Punti di riferimento 8806571826, 9788806571825

In-8, brossura, sovracoperta, pp. XIII,506. In ottimo stato.

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Italian Pages 519 [522] Year 1984

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Punti di riferimento
 8806571826, 9788806571825

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Punii dì rife firn? «M II iiirln rii qne nuove impanante raccolte di srnni di Pierte Houle? ne rc irò lirea per il lei loie gli Rcflpi' orientare •! proprio cam anno e ikonoscrrM nel ipfrunnn drlìrspressinne miKirule. ma anche urtiti। co, del ncvurn *ecoln Fatture cioè riferì menti fuori da Ogni moda C con lutto >1 tigone di un creami * che ha sempre mInggitn rnmpìira?inni e mutili eccentri­ ci!^. itttiiuendo olla munta la *ua pie nezza Rr»ulc>. ctJm'è nnjn è onmpnsiinre( d ireltnre drrrhrsrry trs^gname Queen ftp mnHi /I'fippTYTrn aliti rrvarrR^ futi» in un temper errenco :n cui predominano Incidili e (o^a d mienu, fanno n che Ì testi di questa volume nsulunn alla ler turo. /e d» tpp^»dtitito e Pet ici/iofò fi pfit caia

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»* ‘Jl ^ 3 1:

I

Tappe e segnali

109

f/ Ritmo-silenzio: in un ritmo non retrogradabile essendo uno dei poli del ritmo sostituito dal silenzio corrispondente, in tutte le forme. Il che dà: o fc

o fb

o fd

o fe

r J'H-

Nel ritmo retrogradabile (J J J) cellula base o cellule simmetriche. gl Ritmo-silenzio: in un ritmo non retrogradabile, essendo l’altro polo del ritmo sostituito col silenzio corrispondente. Il che dà: o fc

o fb

J.

7*

7*

o fd

y

o fe

t

7 7

7-

In un ritmo retrogradabile, la cellula base e una cellula simmetrica; o una cellula simmetrica. . Inseguito: i ritmi non retrogradabili J- J- li rendo retrogradabili aggiungendo loro un valore uguale, il che dà: al

* J

JU- . Poi da a percorro tutto il ciclo 3, y, 8, e

o

applicando le stesse trasformazioni. Per i ritmi retrogradabili, li rendo non retrogradabili:

cosi: J

-1 diventa J J 3 J 5 J 1_____ 1

o km ।__।

Poi ottengo ancora: D I k | k a/ da retrogradabile, non retrogradabile: J- JJ- Jda non retrogradabile, retrogradabile:

j jj + +

,j

jj, j 14

jj o j j

t_t

t

j

rrm

।—।

ecc., in aumento simmetrico o asimmetrico. Per una cellula abbastanza complica tain partenza come: VI J dà risultati molto complessi di questo genere: VI sviluppo

J JJ J 1VI

IIO

Immagini

Per quanto concerne la composizione stessa, intendo allargare al cam­ po della stessa polifonia ciò che si è fatto per il contrappunto. Vale a dire che la polifonia servirà da contrappunto. Polifonia del resto ine­ guale, vale a dire che alcune risposte potranno aver luogo tra polifonie a 3 e a 5 voci, o tra 4, 6 e 7 voci, ecc. D’altra parte, a ogni nuova polifo­ nia, il gruppo strumentale può variare. La prima per esempio è per i 49 strumenti. 7 per 7. La seconda sarà per 12 strumenti raggruppati in 3 per 4: 4 violini, 4 contralti, 4 violoncelli. La terza per ottoni e percussioni divisi in 4. 2 pianoforti, arpa, tim­ pani, xilo, celesta, vibra, ottoni, percussione I, percussione II, ecc. In alcune polifonie, farò ugualmente ricorso, come del resto fai tu nella musica che stai componendo, a delle sonorità campionate, vale a dire ad aggregati di suoni, legati tra loro da una costante, ma che posso­ no spostarsi secondo la scala sonora. Come te parimenti, posso fare come nel mio quartetto — la costruzione con tutte le possibilità del ma­ teriale, cioè una costruzione in cui le combinazioni creano la forma, e in cui la forma quindi non proviene da una scelta estetica. Per esempio, la prima polifonia è cosi composta all’inizio: Legni I: serie a Ritmo III. Legni II: serie a rovesciata R. IL Otto­ ni: serie a R. I. Percussione ad altezza determinata: serie a rovesciata R. IV. Percussione ad altezza indeterminata: R. VII. Corde: serie A R. V. Corde II: serie A rovesciata R. VI. Come puoi vedere, la complessità del ritmo è funzione della comples­ sità della serie o della formazione strumentale. L’architettura del brano sarà basata sugli scambi tra serie e ritmi e le trasformazioni possibili sul­ le monoserie e i poliritmi o sulle poliserie e i monoritmi. Come vedi, è un’opera di ampiezza alquanto vasta. Vorrei soprattut­ to abolire in essa la nozione di opera musicale da dare in concerto, con un numero determinato di movimenti; ma un libro di musica in cui si possono trovare le dimensioni di un libro di poesie. (Come l’insieme delle tue Sonate o il Book of Music for two pianos'). Ancora un piede davanti all’altro. Spero di non rompermi la testa a forza di camminare sul bordo del marciapiede! [...] Quando ho letto la tua lettera, non puoi immaginare com’ero felice di vedere che procediamo verso più di una scoperta, in uno stesso ritmo. A questo proposito, non ti farò una teoria, ma con Saby abbiamo molto riflettuto a tutte queste questioni di organizzazione della materia sono­ ra. E penso di arrivare a scrivere un libretto partendo dal principio che la materia sonora non può organizzarsi se non serialmente, ma allargan­ do il principio alle estreme conseguenze, cioè: che in tutta la scala sono­

Tappe e segnali

in

ra vibrazione 16 a vibrazione io ooo si può prendere una serie di note sia: A (a b c d e f g ... n), che lo spazio sonoro sarà definito dalla traspo­ sizione di A su tutti i gradi che compongono A vale a dire: B (b b' c d' e' f ... n')> C (cz b" c" d" e" ... n") infine N (n b c d e f ... n) cosi come col rovesciamento di A, sia A (a, b = a + x, c = a + y, d = a + z, ecc.) si avrà y(a,q=a-x>:) = a-y>p = a-z ecc.) a in quanto preso come base, e tutte le trasposizioni a partire da A. Il che potrebbe dare il grafico:

Un altro spazio di rovesciamento viene definito, se si prende b (op­ pure c oppure d), e non a come nota-base. (Il che non cambia le trasposi­ zioni dell’originale). Si ha dunque uno spazio definito da una costante e

Cosi, è possibile organizzare tutti i materiali sonori, di qualsiasi natura. In tal modo, le nozioni di modalità, di tonalità, e di serie sarebbero strettamente combinate per non formarne piu di una sola. Parimenti le nozioni di continuità e di discontinuità del materiale sonoro; poiché è la scelta del discontinuo nel continuo. Su questa strada mi avvio con i miei quarti di toni. Fra due o tre anni, sarà la volta dei dodicesimi e degli ot­ tantesimi.

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Del resto, ho trovato anche una formula grafica per coprire compietamente, col quarto e il terzo di tono, tutta la scala dei suoni e puoi ve­ dere come: denominatore comune minore (semplice proprietà fraziona­ ria tra terzo e quarto).

Fai partire la tua divisione in terzi di toni, dalla divisione in semitoni e in quarti di toni, e ciascuna divisione, per sovrapposizioni successive, dà quattro intervalli di dodicesimi di toni. Per ottenere il diciottesimo e il ventiquattresimo di tono, occorre fare intervenire questa stessa divi­ sione all’interno degli intervalli cosi ottenuti. Si possono organizzare questi microcosmi con il principio della serie generalizzata. E opporre cosi un microcosmo a una struttura difettiva su grande scala. Penso di terminare in questo modo il mio Coup de Dés de Mallarmé (facendo rea­ lizzare uno strumento particolarmente accordato). La differenza col ritmo è che il ritmo i) non è rovesciabile, e quindi possiede due dimensioni di meno: il rovesciato e il retrogrado del ro­ vesciato; 2) non è omoteticamente trasponibile su uno qualsiasi dei suoi valori. Occorre dunque trovare varie trasformazioni valide al principio generale, vale a dire:

1/ 2/ 3/ 4/ 5/

Retrogradazione o non-retrogradazione. Inversione del silenzio e della battuta. Aumento o diminuzione, regolari o irregolari. Ritmo espresso o non espresso in unità di valore o suoi derivati. Introduzione della sincope all’interno del ritmo.

Cosi, puoi rendertene conto da che ci siamo lasciati, i punti di vista teorici si sono affermati.

2. «Polifonia» e le «Strutture per due pianoforti».

Quest’anno, ogni mia attenzione si è basata sull’allargamento e l’omo­ geneità del campo seriale. Pensando che la musica è entrata in una nuova forma della sua attività: la forma seriale, ho cercato di generalizzare la nozione stessa di serie. Una serie è una successione di n suoni, di cui nessuno è simile all’al­

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113

tro quanto alla frequenza, formante una serie di n-i intervalli. La ri­ produzione seriale a partire da questa serie iniziale si fa con le trasposi­ zioni b, c ... n di tutta la serie, a partire da tutte le frequenze di questa serie. Il che mi dà dunque n serie. La serie rovesciata dà luogo ugual­ mente a n serie trasposte. Ossia in totale un numero di serie uguale a zn. Se si concepisce una serie tra una fascia di frequenza F e la fascia di frequenze doppie 2F si può parlare di trasposizione seriale, moltiplican­ do le frequenze, o dividendole, successivamente per 2, 4, ecc. fino al li­ mite delle frequenze udibili. È il caso questo - semplificato a dodici - della serie dodecafonica. Nel caso suddetto, tutte le trasposizioni hanno luogo tra fasce di fre­ quenza semplici e doppie: Fi - 2F1, F2 - 2F2, ecc. Il che graficamente può così rappresentarsi:

Ciò dato, occupiamoci più particolarmente della serie dodecafonica. Se la trasponiamo, come proposto, nell’ordine delle sue componenti, avremo un quadrato il cui senso orizzontale sarà uguale al senso vertica­ le. E numereremo tutte le note seriali, secondo l’ordine di apparizione nella serie iniziale. Così: Serie originale

Serie rovesciata

123456789101112

2

ecc.

84

56111

1

9 12 37 io

7

3 io 12 9

7 11 io 12 9

ecc.

8

2 n 6

1

65

4 8

5

324

114

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Il che mi dà, in cifre, l’organizzazione seriale doppia seguente: I 2 3 4 5 6 7 8 9 IO 11 12

2 8 4 5 6 11 1 9 12 3 7 IO

3 4 1 2 8 9 IO 5 6 7 12 11

4 5 2 8 9 12 3 6 11 1 IO 7

5 6 8 9 12 IO 4 11 7 2 3 1

6 11 9 12 IO 3 5 7 1 8 4 2

7 1 IO 3 4 5 11 2 8 12 6 9

8 9 5 6 11 7 2 12 IO 4 1 3

9 12 6 11 7 1 8 IO 3 5 2 4

IO 3 7 1 2 8 12 4 5 11 9 6

11 7 12 IO 3 4 6 1 2 9 5 8

12 IO 11 7 1 2 9 3 4 6 8 5

1 7 3 IO 12 9 2 11 6 4 8 5

7 11 IO 12 9 8 1 6 5 ò 2. 4

3 IO 1 7 11 6 4 12 9 2

IO 12 7 11 6 5 3 9 8 1 4 2

12 9 11 6 5 4 IO 8 2 7 3 1

9 8 6 5 4 3 12 2 1 11 IO 7

2 1 4 3 IO 12 8 7 11 5 9 6

11 6 12 9 8 2 7 5 4 IO 1 3

6 5 9 8 2 1 11 4 3 12 7 IO

4 3 2 1 7 11 5 IO 12 8 6 9

8 2 5 4 3 IO 9 1 7 6 12 11

5 4 8 2 1 7 6 3 IO 9 11 12

8

In questa tabella, ci si può dunque servire delle cifre, sia in quanto note recanti a loro volta quel numero d’ordine, sia in quanto serie tra­ sposta, avendo quel numero d’ordine nella trasposizione. D’altro canto, avendo una cifra come origine seriale, non si è costretti a partire da una nota iniziale seriale, ma si può partire da una nota qualsiasi: purché un procedimento di riproduzione logica definisca cosi una struttura. Se no, non ci può essere una giustificazione sufficiente del procedimento. Evi­ dentemente si può passare da un quadro all’altro, vale a dire che se nel quadro B, prendo la linea orizzontale cominciando da 4, ho 4/3/2/17/ 11/5/10/12/8/6/9. Ma posso riferirmi al quadro A e avere le successioni seriali: 4/5/2/8/9/12/3/6/11/1/10/7 : 3/4/1/2/8/9/10/5/6/7/12/11, eccetera. Se in una serie iniziale, definisco ogni nota mediante un’intensità, un attacco, e una durata, è chiaro che otterrò cosi altre definizioni seriali. Cosi se prendo: per le intensità:

Tappe e segnali 2

I

4

3

789

5

p

meno^

PPP

PP

quasi

io

mp

mP

più

PP

II5 12

11

PP ppp pppp

quasi

per gli attacchi:

>

normale

1

2

8

3

9

io

(Vedi il pezzo intitolato: Mode de valeurs et d’intensités, di Mes­ siaen). per le durate:

p p I? |r 1234

|;j|j 3

J-

|j

6

7

| 9

8

IO

II

12

Ho dunque la possibilità di riportare le tre strutture alla struttura seriale propriamente detta. Esse non sono parallele. Possono dunque esservi dei piani di struttu­ re intercambiabili, dei contrappunti di strutture. La struttura seriale de­ finisce dunque interamente il proprio universo; anche quello del timbro, se si vuole procedere in modo analogo. È più che evidente che per il ritmo, si possono utilizzare dei possibili ritmici. Per esempio, se utilizzo i ritmi: 1

2

3

4

.5

6

7

con delle varianti seriali nello stesso numero: r | ecc. trasformazione semplice, potendo reagi­

a/|J re su tutti gli altri

b/ | J J J J J J"! | ecc. valore espresso

c/ 17 J y y Zy I ecc. per svuotamento, essendo retti dagli altri ecc. autoriproduzione

Immagini

ii6

e/17 I

£/ | g/ | J

I decomposizione tramite i suoi elementi

3 j

l

|

I

J* 7

| silenzio della lunga, potendo reagire su tutti gli altri

| silenzio della breve, potendo reagire su tutti gli altri

Posso anche fare un quadro seriale di indice f che sarà diverso dal quadro seriale delle note. Posso considerare le cellule come dei possibili. In questo senso posso servirmene per accrescimento o diminuzione, re­ golare o no. Lo stesso per le intensità, si possono avere dei piani variabili d’inten­ sità sotto la sola denominazione di una cifra; cosi gli attacchi. Il tempo a sua volta può adottare una struttura seriale. Se si suona per esempio su quattro tempi, si avrà un quadro seriale di indice quattro. È evidente che sinora non abbiamo considerate le serie se non come definite arbitrariamente. È possibile supporre che una serie, in generale, potrà essere definita mediante una funzione della frequenza f(F), da riportare sulle funzioni di durata f(t), dell’intensità f(i), ecc. in cui la funzione non cambia, ma solo la variabile cambia. Insomma, una strut­ tura seriale può definirsi globalmente come O [f(F), f(t), f(i), f(a)]. I simboli algebrici sono usati per concretizzare in modo conciso i di­ versi fenomeni e non in vista di una vera teoria algebrica degli insiemi musicali. Se la funzione è reversibile dalla durata all’intensità, si può dire che la struttura seriale è omogenea. Se le funzioni non sono reversibili (strut­ tura seriale della durata diversa dalla struttura seriale dell’intensità, ecc.), la struttura globale è eterogenea. È possibile dunque concepire la struttura musicale sotto un duplice punto di vista: da un lato le attività di combinazione seriale, con ripro­ duzione delle strutture per automatismo dei rapporti numerici; dall’al­ tro, le combinazioni dirette e intercambiabili, ove l’arbitrio svolge una parte molto più considerevole. I due modi di vedere la struttura musi­ cale possono evidentemente fornire un mezzo dialettico di svolgimento musicale, estremamente efficace. D’altra parte, la struttura seriale delle successioni dissolve la dualità orizzontale-verticale, e dato che comporre significa disporre secondo due coordinate: la durata e la frequenza, dei fenomeni sonori, si è dunque liberati, fino a prova contraria, di ogni melodia, di ogni armonia, e di ogni contrappunto, poiché la struttura seriale ha fatto sparire queste tre no­ zioni, essenzialmente modali e tonali.

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IV

Penso che con i mezzi meccanici di riproduzione — magnetofonici, in particolare — sarà possibile realizzare delle strutture che non dipenderan­ no più da difficoltà strumentali e in cui si potrà lavorare su frequenze date, con riproduzione seriale. E cosi ogni opera avrà il proprio univer­ so, la propria struttura e il proprio modo di riproduzione su tutti i piani. Si potrà cosi all’interno di uno spazio seriale, moltiplicare la serie per se stessa. Se cioè tra a e b, di una serie iniziale, si può riprodurre la serie in riduzione, si avranno spazi di ingrandimento sonoro, da realiz­ zare in rapporto con le altre funzioni seriali.

12. Costruire uri * improvvisazione . Desidererei dissipare almeno in parte i malintesi che ci dividono dal pubblico. Per far questo, la cosa migliore mi sembra quella di spiegare un’opera: come è fatta, perché ho scelto una certa formazione strumen­ tale, come occorrerebbe suonarla. Mi varrò come esempio della seconda delle mie Improvisations sur Mallarmé. Spiegherò l’opera da tre diversi punti di vista;

1) Cosa intendo oggi per «improvvisazione». 2) Perché ho scelto una strumentazione e non un’altra, e come gli strumenti sono distribuiti nello spazio. 3) Come ho concepito la forma di questo brano, e come sono riuscito ad ottenere - almeno spero - un’interazione tra l’opera poetica e la musica. Anzitutto l’improvvisazione. L’improvvisazione, cosi come io la in­ tendo, è irruzione (Einbruch} nella musica di una dimensione libera. Nell’esecuzione di un’opera orchestrale, i musicisti sono soggetti sia al direttore d’orchestra sia alle leggi di un gioco collettivo regolato con precisione, e che non può essere trasgredito. Nell’improvvisazione, per contro, due dati risultano più elastici: la stessa forma, e lo spazio in cui le relazioni tra strumenti devono entrare in gioco. Fino a non molti anni fa, la forma era definita in maniera precisa in tutti i suoi particolari. Si aveva un linguaggio musicale fissato secondo le gerarchie accettate, da cui * Conferenza tenuta a Strasburgo (1961) sulla seconda Improvisation sur Mallarmé. Testo tedesco ricavato da nastro magnetico, pubblicato in «Melos», col titolo Comment travaille Vavantgarde aujourd’hui, vol. XXVIII, n. io, ottobre 1961, pp. 301-8. Rivisto da Pierre Boulez nel 1981. Traduzione francese di J-L. Leleu. Inedito in francese.

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dipendevano figure e combinazioni. Oggi, il linguaggio si costruisce es­ senzialmente su dei fenomeni relativi, e questo spiega perché la forma deve essere a sua volta relativa. In altri termini: occorre introdurvi degli elementi che la modifichino da un’esecuzione all’altra, e impediscano che un’opera sia suonata due volte esattamente nella stessa maniera. In passato, le cose erano diverse. Supponiamo di avere un elemento A, un elemento B e un elemento C. Secondo i principi tradizionali, A è immediatamente seguito da B, a cui si connette direttamente C. Ora la particolarità della forma nuova attuale consiste nel fatto che essa è in qualche modo creata all’istante. In altre parole: si ha la possibilità — naturalmente a certe condizioni - di andare direttamente da A a C senza passare prima da B. Immaginate la rete ferroviaria di una stazione: la disposizione dei binari e degli scambi è fissata in modo preciso. Ma basta premere un bottone o manovrare una leva per modificare il tragitto su una rete data. Analogamente, le decisioni topiche degli strumentisti e del direttore d’orchestra fanno si che la forma possa essere modificata ad ogni istante dell’esecuzione. Mi attengo qui a considerazioni generali, dato che la seconda delle Improvisations sur Mallarmé segna appena l’inizio delle mie ricerche in questo campo. In seguito, ho esaminato il problema in modo più pre­ ciso, e oggi la mia forma improvvisata è molto più libera e relativa di allora. Nella seconda Improvisation sur Mallarmé, il problema compositivo nasce dalla dialettica alla quale può dar luogo la presenza fianco a fianco di un testo fisso e di un testo mobile. Due cose consentono di rendersi conto visivamente di questo gioco tra libertà e disciplina: i gesti del direttore d’orchestra e lo spartito. Allorché si dirige l’opera, vi sono dei segni che si dànno in modo tradizionale; i passaggi corrispondenti, nello spartito, sono annotati anch’essi in modo tradizionale. Ma vi sono anche dei gesti che il direttore fa per cosi dire nel vuoto; dei segnali diretti allo strumentista per dargli in qualche modo «via libera». Lo strumentista può allora suonare fuori tempo. I passaggi corrispondenti sono segnati nella sua parte in piccole note, come una volta si annotavano gli orna­ menti. Il lasso di tempo massimale di cui dispongono queste strutture mobili è indicato dalle frecce. Diciamo adesso della strumentazione. Lo spartito è scritto per voci e nove strumentisti. Cinque strumenti — l’arpa, le campane tubolari, il vibrafono, il piano e la celesta — sono strumenti ad altezza fissa. Occorre tuttavia fare qui subito una restrizione. Se faccio suonare una nota col piano o con l’arpa in una certa dinamica, questa nota è precisa, e posso

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identificarla fra mille alla sua altezza assoluta. Già sulla celesta si produ­ cono nel registro grave delle interferenze tra suoni reali e armonici. Il fenomeno si accentua ancora di più nel caso del registro grave del vibra­ fono. Se vi si suona una nota forte, si sente un suono abbastanza com­ plesso, che delle volte non ha più molto a che vedere con la nota pura. Nel caso delle campane, infine, è noto che il suono fondamentale è circondato da numerosissimi suoni parziali. Ne risulta un complesso di frequenze in cui l’altezza assoluta del suono fondamentale è sempre meno percettibile. Accanto ai cinque strumenti di cui ho parlato, ne ho utilizzati poi altri che si avvicinano al rumore: strumenti a percussione in legno e metallo. Dispongo gli strumenti sul palco in modo che le tre diverse categorie di suoni - altezza determinata, altezza parzialmente determinabile e ru­ more - si mescolino tra loro. Ciò produce una sorta di stereofonia, che è funzione delle caratteristiche sonore degli strumenti. Qui abbiamo la celesta; non è molto sonora e la metto davanti a destra, vicino al leggio del direttore. L’arpa ha più sonorità, ma sarebbe coperta dal piano se gli si trovasse vicino; la metto quindi davanti a sinistra. Il vibrafono, che possiede una dinamica media, sta in mezzo al palco, davanti al leggio del direttore. Gli strumenti a percussione sono raggruppati tra i prece­ denti. Vorrei ora mostrare come ho utilizzato questi strumenti. Comincio con la celesta, il cui suono è più breve. Ho previsto la celesta essenzial­ mente per delle figure rapide, in quanto passaggi del genere suonano in qualche modo da soli; le ho anche dato da suonare alcune successioni rapide di accordi brevi e secchi, come alla misura 66 (esempio 1). Il tratto della misura 65 illustra il virtuosismo e il brio della celesta (esempio 2). Passiamo all’arpa. L’arpa offre una ricchezza di sonorità poco comu­ ne. Tuttavia, sinora, si sono utilizzate solo parzialmente le possibilità di questo strumento. Vorrei dire che le impressioni ricevute all’ascolto di certe musiche tradizionali sono state importantissime per me in quanto compositore, poiché mi hanno permesso di affrancarmi, nel trattamento degli strumenti, dalle convenzioni occidentali. Questo spiega perché nel­ le mie Improvisations sur Mallarmé ho anche utilizzato alcuni strumenti che raramente s’incontrano nell’orchestra sinfonica tradizionale: il vi­ brafono a esempio e le campane. Ma torniamo all’arpa: nelle Ande peru­ viane, ho sentito alcuni contadini indios suonare su arpe di una sonorità affatto singolare. Ho imparato ascoltandoli a utilizzare le note acute dello strumento al pari di certi effetti di «suoni smorzati». Noi europei

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abbiamo nell’orecchio l’arpa di Debussy e di Ravel, i quali l’hanno usata in modo mirabile, anche se poi se ne è fatto un uso cosi distorto che oggi si potrebbe avere l’impressione che l’arpa è uno strumento costretto in ogni concerto a essere rispolverato coscienziosamente in una successione di glissandi. È un peccato, a dire il vero, che uno strumento cosi completo sia utilizzato per un effetto cosi ridotto. Per questo, mi piacerebbe presentare alcune sue possibilità strumentali e sonore. Anzitutto i suoni armoni­ ci; essi sono come strozzati, ma al tempo stesso anche abbastanza aggres­ sivi, poiché occorre pizzicare le corde molto forte perché il suono armo­ nico esca bene. Scelgo la misura 66 (esempio 3). È nell’acuto che il grado di aggressività di cui l’arpa è capace è più alto (esempio 4, misura 68). Un altro modo di trattamento consiste nel pizzicare la corda vicino alla tavola armonica. Le corde cosi pizzicate non possono vibrare cosi liberamente come quando le si attacca nel mezzo. Il suono che ne risulta è secco, più penetrante, e ricorda un poco la chitarra. Molto caratteristi­ ca anche la breve eco che segue qui l’attacco (esempio 5, misura 55). Infine, un’ultima possibilità di utilizzo su cui vorrei insistere: piccoli arpeggi secchi in luogo di accordi (esempio 6, misure 48-50). Molti di voi conoscono il vibrafono attaverso la musica jazz, visto che viene usato di rado nell’orchestra sinfonica, dove lo si incontra per la prima volta nell’opera di Berg Lulu. Ma Berg non si serve del vibrafono se non in maniera episodica, al fine di creare una certa atmosfera o di ottenere un simbolismo sonoro particolare. Lo strumento gli serve, es­ senzialmente, da supporto momentaneo per il colore. Che io sappia, il primo ad attribuire al vibrafono un posto indipendente nell’orchestra è stato Olivier Messiaen. Ricordo ancora perfettamente il nostro stupore di allievi quando ascoltammo per la prima volta questo strumento me­ scolato a strumenti tradizionali. Si era nel 1945, al tempo della creazione delle sue Trois Pelites Liturgies. Il vibrafono consiste in un certo numero di lame metalliche, sotto cui sono collocati alcuni risonatori che un motore elettrico apre e chiude alternativamente. Si ottiene cosi un vibrato che può essere - questo è importante - o modificato nella sua velocità, o totalmente soppresso. Ciò si vede perfettamente nel caso di semplici linee melodiche (esempio 7, misure 36-38). Qualche parola a proposito degli accordi. Si possono smorzare gli accordi con l’ausilio del pedale. In tal caso, tutte le lame di metallo su cui si è battuto cessano di vibrare contemporaneamente. Ma vi è un’altra possibilità, molto più interessante a mio modo di vedere, che consiste

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nello smorzare con le mani. Lo strumentista fa cessare la vibrazione di nuesta o quella lama ponendo la mano su di essa. Posso cosi, in un accordo sostenuto, far scomparire questo o quel suono e lasciarne vibra­ re altri, o far smorzare l’accordo a poco a poco (esempio 8, misura 73). Se faccio eseguire un accordo col pedale, ottengo una sorta di suono «sciropposo», che spesso viene rimproverato al nostro strumento. Ma senza pedale il vibrafono può dare un suono incisivo e secco (esempio 9, misura 66). In codesto colore opaco, il vibrafono si lega benissimo con certi passaggi staccato del piano o della celesta (esempio io, misura 66). La dinamica di questa misura passa per diversi gradi tra forte e piano. Le misure 109-12 mostrano la pienezza sonora che si può ottenere dal vibrafono (esempio 11). Un trillo del vibrafono nel registro grave, qui, copre persino il fortissimo del piano. Vedo nel vibrafono una sorta di sostituto dei gamelangs balinesi che non possiamo procurarci. Le orchestre indonesiane, composte tra l’altro da 40 a 50 gong «accordati», mi affascinano grandemente. Per la stessa ragione, amo anche le campane tubolari, in cui trovo egualmente una reminiscenza dell’Estremo Oriente. D’ordinario, le campane vengono utilizzate per certi effetti speciali. Ogni amatore di musica conosce i passaggi di campane del Boris Godunov di Mussorgskij o àeWIberia di Debussy. E si potrebbero citare altri esempi, in cui le campane sono impiegate in maniera molto significativa ma in fondo piuttosto «dram­ matica». Verrebbe da dire che le campane sono li per mettere in risalto (musicalmente) una situazione teatrale, ma che non vengono utilizzate come uno strumento in sé, improntate come sono a un certo carattere aneddotico, ossia religioso. Io, invece, tendo a sbarazzare lo strumento da siffatte associazioni, a secolarizzarlo in qualche modo e a dargli una maggiore importanza in quanto timbro. Ma torniamo alla mia composizione. Associate al piano e al vibrafo­ no, le campane dànno una mescolanza sonora assai omogenea. Se si fanno suonare insieme i tre strumenti, è praticamente impossibile di­ stinguere ciò che appartiene in proprio all’uno o all’altro (esempio 12, misura 55). Ho già ricordato il fatto che nel caso delle campane il suono fonda­ mentale è circonfuso da un gran numero di suoni parziali. Tale proprietà mi ha indotto a utilizzare le campane come tramite tra gli strumenti ad altezza ben definita e gli strumenti a suoni complessi. Passiamo ora al piano. È ancora proprio necessario presentare il piano? Credo di si, poiché oggi lo trattiamo in modo molto diverso di

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quanto non facessero ad esempio Debussy e Ravel, Stravinskij - nelle Noces - e Bartók — nel suo Allegro barbaro, che lo consideravano essen­ zialmente come uno strumento a percussione. Tuttavia, senza dimentica­ re il loro magistero, il piano ci interessa forse ancora di più come stru­ mento a suoni complessi, producibili mediante effetti di armoniche. Per far sentire talune armoniche sul piano, è sufficiente abbassare senza suono certi tasti — un accordo perfetto a esempio -, quindi suonare normalmente altre note, a intervallo di ottava, terza, quinta, quarta, ecc. Allora anche le corde dei tasti muti si mettono a vibrare. Se moltiplico tale effetto facendo abbassare silenziosamente dei clusters col palmo della mano o con l’avambraccio, ne viene che tutto il pianoforte si tra­ sforma in risonatore. La cassa dello strumento agisce allora come una cassa di risonanza (esempio 13, misure 22 e 23). In virtù di tali effetti di armoniche, posso produrre talune sonorità che modificano la natura del suono del piano (esempio 14, misure 42 e 43)Parimenti, vi è una serie di effetti di pedale di cui finora ci si è serviti ben poco. Nella seconda Improvisation sur Mallarmé, questi effetti non sono impiegati se non in modo isolato, in quanto l’opera non è partico­ larmente composta per il piano. Ciò nonostante, desidererei mostrare con l’ausilio di un breve esempio come, per mezzo del pedale, è possibile modificare lo spettro sonoro. Una rapida serie di accordi viene suonata col pedale. E appena terminato il passaggio cromatico, lo strumentista rialza il pedale per riaffondarlo immediatamente. Sicché le corde cessano di vibrare in certi punti ma continuano a vibrare in altri, e si sente il timbro che cambia. È possibile in tal modo smorzare un accordo gra­ dualmente, passando dall’acuto al grave, in quanto le corde gravi risuo­ nano naturalmente più a lungo delle note acute (esempio 15, misura 20). Ho già detto dei clusters. All’interno di un certo spazio, di cui fisso il limite superiore e quello inferiore, faccio abbassare tutti i tasti. Ottengo cosi un totale cromatico, con tutte le frequenze armoniche dei tasti abbassati. Posso anche servirmi dei clusters senza suono, il che mi darà, se li combino con dei clusters reali, un effetto sonoro particolarmente complesso: il suono consueto del piano si trasforma in un alone di rumo­ re. La totalità dello spettro acquista cosi un’esistenza quasi tangibile. Tutto Io strumento è di nuovo utilizzato come una cassa di risonanza, e il numero delle corde che entrano in vibrazione è perciò cosi grande che vi sono interferenze e armoniche che non appaiono mai nello stesso mo­ mento (esempio 16, misura 68). Tutte queste possibilità fanno del piano, a mio avviso, uno strumen-

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to particolarmente prezioso, in quanto gli danno una funzione di tramite tra la nota fissa e i suoni complessi che si confondono praticamente col rumore. Si ricava cosi dal piano un ventaglio larghissimo di valori So­ noriAncora un accenno alla percussione. Come ho già detto, ho scelto de­ gli strumenti di legno e di metallo, che mi accingo a presentare breve­ mente. Anzitutto le maracas, il cui suono ha la qualità di un rumore colorato; quindi le clave: il loro suono è diverso a seconda del legno usato, ora chiaro, ora sordo. Il mio spartito prevede tre di questi stru­ menti. Adesso gli strumenti di metallo. I crotali sono gli antichi cembali, così come si sono ritrovati tra le rovine di Pompei. Ne esistono di diver­ se altezze; nella seconda Improvisation sur Mallarmé, ne utilizzo tre paia al fine di ottenere un suono complesso che, confrontato con quello dei gong, non sia troppo preciso. Non ho bisogno di descrivere il gong e il tam-tam che tutti conosco­ no. Preferisco attirare la vostra attenzione sulle misure che vanno da 32 a 44. A questo punto dello spartito, ho utilizzato gli strumenti a percus­ sione per rendere in qualche modo la sonorità più cupa, in quanto vi sono qui molti accordi risonanti. Ma al di sopra dell’involucro sonoro si sentono — suonati dalla percussione - dei rumori che nel linguaggio tecnico sono detti «rumori bianchi» e «rumori colorati»: rumori molto secchi, di un carattere così complesso da formare giustamente con i suo­ ni risonanti del piano e del vibrafono il contrasto più spinto (cfr. esem­ pio 17). Vi ho già mostrato, quando ci occupavamo del piano, alcune possibi­ lità di trasformare il suono dello strumento. Si presenta ora una possi­ bilità nuova, che consiste nel far ricorso al gong e al tam-tam, che si situa­ no entrambi nella stessa zona di sonorità del registro grave del piano, e grazie a loro posso modificare completamente la percezione del suono di quest’ultimo. Qui la dinamica, a dire il vero, è difficilissima da dosare, in quanto dipende sia dall’acustica della sala sia dalle caratteristiche parti­ colari del piano o del tam-tam che ho a mia disposizione. Occorre in ogni caso trovare un impasto in cui non si percepisca più il gong e il tam-tam singolarmente, e che tuttavia trasformi completamente il carattere del piano. Nella mia composizione ho utilizzato abbondantemente questi prin­ cipi di impasto. Ma sarebbe troppo lungo farne un censimento dettaglia­ to. Pertanto termino qui la mia breve lezione di strumentazione e vengo ora alla forma.

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La forma della composizione corrisponde esattamente alla struttura della poesia su cui è basata. Si tratta del sonetto Une denteile s’abolita Une denteile s’abolit Dans le don te du Jeu supreme A n’entr’ouvrir comme un blasphème Qu’absence éternelle de lit. Cet unanime blanc conflit D’une guirlande avec la mème, Enfui contre la vitre bléme Flotte plus qu’il n’ensevelit. Mais, chez qui du réve se dote Tristement dort une mandore Au creux néant musicien

Telle que vers quelque fenètre Selon nul ventre que le sien, Filial on aurait pu naitre *.

La poesia stessa è incorniciata nella mia Improvisation da un’intro­ duzione e da una coda strumentali. La forma del sonetto - due quartine e due terzine con lo schema ben noto delle rime -, ha fornito l’ossatura esterna della parte centrale, quella in cui la poesia si trova, per l’esattez­ za, «messa in musica». Nel far questo, si trattava di rispettare il piu strettamente possibile, caratterizzandola musicalmente, la forma del so­ netto. Tutto il brano si basa su due strutture contrastanti. Chiamiamole A e B. La struttura A è ornamentale, e la melodia presenta principalmente melismi e ornamenti. La declamazione, in tali condizioni, non può essere sillabica, e le parole sono cantate con forti vocalizzi. Ne risulta, non v’è dubbio, una certa inintelligibilità del testo, che però è voluta. La poesia costituisce infatti per me l’oggetto di una cristallizzazione musicale. Mi spiego. Credo che il testo di Mallarmé possegga una sua propria bellezza e basti a se stesso, senza bisogno di aggiungervi altro. Se si vuole godere della bellezza del testo in sé, il meglio è di fare recitare la poesia. Ma non è neppure una buona soluzione, a mio parere, seguire semplicemente lo svolgimento della poesia. Il problema per me è di farne cogliere la strut­ tura interna, e metterla in accordo con la mia musica. Certo, per questo, 1 [S’abolisce un merletto nel dubbio | Del Giuoco supremo a dischiudere I Null’altro, vivente bestemmia, | Che di letto un’assenza eterna. Il Quest’unanime bianco conflitto | D’una ghirlanda con la stessa | In fuga sul lattiginoso vetro | Più che seppellire, fluttua. || Ma chi al sogno si dora I Tristemente una mandola I Dal cavo musico niente II Dorme, tale che non da un altro ventre | Se non dal suo, verso una qualche finestra I Avremmo potuto nascere, filialmente] Stéphane Mallar­ mé, Poesie, trad. it. di Luciana Frezza, Feltrinelli, Milano 1966, p. 163.

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posso e devo concedermi non piccole libertà; il rapporto con la poesia si colloca per me su un piano più alto di quanto non sia il semplice rispetto delle sillabe e delle rime. Tale piano più alto è quello della semantica. Ma tutto questo non è altro, in certo senso, che una parentesi. Torno alla struttura A. Come ho detto, essa è ornamentale. La voce è accom­ pagnata in modo collettivo, vale a dire che gli strumenti non intervengo­ no a titolo individuale (esempio 18, misure da 12 a 15). Con la seconda strofa comincia la struttura B. È qui che compare ora la declamazione sillabica; ad ogni sillaba di un verso corrisponde un’uni­ ca nota; il canto melismatico scompare interamente. Il primo verso di questa strofa è costituito da otto sillabe, ed è dunque cantato ugualmente su otto note (esempio 19, misura 45). Il secondo verso ha 4 + 4 sillabe (esempio 20, misure da 55 a 59), il terzo 2 + 5 + 1 sillabe (esempio 21, misure da 65 a 68) e il quarto 2 + 6 sillabe. A questo punto le strutture A e B s’incrociano (esempio 22). Mallarmé ha raggruppato in ogni verso le parole in funzione del significato, ed io ho conservato esattamente la partizione del poeta. Co­ desta indicazione ha una particolare importanza anche perché ora, nella seconda strofa, inizia l’improvvisazione e il direttore d’orchestra distri­ buisce i propri segnali fuori tempo. La terza e la quarta strofa utilizzano le due strutture. Le transizioni tra le quattro strofe sono certo puramente strumentali, e restano più prossime al rumore che al suono. Questa, nelle grandi linee, è dunque la forma del brano; a ciò vorrei aggiungere alcune osservazioni di dettaglio. Anzitutto l’introduzione e la conclusione, vale a dire la cornice del poema. Le undici prime misure, con i loro impasti sonori, danno un’idea del carattere ornamentale e della fattura strumentale del brano. Per quanto concerne il finale, vorrei attrarre l’attenzione sul fatto che non si tratta di una «conclusione» nel senso stretto del termine. L’ultima cosa che si sente è un rumore musi­ calmente privo di ogni significato di ripiegamento: due colpi di maracas, che non chiudono alcuna frontiera - e tutto potrebbe continuare. Nella parte centrale, le due strutture A e B si sovrappongono di frequente, compenetrandosi l’una nell’altra. Così per esempio nella parte cantata vocalizzi sempre più numerosi possono intercalarsi tra le note lunghe sostenute della struttura B, come accade nell’ultimo verso della seconda strofa (esempio 23, misure 71-74). Le transizioni tra le strofe svolgono la funzione di respiri, e sono affidate essenzialmente alla percussione. Nondimeno, la prima transizio­ ne fa sentire un accordo di arpa caratteristico (esempio 24, misura 41). Un accordo di arpa simile ricompare nella sezione intermedia che

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divide la seconda strofa dalla terza. L’orecchio percepisce cosi una rela­ zione tra le parti: una relazione, se non tematica, almeno strutturale. Nel­ la prima transizione, avevo un accordo di arpa e un accordo di piano in mezzo ai rumori della percussione; nella seconda, si sentono gli stessi strumenti a percussione, ai quali si aggiungono un accordo di arpa simile e stavolta, invece del piano, la celesta. Per finire, vorrei ancora mostrare come il testo, una volta che sia stato cantato, continua a fare effetto, e lascia nella musica l’impronta della propria struttura. Prendo come esempio le misure 120 e 130. Le cinque strutture sonore della misura strumentale 130 (esempio 25) cor­ rispondono alle cinque sillabe cantate dalla voce alla misura 120 (esem­ pio 26). Cosi il testo segna in qualche modo col proprio sigillo la musica strumentale. Gli strumenti si sono fatti canto.

13. Sonata «Que me veux-tu»\

Perché mai comporre opere destinate a essere rinnovate ad ogni ese­ cuzione? Ma perché mi sembra che lo svolgimento fisso di una forma definitiva non coincida più esattamente con la concezione attuale della musica, con la stessa evoluzione della tecnica musicale la quale, a dire il vero, tende sempre più alla ricerca di un universo relativo, verso una scoperta permanente - paragonabile a una «rivoluzione permanente». Ed è proprio il desiderio di approfondire un punto di vista del genere che in verità mi stimola, più che una semplice preoccupazione alquanto banale di ribattezzare ogni volta l’orecchio secondo una certa innocenza. Che cosa mi ha indotto a scrivere questa «Sonata» per piano? Più che certe considerazioni musicali, i contatti letterari che ho potuto avere. In definitiva, la mia forma di pensiero attuale è sorta più come riflessio­ ne sulla letteratura che non sulla musica. Lungi da me il proposito di scrivere una musica di segno letterario, nel qual caso l’influenza sarebbe stata molto superficiale! Piuttosto, mi sembra che taluni scrittori si siano spinti, al giorno d’oggi, più avanti dei musicisti nel campo dell’organiz­ zazione, della struttura mentale di un’opera. Ora non pretendo di mettermi a fare un corso di letteratura — com­ pletamente al di fuori della mia competenza - ma desidero semplicemen­ te segnalare i due autori che mi hanno particolarmente spinto alla rifles* Sulla terza sonata, Mediations, n. 7, primavera 1964, pp. 61-75.

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sione, e che mi hanno, in questo senso, influenzato piu profondamente: Joyce e Mallarmé. Se si esamina da vicino la struttura dei due grandi romanzi di Joyce, ci si rende conto — non senza qualche stupore — a qual punto si è evoluta la concezione del romanzo. Non soltanto l’impostazione del racconto propriamente detto risulta rovesciato, ma il romanzo, se cosi posso dire, si guarda in quanto tale, si riflette su se stesso, prende coscienza del suo essere romanzo: di qui la logica e la coerenza di una tecnica prodigiosa in continuo stato di veglia, capace di creare universi in espansione. Cosi la musica, a mio modo di vedere, non è destinata unicamente a «esprimere», ma deve prendere coscienza di sé, divenire l’oggetto proprio della sua stessa riflessione. Per me, questo fenomeno è una di quelle necessità fondamentali che il lin­ guaggio poetico ha già fatte proprie con Mallarmé: la poesia, grazie a lui, è divenuta un oggetto in sé, la cui giustificazione primaria resta la ricerca propriamente poetica. In musica, la difficoltà di un procedimento del genere è di ordine stilistico. La musica è «non significante»: non utilizza parole fondate sull’ambiguità dell’oggetto che designano e del segno che riflettono: la poesia come il romanzo si esprimono — in linea di massima - con le parole usuali del lessico corrente ed è possibile giocare proprio sull’am­ biguità della parola, che è tanto oggetto utilitario quanto segno di rifles­ sione. Joyce ha costruito gran parte del proprio universo applicando in modo consapevole e razionale questi «esercizi di stile»; tutti ricordano il commento di Stephen su Amleto nel capitolo iv di Ulisse; e nella memoria di noi tutti è il prodigioso capitolo xiv che suggerisce la crescita del feto nel ventre materno con una serie di imitazioni che ripercorrono l’evoluzione della lingua inglese, da Chaucer alla contemporaneità. La parola può giocare su tali utilizzazioni in quanto ha un potere referenziale; per la musica, il problema è diverso e vedremo che si pone in un altro modo: infatti, non si può giocare se non sulle interferenze dello stile e della forma. Senza volere ora stabilire una sintesi di proce­ dimenti generali consolidata da una pratica adeguata, si può affermare che la musica è attualmente in possesso di un largo ventaglio di mezzi, di un lessico che coglie ancora una volta l’universalità concettuale e intel­ lettiva. Certo, un tale apparato richiede ancora un notevole perfeziona­ mento e un certo tempo perché sia collaudato, adeguato e normalizzato; tuttavia, l’essenziale delle scoperte è compiuto, la direzione è stata presa in modo irrevocabile, ci sta dinanzi un certo margine di sicurezza nel campo della composizione, almeno stilisticamente. Ma resta una fatica considerevole: ripensare nella sua interezza la nozione di forma. È sin

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troppo evidente che a un lessico sempre più aperiodico, asimmetrico, con una morfologia in costante evoluzione, non si possono applicare criteri formali a base referente, senza che perdano ogni valore, e siano privati di ogni coerenza. Un tale compito appare sempre più urgente: adeguare i poteri formali della musica in una con la morfologia e la sintassi; la fluidità della forma deve integrare la fluidità del lessico. È nostro diritto ormai - richiamandoci all’esempio di Joyce e di Mallarmé - non concepire più l’opera come una semplice traiettoria da percorrere tra un punto di partenza e uno di arrivo. La geometria eucli­ dea ci conferma che la linea retta è la via più breve tra due punti; il che è a un di presso la definizione del ciclo chiuso. In questa prospettiva, l’opera è una, oggetto unico di contemplazione o di dilettazione davanti a cui ci si trova, in rapporto al quale ci si pone; l’opera obbedisce a un procedimento unico, riproducendosi sempre in modo identico, legato inevitabilmente a certe considerazioni quali la rapidità di svolgimento e l’efficacia immediata. L’opera occidentale classica, in definitiva, oppone resistenza a qualsiasi partecipazione attiva. Cosi talvolta è difficile stabi­ lire il contatto in modo profondamente significativo, anche quando la noia non venga a frapporsi tra l’oggetto musicale e colui che lo contem­ pla. Dal principio alla fine, tutti i riferimenti vengono ostensibilmente manifestati, il che elimina praticamente la sorpresa. Naturalmente, non giungo a dire che il capolavoro è eliminato dallo spirito di una concezio­ ne del genere. Ciò sarebbe falso in quanto ogni musica che pertiene a un capolavoro, giustamente — se il termine ancora si addice - è una mu­ sica che ad ogni istante lascia adito alla facoltà di sorprendersi; la sor­ presa non è altro che la constatazione sempre reiterata dalla circostan­ za inattesa, che la linea retta è effettivamente la via più breve tra due punti. Diversamente dal procedimento classico, la nozione più importante, a mio parere, è la nozione recente di labirinto introdotta nella creazione. Già sento l’obiezione di una facile malignità che qualcuno non farà a meno di rivolgermi: per aggirarsi in questi labirinti, può capitare che occorra il filo di Arianna e che non tutti abbiano proprio la vocazione di Teseo! Passiamo oltre! La nozione moderna di labirinto nell’opera d’ar­ te è certamente uno dei salti più considerevoli, senza ritorno, che siano stati compiuti dal pensiero occidentale. (Il pensiero occidentale si è ormai reso conto di non essere più che una parte - senza dubbio importantissima - della conoscenza universale, si è reso conto che non ha avuto il privilegio dello sviluppo intellettuale, che la sua supremazia era una risibile illusione. Mi si consenta un esem­ pio personale: quando ero più giovane, ho preso contatto attraverso i

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dischi con altre civiltà musicali, in particolare, con quelle dell’Africa e Dell’Estremo Oriente: ho ricevuto come uno choc violentissimo non solo dalla bellezza delle opere rivelate, - una bellezza cosi lontana dalla no­ stra cultura e così vicina al mio temperamento - ma anche dalla conce­ zione che ne presiede l’elaborazione. Niente è basato sul «capolavoro», sul ciclo chiuso, sulla contemplazione passiva, sul godimento strettamente estetico; la musica è un modo di essere al mondo, si integra con l’esistenza, ne è inseparabilmente legata: categoria etica e non più sol­ tanto estetica). Secondo me, la nozione di labirinto nell’opera d’arte è paragonabile in certo senso a quella di Kafka nella novella intitolata La Lana-, si crea il proprio labirinto; è possibile installarsi in un labirinto già esistente in quanto è impossibile concepire un’architettura estranea alla propria se­ crezione. Lo si costruisce esattamente come l’animale sotterraneo co­ struisce la tana così mirabilmente descritta da Kafka: vi si spostano di continuo le proprie risorse in vista del segreto, e si scelgono percorsi sempre nuovi per disorientare la conoscenza. Parallelamente, l’opera deve assicurare un certo numero di percorsi possibili, grazie a dispositivi molto precisi, in quanto il caso vi svolge una funzione di scambio che si sblocca all’ultimo momento. Come del resto mi è stato fatto osservare, la nozione di scambio non pertiene alla categoria del caso, ma a quella della scelta determinata, il che costituisce una differenza fondamentale; in una costruzione così ramificata come l’opera odierna, non potrebbe esservi totale indeterminazione, in quanto un simile fenomeno si oppone, sino all’assurdo, ad ogni pensiero organizzativo, a ogni stile. L’opera sarà perciò costretta a rinunciare allo stesso aspetto fisico di cui si era am­ mantata in precedenza: talché, a poco a poco, dopo avere rovesciato la concezione musicale, accade di dover rinnovare la stessa presentazione fisica della partitura. Ancora una volta, devo rifarmi a un’esperienza personale. Nel legge­ re e rileggere attentamente il Coup de dés> ero rimasto profondamente impressionato dalla sua presentazione tipografica, la quale, come osser­ vavo, si inquadra in una forma così nuova da non poter essere disposta in modo diverso: la materia tipografica, per Mallarmé, doveva alla fine trasformarsi. L’«impaginatura in libro» del Coup de dés è una necessità primaria, fondamentale, in cui conta indubbiamente la disposizione del testo secondo le pagine - con la sua ripartizione nello spazio, e i bianchi - ma ancora di più il carattere tipografico. «L’ossatura intellettuale del poema si maschera e tiene — ha luogo — nello spazio che isola le strofe e nel bianco della carta; silenzio significativo che non è meno bello di com­ porre dei versi, — così scrive lo stesso Mallarmé, il quale poi aggiunge: -

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Il poema si stampa, in questo momento, cosi come l’ho concepito nell’impaginazione, in cui risiede tutto l’effetto. Una certa parola a caratteri cubitali richiede da sola tutta una pagina bianca, e credo di essere sicuro dell’effetto... Qui la costellazione assumerà, secondo leggi esatte, e per quanto è concesso a un testo a stampa, fatalmente la forma di una costellazione. Il vascello sbanda, dall’alto di una pagina al basso dell’al­ tra, ecc.; infatti, e il punto di vista è tutto qui,... il ritmo di una frase corrispondente a un atto, o anche a un oggetto, non ha senso se non li imita, e raffigurato sulla carta, ripreso dalla lettera della grafica originale, non riesce a renderne, nonostante tutto, qualcosa». Ma tutta la prefa­ zione scritta dal poeta per la prima edizione della sua opera sarebbe da citare: pagine fondamentali, di cui trascriveremo i punti d’interesse per noi più specifico. In esse Mallarmé parla di un «modo di spaziare della lettura» e precisa; «La carta interviene ogni volta che un’immagine, da sola, cessa o rientra, accettando il susseguirsi di altre e, poiché non si tratta, come sempre, di tratti sonori regolari o versi — ma piuttosto, di suddivisioni prismatiche dell’idea, l’istante di apparire e che dura lo spazio del loro convergere insieme, in qualche messa in scena spirituale esatta, ecco che in spazi variabili, vicino o lontano dal filo conduttore latente, in ragione della verosimiglianza, si impone il testo». Il poeta considera «la Pagina... assunta per unità come lo è d’altra parte il Verso o linea perfetta». E subito dopo Mallarmé osserva: «La diversità dei caratteri di stampa tra il motivo predominante, uno secondario e quelli adiacenti, detta la sua importanza all’emissione orale e il rigo, medio, in alto, in basso di pagina, annoterà che sale o scende l’intonazione». È comprensibile la dovizia delle mie citazioni: Mallarmé usa espressioni così precise che una parafrasi dei suoi mirabili enunciati si sarebbe rive­ lata del tutto vana. Un simile dispositivo formale, visivo, fisico, decorativo senza volerlo mi aveva spinto — per giunta — a ricercarne degli equivalenti musicali. Quando cominciai a scrivere la mia terza sonata per piano, diffidavo moltissimo della gratuità: trasformare la fisica dell’opera senza una ne­ cessità interna che giustificasse profondamente il mutamento ottico della partitura; si può cadere cosi presto nel calligramma decorativo, piacevo­ le, ma «ninnolo abolito»... per riprendere un paragone usato tante volte - che si impone qui più specificamente; l’«inanità» sonora minaccia! Abbiamo già visto certe esperienze, in cui nonostante il disegno, bello, il progetto encomiabile, non sentiamo in alcun modo l’esigenza di trasfigu­ razione imposta da un rifacimento della struttura. Cercai dunque di evitare quegli specchietti per allodole e avevo por­ tato a termine la parte importante del mio lavoro quando usci un libro

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che conteneva alcune note postume di Mallarmé, in vista del « Livre » che progettava, precedute da un bellissimo saggio di Jacques Scherer sull’in­ tenzione mallarmeana. Fu per me, uso la parola nel senso forte, una rivelazione. Il disegno e i fini che mi ero proposto di raggiungere sulla scorta del Coup de dés, coincidevano con gli stessi obiettivi che Mallarmé aveva perseguiti e formulati, senza avere il tempo, tuttavia, di portare a termine le sue ricerche. Al riguardo, Jacques Scherer scrive: «Alla storia soggetta a susseguirsi in un tempo irreversibile si oppone qui l’intelligenza capace di dominare un soggetto ricostruendolo in tutti i sensi, compreso il senso inverso a quello del tempo. Lo stesso duplice movimento potrà mostra­ re, a una delle estremità, il libro perfettamente composto, e all’altra dei fogli sparsi in una esteriorità essenziale, vale a dire in un semplice album». (Mallarmé chiama dispiegamento il processo del libro verso l’al­ bum, e ripiegamento il passaggio dall’album al libro). «Prima di questa operazione, il libro può sembrare simile a un comune libro; ecco perché è detto “volgare”; ma quando ha mostrato, cosa che nessun libro comu­ ne può fare, di essere capace di portare alla diversità sensibile di un album, quindi di ricomporlo in un insieme strutturato, ha dato prova di essere il libro. Il confronto è creativo». Rileviamo ancora questa frase essenziale del poeta: «Un libro non comincia né finisce: tutt’al più ne finge l’apparenza». Ed ecco il commento di Jacques Scherer: «Il vero modo letterario è di far muovere con libertà e originalità - ma senza arbitrio, nel libro stesso, gli elementi del libro che sono la pagina, la frase, il verso (se c’è), la parola e persino la lettera. Il libro, espressione totale della lettera, deve trarre da sé direttamente una certa mobilità». Non meno stupefacente era la concezione delle sedute di lettura del Livre, a cui partecipava un numero variabile di ascoltatori diretti dall’«operatore» — ossia dal poeta stesso: sedute in cui si scoprivano ogni volta nuove possibilità di interpretazione dell’opera. L’applicazione dell’analisi combinatoria al linguaggio ha dovuto rive­ larsi singolarmente ardua, date le servitù che comporta. La logica gram­ maticale associativa fa che le parole non possono intercambiarsi facil­ mente senza far perdere alla frase tutto o parte del suo significato — la logica formale si preoccupa attualmente di studiare questo fenomeno con precisione; mentre in musica, la logica di associazione è meno rigo­ rosamente delimitata quanto alla sua validità: il non-significato, la non­ direzione dell’oggetto musicale allo stato elementare consentono di uti­ lizzarlo entro organismi strutturati, secondo principi formali molto me­ no ristretti della parola. Oltre che una conferma, il Livre di Mallarmé era la prova inconfuta­

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bile della necessità urgente di un rinnovamento poetico, estetico e for­ male. La mia sonata, con i cinque formanti che comporta, volendo ripren­ dere la nota formula, è una sorta di «work in progress». Sono sempre piu alieno dal concepire un’opera come una produzione frammentaria; ho una spiccata predilezione per i grandi «insiemi», cen­ trati attorno a un fascio di possibilità determinate. (Qui, ancora, l’in­ fluenza di Joyce!...) Del resto i cinque formanti mi lasciano senza dubbio la libertà di produrre altri «sviluppanti», che si impongono come del tutto distinti, che si legano, tuttavia, per la loro struttura, ai formanti iniziali. Il Libro costituirebbe un labirinto, una spirale nel tempo. Ma torniamo ai cinque jormantì reali. Li ho chiamati così per analogia con l’acustica. È noto che un timbro è caratterizzato dai suoi formanti; allo stesso modo, ritengo che la fisio­ nomia di un’opera derivi dai suoi formanti strutturali: caratteri specifici generali, suscettibili di generare taluni svolgimenti. Ognuno di essi ap­ pare in ogni pezzo, esclusivamente al fine di costituire in seguito gli «svi­ luppanti» summenzionati, mediante scambio, interferenza, interazione, distruzione. Il nome dato a questi formanti ne delinea la fisionomia, pone l’accento sulle loro caratteristiche individuali: i) Antifonia; 2) Tropo; 3) Costellazione, e il suo doppio: Costellazione-Specchio; 4) Strofa; 5) Sequenza. Ognuno di questi formanti è suscettibile di una più o meno grande determinazione, secondo i gradi di libertà che si possono assu­ mere in presenza della forma globale, o delle strutture topiche. Nell’A^tifonia, solo lo schema formale generale può variare; esso è la base di due strutture individualizzate: applicazione allargata della nozione di antifo­ nia che si trova nel canto fermo e nella musica di alcune popolazioni dell’Africa centrale. Queste due strutture sono scritte su due pagine diver­ se, si interpretano ciascuna in un tempo determinato, con proprie carat­ teristiche stilistiche: l’una comporta 2 frammenti, l’altra 3. Tali fram­ menti sono copiati su fogli di cartone secondo la disposizione seguente:

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Lettura dall’alto in basso Struttura originale scritta sul recto

Struttura variata scritta sul verso

Dal disegno si vede che vi sono 4 forme di organizzazione possibile. In effetti, ciascuno dei frammenti originali scritti sul recto è doppiato nel verso dallo stesso frammento variato; V Antifonia, d’altra parte, si divide in due responsori indipendenti. Nella disposizione fisica che ho adottata, si può scegliere a piacere una delle 4 forme, semplicemente leggendo questi frammenti secondo il verso o il recto, indipendentemen ­ te gli uni dagli altri, restando inteso che nello stesso responsorio, a ogni struttura A deve opporsi una struttura B di uguale natura. Evidente­ mente, avrei potuto scrivere integralmente le quattro forme, «sviluppar­ le», come si sviluppa una funzione; ma sarebbe stato perfettamente inutile data la semplice operazione che ho fatto subire ai fogli, un’opera­ zione legata a sua volta alla struttura della musica. Ho chiamato Tropo il secondo formante, rifacendomi al canto grego­ riano e allargando questa nozione dalla monodia alla struttura formale:

In presenza del testo originale, i miei tropi hanno tre possibilità: sono integrati ritmicamente al testo stesso; si inseriscono all’interno dei valori generali dati che commentano - e in entrambi i casi devono essere suonati; si intercalano entro i valori generali e sono iscritti tra parentesi con altri caratteri tipografici — e possono essere suonati o essere omessi. Alla nozione di tropo viene ad aggiungersi l’idea di forma circolare.

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Avevo utilizzato una serie di rapporti per questo formante, suscettibile di suddividersi in 4 frammenti, generanti 4 ordini seriali differenti. D’al­ tro canto, grazie a un’ambiguità armonica, uno dei frammenti poteva avere due stati distinti: supponiamo che io chiami questi frammenti seriali: A, B, C, D, i due ordini sono: A, B, C, D, e A, B, D, C. Applican­ do le proprietà di questa serie alla grande forma, ho ottenuto quindi due ordini originali, con le loro permutazioni circolari. Lo svolgimento «A» si chiama testo, lo sviluppo «B» parentesi, lo sviluppo «C» commento, e lo sviluppo «D» glossa (vocaboli vicini, quasi sinonimi, e che indicano le lievissime differenze tra i diversi tropi). La forma è concepita circolar­ mente: ciascuno svolgimento autonomo può servire da inizio o fine, in quanto una curva generale è ogni volta disegnata per effetto dei registri scelti, della densità di scrittura e della dinamica predominante. La conca­ tenazione è assicurata da un controllo strettissimo delle zone iniziali e terminali. Ritroviamo cosi l’idea esposta poc’anzi, dell’opera senza inizio né fine, che può svolgersi a partire da qualsiasi istante, l’idea materializ­ zata dal nostro ciclo di fogli, unidirezionale, ma non definito. Il terzo formante che chiameremo Costellazione, è reversibile: si ha da un lato del foglio la forma originale, dall’altro, la successione retrogradata, detta Costellazione-Specchio-, e va suonato una sola volta, natu­ ralmente in una delle due trascrizioni. Perché il brano è doppia figura di se stesso? Ma perché il suo posto è immutabile al centro dei formanti, ma spiegherò fra breve la relazione dei formanti tra loro, secondo una costituzione generale. Il testo è scritto in due colori, rosso e verde: il colore verde si riferi­ sce agli insiemi denominati punti-, il colore rosso agli insiemi denominati blocchi. Le due denominazioni descrivono esattamente la morfologia delle strutture impiegate; punti-, strutture a base di frequenze pure, isolate - gli accordi si producono soltanto con l’incontro nello stesso istante di due o piu punti; blocchi-, strutture a base di blocchi sonori continuamente varianti, in quanto possono essere battuti verticalmente o essere scomposti orizzontalmente in una successione rapidissima (in modo da non perdere d’orecchio, se cosi si può dire, l’identità di un blocco). A insiemi puntuali, si oppongono, di conseguenza, insiemi ag­ greganti; in altri termini, a una neutralità d’identità invariabile (fre­ quenza pura), si oppone una individualità caratterizzata variabile (bloc­ co sonoro). Qui descrivo solo il criterio primo, organizzatore del brano; naturalmente ve ne sono altri, secondari, adiacenti, come il timbro - dal suono diretto al suono riverberato passando per la zona intermedia —, il registro — che delimita il campo di frequenze in cui si può muovere un certo insieme -, ecc.

Tappe e segnali Costellazione-Specchio

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Costellazione

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Come si vede dalla figura, i punti sono in numero di 3, i blocchi in numero di 2, quindi si presenta un ultimo insieme che è il microcosmo della grande costellazione, in cui si alternano - ma in ordine inverso - 3 blocchi e 3 punti} in questa piccola costellazione i blocchi sono scritti in verde, e i punti in rosso poiché si riferiscono allo schema strutturale e non alla caratteristica di scrittura. Si alternano punti e blocchi, colore verde e colore rosso, nell’ordine in cui compaiono; all’interno degli insiemi vi è una grande diversità di percorsi che possono modificare il tempo o no. Mi è assolutamente impossibile analizzare, nel dettaglio, il meccanismo di questo pezzo; la cosa non sarebbe di alcuna utilità se non si ha il testo davanti agli occhi. Tuttavia, ricorderò che all’inizio o alla fine di ogni sistema, esistono segni di riferimento che indicano la dire­ zione per passare da un sistema all’altro, e, ove occorra, le conseguenze che ciò implica nella durata (tempo suscettibile di modificazioni strada facendo, o radicalmente differente, ma stabile) e nella dinamica. Talune direzioni sono obbligatorie, altre facoltative, ma tutto deve essere suo­ nato. In un certo senso, questa Costellazione è come la pianta di una città sconosciuta (che, come si sa, svolge una funzione grandissima nelVEmploi du Temps di Michel Butor...) L’itinerario è lasciato all’inizia­ tiva dell’interprete, che deve procedere attraverso una stretta rete di percorsi. Questa forma a un tempo fissa e mobile si pone, cosi, al centro dell’opera a cui serve da perno, da centro di gravità. Parlerò molto più brevemente dei formanti Strofa e Sequenza poiché non hanno ancora raggiunto uno stadio definitivo, essendo stati rimessi in cantiere e poi interrotti da altri lavori. Ho adattato l’idea primaria di Strofa alle riflessioni di Mallarmé sullo spessore del libro in quanto riferimento della forma. Spiega con estrema chiarezza Jacques Scherer: «Lo spessore è una delle qualità reali del volume, distinta dalla profondità; se questa indica un numero di righe, quella si riferisce a una sovrapposizione di righe o di pagine, dunque a una nuova corrente poetica o di significato». Tale nozione mi serve a stabilire un rapporto definitivo tra il formante e il suo dispositivo. Ori-

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ginariamente, sono scritte quattro strofe di varia lunghezza (chiamiamo­ le rispettivamente, A, B, C, D), ciascuna suscettibile di uno svolgimento indipendente, ma affine, basato sul seguente principio: lo svolgimento 2 conterrà lo svolgimento 1; lo svolgimento 3 conterrà 1 e 2; lo svolgi­ mento 4 conterrà 1, 2 e 3 - ciascuno di questi svolgimenti venendo ad aggiungere naturalmente una nuova struttura a quelle che ingloba. La disposizione osserva lo schema seguente: Strofa

L’impaginazione di ogni strofa è mobile, indipendentemente da tutte le altre; più si procede nello spessore del formante, più esso sarà com­ plesso, poiché assumerà tutti quelli che precedono; cosi l’estensione non utilizzerà, per differenziare le 4 strofe, che una possibilità dello spessore e mai la stessa - di conseguenza, ogni strofa mostrerà uno stato differente dello svolgimento. Così, potrò leggere: A2, Bb C3, D4, o Ab B3, C2, D4, ecc. Tali concatenazioni hanno una conseguenza diretta e obbligata sul registro: per poter concatenare, in effetti, qualsiasi stato di una strofa con qualsiasi stato della strofa seguente, occorre un registro comune alla fine di tutti gli stati di questa prima strofa, e all’inizio di tutti gli stati della strofa seguente; saranno essi i nodi di registro, in quanto i ventri di registro sono la corrente di ogni strofa, ove non si impone alcuna coerci­ zione. Soltanto l’inizio di A e la fine di D potranno essere nodo o ventre. (Mi sono servito dei termini dell’acustica classica che descrivono, con estrema precisione, l’evoluzione dei registri). A proposito dell’ultimo formante Sequenza sarò più conciso: esso mi pone troppi problemi ancora senza soluzione pratica; giacché una nuova elaborazione, per portarla al livello dei precedenti, richiede, in effetti,

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innovazioni radicali nella trascrizione delle altezze variabili, essendo la variabilità incompatibile con la notazione cosi come è praticata corren­ temente. Per non lasciare completamente nell’oscurità quest’ultimo for­ mante, dirò che il suo principio direttivo è basato sulla lettura a griglia una sorta di decifrazione - che consente di scegliere la sequenza che si desidera interpretare. Questo formante sarà quindi il più lontano da una forma predeterminata, essendo VAntifonia, per opposizione, il formante che se ne avvicina di più. Quanto alla concezione generale che coordina i cinque formanti, essa è basata su una ripartizione simmetrica e mobile attorno al formante centrale Costellazione (Costellazione-Specchio}.

Il grafico mostra come è realizzata questa ripartizione: attorno al nucleo centrale (a sua volta gruppo di cellule) gravitano i 4 formanti raggrup­ pati a due a due su orbite concentriche, l’orbita esterna potendo diventa­ re interna o viceversa. Ciò offre in tutto soltanto 8 possibilità di esecu­ zione essendo date le simmetrie a cui devono obbedire le permutazioni. Come scrive Jacques Scherer nel suo saggio sul Livre: «Si dà libertà ai fogli, ma se tale libertà fosse totale, non basterebbe la vita di molti uo­ mini a esaurirne il contenuto. Può solo trattarsi di una libertà guidata». Questa organizzazione globale, evidentemente non l’ho trovata di colpo; a poco a poco, le idee si sono ordinate, si sono collocate attorno all’idea direttrice: concepire l’opera come un universo in movimento, in espansione. Questo spiega perché lo svolgimento di un certo formante mi ha costretto a rimetterne in questione un altro, il quale reagiva a sua volta sul seguente, anzi sul precedente! Per questo i due formanti Strofa e Sequenza vi sono stati sacrificati quasi completamente, e sono (o devo­ no essere) rielaborati da cima a fondo. Nondimeno, avevo interesse a introdurli qui per completare l’analisi degli altri tre. E già adesso si scorge la ricchezza di possibilità racchiuse nell’incontro dei formanti: supponete pagine-parentesi, quaderni mobili, costellazioni di formanti!

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Insomma, l’immaginazione non ha di che preoccuparsi, se vi provvede il mestiere... Del resto il divertimento del compositore sta proprio nel partire in vista di un certo orizzonte e giungere in terre assolutamente sconosciute, di cui all’inizio non sospettava quasi resistenza; la compo­ sizione sarebbe una noia incommensurabile se ci si contentasse, per cosi dire, di viaggi d’agenzia per turisti, con tappe fisse! Un’ultima considerazione. La forma acquista la propria autonomia, tende verso un assoluto che non ha mai conosciuto prima; rifiuta l’intru­ sione del caso puramente personale. Le grandi opere a cui ho fatto riferimento - Mallarmé, Joyce - costituiscono i dati di un’epoca: il testo diviene per così dire «anonimo», «parlando di se stesso e senza voce d’autore». Se occorresse trovare un movente profondo all’opera che ho cercato di descrivere, sarebbe proprio la ricerca di un tale «anonimato».

14. Suono, parola, sintesi''.

1. I rapporti del mondo strumentale ordinario col nuovo universo rive­ lato dai procedimenti elettro-acustici restano ancora da stabilire. Ho sempre ritenuto che questi due mezzi di espressione, anziché ostacolarsi o annullarsi l’uno con l’altro, devono essere i due versanti di uno stesso pensiero organizzatore: potranno così consolidarsi e creare una sorta di «arte totale», anche se l’uso di un’espressione del genere possa essere pericolosa. Come ho già scritto in varie occasioni, credo che la nostra generazione sarà vocata alla sintesi, quanto, se non di più, alla scoperta propriamente detta: allargamento delle tecniche, generalizzazione dei metodi, razionalizzazione dei procedimenti di scrittura; insomma, a una sintesi delle grandi correnti novatrici che si sono principalmente mani­ festate sin dalla fine del xix secolo. Sia chiaro tuttavia che non la consi­ dero come un punto d’arrivo, come un’«apoteosi» di quanto si è fatto prima, uno stadio industriale in certo qual modo, rispetto a un artigiana­ to sorpassato; anzi, penso che codesta sintesi sia soltanto la base indi­ spensabile per poter partire, con un minimo di garanzie intellettuali, verso nuove scoperte, che rimetteranno forse in questione tutto o parte delle tradizioni occidentali. Può essere utile dare qualche esempio. L’evoluzione del pensiero occidentale ha spinto i compositori a normalizzare tutti i rapporti di * A propos de «Poesie pour pouvoir», in «Melos», vol. XXV, n. io, ottobre 1958, pp. 310-13.

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intervalli fra loro in una gerarchia fissa definitiva, dopo avere soppresso a poco a poco tutti i particolarismi. Ma, da una parte, questi particola­ rismi hanno finito per risorgere in quanto arcaismi — di tempo o di luogo; dall’altra, l’elemento distributivo della gerarchia si è introdotto all’interno della stessa gerarchia per corroderla e toglierle in definitiva ogni influenza. A buon diritto, dunque, si può affermare che nel quadro dell’organizzazione seriale, che non crea funzioni se non per la propria esistenza, non vi è alcun bisogno di un universo sonoro in cui siano definite in anticipo le scale a cui queste funzioni dovrebbero applicarsi: anzi, con un insieme di rapporti dati, l’organizzazione seriale può creare una rete di altezza variabile secondo i parametri che si vogliono dare. Una stessa organizzazione di rapporti cifrati può indifferentemente ap­ plicarsi - creando strette differenziazioni nell’ascolto - a universi tempe­ rati secondo un qualsiasi intervallo o a universi non temperati; si ottiene così nel corso dell’opera una costituzione mobile della materia sonora propriamente detta. Ciò implica un’organizzazione del tempo similare. Tuttavia, col problema del tempo, si giunge all’ascolto, vale a dire a pro­ blemi di forma e di percezione. Nell’organizzazione morfologica del tem­ po, l’universo relativo delle altezze implica conseguenze facilmente im­ maginabili. Esiste una curva di risposta dell’orecchio alla differenziazione più o meno grande degli intervalli, una curva che può stabilirsi in relazio­ ne col tempo di ascolto; durata e altezza sono legate - «in modo misura­ bile» - da questo fenomeno. Su intervalli «fini», il tempo dovrà essere fermo; occorrerà considerarlo in modo tale che l’orecchio ascolti attra­ verso una «lente». Al di fuori di questa morfologia, ci è lecito riflettere sul ruolo della durata nell’audizione. La musica occidentale si era sforza­ ta di creare riferimenti dati in una forma data, in modo che, cosi come per l’occhio, si poteva parlare di un certo «angolo» uditivo, grazie a una «memorizzazione» immediata più o meno cosciente. Ma, nel desiderio di tener sveglia la sensibilità, tali riferimenti sono divenuti sempre più disimmetrici, sempre meno... riferibili; se ne può concludere che l’evo­ luzione formale, nonostante i riferimenti deve sfociare in un tempo irreversibile, ove i criteri delle forme si stabiliscano a partire da reti di possibili differenziati; l’ascolto tende sempre più all’istantaneo, e i rife­ rimenti perdono ogni ragion d’essere. L’opera non è più quell’architet­ tura diretta che va da un «inizio» verso una «fine», attraverso varie peripezie; le frontiere sono volontariamente poste tra parentesi, il tem­ po di ascolto diviene non unidirezionale — bolle di tempo, se si prefe­ risce. Ciò ci porta a una concezione dell’atto creativo, ove il «finito» non è più assunto dall’autore o per meglio dire il caso si introduce nell’opera,

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mai definitiva - un problema tra i piu importanti e meno necessariamente compresi. Il caso non è un gioco su oggetti che vi si prestano - se ci si limitasse a questo, sarebbe inezia e infanzia; esso assume piuttosto il rapporto del tempo e dell’istante, ammesso e utilizzato come tale. A un tempo non omogeneo pronto a estendersi o a concentrarsi, ad altezze condizionate in maniera mobile, a ogni nozione di struttura interna rela­ tiva — dinamica e timbro ugualmente compresi — corrisponde l’opera pensata come circuito non chiuso, non risolto. L’esecuzione interviene come una determinazione specifica, né più né meno preferibile di ogni altra determinazione. L’intrusione del «caso» nella forma può manifestarsi sia nei circuiti a vari scomparti girevoli, a scatto probabile, sia con l’ausilio di strutture commentate — effervescenti — da cui tali commenti possono essere sot­ tratti senza alterare la loro fisionomia generale - necessità di parentesi. (Si può agire positivamente o negativamente). Il problema si pone, evidentemente, dal punto di vista del solista. Per determinati insiemi, occorre piuttosto pensare a montaggi sonori, ove gli elementi si aggiungono facoltativamente, ove l’iniziativa di un esecutore fa scattare l’iniziativa di un altro... Ci si è sbarazzati dell’im­ palcatura fissa; la partitura offre una somma di possibilità di montaggio, da cui si potrebbe escludere, all’occorrenza, l’omogeneità di tempo. La parola «montaggio» evoca immediatamente le tecniche elettroni­ che ed elettro-acustiche che hanno bisogno del supporto del nastro ma­ gnetico; e certo, queste tecniche si integrano perfettamente con le ricer­ che speculative condotte attualmente, e confermano pienamente l’idea di relatività nell’universo sonoro di cui si è parlato. Tuttavia, la preci­ sione, il «definitivo» delle realizzazioni sembra opporsi a quanto, per l’appunto, cerchiamo nel più grande azzardo: la non-fissità dell’opera scritta (per un testo destinato ad essere rinnovato dagli interpreti). Oc­ corre giustamente trarre profitto da questa contraddizione e opporre consapevolmente il campo elettro-acustico al campo naturale. Da un lato, precisione e controllo delle strutture allo stadio infinitesimale, rigi­ dità e determinazione assoluta della realizzazione; dall’altro, struttura di possibili, in quanto solo una realizzazione può dar loro temporaneamen­ te forma definita. Che ne è allora del concerto e della sala da concerto? Devono adat­ tarsi alla concezione attuale della composizione. Il problema dello spa­ zio, in effetti, si pone in modo fondamentale, in quanto lo spazio può intervenire come componente essenziale nella trasmissione del segno musicale. Distribuzione mobile degli strumenti, ripartizione non orien­ tata del pubblico, sono questi i due punti principali sui quali devono ora

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puntare gli sforzi della realizzazione in concerto. Allora, naturalmente, la percezione si orienterà in un campo diverso e si sarà molto vicini a disertare lo spazio chiuso - splendidi oggetti contemplati nell’inutilità e nel torpore - in cui soffoca la musica occidentale.

11. Una tale concezione della musica va di pari passi con l’uso del lin­ guaggio? Se scelgo un poema per farne ben altro che lo spunto per una orna­ mentazione che stenda tessuti arabeschi intorno al testo, se lo scelgo per immergervi la mia musica, creando cosi un tutto compatto, tale che il poema venga ad essere «centro e assenza» del corpo sonoro, allora non posso limitarmi ai soli rapporti di consonanza che possono stabilirsi tra parole e suoni; allora un tessuto di congiunzioni s’impone che, tra l’al­ tro, implica i rapporti di consonanza, ma ingloba d’altro canto tutti i meccanismi del poema, dalla sonorità pura sino alla sua disposizione propriamente pensante. Quando si progetta di «mettere in musica» un poema - non parlo qui del teatro - si pongono una serie di domande che riguardano la declama­ zione o la prosodia. Il poema va cantato, «recitato» o parlato? Tutti i mezzi vocali entrano in gioco e dalle diverse forme particolari di emis­ sione dipende la trasmissione, l’intelligibilità più o meno diretta del testo. È noto che dopo Schonberg e il Pierrot lunaire, questi problemi hanno sollevato un grande interesse nei musicisti, ed è appena il caso di ricordare quali controversie abbia suscitato lo «Sprechgesang». Quanto alla reazione tipica: occorre mettere in metrica il poema cantato avvici­ nandosi il più possibile alla poesia parlata, non possiamo che considerar­ la, ormai, alquanto sommaria. Un buon poema ha le sue proprie sonori­ tà, quando viene recitato, ed è inutile cercare di far concorrenza su questo terreno a un mezzo di così perfetta misura. Se canto il poema, entro in una convenzione-, è più opportuno servirsi di questa convenzio­ ne in quanto tale, con le sue leggi proprie, piuttosto che ignorarla delibe­ ratamente o volerla deformare e alterare per stravolgerla dal suo vero fine. Il canto implica un rimando delle sonorità del poema su certi inter­ valli ed entro una ritmica che si allontanano fondamentalmente dagli in­ tervalli e dalla ritmica parlata; il canto non ha un potere di dizione più ampio, è trasmutazione e, diciamo pure, squartamento del poema. Il poeta non riconoscerà certo, a prima vista, il suo testo cosi trattato, in quanto non lo ha scritto per essere musicato; persino le sue sonorità gli divengono strane ed estranee, poiché si innestano su un supporto non

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prevedibile e da lui non previsto; ma nel migliore dei casi e, tenuto conto dell’autonomia indefettibile del suo poema, egli riconoscerà che se do­ veva esservi un intervento, era necessario che fosse quello. Da questo estremo della convenzione pura a quello del linguaggio parlato propria­ mente detto, si stende una gamma ricchissima di intonazioni di cui si comincia appena a sapersi servire consapevolmente; di questo, come si è già detto, Schonberg è stato l’iniziatore. In seguito, la conoscenza dei teatri dell’Estremo Oriente ci ha rivelato a qual punto di perfezione poteva essere spinta la tecnica nell’utilizzo delle risorse del fatto vocale; da parte di Schonberg e Berg, in effetto, certe questioni non sono state poste in piena luce, come la natura dell’emissione vocale secondo i diver­ si effetti che si vogliono ottenere, la durata di appoggio di un suono o la tessitura presupposti dai diversi modi di emissione: tutte questioni che si possono risolvere solo empiricamente. Di certo, si può creare una nuova tecnica vocale in cui i problemi saranno delineati con precisione. Ma la prosodia esposta all’avventura? quella conclamata prosodia che ciascuno si vanta di possedere più del proprio vicino? Occorre porre gli accenti e i movimenti della voce avvicinandosi il più possibile alle infles­ sioni parlate? Ciò dipende essenzialmente dalla zona di emissione vocale in cui ci si muove. Talune regole, tuttavia, non possono essere trasgredi­ te senza danno e qualche volta senza ridicolo; va da sé che le interpun­ zioni - nel senso più generale del termine - devono essere rispettate; altrimenti, in luogo di esaltare il poema e trasmutarlo, lo si saccheggia tanto nella sua sostanza quanto nelle sue sonorità. A partire da questa base si può considerare la coincidenza musica-poe­ ma come una sorta di funzione avente per variabile il modo di emissione vocale impiegata. Il testo musicale essendo cosi strutturato in rapporto al testo poetico, sorge l’ostacolo della sua intelligibilità. Domandiamoci francamente: il fatto di non «capire nulla», supponendo che l’interpretazione sia perfet­ ta, è un segno assoluto, incondizionato, che l’opera non è valida? Sem­ bra, contrariamente a questa opinione generalmente diffusa, che si possa agire sull’intelligibilità di un testo «centro e assenza» della musica. Se volete «comprendere» il testo, allora leggetelo, o fate che vi sia parlato: non vi può essere soluzione migliore. Il lavoro più sottile che ora vi si propone, implica una conoscenza già acquisita del poema; noi rifiutiamo la «lettura in musica», o piuttosto la lettura con musica, vale a dire la soluzione in cui la logica non è che apparente, e il problema reale è evitato perché si rifiuta, anche qui, di prendere in considerazione una convenzione e gli obblighi che comporta. Tutti gli argomenti a favore della «naturalezza» sono solo sciocchezze, la naturalezza infatti non ha

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senso (in tutte le civiltà) non appena si decide di amalgamare testo e musica. Ma allora, si potrà obiettare, se tenete soprattutto a certe sonorità, lavorate su un testo il cui significato non abbia importanza, oppure su un testo senza significato, fatto di onomatopee o di vocaboli immaginari, composti specificamente per entrare nel contesto musicale, e non vi scontrerete più con delle contraddizioni praticamente insormontabili. Indubbiamente, l’onomatopea e la polverizzazione delle parole possono esprimere ciò a cui il linguaggio costruito non può proporsi di pervenire; cosi non si è mancato di servirsi largamente di questo procedimento tanto nella musica colta quanto nella musica popolare. E che un tale impiego possa essere un fatto istintivo, non può mancare di scoraggiare quanti Io avversano. I canti rituali, a esempio, in molte liturgie, utilizza­ no una lingua morta che allontana dalla maggioranza dei partecipanti una comprensione diretta del testo che cantano; questa lingua morta, come il latino nella liturgia cattolica, può essere ancora conosciuta e tradotta, e il suo senso perfettamente decifrabile; ma in certi riti africa­ ni, il dialetto usato in occasione di cerimonie importanti è un dialetto caduto in desuetudine, il cui senso è assolutamente oscuro per coloro che lo usano (specialmente quando vi sia stata deportazione, come nel caso dei negri brasiliani). Anche il teatro greco e il teatro giapponese dei «nò» ci forniscono l’esempio di una lingua «sacra» il cui arcaismo re­ stringe di molto, se non completamente, la comprensione. Nelle canzoni popolari, all’opposto, chi non è stato colpito nel sentire un susseguirsi di onomatopee e di parole usuali sviate dal loro oggetto? In esse si palesa unicamente la necessità e il piacere del ritmo e viene evocata una certa logica dell’assurdo che incanta. Sono tali le filastrocche e anche numero­ se canzoni folcloristiche (Stravinskij ne ha mirabilmente utilizzato le risorse in opere come Noces, Renard e i Pribautki). Secondo Novalis, «parlare per parlare, costituisce la formula di libe­ razione»: liberazione nella religione o liberazione nel gioco, gli esempi non mancano davvero. Nessuna meraviglia dunque che i compositori facciano ricorso a questa dissociazione del senso e del linguaggio; non­ dimeno, perseguire questo solo obiettivo equivarrebbe a restringersi inutilmente e a rinunciare a molte altre ricchezze di espressione consen­ tite solo da un testo organizzato per fornire un messaggio comprensibi­ le. A questo ventaglio, che va dalla parola organizzata in vista di un senso logico sino al fenomeno puro, vorrei paragonare il ventaglio delle possibilità del corpo sonoro, che ci fornisce sia dei suoni che dei rumori - ma in ogni caso si tratta solo di un paragone. Con l’insieme dei proce­ dimenti che abbiamo testé richiamato, le necessità della musica corri-

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spendono quasi interamente alle esigenze del testo, da un punto di vista morfologico; resta il problema di far coincidere le grandi strutture di organizzazione e di composizione. Operare in tal modo questa fusione del suono e della parola, far sprizzare il fenomeno quando la parola è allo stremo, insomma organiz­ zare il delirio? Che controsenso e che assurda alleanza di termini, si dirà! Ma come! credereste solo alla vertigine dell’improvvisazione? solo alla forza di una sacralizzazione «elementare»? Sempre piu, immagino per­ ché sia efficace, occorre considerare il delirio e davvero organizzarlo.

15. Poesia — centro e assenza - * musica . Poesia e musica: due mostri sacri di cui piu volte si è assistito allo scontro! Ci fu un tempo (simbolista, mistico) di transustanziazione, quando Mallarmé estingueva un’ipoteca seguendo Wagner, e intimava: «Dimentichiamo la vecchia distinzione tra la Musica e le Lettere, che altro non è che la divisione, voluta, per un ulteriore incontro, del primo caso: l’una evocatrice di magie situate a quel punto dell’udire e quasi della visione astratto, divenuto l’intendimento, che, spazioso, accorda al foglio di stampa un valore uguale». E l’ingiunzione era seguita da un lemma, rimasto famoso e mal noto: «Formulo, esteticamente a mio rischio, questa conclusione: che la Musica e le Lettere sono il volto alterno ora proteso verso l’oscuro, ora scintillante, con ogni certezza, di un fenomeno, il solo, l’idea, così Io chiamavo. Uno dei modi piega verso l’altro e scomparendovi, ne riemerge arricchito: due volte, si raffina, facendo oscillare un genere intero». Fosse necessario, vorrei chiamare «centro e assenza» questo «volto alterno», anche se ombra e luce non siano affatto destinate a restare un beneficio esclusivo! Che ne è stato di questa ipotesi accantonata, dimenticata, rilanciata? Le rivoluzioni poetiche più esibitorie non hanno perdonato alla musica una concorrenza seria (se non sleale) nel potere onirico; tutt’al più l’han­ no considerata come una rara distrazione, un’ingenua paccottiglia, di­ menticata inavvertitamente sui pascoli della banalità. Ascoltiamo la cen­ sura formulata da René Chat: «La musica, ancora di recente, non si legava veramente con la poesia — o viceversa - se non perché una delle due, sin dal primo passo, veniva battuta e assoggettata all’altra. La musi­ * Conferenza tenuta a Donaueschingen nel 1962 su Poesie pour pouvoir. Pubblicata in tedesco su «Melos», vol. XXX, n. 2, febbraio 1963, pp. 33-40. Inedita in francese.

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ca diveniva così il rivestimento, la montura della poesia, sicché questi due grandi, inesauribili e diversi misteri, non si accordavano nel figurare fianco a fianco se non per far muovere un sorriso di commiserazione su labbra pronte ad assaporare...» E Char finiva per chiedersi se «la tumul­ tuosa unità» («intrecciare le nostre energie») farà si che sorga «una nuova avventura terrestre»! Di fronte all’interrogativo fondamentale, Michaux propone un suo esorcismo personale, mediatore: «Lo si coglie sul fatto, il mutamento grondante degli umori. Di colpo, la gioia è qui, rivelata, prima che si sia sentita. Basta solo riconoscerla... Ma, che cos’è questo? Tristezza? Di chi? Perché? Per quali motivi bruscamente così numerosi a chiudere l’orizzonte?... Il più delle volte si è nell’esitazione da cui sarebbe un errore volere uscire troppo presto. A lei di sapere. Il turbamento troppo grande, sotto, che non può ancora rendere, a lei di fissarlo, alla musica sotto le dita. Essa sarà la prima informata... Stanco di immagini, gioco a far del fumo... Contro i rumori, il mio rumore... Resto solo, abbandona­ to dai miei, cosi poco miei adesso». Ho usato l’aggettivo «mediatore», ma medianico sarebbe stato più idoneo a caratterizzare questa attitudine attiva e pragmatica. Ecco! Il volto scintillante si è espresso, più o meno egoisticamente: quali congetture possiamo fare, noi, volto oscuro? Dobbiamo rinunciare e perderci di coraggio dinanzi alla comunicazione difficile? Siamo in grado, davvero, di cancellare questa preoccupazione dalla nostra atti­ vità? Nel linguaggio corrente, il termine «poetico» ha ingenerato una ter­ ribile confusione. Di riflesso, un’incontenibile sfiducia ha bandito le associazioni stereotipe, quali «poeta dei suoni», «musica poetica». È nostro compito superare un tale pregiudizio, eliminare il pittoresco (a cui, abusivamente, si è voluto restringere la «poesia»), partire alla ricer­ ca dell’idea. La musica si lega alla poesia a livelli molto diversi, più o meno intensi, di presenza: dalla semplice epigrafe alla fusione; dall’episodio aneddotico alla sostanza fondamentale. Il fatto che poesia e descrizione siano state spesso assimilate non deve necessariamente renderci sospetti titoli, epigrafi o citazioni! Il «programma», quantomeno fuorviato dalla banalità della sua precisione entro «corrispondenze» letterali il cui pote­ re resta addirittura evidente, distrae l’attenzione da una congiunzione più profonda e più vera, polarizzando l’interesse sull’esito o l’evidenza, di una valutazione «simbolica», su un complesso di immagini material­ mente tangibili. Sollecitando le comparazioni più basse e più assurde,

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questo tipo di rapporto ha nuociuto tanto alla poesia quanto alla musica, riducendole a una paccottiglia sgargiante e profusa: sorta di codice uni­ versale, accozzaglia di convenzioni degradate, che trovano largo impiego in una quantità di astuzie «funzionali»... II processo alla descrizione sarebbe una difesa in favore della musica pura, astratta, che non trova origine, e forma, se non nel suo stesso essere? Sarebbe una semplice controversia formale? A dire il vero, la distinzione: musica in sé, musica illustrativa, ci appare solo come una maschera, che nasconde la questione essenziale. Molte musiche «pure» possono ridursi a stereotipi illustrativi, senza che abbiano fatto ricorso al minimo riferimento esplicito. Vi sono certi modi di mostrarsi «eroico», «tenero», «capriccioso», «pastorale», che non hanno bisogno di alcun lasciapassare che ne riveli l’identità: un arsenale stilistico sperimentato, e copioso, viene in soccorso di un’immaginazione poetica convenzionale, nei suoi temi come nella retorica permanente a cui soggiace. In questo caso preciso, l’utilizzo di una forma pura equivale a sua volta a una citazione! (Non si consideri, per il momento, l’uso «drammatico» di questo tipo di citazione — nel qual caso può facilmente giustificarsi con una duplice intesa dei riferimenti... Ma è certamente il caso più comples­ so, estremamente sottile e delicato, del meccanismo poetico, che agisce direttamente su elementi semantici «precompressi»). In compenso, un titolo, un’epigrafe, alle volte molto imprecisi quanto all’oggetto («I suoni e i profumi vagano nell’aria della sera»), o eccessivamente inde­ terminati quanto al luogo (La terrazza delle udienze del chiaro di luna), sono stimoli, che la musica «realizza», offerti all’immaginazione del sin­ golo. Mentre nel primo caso un codice più che sicuro funziona automati­ camente e ci informa sul «contenuto» musicale, nel secondo, la sostanza propriamente musicale — tramite le sue virtù sonore dirette, e la sua elaborazione formale - rimanda al titolo, all’epigrafe, lo «spiega» in un modo eminentemente irrazionale. Che dire, appunto, del corale variato? Espressione di un testo sacro da cui il verbo è scomparso, il corale è direttamente legato alla propria origine dal ritmo sillabico e dal periodo; in quanto commento, esalta il senso implicito di ogni strofa: esempio-tipo di un esoterismo complesso. Vogliamo parlare dei «timbri» in base ai quali si sono scritte tante messe? Il loro senso proprio è stato deliberatamente falsato; ne sono state «tradite» le origini, per servire come materiale di base, in vista di una espressione diversa, integrandosi in una struttura estranea. Come si vede, i rapporti poesia-musica sono mutevoli; non si lasciano ridurre al solo intervento della parola. Dal rapporto diretto fino al com-

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mento più ampio, esistono tuttavia talune costanti che vogliamo cercare di definire. Constatiamo anzitutto che la musica, nelle sue manifestazioni più primitive, si accompagna il più delle volte alla parola, per una serie di ragioni alquanto divergenti, la meno importante delle quali non è il ruolo preponderante del fenomeno vocale. I canti sacri si propongono di lodare la divinità, o le divinità, di propiziarsele, di implorarle in circo­ stanze estreme, di ringraziarle per i servizi resi o i pericoli scongiurati. I canti profani si propongono un divertimento collettivo, o — come i canti di lavoro — accompagnano e alleviano la fatica quotidiana; essi sono dunque legati alle classi sociali nell’espressione diretta della loro esisten­ za, al realismo della loro vita corrente, quando non giungono a imitare letteralmente, per mezzo di onomatopee, i rumori del mestiere (come i canti dei rematori di piroga). L’intento «utilitario» impedisce una divi­ sione fra testo e canto; la musica strumentale, allora, non è che un'attesa della vocalità, necessaria per mantenere il rito nella sua continuità. Inizialmente, ogni poesia era destinata ad essere cantata: l’evoluzio­ ne delle forme poetiche non poteva essere separata dalle corrispondenti forme musicali. Non si dimentichi che i tragici greci scrivevano loro stessi la musica dei cori e dei melodrammi; più vicino a noi, un Machaut innova nei due campi, e il suo nome appartiene tanto alla storia letteraria quanto alla storia musicale. Ma l’unità di concezione non ha tardato a spezzarsi, in quanto ogni «specialità» richiedeva una padronanza e una conoscenza particolari al proprio campo di azione. Il virtuosismo stru­ mentale, in specie, esige autonomia, e punta alla ricerca delle proprie possibilità; se ancora commenta dei testi poetici messi in musica, ben presto finirà per liberarsi di questo legame ratificando cosi la separazione di fatto in cui viviamo tuttora. Su questo antagonismo fondamentale, è cresciuta una ricchissima letteratura; la polemica ha sollevato rumore, specialmente nel mondo drammatico: gli anatemi, in gran numero, non sono mancati da una parte e dall’altra. Dal punto di vista meramente estetico, o morale, la musica è stata spesso accusata di distrarre l’attenzione da una «verità» essenziale, sia essa di ordine religioso, o teatrale. Molto spesso la musica è stata considerata come un male necessario, senza il quale nessuna cerimonia, nessun rito potrebbe esistere, come un elemento impuro dell’azione o della contemplazione; da un punto di vista ortodosso, essa requisisce l’attenzione, e rappresenta un elemento antintellettuale, sen­ soriale, anzi sensuale, deliberatamente torbido. Non si contano più i filosofi che hanno espresso la propria condanna, i letterati che si sono mostrati diffidenti («si prega di non deporre musica sui miei versi»!), i

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drammaturghi che hanno voltato le spalle. E noi abbiamo ancora l’im­ pudenza di pensare a una sintesi? Per un musicista, il fascino della poesia è cosi forte che egli non può fare a meno, giunto a un certo punto del proprio sviluppo, di un testo attorno a cui la sua musica andrà a cristallizzarsi? Sin d’ora, il problema è posto in modo pericoloso in quan­ to s’intravvede la profanazione del testo-pretesto! Quale demone spinge inesorabilmente il compositore verso la «letteratura»? Quale forza lo costringe a farsi a sua volta letterato, in caso di necessità? È soltanto la nostalgia del paradiso perduto, di quell’antica unità, dietro la quale ci si consuma in vane ricerche? Detto in termini piu comuni, la voce, ove la si voglia utilizzare, costringe quasi subito all’articolazione; il solo vocalizzo stanca abbastan­ za presto, in quanto tutti lo sentono, sia pure inconsciamente, come un’utilizzazione molto sommaria, sicuramente incompleta, dell’apparato vocale che è capace di prodezze più raffinate. Questa reazione è, in certo qual modo, un segno di umano rispetto: articolare dei suoni che preser­ vino la «qualità propria dell’uomo»! Tuttavia, un uso anche coerente di fenomeni variati non porta necessariamente a un «linguaggio» con le sue imperiose esigenze semantiche. Questo spiega perché si assiste talvolta all’impiego di un linguaggio immaginario, coniato espressamente per le necessità di una causa personale, linguaggio vocato a far corpo con una sonorità strumentale, o anche destinato a creare dei rapporti propria­ mente orchestrali nel trattamento degli insiemi vocali. A seconda del proprio orientamento, l’uso di una poesia priva di significato semantico può muoversi fra tre tendenze: pittoresca, esoteri­ ca, puramente sonora. Nel pittoresco si classificano, evidentemente, le onomatopee imitati­ ve, descrittive, che rendono conto sia della vita animale, sia dell’espe­ rienza umana in ciò che essa ha di più rumoroso — la guerra, per fare un esempio - o di più quotidianamente, e meno pericolosamente sonoro, come i richiami degli antichi venditori: è nota la ricca fioritura di Batta­ glie, di Assedi, di Canti di uccelli, di Cacce, di Grida di Parigi, che invase la Canzone del xvi secolo. Agli antipodi di questa utilizzazione descritti­ va della parola, si situa il suo uso «esoterico»: o nel caso si ha un linguaggio sacro caduto in desuetudine, il cui senso diretto sfugge, ma le cui formule sonore, sorta di feticci, andranno diritto agli dèi che inten­ dono, esclusivamente, questo messaggio arcaico; oppure si ha di fronte un linguaggio il cui senso è volutamente oscurato perché sia incompren­ sibile alle orecchie dei non iniziati — deformazione del linguaggio corren­ te, stravolto dal suo significato abituale, o invenzione pura, sorta di crittografia gelosamente difesa. (Talvolta, la virtù drammatica aggiunge

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il pittoresco all’esoterismo: si vuole mostrare al teatro dei demoni e delle streghe, e si può essere sicuri di un linguaggio pseudo-segreto, la con­ venzione che regola in chiave i personaggi di natura misteriosa e ma­ lefica!) Infine, si presenta il caso di una struttura pura, volutamente priva di significato, apparente o nascosto, spoglio persino di simbolismo, che rifiuta il fine imitativo; il compositore vuole assicurarsi delle sonori­ tà ben determinate, per le quali un legame semantico rappresenterebbe uno svantaggio superfluo. La logica strettamente uditiva predomina su ogni altra considerazione; la voce diventa una specie di corpo sonoro capace di fenomeni letteralmente irrealizzabili mediante i soli corpi so­ nori strumentali - con cui può anche «entrare in concorrenza» imitando­ li e deformandoli. Quali che siano i fini che si vogliono raggiungere, questo modo di utilizzare la parola rifiuta il significato semantico diretto: o crea il pro­ prio sistema di riferimenti, oppure si integra a una logica organizzativa che le è estranea. Giustificato eticamente o esteticamente, un tale uso della parola-suono elimina uno dei principali punti di frizione, costante tra poesia e musica, quello su cui si è discusso all’infinito, la famosa preminenza dell’una o l’altra delle due entità: il senso esplicito di un testo viene a trovarsi offuscato o esaltato dai suoni che gli si fanno corrispondere? La poetica da cui discendono i rapporti che si sono appe­ na descritti, a parte ogni preminenza, è perfettamente adeguata allo scopo: anzi, senza tale poetica, l’esplorazione delle zone oscure della coscienza sarebbe inconcepibile. La musica svolge perfettamente il pro­ prio ruolo alleandosi a modi di espressione non direttamente significan­ ti, o appropriandosene; dà una forza insospettata a quell’«al di là del linguaggio», nel tempo stesso in cui se ne arricchisce sul piano che la concerne strettamente, quello della sonorità. La musica spesso, direi quasi sempre, ha aspirato a un ruolo «magico»: nel caso presente, svolge questo ruolo a viso aperto! Il potere di attrazione che essa esercita sull’inconscio, noi lo vediamo riconosciuto, utilizzato come tale; ecco perché, agli occhi del musicista, un «linguaggio» che non frapporrà ostacoli alla comunicazione sonora avrà la sua segreta preferenza. Il solo pericolo da segnalare sarebbe un esotismo, una migrazione auricolari, che mascherano troppo semplicemente la nostalgia di spiriti sazi di com­ prensione: lingue estranee surrogatorie si sostituiranno - per immagina­ zione, per economia o fatica? - alla barriera «invalicabile» di un dialetto sconosciuto. Una reazione di difesa, probabilmente, a fronte di una so­ cietà di cui, con questo mezzo magico, si evita il contatto aborrito. Questa attitudine, che non può che riguardarci sempre meno, per le sue sole virtù di spaesamento tocca il culto del folclore. La sua carica emo­

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zionale si è ampiamente svuotata, la sua penetrazione fortemente smus­ sata. Ancora una rivolta, o si tratta piuttosto di una fuga? Se il non-linguaggio e il metalinguaggio svolgono un ruolo importante nella Mischung musica-voce, il testo scritto, significante, ha sempre opposto, in linea di principio, un antagonismo di fondo. Nella musica esiste una lunga tradizione «letteraria» a livelli più o meno elevati. Mentre i metalinguaggi non hanno mai sollevato obiezioni rilevanti (il «segreto» eser­ cita sugli animi un potere.magico più forte di quanto non si credereb­ be?), il trattamento dei testi letterari ha suscitato, in ogni tempo, vivaci controversie. Anzitutto, sono state poste due domande fondamentali: La musica è in grado di «rendere» il senso di una poesia, di un testo drammatico? È possibile, è necessario, grazie a un trattamento prosodi­ co appropriato, tutelare ad ogni costo la comprensione del testo? Una domanda accessoria viene a trovarsi direttamente collegata alla prece­ dente: si deve cantare nella lingua originale, oppure si è liberi di servirsi di una traduzione? Sulla conclamata preminenza della musica sul testo, o del testo sulla musica, si è discusso a non finire per secoli, non senza evitare il sofisma: sia a proposito della chiesa, del teatro o del concerto, i teorici si sono affrontati senza tregua; e le riforme e le controriforme che incessantemente si sono succedute si controbilanciano ormai in parità pressoché perfetta. Di fatto, difficilmente si può fare una graduatoria e dare ragione o torto in assoluto agli uni piuttosto che agli altri. A secon­ da che si sia mirato a una certa suggestione diretta, o si sia fatto ricorso alle facoltà razionali, si è difeso il punto di vista propriamente musicale, o ci si è schierati per la causa letteraria. Se si considera la musica come un semplice mezzo di trasmissione (per i sentimenti e i dogmi), male neces­ sario e circoscritto, si ritrovano fianco a fianco Giovanni XXII e JeanJacques Rousseau, nemici spietati della polifonia; se si guarda alla ma­ teria letteraria come a una carpenteria inevitabile in un’organizzazione drammatica o lirica, si trovano molti compositori che non hanno manca­ to di trapiantare da un’opera all’altra, da una cantata a un oratorio, dei frammenti piuttosto importanti, anzi dei pezzi interi, e questo senza il minimo senso di colpa. Quanto al principio delle traduzioni, la contro­ versia, anche se è più recente, continua a disseminare di imboscate e trabocchetti le rappresentazioni teatrali. Ma torniamo alla prima domanda: può la musica «rendere» il senso, letterale, di una poesia? Conosciamo bene il gioco beffardo che consiste nel rovesciare radicalmente il lamento di Orfeo: Ho trovato la mia Euridice Niente uguaglia la mia fortuna\

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Da un punto di vista sillabico, è innegabile, la «quantità» è rispet­ tata; quanto alla fonetica, la chiusa del distico utilizza per di più un antonimo della stessa radice: la sonorità generale è rispettata. Se ne conclude che con un minimo di precauzioni, nel rispetto del numero e della qualità dei fonemi, si può far cantare qualsiasi testo su qualsiasi musica; essendo quest’ultima, per eccellenza, non significante direttamente , non può quindi rendere conto di alcun «significato», o soppor­ tarli tutti indifferentemente. Si cita poi l’esempio, ancora più scandaloso, di canzoni profane, talvolta molto salaci, che hanno impassibilmente fatto da substrato alle parole liturgiche, una prassi corrente fino al xvi secolo. (I salmi alla Corte di Francia, non si cantavano in altro modo, sotto Francesco I ed Enrico II!) Di fatto, la musica non può aspirare all’esatta semantica del linguag­ gio parlato; essa possiede la propria, fondata su strutture originali e soggetta a leggi particolari: il senso liberato non segue dunque lo stesso corso, tutt’al più può essere parallelo. Boris de Schloezer ha dato una spiegazione convincente di questo stato di fatto: in una Messa posso benissimo sostituire, egli afferma in sostanza, «Credo» con «Non cre­ do»: la musica non diverrà per questo assurda; non vi è motivo di stupirsene e ancor meno di scandalizzarsi. La semantica musicale non è in grado di rendere conto della negazione o dell’affermazione in quanto tali; in compenso, essa trasmette la determinazione che ci spinge verso l’una o l’altra professione di fede; potrà anche esplicitare la qualità di questa determinazione (ora intenzionale, bellicosa, ora placida, serena), che il linguaggio semplicemente scritto è incapace di rendere direttamente mediante la sola trascrizione — altrimenti occorrerebbe precisare l’intonazione parlata, il che ci riporta alle frontiere della musica! La dialettica musica-lingua serve a comprendere perché possono esserci mol­ ti modi di scrivere «Credo», nozione astratta e dogmatica; mentre taluni passaggi più chiaramente descrittivi come «Crucifixus» o «Et resurrexit» suscitano immancabilmente effetti analoghi, poiché le immagini suscitate dal testo indicano sofferenza o gioia, che richiameranno, senza equivoco, una categoria ben determinata di segni musicali. Vediamo, di conseguenza, che ciò che la musica perde in precisione diretta, lo riac­ quista largamente mediante la finezza dell’analisi. Resta tuttavia da rico­ noscere che alcune convenzioni sonore destinate a tradurre «in chiaro» la gioia, il dolore, per esempio, sfumano, anzi decadono a mano a mano che mutano e si trasformano i caratteri, le proprietà stilistiche; la «sim­ bolica» si evolve come a sua volta il linguaggio, e, se non se ne ha la chiave, non sarà possibile intenderlo. (Gli effetti «realisti», deviazione, e talvolta degradazione del simbolo, sono talmente dipendenti dalla sti­

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listica che li troviamo annotati in maniera piuttosto diversa nel corso dei secoli, anche se i modelli, evidentemente, non sono variati - i rumori della natura, tra l’altro!) Cosi l’evoluzione nel «significato» della musica mostra a qual punto leggi linguistiche analoghe governano in pari misu­ ra suoni e parole! Poniamoci ora la seconda domanda fondamentale: è possibile salva­ guardare il significato del testo? L’interrogativo tocca la sostanza stessa della musica e la sua funzione. L’importanza della comprensione diretta varia, in effetti, secondo il grado di partecipazione della musica alla forma generale. Si tratta di azione drammatica? Occorre assolutamente che si comprenda parola per parola il tenore letterario dell’opera: altri­ menti non possediamo più l’informazione sufficiente per interessarci allo svolgimento dell’azione, soprattutto se essa si rivela un po’ complessa. (Le notizie contenute nei programmi sono sussidi quanto mai opportuni, ma la loro necessità non dovrebbe, di norma, farsi sentire!...) In realtà, l’intreccio di certi libretti non richiede un’intelligenza cosi acuta! Date le convenzioni di un genere particolare, sappiamo approssimativamente ciò che deve accadere agli eroi principali; perciò il significato letterale non è più strettamente utile: appena innescata l’intelligenza della situazione, le parole svolgono un ruolo privo di sorprese, senza sostanziali elementi informativi. Ma supponendo il caso ideale di un’opera vista per la prima volta, senza la possibilità di ricorrere a.una spiegazione «tangenziale», i rapporti diretti del fenomeno teatrale con l’intelligenza dell’ascoltatore si impongono come una condizione fondamentale; di qui i molteplici sforzi profusi per trovare la soluzione più adeguata, più giustamente adatta. Dallo stile rappresentativo fino a Pelléas e Wozzeck, passando per opere parateatrali come il Pierrot lunaire, si misura l’ampiezza e la diversità delle soluzioni proposte. Di contro, quando si tratta di una pausa, di uno stadio drammatico, che esplicita in qualche modo i senti­ menti dei personaggi o dei gruppi a un dato momento dell’azione, e fa il punto su una situazione determinata, si ritrova a ragion veduta la seman­ tica parallela di cui si è parlato poc’anzi: una volta acquisita l’informa­ zione drammatica, in un momento preciso, ci si riserva il diritto del commento statico, ove la parola perde la sua importanza fondamentale di messaggio. Ho parlato del «teatro», e dell’«azione drammatica»; ma si badi, non limito il fatto teatrale a una rappresentazione effettiva, ma vi com­ prendo anche un tipo di rappresentazione immaginaria, quali oratori e passioni ce ne forniscono il modello; in essi una descrizione è interrotta da una riflessione individuale o da uno stato d'animo collettivo. Tutte le opere musicali di grande respiro costruite a partire da un dato letterario

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funzionano sull’alternanza di azione e riflessione (movimento e immobi­ lità), di individuale e collettivo: essa è, d’altra parte, la più sicura costan­ te - una delle più sicure, in ogni caso — dei riti umani, quale ne sia Torigine, a qualsiasi civiltà essi appartengano, popolari o riservati a un’aristocrazia colta, divertimenti profani o cerimonie religiose. («La Musica si annuncia l’ultimo e plenario culto umano», ha scritto Mallar­ mé...) Abbiamo descritto il processo d’integrazione fra testo e musica allo scopo di fissare le diverse tecniche vocali e i molteplici tipi formali che ne derivano. In caso di azione, di movimento, l’individualità, o, perlo­ meno, il gioco delle individualità, deve risultare in primo piano\ cosi la «messa in musica» dovrà essere, in generale, sillabica - a ogni nota una parola, o più parole su una stessa nota; inoltre, più ci si avvicinerà all’emissione parlata, più efficace sarà, in tale congiuntura, il nesso paro­ la-suono. Del resto, l’attenzione si concentrerà sulle voci, in quanto lo «sfondo» sonoro perde relativamente di importanza. I recitativi, o rac­ conti, svolgono perfettamente questa funzione; consentono una conti­ nuità musicale, pur facendosi da parte davanti alla necessità dell’infor­ mazione drammatica. Nel corso della storia, sono stati rinnovati sistemi divenuti desueti, convenzioni perenti, procedimenti superati, legati a retoriche cadute in disuso in seguito all’evoluzione del linguaggio; ma il principio fondamentale resta immutato. Secondo le epoche e i luoghi, si è fatto ricorso a convenzioni più o meno realiste, più o meno stilizzate: la soluzione proposta dal teatro dei No differisce da quella che ci offre Mozart; i recitativi delle Passioni dalla salmodia gregoriana - gli esempi abbondano! Ma, quale che sia il modo di trascrizione, ritroviamo l’arte vocale che la collega molto strettamente al parlato propriamente detto. La convenzione maschera e unifica le eventuali disparità; e lo Sprechgesang non è che l’ultima di una lunga serie di trasformazioni che si esten­ dono su diverse e varie civiltà. All’estremo opposto, si trova sia il canto melismatico, sia la polifonia - puramente vocale, o che amalgama ancora la voce all’insieme stru­ mentale — che per le loro proprietà oscurano, attraverso la quantità lineare o lo spessore contrappuntistico, la comprensione del testo, ma pimentano il suo senso generale di nuove magie. Il canto melismatico omofono provoca la distensione del tempo verbale, opera una sorta di squartamento sulle sillabe della parola interrompendone la continuità e distruggendo la logica di concatenazione. (Non si dimentichi che i tropi sono nati dalla difficoltà causata alla memoria da una distensione estrema delle parole originali!) Allorché un vocalizzo si distende su una sillaba per un momento più lungo, l’intelligenza perde il filo conduttore, e il

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«messaggio» le sfugge; le vocali si trovano, nella maggior parte degli istanti, dissociate dalle consonanti, il che annulla il potere di discrimina­ zione tra le possibilità di mistione accumulate. Nel Medioevo, gli eccessi di questo canto fiorito avevano attirato i fulmini della gerarchia romana, mentre, del resto, un uso molto spinto della polifonia, nel senso più lato del termine, si estendeva allo stesso linguaggio. Certi mottetti utilizza­ vano la sovrapposizione di tre testi differenti, in più lingue (latino, dialetti popolari — lingua sacra, lingua profana), costituendo proprio il più sicuro ostacolo a una comprensione immediata. Per di più, il «cantus firmus» si dispiegava su una tenuta cosi lunga che la fisionomia delle parole veniva a esserne smantellata... Anche attenendosi a un testo uni­ co, la polifonia contrappuntistica, con le sue «entrate» consecutive, dà vita a sovrapposizioni, a incroci di prosodie, la cui semplice audizione resta problematica da interpretare. Soltanto la polifonia omofona (can­ zone, corale), mediante la stretta osservanza della coincidenza sillabica, è in grado di far comprendere. Le fluttuazioni delle forme musicali utilizzando un testo mostrano senza ombra di dubbio le variazioni stesse della scrittura: monodia ac­ compagnata o no, polifonia; scrittura sillabica, melismatica. Il lied, la melodia, ad esempio, cosi come ha avuto corso nel xix secolo, fino all’ini­ zio del xx, è tipicamente una «lettura in musica»; il «significato» del poema è salvaguardato per varie ragioni: il tempo del poema parlato si identifica, grosso modo, con quello del poema cantato; la linea vocale, contenuta in un ambito ristretto, bandisce il virtuosismo; la prosodia si sforza di rendere il testo comprensibile, avvicinandosi al massimo del­ l’articolazione e dell’accentuazione parlate; l’accompagnamento, da cui naturalmente la «replica» non è esclusa, il più delle volte ha l’aria di «sottolineare»; la forma a sua volta, rigorosamente strofica, dapprima, si è ammorbidita al fine di seguire il poema nei meandri del suo significa­ to, e dargli, ad ogni istante, un contesto appropriato più o meno descrit­ tivo. Tutto si concentra dunque sul poema, da «incastonare» nella musi­ ca — questa identificazione non ha del resto impedito delle disparità di valori: bellissima musica innestata su poemi mediocri, e viceversa! Non parlo, per il momento, dei valori rispettivi nella qualità, ma soltanto della tecnica di amalgamare. Se volessimo spingerci fino al fondo del nostro discorso, potremmo studiare come, in che modo preciso, le forme musico-letterarie sono state legate alla vita sociale, e perché lo sono state in modo ancora più stretto di tutte le forme della musica pura. Nessuna cerimonia potrebbe conce­ pirsi senza una festa sonora con partecipazione vocale; nessuna vita di società si è lasciata sfuggire l’occasione di celebrarsi, o di descriversi, con

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l’ausilio della letteratura — precisa nei suoi riferimenti — coniugata alla musica — che si stacca dal quotidiano: corte, salotto, concerto, radio, disco, gli obiettivi si spostano, ma l’idea di fondo rimane fedele a se stessa. Resta alla nostra epoca lo spinoso problema del testo originale o della traduzione, che non si era mai posto sin qui in modo cosi acuto, ma ha fatto presto a passare per un guastafeste spinto da un’ondata di «puri­ smo». Esso serve da intralcio ad ogni discussione sulla comprensibilità del testo in quanto è un argomento ideale. I valori fonetici del linguag­ gio originale, dicono gli uni, sono più importanti del senso letterale, di cui basta che la musica disegni il carattere generale. No, replicano gli altri, noi vogliamo comprendere all’istante per potere cogliere più stret­ tamente il rapporto del testo con la musica. (Le sincronizzazioni di film hanno fatto spargere non meno inchiostro, di ugual colore...) Per via degli scambi internazionali, si è potuto assistere a rappresentazioni di un’opera in due, anzi in tre lingue — contropartita arrischiata, e rischiosa, dei mottetti medievali -, spettacolo di Babele che finisce per confonde­ re i sostenitori più accesi dei due metodi: una dimostrazione per assur­ do, se mai ve n’è una! Senza dubbio, le traduzioni sfigurano l’originale quale traduzione non lo fa, ma chi potrebbe fare assolutamente a meno di traduzioni? Tuttavia un tale trattamento non è nella stessa misura pregiudizievole. Abbiamo visto i diversi livelli della comprensibilità ne­ cessari al passaggio dall’immobilità all’azione, dal commento all’enun­ ciato; i danni o i vantaggi della traduzione sono funzione di questa curva. Quando la musica non fa che trasmettere un messaggio verbale, sorta di onda portante, non si capisce, a prima vista, perché la musica, mediando certe disposizioni di primaria necessità, venga a soffrire per uno spostamento del linguaggio; tuttavia, l’accentuazione, la costruzio­ ne grammaticale (donde la dizione) essendo eminentemente caratteristi­ che del genio di una lingua, l’«onda portante» non corrisponderà più, nella maggior parte dei casi, al messaggio che essa ha come funzione di trasmettere, e ne darà una trasmissione deformata con danno della paro­ la più che del suono. Per contro, se la musica si fa commento, se la comprensione diretta, quindi, è meno necessaria, la linea vocale è co­ struita in funzione delle sonorità verbali, dei rapporti dell’emissione delle sillabe con la voce cantata, al massimo delle sue possibilità «canta­ bili»: la traduzione è un ostacolo che non ha remissione; tuttavia, non essendo più fondamentale la comprensione del testo, si può cantare in qualsiasi lingua, purché le sonorità siano scelte in funzione di equivalen­ ze strettamente delimitate; in ogni caso, il danno investirà più il suono che la parola. Gli argomenti si equivalgono, e si corrispondono in un

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perpetuo gioco di bilancia; siccome non è possibile — a meno di congiun­ zioni azzardate sui piatti internazionali — adottare una soluzione inter­ media, che comporti ora la traduzione, ora l’originale, secondo la qualità delle sequenze, ci si attiene all’unicità, anche se la notizia contenuta nel programma reca i chiarimenti desiderati! Se si affronta il problema all’o­ rigine, si può mutare il metodo di composizione, tanto nel testo come nella musica. Non è raro, specie per le opere drammatiche, in cui s’im­ pone l’obbligo di «seguire», veder scrivere all’istante due versioni diffe­ renti — ma la difficoltà è solo rimossa appena di un grado! Si può anche immaginare una «collisione» tra diversi linguaggi, che resterebbe, fran­ camente, intraducibile, non avendo in tal caso la traduzione più alcun senso, la minima ragion d’essere. Anche qui, ciò significa spostare la difficoltà appena di un grado, in quanto la comprensione varia d’angolatura secondo il luogo della rappresentazione. Il problema, veramente insolubile, della traduzione, mostra per as­ surdo la forza della dialettica: senso-sonorità; ed io l’ho evocato non tanto per se stesso, quanto per considerare sotto un angolo insolito e indiretto, questa dialettica. Del resto, ascoltare un’opera che non si co­ nosce assolutamente, in una lingua di cui non si ha alcuna nozione, tocca direttamente il fenomeno dei linguaggi «esoterici», sia che essi siano inventati di sana pianta, o che siano lingue assolutamente morte, il cui senso sfugge anche a coloro che se ne servono, ridotte allo stato di formule fonetiche magiche. Non si creda a un’esperienza puramente ipotetica di questo stato di fatto: chiunque ha assistito a una rappresen­ tazione teatrale cinese o giapponese l’avrà vissuta in tutta la sua ampiez­ za; infatti ci sfuggono il senso, lo stile, le convenzioni, e noi perdiamo, di conseguenza, le nostre facoltà di analisi e di giudizio, essendo ridotti a contemplare, ad assorbire senza alcun ricorso razionale. Cosi, i problemi concordano in qualche punto delle questioni che sollevano; e, nonostante la complessità dei rapporti tra suono e parola, tra linguaggio musicale e linguaggio parlato o scritto, nonostante l’oppo­ sizione delle semantiche, la differenza di meccanismo e di concatenazione logica nella sintassi, nonostante processi morfologici opposti, i composi­ tori, imperterriti, tendono con ogni sforzo alla sintesi! Trovano anche dei collaboratori, scrittori o poeti senza alcun ritegno, i quali di buon grado partecipano all’opera comune — non parlo dei poeti defunti, la cui cattiva volontà non è più da temere! Certo, non mancano opposizioni e proteste! Ricordiamo il «piccolo brutto rumore» di cui un poeta lamentava che accompagnasse i suoi versi. Citiamo un brano di lettera, scritto da un Claudel ventiseienne: «La vicinanza di questa pazza — è la musica che egli tratta cosi — che non

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sa quel che dice è stata per tanti scrittori d’oggi cosi perniciosa che fa piacere vedere qualcuno, - si tratta di Mallarmé... — in nome della parola articolata, fissarne i limiti con autorità. Se la Musica e la Poesia sono in effetto identiche nel loro principio, che è lo stesso bisogno di un rumore interiore da proferire, e nel loro fine, che è la rappresentazione di uno stato di felicità fittizio, il Poeta afferma e spiega, là dove l’altro va, come qualcuno che cerca, gridando: l’uno gioisce e l’altro possiede, essendo la sua prerogativa quella di dare a tutte le cose un nome». Claudel conclude: «l’intelligenza... ha orecchie non meno intelligenti di quelle che si ergono d’ambo i lati della nostra testa». Resta da provare che queste due paia di orecchie possono essere ugualmente soddisfatte dalla congiunzione instabile e fluida di due ele­ menti fortemente autoritari, pronti a salvaguardare la rispettiva indi­ pendenza con una solerzia preoccupata e meticolosa.

Conviene fare una preliminare differenza tra il testo già scritto, scelto dal compositore a stampa avvenuta, e il testo inventato appositamente in funzione della sua utilizzazione? Non crediamo che esista una differenza di natura tra i due casi. Che si modifichi un certo poema — che se ne scelgano alcuni brani -, o che si chieda a un autore di apportare alcune modifiche al suo libretto, a esempio, l’intenzione del musicista resta identica, in quanto, non coincidendo la sua iniziativa con quella dello scrittore (anche se le due entità fossero riunite in una sola e stessa persona), egli si sente costretto a una rettifica di percorso. La passività o l’attività dello scrittore possono influire sulla qualità, sul valore intrin­ seco delle correzioni, ma non ne modificano in alcun modo la necessità. Perché allora un musicista si fissa su questo o quel testo, in virtù di quali bisogni profondi, di quali criteri? È molto difficile voler dare una risposta, circoscritta, a una domanda cosi vasta, dato che gli innumerevo­ li casi particolari vengono subito a smentire ogni tentativo di afferma­ zione generale. L’incontro con un testo è fortuito, cosi come può essere premeditato. Vi può essere emozione violenta, diretta, immediata, o esplosione profonda, sotterranea, che può richiedere tempo prima di prenderne chiara coscienza. Capita che il compositore, desideroso della vocalità, parta alla ricerca di un testo che la sostenga; ma accade anche che l’incontro con un testo susciti decisamente la vocalità. Vi saranno casi in cui la ricerca formale si trova ad aver bisogno di un argomento per esplicarsi liberamente, assumendolo come supporto: arricchimento di una logica costruttiva per il tramite di un’altra; vi saranno altri casi in cui l’argomento urta con la forma inizialmente prevista, e la costringe a piegarsi, imprimendole cosi una direzione, un senso nuovo imprevisti.

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Personalmente, credo molto nella reciprocità delle influenze nel campo della letteratura e della musica, non soltanto attraverso la collaborazione effettiva, diretta, ma anche attraverso la trasmutazione di modi di pensa­ re, che si erano creduti specifici all’uno o all’altro di questi mezzi espres­ sivi. È questa una chimera, strettamente riservata alla mia utopia indivi­ duale? (Sarà, ma è una chimera a me cara...) La trasfusione da poesia a musica si opera a vari livelli del linguaggio e del significato. La descrizione, l’espressione, naturalmente, si offrono per prime alla mente: corrispondenza più diffusa, più vaga anche, essa rappresenta lo stadio elementare della percezione comune, che non con­ sidera ancora i mezzi propriamente detti di un contatto approfondito. Essa è lo shock iniziale, che può del resto non riuscire, frapponendosi a un dato momento certi ostacoli di realizzazione insuperabili, refrattari alla comunicazione. Una volta superata questa prima fase, si accede alla presa diretta della musica sul poema, nella forma generale, nella sintassi, insomma nel ritmo e nella sonorità delle stesse parole. Dalla retorica alla morfologia, una continua progressione assicura il passaggio impeccabile da un linguaggio all’altro. Volendo riassumere, si produce comunicazio­ ne per il tramite della struttura, sotto qualsiasi aspetto la si voglia consi­ derare: estetico o grammaticale. A partire dalla nozione di struttura è possibile ampliare i dati corren­ ti per quanto concerne il rapporto poesia-musica, da cui, a mio avviso, scaturisce unicamente la profonda sorgente di ogni incontro privilegia­ to e durevole. Come ammettere l’importanza assoluta che attribuisco a una tale astrazione? Vedremo che essa consente di rivelare il poema, e pur mantenendo le distanze, ne preserva l’originaria autonomia. Ma co­ me? Agendo su criteri comuni, quali il tempo, il numero ritmico e la tec­ nica vocale - cioè la prosodia, nella sua accezione più larga - e la forma, vale a dire su delle strutture di reciprocità concernenti la ripartizione del­ la durata, la regolazione fonetica, la distribuzione gerarchica delle diver­ se componenti formali. Libere cosi da ogni soggezione superficiale e di norma superflua, ma sottoposte a una coesione organica profonda, ina­ lienabile, poesia e musica possono, secondo l’espressione di René Char, intrecciare le proprie linfe. Il tempo del poema letto è un dato preciso, unico; ma in termini musicali vi è il tempo del poema «agito», e quello del poema «riflesso». Tendere unicamente alla coincidenza diretta significa privarsi di una dialettica ricca di possibilità estese su un registro vastissimo. Inoltre, il poema agito viene assunto direttamente dalla musica, ove la sua presen­ za è indispensabile alla coerenza della forma che ne risulta: la nozione di tempo varia poco dalla lettura alla musica. Per contro, il poema riflesso

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può subire una sorta di squartamento, di distorsione in rapporto al suo aspetto originale, anzi può allontanarsi dalla musica in cui si protende mediante esplicazioni congiunte. Questa concezione del tempo influisce su due caratteristiche principali: la tecnica vocale e il modo di trattare (rispettare o trasformare) una data prosodia; la struttura globale e la qualità intrinseca della scrittura, più particolarmente i rapporti della voce con lo strumento - cioè la presenza reale o virtuale della mediazio­ ne tra il poema e la musica costituita dall’apparato vocale utilizzato. Il tempo mobile della musica derivato dal tempo fisso, dato, del poema si rivela un parametro fondamentale nei rapporti cosi considerati. Dunque, abbiamo chiamato in causa anzitutto la tecnica vocale, e in effetto, a seconda che ci si allontana più o meno dalla trascrizione diretta, si passa per le diverse categorie che portano dal parlato al cantato, ossia da un’assenza di convenzione alla convenzione assoluta. Proviamo ora a descriverne le varie tappe. Il parlato puro è fondamentalmente eteroge­ neo rispetto alle strutture musicali — intendo tutte le forme del parlato, dal sussurro al grido, eterogeneo nell’organizzazione e nella qualità delle strutture sonore come nelle leggi grammaticali. Nel suono musicale, gli intervalli, ai diversi gradi di pregnanza, sono gerarchizzati mentre non lo sono nella parola; i valori ritmici sono istintivi nella declamazione parla­ ta, normalizzati nel gioco strumentale, anche in caso di libertà «improv­ visata» - il tempo della parola, per il solo fatto dell’emissione è estraneo al tempo del suono, e tutt’al più i due fenomeni sono in grado di imitarsi reciprocamente. Corpi estranei in presenza l’uno dell’altro, la cui mesco­ lanza è soltanto fisica, si percepiscono su piani differenti. La declamazio­ ne ritmata, dovuta a una distribuzione normalizzata in ambo i casi, unisce le entità mediante una superficie comune. Lo Sprechgesang ag­ giunge a tutto questo V approccio (si, proprio Vapproccio) degli intervalli entro un ambito ristretto; il canto, integrando intervalli esatti su una tessitura più estesa, guida alla coincidenza della voce e dello strumento, raggiunta, infine, dalla soppressione della parola o dalla distensione del­ l’articolazione, in quanto la voce estrae dalle parole la loro sonorità — in termini analitici - più che non ne porti il senso. Si constata che il significato, fondamentale all’inizio della nostra scala, fa progressivamen­ te posto al valore puramente fonetico a cui concorre il ritmo non meno che l’intervallo: dato che il parlato è inevitabilmente sillabico e non definito quanto agli intervalli, e il vocalizzo necessariamente a-sillabico e interamente definito quanto alla gerarchia degli intervalli. Ne consegue che la prosodia va dalla totale servitù alla completa indipendenza dal te­ sto: da un’elocuzione «naturale» a una declamazione «convenzionale». L’intelligibilità del testo dipende evidentemente da questi diversi trat-

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tamenti; come ho spiegato in precedenza, l’« azione», al suo punto più realista, implica un massimo di chiarezza nella comprensione; la rifles­ sione, al suo livello più «ideale», comporta l’offuscamento del messaggio diretto a vantaggio delle sue risonanze irrazionali. Ritroviamo una simile gradazione nel modo con cui la voce «aderi­ sce» al blocco strumentale o vi si integra. La linea vocale (in genere, unica o plurima) sarà accompagnata dallo strumento, conservando il primato nell’organizzazione della struttura globale, o sarà (farà) parte, tra altre componenti, di questa struttura. Ciò comporta una gamma di modi di scrittura in possesso di proprietà variabili, con funzioni diverse, e soggette a leggi particolari. Abbiamo già segnalato la progressione che parte dalla monodia per sfociare nella polifonia contrappuntistica, la quale si applica tanto a degli insiemi vocali omogenei quanto alle combi­ nazioni, a tutti i gradi, dell’elemento vocale con l’apparato strumentale, e non torneremo sull’argomento. Aggiungiamo soltanto che il gioco tra la forma, il genere, della scrittura propriamente detta e l’utilizzo dei diversi aspetti della tecnica vocale, ci coinvolge dalla presenza più reale del poema sino alla sua presenza latente, virtuale — scomparso in quanto tale, il poema continua però a regolare i fenomeni puramente sonori tramite i rimandi alla propria struttura. Alla struttura e alla forma desideravo finalmente arrivare: la struttu­ ra del poema, i suoi rapporti formali, costituiscono il materiale di base della struttura musicale equivalente, sia essa semplice supporto ridotto al minimo della sua autonomia, sia che divenga ampio commento che si modella sull’architettura (non oso dire sulle macerie...) del verbo, cosi come la vita vegetale che affonda le proprie radici nella pietra per fran­ tumarla. Il poema, centro della musica, potrà essere, come la pietrificazione di un oggetto, a un tempo iNconoscibile e Riconoscibile. Centro e assenza (incrocio deH’insieme); e secondo Mallarmé, volto alterno dell’idea, «ora protesa verso l’oscuro, ora scintillante, con ogni certezza»!

