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SAGGI 11 9
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Politica e commedia Dal Beroaldo al Machiavelli
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1972 by Società editrice il Mulino, Bologna. CL 27-0321-1
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« L'aspirazione piu generale della ragione è rivolta all'annullamento del caso ». W. von Humboldt « La connaissancc consiste conaètement dans la recherche de la sécurité par réduction des obstacles, dans la construction de théories d'assimilation ». G. Canguilhem
Diceva Novalis, in uno dei suoi frammenti, che la pre fazione di un libro deve descrivere l'uso del testo, la filo sofia della sua lettura; ed è una ricetta ancora valida, un invito pertinente e ingegnoso a rispettare le regole che governano il dialogo e le funzioni, spesso ironiche, della scienza letteraria. Seguendo dunque il consiglio del sag gista romantico, l'autore della presente raccolta, per quanto rinunci subito alla pretesa cli una filosofia, giudica che sia suo dovere spiegare come mai appaiano insieme alcuni studi di argomento umanistico, quasi da miscellanea o selva erudita, e altri esercizi di analisi piu propriamente critica intorno all'opera del Machiavelli. La prima ragione po trebbe essere quella della contiguità tematica e cli un si stema culturale comune, soprattutto in rapporto a scrittori come Plauto, Lucrezio e Apuleio, che passano dall'uno all'altro versante, dai grandi .commenti dei maestri bolo gnesi ai ghiribizzi e alle invenzioni del Segretario fioren tino. E inoltre vi sarebbe anche, a giustificazione dell'ac costamento, l'analogia del tradurre la cultura in teatralità, in coscienza di un ruolo dinanzi a un pubblico, in gioco comico cli gesti e cli maschere, piu dalla parte del grotte sco e del quotidiano che da quella. del sublime o del 5
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sacerdotale: il che non esclude poi una drammaticità di nuovo genere quando al rito della lezione, che è sempre mimo e teatro, sceneggiatura retorica del sapere, subentra l'impulso profondo del pensiero, l'ironia del negativo che s'incarna in un destino, nella materia finita e vivente di un ) individuo. Il teatro, osservava ancora Novalis, è la rifles sione attiva dell'uomo su se stesso. Ma anche se possono avere qualche peso, queste consi derazioni o congetture non riflettono affatto il proposito dell'autore, a cui ciò che stava a cuore, nel momento di raccogliere le sue pagine, era piuttosto l'immagine di un itinerario critico dall'erudizione all'indagine strutturale, con gli esiti che ne possono venire in ordine al modo di inten dere l'atto della lettura, il lavoro dell'interprete. Affinché questo riesca meno oscuro, bisogna intanto informare il lettore, con il sussidio di un'integrazione autobiografica, che all'origine del volume vi è l'incontro, oramai lontano, con Lucien Febvre e la storiografia delle Annales. Tutto cominciò, infatti, verso il 1950. Proprio mentre terminava le sue prime ricerche sul Quattrocento bolognese, chi scrive, allora giovane studioso come usa dire nel linguaggio accademico, aveva trovato quasi per caso Le problème de \ l'incroyance au XVI• siècle ed era giunto poco dopo ai \ Combats pour l'histoire, traendone una lezione indimenti\ cabile, sebbene nella luce confusa di una recezione irre golare e composita, dove potevano convivere insieme Croce, Dewey e Heidegger, Longhi, Wolfflin e Focillon, Spitzer e Curtius, Auerbach e Contini. Non ci si stupisca di questa strana enciclopedia di figure e di idee giustapposte o in trecciate. Il provinciale di classe subalterna che contava vent'anni alla fine della guerra non aveva forse avuto il tempo di distinguere o di assimilare con ordine, aveva do vuto orientarsi come di corsa, quasi improvvisando, per vedere di capire qualcosa di una tradizione che non era la sua, in un universo di nuovo vasto e clifFicile, non piu
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falsamente omogeneo. « Ah! que le monde est grand à la clarté des lampes»... Ma questo è tutt'un altro discorso, che conviene subito archiviare. Letti i Combats per intanto, il nostro personaggio sentiva il bisogno di ragionare di alcuni dei problemi che Febvre riproponeva da lucido « praticien» a una critica letteraria desiderosa di riprendere contatto con il fronte in movimento delle scienze umane; e cosi discorreva per iscritto di una nuova prospettiva sociologica del fenomeno letterario, della possibilità di una storia regionale delle forme artistiche, . del nesso dialettico tra individuo e isti tuzione, e infine di una psicologia sociale da risolvere in indagine diacronica della sensibilità, concepita come si� \-' sterna di emozioni ritualizzate: antropologicamente, di modelli di cultura. Il rileggere oggi quanto gli capitava cli scrivere quasi vent'anni or sono non va disgiunto da una certa mortificazione per tutto quello che l'annotatore non aveva capito o esprimeva male, anche se poi