Qualcosa di meglio. Biografia partigiana di Otello Palmieri 9788833641034

Quella di Otello Palmieri è una vita fuori dal comune. Nell'estate del '44, da un piccolo borgo fuori Bologna,

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Qualcosa di meglio. Biografia partigiana di Otello Palmieri
 9788833641034

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A Spartaco, in memoria

Questo volume è pubblicato con il contributo di:

Comune di Valsamoggia

Alfredo Mignini Enrico Pontieri

Qualcosa di meglio Biografia partigiana di Otello Palmieri

Alfredo Mignini e Enrico Pontieri

Qualcosa di meglio

Biografia partigiana di Otello Palmieri

Volume realizzato grazie a: Mario Cerè Fabrizio Bassetto C.OL.CA.S. di Oliveto Famiglia Valerio e Francesco Lambertini e Magda Biagini Per la consulenza sul dialetto si ringrazia Pietro Ospitali

TUTTI I DIRITTI RISERVATI © 2019, Edizioni Pendragon Via Borgonuovo 21/a – 40125 Bologna www.pendragon.it È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.

Alla fine eri costretto a scegliere tra due mali e già questo del male minore era un brutto scegliere. Quelli là, i tuoi, non avevano capito, forse avevano male interpretato, comunque avevano fatto errori gravi ma il marxismo non sembrava da buttare via. Questi qui però i nostri problemi – per la madonna – proprio non volevano risolverli. Non ci volevano, non volevano la nostra intelligenza, ci negavano. Ezio Bartoli in Manlio Calegari, La sega di Hitler

[…] perché il nemico mio è così vile cerca il fratello e lo uccide ognior che importa se vo a morire quando ci guida l’amor d’ideal la schiavitù dovrà finire e deve sorgere l’umana libertà Corrado Degli Esposti e Marziano Sorzini, Il partigiano di Oliveto

Indice Prologo

p. 9

CAPITOLO 1 Battagliero

27

CAPITOLO 2 Enrico Grassi

77

Intermezzo

123

CAPITOLO 3 Otti

141

Epilogo

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Fonti e annotazioni

195

Ringraziamenti

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Nota al testo Tutte le citazioni letterali, da fonti scritte o da interviste trascritte, sono riportate con le virgolette caporali (« »). Eventuali dialoghi al loro interno si distinguono per le virgolette in coppia (“ ”). Nei dialoghi fra intervistatori e intervistati si usano le prime solo quando si fa riferimento a citazioni effettive; quando invece la domanda è implicita, o molto alterata rispetto al dialogo realmente avvenuto, si è preferito segnalarlo non riportando alcun segno grafico.

Prologo

Caro Alfredo, vado subito al sodo: Mario, un collega di mia madre, mi ha parlato di una cosa che potrebbe interessare a entrambi. Si tratterebbe, se ho capito bene, di intervistare un signore sulla novantina che, dopo la guerra, è fuggito in Cecoslovacchia perché incolpato dell’omicidio di un ex fascista. Che ne dici? Ne parliamo a voce nei prossimi giorni? Nel caso, direi di fissare un appuntamento con Mario per sentire cosa ci propone. Fammi sapere. Un abbraccio, Enrico

Bologna, giovedì 26 gennaio 2017 L’appuntamento è fissato per le 12:45 al bar della Coop di Piazza dei Martiri e noi, come al solito, siamo in ritardo. Mario ha solo il tempo della pausa pranzo quindi, scambiati i convenevoli di rito, cerchiamo un tavolo a cui sederci. Mentre la voce diffusa dagli altoparlanti ci ricorda continuamente la sacra unione, ormai avvenuta, tra la nostra più intima essenza e quella del supermercato in cui siamo entrati (la Coop sei tu), ci sistemiamo in un angolo appartato quanto basta e conversiamo tranquillamente. È dunque tra

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verdure in offerta speciale e impiegati chini sullo schermo dei propri telefoni che sentiamo parlare, per la prima volta, di Otello Palmieri. Mario comincia a raccontarci la vicenda, di cui è a conoscenza per un motivo del tutto personale: suo padre Filippo e Otello sono cresciuti insieme a Oliveto, un piccolo paese della provincia bolognese nei pressi di Monteveglio. Entrambi erano entrati nella Resistenza non ancora diciottenni e, da giovanissimi partigiani comunisti, avevano condiviso nascondigli e coraggio durante il terribile inverno del ’44. Entrambi, dopo la Liberazione, erano stati incolpati dell’omicidio dell’oste fascista di Oliveto, e per questo motivo erano fuggiti insieme in Cecoslovacchia, aiutati dal Partito comunista. Quando? Mario non sa dirlo con certezza, ma probabilmente la fuga era avvenuta tra la fine di un aprile e l’inizio di un maggio imprecisati. «I piantèvan al furmintåũ1»: nei racconti che gli risuonavano in testa, la partenza coincideva con la semina del granoturco, inequivocabile portato di una giovinezza scandita dai ritmi dell’agricoltura. Entrambi, comunque, dopo quattro o cinque anni d’esilio erano stati scagionati da ogni accusa e avevano fatto ritorno in Italia, delusi dal socialismo reale, spaventati dallo stalinismo che avevano visto violentemente in azione. Filippo era rimasto a Bologna, facendo carriera nel Pci e ricoprendo, in seguito, incarichi nel sindacato e nella cooperazione di consumo, smarcandosi dagli atteggiamenti stalinisti che aveva ritrovato anche in Italia. Otello, al contrario, aveva rapidamente preso la via dell’emigrazione, abbandonando per sempre l’attività militante per trasferirsi insieme

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Piantavano il mais.

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alla moglie Giovanna in Svizzera, dove aveva condotto una vita da operaio specializzato, lautamente remunerato, fino alla pensione raggiunta una ventina di anni fa. Questo è quanto ci racconta Mario nel bar della Coop di Piazza dei Martiri, il 26 gennaio del 2017. Un’esperienza mostruosa e traumatica, ci ripete con insistenza. Come tanti compagni con cui ha condiviso l’esilio in Cecoslovacchia, e che come lui si sono allontanati dal comunismo una volta tornati in Italia, anche Otello appartiene dunque alla schiera degli Uomini ex, ai quali è dedicato il romanzo di Giuseppe Fiori che Mario ci porge mentre parla. Stiamo ancora osservando con curiosità il volume quando il nostro interlocutore ci consegna rapidamente una fotocopia della sentenza di assoluzione per suo padre e Otello. La pausa pranzo è terminata, deve tornare al lavoro. «Telefonatemi eh, se non avete cambiato idea», dice proponendoci di incontrare Otello a Crespellano. Oltre al padrone di casa, ci aspettano due valigie che aveva portato con sé dall’esilio e che erano state dimenticate per decenni nella cantina di una sorella, zeppe di libri e quaderni di appunti. «Affascinante, non è affascinante?». Per Mario lo è sicuramente. Per quanto ci riguarda, lo è a sufficienza da incuriosire due giovani storici prossimi alla disoccupazione. Ci salutiamo e prendiamo direzioni opposte, mentre una pioggia sottile ma gelida comincia a cadere su Bologna. *** Dedichiamo i giorni seguenti ad analizzare la sentenza. Si tratta di un provvedimento del giudice istruttore, che precede dunque il dibattimento processuale e ne permette, o meno, l’effettiva realizzazione. In questo caso, il giudice aveva sancito preventivamente, per diversi motivi, il pro-

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scioglimento di tutti gli imputati, e dunque il processo non aveva mai avuto luogo. La data in calce all’ultima pagina è quella del 20 marzo 1953. Il documento, a prima vista, non presenta grosse difficoltà interpretative. Biotiti Ivo, Palmieri Otello e Cerè Filippo, tre giovani di Oliveto, sono accusati dell’omicidio dell’oste Augusto Mignani e del ferimento di suo figlio Pietro. Altri due individui sono inoltre accusati di precedenti tentativi di estorsione ai danni del defunto, uno dei quali andato a buon fine. Quest’ultima accusa fa riferimento a fatti avvenuti a guerra ancora in corso, quando i partigiani, a causa della stessa natura clandestina delle loro organizzazioni, richiedevano contributi in denaro o viveri agli abitanti dei territori nei quali operavano. Il termine giuridico “estorsione”, certamente corretto dal punto di vista legale, nasconde le necessità imposte dal contesto; per questo motivo, atti simili vennero assimilati ad azioni di guerra, dunque legittimati e dichiarati non perseguibili già a partire dal 12 aprile 1945, per decreto dell’allora erede al trono Umberto II, luogotenente provvisorio del regno. La pretestuosità è evidente e, infatti, il giudice dichiara “non punibile” il fatto in oggetto. Anche l’accusa nei confronti dei tre sospettati di omicidio viene a cadere, ma le motivazioni sono assai differenti. «Insufficienza di prove» recita infatti la sentenza. Augusto Mignani era stato ucciso il 4 dicembre del 1945 all’interno della sua osteria, verso le sette e mezza di sera. Qualcuno, armato di una pistola calibro 9, si era avvicinato furtivamente alle finestre dell’edificio e aveva sparato diversi colpi attraverso le imposte chiuse, uccidendo il proprietario e ferendo il figlio Pietro. Questo è quanto ricostruito dall’istruttoria chiusa il 20 marzo 1953. Un regolamento di conti con un noto fascista locale che non aveva

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pagato le sue colpe dopo la Liberazione? La risposta ci sembra fin troppo ovvia. Ci sbagliavamo. Almeno, stando al giudice istruttore. Fin dalle prime pagine, la sentenza esclude infatti il movente politico perché «al Mignani non si possono attribuire atti di faziosità fasciste» e «in particolare, era ben voluto e stimato da tutta la popolazione». Le prime indagini e l’inevitabile corollario di testimonianze ambigue, sibilline, ritrattate, forse estorte con la violenza in alcuni casi, unite alle voci di paese, avevano condotto all’emissione di un mandato di cattura nei confronti di Biotiti, Palmieri e Cerè, i quali, ancora prima dell’ufficializzazione dell’atto, si erano resi irreperibili; fatto, quest’ultimo, che rimane inspiegato nella ricostruzione del giudice istruttore. Cerè era entrato, pallido in viso e biascicando poche parole, nell’osteria di Mignani poco prima dell’omicidio? Questo faceva di lui un sicuro assassino? Lui e Palmieri erano stati visti confabulare nei pressi dell’edificio, con aria losca, quella stessa sera? I due, in compagnia di Biotiti, avevano ripetutamente e apertamente inneggiato alla morte dell’oste? Avevano incontrato, pochi giorni prima, alcuni comandanti partigiani in una riunione che aveva deciso la soppressione di Mignani? Le testimonianze dei concittadini si accavallarono, modificarono, smentirono a vicenda. Quasi tutte vennero ritrattate e, infine, abiurate dai diretti interessati. Solamente una fu confermata: tal Zati Francesco affermava di aver restituito a Palmieri Otello, la sera dell’omicidio, una pistola Beretta calibro 9. Palmieri, che in quel momento si trovava con Cerè e Biotiti in casa di quest’ultimo, aveva controllato le condizioni dell’arma e, assicuratosi della presenza di sei o sette proiettili nel caricatore, aveva congedato Zati. Pochi minuti dopo, diversi spari erano risuonati nel pic-

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colo borgo di Oliveto e Mignani era stato ritrovato senza vita nella sua osteria. Nonostante l’opinione del giudice istruttore, ci rifiutiamo di escludere a priori che l’assassinio abbia un movente politico. Al contrario, più rileggiamo la sentenza, più ne parliamo e più, ai nostri occhi, il fatto acquista i contorni di un classico regolamento di conti locale. Nel 1945 Mignani, secondo il giudice, era un oste affabile e amato dalla popolazione. Opinione che ritroviamo sfogliando un libro sulla storia di Monteveglio tra fascismo e ricostruzione, per bocca dei testimoni intervistati. Tutte le fonti a nostra disposizione, per il momento, lo dipingono grosso modo in questi termini: fascista sì, ma bonario e mansueto. Forse, però, non ci stanno dicendo tutto. Forse Mignani nascondeva un passato molto più controverso, nel 1945. Per esempio, è verosimile che fosse stato un precoce sostenitore del fascismo, forse un ex squadrista. Dopo aver preso parte a spedizioni punitive a base di olio di ricino in gioventù, prima della Marcia su Roma, aveva passato placidamente il Ventennio nella sua bottega, ritirandosi dall’agone politico per dedicarsi agli affari e alla famiglia. E, forse, come molti colleghi, aveva discretamente ma sistematicamente appuntato i comportamenti degli avventori, spinto a investire se stesso del ruolo di spia del regime per evitare qualsiasi problema nelle pratiche di rinnovo della licenza del locale. Forse, a Oliveto, i più avevano dimenticato o perdonato, ma qualcuno non aveva saputo rassegnarsi al fatto che la violenza del passato, sepolta sotto una coltre sottile, potesse avere diritto di cittadinanza, senza nemmeno la più minima sanzione, nella nuova Italia antifascista. L’oblio degli abitanti e l’impunità che la legge sembrava riservare all’oste avevano reso intollerabili questi pensieri ricorrenti. Alla prima occasione utile, questo vendicatore

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dei torti passati aveva ucciso Mignani e riportato la giustizia a Oliveto. La nostra è solo un’ipotesi, ma la provincia di Bologna – e la zona di Monteveglio fa tutt’altro che eccezione – fu teatro di numerose storie di questo tipo nell’immediato dopoguerra. Dobbiamo indagare. Non immediatamente, però. Leggendo la sentenza, infatti, emerge una problematicità che non avevamo notato in precedenza. Scioglierla risulta estremamente più urgente rispetto alla caccia all’assassino e al movente. Stando a quelle poche pagine, non riusciamo a ricostruire la scansione temporale entro la quale si sono svolti i fatti. L’omicidio ha luogo il 4 dicembre del 1945. La sentenza del giudice istruttore è datata 20 marzo 1953. Palmieri, Cerè e Biotiti si rendono irreperibili alla fine delle «prime indagini», che si svolgono quindi… immediatamente dopo il fatto? «I piantèvan al furmintåũ» è l’unico riferimento temporale che abbiamo: partono nella primavera del 1946. Possibile? I tre quindi vivono in esilio per ben sette anni, non per quattro o cinque come ci aveva assicurato Mario. Oppure, la fuga è posteriore: se gli anni passati in Cecoslovacchia sono veramente quattro o cinque, i tre fuggiaschi lasciano l’Italia nell’aprile del 1948 o del 1949. In questo caso, però, anche le indagini si svolgono all’inizio di uno di questi due anni. Molto lontane dall’omicidio. Perché? I ricordi dei libri letti anni fa ci vengono in soccorso: sappiamo che molti procedimenti giudiziari contro ex partigiani, colpevoli o meno di crimini successivi alla Liberazione, vengono aperti nella seconda metà del 1948, dopo l’attentato a Togliatti. Il “processo alla Resistenza” comincia da qui. Ma vengono presi di mira militanti comunisti estremamente attivi e combattivi, considerati pericolosi dalle forze dell’ordine. Pericolosi non solo politicamente, ma anche militarmente. Gente che sa usare le armi. Non ragazzi qualunque, non ex partigiani

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qualunque. La Volante rossa! Non fuggono anche loro in Cecoslovacchia? Dobbiamo riprendere in mano i libri di Bermani perché, se la fantasia non ci ha portati troppo lontano, Otello potrebbe avere tanto da raccontarci, più di quanto avevamo immaginato. Cose di cui non molti hanno voglia di parlare, oggi. Sulle ali dell’entusiasmo per la scoperta di questa nuova pista investigativa, quasi ci dimentichiamo che non abbiamo ancora sciolto il dilemma: quando fuggono? Cerchiamo solide certezze. Quelle che piacciono tanto agli storici e che solo gli archivi possono dare. Ci sbagliavamo. Speravamo di scoprire almeno la data di apertura delle indagini, ma purtroppo non ne troviamo traccia. Nulla nell’archivio del Tribunale, nulla nell’Archivio di Stato di Bologna. Nulla all’interno dei fondi di Solidarietà democratica e di Leonida Casali, cioè l’associazione e l’avvocato che più di tutti si spesero nella difesa di ex partigiani perseguiti legalmente. Siamo confusi. Da dove provengono le fotocopie che abbiamo tra le mani? È il momento di telefonare a Mario. Bisogna conoscere Otello.

Crespellano, sabato 4 marzo 2017, mattina Fabrizio ci sta già aspettando quando arriviamo in paese. Siamo insolitamente in anticipo e lui più di noi. Di là dalla strada la stazione ferroviaria è vuota, più avanti un pensionato supera la pensilina del bus e si fionda sulla provinciale alla guida di un Suv scuro. È in buona compagnia. Tutte le automobili vanno verso Bologna, o comunque a est. A fare il percorso inverso siamo in pochi, e noi gli unici a non indossare tutine in microfibra su ruote sottili. Il sole freddo

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di marzo cala sugli edifici bassi, due piani al massimo, cemento armato e balconcini decorati. La tranquillità della provincia ha sempre qualcosa di attraente. Ad averne il tempo bisognerebbe entrare in un bar e leggere «Il Resto del Carlino» per aggiornarsi sulla polemica del mese, i cosiddetti “facinorosi del 36”, universitari che hanno rifiutato l’idea dei tornelli in biblioteca. Chissà cosa ne pensa Otello, ci chiediamo, chissà se segue ancora la cronaca politica. Invece abbiamo appena il tempo di piazzare la Panda nel parcheggio che stiamo stringendo la mano a Fabrizio. «Mario ha detto di andare su», dice lui invitandoci a seguirlo. Siamo incuriositi ma non lo diamo a vedere. Sospesi fra l’entusiasmo e il timore che accompagna ogni incontro al buio, ci lasciamo guidare guardandoci attorno. Via XXV aprile, svolta su IV novembre, incrocio con via della Resistenza, che più giù diventa Caduti della libertà, quindi via Gramsci. La nostra meravigliosa toponomastica, con quella vena di patriottismo a cui ci ha abituato Bologna. Mario è lì ad aspettarci. Fa strada verso un salone modesto dove Otello siede sul divano accanto a Bella, una cagnolina minuscola e non più giovane. Per qualche minuto chiacchieriamo del più e del meno, ma si capisce che è un diversivo. Ci mettiamo comodi e sorseggiamo il caffè che Giovanna ha servito sul tavolo prima di tornare velocemente alle sue faccende. Otello è titubante, restio. «Io penso che è già tardi… ai giovani non c’interessa più!». Rincara: «sono cose che io penso che non interessano più alla gente». Ecco, pensiamo noi, ci siamo di nuovo. Il novantenne che ha fatto il partigiano, la ferocia che si tramuta in febbre del fare, la Repubblica e la Costituzione, i giovani che non capiscono. Un copione già scritto. Forse. Ma intanto oscilla, apre qualche spiraglio: «le sapevo raccontare meglio», invece adesso la memoria, dice lui, non lo supporta più e «non vorrei che per-

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deste del tempo per niente». Sorridiamo e pensiamo a una prima domanda per rompere il ghiaccio. Come se non aspettasse altro, però, Otello inizia a raccontare senza preamboli e senza aspettare le domande. Riprende i fili di un discorso interrotto anni e anni fa. La sua è la storia di «quelli che erano incolpati per i fatti del-del-del… di Togliatti! Quando hanno attentato a Togliatti». Sembra un messaggio in codice, il suo modo di mettere le carte in tavola: sono uno che non sta lì a girarci intorno. E noi giù di penna, quasi mandiamo di traverso il caffè per trattenere qualcosa del suo slancio. Altro che novantenne, ci diciamo con uno sguardo, questo qui va spedito. Gli appunti si riempiono di righe frettolose, sigle, segni e numeri storti. Un enorme punto di domanda campeggia accanto alla scritta «14 luglio 1948». Quella mattina Antonio Pallante si presentò all’uscita di Montecitorio ed esplose quattro colpi di pistola contro Palmiro Togliatti, capo del Partito comunista e punto di riferimento quasi indiscusso per chiunque avesse qualcosa per cui battersi. Per la base, e forse anche per i dirigenti, era «il Migliore». Dalle risaie e dai campi occupati per protesta e necessità a lui s’intonava, riadattato, un vecchio canto di lotta: L’Italia l’è malada / Togliatti l’è ’l dutùr. È per questo che quando si diffuse la notizia che Ercoli era più morto che vivo, lo sciopero fu la risposta più immediata. Generale, spontaneo, rincorso dal sindacato. Di quelli che basta un niente per fare l’insurrezione. I giorni seguenti furono fra i più incandescenti della storia repubblicana, ma è chiaro che la pentola bolliva da un pezzo e le revolverate di Pallante non furono altro che un modo per sbarazzarsi del coperchio. Una lunga freccia solca tutto il foglio e termina sulla parola: «Praga». Dal resto s’intuisce però che parliamo della

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fuga, non tanto della meta. L’espatrio suo, di Filippo e di Ivo – ma anche, scopriamo, di tale Nardi di Borgo Panigale – è ridotto a una sequenza di pallini ripassati una, due, tre volte. Primo «la Bastèrda (bosco vicino a Oliveto – andarci con Mario)», secondo «la Muffa», quindi «Portonovo (Medicina)», poi «via Fiume 15, Bolzano» e infine «San Candido (Dolomiti)». Tornano e si moltiplicano i punti interrogativi: «Attentato a Togliatti – Bologna??». Siamo perplessi, è evidente. Sentirlo insistere sul 14 luglio ci sembra strano. Che la febbre dell’insurrezione abbia colpito anche le colline bolognesi? E tutti quei libri che ci spiegano che qui il partito è sempre stato il primo della classe, allineato, fatto di militanti disciplinati e quadri lungimiranti? Non erano quelli delle feste dell’Unità, della “falce e tortello”? Mica è l’Amiata!, sussurriamo appena, mica son le fabbriche milanesi, ma non osiamo interrompere. Il flusso di annotazioni sovverte le leggi della cronologia, gli stessi eventi tornano con una circolarità bizzarra, inspiegabile. Ogni volta che il discorso cade su Mignani, ad esempio, spunta in qualche modo il 14 luglio e l’immagine di Ercoli accasciato in via della Missione con Nilde Iotti a fargli da scudo. Otello è un fiume in piena. Regala frammenti, aneddoti, battute. Esplode in risate inaspettate, soprattutto raccontando delle volte in cui sarebbe dovuto morire e non è morto, durante la guerra, sempre col ritornello «e anche lì son stato fortunato». I suoi ricordi si accavallano a quelli di Mario, che ricompone i pezzi dei racconti di suo padre, o a Fabrizio che ci spiega la sua idea del libro che sarà. Noi per lo più ascoltiamo, una parola ogni tanto, a metà fra la voglia di entrare in confidenza e quella di vestire i panni dei professionisti. Dopotutto il progetto è solo abbozzato e a giocarsi male la prima impressione si fa presto.

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L’ora che segue è un concentrato di tutte le storie che avremmo ascoltato in un mese di incontri, caffè e registratori. Ne emergono appena tratteggiati i contorni, si va formando una mappa di luoghi e spostamenti, sempre rocamboleschi. Man mano i toponimi si fanno oscuri e le due versioni di appunti sono più un intralcio che un’astuzia. Confini attraversati sempre di notte e sempre a piedi, passaggi in moto da una casa di compagni all’altra, paesi frammentati in zone d’occupazione. E poi uomini cui affidarsi sulla base di curiosi segni di riconoscimento, polizie occhiute che interrogano e controllano. In fondo al tunnel, České Budějovice e, finalmente, Praga. Lì c’è la scuola di partito, il lavoro agricolo delle “brigate”. Poi, i modernissimi impianti al confine con la Germania. Da Bologna notizie poco rassicuranti, il processo in stallo e gli «avversari» sempre pronti a screditare: «sono andati a rubare in qualche posto – a me, me l’ha scritto mia mamma perché io ero già in Cecoslovacchia – [e] un signore che abitava a Oliveto, al gîva par al paäiṡ: “Ah, ma i an da magnêr quî ch’i îran là int la Bastèrda”2», dovranno pur mangiare quelli nascosti nel bosco, «la gente a Oliveto ci credeva […] banditi». E soprattutto li credeva a due passi da casa, nei rifugi partigiani. Quelli, invece, stavano oltrecortina. Spuntano finalmente le due valigie da dietro al mobile. Le sbirciavamo con la coda dell’occhio dal nostro arrivo, senza azzardarci a chiedere. Otello non ne è geloso, le apre e sparpaglia il contenuto sul tavolo. Saltano fuori i quaderni, pagine fitte con gli accenti sulle consonanti, testi brevi e termini copiati in sequenza, qualche disegno geo-

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Diceva per il paese: “Ah, ma devono mangiare quelli, che saranno là, alla Bastèrda”.

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metrico. «1953» si legge sull’etichetta sbiadita di un quaderno nero. Ci fiondiamo a sfogliarlo, magari troviamo qualcosa del 5 marzo. Cinque tre cinquantatré, il giorno in cui i comunisti di tutto il mondo piansero la scomparsa di Iosif Vissarionovič Džugašvili, al secolo Stalin. Ma Otello è preso da altro. Legge, commenta, precisa i ricordi, aggiunge particolari e traduce all’impronta dal ceco. «Lavoro individuale, vedi? Se lo devo dire [non riesco], però se lo vedo scritto…» e ride. «È una lingua difficilissima, ci sono due-tre consonanti insieme» e non si sa come pronunciarle. Per impararla, quelli con la quinta elementare come lui avevano dovuto ripartire dalla grammatica italiana, riprendere la mano con gli esercizi. Ed è così che lui ha contratto la malattia della lettura e oggi legge tutto ciò che gli capita a tiro, come allora girovagava per Praga in cerca di biblioteche e vecchi volumi nella lingua ritrovata. A Bolzano, da fuggiasco, scoprì la Commedia, versi d’esilio che hanno percorso i secoli per acciuffarlo poco prima che passasse la frontiera. Le valigie riportano a galla i libri, per lo più manuali e qualche romanzo. Volumi che venivano «da casa», arrivati dall’Italia dentro plichi e doppifondi che i dirigenti di Botteghe Oscure, o i connazionali col passaporto in regola, recapitavano all’ufficio di via Opletalova, appena dietro piazza San Venceslao. Casa. Passa mai la voglia di tornare a casa? Forse sì. Quando si va nel socialismo realizzato, quando si tocca con mano l’eden. «A dire che si era comunisti, noi eravamo orgogliosi, perché eravamo in un paese… quello che volevamo noi secondo il nostro…» e al diavolo se «invece non era così», se «non era il paradiso che pensavamo noi»! Comunque meglio dei processi ai partigiani e dei fascisti liberi di riprendere le posizioni di un tempo. O no?

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Certo Oliveto, o Bologna che sia, è qualcosa di diverso, è casa. E allora quando gli dicono che il processo è chiuso, lui non esita: «voglio andare a casa. Mé a vói andèr a vàdder mî pèdar e mî mèdar3… la mia ragazza». Ci guarda e ride. Ma certo, come si fa a non capire? Meglio il buongoverno del sindaco Dozza a casa tua che una vita di sradicamento sotto il Patto di Varsavia. Ma allora perché nel ’54 non fa in tempo a tornarci, in quella casa, che se ne va in Svizzera? Mario insiste sulle relazioni forti che legano i partigiani fra loro e alla loro terra, ci suggerisce l’inevitabilità del ritorno anche per chi ha scelto di invecchiare altrove. «Sì, sì…», fa Otello, «io sono rimasto legato qui, sennò non sarei tornato». Quindi la Svizzera è ancora meglio del Pci e di Giuseppe Stalin? cosa sta cercando di dirci? «Io son tornato perché mio figlio, lo sapete, sennò non tornavo». Quando il discorso cade su Spartaco noi ammutoliamo, vorremmo sapere di più ma sappiamo abbastanza per procedere in punta di piedi. Fortuna che un minuto dopo Otello torna alla carica, ce lo troviamo ritto davanti a noi, tutto indaffarato a rovistare nelle valigie. Cerca qualcosa ed estrae un quadro incorniciato da legnetti sottili. Sembra un quaderno, ma ne scorgiamo appena il retro. Lo appoggia sul tavolo e si fionda subito a cercare altro. Noncurante, lo volta. È il compagno Ercoli che ci guarda. *** Arriva il momento di salutarci e siamo frastornati. Una matassa di appunti fitti ma ci sembra di non capire nulla.

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Voglio andare a trovare mio padre e mia madre.

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Scorgiamo almeno tre vite – la lotta armata partigiana, l’esilio oltrecortina e l’emigrazione nel bernese – che solo in parte si spiegano l’un l’altra. Sono traiettorie che vanno per conto loro, arricchite di dettagli che non fanno che complicare il quadro. Abbiamo la testa piena di luoghi da mettere a posto sulla mappa ma ci sfuggono le connessioni, i punti di contatto, le transizioni. Tipo bizzarro questo Palmieri, pensiamo. Al baretto con Mario e Fabrizio proviamo a mettere in ordine le idee. Il primo rincara la dose sugli uomini ex, «dimenticati anche un po’ dal partito» e da tutti, disillusi e sconfitti dalla storia anzitempo, gente per cui il muro di Berlino è caduto due o tre volte. Forse cinquanta, mezzo secolo di 1989 che reiterano la fine. Ma lui sa che poteva andare diversamente. Ha visto la Cecoslovacchia assieme al padre, ha ascoltato da altri i ricordi di Oggi in Italia, il programma radio dove lavoravano i più capaci fra i fuoriusciti italiani. Ha conosciuto la Primavera di Praga dai racconti di Aroldo Tolomelli, anche lui partigiano bolognese processato. Ha letto Dubček e dai “suoi uomini”, i socialisti dal volto umano, ha saputo delle riunioni in sauna alle spalle dei sovietici. Forse, sembra suggerire Mario, questa liaison non è casuale se, quando arrivano le truppe sovietiche, la redazione di Oggi in Italia offrì un riparo ai giornalisti cechi in pericolo. L’attenzione di Fabrizio è invece rapita dalle vicende giudiziarie. Ribadisce che Otello e Filippo furono tirati in mezzo in quanto «ragazzini». Ci rivela che Otello sa ma non vuole dire, forma di rispetto estremo per chi non c’è più. Ma c’è qualcosa che non torna. Sì, Beppino Fiori ha restituito un affresco umano toccante, ma Otello, un po’ come il Drago di Wu Ming e Ravagli, sembra tutto fuorché un uomo ex. Otello legge, impara, scrive, torna, si sposa, riparte,

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affronta un lutto terribile. Otello sceglie. E questa storia dell’esilio accettato con muta rassegnazione non convince, elude tutte le domande che affollano i nostri pensieri. È probabile che sappia, ma il suo non è martirio, questo è chiaro. Otello tirava (tira?) dritto, credeva (crede?), è determinato. Quelli incolpati quando hanno attentato a Togliatti, ripeteva. Ma che c’entra il 14 luglio 1948 con l’uccisione di Mignani, più vecchia di quasi tre anni? Quello che ci sembrava un classico regolamento di conti con gli (ex?) fascisti perde centralità nel suo racconto, scolora di fronte al resto. Come lo spieghiamo nel libro? «Non lo so» fa uno di noi due. «Sarà il caso di tornare su a Crespellano a chiederglielo» fa l’altro mentre ci fiondiamo sulla provinciale in direzione est.

Crespellano, sabato 8 aprile 2017 Quelli incolpati quando hanno attentato a Togliatti. Sono le parole che ci ronzano in testa quando torniamo da Otello. Finalmente senza intermediari né accompagnatori. Soli, noi e lui, con l’ambizione di raggiungere l’intimità che spesso si crea tra sconosciuti, senza quel vissuto comune che fa tacere dettagli noti o ambigui davanti a chi sa, o a cui non si vuole far sapere. Per timore del giudizio negativo di un amico, magari, o per mille altre ragioni. Entriamo in casa con l’intenzione di giocare a carte scoperte, come aveva fatto lui durante il nostro primo incontro. Soprattutto, vogliamo tornare alle nostre certezze documentarie, alle prove. Il motivo per cui lascia il paese è il processo per omicidio a suo carico, non l’accusa di aver partecipato ai disordini del 14 luglio 1948. Penseremo dopo «ai

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fatti di Togliatti» e al racconto che ce ne vorrà fare. Ora vogliamo sapere di Augusto Mignani: chi era, che voci giravano a Oliveto sul suo conto. La sua morte cambia per sempre la vita di Otello, è utile partire proprio da lì. Ma bisogna evitare fraintendimenti e, perciò, mettiamo le mani avanti: non ci interessa conoscere i colpevoli, ammesso che ne sappia i nomi. Vogliamo solo capire cosa ne pensava lui, dell’oste del paese. «Non era proprio un fanatico, era uno che ci teneva molto, era vicepodestà. Il podestà era a Monteveglio, lui era il vice che teneva dietro… sì, era un fascista, ma non […] anzi era affabile con la gente. Era… aveva l’osteria, era l’unico posto dove si andava, c’era solo quella». Lo stesso giudizio della sentenza, lo stesso giudizio registrato sui libri di storia locale. Mignani era un oste bonario e mansueto. Perché dunque è stato ucciso? Pensiamo a questa domanda, ma dalle nostre labbra ne esce un’altra, meno gravida di turbamenti per Otello. O almeno, così crediamo. Cosa ti ricordi del giorno in cui hanno ucciso Mignani? «Quando c’è stato il rastrellamento del 27 agosto, hanno fatto… hanno ammazzato molta gente, hanno ammazzato a dei ragazzi che non avevano colpa di niente». Ecco, questo non ce lo saremmo mai aspettati. Otello salta di netto la nostra domanda, segue la sua versione dei fatti, la sua storia. I suoi tortuosi strati di memoria. Poco importa se, per il momento, ci sfuggono consequenzialità e nesso logico. La voce trema ancora. In silenzio, ascoltiamo attoniti il racconto del rastrellamento del 27 agosto 1944. I repubblichini della compagnia “Buona morte”, di stanza a Castello di Serravalle, che risalgono la valle decisi a spazzare via i partigiani della brigata «Bolero» e chi li aiuta. Elio Roda, renitente alla leva nasco-

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sto in un campo di zucche, che inganna il tempo disegnando la falce e il martello sulle bucce che aveva intorno. Una soffiata ed è preso, portato via, fucilato nel greto del torrente Lavino. Filippo Cerè, l’amico fraterno, che riesce a rifugiarsi alla Bastèrda e scampa per un soffio al rastrellamento. Al contrario di Otello, prelevato da casa e buttato su un camion, insieme a tanti altri ragazzi di Oliveto, Monteveglio, Calderino, Monte San Pietro. Alla Muffa, poco prima di Crespellano, i repubblichini ne fanno scendere quattro e li fucilano. Senza spiegazioni. Uno era senza una gamba. Gli altri vengono portati alle Caserme rosse, a nord di Bologna. Destinazione finale: i campi di lavoro in Germania. Otello si salva per un pelo, grazie a un infermiere che conosce sua sorella Lia e lo fa ricoverare al Sant’Orsola. Siamo frastornati dalla potenza del racconto. Quasi ci vergogniamo a intrometterci, con la nostra voglia di riportare ordine nel discorso, di incanalare l’intervista nei binari tracciati sulla carta e sui quali abbiamo riflettuto per un mese. Stavamo parlando di Mignani. Dell’omicidio di Augusto Mignani. Dicembre 1945. Cosa succede dopo? Te lo ricordi? Perché incolpano voi? «I carabinieri si sono… si erano convinti che io e Cerè fossimo… la peste… del paese. Perché avevano visto, all’attentato di Togliatti, che noi distribuevamo le armi… a Monteveglio avevano visto tutti, avevam portato… c’è una sala a Monteveglio che la chiamano la sala Polga, abbiam già parlato di questo?». No. Ci siamo persi. Definitivamente. Dobbiamo ripartire dal principio. Per provare a capirci qualcosa, nel giorno del novantesimo compleanno di Otello.

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CAPITOLO 1

Battagliero

Grizzana, 1927 Otello nacque l’8 aprile del 1927 a Grizzana, molto prima che al toponimo venisse giustapposto il cognome del suo villeggiante più illustre. Al tempo, in verità, la fama del pittore Giorgio Morandi, già assiduo in paese durante le afose estati bolognesi, non poteva scalfire la popolarità di un altro abitante che, molti anni prima, si era trasferito dal capoluogo trasformando il panorama e l’economia della zona. Un uomo ambiguo, controverso. Pazzo o geniale, ciarlatano o luminare, a seconda della propensione al misticismo di chi ne ha scritto in seguito, il conte Cesare Mattei aveva acquistato, intorno al 1850, un rudere medievale e alcuni terreni nei pressi della collina di Savignano per costruirvi una dimora-laboratorio per i suoi esperimenti su omeopatia, elettricità e magnetismo. Un eremo in cui ritirarsi, lontano dagli sguardi di chi lo riteneva un alchimista refrattario allo studio e alle scienze. L’eclettismo sgargiante della Rocchetta Mattei dominò la vallata con la sua architettura in stile moresco, i richiami al simbolismo medievale e gli innesti di modernismo, fin dal 1859. Incompiuta ma abitabile, necessitava di manutenzione continua così come il conte e i suoi ospiti di servitù, abiti e cibarie. La vita di molti abitanti della zona di Grizzana ne risultò fortemente influenzata, inaspettata

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fonte di reddito nell’aspra collina attorno alla valle del Reno. Sicuramente lo fu la storia familiare di Otello. Perché è proprio qui, tra arabeschi e geometrie vegetali, che nacque sua madre. Era il 1889. Di Maria Sambri la gente parlava e sparlava da sempre, forse anche prima che nascesse. In paese si mormorava che fosse figlia illegittima dell’arciprete di Montovolo, cappellano della Rocchetta e occulto disciplinatore della vita nel castello durante gli ultimi anni di vita del conte. Otello stesso accredita questa ipotesi come la più fondata. Figlia o no, è certo che il cappellano si spese notevolmente per assicurare un’educazione a Maria. Già un’infanzia a stretto contatto con la biblioteca e gli ospiti del conte sarebbe stata sufficiente a fornirle un’istruzione inimmaginabile per le bambine della zona. Ma il sacerdote fece ben di più. Appena in età scolare, la spedì a Genova presso una famiglia di marchesi legati al conte Mattei da una buona amicizia. Maria andava a scuola al mattino e lavorava come domestica durante il resto della giornata. Era sicuramente una vita dura. Ma «viveva in una grande metropoli» appunta Otello sulla trascrizione dell’intervista, quasi a sottolineare l’enormità del salto. La meraviglia, la paura, l’apertura a nuovi modi di vivere, di parlare, di pensare, di muoversi. Era lontana anni luce dal piccolo paese perso nell’Appennino, dal lavoro sfiancante nei campi, dalla miseria più nera delle coetanee rimaste a Grizzana. Otello sa cosa significa. Tra i diciotto e i vent’anni, Maria lasciò Genova per tornare alla Rocchetta. La ragione è ignota. O almeno, Otello la ignora o non ricorda. Ciò che è certo è che, tornata a casa, incontrò un giovane che faceva il muratore e il giardiniere nel castello. Si chiamava Francesco Palmieri ed era nato a Grizzana nove anni prima di lei. Che sia stato amore a prima vista o lungo corteggia-

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mento, i due innamorati della Rocchetta si sposarono poco tempo dopo. La marchesa di Genova, che non aveva dimenticato Maria, inviava gli abiti dismessi dal marito alla coppia di freschi sposini, permettendo a Francesco di pavoneggiarsi per le vie del paese. Vestiti così non ne aveva mai visti, figuriamoci indossati. Ma anche agghindato come un marchese rimaneva pur sempre un manovale che a fatica metteva insieme una settimana di salario. Così, alla fine del primo decennio del secolo scorso, la coppia decise di cercare fortuna altrove. Via da Grizzana, via dall’Italia. Verso Liesberg, canton Berna: una manciata di case nella Svizzera tedesca che sa già parlare francese. Francesco lavorava presso un mugnaio, Maria si occupava delle faccende di casa. Forse, se non si fosse messa di mezzo la Prima guerra mondiale, non sarebbero più tornati. Ma nel ’15 lo Stato chiamò i suoi figli alla difesa del suolo patrio e Francesco dovette tornare in Italia per non essere considerato renitente alla leva. Nonostante l’età non più verdissima, venne ugualmente spedito al fronte, in fanteria. Nella nuova casa di Pian di Setta, a pochi chilometri da Grizzana, lasciò Maria e le due bambine nate durante gli anni in Svizzera: Luigia detta Lia, del’11, e Virginia, del ’12. Rimase lontano a lungo, e dopo la fine della guerra non tornò immediatamente a casa. Ma tornò, e tanto bastava per potersi considerare fortunato. Fra il ’20 e il ’25 nacquero Giannina, Ines e Anna; da ultimo, l’8 aprile del 1927, arrivò il primo figlio maschio. «Quando sono nato, mio padre ha girato tutto il paese per farci vedere che ero un maschio. Così mi dicevano le vecchie del paese». Doveva chiamarsi Dionigio, come il nonno Djunìs. Ma Francesco cambiò idea all’ultimo momento, mentre lo stava portando in parrocchia per il battesimo. Otello era un ra-

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gazzino che lavorava come manovale insieme a lui, e quel nome gli era sembrato molto più bello.

Oliveto, 1932 Alla fine erano stati costretti a trasferirsi. Francesco aveva lavorato per qualche anno alla costruzione della Direttissima tra Bologna e Firenze, che passava proprio da Pian di Setta. Poi quel tratto di ferrovia era stato completato e lui licenziato. Quasi tutti i suoi colleghi avevano trovato facilmente un nuovo impiego. O meglio, i signorotti del fascismo locale avevano offerto a ciascuno di loro un «posto», e loro l’avevano accettato. Avevano preso la tessera del fascio, poco importa se per fede o “per necessità familiare”, come le malelingue scioglievano l’acronimo del Partito nazionale fascista negli anni Trenta. Francesco la tessera non l’aveva voluta prendere. Perché nel ’21 i fascisti lo avevano bastonato, ricoperto di catrame e imboccato con l’olio di ricino. Per quanto parlasse poco di politica era, ed era sempre stato, un socialista. Così, preso atto dell’impossibilità di trovare un lavoro nei dintorni, nel 1932 aveva lasciato ancora una volta Grizzana. Non per andare in Svizzera, stavolta. Con la famiglia al seguito e tredicimila lire nelle tasche dei pantaloni, aveva disceso la Porrettana verso Bologna. Si era fermato sulle dolci colline che precedono l’ingresso in città, vicino all’abbazia di Monteveglio: un altro operaio licenziato dopo i lavori della Direttissima, Alfredo Mascagni, gli propose quella che aveva tutta l’aria di essere un’opportunità da non lasciarsi scappare. Mascagni, infatti, aveva acquistato due poderi nei pressi del paese di Oliveto e ne aveva offerto uno, da condurre a mezzadria, a Francesco. Da Grizzana a Oliveto, da muratore a contadino. Doveva comprare il bestiame

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e gli attrezzi agricoli; i tredici bigliettoni da mille che aveva in tasca bastavano a malapena. Ma era il caso di rischiare, anche perché nel frattempo era nata la settima figlia: Francesca detta Franca, classe 1930. La famiglia Palmieri-Sambri si installò così nel podere del Casetto, vicino al cimitero di Oliveto. Un terreno aspro, brullo, inerpicato su un calanco argilloso dove crescevano solo acacie. Francesco aveva dovuto lavorare duramente, ma alla fine ne aveva fatto un giardino. O almeno, a Otello piace ricordarlo così. Un giardino al termine di mille tribolazioni. Perché Francesco parlava poco, ma lavorava molto. E amava farlo. Negli anni Trenta, Oliveto era un piccolo paese immerso nella miseria. Le mura medievali e il fossato che contornavano l’abitato non erano che sbiadite vestigia di un tempo ormai passato: un centinaio d’anni di indipendenza, come “libero comune”, tra XII e XIII secolo; la Casa grande dell’ebreo, prima banca impiantata nella zona all’inizio del XV secolo e sede della comunità ebraica locale che ne deteneva la proprietà. Quarti di nobiltà persi nelle nebbie del tempo. Il presente era costituito da terreni aridi e sconnessi, difficili come il Casetto. Bambini vestiti di stracci, donne piegate dalla fatica, uomini sempre sporchi di fango. Quando Lia, la sorella maggiore che aveva avuto una figlia lo stesso anno della nascita di Otello, andò a servizio presso una famiglia di Trieste, ogni mese arrivavano a Oliveto pacchi ricolmi di vestiti da signore. Dismessi dal pargolo dei ricchi triestini e perfetti per Otello, che girava per Oliveto suscitando invidia e ironia. Nei pressi di Savigno abitava un conte, di nome Orlandini, che in paese era un modello di nobiltà e sfarzo. T un pèr al cåunt Urlandén4, dicevano a Oliveto quando

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Mi sembri il conte Orlandini.

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passava, elegante come un conte. Proprio come suo padre Francesco. Quando Otello si trasferì in paese, trovò una comunità che riconosceva come tratto identitario peculiare un antifascismo ormai silente ma coriaceo, in aperto contrasto al fascismo imperante a Monteveglio. Questo, almeno, è quanto racconta Otello, questo è quanto raccontano altri abitanti del paese che abbiamo conosciuto, questo è quanto dicono i libri. «Io son cresciuto lì, in quel paese lì e sai… siamo venuti su già con l’istinto… di antifascista, perché in casa si parlava sempre delle bastonate che avevano dato sta gente del… siamo venuti su con un odio terribile. […] Alla sera dentro alle stalle si riunivano tutti, sta gente, e parlavano solo di quello, a Oliveto erano tutti comunisti e Monteveglio erano tutti fascisti. Si davano delle bastonate giù dalla salita lì che viene su a Oliveto». Raccontandoci di queste bastonate entrate nel mito, Otello ci sta portando nelle stalle insieme a lui. Un giorno del 1921, gli squadristi di Monteveglio erano stati respinti a Stiore, proprio sulla salita che porta a Oliveto. Con le dovute proporzioni, qualcosa di simile alle barricate che a Parma, capitanate da Guido Picelli, avevano impedito ai fascisti l’entrata nel quartiere dell’Oltretorrente. I fascisti non salgono a Oliveto, non devono salire. Quello scontro si è fatto mito, raccontato nelle stalle a beneficio dei più giovani e ora, per bocca di Otello, è giunto fino a noi. Poi però i fascisti, a Oliveto, erano saliti. Come nel resto d’Italia. Bartulén, Alberto Bartolini, storico antifascista olivetano, era stato condannato al confino nel 1927. Era finito a Ponza, con Antonio Gramsci. Rilasciato nel 1930 e immediatamente arrestato, fu processato dal Tribunale speciale e

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condannato ad altri tre anni di reclusione. Infine, era morto in carcere nel ’33. Parlavano anche di lui le storie che gli anziani raccontavano nelle stalle. E del ricco proprietario antifascista di Monte Biancano che, mentre guidava tra i campi, teneva due sacchi di sabbia dietro alla schiena per paura che i fascisti tentassero di ammazzarlo, come era già successo nel 1921. E ancor prima degli anarchici che giravano per il paese col fiocco nero orgogliosamente in mostra. E del ragazzo ucciso dai fascisti alla Prélla, la trottola, il colle che da Monte San Pietro guarda verso Bologna. E ancora degli squadristi in fuga dopo le botte prese nella salita tra Stiore e Oliveto, ancora e ancora e ancora. La storia più amata, quella con cui sono cresciuti i ragazzi e le ragazze del paese. L’epica degli sconfitti sopravviveva solo nei racconti notturni, nel silenzio delle stalle. L’ultima resistenza possibile, e forse l’unica. La violenza squadrista non era affatto scomparsa dopo la Marcia su Roma, come continuavano ad affermare buona parte dei libri di storia fino a non molti anni fa. O come si sente spesso dire in televisione, ancora oggi. Il Primo maggio bisognava farsi trovare regolarmente al lavoro «sinŏ i dan di stanghè5», perché i fascisti venivano in paese a controllare e bastonavano chi si azzardava a festeggiare. Anche a scuola, in quinta elementare, Otello era stato schiaffeggiato da un ragazzo più grande di lui per punire l’antifascismo sussurrato ma ostinato della sua famiglia. Si sarebbero incontrati di nuovo, qualche anno dopo. L’uno, in un camion diretto verso le Caserme rosse. L’altro, tra i repubblichini che conducevano il rastrellamento del 27 agosto 1944.

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Altrimenti [i fascisti] venivano a bastonare.

