Qualche breve lezione sul cervello 9788868336158

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Italian Pages [72] Year 2016

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Table of contents :
Presentazione
Frontespizio
Pagina del copyright
L’oggetto più complesso dell’universo
Le rappresentazioni del cervello nell’Antichità
Il cervello elettrico
Il trionfo dei «localizzazionisti»
La teoria neuronale
Le popolazioni di neuroni e le mappe cerebrali
Il cervello vegetativo
La temperatura
Il sonno
I comportamenti di base
Il piacere
La vista
La memoria
Le amnesie
Mente, dove sei?
Il linguaggio
Il pensiero e l’azione
Le immagini mentali
Il cervello bicamerale
La corteccia frontale
Indice
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Qualche breve lezione sul cervello
 9788868336158

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www.illibraio.it Ponte alle Grazie è un marchio di Adriano Salani Editore s.u.r.l. Gruppo editoriale Mauri Spagnol Titolo originale: Le cerveau expliqué à mon petit-fils In copertina: illustrazione di Riccardo Gola / PEPE nymi Art direction: Stefano Rossetti © Éditions du Seuil 2016 © 2016 Adriano Salani Editore surl - Milano ISBN 978-88-6833-615-8 Prima edizione digitale 2016 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

Presentazione

Il più grande fisiologo francese racconta in modo vivace, semplice, accurato, divertente la storia delle scoperte e delle ipotesi sul cervello – dalla ghiandola pineale di Cartesio fino alle neuroscienze degli ultimi anni. Questo organo – fondamentale quanto il cuore per la sopravvivenza e la vita – è rimasto a lungo misteriosissimo perché il cervello, a differenza di altri organi, non rivela nulla all’esame autoptico: ha bisogno di essere letto con microscopi, di essere indagato con risonanze magnetiche e Tac. È per questo che le grandi scoperte sono avvenute negli ultimi cinquant’anni, da quando si può entrare nella testa con strumenti che fotografano l’attività cerebrale, e la microchirurgia ha fatto passi da gigante. Con i suoi cento miliardi di neuroni che si scambiano continuamente segnali chimici e elettrici, il cervello è l’oggetto più complicato dell’universo. Questo libro racconta in modo breve ma efficace a che punto siamo arrivati in questo viaggio straordinario al centro del cervello – come recita il titolo di un altro grande libro di Jean-Didier Vincent. Uno strumento semplice e fondamentale, una guida negli anni più «mentali» di tutta la storia dell’uomo. Jean-Didier Vincent è professore di fisiologia alla facoltà di Medicina all’Università di Parigi XI. È membro dell’Accademia delle Scienze e dell’Accademia di Medicina. Oltre ai lavori scientifici, ha scritto diversi libri tra cui Viaggio straordinario al centro del cervello (Ponte alle Grazie, 2011).

Mio nipote si chiama Constant: un nome da principe, che mi ha sempre fatto pensare al Piccolo Principe di Saint-Exupéry. Ha sedici anni e sta per affrontare l’anno del baccalaureato, l’esame inventato dai grandi per decidere se i ragazzi siano diventati abbastanza sciocchi per essere considerati adulti. Constant conserva ancora la meravigliosa innocenza di chi sa guardare dietro le apparenze e fa domande alle quali pochi adulti sono in grado di rispondere. La sua mente è fresca e vivace come le acque di un ruscello prima di corrompersi in fiume, il suo cuore grande e traboccante d’amore. Mi chiama «Pépé» perché il pretenzioso anglicismo «Papy» non mi è mai piaciuto, mentre Pépé ha il buon sapore della campagna e mi ricorda i miei nonni. Il cervello è nel programma d’esame e Pépé è un ricercatore che ha passato la vita studiandolo; risultato dell’equazione, abbiamo deciso di dedicare le nostre chiacchierate vacanziere a quest’organo tanto affascinante quanto misterioso. Eccone allora alcuni estratti, recuperati dai miei traballanti ricordi. Non restituiscono il tono vivace e appassionato delle nostre conversazioni perché sono dialoghi ricostruiti a posteriori, intessuti di approssimazione e di scherzi della memoria e, più che della fedeltà all’argomento, sono impregnati dell’affetto che lega un nonno al nipote avido di conoscenza. Il cervello è, con tutta probabilità, l’oggetto più complesso dell’universo: così si spiega il ritardo della scienza nella sua esplorazione. Molto presto però, sin dalla preistoria, l’uomo ha compreso che l’interno del suo cranio era indispensabile alla vita e che l’arresto del suo funzionamento significa la morte. Da sempre sappiamo che per uccidere un uomo basta tagliargli la testa o affondargli una lama nel cuore; ne è scaturita una lunga disputa a proposito di dove risiedesse l’anima, se nel cervello o nel cuore. Oggi sappiamo che l’anima e l’attività del cervello sono una cosa sola, quindi manterrò l’uso della parola «anima» – anche se questo termine spesso si contamina di filosofia e di teologia – quando si tratterà di parlare dell’attività psichica (psyche è il termine greco per «anima»). Ciò non toglie nulla ai misteri che la avvolgono, al suo rapporto con il corpo e con il linguaggio, di cui descriveremo i meccanismi e i disturbi. Il tutto alla luce del rapporto con l’altro.

L’oggetto più complesso dell’universo

Mi hai portato un modello in plastica del cervello in dimensioni reali: una riproduzione perfetta che si può aprire per vederne l’interno. Non so proprio a cosa possa somigliare. Parli come i primi medici che si arrischiarono ad aprire il cranio di un cadavere. Le loro descrizioni del cervello non hanno nulla a che vedere con la realtà: era come se l’importanza di ciò che stavano vedendo avesse loro annebbiato la vista. Come se soffrissero di una specie di «sacro terrore»? Ci arriverò quando parleremo della storia dell’esplorazione del cervello da parte degli scienziati del passato. Per ora sappi che questo pezzo di carne del peso di 1400-1500 grammi contiene cento miliardi – più delle stelle nella nostra galassia – di cellule eccitabili, i neuroni, e altrettante cellule non eccitabili, le cellule gliali, che formano la sostanza collosa all’interno della quale i neuroni sono contenuti. La maggior parte dei neuroni si trova nella corteccia (cortex) cerebrale, una sorta di spessa pelle chiamata anche «materia grigia» per contrasto con le strutture nervose sottostanti inguainate nella «materia bianca», la mielina. Scusa, Pépé, ma il tuo cervello galattico somiglia più a una zucca raggrinzita che alla Via Lattea. Raggrinzita può anche essere, ma non per caso. Queste grinze o, meglio, queste pieghe sono la soluzione di un problema che si è posto durante l’evoluzione dei nostri antenati: come disporre all’interno della scatola cranica i

quasi due metri quadrati che misura la corteccia cerebrale una volta «spiegata». Il problema è stato risolto piegandola e ripiegandola, creando così i solchi e le fessure che a loro volta creano le circonvoluzioni e i lobi. Possiamo distinguere due emisferi, destro e sinistro, separati da una profonda fessura ma riuniti da una spessa fascia bianca: il corpo calloso. Sarebbe meglio provare a disegnarlo. Il nostro professore di disegno dice che disegnare è un modo per imparare a vedere. Hai ragione: guarda le figure 1 e 1’. Ma guardare non basta, e la forma non dice nulla della funzione, o meglio delle tante funzioni che attribuiamo a questa scatola misteriosa che, anche una volta aperta, non svela la sua verità. Ci vorranno più di duemila anni perché la scienza abbia la meglio sulle credenze e le superstizioni. Ti racconterò dunque la storia della scoperta del cervello, perché spesso è il passato a gettare luce sul presente.

Figure 1 e 1’. Il cervello umano.

Le rappresentazioni del cervello nell’Antichità

Mi stupisce che ci sia voluto tanto tempo per sapere come è fatto il cervello e cosa contiene. Pare che i nostri antenati fossero cannibali e mangiassero il cervello dei nemici o dei congiunti per appropriarsi delle loro qualità. Non guardavano cosa stavano mangiando! Attorno al cervello c’era una quantità di superstizioni, e i nostri antenati non erano dotati degli strumenti ottici moderni, come del resto anche coloro che osservavano lo Spazio. Quello che lascia più stupefatti, però, è che gli scienziati dell’Antichità e i loro successori medioevali hanno descritto del cervello solo gli spazi vuoti, i ventricoli cerebrali, cavità flosce e senza pareti che ne occupano la parte centrale e dove, secondo loro, circolavano degli umori liquidi nei quali avevano sede degli «spiriti animali». In altre parole, gli spiriti animali, veicolo del pensiero e dell’azione, hanno i piedi nell’acqua... Non fare tanto lo spiritoso. A quei tempi nella scienza imperava il pensiero metaforico, ma i medici fisiologi del Medioevo non mancavano né di immaginazione, né di pensiero sistematico. Il modello allora più diffuso descrive una corrente liquida che scorre tra il primo e il secondo ventricolo, o in altre parole tra senso comune e giudizio, mentre il terzo è dedicato alla memoria. Ho fretta di tornare alla realtà. Sta’ tranquillo; alla fine fu Cartesio ad avere la meglio. Grazie a lui divenne possibile una scienza sperimentale delle cose della mente: paradossalmente, proprio sbarazzandosi della mente.

Noi francesi non diamo troppa importanza a Cartesio e al cartesianesimo? Cartesio cerca di capire cosa lega anima e corpo. Il suo pensiero inaugura quello che viene chiamato dualismo, ovvero la netta separazione tra l’anima, res cogitans, sostanza pensante, e il corpo, la materia, la res extensa. Questo non significa che Cartesio sia immerso nella spiritualità. In realtà, non c’è materialista più materialista di lui, come dimostra la sua biografia, da cui si evince quanto fosse preoccupato delle proprie passioni, assolutamente materiali, e ancor più della sua carne (il suo corpo) che della volontà di Dio. Fondando il dualismo, egli decreta la priorità della coscienza, che permette di pensare, e quindi di esistere, senza preoccuparsi dell’anima, che diventa argomento esclusivo di filosofi e teologi. E l’anima cosa diventa? L’anima viene relegata da Cartesio in quello che nei rettili prende il nome di terzo occhio o occhio parietale e che nell’uomo è conosciuto come ghiandola pineale, mediante la quale l’anima si introduce nel cervello. Chiamata anche epifisi per via della sua posizione nella parte superiore del cervello, è un organo singolo, e questa è una delle ragioni della scelta di Cartesio: non avrebbe potuto ammettere un’anima per ciascun emisfero. E a cosa serve l’anima, nella concezione di Cartesio? In realtà Cartesio non si discosta molto dalla filosofia scolastica. Nel trattato De Homine descrive un meccanismo che viene considerato il modello primitivo di ciò che in seguito è stato definito un riflesso. La percezione attraverso i sensi (vista, udito, gusto, odorato, tatto) è dovuta all’effetto degli spiriti animali sull’anima per tramite della ghiandola pineale, che a causa della sua posizione ideale lungo la linea mediana del cervello viene promossa al ruolo di messaggera degli spiriti e dell’anima. Insomma, Cartesio ha inventato una macchina, che però non ha niente a che vedere con l’anatomia. Accadrà lo stesso alla fine del XX secolo con quelle belle macchine che sono i computer, che i ricercatori proporranno come modelli di funzionamento della mente. Se ho capito bene, Cartesio non ha separato corpo e mente, ma ha fatto un favore ai religiosi, ribadendo l’asservimento del corpo alla volontà divina di cui

mi parlano continuamente i padri gesuiti del mio liceo... Però, dopo di lui, l’evoluzione delle scienze sperimentali e degli strumenti d’indagine ha permesso di comprendere meglio il funzionamento del cervello-macchina. Giusto? Esatto! La tua brillante analisi ci permette di affermare che il cervello non è un’entità immateriale che si rappresenta il mondo. Non è nemmeno un computer che, grazie a un sofisticatissimo software, controlla miracolosamente la macchina del nostro corpo. Il cervello è invece il centro delle nostre rappresentazioni e dei nostri sentimenti, inseparabili dalle nostre azioni. Personalmente credo che l’anima e l’attività del cervello siano una cosa sola: la mia è una posizione che sosterrò sino a prova contraria, quindi fintanto che non verrà dimostrato che esistono anime senza cervello e cervelli senz’anima. Sono pronto a seguirti e ad accettare che il cervello sia una macchina intelligente, dotata di sensibilità, di sentimenti e di passioni, e allo stesso tempo sia ciò da cui scaturiscono le azioni volontarie o automatiche, e che infine sia dotato di una coscienza di sé e di una memoria, come ho letto nell’indice del libro che mi hai prestato. E dimentichi tutte le facoltà che ne fanno il modello delle specie animali. Quei 400-500 grammi di materia cerebrale in più di cui è dotata la nostra specie, Homo sapiens, rispetto al nostro antenato più prossimo, l’Homo erectus, hanno permesso un miglioramento senza eguali nell’evoluzione delle specie sul piano delle capacità di comprendere, di imparare e di agire. Ok, ma come funziona il cervello? Cosa gli permette di raggiungere queste prestazioni?

Il cervello elettrico

Dopo secoli di dominio pressoché assoluto, venne il tempo del tramonto di Galeno e dei suoi «spiriti animali». Fu un professore italiano, Luigi Galvani, ad assestargli il colpo definitivo dimostrando l’esistenza di un’elettricità animale che avrebbe occupato il posto abbandonato dal fluido misterioso descritto dall’antica medicina. Come spesso accade nella storia delle scienze, furono degli esperimenti falliti a spalancare la porta alla verità. Per la prima volta nella storia, la scienza divise l’opinione pubblica senza che la Chiesa prendesse parte al dibattito. L’oggetto della disputa tra Galvani e il suo contemporaneo Volta era proprio la natura del fluido misterioso di quegli spiriti animali che percorrono i corpi degli esseri viventi. L’argomento del contendere era un fenomeno fisico accertabile scientificamente e che non ha nulla di divino, benché spesso si manifesti in cielo, l’elettricità, e la contesa vedeva fronteggiarsi due personaggi dalle caratteristiche opposte. L’uno, Alessandro Volta (1745-1827), giovane e brillante professore all’Università di Parma, era uno scienziato ambizioso, ricoperto di onori dall’imperatore Napoleone, che lo nominò conte e senatore; l’ambizione era una debolezza che nulla toglie alla grandezza della sua scoperta della corrente elettrica e della pila che porta il suo nome. L’altro era Luigi Galvani (1737-1793), titolare della cattedra di Anatomia all’Università di Bologna, la cui modestia e condotta esemplare lo collocavano all’esatto opposto di Volta. Invitato a sottomettersi al «liberatore còrso», Galvani rinunciò alla cattedra, aggiungendo alla fama di scienziato la reputazione di patriota ed eroe della libertà. Non mi dilungherò sui loro esperimenti; in sintesi, una coscia di rana è collegata tramite i nervi a un frammento di midollo spinale, a sua volta sospeso mediante un gancio di rame a una lamina di ferro. Si osservano quindi delle contrazioni spontanee della coscia, che Galvani attribuisce a una produzione di corrente elettrica. Volta rifiuta la sua tesi: l’elettricità osservata da Galvani non è prodotta dall’animale, ma dalla pila elettrica formata dal contatto