gli resta, 9 parziale compenso della sua generosa goffaggine, il pia cere retrospettivo di non avere fallito nella scelta dell'og getto e di non essere andato lontano dal segno, magari senza saperlo, nel parlare di una « filologia semantica degli strumenti mentali, degli stati d'animo storicamente individuati». In fondo, nel modo oscuro di un entusiasmo ancora arruffato di buone intenzioni, era come dire che la critica letteraria doveva prendere la strada non solo della storia ma anche della linguistica, di una linguistica, è ovvio, di tipo non idealistico o tardo-romantico. Pur troppo, bisogna aggiungere, colui che si appellava alla semantica s'era scordato di Saussure, e non conosceva an cora Sapir. D'altro canto, l'essenziale per allora era di J..'Crcepire la necessità di negoziare degli accordi e degli scambi fra discipline contigue, di riconoscere le concor-. danze dei metodi alle frontiere di scienze diverse, sino a convincersi che lo spirito scientifico consiste nell'attitudine
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sistematica a trovare delle correlazioni e che, tutto som mato, il metodo migliore risulta spesso quello di complicare ciò che sembra troppo semplice. Anche per Febvre, come per Nietzsche, lo specialista non doveva rassegnarsi alla propria gobba. Con premesse di tale natura, rinforzate da altre inquie tudini o suggestioni letterarie, di cui non è il luogo, ora, di tracciare una cronaca, si dovrebbe comprendere perché qualche anno piu tardi, cli fronte all'avvento della lingui stica post-saussuriana e cli quello che qualcuno battezzava subito l'uomo strutturale, l'io che si sta qui autoanalizzando . non abbia mai potuto prendere per buona l'opposizione . __\, \ insormontabile cli diacronia e sincronia, a costo cli sem brare un eclettico. Quando si perviene al concetto cli strut tura attraverso la logica aperta e flessibile cli una storio grafia problematica che rimette in opera un'ipotesi cli si stema, è difficile, specie se contemporaneamente entra nel circolo della conoscenza l'esempio dei formalisti russi e dei loro eredi boemi, scambiare il principio di una lettura testuale costruita sulla dialettica, come avrebbe detto il vecchio Humboldt, dell'individuo e del genere, della forma e della relazione, per un'idea dogmatica di letteratura fuori del tempo, di parola senza storia, immobile nel presente assoluto cli una durata che annulla il molteplice e il di verso. Volere uscire dal cattivo empirismo cli una critica che rimane esterna al testo con il diritto di giudicarlo non significa privilegiare l'aspetto sincronico del prodotto let terario e imporre la sua reificazione positivistica: può anche essere un tentativo o un esperimento per ricondurre all'in terno di una totalità diacronica lo statuto delle forme, dei modelli della prassi poetica. Ecco allora il ruolo attivo dell'erudizione, oggi non per nulla largamente rivalutata nei suoi caratteri originari cli spirito critico e cli esercizio scien tifico. È propria dell'erudizione la conoscenza documentaria del concreto, la ricerca del senso cli ciò che resta, correlato 8
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alla serie di cui fa parte. L'erudito, è stato detto, è l'uomo dell'ordine, ma si muove sempre ai margini dell'ignoto e èel possibile. Ogni documento che egli interroga e decifra rappresenta un reticolato vastissimo di eventi, di rapporti o di problemi, che può divenire al limite il labirinto bi bliografico di un Borges, interpolazione del caso nel segreto armonico del mondo. Se un archivio, stando a quanto osserva Lévi-Strauss, costituisce l'evento nella sua contin genza radicale e assicura un'esistenza fisica alla storia, per l'erudizione, che ne è la cliente piu fedele, la struttura di un testo non può essere appresa se non nella forma di uno spartito multiplo in sequenze .:liscontinue, legate alla fun zione variabile della storicità come momenti di un disordine che reiterandosi diviene ordine, gioco aleatorio di coinci denze e di contrasti, Gadda direbbe groviglio o somma di rapporti. Come sempre elegante, fertile e sofisticata, certa cri tica francese ama parlare di intertestualità in antitesi alla legge del contesto, perché pensa che il contesto del mes saggio, ciò che sta intorno alla parola secondo il Coseriu, ne riduca la polisemia e l'ampiezza, la densità simbolica, a favore di un razionalismo positivo che è di fatto resi stenza al simbolo. L'intertesto non è piu la circoscrizione delle fonti o delle influenze donde emerge un'opera o un autore, ma lo spazio a piu dimensioni della scrittura, il testo in quanto attraversa ed è attraversato, l'insieme delle letture che lo riproducono e lo modificano. C'è chi ha definito subito questo culto della testualità una ideologia della ridondanza, una deformazione idealistica dello strutturalismo, e può essere vero. Ma il problema del testo rimane sempre il capitolo portante di una poetica moderna, non come oltemativa alla realtà del contesto quanto come riflessione e ricerca· di una dialettica delle· strutture, delle relazioni semantiche entro cui corre il dialogo fra l'opera e il suo lettore; il quale a sua volta risulta sempre la variante reat9