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C’erano i fascisti a Oliveto? L’epica locale li ha cancellati, i racconti narrano di una comunità coesa attorno al proprio caparbio antifascismo. Anche Otello in prima battuta avvalora questa versione. A Oliveto tutti comunisti, a Monteveglio tutti fascisti. Ma poi salta fuori il postino, che era «un scémo» ma bisognava starci attenti perché ascoltava tutto e andava a spifferarlo a chi di dovere. Poi c’erano quelli che andavano a Monteveglio per il “sabato fascista” e tornavano felici col fez in testa. E poi quelli che avevano accolto in camicia nera la visita di Piero Monzoni, il federale fascista di Bologna, e uno era il figlio di un socialista che mai ci saremmo immaginati di vederlo lì. Poi c’erano quelli che, di notte, invertivano gli scuri delle finestre dei più noti antifascisti per deriderli. Poi tanti altri che facevano bene il proprio mestiere, dei “gran lavoratori” che, nel grigiore degli anni Trenta, avevano accettato il fascismo al potere per quieto vivere o per sopravvenuta convinzione, chissà. E poi c’era Augusto Mignani, l’oste del paese. I fascisti di Monteveglio, comunque, esistevano. Non si trattava di una semplice invenzione campanilista. Ed erano molti e molto più agguerriti di quelli di Oliveto. Otello se n’era accorto quando, insieme ad altri due o tre ragazzini, aveva dovuto iscriversi alla quinta elementare di Monteveglio, perché a Oliveto l’ultima classe non c’era. Ogni giorno su e giù per i sentieri in mezzo alla boscaglia. Nella nuova scuola non c’era più Matilde Romagnoli, la maestra olivetana che lo aveva accompagnato con amore e passione negli anni precedenti. Nuovi insegnanti, nuovi compagni di classe. Tanti figli di fascisti, coi quali c’era sempre da litigare durante l’intervallo. Il figlio del podestà. Gli schiaffi presi dal futuro repubblichino. Al fianco delle SS, la mattina del 27 agosto 1944, Otello non avrebbe riconosciuto solo lui. Chissà se aveva le carte in regola per andare a Bazzano,

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all’avviamento professionale. Ai suoi genitori non sarebbe dispiaciuto e nemmeno a lui. Lo stuzzicava l’idea di imparare un mestiere, di emanciparsi dalla vita da contadino che sembrava quasi inevitabile. I voti non erano granché, aveva finito la quinta elementare con qualche anno di ritardo, ma forse potevano bastare per essere ammessi, chissà. Otello non ricorda. Ricorda invece benissimo che non era quello il problema, ma la bicicletta, che la sua famiglia non poteva acquistare e, senza quella, andare su e giù da Bazzano diventava un’impresa. E poi non poteva certo lasciare Francesco da solo a lavorare al Casetto. Per qualche tempo, prese lezioni private da due maestre del paese. Per qualsiasi dubbio, comunque, c’era sempre il Melzi. Quando non capiva una parola, bastava andare alla bottega del sarto Sorzini e consultare il Dizionario enciclopedico Melzi. Trattalo bene ché ho solo quella copia. Otello era inflessibile, non riusciva a leggere un giornale, un libro, un volantino senza capire tutte le parole che aveva davanti. Doveva sapere. Voleva sapere. Anche adesso, quando lo andiamo a trovare, tiene sempre il tablet a portata di mano. Non si sa mai. Quando qualcosa non torna, due tocchi rapidi ed è fatta. Non sarà come il Melzi, ma è sicuramente più comodo che andare ogni volta dal sarto. La guerra era già cominciata da diversi anni, ma inizialmente nessuno se n’era accorto, a Oliveto. Poi Mussolini venne destituito, Badoglio firmò l’armistizio e se la diede a gambe insieme alla famiglia reale. Da Bologna cominciarono a salire gli sfollati, decine di famiglie che cercavano rifugio e cibo sulle colline. Dal cielo cominciarono a piovere le bombe. «Mettevano giù dei bengala e si vedeva che venivano a bombardare la stazione di Bologna. Ma Bologna era tutta il-

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luminata che noi, da Oliveto, delle volte venivamo lì sopra a guardare Bologna bombardare». Gli aerei alleati non bombardavano solo Bologna. Anche il fienile del Casetto era stato colpito e incendiato. I nazisti potevano nascondere la contraerea nelle cascine, nelle stalle e anche un pollaio poteva diventare un obiettivo militare. Quella volta Otello per poco non ci lasciava le penne. Mentre il fienile andava a fuoco, raggiunse il rifugio più vicino insieme ai contadini che lavoravano nei dintorni, ultimo della fila. Rumore di mitraglia, una polvere nera riempì l’aria. Quando Otello entrò, tutti si spaventarono: «fai sangue!» urlavano le donne, vedendolo sporco sulla testa. Ma era solo un graffio. Due centimetri più in basso e sarebbe morto sul colpo. «Son stato anche fortunato nella vita». Ride, adesso. Aveva sedici anni.

Tra Monte San Pietro e Castello di Serravalle, 27 agosto 1944, alba Era una domenica di fine agosto per nulla incline agli stereotipi. Calda, sì. Tranquilla, per nulla. All’alba del 27 agosto 1944, i repubblichini della compagnia “Buona morte” guidati dal comandante Enrico Zanarini si unirono a quelli della 2a Compagnia installata a Castel d’Aiano, agli ordini del capitano Pifferi. La mattina precedente era scoppiato un ordigno a Crespellano. La brigata nera aveva come obiettivo di giornata quello di sradicare dal territorio di propria competenza ogni tipo di presenza partigiana. Nel mirino i combattenti della 63a brigata Garibaldi e chiunque fornisse loro aiuto e supporto. Nel corso della giornata, più di ottanta tra partigiani e sospetti fiancheggiatori vennero catturati nei boschi, prele-

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vati dalle proprie abitazioni, inseguiti per i campi. Tra questi, Otello. «Il rastrellamento è stata una cosa tremenda perché hanno ammazzato diverse persone proprio lì davanti a noi, noi ci han messo dentro… in una cantina dove c’era una prigione e poi venivano dentro, ne prendevano fuori uno, lo portavano fuori, lo bastonavano, lo continuavano a portare lì. Io sono stato presente quando hanno ammazzato anche quello di, di… su a Calderino! Poi due notti dopo ci hanno caricato sul camion e siamo arrivati qui a Crespellano, che poco prima c’era stata… era scoppiata una bomba a una camionetta di tedeschi in quel punto lì, qui alla fine di via… dove han fatto il cippo. E lì ci han tirato, eravamo in dodici dentro, ne han tirati giù quattro che poi c’era anche quello senza le gambe. E poi li hanno messi contro il muro e li han fucilati alla schiena… e poi han dato il colpo di grazia in testa che ci è saltato anche il sangue in faccia a noi! E quelli… e quelli del plotone di esecuzione, tre erano di Monteveglio, avevano tre o quattro anni più di me, io li conoscevo bene». Saranno state le tre di mattina quando i repubblichini entrarono in casa e trovarono Otello che dormiva ancora. Portarono via anche Walter Mascagni, il figlio del proprietario del Casetto e buon amico di Otello. Filippo Cerè invece riuscì, chissà come, a prendere la via della Bastèrda. Forse era stato svegliato dalle urla dei repubblichini o dai primi spari che rimbombarono in paese. Corse a nascondersi nel bosco scosceso in cui giocavano da bambini e nessuno lo trovò. I repubblichini radunarono un’ottantina di persone, tra partigiani e civili, sul sagrato della chiesa di Monte San Pietro. Tra i rastrellati c’era anche Valter Mignani, un ex milite della brigata nera ora passato ai partigiani che, però, non aveva alcuna parentela con l’oste. I vecchi camerati lo riconobbero e gli promisero la libertà se avesse indicato, uno a

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uno, i suoi commilitoni tra quanti stavano in angosciosa attesa davanti alla chiesa. Al suo diniego, lo picchiarono a sangue e lo portarono via. Sarebbe stato fucilato nel pomeriggio sul greto del torrente Lavino, insieme ai fratelli Giuseppe e Primo Fenara, a Libero Grandi e a Elio Roda, che era renitente alla leva e si era nascosto in un campo. Aveva creato un fortino di falci e martelli attorno a lui, incisi sulle zucche che trovava lì intorno. Sentiva i rumori del rastrellamento, le urla, i canti dei repubblichini, gli spari. Sempre più vicini. Una falce per ogni eia eia, un martello per ogni alalà. La paura non lo abbandonò, ma la selva di emblemi incisi sulle zucche forse riuscì, per qualche istante, a tranquillizzarlo. Poi qualcuno lo vide. I fascisti trasportarono i rastrellati sulla piazza di Calderino e li divisero in quattro gruppi: quelli da uccidere subito, quelli da uccidere il giorno dopo, quelli da deportare in Germania, infine le donne e i bambini. Otello non era un renitente alla leva, troppo giovane per essere arruolato, troppo giovane per la diserzione. Era salvo, per il momento. Ma era abile al lavoro, quindi destinato alla deportazione in Germania. Insieme ad altri ragazzi che dovevano condividere lo stesso destino, venne rinchiuso nei sotterranei del municipio di Calderino. I repubblichini facevano irruzione, prelevavano qualcuno all’improvviso e lo interrogavano sotto la guida del federale fascista di Castello di Serravalle, Montaguti. A volte lo ributtavano nelle cantine, altre lo fucilavano sotto lo sguardo attonito dei compagni di prigionia. Fate i bravi o la prossima volta tocca a voi. Erano rimasti in pochi, dodici al massimo. Uno aveva un braccio in cancrena, ferito da un proiettile durante il rastrellamento, un altro aveva tentato di scappare dalle cantine ed era stato falciato dalle mitragliatrici. Un altro ancora era Walter Mascagni.

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La mattina seguente vennero caricati su un camion. Destinazione sconosciuta. Arrivati alla Muffa, poco prima dell’entrata a Crespellano, il camion si fermò. I fascisti, senza alcuna spiegazione, fecero scendere Salvatore Bignami, Pietro Gandolfi, Fausto Pallotti e Guido Romagnoli. L’ultimo era un bel ragazzo di ventidue anni che, non molto tempo prima, aveva perso una gamba dentro una trebbiatrice. Si sussurrava che avesse nascosto due prigionieri russi in fuga dalle carceri fasciste, ma nessuno riusciva a provarlo e lui non aveva aperto bocca. I repubblichini puntarono i fucili e spararono. Gettarono la protesi di Guido nel bosco e lasciarono, a monito, i corpi morti sul ciglio della strada, intimando ai passanti di non toccarli. Sarebbero stati sepolti solo due giorni più tardi. Il camion ripartì, sfrecciando sulla Bazzanese mentre i repubblichini gridavano “giustizia è fatta”. Tre di loro erano di Monteveglio e Otello li conosceva bene.

Caserme rosse, Bologna, settembre 1944 Quando scesero dal camion, capirono di essere finiti alle Caserme rosse. Il campo di concentramento nazista, dove venivano raccolti e smistati i prigionieri destinati a lavorare per la gloria del Terzo Reich. I vestiti forniti dalla direzione del campo, una volta arrivati, recavano già stampato il toponimo della futura destinazione. A ognuno veniva consegnato un cartellino che indicava l’idoneità o meno alla deportazione. Tanti toscani, rastrellati nella frenetica ritirata di fronte all’avanzata delle truppe alleate. Tanti renitenti alla leva, tutti più vecchi di Otello. Se ne accorse un signore vestito

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di bianco che si aggirava tra i detenuti. Otello gli sembrava troppo giovane e gli si avvicinò. Cosa ci faceva alle Caserme rosse? Quanti anni aveva? Da dove veniva? Otello gli raccontò la sua storia e scoprì che era un infermiere dell’ospedale Sant’Orsola, il cui compito era verificare che i detenuti fossero in grado di lavorare, pronti per essere spremuti dal Reich. Ma scoprì che anche una sua collega, anzi una sua cara amica, era originaria di Oliveto. Quando Otello ripete di aver avuto anche fortuna nel corso della sua vita, e lo fa spesso, forse non ha tutti i torti. Lia Palmieri, di fatto una seconda madre per lui, era tornata a Bologna dopo gli anni di servizio domestico a Trieste. Era infermiera al Sant’Orsola e teneva i contatti con gli antifascisti dell’ospedale Maggiore. Era lei. L’infermiere decise così di aiutare Otello, e Otello decise di fidarsi. «Ti porto un bicchiere d’acqua e te la bevi, ti viene la febbre, [ma] non spaventarti», gli disse, «e io provo a portare [qui] il capitano medico tedesco». Non sappiamo cosa ci fosse in quel bicchiere d’acqua, ma Otello bevve, la febbre salì e pochi minuti dopo era sull’ambulanza, verso il Sant’Orsola. Lia non c’era ma suo fratello riuscì comunque a trovare una via di fuga. Due notti dopo, la città venne bombardata dagli Alleati e lui, nel trambusto generale, vide una finestra aperta e si tuffò. Per strada non c’era anima viva. Con i boati delle bombe nelle orecchie vinse la paura e attraversò una Bologna deserta. Riuscì a raggiungere vicolo Bolognetti prima che la gente uscisse dai rifugi. Si nascose in uno dei gabinetti, in comune al pianerottolo, e aspettò che nelle abitazioni tornasse la vita. Poi, senza farsi notare, uscì e bussò alla porta che stava cercando. «Ehi, sei qua!».

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Lia non era mai stata così contenta di vederlo. Il giorno dopo, Lia chiese a un repubblichino di Sasso Marconi, appena dimesso dall’ospedale, se tornando a casa non potesse dare un passaggio a suo fratello, un bambino che era sceso a trovarla e che ora aveva paura di girare tutto solo, dopo i bombardamenti. Così Otello tornò a casa senza problemi, scortato da un milite della Guardia nazionale repubblicana (Gnr). Seppe in seguito che i ragazzi rastrellati con lui erano finiti tutti nei campi di lavoro in Germania e quattro di loro non tornarono più. Il quinto, Walter Mascagni, venne deportato anche se era troppo giovane. Aveva scambiato il suo cartellino da “non idoneo” con un signore di Oliveto, Marino Zonarelli, padre di otto figli. Walter riuscì a tornare a casa dopo la guerra, e la sua vicenda divenne mito per una nuova generazione di olivetani. Proprio come i racconti nelle stalle durante il Ventennio.

Oliveto, ottobre-novembre 1944 Otello tornò a casa e, dopo la terribile esperienza del rastrellamento e del campo di concentramento, decise di unirsi alla Resistenza. Ce la racconta così, la prima volta. E noi gli crediamo anche se i conti non tornano: sui documenti ufficiali, Otello Palmieri è riconosciuto partigiano dal marzo del 1944, quasi cinque mesi prima del rastrellamento. In più, emerge un dubbio ulteriore: se i repubblichini stavano cercando renitenti alla leva, partigiani e fiancheggiatori, perché andarono a prendere proprio lui e Walter? Separati da un anno di età e da un contratto di mezzadria, i due erano compagni di giochi e di avventure fin da bambini. Abitavano a ridosso del cimitero, proprio lungo

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il sentiero percorso dai partigiani quando, nottetempo, si recavano di nascosto da Mignani per prelevare viveri e sigarette. Era l’unica osteria del paese e, come accadeva in questi contesti, fungeva anche da bottega alimentare, bar, sala giochi. Punto di ritrovo per gli abitanti di Oliveto, che vi passavano le serate a bere vino, giocare a carte e, fino ai primi mesi del ’43, ad ascoltare Mario Appelius alla radio che narrava i funambolici successi delle inarrestabili armate italiane. Nomi esotici, orgoglio fascista, vittorie inventate di sana pianta. Ma agli avventori piaceva e, in fin dei conti, era l’unica fonte di informazioni cui potevano attingere. Praticamente tutti passavano lì le serate. Tutti, tranne Francesco Palmieri, che preferiva starsene a casa. Al massimo spediva Otello ad ascoltare il radiogiornale per tenersi informato sui fatti del giorno, ma il suo rapporto con quel locale finiva lì. Del resto, Francesco non frequentava nemmeno la chiesa, nonostante Maria fosse una fervente cattolica e portasse i figli a ogni funzione religiosa. Parlava poco di politica Francesco, è vero. Ma la viveva quotidianamente. L’oste non si opponeva alle requisizioni dei partigiani. Segnava sul quaderno, nella speranza che anche questi conti venissero saldati alla fine della guerra, ma non si opponeva. Forse non poteva fare altrimenti, forse aveva capito da che parte tirava il vento e si preparava a un dopoguerra pacificato nell’ormai imminente Italia antifascista. Durante le requisizioni, però, non dovevano esserci repubblichini o tedeschi in vista. E qui entravano in scena i ragazzini che abitavano dietro al cimitero. Verso le nove di sera, i partigiani scendevano dal sentiero e chiedevano loro di controllare che in osteria non ci fosse nessuno. I ragazzini andavano a dare un’occhiata e, pochi minuti dopo la loro uscita di scena, facevano irruzione i ribelli. Non c’era bisogno di essere acuti

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osservatori per notare la costante riproposizione di questa catena di eventi, ma probabilmente non sapremo mai se qualcuno li abbia davvero denunciati. Fatto sta che il 27 agosto 1944 i repubblichini iniziarono il rastrellamento dalle case dietro al cimitero e prelevarono Otello e Walter, non curandosi degli altri membri delle rispettive famiglie. Quando tornò a Oliveto dopo il rastrellamento, quindi, Otello conosceva già bene i partigiani della zona. Non aveva bisogno di cercarli nei boschi, non aveva bisogno di farsi riconoscere per ottenere la loro fiducia. C’era Eliseo Degli Esposti, del ’21, che l’8 settembre aveva disertato mentre svolgeva servizio militare a Padova ed era tornato a Monteveglio. C’era Antenore Lanzarini, del ’25, che abitava tra Stiore e Oliveto ed era molto conosciuto nei dintorni perché la sua famiglia non aveva mai fatto segreto delle proprie convinzioni. C’era Armando Dall’Aglio, il comandante Armandén, un uomo fatto e finito in mezzo ai ragazzini di Oliveto, sui quali esercitava un fascino innegabile. Era nato nel 1913 e si era dato all’organizzazione clandestina subito dopo l’8 settembre. C’era Filippo Cerè che forse, nascosto alla Bastèrda durante il rastrellamento, pensava che non avrebbe mai più rivisto il suo amico Otello. E tanti altri con loro, da Oliveto, Stiore, Monteveglio, Monte San Pietro insieme a ex militari meridionali, disertori dell’esercito tedesco e prigionieri di guerra sovietici che avevano trovato nell’Appennino bolognese una seconda casa. Ognuno con la propria storia, con le proprie motivazioni. Sarebbero presto diventati il battaglione «Gastone Sozzi» della 63a brigata Garibaldi. C’era bisogno di un nome di battaglia, ogni partigiano ne aveva uno. I compagni scelsero per Otello il nome di Battagliero. Non perché fosse particolarmente bellicoso e feroce, come si potrebbe pensare, ma perché amava ballare. E il valzer emiliano per eccellenza, a partire dalla sua composi-

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zione nel 1933 per mano di Tienno Pattacini, era proprio il “Battagliero”. Ai é quall dal Batagliêro6, dicevano i compagni. Gli è rimasto appiccicato così, il suo nuovo nome. Come comincia la sua nuova vita da partigiano? Si nasconde, porta ordini sfruttando la giovane età, studia il territorio e il nemico, legge. Otello non smise di leggere, anche se non poteva più recarsi dal sarto a prendere il Melzi quando non conosceva il significato di una parola. Lesse tutto il «discorso di Salerno» di Togliatti, forse grazie ad Armandén che, probabilmente, nello stesso periodo fu pure il tramite grazie al quale si iscrisse al Pci. In esso Ercoli esortava ad accantonare la pregiudiziale antimonarchica per dare la priorità alla liberazione dall’occupante nazista, collaborando con tutte le altre forze antifasciste e mettendo da parte la rivoluzione sociale. Prima l’Italia libera, poi si vedrà. Era sicuramente la linea vincente, se lo diceva «il Migliore»; Otello ne è convinto, quando ce lo racconta oggi. Chissà cosa pensava allora, accampato tra Montemaggiore e Oliveto, mentre leggeva quelle parole stampate in caratteri microscopici su foglietti sgualciti.

Monte Biancano, 19 novembre 1944 Mentre Otello ci racconta di come passava le notti all’addiaccio, veniamo catapultati improvvisamente in Rashomon. Nel film di Kurosawa, un monaco narra quattro differenti versioni di un omicidio avvenuto nel bosco, una per ogni testimone: l’assassino, il samurai ucciso, sua moglie, un quarto e misterioso passante. Dov’è la verità? Cos’è la ve-

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C’è quello del “Battagliero”.

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rità? La pellicola non scioglie il dilemma fino alla fine. Qualcosa di simile a quanto accade col racconto della morte di Antenore Lanzarini. Antenore era un punto di riferimento per i ragazzi di Oliveto. Come raccontano le testimonianze, alcuni in paese avevano deciso di unirsi ai partigiani perché sapevano che, in montagna, c’era lui ad aspettarli. Otello si schiarisce la voce, la prima volta che gli chiediamo com’è morto. Antenore era un ragazzo davvero bravo, ma ha fatto una cosa che non andava fatta. I nazisti avevano occupato la casa colonica di Monte Biancano, nei pressi di Montemaggiore. La usavano come base per perlustrare il territorio, ma anche per ristorarsi, tanto più che in casa avevano trovato le figlie, giovani e belle, dei contadini. Si diceva che abusassero di loro, o si temeva che volessero farlo. Antenore prese quattro compagni e si appostò vicino all’abitazione, pronto a fare giustizia. La sentinella notò qualche movimento e sparò una raffica di mitra. Tre riuscirono a fuggire mentre Pietro Rizzi, gravemente ferito, fu catturato e torturato fino alla morte al comando nazista di Zappolino. Colpito al ventre, Antenore rimase esanime sul terreno e i nazisti lo lasciarono lì, credendolo morto. Non appena la notizia li raggiunse, Otello, Filippo e sua sorella Vittoria si precipitarono sul posto. Quando lo trovarono, nel buio del podere, Antenore stava morendo, ma era ancora vivo. Riuscirono a trasportarlo fino all’ospedale di Bazzano su di un calesse trainato da un somarino. Otello e Filippo rimasero nascosti mentre Vittoria convinceva le guardie davanti all’ospedale che l’uomo era stato ferito da un mitragliamento degli aerei alleati. Vinse i sospetti dei militari dopo minuti di lacrime e suppliche, ma Antenore morì in sala operatoria.

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I partigiani, spiega Otello, avevano l’ordine di non attaccare i tedeschi. Potevano attaccare i repubblichini, se si presentava l’occasione e se preparavano a dovere l’azione; ma i nazisti era meglio lasciarli stare. Se un tedesco veniva ucciso, i suoi commilitoni fucilavano dieci civili del luogo. Bisognava evitare a tutti i costi le rappresaglie. Antenore, Pietro e gli altri avevano fatto una cosa che non andava fatta. Il racconto ci colpisce, ma ci lascia con la voglia di capire di più. Otello non ci ha spiegato il punto fondamentale: perché Antenore, che era uno proprio bravo, ha disobbedito a un ordine esponendo tutti a un così grave pericolo? Vanità? Sprezzo delle regole? Quale pezzo del puzzle ci manca? Un profilo di Antenore è presente nel Dizionario biografico dei partigiani bolognesi, che spiega la sua morte durante un attacco a «un reparto tedesco che stava razziando il bestiame». Non solo non abbiamo trovato la motivazione che cercavamo per l’atto di insubordinazione, ma ora ci tocca fare i conti con una seconda versione del fatto. Non sarebbe rimasta la sola. Troviamo infatti notizie su Antenore anche in un libro di Willy Beckers. Un volume molto interessante, a dirla tutta: le memorie di un soldato olandese che disertò dall’esercito tedesco e si unì ai partigiani del battaglione «Monaldo», appartenente sempre alla 63a brigata e guidato dal comandante Marino, Amleto Grazia. Il libro tratta prevalentemente le vicende di questa formazione partigiana ma riporta anche alcuni eventi legati ai “vicini” del «Sozzi»; tra questi, la morte di Antenore Lanzarini. Nella narrazione di Beckers, però, le parti si invertono: il gruppo di partigiani stava tornando al comando del battaglione dopo aver pattugliato la zona di Montemaggiore quando, sulla strada di Monte Biancano, incontrò un manipolo di tedeschi che, senza troppi complimenti, aprì il fuoco. Lanzarini morì sul

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colpo, Rizzi venne catturato, torturato e, infine, ucciso a Zappolino. Gli elementi in comune con il racconto da cui siamo partiti sono maggiori, ma anche in questo caso la versione differisce per alcuni particolari non secondari: l’incontro è frutto del caso, i tedeschi sparano per primi. Quando torniamo da lui, libro di Beckers alla mano ma carichi di dubbi, Otello ci accoglie con una nuova versione. O meglio, con una versione che modifica lievemente la prima, in risposta agli interrogativi che gli poniamo. Antenore non muore per evitare che i tedeschi facciano razzia del bestiame, questo è certo. Ma non muore nemmeno incontrandoli per caso, di ritorno da un giro di pattuglia. Muore durante un’azione preparata e Otello lo sa. E basta aggiungere un particolare per trovare la chiave: una delle figlie dei contadini di Monte Biancano era la fidanzata di Antenore ed era incinta. Antenore non resisteva più. Da giorni pensava alla sua morosa, lassù in cima al podere, costretta a servire i nazisti. Chissà se la toccavano. Chissà se si lasciava toccare. Poi arrivò la notizia della festa. Una sorta di ritrovo organizzato nella casa colonica, con musica e alcolici. E lei incinta. Così prese quattro compagni e salì la strada che portava al podere. Forse avevano bevuto troppo o erano quantomeno alticci. Sentirono la musica uscire dalle finestre della casa, il vociare allegro di chi si sta divertendo. Non videro la sentinella di guardia sulla porta. La morte di Cimpo getta un’ombra sul volto di Otello e lo fa balbettare. Lui non lo chiama mai col nome di battaglia, ma sempre Antenore Lanzarini, forse perché quella memoria va tramandata con nome e cognome, senza fraintendimenti, oppure perché Battagliero ebbe appena il

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tempo di abituarsi ai codici della clandestinità quando l’amico morì. O forse è perché i partigiani, da morti, riprendono le sembianze di boscaioli, bovari e stagnini dismesse il giorno in cui scelsero di darsi alla macchia, ma trascinate in battaglia come una zavorra da scaraventare contro il fascismo. Cercarne i volti nel mosaico di fototessere in piazza del Nettuno, a Bologna, fa perdere la testa, anche se ne vale la pena. Da quella prospettiva Antenore e Pietro sono niente più che Cimpo e Tito. Il primo fissa l’orizzonte con un sorriso appena visibile, senza dare importanza al gesto che lo immortala. L’altro sostiene lo sguardo con spavalderia, sopracciglia alzate, impermeabile e cappello a incorniciare un volto da gangster. Porta i baffetti, Tito, ma a guardarlo si vede che le guance sono gonfie e lisce come quelle di un bambino. Di lui si sa che, appena ventenne, fu nominato commissario politico di compagnia e inquadrato nel battaglione «Artioli» con Antenore, di un anno più giovane. La compagnia è quella guidata da Armandén operante nella zona «a sud di Bazzano», quando ancora non esisteva il «Sozzi». La lotta armata per Otello fu una scelta maturata nel pieno di una fase incerta, di transizione. Un autunno di rivolgimenti e spinte in avanti. Gli ordini di spostare le formazioni su Bologna furono diffusi da ottobre. Sulla scelta influì, anche se non convinse tutti, la lenta avanzata degli Alleati da sud. Dall’estate, infatti, la linea difensiva Gotica era stata sfondata in Romagna e sull’Appennino bolognese, fino a sfiorare Livergnano, praticamente due passi da Bologna e anche da Oliveto se non ci fossero le vallate. Il 13 novembre, invece, arrivò il “proclama Alexander” e fu chiaro, anche ai più convinti, che l’esercito alleato avrebbe svernato mantenendo quella posizione. «C’era venuto un [ordine] dagli americani che non

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si doveva più combattere per quell’inverno lì». E tanti auguri a chi si trovava a nord delle linee nemiche. Fu così che maturò la decisione, durissima e insieme inevitabile, di spedire le grosse formazioni di montagna in pianura, tenerle quanto più possibile sparpagliate e accorparle ai gruppi già operativi in quelle zone, le Squadre e i gruppi di azione patriottica (Sap e Gap), aspettando tempi migliori. Acquartierarsi e svernare. Fra queste direttive, alla 63a brigata capitò di tutto. Quella del ’44 fu un’estate di attacchi contro la popolazione civile in tutta l’Italia occupata. La zona fra i torrenti Lavino e Samoggia, un triangolo di colline che dava rifugio alla brigata, ne venne investita in pieno. Al 27 agosto, così importante per la maturazione politica di Otello, fecero seguito episodi altrettanto tragici. A inizio ottobre i reparti della 16a divisione delle Waffen SS «Reichsführer» – reduci dalle stragi di Sant’Anna di Stazzema in agosto e di Monte Sole fra settembre e ottobre – diedero il via a un’operazione di più giorni in cerca di rifugi partigiani e manodopera. Il primo contatto si ebbe a Rasiglio, frazione di Sasso Marconi, in seguito al quale più di una dozzina di cadaveri venne esposta, a monito, nella piazza di Casalecchio di Reno. I vertici della futura brigata «Bolero» hanno scritto che la compagnia si era mossa verso Bologna in vista dell’insurrezione. Stessa sorte capitò al gruppo di comando, annientato a fine ottobre a Casteldebole. Quella mattina, Otello e i suoi compagni erano fermi a Ponte Ronca, in attesa che l’avanguardia guadasse il Reno per raggiungerla ed entrare insieme in città. «Anche lì son stato fortunato» ci dice ora, ridendo. Nei mesi successivi, fino a dicembre, anche il battaglione «Sergio» fu decimato da otto rastrellamenti consecutivi, nella zona fra Anzola dell’Emilia e San Giovanni in Persiceto.

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Questa scia di sangue è indispensabile per capire Otello, diciassette anni e mezzo, che non aveva ancora compreso di chiamarsi Battagliero quando scoprì che Antenore «aveva preso una smitragliata a-a-alla pancia». Un battesimo del fuoco per quella gioventù che fino a qualche tempo prima aveva condiviso giochi e schiamazzi fra Oliveto e Stiore. Lui e Filippo, forse, guardavano Antenore ancora con gli occhi carichi dell’ammirazione riservata ai grandi del gruppo. Rimettere insieme i pezzi della brigata dopo Casteldebole, al confronto, deve essere parso un compito quasi più semplice, un tecnicismo. Ma il Triumvirato insurrezionale, l’organo militare comunista, ci riuscì solo in dicembre costituendo da quelle ceneri la 3a brigata, dedicata a «Nino Nannetti», con effettivi quasi pari a due mesi prima. La riorganizzazione in vista dell’inverno fu completa e investì ogni battaglione sul territorio della zona «a sinistra del Reno» ha scritto il comandante Ran, «dal fronte al confine ferrarese». Fu probabilmente allora che i vari raggruppamenti vennero riorganizzati per rimettere in sesto la formazione. Di certo dal dicembre ’44 i partigiani attorno al Samoggia furono inquadrati in un battaglione intitolato a Gastone Sozzi, come una centuria di volontari italiani della guerra civile spagnola. Difficile appurare cosa sapessero i partigiani di Oliveto del mitico giornalista e illustratore per bambini che era stato fra i fondatori del Pci a Livorno. Forse qualcuno sapeva dell’attentato di Cesena ad Arpinati che nel ’22 costò la vita a Clearco Montanari, segretario del Fascio bolognese, e che Sozzi fu costretto a espatriare perché accusato di esserne l’artefice. Forse sapevano che a Mosca il giovane cesenate seguì i corsi politico-militari o che, rientrato in Italia, fu arrestato e torturato fino alla morte senza farsi scucire neanche un numero civico. Se è vero che i nomi di battaglia

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non sono mai un caso, questo fu particolarmente indicativo dell’umore di quell’inverno. L’«Artioli», nel frattempo, si preparò a un’ultima e incerta impresa, unica via d’uscita dallo stallo che si era determinato al di qua della Gotica: «dato che […] dovevamo lasciare in pace i [nazifascisti], gli americani non volevano… perché prima ci hanno buttati giù anche delle armi, ma dopo non l’han più fatto e loro volevano […] lasciare in pace tutto. Allora da Stiore in una settantina abbiamo […] organizzato, e abbiamo preso anche con noi della gente anziana, e siamo andati. Dovevamo passare il fronte». Il nesso è causale e fa riaffiorare la consapevolezza di una necessità strategica fatta propria dai combattenti. Se gli Alleati aspettano la primavera, l’Appennino potrebbe diventare una morsa letale per i partigiani, fra spie, delatori e imboscate, per tacere del pericolo delle rappresaglie. Armandén fu tra i primi a spendersi per questo trasferimento, ma l’operazione coinvolse quasi centocinquanta resistenti che al 21 aprile dell’anno successivo «combatteva[no] con la 5a armata oltre la linea» come riportato da Rotillo Vignoli, ufficiale di collegamento del «Monaldo». Di Battagliero sappiamo che era appena scampato alla deportazione e che, arrivato a Oliveto, aveva scelto d’impulso di andare nei partigiani, un’espressione che ancora oggi gli spezza la voce.

Stiore, inizio dicembre 1944 Una manciata di giovani olivetani aveva preso l’abitudine di dormire all’addiaccio. Quasi fosse un gioco, dormivano al cimitero o rintanati dentro cumuli di fieno accatastato nelle

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aie, «féggn, in dialetto, non so come si chiami in italiano», oppure infilandosi in grosse buche scavate nel bosco usando un tubo per respirare. «E mia madre ci veniva a chiudere il buco credendo che stavamo lì e invece dopo si partiva». Con l’inverno si diffuse un fervore insolito, considerato l’ordine di starsene tranquilli fino a primavera. Pronti a raggiungere gli Alleati a Montespecchio, una frazione di Montese, si accodarono alla ciurma di Armandén il 12 dicembre. Una settantina in tutto, divisi in gruppetti di «quattro o cinque… non tutti insieme, in fila indiana, ma distaccati l’uno dall’altro». Eliseo Degli Esposti, di 23 anni, e i tre diciassettenni Battagliero, Filippo e Bruno Sarti (Carlo), guidati da Ernesto Marcheselli, classe 1921, disertore dopo due anni di servizio nell’Aeronautica. Si stava sui sentieri di notte, con la luce bisognava nascondersi e rimediare un boccone. Regole semplicissime per uscire dal pantano senza dare nell’occhio. Con la prima alba erano arrivati dalle parti di Guiglia, «subito sopra Serravalle, qui… non è lontano», e si sistemarono in una stalla a Monteorsello insieme ad altre compagnie. È qui che per la prima volta Battagliero fu tra i ribelli da pari a pari. Non è assurdo immaginarlo con i coetanei a ingannare l’attesa dicendo fesserie e scherzando come se stessero tirando tardi in una sala da ballo. Di tanto in tanto magari si era infilato fra i quarantenni della «Modena», per rendersi utile, oppure era rimasto in disparte ad ascoltare i vecchi, gli integerrimi oppositori del regime che avevano assaggiato le botte del ’21 o erano passati dalle carceri di San Giovanni in Monte senza piegarsi. «Avevamo con noi anche della gente anziana, da aiutare». Chissà se, nell’attesa, qualcuno si era messo a raccontare di Ponza, Procida o chissà quali altri orizzonti carichi di rabbia. Col buio si poté uscire di nuovo: «siamo andati fuori per

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andare a prendere da mangiare e abbiamo avuto l’incontro con i repubblichini e siam fatti a fucilate. Non è morto nessuno, però… ci siamo sparpagliati», «uno è andato da una parte, uno è andato dall’altra: quelli che han preso per andare verso su sono andati bene, noi invece ci siam trovati sui nostri passi di prima» o, ancora, «senza guida» come annota sulla trascrizione. Ernesto era infatti tra quelli che avevano preso la direzione giusta. Tre giorni dopo l’«Artioli» passò la Gotica, giungendo in una terra che per tutti loro è sempre e solo «Toscana», dove ognuno si diede da fare al meglio. Armandén, che era «uno sveglio», fece di più e guidando i camion per gli statunitensi riuscì a racimolare «qualche soldino», investito per andarsene in Venezuela dopo la guerra. I diciassettenni, intanto, non poterono che tornare sui loro passi di prima, «e dopo è venuto giorno, ci siamo nascosti in una boscaglia e poi siam tornati a casa». Ora ci è più chiara la funzione del «Sozzi». Battagliero, Filippo, Carlo, Eliseo e chissà chi altri sapevano nascondersi. Fino alla primavera poteva bastare. Doveva bastare. L’ultimo inverno fu il peggiore. Lo dicono le memorie, i romanzi, i libri di storia. Lo dice anche Otello: «il più brutto, è stato brutto per noi, sìsì». Ne è convinto e noi con lui. Forse lo pensava anche allora. «Il più brutto, eh?», continuiamo a girarci intorno. «Eh sì perché… non si fa… e poi c’era la fame». Non si fa l’insurrezione, almeno non subito, è chiaro. Alexander l’ha messo nero su bianco. Per loro però era davvero troppo scendere in pianura. Troppo giovani, troppo inesperti, troppo esposti in un territorio che conoscevano a malapena. E infatti nessuno lo chiese e loro, semplicemente, continuarono a nascondersi al cimitero, nelle figne o «sepolti vivi» sottoterra, come scrive Willy l’olandese.

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Vigili per non bruciarsi le coperture e le complicità di chi aveva capito anche senza bisogno di spiegazioni. Attenti, ora più che mai, perché Oliveto sarà stata pure piena di comunisti, ma era sempre meglio non rischiare. Tutto intorno era zeppo di presidi della Gnr, la polizia di Salò, e le pattuglie naziste facevano continuamente la spola fra la valle e Zappolino, lì dove il letto del Samoggia si restringe e salire anche di poco la costa della collina regala un controllo quasi totale sulla vallata. «Giravamo alla larga noi da Zappolino» dice mentre gli scappa un sorriso. Vigili, attenti, forse rintanati, ma comunque attivi e a disposizione perché quando arrivava un ordine «si andava a fare quello che c’era da fare». Portare armi e informazioni, segnalare movimenti insoliti, agire con discrezione, fare da collegamento. «Perché io essendo così giovane ero come quasi una staffetta, perché non ero renitente […] non mi fermavano, vedevano che… non avevo gli anni». Anche le staffette erano tenute a recuperare pistole, mitra e munizioni, tutti compiti a cui si dedicò con solerzia la minuscola formazione olivetana, ma chissà se i comandi di brigata la considerassero una vera compagnia. «Abbiam fatto qualche cosa lo stesso. Per le armi» resta sul vago Otello. Ma noi siamo curiosi, vogliamo i particolari, le tattiche, i colpi. Lui si diverte e si lascia convincere. Ci racconta di vigna dal Plòn, un podere coltivato da una famiglia antifascista appena fuori Oliveto, sullo stradello che scende a Crespellano rimanendo sulla cresta del colle. «Lì c’era un maresciallo dei carabinieri […] e il contadino lì ci ha detto: “guarda che lui lì c’ha una bella Beretta, che andrebbe bene per voi”. E allora ce la siamo andata a prendere». Ride, poi spiega: «Perché i carabinieri», e svanisce appena l’effetto della risata, «li avevano lasciati un po’… di comando, guardavano più che altro che ci fosse l’oscura-

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mento. E ci avevano lasciato anche la pistola, ma… a noi ci voleva di quelle». «Come avete fatto a prenderla?». «Ah siamo andati […] abbiam bussato alla porta, abbiamo detto: “Ci dispiace ma noi ci occorre”, e [lui] dice: “E io cosa dico là, cosa faccio?”; “Pensa lei quello che deve dire, noi non possiamo… suggerire; solo che ci vuole quella lì”». E si dileguarono col bottino. L’altro colpo, invece, lo misero a segno a Monteveglio. Avevano saputo di un repubblichino tornato a casa in licenza, forse un coetaneo, magari uno di quelli che a scuola li voleva «fare neri» e loro le davano indietro per rimanere «rossi», orgogliosi. La soffiata era completa: «una staffetta c’ha detto: “Dorme”. Allora ci siamo nascosti dietro un pollaio, sarà stato distante sette-otto metri dalla camera dove lui dormiva». «“Adesso è su”» sussurrò la staffetta. «“Guarda che sappiamo che sei lì, metti fuori il mitra, prendilo per la canna e l’allunghi giù, che noi siamo sotto che lo prendiamo, […] se non ce lo dai stiamo qui finché non vieni fuori e ti facciamo fuori”» dissero con voce sicura. Quello aprì «pian piano» le imposte e allungò il mitra come gli era stato ordinato. Una scarica di adrenalina percorse la schiena dei quattro e, a giudicare da come se la ride oggi, c’è da scommettere che il tragitto da lì al comando partigiano l’abbiano fatto a dieci centimetri da terra. «Sìsì» minimizza subito dopo, i fascisti allora le consegnavano le armi, «avevano paura a quel tempo lì». Il colpo più riuscito, però, fu senz’altro quello a Bosco Stagni, verso Montemaggiore. Il gancio fu «un ragazzo della nostra età», uno sfollato che stava in un podere da quelle parti. Nella boscaglia i nazisti avevano trasformato una «capanna» in deposito di armamenti, al riparo da fonti di luce e dagli avvistamenti aerei. «Avevano messo ’sta cosa in

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mezzo al bosco, che non si vedeva, e c’era molta munizione per i mitra». Due soldati sempre di guardia, giorno e notte, facevano la spola con la casa colonica a ogni cambio turno, con il ragazzo che «diceva quando [la guardia] era là», dando loro modo di sfruttare il vantaggio e perfezionare l’arte di sottrarre a chi non sta in guardia. E da lì veloci al comando di Monte Biancano, dove «si trovavan sempre […] il comandante Marino e quell’olandese lì». Non male, avrà pensato Beckers, questi diciassettenni senza guida. Fino a marzo poteva davvero bastare così. O forse no. I primi mesi del ’45 furono infatti segnati da continui smottamenti di popolo, parole d’ordine che volavano di bocca in bocca, interi borghi che si risvegliavano e sfruttavano le falle del controllo nazifascista. Ne occuparono sistematicamente gli spazi vuoti, così che l’organizzazione clandestina poté riceverne la spinta per intensificare le azioni e portare a casa risultati concreti. Non più solo perdite nemiche, armamenti sottratti, sabotaggi e posizioni guadagnate, ma qualcosa di più ambizioso, e anche di più utile nell’immediato. Ne comprende il valore chi combatte, ma anche chi si rintana, chi cerca di mettere in prospettiva e chi non ha più lenti per guardare in faccia la guerra. Qualcosa di contagioso che si allarga e diffonde un clima di riscossa in cui riacquistano senso i sacrifici di ognuno, come se si distribuisse sulle spalle di molti il dolore dei singoli. «C’era la fame c’era… non c’era niente, perché […] il coso, come si chiamano, i contadini, quando trebbiavano, veniva un fascista, e si potevano tenere solo… per esempio erano in cinque in famiglia, potevano tenere dieci quintali di grano». Già prima dell’estate, infatti, si era aperto un lungo tira e molla fra le famiglie che ritardarono la trebbiatura, il Fronte della gioventù che sabotò le macchine, i mez-

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zadri che aprirono trattative sulla base del fabbisogno famigliare e non delle percentuali dei capitolati in vigore. Una “battaglia per il grano” irta di rischi, poiché le SS non smisero mai di minacciare la deportazione per chi osava protestare e la polizia fascista controllò militarmente le fasi del raccolto, perché nulla sfuggisse agli «ammassi». Con l’inverno, però, le razioni si restrinsero e i prezzi del mercato nero schizzarono oltre limiti già proibitivi. «Il cibo era andato… era diventato oro. Venivan su da Bologna della gente che aveva speso qualsiasi cosa, poveracci!». Un altro giro di vite ci fu in febbraio, quando i nazisti decisero di bloccare la distribuzione di grano, ponendo gradualmente tutti gli ammassi a disposizione delle esigenze di guerra. Il popolo aveva fame, ma la Repubblica sociale garantì appena le briciole. Di lì a marzo i depositi alimentari e di prima necessità furono ripetutamente assaltati fra la via Emilia e l’Appennino. In prima fila ci furono soprattutto donne, una costante della storia della conflittualità preindustriale che si riverbera nella guerra, organizzate a spostarsi da un comune all’altro, occuparne le piazze e costringere le autorità a lasciare mano libera durante le distribuzioni. Ma una guerra ai civili, come quella che i nazifascisti stavano combattendo, richiede anche un supporto di altro tipo, armato. Così ogni episodio del genere è riportato nei bollettini di brigata a segnare un passo fondamentale di una più ampia strategia. Il balzo in avanti arrivò già con il 18 gennaio. L’avanguardia sembrò in perfetto collegamento con il fervore delle masse, ma la prosa scarna da bollettino di guerra ne accenna appena i contorni: «Una squadra penetra nella casa del fascio di Crespellano distruggendo quadri, gagliardetti e pulendo il muro dalle scritte fasciste. Una squadra del Sozzi ricupera in un

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magazzino tedesco abbondante quantitativo di generi alimentari». Gli argini fra potere costituito e ribellione stavano venendo meno. Gli spazi confinati e le tane dei «sepolti vivi» si stavano lentamente trasformando. La presenza partigiana riacquistava quella dimensione di massa, popolare, che terrorizza il nemico, posto davanti alla sua inadeguatezza. «Perché non avevam mica paura di quelli lì» chiosa divertito Otello, «i fascisti non erano più […], avevano già capito che non c’era niente da fare, sì… che la guerra era perduta». Ogni colpo inferto al nemico, intanto, dava lo slancio per quello successivo: «21 e 22 gennaio. Le S.A.P. bloccano la piazza e i dintorni di Bazzano mentre un migliaio di persone tengono dimostrazione contro i nazi-fascisti; complessivamente sono stati mobilitati 110 S.A.P. 23 gennaio. La dimostrazione si è protratta anche oggi appoggiata dalle forze armate. Le masse hanno dimostrato reclamando grassi, pane e legna». Per una volta i risultati si misuravano in chili e litri, dopo anni di requisizioni, di mercato nero e dopo un inverno di sangue. «Noi siamo intervenuti […] diverse volte a difesa del contadino, sì», «anche andarlo a macinare [il grano], ci voleva un visto, non macinava più di quel tanto». Prima Crespellano, poi di nuovo Bazzano il 12 febbraio, quindi Monteveglio il 18. Stesso copione, stesso bottino: «ricuperate da un magazzino tedesco cinque casse di burro, 9 forme gran[a]; distruggend[o] il magazzino». Il diario di brigata si infittisce parallelamente delle azioni compiute dalle «squadre di punta» per recuperare armi e munizioni, «giustiziare» spie e neutralizzare «elementi pericolosi». «Noi stavamo attenti anche col latte» ci tiene a spiegare, «che andasse nel posto giusto, perché venivano loro e re-

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quisivano tutto. Ma a Oliveto son mai venuti i fascisti» ride, «sì… sapevano che c’erano». Oppure che c’eravamo, visto che Filippo e Battagliero fecero la loro parte per far sapere ai fascisti di Monteveglio che era meglio starsene a valle. Il 1 marzo furono senza dubbio al fianco «delle dimostranti di Crespellano e Monteveglio» che presero d’assalto i magazzini di Bazzano asportando, novità, «stoffe e generi alimentar[i]». «La brigata ha mobilitato tutte le forze proteggendo i manifestanti: 330 partigiani, armi 25 mitra, 3 mitragliatrici pesanti e 120 moschetti, 90 rivoltelle, 600 bombe a mano. Tutte le armi avevano una dotazione di munizioni di mezz’ora di fuoco». È naturale che dispacci come questo, con le decine belle tonde, abbiano derogato all’esattezza, pur restituendo proporzioni verosimili. Non c’è invece da dubitare che Battagliero, Filippo, Carlo, Eliseo e, tramite loro, Cimpo, Tito e forse addirittura Bolero, Gastone Sozzi e l’immenso zibaldone di anime e fesserie e scherzi per ingannare l’attesa, che insomma tutta questa folla quel 1 marzo ’45 si sia sentita invincibile. Minuto di fuoco più, minuto di fuoco meno. Per noi non è certo difficile immaginare come una folla invincibile quella gente che a Bazzano si riappropria di formaggi, stoffa e grano. Soprattutto se dai racconti, che trovano riscontro nei bollettini del Comando unico, scopriamo che prima dell’arrivo della 5a armata «i tedeschi […] li avevamo chiusi!» e che quelli del «Sozzi» cercarono a gesti di spiegare che «era già pulito tutto e potevano venire avanti». Ma poi, quando si mette di traverso l’epopea e il conflitto mai sopito delle memorie, tutto si complica. Cresciuti in territorio ostile, fra una Resistenza che smetteva di essere legittimazione istituzionale e il neofascismo sdoganato da quegli stessi scranni, sotto l’insegna del rispetto democra-

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tico di ogni opinione, la gente come noi ha bisogno di un «di più» di racconto. È per questo che negli incontri con Otello lo tormentiamo, insistiamo sugli episodi personali, sul quotidiano, nella speranza che la memoria si allontani dalla narrazione trionfale in funzione di questa o quella parrocchia. Ed è così che spuntano nessi inaspettati e nuovi interrogativi squarciano il velo, come una mano taglia il fumo di sigaretta sul tavolo che riempie la stanza mentre ascoltiamo le registrazioni. «C’ho anche i nomi di quelli che… da Montarsello di Guiglia siamo tornati indietro» si prodiga lui per darci modo di verificare. «E questo era già… che periodo?». «Ah… autunno, il giorno preciso non me lo ricordo…». «No, per capire se era già primavera o se…» facciamo per scusarci noi. «No era autunno, quello son sicuro». «E poi durante l’inverno e la primavera che cosa succede?». «No no… non ce n’è più tanto, dopo […] siamo già alla Liberazione. E ne abbiamo fatte più dopo che prima, sìsì… con l’attentato di Togliatti fu una tragedia eh». È in quell’istante, forse, che abbiamo riso di gusto senza fare rumore. O più semplicemente, per la seconda volta, abbiamo deciso che questo libro andava scritto. Valeva la pena provare. «Quando ti dicono che c’era stato l’attentato a Togliatti, te lo ricordi?». «Ah sìsì… quello lo ricordo meglio!».