tra i due metalli (il rame e il ferro). Volta in questo caso aveva ragione, ma l’idea di Galvani era esatta. Lo scontro fu violento, ma il tempo avrebbe dato ragione a lui: l’elettricità animale esiste. Una bella lotta! Viene voglia di diventare scienziati! Solo alla metà del XIX secolo, grazie alla messa a punto di strumenti in grado di misurare quantità (l’intensità) di corrente anche molto basse (i galvanometri) l’italiano Carlo Matteucci e il prussiano Emil du Bois-Reymond (la scienza era già europea) dimostrarono il passaggio di una corrente tra l’interno leso di un muscolo e la sua superficie (corrente di lesione). Il fenomeno nervoso che si propaga lungo i nervi è un impulso elettrico della durata di alcuni millisecondi, che si forma nel punto della stimolazione e si sposta lungo la fibra nervosa senza variazioni di ampiezza. La velocità di propagazione di questo «potenziale d’azione», misurata da Hermann von Helmholtz, è di alcuni metri al secondo (niente a che vedere con i 300.000 chilometri al secondo della luce). La domanda quindi è: se tutti i nervi trasportano un identico segnale, come si spiega che il nervo ottico, che collega l’occhio al cervello, trasporta delle informazioni visive, mentre il nervo uditivo trasporta suoni? Il fisiologo tedesco Johannes Müller suggerì che fosse competenza del cervello interpretare i messaggi ricevuti sulla base della loro provenienza: ciò che chiamò energia specifica dei nervi traduceva una codifica in linea dell’informazione e faceva così intravedere l’esistenza di regioni specializzate del cervello che trattavano ciascun tipo di sensazione. Così ebbe inizio la grande avventura delle localizzazioni cerebrali. Questo vale per i nervi, ma non mi dici cosa succede proprio là, nel cervello. Prima di tutto bisogna distinguere tra sistema nervoso centrale e sistema nervoso periferico. Quest’ultimo innerva i muscoli e gli organi del corpo; trasporta fino al cervello le informazioni provenienti dai recettori sensoriali – l’occhio per le immagini, l’orecchio per i suoni, il naso per l’odorato, la pelle per il tatto, la bocca per il gusto. A questi si aggiungono il senso dell’equilibrio e della posizione dei muscoli responsabili del tono muscolare e della postura. Praticamente un automa. Sì, ma a cui manca la vita che viene dal sistema nervoso centrale, formato dal cervello propriamente detto e dai suoi due emisferi che poggiano sul tronco

encefalico. Quest’ultimo contiene tutti i fasci neuronali e gli insiemi di corpi cellulari o nuclei, punto di partenza dei nervi cranici che innervano la faccia e il collo. Contiene anche dei centri importanti che controllano la respirazione e la circolazione sanguigna, oltre ai neuroni disseminati della formazione reticolare che interviene nella regolazione della vigilanza. Infine, è il punto di passaggio e di incrocio di tutti i fasci neuronali che portano le informazioni sensoriali verso il cervello e i comandi motori verso i muscoli. Perdonami questo nozionismo anatomico, ma non riusciresti a comprendere il funzionamento del cervello se non ricordassi come si chiamano i suoi componenti, scoperti perlopiù nel XIX secolo e che portano il nome del loro scopritore – come nel caso di certi territori o mari. Appeso al tronco encefalico si trova un cervello in miniatura, chiamato appunto cervelletto, che controlla in parallelo il funzionamento del cervello. Non ne parlerò più in seguito, perché non è indispensabile. A completare questo agglomerato, detto encefalo, il midollo spinale percorre il canale vertebrale dalla regione cervicale fino all’osso sacro; da qui partono, in corrispondenza di ciascuna vertebra, le vie sensoriali e i nervi motori. Ma tutto questo non spiega come funziona il cervello. Fino a questo momento sembra più l’interno di una pancia che una macchina elettrica! Hai ragione. L’esistenza dell’elettricità all’interno del cervello è stata negata fino al 1929, quando un medico, Hans Berger, vi ha registrato un’attività bioelettrica spontanea grazie a degli elettrodi posti sul cuoio capelluto. La registrazione così ottenuta si chiama elettroencefalogramma (EEG). Il tracciato è caratterizzato dalla frequenza e dall’ampiezza. Si distinguono quattro tipi di onde o ritmi: ritmo alfa (frequenza da 9 a 12 hertz (Hz), ampiezza da 50 a 100 microVolt (µV): ritmo della regione occipitale che si registra nel soggetto in condizioni vigili normali, a occhi chiusi, in stato di riposo sensoriale e intellettuale. Quando il soggetto apre gli occhi o concentra la sua attenzione in un’attività mentale, il ritmo alfa sparisce (reazione di arresto) per far posto a un ritmo più rapido, il ritmo beta. ritmo beta (frequenza superiore a 14 hertz, ampiezza da 10 a 50 µV), di origine parietale e frontale. ritmo theta (frequenza da 4 a 7 hertz, ampiezza da 150 a 200 µV): ritmo delle regioni temporali e parietali, che si osserva normalmente nel bambino e nell’adulto in presenza di emozioni. Spesso accompagna patologie cerebrali.

ritmo delta (frequenza inferiore a 4 hertz, ampiezza da 1 a 200 µV): normale nel neonato e nel sonno profondo dell’adulto, segnala una sofferenza cerebrale grave quando viene registrato nell’adulto in stato vigile. L’EEG viene utilizzato per diagnosticare le patologie nel corso delle quali l’attività bioelettrica cerebrale è suscettibile di perturbamento, e più in particolare per precisare la localizzazione di tumori cerebrali o i diversi tipi di epilessie e i focolai epilettici. Come fanno tutti quei milioni di neuroni a produrre dei ritmi regolari senza provocare baccano? A volte il baccano c’è, sotto forma di scariche epilettiche: sono delle specie di cortocircuiti elettrici che provocano la perdita di conoscenza. Ma in condizioni normali le cellule nervose sono organizzate in reti insieme alle cellule ineccitabili della glia, che svolgono la funzione di isolante. Le reti comunicano tra loro e alimentano delle vie attraverso le quali inibiscono o entrano in relazione con altre reti. In che modo comunicano tra loro? Le interazioni tra neuroni avvengono attraverso la mediazione di giunzioni chiamate sinapsi, che costituiscono gli elementi base dell’organizzazione dei circuiti nervosi. Parleremo solo delle sinapsi chimiche, che nel cervello sono di gran lunga la maggioranza. Ogni sinapsi ha due facce, che ne determinano l’orientamento. Nel versante a monte viene liberata una sostanza neurotrasmettitrice contenuta all’interno di vescicole. La sostanza passa nella stretta fessura sinaptica per fissarsi su dei recettori specifici del versante a valle della sinapsi. Dal punto di vista operativo, la sinapsi converte un segnale elettrico presinaptico in un segnale chimico liberato nella fessura sinaptica, che a sua volta viene trasformato in segnale elettrico postsinaptico. Una caratteristica notevole della sinapsi sono le sue piccole dimensioni: la superficie di contatto che offre va dai 0,5 ai 2 micrometri, cioè millesimi di millimetro. In compenso, ce ne sono in abbondanza: un millimetro cubo di materia grigia contiene cinquantamila neuroni, da ciascuno dei quali si originano seimila sinapsi – come dire che nel nostro cervello abbiamo un totale di 300 milioni di sinapsi. C’è una regolazione a lungo termine della quantità di messaggio liberato per uno stesso segnale presinaptico. Gli effetti sono molto più lenti di quelli della

neurotrasmissione propriamente detta e possono durare da alcuni secondi a diverse ore o giorni, come accade nella memoria. Per finire sulle sinapsi, ti dico che sono le principali destinatarie delle medicine cosiddette psicotrope, utilizzate per curare la mente quando ha dei disturbi. Ne riparleremo, perché si tratta di un grande problema di salute pubblica: quello della malattia mentale. Davvero impressionanti, tutti quei miliardi di neuroni che si connettono in reti... ma in che modo comandano i movimenti, le sensazioni e la soddisfazione dei nostri bisogni? È tutto il cervello a dire che ho fame, o una regione specifica? Tutto il cervello percepisce il mondo esterno, le sue forme, colori, odori? È il cervello a provare paura? È lui a gridare, parlare, contare, a volere bene ai genitori e ad amare il cioccolato? Per molto tempo la tentazione della semplificazione e la pressione della religione fecero considerare il cervello come un tutto omogeneo, sede dell’anima che avvolge i ventricoli in cui si trovano le facoltà. Ma i progressi dell’anatomia, dell’istologia e soprattutto dell’osservazione anatomica dei cervelli malati, a cui si aggiunse la stimolazione elettrica, hanno permesso alla teoria delle localizzazioni cerebrali di progredire. Ha a che fare con quello che chiamano «bernoccolo»? La mamma sostiene che io ho il bernoccolo della matematica. Una volta di più, un’esperienza erronea permise di far nascere una teoria vera. Dobbiamo a Franz Joseph Gall e al suo allievo Johann Gaspar Spurzheim una nuova scienza, la frenologia, che ottenne un successo notevolissimo nella prima metà del XIX secolo, passando dal laboratorio degli scienziati ai salotti della buona società. Le basi di quella scienza, troppo mondana per essere onesta, erano però corrette: 1) il cervello è l’organo del pensiero; 2) le facoltà mentali e morali sono localizzate al livello di specifiche aree della corteccia cerebrale; 3) un eccesso o un deficit di queste facoltà potrebbe essere individuato esaminando il cervello. Il problema sorgeva a partire da quest’ultimo punto. Gall pensava infatti che le bozze sul cranio fossero la manifestazione esteriore dell’attività cerebrale interna, come puoi vedere nella figura 2. Gall rimase vittima del suo successo. Scavalcato da ammiratori senza scrupoli, venne relegato nel novero dei ciarlatani insieme a Franz Anton Mesmer, vecchia gloria del magnetismo animale. Ma ciò non impedì il progredire della dinamica delle localizzazioni.

Figura 2. Le localizzazioni cerebrali secondo Gall, 1807. (© Éric Le Roux, università Claude-Bernard-Lyon 1)

Il trionfo dei «localizzazionisti»

È con Pierre-Paul Broca che si spalanca davvero l’era moderna delle localizzazioni cerebrali. Lo conosco: era di Sainte-Foy-la-Grande, la città dei tuoi nonni paterni, dove hai trascorso l’infanzia, frequentando il collegio protestante di Guyenne. È per merito suo che sei diventato neurobiologo? Non c’è dubbio: a Sainte-Foy-la-Grande Broca è celebrato come un eroe, la sua statua domina la piazza principale e il basamento serviva da tribuna durante le feste scolastiche. Per dovere di cronaca ti segnalo che anche Louis-Pierre Gratiolet, il primo anatomista ad aver descritto nel dettaglio le circonvoluzioni cerebrali, era originario di Sainte-Foy-la-Grande – una cittadina protestante, dove il padre di Broca era pastore e quello di Gratiolet medico cattolico e di condizione disagiata per via del suo status di inferiorità nella «Ginevra francese». Ciò non impedì a Broca di accogliere e proteggere il giovane Gratiolet quando intraprese gli studi di medicina a Parigi all’ombra del suo grande predecessore, né impedì a Gratiolet di diventare un feroce oppositore della dottrina delle localizzazioni. Da notare che Jean-Baptiste Bouillaud e Marc Dax, precursori delle localizzazioni, erano entrambi protestanti... Cosa c’entrava il credo religioso con la loro scelta di campo? È solo un esempio di quanto l’ideologia possa pesare sulla scienza. Il vero eroe dello studio delle localizzazioni cerebrali fu però un brav’uomo di nome Leborgne. Morì cinquantunenne nell’aprile 1861, dopo che per anni non era stato in grado che di ripetere «tan tan», le uniche parole che riusciva a pronunciare. Per questo, nell’ospizio di Bicêtre dove era ricoverato, era conosciuto con il nomignolo di «Tan». Era diventato abituale rinchiudere negli ospedali i malati «interessanti», in

modo da poterne esaminare il cervello dopo la morte. Quello di Leborgne presentava una lesione nettamente visibile dell’emisfero sinistro, più precisamente nella terza circonvoluzione frontale, che da allora venne chiamata «area di Broca». I fautori delle localizzazioni si battevano contro i globalisti: ad esempio Karl Spencer Lashley, che misurava le facoltà di un ratto sulla base della quantità di cervello che se ne prelevava, o Friedrich Goltz, di Poznań, che durante un congresso mostrò un cane privo di corteccia cerebrale ma in grado di camminare. Le conferme vennero invece dagli elettrofisiologi, armati dei loro elettrodi metallici collegati a generatori di corrente. Questa storia mi fa pensare alle conquiste coloniali, quando le grandi potenze si spartivano i territori sottomessi mettendo in campo i loro eserciti. Non potevi fare una descrizione migliore: le sperimentazioni con l’ausilio delle stimolazioni elettriche della corteccia cerebrale furono inaugurate dai tedeschi Gustav Fritsch e Eduard Hitzig, determinati a dimostrare che le ricerche dei francesi erano sbagliate. Essi mostrarono che la stimolazione della corteccia cerebrale del cane provocava certi movimenti delle membra dalla parte opposta rispetto a quella stimolata! Tre anni più tardi i localizzatori anglosassoni riuscirono a disegnare la mappa dei punti motori nel cane. Essa mostra per ciascuno dei due emisferi una rappresentazione sommaria del lato opposto del corpo che si sviluppa sulla circonvoluzione frontale ascendente. La cosiddetta rappresentazione somatotopica della metà controlaterale del corpo umano venne ottenuta negli anni Quaranta del Novecento da un neurochirurgo canadese, Wilder Penfield, che approfittò degli interventi chirurgici su pazienti epilettici resistenti ai trattamenti chimici per stimolare con elettrodi la corteccia cerebrale, insensibile al tatto. Il risultato fu spettacolare: l’insieme dei punti disegna sulla frontale ascendente un grottesco pupazzo che fa pensare all’homunculus degli alchimisti. Le regioni motorie occupano una superficie proporzionale alla loro importanza funzionale. Così, una grande superficie è dedicata alla faccia e agli organi vocali, come alla mano destra, al pollice e ai muscoli facciali. Questo mezzo omuncolo è rivolto all’indietro, verso la scissura centrale. Il dorso è appena accennato e il piede riposa sulla faccia interna dell’emisfero. Lo vedi nella figura 3.

Figura 3. Rappresentazione della sensibilità (A) e della motricità (B) sulla corteccia cerebrale

Quindi nel nostro cervello abbiamo due homunculi che comandano ciascuno la sua metà del corpo... Però non riesco ancora a immaginare come miliardi di neuroni possano trovare posto nella corteccia... ci dev’essere un affollamento micidiale! Certamente: bisogna entrare nei particolari per comprendere come funziona il tutto. Il XIX non è solo il secolo dell’elettricità e dell’anatomia clinica; è anche quello della teoria cellulare, di cui i neuroni sono la manifestazione più spettacolare.