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delle strutture extratestuali dipendono dalle cause sociali, storiche e antropologiche, che improntano i modelli arti stici del mondo, cosi come si può asserire, considerando la particolare natura informativa dell'arte, che le strutture testuali corrispondono di piu agli interessi dell'autore men tre quelle del fuori-testo trovano riscontro soprattutto nel lettore e nel suo ruolo entro il processo della comunica zione. Dopo le strutture delle forme linguistiche, occorre cosi portare alla luce le strutture del contenuto e del codice culturale, lo stile dell'ideologia. Nell'indagare taluni aspetti del Machiavelli e del suo universo letterario l'autore degli studi che compongono que sto volume non presume di aver seguito le indicazioni del Lotman, che ha conosciute, del resto, solo a posteriori, quantunque gli sembri di ritrovarvi qualcosa di atteso, ma ha cercato di distinguere le stratificazioni di un testo e di ricostruire la strategia multipla di un sistema di im magini, di scendere alle figure profonde di un pensiero che vive come pochi l'urto del tempo storico e di ricupe rare, insieme con il personaggio che drammatizza la pro pria riflessione, quel momento distruttivo che troppo spesso, , dire del Benjamin, finisce con lo sfuggire all'archeologia della cultura. Il Machiavelli non fa mai dimenticare il mondo rispetto al libro che dovrebbe descriverlo, perché il suo ragionamento non può prescindere dagli uomini e dalle cose come il fisico non può prescindere dai fenomeni della natura. Cosi la sua parola diviene davvero un evento di scorsivo, centro dinamico di una costruzione concettuale che registra sempre il movimento dell'esperienza, il gesto, lo scatto improvviso della passione o della fantasia. E forse per questo non si può intendere ·intimamente la sua logica di pensatore politico, la sua « rhetorica docens », senza rendersi conto del suo stile, che è anche un significato, un modello di cultura, una sintassi dell'intelletto ancora lontano dalla dissociazione della sensibilità. La forma è il 11
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pensiero, ha scritto paradossalmente un maestro della po lemica e della invettiva, Karl Kraus. Chi legge il Machiavelli e scruta i processi di formazione del suo sistema culturale non può mai arrestarsi a una struttura statica o neutra, deve di continuo fare posto all'anomalia dell'evento, alla l forza aleatoria dell'occasione, al disordine del probabile. \ � In ultima analisi lo spazio del discorso si organizza sulle coordinate della coerenza, della simmetria logica, e dell'in trigo o del molteplice storico. D'altra parte non sembra casuale, in un ordine di idee piu generali, che si riprenda ora a discorrere di una filosofia dell'evoluzione a sistemi aperti e dialettici, dove compaiono come altrettante coppie oppositive l'ordine e il disordine, il caso e la necessità, l'evento e il sistema, la disorganizzazione e la creazione, il continuo e il discontinuo, il cosmo e il caos. Anche l'opera d'arte, come sa bene il filologo che abbia pratica di abbozzi e di scartafacci, è un sistema aperto di processi generativi, di equilibri precari: per riprendere un limpido spunto di Frank Kermode a proposito di Cage, non l'ordine ma un ordine, una grazia che viene a patti col caso. Ma è tempo di concludere, di lasciare al lettore il suo diritto di verifica e di giudizio. A complemento delle altre informazioni sulla genesi dell'oggetto, va tuttavia avvertito che dei nove saggi accolti in Politica e commedia il primo, che viene riprodotto con qualche restauro formale, apparve nelle Dissertationes de Universitate Studiorum Bononiensi ad Columbiam Universitatem saecularis ferias iterum sol lemniter celebrantem missae, Bologna, 1956, come Umane simo e Università nel Quattrocento bolognese; il secondo si legge nel volume Umanesimo europeo e umanesimo ve neziano, Firenze, 1963, col titolo di Umanesimo bolognese e umanesimo veneziano; il terzo fa parte di una miscellanea di studi in onore di Carlo Dionisotti, di prossima pubbli cazione; il quarto è l'introduzione all'edizione delle Opere di N. Machiavelli, Milano, 1967; il quinto è tolto da 12
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« Strumenti critici», 11, 1970, dove però è intitolato Il sasso del Machiavelli; il sesto si trova già in « Studi sto rici», X, 1969, ma sotto il titolo Il teatro del Machiavelli; il settimo è stato se.ritto per una raccolta di studi in onore di Gaetano Trombatore; l'ottavo è inedito; e il nono, in fine, deve apparire in una Festschrift per Georges Poulet. Per parte sua, l'autore poi ringrazia gli amici del « Mu lino», alla cui insistenza, tanto abile quanto affettuosa, si deve la possibilità che il volume di Politica e commedia veda la luce nella disposizione che s'è detta.