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Monteveglio, tarda mattinata del 14 luglio 1948 La strada per Stiore era ancora «tutta inghiaiata» dopo la guerra, i passaggi che collegavano Oliveto al resto del mondo per lo più sentieri e cavedagne. Eppure, per quanto orgogliosamente arroccata sul colle un tempo cinto di mura, la frazione era tutto fuorché isolata nell’estate del ’48. Quando si sparse la voce che qualcuno aveva sparato al «capo della classe operaia», Togliatti era ancora sotto i ferri del professor Valdoni, al Policlinico di Roma. Come un po’ ovunque, a Oliveto iscritti e simpatizzanti del suo partito sprofondarono nel timore che, questa volta, la loro guida non ce l’avrebbe fatta. Appena quel passaparola gli piombò addosso, Battagliero capì che non c’era da esitare. Radunati i due o tre che in paese avevano la sua stessa determinazione, si precipitò giù dal colle passando per il sentiero che dal cimitero conduceva dritto fino ai campi di Stiore. Poco distante spuntava dal trivio un podere, al Palazàtt, fino a quel momento base forse inconsapevole per «conservare» gli arnesi tanto utili ai tempi della brigata. Ma il tempo passava e quelle armi rischiavano di diventare cianfrusaglie ingombranti, anche se erano «belle oliate tutte, che erano messe via bene». Al riparo da occhi indiscreti e a un tiro di schioppo da Monteveglio, il Palazzetto era il luogo eletto a ripostiglio strategico, nell’attesa di qualcosa. Gli attimi che seguirono lo convinsero che quel qualcosa stava finalmente arrivando e che bisognava agire in fretta, senza perdersi in chiacchiere. Dalla radio si apprese il nome dell’attentatore mentre la compagnia era già pronta, in cammino verso la piazza «perché […] sapevamo che lì veniva…». Di Antonio Pallante si seppe subito che era uno studente universitario; un «fesso

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– avrebbe detto Togliatti stando al suo medico di fiducia – mi ha sparato quattro colpi e non è riuscito a uccidermi!». Sparsi in capannelli, i montevegliesi videro arrivare questi giovanissimi ex partigiani, trafelati e col biroccio colmo di mitragliatrici, pistole e chissà cos’altro. Dal Palazzetto a lì ci sarà neanche un quarto d’ora, ma c’è da scommettere che quelli arrivarono prima che un lancio di agenzia rendesse noto che Pallante era iscritto al partito liberale. Solo più avanti si capì che veniva dall’Uomo qualunque, anche se per il voto del 18 aprile aveva fatto campagna elettorale a favore della Dc. Non ci furono resistenze degne di nota in paese quando una modesta folla radunata attorno ai nostri prese possesso del municipio. La forza pubblica, se c’era, non mosse un dito o stava coi ribelli. Dal carretto, piazzate le difese in punti strategici, iniziò la distribuzione a chi, nel frattempo, aveva riempito la sala Polga, «una pista da ballo» lì a due passi. «Il comune di Monteveglio, se guardi sopra, c’ha quattro finestrine tonde; in quei finestrini tondi lì, ogni finestrino c’era due mitragliatori». Da lì le sentinelle controllavano la situazione. Il comando dei carabinieri di Bazzano costituiva l’unica minaccia reale e immediata. Di certo, non avrebbe tardato a spedire una squadra per ristabilire l’ordine sulla valle del Samoggia. In caso di attacco, il fortino andava difeso e così «dentro questa sala, le abbiamo distribuite tutte [le armi]». Quindi «noi aspettavamo». Il partito avrebbe presto inviato direttive. Acquartierarsi e aspettare. A Bologna, intanto, come nelle altre città, la Camera del lavoro aveva richiamato la base a raccolta, ponendosi a capo di una protesta per lo più spontanea. Da Roma, la Cgil proclamò lo sciopero generale con la richiesta delle dimissioni

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a tutto l’esecutivo. Anche da Oliveto un pullman partì alla volta del capoluogo, come ricorda Giuliano, fratello minore di Bruno Sarti. Gli altri, quasi tutti, rimasero a Monteveglio con Battagliero e Filippo quando arrivò la notizia che i carabinieri stavano risalendo da Bazzano. «C’hanno detto: “Arrivano i carabinieri”». Qualcuno aggiunse che «[dovevano] passare, che andavano al Castelletto, si fermavano una pattuglia lì e una pattuglia andava [avanti]». L’atmosfera si fece incandescente: «Noi li facciamo fuori eh» disse qualcuno, mentre gli altri cercarono di mantenere la calma. Le segnalazioni giungevano con il giusto anticipo, segno che la rete di supporto funzionava ancora a dovere, come un tempo il lenzuolo bianco alla finestra voleva dire “qui ci sono i nazisti” dando modo alle compagnie di calcolare i rischi dei propri spostamenti. Questa volta, però, c’era qualcosa di diverso. Non bisognava più starsene rintanati in una figna per ore, attenti a non tradirsi quando i nazisti passavano o magari si fermavano sull’aia accendendo un fuoco. C’era uno scudo di occhi e orecchie capace di segnalare ogni movimento e la paura era più vicina all’adrenalina che al terrore. Non tutta Monteveglio, però, si schierò coi ribelli. L’anziano farmacista del paese – «l’abbiamo imparato dopo» – riuscì ad esempio a contattare il comando di Bazzano: «sembra che il farmacista sia riuscito a fermarli, […] e [i carabinieri] si son fermati alla Formica, si son fermati due chilometri prima». Il primo a risalire la provinciale, infatti, fu un dirigente comunista di Bologna, qualche ora più tardi. Forse Albertino Masetti in persona, il segretario della federazione, che improvvisò un palchetto sulla pista da ballo e iniziò a spiegare. Primo e unico punto all’ordine del giorno: liberare il fortino e far sparire subito il biroccio con tutto il suo carico di

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«illegalismo» e «avventura», termini a cui il partito ricondusse gli episodi come quello. Dire senza mezzi termini che l’insurrezione è oggettivamente impossibile, immatura, appannaggio di una minoranza, un residuo di lotta armata dominato da «estremismo» e «infantilismo». Trovare le parole giuste per far passare la linea e saggiare la risposta della sala, in vista del «lavoro di chiarificazione» futuro: «purtroppo è arrivato, è arrivato uno da Bologna […] e in quella pista da ballo ha fatto una riunione […], ha detto che insomma Togliatti… non muore, è già fuori pericolo, e però noi le armi dobbiamo metterle via perché la rivoluzione non si fa e…». E voi cosa gli avete detto? «Quasi quasi ammazzano lui! poveraccio» si scioglie in una risata. «La gente era inviperita, perché era già con le armi in mano». Però «la gente aveva visto tutto!», e ancora: «gli altri vedevano perché c’era… non eran mica tutti della nostra idea. Loro han visto tutto!». Giusto. Ma cosa esattamente? La prima volta che ci parla del 14 luglio reagiamo con stupore. Dei ribelli della sala Polga non avevamo mai letto nulla sui libri né incontrato brandelli di memoria ma, anche volendo, di loro non è facile trovare traccia. Il Giornale dell’Emilia – titolo provvisorio e politicamente meno compromesso col passato regime de Il Resto del Carlino – non li incluse nei resoconti delle «due tristi e sanguinose giornate», mentre diede spazio ai liberali che lamentarono «ingloriose violenze» (16 luglio) ai danni di alcune sedi del loro partito o alla quarantina di fermi che divennero arresti (18 luglio). Le armi nascoste dei partigiani sono l’unico appiglio che ci riporta su un terreno battuto, ci è naturale partire da lì. «Ah le avevamo nascoste subito dopo la Liberazione»

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spiega con grande naturalezza. «Abbiamo consegnato quelle che non andavano! quelle rotte! Però quelle buone le abbiam messe via…». Quante armi avevate tenuto da parte? «Eh, ce n’era più che… l’esercito italiano ce ne aveva meno», e attacca la solita risata contagiosa, «ché i tedeschi le han lasciate lì tutte, funzionanti! con la munizione! E noi l’abbiamo nascoste, bene, dentro un rifugio, abbiamo chiuso il buco». E ancora: «trecento-quattrocento sicure […] roba pesante anche, mitraglie. Ah, se veniva… se fosse venuta la rivoluzione…». Eravate pronti? «Qui facevamo del pulito!». Pulito è un aggettivo che Otello usa con parsimonia, ma sempre con lo stesso significato. Pulita è la val Samoggia quando quelli del «Sozzi» spiegano alla 5a armata che i nazisti erano ormai tenuti prigionieri. Pulita sarebbe stata Monteveglio se fosse accaduto ciò che non accadde. Ri-pulita da quegli occhi e orecchi che, proprio perché rimasero dov’erano, costituivano una minaccia. «Il fatto è che la gente lo sapeva, quelli contro di noi… capisci? perché vedevano! Cosa vuoi, vedevano i giri di notte… sai in un paese è difficile fare certi trasferimenti senza che nessuno se ne accorga, loro lo sapevano». Vedevano, sapevano, capivano. Loro. Col passo falso della sala Polga gli «avversari» ricostruirono i pezzi di un puzzle che appariva caotico e scostante. Non si trattava più di rischiare la pelle durante un’azione, ma di aver messo a repentaglio un intero gruppo e un’opzione rivoluzionaria a cui, nonostante tutto, non si voleva rinunciare. Tanto più che Battagliero era responsabile del piccolo arsenale nascosto nel territorio del suo comune: «mi avevano dato la cosa a me e a un altro; eravamo in due, l’altro era più anziano di

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me». «Non è che lo sapeva tutto il partito che io… non sapeva niente nessuno, era tutta una cosa… anche dopo le elezioni, noi eravamo clandestini lo stesso perché facevamo delle cose contro la legge». Giri notturni, trasferimenti furtivi che forse loro fingevano di non vedere. Finché fu possibile farlo. Ecco il pericolo, da cui però prescinde l’essere formalmente chiamati a difendersi da un’accusa specifica davanti a una corte penale. Il punto non è aver commesso questo o quel reato, ma essere usciti allo scoperto, essersi resi riconoscibili, identificabili come una minaccia all’ordine costituito. Alla vecchia compagnia di giovanissimi del battaglione «Sozzi» non rimase che tornare nella retroguardia e drizzare le antenne molto più di prima. A Oliveto, intanto, la normalità alterata degli ultimi anni di guerra sbiadiva poco a poco nei soliti lavori, nei balli o nelle bevute all’osteria. Il cliché della ricostruzione come alba di un nuovo giorno e febbre del fare è colmo di retorica, anche se illumina alcuni tratti del clima del tempo. Postula, ad esempio, la fine repentina dell’odio e assume come scontato e lineare ogni passaggio successivo, dalla consegna delle armi all’entusiasmo per la nuova cornice istituzionale. Invece la fiducia nella «tecnica politica» come strumento attraverso cui «ci vendicavamo del fascismo sconfitto riprendendo avidamente tutti gli strumenti che esso ci aveva sottratti» ha detto Vittorio Foa, fu qualcosa di lacerante: «Ci dividemmo allora fra chi credeva nella tecnica politica e chi riaffermava il valore della poesia e della verità». A prestare orecchio agli aneddoti di tutti i giorni, prima e dopo la guerra, quella lacerazione emerge assieme a una quotidianità di canzonature e divertimenti che non conosce cesure nette.

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Giovanna Pedrazzi, una ragazza olivetana di madre svizzera che sposò Otello qualche anno più tardi, ci restituisce uno squarcio che smonta ogni cliché. Potrebbe risalire all’autunno ’44 o alla primavera successiva e al centro c’è una combriccola di ragazzine del paese che decise di avventurarsi nel bosco, dimenticando guerra e rastrellamenti, nazifascisti e resistenti, forti dei loro quindici anni. Cercavano i vecchi compagni di gioco, anche se questi si erano cambiati il nome e stavano in paese sempre meno. «Siamo andati a trovarlo […] in tante regazzine, loro erano nascosti laggiù e noi abbiam detto, una domenica: “Adesso andiam giù” e c’era ’sto Jupp, ’sto tedesco…». «Era un tedesco che veniva sempre lì in casa…» si intromette Otello. «…e stava con noi, lui non voleva sapere di… Hitler, la guerra. Era giovane. E allora abbiam detto: “Vieni con noi che andiamo…”». «Eh vieni… sono venuti là con quello!», e ride. «Allora: “Mamma, ma siete matte…!”. Allora, dico: “Facciam finta di niente, e via!” e ci sediamo, e abbiam ballato e poi […] abbiam preso ’sto tedesco e siam tornati su!». L’atmosfera è del tutto simile a quella evocata da Libero, all’anagrafe Alberto Masini, coetaneo di quei giovanissimi partigiani che, nascoste le armi, pensavano a divertirsi. Di notte, ad esempio, invertivano gli scuri delle finestre cosicché l’indomani Oliveto si svegliasse con le ante spaiate. Ma il loro bersaglio preferito era «un povero diavolo […] che viveva di espedienti […] lo chiamavano Ghisetti». Con lui si divertivano a inscenare teatrini di ogni tipo, «ah… tutt’una trama», ride oggi Otello. Una volta lo processarono per non si sa quale reato e quello corse a nascondersi nel caminetto di casa sua. Quella dopo, invece, fu Filippo a fingere di perdere i sensi dopo aver ballato un valzer di troppo

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con lui e, intanto, il suo compare Battagliero era uscito per ripresentarsi conciato da improbabile dottore. Armato di occhiali e macchina fotografica sancì che Cerè era morto, mentre il povero Ghisetti se la batteva. Davanti ai finti tribunali del popolo venivano trascinati sempre i poveri diavoli, anche quando politicamente connotati: «C’era un altro che veniva sempre a Oliveto, che aveva fatto anche il repubblichino, ma un povero diavolo, si chiameva Acquari e allora quello lì anche l’abbiamo processato […] e l’abbiamo condannato a morte, l’abbiamo messo al muro ee… con la fionda – vendevano quelle castagnole che a metterle sotto un sasso facevano [il botto] – e allora io tiravo su sopra a lui, e lui è caduto in terra». Bravate ai danni dei personaggi più bizzarri del paese e forse anche la proiezione simbolica di un sentire comune che immaginava un nuovo ordine, ancora impastato di gioco e finzione. Ma anche bravate in cui si usavano con disinvoltura le armi, tutte in circolazione e tranquillamente esposte, seppur sempre scariche e solo nella cerchia di paese. «Non c’era niente in quel paese lì» commenta Otello, e per passare le giornate quel gruppo di giovanissimi ex partigiani s’inventava un po’ di tutto, quasi trasformandosi nell’attrazione del paese. E il lavoro? Fra Stiore, Oliveto e Monteveglio la maggior parte delle famiglie erano di fittavoli e mezzadri. Raramente, almeno nella cerchia di Otello, possedevano il pezzo di terra di cui vivevano. Spesso si trattava di contadini impoveriti negli anni Trenta, costretti a dar via il podere e tornati a vendere le braccia sulla piazza del paese, con buona pace della “sbracciantizzazione” tanto decantata dal duce. Era successo esattamente così ad Alfredo Mascagni, proprietario del Casetto. Ma è difficile sapere fino a che punto

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quella vendita influì sull’economia e le condizioni di lavoro della famiglia di Otello. È invece certo che quel podere ne sfamava a malapena tutti i componenti. Seguendo la strada che era stata delle sorelle maggiori, di altri in paese e poi anche dei compagni del «Sozzi», nel ’45 Battagliero smise di fare «quello che c’era da fare» in casa e si mise a cercare un lavoro. Per alcuni nella sua stessa condizione, la politica fu anche una risposta a questa esigenza; d’altronde il partito di quadri si stava trasformando in partito di massa e necessitava di funzionari, segretari, collettori e gente in grado di mandare avanti la macchina. «Ce n’era anche di quelli che lo facevano solo per interesse, per prendere un posto», ma a lui questa non parve una motivazione convincente. Con la sua solita “fortuna” trovò «un amico [che] aveva fatto il partigiano insieme a me, che era poi di quelli che lassù a Montarsello di Guiglia era riuscito a andare di là». Dopo aver messo su una piccola impresa – era diventato «un bravo capomastro» – questi lo assunse come manovale trascinandolo nei vari cantieri della città. «Si andava a lavorare quando c’era, non si andava tutti i giorni», ma sempre in bicicletta fino a piazza dei Martiri, alla Montagnola o in via Irnerio. Intorno a lui, invece, erano le campagne ad essere in subbuglio. Ma anche se a ribollire era tutta la valle del Po e buona parta del Meridione, l’ultimo grande momento di conflittualità contadina del Novecento non lascia che qualche traccia nei suoi ricordi. Quasi che quel «muratore», l’etichetta riportata dal Dizionario accanto al suo nome, lo avesse ormai completamente conquistato. Attorno alle vertenze agricole si intrecciarono, ancora una volta, antichi motivi di contrapposizione e nuove istanze di cambiamento. Braccianti e mezzadri, talvolta anche coltivatori diretti, si unirono in un fronte unico pur

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con rivendicazioni proprie e un proprio repertorio di protesta. Per un momento la situazione sembrò quasi favorevole, alimentando i sogni di più d’una generazione. Nei comuni della Bassa, come altrove, i quadri sindacali si riappropriarono del collocamento per contrastare la disoccupazione dilagante. Fra la base si diffuse l’attitudine all’azione diretta. Borghi e caseggiati interi si radunavano ogni volta che una delegazione della Camera del lavoro doveva trattare con un proprietario terriero. Quando i termini del “lodo De Gasperi” o i patti fra Confederterra e Confida ne uscivano onorati, quasi sempre la folla spariva con la velocità con cui si era materializzata, sempre che nel frattempo non fosse intervenuta la forza pubblica. Nei mesi freddi, quando nei campi il bisogno di manodopera era minimo, i capi lega organizzavano collettivi di disoccupati e li spedivano a lavorare anche senza l’assenso dei proprietari. Tanti minuscoli “scioperi alla rovescia” che per il codice penale erano «invasione arbitraria di terreni» cui si aggiungeva l’aggravante di volerne trarre profitto, visto che quelle giornate, a fine anno, andavano inserite nei conti colonici. Ma spesso i marchesi, i conti e giù fino all’ultimo dei fiduciari si ostinavano a riportare sui libretti le percentuali dei «contratti capestro» del Ventennio, infiammando gli animi della folla. Si finiva così per alzare la voce, gli insulti volavano e in un attimo si era alle maniere forti. I dirigenti erano sempre combattuti fra trattative e forzature spesso inevitabili e, nel frattempo, bisognava difendersi. Dalla fame e dai tribunali, ma anche da attacchi e violenze crescenti. Gli scioperi del 1947-49 non furono che questo, coi proprietari sempre più sul piede di guerra. Prima misero a punto sistemi di sostituzione della manodopera in sciopero, reclutando disoccupati dalle zone più povere dell’Appennino o dalla città. Poi armarono squadre di sgherri a loro prote-

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zione. Carabinieri e Celere, dal canto loro, non abbandonarono il pugno di ferro nel reprimere la protesta fino a farci scappare il morto, anzi due nella sola provincia di Bologna. Ma la prova di forza del ’49, quando per oltre quaranta giorni a Bologna non si falciò il fieno nemmeno «per quella parte […] che deve servire al governo giornaliero del bestiame», segnò il punto di non ritorno, dopo due anni di crescenti difficoltà. Un anno prima l’«Agraria bolognese» spiega una relazione precedente a quello sciopero, era stata «battuta […] e da allora non sapendosi dar pace dallo smacco subito, è passata all’offensiva». Nonostante gli accordi raggiunti a giugno del ’48, infatti, gli agrari si erano mantenuti inflessibili, applicando quei patti solo in minima parte. Nel mentre, il collocamento tornò in mano allo Stato e le grandi aziende iniziarono un lento processo di trasformazione fondiaria o di frammentazione. Nel giro di qualche anno, il grosso della manodopera agricola prese la via dell’industria oppure dell’emigrazione. Come Giovanna che, tornando alle sue origini elvetiche, nel ’47 o poco più avanti decise di raggiungere le valli del canton Berna. «Conosciuti ci siam conosciuti da ragazzi, siamo dello stesso paese. Andavamo a scuola elementare insieme». E poi aggiunge: era la «mia fidanzata». «E da quando?». «Da sempre!». «E quando vi siete fidanzati?» insistiamo. «Ah… fidanzati proprio, non s’usava allora, s’andava dalla ragazza e…» ci spiega ridendo. «E lei è andata là a lavorare e faceva l’orlatrice di scarpe, cuciva […] dopo era andata a fare i sofà». Difficile dire se l’emigrazione fosse una scelta contemplata anche da Otello, a quel tempo. Di certo non gli mancavano gli esempi, né i residui delle catene migratorie fra

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Oliveto e i monti del Giura bernese. Ma più di tutto Battagliero stava aspettando qualcosa. E quel qualcosa sarebbe venuto nel suo paese. Che le campagne fossero in ebollizione o meno, la situazione intorno a lui era comunque incandescente fin dall’aprile del ’45. Al contrario, più la protesta contadina montava, assumendo forme non sempre pacifiche, e più gli strascichi della guerra svanivano senza attenuare polemiche e facili generalizzazioni. «Questo qui era chiamato […] “il triangolo della morte”, eh» ci ricorda evocando la polemica agitata dalla stampa locale e nazionale per anni e sempre pronta a riemergere. In fondo Castelfranco, Piumazzo e Manzolino, i vertici che delimitavano una zona di spietate vendette contro i fascisti, vere e presunte, stavano a due passi da Bazzano. «È tutti successi qui eh […] è successo non subito dopo la Liberazione, mesi e mesi… anche anni, è continuato. Perché la gente… c’ha messo tempo a tornare». Da frammenti e riprese capiamo che, per lui, non si tratta quasi mai di storie lette sui giornali, ma di episodi vissuti e circostanziati: «quelli […] del plotone di esecuzione [del 27 agosto ’44], tre erano di Monteveglio. Avevano tre o quattro anni più di me, io li conoscevo bene […]. Due di quelli lì, quando son venuti a casa, son stati via – e batte sul tavolo – […] un bel po’, però quando son venuti a casa, come han toccato la manèglia – e batte ancora – […], son-son stati – e ancora – uccisi!». Sui regolamenti di conti coi fascisti il suo punto di vista, oggi, è pacificato. Non si tratta di condannare o giustificare, anche se dietro molti casi scorge un agire le cui ragioni non possono più essere spiegate. «C’è della gente che è venuta a casa sei, sette… un anno dopo, eh… fratelli di quelli [ammazzati dai fascisti durante il rastrellamento]. […] ce n’era tre di Monteveglio e ne era stato fatto fuori solo uno, gli

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altri son lì, son morti di vecchiaia». Dopotutto, le alternative legali avevano mostrato limiti palesi, come lui stesso ebbe modo di constatare. Per i fatti del 27 agosto «siamo andati a testimoniare [insieme] alla sorella di Romagnoli Guido», il «bel ragazzo senza una gamba» fucilato alla Muffa. Seppero individuare uno dei repubblichini coinvolti nella rappresaglia il quale, però, venne assolto. E «dopo l’hanno visto in coso, come si chiama, nella Celere». Ma aver assistito a quelle uccisioni, più che il dolore o la delusione per la mancata epurazione, nel suo racconto acquisisce spessore come un momento di esposizione al rischio: «Ma… tutti quei ragazzi lì che han mazè, ammazzato anche qui [alla Muffa] – questo lo penso io – io so che avevano dei fratelli… prigionieri; e son venuti a casa e quelli lì… han fatto giustizia! Secondo me eh, non è che io ho visto, però… e loro invece pensavano che l’avevamo fatto noi. Anche». Saper individuare gli assassini del ’44, proprio quando questi erano riusciti a evitare le pene, costituì agli occhi degli «avversari» un ulteriore motivo di sospetto. Ancora una volta il punto non era aver commesso un reato, ma essersi rivelato a loro come possibile giustiziere, quando di lui, soprattutto dopo il 14 luglio, si sapeva ormai fin troppo. Giovanissimo, sveglio, ex partigiano comunista che all’occorrenza fa spuntare una pistola o un arsenale e di notte non dorme mai in casa. Aggirandosi, trasportando, cospirando. Erano la peste del paese, lui e Cerè. Dal 27 agosto ’44 alla primavera del ’49, la vita di Battagliero non conosce interruzioni. Ed è a questo lungo momento della sua biografia che bisogna riportare lo spartiacque di Augusto Mignani, l’oste di Oliveto assassinato il 4 dicembre del ’45.

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Per Otello quella vendetta rappresenta una punizione eccessiva e immeritata, perché «non era un uomo cattivo». Gli fa eco la voce di popolo, quella delle memorie edite e degli olivetani con cui abbiamo chiacchierato. La stessa sentenza del giudice istruttore, escludendo «ogni movente politico», sembrerebbe confermarlo se non ci assalisse il sospetto che i processi celebrati dopo il giugno ’46 ebbero la tendenza a negare la politicità di alcuni fatti a cavallo fra guerra e dopoguerra, proprio nel tentativo di aggirare l’amnistia. «Dalle prime indagini» argomenta la sentenza, «risultò che il Mignani Augusto era stato oggetto di ripetuti tentativi di estorsione», il primo dei quali risaliva al marzo ’45, salvo poi riconoscere e «giustificare queste azioni, apparentemente delittuose, assimilandol[e] ad atti di guerra commessi per necessità della lotta partigiana». Di certo era stato un fascista della prima ora e, pertanto, non solo si era arricchito col Ventennio, ma non aveva subito noie nelle fasi più dure della guerra. Forse qualche nazista ubriaco gli aveva messo a soqquadro l’osteria, ma furono episodi isolati. Forse la sua lealtà venne ripagata risparmiando il figlio Pietro dalla partenza per il fronte russo. Tutto sommato, però, si trattava di uno che «non era proprio un fanatico», che durante la guerra era stato buono. Uno che «probabilmente noi a Oliveto avevamo riempito di debiti» ricorda Giuliano Sarti, «anche generoso», segnando sul suo libretto senza pretendere di essere pagato. Nonostante l’incarico pubblico rimasto fisso nella memoria di Otello, si fa fatica a verificare che Mignani fosse il vicepodestà di Oliveto. Più semplicemente, nel paesello, era l’oste benestante su cui i fascisti di Monteveglio riponevano fiducia, punto di riferimento informale della federazione provinciale. Eppure ci sono due indizi in contraddizione con la vi-

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sione unanime restituita da questa pluralità di voci sul conto di Mignani. Il primo, in verità, è di quelli difficili da adoperare e cioè l’Albo caduti e dispersi della Repubblica sociale italiana che, come scrive Wu Ming 2, «non vale nemmeno l’elettricità che ho speso a scaricarlo», anche perché nessuna delle informazioni in esso contenute è verificabile. Di lui si dice che era caporal maggiore del comando provinciale della Gnr di Bologna, un incarico che certamente cozza con l’idea del fascista ormai attempato che si è fatto da parte, ma che al tempo stesso potrebbe non voler dire molto, considerato che a Oliveto era forse uno dei pochi arruolabili e che un qualche presidio da quelle parti bisognava pure averlo. Il secondo indizio, invece, fornisce una traccia un po’ più solida, se non altro perché si tratta di una lista di “fascisti da escludere dalle liste elettorali” che il Pci di Monteveglio compilò forse già nell’estate del ’45 in applicazione delle “sanzioni contro il fascismo”, fra cui compariva anche la privazione temporanea dei diritti politici, stabilite dal decreto 159 del ’44. E lì Mignani è descritto come un «fascista collaboratore dei tedeschi pericoloso». Fatto sta che verso le sette e mezza di quella sera di dicembre qualcuno si piazzò fuori dal portico dell’osteria esplodendo alcuni colpi di arma da fuoco in direzione del bancone, colpendo lui in testa e suo figlio all’addome. Il titolare morì sul colpo, mentre Pietro «guarì perfettamente in otto giorni» e, con pari velocità, mise in vendita l’osteria del padre preparando le valigie. Gli anni che seguirono da lì fino alla semina del granoturco del ’49 non si spiegano se si mette da parte il clima da vigilanza rivoluzionaria nel quale Battagliero, Filippo e gli altri erano immersi: «noi eravamo sempre all’erta, perché sapevamo che c’era qualche cosa che bolliva». Così come non si

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spiega un intervallo di tempo tanto ampio fra i fatti e i mandati di cattura se non si considera la curvatura politica che assunse l’amministrazione della giustizia in Italia agli albori della Guerra fredda, in particolar modo sull’onda del 14 luglio. «Forse c’avrebbero arrestati anche prima» pensa oggi Otello, «ma la gente avrebbe fatto delle dimostrazioni», perché «avevano sospetti di noi ma non, non azzardavano a… noi molte volte non dormivamo a casa nostra, perché pensavamo che prima o dopo ci venivano a cercare». Forse faremmo fatica anche a capire come i tre coimputati riuscirono a cogliere il momento esatto per tagliare la corda, se non supponendo in maniera generica – come poi conferma il racconto – che il partito aveva la capacità di monitorare alcuni movimenti delle forze dell’ordine. Se non fosse che a ciò si aggiunge «una ragazza a Stiore; che ci andavo, era bella», ma era anche «l’amante del maresciallo dei carabinieri». E un bel giorno di quella primavera, «si vede che era dentro con lui», quello si assentò improvvisamente e lei trovò il modo di raggiungere Battagliero per dirgli: «Guarda che in Caserma c’è il mandato di cattura tuo, di Cerè e dell’altro». «E lì siam scappati». Proprio adesso che si potrebbe invocare la fortuna, Otello non ci bada e ripete che «è stata brava». È anche certo che, se non fosse per questo particolare curioso, ci sarebbe stato da credere alla versione del giudice istruttore, secondo cui Palmieri, Cerè e Biotiti, «non appena le indagini di polizia giudiziaria furono intensificate per identificare gli autori del delitto, si resero irreperibili, benché nessuno avesse mosso loro contestazione alcuna».

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CAPITOLO 2

Enrico Grassi

Crespellano, frazione Muffa, aprile 1949 Bisogna nascondersi. Non è possibile aspettare oltre, nessun saluto. Come si può confidare in una giustizia che arresta i vecchi partigiani e i nuovi compagni, chi ha salvato l’Italia dal nazifascismo e chi lotta per renderla un posto migliore? Che fabbrica prove, che inventa capi d’accusa fittizi, che giudica a posteriori le dure ma necessarie pratiche di guerra come crimini compiuti in tempo di pace? Questo pensava Otello in sella alla sua bicicletta rossa, «alle due dopo pranzo», mentre scendeva da Oliveto senza sapere cosa fare, dove andare. Il flusso di pensieri fu interrotto dal passaggio della camionetta dei carabinieri che gli sfrecciò accanto, in senso opposto. Forse stavano venendo a prendere proprio lui, ma non l’avevano riconosciuto. Fortunatamente conosceva un contadino alle Frittelle, che gli diede ospitalità per qualche ora facendogli ritrovare il sangue freddo. Calma. Chi può aiutarmi, se non il partito? Chi era lì con lui ripete ancora oggi che, durante lo scontro di Monteorsello del 1944, mentre intorno rimbombavano gli spari, calava la notte e l’orientamento era andato a farsi benedire, Otello avesse mormorato: «se ce la caviamo, io dopo non ho più paura di niente». Si incontrarono, qualche ora dopo, alla Muffa, lui, Ivo Biotiti e Cerè. Erano ospiti dello zio di Filippo, che li

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avrebbe nascosti per qualche ora. Poi ci avrebbe pensato Lia. Conosceva tutti nel partito, a Bologna. Sarebbe riuscita a sistemare ogni cosa. Qualche giorno dopo, infatti, un ex partigiano della brigata «Bolero», che lavorava come benzinaio sulla Provinciale, venne a prelevarli. Li condusse nei dintorni di Ponte Ronca, presso un contadino fidato, intimando loro di astenersi dal prendere iniziative. Presto sarebbe venuto un compagno e sarebbero stati trasferiti altrove. Fino a quel momento, non dovevano assolutamente mettere il naso fuori. Erano ufficialmente in clandestinità. Il racconto che Otello ci fa della fuga non è sempre lineare, anzi. La narrazione è sconnessa, carsica: non una sequenza cronologica di fatti ma, piuttosto, tanti episodi giustapposti che vanno faticosamente a comporre un quadro d’insieme. Quello che ci colpisce è l’emergere di nomi, indirizzi, luoghi, singoli eventi ricordati con estrema precisione, nonostante i settant’anni di distanza. Non bisognava lasciare tracce scritte, è la prima regola della clandestinità. Dimenticare anche un particolare minimo significava rischiare la prigione per sé ma anche mandare all’aria l’intera rete di solidarietà. Quei nomi e quegli indirizzi sono rimasti scolpiti nella memoria di Otello per tutta la vita. Quattro o cinque notti dopo, i tre fuggiaschi vennero trasferiti in auto da Ponte Ronca a Medicina e divisi per non destare sospetti. Per qualche giorno, Otello fu ospite di un vigile urbano «che si chiamava Baesi», mentre il paese era in festa per l’annuale sagra. Poi, sempre di notte, qualcuno lo accompagnò dai Lazzari, una famiglia contadina di Portonovo, a pochi chilometri di distanza. Non sapeva, allora, che Filippo, Ivo e altri fuggiaschi della zona di Bologna erano tutti nascosti lì, in attesa del momento giusto per andare. «La gente parlava e lì, in quella zona lì, eravamo una

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ventina, tutti da un contadino». Passava le giornate rintanato nei canali che attraversano la Bassa tra Bologna e Ferrara, segno tangibile delle bonifiche cui era stato sottoposto il territorio fino a non molti anni prima. Si era «specializzato» nella pesca a mano dei pesci gatto. «E dopo, a un certo punto, han fatto un rastrellamento su… dopo la, dopo… parlo, parliamo dopo la Liberazione eh». Un rastrellamento. Otello chiama così un’azione coordinata di carabinieri e reparti mobili di polizia, forse scatenata anche qui da una soffiata, e il pensiero torna subito al 27 agosto 1944. Di fronte alle nostre facce dubbiose, si cura di specificarne le coordinate temporali: dopo la Liberazione eh. La fine della guerra, la Repubblica, la democrazia: certo, ma quello restava un rastrellamento, né più né meno. Certamente era un rastrellamento nella testa di un rivoluzionario di professione per il quale, all’epoca, non erano finite tutte le guerre racchiuse nella Resistenza. La prima, quella di liberazione nazionale contro l’occupazione nazista, era terminata il 25 aprile 1945. La seconda, una guerra civile tra italiani che si trovavano su fronti opposti, fascista e antifascista, aveva prodotto strascichi di odio e violenza che si erano protratti ben oltre la fine di quell’anno. Ma l’ultima aveva contorni ancor meno definiti e un termine non univocamente stabilito. Perché l’ultima si chiamava lotta di classe, e non era mai finita per quanti credevano nella rivoluzione. Otello ci credeva ancora. E mentre restava nascosto tra le canne, in un canale nei pressi di Portonovo, ciò che vedeva attorno a lui era un rastrellamento. Attese il momento giusto, saltò fuori dal canale, rubò la bicicletta di un contadino che stava tagliando una siepe e pedalò forsennatamente senza mai guardarsi indietro. Nessuno lo fermò e giunse a destinazione: vicolo Bolognetti, da Lia. Dove sennò?

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Vedendoselo piombare in casa, lei telefonò immediatamente in federazione. Il rastrellamento era terminato, Otello doveva tornare a Portonovo e attendere istruzioni. Lia trovò quindi un tassista, un amico di famiglia consapevole della situazione, e la federazione poté evitare di mandare qualcuno. In via Barberia nessuno dubitava che l’infermiera del Sant’Orsola avrebbe gestito tutto al meglio. Otello non volle presentarsi a mani vuote e caricò sul taxi la bicicletta rubata, restituendola al legittimo proprietario, con grande stupore e gioia di quest’ultimo. In fondo, avere una bicicletta poteva fare la differenza, al tempo. E Otello lo sapeva bene. Ritrovò Filippo e Ivo in stazione, a Bologna, con un biglietto per Bolzano in mano e nuove istruzioni. Un signore con un garofano rosso all’orecchio vi aspetterà sulla banchina. Fate tutto ciò che vi dice. Al loro arrivo furono nuovamente divisi. Otello finì in casa di Mario Granata, un medico che abitava in via Fiume 15. Un uomo squisito e colto, con cui avrebbe mantenuto contatti epistolari per diverso tempo. Aveva un figlio in età da liceo che, ogni sera, interrogava sui canti della Divina commedia. Fu così che Otello scoprì e amò Dante, arrivando addirittura a suggerire al figlio del dottor Granata i passi più incerti. Dopo una quindicina di giorni, i tre vennero riuniti nuovamente per essere spediti in corriera a San Candido, al confine con l’Austria. Alla compagnia si era unito un quarto elemento, un modenese. Un certo Baldi, ma i nomi lasciano il tempo che trovano come avremmo scoperto di lì a poco. Anche lui in fuga dai tribunali. Ad attenderli, una signora di lingua tedesca che gestiva un piccolo albergo «mezzo diroccato, era stato bombardato… insomma era giù un mezzo tetto. Un bel posto era, proprio sotto le Dolomiti». Rimasero nascosti lì una ventina di giorni. Il marito di lei era un

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maresciallo dei carabinieri, un napoletano di stanza a Bolzano che tornava a casa nel fine settimana. Ignaro di tutto, si divertiva a giocare a carte, il venerdì sera, con questi quattro ragazzi emiliani con una curiosa passione per le escursioni in alta montagna. La signora, ogni mattina, preparava per loro uno zaino ordinando di non fare ritorno prima di sera. Per quelle tre settimane, la loro vita fu scandita dalle gite in montagna e dalle letture serali dei libri raccolti nella biblioteca dell’albergo. Per la gioia di Otello non mancava la Commedia, «che dopo mi ero messo a impararla, mi piaceva […]. Ho letto libri che non avevo mai visto… ho letto Mata Hari, non so se lo conoscete». Di tanto in tanto faceva loro visita Franz, un uomo del partito, «ma veniva sempre che era ubriaco». Fu proprio lui, dopo una ventina di giorni, a condurli al confine con l’Austria in automobile, ancora una volta nottetempo. «Andate avanti un duecento metri e vedrai che troverai due persone che ti portano… che vi portano dove vi devono portare» disse. Ma non arrivò nessuno. Rimasero soli tutta notte, nel bosco, appena oltre il confine. Allo sbiancar dell’alba decisero di tornare sui loro passi. Non faticarono a ritrovare l’albergo di San Candido da dove erano partiti e, nel frattempo, un altro comunista ricercato dalla polizia aveva preso il loro posto, come ospite della signora. Si presentò come Nardi e veniva da Bologna, anzi da Borgo Panigale. Sparava battute a raffica. Per riparare al fallimento del primo tentativo di attraversare il confine, la federazione comunista di Bolzano organizzò meglio la seconda spedizione. Niente più Franz, che non dava garanzie di sobrietà. Otello, Filippo, Ivo, Baldi e Nardi vennero condotti a piedi, seguendo sentieri poco battuti per evitare la dogana, direttamente in casa del loro

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primo contatto austriaco: un ex combattente della Guerra di Spagna che parlava bene lo spagnolo e riusciva a farsi capire dai cinque italiani. Attraversarono tutta l’Austria grazie alla rete di reduci delle Brigate internazionali, passando via via dalla casa di uno a quella dell’altro. «Quelli erano veramente dei compagni», Otello li ricorda ancora con affetto. Doveva essere sinceramente emozionante, per dei giovani come loro, sedere al tavolo e parlare coi reduci della «rivoluzione spagnola», figure quasi mitologiche, «gente di fede». Per questo Otello non li ha mai dimenticati e ancora oggi, a novant’anni, non riesce a trattenere un sorriso sognante mentre ci parla di loro. Sapevano dove li stavano conducendo? Otello dice di no. Probabilmente pensavano di essere diretti in Jugoslavia come Gino Tinti, un ex partigiano del battaglione «Sozzi» fuggito pochi mesi prima di loro per lo stesso motivo. O di rimanere nascosti per un po’ di tempo in montagna, lasciar calmare le acque e cadere le accuse, per poi fare ritorno in paese. A Oliveto, nel frattempo, la gente pensava che fossero nascosti alla Bastèrda e, da mesi, ogni furto di cibo nella zona veniva attribuito a loro. «I an da magnêr» diceva il Cinen7 ogni volta che spariva qualcosa dal suo orto. L’unica che sapeva tutto era Lia. E stava muovendo i suoi contatti per far sì che il processo venisse istruito e terminasse nel minor tempo possibile. Con una sentenza d’assoluzione, s’intende. Di certo, a Vienna la loro destinazione divenne chiara. Erano arrivati in treno, erano rimasti per qualche giorno in un ufficio con «dei compagni che parlavano in italiano» e, alla fine, gli era stato comunicato che la prossima tappa del loro viaggio sarebbe stata la Cecoslovacchia. L’Austria, nel

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Piccolo, basso di statura.

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1949, era ancora divisa in zone sotto il controllo degli Alleati, da un lato, e dell’esercito sovietico, dall’altro. Come ne Il terzo uomo, Otello e i suoi compagni di fuga si mossero con circospezione in una Vienna spezzata dai controlli dei diversi eserciti in campo. Anche se erano ospiti della zona sovietica, nel complicato scacchiere della Guerra fredda dovevano agire in clandestinità, per non mettere in imbarazzo Urss e Pci. Evitare qualsiasi tipo di controllo e superare il confine, ancora una volta.

České Budějovice, agosto 1949 Di nuovo, qualcosa non aveva funzionato. Del resto, si sa, la clandestinità funziona così: una copertura salta, qualcuno all’ultimo giudica un’azione troppo rischiosa, non ci si intende nelle comunicazioni tra i vari soggetti, imprevisti di ogni tipo si sommano e rimani solo, nel luogo sconosciuto che ti hanno indicato, senza mappa, senza orientamento, al buio. Era andata così anche stavolta. I cinque fuggiaschi erano scesi dall’auto in corsa che costeggiava il confine, come era stato loro ordinato. Avevano camminato, nella gelida oscurità, in linea retta verso il bosco di cui intuivano i contorni in lontananza, come era stato ordinato. Ma non avevano trovato la pattuglia di militari cecoslovacchi che avrebbe dovuto condurli, in quanto stranieri, nella cittadina più vicina per i controlli di rito. Da lì in poi sarebbe andato tutto liscio, aveva detto l’ultimo della catena di reduci della Guerra di Spagna che li aveva scortati fino al confine. Ma la pattuglia non c’era. Nel bel mezzo di una palude videro una luce. Una casa. La signora fu gentilissima, li rifocillò con fette di pane nero

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coperte da uno strato generoso di strutto. Purtroppo per loro, non avevano una lingua comune. E Otello, indicando di là dal bosco diceva: «Praga? Praga?», mentre quella rispondeva: «Anò, anò», che in ceco vuol dire “sì”, ma i nostri intesero come un “no”. «“Ma quella lì”, al dîṡ uno di Borgo Panigale, “è matta, la dîṡ di sì con la testa e la dîṡ nŏ8”». Almeno si rideva un po’. Così tornarono sui loro passi e stavolta, forse, presero la direzione giusta trovando la pattuglia che cercavano. Mitra spianati, vennero portati al paese più vicino dove, fino all’alba, poterono dormire sul selciato della stazione prima di essere presi in consegna da una coppia di poliziotti e caricati su un treno. Passaggi notturni di casa in casa, massima segretezza, nulla di scritto, contatti che saltano e obbligano a pericolose retromarce lungo i confini. San Candido, Vienna, i rivoluzionari spagnoli, la frontiera nei pressi di České Budějovice. Fin qui, il racconto di Otello ricalca grosso modo quelli di altri fuoriusciti a Praga. Come i membri della Volante rossa, come Drago, come tutti gli uomini ex. Di questi itinerari, per loro natura clandestini, non esistono tracce negli archivi, ma la regolarità con cui emergono identici riferimenti in racconti differenti lascia poco adito a dubbi. Arrivati a České Budějovice, però, tutti gli altri parlano di un soggiorno breve e piacevole in hotel, gite in città, la famosa torre sulla collina. Anche Philip Cooke, uno dei pochi storici ad aver affrontato sistematicamente l’emigrazione politica italiana in Cecoslovacchia, cita rapidamente un hotel, a České Budějovice. Otello ci parla, invece, di una prigione.

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“Ma quella lì, dice uno di Borgo Panigale, è matta, dice di sì con la testa e dice di no [a parole]”.

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L’esterno era quello di un hotel, certo. C’era anche l’insegna: Hotel Slunce. “Del sole”, in italiano. Nardi si eccitò solo all’idea, finalmente una camera da letto vera dove riposare, ma gli altri restarono guardinghi. Otello notò subito dimensioni e forma delle chiavi tra le mani del funzionario che li stava accogliendo: non parevano proprio quelle di un hotel, sembravano più adatte a chiudere qualcos’altro. «Guèrda mŏ al camarîr ch’aväĩ 9» disse a Nardi mentre questo, sgranati gli occhi, tentò di darsi alla fuga. «Ma l’han fermato subito, poi c’han messo dentro». Rimasero in prigione per diverso tempo, forse addirittura tre mesi. Come gli altri esuli politici italiani passati dallo Slunce, godevano di un trattamento di favore rispetto ai carcerati comuni, che portavano le catene alle caviglie con sommo sbigottimento di Otello. Ma era comunque una prigione, cibo pessimo e l’ora d’aria in cortile accompagnati dalle guardie. Difficile afferrare lo scoramento di quei mesi, per loro, giunti finalmente in un paese socialista, paradiso in terra e sogno di ogni militante comunista dell’Europa occidentale. Lontani dalle forze dell’ordine italiane che volevano incarcerarli, credevano di aver raggiunto questa duplice libertà, dalla giustizia faziosa e dal capitalismo, invece si trovavano rinchiusi in una cella. Senza spiegazioni, poiché l’unica lingua utilizzata dai secondini era il ceco. Si aspettavano che il socialismo reale li accogliesse dall’ingresso principale e non era facile, da rivoluzionari comunisti, abituarsi all’idea di dover sgattaiolare dalla porta sul retro. Otello ricorda i pianti dei compagni di prigionia e non nega di aver versato anche lui qualche lacrima, nei momenti di sconforto.

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“Guarda un po’ che cameriere abbiamo”.

