare ogni anno 500 chilometri di meno in macchina.” LO SCREENING È UN VANTAGGIO PER LE QUARANTENNI?
Nessuno dei dieci confronti casualizzati lascia supporre che lo screening mammografico delle donne fra i 40 e i 49 anni 73
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
abbia ridotto la loro mortalità per cancro al seno nei primi nove anni dopo l’inizio; addirittura, in nove confronti su dieci
non è stata osservata nessuna diminuzione della mortalità per un periodo variabile fra i 10 e i 14 anni, e in un solo caso (a Géteborg in Svezia) questa diminuzione c’è stata (ma non è chiaro perché a Goteborg è stata trovata una riduzione e negli altri confronti no). La ricerca non era indirizzata specificamente alle quarantenni, e l’unico confronto pensato appositamente per questo gruppo di età (e che riguardava un numero di donne doppio di quello di Gòteborg), il Canadian National Breast Cancer Study, non ha constatato alcuna riduzione della mortalità dopo dieci anni e mezzo. Quando poi si sono messi insieme i risultati di tutti e dieci i confronti, si è visto che non
c’era riduzione della mortalità da cancro al seno per un periodo compreso fra i 10 e i 14 anni;'° dunque, per il momento non è dimostrato che lo screening mammografico abbassi la mortalità per questa causa fra le quarantenni. Ma perché mai sotto i 50 anni lo screening non ridurrebbe la mortalità da cancro al seno? Ci sono alcune possibilità, ma nessuna risposta certa. Per esempio, si è supposto che la densità della mammella sia superiore, in genere, nelle donne più giovani; questo darebbe allo screening meno probabilità di scoprire un tumore in uno stadio in cui è ancora curabile. Un'altra ipotesi è che nelle giovani ci sia una maggiore proporzione di cancri al seno molto aggressivi, che crescono più rapidamente e non vengono scoperti nell'intervallo fra due esami consecutivi. Inoltre, sotto i 50 anni il cancro al seno è
meno frequente, il che significa che in questo gruppo di età le donne che possono ricavare un beneficio dallo screening sono fin da principio meno numerose." LO SCREENING È UN VANTAGGIO PER LE DONNE DAI 50 ANNI IN SU?
Otto confronti casualizzati su dieci hanno studiato anche donne che avevano cominciato a fare lo screening a 50 anni o più. Tre di questi studi hanno scoperto una riduzione signifi-
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LO SCREENING DEL CANCRO AL SENO
cativa della mortalità da cancro al seno, quattro hanno scoperto riduzioni troppo piccole per essere distinguibili dallo zero e uno non ne ha trovata nessuna. Le riduzioni dei tassi di mortalità sono state quantificate dopo che erano passati dai 7 ai 9 anni dal primo esame, ma avevano già cominciato a mani-
festarsi dopo 4 anni appena; quando mettiamo insiemei risultati di tutti i confronti, troviamo una riduzione del rischio re-
lativo di circa il 27%. Ma quante vite sono state salvate? Quanto è grande, cioè, la riduzione del rischio assoluto?
Prendiamo le donne che hanno iniziato lo screening a 50 anni e nei venti successivi si sono fatte regolarmente un mammogramma biennale: ogni 270 si salva la vita a una, dunque la riduzione del rischio assoluto è di 1 su 270, cioè quasi 4 su 1000. In questo gruppo di età il beneficio è maggiore che nella media di tutti i gruppi (tabella 5.1); sembra, insomma, che sopra i 50 anni lo screening mammografico riduca la mortalità da cancro al seno." VALE LA PENA DI FARE L'ESAME CLINICO DEL SENO E L’AUTOESAME?
Il buonsenso fa supporre che usare tutti e tre i metodi di screening del cancro al seno sia meglio che usarne uno solo, ma in realtà pare proprio che le cose non stiano così. Fra le donne dai 50 in su l’esame clinico del seno non riduce ulteriormente la mortalità rispetto alla sola mammografia; d’altra parte, è pure vero che questa non aggiunge molto al beneficio di un esame clinico eseguito da un bravo specialista.’ Possiamo ricordare, analogamente, che da una serie di studi su donne fra 135 e i 65 anni risulta che un autoesame regolare non ha alcun effetto sulla mortalità da cancro al seno, anche se au-
menta il numero dei tumori che vengono scoperti. Ciononostante, l’esame clinico e l’autoesame possono avere un costo elevato, perché quando una donna consulta un oncologo dopo avere scoperto un cambiamento sospetto può accaderle di vivere mesi o addirittura anni molto duri fisicamente e psicologicamente senza ricavarne, come si vedrà più avanti, alcun 75
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
beneficio. È facile, soprattutto, che generi ansie e sospetti ininterrotti l’autoesame, che si consiglia di eseguire non ogni anno ma ogni mese, e molte donne si fanno fare un mammogramma per sentirsi più tranquille." RICAPITOLAZIONE DEI BENEFICI
Riguardo ai benefici non sembra esserci quella situazione così negativa di cui parlava Maureen Roberts; i dati mostrano che lo screening mammografico riduce la mortalità da cancro al seno fra le donne dai 50 anni in su. Di conseguenza, in questo gruppo di età la mammografia potrebbe anche rendere meno probabile il ricorso a una terapia invasiva e migliorare la qualità della vita. Per le quarantenni, invece, la situazione non è chiara; i dati oggi disponibili non indicano un beneficio nei primi 10 anni dall’inizio dello screening — e nemmeno mostrano che l’esame clinico del seno o l’autoesame diano un qualsiasi beneficio aggiuntivo. Tutti questi risultati hanno portato le organizzazioni sanitarie a capovolgere le loro vecchie posizioni sulla prevenzione del cancro al seno; per esempio, mentre 10 anni fa si raccomandava ancora alle donne fra i 35 e i 39 anni di farsi un mammogramma di base, oggi nessuna organizzazione responsabile consiglia più né il mammogramma né in generale uno screening delle trentenni. Per finire, uno screening annuale del cancro al seno riduce il rischio più di uno biennale? No. Stando ai confronti casualizzati, non fa differenza che le donne siano mammografate tutti gli anni o uno sì e uno no! — verosimilmente perché per molte forme tumorali il tempo che deve passare prima che la mammografia possa rilevare un cancro è di circa tre anni e
mezzo, e rispetto a questa durata una frequenza biennale è sufficiente. In una recente dichiarazione congiunta alcuni Istituti Nazionali della Sanità hanno esplicitamente affidato la decisione alle pazienti: “I dati disponibili non autorizzano a raccomandare l'estensione della mammografia a tutte le quarantenni. Ogni donna dovrebbe decidere personalmente se sottoporvi76
LO SCREENING DEL CANCRO AL SENO
si”!° (questa presa di posizione ha sconvolto quelle persone — e sono molte — che sperano in una mano ferma che le guidi). A quanto sembra, nel passato solo poche donne decidevano spontaneamente di sottoporsi a uno screening, e quasi tutte
seguivano il consiglio del loro medico curante. Quando quest’ultimo consigliava il mammogramma, circa il 90% delle pazienti lo ascoltava; quando non lo consigliava, solo il 10% se
lo faceva fare.” Ma come fa una donna a decidere di testa sua riguardo allo screening? Per prendere una decisione che sia indipendente e saggia deve conoscere anche i costi potenziali della mammografia, oltre ai benefici.
I COSTI
I costi dello screening mammografico non sono ben documentati come i benefici; comprendono danni fisici, danni psicologici e sacrifici finanziari. I gruppi di donne che pagano questi costi sono tre." LEPALSEPOSTRIVE
Il primo gruppo è formato da donne che zor hanno il cancro al seno, ma hanno un mammogramma positivo; dunque, da false positive. Le donne di questo gruppo vengono richiamate per ulteriori indagini, dopo di che vengono quasi tutte sottoposte a un’altra mammografia o agli ultrasuoni o a una biopsia, e alcune sfortunate (poche) subiscono anche una mastectomia o una nodulectomia. Per molte donne la mammografia è fonte di sofferenza e angoscia; per alcune lo screening è un trauma psicologico, provoca un lungo periodo di ansia o depressione, e indebolisce la concentrazione. Anche le biopsie possono avere costi psicologici, oltre a quelli fisici come le infezioni alle ferite, gli ematomi, le cicatrici e la perdita di tessuto mammario; e anche se alcune donne, sulle prime, provano gratitudine quando scoprono che il loro risultato era una 7]
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
falsa positività, a volte la scossa emotiva di un mammogramma
positivo, più tutto quello che si trascina dietro, persiste anche dopo una biopsia negativa. Tre mesi dopo un mammogramma falsamente positivo una donna su 2 riferiva di avere molta paura sia dei mammogrammi sia del cancro, e una su 4 aggiungeva che questo stato di paura si estendeva a tutto l’umore quotidiano eatutte le sue attività.” Quanto è numeroso questo gruppo di donne? Quanto sono frequenti imammogrammi falsamente positivi? Primo mammogramma.
In una ricerca su 26.000 donne che si
erano sottoposte allo screening mammografico per la prima volta, nei 13 mesi successivi venne trovato il cancro al seno so-
lo a una su 10 di quelle che erano risultate positive? In altre parole, 9 mammogrammi positivi su 10 si rivelarono fasulli. La figura 4.2 a p. 56 illustra proprio questo risultato: ogni 1000 donne che si fanno il primo mammogramma fra i 40 anni e i 50 si possono prevedere 70 false positive e solo 7 positive vere. E fra le più giovani la proporzione di false positività è ancora superiore.” Mammogrammi ripetuti. E le donne che ripetono regolarmente il mammogramma, tutti gli anni o un anno sì e uno no? Ci si può aspettare che dopo dieci esami, annuali o biennali, una donna su due fra quelle serza cancro al seno abbia almeno una falsa positività. E quante sono, ogni anno, quelle che pagano un prezzo fisico e psicologico per queste false positività? In Germania si fanno dai 3 ai 4 milioni di screening mammografici all’anno (le assicurazioni sanitarie tedesche non coprono i costi dell'esame preventivo, ma molto spesso i medici diagnosticano sintomi inesistenti e così l’assicurazione finisce per pagare), le false positività sono circa 300.000 e si stima che ogni anno circa 100.000 donne senza cancro al seno siano sot-
toposte a una qualche forma di chirurgia invasiva a causa di questo numero di errori così elevato. E se le donne americane sopra i 40 anni, che sono più di 50 milioni, seguissero tutte il consiglio della American Cancer Society e si facessero uno 78
LO SCREENING DEL CANCRO AL SENO
screening annuale, anno dopo anno sarebbero milioni ad avere un falso risultato positivo, e molte di loro si farebbero anche una biopsia al seno. Si stima che più di 300.000 donne americane che non hanno il cancro si sottopongano ogni anno a una biopsia.” Esiste un modo di arginare questo diluvio di false positività? I medici olandesi hanno cercato di imporre criteri più restrittivi per dichiarare positivo un mammogramma, e questa strategia ha ridotto le false positività — ma a costo di aumentare le false negatività. In altre parole, diventano più numerosi i tumori che sfuggono allo screening. Quello che è facile ridurre è l’effetto emotivo di una falsa
positività, il suo costo psicologico: i medici potrebbero spiegare alle donne che le false positività sono molto frequenti; per esempio, dicendo loro che una donna sana su due può aspettarsene una, o anche più d’una, in una serie di 10 mammogrammi. Una donna che lo sa, sarà meno sconvolta da un mammogramma positivo di una che non lo sa. Ma ho conosciuto poche donne alle quali il medico curante aveva detto che le false positività sono molto comuni. Questi errori fanno pagare alle donne un prezzo fisico e psichico considerevole; e a pagarlo è circa la metà di quelle che partecipano a uno screening regolare. I TUMORI DEL SENO STATICI
Eleanor aveva 49 anni quando uno screening le scoprì un cancro alla mammella in fase iniziale; il chirurgo le tolse parte del seno, venne irradiata e alla fine ebbe la buona notizia: le
cellule cancerose erano state distrutte. Così Eleanor, piena di gioia, disse a tutti gli amici che la mammografia e la chirurgia l'avevano salvata, e ora poteva vivere tranquilla; ma forse si
sbagliava. Forse avebbe avuto una vita altrettanto tranquilla, e ancora più felice, anche senza una terapia così drastica. Forse Eleanor apparteneva al secondo gruppo di donne che pagano un prezzo per lo screening mammografico, donne 79
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
con un tipo di tumore del seno che non si sarebbe mai fatto sentire, per tutta la vita. Le ragioni di questo fenomeno sono due. La prima è che esiste un gruppo molto eterogeneo di lesioni, i cosiddetti carcinomi duttali in situ, in cui il tumore re-
sta confinato nei dotti lattiferi e non si estende al tessuto circostante. L’esame del seno non lo può scoprire, ma la mammografia sì. I carcinomi duttali in situ sono più della metà dei tumori scoperti dalla mammografia nelle trentenni e il 40% di quelli scoperti nelle quarantenni; più avanti nell’età, l’incidenza diminuisce.” Il decorso clinico di questi carcinomi non è ben conosciuto, ma si pensa che nell’arco di 20 o 30 anni una frazione che può andare dal 10 al 50% si trasformi e diventi invasiva; gli altri sembra che non si estendano affatto, e se non fos-
se per il mammogramma non verrebbero mai notati, in tutta la vita. Ora, se un cancro non è invasivo né la sua presenza né
un’eventuale cura modificheranno il tempo di vita di una persona, solo che i medici non sono in grado di prevedere quali diventeranno invasivi e quali no. Oggi si fa una mastectomia, totale o parziale, a quasi tutte le donne a cui viene scoperto un carcinoma duttale in situ, ma metà di loro, o anche di più, se
fossero state lasciate in pace non avrebbero mai avuto alcun sintomo.
La seconda ragione per la quale un cancro al seno potrebbe essere di un tipo che mai si sarebbe fatto sentire in tutta la vita è che alcuni tumori, soprattutto quando vengono diagnosticati in tarda età, avanzano così lentamente che le donne che ne
sono affette moriranno per conto loro prima che il cancro possa ucciderle; normalmente, queste donne subiscono tera-
pie dolorose, traumatizzanti, superflue che nemmeno le fanno vivere più a lungo, proprio come quelle che hanno un carcinoma duttale in situ non fatale. La maggior parte delle donne non sa che alcuni tumori sono statici. Un esame condotto su un campione casuale ha rivelato che poche delle intervistate avevano sentito parlare del carcinoma duttale in situ e circa il 94% aveva dubbi sull’esistenza di cancri del seno statici.” Le donne con un cancro al seno statico, o che avanza molto
80
LO SCREENING DEL CANCRO AL SENO
lentamente, pagano per la mammografia un prezzo ancora più alto di quelle che si ritrovano con una falsa positività. Le cure cui di solito si sottopongono dopo un mammogramma positivo non le fanno vivere più a lungo, ma allungano il tempo in cui devono convivere con una diagnosi di cancro e subire pesanti terapie. Una diagnosi precoce può addirittura peggiorare la qualità della loro vita. CANCRO AL SENO PRODOTTO DALLE RADIAZIONI
Ma c’è anche un terzo gruppo di donne che pagano un prezzo per lo screening: quelle alle quali il cancro al seno non sarebbe mai venuto se non fossero state irradiate durante la mammografia. Il potenziale cancerogeno della radiazioni è conosciuto fin dal primo decennio del Novecento, quando sulle mani di alcuni tecnici dei raggi X si scoprirono dei tumori della pelle; e i medici tedeschi si accorsero che i raggi X potevano dare il cancro al seno già nel 1919, quando la radiografia diventò la tecnica corrente per la diagnosi della tubercolosi e di altre malattie polmonari. Alla domanda “Quanto è grande il rischio?” si può rispondere solo indirettamente, per esempio basandosi sulla diffusione del cancro al seno fra le donne con la tubercolosi, che fanno molte radiografie del torace, o di vari
tipo di cancro fra i sopravvissuti agli attacchi nucleari di Hiroshima e Nagasaki. Oggi tutti ammettono che la mammografia può produrre il cancro al seno, ma fra gli studiosi non c’è accordo sulla frequenza con cui la cosa accade.” L’effetto delle radiazioni è direttamente proporzionale al dosaggio: se la radiazione è dimezzata anche le donne alle quali i raggi X fanno venire il cancro al seno diventano la metà; se è raddoppiata diventano il doppio, e così via. Non sembra, invece, che faccia differenza se la radiazione totale
viene ricevuta nel corso di più esposizioni o in una volta sola; il rischio è massimo fra i 15 e i 20 anni dopo l'esposizione (i dati che abbiamo non fanno pensare che il cancro al seno si formi nei primi 10 anni dopo l’esposizione, o fra le donne sotto i 25 anni). Il rischio di cancro alla mammella indotto dalle 81
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
radiazioni è minimo fra le donne che hanno il menarca tardi, partoriscono il primo figlio presto, allattano al seno per molto tempo e vanno presto in menopausa; sembra cioè che quegli stessi fattori ormonali che proteggono da un cancro al seno non indotto dalle radiazioni abbassino anche il rischio di un tumore provocato dai raggi X. La frequenza di questo tipo di cancro al seno dipende fortemente dall’età a cui una donna è stata esposta alle radiazioni (figura 5.1): quando, per esempio, una trentenne si fa fare un mammogramma, rischia il doppio di una quarantenne. Il pericolo è massimo durante la pubertà, dopo di che decresce rapidamente, ma a quell’età in genere la fonte delle radiazioni non 30
da indotto radiazioni milione) (su 1 donne delle da Numero al uccise un cancro seno
An
0
ll (0)
10
il 20
He 30
40
50
= 60
70
Età dell’esposizione alle radiazioni
Figura 5.1 Decessi per cancro al seno indotto da radiazioni. Il numero delle donne uccise da un cancro al seno indotto da radiazioni dipende fortemente dall’età a cui sono state esposte ai raggi X. (Da Jung, 1998.)
82
LO SCREENING DEL CANCRO AL SENO
è un mammogramma ma una radiografia al torace o in altre parti del corpo. Soprai 60 anni il rischio di un cancro al seno indotto dalle radiazioni appare trascurabile, probabilmente perché di solito un tumore con questo tipo di causa ci mette 20 annia svilupparsi. Oggi si stima che su 10.000 donne che si sottopongono a screening mammografico a partire dai 40 anni, fra 2 e 4 contrarranno un cancro al seno indotto dalle radiazioni e una ne morirà; ma è importante tenere presente che queste sono valutazioni grossolane, basate esclusivamente su dati indiretti,
che possono variare considerevolmente a seconda del tipo di pellicola usato, della qualità delle radiazioni e di altri fattori tecnici. Negli anni Settanta del Novecento, per esempio, una mammografia richiedeva una dose di raggi X circa 10 volte superiore a quella usata oggi. La mammografia ealtre fonti di radiazione possono dare il cancro al seno a un piccolo numero di donne. Nel valutare la probabilità che questo tipo di tumore si sviluppi, il fattore più importante è l’età al momento dell’irradiazione: più una donna è anziana, più il rischio è basso. LE FALSE NEGATIVE
Oltre a questi tre gruppi di donne che pagano lo screening mammografico a un prezzo molto elevato c’è anche un quarto gruppo che è danneggiato — non sul piano fisico, ma perché va incontro a una falsa rassicurazione: le donne co/ cancro il cui esame dà un esito negativo. Il tasso di falsa negatività oscilla fra il 5 eil 20% edè più alto fra le giovani; in altre parole, su 100 donne con cancro al seno fra 80 e 95 avranno un responso positivo (corretto), ma le altre saranno rassicurate, inganne-
volmente, da un esito negativo. Una falsa rassicurazione può far sì che non si fruisca di una cura possibile, ma questo non può essere considerato un prezzo dello screening, dal momento che senza screening le conseguenze sarebbero state le stesse. Un radiologo può cercare di diminuire il numero delle false 83
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
negatività, ma per questo pagherà un prezzo: se vuole minimizzare la possibilità che un tumore passi inosservato, dovrà considerare sospetti (positivi) più casi ambigui, e in questo
modo aumenterà la proporzione delle false positività. C'è una compensazione fra false positività e false negatività, e normalmente quei radiologi che sono molto attenti ai possibili tumori (cioè hanno poche false negatività) hanno un tasso di false positività elevato. i I COSTI FINANZIARI
Lo screening mammografico ha il massimo di efficienza, sul piano dei costi, con le donne fra i 50 e i 69 anni; in questo gruppo uno screening biennale prolungato per vent'anni costa 21.000 dollari per vita salvata.”! Ma ogni 100 dollari che si spendono per l’esame altri 33 se ne vanno per seguire le false positività;” e perché lo screening del cancro al seno sia di beneficio alle donne che non sono ricche, o coperte da un’assicurazione sanitaria generosa, bisognerà migliorare la qualità della mammografia o scoprire tecniche con un rapporto costo-efficienza migliore. RICAPITOLAZIONE
Lo screening mammografico può avere sia costi sia benefici per le donne. I costi principali sono di tre tipi. Primo: su due donne senza cancro al seno, in una serie di 10 mammogrammi una avrà almeno una falsa positività, e questa diagnosi avvierà un processo che le può infliggere danni fisici (rimozione del tessuto mammario) e psicologici (angoscia). Secondo: fra le donne con un cancro al seno statico, o molto lento, la maggioranza non si accorgerebbe mai, in tutta la vita, dell’esistenza di
queste cellule anormali se non fosse per il mammogramma. In casi del genere, in cui un tumore non sarebe mai diventato invasivo, la mastectomia parziale o totale, la chemioterapia e il
trattamento con le radiazioni, insieme alle conseguenze fisiche e psicologiche che si portano dietro, costituiscono un secondo 84
LO SCREENING DEL CANCRO AL SENO
prezzo che le donne devono pagare. Infine, su 10.000 donne che non hanno il cancro al seno da 2 a 4 (grosso modo) lo contrarranno a causa delle radiazioni della mammografia, e una ne morirà.
Dal punto di vista della paziente, i principali pericoli dello screening mammografico sono questi. Non mi sono occupato
di quelli che sono i costi dal punto di vista del medico, ma i medici devono badare a difendersi da quelle pazienti, e da quegli avvocati, che possono far loro causa perché non si sono accorti di un cancro, e questa realtà li rende molto più attenti alle diagnosi mancate (false negatività) che alle false positività, dal momento che gli avvocati sparano a zero sulle prime, non sulle seconde. Così, per rendere meno probabili queste false negatività, essi tendono a sottoporre le pazienti a intere batterie di esami, anche a costo di aumentare le false positività. Prima dei 50 anni la mammografia non sembra avere benefici ma solo costi; a quell’età, tuttavia, le donne devono comin-
ciare a chiedersi se i benefici potenziali superino gli svantaggi — ma ognuna dovrà trovare una risposta da sé. Il medico curante può aiutarla a capire quali sono gli unie gli altri, ma non ad assegnare loro un peso, e la sua decisione dipenderà in modo cruciale da quelli che sono i suoi scopi: vuole la pace dello spirito? Vuole che il suo corpo non sia deturpato? È disposta a scommettere sulla possibilità di essere una delle pochearicavare un beneficio dallo screening, oppure no? Per fare una scelta saggia le donne devono essere informate dei rischi. Ma lo sono? QUALI BENEFICI VENGONO ATTRIBUITI ALLO SCREENING?
Ricordiamo che lo screening mammografico non fa scendere l’incidenza del cancro al seno ma solo la mortalità da cancro al seno; inoltre, non è mai stato dimostrato che fra le donne che vi partecipano prima dei 50 anni ci sia una riduzione della mortalità, mentre dai 50 in poi questa riduzione è di circa 4 donne su 1000. 85
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
L'INCIDENZA
Una forte percentuale di donne è convinta che lo screening faccia scendere la mortalità da cancro al seno, ma queste persone scambiano la diagnosi precoce per prevenzione. La confusione potrebbe essere alimentata da quei volantini delle organizzazioni sanitarie che mettono in risalto l'incidenza del cancro al seno; ne parleremo più avanti, sempre in questo capitolo. Un’organizzazione interessata a far partecipare allo screening più persone che può vive un inevitabile conflitto di
interessi quando cerca di dare alle donne qualche informazione sulla malattia per la quale offre il servizio. Facciamo un esempio: durante uno screening di prova nella regione svizze. ra di Morgex, vicino al lago di Ginevra, le donne furono informate del programma esi chiese loro di partecipare,” ma fra queste donne “informate” la proporzione di quelle convinte, erroneamente, che lo screening avrebbe reso minore la loro probabilità di contrarre il cancro al seno era superiore a quella del resto del paese. Un collega svizzero mi diede questa spiegazione: “Se non riusciamo afar partecipare il 70-80% delle donne, lo studio darà risultati discutibili”. E così succede che le organizzazioni sanitarie sono tentate di dare molto rilievo a quelle informazioni che incoraggiano le donne a partecipare, e non di correggere le idee sbagliate che esse potrebbero avere. LA MORTALITÀ
A Chicago, la maggioranza (55%) delle oltre 600 pazienti di un ambulatorio urbano dichiarò che la mammografia doveva cominciare a 30-35 anni. È poco probabile che questa idea (sbagliata) venisse dai loro medici curanti; erano stati intervistati, e nessuno aveva detto che lo screening doveva partire prima dei 40. D'altronde il 40% di un campione casuale di donne americane pensava che l’età giusta per cominciare stesse fra i 18 e i 39 anni, e oltre 80% era convinto che la mam-
mografia avesse un beneficio certo per i soggetti fra i 40 e i 49; queste donne credevano anche che l’autoesame del seno
86
LO SCREENING DEL CANCRO AL SENO
desse più benefici di un decennio di mammogrammi annui.” Sono dati che attestano un grado stupefacente di disinformazione fra le donne americane — e con questo non voglio dire che quelle di qualche altro paese siano meglio informate. È solo che le americane sono state studiate di più. Quanto è grande il beneficio attribuito allo screening? Uno studio ha intervistato 145 americane fra i 40 e i 50 anni” con un'istruzione e un livello socioeconomico superiori alla media: la maggioranza aveva una laurea o un titolo di studio post lauream e un reddito familiare superiore ai 50.000 dollari, nessuna aveva il cancro al seno e ciononostante, in piena sintonia con la convinzione, errata ma molto diffusa, che lo
screening desse un beneficio dimostrato anche prima dei 50 anni, più del 90% aveva già fatto almeno un mammogramma. Le domande rivolte a queste donne erano: Immagini 1000 donne esattamente come Lei. Quante di queste, secondo Lei, zz0orrebbero di cancro al seno rei prossinzi 10 anni, se non si sottoponessero a mammografia o a esame clini-
co del seno?
Immagini 1000 donne esattamente come Lei. Quante di queste, secondo Lei, rzorirebbero di cancro al seno nes prossimi 10
anni, se si sottoponessero a mammografia o a esame clinico del seno ogni anno, o ogni due anni?
Quante vite sarebbero state salvate da dieci anni di scree-
ning secondo queste donne? La stima media — cioè la differenza media fra le risposte alle due domande — era di 60 vite su 1000; e qui ricordo che lo screening or ha un effetto dimostrato sulle quarantenni, e se si prendono tutte le classi di età salva una vita su 1000, non 60 — un beneficio illusorio, tanto è
piccolo. Ora, la maggioranza di queste donne colte aveva fatto almeno un mammogramma; ma non c’è ragione di supporre che il loro consenso, quando l'avevano dato, fosse un consen-
so informato. 87
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
QUALI COSTI VENGONO ATTRIBUITI ALLO SCREENING?