16. Conversazione su «Polyphonic X»} le «Structures pour deux pianos» e «Poésie pour pouvoir» .* Dominique jameux: Dopo la prima e unica esecuzione, nel 1951 credo, a Baden-Baden, di Polyphonie X, Lei si è dichiarato insoddisfat­ * Conversazione con Dominique Jameux apparsa sotto il titolo Piene Boulez: sur «Polyphonie X» et «Poésie pour pouvoir», in «Musique en jeu», n. 16, novembre 1974, pp. 33-35.

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to dell’opera giudicandola troppo dominata dalla sola problematica teo­ rica. Era l’epoca dell’articolo Éventuellement e subito dopo del pri­ mo libro di Structures, per piano. Eccezionalmente, ascoltiamo stasera Polyphonic X in una registrazione radiofonica. Lei non ha voluto pub­ blicare l’opera, non ha voluto che venisse ridata, e ciò nonostante si doveva pure riprenderla un giorno. In che rapporto Lei è oggi con la sua opera? Pierre boulez: In effetti l’ho rivista, l’ho guardata più che rivi­ sta, e ho constatato la giustezza della mia antica opinione, vale a dire che la problematica era corretta ma risolta in modo eccessivamente somma­ rio: i principi, le idee andavano nella direzione giusta, ma la valorizza­ zione delle idee era troppo schematica per essere efficace. Le faccio un esempio: tutta l’organizzazione ritmica, che è abbastanza complessa, non è differenziata da aspetti «motivistici» differenti, quantunque sia diffici­ le — e anche praticamente impossibile — per un profano, notare la diffe­ renza tra questi organismi ritmici. È in questo senso appunto che ho lavorato dopo, mi riferisco alle Structures e in particolare al Marteau, per dare una consistenza immediata ed esterna a idee che semplicemen­ te restavano ignorate o «inaudite» a causa di un trattamento incom­ pleto. d.j. È possibile, senza partitura, dire il principio di organizzazio­ ne dell’opera, ossia, come precisava, credo, Éventuellement, che la sua è un’opera di serializzazione totale. Come si articola la serializzazione col procedimento peraltro messo in atto, cioè con la nozione di incrocio! p.b. Dovrei esaminare l’opera più in particolare per poterle ri­ spondere. Posso dirle soltanto che la successione dell’opera è una valo­ rizzazione completa di tutte le differenti possibilità di evoluzione non solo delle serie ma delle cellule ritmiche. Del resto, è una nozione questa su cui sono tornato in seguito. In Polyphonie, ho utilizzato delle cellule ritmiche e non soltanto delle durate perché in effetto mi sembrava più conveniente e più musicale utilizzare dei gruppi di tempo e non soltanto delle unità di tempo. Il principio è semplicemente che le organizzazioni, via via che l’opera avanza, mutano di senso, e cioè che le organizzazio­ ni che hanno regolato questo o quell’aspetto del suono, regolano altri aspetti del suono secondo lo svolgimento, e alla fine giungono a rove­ sciarsi completamente. Di qui quella specie di X, insomma, non soltanto della forma ma delle funzioni. Era la prima volta che mi veniva un’idea del genere. Del resto, per dirle tutto, la prima, la primissima delle Struc­ tures, è stata fatta prima. È stata fatta prima di Polyphonie, che data all’estate del 1951, e proprio la prima Structure l’ho scritta all’inizio della primavera del 1951. Vi è dunque un ordine cronologico, ma che

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non è esattamente quello giusto, insomma ho cominciato le Structures prima di cominciare Polyphonie, e ho terminato le Structures dopo. Dj. È vero che dal punto di vista timbrico Polyphonic riprende gli stessi principi, da una parte di serializzazione totale, e dall’altra di incrocio (di colori)? p.b. Si, perché i gruppi cambiano. Sulla partitura si ha un certo numero di gruppi (gli strumenti sono raggruppati per affinità, e devono esserci sette gruppi) che sono determinati per analogia. Per esempio, si hanno due viole e un contrabbasso, oppure un clarino e una tromba... non ricordo più esattamente le combinazioni. Ma progressivamente, ne­ gli svolgimenti, le combinazioni cambiano: a esempio, uno strumento del gruppo 7 sarà legato al gruppo 6; per contro uno strumento del gruppo 5 sarà legato al gruppo 4, ecc. E alla fine, contrariamente all’im­ magine che ne dà la partitura, tutti i raggruppamenti sono rovesciati, vale a dire che obbediscono tuttavia al fenomeno generale. Ma tutto era anche un po’ teorico. È per questo, del resto, che dopo essermi cimenta­ to in quest’opera, sono tornato alla tastiera, perché la tastiera dava molto maggiore neutralità. Oltre alla mancanza di esperienza di certi strumenti, era difficilissimo avere una concezione cosi astratta applicata a degli strumenti di cui, al contrario, la tessitura e le particolarità impli­ cano idee specifiche. Ecco perché, da questo punto di vista, occorrerebbe tornarci sopra un giorno, voglia permettendo. In effetti, il lavoro motivistico di «giustificazione» delle idee deve riflettersi anche nello stru­ mento: vi è tutto un lavoro profondo di giustificazione che dovrebbe essere rifatto. dj. Insomma, Polyphonie X è un documento, non un’opera? p.b. Per me, è un documento. L’opera è le Structures per piano. Ma Polyphonie era ancora un documento. dj. Poesie pour pouvoir era, nel 1958 credo, il suo primo tenta­ tivo importante nel campo elettro-acustico. Come giudica oggi quel ten­ tativo, segnatamente in rapporto all’ultimo tentativo in ordine di tempo che è Explosante-Fixeì p.b. Senta, la prima cosa importante in Poésie è che non ho mai creduto molto, personalmente, alla musica su nastro, diffusa in una sala. Vi è un aspetto «forno crematorio» — o diciamo piuttosto «cerimonia crematoria» — che mi ha sempre terribilmente imbarazzato, inoltre mi sono accorto che la mancanza di azione era un vizio redibitorio. Far scorrere un nastro in un luogo in cui si circola liberamente, o per una ristrettissima cerchia di persone informate, è una cosa molto diversa. Ma per un più vasto pubblico — anche senza parlare di enormi folle - è una concezione estremamente vacillante in cui il visivo non corrisponde mai

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all’uditivo. L’idea che avevo avuta nel 1958, era di trovare una soluzio­ ne per avere un appoggio visivo e al tempo stesso uno spazio uditivo allargato. E cosi la disposizione di ascolto dell’opera era stata sin da principio molto specifica. L’orchestra era davanti al pubblico, più esat­ tamente era disposta in cerchio: l’orchestra era veramente in mezzo, su tre piattaforme disposte a spirale. Erano delle piattaforme una più alta dell’altra, vi erano gruppi orchestrali che, progressivamente, salivano a un gruppo di solisti. Rosbaud ha diretto l’opera e anche me. Io ho diretto soltanto alcune cose più specifiche, determinati punti. E gli alto­ parlanti stavano dietro al pubblico: infatti avevo proprio voluto affer­ mare che un altoparlante non dice niente da un punto di vista visivo, che insomma bisogna sempre voltargli le spalle per ascoltarlo in modo cor­ retto. Una spirale partiva dal basso, dal palco, con l’orchestra; il livello dell’orchestra superiore raggiungeva il primo livello degli altoparlanti, e gli altoparlanti completavano la spirale, che terminava a soffitto proprio sopra l’orchestra. Vale a dire che vi era anche un tentativo di spazializzazione e di avvicendamento; e l’avvicendamento si costituiva contempo­ raneamente a una specie di rifiuto visivo e di accettazione visiva. La realizzazione era per allora abbastanza spettacolare, e poi il materiale elettronico era basato non soltanto su un testo modificato di Michaux, ma vi era anche un materiale meramente elettronico (con oscillatore), e un materiale a base di accordi - più esattamente di elementi sonori — tratti dall’opera, e arrangiati in un altro contesto. Avevo cercato allora — è un’idea che ho ancora, ma che oggi mi sforzo di cogliere con altri mez­ zi — che vi fosse una continuità tra l’orchestra e il nastro; non dico di esservi riuscito, ma lo scopo comunque era quello. Perché la cosa che mi aveva sempre colpito, sin dall’inizio, quando si cercava di mescolare gli strumenti con musiche registrate su nastro, era veramente l’eterogeneità e il taglio netto tra i due universi. Nell’uno vi era un linguaggio armoni­ co, codificato, e una gerarchia estremamente precisa di un sistema di altezze, e anche se si usciva «estenuati» da questo sistema di altezze, la gerarchia era estremamente forte, e quando si arrivava nel campo della musica elettronica o elettro-acustica, improvvisamente questa gerarchia scompariva completamente. E quando si passava dall’uno all’altro, erano veramente come se i due universi non avessero alcun punto comune. Dove si avevano più punti comuni, era naturalmente nei suoni elettroni­ ci (o generalmente elettro-acustici) e la percussione, in quanto giusta­ mente nella percussione, non vi è eccesso di gerarchia. D’altronde una cosa è non poco fastidiosa nella percussione: alla fine si ha una campio­ natura da tutti i lati, e non più una gerarchia di suoni. Avevo cercato di evitare questo e, dopo il mio tentativo, ero rimasto abbastanza scettico

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sul modo di organizzare un suono su nastro fin quando non vi fossero dei mezzi molto più perfezionati. dj. Si hanno adesso? p.b. Adesso si hanno, si sono sviluppati via via, peraltro prati­ camente al di fuori delle opere che non hanno utilizzato questi mezzi. Mentre i mezzi sono stati sviluppati da ingegneri, a Monaco in particola­ re, presso la Siemens, e non vi è stata un’opera veramente notevole né un’opera interessante creata dalla Siemens; ma tutto il processo, d’au­ tomazione specialmente, di scambio delle caratteristiche sonore (quando sono incise su nastri perforati per conservare l’informazione, ecc.), tutto questo era stato progressivamente trovato a Monaco nel 1962-63. Se vi è una cosa che oggi rimpiango, è soltanto di non avere saputo in quel momento, per mancanza di tempo, ridurre tutti gli impegni e andare a Monaco per dedicare all’impresa il tempo necessario. Ma non so se sia un fatto da rimpiangere o meno, dato che lo Studio di Monaco ha avuto non pochi guai quando la Siemens non ha voluto più sostenerlo, e quelli che vi lavoravano furono costretti a fare molta musica illustrativa di film, ecc. Forse me ne sarei andato via subito dopo esserci entrato... Ma credo che la via che mi è sempre parsa più impellente, sia quella di cer­ care di trovare un’espansione, e non semplicemente una specie di «bri­ colage»: un’espansione del pensiero, non soltanto logica, in un campo diverso — non semplicemente la scoperta meravigliata di un giocattolo che dopotutto produce cose insolite. dj. Un’ultima domanda su Poésie pour pouvoir: in che modo il poema di Michaux ne determina la forma? p.b. Dirò che la forma, nel poema di Michaux, non determina granché. È molto più una reazione irrazionale - «emozionale» come si usa dire in inglese -, al testo, che il desiderio di incorporare formalmente il testo alla musica. Ciò è in netto contrasto a esempio con i poemi di Char che avevo utilizzati per il lAarteau in particolare, in cui la forma era completamente legata, o a esempio con i Cummings che faccio adesso, o anche con i Mallarmé, in cui la forma del poema è davvero irrimediabil­ mente legata alla forma della musica.

17. Piega dopo * piega .

Pii selon pii (Piega dopo piega) indica diverse soluzioni per l’alleanza di poesia e musica: le soluzioni variano dall’iscrizione all’amalgama danTesto della copertina del disco Cbs 75770.

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do un senso a ciascun brano e un significato al suo posto all’interno di tutto il ciclo. L’opera si compone di cinque brani: il primo, Don (Dono), e l’ulti­ mo, Tombeau (Tomba), sono brani strumentali che ricorrono ai gruppi di strumenti più numerosi; la voce vi si iscrive episodicamente per pre­ sentare il verso di Mallarmé che ne è l’origine. Gli altri tre, al centro dell’opera, richiedono formazioni strumentali ristrette; sono incentrati sulla voce che vi enuncia tutto o parte del poema che li organizza. I due brani estremi hanno dunque una forma completamente indi­ pendente dal poema, il quale non interviene se non a titolo di cita­ zione. Don\ il verso si iscrive in testa al brano; è la sola partecipazione voca­ le diretta poiché gli altri momenti in cui la voce interviene sono citazioni del ciclo centrale, una sorta di preannuncio a ciò che si sentirà in seguito. Le citazioni musicali sono motivate dal titolo di Mallarmé: «don du poème» che qui diventa «don de l’oeuvre» (dono dell’opera). Non so­ no letterali, ma astratte dal loro contesto, e sono intraviste al futuro. L’enunciazione del verso iniziale «Je t’apporte l’enfant d’une nuit d’L dumée» (Ti porto il figlio di una notte d’Idumea) è invece estremamente semplice e chiara, diretta, sillabica. Lombeau'. il verso «Un peu profond ruisseau calomnié la mort» (Un poco fondo ruscello calunniato la morte) è iscritto alla fine del brano. L’enunciazione del verso contrasta con uno stile vocale ornatissimo, di una tessitura tesa; solo le due ultime parole sono chiaramente compren­ sibili, parlate. L’opposizione tra comprensione diretta e comprensione indiretta si troverà poi via via nei tre sonetti che costituiscono il ciclo centrale: Le vierge, le vivace et le bel aujourd’bui (Il vergine, il vivace e il bell’oggi), Une denteile s’abolit (S’abolisce un merletto), A la vue accattante tu (La nube opprimente ha taciuto). Prima di giungere alla questione, fonda­ mentale in una musica che si basa su un testo poetico, occorrerebbe innanzitutto dire che la forma di questi brani segue strettamente la forma dello stesso sonetto; che l’alleanza del poema e della musica vi è certo tentata sul piano del significato emozionale, ma tenta di andare al fondo dell’invenzione, alla sua struttura. Non si può dimenticare che Mallarmé era ossessionato da questa purezza: ne è testimonianza la sua lingua al pari della sua metrica. Il poeta ripensa profondamente la sin­ tassi francese per farne uno strumento originale nel senso letterale del termine. Quanto all’organizzazione del verso stesso, se essa ricorre a valori acquisiti — alessandrino, ottosillabo — è dominata dal rigore del numero, dal ritmo dei valori sonori impliciti nella parola, per approdare

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a una fusione del senso e del suono, in una concentrazione estrema del linguaggio. L’esoterismo che molto spesso si è voluto attribuire a Mal­ larmé, altro non è che la perfetta aderenza del linguaggio al pensiero che non ammette alcuna dispersione di energia. Cosi, la forma musicale si trova già determinata se si tiene conto della struttura chiusa, compiuta che è il sonetto. La necessaria trasposizione esige l’invenzione di equivalenze; equivalenze che potranno applicarsi sia alla forma estrema dell’invenzione musicale, sia alla qualità di questa invenzione, o alla sua struttura interna. È vasto il campo delle possibi­ lità di trasposizione; la loro diversità è compensata dal rigore nel loro impiego. Quanto alla comprensione stessa del poema nella sua trasposizione in musica, a che punto bisogna inserirvisi, in che misura bisogna tenerne conto? Il mio principio non si limita alla comprensione immediata, che è una delle forme - la meno ricca, forse? - della trasmutazione del poema. Mi sembra troppo restrittivo volersi attenere a una sorta di «lettura in/ con musica»; dal punto di vista della semplice comprensione, essa non potrà mai sostituire la lettura senza musica, che resta il mezzo più idoneo à" informazione sul contenuto del poema. D’altra parte, un’opera di con­ certo, basata principalmente sulla riflessione poetica, non può essere confusa con un’opera scenica che esige invero un minimo di compren­ sione diretta per seguire l’azione, gli «avvenimenti» su cui si appunterà, all’occorrenza, la riflessione poetica. Nella mia trasposizione, trasmutazione, di Mallarmé, presuppongo come acquisito dalla lettura il senso diretto del poema; considero assimi­ lati i dati che esso comunica alla musica, e posso dunque giocare su un grado variabile di comprensione immediata. Il gioco non sarà d’altro canto lasciato al caso, ma tenderà a dare la preponderanza ora al testo musicale, ora al testo poetico. La sonorità strumentale varia da un brano all’altro. La percussione trarrà vantaggio da un campo molto esteso in rapporto alle norme abi­ tuali; tuttavia, essa comporta molti più strumenti a suoni determinati, come xilofoni, vibrafoni, varie specie di campane, che strumenti a suoni indeterminati, vicini ai rumori: essi si integrano più facilmente ai gruppi strumentali «classici». I due brani estremi ricorrono a una formazione relativamente numerosa, producendo una sonorità orchestrale; i tre bra­ ni centrali si ricollegano piuttosto, scrittura e sonorità, alla musica da camera, in specie l’ultimo sonetto: Une denteile s’abolit. Il titolo — Pii selon pii — è tratto da un poema di Mallarmé che la trasposizione musicale non utilizza; indica il senso, la direzione, dell’o­

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pera. Nel poema, l’autore cosi descrive il modo con cui la nebbia, dissol­ vendosi, lascia progressivamente scorgere le pietre della città di Bruges. Analogamente affiora, via via che si svolgono i cinque brani, piega dopo piega, un ritratto di Mallarmé.

parte seconda

Uno sguardo sugli altri

Capitolo primo Ritorno alle origini?

18. Divergenze: dall’essere all’* opera .

L’agiografia si impadronisce avidamente delle figure che più hanno contribuito a modellare il profilo di un’epoca (?). Essa trasforma gli uomini in eroi, quindi degli eroi fa dei santi o degli dèi, che scompaiono via via dietro un cumulo effuso di mitiche nubi. Se qualche imprudente si avventura alla ricerca della verità originaria, viene respinto come per­ sona indiscreta, o meglio, come impudica e immorale. La biografia deve adattarsi all’opera: un titano non ha debolezze. L’unità dell’essere e dell’opera è uno dei più inalienabili articoli di fede, quasi senza ecce­ zioni. Una di queste tuttavia è costituita da Richard Wagner. Ma potranno mai placarsi le passioni su di lui? Voglio dire le passioni a proposito non della sua musica, ma di quello che egli rappresenta nella società del suo tempo. Se è lecito sorridere sull’apprendista vegetariano, è difficile con­ siderare il suo antisemitismo un fatto di poco conto. D’altro canto, se le sue concezioni politiche rivelano il dilettante, le sue prospettive per una riforma dell’insegnamento avrebbero meritato una più seria considera­ zione. Ciò che colpisce ancora e sempre nell’esistenza di Wagner, è un miscuglio inestricabile di ambizione, di ideologia e di realizzazione: am­ bizione illusoria nei campi che credeva di dominare; ideologia piuttosto confusa, se paragonata alle correnti filosofiche della sua epoca, in parti­ colare a Marx; realizzazione artistica di primissimo ordine che rimette in discussione e sovverte il linguaggio non meno che il teatro musicale. È certo che egli si volle più come profeta che come artista - il profeta che ha ricevuto l’illuminazione e la grazia, si arroga il diritto di parlare con profusione e autorità su qualsiasi argomento, senza distinzioni di sorta. L’artista redentore possiede per intuito la conoscenza universale, egli è al mondo a portarvi soluzioni rivelate. Prima di Wagner, ma senza andare troppo indietro negli anni, l’arti­ * Prefazione a Wagner: Dokumentarbiograpbìe, a cura di H. Barth, D. Mach, E. Vols, Univer­ sa! Edition, Wien; versione francese apparsa in «Musique en jeu», n. 22, gennaio 1976, pp. 5-11.

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Uno sguardo sugli altri

sta era un servitore - servitore religioso di una comunità, servitore laico di un mecenate. Ma ora egli diviene testimone, con una sua indipendenza umbratile, anche se deve inserirsi in una società che lo accetta a mala pena come eccezione. Poi l’artista ha voluto essere la guida, il salvatore, colui che in virtù dell’intuizione e del genio rivela all’umanità il suo destino. Nel xvm secolo, i filosofi avevano svolto questo ruolo su un piano razionale e politico, e in particolare i filosofi francesi dei Lumi consideravano propria missione quella di illuminare i popoli, condurli verso un avvenire migliore, verso una società studiosa di ragione e di giustizia. Dopo la catastrofe della rivoluzione e le conseguenze che ne sortirono, si produsse una divaricazione profonda e spaventosa. Certo, i filosofi seguitano ad approfondire l’analisi della società, e il fermento rivoluzionario agisce in vari luoghi con gradi diversi di continuità. Ma l’artista rifiuta la razionalità di una tale iniziativa e sotto la spinta della delusione, vorrà essere il simbolo della redenzione. Senonché a mano a mano che questa ambizione totale lo tradisce, egli si ripiega in se stesso e sviluppa l’immaginazione sull’asse che gli indicavano le sue stesse atti­ tudini. Ma intanto, riversa il proprio pessimismo contro la società che rifiuta di accettarlo come profeta, essendo dolorosa la disillusione di dovere rinunciare a riformare il mondo per limitarsi a delle riforme, anzi a delle rivoluzioni «artistiche». L’artista si fa allora consapevole dei propri limiti, mentre gli viene negata in un certo senso l’universalità del pensiero, ed egli è costretto a ridurre il proprio campo di azione, a trascurare l’immediato per il futuro; non gli resta oramai che un ruolo privilegiato, quello che gli si vuole accordare, all’interno di una società su cui non può agire. Nel momento storico in cui viviamo, finzione e incoerenza non sono ancora scomparse, a meno che non accada di retro­ cedere alla nozione di artista servitore, non più servitore di una comuni­ tà o di un mecenate, ma servitore dei disegni dello Stato. Per sacrificio, devozione o a forza, l’ideologia è accettata come un dato globale a cui l’artista non partecipa se non obbedendo, conformandosi a decisioni che, anziché da lui elaborate, spesso non ha neppure contribuito a prendere, visto che altri personaggi, considerati più efficienti e più politici, gli hanno sottratto questa essenziale responsabilità. Lo stesso Wagner è stato il servitore della società, dopo avere deside­ rato di esserne il profeta? Non è stato costretto sempre più a recitare una parte dopo avere tentato di viverla? Quante volte sono stati descritti i mutamenti intervenuti nel corso della sua esistenza: dall’angelo sterminatore al ciambellano di corte, dal rivoluzionario utopistico, anzi sfrenato, al conservatore amaro, disilluso nel cercare di trattare da pari a pari con re e imperatori, ormai ridotto a

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una larva del potere dell’artista, sorta di potere religioso di fronte al potere temporale, crudelmente disingannato quando lo si considera aper­ tamente come un istrione: uomo di teatro, che vive in un mondo di illusioni e di miti e non nella realtà che considera quelle fantasticherie trascurabili, giochi da lasciare all’artista irresponsabile. Il fatto stesso che Bayreuth, dopo un’inaugurazione folgorante, affollata da tutta l’ari­ stocrazia regnante, sia stato condannato al silenzio dal 1877 al 1882, lascia Wagner amaro ma più ancora perplesso. Il sogno dell’arte tedesca è prematuro, o è un’illusione menzognera? Come sembra lontana e inac­ cessibile la comunione estatica della tragedia greca... La società che egli ha voluto dotare di un’identità unica, si diverte per qualche istante di questa curiosità, e poi la dimentica, fino a quando una serie di malintesi non ne farà il simbolo strettamente limitato del nazionalismo, del raz­ zismo: un fenomeno postumo di sordida ironia! Spoglia di questa orrida maschera, l’opera di Wagner continua a esercitare il suo fascino, le sedu­ zioni che concernono appunto un’opera — e un teatro. Il carattere dupli­ ce di questa eredità riflette abbastanza fedelmente la misura della sua azione rivoluzionaria. L’opera, che è stata, ed è ancora, un fermento essenziale nella vita musicale ancor più che nella vita teatrale, e giusta­ mente di portata universale, ha avuto appunto conseguenze universali, e senza di essa, il linguaggio musicale cosi come oggi lo conosciamo sareb­ be semplicemente impensabile. Ma che dire del teatro? E della pratica scenica che un tale teatro implica, con la sua architettura e la sua conce­ zione generale, scelta del luogo, mutamento del quadro dell’attività, delle sue funzioni, delle sue modalità, questa pratica non si è evoluta in alcun modo? In questo campo, il fallimento è pressoché completo. Sono ancora di un’assoluta attualità gli scritti violenti che Wagner, più di un secolo fa, stilava contro l’inerzia del teatro di repertorio, le sue carenze, il suo funzionamento aberrante, la ripartizione sonnambolica delle ope­ re, la distribuzione casuale dei cantanti e dei musicisti, la mancanza di prove, l’abitudine all’improvvisazione. Quanto all’architettura, il mo­ dello di Bayreuth è restato lettera morta. Siamo ancora al teatro all’ita­ liana, anche se le proporzioni sono divenute completamente assurde, a cominciare dalla cavea allargata a dismisura per potere accogliere or­ chestre sempre più grandi. Al di là di una piscina gigantesca, in cui è possibile osservare durante la rappresentazione la vita interna dell’or­ chestra, la voce si sforza di attraversare il muro sonoro che le si oppone, e la vanità di una tale sfida genera ogni giorno risultati dubbi se non disastrosi. In senso ottico e acustico, continuiamo ad assistere a una perenne disfatta del concetto teatrale senza che Bayreuth vi abbia appor­ tato il minimo miglioramento. La risposta globale proposta da Wagner è

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restata una risposta individuale, isolata, assorbita nel contesto generale che fondamentalmente non è mutato. E ciò nonostante, è la totalità della soluzione da trovare che costitui­ sce la passione stessa di Wagner, che per tutta la sua esistenza viene ad essere giustificata sin nelle sue caratteristiche più ambigue e meno accet­ tabili. Vediamo il musicista definire via via i propri obiettivi, fissare la propria linea di condotta con una precisione crescente, e così lo vediamo inglobare a poco a poco tutte le preoccupazioni intellettuali e artistiche alTinterno di un mondo essenzialmente circoscritto dalla musica, una frontiera quanto mai assoluta, addirittura accettata come un male mino­ re. Dapprima, niente di eccezionale, anzi: un desiderio di integrarsi. Indubbiamente, le influenze agli esordi sono «ineccepibili», ma si im­ pongono con la stessa forza ai migliori dei suoi con temporanei. Gluck, Beethoven, Weber: la stessa triade che propizierà gli esordi di Berlioz. Se pensiamo al teatro, ai modelli del tempo, al repertorio corrente, l’emulazione in un certo senso è molto meno onorevole. Se pensiamo a Wagner adesso, e alla sua azione storica, siamo indotti a pensare che non poteva essere diversamente, che un genio della sua forza, della sua quali­ tà, dotato di una enorme volontà, e al tempo stesso di una vitalità ecce­ zionale, di una resistenza a sopravvivere poco comune, doveva inelutta­ bilmente approdare a risultati spettacolari. Esaminando i documenti più da vicino, vediamo quanto siano fragili, e a volte poco sicure, le transi­ zioni che lo conducono da un’adolescenza incerta alla sicurezza assoluta della creazione perfetta. I documenti amplificano l’impressione che pro­ viamo, non che il loro contenuto sia falso, ma, via via che Wagner si afferma come personaggio pubblico, anche gli scritti più personali mo­ strano un certo riguardo per la posterità. È interessante vedere quanto spontanei siano gli scambi tra amici al tempo della giovinezza, quando il mondo resta ancora da conquistare, e non ci si sente in alcun modo obbligati a vigilare nei confronti della storia, quanto calcolati divengano i rapporti tra «potenze», quando, mutata la situazione, le persone sono ora personaggi intenti a plasmare l’immagine che vorrebbero che la po­ sterità conservi di loro, della loro esistenza, della loro attività. La retori­ ca della passione si trasforma spesso in retorica dell’enfasi, l’essere scade a volte nel parere. Le lettere a Ludwig II sono evidentemente le più sintomatiche di questa illusione, ancorché vadano contro il fine ricerca­ to: in luogo di porre il creatore «in gloria», esse rivelano i meccanismi dell’astuzia; l’eccesso della nobiltà e dell’ideale mostra l’artificialità della parte recitata, denuncia — da entrambe le parti — la parodia di un dialogo concepito come uno scambio tra pontefice e imperatore ai tempi del Sacro Romano Impero, ne fa dialogo di maschere, ove ciascuno cerca di

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convincere l’altro dell’autenticità del proprio travestimento. Ma, mentre i fasti epistolari hanno libero corso, veglia una moglie fedele e autorita­ ria. Il rispetto e l’ammirazione la obbligano a consegnare i fatti e i gesti del Maestro sin nelle sue minime parole: così al paradosso non meno curioso di una totale e indomita dedizione dobbiamo i documenti più sconvolgenti, i meno rimaneggiati, i più rivelatori anche. Quando il personaggio non è più in guardia, e non cerca di scolpire la propria statua per l’eternità, allora vediamo emergere la sua vera dimensione, infinita­ mente più grande di quella che ci proponeva, allora scorgiamo la sostan­ za reale della sua personalità, infinitamente più resistente e più robusta della cartapesta di cui voleva infliggerci l’illusione. Forse con Wagner abbiamo la più compiuta analisi della sua persona­ lità più vera. Questo «progetto» traspare in filigrana in molti dei suoi scritti. Genio a un tempo avventuroso, persino irrazionale, ed estremamente analitico: nella sua corrispondenza e nei suoi scritti si nota una straordinaria percezione del suo personale evolversi, della sua importan­ za, del suo impatto, e al tempo stesso dei meccanismi della creazione. Questa introspezione ci offre prospettive incredibilmente penetranti sui punti forti della sua invenzione, sugli obiettivi fondamentali della sua ricerca. A dire il vero, egli descrive in Tristano ciò che più comunemente si scorge, ma egli vi vede anche, e con estrema precisione, ciò che lo rende unico nella storia: una musica della transizione, e non del ritorno e della ripetizione. Le sue idee sulla continuità e la transizione come segni indelebili della musica del futuro, si ritrovano molti anni dopo in un’ap­ passionata conversazione con Liszt, in cui egli sostiene di volere rinno­ vare la sinfonia secondo tali principi: dal momento che Beethoven ha esaurito le possibilità dell’antagonismo, dello scontro dei temi, l’avveni­ re appartiene a un loro modo di fondersi, di mutare. Tali poteri di analisi e di invenzione a partire dall’analisi sono a dir poco affascinanti. Su Beethoven in particolare, il musicista a cui egli si sente di gran lunga più vicino per filiazione, le conversazioni familiari sono rivelatrici del modo con cui egli ne assume l’eredità. In una con l’ortodossia germanica, si nota ripetutamente un miscuglio di fascinazione e di divertimento di fronte all’opera italiana, non quella del contemporaneo Verdi, ma quella modellata dagli attori popolari agli inizi del xix secolo: pur rendendosi conto della leggerezza del contenuto musicale, nondimeno egli invidia l’invenzione melodica e la sua forza espressiva, e sembra quanto mai de­ terminato a volere riconciliare i due punti di vista: la tradizione sinfoni­ ca germanica e la vocazione all’espressività del canto italiano. In termini più generali, egli rifiuta di sacrificare l’espressione alla polifonia, ma dota ogni voce che compone la polifonia di una grande forza espressiva, al

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punto da farne quasi scaturire una contrapposizione di valori ove tutto canta, tutto canta all’infinito. La dovizia e la densità della sua scrittura, e insieme la sua continuità su una scala così larga, sono le caratteristiche che più hanno disorientato i suoi contemporanei, soprattutto in un mon­ do - l’opera - in cui l’ascoltatore non era particolarmente sottile. E che dire dell’invenzione armonica, che nasce anch’essa dal suo bisogno di continuità, dal suo sforzo teso verso la transizione che non ha fine? Tanto più egli avanza, quanto più egli va verso quelle regioni ove la certezza del linguaggio si annulla per lunghi tratti, e l’incertezza del dive­ nire, l’instabilità della soluzione transitoria, la scoperta delle zone cre­ puscolari ove i contorni si dissolvono, tornano ad essere sempre più le sue preoccupazioni fondamentali. Egli dissolve l’assoluto immediato del linguaggio musicale per scoprire un assoluto più vasto, più penetrante; dissolve le forme finite per creare l’unità fondamentale dell’opera in cui verranno a fondersi i momenti successivi grazie alla memoria operante per riferimenti, quei motivi che, partiti da un’identità perentoria, si trasformano subendo una metamorfosi a piacere dell’istante. È la visione teatrale che ha generato una tale ricchezza, una tale proliferazione di idee e di concetti? Sembra difficile rispondere afferma­ tivamente, dato che i livelli a cui leggiamo Wagner sono molto differen­ ti, secondo che si tratti di invenzione letteraria o di invenzione musicale. Mentre la musica si proietta con forza e sicurezza verso il futuro, il teatro guarda ostinatamente verso il passato. Non che in rapporto all’opera della sua epoca egli non abbia compiuto un enorme sforzo di ripulitura e di rinnovamento: infatti, a fronte della chincaglieria pseudostorica allo­ ra imperante, egli ha dato una dimensione mitica ad alcuni personaggi esemplari, conferendo al suo teatro un’inesauribile ricchezza d’interpre­ tazione. Tuttavia, non si può non accorgersi che la regione in cui questi miti hanno avuto origine, il Medioevo ideale in cui si colloca gran parte della sua opera, appartengono al sorgere del Romanticismo. L’invenzio­ ne letteraria di Wagner è praticamente compiuta verso il 1850, perlo­ meno nei suoi temi ormai fissati, ma per trent’anni ancora la sua musica si evolve in modo sempre più singolare e sorprendente, mentre il suo universo teatrale rimane immutato, anche se le prospettive si trasforma­ no, come è stato molte volte sottolineato. Quando l’opera giunge al termine, frutto di una conquista aspra e tenace, tutta chiusa in se stessa, letteratura e poesia avevano abbandonato le sponde ove Wagner soleva immergersi. Una delle contraddizioni più impressionanti del suo teatro risiede nella forza dei miti e dei simboli che egli ha creato nonché nel­ l’obsolescenza che li avvolge nel momento in cui vengono a costituirsi in

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opera definitiva. A questo riguardo, si potrebbe giustamente parlare di un Wagner gotico, come un tempo si dichiarava gotico Bach. Tuttavia, basterà un forte spirito nazionalista perché certi aspetti ambigui dei miti wagneriani servano da alibi, se non da giustificazione culturale. Dopo avere oscillato tra l’attivismo rivoluzionario e la repressione conservatrice, l’Europa della seconda metà del xix secolo ondeggia verso un calvinismo patriottico, esacerbato dalla coscienza che ogni nazione, libera o oppressa, assume della propria individualità. Wagner non sfug­ ge a questo movimento pendolare e - al pari di molti altri creatori — pretende di dare alla sua opera una solida base etica. E la pretesa giunge all’ossessione come si può desumere dalla messe di riferimenti all’arte tedesca. Ma non è forse questo un modo di rassicurare se stesso nei riguardi del cosmopolitismo a cui fin allora non aveva cessato di parteci­ pare? Wagner è stato sicuramente cosmopolita, ma è stato davvero rivo­ luzionario? La testimonianza di Bakunin, secca e laconica, non depone in suo favore, né i suoi rapporti con gli esuli tedeschi di Zurigo lo mostrano devoto alla causa rivoluzionaria. Anzitutto, egli appare uomo di teatro, pronto a drammatizzare i conflitti e utilizzarli a proprio vantaggio per arricchire la sua opera. Per lui, creatore e quindi egoista, o perlomeno egocentrico, l’ordine di priorità sarà rispettato: innanzitutto l’opera da compiere. Ecco perché non ci si dovrebbe affatto stupire che prima di tutto venga l’opera da sistemare, da ancorare in una solidità che superi i limiti individuali. Se la rivoluzione ha dato l’impulso, il nazionalismo saprà dare forza di espansione. E qui traspare un misto di opportunismo e di idealismo che si riflettono sin nelle più lievi preoccupazioni. L’arte tedesca consisterà naturalmente nel rappresentare i drammi di Wagner; consisterà anche nel creare una scuola di canto tedesco, di fatto a inse­ gnare ai giovani cantori come cantare Wagner. D’altra parte, è compren­ sibile questa preoccupazione pedagogica: convinto dell’importanza della sua opera nella cultura germanica, egli si scontra con l’impossibilità di integrarla al mondo musicale esistente, di cui lamenta la pratica e l’inve­ terata maniera; per presentare interpretazioni valide della sua opera, gli è necessario cominciare con l’educazione degli interpreti. Ma i suoi pro­ getti non vedranno mai la luce dal momento che egli morirà troppo presto per realizzarli. L’arte tedesca non conoscerà la sua prima scuola; e ben presto Bayreuth, anziché svelare, finirà per conservare tenacemente ciò che vi era stato vivo. L’arte tedesca diverrà preda di una società sazia, assai poco propensa all’avventura. Più tardi, quando l’avventurismo po­ litico si impadronirà dell’opera di Wagner e si sforzerà di farne la pro­ pria bandiera, la degradazione dell’ideale originario avrà toccato il suo punto più abissale. Forse occorreva passare nel bagno dell’ignominia per­

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che miti e simboli assumessero il loro senso vero, al di là delle vicen­ de che li avevano generati. Resta tuttavia l’antisemitismo flagrante, di cui l’episodio più curioso è quello occorso tra Wagner e Lévi alla vigilia della prima rappresenta­ zione del Parsifal. Il contrasto sarebbe ridicolo, se non fosse odioso, tra l’atteggiamento di superiorità del cristiano che esibisce la purezza del proprio ideale e l’interesse del compositore a non perdere un interprete di grande valore, oltre al desiderio di possedere una personalità più debole pur umiliandola (ma ciò non si applica perfettamente a Bùlow?) Spiegare questo antisemitismo militante unicamente con ragioni di gelo­ sia personale verso Mendelssohn o Meyerbeer sembra troppo sbrigativo - anche se è evidente l’irritazione verso ciò che rappresentano ai suoi occhi i due compositori: l’usurpazione dell’arte tedesca da parte di una mano troppo facile o troppo abile. Non va dimenticato tuttavia che l’antisemitismo è da secoli una malattia endemica dell’Europa cristiana e che il nazionalismo non fa che rivelare in modo più violento, ciò che era latente allorché Io spirito nazionalistico non aveva ancora quel carattere pressante che rivestirà poi alla fine del secolo xix. In Francia, il caso Dreyfus metterà ben presto a nudo quelle passioni e non mancheranno musicisti francesi antisemiti dichiarati - tra essi, Vincent d’Indy, nel suo corso di composizione, cercava di spiegare «razionalmente» perché un ebreo fosse incapace di comporre una musica di qualche importanza. Per secoli la cultura ebraica non era stata presa in considerazione, anche se le tradizioni religiose ebraiche erano state oggetto di ostracismo e di perse­ cuzione. In ogni modo, esse erano strettamente circoscritte e non rap­ presentavano un pericolo. Ma non appena si sviluppa una intellighenzia ebraica, e si accentua il profilo delle nazioni europee, la cultura ebraica rappresenta allora l’irriducibilità del cosmopolitismo agli schemi nazio­ nali, e soprattutto una secolare resistenza a ogni drastica assimilazione. La comunità ebraica resta originale a dispetto di tutte le pressioni, rap­ presenta la faglia porosa nei compartimenti stagni che si costituiscono tra gli Stati. Wagner, immerso nell’idealizzazione romantica di un Me­ dioevo mitico, sovrappone alla reazione politico-culturale del secolo xix, i pregiudizi di una cristianità militante contro un popolo che ha cro­ cefisso Gesù. E pur non essendo un’eccezione nell’antisemitismo degli intellettuali, Wagner rappresenta tuttavia un amalgama di idee a cui era sin troppo facile attingere per farne il patrono di una crociata partico­ larmente velenosa. Del resto, l’artista si rendeva conto di essere vittima della propria immagine, dal momento che i miti nordici che aveva con­ tribuito a far rivivere, erano stati inclusi, suo malgrado, in una panoplia ideologica per la quale non erano stati, in principio, espressamente crea-

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ti. Dalla tragedia greca al manifesto razzista, si è prodotta una degrada­ zione, di cui non si può riconoscerlo se non parzialmente responsabile, ma comunque responsabile. Ecco perché risulta difficile, se non impossi­ bile, dissipare tutta la nebbia, le ombre e il buio che lo circondano. Cosi, l’agiografia non potrà mai impadronirsi completamente del per­ sonaggio Wagner, in quanto egli resta vulnerabile su talune scelte essen­ ziali della sua esistenza. Ma i documenti ci forniscono dal vivo l’amalga­ ma indistinto da cui è scaturito uno dei geni più ostinati che siano mai esistiti: attraverso le incertezze degli esordi, le esaltazioni e le disillusio­ ni dell’esperienza, si creano il mistero e la maestria a un tal punto di sicurezza da stabilire un’etichetta del comportamento, quasi un’etichetta di corte. Mentre si intuisce la sua impazienza a concretare i suoi progetti, e proprio quando egli combatte per l’arte tedesca, si rifugerà in Italia per correr dietro ai propri sogni: una volta creata l’esigenza di Bayreuth, si direbbe che egli fa di tutto per fuggirla e temerne le responsabilità, poiché rischiano di intralciarlo nell’invenzione. Re impaziente di un ter­ ritorio conquistato a prezzo di una lotta gigantesca, l’erranza è la sua sorte, quasi la sua scelta. La fine lo ha colto di sorpresa? Egli ha compiu­ to la sua opera, pensa di avere scritto per il teatro tutto queUo che era in grado di creare: e sogna la sinfonia... A noi resta un personaggio difficile e un’opera fondamentale: e il personaggio non è ancora scomparso die­ tro l’opera. Vi riuscirà mai?

19. Il diario di Cosima Wagner: «Richard lavora» .*

«Stasera, siamo soli Richard ed io, ci abbandoniamo allora come d’abitudine ai ricordi... Ci rallegriamo delle tante cose compiute in que­ sti quattordici anni: Maestri Cantori, Tetralogia, Marce, Scritti comple­ ti, Parsifal, la Casa, il Teatro, la Biografia». Cosi scrive Cosima Wagner il sabato del i° febbraio 1879: il «noi» dell’identificazione assoluta con Richard, di quell’identificazione che do­ po averla separata da Bùlow, il marito sterile, l’ha finalmente condotta a creare. Nel leggere queste poche righe, si sarebbe tentati di pensare a una persona che calcola con freddezza e distacco come condividere la vita del genio e far fruttare le sue doti nel modo più ostentatamente terreno. Tuttavia, due giorni dopo, il lunedi del 3 febbraio, Cosima annota: «Mentre stavamo per separarci, gli dico: — Oh tu, essere divino - e «Le Monde», 15 dicembre 1977.

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lui mi risponde: — No, tu, — e subito soggiunge: — Pestasi inespressa! Oh! come esiste tra noi...» Da un estremo all’altro, dall’esame minuzioso della realtà all’adora­ zione mistica, seguiamo talvolta a fatica la «gran dama» di Bayreuth e ci chiediamo se non reciti una strana commedia, irritante per i suoi eccessi, ora con i piedi sulla terra, ora con gli occhi volti al cielo. Più di una cosa infastidisce in questo diario, e per più di un motivo: ma anzitutto, la famosa estasi che dal suo caro Richard le fa tutto accet­ tare senza distinzioni, l’ultimo atto del Crepuscolo degli dèi come la Marcia trionfale, le considerazioni sul regime vegetariano come le rifles­ sioni su Beethoven, o peggio, l’antisemitismo come il socialismo utopi­ stico. Probabilmente è la fedeltà di Cosima ad annotare tutti i particolari della loro vita di reclusi, in quell’ultimo periodo, a cogliere tutto ciò che Richard dice, - dai giochi di parole più volgari fino ai pensieri più sorprendenti, - a descriverne gli atti, il comportamento, le reazioni, gli entusiasmi, le ubbie, le rabbie, le manie, probabilmente è questa fedeltà che rende il diario unico per la conoscenza di un uomo complesso, in preda a tante contraddizioni, vittima delle sue stesse pretese. Insisto sull’z/cwzo, dal momento che per quanto concerne il compositore, e se si è a nostra volta musicisti, tanto vale riferirsi subito e in modo definitivo agli abbozzi pubblicati della Tetralogia, che informano in modo di gran lunga più preciso sull’elaborazione di un tema, sull’evoluzione di una figura ritmica, su ciò che fu in un primo tempo essenziale, e ciò che fu aggiunto o trasformato rispetto alla linea di condotta immutata. Negli abbozzi, è possibile cogliere nel vivo i meccanismi dell’invenzione, anche se l’invenzione propriamente detta resta al di là di ogni possibile ricerca. Volendo limitarci al Diario di Cosima, si ha che fare con un’interlocutrice unica e privilegiata, di cui col passare degli anni vediamo evolversi lo statuto e la statura: sempre, senza dubbio, nell’esaltazione della pro­ pria missione eccezionale, ma passando a poco a poco dall’incertezza e da un senso di colpa profondamente sentita alla gioia ineffabile per la redenzione. Certo, il continuo contatto con Parsifal negli ultimi sei anni (1877-83) ha sicuramente influenzato un tale atteggiamento, al punto che Wagner nell’estrema irritabilità dei suoi ultimi mesi, non può fare a meno di farle notare con acredine come lei si consideri la Virtù perso­ nificata... Del resto è lei stessa a fare l’accostamento con la famosa battu­ ta di Kundry: «Servire, servire...» Cosima non cesserà mai di doman­ darsi se il suo io non si sia completamente annientato di fronte al Mae­ stro che non aspira se non a rispettare e a servire nella più assoluta devozione. Il suo io potrebbe farla deviare da quella Verità che è la sua

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sola aspirazione. La vita di Richard Wagner, nei più piccoli accadimenti e nei minimi particolari, deve servire da esempio al figlio eletto, Siegfried, che nascerà sei mesi dopo l’avvio del diario a lui inizialmente dedicato: documento pedagogico anzitutto che solo l’abnegazione totale potrà con­ durre a termine. Ma non appena Richard muore, il diario s’interrompe, e il figlio non ha più niente da imparare dalla sua agiobiografia. Ciò che Cosima vuole che egli comprenda è la sua deliberata trasgres­ sione delle regole della società borghese. Lei aveva una missione più alta di qualsiasi convenzione anche se fortemente radicata; doveva sostenere il genio nella sua lotta per produrre innanzitutto e poi per imporsi. Per questo, può vantarsi delle «molte cose compiute». E se non ha scritto la musica del Crepuscolo o del Parsifal, ha creato l’ambiente propizio alla nascita dei capolavori. E ci si rende conto quanto ciò dove­ va essere difficile con un uomo cosi egocentrico ed esigente, sia in tema intellettuale, sia in fatto di tende, tendaggi, rasi e seterie varie. Più ci si avvicina alla fine, più si condivide l’ansia di sapere se il musicista potrà terminare Parsifal, e si resta commossi nel vederlo accanirsi al lavoro per tema che la morte giunga prima che l’opera sia terminata, e nel sentirlo confessare l’incessante angoscia della sua esistenza: che la morte non gli sottragga le opere ancora da scrivere. A proposito del Parsifal, molto più che sul Crepuscolo degli dèi — probabilmente perché divenendo i figli più grandi i momenti di libertà sono cresciuti in proporzione - Cosima tiene un vero calendario della composizione che noi possiamo verificare punto per punto sulla partitu­ ra definitiva. Le esitazioni del pensiero, le decisioni di esecuzione, i ritorni e i ritocchi, tutto ci è descritto nei particolari più minuziosi, sino alle circostanze stesse della concezione dei temi, ai luoghi a cui è legata la loro nascita, sia che essi siano nati in un certo giardino di Bayreuth, o in un certo momento della giornata. È possibile seguire passo passo la gestazione del poema, quindi della musica e infine della partitura d’or­ chestra. Per quanto Cosima gli sia vicino, a noi par di sentire fisicamente il mistero della creazione in cui egli si rinchiude. Non appena Wagner entra nella sua stanza di lavoro, è la solitudine che regna — ciò che egli le fa condividere sono le sue trovate, il frutto momentaneo delle sue rifles­ sioni. È così che siamo portati infinite volte a leggere invariabilmente: «Richard lavora». Ella annota i piccoli avvenimenti della giornata, «Ri­ chard lavora»; si occupa dell’educazione dei bambini, «Richard lavora»; risolve i problemi domestici, «Richard lavora»; affronta i problemi finan­ ziari posti dal Festival, «Richard lavora». Meraviglia avvertire una tale potenza di isolamento in una vita così completamente condivisa. Quando Richard è uscito dal proprio mondo, allora Cosima, sensibile

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all’irradiazione dell’opera creata, cercherà di coglierne tutti gli sviluppi o i presupposti. Per questo, conosciamo meglio tutto ciò che egli amava in musica e tutto ciò che ne diceva senza il sovraccarico della retorica e della scrittura. Del resto, non veniamo a sapere niente di veramente nuovo: conosciamo quasi troppo bene i suoi sentimenti di ammirazione e di disgusto, ma li guardiamo sotto un lume familiare, in una luce spontanea. Spessissimo, si fa un po’ di musica in casa, tra intimi - il che vuol dire, tra l’altro, che si sente Liszt suonare Bach, Beethoven e se stesso, e che si suonano brani di Wagner, da vecchie opere, o dall’opera in corso. Cosima annota subito i commenti del maestro e signore sulla musica stessa, ma anche sull’interpretazione. Dal momento che Wagner è stato uno dei primi, con Berlioz (lo si ammetta o no!), a parlare di interpretazione, a separare consapevolmente, in ciò che concerne l’or­ chestra, novità e repertorio per cosi dire, è infinitamente interessante raccogliere le sue idee sia sulla propria musica che su quella di Beetho­ ven in particolare, o ancora su Mozart, Haydn, Weber. Egli è estremamente esigente, verso se stesso come verso gli altri, sulle questioni di tempo a cui attribuisce un’importanza fondamentale, sulla continuità della forma, sui particolari di strumentazione. A quanto sembra, le sue proprie esecuzioni dovevano essere assolutamente straordinarie a giudi­ care dalla concezione delle opere e dall’attaccamento ai particolari del­ l’interpretazione. Né è meno evidente che proprio la mancanza di esat­ tezza nei tempi e nelle loro relazioni reciproche, lo irrita in massimo grado, e di questo, senza infingimenti, si lamenta con uno dei suoi piu cari interpreti, Hans Richter, all’epoca della Tetralogia nel 1876. Sulla scorta di questo diario, è possibile vedere in quale misura egli abbia inventato uno stile di esecuzione e fino a che punto vi si sia dedicato an­ che se ha sofferto a volte intollerabili delusioni. Sembra che Hans von Bùlow, con Tristano, sia stato più vicino alla verità secondo Wagner, il quale di continuo rimpiange l’irreparabile separazione, almeno da que­ sto punto di vista... Egli ha cercato persino di istituire a Bayreuth una scuola d’interpretazione, per i cantanti naturalmente, ma anche per i direttori d’orchestra — in modo da creare un’autentica tradizione. Il disastro finanziario del primo Festival come pure lo scarso interesse di­ mostrato dagli artisti condurranno al rapido abbandono del progetto. Di tutte le operazioni che avrebbero dovuto avere come centro Bay­ reuth non sono restati alla fine se non i Bayreuther Blatter. Iniziati nel fervore, ben presto questi fogli ingombrano la sua vita, lo costringono a scrivere, spesso senza entusiasmo, degli articoli per mantenere in vita la rivista. Ma presto egli si irrita degli epigoni che gli gravitano intorno, e raramente è soddisfatto dei vari saggi che vi vengono pubblicati. Sareb-

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be pronto a piantare tutto in asso, se non sentisse una sorta di responsa­ bilità nei confronti dei collaboratori che ha mobilitato per la pubblica­ zione. Cosi pure, ogni idea di rappresentazione teatrale lo disgusta. Du­ ramente scottato dall’esperienza del 1876, amareggiato dalla volgarità dei sogni troppo incarnati, egli invoca, sospirando, la possibilità, dopo aver creato l’orchestra invisibile, di creare la scena invisibile... La mate­ rialità del teatro, proprio non la sopporta più; le ristrettezze finanziarie lo costringono a cedere Parsifal, che protegge con tutti i mezzi dalla volgarità degli istrioni, dal cinismo della gente di teatro, dal grigiore artistico delle opere. Per tutto il tempo della composizione del Parsifal, si rammarica di dovere essere asservito all’opera teatrale, quando inces­ santi gli vengono idee per scrivere delle sinfonie. Anche dopo aver por­ tato a termine ed eseguito il Parsifal, durante gli ultimi mesi veneziani, la conversazione torna spesso sulla sinfonia. Si comprende allora perché Brahms non merita che rilievi sarcastici e meschini. Lui, Wagner, sogna di procedere sulla strada di Beethoven, cominciando da vero erede col sopprimere lo schema tradizionale dei quattro movimenti - cosa che Brahms non ha mai evidentemente pensato di fare! Eppure, l’evoluzione del proprio personaggio nei riguardi del teatro, è largamente osservabile anche nei suoi entusiasmi precedenti: 18691883, un periodo che lo ha colmato delle più amare delusioni. Nelle conversazioni annotate da Cosima, si è portati a seguire l’evolvere dei suoi punti di vista politici: alla fine, gli restavano poche illusioni, la sua stanchezza del resto sembrava soprattutto, ma non soltanto, legata ai suoi insuccessi personali. Wagner è ancora considerato, nel suo paese come nel mondo, come uno dei più forti simboli del nazionalismo tede­ sco. E ciò risponde al vero se ci si attiene ai primi anni del Diario. Poco dopo i Maestri Cantori, il tema è sempre quello dell’arte tedesca, della patria tedesca. La guerra franco-prussiana, vista da Tribschen, dava spa­ zio a un entusiasmo isterico. (Ma non c’è da scandalizzarsi: l’isteria regnava in terra tedesca come in terra di Francia). Bismarck è il grande eroe; l’imperatore ha diritto a una Marcia trionfale. Ma, somma eresia artistica, a Wagner si preferisce una volgare Wacht am Rhein. Di qui la prima incrinatura, seguita da molte altre per cui ben presto Bismarck sarà oggetto di disprezzo, farà le spese di aspre diatribe, di giudizi violenti e negativi che coinvolgono anche l’imperatore. E Ludwig II, che parte ha in tutto questo? Ebbene! Ludwig attra­ versa momenti in cui non è trattato meglio di Bismarck, persino anche meno bene: giudicato spietatamente come un essere debole, prigioniero dei propri capricci, che sperpera a imitazione di un Luigi XIV, XV o XVI, quanto avrebbe potuto spendere cosi utilmente per Bayreuth, per

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dotare il suo Stato di un’arte veramente tedesca. Nondimeno, resta un vago affetto senza illusioni che si maschera sotto una retorica pomposa, artificiosamente codificata da entrambe le parti: si fa sopravvivere il mito servendosi della menzogna. Il musicista non nasconde a Cosima ma forse per calmare una sorta di gelosia in lei latente nei riguardi del potente protettore, dell’amico supremo, dedicatario della Tetralogia quanto gli pesino quelle cerimonie epistolari, quegli esercizi di stile oramai vuoti di senso profondo. E quando poi il re si mostra infedele anche a quel rito artificiale e non assiste alla prima rappresentazione di Parsifal, Wagner si sente realmente ferito. Nella sua sensibilità, nel suo orgoglio? La luce si spegne, anche da quella parte. Resta l’ansia crepuscolare della fine di una vita, sempre più isolata, così ostinatamente. Più il mondo si impadronisce dell’opera di Wagner, e la riconosce via via per quella che è, una delle più geniali del suo tempo, più il cerchio di Wagner a sua volta si restringe, negli uomini come nelle idee. Anche se la sua corte lo infastidisce, egli ha bisogno di una corte, che tiranneggia e di cui al tempo stesso si lamenta di esserne annoiato. Quando a Bayreuth giungono dei familiari o degli invitati di passaggio, Wagner soffre di dover parlare tutto il tempo, è infastidito che gli altri non abbiano niente da dirgli, che la conversazione di cui egli fa in tutto le spese lo affatichi sino alla spossatezza. È il momento allora delle sue tirate sulla vivisezione e sul regime vegetariano. È anche il momento in cui s’inasprisce il suo antisemitismo, angusto, limitato, os­ sessivo, a volte violento - quando egli ritiene lesi i propri interessi materiali o il proprio dominio intellettuale. Agli ebrei della sua cerchia, Hermann Levi, Joseph Rubinstein, si apre con una brutalità sconcertan­ te, di cui un uomo intelligente come Levi doveva di certo soffrire profon­ damente. Ma il fascino del genio doveva essere quanto mai forte per resistere a un tale trattamento. Ma questo genio è in tutto un genio quando passa da Nietzsche a Gobineau? Per dei lettori poco disposti all’indulgenza nei riguardi del personaggio Wagner, egli può apparire, attraverso le conversazioni del Diario, come un chiacchierone che parla a proposito di tutto e di niente, e si considera non meno informato sulla situazione diplomatica che sulla musica. Le osservazioni pertinenti su un quartetto di Beethoven succe­ dono a certe riflessioni abbastanza ingenue sul futuro dell’industria; un pensiero di Cervantes o di Shakespeare viene seguito da una diatriba incoerente sulla vivisezione. Così è possibile che del Diario resti solo in mente un Wagner al Caffè del Commercio. Ma l’ammirazione, o l’onestà, di Cosima non ha voluto sopprimere niente di queste minuzie quoti­ diane.

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A noi resta, sopprimendo mentalmente le scorie documentarie, il paesaggio intellettuale di Wagner. Si vede sul filo degli anni che, musi­ calmente e letterariamente, egli si stabilizza sempre di piu. Si vive sulle cime soprattutto di altre letture, quanto mai eteroclite, e riservate alla distrazione. Ma quando si tocca la sfera del serio, la compagnia è ristret­ tissima: i Greci, come dice Cosima, ossia Omero, Platone ed Eschilo, e anche Sofocle, gli Spagnoli, Calderón e Cervantes, infine i due grandi geni gemelli della letteratura tedesca, Goethe e Schiller — il primo so­ prattutto. Balzac compare sporadicamente in questa cerchia privilegiata. Quanto alla musica, anzitutto e soprattutto Beethoven, il dio; Weber ricorre spesso come il diretto precursore, colui che si è visto ancora bambini; e anche Mozart, Bach, Haydn. Quanto al teatro, si suona anco­ ra di tanto in tanto Auber, Halévy, l’epitome dell’opera francese, quella che Wagner conobbe durante il suo primo soggiorno a Parigi, in cui, nonostante la sua persistente francofobia, trova un fascino e una legge­ rezza che Io seducono ancora... tenute le debite distanze. Alcune rifles­ sioni acide su Liszt, Berlioz e Brahms completano il panorama, senza dimenticare Rossini e Bellini di cui certi tratti gli sono cari. Ma più si procede, e più il diario diventa esclusivo: Beethoven e ancora Beetho­ ven, Shakespeare e sempre Shakespeare. Per i suoi contemporanei, egli mostra sempre meno interesse, e sco­ pre che il mondo moderno affonda nella mediocrità. Predomina l’im­ pressione che nessuno ha capito veramente ciò che egli ha apportato al mondo della musica, che con lui scomparirà un segreto unico. Con la malattia, il ripiegamento si accentua, l’irritazione aumenta, l’isolamento si accresce. La sua vita si richiude dopo la creazione di Parsifal', l’artista pensa si a delle sinfonie, ma vi pensa davvero? Non ne parla per ingan­ nare se stesso? Degli ultimi mesi sono i giorni della continua angoscia. Se Wagner si isola, lo fa solo per scrivere alcune lettere, una prefazione, o dar inizio a un saggio. Chissà se la musica non si sia in lui esaurita! Quando giun­ giamo sulla linea d’arrivo, si fa in noi il vuoto, quale dovette prodursi, orribilmente reale, nella vita di Cosima. No, non abbiamo imparato niente della genesi della sua opera, ma ne abbiamo avuto di continuo il riflesso. Abbiamo imparato a conoscere, per il meglio e per il peggio, una personalità della più grande magnitudine, inestricabilmente legata a una compagna ostinata nel sacrificio e nella fedeltà. La differenza tuttavia permane, irriducibile: «Richard lavora...»

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20. La biografia, perché? .* In Mahler, la musica non disconosce affatto il tema biografico. E se va al di là dell’aneddoto esaltandolo a profitto dell’immaginario, non per questo resta meno strettamente legata al vissuto originario, al punto da restarne a lungo imbarazzati. Mahler non ha temuto di lasciar trapela­ re le proprie esperienze quotidiane di uomo e di musicista: di qui l’accusa per anni formulata di musica da Kapellmeister, in altre parole, musica che tradisce la propria origine ed è scarsamente interessata all’autonomia dell’opera. È relativamente facile reperire in Mahler le fonti musicali; ma di ciò che avrebbe potuto essere un segno di debolezza, subito egli ne fa uno dei punti di maggior forza: la narrazione, che introduce come tale in una forma finora completamente autonoma, qual è la sinfonia. Non v’è dubbio che la sinfonia, anche prima di lui, è stata portatrice di confidenze, ha dichiarato intenzioni descrittive, si è appropriata del pro­ getto; lo svolgimento di quei corpi estranei non ne rispettava meno, grosso modo, l’ordine e la regola stabiliti al tempo in cui le confessioni non avrebbero potuto avere il sopravvento sul quadro gerarchico. Tutto il romanticismo testimonia di questa lotta tra la coercizione formale anteriore e l’«affetto» momentaneo, lotta ineguale che si concludeva a detrimento dell’una e l’altra parte. Da dove viene la forza di Mahler nella confessione e l’autobiografia, se non dal fatto evidente che, per essere valida, la narrazione deve creare la propria forma: narrazione che invita costantemente ad allargare, a sconvolgere il quadro in cui prende posto, narrazione che elimina dunque la simmetria, uno degli elementi fondamentali della sinfonia, che scarta la nozione di ritorno letterale l’impressione, forse, di rammemorarsi, ma non la ripetizione. Se la ten­ sione si abbassa, se la logica interna (quand’anche sussistesse una certa logica formale) sparisce, si corre alla catastrofe della dispersione. La biografia ci pesa allora, anzi ci è insopportabile. Si danno confessioni non richieste fatte in forme spezzate? Il patchwork romanzato non interes­ sa se non l’autore che mette se stesso in scena o in causa, ma non noi. Ah! come è permeabile la frontiera tra queste ammissioni, meno indiscrete che non sollecitate, e la confessione che strappa la nostra partecipazione perché può e sa soggiogare. Ogni musica è confessione, naturalmente; ogni musica tradisce l’autore nel modo più indiscreto, anche se certi compositori desiderano appassionatamente tradirsi. Spesso, restiamo in­ differenti a questo tradimento di sé troppo evidente, di cui non abbiaPrefazione al libro di

h.-l. de lagrange,

Mahler, Fayard, Paris 1979, pp. 2-3.

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mo alcun bisogno, nel quale non ci sentiamo in alcun modo coinvolti. Altre volte, più rare, più eccezionali, è vero, proviamo nel modo più acuto che si tratta forse del solo modo sopportabile di comunicare attra­ verso la musica, che le forme più purificate dell’espressione non racchiu­ dono quel potenziale di immediatezza, quel dinamismo della persuasio­ ne. E molto spesso si pone il dilemma: annientare Fio in un tutto, supe­ riore e trascendente, o allargarsi alle dimensioni di un mondo. Nel primo caso, la biografia si smemora, si annienta; nell’altro, acquista una dimen­ sione mitica e diviene la biografia potenziale di ciascuno - o, in un certo senso, il modello inaccessibile, il luogo geometrico idealizzato. Per giun­ gere a questo grado d’incandescenza, di illuminazione, rivelazione di noi a noi, la confessione del protagonista ha bisogno di epurarsi, di passare al filtro formale, filtro tanto più misterioso in quanto ha meno rapporto con l’ordine e la gerarchia, o perlomeno in quanto ordine e gerarchia so­ no secreti dalla stessa confessione. L’impressione caotica che al primo contatto ricaviamo da una confessione lungamente formulata, elaborata ai prismi della forma, viene essenzialmente dal fatto che noi cerchiamo un ordine apparente là dove dovremmo sentire un ordine profondo, cer­ chiamo una logica di superficie là dove dovremmo percepire una relazio­ ne organica. Quando la confidenza è breve, focalizzata, come è più faci­ le per noi coglierne a un tempo i contorni e la fondatezza! I lieder di Mahler sono certo più immediatamente suggestivi, poiché uno stato dell’essere vi è colto in un istante circoscritto; i suoi limiti definiscono forza e potere, ma anche debolezza, o perlomeno una insufficienza, poi­ ché ci sfugge la dimensione superiore di ciò che in coincidenza col lin­ guaggio musicale accademico ci fa proprio chiamare lo svolgimento. La confessione non può essere soltanto proiezione folgorante dell’istante, essa ha bisogno della continuità temporale per moltiplicarsi, proliferare, divenire biografia trascesa, con ciò che il percorso implica di costrizione e di imprevisto, accettando il rischio - nella continuità - di alternanze di attesa e di evento, il pericolo di veder succedersi o confrontarsi il «bas­ so» e il «sublime», senza temere affatto la mancanza di omogeneità delle tessiture e delle idee: in breve si rifiuta una scelta restrittiva, si accetta il rischio dell’espansione, di essere espansivi'.... Che cosa ci tenta, dopo avere vissuto l’esperienza di questa biografia se non totalmente immaginaria, perlomeno amplificata molto al di là del reale, nella biografia fattuale? Probabilmente una vertigine, quella della trascendenza nell’atto di creare. Noi accumuliamo le premesse, accata­ stiamo i documenti, siamo a volte sul punto di cogliere una parte dell’e­ nigma quando le fonti si lasciano percepire con sufficiente chiarezza; tut­ tavia, allorché occorre spingersi più lontano nell’inchiesta, constatiamo

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invariabilmente la cesura tra esistenza e creazione, un perché, cursore mobile e inafferrabile, che si interpone tra l’avvenimento e l’elaborazio­ ne. In questo senso, nessun incoraggiamento possiamo attenderci da una biografia, ma piuttosto la meraviglia che questa pellicola a volte cosi fine, cosi sottile, che separa l’opera dal suo autore, resista a tutti i trattamenti, a tutte le curiosità. Talvolta, abbiamo quasi l’illusione che le barriere stiano per essere abolite; il nostro sguardo si fa penetrante, vediamo sin troppo il nostro errore - la distanza sussiste, invalicabile, e «l’indistrut­ tibile nucleo notturno» dell’invenzione. Più pensiamo di avvicinarci ad essa, più l’origine di questa invenzione si allontana e ci sfugge, in una magia di prospettive suscitate a non finire. La biografia reale affascina e sgomenta, ci sospinge con forza — anzi con la violenza del dispetto — verso la biografia immaginaria. Lasciare ogni speranza, rinunziare a voler comprenderei Noi siamo in presenza della circostanza, di tutte le circostanze; passo dopo passo, scopriamo la fatica quotidiana e la sua cornice, individuiamo le preferen­ ze, le manie, le diversioni, seguiamo l’evolvere delle preoccupazioni, la fissazione dei gusti e delle scelte. In fondo: l’enigma: a ognuno di cercare di trovargli una soluzione, cosi «transeunte» come deve restare, provvi­ soria, ineluttabilmente.

Capitolo secondo

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21. Teli me .*

Beethoven un nome — il nome — il simbolo meno discusso piu accettato, riconosciuto dalla nostra cultura musicale Beethoven — dal saggio filosofico al comic-strip — dall’indagine psicoanalitica alla biografia romanzata

— il culto o la parodia del culto — tra Bach e Wagner meno austero del primo meno isterico del secondo — comunque: rispettato, amato, (non dimentichiamo: piu serio di Haydn più profondo di Mozart meno noioso di Brahms +, -, +, L’avventura era però cominciata in modo curioso.

Oggi

Delacroix: «È l’opera di un pazzo o di un genio Nel dubbio, scommetto per il genio». (Senza parlare di Goethe e della sua repulsione per un uragano cosi poco dirozzato).

Ma lo stupore fece posto al delirio: eccesso di titanismo valanga di catastrofi e di colpi del Destino — lacrime amare, e inchiostro di sangue — * Testo scritto per il bicentenario della nascita di Beethoven, apparso in tedesco in «Die Welt», 12 dicembre 1970. Inedito in francese.

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lampi, fuochi e fulmini genio, genio, genio — Poi un certo aspetto troppo titanico del genio fu abbandonato al volgo.

La raffinatezza si addice all’asceta come il lutto a Elettra.

L’uomo, non piu della Folla, ma del futuro, il futuro, incalcolabile, eterno; cosi terrificante - quasi - l’asceta come sa esserlo il titano. Beethoven, lanterna magica per molte scimmie. Quest’«uomo» è potuto nascere? e duecento anni fa? e in una città — e in un’umile casa? A che punto siamo noi, dopo duecento anni? duecento anni, davvero?

Da una riva afi’altra - la sinistra e la destra, ovviamente — (come per la nascita di Amia Livia Plurabella) il dialogo ha fatto nascere il fiume/ /mitico. Discussione: Il vostro/mio B. non è il mio/vostro. Il mio/vostro B. - migliore--------— più autentico —— — più vero-------— più profondo — - più moderno — — più giustificato — ecc. ---------------- ecc. ---------------— più bla-bla------ del vostro/mio

L’eroe fra gli eroi — l’uomo fra gli uomini Il classico per eccellenza — il novatore per essenza La musica fatta uomo — l’uomo fattosi musica Girate e rigirate questo diamante variamente sfaccettato. Vi vedrete, attraverso, mille soli! Dialogo — tra sordi; si. (Sorta di dedica).

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Poi gli omaggi — rispettosi, ognuno nel suo genere. — Si è ricondotti alla questione precedente —

Rendo omaggio al mio Beethoven, che non è il vostro.

T, . monumento , v . L omaggio mento ^meno risPettoso di quanto non pretenda) L’omaggio

assalto

(più rispettabile di quanto non pretenda)

L’omaggio dinamico L’omaggio statico L’incenso, la mirra... e l’oro

Oh re magi che portate i vostri doni a questo neonato di duecento anni, a quale stella affidate il vostro pro/cedere?

E in questa stalla, chi vorrà essere il bue? chi potrà essere l’asino? (Grazie per le risposte).

(Gli altri personaggi della vignetta sono riconoscibili ------ > all’eccesso). (Joseph [Haydn??] il falegname — o il figlio del fabbro ferraio) (Maria Musica - e lo Spirito Santo, che non figura sempre sulla vignetta).

Bene. La cerimonia della duecentesima nascita ha sfoggiato le sue pompe e i suoi fasti, le sue caricature, e i suoi quadri «viventi». (Ma si può celebrare con tanto splendore La nascita, anno zero?

Mi ricorda la storia - assurda, pare Il colonnello [o generale?/ o capitano?] Hugo andò nel 1802 [mese?/ giorno?/ ora?] a dichiarare all’ufficio dello stato civile [di Besan^on? di Dole?] la nascita di un figlio. — Nome, chiede l’impiegato — Victor, risponde il padre felice — Tutta la mia ammirazione, esclama l’impiegato Immaginate lo stesso aneddoto, a Bonn, duecento anni fa).

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Dunque, abbiamo celebrato e reso omaggio.

Rendiamo più e più omaggio. Non vi è anniversario (nascita o/e morte) che non sia doverosamente e degnamente sottolineato. A patto che coincida con una cifra tonda, simbolica, multipla di 5, di io, di 100. Questa fiera di anniversari è inquietante. Giunge un momento in cui, come in Ionesco, la morte invade l’intero appartamento e ne scaccia ignominiosamente i vivi. È il caso di restarne spaventati? È il segno di una civiltà in età decadente, che si aggrappa alle proprie doti, ma in una maniera tale che il carosello prende l’aspetto di una caccia ai fantasmi? È una cultura debole al punto da non potere più - sopportare forti salassi? — dimenticare le proprie ricchezze? — procedere incurante del proprio albero genealogico. Abbiamo reso omaggio un simbolo irreparabile della nostra cultura musicale.

Ne siamo sicuri?

Le circostanze non ci ingannano? Un po’ di storia - molto rapidamente. Le idee, per prime: All’origine fu Rousseau (Jean-Jacques). La rivoluzione utopistica — e la rivoluzione pragmatica seguirono di poco. Dall’idealismo al sangue, andata - quindi ritorno all’idealismo.

Il 1789 aveva si tentato una propria musica e i propri inni rivoluzio­ nari - ma la personalità mancava: molte tracce vecchio regime, e non un precursore per indicarci il cammino.

Insomma, la musica non era pronta a coincidere con le idee - si conti­ nua a dire che i musicisti sono sempre in ritardo sui propri rivali e col­ leghi scrittori. Infine, venne Schiller - e Beethoven: sempre in ritardo. L’89 entra nel­

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la leggenda: tutti gli uomini sono fratelli. Ma, strada facendo, siamo già a Napoleone e alla restaurazione. La leggenda vive, si allarga. Finirà per inondare tutto il diciannovesi­ mo secolo che non smetterà di proclamare: la sua fede in ipotetiche rivoluzioni la sua fede nell’umanità la sua fede nel progresso infinito (ad astra per aspera...) (ad augusta per angusta...) Beethoven rimarrà il portavoce emozionale. Fidelio - l’Ode alla gioia, questi strali dell’idealismo rivoluzionario.

Beethoven - il Prometeo punito dagli Dèi ed esaltato, poiché ci ha dato il fuoco nuovo, la scintilla divina.

Durante il cammino, l’ideale, a poco a poco, è stato requisito da al­ cuni settori della società, nientemeno che idealisti. Quella generosità serviva loro da comune paravento per propositi molto meno nobili. Alla fine dell’itinerario, resta da sapere se la filiazione che risale a Rousseau non sia esaurita. Tutto indica che un’epoca rivoluzionaria, o perlomeno una forma di rivoluzione — un sogno? - è chiusa, finita. Che il futuro sognerà, o «rivoluzionerà» in modo assolutamente di­ verso. Si deve dire che il porta-bandiera/Beethoven, ora/è condannato a scomparire — per difetto di attualità? Non rispondiamo ancora - Attenzione, e passiamo a La musica, adesso:

Il linguaggio è qui, collettivo in certo senso. (Ciò non impedisce le differenze di struttura) Le scoperte non sono accettate così immediatamente come si crede comunemente oggi ma la ricerca / l’espressione esaltata, subito virulenta, dell’indivi­ duo? non ha ancora fatto la sua comparsa. Beethoven innova - sempre più — al punto che la collettività (verso la fine) rifiuta di identificarsi con questo individuo.

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U originalità scava i suoi fossati attorno al temperamento, unico. Il linguaggio ne subisce le conseguenze, sino al conflitto tra ciò che si ritiene — per comodo? per istin­ to? - e ciò che si scopre. Il linguaggio apprende, soffre, le prime distorsioni. Il che lo rende interessante, drammatico. Il germe della distruzione futura si trova qui. Equilibrio di anni privilegiati tra ciò che si stabilisce - ciò che si accetta ciò che si distrugge - ciò che si contesta

Difficile equazione - uno stato che si direbbe transitorio tuttavia, fossilizzandosi nel definitivo della lava rifusa.

Ancora una volta: il vulcano è spento? Apparentemente, no.

E tuttavia anche stavolta, i sogni del futuro non si iscriveranno mai piu — la cosa è più che evidente — in questo paesaggio. L’epoca che finisce: l’individuo - che impone il suo pensiero alla collettività, - che le indica l’indipendenza, — che giunge come un liberatore.

Probabilmente, il pensiero futuro: (si intuisce — distante da noi) in seno alla comunità, sorto da esso — ma assoggettato ai suoi meccanismi coercitivi — l’in­ dividuo (ancora lui, però) agisce in funzione di un’espressione collettiva; il «progresso» esige un lavoro collettivo, una partecipazione comu­ nitaria.

Al passato: la lingua musicale fornisce l’opportunità all’invenzione di utiliz­ zare principi e materiali complessivi che all’occorrenza distorce. (Che bisogno ho di pensare al vostro violino...)... un idealismo congenito. l’invenzione si pone entro/contro le regole. Al futuro: l’invenzione crea il linguaggio e il materiale; accade anche che il materiale distorca il pensiero, costringendolo al realismo.

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Anche l’artigiano diviene collettivo. l’invenzione crea le proprie necessità.

Al passato: l’individuo orienta la collettività Al futuro: la collettività utilizza le risorse dell’individuo

Tutto ciò che rappresenta Beethoven, una vasta plaga della nostra storia, cede il posto a un’altra che appena sta per cominciare, di cui l’Europa — o i suoi membri - non avrà piu il privilegio — qua­ si — esclusivo Non è il momento di celebrare, non una nascita individuale, ma una morte collettiva? Non è questo un modo di rassicurarsi, quando si sospetta che la supremazia a cui si è fatta l’abitudine, sta per scomparire? Le due annessioni di Beethoven si leggono allora chiaramente.

- Una nostalgia di questi circa due secoli decisivi, un desiderio di rinverdire gli antichi splendori. Niente è cambiato, niente cambierà. Tutto si coagula in una luce solare fissata per l’eternità. — Partiamo per l’ignoto, pieni di passione. Ma portiamoci dietro per rassicurarci il busto di questo antenato. Prendiamolo come patrono dell’avventura. Egli sarà testimone, di fronte ai nostalgici, che siamo dei «barbari» ostinati. Che pensare?

Si giunge a un punto della storia in cui qualsiasi monumento, qual­ siasi opera non ci insegna più niente, direttamente.

Il tempio greco non vi insegna a costruire un grattacielo vetro x acciaio. Ma si tutela il tempio greco - per il piacere, e il ti­ more, il mistero di una vita finita. Stelle morte che scintillano ancora ai nostri occhi. Cosi, perché volere ad ogni costo l’attualità di un’opera? Essa si irradia da se stessa, per se stessa. La sua supremazia storica raggelata è un inganno.

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La sua radioattività non ha niente a che vedere con un profilo futuro. Tra queste voci che dialogano, / teli me, eli me che lo creano, / elm il fiume / Beethoven / resta sordo afie suppliche. Inonda. E non si sa verso quale Oceano verso quale morte si avvia. Chi non si sente sollevato sapendo che la morte - la sua morte - è imprevedibile? Anche se ineluttabile.

22. L'immaginario in Berlioz .*

L’esperienza di Berlioz nel mondo della musica è alquanto singolare, come dimostra il fatto che non è stata ancora assimilata né è divenuta parte integrante della tradizione. Mentre Wagner, per fare un esempio, ha suscitato ammiratori e detrattori accaniti, Berlioz dà sempre l’impres­ sione dell’isolamento: egli si situa a un punto in cui i giudizi tradizionali hanno scarsa presa. Credo che la ragione principale di ciò vada vista nel fatto che una gran parte della sua opera è restata immaginario. Nessuno pensa di negare che le sue creazioni esistano o che non siano suscettibili di integrarsi all’eredità musicale; infatti, ed è un tratto que­ sto che lo accomuna a Wagner, egli possiede almeno in uguale misura senso pratico e immaginazione. Una delle costanti del suo temperamento è, per l’appunto, una mescolanza di realismo e di fantasia — un realismo che giunge ad essere tanto minuzioso quanto smisurata può essere la fantasia. L’opera di Berlioz si muove in una sfera difficile da definire, in quan­ to non rispetta, né pretende di rispettare, le convenzioni seguite nel processo di creazione e di trasmissione. A seconda delle circostanze, la storia ha imposto al compositore opere legate al culto, o destinate al divertimento. Ciò comporta l’obbligo di schemi definiti, che mutano a seconda dell’epoca, ma obbediscono alle convenzioni sociali in quel mo­ mento in vigore. La musica religiosa è un aspetto di questo rituale, la * Apparso in inglese su «High Fidelity - Musical America», 6 marzo 1969, vol. XIX, n. 42, pp. 43-46. Inedito in francese.

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musica di concerto o d’opera ne è il versante opposto. Ma è evidente che non è mai venuta meno l’osmosi stilistica tra l’una e l’altra, tanto che a volte è arduo distinguere a quale dei due rituali appartenga una certa musica. La Rivoluzione francese non muta radicalmente questo stato di cose; nondimeno pone l’accento sul rituale laico, sul dovere verso-io Stato. La musica sarà uno dei fenomeni essenziali delle grandi feste popolari orga­ nizzate dalla Rivoluzione francese, sotto il manifesto patronato di JeanJacques Rousseau. Il cerimoniale rivoluzionario rinnova il rituale cri­ stiano e fornendolo di altre coordinate, gli indica ancora una volta come urgente è la necessità sociale. Utilizza la processione, lo spettacolo «astratto», che per secoli erano stati dominio della chiesa. Basta sostitui­ re Dio con la dea Ragione, muta la circostanza ma i movimenti non cam­ biano. Tuttavia il rapporto della musica con la Società è fondamental­ mente diverso, e Berlioz ne resterà influenzato per tutta la sua esistenza. Se è possibile osservare in modo direttamente manifesto l’influenza rivoluzionaria in opere come il Requiem, il Te Deum, o la Symphonie funèbre et triomphale (il residuo rivoluzionario non entra in contraddizione apparente né con la pratica cattolica, né con la devozione governa­ tiva...), non è essa che costituisce in Berlioz il fenomeno più misterioso. Spesso gli si è rimproverato un gigantismo e una predilezione per ciò che è vistoso e smagliante. E spesso egli si è adoperato ad aggravare i malin­ tesi con una ridondanza non solo nelle sue opere ma anche negli scritti con cui li ha accompagnati per tutta la vita. Non vi è in questo una compensazione a sogni mai realizzati, in quanto legati, a mio avviso, a certi aspetti dell’idea rivoluzionaria francese, privati oramai di senso dall’evoluzione politica e sociale? A questo si aggiunga un bisogno insaziabile di autobiografia, che non si manifesta soltanto nei libri che descrivono la sua propria esistenza di uomo e di musicista, ma nelle numerose opere in cui, direttamente o indirettamente, egli si racconta. Si potrebbe essere tentati di scorgere in questo un bisogno insito nel romanticismo. Si tratta tuttavia di una forma assai particolare del romanticismo che appartiene in proprio a Berlioz, in quanto è difficile rilevare confessioni cosi ostinatamente per­ sonali negli altri grandi compositori di quel periodo. Anche se l’origine personale affiora ad ogni istante in alcuni di loro, essi la traspongono e la trascendono sino a crearne un mito. (Penso ovviamente a Tristano}, In tali condizioni, tutto ha contribuito a fare di Berlioz una vittima designata deH’immaginario. La sua opera è a un tempo al di là e al di qua delle convenzioni, non può insomma entrare se non molto difficilmente negli schemi consueti del teatro o del concerto. Sopravvaluta il concerto

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e sottovaluta il teatro. I limiti inerenti a una forma sociale di trasmissio­ ne non hanno ragion d’essere, né logica; vi si avverte chiaramente un carattere artificiale che vessa l’immaginario senza dargli la possibilità di esprimersi in una dimensione fluida e immateriale. Tutte le circostanze che fanno del concerto e del teatro ciò che sono, appaiono, per questa forma di immaginario, troppo coercitive, in quanto gli tolgono in gran parte la sua ragion d’essere.

Esiste un testo di Berlioz assai poco noto al pubblico, inserito al termine del suo Traité d’Orchestration — una lettura riservata ai profes­ sionisti della musica. Il testo, di gran lunga uno dei suoi più significativi, rende conto di come egli si pone di fronte alla realizzazione musicale. Siamo al capitolo finale del Trattato intitolato U orchestre. Lo scritto è tipico del carattere di Berlioz, che mescola realismo e immaginazione senza contrapporli, quale duplice aspetto di una innegabile «follia» in­ ventiva: sogno alquanto irreale calcolato con estrema minuzia. Il capito­ lo ha un inizio pedestre e descrive semplicemente che cos’è un’orchestra, come la si organizza, come si può collocarla in una sala, e sin qui niente di più comune. Ben presto però vi si mescolano alcune considerazioni rivelatrici sulle orchestre all’aperto. L’aria aperta, luogo tipico dell’e­ spansione immaginaria, è avversa all’acustica del fenomeno sonoro orga­ nizzato: tra la «natura» e «Varte musicale» esiste dunque già una fonda­ mentale incompatibilità. Tuttavia Berlioz accorda loro una possibilità di incontrarsi nelle strade di una città, dove le facciate delle case sono l’equi­ valente approssimativo di una sala chiusa (si avverte qui il sostenitore di una tesi interessata, e forse egli non avrebbe più scritto in termini così positivi dopo gli insuccessi nelle vie di Parigi...) Dopo essere passato per questa digressione molto sintomatica, Berlioz descrive le condizioni di esecuzione ideali per il concerto e il teatro. Ma non può fermarsi qui e ancora una volta cede ben presto al demone della supposizione, descri­ vendo ciò che egli chiama una «magnifica orchestra di Festival». Egli deplora come un ostacolo irriducibile «la costante uniformità delle mas­ se di esecuzione»; insomma, denuncia la standardizzazione degli effettivi sinfonici e la considera nei suoi aspetti negativi. Questa riflessione, vec­ chia più di un secolo, sulla rigidità dell’apparato sinfonico testimonia di una grande perspicacia; in effetto, questa rigidità doveva a lungo congelare, paralizzare, secondo dimensioni stabilite e accettate, l’imma­ ginazione dei compositori, dando loro per esprimersi lo stesso schema obbligato, e circostanze identiche. È innegabile tuttavia che la standar­ dizzazione delle condizioni musicali abbia in un certo senso portato a una più alta qualificazione professionale, accresciuto il repertorio, stabi­

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lito una tradizione (anzi un’esigenza) sociale del concerto, anche se Ber­ lioz in quegli anni non poteva averne coscienza. In compenso, egli ha inteso perfettamente la necessità impellente del modello — musicale co­ me sociologico - a cui dovevano conformarsi tutte le opere destinate alla vita sinfonica. Tralascio talune considerazioni polemiche, che purtroppo restano sempre di attualità, sulla tirannia delle condizioni economiche, e vengo alla ragione d’essere di questo capitolo, cioè alla descrizione di un’or­ chestra immaginaria — nella sua particolarità. «Sarebbe tuttavia interes­ sante, — scrive Berlioz, — provare una volta, in una composizione scritta ad hoc, l’uso simultaneo di tutte le forze musicali che si possono mettere insieme a Parigi. Supponendo che un maestro possa averli ai propri ordini, in un vasto locale predisposto allo scopo da un architetto esperto di acustica e musica, egli dovrebbe, prima di scrivere, determinare con precisione la pianta e la disposizione di questa immensa orchestra, e averle poi sempre presenti allo spirito quando scrive». Berlioz ci fa notare qualche pagina prima «l’importanza dei diversi punti di partenza dei suoni». Anche su questo punto, egli insorge contro la standardizza­ zione della sistemazione dell’orchestra in quanto contraria al carattere specifico di ogni opera: un punto di vista essenzialmente moderno che ci sorprende per la sua acutezza. Berlioz scrive infatti: «Certe parti di un’orchestra sono destinate dal compositore a interrogarsi e a risponder­ si; ora questa intenzione diviene manifesta e bella solo se i gruppi tra cui si stabilisce il dialogo sono sufficientemente lontani gli uni dagli altri. Il compositore deve dunque nella sua partitura indicare la disposizione che giudica per loro conveniente». E in verità, abbiamo come esempio preciso il Requiem con l’ubicazione delle orchestre di ottoni; non si tratta soltanto di un effetto spettacolare, ma di una struttura musicale disposta nello spazio reale. Che la disposizione degli ottoni del Requiem sia stata fondamentalmente descrittiva e simbolica, legata alla definizione dei pun­ ti cardinali, indica nondimeno una preoccupazione insolita per l’epoca. (E non credo che Venezia, Gabrieli e Monteverdi abbiano contribuito in qualche misura a questa concezione: Berlioz ignorava i fasti di San Marco). Qualche pagina dopo, Berlioz prevede e previene le obiezioni che po­ trebbero sorgere contro l’impiego delle grandi masse orchestrali e l’abu­ so che se ne sarebbe fatto sul finire del xix secolo, ingrassando con raddoppi una materia musicale che non era in origine destinata a soppor­ tarli. «Finora nei Festival, - cito ancora da Berlioz, - non si sono sentiti che l’orchestra e il coro soliti le cui parti erano quadruplicate o quintu­ plicate secondo il numero più o meno grande degli esecutori; ma qui si

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tratterebbe di tutt’altra cosa, e il compositore che volesse mettere in rilievo le risorse prodigiose e innumerevoli di un tale strumento, avreb­ be sicuramente un nuovo compito da svolgere». Berlioz descrive allora nei minimi particolari tutta la composizione di questo complesso immaginario, cifre alla mano: non meno di 467 stru­ mentisti e 360 coristi. La nomenclatura degli strumentisti inizia con 120 violini e termina con 4 padiglioni cinesi; nel mezzo troviamo 30 arpe e 30 pianoforti; quanto ai cori, non sono meno di 16. Coristi compresi non si arriva alla «Sinfonia dei Mille», ma non si è lontani in quanto si giunge a 827 esecutori. Di questo colossale complesso non lo interessa in primis la massa nel suo insieme; in effetto, egli tiene a costituire un gran numero di piccole orchestre all’interno della grande orchestra, in modo da di versificare a un tempo lo stile e la sonorità: «Occorrerebbe eviden­ temente adottare uno stile di una straordinaria larghezza tutte le volte che la massa intera fosse messa in azione, riservando gli effetti delicati, i movimenti leggeri e rapidi a piccole orchestre che l’autore potrebbe facilmente comporre e far dialogare insieme nel bel mezzo di questa enorme schiera musicale. Oltre ai riflessi cromatici che la ricchezza di timbri diversi farebbe sorgere ad ogni istante, sarebbero ricavabili effetti armonici mai uditi». A questo punto, Berlioz si accinge a stendere un catalogo preciso degli effetti ricavabili da una tale orchestra; e devo dire che la lettura di questo catalogo mi ha sempre portato a un confronto tra i più sconve­ nienti, con le pagine finali delle Centoventi giornate di Sodoma-. Sade, nell’impossibilità provvisoria di completare la sua opera, stende un cata­ logo delle perversioni ancora da descrivere... Vi è nel catalogo di Sade come in quello di Berlioz, una sorta di ossessione nell’analisi combinato­ ria, riconducibile a una stessa motivazione: l’inappagamento - compen­ sato da una dissolutezza immaginaria, solo punto comune, senza dubbio, tra Berlioz e Sade! Quando si legge il catalogo immaginato da Berlioz a partire da tutti gli strumenti riuniti in «orchestra di Festival», si vede sfilare tutta la strumentazione del xix e del xx secolo: non soltanto le congiunzioni strumentali che hanno già preso forma, ma quelle che non esisteranno se non allo stato di approssimazione, date le impossibilità economiche di cui si lamentava Berlioz (restate quasi immutate fino ai nostri giorni!) Ne voglio citare alcune la cui possibilità di realizzarsi si proietta esclusi­ vamente nell’immaginario. Tra esse: «La riunione in grande orchestra di 30 arpe con la massa intera degli strumenti ad arco per pizzicato e che formano cosi, nel loro insieme, un’altra arpa gigantesca di 934 corde, per gli accenti graziosi, brillanti,

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voluttuosi e in tutte le gradazioni» (le 934 corde sono esatte corda piu corda meno, dato il numero di strumenti menzionati...) «La riunione di 30 pianoforti con i sei giochi di timbri, le 12 paia di cembali antichi, i 6 triangoli (che potrebbero essere accordati come i cembali antichi in differenti toni), e i 4 padiglioni cinesi, che costituisco­ no un’orchestra a percussione, metallica, per gli accenti gioiosi e brillan­ ti, nella gradazione mezzo-forte». Dopo avere cosi descritto l’entità costituita da ogni raggruppamento possibile, Berlioz si domanda «come enumerare tutti gli aspetti armonici che assumerebbe poi ciascuno dei differenti gruppi associato ai gruppi che gli sono affini o contrastanti! » E anche qui l’immaginazione combi­ natoria di Berlioz si sbizzarrisce. Se ci descrive delle forme largamente utilizzate, o meglio convenzionali, come «un canto di Soprani, o di Teno­ ri, o di Bassi, o di tutte le voci all’ottava, accompagnato da ur\ orchestra strumentale», egli pensa a soluzioni meno ortodosse e rovescia la situa­ zione ordinaria per proporci «un canto di Violini, Contralto e Violoncel­ li uniti, o di strumenti a fiato di legno uniti, o di strumenti di ottone uniti, accompagnato da wti orchestra vocale». La descrizione termina d’altronde, per spossatezza o scoraggiamento, dinanzi alla montagna di future ricchezze, con un assai preciso: «ecc., ecc., ecc.». L’affinità con Sade si accentua immediatamente dopo, quando viene descritto minuziosamente «il sistema di ripetizioni da stabilire per questra orchestra colossale». II direttore d’orchestra e i suoi assistenti, diret­ tori aggiunti e ripetitori, obbediscono a una stessa disciplina che non comporta meno di dodici tappe. Qui, d’altronde, termina la descrizione realista. Berlioz sottolinea di passata i meriti di una tale orchestra^ si difende da un’accusa che gli sta particolarmente a cuore: «Il pregiudizio volgare chiama rumorose le grandi orchestre: se sono ben composte, bene eserci­ tate e ben dirette, e se eseguono della vera musica, possenti bisogna chiamarle: e, certamente, niente è più dissimile che il senso di queste due espressioni... E c’è di più: gli unisoni non acquistano valore reale se non moltiplicandosi al di là di un certo numero... Ecco perché le piccole orchestre, quale che sia il merito degli esecutori che le compongono, hanno cosi scarsa azione e conseguentemente cosi scarso valore». La discussione sull’argomento, da Berlioz a Mahler, da Wagner a Schon­ berg, non si è ancora placata. Né vi sono molte possibilità che ciò possa mai accadere. Non è questo del resto se non un aspetto episodico su cui Berlioz non si sofferma. Per finire citerò il paragrafo conclusivo dell’Orchestra, che è davvero sintomatico:

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«Ma nelle mille combinazioni praticabili con l’orchestra monumenta­ le che abbiamo appena descritto, risiederebbero una ricchezza armonica, una verità di timbri, un susseguirsi di contrasti che non si può paragona­ re a niente di quanto è stato fatto nell’arte fino ad oggi, e soprattutto un’incalcolabile potenza melodica, espressiva e ritmica, una forza pe­ netrante a nessun’altra simile, una sensibilità prodigiosa per le gradazio­ ni d’insieme e di dettaglio. Le sue pause sarebbero simili al sonno mae­ stoso dell’oceano: le sue agitazioni ricorderebbero l’uragano dei tropici, le sue esplosioni, il rombo dei vulcani, vi si ritroverebbero le piante, i mormorii, i rumori misteriosi delle foreste vergini, i clamori, le preghie­ re, i canti di trionfo o di dolore di un popolo dall’anima espansiva, dal cuore ardente, dalle impetuose passioni; e le organizzazioni più ribelli fremerebbero nel vedere il suo crescendo ingrandire ruggendo, come un immenso e sublime incendio!...» Su questo crescendo di condizionali termina la maestosa descrizione: il condizionale è proprio il tempo che si addice all’Opera che Berlioz non realizzerà mai, ma che egli di continuo rammemora... Il «popolo dal­ l’anima espansiva» ricorda, in effetti, Rousseau, Robespierre, le cerimo­ nie del Campo di Marte. Paradossalmente, l’opera resterà nella proie­ zione immaginaria e nella memoria, scontrandosi con le contingenze di una società arretrata, chiusa. Si sarebbe tentati di dire che l’opera scritta di Berlioz non consista se non nei brani sparsi di un’opera piu grande che gli è sfuggita. Simile in questo al Livre definitivo a cui Mallarmé deside­ rava approdare, di cui il Coup de dés non era che una tappa. Lo Spettacolo che Berlioz ha sempre sognato è uno spettacolo dell’ego proiettato nell’immaginario - una dimensione futura assoluta alimen­ tata da un passato eccezionale abolito. Tutte le opere in cui egli ha voluto adattarsi alla convenzione teatrale, persino, fra queste, benvenu­ to Cellini, che sarebbe la più «autobiografica», non sono mai riuscite ad assumere un aspetto propriamente scenico. Particolarmente rivelatrice al riguardo è una lettera di Wagner a Liszt, in cui il problema sembra già inquadrato con grande acutezza: «Se vi è un musicista che si serve del poeta, questi è proprio Berlioz, ma per sua sfortuna egli conforma sem­ pre il poeta alla sua fantasia musicale e a suo piacimento adatta ora Shakespeare, ora Goethe. Egli ha bisogno del poeta in quanto questi lo invade interamente, lo colma di entusiasmo, lo pungola, diventa per lui quello che l’uomo è per la donna. Vedo con dolore questo artista così straordinario perdersi a causa di una solitudine egoistica». Béatrice et Bénédict e i Troyens racchiudono le pagine più belle dell’opera di Berlioz, ma anziché apportare un rinnovamento teatrale, si rivelano incapaci di fornire una drammaturgia e una mitologia che dia

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loro forza di esempio. La convenzione scenica, quanto mai debole, con­ traddice spesso l’immaginazione musicale; ci si ferma ai «numeri separa­ ti» e ai «recitativi»: amplificati, certo, rispetto alle opere dei predeces­ sori - in particolare Gluck e Weber — purtroppo non si fondono in un’entità nuova che darebbe forza a un’estetica propriamente berlioziana del teatro. Quanto a certi brani come la "Damnation de Faust, il fatto di metterli in scena ne riduce la dimensione immaginaria a una penosa finzione. L’immaginazione visiva di Berlioz non è fatta in linea di mas­ sima per essere materialmente rappresentata, in quanto si tratta proprio di una «visione». Per contro, non appena Berlioz si dispone a creare per il teatro, la «visione» è impacciata, obnubilata, dal permanere di con­ venzioni teatrali quanto meno solo rivissute, che anziché fare espandere il genio di Berlioz, lo assoggettano a dei limiti che gli fanno perdere ogni freschezza e grandezza per impastoiarsi nel pittoresco. (Si potrebbe dare lo stesso significato alla tempesta cosi come irrompe nel King, e al tem­ porale dei Froyensì}

Il meglio dell’immaginazione di Berlioz si manifesta in un terreno che non appartiene in fin dei conti a nessun campo determinato da convenzioni precise. In un certo senso, Lelio è l’esempio tipico di ciò che avrebbe potuto essere il campo proprio della sua invenzione poetica, se le contingenze dell’organizzazione musicale non l’avessero condotto ra­ pidamente a rinunciare a questo genere di progetto difficile da accettare per molteplici ragioni - fra cui le considerazioni estetiche non sono meno forti delle difficoltà economiche. In Lelio, vi è una maniera unica di legare teatro e concerto mediante l’elemento autobiografico. Si tratta di un diario intimo, sufficientemente elaborato per essere letto e rappre­ sentato collettivamente; l’autore si è messo egli stesso in scena, proprio in quanto autore: il che non rientra né nel teatro né nel concerto, quanto piuttosto nella pubblica confessione. Una maniera cosi originale di esprimersi è «in anticipo» sul suo tempo, se la si considera da un punto di vista pragmatico: le condizioni offerte a Berlioz dalla sua epoca non gli permettevano di portare a buon fine una realizzazione esatta del suo pensiero, e questo spiega perché egli ha dovuto contentarsi di soluzioni sostitutive, molto lontane dal soddi­ sfare le esigenze della sua intenzione originaria. Frammento di un grande progetto immaginario, l’opera di Berlioz esige senza dubbio che le si trovi finalmente uno stile di presentazione che non rimandi ad alcuno di quelli che accettiamo ancora attualmente, in quanto esistono per certe opere pensate in funzione di categorie de­ terminate. È questa la condizione essenziale, penso, perché le sue opere

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trovino un’esatta collocazione, perché non diano più, come spesso accade ora, l’impressione di un fenomeno non riuscito, di una creazione errati­ ca. Con cento anni di ritardo, resta evidentemente molto problematico trovare un punto d’incontro o di fusione tra concerto immaginario e teatro immaginario, allorché i valori rappresentati dall’opera di Berlioz sono comunque fissati dalla storia. Se la ricostituzione postuma resta verosimilmente illusoria, è possibi­ le dedurre con più profitto da questo sogno sospeso talune soluzioni attuali per la creazione contemporanea. Ma non avrebbero più niente a che vedere, in senso letterale, con la «visione» originaria di Berlioz.

23. Il tempo ri-cercato .* Le interpretazioni sul romanticismo, e su Wagner, sono ancor oggi più che mai aperte. Romanticismo: questa parola tabù è intesa in modi molto diversi; vi è chi pretende di salvaguardare la sua magia, e chi desidera svelarne le menzogne. Certo è che per molti nostri contempora­ nei, il romanticismo rappresenta un paradiso perduto in un mondo che non lascia spazio né al sentimento, né alla fantasticheria, né a qualche poetica vaga; la nostalgia privilegia certe finzioni stilizzate secondo con­ cetti quanto mai borghesi. Romanticismo risulta allora sinonimo di una specie di idealismo ristretto, in un completo vuoto sociale; gli «artisti» godono di tutti i privilegi più rari, quelli ancora di Orfeo, nel momento stesso in cui vagano sospesi nell’assenza: e la responsabilità di fronte a se stessi non meno che di fronte agli altri è venuta meno. Secondo tali norme, il genio consiste nell’essere belli e tacere, conforme al dettato di rito. Quanto più si afferma, tanto più quest’idea del romanticismo si associa ai manierismi dell’epoca, e fornisce a una classe atterrita di dover riflettere ed essere preda degli eventi, oggetti di sogno, evasioni rispetto a una realtà attuale che essa non percepisce se non in modo troppo carnale... Cosi il romanticismo diviene il pretesto e la scusa per rifiutare tutto ciò che nel mondo contemporaneo smaschera i suoi appetiti e le sue debolezze. Ma che cosa ricavare dallo sforzo ostinato - essendo la perseveranza una virtù cardinale in questo caso — di volere analizzare il romanticismo, in particolare la musica romantica, secondo i nostri criteri attuali, e che cosa pensare di questo amalgama in cui la sociologia si vede mescolata * Sull’/lwe/Zo del Nibeliingo di Richard Wagner. Programma «Rheingold» del Festival di Bayreuth 1976, pp. 1-17 e 76-80.

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suo malgrado a considerazioni estetiche di cui il meno che si possa dire è che esse sono in qualche modo superficiali? Sarebbe facile parodiare gli epigoni di Adorno! I rapporti cromatici che rendono la tonalità di Wag­ ner cosi incerta rispecchierebbero i dubbi e le contraddizioni di una società capitalistica in piena espansione che non desidera nel fondo se non una cosa, il proprio annientamento... O ancora: la ricchezza dell’or­ chestrazione di Wagner, la dimensione della sua orchestra, il ricorso a strumenti inusitati per estendere le possibilità sonore, tutto questo sa­ rebbe chiaramente il segno di una borghesia capitalistica assetata di ricchezza e di potenza, che dimostra con i segni esterni piu appariscenti la capacità del suo potere d’acquisto... È facile spingere all’assurdo con­ siderazioni del genere in cui l’analisi in profondità delle motivazioni stilistiche dà luogo a considerazioni sulla fisionomia delle opere, degne di Lavater. L’approccio «fisiognomico» fa naturalmente la parte del leone quando si tratta di una materia meno volatile della musica, poiché il teatro, per la sua natura, si presta ancora più facilmente al gioco delle estrapolazioni «sociologiche». Il contagio ha risparmiato il teatro di Wagner meno di ogni altro. E a partire dal Ring sappiamo tutto della storia europea della metà del xix secolo, dalle rivoluzioni del 1848 sino alla fondazione dell’impero tedesco, ed è una fortuna per noi essere scampati sinora alle epopee coloniali, dal momento che Wagner non era né francese né inglese... Certo, la sua opera si è iscritta in questo capitolo della storia europea; e innegabilmente, essa ha subito il contraccolpo degli avvenimenti cruciali che vi si sono svolti. Ma ad opera finita, è necessario fare ricorso a tutte queste coordinate per percepirne la di­ mensione e il significato? A voler mettersi sempre nella posizione del geometra e dell’agrimensore, non si rischia di dimenticare le qualità più essenziali che fanno si che un paesaggio sia un paesaggio. Si cade a questo punto nel luogo comune che vuole che non si consideri la bellezza di una foresta se si misura l’altezza dei suoi alberi... Inoltre, mi sembra sin troppo chiaro che volersi ostinate a rifarsi alle fonti che, anche se innescarono il processo creativo, restano comunque fonti, manifesta una tendenza a eludere i veri problemi, che sono all’interno dell’opera, e non nelle circostanze che hanno presieduto alla sua nascita, o magari hanno imposto il suo compimento. Ah, come piacerebbe a volte scoprire l’opera senza sapere niente, come quegli esploratori che scoprivano i templi del Messico o dell’Asia sepolti sotto una vegetazione lussureggiante, come quegli archeologi che non dispongono se non di pochi resti di una terra­ cotta per muovere alla ricerca di una civiltà scomparsa! Come questo li costringe a riflettere sull’opera o sul frammento, e a scoprire le qualità so­ stanzialmente intrinseche della creazione, non fosse che al riguardo di un

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singolo oggetto! Potremo mai risolverci a perdere il contesto, a dimenti­ care il tempo di cui i manuali ci ricordano imperiosamente l’onnipresen­ za? Potremo ignorare le circostanze, bandirle dalla nostra memoria, sep­ pellirle nell’oblio per rivolgerci solo sull’interiorità dell’opera? Potremo perdere prima il tempo per ritrovarlo poi in tutta la sua valenza? Molto spesso si dice che un’opera è rivoluzionaria o reazionaria, ma non è facile, soprattutto quando si tratta di Wagner, proibirsi la facile strada della biografia, passare oltre a quegli ostacoli che sono le circo­ stanze. È cosi agevole tracciare un parallelo tra l’ideologia del suo teatro e l’evolversi della sua posizione personale. Niente è più ingannevole, e deludente, di queste analogie semplicistiche, e piuttosto che far continuo riferimento a Bakunin, all’imperatore Guglielmo, a Marx o a Krupp, sarebbe bene ignorarli in anticipo; invocare il loro patrocinio non po­ trebbe sostituire il confronto, all’interno dell’opera, dei fermenti rivolu­ zionari e degli elementi reazionari nella loro struttura musicale e teatrale propriamente detta. Evidentemente, Wagner non ha scritto Woyzeck benché fosse proprio con temporaneo di Buchner... Cosi, allorché si considera questa colossale realizzazione che è il Ring, una strana lega di parole corre alla mente: romanticismo e struttura, in quanto emerge dall’opera un tentativo di totale ristrutturazione nell’u­ niverso dei miti, del dramma, della musica. Tale ristrutturazione agisce naturalmente, di conseguenza, sui principi stessi della rappresentazione, sull’inserimento della rappresentazione nell’esistenza sociale. Muoven­ do da questa prima conseguenza, è facile vedere come il Ring, in partico­ lare, respinga ogni contatto con la meccanica usuale delle esecuzioni, rifiuti ogni compromesso con gli accomodamenti impliciti nello spazio scènico ordinario. La struttura dell’opera rifiuta l’inserimento in un con­ testo corrente, ove il prodotto venduto dipende dalla distribuzione quo­ tidiana. Spesso ancora oggi, il teatro d’opera fa pensare a quei caffè dove, seduti vicino al bancone, si sentono i camerieri annunciare a voce alta le varie ordinazioni: una Carmen, una! una Valchiria, una! un Rigoletto, uno! Se Wagner detestava il sistema contro cui ha levato violente prote­ ste, non era essenzialmente per ragioni di prestigio personale, né tanto meno per motivi esclusivamente di ordine morale; al di là delle lievi feri­ te di amor proprio, accertate, egli respingeva molto più profondamente la struttura del sistema, i rapporti tra opera e pubblico che l’adozione di una tale struttura presuppone. La funzione della rappresentazione do­ vrebbe essere fondamentalmente diversa, in quanto i miti proposti non hanno alcuna misura comune col divertimento, nel senso pascaliano del­ la parola. La rappresentazione di Wagner rifiuta le norme di quanto ha preceduto, rifiuta le convenzioni in cui lo spettacolo d’opera è sprofon­

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dato; esige una struttura musicale e teatrale completamente nuova che egli via via saprà darle. Ora, la trasformazione della struttura teatrale è venuta dal testo? Certo, i testi di Wagner sono stati già sottoposti al vaglio di un’aspra e dura critica, quantunque siano stati poi salvati in virtù della musica. Il loro valore drammatico non è stato contestato, anzi si è riconosciuto il tentativo di creare una propria lingua, ma ne è stato screditato il valore propriamente letterario. Diciamo subito che Wagner non possiede nep­ pure alla lontana le qualità di scandaglio linguistico di un Joyce; le frequenti allitterazioni non meno che il suo repertorio poetico non fanno fede di un genio eccezionale in questo campo. Una buona dose di pedan­ teria, talvolta un certo virtuosismo, spesso prosaicismi e frasi magiche, in qualche tratto: la raccolta in questo campo è molto ineguale. Nondi­ meno, questi testi sono l’espediente necessario per introdurre nel teatro un mondo che appartiene sia all’epopea, sia al romanzo, per presentare dei personaggi di cui è talvolta difficile proporre una rappresentazione visiva. Il mondo epico si scontra di continuo col mondo romanzesco; inequivocabili personaggi da leggenda vi acquistano subito una dimensio­ ne psicologica eccessivamente acuta e penetrante; l’azione motivata an­ zitutto dal carattere dei personaggi, anzi dalla complessità delle loro azioni, ricorre imprevedibilmente, all’occorrenza, agli artifici più vistosi della magia e dei giochi di prestigio. Le peripezie che intervengono nel corso dell’azione, e persino l’aspetto fisico dei personaggi — dai nani ai giganti passando attraverso gli dèi — tutto elude una rappresentazione reale, presuppone quasi una lettura immaginaria -, fanno parte di un mondo mitico di cui la poesia narrata, e non la poesia teatrale, è il vettore assoluto. Cosi, la validità del Ring è posta in pericolo sin dall’inizio, se ci si attiene alla stretta omogeneità. Tuttavia, la musica si farà carico real­ mente della struttura di questi miti, di questi personaggi mitologici; è la musica che articola caratteri, gesti e azioni. Il mito drammatico finirà per avere efficacia in virtù e per il tramite della struttura musicale. Anche ciò che è convenzionale nell’azione scenica, nel dialogo e nella divisione delle scene, sarà assorbito dalla sostanza musicale che trasformerà il materiale primario, lo esalterà, gli darà insomma un significato molto più essenziale, una dimensione infinitamente più emozionante. In questo, il Ring ci offre l’esempio ideale per eccellenza, tanto più interessante in quanto vediamo l’evoluzione della struttura prodursi nel corso dell’ope­ ra. In opere come T'ristano o Parsifal, il progetto è nettamente circoscrit­ to, i problemi minori; inoltre, esse non sono andate al di là di un tempo limitato in cui le idee del compositore non sono mutate, dal momento

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che erano incentrate su un compito preciso, rapidamente portato a ter­ mine. Il Ring ci fornisce, al contrario, la storia dell’evoluzione di Wag­ ner nella sua concezione musicale e drammatica. È stato spesso detto e ripetuto che la realizzazione dell’opera si estende nell’arco di un quarto di secolo, e non si è mancato di sottolineare i meandri e i rischi che una cosi lunga gestazione ha comportato; si è sottolineato ad libitum la differenza di stile musicale che si nota tra l’inizio e la fine di questo «opus magnum », e si è rilevato con ragione che il testo è rimasto in gran parte immutato, mentre l’autore componeva una musica che testimoniava di trasformazioni profonde. Ecco perché il Ring resta un’eccezione nella letteratura musicale - anche se nel campo letterario si potrebbero trova­ re alcuni equivalenti; probabilmente, non nella letteratura poetica o teatrale, il Vaust di Goethe si compone di due parti nettamente antinomiche, ma molto piu nell’opera romanzesca di un Balzac o di un Proust, in particolare, o meglio in modo ancora piu evidente negli Essais di Montaigne, ove le redazioni successive si sovrappongono, si contraddi­ cono, si aggiungono o si annullano nello stesso modo che nel Ring. E poiché gli Essais sono una sorta di diario filosofico, in cui l’autore ritorna di continuo a riflettere sugli stessi concetti fondamentali, è stimolante paragonare il Ring a un diario musicale, ove il compositore riprende continuamente lo stesso materiale tematico per metterci continuamente a parte delle proprie riflessioni e del proprio lavoro intorno a queste scelte fondamentali. Il caso è unico nella storia della musica. A dire il vero, conosciamo i quaderni di appunti di Beethoven, possiamo seguire il lavoro sotterraneo che va da un primo approccio all’idea finale; a volte, il cammino è lungo, incerto — tutte le trasformazioni dell’idea musicale sono documentate in modo estremamente particolareggiato. Dagli appunti di Bonn sino all’esplosione finale a Vienna, si può cosi vedere svilupparsi il tema finale della IX Sinfonia. Ma le trasforma­ zioni non vengono introdotte nel corso di una sola opera, ma sono tutt’al piu utilizzate episodicamente in questa o quell’opera che ci fa prevedere la risoluzione finale. Si tratta insomma di un lavoro latente che si mani­ festa per il tramite di annotazioni che restano al livello di stati premoni­ tori. Con Wagner, vediamo al contrario una sostanza musicale fissata in partenza, e fissata in maniera impressionante, modificarsi sotto i nostri occhi nel corso dell’opera; come certi personaggi di romanzi, vediamo questi temi modificarsi, svilupparsi, unirsi, acquisire una genealogia... Questi temi, direi, vivono una vita indipendente dall’azione dramma­ tica, svolgono un’attività che diviene affascinante da seguire, al di là dei personaggi, delle azioni, dei simboli che rappresentano; acquistano una vitalità affascinante a mano a mano che si penetra nell’opera: voglio dire

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che la loro vita intensa, la loro attività sempre crescente mi sembra in molte occasioni più straordinaria, più prodigiosa di energia e splendore dei personaggi limitati nella loro apparenza teatrale e nella loro possibi­ lità di esistere. È in questo che il testo letterario e il testo musicale si differenziano sempre più profondamente via via che l’opera avanza; la struttura musicale diviene cosi ricca e copiosa da inglobare e assorbire letteralmente alcuni caratteri teatrali rimasti congelati in un’esistenza «anteriore», secondo convenzioni superate. Nella musica, certi temi scompaiono progressivamente in quanto l’autore non sembra più inte­ ressato al loro materiale musicale, dopo averli sacrificati all’aneddoto a cui appartenevano; altri, in compenso, in una situazione iniziale relati­ vamente insignificante, si sviluppano al di fuori di ogni attendibile pro­ porzione: il compositore sembra averne trovato a posteriori il vero si­ gnificato, sembra scoprire via via tutte le potenzialità che erano incluse in certe figure che gli erano servite in un primo tempo da espediente teatrale. È quanto mai singolare nel lavoro di Wagner sui molteplici motivi del Ring, la visione retrospettiva dell’autore su se stesso; egli guarda le parti dell’opera già compiute, e in tal modo conferisce loro una nuova prospettiva che li carica di un significato completamente diverso. Cosicché per noi che leggiamo l’opera adesso, dall’enunciato di certi temi, inizialmente importanti, sappiamo che sono destinati a scomparire, mentre sappiamo dall’enunciato di altri temi, appena accennati, che sono destinati ad assumere un’importanza crescente sino a divenire i temi essenziali di un periodo più tardo. Sin dall’inizio, gettiamo su questi temi lo sguardo che il compositore vi ha gettato a opera compiuta. Da ciò, senza dubbio, promana un fascino intenso, infinitamente più possen­ te della drammaturgia, nonostante tutto abbastanza semplice! Che cosa sono, in effetto, le peripezie propriamente sceniche, a dispetto della loro complicazione, se le si confronta alla complessa esistenza e all’intreccio evolutivo delle idee musicali! In questo circolo immenso dove si è impa­ rato a conoscere ogni motivo, a vederne scomparire alcuni, ricomparire altri, a seguirne la vita e le metamorfosi, siamo nella situazione del narratore in Proust allorché egli si ritrova, trascorsi oramai molti anni, a un ricevimento in casa dei Guermantes. Anche i nostri motivi, che cre­ devamo ancora giovani, hanno oramai i capelli bianchi... Si stenta a credere alla trasformazione che hanno subito; vivissima è nella memoria la loro giovinezza, e pure ci tocca confrontarli bruscamente sulle soglie della vecchiaia! D’altro canto, non è solo questa impressione di improv­ visa tenaglia del tempo che ci riporta a Proust, ma è anche l’uso quanto mai consapevole che Wagner fa della memoria, dello scontro allusivo delle circostanze o degli aneddoti, la famosa «madeleine», insomma!

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Quanto sommaria è la battuta di Debussy che paragona i leitmotive ai segnali stradali. Non v’è dubbio che nel loro uso più semplice i leitmoti­ ve ci indicano chiaramente ciò che occorre sapere, e che i personaggi non hanno ancora riconosciuto... Ci avvertono degli elementi della situazio­ ne, ce ne danno la chiave, ci rendono «intelligenti» in rapporto ai perso­ naggi scenici. Quest’uso troppo evidente, di fatto sono proprio segnali, non è però il solo, anzi; tanto più si procede nell’opera, quanto più le relazioni divengono complesse, ambigue, si caricano di significati diffe­ renti, divenendo il riferimento diretto un’eccezione. Questo atteggia­ mento si riflette nella combinazione tecnica dei motivi. Wagner, all’ini­ zio dell’opera, utilizza assai largamente un tessuto per cosi dire intersti­ ziale, neutro, in cui i motivi importanti fanno di tanto in tanto la loro apparizione per caratterizzare un gesto, sottolineare un’allusione; oppu­ re utilizza lo stesso tipo di motivo-figurazione per organizzare una scena, sistemare un intero quadro; nei recitativi però il tessuto interstiziale, neutro, è preponderante, in quanto serve da segno convenzionale per il linguaggio allo stato comune, quotidiano. Quanto più l’opera si svilup­ pa, tanto più si osserva che il tessuto interstiziale scompare via via per far luogo, anche nei dialoghi-recitativi, a una continuità basata sull’evo­ luzione e la congiunzione dei motivi. In certe scene, tutto si fa motivo, in quanto il linguaggio non ammette più segni convenzionali neutri, li re­ spinge a vantaggio di una trama interamente significante, completamen­ te e unicamente dipendente in rapporto all’opera. Il tessuto strumentale diviene allora estremamente serrato, - serrato, e non sempre compatto — in continua evoluzione, creando un mondo la cui indipendenza rispetto alla scena si manifesta in modo crescente. In questa fase del Ring, si può osservare quasi una dualità tra l’universo drammatico e l’universo musi­ cale, in quanto quest’ultimo diviene di gran lunga più ricco dell’altro, tendendo mediante la sua stessa proliferazione ad attrarre esclusivamen­ te la nostra attenzione a proprio vantaggio. Il mondo dei motivi mani­ festa una forte tendenza all’autonomia, alla quale l’azione scenica servi­ rebbe da costante pretesto, col fornirle gli argomenti; letteralmente, il testo drammatico diviene un pretesto musicale. I due mondi, pur conti­ nuando a confermarsi, stabiliscono un rapporto sempre più complesso, che giunge spesso sino al contrasto, e in questa competizione, è spesso proprio il mondo musicale a manifestare la propria superiorità sul mon­ do drammatico per la ricchezza della sua trama, per l’abbondanza dei significati, per la portata delle conseguenze. Il musicista Wagner possie­ de una forza di convinzione che supera manifestamente, anzi in modo spettacolare, quella del drammaturgo Wagner, mentre resta evidente che il musicista non sarebbe esistito senza il drammaturgo, e che inciden-

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talmente è difficile, per quanto in sommo grado intellettualmente ecci­ tante immaginare le sinfonie che egli avrebbe voluto scrivere alla fine della sua esistenza. Un tessuto cosi ricco di allusioni, di relazioni interne, avrebbe potuto nascere senza un pretesto drammatico, senza personaggi e situazioni a cui riferirsi? La questione è destinata a restare quanto mai aperta, con la sola Siegfried-ldyll come eventuale indicazione di ciò che avrebbe potuto essere la sinfonia secondo Wagner... Di quali mezzi si è servito Wagner per realizzare con una precisione e una complessità crescenti la trama musicale con cui stringe il dramma? Se i motivi fossero soltanto motivi nel senso classico del termine, non ci colpirebbero con tanta intensità. Anche Beethoven ha trovato dei motivi estremamente condensati e sorprendenti, che si imprimono per sempre nella memoria; nondimeno, i motivi di Wagner si fissano anzitutto in noi con una fondamentale differenza: la loro adattabilità nel tempo. In Wagner, i motivi se sono presentati prima in un dato tempo, secondo una velocità determinata, non sono mai completamente circoscritti da un tempo preciso, da una velocità stabilita una volta per tutte, o non lo sono che molto di rado. Di contro, i suoi motivi sono perfettamente trasfor­ mabili e adattabili, peraltro nelle due direzioni; o possono svilupparsi in veri organismi autonomi, per un lungo periodo, chiusi completamente in se stessi, come la prima apparizione del tema del Walhalla, che si ripete due volte nella sua interezza, preparando il testo e quindi sostenendolo; oppure, possono, all’altro estremo, ridursi a una figura di accompagna­ mento quanto mai furtiva, per sottolineare le intenzioni del testo, come quando Sigfrido paragona il rospo al pesce, e in quattro misure sorgono fianco a fianco, agganciati l’uno all’altro, il motivo dei Nibelunghi e il motivo del Reno, per scomparire subito dopo senza lasciare più traccia apparente nel tessuto musicale se non una figurazione quanto mai imme­ diata, letterale. Ma non è solo l’importanza dei motivi in quanto struttu­ ra propriamente detta, che oscilla tra gli estremi; più ancora è la sostanza stessa che, contrariamente all’ingannevole apparenza primaria, non è fissata definitivamente nel tempo musicale. Certo, per lunghi secoli, i contrappuntisti hanno giocato sulle deformazioni del tempo metrico, su cui si fondò una delle principali caratteristiche dell’Ars nova. Ma senza voler risalire a certi testi medievali, che Wagner molto probabilmente non conosceva, basta riandare alla tecnica di Bach per vedere come le trasformazioni cronometriche di un tema siano state importanti nella composizione di certe opere, le fughe in modo particolare - L'arte della fuga essendo una dimostrazione di estremo virtuosismo — in cui notiamo le addizioni e le diminuzioni che, estendendo o stringendo il tempo di una metà, forniscono alla costruzione gli elementi di base. Notiamo

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anche l’allargamento di un corale alle dimensioni di Cantus firmus, servendo da substrato all’impalcatura polifonica. Ma si ha qui a che fare con un tempo gerarchizzato in cui le addizioni e le diminuzioni sono regolate secondo un codice formale, accettato e riconosciuto come tale, che funziona come elemento unificante di diversi strati polifonici. Questi procedimenti strettamente accademici, fissati in un certo periodo della storia musicale, saranno impiegati dai compositori sempre nel pieno rispetto della codificazione. Mozart, beninteso, ma anche l’iconoclasta Beethoven, iconoclasta per ben altre ragioni, conserverà, anche nelle sue fughe più libere, il formalismo delle costruzioni canoniche. Wagner, al pari di Berlioz, non comprende le necessità di una siffatta codificazione, anzi gli paiono assurde, arcaiche, in netta contraddizione con la fluidità che ricerca la propria musica, che aspira al proprio tempo musicale. E qui, per l’appunto, si colloca la novità dei suoi motivi, i quali non soltan­ to non sono ormeggiati ad alcun tempo definito, e ancor meno definitivo, ma non si saldano nelle loro trasformazioni, ad alcuna gerarchia formale preesistente. Le loro metamorfosi nel tempo dipendono essenzialmente dall’espressione dell’istante, del momento in cui sono impiegati, e dalla ragione espressiva per la quale Wagner li adotta. E vi si faccia attenzione quando si legge, si ascolta o si interpreta la partitura: nostro malgrado, poiché inconsciamente ricolleghiamo un certo tema al momento in cui ci sembra rivestire il suo significato piu importante, tendiamo facilmente a voler ricondurre i temi a una velocità unica, data, quella che consideria­ mo che meglio le convenga. In tal modo, si va contro l’essenza stessa della maggior parte di questi temi, che è quella di non legarsi a una velocità di svolgimento. Al proposito non vi è indecisione nel pensiero del compositore, essendo egli largamente in grado, quando ne ha biso­ gno, di fissare con fermezza il profilo completo e assoluto di un tema. Ma quei temi servono un’intenzione monovalente, mentre il carattere pro­ prio degli altri è l’ambivalenza. E proprio perché ambivalenti Wagner costruirà i propri temi a partire da elementi polimetrici, facilmente tra­ sformabili, a un punto persino pericoloso, poiché qualsiasi cromatismo ascendente, anche distaccato dal proprio contesto armonico, può subito evocare Tristano. Ridurre gli elementi costitutivi di un tema a funzioni cosi semplici presenta l’inconveniente di renderli simili in tutte le circo­ stanze, anche in quelle non proprio volute o desiderate: in altri termini, tutte le «madeleine» tendono a somigliarsi, e a generare cosi equivoci di memoria... Molti di questi temi sono costruiti a partire da arpeggi, o da variazioni su arpeggi, e a partire da ritmi puntati facilmente smontabili. Di conseguenza, è facile constatare a che punto questo materiale sia dut-, tile e possa prestarsi ai disegni del compositore che potrà modellarli se­

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condo il contesto. Le loro vere figure nel tempo nascono a partire da una matrice quanto mai generale, ove l’accento può spostarsi senza fatica dall’altezza all’armonia, dall’armonia al ritmo, e viceversa. Proprio da questa tecnica cosi nuova per l’epoca, Schonberg dedurrà molto più tardi alcune conseguenze che tenderanno a ridurre all’astrazione assoluta dei soli intervalli la matrice da cui i temi saranno dedotti, essendo la costru­ zione e l’inserzione nel tempo un fatto successivo. Muovendo da questa matrice unica, e seguendo un procedimento opposto a quello di Wagner, Berg costruirà i temi e le figure indispensabili a caratterizzare i perso­ naggi della sua opera Lulu, e darà loro un profilo fortemente accentuato per differenziarli individualmente dalla matrice neutra e astratta. Parimenti si può constatare che per la mediazione dei temi wagneriani conce­ piti in quanto arpeggi composti, armonia e melodia si compenetrano a volte così perfettamente da confondersi. D’altro canto, sin dalle prime battute del Ring, si afferma, in forma quanto mai spettacolare, una confusione, una fusione dell’armonia e della melodia. Nel famoso esor­ dio del Rheingold, la sovrapposizione armonica è creata dalla prolifera­ zione interna dello stesso materiale melodico; senza dubbio, non siamo in grado di stabilire quale di queste due funzioni sia la più importante, poiché se l’una scaturisce dall’altra, l’altra non potrebbe esistere senza la prima: si tratta proprio, allora, di una confusione per accumulazione. In altre circostanze, come alla fine della Valchiria, la melodia diviene sem­ plicemente la linea dorsale dell’armonia, l’una essendo assolutamente impensabile senza l’altra, ed entrambe legate dalla stessa e unica funzio­ ne che è quella di articolare il ritmo. Come si vede, è questo un punto di vista caro a Wagner, che egli ha utilizzato all’estremo più volte nel corso dell’opera, esplorando tutte le possibilità di tali ambigue relazioni per dar loro massima efficacia e rendere la fusione, o la confusione, spettaco­ lari. Naturalmente, Wagner non rinuncia a utilizzare, distesi con forza e potenza, i procedimenti ormai classici della variazione, come le modifica­ zioni di intervalli nella linea melodica, le modificazioni armoniche tra le diverse apparizioni di una successione di accordi governata dalle stesse figure ritmiche, dallo stesso arrangiamento delle sequenze: il tema del Walhalla testimonia di queste trasformazioni, ove ritmi, accordi, linee melodiche conservano la stessa trama, ove tuttavia tali elementi sono deformati anche se continuano ad essere riconoscibili. A volte però si è al limite del riconoscibile, e viene da chiedersi di passata se un ritmo, un’armonia appartengano realmente a una figura o a un’altra; le associa­ zioni divengono allora incerte, e l’ambiguità pervade l’identità dei moti­ vi. Come si vede, Wagner ha esteso ben al di là di quanto aveva trovato, persino in Beethoven, i limiti della variazione. Per questo, ha dovuto

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mutare il concetto di tempo musicale, stabilire le funzioni del tempo con altri mezzi, più ricchi, più duttili, più malleabili, e ancora una volta, più ambigui. Una siffatta intenzione presuppone un tempo musicale infini­ tamente suscettibile di espansione e di contrazione, una variazione con­ tinua nell’approccio della struttura temporale; le dimensioni si fissano nell’istante stesso in cui sono colte, per disfarsi e riformarsi secondo altri criteri quando la necessità drammatica e musicale si sia evoluta. La transizione che diviene a poco a poco l’oggetto della sua principale osses­ sione, non può concepirsi se non a partire da un certo materiale da cui la fissità sia stata praticamente bandita. I criteri di tempo hanno dovuto progressivamente essere trasformati: i temi si allontanano a poco a poco dalla definizione beethoveniana che li ha cosi fortemente influenzati in principio, suscitando cosi nuove forme di svolgimento, modi profonda­ mente diversi di organizzare la loro esistenza e i loro contrasti. La gerar­ chia stabilita attraverso il linguaggio classico si dissolve a vantaggio dello scambio, della fluidità nel divenire degli esseri musicali che necessi­ tano di relazioni formali di un altro ordine. Ora, per quali vie Wagner, partito da una struttura generale che funge da fondo armonico ai temi che ne sorgono, giunge in sostanza alla struttura in cui tutto è tema? Il Ring è la dimostrazione più clamorosa dell’evoluzione di questo metodo che vediamo svilupparsi nell’atto del suo farsi. Opere tanto più immediatamente omogenee come T'ristano o Meistersinger forniscono, per contro, una cristallizzazione del pensiero di Wagner a un dato momento della composizione; mentre si direbbe che in Parsifal, con una sorprendente retrospettiva, egli ripercorra osti­ natamente, scientemente, stavolta, il cammino compiuto dal tema-5/#tement al texwà-gestalt. La prospettiva presentata in scorcio nella sua ultima opera sembra essere la realizzazione consapevole, e ancora una volta retrospettiva, di una prassi che nel Ring si rivela a poco a poco, ma ignora senza alcun dubbio all’inizio dell’opera ciò che essa saprà rag­ giungere verso la fine. La tecnica di continuo accresciuta, giunta progres­ sivamente a un raro punto di raffinamento, consiste nell’utilizzare i diffe­ renti metodi classici di aggregazione di temi e poi da questi dedurne altri sempre più complessi e personali. Di norma restiamo affascinati dal vir­ tuosismo della sovrapposizione dei temi — a esempio in Meistersinger ; è vero che tale virtuosismo è spettacolare, mentre fa parte del reperto­ rio tradizionale degli artifici tecnici prediletti da sempre dall’accademia — ai quali anche Berlioz ha ceduto con un’apparente ingenuità —, e d’al­ tronde in Meistersinger sono considerati il simbolo dell’accademia... Ma se può iscriversi in un inventario più generale, la sovrapposizione contrappuntistica di temi anche contrastanti non lascia presagire affatto

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un nuovo metodo. Già piu significativo si rivela l’aggancio di un motivo melodico a un altro, sia con un intervallo specifico, sia con un’articola­ zione comune a entrambi: un motivo si riversa nell’altro per costituire un amalgama unificato dalla rilevanza del ritmo, dell’intervallo, dell’ar­ ticolazione; due Gestalt primarie si uniscono non esclusivamente per formarne una nuova, temporale, secondaria. Vista la lunghezza rispetti­ va dei motivi o del frammento che viene impiegato, la pregnanza delle loro componenti, l’equilibrio delle combinazioni può variare all’infinito facendo pendere la bilancia da un motivo all’altro. Si osserva anche come la sostanza melodica di un motivo possa venire contaminata dall’armonia di un altro che lo forza a modificare i propri intervalli; la legge del più forte, l’armonica, governa la linea melodica, mutandone cosi il compor­ tamento senza farle perdere la propria identità. Un’opzione ancora più nuova si palesa quando, invece di limitarsi a sovrapporre due motivi, Wagner rende l’uno portatore dell’altro: fa dell’uno la figura principale a cui l’altro serve da figurazione; per di più, l’importanza del motivo principale assumendo la struttura forte, portante, può spostarsi nel cor­ so dello svolgimento, una figura principale può divenire secondaria men­ tre un’altra figura principale fa la sua comparsa. Il lavoro sui motivi così prospettato implica, come si vede, una costante mobilità, una incessante rimodellatura del materiale che va dalla riduzione all’elemento più sem­ plice e neutro — sorta di minor denominatore comune del motivo — sino all’estensione che gli fa assumere la totale supervisione dell’insieme poli­ fonico, e che con la sua propria organizzazione interna regola l’organiz­ zazione di tutti gli altri - ossia, per completare il paragone, il massimo come multiplo... Questo lavoro, a volte estremamente minuzioso, sui motivi che Wagner si compiace sempre più di manipolare e articolare secondo nuove regole, non ci offre tuttavia che scarse indicazioni sulla forma delle opere wagneriane: il punto del resto più controverso e meno chiarito. E d’altro canto, può esserlo davvero? Si direbbe che in questa massa in movimento solo raramente sia possibile percepire una forma secondo criteri nettamente definiti. Tutto appare in perenne transizione, niente sembra propriamente fermo: si è colti a volte dal desiderio di afferrare la forma non più come una somma di momenti. Le strutture temporali di cui si serve Wagner hanno come conseguenza la necessità di un ascolto diverso, di una percezione che accetta le nozioni di tempo su cui egli ha basato il materiale tematico, e da cui ha dedotto tutto il proprio sistema di svolgimento e di trasforma­ zione. Non si può non rimanere colpiti dall’opposizione, in Wagner, tra cromatismo e diatonia, e naturalmente dall’uso simbolico che egli ne fa per contrapporre la luce al buio, la certezza al dubbio, la gioia al dolore.