La teoria neuronale

La risposta alla domanda «dove» sembrava essere stata trovata e con essa sembrava che le facoltà pratiche e intellettuali dell’uomo avessero trovato sede in aree ben definite; restava da rispondere alla domanda «come». Con quali mezzi e secondo quale organizzazione il cervello esercita il suo comando sul nostro povero corpo? Dalla metà del XIX si sa che la vita ha un’unità di base: la cellula. Il cervello non fa eccezione; è composto, come ti ho già detto, di neuroni, cellule di forma estremamente varia, accompagnate da altre cellule meno «nobili» che le affiancano come un servo fa con il padrone: le cellule gliali. Un vero e proprio conflitto vide fronteggiarsi i due grandi anatomisti del sistema nervoso: l’italiano Camillo Golgi, professore di istologia e patologia generale all’Università di Pavia, e lo spagnolo Santiago Ramón y Cajal, suo omologo all’Università di Madrid. Il primo inventò la tecnica che porterà il suo nome e che permette, grazie a un bagno d’argento paragonabile a quello usato in fotografia, di individuare su sottilissimi strati di cervello i neuroni e i loro prolungamenti: «Che spettacolo sorprendente!» si meravigliava Ramón y Cajal, che aveva avuto una formazione da pittore. «Su uno sfondo giallo perfettamente traslucido si stagliano nettamente filamenti neri lisci e sottili oppure spinosi e spessi, corpi neri triangolari, stellati, fusiformi! Potrebbero benissimo essere tracciati con l’inchiostro di china su carta giapponese trasparente». I due anatomisti, riuniti da un premio Nobel nel 1906, si scontrano sulla questione dell’organizzazione delle cellule nervose: una rete continua secondo Golgi, discontinua secondo Ramón y Cajal. Per il primo gli innumerevoli rami che partono dai corpi cellulari e le loro ramificazioni formano quello che viene chiamato un syncytium (una massa multinucleata) ininterrotto con i rami delle altre cellule. Per il secondo, la cellula nervosa forma un’unità funzionale: il neurone, con il suo assone e i suoi dendriti, si connette con altri neuroni

attraverso l’intermediazione di formazioni specializzate, le sinapsi di cui abbiamo già parlato. Esistono neuroni di tutti i tipi: a stella, a piramide, a chicco, eccetera. Mi accontenterò di distinguere i neuroni lunghi, che formano le vie di comunicazione a distanza, e i neuroni locali bipolari, che riuniscono due cellule vicine.

Le popolazioni di neuroni e le mappe cerebrali

Entrerò ora ancor più nel dettaglio della struttura del cervello su scala microscopica. Mi sento come un Pollicino che si è perso nella foresta dei neuroni. Non hai torto. Dalla fine del XIX secolo, gli istologi si sono sforzati di mettere ordine nell’organizzazione delle cellule e dei loro prolungamenti nella corteccia cerebrale: si è trattato di un vero e proprio lavoro da archivisti, non sempre facile da compiere. Se osservi la superficie degli emisferi ti trovi di fronte a quello che viene chiamato neocortex, cioè la parte di corteccia più recente nell’evoluzione delle specie. Questo strato è percorso da numerose pieghe che costituiscono la corteccia cerebrale, composta di corpi cellulari e di fibre (la materia grigia), spessa 2-3 millimetri, che poggia sulla materia bianca percorsa da fibre mieliniche. Una poetessa ha paragonato la corteccia cerebrale alla «pelle dell’anima», descrivendo bene il suo ruolo nell’insieme delle facoltà e delle funzioni superiori del cervello, dal pensiero all’azione. L’organizzazione in strati della corteccia (laminazione) forma un’architettura che è stata utilizzata come criterio per distinguere le zone della corteccia classificandole sulla base dello spessore dei loro strati cellulari: in sostanza, una mappa geologica. La classificazione riposa sulle variazioni che subisce la struttura originaria della corteccia, composta di sei strati cellulari sovrapposti. La distinzione in sei aree architettoniche corrisponde in gran parte all’organizzazione funzionale della corteccia. La nozione di localizzazione e di organizzazione cartografica del cervello deve tener conto dell’esistenza di abbondanti connessioni tra le aree cerebrali descritte dall’istologia, come viene chiamato lo studio delle strutture microscopiche dei tessuti. L’esistenza delle connessioni tra aree corticali è conosciuta da tempo.

Fibre di associazione brevi da una circonvoluzione all’altra, fasci di associazione da un lobo all’altro, commessure tra gli emisferi... si potrebbe fare una descrizione della corteccia in termini di associazione. Queste ricerche devono essere contestualizzate nel panorama degli studi psicologici della fine del XIX secolo (come l’associazionismo), che cercavano di spiegare le funzioni complesse (le funzioni cognitive) come frutto di associazioni di funzioni più elementari. Oggi si distingue tra aree primarie, direttamente connesse con gli organi sensoriali o motori, e aree secondarie, o associative, le cui connessioni provengono unicamente da altre aree cerebrali e che quindi ricevono informazioni già processate, potremmo dire di secondo grado. Le aree corticali associative, situate principalmente nel lobo frontale (aree prefrontali) e nel lobo parietale, si distinguono nettamente dalle aree primarie. La loro estensione è maggiore nell’uomo rispetto agli altri animali; la loro maturazione è più lenta rispetto a quella delle aree primarie; infine, la loro lesione provoca deficit di tipo cognitivo. Su questo ultimo punto ritorneremo meglio in un capitolo successivo. Vediamo dunque, con le connessioni tra zone cerebrali, completarsi lo schema complessivo di funzionamento del cervello. Le localizzazioni non funzionano in modo isolato, ma fanno parte di reti di circolazione delle informazioni. Ora dobbiamo tuffarci all’interno del cervello, nelle antiche strutture – in particolare la paleocorteccia o cervello limbico, che comprende appena due o tre strati di neuroni, e le strutture del cervello mediano (diencefalo), che regolano i comportamenti elementari, le funzioni vegetative e le funzioni affettive (emozioni e sentimenti) – che ci permetteranno poi di ritornare alle cosiddette funzioni cognitive.

Il cervello vegetativo

Cosa si intende per funzioni vegetative? Si tratta delle funzioni comuni a tutti gli esseri viventi. Nei vertebrati, il cervello è il «capocantiere» di queste funzioni: il suo compito è dirigerne il buon funzionamento. Nell’uomo, tu sai che la morte del cervello significa la morte del soggetto. Vi sono casi in cui la perdita di coscienza del paziente a seguito di gravi lesioni degli emisferi è compatibile con la persistenza delle funzioni vegetative: si parla allora di coma o di stato vegetativo. Le lesioni gravi del tronco cerebrale provocano invece il coma profondo e danni nelle funzioni vegetative incompatibili con la sopravvivenza. Queste stupefacenti macchine della vita sono raggruppate alla base del cervello. Sono in un certo senso le «parti comuni» della casa-cervello. Il loro cuore è l’ipotalamo, visibile nella figura 4.

Figura 4. Schema dell’interno del cervello (ipotalamo, diencefalo)

Non vedevo l’ora che mi parlassi dell’ipotalamo, il tuo campo di ricerca! Si tratta di una piccola area, poco più grande dell’unghia del pollice e con una parte a forma di imbuto (infundibulum). L’esiguità delle sue dimensioni è inversamente proporzionale alla quantità davvero enorme di funzioni che vi si svolgono e di fisiologi che vi si dedicano. Riceve messaggi provenienti da diversi organi del corpo, le viscere; è direttamente sensibile alle modificazioni dell’ambiente interno grazie ad appositi recettori. Le sue modalità di intervento sul corpo sono molteplici. Possiamo dire che l’ipotalamo è esso stesso una ghiandola multimodale con le sue grandi cellule i cui assoni terminano nella parte posteriore dell’ipofisi – la neuroipofisi, che è un’estensione del cervello in cui vengono liberati i due neurormoni: l’ossitocina, che agisce sulle ghiandole mammarie, e la vasopressina, che regola la densità delle urine. Questi due ormoni vengono anche liberati all’interno del cervello, dove intervengono in certi comportamenti. L’ipotalamo, infine, è la sorgente di numerosi neuropeptidi, piccole proteine liberate in un circuito destinato esclusivamente alla ghiandola ipofisi, dove svolgono la funzione di liberare o di inibire gli ormoni sistemici secreti dalle principali ghiandole endocrine (tiroide, corticosurrenali, ghiandole sessuali,

pancreas, eccetera). Riassumendo, potremmo definire l’ipotalamo come il cervello dell’ambiente interno, l’alfa e l’omega di tutte le funzioni vegetative? Non potevi dirlo con parole migliori.

La temperatura

L’uomo, come la maggior parte dei mammiferi e degli uccelli, è un animale a temperatura interna costante (endotermo). La temperatura è uniforme in tutto il cervello (attorno ai 37°C), il quale la impone al resto del corpo; è come se all’interno dell’ipotalamo ci fosse un termostato di quelli che regolano la temperatura negli appartamenti. L’ipotalamo riceve informazioni sulle variazioni di temperatura del corpo, grazie a dei sensori termici situati nel cervello o sotto la pelle e nelle viscere. I neuroni possono essere sensibili o all’abbassamento della temperatura, o al suo innalzamento. Dopo aver riunito e analizzato tutte le informazioni, la «centrale» di termoregolazione innesca le reazioni corporee opportune per produrre o disperdere calore. La temperatura segue un ritmo su base giornaliera con un abbassamento di alcuni decimi di grado nella seconda metà della notte; la temperatura più bassa viene registrata attorno alle 3 del mattino. Questo ritmo termico segue quello del sonno, ma può svincolarsene, ad esempio durante un repentino cambio di fuso orario. Ritornerò più avanti sul tema dell’orologio cerebrale che regola questi ritmi quotidiani chiamati anche circadiani, caratteristici di tutti gli esseri viventi, animali e piante, sottomessi all’alternanza giorno-notte. Ma io sono sensibile alla temperatura esterna e il Sole mi mette di buon umore. Questo pomeriggio vado a fare la lucertola, voglio abbronzarmi. Le lucertole sono ancora più sensibili alla temperatura ambiente: a differenza di te, che hai una temperatura costante – tranne quando hai la febbre – la loro segue le variazioni esterne: per questo vengono dette ectoterme.

Il sonno

Sonno e veglia sono due stati inseparabili, legati al ritmo della vita, che si alternano come il giorno e la notte; per gli esseri umani, attivi durante la giornata, la seconda è riservata al sonno. Alcuni animali dormono di giorno: sono animali notturni, in genere predatori che non hanno nulla da temere dagli altri e possono dormire tranquilli quando attorno a loro succede di tutto. Non è questo il caso delle prede, come i conigli, che hanno bisogno della complicità del buio per prendere sonno. Quando dormiamo il cervello riposa? Questo è un preconcetto ed è falso. La cessazione dell’attività cerebrale significa la morte e un cervello vivo non è mai a riposo. Il suo dispendio energetico è più o meno un quinto del dispendio totale del corpo, quantità che, rapportata al suo peso relativo (1,5 kg) appare enorme. L’energia impiegata per eseguire compiti come pensare, parlare, fare calcoli o compiere un’azione qualsivoglia non supera mai il 5 per cento... ci stiamo ancora chiedendo a cosa serva il rimanente 95 per cento, che la diagnostica per immagini – cioè le tecniche di visualizzazione dell’attività cerebrale – mostra come delle oscillazioni (forse un riordino della macchina cerebrale?). Come sappiamo che una persona sta dormendo? L’osservazione visiva è ingannevole, ma oggi disponiamo di metodiche che permettono, grazie a elettrodi applicati sulla pelle del cranio, di registrare con precisione il succedersi dei diversi stadi del sonno. Le metodiche comprendono l’elettroencefalogramma – EEG –, l’elettromiogramma, i movimenti oculari o sonde che registrano la pressione arteriosa, la respirazione e, nel maschio,

l’erezione del pene durante il sonno paradossale. Con l’EEG dall’alfa al delta si distinguono quattro stadi di sonno lento, che corrisponde al sonno profondo e viene interrotto regolarmente da uno stadio di sonno cosiddetto paradossale, perché in esso il sonno profondo si accompagna a un EEG di veglia con una perdita del tono muscolare e dei movimenti oculari. Se risvegliato durante il sonno paradossale, il soggetto spesso racconta di aver sognato. L’insieme delle fasi di sonno lento e sonno paradossale costituisce un ciclo di sonno, la cui durata è costante nel corso della notte e per ciascun individuo. Il sonno totale è formato dalla successione di 4-5 cicli nei quali la durata del sonno paradossale aumenta a mano a mano che ci si avvicina al mattino, a discapito di quella del sonno lento. Questo spiega la frequenza dei sogni mattutini, spesso interrotti da brevi risvegli che permettono di ricordarsene. Aggiungo la presenza dell’erezione mattutina, che sicuramente hai potuto constatare di persona. Come funziona questa strana macchina che passa dalla veglia al sonno senza smettere di lavorare? Domanda difficile! Non è vero per il resto del corpo, che ha bisogno di riposo sia a livello sensoriale, sia a livello motorio. Nel sonno i sistemi desideranti non sono fermi, anche se non si accompagnano alle azioni. Mi viene in mente che potrebbe essere descritto usando uno di quei cartelli appesi fuori da certi negozi: «Siamo aperti anche durante i lavori di ristrutturazione». La sera vado a letto di buon’ora e mi addormento vedendo strane immagini che sbiadiscono come se venisse premuto un interruttore. Non potevi descriverlo con parole migliori. Il modello attuale di macchina del sonno (che è anche una macchina della veglia) fa uso di due interruttori tipo flipflop che corrispondono a due stati: on e off (simili a quelli degli impianti domestici). L’attivatore del sonno si trova nell’ipotalamo anteriore, quello della veglia nell’ipotalamo medio, e si inibiscono a vicenda. Su questo doppio commutatore è innestato un terzo meccanismo, costituito da un ammasso di neuroni situati nell’ipotalamo posteriore e laterale, una sorta di sicura che fa sì che non ci si addormenti in modo involontario in un momento importante o che necessita di un’attenzione particolare – ad esempio ora, mentre ti sto spiegando questo meccanismo. La distruzione di questi neuroni provoca nel soggetto degli attacchi di narcolessia, cioè la caduta improvvisa, senza transizione, nel sonno paradossale, dovuta a una irregolarità del sistema degli interruttori. La veglia è talmente importante per la sopravvivenza di un animale che l’evoluzione ha

gradualmente introdotto dei sistemi radicati in tutto il cervello. Bisogna ricordare che uno dei principali neuromediatori della veglia è l’istamina; la maggior parte degli antistaminici che utilizziamo contro le allergie hanno la controindicazione di provocare sonnolenza. Parlami del sonno paradossale, che sopravviene mentre dormiamo ma può anche presentarsi in piena veglia. Il sistema che fa scattare il sonno paradossale non è ubicato nell’ipotalamo ma nella parte mediana del tronco encefalico e riunisce neuroni che svolgono diverse funzioni. Attivato dal sonno paradossale, attraverso canali che discendono al livello del midollo spinale, uno dei gruppi blocca l’attività dei nervi che controllano i muscoli (tranne quelli della respirazione e degli occhi): è per questo che durante le fasi di sonno paradossale osserviamo una scomparsa generalizzata del tono muscolare. Quando questo sistema viene distrutto, può accadere che il sognatore «viva» il suo sogno e attui comportamenti onirici in piena veglia: come è successo in un caso di cui mi è stato riferito, in cui il soggetto ha tentato di uccidere sua moglie. Mi hai descritto la macchina del sonno, ma non mi hai spiegato cosa la fa funzionare. Mi prenderai sicuramente in giro se ti parlo dell’Uomo di sabbia, quella figura del folclore nordico che lasciava cadere della sabbia sugli occhi delle persone per aiutarle a prendere sonno. Quando l’ho incontrato, lui e un orso bonaccione erano star televisive, e la trasmissione, che andava in onda all’ora di andare a letto, si intitolava «Buonanotte bambini!» L’Uomo sapeva fare il suo mestiere: il bambino si era affaticato a tal punto durante la giornata che lui arrivava sempre nel momento giusto per permettergli di ricostituire le riserve di energia esaurite con la sua attività frenetica. Per molto tempo anch’io sono andato a coricarmi di buon’ora, fino a quando le sregolatezze della mia vita hanno reso impossibile all’Uomo di sabbia raggiungere il suo scopo, e a furia di mancare agli appuntamenti con lui ho finito per scoraggiarlo. Ora per dormire ho bisogno di una sabbia di contrabbando, certi sonniferi non sempre di buona qualità. Il vero Uomo di sabbia si pensa sia l’adenosina che proviene dalla degradazione delle molecole di ATP (adenosina trifosfato), un composto legato all’attività cellulare. L’innalzamento del tasso di adenosina nello spazio extracellulare del cervello comporta il progressivo esaurimento delle sue riserve energetiche e aumenta la pressione, che finisce per attivare la macchina e indurre il sonno lento e