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Quattrocento bolognese: università e umanesimo
Il nuovo gusto umanistico della generazione di Gua rino Guarini e di Francesco Filelfo entrò nello Studio bo lognese 'Senza trovare grandi resistenze. Il clima rulturale dell�ultimo Trecento aveva aperto in fondo la via aHe forme moderne e aveva posto le premesse per una tra sformazione, ,lenta ma incessante, di molti degli indirizzi . e degli interessi letterari che dominavano all'interno del massiccio istituto univeI1Sitario. Sul piano concreto dei rapporti umani e delle situa zioni locali non ci furono probabilmente contrasti di vasta portata, rappresentativi di un urto tra mentalità diverse od opposte. I maestri moderni s'inserirono ,presto nel solco tradizionale della scuola, mentre gli inviti per una loro prestazione accademica dovevano farsi phi fitti in ragione della fama crescente che cominciava ad accompagnarsi al loro nome e dava risalto, rispetto a un pubblico e a una classe dirigente, alla loro opera. Non ci fu però né un'azione pum e semplice d'assorbimento da parte dell'università, né una conquista vittoriosa, e meno che ·mai eversiva, delle leve umanistiche. Ciò che per un'ipotesi storica fatta a di stanza può sembrare logico, si rivela spesso assurdo nel mondo vivo dei fatti e delle persone. Per la sua stessa na tura conservatrice l'organismo universitario continuò a funzionare secondo gli schemi e ·le partizioni del passato, adeguand�i solo a poco a poco, dal punto di vista am ministrativo, alle conseguenze inevitabili di una cultura in movimento. Dal canto loro gli umanisti accettarono questo stato di fatto senza riconoscervi un ostacolo alla propria 15
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iniziativa intellettuale, pronti persino a tollerare che ac canto al nuovo vegetasse ancora l'antico. Non c'è ragione di stupirsi pertanto se nei primi de cenni del Quattrocento la cultura bolognese, legata di ne cessità principalmente allo Studio, si presenta con un aspetto composito, in un'aria di eclettismo che non si chiude nessuna porta nel momento stesso in cui si lascia guidare da una prudente curiosità. Per un Bartolino da Lodi, fedele alle vecchie artes dictandi e alle cadenze del cursus, c'è subito a contrappeso un Paolo Toscanella o un Francesco Filelfo, interpreti d'un classicismo integrale, di rettamente configurato sulla pagina dei grandi .prosatori la tini. Anche in relazione ad altre sfere culturali come quella filosofica o quella medico-fisica, piuttosto che di fratture noi abbiamo notizia di convergenze, di collaborazioni ami chevoli. In questo caso si può anche concedere che si tratti di una prassi eccezionale, avvalorata piu dai singoli individui che non da una consuetudine oramai divenuta co mune: sta di fatto che un campione indiscusso della filo logia greco-latina come il FiJelfo, invitato da Nicolò Fava, il maggiore fra i peripatetici del principio del secolo a Bologna, a chiarirgli alcuni quesiti esegetici intorno al testo originario d'Aristotele, si mette subito a disposizione del collega e gli trasmette i chiarimenti richiesti con una af fabilità che sottintende, ,pare, l'amicizia. Difatti, se in una delle sue lettere può scrivergli: « E simili a questo caso vi sono molti altri luoghi guasti e corrotti da cotesti tuoi filosofi. Perciò tu sei degno di una lode molto piu grande perché vuoi evitare ogni possibilità d'errore», in un'altra successiva, sempre riguardo allo stesso problema, soggiunge non senza l'accento dell'esperto uomo d'affari: « Eccoti il testo greco di Aristotele, e il modo onde va inteso. Per le altre parti la tua dottrina singolare, il tuo grande inge gno, la tua saggezza ti indicheranno la via giusta, solo che 16