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Sotto questo aspetto, una tale opposizione non avrebbe nulla di vera­ mente nuovo se non perché usata secondo dimensioni sin allora scono­ sciute; ma Monteverdi e Gesualdo avevano già utilizzato con ugual forza, e in maniera quanto mai straordinaria e sconvolgente, l’opposizio­ ne tra la solidità luminosa delle relazioni diatoniche e il dolore e l’incer­ tezza del cromatismo. Viste nella categoria del tempo, queste dimensioni — diatonica e cromatica - assumono un significato molto diverso. In uno svolgimento ove predomina la funzione drammatica, e non piu la gerar­ chia formale, la trasformazione costante dei temi, la loro utilizzazione possibile a un qualsiasi punto della transizione, la continua presenza latente di un gran numero di motivi, tutto contribuisce a uno stato instabile a cui l’attenzione e la memoria sarebbero assolutamente inca­ paci di ancorarsi. Questo spiega perché in tale tessitura in movimento, Wagner fissa per un certo tempo alcuni elementi a cui può aggrapparsi la percezione che li assume come guide, punti fermi e testimoni. Di qui il ricorso sorprendente a quei temi immutati il cui significato musicale e drammatico, il cui simbolo e utilizzo sono immediatamente comprensibi­ li: i famosi segnali indicatori di Debussy, o ciò che egli caratterizzava ancora più malignamente come le scimmiottature dell’ornamentazione. Di qui, inoltre, le ostinate figure ossessivamente ripetute lungo intere parti di una scena, che Adorno considerava giustamente come una tessi­ tura unica da leggere globalmente, e non da percepire analiticamente secondo le ripetizioni dell’elemento primario. Di qui l’utilizzo della dia­ tonia in larghi momenti privi di evoluzione, quando si resta immobili, ancorati a una data tonalità senza sfruttare se non possibilità più primi­ tive o meglio più rozze. Di qui, infine, certi ostinato ritmici implacabili, che persistono a volte al limite della tolleranza, prima di essere assorbiti, oramai soggetti, in una tessitura ove i ritmi ritornano alla fusione di una variazione incessante. Così, in certi momenti dialogici, Wagner ha bi­ sogno di elementi di fissità per far fronte alla mobilità quasi eccessiva di altre parti in pieno sfoggio oratorio. Egli trova, e utilizza nel linguaggio, almeno un elemento principale di fissità, sia essa la tonalità, la figurazio­ ne, la cellula ritmica, o a volte più di uno di questi elementi elaborati insieme. L’opposizione cromatismo-diatonia fa parte di una tecnica mol­ to più generale che utilizza consapevolmente la dialettica del tempo fluido in rapporto al tempo fermo. Nella nuova struttura temporale di cui Wagner ha dotato la musica, il musicista ha concepito, e realizzato, l’assoluta necessità di riferimenti fondamentali basati su criteri differen­ ti. E una volta che tali riferimenti, tra cui i motivi, siano fermamente stabiliti, sarà possibile percepire dalla loro deformazione l’evoluzione della struttura temporale dell’opera: una concezione cosi geniale e rivo­

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luzionaria, implica che bisogna pensare l’opera come una struttura aper­ ta, destinata a non chiudersi se non provvisoriamente e a malincuore. Questo è ciò che rende cosi difficili le forme conclusive in Wagner, che sembrano talvolta affrettate, deliberate e brusche — quasi un gesto di brutale impazienza -, ma possono cedere, per contro, all’emblema con­ venzionale: cosi, non riuscendo a escogitare un gesto più convincente, si fa ricorso a un’eroica o blanda apoteosi, a ciò che si potrebbe definire una «fine di comodo». Ma le opere più forti sono quelle che coraggiosamente affrontano questo problema ed evitano di dargli una soluzione artificia­ le; la sospensione nell’incertezza, il senso che tutto può ricominciare all’infinito, questa è per essenza la forma conclusiva di Wagner: niente e meno che mai il contesto musicale, è definitivamente fermo, niente po­ trebbe davvero concludersi. Senza giungere alla soluzione letterale adot­ tata da Joyce in Finnegan’s Wake, si ha come l’impressione che alla fine del Ring, Wagner abbia sistemato la scena sul punto di ricominciare la ventura, e senza volere ancora una volta coinvolgere Nietzsche, non si può far a meno di pensare all’eterno ritorno... Evidentemente, la concezione della tessitura musicale presenta in Wagner concreti pericoli: poiché ci si può solo riferire a un significato della forma inventata nel corso dell’opera per i bisogni dell’espressione, poiché ci si vieta di ricorrere a schemi preesistenti a causa, appunto, del loro formalismo considerato in aperta contraddizione con l’intenzione drammatica, l’esercizio di una forma cosi mobile rischia di sfuggire ad ogni controllo che non sia istintivo. Si manifesta il pericolo che a non volere controllare con mezzi formali, propri di un ordine superiore, un materiale in costante evoluzione, si giunge per eccesso di variazione a un rischio di omogeneità globale eccessiva, in cui sarebbe impossibile, no­ nostante i ricorsi di cui si è detto, discernere i tempi dello svolgimen­ to. Ancora una volta, Wagner è partito da soluzioni molto tradizionali, ma sorprende il fatto che invece di rifarsi alla tradizione dell’opera, i legami siano molto più immediatamente affettivi con il lied romantico. Certe scene del Rheingold, e anche della Valchiria, possono cosi scom­ porsi in una serie di lied imperniati su un motivo principale - come in Schubert o in Schumann - e articolati in un insieme per recitativi, più o meno vincolati... Ciò che nel Ring verrà man mano sviluppandosi, specie verso la fine, naturalmente, è il senso dell’unità scenica fermamente organizzata in­ quadri derivanti gli uni dagli altri mediante transizioni estremamente elaborate. II principio resta lo stesso dall’inizio alla fine dell’opera, solo che si trasmette in modo sempre più complesso, acquistando al tempo stesso una maggiore efficacia. Wagner utilizza anche il contrasto tra

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scene più brevi e fortemente unificate, centralizzate, e scene più delibe­ ratamente eteroclite che utilizzano un materiale più ricco, più volatile che, senza sfuggire al controllo centrale, dà l’impressione di una grande autonomia. Spesso poi egli riprende elementi già trattati sia per integrar­ li a un nuovo contesto, sia per inserirli, invece, sotto forma di lunghe citazioni. In genere, l’integrazione si manifesta con elementi musicali trasposti che non conservano né l’altezza originaria, né il primo aspetto strumentale, e neppure il contesto; mentre l’inserzione-citazione ripren­ de gli elementi esattamente sotto l’apparenza in cui si sono affacciati in principio: stesse altezze, stessa strumentazione, stesso contesto generale. Nella tecnica di Wagner, è individuabile la traccia di una lunga tradi­ zione tedesca, consapevolmente o inconsapevolmente trasformata ai pro­ pri fini. Ma sia il lied, la variazione o il corale figurato, tali forme sono impiegate non per quello che rappresentavano nell’istituzione di una gerarchia formale, cosa che Wagner aborriva nel più profondo del cuore, condividendo, del resto, lo stesso odio con Berlioz... Tutti quei mezzi dovevano essere ripensati, reinventati per attendere alle nuove funzioni. Comprendendo profondamente la necessità di uno schema formale pur­ ché sostanza vivente, Berg andrà più lontano su questa strada, senza peraltro condividere le avversioni wagneriane dovute alle abitudini ac­ cademiche del suo tempo. È così che Wozzeck tenterà con fortuna la sintesi di una gerarchia formale, chiusa o aperta, con un materiale musica­ le mobile, non predeterminato in modo esclusivo; e con l’uso di tale dialettica, Berg risolverà taluni conflitti che prima di lui sembravano insanabili. Avventurandosi ancora di più in questa direzione, egli sarà condotto con Lulu a ripensare completamente e più radicalmente il pro­ blema della forma, facendo dipendere le gerarchie formali e le conse­ guenti trasformazioni dai diversi personaggi e dalle fasi molteplici del­ l’azione. Ciò che Wagner aveva concepito al livello del tema, Berg saprà concepirlo al livello dello schema formale; ciò che a Wagner sarebbe sembrata un’intollerabile costrizione, diviene, trasceso da Berg, una fon­ te di rinnovamento radicale, estendendo al livello generale della forma lo stesso modo di pensare che Wagner aveva applicato al livello topico del materiale tematico stesso. Restano questi mondi «concettuali» in cui Wagner mostra la sua forza d’invenzione e la sua insopprimibile tendenza al nuovo, e la manie­ ra con cui egli tratta l’orchestra non è meno rivelatrice della riflessione da lui profusa sull’argomento e delle conseguenze pratiche che ne ha dedotto. Senza dubbio, la ricchezza della strumentazione è immediata­ mente percepibile, e impressionante è il modo in cui si rivela la profu­ sione cromatica, la diversità dei punti di vista, di cui la sua immaginazio­

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ne, confrontata ben presto con la realtà dell’orchestra, si serve in manie­ ra straordinariamente realistica, con precisione estrema. Sin dalle prime battute, si resta colpiti dal modo di valorizzare le differenti strutture individuali dell’orchestra, dalla loro ampiezza, dalla volontà di separare non meno che di riunire le forze. Certo, Berlioz aveva indicato la strada, sia nella pratica che nella teoria, dal momento che il suo trattato abbon­ da di idee inattuate, gloriosi abbozzi di progetti utopistici. Senonché Wagner integra saldamente nella trama musicale procedimenti alquanto discontinui, indicazioni furtive, e utilizza le risorse della strumentazione in modo coerente, in stretto rapporto col proprio lessico musicale. Non resta che da osservare l’evoluzione del suo stile strumentale per convin­ cersi che alcuni principi in un primo tempo essenzialmente istintivi sono stati poi organizzati in modo sempre più razionale, creando progressi­ vamente nella scrittura orchestrale un rapporto col testo musicale fino allora sconosciuto, e assumendo nuove funzioni che vanno ben al di là della dovizia e del fasto. La strumentazione si accorda sottilmente con la struttura delle frasi, nello sforzo di porne in risalto l’articolazione, dan­ do cosi una percezione sensoriale, immediata, a una nozione piuttosto astratta. Più Wagner procede nell’opera, più egli speculerà sul contrasto tra colori puri e colori composti, sull’opposizione tra impasti a suoni semplici - con un’arte estremamente evoluta della transizione dei diffe­ renti stati della sonorità. Per questo, egli si servirà non soltanto di linee reali, ove lo strumento assume fedelmente tutto o parte di una linea melodica, o di un insieme armonico, ma utilizza magistralmente l’ambi­ guità che consiste nel creare non più linee reali che si coniugano strettamente con la polifonia, ma linee virtuali che intersecano le linee reali della polifonia e ne fanno per cosi dire un’analisi di bella apparenza. Risulta che solo Mahler saprà riprendere un gioco cosi estremamente raffinato, e di un estremo virtuosismo, anche se non spettacolare come il puro e brillante virtuosismo strumentale: tecnica della dissociazione e della ricomposizione, in cui concetto e realtà possono agire l’uno rispetto all’altra e dare cosi risultati di una ricchezza eccezionale, dagli sviluppi infinitamente vasti. Quanto al colore puro, particolare, Wagner lo utiliz­ za anche in un modo più sostenuto di quanto non si sia fatto prima di lui, e persino dopo di lui, traendone le estreme conseguenze, le stesse che Berlioz non aveva davvero previste se non in teoria nell’ultimo capitolo del Traile d’Orchestration, anche se poi nella sua opera non mancano fugaci esempi. Il modo, tutto wagneriano, di porre l’accento sui gruppi individuali è dovuto probabilmente all’uso della grande dimensione, alla tecnica dell’estensione del tempo. Anche qui, per stabilire alcune zone di fissità in rapporto a zone di mobilità, egli punta esclusivamente su un

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gruppo di strumenti, che lo ancora dunque in un registro molto preciso tranne che non si tratti dell’operazione contraria... Di qui le lunghe sequenze assunte dai violini, dai corni, dai violoncelli, dagli ottoni gravi; di qui, anche, le soppressioni di strumenti che si ostinano a scomparire per interi brani dell’opera. Wagner aveva una coscienza vivissima del normale e dell’eccezionale, di cui si serviva con estrema cura nell’organizzare l’equilibrio generale. La fantasia della sua orchestrazione è seve­ ramente calcolata, l’impostazione incredibilmente minuziosa; la sicurez­ za di mano, quasi una scioltezza di esecuzione, rivelano un genio naturale del calcolo strumentale che traspare in quei musicisti nei quali l’inven­ zione strumentale non soltanto rafforza ma dilata e trasfigura l’invenzio­ ne propriamente musicale. Si può affermare che non vi sono scorie in Wagner, e che la sua eredità musicale non comporta se non meraviglie e innovazioni? Se non vi fossero contraddizioni, i giudizi sulla sua opera sarebbero stati così diversi? Beninteso, potremmo parlare degli stereotipi, dei tic, dei ma­ nierismi del linguaggio wagneriano: l’abuso del tremolo, l’eccesso delle settime diminuite, l’incessante ripetizione delle sequenze, il vuoto del­ le formule ritmiche, la retorica vuota dei ritmi puntati... Oh! tanto più potremmo parlare di tutto ciò che è invecchiato, dei gesti eroici di com­ pensazione, dei luoghi comuni sentimentali, della marzialità piatta e banale, della ritualizzazione compassata di processioni più o meno fu­ nebri. Tutta la polemica sull’argomento ha dilettato la generazione che aveva il dovere, per esistere, di essere assolutamente intollerante a que­ sto riguardo, e non rientra nelle nostre intenzioni riabilitare questi aspet­ ti certamente passati di moda, ma ancor più menomanti. Come dobbia­ mo accettare il teatro di Wagner, siccome esiste, con i suoi aspetti non va­ lidi, così dobbiamo ammettere che una musica così ricca, così copiosa, così eccezionale, si porti dietro la sua parte di scorie, il che non ne diminuisce né la vastità né il merito. Mahler presenta, tra l’altro, pro­ blemi analoghi, se non più difficili da risolvere, forse perché provengono da un’epoca più recente... Nello splendore fiammeggiante di uno stile, e questo non vale solo per il caso Wagner, ma per tutte le fioriture composite, siano esse letterarie, musicali o architettoniche, — dobbiamo accettare alcune contraddizioni, riconoscerle come valide e feconde. Per un mezzo secolo in Europa, la creazione artistica si è trovata a concen­ trarsi sulla ricerca di uno stile, per cui talvolta è caduta in talune finzioni perfettamente sterili. Ma ora che abbiamo preso chiara coscienza dei pericoli di influssi non unificanti, ma riduttivi, abbiamo imparato a diffi­ dare delle nozioni di stile eccessivamente catartiche, che ci privano di una presa di possesso più globale, ove «l’impurità» è largamente com-

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pensata dall’ampiezza e dalla ricchezza dei territori esplorati. Nel dire questo, non penso affatto all’opposizione divenuta classica dacché Nietz­ sche l’ha enunciata, tra apollineo e dionisiaco; penso piuttosto all’op­ posizione tra l’accettare le irriducibilità fondamentali imposte dalla crea­ zione e, se non il rifiutarle, almeno il ridurle a norme unificanti, median­ te discipline coercitive. Probabilmente, entrambe le posizioni sono ne­ cessarie a seconda dello sviluppo storico in cui veniamo a trovarci, e an­ ziché contrapporsi, si corroborano su scala temporale più vasta. Cosi Wagner ci appare sempre più come un fenomeno fondamentale in questa sintesi operata nel corso dei secoli. Senza dubbio il messaggio musicale, se innestato su quello drammatico, lo supera via via, se ne distacca e finisce per contraddirlo. L’ideologia è stata analizzata pas­ sando dall’utopia rivoluzionaria a un realismo reazionario, il che implica un tradimento di fronte a se stesso. Ma non è un’analisi forse troppo superficiale? Vi è in tutto il Ring un contrappunto che va incessante­ mente arricchendosi, voglio dire il contrappunto tra l’ideologia propria­ mente detta che in effetti diviene pessimista, o meglio reazionaria, e l’ideologia musicale che è portatrice di fermenti sempre più sovversivi. Il linguaggio della rivoluzione musicale, rivoluzione del tempo, delle strutture, dell’ascolto, della percezione, si confronta con la sostanza dei miti che constatano il fallimento e il crollo, il ritorno all’ordine anteriore. Se è certo, come lo stesso autore ha affermato, che senza la rivoluzione del 1848 il Ring non avrebbe potuto essere concepito, se è indubitabile che il punto di partenza dell’opera è una critica sociale trasposta in miti e allegorie, non è certo la suggestione rivoluzionaria che, automaticamen­ te, ha introdotto gli aspetti rivoluzionari del teatro e soprattutto della musica wagneriana. La duplice linea seguita da ideologia e musica de­ nuncia sempre più la contraddizione fondamentale del progetto dell’au­ tore, e lo denuncia suo malgrado. Il Ring è in questo un’opera esemplare che mette a nudo il problema della politica e della creazione, soprattutto dopo che l’opera si è vista purgata dal nazismo dei fermenti superficiali che conteneva, e ci pone di fronte a questa domanda: rivoluzione e arte, per riprendere le parole dello stesso Wagner, sono compatibili e, se lo sono, in che modo possono esserlo? Una domanda che la nostra epoca si è posta più volte, e alla quale ha dato risposte spesso ingenue, talvolta poliziesche e coercitive. In altri termini, la rivoluzione è estrinseca o intrinseca all’opera? Spesso accade che l’autore non possieda e non sia neanche in grado di formulare una risposta, e che la sua opera sortisca effetti totalmente contrari alle sue aspettative, come Marx ha osservato in termini convincenti a proposito di Balzac. Un proselitismo immediato e inefficace trasmesso con mezzi inadeguati, può rivelarsi fondamental­

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mente reazionario. Al riguardo, anche se a un livello diverso, l’esempio recente dei protest songs americani, è piuttosto edificante: quando il contenuto sovversivo si ammanta di una musica che utilizza gli stereotipi commerciali, il prodotto entra immediatamente in un circuito di distri­ buzione che lo valorizza come merce e fondamentalmente tradisce gli scopi che si propone di raggiungere, divenendo un oggetto di consumo, presto assorbito, ben presto rifiutato e subito dimenticato. Wagner pro­ pone l’esempio esattamente opposto: la musica rifiuta, per la sua stessa esistenza, di sostenere il contenuto ideologico che è chiamata a trasmet­ tere. D’altro canto, da secoli, col consenso piu o meno dei compositori, si è cercato infinite volte di fare della musica il supporto di un’ideologia: in passato di una religione, oggi di un’ideologia politica. E il meno che si possa constatare è che il risultato è ben al di sotto delle attese. Il testo esprime l’ideologia, se l’opera è accompagnata da un testo, ma la musica ne rimane ostinatamente chiusa: sa si tradurre con magnificenza di mezzi la soggettività del compositore, non sa spiegarne razionalmente il com­ portamento o le scelte ideologiche. Accade cosi che a un testo sovversivo possa corrispondere una musica reazionaria, e che un’ideologia reaziona­ ria si veda smentita da una musica sovversiva. Wagner, suo malgrado, non sfugge a questa regola. Ecco perché le reazioni nei riguardi del suo comportamento mi sembrano talvolta incomprensibili. L’ideologia con cui ha preteso di rivestire la sua musica vi sembra grottesca, addirittura odiosa? Ma ascoltate questa sua musica, suonatela: essa smentirà assolu­ tamente le sue intenzioni, come l’uccello fa capire a Sigfrido il vero significato delle parole di Mimo... Del resto, l’ideologia che gli viene rimproverata non è comune ad altri autori romantici? Non è la prima volta che ci si imbatte in questa strana alleanza tra il sogno e l’azione politica; basti ricordare il principe di Homburg. Quanto all’odio verso i francesi, esso è sorto molto prima di lui, e non senza ragione, dalla tirannide napoleonica. Ciò che si potrebbe rimproverare a Wagner, è semmai, nonostante la sua furtiva adesione a Dresda alla rivoluzione del 1848, di essere politicamente un attardato, e che la famosa invettiva contro i Welsche corrisponde fin troppo letteralmente dopo tanti anni, ai non meno famosi nemici del Brandeburgo. Ma non è questo il solo campo in cui Wagner si trovava, specialmente nel 1876, in una posizione di attardato rispetto a quanto si pensava o si faceva altrove. Basta esami­ nare la concezione visiva del Ring nella Bayreuth del 1876 per convin­ cersene: gli impréssionisti avevano già dato alcuni dei loro quadri più belli. Quanto alla poesia, il «brivido nuovo» aveva introdotto sensazioni ben diversamente audaci che la restituzione di miti nordici, di gran lunga più consoni alle inquietudini dei primi del secolo, e quando ha luogo la

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prima di Bayreuth, la Saison en enfer e i Chants de Maldoror sono già composti. Occorre ancora ricordare in questo particolare contesto il ge­ nio di Nietzsche e le sue terribili disillusioni sul caso Wagner, sul quan­ to in lui non è musica? Ma alla lista si potrebbero aggiungere tanti altri nomi, e primo fra tutti Dostoevskij... Nell’Europa in cui pretende di agire ideologicamente, nell’Europa di Marx e di Engels, Wagner non fa certo una figura brillante; ma il drammaturgo, il musicista Wagner for­ niscono una costante smentita all’ideologo Wagner: su questo piano, egli è e resta assolutamente senza rivali, assolutamente sovversivo. E non si resta affatto sorpresi che due ebrei, Mahler e Schonberg, siano gli eredi piu illustri del pensiero musicale dell’antisemita piu ottuso; infatti la sua eredità musicale resta il privilegio di coloro che sanno compren­ derlo, mentre la sua eredità ideologica andrà a Wolzogen e a Chamberlain - e al di là della loro insipienza, sarà adottato da un potere politico, questo non insipiente, che si serve dell’evidenza della musica, ma anche dell’ambiguità ideologica per mascherare la sua brutalità di dominio. In ogni modo, con o senza musica, il potere politico nazista sarebbe esistito, come tutti i poteri politici che cercano continue giustificazioni culturali e tentano di fondarsi su una certa storicità dei «capolavori del patrimonio nazionale». In questo caso, le parole di Wagner si prestavano ai trave­ stimenti, ma la sua musica resta inattaccabile, e questo spiega perché sia sempre viva mentre la sua ideologia è oramai divenuta documento. Se la personalità di Wagner ha suscitato tante polemiche e controver­ sie, se le suscita ancora, ciò dipende dal fatto che la sua ambizione era grande e smisurata. Proprio cosi! Il cosiddetto romanticismo fu una grande avventura, un’audace impresa dello spirito, e non è ammissibile che ce ne resti appena qualche gingillo eroico e qualche nostalgia avvizzi­ ta. Ma a questo si vuole spesso ridurre il romanticismo: a manierismi leggermente stravaganti, a comportamenti eccentrici, a un sentimenta­ lismo smagliante e a buon mercato. È triste vedere attribuire al romanti­ cismo dimensioni così anguste, che ci consolano, verosimilmente, di vi­ vere in un tempo inesorabile. L’impresa di Wagner aveva ben altre esigenze; e se è fallita, sia pure con grandezza, in qualche sua parte, si deve riconoscere che per il resto è andata ben al di là di ogni orizzonte. Wagner rappresenta essenzialmente il mito che rivive nella sua forza attraverso la struttura musicale. Per giungere a questo, egli ha dovuto mutare le strutture tradizionali del pensiero musicale, di cui la più im­ portante, il tempo. È curioso che in nessuno dei suoi scritti egli parli di questa componente primaria. Sotto altre parole, si ha come un’eco del­ l’argomento nella lettera a Mathilde Wesendonck sull’arte della transi­ zione in Oristano. Nel tempo ristrutturato, nel tempo ri-cercato, è qui

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che va vista la vera sovversione wagneriana. Tutto questo può sembrare trascurabile a fronte delle ambizioni rivoluzionarie iniziali? Non mi sem­ bra proprio. Le rivoluzioni in profondità delle nostre categorie mentali sono quelle che finiscono per avere le conseguenze piu radicali e di più ampia portata: Wagner ha messo in moto una volta per tutte i processi irreversibili di una rivoluzione siffatta.

24. Itinerari per «Parsifal» .* Per la generazione a cui appartengo, Wagner era una musica «dimen­ ticata»... Aveva fatto parte dell’educazione generale, al pari delle opere fondamentali del passato, ma il contatto col mondo che essa rappresen­ tava avveniva solo a fatica. La polemica, dopo avere a lungo avvelenato i giudizi su Wagner, non aveva più ragion d’essere, sembrava inutile, assurda: una sorta d’indifferenza aveva sostituito le prese di posizione faziose. Perché mai stupirsene? Ogni generazione fa propri certi conflitti a cui la generazione seguen­ te nega il proprio interesse. Nel leggere i giudizi espressi da vari composi­ tori, notavamo che ammirazione e odio si mescolavano a reazioni pura­ mente passionali - che il sarcasmo non meno che il rispetto più di una volta sfioravano appena l’opera di Wagner, in ciò che suscita interesse ed è ricco di conseguenze. Da un lato, Berg, anche se profondamente irritato, anzi scandalizza­ to, da un culto rimpicciolito alle dimensioni di spiriti fossilizzati, avverte un attaccamento sentimentale per Wagner, con un’emozione quasi mi­ stica. Dall’altro, Debussy e Stravinskij inaugurano l’era dello scetticismo e della negazione: Debussy, per ragioni evidenti — la figura di Wagner e la sua musica lo avevano affascinato abbastanza perché egli volesse rom­ pere e dimenticare; Stravinskij, per ragioni non meno chiare, benché opposte - essendogli sempre stati insopportabili l’illusione, l’enfasi reto­ rica e il coinvolgimento personale. La generazione nata tra il 1920 e il 1930 non ha fatto che riprendere, con minore ampiezza, i pregiudizi dei predecessori. Ora accade che appunto su Parsifal, Debussy e Stravinskij divergano sostanzialmente. Stravinskij vi vede l’apoteosi del culto del­ l’io, vi denuncia gli elementi di una pseudo-religione, fenomeni che con­ sidera del tutto esecrabili, legati come sono al peccato d’orgoglio più in tollerabile. Di contro, Debussy considera Parsifal come V eccezione che Programma Parsifal del Festival di Bayreuth 1970, pp. 2-14 e 63-68.

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giustificherebbe Wagner: una geniale smentita alla Tetralogia, secondo le sue parole, per la libertà dell’invenzione e l’assenza delle formule che, altrimenti, sembrano fatte per irritarlo. Dobbiamo dunque considerare Parsifal come un’opera «liberata» dagli eccessi che provengono da una concezione teorica troppo greve, un’architettura le cui impalcature sono davvero scomparse, o non piuttosto come l’opera più rappresentativa dei difetti e delle manie del suo autore? Dobbiamo vedere in Parsifal un atto crepuscolare di adorazione dell’ego, o come una sublimazione che nasce dalle condizioni ideali di un teatro finalmente raggiunto? Senza negare l’unità di concezione che lega l’invenzione nei due cam­ pi, anche oggi si potrebbe rivalutare Parsifal dal punto di vista della creazione teatrale, o da quello dell’elaborazione musicale. In Wagner, il processo di gestazione ci spinge quasi a questa separazione di fatto, in quanto egli scriveva prima il testo e poi la musica senza che il testo subisse rilevanti mutamenti. Peraltro, come si è constatato da tempo, esiste una forte differenza di livello tra le due attività del compositore; la concezione drammatica prevale sulla qualità letteraria propriamente det­ ta, ma la musica verrebbe a sua volta a collocarsi su un piano ancora più alto. Nella scelta del materiale scenico, Parsifal ci riporta alle ossessioni e ai temi fondamentali degli esordi del romanticismo. La storia di Parsifal iscritta in quel Medioevo da leggenda, cosi caro all’Ottocento nascente, appare come una tarda sopravvivenza nel panorama letterario degli anni 1870-80. Sia nella letteratura drammatica che in quella romanzesca o nella poesia, soprattutto nella poesia, la scoperta e la risurrezione del Medioevo sono avvenimenti la cui novità si è esaurita. Indubbiamente, Parsifal non è solo questo, e vi si mescolano ben altre influenze filo­ sofiche o letterarie più moderne-, ma avere scelto una tale cornice è significativo, rivelandoci un mondo al passato in un ambiente intellet­ tuale le cui preoccupazioni conoscono un mutamento considerevole. Co­ me riferimento estremo, si può dare l’opera di Rimbaud, già scritta per intero anche prima che Parsifal fosse compiuto. Non è la prima volta che si presentano divergenze del genere quando generazioni diverse si scon­ trano tra loro; ma l’abisso tra due universi contemporanei come Parsifal e la Saison en enfer non cessa di stupire... Il dramma di Wagner riposa su un’idea che tutti i grandi romantici, dopo Goethe, hanno posto presto o tardi al centro della loro opera: la Redenzione attraverso l’amore divino; Berlioz dà il segnale, Schumann non potrà sottrarvisi, e Wagner fa sorgere un’iperbole fiammeggiante. Senza voler fare del sarcasmo, si può affermare che la colpa, il peccato, meglio si adattano loro della Re­

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denzione, dove si afferma la tendenza a cadere in una sublimazione raddolcita. Le Fanciulle-fiori, le tentazioni nel giardino, ci appaiono inoltre come personificazioni un poco semplici, e unilaterali, della colpa metafisica, del peccato contro Dio, dal momento che la sola castità non può preten­ dere a questa funzione unica nella rottura col sacro. Nell’aneddoto drammatico non mancano particolari che possono oggi sembrarci quanto meno importuni. Ma questo non deve farci dimentica­ re l’originalità di certi personaggi e di certe situazioni. Da questo pun­ to di vista sembra che il secondo atto, col presentare in tutta la sua com­ plessità la figura di Kundry, e descrivendo il rapporto estremamente ambiguo che si instaura tra i due protagonisti, Parsifal e Kundry, fini­ sce per avere una maggiore attualità del resto del dramma. E cosi l’atto che per la sua tematica è in violenta contraddizione con la «dignità» a volte ampollosa degli altri due, si articola su due momenti magici: il ri­ chiamo del nome, e il bacio, rivelazioni che aiutano Parsifal a chiarirsi e quindi a definirsi. I due gesti simbolici sono senza dubbio meno «acces­ sori» della lancia o della colomba, in quanto restano essenziali e interio­ ri, sfuggendo all’iconografia convenzionale della santità e della purezza, cosi come si è venuta svigorendo nel corso dei secoli. D’altro canto, se Parsifal non fosse che una favola teologica che si riferisce a un dato mondo e tempo, il suo interesse sarebbe innegabilmen­ te limitato. Non si tratta dunque, a mio parere, di celebrare un culto fittizio ricostituito per i bisogni della rappresentazione, ma di manifesta­ re l’impulso di un pensiero metafisico che oscilla dalla potenza al deca­ dimento. In termini di religione cristiana, ciò si iscrive nella tristezza dell’uomo privato della grazia divina, nel rimorso e nel dolore inflitti da tale privazione; poiché vita e forza gli provengono dal contatto perma­ nente, di continuo rinnovato, col suo creatore. Ciò si iscrive anche nella ricerca della Verità attraverso gli ostacoli che si frappongono, per giun­ gere a disciplinarsi, a dimenticarsi prima di rinascere a Dio. L’idea di Redenzione, comune a molte religioni, ha perduto una buona parte di fa­ scino nella sua accezione strettamente rituale, ma non è venuta meno la ricerca dell’individuo attraverso se stesso, le imboscate che essa pre­ suppone e la disciplina spirituale che essa esige. In questo senso, Wag­ ner si è spogliato di molti elementi «eroici», e va piu direttamente e più in profondo che per il passato al nocciolo delle questioni metafisiche fondamentali. La saga del Ring non sempre si presta facilmente alla trasposizione, legata strettamente com’è a una mitologia circoscritta. Al pari di RristanOy Parsifal stana subito l’essenziale, suscita un mito pri­ mordiale, traspone fuori del tempo e dello spazio, la domanda, il dubbio

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insiti nell’essere umano. La lotta, la difficoltà, l’angoscia considerate come fattori positivi, produttivi, la risoluzione degli antagonismi che pacifica e lenisce, sembrano sfociare in un’estasi quanto meno raddolcita. Il conflitto di Tristano resta sospeso, lasciando alla nostra immaginazio­ ne il privilegio di uno spazio aperto. Parsifal, quantunque Wagner si sia validamente difeso da questo pericolo, appare un poco come il Deus ex machina che porta con sé lo happy end e la grazia. Si è discusso a lungo se gli eroi di Parsifal fossero veramente cristiani (sotto questa voce, Amfortas figura come principale accusato), e se la stessa opera fosse cristiana come Wagner sosteneva. Ma la controversia ha ancora qualche importanza? Per il credente, «vi è qualcosa di più bello di Parsifal, ed è qualsiasi messa bassa in una qualsiasi chiesa». Per l’agnostico, l’insieme di questi dogmi e rituali appartiene a una sorta di preistoria dello spirito umano. Occorre dunque che l’importanza della creazione wagneriana sia altrove per potere mobilitare la nostra atten­ zione e la nostra sensibilità. Nella misura in cui la rappresentazione teatrale è legata alla visione convenzionale della beatitudine sacra: mani giunte, occhi levati al cielo, genuflessioni, la religione non sarebbe dipin­ ta se non in forma caricaturale, che potrebbe offendere gli uni e divertire gli altri. Nella misura in cui certi episodi della letteratura sacra sono incarnati da personaggi immaginari, l’intenzione può sembrare sacrilega o più semplicemente parodica. (Tutte le vane dispute sugli applausi da tributare alla fine di ogni atto - solo l’atto pagano può essere suggellato dagli applausi, gli altri no — discendono dal fondamentale imbarazzo nello spettatore di decidere se egli opta per lo spettacolo della religione o per la religione dello spettacolo...) Cosi Wagner ha costruito la sua opera su queste ambiguità, e anche se le dispute hanno perduto l’antica passio­ ne polemica per degenerare in una questione di etichetta, resta il dubbio sul rigore delle intenzioni. Ma a parte la validità religiosa, il formalismo rituale e il significato del culto assorbono l’opera verso un passato mitico e rimpianto, verso una perduta età dell’oro, che è pure una caratteristica del romanticismo, e soprattutto del romanticismo al suo tramonto. La data dell’opera, anche in questo caso, non deve ingannarci sulla sua in-attualità. Ma una cosi costante intrusione del passato, la troviamo espressa con una parti­ colare nostalgia in Parsifal, nel passato prima della colpa. Claudel parla di «un gusto per i recitativi: il personaggio che si ferma ad ogni istante per esaltare le origini e raccontare il passato. La storia che si svolge congiungendo di continuo il presente col passato». Sono stati spesso rimproverati a Wagner le lunghe esposizioni, gli interminabili racconti, le innumerevoli giustificazioni. Tra le doglianze formulate, la verbosità

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di Gurnemanz viene tirata in ballo più volte. Ma si è proprio sicuri che la sua sia solo chiacchiera? Si può dire che egli risale costantemente al diluvio, e non ci risparmia nulla delle descrizioni, particolari e moventi, della catastrofe? Che non ci faccia grazia di nessuna circostanza sull’ori­ gine dell’infelicità, è dovuto soltanto a un’insopprimibile logorrea? In realtà, ciò che a prima vista può sembrare lungo e superfluo, uso abusivo del racconto, eccesso di logica, fissa in noi la conoscenza dei protagonisti. Un procedimento del genere s’innesta sull’intreccio reale presente, su numerosi intrecci immaginari, passati. Si stabilisce una trama costantemente controllata tra il punto in cui veniamo a trovarci dell’azione dram­ matica e i diversi dati fondamentali che ci hanno fatto pervenire a questo momento dell’evoluzione; il tempo si muove di continuo su due piani, ove il presente coinvolge il passato e il passato condiziona il presente. Nel caso di Parsifal, questo continuo rimando non è affatto gratuito, poiché ravviva ad ogni istante il rimorso, il rimpianto della potenza perduta, e invita costantemente a confrontare un presente miserabile con un passato glorioso. Il futuro s’inserisce naturalmente in questa trama temporale, con la promessa di continuo ricordata della liberazio­ ne, e dell’eroe destinato a compierla. Se il tempo si manifesta nei suoi tre aspetti, legati in uno stretto fascio dal rimorso e dalla speranza, anche lo spazio non manca di rivela­ re un aspetto simbolico. Una frase di Gurnemanz, estremamente indica­ tiva: Du siehst, mein Sohn, zum Raum wird hier die Zeit

unifica le due componenti fondamentali. L’idea qui abbozzata non è realmente ricercata. Riappare tuttavia episodicamente nella trasforma­ zione magica del regno di Klingsor, nell’evocazione di Kundry, nel rac­ conto delle peregrinazioni di Parsifal. Ogni volta, tempo e luogo sono legati da un fenomeno di osmosi, spiegati superficialmente per effetto di chiaroveggenza e magia, che implica più profondamente la definizione stessa del dramma. Da un punto di vista teatrale, anziché essere una geniale eccezione, come sosteneva Debussy, Parsifal spinge all’estremo l’unità di concezio­ ne che aveva già presieduto all’organizzazione generale del Ping, scarta le dissonanze, fa passare l’aneddoto attraverso una severa ascesi, dà una priorità assoluta all’essenziale. In questo senso, Parsifal è realmente «Lo vedi, figlio mio, | qui il tempo diventa spazio».

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moderno, più di quanto non facciano intendere il substrato ideologico e le circostanze sceniche. Ma che dire della musica? A parte il secondo atto, evidentemente ancorato alla teatralità, tutto contrasti vistosi, tensioni, scoppi, sopras­ salti e cesure, il primo e il terzo atto sono così poco drammatici come si dice? Ci si lamenta soprattutto del lungo racconto di Gurnemanz, che paralizzerebbe tanto la musica quanto Fazione, e porrebbe Parsifal in una categoria non ben definita tra Foratorio e l’opera. L’osservazione è meno critica di quanto sembra: Parsifal, in effetti, non è più un'opera', nell’espressione di cui Wagner si è servito, ein Buhnenweihfestspiel, non vedrei tanto il desiderio dell’autore di instaurare una cerimonia quanto il bisogno di spiegare la sua intenzione formale, e di nominarla. Probabilmente, Parsifal è l’esito - provvisorio - di una tradizione che risale a Schiitz e Monteverdi, per non citare che due soli compositori illustri. Nell’opera wagneriana si opera una sintesi tra le Passioni e 1’0pera, tra spettacolo astratto, immaginario e spettacolo concreto, teatrale, tra Bach e Mozart, il Mozart della Zauberflote. E l’accostamento sembra obbligato, se non altro per l’uso reiterato delle masse corali. A dispetto della continuità a cui Wagner si è consacrato, la trama del primo atto lascia scorgere, commiste in una forma complessa, le antiche nozioni di recitativi, di ariosi e di corali. I cori di Parsifal, durante il primo atto, non sono cori di azione, bensì di riflessione - o di preghiera, se ci si at­ tiene a un lessico più limitato. Destinati alle tre fasi della cerimonia ri­ tuale: preparazione, compimento, azione di grazie, i cori inquadrano l’azione drammatica isolando i tre protagonisti: Amfortas, Titurel, Par­ sifal - quest’ultimo evocato dalle violente apostrofi di Gurnemanz. (Qui poi i tre personaggi rappresentano anche le figure concrete del tempo: il presente, il passato e il futuro). La partecipazione corale, anche in questo caso, è di un rilievo quanto mai importante dal punto di vista della forma: concilia taluni contrasti tra le zone che delimita, in cui le forme divengono più semplici, più chiare, in una parola, più leggibili, e i campi di azione, in cui la musica, legata istantaneamente al testo, implica una forma più complessa, più ambigua, più difficile da cogliere. E lo stesso può dirsi per le Fanciul­ le-fiori: non è una scena al di fuori dell’azione, ma un intermezzo di virtuosismo e di luminosa intensità tra le due scene principali la cui forma è più complessa. Si potrebbe così analizzare l’opera secondo le zone di luce e di con­ trasto formali, che si alternano nel corso di una struttura di vasta dimen­ sione, rispetto a cui il tempo svolge un ruolo di importanza fondamen­ tale: molto fluttuante in quello che chiamerei il racconto, Fazione, si fis­

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sa e si stabilizza nella riflessione, nel commento. Più che mai, si ritrova in queste grandi alternanze il modello delle Passioni^ della Zauberflote e della Missa solemnis, modelli innegabili, premesse della sintesi esclusiva attuata da Wagner. Mi sembra, dunque, che ogni polemica sul valore spirituale di un rituale religioso trapiantato sulla scena, si riveli priva d’interesse e d’importanza. A volte ci si scandalizza (ancora), o si sog­ ghigna, alla vista di questa adesione, ripresa cosi evidentemente dai rac­ conti biblici, per il tramite delle cerimonie religiose. Ma non ci si scanda­ lizza, o non si ride, quando si ascolta cantare il Cristo nelle Passioni - il che è quanto meno altrettanto sconveniente: o l’azione scenica sarebbe condannabile mentre il canto no? In definitiva, si ha proprio a che fare con una Passione che non sarebbe opportuno considerare più o meno di quello che è. È giusto far pesare su Wagner il fatto che generalmente venga posto sotto accusa l’aspetto celebrativo dell’opera? In parte, si. Giacché, ve­ dendo certamente che Parsifal non discendeva dalla stretta ortodossia cattolica, che vi si mescolavano molti elementi «impuri», che la teologia avrebbe senza alcun dubbio avuto non poco da dire, egli si è protetto da ogni malaugurata accusa insistendo sulla festività religiosa assunta in senso letterale. Ecco perché Parsifal può patire di uno squilibrio, e ten­ dere verso una cerimonia lenta, solenne, da cui ogni cedimento di tono sarebbe escluso, in quanto tutto sarebbe «nobilitato» in vista dell’e­ dificazione, della santificazione. Non sembra che da un punto di vista ideologico e musicale, l’opera si avvantaggi molto di una tale uniformità di concezione, in quanto le asperità del dramma, le sue ambiguità e contraddizioni vengono livellate, e il significato del dramma risulta in ugual misura indebolito. Riducendo i contrasti, forzando ogni attributo ad entrare nello stesso stampo, si finisce spesso per sottolineare la lentezza dell’opera: una len­ tezza che ha costituito l’argomento principale e il facile bersaglio dei detrattori di Wagner. Non v’è dubbio che all’origine esista una lentezza causata dalla deformazione del tempo teatrale quando si passa dalle parole ai suoni. L’accumulo delle frasi scritte fa si che la durata della musica si estenda a volte in modo spropositato, in quanto il tempo parlato si oppone per sua natura al tempo cantato. Come è noto, Wagner «metteva in musica» i propri libretti, dopo averli interamente scritti, senza apportarvi modifiche di rilievo; e sembra che, trascinato dal te­ sto preesistente, egli si sentisse in qualche occasione obbligato a scrivere la musica per sostenerlo. In questi casi, a evitare fratture, la durata della musica deve essere ricondotta con una certa flessibilità alla durata delle parole. Le oscillazioni del tempo, senza che la notazione le trascriva,

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dipendono dalla logica interna del testo, e dal senso della declamazione: un indubbio residuo dell’antico recitativo, ove la musica funge da sup­ porto all’informazione drammatica; in altri passaggi, invece, ove la paro­ la pone l’accento su certi simboli, chiavi e snodi della spiegazione o dell’azione (una stessa essenza vista sotto l’occhio del passato o del pre­ sente), la parola deve essere posta in risalto dall’importanza marcata, dall’allargamento, del discorso musicale. In breve, lo spartito deve re­ spirare secondo le fluttuazioni del testo drammatico - altrimenti, rischia l’asfissia... Forse la cosa più difficile in queste lunghe scene è di concepire l’evi­ denza del loro svolgimento. In effetto, esse non possono ricollegarsi ad alcuno schema prestabilito. È stato Strauss, credo, a constatare come per la prima volta in Wagner la forma non torni mai indietro, in senso letterale, né mai si ripeta. Man mano che progredisce, la forma porta con sé tutti gli elementi tematici, componendoli secondo modi nuovi, giu­ stapponendoli secondo metodi diversi, dando loro cosi una luce inedita, un significato imprevisto. Si giunge cosi, in concreto, al problema dei Leitmotive, di cui si è voluto stendere meccanicamente il catalogo — un pregiudizio contro il quale in particolare Debussy ha cosi sarcasticamente polemizzato... Ben lungi dall’essere quelle specie di segnali stradali a cui si è cercato di paragonarli, i Leitmotive hanno una duplice virtù: poetica e drammatica - nonché formale. La struttura della musica e del dramma non potrebbe farne a meno, come situazioni e personaggi non potrebbero sottrarvisi. Essi segnano mentre si svolgono un modo di «intrecciare» il tempo e di integrare - torno a ripetere - il passato al presente, e implicano anche la progressione drammatica. Quanto al loro significato poetico, non resta che citare il passo di Claudel su Wagner, a cui ho già accennato: «Cosi il Leitmotiv che fa che un attore sulla scena non sia se non il fantasma disgiunto di un cieco personaggio nel fondo eterno e ineffabile (e come nei sogni sappiamo che esiste e non esiste), la ferita infertaci da una voce nota. Cosi questi temi che si ripetono e si rispondono da ogni parte senza fine come le fanfare incrociate dei nostri guardaboschi». (Baudelaire, nel suo saggio premonitore — scritto nel 1861, allorché conosceva soltanto le prime opere del compositore - confessa di essere colpito e incuriosito dallo stesso fenomeno). La forza strutturale dei Leitmotive, come ho già detto, è di legare il passato al presente. L’intenzione di Wagner circa la comprensione della loro funzione è perfettamente e chiaramente definita. Gli elementi ci sono presentati, all’inizio, sotto la forma più semplice, più direttamente percepibile — isolati gli uni dagli altri da lunghi silenzi, simili a barrie­

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re, o separati da ogni altro contesto: quasi fossero irriducibili tra loro. Tanto più irriducibili in quanto si presentano come idee musicali assolu­ tamente immutabili, su cui non possono aver presa modifiche e trasfor­ mazioni. Melodia, armonia, ritmo sembrano combinarsi in modo da dare un risultato tanto sorprendente e statico quanto possibile; l’impressione di staticità si trova ancora volutamente accresciuta dal fatto che questi motivi sono ripetuti per sequenze e quindi appaiono tanto più restii al mutamento. In un primo tempo, le possibilità di trasformazione ci sono nascoste per poi insinuarsi e sorprenderci con maggior forza. In effetti, Wagner, soprattutto in Parsifal, punta sulle possibilità di dissociazione offertegli dal materiale di cui variamente e largamente si serve, e che può andare dall’allusione sino alla parafrasi. Ora è un frammento melodico che si trova isolato, o meglio un semplice intervallo — che regola tutti i nessi melodici; ora l’allusione si trova ridotta a una congiunzione armo­ nica, anzi a un accordo caratteristico; ora una cellula ritmica unifica re­ pentinamente materiali tematici fino allora totalmente estranei l’uno all’altro. Ho citato soltanto casi di passaggio da un motivo all’altro; ma, attraverso un abile procedimento di separazione, quindi di ricomposi­ zione degli elementi fondamentali, si opera a volte sulle figure un vero mutamento d’identità, tanto che in alcuni casi ambigui esse sono ricon­ ducibili, a un certo punto del loro movimento, a questo o a quel modello. Quanto ho dianzi enunciato sulla leggibilità di certe forme, o sulla diffi­ coltà di coglierne la complessità, o sulla difficoltà di cogliere la comples­ sità di certe altre - un fenomeno che stabilisce le fluttuazioni della grande struttura generale - si applica anche alla tecnica del Niotiv. Spes­ so accade che il Niotiv sia perfettamente leggibile, che il simbolo sia posto completamente in evidenza; ma non meno spesso accade che il Niotiv affondi nell’ambiguità, che l’allusione sia furtiva, colta quasi in­ consciamente. Questa gradazione nell’evocazione, dall’ombra alla luce, dal riferimento esoterico all’affermazione aperta, questi diversi modi di enunciazione alimentano in modo organico il tessuto musicale. Da que­ sto punto di vista la tecnica di Wagner rivela un’estrema sottigliezza; giacché, come ho osservato in precedenza - sulla scorta di Strauss - non c’è tema nella sua integrità primaria, in una parola, non vi è ritorno a una vittoria dell’Ordine sul Dedalo. Abbiamo a che fare con un mondo di riferimenti incrociati, funzionanti ai diversi gradi della percezione, che si riferiscono tanto, se non più, alla creazione romanzesca quanto all’im­ maginazione propriamente teatrale. Il Leitmotiv è più ricco di significati e d’implicazioni del semplice segnale, dell’emblema primario, a cui si tende a ridurlo - sia che susciti in noi ammirazione o disprezzo. Natu­ ralmente, il Leitmotiv può possedere la sola virtù del segnale che non­

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dimeno è una delle sue funzioni piu sommarie, ma perlopiù informa il contenuto musicale circa la propria progressione. In una pagina della Vrisonnière, Proust ha espresso in modo mirabile la funzione del Leit­ motiv, l’effetto che provoca sull’intelligenza e la sensibilità: «Di quanto c’è di reale nell’opera di Wagner, mi rendevo conto rivedendo quei temi insistenti e fugaci, che visitano un atto, si allontanano solo per far ritor­ no e, qualche volta remoti, assopiti, quasi distaccati, sono in altri mo­ menti, pur restando vaghi, cosi incalzanti e vicini, così interni, organici, viscerali da sembrare la ripresa, più che di un motivo musicale, di una nevralgia». E per maggior precisione, lo scrittore aggiunge: «Mentre un musicista mediocre pretende di raffigurare uno scudiero, un cavaliere, facendogli cantare la stessa musica, Wagner, invece, mette sotto ogni denominazione una realtà differente; e, ogni qualvolta compare uno scudiero, a iscriversi nell’immensità sonora, con un cozzo di linee gioioso e feudale, è una figura tutta speciale, a un tempo complicata e schemati­ ca. Donde la pienezza di una musica riempita, di fatto, da molte musiche, ciascuna delle quali è un essere. Un essere o l’impressione suscitata in noi da un aspetto momentaneo della natura». Il tracciato dei Motive attraverso le loro peregrinazioni nell’opera pone un problema delicato e soprattutto inedito: quello del tempo. Ho segnalato le modificazioni melodiche, armoniche e ritmiche, e nondime­ no, quando ho citato il ritmo, mi sono attenuto allo stretto significato di figura ritmica, che regola l’apparizione dei Motive, le implicite relazioni metriche interne. Ma la «velocità di svolgimento» secondo cui tali rela­ zioni metriche sono alla fine ordinate e poi percepite, varia nel corso dell’opera. E in questo va riconosciuta una diffusa duttilità dei Leitmotive, che sarà bene affrontare anzitutto dal punto di vista del tempo, dato che questo aspetto è probabilmente quello più direttamente avvertito, in maniera quasi fisiologica. Come già Schonberg ebbe, credo, ad osservare, nella letteratura «classica» i temi sono inventati in funzione di una velocità quanto mai precisa, precisa al punto che non era assolutamente necessario determinarla se non col timbro; se si esce dai limiti a cui costringe il tempo indicato, gli elementi vengono a perdere il loro si­ gnificato, l’armonia si disgrega, il ritmo perde di coesione, gli stessi intervalli melodici non si coniugano più correttamente. Persino in Bee­ thoven, maestro-analista della composizione tematica, le figure, a qual­ siasi semplicità si vedano ridotte, non ammettono lo stiramento del tempo. Per la prima volta con Wagner, vediamo sbocciare un materiale musicale che è a un tempo compiuto e incompiuto, che si accetta sia come definitivo sia come indeterminato, appartenente simultaneamente alle categorie del passato e del futuro, attraverso la mediazione del pre-

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sente, senza che la logica interna venga ad esserne stravolta. Il rapporto delle componenti è sufficientemente duttile e per conservare alle figure tematiche ogni individualità e per dare loro la possibilità di acquisire, secondo i profili, un differente rendimento. Tutto sommato, il materiale è neutro, ma non indifferente; e ciò appunto gli consente d’integrarsi senza scosse coi diversi contesti in cui s’inserisce, a cui si assoggetta. Lo stesso si può dire per gli intervalli melodici e i rispondenti armonici. Wagner pone l’accento intervallo che, per sua plurima ambiguità, potrà adattarsi a un gran numero di circostanze armoniche, creando V avvenimento, congiunzione dell’intervallo melodico e dell’aggregazio­ ne armonica, in funzione di due potenzialità, fino allora neutre, che si incontrano in un uno e unico modo. Questo materiale in perenne dive­ nire è con ogni probabilità l’invenzione musicale piu altamente personale di Wagner - essa pone l’accento per la prima volta sull’incertezza, sul­ l’indeterminazione; rivela e sottolinea un rifiuto della fissità, un’avver­ sione a consolidare gli esiti musicali sin tanto che non abbiano esaurito il proprio impulso evolutivo e innovativo. E che dire ora del linguaggio armonico proprio, entro cui una siffatta duttilità si realizza? Da un pezzo si è constatata la dualità del lessico armonico in Wagner, la diatonia che si oppone al cromatismo, come ai tempi di Monteverdi e di Gesualdo, di cui i Madrigali ci forniscono numerosi esempi - e, praticamente, secondo la stessa simbolica. Croma­ tismo: tenebre, dubbio, dolore. Diatonia: luce, affermazione^ gioia. Le corrispondenze sono rimaste pressoché invariate per tre secoli, anche se Wagner le utilizza con maggiore insistenza e soprattutto con maggiore larghezza, cosicché mi sembra difficile parlare delle tendenze «arcaiciz­ zanti» del versante diatonico, e dell’impulso «modernista» del versante cromatico. (O allora, si dovrebbe dire altrettanto di Monteverdi e Ge­ sualdo, il che sarebbe quasi privo di senso...) Nell’estrema dilatazione del lessico tonale, Wagner utilizza la dialettica: movimento/pausa, stabilità/squilibrio; in altri termini, per riprendere un’espressione che ho già usata per altri riguardi, la leggibilità, univoca, della struttura diato­ nica si alterna con l’ambiguità, equivoca, della struttura cromatica; don­ de il grado più o meno alto di difficoltà a concepire le funzioni del linguaggio armonico nel loro evolversi dal semplice al complesso. Tra questi due estremi si muove la polifonia di Wagner, analizzata da Ador­ no con grande acutezza. «Si rammenti - scrive il filosofo tedesco - che le sue opere della maturità nella loro forma orchestrale più ricca sono fondate senza eccezione su una scrittura armonica a quattro voci quasi accademica. La quale ha la forma seguente: voce superiore enunciante la melodia — nota tenuta bassa, interpretata in maniera variabile — voci

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intermedie che parafrasano armonicamente e glissano cromaticamente». (E del fenomeno Adorno dà una spiegazione che non mi sembra troppo convincente: «La scrittura armonica a quattro voci si spiega col rispetto del dilettante e dell’outsider per il "corale” regolare del trattato di armonia, ma forse anche con l’atteggiamento del compositore che batte la misura. Il corale offre la realizzazione dello schema armonico dei tempi della misura, ove ogni tempo coincide con un accordo». Se tale proposizione potesse applicarsi a un caso preciso, sarebbe piuttosto pro­ prio la situazione di Berlioz...) Intanto, Adorno prosegue: «Le armonie e la coesione su cui si fondano, non però la scrittura armonica) sono compenetrate dall’aspirazione wagneriana di affrancarsi, e spesso potreb­ be sembrare che, con una scrittura accademica degli accordi antiaccade­ mici, il rivoluzionario dell’armonia volesse riconciliarsi con i maestri che aveva disdegnati». Esiste, senza dubbio, una strana contraddizione tra la fissità della scrittura a quattro voci, tra la continuità, la permanenza dello schema scolastico, e la straordinaria invenzione, l’audacia a volte estrema delle serie armoniche. Quindi a conclusione della sua analisi, Adorno cosi scrive: «Tutti questi accordi rimandano all’"antico”, a nozioni come quelle di passaggio, di alterazione, di ritardo. Ma divenen­ do in definitiva il centro del processo musicale, acquistano la potenza di ciò che non è mai stato». Cosi descritto, il linguaggio di Wagner può sembrare unilaterale, in quanto sembra avere privilegiato una dimensio­ ne rispetto alle altre. D’altro canto, non si è mancato di muovere uria tale accusa contro Wagner e di rilevare, a suo biasimo, un’assenza di polifo­ nia in senso proprio, nonostante alcune spettacolari sovrapposizioni di temi — e si è osservato, di passata, che in Bach le combinazioni di temi dinamici erano molto più complesse da realizzare che la disposizione di motivi assolutamente statici, pronti a installarsi in uno schema generale immobile. Senza dubbio, la polifonia armonica di Wagner, - ove, tra la voce melodica alta e la bassa, le due voci intermedie sono principalmente destinate a vivificare le progressioni d’insieme - non ha niente a che vedere con ciò che si è convenuto di considerare sotto la voce di polifo­ nia. Senonché all’evoluzione del linguaggio non è dovuta l’evoluzione della nozione stessa di polifonia? Secondo lo schema scolastico, si suole distinguere contrappunto da armonia, perché in effetti, a un certo stadio dello sviluppo del linguaggio tonale, queste due nozioni non coincideva­ no se non per un’ipotesi di controllo reciproco. Più il linguaggio si è evoluto verso la differenziazione delle funzióni armoniche, più queste due entità, contrappunto e armonia, sono state costrette a vivere in simbiosi per poter sussistere congiuntamente. (Le fughe delle opere 106 e 133 di Beethoven sono esempi, rari, di «ribellione» del contrappunto

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contro l’invadenza delle funzioni armoniche). Con Wagner si approda a un punto in cui queste due nozioni stanno per fondersi e dar vita a un fenomeno d’insieme, ove le dimensioni, verticale e orizzontale, si proiet­ tano reciprocamente una sull’altra. Accade cosi che le funzioni tonali siano progressivamente corrotte dalla forza singolare degli intervalli. Ciò costituisce il punto di partenza di Schonberg, prima — e quindi in Berg e Webern. Parlando degli accordi wagneriani, Adorno trae questa conclusione: «Essi (gli accordi) non divengono interamente intelligibili se non a partire dal materiale più avanzato della musica contemporanea che ha infranto la continuità della transizione wagneriana». Questa con­ clusione sarebbe, almeno per me, molto più significativa, se applicata alla fusione: contrappunto/armonia, in una formulazione inedita della nozione di polifonia. Beninteso, la continuità voluta, ostinatamente ri­ cercata, nel movimento ininterrotto della polifonia wagneriana non è esente da certi «tic» di scrittura, che peraltro non sono il primo a rilevare. Le innumerevoli cadenze frante, in particolare, emergono chia­ ramente come le troppo visibili cuciture, come a dire le cicatrici, di un tessuto «normale» previa ablazione delle sue clausole abituali. A volte, sarebbe possibile ristabilire se non la prima redazione del testo, almeno l’idea ispirata alla tradizione che gli ha dato vita e si è vista poi corretta, per ragioni stilistiche. Anche in Parsifal è presente un tal genere di deformazione: ma senza dubbio, come indispensabile tributo all’unifica­ zione del discorso musicale. L’orchestra di Parsifal è stata sempre giudicata in base a criteri diver­ si da quelli delle altre opere. Debussy che criticava cosi spietatamente le sonorità del Ring, aveva poi la più grande ammirazione per il mondo sonoro di Parsifal — come del resto ne ha lasciato traccia in Pelléas quando affermava che «vi si sentono sonorità orchestrali uniche e im­ previste, nobili e forti». Lo stesso Stravinskij, per quanto si sia mostrato avverso alla rappresentazione a cui aveva assistito a Bayreuth, ciò non­ dimeno ha scritto Zvezdoliki, la cui sonorità è cosi vicina a quella di Parsifal, nell’impiego dei fiati. (Senza voler parlare del contenuto misti­ co implicito nel poema). Che questa orchestra sia «semplice», a parago­ ne delle altre opere, dipende innanzitutto dall’evoluzione stilistica, dalla qualità del materiale musicale, dal tempo complessivo dell’opera. Non­ dimeno è più che probabile che Wagner abbia ridotto la complessità dei fenomeni sonori in funzione dell’esperienza del Ring nel suo teatro di Bayreuth. È da credere che la partitura sia stata scritta in funzione di un luogo preciso, con la conoscenza pratica delle sue condizioni acustiche. Più che nelle altre partiture, Wagner gioca qui sui contrasti tra timbri puri e guarniture: ora si riconoscerà lo strumento, messo chiaramente

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in evidenza come solista, e Torches tra sarà leggibile-, ora le guarniture avranno il compito di mascherare l’identità dei diversi strumenti, e, tramite la fusione cosi operata di vari timbri, di ottenere una sonorità d’insieme all’interno di una sorta di continuum immaginario del timbro. Qui, come altrove, Wagner persegue intrepido nel suo scopo: attingere il punto di oscillazione costante tra conoscenza e illusione. Ora, non vorrei avere analizzato eccessivamente le componenti del linguaggio wag­ neriano al punto da porne in eclissi la poesia e il mistero. Scrive Proust non senza malizia: «In lui (Wagner), la tristezza del poeta, quale essa sia, è consolata, superata — ossia, sventuratamente, un poco distrutta — dall’allegria dell’artefice». In effetti, Wagner ha prestato il fianco a molti attacchi, spesso maligni, circa il suo spirito di sistematizzazione, i suoi tentativi più che razionali di addomesticare l’irrazionale. Tuttavia, egli trova in Proust un difensore, e per ragioni insospettate che non manche­ rebbero di sorprendere, se non si pensasse che si tratta di una difesa pro domo, pro Balzac, e lo stesso Proust, accusati più di una volta di aver lavorato alla giornata senza preoccuparsi eccessivamente di un più vasto piano generale. Cito integralmente l’intero paragrafo, poiché mi sembra di un’importanza fondamentale per comprendere la «costellazione» Wagner: «L’altro musicista, quello che mi affascinava in quel momen­ to, Wagner, traendo fuori dai suoi cassetti un brano delizioso per intro­ durlo, come un tema retrospettivamente necessario, in un’opera a cui, quando lo aveva composto, non pensava affatto, e avendo poi scritto un primo dramma mitologico, poi un secondo, poi altri ancora, e accorgen­ dosi d’improvviso di aver composto così una Tetralogia, deve aver pro­ vato un po’ dell’ebrezza che invase Balzac quando, gettando sui propri romanzi lo sguardo a un tempo di un estraneo e di un padre, e scorgendo in uno la purezza di Raffaello, in un altro la semplicità del Vangelo, si avvide d’improvviso proiettando su di loro una luce retrospettiva, che sarebbero stati ancora più belli riuniti in un ciclo nel quale tornassero gli stessi personaggi; e con tale raccordo aggiunse alla sua opera un’altra pennellata, l’ultima e la più sublime». Spingendo l’osservazione oltre la descrizione di questo caso felice... Proust ne esamina i benefici estetici: «Unità ulteriore, non fittizia, altrimenti si sarebbe dissolta in polvere, come tante sistematizzazioni di scrittori mediocri che, a forza di titoli e sottotitoli, cercano di darsi l’apparenza di avere perseguito un solo e trascendente disegno. Non fittizia, anzi forse più reale per il fatto stesso di essere ulteriore, di essere nata da un momento di entusiasmo nel quale essa viene scoperta tra brani a cui non rimane che unirsi insieme. Unità che ignorava se stessa, vitale dunque e non logica, che non esclude la varietà e non raggela l’esecuzione. Essa nasce (ma applicandosi, in que­

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sto caso, all’insieme complessivo) come certi brani composti a parte, sorti da un’ispirazione, non imposti dallo svolgimento artificiale di una tesi, e che finiscono per integrarsi al resto». Quello che Proust ci fa cosi chiaramente comprendere, certo esagerando - per necessità di dimostra­ zione — la parte dell’improvvisazione e la sua giustificazione retrospetti­ va, è la crescita organica delle forme nell’opera di Wagner. Senza dub­ bio, vi è un logorio sistematico delle potenzialità che gli forniscono i materiali tematici - intendendo questa espressione in senso lato, sia che si tratti di intervalli melodici o di intenzioni strumentali, nondimeno, le idee, puntualmente, proliferano. Se in un primo tempo si è tentato di ridurre la forza inventiva di Wagner a una concezione eccessivamente meccanicistica, d’altra parte si è accusato poi il musicista di essere un mago cinico dell’illusione tirannica e oppressiva. Commentando la «com­ plessità, il carattere di amalgama, non soltanto del suono wagneriano... non solo del timbro, ma di tutta l’opera wagneriana», Claudel osserva a un certo punto del brano già citato: «Come il suono deve essere tale da non lasciare libera nessuna delle nostre fibre uditive, ma occorre che tutte insieme siano nutrite e adunate, cosi occorre che le nostre facoltà di attenzione e di immaginazione, e non piu soltanto l’orecchio, siano as­ sorbite e requisite dalla musica, e composte nel sonno dell’estasi, occorre che tutte le uscite siano bloccate e che cuociamo a fuoco lento nella magica marmitta». Parsifal, in particolare, rifiuta in effetti l’ascolto cri­ tico: per la sua affinità con la cerimonia religiosa, ma anche per il fatto che i luoghi dell’azione - Montsalvat al pari del castello di Klingsor sono slegati da qualsiasi realtà, appaiono e scompaiono come per un’ope­ razione magica, e fanno parte di quel mondo che Adorno chiama la fantasmagoria. In tal senso, Wagner «corona» il sogno del romantici­ smo, e lo «corona» per eccesso. L’illusione di Weber, di Berlioz, è ingenua, «credibile», ma l’illusione di Wagner è creata per distruggere tutte le illusioni, a immagine della tenuta di Klingsor che si trasforma in deserto. C’è chi ha voluto farsi gioco del suo senso dell’humour quando, probabilmente stanco degli eccessi realistici dello spettacolo fantasma­ gorico, e dei problemi assurdi a cui conducevano («le fanciulle sollevate verso il soffitto con una fune nel didietro»...), Wagner auspicava una rappresentazione ideale al di fuori delle squallide contingenze tecniche. In ogni caso, il suo umorismo critico mostra che egli non si faceva quasi più illusioni svXP Illusione'. Quanto all’interpretazione, non mi resta che rinviare il lettore alle diverse idee da me esposte, relative alle componenti particolari dell’ope­ ra; sono stato sufficientemente esplicito su ogni punto per non dover scrivere adesso un piccolo manuale di applicazioni pratiche...

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Tuttavia, vorrei spiegarmi a proposito del termine «romanticismo», e degli equivoci da esso ingenerati. Dianzi, ho riassunto il mio punto di vista in una battuta, ossia che Parsifal è stato composto da Wagner e non da Guglielmo II... Mi sembra, in effetti, che i gesti di Wagner, nella sua musica, non sono né enfatici, né magniloquenti; mi sembra che la vera grandezza possa fare a meno di parodie dimostrative spinte all’eccesso; e mi sembra anche che il testo musicale manifesta nel modo più esplicito le intenzioni del compositore, e che quindi è inutile volergli imporre un «rendimento» superiore sotto pena di cadere nel ridicolo. Soprattutto in Parsifal, il romanticismo è interno all’opera; le linee musicali hanno di per sé un impatto sufficiente senza voler loro sovrapporre un’«espressi­ vità» supplementare che, anziché rafforzarle, le contraddice attraverso il vuoto di una retorica vana e superflua. Mi si consenta ora di parlare anche della velocità, del tempo, senza che questo implichi un desiderio di autodifesa. Non entrerò in particolari noiosi, ma, avendo avuto occa­ sione di consultare i tempi di esecuzione conservati negli archivi di Bayreuth, ho potuto rendermi conto che nel 1882, Lévi aveva diretto il secondo atto in 62 minuti; il mio tempo nel 1966 era stato di 61 minuti — e lo scarto riguardava poi l’atto più movimentato! Per il III atto, in cui predominano i tempi lenti, 1882: 75 minuti; 1966: 70 minuti. La varia­ zione, come si vede, non è, in proporzione, eccessiva... Ma si riflette nella stessa misura sui tempi del I atto (107/100 minuti). Mi si potrà rispon­ dere che il tempo assoluto non ha alcuna importanza, ed io sono pronto a convenirne, sapendo che ben altri fenomeni — estranei al tempo crono­ metrato, e più importanti - entrano in gioco nella percezione di un insieme teatrale. Ciò nondimeno, l’equilibrio generale, la ripartizione del tempo sono indizi inconfutabili; in un’opera di lunga durata, costi­ tuisce uno dei compiti più difficili da assumere, sapere ad ogni istante, sia pure inconsciamente, dove si è - donde si viene, dove si va, — ed essere cosi in grado di regolare una spigliata velocità di crociera, con le sue tensioni e distensioni. Si, anche nel Parsifal, questa respirazione non deve essere bloccata da una sorta di sentimento per cui il sacro è immobi­ le - o immutabile... Incidentalmente, ciò mi porta a parlare di tradizioni. Wieland Wag­ ner, nel saggio intitolato «Denkmalsschutz fùr Wagner», ha messo le cose in chiaro per ciò che concerne la realizzazione scenica. Ed io non posso che seguire le sue conclusioni, e adottarle rispetto alla lettura dello spartito: ogni esecuzione tende, attraverso la decodifica di quei gero­ glifici e segni che vanno sotto il nome di spartito, verso un fine ignoto. L’opera conserva il proprio potenziale di novità per chi conserva in sé questo desiderio di novità e d’ignoto. Che cosa ce ne faremmo di un

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oggetto morto sepolto sotto la polvere delle circostanze passate? È que­ sta forse, in definitiva, la lezione del Gesamtkunstwerk\ l’opera d’arte totale non esiste se non nella finzione di un assoluto che sfugge. Parafra­ sando Claudel, dirò che questa voce che ci chiama va assolutamente raggiunta, senza che perda quel suo accento di irreparabile e inaccessibi­ le, una fonte inesauribile di gioia e di disperazione.

25. Mahler attuale? .*

Quanto tempo c’è voluto perché egli uscisse non dall’ombra — ma dal purgatorio! Un purgatorio pervicace che per tante ragioni non voleva dimetterlo. Grande come direttore d’orchestra, ma meno grande come composi­ tore; tutt’al più un compositore che non riesce a liberarsi del direttore d’orchestra; un’abilità straordinaria, ma senza la virtù del maestro. E poi ha confuso tutto! Della musica d’opera che ha diretto con passione, nessuna traccia immediata nella sua opera; in compenso, nel nobile terreno sinfonico ha seminato a piene mani la mala pianta teatra­ le: il sentimentalismo, la volgarità, il disordine insolente e insopportabi­ le hanno fatto la loro comparsa rumorosa e prolissa in questa riserva di caccia. Tuttavia, un’esigua schiera di ammiratori vigila sull’esilio postu­ mo, ammiratori che si dividono immediatamente in due campi: i pro­ gressisti e i conservatori - e questi ultimi si vantano di essere i difensori veri di un’opera che ritengono tradita dai primi. E poi il torto di essere ebreo in un momento di esasperato naziona­ lismo - ridotta al totale silenzio nella sua patria d’origine, la memoria di questo impurosangue si assottiglia al punto da scomparire. E in più: una mitologia in cui Bruckner e Mahler tornano di continuo come dei Castore e Polluce della sinfonia. Dopo Beethoven, impossibile andare oltre il nove: la dinastia sinfonica è segnata dal destino non appena si attenta a varcare il numero fatidico. (In seguito, compositori meno dotati sono riusciti in una simile impresa...) Che cosa poteva restare di tanta disfatta? Il ricordo di un interprete prodigioso e scomodo, rigoroso ed eccen­ trico. La presenza di alcune partiture, le più brevi, facili da cogliere, accet­ tabili. Per molti anni, ci si è contentati di questo poco. L’appetito sinfo­ * Prefazione al libro di faise, Paris 1979, pp. 11-26.

bruno

Walter, Gustav Mahler et Vienne, Librairie Generale Fran-

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nico tradizionale si appagava di altre prolissità meno complesse, meno esigenti. Le esecuzioni rare non implicavano il consenso, anzi lasciavano dubbi non solo sul valore ma sulla qualità del testo. Sull’altro versante, la modernità era passata oltre, dopo averlo rele­ gato fra gli articoli invenduti di un romanticismo superato, privo di attualità, guardato con commiserazione. Tutto andava contromano in questa musica «fine secolo»: l’eccesso di dovizia in tutto, mentre si pun­ tava sempre più severamente sul risparmio. Dovizia del tempo, dovizia degli strumenti, dovizia dei sentimenti, dei gesti... la forma crolla sotto tanti eccessi! Che cosa può valere una musica in cui il rapporto tra idee e forma si perde nelle paludi dell’e­ spressività? Volgiamo ormai verso la fine di un mondo che trabocca di ricchezza, soffoca pletorico: l’infatuazione, l’apoplessia sentimentale sono quanto di peggio, e di meglio, può capitargli. Addio, romanticismo adiposo e degenerato! Addio? Quando le opere si ostinano a sopravvivere, non vi è cenno di ad­ dio... Provate a congedarle bruscamente. Esse si ostinano a restare, su­ perbe! Cosi, dopo che l’epurazione ha fatto il suo tempo, ha lasciato dietro di sé alcuni scheletri reali. Ma da questa lunga disattenzione risorge l’autentico e ci spinge a riconsiderarlo, ci interroga insistente sulla nostra negligenza. Eravamo colpevoli o superficiali? E non avremmo qualche giustifica­ zione? Cosi come quest’opera ci era stata presentata, preservata da mani certo pietose ma rapaci — voglio dire sprovviste di quella generosità che apre il futuro attraverso il passato -, accaparrata dalla fedeltà (ma quan­ do la fedeltà diventa poi tradimento?), essa poteva ispirarci una buona dose di diffidenza. Una diffidenza che addirittura ci faceva sospettare i compositori della scuola di Vienna di un attaccamento sentimentale circoscritto ad un luogo. A prima vista, il legame non era poi tanto visibile, ma gli antagonismi lo erano, flagranti. Tuttavia, dopo che la modernità l’aveva fatta finita con l’ascetismo, l’esuberanza tornava allo spirito con insistenza — quando allora ebbe inizio l’esplorazione retrospettiva, arricchita dalle nuove prospettive, con lo spirito messo in guardia dalle esperienze attuali, munito così di un’acutezza duramente conquistata. Forse paga di un semplice sentire, di significati unilaterali, la perce­

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zione vagheggia sogni ambigui, un mondo in cui le categorie non sono poi così semplici da potercisi facilmente ritrovare. L’ordine? Che importa una nozione cosi restrittiva! Bene! Al diavolo tutte le nozioni restrittive: ordine, omogeneità del­ le idee, dello stile, leggibilità delle strutture. Mettiamo da parte, per un momento, queste riserve mentali che portano alla paralisi. Una cosa facile? Certamente no! Specie se non si accetta di lasciarsi influenzare dalle circostanze esterne. In questo caso particolare, come è malagevole sfuggire alla leggenda che mescola ostina­ ta la vita all’opera, la prova diretta dell’esperienza compiuta, il melo­ dramma all’agonia. Assumiamo l’esegesi entusiasta e confrontiamoci di­ rettamente con i monumenti ineguali che egli ci ha lasciati. Una prima ambiguità subito ci sconforta: un limite a volte impossibi­ le da definire tra sentimentalismo e ironia, nostalgia e critica. Non si tratta di una reale contraddizione, ma di un movimento pendolare, di un subitaneo mutamento di lume che fa sì che certe idee musicali considera­ te banali e superflue, divengano, attraverso questo difficile prisma, rive­ latrici e indispensabili. La banalità, inizialmente, tanto rimproverata - al punto da scorgervi una carenza d’invenzione, questa banalità ci colpisce ancora come insop­ portabile? Non sarebbe proprio questa alla base di un vasto equivoco sulla popolarità? L’ascolto «al primo grado» si fonda spesso su stereoti­ pi rassicuranti, su solfe dolciastre, tutto un paesaggio rapido, evanescen­ te, di un passato conservato in forma di vignette. Ciò incanta gli uni, irrita gli altri - impedendo agli uni e agli altri di andare al di là di questa prima apparenza, che è l’anticamera... Certo, questo materiale esiste. Può a volte parerci limitato, prevedi­ bile all’eccesso; di opera in opera, la fonte quasi non varia. Una volta che si siano citate la marcia e tutte le sue derivazioni militari o funebri, le danze a tre tempi: làndler, valzer o minuetto, il repertorio folcloristico provinciale e locale, avremo pressoché compiuto il giro di questa temati­ ca «d’accatto», di facile reperimento. Dalla prima opera all’ultima, si ha come una chiara continua costante: stereotipi ereditati dal passato cultu­ rale o dal passato prima della cultura. In contrasto con questa riserva di «banalità», si erge il repertorio dei grandi gesti teatrali: eroico, sublime — musica delle sfere e dell’infinito, una dimensione grandiosa di cui il meno che si possa dire è che ha perduto parte della sua forza d’impulso. Ma come si spiega che questi gesti, perenti in altri compositori, conservino ancor oggi il loro vigore patetico? Non è forse perché, lungi dall’essere trionfanti, questi gesti mascherano un furore d’insicurezza?

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Come è lontano il romanticismo sicuro di sé e fiero del proprio stato eroico! E come è lontana altresì l’ingenuità del primo approccio alle fonti popolari! Nel mondo di Mahler, non vi è dubbio che la nostalgia esista; ma essa divide alla meglio il proprio territorio con la critica, anzi il sarcasmo. Perché il sarcasmo? Non è forse la caratteristica meno musicale fra tutte? La musica predilige i valori schietti, male adattandosi al doppio gioco dell’ironia e della sincerità! Così non si è mai sicuri se ci si trova dinanzi la verità o la sua parodia. Con un testo, invece, ci si orienta senza eccessiva difficoltà, ma come fare nella musica «pura»? L’ambiguità, l’ironia non si comprendono pienamente se non a parti­ re da un testo fondato su convenzioni comunemente accettate e ricono­ sciute. Distoreere le convenzioni — accentazione esagerata o spostata, tempo ristretto o dilatato, strumentazione insolita, prismatica, alterante - spesso è sufficiente a questo gioco di pendoli. Nella sua forza aggressi­ va, l’humour giunge a invadere tutto di un colore irreale, fantomatico, a far passare il soggetto ai raggi X e a darci di sé un’arborescenza fuligino­ sa, che ci allarma e ci sconcerta: mondo di ossa incrociate, non più di carne, realisticamente descritto con la bizzarria, se non addirittura col grottesco delle combinazioni sonore; mondo nato dall’incubo e pronto a inabissarvisi di nuovo; mondo d’ombra, senza colore, di ceneri, senza sostanza. Come aspramente è colto, come è reso vigorosamente, questo universo spettrale ove la memoria si sfalda! Solo questo ci attrae: i riflessi sentimentali, bizzarri o sarcastici di un mondo in perdizione che un uomo ha saputo captare con acutezza? Può bastare questo per trattenere e catturare la nostra attenzione? Oggi, la fascinazione proviene sicuramente dalla potenza ipnotica di una visione che abbraccia con passione la fine di un’epoca — che deve assolutamente morire perché un’altra rinasca dalla distruzione: questa musica illustra quasi troppo letteralmente il mito della fenice. Tuttavia, al di là della sostanza crepuscolare, esiste, più sorprenden­ te, lo sconvolgimento che egli apporta nel mondo della sinfonia. Con quale determinazione, e certe volte ferocia, egli attacca la gerarchia sti­ listica delle forme sinfoniche estese sino a lui, ma cristallizzate in una convenzione rigida e decorativa. È il teatro che lo ha spinto verso la devastazione drammatica di forme obbligative? Allo stesso modo in cui Wagner ha sconvolto l’ordine artificiale dell’opera per creare nel dram­ ma una tenuta di gran lunga più demiurgica, Mahler a sua volta rovescia la sinfonia, devasta questo territorio troppo ordinato, investe coi suoi fantasmi il sancta sanctorum della logica. Beethoven, il barbaro che

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aveva al suo tempo seminato a piene mani disordine e scompiglio non è forse il vero esempio da evocare? E lo stesso non va detto anche per l’estensione, al di là del «ragionevole», delle forme che aveva potuto assumere come modelli? È lecito parlare di una dimensione extramusicale? Non si è mancato di farlo, e i programmi scritti dall’autore, che se ne è pentito subito dopo, hanno innescato l’equivoco. L’intenzione descrittiva non sarebbe né un’innovazione, né una caratteristica personale; al contrario, sareb­ be piuttosto il segno dell’epoca che, dopo Berlioz e Liszt, si compiace di eccitare l’immaginazione musicale per mezzo di figure — principalmente letterarie, ma adottate anche dalle arti visive, facendo concorrenza alla «pittura» su un terreno diverso... La dimensione extramusicale in Mahler abbandona i lidi dell’assimi­ lazione per minare la sostanza stessa della musica, la sua organizzazione, la sua struttura, il suo potere. La sua visione, e il suo modo di fare possiedono la dimensione epica del narratore; nei suoi procedimenti co­ me nel suo materiale, egli ricorda innanzitutto il romanziere. La sinfonia resta titolata, i principi dei movimenti permangono: scherzo, movimen­ to lento, finale, per quanto il loro numero e il loro ordine siano sempre modificati da un’opera all’altra. L’intrusione più volte ripetuta dall’uni­ verso vocale a un qualsiasi punto della sinfonia, l’inserto di effetti teatra­ li mediante strumenti posti fuori della scena, tutto questo scalza i limiti di un genere preciso. Solo l’universo romanzesco è abbastanza libero da permettersi un tale gioco col materiale che impiega e il modo con cui lo impiega. Affrancato dal teatro visivo, che è la sua ossessione professiona­ le, Mahler si abbandona, il più delle volte freneticamente, alla libertà di mescolare tutti i «generi»; si rifiuta di distinguere tra i materiali nobili e gli altri, ingloba tutta la materia prima disponibile in una costru­ zione certo sorvegliata con attenzione, ma sciolta da limiti formali senza rilevanza. E poco gli importano l’omogeneità, la gerarchia, che in questo caso sono nozioni assurde; egli ci comunica la propria visione con tutto ciò che essa comporta di nobile, di volgare, di teso, di abbandonato. Egli non opera una scelta in questa dovizia, giacché scegliere equivarrebbe a un tradimento, rinunziando al suo progetto fondamentale. E cosi avvertiamo nell’ascoltarlo un modo diverso di percepire lo svolgimento musicale. A prima vista, permane l’impressione che la forma propriamente musicale non sia in grado di sopportare un tale cumulo di fatti, e che il racconto — musicale, insisto sulla parola — si perda in meandri inutili, e l’eccesso offuschi l’intenzione, e la forma si dissolva nella complessità, mentre la direzione scompare sotto le contingenze che si moltiplicano all’infinito, e questi movimenti pletorici crollano sotto la

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ricchezza di materia e l’eccesso di retorica. Un ascolto musicale in senso stretto darebbe ragione a tali argomenti. Ma allora come ascoltare? Co­ me percepire? Bisogna soltanto lasciarsi trasportare dalla narrazione, fluttuare a seconda degli ondeggiamenti psicologici, non lasciarsi distrar­ re dal particolare per non considerare che la dimensione epica e lo slan­ cio che essa presta all’immaginazione? Certo, è possibile! La forza della musica è sufficiente per adattarsi alla nostra passività, ma basta ad arric­ chirci? L’ideale sarebbe di poter seguire con esattezza la densità del racconto. Quante se ne sono dette sulla prolissità di Mahler! Se si parla di «himmlische Lànge» in Schubert, quale espressione si dovrebbe inven­ tare per descrivere la spaventosa dimensione temporale che presiede a certi movimenti delle Sinfonie! È spossante o fastidioso solo un ascolto mal diretto di una cosi immensa estensione. (Se il problema si pone per l’ascoltatore, a maggior ragione si pone per l’interprete: la sola differen­ za sta nell’acutezza e nella previsione). Riferirsi a una architettura classi­ ca con i suoi punti fermi perde ogni senso; quello che occorre è assumere la densità degli avvenimenti musicali, la densità del tempo musicale disteso o contratto secondo che esige la circostanza drammatica. Senza dubbio, alla base di ogni musica vi è una certa duttilità del tempo musi­ cale, ma essa non è il fenomeno fondamentale della percezione, ora, essa tende costantemente al divenire, precede sovente tutte le altre categorie, essendo essa a guidarci per consentirci di separare ciò che è bene ascolta­ re globalmente da ciò che va ascoltato con un’acutezza quasi analitica. La duttilità del tempo musicale ci aiuta a percepire i piani della narrazione, e a coordinare subito la proliferazione del racconto. Occorre adattare il nostro ascolto all’interno dei movimenti stessi, soprattutto quando si tratta dei grandi movimenti epici; ma proprio nella Sinfonia, i differenti movimenti richiedono una qualità d’ascolto diversa, in quanto il loro punto di vista estetico è differente, e la loro importanza o meglio la loro densità nell’impostazione generale non è la stessa. Universo non omogeneo, per eccellenza, che assume il rischio delle dissonanze, che include la citazione e la parodia come procedimen­ ti legittimi, il mondo di Mahler ci insegna da capo ad ascoltare in modo più vario, più ambiguo, più ricco. È curioso constatare come l’intera opera di Mahler si componga di estremi: si passa direttamente dal lied quanto mai breve alla sinfonia oltremodo lunga. Niente opere di media lunghezza! Si può restarne scon­ certati... Ma si può anche preferire la presa dell’istante, l’immediata perfezione — cosi evidente -, l’acutezza della trascrizione che caratteriz­ zano i lieder brevi. Una volta espressa l’idea essenziale, perché dilatare,

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allungare, amplificare oltre ogni aspettativa? Eppure, per quanto perfet­ ta sia la concisione dei suoi «poemi», la dimensione vera di Mahler risiede nei movimenti lunghi, smisurati, il più delle volte problematici, giacché la difficile lotta con la dimensione epica si rivela più affascinante di un risultato di dimensioni tanto manifestamente circoscritte dai limi­ ti di un genere quanto mai caratterizzato. Forse Mahler sarebbe meno affascinante se non fosse a volte così malagevole. Nel suo approccio «iperdimensionale», non vi è quasi traccia dell’euforia fine secolo per l’ampollosità, il gigantismo e la megalomania, il gusto della dovizia sfre­ nata; vi si rivela piuttosto un’ansia demiurgica: l’angoscia di dar vita a un mondo proliferante oltre ogni controllo razionale, la vertigine di creare un’opera ove l’accordo e la contraddizione sono distribuiti equa­ mente, l’insoddisfazione per le dimensioni già esplorate dell’esperienza musicale, la ricerca di un ordine meno evidentemente stabilito e accetta­ to con minore compiacimento. L’opera ideale sfugge a tutte le categorie definite, le rifiuta come tali per partecipare a ciascuna di esse. Al punto di confluenza di un teatro, di un romanzo, di un poema immaginari, la sinfonia diviene luogo d’incontro per eccellenza; l’espressione musicale rivendica tutto ciò che le viene negato, decide di assumere tutte le possi­ bilità dell’essere, diviene veramente filosofia - sfuggendo alle contingen­ ze della trasmissione puramente verbale. L’ambizione del progetto può conciliarsi con l’economia dei mezzi? L’ascetismo sonoro è conforme a una simile concezione? Certo, sappia­ mo che la coercizione, la disciplina possono portare a risultati prodigiosi, e che più lo spirito penetra nel profondo dell’invenzione, meno ha biso­ gno, forse, dell’apparato esterno messo a sua disposizione; lo spirito rifiuta l’apparente dovizia per giungere a toccare la più profonda comu­ nione quando il mezzo di trasmissione gli diventa sommamente indiffe­ rente: perfettamente dominata, la materia sonora si vede relegata non solo al posto più umile, ma anche dotata dell’attributo più insolito fra tutti: l’assenza. Musica per la riflessione, libro di meditazione, canto in sé da comunicare al di là della realtà dei suoni. Tutto questo era già presente in Bach almeno, se non anche in Beethoven, cui era insopporta­ bile il triste violino; mentre Wagner ancora si compiace, nel più profon­ do della sua riflessione, della dovizia sonora, della pienezza strumentale, che epurata, purificata, tersa, ora più che mai sottende l’essenza stessa dell’espressione mahleriana. Ma come dimenticare l’esempio, la sintesi, la fusione, in seno al pensiero musicale, del concetto e del mezzo? In Mahler, il mezzo non avrebbe assunto un posto eccessivo rispetto all’idea? Non vi sarebbe abuso di potere, e non si cadrebbe allora in un virtuosismo affascinante ma vuoto? Le reazioni immediate di fronte alla

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sua opera vanno tutte in questo senso: si loda, o si critica, il virtuosismo o la bizzarria; non si contesta l’abilità dell’autore, gli si rimprovera di mascherare l’assenza di contenuto, lo si accusa di distrarre l’attenzione, di distogliere la percezione musicale verso categorie superficiali, e tutto sommato superflue. Mahler, il direttore d’orchestra non ha forse il difet­ to tipico dell’interprete: mascherare l’assenza di originalità delle sue concezioni — o nel migliore dei casi, la loro incertezza — con una manipo­ lazione di cui il mestiere, quasi illecitamente, gli assicura tutti i segreti? Si rimprovera a questa razza ibrida di sapersi destreggiare con troppa sicurezza: la si dichiara immediatamente colpevole di barare, e addirittu­ ra di tradire. Certo, non manca in Mahler un virtuosismo sonoro, che è sempre visibile, ma di rado vistoso, e se a volte è convenzionale, pure egli utilizza quasi sempre i registri dell’invenzione in modo superbo. Il suo virtuosismo si pone in una prospettiva storica ben definita e, da questo stretto punto di vista, non esplora un territorio completamente scono­ sciuto, ma accetta - sia pure per trasgredirle - le pratiche romantiche strumentali divenute via via le convenzioni, le norme del xix secolo: basterebbe a confermarlo la predilezione per il corno, se non vi fossero ben altri indizi caratteristici di una tale condizione intellettuale. La di­ sinvoltura della manipolazione strumentale è cosi grande che potrebbe a volte passare per trascuratezza, se l’estrema minuzia della trascrizione non ci richiamasse di continuo alla vigilanza. Mahler è ossessionato, giustamente, dalla resa puntuale della notazione: come direttore d’or­ chestra, aveva potuto sperimentare infinite volte quanto le indicazioni vengano «liberamente» lette e riprodotte dallo strumentista, o come spesso siano ignorate — per semplice disattenzione o pigrizia. Nella sua notazione, egli fa di tutto per reagire all’inerzia, e non meno grande è la sua diffidenza verso le abitudini acquisite, le reazioni «meccanicamente» naturali. Come se egli sapesse — e sapeva — che la sua materia musicale poteva essere ambigua, pronta a insinuarsi nell’incertezza tra ironia e sentimentalismo, egli non cessa di mettere in guardia, di richiamare all’ordine. È la sua voce insopprimibile, personale, che si ritrova nelle tante indicazioni, positive, e negative in pari numero: egli esorta e trat­ tiene, incoraggia e frena, stimola e ravviva il senso critico; ciò che biso­ gna fare consiste innanzitutto nel sapere quello che non bisogna fare, la qualità richiesta deve passare prima per il difetto da evitare. A dire il vero, egli include lo schema dell’interprete in quello della composizione a un grado cosi alto come nessun compositore prima di lui si era mai preoccupato di fare; incorpora le esigenze dell’interprete nel processo dell’invenzione, senza tuttavia lasciarsi condizionare da esse, giacché egli

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le padroneggia al punto da non volere contentarsi di ciò che esiste, ma prevede ciò che è possibile per estensione ed estrapolazione. Questo, e non un vuoto virtuosismo, rivela il professionista dell’interpretazione, Tuomo che è stato in quotidiano contatto con le fastosità di un mestiere entusiasmante, non meno che con i compiti e i doveri minuziosi di una tecnica obbligativa. Di qui a credere che le esigenze della trascrizione conducano a un’interpretazione rigida dei segni, che l’autorità vivente divenga coercizione postuma, che basti essere esatti, corretti, per rendere conto di un pensiero estremamente mobile, che l’osservanza oggettiva possa soppiantare il ricrearsi di una possente soggettività, vi è l’enorme distanza invalicabile che separa il servilismo dall’immaginazione. Se Mahler pone in guardia l’interprete, non pretende poi di inibirlo; da quanto è dato sapere, egli stesso non era in alcun modo toccato da questa tendenza all’inibizione, tutt’altro! Ma non poteva risolversi a confonde­ re «interpretazione» con esattezza: la libertà più esigente richiede per l’appunto la più severa disciplina, altrimenti si riduce a una caricatura e si contenta di approssimazioni - travestimenti, a volte grossolani, di una verità ben altrimenti profonda, ben altrimenti rispettabile! Tanto più che ad abbandonarsi sconsideratamente alla frenesia, anzi all’isteria del momento, la motivazione originaria finisce per essere sconvolta. Si di­ strugge l’ambiguità essenziale della sua musica - e cosi facendo, la si ren­ de sommamente volgare, svuotandola del suo contenuto profondo; si distrugge, inoltre, la struttura soggiacente che equilibra tutti i momenti dello svolgimento per farne la passeggiata disorientata di un ficcanaso stravolto! I campi magnetici di Mahler sono infinitamente più raffinati di una rozza dimostrazione di limatura. La difficoltà della lettura in Mahler risiede senza dubbio nella diver­ genza tra gesto e materia; il gesto tende a divenire sempre più «grandio­ so» mentre la materia rischia di divenire sempre più «volgare». L’incoerenza nasce sia da questa contraddizione fondamentale sia dall’impossi­ bilità di congiungere gli uni agli altri i molteplici momenti del suo pro­ cedere nella composizione stessa; questo procedere fa proliferare le idee musicali attorno ad alcune polarità essenziali. Più si avanza nella sua opera, più si vede che l’intreccio acquista densità non attraverso lo spes­ sore ma attraverso la molteplicità delle linee: la polifonia si sviluppa in un incrocio costante e continuo, ove, sempre più, gli elementi si legano a una tematica determinante: niente elementi riempitivi o complementari, ma cellule derivate da figure principali. Conciliare la minuzia del partico­ lare con la grandezza del disegno, pur non essendo facile da realizzare, ci restituisce tuttavia l’equilibrio instabile delle forze operanti nella sua invenzione; la difficoltà di intendere queste dimensioni opposte, di for-

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zarle a coincidere in una stessa prospettiva, ha posto per Mahler gli stessi problemi che essa ci pone, problemi che definiscono il carattere più profondo e personale della sua creazione. Che una tale opera abbia messo un certo tempo prima di affermarsi, non sembra oggi ingiustificato. La dovizia e la proliferazione possono sedurci oggi più di ieri, ricordandoci i fasti dimenticati o rifiutati per tanti anni come superflui e impuri. Una reazione cosi semplicistica non potrebbe tuttavia giustificare da sola il culto a poco a poco rivelatosi per un’opera rifiutata in un primo tempo per la sua ambiguità, e di cui proprio l’ambiguità costituisce oggi il pregio. Ricondurre una tale fascinazione a una corrente «progressista» che porti di filato e per via diretta alla scuola di Vienna, sarebbe forzare le cose e voler far loro dire ciò che non possono voler dire. Eccessiva è la nostalgia, smodato l’attaccamento al passato per fare del nostro musicista un rivoluzionario puro che ha innescato un processo irreversibile di radicale rinnovamento; e proprio di questo si sono resi conto i suoi primi adepti che si sono subito aggrap­ pati alla nostalgia, scorgendone l’aspetto sentimentale e rifiutando il lato critico che doveva metterli a disagio. D’altra parte, vi è una volontà cosi ostinata di superare le categorie del passato, di costringerle a esprimere ciò per cui non erano in origine destinate, vi è una tale perseveranza nell’estensione dei limiti che non si può confinare Mahler in una defini­ zione di «fine-di-una-specie»; egli partecipa, in modo personalissimo, al futuro: la sua partecipazione ci sembra più evidente adesso che una certa chiarificazione delle nozioni stilistiche ha compiuto la propria opera, e fatto il proprio tempo, adesso che si torna a considerare un linguaggio più composito, un’espressione più complessa, una sintesi più aperta. Certo, le fonti della sua ispirazione, la geografia stessa delle sue fonti possono sembrarci strettamente circoscritte, chiuse in un mondo che, anziché rinnovarsi, resta fissato ossessivamente su taluni mezzi espressi­ vi, immagini di una forma di società sul punto di scomparire irrimedia­ bilmente. E poiché, praticamente, queste fonti non esistono più, noi possiamo considerarle con occhio più sereno, come valide testimonianze che non siamo più in grado d’intendere direttamente; questo materiale assume perciò valore di documento e, piuttosto che rifiutarlo, lo consi­ deriamo il primo grado dell’invenzione. E così siamo in condizione di aderire quasi esclusivamente alla trasformazione o alla trasmutazione. Ricerchiamo, per tutta l’opera, l’evoluzione dell’espressione a partire da elementi di base identici che ci servono da punti fermi essenziali. L’am­ piezza e la complessità del gesto come la varietà e l’intensità nei gradi dell’invenzione, ecco che cosa rende Mahler attuale; che cosa lo rende indispensabile alla riflessione odierna sul futuro della musica.

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26. Cane flaccido'1. Di se stesso: «Piu niente da fare da quella parte, bisogna cercare altro o sono perduto». «Se fallisco, tanto peggio per me. Vuol dire che non avevo niente dentro». «Che fortuna essere vecchio. Quando ero giovane, mi assillavano: "Un giorno vedrà! Aspetti! Vedrà! ” Ebbene, adesso che sono al punto, non ho visto niente. Niente». Descrizione di un’atrofia glandolare: gli stili di Satie; le scoperte - o invenzioni - di Satie; l’humour di Satie. I tre stili di Satie:

- lo stile armonico e impressionista - Gymnopédies con quel che segue; - lo stile Paulette Darty, valzer cantati o no; - lo stile contrappuntistico - da Schola - la nudità, la chiarezza, il classicismo. Alcune invenzioni di Satie:

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gli accordi di nona per soluzioni eccezionali; la soppressione della stanghetta; i «ritorni a»; la semplicità; i suoi discepoli.

Manca solo alla sua gloria di essere il fondatore del concorso Lépine (reparto piccoli inventori). È stato spesso sull’onda dell’attualità, talvolta più avanti: e sempre la sua musica segna una data. Les Sarabandes datano al 1887, sono cioè anteriori di quattordici anni a quelle di Debussy... Les Valses datano al 1900, semplicemente... Socrate porta la data del 1918, ossia dieci anni prima di Apollon Musagète... Socrate', da considerare fra i miti nobili del denudamento augusto * Su Erik Satie, in « Revue musicale», n. 214, 1952, pp. 153-54.

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della vecchiaia. (Accostandolo al notturno XIII e alla Penelope del «nostro» Fauré. Pensando piu o meno alTaneddoto ben noto di Noè).

L’humour di Satie, il meglio: «il maestro di Arcueil». Un titolo, eccellente; senza che musica segua. Le scoperte di Satie e i poliedri di Achras... Se gliele han tagliate le sorecchie al nostro «precursore»!

Riportiamo questo passo di Jarry. Al lettore di trascrivere, a suo giu­ dizio, in rapporto alla necessità di una polemica Satie. Cornoventraglia! Signor la mia coscienza, siete sicuro che non sia capace di difendersi? la coscienza Assolutamente, signore. Sicché assassinarlo, sarebbe proprio una vigliaccata. padre ubu Grazie, signore, non abbiamo piu bisogno di voi. Uccide­ remo il signor Achras, dato che non c’è pericolo, e vi consulteremo più spesso, dato che sapete darci consigli migliori di quanto ci saremmo aspettati. Nella valigia! {La richiude). la coscienza In tal caso, signore, credo che oggi possiamo, e così via, fermarci qui. padre ubu

... E nei secoli dei secoli, ecc.

27. Schonberg, il mal amato? .* A dire il vero, Schonberg suscita più rispetto che amore... L’ammira­ zione dei suoi discepoli, nei suoi riguardi, è stata senza limiti, addirittura senza controllo. Così l’opposizione, la stessa avversione verso ciò che rappresentava, non sono state meno eccessive. Ma la figura di profeta, che si venera - ma che si teme, è stata da lui voluta? Ne è egli davvero responsabile? E destinato come Mosè a «fallire»? Sembra che, soprattutto verso la fine della sua esistenza, egli si sia stancato del ruolo preminente ma ingrato a cui il secolo lo aveva costret­ to. Il solo nome di Schonberg evoca dispute ideologiche: non si discute neppure sulla sua opera, ma sul principio del suo linguaggio musicale. Né mancano a complicare le cose, questioni razziali o divergenze di * Pubblicato in tedesco in «Die Welt», 7 settembre 1974. Inedito in francese.

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cultura. Insomma, la doppiezza del suo personaggio, proteso tra conser­ vatorismo e avventura, ha sconvolto completamente le carte di un gioco già cosi difficile, ha allontanato tanti ingenui per i quali una situazione deve essere chiara per essere compresa e accettata. Se mi interrogo a mia volta sul caso Schonberg, non posso che consta­ tare in pratica l’invarianza del mio punto di vista. Ho imparato a scopri­ re i labirinti di Berg, dopo avere superato l’ostacolo sentimentale che me ne separava. Ho imparato a distaccarmi dall’eccessiva luminosità di We­ bern, ad onta del fervore delle intenzioni. Ma per Schonberg, resto soggiogato solo da un periodo relativamente breve ma fondamentale, in cui, mi affretto però ad aggiungere, sono incluse quasi tutte le principali scoperte di questo secolo; un periodo essenziale che, per quanto breve, segna irrimediabilmente la musica contemporanea. Stando alla cronologia delle sue opere, Schonberg ha composto rapi­ damente e a sbalzi, spesso sotto l’influsso violento di testi quanto mai provocanti. Il tempo della composizione è in genere brevissimo - Erwartung ne è l’esempio più sorprendente. Anche le opere di vasto respi­ ro, se coprono lunghi periodi della sua esistenza, sono creazioni sporadi­ che: abbandonate, riprese, dimenticate, ritrovate... La storia delle opere di Schonberg rivelano un’invenzione istintiva, discontinua - in una pa­ rola, «geniale», nel senso più convenzionalmente romantico del termine. Come conciliare questo fatto con l’intellettualismo di cui lo si accusa? (Occorrerebbe anzitutto interrogarsi su ciò che in generale viene definito come intellettualismo.,. Ma accettiamo pure la nozione corrente di aridi­ tà combinatoria, contraria alla spontaneità). A tutta prima, una sola risposta, magica, viene alla mente. E Schonberg non ha mancato di darla, equiparando il compositore a Dio, in un certo senso... L’opera è qui, da tempo immemorabile. Basta pensare la materia prima con sufficiente intensità perché si compia la creazione: perché l’opera sia, e l’opera sia stata. Il «calcolo» non potrebbe esistere per se stesso, ma è parte inte­ grale dell’invenzione folgorante. L’organizzazione è a immagine della folgore: istantanea e onnipossente. Oh! come è comprensibile la pro­ gressiva fissazione di Schonberg sull’immagine di Mosè! Il roveto arden­ te, e le tavole della legge, quale riduzione più impressionante della crea­ zione umana suscitata, assistita, dalla creazione divina? Questo suo messianesimo sommario mi indispone - lo ammetto anche se spiega la vaticinazione come conseguenza dell’«insuccesso» di Schonberg. Avendo riscontrato attorno a sé ostilità e condanna, egli si rifugia nell’atteggiamento profetico; in particolare, una certa afferma­ zione sulla supremazia che egli avrebbe assicurato alla musica tedesca per qualche secolo, resta difficilmente spiegabile se non con un frenetico

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desiderio di compensazione. Forse la sua funzione pedagogica lo ha con­ fermato in un ruolo per il quale aveva una predilezione? Ma la funzione pedagogica che egli aveva assunta con entusiasmo, finché si era tenuta a un livello superiore, cominciò a pesargli gravemen­ te non appena si rivelò un mestiere assorbente e fastidioso. È raro tutta­ via che un compositore della sua portata abbia dedicato tanto tempo a insegnare, a formare altre personalità. Ma il migliore dei maestri non può inventare le personalità, ma solo incontrarle e rivelarle a se stesse. Le due rivelazioni più sorprendenti, e durevoli (Berg e Webern), si produssero proprio all’inizio della sua attività — una coincidenza fragile e transitoria, che non si ripeterà più a una tale altezza. Sappiamo d’altra parte che Schonberg fu in pratica un autodidatta e che le lezioni e i consigli ricevuti sono di un’importanza molto relativa, se confrontati al lavoro a cui si sobbarcò a sua volta per assimilare la letteratura musicale classica e romantica. È lecito pensare che egli abbia voluto risparmiare una cosi dura esperienza a personalità più giovani - persuaso com’era della necessità di una conoscenza profonda della situazione musicale per potervisi inserire da compositore. E che è possibile innovare solo dopo avere assunto il passato nella sua massima completezza. Schonberg, avventuriero suo malgrado? Scritti e aneddoti lo lasciano intendere. «Ci voleva uno Schonberg, la sorte è caduta su di me...» o qualcosa del genere! La nostalgia che lo coglie al pensiero dell’antico ordine! L’ostinazione con cui cerca in un primo tempo di unire le proprie opere all’elaborazione dei capolavori classici ammirati e assunti come modelli. Egli lavora cosi intensamente ad adattare e trasformare certi mo­ delli da rendere irriconoscibili, agli occhi degli osservatori superficia­ li, i profondi legami che lo uniscono al passato. Ma anch’egli, nel periodo propriamente esplosivo della sua creazione - un periodo che si estende nell’arco di una dozzina d’anni - dimenticherà in parte la sua soggezione di fronte alla storia. La cultura musicale resterà latente, ma non sarà più in primo piano; la forza d’invenzione sarà cosi esigente che non vi sarà quasi posto per la veridicità storica. Il desiderio, il piacere di esplorare, di rinnovare saranno più forti dell’ambizione di inserirsi in un panorama enciclopedico. Una volta varcata la soglia, dopo essersi liberato di una costrizione secolare, Schonberg ha tenuto prima a giustificarsi, e poi a stabilire una nuova regola che potesse sostenere vittoriosamente il con­ fronto con l’ordine abolito. Di qui quella sorta di trionfo quando crede di avere dato una nuova legge «secolare» alla musica, di qui l’ostinazione a presentare il suo nuovo universo in confronto con l’antico. Ma il mi­ raggio ha possibilità di durare? Si preferisce vedere in Schonberg solo due fasi: prima della tonalità —

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dopo la sospensione della tonalità, l’introduzione del sistema dodecafo­ nico, come se l’abbandono del linguaggio tonale fosse il solo fatto essen­ ziale della sua esistenza. Ma è proprio questo l’unico problema fonda­ mentale? In un primo tempo, una sorta di preambolo, siamo posti a fronte con opere di prefigurazione, in cui si precisano a poco a poco le sue concezioni e le sue esigenze. Di un linguaggio generale, e general­ mente accettato, egli farà non soltanto un linguaggio personale, ma bensì un linguaggio individuale. Egli infonde nella polifonia motivi sempre più numerosi, ove l’intervallo melodico avrà la precedenza sull’interval­ lo armonico di coordinazione. Un procedimento più volte adottato pri­ ma di lui, in Beethoven e Wagner, in particolare, ove armonia e contrap­ punto giungono a stringere rapporti così tesi da pervenire quasi al punto di rottura. La rottura avverrà in Schonberg in un secondo tempo: rottu­ ra o esplosione, tanto nella forma, nel modo di comporre quanto nel linguaggio propriamente detto. In questo periodo breve e di intensa «veggenza» — nel senso di Rimbaud - ha luogo un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi musicali. Le dimensioni si mesco­ lano, si scambiano; la concezione sfida l’ordine, si rinnova in uno sforzo estremamente teso di subita invenzione: esplora la continuità informale, esplora la frammentazione formalizzata. Ma, come prima, tutta l’opera­ zione di comporre resta sottesa dall’infusione persistente di motivi, di principi motivistici; di giochi di intervalli preponderanti. L’invenzione si espande in un’efflorescenza anarchica ove l’economia è proprio l’ultima delle preoccupazioni, divenendo, al contrario, il centro della riflessione nella transizione che seguirà, verso l’eventuale codificazione del linguag­ gio. La lava si raffredda. Siamo ora di fronte a una cristallizzazione, a una geometrizzazione delle forme, a una verifica delle componenti del­ l’organismo musicale, a una classificazione dei metodi, a un inventario dei mezzi. Certe opere assumono un andamento epesegetico, sono garan­ zie date all’eternità. Il tempo della codificazione tende verso la sicurezza più che verso l’avventura, tende soprattutto verso il reinserimento totale nel contesto storico così come può essere concepito da un punto di vista enciclopedico. Sullo stesso passo, Schonberg prosegue nel suo procedere di fondo: tutto è pervaso dai motivi e dagli intervalli di base - ma nel nuovo contesto, non dovrebbe più darsi conflitto gerarchico tra l’inter­ vallo melodico e la coordinazione armonica, dipendendo entrambi, fin dall’inizio, da una stessa volontà combinatoria. Anche prima di risolver­ ci a sondarne le conseguenze, e addirittura di criticarla, ci è d’obbligo constatare l’unità e l’ostinazione di una simile traiettoria. Analoga evoluzione mi sembra di poter rilevare in alcuni pittori della stessa generazione, segnatamente in due di loro: Kandinskij e Mon-

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drian. Il nome del primo non desta meraviglia; sono noti i rapporti più che episodici tra Der Blaue Reiter e Schonberg - si sa anche che una collaborazione fu presa in esame con il Bauhaus. Quanto al secondo, non credo che Schonberg gli abbia mai dimostrato un grande interesse. Tut­ tavia, se esaminiamo l’opera di Kandinskij e quella di Mondrian, non possiamo fare a meno di scorgervi la prefigurazione, la rottura e la co­ difica che costituiscono anche il carattere proprio dell’opera di Schon­ berg, con le stesse avventure, gli stessi rischi e, temo, le stesse ricadute e le stesse disillusioni. Del resto, occorre riconoscere che i gusti pittorici di Schonberg — voglio dire nei suoi quadri — hanno ben poco a che vedere con questi pittori. A parte ogni questione di «professionalità», la visio­ ne del mondo di Schonberg lo avvicina più a Edvard Munch o a Odilon Redon... Non possiamo sfiorare questo argomento senza parlare anche delle sue affinità letterarie. Non si è mancato di denunciare la qualità alquanto mediocre dei testi da lui scelti o scritti: controversia inesauribi­ le, che non concerne il solo Schonberg. È raro che testi d’opera o di cantate siano brani da antologia. Ma ciò che è accettabile quando si tratta di un supporto drammatico, generalmente parlando, si rivela più in­ gombrante quando la pretesa poetica e filosofica accentuano la povertà letteraria o la debolezza drammatica. Ciò nonostante, i «soggetti» scelti da Schonberg rivelano le sue profonde preoccupazioni di creatore. L’e­ splorazione onirica di Rrwartung coincide con la sua immersione più profonda nelle fonti inconscie della creazione musicale. Il riferimento a un mondo poetico lontano, abolito, nel Pierrot lunaire, si confonde con l’addio a un linguaggio considerato sorpassato, insufficiente. In seguito, le preoccupazioni e i dubbi di Mosè, il suo attaccamento alla nuova legge e la sua disperazione di vederla adottare s’identificano totalmente con la crisi personale del compositore. Sovente, se non per i loro meriti lettera­ ri, i soggetti affrontati da Schonberg sono convincenti poiché apparten­ gono quanto mai specificamente alla sua concezione generale dell’inven­ zione musicale, ne descrivono l’evoluzione — mentre la sua pittura resta impermeabile, statica e datata. L’effetto Schonberg esiste ancora? In ciò che egli considerava la parte della sua opera più degna di immortalità, tale effetto è sfumato. In ciò che in un primo tempo poteva essere preso per la parte più tran­ sitoria, la fascinazione rimane. Da che dipende una situazione così pa­ radossale? L’ho già detto, e non posso che ripetermi: vi è incompatibi­ lità tra la volontà di «fare storia», e il fatto dell’importanza storica stes­ sa. Volere pensare di assumere un destino storico - mi si faccia grazia del paragone volgare — è come voler essere a un tempo l’uovo e il pulcino. L’impossibilità biologica di una tale pretesa rende caduche le più oneste

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intenzioni «d’immortalità»... Sembra quanto mai difficile tuttavia, spe­ cie nella nostra epoca, non essere più o meno consapevole e del proprio inserimento nel contesto storico, e della propria importanza, della pro­ pria forza d’invenzione. «Il desiderio d’immortalità» non è nuovo, nei poeti, in particolare - e persino nei creatori più legati al lavoro quotidia­ no, si trova questo appello alle forze oscure del futuro. Ma quando que­ sto stato di precario equilibrio oscilla dalla parte dell’errore? Nel momen­ to, mi sembra, in cui ci si gloria di voler dare dei limiti precisi all’evolu­ zione, in cui ci si accinge a codificarla interamente muovendo dallo stato presente, in cui si confonde profezia e previsione. La coscienza di una situazione storica, la coscienza, più specificamente, del futuro, non sop­ porta la codificazione. Si è constatato e detto molte volte che il futuro non si realizza mai come gli uomini l’hanno immaginato, o addirittura concepito. Questa opinione del buon senso è spesso battuta in breccia nel­ la speranza che il futuro non possa sfuggire alla nostra influenza, che pos­ siamo modellarlo almeno per un certo tempo: illusione che consente di accettare il transitorio con minore impazienza. Ma il transitorio non è appunto ciò che il creatore deve accettare, il quale deve poi adattarsi a vedere le proprie conquiste presenti costantemente rimesse in questio­ ne? Non ci si deve arrendere all’evidenza che il transitorio è la materia stessa della prospettiva storica, della continuità? Se prendo a testimonio l’esempio particolare di Schonberg, è proprio nel momento preciso in cui egli ha avuto la più acuta consapevolezza del transitorio, del suo impatto, in cui il suo ruolo di compositore è stato insostituibile, e lo resta. La prematura codifica, l’assicurazione sull’av­ venire sono, al contrario, ciò che della sua attività scompare più presto e più irrimediabilmente. Come prevedere, perché prevedere? Ma anche: non bisogna vivere che nell’istante, anche se esso è il «cuore dell’eter­ no»? S’impone sempre la scommessa, ineluttabile - una scommessa a cui è vano imporre un esito, un limite, una logica. Ad essa non possono rispondere se non le forze più oscuramente, più ostinatamente inconscie — il «fuoco centrale» - dell’io. 28. * KandinskijlSchónberg .

Per molti versi, la situazione di Kandinskij può essere paragonata a quella di Schonberg. Ma l’osservazione non è destinata, credo, a esclusi­ vo beneficio dei musicisti. * Omaggio a Kandinskij nel centenario della sua nascita, apparso col titolo Parallèle, in «xxe siede», n. 27, dicembre 1966, p. 98.

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Kandinskij, al pari di Schonberg, rappresenta una forza liberatoria fondamentale e decisiva. La quale, d’altro canto, come è accaduto per Schonberg, si farà strada tardi in Francia, dove in quegli anni si era distratti da fenomeni più immediatamente inquietanti o più superficiali. L’emancipazione dalla tonalità corrisponderebbe, a mio giudizio, al­ l’emancipazione dall’oggetto - o dal soggetto... Le due avventure hanno favorito un notevole slancio del pensiero e della creazione nei campi rispettivi. E non va dimenticato che una concordanza di forme e di modi sia stata avvertita, agli inizi, dagli stessi protagonisti: il Blaue Reiter ha pubblicato pagine di Schonberg, accanto ad altre firmate da Berg e We­ bern. Agli inizi di questo secolo, Kandinskij ha rappresentato una grande forza spirituale col fornire allo sviluppo della pittura alcune premesse più profonde che non la semplice sensitività; e anche su questo puntochiave, egli s’incontra con Schonberg. Alle doti dirette, il cui significa­ to si esaurisce rapidamente, egli ha opposto la profondità della riflessio­ ne per quanto attiene alla necessità dei mezzi espressivi. Guardare le sue tele non implica soltanto un piacere superficiale, ma provoca una con­ templazione, una messa a fuoco dell’essere. Vi sono tanti pittori che si contentano di essere pittori... Si, è vero: hanno occhio! Ma dopotutto, un occhio, soltanto! Ci dànno piacere, ma finiscono per stancarci, poiché il fascino dura poco: su un registro supe­ riore, sono da inserire nella pratica del «divertimento» pascaliano; si­ tuazione irritante, si pensa a doti eccezionali che si potrebbero sfrondare per un uso migliore, si pensa a uno spreco di vita corrente - visto? visto! dimenticato? dimenticato! — delusione costante nel vedere l’acqua sor­ giva inabissarsi senza compenso nelle sabbie sterili. Viceversa, le tele di Kandinskij sfuggono a una facile comprensione. Puoi guardarle a lungo, ma solo a grado a grado immedesimandoti, potrai carpirne i segreti. Ti aggiri in un paesaggio immaginario; vai e vieni secondo il percorso ispirato a cui ti condurranno una scelta deter­ minata o un’influenza profonda. E certo, non resterai più prigioniero di una realtà, anche se trasposta: il pensiero di Kandinskij modella il tuo pensiero, ti introduce nel suo dedalo. Amo questi vagabondaggi senza fine quando guardo un quadro; e ogni volta desidero che il puro dono pittorico non mi sciupi il «resto», non mi respinga nelle tenebre estranee del virtuosismo chiassoso e vuoto. Si, preferisco soprattutto che lo spiri­ to parli allo spirito, che non potrei contentarmi dei gesti di una retorica messa a fuoco. Ecco l’esperienza originaria che rifaccio tutte le volte che mi accade di vedere la pittura di Kandinskij. Ricordo fra tutte una raccolta di dipinti a Monaco, ove esplode que­

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sta forza di liberazione in una giovinezza e un’audacia che mi colgono nel più profondo dell’essere. Una primavera viva e improvvisa provoca que­ sta fioritura selvaggia, sontuosa e splendente. Come non confrontare con questo momento la sontuosità e lo splendore di Schonberg quando scrive Erwartung e Die gluckliche Hand? In seguito, e per le stesse ragioni, come accade al musicista, anche la strada del pittore si fa impervia. È questa una circostanza supplementare per rinnovare a Kandinskij la mia più profonda ammirazione. Di fronte alla constatazione ineluttabile che non è possibile avventurarsi oltre un certo limite a forza d’improvvisazioni geniali, egli si è spogliato di una gran parte dei suoi prestigi esteriori, rivestendo il saio per andare alla ricerca della regola. I fuochi d’artificio hanno un solo tempo, è vero, e niente è più pericoloso che affidar loro la propria vita. Un più stretto obbligo spirituale s’impone irrimediabilmente: il consenso alla regola predisposta, la ricerca di un ordine problematico — riformulare equili­ brio e gravità. Ogni ricerca deve fondarsi sull’antinomia essenziale tra il dubbio e la legge: sfidare e sfidarsi. Non si può negare che questa via rigorosa comporti alcuni tratti sabbiosi e malagevoli! Ma riconosciamo che al di là di un’avventura cosi incisiva, la pittura ne esce esaltata, il punto di vista rinnovato, la maniera riformata. Fra i tre pittori che considero determinanti nella loro epoca, voglio dire Kandinskij, Klee e Mondrian, Kandinskij rappresenta, ai miei occhi, la sintesi sottile tra finezza e geometria. Come siamo lontani, e per sempre, dal «divertimento»! 29. «Lulu»: la seconda opera .* Per prima cosa, è bene liberarsi dalla oziosa polemica relativa al terzo atto di Lulu. Si tratta di rendere giustizia a un’opera fino ad ora mutila. Situata com’è cronologicamente tra alcune opere note, questo atto non sconvolge affatto il paesaggio di Berg, ma completa finalmente un’opera che ha sofferto per più di quarantanni di una presentazione incompiuta. Di fronte alla cura ossessiva che Berg portava nell’elaborazione formale dei propri testi, è da ritenere che Lulu risultava molto più snaturata da una presentazione tronca che non dalla strumentazione della musica esistente. Alla luce dei documenti postumi, è possibile affermare che l’opera è stata condotta a termine da Berg, e che certi particolari secondari pote­ * Pubblicazione integrale in h.-f. PP. 13-37.

redlich,

Alban Berg. Lulu, tomo II, Lattès, Paris 1979,

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vano essere restituiti senza tema d’errore, mentre le molte relazioni e corrispondenze tematiche che correlano il terzo atto agli altri due con­ sentono di farsi un’idea precisa di un’eventuale strumentazione da parte dell’autore. Friedrich Cerha ha atteso a questo lavoro con scrupolo, competenza e abilità: un lavoro che Adorno aveva auspicato con calore e perspicacia, e Adorno era certo la persona piu idonea - e piu attrezzata - per formulare un tale giudizio. Il terzo atto esiste oramai non piu come mito ma come realtà, e d’ora innanzi si dovrà affrontare l’interpretazione di Lulu in questa versione completa. È interessante vedere con quale determinazione Berg scelga i testi delle sue due opere, e con quale stupore gli amici lo vedono occuparsi a volta a volta di Wozzeck e poi di Lulu. Lo stupore di Schonberg di fronte alla scelta di Wozzeck si riflette in un testo del 1949: «Come dire a che punto fui sorpreso quando questo adolescente timido dal cuore tenero si cacciò in un’avventura che pareva condannata al disastro: la messa in cantiere di Wozzeck, dramma di un’azione cosi tragica che sembrava escluso che lo si potesse mettere in musica. Obiezione più grave: l’azione comportava scene della vita di tutti i giorni, che erano in contrasto con i canoni dell’opera fondati ancora sull’impiego di costumi di teatro e di personaggi convenzionali». Questo giudizio sul progetto di Wozzeck può anche essere applicato a Lulu, e non è senza apprensione che alcuni intimi amici di Berg l’avevano visto impegnarsi in un’impresa, a loro modo di vedere, cosi incerta. Non è inutile ricordare le circostanze in cui Berg ha scelto Lulu. Dopo Wozzeck, egli si è interrogato a lungo sul soggetto di una nuova opera. Da una parte, era tentato da una sorta di divertimento fiabesco di Gerhart Hauptmann: E Pippa danza (End Pippa tanzt); dall’altra, gli era rimasta nella memoria una tragedia di Frank Wedekind: Il Vaso di Pandora (Die Buchse der Pandora), che Karl Kraus gli aveva fatto sco­ prire quando aveva vent’anni. Hauptmann rappresentava quanto di più ufficiale vi era nel teatro di allora. Wedekind, all’estremo opposto, era autore da scandalo. Scriveva Berg ad Adorno: «una delle opere si farà, se non entrambe, ma esse apparterranno a due mondi completamente diffe­ renti». Quindi egli optò per quella che andava contro le convenzioni della sua epoca. Dalle due tragedie di Wedekind, Il Vaso di Pandora e Lo Spirito della terra, egli ricavò il libretto della sua nuova opera, Lulu. Non v’è dubbio che la sua scelta sia stata influenzata dallo spirito che regnava allora a Berlino. Brecht e Weill avevano dato il tono con L'Ope­ ra da tre soldi e Mahagonny. Hindemith riscuoteva successi di scandalo con le sue operette: Cardillac, Neues vom Tage, Hin und Zuruck..., opere musicalmente alquanto diseguali ma rappresentative di un teatro

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quanto mai provocatorio. Berg, come i suoi con temporanei, rimane scon­ volto da questa corrente di critica violenta e di provocazione, tipicamen­ te berlinese. Ma ciò che era moneta corrente nella capitale tedesca non lo era ancora a Vienna. La cerchia di Schonberg - a dispetto di Karl Kraus — non vedeva alcuna relazione diretta tra la nobiltà dell’opera e la descri­ zione del mondo equivoco o dei bassifondi, con la crudezza implicita nella descrizione delle situazioni e nel linguaggio utilizzato nei dialoghi. L’universo mistico e panteistico di Webern era agli antipodi della fauna perversa che doveva attrarre Berg. Schonberg da parte sua aveva utilizzato il teatro eminentemente come espressione «nobile», sia in Erwartung come in Die gluckliche Hand. E presto si sarebbe occupato di Mosè e Aronne\ quanto dire a che punto il teatro di Wedekind fosse lon­ tano dalle sue preoccupazioni, e potesse persino urtarlo nelle sue convin­ zioni profonde (è l’indignazione di Beethoven di fronte a Don Giovan­ ni). Nonostante le sue repulsioni, Schonberg doveva commettere tutta­ via, a contatto con gli ambienti berlinesi, uno dei rari passi falsi della sua creazione componendo Von Heute auf Morgen\ egli tentò di scrivere una commedia musicale, pensando di raggiungere il successo con un’opera leggera, facile, a tutta prima disinvolta - riferendosi d’altronde piuttosto alle ricette della farsa tradizionale che alla critica sarcastica di Brecht. Egli mirava a un’operetta satirica, nel genere di Neues vom Tage> ma non ha prodotto che un’opera, la cui pedanteria distrugge la giocosità mu­ sicalmente e teatralmente desueta. Il manoscritto originale della Suite opus 2conservato presso la biblioteca di Los Angeles, conferma la cor­ rente berlinese già avvertibile in Von Heute auf Morgen ; con la scelta delle fonti e dei modelli, Schonberg mostrava, come tutti i musicisti del­ l’epoca, di essere sensibile al jazz e, in generale, alla musica da ballo che più o meno ne derivava. È curioso osservare la metamorfosi operatasi nel compositore durante il suo ultimo soggiorno a Berlino, negli anni venti. Sembra che egli sia rimasto sconvolto, lui che si era sempre visto considerare a Vienna come il compositore più all’avanguardia, se non come l’autore maledetto per eccellenza, e che, trapiantato in Germania, veniva a trovarsi bruscamente sfasato rispetto alle correnti dell’attualità. Ma se Schonberg potè allora passare per un romantico impenitente, il magistero della sua scrittura e la complessità della sua invenzione lo ponevano nondimeno incontestabilmente molto al di sopra dei suoi emu­ li. In Mosè e Aronne, la danza intorno al Vitello d’Oro o il coro finale del primo atto sono un esempio magistrale di quelle pagine neoclassiche che un Hindemith non è mai riuscito a scrivere. All’epoca delle opere di Berg, il realismo scenico non costituiva certo una novità. Alfred Bruneau aveva già messo Zola in musica. E dal

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verismo italiano di un Leoncavallo alla Louise di Gustave Charpentier si era venuta profilando una corrente molto precisa. I fautori di questo realismo mancavano senza dubbio di ampio respiro. Tuttavia, per rista­ bilire l’equilibrio, si potrebbe inserire Mussorgskij nel loro campo: il primo quadro del NLariage non è altro che una conversazione quotidiana, terra terra, triviale, e lo stesso può dirsi di alcune scene del Boris Godu­ nov. Quando si considera questo periodo, si è troppo spesso ottenebrati dalle caratteristiche precipue del teatro di Wagner che, col suo genio, ha sconvolto la storia deff’opera, dimenticando che egli prolungava, con la scelta dei suoi temi, il romanticismo degli anni 1810, mentre una schiera di autori di minore respiro preparava la drammaturgia, se non la musica, del xx secolo. Alban Berg, per quanto lo concerne, sembra refrattario a un certo storicismo globale dell’opera, tranne poi a citarlo in titoli o forme che gli consentano libertà di movimento. Egli si inserisce, musicalmente, in una tradizione molto specifica e circoscritta che potrebbe essere riassunta nei nomi di Mozart, Beethoven e Wagner, insomma in una tradizione i cui antecedenti non sono poi affatto diversi da quelli di Richard Strauss... E tuttavia, né la mitologia né la nostalgia lo hanno attratto. D’altro canto, Berg rivela la sua fascinazione per i soggetti «torbidi» solo nelle due opere teatrali a cui si è dedicato. La sua musica da camera, la scelta dei testi per i suoi lieder rivelano molto più un artista della «sublimazione». Ora la Suite lirica, opera di sublimazione per eccellen­ za, precede immediatamente l’immersione in un mondo la cui brutalità e il cui realismo sembravano così poco adatti al suo temperamento, mentre il Concerto per violino, requiem verginale, viene immediatamente dopo la composizione di Lulu. Bisogna credere a un’attrazione morbosa? O bisogna piuttosto concentrarsi sulla critica sociale? Berg rappresenta volta a volta Wozzeck e Lulu come vittime, sottolineando innanzitutto la miseria del loro destino, la progressiva degradazione dei loro rapporti con la società, il loro progressivo asservimento a forze contro cui sono troppo deboli per lottare. La passione della simmetria.