riparatore. Una curiosità: perché sbadigliamo? Alcuni ricercatori, incuriositi da questo fenomeno, se ne sono recentemente interessati. Si tratta di un fenomeno universale, caratteristico di tutti i vertebrati ad eccezione della giraffa. Ti risparmio le ricerche a cui ha dato luogo questo mistero e riassumerò così: grazie all’apertura della bocca e alle contrazioni muscolari che le si accompagnano, lo sbadiglio permette di dirigere verso il cervello e i centri del sonno l’adenosina trasportata dal liquido cefalorachidiano. Il sonno è subordinato all’alternanza giorno-notte. Si tratta del più bell’esempio dell’orologio biologico cerebrale cosiddetto circadiano. L’uomo è un animale diurno. Non è attrezzato adeguatamente per vedere di notte; la notte è fatta per dormire. Il ritmo sonno-veglia dettato dall’orologio è relativamente stabile all’interno di condizioni dove non intervengono troppi fattori esterni: lo dimostrano chiaramente gli esperimenti condotti su soggetti in isolamento (in una grotta o un bunker) senza luce né rumori esterni. In queste condizioni i soggetti non hanno più riferimenti temporali: niente orologi, niente radio, solo film da guardare con il televisore. Possono accendere o spegnere la luce quando vogliono, ma non possono relazionarsi in nessun modo con il ciclo della luce solare. In questi casi abbiamo verificato che l’orologio circadiano dell’uomo è in realtà regolato sulle ventiquattr’ore e venti minuti. I soggetti si coricano la prima sera verso le 22, poi ogni sera successiva venti minuti più tardi, cosicché dopo un mese (30×20 minuti = 600 minuti = 10 ore) vanno a dormire alle 22+10 ore, quindi alle 8 del mattino credendo che siano le 22. Se l’esperienza dura per molto tempo, la loro permanenza in quelle condizioni parrà loro più breve di quanto non sia in realtà. Cosa possiamo dire del sonno paradossale, che apparentemente segue un ritmo diverso da quello del sonno normale? In effetti segue un ritmo più rapido, che nell’uomo si attiva ogni 90 minuti e il più delle volte passa inosservato durante la veglia. Si parla di ritmo ultradiano, che durante la giornata corrisponde a un’attivazione periodica dell’attenzione e durante il sonno si manifesta mediante un azionamento periodico che potrebbe essere innescato dal raffreddamento del cervello durante il sonno profondo. Ci troviamo in un regno degli orologi bizzarro come quello del paese di Alice:

vi è un orologio dotato di grande stabilità che ogni 90 minuti durante il sonno profondo innesca il sonno paradossale. Interviene allora un risveglio interno che sfugge alla coscienza ed è innescato dall’attivazione di sistemi diversi da quelli della veglia esterna. Questo processo attiva i comandi motori della corteccia, che però non possono arrivare fino ai muscoli a causa di un altro sistema che blocca l’esecuzione dei movimenti a livello del midollo spinale, come ho spiegato poco fa. Allo stesso tempo, l’attivazione delle strutture limbiche mette in moto i ricordi e suscita le immagini oniriche. Come dice il mio maestro Michel Jouvet – che è considerato il più grande esperto al mondo di onirologia, la scienza che studia il sonno – tutti questi fenomeni si svolgono al di fuori della nostra attenzione e della nostra coscienza. Veniamo sognati dal nostro inconscio. La macchina onirica è la macchina del nostro inconscio e la nostra volontà non ha voce in capitolo. Roba da far arrossire di piacere uno psicoanalista. Ma, alla fine, a cosa serve il sonno? Tutti gli esseri animati hanno diritto al riposo riparatore: esso azzera la fatica del corpo, che si tratti dei muscoli o dei nervi. Ma cos’è la fatica? Dobbiamo recuperare il dispendio energetico? Rispondere a un bisogno diventato insopprimibile? Rimborsare un debito accumulato durante una veglia troppo prolungata? Gli esperimenti di deprivazione del sonno mostrano un aumento dell’esigenza di dormire con una priorità del sonno profondo durante la fase di recupero: un rimbalzo che riguarda solo indirettamente il sonno paradossale. Non serve essere un ricercatore per sapere che abbiamo bisogno di dormire. Quando sto sveglio a ripassare, a un certo punto viene il momento in cui non riesco più a tenere gli occhi aperti. Il bisogno di sonno varia da individuo a individuo: c’è chi dorme tanto e chi poco, e non si può dire che i primi siano più intelligenti dei secondi. Di sicuro diminuisce con l’età e durante certi periodi della vita. Varia anche a seconda delle specie: il maschio del pinguino imperatore resta sveglio a covare l’uovo per uno-due mesi, mentre la femmina pesca al largo e alle grandi profondità per recuperare cibo per il futuro pulcino. L’albatro è un esempio di eroismo, perché può percorrere migliaia di chilometri in volo per più di quindici giorni senza posarsi, alla ricerca del pesce. È anche vero che forse in queste specie esiste un sonno localizzato: come il

gendarme, l’albatro dorme con un occhio solo, o meglio alternando il cervello destro (occhio sinistro chiuso) e il cervello sinistro (occhio destro chiuso), rispettando nello stesso tempo il ritmo giorno-notte. Un altro caso esemplare, caro a Jouvet, è il delfino, la cui respirazione è volontaria e che quindi rischierebbe di annegare quando arriva in superficie se non dormisse alternativamente con uno dei due emisferi cerebrali, per poter sorvegliare con l’occhio controlaterale le prede e nello stesso tempo il moto ondoso. Le funzioni del sonno paradossale sono tanto numerose quanto ipotetiche. Credi ai sogni premonitori, e in particolare ai sogni che permettono di prevedere e addirittura di evitare avvenimenti negativi? Non sono un mago e non credo ai presagi, che appartengono alla sfera della parapsicologia: un campo che non ha nulla da spartire con la razionalità dell’ortodossia scientifica. Va detto invece che spesso il contenuto dei sogni dipende dal passato prossimo e dalle condizioni biologiche del soggetto, e quindi può fornire indicazioni sulla sua salute, svolgendo un ruolo di segnale di avvertimento. La sovrattivazione dei sistemi desideranti durante il sonno paradossale consente di espellere l’eccesso di energia pulsionale. Il sogno quindi può avere a che fare con la memoria. In effetti le ipotesi più accreditabili sul sonno paradossale hanno a che fare con la memoria. Il sonno paradossale favorirebbe la memoria, sbarazzandosi dei ricordi ingombranti in vista di nuove acquisizioni. Consoliderebbe le tracce mnestiche e quindi avrebbe un ruolo essenziale per la sopravvivenza del sognatore. Ed è in effetti sul piano dell’adattamento e della dimensione temporale dello stato fluttuante della psiche che si trova la funzione più importante del sonno. Secondo Jouvet, permetterebbe al soggetto di mantenere costante la propria identità e utilizzerebbe le attivazioni dei sistemi desideranti per riprogrammarsi. Ci riallacciamo qui alla psicoanalisi e alle intuizioni di Sigmund Freud, di cui ti ha sicuramente parlato il professore di Filosofia. Se questo approccio alla psiche umana cerca, studiando il lavoro onirico, le tracce della nostra identità come un passato sempre in divenire, è nella biologia che la psicoanalisi trova il suo miglior sostenitore!

I comportamenti di base

Dopo aver studiato il sonno, bisogna affrontare le altre funzioni vegetative, comuni a tutti gli animali, cioè nutrirsi, bere e riprodursi, con le sensazioni che le accompagnano: fame, sete e amore. Quelle che io chiamo le passioni. «Passioni»? Non è un’esagerazione per condizioni così banali? Appunto! Io chiamo passioni tutto quello che l’uomo o l’animale provano a livello corporeo. Nei tre comportamenti di base: Mangiare, Bere, Riprodursi, vediamo in azione il desiderio con il suo accompagnamento di sensazioni specifiche che oscillano tra piacere e dolore, gioia e sofferenza. Ti propongo di esplorare ora una per una queste tre passioni.

Mangiare È nel cervello che l’uomo si mette a tavola, e precisamente nell’ipotalamo, dove vengono elaborate le operazioni chimiche che presiedono all’assunzione del cibo, dalla tavola fino al ventre. Spiegami da dove vengono il sapore e l’odore delle cose che mangiamo. È il tuo cervello che percepisce gli odori che accompagnano le immagini di ciò che vedi in tavola.

Guarda queste rose. Hanno un profumo... Certamente, ma come il colore e la forma, anche il loro famoso profumo non esisterebbe senza un essere vivente – un’ape, una donna – che lo annusi. Quindi l’olfatto, come la vista e tutti gli altri sensi, è prodotto dal cervello. Sì: è il cervello che, a partire dai dati sensoriali, costruisce una rappresentazione dell’odore: un’immagine olfattiva. Tipo un’immagine visiva? Esattamente, ma proveniente da aree specifiche diverse da quelle della vista. Ciò non toglie che il cervello possa associare l’immagine visiva all’immagine olfattiva, in modo che entrambe contribuiscano alla bellezza del fiore. Il primo ad arrivare al corpo, attraverso il naso, è l’odore durante l’inspirazione e il primo contatto con le cellule sensoriali olfattive. Quindi gli aromi sprigionati nella bocca raggiungono di nuovo l’organo olfattivo risalendo all’indietro (via retronasale). In questo modo i sapori nella bocca s’intrecciano tanto strettamente con gli odori che i due sensi, olfatto e gusto, anche se autonomi sul piano anatomico, si fondono in quello che viene chiamato il «senso orale». Ora ti faccio una domanda stupida: perché una cosa ha un sapore amaro, e perché lo zucchero è dolce, il sale salato e l’aspro... aspro? Rispondere a questi «perché» è sempre difficile: perché una cosa è quella che è? Nel caso degli alimenti, la bocca propone e il cervello dispone. In genere si riconoscono quattro sapori (dolce, salato, amaro e aspro) dimenticando l’umami, il sapore tipico del glutammato, il condimento preferito degli asiatici. Torniamo alla bocca: la sua superficie interna è rivestita di papille. Queste, in numero di duemila circa, hanno forma di fungo o di avvallamento e portano sui loro fianchi dei bottoncini gustativi, ognuno dei quali contiene un centinaio di cellule sensoriali da cui partono delle fibre nervose che si uniscono a formare i nervi del gusto. Ogni fibra riceve input da numerose cellule sensoriali e ogni cellula sensoriale è innervata da numerose fibre. Puoi immaginare quanto sia difficile stabilire un percorso preciso per trasferire delle sensazioni a diretto contatto con il liquido all’interno della bocca! Le cellule sensoriali riconoscono distintamente i cinque sapori. Si tratta dei recettori del gusto.

In che modo riconoscono i sapori? Questa è una domanda importante per la biologia. Il recettore riconosce per affinità la molecola sapida («gustosa») quando la incontra. Maggiore è l’affinità, maggiore è la possibilità che l’incontro avvenga. In caso di affinità debole, ci vogliono più molecole sapide. Niente affinità, niente incontro. Perché una sostanza abbia del gusto, bisogna dunque che sia sufficientemente concentrata e mescolata nei liquidi della bocca per arrivare a contatto con un recettore che la riconosca e sul quale si fissi. La fissazione della molecola sapida sul recettore attiva quest’ultimo e scatena nella cellula una serie di effetti che porta alla nascita di un impulso nervoso. Questo a sua volta, tramite le sinapsi, si trasmette alle fibre nervose a contatto con la cellula sensoriale. Su una sola cellula sensoriale sono in agguato da migliaia a milioni di recettori. Nessun tipo di recettore ha l’esclusiva nella cellula; il 90 per cento delle cellule reagiscono ad almeno due sapori. Alcuni ricercatori hanno identificato i recettori gustativi dell’amaro. Contrariamente a quanto si pensava, non esiste un unico recettore dell’amaro, ma una nutrita famiglia di geni (una cinquantina) che codificano la sintesi di altrettante molecole la cui struttura ricorda quella dei recettori olfattivi. Perché ci sono tanti recettori diversi? Buona domanda. Spesso l’amaro è associato alla pericolosità della sostanza. Viene percepito in modo innato e molto precoce dal bambino e dall’animale. È possibile che l’evoluzione abbia mantenuto un gran numero di molecole recettrici per permettere di abbracciare la straordinaria varietà strutturale delle sostanze nocive per l’organismo. Non è la selettività dell’identificazione a contare, ma il non lasciar entrare nell’organismo nulla che possa nuocergli. Amaro = pericolo! Mangiare è un’«opera buffa» con due protagonisti, il cervello e il corpo, che non escono mai di scena. Il secondo mette in moto l’apparato digerente, con le relative ghiandole, fegato e pancreas, e soprattutto il grasso che, nonostante sia variamente distribuito, forma un vero e proprio organo le cui cellule (gli adipociti) secernono un ormone proteico, la leptina, che è una specie di adipostato (per analogia con termostato): aumenta con la massa adiposa allo scopo di diminuire l’apporto energetico e cala con la diminuzione del contenuto in grassi degli adipociti. La sua funzione principale è frenare l’appetito: uno spezzafame biologico.

E rieccoci nell’ipotalamo, il tuo angolo di cervello preferito. E per buoni motivi. In uno spazio anatomico ridotto e in diversi scenari si svolgono, simultaneamente o in alternanza, diverse vicende con molti protagonisti, neuromediatori e ormoni che dialogano e si confrontano. Da quello che dici, il modo in cui ci comportiamo dipende esclusivamente dal cervello, in particolare dall’ipotalamo. La tua è una provocazione. Sai bene che, senza il corpo, il cervello non è più nulla. Ho già parlato della leptina secreta dalle cellule adipose, ma intervengono anche i fattori ormonali del metabolismo, come viene chiamato l’insieme delle trasformazioni chimiche e degli scambi che rendono possibile il funzionamento delle cellule di un organismo. Vi prendono parte il fegato, il pancreas, l’intestino e le ghiandole surrenali. La loro disfunzione è responsabile della terribile «sindrome metabolica» che associa obesità, diabete, ipertensione arteriosa e disturbi cardiaci, un killer per combattere il quale sono necessari una dieta e medicine il più delle volte efficaci. Ma invece di parlarti di medicina e nutrizione preferisco parlare dell’olfatto, un senso che entrambi coltiviamo e per cui tutto accade nel cervello. L’olfatto è il più intimo fra i sensi. Il suo territorio rimane confinato al cervello del soggetto che odora, anche se una «scena olfattiva» può essere condivisa. Tutto risiede precisamente nella capacità del cervello, niente di esterno attesterà ciò che l’altro sente con il proprio naso. Non abbiamo a disposizione nessun criterio obiettivo condivisibile come quelli che invece si danno per la vista, l’udito o il tatto. Un individuo può essere privo dell’olfatto – si parla in questo caso di anosmia – senza che gli altri se ne rendano conto. Non vi è alcuna caratteristica fisica o chimica che permetta di attribuire con certezza natura odorosa a una molecola: essa odora solo perché esiste un recettore che la annusa. Lo stimolo non è un parametro fisico che varia in modo continuo come le lunghezze d’onda per la vista o l’udito, ma una combinazione sterica (cioè spaziale) di raggruppamenti atomici. Grosso modo, è la forma geometrica della molecola a determinarne l’odore. Più ti ascolto, più comprendo l’importanza dei sensi e soprattutto di quello che dà loro... un senso: sentire o essere sentiti, sentirsi bene o male... e poi, sentire è anche gustare. Se ho capito bene... L’associazione di gusto e odorato provoca una sensazione particolare, più

profonda rispetto a quelle degli altri sensi. Ma questa lunga esposizione mi ha messo sete. Ti offro un buon bicchiere di orzata.