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Praga, Nové Vysočany, fine 1949 Finalmente arrivò il giorno. Si presentò un funzionario con falce e martello appuntata sul bavero della giacca e, senza dire una parola, li caricò in auto. Forse le informazioni sul loro conto avevano impiegato più tempo del previsto a raggiungere i vertici del Ksč, il partito comunista cecoslovacco, e sicuramente la polizia locale necessitava di compiere controlli approfonditi, temendo l’infiltrazione di spie dall’estero. Fatto sta che, finalmente, erano fuori dal carcere. Lungo il tragitto chiesero più volte all’autista di fermarsi per comprare dei panini, perché la prigionia li aveva lasciati sconcertati nello spirito, certo, ma pure affamati nel corpo. Furono condotti all’Hotel Paříž di Praga – stavolta un vero albergo – dove trovarono un volto noto che parlava il loro dialetto: il deputato comunista Giovanni Bottonelli, grande amico di Lia, sulla via per l’Italia dopo un incarico di partito in Unione sovietica. Aveva saputo della presenza di conterranei e volle invitarli a cena. Finalmente un pasto completo. Quando gli raccontarono dei mesi passati in prigione a České Budějovice, Bottonelli si rabbuiò. Era mortificato, non doveva accadere più. Forse ne parlò con alcuni dirigenti, a Roma, o forse i nostri erano dovuti fuggire quando le vecchie reti di solidarietà internazionale erano appena state riattivate. Fatto sta che, dopo la cena con Bottonelli, nessuno passò più tante settimane allo Slunce. La tappa rimase obbligata, ma la dura detenzione fu sostituita da un soggiorno di pochi giorni, una quindicina al massimo. Fu nei primi giorni a Praga, finalmente spensierati, che Otello, Urlandén, Battagliero dovette di nuovo cambiare nome. Il partito ti forniva un documento, e quella diventava la tua nuova identità. Finché rimanevi in esilio, dovevi evitare di fornire dettagli sulla tua vita precedente: era una re-

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gola ferrea. Stella Amici, fuoriuscita modenese e voce del programma radiofonico Oggi in Italia, conobbe il vero nome di suo marito nel 1961, dopo anni di matrimonio. «Sai che non l’ho mai, proprio mai, chiamato in un modo diverso? Sempre col cognome finto con il quale lo conobbi a Praga. Neanche il nome, sempre finto, di Oreste, che secondo me era proprio orribile. E, anche quando in seguito lui riacquistò la sua vera identità e poté rientrare anche lui in Italia, io, ormai abituata, continuai comunque a chiamarlo Bianchi». Ma il suo vero nome era Natale Burato, uno dei militanti più noti della Volante rossa. Così, da un giorno all’altro, Filippo Cerè cambiò il suo nome in Filippo Rossi, Ivo Biotiti si tramutò in Mario Ferli e Otello Palmieri divenne Enrico Grassi. Otello li definisce i “nomi di là”, in opposizione ai nomi reali “di qua”, in Italia. E rimpiange, oggi, di non essere riuscito a conoscere tutti i “nomi di qua”, unico modo per rimanere in contatto con gli amici più cari incontrati in Cecoslovacchia. Non ci si pensava all’epoca, perché i “nomi di là” entravano talmente nel profondo da diventare reali. Lo prova il fatto che, durante tutta l’intervista, Otello abbia sempre fatto riferimento a Ivo chiamandolo «Ferli Mario». Chissà la faccia di Giovanna quando si vide recapitare, dopo mesi di silenzio, la prima lettera firmata da Enrico Grassi, ma vergata con la grafia per lei inconfondibile di Otello, proveniente da via Opletalova 18, Praga. Otello non ce lo racconta, ma è molto probabile che durante i primi giorni all’Hotel Paříž fu sottoposto agli interrogatori di Roberto Dotti, ex partigiano piemontese della «Stella rossa» e primo funzionario responsabile dell’emigrazione politica in Cecoslovacchia nell’organigramma del Pci. Tra maggio e ottobre, il partito era riuscito a far espatriare

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105 militanti accusati, in Italia, di aver commesso crimini durante la Resistenza, nell’immediato dopoguerra o nei giorni dell’attentato a Togliatti. Nei mesi successivi, il numero sarebbe salito sicuramente a più di 300, superando molto probabilmente anche la cifra di 450. Furono in tutto 466, secondo le stime più accreditate, un numero molto lontano dai tre-quattromila esuli che la percezione di Otello ci consegna quando gli chiediamo di quantificare. Non tutti erano realmente militanti del Pci perseguiti dalla legge: alcuni criminali comuni erano riusciti a sfruttare il canale aperto dal partito fuggendo da condanne per rapina o omicidio che nulla avevano di politico. Poi c’erano le spie. L’interrogatorio di Dotti dunque serviva anche a fare una cernita indispensabile tra emigrati politici, criminali, potenziali spie, ma non finiva lì. Otello non ne parla, ma dopo l’interrogatorio gli fu certamente chiesto di scrivere la propria autobiografia. Una pratica comune, sempre meno dopo il ’56, a tutti i partiti comunisti: per accedere a incarichi di qualche importanza o partecipare alle scuole di formazione politica, era necessario mettere a nudo il proprio passato davanti all’organizzazione politica. Quando eri diventato comunista, come ti eri comportato durante il fascismo e la guerra, che ne pensavi di Amadeo Bordiga, Lev Trockij e degli altri rinnegati dal partito, quanto apprezzavi il “partito nuovo” di Togliatti, che rapporto avevi con la violenza, la religione, la famiglia, le donne. Fornire rassicurazioni sulla propria condotta politica, in parole povere, riconoscere eventuali tratti d’immaturità e mostrarsi disposti a lavorare per raggiungere una salda disciplina di partito. Da qualche parte, tra i faldoni del Ksč all’Archivio di Stato di Praga, ci deve essere anche l’autobiografia di Enrico Grassi; forse addirittura annotata, corretta. Il centro organizzativo del Pci era situato in un antico palazzo al 18 di via Opletalova, vicino a piazza San Venceslao.

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La sede era dotata di alcuni appartamenti destinati ai funzionari di partito, ma fungeva anche da centro di smistamento per la corrispondenza in entrata e in uscita. Ogni missiva doveva essere vagliata dal funzionario preposto al controllo postale, prima di essere inviata al destinatario, così come ogni lettera in entrata prima di essere distribuita ai fuoriusciti. Per questo Enrico Grassi, nella prima lettera a Giovanna, oltre a disseminare segnali in grado di farle comprendere la propria identità, indicava Opletalova 18 come unico indirizzo a cui scrivere. Nei quattro anni successivi – spiega orgoglioso – non avrebbe mai ricevuto un richiamo a causa del contenuto delle lettere inviate a Giovanna. Inizialmente furono sistemati in un sobborgo di Praga, «si chiamava Nové Vysočany, era come sarebbe CasalecchioBologna». Una vecchia scuola fungeva da dormitorio e centro di smistamento per i fuoriusciti italiani: c’erano camerate da otto letti, un lavatoio, una cucina, lunghi corridoi in cui improvvisare partite di calcio coi nuovi compagni. Moltissimi emiliani, molti toscani. Modenesi ovunque. «E che cosa facevate in quei mesi lì? Eravate appena usciti di prigione, no? Vi mettono in queste camerate tutti insieme…», siamo curiosi. «Queste camerate lì andava bene, perché lì si mangiava, si beveva, si andava a spasso!». Quei primi tre o quattro mesi devono essere stati magnifici, per Enrico Grassi. Certo, la vita non era solo mangiare, bere e andare a spasso, nel collettivo in cui era stato inserito. Come ci avrebbe spiegato in seguito, erano tutti tenuti a partecipare alle cosiddette “brigate di lavoro”, ripulendo Praga dalle tante macerie ancora sparse nonostante la fine della guerra fosse ormai lontana, o aiutando i contadini nei campi e con il bestiame. Otello era abituato.

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«Io l’avevo fatto qua, me la son cavata meglio, ero abituato a fare i sacrifici. Invece quelli che erano figli di papà, che credevano che il comunismo… si sono accorti che non era così. Ho visto della gente piangere. Sìsì». Aveva 22 anni e abitava in una grande metropoli. La mattina si lavorava, nel tardo pomeriggio si seguivano i corsi di grammatica italiana tenuti da Govoni, un maestro di Reggio Emilia, partendo da zero, anche perché c’era chi aveva appena la terza elementare. Ma poi, con in tasca le poche corone e il pacchetto di sigarette forniti dal partito, si usciva a ballare. «Era bella Praga?». «Era molto bella. […] Perché prendermi da Oliveto, arrivare a Praga, dentro i locali notturni, è una cosa spettacolare! Io-io avevo mai visto. Avevo mai visto neanche a Bologna quasi! Eh! Non avevo mai visto il mare, non avevo mai visto…». Era bella, Praga. Ancora più di Vienna e nonostante le macerie. Per tutto il tempo passato in Cecoslovacchia, malgrado i continui spostamenti da una città all’altra e i chilometri di distanza, Otello avrebbe passato ogni fine settimana a Praga, insieme ai suoi amici. Chi li aveva mai visti, locali notturni così? Il più famoso era senza dubbio lo Slovanský dům, presente in ogni racconto degli esuli italiani a Praga, con i suoi spettacoli e le sue ballerine. Un telefono su ogni tavolo, da tradizione mitteleuropea, come in Cabaret di Bob Fosse. Vedevi una ragazza carina, componevi il numero del suo tavolo e potevi chiacchierare con lei, magari invitarla a bere qualcosa al banco. Biascicavano due parole in francese, i fuoriusciti italiani che, per studio o emigrazione, conoscevano la lingua transalpina. Le ragazze cecoslovacche, al contrario, ne avevano completa padronanza, perché era materia scolastica.

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Erano divertite, curiose, affascinate dall’esotismo degli italiani, dalla loro lingua, dalle movenze, dai modi. Il ceco era una lingua ostica, piena di consonanti in fila, suoni gutturali, declinazioni e casi come in latino. Otello lo ripete anche oggi, mentre sfoglia i suoi quaderni di appunti del corso che ha frequentato nella piccola cittadina di Litoměřice. Ma nessun ostacolo è insormontabile, quando l’obiettivo è finalmente parlare alle belle ragazze conosciute ogni sera nei cabaret di Praga.

Dobřichovice, febbraio 1950 L’iniziativa era venuta, alla fine del 1949, dal partito cecoslovacco ma era stata immediatamente accettata da Pietro Secchia, all’epoca il responsabile del settore organizzazione. Una scuola di formazione politica per mettere a frutto l’esilio forzato in Cecoslovacchia, ottima idea. Le selezioni ebbero luogo nello stesso periodo e terminarono con l’individuazione di sessanta studenti, scelti in base a criteri come «attaccamento al partito, maturità politica, disciplina», «attaccamento allo studio» e «rendimento sul lavoro, durante i collettivi». Non sappiamo cosa scrisse Otello nella sua autobiografia; possiamo benissimo immaginare, invece, con quanta dedizione avesse lavorato e si fosse applicato allo studio, durante i mesi passati a Nové Vysočany. A inizio febbraio, Enrico Grassi era uno dei nomi nella lista dei selezionati: avrebbe seguito il primo corso di formazione politica organizzato dal Pci in Cecoslovacchia. Sull’elenco c’era anche Filippo, mentre gli altri compagni di fuga non avevano superato la selezione. E in quel momento tutti, ma proprio tutti, pensavano che sarebbero andati a scuola di rivoluzione.

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«Noi siamo andati là perché in Italia stava per venire la rivoluzione e là ci preparavano per rientrare nel momento giusto […]. Pensavamo che era così, pensavamo che ci avrebbero preparati per entrare a difendere la rivoluzione, non so. Io… mica solo io, anche gli altri pensavano come me!». Perché mandarli in Cecoslovacchia, quando potevano benissimo nascondersi in montagna per qualche tempo? Se il partito aveva deciso così, significava che aveva un piano e loro, i fuoriusciti, ne erano i coprotagonisti. Avevano dato prova del loro valore, della loro decisione e della loro disciplina durante i giorni dell’attentato a Togliatti; la rivoluzione era solo rimandata. Al momento giusto, forti della loro preparazione militare e politica cesellata alla scuola del socialismo reale, sarebbero tornati in Italia per fare la loro parte. Come durante la Resistenza. Questo pensavano Enrico Grassi, Filippo Rossi e gli altri 58 studenti, dopo la notizia della loro selezione. Questo pensa ancora oggi Otello mentre ci racconta dei primi giorni di scuola. «Eravamo convinti» dice, «che ci paracadutavano». La scuola di partito era organizzata in un’antica villa nei pressi di Dobřichovice, un paese di dieci o quindicimila abitanti a una trentina di chilometri a sud di Praga. «Una cittadina come Crespellano», un locus amoenus incastonato nella verde campagna praghese con campi da pallavolo e tavoli da ping pong. Gli studenti abitavano nelle stanze della villa: durante la settimana seguivano i corsi, la domenica mattina andavano col “collettivo” e formavano una “brigata di lavoro”, per aiutare i contadini nei campi oppure i muratori nella costruzione delle fabbriche pianificate in vista del rilancio industriale del paese. Ogni domenica, dopo pranzo, si prendeva il treno e in mezz’ora si arrivava a Praga, si rivedevano gli amici non selezionati per la scuola, si usciva

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con le ragazze cecoslovacche e si andava ballare. Si doveva rientrare a Dobřichovice tassativamente entro mezzanotte e il nostro Grassi ebbe cura di non subire mai un richiamo. 11 febbraio 1950. Il primo giorno di scuola, per lui e i suoi compagni di studio. Otello non ce lo racconta, ma alla cerimonia d’inaugurazione parlò Bedřich Geminder, capo della sezione internazionale del Ksč e uomo più importante della Cecoslovacchia dopo il segretario generale, Rudolf Slánský. Un onore. Al suo fianco, la misteriosa Rohlenová, incaricata specificamente di occuparsi degli emigrati politici italiani. Otello la ricorda come una «brava donna» ma è l’unico, perché nelle testimonianze degli altri studenti è sempre definita arrogante, spocchiosa, spietata. Sorvegliava accuratamente la vita nella scuola e nei collettivi di lavoro, sparsi in tutta la Cecoslovacchia, nei quali erano stati smistati gli italiani che non avevano superato la selezione. Stilava rapporti curandosi di segnalare gli individui le cui «tendenze partigiane», così dicevano allora, erano ancora troppo spiccate. Un modo per definirli politicamente immaturi. Anarcoidi da sorvegliare e rieducare. Era questo il giudizio, per esempio, che Rohlenová aveva dato di Burato o Giulio Paggio, i due membri più in vista della Volante rossa. Ma questo, Enrico Grassi non poteva saperlo. Il direttore della scuola, per il primo anno, fu Domenico Ciufoli. Era stato uno dei fondatori del Pci nel ’21 insieme a Gramsci, Bordiga, Secchia, Terracini. Otello non se lo ricorda, probabilmente perché Ciufoli aveva compiti squisitamente burocratici e non entrava spesso in contatto con gli studenti. Il «direttore di tutti gli italiani là», in uno dei suoi racconti, è invece Elia Setti. A dispetto del nome, sicuramente uno pseudonimo, Setti era un giovane funzionario del partito cecoslovacco, poco più vecchio di lui, che parlava italiano come un madrelingua. Una brava persona, ri-

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pete costantemente Otello, uno che si è dato da fare da subito per accoglierli nel migliore dei modi. Ci credeva, era un vero internazionalista. Continuarono a sentirsi al telefono anche dopo, quando Otello calpestava ormai altre terre e Setti era diventato un fautore della Primavera di Praga, «un uomo di Dubček». Si parlarono nel 1989, alla caduta del muro di Berlino: «Grassi, è passata un’epoca, è finito tutto», ricorda ancora le sue parole. Vorremmo saperne di più, ma Otello lascia cadere. Un vero comunista, un amico. Morto non moltissimi anni fa. Noi teniamo a freno la nostra curiosità. Non avremmo ritrovato Elia Setti in nessun libro, saggio o articolo. Si chiamava Sergio Di Giovanni all’inizio, ma da un certo momento in avanti aveva detto di chiamarsi Giulio Foschi. Era un uomo «molto italiano», ricorda Otello, ormai un anziano sulla settantina. Calvo, con un basco nero in testa come Nenni, ce lo descrive come un professore estremamente bravo ma molto malinconico. Un personaggio interessantissimo, Di Giovanni, dalle scarse informazioni che abbiamo trovato sul suo conto: comunista e filosofo, aveva lasciato l’Italia nel 1923 per sfuggire alle persecuzioni fasciste. Forse si era stabilito in Canada per qualche tempo, ma negli anni Trenta era sicuramente a Mosca, professore alla scuola di partito per la formazione dei quadri italiani in esilio. Aveva sposato una donna russa – «una bella donna» più giovane di lui, ricorda Otello – ed era diventato anch’egli cittadino sovietico. Aveva tradotto il De rerum natura di Lucrezio in russo, presentandolo come la prima opera materialista della storia. In un altro dei racconti di Otello, era lui a dirigere la scuola di Dobřichovice. Si capisce: se Setti era probabilmente il funzionario del Ksč di stanza alla scuola, Di Giovanni/Foschi era di certo il professore più esperto,

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più colto, più eminente e che probabilmente aveva potere decisionale su alcuni aspetti della vita nella villa. Stilava le relazioni di fine anno e proponeva modifiche al programma quando non lo riteneva adatto al livello degli alunni. Sapeva di avere a che fare con dei ragazzi giovani, non li redarguiva quando infrangevano il coprifuoco, la domenica. Li capiva. Ma insisteva sulla vigilanza rivoluzionaria, guai a rivelare il proprio nome a una ragazza conosciuta al bar, guai a parlare troppo apertamente di politica con la gente del posto. E ogni sera controllava che l’acqua dei pozzi attorno alla scuola non fosse stata avvelenata. Otello ricorda altri professori della scuola di partito, anche se dai suoi aneddoti si capisce che non avevano la statura culturale e umana di Foschi, il più amato. Roberto Dotti era tra questi, si rivedevano dopo l’interrogatorio al Paříž. Otello non ricorda altro, se non il fatto che era torinese. Poi c’erano tre toscani, e anche qui la memoria vacilla. Poi c’era un bolognese, Vittorio Gambetti. Con il nome di Libero era stato tra i comandanti durante la Battaglia di Porta Lame, quando i partigiani della 7a Gap avevano messo in fuga i nazifascisti; uno dei maggiori scontri urbani combattuti dalla Resistenza in tutta Europa. Il suo vero cognome era Gombi e Lia conosceva bene suo fratello Bruno, un senatore del Pci. Grazie a questo contatto, un giorno, Enrico Grassi si vide recapitare un pacco. Era proibito riceverne, ma questo era stato portato da un parlamentare comunista quindi andava bene. Lo aprì con curiosità, era enorme. Era la sua bicicletta da corsa rossa. L’aveva comprata nel 1948 con il ricavato dalla vendita di due querce, abbattute nella Bastèrda e portate a Oliveto grazie ai buoi di Alberto Masini. Cosa studiavano, gli allievi della scuola di partito a Dobřichovice? Il programma era basato sui corsi che si te-

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nevano alle Frattocchie, l’Istituto di studi comunisti a Roma per la formazione dei quadri dirigenti. Ovviamente era stato ricalibrato per venire incontro alle richieste del Ksč, che sollecitava l’introduzione della storia del partito e della Cecoslovacchia, ma anche per rispondere alla necessità di imparare la lingua ceca e innalzare il livello medio di preparazione degli studenti. Silvio Bertona, che in Cecoslovacchia si chiamava Secondo Villa, era il professore incaricato di provvedere a questa rimodulazione. Otello non lo ricorda, ma aveva un ruolo fondamentale nella scuola. Partigiano piemontese, insegnante alla scuola delle Frattocchie, non ha lasciato un buon ricordo in altri studenti di Dobřichovice e Otello, più semplicemente, l’ha rimosso dalla propria memoria. Il corso era articolato per aree tematiche diverse e, come da tradizione comunista, la storia aveva una posizione predominante rispetto alle altre discipline: il passato è un serbatoio di lotte cui attingere nel presente per costruire il socialismo del futuro. Storia d’Italia, del movimento operaio italiano e del Pci; storia del movimento operaio internazionale; storia del partito comunista bolscevico dell’Unione sovietica; economia politica; principi di marxismo-leninismo; geografia politica italiana; oltre ovviamente ai corsi di lingua italiana e ceca. Ogni venerdì pomeriggio veniva proposta una conferenza a tema. Ogni giornata iniziava con la lettura collettiva della stampa italiana che, come i libri e gli altri materiali di studio, proveniva da Roma ed era fornita direttamente dal Pci. Poi si passava alle materie appena elencate, esaminate attraverso il doppio binario dello studio collettivo e dello studio individuale. Lo scopo era fornire agli studenti una solida base da cui partire per poi approfondire gli argomenti prediletti. Più che una formazione vera e propria, l’obiettivo del corpo insegnanti era instillare negli alunni più ricettivi un’attitudine allo studio utile a vita, se adegua-

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tamente coltivata: da ribelli con tendenze anarchiche a seri e disciplinati compagni. A Otello piaceva imparare cose nuove e aveva sempre desiderato studiare, per questo amò la scuola di partito. Avevamo dubbi? «[I corsi erano] un’insalatina insomma, perché la gente potesse studiare da sola, era… io avevo capito così… ed è stato così, a me m’ha aiutato molto! […] Era una buona scuola insomma, io lì ho imparato». Foschi incoraggiava le letture individuali e Grassi si impegnava per non deluderlo. Domenica dopo domenica visitò tutte le biblioteche di Praga alla ricerca di libri in italiano. Leggeva tutto ciò che gli capitava a tiro. La Divina commedia, ancora una volta: è la storia di un grande amore. Ma anche vecchi manuali di storia dove, fra le altre cose, aveva trovato la dichiarazione di guerra all’Etiopia del 1935. «Camicie nere della rivoluzione, uomini e donne di tutta Italia, italiani oltre i monti e gli oceani, ascoltate!». E noi ascoltiamo allibiti Otello che recita, imitando la voce di Mussolini, tutto il discorso del 2 ottobre. Con pochissimi errori, come avremmo scoperto una volta tornati a casa. Lo faceva anche nella villa, i compagni lo provocavano. Dai, facci il duce. Lui recitava a mento in su, imitando voce e mimando gesti, e tutti giù a ridere. Così passarono i nove mesi della scuola di partito a Dobřichovice, tra lezioni di comunismo, letture individuali, gite domenicali e “brigate di lavoro”. Un periodo estremamente fecondo per le curiosità culturali di Otello, dal quale sarebbe uscito con un’apertura mentale mai immaginata prima. Nonostante gli assiomi del marxismo-leninismo nella versione stalinista, aveva scoperto un mondo che non avrebbe mai più voluto abbandonare. La sua inclinazione verso la lettura venne amplificata dalla scuola, che lo fornì di nuovi strumenti di comprensione.

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«Ho imparato l’italiano che non lo sapevo, sì… e dopo anche a leggere capivo di più di prima, ’somma… un po’ di cultura l’ho presa, una sfarinatura che mi aiutava a far da solo insomma». Ma la rivoluzione dov’era? Glielo chiediamo di nuovo: non dovevano prepararvi per fare la rivoluzione? «È venuto… Nenni, che era andato a ritirare il premio dei “partigiani della pace”, che lo assegnava Stalin. Un buon partigiano. Poi c’era… c’era Ingrao. E Secchia. […] Ma non han fatto dei gran discorsi rivoluzionari anche lì, però… […] Quando è venuto Secchia noi eravamo già 4-5 mesi che… quella scuola vicino a Praga. E… dopo è cambiato un po’ tutto insomma. Perché nella scuola è successo anche che stavamo… stava… avevano dato una cartella di un discorso di Slánský, e Slánský era il segretario del partito…». Un racconto che abbiamo sentito spesso, nelle ore passate a chiacchierare con lui. Le due scene sono ambientate nella stessa aula della scuola di partito. Nella prima, gli insegnanti distribuiscono una cartellina con i discorsi di Rudolf Slánský, il segretario del Ksč. Nella seconda, pochi giorni dopo, arriva la polizia e requisisce tutto, senza spiegazione. Gli studenti scoprono che Slánský è stato arrestato; più avanti sarebbe stato giustiziato per alto tradimento insieme a Geminder, Rohlenová e altri funzionari del partito cecoslovacco. Il nesso logico di Otello è diretto. Dovevano prepararci per fare la rivoluzione, poi la follia paranoica di Stalin ha preso il sopravvento ed è finito tutto. Era impaurito dalla strada che aveva preso la Jugoslavia e non voleva fomentare nuove rivoluzioni, che avrebbero dato alla luce stati comunisti ma fuori dal suo controllo. Chiaro. Il problema è che,

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altrove, è proprio la morte del dittatore georgiano a far tramontare definitivamente l’ipotesi rivoluzionaria. «Non si poteva, la rivoluzione non si poteva fare, allora hanno pensato di prepararci come quadri. Ma l’intenzione prima, secondo il mio parere, era… era di prepararci militarmente. Secondo me». Poi «Stalin è morto, qualcuno ha cominciato a contestarlo, allora la rivoluzione non si faceva più insomma, e allora han pensato, e han fatto bene, io li ringrazio…». In un altro racconto, è il mancato intervento dell’Urss in Grecia in difesa della rivoluzione. In uno successivo, era già tutto deciso addirittura quando Togliatti, dal letto d’ospedale, fermò l’insurrezione il 14 luglio. E alla fine Otello puntualizza che già dai trattati di Yalta si sapeva che la rivoluzione in Italia era impossibile. Ma non li avevano mandati in Cecoslovacchia per addestrarli a difendere la rivoluzione? Quante volte è tramontata l’ipotesi rivoluzionaria? Quante volte è tramontata per il partito e quante volte per lui? Armi non ne avevano mai viste, in quei nove mesi a Dobřichovice. Non avevano mai fatto nemmeno un’esercitazione militare. Nulla di nulla. A scuola si studiava e basta. Nella narrazione foraggiata dalla Democrazia cristiana prima e dai partiti di destra poi, ma oggi assorbita dalla stampa nazionale travalicando le distinzioni politiche, gli esuli in Cecoslovacchia partecipavano a campi d’addestramento militari. Si tratta della leggenda della “Gladio rossa”, un’organizzazione paramilitare del Pci nata in opposizione a Gladio ma, al contrario di quest’ultima, senza riscontri di alcun tipo nella realtà documentaria. Gladio voleva assicurarsi che l’Italia rimanesse nel campo statunitense non curandosi di utilizzare anche mezzi violenti; “Gladio rossa” avrebbe avuto il compito di portarla nel campo sovietico con

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una bella insurrezione popolare. Secondo alcuni, cui è stato dato credito anche in sede accademica nonostante la mancanza di qualsiasi riscontro, le Brigate rosse sarebbero state addestrate in quegli stessi campi dai fuoriusciti italiani che erano rimasti in Cecoslovacchia. Otello di armi non ne ha mai viste. E possiamo fidarci di lui, perché all’epoca la rivoluzione voleva farla davvero ed era deluso dall’assenza di preparazione militare. Ce lo ripete ancora oggi. L’obiettivo del Pci era diametralmente opposto. Nell’area di influenza sovietica, i partigiani erano osteggiati, quasi un corpo estraneo: Stalin non si fidava, e il fresco esempio del non allineamento di Tito aveva dato conferma ai suoi timori. La Guerra fredda necessitava di ordine e disciplina all’interno dei due campi contrapposti, due caratteristiche non garantite da uno stato guidato da partigiani, per quanto comunisti. Per questo il Ksč, notando l’afflusso di reduci o militanti che avevano nell’esperienza resistenziale il proprio orizzonte di senso, aveva proposto la creazione di una scuola. Per questo Rohlenová aveva censito i fuoriusciti italiani in base alla categoria negativa di tendenza partigiana. E il Pci aveva immediatamente accettato perché era chiaro, e il 14 luglio 1948 stava lì a testimoniarlo, che in Italia non si poteva fare alcuna rivoluzione. Il partito l’aveva accettato e, da quel momento in avanti, aveva lavorato in un’altra direzione. Una miscela di «democrazia progressiva», alleanza fra classe operaia e ceti medi e “obesità elettorale” che più tardi sarebbe passato alla storia come “via italiana al socialismo”. Otello e gli altri rivoluzionari non facevano più parte di questa storia, ma non potevano essere abbandonati: erano pur sempre dei compagni che avevano dimostrato attaccamento alla causa, in molti casi rischiando la pelle in nome dell’idea. I migliori potevano diventare quadri seri e preparati, se educati a dovere; i meno

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dotati potevano almeno apprendere la disciplina necessaria per abbandonare le proprie tendenze e la fascinazione per i metodi illegali sperimentati tra guerra e dopoguerra. A questo serviva la scuola di Dobřichovice, a fornire «à nos camerades partisans la préparation idéologique qu’ils n’ont pas eu le temps d’avoir à la montagne10» come scriveva a Geminder il direttore Ciufoli nel gennaio del 1951. Per lui, un comunista del ’21 che aveva attraversato il fascismo, la guerra, la Resistenza, le tendenze partigiane non erano un difetto in sé ma necessitavano comunque una rimodulazione. «Complessivamente il Collettivo N.1 è un collettivo sano. Composto di ex-partigiani in maggioranza operai o comunque proletari. Il forte spirito partigiano che essi hanno ancora non è elemento negativo. Per molti di loro la lotta partigiana racchiude tutta o quasi tutta l’esperienza concreta e viva del loro lavoro e della loro lotta di rivoluzionari. La vita del collettivo irrobustirà la loro coscienza di classe e di Partito e li abituerà a vedere e a esaminare i problemi politici e il lavoro di Partito in un modo critico e autocritico». Questo scriveva il direttore alla fine del primo anno di corso, quello frequentato da Enrico Grassi. Ma i vertici di Pci, Ksč e Pcus erano di ben altro avviso. Le tendenze partigiane andavano eradicate, e la penna morbida di Ciufoli stride con le valutazioni che Rohlenová inviava allo stesso Geminder nei medesimi giorni. Serve disciplina per affrontare la Guerra fredda, non spirito partigiano. Otello dice che se ne accorge presto, all’arresto di Slánský. È il momento in cui crollano le sue certezze, quando si accorge che il socialismo reale non è quello che aveva im10

«Ai nostri compagni partigiani la preparazione ideologica che non hanno avuto il tempo di ricevere in montagna». La grafia corretta, in francese, è camarades; il refuso è presente nell’originale.

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maginato. Quando si accorge che il comunismo non può funzionare. Già, ma quando viene arrestato Slánský? Nella notte tra il 23 e il 24 novembre 1951, verso l’una, la polizia fece irruzione nell’abitazione del segretario generale del Ksč, Rudolf Slánský. La stagione dei processi politici era iniziata oltre tre anni prima quando, con un colpo di mano, il partito comunista, già al potere alla guida di una coalizione, aveva dichiarato la Cecoslovacchia una democrazia popolare. Prima contro gli oppositori, poi contro il clero. L’ultimo stadio era interno al partito stesso. I vertici della branca slovacca erano stati epurati l’anno precedente, dentro la cornice staliniana della lotta al “nazionalismo borghese”: erano accusati di anteporre gli interessi patriottici alla causa socialista. Ciò che veniva imputato a Tito: questi processi dovevano impedire, nelle idee di Stalin, il ripetersi dell’insubordinazione di cui si era macchiato il maresciallo jugoslavo. Slánský veniva invece accusato di alto tradimento, di essere una spia al servizio degli Usa. Come Lucretiu Patanescu in Romania, Traicho Kostov in Bulgaria, László Rajk in Ungheria. Le prove erano state fabbricate a tavolino, forse direttamente da Mosca o forse da esuli cechi anticomunisti; in questo secondo caso, Stalin era stato ben contento di abboccare all’amo per ribadire la propria autorità sulla Cecoslovacchia, chiave di volta strategicamente imprescindibile tra Europa orientale e occidentale. Slánský era infatti accusato di aver sabotato l’economia nazionale per portare lo stato nel campo capitalista e, una volta smascherato, di aver tentato la fuga. Era anche accusato, in un contesto internazionale nel quale il neonato Stato d’Israele aveva definitivamente abbracciato l’Occidente, di essere ebreo. Gli interrogatori e le torture si protrassero per un anno. Il processo fu volutamente spettacolare, la purga staliniana

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iconica degli anni Cinquanta. Per mesi il Rudé právo, il giornale ufficiale del partito, non parlò d’altro, così come la radio nazionale. Slánský, Geminder, Rohlenová e altri dirigenti confessarono le proprie colpe, confermando tutte le accuse. Vennero impiccati ai primi di dicembre del ’52. Quando arrestarono Slánský, Enrico Grassi era ormai lontano da Dobřichovice e dalla scuola. Lavorava alla Somet, nella cittadina industriale di Teplice. Nel luglio precedente, come tutti i lavoratori cecoslovacchi, aveva ricevuto dal direttore del collettivo della fabbrica il volume edito in occasione del cinquantesimo compleanno del segretario generale, contenenti tutti i suoi discorsi. Eccola, la cartellina. «Si sapeva, insomma qualche cosa la storia lo scrive eh, anche con Slánský, il segretario del partito, proprio… una brava persona, lì siamo rimasti… di ghiaccio, perché stavamo proprio, stavamo proprio… avevo una cartella che stavamo studiando, […] dovevamo fare un commento su sta cosa, e ce l’han portato via da sotto al tavolo il giorno dopo!». L’arresto di Slánský aveva colpito molti comunisti in giro per il mondo e molti compagni di esilio di Otello, come ricorda nel suo memoriale Giulio Paggio, il tenente Alvaro della Volante rossa che in quel momento si chiamava Antonio Boffi e lavorava a Ostrava. Ne parlavano, gli esuli italiani in Cecoslovacchia. Alcuni avevano paura di fare la stessa fine, altri sposavano la linea ufficiale, la maggioranza non sapeva più a cosa credere. Tornati in Italia, scrive Philip Cooke, tutti furono interrogati dai dirigenti delle proprie federazioni per assicurarsi che nessuno raccontasse in giro i propri dubbi su quel processo. «Purtroppo noi eravamo giovani, eravamo entusiasti» e la vicenda non ci aveva resi meno comunisti di prima, sembra dirci Otello; l’avremmo capito solo in seguito.

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Ma nella sua memoria, l’episodio delle dispense consegnate e poi subito sequestrate ha anche un altro valore. Riemerge continuamente: quando parliamo degli anarchici fatti uccidere da Stalin in Spagna nel 1936-39, quando parliamo dei malfunzionamenti dell’economia cecoslovacca, quando parliamo della spartizione della Polonia durante la guerra e del patto tra Urss e Germania nazista. Quando parliamo di Nikita Chruščëv che denuncia al mondo i crimini di Stalin, quando parliamo dell’89 e del muro di Berlino che fa finire un’epoca, come gli disse Setti al telefono. Nella sua memoria, Slánský racchiude tutta la delusione nei confronti del comunismo, un unico potentissimo momento decisivo e rivelatore. E, forse, Otello lega erroneamente l’episodio ai giorni della scuola di Dobřichovice perché è lì che ha avuto la delusione maggiore, quella ancora oggi inconfessabile e facilmente equivocabile. Non i crimini di Stalin, non i malfunzionamenti dell’economia comunista. Nella scuola di Dobřichovice, Otello ha cominciato a capire che la rivoluzione non sarebbe mai venuta.

Teplice, 1951 Era giunto infine il momento delle separazioni. I nove mesi di scuola terminarono con una selezione: i migliori vennero invitati a prendere parte a un nuovo programma radiofonico di controinformazione trasmesso clandestinamente da Praga e captato su frequenze media dalla penisola, Oggi in Italia. Enrico Grassi e Filippo Rossi non erano nell’elenco, stavolta. Non avevano avuto i voti, ci racconta Otello, e non nega che gli sarebbe piaciuto entrare in quel mondo. La radio, il giornalismo, le discussioni. Imparare tante cose nuove. Avevamo dubbi?

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Chi non rientrava nel ristretto gruppo di futuri giornalisti radiofonici veniva messo davanti a una scelta: continuare la formazione politica andando a dirigere un collettivo da qualche parte del paese o imparare un mestiere lavorando in fabbrica «perché ci vuole anche quelli, nel partito, che sanno anche insegnare a lavorare». Quasi tutti vollero continuare il percorso di formazione politica. Filippo venne inviato a Kladno, una cittadina mineraria a ovest di Praga, alla guida di una ventina di minatori. D’altra parte era preparato e bravo a parlare, Filippo. «È stato responsabile di un collettivo che saran stati una ventina e alla domenica venivano a Praga e ci trovavamo tutti insieme. Lui era il responsabile di quei venti lì insomma. Politicamente era preparato, insomma… di parlare alla gente era migliore di me… io non, di parlare in pubblico non son capace». Questa l’abbiamo già sentita. Otello aveva usato parole simili per parlarci del suo rapporto con la vita di partito nel dopoguerra, mentre era il responsabile per le armi della zona di Monteveglio. «Andavo alle riunioni, ero iscritto in una cellula […] ma io non ho mai avuto incarichi, come dico… non ero capace. […] capivo le cose, ma… di raccontare… insomma… e poi mi piaceva anche poco. Perché… parlavano di niente, alla fine!». Otello ce lo ripete continuamente: gli piaceva la politica, ma una non meglio precisata difficoltà nell’eloquio e la vacuità delle riunioni di partito lo avevano allontanato, già prima dell’esilio, dalla vita di sezione, dalla distribuzione della stampa, dalla propaganda porta a porta. Aveva anche rifiutato di partecipare alla scuola di partito a Bologna, nonostante gliel’avessero chiesto. Tutto qui? La decisione di condurre una vita da semplice militante, rifiutando a priori

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la possibilità di emergere come quadro o dirigente locale, poteva davvero derivare semplicemente da questa presunta mancanza di capacità oratorie? Era solo senso di inferiorità? E poi, cosa vuol dire quel suo «di parlare in pubblico non son capace»? Parlare di cosa? Fatto sta che, alla fine del 1950, quasi tutti scelsero di continuare il percorso di formazione politica, mentre Enrico Grassi decise di andare a imparare un mestiere. La guerra aveva lasciato cumuli di macerie e la situazione economica era stata peggiorata dalle errate valutazioni del primo piano quinquennale, che proprio all’inizio del 1951 avrebbe visto raddoppiare a parole i propri obiettivi, trasformati ormai in chimere irraggiungibili. Ma la Cecoslovacchia era un paese estremamente avanzato dal punto di vista industriale. Grandi fabbriche siderurgiche affiancate da una miriade di piccole e medie industrie meccaniche, un tessuto produttivo articolato e diffuso tra le maggiori città e gli altri centri del paese. Lo stupore e la fascinazione provati all’epoca trapelano ancora oggi dalle parole di Otello, che non aveva mai visto nulla di simile: l’Italia che conosceva era incomparabilmente meno attrezzata rispetto alla Cecoslovacchia, sia dal punto di vista industriale che dal punto di vista sociale. Andare a imparare un mestiere significava, prima di tutto, scegliere una specializzazione. I più erano interessati al ramo siderurgico e vennero inviati nelle grandi industrie di Ostrava e Brno, nell’est del paese. Enrico Grassi, insieme a pochi altri, scelse meccanica. Si ricordava del piccolo tornio del fabbro di Pragatto, quando ancora aiutava il padre al Casetto, e questo fu determinante per la sua decisione. La destinazione, per lui, sarebbe stata la cittadina di Teplice, un centinaio di chilometri a nord-ovest di Praga. Una

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delle perle dei Sudeti, il primo territorio su cui Hitler indirizzò le proprie brame. A parole, per difendere la minoranza tedesca lì presente. Di fatto, per annettere una delle aree più densamente industrializzate d’Europa. Entrò così a far parte, tra la fine del 1950 e l’inizio del 1951, del collettivo della fabbrica Somet. Esiste ancora oggi, si dedica principalmente alla produzione di micrometri, calibri e altri strumenti di misurazione estremamente precisi. Un’eccellenza dell’industria meccanica di precisione, ora come allora. Enrico Grassi era inquadrato coi giovani apprendisti, molti dei quali cecoslovacchi suoi coetanei, tre o quattro esuli italiani come lui, qualche spagnolo e qualche jugoslavo. Si imparava a lavorare e, la sera, si seguiva qualche blanda lezione di politica, nulla a che vedere con la scuola di partito. Tutto rigorosamente in ceco. Tornio e comunismo, la formazione standard per i ragazzi cecoslovacchi. «Si torniva sopra tutte le macchine, si fresava, c’era quei torni a rivolver, […] anticipavano un po’ quelli a controllo numerico d’adesso insomma, facevano diverse operazioni, erano i più avanzati. Lavoravamo su quelle macchine lì. Perché la Cecoslovacchia era un paese molto avanzato prima della guerra». Otello ha ricevuto una formazione tecnica ottima e ne è consapevole. Difficilmente avrebbe potuto raggiungerla nella Bologna degli anni Quaranta. Sicuramente non avrebbe fatto pratica con un tornio a revolver. Imparò a scomporre il numero dei denti degli ingranaggi per modificare il passo delle viti da filettare. Operazioni complesse e oscure che, ripetute quotidianamente, furono introiettate a tal punto da divenire banali. Imparava in fretta e amava lavorare, Enrico Grassi. Proprio come suo padre Francesco.

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Teplice era una splendida cittadina termale riconvertita a centro industriale. Dopo la guerra era stata espulsa la popolazione di minoranza tedesca, le cui proprietà immobiliari, spesso lussuose, erano state requisite dallo Stato. Gli appartamenti erano stati assegnati a chi ne aveva bisogno ma i grandi edifici giacevano abbandonati, pronti per accogliere i nuovi lavoratori dell’industria. Enrico Grassi, per i primi mesi, abitava in un hotel da duecento camere con annesso ristorante. Mobilio, piatti, posate, lenzuola: tutto incluso. Un hotel intero tutto per lui e per Favento, un esule con cui aveva stretto amicizia. Poi venne assegnata loro una casa vera e propria, sempre insieme. Favento era un triestino alto, bello, forte, un gran lavoratore. Anche lui era incriminato per fatti di sangue successivi alla Liberazione. Ma sparì, da un giorno all’altro, senza dire una parola, così come i colleghi jugoslavi. Otello teme, ancora oggi, che ciò fosse dovuto ai processi contro i seguaci di Tito, reali o presunti che fossero, e che Favento ci fosse finito in mezzo. Non lo sa, e noi non possiamo saperlo. Quel che è certo è che una cappa grigia di repressione staliniana stava scendendo su tutta la Cecoslovacchia, e gli esuli politici italiani non ne erano affatto esenti. Nei quasi due anni passati a Teplice, Enrico Grassi imparò un lavoro e divenne un operaio specializzato abilissimo con i torni di ultima generazione. Un vero udernik, un lavoratore modello, uno stacanovista in salsa cecoslovacca, secondo a nessuno in termini di produttività e dedizione. Ma cominciò anche a notare che qualcosa non andava. «[La Somet] è una ditta che era buona prima, c’era dei capannoni pieni di macchine ferme, c’era solo un pezzettino che lavoravano… e ’ste macchine eran sempre là così… Poi non lavoravano! Come fanno a andare avanti? Eh beh, bisogna produrre! […] però… non c’era la volontà di lavorare,

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tra la gente. Non si davano da fare, ’somma… non erano contenti del clima, di chi lo comandava. Non avevano interesse». Questo infastidisce profondamente Otello, ancora oggi. Lo capiamo, perché abbiamo imparato a conoscere la sua dedizione al lavoro. Gli operai cecoslovacchi non lavoravano: avevano un posto, ci ripete sempre. Come i colleghi di suo padre a cui i fascisti avevano garantito una sistemazione, finiti i lavori della Direttissima. Chi era andato in ufficio postale, chi all’officina del gas, chi in altri impieghi pubblici. Non era solo questo, però. Il razionamento alimentare regolato dalle tessere, le file fuori dai forni e i litigi per l’ultimo pezzo di pane, i negozi vuoti. Esistevano già da prima, ma solo allora Enrico Grassi, fuori dalla bolla della scuola di partito, cominciò a notarli. Ogni domenica si incontrava a Praga coi vecchi amici e iniziò a parlarne. Un brusio che li accomunava tutti, incluso Filippo. Anche quelli di Oggi in Italia. Ma Otello non conosceva bene il loro dirigente, Aldo Tognotti, che pure era stato suo compagno di scuola a Dobřichovice. Il suo vero nome era Aroldo Tolomelli, veniva dalla Bassa bolognese ed era espatriato in seguito all’apertura di processo a suo carico per un fatto di sangue accaduto dopo l’attentato a Togliatti. E Otello ci parla poco anche di Franco Moretti, al secolo Francesco Moranino, il comandante Gemisto della lotta partigiana nel biellese. Eletto deputato per il Pci ma accusato di un’uccisione a guerra ancora in corso, arrivò in Cecoslovacchia nel 1951, dopo che il Parlamento negò per la prima volta l’immunità a un suo membro. Lì prese il posto di Ciufoli come direttore della comunità di fuoriusciti italiani. Otello li ricorda in quanto ruoli, più che persone. Era invece diventato buon amico di Carlo Ravizza, un altro gior-

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nalista di Oggi in Italia conosciuto durante la scuola di partito. “Nome di qua” Carlo Pecorari, di Brescia, ma questo possiamo dirlo noi ora, perché a Otello non aveva mai fatto menzione del proprio nome reale; e d’altronde Enrico Grassi aveva fatto lo stesso. La vigilanza rivoluzionaria non permetteva eccezioni, nemmeno in presenza di una salda amicizia. Veniva spesso a fargli visita a Teplice, dove aveva trovato anche una fidanzata, e gli raccontava della radio, di ciò che vedeva a Praga. I litigi interni alla comunità italiana, spesso per futili motivi; i turbamenti causati dall’arresto di Slánský; l’aria sempre più pesante che si respirava in città, la crisi economica che mordeva, la realtà che non rispettava le aspettative. Uno studente della scuola di partito si era buttato giù da una finestra, durante una lezione. Si era suicidato. Per motivi personali? Sentiva la mancanza di casa? Oppure c’entrava Slánský in prigione, c’entravano i sogni di socialismo sgretolati, le code per il pane, le macerie nelle strade, la repressione staliniana vissuta giorno per giorno? «Non c’era mica tanto da farsi tante illusioni in una situazione del genere… sì, era la gran foga che avevamo sennò… uno che ce n’aveva un po’ meno, si spegneva subito il fuoco…». Ride, Otello. E sembra dirci che, nonostante tutto, lui all’epoca ce l’aveva ancora, quel fuoco. E non era il solo.

Ostrava, seconda metà del 1952 A Teplice stava bene, Enrico Grassi. Al contrario degli altri italiani, che vi passavano un periodo di apprendistato di qualche mese e poi si trasferivano altrove, lui era rimasto quasi due anni. Si era fatto degli amici anche tra i cecoslovacchi, nonostante le direttive di Moranino sconsigliassero

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caldamente di prendere contatto con i locali. Uno si chiamava Josef Masopust, aveva quattro anni meno di lui e, nonostante lavorasse alla Somet, era una promessa del calcio. Bravo tornitore in settimana, eccelso centrocampista la domenica. Enrico non si perdeva una sua partita, quando la squadra locale giocava i match casalinghi. Nel 1962 Masopust sarebbe diventato il primo cecoslovacco della storia a vincere il Pallone d’Oro, il massimo riconoscimento europeo per un calciatore. Se stava così bene, se gli piacevano l’ambiente e il lavoro, perché nella seconda metà del 1952 lo ritroviamo a Ostrava, dall’altra parte del paese, operaio in un’industria pesante? Il racconto è sfilacciato, tanti dubbi, qualche ipotesi. Quella degli esuli italiani in Cecoslovacchia era una comunità monastica chiusa in se stessa, ha scritto Cooke, impregnata di invidie, antagonismi, tradimenti. Enrico Grassi frequentava spesso, a Teplice, la casa di Ausilio Minarini e della moglie Clara, due italiani che non erano fuggiti da nessuna condanna. Moranino diffidava dei contatti tra esuli politici e lavoratori comuni, temeva fughe di notizie e infiltrazioni. Forse a qualcuno non andava a genio questa frequentazione e lo aveva fatto presente al direttore. O forse qualcuno, all’interno della comunità degli esuli, aveva notato la simpatia crescente tra Clara e Otello e l’aveva ritenuta indecorosa, foriera di sviluppi spiacevoli. Quel che è certo è che, nella seconda metà del 1952, Moranino in persona convocò Enrico Grassi e gli comunicò che doveva fare i bagagli per trasferirsi a Ostrava, il cuore d’acciaio del paese. Otello non ricorda molto dei quattro o cinque mesi passati a Ostrava, sembra che siano rimasti cristallizzati nella sua memoria come un semplice limbo tra un prima e un dopo, tra la formazione da operaio specializzato e l’ultima scuola a Litoměřice. Avrà sicuramente lavorato in una delle

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tante industrie siderurgiche della città, ma non è sicuro. Ricorda però molto bene un particolare: qui ha incontrato di nuovo quelli di Lambrate. «Quelli lì erano quelli della Volante rossa, di Milano! Oh sì… erano bravi, brave persone ma… avevano ammazzato molti, avevano ammazzato molti fascisti» dice ridendo. Giulio Paggio, Natale Burato e Paolo Finardi erano tre ex partigiani milanesi. Il primo, addirittura, è più conosciuto con il nome di battaglia: tenente Alvaro. Non avevano consegnato tutte le armi, il giorno della Liberazione, proprio come Otello e i suoi compagni. Ma al contrario di questi, loro avevano continuato a usarle. Innanzitutto per difendersi contro un sottobosco di gruppi neofascisti e monarchici che si riorganizzavano e tentavano la via della destabilizzazione, in vista di un colpo di Stato. Squadre d’azione Mussolini, Reparti antitotalitari antimarxisti monarchici, Armata italiana di liberazione. Rami clandestini che si legarono chi alla corona, chi a movimenti e partiti legali, chi ai più grandi gruppi industriali. Mentre l’epurazione diventava una gigantesca presa in giro. Tanti omicidi di ex fascisti sono stati attribuiti alla Volante rossa, nel corso degli anni, ma solo tre sono stati giudicati tali in sede processuale, tra il 1947 e il 1949. Proprio allora il Pci decise di ricondurre questo gruppo alla linea del “partito nuovo”, assorbendolo come proprio servizio d’ordine e concedendo la tessera ai suoi membri. Ma, dopo mesi di inattività, due omicidi costarono il mandato di cattura per i tre più in vista. Anche per loro, il partito aprì la strada della Cecoslovacchia. Si erano già conosciuti a Dobřichovice e ora, a Ostrava, Enrico Grassi ritrovava Antonio Boffi e Luigi Colombo, “i nomi di là” di Paggio e Finardi. Lavoravano anche loro nell’industria siderurgica. Otello passò a Ostrava gli ultimi, decisivi mesi del processo contro Rudolf Slánský.

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«Ne avete parlato di Slánský? Di quei fatti là, ne parlavate con loro?», andiamo diretti al punto. «Ah… quelli… non lo so come dire… erano estremisti! […] Brava gente eh! Bravi compagni, che io ero amichissimo, però… erano troppo convinti… non so come dire». E lui, Enrico Grassi, era ancora così convinto? «Non è che io… sì, avevo dei dubbi, come l’hanno… forse li hanno avuti poi tutti un po’, qualcuno un po’ meno. La Volante rossa. Quelli non ne avevano nessuno insomma… ’somma d’andar dritto fino…». Bravi compagni un po’ estremisti, che accettavano sempre la linea senza fiatare. Otello ricorda soprattutto Paggio: scriveva continuamente, era molto intelligente. Era di umili origini ma aveva studiato indefessamente in Cecoslovacchia, proprio come lui. Otello non ne condivideva più totalmente le opinioni, aveva cominciato a notare i malfunzionamenti del sistema comunista in economia e la scarsa lena dei lavoratori cecoslovacchi, sintomo forse di un larvato dissenso. Soprattutto, non riusciva ad accettare che Slánský fosse considerato un traditore, da un giorno all’altro, al contrario di Paggio. Ma dalle sue parole trapela, ancora oggi, quell’ammirazione fuori dal comune che lo avrebbe spinto a tentare di incontrare di nuovo, a ogni ritorno in Cecoslovacchia, proprio il tenente Alvaro.