Il 92% di un campione casuale di donne americane credeva che lo screening non potesse danneggiare chi non ha il cancro al seno; fra le rimanenti, il 3% riteneva che l'esposizione alle radiazioni fosse potenzialmente pericolosa, 11% parlava di ansia e stress e la percentuale di quelle che sollevavano il problema delle false positività era ancora più bassa. Nemmeno una ricordò le conseguenze evitabili ma traumatiche di un mammogramma che scopra un cancro al seno statico. L'ILLUSIONE DEL MAMMOGRAMMA
E I SUOI PERCHÉ
Da questi studi emerge un fatto preciso: molte donne attribuiscono alla mammografia un potere quasi magico e nessuna, praticamente, ci vede un qualsiasi danno. Da dove viene questa illusione del mammogramma? Noi ricaviamo le nostre informazioni mediche da tre fonti principali: i media (televisione, radio, giornali, riviste, Internet), i dottori e gli opuscoli delle organizzazioni sanitarie;‘° qui mi concentrerò sulla terza
fonte. Quanto valgono le informazioni sullo screening mammografico che le organizzazioni sanitarie danno alle donne? Nel 1997 Emma Slaytor e Jeanette Ward, del Central Sydney Area Health Service, hanno analizzato gli opuscoli sulla mammografia diffusi da tutte le organizzazioni oncologiche, i dipartimenti sanitari e i programmi di screening mammografico australiani. Il contenuto di questi opuscoli rispecchia o no quello che hanno (e che non hanno) in mente le donne? Il dato riportato più spesso negli opuscoli era l’incidenza del cancro al seno (tabella 5.2): la probabilità di ammalarsi nel corso della vita era riportata nel 60% dei casi (ma variava da 1/11 a 1/16). Solo il 2% indicava invece la probabilità (più bassa) che ha una donna di morire di cancro al seno. Ora, sapere qual è l'incidenza di questo tipo di cancro è utile, ma non ci dice nulla sui costi e i benefici dello screening mammografico. Lo screening non riduce l’incidenza ma solo la mortalità, eil rilie88
LO SCREENING DEL CANCRO AL SENO
Tabella 5.2 L'informazione sullo screening mammografico in 58 opuscoli distribuiti da organizzazioni sanitarie australiane. Per esempio, si parlava del rischio di ammalarsi di cancro al seno nel corso di tutta la vita nel 60% di questi opuscoli. (Adattato da Slaytor e Ward, 1998.)
Tipo di informazione
Casi in cui viene fornita
Rischio di cancro al seno nel corso della vita
60%
Rischio di morire di cancro al seno
2%
Sopravvivenza al cancro al seno
5%
Riduzione del rischio relativo di morte
per cancro al seno
22%
Riduzione del rischio assoluto di morte per cancro al seno
mai
Numero di donne da controllare per evitare un decesso per cancro al seno
mai
Proporzione delle donne ulteriormente esaminate dopo uno screening
14%
Tasso di false negatività, o sensibilità
26%
Tasso di false positività, o specificità
mai
Proporzione delle donne con mammogramma positivo che hanno il cancro al seno (valore predittivo positivo)
mai
vo dato da questi stampati alla prima potrebbe essere una delle ragioni per cui molte donne credono che lo screening l’abbassi. Ma che dicevano questi opuscoli sulla riduzione della mortalità? Solo il 22% la ricordava — e parlandone sempre, invariabilmente, in termini di riduzione del rischio relativo, il che (come ho chiarito in questo capitolo) normalmente inganna il
pubblico generico, portandolo a sopravvalutare i benefici dello screening. In altre parole, nessun opuscolo presentava questo beneficio in termini di riduzione del rischio assoluto o di numero di donne che bisognava curare per salvarne una o in altre maniere facili da comprendere. 89
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
Gli opuscoli tacevano, senza eccezione, sui possibili costi
dello screening; per esempio, nessuno parlava del tasso di false positività dell'esame nonostante circa metà delle donne che si sottopongono a screening ripetuti abbia uno o più di questi falsi allarmi. In un quarto dei casi si ricordava, invece, che l’e-
same può produrre delle false negatività — per esempio, si diceva che “i mammogrammi individuano il 90% dei cancri al seno” e “non sono accurati al 100%”. E per finire: quanti opuscoli informavano le donne che solo poche fra quelle con un esito positivo dello screening — fra le quarantenni una su dieci — hanno veramente il cancro al seno? Nemmeno uno. La cosa più impressionante erano proprio le informazioni che non davano. Questa politica dell’informazione non sembra essere una specialità australiana; certe omissioni — per esempio, dei possibili costi dello screening e del significato di un esito positivo — ricalcano pari pari i “punti ciechi” scoperti dagli studi sul pubblico generico in America. Il fatto di presentare la riduzione della mortalità in termini di rischio relativo va di pari passo con la sopravvalutazione dei possibili benefici dello screening da parte delle donne; la mancanza di informazioni sulle false positività si accoppia con le loro ansie, esagerate senza neces-
sità, davanti a un risultato positivo (una donna alla quale nessuno ha mai detto che su 10 pazienti con un esame positivo circa 9 zon hanno il cancro si spaventerà molto più del giusto quando il risultato positivo l’avrà lei). Finché i benefici e i costi percepiti dal grande pubblico saranno distorti in modo così grossolano, il consenso informato resterà irraggiungibile, quando si tratta di screening mammografico. Quando gli chiesero come mai succedevano queste cose, uno psicologo che aveva intervistato centinaia di donne tedesche, scoprendo che in materia di cancro al seno e screening erano ignoranti, rispose che molte di esse proprio z07 volevano avere conoscenze, 0 almeno conoscenze dettagliate, sulla
malattia o lo screening, e che questa ignoranza poteva quasi essere considerata un meccanismo di difesa collettivo.* È un'ipotesi che può essere valida come non esserlo, ma un’ana90
LO SCREENING DEL CANCRO AL SENO
lisi degli opuscoli informativi che qui ho descritto brevemente mostra che il problema non sta solo nella testa delle donne. Fra gli informatori sanitari c'è gente che ha tutta l’aria di preferire che i potenziali soggetti da screening mammografico non sappiano troppo.
DALL’ANALFABETISMO NUMERICO ALLA PAURA
Tanto per cominciare, è impossibile fare un bilancio dei costi e benefici potenziali, se uno crede che di costi non ce ne siano; ma una scelta informata sullo screening del cancro al seno è intralciata, in più, anche dall’ansia che circonda questa ma-
lattia, un’ansia alimentata dall’esagerazione sistematica della sua incidenza totale, della sua frequenza rispetto ad altre malattie gravi e della sua diffusione fra le donne giovani. Ovviamente, avere paura di contrarre una malattia grave è del tutto razionale: ma qui sto parlando di un’ansia eccessiva, non necessaria, dovuta alle informazioni fuorvianti fornite dai media
e da certi opuscoli. “UNA DONNA SU 10”
Nell’ottobre del 1999 il settimanale tedesco Sterr pubblicò un articolo di 13 pagine sul cancro al seno; nei sottotitoli si diceva che la malattia colpisce una donna su 10, e il messaggio era ripetuto nel testo. Non venivano fornite altre informazioni statistiche, e il resto dell’articolo giocava sulle emozioni delle lettrici con casi personali di speranza e disperazione e le immancabili foto sensazionali (un drappello di donne in topless con pantaloncini da boxe blu, guantoni da boxe rossi e un seno solo). Le parole “una donna su 10” (ma qualche volta “una donna su 9”) sono diventate una sorta di mantra sulla stampa a grande diffusione e nei programmi di screening del cancro al seno, terrorizzando moltissime persone. Ma che cosa significano davvero? Quello che Sterz non diceva è che questa proporzione di 1 91
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
Tabella 5.3 I/ rischio di cancro al seno e di malattie cardiovascolari ogni 1000 donne e il significato della proporzione di “una donna su 10”.I dati sono basati sui tassi di incidenza e di mortalità riportati dal Registro del Cancro dell’Ontario. (Da Phillips et al., 1999.)
Età
Vive all’inizio dell’intervallo
Incidenza delcancro al seno
Decessi Decessi percancro percause al seno cardiovascolari
Decessi per altre cause 7
0-9
1000
0
0
10-19
993
0
0
0
2
20-29
991
0
0
0
3
30-34
988
1
0
0
2
35-39
986
0
0
3
40-44
983
D
1
1
4
45-49
977
8
2
1
6
50-54
968
11
2
11
55-59
SS
de
3
15
60-64
929
42
5
9
25,
65-69
892
14
+
16
36
70-74
836
13
5
28
51
75-79
NOZ
11
6
52
70
80-34
624
9
6
89
9
> 85
434
5
Ù
224
203
su 10 si riferiva alla probabilità cumulativa che a una donna venga il cancro al seno entro gli 85 anni; solo che la maggioranza delle donne muore prima, e quelle che contraggono il cancro a un’età così avanzata molto probabilmente moriranno per qualche altra causa. La tabella 5.3 ci fa capire come si possa arrivare a questo valore di 1 su 10 in un gruppo di 1000 donne: 4 si ammalano di cancro al seno fra i 30 e i 39 anni, 13
92
LO SCREENING DEL CANCRO AL SENO
fra i 40 ei 49, e il numero complessivo dei casi entro gli 85 anni è 99, corrispondente a un rapporto di 1 su 10. Fra queste donne, ne muore di cancro al seno un terzo; e se usiamo le fre-
quenze naturali, vediamo subito che la maggioranza delle donne che contraggono questa malattia non ne muore e che in tutto, entro gli 85 anni, ne vengono uccise circa 3 su 100. Ma
vediamo anche che le vittime di disturbi cardiovascolari sono circa sei volte più numerose. Naturalmente, con una popolazione diversa le cifre della tabella 5.3 dovranno essere modificate, ma qui m'interessa solo fare chiarezza su questo tanto abusato valore di 1 su 10, e lo strumento per arrivarci è lo stesso della figura 4.2 di p. 57: partire da una popolazione di casi concreti e dividerla in sottogruppi. Le frequenze che ne vengono fuori sono facili da capire.
Tuttavia, non succede quasi mai che questa proporzione di 1 su 10 venga spiegata in termini di frequenze alla maniera della tabella 5.3. Come interpretano simili statistiche le donne? Torniamo a quel gruppo di americane colte, fra i 40 e i 49 anni, sane, alle quali era stato chiesto di immaginare 1000
donne esattamente come loro e di stimare quante sarebbero morte di cancro al seno nel giro di 10 anni: avevano dato una stima media di 100, cioè proprio di “una donna su 10”,% sopravvalutando — stando agli autori dello studio — di oltre 20 volte il rischio reale indicato dalla tabella 5.3. Su 977 donne di 45 anni (l’età media del campione studiato) 5, e non 100, erano destinate a morire di cancro al seno nei 10 anni successivi; ma se supponiamo che le donne intervistate avessero sentito
parlare (almeno in maggioranza) di questa proporzione di una su 10, verosimilmente pensavano che si riferisse appunto ai 10 anni immediatamente successivi e non al rischio cumulativo lungo un’intera vita di 85 anni — per non parlare della differenza fra incidenza e mortalità. Ognuno di questi errori alimenta livelli di paura immotivati, e un timore esagerato del cancro al seno può essere utile agli interessi di certi gruppi, non a quelli delle donne.
93
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
IL CANCRO AL SENO È LA MALATTIA CHE FA MORIRE PIÙ DONNE?
Perché il cancro al seno fa più paura di altre malattie molto pericolose? Per le donne nordamericane (vedi tabella 5.3) la principale causa di morte non è il cancro bensì le malattie cardiovascolari, che intaccano il cuore e i vasi sanguigni; ma uno studio condotto dall’ American Heart Association ha rivelato che pochissime donne (1’8%) lo sapevano. In un altro studio, condotto dal National Council on Aging, è venuto fuori, analogamente, che solo il 9% delle donne ha dichiarato che le malattie di cui avevano più paura erano quelle cardiache, mentre il 61% temeva soprattutto il cancro e in particolare quello al seno. Eppure, fra i tumori (figura 5.2) quello che fa morire più donne è il cancro polmonare, non quello al seno; ma solo il 25% delle intervistate lo sapeva.‘ Negli Stati Uniti il cancro alla prostata (figura 5.2) è più frequente di quello al seno e costa quasi altrettante vite, ma agli uomini non fa una paura paragonabile a quella che hanno le donne per il proprio seno. Succede anche — ed è interessante — Tipo di cancro
|
Incidenza e mortalità su 100.000 persone
Polmonare (uomini) Polmonare (donne) Seno
Prostata
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Colorettale (uomini e donne)
Figura 5.2 Mortalità (area più scura) e incidenza (area bianca) delle quattro forme di cancro più frequenti negli Stati Uniti. Ogni anno, per esempio, il cancro polmonare viene diagnosticato a 77 uomini su 100.000, e 71 ne muoiono (1990-95; solo bianchi). (Figura basata su cifre riportate da Wingo et al., 1998.)
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LO SCREENING DEL CANCRO AL SENO
che i media presentino il cancro alla prostata ma non quello al seno come una malattia delle persone anziane, eppure l’incidenza, la mortalità e l’età media in cui vengono diagnosticati sono molto simili per l’uno e per l’altro.” Fra i cancri che uccidono le donne, al terzo posto (dunque, subito dopo quello polmonare e quello al seno) viene quello colorettale; ma “colorettale” è un termine che mette insieme i tumori del colon e del retto, e quelli del retto sono più frequenti. Il cancro colorettale, come quello polmonare, figura raramente nei titoli e nelle prime pagine dei giornali; e l’opinione pubblica, seguendo i media, tende a sottovalutare i rischi delle malattie cardiovascolari e dei tumori non del seno. Certo, un loro difensore
potrebbe controbattere che sono i media ad andare dove li porta l'opinione pubblica, e non viceversa; ma non c’è contraddizione: si inseguono a vicenda. OBIETTIVO GIOVANI
Nel 1991 il settimanale Tie pubblicò un articolo sul cancro al seno e mise in copertina una foto di una ragazza con le poppe nude, bene in evidenza; da allora molte altre riviste l'hanno imitato — e hanno creato l’impressione che siano le donne giovani quelle che devono avere più paura del cancro al seno." Secondo irisultati di uno studio, circa 1'85% delle sto-
rie personali e degli aneddoti sul cancro al seno raccontati da pubblicazioni come Glazzour, Vogue, The Scientific American,
Time e The Reader's Digest riguardavano donne sotto i cinquant’anni, e quando, negli anni Ottanta eagli inizi dei Novanta del Novecento, ci fu un drammatico aumento dell’inci-
denza della malattia, i giornali di massa lo presentarono come un’epidemia misteriosa che colpiva le donne giovani, emancipate e in carriera.”
È vero che per il cancro al seno il fattore di rischio più importante è l’età: ma quelle più in pericolo sono le donne anziane e non le giovani, come vorrebbe far credere questo tipo di stampa. L'età media della diagnosi è di circa 65 anni (vedi tabella 5.3), e oltre a tutto non si è affatto osservato un aumento
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COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
dell’incidenza fra le donne giovani. L'incremento riguarda soprattutto le ultrasessantenni ed è dovuto principalmente (se non totalmente) al maggiore uso della mammografia, con la quale si scoprono molti tumori che potrebbero restare per sempre irrilevanti sul piano clinico (come i carcinomi duttali in situ). C'è anche il fatto — perfettamente compatibile con questa interpretazione — che, mentre l’incidenza cresceva, il tasso di mortalità da cancro al seno rimaneva abbastanza stabile; e nei primi anni Novanta, quando la “bolla” dell’aumen-
to dello screening ebbe finito di tormentare il sistema sanitario, anche l’incidenza finalmente si stabilizzò.
Quella che è rimasta relativamente costante negli anni è la diffusione dei tumori maschili al capezzolo, che rappresentano circa lo 0,5% di tutte le diagnosi di cancro al seno.” Gli uomini non partecipano allo screening; se lo facessero, forse osserveremmo un aumento dell’incidenza anche fra loro. L'opinione delle donne rispecchia il risalto dato dai media alle storie di vittime del cancro al seno ancora giovani? A circa 700 pazienti (femmine) di un ambulatorio universitario di medicina interna di Chicago, dove lavoravano 31 dottori, venne chiesto se il cancro al seno fosse più frequente fra le donne di 40 anni ofra quelle di 65, e solo il 28% sapeva che l'incidenza era più alta fra le seconde;” e uno studio del North Carolina ha scoperto, analogamente, che 80% delle donne non sapeva che il cancro al seno è più diffuso fra le anziane.” Eppure, nello studio dell’Illinois tutti i medici dell’ambulatorio avevano risposto, correttamente, che il rischio di cancro al seno aumenta con l’età, e un simile dato fa supporre che quelle donne che avevano idee sbagliate in proposito non le dovessero ai dottori — anche se questi non gliele avevano corrette. Il rilievo dato dai media al pericolo del cancro al seno per le donne giovani è completamente fuori bersaglio: sono quelle anziane a doversi preoccupare di più.
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LO SCREENING DEL CANCRO AL SENO
DALL’ANALFABETISMO NUMERICO ALLA MASTECTOMIA PREVENTIVA
La combinazione di analfabetismo numerico e paura può indurre le donne ad assoggettarsi a cure che in un’altra situazione rifiuterebbero, considerandole inutilmente allarmiste o
addirittura di per sé nocive. La psicologa Robyn Dawes racconta il caso, davvero impressionante, di un chirurgo del Michigan, esaltato da un giornale come pioniere della terapia del cancro al seno,” che esortava tutte le donne sopra i trent'anni a farsi un mammogramma ogni dodici mesi e in più sosteneva che si deve togliere il seno, sostituendolo con una protesi al silicone, anche alle donne sane. Se non riuscite a seguire l’argomento con cui giustificava questa prassi, non preoccupatevi —
ma state comunque in guardia! Secondo questo chirurgo il 57% delle donne (su tutta la popolazione) apparteneva a un gruppo con un alto rischio di contrarre il cancro al seno, tanto che il 92% di tutti i casi del-
la malattia riguardava proprio questo gruppo; inoltre, nell’insieme della popolazione (ad alto e a basso rischio) una donna su 13 contraeva il cancro al seno frai 40 e i 59 anni. Il chirurgo ne concludeva che nel gruppo ad alto rischio, sempre fra i 40 ei 59 anni, si ammalava di cancro al seno una donna ogni 2 SÌ:
Basandosi su tali “stime”, questo signore consigliava la mastectomia profilattica (cioè preventiva) alle donne del gruppo ad alto rischio, cioè alla maggioranza, anche quando non avevano il cancro al seno. Secondo lui l’operazione le avrebbe salvate dalla necessità di affrontare il rischio del cancro e delle sue conseguenze, ivi compresa la possibilità di morire, e nel giro di due anni amputò le mammelle “ad alto rischio” di 90 donne sane sostituendole con protesi al silicone. Forse queste donne, persuase dagli argomenti del chirurgo, erano convinte che il sacrificio dei seni avrebbe dato loro in compenso — sia pure con uno scambio eroico — la certezza di salvarsi la vita e di proteggere i loro cari da perdite e sofferenze. A quanto si sa, nessuna — e nessuno dei loro cari — mise
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COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
mai in dubbio le cifre accampate dal chirurgo oil suo ragionamento. Per controllare se questo ragionamento è ben fondato prendiamoci un minuto e disegniamo un albero come quello della figura 5.3. Immaginiamo 1000 donne: secondo il chirurgo 570 (il 57%) appartengono al gruppo ad alto rischio; sempre secondo lui 77 su un totale di 1000 (cioè una su 13) contrarranno il cancro al seno fra i 40 e i 59 anni, e fra queste 71 (il 92%) appartengono al gruppo ad alto rischio. Dunque, il cancro verrà a 71 delle 570 donne ad alto rischio, cioè a circa una
su 8, non a una su 2 0 3 come aveva concluso il chirurgo. Adesso il punto debole del suo ragionamento è ben visibile: aveva derivato una conclusione scorretta dai rischi da lui stesso indicati. Ma è altrettanto allarmante anche un secondo fatto, cioè che gli stessi dati da lui usati per fare i suoi calcoli sono gonfiati (quel valore di una su 13 è troppo alto, anzi irrealistico, per le donne fra i 40 e i 59 anni). La tabella 5.3 ci fa vedere che su 1000 donne fra i 40 e i 59 anni contrarranno il cancro al seno in 36; basta un piccolo ragionamento, e da questa cifra più realistica deduciamo che in questo gruppo di età il cancro al seno verrà a una donna su 17. Ora, questo risultato implica che circa 85 delle 90 che il chirurgo aveva sottopo1000
donne 570
430
ad alto rischio
a basso rischio
71
499
col cancro al seno
senza Cancro al seno
Figura 5.3 Rappresentazione in termini di frequenze dei rischi di cui un chirurgo del Michigan informava le clienti. L'uomo concluse, sbagliando, che nel gruppo ad alto rischio avrebbe contratto il cancro al seno una donna ogni 2 o 3. Quando trasformiamo in frequenze le sue percentuali vediamo subito che la proporzione vera è di circa una su 8 (71 su 570), non di una su 203; e quando inoltre usiamo dati realistici e non le sue sparate soggettive, questo valore scende a circa 1 su 17.
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LO SCREENING DEL CANCRO AL SENO
sto a mastectomia profilattica non avrebbero mai avuto il cancro al seno (e molto probabilmente più d’una delle altre avrebbe potuto giovarsi di una cura meno brutale, per esempio di una semplice nodulectomia). Questo è un caso in cui la somma dell’analfabetismo numerico del chirurgo e di quello delle pazienti ha avuto un costo tragico — per le pazienti. Qual è il beneficio effettivo della mastectomia profilattica? Uno studio recente ha seguito a lungo 639 donne con una storia familiare di cancro al seno e che avevano subito l’asportazione preventiva di entrambi i seni alla clinica Mayo del Minnesota.” Erano considerate o ad alto rischio (alcune per esempio avevano una mutazione dei geni del cancro al seno BRC1 e BRC2; altre avevano almeno una parente di primo grado con la stessa malattia) o a rischio moderato; l’età mediana al momen-
to dell’operazione era di 42 anni e il tempo mediano per cui erano state seguite dopo l’intervento era di 14 anni. I risultati si possono vedere nella tabella 5.4 (p. 101). Modi di presentare il beneficio
Gruppo ad alto rischio Riduzione del rischio assoluto. La mastectomia profilattica abbassa il numero delle donne che muoiono di cancro al seno da 5 a 1 su 100; la riduzione del rischio assoluto è cioè di 4 donne su 100 (i14%).
Riduzione del rischio relativo. La mastectomia profilattica riduce il rischio di morire di cancro al seno dell’80% (4 salvate su 5 vuol dire 1'80%). Ricordiamo che la riduzione del rischio relativo è uguale alla riduzione del rischio assoluto (4 su 100) divisa per la proporzione delle pazienti non curate che muoiono (5 su 100). Numero di pazienti su cui bisogna intervenire. Il numero di
donne che bisogna sottoporre a mastectomia profilattica per 99
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
salvare una vita è 25, perché questo intervento impedisce 4 morti ogni 100 donne, cioè una ogni 25. Gruppo a rischio moderato
Riduzione del rischio assoluto. La mastectomia profilattica abbassa il numero delle donne che muoiono di cancro al seno da 2,4 a 0 su 100; la riduzione del rischio assoluto è cioè di 2,4 donne su 100 (il 2,4%).
Riduzione del rischio relativo. La mastectomia profilattica riduce il rischio relativo di morire di cancro al seno del 100%. Numero di pazienti su cui bisogna intervenire. Il numero di donne che bisogna sottoporre a mastectomia profilattica per salvare una vita è 42.
Tutte e tre le forme di presentazione sono corrette, ma possono far pensare a benefici di entità diversa e suscitare nelle donne reazioni emotive diverse. Nel gruppo ad alto rischio, per esempio, possiamo dire che la mastectomia profilattica abbassa il rischio di morire di cancro al seno dell’80% o del 4% a seconda che presentiamo il beneficio come riduzione del rischio relativo o del rischio assoluto; e quanto al numero delle pazienti su cui bisogna intervenire, su 25 donne ad alto rischio l'operazione ne salva una, ma le altre 24 non ricavano nessun beneficio dalla mastectomia — perché in maggioranza le donne ad alto rischio non muoiono di cancro al seno nemmeno sei seni se li tengono, e alcune (poche) ne muoiono pur essendoseli fatti asportare. Nel gruppo a rischio moderato è stata salvata una vita ogni 42 interventi, ma questo significa
anche che 41 donne su 42 hanno perso i seni senza ricavarne alcun beneficio. Le donne che considerano se sottoporsi a mastectomia profilattica o meno dovrebbero conoscere questi dati per essere in grado di prendere una decisione informata; ma è anche essenziale che ne comprendano il significato, che capiscano la diffe100
LO SCREENING DEL CANCRO AL SENO
Tabella 5.4 Riduzione della mortalità da cancro al seno dovuta a una mastec-
tomia profilattica. (Da Hartmann et al., 1999.) Decessi (su 100 donne)
Trattamento
Gruppo ad alto rischio
Gruppo a rischio moderato
Mastectomia profilattica
1
0
Controllo (senza mastectomia)
5
2,4
renza fra riduzione del rischio assoluto, riduzione del rischio
relativo e numero di pazienti su cui bisogna intervenire. La mastectomia profilattica può salvare vite umane, come mostrano i casi delle 639 donne della clinica Mayo, ma non dà una certezza assoluta. Sette donne si ammalarono ugualmente di cancro al seno dopo l'intervento, e l'operazione peggiorò la qualità della vita — senza dare anni in più — all’immensa maggioranza di quelle che l'avevano subita. CONCLUSIONI
Il cancro al seno è una malattia abbastanza imprevedibile; alcuni tumori si sviluppano rapidamente, altri sono così lenti che lasciati a se stessi non darebbero mai nessun sintomo, e ci sono anche dei casi intermedi. Quando devono decidere se sottoporsi a uno screening oppure no, le donne si trovano in una situazione in cui l’illusione della certezza interagisce con tutte e tre le forme di analfabetismo numerico. L'illusione è coltivata dai medici, per i quali è cosa di tutti i giorni presentare alle pazienti un’alternativa fra certezza e rischio, nonostante l'alternativa vera sia sempre fra rischio e rischio — quello di controllarsi e quello di non controllarsi; ed è anche alimentata dagli stampati diffusi dalle organizzazioni sanitarie, che parlano dei benefici dello screening, ma non ne ricordano mai i pericoli. L'ignoranza del rischio sembra essere la regola anziché l'eccezione: per esempio, si parla molto raramente dell’enor101
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
me numero di false positività, non si parla affatto dell’esistenza di cancri statici la cui diagnosi precoce non dà benefici ma solo costi, e per di più quei benefici che ci sono davvero vengono spesso presentati in termini di riduzione del rischio relativo, cioè in modo da fare colpo sui non addetti ai lavori e fuorviarli. Il risultato è che fra le donne la conoscenza dei benefici e dei costi è deplorevolmente bassa e un consenso informato risulta praticamente impossibile. Infine, il grado di precisione della mammografia viene presentato molto spesso in termini probabilistici che mandano in confusione i medici, per non parlare delle pazienti. Naturalmente, l’analfabetismo numerico è solo uno dei fat-
tori che perpetuano questo malaugurato stato di cose nella medicina attuale. Esistono anche dei fattori istituzionali: i tentativi dei medici di evitare che le pazienti facciano loro causa, i conflitti di interesse all’interno delle organizzazioni sanitarie, che un po’ vogliono informare le pazienti e un po’ vogliono che partecipino allo screening, e — ultimi ma non meno importanti — i fattori emotivi, per esempio il fatto che molte pazienti preferiscono la rassicurazione all’informazione realistica. Fra i vari mezzi — legali, professionali e d’altro genere — in grado di cambiare questo stato di cose i più efficienti in proporzione ai costi, e anche i più facili da usare, sono proprio quelli della lotta contro l’analfabetismo numerico: strumenti per informare sui rischi in modo trasparente e per snebbiare le menti. Quando la comprensione avrà rimpiazzato l’analfabetismo numerico oggi imperante, le forze che chiedono delle riforme potranno forse realizzare i cambiamenti istituzionali e professionali indispensabili.