Bere Bere acqua, da sola o con l’aggiunta di qualcosa, procura un piacere che traduce la soddisfazione di un bisogno corporeo espresso mediante una sensazione: la sete. L’acqua rappresenta il 70 per cento del peso del nostro corpo e il nostro organismo ne perde continuamente: attraverso la pelle, i polmoni e i reni. A compensare queste perdite è l’acqua che assumiamo con gli alimenti e le bevande. Bere è quindi una necessità per ristabilire l’equilibrio in liquidi dell’organismo, come mangiare è necessario per l’equilibrio energetico. In entrambi i casi osserviamo la presenza dei centri nervosi che regolano questi comportamenti. In presenza di deficit di acqua intervengono due meccanismi: il primo ne diminuisce la perdita, più o meno chiudendo il rubinetto urinario: è il ruolo della vasopressina o ormone antidiuretico secreto nel sangue dal cervello al livello della neuroipofisi, di cui ti ho già parlato. C’è una malattia che distrugge le cellule nervose che secernono la vasopressina. L’acqua non viene più trattenuta dai reni e il soggetto urina più di due litri d’acqua al giorno. Questa perdita d’acqua non è associata alla presenza di zucchero nelle urine (come nel diabete mellito) e per questo motivo si chiama diabete insipido, facilmente diagnosticabile assaggiando le urine, unico modo di accertarsene per i medici del XVII secolo. L’acqua è distribuita in modo non uniforme tra l’interno e l’esterno delle cellule. Quando la pressione osmotica extracellulare aumenta (la pressione osmotica segnala la concentrazione delle sostanze disciolte nell’acqua) a causa di perdita d’acqua o di assorbimento di sali, l’acqua intracellulare attraversa la membrana, al fine di mantenere l’equilibrio osmotico tra i due compartimenti. Il risultato è una disidratazione cellulare che viene percepita dal soggetto come una sensazione di sete cosiddetta intracellulare. Quando invece l’ambiente extracellulare diminuisce di volume (emorragia), la pressione osmotica non varia e la diminuzione del volume extracellulare si traduce in una sete cosiddetta extracellulare. Il cervello dispone di recettori capaci di determinare il tipo di sete: si tratta degli osmorecettori per la pressione osmotica e dei volorecettori per il volume del sangue, i primi ubicati sulla parete anteriore dell’ipotalamo a contatto con i

vasi sanguigni, i secondi nel cuore. La sete extracellulare ha come esito una diminuzione del volume del sangue – è il caso in cui il soggetto sanguina – e vi è allora, in risposta all’emorragia, la liberazione di un ormone, l’angiotensina, che è direttamente responsabile della sete. Possiamo anche scatenare la sete in un animale (un ratto, un cane ecc.) iniettandogli direttamente angiotensina nel cervello. Questo ormone viene definito agente dipsogeno universale. Scusa se mi sono dilungato, ma c’è una ragione: si tratta di uno dei soggetti delle mie ricerche. Sono un po’ deluso, Pépé. Mi parli di bere acqua, quando mi hai insegnato proprio tu il piacere del vino, uno dei tuoi compagni di vita, a cui dedichi parte del tuo tempo libero... La degustazione di vino non fa parte dei programmi delle nostre conversazioni, anche se il cervello vi svolge la parte principale. È una scienza pratica che ha bisogno di un apprendistato e di una solida memoria olfattiva. Avrai tutto il tempo per impararla. Quando si dice di una persona «è uno che beve» s’intende che è alcolista? Il vino è effettivamente una bevanda alcolica. E l’alcol, consumato in eccesso, è un veleno che distrugge il cervello dell’uomo. Ti parlerò presto delle dipendenze, che sono il «lato oscuro» del piacere.

Riprodursi La riproduzione è la buona coscienza degli amanti, la causa ultima dell’atto sessuale per la salvaguardia della specie. Parliamo della causa prima della riproduzione: la chiamano «amore». A questa parola io do un senso universale: la vita, come mi piace ripetere, è quando l’amore si materializza e parte il grande gioco del riconoscersi tra molecole sulla base delle affinità elettive. Un gioco che non riguarda solo le molecole degli esseri viventi, ma anche gli organismi che esse formano. Il motore è il desiderio, la forza di attrazione, accompagnato dal piacere nelle specie più evolute. Si parla anche di sesso e di istinto sessuale, ma sono solo altre parole per dire la stessa cosa! Il cervello è il primo organo sessuale. Sarei tentato di dire che accade tutto nel cervello.

Allora perché tanti misteri attorno al sesso e tante storielle che si raccontano ai bambini? Prima di tutto questo atteggiamento non è comune a tutte le civiltà e non è un dato biologico. Quindi non c’entra con ciò di cui stiamo parlando. Lasciamo perdere le censure religiose e torniamo all’ipotalamo, che peraltro somiglia a una cattedrale, con le sue cappelle dedicate al sesso a ad altre funzioni vegetative. A proposito di sesso: spesso vengono tirati in ballo gli ormoni. Ti ricordo cos’è un ormone: una sostanza prodotta dalle cellule di una ghiandola, liberata nel sangue e che agisce a distanza su altre cellule. Nel nostro corpo gli ormoni sessuali sono prodotti dalle ghiandole genitali, le gonadi (ovaie e testicoli), e liberati nella circolazione sanguigna. Sono gli androgeni (testicolari e surrenali) e gli steroidi ovarici (estradiolo e progesterone), rispettivamente nell’uomo e nella donna. Questi ormoni sessuali che circolano liberamente nel corpo agiscono solo in alcuni punti precisi del sistema nervoso: dove si trovano, appunto, i neuroni sensibili agli steroidi. Gli ormoni del feto e della madre svolgono un ruolo determinante nella costruzione dei circuiti cerebrali da cui dipenderanno le funzioni sessuali dell’individuo, e in particolare i suoi comportamenti più o meno distintamente maschili o femminili. Vorrei mettere l’accento sulla stupefacente ambivalenza degli ormoni sessuali: il testosterone è convertito in estradiolo all’interno dei neuroni per esercitarvi la propria funzione mascolinizzante, ma svolge un’azione di stimolo all’attività sessuale sia nell’uomo, sia nella donna. Il progesterone, ormone femminile per eccellenza e a cui viene comunemente attribuito un effetto inibitore sull’attività sessuale maschile, in certe condizioni si rivela invece altrettanto stimolante. Ad esempio, un picco di progesterone accompagna l’insorgenza del desiderio maschile al calar della notte. Ma è all’interno dell’ipotalamo che si svolgono gli avvenimenti salienti della sessualità. Esso è anche una ghiandola neurosecrettrice che riversa i suoi prodotti nella circolazione sanguigna locale in modo da irrigare l’ipofisi, ghiandola importante perché impartisce ordini a tutte le altre grazie alle sue stimoline. L’ipotalamo in particolare secerne la luliberina, che presiede a due gonadostimoline ipofisarie (LH, o ormone luteinizzante, e FSH, o ormone follicolostimolante). Queste a loro volta determinano la secrezione degli ormoni sessuali. Una catena di ordini che ricorda l’esercito, con il generale ipotalamo, gli ufficiali ipofisari e i soldati gonadici. Questi ultimi, viceversa, agiscono sulle

loro cellule emettitrici per frenarle o stimolarle, in quelle che vengono definite retroazioni (o feedback). Naturalmente non c’è bisogno che impari a memoria tutti questi nomi, se non in vista degli esami, ma aggiungo: l’amore non è un esame! Non è forse un esempio della cosiddetta cibernetica? Esatto! Per gli ingegneri, la vita e l’amore non sono altro che il funzionamento di una macchina perfetta. Così, la luliberina viene periodicamente secreta dall’ipotalamo: uno spruzzo ogni 80-90 minuti; l’ipotalamo è come un direttore d’orchestra che batte il tempo. Durante l’infanzia, fino ai 10-14 anni, questi spruzzi sono deboli e il quantitativo di ormoni sessuali nel sangue resta basso. Il sesso dorme ancora, eccetto per qualche sporadico risveglio, a testimoniare che il bambino durante quel lungo periodo ha comunque una sessualità. Ma ecco che improvvisamente il direttore d’orchestra ipotalamico rende più ampi i suoi gesti e accelera il ritmo. Per tutta risposta, le gonadi secernono i loro ormoni: è la pubertà, con il duetto estradiolo-progesterone nella ragazza che affronta le prime mestruazioni e la domanda angosciante: perché il mio sesso sanguina? Si tratta di uno sconvolgimento circolatorio locale legato alla caduta ormonale a fine ciclo, che scatena un’emorragia. Nel ragazzo avviene la rivoluzione della pubertà, fatta di erezioni ed eiaculazioni spontanee (polluzioni notturne). Cambia voce e pensa di continuo a quel desiderio che prende possesso di tutto il suo corpo. Cosa scatena la pubertà? Oggi sappiamo che è una molecola peptidica (una piccola proteina), la kisspeptina, che imprime un’accelerazione al ritmo della luliberina. Ma cosa scatena la secrezione della... kiss-peptina – che razza di nome! Siamo sempre alla domanda sulle cause. Sembra che si tratti di un ormone del corpo secreto dalle cellule adipose, la leptina, di cui ti ho già parlato a proposito del comportamento alimentare. Questo spiega perché l’età puberale sia legata alla massa grassa. Vale di sicuro per le ragazze: quelle un po’ più robuste hanno le mestruazioni prima delle altre. Sui ragazzi ci sono meno informazioni. Suppongo che nell’ipotalamo ci siano dei punti riservati al sesso, come ce ne

sono per il sonno, la temperatura corporea, la fame e la sete... Certamente. Sono i punti del cervello dove si suona la musica del desiderio sessuale. Il nucleo antero-dorsale, situato nella parte anteriore dell’ipotalamo, ha un ruolo nel comportamento maschile: riceve informazioni provenienti da tutti i sensi e integra le impressioni che concorrono a tenere vivo il fuoco del desiderio e ad attivare la fase precopulatoria, a condizione che a portata di pene ci siano, nel caso dell’animale, una femmina ricettiva o, nel caso dell’uomo, una donna consenziente, e quindi assicura il raggiungimento dell’atto sessuale propriamente detto. La dopamina è il principale neuromediatore coinvolto nell’attivazione di questo centro: una dopamina specializzata nel sesso, prodotta da neuroni situati in vicinanza del nucleo antero-dorsale maschile. Questo sistema dopaminergico specificamente sessuale spiega perché quel tipo di piacere sia un mondo a parte rispetto alle altre forme di piacere; il nucleo anterodorsale non agisce da solo, ma in stretto rapporto con le regioni che controllano la motricità, e in particolare le posture sessuali. Vengono anche interessate le zone deputate alla memoria – amare, nell’essere umano, equivale spesso a ricordare – e alle emozioni. Insomma: tutto ciò che dà un senso all’amore al di là della semplice necessità della specie di riprodursi. Questa descrizione riguarda l’uomo. Non c’è qualcosa di analogo per la donna? Sì: è una zona (il nucleo ventro-mediano) implicata nel comportamento alimentare e in quello di repulsione. L’iniezione di estradiolo in questa regione del cervello di una femmina di ratto sterilizzata corregge la perdita del comportamento sessuale. Sempre mediante un’iniezione di estradiolo in questa regione in un ratto maschio castrato, possiamo indurre un comportamento femminile: l’animale accetta volentieri un amante dello stesso sesso. Tutto ciò sottolinea la variabilità dell’orientamento sessuale di cui tanto si parla oggi. Il legame tra maschio e femmina può essere solo sessuale? Forse hai sentito parlare di certi topolini di campagna che vivono negli Stati Uniti... dove, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, si è aperto un nuovo campo di ricerca nella psicologia sociale, quello della biologia che studia i

cosiddetti legami di attaccamento. Cioè l’amore. Non proprio. Si tratta di un’attrazione che (nell’essere umano) unisce due individui della stessa specie: madre e padre, due partner sessuali o due amici, ma anche la madre e il suo piccolo (o i suoi piccoli). Non trovo differenza con l’amore. E invece c’è una differenza fondamentale. La soddisfazione del desiderio sessuale non implica la presenza di un legame tra gli amanti: amanti di una sera, amanti di un giorno – colei o colui che lasciamo la mattina presto e non incontreremo mai più. L’attaccamento, invece, è duraturo. La sua causa è molto probabilmente chimica. Vi intervengono i due peptidi di cui abbiamo parlato, prodotti dai neuroni nell’ipotalamo: la vasopressina e l’ossitocina già presenti nel sangue. L’attaccamento non è sessuale, ma la verità scientifica mi obbliga a dire che nei ratti, nei topi, nell’arvicola e negli uistitì, le specie più studiate dai biologi, ha inizio con un accoppiamento, nel corso del quale l’ossitocina è liberata nelle regioni basse e profonde del cervello. Tra due individui umani che fanno l’amore si produce spesso uno stato parossistico che accompagna l’eiaculazione nell’uomo e l’acme del piacere nella donna; l’ossitocina viene liberata nell’ipotalamo, dove forma con la dopamina il binomio neurochimico piacere/desiderio. Il comportamento sessuale – la parola «coito» mi fa ridere – ha come scopo la riproduzione? Questo dicono i vecchi. I miei compagni di liceo non sembrano di questa opinione, anzi: cercano soprattutto di non riprodursi! Per concludere con una nota di ottimismo ripeterò ancora una volta che la causa immediata del sesso è la ricerca del piacere. Avere un partner regolare aumenta la rendita edonica – almeno al principio. Negli uistitì tutto accade come se le frequenti copule all’inizio della relazione servissero per instaurare e consolidare l’attaccamento. Nel maschio la presenza di un rivale aumenta il ritmo degli accoppiamenti; anche la femmina soffre di gelosia e mette in atto un maggior numero di sollecitazioni sessuali quando è esposta all’odore di una riproduttrice estranea. I bravi uistitì sono quanto di più lontano dalla dissolutezza, strenui difensori dell’ordine morale e apostoli della fedeltà coniugale. Questa lezione forse ti servirà più avanti... In ogni caso, se tradisci la

tua donna sono fatti tuoi. Non sarò certo io a farti la morale. Ho tenuto da parte per il finale di questa conversazione la corteccia prefrontale, lo chef della cucina dei sensi, che regna sull’ipotalamo e i suoi centri con le sue vie del paradiso e dell’inferno, dove si incrociano i piaceri e i dolori, le ricompense e le punizioni. Incontreremo sicuramente simpatici edonisti, goderecci all’acqua di rose oppure esausti dopo una notte di eccessi; faremo finta di non vedere amanti che si abbracciano e proveremo piacere osservando i sorrisi che si scambiano una madre e il suo bambino; ma ci saranno anche ubriaconi e sordidi spacciatori; distoglieremo lo sguardo davanti a tossicomani conciati da fare pietà, sempre in cerca di droga. Lo ripeto ancora una volta: il piacere è il nocciolo duro, come dicono gli operatori di borsa, del nostro essere al mondo. Constant, quello che sto per dirti del piacere ti ricorderà continuamente che la morte è l’orizzonte della vita. Ma per questo tu non smetterai certo di mangiare e di provare piacere, protestando che non hai più fame! L’infinito è per gli sciocchi, l’eternità per i pigri. Bisogna vivere, e lasciarsi andare al ritmo dei piaceri.