Litoměřice, 1953 Ancora a scuola. Dove? Quando? I contorni sono sempre più indefiniti, i più incerti delle tante ore passate con Otello. Al punto che, inizialmente, la narrazione passa senza soluzione di continuità da Ostrava alla “brigata di lavoro” nei campi durante la quale fu informato della sua assoluzione,

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della possibilità di tornare in Italia. Eppure, aprendo le valigie riposte in un angolo del salotto di Otello, i quaderni di appunti che sfogliamo insieme parlano di un corso di formazione tecnica e una scuola di lingua. Non un periodo di solo lavoro. Non può essere Ostrava. L’ultimo appunto porta la data del 14 červenec 1953. Luglio. E non è esattamente l’appunto di una lezione, ma la brutta copia di una lettera in ceco. È solo per caso che troviamo un filo da seguire per districarci nell’ultimo anno di esilio, e anche Otello sembra sorpreso da questo scavo in ricordi che credeva di aver perso. Ci stiamo proprio complimentando con lui per la memoria ferrea, quando salta fuori per la prima volta il nome di Litoměřice. Stiamo parlando di via Fiume 15, di Opletalova 18, dei nomi di persona che non ha scritto da nessuna parte ma che, vigilanza rivoluzionaria docet, sono rimasti impressi nella sua mente. «Ah beh c’ho un indirizzo, che c’ho scritto due-tre volte… e dopo, ch’ero già in Svizzera, sìsì. Eh… Greta Smržová, Koněvova devatenáct, Litoměřice. Konev era un maresciallo, un maresciallo sovietico. La via di Konev. Devatenáct è diciannove». Sempre siano lodate le chiacchiere apparentemente inutili durante le interviste. Le domande prefabbricate non ci avrebbero mai condotti a questo punto. Ora abbiamo un appiglio. Non sappiamo perché, ma il soggiorno lavorativo di Enrico Grassi a Ostrava durò solo pochi mesi. Poi venne accettato in una nuova scuola. Aveva fatto domanda lui? Era stato indicato da Moranino dopo il trasferimento obbligato? Fatto che sta che, probabilmente alla fine del 1952, entrò a far parte di una scuola nella cittadina di Litoměřice, non

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lontana da Teplice e a una settantina di chilometri a nordovest di Praga. I quaderni suggeriscono che seguisse lezioni molto specifiche, quasi un’introduzione all’ingegneria meccanica. Forse, come per Paolo Finardi, si trattava di un corso preparatorio per iscriversi all’università. «Lavoro tecnico! E dopo avremmo proseguito… io se stavo, se non sceglievo di venire a casa, sarei andato in Russia» per completare la preparazione, Otello sembra confermare la nostra ipotesi. Un operaio specializzato con una preparazione da tecnico. Non avrebbe mai potuto avere una formazione di questo livello, se fosse rimasto a Oliveto. Figuriamoci l’università. Otello lo sa e lo ripete sempre. Chissà come si erano conosciuti. Di certo, erano diventati ottimi amici se Enrico Grassi, in barba alle direttive di Moranino, aveva conosciuto il padre di Greta. Avevano passato diverse serate a parlare di politica. Non conosciamo le opinioni di Greta ma Otello ricorda benissimo quelle di suo padre, un medico che parlava uno splendido italiano ed era ferocemente anticomunista. «Lui sapeva che io ero così [comunista]. Lui cercava di convincermi che non era, non era quello che pensavo io… e purtroppo aveva ragione. Io-io mi ribellavo, ma… ma portava degli esempi che… quello che vedevo là…». La fiacca sul posto di lavoro, le strade dissestate, i negozi vuoti, le file per il pane, l’impiccagione di Slánský che era avvenuta solo pochi mesi prima. Otello aveva già visto tutto, aveva scambiato opinioni con gli altri italiani e cominciavano a farsi strada in lui i primi confusi dubbi sul socialismo reale. Ma le impressioni eterodosse che aveva coltivato erano rimaste giustapposte, prive di un quadro d’insieme. Il padre di Greta fu il primo a presentargli una vi-

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sione argomentata, in quegli anni. Una critica serrata del comunismo, che economicamente non poteva funzionare, ma soprattutto dei russi, avidi predatori che concepivano, da secoli, l’Est Europa come il giardino di casa propria. Eccolo, il nazionalismo borghese contro cui Stalin lanciava i propri strali: nella visione del dottor Smržov, Slánský aveva peccato di lesa maestà, criticando la conduzione sovietica della guerra. Aveva osato sostenere che l’Armata rossa, rallentando le operazioni a maggio del 1945, aveva permesso ai nazisti di uccidere tutti i partigiani cechi per assicurarsi una Cecoslovacchia docile sotto la propria influenza. Anche se non è così, questa era la sua interpretazione. E, ancora oggi, è così che Otello ogni volta ci racconta di Slánský. Quel fatto ha lasciato un segno profondo nella sua vita, ma probabilmente Otello ne ha avuto consapevolezza solo molti anni dopo, ripensando alle accese conversazioni col padre di Greta e riconsiderandole alla luce degli eventi successivi: Chruščëv, l’Ungheria, la Primavera di Praga, la caduta del muro. A Litoměřice, nei primi mesi del 1953, il medico era semplicemente «un avversario». Otello ci aveva parlato della sua delusione nei confronti del socialismo reale come qualcosa che si esaurisce già nei primi mesi di esilio in Cecoslovacchia. La sua memoria, ormai, non ha conservato le tappe ma solo il punto di arrivo. In verità è probabile che solo nei primi mesi del 1953, e dopo le lezioni impartite dal medico anticomunista, Otello abbia cominciato a nutrire seri dubbi su ciò che aveva vissuto e visto negli anni precedenti. Ce lo confermano le sue parole: il padre di Greta «aveva ragione», ci dice ora, ma come Enrico Grassi, all’epoca, «io mi ribellavo». E si ribella anche adesso. Perché subito dopo ci parla di ideali traditi, non di ideali sbagliati. Di noi e di loro, di militanti che ci credevano e di dirigenti che non erano veri comunisti. «Io penso che se fosse

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stata una cosa proprio come credavamo noi, fosse riuscita! Io penso! Che fosse riuscita! Perché ce n’era tanti ormai… oh, la Cina, la Russia, e-e-e poi ce n’era ancora eh! […] il fatto è che hanno rovinato lì… solo con una cosa sbagliata ’somma, non era vero! Eh! Perché, anche Stalin è stato lui la rovina, perché se invece, se invece di Stalin forse, se avesse vinto Trockij, forse andava diversamente». Stalin era il vero traditore, ma anche questo è un giudizio maturato nel tempo. L’indizio che ci porta a questa conclusione è il modo in cui il 5 marzo del 1953, giorno della sua morte, si sia profondamente incistato nella memoria di Otello, nei più minimi dettagli. «Mi ricordo che eravamo a fare una brigata di lavoro in un’impresa di contadini. E era morta la vacca, dovevano dare il vitello a un’altra, che io c’ho aiutato. Sta signora piangeva come se fosse morto suo figlio. Ce n’era anche in Cecoslovacchia, ce n’era anche che ci credeva ma la maggioranza non ci credevano». E poi aggiunge: «Specialmente la gente istruita». E ora sappiamo di chi sta parlando. Fu durante un’altra “brigata di lavoro” che arrivò la notizia. Lia aveva lavorato con discrezione e senza mai prendersi un ringraziamento, aveva tenuto i contatti con gli avvocati di Solidarietà democratica, l’ufficio legale dei partigiani sotto processo. «Andava in tutti i posti lei, era una donna che non aveva paura» e alla fine l’aveva spuntata: il giudice istruttore aveva stabilito l’impossibilità di aprire il processo a causa della mancanza di riscontri oggettivi. Mancavano le prove della loro colpevolezza e potevano pertanto tornare in Italia. Enrico Grassi e Filippo Rossi erano insieme. Il secondo era stato trasferito da Kladno ed era a capo di un collettivo

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a Chomutov, vicino a Litoměřice: per questo stavano lavorando insieme nella campagna circostante. Quando? Sicuramente diversi mesi dopo l’effettiva sentenza, emessa il 20 marzo ’53, perché l’ultimo appunto sui quaderni di Otello è di metà luglio. E lui è arrivato a Bologna tra settembre e ottobre. Forse la notizia aveva impiegato molto tempo a raggiungere Praga e, al contempo, forse Moranino aveva ritenuto sensato non organizzare vari viaggi di ritorno ma aspettare che si creasse un cospicuo gruppo di esuli, assolti dalla giustizia italiana, per concentrare le forze in un unico momento. Non era un ritorno obbligato, comunque: «Se non sceglievo di venire a casa, sarei andato in Russia». Enrico Grassi non esitò un solo secondo. «Io voglio andare a casa. Mé a vói andèr a vàdder mî pèdar e mî mèdar, la mia ragazza», ride Otello, e intanto guarda Giovanna che è entrata nel salotto con il caffè per tutti. Aveva aspettato quel momento durante i lunghi anni passati in Cecoslovacchia e non aveva mai avuto dubbi: Praga era bellissima, il lavoro nell’industria meccanica gli piaceva e avrebbe portato per sempre con sé la formazione culturale e tecnica che aveva conquistato in esilio. Aveva visto, fatto, letto cose che uno come lui non poteva nemmeno immaginare. Ma l’obiettivo era sempre rimasto uno solo: tornare a casa. Per questo rimase di sasso quando Filippo disse che non sarebbe venuto via con lui. Almeno, non nell’immediato. Aveva cominciato a studiare veterinaria all’università. In Italia non avrebbe mai potuto proseguire i suoi studi, perché i costi erano troppo elevati per un figlio di braccianti ed erano ancora lontani i tempi in cui anche l’operaio vuole il figlio dottore. Erano già stati separati dopo Dobřichovice, ma ogni domenica si trovavano insieme a Praga. Insieme come il 14 lu-

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glio 1948 alla sala Polga con le armi in pugno, come nei balli al bettolino11 dopo la Liberazione, come nelle tombe vuote in attesa del morto durante la guerra, come alla Bastèrda per gioco prima, per nascondersi dai repubblichini poi. Insieme, sempre. Filippo sarebbe tornato a Bologna un anno dopo, quando ormai Otello calpestava altre terre. Forse la loro amicizia cominciò a sfaldarsi quel giorno, durante quella “brigata di lavoro” nei campi di Litoměřice. Come un rivolo d’acqua che erode rocce millenarie goccia a goccia, senza far rumore.

Pontebba, settembre 1953 Aveva pochi giorni di tempo per prepararsi al viaggio, Igino Favaro era stato chiaro. Il suo “nome di qua” era Ferdinando Zampieri ed era il vice di Moranino, incaricato di organizzare la loro partenza. Otello preparò due valigie, quelle che ora sono davanti a noi in salotto. Vi mise all’interno tutto ciò che pensava potesse tornargli utile in futuro e ciò a cui era più legato: i quaderni di appunti di Litoměřice, qualche libro di economia, alcuni romanzi che aveva amato, un quadretto con la fotografia di Ercoli. Tutto quello che ci aveva mostrato fin dal nostro primo incontro, fossilizzato nelle due valigie dimenticate per decenni nella cantina di Lia. Aveva impacchettato anche la sua bicicletta rossa e il suo diario. Un diario? Avevi un diario in Cecoslovacchia? «Sono arrabbiato da matto eh. Era una cosa eccezionale, perché ho sempre avuto intenzione… di scrivere quello

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Piccola locanda.

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che… dov’ero stato… invece… è andato così», perso per sempre. Non era insieme alle due valigie, quando le ha ritrovate. Maledizione. Chissà cosa aveva scritto, Enrico Grassi, su quel diario. Chissà come avrebbe reagito Otello Palmieri a leggerlo oggi. Con valigie, diario e bicicletta tornò a Teplice da Ausilio e Clara. Venivano da Loiano, un paese dell’Appennino bolognese, e di tanto in tanto tornavano a casa per visitare i parenti. Essendo due emigrati “comuni” avrebbero potuto passare la frontiera senza problemi, anche con questo carico supplementare. E così fecero, lasciando le valigie in vicolo Bolognetti dove rimasero, chiuse e dimenticate per decenni, fino alla sua morte. Da Teplice tornò immediatamente a Praga. Non poté salutare nessuno, proprio come quattro anni prima quando aveva lasciato Oliveto. Forse la lettera scritta nell’ultima pagina del suo quaderno era per Greta e suo padre, chissà. Forse si preoccuparono, quando capirono che era sparito da un giorno all’altro senza dire una parola. Forse lo cercarono. Avrebbe scritto loro molto tempo dopo, per tentare di spiegare. Ma la lettera tornò indietro, perché ormai avevano cambiato casa senza lasciare un nuovo recapito, ed entrambi furono inghiottiti dalle nebbie del tempo. In via Opletalova 18 venne nominato capo della spedizione da Favaro, che forse lo aveva individuato come il più sveglio e il meglio dotato di spirito pratico. I giorni successivi avrebbero dato conferma di questa scelta. Erano in venticinque e ognuno di loro consegnò il documento con la propria identità clandestina. Dopo quattro anni, Enrico Grassi tornava a essere Otello Palmieri. Ritrovò Ivo Biotiti, abbruttito dalla fatica dei lavori pesanti cui era stato assegnato, ma il compagno di viaggio più

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gradito fu Balestrazzi, un ex ragioniere che lo aveva aiutato molto a Dobřichovice. A Vienna, quando ormai le maglie della vigilanza rivoluzionaria si erano allentate, scoprì che veniva da Mirandola, in provincia di Modena. Avrebbero fatto tutto il viaggio insieme. Raggiunsero Vienna in aereo militare, ed era la prima volta per tutti. «Un scarabatlamäĩnt12», Otello ride mentre mima lo sballottamento cui furono sottoposti durante il volo. Vennero presi in consegna, manco a dirlo, da un reduce della Guerra di Spagna che diede a Otello cinquemila lire per ogni compagno di viaggio. Dovevano ovviamente evitare i controlli doganali, perché nessuno aveva uno straccio di documento: vennero dunque portati in pullman a pochi metri dalla frontiera, dove l’ex guerrigliero istruì Otello sul da farsi. «Abbiamo aspettato la sera, e m’ha detto: “Guarda mò là, là c’è una garetta, c’è dentro due guardie. Loro alla sera giocano a carte. Te da qui vedi quando si mettono a giocare, quando si mettono a giocare vi infilate giù di qui, quando avete fatto cento metri siete già in Italia. Più avanti tre chilometri c’è la stazione di Pontebba. Ognuno fa il biglietto per il suo paese e va a casa”. E così abbiamo fatto». Peccato che, arrivati a Pontebba, gli altri decidessero di entrare nel primo bar per ordinare da bere. Che non sarebbe stato un male in sé. Forse per l’adrenalina in eccesso o la sfrenata voglia di festeggiare, però, si misero a urlare: «Pivo! Pivo!» per chiedere una birra, come facevano in Cecoslovacchia. «Grassi, qué i s câzan in galêra tótt!13», e fu sufficiente uno sguardo tra Otello e Balestrazzi per capire cosa dove-

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Scuotimento. “Grassi, qua ci mandano in galera tutti!”.

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vano fare, unici due viandanti rimasti lucidi della compagnia. Avevano svolto egregiamente il loro compito, perché tutti erano arrivati in Italia sani e salvi. Scivolarono silenziosamente nell’ombra e, mentre il rumore dei festeggiamenti si spegneva in un brusio indistinto, presero il primo treno per Bologna.

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Intermezzo

Oberland Bernese, 18 febbraio 1977 L’uomo a vent’anni comincia a fumare per dimostrare alla sua bella di essere tale; verso i cinquanta è costretto a finire perché alla sua bella deve ubbidire. La donna è un zaffiro dolce e soave che per possedere occorre venerare. Quand’è ancor nubile, docile e affascinante in questo modo accalappia l’amante. Il marito comanda è un’arcaica credenza ma, poveraccio!, deve a lei sempre ubbidienza. L’uomo è un citrullo, ma amante del bello che al gentil sesso leva, sempre, il cappello.

Sul fronte, la cartolina reca l’immagine di un idillio svizzero: una baita nel bosco, uomini e donne vestiti in costume tradizionale, alberi, fiori, sole di montagna. Otello era stato operato di ulcera nel gennaio del 1977, ma il dolore allo stomaco non gli lasciava tregua; per questo, grazie alla mutua elvetica, aveva potuto beneficiare di un periodo di riabilitazione nella zona alpina del canton Berna, tra vette innevate e laghi splendenti. «Stavo molto male, e m’avevano mandato in una casa di cura su in montagna e stavo smettendo di fumare, che i dot-

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tori m’avevano detto che dovevo smettere di fumare perché… allora m’han mandato in sta casa di cura e la Giovanna telefonava tutte le sere, mi chiedeva sempre se avevo ricominciato a fumare. Allora io una bella sera c’ho fatto questa poesia e gliel’ho scritta nella cartolina». Ride e non ha bisogno di leggere per recitarla tutta a memoria dopo quarant’anni, senza errori né incertezze. Non avevamo dubbi. Era entrata nella sua vita in punta di piedi prima della guerra, quando erano ancora bambini. Abitava nella Casa grande dell’ebreo insieme ad altre famiglie e sua madre, la svizzera, amava accendere il giradischi per far ballare la gioventù di Oliveto nel salone del palazzo. Poi lei era andata a lavorare vicino Berna, verso la fine del ’47 o forse nel ’48, sublimando la lontananza attraverso lettere frequenti. Avevano continuato a scriversi durante l’esilio in Cecoslovacchia, nonostante le difficoltà e i ritardi imposti dal passaggio obbligato per Opletalova 18, al controllo postale. Otello si firmava «Tuo Enrico» e spesso aggiungeva «Se non ti scrivo di più è perché non posso. Spero che mi capirai». Giovanna, da Rohrbach nel canton Berna, capiva e aspettava. Quando tornò a Bologna, tra il settembre e l’ottobre del 1953, Otello aveva già le idee chiare. «La mia futura felicità continua e continuerà sempre ad essere rivolta a te», le scriveva da Praga. Telefonò a Giovanna per chiederle di licenziarsi e rimpatriare, si sposarono nel dicembre dello stesso anno e a maggio del 1954 erano entrambi a Rohrbach, provvisoriamente ospiti del fratello di lei. Otello trovò rapidamente lavoro in un’industria meccanica nella vicina Ursenbach, Giovanna venne assunta di nuovo nella fabbrica di cal-

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zature da cui si era licenziata. Vissero felici e contenti in terra elvetica per i successivi quarant’anni. Otello ce la racconta più o meno così, la prima volta. Il matrimonio e l’immediata emigrazione in Svizzera, proprio come Francesco. Ma qualcosa non torna. E il «voglio andare a casa», ribadito come unica prospettiva plausibile, che aveva preso il volo dai campi di Litoměřice e raggiunto in un istante il piccolo borgo di Oliveto? Che fine aveva fatto?

Bologna, piazza Medaglie d’Oro, ottobre 1953 Avremmo voluto esserci per poter origliare quella telefonata. Otello scese dal treno, molte ore dopo la silenziosa fuga da Pontebba, e si recò nella cabina telefonica più vicina. Pronto, Giovanna? Sono tornato, ci sposiamo? Assaporarono il suono delle rispettive voci per la prima volta dopo molti anni. Si sistemò, per i primi due giorni, a casa di Lia, che ovviamente lo accolse a braccia aperte e avvertì immediatamente il partito del suo arrivo. Il responsabile dei quadri della federazione, Claudio Melloni, si precipitò in vicolo Bolognetti. «M’han detto al partito: “non devi farti trovare senza… prima di andare in circolo con la gente, devi fare la carta d’identità”». La clandestinità era ufficialmente terminata e Otello, disciplinato, corse a Monteveglio. Dietro alla scrivania dell’ufficio anagrafe trovò un vecchio compagno del battaglione «Sozzi», Guido Donini, ben contento di rivederlo dopo tanti anni. Ma non erano soli nella stanza perché dietro le sue spalle, mentre apponeva la firma sul documento nuovo fiammante, si stagliava la figura del maresciallo Campana. Sempre lui, quello secondo cui Otello e Filippo erano la peste del paese.

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Pochi giorni dopo lui e Biotiti, che nel frattempo aveva raggiunto a sua volta Oliveto dopo l’intoppo di Pontebba, furono convocati ufficialmente in questura per rispondere della loro latitanza. «Ah il maresciallo c’ha chiamato e c’ha detto: “Dove siete stati tutto questo periodo?”; “Mah, siam andati da dei parenti…”. Ma sapeva già tutto», sospetta Otello. «Però voi non gli avete detto niente?». «Noi non abbiamo detto niente. Ha cercato di… io ho un parente a Riolo, a Grizzana… [ma] lui… sapevano già tutto». «Quattro anni a Grizzana…» giocando a nascondino, la prospettiva ci diverte. «Non ha insistito… sì. Però c’ha chiamato, c’ha tenuto dentro un po’, non con le brutte eh. Ormai non poteva più farci niente, io ero assolto». Avremmo trovato conferme sul fatto che le forze dell’ordine sapessero «già tutto» solo più avanti, venuti in possesso di un resoconto stilato dai carabinieri di Bazzano il 6 dicembre 1952: «Noi militari verbalizzanti in ottemperanza a tale ordine abbiamo fatto immediate ricerche del PALMIERI Otello, dalle quale [sic] è venuto a risultare che lo stesso sarebbe emigrato per la Cecoslovacchia, in data imprecisata, senza regolare passaporto. Consta infatti che il predetto manca da Oliveto di Monteveglio sin dal mese di marzo 1949, assenza che venne a suo tempo segnalata alla competente autorità di P.S. Il medesimo non risulta in corrispondenza con la propria famiglia abitante in Oliveto di Monteveglio». Una volta rimpatriati, tutti i fuoriusciti vennero interrogati dagli stessi uomini che avevano condotto le indagini alla base del loro esilio, e che spesso avevano iniziato le proprie carriere durante il Ventennio. «Ma allora qui non è cam-

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biato niente, è proprio vero che l’epurazione non c’è mai stata. Sono stato via dieci anni e vi ritrovo ancora qui, le stesse frasi, le stesse ingiustizie» conclude Drago in Asce di guerra, e il suo scoramento fu tutt’altro che isolato tra gli uomini ex. Non cogliamo però la stessa tensione nelle parole di Otello, non può essere questo il motivo per cui, in pochi mesi, decise insieme a Giovanna di abbandonare ancora una volta l’Italia. Il maresciallo «ormai non poteva più farci niente», il senso di impotenza e rassegnazione che trasmette il racconto di Drago è completamente ribaltato nelle parole di Otello. Si sposarono in un pomeriggio di dicembre nella sala del Comune, a Monteveglio. Giovanna portava sul petto, al posto della più ordinaria croce, una catenina dorata cui era appesa una piccola falce e martello. L’opulenza della festa serale fece sbiadire, nella mente dei presenti, i ricordi della sobria cerimonia. Avevano organizzato la cena nella vecchia osteria di Mignani e chissà quanto erano infastiditi loro, «gli avversari», per questa scelta ardita. Sul girarrosto ruotava un maialino intero, succoso, da signori. Oliveto era in festa e c’erano proprio tutti. Da Bazzano era arrivato pure Mario Anderlini, il comandante Franco della brigata «Bolero». Mancava solo Filippo. Fra la festa e il denaro investito nell’acquisto di una camera da letto completa, i freschi sposini non versavano in una condizione economica particolarmente felice. Per questo presero la decisione di partire. «Mi son sposato e poi sono andato in Svizzera a lavorare. Dovevo andare a Bologna nel coso, come si chiama, nel Gas… nella nettezza urbana o nel Gas… ma io… ho scelto… mia moglie si trovava bene là, a dégg: “proviamo”.

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Poi avevam fatto… per sposarmi, per comprare la camera da letto, avevam fatto un debito di centomila lire… e allora abbiam detto: “andiamo in Svizzera, stiamo là un anno, paghiamo il debito poi torniamo a casa”. Siamo stati cinquant’anni» e via a ridere. Giovanna «si trovava bene» e «aveva un buon lavoro là», per questo sembrò naturale tornare proprio in Svizzera per estinguere il debito. La spensieratezza del racconto a posteriori cela forse una stagione tormentata di discussioni, di crisi? In fin dei conti, lei si era licenziata per tornare a casa, da Otello, e dopo il matrimonio avevano acquistato una camera da letto completa, segno tangibile della volontà di restare. «Tu comunque ti licenzi perché volevi tornar qua», vogliamo ascoltare anche la versione di Giovanna. «Mi son licenziata per venire a casa, perché c’era lui. E… e dopo abbiam deciso che torniamo là», ci spiega con la schiva essenzialità che abbiamo imparato a sfidare. «E come?». «Ah siam tornati in Svizzera», easy as that. «Ma… non era mica facile qui eh» interviene Otello, «io… mi sono adattato a fare il manovale da muratore, son andato… ho sempre slavoracciato anche quei pochi mesi che sono stato qui, eh. A dégg: “Sai cosa facciamo? Andiamo in Svizzera per un anno”, avevamo fatto un debito di centomila lire…». «Volevamo far solo un anno, e invece…» conferma lei. Otello scrisse una lettera di presentazione in cui elencava le proprie competenze e le macchine su cui sapeva lavorare, la fece tradurre in tedesco da un’agenzia di Bologna e la inviò a Rohrbach, a una ragazza che era rimasta in buoni rapporti con Giovanna. Non impiegò molto tempo a rice-

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vere una risposta, viste le credenziali maturate nelle fabbriche cecoslovacche. Firmò un accordo con la Bögli di Ursenbach, procedura indispensabile per passare il confine legalmente. Il 4 maggio 1954 cominciò la nuova vita di Otello e Giovanna in terra elvetica. Il primo giorno sul contratto di lavoro. Il lavoro. Il racconto spensierato della scelta di emigrare si incrina solo quando ne tocchiamo i contorni. Otello e Giovanna ci presentano tutti i passaggi come naturali, diretta conseguenza l’uno dell’altro. Una catena di buon senso immediato, più che di decisioni meditate. Avevano un debito da pagare, lei si trovava bene là e in Svizzera lui poteva trovare facilmente lavoro, al contrario di Bologna. Ma quando ne parliamo per la prima volta salta fuori quel verbo, «ho scelto», quasi per caso. Io ho scelto. Dovevo andare nella nettezza urbana o nel Gas, ma io ho scelto. *** Questa storia del debito di centomila lire, di fatto, non ci ha mai convinto fino in fondo. Certo, non tutti i momenti di una vita, neanche quella di un uomo come Otello, trovano una spiegazione in linea con le motivazioni che agiscono in profondità. Né possiamo credere che tutte le decisioni che l’hanno accompagnato fino all’alba del 1954 siano da ricondurre a quell’unica spinta iniziale che, dieci anni prima, gli aveva fatto scegliere la lotta armata contro il nazifascismo. Quella sua scelta, come per chiunque, era stata in realtà continuamente sfidata dagli eventi e più volte lo abbiamo visto alle prese col

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bisogno di rinnovarla. Il ritorno da Monteorsello senza guida e l’inquadramento nel battaglione «Sozzi», l’attività clandestina e i depositi di armi pronti a far scattare l’ora x, l’epifania del 14 luglio e l’esilio verso chissà dove e a quale scopo. Soprattutto, man mano che i nostri incontri dipanano i nodi del suo racconto scorgiamo il segno dei dubbi, le difficoltà di ragazzo, i dilemmi fra alternative sempre presenti che scompaginano la linearità della ricostruzione a posteriori. Non ci vogliono quarant’anni per restituire centomila lire. Bisogna scavare di più, andare a guardare lì dove il racconto glissa, la memoria sfugge. Che ruolo ha Giovanna in quegli anni di scelte continue? «C’avevo scritto altre volte… in quell’anno che era stata via – batte la mano sul tavolo – che io ero ancora a casa. Perché era già mia intenzione andare là – e batte – anche prima… di scappare – e batte un’ultima volta». Giovanna era andata in Svizzera intorno al ’47 e noi possiamo solo immaginare il giorno in cui gli disse della sua scelta. Me ne vado da mio fratello, dice che lì è pieno di fabbrichette e che a fine mese ti pagano senza fare storie. Nessuno si lamenta, nessuno sciopera, nessuno deve difendersi centimetro per centimetro un tozzo di pane. Tu che fai, vieni? Lui s’interroga, forse sprofonda nei dubbi. Seguirla e mandare al diavolo la veste di Battagliero, oppure no? ha più senso aspettare che qualcosa arrivi o sfilarsi prima che l’attesa si porti via gli anni migliori? Ce lo immaginiamo sospeso per qualche giorno, a cercare le conferme dagli amici del bettolino o dai compagni sepolti vivi. Perché lo facciamo? siamo sicuri che qua non ci fregano tutti? Oppure a chiedere consiglio ai suoi, forse a confrontarsi col padre Francesco, in uno di quei momenti in cui si avverte quello strano senso di responsabilità, una

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sorta di passaggio del testimone. Riprendere un discorso interrotto e sentirsi adulti, forse per la prima volta. Le sue parole quasi mai ci lasciano penetrare nei dubbi. Le sue alternative vanno sempre rintracciate nelle pieghe, colte di straforo, subito prima o appena dopo la registrazione. Ma la sua è chiaramente anche una ricerca instancabile delle motivazioni sufficienti a continuare, a fare quello che c’era da fare, prima e dopo la guerra. Anche quando in ciò non ci fu nulla di eroico, ma solo paura, freddo, routine e tristezza. Spregiudicatezza, anche. Perdita dei punti di riferimento. Un costoso barattare le proprie esigenze, personali e concretissime, con quelle di una comunità virtualmente estesa al mondo intero, di cui è impossibile scorgere i confini e che assume i tratti ora di Armando, ora di Filippo, ora di Lia. «Il comunismo… e sarebbe stato quello! […] era nobile a essere comunisti, di mettere il tuo in campo per tutti! E invece i dirigenti nostri non erano mica così! È tutto, è tutto alla rovescio! È vero o no?». O magari davvero le sue convinzioni erano allora talmente solide che, quando Giovanna gli disse che la valigia era pronta, lui sfidò la sua stessa risolutezza e si sentì chiamato a dare prova di sé. Io resto qua perché sta per venire la rivoluzione. Tu, se puoi, aspettami e domani troveremo il modo di stare di nuovo insieme. Nel mentre, ci sono le lettere: «Sìsì, ci siam sempre scritti. Sempre scritti. Tutte le settimane. Prima – e batte sul tavolo – prima scrivevo la lettera a lei e poi andavo a morosa» ci spiega ridendo, noncurante che Giovanna riesca a sentirlo dall’altra stanza. Ma passa il tempo e la rivoluzione non arriva. La combriccola continua a nascondersi, a spostare gli Sten e le maschinenpistole da un deposito all’altro, a confabulare. La mattina Battagliero si tira su e va in cantiere, a mettere insieme

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due lire. E gli va anche bene, ma tutt’intorno compagni e compagne sembrano pensare ad altro. E va a finire che quell’umanità tutta intera poco a poco si restringa e s’indentifichi sempre di più colle solite facce che alla sera si danno appuntamento in sezione, a Stiore o a Monteveglio, per sentir parlare il segretario. Prima il commento dei fatti del giorno. Poi il livello internazionale: in Urss anche il più povero bracciante ha di che vivere, sorride e partecipa al governo proletario, la più compiuta democrazia al mondo. Quindi il nazionale: da noi il governo è scatenato e vuole colpire chiunque non la pensi come De Gasperi. Infine, la situazione in Emilia e a Bologna, che di “nostro” ha sempre meno. «Una [cellula del partito] era a Oliveto, io ero iscritto a Oliveto. Ma non c’era il coso, come si chiama, il segretario di sezione; ma io non ho mai avuto […] incarichi, come dico… non ero capace. Capivo le cose, ma di raccontare, insomma… e poi mi piaceva anche poco. Perché… parlavano di niente, alla fine!». «Tu eri un uomo d’azione?». «No, un uomo d’azione… non mi va di sentir parlar di niente […] anche adesso, potrei andare al bar […] ma a fare delle discussioni dentro un bar, sempre le stesse cose… io non son capace. […] avevamo un responsabile di sezione a Monteveglio, che faceva… faceva pietà a sentirlo parlare, […] non ci andavo neanche ad ascoltarlo, perché parlavano… perché sai anche quando diventavano sindaci mettevano della gente che… non erano». Del resto, a quel tempo, più che di quelli come lui disposti a seppellirsi vivi, il partito aveva bisogno di gente con una tempra diversa. «Abbiamo bisogno di un numero maggiore di quadri» scrive il segretario regionale dell’EmiliaRomagna a una settimana dell’attentato a Togliatti, «capaci di usare con intelligenza l’arma dell’analisi marxista-leni-

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nista, che sappiano studiare con obiettività l’ambiente concreto nel quale devono operare […] e condurre una politica di alleanze sociali che ci permetta […] di isolare il nemico di classe e di allargare e consolidare il fronte operaio e democratico». E, ancora, di quadri in grado di riconoscere i propri errori, parlare con tutti, specie con gli «avversari», e convincerli a comprare la stampa di partito. Gente che sappia andarsene in giro per il «villaggio» o il quartiere salutando e facendosi riconoscere da tutti, non «rasente i muri» «come un cospiratore sdegnoso». A buon intenditor, poche parole. E Otello intende, ma in questo mondo si sente a disagio. Già, ma che mondo è? «Io sapevo che… mi piaceva la politica. Però sapevo che […] non ero adatto, insomma io, di parlare di fronte a un pubblico, non son capace […] è un dono che non ce l’ho». O ancora: «Non so… è inutile […] non ero capace, se lo devo scrivere forse lo faccio meglio, ma… anche a scuola là, in Cecoslovacchia, ho scelto quello che capivo che avrei fatto meglio, insomma». Anche tutta questa storia di non saper tenere un discorso in pubblico, per il partito, era un «difetto che limita le possibilità di sviluppo». All’estremo opposto c’è il compagno che si sente sempre nel giusto. Ma sbaglia anche lui, perché non impara dalle situazioni concrete, non sa estrapolare quanto di buono emerge dalle istanze di base per portarlo a sintesi. E quindi non ci si deve mai mostrare presuntuosi, ma allo stesso tempo «bisogna saper vincere la timidezza soprattutto quando si presenta come un ingiustificato “complesso di inferiorità”». Un segno di immaturità politica, che va corretto, raddrizzato. Se non fosse che Otello mantiene un atteggiamento distaccato e ben presto si sfila dal percorso cui sembra destinato un giovane ex partigiano come lui, segretario di se-

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zione prima e, volendo, funzionario, consigliere comunale e sindaco se ha voglia di impegnarsi. Ed è un sottrarsi inaccettabile agli occhi dei dirigenti sopra di lui, proprio da un proletario che ha tutta questa voglia di studiare, di emergere, che se l’era cavata in situazioni ben più toste, che aveva carisma e godeva anche di un certo riconoscimento. Ma lui evita la scuola di partito a Bologna, rifiuta gli incarichi locali, benché la sua dedizione alla causa non si sposti di una virgola. È a disposizione ogni volta che serve, è capace di rischiare, nessuno dubita di lui. Ma l’attività in sezione lo annoia, consuma le sue più robuste motivazioni. La dimensione parolaia della politica del dopoguerra lo infastidisce. Soprattutto dopo le scuole di partito a Dobřichovice e Litoměřice, con le parole di Slánský prima incensate e poi fatte sparire, private di ogni intelligenza. Era un parlare di niente, alla fine, e quando ce lo dice noi restiamo di sasso. D’accordo, tutto quel girarci attorno non poteva andare giù a uno come lui, ma era andato giù a così tante persone che ci viene difficile capirne il senso. E poi cos’è questa riduzione della politica alla propaganda? Ci stupisce sentirgli uscire queste parole di bocca. Come non ci siamo accorti che stavamo cadendo dalle altezze di quel mettere il tuo in campo per tutti al disgusto per questo parlare senza senso? E parlare di cosa, poi? Otello non dice molto dell’attività di partito, dopo la guerra o al suo ritorno dalla Cecoslovacchia, e quando lo fa, ricorre sempre a questo abuso della parola, fortemente connotata in negativo. Poco a poco ci è chiaro che questa è la parola del pulpito, del comizio perenne, non certo la parola di cui si appropriava col Melzi e che sperimentava scrivendo qualche verso a Giovanna, una lettera, un appunto sul diario. La sua è un’insoddisfazione che cresce fissando il palco

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della sezione e l’oratore di turno, non sempre degno di stima. La stessa insoddisfazione che provò quando salì lui, su quel pulpito, a un anno dalla morte di Stalin. Il 5 marzo 1954, infatti, il partito non sentì ragioni e volle lui, un compagno che aveva toccato con mano la democrazia più avanzata, per tracciare un breve ricordo dell’illustre defunto. «Insomma io sapevo la storia che era nato a Tbilisi, che era figlio di una lavandaia e tutte quelle storie lì»… ma non svanisce la sensazione che i problemi reali vengano sistematicamente elusi dalla disciplina, occultati dalle ritualità di partito a cui non gli riesce di abituarsi. Parole fatte girare a vuoto fino a disperderne tutta la potenza. Otello, in questo, ci ricorda Ezio Bartoli, partigiano nella brigata Balilla e poi attivista di partito. Anche Ezio aveva sbattuto il muso contro quel muro di “rivoluzione”, “lotta di classe”, “consigli di gestione”, “epurazione” che gli si svuotavano in mano senza lasciargli l’opportunità di battersi. Proprio lui, che «credeva nella libera discussione e nella critica» e, proprio per questo, «non aveva capito però che quella non era una discussione vera e che a lui era stato assegnato solo il compito di propagandare la politica del partito, non di sperimentarla». Battagliero era uscito dalla guerra con la stessa foga di sperimentare, di costruire qualcosa di nuovo. Ma quello che vedeva crescere attorno a sé era sempre più distante dai mondi immaginati bisbigliando nelle stalle, nelle figne o al cimitero di Oliveto. E quando tornò dall’esilio, che la via intrapresa dal partito non fosse esattamente quella sperata era ben più palese di quando partì. E così un bel giorno, prima di farsi tradurre in tedesco la lettera di presentazione, andò in ufficio da Melloni a spiegare che la sua strada era altrove.

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«E lui?». «M’ha fatto una ramanzina…». «E perché?». «Non voleva. Perché… secondo loro dovevo star qui, e aiutare il partito… io non me la sentivo più. “Io di far politica non son capace, compagno… io non me la sento, […] non ho il carattere adatto d’andare a parlare alla gente, non son capace”. “No, te sei capace, te… abbandoni il partito!”. “No, io non abbandono niente! Io rimango quello che sono, ma io di far politica non son capace”. Mi stancavo a stare alle riunioni, non li sopportavo, perché parlavano di niente! Era monotono era». «Perché tu lì avevi ancora l’idea… la rivoluzione?». «Eh! sìsìsì! per dio! […] era diverso, ma l’intenzione c’era ancora che cambiasse, […] ah potevo andare anche a Bologna, a lavorare… sarei andato a lavorare a Bologna, poi da lì potevo lo stesso far qualche cosa per il partito, non tutti erano impiegati, no? secondo loro…». Un pegno di centomila lire non è in grado di trattenere nessuno a cinquecento chilometri di distanza da casa, non con quella voglia di tornarci. Un grande amore che ha resistito a oltre cinque anni di lettere col visto censura, è una motivazione decisamente più plausibile, ma Giovanna nell’autunno del ’53 aveva mollato tutto per tornare a casa da lui. La delusione per una politica che si allontanava sempre più dalla poesia e dalla verità è sicuramente una motivazione per riaprire un discorso chiuso in passato, ma sempre presente come alternativa. Eppure, il modo in cui Otello prese congedo da casa e dal partito è rivelatore di qualcosa che scava ancora di più nel suo modo d’intendere la vita. All’inizio ci facciamo appena caso.

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«Quei quattro mesi lì, son andato due-tre volte in federazione, appunto perché volevano che restavo qua. Io c’ho detto: “Io ho fatto un debito, voglio provare a pagarlo, poi dopo penso di ritornare”, ma… non ho garantito niente». Otello aveva sperato che mettendo avanti la necessità di onorare un impegno, il partito l’avrebbe lasciato tranquillo. E invece Melloni si era messo lì a convocarlo non una, ma due, forse tre volte. Non ci dice se quello gli offrì l’appoggio del partito per rendere il denaro dovuto, ma dalle sue risposte si può intuire: voglio provare a pagarlo, voglio farcela da solo, lasciatemi andare. Agli occhi del partito dev’essere sembrato assurdo arrivare fino in Svizzera per centomila lire, una scusa per abbandonare il partito. Gli rinnovarono così l’offerta fatta, probabilmente in autunno, che forse lui aveva già rifiutato. «Anche quando son venuto a casa dalla Cecoslovacchia, sono andati tutti nel tramway, nel coso… io sono andato in Svizzera, perché… avrei potuto andare a guidare il camion della nettezza urbana, non so… nel Gas, ma… non mi piaceva». E anche se oggi si diverte a chiosare con un «forse ho sbagliato, forse no», si capisce che il suo è un moto d’orgoglio. Perché «qualsiasi altro l’avrebbe preso», avrebbe accettato l’offerta rimanendo sotto l’ala protettiva di via Barberia, se non fosse che per lui quello «non era un lavoro, era un posto». E, più avanti, precisa: «volevo fare un lavoro che mi piacesse insomma, si costruisce qualche cosa». O ancora: «Non m’interessava, […] uno deve andare in un posto con lo scopo di andare avanti, perché se vai nel tramway devi guidare il tramway, non c’hai prospettive di cambiare. Se vai in un’officina, se puoi dimostrare quello che sai fare… puoi diventare capo-officina, puoi diventare… ma insomma lì è finita lì; quello stipendio lì [è] sicuro, il cervello

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non deve lavorare… e lì è il posto, non è il lavoro! È un posto, eh». Una linea netta è tracciata. Il posto di qua, il lavoro di là. L’impiego purché sia è quello che non lascia spazio all’ingegno, all’immaginazione, alle capacità personali. Il lavoro è il suo esatto contrario e, come per l’artigiano, è prima di tutto costruire qualche cosa, testa e mani unite per dare forma alla materia, escogitare soluzioni inedite, adattare un rullo, una filettatura o uno snodo per rispondere a una necessità concreta. Il posto è la massima negazione dell’intelligenza di chi lavora, è sbattergli in faccia che quell’intelligenza non è voluta, ma tollerata e sostituibile, un effetto collaterale della non totale autonomia delle macchine. Il lavoro è la negazione di questa negazione, è riaffermarsi umani e rendersi irriducibili anche al più sofisticato degli automatismi. Peggio del posto, per Otello, c’è solo il posto garantito dal partito a Bologna, o dal partito-Stato a Litoměřice, fino a diventare la summa di tutti i mali del secondo Novecento. Qua e di là dal muro, nei sistemi democratico-liberali come nel socialismo reale, la gestione politica delle assunzioni presso le aziende municipalizzate o statali ha gonfiato il debito pubblico, reso sistematica la noncuranza sul lavoro, alterato gli scambi e i mercati, colpito il potere d’acquisto e i risparmi di almeno due generazioni. Un ribaltamento completo sia di Marx che di Keynes, ma non è ciò che conta di più. L’idea della panacea è inservibile all’analisi, ma ha la forza di evidenziare una densità di significati per la biografia di Otello. L’etica del lavoro si schiaccia fino a identificarsi con la sua concezione di azione e immaginazione politica. Il posto garantito dal partito, già di per sé un’interessante sovrapposizione, diventa la fusione degli aspetti negativi dei

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due poli. E il rifiuto in blocco della soluzione che il partito gli propose, non fu solo un principio di delusione, ma anche l’eco di insegnamenti che erano ormai profonde convinzioni, slanci morali da cui aveva preso le mosse la sua personale iniziazione politica. «Perché noi siamo di Grizzana e siamo andati a abitare a Monteveglio nel ’32 e [mio padre]… era stato licenziato… perché quelli che lavoravano nella Direttissima li han messi quasi tutti in un posto. E lui invece era socialista e… li han licenziati». Il senso di quel sottrarsi, suo e di Giovanna, non è comprensibile se non si tengono insieme tutte queste dimensioni. E le centomila lire di debito saranno anche un dettaglio bizzarro, ma non c’è dubbio che nel concreto ebbero un peso non trascurabile.

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CAPITOLO 3

Otti

Herzogenbuchsee, 12 luglio 1982 L’acciottolato portava ancora i segni dei festeggiamenti della sera prima, quando la nazionale di calcio italiana aveva guadagnato il titolo di campione del mondo a Madrid. Tre a uno per due tempi di gioco spettacolari, gli spalti del Bernabéu in estasi fra gli striscioni dell’«Avellino club Salerno» e Pertini che agita le mani, in piedi e un po’ ingobbito, senza riguardo per i reali di Spagna al suo fianco o per Kissinger qualche fila più giù. A fare notizia, fra i paesini incastonati nelle Alpi, non era il vecchio socialista che apostrofò quella vittoria come una delle gioie «più grandi da quando sono presidente della Repubblica», né il fatto che l’Italia, contro ogni previsione, avesse trionfato con la Germania ovest dopo aver battuto Argentina e Brasile. Fino a qualche mese prima, nessuno ci avrebbe scommesso un soldo. Di sicuro non l’avrebbero fatto i quasi trentamila tifosi che il 28 maggio avevano riempito lo stadio di Ginevra per assistere all’ultima amichevole giocata contro i rossocrociati. La voglia di scatenare una festa d’incoraggiamento prima che gli Azzurri partissero per Vigo c’era tutta, ma la partita aveva lasciato l’amaro in bocca, da mettersi a piangere se Cabrini non avesse segnato il pareggio a dieci minuti dalla fine. E allora avevano ripreso a montare le polemiche, che non si arrestavano da almeno due anni, da quando cioè l’opinione pubblica aveva scoperto il sottobo-

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sco di scommesse truccate che dominava il calcio italiano e i più noti giocatori erano stati squalificati o addirittura finiti in manette. Questa volta, però, le critiche erano tutte per il commissario tecnico. Sui giornali, in tv e nei capannelli al bar non si parlava d’altro. Si dice che in Italia c’erano allora (e forse ancora oggi) cinquanta milioni di allenatori della nazionale, ma Enzo Bearzot non li stava a sentire e tirava fin troppo dritto. A una tifosa ventenne che lo insultò per non aver convocato Beccalossi, l’allenatore friulano mollò un ceffone appena prima di volare in Spagna. Poi tornò a concentrarsi sul gruppo, ostinandosi a non convocare «chi grida più forte» e smise, in pieno mondiale, di rispondere ai cronisti inventando il “silenzio stampa”. A colpire gli osservatori svizzeri, però, fu soprattutto l’ondata di giubilo della popolazione di origine italiana, riversatasi in massa nelle strade e nelle piazze. Anche nella minuscola Herzogenbuchsee, a una manciata di chilometri da Berna, il rumore dei clacson e i cori scanditi da un chiassoso serpentone azzurro e tricolore avevano scosso la serata. Pochi altri avvenimenti avevano alterato lo scorrere lento della vita come quelli dell’11 luglio, eppure niente era andato storto. I principali giornali svizzeri parlarono di strade invase al grido di «viva l’Italia», parole riportate fra virgolette, direttamente in italiano, quasi a denunciare l’assenza, nelle altre lingue ufficiali della Confederazione, di traduzioni adeguate. I più mantennero un atteggiamento fra il sarcastico e l’ammirato, ma tutti registrarono la compostezza della folla. Persino a Losanna o a Zurigo, dove i numeri, l’alcool e gli inediti cortei di automobili avrebbero potuto generare qualche piccolo incidente, la situazione era rimasta sotto controllo. Gli italiani si erano lentamente abituati all’uso elvetico. Il resto della notte aiutò a smaltire la sbronza prima che

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i «tifosi» riprendessero il ritmo di tutti i giorni. Dopo il mondiale, la calma tornò anche su Buchsee, come la chiama Otello e chi non ha bisogno di distinguerla dalla vicina Münchenbuchsee. Gli schiamazzi della sera prima erano passati quasi inosservati e la redazione della Buchsi-Zeitung, che aveva chiuso l’edizione del lunedì in tempo per andare a cena, non ne fece cenno nemmeno nell’edizione successiva. La gente del posto, cinquemila anime scarse fra l’Alta Argovia e il canton Soletta, era infatti da tempo abituata alla presenza degli italiani. Quasi tutti operai metalmeccanici con le famiglie al seguito. A seguire le tappezziere, le domestiche e i tanti muratori. Persone che al mattino si recavano in silenzio in fabbrica o al cantiere e alla sera, altrettanto sommessamente, tornavano a casa. La maggior parte di loro, come nel resto del paese, aveva abbandonato la vecchia abitudine di infarcire di politica qualsiasi discorso e aveva presto dimenticato anche i sindacati. Meglio evitare grane con la “polizia degli stranieri”, meglio non giocarsi il rinnovo del contratto. Tutti chini a maturare i requisiti fissati dalle leggi federali, ad accumulare i punti come al supermercato e vincere un permesso di dimora. Nel paese della cioccolata e della neutralità il grosso dell’emigrazione italiana si guadagnava il salario nelle fabbriche di orologi sulle montagne al confine con la Francia, negli alberghi di Basilea e nei ristoranti di Zurigo, oppure ancora nella miriade di officine sparse fra le valli dove ancora oggi si produce l’Emmental. Si trattava, a inizio anni Cinquanta, di circa mezzo milione di persone. La più grande comunità straniera della Svizzera. Gioco facile su una popolazione di sei milioni di abitanti, ma non certo facile era stata la loro vita, almeno fino agli anni Ottanta. Dopo il razzismo strisciante, infatti, nel 1970 James Schwarzenbach aveva promosso il salto di qualità, provando a fissare per

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legge il tetto massimo di popolazione immigrata al dieci per cento del totale. A Berna, Friburgo e Lucerna la maggioranza si era pronunciata a favore di quella proposta, mentre a Uri, uno dei più piccoli cantoni dell’area interna, i consensi erano andati addirittura oltre il sessanta per cento. Più di quattrocentomila persone di origine straniera venivano di colpo qualificate come indesiderate, una sensazione non proprio piacevole, che Otello ricorda piuttosto bene: «quando sono andato in Svizzera io, c’era un certo Schwarzenbach, che sarebbe come Salvini qui adesso, che era contro gli stranieri. E […] ha preso molti voti… ’somma la popolazione non ci gradiva molto», ci spiega, «perché eravamo dei suoi concorrenti». Ci rubano il lavoro, il solito vecchio adagio. Ma quella, come le altre iniziative contro lo «Überfremdung» (letteralmente: “inforestierimento”), non passò a livello federale. Anche se James e i suoi epigoni non si stancarono mai di riprovarci. Ad appena una settimana dal Mundial, c’era stata l’ultima votazione di una lunga serie, ancora una volta respinta ma con un margine solo leggermente più ampio. Ma la fase più intensa di campagne xenofobe antitaliane sembrava giunta sul punto di sgonfiarsi e l’11 luglio 1982, per la prima volta, i «transalpini» festeggiarono la nazionale come avrebbero fatto se fossero stati a casa. In quanto a circoli regionali e associazioni di ogni tipo la comunità italiana non era seconda a nessuno, ma il pallone restava una delle attività collettive più amate, forse anche perché più tollerate dagli ospiti. Non a caso le Colonie libere italiane, il più importante soggetto collettivo dell’emigrazione in Svizzera, avevano dato vita nel ’59 a un torneo di calcio per sole squadre di italiani, la “Coppa Italia”. E così capitava di tifare l’Internazionale di Losanna e la Società calcistica italiana Juventus di Zurigo, oppure di vedere l’Unione calcistica olte-

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nese battersi contro l’Olympia Inter Schönenverd di Soletta. Fu anche grazie a queste squadre che il calcio non smise mai di essere un catalizzatore di socialità e aggregazione fra gli emigrati, che riprodussero all’estero i modi e le abitudini del paese d’origine, raddoppiando i nomi delle squadre a cui mostrare attaccamento. Al di sopra di ogni club, spiccava però senza rivali la maglia azzurra. L’immagine di Zoff che solleva la coppa del mondo in Spagna riaccese così l’entusiasmo collettivo e l’orgoglio nazionale. Anche a Buchsee, dove «abbiamo fatto una sfilata che eravamo in cinquecento» racconta Otello. In testa, un venticinquenne riccioluto, barbetta appena accennata, esultava con gli altri. Era Spartaco Palmieri, «grande tifoso della nazionale».