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voglia considerare con diligenza l'intero proemio d'Ari stotele ». Ad assicurare questa larghezza di prospettive e a im porre questa attenzione se non profonda almeno vivace, pensano poi, nell'ambito cittadino, i notai, quasi sempre anche letterati e uomini di studio. Sono essi che -fungono da mediatori tra l'università e i ceti aristocratici e costi tuiscono anzi, almeno a Bologna, il nucleo piu stabile e forse piu importante della cosiddetta classe degli intel lettuali. Mentre i professori vanno e vengono da un centro aH'altro, soprattutto nei ·primi decenni, e non sempre pon gono quindi solide radici nella città che li ospita, i notai sono piuttosto sedentari. Occupano i ·posti chiave dell'am ministrazione cittadina, partecipano attivamente alla vita politica del Comune, intavolano insomma un rapporto non contingente con una base .sociale, con un mondo preciso d'interessi e di problemi. Spesso hanno inoltre ambizioni letterarie: sono proprietari di una biblioteca personale che non .sottraggono alla circolazione delle idee, ma aprono invece alla cerchia dei conoscenti; e dopo esser stati allievi deHo Studio conservano con i maestri, anche lontani, una relazione d'amicizia attraverso un fedele commercio epi stolare, utilissimo fra l'altro per portare a Bologna l'eco d'altri mondi culturali e indispensabile poi per ogni forma d'aggiornamento. Talvolta sono poeti in volgare come quel Niccolò Malpigli, morto nel 1428, petrarchista di nobile impianto e moralista non alieno dai modi discorsivi del realismo borghese municipale. Amano Dante, ma guardano anche con ·simpatia agli arazzi fastosi della mitologia ovi diana; e se scrivono in latino, pensiamo, per fare un nome, a Bornio da Sala, che fu d'altronde, a essere esatti, qualcosa di piu d'un notaio, mostrano di saper passare agevolmente dalle formule tecniche dell'usus giuridico all'ampia cadenza di una oratoria quasi ciceroniana, intrisa per giunta di sostanza patristica. Nel loro entusiasmo di dilettanti piu o 17
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meno provveduti essi dunque creano intorno all'università e alla Facoltà delle arti un'atmosfera di prestigio e col proprio esempio laborioso saldano insieme la tradizione alla realtà contemporanea. Si mescolano anche alle ba ruffe e alle polemiche che non tarderanno a divampare sul fronte interno dei letterati, tanto in figura di spettatori interessati quanto, persino, in veste di comprimari. Non si può quindi affermare che rispetto agli uomini l'università bolognese del primo Quattrocento viva una crisi solo interna, e tutta sua, specifica cioè di un organismo di cui si scoprono dal di dentro i punti di debolezza o d'ineffi cienza. Se la crisi c'è, essa dipende da uno stato di cose assai piu largo e complesso, che nessuno può evitare. Impegnata in una lotta di fazioni signorili per almeno ancora mezzo secolo, esposta all'intrigo politico delle potenze confinanti, in bilico tra l'anarchia e il colpo di ·stato per assenza di un saldo potere, sia pure quello antico della Chiesa, la città passa di sussulto in sussulto e non conosce, se non a tratti, la pace necessaria per l'affermazione graduale, continua, paziente di una cu'ltura e d'una scuola. L'esistenza del Comune è scandita giorno per giorno dalla ferocia di un costume implacabile, di un'asprezza quasi barbarica tanto è fosco. All'interno della città è lo ,scontro dei gruppi ari stocratici, incapaci d'una visione politica che non sia det tata dalla vendetta e dall'odio di parte; all'esterno sono le incursioni delle truppe mercenarie, gli assedi logoranti, i rigurgiti periodici d'un confuso stato di guerra. In rap porto allo Studio questa ·precarietà ha un effetto centrifugo: gli scolari ·sfollano verso luoghi piu accoglienti, mentre i bilanci, compromessi dall'inevitabile flessione economica, rendono la situazione degli insegnanti difficile, tanto piu poi che non sempre vengono loro corrisposti regolarmente gli stipendi. La voce di una realtà amara, assai diversa dai sogni d'una astratta eloquenza, riecheggia cosf per contrasto piu d'una volta anche nel mezzo delle prolusioni universi18