Il piacere

Parli spesso di piacere e di quello che chiami edonismo. Cosa intendi con questa parola? Un piacere si prende e si dà. «Prendere il proprio piacere» esprime il desiderio del soggetto e significa che il piacere appartiene a colui che lo prende. Certi prendono piacere a darne, altri lo vendono; il piacere si compra, si ruba, si esaurisce e viene a mancare; troppo piacere, proprio come la sua assenza, nuoce alla salute. Bisogna saper gestire il proprio piacere. Il piacere quindi è un bene: un bene di consumo per quelli che hanno la vista corta; un bene sovrano per il saggio che mira alla felicità. Qual è la differenza tra felicità e piacere? Ci sono il piacere, la felicità e la gioia, che aggiungerei per completezza. La gioia è un’emozione, cioè una passione che mette in moto la psiche e si traduce in segnali, manifestazioni corporee visibili agli altri e spesso contagiose. La felicità è una variante quieta della gioia – quella ricercata dai discepoli del filosofo Epicuro. Il piacere è un affetto, un sentimento che si traduce nel corpo con manifestazioni organiche, viscerali e secrezioni varie: «Un dolce calore che si diffonde per tutto il corpo, solleticandolo dolcemente» scriveva Marin Cureau de La Chambre, medico e filosofo del XVII secolo. Questi fenomeni non possono accadere senza che la psiche ne sia informata. In genere suscitano il desiderio che tocca l’individuo nel suo rapporto con gli altri. Le azioni che compiamo spinti da un desiderio sono subordinate all’aspettativa del piacere o al timore del dispiacere. Per i filosofi anglosassoni, il piacere ha una funzione utilitaria: è la «moneta

comune» che permette gli scambi e i compromessi tra desideri diversi e talvolta contraddittori. Massimizzare il piacere e minimizzare il dolore: questo guida le scelte e i comportamenti, disegnando la scala delle preferenze che tiene conto della somma algebrica dell’uno e dell’altro. Come il suo accolito, il desiderio, il piacere è un «macchinario insensato» con i suoi milioni di neuroni che si eccitano reciprocamente a colpi di glutammato liberato da certe sinapsi e inibito da altre con il GABA (importante neurotrasmettitore), il tutto condito di neuropeptidi: endorfine, encefaline, colecistochinine e sostanza P e allo stesso tempo, al centro del meccanismo, i neuroni a dopamina (detti dopaminergici) – insignita da alcuni neurobiologi del titolo di «neuromediatrice del piacere». Bisogna anche ribadire che non c’è piacere senza sofferenza. Come l’ombra e la luce? Questo ci rimanda al bene e al male, entrambi affare del cervello. Ma non bisogna dimenticare il ruolo del corpo, che va di pari passo con il cervello, in particolare in quelli che vengono definiti processi opponenti. La teoria dei processi opponenti descrive il funzionamento della psiche e delle passioni che la animano, dando conto in particolare dell’adattamento e della mancanza. Di fronte al potere di rinforzo del piacere, il cervello sviluppa dei meccanismi che tentano di opporvisi. Il processo è lo stesso ma inverso di fronte alla sofferenza. Così, il piacere chiama la sofferenza e questa chiama il benessere. In questo tiro alla fune, in cui ognuno degli avversari fa la sua parte, si stabilisce un equilibrio precario mentre da una parte come dall’altra si spiegano forze sempre maggiori: è la tolleranza. Ma quando una delle due squadre smette all’improvviso di tirare, gli avversari piombano nel disordine: ecco l’astinenza che fa star male il tossicodipendente privo della sua droga. Un esempio di questo meccanismo sono i maratoneti. Capita di vederli, atrocemente agonizzanti come se fossero in bilico tra vita e morte sul ciglio della strada. Non hanno altro motivo di correre e di farsi del male se non la ricerca di quella ineffabile sensazione di benessere che segue la sofferenza. Il cervello s’immerge allora nelle sue endorfine, trasportato dai suoi processi opponenti in un vero e proprio nirvana. Lo stesso avviene a tutti coloro che si prendono dei rischi, come quelli che giocano alla roulette russa. Il fenomeno può essere osservato anche nel sesso, nell’alimentazione – è il caso degli obesi bulimici o degli anoressici, che rientrano anch’essi in questo girone infernale. Riassumendo, questi sistemi che agiscono nella base del cervello intervengono nella gestione del piacere e della sofferenza. Stimolano il desiderio che decide il

passaggio all’azione e possono condurre alla dipendenza. Chi gli cede diventa dipendente dal sistema: entra nel girone infernale dei processi opponenti che lo incatenano alla coppia piacere-avversione. Come intervengono questi sistemi, che associano le tre funzioni fondamentali – desiderio, piacere e avversione – nella genesi dei comportamenti individuali? Per semplificare, possiamo dire che tutto ciò che entra nel cervello e tutto ciò che ne esce deve pagare un tributo ai sistemi desideranti. Ti sei lasciato prendere talmente tanto dall’argomento del piacere e del sesso che non mi hai ancora parlato di un senso fondamentale: la vista.

La vista

La vista è il nostro senso di riferimento. Essa obbedisce fondamentalmente alla stessa organizzazione degli altri quattro sensi: recettori periferici legati mediante una catena di tre neuroni che si proietta su un’area corticale specializzata. Vedere è un’operazione misteriosa. Gli occhi, grazie alle cellule sensoriali della retina, raccolgono dati fisici sul mondo visibile: forme, colori, movimenti, disposizione degli oggetti nello spazio. Però, disporre di queste informazioni non è sufficiente per conoscere il mondo, e ancor meno per comprenderlo: il colore di un oggetto non emana da esso, ma è determinato dalla lunghezza d’onda della luce rimandata dalla sua superficie. Questo fattore di riflessione varia a ogni istante; nondimeno, «la rosa resta rosa dall’alba pallida fino a sera». Anche la forma di un oggetto ci appare diversa a seconda dell’angolo da cui lo guardiamo. Non basta: bisogna tenere conto del ruolo delle emozioni di cui l’immagine è impregnata. Come ha detto Henri Matisse, vedere è già un atto creativo. La creazione non avviene solo sulla tela del pittore ma anche nelle aree della corteccia cerebrale deputate alla vista. Queste aree, che occupano la regione occipitale, sono disposte in modo concentrico. Grazie alle informazioni raccolte dalla prima (chiamata V1), il cervello costruisce un’immagine coerente dell’oggetto. Le immagini sono distribuite in modo parallelo in V5, che aggiunge il colore; le regioni V2 e V3 permettono di riconoscere le forme; V3a consente di preparare l’azione che accompagna quest’identificazione. Le rappresentazioni che il soggetto ha del mondo non sono preformate ma acquisite dal bambino nei primi mesi di vita, grazie all’apprendimento della realtà. L’oggetto che riconosce per primo è il volto della madre. Se si alleva un gattino al buio, esso non percepirà i colori; se non può muoversi nello spazio, non apprenderà le dimensioni geometriche del suo ambiente. Ogni neurone della corteccia si trova infine collegato a fibre che provengono dagli occhi. La retina non si esaurisce in un semplice strato di cellule recettive;

alla loro estremità superficiale queste contengono un pigmento sensibile alla luce: la rhodopsina. Le cellule a cono sono concentrate al centro della retina nella regione della fovea e beneficiano di un acume visivo maggiore; le altre cellule recettive (bastoncelli) sono disposte alla periferia e molto sensibili alla luce. L’informazione raccolta dalla retina ne esce tramite cellule gangliari, i cui assoni formano il nervo ottico. Ti risparmio altri dettagli. Sì, è già abbastanza complicato! Come si arriva poi alla percezione visiva? L’uscita dalle aree visive nella parte posteriore dell’area occipitale avviene attraverso due vie principali, dorsale e ventrale. La prima si proietta sull’area parietale posteriore, che si collega a sua volta con l’area prefrontale che comanda la motricità, in particolare quella delle mani. La seconda si proietta sull’area infero-temporale e, attraverso questa, stabilisce connessioni con le aree prefrontali che organizzano la motricità del linguaggio. Queste due vie restituiscono la visione in tutta la sua complessità grazie alla via superiore. Vedere è fare. Ne consegue l’importanza della palpazione nella conoscenza dell’oggetto e della tecnica nell’arte. L’altra via permette di dare senso all’oggetto, rendendo intelligibile l’accozzaglia dei dati grezzi, e infine di dare un nome a ciò che vediamo. Non so se riuscirò a ricordare tutto! Ma se adesso mi parlassi della memoria?

La memoria

La memoria è onnipresente nel funzionamento del cervello. È la facoltà che permette a quest’organo di conservare tracce del suo passato e farvi riferimento: i ricordi, con il loro contorno di sentimenti. La memoria serve per imparare e preparare l’azione. Vero filo conduttore della vita, non funziona senza l’oblio. Il cervello è una forma vivente che cambia di continuo, inizialmente durante lo sviluppo, poi nell’adulto, quando subisce modificazioni e riparazioni. Certamente non cambia nelle sue strutture fondamentali, ma non è mai qualcosa di immobile. La ricchezza delle connessioni tra neuroni e i loro prolungamenti, le sinapsi, varia considerevolmente in funzione dell’attività delle reti delle quali fanno parte. Da sinapsi a neurone e da neurone a sinapsi si produce un’amplificazione delle connessioni, che sono mobili, non fisse come in una macchina. Tutte queste informazioni circolanti all’interno di una molteplicità di insiemi non hanno nulla del groviglio informe, sono organizzate in modo ordinato e non casuale: come un disordine portatore di senso. Per imparare una lezione devo ripeterla diverse volte. Come quando devo imparare a memoria una poesia. In generale, la memoria consiste di meccanismi di acquisizione, di consolidamento e di recupero basati sulla formazione di insiemi di neuroni (reti o circuiti) legati perlopiù alla ripetizione e all’associazione di stimoli: imparare significa ripetersi; ricordare significa conservarne la traccia. Se la memoria è nel cervello, questo è anche l’espressione dei sentimenti e delle emozioni che arrivano dal corpo e si ripercuotono sulla formazione dei ricordi. La durata di una traccia dipende dalle condizioni della stimolazione, e un ricordo può finire per sparire. Le sue tre proprietà – fissazione, recupero provocato da una nuova

stimolazione e oblio – sono quelle di tutti i sistemi mnemonici. Questo però non spiega cos’è la memoria. Aspetta! Dopo i filosofi e le loro teorie puramente speculative, i neurologi hanno cercato di svelare i misteri della memoria facendo l’inventario clinico dei suoi disturbi (amnesie), raffrontandoli con le lesioni osservate nel cervello grazie alle autopsie e, più recentemente, alla diagnostica per immagini. L’uomo ha una memoria innata, propria della sua specie, come gli animali? Certamente, ma la sua è la situazione inversa. Il repertorio dell’animale è praticamente completo alla nascita; l’umano deve, come dice Immanuel Kant, nascere una seconda volta, grazie all’apprendimento che gli permette in determinati periodi (periodi critici) di imparare a parlare, a osservare e a comprendere. Insieme all’esperienza acquisita all’inizio della vita extrauterina e già nel periodo prenatale, sotto l’influenza materna e degli «altri», l’educazione costituisce il fattore dominante dell’apprendimento. Diversamente dalla memoria della specie, che è collettiva, la memoria umana è individuale. È il linguaggio, una capacità propria dell’uomo, a diventare il motore principale dell’apprendimento. Parli di memoria, non di memorie. Non è un errore? Giusta osservazione. Non c’è una memoria ma diverse memorie, distinte sulla base del loro contenuto e della loro durata. Prima di tutto abbiamo la memoria permanente, a sua volta suddivisa sulla base del suo contenuto: prima di tutto un compartimento accessibile in modo cosciente, suscettibile di essere ripreso e descritto dal linguaggio, la cosiddetta memoria dichiarativa. Ma la memoria permanente conserva anche altri contenuti, accessibili solo in modo automatico e non cosciente: le memorie procedurali, che permettono di mettere in atto comportamenti acquisiti mediante apprendimento, come andare in bicicletta, camminare, guidare eccetera. Esistono poi molti altri tipi di memoria dichiarativa: la memoria semantica, vero dizionario portatile che racchiude i significati delle parole e delle cose, e la memoria episodica, contenente i ricordi che rimangono tanto più incisi nella memoria quanto più sono accompagnati da emozioni memorabili, come la distruzione delle Torri gemelle o il nostro primo bacio. Ci sono poi altre memorie più specializzate, come la cosiddetta memoria spaziale, che si rapporta all’ambiente circostante e opera nell’ambito dei luoghi

cercati volontariamente: la memoria degli esploratori o dei tassisti. Infine c’è la cosiddetta memoria di lavoro o memoria transitoria, che permette di gestire a breve termine la coerenza delle azioni e la loro organizzazione, nell’immediato e anche a più lungo termine. Una memoria che sbiadisce quando abbiamo terminato di svolgere l’operazione a cui è riferita. Questa memoria è caratterizzata da una durata limitata. Come abbiamo accesso ai ricordi? Il fenomeno del recupero permette di andare a riprendere le informazioni immagazzinate nelle memorie permanenti. Il recupero è una modalità attiva e volontaria che talvolta richiede notevole sforzo. Il riconoscimento è il più delle volte un meccanismo passivo. Anche la semplice evocazione di una parola può attivare l’intero orizzonte a cui appartiene o facilitarne il riconoscimento e il recupero. Nel complesso le memorie permanenti funzionano per associazioni, che sono il meccanismo principale dei processi mnemonici.