Briga, fine aprile 1954 Nel tardo pomeriggio, il treno si era fermato alla stazione di Iselle di Trasquera, ultimo avamposto di territorio ossolano prima della dogana. Avevano dovuto svuotare i vagoni e disporsi sulla banchina formando una lunga fila ordinata, poi era stato chiesto loro di mostrare bagagli e documenti per i controlli di rito. Poco prima che facesse buio, chi aveva le carte in regola poté finalmente tornare al suo posto mentre il treno, ripresa la corsa, s’inabissò nel tunnel del Sempione. A Briga di nuovo fermi davanti alle autorità svizzere, che li avevano sistemati per passare la notte, ma Giovanna e Otello non sembrano ricordare dove e in che condizioni. Ricordano invece bene che al mattino seguente avevano «dormito lungo» e, nonostante la corsa, erano arrivati alla visita medica «che quasi chiudevano». Ad accoglierli, una donna uscita dalla matita di un vignettista che

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pare averli rimbrottati per via del ritardo. Fortuna che intervenne una sua collega, più avvezza alle cose umane, prendendo incredibilmente le loro difese: «“E smettila te! – disse rivolta all’altra – Vorrei vederti te, se […] due sposini […] dormono di più alla mattina! Te sei invidiosa, lasciali stare!”», ricorda bene Giovanna. Fra quelle quattro mura, dove si certificava la buona salute e l’adeguatezza al lavoro di chi passava la frontiera, non era certo un’abitudine buttarla sul sentimentale. Eppure accadde, perché forse anche nei gabbiotti delle dogane, una volta su un milione, c’è qualcuno in grado di riconoscere una coppietta che affronta un viaggio di sola andata come fosse una luna di miele. Tutto il resto, per contro, era filato liscio come l’olio. Lei, d’altronde, aveva un permesso di domicilio scaduto da poco, una promessa di riassunzione dell’azienda per cui aveva lavorato negli ultimi due o tre anni e, soprattutto, metà della sua famiglia che teneva in tasca un passaporto della Confederazione. A garantire per lui, invece, era bastato l’ingaggio in una fabbrica metalmeccanica della stessa zona. Gli mancavano solo quindici giorni di prova e la firma sul contratto di lavoro. La polizia non ritenne di dover fare altre storie. Quell’assunzione al buio lo riempiva d’orgoglio. Resta sullo sfondo la riconoscenza per quella ragazza del posto, un’amica di Giovanna, che aveva gestito i rapporti con la ditta. Non sappiamo nulla di lei, ma ce la immaginiamo a setacciare le pagine di annunci locali, a spargere la voce in paese, a mettere la pulce nelle orecchie giuste. Moriva dalla voglia di riabbracciare Giovanna, è evidente. D’altronde poco prima aveva fatto i bagagli di punto in bianco per tornare a Bologna e sposare un certo Otello. Tanto valeva provare a piazzarlo da qualche parte, e non deve averci messo molto. Ventisette anni, ottima salute, eccezionale appren-

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distato cecoslovacco alle spalle. Sulla sua voglia di darsi da fare, in più, non c’era di che dubitare. Si parlava pur sempre di un italiano, che sicuramente a farne arrivare troppi si rischiava lo Überfremdung, ma era quasi sempre gente infaticabile, che sapeva fare più di quanto scriveva nelle lettere di presentazione e che, soprattutto, non aveva la puzza sotto al naso. Jeder Italiener ist Maurer, ripeteva come un mantra il suo futuro datore di lavoro, “ogni italiano è un muratore”. E a Otello ancora oggi viene da ridere mentre ne spiega i motivi. Quando c’era da tirar su un muretto o dare l’intonaco su una parete, il proprietario della Bögli chiedeva agli italiani invece di chiamare l’azienda edile, e loro giù con calce, cazzuola e olio di gomito. La storia dell’emigrazione italiana in Svizzera negli anni Cinquanta e Sessanta è costellata di ricatti sul lavoro e docce alla dogana per mantenere l’igiene della nazione, alloggi nelle baraccopoli e “bambini nascosti”, come vennero chiamati i figli degli stagionali che non avevano diritto al ricongiungimento familiare. Nella memoria di Otello, però, tutto prende una piega diversa. La presenza italiana, ci dice, «non era una cosa nuova» e lui lo sa bene, vista la storia della sua famiglia. Forse è anche per questo che gli sembrò di trovarsi in un mondo solo in parte sconosciuto: «i datori di lavoro avevano molta fiducia negli italiani, perché anche i nostri si vede che avevano… sgobbato!». Lo rassicurava il fatto che i suoi avessero messo radici solo una settantina di chilometri più a nord di dove ora lui cercava di fare altrettanto. Soprattutto lo rassicurava Giovanna che, in fin dei conti, stava tornando in un posto che poteva chiamare casa, dove aveva lasciato parenti e volti amici e dove si parlava la lingua delle ninnananne di sua madre. «Mi dispiace andare a casa», avrebbe confidato al suo me-

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dico di famiglia poco prima di congedarsi e tornare in pianta stabile a Crespellano, «perché i dottori qui son meglio». «Ma no», gli fece l’altro, «non è vero, anche in Italia, specialmente nella regione sua… sono avanti insomma. Io penso che il problema sarà per sua moglie». «E perché?». «Perché lei, essendo svizzera…». «Ma mia moglie non è svizzera! Siamo nati nello stesso paese!». «Ma no! Ma parla il tedesco come noi!». «Era bravissima in tedesco», spiega con ammirazione lui, che non fece mai davvero sua quella lingua, ma non per questo si sentiva fuori posto. Imparare una lingua straniera, motiva più avanti, è tutta questione di udito: «io ho constatato: tutti quelli che avevano un buon udito lo imparavano meglio degli altri! E io purtroppo non l’avevo così, io l’ho imparato di forza – e batte il pugno sul tavolo – la memoria l’avevo buona!». In più, «il tedesco è difficile da imparare. Sai perché? Perché la gente parla tutta in dialetto!». Più di ogni altra cosa, però, Giovanna tornava da un fratello che li poteva sistemare nella stanza degli ospiti. Certo, avrebbero dovuto contribuire alle spese e dare una mano in casa, ma non per questo il loro approdo si faceva meno sicuro. Dogane, divise e dimora, a quelle condizioni, acquistano una prospettiva più umana.

Ursenbach, estate 1954 Qualche mese dopo l’arrivo a Rohrbach, la loro vita iniziò a prendere forma. Giovanna aveva ripreso a fabbricare scarpe, Otello era riuscito a convincere Werner e Otto Bögli, i proprietari della ditta di Ursenbach, circa le sue buone in-

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tenzioni. Tutte le mattine, lui andava a lavoro in bicicletta, mentre lei prendeva il treno. Finito il turno, rientrava per sbrigare le faccende di casa, mentre il nostro si fiondava negli straordinari con lo spirito udernik introiettato a Teplice. Cercava di imparare al meglio, ma anche di dimostrare che non era uno scansafatiche e, in fondo, qualche franco in più faceva sempre comodo. Non ci avranno messo molto a pagare quelle centomila lire di debito, ma questo è un dettaglio che scompare dalla narrazione, se non quando il pensiero torna a via Barberia. Alla Bögli, Otello imparò presto a costruire componenti per macchine da falegnameria, «più che altro delle seghe che ci andava dentro anche [degli] alberi di diametro di un metro e mezzo». L’azienda esportava «in tutto il mondo» e dalle vecchie brochure pubblicitarie, che tiene ben riposte nel cassetto, si vede che era un’impresa fiorente. Senza capirle, ci perdiamo nelle descrizioni in tedesco del listino dei macchinari o negli scatti aerei in bianco e nero che ritraggono il capannone, i cortili, gli uffici. Rappresentazioni fuori dal tempo, stereotipate e mute, indistinguibili dalle fotografie che si potrebbero scattare a un plastico qualsiasi da esporre nell’anticamera di uno studio di architetti o di una Camera di commercio. Solo i dettagli le riscattano dal silenzio: l’albero all’angolo della strada che è un vero albero, il muro di cinta di un’abitazione privata che finisce suo malgrado nell’inquadratura, un’automobile parcheggiata alla meglio o che sta per varcare la soglia della cancellata. Finalmente riusciamo a immaginarcela viva, rumorosa e familiare. Con i suoi circa centoventi operai di origine italiana sui duecento totali, non abbiamo molto da fantasticare su quale fosse la lingua franca in uso ai banchi di assemblaggio o davanti alle perforatrici. Con un po’ d’impegno potremmo quasi arrivare a immaginare le imprecazioni, le

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canzonature, le gelosie e i litigi. Nella promiscuità di dialetti meridionali spiccava il salentino dei leccesi, qua e là si affacciava la babele di accenti dei siciliani. Otello era l’unico «del nord Italia» e non ci viene difficile pensarlo silenzioso, soprattutto all’inizio. Fra i dipendenti svizzeri, non pochi avevano un’infarinatura d’italiano ed erano almeno in grado di fare qualche battuta. Fra tutti spiccava l’impiegato dell’ufficio contabilità, fisso nella memoria dell’intera comunità italiana, interprete ufficioso in tutte le occasioni. Chissà se davvero parlava l’italiano meglio degli altri o se, più semplicemente, si gonfiava il petto, forte di una credenziale bizzarra: suo figlio era una «guardia del papa». Il lavoro non era affatto monotono, al contrario bisognava seguirlo continuamente col cervello, stare lì a ragionare su ogni passaggio. E Otello non chiedeva di meglio. Se ne entusiasma ancora, ma con noi non sa mai fino a che punto può scendere nel particolare. Sonda le nostre facce quando gli esce che «una vite, presempio, può essere metrica o Whitworth no?» e si sforza di farci capire cosa implicava, a quel tempo, fare il suo lavoro. Imbastisce confronti con le macchine più diffuse al giorno d’oggi, sperando di appigliarsi a una conoscenza che auspica comune, e spiega che «invece prima bisognava scomporre il numero, guardare i cosi… cosa potevi combinare […] per fare dal metrico al Zolt, [in] tedesco si dice Zolt […] Whitworth è il sistema inglese». Noi sgraniamo un po’ gli occhi, ci perdiamo nel gioco delle equivalenze, fra lastre da bucare e frese dai mille profili possibili. Cerchiamo di mascherare i volti inebetiti e lo seguiamo mentre ci spiega come si lavora su un tornio. Poi ci parla di ritmi di lavoro, medie di produttività, relazioni personali e fortunatamente recuperiamo qualche punto. Del sindacato non scorgiamo neanche l’ombra nell’Elvezia felice dei suoi racconti, quasi che quella fabbrica non co-

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noscesse conflitto. «I sindacati ci sono ma… non vengono a piantare il becco». Le trattative, quando c’erano, restavano concentrate sul salario e in capo ai singoli dipendenti. «L’operaio la paga la fa lui», negoziando direttamente col proprietario. E «s-s-se veniva un operaio che non rendeva, non era il padrone che diceva: “Te non lavori”, erano gli altri operai: “Te non vai bene”. Andavano in ufficio, non lo volevano!». Non si direbbe, ma a uno come lui va (andava?) bene così, nonostante tutto. «Mi è piaciuto! È giusto così!», ci mostra le sue più solide convinzioni. E, di slancio, racconta un episodio degli anni Ottanta, poco dopo aver cambiato datore di lavoro. Noi lo fissiamo incuriositi, sarà forse questa sua condizione di ultimo arrivato in un ambiente del tutto nuovo che gli permette di fare un balzo di trent’anni, dai primi giorni della Bögli a quelli della Duap, senza scomporsi. Ci spiega che la nuova azienda «era rimasta senza un certo lavoro che facevamo […] io e un altro» e così «ha preso [delle commissioni] da una ditta di Berna». Su quella stessa macchina, due operai dell’azienda madre sfornavano quattro pezzi al giorno e, ovviamente, era questo il rendimento che si aspettavano dall’ufficio produzione. Lui, da ultimo arrivato, cercò ovviamente di fare del suo meglio, ma a fine giornata i pezzi erano sempre meno di quanto volesse la direzione. «Allora un bel giorno arriva il capo[reparto], mi dice: “[…] mi hanno detto che [i nostri committenti], di quelli lì, ne fan quattro al giorno”» e Otello d’istinto non sapeva proprio come comportarsi: «io non volevo proprio, è capitato subito all’inizio, io non volevo far la spia». Ma alla fine dalla direzione capirono e fecero in modo di risolvere il problema. «È lì che l’ho imparato», aggiunge subito dopo, ma è difficile dire cosa. Sta di fatto che, già nel ’54, ai proprietari

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della Bögli bastò poco per convincersi che Palmieri era uno in gamba, che bastava lasciarlo in pace e lui avrebbe tirato avanti una vita, con o senza conti da saldare. E fu così che in poco più di qualche mese riuscì a guadagnarsi la simpatia dell’ingegner Bögli, maggiore dei due fratelli e presidente della società, tanto da sentirsi a suo agio nell’avviare la prima trattativa proto-sindacale della sua vita secondo i costumi del luogo. In un giorno imprecisato della sua prima estate da emigrante, d’accordo con Giovanna, Otello chiese al contabile e interprete di riferire agli uffici che lui e sua moglie erano stufi di fare gli ospiti in casa d’altri. Di grinze, nel suo ragionamento, non ce n’erano: «se il padrone è contento di me, mi deve aiutare a trovare una casa». Dopotutto, «io sono messo che… se vado via da [quella casa] là, vado via anche dal lavoro». Schietto e diretto, quasi da credere a stento che l’abbia fatto dopo solo tre, cinque o sette mesi dalla firma del contratto, intervalli continuamente mobili nei suoi ricordi. La risposta non tardò e fu sorprendente: «è arrivato il padrone, sapeva qualche parola di italiano, e m’ha detto… che lui stava facendo una casa in un altro paese [e] che se aspettavo» lo avrebbe aiutato a trovare un posto dove «sarei andato a abitare». Uno degli appartamenti dei suoi genitori – «i vecchi Bögli», come li chiama Otello – si stava infatti per liberare e il datore di lavoro avrebbe potuto metterlo a disposizione. Ma a stupirci più di tutto sono le condizioni, decisamente fuori dal comune: «non m’ha mai chiesto niente!», «sono stato lì 28 anni senza pagar l’affitto» o, meglio, «per la simbolica cifra di 30 franchi» come aggiunge più avanti. Per quanto risulti bizzarro, è un fatto che la fiducia fra i due non si interruppe se non diversi anni più in là, con la morte dell’ingegnere. A partire da quell’estate, e per oltre vent’anni, la coppia Palmieri-Pedrazzi si sistemò a Ursen-

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bach. Otti, come lo chiamavano i colleghi che prendevano confidenza col tedesco, entrava e usciva dalla fabbrica come fosse il cortile di casa sua, tanto da guadagnarsi il titolo di «portinaio», «il primo a cominciare, l’ultimo a smettere […] 14-15 ore al giorno, sempre!». Giovanna, invece, se ne andava tutte le mattine a Buchsee per modellare il cuoio, spalmare colla sulle suole e sagomare tacchi di ogni tipo e misura, poi tornava a casa e faceva tutto il resto. La calma, per la prima volta, si staglia sullo sfondo di questa storia e noi, di primo acchito, siamo increduli, quasi turbati. Casa, lavoro, famiglia, buone relazioni di vicinato e sul lavoro, una vita tranquilla che non pare più conoscere scossoni. E i grandi ideali? – ci chiediamo – che fine ha fatto lo slancio di appena qualche anno prima? Che ruolo ha assunto quel modo tutto suo di mettere da parte le esigenze stringenti della vita d’ogni giorno in vista di qualcosa di più grande e urgente? Che cos’è diventata, per Otti, la politica? «Niente politica», tronca lui, «son sempre stato sì… interessato, guardavo, leggevo il giornale, però politica in Svizzera… prima di tutto i partiti ci sono, ma… non sono molto, non sono fanatici insomma, anche uno se è un bravo imprenditore che fa il capo del governo, lo fa per una legislatura e poi se ne va per suo conto [e] l’operaio ha interesse che la sua fabbrica vada bene, se il padrone dice: “Noi dobbiamo mandar via della roba e deve essere finita”, si dan tutti da fare! Ma davvero eh! Sembra una famiglia!». Fino a un momento imprecisato del 1954, o forse è stato nel ’53, ci era parso trovare origine e fine di ogni scelta e ogni gesto nell’irresistibile pulsione a darsi per l’idea. Poi, con una naturalezza che ci pare via via più indecifrabile, le

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sue parole se ne sbarazzano. Il nuovo Otti si mostra immune al richiamo, alla fede. Come se davvero si potesse decidere, un bel giorno, di impacchettare tutte quelle esperienze, quelle tensioni estremamente e profondamente vissute – per quanto condensate in un brevissimo lasso di tempo – e riporle dentro una valigia da sistemare in cantina, assieme alle vecchie carte della scuola quadri. Abbiamo appena il tempo di capire che le parole di Otello stanno cambiando registro, quando le lenti adoperate fin lì per mettere a fuoco le scansioni del suo racconto si rivelano inservibili. È un passaggio tanto repentino che ci viene difficile capirlo e ci scopriamo a cercare conferme per sfumature che non siamo più in grado di afferrare. Avevamo in testa le storie di chi passa i confini e resta sintonizzato con l’atmosfera di casa, di chi presto o tardi traduce quello slancio in qualcosa di tangibile e altrettanto pervasivo, in una configurazione nuova. Pensavamo ai mille rivoli dell’associazionismo di sinistra, dell’iscrizione al sindacato o a un partito qualunque che abbia anche solo una parvenza della vecchia comunità politica. Otello, invece, sembra portarsi appresso come un fardello le appartenenze di un tempo, tiene fede all’imperativo di coerenza che aveva enunciato davanti alle insistenze del responsabile dell’organizzazione. Io non abbandono niente, resto quel che sono sempre stato. Ma lo fa in una maniera a noi sconosciuta, più intima e personale. Continua, non c’è dubbio, a presenziare gli appuntamenti con le urne, dalle amministrative alle politiche, e non mette mai in discussione il suo essere nel partito. Dice: «Io l’ho sempre pagata la tessera», e usa un verbo che serve a ribadire che la scelta è quella del ’44 e, di lì in poi, c’è da portare avanti una responsabilità, quasi un dovere. L’esito sembra già scritto: «la tessera […] l’ho presa sempre, dopo ho preso il

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Pd». Tuttavia all’Unità, che «parla troppo» e che pertanto lui leggeva pochissimo – «non è mai stato un buon giornale, non m’è mai piaciuto» – preferisce ancora oggi il Corriere della Sera, «che si legge meglio di tutti» e per comprarlo andava fino a Herzogenbuchsee ancor prima di abitarci. Di Indro Montanelli, per poco che gli potesse piacere, dice che «era come leggere un romanzo, dovevi leggerlo fino alla fine» e soprattutto, aggiunge, «diceva la verità. Anche con il comunismo, diceva che a Bologna il comunismo… funziona!». Poi Calvino, Lutero e Giordano Bruno sono i nomi che gli tornano in mente quando gli chiediamo di riflettere su questo suo passaggio. E ci descrive un quadro di letture liberissime che gli regalano una prospettiva diversa sul suo mondo: «prima di leggere tanto» dice riferendosi alla fase che precede il periodo svizzero, e ci indica la storia di Montanelli e Gervaso, che tiene ancora oggi sullo scaffale. E, infine, Ignazio Silone, che «ha avuto il naso migliore», «è stato una grande persona, perché era nella fondazione del ’21 del partito […] ma l é scapè vî parché al s é acôrt ch’l îra ad nôv14». Un autore di cui ha letto pressoché tutto, racconta, perché «onesto al cento per cento», «non è vero… che [era] “un pidocchio nella crina di un cavallo…”, come aveva detto Togliatti!». Non è il gusto della provocazione a guidarlo in queste sue incursioni, fra immagini dissacranti e letture apparentemente prive di ordine. Piuttosto sembra aver ingaggiato una sfida con se stesso, con le convinzioni inculcate dallo spirito di parrocchia e con «le nozioni che ci imparavamo là», la reverenza verso l’autorità che trasuda dalle formule rituali, dalla cortigianeria, dall’adulazione agiografica. «Nato a Tbilisi, sapevo la data e tutto… abbiamo studiato solo

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Ma è andato via, perché si era accorto di cosa c’era di nuovo.

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quello! Sua madre era una serva della gleba, faceva la lavandaia, suo padre un calzolaio» e senza trattenere il sorriso ripercorre la vita di Stalin, chiosando: «credevamo che fosse davvero un uomo straordinario […] il padre di tutto e invece era… non era un uomo onesto insomma», ma soprattutto lo infastidisce un fatto curioso: «prima di tutto anche… quello che ha scritto era… era illeggibile!». Abbandonata ogni remora, i ricordi sono finalmente liberi di spaziare. E riflettendo sulle tradizioni inventate non si può che giungere al ’56, uno dei momenti più tormentati della storia del comunismo novecentesco: «è stata una delusione per tutti i comunisti, io penso, quando è saltato fuori Chruščëv». Ma la tormenta di quell’autunno ebbe per lui un sapore diverso. Giovanna aveva scoperto di essere incinta e a marzo dell’anno dopo sarebbe arrivato Spartaco.

Ingresso dello stabilimento Bögli, Ursenbach, settembre 1968 Come ogni mattina, Otti si era alzato di buon’ora, aveva fatto colazione con la famiglia e salutato Giovanna prima che andasse a prendere il treno. In vantaggio su tutti si era avviato poi verso lo stabilimento, lungo la strada che dal centro abitato scendeva a valle, fino al fiume Langete. Una volta arrivato, aveva fatto il solito giro dei fabbricati, controllando che tutto fosse pronto a mettersi in moto e, infine, aveva aperto i cancelli da dove stavano per arrivare gli operai e i camion. Tutt’intorno regnava la calma della routine, con quel po’ di umidità che in autunno si addensa sul costone della collina alle spalle di Ursenbach. Davanti agli uffici, in anticipo come lui, quella mattina aveva notato la presenza di un uomo della sua età, o forse di poco più giovane, «che parlava un po’ in tedesco» e voleva incontrare un re-

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sponsabile del personale. «Fatto il mio giro, poi son tornato che era ancora lì». «“Arrivano verso le otto”», si sentì in dovere di precisare, ma quello ne approfittò per chiedergli qualche informazione sull’azienda, sui ritmi e il tipo di lavoro, sulla possibilità che ci fosse un posto da elettricista. A sentirlo «pronunciare la cosa… mi sembrava un cecoslovacco» ci racconta Otello, «allora […] c’ho detto qualche cosa [in ceco]» e lui ne fu subito «contento». Sarebbero diventati amici a forza di pranzare insieme la domenica, forse con più punti di contatto di quelli che lui oggi ha voglia di ricordare. Ma quella mattina non fu difficile riconoscersi parti diverse in un conflitto più grande di loro. Il primo, un praghese ramingo, era arrivato in Svizzera poco dopo che i carri armati del Patto di Varsavia avevano riposto per sempre in un cassetto l’anelito a un socialismo reale meno autoritario. L’altro, fuggiasco d’un tempo e ancora straniero, si mostrava a suo agio rivolgendosi al primo con quel miscuglio bizzarro di tedesco e ceco; una lingua che, dopotutto, s’incontrava difficilmente da quelle parti. C’è da credere che, sulle prime, quella casualità lo avesse senz’altro spaventato. Col tempo, invece, si era ricreduto. Otti lo aveva convinto a presentare domanda alla Bögli, non è da escludersi che avesse messo una parola buona e non indagò mai sui motivi della sua fuga. Dopotutto bastava un niente a rimettere insieme i pezzi e pare che l’elettricista ceco lo fece fin da loro primo incontro: «Sì, l’aveva imparato. Ci facevo da interprete… dove l’ho imparato il ceco, l’ho imparato in Cecoslovacchia… ce l’ho detto che ero là, comunista, e tutto». L’estate del ’68 non fu sicuramente la prima volta che il mondo ideale di Otello venne scosso da un’ondata di critiche. Dalle colonne del Corriere fino ai servizi in italiano sulla televisione ticinese, si era ormai abituato a sentire peste e corna dell’Europa orientale, del Cremlino e del pericolo dei

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sovversivi. Ma il contatto diretto con gli esuli cechi aveva qualcosa di ben più potente per la sua coscienza di comunista, benché non più militante. «Lui era uno di quelli che aveva preso in mano… sì. Si era rivoltato, poi [lui e sua moglie] son scappati» ci dice, ma non è dato sapere di più su quel ceco. Né con quale profondità discussero del fallito tentativo riformista di Dubček, né della realtà sociale che gli consentì di guadagnare un vastissimo consenso popolare. Non sappiamo neanche se fosse un conservatore d’altri tempi, un sincero ammiratore del capitalismo occidentale o ancora un autentico socialista dal volto umano. Sappiamo, però, che prima di allora né a Otti né a Enrico Grassi erano mancati termini di paragone. Il dottor Smržov, anni addietro, era stato l’apripista di una lunga serie di conversazioni dissidenti che lo smossero e lo incuriosirono. Poi erano arrivati in Svizzera i profughi ungheresi del ’56, quelli fuggiti con «la rivoluzione di Budapest», a rimescolare le carte della sua esistenza dopo la scelta di vivere da perfetto occidentale, pur volendo conservare intatta l’idealità che di quella vita negava le basi. Infine, era stata la volta dei praghesi, con la non trascurabile aggravante che, in questo caso, Otello aveva un’idea concreta delle piazze dov’erano avvenuti gli scontri, conosceva i giornalisti di Oggi in Italia che si erano messi al riparo fuori città, era in grado di comprendere gli slogan scanditi dalle folle, di leggere le scritte sui muri e gli striscioni che si vedevano in tv. Pur mettendone a dura prova la fede, ognuno di questi incontri sembra però aver temprato nell’immediato le sue convinzioni più profonde, rimandando la disillusione vera e propria a un momento futuro, sempre più differito, ma lasciando qua e là lacerazioni solo in apparenza pacificate. Per questo, capire come si costruì quell’equilibrio, e soprattutto come e quando saltò, assume un’importanza irrinunciabile

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e assorbe le nostre energie prima, durante e dopo le lunghe conversazioni con Otello. Eppure, quel suo modo di raccontarsi non ci restituisce che appigli sempre mobili e incerti. «Ah ci metto, ci metto un po’ [a capire]. Sono stato duro, però alla fine ho capito che era giusto così. Poi… quando poi è arrivato, è arrivato prima quella dell’Ungheria […] e quattro-cinque [ungheresi] sono venuti a lavorare lì da me. Io sapevo un po’ il ceco e allora il padrone mi chiamava sempre a me con ’sta gente. Poi è arrivato anche un cecoslovacco con la moglie, proprio… veniva da Praga, faceva l’elettricista». A spiccare, in principio, era stato Slánský e l’episodio dei discorsi sequestrati, poi era venuto il ritorno a Bologna e l’impatto con un mondo ben al di sotto delle sue aspettative, poi ancora era stata la volta dell’approdo in Svizzera. Altre volte, invece, ci era parso più importante il ’56, ma sempre sbilanciato sui fatti d’Ungheria, più che sulle accuse di Chruščëv contro Stalin e lo stalinismo. Ora, infine, ad aver dato il colpo decisivo sembra la repressione della Primavera di Praga e più avanti sarà il crollo del muro e la fine del secolo. «E lì ho incominciato a pensare che le cose non andavano come… come pensavamo noi». Sono parole dette in riferimento all’arrivo degli esuli da Praga, ma che potrebbero ogni volta accompagnare questa o quella discontinuità della sua biografia politica. Bisogna però notare come proprio il ’68 praghese abbia segnato quel passaggio fondamentale al “noi”. Le cose non andavano come pensavamo noi, perché è chiaro che il disincanto è collettivo, come lo era stato il processo inverso, e lo sarebbe stato sempre di più fino al giorno in cui Setti avrebbe chiuso un’epoca intera dalla cornetta di un telefono.

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Frazione Pragatto, Crespellano, anni Trenta Con Otello non hanno successo le domande sulla “giornata tipo” o gli esercizi d’immaginazione per avvolgere all’indietro il nastro della memoria. Averlo accompagnato fino in Svizzera ci permette di esserne consapevoli a sufficienza e trovare un modo di seguirlo nelle domande, senza privarci del gusto di perderci con lui quando capiamo che ci vuole portare fuori strada. Ed è chiedendo lumi su Giovanna, o meglio sul suo ritorno in fabbrica, che riusciamo finalmente a capire qualcosa sul ruolo che ha avuto il lavoro nella sua vita e, soprattutto, su cosa ne resta dopo, quando il corpo dice che bisogna smettere. Nel mentre, capiamo anche che non c’è verso di sapere di più su come sia stato possibile, per una giovane olivetana, licenziarsi e poi tornare in sella nella Svizzera educatamente razzista degli anni Cinquanta che, prima di concedere i diritti politici alle donne, avrebbe fatto passare altri vent’anni. Ci mettiamo però l’anima in pace, d’altra parte insistere su licenziamenti e riassunzioni è una preoccupazione tutta nostra. Una sorta di distorsione del presente. «Ah, l’hanno riassunta nella stessa ditta?» chiediamo noi un po’ stupiti. «Eh, subito!» replica secco lui. «Anche se si era licenziata?». «Sìsì. Ah, non è mica come qua eh. Là il lavoro c’era. Eran tutti là gli italiani… tutti meridionali, ma eran tutti là. Gente che ha fatto bene eh, c’ha la famiglia là, [son] diventati svizzeri» e aggiunge che, forse, l’avrebbe passata volentieri anche lui la pensione da quelle parti. «Pensione? Quale pensione che hai sempre lavorato!» rilanciamo mentre godiamo di quel cenno di sorriso. «Sempre lavorato!» fa lui ridendo, «è lì la mia rabbia, non mi sono mai fermato un minuto».

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Noi ripensiamo a Mario, al giorno in cui ci ha presentato Otello dicendoci di un suo vecchio tornio, un arnese enorme che volle portarsi via dalla Svizzera e che, prima o poi, ci avrebbe dovuto mostrare. «Anche dopo la pensione…?», proviamo la manovra di avvicinamento. «Eh, di più! […] Invece dovevo fermarmi prima, un po’. Ma… è il carattere che è così, non si può cambiare, anche adesso faccio fatica, perché non mi posso muovere. C’è della gente che sta dentro al bar, fa venir sera… io non son mai stato capace, io dovevo far qualche cosa, insomma». E si premura di specificare: «dopo la pensione ho lavorato qui, nell’orto, a tener dietro a tutti i terreni, ho fatto una vigna di 12 ettari, […] l’amministravo tutto io!». Non abbiamo altra scelta, bisogna insistere: «Non hai detto che avevi un tornio qui?». «Sì un tornio, un tornio vecchio di secoli, ma… non l’ho più usato qui, perché… facevo tutto là, l’avevo messo nella mia cantina». Ce lo racconta come fosse un frigorifero, l’ho comprato e stava lì. Ci aspettiamo da un momento all’altro che ci chieda se ne abbiamo uno in cantina anche noi. Allora ci proviamo di nuovo: «Come l’hai comprato?». «Ah l’ho comprato da quelli che lo buttavano via, […] che raccoglievano il ferro. […] Non so se ho speso 500 franchi svizzeri… era circa un milione, ma… è una cosa molto rara, c’ha un valore adesso. E io l’ho smontato, che l’ho ripassato tutto, e ho visto dentro che è stato revisionato nel 1780, mi sembra… revisionato. Sicché ne aveva già [di anni]… andava a acqua, […] si cambiava velocità con una pertica, era come un mulino. È rimasto così eh. Io c’ho messo un motore elettrico, però rimane. Cambio con quello lì, ’somma». Passo dopo passo, scopriamo finalmente che l’amore per

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la meccanica è precoce, quasi un contagio che lo ha colto quando ancora andava scuola. A incuriosirlo, era stata la minuscola officina Parmigiani di Pragatto, da cui Orlandini andava sempre a «battere» il vomere. Riposto in un angolo, quel fabbro aveva un «tornietto», ci spiega, «un affare vecchio» adatto «più che altro per il legno», ma evidentemente sufficiente a rapire l’attenzione di un ragazzino. «Mi ero incantato a guardarlo, a lavorare, ’st’omo. Mi piaceva». Ce lo racconta con quel po’ di pudore di chi sa di non saper fornire altre spiegazioni che quella più semplice, il piacere ignoto e indicibile di costruire qualcosa con le proprie mani. È solo allora che ci tornano in mente tutti quei momenti in cui Otello ci aveva introdotto al suo amore per ingranaggi, filettature, utensili da tornio. Subito dopo la guerra non era stato brutto lavorare come muratore a Bologna, a fianco all’ex partigiano capomastro, ma mi piaceva di più la meccanica. A Dobřichovice, finita la scuola, aveva scelto quello che capivo che avrei fatto meglio e, fra le parole della politica e l’acciaio della fonderia, aveva scelto il secondo senza rimpianti. In via Barberia, poco prima di partire per Rohrbach con Giovanna, aveva ribadito che lui voleva fare un lavoro che mi piacesse, in cui si costruisce qualche cosa, o «qualcosa di meglio», come ci dice in un altro momento. Ci mettiamo un po’ a capirlo, ma arriva anche per noi il momento in cui tutto si fa più chiaro. Il suo modo di vivere il lavoro è quello tipico dell’artigiano, anche se per tutta la vita il suo contratto di lavoro lo inquadra come operaio. Per lui, come per un liutaio o un falegname, la soddisfazione c’è solo quando il cervello e la mano lavorano insieme per risolvere problemi sempre nuovi e applicare quelle soluzioni ad ambiti ogni volta diversi, utilizzando gli strumenti giusti o riadattati alla bisogna. E poi scopriamo che il rive-

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stimento in legno sul soffitto di casa è opera sua e di Spartaco o che la colonnina in rovere che vediamo dietro la porta è un escamotage per rivestire «un coso di ferro» che era spuntato quando «ho preso via un muro portante qui», che a «mia moglie non ci piaceva». E poi l’attrezzo a doppia ganascia dentata che usava per stringere le fascine di legno e le sculture metalliche che riproducono chiese e cannoni visti nelle piazze di chissà quali paesini. O ancora la casetta di legno costruita in giardino e così bella che il suo vicino, scherzando, voleva usare come scialuppa di salvataggio durante le discussioni con sua moglie. E poi i mille ciappini15, come li chiama lui, che servono a questo o quell’uso, fino alla webcam che ha fatto montare nel pollaio per controllare che le galline non se la passino troppo male quando lui e Giovanna non hanno modo di andare. Una volta acquisito, questo approccio non lo avrebbe abbandonato più, come impariamo presto a riconoscere. Capiamo così che l’esperienza nel mondo della meccanica, per lui, non è stata altro che una scuola e una palestra per perfezionare quello spirito. Ancora oggi, è sulla base di esso che si fonda il discrimine fra un lavoro buono e uno noioso, un’opportunità di crescita e una condanna alla noia perpetua. Ed è uno spirito condiviso pienamente da Giovanna. I divani in casa hanno tutti il rivestimento fatto a mano da lei e in fabbrica anche lei era una di cui tutti si fidavano, com’è chiaro quando ci racconta di quella volta che andò a Trieste a selezionare una tornata di operaie da assumere. Ma Giovanna schiva sempre le nostre domande e quando chiediamo se le piacesse il lavoro che faceva, lei risponde di getto: «basta lavorare, basta prendere i soldi da vivere!». E

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Arnesi, ma anche lavoretti.

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poi scoppia a ridere e ne approfitta per salutarci di nuovo, presa dalle mille sue occupazioni.

Autostrada del sole, Italia, fine anni Novanta Il giorno in cui gli chiediamo di parlarci dell’auto che tiene parcheggiata in garage, appena riconoscibile sotto la tela bianca che la avvolge fin sotto le ruote, Otello parte con un aneddoto. «Sono andato una volta a Napoli […] a trovare un amico» ci spiega mentre la scopre. È una Mercedes-Benz 124 coupé, motore a sei cilindri per ventiquattro valvole e oltre duecento cavalli di potenza, velocità massima duecentotrenta orari. Il contachilometri segna poco più di centomila. Considerando che è andata fuori produzione oltre vent’anni fa, capiamo che è tenuta come nuova. La macchina per i viaggi lunghi, pensiamo guardando il cambio automatico. Lo sfizio di un amante degli ingranaggi che, prossimo alla pensione e dopo una vita di salario svizzero, non ha saputo resistere al richiamo della più nota casa automobilistica tedesca. L’aneddoto continua. Lui e Giovanna erano partiti alla volta di Sorrento, per passare qualche giorno da un amico di vecchia data, un italo-svizzero come sono ormai anche loro. Ci spiega che quello aveva già sposato una donna di Buchsee e che, fino a non molti anni fa, si fermavano a Bologna per una visita ogni volta che dalla Campania tornavano in Alta Argovia. Quella mattina, Otello e Giovanna si erano alzati con le prime luci del giorno e non ci misero molto a mettersi in strada. «C’ho telefonato alle 8, c’ho detto: “Io parto da qui”, e lui mi veniva a prendere all’uscita di Napoli». Nemmeno seicento chilometri, quasi tutti in autostrada e praticamente senza svincoli o interruzioni. Traf-

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fico permettendo, anche i guidatori più prudenti avrebbero sperato di mangiare un boccone senza doversi accontentare dell’autogrill. E così Otello si piazzò alla velocità che ritiene «normale, centoventi-centotrenta» chilometri orari, come prescrive il codice, e dopo nemmeno un’ora fu dalle parti di Firenze. Lì qualcosa iniziò a infastidirlo: «quando son stato nell’altra autostrada, [per] andare verso Roma […] andavo a centotrenta e mi lampeggiavano». Partì così il primo giro di valzer, «andavo da parte e tornavo sopra, andavo… tornavo sopra», finché non si stancò e prese esempio dagli altri. «Andavo a 140, dopo un po’ arrivava uno» e, di nuovo, ha gli abbaglianti nel retrovisore: «doveva andare… fino a centosessanta!» commenta stizzito. Allora «l’ho messa a centottanta, e sono andato fino a Napoli a centottanta. Mia moglie mi dice: “Se prendi la multa…”», ma lui rispose secco di non curarsene, tant’era nervoso. «C’ho messo quattro ore da Crespellano a andare a Napoli, una Mercedes […] che faceva più dei duecento all’ora, se avessi voluto». «Io sono qui a Napoli», fece all’amico dal primo bar sulla strada. E quello, incredulo: «Beh, se alle 8 eri a Crespellano, adesso sei qui…?». «Io sono qua». La scena è grottesca e Otello ne commenta i passaggi ridendo di gusto. Finite le risate, però, il volto torna serio e ci spiega la morale. L’aneddoto per lui è istruttivo, illustra un dato di fondo dell’Italia che ha dovuto imparare nuovamente a conoscere negli anni Novanta. Si sforza di non abbandonarsi al moralismo o all’esterofilia, ma non resiste a serrare il confronto con le autostrade dove aveva imparato a guidare, fra le più tranquille d’Europa. Un posto dove la gente guarda i limiti sui cartelli e si piazza alla velocità in-

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dicata; dove di qua e di là della linea tratteggiata le automobili mantengono quasi invariate le distanze e si segnalano tutti gli spostamenti con le frecce, aspettando che siano gli altri a fare la prima mossa. Il paradiso degli automobilisti che si agitano dell’agitazione altrui, dove la gente ti fa un cenno di ringraziamento con la mano quando ti fermi alle strisce per farla passare e per chi infrange il codice stradale arriva il salasso. «A me è sempre piaciuto il sistema della Svizzera» commenta Otello e noi all’inizio non capiamo. Ci fa l’elenco dei pilastri su cui si regge questa complessa architettura e, uno dopo l’altro, vede crescere il nostro stupore. «Anche con la scuola», dove vanno avanti «quelli che vanno coi voti, non la paga dei genitori». «Anche sul lavoro», con l’organizzazione impeccabile e i rendimenti sempre alle stelle. E, infine, «anche nel modo di guidare la macchina», dove tutti rispettano i limiti, le precedenze e i codici. E quando parcheggiano stanno attenti a «sfiorare la riga bianca». Più scaviamo nei suoi ricordi e più ci accorgiamo che la sua Svizzera è una sorta di meritocrazia egualitaria, un posto dove tutti hanno accesso alle stesse opportunità, senza riguardo per la loro posizione di partenza, e s’ingaggiano ad armi pari in una competizione industriosa e creatrice, un pungolo al miglioramento continuo dell’intera società. «Quelli che c’hanno una fabbrica, gli imprenditori, non fanno come qui, un gran macchinone, una cosa… non ostentano quello che c’hanno. Quello che c’hanno lo mettono per far andar bene la fabbrica». Non ci sono posizioni protette, non ci sono gli intoccabili: «anche se c’hai uno al di sopra di te, che è un coglione, c’è poco da fare, se ne deve andare». Immagini talmente rifinite che si fa fatica a crederci. Poco alla volta ci sembra di coglierne il senso e ne siamo

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colpiti. Ci prendiamo la libertà di giocare con i suoi ricordi, farlo sbilanciare, portarlo a scoprire le carte, a guardare le increspature che solcano una superficie così liscia. E chi resta escluso? «Non è che quello che non va, o che è un po’ più indietro, deve morire, ma deve prendere quello che si merita». E chi non ce la fa più? «C’è il comune. Quando sono in pensione, che non ce la fanno a pagare il ricovero…, [ma] prima devono spendere quelli che c’hanno, se c’hanno una casa la devono vendere, capisci?». Ma, intanto, «quando si va in pensione, si prende tutti uguale […] le esigenze son tutti uguali» e chi più si è comportato da formica ha una scorta di cui godere, invece la cicala si deve accontentare di quel poco che rimane oppure di niente. E così ci racconta di quando si ammazzava di straordinari, per prendere un quarto della paga in più, ma anche perché pensava ingenuamente di accumulare per la vecchiaia: «io pensavo che andava sulla pensione e invece…». Più la rigiriamo, più la sua Svizzera assume i contorni di un’utopia realizzata, un paradiso terrestre. Più cerchiamo di risalire la corrente di quel flusso di racconti, più ci accorgiamo che la convinzione è profonda. E non serve puntare l’attenzione sugli esclusi, sui più deboli. «Sì… anche il più debole. Non è vero che… io penso che il paese più socialista d’Europa è la Svizzera non la Russia. Sìsì davvero eh!». Adesso siamo noi a ridere di gusto. Ridiamo e immaginiamo un luogo dove le auto vanno tutte alla velocità indicata sui cartelli. Una società intera che rispetta anche il codice stradale, senza fare una piega. La più semplice delle regole a protezione di ognuno. «La Svizzera a me m’ha cambiato, perfettamente, […] come devo dire? La Svizzera è un paese che tutti credono

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che sia il capitalismo perfetto… e invece non è vero! Solo la pensione: la pensione, io prendo 1.500 [franchi], sono circa 1.300 euro. Come me prendono tutti, anche i banchieri! Tutti uguali! Quando si è in pensione le esigenze sono uguali, se ne ha presi di più durante la sua vita, ne ha messi di più a parte. Però anche gli ultimi, i vagabondi, che qui li difendono, là non li difendono, però alla fine… li trattano bene anche a loro, perché se non c’hanno i soldi, ci pensa il Comune. Finché c’han qualche cosa devono adoperar la sua, ma dopo… sì non è che… gli ultimi li pestano. Non so se mi spiego».

Buchsee, primi anni Ottanta Quando seppe che Werner Bögli aveva avuto un infarto, Otti si trovava a Herzogenbuchsee, intento alla lettura del giornale o forse preso dal taglio dell’erba in giardino. Da qualche mese, o forse da poco più di un anno, si era trasferito con moglie e figlio nella cittadina del mercato e dell’unica edicola dov’era possibile acquistare il Corriere della sera. Si erano decisi dopo vent’anni di vita e pendolarismo da Ursenbach, nonostante l’eccezionale ospitalità nella casa che era stata proprio dell’ingegnere imprenditore. Anche se avevano amato quella dimora e l’avevano custodita con cura sin dal primo giorno, non seppero resistere quando si presentò l’occasione di fare il salto in una casa di proprietà, «’na bella casetta [con] mille metri di terra intorno». E poi Buchsee era sempre Buchsee, il posto dove Giovanna aveva lavorato per anni, a un tiro di schioppo da Langenthal, dove Spartaco andava tutte le mattine in motorino quando faceva il liceo. Anche dopo la morte dell’ingegnere, Otti era rimasto

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un’istituzione alla Bögli, un pilastro da tutti considerato insostituibile. In «tanti anni che ero lì», e non nasconde l’orgoglio, «il padrone contava molto su di me». Lo aveva visto destreggiarsi fra lavorazioni vecchie e nuove, sempre curioso di imparare, pronto a mettere tutto in ordine, a riparare. Mille volte si era trattenuto col padrone a parlare di questo o quel cliente, a capire le potenzialità e risolvere i grattacapi di un macchinario nuovo. Altre mille volte Otti non si era fatto pregare per far partire una consegna in tempo e il vecchio gli garantì sempre un occhio di riguardo. Gli aveva passato un’infinità di consigli e trucchi del mestiere, apprendendone altrettanti da lui, tanto che quando «la gente, o il capo[reparto] c’andava a chiedere qualche cosa», in tutta franchezza, quello rispondeva: «Chiedetelo a Palmieri, lui lo sa», senza preoccuparsi di provocare le invidie dei più. La “J. Bögli AG” non aveva voluto privarsi del suo portinaio di fiducia, del dipendente che non si era tirato mai indietro e di uno degli operai più esperti fra quelli non ancora in età da pensione. Quando andò in ufficio a dire che lui e Giovanna avevano finalmente firmato le carte per chiudere l’acquisto della casa, Werner stesso o suo fratello gli avevano offerto l’automobile aziendale. Dieci chilometri a tratta tagliando in direzione sud i primi pendii del plateau svizzero. Per due o forse tre anni ancora, andò a Ursenbach tutte le mattine. Con lui Giovanna che, dopo il fallimento della fabbrica di scarpe, proprio lì aveva trovato da lavorare in una tappezzeria. Di quel rapporto di fiducia così solido Otti era consapevole, almeno da quando si era fatto coraggio per negoziare salario e condizioni di lavoro senza ricorrere a intermediari. Ma non è vero che le conferme, quando arrivano, sono sempre scontate o poco gradite, anche se a tanti anni di distanza

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tutto appare sbiadito e gli esiti felici s’impongono sulle difficoltà di raggiungerli. «Io sapevo di saper lavorare» ci spiega, «e allora ci andavo in ufficio e dicevo: “Guardi io voglio tanto”», ma poi ci confessa che «prima di andare in ufficio, andavo a una ditta che faceva gli stessi cosi e sapevo che era buona – c’era degli altri italiani che ci lavoravano – andavo là e […] loro mi facevano un’offerta, [che] era molto di più di quanto prendevo». Per ben tre volte, Otti riuscì a spuntarla: «andavo dal mio padrone in ufficio e ci dicevo: “Guarda, io va bene che non pago l’affitto, però io… se vado nel nuovo posto pago anche l’affitto e poi me ne rimane di più lo stesso!”. “Ah non è vero, non è vero…”» gli rispondeva Werner mentre «si arrabbiava un po’». Otello si rallegra a ricordare questi episodi e svela soddisfatto l’epilogo: «io restavo lì lo stesso, facevo il mio lavoro e dopo un paio di giorni passava e diceva: “Va bene facciamo come dici tu”». Ci aveva provato anche dopo la morte dell’ingegnere, o forse si era licenziato senza nemmeno provare a negoziare. Con Otto Bögli alla guida della ditta, infatti, c’era «da tribolare» e lui non ne aveva più bisogno, all’inizio degli anni Ottanta. Iniziò col togliersi qualche sassolino dalla scarpa. Anni prima, passati i suoi quaranta, aveva colto al volo una delle sue occasioni e acquistato un terreno edificabile a Crespellano, in via Gramsci. Non era la prima volta che investivano i risparmi nel mattone, perché già dopo due anni di salario erano riusciti ad assicurarsi due lotti a Casalecchio di Reno, un comune in forte espansione edilizia, e a costruirci sopra sei appartamenti. Questa volta, però, era diverso, perché ai piedi della val Samoggia i due progettavano di tornare a godersi la pensione: «io avevo intenzione forse di tornare qui e… poi mio figlio rimaneva là nella casa svizzera, e poi forse la pensione venivo qua a farla qui, il pensionato».