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tarle degli« umanisti». Si esalta la prestanza dell'uomo, si predica Ja fiducia nella ragione, si proclama la virru della parola ,fondatrice d'una .pacifica società razionale, ma si co glie anche, del mondo che sta intorno, magari con una protesta platonica o con un ottimismo di circostanza, la so stanziale drammaticità. Cosf Lapo di Castiglionchio nell'inaugurare, intorno a1 '30, il suo corso di eloquenza delinea l'ideale dell'uomo « saggio, forte, liberale e temperante» sullo sfondo dei tempi -miseri e luttuosi, e addita nei boni viri il. presidio che difende ,la comunità dalle « rivolte, dalle guerre civili, dagli omicidi, dal.le rovine pubbliche». Ciò che nel discorso del maestro toscano viene come redento dalla fede nella rinascita di un mondo morale connesso ai valori phi pro fondi della sapienza antica scade invece a desolata e pes simistica confessione in bocca d'altri« intellettuali».« Bo logna mia, le toe divisioni, l'ire, li rancuri e gli omecidi, le furie, i rafrenati e grandi eccidi e del sangue civile le of fensioni... son quelle cose ch'alla fin te mette» esclama con rude gravità il Malpigli; e nel 1492, all'indomani di una nuova fiammata di rivolta, Bomio da Sala scrive come gri dando da ·UD pulpito al fratello lontano, sia pure con l'animo alterato del partigiano e con l'iperbole che gli detta la sua passione per il pontefice offeso: « A che vale ricordarti Bologna un tempo città di studio e ora dilaniata dagli artigli di un popolo in furore? O mia città, ieri tu eri considerata il tempio della virru, la casa dei costumi, la scuola dell'onore, il sacrario delle leggi, il sacello della sa pienza. Ora non sei che un abisso orrendo di violenza che insorge, e io ti scorgo profondamente lacerata e contesa». Gli fa eco piu taroi, oramai distaccatosi da una città che ha conosciuta nel giro di vent'anni sempre senza pace, l'esperto e avventuroso Filelfo. Proprio in una lettera al da Sala, del '40, egli riassume la sua esperienza cosf: « Gli dei maledicano le vostre fazioni che non risparmiano nulla 19
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né umano né divino. In mezzo alla guerra non si provvede alle muse; e a Bologna troppo grave è il pericolo. lo venni presso di voi con l'intenzione di non partirmene piu, ma non so come, o per l'ostinazione degli uomini o per gli influssi di un astro, io mi sono due volte trovato tra le lotte piu atroci ». E quasi non bastassero le guerre nelle loro eruzioni improvvise - il Filelfo per conto suo os servava anche che bisognava temere di tutto, a Bologna, quando la .situazione pareva favorevole e tranquilla - ci sono di rincalzo le epidemie e le pestilenze che covano nel1'ombra dei disordini, favorite per di piu dai passaggi delle soldatesche o dalla crisi dell'agricoltura. Esse s'abbattono periodicamente ,sulla città indifesa e vi paralizzano ogni attività consueta. I gruppi agiati si ritirano nelle ville verso le colline, al popolo non resta che gettarsi alle pratiche devote con grandi ·scene d'espiazione che ritengono ancora, in pieno Quattrocento, qualcosa dell'autunno medievale. In questo quadro, spesso fosco, va iscritta anche la vita travagliata dello Studio coinvolto subito nelle persone dei professori e degli allievi. L'esperienza d'un mondo insta bile e minaccioso provoca necessariamente in seno alla scuola un senso d'acuto disagio: limita l'entusiasmo delle iniziative, trascina verso lo scetticismo o la rassegnazione nell'attesa, semmai, di un intervento esterno capace infine di ricostituire una prosperità che si è fatta mito. Anche di questo ci giunge un'eco attraverso le pagine dei letterati. :.8 Giovanni Lamola, scolaro prediletto di Guarino Vero nese e maestro di retorica per un decennio, sino al 1449, che si fa interprete, nella sua angoscia di individuo dinanzi alla morte, dello smarrimento collettivo, delle riflessioni di sanimate di molti.« Miserevole - egli scrive - è la sorte della nostra patria ove tutto pare desolazione. Ovunque il terrore, la paura, la sofferenza: la morte e la disperazione hanno cento volti e mostruose apparenze. E le altre scia gure sono cosf gravi che nessuno si cura della peste che 20