Lulu è senza dubbio una «moralità», una sorta di Rake's Progress: l’ascesa sociale sino all’assassinio di Schón, il ricco protettore, quindi la degradazione progressiva dalla sua condizione sino allo stato miserabile di prostituta a Londra. Berg ha accentuato volutamente questa simme­ tria affidando i tre ruoli dei «clienti» di Lulu nelle strade di Londra ai tre personaggi che muoiono per sua colpa. Il medico, il pittore, Schòn nei

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due primi atti corrispondono rispettivamente al professore, al negro, a Jack lo Squartatore nel terzo. Schón ucciso da Lulu diverrà Jack, per mano del quale Lulu morirà. Ma non si creda a un fatto di semplice economia teatrale in un dramma dai molti personaggi! Berg ha inventato un parallelismo che non era affatto in Wedekind, sottolineandolo con richiami musicali cosi evidenti che non ci si può ingannare sul loro significato. Per giunta, egli ha modellato e riadattato Wedekind in modo da accentuare la parabola costituita dall’ascesa sociale e dalla degrada­ zione. La struttura generale di Lulu è chiara: i tre atti sono costruiti in due parti — un versante ascendente e un versante discendente - con un inter­ mezzo al centro. Berg ne ha data spiegazione in una lettera a Schon­ berg: «Siccome devo tagliare i quattro quinti del testo originale di Wede­ kind, la scelta che finirò per accogliere nell’ultimo quinto solleva alcune difficoltà. E tanto piu poi se mi sforzo di subordinarle alle forme musicali (grandi e piccole) senza distruggere il linguaggio particolare di Wede­ kind... Tuttavia, anche se turbato da problemi di dettaglio, il piano generale per trasformare il dramma in un’opera è stato stabilito da tem­ po. Ciò riguarda sia le proporzioni musicali che drammaturgiche e più particolarmente la sceneggiatura, che, in sintesi, si presenta così: 1 due drammi

L'opera

Atto I. Studio di pittore, in cui il dottor Goll, marito di Lu­ lu, muore di un attacco. Lo Spìrito della terra

Atto IL Appartamento di Lulu e del suo secondo marito, il pittore, che si suicida.

Atto III. Palco di teatro della ballerina Lulu, alla quale Schòn promette il matrimonio. Atto IV. Appartamento di Schón in cui egli viene ucciso da Lulu, che poi è arrestata.

Atto I (3 quadri)

Atto II (2 quadri separati da un lungo interludio) (In Berg 2 anni di prigione)

Dopo dieci anni di prigione, Lulu viene liberata dal figlio di Schón, Aiwa, e dalla contessa Geschwitz e ritorna nel

Il Vaso di Pandora

Atto I. L’appartamento di Schón (stessa scena di prima). Lu­ lu diventa l’amante di Aiwa. Atto IL Sala da gioco a Parigi. Lulu deve fuggire. Atto III. Una soffitta a Londra.

Atto III (2 quadri)

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«Dai richiami posti ai margini della pagina, puoi vedere come delibe­ ratamente (nel mio atto II) ho messo insieme parti che risultano separa­ te in Wedekind, appartenenti come sono a due diverse opere. L’interlu­ dio con cui ho correlato l’ultimo atto dello Spirito della terra al primo del Vaso di Pandora è certo il perno di tutta la tragedia, in cui l’ascesa della prima parte fa posto alla discesa della seconda». Questo episodio cerniera, l’imprigionamento di Lulu, quello che non si vede sulla scena - e per il quale Berg aveva pensato a una soluzione filmata — funge da asse all’intera forma dell’opera. È curioso vedere come dai due drammi di Wedekind, la cui partitura ha una diversa cadenza, Berg ricavi tre atti la cui simmetria sposta l’accento drammatico della morte di Schón verso l’assenza momentanea di Lulu che è in pri­ gione, punto di non ritorno nell’opera. Un gusto per la forma simmetrica era manifesto in Berg quasi sin dai suoi esordi. Ma più egli avanzava nella sua opera, più questa semplice preoccupazione diveniva una precipua ossessione. Tutte le sue ultime composizioni sono basate su schemi obbedienti a una simmetria più o meno rigida. È il caso della Suite lirica, ove tre movimenti sempre più lenti si alternano con tre movimenti sempre più rapidi, e il movimento rapido mediano - allegro misterioso — è a sua volta simmetrico. È il caso del Kammerkonzert in cui la simmetria dei due primi movimenti si inscrive nel terzo, combinazione dei due primi; è il caso del Vino ove il movimento centrale simmetrico fa da perno ai due movimenti estremi che sono a immagine l’uno dell’altro; ed è il caso, infine, del Concerto per violino. Tuttavia non bisogna esagerare l’importanza di questo principio ver­ so il quale Berg, anche quando lo applica, si concede molte libertà. In Lulu, egli ricerca spesso degli equilibri momentanei per simmetria. Si possono trovare certe «mini-forme» che sono veri modelli di un uso cosi ristretto, quale il Sestetto nella scena terza del primo atto. Esso si apre su un colpo di tam-tam (misura I 177), si sviluppa in crescendo sino a una corona (misura I 190) e ridiscende simmetricamente in diminuendo sino alla fine segnalata da un nuovo colpo di tam-tam (misura I 203); tredici misure da una parte, tredici dall’altra, e una misura centrale con una pausa. Nel movimento generale della scena, il breve brano è una parentesi, una sorta di bolla sospesa nel tempo. Berg annota: «Quasi a tempo, ma più tranquillo». Da parte mia, prendo un tempo nettamente più lento al fine di rendere più evidente la sospensione dell’azione dove ogni personaggio è fermo. In molti altri passaggi, se la costruzione risponde a questo stesso principio di equilibrio formale, è tuttavia evidente un minore rigore.

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L’impiego sistematico della simmetria sarebbe tremendamente noioso e Berg ne contraddice incessantemente la regolarità. L’invenzione delle forme.

Molto piu di questo procedimento, uno dei fenomeni più complessi e avvincenti in Lulu è la valorizzazione delle forme musicali multiple. Woyzeck di Biichner era un abbozzo postumo il cui linguaggio esisteva già con forza, ma la cui forma era ancora da sistemare. Cosi Berg ha potuto arrangiare le scene di Biichner, senza forzatura artificiosa, in uno schema generale in cui la struttura musicale creerà la struttura dramma­ tica. Di fronte a Wedekind, il problema è ben diverso. Berg si trova in presenza di due drammi compiuti; il linguaggio di Wedekind è discorsi­ vo, mentre Biichner concentrava una situazione in uno scambio lapidario di battute. Berg deve dunque ridurre, nel senso letterale del termine, e deve anche evitare di disperdersi nell’aneddoto. Per quanto mi riguarda, la prima volta che ho affrontato questo testo, ho avuto una reazione piuttosto negativa. Che cosa può fare la musica, stilisticamente parlando, a partire da una tale opera? Adorno, a cui ponevo questa domanda, mi rispose: «Aspetti di conoscerla meglio». E devo confessare, in effetti, che il testo va molto più lontano di certe apparenze. Soprattutto, il modo con cui Berg lo ha condensato gli confe­ risce un’acutezza a cui non credevo all’inizio. La riduzione che il musicista opera è duplice: nella dimensione del­ l’opera, naturalmente, ma anche all’interno stesso del «fenomeno» che egli riconduce ai suoi tratti essenziali. Qui, egli si lascia sempre guidare nel senso del rapporto formale evidente. Per lui, l’importante è di con­ servare simultaneamente l’impulso narrativo, il flusso drammatico inse­ rendolo in una trama formale «di sicurezza». Berg si rendeva perfetta­ mente conto che rischiava ad ogni istante di cadere nell’aneddoto. Sin dall’inizio, egli ammette chiaramente che l’aneddoto esiste, ma che sarà situato in una trama cosi serrata da non potere mai essere percepito unicamente come tale, e sarà esaltato dall’aspetto formale della musica. Siffatta volontà si ritrova persino nei nomi che dà ai personaggi secondari, chiamati con un nome generico: non c’è più Rodrigo ma l’atleta, non più Puntschu ma il banchiere, non Hugenberg ma il licea­ le... L’azione è centrata sui personaggi principali, Lulu, Schòn, Schigolch, Geschwitz, confinando quelli secondari nell’anonimato. Qui, Berg appare come il risultato — consapevole e volontario — di

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due tradizioni parallele nell’evoluzione dell’opera in Germania: l’una rappresentata principalmente da Mozart (e naturalmente da Beethoven) che potrebbe chiamarsi l’opera numerabile, l’altra rappresentata da Wag­ ner, l’opera continua. Già in Wozzeck vi era un tentativo di formalizza­ zione dei rapporti tra la musica e il testo, ma molto meno complesso che in Lulu. In Wozzeck, per tutta l’opera, a una scena corrispondeva un’i­ dea, sia che fosse un’idea formale rigorosa o no - sonata, forme preclas­ siche — sia che fosse un’idea tattica - invenzione su un suono, su un accordo. Un enorme passo avanti viene a compiersi da Wozzeck a Lulu-. ora il passaggio tra le scene, sempre separate da interludi, non esiste piu. Vi è in un certo senso una fusione completa della continuità con la separazio­ ne formale. Berg vi perviene in particolare con quanto converrebbe chiamare un «collage»; non un incontro casuale, ma un taglio struttura­ le che utilizza come elementi formali i rapporti drammatici dei differenti personaggi in situazioni date, considerate come prototipi dell’azione. Per una drammaturgia che non è divisa in scene brevi come quelle di Wozzeck, ma che si svolge su lunghe durate, con incroci e ritorni, questa formalizzazione richiede una maggiore duttilità e una maggiore dovizia di mezzi. Le forme in Lulu sono più versatili. Si scontrano all’interno stesso di una scena e talvolta si sostituiscono le une alle altre (soprattut­ to nella prima scena del terzo atto). Berg ha fatto ricorso ora a forme cosi flessibili da essere quasi non-forme - melodramma, recitativo — impli­ canti in ogni caso una diretta obbedienza al testo, ora a forme rigorose che, con un grado più o meno alto di coazione, forzano il testo a inserirsi in una dialettica musicale basata su diversi tipi di criteri, legate al ritmo o agli schemi tradizionali. In questo senso si potrebbe parlare di forme accettate, come la Sona­ ta, il Canone, accettate e riprese dalla storia, e di forme inventate ove una gerarchia specifica — come quella del ritmo - può dominare le altre dimensioni del linguaggio. Occorre evitare di identificare i personaggi con certe forme. Schón non è la sonata, né Lulu l’arioso... I rapporti non sono cosi rigidi, ma esistono chiare, spiccate corrispondenze. Per fare un esempio, tutto ciò che attiene alla fidanzata, al matrimonio, alla civetteria e alla superficiali­ tà di una certa società mondana è sottinteso da caratteristiche di stile gavotta, musetta, che rimandano al passato. Ma un tale neoclassicismo scompare allorché la caratterizzazione dei personaggi o delle situazioni non lo richiede più, e l’utilizzo di queste forme desuete può creare confusione. Una trentina di anni fa, mi chiedevo: «Mio Dio, perché mai

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Berg ha sentito il bisogno di scrivere una gavotta? In Wozzeck, egli si esprime perfettamente senza dovere ricorrere a queste anticaglie!» Ho capito solo dopo che tali forme non potevano né dovevano essere intese alla lettera. Berg le impiega per l’analisi critica di una situazione dram­ matica. La gavotta che, come ho appena detto, è legata all’idea di un eventuale matrimonio tra Schón e la sua fidanzata, alla civetteria di Lulu che sogna di farsi sposare, ha quindi un riferimento evidentemente sar­ castico, e la sua «leggiadria» non è la sua finalità. Berg non ci consente mai di dimenticare che egli sa servirsi dell’iro­ nia. Anche per caratterizzare un personaggio che gli sta a cuore come Aiwa, gli capita spesso di dare un tono ironico al proprio sentimentali­ smo: una mescolanza tanto sintomatica della sua maniera di essere (in particolare negli Altenberg Lieder). Per altri personaggi, compresa Lu­ lu, egli ricorre a un sarcasmo ancor più corrosivo. E ne fa uso in maniera molto diversa a seconda della fisionomia dei personaggi. Per l’atleta, il sarcasmo è brutale, diretto, costruito sui mezzi più manifestamente gros­ solani: con i pugni e l’avambraccio si batte sul piano, tasti neri, tasti bianchi, glissando; cosi viene caratterizzato un personaggio la cui zoti­ caggine è la virtù prima. Ma esistono mezzi più sottili di derisione; il ricorso in particolare a forme antiquate, a ritmi desueti, a costrutti troppo dolciastri per essere accettati come moneta sonante. È cosi che l’aspetto «neoclassico» di Lulu, l’impiego della Canzonetta, del Duettino, della Gavotta, dell’Arietta, l’espresso riferimento a denominazioni scritte riprese soprattutto dall’opera italiana degli inizi del xix secolo, la parodia stilistica e la civetteria con mezzi desueti possono essere compresi come la descrizione derisoria dei caratteri a confronto, e non come un «ritorno» a forme passate. Non è un’eccezione che Berg si sia trovato coinvolto nel movimento neoclassico degli anni trenta. Tutti, a quell’epoca, pensavano di trarre profitto dalle forme antiche. Ma, sull’esempio di Stravinskij, che nella Histoire du Soldat, sin dal 1918, introduceva alcuni tipi di danze con­ temporanee, Berg utilizza a sua volta un repertorio di «oggetti smarriti» non nella storia lontana ma nell’uso quotidiano. È certo che egli cono­ sceva l’opera di Stravinskij — in quel periodo rappresentata in Germania assai di frequente -, e il ragtime che troviamo nel primo atto di Lulu ne è una derivazione più o meno diretta. D’altra parte, all’epoca della genesi di Lulu, l’influenza berlinese era infinitamente più presente nel mondo germanico e nell’universo di Berg in particolare che non al tempo della composizione di Wozzeck. L’ottica teatrale era mutata, specie per ciò

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che concerneva l’utilizzo della volgarità, e come mezzo di distruzione della volgarità, e come strumento di analisi critica: Brecht, Weill e Hin­ demith avevano scosso l’albero della rispettabilità. Tutto questo è manifesto nel terzo atto di Lulu. Il tema del circo (che compare nel prologo) — tema volutamente «plebeo» - serve da base ai tre insiemi che articolano la prima scena, quella della sala da gioco a Parigi. Altro esempio: la canzone del marchese-prosseneta, tratta da una raccolta di canzoni di Wedekind, è utilizzata con propositi non diversi, rivelando altresì chiaramente l’influenza di Kurt Weill e di Brecht. Nel terzo atto più che negli altri due si manifesta l’intenzione critica di fronte a un mondo in sfacelo. Ciò che colpisce in Berg, è, stranamente, l’affinità tra il sarcasmo e il sentimentalismo: come in Mahler, d’altronde, non si sa mai in che mo­ mento il sentimentalismo muta in sarcasmo e viceversa. Sin dalle sue prime opere, l’equivoco traspare sia nella scelta dei testi dei lieder (Al­ tenberg Lieder} sia nella musica che non manca mai di farci dubitare del suo sentimentalismo. Berg manifesterà questi tratti in Wozzeck. Natura sentimentale, di temperamento «languido», sublimato in quanto artista, egli sceglierà i testi più violenti, più rivelatori di una certa brutalità, di una certa volgarità. Cosi, $nche in Lulu, il ricorso alla «crudezza» resta uno degli aspetti più insoliti dell’opera rispetto all’uomo. La manipolazione del tempo.

A un sistema di espressione parodica — ove trovano luogo e si giu­ stificano i riferimenti a forme antiche o popolari - si giustappongono altre strutture formali più o meno obbligative. In certe scene partico­ larmente complesse ove egli rischia la frammentazione a detrimento della continuità, si direbbe che Berg ha previsto un quadro di azione sufficientemente rigido per essere efficace, ma sufficientemente duttile per accogliere gli imprevisti nel corso del dramma. È il caso della scena del primo atto in cui Schón costringe il pittore al suicidio. La conversazione è tenuta su un fondo ritmico ostinato (la Monoritmica, qui inseparabile dall’idea di morte) mosso da un’accelera­ zione costante; ma raggiunto il massimo di velocità e d’intensità nel momento stesso in cui si scopre il cadavere del pittore, la ritmica decre­ sce a poco a poco di velocità e d’intensità sino all’arrivo presunto della polizia. La forma di questa scena è molto complessa. Contiene elementi

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già sentiti nella scena precedente, che tornano in un disordine apparente e ricompariranno in seguito. Ma tutti sono inseriti in questo rigore ritmico. La ritmica informa tutta la scena, costituisce l’involucro della forma, ma non la suscita. Parimenti, la scena seconda del terzo atto che si svolge a Londra comincia in una concitazione febbrile con la visita del primo cliente, il professore, e rallenta progressivamente sino alla morte di Lulu che si svolge in un tempo da incubo, spaventosamente lento. Si sarebbe potuto al contrario immaginare che più ci si avvicinava alla morte di Lulu, più il movimento avrebbe dovuto essere accelerato. Berg lascia cosi trasparire, con somma perspicacia e insuperabile acutezza, le intenzioni drammati­ che del testo di Wedekind. La morte di Lulu è ineluttabile; lei stessa implora di essere uccisa e il suo desiderio di annientamento si trasmette mediante una notevole estensione della durata. La manipolazione del tempo operata da Berg, in questo come in molti altri casi, è uno dei tratti più significativi del suo modo di reagire di fronte all’aneddoto, in quanto rallentamento o precipitazione servono a «formalizzare» il discorso realistico, a dargli, per ciò stesso, una riso­ nanza enfatizzata al di là del suo significato letterale. Berg raccomanda espressamente a proposito delle due parti sceniche (nell’atto II: scena i tra Schigolch, l’atleta e il liceale, misura 94 e scena 11 tra Geschwitz, Schigolch e l’atleta, misura 788) che utilizzano lo stesso testo musicale, che la seconda sia come il rallentatore {quasi Zeitlupe) della prima, una dilatazione del tempo che «formalizza» dunque questa ripresa pur con­ ferendole una forza espressiva completamente estranea all’originale. Nella maggior parte dei casi, Berg opera tutti i mutamenti di tempo con la più grande meticolosità, fornendo indicazioni estremamente pre­ cise e dettagliate per la loro esecuzione. La scena terza del primo atto offre un esempio di continuità tra due momenti drammatici diversi assi­ curata da uno scivolamento di tempo quanto mai caratteristico. Alla fine del Sestetto che si è appena svolto in semiminima a 120 (misura I 204), i tre tempi diventano due tempi e si ritrova il movimento della sonata: semiminima a 80 (misura I 209), nel momento in cui inizia un dialogo vivacissimo tra Lulu e Schón. Un nuovo rallentamento: semiminima a 52 (misura I 237) - quanto a dire che la semiminima puntata precedente diventa una semiminima — segna la reazione di Schón all’annuncio del­ l’eventuale partenza di Lulu per l’Africa. Poi torna il tempo della sonata con una misura di dissolvenza incrociata (misura I 247) ove la corona passa da 104 a 80 per pareggiare la semiminima (misura I 248).

Canto pia npl nuovo ferrino

Tranquillo

= ca 80

Nuovo tempo

J - precedente

J - = 52

Tempo I (Allegro energico)

L.

Dr. Schón Weil ich

lei-der

Cosi Berg cerca di controllare i cambiamenti di tempo che corrispon­ dono tutti a significati drammatici. Egli procede spesso per sovrapposi­ zione di movimenti che si incastrano, come ad esempio l’introduzione della musica di scena all’atto I il ragtime a 2/4 corrisponde, in ragione di tre corone per due, al movimento precedente.

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Ma non v’è dubbio che Berg avesse appunto in questo caso un model­ lo che nessun viennese poteva ignorare: la musica di scena del Don Giovanni di Mozart che sovrappone i tre tempi di tre orchestre. In Lulu, certe trasformazioni del tempo si dispongono su grandi durate per progressioni regolari. La Monoritmica dell’atto I, segnatamente, è costruita su circa trecento misure. Anche qui è interessante vedere la precisione con la quale Berg calcola la sua traiettoria: misura 669: Incorona

672: 675: 679: 687: 694: 702: la semiminima 710:

a 84

92 100 108 120 132

717: 724: 732:

76 86 96 106 118

739: 748: la minima 766: 788: 812: 833:

132 76 86 96 112 132

che è il massimo di velocità. Nel senso inverso, il ritardando segue gli stessi stadi. L’esecuzione rigorosa di un tale movimento si rivela quanto mai difficile, soprattutto per i cantanti che tendono sulla scena a cedere a un’accelerazione più rapida. Attraverso esempi di questo tipo, si constata la chiara volontà di Berg di esercitare tramite la scrittura musicale il controllo della progressione del discorso drammatico e di embricarvelo cosi saldamente da essere poi impossibile separarlo. Va inoltre segnalata la maniera con cui Berg utilizza a volte le forme come segni: segni di certi conflitti o di date situazioni. Se la Monoritmica è il segno della morte, la Sonata è il segno dell’opposizione tra due esseri, mentre il Canone è il segno del loro parallelismo, le Variazioni della loro ambiguità. Certo, sulla carta, si può cogliere qualche ingenuità in questo glossario di segni, ma ciò non toglie che esso si riveli di una possente efficacia.

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La scrittura affrancata. Quanto al linguaggio musicale propriamente detto, si sa che esso è fondato sul sistema dodecafonico. Ma la tecnica della serie di dodici suoni è poi cosi importante? Dal punto di vista del rigore normativo, direi di si. Berg, da fedele discepolo di Schonberg, accetta il dogma dell’unità raccomandata dal suo maestro; in linea di principio, dunque, una sola serie presiede all’invenzione della tematica, dell’invenzione, della scrittura. Di fatto, si tratta di una rispettosa simulazione: la serie originale diviene rapidamente un riferimento mitico, a cui Berg ricorre solo per precauzione. Il momento della sua comparsa, nell’opera, non manca d’altronde di ironia. Nel prologo, il domatore rivolgendosi al pubblico, dice: «Es ist jetzt nichts Besondres dran zu sehn» [Non c’è niente di straordinario da vedere] mentre canta la serie nella sua forma originale!

Ironica anche la scomposizione della scala cromatica in tre settime diminuite che Berg sovrappone sin dalla quinta misura e che utilizza sistematicamente nel terzo atto! È questo l’unico punto in cui l’autore strizza l’occhio alle convenzioni ormai sorpassate dell’opera tradizionale, ove la settima diminuita è sempre stata lo strumento perentorio della tensione drammatica.

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Sin dalle prime battute di Lulu, Berg mostra l’intenzione di utilizzare i dodici suoni rispettando meno le regole che le proprie esigenze. Che ne è allora della serie? Con artifici difficili anzi impossibili da scoprire se non se ne conoscono i meccanismi, egli crea alcune figure tematiche legate ai differenti caratteri: Lulu, Schòn, Aiwa, Schigolch, nonché alle situazioni e ai sentimenti multiformi che attraversano l’azione e si inter­ secano. In questo senso, la serie unica dà vita a veri e propri leitmotive wagneriani fortemente caratterizzati, accentuati altresì da un attacco strumentale che aiuta l’ascoltatore a percepirli come segnali: tra l’altro, il piano per l’atleta, il violino per il marchese, il sassofono per Aiwa. Degna di nota è la semplicità della maggior parte di questi elementi che si prestano alle combinazioni più complesse senza cessare per questo di essere identificabili. Si tratta qui davvero di Erinnerungsmotwe, di mo­ tivi di reminiscenza, come li chiamava Berg. Rispetto al dogma della serie fissato da Schonberg, l’atteggiamento di Berg consiste tanto nel rispettarlo quanto nell’ignorarlo: egli mani­ pola la serie con una tale libertà da trarne ciò che vuole trovarvi. Al­ cune delle figure musicali esisterebbero ugualmente senza di essa; il cro­ matismo di Schigolch, il pentatonismo dell’atleta, le quinte di Geschwitz, tutto questo viene sottratto alla serie senz’altra giustificazione se non la volontà di collocare i simboli drammatici desiderati all’interno del quadro magistrale schònberghiano: suprema astuzia dell’obbedienza che volge la legge ai propri fini. Restano i problemi della scrittura vocale. Anzitutto, per quanto con­ cerne la scelta delle voci, Berg segue le convenzioni dell’opera: Aiwa, l’amoroso, è il tenore; Schon, suo padre, è un baritono - si immagina a stento il contrario - Geschwitz, la cui personalità è piuttosto mascolina, un mezzosoprano; il liceale travestito, un contralto... Per mere ragioni di credibilità e di utilizzazione della scala vocale nella sua totalità, Berg non aveva alcun interesse ad allontanarsi dalle regole tradizionali. La scelta di una voce di colorito per Lulu, in compenso, ha di certo un significato particolare. Nel repertorio lirico che Berg conosce ed ama, il solo ruolo di colorito che esista è quello della Regina della Notte. La seduzione, il pericolo, l’oscurità che essa simboleggia offrono talune cor­ rispondenze con l’immagine di Lulu. Ma l’accostamento dei due per­ sonaggi non può andare al di là di una vaga evocazione, di una sempli­ ce allusione, di cui Berg si compiaceva anche nel più piccolo dei suoi gesti. La scrittura delle voci è quanto mai complessa e le esigenze di Berg ne rendono sovente difficile l’esecuzione. Egli distingue sei modi d’inter­ pretazione:

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1) dialogo non accompagnato; 2) prosa libera (accompagnata); 3) prosa determinata ritmicamente dalle code di note e loro legature, senza altezza precisa; 4) Sprechstimme determinata nell’altezza e nel ritmo (Berg rimanda alle spiegazioni di Schonberg in Lierrot lunaire e La Mano fortu­ nata)} 5) mezzo cantato; 6) tutto cantato.

Il modo Sprechstimme resta il piu problematico: bisogna o no osser­ vare esattamente le altezze del suono? Quando il registro della voce parlata e quello della voce cantata sono simili, come ad esempio in un baritono, l’interpretazione dello Sprechgesang non comporta che scarse difficoltà. In compenso, se, come in Teresa Stratas, la voce parlata è molto grave, ci si trova dinanzi a una scelta impossibile: non si può rispettare la verità drammatica se non a detrimento della verità musica­ le. Da parte mia, preferisco, se necessario, liquidare le note a vantaggio dell’espressione, come ad esempio nel dialogo dell’atto I (misura 615) in cui Lulu dice a Schòn: «Meines Mannes » [mio marito]: (coda della sonata) Lento = J (= .58)

Berg, infatti, vagheggiava di utilizzare la voce come ci si può servire delle molteplici possibilità di un violino: arco, pizzicato, col legno, sul ponticello, sul tasto... ULà vedersi escluso dalla pratica musicale quoti­ diana, e condannato all’isolamento dalla classe dirigente ufficiale, costi­ tuiva per lui un problema, come del resto lo era anche per Schonberg. Wagner aveva diretto un teatro e conosceva per esperienza diretta le possibilità e i limiti, i difetti e le qualità dei cantanti del repertorio. Quando Berlioz scrive per l’orchestra, si sa che, basato su una pratica

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personale, tutto sarà eseguibile (lo scherzo della regina Mab resta tutta­ via un pezzo estremamente difficile). Ma, nell’opera di Berg e di Schonberg, alcuni concetti restano in­ certi, dovuti più alla speculazione che al contatto della realtà, e può sem­ brare illusorio perseverare per dar loro soluzioni soddisfacenti. E per quanto Berg sia un maniaco della precisione, ci si trova a volte costret­ ti ad adottare soluzioni di compromesso ai problemi posti dalle sue esi­ genze. Comunque, dal semplice punto di vista della difficoltà, Lulu sembra più accessibile di Wozzeck. E forse ciò si deve al frutto dell’esperienza. Ma la complessità è più profonda: va cercata nell’organizzazione forma­ le, nei rapporti multipli stabiliti nel corso dell’opera tra i diversi orga­ nismi che sono i temi, gli schemi, i ritmi; si tratta di una semplicità ingannevole della scrittura che nasconde una ricchezza e una dovizia quasi inesauribili. Quanto ai riferimenti alle musiche del momento — jazz, ragtime - se spostano Wedekind dal suo contesto novecentesco per collocarlo deci­ samente nel momento stesso della composizione, esse mostrano un Berg permeabile all’attualità, alle correnti culturali del proprio tempo, come del resto Stravinskij, Hindemith e Weill, il cui esempio non poteva es­ sere trascurato. Sarebbe vano volere, oggi, tornare alle fonti di Berg e soffermarsi sui primi anni del ’900. Il compositore, proprio nel momento in cui va componendo l’opera, distrugge le proprie fonti. Le quali restano un segreto: si possono decifrare gli elementi marginali del segreto, ma non sarà mai possibile scoprirlo. Occorre guardarsi da certe nostalgie stori­ che: l’opera si è arricchita come un fiume delle alluvioni assorbite nel suo corso. È di grande interesse, invece, considerare il lavoro del composito­ re come una partenza per un’altra avventura, quella di chi si appropria dell’opera. Il problema non è quello di ritrovare il compositore che ci arricchisce, ma di trovare noi stessi partendo dal compositore. Conta poco la divergenza se può essere feconda! A dire il vero, se ci atteniamo alla lezione storica, Lulu segna l’irru­ zione nell’opera della modernità - l’ultimo momento in cui l’opera mo­ derna rappresentava una ricerca valida, sotto questa forma direttamente ereditata dalla tradizione. Se insistiamo sulla divergenza, l’assurda do­ manda diviene legittima: quale sarebbe stata la terza opera di Berg?... 1. Si potrebbe stendere un catalogo dei temi di Lulu come è stato fatto per le opere di Wagner. Nel suo libro: Alban Berg, H.-F. Redlich li ha analizzati svelando i meccanismi della loro composizione. Ecco alcuni di questi temi, tratti dalla serie originale:

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Questa serie, nella sua forma fondamentale, compare solo all’inizio del secondo atto, nel Lied di Lulu. Presentata in quattro accordi, essa diviene il motivo del ritratto di Lulw.

Le tre voci di questi accordi lette nell’ordine: linea superiore, linea mediana, linea di bassa, forniscono il tema della danza di Lulu\

Berg opera anche varie permutazioni a partire dalla ripetizione della serie. Prelevando una nota su sette, egli ottiene il tema di Aiwa:

Con una nota su cinque, Berg forma il tema della Geschwitz. Da un altro principio di permutazione, egli ricava il tema di Schòn e della Sonata:

Come si può notare, la maggior parte dei temi sono enunciati sin dal Prologo, in particolare:

- il motivo dello Spirito della terra, suonato dai tromboni alla prima misura, sorta di fanfara che si ritrova con gli stessi intervalli con movimento contrario nella Sinfonia alla fine dell’atto II (misura 89) e al momento del grido di morte di Lulu-,

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— i clusters dell’atleta (misura 16); - gli intervalli cromatici di Schigolch (misure 34-35); — il tema del potere di attrazione di Lulu, lunga frase in piu segmenti (misure 44 sgg.) in cui si vede comparire per la prima volta la serie di dodici suoni (misura 63); — il tema di Aiwa (misure 73-75), enunciato sulle parole: «Und nun bleibt noch das Beste zu erwàhnen...» nella linea di canto, e nel­ l’orchestra (misure 74-75) col corno inglese e il sassofono.

30. Stile o idea? (Elogio dell’* amnesia) . Più di vent’anni di consuetudine con le opere di Stravinskij,e ciò malgrado, o forse proprio per questo, il mio punto di vista è rimasto in sostanza immutato. Se la polemica si è spenta, può darsi che ciò sia accaduto perché la distanza finisce nel tempo per confermare le affinità annullando le diversità, o forse anche perché la lontananza omologa il volto di una generazione e non di un solo personaggio. Se il mio punto di vista non è cambiato, mutata, invece, è l’intensità. Le opere che mi hanno sempre colpito come essenziali fanno a tal punto parte di me che l’identificazione è divenuta definitiva e naturale. Quelle che un tempo mi hanno irritato, le avvicino adesso con distacco, come frammenti di storia, legati ad altri frammenti del tutto simili: si tratta di un documento, e come irritarsi di un documento? Venticinque anni fa, la polemica era al culmine, e la vita musicale era assolutamente divisa in due campi. I franchi tiratori erano rari, come voleva l’epoca. La sopravvivenza del linguaggio esigeva che si prendesse partito tra il progresso e la restaurazione, come li chiamava Adorno, — e niente sembrava più urgente dacché la situazione, in linea di massima, appariva terribilmente chiara. Nutrivo tuttavia qualche dubbio su questo manicheismo semplicistiSu Stravinskij neoclassico; in «Musique en jeu», n. 4, ottobre 1971, PP- 4*4 ‘

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co, che attribuisce un primato indebito alla classificazione categorica, e pensavo che i catari, i puri, gli eletti della rivoluzione non fossero com­ pletamente esenti dal peccato di storicismo di cui ci si accaniva a incolpa­ re i paria della restaurazione, e solo loro. A poco a poco, sono giunto alla conclusione che tutta una generazione, quella appunto a cui appartiene Stravinskij, adottò - con poche varianti - la stessa condotta, che non saprei chiamare una regressione, come talvolta si è fatto. Il fenomeno è più complesso, e vale la pena di soffermarcisi: ciò che è in gioco, in effetti, è la nozione di stile. Stravinskij e la sua generazione sono stati vittime dello róZe/codice? oppure hanno dato a questo concetto, elevandolo al rango di simbolo assoluto, un vigore nuovo, prima sconosciuto? Credo di ricordare (se la memoria non mi inganna) una frase enigma­ tica di Baudelaire su Manet: «Lei è il primo nella decadenza della sua arte». Queste parole sono state variamente commentate: per ciò che avevano di ingiusto; per il loro rigore; per le prospettive che aprivano; le decadenze vengono così di lontano o vengono dalla funzione che si attribuisce allo stile? per dirla in altro modo: è lo stile chiamato a generare l’idea o viceversa? Conviene quindi trattare queste parole al maiuscolo nell’assoluto della loro preminenza. Intorno alla decadenza: dopo le consunzioni dell’ultimo Ottocento che, narcisisticamente, si guardavano deperire, le rivoluzioni del primo quarto di questo secolo sembrano dovute a un impulso spontaneo, sel­ vaggio, furioso. Tutto piuttosto che l’inaridimento imminente che in­ combe! allora si esplorano febbrilmente i limiti di campo che sembrano insopportabilmente angusti nonostante il rigoglio abbagliante. Si profila­ no cosi due forme di reazione: o soffocando il rigoglio mediante l’ecces­ so, in quanto lo si porta al parossismo, e perciò alla sua asfissia, oppure impugnando l’ascia del barbaro, e andando a saccheggiare Roma, a bru­ ciare Alessandria. Le due forme di reazione si sono manifestate in tutti i campi; dalla letteratura alla musica, alle arti visive, sorprende il paralle­ lismo esistente tra i protagonisti AeXV amplificazione e quelli della sem­ plificazione. Se i primi si rivelano più scaltri, e i secondi più ingenui, ciò non toglie che le loro reazioni siano dettate da un insopprimibile istinto di sopravvivenza. Le decisioni non sono tanto calcolate quanto imposte dalla situazione. Non si tratta allora di analizzare consapevolmente ciò che costituisce il valore, o meglio il fascino dello stile. Le idee - distru­ zione, sublimazione - affluiscono, reclamano il diritto di vivere, e poco si curano di una presentazione di parata. Più che sorprendente, è inquietan­ te la forza, la violenza insite in questo rinnovamento generalizzato. Per alcuni anni, la società dei creatori sembra volere esaurire freneticamente

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tutte le possibilità dell’invenzione. Oh! come si è lontani dallo «stile» — opposizione radicale col periodo immediatamente precedente che, inve­ ce, ha coltivato questa preoccupazione con diletto e morbosità. Stravinskij partecipa quanto mai attivamente a questa frenesia, e Le Sacre du printemps ne è la testimonianza esplosiva. Semplificando a mia volta: io lo collocherei fra i protagonisti della semplificazione, mentre l’autore deamplificazione sarebbe rappresentato da Schonberg, e l’opera-tipo di amplificazione da Lrwartung. A dire il vero, anche in Stravin­ skij erano reperibili tratti di amplificazione, appartenenti a una tradi­ zione completamente diversa da quella guidata dall’evoluzione del cro­ matismo tedesco, situandosi dalla parte di Debussy e di Skrjabin - per quanto strana possa apparire questa associazione. Opere come i Poèmes de la lyrique japonaise, Zvezdoliki, certi episodi dell’Oiseau de feu o del Rossignol mostrano, empiricamente, una via che Stravinskij non ha — volutamente? — seguita. E ciò nonostante la sua opera oscilla — fonda­ mentalmente — tra la violenza e l’ironia, che sono le due facce della semplificazione. La violenza al pari dell’ironia riduce l’oggetto musicale nello stesso modo categorico. La composizione di Noces propone, a con­ clusione di un periodo decisivo nell’attività di Stravinskij, una sintesi insolita tra violenza e ironia. (Il solo esempio che anticipa una cosi rara soluzione mi sembra Mussorgskij). L’ironia condurrà Stravinskij a ser­ virsi apertamente della parodia e, come faceva Picasso circa negli stessi anni, a introdurre alcuni oggetti smarriti in un complesso stilistico ove funzionano per straniamento. La bizzarria della citazione, la sua ingenui­ tà, la differenza di livello dei linguaggi, l’eterogeneità degli elementi saranno parti integranti della composizione. Stravinskij non cercherà di ridurre le divergenze e di unificare le dissonanze attraverso la sintesi grammaticale — come un autore deamplificazione y Berg, farà qualche tempo dopo in Wozzeck. Al contrario, egli acuisce le discordanze e gioca sull’assurdo del linguaggio; scriverà tra virgolette: e ciò fa presagire un atteggiamento quasi ostile a fronte dell’integrazione stilistica, fa intravvedere l’appropriazione, ben presto tentata, di elementi preesistenti non più nel campo popolare, bensì in quello detto culturale — in ciò che la storia ci offre con dovizia: i prodotti finiti della cultura, una riserva privilegiata dello Stile al maiuscolo. Quali che siano le differenze fondamentali tra i due gruppi di creatori — per semplificazione o amplificazione — che rinnovano il potenziale di invenzione negli anni venti, si può notare in loro un’assenza di preoccu­ pazione per ciò che concerne una disciplina generale, un punto di vista totalizzante. Ciò non significa, tutt’altro, che vi sia assenza di pensiero. Tutti i rivolgimenti di quel periodo hanno motivazioni molto precise.

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Gli uomini AeW amplificazione, Berg e Schonberg, in particolare (Kan­ dinskij, Klee o Joyce, in altri campi) sono addirittura estremamente espliciti a proposito della propria maniera di fare. Se Stravinskij o Picas­ so si mostrano più impulsivi, e sentono meno il bisogno di conoscere o analizzare le proprie risorse per servirsene efficacemente, sono peraltro acuti negli atti e nelle opere; la loro determinazione è a tal punto definita solo perché i loro fini sono previsti con la lucidità più radicale. Dopo un’esplosione cosi «selvaggia», raggiunti i primi obiettivi — a volte con una rapidità sorprendente — si nota una pausa, una sorta di tregua accordata all’introspezione, all’esame di sé, naturalmente, forse ancor più che all’esame dell’opera e della sua validità. In quanto la creazione si è manifestata in un modo particolarmente individuale, sem­ bra che si voglia progettare in modo più universale e più globale, che si desideri estendere il campo di invenzioni, legate anzitutto a questa o a quella particolarità. Ogni artista, quindi, sembra provare una reale no­ stalgia per una concezione in cui lo sforzo d’immaginazione non si limi­ terebbe ai fini di un’opera precisa; ognuno aspira a trovare alcune com­ ponenti generali che gli consentano di inventare entro un quadro più certo, più «rassicurante». Non che sia scomparso il gusto del rischio, ma si pensa che sarebbe più valido scoprire soluzioni collettive, senza più attaccarsi ogni volta a casi specifici. In una parola, si diffida del caos, e della sterilità a cui si potrebbe approdare: mostrandosi sempre più desi­ derosi di trovare una regola. Questo bisogno è particolarmente palese nei due ingegni più intraprendenti: Schonberg e Kandinskij, ma è altret­ tanto chiaro in Stravinskij. La regola deve non già proteggere dall’av­ ventura, ma rafforzare lo spirito d’invenzione, facilitarne il compito, favorire la sua ricerca del futuro. L’obbedienza a una legge può servire a creare uno stile - anzi uno stile collettivo; sogni di ordine, e di ordina­ mento, dopo una rivoluzione rapida, a volte caotica. Tuttavia con la ricerca di una regola, di una legge, finiranno per insinuarsi molti malintesi, specie riguardo allo stile. Non è presuntuoso credere che lo stile definisce l’idea? Non è pericoloso volersi deliberatamente parte della storia, cioè obbedire a una concezione finalistica del­ l’evoluzione? Il pericolo si è presentato più di una volta: certo è, a uno sguardo retrospettivo, che i compositori e i pittori di quella generazione hanno indubbiamente raggiunto uno stile che appartiene alla storia della loro arte allorché non cercavano di «essere storici»; che spesso si sono smarriti quando hanno preteso di fornire modelli stilistici. Ma la nostal­ gia di un futuro modellato rigorosamente su una visione idealizzata del passato non ha fatto deviare la loro ricerca, per quanto corretta, verso una concezione dello stile assolutamente inadeguata perché erronea?

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Insomma, in che misura stile e invenzione sono compatibili con l’espe­ rienza della storia che viene via via ad accumularsi nel corso dell’esi­ stenza? Fenomeno relativamente nuovo, l’irruzione sempre più massiccia del passato tende a divenire un serio svantaggio per V inventore, che si ab­ bandona a vivere esclusivamente in un universo di riferimenti, e si sente a suo agio solo fra i prodotti — o in senso più nobile, i monumenti — della propria cultura. Il problema non è affatto inedito, soprattutto per ciò che concerne il patrimonio letterario, dove i documenti si conservano quasi indenni — come pure, per la stessa ragione, nel campo dell’architet­ tura e della scultura. Per contro, pittura e musica sovente non hanno potuto appellarsi se non a documenti di secondo grado; la musica, in particolare: trattati teorici, strumenti perenti di cui non si conosce esat­ tamente l’impiego. In questo senso, la musica è sfuggita a lungo, per la sua stessa natura, a riferimenti che non fossero estetici. Ma oggi non è più cosi: la memoria musicale ha modo di estendersi su alcuni secoli di riferimenti e di documenti diretti. È ormai lontano il tempo in cui Mo­ zart rendeva consapevolmente omaggio a Haendel per l’uso circoscritto di certi procedimenti stilistici. Il fatto resta episodico, ma non lo è più quando la scrittura di Mozart assimila la scienza contrappuntistica di Bach e acquista cosi un’orditura prima assente — o perlomeno solo po­ tenzialmente presente. La scrittura fugata di Mozart, per non parlare delle stesse fughe, indica un rimando a uno stile preesistente, che non si può davvero considerare come un arcaismo, benché sia assimilato — e anche se la grammatica di Bach e quella di Mozart obbediscono, nei loro principi, alle stesse regole fondamentali. In epoca più tarda, la sintesi e l’assimilazione non saranno esenti da problemi di grammatica o di estetica. Bastino qui due esempi ben distin­ ti: il Berlioz dell * Enfance du Christ, e il Wagner dei Meistersinger. In entrambi i casi, la citazione storica, l’invito alla testimonianza hanno un’origine letteraria; indicano, se mai ce ne fosse bisogno, la mancanza di una concezione realmente «storica», e quindi il predominio assoluto del linguaggio «attuale». A chi conosca, anche mediocremente, la musica del xviii secolo, non verrebbe mai in mente di paragonarla stilisticamente a quella di Berlioz. L’intento arcaicizzante riflette la nostalgia del musicista per un passato idealizzato — il «mistero», la «miniatura da vecchio messale» — che non ha mai avuto un’esistenza reale. L’ammis­ sione del sotterfugio e del pretesto (Pierre Ducré) sottolinea, invece, il disprezzo per l’autenticità di una ricostituzione ortodossa. Berlioz trova rifugio dai tormenti, dai dubbi e dalle angosce della sua epoca creando

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questo paradiso artificiale dello «stile antico» senza rapporto diretto con un periodo preciso. Quanto a Wagner, egli inscena una disputa sugli antichi e sui moder­ ni nella Norimberga del Medioevo, ma il Medioevo è stranamente assen­ te da una tale disputa stilistica! (Questo spiega perché, sia detto di passata, mi sembra assurdo che si tenga ancora tanto a mostrare sulla scena la realtà «gotica» di Norimberga...) In effetto, sotto un travesti­ mento cosi convenzionale, si confrontano due linguaggi: quello di Wag­ ner, e l’immagine che esso produce di un accademismo le cui fonti non risalgono oltre il xvm secolo. I giochi di specchi stilistici si prestano a un’intenzione drammatica, pongono in risalto il discorso polemico: fran­ camente, non è questione di autenticità: anzi, i riferimenti divergono quanto al tempo del dramma e a quello della musica. Che cosa avviene nel xx secolo, o perlomeno in quella parte del nostro secolo che ora ci interessa? Prima di affrontare il punto di vista di Stravinskij, vorrei anzitutto soffermarmi sul caso Schonberg, che forse può aiutarci a capire sino in fondo questa idealizzazione stilistica che costituisce un momento fondamentale dell’evoluzione della musica in anni ancora recenti, e probabilmente ci aiuterà anche a precisare la no­ stra posizione sul «classicismo», la tradizione, e a vedere come Stravin­ skij abbia aderito a questi stessi fatti, se non a questi stessi concetti. Per quanto possa sembrare paradossale, Schonberg è un artista della tradizione: era si in lui un certo spirito d’avventura, ma Schonberg non si è mai sentito un rivoluzionario, come dimostrano i suoi scritti, e in modo ancor piu evidente la sua musica. Egli non desidera creare una musica in contraddizione con l’esperienza musicale che lo ha preceduto, ma in prosecuzione - anche se radicalizza le conseguenze dedotte dalla sua analisi di una situazione data. Persino nel suo periodo di amplifica­ zione, non vi è nulla che non metta radici nelle adiacenze più immediate. Tutto è nuovo, e tutto è riconoscibile. Non potrebbero sorgere problemi con la storia, giacché l’adesione è totale, assoluta. Solo entro questo processo, certe gerarchie fondamentali del linguaggio musicale si dissol­ vono, fanno posto a una funzione, a un ordine momentanei: di qui nasce il pericolo, chiaramente avvertito da Schonberg al termine di un certo tempo d’avventura, di finire in una situazione caotica a cui rischia di condurre una sottomissione cosi incondizionata al presente, anzi al futu­ ro dell’evoluzione. L’artista non accetta di vedere V ordine immanente sfuggire al proprio controllo, e ben presto il suo atteggiamento muterà profondamente. Per non perdersi ad ogni conflitto sollevato dal linguag­ gio, nella ricerca di una soluzione individuale, provvisoria e momenta-

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nea, egli si sforza di fissare una regola di base, che dovrà disciplinare il cromatismo anarchico stabilendo cosi un ordine e una funzione. Non contento di ricercare una nuova regola per quanto concerne l’elabora­ zione delle parole, egli tende a confermarla con una regola antica, di cui presuppone la solidità: cosi non adotta, direi, le forme antiche, ma le trapianta via via e le innesta. In un quadro sicuro, almeno dal suo punto di vista, egli perseguirà l’utopia della tradizione, dimenticando la con­ traddizione fondamentale tra una forma assunta come una conchiglia vuota e gli elementi viventi del suo linguaggio, che rifiutano e respingono una siffatta predeterminazione. Si spiega cosi come, per aderire alle for­ me riprese dal passato, le idee musicali di Schonberg finiranno via via per adattarsi. Il suo rapporto col modello non sarà più diretto, come lo era prima, ma rimanderà all’immagine del passato come all’età d’oro dell’invenzione che ci avrebbe dato un codice, un sistema di convenzioni perfettamente idoneo. Nell’assunzione di un tale atteggiamento, si può chiaramente osservare un certo rispetto, ma ancor più una mancanza di fiducia nella propria epoca, nelle proprie virtù di scoperta, nelle proprie potenzialità immaginate. L’invenzione di Schonberg agirà ormai in fun­ zione di questo universo di riferimenti; verrà cosi alla luce l’insopporta­ bile contrasto tra frasi convenzionali e parole originali, tra modi di pen­ sare appartenenti alla storia, e abitudini di parlare attinenti al presente. Si scorge il disagio, anzi la falsità di una situazione in cui la pedanteria gareggia a volte con l’ingenuità. Il fenomeno più affascinante resta, tut­ tavia, questa trasformazione quasi assoluta della concezione musicale, che ha determinato un rovesciamento della nozione stilistica. La presen­ za del passato, la garanzia di una tradizione venerata e riutilizzata, l’in­ gerenza di forme antiche, tutto fa credere che si è alla ricerca di un «classicismo» ideale, dedotto da un modello perfetto. L’idea non genera più lo stile - lo stile impone l’idea. Vorrei precisare quest’ultimo punto. Lo stile non mi sembra una qualità (un’essenza?) che si può, e soprattutto che si deve ricercare per se stessa; io la considero come una conseguenza ineluttabile del linguag­ gio, allorché questo perviene a unificare le sue diverse componenti, sia al livello più elementare del lessico, sia sul piano più elaborato della forma. Il compositore deve imporsi di stabilire l’omogeneità, di creare l’unità tra gli elementi che manipola, elementi che hanno spesso - e sempre più, a causa della disparità e della dispersione dei materiali - una prodigiosa forza centrifuga. Lo stile è ciò che apparirà, in definitiva, come l’elemen­ to «operatore» per eccellenza, anche se si è lavorato a partire da oggetti refrattari. Per contro, quando si dipende da una nozione stilistica adot­ tata, ricavata ad arte da un contesto storico, e applicata, come schema

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preesistente, all’invenzione, si ottiene un’omogeneità superficiale, smen­ tita ad ogni momento dalla distorsione profonda tra una volontà stilisti­ ca gratuita e taluni elementi che la rifiutano, o meglio che l’annullano. Si crede di avere raggiunto un ideale «classico» della bellezza e della neces­ sità, ma in realtà si è giocato con una maschera. Analizzare la posizione di Schonberg ci ha tenuti lontano da Stravin­ skij meno di quanto non sembri. A dispetto delle etichette apposte alla sua attività per un certo periodo della sua vita, la musica di Stravinskij, molto meno di quella di Schonberg, ha rispecchiato l’ideale classico che ho appena descritto. Gli obiettivi di Stravinskij, quando egli si aggrap­ pa alla storia, non sono quelli di un uomo tradizionale, come Schon­ berg. La sua situazione, agli inizi, si rivela fondamentalmente diver­ sa. Abbiamo a che fare con un ribelle. Anziché convalidare l’eredità romantica, e assimilarla a esaustone, egli la rifiuta categoricamente. Non è soltanto una questione di temperamento personale, verosimil­ mente è anche una questione di etnia. Ma nel momento stesso in cui egli rifiuta l’estetica romantica, si priva in gran parte delle risorse che l’evo­ luzione del linguaggio metteva a sua disposizione. Il musicista resta dunque a un livello più elementare dell’invenzione, non tenendo prati­ camente conto alcuno, in particolare, della complessità formale a cui il romanticismo al tramonto aveva approdato: così, lungi dall’assumere un’eredità, egli la annulla. Di qui la serie di opere che ci meravigliano ancora, a cui l’autore conferisce un senso nuovo alle parole della tribù. Direi anche che egli dà un senso nuovo alle parole più trite, e che i fenomeni elementari acquistano d un tratto una necessità, un’urgenza che avevano dimenticata o perduta. Agli inizi della sua carriera di com­ positore, Stravinskij opera una riduzione magistrale sul lessico musicale - abolendo per un certo tempo il riferimento culturale; in ogni caso, solo il riferimento culturale giacché quello etnico sussiste in una simbiosi assolutamente naturale. Il solo riferimento riconosciuto si riduce alla caricatura e all’oggetto smarrito di cui egli esalta, in virtù dell’ironia, la capacità poetica. A questo punto, anche se assurda, insorge la domanda: è possibile evitare a lungo il confronto col passato, specie in un’epoca che ci costrin­ ge continuamente alla memoria? Il modo con cui Stravinskij «scopre» la storia, la tradizione, inizia in maniera aneddotica. La sua manipolazione di Pergolesi, è un po’ il mu­ seo visitato inaspettatamente su una strada di fortuna, dove non ci si aspettava di trovarlo; museo vuoto, a quell’ora, e che le masse di visita­ tori verranno fra breve ad affollare. Risvegliato nell’interesse da questa visita inopinata, rapido egli cambia itinerario ed esplora i musei con la

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curiosità e la disinvoltura (egli non rispetta, ama...) di un ricercatore fuori del comune. Esiste tra lui e le opere che contempla quella inap­ prezzabile distanza che separa l’adesione dall’investigazione. Se ci si interroga sul perché del suo comportamento, quello del ribelle che a un tempo si diverte e si lascia affascinare, è possibile scorgerne la causa, io credo, nell’influenza dell’ambiente francese - parigino - dell’epoca: di Cocteau, senza dubbio, ma forse anche, in maniera più profonda, di Valéry. Non pochi sono i paradossi apparenti e i comportamenti reali che Stravinskij ha in comune con loro: soggezione alla disciplina più concreta, virtù imitativa, necessità di un artigianato meticoloso, poetica dissacrata, estetismo della cultura. Con una differenza essenziale però: l’intellettualismo. Nonostante le molte accuse rivolte contro di lui, Stra­ vinskij non era un intellettuale, nel senso in cui non si compiaceva della speculazione sul fenomeno culturale. Niente di più lontano da lui di questa ossessione francese che si estende ostinata dalla fine del xix secolo sino alla metà del xx, della delizia e tortura di sentirsi rinchiuso in uno spazio culturale sempre più raffinato, sempre più insostenibile. No! Stra­ vinskij è essenzialmente realista] da questo punto di vista, il contatto con l’ambiente intellettuale francese non lo ha cambiato assolutamente. Egli ama sempre tanto manipolare gli oggetti musicali che gli si offrono, anche se si tratta ormai di oggetti smarriti in un museo. Una curiosità quasi infantile lo spinge a smontare il giocattolo — il capolavoro - che ha sotto le mani; e una malizia quasi ingenua, a rimontarlo «diversamen­ te», perché acquisti un significato individuale. Cosi egli si impadronisce di alcuni oggetti della storia, e ne fa una sorta di collezione personale; seleziona i loro elementi per farli propri, in ordine sparso. Volendo tornare alle nozioni di stile o di idea, si ha l’impressione che lo stile in Stravinskij sia stato meno una preoccupazione che un gioco. Intendo «gioco» proprio nel significato più esteso del termine, attività speculativa che si fonda sul bisogno di divertimento inerente alla natura umana. Il gioco è a volte piacevole, a volte terribilmente serio, in quanto rimette in causa la necessità della creazione. Il gioco può contribuire a schivare le domande fondamentali; può scendere anche nel più profondo della verità e del malessere, poiché denunzia l’accumulo di cultura con cui siamo più o meno costretti a vivere, anzi a «comporre»', giocare con la cultura vuol dire cercare di annullarne l’influenza, facendo chiaramen­ te intendere che non si sono dominati - dall’esterno - tutti i meccanismi, compresi i più perversi. Resta da sapere se un comportamento del genere è in grado di appa­ gare a lungo chi lo adotta; l’ultima tappa dell’ascesi va ancora varcata prima di sperare di giungere a una verità. L’idea non può definitivamen­

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te ridursi al gioco; lo scambio tra stile e idea resta al di qua di questa antinomia transitoria, di questa attività di visitatore. E proprio nella trasgressione del gioco va visto il segreto della tra­ sformazione ultima nella personalità di Stravinskij, quella che più ha stupito, e probabilmente meno convinto - in generale - nel momento in cui essa ebbe a rivelarsi, se poi è incorsa nell’incredulità, anzi nel sarca­ smo? Spesso si è accusato il compositore di volere ringiovanire ad ogni costo, di aggrapparsi disperatamente all’attualità. Innegabilmente, egli si è trovato di fronte a una generazione nuova le cui idee non hanno mancato di colpirlo. Non vedo in questo niente di riprovevole, né so­ prattutto d’indecoroso, ma, al di là di un’influenza certamente episodica, credo di scoprirvi un fenomeno molto più essenziale: la rinuncia al gioco, il rifiuto dell’illusione. Più di una volta, si è insinuato che l’appropria­ zione stilistica operava ormai in un’altra direzione, ma che il procedi­ mento restava identico. Io non la penso cosi, non più di quanto ritenga fondamentale la differenza nel dosaggio tra diatonismo e cromatismo. Tutto ciò riguarda i caratteri esteriori, facilmente decifrabili; ciò che lo è meno, è la necessità profonda di questo apparente capovolgimento. In fin dei conti, il gioco non sfocia se non in una gigantesca citazione: ed eccoci ancora in Alessandria, e addirittura nella sua biblioteca, meno combusta che mai. Anche il contatto con la letteratura del passato, se non è destinato che a innescare operazioni-scontri, finisce per perdere d’interesse; quando un periodo diviene familiare, bisogna passare a un altro, e poi ancora a un altro, meccanicamente, fino all’esaurimento e alla scomparsa di motivi. In questa ripetizione inesorabile dell’appropria­ zione, giunge un momento in cui la storia è stata riassunta - o meglio condensata'. - definitivamente, senza più sentire il bisogno di attualizzar­ la. L’urgenza ingiunge allora di dimenticare l’eredità in modo così inqui­ sitorio visitata, saccheggiata con più tedio che ironia; costringe a toglier­ si la maschera, anche se l’operazione finisce per rivelarsi importuna, crudele, e il passaggio ambiguo, quasi «artificioso». Costretti a tornare ai problemi del linguaggio, unico nucleo della radiazione reale, occorre respingere la motivazione estetizzante o il pretesto superficialmente let­ terario, dedurre drasticamente le conseguenze di questa chirurgia, onde, essenzialmente, dominare l’amaro enigma: la scrittura. Quali che siano state le circostanze, la verità fondamentale risiede in questo: ritrovare l’idea, rinunciare al gioco; vale a dire: rifiutare la preoccupazione stilistica come un a priori, considerare ancora una volta lo stile come conseguenza dell’idea. È evidente che nonostante certe abitudini grafiche, certi tratti personali dominanti, il confronto essenzia­ le di Stravinskij con se stesso, negli ultimi anni della sua vita, la revisio­

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ne dei concetti di base, hanno scosso spietatamente la sua capacità crea­ tiva, lo hanno seriamente messo in dubbio. Hanno costretto il composi­ tore in una posizione di penitente, essendo l’ascesi, l’austerità la condi­ zione sine qua non della migrazione. Ogni mezzo deve essere rimesso in ordine, ogni struttura rivista. Il gioco è finito! Sotto con l’idea! Dilemma quanto mai pericoloso, che Stravinskij ha avuto il coraggio di affrontare - probabilmente perché, grazie alla sua vitalità, non vedeva altra solu­ zione valida davanti a sé. Mondo della citazione, mondo del riferimento (morte meschina e accettata), perché queste entità hanno esercitato sugli spiriti più brillanti di questo secolo un tale fascino che ancor oggi si vedono sopravvivere sotto nuove vesti d’accatto, sotto l’apparenza di un’ideologia svilita? Ciò è dovuto unicamente al carattere degli inventori del nostro tempo, o questa ossessione si adatta, come la tunica di Nesso, alla nostra epoca, al nostro mondo, alla nostra civiltà, per meglio bruciarla e distruggerla? Già Klee sembra che dicesse sospirando: troppa cultura! Oh! Come sarebbe bello un giorno risvegliarsi, e avere tutto, assolutamente tutto dimenticato! In effetti, ciascuno di noi ha un’enciclopedia della cultura a propria disposizione, ad ogni istante - tutta la memoria del mondo... È diventato praticamente impossibile ignorare la storia, non soltanto la storia della propria cultura, ma anche quella delle altre civiltà, le più remote al pari delle più recenti, tempo o spazio aboliti. Tanta dovizia non è priva di conseguenze — a meno che il materiale stesso non imponga forme nuove, rendendo effimero il progetto d’imitazione, di appropria­ zione. Se ne vede il risultato in architettura. Ma in musica? E specie in una generazione che operava con strumenti tradizionali - cioè con mezzi inventati per i bisogni di altre cause musicali? Senza alcun dubbio, Stravinskij, al pari di Schonberg e come tutti i novatori del primo ’900, ha cominciato a fare storia senza preoccuparse­ ne. Il bisogno di creare era troppo urgente per lasciarsi suggestionare dall’idea del proprio posto in una futura galleria di ritratti. Si aveva fret­ ta di chiudere con certi modi di pensare, certe maniere di essere. L’acce­ lerazione del mutamento fu tanto più rapida quanto più fu violenta; una sorta di frenesia si è impadronita in effetti di quanti hanno scoperto un enorme potenziale di novità. Dopo la splendida pirotecnica di quei pochi anni, da parte di Stravinskij come da parte di Schonberg, la Storia al maiuscolo ha assillato gli spiriti, suscitando l’ossessione della sistemati­ ca, riferita a modelli assoluti. Anche se il convincimento è di natura diversa, anche se l’atteggiamento è antitetico, il concetto di modello proviene da una motivazione profonda identica: tendenza a restringere la storia per ripetizione, a inserirvisi prematuramente recintandola. Ci si

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vieta di considerare la composizione sotto la sola categoria del divenire; si mescola memoria e invenzione, nella speranza di una continuità asso­ luta. E cosi si appartiene al presente — al momento e ai suoi episodi — più che al passato, e molto più che al futuro. Di fatto, se vi è una lezione (morale?) da trarre da un tale stato di cose, questa è la primazia della scoperta, per così dire, selvaggia. Proprio cosi! Come temeva Klee, non è possibile sfuggire alla conoscenza della propria cultura, e al giorno d’oggi, all’incontro con quella delle altre civiltà - ma come si fa imperioso il dovere di cancellarle! Sia resa lode all’amnesia.

31. Messiaen: visione e * rivoluzione .

La posizione di Messiaen è singolare. Costretta alla periferia, in alcu­ ni settori, da scelte quanto mai tradizionali, essa emerge spiccatamente, al contrario, per altri aspetti della creazione musicale. Da trent’anni a questa parte, Messiaen ha esercitato la sua influenza su tutta una schiera di compositori, certo con i suoi testi, ma anche, e forse ancora di più, col suo insegnamento. Egli ha continuato la sua attività di insegnante accan­ to a quella del compositore, a conferma del suo fortissimo interesse specifico, con la consapevolezza, appunto, che la sua capacità inventiva, per una parte, si attua nella pedagogia. Eppure, se lo si confronta con Schonberg, un altro insegnante di im­ portanza fondamentale, ci si avvede subito che i punti di vista di Mes­ siaen pur insistendo su alcuni aspetti della ricerca musicale sono ben lon­ tani dal presentare la coerenza, l’omogeneità che sarebbe lecito atten­ dersi. La sua posizione teorica, ammesso che egli ne abbia una, non è il ri­ sultato di una riflessione determinante sull’evoluzione storica del lin­ guaggio musicale e sulle conseguenze che se ne possono trarre, quanto piuttosto il frutto di un eclettismo severo. In genere, s’intende per eclet­ tismo una serie di scelte superficiali dettate più o meno dalle circostanze, dall’opportunità o dal bisogno. L’eclettismo di Messiaen, invece, non ha nulla di superficiale, ma s’interroga sulla validità delle sopravvivenze e sulla rilevanza dei contesti storici. Se si considera l’insieme della sua opera, si constata che essa affonda le sue radici nella musica di consumo in voga nella Parigi degli anni ven­ ti e agli inizi degli anni trenta. Oltre all’eredità classica e romantica, vi è * Testo per un programma di Barry Gavin trasmesso dalla BBC il 13 maggio 1973. Inedito in francese.

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una particolare insistenza sulla musica di Debussy, più di rado su quella di Ravel, ma in forte misura sulla musica di Stravinskij — le altre influen­ ze possono essere considerate, all’inizio, come episodiche. Solo in seguito Messiaen dedicherà una vera attenzione a Schonberg o a Berg, anche se non si soffermerà sull’aspetto progressista del loro pensiero, ma ne ac­ coglierà certi manierismi espressivi. La musica di tradizione austro-ger­ manica col suo bisogno di esprimere V evoluzione e la continuità nel trattamento delle idee musicali (il «durchkomponieren») gli è fonda­ mentalmente estranea. (Giacché anche se si può parlare di un eclettismo nelle sue scelte di compositori, pure questo eclettismo esiste nella sua stessa maniera di scrivere, che giustappone e sovrappone più di quanto non sviluppi e trasformi). Ma fenomeno nuovo e importante, ben presto al suo bagaglio ristret­ to di tradizione occidentale, Messiaen mescola alcuni elementi eteroge­ nei, se non eterocliti, che trasformeranno profondamente il suo punto di vista sulla musica. E innanzitutto tuffandosi nel passato della nostra cultura, egli si aggancia al canto gregoriano: influenza comprensibile se si pensa ai suoi legami con la religione cattolico-romana, e alla sua par­ tecipazione come organista alle cerimonie del culto. Un certo numero di compositori francesi di ben minore levatura si sono dedicati d’altronde a riscoprire il canto gregoriano, ma senza immaginazione e senza farne il buon uso di Messiaen. Egli è stato influenzato dai melismi, dalla costru­ zione delle frasi, dalla funzione monodica. Di qui quei lunghi e agili vocalizzi che si trovano regolarmente nella sua opera, dove resta del gregoriano un senso sicuro dell’ornamentazione e dell’ordine melodico in sé. Di qui anche, citazioni o montaggi fatti a partire da elementi trascritti lievemente. Unendo la tradizione occidentale pre-polifonica a quella indiana, Mes­ siaen scoprirà la base del proprio lessico generale - almeno fino a una certa epoca - nell’utilizzo dei modi. Cosi come sussistevano modi greci, trasposti nel gregoriano, così come vi sono i ragàs dell’india, il linguag­ gio di Messiaen è basato su differenti modi di cui egli descrive analiticamente le specificità e l’uso che ne trae. Il suo linguaggio esce a volte dalla tonalità propriamente detta, ma sempre in riferimento alla polarizzazio­ ne dei diversi modi che egli impiega e traspone. Il contatto con la teoria della musica indiana cosi come lo studio approfondito di certe opere di Stravinskij hanno costituito la sua forma­ zione ritmica. E proprio su questo punto il musicista si è mosso progre­ dendo nel modo più concreto e costante, dando una base teorica sufficien­ temente solida a talune scelte che giudicava sparse e irregolari e rinno­ vando cosi in buona parte il pensiero attuale sull’argomento.

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Un altro segno di questo eclettismo, e non il meno stupefacente, è il suo contatto con la natura e le notazioni più o meno dirette che ne ha tratte nella sua opera. Beninteso, non mancano le descrizioni paesaggi­ stiche, che restano ancora su un piano simbolico. Ma vi sono anche rumori diretti, come i rumori di torrente. Vi sono infine, e soprattutto, gli innumerevoli canti di uccelli che, apparsi abbastanza presto nella sua opera in maniera quanto mai episodica, assunsero poi un’importanza crescente al punto da diventare il centro di una serie di opere unicamen­ te intese a trascriverli. È facile vedere da questo breve inventario quanto disparate siano le fonti! Ed è chiaro, all’ascolto delle opere, che Messiaen non ha cercato di ridurle a un’unità fondamentale. Egli lascia tutti questi elementi in aper­ to conflitto: un modo, secondo l’espressione dello stesso autore, di pas­ sare da uno stile a un altro. Tuttavia egli forma tutte le componenti della sua scrittura a seconda della propria necessità, e spesso esse sono forte­ mente distorte e stravolte dalla loro prospettiva di origine. È certo che quando egli impiega la ritmica della poesia greca, lo fa in funzione delle quantità di durata che essa mette a sua disposizione, e non per stabilire un linguaggio codificato parallelo a quello dei versi greci. Cosi, quando egli impiega alcuni canti di uccelli, li trascrive in funzione dei nostri strumenti, vale a dire del semitono temperato, il che non ha più molto a che vedere con gli intervalli di origine, nel momento stesso in cui il procedimento allontana l’ambiguità suono-rumore dalla natura stessa dei canti di uccelli. Cosi, in certo senso, quello di Messiaen potrebbe definirsi un eclettismo riformatore. Il suo eclettismo, la sua assenza di gusto, nel senso in cui i francesi amano usare questo termine, non sono un’eccezione nelle opere prodotte dal nostro paese. Se l’immagine di carattere generale resta il buon gusto, la misura, la chiarezza, vi è una serie di solide eccezioni che conferma­ no la regola generalmente accettata. In musica, il nome di Berlioz viene subito in mente; ma anche la letteratura o la pittura ci forniscono esempi illustri. Voglio semplicemente citare il nome di Claudel per la poesia, di Léger per la pittura - e ne potrei citare molti altri. Messiaen fa parte di quella schiera di creatori francesi che meno si curano di operare entro misure ben delimitate.

Venendo a considerazioni meno generali, conviene vedere anzitutto di quale materiale si serve il linguaggio inedito di Messiaen. Come ho già detto, egli ha sviluppato un sistema di modi, basato su giochi d’intervalli

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che evocano subito un certo esotismo, immaginario. Vicini per certi lati a quelli della musica indiana, i suoi modi hanno caratteristiche molto definite che si riflettono non soltanto nelle linee melodiche a cui hanno dato vita, ma anche nell’armonia, nel linguaggio armonico più general­ mente detto. In questo senso, si palesano le preoccupazioni di Messiaen nel dare coerenza e unità alla propria espressione. I modi generano serie di accordi, a grappoli si potrebbe dire, che sono quasi più caratteristici dell’uso che ne fa Messiaen che non della sua scrittura melodica. Ciò dipende dalla sua educazione di organista e dall’impiego dei giochi di mu­ tazioni? Fatto sta che la funzione di un accordo non è quella di accom­ pagnare una linea melodica, ma di identificarsi con essa apportandole al tempo stesso sostanza e coloritura. E questo è avvertibile ben presto nella sua opera; l’uso di tali «mutazioni» armoniche verrà del resto am­ plificandosi, e diverrà nei brani più tardi, un mezzo cosi privilegiato da assorbire tutti gli altri in questo campo. È connesso a un impiego siffat­ to, un senso, che egli prova vivissimo, delle corrispondenze colorite di queste famiglie di accordi. Egli scrive a colori, non certo nel senso in cui Skrjabin voleva fare corrispondere luce e suono, ma in un senso cineste­ tico, in cui il suono risveglierebbe nel nostro mondo sensoriale indivi­ duale una risposta colorata. Nei suoi spartiti, accanto a certi accordi, egli descrive il nome della combinazione colorata che attribuisce loro per dare all’ascoltatore la chiave di queste corrispondenze. (Confesso che, personalmene, non ho mai sentito il bisogno di una trasposizione let­ terale). Come nella tradizione indiana, anche qui i modi sono una parte del­ l’organizzazione che regola appunto i suoni stessi che sentiamo. Un’altra caratteristica di questi suoni, è che durate e relazioni ritmiche sono rette da altre leggi che Messiaen formulerà a poco a poco, in modo sempre più preciso per giungere a un insieme più solido e coerente. Alcune caratte­ ristiche generali sono da notare. Innanzitutto, il ritmo di Messiaen si sottrarrà progressivamente alla metrica tradizionale, nel senso in cui egli non accetta più un modulo, una formula di base, destinata a regolare la vita ritmica di un movimento. Ma non solo, egli usa costantemente dei ritmi che possono dirsi irregolari, ma se scrive misure numerate, con stanghette più o meno regolari, lo fa molto spesso per comodità di esecuzione. Se scrive per piano solo o organo, egli fa a meno compietamente di ogni indicazione numerata, e il più delle volte pone le stanghet­ te solo come fraseggio ritmico quando ciò sia possibile. La nozione di metro regolare scompare via via dalla sua opera a vantaggio di due principi fondamentali: l’ineguaglianza dei valori di base a partire dalla più piccola pulsazione (e in questo l’influenza di Stravinskij ha avuto un

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ruolo decisivo); la sequenza ritmica fondata su una successione-tipo, seguita da variazioni: la cellula iniziale decide della costruzione ritmica, non è più soggetta a entrare in un metro regolare, né a venire in conflitto con esso. La nozione di durata diviene più duttile e più sottile, distaccata com’è da un’obbligatoria periodicità limitata. La periodicità è variabile, e può prodursi a lungo e non soltanto a breve termine. (Gli schemi indiani hanno qui avuto un’influenza preponderante). Questa concezione globale della durata, diviene, va notato, preesi­ stente alla scrittura stessa delle note. Beninteso, i metri regolari di uso classico preesistono anche, ma come schema, e nel contempo a volte come genere (come in un tipo di danza: il minuetto a 3/4, ad esempio). Ora la sequenza ritmica è primordiale, in attesa di essere rivestita di un fenomeno sonoro; mentre prima l’invenzione era spontanea, all’interno di una ristretta cornice, e tramite alcune leggi accettate come naturali. Per ritrovare una simile ambizione nella tradizione occidentale, bisogna risalire agli sforzi dell’Ars nova, il cui ultimo sussulto si palesò nell’uso razionale della metrica greca da parte di alcuni polifonisti del Rinasci­ mento francese. Molte altre ossessioni sono rilevabili nel campo della durata, come l’apparizione di valori lunghissimi opposti a valori molto brevi, l’impor­ tanza accordata alla simmetria o alla non simmetria delle figure ritmiche, molte altre particolarità ancora, dipendenti meno da un sistema che da una preoccupazione personale. Messiaen, in un brano rimasto giustamente un documento di prim’ordine, ha tentato per primo la sintesi tra il pensiero modale e il pensiero ritmico, con conseguenze affatto inedite nel campo della dina­ mica e del gioco. Invece di avere un modo definito semplicemente da una sola caratteristica, l’altezza - il che è proprio di tutte le scale, tradizionali o meno, che esistono per cosi dire in astratto, «fuori del tempo», fuori da ogni funzione temporale — egli definirà in ugual misura ogni compo­ nente con una durata, una dinamica e una caratteristica di gioco. Ogni nota, allorché compare nel contesto, è dunque un’entità immutata, ed è il confronto tra queste entità molteplici che crea a un tempo il mondo sonoro e la composizione. La fissità dell’elemento stesso si integrerà nella molteplicità degli incontri. Questa idea geniale muterà sensibil­ mente il corso della sua opera e la orienterà verso un’integrazione più spinta di tutti gli elementi sonori nella composizione, per un certo tem­ po, almeno. Infatti, dopo un certo numero di opere più specificamente centrate su tale preoccupazione, l’eclettismo fondamentale di Messiaen considererà questa tecnica come un mezzo, a volte quanto mai seconda­ rio, di comporre. Nelle opere più recenti, egli sembra cercare una corri­

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spondenza approfondita tra leggi del linguaggio e leggi musicali, come ulteriore ampliamento dei suoi mezzi.

Nell’insieme della sua opera, l’organo occupa un posto fondamenta­ le: un fenomeno unico nella nostra epoca, dal momento che l’organo, tranne rare eccezioni, è stato, per cosi dire, lasciato alla chiesa e alla storia. Messiaen appartiene alla chiesa per le sue opere d’organo, ma non si preoccupa di integrarle al servizio del culto. In pratica, non vi è traccia di musica funzionale religiosa nella sua opera, ma vi è una musica di ispirazione religiosa che rinunzia ad ogni celebrazione e ad ogni cerimo­ nia. Conoscendo da professionista le risorse dello strumento, egli usa da virtuoso alcune possibilità di registrazione. La sua concezione non è generalmente polifonica; le sue predilezioni armoniche gli fanno dunque preferire uno strumento ricco, opulento, che gli consente numerose com­ binazioni, dalla più rara alla più spessa. Grazie a lui, lo strumento ha acquisito una letteratura che i compositori organisti di professione han­ no totalmente mancato di dargli da molti decenni, nonostante le tante «rinascite». Il piano si pone allo stesso livello dell’organo nella sua produzione di solista. Egli scrive altresì da esperto, in uno stile in cui sono amalgamate influenze importanti come Debussy e influenze periferiche come Albéniz, senza parlare di Liszt di cui vi è traccia in molte pagine. Quanto alla musica da camera propriamente detta, essa si limita a una sola opera, — il Quatuor pour la Fin du Temps, — composta in un campo di prigionia, e quindi sotto la diretta necessità di scrivere per gli interpreti di cui allora poteva disporre. Nessuna meraviglia, dunque, che a parte il piano e l’organo, le opere importanti siano tutte scritte per orchestra. Insisto su questo fatto, in quanto anche le opere scritte per formazioni ridotte sono sempre conce­ pite in uno spirito orchestrale. La concezione dell’orchestra è spesso massiccia, dispone l’orchestra in gruppi col compito di esporre, per bloc­ chi, i differenti motivi, o le diverse componenti dell’opera. In contrasto con questa scrittura stratificata, si nota una scrittura altamente indivi­ duale, di cui Chronochromie contiene l’esempio più rivelatore, un Epo­ do per 19 corde soliste. A forza di accumulare le individualità, di so­ vrapporre linee differenti, si giunge a un’impressione globale in cui ogni individualità è neutralizzata. Del resto è quanto mai caratteristico che certi strumenti, come l’arpa, a cui Messiaen rimprovera una mancanza di volume, siano sistematicamente ignorati in tutte le sue orchestrazioni. Una solidità potenziale lo attrae verso l’organo, il piano o l’orchestra, una tessitura ricca e folta.

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Si aggiunga a questo l’impiego della voce, sia in taluni cicli per voce e piano (uno solo è stato orchestrato, i Poèmes pour Mi), sia in opere per coro e orchestra, di cui l’ultima in ordine di tempo è la monumentale Transfiguration. Come si vede, non è facile definire, e ancor meno riassumere, la posizione di Messiaen. Quanto mai legato a certi modi tradizionali di pensare, ancor più avventuroso in campi relativamente inesplorati, egli si assume probabilmente non solo le proprie contraddizioni personali, ma anche le contraddizioni di una generazione di musicisti francesi - privi di informazione, in un momento cruciale della loro esistenza — sugli scon­ volgimenti che accadevano altrove... Si può dire che le opere sarebbero state diverse se il contatto con la scuola viennese si fosse già solidamente stabilito? Forse no; il messaggio sarebbe stato adombrato da preoccupa­ zioni più circoscritte e urgenti. D’altra parte, se l’attenzione fosse stata monopolizzata in altra direzione, non è sicuro che avremmo beneficiato delle scoperte che costituiscono il fatto unico, indiscutibile, della perso­ nalità di Messiaen.

32. Messiaen: il tempo dell’* utopia .

L’itinerario di Messiaen ha avuto per me un interesse centrale che andava certo al di là degli antichi rapporti tra maestro e allievo. Senza dubbio, avevo scoperto attraverso di lui, e talvolta più ancora che attra­ verso la sua opera, una certa visione della musica contemporanea, della sua evoluzione, delle personalità che hanno partecipato a questa storia e all’elaborazione di un linguaggio nuovo, ove certi dati, i dati ritmici ad esempio, avevano assunto un’importanza tanto più grande che per il passato. Se le riflessioni personali di Messiaen avevano dato origine ad alcune delle mie — soprattutto rispetto al tempo o alla ritmica - nondi­ meno mi avevano lasciato in una situazione di attesa relativamente a certi problemi di linguaggio per i quali mi sembrava di trovare soluzioni più soddisfacenti nelle opere della Scuola di Vienna. La musica di Messiaen derivava da una visione sistematica che defini­ va alcune scelte personali in cui certe nozioni ricevevano un posto privi­ legiato. Per quanto concerne le altezze, egli annetteva una grande impor­ tanza all’organizzazione modale, ai rapporti armonici, e a volte le rela­ * Testo per una trasmissione del Siidwestfunk di Baden-Baden diffusa nell’ottobre del 1978. Inedito in francese.

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zioni tonali piu tradizionali erano adoperate per polarizzare questo o quell’aspetto della scrittura. Quanto al tempo, alla durata, Messiaen ricorreva a numerose innovazioni importanti che mi sembravano, su questo punto specifico, completare e compensare le scoperte della Scuola di Vienna. Messiaen dava al tempo un’attenzione che gli avevano accor­ data prima di lui pochi compositori; inoltre, per organizzarlo, usava mezzi assolutamente originali che scioglievano il ritmo della metrica tradizionale. Egli annetteva al ritmo una tale importanza che gli accade­ va di organizzarlo prima di ogni altro aspetto del linguaggio; potevano benissimo le strutture ritmiche precedere la scrittura propriamente det­ ta, in quanto quest’ultima era in qualche modo l’immagine di quelle. Per giunta, egli arricchiva il repertorio ritmico adattando al proprio lessico elementi di un linguaggio desunti da una ricerca «esterna», ele­ menti mutuati dall’india o forme della prosodia greca. Si era sempre notata in Messiaen la preoccupazione di creare sistematicamente i suoi strumenti di lavoro, la volontà di coordinare gli elementi del suo lin­ guaggio, di determinare un universo scrupolosamente definito per pote­ re attingervi, a seconda delle necessità, i materiali delle sue opere. Ben presto, d’altra parte, egli sente il bisogno di riassumere le sue scelte e di dar loro un significato per quel che riguarda la riflessione teorica. Scrive così la Technique de mon langage musical. L’opera descrive il sistema di scrittura dell’autore rilevando gli antecedenti del suo linguaggio, spie­ gando e giustificando i suoi metodi di lavoro, facendo il punto comples­ sivamente sui diversi aspetti della sua invenzione e cercando di accordar­ li l’uno con l’altro. Cosi, in quella fase della sua vita, l’opera di Messiaen sembrava solidamente fissata, e non si pensava che potesse fornire per il momento vere sorprese; dava piuttosto l’impressione di volgersi verso una ricerca più approfondita di certi ambiti messi in luce nelle opere precedenti, secondo i metodi esposti nella Technique. Ora, verso il 1949-50, forse a contatto con l’avventura occorsa ad alcuni suoi allievi, tra i quali c’ero anch’io, e che si erano più o meno profondamente separati dalle sue scelte, Messiaen attraversa un periodo di intensa riflessione, di rimessa in causa, un periodo che definirei speri­ mentale, nel senso positivo del termine. È significativo che i due compo­ nimenti del 1949 — il Mode de valeurs et d’intensités e i Neumes rythmiques - furono scritti a Darmstadt e a Tanglewood, nomi simbolici legati all’insegnamento della composizione, proprio quando la pedagogia di Messiaen trovava una risonanza più larga, al di fuori del suo ambien­ te di lavoro al Conservatorio di Parigi. Le opere che manifestano inquie­ tudini nuove, scritte tra il 1949 e il 1951, sono esclusivamente riservate agli strumenti prediletti dal compositore, cioè il piano e l’organo, ai suoi

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strumenti personali, che più degli altri, egli riesce a utilizzare per la ricerca. Per quanto concerne il piano, sono i Quatre Études de Rythme, cosi detti brevemente perché pubblicati insieme, mentre si tratta di due gruppi ben distinti; il Mode de valeurs et d’intensités, i Neumes rythmiques da una parte, che datano al 1949, le lies de Feu 1 et 2 dall’altra, che risalgono al 1950. Per Porgano, egli scrive successivamente la Messe de la Pentecóte nel 1950, e il Livre d’Orgue nel 1951. Questa serie, com­ posta in un lasso di tempo piuttosto breve, è unificata dallo stesso tipo di preoccupazioni, e denota alcune trasformazioni radicali nel linguaggio del?autore. Si può dire, senza tema di sbagliare, che Messiaen non aveva mai compiuto un tale sforzo per radicalizzare i diversi aspetti del proprio linguaggio, per spingersi cosi lontano nella scoperta e nell’esplorazione di nuove possibilità. Dopo questo sforzo spettacolare, Messiaen pervie­ ne a una sintesi tra elementi nuovi e metodi più tradizionali a cui non voleva rinunciare per esprimersi con maggiore pienezza. Che cosa caratterizza dunque questa musica «di punta», che fa si che l’avventura di Messiaen assuma per alcuni anni un aspetto affatto inso­ lito e dia alle sue opere una forma cosi radicale, di avanscoperta? Si avverte, naturalmente, di trovarsi di fronte a un allargamento delle sue concezioni per quel che riguarda la tecnica del linguaggio musicale, ma si tratta soltanto di questo, o l’orizzonte più largo non segna una cesura profonda con certi suoi modi precedenti? D’altro canto, l’impressione più superficiale e immediata non ci fornisce già un’indicazione sull’evolversi del suo pensiero? La prima caratteristica che colpisce, allorché si confronta questo gruppo di opere con le composizioni precedenti di Messiaen, è l’utilizzo quasi costante degli intervalli disgiunti, l’abbando­ no di una forma altamente melodica e congiunta della scrittura modale. La Scuola di Vienna è passata di li, e anche gli effetti che una generazione più giovane ne aveva ormai tratti. Per ciò che concerne Messiaen, gli effetti sono di natura diversa; l’autore che dava e continuerà a dare tanta importanza all’armonia, a una concezione verticale della scrittura, ab­ bandona a poco a poco la scrittura di accordi che gli è cosi cara. Alcuni brani, addirittura, sono in maniera scontrosa ed esclusiva «non armoni­ ci»; vi si avverte una preponderanza delle linee orizzontali che — come nelle opere dodecafoniche - non sono controllate da rapporti armonici, né sono più sottoposte alle loro leggi. E proprio da questo punto di vista Messiaen rimette in questione ciò che aveva di più personale e proba­ bilmente di più caro. Ecco il sintomo più immediato e tangibile del periodo sperimentale che egli attraversa, ma conviene porsi sulle tracce anche di alcuni altri. Credo tuttavia che prima di enumerarli e valutarli, esista un fatto più generale in grado di spiegare alcune trasformazioni

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pure sorprendenti rispetto al pensiero di Messiaen cosi come si era fin allora manifestato. Il musicista era stato posto a confronto, sia per il tramite dei suoi discepoli, sia tornando a certe fonti che avevano avuto in precedenza una parte secondaria nella sua formazione, con una siste­ matizzazione formale del linguaggio. Per lui si poneva dunque il pro­ blema di una musica spontanea rispetto a una musica calcolata', ma quali rapporti potevano esserci tra queste due concezioni? E quale rapporto dovevano esse avere? Mi sembra che il dilemma riassuma l’attività e la riflessione di Messiaen in questo periodo cruciale della sua opera. Messiaen, come ho detto, era sempre stato incline a una certa siste­ matizzazione dei diversi aspetti del suo linguaggio: codificazione del­ l’espressione modale, codificazione delle espressioni ritmiche; senonché questo lavoro verteva essenzialmente su certi dati di base, dove l’invenzione conservava libertà e spontaneità rispetto alla serie di mezzi di cui poteva disporre. E proprio in questo momento della sua evoluzio­ ne, Messiaen sembra porre in modo molto più formale il problema dei mezzi. Non dissocia l’esplorazione dei mezzi dal loro utilizzo. Forse influenzato dalla nozione di serie, allora in piena espansione, egli riflette sui rapporti formali e calcolati da cui la sua musica può dipendere; in molti casi, si evidenzia un conflitto tra spontaneità, che rifiuta di abdica­ re, e organizzazione, che vorrebbe diventare predominante. Di questo conflitto, di questa antinomia, si scorge il riflesso sin nei titoli dei diversi brani che formano l’opera scritta tra il 1949 e il 1951. Ora si tratta di titoli poetici, ispirati più o meno alla Bibbia: Les Yeux dans les Roues, Les Mains de VAbirne, lies de Feu [Gli Occhi nelle Ruote, Le Mani dell’Abisso, Isole di Fuoco]; ora si tratta di titoli tecnici, direi aggres­ sivamente tecnici nel loro rapporto esclusivo con certi aspetti gramma­ ticali del linguaggio musicale: Reprises par interversion, Soixante-Quatre Durées, Neumes rythmiques [Riprese per inversione, Sessantaquattro Durate, Neumi Ritmici]. Non credo che qui si tratti di un aspetto superficiale della questione. I titoli dei brani sembrano, anzi, manifesta­ re apertamente il dilemma del compositore: preservare la sua visione poetica, o abbandonarsi alla vertigine dei problemi del linguaggio. In al­ tre parole, la poetica potrà servirsi liberamente dei mezzi tecnici nuovi messi a sua disposizione da una ricerca approfondita e talvolta unilate­ rale, oppure i mezzi tecnici ricercati quasi per se stessi, genereranno, per il fatto stesso di esistere o di essere posti in risalto, una poetica musica­ le? Sembra che per alcuni di questi brani, il fatto di comporre una for­ ma chiusa, che abbia un principio e una fine, sia parso piuttosto seconda­ rio all’autore, che trova la ragione essenziale della scrittura nella mani­ polazione stessa. Il diagramma «aritmetico» è sufficiente a descrivere

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il brano, a giustificarlo nel senso tipografico del termine. Per fare un esempio, Messiaen sceglie, in rapporto col dato iniziale, un certo nume­ ro di inversioni, di permutazioni privilegiate; ma svolte le inversioni, il brano sarà considerato finito. Quasi tutti i brani del Livre d’Orgue si concludono cosi, e proprio per questo terminano in modo brusco e sor­ prendente. A volte l’autore sottolinea la sua intenzione; alla fine de Les Yeux dans les Roues, scrive: «tagliare bruscamente»; alla fine del trio del secondo brano, annota espressamente: «senza rallentare». Ma che egli scriva o no, risulta chiaro che questi «pezzi» non hanno una fine, in termini retorici, ma si arrestano. La loro stretta organizzazione fa sì che essi diano l’impressione di frammenti limitati di un insieme sottinte­ so più vasto. L’inizio e la fine reali di un brano non sono veramente limiti definitivi provvisti di un prima e di un dopo. Facendo parte di un complesso più esteso che non avvertiamo, ma che esiste nell’assoluto, essi non sono se non un momento simbolico, un episodio privilegiato nell’esistenza di un grande tutto definito dai numeri in modo senz’altro più sicuro che non sia la volontà dell’autore. E noi sentiamo alcuni frammenti di un tempo globale che l’autore lascia intuire grazie al pro­ lungamento virtuale dei meccanismi che ha messi in moto momentanea­ mente per noi. Il dilemma di Messiaen sarà quello di lasciarsi andare a questa cosmogonia di numeri e di strutture, oppure di farne un elemento del proprio linguaggio, un elemento certo forte, ma che verrebbe a con­ fronto con altre fonti di invenzione. A questo fine, due sono le soluzioni possibili: o arricchire le strutture numeriche di figure ornamentali fon­ damentalmente estranee, che le evidenziano nel momento in cui le fanno dimenticare (ciò che lo stesso autore chiama cronocromia, colorire il tempo); oppure alternare le strutture numeriche calcolate con elementi spontanei, tanto più accentuando il loro carattere propriamente musica­ le, ma slegati da ogni rapporto che non sia di alternanza con elementi che si potrebbero chiamare «non musicali», o perlomeno «non esclusivamente musicali». A questo punto, si può parlare con certezza di desideri contrastanti del compositore. Egli auspica la disciplina, una disciplina che lo trascenda, che trovi riferimento in se stessa, che imponga la pro­ pria giustificazione con un ordine numerico a cui dobbiamo sottostare. Vuole, in un certo senso, decifrare a modo suo i segreti dell’universo quasi come un uomo di scienza a cui è dato di trascrivere in numeri le leggi della natura. Cosi, la composizione rifletterà un ordine trascenden­ te tramite la stretta osservanza delle leggi numeriche, ove la volontà personale non ha più luogo, si trova annientata da leggi formali superiori ad ogni disegno individuale. Ma nello stesso tempo, egli desidera espri­ mersi in modo più immediato, sentendo confusamente che queste leggi

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sono forse un mezzo per decifrare alcuni segreti, ma non sono comunque il mezzo assoluto, presentendo che al di là di un ordine formale, esiste un ordine più importante, più difficile da trovare, meno rassicurante, in quanto non suscettibile di codificazione numerica. In questo, Messiaen condivide la gioia della scoperta e l’angoscia del niente formale, la cui origine va particolarmente ricercata presso i compositori della Scuola di Vienna, che si conclude con la radicale rimessa in questione nei primi anni cinquanta. Il suo caso non è isolato, ma è degno di attenzione, dal momento che le sue precedenti opere non lasciavano prevedere un tale impegno, una tale rimessa in causa. Esaminando da vicino i mezzi musi­ cali o paramusicali attraverso cui si trasmette il dilemma al quale egli è sottoposto, si ricostituisce il conflitto tra i due sistemi di pensare, di cui sono la più evidente manifestazione. Va inoltre notato che l’invenzione di Messiaen, soprattutto nelle opere che ci interessano, si scinde strana­ mente secondo due direzioni, e che il suo formalismo inerisce molto più a tutto ciò che è organizzazione del tempo, della durata, mentre il suo vocabolario delle altezze si accorda a una libertà molto più esplicita. Lo schema dei brani «strutturali» dipenderà anzitutto da un diagramma di permutazioni, di inversioni, legate alle durate molto più che alle altezze - rette da un serialismo alquanto duttile e formalizzato in maniera piut­ tosto indecisa. Le durate, per contro, obbediscono a una scelta gerarchi­ ca restrittiva, osservano alcune leggi obbligative nell’organizzazione del loro sviluppo; predominano sulle altre componenti dell’opera, decidono altresì dell’architettura formale a cui gli altri elementi sono sottoposti. E in fondo, vediamo il linguaggio di Messiaen impegnarsi sì sulla via di nuove scoperte, ma forse non in modo totale. Messiaen non ricerca l’unificazione di tutti gli elementi della composizione, come avevano fatto alcuni suoi allievi prendendo a modello le ultime opere di Webern, e in particolare le Variazioni opus 30. Sia riguardo alla scelta della serie e delle sue diverse trasposizioni, al tipo di lavoro su alcune cellule ritmi­ che di base, al trattamento tematico, sia riguardo all’impostazione for­ male, Webern aveva cercato fermamente di dedurre tutte le possibili conseguenze da un certo numero di elementi selezionati con rigore, sca­ turiti da un pensiero tutto preso dall’unicità e dallo sviluppo organico di questi elementi. Essere andati oltre Webern è quasi un eufemismo per descrivere quello che segui; ciò che Webern aveva ereditato dalla tradi­ zione classica, la sua valorizzazione del lavoro tematico, i suoi schemi formali, tutto fu rifiutato a vantaggio di una costruzione sorta intera­ mente dalle tecniche recenti estese a tutte le componenti sonore. Cosi, sembrava, l’opera poteva essere unificata al massimo, senza che vi fosse­ ro più divergenze tra micro e macrostruttura, tra la forma finale e i suoi

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elementi iniziali. In seguito si doveva capire che una tale sintesi non era così semplice da compiere; nondimeno restava sempre, al di là di questo «grado zero» della scrittura, il desiderio di ottenere una nuova coerenza dal linguaggio musicale. Ma sembra che tali non fossero le intenzioni di Messiaen, come ha dimostrato ampiamente la sua attività ulteriore. Non solo Messiaen non era interessato all’unificazione, alla riduzione totale degli elementi mul­ tiformi del linguaggio a taluni denominatori comuni, ma lo vediamo appigliarsi alla diversità dei mezzi, alla loro eterogeneità, direi addirittu­ ra alla loro accumulazione eteroclita, se l’aggettivo non avesse un’into­ nazione negativa. Già in queste opere, come ho accennato, si nota un contrasto tra musica spontanea e musica calcolata. Ma è poi giusto parla­ re di contrasto, quando si tratta piuttosto di alternanza, di convivenza! In questo senso, non vi è pensiero meno «purista» di quello di Mes­ siaen. Un pensiero che vuole tutto assorbire, tutto utilizzare, che trova i materiali di cui ha bisogno in tutte le direzioni, che cerca nella loro diversità, nei contrasti, nelle opposizioni, e anche nella loro irriducibi­ lità una giustificazione a farli confluire in uno stesso complesso. Il com­ positore non pretende di ridurre le dissonanze o di dissimularle, ma le utilizza, creando cosi certe tensioni utili al fine che si propone, senza tut­ tavia ricorrere a una accozzaglia di oggetti grezzi, a una tecnica dell’incollare. Il suo linguaggio è sufficientemente unificante per aggregare sal­ damente componenti che tenderebbero a disperdersi. Lo si vede, a esem­ pio, quando egli piega alcune cellule ritmiche «indù» a un sistema di permutazione o ad aumenti e diminuzioni che, in origine, le sono asso­ lutamente estranee. Lo si vede anche quando parte dalla definizione me­ lodica del neuma, per adattarne le caratteristiche secondo il proprio les­ sico ritmico e dar loro cosi tutt’altra dimensione, o meglio un significa­ to diverso. Lo si vede anche nel modo con cui trascrive i canti di uccelli, che, anche se osservano un indubbio realismo, non meno obbediscono a gerarchie di intervalli che sono affini al suo proprio linguaggio armonico più che a una riproduzione letterale degli intervalli cosi come sono per­ cepiti. Potrei moltiplicare gli esempi di questa sua duplice tendenza ad accogliere oggetti o tecniche provenienti dai più diversi orizzonti sotto­ ponendoli a un trattamento stilistico radicale perché possano integrarsi, senza eccessiva difficoltà, in una concezione sintetizzante. Malgrado le apparenze, questi pochi anni della creazione di Messiaen su cui mi sono soffermato indicano dunque meno un mutamento radicale che un approfondimento di certe tecniche, una passione a scavare di­ mensioni ben definite del linguaggio musicale. Gli altri elementi del suo personale modo di esprimersi sono, in un certo senso, smorzati; e se

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compaiono meno di frequente, in modo sporadico e meno essenziale, non sono per questo meno presenti. La concentrazione del compositore su problemi precisi e per lui fondamentali in quel momento, fa si che egli sposti in secondo piano altri elementi, che però non dimentica in quanto ben presto riprenderanno un posto fondamentale e un’ampiezza rilevan­ te. Gli elementi più «calcolati» del suo pensiero arricchiranno il baga­ glio dei suoi mezzi ai quali egli non rinuncia in alcun modo, quantun­ que, per l’esattezza, non lo attiri poi tanto farne la sintesi, e addirittura non lo interessi minimamente, bastandogli una certa convergenza stili­ stica come garanzia di unità. È in questo che il pensiero di Messiaen, o piuttosto l’insieme delle sue scelte, indica la continuità della sua condot­ ta stilistica: ricerca costante di una forma composita, e scelta delle con­ dizioni più propizie per realizzarla. Quest’epoca della sua creazione non avrebbe dunque, tutto sommato, caratteristiche più notevoli delle altre. Perché allora l’abbiamo isolata? Per una scelta personale? Certamente: le preoccupazioni di quegli anni di Messiaen si coniugano molto strettamente con le mie, anche se palesi siano state, e restino ancora, le diver­ genze. Ma anche, almeno, se non più della scelta personale, interessano i sintomi di un’evoluzione generale, la presa di coscienza, in quegli anni, di una trasformazione radicale del linguaggio, delle sue strutture e dei suoi significati. Al di là di un’applicazione troppo letterale e troppo esclusiva agli aspetti tecnici di questa presa di coscienza, si ha di fronte l’avventura di un’utopia: trovare i segreti del numero, esprimere l’uni­ verso con rigore e al di là del rigore ritrovare un’essenziale libertà per esprimere se stesso. Chi potrebbe non riconoscere che i momenti più estremi, i più angosciati in questa ricerca dell’utopia suscitano opere esoteriche forse ingrate o a volte difficili, ma quanto affascinanti! Esse ci dànno l’illusione di poter infrangere, in alcuni momenti privilegiati, le «barricate misteriose» della conoscenza.

Capitolo terzo

Occasioni frammentarie

33. Berlioz: «Symphonic Fantastique» e «Lelio» .*

Se la Symphonie Fantastique è notissima, assai meno si conosce Le­ lio, quando addirittura non lo si ignora. Eppure le due opere portano un unico titolo: Episodio della vita di un artista - Symphonie Fantasti­ que e Mono dram e lyrique (Lelio o il ritorno alla vita). D’altro canto, la nota introduttiva di Berlioz precisa riguardo a Lelio: «Quest’opera deve essere ascoltata subito dopo la Symphonie Fantastique, di cui costituisce l’epilogo e il complemento». Ma questa volontà doveva poi essere assai di rado rispettata, e lo è ancor oggi. Forse per ragioni materiali? È un fatto che l’autore si mostra esigente sulle condizioni di esecuzione, preci­ sando: «L’orchestra, il coro e i cantanti invisibili devono essere posti sul teatro dietro il sipario. L’attore parla e agisce solo sul proscenio. Alla fine dell’ultimo monologo, egli esce, e il sipario, levandosi, lascia scoper­ ti tutti gli esecutori per il Finale. Di conseguenza, dovrà essere costruita una piattaforma al di sopra del posto occupato di solito nei teatri dall’or­ chestra». Senonché bastano queste difficoltà di esecuzione per fare di Lelio un parente povero della Fantastique! Alle ragioni musicali non è dovuto in buona parte il suo esilio dalle sale di concerto? A questo punto, occorre porsi il problema del genio di Berlioz: un genio che sfugge spesso alle classificazioni, che — mosso probabilmente dal ricordo delle musiche spettacolari della rivoluzione - ricerca quasi sempre la «singolarità». Voglio dire la singolarità -fìsica. In quasi tutte le opere di Berlioz, il concerto è legato al fenomeno drammatico, se non al teatro stesso. Il musicista sente la necessità dei gesti, manifestati dalla topografia della sua orchestra. Nella Fantastique è l’oboe che fa da eco al corno inglese; in Harold en Italie il trio per archi richiama di lontano la Marche des pèlerins\ senza parlare del Requiem e delle altre opere gi­ gantesche destinate a colpire l’immaginazione. A questo proposito, non vi è lettura più rivelatrice della descrizione dell’orchestra immaginaria Copertina del disco CBS 32 B I 0010.

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posta alla fine del trattato di strumentazione. L’elenco degli strumenti comporta, tra l’altro, 120 violini, 30 arpe, 30 pianoforti... e 4 padiglioni cinesi! Berlioz descrive minuziosamente tutto quello che si potrebbe fare con questi 827 elementi (per l’esattezza 467 strumentisti e 360 coristi). Ma quante volte questa invenzione, che va al di là del concetto musicale per colpire l’immaginazione col gesto teatrale, è stata rimproverata a Berlioz! Dallo stesso Wagner, e da molti altri dopo di lui, che preferi­ scono contentarsi dei tre tromboni di Mozart alla fine del Don Giovanni, Beninteso, la sua dimostrazione cosi forzata, la «dismisura» non pos­ sono mancare di infastidire, di irritare quegli ascoltatori che a teatro ac­ cettano tuttavia soluzioni anche molto più vistose di quella proposta da Berlioz. L’accumulo, l’effetto, l’impostazione non sostituiranno mai la sostanza, l’interiorità. Ma non è soltanto un modo di sfiorare il caso Berlioz quello di non vedere nella sua musica una costante mescolanza tra la teatralità del gesto e la sostanza del suo fare? Quello che mi colpisce è appunto che, per lui, il concerto c il teatro non hanno confini precisi e che al limite - come appunto nella Fantastique e in Lelio - Vautobiografia è l’elemento che consente l’osmosi della «musica» con la «rappresentazione». Nei due casi, tuttavia, l’autobiografia gioca un ruolo molto diverso, ed è fondamentale ascoltare le due opere in una sola ripresa per poterne giudicare e apprezzare l’importanza. Nella Fantastique, l’autobiografia si sovrappone ai movimenti di una sinfonia: se dà un significato preciso, individuale, alle idee musicali e ai loro sviluppi, se ne accentua la forza poetica, non dà in alcun modo un senso alla forma dell’opera, specificamente musicale. L’argomento autobiografico potrebbe non esistere, e nondimeno ascolteremmo una sinfonia - con tutte le esigenze implicite nella correlazione dei movimenti: Allegro, Valzer (sorta di Scherzo), movimento lento, Intermezzo (Marcia), Finale. La necessità di svolgi­ mento è innanzitutto d’ordine musicale; la trama autobiografica si so­ vrappone allo svolgimento, non lo coordina. Si sarebbe tentati di dire che l’argomento segue la sinfonia, piuttosto che la sinfonia si pieghi all’argomento. In Lelio, al contrario, è proprio l’argomento che impone lo svolgi­ mento. Perché? Berlioz si trova davanti a «pezzi separati» composti a vari anni di distanza con uno spirito molto diverso. Come può creare l’unità? L'idea fissa non torna se non due volte nel suo monodramma, all’inizio e alla fine come «citazione», mentre interviene in tutti i movi­ menti della Fantastique — in modo quanto mai artificioso, è vero, e quasi anche come «citazione», nel Bai e nella Marche au supplice, movimenti di cui si sa che furono composti indipendentemente. Ma se l'idea fissa,

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musicale, non coordina più la narrazione, diviene allora indispensabile inserire l’autobiografia con un altro mezzo: l’attore. È l’attore, che im­ persona questa volta il compositore, il quale, con la sola descrizione del­ la sua esistenza, dei suoi stati d’animo, può correlare i brani sparsi fa­ cendoli obbedire a una logica diversa da quella musicale, una logica del tempo e dell’esperienza. Con questa astuzia insieme ingenua e geniale, Berlioz riesce a sublimare l’amalgama di ciò che nel gergo di mestiere verrebbero chiamati i «fondi di cassetto». (Se Bach se ne serviva in altro modo «travasando» lo stesso brano da cantata a cantata, non è meno vero che i moventi erano più o meno gli stessi...) Per questo, l’impudenza con cui Berlioz si serve del gesto teatrale, contraddicendo cosi apertamente il «buon gusto» francese, ci appare spesso il motivo fondamentale della sua creazione. Ma sarebbero da considerare ben altri aspetti della psicologia di Ber­ lioz compositore. Le principali lamentele, generalmente inconsce, dei musicisti che sopportano a mala pena la sua opera, sono dovute a un’in­ comprensione fondamentale: non ammettono il gesto autobiografico, rifiutano l’osmosi del teatro col concerto. L’opera di Berlioz, da questo punto di vista, è un «paese senza frontiere», e ciò resta probabilmente la sua più irriducibile novità. Nella Tantastique, il teatro è immaginario, in Lelio incarnato. Di questa visione tipicamente romantica - che si collega al romanti­ cismo tedesco più inquieto -, di questa confusione volontaria tra reale e immaginario, Berlioz fu, in musica, l’iniziatore. Ecco perché tornare su altri punti discutibili e discussi, non presenta quasi interesse: si conti­ nuerà sempre a lamentarsi delle sue incapacità (armoniche o formali) e delle sue capacità (orchestrali o ritmiche). Ma non si può fare a meno di vedere a quale grado di necessità, egli, ed egli soltanto, si avvicini a Beethoven e a Wagner — anello «spettacolare» tra il compositore sinfo­ nico e il compositore di teatro per eccellenza. Nella Scène aux Champs, il corno inglese rammemora il passato della Pastorale e insieme l’avvenire di T'ristano. Mentre le sue preoccupazioni profonde trascinano Berlioz su una strada che né l’uno né l’altro hanno mai percorsa.

34. Mahler: «Das Klagende Lied» .* Sin da questa prima importante opera di Gustav Mahler vengono alla luce talune caratteristiche che non verranno mai meno, ma che anzi si Copertina del disco CBS .577233.

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preciseranno dando del compositore quel volto che oggi ci è familiare. In Das Klagende Lied, si impongono subito due tipi di qualità: la dimen­ sione epica e, sul piano del mestiere, la sicurezza strumentale. Anche se la sapienza del maestro in questi due campi non raggiunge ancora l’esito assoluto delle opere più tarde, ciò nondimeno sorprende che la persona­ lità di Mahler vi si riveli nella compenetrazione così rara del tecnico e del visionario. Si prenda intanto la dimensione epica. È significativo che Mahler ricorra a un testo poetico nel momento in cui ogni forma ereditata dal passato sinfonico lo lascia insoddisfatto. Il suo bisogno di confessione, e il suo desiderio di comunicare all’istante gli fanno rifiutare gli schemi formali in cui è d’obbligo, sul piano architettonico, «ripetersi». Se è vero, come ha sottolineato Richard Strauss, che dopo Wagner la forma musicale ha scelto di spingersi verso il futuro, il divenire, se è vero, dunque, che il ritorno indietro, il confronto col passato, una volta neces­ sari alla comprensione di un’opera e della sua architettura, sono stati aboliti, Mahler ha immediatamente fatto fronte a questa nuova situazio­ ne storica tendendo con tutte le sue forze verso un «continuum» musica­ le. I richiami di temi non sono, per essere esatti, ripetizioni, ma piutto­ sto riferimenti collocati drammaticamente in punti di congiunzione im­ portanti: e possono consentirci di seguire l’opera, come, in un romanzo, si aderisce ai personaggi i cui interventi determinano l’azione, e ne sono, per così dire, la trama. In Mahler, sin dai suoi esordi, la forma musicale ricorda l’epopea e il romanzo. Mahler «racconta in musica». Quando il testo letterario funge da substrato all’universo sonoro, questo è evidente, e lo stesso accade, tuttavia, allorché la musica rinuncia al supporto poetico verbale. Al di là dell’epopea e del romanzo, l’opera mahleriana dà vita talvolta a un tea­ tro immaginario, con veri e propri effetti scenici riferiti al concerto. Ne è una testimonianza, in Das Klagende Lied, l’orchestra a fiati posta nel retropalco, con l’effetto naturalistico espressamente voluto dall’autore, che i musicisti devono suonare fortissimo — con la qualità di suono supposta da questa dinamica - ma si devono sentire nella gradazione piano. Oltre che in Berlioz (senza dimenticare Wagner), il gesto teatrale di Mahler trae origine da Leonora. Anche il testo ci indica una palese affinità. Sul finire del xix secolo, Mahler cerca di ritrovare, per il tramite dell’ingenuità, le stesse fonti del romanticismo tedesco; fa ricorso al racconto o alla leggenda popolare, che da Arnim e Brentano, sono stati il filo conduttore di una certa visione romantica. Tutto lascia presagire l’impiego futuro del Des Knaben Wunderhorn. Questo ricorso alle origini implica la nostalgia di un

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paradiso perduto al tempo stesso che un’ingenuità calcolata nel volere ripercorrerne le tracce. Nel testo, al pari che nella musica, è profonda la preoccupazione di integrare all’espressione dotta, acquisita, l’espres­ sione popolare diretta. Ciò è avvertibile nel lessico letterario e musicale. Di qui l’aspetto «arcaicizzante» di certi passaggi, opposto al «moder­ nismo» di certi altri. Inoltre, costante tipica della sensibilità e dell’immaginazione di Mah­ ler, il meraviglioso si mescola al macabro, il tragico alla derisione; la poesia, sovente triste e inquieta, tutta interiore, ha come degli scarti emotivi: si inarca nell’evocare l’orrore, ma si compiace di provocarlo. Se i tratti sono accentuati, sono però perfettamente riconoscibili, e si rife­ riscono a un passato struggente della letteratura tedesca. La musica registra febbrilmente le oscillazioni, a volte estreme, della sensibilità — col rischio qualche volta di sfiorare la magniloquenza teatrale — dato che l’amplificazione del gesto è considerata necessaria per meglio colpire, se non per convincere. Quanto all’aspetto più propriamente tecnico dello spirito, è stupefa­ cente constatare, soprattutto in un musicista giovanissimo, una cosi alta abilità nel maneggiare masse orchestrali e corali. È un dono assoluto: alcuni compositori ne dànno prova sin dai loro primi atti, anche quelli che l’esistenza non ha ancora messo in contatto con la pratica musicale quotidiana. Mahler mostra di possedere in quest’opera un’acuta cono­ scenza del timbro e un’intuizione geniale del suo «rendimento». Benin­ teso, la sua orchestrazione è tributaria dei modelli realizzati dai suoi predecessori, e dovremo ancora attendere qualche tempo per vedere apparire tutta una serie di audacie di sorprendente sicurezza: ma già constatiamo la perfetta trasmissione dell’idea musicale mediante la ma­ teria strumentale. Se i solisti assumono anzitutto la narrazione, il coro si vede attribuire il commento verbale che assicura il passaggio tra narra­ zione e commento strumentale. I piani sono chiaramente stabiliti, cosi come la funzione riservata a ciascun partecipante all’epopea. Questa prima epopea mahleriana ci rende consapevoli degli sviluppi e delle implicazioni future. Il grande romanzo è abbozzato: sta a noi decifrarne i capitoli secondo le opere a venire. Vi sono cosi alcuni creato­ ri il cui potere trae origine da un’unica fonte per poi ampliarsi secon­ do dati costanti: e Mahler mi sembra uno di questi.

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35. Debussy: l'opera per orchestra .* Ad eccezione di Iberia, le Images per orchestra restano ancora igno­ rate e non si eseguono quasi mai né Gigues né Rondes de Printemps. I tre spartiti sono considerati come un trittico folcloristico ove l’immaginazione in declino di un Debussy in perdita di velocità avrebbe fatto ricorso ad alcuni temi di ispirazione popolare per tentare di ritrovare uno slancio ormai perduto. In genere, le critiche sono quelle di un acca­ demismo prodotto dall’esaurimento, dall’invenzione svigorita, e in nega­ tivo si istituisce un confronto con le opere precedenti, e in particolare con La Mer. È vero che il progetto di costruire un ciclo sul colore tipico di tre paesi diversi: la Scozia (Gigues), la Spagna (Iberia), la Francia (Rondes de Printemps), può sorprendere in un musicista come Debussy, di cui si conoscono i giudizi talvolta taglienti su certi modi di sfruttare il folclo­ re... Debussy era quanto mai consapevole che le melodie popolari raccol­ te all’ultimo stadio della loro vitalità, non si prestano a sviluppi sinfonici - come troppo si tendeva allora a fare in Francia nell’ambiente di Vin­ cent d’Indy e della Schola Cantorum. Non basta, sosteneva Debussy, vestire a festa figure paesane, che non c’entrano, solo per giustificare la loro presenza nella «festa sinfonica»: esse si sentiranno goffe in un simile consorzio. Nondimeno, si può constatare come l’ispirazione «spagnola» perman­ ga nella musica francese dopo la Carmen di Bizet, in un modo che non può non ricordare la predilezione di Manet per Goya. Da Chabrier a Ravel, numerosi sono i brani a carattere iberico di cui è superfluo ricor­ dare i titoli. Anche in Debussy è manifesta la persistenza di questa ispirazione, se è vero che tra le Estampes per piano si annoverano La Soirée dans Grenade, e nei Preludes sempre per piano La Puerta del vino, e da ultimo Lindaraja per due piani. Per quanto concerne la Scozia, non abbiamo se non una ben misera Marche écossaise come unico riferimento. Quanto alla Francia, essa è rappresentata dai Jardins sous la pluie - che utilizza, del resto, la stessa canzone popolare: Nous riirons plus au bois. L’aspetto «folcloristico» di Debussy non è, come si vede, tipico delle Images, anzi non è mai stato sistematicamente coltivato. Viene da chiedersi se Debussy non sia stato più o meno consapevole della stranezza (per quanto lo riguarda) di questa mancanza di sistema. Testo del cofanetto Columbia D 3M-32988.

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La composizione delle tre Images si estende, in effetto, su un periodo piuttosto lungo: se Iberia, tutto sommato, sembra composta molto «ra­ pidamente» e naturalmente, Gigues e Rondes de Printemps devono avere progressivamente perduto d’interesse per l’autore. E un biografo scrupoloso, come Leon Vallas, afferma che Gigues fu terminata da An­ dré Caplet. Alcune date. La composizione delle Images si colloca tra il 1906 e il 1912; l’ordine di pubblicazione non corrisponde a quello di composizio­ ne. La seconda delle Images, Iberia, fu presentata per la prima volta al pubblico il 20 febbraio 1910; la terza, Rondes de Printemps, fu eseguita qualche giorno dopo, il 2 marzo 1910. Quanto a Gigues, il brano, iniziato nel 1909, fu terminato e orche­ strato, secondo Léon Vallas, solo nel 1912, e suonato il 26 gennaio del 1913. A questo proposito, ci si chiede spesso in quale ordine bisogna farli succedere in concerto, allorché vengono suonati tutti e tre. La solu­ zione più semplice consiste, naturalmente, nell’attenersi all’ordine del­ l’edizione, probabilmente voluto dall’autore. Quest’ordine soddisfa in linea di massima, dato che Gigues e Rondes de Printemps, di breve du­ rata e in un solo movimento, inquadrano la più lunga «image», Iberia, composta di tre movimenti. Questa simmetria di principio mi sembra tuttavia contraria alla compiutezza musicale costituita dalla perorazione di Iberia, dopo la quale la conclusione delle Rondes de Printemps non può avere l’effetto se non di una ripetizione più sbiadita. Per il concerto la successione più logica mi sembra Rondes de Printemps, Gigues, Ibe­ ria. Senonché questo punto di vista adatto al concerto, non ha niente a che vedere con la disposizione adottata per il disco nel quale per ragioni di equilibrio si sono opposte a Iberia le due brevi Images. In Iberia, la colorazione spagnola svolge una funzione ben definita; tra l’altro, nella scelta di alcuni strumenti: percussione «tipica», come cembalo e nacchere. Diversi ritmi, d’altra parte, o meglio diverse se­ quenze ritmiche sono testualmente riprese dal folclore spagnolo, come, del resto, alcune inflessioni melodiche. Ma di questo si potrebbe dire quello che lo stesso Debussy diceva di Albéniz, e che Léon Vallas, nella sua biografia, opportunamente cita: «Senza riprendere esattamente i te­ mi popolari, è certo che egli li ha assorbiti, sentiti, fino a farli passare nella sua musica, senza che ci si possa accorgere della linea di demarcazione». Ciò che più mi attrae in quest’opera, a dire il vero, non è tanto lo spagnolismo di cui è impregnata (tutto sommato non più importante dell’Asia di Pagodes'}, quanto piuttosto la libertà d’invenzione sinfonica a partire dagli elementi di base scelti in questo contesto. In particolare, considero il secondo movimento, i Parfums de la nuit, uno dei più inven­

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tivi che Debussy abbia mai scritti — non tanto per i temi incontrati quanto per una maniera inedita di «creare» lo svolgimento, di fare evolvere la sonorità orchestrale tramite la raffinatezza delle transizioni; in questa musica, anche se i temi ricompaiono, non si torna mai indietro: tutto vi appare come uno stato superiore, compiuto, dell’improvvisazio­ ne tanto la sicurezza dell’invenzione si rivela dominata, tanto essa può, allora, fare a meno di schemi formali troppo facilmente riconoscibili. Quest’arte della transizione è particolarmente avvertibile tra il secondo e il terzo movimento di Iberia: i Parfums de la nuit si riassorbono progressivamente, mentre si precisano a poco a poco gli elementi soprat­ tutto ritmici del Matin d’un jour de fé te. Lo stesso Debussy, come testimonia la sua corrispondenza, si mostrava particolarmente soddisfat­ to di questo passaggio sottile dall’ombra alla luce.

Cosi, a mio modo di vedere, anche l’ispirazione scozzese non è l’ele­ mento piu significativo di Gigues, che vedo molto di più nell’oscillazione da una melopea lenta a un ritmo sostenuto; un’oscillazione che potrei anche dire coincidenza, giacché, quando i due elementi si sovrappongo­ no, dànno l’impressione — quanto mai rara — di una respirazione duplice. Il timbro svolge una funzione fondamentale nella separazione dei piani sonori; e che il tema lento dell’esordio sia affidato esclusivamente agli oboe d’amore, contribuisce a isolarlo nella nostra percezione. L’oboe d’amore non ha soltanto un bel timbro, raro, finalizzato a ricordarci il bag pipe, perfettamente adatto all’espressione di questa musica iniziale, ma ci fa anche prendere coscienza che il tempo di questa melodia non può essere «sviato» in un altro tempo dall’apparizione di altre figure. Delle Rondes de Printemps si può osservare che esse riprendono un ritmo molto particolare di Debussy, un ritmo a 5 tempi a divisione ternaria, in note ripetute, ritmo che troviamo episodicamente nel secon­ do Notturno, Fétes. Il carattere francese del brano è certamente meno evidente a orecchie straniere, è completamente assorbito, suppongo, dal­ la personalità di Debussy, senza lasciar posto all’«esotismo». Le diverse presentazioni della canzone popolare Nous n'irons plus au bois non costituiscono, a dire il vero, l’elemento più notevole del brano, e viene da credere che l’invenzione di Debussy si muova con maggiore libertà quando meno egli si preoccupa dell’esattezza delle proprie «citazioni». Le Danses per arpa e orchestra a corde sono, come si dice, un’opera di circostanza, dovuta a una circostanza. Furono, infatti, scritte per l’arpa cromatica, di cui la casa Pleyel voleva diffondere l’uso, per fare concor­ renza all’arpa a pedali allora in esclusiva della Erard. Si pensava che

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questo tipo di arpa evitasse l’inconveniente dei frequenti cambi di peda­ le che si fanno sempre piu acrobatici via via che la musica volge al cromatismo; ma le difficoltà rappresentate dall’aumento del numero del­ le corde non hanno consentito a questo strumento di sopravvivere a lungo. La prima audizione ebbe luogo il 6 novembre 1904. Adesso il brano viene suonato sull’arpa a pedali: la sua realizzazione su uno stru­ mento per il quale non è stato originariamente concepito non offre osta­ coli maggiori. Anzitutto, perché quest’opera è almeno tanto diatonica quanto cromatica; la Danse sacrée appare persino volutamente «arcaica» - una tendenza che ritroviamo nelle Trois Ballades de Villon, o in certi preludi per piano (Danseuses de Delphes). L’arpa è trattata come stru­ mento solista, essendo sobrio il sostegno dell’orchestra d’archi, nella rea­ lizzazione musicale come in quella sonora. Solo in questo senso, si può ricollegare quest’opera alla scrittura concertante dell’epoca barocca in cui «l’orchestra» accompagna il solista piu che non dialoghi con lui, co­ me era stato il fine di tutta la letteratura romantica. Il brano illustra il permanere di certi temi d’ispirazione in tutta la letteratura debussiana, e ce li mostra sotto un aspetto diretto, in «prima istanza». Scrivere sui Notturni, dopo quanto è stato detto dallo stesso De­ bussy, appare superfluo, e addirittura futile. Egli ha definito la propria poetica meglio di chiunque altro, e in termini che restano presenti alla memoria di chi li ha letti. Non mi porrò dunque essenzialmente su questo terreno per presenta­ re quest’opera, che con UAprès-midi d’un Faune, costituisce da un pun­ to di vista orchestrale il primo pannello di un trittico del quale La Mer e ]eux costituiscono gli altri due. Studiando il trittico, si può seguire chiaramente l’evoluzione di De­ bussy, la sua evoluzione riguardo alla composizione come riguardo al­ l’orchestra; si possono anche osservare le costanti, sorprendenti, delle sue idee musicali e strumentali. Diciamo che la derivazione da Nuages e L’Après-midi è particolarmente flagrante nella parte centrale di questo primo Notturno: le stesse inflessioni melodiche, quasi testuali, vi sono attribuite allo stesso strumento, il flauto. Nel terzo Notturno, Sirènes, l’appello di trombe, più volte ripetuto, denota un’innegabile affinità con l’appello di tromba all’inizio della Mer, ripetuto a sua volta nel corso dell’opera. (Notiamo peraltro che il motivo affidato al corno inglese in Nuages è molto vicino al motivo di tromba in Sirènes). Nel secondo Notturno, Fètes, anche se più «indipendente», risulta ugualmente una figura destinata alle corde e ai legni — a cinque tempi - estremamente vicina a una figurazione affine in Rondes de Printemps.

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E ciò prova, se occorre, una costante nell’immaginazione di Debussy, un’evidente derivazione da un’opera all’altra. Il compositore tratta l’orchestra in maniera brillante — ma anche se la strada è quella, le raffinatezze di Jeux sono ancora lontane. In ogni modo, la forma è semplicissima e quanto mai chiara. Nuages e Fétes seguono lo stesso schema simmetrico, mentre Sirènes presenta una maggiore dissimmetria e complessità. La semplicità della scrittura orchestrale non deve peraltro ingannarci sulla sua sapienza. Per Sirènes abbiamo una testimonianza. Alcune di­ vergenze esistono tra i vecchi spartiti e la versione rivista dall’autore dopo le prime esecuzioni (sfortunatamente, divergenze non mancano talvolta anche nelle parti orchestrali, il che non facilita il lavoro dei musicisti e neppure quello del direttore d’orchestra). In occasione di un’esecuzione negli Stati Uniti, mi è capitato di dover confrontare questa prima versione con l’attuale spartito che reca gli emendamenti dell’autore, e dove Debussy ha sempre sfrondato per ren­ dere la sonorità dell’orchestra più chiara, più trasparente: le imbottiture inutili sono scomparse, le figure si sono alleggerite o sono state trascritte in modo più appropriato. Altro motivo di stupore e di ammirazione: l’apparente facilità della composizione musicale, dell’adattamento dei temi. Una prova indubita­ bile si ha in Fétes ove si sentono, uno dopo l’altro, un tema di farandola, di giga, poi una fanfara - in apparenza senza rapporto uno con l’altro. Addirittura, la prima volta che si sente sotto la farandola il primo an­ nuncio di fanfara, esso sembra completamente estraneo al suo contorno. Ma quando la fanfara raggiunge il punto culminante, la farandola vi si arrotola con le sue volute in un modo così naturalmente atteso che non pensiamo a questa simbiosi se non con uno sforzo di riflessione. In Sirènes, Debussy integra agli strumenti alcune voci femminili, meramente vocalizzate — messe lì per arricchire il colore orchestrale. Salvo alcune indicazioni a bocca chiusa, niente è detto a proposito della o delle vocali su cui vocalizzare a bocca aperta. In questa circostanza, non mi sono concesso una libertà col testo, ma mi sono permesso di utilizzare diversi toni di vocali (ou, o, a) che si accordano col colore strumentale, e anche con la gradazione generale dell’orchestra. Penso infatti che voca­ lizzare esclusivamente sulla vocale riduca stranamente i registri del colo­ re e della dinamica, e generi una certa monotonia, per non dire una certa insipidezza, a paragone con la ricchezza dell’intreccio strumentale. E siccome, ripeto, non vi è nessuna indicazione segnata espressamente nello spartito, non penso che un’iniziativa di questo genere sia in con­ traddizione col testo musicale.