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6 IL CONSENSO (DIS)INFORMATO
Fa' tutto questo con calma e competenza, nascondendo il più delle cose al paziente mentre ti occupi di lui. Da’ gli ordini necessari con voce lieta e serena, distogliendo la sua attenzione da ciò che gli viene fatto; qualche volta dovrai rimproverarlo in modo aspro e risentito, altre volte dovrai confortarlo con sollecitudine e attenzione, senza nulla rivelargli della sua condizione presente o futura. IPPOCRATE
L'Ottocento vide scontrarsi fra loro tre differenti concezioni del medico: come artista, come statistico e come determini-
sta. Fra quelli che lo vedevano come un artista che si affidava al proprio “tocco” professionale e a ciò che l’intuizione gli diceva del singolo paziente c’era il docente universitario francese Risuefio d’Amador; ma il suo rivale Pierre-Charles- Alexan-
dre Louis non aveva molto rispetto per il tocco medico - lui voleva dati, dati, dati. Louis divenne famoso per avere respinto la dottrina che predicava il salasso come terapia; raccogliendo, appunto, dati su dati poté dimostrare che la gente moriva più spesso quando era salassata che quando nono era, e concluse: “Non vogliamo più sentir parlare di tocco medico, questa sorta di potere divinatorio dei dottori”! All’epoca l’uso delle statistiche per controllare l'efficacia di una pratica medica era rivoluzionario, ma l’idea era stata ispirata a Louis dai metodi statistici di Pierre-Simon de Laplace in astronomia e Adolphe Quetelet in sociologia. D’altronde, non erano solo gli “artisti” della medicina a disprezzare questi metodi; il fisiologo Claude Bernard rifiutava sia la figura del me103
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
dico artista sia quella del medico statistico. Per lui scienza vo-
leva dire certezza, tanto che metteva in ridicolo l’uso delle statistiche: Un grande chirurgo esegue più operazioni di calcoli [renali], sempre con lo stesso metodo, e in seguito fa una ricapitolazione statistica delle morti e delle guarigioni dalla quale conclude che per questa operazione la legge della mortalità è di due su cinque. Ebbene, io dico che per la scienza questo rapporto non significa letteralmente nulla e non dà nessuna certezza riguardo all’operazione successiva.’
Per Bernard le medie non potevano sostituire le leggi che governano deterministicamente ogni singolo caso, né un vero
determinista poteva accontentarsi di qualcosa di meno di tali leggi, che a suo parere si potevano scoprire con la sperimentazione — non certo ricorrendo alle statistiche. Nell'Ottocento si pensava ancora che i dati statistici fossero in antitesi al metodo scientifico: la scienza si occupava della certezza, la statistica dell’incertezza — dunque, la seconda non era un vero strumento scientifico. Gli studi statistici del medico austroungarico Ignaz Semmelweiss sulla febbre puerperale e lo scorbuto sono leggendari, ma la riluttanza delle autorità competenti a mettere in atto le misure preventive che i suoi dati consigliavano non lo è di meno. A differenza di quanto accadde in fisica, il pensiero statistico si fece strada molto lentamente sia nella diagnostica sia nella terapia. L’abisso scavato da Bernard fra statistica e sperimentazione venne finalmente colmato negli anni Venti e Trenta del Novecento, quando in Inghilterra Sir Ronald Fisher escogitò un “metodo scientifico” che unificava l’una e l’altra. Fisher usava degli esperimenti di controllo casualizzati; Austin Bradford Hill, con i suoi confronti casualizzati, fu un pioniere dell’applicazione di questo metodo in medicina, e nel 1961 i suoi risultati gli valsero il titolo di cavaliere. La sua opera, molto elogiata per la sua “preoccupazione per il benessere dell’individuo”, concilia la statistica medica con la sperimentazione nonché, per questa via, il collettivo con l’individuale. 104
IL CONSENSO (DIS)INFORMATO
Oggi si danno risposte contrastanti alla domanda “Chi ha il diritto di prendere decisioni in medicina?”, ma tali risposte risalgono a queste diverse concezioni della figura del medico. È lui a dover decidere? È il paziente? Sono tutti e due? Per quei medici che vedono se stessi come degli artisti, dei virtuosi della medicina, il paziente è uno spettatore incompetente che può applaudire ma non partecipare a una decisione; dopotutto, un direttore d’orchestra non chiede consigli al pubblico su come eseguire Beethoven. Quei dottori che avevano questa immagine di se stessi come artisti prendevano, in pratica, tutte
le decisioni; il paziente si sentiva rassicurato e faceva tutto quello che gli si ordinava. Il suo corpo veniva trattato come se fosse stato proprietà del medico, che decideva se dargli delle medicine o fargli un’operazione, e alcuni medici “artisti” non permettevano ai pazienti nemmeno di leggere la propria cartella clinica.‘ Oggi il modo di prendere decisioni in medicina sta cambiando, i pazienti diventano sempre più parte attiva. A segnare il cambiamento èstato I/ mondo silenzioso di dottore e paziente, un libro di un medico di Yale, Jay Katz. Nel 1984,
quando il lavoro di Katz uscì, quasi tutti i chirurghi attaccarono la sua tesi che un paziente dovrebbe avere voce in capitolo riguardo alle cose da fare al suo corpo; l’idea (senz’altro grandiosa) del medico come artista non andava d’accordo con
quella di un paziente informato e maturo. Anche l’ideale deterministico di Bernard ha lasciato la sua impronta sulle decisioni mediche: ma è un’impronta diversa. Quei dottori che l’accettano vedono in tali decisioni altrettan-
te scelte fra certezza e rischio; ma c'è un libro molto importante, Scelte mediche, azzardi medici, scritto da un gruppo diretto dal dottor Harold Bursztajn della facoltà di medicina di Harvard, che chiarisce che in medicina si sceglie quasi sempre fra due rischi, e non fra un rischio e una certezza. Spesso gli esami clinici sono inconcludenti, sovente le cure non danno risultati
chiari, e di solito la certezza è irraggiungibile. Scelte mediche, azzardi medici si apre col caso di un bambino di 21 mesi ricoverato in uno dei principali ospedali univer105
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
sitari americani. Il piccolo aveva un’infezione all’orecchio ed era pallido, apatico e gravemente sotto peso; ma per quanto
denutrito, spesso rifiutava il cibo. I dottori che lo presero in cura erano benintenzionati, ma consideravano proprio dovere identificare “con certezza” le cause della sua malattia, e men-
tre giudicavano rischiosa qualsiasi iniziativa che non fosse rivolta a questo fine, non vedevano nessun pericolo nel tentativo di raggiungere tale certezza attraverso esami ininterrotti,
che imponevano ripetuti prelievi di sangue a un bambino di magrezza estrema. Così, una volta avviato il meccanismo diagnostico, alcuni specialisti di chiara fama eseguirono numerose biopsie, sei prelievi di liquido spinale e una batteria di altri esami, molti dei quali servivano a diagnosticare sindromi che in quegli anni erano incurabili. Erano convinti di non potersi permettere di non identificare le cause della malattia del piccolo. Che cosa rivelarono tutti quegli esami? Niente di sicuro; ma dopo ognuno di quei test invasivi il bambino rifiutava il cibo sempre più spesso, e in capoasei settimane di questa lotta
per la certezza morì. La certezza, in un mondo incerto, può essere un ideale pericoloso. Per contro, il modello di Louis, in cui il medico basa le pro-
prie decisioni diagnostiche e terapeutiche su dati statistici, favorisce la formazione di un tipo di interazione dottore-paziente in cui l’uno e l’altro possono discutere il da farsi sulla base dei dati disponibili e delle preferenze del secondo. La versione attuale di questa concezione ha preso il nome di medicina basata sui dati empirici, e fortunatamente sono sempre più numerosi i dottori che praticano questo tipo di medicina — che basano cioè le proprie decisioni diagnostiche e terapeutiche sui dati disponibili e non sulle procedure cliniche in uso in un certo luogo o sulle loro preferenze personali. Idealmente, medico e paziente decidono la cura insieme; il primo fa da esperto sulle terapie possibili, il secondo fa da esperto sulle cose che vuolee di cui sente il bisogno. Spesso, purtroppo, le decisioni mediche reali non sono al-
l'altezza di tale splendido ideale. Già è significativo che si sia dovuto coniare una locuzione come “medicina basata sui dati 106
IL CONSENSO (DIS)INFORMATO
empirici”: provate a pensare a un gruppo di scienziati che senta il bisogno di promuovere una fisica basata sui dati empirici! Recentemente, un rappresentante dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stimato che negli Stati Uniti solo il 40% dei medici che esercitano decida come curare i propri pazienti basandosi su dati scientifici; gli altri usano terapie che potrebbero benissimo essere inefficaci. E una delle ragioni di questa riluttanza dei medici a basarsi sui dati disponibili, che ancora sopravvive più di un secolo dopo Bernard, è che per molti di loro è ancora difficile fare inferenze diagnostiche a partire dalle statistiche. IL CONSENSO INFORMATO
Che ne pensano i medici del consenso informato e delle decisioni condivise? La seconda parte, riportata qui di seguito, di quel dibattito fra 60 dottori di cui ho già parlato nel capitolo 2 mostra come fra di loro ci siano divergenze radicali. Presidente Oggi la medicina somiglia ancora alla Chiesa nel Cinquecento. La chirurgia è fatta soprattutto da uomini, questi uomini parlano una lingua esoterica e i loro clienti devono confessarsi, dopo di che vengono rassicurati. I chirurghi indossano indumenti bizzarri ed eseguono operazioni rituali sull’appendice. Abbiamo bisogno di una Riforma. Martin Lutero portò la Bibbia al popolo, traducendola dal latino in tedesco:* noi dobbiamo portare i dati ai pazienti, traducendoirischi relativi e altri termini che fanno confondere in frequenze naturali e in un linguaggio trasparente. Organizzatore Mi faccia dire qualcosa di più. Uno dei principali bersagli della Riforma era la vendita delle indulgenze, che faceva credere alla gente di potersi comprare l’assoluzione divina da ogni peccato. Era quello che raccontavano i preti, e il popolo ci credeva perché non aveva accesso alla * In realtà la tradusse dalle lingue originali: ebraico (per il Vecchio Testamento) e greco (per il Nuovo Testamento). [NdT]
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COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
Bibbia. L’equivalente di oggi è l’affarismo medico, che fa credere ai pazienti di potersi comprare una cura per qualsiasi male. Ma c’è anche un altro parallelismo, quello con la nuova tecnologia dell’informazione: la stampa fu il veicolo della Riforma, diffuse la parola di Dio, tradotta da Lutero, fra il popolo. Per la prima volta ognuno poteva leggere di-
rettamente il testo, non dipendeva più da quello che gli raccontava un prete. Oggi c’è una seconda rivoluzione nella tecnologia dell’informazione, Internet, che dà accesso a informazioni mediche che una volta erano difficili da ottenere. Ci sono gruppi di medici senza scopi di lucro, come www.cochrane.org, che distribuiscono via Internet le informazioni che i pazienti hanno bisogno di conoscere.° Lutero abbatté le disuguaglianze fra preti e laici, iniziati e ignoranti; Internet può aiutarci a eliminare la disuguaglianza fra medico e paziente, tra l’infallibile e il disinformato. È questa la mia visione di una Riforma: portare i medici che devono decidere quale cura tentare a usare i migliori dati disponibili e a prendere in considerazione le finalità dei pazienti. Ginecologa Bene, io sono d’accordo con l’idea; ma la mia realtà è diversa. Io parlo alle donne dei costi e dei benefici in modo che possano prendere una decisione, ma i numeri interessano a poche. Decidono quasi tutte irrazionalmente. La vicina della tale ha avuto il cancro al seno, ed è per questo che la tale va a farsi la mammografia. Professor M. Ma la responsabilità di informare i pazienti ce l'abbiamo comunque. Le donne sono male informate sullo screening mammografico, e molti dottori si limitano a giocare sui loro sensi di colpa per farle partecipare: “Spero che Lei sia andata, finalmente. Non l’ha ancora fatto?”.
Molte credono addirittura che la mammografia possa prevenire il cancro al seno [così come] pulirsi i denti previene la carie. Alcuni gruppi di femministe hanno combattuto per lo screening, ma poche di loro sanno che una diagnosi precoce non è sempre un beneficio — per esempio, non lo è quando viene scoperto un tumore acrescita lenta che non si sarebbe mai evoluto in cancro aggressivo. A una paziente si deve spiegare, come minimo, quali sono le finalità dello screening, quanto sono frequenti le false positività e le false negatività, quali sono i benefici e i costi della mammo-
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IL CONSENSO (DIS)INFORMATO
grafia e le sue conseguenze finanziarie. Un medico deve pur dire a una donna che se le fa un mammogramma ci guadagna dei soldi che invece non guadagna se lei rifiuta. Dottor B. Ma alle pazienti non piace l’idea che lo screening le possa anche danneggiare. Ci sono quelle che per disperazione se ne fanno un’idea fissa e credono che sia la loro liberazione dal cancro al seno. Diventa la loro speranza. Professor M. Su 1000 donne, soltanto una ricava un beneficio da 10 anni di screening. In altre parole, il 99,9% di quelle che partecipano non ne ha nessun giovamento, ma solo un danno potenziale. E non è tutto qui. Alcuni studi svedesi hanno scoperto che il totale dei decessi, per cancro al seno o per altre cause, è lo stesso per le donne che si fanno lo screening e per le altre. Dottor B. E come mai? Dottor C. Magari muoiono per un incidente di macchina mentre vanno afarsi lo screening. Professor M. Non lo sappiamo. E nonostante i nostri eccellenti studi sulla mammografia continuiamo avivere nell’in-
certezza. Organizzatore Dobbiamo imparare a riconoscere che esistono opinioni diverse e non c’è una risposta definitiva. Il problema è se andare afarsi lo screening e correre il rischio dei suoi possibili costi, come una diagnosi e una cura precoce che non riducono la mortalità ma peggiorano la qualità della vita, oppure non andarci scommettendo di essere una delle 999 su 1000 che, come ha osservato il professor M., non ne ricaveranno un beneficio, e però correndo il rischio di essere proprio quell’una la cui vita verrebbe salvata.
Dottor A. Alcuni medici di Essen in Germania hanno tolto un seno, o anche tutti e due, a circa 300 donne che in mag-
gioranza non avevano il cancro. Quando la cosa è venuta fuori, uno di loro prima ha bruciato il suo archivio e poi ha bruciato se stesso. E uno studio svedese ha scoperto 4000 amputazioni non necessarie. Queste cose valgono un beneficio a una su 1000? Dottor C. Come mai tutte queste mastectomie non necessarie?
Dottor A. Nel caso tedesco, diagnosi poco accurate. Ma in generale le diagnosi degli istologi concordano fra di loro solo nel 70% dei casi.
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COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
(Lo specialista del cancro al seno scrolla la testa. Non è d'accordo) Organizzatore La pressione esercitata sulle donne perché partecipino allo screening mammografico è enorme. “Torni fra sei mesi, dovrebbe farsi un mammogramma di controllo...” Dottor D. Ma perché insistete tanto sull’informazione? Di solito, le pazienti non vogliono essere informate. E una questione psicologica: hanno paura, temono il peggio e vogliono essere rassicurate. Non vogliono vedere dei numeri.
Ginecologa Dopo un mammogramma sono io, la dottoressa, a sentirmi rassicurata. Ho paura di z0r consigliare il mammogramma a una donna che poi magari potrebbe tornare da me col cancro al seno e chiedermi: “Perché non me l’ha fatto?”, e così consiglio lo screening a tutte le mie pazienti. Eppure, penso che non lo si dovrebbe consigliare — ma non ho scelta. Trovo perverso questo sistema medico. Mi mette in ansia.
Dottor A. Lei se lo fa lo screening mammografico? Ginecologa No. Organizzatore (rivolto al pubblico) Vorrei sapere quante di voi partecipano allo screening mammografico, e per gli uomini la domanda è: “Se Lei fosse una donna, parteciperebbe?”. Organizzatore (vedendo che nessuno ha alzato la mano) Mmm. Quanti di voi non partecipano o non parteciperebbero? E quanti sono indecisi? Organizzatore (dopo avere contato le mani) Qui nessuno partecipa di persona. Cinquantacinque hanno risposto di no e ci sono cinque indecisi, tutti uomini, che non ci hanno riflettuto. Presidente Dobbiamo far entrare nella testa delle pazienti i dati bruti e togliere le illusioni, ma nello stesso tempo è necessario prendere sul serio le loro ansie e il loro bisogno di un rituale. Ogni dottore fa un po’ di voodoo e un po’ di misticismo, anche il grande chirurgo. È questo che si aspettano i pazienti. Ma la cosa più importante è che dobbiamo imparare a usare il cervello e fare una buona volta quello che Kant ci ha chiesto tantissimo tempo fa, entrare nell’Età dei Lumi; dobbiamo essere, se non perfettamente razionali, almeno illuminati.
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IL CONSENSO (DIS)INFORMATO
Dottor F. Il consenso informato non è reso impossibile solo dalle pazienti ansiose che si rifiutano di pensare. A monte ci sono molti dottori che non capiscono neanche loro quali sonoirischi, e questo può ripercuotersi sulle emozioni e le paure delle donne. Specialista di cancro al seno Devo ammettere che fino a pochi anni fa io sopravvalutavo, sul piano emotivo, il potere della tecnologia. Nel mio campo, ai medici interessa solo non farsi scappare un cancro; così, quando, dopo avere tagliato una mammella, scoprono che quella tale positività era falsa, la paziente è contenta — e anche il dottore. La paziente non gli chiede: “Perché ha tagliato, tanto per cominciare? Perché non ha usato l’ago delle biopsie o qualche altra tecnica diagnostica poco invasiva?”. Organizzatore E a se stessa dirà: “Grazie a Dio hanno cercato con molto scrupolo e adesso va tutto bene”. Un intervento invasivo con un risultato benigno le dà sollievo. Sarà grata
al chirurgo. Esperto di teoria delle decisioni Una volta uno che faceva consulenza sull’AIDS mi disse che non c’era mai alcun caso di falsa positività; io gli chiesi: “Ma Lei un falso esito positivo lo riconoscerebbe?”. Rimase interdetto, ci pensò un poco, e poi mi rispose: “A dire il vero, probabilmente no”. Dottor A. Io faccio molti seminari di educazione permanente per medici, dove spieghiamo in lungo e in largo che cosa vogliono dire “sensibilità” (tasso di positività vere) e “specificità” (tasso di negatività vere) e poi chiediamo a uno dei partecipanti come si chiama la probabilità che se c'è una malattia un esame dia esito positivo; e quello — un medico — risponde “specificità”, e io gli dico: “Non èesatto”, e lui si corregge: “Bene, volevo dire uno meno la specificità”, e così gli dico: “Ci provi un’altra volta”. Presidente Sono pochi i dottori preparati a giudicare e valutare uno studio scientifico. Io stesso ho deciso di diventare chirurgo per evitare due cose, le statistiche e la psicologia, ma adesso capisco che sono indispensabili entrambe.
Da questa discussione emergono posizioni diverse sul consenso informato e la pratica della decisione condivisa. Un primo gruppo di dottori percepisce i pazienti come esseri molto LI
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
emotivi che non vogliono essere informati ma rassicurati; altri sottolineano, invece, che un medico ha l'obbligo morale di informare i suoi pazienti e che la mancanza di una decisione informata non è dovuta solo a emotività o scarsa intelligenza del malato ma pure il dottore ha le sue colpe, ivi compreso l’analfabetismo numerico. Infine, come sottolinea il professor M,, “consenso informato” vuol dire anche che il medico, quando i costi e i benefici che gli dà una cura divergono da quelli del paziente, glielo deve dire. Vediamo un chiaro esempio di questa situazione nel fatto, piuttosto inquietante, che alcune dottoresse raccomandano lo screening alle loro pazienti ma non vi si sottopongono di persona. MEDICO E PAZIENTE
È “naturale” aspettarsi che un paziente accetti senza discussione il giudizio del suo medico curante, che abbia scarsa voce in capitolo nelle decisioni terapeutiche che lo riguardano, che sia male informato? Anche se qualcuno ha difeso l’onnipotenza del dottore nella società attuale affermando che essa risalirebbe a una tradizione venerabile, in un simile tipo di
rapporto medico-paziente non c’è niente di naturale. Abbiamo, per esempio, dei documenti bolognesi, collocabili fra il tardo Cinquecento e il Seicento, che ci rivelano una relazione incredibilmente diversa fra il malato e chi l'aveva in cura: ci si aspettava che il paziente pagasse solo se guariva,’ e anzi si concludevano, con tanto di contratto, degli “accordi di cura” in
base ai quali il medico doveva guarire il malato entro una data precisa e per una precisa somma. Esisteva dunque una relazione “orizzontale” ben diversa dal modello “gerarchico” del rapporto medico-paziente e che dava molto più potere ai malati; e c’era un tribunale davanti al quale il paziente poteva portare in giudizio il terapeuta (con o senza laurea in medicina) che non avesse rispettato il contratto di cura. Già alla fine del Settecento, tuttavia, non si prometteva più la guarigione ma solo protezione e cura ortodossa, e con la professionalizzazione della
medicina moderna il pagamento in base al risultato pratica12
IL CONSENSO (DIS)INFORMATO
mente scomparve. Oggi lo stato sociale dei medici americani (i cosiddetti “allépati”) rispecchia l’esito di una lotta secolare fra gruppi di guaritori rivali - omeopati, levatrici, barbierichirurghi, mammane ecc. I medici veri e propri erano poco stimati e mal pagati fino all'Ottocento inoltrato, ma il Nove-
cento vide l’emergere di un potente monopolio della medicina e la nascita di una professione molto rispettata. Secondo Jay Katz c’è un nesso fra la lotta per il dominio combattuta storicamente dai medici e la loro attuale relazione coi pazienti: “La ricerca del potere politico da parte dei medici rispecchia la loro ricerca del dominio interpersonale nella relazione col paziente”. Ma la dominanza del dottore e la sottomissione del paziente nella medicina attuale cominciarono a cambiare il 22 ottobre 1957, quando il giudice Absalom F. Bray della Corte d’Appello della California coniò il termine “consenso informato”. Un uomo paralizzato alle gambe aveva fatto causa al suo medico che non lo aveva informato del rischio di paralisi insito in una cura cui si era sottoposto per smettere di zoppicare, e il
giudice Bray concluse il suo responso con queste parole: “Quando si discute l'elemento del rischio, si deve far uso di
una certa discrezionalità, compatibilmente con la piena comunicazione dei fatti necessari per un consenso informato”.? Questo parere segnò l’inizio della storia giuridica del consenso informato, ma il fatto che Bray lasciasse un certo spazio anche alla “discrezionalità” oltre che al “consenso informato” rispecchia una tensione che esiste anche oggi. Il secondo dei due termini va riferito a una pratica medica ideale in cui il dottore informa il paziente dei rischi — effetti collaterali compresi — associati a una certa cura, dopo di che i due decidono insie-
me che cosa fare; dunque, sarebbe più corretto parlare di “pratica della decisione comune”. Le due parti portano in questa decisione conoscenze diverse: il medico conosce gli strumenti diagnostici e le opzioni terapeutiche, il paziente sa quali sono i suoi finie valori. Una donna, per esempio, potrebbe preferire (come non preferire) tenersi degli organi riproduttivi integri anche a costo di abbassare la propria speranza bb
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
di vita, e più in generale un paziente potrebbe concludere che i possibili benefici di una terapia prevalgono sui costi ma anche trovare che i primi sono troppo ridotti e i secondi troppo elevati perché valga la pena di sottoporsi alla cura. IFIGENIA
Prendiamo il caso di una donna che Katz, per proteggerne l'anonimato, ha ribattezzato Ifigenia (è il nome di un’eroina del tragico greco Euripide, salvata ix extrerzis dalla dea Artemide mentre sta per essere sacrificata dal padre); è un bell’esempio di come medico e paziente possano passare da un rapporto fondato sull’autorità a uno fondato sul consenso informato." Ifigenia, che aveva 21 anni e non era sposata, si scoprì un nodulo sul seno e la biopsia rivelò che questo nodulo era una lesione maligna. La ragazza non solo acconsentì a farsi mastectomizzare, ma accettò pure che fosse il chirurgo a decidere l’entità dell’amputazione in base a quello che scopriva durante l’intervento; questo chirurgo non aveva spiegato a Ifigenia i pro ei contro delle altre terapie possibili perché credeva fermamente che fossero tutte inferiori all’intervento, ma man mano che il giorno dell’operazione si avvicinava cominciò a dubitare che fosse saggio andare avanti senza spiegarle in dettaglio queste alternative, e in particolare la terapia con le radiazioni. Così, la sera prima dell’operazione andò in ospedale e le disse finalmente che non se la sentiva di continuare a tacere; i due parlarono a lungo, Ifigenia decise di rimandare l’operazione e alla fine optò per una nodulectomia (escissione del solo tessuto tumorale) seguita da una terapia di radiazioni. Qualche tempo dopo, durante una discussione in un gruppo ristretto sulla terapia del cancro al seno, Ifigenia spiegò con piena cognizione di causa perché aveva preso quella decisione ed espresse con parole toccanti la sua gioia di andare fisicamente integra al matrimonio, ormai imminente. La discussione fu assai animata; ogni medico difendeva la propria terapia preferita e attaccava quelle caldeggiate dai colleghi (un po’ come i consiglieri finanziari, che dico114
IL CONSENSO (DIS)INFORMATO
no sempre che il metodo migliore è il loro), ma nonostante i loro dissensi erano tutti abbastanza d’accordo che permettendo a Ifigenia di decidere se farsi operare il chirurgo si fosse comportato irrazionalmente. Il loro ragionamento era: anche per dei medici è difficile stabilire quale sia la cura migliore, dunque come può uno di loro consentire che sia il paziente a decidere? NANCY REAGAN
Ifigenia preferì la nodulectomia alla mastectomia; la ex First Lady Nancy Reagan, messa di fronte a un cancro al seno iniziale, valutò i pro e i contro in modo diverso e optò per una mastectomia radicale. Ma ecco le sue parole: All’epoca della mia operazione alcune persone, fra cui anche dei dottori, pensavano che io avessi preso una decisione troppo drastica preferendo la mastectomia a una nodulectomia, operazione quest’ultima che mi avrebbe rimosso solo il tumore vero e proprio più una piccola quantità di tessuto ma avrebbe significato anche settimane di radiazioni. Mi facevano rabbia, e me ne fanno ancora oggi. Si tratta di una decisione molto personale, che ogni donna deve prendere per conto proprio; è stata una scelta mia e penso che non avrei dovuto esse-
re criticata per averla fatta. Per certe donne sarebbe stata sbagliata, ma per me è stata giusta. Forse, se avessi avuto 20 anni e non fossi stata sposata, avrei preso una decisione diversa; ma
i miei figli li ho già avuti, e ho un marito splendido e molto comprensivo.!