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Ci tenevano così tanto che, per costruirla, non riuscirono mai a trovare qualcuno di cui fidarsi a pieno. Stabilitisi a Buchsee, forti degli affitti di Casalecchio, di due salari e dei risparmi di una vita, si convinsero che era arrivato il momento di tirare su una casa nel posto che avevano sempre chiamato con quel nome. Otello ne discusse con l’ingegnere, che sulle prime iniziò a borbottare senza sospettare che lui aveva già trovato un manovale e non era disposto a cambiare programma. Infine gli strappò «tre mesi di assenza» per costruire casa sua, convinto che «a darla a un capomastro mi fregava, insomma so come fanno», tanto più che lui, aggiunge dopo, voleva «costruirla con il sistema svizzero, coi muri inframezzati di lana di vetro». Chi fa da sé fa per tre, Otello sembra aver preso il detto alla lettera, e d’altronde Werner sapeva che dietro ogni italiano si nasconde un muratore. «Io avevo già fatto il manovale a Bologna», spiega oggi lui, «ero già capace di metter su le pietre, insomma… io il lavoro l’imparo, l’imparavo in fretta». «Il padrone» non poté fare altro che lasciarlo partire, ma «andava tutte le sere da mia moglie: “Allora, quando arriva?”. “Ancora due-tre giorni… ancora cinque giorni”», fino a che non prolungò a sei mesi il congedo. «Quando viene lo licenzio», pare avesse detto l’ingegnere a Giovanna, «poi invece, quando son andato là, è stato contento…», ride oggi Otello. Finito «il grezzo» a Crespellano, Otti tornò a pendolare fra Buchsee e Ursenbach. O forse no, perché quell’ultima contrattazione non andò come sperato, perché Werner era già morto e lui ne aveva abbastanza di Bögli o forse, ancora, perché «dopo che è morto il fratello, dopo tre anni è fallita». Fatto sta che, in un momento imprecisato della prima metà degli anni Ottanta, Otti stette in Italia sei mesi – o di nuovo sei mesi, dopo il primo congedo – e al ritorno, vicino al suo sessantesimo compleanno, fece un giro di colloqui fra le più

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quotate aziende meccaniche della zona. Dopo tanti anni, era nuovamente disoccupato, ma non aveva davvero di che preoccuparsi. Fra i tanti apprendisti che avevano imparato qualcosa da lui si sparse la voce del suo licenziamento. «Quando son tornato in là, questi giovani avevano detto nelle sue fabbriche… le sue fabbriche cercavano uno, uno come me, [per lavorare] su una macchina… si chiamava elesatrice». Ben cinque lettere gli erano state recapitate a casa in quei sei mesi, cinque aziende «che se ti fai vedere hanno piacere di parlare con te» gli spiegò Giovanna. «Allora sono andato dagli altri e mi han fatto […] l’offerta e poi l’ultima sono andato da quella che sarei andato volentieri». Questa volta non c’era più l’amica del posto a mettere una parola buona, ma gli anni di esperienza parlavano per lui. In tutti i sensi, però, perché non sempre essere veterani aiuta. «Io avevo 57 anni e mi han detto che ero troppo vecchio. […] al dîṡ: “Sa, son macchine… che van bene per i giovani…”. Dégg: “Ah lo so! Io so lavorare, però non so lavorare su questa macchina”. E […] mi han detto che non si poteva fare… e allora ho fatto quattro passi per andare, poi son tornato indietro e ho detto: “Guardate mò, io vengo un mese […] se voi vedete che io posso imparare, bene, sennò io non voglio niente, lo faccio per me”. E allora si guarda in faccia il padrone con il capo e il capo dice: “E perché non proviamo! Allora va bene, lunedì incominciate!”». Neanche a dirlo, «dopo una settimana circa», il caporeparto andò da lui a comunicargli che aveva passato la prova. E fu così che Otti venne assunto alla Duap di Herzogenbuchsee, azienda produttrice di sistemi di iniezione che oggi ha all’attivo stabilimenti in quattro paesi ed esporta in tutto il mondo. «Facevamo gli iniettori diesel per le navi» racconta, «erano macchine molto di precisione» e giù di

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nuovo a spiegarci i dettagli, le tecniche, la fabbrica. Con l’abnegazione di sempre, si ambientò alla Duap e in poco tempo strinse un ottimo rapporto col suo amministratore, un ex direttore di banca prestato all’industria manifatturiera. Ancora oggi lo ricorda con affetto, «parlavamo come due amici» e ci mostra una lettera del 2010 in cui Heribert Otto Geisser, già professore di finanza all’Università di St. Gallen, ringrazia Otello in perfetto italiano. «Grazie di cuore per il meraviglioso Parmigiano reggiano e le gustosissime ciliegie. L’intera ditta ha potuto approfittare del delizioso gusto di questi frutti» e ci racconta che «lui sapeva parlare molto bene l’italiano. Più di me!». Fino al sessantacinquesimo anno di età Otti rimase in sella, poi arrivò il momento della pensione. Ma immaginiamo già il resto. «Era tremendo fare niente […] ero abituato a lavorare io […] non sono uno che son capace a andare dentro a un bar a far le chiacchiere, insomma… io devo far qualche cosa». E non ci stupiamo neanche a scoprire che, quando dalla Duap gli chiesero di sostituire un operaio che «era malato», Otti piantò tutto – «io ero in procinto di tornare a casa, stavamo lì a aspettare» – e fece in modo di prolungare la sostituzione per altri cinque anni. «I miei pezzi non li mandavano neanche al controllo» ci racconta orgoglioso, e aggiunge: «lì ho guadagnato molti soldi».

Ginevra, 21 marzo 1984 Non sappiamo se il giorno del suo ventisettesimo compleanno, Spartaco avesse deciso di passarlo coi genitori a Buchsee o fra amici e colleghi a Ginevra, dove studiava diritto internazionale. A dire il vero, di lui non sappiamo quasi

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nulla, anche se dopo aver frequentato a lungo via Gramsci ci sembra quasi di conoscerlo, di coglierne i tratti caratteriali mentre lo vediamo crescere nelle foto di famiglia. Sappiamo invece riconoscere l’evoluzione della sua grafia, dopo averne sfogliato a lungo i quaderni di scuola. Anzi, è grazie ai suoi quaderni che familiarizziamo con la geografia elvetica, impariamo a riconoscerne le valli e i laghi, mentre Otello ci spiega le distanze fra casa, lavoro e scuola a seconda delle diverse fasi della loro vita. È così che abbiamo occasione di scoprire i dettagli sul sistema scolastico elvetico, ma anche le sue ottime pagelle – «s’arrabbiava quando veniva a casa che non c’aveva dato il voto» – e il percorso tipico di un ragazzo di seconda generazione, in bilico fra Berna e Bologna. Nella città delle torri, infatti, Spartaco aveva frequentato la prima classe delle elementari, forse in previsione di un rientro della famiglia che non si concretizzò mai o forse perché «aveva fretta di andare a scuola» aggiunge Otello. È grazie a questo avviamento italiano, fra l’altro, che guadagnò un vantaggio sui coetanei di Ursenbach, perché «là […] incominciano a 7 anni», e l’ha portato avanti finché non «è andato alle Secondarschule con un anno in meno degli altri». Soprattutto, è a Bologna che seguì il primo anno di liceo, al Righi, come consigliato dai suoi professori così da perfezionare la lingua. Anche se possiamo leggere solo i suoi quaderni «da piccolino», ci addentriamo con tutta la delicatezza di cui siamo capaci nell’universo di Spartaco, mentre Otello vacilla ed esita, teme di dire troppo, di apparire vanaglorioso, di parlare di questioni che non ci interessano. Noi lo rassicuriamo e gli chiediamo cosa avesse detto a suo figlio di Oliveto, della guerra e della sua partecipazione in armi alla Resistenza e al dopoguerra. Lui ci spiega che Spartaco sapeva tutto, conosceva il paesello e le sue storie, e spesso lo aveva

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portato lassù anche quando i parenti più prossimi erano tutti altrove. Salendo da Stiore gli aveva raccontato delle botte che avevano arrestato le camice nere di Monteveglio su quella stessa strada, delle stalle in cui si parlava sempre dell’odio contro i fascisti, degli anarchici del paese col fiocco nero ogni domenica e, infine, del ragazzo ucciso alla Prélla. Pezzo dopo pezzo gli aveva impartito la sua peculiare educazione olivetana tanto che, alla fine, «era come se fosse nato là». Olivetano anche lui, quindi, di cui ci sembra di cogliere anche il modo di riflettere sullo stato delle cose del mondo e sul contributo che pensava di poter dare. Un ragazzo sveglio, che amava leggere e lo faceva in continuazione, ma anche un ragazzo «molto taciturno» e all’apparenza «quasi triste». Solo dopo alcune settimane di incontri regolari, però, salta fuori che aveva preso anche lui la tessera del Pci, non a Bologna, come entrambi i suoi genitori, ma alla sezione estera di Ginevra, da giovane studente universitario. Una decisione accolta dalla meraviglia di tutti, considerata ardita, forse addirittura estrema, «perché in Svizzera… non era mica troppo bello andare all’università e essere comunista». Ma a lui non importava – «io son così e così devono sapere» – e, in fondo, «cosa vuoi che vada a dire, era giusto… ero così anch’io», si affretta a spiegare Otello, e poi ammette di averlo «sgridato» il giorno in cui ricevette la notizia. Sulle labbra di Ercoli, nella foto che fa capolino da una delle valigie nell’angolo della sala, siamo certi di aver appena intravisto formarsi un sorriso beffardo. «Ci credeva», dice Otello, ma anche lui aveva partecipato della disillusione – «dopo era cambiato un po’ anche lui» – pur serbando il sogno di fare un viaggio oltrecortina con suo padre, passeggiare per le strade di Nové Vysočany alla ricerca dei vecchi cabaret coi telefoni sui tavoli. Non ac-

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cadde mai, non insieme, mentre a Otello è riuscito di tornare a Praga, e poi a Brno e forse altrove, prima e dopo il comunismo. Rimase curioso, nonostante tutto, specie quando gli si prospettò la possibilità di conoscere un “avversario”, che pure era stato vecchio compagno del padre. Il comandante gappista Nado, al secolo Ennio Pasquali, ingegnere della bolognese Ducati e poi della Siemens a Milano. Imputato nell’inchiesta sull’“oro di Dongo” e perciò fuoriuscito a Praga, era stato inviato a Varsavia negli anni Cinquanta, dove venne accusato di «deviazionismo» e scontò alcuni mesi di carcere, per poi rimpatriare e diventare uno dei più feroci anticomunisti della stampa nostrana. «Una curiosata», definisce Otello quella loro visita a Pasquali, preludio forse a una serie di lezioni di matematica che avrebbe dovuto impartire al giovane liceale. Non se ne fece nulla perché a Spartaco Nado non diede una buona impressione, tanto più che non si sentiva di aver bisogno di ripetizioni. Di quel nome, così inusuale eppure così eloquente, conosciamo invece la genesi. Per quanto ci piacerebbe abbandonarci alla suggestione, quella secondo cui un nome indica sempre qualcosa di chi se lo vede assegnare, ci è troppo chiaro che in questo caso quel nome spiega molto più di chi lo assegnò. Di Spartacus, lo schiavo ribelle contro Roma aggressiva e sprezzante, Otello ebbe le prime notizie nel ’52, quando a Teplice, a Ostrava o forse semplicemente in via Opletalova, durante i passaggi della domenica, poté leggere un romanzo di Raffaello Giovagnoli riadattato su Vie nuove, il settimanale a larga diffusione del Pci. «M’è piaciuto il carattere di questo uomo», ricorda Otello di quando scopriva quella sollevazioni di ultimi che è diventata archetipo, «e allora ho scritto alla Giovanna, che era la mia fidanzata, e sapevo già il nome» che avrebbe voluto per il loro primoge-

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nito. Il 21 marzo del ’57 non si era mosso da quell’idea, e a Giovanna era piaciuta. Di Spartaco sappiamo poco altro o, forse, non sappiamo nulla e tutto il flusso di pensieri che lo ha sfiorato in ogni nostro incontro è soltanto un riflesso, la proiezione di un padre che ripensa alla sua «tragedia», come si lascia scappare Otello una sola volta. Sappiamo però che, a ventisette anni, gli fu diagnosticata una malattia invincibile e che lui la arrestò, il 18 dicembre 1984, prima che quella riuscisse a strappargli il suo sguardo migliore.

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Epilogo

Bisogna sempre fare i conti con un vuoto, quando una storia prende forma e riempie di sé la pagina bianca. Non importa se si è speso tanto o poco tempo a cercare il modo di farla funzionare, a scoprirne gli aspetti più nascosti. Scrivere una storia implica sempre congedarsi da essa, compiere una scelta fra ciò che va salvato e ciò che, invece, bisogna lasciar andare. A noi è servito un anno di discussioni e lavoro intermittente, di telefonate e controlli incrociati per iniziare a fare queste scelte, e un altro anno perché assumessero la forma di un libro. Ma dietro ogni episodio che guadagnava chiarezza, spuntavano sempre domande nuove che non sapevamo affrontare. Un rincorrersi di ricordi e riflessioni, sempre ingarbugliato e pieno d’inciampi. Per fortuna Otello era lì a controllare le trascrizioni e rimettere a posto nomi, toponimi e parentele, ma anche a riportare a galla nuovi frammenti e nuove storie. Finché non ha iniziato a mostrare i primi segni di impazienza, a voler vedere se le nostre chiacchiere «in zà e in là16», come dice lui, portano davvero a qualcosa. «Ce n’è già abbastanza, va là» ci dice un giorno mentre ci mettiamo a tavola, per poi aggiungere: «io son convinto

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“In qua e in là”, disordinate.

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che parliamo solo… per niente!». Ormai siamo abituati, così insistiamo, gli spieghiamo che colleghe, amici e conoscenti vogliono sapere come va a finire e ci confermano che questa biografia sta in piedi da sola, che noi dobbiamo solo cucire insieme i pezzi. «Mettici anche quella lì, allora», ci aiuta a spronarlo Giovanna, «già che ci siamo!» e noi ci gustiamo uno dei rari momenti in cui è nostra complice. Ascoltiamo con avidità e portiamo tutto a casa, senza sapere se funzionerà, né se saremo in grado di incastrare queste storie col resto. Intere giornate se ne vanno a leggere e rileggere, a incrociare dati e a cercare pareri esterni. Ed è in una giornata come queste che, finalmente, riceviamo la chiamata che rimette tutto in discussione. «Buongiorno, tribunale di Bologna, parlo con il dottor…?». «Sì, mi dica» e la voce si fa subito seria. «Ho qui una sua richiesta di qualche mese fa, ricorda? Un processo del ’45… ’spetti che glielo leggo. Numero quattromilaottocentocinquantasei, procedimento penale contro Biotiti, Palmieri eccetera. Le risulta?». «Sì, certo. Non c’è proprio modo di trovarlo, eh? Ho voluto provarci lo stesso, ma il suo collega mi spiegava che ormai…». «Ce l’ho qui davanti a me. Mi sono incuriosito, sa… All’inizio sembrava che il fascicolo mancasse, poi mi è tornato in mente che al tempo si archiviava con un criterio diverso. E così ho scoperto che c’era una seconda serie…». La voce all’altro capo si fa piacevole sottofondo. La mano, intanto, annota su un post-it giorno e ora, numero di telefono e indirizzo email. C’è un ultimo pro forma, assicura l’archivista, farsi autorizzare per la consultazione del materiale. «È roba che non interessa più a nessuno, non dovrebbero farvi storie. Però spiegate che è una ricerca storica». Si chiudono finalmente quasi due anni di congetture

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sulla morte dell’oste di Oliveto, che nei ricordi di tutti era un brav’uomo e non meritava di morire, anche se la sezione comunista di Monteveglio lo considerava un collaborazionista e i nostalgici della repubblica sociale, ancora oggi, lo annoverano fra i “martiri”. La storia è salva. Possiamo strappare una proroga alla consegna del libro e rimandare il congedo a un momento migliore. Non che ci sia tornata la voglia di crogiolarci in quel fatto di sangue, anzi. È fin troppo chiaro che per Otello la cosa si chiuse tanti anni fa e a noi basta quello. Augusto Mignani non era stato malvagio, ma lo era invece quel momento storico, pieno di gente che si portava appresso gli stenti, i famigliari ammazzati, le violenze, il rastrellamento del 27 agosto… Palmieri e Cerè ci erano finiti in mezzo, ma non per caso. Chi aveva orecchie per intendere sapeva che, per loro, il 25 aprile era solo la prima tappa. Dopo l’occupazione della sala Polga, il loro essere indesiderabili non fu più un segreto per nessuno e, per toglierseli dai piedi, andava bene un pretesto qualsiasi. È forse per questo motivo che, sulle prime, gli inquirenti esclusero il movente politico. O, meglio, lo cercarono in una politica mescolata alla criminalità locale, gente senza scrupoli che voleva approfittare del 25 aprile per arricchirsi ai danni di chi aveva appoggiato il regime passato. «Si ritiene che l’autore del delitto», così Il Resto del Carlino del 6 dicembre, «abbia agito a scopo di vendetta per mancata consegna da parte del Mignani di 50 mila lire, chiestegli con lettera minatoria». La prima ipotesi, consegnata alla stampa dal maresciallo Campana, si reggeva su un biglietto sgrammaticato che il figlio dell’oste avrebbe consegnato ai carabinieri meno di quindici giorni prima del delitto, il 18 novembre.

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«Tanti tuoi amici anno [sic] già pagato senza parlare», recita il foglietto rivolto allo «squadrista Mignani» che, la mattina del 9 dicembre, venne inoltrato all’ufficio istruzione del tribunale di Bologna assieme ai bossoli rinvenuti fuori dall’osteria. Poi c’erano le testimonianze oculari, specie quella di Pietro, il figlio ventenne dell’oste. Raccontò che per due volte, nelle sere prima del delitto, una macchina coi fari accesi si era fermata davanti casa. Disse anche che Filippo era entrato in negozio per acquistare fiammiferi e che, solo un quarto d’ora dopo, i colpi avevano penetrato le imposte e ucciso suo padre. Lui, ferito all’addome, era quindi uscito di corsa sparando un colpo in aria, ma non aveva scorto nessuno. La sera del 4 dicembre, però, si festeggia Santa Barbara e i botti non potevano fare scalpore su quelle colline: per celebrare la protettrice degli artiglieri, infatti, si usava sparare a salve e le armi quell’anno non mancavano. In tutta la zona, poi, quelli erano stati giorni concitatissimi. Magari il fallimento del governo Parri, appena caduto, non sarà stato il principale argomento di discussione degli avventori del bettolino. Ma, questo è certo, il partigianato bolognese non se la passava per niente bene. A metà novembre, una quindicina di ex combattenti aveva occupato Gaggio Montano, sull’Appennino, svaligiando la banca locale, bloccando i carabinieri e giustiziando cinque persone ritenute responsabili di un eccidio dell’anno prima. Di lì a qualche giorno, inoltre, qualcosa di simile sarebbe accaduto anche sul Samoggia, a Savigno, ma senza spargimenti di sangue. Forse è anche dovuto a questo clima se, per un bel po’ di tempo, le indagini sull’uccisione di Mignani non fecero progressi apprezzabili. Nessun interrogatorio, nessun verbale, nessun indizio. Solo nel settembre del ’47 il giudice istruttore volle ascoltare Pietro, che fu in grado di precisare alcuni dettagli.

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Richieste di denaro, la sua famiglia ne aveva ricevute fin dal marzo 1945, in piena guerra, ma suo padre si era rifiutato di pagare perché la richiesta era firmata «da un C.L.N. non meglio precisato». Né il giudice, né altri contestarono a Pietro che si trattava di pratiche necessarie a vincere la guerra da cui traeva legittimazione l’ordine politico vigente, sebbene da qualche mese non fosse più al governo la coalizione fra tutti i partiti antifascisti. Venne fuori anche che l’ultima lettera minatoria era stata recapitata e consegnata ai carabinieri il 15, non il 18 novembre. Ma alla stazione di Bazzano mancava il registro dei corpi di reato, né il giudice sentì l’esigenza di verificare il verbale di consegna. A ciò si aggiunse il rapporto del comandante dei carabinieri Pasquale Vesce, redatto a fine dicembre di quell’anno. Le indagini erano tutt’altro che bloccate, assicurò lui, ma non era stato possibile convincere i testi a rilasciare dichiarazioni davanti alle autorità. Fu soprattutto la posizione di Cerè a farsi delicata: entrato a comprare i fiammiferi, aveva mostrato comportamenti affatto strani, «il suo viso era pallido e le mani tremanti; lo sguardo era incerto e il suo timbro di voce anormale». Di lì in avanti è tutto un rincorrersi di testimonianze rese e ritrattate, di voci di seconda o terza mano che crollano ogni volta che gli inquirenti tentano di confermarle. E i tempi continuano a dilatarsi. Solo dal maggio 1950, i mandati di comparizione e i verbali iniziano a far ingrossare il faldone, non senza irregolarità o passaggi opachi. D’un tratto, i bossoli sono scomparsi, ma nel febbraio del ’51 un proiettile viene ritrovato incastonato nel muro dell’osteria. La lettera del marzo ’45, invece, viene acquisita agli atti dell’istruttoria nel maggio del ’50, ma nessuno dei membri del Cln locale, quando ascoltati, ne riconosce l’autenticità. Intanto, spuntano la riunione segreta con i comandanti par-

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tigiani della zona, le minacce in pieno giorno contro Mignani, le confabulazioni di Otello e Filippo davanti all’osteria e la faccenda della pistola che Zati avrebbe restituito a Otello in casa di Ivo. Tutte cose verosimili, che però potrebbero avere mille spiegazioni ed esiti sempre diversi. A noi pare di vederlo, Otello, mentre controlla la pistola o la rimette a posto con le altre, al deposito del Palazzetto o altrove. E ci viene da ridere a pensare a quanti alibi potevano avere quei due, tutti impeccabili, ma neanche lontanamente spendibili in un’aula di tribunale. Ci viene da ridere anche a pensare a Campana e Vesce che si arrovellano sul caso, che prima giocano la carta della criminalità comune e poi se la ritrovano usata contro di loro, con i testimoni di ogni parte politica che ripetono in coro la storia del brav’uomo che ha fatto credito a tutto il paese. A togliersi dall’angolo ci aveva provato Vesce già nel ’47, suggerendo al giudice che l’oste era inviso solo ad «alcuni abitanti» di Oliveto, poiché credevano che fosse stato uno «squadrista e fascista fervente», cosa però non «rispondente al vero». Alla richiesta del giudice di precisare – e ormai siamo nel giugno del ’48 – i carabinieri di Bazzano risposero che Mignani non aveva mai avuto onorificenze, ma era stato per «molti anni fiduciario della sezione commercianti di Monteveglio e come tale appartenente di diritto al direttorio del partito fascista di detto comune». Ecco che trova spiegazione il “vicepodestà”, finalmente. Tuttavia, non aveva preso la tessera del Partito fascista repubblicano, né risultavano a suo carico denunce «per collaborazionismo coi nazi fascisti [sic]». Di lì a poco le loro supposizioni si fecero sempre più solide. Dovevano essere stati Cerè, Palmieri e Biotiti, gente la cui «condotta in genere prima della liberazione era buona», ma che dopo «si rivelarono delle persone senza scrupoli, fa-

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natiche [e d]i una abbiettività [sic] incredibile». Ma c’è di più: «Attivisti pericolosi ed obbedienti ciecamente [agli] ordini di forsennati». Non si dice nulla del 14 luglio, ma è chiaro che l’arma di Bazzano pensava esattamente a quell’episodio. Su una cosa sola ci avevano visto lungo. Quando avviarono l’indagine, Campana e Vesce evitarono con cura di chiamare una giovane testimone a confermare o smentire una delle accuse più forti contro i tre. Vesce lo aveva spiegato senza mezzi termini: è una comunista e viene da una famiglia di rossi, l’attimo dopo che l’avremo chiamata a testimoniare, gli indiziati sapranno tutto. Ma il 22 marzo del ’49 il giudice istruttore le ordinò comunque di presentarsi. I piantèvan al furmintåũ e Otello, Filippo e Ivo sparirono dalla circolazione. Il faldone termina con la perizia sul proiettile ritrovato, che esclude categoricamente che la pistola descritta da Zati, una calibro 9 corto, possa aver sparato i colpi che hanno ucciso Mignani. Poi ci sono due o tre copie della sentenza che conosciamo. Siamo finalmente pronti a tornare da Otello e discutere con lui quest’abbozzo di interpretazione, studiare le sue reazioni quando gli facciamo i nomi che ricorrono e che noi ignoriamo, ragionare insieme a lui sulle cose che non quadrano. Ma quando arriviamo a Crespellano col malloppo, il suo distacco mette in ridicolo il nostro entusiasmo da fanatici della carta ingiallita. In parte, forse, se ne diverte, ma è più probabile che gli sembri qualcosa di molto simile a quando i carabinieri erano andati a cercarlo sul finire degli anni Novanta. «Volevano sapere se io sapevo qualche cosa» della gente passata dalle Caserme rosse, ma «io c’ho detto che sapevo quello di quel signore lì, ma là io… non avevo visto altro». Una stravaganza, il fascino per un dettaglio che non sposta i fatti, né i giudizi su di essi. Quel processo ha cambiato il corso della sua vita,

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ma sembra che aver ritrovato quelle carte non gli abbia regalato che una debole emozione. È preso da altro. Ci vuole raccontare di gente conosciuta in Cecoslovacchia, ma di cui sa anche “i nomi di qua”. Numeri di telefono che non ha mai trascritto sulle agende, e oggi se ne fa quasi una colpa. Ci vuole raccontare di Monte Biancano, di Spartaco, degli amici che lo volevano far tornare a Bologna, di chi gli faceva offerte lavorative non facili da rifiutare e delle amicizie svizzere che ha continuato a coltivare dopo il ’99. Tutto stando qui, a Crespellano, mentre con Giovanna curava le galline e l’orto oppure si dedicava a livellare i terrazzamenti per le vigne di un parente stretto, Gian Pietro Beghelli, che poi è anche un noto industriale di Monteveglio. È parlando di uno dei suoi figli che spunta Benito, «un somarino piccolo» che stava «per morire» e che lui ha voluto salvare a tutti i costi. Come i vecchi comunisti delle stalle, per anni e anni costretti a sfogarsi solo in quel silenzio, Otello non ha resistito a chiamare Benito il suo somaro. «Allora Beghelli m’ha detto: “Perché non c’hai messo Silvio?”. A dégg: “Avevo paura che s’offende!”». Noi ci lasciamo trasportare da questa ilarità e raccogliamo al volo il suo ennesimo impeto. «Perché non ci porti a conoscere Benito?». «Ah, se volete…». E un attimo dopo ci ritroviamo in macchina, con Otello che indica la Muffa e le sue storie che iniziano a prendere forma nella nostra immaginazione. Cinque minuti dopo siamo davanti al «centro Berlìnguer [dove] fanno le feste dell’Unità», che oggi è un parco con annessa sede del Pd locale. Poco dopo varchiamo la soglia di un giardino immenso, dove Benito si gode le giornate. Si lascia accarezzare da Otello, che però è sicuro di non essere riconosciuto, è

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passato troppo tempo da quando ha dovuto affidarlo alle cure di altri. Intanto ci racconta aneddoti nuovi, aggiunge particolari alle vecchie storie e ci accorgiamo che hanno un senso pieno solo adesso, mentre camminiamo per quei sentieri oggi asfaltati. È un fiume in piena e noi, di nuovo, saltiamo in macchina verso l’orto, a vedere la webcam fissa sulle galline ma anche il tornio. Prima di arrivare a Oliveto troviamo Monte Biancano e la tappa è d’obbligo. Ci arriviamo da via Elio Roda e ci torna in mente quel nascondiglio di zucche vergate a falce e martello. Ammiriamo il colle, al colmo del quale c’è ancora la casa che era stata occupata dai nazisti e che Cimpo e Tito avevano provato a espugnare. Ai suoi piedi, appena riparato dalla curva leggermente in salita, il cippo che li ricorda, con le stesse foto del sacrario di piazza Nettuno e la vegetazione. Tutt’intorno le vigne di Beghelli, «fatte da me dopo il rientro dalla Svizzera» precisa Otello sulla trascrizione. Con Gian Pietro si erano conosciuti quando aveva sposato Marisa, una nipote di Giovanna e prediletta di entrambi. Si erano immediatamente andati a genio, due uomini separati da quasi vent’anni di età ma uniti da un grande spirito pratico e dalla curiosità verso gli ultimi ritrovati della tecnologia. Otello, addirittura, aveva iniziato ad accompagnarlo in giro per la Svizzera alla ricerca di imprese interessate ai suoi prodotti, subito dopo la fondazione della Beghelli. «Quando ha incominciato a lavorare in proprio, voleva incominciare a vendere anche là, poi non siamo riusciti, siamo andati in qualche posto insieme, c’ho fatto da interprete… ma non c’è stato niente da fare». Nonostante questi primi insuccessi, la Beghelli si sarebbe affermata anche all’estero con l’acquisizione di

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aziende straniere e l’apertura di filiali in varie parti del globo. Lungi dal rimanere un ricordo sbiadito, l’eredità di quei primi viaggi insieme, alla ricerca di acquirenti e commesse, è rimasta viva finché la salute lo ha sorretto. Con l’arrivo del nuovo millennio, infatti, Beghelli ha voluto Otello al suo fianco durante le visite alle fabbriche di Francoforte e di Brno, e forse non semplicemente per avere un interprete o qualcuno che conoscesse gli usi del luogo. L’ultimo viaggio insieme è datato 2010, quando sono andati in estremo Oriente a conoscere «l’uomo più ricco della Cina». «Ogni tanto mi dice: “Vieni mò”». Ce lo immaginiamo a curiosare tra i reparti, a osservare gli operai, a indagare il funzionamento delle macchine più moderne stupendosi di quanto sia avanzata la tecnologia negli ultimi anni. E coltivando, allo stesso tempo, l’intima certezza di poter imparare qualsiasi nuova procedura in meno di una settimana, se lo volesse. La gita a Brno, nei primi anni 2000, avrà sicuramente avuto un sapore diverso. «Ho telefonato anche a un italiano, che vive là, è uno della Volante rossa, però non stava bene, è già più vecchio di me eh, non so se c’è ancora…», e anche se non ce lo dice, sappiamo che sta parlando del tenente Alvaro. Cerchiamo di capire, di chiedergli cosa ha provato tornando a Praga dopo tanti anni e come l’ha trovata, in questa nuova veste liberale e liberista. Ma il racconto torna sempre là, alla telefonata di Setti che ha chiuso un’epoca. «Quando poi è caduto il muro… e sono rimasti comunisti lo stesso, quello lì è una cosa… inconcepibile! Per me! Invece i miei parenti credono che io sia, sia diventato… non comunista… [che] è stato Beghelli. Invece è mica vero! Beghelli è più a sinistra di me adesso, è sempre stato un socialdemocratico però… democratico e un grande amico di

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Romano Prodi, si telefonano quasi tutti i giorni» o, come si corregge poi, «frequentemente». Non cadiamo dalle nuvole solo perché, ormai, da Otello ci aspettiamo di tutto e non riusciamo a stupirci di nulla. Neanche del posizionamento politico che si è appena assegnato. Però, a questo punto, una domanda dobbiamo proprio fargliela. «Quand’è che hai smesso di essere convinto, tu?». «Mai! Proprio mai». Come si parla di un orizzonte di aspettativa che è diventato esperienza? Come si racconta un futuro che ormai è passato, in un attimo, quasi senza rendersene conto? Ci poniamo queste domande e forse cominciamo a cogliere indistintamente qualcosa, mentre la Panda sale verso Oliveto. Otello ormai spazia a ruota libera sull’attualità politica. Ci parla della sua ammirazione per Matteo Renzi che, stuzzicato dalla nostra insolenza, non esita a definire «un democristiano abbastanza preparato, però! Perché guarda che quando spiega le cose… non è ingarbugliato». Ci commenta la situazione in Venezuela, «che si stanno ammazzando insieme poveracci… è la fine, è l’ultimo… pezzo di comunismo che se ne va» e, dopo un lungo silenzio, aggiunge: «purtroppo». Un insopprimibile brivido di amarezza affiora mestamente dalla sua voce. L’esperienza è il passato che vive nel presente, contribuendo a modellarlo. Ma anche il futuro vive nel presente e lo modella, sotto forma di aspettativa. Ci spinge a pensare che il futuro sarà migliore del passato e, soprattutto, ad agire per cambiare lo stato di cose presente. Il comunismo di Otello è stato questo, è stato vivere una vita strettamente e continuamente legata all’aspettativa. Per questo, durante le nostre chiacchierate, ha sempre faticato a indicare i mo-

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menti precisi, le tappe, i tentennamenti, gli alti e i bassi, gli entusiasmi rinnovatori della sua dedizione a un ideale che era ovunque, impossibile da delimitare con un come e un quando. Tutto il comunismo inseguito da Otello, nel suo racconto, è contenuto nell’odio tremendo covato nelle stalle di Oliveto, nella paura durante il rastrellamento, nelle notti passate sepolti vivi all’addiaccio, nel riscatto dalla miseria. Così come tutto l’amore per Giovanna è contenuto nel momento in cui si sono conosciuti, e non necessita di altre spiegazioni. Ora che «è la fine», in un mondo che ha visto il trionfo degli «avversari», il vocabolario che strutturava quelle speranze sembra essersi perduto e lui, deluso dal partito ma non dall’ideale, racconta di un’aspettativa come fosse un’esperienza nascondendo, appunto, quanto spazio ha avuto il futuro immaginato nella sua biografia. «L’utopia», ha scritto Enzo Traverso, «sembra una categoria del passato – il futuro immaginato di un tempo andato – perché non appartiene più al presente». E non modella più il presente di Otello, aggiungiamo, ma sembra impossibile fissare il momento in cui ha davvero smesso di farlo. Le tappe dell’utopia rimangono insondabili, come lo sono quelle della delusione. Non ci è dato sapere, per ora, come convivano il giovane rivoluzionario di professione e il vecchio operaio che ha trovato nella Svizzera il paese più socialista d’Europa. Parcheggiamo la Panda vicino a una curiosa statua il cui bianco stride con i rossi e i gialli di cui è colorato il paese. Sembra un contadino intento ad ammirare l’orizzonte, in un momento di riposo dalle fatiche quotidiane. Lo sguardo è stanco ma non riusciamo a decifrarne l’aspetto complessivo, non capiamo se sia fiero o sconsolato. Sconfitto o indomito.

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«Questo qui è una cosa che gliel’ho messa io con un altro contadino – Giuseppe Franceschini, ci dirà più avanti – la siamo andata a prendere nella Villa delle Puglie, l’abbiamo chiamato “proletario”, è lì con la vanga… e tutti vengono a farsi la fotografia lì, l’abbiamo preso in una villa, era stata abbandonata». Erano i giorni immediatamente successivi alla Liberazione. Non facciamo in tempo a scattare una foto che Otello è già dall’altro lato della strada, ritto davanti a quella che, scopriamo, è stata la sua ultima casa in paese. Sta per cominciare a piovere e dobbiamo affrettarci, la nostra gita potrebbe durare meno del previsto. «Adesso arriviamo dov’è stato ammazzato Mignani. Ecco qui… abitava lì. C’è un portico… e di là c’è una finestra e dalla finestra c’era la bottega… e da qui, da qui han sparato». L’edificio ha ben poco della vecchia osteria, riconvertito in palazzetto residenziale ormai da molti anni. Ma Otello la vede, dietro alla coltre di cemento che la avvolge, e cerca di mostrarla anche a noi. Le finestre, il bancone dove ora ci sono le cassette della posta, la grande sala in cui si ascoltavano le tirate di Appelius alla radio e dove, lui e Giovanna, avevano festeggiato il matrimonio. La strada continua a salire e Otello sembra sempre più impaziente. «Questa qui è la Rocca che adesso, vedi, non si vede più! È diventato piccolo piccolo piccolo. E la Giovanna è nata in quella finestra lassù guarda, questa qui è la Casa grande dell’ebreo […] C’era nove-dieci famiglie dentro». Doveva essere una festa quando la svizzera, la madre di Giovanna, metteva su il giradischi e tutti i giovani del paese accorrevano per ballare. Una vita di promiscuità e ristrettezze, direbbero alcuni. L’abitudine alla condivisione fin dalla nascita, in una casa divisa con altre nove famiglie nel bel mezzo di un paesino sulla collina bolognese. Osserviamo in

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silenzio il panorama che si apre, dall’altro lato rispetto alla chiesa, per scorgere Monteveglio, Stiore, la strada che porta a Oliveto su cui risuonano ancora le botte prese dai fascisti. Ma è già tempo di andare, le nuvole si fanno sempre più minacciose. Ripercorriamo la strada al contrario e, dopo aver superato il “proletario”, viriamo a destra. Usciti dal paese, Otello ci indica la casa dove abitava Filippo, in lontananza. Subito dopo, vediamo finalmente il podere del Casetto. «Ecco lì… lì è il posto dove io nel ’32 son venuto ad abitare. E i partigiani venivano giù da qui e io ero nella strada e mi dicevano: “Va a vedere se c’è i fascisti o i tedeschi”. E io andavo da Mignani, guardavo, poi venivo qui e loro m’aspettavano», e mentre torniamo ad ascoltare una storia che conosciamo ormai bene, entriamo nel cimitero di Oliveto. Comincia a cadere qualche goccia, ma siamo troppo indaffarati per darci peso. «Questa è una famiglia, una cara amica, quella là è la mia maestra, Matilde Romagnoli. […] Io sapevo diverse poesie in dialetto e lei me le voleva scrivere, le voleva scrivere in dialetto, ma dopo si è ammalata [e] non l’abbiamo fatto. Che c’era qui, di Bazzano, forse c’è sopra internet, un certo Piazza Marino, il poeta contadino. E a Bazzano al sabato c’è il mercato e sto signore veniva, era un uomo molto buffo, veniva a raccontare… le chiamano zirudelle in dialetto, e allora mio padre andava con mia madre a piedi a Bazzano, al sabato, al mercato delle mucche, e io andavo a ascoltare sto signore che raccontava delle storielle che erano capitate poco prima». Mentre Otello intona la zirudella della «signorina che andava a cantare in chiesa», ci inoltriamo nella selva di tombe tra nomi che ormai suonano familiari. Ci sono Ines, Virginia e Francesca, le tre sorelle che hanno preferito essere sepolte

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a Oliveto e non, come il resto della famiglia, a Grizzana. C’è Bartulén, Alberto Bartolini, che aveva preso tante botte dai fascisti – «anche contraccambiate» precisa Otello – senza mai arretrare di un passo ed era stato al confino insieme a Gramsci. C’è Antenore Lanzarini, che è morto tre volte in tre modi diversi perché forse, ribelle ferocemente vivo e consapevole, non si sentiva a proprio agio incastonato nel santino costruito per lui dopo la sua scomparsa. C’è Spartaco, cresciuto come un olivetano, che giustamente a Oliveto è sepolto. Ci sono tutte le storie del paese che Otello ci ha raccontato. E migliaia di altre. «E di qui… questi qui erano già fatti e c’era delle tombe che non c’era ancora il morto dentro, c’era solo un affare davanti e noi nascondevamo le armi lì dentro… e anche noi». Ormai piove a dirotto. Mentre Otello continua a parlare, i nostri pensieri sono altrove. Fluttuano in un angolo del salotto di casa sua a Crespellano, davanti a una fotografia che è rimasta a guardarci per tutto il tempo. Se da un lato della stanza Togliatti si faceva beffe di noi spuntando clandestinamente dalle valigie, dall’altro questa immagine in bianco e nero, appesa al muro come si conviene, rimaneva muta e al contempo emblematica ed enigmatica. Maggio 2010, recita la scritta nell’angolo destro. Sette individui, vestiti elegantemente, sono abbracciati in un raffinato salotto in stile neoclassico. Il centro è occupato da «l’uomo più ricco della Cina». Alla sua destra, Gian Pietro Beghelli e, al fianco dell’unica donna, suo figlio. Dall’altro lato Otello, il più elegante della compagnia, in completo nero e cravatta. Perfettamente a suo agio. E mai avrebbe immaginato, sepolto vivo nelle tombe che ci sta mostrando, di essere fotografato al fianco dell’uomo più ricco della Cina.

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Qualcosa si fa strada nei nostri pensieri, qualcosa che speravamo di sciogliere e che invece è destinato a rimanere indistinto, carico di dubbi più che di certezze, mentre la pioggia copre la vallata del Samoggia e, illuminato dal sole che fa capolino dietro le nubi, tutto risplende.

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Fonti e annotazioni

Indichiamo di seguito le coordinate delle fonti archivistiche e della letteratura su cui abbiamo lavorato per costruire la narrazione delle vicende umane e politiche di Otello Palmieri. La diversità dei contesti ha consigliato di segnalare solo il materiale usato durante la scrittura, e talvolta citato nel testo, senza pretesa di fornire una guida esaustiva ad alcune delle questioni cruciali della storia del Novecento affrontate o sfiorate nel libro. Va premesso che l’intervista a Otello Palmieri è la fonte principale di questo lavoro, un’indagine microstorica che si è avvalsa degli strumenti della storia orale. Il colloquio fra chi scrive e Otello è stato registrato a Crespellano (Bologna) nei giorni 4 marzo, 8, 22 e 29 aprile, 27 maggio 2017 e nel viaggio in auto fra Crespellano e Oliveto il 4 giugno 2017, presenti talvolta Fabrizio Bassetto e, per alcuni istanti, Giovanna Pedrazzi. Un’ultima chiacchierata con Otello e Giovanna è stata registrata, nella loro casa di Crespellano, il 13 settembre 2018. Il totale si aggira intorno alle 19 ore (solo audio). La trascrizione integrale, rivista da Otello, gli ha permesso di precisare alcuni ricordi (nomi, parentele, date, luoghi, ecc.) e, in qualche raro caso, di espungere alcuni dettagli, che pertanto non vengono riportati nel libro. L’insieme del materiale è conservato nell’archivio personale degli autori. Ci siamo giovati di due ulteriori colloqui, trascritti in parte e non rivisti dagli intervistati: uno con Mario Cerè (Crespellano, 27 maggio 2017) e uno con Alberto Masini, Bruno Sarti

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e Giuliano Sarti, in presenza di Mario Cerè, Giordano Giorgi e Roberto Corradini (Oliveto, 12 settembre 2018). Come è chiaro in alcuni passaggi del testo, Otello ci ha permesso di guardare le sue carte private, le foto di famiglia, i quaderni scolastici di Spartaco Palmieri e, infine, le due valigie che i coniugi Minarini avevano riportato a Bologna e consegnato a Lia Palmieri. Purtroppo, al loro interno, non era presente il diario che Otello ha tenuto presumibilmente fra la primavera del 1949 e l’estate del 1953. In questa nota abbiamo usato alcune abbreviazioni bibliografiche e archivistiche: b. (busta), f. (fascicolo), doc. (documento), cit. (citato/citazione), Id./Ead. (stesso/a autore/autrice), sgg. (seguenti). Tutti i link sono stati consultati l’ultima volta il 25 marzo 2019.