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Nell’opera completa di un compositore, i titoli comunemente adotta­ ti sono: opere principali; opere secondarie o minori; opere giovanili. È questa una classificazione oltremodo comoda... ma bisogna ammettere che è giustificata dai fatti. Devo dire che le opere secondarie o minori, e anche le opere giovanili, di un compositore maggiore m’interessano spes­ so di più delle opere principali di un compositore minore! Senza dubbio vi è un eccesso di concentrazione nella mia curiosità. Ma non posso fare a meno di rilevare che un grande compositore si manifesta anche — e in modo quanto mai affascinante — in certe opere che sono come dei ritratti di famiglia, delle istantanee, in rapporto ai grandi ritratti di parata.

Questo si può dire della Rhapsodie per clarinetto e di Rrintemps. La Rhapsodie per clarinetto è un’opera di circostanza, scritta per un concorso al Conservatorio di Parigi. È raro che pezzi di concorso diano prova di tanta grazia e poesia. Esitante dalla fantasticheria allo scherzo, si deve parlare proprio di un Debussy familiare. Il virtuosismo non si mostra nella gloria delle sue prodezze; ma predispone con ironia tutta una serie di trabocchetti per il solista, che, d’altronde, può mostrare l’eccellenza della propria sonorità e del fraseggio nel corso di melodie «fantasiosamente lente». Rrintemps è, senza dubbio, un’opera «giovanile». Pure vi si può vedere la genesi di certe ispirazioni più tarde e più chiaramente realizza­ te. E anche se lo sentiamo ancora sotto influenze transitorie, a volte datate, il genio armonico di Debussy vi si rivela sotto un tratto inconte­ stabilmente personale, specie nel primo movimento. Quando sento Rrin­ temps , non posso fare a meno di pensare alle Remmes dans le jardin di Monet. Le due opere racchiudono la stessa freschezza, lo stesso can­ dore, una sorta di felicità di muovere alla scoperta del proprio io.

36. Igor Stravinskij: «L'uccello di fuoco» .*

Oggi, L'uccello di fuoco ci appare inseparabile dalla fama nascente dei Balletti Russi e di Stravinskij. Il balletto fu eseguito per la prima vol­ ta all’Opéra di Parigi il 25 giugno 1910, tra la più viva attenzione del * Copertina del disco Columbia 7206.

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mondo musicale: anche se i balletti successivi, Petruska e La sagra della Primavera, superarono, ogni volta, come si suol dire, tutte le previsioni degli osservatori più attenti! Le tre opere, che si possono paragonare a tre voli di danzatori, fondarono «storicamente» il prestigio e l’impor­ tanza di Stravinskij nella musica del xx secolo. Se La sagra della Prima­ vera è certamente il volo più prodigioso, resta altrettanto vero che al primo colpo L’uccello di fuoco fu un vero colpo da maestro. Che vi si riveli l’influenza di Rimskij-Korsakov, specialmente del Gallo d’oro, è stato detto e ripetuto molte volte; ma ciò non toglie che quest’opera dimostri un’originalità tanto più sorprendente alla distanza. È impossi­ bile non riconoscervi la giovinezza di un genio musicale, e, a mio giudi­ zio, proprio questa giovinezza, al contrario di quanto si continua a dire, costituisce l’aspetto più affascinante dello spartito. La sapienza orchestrale vi si afferma con un vigore e una freschezza comparabili solo alla Symphonic Pantastique (per quanto non ignori che Stravinskij non amava particolarmente Berlioz...) E sarei tentato di dire che la modernità dell’orchestrazione del xix secolo si sia rivelata nella Symphonie Pantastique, cosi come si è rivelata neWUccello di fuoco. Ciò che in entrambi i casi viene alla luce è un virtuosismo innato, comune tanto all’uno quanto all’altro compositore, segno manifesto del loro ge­ nio poetico. Questo spiega perché, in fondo, la mia scelta sia caduta sulla versione originale, che mi sembrava indissolubilmente legata al pensiero musicale che le ha dato vita (forse lo stesso Stravinskij fu maggiormente soddi­ sfatto dal controllo più rigoroso imposto alle altre versioni, ma io spero che egli avrebbe consentito che il mio punto di vista non coincidesse perfettamente col suo. Sono convinto, magari a titolo personale, che il compositore propone e gli ascoltatori dispongono...) La versione che qui si presenta comporta cinque movimenti: i ) Introduzione, il giardino incantato di Kastceij, Apparizione e dan­ za dell’Uccello di fuoco; 2) Suppliche dell’Uccello di fuoco; 3) Gioco delle principesse con le mele d’oro; 4) Girotondo delle principesse; 5) Danza infernale dei sudditi di Kastceij. La sequenza non comporta la Ninnananna e il Finale, il che potrà sorprendere quanti hanno l’abitudine di ascoltare l’altra versione. È legittimo pensare che Stravinskij, a quell’epoca, avesse preferito termi­ nare con la brutalità della Danza infernale piuttosto che con l’apoteosi che chiude il balletto.

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Sin dalla prima pagina, lo stile armonico di Stravinskij appare defini­ tivamente personale: in un equilibrio funambolico, gli intervalli si ap­ pollaiano da una dominante all’altra, se mi si consente di mutuare un paragone dal vocabolario degli uccelli.. Naturalmente, vi sono momenti più tradizionali; ma anche in questi, la modalità, a risonanza più o meno «esotica», dà una intonazione particolarissima, che non è soltanto russa, ma anche stravinskijana. L’energia ritmica dell’autore e la costruzione cosi particolare delle sue frasi vi sono già proposte quali accenni degli sviluppi futuri che dovevano rinnovare categoricamente la musica del xx secolo. Basti come prova - col Principe Igor in filigrana — la Danza infernale di Kastceij. L’energia, vorrei dire l’energetica, di certi passaggi della Sagra vi si ritrovano immediatamente. Caratteristiche, del resto, dell’aggressività ritmica sono le indicazioni di movimenti: quali, allegro feroce o allegro rapace. Vedo, in effetti, neXVlJccello di fuoco una specie di avidità a impa­ dronirsi della musica già esistente per tramutarla in un oggetto aggressi­ vamente personale. Questa violenza a impossessarsi della musica per trasformarne rapidamente l’aspetto e la figura, questa giovinezza nell’esproprio sono quanto mai avvertibili, tanto più avvertibili in quanto vediamo chiaramente i precedenti storici che hanno dato vita alla sostan­ za musicale. Siamo dunque perfettamente in grado di apprezzare la viva­ cità con cui il fermento di un pensiero creatore ha intrapreso il suo lavoro iniziale.

37. La congiunzione StravinskijfWebern .* Non si può negare che l’attualità esista. Ma a che serve poi questa curiosità a fior di testa? In più, la flessibilità del termine «congiunzione» consentirà di coltivare qualche fiore retorico e di comporre un elegante mazzo di spine. Cosi si potrà far ricorso alla disinvoltura per dare addos­ so a quanti esercitano il mestiere di pensare. Costoro ripartiscono le attività in gerarchie rigide e bloccate, alla maniera dei militari che non sono stati promossi; e quando affiora un sentore di cataclisma, restano come stupefatti, sentendo come un oltrag­ gio quest’attentato alla loro concezione del formicaio. Tutti i pretesti sono leciti per stigmatizzare la vittima anatomica! La sua età - giovane o vecchio; le sue facoltà - eccesso di adattamento, eccesso di isolamento; i suoi affini, e la loro influenza malefica o rovinosa. In una parola, a narici * Copertina del disco Véga C 30 A 120.

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spiegate, si annusano vecchi tanfi, giacché queste frenetiche stregonerie fanno provare a chi le pratica una furiosa frenesia di farsi bollire nel grande paiolo dell’inibizione. Ma ecco farsi avanti il contingente dei risparmiati: il loro sorriso feroce di serena derisione stigmatizza un incauto che calpesta i loro marmi e i loro avori. Se poi le loro narici si dilatano, ciò che vi è in gioco, più che una collera dolorosa e virtuosa, è una sorta d’insopprimibile nausea provocata dal sudore altrui. Come non scusare la delicatezza del loro odorato? Essi sono in una perpetua gravidanza isterica, senza parto­ rire. Davanti a una congiunzione sta l’altra congiunzione, e la mediocrità della seconda si controbilancia col livello della prima. Ammettiamo pure che si deve subire l’attualità.

Stravinskij-Bach: variazioni sul corale von Himmel Hoch.

Sono le famose variazioni canoniche per organo che Bach scrisse nel 1714 per essere ammesso alla Sozietàt der musikalischen Wissenschaften fondata da Mizler, di cui facevano già parte Telemann e Haendel. L’opera pone in risalto tutta la sua sapienza contrappuntistica, dato che il contrappunto diviene la base stessa e lo statuto della composizione. Nel testo originale, le variazioni - senza il corale - si succedono nello stesso tono di do maggiore, e ognuna di esse presenta una difficoltà o una complessità continuamente accresciuta del principio canonico. Questa scrittura di virtuoso riveste un alto significato che la colloca accanto alle Variazioni Goldberg, aWOfferta musicale e alTArte della juga che costi­ tuiscono, come si suol dire, la Summa Contrappuntistica di Bach. Molto meno conosciuta delle altre tre, è una fortuna che l’orchestrazione di Stravinskij contribuisca a farle ascoltare più spesso. Dalle notizie fornite da Robert Craft (a cui l’opera è dedicata), il lavoro di Stravinskij fu condotto rapidamente a termine tra la fine del dicembre 1955 e i primi di febbraio del 1956. Nell’opera di Bach vi sono cinque variazioni: Variazione Variazione Variazione Variazione Variazione

I II III IV V

In canone all’Octava. Alio modo in canone alla Quinta. In canone alla Septima. In canone all’Octava per augmentationem. L’altra sorte del canone al rovescio: alla Sesta, alla Terza, alla Seconda, alla Nona.

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Stravinskij le ha orchestrate per Legni (senza Clarinetti), Ottoni, Vio­ le, Contrabbassi e coro, essendo la funzione del coro quella di sostenere ogni volta il Cantus Pirmus. Inoltre, le ha fatte precedere dallo stesso co­ rale, suonato dagli Ottoni. Infine ha dato all’opera il piano tonale seguen­ te: Do, Sol, Re bemolle, Sol, Do, secondo le cinque variazioni; l’inten­ zione strumentale e vocale è una delle principali ragioni di questo piano non previsto da Bach. Sarebbe troppo lungo elencare nei particolari le poche aggiunte ap­ portate da Stravinskij al testo originale. Esse possono avere un fine strumentale o acustico, un problema che è necessario risolvere se si passa dall’organo all’orchestra; possono anche porre l’accento sulla struttura canonica già esistente rafforzandola con altri contrappunti di uguale natura. Dell’omaggio cosi reso, possiamo dare significato e importanza con­ frontandolo a quelle «copie» che i pittori facevano dei quadri di antichi maestri. Come a dire che non bisogna cercarvi una «strumentazione» — cosa che Bach avrebbe potuto fare — ma una personalità innestata in un’altra. Del resto, Stravinskij non ha aggiunto sotto il suo nome, in cal­ ce al manoscritto: «Mit der Genehmigung des Meisters»? [Con l’appro­ vazione del Maestro]. Stravinskij: Cantìcum Sacrum ad honorem Sancti Mar­ cì nominis.

Scritta per essere rappresentata nella Basilica di San Marco a Vene­ zia, l’opera mette insieme un Tenore e un Baritono solisti, un coro e un’orchestra. L’orchestra comporta alcuni Legni (senza Clarinetti), Ot­ toni (di cui una Tromba bassa e un Trombone contrabbasso), un Orga­ no, un’Arpa, Viole e Contrabbassi. L’assenza di violini e violoncelli conferisce un colore particolarmente opaco, privo di ogni sfavillio, al­ l’orchestra d’archi. Dopo una dedica alla città di Venezia, il Cantìcum Sacrum si svolge in cinque parti secondo un’architettura cui conviene accennare. Il primo e il quinto brano, analoghi, sono di un solido stile armonico - affini alla Symphonic de Psaumes e mirano a un effetto massiccio per inquadrare le tre mansioni interne più finemente elaborate: Assolo di Tenore, trittico a gloria delle tre Virtù Teologali, centro dell’opera, infine Assolo di Baritono con responsorio del coro. Questa architettura è manifestamen­ te simbolica, in quanto richiama le cinque cupole della Basilica: inoltre vi è una stretta connessione tra la forma musicale e l’argomento su cui si svolge.

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La prima parte descrive la volontà di Dio, la seconda il suo compi­ mento: cosi musicalmente costituiscono il palindromo Puna dell’altra, indicando, come scrive Robert Craft, l’idea del futuro-nel-passato e del passato-nel-futuro. Il secondo pezzo, in accordo col lirismo stilizzato del testo, utilizza uno stile ornato di ricchi melismi, quasi bizantini. Le tre Virtu Teologali, di cui il terzo brano si assume l’esposizione, sono rese al contrario in uno stile contrappuntistico severo, mediante una scrittura molto rigorosa, nota dopo nota. Infine, nella quarta parte l’apostolato è simboleggiato da una costruzione antifonale, come pure la folla dei fede­ li che risponde all’aspettativa del sacerdote; solo le parole «adjuva, adjuva» segnano l’isolamento dell’implorazione col silenzio assoluto del coro. Se i movimenti esterni, il primo e il quinto, sono scritti in uno stile armonico consueto all’autore, gli altri tre ricorrono alla tecnica seriale. Non possiamo analizzare interamente l’opera di Stravinskij a questo riguardo, ma segnaliamo che nell’affrontare direttamente il problema della serie di dodici suoni, egli lo ha considerato sotto il suo aspetto più rigoroso — l’accostamento alle variazioni canoniche non è quindi for­ tuito. A proposito del Canticum Sacrum, si è parlato di un’influenza delle Cantate di Webern. Certo, nella struttura canonica, nella sovrapposizio­ ne delle serie, una traccia è visibile, ma la disposizione orizzontale degli intervalli, come la sonorità verticale risultante ne differiscono totalmen­ te; per giunta, i melismi e gli ornamenti mostrano una volontà di stiliz­ zare di cui Webern non si è mai dato pensiero. Se ci è consentito di concludere, diremo che là dove tanti altri non hanno smesso di farfugliare e di pontificare, di scilinguare e di sentenzia­ re, di ostentare e di lesinare, di folgorare, di minacciare, d’irridere, di eliminare, Stravinskij ha semplicemente agito. Webern: Drima Cantata, op. 29. Scritta su un testo della poetessa viennese Hildegard Jone la Cantata è divisa in tre parti: l’una affidata al coro, la seconda al Soprano solista, l’ultima, ancora al coro, mentre il Soprano solista interviene per conclu­ dere. Significativa della duttilità di pensiero e di scrittura raggiunta da Webern alla fine della sua vita, la Cantata non ha però né l’ampiezza di mezzi, di proporzioni, né l’immaginazione costruttiva di cui dà pro­ va la seconda Cantata op. 31. Eppure, essa è già di ben altra importan­ za che Das Augenlicht, primo tentativo di questo genere nell’opera di Webern.

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L’orchestra qui impiegata è un’orchestra da camera; Legni e Ottoni vi sono impiegati come solisti — non vi è né Fagotto né Tuba; oltre a un’Arpa, una Celesta e un Glockenspiel, assai cari a Webern, vi è una parte di Timpani e un uso insolitamente importante di percussioni varie: Triangolo, Piatti, Tam-Tam, Grancassa. L’orchestra d’archi, a organico ridotto, non comporta Contrabbassi. Infine il secondo movimento com­ porta, eccezionalmente, un Mandolino. Il primo movimento dispiega una costante alternanza tra un tempo lento e un tempo rapido, che è esattamente il doppio del primo; questa alternanza è spesso confermata dalla dinamica generalmente forte per il tempo rapido, e piano per il tempo lento. Questa infrastruttura serve da base a un piano più vasto ove un’introduzione e una conclusione pura­ mente orchestrali racchiudono la parte corale in un tutto continuo. È in questo movimento che la percussione assume la massima importanza: sottolinea il testo di effetti violentemente contrastanti, per illustrarne quasi «realisticamente» il significato; si possono in effetti notare, di passata, le parole «Lichtblitz» (lampo) e «Donner» (tuono) preceduti dal Timpano, dalla Grancassa e dall’urto dei Piatti. Il secondo movimento, al contrario, è di una perfetta continuità; si riferisce a una struttura strofica, facilmente percepibile grazie alla natura verticale o orizzontale dell’accompagnamento; la strumentazione è leg­ gera, aerea, anche nella forza. Mandolino e Glockenspiel finiscono per conferirgli quel colore chiaro, penetrante, che è il suo segno specifico; quanto alla percussione, essa utilizza solo il Triangolo e il Tam-Tam, due strumenti metallici. Il terzo movimento, infine, comporta tre svolgimenti che organizzano a poco a poco gli elementi già sentiti nelle due prime parti della Cantata. E termina su un’antifonia che oppone il Soprano solista al coro, scritto sia contrappuntisticamente, sia armonicamente. Le ultime misure intro­ ducono un rallentamento ritmico, una caduta verso il registro grave, in una gradazione di pianissimo sempre più impercettibile.

Webern: Seconda Cantata, op. 31.

La Seconda Cantata dischiude prospettive infinitamente vaste, e co­ stituisce senza dubbio una delle chiavi del movimento contemporaneo col suo potenziale di implicazioni a venire. Tutta una generazione rico­ noscerà quest’opera come uno dei suoi punti essenziali di partenza: sia da un punto di vista poetico che tecnico, essa è all’origine di una conce­ zione diversa del fatto musicale. Per giunta, può essere considerata co­ me il testamento — sia pure involontario - dell’autore, dal momento che

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è la sua ultima opera terminata. Webern sarebbe morto un anno dopo, ucciso in circostanze brutali e insensate. Da un punto di vista generale, i movimenti si ripartiscono come segue: due arie di Basso (movimenti i e 2) che corrispondono a un’aria di Soprano (movimento 4) e a un coro a solo (movimento 6). Due movimenti mettono a fronte Soprano a solo e coro (3 e 5), il terzo comporta semplicemente un coro femminile, mentre il quinto è scritto per coro misto. Tutti questi movimenti sono basati su una pulsazione identica; quale che sia l’unità ritmica, essa ha sempre lo stesso valore metronomico (168 e la sua divisione binaria o ternaria). L’orchestrazione è più densa che per la Prima Cantata. I legni com­ portano un Flauto piccolo, un Flauto, un Oboe, un Corno inglese, un Clarinetto basso, un Sassofono alto, un Fagotto (fatto eccezionale in Webern che impiega raramente questo strumento). Ai tre Ottoni con­ sueti si aggiunge la Tuba. Celesta, Arpa e Glockenspiel sono qui stru­ menti di elezione. Degli Archi, il Violino solista si diffonde nel primo e nel quinto movimento; i Contrabbassi non suonano se non nella prima aria di Basso. Infine, è da notare l’impiego quasi berlioziano della cam­ pana che segna i dodici colpi della «quieta Mezzanotte» {stiller Ndtternacht} nel secondo movimento. Quanto al coro, esso è scritto a tre voci femminili nel terzo movimen­ to, con uno stile deliberatamente e rigorosamente contrappuntistico. Nel quinto movimento, invece, il coro è disposto soltanto per accordi (voci miste), come una sorta di canto fermo. Nel sesto e ultimo movimento, si torna a uno stile contrappuntistico. Il coro, per la facilità dell’intonazio­ ne, è sempre accompagnato strumentalmente quando si tratta di con­ trappunto (3 e 6); armonicamente, non è mai accompagnato (5). Senza voler diffonderci più oltre su ogni movimento, segnaliamo tuttavia le principali caratteristiche di ciascuno. 1. Aria di Basso, in tre strofe simmetriche. - L’aria è accompagnata da alcuni accordi d’orchestra la cui proprietà particolare è che solo la loro disposizione cambia mentre le note che la compongono non mutano in nessun caso. Webern raggiunge cosi uno strano effetto di fusione tra movimento e immobilità. 2. Aria di Basso, in canone perpetuo. — Come nel famoso canone deU’O^erta musicale, il testo viene ripreso - quanto mai variato — ogni volta su un tono più alto; si percorre così tutta la scala cromatica. Le ultime note sono in rapporto diretto con le prime, cosicché il pezzo è un ciclo eventualmente pronto a ricominciare. (Il ciclo del movimento 6, in compenso, viene ripreso per due volte). 3. Questo movimento si compone di quattro parti, in ordine succes-

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sivo: per il coro, per il Soprano solista, per coro e Soprano, per coro (con una parola cantata eccezionalmente dal Soprano). Quando il coro è scrit­ to a tre voci, l’orchestra ha la quarta voce, secondo il canone; quando il Soprano è solo, l’orchestra riporta le altre tre voci; di qui un gioco reversibile tra la densità dell’orchestra e quella del coro. D’altra parte, le risposte contrappuntistiche all’orchestra possono concentrarsi in accor­ di, un mezzo di contrasto che verrà sfruttato a fondo nel quinto movi­ mento. 4. Aria di Soprano, in due strofe simmetriche. - Basata pressappoco sugli stessi principi della prima aria di Basso, utilizza però una maggiore varietà di accordi. 5. Questo movimento è in tre parti, la prima fa alternare il coro (armonico) al Soprano solista; la seconda è per il Soprano solo; la terza riprende l’alternanza della prima. E qui va notata una delle innovazioni più importanti di Webern: il coro scritto in accordi a quattro voci può dare origine a contrappunti a quattro voci. Così l’accordo è considerato come il grado zero del contrappunto, allorché il tempo, da successivo, diviene simultaneo. D’altro canto Webern conduce questo contrappun­ to con estremo rigore, vale a dire in risposte esatte, oppure lo defor­ ma sostituendo le risposte le une alle altre; come a dire che egli pratica con indubbia abilità una sorta di «fading» tanto sugli intervalli che sui tempi. 6. Più tradizionale, il canone alla Quarta si avvicina alla scrittura co­ rale del Rinascimento. I metri sono annotati distintamente per ogni par­ te; in altre parole, non vi è sbarra di divisione comune alle quattro voci, sicuro riferimento ai maestri della polifonia vocale. Le tre strofe del poema implicano la triplice ripetizione del testo musicale.

38. Berg: il «Kammerkonzert» .*

La personalità di Berg affascina per molte ragioni. Ma ciò che colpisce maggiormente è la sintesi di una forza espressiva immediata e di un’ecce­ zionale potenza di strutturazione. Berg è romantico all’eccesso: i senti­ menti che comunica all’ascoltatore sono quelli di sortilegio, di nostalgia, sovente di parossismo. La sua musica esprime il suo essere, rispecchia la sua epoca. Eppure quest’orgia di sensazioni è organizzata in modo cosi minuzioso che occorre l’opera di un investigatore per intravvedere le molte ramificazioni delle sue intenzioni, disseminate a dovizia in tutti gli * Copertina del disco DGG 2531007.

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spartiti; intenzioni che vanno sino all’esoterismo, dove alcune si masche­ rano sotto rapporti numerici, si trasmettono in crittografie difficili da decifrare se prima non se ne ha la chiave. Tutto un simbolismo formale, e persino formalista, che sembrerebbe in contraddizione con l’espressio­ ne dei sentimenti che lo spingono a scrivere, corrobora al contrario la profondità di questa espressione, conferendole una dimensione inusita­ ta, una forza e un prolungamento incredibilmente tenaci. Il Kammerkonzert è uno degli esempi piu tipici della «contraddizio­ ne» fondamentale, nell’opera di Berg, tra l’elaborazione dello schema formale e l’espressività della materia musicale. All’origine, un’idea che sembra di un rigorismo assurdo: tutta la costruzione sarà assoggettata al numero 3, simbolo dell’amicizia che lo lega a Schonberg e a Webern. Per giunta, una parte del materiale tematico sarà fornita dalla trascrizione musicale delle lettere che costituiscono il cognome dei tre musicisti; e infine, una figura ritmica ossessiva si costruisce sull’iniziale dei loro no­ mi. Non si sente il peso morto di queste condizioni extrartistiche? Viene da credere che Berg si compiaccia di tali corrispondenze, che la sua im­ maginazione, eccitata dalla regola obbligativa, inventi con splendore la musica e le forme che consentiranno di erigere il grande edificio-simbolo. L’opera rende conto anche di un passaggio evidente: l’evoluzione del linguaggio del musicista verso la tecnica dodecafonica, la quale, segna­ tamente, non si manifesta a tutta prima attraverso un’azione diretta sul lessico, sul linguaggio, ma attraverso la relazione che viene a istituirsi tra le frasi musicali e il loro inserimento nella grande forma. Si vuole un esempio? Le variazioni del primo movimento - piano e strumenti a fiato - saranno scritte in funzione delle quattro forme contrappuntistiche classiche che una linea melodica può assumere. Anche nel Kammerkonzert troviamo una delle ossessioni più care a Berg, il palindromo; il secondo movimento - violino e strumenti a fiato - è cosi diviso in due metà di cui la seconda è lo specchio della prima. Il terzo movimento sarà dunque il confronto - successivo o simultaneo delle due forme precedenti: una forma simmetrica che si combina con una forma non simmetrica. Riscontriamo infine una lontana reminiscenza del Pierrot lunaire: ogni movimento o elemento di movimento avrà una strumentazione appropriata, il tutti non essendo impiegato se non una sola volta. Un cosi grande involucro è naturalmente più sommario, ma altrettanto sconvol­ gente per l’ascoltatore nuovo alla musica. Ossia: piano e fiati, violino e fiati, piano e violino, piano violino e fiati - dove la combinazione piano violino è riservata evidentemente alla cadenza. Quanto al contenuto musicale, esso evoca tutti i fantasmi familiari di

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Berg, siano essi il Valzer viennese, la nostalgia del paradiso violinistico perduto, il simbolo della mezzanotte che segna la simmetria centrale, la predilezione dei gesti drammatici come le misure finali che si rarefanno nel silenzio. Qui senza dubbio va visto il segreto delle «contraddizioni» di Berg, e il segreto della sua abilità nel risolverle; per lui, i gesti formali, strutturali, esoterici fin nella loro aritmetica, sono già delle intenzioni drammatiche che reclamano espressione dalla tessitura musicale. Gesti drammatici sono frequenti nelle Pieces per Clarinetto e Piano, ma non hanno bisogno di un quadro cosi organizzato per manifestarsi. Se si confrontano questi brani relativamente brevi con brani analoghi di Schonberg o, soprattutto, con brani a volte estremamente brevi di We­ bern, il gesto di Berg sembra appartenere a tu tt’altra natura. Non si tratta di una condensazione come in Schonberg, o di un microcosmo perfetto come in Webern; si tratta piuttosto di un gesto iniziale, di cui si avverte che potrebbe continuare, diffondersi, moltiplicarsi. Al pari degli inizi narrativi che si possono leggere nel Diario di Kafka, questi brani ci lasciano supporre prolungamenti non espressi, al di là della scrittura reale, chiusa. E sono, in un certo senso, forme aperte pur essendo com­ piute. La Sonata per Piano pone più che il problema deiroriginalità di Berg, come fanno le Pièces per Clarinetto e Piano o il Kammerkonzert, il suo adattamento al mondo della composizione. È lui, Berg, pienamente, in alcuni tratti già cosi caratteristici, e non è ancora lui, almeno compietamente. Il musicista si adatta, si prepara per l’avventura, è ancora sulla riva e guarda i paesaggi lontani che si accinge a esplorare. Tutto lo attrae verso il futuro lontano, e tutto lo lega ancora a un passato cosi vicino. Berg si munisce e si premunisce. Giovanile è la nostalgia della sua opera prima. Dalla Sonata al Kammerkonzert, quanti labirinti da percorre­ re, prima di ritrovare pienamente, interamente, irrimediabilmente se stesso.

39. Varèse: «Hyperprisme», «Octandre», * «Integrates» . Nato a Parigi nel 1883, Edgar Varèse compì gli studi al Conservatorio e alla Schola Cantorum con Widor, DTndy e Roussel. Nel 1915 emigrò negli Stati Uniti stabilendosi definitivamente a New York. Dopo alcuni anni di attività come direttore d’orchestra, negli Stati Uniti, Va­ rèse intraprende le tre opere registrate in questo disco. Nel 1923-24, Copertina del disco Véga C 300 A 271.

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Intégrales, Octandre e Hyperprisme vengono una dopo l’altra prodotte a New York. A partire da questi tre «momenti» si riesce a vedere l’intero progetto varèsiano, nella sua molteplice e radicale determinazione: melodica, ar­ monica e acustica. E subito, queste opere appaiono come emanare da un solo blocco i cui riti di articolazione sarebbero, in un certo senso, le diverse facce di una stessa intuizione o, come amava dire lo stesso Va­ rèse, della sua «cristallizzazione». In quegli anni del primo dopoguerra, quando Debussy era morto, e Schonberg e Stravinskij sembravano ave­ re già dato tutto, davanti alla mischia «fovista» o neoclassica in cui si di­ batte inutilmente una buona parte della Musica occidentale, in margine al serialismo weberniano a lui ancora sconosciuto, non ci si stupirà mai abbastanza di vedere un compositore sorgere per affermare irresistibil­ mente una realtà sonora contemporanea. Una certa dialettica del materiale è qui essenziale. Non avendo preoc­ cupazione alcuna di riferirsi a questa o a quella «tradizione» (e questo, in maniera quasi fisica!), Varèse allontana definitivamente da sé la no­ zione classica (accademica) d’orchestra come quella di tonalità, anzi di temperamento. Egli si ricrea un complesso di mezzi conforme a talune necessità di efficacia «spaziale» e «ritmica». Per questo, egli si dà un’or­ chestra libera dall’archetipo «romantico»: assenza completa, o quasi, degli archi, rafforzamento dei mezzi dinamici: percussione smisurata. Il corpo stesso del disegno sonoro è la massa degli ottoni e dei legni, i cui registri sono completati dall’impiego degli strumenti sopracuti (flautini, clarinetto piccolo) e intensi-gravi (trombone, contrabbasso). Tale è lo schema acustico di Hyperprisme e di Integrates, le cui formazioni sono molto simili. Nel campo della percussione, Varèse non si contenta affatto del campionario pittoresco dell’orchestra postroman­ tica. Egli struttura e gerarchizza la propria materia, concedendosi cosi una vasta «massa di manovra» sul piano degli attacchi e degli «stati» del suono: Pelli tese (tamburi), Metalli gravi (piatti, tam-tam), Metalli acuti (incudine, triangolo, campanelli), Legni secchi (frusta, blocchi cinesi), Legni strofinati (raspa, raganella), e anche Fischio (sirena). Sul piano del ritmo e, congiuntamente, su quello della forma, stessa cesura con ogni schema tradizionale. Da una parte sussiste la cosiddetta ritmica melodica: articolazione raffinatissima di un processo melodico quasi essenzialmente cromatico; plastica rinnovata della linea, attorno a certi poli che ne costituiscono gli accenti (solo di Oboe all’inizio di Octandre, o nell’ultima parte di Intégrales)-, progresso parallelo di un certo cromatismo ritmico e del cromatismo delle altezze. Dall’altra, s’innesta su questa realtà, in opposizione logica, una ritmi-

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ca «contrappuntistica» basata su alcuni «ostinati» di altezze, su note ripetute, su modi di attacco costantemente variati. È questa la «maniera d’essere» della percussione che viene a interporsi, come in filigrana, all’insieme sonoro. Dal continuo raccordo di questi due mondi ritmici nasce la potenza incantatoria che ci colpisce tutti indistintamente all’ascolto, a esempio, di Integrates. Senza dubbio in nessun’altra parte, il tematismo (e per di più il tematismo «formale») melodico ancora latente è più dissolto, più sommerso nella proiezione, allo stato grezzo, dei complessi di timbri e di registri, in blocchi compatti. Un’ultima osservazione sull’impiego armonico di questi blocchi. Pro­ cedendo nella sua logica, Varèse è portato a porre in «conflitto» armoni­ co ciò che è in conflitto di registro e di timbro; donde l’uso dei rapporti più tesi della scala cromatica, sotto forma di aggregati da 2 a 4 suoni, come massimo. Di qui, per l’ascolto (anche oltre l’aggressività contenuta in questi attriti), differenziazione e gerarchizzazione immediata dei rap­ porti: evidenza acustica. Sarebbe improprio accostarsi a queste tre opere essenziali senza ri­ cordare il costante assillo di Varèse per la Forma. Ereditata indubbia­ mente da Busoni, col quale egli fu legato per qualche tempo, e in modo fecondo, la tensione formale è determinante: con Webern, Varèse è il primo a «pensare-la-forma», secondo la lezione dell’ultimo Debussy, non come la «scatola per sonate», secondo le sue parole, ma come il «risultato di un processo», un processo anzitutto spaziale e ritmico, componente una «successione di stati alternativi, opposti, o correlati­ vi», intrinseca cioè al proprio oggetto pur dominandola. Di questa condizione intellettuale, Hyperprisme appare come la proiezione più imperiosa col suo rifiuto di ogni tematismo, e la sua plastica fluttuante di tempi. È opportuno (se è lecito...) ricordare, a guisa di conclusione, che le opere qui registrate furono tutte eseguite a New York nel 1924 e 1925 sotto la direzione di Varèse (Hyperprisme'), di R. Schmitz (Octandre) e di L. Stokowski (Integrates).

40. Hartók: «Musica per archi, percussione e celesta» .* Dal 1934 al 1937 si susseguono nella produzione di Bartók tre opere di grande maturità, che segnano un punto evidente di equilibrio: il 50 Copertina del disco Columbia 7206.

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Quartetto per archi (1935), la Musica per archi, percussione e celesta (1936) e la Sonata per due piani e percussione (1937). Di queste tre opere, la Musica per archi, percussione e celesta è probabilmente quella che colpisce di piu, anche se non si può essere troppo sicuri sulla sua preminenza. Bartók, partito da una sorta di sintesi tra l’ultimo Beethoven e il Debussy della maturità - sintesi tra le più curiose e suggestive - passa da una fase di ricerche verso un cromatismo organico, non lontano da Berg e da Schonberg, pervenendo in tal modo a uno stile profondamente personale, punto di equilibrio tra musica popo­ lare e musica dotta, tra diatonia e cromatismo. È quasi superfluo ricordare che Bartók compositore ha sommamente profittato del Bartók folclorista. Prendendo le mosse da un nazionalismo mediocremente convenzionale, per esigenze di autenticità, egli si pone poi alla ricerca di materiali nuovi e di tecniche inedite, che sconvolge­ ranno nel profondo la sua estetica e lo spingeranno a risolvere il proble­ ma della musica «ungherese» in una maniera che supera il semplice esotismo provinciale. La Musica per archi, percussione e celesta è stata composta su solleci­ tazione di Paul Sacher per la sua orchestra da camera di Basilea, dove, per l’appunto, sotto la sua direzione fu eseguita per la prima volta il 21 gennaio 1937. A prescindere dall’esito estetico di cui saremo portati a parlare più avanti, l’opera anzitutto è una grande affermazione strumentale: due orchestre di archi corrispondono e si oppongono a un terzo gruppo che comprende il piano, la celesta, l’arpa, lo xilofono, i timpani e la percus­ sione. La fuga che costituisce il primo movimento, è, senza dubbio, il più bell’esempio e il saggio più caratteristico della raffinata scrittura di Bar­ tók. Vi si trovano a dovizia brevi intervalli che si accavallano e s’incro­ ciano nel contesto di un cromatismo costantemente presente; la preva­ lenza della scrittura contrappuntistica rigorosa o libera si afferma negli svolgimenti costruiti su imitazioni canoniche; il ritmo, infine, è in co­ stante fluttuazione, alternanza di metri pari o dispari in possesso di un’individualità a sua volta propriamente contrappuntistica. Per quanto concerne la strumentazione, Bartók ha sempre scritto mirabilmente per il piano, strumento da lui prediletto, e per gli archi. Si è servito efficacemente della celesta e dello xilofono, la prima colorando di arpeggi tremoli e trilli delle corde opposte, il secondo esagerando e prosciugando il lato percussivo del piano. Per le corde, egli utilizza tutti gli effetti propri a questi strumenti, anche i più insoliti fino allora (come il pizzicato ove la corda batte sulla tastiera, pizzicato che adesso porta del resto il suo nome), e sa dosare in modo straordinario la mescolanza

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di queste diverse sonorità. L’archetto ritrova una freschezza e anche un’aggressività di attacco che erano andate perdute con la concezione romantica. Il piano è impiegato soprattutto per il suo valore percussivo e martellante, eccezionalmente per gli effetti di trilli, come lo zimbalon ungherese, e più di rado per certe risonanze o per cantare una melodia. La sua scrittura pianistica, al pari di quella di Stravinskij, è una delle più importanti testimonianze della sua generazione. I quattro movimenti che compongono la Musica per archi, percus­ sione e celesta, sono nettamente differenziati, quantunque si possa stabi­ lire un parallelismo tra il primo e il terzo: Andante, Adagio, e il secondo e il quarto: Allegro, Allegro molto. I due movimenti dispari (1 e 3) sarebbero piuttosto testi dell’interiorità di Bartók, gli altri due (2 e 4) del suo vigore, anzi della sua violenza. Il primo movimento non racchiu­ de la minima traccia di un linguaggio «nazionale», ed è forse il movi­ mento più atemporale che vi sia in tutta la musica di Bartók: fuga che si dispiega a ventaglio fino a un massimo d’intensità per richiudersi sul proprio mistero iniziale. Il terzo movimento fa parte di quelle musiche notturne di cui si trovano alcuni esempi, rari tuttavia, nelle sue opere. Un assolo di xilofono, affatto insolito per l’epoca introduce l’inizio del movimento in cui si ritrova nelle frasi affidate alle corde un’influenza folcloristica diretta, pur assimilata e trascesa, che si manifesta segnatamente andatura ritmica. Notiamo inoltre l’impiego caratteristico - e non meno insolito per allora - dei glissandi di timpani, di cui nessuno prima di Bartók aveva saputo rivelare la virtù poetica. I due movimenti vivaci (2 e 4) sono più vicini a una concezione popolare, quantunque rendano conto di una preoccupazione formale affatto estranea alla musi­ ca detta «nazionale». Infatti se vi si trovano alcuni temi molto diretti d’ispirazione, che vengono utilizzati e trasformati al fine di «distanziar­ li» dalla propria origine onde integrarli in un universo inventato e non semplicemente accolto. Si consideri che una delle preoccupazioni costanti di Bartók è stata quella di opporre consapevolmente il cromatismo al diatonismo nella composizione della sua opera. Come esempio tipico si prenda il tema della fuga del primo movimento che ritorna nella coda del quarto movi­ mento, ove gli intervalli sono letteralmente rinforzati. Si tenga poi pre­ sente che le quattro frasi del tema del primo movimento servono ad articolare le cinque sezioni di cui si compone il terzo movimento, quasi come citazioni che organizzano la continuità. Bartók occupa un posto particolarissimo nella musica contempora­ nea: dopo Stravinskij, egli è il più importante musicista moderno che si sia imposto senza riserve. Subito dopo la sua morte, la sua musica con­

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quista di fatto una grande popolarità. Dopo essere stato a lungo ignorato, egli diventa uno dei nomi simbolici del contatto tra il pubblico e il compositore moderno. Taluni malintesi sono all’origine di questa situa­ zione insolita di un musicista morto fra i disagi, o meglio nell’indigenza, e promosso a titolo postumo, ma immediatamente, al primo rango dei compositori «comprensibili». La sua opera trionfa, a dire il vero, per l’ambiguità inerente a un certo uso del folclore e degli emblemi naziona­ li. Innegabilmente, Bartók si pone fra i «cinque grandi» della musica contemporanea accanto a Stravinskij, Webern, Schonberg e Berg. Non­ dimeno, non è certo negli aspetti attualmente più assimilati che la sua musica assume un posto d’eccezione nel xx secolo. È molto più probabile che la sua affermazione risieda là dove il genio poetico di Bartók attinge il dono di una creazione possente; sia in una brutale violenza che anima una «materia sonora in fusione» o in una dolcezza quieta aureolata da un «alone frusciante e marezzato», Bartók è incomparabile e unico ancora.

Capitolo quarto Il testo e la sua realtà

41. Dire, suonare, cantare'.

Allineare in uno stesso concerto, l’uno accanto all’altro, il Pierrot lunaire di Schonberg e il mio Marteau sans maitre, solleva e continuerà a sollevare non pochi confronti e osservazioni. E forse proprio per evitare ogni malinteso, mi sono deciso a spiegare, nel modo più chiaro possibile, le somiglianze e insieme le divergenze profonde tra le due opere. È quasi superfluo precisare che stilisticamente esse restano molto lontane l’una dall’altra: se non altro per l’intervallo di tempo che le separa. Il'Pierrot lunaire fu composto tra la primavera e l’estate del 1912, in un momento in cui Schonberg, se aveva già «sospeso» la tonali­ tà, non aveva ancora affrontato le severe leggi dodecafoniche, che co­ dificherà soltanto una decina d’anni dopo circa — mentre il Marteau sans maitre è stato scritto tra il 1953 e il 1955, in un’epoca in cui si usciva dal serialismo rigoroso per scoprire leggi più generali e plastiche nella gerar­ chia dei fenomeni sonori. Così si può vedere una prima divergenza, e di grande importanza, nel fatto che, avuto riguardo all’evoluzione del com­ positore, una delle opere si colloca prima, l’altra dopo un periodo di ricerche più severe. Ma vediamo, al di fuori di un aspetto così personale, che cosa può unire le due composizioni. Il Pierrot lunaire è composto di tre volte sette poemi, come suggerisce il titolo dello spartito; ciascuna di queste tre parti costituisce un tutto, distintamente circoscritto, che si chiude su un brano di carattere fortemente accentuato: Der kranke Mond per il primo riquadro, Die Kreuze per il secondo, Ó alter Duft per il terzo, secondo un’arte dei contrasti ove al lirismo lievemente ironico succede la posses­ sione quasi isterica, e quindi un sentimentalismo disincantato. Tuttavia, non tutte le parti sono caratterizzate dal brano finale. Anzi: tutte hanno in comune la particolarità di passare da un modo di espressione all’altro con una grande mobilità (labilità). Ne è un tipico esempio l’e* Sul Pierrot lunaire di Schonberg e il Marleau sans maitre di Boulez; in «Cahiers RenaudBarrault», n. 41, 1963, pp. 300-21.

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norme differenza di clima tra la scura visione di Nacht e l’ingenua ironia di Gebet an Pierrot che gli succede immediatamente, o tra l’orrore volu­ tamente spinto di Rote Messe e la secca disinvoltura del Galgenlied. È questa estrema variabilità che rende, in parte, l’interpretazione del Pier­ rot lunaire cosi difficile; ma si tratta di un problema di estetica cosi importante, e rimasto a lungo inosservato, che l’intelligenza dell’opera è venuta a trovarsi per tanti anni falsata. Ma su questo punto ritornerò fra breve. La prima constatazione si basa dunque sulla divisione dell’opera in tre parti; si può accostare legittimamente questa concezione schónberghiana al ciclo romantico di lieder, cosi come originariamente fu creato da Schubert, e piu particolarmente - più volontariamente, direi - da Schumann. D’altro canto, lo stesso Schonberg, poco tempo prima del Pierrot lunaire, aveva composto un ciclo del genere prendendo come punto di partenza gli Hangende Garten di Stefan George. Cosi nella sua composizione si è servito, sull’esempio dei predecessori, del piano per accompagnare la voce cantata. La grande novità del Pierrot lunaire - è bene affrontare direttamente l’argomento - risiede nel fatto che la voce non è utilizzata come voce cantata, secondo la convenzione consueta, ma come sprechstimme; e che il romantico piano si è circondato di una piccola formazione da camera, clarinetto e clarinetto basso, violino e vio­ la, violoncello. Per giunta, ogni brano utilizza una forma ristretta e di­ versa delle possibilità di combinazione tra gli strumenti citati. Questa variazione va dallo strumento unico (il flauto per il settimo brano, Der kranke Mond) alla combinazione totale (flauto poi piccolo, clarinetto poi clarinetto basso, violino poi viola, violoncello, piano, nell’ultimo brano, O alter Duft). Questa reazione contro l’orchestra postwagneriana smisuratamente amplificata e «impinguata» diede immediatamente i suoi frutti: i disce­ poli diretti di Schonberg svilupparono quest’idea, segnatamente We­ bern, il cui opus 14, in particolare, fu fortemente e direttamente influen­ zato dalla scrittura del Pierrot lunaire; in Berg, a dire il vero, la traccia è meno evidente, anche se resta piuttosto avvertibile in taluni passi di Wozzeck. Riguardo all’utilizzo della voce come Sprechstimme, esso pone non pochi problemi che si prestano immancabilmente alla discussione. In effetto, l’opera è dedicata a Albertine Zehme, un’attrice, «dicitrice», per l’appunto, che recitava «melodrammi» su sfondo musicale, come quelli di Richard Strauss. Come è noto, Schonberg diresse in gioventù un’orchestrina di accompagnamento di un celeberrimo cabaret berlinese, Yììberbrettl di Ernst von Wolzogen, e dovette scrivere alcune operette per accompagnare, appunto, le «dicitrici» di allora. Mi è occorso di

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sentire ad Amburgo, nel 1958, in occasione di un concerto dedicato alla sua opera postuma, due dei lieder di cabaret scritti da Schonberg intorno al 1901. (Si trattava di Galathea, su un testo di Wedekind, per piano e canto, e di Nachtwandler, su un testo di Falke, per canto, flauto piccolo, tromba, cassa chiara e piano). Ebbene, vi si può scorgere, a mio parere, un’indicazione delle fonti del Pierrot lunaire. Non che questi «lavori di cabaret» conservino di per sé il minimo interesse; ma tutto serve come fonte al musicista di genio, poiché in seguito avrà modo di stilizzare. È fuor di dubbio, credo, che il cabaret ÌJberbrettl - già di un livello «lette­ rario» comparabile (si dice) al Chat Noir - abbia suggerito a Schonberg l’idea di un cabaret superiore, «intellettualizzato». Ed è altrettanto in­ dubbio che Schonberg non poteva contentarsi di scrivere a questo fine una vaga musica di accompagnamento sotto la declamazione; era sua manifesta intenzione di dare un ruolo importante agli strumenti — e quindi, era obbligato a non lasciare, oltremisura, che la voce «declamas­ se» a piacere. Cosi egli fu portato a riflettere sulla difficoltà quanto mai ardua di annotare la declamazione in modo che facesse parte integrante della musica. Spinto da un desiderio di esattezza ben comprensibile, il musicista si risolse per una notazione della voce parlata esattamente analoga a quella della voce cantata, ove ogni nota era segnata da una croce a indicare, convenzionalmente, la propria caratteristica di Sprechstimme. A questo punto si pone il problema: si può dire seguendo una notazione adattata al cantare! Qui sta il punto dolente, e qui cominciano le discussioni. A dire il vero, i testi di Schonberg, a questo proposito (nota in margine a Die glùckliche Hand, e prefazione al Pierrot lunaire) restano poco chiari; la divinazione di siffatti oracoli da parte di alcuni discepoli «abusivi», anziché portar luce, ha finito solo per produrre un’inestricabile confusione di «pseudotradizioni» ereditate dal Maestro. In realtà, niente indica che questi discepoli, o questi interpreti cosiddetti «preferiti», abbiano compreso, più degli altri mortali, le intenzioni di Schonberg; giacché, posti dinanzi a una soluzione da dare, pratica e precisa, essi rimandano invariabilmente a quell’oscura prefazione, o a taluni ricordi «eroici» assolutamente incontrollabili. Meglio dunque cer­ care di riferirsi ad altri testi di Schonberg, segnatamente alle sue lettere, in parte pubblicate - dato che i suoi articoli non dicono assolutamente nulla su questo punto (almeno quelli raccolti sotto il titolo generale: Stile e Idea). Una lettera indirizzata a Jemnitz ci fornisce le seguenti precisazioni: «Le dico subito, e in modo categorico: Pierrot non si can­ ta!... Lei distruggerebbe completamente l'opera se la facesse cantare, e si avrebbe ragione di dire: non si scrive cosi per il canto!» Schonberg, come è evidente, rifiuta bruscamente tutto ciò che può avere qualche

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somiglianza col canto propriamente detto. Del resto, noi disponiamo di un altro documento: la registrazione effettuata dallo stesso Schonberg con l’interprete che, apparentemente, gli diede piu soddisfazione, dal momento che la scelse per numerosi concerti e per il disco, Erika Stiedry-Wagner. Il disco «ri-registrato» di recente, si trova di nuovo a no­ stra disposizione: e noi potremmo crederci a nostro agio, pronti a pro­ fittare della lezione, prove alla mano. Ma ahimè, dobbiamo mitigare il nostro ardore; l’ascolto, infatti, ci informa direttamente su un certo stile di declamazione — molto simile a quello di Sarah Bernhardt... - che si è in diritto di trovare oggi terribilmente giù di moda. Nondimeno — tengo particolarmente a fare questa osservazione - quando si tratta di intervalli parlati, le intonazioni sono più che approssimative, mentre le rare note cantate sono per la maggior parte giuste; d’altro canto, il perpetuo glissando che si produce da una nota all’altra diviene rapida­ mente irritante. Non si dimentichi che Schonberg si è così espresso nella sua prefazione: «nel canto, l’altezza del suono si mantiene fissa, mentre nello Sprechgesang, si abbandona l’altezza per una caduta o per una salita»; ma se egli desidera dei glissandi, li scrive nel modo più conven­ zionale e preciso (gli enigmi non mancano!) Per giunta, nella registra­ zione di cui parlo, l’espressionismo a fior di nervi della voce toglie ogni colore umoristico ai brani parodici mantenendo per tutta l’opera un clima esageratamente teso, in contrasto col carattere dell’interpretazione strumentale. Tuttavia, l’ironia, non meno che un’ipertensione sentimen­ tale, è uno degli elementi principali del Pierrot lunaire. E si deve rico­ noscere che, nonostante i documenti autentici, è difficile farsi un’idea esatta dello Sprechgesang. Si deve ritenere, d’altro canto, che Schonberg non fosse perfettamen­ te convinto, o oltremodo soddisfatto, della fondatezza della propria con­ cezione, e dell’esattezza della notazione rispetto alla realtà vocale. Infat­ ti la notazione dello Sprechstimme nelle sue opere più tarde, come VOde to Napoleon, o Moses und Aaron, è fondamentalmente diversa: nell’Ode to Napoleon, è divenuta relativa. Come ho dianzi ricordato, nel Pier­ rot lunaire, si tratta di una notazione cantata, trasportata di blocco, senza precauzione di sorta, nel campo del parlato; l’aggiunta della croce non cambia sostanzialmente in nulla la notazione abituale. Sembra che Schonberg abbia riflettuto su questo inconveniente sostanziale, anche se non si è espresso apertamente al riguardo. Comunque, la notazione delVOde to Napoleon è relativa, nel senso che utilizza un numero limitato di segni, e che questi segni non sono affatto legati a un’altezza precisa e delimitata, ma a un intervallo - cioè a un rapporto - a sua volta relativo, dovendo essere «interpretato» da ogni cantante, o attore, secondo l’e­

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stensione della sua voce parlata. Sembra che così Schonberg abbia voluto rettificare, molto tempo dopo, Terrore che aveva allora commesso ri­ guardo ai rapporti della voce parlata con la voce cantata. Per una perso­ na determinata, in effetto, la gamma cantata è più estesa e più acuta della gamma parlata — quest’ultima è più ristretta e volge verso il grave; d’altro canto, numerosi individui avendo una gamma cantata molto simi­ le, saranno in grado di avere una gamma parlata assai differente - soprat­ tutto nelle donne. Questo problema non è praticamente posto nel Pier­ rot lunaire\ così l’opera è a un tempo troppo acuta e troppo grave. Farò tuttavia notare che se le gamme cantate sono pressoché analoghe per un gruppo determinato di voci, vuol dire che esse sono elaborate con ar­ tificio: una gran parte del lavoro vocale consiste, appunto, nello stabilire l’estensione di una voce cantata. Resta dunque la speranza di potere un giorno contare su delle gamme parlate ricondotte ad arte a limiti deter­ minati; ma finora, gli stessi attori non hanno offerto esempi, o speranze, in questo senso... Ultimo punto: la voce parlata non resta sul suono, ma non come pensava Schonberg; «nello Sprechgesang, si abbandona l’altezza per una caduta o una salita», ha scritto il compositore. In realtà, la voce parlata «lascia l’altezza» data la brevità dell’emissione; se si vuole, la voce parlata è una specie di percussione a risonanza brevissima: donde la totale impossibilità del suo parlato propriamente detto su una lunga durata. (Quando devono sostenere un suono, gli attori giocano tanto sulla risonanza dell’apparato vocale quànto sul canto nell’estensione che gli è comune col parlato). Rammentiamo anche il sussurro, impiegato altresì nel Pierrot lunaire, sorta di rumore bianco, o colorato, la cui gamma - acutissima - è molto diversa in quanto si pone a due o tre ottave al di sopra dell’altra, e raggiunge quasi esattamente il registro del­ le altezze che si possono ottenere fischiando! Sin qui non ho fatto che dare un quadro approssimativo delle nume­ rose difficoltà riscontrate sulla strada che separa il parlare dal cantare. Schonberg ha avuto il grande merito di affrontare una questione così fondamentale; ma l’analisi che ha fatta del fenomeno vocale, la notazio­ ne quasi immutata di cui si è servito, ci lasciano davanti a problemi insolubili poiché le contraddizioni restano da risolvere... Per questo, il teatro orientale (il No giapponese, tra l’altro) è di un prezioso insegna­ mento in quanto ha apportato alcune soluzioni a un tempo stilistiche e tecniche, che in Europa restano ancora da trovare. Se mi sono soffermato così a lungo sull’aspetto vocale dell’opera, ciò dipende dal fatto che la voce svolge una parte assolutamente fondamen­ tale; in effetto, due piani si corrispondono: la voce e gli strumenti, come,

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a teatro, scena e attore. Del resto, durante la prima rappresentazione, si faceva veramente «spettacolo»: Albertine Zehme, in costume da Pier­ rot, «diceva» i versi, sola sulla scena, mentre gli strumentisti erano nascosti agli occhi del pubblico da un paravento. Una realizzazione siffat­ ta, soprattutto il costume... lascia oggi perplessi. Sorge cosi un altro problema: come dare ai giorni nostri il Pierrot lunaire^ Va adottata la consueta impostazione del concerto: un complesso di musicisti al centro della scena, con la solista davanti, a destra del direttore d’orchestra? O va ricostituita «storicamente» la disposizione escogitata per la prima rappresentazione? A mio parere, se si adotta l’impostazione «da concer­ to», si travisa l’opera due volte: esteticamente e acusticamente. L’opera è teatrale, in un certo senso: come ho già sottolineato, la voce si distin­ gue dal contesto strumentale e richiede, proprio per questo, di essere isolata-, porla in mezzo al gruppo è un controsenso estetico che falsa l’ottica dell’opera, ma snatura altresì i rapporti acustici, un errore alme­ no altrettanto pericoloso. È innegabile che il piano acustico vocale voce parlata - deve distinguersi assolutamente dal piano acustico stru­ mentale; senza di che, la voce sarà costretta a forzare pericolosamente la propria dinamica, o il gruppo strumentale a ridurre considerevolmente la propria, a tal punto che il «carattere» individuale dei brani svanisce e si dissolve in una sorta di mezzatinta monotona. D’altra parte, ricorrere al costume di Pierrot e al paravento avrebbe un senso retrospettivo, certo toccante, ma troppo ridicolo. Le tecniche sceniche si sono sufficien­ temente evolute perché non si debba più ricorrere a un mezzo materiale per separare cantante e musicisti: un’illuminazione appropriata potrà bastare, concentrando sulla cantante l’attenzione «scenica» con l’illu­ sione, o perlomeno con la convenzione dell’illusione. Tuttavia, esistono, nel corso dell’opera, passaggi piuttosto sofisticati perché cantante e di­ rettore d’orchestra desiderino non perdersi di vista! Tenendo conto di tutti questi elementi, ho adottato la seguente disposizione: il gruppo strumentale è posto nell’angolo sinistro della scena, leggermente di sbie­ co, in modo che gli strumenti svolgendo, in certi brani, un ruolo partico­ larmente rilevante - come flauto e violoncello - si trovino sulla destra del gruppo onde stabilire una «zona di contatto» con lo spazio in cui si trova la cantante: leggermente a destra dal centro della scena. Esteticamente, il luogo teatrale è salvaguardato, anche se l’impostazione non si discosta da quella del concerto; acusticamente, la voce e il gruppo stru­ mentale sono distinti: ciascuno è libero di muoversi sul piano dinamico che gli è proprio. Oltre all’illuminazione concentrata per mezzo di proiettori sulla can­ tante, questa disposizione non si discosta da quella che in genere si

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adotta nei cabaret o nei music-hall. Questa reminiscenza non è affatto involontaria: come ho dianzi spiegato, penso che il Pierrot lunaire sia, innanzitutto, una sorta di «cabaret nero», per riprendere la stupenda espressione di André Schaeffner, che combina cabaret con humour nero, o meglio... col Chat Noirl I poemi di Albert Giraud sono, in effetto, strettamente legati a quel periodo del simbolismo francese in cui la Luna e i Pierrot erano abbondantemente sfruttati da una schiera di epigoni di Laforgue (e facevano dire a un Mallarmé irritato: «La luna, sto formag­ gio!...»). Come segnala ancora André Schaeffner in un saggio documentatissi­ mo, l’adattamento di Otto Erich Hartleben «adotta alcune felici liber­ tà» nei riguardi del testo originale, il cui valore resta debole. «Certe immagini grossolane vengono purgate, un linguaggio da poeta goliardo è scomparso. Anche la scena cambia: si abbandonano le Fiandre, il teatro di Shakespeare, ma anche un’Italia di un convenzionalismo e di una geografia troppo marcati. Tanto Hartleben che Schonberg conservano la loro lucidità e, in piena coscienza di ciò che fanno, civettano col cat­ tivo gusto. Il melodramma scade a volte non solo in una "commedia dell’arte” viennese, ma anche in qualcosa di peggio. Un certo orienta­ lismo fa capolino, in accordo col gusto dell’epoca. È all’ombra di un teatro d’ombre che si apprestano a suonare i musicisti di Schonberg». È impossibile definire meglio l’estetica del Pierrot lunaire e cogliere con precisione il punto a cui si sono appigliati tutti i detrattori del­ l’opera. Quando si afferma che il testo è insipido, che il sentimenta­ lismo o l’«isteria» sono insopportabili, in una parola che Schonberg sarebbe stato un paziente ideale per il dottor Freud, si trascura comple­ tamente la situazione reale. Il civettare col cattivo gusto, il sentimenta­ lismo che ironizza su se stesso, il gioco con l’angoscia e l’allucinazione, tutto questo va preso come un’attività riflessa. Nulla ricorda meglio l’atmosfera del Pierrot di certe pagine di Musil che descrivono, al limite dell’ironia critica, un mondo sentimentale e disincantato, e che possiamo riassumere con le parole dell’ultimo brano: «O alter Duft aus Màrchenzeit, berauschest wieder mich!...» Quanto alla famosa «angoscia» espres­ sionistica che si è voluta scovare dappertutto nell’opera di Schonberg ove certo prevale, ma solo in un ristretto numero di composizioni — essa è quasi assente nel Pierrot lunaire, e non affiora se non due volte, in Nacht e Die Kreuze. In altri brani, quali Madonna, Raub, o meglio Rote Messe e Enthauptung, vi è piuttosto un gioco con la paura di cui, ancora una volta, André Schaeffner ha smontato il meccanismo con estrema precisione. Prendendo a confronto certo espressionismo rituale che aveva potuto osservare nell’Africa Nera, egli constata che si gioca

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alla paura fino a sfociare realmente in un sentimento di angoscia intolle­ rabile: dal culmine del parossismo, si passa allora dalla sorpresa all’iro­ nia e al riso sulla paura che si è inscenata - e a cui non si «crede» piu. A ben vedere, l’estetica di Schonberg è molto piu complessa di quan­ to a tutta prima non si sia creduto. Di qui il fascino che continua a suscitare ancora il Pierrot lunaire, che se fosse solo una delle tante opere «fine secolo», non attirerebbe in alcun modo l’attenzione, cosi come né Proust né Musil interesserebbero nessuno se i loro libri somigliassero a quei romanzi «psicologici» di secondo ordine sui sentimenti dell’alta società descritta nella «belle époque»! Questo spiega perché l’interpre­ tazione del Pierrot lunaire non si rivela poi cosi agevole dovendo spesso attenersi a una linea di equilibrio instabile. Spero che mi si voglia perdonare di avere insistito su questo aspetto «teatrale» o estetico: ma l’opera è passata cosi a lungo ora per un model­ lo di alto e arido intellettualismo, ora per il peggiore esempio di isteria espressionista! Resta ora da giustificare l’aspetto «costruttivo» del Pier­ rot lunaire. La tecnica di un’opera come questa è molto meno sapiente di quanto non ci si sia compiaciuti di ripetere: eppure, qualche tempo fa - e ancora oggi — se la discussione veniva a cadere su questo argomento, gente anche «esperta» cominciava a struggersi su tanta «sapienza»: una musica con passacaglia, doppio canone, scrittura retrograda, e che al­ tro!... Di fatto, i brani scritti rigorosamente sono pochissimo numerosi, in minoranza rispetto ai brani liberi. Colpisce quando si studia lo sparti­ to da vicino, la logica che ne ispira le deduzioni musicali, ma anche la libertà e la disinvoltura con cui questa logica viene manipolata. È certo che in molte opere del Rinascimento e dell’età barocca - senza parlare del Medioevo - la tecnica, francamente, è molto piu rigorosa che nel Pierrot. Si provi a riflettere: su 21 brani, si incontra una passacaglia Nacht — (anche se scritta molto liberamente), un brano canonico rigoro­ so - Parodie -, un brano con un doppio canone, retrogradato al centro Der Mondfleck; ossia, in tutto, tre brani, diciamo «scolastici». La pro­ porzione è minima; e si può constatare che i pregiudizi hanno la vita dura quando si vede scrivere ancor oggi che il Pierrot lunaire trabocca di sapienza. A questo punto, più che di pregiudizio, conviene forse parlare di ignoranza! Veniamo ora all’ultimo punto su cui ci si è appigliati: la brevità dei brani. Mi chiedo come un tempo sia stata interpretata l’opera in concer­ to, ma il fatto è che un critico parigino dell’epoca aveva paragonato questo susseguirsi di brani brevi alla lettura che si sarebbe potuta fare, in teatro, delle Maximes di La Rochefoucauld... O si rispettano le indi­ cazioni di Schonberg, che ha indicato scrupolosamente la lunghezza rela­

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tiva dei silenzi tra i diversi brani, a volte raccomandando espressamente di continuare senza pausa alcuna; oppure non si rispettano, e allora l’autore non è chiaramente responsabile. Infatti, con interruzioni fuori misura e contro tempo, anche i Dichterliebe potrebbero essere accostati agli aforismi di La Rochefoucauld!... Tutto questo per affermare che, se vi sono piccole forme, esse sono legate in un ciclo, e soltanto tra ciascuno di questi tre cicli, va osservata una cesura reale: il che ha lo scopo di evitare una dispersione eccessiva e assurda! Non resta ora che accennare alla formazione strumentale e al suo significato. Come è noto, la fine del xix secolo ha assistito all’apogeo di tutta una letteratura da camera, in cui il piano svolge un ruolo primario. Questa letteratura di terzetti, quartetti o quintetti ha occupato un posto importantissimo nel catalogo dei compositori che vanno da Haydn a Brahms - in Francia, Ravel ha utilizzato ancora questa formula, mentre Debussy, più guardingo, trovava questa magnifica distribuzione: flauto, viola e arpa... In Schonberg, la formazione da camera con piano che egli impiega, si riferisce dunque molto rigorosamente a questa tradizione; ma la impiega in uno spirito completamente diverso, se non altro per il rapporto degli strumenti fra di loro, e per lo stile, direi, dei loro rappor­ ti. La formazione del Pierrot non è monovalente, nel senso che non è in modo continuo utilizzata nella sua totalità. In precedenza, quando si scriveva un quartetto o un quintetto con piano (che gli altri strumenti fossero corde, fiati, o un misto di strumenti diversi), la formazione re­ stava chiaramente definita per l’intera opera: si poneva l’accento sulla coesione del gruppo, da un capo all’altro della composizione. Qui al contrario - e forse non senza rapporto con l’aspetto teatrale dell’opera — ogni brano attrae l’attenzione su un colore particolare, su una apposita combinazione; a volte, la strumentazione sottolinea la forma, pone in risalto un dettaglio strutturale. Non occorre insistere sul virtuosismo dell’uso strumentale di cui alcuni aspetti (Klangfarbenmelodie di Eine bias se Wàscheriri) sono direttamente legati ad altre opere di Schonberg (come i brani dell’opus 16 per orchestra). Questo ragguaglio sul Pierrot lunaire ci ha coinvolti in un giro d’o­ rizzonte alquanto esauriente, sia per la visione estetica che implica, sia per gli aspetti tecnici che riveste un pensiero musicale in pieno svolgi­ mento. Senza dubbio, l’opera ha col passato legami inequivocabili, che mi sono sforzato di precisare, e non è soltanto derivata dall’«espressio­ nismo»; per tutta una serie di ambiguità e di visioni ardite sui rapporti tra la musica e la parola, essa racchiude in sé quasi un fermento, un potenziale inesauribile di futuro.

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Se adesso approdo al Marteau sans maitre, non mi propongo poi di analizzarlo in modo così «distaccato». E ciò nonostante, credo di potere dare dell’opera una descrizione alquanto oggettiva — almeno per quan­ to concerne i suoi fini - per poi avvicinarla e distanziarla dal Pierrot lu­ naire. Vediamo di riprendere punto per punto, parallelamente, la descri­ zione. In primo luogo, l’insieme comporta nove brani correlati a tre poemi di René Char, che formano cosi tre cicli. Elenco i titoli dei tre poemi: 1) L’Artisanat furieux [L’Artigianato furioso], 2) Bourreaux de solitude [Torturatori di solitudine], 3) Bel edifice et les pressentiments [Bell’e­ dificio e i presentimenti]. Tuttavia, ogni brano non comporta obbligato­ riamente una partecipazione vocale; anzi, distinguo i brani in cui il poema è direttamente incluso e espresso dalla voce, e i brani-svolgimen­ ti, ove la voce, di norma, non esercita piu alcun ruolo. Così, il ciclo costruito a partire &AV Artisanat furieux comprende: prima L’Artisanat furieux (strumentale), L’Artisanat furieux propriamente detto (vocale), e dopo L’Artisanat furieux (strumentale). Il ciclo costruito a partire da Bourreaux de solitude comporta: Bourreaux de solitude (vocale), e Com­ menti I, II, III di Bourreaux de solitude (strumentale). Il ciclo basato su Bel edifice et les pressentiments si compone della prima versione e del suo doppio. Tuttavia, i cicli non si succedono ma si compenetrano in modo che la forma generale sia a sua volta una combinazione di tre strutture più semplici. Ma basti qui enunciare l’ordine di successione dei brani per intendere, senza ulteriori indicazioni, la gerarchia che si è voluta dare:

1. prima L’Artisanat furieux 2. Commento I di Bourreaux de solitude 3. L’Artisanat furieux 4. Commento II di Bourreaux de solitude 5. Bel edifice et le pressentiments — prima versione. 6. Bourreaux de solitude 7. dopo L’Artisanat furieux 8. Commento III di Bourreaux de solitude 9. Bel edifice et le pressentiments — doppio

Si può già constatare, primo: che un solo poema basta a organizzare un ciclo; secondo: che i cicli si interrompono reciprocamente, in modo

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regolare, mentre il numero dei brani varia a seconda di ogni ciclo. Ma una volta fatta questa constatazione tutta esteriore, occorre venire al­ l’impiego della voce nel «nucleo», per cosi dire, di ciascuno dei cicli. UArtisanat furieux è un brano puramente lineare, nel senso che il testo vi è trattato, «messo in musica», nel modo più diretto. Il poema è cantato con voce ininterrotta in uno stile ornato, accompagnato da un flauto solo che contrappunta la linea vocale (riferimento diretto e voluto al settimo brano, Der kranke Mond, del Pierrot lunaire). Qui il poema è in primissimo piano, e, come ripeto, «messo in musica», letteralmente. In Bel edifice et les pressentiments, versione prima, viene introdotta un’altra specie di rapporto: il poema serve da articolazione alle grandi suddivisioni della forma generale. L’importanza vocale resta grande; tuttavia, il canto non ha più il primato come in precedenza: primato che gli viene conteso dal contesto strumentale. Bourreaux de solitude risol­ verà questa antinomia in una totale unità di composizione tra la voce e gli strumenti, legati dalla stessa struttura musicale: la voce emergerà perio­ dicamente dall’insieme per enunciare il testo. Infine, il doppio di Bel edifice et les pressentiments vedrà un’ultima metamorfosi del ruolo della voce; una volta pronunciate le ultime parole del poema, la voce si fonde — a bocca chiusa - nell’insieme strumentale, ove rinunzierà alla propria individualità: il potere di articolare la parola; rientra nell’anonimato, laddove il flauto, in compenso, — accompagnando la voce nAYArtisanat furieux — avanza in primo piano e assume, per cosi dire, il ruolo vocale. Accade così che via via i rapporti tra la voce e lo strumento siano inverti­ ti per la scomparsa del linguaggio. Un’idea a cui attribuisco un certo valore e che descriverò cosi: il poema è centro della musica, ma è divenu­ to assente dalla musica, come la forma di un oggetto restituito dalla lava, mentre l’oggetto stesso è scomparso — o come la pietrificazione di un oggetto a un tempo Riconoscibile e iRRiconoscibile. L’opera utilizza i vari mezzi vocali di emissione, dal cantato al parla­ to. Secondo le necessità della trascrizione, il canto avrà un potere decora­ tivo, o la parola un’efficacia drammatica. Mi limiterò a citare gli estremi opposti: UArtisanat furieux è, sostanzialmente, un lungo vocalizzo; l’e­ sordio doppio di Bel edifice et les pressentiments è una sorta di recitati­ vo ove parlato e cantato s’intrecciano strettamente. Insomma, si presen­ ta una grande variabilità del ruolo vocale, che va dalla preminenza all’as­ senza; una sorta di «messa in scena» vi presiede, che pone l’accento ora sull’espressione diretta del testo, ora sull’universo poetico che suggeri­ sce. Teatro intellettuale, se vogliamo, messo in gioco dalla lettura del poema e dalle risonanze che suscita in una sfera propriamente interiore. Ne consegue che risulta inutile adottare una disposizione esterna

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dimostrativa assolutamente superflua. E qui giova venire alla strumen­ tazione, la quale comporta sei strumentisti che suonano: flauto in sol, viola, chitarra, vibrafono, xilofono, percussioni varie. Certo, siamo sem­ pre di fronte a una strumentazione da camera, ma essa non ha piu molto a che vedere con una formazione classica o romantica, distinguendosi per l’impiego di strumenti destinati a dare, per la maggior parte del tempo, un colorito particolare, o meglio esotico, a un dato insieme. Ma perché ho scelto una tale strumentazione? Potrei rispondere laconicamente: perché mi piaceva! Ma subito si leva la domanda: perché mi piaceva? Posso tentare di spiegare le ragioni della mia scelta, tanto con considera­ zioni di pura affinità, quanto con argomenti più logicamente fondati. Si può constatare, innanzitutto, che questi strumenti, destinati a in­ quadrare una voce di contralto, hanno un’estensione media. Se ho scelto il flauto, mi sono poi deciso per il flauto in sol, di una quarta più grave del flauto normale, dal timbro più velato; come strumento a corde, ho scelto la viola - a mezza strada dai suoi simili più brillanti; la chitarra, il vibrafono hanno limiti molto «centralizzati»; solo lo xilofono emerge verso l’acuto. Per quanto concerne la percussione propriamente detta, sono utilizzati, altresì, alcuni strumenti di estensione media, eccettuati il gong e i tam-tam, che intervengono proprio alla fine, in un registro di suoni gravi e più gravi. Cosi, il carattere della strumentazione accentua il carattere vocale nel colore come nell’estensione. Ma qual è il legame tra questi diversi strumenti, esteriormente cosi disparati? Vi è un’ombra di continuità? Mi sarà sufficiente, credo, spiegare certi fenomeni di conca­ tenazione per mostrare il passaggio continuo dalla voce allo xilofono, per assurdo che ciò possa sembrare a prima vista. Dalla voce al flauto, il legame è chiaro: il respiro umano e il potere puramente monodico di elocuzione. Flauto e viola sono legati non più dal respiro, ma dalla monodia, quando la viola è suonata con l’archetto. Sulla viola, le corde possono essere sfregate o pizzicate — in quest’ultimo caso, la viola asso­ miglia alla chitarra, strumento anch’esso a corde pizzicate, ma con un tempo di risonanza più lungo. In quanto strumento risonante, la chitarra assomiglia al vibrafono, basato sulla vibrazione prolungata di lame me­ talliche battute. Le lame del vibrafono possono anche essere battute senza risonanza, e in tal caso sono direttamente affini alle lame dello xilofono, obbligatoriamente battute senza risonanza. Si stabilisce cosi una catena da uno strumento all’altro, in cui si conserva sempre una caratteristica in comune. Si provi a trarne un sunto: voce-flauto: respiro; flauto-viola: monodia; viola-chitarra: corde pizzicate; chitarra-vibrafo­ no: corpi sonori a lunga risonanza; vibrafono-xilofono: lame battute. Volutamente, non ho fatto cenno alla percussione propriamente det-

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ta dal momento che essa svolge un ruolo «in margine» agli altri stru­ menti. Anzitutto, la percussione non fa parte che di un solo ciclo: Bouryeaux de solitude, in cui «segna» il tempo. Dovrei entrare in particolari troppo tecnici per spiegare in che modo si effettua, esattamente, l’im­ pianto della percussione; voglio solo descrivere grosso modo come si inserisce nella polifonia. Quando suonano i vari strumenti, la percussio­ ne tace; ma non appena vi è un silenzio nel complesso strumentale, la percussione lo riempie con un colpo o una serie di colpi, a seconda che il silenzio sia più o meno lungo. Una percussione siffatta è complementare agli altri strumenti; riempie con altezze indeterminate il vuoto lasciato dalle altezze determinate — sorta di gioco architettonico col tempo. La scelta degli strumenti varia da un brano all’altro - come nel Pier­ rot lunaire, a cui si fa ancora riferimento in modo diretto e determinato. La formazione completa non è impiegata che una sola volta continuamente, in Bourreaux de solitude. Avendo già spiegato il predominare fluttuante dalla voce e dal flauto, non mi resta che descrivere il perché aneddotico di certi strumenti. Per molti ascoltatori, la prima impressio­ ne è legata a una sorta di ascendenza «esotica»; in effetto, xilofono, vibrafono, chitarra e percussione si allontanano nettamente dai modelli forniti dalla tradizione occidentale in fatto di musica da camera, ma si avvicinano piuttosto all’immaginazione sonora proposta, in particolare, dall’Estremo Oriente, senza che lo stesso lessico vi abbia la benché mi­ nima parte. Questa prima impressione non è interamente falsa, ma resta quanto mai superficiale; gli strumenti che appaiono ancora «esotici» perché inusitati nella nostra tradizione occidentale, perderanno questo fascino «specifico» non appena vi saranno integrati. Devo tuttavia rico­ noscere di avere scelto questo «corpus» strumentale in funzione di in­ fluenze dovute alle civiltà extraeuropee: lo xilofono è una trasposizione del balafon africano, il vibrafono rimanda al gendler balinese, la chitarra ricorda il koto nipponico... In realtà, né la stilistica né lo stesso uso degli strumenti si ricollegano minimamente alle tradizioni di queste diverse civiltà musicali. Si tratta piuttosto di un arricchimento del lessico sonoro europeo mediante l’ascolto extraeuropeo: certe formazioni classiche del­ la nostra tradizione sono cosi cariche di «storia»... e di «storie» che si devono spalancare le finestre sul mondo per non morire d’asfissia. Que­ sta reazione contrasta completamente con l’appropriazione inopportuna di un lessico «coloniale» da parte dell’Europa dei primi di questo secolo, e con le numerose ed effìmere rapsodie malgasce, cambogiane, o altri quadri di genere. La disposizione adottata sulla scena contribuisce a porre in evidenza i rapporti acustici dei diversi strumenti. In primo piano, in semicerchio da

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sinistra a destra: la viola, la chitarra, la voce, il flauto; in secondo piano, lo xilofono, la percussione — leggermente arretrata -, il vibrafono. La discriminazione dinamica trova modo di realizzarsi in virtù di una im­ postazione di questo genere, ove gli equilibri risultano più facili da raggiungere. Quanto alla voce, essa viene inclusa nel gruppo: potendo emergere come solista, ma avendo anche modo d’integrarvisi e di vedersi soppiantata dal flauto. Non so se sia il caso di parlare, sia pure brevemente, della forma. La lunghezza dei brani varia notevolmente; i cicli, d’altro canto, sono di durata e d’importanza diseguali, e possiedono una propria costituzione. Se volessi dare un ragguaglio del loro svolgimento, sarei costretto a diffondermi in particolari tecnici estremamente precisi. Accennerò, tut­ tavia, che i tre commenti di Bourreaux de solitude formano un solo lungo brano, correlato a sua volta direttamente, dal punto di vista for­ male, a Bourreaux de solitude, prima e dopo L’Artisanat furieux, due brevi svolgimenti inquadrano il brano centrale. In Bel édifice et les pressentiments, la prima versione costituisce un’unità totalmente isola­ ta; il doppio mescola elementi tratti dai tre cicli, ora in modo testuale, sotto forma di citazioni, ora in maniera virtuale, se cosi si può dire, sfruttando le loro possibilità di sviluppo. Quest’ultimo brano lega cosi, di fatto e virtualmente, i tre cicli dell’opera, effettua una congiunzione tesa a recintarla. I rapporti tra il poema e la musica sono trattati in modo nuovo, nel senso che il poema funge da nucleo, da centro di pietrificazione alla musica - come già ho avuto modo di precisare. Due stadi possono distin­ guersi: quello della presentazione diretta e quello della riflessione indi­ retta. Non si può d’altronde comparare la dimensione temporale del poema al tempo cronometrico della musica; è significativo, credo, che i tre poemi non comportino ciascuno se non poche righe — ma René Char non è per eccellenza il poeta della concentrazione espressiva? La densità del materiale poetico consente, giustamente, di innestare alcune struttu­ re musicali destinate ad accrescersi e a proliferare: sicché tutto ciò che è descrittivo, per essere esatti, ne è escluso. Anche per questo, non si tratta di giocare sull’ambiguità di una situazione estetica; se si dà citazio­ ne, questa viene fatta in rapporto all’opera, che si riflette a sua volta. Due sole citazioni «astratte» vi figurano: la formazione voce e flauto, il mutamento di composizione strumentale per ogni brano, che provengo­ no entrambe dal Pierrot lunaire.

Ora che le due opere sono state illustrate nei loro molteplici aspetti, resta ancora da dire perché ho voluto metterle a fronte nel corso di uno

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stesso concerto. A parte la spiegazione perentoria di un desiderio perso­ nale, potrei ricordare che un certo numero di punti comuni — almeno da un punto di vista esterno - ne legittimano una impostazione parallela. Le due opere sono di uguale durata, minuto più minuto meno; raggrup­ pano un organico d’importanza analoga, ove si ricorre in entrambi i casi a una solista. Per giunta, non mi sembra fuori luogo che un concerto dimostri, ma dimostri che cosa nella circostanza presente? Che, nono­ stante certe somiglianze sorprendenti — se non addirittura certi riferi­ menti voluti, da me segnalati - le due composizioni partono da punti di vista divergenti per approdare a estetiche opposte. Mentre il Pierrot lunaire impone un gioco scenico accompagnato da taluni strumenti che implicano una costante preponderanza della voce, il ÌAarteau sans maitre si svolge a partire da un nucleo poetico che riesce ad assorbire completamente. È questa, mi sembra, una differenza fonda­ mentale nella concezione stessa dei rapporti tra il testo e la musica: da un lato, il testo è sempre direttamente presente; dall’altro, oscilla dalla presenza alla latenza. Di qui i ruoli vocali contraddittori: nel Pierrot lunaire, la voce racconta', si tratta di dire, di recitare un testo; nel Marteau sans maitre, la voce canta una frase poetica, ora in primo piano, ora lasciandosi assorbire dal contesto musicale. La concezione dei cicli, poi, varia fondamentalmente da una compo­ sizione all’altra. In Schonberg, i tre cicli si susseguono alla maniera dei cicli romantici, la cui architettura resta essenzialmente immutata; vi è un’unica direzione da un brano all’altro. (Il solo richiamo tematico, che fa appunto pensare ai Dichterliebe di Schumann, si colloca alla fine del tredicesimo brano, Enthauptung, in un commento che riprende testual­ mente gli elementi del settimo brano, Der kranke Mond). Per contro, io ho cercato di legare saldamente i tre cicli in modo che il procedere attraverso l’opera si faccia più complesso, utilizzando la reminiscenza e i rapporti virtuali; solo l’ultimo brano offre, in un certo senso, la soluzio­ ne, la chiave, di questo labirinto. Questa concezione formale mi ha spin­ to, per altro, molto più lontano, liberando completamente la forma da una misura predeterminata, e rompendo a questo punto, fatto il primo passo, con la forma «unidirezionale». Inoltre, la scelta degli strumenti è, di per sé, indicativa delle due opposte estetiche. Schonberg si è orientato su una formazione da camera tipica della composizione postromantica, che sceglie il piano come centro di gravità. (In tal senso, come ho già segnalato, l’invenzione strumenta­ le di Debussy mostrava una sagacia di gran lunga più viva quando ha composto la Sonate pour flute, alto et harpe - ed è noto per giunta che la Sonata che egli aveva in animo di scrivere poco prima di venire a mor­

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te doveva comportare: oboe, corno, clavicembalo...) In compenso, ho orientato la mia scelta su una composizione poco familiare a orecchie europee, cercando cosi di allargare la nostra concezione sonora e di rendere «normali» strumenti prima riservati al «pittoresco». Né è da dire che una simile formazione strumentale non abbia origine nella mu­ sica europea, anzi potrei citare, tra l’altro: i Trois poèmes de la lyrique japonaise di Stravinskij (segnatamente il secondo brano); certi lieder e brani d’orchestra di Webern; la Serenade di Schonberg, la NLusique pour cordes, percussion et celesta di Bartók; la strumentazione di Messiaen a partire dalle sue Trois Petites Liturgies. Da questa enumerazione, ci si può rendere conto che non mancano i modelli che prefigurano l’evolu­ zione strumentale odierna. Infine, se si vuole parlare di gusto, non si può nascondere che l’opera di Schonberg, partendo (traendo partito) dal testo di Hartleben, è pie­ na di ambiguità stilistiche ed estetiche — secondo il pensiero di Schaeffner, vi si scorge un brillante civettare col cattivo gusto -, mentre la purezza di linguaggio di René Char impediva ogni tentativo del genere - a cui del resto mi sentivo allora (come mi sento ancor oggi) poco portato - e mi costringeva, al contrario, a trovare uno stile «in sé», senza giocare in alcun modo sul riferimento.

Ecco tanti motivi per un unico programma! Ma non si confonda segnatamente quanto si è esposto come un tentativo egocentrico. Infatti, opponendo direttamente le due opere, ed esponendomi al confronto, non ho voluto certo misurarmi - o guardarmi misurare - secondo un prototipo oramai storico; ma piuttosto ho avuto in animo di capire come due generazioni, quantunque strettamente legate l’una all’altra, possano radicalmente dividersi su taluni principi fondamentali. E non è poi que­ sta, del resto, la storia di tutte le generazioni?

42. «Ho in orrore il ricordo!» .*

«Non essere scettici. Avere fede, combattere l’indifferenza». In que­ sto si riflette con estrema esattezza l’atteggiamento di Roger Désormière all’interno della propria generazione: che è un atteggiamento straordina­ rio, in margine, dovuto forse al fatto di avere da tempo cessato ogni attività di compositore per dedicarsi per intero alla direzione d’orche­ stra. In Roger Désormière et son temps, Editions du Rocher, Monaco 1966, pp. 134-58.

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Trovo questa frase in alcune note (postume) buttate giu senza prete­ sa di stile, a fini didattici — Roger Désormière assicurò l’interim al corso di direzione orchestrale del Conservatorio dopo Charles Miinch. Del resto, non è questa la sola indicazione che consenta di precisare e delineare la figura interiore di Désormière. Il quale non era l’uomo delle confidenze: anche a coloro che lo hanno conosciuto molto da vicino, poteva dare a volte l’impressione di un distacco - intenzionale o meno di una diffidenza, di un ritegno, che facevano parte del suo segreto personale. In questo somigliava a Hans Rosbaud (al quale lo accomuna­ no molti tratti, sebbene origine e cultura determinino fra di loro alcune asimmetrie che colpiscono), in cui amicizia diretta e assenza sfuggente si coniugavano in un «mistero» pieno di fascino. È la testimonianza inne­ gabile di una insoddisfazione profonda nei confronti di un mestiere di cui i due musicisti hanno consumato le possibilità esteriori, di una ricer­ ca della musica al di là della «direzione»; donde un desiderio di nuovo, un bisogno di espressioni diverse, che ha dato loro una giovinezza spesso negata a compositori della loro generazione. Leggo piu avanti, nelle note che ci sono rimaste di Roger Désormiè­ re: «Lo scopo è di arrivare alla più grande sobrietà, di disfarsi a poco a poco di tutto ciò che è inutile. Essere sobri di gesti non vuol dire che non bisogna andare fin in fondo all’espressione e mancare di forza e di slan­ cio». E ancora: «Non pensare all’effetto sul pubblico, ma acquistare l’autorità morale che ti dà un ascendente sugli strumentisti». Certo, non siamo di fronte a niente di nuovo. Sappiamo bene che i migliori direttori d’orchestra non sono necessariamente coloro che ge­ sticolano nel modo più sfrenato. Una certa «estetica» della dimostrazio­ ne fisica ha fatto ormai il suo tempo: un uomo come Pierre Monteux ci ha provato con il lavoro della sua vita che la sobrietà pagava, e dava molto spesso più autorità morale sui musicisti di quei «buoni ballerini», come li chiama Désormière, che «presentano un numero coreografico»! Questo non si dimostra soltanto vero per quei direttori di orchestra che si sono trovati a collaborare ai balletti russi, come Monteux, Ansermet o Désormière. In Germania, si continuano a fare gli elogi di Richard Strauss, a esempio, per aver saputo dirigere sia Mozart che Wagner, senza la minima ostentazione di gesto, contrariamente a quei semafori impazziti che si sono fatti una tecnica speciale dell’espressività wagne­ riana; ai giorni nostri, Knappertbusch è diventato leggendario per l’as­ senza di drammatizzazione esteriore nella sua mimica. La sobrietà non era un fenomeno isolato, come provano i nomi che si sono fatti, perché poteva rivelarsi il segno di personalità diverse che venivano da orizzonti assai dissimili; per alcuni, la musica di Debussy e

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di Stravinskij aveva più o meno foggiato la loro arte del gesto, per altri era stata quella di Wagner, Strauss e Mahler. Ma vorrei tornare alla frase: «Lo scopo è di arrivare alla più grande sobrietà, di disfarsi a poco a poco di tutto ciò che è inutile». Vedo in essa, molto più di un consiglio di mestiere, utile, sicuramente, ma abba­ stanza comune, una linea di condotta più generale, una maniera di esiste­ re rispetto alla musica; la quale è stata, per quanto ho potuto conoscere Désormière, anche e soprattutto la sua, un fine a cui si proponeva di arrivare, ma che la paralisi progressiva delle sue facoltà gli ha impedito di raggiungere! Senza dubbio, egli era «condizionato» dagli anni dei suoi esordi nella vita musicale parigina, e fra noi si è discusso spesso sulla necessità, l’opportunità, il valore di certe musiche verso le quali egli era portato tanto dai ricordi quanto dal gusto. (Ma anche il gusto non è molte volte funzione dei ricordi, cioè delle scelte che si sono fatte negli anni di formazione. Se mi è concesso un aneddoto, un amico edito­ re mi diceva che un direttore d’orchestra è perduto alla musica contem­ poranea dopo i quarant’anni; e così vive su un patrimonio coevo alla sua giovinezza! A meno che egli non abbia superato questa svolta cruciale: a questo patto, egli è «ricuperabile» sino al termine dei suoi giorni o delle sue forze! Questa battuta racchiude probabilmente la verità sul compor­ tamento del «direttore d’orchestra» nei confronti della musica che si scrive da quando egli è nato... Si verifichi e si controlli! ) Come ognuno di noi, Désormière dipendeva dalle scelte che aveva fatte, e che aveva visto fare intorno a lui, alle quali partecipò dapprima come compositore e poi, più particolarmente come interprete. Per poco che lo si mettesse «alle strette», egli si schermiva con un sorriso divertito, restava ironico, sul segreto e pensava nel suo intimo, senza dubbio, all’eterno contrasto tra generazioni, convinto forse che ci si scontrava con dei malintesi che niente può rimuovere. Non è privo d’interesse prendere conoscenza di un testo ritrovato anch’esso fra le carte postume: scritto da Désormière per il Courrier musical nel 1922 - all’età di ventiquattro anni — in occasione della prima esecuzione a Parigi del Pierrot lunaire, diretta da Darius Milhaud, con la partecipazione di Marya Freund, nel corso di un concerto organiz­ zato da Jean Wiener. L’articolo, che testimonia di una grande ammira­ zione per Milhaud, fornisce alcuni ragguagli sulla tecnica vocale dello Sprechgesang, descrive l’opera di Schonberg precisando il progetto stru­ mentale e mettendo l’accento su certi artifici di contrappunto che a quanto sembra, avevano particolarmente colpito i testimoni dell’epoca, — i resoconti e le discussioni ne parlano diffusamente, mentre, non va dimenticato, questa scrittura «sapiente» non è rappresentata nel Pierrot

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lunaire in modo particolarmente eccessivo. Ma in questo, è interessante vedere come la reazione collettiva si manifesti più acuta rispetto a certi fenomeni secondari che non di fronte a prese di coscienza fondamentali! L’effetto di sorpresa ha un notevole peso in questo gioco di prospettive falsate; e noi avremmo torto di trascurare un tale fattore nel giudicare simili distorsioni. Ciò che nondimeno ci colpisce nel resoconto, non sono gli errori di valutazione sull’importanza di certi aspetti di Schonberg, ma piuttosto il malessere generato dalla poetica del Pierrot lunaire, un ma­ lessere che doveva avvelenare i rapporti della musica francese (e d’altro canto non solo di questa!) con la corrente evolutiva derivata da Vienna. Désormière parla dapprima dell’atonalità, «una delle più grandi rivo­ luzioni nella storia della musica»; e questo, con una disarmante ingenui­ tà (solo più tardi avvertiremo le conseguenze funeste sul modo generale di vedere di una classe determinata - un nugolo di sofismi irritanti, che andranno a pullulare su un terreno particolarmente fangoso, la liber­ tà d’espressione, questo pantano prediletto, vezzeggiato, coltivato con quanta costante predilezione...): l’atonalità costituisce l’affermazione più audace e la prova più clamorosa che «in musica si può fare qualun­ que cosa», purché sia musicale e tangibile. Poi egli constata che «prepa­ rata da tutto un lavoro anteriore, in cui si è formata, plasmata e via via raffinata, questa lingua nuova è divenuta cosi naturale a Schonberg che non si sente in nessuna parte l’affettazione, lo sforzo né il disagio, subor­ dinandosi e adeguandosi mirabilmente alla ricchezza, alla profondità e alla delicatezza dei sentimenti che deve esprimere». Da queste parole possiamo constatare che l’opera di Schonberg fu realmente apprezzata per le sue qualità puramente musicali; ed è strano che poco dopo, sotto l’influsso di svariate congiunzioni, essa sia caduta in un oblio senza rimedio. Ma, se finiamo di leggere l’articolo, non sarà difficile compren­ dere l’origine delle divergenze, causa di questa assenza letale... Ci imbattiamo anzitutto in un breve paragrafo che ci fa toccare con mano le reticenze dell’«ambiente», e ci fornisce un’idea sulla mancanza d’informazione verso le altre opere di Schonberg; prevenzioni fondate su informazioni di seconda mano, pregiudizi nazionalistici che tendeva­ no trabocchetti alle migliori volontà, le controcorrenti seguivano il loro corso, ma non servivano, in quel momento, se non a fissare una prospet­ tiva e un contrasto: un’occasione, insomma, di porre in risalto la lode, sottolineando i pericoli che ne derivavano! Ecco: «dopo Top. io (20 quartetto per archi, 1908) che segna l’inizio della sua seconda maniera, Schonberg era sembrato unicamente preoccupato di foggiare la sua nuo­ va lingua in alcune opere di pura volontà, che fanno pensare a volte a certe esperienze di laboratorio, e in cui, nella tensione intellettuale, tutta

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concentrata in ricerche sottili e laboriose, la sensibilità sembra contrarsi e farsi di ghiaccio». Se si pensa che «queste esperienze di laboratorio» si chiamano, tra l’altro, I Giardini sospesi, Cinque brani per orchestra, Erwartung, Herzgewachse, ecc., quanto a dire il meglio dell’attività di Schonberg, si resta giustamente sorpresi. E porta a riflettere sulla cesura tra l’opera di Schonberg e il pubblico più a dentro nel mestiere: cesura sul piano dell’informazione, voglio dire; giacché, a parte i Cinque brani dell’op. 16, suonati da André Caplet, nessuna di queste opere era stata data, come credo, a Parigi. (In effetti, Pop. 16 subirà un purgatorio particolarmente lungo prima di essere riascoltato nella capitale francese: 1957!) Lo iato, aggravato dagli avvenimenti politici, doveva essere uno dei fatti che segnarono il periodo tra le due guerre; «ma non anticipia­ mo! », direbbe Lucky... Dopo l’esposizione delle doglianze, si giunge al lauro «questo ramo militare», la cui foglia sulla fronte «onora, - secondo Claudel, — amara, il trionfo, e verde, il mistero». Del resto, vi è proprio un mistero nella sorta di trionfo tributato a Schonberg e al suo Pierrot\ Leggiamo: «Con il Pierrot lunaire tutto cambia. Schonberg è padrone della sua nuova lingua». Perciò, essa non è più in certo senso fine a se stessa, ma il modo di espressione docile di una sensibilità ricca, troppo a lungo contenuta. Il Pierrot lunaire è colmo di questo romanticismo, che Schonberg ha ereditato dai maestri tedeschi del xix secolo, e che traboccava nelle sue prime opere. Come si poteva apprezzare questo «romanticismo» tedesco nella Parigi del 1922? Una Parigi tutta presa da inquietudini di cosi diversa attualità? I balletti rus­ si: rinverdiscono la propria effervescenza; dadà: si agita perdutamente; i cubisti: accaparrano l’ottica quotidiana; il prodotto di Parigi adom­ bra... tutto il resto, almeno agli occhi dei pellegrini ipnotizzati da questa capitale. In pieno fermento di attività «moderniste», qual era la possibilità dell’estetica espressa dal Pierrot lunaire, quando VHistoire du soldat aveva nel frattempo fatto piazza pulita delle incrostazioni stilistiche? Questa possibilità era sottile, bisogna convenirne («sottile come un capello, vasta come l’aurora»... se si hanno in serbo metafore che non spiegano); cosi sottile che non c’è da stupirsi delle righe seguen­ ti: «Infatti l’opera è puramente tedesca, e, va anche detto, il sentimento di cui trabocca spesso altro non è se non il vecchio romanticismo dei lividi chiari di luna del Brocken e delle notti di Walpurga. Senza dubbio, forse proprio per la breve durata dei brani, questo sentimentalismo si esprime quasi sempre con una sobrietà, una purezza, un’assenza di ogni declamazione e di ogni sbavatura, che ci incantano e illudono sulla vena un poco impoverita a cui esso si lega. Ma, alla lunga, ci si libera da questo

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incantamento, e non si può fare a meno di restar colpiti dal contrasto tra questa lingua musicale, la più nuova e originale del tempo, con la polito­ nalità di Milhaud, e lo stadio, oggi superato, della sensibilità umana che essa traduce». Era questo il parere del grande predecessore, Stravinskij, espresso una decina di anni prima, quando egli ascoltò l’opera a Berlino. La sua opinione aveva permeato - per effetto delle sue opere, e non evidentemente per mera virtù di enunciazione - il giudizio dei contem­ poranei che vivevano nel luogo stesso in cui si svolgeva la sua attività di compositore. C’era voluto il tempo necessario alla comparsa di una nuo­ va generazione. L’articolo termina inopinatamente rilevando una man­ canza di sorpresa che potrebbe, per quanto ci riguarda, trascriversi in­ versamente con una sorpresa ancora viva! Si tratta della prima esecuzio­ ne del Pierrot a Berlino: «Si dice che durante le esecuzioni di Berlino e di Vienna, l’orchestra era nascosta da un paravento, e la Zehme cantava in costume da Pierrot. Non ne siamo affatto sorpresi». Questa conclu­ sione laconica è rivelatrice, più di quanto non sembri, più di quanto l’autore non abbia voluto: il paravento, il costume potevano mettere in allarme... L’allarme, allora, non scattò: «non ne siamo affatto sorpresi». Punto a capo, definitivo. Le conseguenze implicite in questa conclu­ sione non tardarono a venire: un congedo, chiaramente espresso, a certi modi di intendere la musica. Un lungo periplo si imporrà a Roger Dés­ ormière per ritrovarsi faccia a faccia con talune « vestigia» storiche emerse dall’oblio; e per cui avranno una parte: il tempo, naturalmente, questo «revisore» nel senso dell’humour caustico, quanto meno; l’iso­ lamento politico, e la costrizione culturale; senza trascurare la comparsa di giovani che non si sentivano né coinvolti dai giudizi dei più anziani, né complici di una scelta collettiva, ma anzi risvegliati nell’interesse da questa cesura inesplicabile (inespiabile?) considerata con fredda ostilità. Mi sono a lungo soffermato su questo testo di Désormière riguardan­ te il Pierrot lunaire, e ci si potrà chiedere perché! L’articolo, a dire il vero, non occupa un posto importante nella sua attività; il musicista lo aveva certo dimenticato, e ritrovarlo nei suoi archivi non prova necessa­ riamente che egli vi attribuisse una particolare importanza. Per di più, sarebbe un abuso di rappresentazione volere «ricostruire» l’itinerario di un’esistenza da un articolo di attualità, scritto sotto l’impressione diretta dell’evento, e questo non è nelle mie intenzioni. Poc’anzi però ho rico­ nosciuto come Désormière mi sembrasse «condizionato» dagli anni dei suoi esordi nella vita musicale parigina: ed ecco che questo documento rivela, al di là del caso individuale, quanto retrospettivamente sapevamo di un’epoca. Singolare documento, utile da avere sottocchio se si vuol capire il seguito. Per me, e per i musicisti della mia generazione con i

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quali mi sentivo in comunanza di idee — ovverossia, più precisamente, con gli allievi del corso di Messiaen negli anni ’44-45 — Désormière era, fra i direttori d’orchestra, la personalità a cui andava la nostra più viva ammirazione. E credo proprio che sia stato Messiaen a ispirarci per pri­ mo un cosi nobile sentimento! Le rappresentazioni di Pelléas, che aveva allora dirette all’Opéra-Comique finivano per plasmare il nostro entusia­ smo, solido, parziale, assoluto! Per giunta, sapevamo che egli era estre­ mamente aperto alle nuove partiture: queste cose si sanno presto e si dif­ fondono ancora più veloci! Désormière era, in un certo senso, il «no­ stro» direttore d’orchestra. Dovendo ripercorrere i meandri della memoria, vorrei ricordare due circostanze in cui mi fu dato di prendere un primo contatto con l’uomo che avevo visto fino allora «di lontano». La prima volta che lo vidi provare, fu quando egli allestì per la prima volta le Trois Petites Litur­ gies di Messiaen, presso cui seguivo ancora il corso di armonia... Il maestro ci aveva autorizzati a seguire tutte le prove, ed io non ne mancai una sola! Più di tutto, una cosa m’impressionò tanto che non potrà mai staccarsi dalla mia memoria: la sua esattezza ritmica, la precisione vitale nell’impulso del numero (qualità di cui egli adornava sontuosamente gli Stravinskij che dirigeva! ) E cosi pure certi tratti del suo carattere hanno lasciato un segno su di me: l’aperta accoglienza che egli fece alle mie domande concernenti la tecnica della direzione; la «buona volontà», la propensione a conoscere i problemi dei più giovani; il fascino col quale comunicava il suo sapere. E mi colpi poi la sua rettitudine morale verso le opere e i compositori: nel momento in cui la polemica sulle prime esecuzioni di Messiaen raggiungeva il colmo di bassezza e di faciloneria (e in quali termini!) egli sapeva ed era il solo oltre l’autore a sapere perfettamente di che cosa si trattava, per cui aveva assunto le proprie responsabilità. Il suo gusto personale avrebbe potuto inclinarlo verso un orizzonte avverso alle concezioni di Messiaen sulla musica; e invece, egli impegnava tutto se stesso nel suonare le Liturgies col massimo splendore e la più alta risonanza. Perfetto esempio di rara sobrietà... Veniamo ora alla seconda circostanza. Durante un concerto da lui diretto, avevamo in gruppo, e furiosamente, fischiata un’opera di Stra­ vinskij data in prima audizione, e applaudito, invece, un lavoro di Daliapiccola per dimostrare più o meno la nostra scelta di fondo! Dopo il concerto, siccome avevamo per lui la grande ammirazione di cui ho fatto cenno, e gli volevamo bene e non desideravamo che egli si adombrasse per le nostre dure posizioni, andammo a trovarlo, tutti insieme, per giustificarci del nostro comportamento, e per rassicurarlo espressamente

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che non si voleva toccare la sua persona con le nostre manifestazioni violente, se non in tempestive. E non sapevamo quale atteggiamento assumere per essere creduti... Ma, ricordo ancora il suo sguardo diverti­ to: «la cosa non stava in piedi»; e credo proprio che la nostra turbo­ lenza, anziché dispiacergli, suscitava in lui simpatia: vi avvertiva un che di nuovo, sentiva perfettamente che la vita musicale non sarebbe conti­ nuata come prima, per forza d’inerzia, che il dopoguerra non prolungava l’anteguerra, come accadeva per la cucina, i vestiti o gli alcolici. Le abitudini avvizzite non si sarebbero affatto ricostituite; fosse sollievo o eccitazione, egli ne era certamente felice! Infatti la sua reazione, anziché essere gonfia di acredine come, allora, quella della maggior parte dei «corpi costituiti» nella vita musicale parigina (si può gustare ancor oggi il comico di certi articoli vendicativi scritti e letti in quegli anni? Si registrava con stupore la ribellione per stigmatizzarla severamente, con atteggiamenti da maestri di scuola che sgridano dei ragazzi maleduca­ ti...), la sua reazione fu d’interesse: perché era scoppiato il tafferuglio, che cosa aveva provocato prese di posizione così decise? Non pote­ va trattarsi di semplici gesti di umore; bisognava riesaminare i propri orientamenti, e verificare se si era a propria volta abbastanza nel giusto per poter lanciare l’anatema sui sobillatori. Ed ecco che leggo nelle note postume (a proposito d’interpretazione, naturalmente, ma il carattere di Désormière non vi è precisato nel suo costante magnetismo? non si hanno alcune chiavi del suo quadro di bordo: apertura mentale, indipendenza delle reazioni, libertà dei rifles­ si?) il seguente paragrafo: «...avere il coraggio delle proprie opinioni. Riconoscere quando si sbaglia, non insistere nell’errore. Non aver paura di cambiare idea. Au­ tocritica. ...conservare l’entusiasmo...» Ho troncato di proposito la citazione per staccarla dalla «contingen­ za», da una circostanza: il corso di direzione d’orchestra che aveva prov­ visoriamente assunto. La sottrazione effettuata sulle parole specificanti una lezione d’interpretazione, non modifica in nulla la descrizione che l’autore dà di se stesso! Compongono un autoritratto queste briciole che ci sono rimaste, e sono per noi così preziose dacché mettono in luce i tratti di una personalità intuita così dietro la discrezione e la cordialità, al di là dell’amicizia e dell’elegante distacco. D’altro canto, a proposito del lavoro d’orchestra, parlando dell’accordo, egli annota: «la misura, segno di aristocrazia». Désormière cercava, come molti di noi, di rag­ giungere questa difficile aristocrazia: la misura di sé. E si è accorto che

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bisognava sacrificare il bagaglio delle proprie prevenzioni, e che la co­ noscenza deve passare per i tormenti della fenice se vuole sopravvivere nelle sue capacità di rinnovata giovinezza... Cosi, rimuovendo i sentimenti sconfessati di un’epoca, in parte anche suoi, puntando alla ricerca di valori a cui non aveva prestato sufficiente attenzione, ponendosi a studiare una forma di sensibilità naturalmente lontana dalla sua, egli ci diede quelle opere che aspettavamo con viva impazienza di sentire sotto la sua direzione, una direzione professionale, dacché la scuola di Vienna era stata preda, a causa delle circostanze, di «spaventosi orchestrali»... Egli diresse, tra l’altro, brani di concerto di Wozzeck e il Kammerkonzert di Berg, la Prima Cantata e il Concerto per nove strumenti di Webern: come gli eravamo riconoscenti di parteci­ pare a quanto venivamo scoprendo, e tanto piu grati di farci sentire ciò che a volte avevamo solo letto! Certo, suppongo che egli volesse anzitut­ to informarsi a sua volta con maggior esattezza, controllare direttamente se i nostri entusiasmi non avessero soverchiato il proprio oggetto; e im­ magino, posso immaginare, qualche scetticismo neU’imprendere una ve­ rifica così essenziale... Ma la buona fede non può lasciarsi indefinita­ mente sorprendere, e la musica s’impone lealmente a chi la riguardi con lealtà. Quante obiezioni vedo levarsi: che stranezza voler inquadrare la vita e gli interessi di Désormière, vederli per eccesso da un punto di vista personale. Quanti vogliono contraddirmi, mi ripetono che la sua vita non è affatto costruita in funzione della mia dimostrazione; e hanno buon gioco a sollevare precisi ostacoli sulla strada che va da lui a me, quando oppongono il suo eclettismo di fatto al rigore che mi sforzo invano di trovare, e, in una parola, accusano la parzialità del mio ritratto dicendo che sono un autore in cerca di personaggio... Ma posso subito replicare: Non ci prende mai il desiderio di rimodellare a nostro piaci­ mento il volto di coloro che per qualche verso ci sono vicini? Se mai sorge in noi questo desiderio, non può voler dire che vi sono solide ragioni e che il personaggio si presta? Posso immaginare - senza poi un grande sforzo, - che un articolo sul Pierrot lunaire, dimenticato fra altre carte in un tempo ormai remoto, che alcuni appunti presi giorno per giorno, nella fretta e durante il lavoro, non siano rivelatori unici, né si presentino come segni privilegia­ ti... E nondimeno intuisco ciò che in questi casi indica una continuità: se non nelle idee, o nei gusti, perlomeno nel modo di essere, nel modo di agire o di reagire. Perciò, deliberatamente, volgo i documenti, per quan­ to posso (e nella misura in cui lo consentono...) verso un’interpretazione mia! Ma mi guarderò bene dal dimenticare che la mente di Désormière

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non era completamente vocata alla «modernità», che egli cercava, come ognuno di noi, di trovarsi un coro di ascendenti congeniali — e che anche in questo, né più né meno che in ambito con temporaneo, non siamo esenti da quei condizionamenti che ci spingono a operare certe scelte piuttosto che altre. Si rammentino le sue numerose incursioni nel mondo della musica francese dei secoli xvn e xvm. Fatto curioso, e senza forzare l’interpretazione della sua attività, non si può non rilevare in questo campo meno direttamente «attuale», un desiderio analogo di trovare equivalenti nazionali ai nomi del patrimonio internazionale: una sorta di soddisfazione infantile di vedere il Monte Bianco prender posto all’interno delle nostre frontiere, mentre altri paesi possono comprende­ re l’Everest, l’Aconcagua o altri il Kilimangiaro! Che ingenua predile­ zione in questi parallelismi ereditati dal caro Plutarco... Certe vette «prese», congelate, nel patrimonio storico, fanno talvolta sorridere, sen­ za malizia: il corteo degli antenati scelti si rivela, in effetto, toccante di senso «familiare»; concernendo la nostra stessa area, l’operazione rive­ ste una minore innocenza se rivela un cosi profondo candore, e rischia, all’occorrenza, di saldarsi in un modo più avventuroso... Quali che siano i motivi che provocano una simile filiazione selettiva, si deve riconoscere che la prospezione di Désormière è stata fruttuosa, portando a nostra conoscenza un certo numero di autori poco noti, di opere praticamente ignorate; una documentazione ragguardevole, un repertorio nazionale, che si è avuto il torto di elevare troppo tardi a altitudini immeritate determinandone ben presto l’ossidazione: conseguenza ineluttabile per una lega cosi instabile, forgiata nei miraggi artificiosi suscitati da un entusiasmo di contraddizione. Se la predilezione di Désormière lo ha orientato verso la scoperta di opere più specificamente francesi (altre sarebbero seguite, che non ci risparmiavano niente dei piccoli maestri italiani, e tedeschi, fino al completo sfinimento), non meno egli si è dedicato con estrema precisione a far rivivere opere che non meritavano in alcun modo la mancanza di eredi in cui erano cadute. Basti ricordare la reviviscenza dei Vespri di Monte verdi, dati dapprima in brani scelti, seguiti di concerto in concerto (come un romanzo d’appendice spaiato), suonati poi integralmente nel corso di una serata che resta viva nella memoria di coloro che l’hanno vissuta. Non è una svista veder spuntare il nome di Monteverdi nelle note postume di Désormière, sotto la rubri­ ca più artigianale, la strumentazione. Leggiamo: «Interessarsi alla storia della strumentazione» «Le famiglie di strumenti» «La ricchezza di Monteverdi» e ancora: «Essere curiosi di documentazione»

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«Conoscere le fonti di ispirazione. - L’epoca, la vita del compositore, la sua psicologia». Ho avuto la fortuna di seguire molto da vicino il lavoro di prepara­ zione compiuto da Désormière per i Vespri di Monteverdi; e ho visto la cura con cui egli collazionava le due edizioni allora in uso, rettificando il testo spurio, ristabilendo l’ordine invertito di certi brani, confrontando ­ lo con l’originale nei casi dubbi: in breve, un lavoro in cui sono versati i musicologi piuttosto che i direttori d’orchestra. D’accordo, è solo una questione di rispetto della musica: una cosa elementare; elementare, ma nient’affatto usuale... e si resta sempre un poco meravigliati quando non si è in grado di osservare, in rare manifestazioni, questo «elemento» primordiale dell’esecuzione. Ho apprezzato il suo «gusto del lavoro ben fatto» - per usare l’e­ spressione con cui egli lo raccomanda - quando ho seguito passo passo l’impostazione delle Noces di Stravinskij: dal lavoro separato con i pia­ nisti, i cantanti e i cori, sino all’esecuzione cosi bella; la straordinaria perorazione, soprattutto! Fu in quell’occasione che Désormière mi mise a parte degli esercizi pensati per suo uso, e che consigliava di adottare per segnare senza alcuna difficoltà i «mutamenti di tempo» spesso temu­ ti, e temibili... Il metodo consisteva nel partire da un metro espresso in valori uguali, e poi nel liberarsi via via della suddivisione costante sino a farne completamente a meno, salvo che per un breve controllo. Egli riteneva che la prima difficoltà da superare stesse nel possedere natural­ mente la doppia pulsazione, il senso ritmico per le due unità di base che dànno, combinandosi, tutte le figure fissate a partire dalla moltiplicazio­ ne dell’unità piu piccola. (Ciò che Bràiloiu, giunto a questo passo da tutt’altre considerazioni - chiamava all’epoca il «giusto sillabico bicrono»). Quando il tempo si colloca in uno spazio relativamente moderato, è facile controllarsi, resta una precisa disparità tra la pulsazione binaria e la pulsazione ternaria, ma a partire da una certa accelerazione, la difficol­ tà cresce in misura vertiginosa, per cui occorre un solido slancio non solo per dominare anzitutto il ritmo mentalmente, ma ancor più perché il braccio e il polso conservino un controllo assoluto sul getto della pulsa­ zione, e restino visivamente di una precisione inattaccabile. (Questo mi fa venire in mente, come di colpo, lo stupefacente virtuosismo, di un genere affine, con cui il «direttore d’orchestra»-percussionista trasmette un’accelerazione irresistibilmente allungata ai musicisti di un complesso balinese; in questo campo le nostre prestazioni europee si rivelano molto modeste, paragonate, a esempio, con la rapidità e l’esattezza dei riflessi di un musicista balinese o giapponese. Posso immaginare i discorsi che

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sarei portato ad avere oggi con Désormière, sull’esplorazione di nuove maniere di dirigere, di coordinare l’azione musicale; come ho potuto averne con Rosbaud sulla necessità di certi gesti, sulla loro chiarezza ed efficacia, sulla resa che ne viene al testo musicale. Sino ad oggi, le opere d’insieme hanno richiesto da parte del direttore scarso virtuosismo, nel senso in cui lo si intende di uno strumentista; si centra l’azione, si riunisce un centinaio di energie, circa, in un solo insieme, veramente «diretto», «direzionale». Si ha l’impressione che oramai coordinare l’a­ zione musicale sia destinato a diventare un fatto meno monolitico, e che il direttore, invece di mettere unicamente insieme, possa disperdere l’e­ nergia musicale in diverse direzioni: non solo direzioni reali, legate alla ripartizione spaziale, ma modi di agire diversamente la musica. Si arriva a concepire una partitura di gesti coordinati col testo, ad esso però legati da rapporti agili: un’azione su un oggetto già costituito, che attende solo in via subordinata dal direttore un’impostazione interna, dovendole piut­ tosto i propri dati accidentali, i propri punti d’inserimento nel tempo, i propri rapporti con gli altri oggetti musicali. Sì! la scienza della direzio­ ne, la sua tecnica, «è da reinventare»... Essa deve rafforzare attivamente la presa di possesso di un nuovo universo musicale, offrirgli lo strumento di esplorazione di cui la poetica attuale manifesta un’urgente necessità. Problemi reali, conversazioni immaginarie...) Conversazioni immaginarie, certo; ed è lecito domandarsi a volte (lo si fa con Pascal e Cleopatra) che cosa sarebbe stata l’attività di Désor­ mière se egli non fosse stato fermato così brutalmente, e senza scampo. Domanda superflua, dacché la sua vita «è continuata»; domanda insi­ diosa, dacché la scelta sarebbe divenuta più pungente; domanda disin­ cantata, dacché la vita è continuata nelle scelte attenuate; domande, domande, domande! Poco prima che egli fosse aggredito dal male, avevamo in progetto, con Pierre Suvtchinskij, di dare dei concerti che... dei concerti che... dei concerti, in una parola, che era impossibile — eufemismo quanto mai sobrio - sentire a Parigi. Ci sembrava urgente che il «milione di uccelli d’oro» facesse irruzione, poi che il Vigore era ormai stanco di restare futuro... In alcune conversazioni amichevoli ma non meno animate, ave­ vamo parlato di opere, discusso programmi, prevista la sala; Désormiè­ re, conquistato alle nostre suggestioni, rifletteva ai lati pratici della rea­ lizzazione. E poi giunse la malattia; e poi restò purtroppo senza di lui il «campo musicale». Quando Désormière, oramai condannato, morì nello scorso novem­ bre, ne ebbi notizia proprio mentre correggevo le bozze del primo pro­ gramma della stagione; scrissi allora questo breve omaggio, pensando a

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tutto ciò che avrebbe potuto essere, alla vita musicale francese privata, spogliata della sua presenza stimolante: «Sono passati undici anni da quando, murato nel silenzio da un incubo irreversibile, egli era diventato lo spettatore lucido e impotente della sua vita troncata di netto, della sua attività bruscamente interrotta. Cosi, molti giovani compositori e ascoltatori nuovi, nati alla musica contemporanea dopo il 1952, non hanno conosciuto di lui se non una fama resistente che sconfinava nella leggenda... Quanto a noi, delle ese­ cuzioni che egli diresse, più ancora che dei ricordi, ci restano alcuni esempi indelebili. «La sua scomparsa rende più vivo il nostro rimpianto, amaramente risvegliato da una malattia che lo aveva condannato al ruolo assurdo di un testimone imbavagliato, di un militante disarmato. La musica con­ temporanea aveva perduto un animatore incomparabile: questo posto vuoto era - certo - un’accusa: contro la frivolezza, l’incuria, la prudenza, la meschinità. Roger Désormière non aveva paura di scegliere, di mani­ festare la propria indipendenza, e il proprio coraggio - nella sua profes­ sione, o fuori di essa. «La morte giunge ad annientare un assente, già crudelmente elimina­ to; sulla soglia del nostro Campo, noi suscitiamo la sua ombra, paralizza­ ta per sempre, la sua ombra "eretta nella distanza! ”». Potrei parlare del coraggio personale di Désormière, delle sue opzio­ ni politiche, della scelta determinata che egli fece in un momento della sua esistenza iscrivendosi al partito comunista, senza con questo cadere in abbagli, o rendersi insensibile alle aporie degli anni che vanno dal ’47 al ’52. Le polemiche inconsistenti e le prese di posizione dirigistiche non trovarono in lui che un’onestà decisa a non lasciarsi imporre una visione stretta e antistorica dell’evoluzione musicale; egli non ha mai aderito a quelle «ideologie» retrograde giustificate dal miracolo del dittatore chiamato poi culto della personalità — che accusavano di cosmopoliti­ smo e altre vergognose tare (del genere: putrefazione della cultura), i compositori più importanti dell’epoca contemporanea. Egli ironizzava volentieri, quando non era fortemente irritato da certi immondi metodi polizieschi, sulle sciocchezze propalate nelle crociate della musica «Pro­ gressista», secondo le direttive zdanoviane; infatti egli non era di quelli che volutamente ingannano se stessi, e cercano di camuffare le esigenze della creazione sotto pretese necessità di ordine sociale - degradazione sfrontata di un problema reale ed essenziale. Anche nel periodo più buio dello stalinismo, egli non cessò di dirigere la musica che riteneva degna di essere suonata, col rischio di cadere in sospetto dei «compagni» più servili, meno onesti e, a dir tutto, poco perspicaci nel vedere lontano,

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come gli avvenimenti che seguirono hanno poi chiaramente dimostrato. Il «lavoro ben fatto», la «spiritualità», l’«umanesimo», di cui parla nelle sue note sulla direzione, lo avevano portato appunto alle sue op­ zioni politiche: non un umanesimo di convenzione che innescava impe­ rativi estetici convenzionali; né una spiritualità «pronta da indossare», foggiata a colpi di divieti e di direttive; e neanche un bel lavoro di artigia­ no limitato e poco accorto, che produce per imposizione, temendo il biasimo folgorante pronto a sconvolgerlo se, per avventura, dovesse smarrirsi. Per la sua generazione, questo restava l’ideale generoso (l’u­ topia) del 1936, ritemprato nella lotta contro l’oppressione ideologica e nazionalista. La libertà della scelta, la discussione aperta, l’analisi criti­ ca: ecco che cosa egli intendeva instaurare come «base e culmine» della sua esistenza, nei limiti e al di là della sua professione. In una parola sola, l’onestà: un termine che trovo anche tra le sue note... E non è una strada delle più comode questa linea di divisione tra il servilismo e il «tradimento»: gli intriganti vi spiano fino a quando la loro furberia non colpisca a vuoto e la loro miserabile attività fallisca agli occhi di tutti! Ma nella distanza come appare esemplare il comportamento morale di Désormière; come gli siamo grati di essere stato generoso senza accettare la costrizione, di avere profondamente compreso la necessità, sentito il dovere dello scambio culturale, della comunicazione con la collettività, senza scadere nella facilità offerta dalle soluzioni pigre, ipocrite, dai sentori nazionalistici più dubbi, rivestite del conservatorismo peggiore; questo tanfo di scuderia «piccolo borghese», comprendiamo come egli lo abbia avuto in odio! Ricoperto da quest’orrida maschera, egli non sarebbe stato Désormière, ma uno di quei tanti parassiti a cui piace dare un’alta idea e una grande coscienza di sé mentre non si stancano di votarsi alla mediocrità più mediocre. Il suo posto vuoto era proprio, come ho detto, un’accusa! E vengo ora ai suoi ultimi anni, agli sforzi accaniti compiuti dai suoi amici per cercare di rieducare i centri nervosi parzialmente distrutti, alla speranza per un momento nutrita che egli avrebbe potuto avere ancora un’attività professionale. Agli inizi della sua malattia, egli tendeva con tutto il suo essere al «recupero» dei gesti interrotti; era una tristezza insostenibile vederlo di continuo scontrarsi con le difficoltà insorte di fronte a meccanismi che non funzionavano più e che occorreva penosa­ mente riacquistare di segmento in segmento. Se si parlava con lui, sor­ prendevano la sua lucidità e la sua memoria al pari del suo buon umore al ricordo di passati aneddoti evocati per la loro comicità; lo si rimpian­ geva tanto più amaramente in quanto la possibilità di comunicazione diretta gli era ostinatamente preclusa. Si aveva l’impressione, a volte

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straziante, di parlare con un essere completamente lucido murato in una prigione di vetro. La stessa impressione che si prova in uno studio di registrazione quando ci si dimentica d’inserire il microfono di servizio; la persona in cabina vi sente, e vi comprende perfettamente, mentre voi non capite quello che dice, se non dai gesti e dall’espressione del volto. Cosi era per Désormière che seguiva ancora con un interesse appassiona­ to l’attività del mondo esterno col quale egli non poteva se non difficil­ mente comunicare in maniera attiva. Un supplizio atroce che egli sop­ portò con una compostezza che obbligava l’altro alla discrezione: ed era esattamente nella linea del Désormière che avevamo conosciuto nella pienezza della sua attività. Il personaggio, in questa orribile metamorfo­ si, era rimasto fedele alla linea di condotta che si era con rettitudine tracciata. Nella prigione irrimediabile in cui si trovava consegnato con brutalità e ostinazione, egli conservava una distinzione e un’eleganza che negavano alla malattia il suo dominio, rifiutava la facilità di essere accet­ tato per «malato», insieme con la pietà e la commiserazione che implica l’ammissione di un tale stato. Egli prese dunque una decisione incrolla­ bile: il mondo musicale che era stato cosi spesso soggiogato dal suo fascino, avvinto dalle sue doti e dalle sue esecuzioni, che aveva beneficia­ to copiosamente del suo prestigio, questo mondo professionale al quale era tanto legato dal sentimento come dal mestiere, non lo avrebbe visto piu. Quale forma più alta di rispetto poteva manifestargli, se non na­ scondere, fisicamente, la sua persona colpita, lasciando intatta nel ricor­ do di ciascuno la figura del Désormière ammirato e amato? Una delibe­ rata cancellazione; una soglia che la sua leggenda doveva varcare per far «scomparire», ancora in vita, ogni scoria dovuta al caso. Come fu fredda, nebbiosa e di una tristezza penetrante nella sua banalità, quella mattina di novembre in cui si consumò il suo allontana­ mento definitivo: stagione morta dell’assenza! Dimenticata... La rivedo nella memoria, la confronto con la frase già nota: «Lo scopo è di arrivare alla più grande sobrietà, di disfarsi a poco a poco di tutto ciò che è inutile». Il destino gli aveva imposto di verificare alla lettera questa osservazione meramente professionale sul proprio mestiere: cosi, la sua esistenza che si era di fatto spogliata, su un ritmo di crudele lentezza, di tutto ciò che è inutile; il carro funebre segnava con derisione la sobrietà suprema... Quale rintocco funebre sarebbe meglio convenuto se non l’ultima pagina delle Noces, così come egli l’aveva anni prima diretta, in cui aveva in modo cosi straordinario realizzata quella «paralisi» dell’ac­ cordo finale, e l’assorbimento del suono da parte del silenzio! Rito della diluizione e dell’addio, non saprei dargli — per prendere a prestito la mia citazione dal Soulier de satin — se non appunto questo senso:

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«Ho in orrore il passato! Ho in orrore il ricordo! Questa voce che credevo di sentire poco fa in fondo a me, dietro di me, Essa non è dietro, è avanti che mi chiama; se fosse dietro non avreb­ be una tale amarezza e una tale dolcezza! » Adesso, carissimo Désormière, che Lei non è più con noi, per sem­ pre!

43. Situazione e interpretazione di «Wozzeck» .* Nell’itinerario di Berg, non meno che nella storia della musica, Woz­ zeck segna una data fondamentale; l’opera costituisce un contributo di primaria importanza nel campo a cui appartiene. Vi si ritrovano le stesse inquietudini formali, quasi le stesse manie dei capolavori piu alti dell’au­ tore. Lo schema dell’opera può descriversi come segue:

a} Esposizione, che con le prime cinque scene, forma il primo atto; b) Peripezia, che comporta le cinque scene seguenti e costituisce il secondo atto; c) Catastrofe, con le cinque ultime scene riunite nel terzo atto.

La solida struttura formale che Berg aveva data al testo di Biichner doveva servirgli a fissare con forza l’architettura della propria musica. Un certo parallelismo si scorge poi tra il primo e il terzo atto, che inquadrano un atto secondo più lungo e più importante; e inoltre, il secondo atto impiega forme più rigorose che non le forme libere utilizza­ te nel primo e nel terzo atto. Infine, ogni atto termina con una cadenza sullo stesso accordo, con talune modificazioni, tuttavia, nella disposi­ zione. In breve, le cinque scene del primo atto sono unità caratteristiche {Suite, Rapsodia, Marcia militare e Berceuse, Passacaglia, Quasi Ron­ dò); le cinque scene del secondo atto costituiscono i cinque movimenti di una sinfonia {Sonata, Pant asia e Fuga, Largo, Scherzo, Rondò con Introduzione); mentre le cinque scene del terzo atto possono essere considerate come Invenzioni (su un Tema, su un Suono, su un Ritmo, su un Accordo quindi su una Tonalità, su un Movimento perpetuo). Si potrebbe credere da quanto si è detto che Berg torni all’antica forma dell’opera per numeri separati quale si praticava prima di Wag­ ner; in realtà, egli risolve — e qui sta il suo genio — l’antinomia esistente tra una concezione «segmentata» e il dramma musicale continuo lascia­ toci da Wagner. Wozzeck rappresenta così il riepilogo dell’opera in * In occasione della prima in Francia di Wozzeck a l’Opera di Parigi nel 1963. Testo del cofa­ netto CBS 3003.