Non solo i valori possono differire da persona a persona, ma possono anche variare nel corso della vita. Non appena i medici accettano di condividere informazioni e responsabilità coi pazienti, i secondi cominciano a saperne di più delle cure e i primi diventano più consapevoli dei valori di coloro che hanno in cura. Per fare un’analogia: costruire una centrale elettrica è un problema tecnico, ed è meglio che siano gli ingegneri a occuparsene; ma se si debba costruire una centrale elettrica, e
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COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
dove, è solo in parte un problema tecnico; c’è di mezzo anche una questione sociale e politica, che non dovrebbe essere decisa solo dagli ingegneri. IL CONSENSO DISINFORMATO
Idealmente il consenso informato è una cosa bellissima, ma
perché è ancora così raro nella pratica? Una delle ragioni è che in mezzo fra paziente e dottore c’è un universo di silenzio: spesso, i pazienti non sanno che domande fare, vivono in un mondo di emozioni diverse da quelle dei medici e molti di loro non osano farsi parte attiva nelle decisioni. Certo, è anche lo stesso analfabetismo numerico dei medici a rendere di fatto irraggiungibile un consenso informato: ma il mattone fondamentale con cui si edifica il paziente disinformato e immaturo è la certezza illusoria. L'ILLUSIONE DELLA CERTEZZA
Secondo alcuni medici rivelare gli aspetti incerti della diagnosi e della terapia ai pazienti è controproducente perché tanto non li capirebbero, non ne vorrebbero sapere di numeri e nemmeno vorrebbero sentirsi dire che una certa cura non ha solo benefici ma anche rischi potenziali — anzi, potrebbero andare a cercarsi un altro dottore che offra loro delle certezze. Per chi la pensa così, il primo compito del medico è quello di rassicurare il paziente; d’altronde, fino a tempi molto recenti i medici hanno sempre ostentato certezza davanti ai pazienti anche quando per la stessa malattia esisteva un’ampia varietà di cure contrapposte l’una all’altra (è un medico a dirlo, Jay Katz). Senza gli strumenti della sperimentazione controllata e della statistica era difficile valutare i meriti delle diverse terapie e tutte quelle che venivano proposte, non importa se ragionevoli o assurde, trovavano seguaci entusiasti: la chirurgia, e tutta una serie di medicine minerali, vegetali e animali, e le
diete e le purghe ei salassi e gli esorcismi e il far sudare il mala116
IL CONSENSO (DIS)INFORMATO
to e l'imposizione delle regali mani di Elisabetta I e le applicazioni di sterco di capra. Quando un rimedio cadeva in disgrazia veniva subito sostituito da un altro, che a quel punto passava per medicina sovrana. Già nel Medioevo i chirurghi asportavano in tutto o in parte i seni malati e i più famosi di loro accusavano di pavidità quei colleghi che non toglievano fin l’ultimo pezzetto di tessuto; ma questo è un dibattito che dura ancor oggi.
Molti medici mettono il paziente davanti a una scelta solo apparente fra certezza e rischio; ma la scelta vera è sempre fra rischio e rischio, e ogni alternativa ha le sue incertezze, che bi-
sogna mettere a confronto per fare una scelta informata. Prendiamo per esempio il dottor Standing, che — a quanto dichiarava lui stesso — non diceva alle pazienti che nelle mammografie ci sono errori documentati ed eseguiva sempre una biopsia in caso di mammogramma positivo: può sembrare una linea d’azione prudente e innocua, ma per una paziente una biopsia ha sempre dei costi. In un articolo sul New Yorker intitolato “E comunque di chi è il corpo?” il chirurgo Atul Gawande ha raccontato il caso di una quarantenne alla quale il mammogramma annuale aveva rivelato una calcificazione “sospetta” al seno sinistro in tre occasioni distinte,” e ogni volta un chi-
rurgo l'aveva portata in sala operatoria e aveva rimosso il tessuto incriminato — che era risultato benigno tutte etre le volte. Ora la donna ha di nuovo a che fare con un mammogramma sospetto, sempre allo stesso seno, e di nuovo il dottore le dice
che deve farsi una biopsia per escludere l’eventualità di un tumore maligno. Ma sul seno sinistro lei ha già tre vistose cicatrici (una è lunga circa sette centimetri), e le è stato tolto tanto tessuto che adesso la mammella è parecchio più piccola dall’altra. Davvero deve farsi un’altra biopsia? Questa donna deve scegliere fra due rischi, non fra un ri-
schio e la certezza, e per scegliere deve conoscere costi e benefici delle due opzioni e valutarli alla luce dei propri scopi, che possono essere differenti da quelli del medico. Potrebbe anche essere costretta a vivere con un’incertezza residua, perché non conosciamo ogni cosa con la precisione che vorremmo;
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COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
ma l'illusione della certezza trae la sua linfa da un pensiero in bianco e nero che ignora le gradazioni di grigio - “O il mio mammogramma è normale e non devo avere paura del cancro al seno, o non lo è e morirò dopo un’agonia orribile”. Ma nessuno di questi due esiti è certo. MA I PAZIENTI FANNO DOMANDE?
Il consenso informato richiede, per definizione, un paziente che non sia solo consenziente ma anche informato; invece,
molti pazienti sono male informati sui rischi che corrono. D'altronde, questo non vale solo per il cancro al seno. In uno studio condotto, rispettivamente, nelle sale d’attesa di una cli-
nica del Colorado per dipendenti dell’esercito e di una dell’Oklahoma con una clientela urbana a basso reddito, è stato
chiesto ai pazienti quali fossero gli esami normali per la diagnosi di alcune malattie, in parte molto comuni e in parte più rare, come le infezioni da streptococco alla gola, l’HIVe l’infar-
to al miocardio.” Ogni paziente doveva valutare (1) la probabilità che una persona — per esempio, lui stesso — avesse la malattia prima dell’esame, (2) la sensibilità dell'esame in questione, (3) la sua specificità e (4) la probabilità di avere la malattia dato un esito positivo. Per la maggioranza degli intervistati le quattro probabilità erano sostanzialmente uguali per tutte le malattie, rare o no — e che l’esame fosse accurato o no. Per sco-
prire se questa ignoranza derivasse dal fatto che i pazienti non avevano esperienza di tali malattie, i ricercatori presero in considerazione, per ogni tipo di sindrome, solo quei pazienti che erano stati controllati per vedere se l’avevano, o curati perché l'avevano, o almeno avevano accompagnato afarsi visitare un familiare o un amico che aveva subito quel tipo di controllo, o era stato sottoposto a quella cura. Nella clinica dell’Oklahoma le stime dei pazienti che avevano dietro di sé un'esperienza del genere erano più precise di quelle degli altri, ma solo di poco; nella clinica del Colorado non lo erano
per niente. Anche i pazienti che l’esperienza ce l'avevano davano giudizi alquanto imprecisi, il che fa pensare che i medici 118
IL CONSENSO (DIS)INFORMATO
curanti non avessero mai spiegato loro quali erano i rischi che correvano, o li avessero spiegati in modo difficile da capire o almeno da ricordare. Mai pazienti chiedono informazioni sui rischi che i dottori non danno, o sono loro stessi per primi a chiederle solo di rado? Le registrazioni di 160 colloqui fra medici e pazienti adulti nelle contee centrali del North Carolina rivelano che solo in una visita su quattro si è effettivamente discusso dei rischi, intendendo per “discussione dei rischi” qualsiasi discorso su nuove forme di comportamento, esami, cure e le conseguenze future di tutte queste cose (tipo “Potrebbe ridurre a metà il rischio di un attacco di cuore se...”). Nella maggioranza di questi casi il medico enunciava il rischio in termini di certezza (per esempio, “Lei avrà un attacco di cuore se non perde peso”), e solo una piccola parte delle discussioni (circa una su sei) era avviata dal paziente; inoltre, subito dopo la visita solo
3 dei 42 pazienti che affermavano di avere parlato dei rischi col medico ricordavano il contenuto della discussione. Tuttavia, non sembravano aversene a male; più del 90% pensava
che il dottore avesse risposto alle loro domande e riteneva di avere capito tutto quello che aveva detto, nonché di avere ri-
cevuto informazioni sufficienti. Detto in breve: i pazienti giudicavano che il dottore avesse risposto alle loro domande, ma di domande ne avevano fatte poche e le risposte che ricordavano erano ancora meno. Questa mancanza di comunicazione fra medico e paziente rappresenta una minaccia molto seria per la possibilità di un consenso “informato”. GEOGRAFIA È DESTINO
In medicina, “geografia è destino” fin troppo spesso. Per esempio, in una comunità del Vermont erano state asportate le tonsille all’8% dei bambini; in un’altra, al 70%. Nel Maine
la proporzione delle donne che subiscono un’isterectomia entro i 70 anni varia dal 20% di certe comunità al 70% abbondante di certe altre. Nello Iowa la proporzione degli uomini 119
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
sottoposti a un’operazione alla prostata entro gli 85 anni va dal 15% al 60%e oltre. Queste sorprendenti variazioni del ricorso alla chirurgia fra una regione e l’altra degli Stati Uniti sono documentate dal Dartzouth Atlas of Health Care [Atlante Dartmouth della Sanità]; ma perché esistono? Secondo il dottor David Eddy il fattore più importante è la tendenza a restare nel branco;" tuttavia, queste usanze locali sono alimentate anche dall’incertezza dell’esito di molti inteventi chirurgici. Le procedure chirurgiche e le tecniche mediche non sono sottoposte a una valutazione sistematica e, stando a quanto assicura la Food and Drug Administration, lo stesso è per le nuove medicine. Ma aprescindere dalla geografia sono fin troppo sovente le specializzazioni dei medici a decidere il tipo di cura. Negli Stati Uniti, per esempio, il trattamento del cancro alla prostata localizzato dipende in genere dal tipo di specialista cui si rivolge il paziente: uno studio ha scoperto che circa 1'80% degli urologi caldeggia un intervento chirurgico radicale mentre circa il 90% dei radiologi oncologi consiglia una cura a base di radiazioni. Variazioni di questo tipo fanno pensare che in genere non si parli ai pazienti delle loro possibili opzioni in un modo che li incoraggi a partecipare attivamente alla decisione. LO SCREENING DEL CANCRO ALLA PROSTATA
I giornali hanno raccontato che quando gli venne diagnosticato il cancro alla prostata l'ex sindaco di New York Rudolph Giuliani dichiarò che tutti gli uomini dovrebbero partecipare allo screening di questa malattia. “Io esorto tutti a farsi il test del PSA”, disse Giuliani. “Se il PSA è basso o norma-
le, non ci sono problemi; ma se è alto, il problema c’è.”?° Normalmente lo screening del cancro alla prostata si effettua usando l’antigene prostatico specifico (prostate-specific antigen, PSA) o l'esame rettale digitale, o anche l’uno e l’altro; ma
questo tipo di malattia è un esempio impressionante dell’incapacità di molti uomini di fare le domande giuste. Io, per esempio, ho avuto questa conversazione con un amico che è 120
IL CONSENSO (DIS)INFORMATO
professore di economia aziendale in una delle maggiori università americane: G.G. Come hai deciso se partecipare o no allo screening del PSA?
Amico Il mio medico curante mi ha detto che sono abbastanza vecchio, che ormai è tempo, e così ci sono andato.
G.G. Gli hai chiesto quali sono i pro e i contro dello screening?
Amico Che vuoi dire? I pro sono che il test può scoprire il cancro in uno dei primi stadi. G.G. Non gli hai chiesto nient'altro? Amico Veramente no. È un esame talmente semplice, costa poco e ti può dare solo un beneficio. Non può far male.
È da notare che il mio amico è un accademico e sa come trovare delle informazioni in biblioteca o su Internet; ma anzi-
ché usare il cervello, quando accettò lo screening si mostrò docile e rispettoso. Né andò in cerca di informazioni né fece al medico curante quella che è la domanda pertinente in questi casi: quali sono i costi e i benefici dello screening del cancro alla prostata? Se avesse dato un’occhiata alle pubblicazioni mediche sull'argomento, avrebbe scoperto che in questo caso non c'è zessuna prova che lo screening riduca la mortalità; quelli che si fanno l’esame del PSA muoiono di cancro alla prostata altrettanto giovani e altrettanto spesso di quelli che lo evitano. Il mio amico aveva confuso la diagnosi precoce con la riduzione della mortalità: il test del PSA riesce effettivamente a scoprire il cancro, ma poiché non esiste a tutt'oggi una cura
efficace non è affatto dimostrato che una diagnosi precoce aumenti la speranza di vita.” “Non può far male”, aveva risposto il mio amico. Aveva supposto senz'altro che lo screening non avesse costi, ma di nuovo si era sbagliato — qui non ci sono biglietti omaggio. Il test produce un grosso numero di false positività; addirittura, quando il livello del PSA è così alto da risultare sospetto, nella maggior parte dei casi non c’è cancro — e questo significa che molti uomini senza cancro alla prostata possono sperimentare 121
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
terrori immotivati, e spesso anche esami di controllo dolorosi. Certo, gli uomini col cancro alla prostata hanno alte probabilità di pagare un prezzo ancora più alto; molti vengono sottoposti a operazioni, o a radiazioni, che provocano danni gravi, come l’incontinenza e l'impotenza, per il resto della vita. La maggior parte dei tumori alla prostata cresce così lentamente che nessuno se ne accorgerebbe mai se non fosse per lo screening (vedi la figura 5.2, p. 94, dalla quale risulta che su 154 uomini con questo tipo di cancro solo 24 ne muoiono), e dalle
autopsie degli uomini deceduti per cause naturali dopo i 50 anni risulta che circa un terzo di loro aveva, in una forma o
nell’altra, una prostata cancerosa.? Muoiono più uomini col cancro alla prostata che di cancro alla prostata. È proprio perché il beneficio non c’è e il dannoè probabile che la us Preventive Services Task Force sconsiglia esplicitamente lo screening di massa del cancro alla prostata, sia con l’antigene prostatico specifico (PSA) sia con l’esame rettale digitale.? Attualmente, nessun dato lascia supporre che una scoperta precoce abbassi la mortalità, mentre la documentazione dei possibili danni (comprese l’incontinenza e l’impotenza) legati alla diagnosi e alla cura successive è schiacciante; e anche dopo che il cancro è stato scoperto non è dimostrato, a nessuno stadio del suo decorso, che le cure oggi esistenti prolunghino la vita.” Certo, nei casi di cancro già invasivo una terapia
può alleviare il dolore, ma la riduzione del dolore è una cosa e quella della mortalità un’altra; ciononostante, sono sempre di più gli uomini che partecipano allo screening del cancro alla prostata, e il fatto che il numero dei casi riportati sia più che triplicato dal 1990 è dovuto in buona parte proprio a questa maggiore partecipazione.
“Ordini del medico!” Come reagì il mio amico alla nostra conversazione? Si scrollò di dosso la sua rispettosa docilità,
andò a consultare di persona i dati scientifici, ed essendo un economista calcolò quanto denaro si sarebbe potuto riallocare alla ricerca di terapie efficaci per il cancro alla prostata anziché spenderlo per lo screening. Aveva fatto il primo passo.
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IL CONSENSO (DIS)INFORMATO
LO SCREENING DEL CANCRO COLORETTALE
Per trasformare in realtà l'ideale del consenso informato hanno bisogno di una preparazione specifica non solo i pazienti, ma anche i medici. Io e Ulrich Hoffrage abbiamo usato le frequenze naturali per aiutarli a capire i risultati dei normali test del cancro colorettale, della fenilchetonuria e del morbo di Bechterev;” qui riporto solo quelli del test della copremia, detto anche esame del sangue fecale occulto o FOBT (Feca/ Occult Blood Test), che è quello usato normalmente per il cancro colorettale. Quegli stessi 48 medici con una media di 14 anni atesta di esperienza professionale dei quali ho già parlato nel capitolo 4 dovevano stimare la probabilità di un cancro colorettale data una copremia positiva in uno screening di routine; i dati furono comunicati sotto forma di probabilità condizionali a metà di loro e sotto forma di frequenze naturali all’altra metà. Dò qui, di seguito, le due versioni.
Introduzione (per tutti)
Per diagnosticare il cancro colorettale si usa, insieme ad altri, l'esame della copremia, destinato a scoprire tracce occulte di sangue nelle feci. È un esame che si fa da una certa età in su, ma anche nei normali screening miranti a
una diagnosi precoce di questa forma di cancro. Immaginate di condurre uno screening in una certa regione, e che per gli individui asintomatici e sopra i 50 anni che vi partecipano il test della copremia dia questi risultati:
Formulazione in termini di probabilità condizionali (i primi 24 partecipanti) La probabilità che una di queste persone abbia il cancro colorettale è dello 03%. Se uno ha il cancro colorettale,
c'è una probabilità del 50% che abbia una copremia positiva; se non ce l’ha, c'è una probabilità del 3% che abbia comunque una copremia positiva. Immaginate una perso-
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COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
na sopra i 50 anni, asintomatica, alla quale nello scree-
ning risulti una copremia positiva. Qual è la probabilità che abbia veramente il cancro colorettale?
%.
Formulazione in termini di frequenze naturali (gli altri 24 partecipanti) Ogni 10.000 persone, 30 hanno il cancro colorettale. Fra
queste 30 persone con cancro colorettale 15 avranno una copremia positiva. Fra i 9.970 restanti, senza cancro colorettale, 300 avranno ciononostante una copremia postti-
va. Immaginate un campione di individui sopra i 50 anni, asintomatici, con una copremia positiva nel vostro scree-
ning: quanti di loro avranno veramente il cancro coloretale P!Cth sg) VUE
La figura 6.1 (lato sinistro) mostra che quando le informazioni sono state presentate in termini probabilistici i medici hanno dato stime in forte disaccordo (andavano dall’ 1% al 99%). La più frequente era del 50%, cioè dieci volte superiore al valore corretto, indicato da uno solo dei 24 medici a cui i
dati erano stati presentati in linguaggio probabilistico. Ci sono andati vicini anche alcuni altri (pochi), ma per le ragioni sbagliate: uno, per esempio, ha confuso il tasso di false positività (3%) con la probabilità (per puro caso, di poco superiore) che dato un esito positivo ci sia un cancro colorettale. Abbiamo osservato, dunque, lo stesso risultato trovato per il cancro al seno: quando i medici cercano di trarre delle conclusioni da dati probabilistici, sui loro cervelli scende la nebbia. Ma le frequenze naturali disperdevano questa nebbia mentale? E aumentavano il consenso? Sì. Quando le informazioni
venivano espresse in frequenze, c'era meno dispersione delle stime, che variavano dall’1% al 10% (figura 6.1, lato destro).
In questo gruppo tutti i medici diedero una risposta corretta o quasi. Come nello screening del cancro al seno, anche qui per disperdere la nebbia mentale che circondava il significato di una copremia positiva bastava presentare i dati statistici in
124
TL CONSENSO (DIS)INFORMATO
100
00
90 80 70
3
60)
v E
50
mn
40
i
30
0000000 0000
00 00
20
10
s°° Sì
Probabilità condizionali
AES
Stima corretta
Frequenze naturali
Figura 6.1 L'effetto della rappresentazione sulla diagnosi del cancro colorettale. Quarantotto medici hanno stimato la probabilità di cancro colorettale dato un esito positivo dello screening. I dati pertinenti sono stati forniti in termini di probabilità condizionali a metà di loro e in termini di frequenze naturali all’altra metà. Sull’asse delle ordinate possiamo vedere le probabilità, o le frequenze, del cancro colorettale in caso di test positivo stimate da questi medici.
una forma diversa da quella in cui sono presentati nei normali manuali di medicina. Possiamo illustrare la risposta alla domanda “Che significa un esito positivo?” disegnando un albero di frequenze (figura 6.2). Ogni 315 persone positive allo screening della copremia si prevede il cancro colorettale solo in 15, il che corrisponde a una probabilità del 4,8%. Non è molto diverso che nello screening del cancro al seno: i test di copremia eseguiti a scopo di controllo e che risultano positivi sono in parte fasulli, e la ragione è la stessa: quando una malattia è rara (e il cancro colorettale lo è, sul totale della popolazione) il numero delle positività vere sarà basso e la maggior parte delle positività sarà falsa. Uno studio ha scoperto, per esempio, che fra il 94% e il 98% dei pazienti con un esame positivo non aveva il cancro colorettale.?® Ma allora lo screening di questa malattia vale 125:
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
10.000 persone 30 con cancro colorettale 15 positive
9970 senza cancro colorettale 15 negative
300 positive
9670 negative
Figura 6.2 Albero delle frequenze nello screening del cancro colorettale. Su 315 persone con una copremia positiva (neretto) circa 15 hanno il cancro colorettale, il che corrisponde a una probabilità del 4,8%. (Dati presi da Gigerenzer, 1996 e Hoffrage e Gigerenzer, 1998.)
il suo costo, se il numero di false positività è così grande? Dipende, come per quello del cancro al seno, dai valori del paziente; ma il medico lo può aiutare spiegandogli chiaramente il significato di un esito positivo. Nonostante i suoi benefici siano pressappoco uguali a quelli del suo equivalente per il cancro al seno, non sembra che lo screening del cancro colorettale abbia molti difensori al di fuori della professione medica; mentre l’immensa maggioranza delle donne cui si chiede di partecipare allo screening del cancro al seno acconsente,” stando ai resoconti dei programmi di screening di massa le partecipazioni al test della copremia oscillano fra il 15% e il 30%, e quelle alla sigmoidoscopia (un’altra forma di controllo che i pazienti trovano sgradevole, imbarazzante e costosa) sono ancora più basse. Se negli Stati Uniti si consigliassero, e realizzassero, la sigmoidoscopia e il test della copremia su tutte le persone sopra i 50 anni, il costo supererebbe, solo in parcelle, il miliardo di dollari. ANATOMIA DELLA MENTE DEI MEDICI
Come avevano cercato di risolvere i loro problemi diagnostici quei dottori che avevano dato risposte sbagliate? Siamo riusciti a identificare la maggior parte di queste strategie intuitive partendo dalle stime e annotazioni di questi medici, non126
IL CONSENSO (DIS)INFORMATO
ché da una serie di colloqui post factu. I soggetti ragionavano in modi incredibilmente diversi con le probabilità e con le frequenze; fra quelli ai quali erano state fornite probabilità le due strategie dominanti erano “solo sensibilità” e “sensibilità meno false positività”, entrambe illustrate alla figura 6.3 per quanto riguarda il problema del cancro colorettale. Quelli che ragionavano secondo la strategia “solo sensibilità” concludevano che in caso di test positivo la probabilità di cancro colorettale era del 50%, dato che la sensibilità dell'esame aveva appunto questo valore; quelli che usavano la strategia “sensibilità meno false positività” giudicavano invece che fosse del 47%, cioè la sensibilità dell'esame meno le false positività Formulazione in termini di probabilità condizionali Regola di Bayes
La probabilità-ehe-una di queste persone abbia il cancro coloràttale è dello 0 Se uno ha il cancro colorettale esiste una probabilità dg160%) che abbia una copremia positiva; se 707 ce l’ha esiste una probabilità del GA abbia comunque una copremia positiva.
sensibilità meno false positività
Formulazione in termini di frequenze naturali Regola di Bayes
Ogni(10.000 persone, con cancro senza cancro Cta solo tasso di base
a
G
olorettale. Fra queste 30 persone ufia copremia positiva. Fra i 9970 restanti, avranno ciononostante una copremia positiva. solo esami positivi
Figura 6.3 Come ragionano i dottori. Le frecce indicano quali informazioni sono usate dalle strategie diagnostiche più diffuse; per esempio i medici che adottano la strategia “solo sensibilità” concludono che laprobabilità che un paziente abbia il cancro colorettale dato un esame positivo è del 50%, che invece è la sensibilità dell'esame. È da notare che le strategie di ragionamento dei medici cambiano quando le informazioni sono presentate in termini di frequenze naturali (sotto) anziché di probabilità condizionali (sopra). Questa analisi è basata su un gruppo di 48 medici. (Vedi Hoffrage e Gigerenzer, 1998.)