Le amnesie

Spesso le persone lamentano di aver perso la memoria. Dimenticare un nome è sintomo di amnesia? No, in genere questo problema è benigno, a volte legato all’età. Daniel Schachter, uno dei più eminenti specialisti della memoria, descrive i malfunzionamenti della memoria chiamandoli «i sette peccati capitali»: la labilità, la distrazione, il blocco, l’errata attribuzione, la suggestionabilità, la distorsione e la persistenza. I primi tre sono peccati di omissione o dimenticanze di qualcosa che vorremmo ricordare; gli ultimi quattro sono dei peccati su commissione: la memoria viene conservata, ma è errata o non controllata. Più gravi sono le amnesie, vere malattie dovute alla lesione di certe regioni del cervello, dove l’ippocampo svolge la funzione di sentinella. Certi pazienti vengono designati con le loro iniziali: come HM, famoso in tutto il mondo, la cui memoria non permette più – a seguito di un intervento chirurgico nel lobo temporale mediano – di fissare i ricordi, rendendolo un uomo senza passato, affetto da una amnesia anterograda. Un deficit diverso è costituito dall’oblio dei fatti remoti nel tempo. Quest’amnesia, detta retrograda, è progressiva: danneggia il passato sempre più lontano fino alla totale perdita dell’identità del soggetto. Stai dimenticando... la dimenticanza! In effetti, essa ha un ruolo essenziale nella memoria. I meccanismi neuronali della memoria e dell’oblio non sono ancora ben conosciuti, anche se si riducono a fenomeni sinaptici la cui descrizione ricorre all’elettricità. Alcuni esperimenti recenti permettono di gettare un po’ di luce nella scatola nera del cervello. Essi si basano proprio sull’idea di introdurvi della luce grazie a

fibre ottiche che consentono di attivare determinati neuroni, esponendoli a una sorgente luminosa. Per farlo, si è dovuto rendere i neuroni fotosensibili grazie a una manipolazione genetica. La maggior parte dei dati riguarda l’ippocampo, regione del cervello implicata nella memoria associativa. Numerosi esperimenti condotti sui topi hanno permesso di scoprire che i ricordi, in questo roditore intelligente, sono come tracce permanenti e possono essere richiamati o cancellati. L’équipe del professor Susumu Tonegawa, al MIT, ha messo dei topi geneticamente modificati in una gabbia in cui non era presente nessun pericolo, la cui novità, associata alla ripetizione di un’attivazione luminosa, ha provocato nei roditori un ricordo piacevole. Gli stessi topi sono poi stati trasferiti in una gabbia con il pavimento elettrificato, dove, nello stesso momento in cui gli animali ricevevano una leggera scossa elettrica, venivano contemporaneamente esposti ai raggi luminosi, riattivando in questo modo i ricordi piacevoli del giorno prima. Rimessi infine nella prima gabbia, senza pericoli, e sottoposti di nuovo allo stesso segnale luminoso, i topi hanno mostrato una reazione di paura, come se le loro cellule ricordassero di aver ricevuto uno choc elettrico lì dentro: un falso ricordo, creato artificialmente, che ha continuato a persistere per mesi. Altri esperimenti hanno avuto per oggetto l’inibizione o la cancellazione dei ricordi. Nulla ci impedisce di pensare che questi dati possano essere trasferiti all’uomo e che potrebbero essere utili nel trattamento dei disturbi mentali e neurologici (per esempio le epilessie e le psicosi). Ma la scatola dei ricordi non è forse un vaso di Pandora? L’ippocampo d’altronde ricorda le scatole nere degli aerei. Quei dati, consci o inconsci al momento della loro acquisizione, vanno a formare la mappa del lungo percorso che è una vita animale o umana. La domanda in sospeso è: fino a che punto è possibile manipolare i ricordi intervenendo sul cervello di un individuo, per curarne il malessere psichico o... fare di lui un terrorista? All’inizio della nostra conversazione hai usato più volte la parola «mente». Perché non ne hai più parlato?

Mente, dove sei?

Cos’è la «coscienza», e cosa si intende per «mente»? In che modo il cervello governa le nostre azioni e la nostra visione del mondo? Esso elabora quelle che una volta venivano chiamate «facoltà» e che oggi costituiscono il campo delle cosiddette scienze cognitive. Queste, a loro volta, hanno per obiettivo la descrizione della mente come fenomeno naturale: si propongono di sottrarla alla metafisica per restituirla alla natura. Nelle Fantasticherie del passeggiatore solitario, Jean-Jacques Rousseau scriveva: «Non posso meditare se non camminando; appena mi fermo, non penso più, e la testa se ne va in sincronia coi miei piedi». Proviene da qui la definizione che di Rousseau dettero i suoi nemici: «stupido come i suoi piedi». I piedi servono anche a... tenerci in piedi, grazie al lavoro dei muscoli che ricevono ordini dal cervello. O no? I muscoli sono innervati da nervi motori e nervi sensoriali che formano gli archi riflessi – altro nome che si dà alle connessioni sinaptiche tra terminazioni neuronali – e prendono parte a circuiti neuronali che si trovano in corrispondenza di ogni vertebra, relazionandosi con le diverse vie ascendenti e discendenti che vanno e vengono dalle aree sensoriali e motorie della corteccia cerebrale. Camminare favorisce il pensiero perché attiva, grazie al ritmo dei passi, il motore della riflessione come una biella di locomotiva spinta dal desiderio. Attenzione, Pépé: ti stai imballando e rischi di uscire di strada. Il tuo pensiero mi sembra un po’ troppo meccanico. Che fine fa la coscienza? Effettivamente, camminare è perlopiù un’attività incosciente, che diviene

cosciente solo nel momento, ad esempio, in cui si sceglie una strada. Il fatto che un’attività non sia cosciente non significa però che sia automatica. La coscienza fa la sua comparsa in modo intermittente: essa è un’apparizione nel vero senso della parola, quindi è un’apparenza. Di qui a sostenere che la coscienza è un’illusione il passo è breve, e alcuni lo compiono senza esitazioni. Camminare è un automatismo, ma è come se liberasse il pensiero, permettendogli di seguire la sua strada allineandosi lungo quella percorsa dai piedi. Recentemente è stato dimostrato che nel perseguimento di un compito certe regioni del cervello si attivano parecchie centinaia di frazioni di secondo prima dell’intervento della coscienza. Se è così, le nostre decisioni non scaturiscono dal ragionamento. Ci limitiamo a rispondere a segnali provenienti dall’ambiente nel fluire continuo della nostra attività cerebrale, e lo facciamo in modo automatico. Sono pronto ad accettare che camminare faccia bene ai neuroni, ma continuo a non sapere cosa significa pensare. Lascia che ti racconti un episodio della vita del tuo trisavolo. Me l’ha raccontata mio padre. Nel corso di un soggiorno in Marocco durante la Prima guerra mondiale, il trisavolo aveva acquistato un pappagallo. Quello che gliel’aveva venduto gli aveva garantito che l’animale sapeva parlare. Passarono alcune settimane, e l’animale non aveva pronunciato neanche una parola, nonostante gli sforzi del proprietario di instaurare una conversazione. Il trisavolo aveva così deciso di riconsegnarlo al venditore, e aveva accusato quest’ultimo di averlo truffato. L’uomo, indignato, si difese con queste parole esemplari: «Non parla, ma pensa!» Mio nonno non trovò nulla da ridire e si riprese il pappagallo, portandoselo dietro al ritorno in Francia. L’uccello morì di nevrastenia una decina di anni dopo, senza aver mai pronunciato una parola, e mio nonno lo seguì non molto tempo dopo. Diceva che il pensiero silenzioso del suo compagno prediletto gli rendeva sopportabile l’incessante chiacchierio di sua moglie, della quale sosteneva che non avesse mai avuto un pensiero in tutta la vita... Con quelle parole acide il mio avo intendeva sicuramente che non è necessario parlare per pensare e che le parole non traducono sempre dei pensieri da parte chi le pronuncia. «Di ciò che non possiamo parlare, dobbiamo tacere!» Mia nonna evidentemente non aveva letto Ludwig Wittgenstein, grande pensatore del XX secolo, autore di questo aforisma. Lei parlava e parlava, e non aveva molto da dire. Esprimeva semplicemente il suo bisogno dell’altro, del suo ascolto, del suo sguardo. Non le interessavano né le parole, né le risposte; quello che si aspettava dagli altri era la compassione. Sempre Wittgenstein afferma che se i leoni potessero parlare noi

non li comprenderemmo. Io credo che se i leoni avessero il dono della parola noi li comprenderemmo, ma non avrebbero molte cose da raccontarci. Non saprebbero dire se sono contenti del loro destino e della loro condizione di leoni; non sarebbero in grado di esprimere il loro «stato d’animo». Ho conosciuto la bisnonna, e non penso che fosse stupida come la descrivevano. E poi questa storia non mi spiega veramente cosa sia il pensiero; soprattutto, non dice che è, come la coscienza, un’illusione.

Il linguaggio

Non è mia intenzione trascinarti in una discussione filosofica. Credo invece utile precisare che pensiero e attività mentale possono essere distinti dalla coscienza, che interviene solo in certi momenti. È qui che entra in azione il linguaggio, che aggancia parole alla nostra coscienza come se il sé si rivolgesse a se stesso. Cioè pensiero puro! Sì, una specie di linguaggio interiore o pensiero verbale. Esso funziona allineando simboli secondo una successione di proposizioni logiche. Questo accade in zone situate perlopiù nell’emisfero sinistro – come puoi vedere nella figura 5 – e ci riporta a quanto ti ho già raccontato a proposito delle localizzazioni cerebrali. Alcuni malati che presentano una lesione localizzata nella zona frontale bassa dell’emisfero sinistro, chiamata area di Broca, sono incapaci di esprimere ciò che pensano mediante la parola. Questa condizione patologica è chiamata afasia espressiva. Alcuni di questi malati, i più gravi, dispongono di un vocabolario ridotto a poche parole o addirittura a poche sillabe, che utilizzano per rispondere alle domande che vengono loro poste. Tutto lascia pensare però che capiscano il senso delle domande (semplici frasi composte di parole molto usate), ma che non possiedano gli strumenti necessari per assemblare le sillabe in parole e le parole in frasi.

Figura 5. Le grandi aree del linguaggio.

Un’altra forma di afasia (cosiddetta di comprensione) viene causata da una lesione situata nella parte superiore del lobo temporale sinistro. La regione interessata si chiama «area di Wernicke», dal nome del neurologo tedesco Karl Wernicke. I pazienti che ne sono affetti hanno grandi difficoltà a comprendere i suoni delle parole e non riescono a rispondere alle domande che vengono loro fatte. In compenso sono in grado di parlare fluentemente, anche se commettono errori (inversioni di lettere o sillabe) che possono generare una sorta di gergo incomprensibile. Questi quadri afasici del linguaggio orale sono tanto più impressionanti, perché spesso il linguaggio scritto (lettura e scrittura) non viene toccato. Sappi infine che in genere le lesioni situate nella parte destra in regioni omologhe della corteccia cerebrale non producono disturbi del linguaggio. È stata poi scoperta l’esistenza di un fascio di fibre (fascicolo arcuato) che collega i due poli, la cui lesione provoca una terza forma di afasia, cosiddetta di conduzione, nella quale il paziente può pronunciare e comprendere le parole ma non è in grado di metterle in relazione. Ritorno sulla questione della mente. Faccio sempre fatica a capire come si possa passare dalle funzioni complesse del cervello alla mente – da una cosa materiale a una immateriale.

Il pensiero e l’azione

Confesso di non essere certo di volermi addentrare con te nell’oscura foresta della metafisica, la «selva oscura» di Dante! Non per niente non sono laureato in filosofia, e temo di cadere in semplificazioni di bassa lega. Prima di tutto devi sapere che il linguaggio non è l’unico veicolo del pensiero. Gli afasici non presentano disturbi del pensiero in senso lato; l’unico a essere toccato è il loro pensiero verbale, mentre quello logico e quello spaziale sono intatti. Possiamo negare l’esistenza del pensiero nei bambini allo stato prelinguistico o negli animali come il pappagallo del tuo bisnonno? Sono convinto che non vi sia nulla a fare da tramite tra il contenuto della mente e l’interno del cervello, o tra i fenomeni mentali e le strutture fisico-chimiche che li mettono in atto; sicuramente non vi è nessuna forma di entità immateriale. La domanda fondamentale è: come si crea il vissuto soggettivo cosciente a partire dall’attività di una rete neuronale? Quindi non credi agli spiriti. Possiamo parlare di stati mentali, rappresentazioni pure della realtà, portatrici di senso, e nello stesso tempo di stati cerebrali. Questi ultimi fornirebbero le attrezzature neuronali utilizzate dai primi per produrre dei comportamenti. Gli stati mentali sono pura apparenza. Ma non è solo la realtà a contare, cioè gli stati cerebrali?

Le immagini mentali

Sono immagini mentali quelle che ti vengono in mente, spesso provenienti dalla tua memoria. Un’immagine è prima di tutto una rappresentazione della realtà; ciò che il soggetto vede, deve costruirlo nella sua testa ed è verosimilmente lui che, coscientemente o meno, dirige l’attenzione su ciò che deve vedere. Esistono probabilmente almeno due distinti sistemi dell’attenzione. Il primo, detto posteriore, comprendente la corteccia parietale posteriore, è incaricato dell’esplorazione e della scoperta dell’obiettivo, come una torcia elettrica che perlustra lo spazio alla ricerca di un oggetto o di un luogo. Il secondo sistema, quello anteriore, situato sulla faccia interna degli emisferi e strettamente connesso all’area anteriore del linguaggio, ha per compito l’identificazione dell’obiettivo. Ti faccio un esempio prendendo spunto dall’escursione che abbiamo fatto l’anno scorso. Dalla finestra della mia camera io osservo la catena dei Pirenei; cerco di identificare il Vignemale, la montagna più alta della catena sul versante francese. Eccolo là: si distingue per l’altezza e per le due cime innevate, ed è circondato da monti più bassi. L’immagine mentale si è inscritta nel mio cervello. Se quando la richiamo alla memoria venissi monitorato tramite la diagnostica per immagini si vedrebbero attivarsi nel mio cervello le stesse regioni cerebrali di quando ho effettivamente visto quella scena. Ritroverei il Vignemale esattamente come l’ho osservato; però mi risulterebbe impossibile riconoscere tutte le montagne che lo circondano. L’attività che avrei potuto esercitare sull’immagine reale non è più possibile su quella mentale. Altro semplice esperimento. Chiediti quante sono le stelle sulla bandiera americana; un’immagine mentale della bandiera si formerà immediatamente, ma non sarai in grado di rispondere alla domanda. L’immagine mentale usa quindi le stesse strutture della percezione della realtà, ma la rappresentazione della realtà è diventata fragile e, a seconda della solidità dell’acquisizione del ricordo, quelle

immagini fisse o in movimento sono obbligate a prendere in prestito il sistema visivo. Lo stesso fenomeno si presenta durante il sogno, quando il sistema visivo è attivo come se il soggetto stesse effettivamente vivendo la scena onirica, di cui è allo stesso tempo spettatore e attore. Alcuni malati mentali vedono immagini avulse da qualsiasi realtà, e negano l’origine interna delle loro percezioni. Le loro «allucinazioni» non sono solo visive ma altrettanto spesso uditive, sotto forma di voci; non sono minacce provenienti dalla loro immaginazione ma voci estranee, che attribuiscono al demonio o a delle spie. Il loro è uno stato psicotico, in genere schizofrenia o psicosi allucinatorie croniche. Se ho capito, il pensiero lavora su immagini che sono come foto, rappresentazioni piatte di una realtà tridimensionale. Ma quando penso a un oggetto, un paesaggio o una persona, le mie immagini mentali – come le chiami tu – si comportano come oggetti che possiamo maneggiare nello spazio. Esatto! Numerosi esperimenti dimostrano che lo spazio mentale nel quale l’oggetto si manifesta è prodotto da attività fisico-chimiche (potenziali d’azione, liberazione di neurotrasmettitori) che corrispondono a stati cerebrali. Uno di questi esperimenti è quello cosiddetto della rotazione mentale. Immagina una figura tridimensionale. Di fianco c’è una figura simile ma vista da un’altra angolazione. Al soggetto viene chiesto di rispondere alla domanda: «Queste figure sono uguali o diverse?» Il tempo impiegato per rispondere varia a seconda dell’angolazione delle due presentazioni: maggiore è la differenza tra le due, più la risposta tarda ad arrivare. La spiegazione proposta per questo fenomeno è che il soggetto deve effettuare mentalmente una rotazione della seconda forma fino a quando la figura si presenta con lo stesso orientamento della prima e le due possono essere confrontate. Tutto accade come se si effettuasse uno spostamento manuale di un oggetto reale: un’operazione che richiede un certo tempo, perché deve rispettare la forma e la rigidità dell’oggetto.

Figura 6. Oggetti tridimensionali virtuali utilizzati per testare le capacità di formare immagini mentali.