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quanto tale, tanto, forse, da conchiudere definitivamente la storia di questa forma. Dopo Wozzeck, si direbbe proprio che lo spettacolo musi­ cale abbia da cercare altri mezzi di espressione. Dal punto di vista tematico, il leitmotiv (più esattamente Erinnerungsmotiv) svolge un ruolo molto più differenziato che non in Wagner, servendo veramente a elaborare le forme e integrando cosi il pensiero drammatico con quello musicale nel modo più soddisfacente e adeguato. Se è impossibile, in un breve riassunto, esporre i molti usi di un tale procedimento, il motivo sottoposto a molteplici variazioni, che conferi­ sce la più forte coerenza a tutto l’insieme delle quindici scene di Woz­ zeck, era indispensabile insistere su questo impiego delle forme musicali nell’opera, in quanto Berg vi attribuiva un’importanza estrema, sino a scrivere un articolo in cui difendeva con forza la propria concezione. «Mi si creda, — diceva, — tutte le forme musicali incontrate nel corso dell’opera sono riuscite, e sono in grado di dimostrarne in maniera per­ suasiva e approfondita la giustezza e la fondatezza». In un altro testo, sempre a proposito di Wozzeck, Berg aggiunge: «Ogni scena, ogni musi­ ca di intermezzo doveva dunque vedersi attribuire un volto musicale proprio, e identificabile, un’autonomia coerente e chiaramente delimita­ ta. Questa esigenza imperiosa ebbe come conseguenza l’impiego cosi discusso di forme musicali antiche o nuove, delle quali non si fa uso di norma se non nella musica pura. Esse soltanto potevano garantire la pregnanza e la nitidezza dei diversi brani». Egli poi continua con una dichiarazione che è tra le più importanti: «Quale che sia la conoscenza della molteplicità delle forme musicali contenute in quest’opera, del rigore e della logica con cui sono state elaborate, dell’abilità combinatoria messa in atto sin nei loro minimi particolari, dal momento in cui si alza il sipario fino a quando cala per l’ultima volta, non può esserci nessuno nel pubblico che distingua alcun­ ché di queste diverse fughe e invenzioni, suites e sonate, variazioni e passacaglie, la cui attenzione sia assorbita da altro se non dall’idea di quest’opera che trascende il destino individuale di Wozzeck». Ecco come Berg persegue l’efficacia drammatica più diretta attraverso l’elaborazione formale più raffinata! Ma in che modo allora l’interprete può sottrarsi a una contraddizione apparente cosi vistosa? Deve procu­ rare di rendere percepibili le forme sinfoniche usate da Berg, o deve concentrarsi sulla sola forza drammatica, sull’espressione? Deve dispe­ rare di poter dare al pubblico una chiara coscienza di quest’« abilità combinatoria» di cui parla Berg? Come tenderà all’«idea» dell’opera attraverso le insidie formali che si levano sul suo cammino? Insomma, deve anch’egli seguire il consiglio di Berg ai suoi eventuali ascoltatori, di

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dimenticare ogni spiegazione teorica e ogni posizione estetica? Berg era particolarmente orgoglioso di aver saputo conciliare rigore musicale e forza drammatica; ma non voleva assolutamente passare da pedante o accademico... Di qui quell’eccesso di precauzioni nelle sue parole! Che credo, per parte mia, di doverle trascrivere cosi: se sei perspicace, cono­ scerai le sottigliezze della mia opera e i segreti della sua costruzione; se sei ancor più perspicace, li conoscerai così bene e li avrai cosi bene assimilati che noterai che sono una sola e stessa cosa con l’espressione drammatica. È questa la linea di condotta, comunque, che mi sono fissata per chiarire il «segreto» di Wozzeck. Bastino qui alcuni esempi piuttosto semplici ma oltremodo significa­ tivi. Nell'invenzione su un suono (seconda scena del terzo atto) una nota, il si, resta costantemente presente sotto tutti gli svolgimenti tema­ tici, più o meno importante, più o meno «udibile», sino al momento in cui, compiuto l’assassinio di Marie da parte di Wozzeck, l’orchestra altro non diviene che il mostruoso allargamento di questo si, mentre irrompe l’ossessione della scena seguente, un’ossessione ritmica. Credo che oc­ corra sforzarsi di dar valore alle fluttuazioni di questa nota centrale, che corrispondono alla presenza ora sfumata (il rombo dei contrabbassi, all’inizio), ora terribilmente precisa (il martellamento regolare e spietato dei timpani, verso la fine), dell’idea di omicidio nella mente di Wozzeck, sino al compimento stupefatto e atterrito sulla nota-scioglimento do allorché egli constata: «Tot!» Se si sono impostate con precisione le fluttuazioni e le metamorfosi di questa nota centrale, non vi è dubbio che il pubblico, anche meno avvertito, colga, sia pure inconsciamente, le incertezze, le esitazioni di Wozzeck, e la sua determinazione finale che niente più può fermare. Un’impostazione siffatta della sola musica de­ scrive perfettamente la situazione drammatica e le più sottili gradazioni del suo evolversi. Penso ora alla scena seguente, dominata in tutto dall’ossessione di una sola figura ritmica, la quale regola sia le parti strumentali che quelle vocali. Siamo entrati nel mondo dell’incubo: niente oramai può essere naturale; tutto, invece, dipende da un automatismo meccanico, sorta d’ingranaggio della verità, che sta per stritolare il miserabile Wozzeck. Si spiega così perché è necessario porre particolarmente in rilievo le distorsioni linguistiche provocate dal ritmo così possente, e portare al­ l’evidenza incandescente il lato assurdo della dizione cosi ottenuta: Ich glaub’ / ich hab’ / mich / geschnitten,... Wie kommt’s / denn zum / El... / ... lenbogen? *. 1 «Credo / che mi / sono / tagliato... | ma come / ci arriva / al / go... / ... mito?»

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Quanto più si fa risaltare la struttura ritmica, tanto più direttamente il pubblico può cogliere l’incubo meccanico della denuncia che respinge Wozzeck verso il suo assassinio e verso l’espiazione. Cosi, nell’ultima scena dell’opera, V invenzione su un movimento per­ petuo, l’andamento regolare delle crome deve chiudere l’opera su una sorta di indifferenza, leggermente turbata dall’annuncio dell’assassinio di Marie, indifferenza nel movimento (chiamato appunto «perpetuo») che riflette perfettamente l’indifferenza dei bambini di fronte alla morte degli adulti, e traduce altresì il fatto banale che «la vita continua», uguale a se stessa, esente da ogni stupore, capace di una pietà solo momentanea, episodica e caduca. Il pubblico deve allora chiaramente percepire che l’Opera non ha una fine propriamente detta, ma termina sui punti di sospensione di un equilibrio precario: un dramma simile può accadere, è sul punto di ripetersi ancora, in qualsiasi luogo, in qualsiasi momento... Ho preso di proposito gli esempi più immediatamente significativi che si trovano nel terzo atto. Ma potrei anche attingere ai tesori più segreti del secondo atto. Addurrò a dimostrazione solo la quarta scena, nel giardino dell’osteria, che adotta la forma scherzo, interrotto da tre trii. Lo scherzo a sua volta è legato al valzer che trascina tutti i clienti in un vortice sempre più frenetico sino all’allucinazione. I trii che lo inter­ rompono sono legati invece agli «avvenimenti» che creano subito delle isole d’attenzione attorno a un punto dato, molto preciso: i due appren­ disti, il coro di apprendisti e di soldati, l’intervento più irrazionale, più insolito, del Buffone, «avvenimenti» che distolgono Wozzeck dalla sua contemplazione e cristallizzano la sua idea fissa, in quanto il ritorno del valzer accresce ogni volta la tensione drammatica sino al parossismo finale. La drammaturgia di questi arresti e di questi ritorni non sarà resa chiaramente percepibile per l’uditorio se non si pone la massima cura nel rendere il «taglio» della forma musicale. Non avrei difficoltà a indicare altre scene dell’opera per spiegare quanto, ogni volta, rendere giustizia alla costruzione e all’organizzazione della musica, sia rendere giustizia all’organizzazione drammatica e all’a­ nalisi dei caratteri. Ogni volta, in particolare, che una situazione presen­ ta un certo parallelismo con una situazione già incontrata, ogni volta anche che una parola suggerisce, per associazione, la stessa parola posta in un contesto diverso, Berg ricorre a certe forme di «citazioni», che è quanto mai urgente porre in risalto, se si vogliono far cogliere i legami talvolta fugaci che congiungono un momento a un altro. Vi è in Berg in maniera molto consapevole una sorta di simbolica generale che si riferi­ sce sia alla forma, sia ai motivi, sia agli intervalli stessi (la quinta lajmi

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per la morte, a esempio), di cui si deve trasmettere nel modo più eviden­ te possibile la forza emotiva. In un’opera peraltro quanto mai comples­ sa, sono le linee di forza quelle che si fisseranno nella mente a un primo approccio: esse rafforzano il dramma conferendogli un’epifania uditiva direttamente percettibile, in quanto intesse fenomeni acustici con stati drammatici; a partire da questi dati si forma nell’ascoltatore un solido amalgama che acutizza la sua sensibilità ponendolo in un perpetuo stato di allarme. Questa simbolica, a mio avviso, deve essere una delle princi­ pali preoccupazioni dell’interprete, e, in particolare, del direttore d’or­ chestra. D’altro canto, la simbolica comporta un certo numero di imperativi, tra cui in primo luogo la chiarezza dell’enunciato orchestrale. Se si vo­ gliono cogliere le numerose allusioni di Berg, non ci si può limitare a un’impostazione «generale»: si deve cercare di giungere, per quanto è possibile, alla chiarezza di un’orchestra da camera, come del resto espressamente richiede e raccomanda l’autore. Cosi, oltre a un vantaggio diretto, si può fare a meno di coprire la voce dei cantanti, riservando i culmini dell’espressione per i commenti orchestrali, i quali costituiscono una sorta di riflessione sulla scena che si è appena svolta proprio mentre lasciano presumere quanto sta per seguire. Non sono semplici interludi, ma proprio parti integranti della grande forma musicale, prive di azione scenica e di un corrispondente visivo. La connessione di certe scene tra di loro fa pensare molto spesso a una «dissolvenza incrociata» cinema­ tografica; quanto alla tecnica generale di Berg, spesso essa mi ricorda gli espedienti romanzeschi di Proust. Siccome ho nominato la parola «tecnica», vorrei soffermarmi un poco sullo Sprechgesang, un argomento molto controverso, a cui mi chiedo se sarà mai possibile dare una soluzione veramente soddisfacente. Nella sua prefazione, Berg fa espresso riferimento agli esempi forniti da Schonberg in Die giuridiche Hand e nel Pierrot lunaire; in sostanza riprende le stesse spiegazioni fornite da Schonberg all’inizio delle due partiture. Il problema si presenta dunque in modo identico: l’esecuzione deve guardarsi, nello Sprechgesang, sia da un modo di parlare «cantilenante», sia da un modo realistico e naturale. Forse il nodo dell’impossibilità di una realizzazione esatta risiede in un errore di analisi circa i rapporti tra la voce parlata e la voce cantata. Per una determinata persona, la tessitura cantata è più estesa e più acuta della gamma parlata, quest’ultima più ristretta e tendente al grave; d’al­ tra parte, molti individui avendo una tessitura cantata molto simile (non si dimentichi che essa è elaborata al fine di acquisire certe «norme»),

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saranno capaci di una gamma parlata piuttosto diversa - soprattutto le donne. Cosi, i passaggi di Sprechgesang sono a un tempo troppo acuti e troppo gravi. Insomma, la voce parlata lascia il suono a causa della brevità dell’emissione; se vogliamo, la voce puramente parlata è una specie di percussione a risonanza brevissima: di qui l’impossibilità del suo parlato propriamente detto su una lunga durata. Come traccia delle numerose difficoltà incontrate su questa strada mal delineata, posso prendere la prima scena del terzo atto. Quando Marie legge la Bibbia, o narra una fiaba, Berg impiega lo Sprechgesang} quando riflette su se stessa e sulla sua situazione presente, impiega il canto. Questi due mezzi simboleggiano esattamente Marie immersa in un mondo scritto o raccontato, un mon^o-citazione, e Marie ripiegata su se stessa, sugli avvenimenti che la riguardano direttamente. Abbandona­ re il contrasto vocale sarebbe dunque un tradimento verso la traduzione acustica di questa antinomia, sfocerebbe in un non-senso rispetto alla situazione drammatica e la psicologia del personaggio di Marie nel mo­ mento in cui la osserviamo. Il problema non è teorico *, si deve differen­ ziare Sprechgesang da G esang. Ma quando si vede la tessitura impiegata da Berg, si comincia a dubitare di una realizzazione plausibile in rappor­ to agli intervalli scritti dello Sprechgesang... Specialmente nella fiaba, vi sono alcuni sol e la bemolle acuti suscettibili di dare risultati poco inco­ raggianti! Se li si evita, si rischia di cadere in un’interpretazione di donna-bambina, ricca di moine e piena di grazia; se li si sostiene, si va dritto verso l’isteria di una voce altissima e mal impostata: le due eventualità non sono affatto «in situazione», e cadrebbero nel ridicolo più «antidrammatico»! Queste intonazioni acute, relativamente facili quando si cantano, divengono bruscamente un ostacolo notevole; poiché non si può, solo per sentire le note scritte, rinunciare senza rimorsi allo Sprechgesang. Ci si troverà perciò di fronte a questo dilemma delicato, o meglio difficile: che cosa scegliere? Le note reali, ma anche il canto? Lo Sprechgesang, ma non tutte le note reali? Personalmente, propendo senz’altro per la soluzione «drammatica», pur deplorando di non potere attenermi alla giustezza delle altezze cosi come sono rigorosamente annotate... Segnalo il fatto per non essere sospettato di negligenza, e perché si conosca la mia «indecisione» di fronte a un problema che ritengo insolubile, nel senso letterale del ter­ mine. Per la complessità organica profonda che mette nelle sue opere, per l’intensa efficacia drammatica che vi infonde, Berg giunge a dare a una forma la sua massima forza di significato. I mezzi tecnici di cui si è servito in Wozzeck per descrivere le situazioni più tese si richiamano alle

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tecniche più rigorose. Noi possiamo altresì segnalare il suo bisogno della citazione, sia che si tratti di un testo musicale, di una forma di orchestra­ zione, di una canzone popolare...: ciò pone in luce la «discrepanza» che esiste nell’animo di Berg tra una musica composta, per essere esatti, e una sorta di cliché musicale, in certo senso «idealizzato». Siamo così in presenza di una nozione di valore più o meno intrinseca accordata al testo musicale secondo la qualità (la referenza) estetica di cui si pretende caricarlo e il potere emotivo, aneddotico, di cui sarà dotato; ci troviamo di fronte a un’arte poetica tutta dedita a stabilire rapporti di stile com­ positi. Di tutto questo si deve sommamente tener conto quando si dirige un’opera dalle risonanze così ambigue e complesse; le ramificazioni dram­ matiche al pari delle divergenze stilistiche possono trovare la loro unità profonda in una visione estetica operante una sintesi su elementi etero­ genei; il rigore della forma, d’altro canto, sarà il centro che trattiene certe forze centrifughe, che, lasciate a se stesse, finirebbero per disper­ dersi nel regno dell’aneddotica. Insomma, la forza drammatica può esse­ re ampliata dalla simbolica, presente ad ogni istante, e a tutti i livelli, del linguaggio musicale. Sarebbe vano, in ogni caso, vedere in Berg solo un eroe, dilaniato dalle contraddizioni, o considerarlo solo come l’estremo culmine del romanticismo. Trasponendo le contraddizioni che sono la chiave della sua opera al di fuori dei fenomeni che hanno dato loro vita, Berg ci dà la lezione estetica più proficua; dirigere la sua opera implica essenzialmen­ te l’assimilazione di un tale punto di vista, esige di trasporre in termini pratici la complessità a un tempo così effusa e rigorosamente unificata che resta il segno stesso della sua concezione teatrale.

44. «Parsifal»: il primo incontro .*

Caro Wieland Wagner,

Eccoci ora all’indomani della prova generale, dopo il lavoro di questi giorni, e vorrei così farle il punto sui risultati a cui siamo giunti. Per prima cosa, devo dire che le Sue lettere sono state molto efficaci. Se all’inizio le reazioni sono state un poco aspre, nondimeno hanno costretto tutti a riflettere e a porsi alcune domande che non si erano ancora presentate alla loro mente. La ringrazio di aver gettato il peso * Lettera a Wieland Wagner del 24 luglio 1966, apparsa nel programma Parsifal del Festival di Bayreuth 1973, pp. 48-51.

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della sua autorità sulla bilancia contribuendo in modo cosi vigoroso al rinnovamento «stilistico» della nostra esecuzione. I punti principali intorno a cui si aggiravano i contrasti sono stati studiati abbastanza perché non sussista più alcun malinteso in materia. Il racconto di Gurnemanz, nel primo atto, scorre ora veloce, e non si allarga se non nei momenti importanti, sulle parole importanti, in cui sbocca per così dire sulla situazione drammatica presente. In altre paro­ le, la parte storica del racconto è alleggerita quando non è che un reso­ conto degli avvenimenti che conducono alla comprensione degli avve­ nimenti attuali. Il primo coro è adesso in un carattere molto diverso, più mistico. Ho fatto altresì rispettare all’orchestra la coloritura piano così indispensabi­ le all’inizio del coro. Ora, si ha uno stile sostenuto, che si avvicina alla nozione medievale del monaco-soldato. Durante la cerimonia, il nehmet hin meinen Leib era troppo lento, forse a causa della coloritura estremamente dolce. Ho chiesto al signor Pitz di restare, nonostante l’estrema dolcezza, in un tempo coerente con la frase melodica. D’altro canto questo non è un problema. Adesso anche il Coro finale degli uomini è a posto, mentre evita completamente il lato soldatesco e il canto patriottico! Anche su questo punto ho la mia confraternita di monaci-soldati. Quando l’abbiamo suonata per la prima volta, la scena tra Klingsor e Kundry non era proprio a punto. Tutto ciò che avevamo rielaborato nella sala prove tornava ad essere quanto mai insicuro per via della distanza scenica. Quando abbiamo ripreso la scena, fortunatamente tut­ to si è svolto a meraviglia: semplice questione di abitudine. Ho ottenuto adesso una maggiore varietà nei tempi, una maggiore scioltezza negli ordini di Klingsor e nelle velleità di resistenza di Kundry. In particolare, Klingsor è ormai più heftig da cima a fondo. La scena delle fanciulle-fiori, data la distanza, resta ancora difficilis­ sima. Con la distanza, è proprio necessario ottenere una grande scioltez­ za di tempo. Abbiamo ricominciato per tre volte prima di giungere a un risultato accettabile. Credo che adesso ci siamo proprio con tutti i con­ trasti necessari, e con il virtuosismo che s’impone nella scena. I due «Parsifal», l’uno come un’eco dell’altro, sono adesso giustifica­ ti; fanno andare avanti l’azione senza far scattare il campanello d’allar­ me!! Sono rimasto particolarmente soddisfatto del mutamento interve­ nuto nella scena tra Parsifal e Kundry. Abbiamo lavorato con K. con molta serietà; e stavolta, non ho lasciato passar niente di ciò che volevo fargli osservare. (Essendo rimasto duramente provato dall’osservazione che Lei gli ha fatto sul kitsch, egli si è lasciato convincere molto più

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facilmente dell’ultima volta. Stavolta, aveva paura del più piccolo ritar­ dando, ed è toccato proprio a me dovergli restituire qualche libertà! ! ) La berceuse di Kundry è divenuta anche più espressiva, più «ricca di lusin­ ghe». Ho chiesto, in particolare, tra l’altro, che lo starb di Kundry non riprenda la stessa espressione di malvagità del primo atto, ma che invece, in questo caso, sia detto con una grande dolcezza. Altrimenti, non si comprenderebbe il resto della scena... Ho ottenuto anche da K. una maggiore flessibilità sulla parola Erlósungswonne, da cui erlóse e infine Erloser, che sono tre stati d’animo molto diversi. Tutta la fine della scena è molto meno difficile e si è svolta senza particolari problemi. Come Lei sa, il terzo atto poneva molto meno problemi, e si è proprio svolto con miglioramenti molto notevoli. La nobiltà di Gurnemantz è ormai più naturale, meno costruita di prima. E in definitiva, tutto il suo ruolo acquista maggiore grandezza! L’Incantamento del venerdì santo non cade più nella scipitezza o nel cattivo gusto; ho tenuto duro per il minimo dei rallentando, e di effetti di «grazia» caramellosa. La prima volta, il coro è entrato molto piano} ma abbiamo ricomin­ ciato, e la seconda volta, tutto è andato per il meglio. Anche la fine è andata bene; la vorrei ancor più piano da parte dell’orchestra per avere una sorta di scioglimento dolce, che rimuove l’aspetto «finale di rivi­ sta»... È strano, la soavità del cielo non ha mai molto ispirato né i musicisti né i poeti; viene da credere che immaginare la felicità eterna non ha dato loro che idee soavi e vagamente noiose! (Berlioz alla fine della damna­ tion} Schumann nella Péri} Debussy nel Saint Sébastien} per non parlare di Claudel, cosi brutale di solito, anche verso la sua religione, e che diventa cosi convenzionale quando perviene alla redenzione!) Vorrei un poco evitare questo bagno finale di soavità mediante l’im­ materialità della sonorità di orchestra, ma non ci sono ancora riuscito. Abbiamo ancora degli angeli paffuti e polputi. Spero di poter ancora sistemare la cosa durante la rappresentazione. Certamente, dopo la prima, verrò a trovarla, se la cosa non la stanca troppo, per darle a viva voce le mie impressioni freschissime di «no­ vizio». Con i migliori auguri che formulo di nuovo per il ristabilimento della sua salute, la prego di credere alla profonda fedeltà della mia simpatia.

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45. «Der Raum wird hier zur Zeit» .*

Sembra quasi un paradosso che io possa parlare di Wieland Wagner come regista, giacché ho avuto occasione di lavorare con lui solo una volta per la sua messa in scena di Wozzeck alTOpera di Francoforte la scorsa primavera. Il destino ha voluto che io non lo abbia mai incontrato neanche a Bayreuth da cui la malattia lo aveva allontanato proprio quan­ do io vi arrivavo per la prima volta. — Piu che ricordi o aneddoti, mi piacerebbe cogliere soprattutto ciò che mi aveva attratto nella sua per­ sonalità, piu o meno consapevolmente all’epoca per l’appunto in cui ho lavorato con lui: di certe realtà o di certe idee ho preso coscienza un poco più tardi e soprattutto quando, a causa della sua malattia, ho dovuto informarlo in modo abbastanza preciso sul mio lavoro musicale durante la sua assenza. Naturalmente vi è una grande distanza tra Parsifal e Wozzeck o meglio, per rispettare la cronologia del nostro lavoro, tra Wozzeck e Parsifal; e non vedo bene quale conclusione generale potrei trovare da una visione d’insieme costruita sulle due opere. Nondimeno penso che Wieland Wagner fosse più particolarmente interessato a vedere la musi­ ca e anche il suono dell’orchestra in relazione con l’apparato scenico sino al suo aspetto più «istantaneo», intendo dire quello delle luci. Una delle grandi ossessioni degli ultimi suoi anni era la mancanza di coordinamen­ to consueta, di regola, nei teatri tra la scena e l’orchestra. Certo, vi sono soluzioni personali quando, poniamo, il direttore d’orchestra è anche il regista; ma occorre riconoscere che i risultati non sono del tutto convin­ centi, dal momento che la qualità non è in tutto la stessa ai diversi livelli di questa operazione multiforme: di solito, il livello scenico risulta di gran lunga inferiore al livello musicale, con l’effetto di distruggere il principio unitario che si cerca di ottenere. Infatti per attuare la fusione tra scena e orchestra, non basta perseguire un raccordo di aspetti molte­ plici o riferirsi a un’unica fonte: la fusione è molto più difficile di quanto non lo sia un semplice coordinamento tra diverse personalità o all’inter­ no di un solo personaggio. Nella maggior parte dei casi è certo che ognuno fa la sua parte per sé: il direttore d’orchestra e i cantanti insisto­ no esclusivamente sull’aspetto musicale quale che sia l’impostazione de­ gli avvenimenti sulla scena, mentre il regista tende in generale a non es­ * [Lo spazio diventa qui tempo]. In Memoriam Wieland Wagner, Les Lettres franqaises, 20 ot­ tobre 1966. Pierre Boulez ha diretto Wozzeck nella messa in scena di Wieland Wagner nel 1966.

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sere intralciato dalle esigenze dei musicisti. Il che si può riassumere col proverbio popolare: ciascuno per sé e Dio per tutti. Spesso ho avvertito un profondo disagio nel vedere questa separa­ zione dei poteri, o meglio questa ignoranza reciproca dei vari protagoni­ sti dello spettacolo. Ma come mai ciò accade? Occorrerebbe forse sfor­ zarsi di trovare una spiegazione meno superficiale che non il semplice culto di ogni singolo per il proprio io, o l’egoismo di ogni protagonista in un allestimento d’opera. E a questo punto ci si può chiedere in che cosa consista la specificità del teatro d’opera rispetto al teatro parlato. Certo è che la maggior parte delle opere si fondano, in un certo senso, su un fatto, una storia, un mito. In generale, il libretto si regge su se stesso grazie a una certa efficacia drammatica, e anche se la qualità letteraria del testo non è completamente soddisfacente, la forza dell’azione stessa, il concatenamento delle peripezie drammatiche, fanno si che da un punto di vista teatrale un’opera viva già di una vita scenica senza la musica. In effetti, si tende il più delle volte ad attenersi allo schema drammatico di un’opera per metterla in scena: va da sé che sarebbe molto difficile non tenerne conto. Ma si considera il libretto drammatico come l’armatura principale in cui verrà a collocarsi più o meno felicemente una serie di complementi musicali. Ciò che si rimprovera a volte agli allestimenti operistici, è di essere statici, di tendere all’oratorio, quanto dire di met­ tere in evidenza un fatto abbastanza paradossale, secondo cui la musica alla fine disturberebbe il punto di vista puramente drammatico. Da tutto ciò si può trarre un insegnamento: attenersi alla «fabula» in una messa in scena d’opera costituisce una mutilazione tanto grave quanto il dila­ tarla per eccesso. L’opera è in effetti l’investimento drammatico da parte della forma musicale, attraverso una retorica più o meno precisa, più o meno «formale». Vi è dunque una dialettica profonda nell’opera tra l’azione e la riflessione, tra la quantità del movimento e la qualità dell’ar­ resto. Questa riflessione può essere individuale o collettiva: ma in ogni caso, è certo che in tali momenti la struttura musicale è più forte della struttura drammatica in quanto essa fa propria una situazione data per portarla al punto più alto della conoscenza interiore. Il sentimento, e la qualità del sentimento sono allora predominanti; esaltano il commento dovuto a un pubblico «informato» della situazione a un dato punto dello svolgimento drammatico. Invece, quando l’azione, come si dice, è in corso, la forma musicale è ridotta più o meno allo stato di vettore per portare alla conoscenza del pubblico il massimo di informazioni sullo sviluppo drammatico. Come dunque si vede, l’opera è un continuo pas­ saggio da un pensiero formale rigoroso nel campo musicale a un pensiero formale rigoroso sul piano drammatico. Assai spesso si passa solo accan­

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to a questa dialettica, o ci si appaga di soluzioni già pronte, frutto di una tradizione non proprio corretta. Si aggiunga anche che persino i più grandi compositori sono stati a volte in dubbio se adottare Tuna o l’altra soluzione e che in tal caso i problemi scenici si presentano con una particolare acutezza. Volendo prendere Wozzeck come esempio, si è spesso parlato della sua costruzione severa e del modo in cui Berg applica le forme sinfoniche al dramma di Biichner, come se si trattasse di una griglia esteriore im­ posta abilmente, ma artificiosamente, all’azione teatrale. Ma basti legge­ re la conferenza tenuta da Berg sull’argomento per convincersi a pieno che l’autore ha colto profondamente l’essenza drammatica dell’opera conferendole per il tramite di una trascendenza retorica la più alta cor­ rispondenza musicale. Non riprenderò le sue parole, ma voglio segnalare nondimeno che per Berg il punto non era di far coincidere la forma sinfonica con la forma drammatica, ma di far sorgere dal fatto drammati­ co una forma musicale strettamente coerente come quella che si incontra nella musica non drammatica detta generalmente «musica pura». Così Wozzeck è potuto sembrare come una sorta di ripiegamento, di regresso, rispetto alla concezione wagneriana, in particolare rispetto alla conce­ zione di Parsifal. A questo fenomeno si può dare una spiegazione a un tempo semplice e complessa: l’efficacia drammatica di Parsifal, basata essenzialmente su certe transizioni, non richiede gli stessi mezzi della forza drammatica di Wozzeck che utilizza piani staccati secondo il lin­ guaggio cinematografico. Per tornare a Wieland Wagner, penso che egli aveva perfettamente compreso questo fenomeno fondamentale, e cioè che dialettica musicale e dialettica teatrale non sono che due aspetti di un fenomeno profonda­ mente unitario. Mi dilungherò più particolarmente su Wozzeck poiché, come ho detto, solo in questa occasione l’ho visto veramente lavorare. Al nostro regista non sono mancati alcuni rilievi giusto a proposito di non pochi «aneddoti» drammatici, e che potevano essergli risparmiati solo che si fosse tenuto conto che anche lui vi aveva pensato prima di proce­ dere. In effetti, non per semplice spirito di contraddizione egli aveva trascurato questi aneddoti, ma per una concezione generale che non coincideva forse col pensiero dell’autore. Come egli ha detto in un’inter­ vista televisiva a cui ho assistito, la circostanza drammatica prevista da un compositore di opere è forse quanto di più caduco vi è nella sua opera, dacché essa è legata alle concezioni drammatiche del momento, senza il più delle volte riuscire a trascenderle. Un esempio caratteristico di Wozzeck era quello della terza scena del primo atto. Marie è alla finestra della sua camera e vede di lontano passare la musica militare in

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testa alla quale marcia il Tamburo Maggiore. Alla fine del litigio con Margret, Marie sbatte la finestra; Berg fa corrispondere a questa esigen­ za del testo un effetto quanto mai realistico: la musica si arresta di colpo. Wieland Wagner aveva trasferito la scena della stanza di Marie in una strada fiancheggiata dalle inferriate della caserma. Le inferriate avevano un significato particolare, in quanto si ritrovano sotto la forma di un parco di bambini alla fine dell’opera, un parco in cui era isolato il bambi­ no di Wozzeck e di Marie, rimasto orfano. Naturalmente in un tale contesto all’aria aperta, l’arresto della musica militare non presentava più niente di realistico. Ma se consideriamo il testo di Berg, l’interruzio­ ne è soprattutto legata alla violenza su cui si chiude la disputa tra Marie e Margret, segnata dalla parola Luder che costituisce in sé il vero punto di arresto. Le urla respingono il mondo esterno, suscitano il ripiegamen­ to di Marie, la respingono verso il suo bambino: questo, a mio parere, è più importante di una finestra che sbatte. E anche per Wieland Wagner lo era: penso che doveva sembrargli più essenziale sottolineare visiva­ mente il parallelismo dell’inferriata della caserma con le sbarre del parco infantile, piuttosto che conformarsi a un’avvertenza di minore impor­ tanza. Un altro particolare lo aveva alquanto divertito dopo la prima rappre­ sentazione. Non si era mancato di rimproverargli l’assenza figurale della luna nella scena in cui si compie l’assassinio di Marie. In effetti si parla molto di questa luna rossa e si era stupiti del suo rifiuto di farla compari­ re, rifiuto che era stato preso per un paradosso irritante. In quasi tutti gli scenari, si installa questa luna bene in vista, le si dà un significato simbo­ lico un poco esagerato che ricorda senza meno le incisioni più scialbe di un romanticismo di paccottiglia. Wieland Wagner pensava giustamente che quelle specie di premonizioni viste nell’osservazione dei fenomeni naturali considerati strani dipendono dall’angoscia, dalla costituzione psichica delle persone molto più che dalla visione di un’immagine reali­ stica. E si spiega cosi perché egli si era rifiutato di giocare con una lanterna magica e aveva caratterizzato questa visione con l’aspetto ansio­ so e immobile dei due protagonisti: il che era, mi sembra, infinitamente più convincente di una carabattola di tela o di lume. Ciò risponde principalmente a certe obiezioni che gli sono state rivol­ te ingiustamente su questo genere di particolari, obiezioni che possono ricondursi a una pedanteria alquanto meschina. Ma vorrei segnalare ciò che per me costituisce un fenomeno molto più importante in questa messa in scena di Wozzeck, ciò che chiamerei lo straniamene degli oggetti. In pratica, egli ha trattato gli oggetti come temi musicali, sepa­ randoli dal contesto quotidiano per dar loro un’importanza che di solito

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non hanno, non diversamente che in un contesto poetico ove la parola più banale può assumere un significato estremamente forte per sempli­ ce dislocazione: isolamento, straniamento o contesto irrazionale. La di­ sposizione degli oggetti sulla scena, il loro concatenamento li rendeva «esemplari»; questa collocazione dava loro struttura e significato. Una simile concezione scenica corrispondeva profondamente allo spirito del­ le forme musicali di Berg e al testo di Buchner, ove il realismo rivela essenzialmente una verità eterna. Non è mia intenzione dilungarmi oltre misura sull’esperienza di Bay­ reuth, visto che sfortunatamente non ho avuto l’opportunità di una colla­ borazione diretta con Wieland Wagner; ma la corrispondenza scambiata tra noi in quel periodo testimonia del nostro accordo totale su una «sconsacrazione» dell’opera. Tengo a precisare che non si trattava di far cadere questo mistero al rango di una semplice storia freudiana, ma che era necessario, per lui come per me, determinare con precisione i limiti del teatro e della religione: una tale confusione coltivata da cosi lungo tempo non poteva essere che l’origine di tanti malintesi. La morte pre­ matura di Wieland Wagner non ci ha consentito purtroppo di confron­ tare direttamente sulla scena i nostri punti di vista. E mi dolgo vivamen­ te di aver perduto per sempre l’opportunità di lavorare insieme su talune opere fondamentali del teatro musicale. Volendo aggiungere ai miei ricordi una nota più personale, mi piace ripetere che nel poco tempo che l’ho conosciuto, non avevo bisogno di scambiare con lui molte parole; ci capivamo con tanta rapidità che le parole ci sembravano quasi superflue. Cosi avviene con certe persone la cui qualità più spiccata è una specie di magnetismo; per quanto mi riguarda, sono queste in fondo le sole persone con cui mi sento d’istinto in armonia. Per quanto breve, la mia collaborazione con Wieland Wagner mi ha particolarmente portato a riflettere su un mondo, quello dell’opera, di cui non ero ancora prepara­ to a riconoscere l’importanza e l’attualità.

46. Specchi per «Pelléas et Mélisande» .*

Pelléas et Mélisande ha rappresentato un momento oltremodo carat­ teristico sia nell’opera di Debussy che nella storia del melodramma. L’opera dando luogo a numerosi commenti, animati e contrastanti, non * In occasione dell’esecuzione di Pelléas al Covent Garden nel 1969. Testo del cofanetto Co­ lumbia M3 30119.

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ha tuttavia prodotto conseguenze dirette di autentica importanza. Si riconosce al capolavoro il suo posto e il suo significato, ma a parte questo, ben poco è modificato, dacché la concezione di Debussy resta in margine a una tradizione duplice che dalla metà del xix secolo, insiste da una parte sull’effetto immediato e sul magnetismo animale della voce umana, e dall’altra, attribuisce un valore primario al significato del mito attraverso il pensiero musicale, Un continuo antagonismo si è instaurato tra la concezione italiana e quella tedesca del dramma in musica, mentre le altre «tradizioni» non forniscono se non capitoli episodici, isolati, anche quando portano l’impronta del genio: Mussorgskij resta un solita­ rio non meno di Debussy. Il fenomeno non è dunque senza precedenti. Se l’influenza di Mussorgskij restò circoscritta, quella di Debussy non ha conosciuto limiti, agendo in un modo di gran lunga più forte attraverso le sue opere non teatrali, di cui si sono colte quasi immediatamente le virtù fondamentali, mentre, invece, nel caso di Pelléas permangono mol­ te reticenze, o - che è la stessa cosa - la preferenza si manifesta in una forma possessiva ed esclusiva, tra «iniziati». Forse che a Pelléas è stata negata una vasta «popolarità» perché non vi si sente abbastanza «cantare»? O perché non vi si trovano grandi espansioni orchestrali? O perché il teatro di Maeterlinck è invecchiato? O perché il rapporto tra testo e musica resta troppo strettamente legato alla comprensione del francese? Probabilmente, e in modo superficiale, queste varie ragioni hanno la loro parte, ma vi si sono aggiunti poi molti malintesi, di cui non è certo l’ultimo quello di una certa singolarità nazionale. Se quest’ultima costituisse un ostacolo invalicabile alla diffu­ sione di un’opera, allora niente di ciò che è tedesco sarebbe esportabile, e niente di ciò che è italiano. Che cosa può esserci di più deliberatamente legato alla mentalità di un popolo al di fuori del pensiero che ha dato vita a opere di cui si verifica ogni giorno l’universalità, quale che sia il giudi­ zio di valore da dare? Bisogna andare più a fondo. Bisogna chiedersi in primo luogo che cosa rappresenta Pelléas nella vita di Debussy. È il solo tentativo teatrale che egli abbia condotto a termine, di fronte a tante velleità, originate da alcune ossessioni fonda­ mentali, il cui destino è stato di essere rapidamente messe da parte. In effetto, non si può considerare il Martyre de Saint Sébastien - un’opera di circostanza, dovuta quasi al caso, musica di scena perduta in un pathos letterario estraneo alla propria sostanza — come un progetto estetico consapevolmente e pienamente assunto. Pelléas è dunque un’opera pri­ ma, e resta unica; corrisponde alla giovinezza dell’autore, al periodo in cui egli prende progressivamente coscienza della propria fisionomia. Più

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che di riflessione, è un’opera di scoperta: Debussy non solo va alla ricerca della funzione drammatica, ma nello stesso tempo crea il proprio linguaggio. E in entrambi i campi, egli non si è ancora affrancato dal gioco delle influenze. È probabile che all’inizio il progetto drammatico, che è quello più forte, prevalga di necessità sul progetto musicale. Va rilevato il fatto che Debussy sceglie un testo letterario e, senza modificar­ lo, prende a «metterlo in musica». Vanno considerati soprattutto come un rifiuto di ogni familiarità i pochi tagli apportati alle scene con came­ riere e domestici; esse, c’è da scommettere, avrebbero fatto invece la gioia di Mussorgskij per la deformazione e la distorsione imposte a queste immagini speculari dell’universo nobile. I tagli rivelano la scelta deliberata, da parte di Debussy, di un mondo che si vuole fuori del tempo... e della contingenza dei servizi, ma non implicano né un rima­ neggiamento della struttura drammatica, né una rivalutazione del lin­ guaggio teatrale. Cosi, Debussy innesta il proprio disegno musicale su un oggetto letterario esistente perfettamente in sé, e che non comporta per principio un’altra dimensione. Data la sua estetica, l’opera teatrale si prestava senza dubbio perfettamente all’innesto, ecco perché non si può dare una deviazione di sostanza. Oltretutto, Debussy vi trova alcuni temi poetici determinanti, che sono in perfetta corrispondenza con le proprie fonti d’ispirazione: la capigliatura, per fare un esempio, che è anche il titolo della seconda Chanson de Bilitis\ e il mare, l’elemento in cui già prendono vita le Sirènes, in attesa di divenire il soggetto di una delle sue opere capitali. Questi temi poetici si associano a figure musicali che si ritrovano quasi testualmente nelle composizioni dello stesso periodo, e perfino in alcune opere più tarde. L’elaborazione della propria opera serve a Debussy a riconoscere la propria personalità, a esplorarla, e gli dà il modo di preci­ sare le costanti e le caratteristiche della sua estetica. Risulta evidente che, in virtù di queste diverse circostanze, Pelléas et Mélisande ha avuto una parte primaria nella sua vita di compositore. L’importanza di Pelléas nella storia del melodramma appare a tutta prima meno evidente, meno decisiva. Niente è cambiato dopo di allora, per quanto concerne i gusti quotidiani, in questo campo più di ogni altro occupato dal conservatorismo più deciso. Si è spesso notato che questa assenza di magnetismo sul pubblico era largamente dovuta alla scrittura teatrale di Maeterlinck, di cui si è posto spietatamente in rilievo il carat­ tere statico e scolorito: staticità e colore spento avrebbero - per cosi dire — impregnato anche la musica. Niente eccitazione drammatica, niente pubblico. Eppure, siamo in piena tragedia borghese. Di questa, ingre­ dienti e spezie, non manca quasi nulla: l’amore, la violenza, la gelosia, la

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maledizione, l’assassinio; se gli avvenimenti accadono il piu delle volte in un’atmosfera smorzata, gli interventi di Golaud presuppongono, sin dal secondo atto, una efferatezza a stento contenuta, il cui parossismo si manifesterà al momento dell’esplosione isterica del quarto atto. Ma per­ ché la coppia Pelléas-Mélisande non è mai divenuta un simbolo, nono­ stante le scene stupende in cui si rivela e si afferma il loro amore? Probabilmente perché la materia teatrale si situa a mezza strada: i per­ sonaggi sono atemporali, possiedono tutte le qualità richieste per diveni­ re mitici, e tuttavia, sono coinvolti in un dramma molto quotidiano a cui sembra mancare, appunto, la dimensione mitica. Se si considera, ad esempio, tutta la fatica - e il tempo - spesi da Wagner per spiegarci, per bocca d’Isolda, i molteplici particolari degli eventi accaduti prima che abbia inizio l’azione vera e propria dell’opera, per descriverci gli antecedenti della situazione presente, per informarci sulle cause precise del comportamento dei protagonisti, ci si accorge come la presentazione dei personaggi di Pelléas resti non solo ellittica, ma volutamente vaga, allusiva, priva di ogni precisione. Col risultato che la credibilità nell’esistenza drammatica degli eroi di Tristano si radica in noi profondamente, mentre la «generazione spontanea» di Pelléas lascia i caratteri alla superficie della nostra percezione. O meglio: i temi poetici restano a volte, in Pelléas> allo stato imma­ ginario , in quanto la loro rappresentazione si rivela di un realismo greve rispetto al loro carattere onirico. Penso in particolare alla scena della capigliatura, tra Pelléas e Mélisande, in cui si rivela estremamente diffici­ le rendere accettabile, plausibile, il mito della chioma-fiume, della chio­ ma - simbolo erotico: la visione poetica, immaginaria, mal si adatta a una testa reclina e a una capigliatura manifestamente fittizia e posticcia... Per contro, nella scena in cui Golaud esorcizza in un certo senso la capiglia­ tura maledetta, parodiando il segno della croce - «a destra e poi a sinistra!... avanti! indietro!» - il rituale abbisogna del realismo scenico per manifestarsi in tutta la sua energica crudeltà. Qui, la capigliatura non si qualifica come trasposizione poetica slegata dalla realtà originaria, ma s’identifica in strumento di tortura, indispensabile per portare l’azio­ ne al suo parossismo. Mi sembra perciò estremamente significativo della concezione teatra­ le di Debussy, anche se non gli è assolutamente originale, e l’abbia mutuata da Maeterlinck, questo movimento di flusso e riflusso tra il realismo più implacabile e l’onirismo più impalpabile... Embricatura di due accostamenti mentali apparentemente antinomie! che si ritrovano in Baudelaire, e in uno degli autori che lo hanno più profondamente in­ fluenzato: Edgar Allan Poe. Il nome di Edgar Allan Poe richiama alla

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mente il progetto che Debussy accarezzò per un certo periodo della sua vita: scrivere un’opera ispirata alla Caduta della Casa Csher. Ma adesso si capisce sin troppo bene perché egli non l’abbia realizzata. Si sarebbe avuta una riedizione di Pelléas\ stessa atmosfera, stessi personaggi di un’affinità per giunta sorprendente. Il livello letterario si sarebbe alzato, ma i fantasmi si erano oramai consunti con l’opera già scritta. E sarebbe stato un puro miraggio volerli rianimare! Ciò che costituisce l’originalità profonda dell’estetica teatrale di De­ bussy è risultata quasi sempre elusa. Per questo l’opera è sembrata disin­ carnata, immersa in una sorta di tisana «poetica», nel senso piu debole del termine, ove i conflitti accadono non si sa bene perché, divenendo poi sconvenienti se si producono tra caratteri che non devono mai pro­ nunciare una parola più forte dell’altra. Una certa «tradizione» partico­ laristica ha ricoperto il tutto di una patina di eleganza, a cui si aggiunge inevitabilmente la famosa chiarezza francese. Ora, né l’eleganza, né la chiarezza hanno un ruolo da svolgere nel senso convenzionale che si attribuisce a questi termini. L’atmosfera è buia, incredibilmente pesan­ te; ci si lamenta di continuo di non vedere mai il sole: il solo, raro momento di luce si ha quando Golaud e Pelléas risalgono dai sotterra­ nei. Quanto alla «poetica» riversata sui protagonisti, essa ha tutto ciò che occorre per scoraggiare o irritare i più incalliti appassionati di sogni. Secondo tale iconografia, Mélisande diventa una colomba che si libra a cento leghe sopra il peccato, Pelléas incrocia alla stessa altezza sotto una vecchia livrea di paggio elegante; Golaud è un villano smargiasso che non capisce niente di poesia e si ostina in modo ridicolo a non voler librarsi a sua volta; quanto ad Arkel, egli incarna il Mistero Poetico in persona aprendo la sua bocca d’ombra solo per proferire gli oracoli visionari della saggezza millenaria! Come interessarsi a queste cartoline postali sbiadite e insipide? Ciò che si pretende di far passare sotto il sigillo del mistero non è che una mercanzia futile, priva, appunto, di quel mistero che Debussy ha inoculato nei suoi personaggi, dato che si è estromessa ogni ambivalenza. Ma oltre ai caratteri propri che risultano evirati, le situazioni drammatiche vengono a trovarsi svuotate. Il gioco d’altalena tra l’evento realistico e il suo allargamento al simbolo, il si­ gnificato profondo che lega l’uno all’altro, tutto si annulla. Resta lo spessore di un racconto di fate preraffaellita... La Damigella Eletta al balcone fatiscente! Già una volta ho paragonato il comportamento musicale di Debussy a quello di un felino. E il paragone si applica più che mai a Pelléas, in cui questo gioco mortale di artigli istantaneamente retratti o sguainati si applica perlomeno a due dei personaggi principali: Golaud e Mélisande.

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Si prenda la parabola di Golaud e del contesto musicale che Debussy gli assegna. All’inizio del primo atto, ci viene mostrato un personaggio robusto ma sperduto-, sotto l’apparenza dominatrice si profila la debo­ lezza. Sin dal secondo atto, la sua inquietudine si fa manifesta, ed egli non riesce a contenere il suo estremo nervosismo quando constata la scomparsa dell’anello regalato a Mélisande. Questo nervosismo mal do­ minato conclude bruscamente la scena della torre, nel terzo atto. Nei sotterranei, il clima opprimente rafforza l’intenzione omicida poiché la propria ansia lo tradisce anzi tempo. L’ansia fa posto a una nevrosi inquisitoria quando egli costringe Yniold a spiare Pelléas e Mélisande. Le apostrofi gridate: «Sta attento! Sta attento!», sfiorano la demenza. Al quarto atto, Golaud deve torturare, e si abbandona a una sorta di esorcismo rituale con la chioma di Mélisande. Come nella scena con Yniold, la musica è divenuta furiosa e denota una forsennata aspirazione alla catastrofe, insieme a una paura panica di fronte al suo compimento ineluttabile; l’interiezione di Arkel, «Golaud! », il suo proprio nome che gli viene gridato in faccia, lo risveglia come per incanto da questa ebrez­ za rituale. Nell’ultimo atto, egli si tortura a sua volta nella misura in cui interroga Mélisande; la sua ricerca demente della verità sprofonda in un dubbio pietoso. Tramite la diversità della musica, vediamo con quale precisione Debussy ci ha descritto la parabola di Golaud, personaggio che sotto un’apparenza energica passa dalla debolezza all’ossessione ne­ vrotica, ai limiti della pura demenza. Potrei ugualmente descrivere l’evolversi del carattere di Mélisande, che va dalla paura che gli ispira Golaud a un odio aperto, e poi a un oblio ancora più difficile da sopportare; come del resto la trasformazione di Pelléas, adolescente, che scopre il mistero erotico, e che per la sua natura ingenua precipita verso la morte, una morte irresponsabile. E adesso vorrei dire alcune parole a proposito di Arkel. In genere, egli viene truccato da vecchio riboccante di saggezza, dotato di «chiaroveggenza», mentre le sue predizioni fanno cilecca e sono subito smentite dagli eventi: di qui l’aspetto solenne di patriarca in cui viene conciato, dato che la vecchiaia deve far dimenticare o perdonare la stupidità... Ma niente è più lontano, a mio giudizio, dal personaggio di Arkel cosi come Debussy ha inteso descriverlo. Si ha di fronte un personaggio ingenuo che ci tiene a parte delle sue aspirazioni, non già delle sue profezie, e pieno a sua volta di paura cerca di rassicurarsi rassicurando gli altri. La sua ingenuità preservata nonostante gli anni, al di là degli avvenimenti vissuti, lo lega implicitamente all’ingenuità giovanile, naturale, di Pel­ léas: di fatto un Pelléas dai capelli bianchi... Se si considera cosi questa figura, i grandi momenti di Arkel non sono l’espressione di una saggezza

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in precario equilibrio, spesso colta in difetto, ma rivelano la sua ostina­ zione nell’ingenuità, cosi necessaria a scongiurare e tener lontano l’os­ sessione della decadenza e la paura della morte. Quanto al carattere episodico di Geneviève, esso ci mostra, rispetto a Mélisande, l’adempimento della rassegnazione: per volontà più che per caso, Mélisande rifiuterà di accettare un simile destino. Geneviève scom­ pare. L’interferenza costante tra realismo e simbolismo si riscontra nella musica esprimendosi nell’alternanza rapida di momenti discordanti: un ordito di azione e di commento. Nella storia del melodramma, per prima cosa si è separata nettamente l’azione dal commento in cui il quadro formale attingeva la massima efficacia. L’azione, riservata al recitativo, si appagava di uno stile vocale che si avvicinava al parlato, secondo con­ venzioni rigidamente fissate, di uno stile strumentale ridotto a punteg­ giare le inflessioni vocali. E non vi era nessuna possibilità di sbagliarsi: il carattere informativo di questa parte dell’opera la avvicinava di molto al teatro parlato, al suo ritmo più rapido di elocuzione, mentre la continui­ tà musicale era assicurata da quel filo d’Arianna che è il linguaggio armonico. A un certo stadio, la riflessione sulla situazione drammatica finiva per condensarsi nelle arie o negli insiemi', ove l’azione si ferma del tutto, oppure raggiunge un punto eccezionale chiaramente sottolineato. Ma si ha qui più un effetto di concatenazione che di continuità. È noto che Wagner si preoccupava molto di più della continuità per creare un’illusione quanto più possibile forte, e si rifiutava di accettare la con­ venzione come mezzo di intesa, e quindi di dissociare musicalmente i momenti di azione da quelli di riflessione. E se nelle opere della maturi­ tà avvertiamo ancora questa distinzione, o meglio questa disgiunzione, è solo a titolo eccezionale, come nel caso del quintetto dei Meistersinger nel terzo atto. Tuttavia in Wagner le alternanze tra zone di azione e zone di contemplazione si presentano secondo lunghi spazi di tempo, e di rado siamo posti di fronte a brusche svolte, se non su parole-chiave, che illuminano allora di colpo il contesto musicale. All’estremo opposto, conosciamo la preoccupazione ossessiva di Mussorgskij: giungere a tra­ sporre in musica le inflessioni della conversazione parlata, senza con ciò utilizzare un procedimento convenzionale come il recitativo. Al riguar­ do, resta significativo l’esperimento non riuscito del Mariage, ove si avverte l’assidua cura di integrare la dizione, fatta di slanci, spezzature, intervalli, con le funzioni del linguaggio musicale. Il progetto rivela l’ambizione del compositore che cerca nientemeno di unificare due mon­ di le cui leggi e strutture sono fondamentalmente eterogenee. Nel BorA, egli trova al riguardo la propria verità; ma, da un punto di vista più

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generale, l’opera alterna i brani di genere, anzi di bravura, con pezzi di «realismo» musicale. L’antica dissonanza dell’opera sussiste, anche se la soluzione prospettata presenta aspetti assolutamente nuovi. Non direi che Debussy trovi la soluzione ideale - che del resto non esiste - a questo problema posto sin dall’origine del genere operistico, ma ciò che egli propone merita ampiamente di essere esaminato. In luogo delle vaste aperture wagneriane, Debussy offre un ordito estre­ mamente fitto di azione e riflessione. Ma ci vuole l’occhio acuto e l’orec­ chio fino per percepire immediatamente queste differenze e modulazioni che passano cosi rapidamente che a volte il cambiamento stilistico vocale o strumentale - è appena accennato o adombrato. In altre circo­ stanze, come è naturale, il contrasto appare piu accentuato, e le diver­ genze più chiare. Senonché l’innesto dell’istante poetico sul momento drammatico, sorta di efflorescenza immediata, si afferma come la caratte­ ristica principale di Pelléas: e nondimeno, il passaggio spesso sottile &à\V informazione alla riflessione, dal fatto al simbolo, si vede chiara­ mente espresso. La linea vocale si scioglie dalla dizione per assumere la propria autonomia; la tessitura dell’orchestra muta di senso: da suppor­ to si trasforma in apporto. I momenti privilegiati emergono dal contesto generale senza spezzarne la trama né turbarne la continuità; ma appena avvertiti, in certi casi sono di nuovo sommersi. Costituiscono, si potreb­ be dire, i rivelatori dell’intreccio drammatico. A forza di non vedere in Pelléas che un recitativo continuo, come reazione contro la melodia infinita di Wagner, non è affiorata la vera novità. Senza dubbio, l’accen­ tazione, la prosodia, l’inflessione parlata, le cesure, il ritmo della lingua francese restano una preoccupazione costante; tuttavia, non vi è traccia di una trascrizione che voglia essere unicamente fedele, esclusivamente letterale. Contrariamente alla leggenda che pretende che ogni parola trovi un posto e un valore unici, secondo il codice della dizione francese, la trascrizione dei momenti poetici ha in dispregio una tale estetica imitativa: allora, l’inflessione musicale predomina, dando alle parole la propria dimensione riflessa. Se fosse solo questo il mezzo per porre in luce l’intento di Debussy, il parametro si rivelerebbe quasi infallibile. Quanto alla continuità musicale, la fitta trama è assicurata, se non assunta, da alcuni temi o motivi principali, anche se la caratterizzazione stilistica spettante ad ogni scena nella propria interezza svolge una parte non meno importante per quanto concerne la coesione e l’unità. Parlan­ do di temi principali, figure musicali legate, tra l’altro, ai personaggi di Arkel, di Golaud, di Pelléas, di Mélisande, viene subito in mente Wag­ ner con i suoi leitmotive. Ma a dire il vero, il modo quasi «dimesso» con cui Debussy utilizza il procedimento, si rivela molto lontano da

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Wagner sia nell’idea che nella forma. Né si può fare a meno di ricordare, come ho già avuto modo di dire, che ci troviamo di fronte alla prima e ultima opera di Debussy. La manipolazione dei motivi, le rispettive relazioni e trasformazioni, non rivestono il carattere sottile, profonda­ mente conseguente, del lavoro condotto da Wagner a quel punto estre­ mo di raffinatezza a cui perviene, a esempio, nel Parsifal. Si tratta piut­ tosto di arabeschi legati ai personaggi stessi, senz’altra variazione se non decorativa, che s’integrano al contesto generale senza sforzo, si sovrap­ pongono a volte con agio, ma non si espandono completamente nella tessitura. Se si vuol trovare in Debussy un lavoro paragonabile all’ulti­ mo Wagner, ma che nello spirito e nella tecnica sono propri dell’autore di Pelléas, occorre riferirsi a opere molto posteriori, come Jeux o gli Études per piano. L’influenza di Wagner, in questo campo, si manifesta per quanto concerne Pelléas, unicamente rispetto alla necessità di carat­ terizzare musicalmente i personaggi principali. Molto più profonda, o meglio più penetrante, si rivela invece l’influenza del lessico proprio di Parsifal, sin nella sua strumentazione. È significativo che i passaggi che tradiscono più scopertamente questa impronta siano stati scritti rapida­ mente: si tratta di alcuni interludi aggiunti all’ultimo momento per consentire i mutamenti di scena. Anche se datano a un periodo più tardo quando lo stile di Debussy è assolutamente definito, la fretta costringe l’autore a ricorrere a un materiale immediato così come sorge dal ricor­ do, la somiglianza con Parsifal è impressionante, quasi testuale. Lungi dall’essere ovunque letterale, questa parentela si profila tuttavia con insistenza su certi dati dell’opera: la figura ritmica legata a Golaud deri­ va direttamente da quella attribuita al personaggio dello stesso Parsifal; il linguaggio armonico di Arkel e la sonorità orchestrale che lo accompa­ gna, fanno pensare al Gurnemanz del terzo atto; certi accenti stridenti di Golaud, nella sua collera, suscitano il ricordo di Klingsor; la scena della torre, invece, quando Pelléas si avvolge nei capelli di Mélisande, evoca furtivamente il notturno di Tristano. Non intendo peraltro abbando­ narmi a un’indagine minuziosa, ma credo essenziale ricordare quanto quest’opera, per lungo tempo brandita come un violento manifesto di antiwagnerismo, trovi una delle sue fonti principali proprio in Wagner. All’epoca della sua rappresentazione, ci si compiacque di rilevarvi una forte influenza di Mussorgskij: il punto di vista mi sembra perlomeno esagerato, dato che questo aspetto dell’opera si rivela quanto mai acces­ sorio, e legato principalmente al personaggio di Yniold; mentre non manca un rapporto con le Enfantines, e in particolare con la scena nella stanza dei bambini più che negli altri episodi di Boris. E visto che siamo in argomento, ed è bene esaurirlo, segnaliamo infine, anche se abbastan­

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za secondaria, una pallida eco della Carmen, dell’ultimo atto, in parti­ colare. Se nella distanza, senza nulla togliere della sua originalità e dei suoi meriti, si distinguono piu facilmente le fonti di Pelléas, è possibile rin­ tracciare altrettanto chiaramente l’influsso esercitato dall’opera sui me­ lodrammi posteriori? Ma mi è difficile scorgere influssi che non siano superficiali o episodici, legati a certe fissazioni come la famosa prosodia francese, o l’atmosfera lirica... Berg, che effettuerà la successiva sintesi importante tra dramma e musica, muoverà da dati formali fondamen­ talmente differenti; tutt’al più si può rilevare una somiglianza di sonori­ tà con Debussy in alcuni passaggi della scena in cui Wozzeck annega. Berg evitava accuratamente qualsiasi influenza «impressionista»... E so­ no convinto che aveva ragione. Dal momento che nella musica di Debussy si trova espressa con grande intelligenza la sua concezione del dramma, che i mezzi che egli impiega sono definiti con la massima precisione, perché, e come mai sono sorti i malintesi che hanno falsato cosi profondamente il significato di quest’opera? Porre Pelléas sotto il segno di una noia angelica, di una «poesia» sbiadita, lontana e elegante, di una fantasia squisita quanto stanca (estenuata addirittura), mi sembra il colmo del non senso. Allor­ ché si usano al riguardo parole come mistero, sogno, le si svuota di ogni significato profondo per compiacersi di un’iconografia piatta, confortan­ te, pudibonda, e per di più sciocca; se c’è un difetto che non si può rimproverare a Debussy, è proprio questo candore sciocco, che egli odia­ va con una durezza particolare. Come non ricordare i suoi articoli o la sua corrispondenza? Non si vede bene, del resto, come i fautori di que­ sto mistero di paccottiglia, sempre tremanti di paura che il loro futile sogno non si dissolva dinanzi alla precisione e alla fedeltà al testo, intrec­ cino questa a un’altra ossessione meno costante per la chiarezza e i lumi «francesi». L’intera opera di Debussy, e purtroppo non il solo Pelléas, ha subito l’influenza di turiferari locali che hanno asfissiato il loro idolo sotto un incenso di qualità discutibile. E Debussy lo ha lasciato credere di buon grado, perché più astuto e meno ingenuo di quanto non volesse dichiararsi: la sua composizione sarebbe nata quasi unicamente contem­ plando il sorgere del sole... È certo che egli non ha trascurato di dare ascolto al dialogo del vento e del mare, e di sognare al canto delle sirene. Ma dietro questi occhi socchiusi, veglia un’intelligenza sempre in agguato, che costruisce le proprie opere con un’acutezza logica condivisa da ben pochi dei grandi compositori. L’apparente trascuratezza della forma, l’impressione di fe­ lice improvvisazione che se ne ricava, una sorta di felicità espressiva

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scatenata dietro un caso miracoloso, sono inganni per l’occhio accurata­ mente disposti. Se si lascia il rigore del testo per abbandonarsi negligen­ temente allo scintillio dell’istante, il famoso sogno fugge allora da ogni parte; non resta del mistero che un «bric-à-brac» profumato. Le nozioni di mistero, di poesia, di sogno non assumono in Debussy il loro valore profondo se non al di là della precisione, nella pienezza della luce; e in questo il musicista si accosta a Cézanne - che inventava il segreto dei suoi paesaggi a forza di luce e di evidenza. Per tornare a Pelléas, solo una ricerca affilata dei personaggi e uno studio minuzioso della musica potranno condurre al loro mistero. Come in ogni grande opera, il mistero si rivela, via via che si procede, comples­ so e colmo di contraddizioni; Mélisande: candore nella doppiezza; Pel­ léas: esitazione a varcare la soglia dell’assoluto; Golaud: feroce impo­ tenza davanti al suo universo in rovina; Arkel: ostinazione, per paura, nell’ingenuità... Come ha scritto André Schaeffner, si tratta proprio di un teatro della paura e della crudeltà, e deve essere interpretato come tale. Ma perché ci si è rifiutati cosi spesso di considerare l’opera sotto questo aspetto? L’origine del rifiuto risale, con ogni verosimiglianza, proprio al tempo di Debussy, anche se non possiamo avanzare questa ipotesi se non a partire da documenti indiretti (rispetto alla stessa musi­ ca): lettere, commenti, ricordi. È innegabile che Debussy provasse un’a­ perta avversione per il mondo dell’opera del suo tempo: l’idolatria di Wagner lo irritava; la produzione italiana non gli ispirava alcuna simpa­ tia; la produzione francese lo infastidiva. Non aveva che sarcasmi per le pose presuntuose dei cantanti, e non prendeva in considerazione la loro vocalità di esecutori se non giovava per nulla a una verità, a una necessi­ tà musicale. Non accettava che la sola prodezza fisica consistesse nella lotta dell’ugola contro il volume dell’orchestra. Insomma, aveva diffiden­ za per il gesto teatrale. Sembra che in principio pensasse a una serie ristretta di rappresentazioni in un ambiente eletto per la sua intimità, nel timore che l’ampiezza del luogo non obbligasse, non costringesse gli interpreti alla magniloquenza. Ma l’irrealtà di questo progetto, lo fece rinunziare all’idea di un uditorio privilegiato per rivolgersi a un teatro «normale» e a rappresentazioni «regolari». Senonché la sua ripugnanza verso ogni forma dello stile teatrale, che aveva espresso tante volte, spinse i seguaci, assai meno acuti, a trascurare il dramma, e la sua crudel­ tà, a vantaggio di una distinzione di modi e di delicatezza, che ha più del magazzino di moda che dell’evidenza tragica. Per non cadere nella volga­ rità, si cade — si sprofonda! — nell’affettazione e nel lezio. Allo stesso modo, la preoccupazione di evitare che l’orchestra copra la voce e tagli l’erba sotto i piedi di questi ninnoli di zucchero conduce per forza a una

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costante discrezione di cameriere cui fanno da compagne insidiose la noia e la sonnolenza. Si sono relegati i contrasti, di cui l’opera è cosi ricca, all’interno di un minuscolo registro espressivo, togliendole la sua forza e la sua violenza. Mi sembra deprimente che questa sedicente tradizione dell’esangue possa passare per l’apice dello «spirito francese» in musica!... La difficoltà dell’interpretazione risiede nella rinunzia a gesti inutilmente eroici e ad atteggiamenti magniloquenti senza per que­ sto cadere in un riserbo timido e mediocre. D’altra parte, non è questo, mi sembra, lo scoglio più grave, perché nella partitura altri aspetti si presentano assai più difficili da realizzare in modo corretto. Una delle caratteristiche principali della musica di De­ bussy consiste nella fluidità del tempo, se i punti di flessibilità principali sono segnati, non resta altra soluzione se non quella di conformarvisi. Tuttavia, quando si analizza il testo molto da vicino, con la pretesa di cogliere ed esprimere il suo significato profondo, sono necessarie molte fluttuazioni che non sono scritte dal momento che non potrebbero essere incluse nella redazione senza annullare la loro sottigliezza: fluttuazioni di cui poi si farà uso per articolare la continuità musicale e dare all’in­ sieme suono-parola le inflessioni che caratterizzano la varianza dell’azio­ ne drammatica. Dare il proprio rilievo ai salti di umore, per cosi dire, ai momenti magnetici, ai passaggi dal realismo al simbolismo di cui ho già detto, esige un’infinita duttilità nel tempo. Il rubato affiora di continuo: un rubato che si assoggetta a una logica interna, perfettamente fissato nelle sue funzioni, e che al tempo stesso deve sembrare assolutamente improvvisato; insomma, un rubato che rifletta l’idea che Debussy aveva della composizione. Tutto questo presuppone di rado delle interruzioni, e molto più spesso forme di esitazioni, di reticenze, o, al contrario, di pressioni, che prendono consistenza senza attrarre l’attenzione, tanto che si dovrebbero notare dopo averle subite, e non nel momento in cui si pongono. Niente di apertamente voluto in questo rubato, ma piuttosto una tendenza irresistibile della musica a modularsi secondo un discorso flessibile. Di qui la necessità di un’intima coesione tra cantanti e orche­ stra: e bisogna cercarla non nel solo tempo, ma, come è evidente, nella tessitura generale. Si tratta di coerenza ancor più che di coesione. Ciò che conta in modo decisivo è l’interrelazione della linea vocale e dell’or­ chestra: i due elementi non attingono la loro vera autonomia se non in vir­ tù di una solidarietà compiuta. Ora si congiungono nell’unità assoluta di espressione; ora, quando uno degli elementi si arresta, l’altro prende lo slancio. Inoltre, per dare alle scene una velocità caratteristica di svolgi­ mento (che è il criterio fondamentale della loro intrinseca unità), il tempo di ogni scena deve essere definito con precisione, contenuto in

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certi limiti che debbono dare alla scena un profilo individuale e stabilire una relazione unica tra questa e le altre, tutte le altre. In mancanza di questa ferma definizione, la musica tenderà a perdersi in una monotonia senza contorni; gli elementi che compongono una scena finiscono per disperdersi e divenire momenti isolati, senza la connivenza profonda che li rende solidali, responsabili l’uno di fronte agli altri. Tutta una grada­ zione di tempi si dispiega lungo lo spartito, che va ampliandosi man mano che si avanza nell’azione e il dramma si approfondisce in contrasti sempre più acuti. Concezione globale e concezione istantanea del tempo vanno di pari passo quando si vuole esplicitare il pensiero di Debussy, cosi completamente, cosi straordinariamente nuovo in questo campo. L’orchestra diviene per la voce una «piattaforma che respira», secondo l’espressione con cui Claudel definisce, rispetto al passeggero, i movi­ menti di una nave in alto mare... Contrariamente a molte opere, il peso dell’orchestra non presenta problemi intorno all’equilibrio con le voci. La vera difficoltà è semmai quella contraria: non cadere in un’eccessiva discrezione, per cui l’or­ chestra sarebbe incapace di sostenere la voce e di assicurare, oltre il dialogo, una continuità essenziale. Ridurre lo spartito a un recitativo accompagnato, sarebbe un vero tradimento; se non vi è alcuna necessità di accentuare i contrasti, occorre in ogni caso attuarli cosi come sono stati pensati e scritti, nell’ampiezza richiesta dal loro significato. Pur sapendo bene che la gamma dinamica di Debussy non si identifica con quella, a esempio, di Wagner, occorre poi rispettare l’ampiezza che le è propria. Essa è più grande di quanto di solito non si ammetta; e, soprat­ tutto, — come accade per i mutamenti di tempo e d’intreccio, - le varia­ zioni dinamiche possono sopraggiungere molto bruscamente: un riflesso, ancora una volta, di quell’aspetto felino che ho già sottolineato. Come per il tempo, sarei tentato di sostenere che ogni scena si colloca all’inter­ no di una certa scala dinamica, che le conferisce unità e individualità non meno che relazione con le altre. Una volta di più, si deve dire che anche in questo campo concezione globale e istantanea vanno di pari passo. A questo punto, penso che sia necessario fornire alcune spiegazioni riguardo al ruolo di Pelléas come impiego vocale. Si è cosi spesso affidato questo personaggio a un baritono acuto che restituirlo ora a un tenore è ragione di sorpresa. Tuttavia, due indizi, per quanto accademici possano sembrare, mostrano, senza possibilità di dubbio, che Debussy pensava a un tenore e non a un baritono. Ecco il primo. Egli ha scritto il ruolo in chiave di sol, e questo dai primi abbozzi - che ho avuto modo di vedere — fino alla stesura definitiva. Secondo le convenzioni di scrittura coeve, il tenore (se si esclude la chiave di do) è sempre scritto in chiave di sol,

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mentre il baritono lo è in chiave di fa. E queste convenzioni sono ancor oggi rispettate... Ma veniamo ora al secondo indizio. La tessitura del ruolo corrisponde esattamente a quella del tenore, cosi come viene defini­ ta nei trattati d’armonia piu ortodossi, dal do grave al la acuto. Mi sembra certo che Debussy abbia obbedito a questa norma, se non altro sotto l’influsso inconscio della sua educazione accademica... Al di là di questi indizi «pedanteschi» tutto mi sembra deporre a favore di un tenore: il colore della voce, anzitutto, meglio si adatta a questo ruolo, sia in contrasto con Golaud, sia in parallelo con Mélisande; l’uso del regi­ stro grave, d’altra parte, non necessita mai della grande potenza che richiedono, invece, i passaggi che utilizzano il registro acuto. In questi ultimi, la voce di tenore si afferma di gran lunga più flessibile, disponen­ do ancora di una «riserva», allorché il baritono si trova già a «fine corsa». Credo dunque, intuitivamente e logicamente, che si debba opta­ re per un Pelléas tenore. Gli altri usi non presentano ambiguità di sorta, e non sollevano da questo punto di vista dubbio alcuno. Quanto al ruolo di Yniold, conside­ ro senz’altro preferibile affidarlo, per quanto possibile, a un adolescen­ te: per la qualità insostituibile della voce, nonché per l’efficacia dramma­ tica della sua presenza. Si può obiettare che in due o tre occasioni, la vo­ ce rischia di restare sommersa nella sonorità dell’orchestra; ma vale la pena di correre questo rischio se si pensa all’intensità che assumono gli interventi dell’adolescente. Dal punto di vista teatrale, come sul piano musicale, il beneficio è enorme, e la credibilità viene ad accrescersi in proporzione. Con l’adolescente, la fase finale dell’ultima scena del terzo atto diviene quasi insostenibile per il terrore che essa implica, mentre con un travestito la scena il più delle volte non genera altro che imbaraz­ zo, per effetto incongruo. Quando si è vissuti per qualche tempo in stretto contatto con un’o­ pera, e la si è approfondita nei particolari con gli interpreti, cantanti e strumentisti, e quando ci si è dedicati a un’analisi minuziosa di ogni elemento prima di giungere alla sintesi della rappresentazione, l’univer­ so dell’opera è divenuto cosi familiare che rischia di perdere la propria magia. Sembrerebbe che uno sforzo eccessivo di comprensione nuoccia alla spontaneità, tanto da impedirci per sempre di volgere ancora uno sguardo ingenuo sull’opera che ci sta dinanzi. Ma per le creazioni la cui luce continua a irraggiarsi intensa, si direbbe invece che più si avanza nella conoscenza e meno si comprende l’origine del mistero. Cosi accade per Pelléas et Mélisande'. momento raro nella storia del teatro musicale, l’opera di Debussy possiede un significato universale. Essa forse ha sof­ ferto di un gusto analitico per i particolari, mentre le si può rendere

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piena giustizia soltanto quando le si restituisce la sua dimensione mitica e la sua energia drammatica. Quanto a me, non ho dubbi: il livello di Pelléas et Mélisande è quello supremo che attinge una cultura giunta a riconoscere la propria trasfigurazione in uno specchio eletto.

47. La «Tetralogia»: commento di * un"esperienza .

1. Questa «Marcia funebre» deve consentire, nella forma più prosai­ ca, che si porti via il cadavere di Siegfried. In realtà, ha solo questa funzione, sublimata? La piatta realizzazione visiva di una processione elude per l’appunto il suo vero significato, facendole assumere una ne­ cessità scenica e relegandola alla funzione di fondo sonoro. Tuttavia, lo spettatore è consapevole che essa assume funzioni molto più importanti non soltanto come musica che esprime il dramma, ma anche nella conti­ nuità dell’esplicazione musicale del testo drammatico. Se ci riferiamo alle testimonianze di Cosima nel suo diario, lo stesso Wagner parla di «coro greco», ma un coro, le dice, «che è cantato dall’orchestra». I grandi commenti di quest’ordine sono rari, ed è sempre estremamente difficile integrarli con l’azione scenica, in quanto rappresentano per se stessi un’azione immaginaria che supera e sfida le dimensioni proprie della scena. Che fare in effetti quando il compositore richiede allo spet­ tatore un’immaginazione che va molto al di là della rappresentazione materiale? E questo è appunto il nostro caso. La sintesi con l’azione scenica è pensata con evidenza e realizzata con astuzia: da una parte, i colpi attutiti dell’assassinio, dall’altra, il corno di Siegfried che Gutrune crede di sentire. Tra questi due punti, si svolge la storia genealogica di Siegfried e dei fatti precedenti, che i motivi enunciano uno dopo l’altro; questa evocazione della discendenza e degli antenati, questo compianto rituale dell’eroe che dovrà perpetuarsi lungo i secoli, è qualcosa che distrugge ogni proposito velleitario di trasposizione visiva. Poiché di­ viene impossibile l’illustrazione letterale, resta da scoprire lo stile di un compianto: dare allo spettatore proprio la funzione di partecipante al rituale immaginario, di fronte al cadavere di Siegfried abbandonato, lasciato volutamente su una piattaforma spoglia. In questa nudità totale possono sorgere la riflessione, l’identificazione, il simbolo; l’immobilità può dare corso al compianto collettivo. Attraverso Torchestra-parola, gli spettatori divengono a loro volta il coro greco di cui parla Wagner, * Pubblicato col titolo Commentaire sur Mytbalogie et Idéologie nel programma Siegfried del Festival di Bayreuth 1977, pp. 1-16.

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mentre nessuna illusione volgare viene a turbare l’illusione assoluta: conforme all’espressione di Claudel, «l’occhio ascolta». Riunire cosi nella stessa rappresentazione il teatro immaginario e la drammatizzazione visiva è uno dei principali problemi dell’opera, e più particolarmente del dramma wagneriano, ove il compositore si è sforza­ to di creare un possente continuum le cui componenti non sono sempre concepite secondo la stessa gerarchia e non osservano un ordinamento fisso. Più si entra nel dramma, più la trama musicale è serrata, densa, più si appoggia su una stretta organizzazione dei motivi musicali, a esclusio­ ne — direi — di motivi secondari o aneddotici, e più Y equivalente scenico diventa difficile, per non dire impossibile. Resta da scegliere ciò che deve rimanere visibile, e separare l’immaginario dal reale. Scelta pericolosa, e fatalmente inadeguata per la sua stessa natura. Come spesso in queste circostanze impossibili, non esiste una soluzione unica, assoluta; si deci­ de di porre in evidenza ciò che meglio sembra coordinare componenti se non eterogenee, perlomeno fortemente centrifughe. Di qui il gioco di altalena dalla peripezia al simbolo, dal personaggio all’ideogramma, dal­ la musica-azione alla musica-riflessione, dal fatto al commento. 11. Il problema del commento musicale si pone di nuovo, e forse in maniera ancora più perentoria e più problematica, alla fine del Gotterdàmmerung-. un’azione visiva difficilmente realizzabile, anzi impossibile nella sua consistenza letterale, una reazione concatenata di azioni diver­ se, l’interiezione di Hagen estremamente breve, tanto da riuscire incon­ grua in un tale contesto, una pioggia di simboli, tutto questo accumula­ to, condensato, in alcuni minuti della musica più «significante» dell’ope­ ra; al tempo stesso, niente è meno sicuro del senso del commento musica­ le. Se ne è discusso ormai all’infinito: fine pessimistica, fine ottimistica, ma sta poi qui veramente la questione? O perlomeno si pone in termini cosi semplici? Chéreau parla di oracolo, e ha ragione, eccome! Gli oraco­ li nell’antichità erano sempre enunciati in modo cosi ambiguo che non se ne comprendeva il significato profondo se non dopo l’avvenimento — investito per cosi dire dell’analisi semantica della frase oracolare... La conclusione in quanto tale è rifiutata da Wagner, a noi restano le pre­ messe di una conclusione il cui significato rimane fluttuante e indetermi­ nato. Tutto è calcolato, sembra, se egli dice a Cosima: «Non c’è fine per la musica, essa è come la genesi delle cose, può sempre ricominciare da capo, passare al capo opposto, ma finita non è mai». La continuità po­ tenziale, l’ambiguità di senso, la possibilità di trasformarsi nel suo con­ trario, sono appunto le caratteristiche di questa composizione provviso­ ria trasmessa dal commento finale del Gótterd'àmmerung. La musica si

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serve degli elementi drammatici per trascendere il dramma, e dargli una versatilità, una polivalenza che le sole parole non avrebbero saputo dare. La fusione suprema dei motivi manca di una direzione, ponendoli di fronte a interrogativi insolubili, a una sorta di oracolo che nessun avve­ nimento potrebbe decifrare! Un epilogo del genere è destinato a lasciarci perplessi. E non si può fare a meno di pensare alla «moralità» del Don Giovanni (l’equivalente nell’amplificazione elegante del triviale e scan­ daloso Mes gages di Molière) che ci lascia altrettanto perplessi. In un ca­ so, lo svelamento dell’illusione, nell’altro l’illusione dell’illusione. Ma in entrambi i casi, il pubblico è chiamato a testimonio del mistero teatrale, indotto a riflettere sull’illusione teatrale, l’illusione del mito, a ciò a cui essa ci rimanda alla fine della rappresentazione, quando la realtà deve riprendere i propri diritti sull’universo fittizio in cui abbiamo compiuto questa lunga immersione. Ascoltare la musica alla fine del Gòtterdammerungì Naturalmente! Ma come poi ascoltarla? Come oracolo incerto? La musica è divenuta parola sibillina: soprattutto non mimarla, ma «in­ tenderla»! Costruiamo dunque attorno a questo spazio invisibile da cui promana il verbo musicale, un cerchio che possa includere la scena e la sala, in quanto la scena e la sala sono il riflesso l’una dell’altra nella stessa posizione di ascolto. Il dramma si risolve con l’identificazione totale di queste due componenti che l’illusione drammatica e scenica avevano fi­ nora tenute scrupolosamente isolate l’una dall’altra attraverso la duplice barriera invalicabile: suono-silenzio, ombra-luce. Aboliamo questa di­ stanza, annulliamo la convenzione della rappresentazione teatrale, ascol­ tiamo, letteralmente, l’invisibile. Cerchiamo insieme di decifrare ciò che lo stesso autore non è più sicuro di volere o di poter dire. È un compito più arduo che lasciarsi andare a qualche lusinga scenica che ci risparmierebbe l’obbligo di riflettere su quello che il linguaggio musicale in quanto tale ci comunica. L’ascesi finale, sembra dirci Wagner con la sola musica, è di dover rinunziare alla dolce illusione, e fare in noi il vuoto propizio a una nuova genesi. in. È sorprendente confrontare i tre gruppi femminili: le Fanciulle del Reno, le Valchirie e le Nome, con la musica che loro corrisponde. Nell’equilibrio generale dell’opera, i tre gruppi svolgono un ruolo fon­ damentale e sono fortemente caratterizzati da «stili» musicali per cosi dire assai diversi l’uno dall’altro. A proposito delle Nome, Wagner osserva con tono divertito: «Non si può immaginare una voce di strega se non acuta e infantile; il tono tremulo del cuore non vi si fa affatto sentire». I tre «insiemi» sono mirabilmente costruiti e scritti, e tuttavia assu­

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mono una funzione instabile, ora di vero e proprio dialogo nell’azione, ora di «presa» dei caratteri, ora di fondazione statica di una situazione. I raggruppamenti vocali, o le varie dispersioni, corrispondono minuzio­ samente alle diverse tappe dell’evoluzione degli insiemi. Naturalmente, la scena delle Nome - non disturbata da avvenimenti esterni o da perso­ naggi estranei al gruppo - è quella che resta la più omogenea, quella la cui struttura permane la più propriamente musicale: una sorta di rondò, il cui ritornello è l’interrogativo passato-presente-futuro. Quanto alle Valchirie, esse sono in effetti dispensatrici di morti e ridono come iene. Tutta la loro musica possiede un’eccitazione estrema, una tensione che mai si allenta, un’esuberanza scatenata. Invocazioni e risa selvagge ne fanno delle creature spaventose che si riflettono nell’e­ strema tensione vocale richiesta in quel momento. L’arrivo di Brunilde e di Sieglinde e poi di Wotan spinge l’eccitazione a un parossismo isterico. Di loro si potrebbe ripetere quello che Wagner disse a sua volta a propo­ sito di Siegfried: «Quel giovanottone strilla come un’oca selvatica! » Il contrasto è sorprendente con le Fanciulle del Reno il cui stile passa con facilità e continuità dalla seduzione allo scherno, dal lamento all’a­ patia; stile omogeneo per eccellenza, e che varia sottilmente dal Rheingold al Gòtterdàmmerung utilizzando la stessa infrastruttura ritmica. Le due scene hanno un’«aria di somiglianza», pur non utilizzando, lette­ ralmente, lo stesso materiale, ma servendosi di una matrice analoga. Mentre il languore e la nostalgia della seconda scena, nonostante certi soprassalti all’apparizione di Siegfried, contrastano con la freschezza e la diavoleria della prima. In un dramma che rifiuta gli «insiemi» nel senso tradizionale implici­ to nell’opera come genere, - così come Wagner li pratica a sua volta in alcune opere precedenti, - si può constatare una rivitalizzazione del canto recitativo, fondato sulla distribuzione di un solo carattere tra di­ verse persone. Dispersione e condensazione delle voci costituiscono le indicazioni più precise per l’evoluzione degli insiemi sulla scena, un’evo­ luzione che materializza, in termini propri, i differenti stadi della scrittu­ ra musicale.

iv. La prima apparizione del Walalla è tutto meno che trionfale: è incerta, appartiene al sogno, alla fantasmagoria, al miraggio. La tonalità adottata, i timbri, la dinamica, l’espressa osservazione «sehr weich», tutto concorre a dare a questo sogno un colore musicale per quanto possibile vaporoso. Si pensa a Windsor dipinto da Turner, come al sorgere del sole... E quando giunge la sera, dopo tutta l’avventura della giornata, i patteggiamenti coi giganti, il furto dell’Anello, il tema del

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Walalla riappare su un fondo fluido di arpeggi, e sempre nell’incertezza e nella dolcezza — sehr weich —, come un sogno di cui non si è ancora assolutamente sicuri, come un sogno di cui ogni gioia scompare man mano che diviene realtà, presto avvolta dal buio. Due simboli adiacenti vengono a confermare questa impressione d’incertezza e di sogno rac­ chiusa nel tema del Walalla, l’una per deduzione e analogia, l’altra per contrasto, o meglio per contraddizione. Nel primo caso, è affascinante vedere come il tema dell’Anello, quanto mai incerto armonicamente col suo succedersi di terze che possono partecipare a ogni ambiguità tonale - proprietà che saranno largamente sfruttate in seguito, segnatamente in Siegfried a proposito di Mime, ove il tema dell’Anello si riduce alle sue due terze estreme — come questo tema dell’Anello sia stato delineato e voluto da Wagner quale segmento iniziale del tema del Wa­ lalla, deduzione simbolica per eccellenza. In compenso, nel secondo caso che vorrei citare, il tema del Walalla non acquista sicurezza e certezza, si serve di una retorica più trionfale che sostenuta dal tema della Spada che del resto lo chiude e pone un termine alla sua esistenza nel Rheingold\ la perorazione si compie in effetti sul tema dell’Arcobaleno il cui ritmo iniziale è dedotto a sua volta dal tema del Walalla, mentre le sue note iniziali ne offrono come uno specchio. Quanto mai qui simbolico benché la sola certezza retorica sia una certezza di compimento, di cessazione: essendo la spada annientamento del Walalla, resta l’Arcobaleno. Se si osserva la musica da vicino, si vede quanto si sia lontani da una retorica banale dell’amplificazione e della ridondanza, nonostante che perman­ gano ritmi di fanfara, onusti di una gloria decorativa. Un modo siffatto di agire sui temi, sulle loro trasformazioni, sui loro significati, possiamo trovarlo già stupefacente nel Rheingold-. ma quanto ci sembra semplice, addirittura sommario, rispetto al lavoro compiuto nel Gótterdàmmerung. Se ci atteniamo al solo tema del Walalla, lo vediamo - tanto più i dubbi e i pericoli si addensano sulla sua esistenza, tanto più esso è minacciato di decadenza e di sparizione — deformarsi ritmicamente, ap­ poggiarsi su armonie che lo rendono quasi irriconoscibile, disintegrarsi mediante cesure che attaccano la sua coesione. Poi, quando l’Anello è stato restituito alle Fanciulle del Reno, eccolo di nuovo integro, pronto a fornirci l’ossatura stessa della perorazione finale, elevandosi al culmine della forza e della potenza, per gradazioni successive, per concludersi nondimeno nella dolcezza, dissolversi nel sogno, come esso ci era appar­ so per la prima volta; l’ultima conclusione avrà luogo dopo il suo an­ nientamento. Come personaggi di romanzo, i motivi circolano attraverso l’opera, a volte scompaiono senza aver lasciato altra traccia se non la propria appa­

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rizione momentanea, assumendo talvolta, per contro, un’importanza in­ sospettata, invadendo una scena intera con la loro presenza - come il motivo del Tarnhelm -, vivendo un’esistenza parallela a quella del dram­ ma, a quella dei personaggi, satelliti quanto mai attivi dell’azione! Quan­ to piu Wagner si addentra nella propria opera, tanto più acquista fami­ liarità con essi; li «mette in scena» con tanta più destrezza, tanto più virtuosismo, e certamente piacere. In questo, egli fa pensare indubbia­ mente a Balzac che manipola demiurgicamente le molteplici figure della sua Comédie humaine. Attraverso la vita interna e molteplice dei suoi motivi, il teatro di Wagner si lega molto più al romanzo della sua epoca che non al teatro allora rappresentato; e questo spiega perché — al di fuori della rappresentazione teatrale - leggere la partitura sia un compi­ to talmente impegnativo. Ci si trova alla confluenza di numerose corren­ ti: la corrente teatrale evidentemente, ma anche, e non meno, quella sinfonica e quella romanzesca. Queste interferenze costituiscono la pro­ digiosa originalità di Wagner, che non ha voluto sacrificare nulla dei suoi doni, e ha voluto sfruttarli tutti insieme in un’opera la cui complessità riflette, anzitutto, la versatilità. Infatti la trasformazione sempre più sottile dei motivi, a esempio, non è dovuta soltanto alle necessità della drammaturgia, o ai piaceri della manipolazione per se stessa grazie al virtuosismo acquisito, ma ancor più dipende dal bisogno di inserire nel teatro le funzioni più esigenti e le caratteristiche essenziali della musica pura, senza per questo sacrificare il dramma a una struttura formale che gli fosse estranea. Ispirandosi, soprattutto verso la fine, al modello beethoveniano, Wagner lo adatta ai propri fini e alla struttura teatrale che aspira a realizzare. Traendo dall’ultimo Beethoven l’idea di variazio­ ne, il lavoro di trasformazione dei motivi, approfondendone il ruolo e la funzione nella stesura di un discorso musicale, basando su di essi la continuità e la coerenza del suo discorso, Wagner riprende quella ricerca in profondità senza con questo giungere alle stesse conclusioni formali, vale a dire senza adottare lo schema formale beethoveniano che avrebbe contraddetto la struttura drammatica. L’eccezionaiità del suo genio sta nell’essere riuscito a trarre conclusioni cosi lontane dall’originale, fon­ dandosi appunto sull’estrema individualità del modello. La derivazione del pensiero è evidente mentre le conclusioni si orientano secondo una polarità fondamentalmente diversa. Si potrebbe parlare ancora, e sempre a proposito di corrente sinfoni­ ca, della strumentazione in Wagner, e più specificamente della strumen­ tazione dei motivi e della strumentazione in rapporto ai motivi. Natu­ ralmente, ciò che subito colpisce è il suo virtuosismo nell’uso del colore strumentale; ma si potrebbe parlare con maggior precisione della fun­

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zione stessa dello strumento nell’orchestrazione dei temi, o meglio di scene o di frammenti di scena. Vi sarebbe quasi da istituire un codice sul colore strumentale in quanto significato, e anche in quanto segnale. È straordinaria, tra l’altro, la maniera con cui circolano certi gruppi ridotti sommamente caratterizzati rispetto alla massa dell’orchestra più volu­ tamente indifferenziata. La caratterizzazione si fonda, è più che eviden­ te, sulla presenza di uno strumento o di un gruppo di strumenti; si fonda anche sull’assenza di certi timbri in alcuni punti dati dell’azione. Questi lunghi tratti con gruppi di strumenti preponderanti o assenti si equili­ brano nella struttura generale dando alla forma drammatica larghe defini­ zioni strumentali. È probabile che Weber e Berlioz siano all’origine di queste decisioni wagneriane, ma ciò non toglie che esse costituiscano un’operazione altamente originale che s’instaura nella continuità di quan­ to era stato realizzato, fin dalla stessa musica barocca, con i gruppi obbli­ gato (di cui Bach fornisce nelle Passioni e nelle Cantate i più notevoli esempi). Lo studio di Wagner sulla forma musicale mediante il dramma non ha dunque trascurato nulla perché l’opera fosse finalmente leggibile a più livelli e presentasse diversi gradi di significato, diversi strati di so­ stanza. Per questo, lo studio sui motivi e sui temi non è che l’aspetto più visibile e più facilmente manifesto di una ricerca più sostanziale che ha investito tutte le componenti della rappresentazione musicale-drammatica. In contrappunto a tutto ciò che si vede, esiste una molteplicità di ciò che non si vede, il teatro reale, definito, reca in filigrana il teatro immaginario, infinito. v. Soprattutto nel Rheingold e nelle Walkilre, Wagner utilizza an­ cora largamente il recitativo, certo più nell’accezione tradizionale del termine, e tuttavia nel senso quanto mai esplicito in cui la trama musica­ le è ridotta a un minimo di supporto all’enunciazione delle parole, e in cui gli intervalli che sostengono queste parole non derivano la propria coerenza da se stessi, ma dal proprio legame con la dizione, il ritmo e l’illusione del linguaggio parlato. Le differenze cosi spiccate dell’enun­ ciazione - che costituivano la base del teatro di Mozart, a esempio saranno riassorbite da Wagner a vantaggio di una continuità in cui la va­ rianza della parola rispetto alla trama musicale si fa più duttile, e la separazione non è mai cosi decisamente delimitata tra comprensione ed espressione. Si potrebbe dire, in un certo senso, che la struttura dram­ matica del recitativo ha pervaso l’intero ordito musicale, e che la pura struttura musicale ha regredito davanti alla congiunzione mutevole del dramma con la musica. Le frontiere sono divenute fluide, e nel Gotter-

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dàmmerung, non vi saranno più racconti in senso stretto. Ma, come ho già detto, Rheingold e Walkùre pongono questo problema quanto mai di­ rettamente: la preponderanza del messaggio verbale da consegnare è quanto mai evidente rispetto all’importanza del messaggio musicale che il più delle volte svolge solo il ruolo di un’onda portante. L’esempio più sorprendente resta, a mio parere, la lunga spiegazione di Wotan con se stesso, in presenza di Brùnnhilde — coscienza, se si vuole, ma spalla di fatto, il cui ruolo - all’inizio, comunque - si limita ad alcune interiezioni necessarie: prosaicamente al riposo di Wotan, più idealmente, all’espansività della sua memoria e allo svolgersi dei suoi ricordi. È l’artificio drammatico della confidente, vecchio quanto la stes­ sa tragedia! Comunque sia, Wotan parla su un fondo a volte ridotto al minimo di una nota sostenuta; talvolta la musica affiora in motivi rias­ sorbiti così rapidamente nella neutralità voluta di accordi o di note sostenute. Via via che la memoria si fa più precisa, che i ricordi ricom­ paiono nella propria integrità, la trama musicale si svolge sino a far corpo con le parole, si affila di nuovo verso la fine della scena per requisi­ re tutta l’attenzione. Nel lavoro scenico su questo monologo, è essenziale coordinare l’in­ tenzione musicale e l’intenzione drammatica realizzate tanto dal gesto vocale quanto dal gesto stesso che imposta la scena. La voce condiziona il gesto, il gesto contribuisce a collocare l’intenzione vocale. Il monologo implica anche in partenza un’attenuazione della capacità vocale, una riduzione verso la voce parlata, che decollerà a poco a poco verso il massimo della possibilità cantata, al culmine della sua efficacia e della sua potenza. Suppongo che l’indicazione di Wagner mit gànzlich gedàmpfer Stimine non voglia dire altro che la soppressione del «cantato»; la musica, in senso proprio, è qui ridotta allo stato di trama, di ordito rarefatto, mantenendo la continuità, per quanto tenue, con l’intreccio musicale generale dell’opera e della sua diramazione attraverso i motivi. Questa riduzione momentanea, effluvio della memoria, si riflette sulla scena con la fissità dell’atteggiamento, con la concentrazione sulla paro­ la. Paradossalmente, proprio in occasione di momenti teatrali come que­ sto, in cui gli elementi sono ridotti a un minimo, la collaborazione tra la scena e la musica si rivela indispensabile, in quanto scena e musica non hanno alcuna possibilità di contrappunto o di contrasto, ma devono intrecciarsi nel modo più acconcio e coordinare strettamente i rispettivi movimenti. Vi sono altri momenti in cui questa collaborazione può esse­ re di gran lunga più flessibile, specificamente nei punti in cui l’azione, il movimento scenico si rivelano come un ingrediente di prima forza; pen­ so alla primissima scena di Siegfried, a esempio, ove sulla continuità

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ritmica della musica, Fazione può prendere il largo e acquistare una certa autonomia descrittiva e aneddotica. Cosi, diversi aspetti della collaborazione tra scena e musica possono e devono essere esplorati, poiché ci sollecita a farlo la scrittura stessa che è all’origine delle convergenze e divergenze tra azione e riflessione, tra movimento e immobilità, tra proliferazione delle iniziative e riduzione all’essenziale.

vi. Mi sembra che il pericolo da evitare in ogni rapporto tra la musica e la scena, sia la ridondanza, la ripetizione degli stessi atti, com­ piuti contemporaneamente, ciascuno nel proprio campo specifico. Senza dubbio, il pericolo è molto più presente in Wagner che in altri autori, proprio a causa della sua tecnica dei motivi che sin troppo facilmente possono essere scambiati per una segnaletica - cosi come si parla di una segnaletica stradale. A un tema-segnale, si volta a sinistra, a un altro, si volta a destra e si solleva la testa... Da un punto di vista musicale, nonché scenico, una dipendenza cosi letterale dei motivi sarebbe scon­ certante per ingenuità melodrammatica. Ma la ridondanza può nono­ stante tutto esistere in forme meno caricaturali, se sottolinea ciò che è già sottolineato nel testo stesso. Penso che questa sottolineatura di sot­ tolineatura di sottolineatura... è quanto vi è di meno necessario per «fare comprendere», poiché la comprensione si trova sviata verso fini primari, mentre il suo campo è di gran lunga più vasto, e il suo modo di azione più sottile. Come ho già detto, in contrappunto al teatro reale, che si vede, esiste un vasto e ricco teatro immaginario, che si deve non vedere, che deve restare allo stato di filigrana. Questo contrappunto che mi sembra la soluzione più agile, più duttile, e perché non dirlo, più intelligente, mi sembra anche la soluzione più efficace; essa consente non di eliminare, ma di riassorbire certe contraddizioni inerenti all’opera stessa, dovute alla sua lunga progressione, di riassorbirle pur lasciandole sussistere in modo plausibile. Questo contrappunto consente anche di risolvere la questione, precedentemente sollevata, delle interferenze molteplici del testo con la musica, della necessità e della qualità di queste interferenze. Certamente l’azione scenica sarà, a tratti, letteralmente parallela all’a­ zione musicale, e le due strutture coincideranno strettamente; ora la gerarchia dall’una all’altra potrà variare, il modo di esistenza dell’una rispetto all’altra potendo spingersi sino a una sorta d’indipendenza con­ certata, nel senso in cui un solista prende libertà e slancio rispetto al gruppo col quale suona, senza che ciò distrugga i legami organici che li collegano l’uno all’altro.

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In ogni modo, più si procede nell’opera, più sarebbe arduo obbedire a criteri di stretto parallelismo, visto l’aspetto a volte caleidoscopico, e il rinnovamento incessante, della trama musicale che accompagna passo passo l’azione. L’accostamento costante non potrebbe essere che forzato e artificiale, in quanto i due ritmi di azione, per così dire, non sono gli stessi.

vn. Si pensa e si dice spesso che in Wagner l’essenziale risieda nella musica, che l’azione scenica ostacoli l’ascolto, distolga in certo qual mo­ do l’attenzione dal fenomeno primario. È forse per questo che ci si occupa cosi poco del livello sonoro, e una certa tradizione, intramontabi­ le, esige anzitutto la quantità sonora? Questo rumore impressionante sarebbe una qualità somma, o soltanto uno stravolgimento di funzione? Stando ai ricordi diretti che ci sono pervenuti, dal Diario di Cosima pubblicato di recente, sembra che lo stesso Wagner avesse un’opinione molto più sfumata dei suoi eroici interpreti. Egli paragona l’orchestra al coturno della tragedia greca che ingigantisce ed esalta i cantanti, al modo stesso in cui dilata il dramma. E certo il paragone dovrebbe servirci di riferimento. L’orchestra è un coturno, ma non certo una maschera, e meno ancora una tunica di Nesso, che brucerebbe spietatamente le voci che riveste. Senza dubbio, non mancano tratti di parossismo in Wagner, un uso estremo della dinamica e delle masse sonore, quali la sua estrema sensibi­ lità, per non dire la sua emotività potevano vagheggiare. Preceduta dal fracasso di Berlioz o dai colpi violenti di Beethoven, questa esasperazio­ ne della forza avrà una folta discendenza, specie nel tardo romanticismo. Ma non bisogna credere per questo che il parossismo sonoro sia la di­ mensione wagneriana per eccellenza. Ciò che colpisce, al contrario, ed è quasi disperante dal punto di vista della realizzazione, nel corso di un’o­ pera cosi vasta, è la raffinatezza costante della trama strumentale. Come ho già segnalato a proposito della caratterizzazione drammatica median­ te la strumentazione, esiste una ricchezza di trame, estremamente sensi­ bili e delicate, calcolate con grande astuzia, e che consentono di scoprire certi movimenti di musica da camera sparsi lungo l’intera orchestra. Questa individualizzazione dei gruppi che Wagner ha sistematicamente praticata costituisce il contrasto più evidente con l’uso della sonorità massiva: una costante smentita al monolitismo strumentale glorificato eccessivamente o a torto rimproveratogli. Per riprendere il suo parago­ ne, Wagner sa perfettamente adattare i propri coturni ai diversi perso­ naggi, calcolando con astuzia le dimensioni necessarie... Egli sa magnifica­ re, non certo schiacciare. Il suo genio risiede appunto in questa capacità

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di adattamento, ed è accaduto ben di rado che egli s’ingannasse nelle proprie valutazioni.

vili. L’uso che Wagner fa della mitologia si lega in modo quanto mai specifico alla sua epoca, e la composizione del Ring è condotta a termine molto dopo che il ricorso ai miti sia medievali che germanici avesse esercitato la sua massima attrazione. Le nascite o rinascite nazionalisti­ che che caratterizzarono la fine del xvm secolo o gli esordi del xix hanno sentito un urgente bisogno di fondarsi su epoche passate, tanto più lontane quanto poco reali. Dopo l’esaltazione per l’antichità classica, la cui presa si era esaurita dopo più di due secoli di pratica intensiva, un altro ricorso era necessario. E si spiega cosi perché il Medioevo o piut­ tosto l’alto Medioevo abbia goduto di una tale predilezione. Alimento nuovo di un’arte poetica rivivificata, esso serviva anche la causa politica. D’altro canto, visto che non era possibile dimenticare cosi facilmente la cultura greca, specie il sogno di un teatro che fosse quello di un popolo, coincidente con le sue preoccupazioni e aspirazioni, il modello del teatro greco sussisterà per un certo tempo, fino al momento in cui il teatro borghese rispecchierà più direttamente e efficacemente i problemi dell’epoca, e si sentirà autorizzato a esporli senza questa trasmutazione fittizia: una responsabilità che Ibsen si assumerà in pieno. Tuttavia, nonostante la trascrizione simbolica e mitica, il teatro di Wagner si trova a mezza strada. Si esprime ancora nella dimensione atemporale degli eroi e degli dèi, ma si preoccupa dei problemi attuali. L’ambiguità di una tale mescolanza va certamente rispettata, ma non credo che lo sia obbedendo semplicemente a certe convenzioni di costu­ me. Ora, sembra proprio che il punto debole si riveli ancora cosi eviden­ te, come a dire che il mito supera di gran lunga lo stretto quadro della mitologia molto temporale - intendo dire quanto mai dipendente dall’e­ poca in cui è stata concepita — di quella mitologia molto temporale, quindi, in cui i personaggi s’iscrivono. La visualizzazione di questo mito non potrebbe prodursi, si sostiene, se non in una categoria atemporale. Ma allorché si usa questo termine, si descrive quasi automaticamente una forma di abbigliamento che dovreb­ be, in forza della sua sola esistenza, segnalare l’atemporale e dunque il mito. Se si sopprime l’abito vagamente medievale, sorta di rivestimen­ to del mito, tutto accade come se il riferimento visibile dell’atempora­ le fosse scomparso, e quindi facesse scomparire a sua volta l’atemporale. Come se un gruppo di cattolici negasse la qualità di sacerdote a chi non porti la tonaca, e unicamente perché non la porta. Il mito atemporale sarebbe dunque una nozione cosi fragile da essere cancellata da un co­

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stume? Per contro, non ci si riferisce molto espressamente alla tempora­ lità di questi miti, all’epoca recente in cui hanno assunto importanza, ri­ vestendoli ancora di quegli orpelli da noi considerati «barbari» perché corrispondono alla convenzione allora accettata di cosa è barbaro^ Nei secoli xvii e xvm, gli dèi della mitologia greca indossavano sulla sce­ na costumi di corte, ma non per questo se ne vedeva meno il personag­ gio mitico che erano designati a rappresentare. La convenzione di un co­ stume sarebbe oramai rifiutata, mentre la convenzione della rappresen­ tazione dovrebbe essere accettata? Di fatto, in questa confusione del temporale con l’atemporale, del personaggio col mito, la funzione e lo stile della musica sono stranamen­ te dimenticati. Quali riferimenti la musica fa a questo passato mitico? Nessuna, neppure per allusione. La musica non si sovraccarica di preoc­ cupazioni più o meno archeologizzanti — tali preoccupazioni nel costume avevano del resto amaramente deluso Wagner al momento della rappre­ sentazione. Per effettuare una trascrizione corretta della realtà dram­ ma-musica, la rappresentazione non potrebbe dunque farsi carico di un interdetto stilistico che non esiste a rigore nel testo stesso dell’opera, ma esiste soltanto in alcune indicazioni sceniche pensate per una visualizza­ zione molto specificamente definita nel tempo. Si dovrebbe pensare che è obbligatorio rappresentare la tragedia del xvn secolo francese in costu­ me Luigi XIV? Dovremmo proibirci di rappresentare Shakespeare se non nei costumi detti «d’epoca»? La differenza appunto tra le circostanze particolari che hanno dato vita all’opera e l’opera che trascende tali circostanze, anche se ne porta la traccia, ci autorizza a liberarci di questo pseudoconcetto di fedeltà. La fedeltà, nel senso restrittivo del termine, compie un’opera di morte per strangolamento. Che cos’è veramente la fedeltà? È un modo di rispetta­ re l’opera? o non piuttosto di considerare l’opera come eterna portatrice di verità nuove, decifrabili secondo l’epoca, il luogo e la circostanza? La grande opera non è appunto quella che elude le nostre previsioni? Per­ sonalmente, nella fedeltà letterale non vedo se non la più grande men­ zogna e la più grande infedeltà verso l’opera che si vuole ostinatamente circoscrivere nel quadro della sua prima comparsa. Ma dopo la sua com­ parsa, tutto è cambiato: siamo più ricchi di nuove acquisizioni, di nuove esperienze, di nuove avventure stilistiche. E saremmo disposti a tornare indietro senza tener conto di tutta questa evoluzione? L’opera è uno scambio costante passato-futuro che la inonda inondandoci. Ecco perché rifugiarsi nell’atemporale non può che tendere in realtà a sopprimere questa corrente, a interrompere questo scambio oltremodo vitale; rifu­ giarsi nell’atemporale è un’astuzia o una doppiezza per cercare di ferma­

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re la Storia e fare accettare una verità tutta temporale per una verità al di là della dimensione stessa del tempo. La musica non ha niente da gua­ dagnarci; ancor meno il teatro, molto più sottoposto alle contingenze della rappresentazione di qualsiasi altro mezzo di espressione. La vera dimensione mitica non è questo allontanamento che ci rassi­ cura e ci lascia spettatori passivi di una «storia» irreale, e quindi senza pericolo; il mito è ciò che ci spinge a riflettere sulla nostra condizione presente, che provoca le nostre reazioni, e obbliga la nostra attenzione a mobilitarsi sui problemi reali che esso implica. In questo senso, soddi­ sfacente sarà la rappresentazione che avrà dato al mito l’impatto dell’at­ tuale.

ix. Secondo Wagner, «Siegfried è tutto Azione — tuttavia, egli co­ nosce il Destino di cui si assume la responsabilità». Ed è vero che la musica di Siegfried, sin dal suo apparire, è essenzialmente movimento e azione, diretta, di colore brillante, luminosa. Il personaggio non imma­ gina, non può immaginare. Che Mime gli descriva la paura, i pericoli del Drago, niente di questo lo fa reagire, poiché egli non si rappresenta il pericolo, immune com’è; e quando cade nella trappola di Gibichung, Siegfried fa pensare al famoso Albatros di Baudelaire. x. Sarebbe interessante dedicarsi alla trascrizione wagneriana dei simboli nel linguaggio musicale, vedere se vi è coerenza in questa tra­ smutazione del pensiero in materiale sonoro. In tutti i tempi, vi sono state in musica associazioni di idee che sono state trasferite secondo differenti caratteristiche stilistiche, ma il cui parallelismo attraverso i secoli riflette una costante evidente. L’angoscia, l’ombra, l’incertezza sono caratterizzate dall’uso del cromatismo, come i loro contrari: certez­ za, luce, gioia lo sono dal diatonismo. Ma non vi sono corrispondenze «psicologiche»; gli elementi naturali hanno dato luogo ugualmente a un certo numero di imitazioni. Cosi pure, ritmi o direzioni di intervalli hanno rivestito attraverso la storia aspetti analoghi; l’ombra trista ha utilizzato intervalli discendenti, lo schiudersi verso la luce e la gioia intervalli ascendenti. In epoca più tarda, le tonalità hanno assunto un significato simbolico, un significato, del resto, che muta con le caratteri­ stiche dell’epoca. Basti confrontare certi quadri di significato tonale del xvni secolo col quadro che ne dà Berlioz, a esempio, per accorgersi quan­ to tutta la letteratura di Beethoven sia passata di lì! È vero che que­ sto simbolismo è una straordinaria mescolanza di proprietà che si posso­ no chiamare naturali (instabilità delle relazioni cromatiche rispetto alla stabilità delle relazioni diatoniche) e di caratteri acquisiti dall’influenza

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che hanno lasciato sulle nostre abitudini di ascolto le opere più cospicue della letteratura musicale. Le nostre reazioni all’universo sonoro pro­ vengono dunque da questa fusione di reazioni psico-fisiologiche innate con un condizionamento culturale acquisito. Consciamente o inconsciamente, Wagner si è servito di questo feno­ meno per creare quei simboli musicali che sono i leitmotive. Benché poi si sia esagerato dando loro una pletora di denominazioni precise e cir­ coscritte, nel delimitare il loro significato e nel farne gli elementi co­ dificati di un lessico specifico, è certo che essi rimandano a un sistema di percezione naturale o culturale abbastanza duttile per essere suscettibili di un’interpretazione larga, ma sufficientemente precisa perché la perce­ zione sia orientata nel senso voluto dall’autore, in coincidenza con gli elementi del dramma. Il vocabolario di Wagner in questo campo è ricco, poiché corrisponde a una grande varietà di simboli, e poiché sono perce­ piti come tali senza bisogno di avere una chiave semantica per compren­ derli. I motivi colpiscono in quanto utilizzano caratteristiche estremamente monovalenti, poiché la loro forma è determinata in una direzione cosi precisa che la memoria ne ritiene quasi immediatamente contorni, ritmi e carattere. Inoltre, il colore strumentale che è loro principalmente attribuito serve a fissarli potentemente nel ricordo, e ci dispone così a seguirli nei loro meandri. In questi motivi, il fatto più rilevante forse è la duttilità e la maneg­ gevolezza. Certo, Wagner raggiunge, via via che l’opera, e quindi la sua vita, procede, un grande virtuosismo nella manipolazione dei motivi, nella loro combinazione e sovrapposizione. Tuttavia, se il materiale vi si fosse mostrato refrattario per natura, il compositore avrebbe avuto mag­ giori difficoltà a trattarlo in questo modo. Ciò che conta dunque nel pro­ getto - e nel disegno - di questi motivi è la loro possibile riduzione ad al­ cune componenti neutre e mobili (arpeggio, a esempio), e al tempo stes­ so la solidità, nella forma originaria, della lega di queste diverse compo­ nenti. Si può notare che i motivi che sono impiegati con maggior fre­ quenza nel corso dell’opera sono quelli appunto che possiedono al più al­ to grado questa duplice capacità di adattarsi e di restare se stessi. Sono, si potrebbe dire, i fili di Arianna di questo labirinto drammatico. xi. Quanto più Wagner avanza nella sua opera, approfondendo così espressione e scrittura, tanto più penetra in un universo musicale che è specificamente suo, e riveste a volte colori crepuscolari. Così nella stu­ penda scena tra Alberich e Hagen: «Schlàfst du Hagen, mein Sohn?» Questa scena mi colpisce forse per ragioni tutt’altro che direttamente drammatiche. Mi sembra che vi sia come una sorta di dialogo tra Wagner

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e il suo doppio, e che il tema in questione vada molto al di là dell’anello in sé; si tratta dell’interrogazione sul futuro, di un’inquietudine rispetto alle generazioni che seguiranno. Le mie preoccupazioni, la mia opera saranno intese dai secoli a venire? Sopravvivrò negli uomini che verran­ no dopo di me? La scena fa parte di un dubbio fondamentale sulla comunicazione e termina con un «sii fedele» che è di un’incertezza stra­ ziante. Il futuro risponderà alla mia attesa? Forse qui si tratta di un’in­ terpretazione eccessivamente personale, troppo lontana dalla realtà sce­ nica; mi sembra tuttavia che l’interrogazione angosciata che essa ci pre­ senta, prendendo l’anello a pretesto, riguardi la stessa opera e la sua validità nei secoli a venire. Ogni interrogazione di questa natura non può che dissolversi nel «sii fedele» della fiducia nonostante tutto.

48. «Lulu»: problemi d’* interpretazione . Avvicinare un’opera come Lulu significa stranamente confrontarsi in primo luogo con un problema di forma, che tanto ha assillato Berg durante la sua vita. L’opera contiene forme musicali chiuse, forme che si riferiscono alla musica pura, come la Sonata che scandisce gli incontri di Schòn e di Lulu nel primo atto, come le Variazioni Corali che articolano il dialogo tra il Marchese e Lulu nel terzo, o ancora come l’Aria in cinque strofe di Schòn allorché al secondo atto egli sta per essere ucciso da Lulu. Vi sono anche forme molto più vaghe, molto più tattiche, direi, come la Monoritmica - costruita su un ritmo unico — che costituisce la scena esplicativa tra il pittore e Schòn nel primo atto. Vi sono inoltre passaggi molto più discorsivi in cui la forma dipende direttamente dal testo e ne costituisce una diretta illustrazione, ove la musica serve semplicemente da supporto al testo, come nell’antico recitativo. Il primo compito che si pone sta dunque essenzialmente nel trovare un nesso tra questi differenti tipi di espressione che a prima vista sem­ brano respingersi tra di loro, mentre lo scopo principale di Berg, invece, è la continuità drammatica. L’aneddoto si trova racchiuso in un quadro formale a volte ristretto, a volte molto più duttile, e ci fa passare dall’u­ no all’altro senza porre in pericolo l’unità profonda dell’opera. Berg ha sempre pensato in un modo estremamente complesso, e a mano a mano che procedeva, amava sempre di più gli incroci, si potrebbe persino dire gli arabeschi formali. Sia gusto per la simmetria, passione per l’allusione e i riferimenti segreti, sia desiderio di combinare tra loro forme che In opuscolo del cofanetto DGG 2711024, pp. 78-79.

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sembrano distanti Puna dalFaltra, bisogna riconoscere che il suo univer­ so sembra discendere dall’espressione diretta, mentre vi circolano mol­ teplici correnti sotterranee di cui stupisce sempre di sorprendere le trac­ ce inattese. Certo, la scrittura orchestrale è semplificata, relativamente, rispetto alla sua produzione anteriore, soprattutto se la si confronta con la scrit­ tura dei Pezzi per orchestra op. 6 o di Wozzeck. Tuttavia, in una trama a volte abbastanza densa, è importante fare intendere nel modo più chiaro possibile i riferimenti tematici, punti fermi indispensabili per potere seguire l’opera nella sua pienezza. A questo punto un pericolo ci insidia, quello di voler troppo dimostrare l’interazione dei motivi, i richiami tematici, le articolazioni formali, dimenticando cosi la forza globale del­ l’espressione, di ciò che questi temi e questi motivi esprimono, di ciò che rappresentano, di ciò per cui esistono. In ogni modo, sarebbe vano prefiggersi lo scopo di svelare le numerose allusioni, illuminare di una lu­ ce troppo cruda i recessi molteplici del labirinto, infrangere e porre in luce tutti i segreti dell’opera. Una tale impresa non potrebbe che essere mostruosamente artificiale, e invece di valorizzare le soluzioni, non fa­ rebbe che sottolineare i problemi della musica di Berg. L’artificio di­ mostrativo sarebbe in contraddizione, mi sembra, con l’autore il quale come diceva espressamente per Wozzeck — voleva che la costruzione dell’opera fosse dimenticata, e lo schema fosse cosi bene assorbito da non presentare ostacolo al dramma e alla naturalezza del gioco dram­ matico. Ciò che costituisce la qualità stupefacente, eccezionale di Berg musi­ cista, è la sua facoltà cosi diretta di esprimersi, e la pertinacia che ha dimostrato nel sostenere questo dono espressivo con una riflessione pro­ fonda sui mezzi formali che consentono di attingerlo. Occorre dunque potere esprimersi spontaneamente senza per questo trascurare gli inter­ venti della riflessione. Come ho già detto, la scrittura strumentale a sua volta non presenta alcun problema che non sia di facile dominio. Certo, occorre studiare con cura uno spartito cosi minuziosamente composto, ma non vi è nulla che esca dalle norme tradizionali e abituali a tutti gli strumentisti. Il punto che richiama maggiormente la nostra attenzione, è il rapporto dei perso­ naggi col colore strumentale; è a volte una caratterizzazione vera e pro­ pria dove o uno strumento in particolare, o un gruppo strumentale sono legati all’entrata di questo o quel carattere. Per l’intera opera, il piano si lega evidentemente al personaggio del­ l’atleta, allo stesso modo che il violino — nel terzo atto — si lega al marchese. Il sassofono caratterizza principalmente il personaggio di Al-

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wa, mentre un insieme di strumenti a fiato, e con precisa ragione, carat­ terizza l’asmatico Schigolch. Quando si tratta di colori puri, non vi è evidentemente alcuna difficoltà a porli in risalto, ma quando i motivi s’incrociano, cioè quando vi è scambio drammatico tra i personaggi, questi diversi valori strumentali si sovrappongono, si combinano, si pongono reciprocamente in risalto, o si ostacolano a vicenda. Ad ogni istante occorre render conto della drammaturgia musicale costituita tan­ to dallo svolgimento tematico quanto dall’invenzione strumentale. Per giungere a una caratterizzazione conveniente, si è costretti a non trascu­ rare mai la coincidenza tra personaggio e situazione, tra voce e strumen­ to, tra motivo e forma, tra ordito e densità. La drammaturgia di Berg gioca costantemente su questi richiami più o meno consapevoli, a se­ conda che si esprimano con maggiore o minore chiarezza, e ignorare questo vorrebbe dire ignorare l’energia del suo pensiero e la forza della sua espressione. Resta ora da dire della scrittura vocale. In apertura dello spartito, Berg descrive con estrema precisione i sei differenti gradi dell’uso vocale che vanno dal dialogo non accompagnato fino al canto, passando per il tramite ritmico, e quindi per la famosa Sprechstimme. Questi differenti gradi dovrebbero essere distinti, e lo sono nella notazione. Ma simili distinzioni sono difficili da realizzare, dato che tutti i registri vocali non vi sono particolarmente adatti, e il registro parlato non ricopre necessa­ riamente il registro cantato; nel qual caso le soluzioni intermedie sono quanto mai difficili da trovare... Ma dopotutto, non credo che questi gradi vadano presi in un senso assoluto; credo, invece, che essi siano fissati essenzialmente in corrispondenza con la dizione del testo, e riten­ go che la frontiera possa e debba essere abbastanza sfumata da un grado all’altro. Ogni sistema eccessivo pertiene alla pura utopia, e finirebbe probabilmente per approdare a risultati che l’autore non aveva né voluti, né previsti. In conclusione, non vi sono problemi insormontabili. Ma, come per ogni opera la cui ricchezza non si esaurisce alla prima lettura, né alla seconda, occorre un apprendimento minuzioso delle molteplici intenzio­ ni dell’autore, un’attenzione vigile nel realizzare i particolari su cui a sua volta egli ha così intensamente meditato. Per finire, importa avere assi­ milato così perfettamente il suo universo da sentirsi in diritto di dimenti­ care tutto il lavoro preparatorio al fine di ri-trovare freschezza e anche ingenuità.

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49. «Lulu»: breve post scriptum sulla fedeltà ".

L’opera è una proposizione, solo una proposizione — massimamente l’opera teatrale legata al transitorio in ciò che questo ha di più inafferra­ bile. La concezione visiva di un’opera teatrale è la più rapida a dissolversi. L’autore propone — il lettore, l’interprete, il regista dispone. La fedeltà non può esistere; fedeltà a che cosa? a una verità storica? a una verità in sé? Nel caso di Berg, si può credere che la fedeltà sia possibile, necessaria e indispensabile, in ragione del particolare ossessivo — secondo cui la struttura è descritta. Alla struttura musicale più che evidente dovrebbe corrispondere la struttura aneddotica della scena: in altre parole, la ridondanza per­ petua. Nella mia qualità di musicista che può meglio di chiunque altro acco­ stare l’ossessione di Berg per il particolare, e può realmente leggere le sue indicazioni musicali e sceniche, e penetrare il perché delle loro corri­ spondenze, valutando la necessità della coincidenza, come posso accetta­ re una soluzione che cosi apparentemente tradisce le solenni «intenzio­ ni dell’autore»? E anzitutto, prima di accettare le solenni «intenzioni dell’autore», non si pone mai il problema di interrogarsi sulla loro validità, sul caratte­ re caduco dei campi più fragili dell’invenzione, che si riferiscono appun­ to all’immaginazione scenica? Perché volere ad ogni costo, con una fedeltà che accetta tutto senza esitazione, riprodurre testualmente la struttura aneddotica dell’opera? Perché non considerare che questo elemento transitorio è legato al passa­ to, al passato di Berg quanto al passato del teatro? Perché non interroga­ re la validità della concezione di Berg - quella teatrale, intendo - che consiste, costantemente e essenzialmente, nel «produrre paralleli»? Con le sue scelte dal testo di Wedekind e con la sua musica, Berg assume già il ruolo di un regista, come ci avverte Chéreau. C’è da ram­ maricarsi che egli abbia «ridotto», radicalmente «ridotto» le opere ori­ ginali, abbia dato loro una diversa direzione, e fornito un apporto forma­ le completamente estraneo all’intenzione di Wedekind? É stato Berg fedele a Wedekind? Con la sua «riduzione», con l’infedeltà letterale, * A proposito della prima rappresentazione della versione integrale di Lulu all’Opéra di Pa­ rigi nel 1979. In redlich, Alban Berg. Lulu citII, pp. 161-66.

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non ha forse dato al testo una dimensione latente, che è potuta emergere solo grazie a questa ristrutturazione? Bisogna arrendersi all’evidenza: l’amore della lettera uccide l’inven­ zione, addormenta la riflessione. L’importante — no, l’essenziale, nel teatro come in ogni altro mezzo di espressione, è l’innesto, la creazione a partire dalla proposizione for­ nita dall’opera. Inestimabile si rivela l’arricchimento che si produce con l’innesto di un pensiero su un altro, di un atteggiamento su un altro. E poi, non bisogna anche dire che un compositore non è necessaria­ mente un «professionista» in tutti i campi? Certo, egli può riflettere sui problemi teatrali posti dalla sua opera, proponendone una soluzione secondo i dati della propria epoca. Supponendo che egli sia anche un «professionista» del teatro, la soluzione sarebbe probabilmente più abi­ le, più accettabile - accettabile per più lungo tempo, ancor oggi accetta­ bile in parte — ma resterebbe irrimediabilmente legata al dato teatrale di un’epoca finita. Ma il compositore è un dilettante in materia di teatro, e le soluzioni visive a cui pensa non possono non soffrire di tale dilettan­ tismo. Nel momento in cui Berg scrive, e rispetto alle opere che tendono a influenzarlo più direttamente, quelle di Schonberg ^Erwartung) Die glilckliche Hand), l’esatta corrispondenza tra il particolare dell’azione e la descrizione musicale, la coincidenza del gesto musicale e del gesto sce­ nico, una sorta di coesione dei simboli attraverso la scrittura, tutto que­ sto è attuale, probabilmente proiettato e ravvivato dall’esistenza del film e del suo commento musicale. In altri tempi, la messa in scena non assu­ meva una tale importanza. Solo a partire dagli anni del dopoguerra il regista diviene un personaggio fondamentale, e la messa in scena giun­ ge a conquistare una risoluta autonomia. A volte si ricorda il nome e l’a­ zione preponderante del regista, e si ha solo una vaga memoria di quello che ha allestito, degli autori che ha rappresentati. Reinhardt, Piscator, Meyerhold sono alcuni dei nomi a cui si riallaccia l’esperienza teatrale di un’epoca - per la prima volta nomi di registi a cui ci si riferisce per loro stessi - per ciò che hanno significato al di là delle opere teatrali, spesso nate in vista di un fine che è loro connaturato. Come stupirsi che un compositore sensibile alla vita teatrale che lo circonda non sia attento a questi problemi e che egli immagini se non proprio una messa in scena, le relazioni strette e precise che la sua opera dovrebbe avere con la realizzazione scenica? Come non tener conto della nuova ottica introdotta, appunto in quell’epoca, dal cinema sonoro? Che tentazione legare irrimediabilmente l’occhio e l’orecchio mediante una trama di corrispondenze a cui entrambi dovranno piegarsi per giungere a

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una percezione globale della totalità teatrale? Incarnazione cogente del Gesamtkunstwerkì Proprio così. Ma già nel Gesamtkunstwerk, come ha fatto notare Adorno, non vi è l’utopia del dilettante? Nel caso di Berg, il malinteso si fa più profondo. Al di là delle coincidenze gestuali, s’impone la formalizzazione generalizzata. Nell’ima come nell’altra delle sue opere, in modo più duttile o più rigido, la struttura formale è ciò che ordina, in primo luogo, la comprensione, anzi la prensione dell’opera. Il problema è dunque apparentemente, o piutto­ sto semplicemente, riprodurre la struttura musicale. Mettere in scena la Sonata, il Rondò, le Variazioni. Che paradosso, e che godimento, vedere l’equivalente scenico di queste forme rigorose! Che superba disciplina, e che lezione per quegli uomini di teatro che si fermano all’aneddoto! Ma siamo poi così sicuri di questo? Perché considerare come la realizzazione più spettacolare ciò che non può essere che una penosa e caricaturale ridondanza? La struttura si manifèsta con mezzi musicali, poniamo la Sonata. Se ne accentua il significato perché si raddoppiano le strutture? No, lo si indebolisce perché si vuole spiegarlo, esplicitarlo. Se sento il tema di Schón come primo tema della Sonata - sia nella sua più alta definizione, nell’esposizione e nella riesposizione, sia in una definizione più diffusa, nel momento dello svolgimento - e se lo indentifico col personaggio di Schón, non vivrò l’esperienza teatrale su due piani il cui incrociarsi mi dirà molto di più su questo carattere di quanto non mi potrebbe rivelare un parallelismo semplificatorio? Io coniugo l’esperien­ za teatrale con l’esperienza musicale, ho bisogno delle divergenze create dalla specificità dell’una e dell’altra per creare il personaggio nella sua totalità, con la sua ambiguità, le sue menzogne, i suoi slanci, le sue debolezze. Il contrappunto delle due direttive mi darà del personaggio una visione a più dimensioni che la coincidenza non farà che appiattire, letteralmente. La trascrizione della Sonata, tra l’altro, deve essere più sottile di una ridondanza, di un parallelismo depauperante. Del resto, la rivendicazione della struttura trascritta letteralmente nel campo visivo non si basa affatto su argomenti reali, ma sullo snobi­ smo della conoscenza, di una conoscenza semplicistica. Se so che c’è la Sonata, il Rondò e le Variazioni, presumo di conoscere tutto della so­ stanza musicale: una valutazione alquanto ottusa sia della musica che del teatro; una valutazione insufficiente perché si crede di sapere e in realtà non si è superato uno stadio ridicolmente primario della conoscenza. È al di là di questa scienza meschina, di questo «miserabile miracolo» che si collocano il mistero di Berg e la profondità delle sue ossessioni. Allora, che idiozia le questioni sui luoghi, il tempo dell’azione, la scrupolosa obbedienza alle indicazioni! Che disprezzo del significato rea­

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le! Che dimostrazione di farisaico rispetto della lettera! Che prova d’incomprensione a fronte della vita autonoma dell’opera rispetto a colui che l’ha scritta? Cosi, si rispetterebbe solo la lettera del documento, rifiutandosi di vedere che il documento non è legato una volta per sempre alle proprie intenzioni iniziali. Come non accorgersi che un atteggiamento così re­ strittivo è un atteggiamento necrofilo maniacale! Come non capire che la grandezza di un’opera è appunto quella di sfuggire alla propria contin­ genza! L’immaginazione sa distruggere e ricostruire a partire da quanto le si propone; l’opera è la limatura che la calamita deve di continuo riorientare, riordinare. Non è questa la fedeltà di cui Berg ha dato prova, rifiutando di ri­ spettare la lettera? Non è proprio lui che ci dà l’esempio del cannibali­ smo che a sua volta ha osato praticare con disinvoltura? Ebbene, quali sono le obiezioni? Il luogo scenico smisurato rispetto all’indicazione descrittiva? La soffitta soppressa a vantaggio del semin­ terrato. La circostanza 1930 che sostituisce la circostanza 1900? L’iden­ tità del Medizinalrat che non coincide con quella del Professore? Il circo assente? Il ritratto fatto sparire? La lettera dettata in una posizione scomoda? Il «matrimonio»? La folla rappresentata quando non è ri­ chiesta? L’assenza del film? E che altro ancora? Mentre butto giù questa lista di farmacista, lista di lagnanze di farmacista, non posso fare a meno di pensare che se la fedeltà a un testo consistesse nel raddrizzare questi sedicenti torti fatti a Berg e a Wedekind, la fedeltà non sarebbe che un servilismo infame e nauseante. Come se una sola di queste indicazioni reinventate da Chéreau non rivelasse più profondamente di una medio­ cre osservanza, la struttura reale e il significato profondo del dramma. Riaffermo che il proprio dell’invenzione scenica risiede nel suo carattere provvisorio; che in Wedekind non meno che in Berg, tutto ciò che è legato direttamente alla descrizione teatrale può essere considerato come caduco. E lo stesso posso dire della descrizione di Chéreau. Ecco perché preferisco una messa in scena che non cerchi di spacciare per moneta sonante il preteso assoluto della perennità, ma che invece analizzi e sap­ pia distinguere il permanente dal caduco, rispetti il permanente e si pre­ occupi molto poco del caduco, o se ne preoccupi solo per attualizzarlo. Dopotutto, l’esperienza teatrale non è il fenomeno stesso dell’attualizzazione? Se per indicare l’annientamento dei personaggi in rapporto alla si­ tuazione, occorre mostrare un luogo smisuratamente grande e smisura­ tamente levigato, mostriamo allora a bella posta questo luogo smisurata­ mente grande e smisuratamente levigato così come Peduzzi lo ha impo­

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sto a noi. Chi può preoccuparsi, rispetto a questa opzione fondamentale, della descrizione di uno studio di artista o di un salotto borghese nel 1900? Perché rimpicciolire la visione, e legarla irrimediabilmente alle proprie origini? La scena è il luogo dell’affrontamento, e non può essere la riproduzione di una realtà lontana e sbiadita. Se la miseria della pro­ stituzione è più vistosa, più imbarazzante, in un sotterraneo pubblico che non in una soffitta, si dimentichi la soffitta e si lasci Sherlock Holmes nel vestibolo. Se la folla nell’appartamento di Schón accentua il vuoto dell’appar­ tamento quando Schón è scomparso, si faccia entrare la folla e la si faccia vivere; si agitino tutti questi fantocci: nel minestrone si ritroveranno di colpo Geschwitz, Schigolch, l’Atleta, il Liceale; tutti giocano a nascondi­ no in questo party in cui Schón cerca di «acciuffarli». Ma niente mosca­ cieca nell’appartamento vuoto! La brodocultura è scomparsa; restano questi solitari che navigano nell’ombra e nella decadenza. Se Berg ha voluto il parallelismo dei personaggi che ritornano come clienti dopo essere stati i mariti, il parallelismo delle situazioni è più convincente dell’osservanza letterale che esso richiede. A dire il vero, la trasformazione del pittore in principe negro che egli ha voluto non è né meno né più plausibile di quella suggerita da Chéreau del Medizinalrat dalla statura normale in professore nano. Non ci si scandalizza per un cambiamento di colore perché Berg lo ha indicato, ma ci si scandalizza di un cambiamento di statura perché Chéreau lo ha realizzato. Di fatto il transfert d’identità, il solo convincente, è quello che si attua da Schón a Jack. E non sarei affatto imbarazzato se gli altri due transfert fossero cancellati a esclusivo vantaggio di un’identità di situazione, ancorata pro­ fondamente nella musica. Su questo aveva puntato la messa in scena, e solo una differenza di statura ha fatto trascurare il resto. A questo pro­ posito si potrebbe dire — anche se l’ironia non è pesante — che l’albero ha nascosto la foresta... E il film? Dimenticavo il film! Ah, il film, cosi rivelatore della strut­ tura simmetrica dell’opera, voluta da Berg, indicata dalla musica che a metà percorso si riflette nello specchio del tempo. Il film non avrebbe dovuto essere il perno dell’opera, la chiave di volta di quest’arco esem­ plare? «— Ma la musica non dura che tre minuti! - Fate un film breve! Sono molti gli avvenimenti che si possono riassumere in tre minuti. Ma non temete che un tale film in cui si svolgono una serie di avvenimenti a una velocità accelerata somigli più a Chaplin che a Wedekind o a Berg? — Berg ha scritto una Filmusik, allora bisogna fare un film. - Si, ma se Berg si fosse sbagliato nel valutare il tempo, come quando immette di colpo questi tre minuti senza che niente li preceda, i quali non sono che

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una sorta di intermezzo ottico, e richiamano più un film pubblicitario che non un contributo allo svolgimento dell’azione? - Bisogna fare un film, lo ha detto Berg! - Chi meno sa più sa, e viceversa, avrebbe potuto dire Jarry! » A proposito di fedeltà alla musica, vorrei parlare peraltro dei cinque colpi di pistola che liquidano Schón. No, essi non hanno niente a che vedere con i colpi battuti alla porta in Macbeth\ Ma mi inducono a ri­ flettere sul rispetto della lettera! Come musicista, vedo sulla partitura che i colpi indicano uno scarto rispetto al metro regolare in un tempo sufficientemente rapido perché l’esecuzione degli spari sia difficoltosa — anche affidando la pistola a un musicista dell’orchestra. Lulu deve ucci­ dere Schón a tempo — in quanto i colpi di pistola segnano l’articolazione della frase musicale. Precisione illusoria, se si pensa alla situazione sce­ nica, al suo carattere febbrile, all’attenzione monopolizzata dall’azione teatrale. Si può essere fedeli se si cerca più o meno di coincidere con la scrittura temeraria, o se, in una relazione approssimativa con la frase orchestrale, si sparano cinque colpi assolutamente regolari? Giro questo argomento di discussione, inesauribile, sul sincronismo o la regolarità, ai sostenitori della fedeltà... e agli altri! Quanto a me, anche per procedere verso una conclusione meno ironi­ ca, dirò che per quanto concerne le fonti dell’opera, vale a dire il compo­ sitore o lo scrittore, non provo alcuna nostalgia storica. Ritengo in effetti che il creatore, allorché inventa al fine di approdare all’opera compiuta, ha come compito essenziale quello di distruggere, di bruciare l’origine dell’opera. Egli fa scomparire il cammino iniziale, annulla le tracce. Ci si deve anche porre la domanda: che cosa ha voluto fare l’autore? Ma se si volesse scoprire questo segreto, ogni tentativo sarebbe vano. Si possono certo ritrovare gli elementi accessori, le circostanze di questo segreto per impossessarsene. Se il segreto fosse e restasse visibile, non vi sarebbe opera. L’essenziale è di reinventare un altro segreto a partire dall’opera esistente; ciò che importa, non è ritrovare l’autore, ma ritrovare se stessi. Prendere un’opera, trascriverla temporaneamente nel nostro lin­ guaggio, questo ci rende perfettamente umili e perfettamente orgogliosi, liberi di fronte all’autore, liberi di fronte alla storia, affrancati da ogni responsabilità estranea alla nostra scelta profonda. Non esiste una veri­ tà-. ecco che cosa i «capolavori» ci impongono di scoprire e di accettare, mentre ci ordinano di non avere alcun rispetto, anzi ci autorizzano al saccheggio. «Se il grano non muore...» Perché si vuole sempre rendere sterile il grano? Oh! i silos proibiti e i loro terribili guardiani!

parte terza

Itinerario retrospettivo

Capitolo primo Quadro di orientamento provvisorio

IL CAMPO MUSICALE.