127
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
(3%). Entrambe le strategie portano in generale a sopravvalutare grossolanamente la probabilità di avere una certa malattia dato l’esito positivo di un certo esame, perché ignorano entrambe il tasso di base della malattia (che in questo caso è dello 0,3%), e la maggioranza delle sindromi è relativamente rara. Quanto era coerente l'applicazione di queste strategie? Per esempio, se un medico impiegava quella del tipo “solo sensibilità” per risolvere un problema diagnostico, l’usava poi anche per gli altri? Se gli si fornivano probabilità, la sua coerenza era scarsa; il primario di un reparto, per esempio, una volta sommò la sensibilità col tasso di false positività per ottenere la probabilità del cancro in caso di esame positivo, ma nel problema diagnostico successivo moltiplicò sempre la sensibilità per il tasso di base della malattia. Solo un dottore su cinque usò la stessa strategia per risolvere entrambi i problemi diagnostici che gli erano stati assegnati — per esempio, sul cancro
al seno e il cancro colorettale. Con le frequenze invece la coerenza aumentava: più di metà dei medici usò la stessa strategia in entrambi i problemi.? Le risposte corrette diventavano molto più probabili se i problemi erano formulati in termini di frequenze, ma anche così le stime, qualche volta, erano scorrette. Con le frequenze le due strategie non bayesiane usate più spesso erano “solo tasso di base” e “solo positività”. Col problema del cancro colorettale la strategia “solo tasso di base” porta a concludere che su 10.000 persone con una copremia positiva 30 hanno effettivamente il cancro colorettale, mentre quella “solo positività” ci fa arrivare a una stima di 315 su 10.000. La prima cifra sottovaluta il rischio di cancro colorettale, mentre la seconda
(equivalente a un 3% circa) si avvicina al valore giusto, anche se per la ragione sbagliata; tuttavia, le due strategie seguono una logica comune, dato che entrambe mettono in primo piano un tasso di base — o quello della malattia stessa o quello del risultato osservabile (una copremia positiva). Perciò, l’uso delle frequenze naturali non solo favorisce le inferenze bayesiane corrette, ma se queste non emergono incoraggia l’uso di
strategie fondate sui tassi di base. 128
IL CONSENSO (DIS)INFORMATO
Alcuni ricercatori che ci avevano preceduto hanno concluso, partendo dal fatto che quando usano le probabilità i loro ragionamenti diagnostici sono molto scadenti, che i medici confondono due probabilità condizionali distinte, sensibilità di un esame e probabilità della malattia dato un esito positivo.” L'analisi della mente medica condotta da me e Ulrich Hoffrage fornisce alcuni dati empirici a favore di questa ipotesi (la strategia “solo sensibilità”), ma rivela pure che qualche volta nel ragionamento diagnostico si usano più strategie scorrette anziché questa soltanto. Quando le informazioni sono presentate in termini probabilistici, la forte variabilità del giudizio diagnostico finale può essere ricondotta a quella, altrettanto elevata, delle strategie usate per raggiungerlo. Attraverso i nostri studi abbiamo scoperto anche che nel ragionamento statistico i medici giovani sono più bravi dei colleghi anziani. Il dottor Standing — quel primario che abbiamo conosciuto nel capitolo 4 — non è stato l’unico a rimandarci a una figlia o a un figlio disperando della propria capacità di fare un’inferenza diagnostica corretta a partire da informazioni di tipo statistico. Mentre, sempre nell’ambito del nostro studio, intervistavamo un medico di 49 anni che faceva professione privata, nella stanza entrò per puro caso la figlia diciottenne che chiese di fare anche lei lo stesso test. Il padre aveva lavorato per mezz'ora su quattro problemi diagnostici, sbagliandoli tutti e rimbalzando disperatamente fra due strategie (“solo sensibilità” e “solo tasso di base”); nemmeno le frequenze naturali riuscivano ad aiutarlo. La figlia, invece, risolse tutti e quattro i problemi disegnando alberi di frequenze come quelli delle figure 4.2 e 6.2, e quando scoprì che strategie aveva usato il padre, gli diede un’occhiata perplessa e gli disse: “Senti papà, con le frequenze il problema non è difficile. Non potresti adoperarle anche tu?”. I medici sono consapevoli del proprio analfabetismo numerico? In genere sì, ma tendono a non rendersi conto che una rappresentazione adeguata lo può trasformare in comprensione; alcuni — pochi — arrivano addirittura a gloriarsi della propria ignoranza, con un atteggiamento che ricorda molto 129
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
la figura del medico come artista. Per esempio, un docente universitario e otorinolaringoiatra — nonché uno dei tre specialisti che rifiutarono di partecipare al nostro studio — dichiarò: “Non è questo il modo di trattare i pazienti. Io tutti questi giornali [quelli con le informazioni statistiche] li butto subito via. Non si può fare una diagnosi su questa base, l’informazione statistica è solo una gran balla”. Tuttavia, quei medici da noi studiati che si dichiaravano numericamente analfabeti lo facevano, in maggioranza, con un senso di rammarico: “Ma questa è matematica. Non ci riesco, sono troppo
stupido”. “Non so fare granché coi numeri. Sono una persona intuitiva, tratto i miei pazienti in modo olistico e non uso le statistiche.” Ma con le frequenze naturali quelli che si erano dichiarati analfabeti numerici ragionavano altrettanto bene dei colleghi che non affermavano di essere tali. Il loro nervosismo e la loro tensione si trasformavano in sollievo: “Questa è una frequenza, è una cosa che si vede subito”, sbottò uno; e
un altro disse: “Ce la farebbe uno di prima media. Pensa te se qualcuno non riuscisse a risolverlo!”. Per quanto riguarda la desiderabilità del consenso informato, bisogna capire che questo tipo di consenso non ha a che fare solo con una firma apposta a un modulo: ha a che fare con la comunicazione del rischio, e la cosa dovrebbe avere conse-
guenze anche sulla preparazione professionale dei medici.” Ogni studente di medicina va addestrato all’uso di strumenti mentali che facilitino la comunicazione; e a giudicare dalle reazioni che abbiamo avuto dai medici del nostro studio, questo tipo di addestramento non sarebbe affatto mal visto. Alla fine dell'esperienza, uno di loro ci ha scritto: “Avere partecipato a questo studio e averne appreso i risultati è molto importante per me sul piano professionale. Sono certo che d’ora in poi mi rappresenterò i dati medici in termini di frequenze anziché dar loro solo una breve occhiata o accontentarmi di qualche idea molto vaga”.
130
IL CONSENSO (DIS)INFORMATO
PERCHÉ IL CONSENSO INFORMATO NON ÈFACILE DA RAGGIUNGERE
Un giorno mi venne un torcicollo talmente forte che non riuscivo a girare la testa quasi per niente. Il mio massaggiatore mi mandò da un radiologo, il dottor Best,” a farmi i raggi X; Best era un uomo molto gentile con uno sguardo partecipe e dirigeva un grosso istituto radiologico che faceva anche mammografie. Lungo i corridoi sfrecciavano assistenti in camice bianco, e le sale d’aspetto traboccavano di pazienti. Dopo avermi fatto la radiografia il dottore la mise su uno schermo illuminato e mi spiegò che cosa vedeva. Capii subito che il mio massaggiatore doveva avergli detto per telefono che studiavo le decisioni in condizioni di incertezza, e lui era felicissimo di avere
qualcuno con cui parlare del suo lavoro: “Lei non immagina quanto sia noiosa la mia vita. Sempre lo stesso tran tran giorno dopo giorno, raggi X da 25 anni”. Si lamentava del fatto che i pazienti avevano paura dei raggi X, si lamentava di dover eseguire analisi di tutti i tipi sui pazienti per proteggersi da possibili accuse di m24/practice* nonché dell’inclinazione di troppe persone a delegare ogni decisione, anche minima, al medico. Poiché stavamo discutendo di timori e responsabilità, colsi
l’occasione per chiedergli: “Immagini che io sia una donna che ha passato da poco la quarantina e che venga nel suo istituto per farmi lo screening del cancro al seno; non che io abbia dei sintomi, ma è stato il mio medico curante a dirmi che me lo de-
vo fare ogni due anni. E adesso supponga che il mammogramma sia risultato positivo e io voglia sapere che probabilità ho di avere realmente il cancro al seno. Lei che cosa mi direbbe?”. “Che sembra che Lei ce l’abbia, però non è sicuro” rispose Best,
che proseguì sottolineando quanto fosse importante sapersi immedesimare nei pazienti. Il suo credo era di non negare mai loro la speranza. Io gli ricordai quali erano le probabilità effet* Termine giuridico che non ha un esatto equivalente italiano. Copre tutte le possibili forme di errore, omissione, inefficienza di un medico che danneggiano un paziente. Negli Stati Uniti le cause per r4/practice sono temute dai medici: se le perdono, vengono condannati a risarcimenti rovinosi. [NdT]
ibi
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
tive in gioco (vedi capitolo 4), che lui d’altra parte conosceva, e spiegai che ne seguiva che in media su 10 donne asintomatiche con un mammogramma positivo solo una aveva veramente il cancro al seno. Lui mi guardò e disse: “Mmm...sa, nella mia università non abbiamo mai imparato a ragionare con le probabilità. E adesso, guardi un po’ la sala d’attesa. Io non ho il tempo di leggere riviste professionali, dopo una giornata lavorativa di 12 ore”. E proseguì spiegando come distinguere i pazienti in grado di reggere la notizia di un esame positivo da quelli con cui bisogna essere più delicati nel rivelare la diagnosi. Ma dopo che aveva parlato per 15 minuti della personalità dei pazienti e della capacità dei medici di immedesimarsi con loro tornai a fare al dottor Best la stessa domanda sullo screening del cancro al seno: “Che cosa direbbe a una donna in questa situazione?”. “La verità”, rispose lui. “E qual è la verità?” ribattei. “Che sembra che abbia il cancro al seno.” “Ma 15 minuti fa”, osservai, “avevamo visto che su 10 donne asintomati-
che con un esame positivo solo una ha veramente il cancro al seno, cioè che se una donna sintomatica ha un esame positivo è
più probabile che non abbia il cancro, non che ce l'abbia”. “Anche questo è vero”, rispose il dottor Best. “Dovrebbero insegnarcele queste cose, a noi medici. Ma quand’è che posso prendermi il tempo? Ètutta una questione di costi e benefici.” Il lettore potrebbe chiedersi come si fa a eseguire mammografie per 25 anni senza accorgersi che una parte notevole delle donne con un esito positivo non ha il cancro al seno; d’altronde, neanche la maggioranza dei medici della figura 4.1 a p. 54 (lato sinistro) sembrava essersene accorta. Se medici e pazienti non conoscono i fatti, fra loro può esserci consenso, ma non
consenso informato; la possibilità di un consenso informato non dipende dall’intelligenza, dalla maturità, dalla capacità di far fronte alla malattia del paziente, o almeno non solo da esse,
ma anche dai vincoli ai quali sono soggetti i medici nell’esercizio della professione, come per esempio la giornata lavorativa di 12 ore del dottor Best. Quali sono i principali vincoli che impediscono a medici come Best di capire che la maggioranza delle donne con un mammogramma positivo non ha il cancro? 152
IL CONSENSO (DIS)INFORMATO
E, più in generale, quali sono i condizionamenti istituzionali che si oppongono all’ideale del consenso informato?” Divisione del lavoro. Anzitutto, c'è una divisione del lavoro
che può bloccare il flusso dell’informazione. Normalmente, quei radiologi che eseguono le mammografie non vengono mai a sapere se a una certa paziente in seguito è venuto il cancro. La maggioranza dei sistemi sanitari non tiene aggiornate le informazioni né le diffonde, e i medici sono scarsamente incentivati a ricostruire da sé i dati numerici. Però, questa è una
spiegazione che vale per i radiologi come il dottor Best, non per i ginecologi, che le informazioni pertinenti le vedono. Struttura degli incentivi legali e finanziari. La seconda ragione ha a che fare con le apprensioni e con l'orgoglio professionali, più gli incentivi legali e finanziari a essi associati. L'errore che fa più paura ai medici è non vedere un cancro che c’è; è sconvolgente, emotivamente, avere avuto il potere di scoprire un cancro e però aver perso l’occasione. Una diagnosi mancata
può rovinare una reputazione; i colleghi se ne possono accorgere. Ma non è meno importante la possibilità di essere perseguiti penalmente, e l’errore opposto — sopravvalutare la probabilità di un cancro — protegge i medici dai tribunali perché significa che di tumori se ne faranno scappare pochi. Contemporaneamente, questa politica fa incassare più denaro agli ospedali e ai professionisti privati grazie alle diagnosi e alle terapie in più; e il suo prezzo — un grande numero di false positività e i loro costi fisici, psicologici e monetari per le pazienti — scompare davanti al timore del medico di mancare una diagnosi. Come diceva l'organizzatore della discussione riportata sopra, di solito le pazienti sono grate delle false positività; ma potrebbero essere meno grate (e meno terrorizzate, tanto per cominciare), se le si informasse che circa 9 donne su 10 che risultano
positive allo screening non hanno affatto il cancro al seno. Conflitti d'interesse. La terza ragione sta in una serie di conflitti d’interesse. Uno specialista di cancro al seno mi ha detto 133
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
di non consigliare più sistematicamente alle donne di andare da un radiologo solo “perché ormai è tempo e ognuna dovrebbe farlo” e di avere deciso invece di informarle tutte dei benefici e dei costi dello screening mammografico così che ognuna possa decidere a ragion veduta se e quando partecipare. Quando (erano a cena insieme) questo medico parlò a un amico radiologo della sua nuova linea d’azione, l’amico ne fu
così sconvolto che lasciò cadere le posate, si alzò per andarsene dal ristorante e gridò: “Dove li hai presi questi numeri?”. La risposta fu: “Da centinaia di migliaia di donne studiate in America, in Svezia e in altri paesi”. “In America”, esclamò il radiologo, furioso, “non sanno leggere imammogrammi!” Ma il suo vero problema non era l’America, erano i soldi. Mammografava le donne che gli mandavano gli specialisti di cancro al seno da anni; se metà di queste donne avesse deciso di non partecipare allo screening, o di cominciare a farlo a un’età più avanzata, per lui sarebbe stata la rovina finanziaria. Io ammiro questo specialista di cancro al seno, disposto a rischiare di perdere un amico infuriato pur di informare le sue pazienti. L'analfabetismo numerico.
E c'è anche, ultima ma non mini-
ma, l'incapacità numerica. Molti medici sono mal preparati al pensiero statistico e poco incentivati a impegnarsi in questa
forma di ragionamento, per loro aliena. Ma se i pazienti cominciano a dare un’occhiata ai numeri, porebbero essere costretti a farlo anche loro, i medici.
Le prime tre ragioni per le quali molti dottori non informano i pazienti derivano da strutture istituzionali, professionali ed economiche che questo libro non ha il potere di cambiare; ma
per la quarta, l’analfabetismo numerico, abbiamo motivo di sperare — e qui presentiamo degli strumenti efficaci, semplici e che non costano niente per trasformare l’analfabetismo numerico in comprensione. Una volta che un numero sufficiente di medici e pazienti si sarà impadronito di questi strumenti, la comprensione che ne guadagneranno si trasformerà in spinta a modificare le strutture istituzionali, professionali ed economiche.
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7 LE CONSULENZE SULL'AIDS
Un risultato positivo significa che nel suo sangue sono stati trovati gli anticorpi dell’HIv, e questo vuole dire che Lei ha un’infezione da HIV. È infetto per il resto della sua vita, e può trasmettere l’HIv ad altre persone. ILLINOIS DEPARTMENT OF PUBLIC HEALTH
Se il mio esame è positivo, mi ucciderò. UN UTENTE
BETTY
Un giorno di novembre del 1990 il telefono di Betty squillò. Betty abitava in Florida, aveva 45 anni ed era madre di tre adolescenti maschi; il padre era morto. Le chiesero di recarsi all'ospedale del luogo, dove si era fatta fare un controllo per un problema alla tiroide e le avevano tolto un campione di sangue per esaminarlo; e quando arrivò, le dissero che aveva l’AtpS. I dottori non sapevano bene quanto le restasse da vivere. E vennero dei mesi in cui Betty guardava tutto il tempo la televisione per escludere i pensieri legati alla malattia, e però di notte quei pensieri ritornavano. Con che vestito voglio essere sepolta? Come la prenderanno i miei figli? E come li tratterà la gente? Nel 1992 il medico curante cominciò a darle la didanosina, una medicina che blocca la riproduzione dell’HIV ma provoca vomito, stanchezza e altri effetti collaterali. Quando en155
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
trò in un gruppo locale di malati di AIDS, i consulenti notarono che il suo conteggio delle cellule T era sempre rimasto alto e le consigliarono di rifarsi gli esami; nel novembre del 1992 il suo telefono squillò di nuovo e nuovamente le fu chiesto di venire in ospedale. “Sa una cosa? Il suo test dell’HIv è risultato negativo!”
Betty fece causa al medico curante, all’ospedale e al Florida Department of Health and Rehabilitation Services, l’ente che aveva eseguito il primo esame, e una giuria le assegnò 600.000 dollari per i suoi due anni di sofferenze e dolore.' DAVID
La Chicago Tribune ha pubblicato questa lettera, nonché la risposta, il 5 marzo 1993 col titolo “Una falsa diagnosi di HIV ha causato 18 mesi d’inferno”: Cara Ann Landers,
nel marzo del 1991 andai a un centro che fa esami anonimi per un test di routine dell’Hiv. Il risultato mi arrivò due settimane dopo, ed era positivo. Ne fui devastato; avevo vent'anni ed ero condannato. Mi venne una depressione grave e cominciai
a pensare a diversi modi di suicidarmi, ma dopo gli incoraggiamenti della famiglia e degli amici decisi di combattere. A Dallas i dottori mi dissero che il posto dove curavano meglio i malati di HIV era la California, così impacchettai tutte le mie cose e mi diressi a ovest. Ci misi tre mesi a trovare un dottore
di cui fidarmi, ma prima di prendermi in cura quest'uomo insistette perché mi facessi altri esami. Immagini quanto fui scosso quando mi arrivò il nuovo risultato: negativo! Il dottore mi controllò un’altra volta, e l’esito era chiaramente negativo. Sono grato della mia buona salute, ma quei 18 mesi in cui ho creduto di avere il virus hanno cambiato la mia vita per sempre. Io supplico i dottori di stare più attenti, ma voglio anche dire ai suoi lettori di pretendere la sicurezza e cercare un secondo responso. Continuerò a fare l’esame dell’HIV ogni sei mesi, ma non ne sono più terrorizzato.
David di Dallas
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LE CONSULENZE SULL’AIDS
Caro David,
il tuo è davvero un incuboalieto fine, ma non dare la colpa al dottore. E il laboratorio a doversi dare una regolata. La morale della tua storia è Procurati un secondo responso. E un terzo. Non fidarti mai di un unico esame. Mai. Ann Landers
David non spiega che cosa gli dissero i suoi dottori (se gli dissero qualcosa) della probabilità di avere veramente il virus dopo un risultato positivo del test dell’HIv (human immunodeficiency virus, virus dell’immunodeficienza umana). A quanto sembra, la sua conclusione fu che un esame positivo voleva dire che aveva il virus; punto. A Betty fu detto semplicemente che aveva l’AIDS; a Susan, la ragazza madre che abbiamo cono-
sciuto nel capitolo 1, fu detto che un test positivo significava, con certezza assoluta, che aveva l’HIV. E Susan fece del sesso
non protetto con una persona che l’HIv l’aveva davvero, convinta com'era che non avesse importanza perché tanto era infetta anche lei; Betty passò due anni di sofferenze; David pensò al suicidio — solo per scoprire nel modo più terribile che il test dell’HIv può dare una falsa positività. Che significa un esame dell’HIv positivo? E che significa un risultato negativo? E in che modo un consulente può spiegare queste cose a un utente così da fargli capire quei risultati che ha davanti? Ora affronterò questi problemi limitatamente ai test su persone che non hanno comportamenti a rischio come l’assunzione di droghe per endovena; ma prima è bene considerare più in dettaglio l’esame, la malattia e lo stigma sociale che colpisce chi è HIV-positivo. HIV E AIDS
Quand'è che il risultato di un test è dichiarato positivo? Normalmente l’esame dell’HIv comporta questa successione: c'è un primo test, il cosiddetto ELISA (enzye-linked immunoabsorbent assay, o esame immunoassorbente collegato agli IS
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
enzimi), che ha lo scopo di individuare gli anticorpi contro I’HIV in un campione di sangue. In origine, era usato per selezionare il sangue dei donatori, cioè aveva una funzione per la quale era d’obbligo massimizzare la sensibilità (il tasso delle positività vere) anche a costo di aumentare le false positività. Se il risultato è negativo, si notifica al cliente che è HIV-negativo; se è positivo, si fa un secondo ELISA (preferibilmente con reagenti di un’altra ditta) su quel campione di sangue, e se anche questo dà un esito positivo si fa un test Western
Blot, più costoso dell’ELISA e che porta via più tempo; se anche il Western Blot è positivo, si notifica al cliente che è HIVpositivo, ma in certi casi prima di dargli la notizia ci si procura e si fa analizzare un secondo campione di sangue.’ I dettagli della procedura variano da istituzione a istituzione e da paese a paese. L'AIDS o acquired immune deficiency syndrome, sindrome da immunodeficienza acquisita, è prima di tutto una grave deficienza immunitaria, ma a differenza di altre malattie non ha
sintomi costanti e specifici; una volta che il sistema immunitario smette di funzionare bene possono intervenire le complicazioni più diverse, e si conoscono qualcosa come 26 infezioni opportunistiche. Se una persona è HIV-positiva e ha una o più di queste infezioni, le viene diagnosticato l'AIDS, che è lo sta-
dio finale di un’infezione virale prodotta dall’HIV (ma ci sono casi di ATDS dovuti a cause diverse dall’HTv). L’HIV è un retrovi-
rus, cioè un parassita che inserisce il proprio materiale genetico in quello della cellula umana ospitante, verosimilmente per tutto il tempo che questa ha da vivere, e distrugge le cellule T del sistema immunitario. Si conoscono due ceppi distinti, l’HIV-1, scoperto nel 1983 e che causa la maggior parte dei casi di AIDS in tutto il mondo, e l’HIv-2, scoperto nel 1987 in alcu-
ne donne dell’Africa occidentale, che è raro negli Stati Uniti e in Europa, sembra danneggiare di meno il sistema immunitario e si riproduce più lentamente. Esiste una cura? Per il momento no. Possiamo illustrare alcuni dei problemi per cui è difficile trovarla facendo un confronto con l’epidemia di sifilide dei primi decenni del Nove138
LE CONSULENZE SULL’AIDS
cento. La campagna contro la sifilide era molto simile a quella che si fa oggi contro l’ATDS: c'erano dei programmi di educazione sessuale miranti a diminuire i comportamenti ad alto rischio, i media cercavano di diffondere la paura della malattia e in certi stati degli usA era obbligatorio un esame sierologico se si voleva ottenere una licenza di matrimonio. Tutte queste misure ebbero però scarsissimi effetti sulla diffusione dell’epidemia, e negli anni Trenta del Novecento quasi un americano su 10 aveva la sifilide. Alla fine, l'epidemia poté essere messa sotto controllo grazie non a un cambiamento del comportamento sessuale umano, ma alla scoperta di un medicinale efficace e poco costoso come la penicillina. La differenza fondamentale tra la sifilide e l’ATDS è che il batterio che causa la prima, una spirocheta, non muta con la velocità dell’HIv. Replicandosi l’HIV commette talmente tanti errori di copiatura che, quando si arriva a diagnosticare l'AIDS a qualcuno, il malato può avere in corpo un miliardo o più di varianti; alcune di queste mutazioni indeboliscono l’HIV e lo espongono agli attacchi del sistema immunitario, ma altre lo rafforzano e accrescono le sue probabilità di eluderlo. Sembra che questa rapidissima evoluzione darwiniana del virus prevenga la capacità degli agenti immunitari di riconoscerlo e di rispondergli e aiuti il virus stesso ad acquisire una resistenza alle terapie farmacologiche. Fra il momento dell’infezione e la malattia vera e propria c'è una fase asintomatica che dura in media fra i dieci e i dodici anni, e che tuttavia potrebbe non essere una vera fase di latenza ma un periodo di lotta ininterrotta fra l’HIV e il sistema immunitario, con i rapporti di forza che si spostano lentamente a favore del primo. Non c’è cura ma c’è speranza. Sono già state ottenute delle sostanze che interferiscono con la capacità del virus di replicarsi, ma poiché l’HIV può rapidamente diventare resistente a ciascuna di esse, se ne somministra una miscela: è la cosiddet-
ta terapia-cocktail dell'AIDS, che prolunga la vita della persona infetta, ma non la guarisce, usando una mescolanza di sostanze come, per esempio, la didanosina e la zidovudina. E uno sviluppo importante, ma col difetto che questi cocktail sono 190
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
molto costosi e quindi facilmene accessibili ai ricchi ma non ai moltissimi che vivono in povertà. Inoltre, questi medicinali hanno effetti collaterali che vanno dal moderato al grave, come forti bruciori alle mani e ai piedi, perdita dei capelli e un pericoloso rigonfiamento del pancreas. Per i gruppi ad alto rischio lo screening dell’HIv è importantissimo. È vero ‘che la possibilità di una terapia è molto limitata, perché la malattia continua a trasformarsi, ma c’è an-
che un’altra ragione per farlo: la diagnosi precoce può ridurre la diffusione del male. Già sappiamo che la mammografia non riduce la diffusione del cancro al seno ma solo la mortalità, e
però il caso dell’HIv è diverso, perché il virus si trasmette da persona a persona e una diagnosi precoce può diminuire la trasmissione, e quindi la diffusione, se le persone infette rive-
lano la propria condizione ai loro partner e prendono delle precauzioni.
STIGMA ED ETICA SESSUALE
Ryan White aveva 12 anni quando gli fu diagnosticato l'AIDS. Era emofiliaco, abitava a Kokomo nell’Indiana, dove la malattia era socialmente inaccettabile, ed era stato infettato da
una trasfusione di sangue. Le trasfusioni gli erano necessarie per sopravvivere.
Ryan dovette subire l’astio e le menzogne dei compagni di scuola e dei loro genitori, che lo accusavano di sputare sui loro figli per infettarli e di altre colpe, non meno fantastiche, ma diceva di capire benissimo che questa discriminazione era dovuta all’ignoranza, alla paura e a un’idea sbagliata del modo in cui il virus si trasmette. La sua lotta perché gli fosse concesso di andare a scuola, per avere la possibilità di uscire di casa e passeggiare senza essere deriso, per diventare socialmente accettabile gli conquistò il rispetto di milioni di persone in tutti gli Stati Uniti. Morì nel 1990, all’età di 18 anni. In America i primi ad ammalarsi di ADS furono, nel 1981, dei maschi omosessuali, e il reverendo Billy Graham disse: “L'AIDS 140
LE CONSULENZE SULL’AIDS
è un giudizio di Dio”. Da principio l’opinione pubblica reagì con la negazione: da parte dei media, che non erano preparati a parlare di omosessualità, aghi infetti o preservativi, ma anche da parte dei gay, che non erano preparati a ripensare la liberazione sessuale conquistata negli anni Settanta. Nel 1988 un articolo di Robert Gould su Cosmopolitan assicurava alle donne che il sesso orale o vaginale ordinario, anche con uomini HIv-positivi, era
praticamente senza rischi. Il fatto che mise fine alle negazioni accadde nel 1985, quando una stella di Hollywood, Rock Hudson, rivelò pubblicamente di avere l’AIDS; e dopo di lui vennero altri personaggi famosi. Il pianista e showman Liberace morì nel 1987, e nel
1991 il giocatore professionista di pallacanestro Magic Johnson annunciò: “Eccomi qui, proprio io, Magic Johnson, a dire che può succedere a chiunque, anche a me”. Oggi il virus si diffonde nel mondo intero soprattutto attraverso i contatti eterosessuali, e la cosa è risaputa: tuttavia, la
conoscenza non ha fermato la stigmatizzazione delle vittime. Nel West Virginia una donna è stata uccisa con tre pallottole e il suo corpo è stato abbandonato accanto a una stradina isolata; e un’altra donna è stata picchiata a morte, una macchina è
passata sopra il suo corpo, e poi è stata lasciata in un canale di scolo. Tutte e due avevano rivelato di avere l'AIDS, e secondo
la polizia erano state uccise per questa ragione. Nell’Ohio un uomo con un test dell’HIV positivo perse nel giro di 12 giorni il lavoro, la casa e quasi anche la moglie, e nello stesso giorno in cui aveva stabilito di suicidarsi gli venne notificato che la sua positività era fasulla. Altri preferiscono non parlare apertamente ma dissimulare o mentire. Molte persone infette da HIV non rivelano la propria condizione ai loro compagni. Un esempio: è stato chiesto ai pazienti dell'ospedale cittadino di Boston e dell’ospedale del Rhode Island ricoverati, come causa primaria, per infezione da HIV se avessero parlato di questa infezione ai propri compagni, e il 40% ha dichiarato di non averlo fatto. E la
maggioranza non usava sempre il preservativo. Le donne parlavano più spesso degli uomini e le persone con un solo 141
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
partner lo facevano più spesso di quelle che ne avevano più d’uno. Anche gli studenti dell’Università della California del Sud hanno riferito di comportamenti ingannatori molto simili: su circa 500 di loro, già esperti sessualmente, il 47% dei
maschi e il 60% delle femmine ha raccontato che qualcuno aveva detto loro una menzogna per indurli a un rapporto sessuale. Ma solo il 35% dei primi e il 10% delle seconde ha ammesso di avere mentito pur di procurarsi un rapporto sessua-
le. In altre parole, quelli che si dicono vittime sono più di quelli che si confessano colpevoli: ma la cosa è perfettamente compatibile con la gran quantità di menzogna e inganno di cui si riconosce l’esistenza. Uno studente maschio su cinque ha ammesso che se fosse HIv-positivo, pur di fare del sesso mentirebbe e direbbe che il suo esame è stato negativo.’ Ma per diffondersi il virus può sfruttare, oltre alle menzogne umane, anche i miti. Nel luglio del 2000, alla 13° conferenza internazionale sull’AIDS, il dottor Zweli Mkhize, ministro della Sanità di una provincia del Sudafrica, ha sottolineato che
solo l'istruzione può combattere alcune credenze false ma molto diffuse, per esempio — ed è un mito che ha prodotto violenze e stupri — che fare l’amore con una vergine guarisca dall’Ams.* È una versione contemporanea dell’antica leggenda del potere delle vergini: solo una persona così pura può far riassorbire la contaminazione.