Osservando la figura 6 puoi mettere alla prova le tue capacità di formare immagini mentali. Lo studio dei pazienti affetti da lesioni del cervello permette di comprendere il fenomeno della formazione di immagini mentali. Alcuni di questi individui, in genere quelli colpiti da una lesione dell’emisfero destro (nella regione del lobo parietale), hanno difficoltà a rivolgere la loro attenzione a ciò che si trova nella metà sinistra del loro spazio visivo. Questa condizione patologica, chiamata negligenza spaziale unilaterale, non è un deficit della visione: i pazienti continuano a vedere gli oggetti a sinistra, ma non ci fanno più attenzione. Se si chiede loro di disegnare un fiore, dimenticheranno di disegnare la parte sinistra. Un’esperienza celebre è quella di un paziente che, immaginando di essere di fronte al Duomo di Milano, riusciva a visualizzare solo la metà destra della piazza. Ciò non significava che avesse dimenticato la metà sinistra: se gli si domandava di rappresentare la stessa piazza girando le spalle al Duomo, vedeva solo la metà che ora era posta alla sua destra, la stessa che prima si trovava a sinistra e che lui sembrava non conoscere. Questa è un’ottima dimostrazione del fatto che le immagini mentali sono condizionate dal funzionamento di determinate regioni cerebrali; queste immagini non sono cioè rappresentazioni astratte della realtà, ma degli oggetti la cui forma e la cui dimensione sono determinate dalla regione cerebrale attivata durante la loro rappresentazione. Nel caso patologico che abbiamo visto, l’immagine dello spazio è amputata della sua metà sinistra a causa della lesione, e l’amputazione si manifesta sotto forma di una perdita da parte del soggetto della rappresentazione del lato sinistro dello spazio. Un’altra lesione, tra il lobo occipitale e quello temporale, rende impossibile al paziente riconoscere gli oggetti usando la vista, anche se è in grado di

rappresentarseli mentalmente. Si parla in questo caso di agnosia visiva. Le lesioni che provocano disturbi del pensiero spaziale sono localizzate perlopiù nell’emisfero destro. La perdita di orientamento nello spazio e nel tempo, l’impossibilità di decifrare una cartina o una pianta, la difficoltà a determinare la posizione di un oggetto rispetto a un altro sono problemi che si incontrano regolarmente nei pazienti che presentano questo tipo di lesione. Tutte queste osservazioni confermano la coesistenza di due modi del pensiero: verbale e iconico. Ciò significa che il pensiero non è appannaggio esclusivo del linguaggio; lo dimostrano gli esperimenti condotti sui bambini piccolissimi, non ancora in grado di parlare, o con le scimmie. Se si mette una scimmia davanti al monitor di un computer dandole un compito da eseguire per ottenere una risposta, si rimarrà sorpresi dalle sue capacità cognitive e di astrazione. In particolare si noterà la sua padronanza della memoria di lavoro, che mette in moto la corteccia frontale per pianificare le azioni pensando alla ricompensa che otterrà se riuscirà a riprodurre una determinata sequenza di operazioni.

Il cervello bicamerale

Dicono che ci siano due cervelli, corrispondenti ai due emisferi destro e sinistro. Sono davvero due cose separate? No, assolutamente! Sono collegati attraverso il corpo calloso, che è come un ponte tra i due. Ti ho già mostrato che le lesioni presenti nell’emisfero destro non provocano disturbi nelle facoltà mentali dello stesso tipo di quelle presenti nell’emisfero sinistro. Le funzioni dei due emisferi cerebrali sono state individuate mediante osservazioni condotte agli inizi degli anni Sessanta del Novecento su un gruppo di soggetti che avevano subito una resezione chirurgica del corpo calloso e quindi delle fibre che collegano i due emisferi. I neurochirurghi avevano raccomandato quell’operazione nei casi di epilessia che non rispondevano alle altre forme di trattamento: pensavano che il fatto di sconnettere i due emisferi cerebrali avrebbe impedito che le scariche epilettiche si propagassero al resto del cervello, diminuendo così la gravità delle crisi. Quell’operazione, oltre agli effetti benefici sullo stato dei pazienti, aveva provocato una situazione inedita: diventava possibile osservare l’attività di un emisfero alla volta, cosa impossibile in un soggetto in condizioni normali, in cui un’informazione giunta in un emisfero si diffonde in pochi millisecondi all’altro. Quando il corpo calloso viene sottoposto a resezione, l’organizzazione anatomica delle vie nervose di entrata in un emisfero e di uscita verso gli organi di destinazione permette di fornire uno stimolo a un solo emisfero e di registrarne la risposta: le stimolazioni fornite alla zona laterale del campo visivo raggiungono la corteccia visiva dell’emisfero opposto, in modo che la corteccia motoria di questo controlli i movimenti della dita del lato opposto. Questi pazienti con il cervello «raddoppiato» hanno anche fornito un’abbondanza di dati a dimostrazione che i due emisferi non ricoprono le stesse funzioni anche se, in condizioni normali e considerando l’abbondanza dei

collegamenti, collaborano tra loro e di rado lavorano isolatamente. Questi studi hanno innanzitutto confermato la supremazia dell’emisfero sinistro per quanto concerne il linguaggio, e messo in evidenza il ruolo dell’emisfero destro, a lungo considerato silenzioso, nella rappresentazione dello spazio e nell’organizzazione delle azioni in questo spazio virtuale, nonché nell’espressione delle emozioni e nella prosodia del linguaggio. Nel dialogo tra i due emisferi è il sinistro a parlare e a calcolare, utilizzando simbolismi nel trattamento in sequenza delle informazioni ed esercitando una sorta di dominio sull’emisfero destro sintetico e intuitivo, poetico e spaziale, che insomma rappresenta la mente nella sua purezza disincarnata. Ma su questa divisione dei compiti circolano troppe semplificazioni. Puoi aggiungere qualcosa sul ruolo della corteccia frontale? Sembra comprendere tutte le facoltà che caratterizzano l’essere umano.

La corteccia frontale

Sono le dimensioni della corteccia frontale – più di un terzo della massa corticale – a fare della scimmia un uomo. Se però ci limitiamo alle apparenze, sembra servire a ben poco, tranne fare sì che un umano sia un essere completo, che si fa carico dei suoi doveri e dei suoi obiettivi. Il famoso esempio di Phineas Cage è diventato un classico per spiegare in che senso: la storia di un capocantiere ferroviario americano, un lavoratore modello rispettato dai colleghi e dai superiori. Un’esplosione gli conficcò una sbarra – un piede di porco – nella fronte, distruggendogli la maggior parte dei lobi frontali. Uscito dal coma, si risvegliò che era un altro uomo. Non soffriva di alcuna infermità, né di disturbi intellettivi o linguistici, ma il suo carattere era completamente cambiato: ubriacone, pigro, umorale, burlone, esibizionista (mostrava la sua sbarra nei bar prima di chiedere l’elemosina), incapace di organizzare il proprio lavoro e irrispettoso della gerarchia sociale. Morì in miseria. Oggi i neurologi sanno che la corteccia frontale, lungi dall’essere un ammasso indifferenziato, presenta aree diverse, ciascuna corrispondente a una precisa funzione nella sfera dell’intelligenza e del pensiero astratto: memoria a breve termine, valori affettivi, novità, pianificazione, sfera decisionale, inibizione dell’azione. Per usare una semplice metafora, potrei dire che la corteccia frontale è ora il banditore d’asta, ora il commissario di polizia delle nostre azioni. Puoi farmi qualche esempio? Ci sono casi di diversi soggetti affetti da lesioni della corteccia prefrontale, più o meno estese a seconda delle porzioni raggiunte e degli emisferi (o dell’emisfero) interessati. Uno non è in grado di fare acquisti in un ordine razionale perché si dimentica i passaggi. Un altro non riesce a prendere decisioni né a fare scelte. Vi sono test specifici per la memoria di lavoro, cioè la

conservazione di un modello mentale che consente di mettere in atto le tappe necessarie per raggiungere uno scopo. La diagnostica per immagini dà un contributo essenziale, permettendo di individuare le reti neuronali che si attivano durante lo svolgimento dei diversi compiti cognitivi usando la memoria di lavoro o il ragionamento. Per quanto concerne quest’ultimo, si osserva che vi sono reti diverse a seconda della logica seguita dal soggetto per risolvere un problema, che si tratti ad esempio di mettere in relazione due proposizioni o di un sillogismo. La corteccia frontale interviene anche in modo più determinante nella tonalità affettiva di un’azione. Nel periodo fra il 1930 e il 1950, dei neurochirurghi ebbero la cattiva idea di intervenire sulla parte prefrontale (la più anteriore) della corteccia, praticando lobotomie (ablazioni della materia bianca) su malati ritenuti incurabili, colpiti da disturbi che andavano dalla schizofrenia alle psicosi depressive e ai disturbi ossessivi. A questi metodi, tanto barbari quanto infondati, è fortunatamente succeduta una individuazione più precisa delle lesioni che possono essere limitate e controllate funzionalmente. Ho visto un film che parla della lobotomia: Qualcuno volò sul nido del cuculo. Mi ha fatto una grandissima impressione. Fortunatamente la situazione è cambiata, grazie a nuovi metodi di stimolazione elettrica di zone precise del cervello, fino alla stimolazione profonda, alle lesioni anatomiche guidate e ai nuovi farmaci. Il campo delle possibilità si è ulteriormente aperto in psichiatria, senza che comunque le polemiche siano cessate. Un giorno mi hai detto che quello che conta è il cervello dell’altro. Hai appena indicato un tratto essenziale dell’animale umano: l’uomo non può prescindere dall’uomo. Abita il cuore dell’altro, e l’altro abita il suo cuore. Questa facilità all’accoglienza reciproca appartiene solo a noi. E non si tratta poi veramente di cuore, ma di cervello. In quest’organo si esprime il bisogno appassionato dell’altro, tanto indispensabile alla vita dell’individuo quanto l’ossigeno per gli altri esseri viventi. Tra gli umani la compassione – termine che preferisco a «empatia» – sovrintende all’appuntamento con la vita. Compatire è soffrire del dolore altrui o gioire della sua felicità: provare insomma le passioni dell’altro. Una funzione che esige la presenza effettiva e affettiva dell’altro in me.

Gli animali non provano compassione? Hai ragione. La compassione esiste anche nelle scimmie, nei mammiferi, negli uccelli, ma resta episodica. E nell’essere umano lascia posto alla contropassione, cioè all’odio. L’uomo è il più individualizzato degli animali – nessun individuo assomiglia completamente a un altro – ma è anche il più sociale. Quali sono le caratteristiche del «cervello sociale» dell’uomo? Prima di tutto, direi l’imitazione. La provenienza sociale ha un’influsso tutto sommato debole rispetto alla pressione esercitata dal contagio imitativo. Il mimetismo spesso si presenta come una libertà che alla fine non è altro che sottomissione al circostante (la moda, le proteste, le ribellioni). C’è una specie di paradosso nel fatto che l’individuazione, tratto innegabile della specie umana, si accompagni a un’imitazione che appiattisce gli individui consolidando i gruppi, dando loro dinamismo e imponendo incessantemente il ripetersi dell’uguale per garantire la propria perpetuazione. Ogni soggetto costituisce un modello per l’altro in una reciprocità e una diffusione che arrivano fino al punto dove la prossimità con l’altro si interrompe. Da qui la definizione di gruppo sociale: un insieme di persone che si imitano a vicenda o che, senza imitarsi in senso letterale, si somigliano e hanno in comune dei tratti che sono antiche copie di uno stesso modello. Mi vengono in mente i milioni di «Charlie» scesi in piazza nel gennaio 2015. L’imitazione è il punto di partenza dell’ordine biologico. Prova ne è il fatto che esiste una vera e propria imitazione negli uccelli e nei primati, in particolare nelle scimmie umanoidi. Ma che si parli di identificazione o di imitazione, c’è una differenza quantitativa considerevole che separa i primati umani da quelli non umani. Lo psicologo americano Michael Tomasello pensa che quello che manca ai secondi sia la capacità di identificarsi con gli appartenenti alla stessa specie, capacità che passa attraverso l’imitazione reciproca. Un buon esempio della differenza tra un bambino e un piccolo di scimpanzé può essere considerato l’esperimento condotto dai coniugi Kellogg, che hanno provato ad allevare il loro bambino, Donald, in contemporanea con un piccolo scimpanzé di nome Gua. Da bravi teorici dell’apprendimento sociale, speravano che l’esposizione a un nuovo ambiente naturale avrebbe svelato capacità inespresse nello scimpanzé. E invece i risultati non furono solo deludenti ma

anche pericolosi: dopo qualche mese Gua aveva fatto pochi progressi nell’imitazione di Donald, mentre quest’ultimo si comportava come un piccolo scimpanzé. Tu, che sei un campione di smorfie allo specchio, mi parlerai adesso dei famosi «neuroni specchio». Ci stavo arrivando. Per diventare un individuo, il bambino segue un vero e proprio percorso iniziatico: passa dall’imitazione dell’altro all’imitazione di se stesso, per arrivare alla coscienza di sé. Riassumo: il bambino minore di 12 mesi, messo di fronte a uno specchio, vede un altro bambino e gira attorno allo specchio per cercare ciò che vi ha visto riflesso, lui stesso e la madre, come se fosse un altro. Dopo un periodo critico, verso i due anni, tutti i bambini portano la mano alla macchia che è stata loro disegnata sul viso. Quindi iniziano a usare il pronome personale «io». Finora solo uno scimpanzé ha superato la prova della macchia. Le ricerche di Giacomo Rizzolatti illustrano il legame di cui ti ho parlato tra la rappresentazione e l’azione sotto forma di rappresent-azioni. Rizzolatti ha studiato nella scimmia l’attività di neuroni isolati, grazie a un microelettrodo impiantato in una regione della corteccia premotoria che comanda i movimenti della mano (prendere un pezzetto di cibo tra pollice e indice) o delle labbra. La cosa spettacolare è che questo stesso neurone si attiva anche quando la scimmia assiste all’esecuzione dello stesso movimento da parte dello sperimentatore. In altre parole, i neuroni che per questo motivo vengono chiamati «neuroni specchio» sono allo stesso tempo neuroni motori (che inviano ordini esecutivi) e neuroni percettivi (analizzano le informazioni visive). Un’altra serie di esperimenti, condotta da Jean Decety e dai suoi collaboratori, utilizza la diagnostica per immagini, che ha permesso di localizzare diverse zone di attivazione in risposta a un’azione eseguita da un attore. E così arriviamo alla spiegazione del modo in cui gli esseri umani si comprendono tra loro: la teoria della simulazione. Riusciamo a pensare ciò che pensano gli altri perché siamo in grado di simulare all’interno di noi stessi i loro stati mentali, mettendoci al loro posto: io ti capisco perché fingo di essere te e utilizzo gli stessi sistemi neuronali per conoscerti. Da qui, restano molti problemi da risolvere. Come so che è l’altro ad agire, e non io? Questo è il problema dell’agentività, che viene risolto mediante dei segnali provenienti dal proprio corpo... Fermiamoci qui, se non ti dispiace. Ci sono ancora tante cose da capire e da

dire sul cervello e questa materia... grigia o bianca che sia... D’accordo, Constant... a meno che il tuo non sia un attacco di pigrizia! Mi auguro solo che gli spunti che ti ho dato facciano nascere il desiderio di aprire tu stesso la scatola nera che, nascosta nel chilo e mezzo di un cranio umano, non smette di lanciarci le sue sfide.

Indice

L’oggetto più complesso dell’universo Le rappresentazioni del cervello nell’Antichità Il cervello elettrico Il trionfo dei «localizzazionisti» La teoria neuronale Le popolazioni di neuroni e le mappe cerebrali Il cervello vegetativo La temperatura Il sonno I comportamenti di base Il piacere La vista La memoria Le amnesie Mente, dove sei? Il linguaggio Il pensiero e l’azione Le immagini mentali Il cervello bicamerale La corteccia frontale