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sta infierendo, come avviene presso tutte le genti, perché nel confronto essa è giudicata il minore dei mali ». Se i maestri cercano rifugio nella saggezza della soli tudine e forse esasperano cosi il loro latente individuali smo aristocratico con l'effetto d'allontanare sempre piu la loro cultura d'élite dal largo ceto popolare, non è però che le autorità costituite del Comune dimentichino di prov vedere, per quanto possono, alle sorti dello Studio. Al di sopra delle fazioni tutti sono d'accordo nel riconoscere l'importanza, per la città, della scuola universitaria, che assicura un contributo non indifferente alla situazione eco nomica cittadina, priva in sostanza di grandi centri di pro duzione e perciò condannata a uno sviluppo assai limitato. In quanto città di transito, senza però essere un forte ca poluogo commerciale, Bologna ha bisogno di una grande università. Una scuola florida, glorificata per giunta da una splendida tradizione che serva a sua volta come mezzo in superabile di propaganda, rappresenta evidentemente una fonte di prestigio e di benessere per la sua forza d'attra zione promotrice di scambi e di vita. Perciò nel momento stesso in cui i gruppi, interni od esterni, lottano per la conquista del potere, l'università resta un punto di rife.. rimento da salvare ad ogni costo. In mezzo all'anarchia l'esigenza di una tutela in questo senso si impone tanto piu urgente, quanto piu grave si rivela il pericolo di un'eclisse, di un tramonto. Ma i fermenti culturali operano anche cosi, attraverso l'agitazione dei tempi, affidati, quando la struttura acca demica sembra venire meno, alla energia, alla capacità personale degli individui. A metà del secolo, esiste oramai a Bologna una cultura umanistica ufficiale che ha attratto nella sua orbita buona parte delle classi alte. Essa intrat tiene rapporti con le personalità eminenti del mondo con temporaneo e partecipa, nonostante le difficoltà di una situazione politica e sociale sempre assai tesa, alle grandi 21
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discussioni del momento, alle polemiche, quasi di moda, di un Bracciolini e di un Valla, con un fervore forse un tantino provinciale, ma anche tutt'altro che improvvisato od ester no. A volere poi caratterizzare l'élite intellettuale bolognese di quegli anni, bisognerebbe dire che la sua nota domi nante è costituita da un eclettismo senza iattanza verso la tradizione, da un'apertura bonaria, talora però anche risentita, nei confronti delle forme nuove, adattate a un gusto locale piu cauto che audace, e in mancanza dell'ener gia necessaria per suscitare i problemi, da una viva sensi bilità a intenderli. Ciò che difetta è forse l'interna forza di coesione che sorge da:lla presenza di una grande perso nalità o di un solido organismo collettivo in un'atmosfera meno opprimente e piu chiara. Solo con la metà del secolo Bologna, almeno in ordine all'insicurezza del passato, sperimenta un periodo migliore. Con l'arrivo del cardinale Bessarione in veste di legato di Niccolò V 1la situazione della città s'evolve in modo assai rapido. L'appoggio del rappresentante .pontificio alla causa di Sante Bentivoglio, erede imprevisto ma non indegno di una potente famiglia, getta le premesse di un successo non piu effimero e fornisce al Comune un governo efficiente an che se sulla strada di trasformarsi in aperto regime signo rile. Forte dell'alleanza del Bessarione, Sante Bentivoglio abbandona la politica angusta degli odi cittadini per inse rh-si con scaltrezza nel gioco diplomatico delle grandi po tenze vicine. Dopo aver sottoscritto la sua sottomissione alla Chiesa, egli sviluppa cosf una politica personale di mo nopolio del potere, accettando d'entrare, come contropar tita di una benevola tolleranza, nel raggio d'influenza di Milano e degli Sforza. L'inserzione di Bologna nello scac chiere della politica lombarda, come avamposto di con trollo tra Firenze e Ferrara verso la Romagna, ha un con traccolpo immediato e positivo anche nella vita della città per la rete di relazioni che si torna presto ad attivare. Con 22