L'ILLUSIONE DELLA CERTEZZA
Nel 1987, a un convegno sull’AIDS, l’allora senatore della Florida Lawton Chiles riferì che su 22 donatori di sangue del suo stato ai quali era stato comunicato che il test ELISA aveva dato un esito HIV-positivo 7 si erano suicidati (in quegli anni la procedura normale non aggiungeva ancora il Western Blot all’ELISA). Anni dopo, la pubblicazione medica che documentava questa tragedia spiegava ai lettori che “anche sei risultati dei due esami dell'AIDS, ELISA e WB (Western Blot), sono en-
trambi positivi, la probabilità che il soggetto sia infetto è solo 142
LE CONSULENZE SULL'AIDS
del 50%” .? Questo vale quando i soggetti con un esame positivo appartengono a un gruppo abasso rischio come quello dei donatori di sangue (che vengono controllati e selezionati proprio perché non devono avere malattie infettive), e gli sfortunati soggetti ricordati dal senatore Chiles avevano fatto esclusivamente l’ELISA, che da solo dà un tasso di false positività superiore a quello che dà la sua combinazione col Western Blot; dunque, la probabilità che fossero infetti probabilmente era ancora più bassa di quella stima del 50% di cui abbiamo appena letto. E se i donatori fossero stati informati di qual era il loro rischio reale di avere l’Atps, forse oggi qualcuno di quei sette poveretti sarebbe ancora vivo. L'ignorare la possibilità che un esito positivo sia sbagliato è una delle forme che assume l’illusione della certezza, ma non
la sola; ci sono anche, per esempio, gli stati d’animo del tipo “A me non può capitare”. Secondo più di uno studio, negli Stati Uniti la maggioranza degli adolescenti non ha paura dell'infezione da HIV, per cui non modifica il proprio comportamento sessuale — e intanto su quattro nuove infezioni una colpisce una persona fra i 13 e i 20 anni. Come ha spiegato una
volta un adolescente: “A questa età gli ormoni impazzano e uno si crede invulnerabile. Ma io l’Ams l’ho preso facendo sesso”.!° In questo gruppo di età circa il 75% delle infezioni da HIV colpisce o i maschi omosessuali o (attraverso un contatto eterosessuale) le ragazze. Le due forme dell’illusione della certezza — non sapere che l’esame può sbagliare e non rendersi conto di non essere invulnerabile — hanno conseguenze analoghe: alcuni hanno pensato al suicidio, altri si sono effettivamente suicidati, altri ancora sono scivolati in uno stile di vita
fatalistico in cui non si fa più attenzione a niente e si mettono in pericolo gli altri, oltre che se stessi. Può anche darsi che per il momento non siamo in grado di vincere la battaglia contro il virus con armi biologiche, ma possiamo almeno aiutare tanta gente a capire meglioirischi, e una migliore comprensione può ridurre il tributo che paghiamo alla malattia anno dopo anno. Nei consultori c'è, come mostrano i casi di Susan, Betty, David e dei donatori di sangue 143
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
della Florida, qualcosa che non funziona; ora vi inviterò a con-
siderare più da vicino le consulenze fornite a persone che non hanno comportamenti ad alto rischio. GLI UTENTI A BASSO RISCHIO
I gruppi col rischio più elevato di infezione da HIV sono i maschi omosessuali, i tossicomani che si iniettano la droga in vena e i loro partner eterosessuali, gli emofiliaci ei figli di madri infette; ma un’ampia proporzione di queste persone ad alto rischio preferisce non farsi il test, mentre sono proprio quelli a basso rischio a sottoporsi sempre di più all’esame dell’Hrv. Solo negli Stati Uniti si controllano ogni anno circa 50 milioni di campioni di sangue e plasma," in Svizzera qualcosa come il 60% della popolazione complessiva ha fatto almeno un test dell’HIv,” e moltissime di queste persone hanno un comportamento a basso rischio. Le persone a basso rischio fanno ugualmente l’esame dell’HIV per varie ragioni, sia di loro volontà (perché vogliono scoprire se sono infette prima di avviare una relazione, sposarsi, avere figli o per altre cause) sia obbligatoriamente (perché sono donatori di sangue o immigrati, perché vogliono chiedere un'assicurazione sanitaria, perché appartengono alle forze armate o ad altri gruppi ove per legge è richiesto l'esame). Una mia amica e il suo fidanzato, per esempio, hanno deciso di farsi
il test dell’HIV prima di sposarsi, semplicemente per sicurezza, e il governo svedese incoraggia i controlli volontari al punto che “sono proprio quelli con poche probabilità di essere infetti a fare l'esame, a battaglioni”. La legge consente l’esame coatto invari paesi, e gli assicuratori sfruttano questo fatto per proteggersi da eventuali perdite. Nel 1990, per esempio, Bill Clinton, che allora era governa-
tore dell'Arkansas, dovette farsi un test dell’HIv per poter rinnovare la sua assicurazione sulla vita; e verso la fine degli anni
Ottanta l’Illinois e la Louisiana imponevano l’esame alle coppie che chiedevano una licenza di matrimonio — atutti e due; e
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LE CONSULENZE SULL’AIDS
a tutti e due comunicavano irisultati. Questi programmi ave-
vano un forte costo sociale e finanziario, e produssero alcune false diagnosi di HIV, con rotture di fidanzamento, gravidanze interrotte e gravi sofferenze psicologiche. L’American Medical Association ha sposato la causa del test obbligatorio per tutte le donne incinte e tutti i neonati, e nel 1996 lo stato di
New York è stato il primo a prescrivere per legge l’esame dell’HIv ai neonati col cosiddetto decreto del “baby ADS”. L'esame forzoso è stato imposto da più di un tribunale a singoli individui, e da più di un governo a detenuti, prostitute e persone che cercavano di immigrare. Può addirittura accadere che un individuo a basso rischio sia sottoposto al test senza saperlo: è noto, per esempio, che alcune grosse imprese di Bombay controllavano i propri dipendenti senza informarli e, quando il test risultava positivo, li licenziavano. Che deve fare un consultorio con persone a basso rischio di HIv? Bisogna stare particolarmente in guardia contro le false positività, cioè contro la possibilità che l’utente riceva
la notizia di un test dell’HIV positivo pur non essendo infetto; infatti, più la diffusione (il tasso di base) dell’HIv in un
certo gruppo è bassa, maggiore sarà, fra le positività, la proporzione dei risultati fasulli. In altre parole, se risulta positiva una persona con un comportamento ad alto rischio, la probabilità che sia veramente infetta di HIv è molto alta, ma se è positivo un membro di un gruppo a basso rischio, è parecchio più bassa. CHE COSA IMPLICA UN TEST POSITIVO?
Diversi anni fa, essendo cittadino tedesco, chiesi una green
card americana per poter accettare una cattedra all’Università di Chicago. L'ufficio immigrazione degli Stati Uniti mi impose di farmi prelevare un campione di sangue per l'esame dell’HIv e mi informò chein caso di esito positivo la green card non mi sarebbe stata concessa; così, un bel mattino andai al consolato americano di Francoforte per farmi l'esame, ma mentre ero 145
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
per strada mi domandai: quanto è probabile che un uomo con un test dell’HIv positivo (ELISA e Western Blot su un solo campione di sangue) abbia il virus? Allora disponevo di queste informazioni sui maschi tedeschi senza comportamenti a rischio conosciuti: Circa lo 0,01% dei maschi senza comportamenti a rischio conosciuti ha l'infezione da HIV (tasso di base). Se uno di questi uomini ha il virus c'è una probabilità del 99,9% che il risultato dell'esame sia positivo (sensibilità). Se invece non è infetto c'è una probabilità del 99,99% che il risultato sia negativo (specificità). Quanto è probabile che un uomo con un test positivo abbia realmente il virus? Moltissimi pensano che sia del 99% o anche più alta, ma le probabilità fanno scendere la nebbia sulla mente di queste persone. C’era un modo di rispondere, prendere carta e penna einserire questi valori nella regola di Bayes: ma stavo guidando. Anche in autostrada, tuttavia, è fa-
cile tradurre mentalmente queste informazioni in frequenze naturali: Immaginiamo 10.000 maschi che non appartengano a nessuna categoria a rischio conosciuta. Uno è infetto (tasso di base), ed è praticamente certo che risulterà positivo
all'esame. Fra i 9999 che non sono infetti anche un altro avrà un esito posttivo (tasso di false positività), dunque
possiamo aspettarci che risultino positivi in due. Quanti fra i maschi che risultano positivi sono realmente infetti? Usando questo tipo di rappresentazione mentale mi fu facile vedere che in caso di risultato positivo la mia probabilità di avere il virus sarebbe stata di circa 1 su 2, ovvero del 50%
(il risultato è illustrato dall'albero della figura 7.1). In altre parole un test dell’HIV positivo non poteva essere una buona ragione di pensare al suicidio, o anche solo a un trasferimento in California — né un simile risultato dovrebbe bastare, da solo, a
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LE CONSULENZE SULL’AIDS
10.000 maschi 1 HIV 1 positivo
91999 senza HIV 0 negativi
1 positivo
9.998 negativi
Figura 7.1 Che cosa implica un test dell’HIV positivo? Su 10.000 maschi senza comportamenti a rischio conosciuti due (in neretto) risulteranno positivi e uno di questi avrà il virus. (Dati presi da Gigerenzer et al., 1998.)
vietare l’ingresso negli Stati Uniti. Sarebbe esclusivamente una buona ragione per fare un altro esame, con un altro campione di sangue. Come si sarebbero potuti risparmiare a Susan, Betty e Da-
vid i loro incubi? O impedire i suicidi della Florida? La risposta è: “Se i consulenti avessero comunicato i rischi in forma trasparente”. La stessa risposta che avevo trovato io mentre guidavo. Se un utente avesse avuto un comportamento arischio — se, per esempio, David fosse stato omosessuale, cioè
membro di un gruppo con un tasso di base di infezione da HIv dell’1,5% —, sarebbe stato possibile raggiungere la trasparenza allo stesso modo, solo che in quel caso i medici avrebbero potuto dare questa spiegazione:
Pensi a 10.000 maschi omosessuali. Si può prevedere che 150 siano infetti del virus, e molto probabilmente avranno tutti un test positivo. Fra i 9850 non infetti si può pre-
vedere che ne risulti positivo uno. Abbiamo dunque 151 uomini con un esame positivo, e 150 di questi banno il virus; perciò la sua probabilità di non avere il virus è una su 151, cioè meno dell1%.
Ricevere questa notizia sarebbe una pessima cosa, pochissimo migliore della prospettiva di uscire dal consultorio con l'assoluta certezza di avere un’infezione da HIV. Come si vede,
il significato di un esito positivo dell'esame dipende dalla clas147
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
se di riferimento, quella che determina il tasso di base dell’HIv. E se la classe di riferimento comprendesse solo quei maschi eterosessuali che fanno sesso sicuro, la probabilità di non avere il virus dopo un risultato positivo sarebbe migliore. E le osservazioni di Ann Landers? Il suo consiglio di “procurarsi un secondo responso” è azzeccato; ma quando dice
che David dovrebbe prendersela col laboratorio e non col dottore dimentica che, quali che siano le ragioni delle false positività, i medici dovrebbero spiegare ai pazienti che queste cose succedono, e dire anche quanto spesso succedono. Alcune false positività possono essere attribuite a errori di laboratorio, per esempio a scambi di campioni di sangue, alla contaminazione di un campione oa errori di trascrizione al momento di inserire i dati in un computer (come nel caso di Susan nel capitolo 1); ma non tutte. A volte una falsa positività può derivare anche da condizioni cliniche che nulla hanno a che fare con l’AIDS — per esempio, reumatismi, disturbi di fegato, varie forme di cancro, malaria ed epatite da alcol.!° Le stime di una sensibilità del 99,9% e di una specificità del 99,99% sono le
migliori che io conosca per l’uso combinato di ELISA e Western Blot (su un solo campione di sangue), ma sono delle approssimazioni."” Le consulenze inadeguate ricevute da Susan, Betty e David sono l’eccezione o la regola? Come spiegai rischi agli utenti chi fa di mestiere il consulente sull’ AIDS? DENTRO IL CONSULTORIO
Io sono stato fortunato: ho avuto allievi non solo intelligenti, ma pieni d'iniziativa. Per scoprire di prima mano come si dà l’informazione sul rischio, uno di loro, Axel Ebert, si è offerto
volontariamente di visitare sotto falso nome 20 centri sanitari pubblici per farsi fare altrettanti test dell’HIv;' questi centri erano situati in 20 città tedesche, comprese le tre più grandi (Berlino, Monaco e Amburgo) e offrivano gratuitamente consulenza ed esame dell’HIv a tutta la popolazione. Prima dell’e148
LE CONSULENZE SULL’AIDS
same è obbligatorio un colloquio e questo permise a Ebert di fare una serie di domande molto pertinenti, come “Il mio esame potrebbe essere positivo anche se non avessi il virus? E se questo è possibile, quanto è frequente?”. Per prima cosa Ebert contattava un centro per telefono e fissava un appuntamento. Poteva visitarne due in rapida successione, poi doveva aspettare almeno due settimane per lasciare che sparissero i forellini delle endovenose, uno su un
braccio e uno sull’altro. Queste pause erano necessarie, perché i segni degli aghi avrebbero potuto far pensare al personale del consultorio che lui fosse un drogato, e quindi rientrasse nella categoria ad alto rischio. Su 20 consulenti, 14 erano medici e 6 assistenti sociali. La
consulenza offerta prima del test dell’HIv ha lo scopo di aiutare l'utente a capire quali sono la procedura dell’esame, i rischi di un’infezione da HIV eil significato, rispettivamente, di un esito positivo e di uno negativo. C'è un documento del governo centrale che invita esplicitamente i consulenti a fare “una valutazione quantitativa e qualitativa del rischio individuale” e a “spiegare l’attendibilità del risultato del test” prima che quest’ultimo venga eseguito." Ebert fece le seguenti domande a tutti gli operatori del consultorio (meno quelli che gli avevano già dato spontaneamente le informazioni):
Sensibilità. Se una persona ha un’infezione da HIV, è possibile che il suo risultato sia negativo? Con quanta attendibilità il test identifica il virus, quando è presente? False positività. Se una persona non ha un'infezione da HIV, è possibile che il suo risultato sia positivo? Quanto è attendibile il test in fatto di false positività? Diffusione fra gli utenti a basso rischio. Quanto è frequente il
virus nel mio gruppo di rischio, cioè fra i maschi eterosessuali dai 20 ai 30 anni e senza fattori di rischio conosciuti, come
l'assunzione di droghe per endovena? 149
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
Valore predittivo positivo. Quanto è probabile che un uomo nel mio gruppo di rischio abbia realmente l'AIDS, in caso di risultato positivo? Il valore predittivo positivo è la probabilità di avere un’infezione da HIV in caso di risultato positivo. Durante i colloqui Ebert non usava mai termini tecnici come “valore predittivo positivo”, ma espressioni del linguaggio quotidiano sul tipo degli esempi fatti sopra; quando il consulente gli dava una risposta quantitativa (una cifra precisa o un intervallo di variabilità) oppure diceva di non potergli rispondere con più precisione, passava a un’altra domanda. Se la risposta era qualitati-
va (per esempio, “Abbastanza sicuro”), oppure il consulente ‘ non capiva, o evitava di rispondere (dicendo, per esempio, “Non si preoccupi, l'esame è molto attendibile, si fidi di me”), chiedeva maggiori chiarimenti e, se era necessario, ripeteva
questa richiesta una seconda volta; ma se anche il terzo tentativo andava a vuoto, non insisteva, perché quando un utente insiste a chiedere chiarimenti, alcuni medici si mettono sulla
difensiva, o si arrabbiano. Quando faceva le domande sulla diffusione dell’HIv e sul valore predittivo positivo, Ebert ricordava sempre al consulente di essere a basso rischio, come maschio eterosessuale di 25 anni che non si iniettava droghe per endovena e non aveva altri fattori di rischio conosciuti. Durante ogni colloquio Ebert usava un codice stenografico per registrare le informazioni pertinenti; dopo ogni colloquio si faceva fare l'esame dell’HIv (ci furono però tre eccezioni: in due casi avrebbe dovuto aspettare diverse ore prima di fare il test, e nel terzo fu il consulente a suggerirgli di dormirci sopra prima di decidere se farlo). Certo, il fatto di studiare il comportamento di queste persone che fanno consulenza sull’AIDS a loro insaputa sollevava dei problemi etici, e perciò ci siamo procurati il benestare del Comitato etico della Società tedesca di psicologia. Ci scusiamo con i consulenti per questa dissimulazione, ma riteniamo cheirisultati dello studio la giustifichino, dato che indicano come si potrebbero migliorare le consulenze sull’ AIDS. 150
LE CONSULENZE SULL’AIDS
I COLLOQUI AL CONSULTORIO
Consideriamo prima alcuni esempi di colloquio e poii risultati complessivi. Il primo colloquio ha avuto luogo nel 1994 in un centro sanitario pubblico di una città di circa 200.000 abitanti. Le domande di Ebert sono in corsivo, e le ho abbre-
viate usando i termini tecnici; le risposte del consulente vengono subito dopo, marcate con un trattino. Se una domanda ha più risposte, quelle dopo la prima riguardano ulteriori richieste di chiarimento da parte di Ebert. Primo colloquio. Il consulente è un’assistente sociale, donna. Sensibilità?
-— Non ci sono mai false negatività. Anche se, ora che penso alle pubblicazioni, si sa di qualche caso del genere. — Nonso quanti, di preciso. - È successo solo una volta o due. False positività?
- No, perché l’esame viene ripetuto. È assolutamente certo. — Se ci sono degli anticorpi, l’esame li identifica senza ambiguità e con certezza assoluta. -— No, è assolutamente impossibile che ci siano false positività. L'esame è assolutamente certo, perché viene ripetuto. Diffusione?
— Nongliela so dire con precisione. — Fralsu500e1 su 1000, più o meno.
Valore predittivo positivo? - Gliel’ho già detto diverse volte, l'esame è assolutamente certo.
161
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
La consulente sapeva che l’esame dell’HIv può produrre un piccolo numero di false negatività, ma riguardo alle false positività disse a Ebert che non esistevano; gli diede cioè una risposta scorretta. Ebert chiese per due volte chiarimenti per assicurarsi di aver capito bene. Davvero la consulente gli stava dicendo che una falsa positività è impossibile? Di fatto, aveva asserito che un risultato positivo dell'esame significava con certezza assoluta che l’utente aveva il virus; questa conclusio-
ne era una conseguenza logica della sua affermazione (scorretta) che non possono esserci false positività. Ebert si sentì dire la stessa identica cosa che i medici della Florida avevano detto a Susan: se il suo esame è positivo, è assolutamente certo che Lei ha il virus, punto e basta. Il colloquio successivo ebbe luogo in una città di circa 300.000 abitanti.
Secondo colloquio. Il consulente è un medico, maschio. Sensibilità?
— Quando ci sono abbastanza anticorpi il test li identifica in tutti i casi. Si fanno due esami (ELISA e Western Blot); il primo è alla quarta generazione ed è calibrato in modo da essere molto specifico e molto sensibile. Tuttavia, la sua calibratura è tale che risulta più facile identificare i casi positivi che quelli negativi. —
Sensibilità e specificità del 99,8%; ma noi ripetiamo il test,
e quando vien fuori positivo, è solido come acciaio. False positività? — È sicuro, non cene sono; gli eventuali errori sono tutti false
negatività, che si presentano quando gli anticorpi non si sono ancora formati. — Se Lei si fa l'esame qui, compreso un test di conferma, la certezza è massima. In ogni caso, la specificità è del 99,7%. 152
LE CONSULENZE SULL’AIDS
E una cosa solida come acciaio, eliminiamo ogni rischio di confusione usando due test. Diffusione?
— Oggila classificazione delle persone in gruppi di rischio è superata; non si può guardare al problema in questo modo. — Nonmela ricordo. C’è una tendenza del virus a diffondersi in tutta la popolazione. Le statistiche sono inutili per i casi individuali! Valore predittivo positivo? —
Estremamente certo, l’ho già detto: 99,8%.
Da principio questo consulente negava che esistessero false positività, ma a differenza della collega del primo colloquio, quando Ebert gli chiese dei chiarimenti cambiò idea e stimò che il tasso di false positività della combinazione di ELISA e Western Blot fosse dello 0,3 % (da una specificità del 99,7% segue questo valore), cioè molto superiore a quanto indicano le pubblicazioni in materia. Quando poi diede una stima del valore predittivo positivo, lo confuse con la sensibilità, come traspare dall’inciso “l’ho già detto”. Di conseguenza, le informazioni da lui fornite sono contraddittorie, ovvero prive di coerenza interna — un pasticcio, che però diventa trasparente se trasformiamo le probabilità del consulente in frequenze naturali usando come tasso di base (non specificato in questo colloquio) la stima mediana di tutti i consulenti, 1 su 1000. Pensiamo, dunque, a 1000 utenti maschi a basso rischio; uno ha il virus, ed è praticamente certo che il suo esame sarà positivo, ma
lo saranno anche 3 degli altri 999, che non hanno l’infezione. Perciò, dobbiamo aspettarci che su 4 maschi con un esame positivo uno solo abbia l’HIV, e uno su quattro non è il 99,8%.
A differenza della prima consulente, che soffriva di illusione della certezza, il secondo non negava l’esistenza di false positività, ma era incapace di discutere i rischi in maniera comprensibile per lui stesso e per l'utente; per parlarne usava pro153
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
babilità condizionali espresse come percentuali, ma la sua mente era annebbiata. Non si rendeva nemmeno conto che le cifre da lui fornite erano impossibili. L'espressione “quando gli anticorpi non si sono ancora formati” si riferisce al cosiddetto periodo finestra, cioè all’intervallo temporale che separa l’infezione dalla formazione di un numero di anticorpi abbastanza grande perché gli esami possano scoprirli. Se l'infezione è causata da un rapporto sessuale, per esempio, il periodo finestra è di circa sei mesi” —e finché dura le false negatività sono probabili. Il terzo colloquio ebbe luogo in una città di più di un milione di abitanti. Terzo colloquio. Il consulente è un medico, donna. Sensibilità?
— L'esame è molto, molto attendibile, circa il 99,98%.
False positività? — L'esame sarà ripetuto. Dopo il primo test non si parla di positività ma solo di reattività. Quando vengono eseguiti tutti i test, il risultato è certo.
- È difficile dire quante sono le false positività. — Quante esattamente? Dovrei dare un’occhiata alle pubblicazioni specialistiche per vedere se riesco a trovarci questa informazione. Diffusione?
— Dipende dalla regione. — In Germania le persone infette sono circa 67.000. I1 9% di queste è eterosessuale. — In questa città abbiamo circa 10.000 persone infette, cioè 11% della popolazione. Ma questa cifra non dice in nessun modo se Lei ha il virus o no. 154
LE CONSULENZE SULL’AIDS
Valore predittivo positivo? —- ComeLe ho già detto, il risultato è sicuro al 99,98%. Se Le
comunicano un risultato positivo, Lei si può fidare. Come nel colloquio precedente, la consulente inizialmente lasciò intendere che non c’erano false positività, ma quando Ebert chiese una spiegazione, disse ben chiaro che le false positività esistevano, solo che non sapeva dire quante. Confondeva — come il consulente del secondo colloquio — la sensibilità, cioè la probabilità che l'esame di una persona infetta dia un risultato positivo, col valore predittivo positivo, cioè con la probabilità che un utente a basso rischio con un esame positivo abbia effettivamente l’HIv. Il quarto colloquio fu diverso. La consulente fu l’unica, su un totale di 20 colleghi, a spiegare che la proporzione di errori sulla totalità degli esiti positivi dipende dalla diffusione dell’HIV, cioè che quando degli utenti a basso rischio risultano positivi, fra loro la percentuale delle false positività può essere elevata. Il colloquio ebbe luogo in un centro sanitario pubblico di una grande città con una popolazione superiore al milione di abitanti. Quarto colloquio. Il consulente è un’assistente sociale, donna.
Sensibilità? - Molto, molto attendibile. -— No, non è assolutamente certo. Questo non esiste in medicina. Può accadere che non si riesca a identificare il virus.
- Vicino al 100%. Di preciso non saprei. False positività?
— Esistono, ma sono estremamente rare. - Dell’ordine di un decimo di punto percentuale, probabil155
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
mente un po’ meno. Però, nel suo gruppo di rischio le false positività in proporzione sono più frequenti rispetto ai
gruppi ad alto rischio. -— Non conosco il valore esatto. Diffusione?
-— Conicontatti che Lei ha avuto l’infezione è improbabile. — In generale non si può dire. Nel nostro istituto, su 10.000 esami fatti negli ultimi anni, fra gli eterosessuali non tossicomani o comunque fra le persone non a rischio ci sono stati solo 3 04risultati positivi.
Valore predittivo positivo? -— Come Le ho detto, l’esame non è sicuro al 100%.
Se
confonde gli anticorpi [dell'HIV] con anticorpi diversi, altri metodi come la ripetizione del test non servono; e se uno come Lei non ha rischi reali, è pensabile che 5 o anche 10 persone che hanno avuto un esito positivo siano casi di falsa positività.
I consulenti del secondo e del terzo colloquio avevano fatto alcune osservazioni che lasciavano pensare che la diffusione avesse poca importanza nel valutare il caso di Ebert; la donna del quarto colloquio capiva, invece, il rapporto fra diffusione e valore predittivo positivo — capiva che se un utente di un gruppo a basso rischio ha un risultato positivo, il pericolo che questo risultato sia falso è particolarmente elevato. Questa persona fu anche l’unica a spiegare che non è possibile eliminare tutte le false positività ripetendo l’esame, perché (per esempio) il test potrebbe reagire ad anticorpi non-HIV che confonde con quelli dell’Hrv; probabilmente sovrastimava ancora il valore predittivo positivo, ma restando nell’ordine di grandezza giusto. Ma quali informazioni diedero gli altri consulenti? E come le comunicarono? 156
LE CONSULENZE SULL’AIDS
VENTI CONSULENTI
In una piccola città bavarese un medico rifiutò di dare all'utente qualsiasi informazione sulla sensibilità, la specificità e il valore predittivo positivo del test dell’Hrv prima che fosse noto il risultato; ci restano quindi le risposte di 19 consulenti. Di questi, la maggioranza diede all'utente notizie realistiche sulla sensibilità, anche se 5 affermarono, scorrettamente, che
le false negatività erano possibili solo nel periodo finestra. Una delle cause di queste negatività fasulle è illustrata dal caso del capitolo 1: a Susan comunicarono un risultato posztivo falso, ma alla persona il cui campione di sangue venne confuso col suo ne fu notificato uno regativo falso. La domanda sulla diffusione si dimostrò difficile per i consulenti, tanto che la maggioranza non riuscì a trovare l’informazione richiesta. Diversi cercarono una risposta nel loro archivio o in materiali stampati, ma trovarono solo dati irrilevanti, come la notizia
che gli HIV-positivi erano più numerosi a Berlino Ovest che a Berlino Est. “Il muro è stato il miglior preservativo che Berlino Est abbia mai avuto”, scherzò uno di loro, scoraggiato, dopo non essere riuscito a trovare una risposta.