50. Prima e seconda * audizione . Sembrava che la musica contemporanea fosse eminentemente esote­ rica, o almeno era questo il rimprovero più grave rivolto a certa musica contemporanea che, a quanto pareva, non sarebbe mai stata capace di appassionare un uditorio, dato il suo esasperato intellettualismo. Con­ dannati a successi di snobismo, a dilettazioni viziose, si potrebbe dire, di astratti cervelli impenitenti, queste opere eccessivamente complesse, am­ biziose oltre il dovuto, non avrebbero mai fatto la gioia di un galantuo­ mo avido di chiarezza e di sentimento. Ora, a due anni di distanza, constatiamo il fervore di un pubblico venuto a scoprire i mostri di cui aveva sentito parlare sotto le tinte meno lusinghiere; ora lo vediamo reagire in un modo profondamente sensibile alle opere considerate più fredde. Il tempo dell’isolamento è trascorso. Sazio di falsi capolavori e di confusione, sazio di questa sedicente chia­ rezza - oh! certo, senza mistero -, sazio di un cuore eternamente teso allo spasimo, il pubblico scopre con gioia una poesia nuova, una sonorità inconsueta, scopre insomma dei musicisti che non hanno barato nella loro ricerca di verità. È rassicurante constatare come questo movimento di comprensione che si manifestò dapprima nei confronti della Scuola di Vienna -, non sia un fenomeno isolato dovuto a uno sforzo particolare. In tutto il mondo, organizzazioni analoghe hanno creato correnti di simpatia. A Baden-Ba­ den, i programmi proposti da H. Strobel; ad Amburgo, L'Opera Nuova diretta da H. Hùbner; a Darmstadt, i Corsi Internazionali voluti da W. Steinecke; a Monaco, l’organizzazione Musica Viva fondata da K. A. Hartmann; a Barcellona, i concerti patrocinati da Bartomeu; a Los Ange­ les, i Monday Evening Concert} a Buenos Aires, l’Agrupación Nueva Mùsica, fondata da J. C. Paz; a Stoccolma, l’associazione Pylkingen} a «Cahiers Renaud-Barrault», n. 13, ottobre 1955, pp. 122-24.

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Montreal, i concerti tenuti grazie a S. Garant; a Parigi infine, i nostri concerti del "Domarne musical. Non è un caso se queste organizzazioni manifestano una tendenza a un costume internazionale, rispondendo a una precisa necessità di far conoscere e far amare alcune opere che costituirono un punto di partenza per la generazione divenuta adulta alla fine della guerra, dieci anni or sono. Far conoscere e fare amare, deve essere lo scopo di concerti dedicati alla musica contemporanea. Abbandonare innanzitutto ogni esoterismo artificioso, ogni dilettantismo opprimente che si erano innestati a poco a poco su un pensiero in possesso all’origine di una vigorosa vitalità; strappare una certa forma deleteria di propaganda dalle mani di «disce­ poli» meno ricchi di doni che saturi di buona volontà. Qualcuno potrà oppormi che tutto questo è puramente negativo. Per un’azione positiva, devono essere immediatamente raggiunti due fini: mostrare che la musi­ ca con temporanea non manifesta una «cesura» con la storia, come si vorrebbe troppo compiacentemente far credere, ma che vi è inconfuta­ bilmente una soluzione di continuità; fare il bilancio della generazione artistica che ci ha immediatamente preceduti. Su questo terreno dissoda­ to, l’ascoltatore avrà modo di orientarsi molto più agevolmente quando gli si offriranno le ricerche più audaci del presente. Ricordiamo di passata il problema dell’interpretazione. Se di solito le opere di musica contemporanea sono state male accolte, è perché l’in­ terpretazione non era venuta a capo delle difficoltà sollevate dalla parti­ tura; non soltanto difficoltà meccaniche, ma piuttosto difficoltà di com­ prensione, di penetrazione dell’opera. Finché non sarà raggiunta una profonda intimità tra l’opera e il suo interprete, il pubblico avrà davanti a sé una verità che non è in grado di cogliere. Non si dimentichi inoltre il fenomeno che provoca per se stessa la novità. Lo shock della novità impedisce ogni memoria, ogni apprezza­ mento immediato; impossibile riprendersi, fermare l’attenzione su una cosa già sentita, quando la musica ha finito di sottrarsi a tutte le ripeti­ zioni più o meno letterali che furono a lungo il suo destino. Se per giunta l’ascoltatore resta sconcertato da un linguaggio che non conosce bene, appare chiaro come — a una prima audizione - sia limitato il suo piacere di apprezzare ciò che ascolta. Cosi riteniamo urgente per il compito che ci siamo assunti, organizza­ re delle «seconde audizioni», e permettere cosi, ad ogni stagione, di riprendere contatto con i grandi maestri come Webern, Schonberg... e fare in modo che l’incontro sia sempre più fruttuoso con l’intimità pro­ fonda acquisita con delle opere più volte ascoltate; permettere altresì di

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familiarizzarsi con l’universo sonoro che è il carattere proprio della gio­ vane generazione, onde intravvedere — al di là di un’apparente aggressi­ vità - le reali qualità della sua immaginazione, anche se il mestiere risente ancora di qualche incertezza. Il Domaine musical sarà fedele a questo programma, poiché propone

- un Festival Schonberg: Ode à Napoleon, Serenade, Pierrot lunaire-, — opere importanti come la Suite Lyrique di Berg, gli Études pour piano di Debussy, e gli studi di Bartók; — un’importante selezione di Webern; - l’audizione integrale dell’Xr/e della fuga di J. S. Bach; - prime presentazioni, e repliche, di opere recenti; i compositori in programma saranno, per l’Italia: Maderna e Nono; per la Germa­ nia: Stockhausen e Henze; per il Belgio: Pousseur; per la Francia: Messiaen, Le Roux e Barraqué. Il Domaine musical si è rivolto, per dirigere i vari concerti, a Her­ mann Scherchen, Hans Rosbaud e Rudolf Albert; al Quartetto Parrenin e al pianista Paul Jacobs per interpretare le opere di musica da camera. Ci auguriamo che i cinque concerti di questa stagione possano, come l’anno scorso, raccogliere un pubblico la cui adesione spontanea ha stupi­ to i più scettici. Verrà cosi a sfaldarsi la perniciosa leggenda sull’erme­ tismo della creazione attuale.

51. Breve * editoriale .

La risonanza dei concerti del Domaine musical provoca sotto certe penne spuntate, alcuni tentativi di spiegazione - emotivi più che logici che si riassumono sostanzialmente nella serie «snob, mondanità, clan, o meglio politica». Abbiamo iniziato al Petit-Marigny: piccolo clan. Abbiamo continua­ to alla Salle Gaveau: ancora un clan. E stiamo per iniziare la stagione con la Salle Pleyel gremita: ancora un clan. Se riempissimo il Vélodrome d’Hiver, nessun dubbio che questa parola a più usi ci toccherebbe anco­ ra: l’amplesso politica-clan si prolunga a piacere. E chi frequenta questi piccoli, medi e grandi clan? Due categorie di persone: la buona società, di cui è ben noto che non capisce niente * Programma del concerto del Domaine musical del 14 dicembre 19^7 (stagione 1957-58, V con­ certo).

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soprattutto le «signore bene» — ma ha il denaro; i giovani «barbuti» e vagamente sudici che si distinguono per certi particolari di abbigliamen­ to pittoreschi come il girocollo - di questi energumeni, si sa sin troppo bene che attaccano i barattoli del loro entusiasmo alla coda del primo cane, qualunque egli sia, che sappia abbaiare. Cosi, nel cervello dei no­ stri censori, il successo dei concerti del Domaine musical dipende dal fatto che si rivolgono a un pubblico di sordi. Gente del mondo elegante, e voi, giovani barbuti, devo dunque as­ sumere la vostra difesa e sottolineare anzitutto l’assiduità che portate nella vostra sordità frivola e irritante. Qui sta la vostra colpa principale: vi ostinate a credere che Webern è un musicista più importante del rispet­ tabile X...; perseverate nell’interessarvi più alle creazioni di Stockhau­ sen che a quelle dell’incomparabile Y...; vi ostinate in questi gusti scabro­ si, ed ecco perché... vostra figlia è sorda! Riuscite a cogliere l’acutezza di questo ragionamento? e la sua verosimiglianza? Ma consolatevi! La vostra schiera, cari snob, aumenta di anno in anno, e i vostri censori ridicoli passano a loro volta in una categoria che rischia di divenire sempre più ristretta. Una bella altalena: presto, sa­ ranno loro gli snob, gli «unhappy few»... Nel frattempo, giustificate le prerogative che vi vengono attribuite, snobbate! A dire il vero, da cinque anni, i vostri ridicoli censori ci hanno fornito con le loro penne spuntate, su una punta, il più monumentale degli scioc­ chezzai - sul solo Webern possediamo alcuni tesori! Questo sciocchez­ zaio basterebbe ampiamente a giustificare il vostro snobismo, e ancora di più... Ci riserviamo di raccoglierne, un giorno, un florilegio che vi sarà dedicato. Snobbate dunque questo ambiente che si ritiene nel giusto, quantun­ que affondi nella più mediocre delle falsità! Snobbate le virtù che vi vengono spacciate come altamente naziona­ li, quando invece non sono che il segno di un provincialismo stretto e angusto! Snobbate tutto ciò che si vorrebbe farvi passare per «umano», e che si riduce, come è noto, a un delirio simulato sull’odore di una vecchia pantofola! Giovani «barbuti», «signore eleganti», e voi tutti che assistete anche ai nostri concerti, snobbate con noi, — e non sarà mai abbastanza, — la stupidità!

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52. Esperienza, struzzi e * musica .

Che cos’è la musica sperimentale? È una meravigliosa definizione - una scoperta recente — che consente di confinare in un laboratorio autorizzato, ma sotto sorveglianza, ogni tentativo di corruzione dei costumi musicali. Una volta circoscritto in questo modo il pericolo, i buoni struzzi si riaddormentano e si risveglia­ no solo per starnazzare furiosi, con in cuore l’amara constatazione delle periodiche devastazioni dell’esperienza. «Signori Nostre Coscienze, e cosi via, nelle vostre valige!» I vostri guaiti recriminatori e masochisti vorrebbero screditarvi. Ma come! ci diranno! Noi abbiamo appena visto vivere un grande momento, e subito uno sconvolgimento. Veri catecumeni, abbiamo or­ ganizzato congressi per propagare il buon metodo; abbiamo a lungo mangiato cavallette e parlato davanti ai deserti dei miraggi. Ora che il nostro fiato ha finalmente prodotto un velo sottile di vapore, e il dubbio si è assottigliato, volete negarci il beneficio delle nostre macerazioni? Oh anime serafiche! Degnatevi di appendere i vostri fantasmi a tutti gli attaccapanni che volete. È venuto il tempo per voi di abolire gli spettri austeri, di esorcizzare i vostri poveri demoni. Sapevamo da tempo che avevate l’ossessione del livello dell’acqua e del parapetto; e che adesso sbraitiate per conservare questi preziosi attributi - come primizie ai ganci - non può sorprenderci. Semplicemente, ci dà soprattutto fasti­ dio l’impudicizia delle vostre proteste, quelle in nome di cui insorgete. Ritenete decisamente di appartenere alla razza eletta deWhomo discipulus\ vi vantate di essere stati allievi di questo o quel maestro; di aver ricevuto i suoi consigli impareggiabili, di avere conosciuto le sue prime o ultime volontà; nutrite di ricordi oscuri la vostra collezione di poliedri, e a forza di veglie funebri e di odori stantii, vi illudete di esistere in una tradizione. Ma in quale tradizione, se non in quella del conforto cinerario, potreste non restare asfissiati, oh nostri cari traspa­ renti! Per buona pace, ci diranno che siete stati utili. Ma certo, vostro malgrado, siete serviti, marciapiedi necessari. Senonché vi è niente di piu comico che una scaletta d’accesso vuota, sola testimonianza dell’ae­ reo che ha decollato? Perché non svolgere da parte mia una prosopopea cosi collaudata! Che dialogo penseremmo di trascrivere tra queste scalette sullo sfondo * «N.R.F.», n. 36, dicembre 1955, pp. 1174-76.

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di un cielo spoglio! O ancora, a un dipresso, briciole convogliate tra queste due scarpe vuote — che puzzano — alla vista delle quali esordisce una seconda volta En attendant Godot. Di prosopopea in prosopopea, è probabile che finiamo per stancarci abbastanza presto di questa esistenza larvale che acquista impunemente sicurezza sopra i tumuli. Dopo aver fatto la parte del Giovanni Battista, le nostre mirabili camicie vuote vogliono adesso godere delle prerogative papali; scomuni­ cano sotto l’imputazione di sperimentali tutte le scritture nuove che essi non si affannano più a decifrare. Notano sul più bello questa catego­ ria di «giornalisti» che redigono i piccoli fatti di cronaca della musica, correndo per le sale di concerto — come altri nei commissariati — per la raccolta quotidiana. Ed eccoli decidere che il Gran Maestro dell’ordine è il numero di matricola AS-74, non l’AW-83; e proclamare che AW-83 si riteneva a sua volta inferiore a AS-74, c^e occorre dunque incamminarsi su tale strada di umiltà; c dichiarare che AS-74 e d suo satellite AW-83 hanno scoperto (in modo superlativo, esclamativo) tante possibilità che diviene vano, «sperimentale», disperderle; e partire da ultimo alla ricerca verti­ cale di Offenbach e di Verdi, salvo ad accertare per intuizione divina la rigogliosa lucidità di IS-82. I più insignificanti fra i soliti burattini tendono almeno a una «pre­ senza»; questi trasparenti strilloni ne sono sprovvisti per parte loro in grado eminente. Possano dei poveri-desolati-tristi-clowns-dal-delirio-secco non fare della musica contemporanea una specie di corte Luigi-quattordici con un Saint-Simon impazzito a stilarne l’etichetta. Possano so­ prattutto non dimenticare che non sono niente; («E niente, come sai bene, Vuol dire niente o ben poco») quello che non hanno saputo fare in venti o trent’anni - cioè non essere più discepoli o epigoni - non vadano poi a rimproverarlo a una nuova generazione di averlo messo in atto. L’anzianità non è mai stata un privilegio auspicabile; solo vengono prese in considerazione le testimo­ nianze di un’attività, le opere. Dal momento che questi gracili nani non hanno saputo fare che dei plagi scialbi, in-sperimentali, e in che misura! tacciano. Il silenzio è ormai la loro sola possibile richiesta di grazia: lasciarsi dimenticare. Non esiste una musica sperimentale: cara utopia; ma vi è una precisa linea di divisione tra la sterilità e l’invenzione. Gli struzzi-pavoni ci segnalano in modo estensivo che c’è pericolo... con le ali completamente ripiegate, e la testa sotto la sabbia.

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53. Dieci anni * dopo .

Che cos’è un concerto? Come va concepita una serie di manifestazio­ ni musicali? Si tratta, anzitutto, di una idea direttrice trasmessa da alcuni esecuto­ ri a un pubblico determinato. In mancanza di una concezione chiara di questo mezzo di comunica­ zione, la maggior parte dei concerti «classici» o «contemporanei» vanno a zigzag in quella che si può chiamare alla lettera una «no man’s land». Si faccia di una riunione musicale un museo malato o un panorama illeggibile, e si può star certi di non attrarre, di non interessare nessuno, se non i dilettanti di statistiche, e poi e poi... In linea di principio, si dovrebbe considerare il concerto come un mezzo di comunicazione, come un contatto vivente tra esseri attivi, siano essi ascoltatori o creatori. Ma è proprio questo che ci viene proposto nella maggior parte delle manifestazioni musicali? Senza voler parlare delle pure esibizioni sportive (che presentano minore interesse del circo o dello stadio), delle diuturne sedute di riscoperte, di agapi amichevoli, i concerti parigini non sono particolarmente adatti per stuzzicare l’appeti­ to dell’amatore. Molte sono le cause in gioco, che condurrebbero rapide alla piu aspra polemica se volessimo analizzarle in profondità. Influenze personali, letargie croniche, disinteresse dei pubblici poteri: ecco, come inizi di capitoli, tante Scille e Cariddi. Una battaglia d’inchiostro non riuscirebbe, da sola, a venire a capo di una tale inerzia; impavide restano le meduse. Che a volte si arenano, e si disidratano con grave pericolo, ma poi al giungere di correnti favorevoli, ripartono piene di sale e di serenità! Provare il movimento camminando, questo è il fine. Ogni bambino ancora infante vi direbbe, se potesse, che non è poi cosi semplice cammi­ nare come sembra agli adulti! Il movimento si impara insieme con l’e­ quilibrio, va da sé; infatti, per la caduta, si sa d’avanzo che essa è «inna­ ta»... In conseguenza di queste singolari riflessioni, decisi dieci anni or sono di allestire dei concerti al fine di ristabilire una comunicazione tra i compositori del nostro tempo e il pubblico interessato all’avanzamento della propria epoca. Di qui il difetto di eclettismo rimproverato tanto di frequente al Domaine musicai, che è tuttavia la sua virtu e la sua forza. «Cahiers Renaud-Barrault», n. 41, dicembre 1963, pp. 360-69.

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Che cosa mi ha spinto a occuparmi di questa attività? Dirò con estrema franchezza che vi sono stato costretto dalle circostanze; giacché, se non s’intravvede con precisione a quali lavori forzati costringe l’organizzazione stessa dei concerti, s’intuisce però che la propria tranquillità personale finirà per esserne seriamente compromessa. Confesso che pro­ vavo e provo tuttora un’estrema ripugnanza all’idea che un compositore si dedichi a un’attività come l’organizzazione di una serie di concerti. Tuttavia, alcuni compositori-funzionari, credendosi protetti nelle proprie fortezze, rifiutavano ogni contatto con quanto ritenevano risibi­ le, derisorio, caduco, disprezzabile, non interessante, antifrancese, abor­ tito, insignificante, indegno, inutile, dannoso, pericoloso, cosmopolita, mitteleuropeo, ectoplasmico, inorganico, inconsistente, invertebrato, freudiano, inopportuno, grigio, triste, malaticcio, degenerato, spettrale, malsano, ecc. (Sono tutti aggettivi usati a volta a volta contro di noi...) Simili argomenti sono stati più volte ripresi da certi cronisti che, per aver troppo suonato la tromba, hanno perso il fiato. Compositori e cro­ nisti di questo stampo non si sono neanche accorti che le fortezze in cui si credevano solidamente protetti dall’occhio e dalle ingiurie dei giovani indesiderabili, non erano, di fatto, che dei miseri acquari: si poteva senza eccessiva fatica seguire le loro meschine evoluzioni di polipi retico­ lari (l’inchiostro faceva loro difetto, figurarsi!) e calcolare le deficienze dei loro radar organici. Di fronte a questi maestri-nuotatori o re-cantori, elemento acquatico per eccellenza, stavano alcuni esploratori deficienti,-la cui qualità più alta era quella di «discepoli» (naturalmente amatissimi, del resto), e che se ne facevano vanto. Il loro dilettantismo era flagrante, ma la stranezza e la rarità li facevano passare per maghi, e solo dopo si è capito che erano piuttosto dei ciarlatani. Conseguenza di questo stato di «cose», i concerti di musica cosiddet­ ta «contemporanea» erano o un fatto di piccoli re che difendevano aspramente la loro falsa moneta, o l’appannaggio di eredi incapaci che sciupavano e svalutavano quella buona. Potevamo contentarci di una simile mascherata? Ricordo di aver provato la più profonda vergogna di fronte a certe manifestazioni di musica contemporanea in cui alcuni capolavori del nostro tempo venivano terribilmente sfigurati da mani e omeri di direttori grotteschi quanto incapaci; ricordo anche la mia in­ contenibile ribellione verso manifestazioni di falsari decisi a confondere le piste. Non la minima onestà intellettuale, non la minima abilità ma­ nuale: tale era il magnifico dilemma davanti al quale si voleva bloccarci! Avremmo desistito davanti a una facciata cosi solida in apparenza, ma cosi fragile nel fatto? Potevamo appagarci di essere considerati come

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teorici sospetti? Si parlava della nostra musica, ma appunto per dire che se ne poteva solo parlare: essa era, a ben vedere, ineseguibile, e non era assolutamente vitale visto che non trovava pubblico alcuno. Era come «immaginare il problema risolto». La nostra generazione doveva dimo­ strare di poter farsi eseguire e di poter trovare il proprio pubblico, il pubblico; doveva provare che tutte le discussioni sull’argomento erano artificiosamente alimentate da alcuni «signori» addirittura assicurati nei propri diritti! Più semplicemente, potevamo fare a meno di questo mez­ zo elementare di comunicazione che è il concerto? Avremmo sopportato più a lungo che ci venisse proibito il contatto con l’esterno? Forti del nostro buon diritto e della nostra giovinezza, volevamo porre termine a discussioni assurde sull’ombra di un’ombra. Due desideri ci guidavano: fare finalmente conoscere i classici della musica contemporanea in esecu­ zioni al di sopra di ogni accusa d’incompetenza e di dilettantismo; met­ tere in luce le opere dei compositori veramente contemporanei in esecu­ zioni curatissime e perfette. Solo cosi si poteva ottenere almeno un miglioramento: le polemiche non si sarebbero più fondate su degli articoli, ma su delle opere. Eravamo anche in diritto di sperare che una volta eliminato questo lato negativo, la musica moderna avrebbe assunto agli occhi del pubblico un volto nuovo. Insieme temuta e desiderata, la «modernità» possiede in se stessa una notevole forza di propulsione: basta offrirle un primo varco perché essa faccia irruzione in un ambiente fossilizzato con una violenza corrosiva (senonché, passata l’erosione ini­ ziale, occorre colmare l’argine...) Oh! come tutto sarebbe semplice senza l’ostacolo di una domanda: chi potrà suonare le opere di cui si vuole offrire la verde e vulnerabile immortalità? Si poneva dunque con forza il problema degli esecutori, delle loro qualità tecniche, del loro adattamento stilistico. Credo che all’inizio non si poteva pensare di risolverlo se non, principalmente, con l’amicizia di un gruppo di musicisti ben conosciuti per aver compiuto le prime eroi­ che imprese professionali al Theatre Marigny, nelle varie musiche di scena che Jean-Louis Barrault non mancava mai di impiegare. La sua amicizia ha risolto di colpo molte difficoltà: nessuna discussione sui gusti e sulle avversioni, ma un’intesa immediata sulla qualità dell’interpreta­ zione. Allorché alla fine di questa presentazione si leggerà l’elenco degli strumentisti che hanno partecipato per dieci anni ai nostri concerti, vi si dovrà innanzitutto vedere una lista di solidarietà! Ma non solo questo. Furono proprio gli interpreti i principali collaboratori del nostro lavoro di ricerca, contribuendo cosi a trovare lo stile strumentale della nostra epoca. Ed è certo che il virtuosismo di alcuni di essi ha spinto i composi­ tori a scrivere per certi strumenti piuttosto che per altri; mentre, reci­

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procamente, la letteratura musicale di oggi ha dato ad alcuni strumenti un «repertorio» che non si sarebbe mai sperato... Cosi, sono sopravve­ nute talune modificazioni che hanno trasformato questo aspetto della pratica musicale, e hanno creato uno stile d’interpretazione che rispec­ chia fedelmente il pensiero odierno. Inoltre, le esecuzioni dei classici contemporanei, in particolare dei tre Viennesi, furono a lungo preparate con tutte le prove necessarie; e una volta assimilati i problemi puramente tecnici delle opere, restava ancora un certo tempo per non dovere piu occuparsi se non dell’interpretazione stessa del testo. In questo senso, abbiamo cercato, per quanto possibile, di dare alcune esecuzioni-modello che rendessero massimamente conto del valore delle opere. Prima di discutere sull’estetica o sul valore di certe posizioni storiche, occorreva proporre almeno degli oggetti ineccepibili. Senza la fede del neofita, sarebbe stato difficile convincersi del valore di certi capolavori, di cui non erano rispettati né i tempi, né le gradazioni, in una parola alcune delle indicazioni piu essenziali. Anziché far prendere coscienza dei capo­ lavori, simili interpretazioni finivano di fatto per nasconderli: di qui la nostra somma preoccupazione di dare anzitutto delle esecuzioni-model­ lo. E se vi è stato qualche «incidente», lo si è tanto più avvertito in quanto cosi raro e contrario alla nostra «linea generale»... In calce a questa presentazione si può trovare anche l’elenco dei classici contemporanei dati da noi per la prima volta a Parigi; si potrà cosi facilmente calcolare il «ritardo» di queste prime audizioni, un ritar­ do che non può certo lusingare una capitale internazionale: prova incon­ futabile che la «classe dirigente» musicale si era ben poco preoccupata, anche dopo la seconda guerra mondiale, di riconoscere in buona fede i soli valori reali della nostra epoca. Si prenda, a esempio, Webern: ben 20 numeri di opus — sui 31 riportati dal catalogo - furono dati in prima audizione a cura del Domai­ ne musical] la Passacaglia op. 1, composta nel 1908, fu eseguita per la prima volta a Parigi nel 1958, con cinquant’anni di ritardo! La Seconda Cantata op. 31, composta nel 1941-43, fu data per la prima volta nel 1956, con tredici anni di ritardo soltanto! Berg non è meglio trattato: il Quartetto op. 3 dovette aspettare quarantacinque anni e i Tre pezzi per orchestra op. 6, quarantatre anni prima di avere l’onore di una prima audizione a Parigi. Queste cifre non sono desolanti? Non sono la prova più flagrante dell’incuria della «classe dirigente» musicale in Francia? Non giustifica­ no ampiamente la nostra rivolta davanti a un tale stato di cose e la nostra volontà di rovesciare la situazione di fronte a questa letargia organizza­

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ta? In altre parole, incombeva su di noi l’obbligo di dare al pubblico un’« informazione» sulla musica con temporanea che non fosse più ver­ gognosamente mutila; questa semplice informazione avrebbe ridotto au­ tomaticamente taluni valori eccessivi e fatto cadere non poche preven­ zioni alimentate da vuote polemiche. E cosi non abbiamo cessato di perseguire questo compito che poi si è rivelato fruttuoso e efficace. Dopo avere ristabilito una visione più esatta del periodo storico di­ rettamente precedente, potevamo far sentire le opere della nostra gene­ razione in un clima liberato dall’ignoranza. E poiché era nostra ferma intenzione non limitarci a rettificare soltanto la conoscenza storica, pro­ muovere una musica «nuova», restava il nostro obiettivo fondamentale. E cosi i compositori non hanno più dovuto aspettare quarantanni prima di essere ascoltati! Ma non si pensi a una sorta di brama pubblicitaria; per un compositore, ascoltarsi è una condizione fondamentale: la sua esperienza viene dal contatto diretto che egli potrà avere con i problemi di esecuzione... o di esecutori! Controllare alcune questioni di mestiere — certe combinazioni strumentali suonano come si era desiderato? certe difficoltà sono «redditizie»? -, verificare non soltanto i particolari di scrittura, ma il senso stesso dell’opera, trovare mediante la pratica forme insospettate di «comunicazione», sono questi gli enormi vantaggi che trae il compositore dall’esecuzione dell’opera che ha appena terminato di scrivere. Per giunta, questo contatto diretto risolve automaticamente la questione insidiosa e artificiosa del rapporto tra la musica e il pubblico: esperienza vissuta sia dal compositore che dal pubblico, l’opera nuova s’inserisce in una trama di rapporti, più o meno armoniosi, più o meno tesi, insostituibili per lo scambio che instaurano. Non avremo la sfronta­ tezza di affermare di avere presentato capolavori su capolavori; non pensiamo del resto a una tale affermazione per la buona ragione che la consideriamo superflua. Quando scegliamo le opere, abbiamo in mente, si capisce, taluni criteri di qualità, ma anche altro. Infatti, noi non siamo un museo per le generazioni future, ma presentiamo ciò che ci sembra capace di risvegliare l’interesse. La realizzazione è a volte alquanto lon­ tana dall’intenzione; lo sappiamo e nondimeno presentiamo certe opere perché mostrano una direzione: altre opere più probanti potranno se­ guire che mostreranno, sotto una forma veramente compiuta, la giustez­ za di certi punti di vista, trovati dapprima a tentoni, con le infinite incertezze di una prima esplorazione. Consultando l’elenco dei compositori che abbiamo presentati a Parigi

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per la prima volta, si può vedere che la nostra scelta sin dall’inizio non è stata poi cosi cattiva. Certi nomi si sono affermati con uno splendore tutto particolare, e senza la loro personalità, sarebbe molto difficile im­ maginare il cammino della musica d’oggi; dieci anni or sono, erano appena dei nomi... Potrei enumerare le opere più importanti che abbia­ mo rivelate; ma basterà leggere il nostro elenco con sufficiente attenzio­ ne e qualche lume perché ogni commento appaia ozioso.

Ci siamo mantenuti sinora su alte quote «intellettuali»! Tuttavia, il fenomeno-concerto è anche un problema economico. Anche se i compo­ sitori non costano niente (sono veramente le persone meno esigenti che vi siano...) l’organizzazione materiale, le prove, gli strumenti, ecc., ri­ chiedono una spesa cospicua. Specie nel nostro caso, dato che volevamo dare esecuzioni accurate per cui è necessario disporre di buoni capitali. Niente accattonaggio, niente carità! Mi spiego: non potevamo assolutamente contare sull’appoggio dei «rappresentanti ufficiali» della vita mu­ sicale: ci guardavano con occhio indifferente, se non ostile; non voleva­ mo chiedere ai musicisti di venire sempre a regalare il proprio tempo per spettacoli duramente faticosi. D’altra parte, volevamo essere compietamente indipendenti nel definire i programmi, dal momento che l’espe­ rienza dimostra che i «comitati» sono il più delle volte nefasti, degene­ rano rapidamente in zone d’influenza, mentre l’anonimato di cui si am­ manta prelude a tutti i sotterfugi: insomma, occorreva assumere, in piena trasparenza, responsabilità personali. Queste diverse esigenze sono piuttosto difficili da conciliare! Pongo­ no il problema del mecenatismo e ancor più dei mecenati! Ho avuto la fortuna di imbattermi in amici-mecenati all’altezza di tutte le situazioni. Non è il minor paradosso del Domarne musical quello di dovere la pro­ pria nascita a due attori di grande fama? Quando fu messo a punto il progetto del Petit Theatre Marigny, si pensò di dare un posto alla Musica; non si trattava di ricadere nelle vecchie linee di un eclettismo temperato, ma di lottare per il riconosci­ mento di un pensiero veramente moderno. E fu in Madeleine Renaud e in Jean-Louis Barrault che trovai il solo entusiasmo serio. Di fronte alle mie inesistenti esperienze di organizzatore e ai miei bilanci approssima­ tivi, non vi fu, da parte loro, alcuna reticenza. L’appoggio che avevano promesso, lo hanno dato senza far di conto! Siano oggi calorosamente ringraziati per avere effettuato questo «lancio» con forza e disinvol­ tura... Intanto, Suzanne Tézenas prendeva coraggiosamente la guida e si la­ sciava imporre, di buona grazia, la presidenza del Domaine musical: un

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onere molto più che un onore... Infatti il mecenatismo si organizza, e ci vuole molta pazienza, perseveranza e abilità. Senza un mecenatismo or­ ganizzato, i nostri concerti non avrebbero potuto durare più di due anni; provo un’immensa gratitudine nei confronti di tutti i nostri «benefatto­ ri», e riassumo questo omaggio collettivo nella persona di Suzanne Tézenas, alla quale il Domaine musical deve moltissimo. E poiché sono in tema di ringraziamenti, sento di dovere esprimere il mio grazie al pubblico in generale, segnatamente agli «abbonati», il cui elenco è sempre stato riconfortante tra le vicissitudini e le preoccupa­ zioni... Bisogna pure parlare di questo pubblico: è lui che fa i nostri concerti! Abbiamo cominciato in una sala dove potevamo raggiungere circa duecento posti: inizi molto modesti per una città dell’importanza di Parigi. Adesso, all’Odéon, ci accade di dover suonare a botteghino chiu­ so. Siccome non si può ormai parlare di concerti clandestini, si tenta ancora a volte di minimizzarne la portata forzando un poco il concetto di clan... Ci si deve rassegnare davanti alla mala fede persistente che tra­ spare negli echi di cronaca e negli articoli? Ma neanche per sogno! Die­ ci anni di evoluzione nella vita musicale, hanno largamente dimostrato che questi ostacoli insignificanti non possono nulla contro la vitalità di un movimento. Avremmo desiderato intelligenza nei nostri avversari! Avremmo così potuto approfittare del pungolo dei loro strali. Ma no, non una parola che non fosse banale e scontata. Ricordiamo gli osserva­ tori attenti che hanno seguito con simpatia la nostra azione; le pur for­ ti riserve, quando ne avevano, non hanno loro in alcun modo impedito di constatare il lato positivo delle idee e delle opere nuove. Tutto questo, in definitiva, ha costituito un movimento. Contraria­ mente alla maggior parte dei movimenti, non ci siamo fatti precedere da un manifesto. Certo, ci sono stati articoli polemici, saggi teorici, prese di posizione deliberate. Tuttavia non ci siamo mai sognati di firmare una dichiarazione comune di tipo fiammeggiante. Con più efficacia, mi sem­ bra, abbiamo, giorno dopo giorno, realizzato la storia della musica. Pen­ savamo (dico noi, la generazione di compositori che si sono riconosciuti, nell’immediato dopoguerra, in un certo modo di fare) che il tempo dei manifesti fosse ridicolmente sorpassato. Abbiamo dunque sperimentato con buon senso (come non riconoscerlo?) il «movimento» nel suo farsi.

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54. Una scuderia per Jarry". Quando è immerso nell’opera in divenire, non vi è dubbio che il compositore si crei a proprio uso una psicologia d’infallibilità a breve termine; senza questa bussola provvisoria - «ho assolutamente ragione» — egli esiterebbe ad avventurarsi in terre vergini. Questa reazione è una reazione sana, che gli consentirà di venire a capo del periplo imprevisto da compiere prima di giungere al termine del suo lavoro. Nondimeno, lungo il tragitto, gli è indispensabile misurare le distanze percorse e rilevare le coordinate, in una parola, assicurarsi di non deviare dal proprio disegno. Non penso affatto di insinuare che l’esito finale esiga una identifica­ zione perfetta col disegno iniziale - ci si propone di fare un ritratto — e ci si accorge di avere realizzato una natura morta. (Henry Miller ha gusto­ samente descritto la genesi di un’opera nel racconto intitolato Porto un angelo in filigrana, di cui almeno vorrei citare: «Potrete dire, ma questa opera è un incidente - ed è proprio vero»). Ma si potrebbe anche ricor­ dare il Salmo 23. «Ogni nascita è miracolosa e ispirata. Ciò che appare adesso davanti ai miei occhi è il frutto di innumerevoli errori, di ritorni, di cancellature, di esitazioni; ma è anche il risultato della certezza»; e: «Il mondo del reale e della contraffazione è dietro di noi, noi gli voltiamo le spalle. Dal tangibile, abbiamo tratto l’intangibile...» Da questo punto di vista, la musica odierna, se si è perfettamente risolto il problema della sua paternità, è lungi dal dar luogo a una sintesi generale: a seconda degli anni, ci si fissa, si resta ipnotizzati, su un certo problema, su un caso particolare. In pratica, è possibile datare tutta una serie di partiture — certo di epigoni - secondo il carattere delle inquietudini che esse subiscono, delle tentazioni a cui cedono, delle frenesie che le invadono; viene il timore che sia come un’ondata collettiva a trascinare queste diverse idee fisse. Epidemie temibili e regolari: c’è stato l’anno delle serie numerate, quello dei timbri entrati di nuovo nell’uso corrente, l’anno dei tempi coordinati; c’è stato l’anno stereofonico, l’anno delle azioni; l’anno del caso; e si può già prevedere l’anno dell’informale: il nome farà fortuna! Ma non si supponga, da parte mia, una polemica troppo facile, visto che gli argomenti sovrabbondano, al pari dei talenti servili e minori: proprio per questo, non intendo aprirla per nulla. Mi limito a constatare * Progetto di prefazione per l’edizione francese di Pensar la musiquc aujourd'htii (1964). Ap­ parso su «L’Express», febbraio 1963.

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che ogni collettività, soprattutto quando è ristretta, come una collettivi­ tà di compositori, genera i propri feticismi effimeri: del numero, dei grandi numeri, dello spazio, della carta, del grafismo (dei graffiti, addirit­ tura), della (non) psicologia, dell’informazione, dell’azione - e di conse­ guenza, della reazione! - del può essere, del perché no, del che ne diran­ no... Si ha buon gioco a confrontare la mentalità di una siffatta collettività di epigoni con quella delle tribù «primitive»: uguali reazioni nei con­ fronti dei feticci sui quali si è fissata l’attenzione. Si racconta che in certe tribù africane, se l’idolo prescelto non ha reso i servigi che si aspettavano da lui (o da lei), viene mutilato e alla fine gettato nei rifiuti ricoprendolo di sputi e di ingiurie, per poi trovarne un altro, possibilmente più be­ nefico. La tribù degli epigoni non agisce in altro modo: si precipita vorace su un mezzo determinato di cui non può percepire evidentemente né le origini, né la necessità giacché lo isola da ogni pensiero conduttore logi­ co; né può fare delle applicazioni standardizzate, e, dopo avere rapida­ mente esaurito le sue possibilità apparenti di fascinazione, incapace com’è di coglierne il rigore interno, deve trovare ad ogni costo un’altra bombola di ossigeno; il formicaio attende il colpo che sta per rimestarlo e gettarlo nel caos del disordine. Non si può non convenire che una tale pratica (per dirla brutalmente) appartiene al bordello d’idee più che alla composizione. Era utile, senza dubbio, che questi feticisti si dessero via libera, dato che hanno avuto il merito di chiarire la situazione, e non si creda che io dica questo per il gusto del paradosso. Un periodo come il nostro, può avere conosciuto la loro più rapida fortuna, stante la facilità grandissima di diffusione; ma l’«epigonismo», a dire il vero, non è un fatto di novità particolarmente notevole; è persino un male necessario: indirizza l’at­ tenzione più velocemente e a minor costo sulla caducità di taluni pro­ cedimenti e la non-validità di certi ragionamenti — dimostrazione ab absurdo-, pone in guardia e tiene all’erta ogni coscienza creatrice indotta a restare abbagliata dalle nuove meraviglie che incontra, a lasciarsi cade­ re nella trappola narcisistica degli specchi che si costruisce. L’«epigonismo» può essere considerato come la critica più sottile, anche se - o proprio perché involontaria - profittando delle lezioni che se ne possono trarre, si avrebbe torto a irritarsene. Dopotutto, il campo creativo non ha cessato di arricchirsi dei risultati a cui contribuisce negativamente. Nondimeno, se bisogna guardare le cose in faccia, dico che questi diversi feticismi provengono da una profonda mancanza d’intellettua­

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lismo. Questo enunciato potrà parere strano, quando in genere si giudica la musica contemporanea troppo intellettualistica; al contrario, posso constatare sotto vari aspetti una regressione mentale certa, anche se da parte mia non sono propenso ad ammetterlo. Lo shock ha un potere le cui virtu si esauriscono presto; la sensazione si attutisce, l’abbagliamento svanisce, lasciando un’indubbia irritazione per essere stati «frodati». Chi usa sommariamente la stereofonia, ritrova le delizie del Cinerama. «... L’atto surrealista piu semplice - scrive André Breton nel Secondo Manifesto del Surrealismo ( 1930), - consiste, rivoltella in pugno, nell’uscire in strada e sparare a caso, finché si può, tra la folla». Ma aggiunge in nota: «Si, mi preoccupo di sapere se un essere è dotato di violenza prima di chiedermi se, in quell’essere, la violenza vie­ ne a patti o non viene a patti] — e più oltre, nella stessa nota: - Quel­ l’azione che dico la più semplice, è chiaro che non ho l’intenzione di rac­ comandarla più di ogni altra perché è semplice, e attaccarmi in proposi­ to equivale a chiedere borghesemente a ogni non conformista perché non si suicida». L’atteggiamento non è quasi cambiato da trent’anni: ci si agita e si chiacchiera finché ci si imbatte nelle questioni essenziali; allora si cerca di evitarle come fossero sconvenienti: «borghesemente» deve bastarci come risposta — ma è troppo poco! Cosi non vedremo mai il concerto più semplice’, dal podio «sparare a caso, finché si può, tra la folla degli ascoltatori, far loro sentire il rumore supremo» — questo concerto non ha ancora avuto luogo, forse per un semplice malinteso tra attori e spettatori; mentre, in sostituzione, ve­ dremo maltrattati alcuni buoni strumenti che non ne hanno colpa: magra compensazione raccogliere le ultime confidenze dei coperchi di piano sadicamente torturati o i gemiti eolici delle arpe allegramente battute. Invece di un atto fondamentale, assoluto, bisognerà accontentarsi di aneddoti di shock. La storia farfuglia, vaneggia; vediamo: «Noi non amiamo né l’arte, né gli artisti» (Vaché, 1917); «Non più pittori, letterati, musicisti, scul­ tori, non più religioni, non più repubblicani, monarchici, imperialisti, anarchici, socialisti, non più bolscevichi, proletari, democratici, borghe­ si, aristocratici, non più eserciti, polizia, patrie, insomma basta con tutte queste imbecillità, più niente, più niente, niente, niente, niente» (Aragon, 1920). Ma nel 1928, nel Traité du style, lo stesso Aragon aveva già replica­ to: «È cosi che tutti cominciano a pensare che non c’è niente che valga la pena, che due più due non fanno necessariamente quattro, che l’arte non

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ha alcuna specie d’importanza, che è abbastanza volgare essere un lette­ rato, che il silenzio è d’oro. Banalità che ormai si portano al posto dei fiori, attorno al cappello... «Non uno sporco piccolo borghese che non fiuti ancora il proprio moccio tra le sottane della propria cara madre, che non si metta ad amare le pitture idiote... «Uccidetevi o non uccidetevi. Ma non trascinate sulla terra le vostre lime d’agonia, le vostre carogne anticipate, non lasciate spuntare più a lungo dalla vostra tasca quel calcio di rivoltella che richiama invincibil­ mente il calcio in culo». A questo breve gioco di citazioni, ci si può ancora molto divertire; abbreviamo; basta spostare alcune parole perché queste frasi si applichi­ no perfettamente a certe escrescenze e muffe odierne. I musicisti hanno sempre avuto, nella propria provincia, qualche ritardo sulle rivoluzioni degli altri: in musica, Dada offre ancora certe seduzioni (e certe ingenuità) ovunque altrove perdute da un pezzo, i suoi paraventi leggeri nascondono, per quel che vale, l’amabile miseria del dilettantismo rosa. Da Nietzsche abbiamo appreso che Dio è morto, poi da Dada che l’Arte è morta: lo sappiamo benissimo; non c’è nessun bisogno di risalire al diluvio e volere - ad ogni costo - rifilarci scolasticamente le dimostra­ zioni che ebbero un certo lustro. Ci vorrebbe lo stuzzicadenti di Jarry per spazzare questa stalla in miniatura.

L’ISTITUZIONE E LE SUE VIRTÙ...

55. Perché dico no a Malraux .*

André Malraux ha preso con mano stanca una decisione riguardo alla musica in Francia, che ritengo sconsiderata, irresponsabile e incoerente. Cosi egli ha ceduto al voto del Comitato nazionale della musica, che pretende di essere rappresentativo in modo eminente di tutti i settori della nostra corporazione. In realtà, questo comitato non rappresenta, a mio modo di vedere, che le persone di cui è composto, e che hanno tempo di formare comitati... La personalità del loro presidente, Jacques Chailley, non fa che rendermelo sospetto; il gioco di bussolotti all’ulti* «Le Nouvel Observateui», n. 8o, 25 maggio 1966.

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mo minuto con Nestor Milhaud non può che aggravare tale sospetto. Sarebbe stato necessario un gioco di mano più abile per creare un’atmo­ sfera di illusione, mentre questa mascherata ne accentua solo i contorni. La decisione di Malraux è stata una decisione di compromesso, la peggiore: non avendo voluto sconfessare Biasini1, ma desiderando pla­ care i musicisti «ufficiali», egli ha diviso la mela in due: una metà, i teatri, resta nelle mani di Biasini; l’altra metà va nelle grinfie di Lan­ do wski. E la terza metà, intendo dire la musica alla radio e alla televisio­ ne, resta nelle falangi del ministro dell’informazione. Ecco ciò che può chiamarsi una vera riforma: positiva e feconda! Non si tratta di dividere per regnare, ma di dividere per stare in pace. Le due domande fondamentali sono cosi formulate: 1 ) è bene separa­ re la musica dall’azione culturale generale? 2) è bene affidare l’ammini­ strazione della musica a un compositore? A queste due domande, rispondo categoricamente di no! Ora non è possibile organizzare la musica con circuiti sclerotici e invecchiati. Occorre appoggiarsi su organismi più generali, che compren­ dano sia spettacoli teatrali, mostre di pittura e concerti - sia, del resto, «periodici» - quali sono organizzati dal T.E.P. Solo a queste condizioni si può raggiungere un pubblico giovane, rinnovato nel suo aspetto socia­ le non meno che nelle sue aspirazioni estetiche. È un’atroce sciocchezza volere ignorare un fenomeno collettivo di una tale portata, fermandosi a una separazione pregiudizievole allo sviluppo stesso della musica e col rischio, per giunta, di creare delle caste che si ignorano a vicenda. D’altra parte, il lavoro fondamentale di riorganizzazione delle strut­ ture musicali è un lavoro da specialista, quindi da amministratore. Un compositore è la persona meno preparata a condurre un’amministrazio­ ne generale; resterà sempre un dilettante, impiegato a metà tempo, a meno che non rinunzi alla composizione, e impari da cima a fondo que­ sto mestiere specializzato. Nel nostro caso, separare i teatri dalle associazioni di concerti equiva­ le immediatamente alla rinunzia a risolvere il problema dell’impiego dei musicisti: la sola soluzione possibile consisterebbe neh’evitare l’andiri­ vieni incessante tra i teatri e le associazioni di concerti. Nel momento in cui questi due servizi sono oramai indipendenti, è chiaro che si perpetue­ rà un’ambiguità fondamentale e improduttiva - causa di tutta l’assurdità e delle tante incoerenze che regolano la vita musicale a Parigi. Da ultimo, la scelta di Malraux è caduta su un personaggio scialbo e inconsistente. 1 Incaricato della direzione del Teatro e della Musica (finché quest’ultima non viene affidata a Landowski) al Ministero degli Affari culturali (nota della redazione del « Nouvel Observateur»).

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Provvisto di scarsa immaginazione nella sua musica, non credo che d’in­ canto egli ne metta di più nei problemi amministrativi. Del resto, mi rifiuto di dividere una personalità in più parti, come il melone della favola. Musicisti come Chailley e Landowski si sono di­ mostrati da sempre quanto mai reazionari. E non vedo perché, e sotto l’effetto improvviso di quale grazia, essi dovrebbero rinunziare al loro congenito conservatorismo allorché affrontano l’organizzazione della mu­ sica francese. Si può essere sicuri dell’accademismo e della polvere che si faranno uno scrupolo di custodire. Sono queste le ragioni che mi fanno dire no all’iniziativa di Malraux. E per quanto mi riguarda, ne traggo le conseguenze. Il mio compito non è quello di rovesciare il noto slogan e giustificare la nuova parola d’ordine: «Ciò che vedete in vetrina, non potete trovar­ lo all’interno!» Cosi e fin a quando non si prendano decisioni che non siano pure derisioni, mi rifiuto di collaborare con tutto ciò che, da vicino o da lontano, in Francia o all’estero, dipende dall’organizzazione ufficiale della musica. Si provi Malraux a chiedere a Bordaz1 di mandare Landowski aff’Esposizione di Montréal con l’Orchestra nazionale per suonare le opere complete di Chailley. Si farà ridere in faccia. Chieda a quelle stesse personalità di intraprendere, con la stessa orchestra, alcune tournées negli Stati Uniti, in Germania o a Lucerna. Si farà ancora ridere in faccia. Chieda al pubblico delle associazioni popolari di appassionarsi per questi eminenti musicisti. Si farà ridere in faccia per una terza volta (una delle forme possibili del rinnegamento di sant’Andrea...) Capirà allora che la musica è una cosa abbastanza importante perché sia affidata in mani fiacche e incompetenti, perché la si abbandoni a musicisti «di apparato»... Immagino che ci si accinga a fare alcune iniezioni di danaro per la prossima stagione. Dopo questa dose di morfina, i problemi posti dalla malattia della musica resteranno insoluti. Anzi si saranno nel frattempo probabilmente aggravati. Ma tengo a far sapere sin d’ora che non accetto, e che considero la situazione attuale la peggiore, la più comoda e la più ridicola. Àfz astengo dunque nei confronti di tutto ciò che è istituzione ufficiale della musica in Francia. Del resto, questa mia astensione non ha nulla di eroico, la posso fare senza alcun pericolo per la mia esistenza. Non è un segreto per nessuno che sono partito per la Germania poiché non potevo 1 Incaricato di organizzare la partecipazione francese alla prossima Esposizione universale mon­ diale (nota della redazione del « Nouvel Observateur»).

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realizzare in Francia niente di una qualche importanza. I diversi paesi dove sono invitato non mi dànno che l’imbarazzo della scelta. Faccio facilmente a meno degli inviti ufficiali francesi, avendone molti altri a mia disposizione. Senza voler fare della demagogia, rimpiango una sola cosa: di non lavorare più, almeno per ora, con i musicisti francesi. Avevamo avuto l’occasione di apprezzarci reciprocamente; e di questo devono restare almeno alcune testimonianze. Né la disinvoltura di un ministro, né il lavoro di anticamera di musicisti «di apparato» mi faranno dimenticare le loro qualità. In nome di questa possibilità che esiste in Francia e che si fa di tutto per distruggere, protesto per omissione. E poiché, non dipen­ dendo da alcun mezzo di sussistenza ufficiale, posso permettermelo, ten­ go a dichiarare che sconfesso tanto il modo disinvolto e disgustato del ministro quanto i loschi intrighi dei comitati nestoriani. Si è già parlato, nei miei riguardi, di metodi hitleriani e dittatoriali. La tromba-zimbello di servizio, mirando basso e scrivendo fiacco, ha fatto sull’argomento alcuni sciacquìi e altre bolle spumose. Si potrà in­ vocare Coriolano... Vada per Coriolano! Resto tuttavia persuaso che la situazione della musica in Francia non subirà alcun miglioramento finché resterà nelle mani di compositori fal­ liti. Dirigere la musica non è né un onore, né una carica, né un binario morto, né un privilegio: è una funzione. Questa funzione richiede degli specialisti. Fin tanto che non lo si capirà, la Francia resterà quel paese dove s’improvvisa piuttosto malamente, e Parigi la capitale in cui la musica è divenuta un’appendice insignificante. Rifiuto di associarmi a un tale stato di fatto, conoscendo le risorse non sfruttate di Parigi o della provincia, e sapendo anche che il disinteresse non è la virtù cardinale dei medici chiamati da Malraux al capezzale della musica malata. Questa presa di posizione non impegna se non la mia persona, non il «presidente onorario del sindacato degli Artisti musicisti di Parigi». Non desidero che il segretario generale di questo sindacato sia ancora una volta oggetto di pressioni telefoniche da parte di Landowski e di non so bene quale funzionario di gabinetto di Malraux. Cosi egli non sarà diffidato formalmente dai suddetti personaggi a sconfessare pubbli­ camente il suo presidente. (Bisogna pur rivelare questi metodi di ricatto cosi poco edificanti...) D’altra parte, se il sindacato deve discutere con la nuova direzione della musica su delle questioni di ordine puramente materiale, non ha bisogno di essere svantaggiato per la mia presa di posizione fondamen­ talmente ostile. Liberato da ogni responsabilità collettiva, e non parlan­ do se non a mio nome, mi sono sentito tanto più indipendente per

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esprimermi senza alcuna remora su certi aspetti di una realtà che mi sembravano tanto sordidi quanto spregevoli. È questo il solo avvenire che ci è riservato: quello delle lamentazioni, dell’amarezza e della diserzione?

56. A che punto siamo? .*

Faccio parte di una generazione che non è più giovane e che ha forse contribuito a cambiare il volto della musica odierna. Sono al tempo stesso, diciamo, un compositore e un esecutore, quanto a dire che ho avuto l’occasione di occuparmi molto di questioni pratiche e in partico­ lare del modo di diffondere la musica con temporanea; di sviluppare un contatto tra il pubblico e la musica d’oggi: insomma, ho una posizione intermedia per età e funzione. Ecco perché ritengo importante porsi adesso il problema, giacché è tempo di porselo, di vedere esattamente dove stiamo andando. Non dico di determinare l’avvenire, in quanto non si determina l’avvenire, e quelli che determinano in anticipo l’avvenire sono piuttosto noiosi giacché si escludono dal privilegio dell’innovazio­ ne e dell’avventura. E tuttavia, non siamo più in un periodo di dissoda­ mento, non siamo più ai tempi in cui si scoprivano delle cose in ritardo. Siamo dopo una certa fondazione, viviamo in un periodo di riflessione in cui, per andare più oltre, dobbiamo giustamente esigere un minimo di riflessione, non soltanto da parte dell’ascoltatore, ma anche del composi­ tore. Subito dopo la guerra, si presentavano grandi speranze per una gene­ razione, in particolare per quella che aveva toccato con mano i difetti e i fallimenti dei padri, e che si è immediatamente buttata in un’azione vitale di slancio e in una scoperta che prima di tutto era una tabula rasa. Devo dire che nel ’45 o nel ’46, niente era predisposto e tutto era da fare, e noi avevamo avuto il privilegio di queste scoperte, e avevamo avuto il privilegio di non trovare niente davanti a noi, il che è a volte difficile, ma facilita tante cose. E ho visto, a esempio, nella mia breve esperienza pedagogica (non sono infatti un grande pedagogo ma ho avu­ to due o tre anni di esperienza didattica), che il problema si poneva per la generazione successiva in un modo del tutto diverso dalla nostra. Noi pensavamo innanzitutto a un’unità di azione. Quello che abbiamo sco­ perto negli anni ’45-50 era relativamente facile, poiché si trattava di uno * Trascrizione di una conferenza tenuta a Bordeaux il 13 maggio 1968. Pubblicazione parziale in «Le Monde de la musique», n. 2, luglio-agosto 1978, pp. 20-22. Testo integrale inedito.

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sforzo originario per porre le basi del nuovo linguaggio partendo da fonti date, che venivano di nuovo scelte. Questo linguaggio si è svilup­ pato in un modo che avrebbe potuto piegare verso l’accademismo. E proprio per questo ciascuno, secondo la propria tendenza, ha cominciato a esplorare il proprio universo, che è cosa del tutto normale e auspicabi­ le, dal momento che il grave rimprovero che si è potuto muovere (e qualche volta giustamente) a certi compositori di una stessa generazione e di diversa nazionalità, è quello di somigliarsi troppo e di seguire una via scrupolosamente simile. Il rimprovero è caduto molto presto poiché, a mano a mano che i protagonisti suonavano e si denunciavano con gli anni, le divergenze per forza venivano ad accentuarsi. Alla fine si sono trovati alcuni temperamenti capaci di esprimersi nella libertà di cui cia­ scuno era andato alla ricerca appassionata. Non intendo giustificare adesso (innanzitutto perché è troppo tardi e non c’è più niente da giustificare) il tentativo che ci ha condotti qui dove siamo, ma vorrei dire preliminarmente che, di fronte alla generazione che ci ha preceduto, la preoccupazione che ci aveva distinti era quella di una scoperta grammaticale, di una ricerca formale per costruire un lin­ guaggio musicale sicuro, solido, e non soltanto legato a speculazioni più o meno vaghe. Quello che ci era sembrato caratteristico rispetto alle generazioni anteriori, era appunto la vaghezza delle speculazioni, delle parole d’ordine o degli slogan estetici senza alcun rapporto col linguag­ gio musicale in forme precise per fissarlo per un lungo periodo. Questo significava non trovare semplicemente, come fa un sarto, certe mode per una stagione, ma proprio un linguaggio e soluzioni di lungo termine. Queste soluzioni sono passate attraverso discipline rigorose, a volte trop­ po, nelle quali tutti si sono sentiti a disagio, ma per le quali tutti sono stati tuttavia obbligati a passare. Per quale ragione? Perché è necessario quando si crea un linguaggio passare attraverso una disciplina estremamente rigorosa e conoscere, se è lecito dirlo, il fenomeno dell’abnegazio­ ne. Se non si nega, se non si fa tabula rasa completa di tutto quello che si è ricevuto in eredità, se non si mette in discussione tale eredità, se non si avanza, rispetto a quanto ci ha preceduto, un dubbio fondamentale sulla validità delle cose, è più che certo che non si darà mai progresso! Vi è un dubbio fondamentale, ed è stato messo in opera, fino a un control­ lo assoluto. Una volta, diedi a un pezzo che avevo composto, un titolo che non ho poi mantenuto, e che avevo ripreso da Klee: Al limite del paese fertile. Chi ha visto il quadro di Klee, può constatare che anche il pittore aveva attraversato un periodo in cui la geometria era quasi più importante dell’invenzione, dal momento che occorreva allora codificare l’invenzio­

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ne in una certa maniera per ritrovare una nuova ingenuità e un’altra codificazione del linguaggio. E proprio questo è accaduto alla nostra generazione. In capo a un certo tempo, ci si è resi conto che ciò non era sufficiente e che bisognava cercare più oltre, e al di là di una codificazione precisa di un linguaggio, ritrovare le preoccupazioni estetiche. Noi le avevamo eluse all’inizio, le avevamo in ogni caso lasciate da parte per un certo tempo, poiché erano meno importanti e non poco fastidiose da risolvere. Per giunta, vi era una schiettezza nei confronti delle soluzioni da trovare e non volevamo appesantirci di pseudo-questioni estetiche, che avrebbero potuto essere in quegli anni singolarmente in anticipo. Ciò detto, una volta che il linguaggio o perlomeno la costituzione del linguaggio è stata raggiunta, ognuno ha ritrovato alcuni problemi perso­ nali che lo hanno portato o da una parte o dall’altra. Adesso, vi è da riprendere una sorta di secondo slancio, e si sente benissimo che una nuova generazione si volge da tutte le parti, e in particolare i più giovani. La grande unità della quale si era potuto sognare vent’anni or sono si è rivelata un mito e un’illusione, poiché viene meno dinanzi alle diverse personalità che hanno preso la loro strada, a volte con un’opposizione violenta e piuttosto decisa. Si parla di differenti settori della musica contemporanea che non si intenderebbero, di tentativi contraddittori che avrebbero infranto que­ sta unità primaria verso la quale avevamo puntato. Forse che non vi sarebbero nuovi metodi per trovare e definire una nuova unità che non si riferisse all’antico ordine, ma coordinasse le attività in campi estremamente diversi? Penso che questi metodi vadano trovati, che è ancora accaduto, ma che l’individualità prende posto in un’iniziativa molto più generale di cui occorre intravvedere, se non attuare in questo momento, la sintesi. In effetti, che cosa si sente dire al riguardo della musica con­ temporanea? Che vi sono molte tendenze, ma eliminerò subito quelle che sono retrograde, restauratrici, che di fatto non sono tendenze, ma semplicemente nostalgie. Quando se ne ha abbastanza della sperimenta­ zione, vi è in effetti una nostalgia per i mondi perduti, una nostalgia dell’infanzia e, questa nostalgia, si cerca di camuffarla ritrovando certe cose, integrandole più o meno con una dialettica alquanto zoppa, in un mondo contemporaneo. Ebbene! devo dirlo, non sono affatto interessato a questo. Queste nostalgie non sono fenomeni individuali, che concer­ nono semplicemente un dato individuo, ma sono incapaci di creare un avvenire e un divenire inseriti nella storia. Penso che occorre invece considerare attualmente il ritorno verso il futuro, chiedersi come si può uscire dalle rigorose discipline, considerare il futuro con una certa liber­ tà, ma in una disciplina consentita, che condurrà il linguaggio contempo­

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raneo verso un’espressione davvero universale. Il fatto più inquietante e preoccupante è che, per il momento, ognuno sguazza nel proprio canto con una sorta di desiderio di ritrovare un’espressione universale. È per questo che le espressioni contemporanee sono in sostanza meno diver­ genti di quanto non appaia a prima vista. In effetti, voi sentite verosi­ milmente parlare di contrasti, in particolare tra musica elettronica, elet­ troacustica e musica strumentale. E ritrovate questo contrasto a esempio nel teatro, lo ritrovate nell’organizzazione dei concerti: è un fenomeno di sviluppo che’si arresta su un punto preciso. A che punto siamo dun­ que dell’organizzazione generale e del contatto della musica con il pub­ blico? Non dico che sia questo il problema primario, ma il problema del con­ tatto si manifesta a voi direttamente. Anche prima di parlare del proble­ ma individuale di ogni creatore, vorrei ricordare il contatto che egli rifiuta in un certo modo, che potrebbe accettare in un altro, e vorrei anche insistere sul fatto che la creazione in generale è diventata un fenomeno molto più collettivo che individuale. La comunicazione avvie­ ne ancora tra il creatore e il pubblico tramite il concerto (ciò che si definisce «il concerto»), e naturalmente, vi è una grande distanza tra il creatore e la massa del pubblico di concerto, che segue la vita sinfonica e i grandi artisti. Vi è una profonda discrepanza tra questa vita che si trascina, e dirò addirittura che la musica è forse l’universo e il mondo più conservatore fra tutti, più conservatore del teatro (molto di più senza dubbio), e più del museo. Se si guarda in particolare allo sforzo compiu­ to dai musei, in America e anche in Europa, allo sforzo fatto dai teatri, ebbene! è indiscutibile che la musica è in ritardo e terribilmente in ritardo! Il fatto è che la sua organizzazione è fondata su fenomeni di abitudine, di contatti completamente superati dalla situazione attuale. Qualcuno potrà chiedermi naturalmente, soprattutto conoscendo la mia situazione, perché dirigo dei concerti dato che m’inserisco malgrado tutto in un quadro convenzionale, e non potrò mai cambiare questi concerti (se non forse con dei programmi un poco più audaci), visto che non cambio in fondo il loro quadro, né il senso della comunicazione. Senza dubbio, è un problema non facile da risolvere, o, perlomeno, più facile da risolvere solo a parole. A parole, è semplicissimo dire che occorrerebbe costruire nuove sale di concerto, riorganizzare le orchestre, o comunque sopprimere l’orchestra per fare una sorta di consorzio di musicisti ove poter attingere secondo le necessità del momento. Ciò è quanto mai facile a dirsi. Di fatto, si scorgono alcune soluzioni, giacché nel teatro il problema non si pone, o si pone con problemi molto minori. Ma nella musica, come ho detto, vi è un fenomeno economico che gioca

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sempre nel senso della conservazione. Vale a dire che in un’organizza­ zione abilitata a questa sorta di attività, è difficilissimo fare ammettere, semplicemente dal punto di vista dell’organizzazione intrinseca, che si possano organizzare le cose diversamente, e che in un’economia ben regolata, la cosa non porrebbe problemi maggiori. Tuttavia, si scopre che nella costituzione di un’orchestra vi sono, a esempio, tanti violini, tanti flauti, tanti corni, ecc., si hanno norme definite, accettate da tutti, e norme che dirò del xix secolo arricchite via via. Esse sono state accettate per un certo vocabolario e per una certa espressione, cent’anni or sono, poi, a mano a mano, arricchite secondo i bisogni. Si arriva dunque a situazioni del tutto assurde: non si può suonare, con l’effettivo di cui si dispone di solito, se non un certo repertorio, si suona in genere una musica che copre un secolo o un secolo e mezzo, e, per la musica contem­ poranea, si è costretti a fare degli sforzi finanziari assolutamente insensa­ ti, data la loro incidenza. Parimenti, per suonare una musica anteriore a questo periodo, si è pure costretti a fare degli sforzi insensati, senza alcuna resa economica. Ciò prova come questa situazione sia compietamente assurda, giacché ci si è spinti sempre più lontano verso una cono­ scenza enciclopedica della storia della musica (enciclopedico è senza dub­ bio un termine troppo vasto), ma insomma al giorno d’oggi è una sorta di museo immaginario della musica, e noi vogliamo sentire, comunque, ben altro che un secolo o un secolo e mezzo. I riferimenti di cui abbiamo bisogno nella storia della musica sono tali da poter fare a meno delle categorie di tempo e di luogo. Non soltanto per me, ma per molti compo­ sitori che conosco, la musica europea è un fenomeno naturalmente ori­ ginario, visto che siamo nati in Europa e discendiamo da questa tradi­ zione europea, ma in definitiva ameremmo proprio sentire anche altro. Se ascolto la musica di Gagaku giapponese, o ascolto la musica Nò, o se ascolto musiche indiane o di Bali, o musiche azteche, queste mi appagano lo spirito non meno che la musica europea. In altre parole tendiamo attualmente (e siamo del resto anche in ritardo, giacché questa tendenza si è manifestata nelle arti plastiche molto prima che nella musica), ten­ diamo a concepire la cultura musicale europea come una delle tendenze che ci interessano e possono arricchirci. Sicché la comunicazione, da questo punto di vista, tra il pubblico e le fonti musicali, è assai incomple­ ta e non può assolutamente giustificarsi, se non dal punto di vista del museo storico. Il museo storico è naturalmente interessante, ma non è fondamentale! Ammiro sempre Descartes - o non so chi altro — che aveva messo un bue al posto dei libri nella sua stanza di lavoro. Trovo che è sempre interessante, per un creatore, bruciare la propria bibliote­ ca, e dimenticare assolutamente tutto ciò che ha letto o tutto quanto ha

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imparato. In fondo dobbiamo considerare questa cultura di cui abbiamo praticamente fatto le spese, come un punto fra gli altri. Ma questo non ci è consentito in nessun modo dalla vita musicale odierna. Non soltanto essa non ci consente il confronto tra le diverse culture, ma non ci per­ mette di giudicare sul campo l’evoluzione contemporanea. Mi si deve credere, ho su questo punto, come direttore di concerti l’esperienza di un quindicennio. Non è veramente possibile mettere in contatto il pub­ blico odierno con le forze vive della creazione se non si astrae totalmente dalla vita musicale come la si concepisce oggi. Essa è un paradosso e un assurdo. Non vedo perché ogni pubblico debba restare confinato nel proprio ghetto, né perché ci sia un pubblico per l’opera, un pubblico per i concerti sinfonici classici, un pubblico che si interessa alla musica ba­ rocca, un pubblico che si interessa alla musica corale e un pubblico che si interessa alla musica contemporanea. Quasi sempre, e qui sono estre­ mamente severo, questi pubblici specializzati che seguono, sia la musica contemporanea, sia la musica barocca, i direttori specializzati o gli in­ terpreti specializzati, sono degli specialisti del niente, incapaci come sono di vedere quello che può accadere in un’altra cultura, senza poi essere in grado di avvalorare questa cultura con quanto si fa attualmen­ te. E sin tanto che non si hanno i mezzi per fare appunto questa sintesi nell’azione, ebbene! la vita musicale resterà sempre qualcosa privo di senso. Non si può giudicare semplicemente da specialisti, come vi sono specialisti di stampe cinesi. I musicisti che, a esempio, si interessano semplicemente all’interpretazione di un ’opera, a un certo periodo o a un certo autore, sono degli esteti la cui specie, a mio parere, si estinguerà assai presto. Ecco perché la nostra vita musicale, in quanto congiunzione tra interpreti prestigiosi e opere appartenenti a un museo, è una cultura che muore, e muore rapidamente, e morirà ancora più rapidamente se le si dà una spinta. Bisogna contribuire a questo, giacché la cultura non ha niente a che fare con questi falsi fenomeni di conoscenza. La razza peg­ giore, è la razza delle persone colte a metà, che credono di conoscere qual­ cosa, mentre in realtà non conoscono niente di niente. Si, il mondo musi­ cale è davvero uno dei mondi più conservatori che vi siano, e, direi, il più chiuso. Non ci si può aspettare da un tale mondo che si trasformi rapi­ damente, retto com’è da imperativi economici difficilissimi da dominare al giorno d’oggi. Si provi, a esempio, da un semplice punto di vista dell’organizzazio­ ne, a modificare la costituzione di un’orchestra. Ci si accorgerà che vi sono buone probabilità di scontrarsi con un’ostilità profonda da parte di tutti, pubblico o musicisti, e si sosterrà che finora tutto ha funzionato a meraviglia. Perché allora, previo opportuni accorgimenti, non potreb-

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be funzionare ancora? Bisogna proprio dire, adesso, che ciò non può più funzionare se non si introduce un rimedio radicale. Ma come porvi ri­ medio? Secondo la mia idea, dando sia all’architettura, sia ai concerti, un’organizzazione molto più agile. Si parla di continuo di musica libera, di musica in divenire, dal punto di vista della composizione, ma quando queste musiche del divenire sono in fase di esecuzione, si cade sempre nel problema della sclerosi delle strutture. Da un punto di vista quanto mai semplice e pragmatico, se mai avete assistito a un concerto di musica contemporanea, siete rimasti anche voi atterriti dal tempo che si perde nello spostare le sedie e i leggìi, e dal poco tempo che si dedica in definitiva alla musica? Ciò significa che le sale sono assolutamente as­ surde. Queste sale, in effetti, concepite per le esecuzioni del secolo scor­ so, impongono l’oggetto musicale come un oggetto di contemplazione. Guardate qualcuno che suona, lo contemplate, e non partecipate; sem­ plicemente, contemplate il capolavoro. Una concezione del genere, si capisce, non si addice più alla musica con temporanea; in primo luogo non vi è più una norma del capolavoro, né una norma imposta all’archi­ tettura musicale dell’opera, e neppure una norma imposta alla formazio­ ne musicale (parlo del numero degli strumentisti e del modo di metterli insieme). Sicché, quando si ha un’opera che esige una certa formazione e un certo raggruppamento, si ha una data impostazione scenica, e poi dopo si aspetta dai venti ai venticinque minuti per avere ancora un’altra formazione, un’altra impostazione. In quadri cosi rigidi, la forma del concerto non s’impone più realmente, giacché lo spettacolo è tutto ta­ gliato e interrotto e, quale che sia il desiderio di comunicazione, quest’ultima risulterà negata da queste strutture sclerotiche. Lo stesso accade, a esempio, nel campo della musica elettro-acustica, o della musica elettronica pura (e da allora sono passati alcuni anni): si collocano alcuni altoparlanti davanti a voi, siete seduti e li guardate. Questi non suscitano veramente alcun interesse, li avete visti effettiva­ mente in faccia, se cosi si può dire, nel giro di alcuni secondi. Questi concerti, questi sedicenti concerti, assumono l’aspetto di una cerimonia crematoria. Si brucia il nastro, si aspetta che sia consumato per una ventina di minuti, senza che si sia posto il problema di sapere quale interesse visivo può avere uno che ascolti un’opera simile. Quest’inte­ resse visivo non ha bisogno di esistere, se siete in due o in tre in una stanza, se ascoltate una registrazione. Ma quando si è in gruppo, in massa, ciò che deve subito prodursi è una messa a fuoco. E se non si produce, ognuno chiuderà gli occhi e si comporterà come Madame Verdurin, che faceva finta di ascoltare, ma in realtà dormiva. Ognuno dorme dentro di sé, più o meno, fin tanto che non ha veramente qualcosa da

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vedere o da dedurre. Tutto questo ha generato un malinteso nei confron­ ti della musica contemporanea, perché in definitiva, a meno di non essere veramente fanatici, o comunque di conoscere i suoi problemi, e di passar sopra alle carenze della comunicazione, in partenza, quello che ci colpi­ sce, sono i difetti. I quali poi sono tanto evidenti che, per quelli che non hanno un legame profondo con la musica (è piu che possibile in fondo che si possa amare piu la pittura e la letteratura che la musica), e si interessano solo episodicamente alla musica cui antepongono altri inte­ ressi, che cosa resta da vedere? Il lato ridicolo delle cose. Le persone che vanno per la prima volta all’opera vedono soprattutto una bocca spalan­ cata, non il senso della musica: quando non si vedono e non si conoscono le convenzioni di un’arte (apro una parentesi sulla parola «convenzio­ ne», ogni espressione dipende da un certo numero di convenzioni). Se queste convenzioni sono evidenti, visibili e ben risolte, le si accetta e si entra nel mezzo espressivo: è il problema di ogni mezzo espressivo. Se queste convenzioni sono fuori centro, quanto a dire che il mezzo di comunicazione non è «in fase» con quanto vuole comunicare, si vede dall’esterno appunto questo difetto di comunicazione, la specie di males­ sere che provoca la messa in moto di una comunicazione inefficace che non ha luogo. Si ricorre allora a vari mezzi, a vari palliativi (non me ne tengo fuori dal momento che l’ho fatto anch’io), in particolare all’espe­ diente di mettere dei musicisti insieme a degli altoparlanti. I musicisti suonano e si sentono gli altoparlanti. Si guardano i musicisti, ma il suono giunge da un altro lato. Ne viene una sorta di scorcio, una falsa prospet­ tiva, qualcosa da manierismo italiano del xvm secolo. Ci si sente appa­ gati dal momento che si è visto qualcosa, e sentito altro. Si è soddisfatti di sé, ci si sente piu intelligenti di quanto non si sia, ma è una soluzione per l’inganno dell’occhio (o per l’inganno dell’orecchio). Si è anche insi­ stito nell’imperniare la formula concerto su una specie di gesticolazione (piuttosto che di arte del gesto), si è tentato di far passare la musica per una sorta di intermezzi, che non hanno niente a che vedere con la musica, si è cercato di far «recitare» i musicisti in quanto attori, mentre sfortu­ natamente il loro mestiere era assai inadeguato al riguardo. Si è visto cosi il lato buffo, voluto o meno, e fatto apparire anche una critica intrinseca del gesto del musicista. Certo teatro musicale ci è apparso allora come la caricatura di un concerto. Non aveva giustificazione in quanto opera, giacché ci veniva mostrato il gesto separato dall’azione, vale a dire un insieme che non funziona piu. Benissimo, perfetto, ma ciò non mostra affatto come si dovrebbe reagire e come si dovrebbe ricosti­ tuire correttamente un gesto che funzioni oggi. Di questo, è naturalmen­ te responsabile l’architettura: non gli architetti, ma l’architettura. Sa­

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rebbe necessario che gli architetti prendessero cura di questo problema, ma purtroppo non si sono loro date molte occasioni per farlo. Il solo esempio di una sala moderna è quello della Filarmonica di Berlino, che è destinata a un’avventura quanto mai moderata. I concerti vi sono visi­ vamente concepiti in un modo un poco piu moderno che altrove, ma, a parte questo, vi si trova lo stesso dispositivo centrale, un dispositivo che chiamerò «di adorazione», il dispositivo dell’oggetto che ci dà la musica, l’oggetto da adorare, davanti a noi. Tutti lo adorano nel proprio angolo, e nessuna partecipazione è possibile attraverso l’architettura di una sala. Non ho la pretesa di risolvere i problemi architettonici, o di funziona­ mento sociologico della musica, ma pretendo comunque che sia oramai tempo di porseli, e in maniera proprio incisiva. È tempo di rifiutare per esempio la costruzione di sale nuove secondo procedimenti antichi o semplicemente rifatti sul gusto odierno, e invece di un pannello di legno si avrà un pannello di cemento, in luogo di un tessuto felpato, a esempio, una moquette arricciata, senza però alcun mutamento di struttura. Il senso di uno spazio non muta soltanto perché si inserisce una grande scultura moderna nell’atrio, o un soffitto a disco volante nella sala. Le riforme che sono state tentate sono incomplete e non sono state pensate in funzione della musica attuale. È un effetto quasi tragico perché cia­ scuno opera nel proprio scomparto e nessuno cerca una visione piu vigorosa del mondo con temporaneo. Da un lato, si chiedono sale da concerti con progetti assolutamente conservatori, vecchi pressappoco di circa cinquant’anni, e dall’altro, vi sono musicisti che si disperano di non poter trovare il luogo appropriato, conveniente alle loro esperienze o meglio alle loro esecuzioni (la parola esperienza mi fa orrore, ogni cosa è esperienza), sicché vi è un certo malessere non meno nell’organizzazione della musica che nell’organizzazione del concerto e in quella della vita musicale in genere. Quanto al risultato, diventano fatali e inevitabili tanti piccoli ghetti. (Non che io sia contrario ai nuclei di attività, che ritengo essenziali; i rinnovamenti vengono sempre da un nucleo direttivo). Nessuno assume la guida di un movimento rinnovatore. Vi è in un angolo qualcuno che cerca, in un altro qualcuno che cerca e, alla fine, queste ricerche dànno un volto, un profilo alla nostra epoca, ma è difficile eludere il problema del contatto generale col pubblico. Penso che sia sempre molto meglio andare alla ricerca di un pubblico (ciò potrebbe essere interpretato in un senso estremamente demagogico), alla ricerca di una comunicazione e di un contatto, che soddisfare soltanto un piccolo gruppo, cosa possibile in ogni caso. Spesso sono stato accusato di spirito di parte (un’accusa che ho accettato, perché, in fondo, vale la pena di essere accusato di spirito

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di parte. Le incriminazioni sono tante). Ma ritengo che il vero spirito di parte consista nel contentarsi del consenso di un piccolo gruppo. Sotto questo aspetto, devo ammettere che la mia analisi è non certo amara ma duramente realistica. In un pubblico, vi sono sempre alcuni che hanno sognato di creare, ma che non vi sono riusciti. E quando costoro han­ no scoperto il mezzo di innestarsi su una qualsiasi personalità creatrice, si trova sempre un nucleo di persone che la seguono, come una liberazione per il loro difetto di attività. Bisogna vedere le cose come sono: un’atti­ vità trova sempre un pubblico e ciascuno si dà un colpetto per provare a se stesso di avere ragione; e cosi nascono tutti i malintesi. Non appena un pubblico non è più in accordo con l’individuo che si presenta alla sua adorazione, compaiono immancabilmente fischi e rifiuti. Nella nostra concezione odierna, il pubblico viene per vedere quanto egli sia intelli­ gente e dotato. Andrà a sentire un grande virtuoso suonare una certa opera (naturalmente, generalizzo e semplifico molto, dato che per trova­ re la verità, occorre semplificare e deformare), che ha sentito infinite volte e che non sentirà assolutamente più, del resto, non appena sarà entrato un poco nel rito. In definitiva, il pubblico approva se stesso per essere venuto al concerto e l’applauso, fatte naturalmente le debite ecce­ zioni, viene il più delle volte da un’auto-approvazione. Approviamo noi stessi per ciò che intendiamo per cultura, che del resto è un riflesso personale. (Basti vedere, a esempio, quando valutiamo qualcuno. Nes­ suno sfugge a questo difetto, si dice: «È veramente intelligente, pensa come me»). Ci appaghiamo a nostra volta di questo riflesso che si ha quasi sempre. Quando si va a vedere qualcosa (e parlo di musica, di teatro, di cose d’arte o di opere letterarie), allora si ricerca questa appro­ vazione di sé. Occorre una grande volontà, una sorta di autocritica per­ manente, per dire: «No, non sono soddisfatto di questo, no, non sono soddisfatto di quello, voglio andare al di là di quanto ho appreso in questo momento». Dinanzi a questa specie di malessere che è il fenome­ no della musica in generale (non solo in Francia, ma in tutto il mondo, per quanto ho potuto osservare), si formano piccoli gruppi personali, estasiati in fondo dell’esperienza e che detestano gli altri, che vengono qui per appagarsi, e non lì perché non ne sono appagati. Si costituiscono così dei piccoli gruppi attorno a una persona o a un gruppo, ciascuno difende il proprio angolo e si considera, visto che la parola è di moda, come un «gruppuscolo». Qui sta veramente la morte della musica in generale o dell’espressione in genere. Come ho già detto, è sempre pos­ sibile soddisfare un piccolo nucleo di persone, o anche un grande gruppo di persone a seconda che si rinunzi più o meno, ma ciò che interessa, è appunto di far progredire l’espressione musicale fino al punto in cui

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diviene un mezzo di comunicazione generale, e non soltanto tra certi individui. Naturalmente — non faccio della demagogia - non voglio dire con questo che chi avrà subito trovato una comunicazione col pubblico reale avrà trovato una soluzione vera. Ma non è vero giacché, qui come altrove, vi sono tante false soluzioni. Ci si contenta a volte di soluzioni che sono parse evidenti perché sono state più facili, ma anche su questo punto vi sono molte critiche da muovere a se stessi e agli altri. Quando persino si organizza una serie di concerti di avanguardia (e qui vi parlo di un’esperienza che è durata quindici anni), a volte ci si diverte a farlo, dato che è divertente vedere le sollecitazioni che si possono suscitare. Era interessante vedere, appunto, dove si poteva arrivare. Volevo lascia­ re il pubblico giudicare di certe cose, e l’ho fatto in gran parte durante l’ultimo periodo della mia attività di direttore di concerti. A mio parere, era troppo semplice, una volta compiuta la sua educazione, avere un pubblico disciplinato e educato, cioè un pubblico che si annoia e non osa dirlo. Vi sono stati alcuni esperimenti che personalmente non approva­ vo poi tanto (non che non li approvassi dato che in fondo la parola «approvare» non ha alcun senso, ma non ero tanto d’accordo sul senso di questi esperimenti e sul loro valore), ma alla fine piuttosto che giudi­ care me stesso ho preferito offrire un oggetto da giudicare, e non offrirlo come una sorta di ortodossia. Qui sta il difetto di tutte le manifestazioni di avanguardia da anni: a forza di avanguardia, si diviene senza render­ sene conto retroguardia, e si resta sempre la guardia. Ebbene! questo è impossibile! Per me, l’organizzazione di un’espressione, in generale, de­ ve avere due significati. Vi sono i periodi, anche recenti, che sono fissati, o le opere, anche recenti, che sono assolutamente indiscutibili. Qui sta la parte «museo», quella che si andrà a vedere come modelli da imitare, modelli determinati sui quali non si ha più niente da dire. Un albero è un albero, lo si guarda, e, quando lo si guarda, non si può dire che è una banderuola! È questa dunque una parte dell’attività che si deve avere, ma, d’altro canto, si dovrebbe conservare il senso della sperimentazione e quello della comunicazione tra questi modelli che sono presenti e suscettibili di cambiare sempre il punto di vista e di luce, a seconda dell’intenzione che si può dar loro e della sperimentazione modello. Mi si consenta di tornare ora al fenomeno del compositore. Il compositore non è che l’immagine di ciascuno di noi. Nel pubblico, in ogni ascoltato­ re, vi è un creatore, un creatore che non chiede se non di esprimersi attraverso la personalità di un altro in quanto non ha avuto il dono di creare in proprio. Il compositore segue lo stesso procedimento di ciascu­ no di noi. Egli è sempre preso in questo dilemma e in questa dialettica: alcuni grandi modelli, e un futuro ignoto. Non può lanciarsi nell’ignoto.

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Quando si dice: «mi lancio nell’ignoto ignorando il passato», l’afferma­ zione è completamente falsa. Si potrebbe ignorare il passato se si fosse ad esempio eschimesi, e se si capitasse nel mezzo di una civiltà. Occorre­ rebbe, naturalmente, una certa dose di civiltà per potere partecipare ai nostri mezzi di espressione. Chiunque sia nato qui, chiunque abbia vis­ suto la nascita della propria espressione, della propria cultura, nei nostri ambienti, è completamente condizionato, e non potrà mai uscire da tutto questo. Potrà evadere, potrà trovare un mezzo per eludere, ma non potrà mai evitare il condizionamento di base. Quando lo evita e chiude gli occhi, adotta la politica dello struzzo: sfonda le porte aperte con la testa nella sabbia. La cosa mi sembra quanto mai ardua, ma insomma può riuscire malgrado tutto. Il composi­ tore si trova imprigionato esattamente nello stesso dilemma, preso in questo malessere dell’espressione, e nel modo più immediato. Quando si ordina un’opera a un autore, egli si domanda se deve inserirsi nel quadro esistente. Se con tanti musicisti, tante prove, potendo andare in una certa sala, sarà eseguito subito o, anche se difficile, troverà una radio tedesca disposta a farlo, visto che fanno tante prove. In quel momento, vi è sempre un modo di concepire l’opera in funzione di ciò che ci è offerto. In effetti, vi sono certe opere che sono state scritte per mezzi più difficili, per combinazioni rare, per sale che non erano sale convenziona­ li: sono state suonate una o due volte. Ma ci si accorge (ritorno all’argo­ mento di poco fa), facendo il bilancio di un simile concerto, che si deve pagare il falegname e i macchinisti, molto più caro che i musicisti. Ci si accorge che i due terzi del danaro sono andati ai falegnami, e un terzo ai musicisti, che è cosa comunque abbastanza buffa quando si allestisce un’opera musicale! Il compositore è dunque veramente posto dal punto di vista pratico sino alla concezione in una sorta di dilemma e di falso problema che cosi può riassumersi: «Devo proprio far ricorso a un effettivo compromesso o devo muovermi senza compromessi, ma rischia­ re di non essere eseguito se non da una piccola formazione e sentito solo da un piccolo gruppo». Evidentemente, è facilissimo installare uno o più altoparlanti, ed è possibile far suonare un gruppo di musicisti, da cinque a dieci; ma è sin troppo manifesto che la nostra epoca non tornerà mai alla formazione della musica barocca. In primo luogo, le nostre sale sono più grandi, in secondo luogo, lo spirito si è evoluto in maniera affatto diversa. Dopo un periodo di restringimento, torniamo adesso — e il fatto è abbastanza curioso - alle grandi masse. Possiamo notarlo fra i compositori, non parlo di me, ma di quelli che sono fra i venti e i venticinque anni, che hanno di nuovo un amore per la grande formazio­ ne, per ciò che fa rumore, volume. Questo pone loro problemi di scrittu­

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ra e di concezione che non si erano mai posti prima. Come possono risolvere questo contrasto fra dialettiche opposte, a esempio tra le forze del passato e la forza che li spinge verso nuove scoperte, verso un avve­ nire che non possono completamente prevedere, ma di cui avvertono il senso? Al giorno d’oggi, occorre ritrovare i problemi estetici e i proble­ mi tecnici in correlazione gli uni con gli altri, che era cosa sinora diffici­ lissima da attuare. Può tutto questo essere opera di un solo individuo? Non credo! Credo che il lessico musicale tenda ad appropriarsi di nuovi campi, ma sono convinto che non si riesce a farlo se non con un lavoro comune, con un lavoro per gruppi, e mentre l’invenzione non potrà mai essere messa in comune, è cosa puramente individuale, i dati di lavoro, invece, possono essere messi in comune. Perché abbiamo visto sinora fallire tutti i laboratori di musica elettronica? Ma proprio perché non vi era alcun coordinamento tra gli scienziati, gli inventori e i musicisti. Perché la musica possa trovare un linguaggio nuovo, è indispensabile che non sia soltanto il fatto di musicisti, in quanto essi hanno una cultura musicale che non gli consente di manovrare praticamente o facilmente certi concetti nuovi, pure estremamente utili e, quando li utilizzano, lo fanno in modo estremamente ingenuo, stabilendo rapporti tra la scienza e la musica che sono perlomeno poco convincenti. In effetti, nessun lavoro serio è stato fatto sinora sui rapporti tra la musica in quanto scienza e la musica in quanto espressione. Gli ultimi studi in forma coerente risalgono al xvm secolo e, da allora, non sono stati tentati che studi di acustica, ma niente di nuovo, nessuno studio fondamentale di base sui rapporti strutturali che possono esistere tra il linguaggio mu­ sicale e il linguaggio scientifico, su cui tuttavia la musica si fonda. Penso che tutte le attuali scoperte, sia nel linguaggio strumentale che in quello elettro-acustico, si potranno fare soltanto su una base molto più larga. A tal fine, occorrerà una specie di scuola, di laboratorio generale, che possa includere entro diverse discipline ricercatori interessati a questi proble­ mi e capaci di trovar loro una soluzione particolare per la musica, con­ sentendo magari cosi di evitare tanti malintesi. Qualcuno potrà obiettare (ed è un rimprovero corrente del resto) che la musica non è una scienza. Essa è in realtà un mezzo di espressione puramente individuale, che rispecchia un’espressione interiore e non semplicemente, è vero, una formalizzazione delle strutture matematiche. Ma come ho detto, da quasi due secoli il linguaggio non viene sottoposto a analisi di sorta, e sarebbe tempo di farlo. In che modo il musicista può trarre vantaggio da tutto questo? Io credo che egli si ponga attualmente molti problemi relativi al linguaggio e all’espressione. Sul linguaggio, spenderò alcune parole senza spingermi troppo in problemi tecnici. Pren­

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diamo in esame tre campi: primo, lo strumento e il mondo strumentale le cui possibilità reali sono divenute molto limitate; secondo, il mondo degli intervalli, che appunto dipende dagli strumenti, è divenuto anche estremamente limitato e non corrisponde assolutamente più alle aspira­ zioni dei musicisti; terzo, il mondo elettro-acustico è un mondo comple­ tamente nuovo. Un mondo che è stato, se è lecito dirlo, investito da una certa poetica del bric-à-brac, una poetica ereditata, derivata dal surrea­ lismo che è ormai morto, dato che in musica tutto accade sempre con cinquantanni di ritardo. Questi problemi non potranno essere risolti, a mio modo di vedere, se non coordinandoli tra loro. Si prenda, a esempio, il problema degli intervalli e degli strumenti, il primo che ci si pone dinanzi. Certo è che la musica strumentale è stata sempre legata a degli intervalli che hanno fatto il proprio tempo (cioè ai semitoni temperati). Ci pensiamo, è vero, ma non si riesce a trovare il mezzo per uscirne, e non si sa assolutamente come risolvere il problema degli intervalli diver­ si dal semitono. Voi sapete — e suppongo che ognuno lo sappia — che vi sono culture musicali, come la cultura indiana a esempio, che utilizzano intervalli diversi dal semitono e hanno una certa cultura strumentale, un certo modo di concepire lo strumento. In Africa, vi sono suoni puri e suoni impuri, mentre tutta la nostra civiltà occidentale tende al contrario verso una standardizzazione dell’intervallo, del suono. Si è voluto il suono puro, cioè il suono che può essere teoricamente confuso con un altro. Se, a esempio, impiego un re o un mi, sarà un re o un mi in assoluto e non un re relativo o un mi relativo. E non avrà caratteristiche indivi­ duali. Cosi tutto il lessico occidentale della musica ha teso verso una concezione astratta dell’intervallo e deU’altezza staccata dallo strumen­ to. Il suono è così divenuto una materia indipendente dalla propria esistenza, con un’esistenza completamente indipendente dalla propria es­ senza. Beninteso, tutte le nostre esecuzioni strumentali sono state re­ golate a questo fine, secondo questa concezione. Gli strumenti a fiato o a corde, gli strumenti come il piano, sono strumenti che tendono a produr­ re un determinato suono, un suono astratto, un suono destinato ad essere impiegato in quanto astrazione, in quanto concetto astratto. Altre civiltà partono invece da scale individualizzanti, vale a dire che uno strumento avrà, per esempio, su un’altezza, una certa coloritura, e su un’altra, un’altra coloritura. Tutto è individualizzato. Mi si può obietta­ re, naturalmente (e mi preme dirlo subito dato che sono del tutto co­ sciente di questa obiezione) che lo sforzo della musica occidentale e il suo progresso (la sua evoluzione, in ogni caso) sono stati appunto di concepire una dimensione astratta, una dimensione che possa farla pro­ gredire in assoluto. Ogni individualismo correla, in effetti, le cose a un

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dato fenomeno impedendo loro di evolversi, o comunque di prendere una certa distanza, una certa dimensione in rapporto alla propria origine. È un fatto che questa dimensione astratta dell’evoluzione musicale ha dato vita in Europa al fenomeno seguente: gli strumenti si sono sclerotizzati, hanno dato vita anche a certe entità, che si considerano come modelli riusciti della nostra civiltà, modelli immutabili, in quanto «per­ fetti». A questo si aggiunga che gli allievi del Conservatorio imparano a suonare uno strumento in un certo modo e per tutta la vita. Come dire che se a un certo momento, a un dato stadio dell’evoluzione musicale, si dà questa educazione musicale, è più che certo che cosi si condiziona l’educazione, e in pratica la vita musicale per i prossimi quarantanni. E questo è terribilmente spaventoso in quanto comporta mutamenti a lun­ ghissima scadenza. Del resto si può vedere (da un fenomeno contiguo e minore ma in fondo altamente indicativo) nel mondo della musica legge­ ra, che non si è a corto di esperienze, in quanto non vi sono tradizioni, né repertori e si fa a meno del galateo, della buona creanza degli strumenti. Qui, gli strumenti si evolvono: per fare un esempio, le chitarre elettriche non esistevano dieci anni fa, e ora se ne costruiscono su richiesta, e anche lo strumento ha subito un’evoluzione; cosi sono sorti nuovi strumenti come i vibrafoni che già si sono a loro volta evoluti. Tutti gli strumen­ ti che fanno parte dell’orchestra di musica leggera si sono evoluti in quan­ to manca quella sorta di ingombro costituito dal repertorio, il quale fa si che gli strumenti siano per sempre fossilizzati e ritenuti come perfetti rispetto a una certa tradizione. Nel campo della musica leggera, non importa assolutamente niente avere orchestre composte e a un determi­ nato fine e di tanti musicisti, ma si fa musica secondo i mezzi a disposi­ zione, vale a dire che si prende quanto è necessario volta per volta. Non esiste un quadro determinato, un quadro astratto e perfetto. Oggigior­ no, nella musica classica, ove una certa nozione perfettamente astratta offre un quadro musicale con le relative risorse, ora, nel nostro mondo attuale, e in un campo molto più difficile di quello della musica leggera (che, come ho detto, è contiguo), sarebbe urgente rivedere la nostra educazione strumentale e la nostra invenzione di strumenti. È evidente che il violino accordato in quinte non si addice più a una musica che si fa beffe completamente delle quinte e se ne infischia anche altamente del semitono. È più che evidente che occorrerebbe regolare gli strumenti e inventarne di nuovi che diano le scale che immaginiamo per una certa opera. In effetto, il fine del compositore è quello di inventare per ogni opera un universo determinato, in aperta contraddizione con l’universo predeterminato con cui egli ha a che fare quando si rivolge a certi stru­ menti. Lo sviluppo attuale della percussione è un falso problema: è la

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fuga, la fuga in avanti, giacché in questo caso non si perviene a cogliere il problema e ci si rivolge a strumenti privi di storie e di Storia. Sono strumenti che non hanno tradizione, in sostanza repertorio, che non sono in fondo legati ad alcuna estetica determinata, e hanno un fascino esotico in quanto si avvicinano più all’Asia o meglio all’Africa che non alla nostra cultura europea. E proprio qui a mio parere si ha il tipo del falso problema, e il tipo del problema eluso. Con le opere a percussione, di cui si è eccessivamente abusato, davanti a che cosa finiamo per ritro­ varci? Dinanzi a descrizioni molto sommarie di scale che non sono accet­ tate. Se suoniamo, a esempio, cinque tam-tam, non si può tornare a cinque dita sul piano, e se abbiamo un piano di cinque note, si direbbe comunque che siamo dei pianisti alquanto elementari. Il problema eluso non è risolto solo perché si impiegano strumenti rari. È giusto impiegarli ma non in modo semplicistico e rozzo. È indispensabile che il composito­ re guardi più lontano, e in questo non può essere aiutato se non da un tecnico. Si esamini adesso un problema diverso da quello della percus­ sione, per esempio il problema dell’arpa. Si tratta di uno strumento a sette corde, che è veramente fatto per il diatonismo e, in certo modo, esprime la musica diatonica. Lo strumento ha alcune possibilità, se ne possono accordare le corde secondo la scala che si vuole e uscire dal diatonismo, ma non si può uscire dal numero 7: si hanno in effetti sette corde che possono raddoppiarsi o, se le si accorda senza tener conto in un certo senso delle ottave, si ottiene uno strumento estremamente irrazio­ nale. Si ricade cosi nel problema dell’individualità degli strumenti che non è estensibile a un fenomeno astratto. In effetto, non si deve ricadere nell’individualità dello strumento, cosi come l’ha conosciuta la nostra cultura e come l’hanno conosciuta altre culture, in quanto essa non riesce più a far progredire la cultura a questo livello. Occorre trovare soluzioni generali, con l’aiuto di tecnici che abbiano studiato questi problemi complessi secondo le direttive dei compositori. Parlo dell’arpa (e come si sa, si è detto dell’arpa che gli arpisti passano metà del loro tempo ad accordare e l’altra metà a suonare su un’arpa scordata), dato che è pressappoco quello che accade per tutti gli strumenti. Se si vogliono suonare degli intervalli che siano rigorosi, bisogna trovare un altro modo di accordarli, che non dipenda dall’isometria, ma piuttosto da un con­ trollo elettronico, per non essere più vittime dell’accordatore che strim­ pella per tre ore e alla fine ottiene risultati disastrosi. Bisogna trovare altri mezzi di concepire gli strumenti, di accordarli e quindi di impostarli secondo la concezione musicale di oggi. Ho parlato degli strumenti, ma potrei del resto parlare del modo di concepire gli insiemi strumentali. Non c’è ragione, in effetti, di avere

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nell’orchestra diciotto violini e un timpano, si arriva all’assurdo che se un’opera utilizza a esempio tre violini e sei clarinetti, e si pagano quattro clarinetti supplementari, mandando a spasso sette violini perché non hanno niente da fare, vuol dire che questa organizzazione è compietamente fossilizzata e assurda rispetto alle ricerche che si fanno attualmen­ te nei diversi gruppi. Tale ricerca è nondimeno fondamentale se si vuole riorganizzare l’universo sonoro e l’educazione di un violinista; si può ottenere, per esempio, da un solista che egli faccia dei quarti di tono, ma ciò richiederà da parte sua un grosso sforzo di controllo, di rieducazione manuale e mentale. Tutto questo non si può fare da un giorno all’altro, poiché un apprendimento del genere, richiede tempi lunghi. I musicisti sono in pratica degli operai superspecializzati e se vengono avviati ad altra specializzazione, questa richiede tempo e studio. La ricerca di nuovi mezzi di espressione, se non altro nel campo squisitamente pratico, è una riflessione collettiva e non individuale. Infatti, come è noto, la musica scritta esiste in quanto modello, ma non in quanto fatto. Credo da par­ te mia che non vi sia semplicemente uno sforzo del creatore che scrive ciò che deve scrivere, e riceve più tardi, se capita, ciò che deve sentire, ma che vi sia un effetto di rispecchiamento tra ciò che crea e ciò che ascolta. Quello che ascolta può suggerirgli quello che deve creare, e nello stesso modo quello che crea può suggerirgli in altre parole qualcosa di nuovo. Un continuo contatto, uno scambio continuo può svolgersi tra lui e l’interprete, e non bisogna presentarlo neppure come il maestro che inventa tutto. Se ho parlato dei problemi strumentali, è perché sono probabilmente i più accessibili, perché molti di noi hanno certamente lavorato su uno strumento, e hanno un’idea della musica strumentale. Per questo, si comprende immediatamente quanto questi problemi si pongano con in­ tensità. Noi lavoriamo ancora con mezzi quanto mai arretrati, e non troviamo, attualmente, la maniera di porvi rimedio perché in linea di massima, non ci siamo posti correttamente davanti al problema, come invece facciamo tutti i giorni in maniera pragmatica. È a questo punto che deve intervenire la nostra riflessione per cambiare questo punto di vista. Peraltro, si è molto parlato di musica elettro-acustica e di musica elettronica. Che è effettivamente un fenomeno attuale estremamente im­ portante, anche se lo si correla sempre, e automaticamente, a un feno­ meno di civiltà. Si dice: «Ci sono i cosmonauti, i razzi spaziali, le auto­ strade (alla fine si batte sempre lo stesso chiodo) e deve esserci una musica elettronica». Ma dopotutto, il problema è molto più importante in quanto se non si trattasse che di unire i cosmonauti o i razzi ai problemi della musica elettronica, la cosa sarebbe abbastanza facile da

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fare! Si sentono tutti i giorni, nei film avveniristici, alcuni glissando elettronici che bastano a indicare l’immersione verso il futuro. Il che significa che è un servizio abbastanza stupido e troppo facile per essere accettato come tale. I mezzi elettronici e elettro-acustici sono destinati ad allargare i mezzi strumentali. Non vi è, al momento, opposizione tra il futuro e il passato, tra naturale e artificiale, giacché, credo di averlo già detto dianzi, il linguaggio musicale o qualsiasi altro è per me una con­ venzione. E una convenzione comporta mezzi artificiali. Se vi fosse in effetti una verità naturalmente data, questa verità sarebbe stata trovata per la musica, e sarebbe la stessa per tutte le culture, avrebbe dato gli stessi intervalli e gli stessi mezzi di ricerca. Di fatto, ogni cultura ha tratto dai mezzi naturali che le erano dati, un certo numero di mezzi artificiali disposti in vista di soddisfare a un intento estetico che soddi­ sfa, che è in relazione con una determinata cultura. Si spiega cosi perché non si può parlare semplicemente dell’evoluzione di una tecnica che ha permesso a esempio, di trarre dal corpo vibrante le possibili sonorità, e che consente adesso di ricavare da un fenomeno vibratorio elettrico altre sonorità, altre fonti di comunicazione, altre fonti sonore. Non è quindi per me un problema di futuro, e insisto molto su questo punto, visto che in generale si avverte una sorta di separazione tra il passato e il futuro, allorché si utilizza sia lo strumento, o i mezzi elettro-acustici. Di fatto, è solo un allargamento possibile al giorno d’oggi, di una convenzione arti­ stica o, se volete, artificiale (i due aggettivi si equivalgono), per allargare il campo di indagine, e quello espressivo di chi crea oggetti musicali. Credo che qui si siano innestati tutti i malintesi. La macchina è una cosa quanto mai affascinante per chi la tratta. A volte si manipola piu facilmente, altre con più difficoltà rispetto allo strumento o al corpo sonoro detto naturale. Ci si appaga più facilmente delle soluzioni offerte dalla macchina in quanto esse hanno un certo sapore indiretto, scien­ tifico e ortodosso definitivo, che a prima vista risulta soddisfacente, ma basta guardarlo due volte per capire che viene a porsi esattamente lo stesso problema fondamentale alla base del materiale elettronico e elet­ tro-acustico, quello del mezzo: Forse che un suono o un oggetto sonoro, si dice un corpo sonoro, come si dice un corpo celeste, è adattabile a un pensiero musicale capace di obbedire a una dialettica musicale? Qui sta il nocciolo della questione. Se si va al fondo delle cose, non solo non vi è differenza nell’ordine di grandezza del mezzo di indagine, né nel campo dell’indagine, ma non vi è neppure una differenza fondamentale nel modo di considerare l’oggetto musicale e il suo impiego. Ciò che in effetti è mancato, e a volte terribilmente, alle ricerche elettroniche e elettro-acustiche, è il punto di vista estetico. Non queffo della composi­

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zione, in quanto è una seconda tappa, ma quello del materiale. Come dicevo, quando si abusa della percussione, si commette un errore di giudizio estetico nella valutazione del materiale, come si commette un errore di giudizio estetico quando si usano i mezzi elettro-acustici o i mezzi elettronici in modo non razionale. Fa piacere trovare dei suoni, delle sonorità, si ha un certo piacere nel trasformarli in qualcosa di inaudito (nel senso più letterale del termine), in un modo che non si può ottenere per esempio da uno strumento o da una combinazione strumentale, che non è possibile se non attraverso la trasformazione elettro-acustica della stessa fonte. Su questo punto sono tutti d’accordo: il mezzo ci offre veramente delle sonorità nuove. Ma occorre poi che esse siano suscettibili di una dialettica della costruzione e della composizione musicale! Anche nella musica strumentale, si ha un’opposizione tra l’individualità del corpo sonoro e la sua possibilità di essere usato in una composizione. La cosa sembra paradossale, ma voglio presentare alcuni esempi concreti, al punto in cui siamo, nella composi­ zione si è sempre posti dinanzi al problema: dobbiamo singolarizzare le fonti sonore all’estremo e farne una campionatura di oggetti sonori, altamente individuati ma alla fine sempre riconoscibili, o non bisogna invece cercare oggetti sonori capaci di passare dall’uno all’altro e d’in­ tegrarsi in una composizione? È il problema che si incontra nella pittura, o nelle cose visive, audiovisive. Per le sculture mobili, si dice che esse ridaranno la stessa combinazione solo in capo a 130 giorni o a un anno. Non passeremo mai un anno a guardare che si producano i milioni di combinazioni prima di rivedere quella che abbiamo visto, dal momento che la nostra intuizione gioca d’anticipo per ricostituire il fenomeno, ana­ lizzarlo e ricostituire la famiglia di oggetti di cui disporremo quando ri­ guarderemo questa cosa. Per la musica tutto accade esattamente nello stesso modo: se vi sono degli oggetti seriati, non si ha bisogno di sentire tutte le combinazioni date da questa campionatura, in quanto le suppor­ remo, senza un eccessivo sforzo di immaginazione. È facile supporre che il riconoscimento funzioni con un’intensità estrema a quel punto, se que­ sti oggetti sono altamente singolarizzati, si riconoscono, si è sensibilizza­ ti come per i disegni di volti. Se si vedono trenta persone per un tempo di cinque minuti, se ne possono riconoscere i volti; allo stesso modo, si possono riconoscere gli oggetti musicali in quanto estremamente singo­ larizzati e senza facoltà di ricoprire più ruoli, se mi è consentito il pa­ ragone. Ciò m’induce a parlarvi anche di un altro grande problema di cui si è molto discusso a proposito della musica, la musica aleatoria. Un’espres­ sione che si ritrova spessissimo, più o meno a ragion veduta, visto che di

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aleatorio vi è ben poco. Si tratta di un caso diretto, un caso controllato, un caso volutamente predeterminato; invece di avere per esempio una forma che va da A a B, si ha una forma che va da A a Z passando per una miriade di punti che possiamo scambiare, di cui possiamo modificare la struttura, mentre se andiamo da un punto a un altro, abbiamo un solo percorso, una superficie piana che ci è data e su questa superficie possia­ mo scegliere il nostro itinerario e costruire la nostra forma. Ma, di qui a vedere in questa utilizzazione il caso, è un non senso, un assurdo, dato che il caso, sia nel materiale che nella forma, ci dà quello che è in grado di dare, cioè una soluzione su dieci milioni che sia soddisfacente, cosa, questa, che non è dopotutto il fine della composizione. Che cosa accade per esempio quando si dànno agli strumentisti schemi Uberi? Anche in questo campo ho una grande esperienza: se gli si dànno schemi o disegni o anche alcune note da arrangiare, si può essere certi che essi ricadranno sempre negli stereotipi, con temporanei ma comunque stereotipi. Se lo strumentista fosse l’inventore di forme, di masse di materia prima musi­ cale, sarebbe compositore. Non essendolo, è strumentista per capacità e possibilità. Se dunque non gli si dànno sufficienti informazioni per suo­ nare un’opera, a che cosa può egli ricorrere? A un’informazione prece­ dente, vale a dire a ciò che ha già suonato. Siccome non può suonare do, re, mi, fa, sol, la, si, do, suona qualcosa di moderno che ha già suonato, e applica schemi precisi a quelli più vaghi che gli sono forniti. E anche qui si ha una fuga in avanti, un falso problema. Quando ci si pone il proble­ ma della musica detta casuale, il materiale non può essere dato a caso, poiché, in quel momento, non si può tentare la sorte di un esito, di un incontro interessante su io milioni. Tutti noi siamo stati in una stazione o in una sala di attesa. Il brusio delle conversazioni ci appare quanto mai interessante e eccitante per dieci minuti, ma dopo vorremmo che il volume si abbassasse, o che le persone parlassero a voce più alta in un angolo. Se si chiudono gli occhi, mentre si assiste a una corsa di tori, si sente soltanto il rumore della folla e si possono scoprire tutti i movimen­ ti della corsa unicamente dal rumore prodotto dalla gente. Questo ci dà la dimensione necessaria per vedere l’opera, le sue autentiche contingen­ ze. Si può essere in un angolo e cogliere una semplice conversazione, probabilmente interessante, un fenomeno che non ha esclusivamente bisogno di senso artistico, ma un fenomeno organizzato. In questo la musica del nostro tempo è interessante, in quanto non è per l’appunto una forma determinata, non obbliga l’ascoltatore a scegliere, ma obbliga viceversa a scegliere voi stessi la forma che volete darle. Ma questo entro un certo limite; quando si dice in effetti che l’opera ha determinate strutture, e può essere suonata cento volte, accade la stessa cosa che

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avviene con gli oggetti meccanici di cui ho parlato poc’anzi. La soluzione non sarà mai la stessa, è una soluzione plurale, una soluzione multipla, nella quale occorre scoprire la direzione. In realtà, la struttura stessa non è modificabile tanto da non essere riconoscibile, e ciò spiega perché sorgono giustamente molti malintesi al riguardo della musica aleatoria, come nei confronti della musica elettronica e della musica strumentale. Il fatto è che si pongono i problemi in un modo troppo semplice, e si dividono in categorie eccessivamente ingenue. Certo, per parte mia, con­ sidero sempre l’opera come essenzialmente ambigua. Forse è una que­ stione di temperamento o una questione di carattere, ma quando vedo un quadro che liquido in pochi secondi, il quadro non mi piace. Quando ho ascoltato un’opera una sola volta e provoca in me uno shock, se la seconda volta ho ancora uno shock, e la terza ho capito tutto, l’opera non m’interessa. Mi interessa solo in quanto shock e per l’effetto che può provocare su di me per un certo tempo. L’opera che m’interessa (ed è qui che la forma odierna può darle un massimo di efficacia) è quella che ha una dose profonda di ambiguità, che le consente di avere più soluzioni e significati. In una grande opera classica, a esempio, questa ambiguità profonda esiste, quantunque limitata dal percorso esatto, da dati strut­ turali fondamentali, ma nel suo significato profondo, essa ha comunque delle ambiguità, con un significato assai maggiore di quanto non avesse una prima audizione o una prima esecuzione. Nella musica e nei mezzi espressivi odierni, si ha invece una possibilità di approfondire tale ambi­ guità, caricando l’opera di significati molteplici che si possono scoprire autonomamente. È a questo punto che il pubblico, la persona che reagi­ sce nei confronti di un’opera, diviene attivo. E può esprimere la propria scelta davanti all’opera che gli si propone. Ora si può capire perché la forma attuale del concerto sia in netta contraddizione con la musica odierna. In effetti, questa musica necessita di una partecipazione intel­ ligente del pubblico che fa l’opera nello stesso tempo dell’autore. Non si può comprendere l’opera se non si passa attraverso di essa, se non si segue questo procedimento in modo totale, attivo e costruttivo; ora, la disposizione attuale della sala di concerto, quella della vita musicale, implica, come ho già detto, un’adorazione, un oggetto che si propone alla nostra contemplazione, o nel peggiore dei casi alla nostra ruminazione. Tutti, oggi, credo che siano coscienti di questo, tutti i compositori che partecipano alla vita musicale. E credo che le soluzioni non potrebbero nascere se non da un lavoro collettivo in cui ciascuno abbia il proprio senso. Capisco perfettamente che il musicista non può risolvere da solo questi problemi scientifici, economici e sociologici. Solo egli sarà in gra­ do di dare la direzione a tale scoperta. È indispensabile che egli sia

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all’origine della nuova ricerca, ma i problemi tra passato e futuro, mezzo strumentale e mezzo elettronico, teatro o non teatro, concerto o non concerto, sono veramente tutti generi di falsi problemi. Si tratta di fughe, di difetti di sintesi, di cui non si può accusare nessuno, solo che non si sa ancora realizzare una sintesi, in quanto dopo essere passati una ventina d’anni or sono per una strettoia in cui si potevano cogliere abbastanza facilmente tutti i problemi, si è tornati di nuovo a quei concetti che è assai arduo riunire in una sola persona. Ecco perché una riflessione veramente severa e scevra di ogni compiacimento di fronte alle possibili­ tà della musica, tale poi da rifiutarsi rigorosamente a tutti i sotterfugi che vengono dalle soluzioni già pronte o da quelle superficiali, mi sembra cosa indispensabile. Per questo ritengo che sia venuto il momento di preparare questa sintesi e di far ricorso a altri metodi, a altri mezzi di analisi, a altri mezzi di comunicazione. Solo cosi la musica potrà progredire.

57. Il modello del Bauhaus ". Stiamo sperimentando l’enorme differenza che passa tra la vita musi­ cale concepita sul piano dello «smercio dei capolavori» e la vita musicale legata al destino dei compositori di oggi. La divergenza è tale che ora la composizione si scontra, mi sembra, con il problema della trasmissione, non solo per i difetti propri del concerto come istituzione, ma per l’as­ senza di organismi finalizzati alla ricerca o sulla trasformazione degli strumenti o sulla riflessione intorno al comporre, sullo sviluppo delle tecniche elettroniche, sui rapporti sociologici impliciti nel concerto. Sia­ mo condannati a navigare sempre nelle stesse acque, finché un certo numero di problemi fondamentali non saranno studiati nell’ambito di un istituto specializzato. Suppongo che tutti conoscano la storia del Bauhaus, la straordinaria istituzione la cui vita fu non poco contratta dall’avvento del nazismo. Il Bauhaus ha avuto un immenso potere di rinnovamento in tutti i campi dell’espressione visiva, a cominciare, si capisce, dalla pittura, dato che due pittori d’eccezione, Klee e Kandinskij, vi avevano per qualche tem­ po legato il proprio destino, per non parlare poi di molti altri, anch’essi di altissima qualità; ma nel Bauhaus avevano posto anche architettura, arti grafiche, tecnica del vetro e arredamento. Oggi, noi viviamo ancora, * Da un’intervista con Maryvonne Kendergi (19 marzo 1970) pubblicata col titolo Pierre Bou­ lez interrogato, in «Cahiers Canadiens de Musique», primavera-estate 1971, pp. 31-48. Riscritta dal­ l’autore nel 1980.

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segnatamente nel campo delle arti grafiche, su alcune idee esplorate sistematicamente da un esiguo gruppo di persone in un istituto in cui la ricerca aveva valore per se stessa. Oggi, intanto, l’educazione si rivolge separatamente allo strumenti­ sta e al compositore, e termina per giunta — col rilascio o meno del diploma - senza preparare veramente il musicista all’attuale situazione della musica. Egli si vede costretto a cavarsela con i propri mezzi; e sia come strumentista che come compositore, viene gettato in un mondo scarsamente in grado di evolversi poiché si ritiene che gli studi lo abbia­ no dotato di un patrimonio inalienabile per tutta la vita. Fenomeno irrimediabilmente falso, specie nella nostra epoca in cui si deve costan­ temente rimettere in questione il proprio sapere, altrimenti la divergen­ za, o almeno la mancanza di coincidenza tra quanto esige la situazione presente e il contributo che si è in grado di dare, non può che accentuarsi ancora di più, portando con sé malintesi, ritardi, inerzie, paralisi, tutte cose che si è indotti a constatare ogni giorno nel funzionamento della vita musicale. Credo dunque che un progetto essenziale sarebbe quello di fondare un istituto in cui tutti questi problemi potessero essere ana­ lizzati e studiati, in cui ognuno avesse il tempo di progettare le soluzioni, anche le più radicali, con la massima disponibilità. Faccio alcuni esempi. Noi disponiamo in prevalenza di strumenti che sono stati concepiti e costruiti in funzione della musica del xvni e del xix secolo. Il mondo strumentale è fermo anzitutto perché vi è un pro­ blema economico: il mercato è molto ristretto, e quindi conservatore, e vive su certe tradizioni legate esclusivamente, per dir cosi, al mobile Luigi XV! Senza dubbio, bisognerebbe interessare liutai e costruttori di strumenti in generale a riflettere sullo stato attuale, e indurli a prendere in esame un certo numero di modificazioni, anzi a inventare soluzioni nuove adatte alla tecnica odierna nel campo delle scale non meno che in quello della sonorità. Siamo tanto legati al semitono che le disponibilità sono scarse e artigianali per quanto concerne scale più fini e variabili. Sarebbe appunto compito di un tale istituto considerare questo proble­ ma sotto un aspetto disinteressato, nella fase in cui l’economia non prevale sulla necessità intellettuale. Altro esempio: la sociologia del concerto. Sarebbe possibile intra­ prendere uno studio sui diversi tipi di pubblico, sul modo di organizzare secondo criteri nuovi lo spazio propriamente detto della salarvale a dire la relazione opera-musicista-pubblico, sul ruolo del concerto nella cultu­ ra attuale e quindi sui mezzi per raggiungere i vari pubblici. Nei confron­ ti di questi problemi puramente materiali di trasmissione della musica, vi sarebbe molto da immaginare e ancor più da fare. Un simile istituto si

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rivelerebbe di una grande necessità perché rappresenterebbe il punto di congiunzione tra la cellula chiusa dell’educazione e il mondo aperto della vita musicale, tra il punto in cui l’educazione ci ha lasciati e la mobilità, la versatilità, dell’esperienza musicale. Ecco perché ritengo che la solu­ zione attuale non passa soltanto attraverso la riforma delle orchestre o lo statuto degli enti radiofonici, attraverso l’accettazione o il rifiuto del sistema delle sovvenzioni statali, ma passa anche attraverso la creazione e la promozione di istituti di ricerca indipendenti, da un punto di vista economico, dalle grandi società che costringono la musica ad accasarsi nella consuetudine. Penso altresì che la composizione susciti oggigiorno alcuni problemi che non possono essere risolti se non in collaborazione. Nel campo elet­ tronico, l’estetica della scelta degli oggetti sonori, le relazioni tra la tecnica e l’invenzione, la dipendenza reciproca della struttura e dell’au­ tomazione, la trasmissione dell’opera, nessun compositore potrà farvi fronte isolatamente in modo soddisfacente senza l’aiuto di esperti e di collaboratori. Certo, vi saranno sempre individui più brillanti di altri, tuttavia anche queste personalità dovranno piegarsi alla disciplina di un certo lavoro collettivo, e credo che si vada verso un cambiamento radica­ le a cui conviene prepararsi per gli anni futuri. In un tale contesto, occorrerebbe anche pensare a un possibile rap­ porto con le ditte che fabbricano materiale elettronico, senza di cui qualsiasi istituto di ricerca avrà una gravissima difficoltà a portare avanti lavori specializzati, in mancanza di forniture appropriate. Per finire, nonostante tutte le relazioni e ramificazioni che comporte­ rebbe, un istituto di ricerca siffatto dovrebbe godere a un tempo di una totale autonomia e di una grande flessibilità nella sua struttura interna. Senza doveri immediati, esso potrebbe dar prova di un reale disinteresse e perseguire fini che nessun ente troppo impegnato «nel secolo» sarebbe in grado di proporsi.

LA PRATICA, QUOTIDIANA E DIVERSA.

58. Orchestra, sala, repertorio, pubblico .*

Viviamo in un’epoca di mutamento in cui la funzione tradizionale dell’orchestra è ampiamente superata. L’orchestra di oggi porta ancora Dall’intervista con Maryvonne Kendergi, Pierre Boulez interrogalo cit.

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l’impronta della società del xix secolo, erede a sua volta della tradizione delle corti principesche. Oggi, dobbiamo confrontarci con problemi di polivalenza, E credo che occorra orientarsi verso una nozione di gruppo polimorfo; all’inter­ no di questo vasto gruppo di musicisti, bisognerebbe creare la possibilità di far fronte a tutti i repertori: solisti, musica da camera, orchestra normale, grande formazione, gruppi vocali di varie dimensioni. Di qui, l’«orchestra», in realtà, la cooperazione tra interpreti - ritroverà una funzione sociologica in quanto coprirà tutti i settori; inoltre, essa dovrà acquistare una certa mobilità e potersi spostare. Per il momento, le orchestre, come ragni al centro di una tela, aspettano il cliente e gli si gettano addosso se questi si lascia catturare. D’accordo con il proverbio: «Se Maometto non va alla montagna, la montagna andrà da Maometto», sono convinto che al giorno d’oggi deve spostarsi la montagna. So fin troppo bene che per questo la fede è indispensabile... Nondimeno, siamo giunti a un punto in cui tutto deve essere ripensato in funzione di strut­ ture mobili. Penso anche che l’architettura delle sale sia un fenomeno incredibile di conservatorismo. Nell’Europa distrutta dalla guerra, nulla è parso più urgente che ricostruire le sale secondo le antiche norme; certo, con meno oro e velluti, anche se compensato, cemento e nylon non hanno quasi mutato la decorazione, vuoi di sale di concerto, vuoi d’opera o di teatro. Può succedere che si costruisca un «contenitore» eccezionale, ma in tal caso viene scarsamente o per nulla utilizzato. Uno degli esempi più noti è il teatro di Mannheim, costruito verso la metà degli anni ’50 secondo le idee di Piscator. La scena, mobile, era in grado di assumere la configura­ zione di un teatro all’italiana, di assumere il volto elisabettiano, di tra­ sformarsi in arena centrale. Tali potenzialità furono adoperate per un periodo brevissimo al momento dell’apertura dèi teatro; ma in seguito, è prevalsa la convenzione corrente visto che era troppo difficile e oneroso effettuare rapidamente i cambiamenti d’impianto. Ancora un esempio: a Grenoble è stato costruito uno spazio di notevole sfarzo ove anelli con­ centrici possono girare simultaneamente in direzioni e a velocità diverse; a mio parere, fu uno spettatore a trarne le conclusioni quando, dopo una serie di movimenti girevoli, in un momento di pausa, uno studente esclamò, contraffacendo una voce infantile: «Mamma, un altro giro! » La riflessione non poteva essere più giusta nell’atto in cui la sala diveniva un giocattolo: essa infatti ci rende prigionieri di un oggetto funzionante unicamente per la propria meraviglia; e mentre lo spettacolo diviene ac­ cessorio, tutta l’attenzione viene requisita dal funzionamento efficace della meccanica. Non si può costruire una sala come un oggetto eccen­

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trico che imponga al fruitore di piegarsi a una forma comicamente co­ strittiva. Ecco dunque un problema per l’avvenire: creare sale mobili che non siano vincolative per eccesso di dirigismo nell’uso della mobi­ lità. E l’organizzazione del repertorio? La parola va intesa per me anzitut­ to non nel senso quanto mai restrittivo del repertorio convenzionale, ma in tutta l’estensione del suo significato. In primo luogo, occorre differen­ ziare, nella misura del possibile, i campi di attività. Al momento, siamo prigionieri di una struttura oltremodo rigida. La concezione dei concerti nel nostro tempo somiglia pressappoco allo spuntino preconfezionato: un pezzo di pane, una fetta di prosciutto, un gelato, il tutto sotto vuoto sterilizzato - la vostra porzione di sogno, pronta da esporto. Sono con­ vinto che si possa migliorare questa situazione, se non altro ispirandosi alla pittura e alla scultura. Certi musei sono destinati alla conservazione delle opere «storiche»; altri sono specializzati nell’arte moderna; infine, le gallerie seguono la creazione contemporanea, organizzando mostre di gruppo, mostre personali o retrospettive. Questo tipo di organizzazione dimostra che anche nel campo musica­ le si potrebbe procedere all’allestimento di retrospettive, prospettive e prospezioni. Bisogna poter dare a tutti la libertà di scegliere. Nel mondo contemporaneo, vi è un blocco dovuto all’organizzazione del tempo di prova, troppo limitato perché inflessibile e disadatto; se si ha da presen­ tare un pezzo complesso e diffìcile, tale da richiedere un massimo di tempo di prova, si è costretti a inserirlo tra pezzi appartenenti al reper­ torio più sicuro, che andrà letto con la massima fretta principalmente nella prova generale, per essere sicuri che tutti siano perfettamente d’ac­ cordo sulle convenzioni. Gli ascoltatori interessati in primo luogo al nuovo pezzo devono ancora una volta ascoltare il repertorio che è loro sin troppo familiare; e quanto agli altri, quelli che vengono per passare un’ora di beata digestione, saranno bruscamente disturbati nei loro so­ gni limitati da questo orrore che saranno forzati a mandar giù di colpo. Si crede di essere stati zelanti nei confronti della musica contemporanea ma si finisce di fatto per farle un pessimo servizio. Lo snobismo può avere poi una parte nella curiosità nei confronti dell’opera nuova? Si troveranno sempre in una grande città duecento convinti: questo è relativamente facile da trovare, troppo facile addirit­ tura quando si tratti di avvenimenti isolati, con un odore di scandalo finale. L’importante, partendo da questo nucleo centrale, è di creare un pubblico sempre più vasto e accrescere di continuo l’interesse. Stimolare la curiosità non basta, bisogna anche saperla mantenere! Occorre semi­

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nare di continuo; su quindici grani che marciranno, ne resterà uno che darà il suo frutto. Seminate i quindici grani: siete qui per questo! Ciò che mi irrita a volte quando mi trovo davanti a una forma di ostinato ed esclusivo radicamento nel repertorio tradizionale, è la ma­ niera con cui questi sedicenti appassionati considerano i capolavori mu­ sicali. Ognuno, senza dubbio, può ascoltarli nel modo che gli conviene e desidera. Ma sono convinto che al termine di un’inchiesta un poco ap­ profondita, si scoprirebbe che le delizie di un certo tipo di ascolto sono legate alle sterili nostalgie di una giovinezza lontana e definitivamente perduta. Alla radice di questa stagnazione volontaria, esiste una sorta di processo fisiologico abbastanza facile da analizzare. In linea di massima, tra i sedici e i vent’anni, si aprono gli occhi sul mondo e, per quanto riguarda una certa categoria sociale, si scopre la vita artistica: teatro, concerto, opera, grandi mostre, si prende insomma coscienza del cosid­ detto, abusivamente e in termini possessivi, proprio «patrimonio»! Al tempo stesso, gli ormoni lavorano, con le conseguenze ben note ad ogni adolescente! È un periodo, questo, della vita che, visto retrospettiva­ mente, appare felice. Per associazione, quasi per un riflesso condiziona­ to, quando ascoltano la musica che hanno scoperta e amata verso l’età dei vent’anni, questi ascoltatori ricordano il verde tempo in cui i loro ormoni si manifestavano in modo più attivo. Guai a quel pubblico che sonnecchia e viene solo per rimuginare un periodo in cui sonnecchiava meno! Non è proprio cosi che io considero la musica del cosiddetto «patri­ monio»! Di fronte all’opera a noi più familiare, bisogna andare al di là del ricordo e immaginare quale potenziale di novità essa possieda anco­ ra. Che cosa vi è di più freddo, di più piatto, di più disgustoso che considerare i capolavori come blocchi inerti, fissi nell’avvizzimento del passato! Come interprete, quello che m’interessa, mi attrae e addirittura mi affascina, è l’incandescenza dei capolavori sempre pronta ad essere ravvivata. Certe partiture non trovano in me alcuna risonanza: allora non le dirigo; ma se la partitura risveglia un’eco e una coincidenza con le mie preoccupazioni, allora la dirigo senza esitare; e non ve dubbio che ciò consentirà di comunicare agli altri quanto sono capace di scoprire in essa. Quando ho accettato di andare a Bayreuth per dirigere il Parsifal, la decisione non ha mancato di sorprendere i meno prevenuti: mi sarei perduto in quella roccaforte del germanesimo! Andando incontro a Wie­ land Wagner, mi sembrava utile realizzare per la musica ciò che era riuscito nella presentazione scenica: sbarazzare la partitura di quel ritua­ le fastoso e mortuario di cui si può arrivare a sovraccaricarlo. Davanti a

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un quadro visto attraverso uno strato di sporco bituminoso, era di buon gusto estasiarsi a proposito del «meraviglioso chiaroscuro»! Ma una volta che il quadro venga ripulito e restituito al suo stato originario, che meraviglia dover constatare la vivacità, o meglio la violenza dei colori originali, e dover rivedere completamente Videa che se ne aveva. Lo stesso accade per la musica: l’essenziale, quando si guarda faccia a faccia il capolavoro, è di far scomparire tutto quell’orribile strato di sporco a cui ci si adatta troppo facilmente.