Prologo Il libro di Giuseppe Fiori dedicato agli esuli italiani in Cecoslovacchia è Uomini ex. Lo strano destino di un gruppo di comunisti italiani, Torino, Einaudi, 1993. La sentenza di assoluzione del 20 marzo 1953 è conservata, in fotocopia, nelle carte private di Mario Cerè. Il provvedimento che assimilò ad azioni di guerra diversi atti, formalmente illegali ma compiuti durante la guerra partigiana, è il decreto legislativo luogotenenziale 12 aprile 1945, n. 194 (pubblicato in Gazzetta ufficiale n. 58 del 15 maggio 1945), consultabile alla pagina: https://www.normattiva.it/urires/N2Ls?urn: nir:stato:decreto.legislativo.luogotenenziale:1945-0412;194@originale. Sul tema della violenza a cavallo fra guerra e dopoguerra ci siamo rifatti a due libri di Massimo Storchi, Uscire dalla

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guerra. Ordine pubblico e forze politiche. Modena 1945-1946, Milano, Franco Angeli, 1995 e Id., Combattere si può vincere bisogna. La scelta della violenza fra Resistenza e dopoguerra (Reggio Emilia 1943-1946), Venezia, Marsilio, 1998; ma anche a Mirco Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Roma, Editori Riuniti, 1999. Per una prospettiva più recente, in grado di inquadrare il caso italiano nel contesto europeo, si vedano i saggi di Javier Rodrigo, La fine della violenza? L’Europa in guerra (civile), 1936-1949 e di Enrico Acciai, Uscendo dalla guerra: i reduci dell’antifascismo in armi nell’Italia in transizione (1945-1948), entrambi in Id., Guido Panvini, Camilla Poesio, Toni Rovatti, (a cura di), Oltre il 1945. Violenza, conflitto sociale, ordine pubblico nel dopoguerra europeo, Roma, Viella, 2017, pp. 43-56 e pp. 135-151. Per quanto riguarda il bolognese, si veda Luca Alessandrini, The option of violence. Partisan activity in the Bologna area 19451948, in Jonathan Dunnage (a cura di), After the war. Violence, justice, continuity and renewal in italian society, University of Sussex, July 1996, Market Harborough, Troubador, 1999, pp. 59-74. Sulla “guerra delle memorie” che trova, su questo tema, il punto più alto di scontro, rimandiamo a Philip Cooke, L’eredità della Resistenza. Storia, cultura, politiche dal dopoguerra a oggi, Roma, Viella, 2015 e John Foot, Fratture d’Italia, Milano, Rizzoli, 2009. Il volume dedicato alla zona di Monteveglio tra fascismo e dopoguerra, che citiamo rapidamente, è quello di Matteo Mezzadri e Vincenzo Sardone, Sogno di libertà, risveglio di democrazia. Monteveglio dal fascismo alla ricostruzione, San Giovanni in Persiceto, Aspasia, 2007 (cit. a p. 150). Sul 14 luglio 1948 e le proteste di quei giorni abbondano i riferimenti bibliografici e sono oggi disponibili anche alcune fonti online. Il primo bilancio dei disordini è del ministro dell’Interno Mario Scelba e si può leggere negli Atti

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parlamentari del Senato della Repubblica, XXXVII seduta pomeridiana di venerdì 16 luglio 1948, disponibile su http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/48723 4.pdf, p. 1011 e sgg. Sono interessanti le ricostruzioni pubblicate per il trentennale da Walter Tobagi, La rivoluzione impossibile. L’attentato a Togliatti: violenza politica e reazione popolare, Milano, Il saggiatore, 2009 (1a ed. 1978), che utilizza soprattutto i telegrammi dei prefetti al Ministero dell’Interno, e Massimo Caprara, L’attentato a Togliatti. 14 luglio 1948: il PCI tra insurrezione e programma democratico, Venezia, Marsilio, 1978, che restituisce un punto di vista interno al Pci (l’autore fu a lungo segretario di Togliatti). Giovanni Gozzini è tornato su quei fatti, con uno stile che rende quel racconto largamente accessibile, in Hanno sparato a Togliatti. L’Italia del 1948, Milano, il Saggiatore, 1998. Dello stesso autore segnaliamo anche Il PCI nel sistema politico della Repubblica, in Roberto Gualtieri (a cura di), Il PCI nell’Italia repubblicana, 1943-1991, in «Annali della Fondazione Istituto Gramsci», n. 11, Roma, Carocci, 2001, pp. 103-140 che affronta il tema della “doppiezza” comunista, ovvero la presunta adesione formale alla democrazia come tattica in attesa della rivoluzione. Nel settantennale non sono mancate le pubblicazioni, che non hanno però rinnovato il quadro interpretativo, come ad es. Giuseppe Pardini, Prove tecniche di rivoluzione. L’attentato a Togliatti, luglio 1948, Milano, Luni, 2018. Su casi di studio singoli, gli eventi di Abbadia San Salvatore sul Monte Amiata sono i più noti ed emblematici, per via dell’occupazione della centrale dei telefoni di stato da parte di centinaia di minatori in sciopero e il blocco della caserma dei carabinieri, nonché l’uccisione, durante i tafferugli, di un maresciallo della Celere. Meno noti sono invece le violenze poliziesche e i licenziamenti successivi. Per il bolognese, largamente assente dalle sintesi sopra citate, esi-

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stono a nostra conoscenza solo alcuni contributi sparsi, fra cui segnaliamo Mauro Maggiorani, L’attentato a Togliatti nelle carte della Prefettura di Bologna, in Id. (a cura di), Le attese tradite. Materiali sulla persecuzione dei partigiani italiani nel dopoguerra, Bacchilega, 2012, pp. 59-72. Il caso di Monteveglio, al centro della memoria di Otello, è a nostro avviso un episodio capace di dialogare con la riflessione storiografica più aggiornata, cosa che in questo libro abbiamo potuto solo avviare, anche per l’impossibilità di procedere allo scavo archivistico che merita. L’attentato a Togliatti va letto accanto al “processo alla Resistenza”, un insieme di procedimenti giudiziari a carico di ex partigiani per fatti compiuti prima e dopo il 25 aprile 1945, il cui numero si fece imponente dopo l’estate del 1948, come messo in luce da diversi contributi. Fra gli altri, vedi Luca Alessandrini e Anna Maria Politi, Nuove fonti sui processi contro i partigiani 1948-1953. Contesto politico e organizzazione della difesa, in «Italia Contemporanea», n. 178, 1990, pp. 42-62 (ora su: http://www.italia-resistenza.it/wpcontent/uploads/ic/RAV0053532_1990_178-181_04.pdf); Michela Ponzani, I processi ai partigiani nell’Italia repubblicana. L’attività di Solidarietà democratica (1945-1959), in «Italia contemporanea», n. 237, dicembre 2004, pp. 611-632, tema sviluppato in Ead., L’offensiva giudiziaria antipartigiana nell’Italia repubblicana (1945-1960), Roma, Aracne, 2008. L’ultima versione del saggio di Cesare Bermani sulla Volante rossa, di cui forniamo maggiori riferimenti nella nota al secondo capitolo, è La volante rossa. Storia e mito di un gruppo di bravi ragazzi, Milano-Paderno Dugnano, Archivio Primo MoroniColibrì, 2009. Sul processo che ha coinvolto Otello, le nostre prime ricerche presso l’Archivio di Stato e l’archivio del Tribunale di Bologna non hanno dato frutti. Nel fondo del Comitato di Solidarietà democratica di Bologna, conservato

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presso l’Archivio dell’Istituto storico Parri, si può invece consultare l’estratto della sentenza (f. 190). Nel maggio 2016 l’Università di Bologna ha annunciato che la biblioteca di Discipline umanistiche, con altre, sarebbe stata dotata di controllo degli accessi parallelamente all’estensione dell’apertura in orario serale (https://magazine.unibo.it/archivio/2016/05/23/mille-posti-perstudiare-fino-a-mezzanotte-in-zona-universitaria). Fra gennaio e febbraio dell’anno dopo, quando i tornelli sono entrati in funzione, il Collettivo universitario autonomo ha messo in atto pratiche di disobbedienza civile, rivendicando l’apertura senza restrizioni di un luogo di cultura, aggregazione e organizzazione politica. Ne sono seguiti scontri con la polizia, che ha caricato in tenuta antisommossa fin dentro l’aula studio (9 febbraio 2017), quindi alcuni provvedimenti disciplinari interni, misure cautelari (poi revocate a luglio) e condanne (con pene sospese a dicembre). Nei giorni in cui abbiamo conosciuto Otello questo era di fatto un tema che polarizzava il dibattito cittadino: i principali quotidiani locali e nazionali si sono quasi subito adagiati sulla retorica dei “facinorosi” (https://www.ilrestodelcarlino.it/bologna/cronaca/scontri-universit%C3%A0-1.2893710), banalizzando e relegando ai margini le ragioni della protesta (https://www.zic.it/tag/tornelli36). La febbre del fare. Bologna 1945-1980 è un film documentario di Michele Mellara e Alessandro Rossi pubblicato nel 2010 dalla Cineteca di Bologna. Il libro di Wu Ming e Vitaliano Ravagli cui facciamo riferimento è, invece, Asce di guerra, Milano, Tropea, 2000, anche disponibile alla pagina https://www.wumingfoundation.com/giap/nuova-areadownload-libri-elettronici-ai-proletari-ebook.

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Battagliero Per ricostruire il contesto storico del borgo di Oliveto abbiamo consultato Renato Passeri, Quelli di Oliveto. Storia del più piccolo libero comune d’Italia, Bologna, Tamari, 1972. Una lettura generale dell’emigrazione in Svizzera si trova in Giovanna Meyer Sabino, In Svizzera, in Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi ed Emilio Franzina (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana, vol. II Arrivi, Roma, Donzelli, 2002, pp. 147-158, ma anche in Toni Ricciardi, Breve storia dell’emigrazione italiana in Svizzera. Dall’esodo di massa alle nuove mobilità, Roma, Donzelli, 2018. La Direttissima Bologna-Firenze fu inaugurata nel 1934, dopo trent’anni di lavori di costruzione che impiegarono migliaia di lavoratori lasciando una scia di morti bianche. Il monumento ad esse dedicato davanti alla stazione centrale di Bologna venne distrutto dai bombardamenti alleati durante la Seconda guerra mondiale. Su questo tema, rimandiamo ai saggi raccolti da Riccardo Dirindin ed Elena Pirazzoli (a cura di), Bologna Centrale. Città e ferrovia tra metà Ottocento e oggi, Bologna, Clueb, 2008. Per approfondire il rapporto tra modernizzazione delle infrastrutture e repressione politica, con particolare attenzione al comparto ferroviario, rimandiamo invece a Stefano Cecini, Le premesse della politica ferroviaria fascista: risanamento finanziario e repressione politica (1922-1924), in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», n. 1, gennaio-giugno 2011, pp. 183-219 e Id., Fascismo ed elettrificazione ferroviaria tra ammodernamento tecnico e politica di prestigio (1922-1940), in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», n. 2, luglio-dicembre 2012, pp. 187-228. Una breve biografia di Tienno Pattacini è dispoinibile online alla pagina http://www.officinadelbattagliero.com/album/alla-pattacini. Sulle dinamiche clientelari, di certo non create ex novo

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ma sviluppatesi enormemente durante il fascismo, i riferimenti più recenti e ricchi, per gli angoli visuali proposti, sono Joshua Arthurs, Michael Ebner e Kate Ferris (a cura di), The politics of everyday life in fascist Italy. Outside the state?, New York, Palgrave Macmillan, 2017; Paul Corner, Italia fascista. Politica e opinione popolare sotto la dittatura, Roma, Carocci, 2015; Id. e Valeria Galimi (a cura di), Il fascismo in provincia. Articolazioni e gestione del potere tra centro e periferia, Roma, Viella, 2014 e la raccolta curata dall’Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza, Fascismi periferici. Nuove ricerche, Milano, Franco Angeli, 2010. La storiografia più recente ha giustamente messo in luce la persistenza di dinamiche coercitive e repressive, non di rado fisiche, lungo tutto il corso del Ventennio, che operarono come premessa, materiale e tangibile, alle minacce di punizione. A riguardo, si vedano i volumi di Giulia Albanese, La marcia su Roma, Roma, Laterza, 2006; Michael Ebner, Ordinary violence in Mussolini’s Italy, New York, Cambridge University Press, 2011 e Matteo Millan, Squadrismo e squadristi nella dittatura fascista, Roma, Viella, 2014. Sui personaggi dell’antifascismo olivetano, un’utile cornice è fornita da Luigi Arbizzani, Antifascismo e lotta di Liberazione nel Bolognese. Comune per comune, Bologna, Anpi, 1998, in particolare alle pp. 170-171 su Monteveglio. L’episodio delle barricate di Parma, in cui gli Arditi del popolo di Guido Picelli respinsero gli squadristi capitanati da Italo Balbo, è stato raccontato in diversi volumi, sia di ricostruzione storica che di narrativa. Per i primi, rimandiamo almeno a William Gambetta e Massimo Giuffredi (a cura di), Memorie d’agosto. Letture e immagini delle Barricate antifasciste di Parma del 1922, Milano, Punto rosso, 2007; ma anche a Eros Francescangeli, Arditi del popolo. Argo Secondari e la prima organizzazione antifascista (1917-1922), Roma, Odradek, 2000

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e Mimmo Franzinelli, Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista 1919-1922, Milano, Mondadori, 2003. Per un approccio narrativo, invece, consigliamo il bel romanzo di Pino Cacucci, Oltretorrente, Milano, Feltrinelli, 2003. Sappiamo dell’effettiva presenza di fascisti a Oliveto dall’intervista ad Alberto Masini, Bruno e Giuliano Sarti. Le fotografie della visita del federale fascista Piero Monzoni in paese sono conservate presso l’Istituto storico Parri, all’interno di un fondo a suo nome disponibile al sito http://parridigit.istitutoparri.eu/fondi.aspx?key=preview&tipo=3&c p=1&previewFondo=30. Pur senza essere in grado di individuarlo, conosciamo il nome di uno dei pochi fascisti di Oliveto incrociando i colloqui con Otello e quelli con un secondo interlocutore. Di quest’ultimo, tuttavia, preferiamo proteggere l’anonimato, poiché proveniente da una famiglia con una lunga storia a sinistra che, pertanto, considera ancora dolorosa e divisiva questa memoria. Più in generale, sulla situazione socio-economica bolognese durante la guerra rimandiamo ai saggi raccolti da Brunella Dalla Casa e Alberto Preti (a cura di), Bologna in guerra. 1940-1945, Milano, Franco Angeli, 1995. Una ricostruzione del rastrellamento del 27 agosto 1944, e degli eventi connessi, è in Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, in particolare Massimo Turchi, Episodi: Calderino, Monte San Pietro, 27-28.08.1944 (www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=5140); Fagnano, Castello di Serravalle, 27.08.1944 (www.straginazifasciste.it/?page_id= 38&id_strage=5141) e Muffa, Crespellano (Valsamoggia), 28.08.1944 (www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_ strage=5142). Utili anche le numerose testimonianze, in particolare segnaliamo quella di Remo Righetti in Luciano Bergonzini, La Resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti, vol. V, Bologna, Istituto per la storia di Bologna, 1980, pp.

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554-556. Sul campo di concentramento delle Caserme rosse, facciamo riferimento ad Alberto De Bernardi e Alberto Preti (a cura di), La Resistenza, il fascismo, la memoria. Bologna 1943-1945, Bologna, Bononia University Press, 2017, p. 39; ma anche alla testimonianza di monsignor Giulio Salmi in L. Bergonzini, La Resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti, vol. III, Bologna, Istituto per la storia di Bologna, 1970, pp. 407-410. L’attività antifascista di Lia Palmieri è menzionata da Fernanda Fini, anche lei infermiera, in L. Bergonzini, La Resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti, vol. III, cit., pp. 619-620, ma anche in Roberta Mira, Il contributo di medici e paramedici, in M. Maggiorani (a cura di), Curare la Resistenza. Il servizio sanitario durante la lotta di liberazione a Bologna 1943-1945, interventi letti durante le celebrazioni del 21 aprile 2007, Bologna, Anpi, 2007, pp. 3147 (Lia è citata a p. 45). Sulla figura e le tecniche comunicative di Mario Appelius, rimandiamo ad Ada Gigli Marchetti, Mario Appelius, il microfono del Duce, in Angelo Varni (a cura di), Storia della comunicazione in Italia. Dalle Gazzette a Internet, Bologna, il Mulino, 2002, pp. 129-146. Le dinamiche di controllo dell’opinione popolare nei luoghi pubblici, soprattutto nelle osterie, sono state diffusamente raccontate in Mauro Canali, Le spie del regime, Bologna, il Mulino, 2004; Patrizia Dogliani, Il fascismo degli italiani. Una storia sociale, Torino, Utet, 2008 e M. Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra. Agenti, collaboratori e vittime della polizia politica fascista, Torino, Bollati Boringhieri, 1999. Circa l’arruolamento di Pietro Mignani non siamo riusciti a verificare quella che, pertanto, riportiamo in quanto memoria degli antifascisti di Oliveto, come emerge dall’intervista ad Alberto Masini, Bruno e Giuliano Sarti confermata dallo stesso Otello. Sulla prima organizzazione della formazione di monta-

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gna che sarebbe diventata il battaglione «Sozzi» rimandiamo alle testimonianze di Beltrando Pancaldi e Mario Anderlini in L. Bergonzini, La Resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti, cit., rispettivamente vol. III, 1970, pp. 439-445 e vol. V, 1980, pp. 550-552. Brevi profili biografici di Armando Dall’Aglio, Filippo Cerè, Eliseo Degli Esposti, Antenore Lanzarini ed Ernesto Marcheselli sono disponibili in Alessandro Albertazzi, Luigi Arbizzani e Nazario Sauro Onofri (a cura di), Gli antifascisti, i partigiani e le vittime del fascismo nel Bolognese (1919-1945), 6 volumi, Bologna, Istituto per la storia di Bologna (poi Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nella provincia di Bologna “Luciano Bergonzini”), 1985-2005, ad nomina. Il dizionario è un’opera fondamentale, sulla cui attendibilità storiografica è tuttavia doveroso nutrire qualche dubbio. La “svolta di Salerno” (dove si stabilì il governo del Sud) venne annunciata da Togliatti al suo rientro in Italia, approvata dal Consiglio nazionale del Pci il 30-31 marzo 1944 e subito resa pubblica. Con essa Togliatti risolse l’impasse fra governo e partiti del Comitato di liberazione nazionale (Cln), Pci compreso, accettando che Pietro Badoglio restasse capo di governo, sebbene ampliato a tutte le forze antifasciste, e rinviando la scelta fra monarchia e repubblica a una consultazione popolare da tenersi dopo la guerra. Uno dei primi discorsi con cui questa politica, effettivamente nuova, venne spiegata alla base comunista fu il rapporto tenuto a Napoli l’11 aprile (La politica d’unità nazionale dei comunisti, ora in Palmiro Togliatti, Il rinnovamento democratico del paese, a cura di Aldo Agosti, Roma, Castelvecchi, 2014, pp. 19-74). Sulla svolta ha dibattuto a lungo chi sottolinea l’elaborazione autonoma di Ercoli e chi invece la vede totalmente subordinata agli interessi di Mosca (per un confronto vedi A. Agosti, Togliatti. Un uomo di frontiera, Torino,

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Utet, 2003, pp. 268-282 ed Elena Aga-Rossi e Victor Zaslavsky, Togliatti e Stalin. Il PCI e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, Bologna, il Mulino, 2007). Un quadro più articolato, basato sulla documentazione di parte italiana e sovietica, è restituito da Silvio Pons, L’impossibile egemonia. L’Urss, il Pci e le origini della guerra fredda (1943-1948), Roma, Carocci, 1999, pp. 143-188. Sull’acclimatamento contrastato di questa linea fra molti quadri comunisti e partigiani, nonché sulle complesse dinamiche generazionali che intervennero, sono fondamentali le considerazioni di Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, ed. digit. 2011 (1a ed. 1991), pp. 882-972. Sulle “insurrezioni mancate di Bologna”, cioè il fallimento delle direttive del Comando unico militare Emilia Romagna (Cumer) secondo cui – in accordo con il Cln e il Corpo volontari della libertà (Cvl) – bisognava far convergere le formazioni partigiane sulle principali città, per contribuire alla loro liberazione con un’insurrezione popolare prima dell’arrivo degli Alleati, vedi A. Albertazzi, L. Arbizzani e N.S. Onofri (a cura di), Gli antifascisti, cit., vol. I, Bologna dall’antifascismo alla Resistenza, a cura di N.S. Onofri, 2005, pp. 155-157. Sull’episodio di Casteldebole, che fu in relazione con quelle direttive e costò la vita anche a Corrado Masetti detto Bolero, a cui sarebbe stata successivamente intitolata la 63a brigata Garibaldi, rimandiamo alla scheda sul sito www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage =5293. Sono di estremo interesse, inoltre, le citate testimonianze di Beltrando Pancaldi (è lui il comandante Ran, la cui cit. è a p. 444) e Mario Anderlini, ma anche di Angelo Piazzi in L. Bergonzini, La Resistenza a Bologna, cit., vol. V, 570-572. Su questo episodio, ma più in generale sulla «Bolero», abbiamo consultato anche le relazioni inviate al

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Cumer conservate presso l’Archivio dell’Istituto storico Parri, Fondo Cumer, bb. 1, 2, 3 e 4 (per i periodi: settembre, novembre e marzo-aprile; disponibili su http:// parridigit. istitutoparri.eu/fondi.aspx?key=ricerca&fondo=25); Fondo Brigate Garibaldi, bb. 1 (bollettino militare gennaio e febbraio 1945), 2 (bollettino mensile delle brigate Sap, febbraio 1945) e 4 (bollettino mensile delle brigate Sap, gennaio 1945; Operazioni militari della divisione patriota “Bologna” per la conquista della città e provincia, 13 luglio 1945), ma anche Fondazione Gramsci Emilia-Romagna, Archivio del Partito comunista italiano, Triumvirato insurrezionale Emilia Romagna, b. 4, f. 42 «Relazioni» (la cit. di Rotilio Vignoli è al doc. Alcuni quadri della 63° BRIGATA GARIBALDINA “BOLERO”, p. 1; gli estratti sulle azioni dal 21-23 gennaio fino al 1 marzo sono invece in Divisione Bologna. Diario storico della della 63^ BRIGATA BOLERO, 1 agosto 1945). Lo scritto del disertore olandese è Willy Beckers, Banden! Waffen raus! L’ultimo inverno di lotta partigiana nella collina bolognese, Bologna, Alfa, 1965 (disponibile qui: http://www.storiaememoriadibologna.it/files/vecchio_archivio/seconda-guerra/b/Beckers%20Banden.pdf). Sul carisma e l’importanza di Antenore Lanzarini per i giovani del luogo, si veda la testimonianza di Remo Righetti in M. Mezzadri, V. Sardone, Sogno di libertà, cit., pp. 73-77. Sulla figura di Gastone Sozzi, rimandiamo alla raccolta di saggi curata da Maurizio Ridolfi (a cura di), Gastone Sozzi. Le passioni politiche, i sentimenti, l’antifascismo, Cesena, Il ponte vecchio, 2006, che contiene in introduzione un profilo biografico puntuale. Il particolare del tubo per respirare stando sotto terra è aggiunto da Bruno Sarti. La celebre frase di Vittorio Foa è citata in maniera estesa da Guido Crainz, Il conflitto e la memoria. «Guerra civile» e «triangolo della morte», in «Meridiana», n. 13, 1992, pp. 17-55 (cit. a p. 25). Rashomon è un film del 1950 diretto

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da Akira Kurosawa, divenuto ormai riferimento ricorrente nei dibattiti sull’importanza di moltiplicare i punti di vista per arrivare a una ricostruzione degli eventi attendibile. Per richiamare l’analisi politica che il Pci diede degli eventi del 14 luglio 1948, oltre ai testi citati in nota al Prologo, abbiamo attinto agli scritti di Celeste Negarville (Togliatti organizzatore del partito, p. 2) e Pietro Secchia (Esperienze di un grande sciopero, pp. 3-6) nel numero di agosto 1948 del «Quaderno dell’attivista», dove è contenuta anche la relazione di Arturo Colombi, segretario regionale del Pci in Emilia-Romagna (p. 9), che però non nomina Monteveglio. “Illegalismo” è un termine assai utilizzato nel dopoguerra dai dirigenti del Pci, su cui è di estremo interesse l’intervento di Togliatti alla Direzione del Pci per il nord Italia del 5 agosto 1945, pubblicato da «l’Unità» il 10 settembre 1990 e commentato da Renzo Martinelli. Le dichiarazioni di Togliatti su Pallante sono riportate da Mario Spallone, Vent’anni con Togliatti, Milano, Teti, 1976, p. 33. Per la cronaca locale, non solo di quei giorni, abbiamo consultato anche «Il Resto del Carlino» (complessivamente una selezione delle annate 1945-49). Il tema delle agitazioni contadine in area padana è stato studiato a fondo da G. Crainz, I braccianti padani, in Gloria Chianese, Id., Marco De Vela e Gabriella Gribaudi, Italia 1945-1950. Conflitti e trasformazioni sociali, Milano, Franco Angeli, 1985, pp. 173-326; Id., Braccianti della Valle del Po. 1860-1960, in Pier Paolo D’Attorre, A. De Bernardi (a cura di), Studi sull’agricoltura italiana. Società rurale e modernizzazione, in «Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli», n. XXIX, Milano, Feltrinelli, 1994, pp. 223-265 e quindi ripreso in Id., Padania. Il mondo dei braccianti dall’Ottocento alla fuga dalle campagne, Roma, Donzelli, 1994. Nello specifico del dopoguerra e con riferimento all’area bolognese ha

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scritto M. Dondi, Il conflitto sociale dagli albori della sindacalizzazione alla trasformazione delle campagne, in Id. e Tito Menzani (a cura di), Le campagne. Conflitti, strutture agrarie, associazioni, Bologna, Aspasia, 2005, pp. 19-183 (alle pp. 155-158 i riferimenti a Maria Margotti e Loredano Bizzarri uccisi nel corso dello sciopero della primavera del 1949). Le citazioni su quella mobilitazione sono, nell’ordine, in Archivio dell’Istituto storico Parri, Comitato di Solidarietà democratica Bologna, b. 510, Confederterra-Federbraccianti provinciale, Sciopero bracciantile dal 9-18 maggio al 23 giugno 1949, p. 3 (ora in Camera del lavoro di Bologna, «Nessuna anormalità è segnalata nella prima parte della notte». Documenti della lotta bracciantile in provincia di Bologna (maggio-giugno 1949), Bologna, 1991, pp. 155-168) e Fondazione Gramsci Emilia-Romagna, Archivio del Partito comunista italiano, Comitato regionale Emilia-Romagna, Comitato Regionale, b. 1., f. «Documenti arbitri polizieschi», p. 1. Per quanto riguarda l’amministrazione della “giustizia di transizione” nell’Italia del dopoguerra, oltre a quanto già citato sulla questione della violenza, rimandiamo alle riflessioni in Luca Baldissara e Paolo Pezzino (a cura di), Giudicare e punire. I processi per crimini di guerra tra diritto e politica, Napoli, L’ancora del Mediterraneo, 2005 e da Giovanni Focardi e Cecilia Nubola (a cura di), Nei tribunali. Pratiche e protagonisti della giustizia di transizione nell’Italia repubblicana, Bologna, il Mulino, 2015. Fa il punto della situazione un saggio recente di T. Rovatti, Ansia di giustizia e desiderio di vendetta. Esperienze di punizione nell’Italia del Centro-nord, 1945-1946, in Enrico Acciai, Guido Panvini, Camilla Poesio, Ead. (a cura di), Oltre il 1945, cit., pp. 73-87; ma rimandiamo anche a M. Franzinelli, L’amnistia Togliatti. 1946. Colpo di spugna sui crimini fascisti, Milano, Feltrinelli, 2016, pp. 18-90 di cui, più in generale, vedi le considerazioni circa i processi celebrati dopo

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il giugno 1946. Anche se Otello ricorda il processo contro un solo imputato, da lui identificato e poi assolto, per i fatti del 27-28 agosto 1944 furono spiccate due condanne, come spiega M. Turchi, Episodio: Calderino, Monte San Pietro, cit. Sulle mai sopite polemiche e le forzature circa il “triangolo della morte” esiste una vasta pubblicistica, dai toni variamente neofascisti o anticomunisti, contro cui le sinistre dell’arco costituzionale hanno costruito nei decenni una linea difensiva tendente a tracciare un confine netto fra lotta politica e delinquenza, sulla scia dell’illegalismo a cui abbiamo fatto cenno sopra, di cui si ha un esempio in N.S. Onofri, Il triangolo rosso. La guerra di liberazione e la sconfitta del fascismo (1943-1947), Roma, Sapere 2000, 2007. Una riflessione “a caldo”, ma storiograficamente più solida, è in Istituto storico provinciale della Resistenza Bologna, Guerra, Resistenza, dopoguerra. Storiografia e polemiche recenti, atti del seminario di Bologna del 13 dicembre 1990, 1991. Ma vedi, soprattutto, l’articolo citato di G. Crainz, Il conflitto e la memoria. Su questi temi è intervenuto anche il collettivo di narratori Wu Ming, dal cui blog abbiamo citato un estratto dall’intermezzo di Wu Ming 2, Il sentiero luminoso, Portogruaro, Ediciclo, 2016 disponibile alla pagina: https://www.wumingfoundation.com/giap/2016/ 05/cippi-misteri-ilsentieroluminoso-nel-triangolo-rosso. L’edizione da noi consultata di Arturo Conti (a cura di), Albo caduti e dispersi della Repubblica sociale italiana, Fondazione della Rsi-Istituto storico onlus, è quella del 2017. Il decreto legislativo luogotenenziale del 27 luglio 1944, n. 159 (pubblicato in Gazzetta ufficiale n. 41 del 29 luglio 1944) è consultabile alla pagina: https://www.normattiva. it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:decreto.legislativo.luogotenenziale:1944-07-27;159@originale. Il documento del Pci che parla di Augusto Mignani si trova in Fondazione Gram-

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sci Emilia-Romagna, Archivio del Partito comunista italiano, Triumvirato insurrezionale Emilia Romagna, Informazioni per l’epurazione, b. 1, f. 3 «Denuncie [sic] fascisti in sospeso», (doc. 12). Le altre citazioni provengono dalla sentenza del giudice istruttore del 20 marzo 1953.

Enrico Grassi L’aneddoto sulla frase pronunciata da Otello, riferita al coraggio e pronunciata durante il tentativo di Monteorsello, ci è stata riportata da Bruno Sarti, presente in quel momento. Il termine “rastrellamento”, riferito all’azione del ’49 nei pressi di Medicina, ci ha lasciati inizialmente perplessi. Abbiamo scoperto solo in un secondo momento come questa fosse un’espressione estremamente comune, nella stampa e nella documentazione ufficiale, anche in riferimento alle operazioni di polizia, conservando volutamente tutte le ambiguità del richiamo all’occupazione nazista, su cui vedi Ilenia Rossini, Riottosi e ribelli. Conflitti sociali e violenze a Roma, Quaderno n. 2 di «Dimensioni e problemi della ricerca storica», Roma, Carocci, 2012, pp. 3335. Le “tre guerre” (di liberazione, civile, di classe) sono una delle intuizioni più acute e celebri di Claudio Pavone, frutto di un lungo lavoro di riflessione, che culmina in Id., Una guerra civile, cit. In questo capitolo abbiamo fatto riferimento ad alcuni film. Il terzo uomo, ambientato nella Vienna divisa in zone di occupazione, è il capolavoro del regista Carol Reed uscito nel 1949; Cabaret, diretto da Bob Fosse, è ambientato in Germania nel passaggio dalla Repubblica di Weimar alla dittatura nazista ed è del 1972. Il tema dell’emigrazione politica in Cecoslovacchia non

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è molto frequentato dalla ricerca storica; i lavori più solidi, a cui facciamo riferimento nel testo, sono quelli di Philip Cooke, From Partisan to Party Cadre: The Education of Italian Political Emigrants in Czechoslovakia, in «Italian Studies», vol. 61, n. 1, primavera 2006, pp. 64-84; e soprattutto Id., Red Spring: Italian Political Emigration to Czechoslovakia, in «The Journal of Modern History», vol. 84, n. 4, dicembre 2012, pp. 861-896. Abbiamo incrociato i racconti di Otello, inoltre, con le testimonianze di Vittorio Caffeo e Paolo Finardi raccolte rispettivamente in Vitaliano Ravagli e Wu Ming, Asce di guerra, cit., e Massimo Recchioni, Ultimi fuochi di Resistenza. Storia di un combattente della Volante rossa, Roma, DeriveApprodi, 2009, per ritrovare costanti o divergenze sia negli itinerari di espatrio che nelle esperienze dell’esilio. Per individuare i “nomi di qua” di alcuni personaggi noti a Otello solo con i “nomi di là”, oltre a quanto citato finora, ci è stato estremamente utile consultare gli appunti privati di Aroldo Tolomelli, per gentile concessione di Luca Pastore. Le carte, all’epoca in fase di inventariazione, sono ora consultabili presso l’Archivio dell’Istituto storico Parri, Fondo Aroldo Tolomelli, b. 6, f. 12. La testimonianza di Stella Amici su Natale Burato è tratta dal documentario del 2009 La guerra delle onde. Storia di una radio che non c’era, regia di Claudia Cipriani, dedicato alla vicenda di Oggi in Italia. Per delinearne brevemente i contorni, ci siamo avvalsi anche del saggio di P. Cooke, Oggi in Italia: The ‘Voice of Truth and Peace’ in Cold War Italy, in «Modern Italy», vol. 12, n. 2, giugno 2007, pp. 251-265. Sulla pratica dell’autobiografia nel movimento comunista, la bibliografia è ormai sterminata; ci limitiamo a segnalare l’ottimo lavoro di Mauro Boarelli, La fabbrica del passato. Autobiografie di militanti comunisti (19451956), Milano, Feltrinelli, 2007. Sul rapporto fra comunismo e storie di vita ci è stato utile anche il lavoro di Ales-

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sandro Casellato, Giuseppe Gaddi. Storia di un rivoluzionario disciplinato, Sommacampagna, Cierre, 2004. Quel poco che siamo riusciti a scoprire su Sergio di Giovanni/Giulio Foschi deriva da tre volumi discutibili, affrontabili esclusivamente facendo largo uso di spirito critico: Dante Corneli, Il redivivo tiburtino. 24 anni di deportazione in URSS, Milano, La pietra, 1977, p. 45; Paolo Robotti, La prova, Bari, Leonardo da Vinci, 1965; ma anche Arrigo Petacco, A Mosca, solo andata. La tragica avventura dei comunisti italiani in Russia, Milano, Mondadori, 2013, p. 115, che dobbiamo alla segnalazione dello stesso Otello. La teoria cospirazionista sui presunti campi di addestramento militare per i comunisti italiani in Cecoslovacchia risale alle polemiche giornalistiche degli anni Cinquanta. Poiché la ricerca storica ha frequentato raramente il tema, il campo è stato occupato da una pubblicistica con scopi immediatamente politici. Esempi di questo genere sono Gianfranco Stella, Rifugiati a Praga. I partigiani italiani in Cecoslovacchia, Faenza, Se.Ed.E., 1993; Gianni Donno, La Gladio rossa del PCI, 1945-1967, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2001 e, soprattutto, il terribile Rocco Turi, Gladio rossa. Una catena di complotti e delitti, dal dopoguerra al caso Moro, Venezia, Marsilio, 2004, in cui gli autori mescolano deliberatamente, e con totale assenza di critica, “soffiate” di spie ambigue, teoremi presentati in documenti polizieschi decontestualizzati e linguaggio propagandistico comunista per tratteggiare i contorni di una presunta guerra civile sotterranea fomentata dal Pci fino alla fine degli anni Settanta. Queste ricostruzioni, nonostante i traballanti riscontri documentali, hanno avuto un certo riconoscimento accademico, come provano l’introduzione di Piero Craveri al volume di Donno e lo spazio loro concesso nell’ultima edizione di E. AgaRossi e V. Zaslavsky, Togliatti e Stalin, cit., pp. 223-230. In-

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fine, all’interno delle carte private di Aroldo Tolomelli sono presenti numerosi ritagli di giornale dedicati ai presunti campi di addestramento in Cecoslovacchia, che rappresentano uno spaccato incredibile e “in presa diretta” del montare delle polemiche all’inizio degli anni Novanta; la documentazione è conservata in l’Archivio dell’Istituto storico Parri, Fondo Aroldo Tolomelli, b. 4, f. 9 e b. 6, f. 12. Per quanto riguarda la diffidenza di Stalin nei confronti dei partigiani, rimandiamo in particolare a Roberto Colozza, Partigiani in borghese. Unità popolare nell’Italia del dopoguerra, Milano, Franco Angeli, 2015, p. 130. La relazione di Ciufoli sul collettivo n. 1 di Dobřichovice è citata in P. Cooke, From Partisan to Party Cadre, cit., p. 81, da cui è tratta anche la successiva lettera dello stesso a Geminder, p. 82. Sulla “via italiana al socialismo”, oggetto di studio su cui la bibliografia ha ormai raggiunto una mole enorme, ci limitiamo a rimandare, oltre ai testi già citati, a Donald Sassoon, Togliatti e il partito di massa. Il PCI dal 1944 al 1964, Roma, Castelvecchi, 2014. L’idea che il Pci, impossibilitato ad accedere al governo o privo di un reale progetto di direzione politica, si sia dedicato ad accumulare consensi all’infinito, in una prospettiva di “obesità elettorale”, è una nota e riuscita espressione di Luciano Cafagna (La strategia della obesità. Genealogia di una morte annunciata, in Id., C’era una volta… Riflessioni sul comunismo, Venezia, Marsilio, 1991, pp. 92-116). Per ricostruire la vicenda che ha portato al processo contro Rudolf Slánský e altri dirigenti del Ksč, abbiamo consultato i lavori di Karel Kaplan, Relazione sull’assassinio del segretario generale, Roma, V. Levi, 1987; Igor Lukes, The Rudolf Slánský Affair: New Evidence, in «Slavic Review», vol. 58, n. 1, primavera 1999, pp. 160-187; Kevin McDermott, A “Polyphony of Voices”? Czech Popular Opinion and the Slánský Affair,

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in «Slavic Review», vol. 67, n. 4, inverno 2008, pp. 840-865 nonché il volume autobiografico di uno degli imputati: Artur London, La confessione. Nell’ingranaggio del Processo di Praga, Milano, Garzanti, 1969. Il memoriale di Giulio Paggio è pubblicato in appendice a Massimo Recchioni, Il tenente Alvaro, la Volante rossa e i rifugiati politici italiani in Cecoslovacchia, Roma, Deriveapprodi, 2011. Sulla situazione politica e sociale della Cecoslovacchia negli anni Cinquanta, ci sono stati utili Alessandro Catalano, La Cecoslovacchia nella guerra fredda: da centro dell’Europa a frontiera dell’Europa dell’est (19451959), in «eSamizdat», nn. 2-3, 2005, pp. 309-331 e Kevin McDermott, Communist Czechoslovakia, 1945-89. A political and social history, London, Palgrave, 2015. Sulla storia della Volante rossa, il gruppo di ex partigiani con sede a Lambrate (Milano), oltre al già citato Bermani si può leggere anche Carlo Guerriero e Fausto Rondinelli, La Volante rossa, Roma, Datanews, 1996 e Francesco Trento, La guerra non era finita. I partigiani della Volante rossa, RomaBari, Laterza, 2014, ma anche Recchioni che, nei volumi citati sopra, ha rielaborato le testimonianze di alcuni di loro (in particolare di Finardi in Ultimi fuochi di Resistenza, cit.).

Intermezzo La cartolina con l’idillio svizzero, sul cui retro è scritta la poesia che riportiamo in apertura (in parte nella versione recitata), così come la lettera da cui estrapoliamo una frase, che è in realtà anch’essa una cartolina del 21 agosto 1950, sono conservate nelle carte personali di Giovanna Pedrazzi e Otello Palmieri. Sappiamo della loro festa di matrimonio da quel poco che ricordavano Alberto Masini, Bruno e Giuliano Sarti. Il resoconto dei carabinieri di Bazzano è tratto dalle carte

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del processo, per i cui estremi rimandiamo alla nota relativa all’Epilogo. Il tema della continuità dello Stato, in modo particolare di funzionari e apparati istituzionali, fra fascismo e Repubblica è oggetto di studio fin dall’immediato dopoguerra. Per un quadro accurato e documentato rimandiamo a due lavori recenti: Vittorio Coco, Polizie speciali. Dal fascismo alla Repubblica, Bari-Roma, Laterza, 2017 e Davide Conti, Gli uomini di Mussolini. Prefetti, questori e criminali di guerra dal fascismo alla Repubblica italiana, Torino, Einaudi, 2017. Fornisce un profilo eloquente del militante di partito ideale Arturo Colombi, Nella lotta e nello studio si forma il militante comunista, «Quaderno dell’attivista», luglio 1948, pp. 5-6. Un’illustrazione a p. 31 di quello stesso numero stigmatizza i comunisti che vanno «rasentando i muri». La figura di Ezio Bartoli è al centro del libro di Manlio Calegari, La sega di Hitler, Milano, Selene, 2004 (cit. a p. 201). Sulle difficoltà affrontate da molti ex combattenti per ricollocarsi nella vita economica e sociale del dopoguerra, rimandiamo ancora a E. Acciai, Uscendo dalla guerra, cit., ma anche ad Agostino Bistarelli, La storia del ritorno. I reduci italiani del secondo dopoguerra, Torino, Bollati Boringhieri, 2007 e Santo Peli, L’eredità della Resistenza, in Giancarlo Monina (a cura di), 1945-1946. Le origini della Repubblica, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007, vol. I, Contesto internazionale e aspetti della transizione, p. 177. La riflessione sull’artigianato come approccio esistenziale è nel celeberrimo volume di Richard Sennett, L’uomo artigiano, Milano, Feltrinelli, 2008.

Otti Abbiamo tratto le informazioni su Herzogenbuchsee dalla voce dedicata nel Dizionario storico della Svizzera (dispo-

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nibile alla pagina: http://www.hls-dhs-dss.ch/ textes/ i/I565.php); il giornale cittadino «Buchsi-Zeitung» nel 1982 era già stato assorbito dalla «Berner Volkszeitung», dove però è presente un articolo sui festeggiamenti avvenuti a Zurigo: Max Korthals, Kommentar. Hupkonzert statt Pfropfenknallen, 14 luglio 1982. Sulla Coppa del mondo Fifa “España ’82” ci è stato utile il film-documentario ufficiale diretto da Tom Clegg, G’olé!, Regno unito, 1982 (disponibile su: https:// storiedicalcio.altervista.org/blog/mondiali-1982italia.html/13); mentre la frase di Bearzot viene ripetuta da Giovanni Minoli in un’intervista, precedente al mondiale, all’interno della trasmissione Mixer, al momento della scrittura disponibile su YouTube. Più in generale, sui festeggiamenti della vittoria azzurra in Svizzera, abbiamo consultato le banche dati https://www.e-periodica.ch e https://www.enewspaperarchives.ch; una riflessione interessante è quella di Sandro Cattacin e Irene Pellegrini, Mundial di Spagna 1982: come l’Italia vinse anche in Svizzera, in «Studi emigrazione», 2016, vol. LIII, n. 203, p. 524-536; sulla partita SvizzeraItalia del 28 maggio 1982 vedi, invece, Bertrand Monnard, Suisse-Italie: score et spectacle null, «Journal de Gnève», 29-3031 maggio 1982. Della “Coppa Italia” organizzata dalla Federazione delle Colonie libere italiane in Svizzera (Fclis) parla T. Ricciardi, La “Coppa Italia” delle Colonie Libere in Svizzera, in «Studi Emigrazione», vol. LIII, n. 203, 2016, pp. 405418. Ricciardi ha anche ricostruito un quadro dell’emigrazione italiana in Svizzera in Id., Associazionismo ed emigrazione. Storia delle colonie libere e degli Italiani in Svizzera, RomaBari, Laterza, 2013 e Breve storia dell’emigrazione italiana in Svizzera, cit. Abbiamo basato alcune nostre affermazioni a riguardo sulle statistiche delle popolazione svizzera disponibili sul sito web dell’Ufficio federale di statistica, in par-

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ticolare: Stranieri secondo il sesso e la nazionalità, dal 1900 (https://www.bfs.admin.ch/bfs/it/home/statistiche/cataloghi-banche-dati/tabella.assetdetail.120176.html); Dati demografici in raffronto europeo (https://www.bfs.admin.ch/ bfs/it/home/statistiche/cataloghi-banche-dati/ tabella.assetdetail.6046305.html); Popolazione residente permanente straniera secondo la nazionalità, 1980-2017 (https:// www.bfs.admin.ch/bfs/it/home/statistiche/cataloghi-banche-dati/tabella.assetdetail.5886250.html). I risultati del voto nelle iniziative xenofobe degli anni Settanta e Ottanta, invece, si trovano sul sito della Cancelleria federale, alle pagine: https://www.bk.admin.ch/ch/i/pore/va/19700607/ can220.html e https://www.bk.admin.ch/ch/i/pore/ rf/cr/ 1981/19810136.html. Alcune sintetiche informazioni sulla J. Bögli AG e i suoi proprietari si trovano in «Schweizerisches Handelsamtsblatt = Feuille officielle suisse du commerce = Foglio ufficiale svizzero di commercio», Staatssekretariat fur Wirtschaft, vol. 73, n. 282, 28 novembre 195. Per un quadro quantitativo dell’espansione economica, demografica ed edilizia di Bologna e della sua “cintura”, rimandiamo ad Athos Bellettini e Renzo Predi (a cura di), Caratteristiche demografiche ed economico produttive della provincia di Bologna. Dati statistici, suppl. al n. 4 di «Provincia e Comprensori», luglio-agosto 1978; una lettura storiografica è in Eloisa Betti, Assetti produttivi, condizioni di lavoro e contrattazione aziendale nell’industria bolognese, in L. Baldissara e Adolfo Pepe (a cura di), Operai e sindacato a Bologna. L’esperienza di Claudio Sabattini (1968-1974), Roma, Ediesse, 2010, pp. 223-347. Alcune notizie sulla figura di Ennio Pasquali si trovano sul «Corriere della Sera», 29 e 30 dicembre 1963. L’adattamento dello Spartaco di Giovagnoli in 27 puntate, pubblicate su «Vie nuove» dal 6 gennaio al 6 luglio 1952, è menzionato

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anche da Massimo Pinto, Spartaco al tempo dell’Unità d’Italia. Sul romanzo di Raffaello Giovagnoli, in Salvatore Cerasuolo, Maria Luisa Chirico, Serena Cannavale, Cristina Pepe, Natale Rampazzo (a cura di), La tradizione classica e l’Unità d’Italia, atti del seminario di Napoli-Santa Maria Capua Vetere del 2-4 ottobre 2013, vol. I, pp. 219-236 (cit. a p. 223). Pinto nota come già Gramsci lo portasse a esempio di letteratura popolare che, se “tradotto” in linguaggio moderno, poteva rappresentare un modello di romanzo nazional-popolare da divulgare tra gli italiani.

Epilogo Gli atti del procedimento penale contro Biotiti Ivo, Palmieri Otello, Cerè Filippo, Pedrazzi Giancarlo, Degli Esposti Eliseo e ignoti, P.M. n. 12227/45, G.I. n. 4856/45, chiuso con sentenza del giudice istruttore del 20 marzo 1953 sono conservati presso l’archivio del Tribunale di Bologna (deposito di via dell’Industria, 2). Ogni riferimento alle indagini, ai corpi di reato sequestrati che vennero conservati, agli interrogatori e alla perizia balistica sono presi dai quattro fascicoli che compongono il faldone. La più risalente versione del fatto è in Sparando dalla strada fulmina un commerciante, «Il Resto del Carlino», 6 dicembre 1945. Sul culto di Santa Barbara vedi Santa Barbara, la martire del fuoco “sequestrata” dal padre, «Famiglia cristiana», 4 dicembre 2018 (http://www.famigliacristiana.it/articolo/santa-barbara-la-martire-delfuoco.aspx). Una rapida ricostruzione dei fatti di Gaggio Montano e Savigno è in M. Dondi, La lunga liberazione, cit., pp. 89-90. Sulla figura di Pasquale Vesce, qui marginale ma noto per altre vicende giudiziarie che hanno riacceso vent’anni fa le

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polemiche sul “triangolo della morte”, vedi l’intervista di M. Storchi (a cura di), Gli omicidi di Don Pessina, Mirotti e Vischi nei ricordi del generale Pasquale Vesce, in «Ricerche storiche», n. 64/66, dicembre 1990, pp. 41-59. La riflessione sulle categorie di “esperienza” e “aspettativa” prende le mosse dai lavori di Reinhart Koselleck, Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Bologna, Clueb, 2007 e Id., Il vocabolario della modernità. Progresso, crisi, utopia e altre storie di concetti, Bologna, il Mulino, 2009. Siamo stati aiutati, nello scioglimento dei passaggi teorici più ostici, dalla lettura di Gennaro Imbriano, Le due modernità. Critica, crisi e utopia in Reinhart Koselleck, Roma, DeriveApprodi, 2016. In chiusura di paragrafo, infine, abbiamo citato il volume di Enzo Traverso, Malinconia di sinistra. Una tradizione nascosta, Milano, Feltrinelli, 2016. La figura di “Piazza Marino, il poeta contadino” è brevemente tratteggiata in Franco Castelli, Emilio Jona e Alberto Lovatto, Senti le rane che cantano. Canzoni e vissuti popolari della risaia, Roma, Donzelli, 2005, pp. 360-361. Un cospicuo archivio sonoro delle sue zirudelle è consultabile alla pagina http://www.gruppoemiliano.it/mp3/piazza; una sintetica biografia, accompagnata dalla trascrizione di tre zirudelle, si trova invece sul sito https://www.bulgnais.com/piazzamarino.html.

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Ringraziamenti

Se questo libro vede la luce è perché Otello ci ha permesso di frugare nella sua vita, accordandoci una fiducia genuina e smisurata nel corso di una lunga operazione i cui contorni coincidevano in parte alle sue aspettative, come gli è stato chiaro solo alla consegna delle prime bozze. Di questa grande disponibilità gli siamo enormemente riconoscenti, così come lo siamo della delicatezza con cui Giovanna si è inserita nei nostri colloqui, dando un contributo fondamentale alla nostra comprensione della loro esperienza. Un ringraziamento sentito va al personale dell’Istituto storico Parri, della Fondazione Gramsci Emilia-Romagna onlus, della Biblioteca nazionale svizzera di Berna, nonché dell’archivio del Tribunale e dell’Archivio di Stato di Bologna per aver messo a nostra disposizione le loro competenze e il materiale archivistico, a stampa e bibliografico in loro possesso. Questa ricerca ha inoltre giovato della discussione all’interno del workshop “Challenging 1945 as a ‘caesura’. New perspectives on transitions, continuity and change in Italy and beyond” tenutosi presso la Bielefeld Graduate School in History and Sociology dell’Università di Bielefeld il 29-30 gennaio 2017 e organizzato da Stefan Laffin e Teresa Malice, che ringraziamo per l’opportunità. La nostra riconoscenza va inoltre al gruppo che ha promosso e sostenuto questa iniziativa: Mario Cerè e Fabrizio Bassetto, Federica Trenti dell’Anpi Crespellano, Roberto Corradini e Giordano Giorgi del Comitato olivetano carnevale

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saracca, Valerio Lambertini, Gian Pietro Beghelli, Pietro Ospitali e, last but not least, Elio Rigillo della Fondazione Rocca dei Bentivoglio. Vogliamo inoltre ringraziare amiche e amici che, nella ricerca e nella scrittura, sono state nostre guide, discutendo con noi gli snodi del libro, mettendo “il loro in campo per tutti”, come direbbe Otello, e dandoci un continuo e affettuoso supporto. Non potendoli ringraziare uno a uno, ci limitiamo a riconoscere il debito contratto con chi ha letto, in tutto o in parte, le bozze: Sara Mazzetti, Ilenia Rossini, David Sarnelli, Vito di Battista e Marco Nardini di Otago Literary Agency, Giuliana Ventura, Rita Levoni Bemposti, Giovanni Pietrangeli, Simone Scaffidi, Fabrizio Crasta, Marzio Pontieri ma anche Andrea Brazzoduro, Alessandro Casellato, Toni Rovatti, Luigi Pati, Daniele Carboni, Viola Ardeni, Stefano Ungarelli, Lamberto Mazzetti e Aleix Tura Vecino.

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Finito di stampare nel mese di Aprile 2019 a cura di NW presso Ligodigit Spa (Lavis, TN)