Questi consulenti dei centri sanitari pubblici non erano persone ignoranti, e diversi di loro tennero anzi a Ebert lunghe lezioni, di ottimo livello, sulle tecniche immunodiagnostiche, la natura dei virus, gli anticorpi, le proteine e i percorsi dell’infezione; ma quando si trattava di precisare quale fosse, per lui, il rischio di essere infetto in caso di risultato positivo, la maggioranza era incapace di valutare tale rischio, e a maggior ragione di comunicarglielo. Ricapitolando, le principali carenze delle consulenze agli utenti a basso rischio erano:
Comunicazione del rischio non trasparente. Tutti i consulenti davano le loro informazioni in termini di probabilità e percentuali, e non in un linguaggio (come quello delle frequenze naturali) che aiutasse gli utenti, ma anche loro stessi, a capire; di
conseguenza, molti di loro non si accorgevano nemmeno che i 157
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
dati che fornivano erano incompatibili gli uni con gli altri. Uno, per esempio, disse all’utente che fra gli uomini del suo gruppo la diffusione dell’HTv era dello 0,1% 0 poco più e che la sensibilità, la specificità e il valore positivo predittivo erano tutti del 99,9%; ma questi valori, come si vede facilmente con una rap-
presentazione in termini di frequenze, sono impossibili.
Negazione delle false positività. La maggioranza dei consulenti (13) assicurò scorrettamente all’utente che non c'erano mai false positività. La spiegazione che davano era semplice e deterministica: qualsiasi falsa positività verrebbe eliminata dal ricorso a esami ripetuti — due ELISA e un Western Blot. Uno di loro affermò che le false positività esistevano solo in paesi come la Francia ma non in Germania, mentre altri riconobbero
che ce n’erano state negli anni Ottanta, ma non dopo. A parte questi 13, 3 (per esempio, quelli del secondo e del terzo colloquio) inizialmente dichiararono che non esistevano false positività, ma poi ci ripensarono.
Incapacità di capire che le false positività sono più frequenti, proporzionalmente, fra gli utenti a basso rischio. Una sola consulente (quarto colloquio) spiegò che la proporzione di risultati fasulli tra i test positivi era tanto più alta quanto più bassa era la diffusione; in altre parole, che la proporzione delle false positività rispetto a quelle vere era particolamente alta fra le persone a basso rischio, come Ebert. Illusione della certezza. Dieci consulenti asserirono, scorretta-
mente, che se un maschio a basso rischio risultava positivo era assolutamente certo (al 100%) che aveva il virus, e altri cinque dissero a Ebert che la probabilità era del 99,9% o più (vedi terzo colloquio), mentre di fatto, in base alle migliori statistiche disponibili, è di circa il 50% (vedi figura 7.1). Se Ebert fosse risultato positivo e avesse prestato fede alle informazioni fornite da una di queste 15 persone, veramente avrebbe potuto prendere in considerazione il suicidio come avevano fatto diverse persone prima di lui. Altri due consulenti riuscirono a 158
LE CONSULENZE SULL'AIDS
non rispondere alla domanda sul valore predittivo positivo, e solo tre stimarono che fosse inferiore al 99,9% (ma le loro sti-
me superavano tutte il 90%). Questa illusione di certezza così diffusa era stata raggiunta per due vie diverse: alcuni avevano confuso il valore predittivo positivo con la sensibilità, altri avevano supposto che non ci fossero false positività perché l'esame veniva ripetuto, il che implicava che un esito positivo fosse un’indicazione assolutamente certa d’infezione.
La lezione del nostro studio è che bisogna insegnare ai consulenti prima di tutto a superare l’illusione della certezza, e in secondo luogo a presentare i rischi in modo tale che gli utenti (e loro stessi) li capiscano. Il seguente colloquio modello illustra come un consulente potrebbe spiegare il significato di un esame positivo in modo trasparente. Colloquio modello. Il consulente è stato addestrato a esprimere i rischi per mezzo di frequenze naturali Sensibilità?
-— L'esame risulterà positivo per circa 998 persone infette di HIV su 1000. La stima può variare a seconda delle circostanze, per esempio del particolare esame usato. False positività? —
Circa una su 10.000. Possono essere ridotte, ma non com-
pletamente eliminate, con esami ripetuti (ELISA e Western Blot). Sono causate da certe condizioni cliniche e da errori di laboratorio.
Diffusione? — Frai maschi eterosessuali con comportamento a basso rischio, viene infettato dall’HIv circa 1 su 10.000.
159
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
Valore predittivo positivo? — Pensia 10.000 uomini a basso rischio come Lei. Uno è in-
fetto ed è praticamente certo che risulterà positivo, ma risulterà tale anche 1 dei 9999 non infetti. Perciò su 2 maschi positivi noi ci aspettiamo che solo 1 abbia l’HIv. La situazione in cui Lei si troverebbe in caso di esito positivo è questa; la sua probabilità di avere il virus sarebbe grosso modo? di 1 su2. Questi valori possono essere ritoccati in base alla località e ai comportamenti a rischio; inoltre, il consulente potrebbe aggiungere che in caso di esito positivo bisognerebbe esaminare un nuovo campione di sangue. L’uso di un secondo campione è in grado di escludere certe fonti di errore, ma non tutte. Questo vale anche per gli esiti negativi, e qui possiamo citare un caso veramente estremo: nel va Medical Center di Salt Lake City un uomo con l’HIV ebbe 35 esiti negativi nel giro di 4 anni.” È un fatto veramente insolito, perché l’uomo aveva
un ceppo di HIV tipico degli Stati Uniti, eppure gli esami non riuscirono mai a scoprire i suoi anticorpi. Non possiamo
aspettarci la totale certezza, ma possiamo sicuramente migliorare l’attuale situazione con la ricerca medica e psicologica — più esattamente, con armi mediche contro il virus e con strumenti mentali che ci aiutino a ragionare in modo da capire quali sono irischi. GLI OPUSCOLI INFORMATIVI
I volantini e i dépliant che troviamo nei centri sanitari pubblici aiutano gli utenti a capire che cosa implica un esito positivo quando la diffusione è bassa? Per rispondere a questa domanda abbiamo analizzato 78 fra volantini e dépliant sull’AIDS e l'esame dell’HIv disponibili nei 20 centri sanitari pubblici tedeschi (alcuni erano stati passati ad Axel Ebert da un consulente). 160
LE CONSULENZE SULL’AIDS
I pregi e i difetti di questi stampati rispecchiavano quelli dei consulenti. Il pregio stava nel fatto che davano molte informazioni pertinenti e utili su come si trasmette il virus dell’HIV e come si deve affrontare la vita quando lo si ha; i punti deboli riguardavano il significato di un esito positivo e la dipendenza di questo significato dal comportamento più o meno rischioso dell'utente. Diversi dépliant ricordavano, però,
che si possono verificare sia false negatività sia false positività; nel notiziario del Federal Center For Health Education, per
esempio, si dava alle persone senza fattori di rischio conosciuti e ciononostante positive a un primo esame il consiglio, assai ragionevole, di pretenderne un secondo? (c’è da chiedersi che
cosa direbbe a un utente del genere un consulente convinto che un esito positivo sia definitivo). Tuttavia, in nessun volantino e nessun dépliant si trovava una stima della frequenza, rispettivamente, delle negatività e delle positività false, ma solo la promessa che “nel futuro prossimo” si sarebbero trovati dei test degli anticorpi capaci di identificare l’HIv-1 e l’'HIV-2; e in nessuno si spiegava che esisteva una forte correlazione fra la probabilità di essere infetti dato un esame positivo e la presenza di comportamenti a rischio. Nel suo numero più recente, un bollettino si limitava a dire che “Un test dell’HIv positivo significa solo che si è stati infettati dal virus. Non significa necessariamente che uno ha già l'AIDS e tutto è perduto”. Leggendo questo stampato si restava con l'impressione che un esito positivo significasse che uno aveva l’infezione dell’HIv; non si faceva distinzione fra comportamenti ad alto e a basso rischio e non si parlava per niente di false positività. Viceversa, un manuale per consulenti spiegava correttamente che c’era meno di una falsa positività su 1000 vere, ma poi confondeva i concetti di sensibilità e specificità.? Con stampati così eterogenei, la capacità di interpretare i risultati dei test dell’HIv diventa improbabile tanto per i consulenti quanto per gli utenti.
Gli americani vengono informati meglio? Da un’analisi di 21 volantini sull’AIps distribuiti dall’University of Chicago Hospital, dalla Howard Brown Memorial Clinic e da altre isti161
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
tuzioni mediche sempre di Chicago sembrerebbe di no.°° Questi volantini assegnavano l’etichetta di “pericoloso”, “sicuro” o “intermedio” a una serie di comportamenti sessuali e davano dei consigli su come prevenire l’infezione da HIV; alcuni ricordavano che nel periodo finestra erano possibili false negatività, ma nemmeno uno accennava alla possibilità di false positività. Per esempio, uno di questi stampati, “Far fronte alla malattia da HIV”, distribuito dall’Illinois Department of Public Health, non lasciava il minimo spazio all’incertezza: “Una persona HIv-positiva ha la malattia dell’HIv”. La principale differenza fra i volantini americani e quelli tedeschi è che i primi nemmeno menzionavano la possibilità che un risultato positivo fosse falso; senza questa informazione di base diventa difficile capire che la proporzione delle false positività è particolarmente alta per quegli utenti a basso rischio che risultano positivi all'esame. DOVREMMO FARE QUALCOSA?
Sì. Bisogna guarire i consulenti dall’illusione della certezza e addestrarli a comunicare i rischi in forma trasparente; questo non bloccherà l'AIDS, ma bloccherà alcune delle sue conse-
guenze evitabili, come il pericolo che persone falsamente positive facciano sesso non protetto con soggetti infetti di HIV, che per mesi o anni credano — soffrendo enormemente — di essere infette, che pensino al suicidio o lo commettano realmente. In un ospedale di New York durante il colloquio preesame il 30% di quelli che venivano a chiedere il test dell’Hrv dichiarava di avere pensieri suicidi.” Da quando, nel 1981, sono stati descritti i primi casi di AIDS si sono dedicate più persone — ed è stato destinato più denaro — alla ricerca sull’Hrv che a qualsiasi altra malattia, ma è stato fatto pochissimo per insegnare al grande pubblico che cosa significanoirisultati del test; e quando la possibilità di farsi l’esame da soli diventerà una realtà commerciale, l’esistenza di
un'opinione pubblica intelligente, che capisca il significato di 162
LE CONSULENZE SULL’AIDS
un risultato, si rivelerà ancora più cruciale. La Food and Drug Administration si è opposta per anni ai test dell’HIv fatti in casa, proprio perché non presuppongono un colloquio di consulenza diretto, ma nel 1996 ha ribaltato la propria posizione approvando due kit per l’autoesame; una delle ragioni di questo cambiamento era la speranza di raggiungere così quell’80% (stimato) dei soggetti ad alto rischio che non è disposto a recarsi in uno degli ambulatori che fanno il test. Il kit può essere comprato da persone di qualsiasi età; bisogna solo pungersi un dito, piazzare tre gocce di sangue su un cartoncino, spedirle (anonimamente) a un laboratorio e telefonare dopo una settimana, componendo il proprio numero di identificazione. Si sarà messi in contatto telefonico con un consulente se il risultato è positivo, con una voce registrata se è negativo. Ovviamente, è probabile che una consulenza per telefono generi problemi ancora più gravi di quelli delle consulenze faccia a faccia documentati in questo capitolo. Mentre scrivo queste righe, un amico mi comunica il caso di un giovane al quale il medico curante aveva comunicato per telefono che era HIV-positivo, e che subito dopo si è suicidato. Non c'erano stati né un colloquio dopo l’esame né una secon‘ da prova con un nuovo campione di sangue. Se anche David di Dallas si fosse suicidato, probabilmente non avremmo mai saputo che il risultato del suo esame era una falsa positività.
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5 LE MOGLI PICCHIATE
Il giuramento di “Dire la verità, tutta la verità, nient'altro che la ve-
rità” che si fa in tribunale vale solo per i testimoni. Avvocati difensori, pubblici ministeri e giudici non giurano, e neanche potrebbero. Anzi, è corretto affermare che il fondamento su cui è costruito il si-
stema giudiziario americano sta nel zor dire tutta la verità. ALAN DERSHOWITZ, The Best Defense
LOS ANGELES, USA
Il verdetto sarebbe stato annunciato alle dieci di mattina del 3 ottobre 1995. La polizia di Los Angeles era in stato di massima allerta e a livello nazionale erano state prese misure antisommossa delle quali il presidente Clinton era informato. All'avvicinarsi dell’ora stabilita le telefonate interurbane diminuirono del 50%, nelle palestre la gente smise di fare esercizi, le fabbriche si fermarono, alla Borsa di New York il volume de-
gli scambi scese del 40%, e 100 milioni di persone accesero la televisione o la radio per sentire che cosa aveva deciso la giuria del processo a O.J. Simpson. Un nero era accusato di avere ucciso l'ex moglie Nicole Brown Simpson, bianca, e l'amante di
lei; come lo avrebbero giudicato i 12 giurati, che per due terzi erano donne nere? All’ora stabilita il giudice Lance Ito aprì la seduta e la giuria emise il suo verdetto: “Non colpevole”. Le immagini degli studenti che guardavano la scena nei loro college fecero il giro del mondo: ragazze nere che saltava165
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
no in piedi, gridavano, si abbracciavano, battevano le mani; ragazze bianche che sedevano sbigottite, silenziose, il mento posato su una mano. L’assoluzione del campione di football americano creò una divisione razziale. Era la razza l’asso pigliatutto, non il genere. Ma sarebbe stato altrettanto facile fare del genere e non della razza l’asse centrale del processo. L’indizio più pericoloso dal punto di vista della difesa, la lunga storia di maltrattamenti coniugali del matrimonio di Simpson, rischiava di dividere la giuria in base al primo, non alla seconda. L’uomo aveva picchiato la moglie in almeno un’occasione, e molti altri episodi facevano pensare a una gelosia sessuale e a una tendenza a comportamenti violenti. L'accusa sostenne che se c’era una
storia di maltrattamenti coniugali, c'era anche il movente per un omicidio, e passò i primi dieci giorni del processo a chiamare testimoni a deporre sui rapporti che Simpson aveva avuto con la moglie nel corso di 18 anni. Come disse uno dei suoi rappresentanti, “un ceffone è un preludio all’omicidio” .' I difensori di Simpson si valevano dei consigli di un celebre professore di legge di Harvard, Alan Dershowitz, che nel suo best-seller Reasorable Doubts: The Criminal Justice System and the O.J. Simpson Case [Ragionevoli dubbi. Il sistema della giustizia penale e il caso di O.J. Simpson] avrebbe spiegato come la difesa era riuscita a demolire la tesi dell’accusa che i maltrattamenti coniugali portano all’omicidio. Dershowitz sostiene (e ripete più volte) che in un processo per omicidio i maltrattamenti e le percosse non sono ammissibili come prove: “La realtà è che la maggioranza delle donne che vengono assassinate sono uccise da uomini con cui hanno una relazione indipendentemente dal fatto che questi le picchiassero o meno. Di per sé, le percosse non sono un buon indizio indipendente di omicidio” .? Quali erano le prove a favore della tesi di Dershowitz? In tribunale la difesa disse che secondo alcuni studi ogni anno [negli Stati Uniti] circa 4 milioni di donne vengono picchiate dai mariti o dagli amanti [...]. Eppure, nel 1992, secondo il Rapporto sulla Criminalità Ordinaria dell’FBI, 913
166
LE MOGLIE PICCHIATE
donne in tutto sono state uccise dai mariti e 519 dagli amanti. In altre parole, ci sono stati dai due milioni e mezzo ai quattro milioni di casi di maltrattamento ma solo 1432 omicidi. È possibile che qualcuno di questi omicidi sia stato commesso dopo una storia di maltrattamenti, ma è chiaro che la maggior parte dei maltrattamenti, e presumibilmente anche dei maltrattamenti gravi, non sfocia nell’omicidio.
Partendo da questi dati Dershowitz calcolò che c’è meno di un omicidio ogni 2500 casi di maltrattamento: “Eravamo convinti fin dal primo momento che l’insistenza degli accusatori su quella che chiamavano ‘violenza domestica’ era un segno di debolezza. Sapevamo di poter dimostrare, in caso di necessità, che solo una percentuale infinitesimale, inferiore a 1 su 2500,
degli uomini che schiaffeggiano o picchiano le loro compagne arriva poi ad assassinarle”. Dershowitz concludeva: “Non esiste mai una giustificazione della violenza domestica. Ma nemmeno c’è una prova scientificamente accettabile del fatto che i maltrattamenti domestici, anche quelli attribuibili a Simpson prendendo per buono lo scenario peggiore, siano un preludio all’omicidio”.* Non suona convincente? Dershowitz sostiene, per usare il gergo dei giuristi, che dimostrare che un uomo picchiava la moglie è più “pregiudizievole” che “probativo”. Se l'argomento tenesse, in futuro le assoluzioni di uomini come O.J. Simpson, del quale si sa che picchiò la moglie, vittima di omicidio, in almeno un’occasione, sarebbero più giustificate. Ma l'argomento di Dershowitz è fuorviante, e forse mandò fuori strada la cor-
te. Date le “prove scientificamente accettabili” esistenti, se una donna è stata picchiata dal suo compagno ein seguito è stata assassinata, in realtà gli indizi contro il picchiatore sono
piuttosto forti. Perché? Dershowitz omise dal suo calcolo un dato cruciale: Nicole Brown Simpson non era stata soltanto picchiata, era stata uccisa. La percentuale pertinente non è, come egli vorrebbe farci credere, quella che indica quanti fra gli uomini che schiaffeggiano o picchiano le loro compagne arrivano poi a uccider167
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
le; la probabilità pertinente è quella che un uomo abbia ucciso la sua compagna nell’ipotesi che la picchiasse e che la donna sia stata assassinata, e questa probabilità non è di 1 su 2500. Allora qual è? Ci sono, come nel caso del cancro al seno enegli altri esempi di natura medica dei capitoli precedenti, due modi di calcolarla. Uno consiste nell’inserire dei valori probabilistici nella regola di Bayes, ma è un sistema che rischia di confondere i giurati, i giudici e perfino gli esperti che eseguono i calcoli; l’altro consiste nel presentare i dati sotto forma di frequenze naturali, più facili da capire. Nella spiegazione che darò adesso dell’errore di ragionamento di Dershowitz prenderò per buona la sua stima che su 2500 donne picchiate, una sia uccisa ogni anno dal marito o dall’amante; questo dato corrisponde a 40 su 100.000. Ma abbiamo bisogno anche del numero delle donne picchiate che sono uccise, anno dopo anno, da qualcuno che non sia il loro compagno; e nell’ipotesi che tale numero sia pressappoco uguale per tutte le americane, picchiate o no, secondo i Rendiconti annuali della criminalità ordinaria negli Stati Uniti e nei loro possedimenti (1993) queste donne sono ogni anno 5 su 100.000.° A questo punto, usando le frequenze ci sarà facile capire quante donne picchiate e uccise sono state assassinate dal marito o dall’amante (figura 8.1).
Immaginiamo 100.000 donne picchiate; possiamo aspettar-
ci che nel giro di un anno circa 40 siano uccise da chi le picchia e 5 da qualcun altro; dunque, su 45 donne picchiate e uccise 40 vengono assassinate da chi le picchia; ovvero, l’assassino è qualcun altro, e non il picchiatore, solo in 1 caso su9.
L'albero delle frequenze rende trasparente questo ragionamento, così come un altro albero ci aveva aiutati a rendere tra-
sparente la probabilità di cancro al seno dopo un mammogramma positivo. In entrambi gli esempi un ‘campione di casi concreti — qui le donne picchiate — viene diviso in sottoclassi, come durante una campionatura naturale; e ne viene fuori che se una donna è stata assassinata e il suo compagno la picchiava, la probabilità che sia stato lui a ucciderla è di circa 8 su 9 — quasi il 90%. Certo, questo valore non va confuso con la pro168
LE MOGLIE PICCHIATE
100.000
donne picchiate
agi
99955) non assassinate
assassinate 40
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dal compagno
da altri
Figura 8.1 Esiste una correlazione fra percosse alla moglie e uxoricidio negli Stati Uniti? Secondo Alan Dershowitz, professore di legge a Harvard e consulente della difesa nel processo a O.J. Simpson, le percosse non sono una prova contro il marito (o il compagno) quando la donna è stata assassinata; ma se prepariamo un albero delle frequenze basato sulle cifre fornite dallo stesso Dershowitz possiamo vedere l’errore del suo ragionamento. All’epoca del processo i dati empirici dicevano che ogni anno venivano uccise 45 donne picchiate su 100.000, e in 40 di questi casi l’assassino era il compagno della vittima. Perciò, le percosse alla moglie sozo una prova a carico del compagno di una donna assassinata.
babilità che O.J. Simpson fosse colpevole; una giuria ha bisogno di molte altre prove oltre al fatto delle percosse per condannare qualcuno al di là di ogni ragionevole dubbio. E tuttavia, il dato dimostra che le percosse sono, nonostante quanto affermava Dershowitz, un indizio di colpevolezza abbastanza sostanzioso — non sono pregiudizievoli ma probative. Non posso sapere se Dershowitz si sia confuso da sé coi suoi dati numerici oppure abbia confuso la corte, l’opinione pubblica e i lettori del suo libro sul caso Simpson; e forse, per lui questo non è nemmeno un problema importante, considerando il paragone che fa tra baseball e sistema legale ove “la maggioranza dei pubblici ministeri (e dei difensori) si preoccupa del proprio rapporto successi-insuccessi quanto un battitore di baseball di serie A”. Secondo lui, “nessuno vuole
davvero la giustizia. Per la maggioranza degli addetti al sistema della giustizia penale la vittoria è ‘l’unica cosa’, proprio come per gli atleti professionisti”.’ In ogni caso la morale è la stessa. Il baseball è nato su mucchi di terriccio nelle strade di città, in una cultura di operai e contadini, e oggi i professionisti sono bravi tanto con le statistiche quanto con la palla. An169
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
che i bambini conoscono le percentuali delle battute, le proporzioni fra lanci vincenti e perdenti e un sacco di altri dati, mentre non si può dire lo stesso dei tribunali. Molti studenti che hanno passato buona parte dei loro anni di scuola a evitare la matematica e le statistiche diventano poi dei giuristi, e non sanno niente di probabilità condizionali, probabilità di corrispondenze e altri dati statistici. Una rappresentazione dell’informazione statistica in termini di frequenze naturali può aiutare i tribunali — e l'opinione pubblica — ad argomentare meglio e a comprendere qual è il vero rapporto fra percosse coniugali e omicidio. LE PERCOSSE: IL CONTESTO ALLARGATO
Le percosse coniugali non sono come il cancro al seno e l’HIV: sono una malattia sociale creata dall'uomo, e uno sguardo alla storia di questa malattia può forse aiutarci a capire come contenerla, almeno per gradi. Può darsi che il sapere quanto sia frequente anche oggi, e anche nelle democrazie occidentali, la violenza contro le donne ci aiuti a mettere sotto gli occhi di tutti un problema che troppo spesso viene occultato. Un mattino del 1874 Richard Oliver arrivò a casa ubriaco,
buttò a terra una tazza di caffè e tutta la caffettiera criticando il modo di cucinare di sua moglie, portò in casa due rami d’albero, cominciò a fustigarla e solo l’intervento di alcuni testimoni riuscì a fermarlo. Erano due ramoscelli, più sottili di un pollice umano, ma ciononostante il giudice J. Settle dichiarò Oliver colpevole di aggressione e percosse perché nel North Carolina la dottrina della “regola del pollice” non era legge (secondo questa vecchia dottrina un marito aveva il diritto di fustigare la moglie a patto di usare un bastone che non fosse più spesso del suo pollice). Questo precedente stabilì che, almeno nel North Carolina, “il marito non ha in alcuna circostanza il diritto di
infliggere punizioni corporali alla moglie”.*Più o meno negli stessi anni il giudice Charles Pelham scriveva: “Per antico che sia, oggi il privilegio di batterla [scz/. la moglie] con un basto170
LE MOGLIE PICCHIATE
ne, tirarle i capelli, soffocarla, sputarle in viso, scalciarla mentre giace sul pavimento o infliggerle altre simili indegnità non è riconosciuto dalla nostra legge”. Ma circa 120 anni dopo la condanna di questi maltrattamenti coniugali da parte del giudice Pelham, una campionatura degli esposti presentati ai tribunali degli Stati Uniti mostra che le donne americane denunciano ancora gli stessi comportamenti violenti. Secondo gli psicologi dell’evoluzione Martin Daly e Margo Wilson, nella maggior parte dei casi le percosse coniugali nascono da una risposta gelosa e possessiva dei mariti all’infedeltà o all'abbandono, reali o immaginari, da parte delle mogli. In una piccola percentuale di questi casi le percosse “suppurano” fino all’omicidio (ricordiamo che Nicole Brown Simpson venne uccisa insieme con un compagno che il marito — ammesso che fosse lui l’assassino — potrebbe aver visto come un rivale sessuale). Le mogli picchiate riferiscono spesso che i loro compagni le minacciano di ucciderle, e ogni anno, fra tutte le donne americane assassinate, il 30-40% muore davvero
per mano di un uomo con cui ha rapporti sessuali.!° Secondo uno studio recente, condotto a livello nazionale, dei reparti di
pronto soccorso degli ospedali, fra le lesioni di origine violenta subite dalle donne oltre il 45% è dovuto (nei casi in cui è stato possibile identificare il colpevole) ad aggressioni da parte di compagni o ex compagni." In un campione casuale di donne di San Francisco, una su 5 ha detto di essere stata picchiata. Sembra che quelle che fruiscono dell’assistenza pubblica siano più a rischio della popolazione complessiva; per esempio, nel Massachusetts 2 su 3 di queste donne hanno riferito di essere state picchiate dal marito. A parte le inchieste giornalistiche, si sono fatte invece poche ricerche sulle americane economicamente privilegiate (secondo il vincitore del premio Pulitzer Seymour Hersh, per esempio, l’ex presidente Richard Nixon ha picchiato e mandato in ospedale la moglie Pat diverse volte).