59. Per destare la curiosità della nuova * musica .

Dall’esterno, si immagina con difficoltà l’esatto ruolo del direttore artistico, non se ne vedono molto chiaramente le competenze: le sue funzioni sembrano misteriose in quanto combinano l’onnipotenza del dittatore alla leggerezza, o meglio alla «volubilità dell’artista». Egli è un interprete, e fa alcune scelte che impegnano in lui piu che l’interprete. Non è amministratore, ma le sue iniziative implicano un senso certo dell’amministrazione. Quando i risultati sono buoni, li si accetta piu o meno come naturali, come il risultato di una buona gestione generale. Ma quando le decisioni non hanno le conseguenze felici che si poteva sperare, allora vengono direttamente rapportate alla personalità di colui che le provoca. Sicché il direttore artistico a volte potrebbe far pensare a quello che si diceva un tempo della musica dei film: va bene quando non si fa notare! L’anonimo dovrebbe dunque essere il fine di un direttore artistico? Non lo credo, anche - e soprattutto - dopo una prima stagione con la New York Philarmonic. Non credo neppure di svelare un gran segreto dicendo che, se non può coprirsi dietro l’anonimo, un direttore artistico non ha il monopolio personale delle decisioni prese durante un’intera stagione, che non sono poche: da un semplice cambiamento d’ordine nel programma, fino alla scelta di un nuovo elemento particolarmente impor­ tante dell’orchestra. Certo, nel caso di un cambiamento d’ordine nel programma, basterà un semplice scambio di vedute col soprintendente e con gli interpreti interessati. Ma quando si tratta di assumere unità di personale, è più che evidente — come mi faceva notare un musicista — che la scelta del direttore implica una prospettiva a lungo termine che supera il tempo del suo mandato personale, senza contare che egli pone in gioco fattori umani della massima importanza. Parimenti quando il direttore Pubblicato in inglese sul «New York Times», 6 agosto 1972. Inedito in francese.

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deve decidere i programmi, deve far fronte a tre ordini di misure: i) il sistema di ingaggio che deve ripartire in modo equilibrato le diverse opere e i vari interpreti; 2) l’organizzazione delle prove e dei concerti, sistema deciso per contratto che implica per obbligo metodi di lavoro ben precisi; 3) il rapporto tra le personalità invitate e le opere loro proposte, e l’inserimento dei loro desideri e delle loro preferenze in un quadro valido per tutta la stagione. Quindi, sembra molto difficile im­ maginare il direttore artistico che prende le proprie decisioni con cini­ smo, nella provocazione e nell’intolleranza. Anche se lo volesse, non potrebbe agire cosi. E del resto, perché dovrebbe? Più che una manife­ stazione di furfanteria personale, converrebbe vedere nelle sue direttive una preoccupazione fondamentale: quella di preservare la vita e il mo­ vimento in mezzo a costrizioni che, quantunque necessarie, tendono a una stabilità eccessiva, quasi all’asfissia. È facile rendersene conto in tutti i campi e non soltanto nella musica: la nostra epoca ci spinge a una nuova valutazione di tutti i mezzi espres­ sivi. Mutano i nostri concetti filosofici; muta la nostra percezione dell’u­ niverso. Vi sarebbe dunque un campo preservato dove si ignora tutto di questi formidabili mutamenti? Sembra a volte di crederlo, forse per nostalgia, per paura, per disperazione, spesso piace cullarsi nell’illusione che Parte sarà preservata dal progresso, e in una visione di catastrofe globale, si spera di salvare un angolo di paradiso intoccabile e imprendi­ bile. Una reazione del genere è un riflesso normale dinanzi all’ignoto persino gli avventurieri più decisi hanno avuto i loro momenti di panico o di riflessione; e tuttavia sono andati avanti, mossi da una forza più potente della paura: la curiosità. Perché nel nostro campo non suscitare questa curiosità? E come suscitarla? Possiamo sperare che allora l’intolleranza scompaia e si affer­ mi una volontà comune di scoprire una nuova forma di vita musicale, e di parteciparvi ancora più intensamente di prima? Dinanzi a questa prospettiva ideale, vanno risolti numerosi dilemmi e superate non poche difficoltà. Perché non affrontarli direttamente per considerare l’imme­ diato e il possibile? È naturale che io voglia iniziare con le reazioni dell’ascoltatore. Nelle situazioni difficili, esse sono sempre state comprese tra questi due estre­ mi: il rifiuto immediato o il dubbio positivo. Chi non ricorda la frase di quel personaggio ormai senescente del mondo parigino alla prima del Sacre du printemps'. «è la prima volta da sessantanni che osano burlarsi di me»? Ma non tutti ricordano forse una nota di Delacroix nel suo diario. Avendo ascoltato, intorno agli anni i860, un’esecuzione di uno degli ultimi quartetti di Beethoven, il pittore scriveva pressappoco: «è

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l’opera di un pazzo o di un genio; nel dubbio, scommetto per il genio». Evidentemente, non si può fornire ogni settimana l’occasione di scom­ mettere per il genio o di sentirsi deriso da un nuovo capolavoro! Solo che si dovrebbe contare di più sul dubbio che non sull’intolleranza se l’opera è una di quelle in cui i frutti non superano le promesse dei fiori, senza voler parlare di genio... Sono state già proposte molte soluzioni per cercare di ammorbidire il pubblico nei confronti dei compositori del nostro secolo. La più semplice può formularsi, invero, nel modo più semplice: dare della buona musica contemporanea, e il pubblico seguirà. Ma non è certo che questa visione idillica sia molto fondata storicamen­ te; se si possono trovare alcuni esempi in suo favore, se ne contano poi molti di più che la contraddicono. E poi, forse che il comportamento del pubblico nei confronti delle opere contemporanee va considerato a par­ te? O non rientra invece in un comportamento generale nei confronti della musica? L’amore della musica, la predilezione per certe opere, il piacere che se ne prova non sono in discussione: e non penso che si debba mai esigere il masochismo come ascesi indispensabile per accedere ai capolavori futuri, passati o presenti. E credo poi, a dispetto delle idee che spesso mi vengono attribuite, che il piacere musicale cominci e fini­ sca con il piacere del suono per se stesso, con la sua ricchezza e la sua qualità immediate. Tra tale principio e fine, trovano posto molte altre sensazioni che rendono l’esito finale dell’esperienza musicale più interes­ sante che non il suo inizio, più completa e più perfetta. È dunque questo che conta: la costanza nella crescita musicale che ci fa sentire le opere nella loro pienezza. Ed è per questo, anche, che mi sembra importante dissipare l’ambiguità che si è introdotta nella nostra vita musicale allor­ ché si parla del pubblico. O si pensa a un pubblico stabile ma conserva­ tore, o a un pubblico avventuroso ma effimero. E non mancano le ragioni per stabilire tali categorie. In effetto senza parlare di un certo settore che si culla negli stessi ricordi, esiste una certa parte del pubblico che ha ac­ quisito progressivamente una profonda cultura musicale, e le cui cono­ scenze si fondano per così dire sul suo buon diritto. Vi sono, in compen­ so, spiriti più avventurosi per i quali la musica in quanto tale ha meno importanza, ma che colgono rapidi le corrispondenze tra la composizione e la pittura o la letteratura; essi sono più aperti nel rapporto immediato, ma il loro interesse meno esclusivo li spinge anche su altri territori. Ora, giungere alla sintesi di questi due tipi di pubblico, non è precisamente il nostro fine? Ma come arrivarci? La soluzione dipende probabilmente da una forte diversità nei modi della prassi musicale. Bisognerebbe allar­ gare sempre più il panorama proposto durante una stagione e rendere ciascuno assolutamente consapevole che la musica non si riassume in

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alcuni capolavori progressivamente irrigiditi da un’interpretazione co­ struita, inesorabile, su certi riferimenti fissi. Nel corso di un’inchiesta, Alban Berg dava questa risposta non priva di spirito: suonare la musica nuova come se fosse classica, suonare la musica classica come se fosse nuova. Ciò risponde al bisogno profondo di non vedere la musica assolutamente e definitivamente fermata in una serie di «quadri viventi» (ma perché poi chiamarli «viventi»?); e impo­ ne anche di ripensare che cosa s’intende in genere per tradizione. Quanto piu si prende conoscenza dei problemi interpretativi, tanto più si ha consapevolezza della fragilità dei modelli proposti, dipendenti come so­ no, in sostanza, da un’epoca. La cosa è evidente per il teatro in cui l’aspetto visivo è cosi strettamente legato al presente che sopravvive di rado a un breve spazio di anni. Basta sfogliare gli album di teatro o di balletto per accorgersi di tutto ciò che vi è di caduco nell’invenzione visiva di una certa epoca — nell’interpretazione visiva di un’opera. Allo stesso modo, possiamo ora fare il confronto delle registrazioni su un arco di circa cinquantanni e vedere con estrema chiarezza quanto le esecu­ zioni variino non soltanto a seconda dei temperamenti, ma anche in misura maggiore secondo dei vari periodi. E non parlo soltanto di certi progressi della musicologia che ci hanno consentito in alcuni casi una maggiore autenticità. Mi riferisco piuttosto a un’attenzione generalmen­ te assunta nei confronti di un compositore perché un certo aspetto della sua opera coincideva maggiormente col gusto dell’epoca. Cosi si è sentito Bach intensamente «drammatizzato», e poi ridotto a una leggerezza al­ quanto secca; e Mozart passare, invece, dal gentile al tragico. Gli esem­ pi abbondano e smentiscono ad ogni momento l’esistenza di una tra­ dizione monolitica che dovrebbe rendere conto dell’unico volto eterno di ogni capolavoro. E del resto, questi capolavori ci interesserebbero ancora se non fossero i veicoli della nostra soggettività? Essi sopravvi­ vono proprio in virtù di questa facoltà di adattamento: sufficientemente ampi, come la nuvola che vede Amieto, per dare infiniti pretesti alla nostra immaginazione. Nel campo dell’interpretazione, dunque, convie­ ne osservare un alto livello tecnico e al tempo stesso non temere le iniziative e le prospettive nuove, anche se possono sconcertarci perché non vi abbiamo mai pensato prima. E forse qui la frase di Alban Berg assume tutto il proprio significato. È certo che la frequentazione simul­ tanea delle opere dette «classiche» e delle opere contemporanee ci co­ stringe a non reagire da specialisti — come interpreti e come ascoltatori. Tra i due campi si instaura uno scambio fecondo, e molte reticenze scomparirebbero se si stabilisse in modo sistematico una corrente tra la scoperta delle opere nuove e la rivisitazione di quelle passate.

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Indubbiamente, non minori sono le reticenze fra gli interpreti che nel pubblico nei confronti delle opere nuove e anche nei confronti di un’in­ terpretazione «non tradizionale». È probabile che la reticenza degli interpreti preordini quella del pubblico. In ogni caso, essa ha, mi sembra, la stessa origine: il medesimo timore dell’ignoto, la medesima paura di perdere ciò che si è già da tempo acquisito. Numerosi sono gli strumen­ tisti, e ancor più numerosi i cantanti che si lamentano che la musica con temporanea possa distruggere la loro sonorità o la loro voce. È vero che le opere nuove esigono molto dall’interprete, ma esigono - nel mi­ gliore dei casi — molto di più che non le opere accettate? Sotto il riguar­ do del virtuosismo, le difficoltà non sono affatto maggiori, poiché se l’ingegnosità dei compositori non ha limiti, le facoltà umane di cui egli deve tener conto sono fisiologicamente limitate. Si fa quindi un diverso uso delle attitudini di un interprete, ma poi non le si estende di fatto oltre certe norme. Si tratta quindi meno di una difficoltà «disumana» che di un approccio diverso. Tutta la storia è qui a rassicurarci al propo­ sito. Le opere che sembrava impossibile suonare hanno avuto bisogno di un periodo di adattamento, poi sono apparse naturali fino al giorno in cui nuove opere sono venute a rimettere ancora una volta in questione ciò che era stato tramandato. Non solo cantanti e interpreti non hanno niente da perdere da una costante esplorazione delle possibilità dell’in­ terprete, ma sono in grado, al contrario, di arricchire il proprio campo mentre se si ripetono, e anche se perfezionano l’approccio, restringono il proprio potenziale, in quanto certe possibilità si atrofizzano come mu­ scoli che si lasciano inattivi. Ma che parte hanno i compositori in tutto questo? Si è molto parlato di pubblico e d’interpreti, ma si sono dimenticati i dimenticati: i compo­ sitori. Essi sono un problema per tutti e per se stessi; sono trascurati, ma allo stesso tempo coloro che li trascurano mostrano spesso cattiva co­ scienza - che si manifesta aggressivamente col rifiuto, o timidamente con giustificazioni furtive. E certo finché sono vivi, non si fa loro buona accoglienza; e persino quando sono morti, ci serviamo spesso di loro a nostro beneficio personale. Forse che il compositore va dunque riabilita­ to nella nostra vita musicale? Oppure è la stessa composizione a dover essere riabilitata? Per la verità, rigide come sono, le nostre istituzioni non dànno molte possibilità né al compositore né alla composizione. Un formato prestabilito, uno schema di prove intangibile, condizioni di lavoro spesso affrettate, tutto questo non incoraggia davvero relazioni piacevoli e distese tra il compositore e i suoi interpreti eventuali, per non dire poi dell’indifferenza o dell’ostilità che lo attendono solo che si scontri con le abitudini di pensiero, di esecuzione, di ascolto, in una

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parola con tutte le norme su cui poggia e opera il professionismo. Il compositore si sente respinto non solo nella sua persona, ma nella sua funzione in quanto quest’ultima è cosi manifestamente «inutile». Egli tende perciò a rifiutare a sua volta un mondo che non vuole saperne di lui, vivendo in circuito chiuso, affidandosi esclusivamente a organismi in cui può trovare una comprensione più immediata: e cosi si amplia ancora la distanza delle posizioni da una parte e dall’altra. Dinanzi a una situa­ zione accettata con rassegnazione o con rabbia ormai da molti anni, bisogna allora abbandonare ogni speranza e lasciare ai diversi organismi la loro specializzazione? Puntare sulla sola buona volontà non può risol­ vere il problema, come ancor meno può risolverlo una separazione asso­ luta dei «generi» musicali. Per contro, sembra che tutte le difficoltà potranno avviarsi a soluzio­ ne non appena si siano inquadrati i rapporti tra compositore, interprete e pubblico all’interno di un’istituzione più agile, più libera — meno sog­ getta a costrizioni formali vincolanti. Ma come spesso accade, se il prin­ cipio è semplice, la realizzazione lo è molto meno. Ed è senza dubbio il mutamento di concezione a porre il maggior numero di problemi. Un’e­ voluzione nella mentalità si porta dietro automaticamente una revisione istituzionale. Il passaggio da una tappa all’altra esige tempi di adatta­ mento che possono sembrarci lunghi, ma il processo diviene allora irre­ versibile. Insomma, ciò che noi cerchiamo, idealmente, è un modo più differenziato di raggiungere pubblici diversi in contesti variati; ciò a cui tendiamo è di uscire da una standardizzazione sterile che impone al presente, o meglio al futuro, norme adatte al passato; ciò che desideria­ mo, è l’avvento della creatività a tutti i livelli della vita musicale. Che l’evoluzione sia lenta ma ineluttabile, è cosa che si percepisce subito non appena si consulta un archivio. Ma anziché consentire che questa evoluzione si produca passivamente, quasi per negligenza o di­ menticanza, occorre invece, parteciparvi con piena consapevolezza. Oc­ corre in primo luogo allargare il nostro orizzonte nel campo del noto: vedere le opere, e persino i capolavori, nella loro mobilità; pensare più spesso a ciò che aprono che non a ciò che chiudono; scoprire intorno a un compositore, anche il più accettato, un punto di vista particolarmente attuale. In questo ascolto attivo, entra di certo più vita, più gioia ed eccitazione che in un assorbimento passivo automatico. Per di più, l’a­ scolto attivo, la reale partecipazione, ove si tratti di un interprete, ci porta a una maggiore curiosità verso il futuro. Se intendiamo le opere del passato come una manifestazione permanente dell’umana inquietu­ dine a progredire, come una volontà costante di superamento e di sco­ perta, tanto più allora si attenua la nostra intolleranza nei confronti delle

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opere contemporanee, nei confronti di tutto ciò che fa si che anche la nostra epoca sia un momento importante della musica.

60. Che c’è di nuovo? .* È sufficiente il posto assegnato nella nostra vita musicale alla produ­ zione con temporanea? Può essere paragonato al posto che occupano nel teatro la creazione di opere nuove, e nella vita delle gallerie le mostre spesso rinnovate? Dalla sua parte, il teatro non è costretto a tener conto di una macchina pesante, costosa e soggetta a diverse regolamentazioni restrittive: a livello teatrale, la sperimentazione può assumere un carat­ tere spontaneo, senza dover passare attraverso la fase dell’organizzazio­ ne. A sua volta, la pittura, la scultura o più in generale ogni mezzo di espressione plastica, creata e accolta individualmente, non esige neppure una messa in opera di rilievo; per giunta, l’interesse che può apportare la speculazione sul prodotto finito facilita grandemente lo scambio e addi­ rittura lo provoca. Lo stesso non può dirsi per la musica che - salvo eccezioni elettroniche - non può essere presentata in modo cosi libero e indipendente. Lungi dall’essere un oggetto di speculazione, la musica ormai da tempo esige impegni finanziari difficili da affrontare: se all’in­ terno di un gruppo ristretto si può fare assegnamento sulla buona volon­ tà, e ritrovare così l’atmosfera e la libertà del gruppo teatrale, lo stesso non può farsi per le grandi formazioni il cui apparato necessita a sua volta di un’organizzazione non poco complessa, per tacere del teatro musicale che moltiplica considerevolmente la dimensione e la difficoltà di questi problemi. Occorre far fronte a una situazione difficile, invero, non però insor­ montabile. Che sia difficile, è certo. Di tutti gli ambienti, l’ambiente musicale - in genere: parlo tanto degli interpreti quanto del pubblico - è quello che si presta più facilmente ai vantaggi visibili della convenzione. Poiché la musica sembra ed è un fenomeno principalmente irrazionale, la comunicazione musicale ignora la logica verbale, la partitura utilizza segni criptici che pochissimi sono in grado di leggere, e la pratica musica­ le diviene sempre più un campo ristretto, non è difficile comprendere perché la grande maggioranza degli ascoltatori si abbandona alle delizie di una convenzione via via appresa, che non si pensa di allargare né tanto meno di superare. Si direbbe che avendo raggiunto un certo stadio della * Pubblicato in inglese in Celebration of Contemporary Music, programma di una settimana di musica contemporanea alla Julliard School of Music di New York (.5-13 marzo 1976). Inedito in francese.

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comprensione musicale, determinato dall’educazione, lo sforzo per supe­ rare tale stadio appare troppo grande rispetto al cammino compiuto, e al compenso della scoperta. Si preferisce allora ignorare ciò che accade di attuale, e anche di meno recente, isolandosi ostinatamente nell’illusione di un’età d’oro di cui si rimpiangono amaramente i prestigi e l’agio mentre agio e prestigio non sono, in ogni caso, che illusioni retrospet­ tive. Ciò detto, e qualsiasi cosa si possa pensare di un atteggiamento molto diffuso, la risposta peggiore sarebbe quella di voler suonare gli artisti maledetti, e di creare ad hoc un ghetto sperimentale che finirebbe per essere una parodia dei circuiti generali della distribuzione musicale, pur restringendolo a un pubblico sicuro e già convinto. Per essere degno d’interesse, a questo piccolo mondo volontariamente chiuso manca l’es­ senziale, quanto a dire, il confronto. Voluto, provocato, accettato, il confronto è l’elemento indispensabile che dà alla creazione la sua ragion d’essere essenziale. Lungi dal rassegnarsi a certe regole del gioco sin troppo facili da osservare - ognuno per sé, nella propria sfera d’influen­ za, e dio musica per tutti - occorre agire il più direttamente possibile per trasformare le regole di un gioco che sono divenute a volte, da una parte e dall’altra, le convenzioni di un imbroglio permanente. Ciascuno vi perderà in sicurezza ciò che avrà guadagnato in avventura. Che la nostra società sia liberale, è un fatto noto e proclamato da tutti — in genere per rallegrarsene... quantunque vi siano delle eccezioni, il liberalismo degli uni non coincide fatalmente con il liberalismo degli altri! La nostra società tollera dunque le attività più avventurose, perlomeno sul piano artistico, giacché in questo campo la sovversione è facilmente circoscrit­ ta... Ecco perché, anche se la si considera con più sorpresa che stima, la nostra società musicale a dir tutto, come i re di una volta, considera di buon animo il fatto di avere i propri buffoni: essi possono coprire questo ruolo d’eccezione e avere la propria libertà di linguaggio purché appunto i rapporti siano definiti da un codice silenzioso ma rigido. Non s’imma­ gina il buffone prendere il potere di sé! A ognuno i propri attributi, e il governo sarà ben guardato: a te le follie dell’audacia, a me il potere artistico reale. Considerata in questi termini, la vita musicale, la creazio­ ne musicale stessa sarebbero uno scacco umiliante, in quanto stabilireb­ bero in linea di massima la mancanza di validità di ogni esperienza nuova. Ma dobbiamo evitare questo stato d’animo, e porvi rimedio ren­ dendo gli organismi più stabili responsabili sia della musica contempo­ ranea sia dell’eredità culturale di cui manifestamente hanno l’onere. Ma allora, si può dire, è come volere a forza rendere concentrici cerchi che non potranno mai esserlo, cerchi d’interesse che sono per

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natura destinati a essere discentrati l’uno rispetto all’altro. Contro la tendenza a considerare l’universo musicale come un universo di cerchi concentrici, noi dobbiamo opporre una concezione sufficientemente agile e fluida che renda conto delle divergenze e organizzi la diversità. È certamente possibile integrare la musica attuale, la creazione contempo­ ranea in una vita musicale che non sia piu eccessivamente frammentata, ma per farlo in modo efficace occorre ripensare a fondo tutta l’istituzione musicale, non soltanto nel suo funzionamento, che sarebbe cosa relati­ vamente semplice, ma nella sua definizione, che lo è molto meno. Sino a poco tempo fa, bastava organizzare concerti in cui le opere proposte fossero contemporanee per immettere nella vita musicale l’aria della nostra epoca; lo schema stesso e la funzione del concerto non venivano rimessi in questione al modo stesso che in pittura l’appendere quadri alle pareti di una galleria poteva sembrare la sola forma di esposizione. Gli sviluppi piu recenti non consentono di adagiarsi su nozioni cosi confor­ tanti; molti fatti sinora accettati come naturali risultano oramai perenti, e si rimette in questione la natura stessa dell’opera, la sua presentazione, la forma della comunicazione col pubblico, l’approccio dell’interprete. Questa messa in questione è a volte disordinata, e i suoi fini sembrano incerti: ma non importa, ci si contenterà sempre meno di questa forma benigna della comunicazione che è il concerto cosi come ancora esiste, retaggio della fine del xix secolo. Perché non cercare di prevedere la situazione futura, e prevenire le divergenze sempre più forti che esistono tra intenzioni disruptive e una pratica che tende alla comoda pigrizia? Senza dubbio, le nostre intenzioni musicali mancano di flessibilità e impediscono con la loro rigida organizzazione ogni agilità nell’espansio­ ne del campo musicale che dovrebbe essere a un tempo differenziato e unico. Che cosa dovrebbe essere allora l’organizzazione musicale ideale per poter rendere conto della vita musicale d’oggi, e farle giustizia? Essa dovrebbe in primo luogo, mi sembra, considerare che tutte le funzioni musicali sono inseparabili e intercambiabili, che l’esecuzione non è che una parte — certo importante — di un campo in cui altri compiti sono fondamentali; esecuzione, ricerca, sperimentazione, animazione, pedago­ gia, sono infatti le varie attività che dovrebbero irradiarsi all’intorno di un centro principale. Un musicista dovrebbe poter passare dall’una al­ l’altra attività secondo le necessità del suo modo di procedere, e con un uso del tempo agile e variato. Personalmente, considero che i diversi rami dell’attività musicale debbano essere necessariamente praticati da ogni musicista desideroso di sfuggire alla routine e al vecchio, desideroso di evitare la pericolosa specializzazione coi limiti eccessivi che essa im­ pone all’individuo, desideroso infine di partecipare a una vera e propria

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cultura musicale, e non essere l’ingranaggio di un meccanismo che di culturale non porta che il nome. Il passaggio da un campo all’altro, per esempio dalla ricerca all’ese­ cuzione, dalla pedagogia all’animazione, avviene attualmente per il tra­ mite di individui isolati che dispensano molta energia nel passare da un’istituzione isolata a un’altra, che lottano contro alcuni impieghi del tempo destinati fatalmente a non coincidere, che passano per idealisti eccentrici in seno a organismi troppo strettamente definiti nei fini co­ me nei mezzi. Se l’educazione, a esempio, si difende ostinatamente, come accade il più delle volte, dalla ricerca e dalla sperimentazione, se ritiene di dover trasmettere un definitivo retaggio, se ritiene che il proprio fine è quello di formare una volta per tutte un individuo, e non di dargli il senso del precario e del transitorio, di quella forza insopprimibile che è l’evoluzione, allora l’educazione si allontana, a mio parere, dai fini fon­ damentali che deve avere di mira. Essa può persino divenire una controeducazione e produrre operai specializzati limitati nelle loro possibili­ tà, innegabilmente falsati nelle loro reazioni, tendenti a divenire essen­ zialmente improduttivi. Se, d’altra parte, ricerca e sperimentazione si svolgono in un territorio chiuso, se si rifiutano alla comunicazione che soltanto pedagogia e animazione possono suscitare, ricerca e sperimenta­ zione divengono allora terreni sterili, o se non proprio sterili, almeno eccessivamente protetti, giustificando con un vago sentimento di marti­ rio la loro assoluta necessità, mentre il confronto organizzato è senza ombra di dubbio la sola forma che beneficia di uno scambio vivente e realmente produttivo. Non rientra evidentemente nei limiti di un breve articolo il compito di descrivere nel particolare i procedimenti che potrebbero scatenare o far precipitare questa necessaria evoluzione. Diciamo che vi sono tutte le condizioni per questo, la più importante delle quali è l’incertezza che sta al fondo della maggior parte delle nostre odierne società: un’incertezza non sempre negativa, ma che anzi ci costringe a porre, individualmente e collettivamente, un certo numero di domande fondamentali sulla validi­ tà del nostro retaggio culturale, sulla fondatezza della nostra ideologia culturale. Non lamentiamoci di avere troppi problemi: che noia, se non li avessimo! Si parla spesso, troppo spesso, di crisi a proposito di situa­ zioni che sono semplici peripezie, necessarie e inevitabili. Vedere a più lungo termine lascia presumere che riteniamo la nostra situazione musi­ cale come l’anello di un’evoluzione; se ne liberiamo poi le prospettive passate, ciò a cui hanno portato, dobbiamo anche analizzarne lucidamen­ te gli aspetti caduchi e transitori; soltanto così saremo in grado di vedere emergere via via nuove linee di condotta, nuove linee di forza, desidera­

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te ardentemente dagli uni, timorosamente respinte dagli altri. La storia della musica, al pari di ogni altra, è fatta dei singoli e dai singoli: essa li esalta come li stritola - nella direzione di un futuro assoluto, anche se esso passa attraverso la nostra incertezza presente. Tanto vale cercare ostinatamente di non essere stritolati per niente\

PS. Mi accorgo di non aver parlato né dell’Europa né dell’America. Il fatto è che in questo campo attribuisco scarsa importanza, se cosi posso dire, alla geografia delle fonti. Non mi sognerò mai di negare che in certi periodi vi sia stato bisogno di solidarietà all’interno di un gruppo etnico, cosi come non mi verrebbe in mente di nascondere che a mio modo di vedere questo fenomeno è strettamente circoscritto da talune necessità locali, quanto mai provvisorie. Nella nostra epoca, e nell’am­ biente musicale propriamente detto, non ne vedo proprio l’urgenza. Le caratteristiche individuali, quale che sia la loro collocazione geografica, mi sembrano ben altrimenti importanti, e dovrei aggiungere che il co­ smopolitismo non è mai stato per me un peccato.

61. Liberare la musica .* Un vero creatore è sempre guidato consapevolmente o d’istinto da un’idea direttrice maggiore. Nel corso della sua vita, egli può dare l’im­ pressione di mutare, di esitare, o meglio di rinnegarsi. Ma, se si va al di là dell’apparenza, si ritrova la stessa motivazione, lo stesso tema che è proprio l’individuo. Quello che cerco da quando ho preso coscienza che esiste un muro - o piuttosto una serie di muri - tra il pubblico e il creatore di musica, è di far cadere quei muri. Le barriere sono per me la morte delle cose. Per essere efficaci, tutto dovrebbe compenetrarsi. Oggi, occorre giungere a una maggiore fluidità tra i diversi piani di azione, e ciò significa che le paratie stagne tra musica da camera, musica sinfonica, opera, concerto - paratie che determinano pubblici non meno rigidamente divisi - do­ vranno cadere se si vuole liberare la musica e renderla comunicabile al maggior numero di persone. Ciò che desidero, è cambiare lo spirito della gente. La quale ha gusti ereditati dal passato, cerca la musica esclusivamente nel museo, mentre è qui, nel nostro tempo, tutta viva. Il mio scopo è di promuovere il pensie­ ro contemporaneo in tutti i campi. Non si può vivere costantemente «Preuves», 20 trimestre 1972, pp. 133-38.

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all’ombra di questo albero gigantesco che è il passato. Oggi la gente ha come una reazione di difesa. È sempre più portata a preservare che a inventare, come i Romani del in e iv secolo. Finché una generazione non rimette in questione le realizzazioni del passato, perde ogni possibilità di realizzarsi a sua volta e di andare al fondo della propria vitalità. A volte si resta sorpresi da certe mie battute: ad esempio quando ho suggerito che non basta fornire la Gioconda di baffi, ma che occorre distruggerla in sé. Ciò significa semplicemente incitare il pubblico a diventare adulto, a tagliare una volta per tutte il cordone ombelicale. Ammiro creatori come Beethoven, Wagner, Debussy, Berlioz che, anzi­ ché obbedire alla tradizione, hanno saputo forzarla nella propria dire­ zione. Bisogna reintegrare l’irriverenza nell’arte musicale. Cerco nuove vie per promuovere nuove musiche, e questo spiega il mio comportamento da alcuni anni. Da quando ho accettato la direzione simultanea di due orchestre, l’Orchestra Filarmonica di New York e quella della Bbc, sono assalito da domande e da insinuazioni malevole: «Allora, lei ha smesso di comporre, ha ripiegato sulla direzione d’or­ chestra, e così si è fatto ricuperare à&W establishment? Valeva la pena di brandire per venticinque anni l’anatema e l’ascia per poi arrivare a un tale risultato? Dove è finito il Robespierre Boulez degli anni ’60? » E co­ sì via. Mi piace essere attaccato, è una cosa vivificante che obbliga a una verità elementare verso se stessi e gli altri. Di fatto, mi considero più un giardiniere che un boscaiolo e se maneggio l’ascia, lo faccio per sfrondare i rami secchi in modo da dare all’albero una possibilità supplementare di sopravvivenza. Diceva il Cristo: «Non vengo per rassicurare, ma per gettare lo scandalo». Ma io che non sono il Cristo, preferisco usare l’espressione di Brecht che si faceva beffe di coloro che assicurano al pubblico la sua razione gastronomica. Bisogna aver lottato per un quarto di secolo per comprendere che un inizio, anche modesto, di realizzazione è preferibile a un’intera vita con­ sacrata al rifiuto. Ho quarantasei anni, ed è venuto il momento in cui mi sono posto la domanda: «In che modo ho più possibilità di raggiungere i miei fini? Ho bisogno di comunicare e di agire, ma chi me ne darà i mezzi?» Bisognava continuare ad abbaiare nella notte, oppure era più efficace dare fiducia al mondo musicale, e consolidare la mia reputazione professionale così da poter avere l’opportunità di passare all’azione? Nel conflitto ben noto tra cambiare le cose in un futuro indefinito con una ri­ voluzione ipotetica, o cercare di modificarle immediatamente dall’interno agendo sulle organizzazioni esistenti, ho scelto la seconda soluzione. Ciò a cui aspiravo da molti anni e che ora mi viene offerto, è il ruolo

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di direttore artistico, molto più vasto di quello di direttore d’orchestra. Sono in grado di intaccare la rigidità della vita musicale e mi adopero ad accrescere il pubblico dei compositori con temporanei. Ma questo non può essere fatto da un giorno all’altro. Vi è tutto un clima «protezioni­ stico» che circonda la vita musicale, rimasta sinora un’attività di specia­ listi. Ci si è rivolti a me nella speranza che io potessi ripensare la linea generale. Per ciò che concerne la composizione dei programmi, ho mo­ dificato le abitudini su due punti capitali. Da una parte cerco di stimola­ re l’ascoltatore ad avere un punto di vista personale su un certo composi­ tore o su una certa opera: cosi, in occasione di un concerto, prendo come tema l’evoluzione di Stravinskij su un periodo di una decina di anni e giustappongo alcune opere che riassumono il meglio di quel periodo. L’ascoltatore riflette e si chiede: perché hanno messo quest’opera accan­ to a quella? E cosi, invece di infliggergli tutta una serie di partiture prive di un legame apparente, lo si inizia alle metamorfosi del compositore. Organizzo cosi ogni anno due retrospettive complete, come si fa per la pittura: una di un classico del xx secolo come Alban Berg, l’altra di un musicista del passato caduto in dimenticanza o poco eseguito, come Haydn, di cui ho dato a Londra un certo numero di opere trascurate come le messe e i melodrammi. Cerco anche di promuovere la musica da camera (col sottinteso di differenziare le attività dell’orchestra e di at­ trarre pubblici sinora separati), e per fare un esempio, a Londra e a New York, prima di un certo numero di concerti con grande orchestra, faccio suonare una mezz’ora di musica da camera in relazione al programma che sta per seguire. Un altro tentativo, è quello di andare incontro al pubblico nei diversi quartieri per non restare limitato alle sale convenzionali. A Londra, riunisco regolarmente mille persone nel Round House, frequentato dal­ l’avanguardia teatrale e da un pubblico di cinefili. È un pubblico più giovane di quello dei concerti. Come è noto, vi è uno iato tra Vestablishment e lo snobismo controcorrente degli intellettuali liberi che rifiu­ tano di frequentare i luoghi ufficiali ove l’aria è, come dicono, troppo pesante. Quésti ultimi amano molto di più il teatro e il cinema, e può sembrare eccitante cercare di convertirli. A New York, ho tentato a varie riprese la stessa avventura condu­ cendo i miei musicisti, senza uniforme di servizio, e alcuni direttori d’orchestra come Bruno Maderna e Michael Gielen a interpretare e spiegare la nuova musica ai giovani del Greenwich Village. Nel corso di questi incontri, durante i quali il pubblico si dispone liberamente attor­ no ai musicisti, le opere sono precedute da spiegazioni, spesso date dallo

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stesso compositore, vengono suonate in genere due volte e sono seguite da una discussione abbastanza animata: abbiamo presentato cosi George Crumb, Charles Wuorinen, Eric Salzman o Earle Brown. Così cerchiamo di vivificare un pubblico con un altro ristabilendo la circolazione tra i vari uditori. E in questo la televisione ci è di aiuto. La catena Bbc 2, a esempio, trasmette la domenica sera - alle 20,30 - programmi su Va­ rèse, Bartók, Berg e il sottoscritto, accompagnati da grafici animati con esempi sonori. Nel 1974, alla scadenza dei miei impegni attuali, spero che contatti del genere siano divenuti permanenti, che i musicisti del­ l’orchestra siano abituati a una maggiore varietà nel repertorio eseguito, che la musica contemporanea abbia conquistato un pubblico molto più largo, e che sia venuta meno la diffidenza tra professionisti e avanguar­ dia. Ed è vitale che ciò avvenga se si vuole che la musica sopravviva. Sento talvolta attaccare violentemente la musica contemporanea, co­ me se avesse fatto fiasco e si fosse cacciata in un vicolo cieco. «Anche lei ha smesso di comporre», mi si dice con rimprovero. Per quello che mi riguarda, la mia attività da una decina d’anni in Germania, a Cleveland e altrove non ha favorito la composizione perché ho viaggiato continuamente, ma in fondo ho scritto opere come Éclat (1965) e Romainesy che sono state suonate a Londra e a Parigi, e attualmente lavoro a una parti­ tura per cori e orchestra. No, la musica non è in una fase di smantellamen­ to. È la visione che si ha della musica che è cambiata con la comparsa di nuovi mezzi di espressione, come l’elettronica, per fare un esempio. Anzi, ci si trova dinanzi a un’eccessiva dovizia dovuta all’espansione delle tecniche e alla liberazione dalle tradizioni. Di qui l’esplosione del linguaggio che costringe il compositore a ripensare tutte le categorie, compresa la nozione stessa di concerto. Le barriere tra i generi sono cadute bruscamente, e l’irruzione di una libertà praticamente illimitata crea smarrimento nel compositore. Come in architettura, i nuovi materiali costringono a inventare nuo­ ve strutture. Agli inizi, il cemento aveva cominciato con l’imitare la pietra, poi il materiale è divenuto cosi forte che la tradizione si è rotta. In musica, il materiale costringerà a trovare un sistema di espressione che gli sia adeguato. Occorrerà modificare le sale (indispensabili a causa dell’eccitazione suscitata dallo spettacolo in diretta, sia allo stadio o al concerto), la disposizione dell’orchestra e degli ascoltatori. Prima di oggi, si contemplava un’opera musicale come un quadro. Ma ora, perché ogni opera benefici dell’individualità che richiede nella sua presentazio­ ne, occorre adottare metodi flessibili, comparabili alle strutture mobili usate nei musei moderni. Ci vuole una sala concepita certo in funzione del suono, ma con elementi adattabili.

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Se ho accettato in linea di massima la direzione del futuro centro di ricerca acustica del Beaubourg, a Parigi, è appunto per cercare di ripen­ sare totalmente la concezione dell’universo musicale contemporaneo. Contrariamente a quanto si crede, non ho prevenzioni né contro Parigi, né contro le possibilità di lavorare in Francia. Ma non posso sopportare la mediocrità dei funzionari incompetenti quanto limitati e lo stupido sperpero che ne deriva, accompagnato da un’euforia burlesca. Al Beaubourg, da qui a tre anni, il campo sperimentale ingloberà tutte le possibi­ lità dello strumentale e dell’elettronico. E cercheremo un raccordo per­ manente tra musicisti e scienziati, cosi come già avviene in certe univer­ sità americane. Il mio scopo è di creare un organismo sul modello degli istituti scientifici Max Planck in Germania, basati esclusivamente sul principio della ricerca. La crisi della musica contemporanea esiste, in quanto le idee sono più avanzate del materiale sonoro messo a disposizione. Da una parte oc­ corre esplorare l’infinito delle nuove risorse tecniche, dall’altra - grazie al moltiplicarsi dei contatti tra compositori e pubblico - affinare lo spiri­ to critico, creare interesse grazie alla libertà delle reazioni. Poiché l’in­ segnamento della musica è carente in tutti i paesi del mondo (non com­ porta alcun elemento vivo, alcun legame permanente tra la teoria e la pratica con temporanea o meno), si può venire in aiuto della creazione musicale solo se si riesce a stabilire una comunicazione durevole tra i compositori e il pubblico (la mancanza di comunicazione è per me un elemento di grande ostacolo). Si tratta di rivelare ai primi l’estensione delle nuove risorse sonore, al secondo il senso della sua responsabilità e il gusto di esercitarla. Credo intensamente al futuro di una forma di raccordo tra il visivo e l’auditivo, tra il teatro e la musica. Un giorno affermai che il mezzo più elegante per risolvere il problema delle opere liriche sarebbe stata la dinamite, e ancor oggi non ho difficoltà a ripeterlo. Se vi è stato un ristagno, è avvenuto proprio in questo campo! E tuttavia ho accettato di dirigere certe opere a determinate condizioni, Parsifal a Bayreuth, Pel­ léas a Londra, Wozzeck a Parigi e a Francoforte. Mi piace variare le attività, e ho io stesso scelto queste opere. Wozzeck è a mio parere l’ultima «opera lirica», che esalta e porta a compimento la forma tradi­ zionale. Parsifal mi ha dato la gioia di lavorare nel solo edificio al mondo in cui l’architettura sia stata intelligentemente ripensata, con Wieland Wagner, personaggio fondamentale che ha distrutto una mitologia effi­ mera. (Tra parentesi, non ho mai dichiarato che non avrei mai diretto Wagner. È una frase che mi si attribuisce a torto). Con Pelléas, mi è stata offerta l’occasione di rompere con l’interpre­

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tazione detta tradizionale, cosi irritante e leziosa. Ho avuto la possibilità di scritturare i cantanti, di discutere della presentazione scenica. La responsabilità di un direttore artistico oltrepassa la buca dell’orchestra. E poi ho un’idea affatto non ortodossa dei rapporti tra l’interprete e l’opera. La ricostituzione del testo è un’impostura. Ciò che importa, è quello che l’opera dice oggi, il suo rapporto col presente; senza tener conto dell’accumulo dei manierismi, io torno al testo alla luce del pre­ sente. Ritengo che certe compagnie di balletto siano oggi piu avanzate ri­ spetto all’opera lirica, in quanto vi è una minore rigidità gerarchica per soffocarle. Esse indicano certamente la via di uno spettacolo futuro. Se potessi collaborare con un Béjart e un Peter Brook a esempio, riusci­ remmo forse ad aprire la strada verso una nuova forma di spettacolo. Ma bisognerebbe cominciare con piccole unità, portare dieci musicisti e due cantanti in una rimessa, cercare un nuovo stile per una nuova forma musicale. La concezione del laboratorio è importante (come fa Brook con gli attori). Solo cosi si conosce il proprio strumento, il proprio mestiere, e solo dopo si può sbarcare con maggiori forze. Oggi, l’archi­ tettura dell’opera è un elemento paralizzante per le sue dimensioni, i mezzi richiesti, e una certa rigidezza. Siccome ciò che mi interessa in primo luogo è la comunicazione, ritengo che occorra sperimentarne i mezzi prima su piccola scala in quan­ to si va innegabilmente verso forme multifunzionali di musica, in cui la gerarchia degli usi è modificabile in ogni momento. Si destina un musi­ cista per un mese a un grande complesso, e il mese seguente a un’espe­ rienza di ricerca, poi per qualche settimana, attenderà a riqualificarsi, ecc. Solo grazie a un tale sforzo generale di mobilità si può attingere quella compenetrazione senza di cui nessuna efficacia è possibile.

Capitolo secondo Epitaffi, omaggi e iscrizioni

62. Wolfgang Steinecke * I.

L’incidente.

una figura si leva dietro un paravento di carta bianca, esita; rompe, infine, la carta del paravento scoppiando in un riso dolcissimo, poi, un dialogo s’intreccia fra ombre, al pari scosse dallo stesso riso dolcissimo:

«— ebbene! — eh si! — ah, questa poi! — proprio cosi! - e fanno tante storie! - e perché no? bisogna pure divertirsi. — è vero... ma comunque... chi l’avrebbe creduto?» la morte di Wolfgang steinecke ha fatto sprizzare nella mia memoria questo testo dei «paraventi», col quale jean genet «mette in scena» la morte accidentale. un’assurda derisione, una sorpresa ridotta a brandelli, ecco che le ab­ biamo vissute; lo stupore a poco a poco si irradia: l’irrimediabile, per caso, ha avuto luogo. le nostre forze di simpatia si scatenano per esorcizzare l’avvenimento, per tornare al punto zero, quando tutto è capitombolato! «chi l’avrebbe creduto? ditemi, ci ho messo molto ad arrivare?» le domande, ansiose, affluiscono, rifluiscono; e ci dànno bruscamente coscienza di una bruciatura indelebile. L’avvenimento ci ha scrostati, sfaldati: quella parte di noi stessi, friabile, costituita dalla nostra espe­ rienza nel passato, quel rivestimento esterno al quale siamo tentati di abituarci in un sentimento di illusoria sicurezza, eccolo brutalmente strappato, trascinato con violenza, rimosso! * W. Steinecke è stato il fondatore dei corsi di Darmstadt. Testo pronunziato sulla sua tomba. Pubblicato in tedesco in «Darmstàdter Beitrage zur neuen Musik», n. 5, 1962, p. 6. Inedito in francese.

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non ci rimane che contestare l’assenza sorta con tanta disinvoltura, bloc­ care questa meccanica di «ebbene! - eh si! — ah, questa poi! », rotazione di stupori sterili. sottraiamo all’incidente la presenza in noi dell’amico a cui la vita ha appena dato, aggressiva, un congedo insolente: noi gli dobbiamo questa rivincita sulla cecità di un «destino» abusivo per l’interruzione, l’intru­ sione. il.

Nella distanza .*

Wolfgang steinecke, siamo qui stamane per evocarti. Non per risalire il filo degli anni, prema­ turamente e definitivamente spezzato; non per ricordare la tua attività, o per raccontare quella parte di storia che è divenuta con la tua scomparsa. No. Ma per evocarti; direttamente; suscitare la tua presenza, oggi, in mezzo a noi. hai attraversato quel «poco profondo ruscello calunniato». Dietro l’in­ sistenza del nostro pensiero, ripassa il guado: torna e guarda. Questa parte di te che ci hai lasciata, continua a vivere, intensamente: proprio quella parte di te generosamente spesa a vantaggio degli altri, quella parte di te a te stesso sacrificata. Guarda: siamo qui oggi per darne te­ stimonianza. chi fa lezione, chi ripete; le discussioni fervono; si commenta, si interes­ sa, si appassiona. Il nuovo è avido del primo contatto; l’antico procede alle perizie. I gruppi si formano e si disfano. Sarà una buona annata? i ricordi sono in ebollizione; i progetti pullulano. L’anno prossimo, si farà questo... No, forse solo fra due anni! ebbene, Wolfgang steinecke, non ti ritrovi a tuo agio in questo labirinto? Che dici? Non riesco? non riesco piu a intenderti... maledizione ai nostri spiriti infermi, incapaci di mascherare l’assenza fisica. Non c’è bisogno del canto del gallo per dissolvere la comunicazio­ ne. Nella distanza, ti allontani, irrimediabilmente. È proprio la tua voce che sento, tuttavia; come in Amleto, essa ci dice, ci insegue: «Giurate! Giurate! Giurate!» e noi vogliamo rispondere a nostra volta: «Pace, anima inquieta!» Ma quale giuramento? Semplice, come l’impossibile reso presente: andare più lontano, e insieme. * Testo commemorativo pubblicato in francese in «Melos», vol. XXIX, n. 2, febbraio 1962, pp.

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63. Arcani Varèse .* Varèse,

Tu eri per noi, al tempo del nostro furioso apprendistato, un feno­ meno strano, erratico, lontano, favoloso, separato dalle dimensioni in­ frante: tempo e distanza. Un uragano mitico, di cui si ricordavano le impetuose percussioni. Ti compendiavi in alcune parole sibilline, accolte con fervore, sulla trasmutazione della materia sonora; in un disco molto scolorito di Ionisation. Visto retrospettivamente: un bric-à-brac scheletrico! In seguito, speriamo di avere colmato le nostre lacune con una conti­ nua coerenza; abbiamo esplorato, man mano che ci era consentito di procurarcela, l’insieme della tua opera: Hyperprisme i960 Octandre 1954/1958/1962 Inté grates 1958 Ionisation 1954/1960 Ecuatorial 1963 Eensité 21.5 1954/1964

e stasera, che volevamo fosse un anniversario: Off randes Déserts

Quest’opera breve, energica, raccolta, densa, noi l’abbiamo decifrata capitolo per capitolo: anche stavolta, abbiamo avuto il privilegio del­ l’esclusiva; per difetto. «A Edgar Varèse, che varca la soglia degli ottant’anni, marginale e solitario, inimitabile blocco erratico». Tale desiderava presentarsi l’omaggio di un programma composto d’accordo con te durante un incontro recente: l’ultimo. Poi ecco che il gesto di amicizia ha trovato sulla sua traiettoria un fatto banale: la morte. Questo 6 novembre 1965, scompare una coscien­ za imbronciata e beffarda, burbera, aspra, quanto a dire ostinata nell’a­ micizia, ricca di simpatia, una simpatia cosi profonda da rifiutare parole e gesti come superflui. * Testo pubblicato in occasione della morte di Edgar Varese nel programma del concerto del Domaine musical del 24 novembre 1965 (stagione 196^-66, i° concerto).

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Tu resti per me molto caro, Varèse, perché marginale’. quel margine che giustifica le righe della pagina, perché solitario’. possiedi la selvatichezza preordinata propria dell’isolato dal branco, la rarità di un diamante unico nella sua montatura, la pazienza ostinata a elaborare la combinatoria del suono. Gli arcani Varèse? Non trovo in te quella tendenza a un esoterismo artificiosamente richiesto; ma segnalo il tuo superbo potere di convinzione: costringere gli altri a condividere la vitalità del tuo segreto, di questo coinvolgi­ mento profondo strappato a te stesso, conquistato sui miraggi della va­ cuità. Ritengo tonico l’ozono delle tue partiture, e del tuo esempio. La tua leggenda è radicata nella nostra epoca; basta oramai cancellare il cerchio di argilla, e d’acqua, dai vocaboli magici o ambigui: «sperimenta­ le»... «precursore»... «pioniere»... Non ne hai abbastanza della terra promessa in perpetuo? e di questa avarizia di onore, di cui ti hanno fatto spesso il dono imbarazzante, e imbarazzato? Ti sei rivelato come uno dei rari cursori della tua generazione; solo che la nostra presa di coscienza è postdatata? Addio, Varèse, addio! II tuo tempo è finito, e comincia.

64. Hermann Scherchen: un patriarca avventuroso".

quando cominciai a organizzare al piccolo Théàtre Marigny alcuni con­ certi dedicati alla scoperta della musica contemporanea, e che dovevano divenire poi il domaine musical, la mia inesperienza non mi dava diritto né autorità a dirigere opere che richiedono un solido mestiere se si vuol riuscire a raggiungere un livello d’interpretazione assolutamente sicuro, poiché la malattia aveva reso indisponibile il mio caro désormière, mi venne in mente il nome di scherchen. preceduto dal prestigio unico di essere stato in stretti rapporti con i tre viennesi, di avere allestito alcune delle loro opere, scherchen si palesava come uno di quei rari caratteri che vivono naturalmente nel nuovo, necessario all’espansione della sua vita* «Le Nouvel Observateur», 22 giugno 1966.

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lità, a spese del suo eccesso di energia, egli non smentì la sua reputazio­ ne; posso descriverlo come un neofita lento, un promotore solenne: spirito avventuroso quanto patriarcale, persuasione e convinzione erano ancorate in una zona profonda della sua anima, ove l’agitazione si rivela assurda e superflua; quest’onda di fondo irrefutabile non si preoccupava granché dei gorghi di superficie, non era certo quello che si dice un carattere facile: l’accanimento delle sue opinioni ti risucchiava nella sua corrente, o ti lasciava a riva, anche l’imprevisto assumeva in lui colore di eterno. «calmo blocco», o morena frontale, non saprei fare ricorso se non alla geologia, tanto scherchen mi appare a un tempo elementare e naturale; un fenomeno la cui intuizione rinunzia facilmente alla sottigliezza, in cui l’efficacia non ha a che fare col perspicace: un fenomeno autodidatta, gli si può applicare, come a claudel, l’immagine di gide, niente affatto crude­ le, ma possente, di «un ciclone fermo»?

65. Hans Rosbaud .*

1.

Il direttore d’orchestra e il suo modello.

Si è spesso parlato della mancanza di legami tra i compositori e gli interpreti, più in particolare tra i compositori e i direttori d’orchestra, poco inclini a spendere il proprio tempo nello studio delle partiture nuove, dacché esse non solo possono causare loro difficoltà di compren­ sione puramente musicale, ma anche tender loro trappole tecniche pro­ blematiche, e per ciò stesso, suscitare un’ostilità più o meno aperta da parte degli esecutori. Per superare questo svantaggio, occorre una gran­ de perseveranza, una certa pazienza, una lucidità acuminata, molta ab­ negazione, scaltrezza psicologica, e anche una buona dose di humour, quello che placa le tensioni latenti quando la continua fatica porta tutti all’irritazione... Senza contare un misto sottile di autorità nei confronti degli esecutori, e di deferenza nei confronti del compositore. Si tratta a volte, non solo di evitare gli scontri, o di «smussare gli angoli», ma di far partecipare una collettività alla comprensione dell’opera, riferendosi quindi alla sua origine: l’autore. In un certo senso, ho tracciato un ritratto ideale del direttore d’or­ * Testo redatto per un programma del Sudwestfunk di Baden-Baden in occasione del settan­ tesimo compleanno di Hans Rosbaud. Pubblicato in tedesco in boulez, Anhaltspunkte citpp. 377380. Inedito in francese.

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chestra; forse che di questo interprete ideale non abbiamo a volte il modello a portata di mano? A dire il vero, per abbozzare questa figura sognata, non mi sono più o meno ispirato a Hans Rosbaud? Dopo la sua scomparsa, ho avuto modo di riflettere sulle sue qualità, sulla sua statura, consolidate dall’assenza e dalla distanza. Il quotidiano ci occulta a volte prospettive che siamo in grado di apprezzare solo con un distanziamento retrospettivo nel tempo. Certe figure si cancellano, altre acquistano la loro vera dimensione. Porre Rosbaud nel quotidiano non è facile: un’impresa paradossale, se egli era l’antinomia del quotidiano. C’è chi lo ha paragonato a una figura di Hoffmann: da parte mia, sarei propenso ad adottare questa immagine di lui. La sua abituale affabilità non escludeva una sorta di distacco nei confronti degli altri, un ripiegamento costante su se stesso: non si era mai sicuri di comprenderlo a pieno, tanto poteva sorprendere con certe conversioni impreviste, certi atteggiamenti ellittici. Una parte di lui era una riserva solo sua: un chiostro gelosamente al riparo da ogni intrusione. La prova più evidente per me sta nell’incredibile energia che fino all’ultimo gli ha fatto negare davanti a tutti l’evidente malattia che lo distruggeva. Per lui, sarebbe stato sconveniente parlarne in modo diverso di come si fa per una banale indisposizione. Una sorta di fana­ tismo dello spirito lo spingeva a ignorare lo «straccio di corpo» e le sue vili esigenze. A volte, ma molto di rado, come per un’elegante dimenticanza, l’in­ tensità della sua vita profonda affiorava nei suoi rapporti con gli altri; metteva a parte delle sue letture — una riflessione gli sfuggiva, lasciando stupito l’interlocutore per la fredda passione e al tempo stesso per la brevità del suo aprirsi; ma subito riprendeva il dominio di sé - e non restava che un breve silenzio: virgolette che ponevano irrimediabilmen­ te fine alla citazione interiore. Ho preferito parlare della persona di Rosbaud prima di accostarmi al musicista, poiché a mio parere, il musicista non era che una faccia, e la più evidente, della sua personalità. I suoi interessi «culturali» erano più ampi che la musica sola, ne sono testimonianza, a esempio, il suo gusto per le lingue vive, non meno che la sua curiosità per le scoperte scien­ tifiche con temporanee. Spiriti come il suo sono poco propensi a metter radici nella routine musicale, in quanto sono portati a esplorare altri campi della conoscenza che li mettono in guardia nei confronti dei limiti del proprio mestiere, e gli fanno desiderare l’ignoto. La personalità di Rosbaud era così divisa tra le abitudini di un uomo

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di mestiere e le aspirazioni di un uomo al di fuori del proprio mestiere. Per chi lo aveva frequentato, questo equilibrio flessibile tra il sedentario e l’avventuroso, tra il sicuro e l’improbabile, era il fondamento del suo carattere, il motore dei suoi atti, lo stimolo delle sue prese di posizione. Questo poteva sorprendere un «estraneo» che lo avrebbe considerato superficialmente, mentre a chi lo conosceva nel profondo appariva come una sintesi biologica indispensabile alla sua salute intellettuale. Sulle sue doti di direttore d’orchestra, non mi soffermerò a lungo, giacché in ognuno di noi è ancor vivo il ricordo delle sue capacità prodi­ giose: virtuosismo di lettura, perseveranza nel lavoro, attaccamento al­ l’opera. Conosco troppo bene quanto gli debbo come compositore per non ammettere che senza di lui le mie opere non avrebbero potuto essere eseguite come è toccato loro in sorte. Ricordo con estrema precisione alcune prove che ho seguite per il beneficio che mi hanno recato rivelan­ domi un approccio straordinariamente «professionale» della partitura in corso di elaborazione. Osservandolo, ho appreso il pragmatismo dell’e­ secuzione; dal dialogo aperto con lui, ho compreso il rapporto essenziale tra la partitura scritta e quella eseguita. Dovendo concludere, non posso non fare un riferimento alla possibi­ lità di dialogo professionale con Rosbaud. Niente gli piaceva meno del compositore immediatamente «contento»: egli lo aveva in sospetto. E voleva che il compositore avesse la sua «parola da dire». Con questo, manifestava chiaramente che l’esperienza professionale, anche altamente qualificata, non basta; l’interprete è in diritto di esigere dal compositore l’iniziativa nell’invenzione, secondo la quale egli plasmerà l’opera. Dall’incontro tra creazione e interpretazione dipende la vita della musica instaurata nel presente. La lezione di Hans Rosbaud, per quanto sia stata esemplare su altri punti, si è rivelata particolarmente viva e penetrante in questa essenziale intersezione. il

«... to cut me off before night » *.

la morte di hans rosbaud sarà sentita come una perdita irreparabile per la musica con temporanea, a cui il suo nome resta, in un certo senso, indis­ solubilmente legato. in queste poche righe scritte all’indomani di una notizia cosi triste e brutale, non mi propongo di ripercorrere tutta la carriera di un uomo prodigo del suo lavoro, né di fare il bilancio di un’instancabile fatica. * Testo scritto al momento della morte di Hans Rosbaud. Rimasto inedito.

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hans rosbaud ha iscritto al proprio attivo un numero impressionante di prime esecuzioni, che non potrei qui enumerare neanche in parte, preferisco parlare di lui come persona, poiché ho avuto la fortuna di conoscerlo bene, e molte mie opere sono state eseguite per la prima volta da lui al sudwestfunk, in condizioni di preparazione uniche al mondo, parlare di rosbaud direttore d’orchestra, quando chi ne parla è un com­ positore, significa innanzitutto parlare di un amico: egli ti metteva a tuo agio sin dal primo contatto, in virtù di una leggerezza di conversazione e di una gentilezza tutte permeate di humour ma, cosa ancor più importan­ te, ti metteva a tuo agio nel lavoro, consentendoti generosamente di disporre della sua immensa esperienza e del suo incredibile mestiere. sono sempre rimasto stupito della sua maestria di una sovranità impa­ reggiabile: naturalezza nel decifrare le partiture difficili, eleganza nella maniera di battere le musiche più rare, agilità nell’adattarsi alle nuove tecniche di direzione che l’impostazione odierna degli insiemi comporta, due cose in particolare mi piacevano in lui. la prima: non si sentiva sicuro del lavoro di prova se non quando il compositore seguiva la nascita dell’opera, raramente direttore d’orche­ stra ha più legittimamente interrogato il compositore per sapere qual era la sua concezione, preoccupandosi del risultato rispetto al pensiero ori­ ginale; in una parola, chiedeva di essere convinto in modo da essere in grado, a sua volta, di convincere. la seconda: era un uomo di una straordinaria energia, che mostrava inesauribili risorse nella musica non meno che nella vita, amava agire; e anche nel dubbio, preferiva scommettere per l’avvenire. per questo il suo nome resterà impresso sul frontespizio di numerose partiture: testimonianza dell’altissima stima che molti compositori ave­ vano per lui, - testimonianza, per quanto mi concerne, della riconoscen­ za amichevole che mi lega, indelebile, alla sua memoria.

66. T. W. Adorno: in margine, per la, per una, * scomparsa . della personalità, accade come dell’opera, sola, ha il potere di affascinare, quella che resta, e resterà, inesplicata quella che resiste al tentativo di inda­ gine, quella che, manifestamente, possiede l’evidenza. In francese in «Melos», settembre 1969, pp. 85-86.

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per stringerla da vicino, si usano di solito parole neutralizzanti: la, le ambiguità la, le contraddizioni si provano diverse chiavi — ma girano a vuoto nella serratura dell’inchiesta.

restano da immaginare le discrepanze di un’individualità: : che vede le sue doti divergere, non rinunzia alla divergenza - non soltanto, ma cerca, a dispetto di flagranti incompatibilità, di utilizzarla come leva; : che, inscindibile, conserva e provoca non rinunzia all’humus, senza ignorare il fenomeno di decompo­ sizione destinato a prolungarla, aspira al rifugio e alla dimora, mentre propone il fuoco, l’incen­ dio: : che accumula la conoscenza, e si sforza di non ambire l’inno­ cenza. specificamente dovuta alla circostanza, (ma il pogrom è senza preceden­ ti?) la peregrinazione, divisione mediana di questa esi­ stenza, cesura di definizione, conferma il legame e la nostalgia, esalta la lacerazione e la determinazione, a piene bracciate, le contraddizioni - non risolte, le ambiguità — non dissipate, di cui la più sottile, la più astuta delle dialettiche non verrà a capo; con cui il più astuto, il più sottile dei dialettici farà il suo mucchio di covoni! (un mucchio che non mancheranno di rovista­ re e saccheggiare i topi e altri ratti campagno­ li...) . l’intelligenza, la perspicacia si trasmetteranno, quindi, attraverso l’e­ loquio, penetrante: che instaura il privilegio e il favore della comunica­

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zione con un punto di appoggio primordiale; non punto fisso, mobile — vi trascina al di là del perimetro di (salva)guardia, verso il paese della dimen­ sione plurale: ove abisso e vetta riescono talora a identificarsi.

67. Heinrich Strobel.

1.

Volto dell’amicizia".

La vita di Heinrich Strobel','' cosi bruscamente interrotta, mi lascia sgomento e incapace di riassumere veramente che cosa egli rappresentas­ se per i musicisti della generazione a cui appartengo. Una lunga amicizia di quasi vent’anni mi ha permesso di conoscerlo non solo nell’esercizio della sua professione - che gli ha dato l’eccezionale prestigio di cui ha goduto in tutto il mondo - ma anche nella sua vita personale, alla quale sono stato legato in molte circostanze privilegiate. Vi sono uomini che cercano di esprimersi con la letteratura, con la musica, o con qualsiasi altro mezzo di espressione diretta. E ve ne sono altri, di una specie più rara, che si esprimono attraverso altre personali­ tà, le formano, le aiutano a superare i loro problemi, vedono chiaro in esse e attraverso di esse. Ciò presuppone una grande abnegazione, una chiaroveggenza sempre vigile, una facoltà innata di sapere modellare l’essere umano. Heinrich Strobel apparteneva certamente a questa cate­ goria di uomini chiaro veggenti, la cui amicizia - se meritata — è un dono infinitamente prezioso; amicizia profonda, dissimulata sotto una masche­ ra d’ironia, per non dare inutilmente pretesto alla riconoscenza. Questo scambio e questa reciprocità, direi: questa comunanza d’idee, di punti di vista, io l’ho vissuta grazie a lui, e costituisce un arricchimento singolare nella vita avere avuto una simile esperienza. La sua sensibilità estrema, sempre avvertita, il suo desiderio di non mai ripetersi, la sua vocazione a scoprire, ho potuto osservarle quasi quotidianamente; e fu un esempio e una emulazione continua. Lo scetti* Heinrich Strobel dirigeva il dipartimento musicale del Siidwestfunk di Baden-Baden dove invitò Pierre Boulez nel 19.59. Pronunciato sulla tomba di H. Strobel il 20 agosto 1970- Pubbli­ cato in francese in «Melos», ottobre 1970, pp. 368 e 388.

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cismo in lui non aveva altro scopo che quello di produrre un ottimismo sostanziale, e una fede profonda nell’avvenire. La fiducia era uno dei tratti principali della sua amicizia; personalmente ne ho ricevute testi­ monianze cosi numerose che senza quest’uomo eccezionalmente genero­ so, la mia esistenza sarebbe stata di certo più povera di esperienze, e più instabile. Con chi aveva la sua fiducia e la sua amicizia, egli era di una sponta­ neità estrema e di una grande franchezza; e io ho particolarmente ap­ prezzato in lui questa duplice qualità di essere presente, intensamente, e, al tempo stesso, di non imporsi. Sicché dopo un certo tempo, non distin­ guevi più la sua personalità dalla tua in ciò che avevano di profondamen­ te in comune, e di profondamente radicato. È uno dei segreti di Heinrich Strobel che quando un’amicizia diviene cosi vigile, la identifichi a tal punto col tuo essere che allorquando di colpo la morte lo strappa dalla tua esistenza, in te l’emozione è grande, sentendoti incapace di intendere ciò che scompare cosi bruscamente da te stesso, e che si è talmente identificato col tuo pensiero quotidiano. Presenza, assenza, che significa­ no dunque queste parole? Resta il suo genio, e lo specchio che egli non cesserà d’essere per chi ha avuto, attraverso l’identificazione e lo stimolo esigente, il privilegio della sua amicizia.

11.

L’intermediario .*

La musica si compone, ma l’esecuzione musicale si organizza, e addi­ rittura si provoca. Ecco perché, sempre presso i compositori, si trovano queste anime secondo che sono i «direttori artistici»... La personalità di un tale direttore artistico può essere determinante per la sua epoca; in quanto questa personalità ha molti numeri per appartenere a un personaggio! È un personaggio che non soltanto atten­ de a organizzare le opere altrui, ma che ha un interesse ancor più pro­ fondo per le varie personalità che egli incontra sul suo cammino, che quasi fa sorgere, e plasma in funzione degli avvenimenti. Egli prende posizione; prende la sua posizione; e prende la posizione dei talenti a cui si è legato. Il caso si è prodotto in tutti i campi. La storia e il lavoro di certi pittori si sono trovati inestricabilmente legati ad alcuni amici, che per amicizia, e per diffondere le loro opere, si sono convertiti in «mercanti», liberandoli cosi dal confronto con problemi materiali troppo gravosi, ma * Testo scritto per una trasmissione del Sudwestfunk di Baden-Baden agli inizi del 1971 in omaggio a H. Strobel. Pubblicato in tedesco in boulez, Anhaltspunkte cit. Inedito in francese.

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suscitando insieme la loro attività in campi a cui non avrebbero forse pensato, o su cui la loro attenzione si sarebbe fissata forse piu tardi, troppo tardi... Il teatro, la letteratura ci forniscono molti altri esempi. È evidente che la musica fornisce un terreno ricco di attività per questi caratteri a parte, dotati a un tempo di fiuto, di una volontà ferrea, e di capacità di organizzazione. Non v’è dubbio che il compositore propone. Ma i suoi propositi sono simili a quelli dello scrittore di teatro. Non basta averli «realizzati» sulla carta; perché assumano una dimensione affatto reale nello spazio con­ temporaneo, occorre farli vivere nella realtà di una esecuzione. In questa fase, enormi problemi possono sorgere a ostacolo di una concezione, che non si è preoccupata (giustamente) dei mezzi che ne costituiscono il tramite. A una visione deve corrispondere una realizzazione. Tale realiz­ zazione dovrà collocarsi in un certo quadro, a un dato momento, in determinate circostanze. Una volta stabilita questa congiuntura, restano nondimeno alcuni ostacoli, dei più comuni, da superare. Ma questo sarebbe ancora un compito facile. Le difficoltà di realizzazione, le divergenze di caratteri, le frizioni tra individui, sono altrettante situazioni a cui, in qualsiasi me­ stiere, ogni uomo un poco attivo deve costantemente far fronte. La difficoltà, in questo campo specifico delle scelte e delle soluzioni artistiche, la difficoltà è di durare. E intendo: non sopravvivere, ma possedere un’enorme vitalità e stare in guardia; o meglio essere «allerta­ ti» dall’evento, senza perdere il potere di analisi; conservare la propria reazione critica, e salvaguardare un senso certo per la «meraviglia». Una cosa che, misurata su lunghi anni di attività, è meno semplice di quanto sembri. Entra certamente in questa giovinezza di giudizio (più ancora che giovinezza di carattere) una parte rilevante di irrazionalità, che Baude­ laire chiamava «il diritto di contraddirsi»... Ognuno è più o meno tentato, anche se non lo ammette esplicitamen­ te, anche se lo maschera sotto smaglianti apparenze, di attenersi a un cer­ to numero di esperienze fondamentali, fatte in un’epoca determinante della vita (in genere gli anni che seguono direttamente l’adolescenza). Che nei confronti di tali esperienze, l’atteggiamento «postumo» sia di disappunto, o meglio di negazione, o che sia di attaccamento sentimen­ tale, quasi di fervore, ciò non toglie che un periodo dell’esistenza si trovi cosi definitivamente privilegiato. Occorre una grande energia, e soprat­ tutto una sorta di distacco da sé poco comuni per giungere, ogni giorno, a dimenticarsi senza rinnegarsi. L’oblio costante di sé, costituisce già un problema fondamentale per

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chi ha l’intenzione di creare. E si sarebbe tentati di credere che per l’in­ termediario, questo compito sia relativamente più facile, e che per lui non si tratti affatto di una questione di vita o di morte. Ma bisogna pensare che l’intermediario vive in completa simbiosi col compositore, o piuttosto con la composizione — quali che siano gli individui con cui ha a che fare in quel momento. Ma se egli abbandona la composizione, o se la composizione lo perde di vista, le sue scelte divengono rapidamente caduche, e il suo famoso fiuto (di cui tanto si parla senza riuscire a definirlo, di cui si conosce l’efficacia senza poterne scrutare le cause) erra in cerca di ipotetici odori sconosciuti... La simbiosi tra l’intermediario e il creatore può spingersi lontano; così lontano che, a tratti, l’intermediario - un titolo qualificativo alquan­ to modesto per una funzione così essenziale - appare come il creatore per interposta persona; cosi lontano che quando l’intermediario scompa­ re, una certa forma di attività scompare con lui e sarebbe vano volere farla durare a sua immagine. Sarebbe tutt’al più un lavoro d’ombra; e la funzione d’intermediario deve a sua volta, ad ogni scomparsa, essere totalmente rimessa in causa. Scompare con lui un periodo storico, e una forma di creazione a lui direttamente legata. Ci si può rallegrare o rattristare di questa mancanza di continuità, ma essa è un fatto ineluttabile della nostra esistenza, e tanto vale quindi imparare a tenerne conto. L’ambizione di ognuno è, più o meno, di restare presente nelle in­ quietudini attuali, e nelle utopie a venire. Ma l’intermediario individua­ le ha ancora un ruolo da svolgere nel futuro? Il suo personaggio non sarà sostituito da una sorta di coscienza collettiva? La necessità di una situa­ zione non tenderà sempre più ad annullare ogni ribellione individuale, o, senza ridurla completamente a zero, perlomeno a integrarla, a costo di numerosi sacrifici, con questa coscienza collettiva? Tutte queste nuove relazioni tra colui che inventa, e anche colui che inventa gli inventori, da una parte, e la società a beneficio (se non a profitto) della quale egli officia, dall’altra, queste nuove relazioni restano da definire. La nozione di responsabilità personale è destinata a dissolversi a beneficio di una decisione di gruppo? Sinora l’«artista» aveva accesso al «mondo» attraverso gli interme­ diari che, prima di tutti gli altri, sapevano riconoscere le sue qualità specifiche, le sue qualità di eccezione. Ma il fenomeno dell’«artista-so­ lo», e dunque del suo tramite, del suo portavoce, è messo in questione in modo sempre più radicale. Il che non sopprime le virtù individuali, ma richiede loro un altro campo d’azione, e una maniera di agire essenzial­ mente diversa.

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Senza alcun dubbio verrà trovata la soluzione. Ogni epoca sa trovare la soluzione che le è propria, perché costretta; e perché, dal momento che i modelli non si ripetono mai, la soluzione è implicita nella sua stessa esistenza. Volendo concludere, i grandi intermediari individuali vanno certo considerati come precursori della più alta importanza. Hanno infatti dimostrato, a volte senza esserne pienamente consapevoli, a volte loro malgrado, ma spesso con un gusto innato del futuro, che il creatore è un fenomeno collettivo — non nel senso ingenuo e restrittivo dell’espressio­ ne, ma proprio nel quadro di una complessa organizzazione sociale.

68. Rruno Maderna: abbozzo di un * ritratto . Le nostre carriere sono state parallele. Abbiamo esordito in Germa­ nia, poi siamo stati uno dopo l’altro in Inghilterra e, infine, ci siamo ritrovati negli Stati Uniti. Nel 1958, abbiamo diretto insieme la prima esecuzione dei Gruppen di Stockhausen. Poi, ci siamo alternati al podio direttoriale della Residenza dell’Aia. Ai tempi eroici, quando Wolfgang Steinecke aveva fondato il com­ plesso di Darmstadt, eravamo noi a dividerci le innumerevoli prime audizioni che bisognava assicurare durante l’arco dell’estate. Il planning delle prove era un incubo. Ma Bruno non se ne preoccupava granché. Si permetteva addirittura di arrivare talvolta in ritardo. Prendeva la vita per il suo verso e se la cavava sempre. A dire il vero, se ci si vuol fare un’idea abbastanza esatta dell’uomo, non si deve né si può separare il direttore d’orchestra dal compositore, dal momento che Maderna era un pragmatico, cosi vicino alla musica nell’interpretarla come nel comporla. A Darmstadt, la prima volta che lo vidi, faceva riprovare un pezzo per cui mancava un percussionista. Allo­ ra, si era installato lui stesso ai tam-tam e ai bongo e suonava e dirigeva insieme, con pari facilità. Era un poco come una scimmia, capace di saltare agile da un albero all’altro della musica, con un’incredibile disin­ voltura. Questo contatto diretto, istantaneo e profondo con la materia musi­ cale conferiva alle sue interpretazioni tutto il loro gusto. Fisicamente, Bruno Maderna aveva l’aria di un piccolo pachiderma ma, per paradosso, questa massa bonaria sembrava di una leggerezza straordinaria. Tutto in * Pubblicato col titolo Salut à Bruno Maderna in «Le Nouvel Observateur », 26 settembre 1973, per la morte di Bruno Maderna.

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lui era intelligenza, finezza, humour e fantasia. Il pachiderma era un elfo. Il suo incontro con Scherchen è stato certamente decisivo. Egli con­ servava sempre un’ammirazione sconfinata per il vecchio maestro che lo aveva formato, ma questo non gli impediva di raccontarci, per intere notti, ogni sorta di aneddoti pieni di affettuosa irriverenza. Per esempio, quella del bagno con Scherchen, nell’Adriatico, al largo del Lido: i due mastodonti soffiavano come cetacei discutendo, mentre nuotavano, sul modo di dirigere correttamente la Sinfonia eroica e il maestro imponeva all’allievo metodi mnemotecnici tanto sorprendenti quanto infallibili, sino a mettere mentalmente le parole Das ist Napoleon sul tema delle variazioni. Bruno Maderna era un uomo che conosceva il rigore ma non si risol­ veva ad applicarlo a se stesso, semplicemente perché non ne aveva il gu­ sto. Un giorno che dirigeva un’opera nuova in cui vi erano delle indica­ zioni metronomiche molto precise e cambiamenti di tempo del tipo «dal­ la nera a 118 alla nera a 80,5 », egli si rivolse verso il compositore e verso di me che eravamo nella sala, apostrofandoci: «La nera a 80,5! Ma ve ne rendete conto?» Il rigore, lo aveva in sé ma non era il rigore dei numeri, era solo la certezza che la sua personalità non poteva esprimersi che molto al di là di una puntigliosa osservanza. Ma proprio questo senso immediato, irrazionale, della musicalità ha dato al compositore i suoi momenti più alti e le sue trovate migliori. Così i suoi pezzi più riusciti sono quelli che lasciano il massimo d’iniziativa agli strumentisti. Alla fine della sua ultima partitura, un concerto per oboe e orchestra, ebbe a scrivere: «Spero di aver offerto abbastanza materiale perché il solista, il direttore e i musicisti possano, in certo senso, accordarsi e trovar piacere nel suonare ciò che ho scritto». In certo modo, egli si liberava di una musica che portava in sé e a cui faceva allora totale affidamento. Mentre componeva il suo Satiricon, su commissione dell’opera di Olanda, un’opera che lega, se così si può dire, la nuova musica alla tradizione gagliarda, egli seppe della sua malattia e della sua prossima fine. Questo colpo del destino, in quel momento, andava proprio nel senso dei contrasti della sua esistenza. Per parte mia, preferisco che egli sia morto presto, perché niente è più penoso del decadimento di un essere traboccante di vita.

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69. Olivier Messiaen. I.

Una classe e le sue chimere".

Nei deserti, fra le diserzioni del Conservatorio, un uomo ci apparve come un faro luminoso; insegnava solo armonia, ma aveva una reputa­ zione un tantino allo zolfo. È da credere che sceglierlo come maestro, era già isolarsi dal gruppo, predestinarsi come refrattario, poiché si parlava di buon grado - a quel tempo e in quel luogo - della «classe Messiaen», incluse le virgolette. Denominazione e virgolette giustificate, dal mo­ mento che la classe Messiaen da cui, in seguito, scomparve l’armonia, fu la sola a creare tra allievi quella complicità che implica le meraviglie della scoperta fra le cesoie e i laminatoi di una adolescenza pronta a praticare «l’artigianato furioso». È giusto situarla negli anni, questa esperienza unica? Essa mal si adatta a reintegrarsi in quello che potrebbe chiamarsi un «paesaggio» circostante... Distaccata dai giorni, essa fluttua - nascita epica, tempi eroici — idillio della conoscenza!... Fu davvero un’epoca di esplorazione, di liberazione - freschezza e ingenuità fra l’avvizzimento d’invenzione intorno; nomi clandestini, o quasi, opere ignorate venivano a proporsi alla nostra ammirazione, dovevano risvegliare la nostra sagacia - nomi che in seguito hanno avuto qualche fortuna. La sola Europa non aveva affatto il privilegio delle nostre ricerche; accostarsi all’Asia e all’Africa ci insegnò che le prerogative della «tradizione» non erano circoscritte, ci incantò nello stadio in cui la musica era più che un oggetto d’arte un vero e proprio modo di essere: una bruciatura indelebile. Ecco, in poche parole, l’esperienza Messiaen. E fu anche l’amicizia e la solidarietà di un piccolo gruppo riunito intorno a un maestro sul quale l’opinione generale incespicava, esitava o si mostrava recalcitrante. Vi furono alcune gazzarre al concerto, è naturale! Con la sua turbolenza e il suo fervore, secondo un punto unico, fu la «nostra» giovinezza.

11.

Retrospettiva .**

È straordinario constatare la fedeltà degli allievi di Messiaen nei confronti del maestro: fenomeno abbastanza raro e perciò degno di esse­ * Testo in onore di Messiaen per il suo cinquantesimo compleanno. Pubblicato nel programma del conceno del Domaine musical del 15 aprile 1959 (stagione 1958 .59, 6° concerto). ** «L’artiste musicien de Paris», n. 14, i° e 20 trimestre 1966, pp. 8-10.

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re sottolineato. Personalmente, da un certo livello in poi, non credo molto alle virtù della pedagogia; e tuttavia devo proprio riconoscere che nel corso dei miei studi l’influenza di Messiaen è stata determinante. Che cosa ci aspettavamo a quei tempi da un insegnante? È una consuetudine piuttosto insopportabile raccontare gli aneddoti sull’epoca del Conservatorio e trarne conclusioni che non hanno presa. Nondimeno, se devo far appello alla mia memoria, ricorderò i primi corsi di composizione con Messiaen. Egli aveva allora un corso di armonia; al di fuori di questo tempo strettamente pedagogico, prendeva alcuni al­ lievi per analizzare loro certe opere importanti della letteratura contem­ poranea e aprir loro cosi il mondo della composizione. Ho un ricordo quanto mai preciso di questi «incontri organizzati» e della generosità che Messiaen profondeva nel suo insegnamento volontario: l’orario di queste lezioni marginali erano nientemeno che fissate dalle norme abi­ tuali. Si cominciava subito nelle prime ore del pomeriggio, e si finiva... quando l’analisi dell’opera era terminata. Se Messiaen aveva un tale ascendente sui propri allievi, è anche perché persino nelle sue classi d’armonia non si limitava a far fare solo i compiti: alla necessità richiesta dal concorso e dall’apprendimento del mestiere, egli accordava certo il tempo necessario, ma poi scongiurava il pericolo della sterilità delimitando esattamente la pedagogia in senso stretto per lasciare il posto all’analisi vivente delle opere da cui essa nasceva. A che servono, in effetti, esercizi di scrittura fastidiosi quando sono astratti dalla loro necessità intrinseca? Messiaen lo aveva capito assai bene e ci faceva intendere chiaramente come occorra rifarsi alle opere più che ai trattati. Inoltre, quando penso alla vita musicale di una ventina di anni fa (si era nel 1943-44), si ha una misura della sua volontà di rivelarci il mondo moderno della musica: ci proponeva come modello le sonate per piano e violino di Bartók, i suoi quartetti d’archi o la sua Musica per archi, percussione e celesta, la Suite lyrique di Alban Berg o il Pierrot lunaire di Schonberg. Di queste opere, nessuna delle quali era allora iscritta sui programmi di concerti, gli siamo grandemente debitori per avercele fatte conoscere. Messiaen, però, non si contentava di metterci in contatto con l’opera d’altri e farci intendere ciò che poteva esservi di fondamentale per lo sviluppo moderno, ma ci faceva partecipare altresì all’evolversi del suo pensiero, alle sue scoperte, al suo tirocinio quotidiano. Ed è cosi che abbiamo intuito, nel momento in cui egli ne prendeva a sua volta co­ scienza, l’importanza di un rinnovamento ritmico, ispirato a quella fonte

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unica che è il Sacre du printemps. Le concezioni di Messiaen nel campo del ritmo sono, senz’ombra di dubbio, quelle che hanno più fortemente e profondamente influenzato i suoi primi allievi. La direzione assunta dal suo pensiero era cosi nuova rispetto alla tradizione della musica occiden­ tale che non poteva non colpire fortemente la nostra immaginazione. Parimenti, il suo modo di strumentare, l’impiego di certi strumenti di percussione, non meno che l’attenzione rivolta alle musiche asiatiche e africane hanno certamente determinato tutto quanto è venuto svolgen­ dosi in Francia dopo di lui. Ora, meno che mai vorrei passare sotto silenzio la semplicità dei rapporti che si erano stabiliti fra insegnante e allievi. Ho già detto che da un certo livello in poi, non credo alla pedagogia; ma annetto un’estrema importanza all’incontro degli individui. Cosi certe conversazioni alla fine della lezione, durante una prova, in strada o in qualsiasi occasione ester­ na, mi hanno forse segnato più profondamente che non l’insegnamento strettamente inteso. Per giunta, ho trovato in Messiaen, fatto molto più raro, la compren­ sione di quella lacerazione destinata a dividere maestro da allievo, una volta trascorso il periodo di apprendimento. Per definire il proprio esse­ re, l’allievo deve confrontarsi con l’immagine che ha visto plasmare di se stesso man mano che si attuavano i contatti pedagogici. Prendere le distanze non avviene in genere senza contrasti e senza violenza. Dopo tanti anni, se penso in retrospettiva quel destarsi alla composizione, posso constatare quanto benefica sia stata una simile reazione con tutti gli scandali che essa comportava. Liberato da un’influenza che rischiava di essere pesante e di assopire lo spirito critico, si rivelava necessario operare sulla carne viva per ristabilire, se posso dir cosi, rapporti di uguaglianza. Ma ora, definitivamente sbiaditi aneddoti o tralignamenti, resta la personalità di un maestro che ci ha fatto scoprire la musica moderna, e sentire quanto necessarie e ineluttabili fossero la ricerca e la disciplina. Ma ciò che resta più vivamente presente in questi contatti oggi ricordati, è la generosità con la quale Messiaen dispensava il proprio insegnamen­ to. Non penso soltanto a quella generosità, dopotutto superficiale, che consiste nel sacrificare volontariamente parte del proprio tempo per dare lezioni supplementari: la vocazione pedagogica contiene in sé una dose di apostolato, di cui non è poi cosi raro vedere gli esempi. Ma intendo una generosità più profonda: quella generosità di comprensione nei con­ fronti di un essere ancora giovane e malleabile, di cui ci si rifiuta di fare un semplice oggetto da plasmare, ma al quale si imprime nondimeno volontà e insieme inquietudine.

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Da parte mia, sono felice di avere beneficiato dell’insegnamento di Messiaen allora nei primi anni della sua novità, e senza tema di cadere nel luogo comune, posso dire che una tale esperienza agli esordi della mia carriera di compositore ha rappresentato per me un avvenimento non solo rilevante, ma insostituibile. in. L’onnipotenza dell’esempio".

In questo giorno del suo settantesimo compleanno, Olivier Messiaen doveva essere con noi. Un intervento chirurgico lo costringe ancora in ospedale, ma so che dalla sua stanza ascolta la trasmissione in diretta di questo concerto; cosi l’omaggio che desideravamo rendergli proprio qui, vogliamo che gli giunga attraverso queste poche parole affinché egli sappia che pensiamo a lui con un affetto reso ancora più vivo dall’as­ senza. Senza dubbio, l’omaggio più tangibile che si possa rendere a un com­ positore è quello di eseguire la sua musica, di far si che la sua musica viva fra noi, in noi. Tuttavia, in una circostanza eccezionale come questa, mi sia consentito di aggiungere una risonanza più precisa, un punto di vista più personale. Innumerevoli ricordi mi legano a Messiaen sin da quella primavera del 1944 in cui mi presentai a lui per chiedergli di poter diventare suo allievo; al Conservatorio egli era, tra i professori di armonia, il più giovane di nomina, e la sua reputazione un poco sulfurea, arroccata ai margini dell’ortodossia in auge, era fondata su alcune opere allora poco eseguite. Mi era bastato di sentire, quasi per caso, una delle sue opere più antiche, il Thème et Variations pour violon et piano, per desiderare all’istante di essere suo allievo. La forza di attrazione era stata immedia­ ta all’ascolto di quella sola opera. Non ho alcuna predilezione per i ricordi dei veterani, ma volevo ricordare un incontro che molti altri - prima e dopo di me — hanno dovuto vivere pressappoco nello stesso modo: attrazione improvvisa verso un maestro di cui si sa con un sentimento tanto imperioso quanto inesplicabile che c’è lui, e nessun altro, che solo lui può rivelarvi a voi stessi - alchimia imprevedibile suscitata dalle opere, ma anche dal fasci­ no personale, dalla comunicazione immediata, dall’onnipotenza dell’e­ sempio. Il maestro eletto risveglia con la sua sola presenza, col suo comportamento, con la sua vita, con le poche riflessioni che lascia in* Discorso pronunziato all’Opéra di Parigi il io dicembre 1978 in occasione del settantesimo compleanno di Olivier Messiaen. Inedito.

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travvedere sulle sue esigenze personali; egli sa vedere, ascoltare, e per­ cepisce le scosse di una giovane personalità davanti a lui, ancora intenta a cercarsi nelle contraddizioni e l’oscurità, nella difficoltà e nel risenti­ mento; egli è pronto ad accettare l’ingratitudine e l’ingiustizia, il netto rifiuto e la rivolta, se tali reazioni devono allontanare temporaneamente il discepolo per radicarlo stabilmente nell’originalità di un carattere defi­ nito e indipendente. Ma occorre attenzione e distacco, occorre quel sen­ so dell’avventura che prepara il periplo con minuzia e accetta nello stesso tempo di non sapere dove ci si avventura, dove si va; occorre dare l’esempio e apprendere a dimenticare: getta il libro che ti ho inse­ gnato a decifrare, e scrivi una pagina nuova, inattesa. La meraviglia, al di là di questa generosità dispensata a piene mani, è di conservare intatto l’egoismo innato del creatore, poiché è il solo ga­ rante della generosità. Come essere generosi se non si ha niente da dispensare e dissipare? Messiaen ha saputo risolvere questo dilemma con un’ostinazione invidiabile: si è arricchito arricchendoci. Ne è una testimonianza la retrospettiva in corso, grazie alla quale possiamo fare il bilancio di un’opera ricca e copiosa, che copre un registro quanto mai esteso, utilizzando gli strumenti propri del compositore, il piano e l’or­ gano, al pari delle formazioni più variate, con una predilezione per certi gruppi strumentali ancora poco favoriti. Anche se non è questo il luogo per stendere un bilancio dettagliato, possiamo tuttavia scegliere alcuni tratti più specifici che hanno fatto di Messiaen la figura eccezionale che egli è attualmente. In primo luogo, dirò che egli ha avuto il merito di far uscire la musica francese da quel buon gusto ereditato in modo troppo restrittivo e pavido da predecesso­ ri illustri la cui grandezza era stata rimpicciolita alla dimensione di imita­ tori sfiatati. Dirò poi che egli ha avuto l’audacia e il sereno coraggio di considerare la musica come un fenomeno globale, universale, e non ha ritenuto di dovere prendere in considerazione certe qualità solo perché appartenenti a questa o a quella nazione. Egli ha aperto le finestre non solo sull’Europa, ma sul mondo, sulle culture più lontane nello spazio come nel tempo. Non ha considerato i tratti specifici di una cultura musicale come un segno di separazione, ma li ha visti come un possibile tratto di unione. In un mondo facilmente incline a un nazionalismo così esclusivo che il vicino, per il solo fatto di esistere, era considerato anzi­ tutto come l’aggressore, il nemico, Messiaen ha voluto accogliere senza risparmio tutto ciò che poteva arricchirlo, ha voluto allargare la propria visione, accrescere il proprio potenziale. Dopo le palinodie sull’albero genealogico obbligato, egli veniva viceversa a dirci che una tradizione non è niente altro se non fa che salvaguardare le proprie prerogative;

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egli era «ecumenico» prima che la parola avesse fortuna in altri ambiti... Per la verità, ci deve essere qualcosa del predone in ogni creatore; senza dubbio egli dà ma anche prende. Prima di dare la propria visione del mondo, egli deve assumere il mondo nella sua interezza; se l’avventu­ ra è specificamente interiore, ciò non esclude che possa venire di lontano. Con la sua apertura su tutte le musiche del mondo, Messiaen ha arricchi­ to considerevolmente il proprio registro espressivo, sia in un campo cosi concreto come quello della sonorità e dello strumento, sia in un campo cosi speculativo come quello delle concezioni ritmiche e del tempo musi­ cale. La sua originalità e il suo contributo sono immensi in questo setto­ re specifico, e la sua influenza è unica, tanto piu che egli è stato il primo ad avventurarsi su questi territori cosi deserti prima di lui. Infine, non bisogna dimenticare ciò che costituisce il segno assoluto della sua unicità: un amore profondo della natura, cosi poco praticato nel mondo piuttosto artificiale della musica. Un amore cosi esigente da trasporre minuziosamente quanto uccelli, rocce, colori, paesaggi, mon­ tagne, non che gli ispirano ma gli dettano dentro. Se non temessi che il gioco di parole possa essere frainteso, direi che Messiaen merita pienamente il nome di compositore nel senso in cui la parola incorpora anche quella di composito. La sua è una personalità la cui struttura riccamente barocca ci affascina con la diversità delle sue opzioni e la semplicità estremamente elaborata delle sue scelte. Al di là delle complessità piu che reali del suo pensiero, Messiaen ha saputo salvaguardare l’ingenuità e la meraviglia. Per questo, non saranno mai eccessive le dimostrazioni del nostro affetto. A lei, Olivier Messiaen, che in questo momento mi ascolta, vorrei ridire la gratitudine e l’affetto che noi tutti sentiamo per l’esempio che lei non ha cessato di mostrare nella sua vita di compositore e di inse­ gnante. Noi la ringraziamo della sua avventura, che è divenuta anche la nostra, e le auguriamo di ristabilirsi presto per farcela condividere anco­ ra a lungo. Buon compleanno!

70. Gaetan Picon: ascesi * detrazione . Vivere ogni giorno nella divergenza tra azione e riflessione, tale è stata la sorte volontaria di Gaètan Picon, destino quanto mai disagevole e a volte insostenibile. * Testo pubblicato nel catalogo della mostra Gaètan Picon al Centre Pompidou a Parigi (apri­ le 1979).

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Niente è piu scomodo che far fronte a un continuo dilemma: con­ centrarsi sui propri obiettivi o agire a favore degli altri. È più che evi­ dente che il problema non si pone in termini di generalità: tutti gli altri; la comunione di idee, la comunanza dei punti di vista hanno una parte fondamentale in questa crociata condotta a favore di quanto si giudica interessante, importante ed essenziale. Inoltre, bisogna saper apportare all’azione un’altezza di sguardo, un disinteresse, una generosità difficili da conciliare a volte con i propri interessi e nuclei di azione. E poi, qualunque cosa si faccia, ecco l’accusa cosi frequente di favorire alcuni a scapito di altri! Come se il perfetto giudizio dovesse paragonarsi a una bilancia, a misurare il peso insignificante di questi e di quelli, come se la qualità e la visione non dovessero essere prese in considerazione alcuna, e perché no, anche una parzialità certa a favore di quanto si ritiene oppresso, difficile e sfasato. Quanto agli obiettivi da realizzare, alla disseminazione dell’esperien­ za individuale odierna, quanto a imporre progressivamente la novità o l’insolito a una comunità a volte ribelle o semplicemente latitante per difetto d’interesse, quale altra via scegliere se non quella offerta dall’ap­ parato culturale ufficiale, il solo apparato che resta, in termini di non commercio, di fronte a un mecenatismo che si inaridisce al punto da divenire non solo inefficace ma anche inesistente! L’esigenza preme mi­ nacciosa: dover porsi, individualista per natura e riflessione, al centro di una tattica collettiva, delicata da manovrare, pronta a livellare le qualità personali a vantaggio del rendimento proprio della macchina. Quanto a dire allora che si dà sacrificio, o meglio rinunzia di sé a vantaggio di obiettivi lontani assunti dapprima come ragione, e poi come scusa? Se di sacrificio si tratta, è il sacrificio della propria tranquillità, del proprio equilibrio. Ma il sacrificio non può spingersi troppo oltre senza stravolgere la missione. Una simile missione implica, in effetti, la vigilanza costante, la curiosità, la tensione, il contatto con le forze vive, cose tutte che si rifiutano all’idea di un funzionariato immobile e sicuro del proprio diritto. Si spiega cosi perché conoscenza e creazione si sovrappongono a crea­ zione e realizzazione. Impossibile provocare l’irradiazione se non si è a propria volta il centro costante di una irradiazione. Non è certo facile preservare questo nucleo interno della conoscenza, salvaguardare la pro­ pria vigilanza e lealtà. Non è facile, in una parola, occuparsi di sé per occuparsi meglio degli altri, perseguire la disseminazione delle idee e mantenersi in rapporto costante con la loro genesi, con la loro novità. Gaètan Picon ha osservato molto, ha riflettuto molto, ha pubblicato molto. Il lavoro di approfondimento prima sugli altri e poi su se stesso è

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stato una delle costanti della sua vita, la ragione profonda della sua azione. Più è andato in profondità, più questo lavoro critico gli è divenu­ to proprio; quanto più ha compreso la propria epoca, tanto più si è sentito capace di aiutarla a esprimersi. Parlavo di lealtà: lealtà verso un ideale e nei confronti degli uomini. Giunge un momento in cui la tattica non è di alcun aiuto, in cui bisogna rompere per andare avanti, in cui perseverare nel compromesso sarebbe ammettere il fallimento. Che uomo retto e leale, è stato Picon! Anche in questo, il continuo contatto che egli ha avuto da sempre col pensiero altrui lo ha probabilmente sostenuto in questa certezza, che non si gioca d’astuzia con l’idea, che non si mente all’uomo. Parigi vale forse una messa, ma nessuna ipocrisia potrebbe sostituire la convinzione: non abdicare nel campo dell’idea, anche se temporaneamente, e temporal­ mente, ci si vede costretti a passar la mano... Più acuta è la perspicacia di chi sa vedere al di là dell’immediato, di chi sa con assoluta certezza che al di là di un’apparente disfatta passeggera egli conserva la rotta sull’esat­ tezza della propria visione. Tutto sommato, ciò che più conta - a dispetto degli ostacoli, dei fastidi, del tempo perso - è l’ostinazione a rivelarsi a se stesso. Una volta annullata l’azione, o semplicemente superata, si è liberi di tornare a se stessi col beneficio di un arricchimento incalcolabile. L’azione è stata il crogiuolo ove, nonostante l’apparente assorbimento da parte degli altri, l’io si è forgiato molto più solidamente che non attraverso la solitudine. La fragilità è stata eliminata; l’universalità delle preoccupazioni si è trovata rinvigorita. I rapporti col mondo esterno sono divenuti più sem­ plici dal momento che la paura o l’invidia sono state eliminate, ma non la curiosità; e anche la spontaneità può ritrovarvisi e muoversi con maggior piglio e sicurezza. Ridotto in polvere, il baluardo contro gli altri! Sono io al di là della contingenza, ma ci sono arrivato attraverso la contingenza. Disciplina meno «mondana» di quanto non appaia in un primo tem­ po; disciplina estremamente efficace, giacché se non si è in grado di resi­ stere a questo inabissamento per conto d’altri, ci si brucia alla prova del­ la nostra inesistenza, ci si pone a confronto, e per sempre, alla nostra incapacità di confrontarci. Come prediligo questa curva nell’esistenza di Gaètan Picon: dopo aver tanto dato agli altri, non il ripiegamento egoi­ sta, ma l’espansione interiore che non cessa di giustificare la dispersione apparente, che fa di questa dispersione assorbita la forza profonda che deve calamitare la ricerca di sé. Ogni presa e ogni valore finiscono per trovarsi, al di là del dialogo disseminato, nell’identità riconquistata e ricostruita.

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A MO’ DI CONCLUSIONE.

71. Geometria curva dell’utopia .* Senza voler giungere ad affermare con Sartre che «l’inferno è gli altri», direi tuttavia che non si sfugge allo sguardo degli altri, all’occhio che vi scruta, vi analizza, vi descrive; a volte non si sfugge alla malevo­ lenza; ma altre come oggi, non si sfugge alla benevolenza loro! Ricordo il gesto di Chariot che, davanti a un giudice che lo accusa dei peggiori misfatti, si volta indietro per vedere il mostro descritto a sua somiglianza, ma girandosi non vede che il muro della sala. Davanti a questa descrizione amplificata, davanti alla benevolenza che mi viene accordata, sarei tentato anch’io di girarmi per vedere codesto personag­ gio al di là della dimensione quotidiana, ed è probabile che come Chaplin non riesca a vedere altro che il muro di questa sala. Dunque al di là di noi stessi vi è lo sguardo degli altri che ci fa vivere di una vita diversa, che ci fa render conto, di tanto in tanto, che al di là della fatica quotidiana, ma essenzialmente a partire da essa, si compie una trasmutazione profonda del nostro essere. Per riprendere le parole dell’amico Clytus Gottwald, noi trasformiamo il soggettivo quotidiano, a seconda delle ore, dei giorni e degli anni, in una realtà oggettiva che supera la propria origine rendendola se non irriconoscibile, perlomeno «dimenticabile». È cosi che l’onore che oggi mi fate, lo accetto con grande piacere non tanto per quel che sono quanto per quello che, durante tutti questi anni, ho cercato di rappresentare. Le forze che passano in me, attraverso di me, a dire il vero, non le rappresento - nel senso esterno di una rappre­ sentazione; piuttosto le manifesto, e cerco che attraverso la mia azione, esse conducano a una, a più realizzazioni. E so troppo bene per esperien­ za il rimprovero di dispersione che potrebbe essermi rivolto, trattandosi di attività molteplici che avrebbero potuto distogliermi dall’unico scopo importante, la creazione. Esiste un proverbio portoghese che Claudel ha posto in epigrafe al Soulier de satin, secondo il quale «Dio scrive dritto servendosi di linee curve». Non ho nessuna intenzione di credermi Dio e tanto meno Gesù Cristo — che Nietzsche me ne guardi! Tuttavia è un * Allocuzione pronunziata durante l’assegnazione del premio Siemens, il 20 aprile 1979. Inedito.

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proverbio che faccio mio volentieri. Forse questa geometria particolaris­ sima della retta attraverso le curve, mi ha affascinato oltre misura; ma io non posso rappresentarmi l’esistenza senza gli eccessi e i pericoli della dispersione, purché al centro di un’attività multiforme permangano la fermezza della direzione e l’acutezza dello sguardo. Cosi ciò che è potuto sembrare lungo inutile giro, dispersione perico­ losa, non era in realtà che la manifestazione molteplice di un’ossessione centrale, unica: quella di far conoscere, di comunicare questo mistero, o almeno le particelle del mistero che si è creduto a propria volta di sco­ prire. E anche adesso, in questo Istituto di nuova fondazione, posso dare l’impressione di voler sacrificare tutto alla razionalità della ricerca, una brutta parola quando si tratta di ispirazione e di creazione. Si cita spesso la frase attribuita a Picasso come la definizione di un artista libero e prometeico nella sua libertà e rivendicazione: «Io non cerco, trovo». Non voglio arrivare a rovesciare l’aforisma e proclamare trionfalmente: «Cerco, non trovo»... ma credo tuttavia che pretendere di trovare senza cercare non è che una illusione dolce all’amor proprio, ma illusione da narcosi. Non vi è illusione più pericolosa che di credere di trovare, al­ lorquando non ci si rimette in questione in ogni momento della propria esistenza. L’illusione di trovare, è forse la vertigine più allettante, quella a cui piacerebbe lasciarsi andare, se non si sapesse che come l’euforia del freddo o della profondità, è pericolosamente mortale. La ricerca, anche se deve passare per alcune strette penose della nostra ragione raziocinan­ te, non è che l’illusione abolita! Non è il sacrificio delle facoltà animali; non è la sterilità della strada asfaltata. No, per me, la ricerca è al contra­ rio la forma più resistente e a volte più pazza dell’utopia. Si, per ripren­ dere una mia frase che Clytus Gottwald ha posto in epigrafe al suo discorso, la ricerca è ciò che mi consente, e ancor più mi spinge a sognare la mia rivoluzione almeno quanto a costruirla. Affidarsi soltanto al pro­ prio potere, vuol dire abbandonarsi nell’opulenza alle proprie abitudini mentali, trovare piacevoli i recessi della mente, accettare che la sensibili­ tà non vi scortichi più come una sconcia scarpa nuova, accettare gli agi e il conforto di un universo personale che si è finito per arredare, anche se qua e là si aggiungono alcuni oggetti delicati o belle piante verdi. Ma la ricerca non è il deserto della logica, non è la coercizione e l’incarceramento delle forze vive, non è la pianta quadrettata di una città che non si ha più alcun interesse a costruire, non è la sicurezza di un universo circoscritto dalle definizioni. La ricerca è come la fame: vi tormenta finché non l’avete soddisfatta, e poi ricomincia! Questa fame,

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non potrete soddisfarla una volta per tutte e così sbarazzarvene e dimen­ ticarla. Ed ecco a mia volta farmi prometeico... Giacché immagino che l’av­ voltoio che rodeva il fegato dell’eroe, questo avvoltoio, era stato dagli dèi condannato ad avere fame! Semplicemente, fame... Immagino anche che dandomi questo premio, non dal destino di Prometeo avete voluto proteggermi, e né d’altro canto avete voluto risparmiarmi la sorte del povero avvoltoio... Ma dopotutto mi piacereb­ be credere che se mi avete scelto, non l’avete fatto solo per me stesso, ma anche per una certa forma dell’Utopia che io forse rappresento, che mi piacerebbe comunque rappresentare. Senza dubbio avete saputo discer­ nere, al di là delle opere che sono riuscito a creare consciamente, la buona dose d’incoscienza che occorre per perseverare sulla strada che le circostanze, «col mio aiuto», hanno tracciata attraverso tutti questi an­ ni. Vi sono dunque grato di ciò che ritengo una grande - e lusinghiera — intuizione: avere scoperto, segnalato, e anche ricompensato, le mie qua­ lità di sonnambulo.

Indice dei nomi e delle opere

Adorno, Theodor Wiesengrund, 14, 205, 216, 234-36, 238, 259, 264, 276, 402, 479. Albeniz, Isaac, 292, 307. Albert, Rudolf, 411. Alembert, Jean-Baptiste Le Rond, detto d’, 10, 17. Ansermet, Ernest, 343. Aragon, Louis, 31, 52, 424: Traité du style, 31, 424. Aristotele, 21. Arnim, Ludwig Achim von, 304. Artusi, Giovanni Maria, 10. Auber, Daniel-Fran^ois-Esprit, 185. Bach, Johann Sebastian, 5, 13, 15, 177, 182, 185, 189, 211, 229, 235, 246, 280, 303, 314, 315, 390, 411, 459: Cantate, 390. Il clavicembalo ben temperato, 8. L'arte della fuga, 211,314, 411. L'offerta musicale, 13, 314, 318. Passioni, 153, 229, 230, 390. Variazioni Goldberg, 314. Von Himmel Hoch, 314. Bakunin, Michail Aleksandrovic, 177, 206. Balzac, Honore de, 21, 41, 185, 208, 221, 237, 389: La Comédie bumaine, 389. Barraqué, Jean, 411. Barrault, Jean-Louis, 417, 420. Barth, H., 171 n. Bartók, Béla, 122, 323-26, 411, 469, 488: Allegro barbaro, 122. Musica per archi, percussione e celesta, 323325, 342, 488. 5° Quartetto per archi, 324. Sonata per due piani e percussione, 324. Bartomeu, M., 409. Baudelaire, Charles, 41, 84, 86, 87, 89, 90, 98, 231, 277, 373» 396, 483: Scritti sull'arte, 84 n, 86 n, 87 n, 89 n, 90 n. Beckett, Samuel: En attendant Godot, 414. Beethoven, Ludwig van, io, 15, 21, 174, 175, 180, 182-85, 189, 192, 195, 196, 208, 211-13, 233, 235, 240, 243, 246, 254, 260, 261, 265, 303, 324, 389, 393» 396, 457, 467: Missa solemn is, 230.

IX Sinfonia, 208. Pastorale, 303. Sinfonia eroica, 486. Béjart, Maurice, 471. Bellini, Vincenzo, 185. Berg, Alban, 30, 92, 95, 96, 120, 142, 213, 218, 224, 236, 252, 253, 258-75, 278, 279, 288, 319321, 324, 326, 328, 357-63, 368-70, 379, 398405, 411, 418, 459, 468, 469, 488: Altenberg. Lieder, 266, 267. Concerto per violino, 261, 263. Il vino, 263. Kammerkonzert, 263, 319-21, 350. Lulu, 120, 213, 218, 258-76, 398, 400 n, 401. Pezzi per orchestra op. 6, 399, 418. Pieces, 321. Quartetto op. 3, 418. Sonata, 321. Suite lirica, 261, 263, 411, 488. Wozzeck, 152, 218, 259, 265-67, 278, 328, 350, 357-63, 366-70, 399, 470. Berlioz, Hector, 37, 174, 182, 185, 196-201, 203, 204, 212, 214, 218, 219, 225, 235, 238, 244, 273, 289, 301-5, 312, 365, 390, 393, 396, 467: Beatrice et Benedict, 202. Benvenuto Cellini, 202. Grande Symphonic funebre et triomphale, 197. Harold en Italie, 301. La Damnation de Faust, 203, 365. La Marche des pèlerins, 301. Lelio, 203, 301-3. L'Enfance du Christ, 280. Les Troyens, 202, 203. Requiem, 197, 199, 301. Scène aux Champs, 303. Symphonic Pantastique, 301-3, 312. Te Deum, 197. Traité d’Orchestration, 198, 219. Bernhardt, Sarah, pseudonimo di Henriette-Ro­ sine Bernard, 330. Biasini, Émile, 426. Bismarck-Schonhausen, Otto von, 183. Bizet, Georges: Carmen, 306, 379. Bonino Savarino, Luigi, 75 n. Bordaz, Robert, 427. Boulez, Pierre, 77 n, 93 n, 117 n, 161, 162, 164, 327 n, 366 n, 467, 476 n, 481 n, 482 n:

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Indice dei nomi e delle opere

Bel édifice et les pressentiments, 336, 337, 340. Bourreaux de solitude, 336-40. Coup de Dés de Mallarmé, 112. Cummings, 164. Domaines, 469. Éclat, 469. Explosante-Fixe, 162. Improvisations sur Mallarmé, 117-26. L’Artisanat furieux, 336, 337, 340. Marteau sans maitre, 161, 164, 327 e n, 336, 341. Pii selon pii, 164-67. Poésie pour pouvoir, 1G0, 162, 164. Polyphonie X, 160-62. Structures pour deux pianos, 160-62. Brahms, Johannes, 183, 185, 189, 335. Brailoiu, Constantin, 352. Brecht, Bertolt, 2^9, 260, 267, 467: L'Opera da tre soldi, 259. Mahagonny, 239. Brentano, Clemens von, 304. Breton, Andre, 61, 424: Secondo Manifesto del Surrealismo, 424. Brillouin, Léon-Nicolas, 16, 17. Brook, Peter, 471. Brown, Earle, 469. Bruckner, Anton, 240. Bruneau, Alfred, 261. Buchner, Georg, 357, 368, 370: Woyzeck, 206, 264. Biilow, Hans von, 178, 179, 182. Busoni, Ferruccio Benvenuto, 323. Butor, Michel, 98, 135: L'Emploi du Temps, 135.

Cage, John, 105 n: Book of Music for two pianos, no. Sonate, no. Cajkovskij, Petr Il'ic, 23. Calderon de la Barca, Pedro, 185. Caplet, Andre, 307, 346. Cartesio, vedi Descartes, René. Cerha, Friedrich, 259. Cervantes y Saavedra, Miguel de, 184, 185. Cezanne, Paul, 13, 28, 54, 98, 380: Montagne Sainte-V ictoire, 54. Chabrier, Alexis-Emmanuel, 306. Chailley, Jacques, 425, 427. Chamberlain, Joseph, 223. Chants de Maldoror, Les, vedi Lautréamont, le Comte de. Chaplin, Charlie Spencer, 405, 495. Char, Rene, 18, 144, 145, 158, 336, 340, 342: Bel édifice et les pressentiments, 336. Bourreaux de solitude, 336. L'Artisanat furieux, 336. Poème pulvérisé, 18. Charpentier, Gustave: Louise, 261. Chaucer, Geoffrey, 127. Chéreau, Patrice, 385, 401, 404, 405. Claudel, Paul, 156, 157, 227, 231, 238, 240, 280, 346, 365, 382, 385, 495: Le Soulier de satin, 356, 495.

Cocteau, Jean, 79, 284. Craft, Robert, 314, 316. Crumb, George, 469. Dallapiccola, Luigi, 348. Debussy, Claude-Achille, 13, 15, 28, 95, 119, 121, 210, 216, 224, 228, 231, 236, 250, 278, 288, 292, 306-11, 322, 324, 335, 341, 343, 370383,411,467: Chanson de Bilit is, 372. Danses, 308. Danse sacrée, 309. Danseuses de Delphes, 309. Estampes, 306. Etudes, 378, 411. Petes, 308-10. Gigues, 306-8. Iberia, 121, 306-8. Images, 306, 307. Jardins sous la pluie, 306. Jeux, 309, 310, 378. La Marche écossaise, 306. La Mer, 306, 309. L'Après-midi d'un Faune, 309. La Puerta del vino, 306. La Soirée dans Grenade, 306. Le Martyre de Saint Sébastien, 36^, 371. Matin d'un jour de féle, 308. Nuages, 309, 310. Pagodes, 307. Parfums de la nuit, 307, 308. Pelléas et Mélisande, 152, 236, 348, 370-80, 383, 384,470, 471. Préludes, 306. Rhapsodic, 311. Rondes de Printemps, 306-9, 311. Sirènes, 309, 310, 372. Sonate pour flute, alto et harpe, 341. Trois Ballades de Villon, 309. Delacroix, Eugène, 84, 89, 91, 189, 4^7. Descartes, René, 88, 103, 433. Désormière, Roger, 342-57, 475. Dostoevskij, Fèdor Michajlovic, 223. Dreyfus, Alfred, 178.

Engels, Friedrich, 223. Enrico II, re di Francia, 151. Eschilo, 185. Falke, Gustav, 329. Fauré, Gabriel: Notturno XIII, 251. Pénélope, 251. Federico II, re di Prussia, detto il Grande, 13. Francesco I, re di Francia, 151. Freud, Sigmund, 333. Freund, Marya, 344. Frezza, Luciana, 124 n. Gabrieli, Andrea, 199. Garant, S., 410. Gavin, Barry, 287 n. Genet, Jean, 472.

Indice dei nomi e delle opere George, Stefan: Die Biichcr ... der H'àngenden Garten, 328. Gesualdo, Carlo, principe di Venosa, 216, 234. Gielen, Michael, 468. Giovanni XXII, papa, io, 150. Giraud, Albert, 333. Gluck, Christoph Willibald, 174, 203. Gobineau, Joseph-Arthur, conte di, 184. Goethe, Johann Wolfgang von, 185, 189, 202, 225: Faust, 208. Gottwald, Clytus, 493, 496. Goya y Lucientes, Francisco José, 306. Guglielmi, Giuseppe, 84 n. Guglielmo II, imperatore di Germania, 206, 239. Haendel, Georg Friedrich, 280, 314. Halévy, Ludovic, 185. Hartleben, Otto Erich, 333, 342. Hartmann, Karl Amadeus, 409. Hauptmann, Gerhart: E Pippa danza {Und Pippa tanzt), 259. Haydn, Franz Joseph, 182, 185, 189, 191, 335, 468. Henze, Hans Werner, 411. Hindemith, Paul, 259, 260, 267, 274: Card iliac, 259. Hin und Zuriick, 259. Neues vom Tage, 259, 260. Hoffmann, Ernst Theodor Wilhelm, 41, 59, 477. Holderlin, Friedrich, 78, 79. Hiibner, FL, 409. Hugo, Victor, 191.

Ibsen, Henrik, 394. Indy, Vincent d’, 178, 306, 321. Ionesco, Eugène, 192. Jacobs, Paul, 411. Jameaux, Dominique, 160-62, 164. Jarry, Alfred, 52, 78, 251, 405, 422, 425. Jemnitz, 329. Jone, Hildegard, 316. Joyce, James, 38, 126-28, 132, 138, 207, 217, 279: * Finnegan s Wake, 217. Ulisse, 31, 127.

Kafka, Franz: Diario, 321. La Tana, 129. Kandinskij, Vasilij Vasil'evic, 254-58, 279, 450. Kendergi, Maryvonne, 450 n, 452 n. Klee, Paul, 90, 258, 279, 286, 287, 430, 450. Knappertbuscb, Hans, 343. Kraus, Karl, 259, 260. Krupp, Alfred, 206. Lacombe, Daniel, 76. Laforgue, Jules, 333. Lagrange, H.-L. de, 186 n. Landowski, Marcel, 426-28. La Rochefoucauld, Francois, duca di: Maximes, 334, 335.

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Lautréamont, le Comte de, pseudonimo di Isi­ dore Ducasse: Les chants de Maldoror, 223. Lavater, Johann Kaspar, 205. Léger, Fernand, 289. Leleu, J. L., 117 n. Lenin, Nikolaj, pseudonimo di Vladimir Il'ic ULjanov, 39. Lenz, Jakob: Pandaemonium germanicum, 37. Leoncavallo, Ruggero, 261. Le Roux, Maurice, 411. Lévi, Hermann, 178, 184, 239. Lévi-Strauss, Claude, 68, 82. Liszt, Franz von, 175, 182, 185, 202, 244, 292. Ludwig II von Wittelsbach, re di Baviera, 174, 183, 184. Luigi XIV, re di Francia, 183. Luigi XV, re di Francia, 183. Luigi XVI, re di Francia, 183. Lulli, Giovanni Battista, ir.

Mach, D., 171 n. Machaut, Guillaume de, T47. Maderna, Bruno, 411, 468, 485 e n, 486: Satiricon, 486. Maeterlinck, Maurice, 372, 373. Mahler, Gustav, 15, 186, 187, 201, 219, 220, 223, 240-49, 267, 303-5, 344: Das Klagende Lied, 303, 304. Des Knaben W underhorn, 304. Mallarmé, Stéphane, 13, 38, 69, 124-31, 135, 138, 144, 153, 157, 160, 164-67, 202, 333: Coup de dés, 129, 131, 202. Livre, 38, 130-31, 137, 202. Une denteile s’abolit, 123, 124, 166. Malraux, André, 12, 15, 425-28. Manet, Édouard, 277, 306. Martin, Roger, 62. Marx, Karl, 171, 206, 221, 223. Mendelssohn-Bartholdy, Felix, 178. Messiaen, Olivier, 95, 102, 115, 120, 287-300, 342, 348, 411,487-92: Chronochromie, 292. lies de Feti 1 et 2, 295, 296. La Transfiguration, 293. Les Mains de l’Abìme, 296. Les Yeux dans les Roues, 296, 297. Livre d’Orgue, 295, 297. Messe de la Pentecóte, 295. Mode de valeurs et d’intensités, 115, 294, 295. Neumes rytbmiques, 294-96. Poèmes pour Mi, 293. Quatre Etudes de Rythme, 295. Quatuor pour la Fin du Temps, 292. Reprises par interversion, 296. Soixante-Ouatre Durées, 296. Technique de mon langage musical, 294. Tbérne et Variations pour violon et piano, 490. Trois Petites Liturgies, 120, 342, 348. Vingt Lemons d’harmonic, 95. Meyerbeer, Giacomo, 178. Meyerhold, Vsevolod Emilevic, 402. Michaux, Henri, 41, 145, 163.

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Indice dei nomi e delle opere

Milhaud, Darius, 344, 347. Milhaud, Nestor, 425. Miller, Henry, 55, 422. Mizler von Kolof, Lorenz Christoph, 314. Molière, Jean-Baptiste Poquelin, detto, 386. Mondrian, Piet, 254, 255, 258. Monet, Claude: Femmes dans le Jardin, 311. Montaigne, Michel Eyquem, signore di: Essa is, 208. Monteux, Pierre, 343. Monteverdi, Claudio, 10, 95, 199, 216, 229, 234: Vespri della Beata Àiaria Vergine, 351, 352. Mozart, Wolfgang Amadeus, 15, 21, 153, 182, 185, 189, 2i2, 229, 261, 265, 280, 343, 390, 459: Die Zauberflote, 229, 230. Don Giovanni, 260, 270, 302, 386. Munch, Edvard, 255. Miinch, Charles, 343. Musil, Robert, 333, 334. Mussorgskij, Modest Petrovic, 121, 261, 278, 371, 372, 376, 378: Boris Godunov, 121, 261, 376, 378. Enfantines, 378. Mariage, 261, 376.

Napoleone I Bonaparte, imperatore dei francesi, J93Nietzsche, Friedrich Wilhelm, 59, 104, 184, 217, 221, 223, 425,495: Cosi parlò Zarathustra, 104. Nono, Luigi, 411. Nous n*irons plus au bois, 306, 308. Novalis, pseudonimo di Friedrich von Hardenberg, 143. Offenbach, Jacques, 414. Omero, 185. Pandaemonium germanicum, vedi Lenz, Jakob. Paz, Juan Carlos, 409. Peduzzi, 404. Pergolesi, Giovan Battista, 283. Pfitzner, Hans, 10. Picasso, Pablo, 278, 279, 496. Picon, Gaetan, 492-94. Piero della Francesca, 20. Piscator, Erwin, 402, 453. Platone, 185. Plutarco, 351. Poe, Edgar Allan, 28, 373: La Caduta della Casa Usher, 374. Pousseur, Henri, 411. Prokof'ev, Sergej Sergeevic: Sinfonia classica, 14. Proust, Marcel, 14, 208, 209, 233, 237, 238, 334,

3I^a6iprisonnière, : 233. Quartetto Parrenin, 411.

Raffaello Sanzio, 20, 237. Raimondi, Ezio, 84 n.

Rameau, Jean-Philippe, 8, 10, 11, 17, 23, 85: Traité d’harmonic, 8. Ravel, Maurice, 119, 121,288, 306, 335. Redlich, H.-F., 258 n, 274, 400 n. Redon, Odilon, 255. Reinhardt, Max Goldmann, 402. Rembrandt, Harmenszoon van Rijn, 13. Renaud, Madeleine, 420. Richter, Hans, 182. Rimbaud, Jean-Arthur, 13, 46, 77, 79, 225, 254: Une saison en Enfer, 223, 225. Rimskij-Korsakov, Nikolaj An dree vic, 312: Le Coq d’or, 312. Robespierre, Maximilien de, 202. Rosbaud, Hans, 163, 343, 353, 411, 476-78. Rossini, Gioacchino, 185. Rousseau, Jean-Jacques, 10, 19-26, 32, 102, 150, 192, 193, 197, 202. Roussel, Albert, 321. Rubinstein, Joseph, 184. Saby, no. Sacher, Paul, 324. Sade, Donatien-Alphonse-Fran^ois, detto marche­ se di, 200, 201: Centoventi giornate di Sodoma, 200. Saint-Saèns, Charles-Camille, 90. Saint-Simon, Louis de Rouvroy, duca di, 414. Salzman, Eric, 469. Samuel, Claude, 5 n. Sartre, Jean-Paul, 495. Satie, Erik Alfred Leslie, 28, 38, 250 e n, 251: Les Sarabandes, 250. Les V alses, 250. Socrate, 250. Schaeffner, André, 333, 342, 380. Scherchen, Hermann, 411, 475, 476, 485, 486. Scherer, Jacques, 130, 131, 135, 137. Schiller, Friedrich von, 185, 192. Schloezer, Boris de, 151. Schmitz, R., 323. Schonberg, Arnold, io, 55, 96, 141, 142, 201, 213, 223, 233, 236, 251-60, 262, 271-74, 278, 279, 281-83, 286-88, 320-22, 324, 326, 327-35, 341, 344-46, 402, 410, 411, 488: Cinque brani, 346. Cinque brani per orchestra, 346. Der kranke Mond, 327, 328, 341. Der Mondfleck, 334. Die gliickliche Hand {La mano fortunata}, 258, 260, 273, 329, 361, 402. Die Kreuze, 327, 333. Eine blasse Mascheriti, 335. Enthauptung, 333, 341. Erwartung, 255, 258, 260, 346, 402. Galathea, 329. Galgenlied, 328. Gebet an Pierrot, 328. Herzgeivdcbse, 346. J Giardini sospesi, 346. Madonna, 333. Mosè e Aronne {ÀJoses und Aaron}, 260, 330. Nacht, 328, 333, 334.

Indice dei nomi e delle opere Nachtwandler, 329. Ó alter Duft, 327, 328. Ode lo Napolen, 330, 411. Parodie, 334. Pierrot lunaire, 141, 152, 255, 273, 320, 327341, 344'47, 350, 361, 4H> 488. Raub, 333. Rote Messe, 328, 333. Serenade, 342, 411. Stile e Idea, 329. Suite opus 29, 260. Von Henle auf Morgen, 260. Schubert, Franz, 217, 245, 328. Schumann, Robert, 217, 225, 328, 365: Dicbterliebe, 335, 341. Péri, 365. Schutz, Heinrich, 229. Shakespeare, William, 19, 24,184,185, 202, 333, 395: Amleto, 127, 473. Macbeth, 406. Skijabin, Aleksandr Nikolaevic, 278, 291. Socrate, 98. Sofocle, 185. Steinecke, Wolfgang, 409, 472 e n, 473, 485. Stendhal, pseudonimo di Henri Beyle, 21. Stiedry-Wagner, Erika, 330. Stockhausen, Karlheinz, 411, 412, 485: Gruppen, 485. Stokowski, Leopold, 323. Strauss, Richard, 231, 232, 261, 304, 328, 343, 344Stravinskij, Igor' Fèdorovic, 66, 121, 224, 236, 266, 274, 276-79, 281, 283 86, 288, 290, 311316, 322, 322, 326, 344, 347, 348, 468: Apollon Musagète, 250. Canticum Sacrum ad honorem Sancii Marci nominis, 315, 316. Le Prince Igor, 313. Le Rossignol, 278. Le Sacre du printemps, 277, 312, 313, 457, 488. Les Noces, 122, 143, 278, 352, 356. L’Histoire du Soldat, 266, 346. L'Oiseau de feu, 278, 311-13. Petrusha, 312. Poèmes de la lyrique japonaise, 278. Pribaoutki, 143. Renard, 143. Simphonie de Psaumes, 315. The Rake's Progress, 261. Trois poèmes de la lyrique japonaise, 342. Zvezdoliki, 23G, 278. Strobel, Heinrich, 409, 481 e n, 482 e n. Suvtchinskij, Pierre, 15, 16, 32, 353. Telemann, Georg Philipp, 314. Tézenas, Suzanne, 420, 421. Tiziano Vecellio, 93. Toussignant, Francoise, 105 n. Trockij, Lev Davidovic, pseudonimo di Lejba Bronstejn, 103. Turner, William, 387.

505

Vaché, Jacques, 424. Valéry, Paul, 17, 31, 52, 284. Vallas, Leon, 307. Van Gogh, Vincent, 13. Varèse, Edgar, 321-23, 469, 474 e n, 475: Densi té 21.5, 474. Déserts, 474. Ecuatorial, 474. Hyperprisme, 321-23,474. Octandre, 321-23, 474. Offrandes, 474. Intégrales, 321-23, 474. Ionisation, 474. Verdi, Giuseppe, 175, 414. Vols, E., 171 n.

Wacht am Rhein, 183. Wagner, Cosima, 179-85, 384, 385, 393: Diario, 179-85, 393. Wagner, Siegfried, 181. Wagner, Wieland, 239, 363 e n, 366 e n, 368-70, 455, 470: Denkmalsscbutz fiir Wagner, 239. Wagner, Wilhelm Richard, 15, 41, 144, 171-85, 189, 196, 201, 202, 204-39, 243, 246, 254, 261, 265, 273, 274, 281, 302-4, 343, 344, 357, 358, 376-78, 380, 382, 384-97, 467, 47i: Die Meistersinger von Niirnberg, vedi I Mae­ stri Cantori di Norimberga. Il crepuscolo degli dèi (Gòtterdàmmerung), 180, 181, 385-88, 390. I Maestri Cantori di Norimberga (Die Mei­ stersinger von Niirnberg), 179, 183, 214, 280, 376. L'anello del Nibelungo, 203, 205-22. La Valchiria (Die Walkiire), 213, 217, 390, 391L'oro del Reno (Rheingold), 213, 217, 387-91. Marce, 179. Marcia trionfale, 180, 183. Parsifal, 178 85, 207, 214, 224-40, 363-68, 378, 455,470. Rhein gold, vedi L'oro del Reno. Ring, vedi Tetralogia. Siegfried Idyll, 211, 388, 391. Tetralogia, 15, 179-85, 205-22, 224, 226, 228, 236, 237, 384-98. Tristano e Isotta, 175,182,197, 207, 214, 223, 226, 227, 303, 373, 378. Walter, Bruno, 240 n. Weber, Cari Maria von, 174, 182, 185, 203, 238, 390. Webern, Anton von, io, 14, 15, 28, 38, 78, 95, 236, 253, 260, 298, 313, 316-21, 323, 326, 328, 342, 410-12, 418: Bagatelles, 14. Cantate, 316-18, 350, 418. Concerto per nove strumenti, 350. Das Augenlicht, 316. Passacaglia op. 1, 418. Variazioni opus 30, 298. Wedekind, Frank, 252, 260, 262-64, 267, 268, 274, 329, 401, 404, 405:

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Indice dei nomi e delle opere

Il Vaso di Pandora (Die Biichsc der Pandora), 259, 263. Lo Spirito della terra (Erdgeist), 239, 263. Weill, Kurt, 267, 274. Wesendonck, Mathilde, 223. Widor, Charles-Marie, 321. Wiener, Jean, 344. Wolzogen, Ernst von, 223, 328. Wuorinen, Charles, 469. Zehme, Albertine, 328, 332, 347. Zola, Émile, 261.

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L’espressione artistica musicale del nostro secolo, in­ vestigata da un protagonista d'eccezione.