Non sono solo i partner a maltrattare fisicamente le donne: ogni anno, su 1000 americane dai 12 anni in su una, in media,
viene violentata. O meglio, questa è la cifra degli stupri de1/1
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
nunciati — ma spesso lo stupro non viene denunciato affatto,
per cui la cifra reale è più elevata. Si stima che un’americana su 5 o 6 sia vittima, almeno una volta nella vita, di uno stupro non solo tentato, ma consumato."
Sembra che il controllo delle donne attraverso la coercizione sia esistito in tutte o quasi tutte le culture, e anche oggi è possibile osservarlo; ma ciò non significa che non si possano ridurre drasticamente gli abusi. Le leggi sull’adulterio esemplificano proprio questo tipo di cambiamento: nell’ Antichità fra gli Egizi, i Siriaci, gli Ebrei, i Romani, gli Spartani e altri popoli mediterranei l’adulterio era definito solo in base allo stato coniugale della donna, cioè era una relazione fra una donna sposata e un uomo, sposato o no. L'adulterio era considerato una specie di furto in cui la vittima era il marito e il bene rubato era l’accesso sessuale alla moglie; e in piena coerenza con questa concezione, fino al 1974 la legge del Texas (codice penale texano, 1925, articolo 1220) concedeva a un marito di uccidere, senza nessun
tipo di pena, l’uomo che avesse scoperto in flagrante adulterio con sua moglie. Il caso del Texas è estremo per l’eccezionale ritardo del cambiamento; il primo paese a dichiarare esplicitamente equivalenti, sul piano legale, l’adulterio dell’uomo e quello della donna è stato l’Austria (1852) — che è tornato ad avere una posizione guida nel 1996, con una legge eccezionale contro le percosse coniugali. In base a questa legge una moglie picchiata non ha più bisogno, se vuole un rifugio sicuro, di andare in uno degli appartementi destinati appositamente alle donne nella sua condizione: basta che chiami la polizia, che verrà immediatamente a casa sua e butterà fuori il marito, se lei
lo desidera (gli confischerà le chiavi di casa e può proibirgli di farsi vedere nel quartiere per un periodo fino a tre mesi). La tendenza maschile alla violenza può variare, se l’am-
biente subisce trasformazioni economiche e politiche. I dati sull'Unione Sovietica, per esempio, ci dicono che le donne uc-
cise dai loro compagni sono state circa 1660 nel 1989, 1900 nel 1990 e 5300 nel 1991, mentre dopo la disintegrazione dell’Unione il Rapporto nazionale della Federazione Russa riferisce che nella sola Russia sono state assassinate dai loro uo172
LE MOGLIE PICCHIATE
mini 14.500 donne nel 1993, e nei due anni successivi la cifra è
salita a 15.000 e poi a 16.000. Il tasso di uxoricidi ha così superato di un intero ordine di grandezza quelli di tutti i paesi occidentali nonché quello, già elevato, degli Stati Uniti; ed è possibile che questo aumento della violenza sia stato alimentato dal peggioramento delle condizioni economiche, politiche e sociali durante il periodo di disordini che ha seguito la caduta del comunismo (la disoccupazione, soprattutto, ha aumentato il numero degli uomini che si rifugiano nell’alcolismo).! Ma le percosse coniugali non sono solo un problema americano o russo; sembra anzi che il fatto illustrato dalla figura 8.1 — che sono i loro compagni a uccidere una forte maggioranza (8 su 9) delle donne picchiate e assassinate — si ripresenti in tutti i paesi occidentali. Inoltre, è molto più probabile che a uccidere il coniuge sia il marito anziché la moglie, e anche questo sembra valere per tutti i paesi; nei casi, relativamente rari, in cui
è la donna a uccidere il compagno, di solito lei era stata maltrattata e picchiata per anni (un’analisi dei processi penali tedeschi ha rivelato che su 5 donne condannate per omicidio 4 hanno ucciso i loro compagni, che nella maggior parte dei casi le picchiavano).” In Messico le donne, sia di campagna sia di città,
dichiarano che la maggior parte delle violenze che subiscono è opera dei loro compagni — per alcolismo, problemi finanziari, gelosia, infedeltà reali o immaginarie o perché è nato un bambino del sesso “sbagliato” (cioè una femmina);'° in Cile un rapporto molto recente sulle violenze domestiche spiega che nella cultura del paese è opinione comunemente accettata che un uomo possa manifestare il suo amore con atti di aggressione. Sommandosi al machismo eall’alcolismo, questa mentalità fa della violenza contro donne e bambini un “modo di vivere”;
d'altronde, fino al 1989 il codice civile cileno sanciva per legge il disprezzo dei diritti umani delle donne stabilendo che una moglie doveva obbedienza al marito, il quale la proteggeva e aveva autorità sulla sua persona ele sue proprietà. Perché le mogli vengono picchiate in tutto il mondo? E perché sono molto più i maschi che le femmine a uccidere il partner? Benché diversi altri fattori — per esempio, l'alcolismo — 173
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
contribuiscano a produrre questo risultato, la spiegazione classica invoca l'incertezza della paternità. Mentre nella maggioranza delle specie di mammiferi i maschi non partecipano affatto all’allevamento della prole, nell’Homo sapiens maschi e femmine collaborano nelle cure parentali; ma i padri hanno un problema che per le madri non esiste, e che secondo gli evoluzionisti è talmente grave che la maggioranza dei mammiferi maschi evita qualsiasi investimento parentale: le corna. Sulla questione se sia lui il vero padre dei suoi figli un uomo deve accettare un certo grado di incertezza, mentre una donna (a parte i casi di scambio accidentale di neonati in reparto maternità) può star sicura di essere la vera madre. L'incertezza della paternità può essere ridotta con molti sistemi, per esempio con un
controllo fisico della propria compagna che garantisca che questa non se la faccia con altri. Stando a tale argomento, l’investimento parentale ha un costo e questo costo è la gelosia sessuale maschile, che induce gli uomini a usare metodi che vanno dalla sorveglianza alla violenza per controllare l’accesso sessuale alle loro compagne. Fino a che punto un padre (umano) dovrebbe essere certo della propria paternità? Probabilmente, meno di quanto sia possibile esserlo, in teoria, dalla metà degli anni Ottanta del Novecento, quando è stato inaugurato un nuovo metodo, al-
tamente affidabile, di identificazione della paternità per mezzo del DNA. Usando queste ir2pronte genetiche alcuni ricercatori hanno scoperto che nei paesi occidentali nel 5-10% dei casi i bambini studiati avevano un padre biologico diverso da quello che credevano di avere.?® L'identificazione per mezzo del DNA ha svolto, comprensibilmente, un ruolo critico nelle cause di riconoscimento di paternità, e il caso di O.J. Simpson ha messo in luce anche le sue potenzialità e le sue limitazioni nei processi penali. Per stabilire se fra due sequenze di DNA c’è corrispondenza ci vuole un pensiero statistico chiaro, come per vedere il punto debole della tesi di Dershowitz che non c’è rapporto fra percosse coniugali e omicidio. Nel capitolo 10 esamineremo la tecnologia del DNA più da vicino. 174
5 PERITI E TRIBUNALI
... al fondo, la teoria delle probabilità non è che buonsenso ridotto a calcolo... PIERRE-SIMON, MARQUIS DE LAPLACE
Essai philosophique sur les probabilités
LOS ANGELES, USA
Il 18 giugno 1964 Juanita Brooks scendeva a piedi un vialetto nel quartiere di San Pedro a Los Angeles, diretta a casa. In una mano teneva il bastone, con l’altra trascinava un carrel-
lo di vimini pieno di provviste. In cima ai pacchetti c’era la sua borsa. Improvvisamente, venne gettata a terra da una persona che non vide e non aveva sentito avvicinarsi; riuscì a girarsi per guardare e scorse una giovane donna che scappava. La sua borsa, nella quale c'erano 35 o 40 dollari, era sparita; un testimone che abitava a un’estremità del vialetto dichiarò che la donna che era corsa via era bionda, portava la coda di cavallo, vestiva di scuro e si era allontanata su una macchina gialla guidata da un nero con barba e baffi.' La polizia, forte di questi dati, arrestò una coppia che corrispondeva alla descrizione. I due si chiamavano Janet e Malcolm Collins; si erano sposati quindici giorni prima avendo in tasca appena 12 dollari, una parte dei quali era stata spesa per un viaggio a Tijuana. Da allora Malcolm non aveva lavorato e Janet, che faceva la donna di servizio, non guadagnava più di 12 dollari la settimana. 175
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
AI processo l’accusa ebbe le sue difficoltà. In aula il testi mone riconobbe in Malcolm Collins l’uomo che guidava la macchina della fuga, ma ammise che in un’udienza preliminare aveva avuto delle incertezze nell’identificare un Collins senza barba allineato, per un confronto, insieme con altri uomini.
Mrs. Brooks non fu in grado di identificare nessuno dei due imputati.
Per rafforzare la sua posizione il pubblico accusatore di People v. Collins chiamò a deporre in qualità di esperto un docente di matematica di un’università statale e preparò un quadro sinottico simile alla tabella 9.1 per fornire una risposta alla domanda “Qual è la probabilità che Mr. e Mrs. Collins siano innocenti, se hanno tutte e sei le caratteristiche enumerate
dalla descrizione dei colpevoli?”. L'esperto testimoniò che la probabilità di una certa combinazione di caratteristiche, o probabilità congiunta di queste caratteristiche, era uguale al prodotto delle singole probabilità di ciascuna, dopo di che il pubblico ministero fornì delle stime di queste singole probabilità e calcolò il loro prodotto, ottenendo quella che a suo dire era la probabilità che una coppia presa a caso avesse tutte e sei queste caratteristiche: una su 12 milioni.? Concluse quindi, basandosi su questo calcolo, che gli imputati avevano solo una probabilità su 12 milioni di essere innocenti, e aggiunse che la sua era una stima prudenziale e in realtà “la probabilità che sul luogo ci fossero persone diverse da questi accusati... è qualcosa come una su un miliardo”; e la giuria condannò i
Collins per rapina di secondo grado. La difesa si appellò e la Corte Suprema della California annullò la condanna per quattro ragioni. Primo: le probabilità elencate dall'accusa non erano fondate su dati empirici. Si trattava di pure e semplici stime. Secondo: le sei probabilità potevano essere moltiplicate fra di loro solo nell’ipotesi che le caratteristiche corrispondenti fossero reciprocamente indipendenti, ma non c’erano prove sufficienti di questa ipotesi. Barba e baffi, per esempio, non sono indipedenti: un uomo con la barba ha più probabilità di avere anche i baffi di un altro preso a caso. Terzo: il calcolo dell'accusa dava per scon176
PERITI E TRIBUNALI
Tabella 9.1 Le probabilità presentate dall’accusa in People v. Collins. Si tratta di frequenze relative stimate — per esempio della stima che una ragazza su 3 abbia i capelli biondi, o che una su 10 porti la coda di cavallo. I dati sono presi da Koehler 1997, p. 215. Dato testimoniale
Probabilità
Ragazza coi capelli biondi
1/3
Ragazza con la coda di cavallo
1/10
Automobile parzialmente gialla
1/10
Uomo conibaffi
1/4
Nero con la barba
1/10
Coppia interrazziale in auto
1/1.000
tato che le sei caratteristiche fossero certe e ignorava la possibilità che i colpevoli fossero camuffati o che i testimoni avessero riferito una o più delle loro caratteristiche in modo impreciso. Il fatto che la donna portasse la coda di cavallo, per esempio, non era affatto certo: pur avendola osservata mentre scappava, la vittima non era in grado di dire se avesse una coda di cavallo o no — mentre il testimone ne era sicuro. E la donna della coppia avrebbe anche potuto essere una nera di pelle chiara” coi capelli ossigenati, anziché una bianca. Quarto (e più importante delle altre ragioni): nel ragionamento dell’accusa c'era un difetto fondamentale — la supposizione che la probabilità di osservare tutte e sei le caratteristiche in una coppia presa a caso fosse anche la probabilità dell’innocenza dei Collins. Questo errore porta il nome di fallacia dell’accusatore.* Per capire in che cosa consista la fallacia dell’accusatore dobbiamo distinguere due questioni. Primo: qual è la proba* Negli Stati Uniti vengono tradizionalmente classificate “black” anche persone con appena un ottavo o un sedicesimo di sangue nero, e quindi in-
distinguibili di fatto dai bianchi. [NdT]
177
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
bilità che un individuo (o una coppia) corrisponda punto per puntoa tutte la caratteristiche note del colpevole (o dei colpevoli)? Secondo: qual è la probabilità che un individuo (o una coppia) zor sia colpevole, posto che corrisponda punto per punto atutte le caratteristiche note di chi ha commesso il reato? La fallacia dell’accusatore sta nel confondere queste due probabilità: p(concordanza) viene presa per p(non colpevolelconcordanza) La fallacia dell’accusatore
Detto senza usare formule: la fallacia dell’accusatore sta nel ragionare come se la probabilità di una concordanza casuale fosse identica alla probabilità della non colpevolezza dell’imputato o, equivalentemente, come se la probabilità della colpa fosse uguale a 1 meno la probabilità di una concordanza casuale. Supponiamo, per esempio, che p(concordanza) sia uguale a 1 su 1000: la persona che commette la fallacia ne concluderà che allora è uguale a 1 su 1000 anche la probabilità che l’imputato non sia colpevole 0, equivalentemente, che è uguale a 999 su 1000 quella che lo sia. In realtà, queste due probabilità non sono la stessa cosa. La p(concordanza) è la probabilità della concordanza casuale di un tratto o di una combinazione di tratti (come i capelli a coda di cavallo) in una certa popolazione (per esempio, tutti gli abitanti degli Stati Uniti); la p(non colpevolelconcordanza) è invece la probabilità che un imputato non sia colpevole data una concordanza. La differenza fra queste due probabilità ci risulta chiara se a proposito del prossimo presidente degli Stati Uniti usiamo una caratteristica molto frequente, per esempio essere maschio: la probabilità p(maschio) che un ‘americano scelto a caso sia maschio è di circa il50%, ma non è
certo uguale alla probabilità p(presidentelmaschio) che un maschio americano scelto a caso sia il prossimo presidente degli Stati Uniti. Nella loro immensa maggioranza i maschi americani non diventano mai presidenti. 178
PERITI E TRIBUNALI
Sembra che il termine “fallacia dell’accusatore” sia stato coniato dall'avvocato e psicosociologo William Thompson e dal suo allievo Edward Schumann, che l’hanno usata per etichettare il seguente argomento di un vice-pubblico ministero (molto esperto): supponiamo che un imputato abbia lo stesso gruppo sanguigno del colpevole di un reato e che il 10% della popolazione rientri in questo gruppo. Allora, se l’imputato fosse innocente avrebbe il 10% di probabilità di appartenere al gruppo in questione, e perciò se gli appartiene la probabilità che sia colpevole è del 90%.’ Se questo argomento vi fa confondere, la ragione è che si tratta di un argomento confuso: la probabilità di una concordanza casuale non determina una probabilità di colpevolezza. D'altronde, la fallacia dell’accusatore non colpisce, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, gli accusatori soltanto: ci possono essere queste inferenze zoppe anche quandoaragionare sulle probabilità sono degli esperti di altro tipo. C'era fallacia dell’accusatore anche nei ragionamenti di diversi consulenti sull’AIpS di cui ho parlato nel capitolo 7, che confondevano la sensibilità dell'esame dell’HIV col suo valore predittivo positivo, quando in realtà° p(esame positivolHIv) non è la stessa cosa di p(HIVlesame positivo)
Ma c'è fallacia dell’accusatore anche nei ragionamenti di quei medici, descritti nel capitolo 5, che confondevano la sensibilità della mammografia con la probabilità che una donna avesse veramente il cancro al seno, mentre in realtà p(esito positivolcancro al seno) non coincide con p(cancro al senolesito positivo)
Quegli esperti che cadono nella fallacia dell’accusatore usano spesso l’espressione “una persona diversa dall’imputato”:
Poiché c'è una probabilità su 10.000 che i dati dell’imputato concordino con il materiale probatorio, c'è anche una probabilità su 10.000 che il colpevole sia una persona diversa dall’imputato. 179
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
Come si fa a evitare questa forma di analfabetismo numerico? Ci sarebbe una soluzione molto semplice: i tribunali potrebbero esigere che il materiale probatorio sia presentato in termini di frequenze, e non di probabilità dell'evento singolo. Nel caso dei Collins l’enunciato probabilistico che fa confusione è: “La probabilità che l’imputato possieda queste sei caratteristiche è una su 12 milioni”,
che sembra una pessima notizia per l'imputato; ma se lo traduciamo nel linguaggio più trasparente delle frequenze esso attira la nostra attenzione su altri possibili sospetti: “Ogni 12 milioni di coppie si può prevedere che una presenti queste sei caratteristiche”. Qui la domanda che viene subito spontanea è: “Quante so-
no le coppie che avrebbero potuto commettere il reato?”; le frequenze, cioè, chiariscono che bisogna conoscere il numero delle coppie presenti nella popolazione di riferimento pertinente per stimare la probabilità che i Collins siano innocenti. Se, per esempio, la popolazione di riferimento è quella delle coppie californiane e in California ci sono 24 milioni di coppie, allora l’enunciato sulle frequenze naturali ci rivela che possiamo aspettarci che quelle con tutte e sei le caratteristiche siano 2 (e questo significherebbe che la probabilità che i Collins siano innocenti è una su 2, non una su 12 milioni). Nella
sentenza di appello la Corte Suprema della California fece proprio questo tipo di calcolo, e ne concluse che condannare i Collins era stato come condannare X fondandosi sul fatto che un testimone aveva visto 0 X o il suo fratello gemello commettere il reato; ma la motivazione della sentenza prosegue con un'osservazione rivelatrice sullo stato della competenza statistica dei tribunali: “Era prevedibile inoltre che pochi avvocati difensori, e sicuramente pochi giurati, si rendessero conto di
questo fondamentale difetto dell’analisi dell’accusa”È 180
PERITI E TRIBUNALI
People v. Collins è solo uno di una lunga successione di casi legali in cui gli stessi esperti — per non parlare dei profani — fanno confusione sulle probabilità. In un famigerato processo francese del tardo Ottocento, per esempio, la condanna del capitano Dreyfus finì per essere annullata e gli argomenti statistici sui quali era stata sostenuta vennero screditati, come nel caso dei Collins.” E più di un secolo, dunque, che nelle aule giudiziarie svolgono un ruolo testimonianze di esperti in cui si parla di probabilità, ma anche che dalla forma di queste testimonianze nascono spesso degli equivoci; ciononostante, ancora oggi è pratica corrente formulare gli argomenti statistici
in termini di probabilità e non in termini di frequenze. Questa prassi rende difficile individuare le argomentazioni scorrette. WUPPERTAL, GERMANIA
Una sera d’estate a Wuppertal, una città della cintura industriale della Germania, un pittore di 40 anni andò a fare una passeggiata nei boschi insieme alla moglie trentasettenne. Improvvisamente, i due furono aggrediti da uno sconosciuto che sparò all’uomo colpendolo tre volte, al torace e alla gola. Il pittore cadde a terra; lo sconosciuto tentò di violentare la donna, che si difese, finché, inaspettatamente, il pittore si rialzò e venne in suo aiuto; allora, l'aggressore sparò due volte alla si-
gnora alla testa e fuggì. Solo il marito sopravvisse all’aggressione. Tre giorni dopo un guardaboschi scoprì a 20 chilometri dalla scena del delitto un’automobile che apparteneva a uno spazzacamino di 25 anni, il quale la usava per trascorrere i fine settimana in quello stesso bosco. Il pittore, da principio, credette di averlo riconosciuto in una foto, solo che dopo averlo visto di persona perdette la sua sicurezza e finì addirittura per credere che il colpevole fosse un altro sospettato. Ma quando l’innocenza di quest’ultimo venne dimostrata, lo spazzacamino fu rinviato a giudizio. Non aveva precedenti penali, e si dichiarò innocente.
Fra le prove presentate contro di lui c’era il sangue trovato 181
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
sotto le unghie dall’assassinata, che era del suo stesso gruppo sanguigno; ma al processo un docente universitario testimoniò che il 17,3% dei tedeschi aveva sangue di quel gruppo. C'era poi anche il sangue trovato sugli stivali dello spazzacamino, che corrispondeva a quello della donna uccisa, e l’esperto testimoniò che il 15,7% dei tedeschi aveva sangue di quel tipo. Se moltiplichiamo le due probabilità otteniamo un valore del 2,7%: la probabilità congiunta che le due corrispondenze si presentino insieme per puro caso. L'esperto con-
cluse che la probabilità che lo spazzacamino fosse l'assassino era del 97,3% .!°
Supponiamo, per capire come mai la conclusione di questo esperto non regge, che l’assassino potesse essere uno qualsiasi . dei 100.000 maschi adulti di Wuppertal. È praticamente certo che uno di loro — l'assassino — soddisferà entrambi i criteri appena visti (a meno che in laboratorio non ci sia uno scambio fra campioni di sangue, o qualche altro errore); ma possiamo aspettarci che li soddisfino entrambi anche 2700, grosso modo, degli altri 99.999 (cioè il 2,7%). Perciò, la probabilità che, date queste due corrispondenze, l'imputato sia l'assassino non è del 97,3% come aveva dichiarato l’esperto, ma è uguale a una su 2700, cioè a meno di un decimo dell’1%.
C'era, però, un altro indizio: un certo tipo di fibra tessile era stato trovato sia nei vestiti della vittima che in quelli dello spazzacamino. Basandosi su questa corrispondenza, un secondo perito, un funzionario del Dipartimento Criminale del governo centrale, attribuì con un ragionamento analogo una probabilità dello stesso ordine di grandezza all’ipotesi che lo spazzacamino fosse l’assassino; commise, cioè, la fallacia del-
l’accusatore. Ma i calcoli degli esperti crollarono quando la corte scoprì una prova inoppugnabile del fatto che al momento del delitto l’accusato si trovava nella sua città di residenza, a
100 chilometri di distanza. Qui l’ipotesi che i colpevoli potenziali fossero 100.000 è stata fatta solo a scopo illustrativo. Se disponiamo di dati indipendenti che limitano la popolazione sospetta, come nel caso di omicidio che esamineremo nel capitolo 10, la stima può es182
PERITI E TRIBUNALI
sere modificata; ma nel caso di Wuppertal questi dati non c’erano. In generale, quando si ipotizza una popolazione di una certa entità, questa ipotesi resta invariata, ma prendendo un limite superiore e uno inferiore delle sue possibili dimensioni (per esempio, tutti gli uomini d’Europa e rispettivamente tutti gli uomini di Wuppertal), possiamo assegnare un limite superiore e uno inferiore alla probabilità che un imputato sia la fonte di un certo materiale che ha rilevanza processuale. In ogni caso, se pensiamo a una popolazione concreta e la suddividiamo in frequenze naturali troviamo stime abbastanza precise che rendono impossibile la fallacia dell’accusatore. Il ragionamento dei due esperti che testimoniarono in questo processo era uguale a quello dell’accusa in People v. Collins. Non è un caso che questa forma di pensiero annebbiato sia detta fallacia dell’accusatore, e non fallacia del difensore; di solito,
infatti, porta a esagerare la probabilità che un imputato sia colpevole di un certo reato. Nel caso Collins, per esempio, non solo si affermò che c’era una probabilità su 12 milioni di una certa concordanza, ma questo dato venne confuso, grazie alla fallacia dell’accusatore, con la probabilità che il reato fosse stato commesso da un’altra coppia — e a quel punto i Collins sembrarono, più che colpevoli, colpevolissimi. La fallacia dell’accusatore trasforma miracolosamente le probabilità — in genere molto piccole — di concordanza in probabilità — enormi — di colpa. Secondo alcuni teorici del diritto le statistiche dovrebbero essere escluse dalle aule giudiziarie, perché facili da manipolare e difficili da capire." Io non credo che le prove statistiche debbano essere escluse; penso, però, che bisognerebbe dare ai professionisti del processo penale gli strumenti necessari per capirle. Nelle facoltà di legge si dovrebbero abituare gli studenti a considerare casi come quelli presentati in questo capitolo e a immaginarsi nei due ruoli contrapposti. Supponi di essere il pubblico ministero e di voler confondere i giurati: come presenteresti gli indizi? E adesso, supponi di essere un avvocato difensore che sente il pubblico ministero parlare di probabilità: come spiegheresti, con parole semplici che anche un giurato possa capire, dove sta l’errore nei suoi argomenti? 183
COMPRENDERE LE INCERTEZZE NEL MONDO REALE
Accusatori, difensori e giudici devono rendersi conto che non è importante stabilire solo se una prova sia ammissibile e vera, ma anche se sia presentata in modo da annebbiare il pensiero 0, viceversa, da facilitare la comprensione; e se i tribunali
non disciplineranno il modo di presentare le informazioni statistiche nel corso di un processo, c’è da aspettarsi che si continuino aripetere gli stessi errori. Qui è pertinente la questione dell’identificazione attraverso il DNA; ma si tratta anche di una questione da cui può nascere la speranza, perché se c'è un’innova-
zione che ha costretto i giuristi a imparare a pensare statisticamente è proprio quella della prova del DNA. Se è ben compresa, questa nuova tecnologia promuove la causa della giustizia.
LEGGE E INCERTEZZA
Molti studenti che passano buona parte della loro vita a evitare la matematica e la psicologia diventano poi dei giuristi; ma solo una delle 175 facoltà di legge ufficialmente esistenti negli Stati Uniti pretende dai suoi allievi un esame di statistica di base o metodi di ricerca.” Io sono stato professore ospite in una delle più rinomate di queste facoltà di legge americane, e mi hanno molto colpito l’intelligenza degli studenti e la loro abilità retorica, ma anche la loro ignoranza dei principi di base della statistica; quegli stessi ragazzi che eccellevano nel pensiero critico non sapevano poi valutare se fosse o no corretto ricavare una particolare conclusione da certi dati statistici — e in maggioranza erano ignoranti anche di psicologia, ivi comprese le tecniche per comunicare questo tipo di dati in modo da farli capire agli altri. Tuttavia, compresero molto rapidamente che sia la statistica sia la psicologia erano importantissime nel loro lavoro, dato che numerose questioni legali vengono decise sulla base di prove incerte. I ricalchi su scrittura, l’analisi delle fibre e dei capelli, l’identificazione attra-
verso il DNA, la classificazione del gruppo sanguigno e l'esame grafologico sono tutte tecniche da cui escono prove incerte, che richiedono di essere valutate; e i tribunali hanno una certa 184
PERITI E TRIBUNALI
tendenza a convocare dei periti, ma anche questi periti, come abbiamo visto, possono avere il cervello annebbiato. Come modificare questa situazione? Prima di tutto, chi fa le leggi, chi governa, chi insegna diritto, tutti costoro devono rendersi conto che esiste un problema; dopo di che, per capire quali cose servano a risolvere il problema e includere queste cose nei programmi delle facoltà di legge e nelle regole procedurali di base dei tribunali, bisognerà ragionare in modo interdisciplinare. Finché non si sarà avviato un programma di questo tipo, i ragazzi potrebbero cercare di aiutarsi con qualche progetto fai-da-te per studenti di legge e per tutti quelli che hanno questo problema; magari una “Società Anonima Analfabeti Numerici”, come ha proposto uno studioso di diritto. Perché no?"
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