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Milano amica si riapre per Bologna la via verso 1a Francia e verso il Nord: ora che la tensione interna si attenua, gli stranieri cominciano a rifluire verso l'antica Alma Mater e una nuova fiducia circola negli ambienti cittadini, per lo meno in quelli che accettano la vittoria del Bentivoglio. La riforma universitaria che ormai si rendeva indi spensabile per riportare l'ordine riconquistato anche sul piano della cultura e della ,scuola, trovò ancora nel Bes sarione il suo assertore piu convinto oltre che l'esecutore piu energico. Nei suoi cinque anni di permanenza nella città, dal 1450 al 1455, egli rinnova infatti largamente la struttura invecchiata dell'università. Ne ricostituisce gli statuti secondo uno spirito piu moderno, ne accresce gli insegnamenti, provvedendo con una intelligente politica culturale a favorire allievi e professori nello spirito della bolla emanata da Niccolò V per la rinascita dello Studio bolognese. Ogni Facoltà riceve cosi nuovo incremento: ma è naturale anche che fra tutte quella che probabilmente risente piu da vicino i benefici del suo intervento, sia la Facoltà delle Arti, dove si istituisce una cattedra di Mu sica, la prima d'Europa e non la meno gloriosa, e si pro muove l'insegnamento delle matematiche avvicinate al l'astronomia, lo studio regolare della lingua greca e, piu tardi, di quella ebraica. Non per nulla, del resto, al nome del grande bizantino è anche legato quello di Lianoro Lianori, il primo maestro di greco dopo la riforma e, in modo ancor piu stretto, quello altrimenti insigne del Perotti,. insegnante d'eloquenza nei primi anni della ripresa proprio forse per espressa volontà del cardinal legato. Non sarà dun que improprio concludere che per le sorti dell'umanesimo bolognese, ormai affermatosi all'interno dello Studio come una forza determinante, l'opera del Bessarione segna una svolta decisiva isia per l'apporto concreto delle iniziative sia per lo spirito cristiano d'illuminata ma vigile sapienza che l'informa in ogni atto. È un giudizio cotesto che 23
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circola anche tra gli stessi suoi contemporanei, se è vero che nell'elogio funebre del cardinale uno di essi, interprete di tutti, non può esimersi dall'osservare che « giunto a Bo logna, il Bessarione con la sua sapienza e la sua grandezza d'animo non solo rese la città pacifica e quieta, ma la fece civile e l'elevò nello studio delle lettere e delle arti liberali tra il rispetto, l'amore universali». Restituito a un'energia che pareva perduta, l'umane simo universitario conosce un periodo di fioritura e si viene gradualmente definendo nell'immagine di una scuola, di un metodo da tramandare di generazione in generazione, quasi di un costume. Ma, come sempre quando si tratta di uomini, lo sviluppo non è affatto lineare e procede nelle forme piu strane: da principio è nascosto e inafferrabile, poi si rivela apparentemente improvviso in una concordia di manifestazioni che non hanno tuttavia, per lo storico, nulla di sorprendente. Prima di un metodo e di una cultura giunta all'unità di un sistema positivo, noi scorgiamo a Bo logna, negli anni immediatamente successivi al '50, le im magini di alcuni maestri pronti alle avventure piu bizzarre e spesso piu tragiche. Ciò che conta in loro non è tanto l'accettazione di una consuetudine o il contributo a for marla, quanto l'inquietudine di un'esperienza torbida e contraddittoria, destinata però a lasciare dietro di sé il ricordo di qualcosa d'eccezionale, di una rivolta sia pure velleitaria a ogni conformismo. Tra il repubblicanesimo antitirannico di Cola Montano e il magismo clamoroso ed enciclopedico di Galeotto Marzio non c'è in pratica nessuna differenza. Entrambi subordinano in fondo le idee all'im pulso del temperamento e restano quindi delle figure ec cezionali, a mezza via tra i dotti e gli avventurieri, cui non corrispondono programmi coerentemente operosi. Il primo passa a Bologna come una meteora in un alone di sinistri presentimenti, al principio di una carriera che do vrà chiudersi, dopo aver armato la mano del Lampugnani 24
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e dell'Olgiati a Milano, con una morte violenta nell'oscu rità desolata di un carcere. Il secondo invece sfiderà cli continuo la sorte, temerario come un soldato di ventura nerboruto e massiccio, senza pagare di persona se non con qualche fuga che quasi sempre lo libera d'impaccio al mo mento giusto. Se Cola Montano svanisce nella memoria come un fantasma silenzioso, Galeotto Marzio la occupa con la forte pienezza della sua audacia aggressiva, con il rumore chiassoso delle sue pretese scoperte e della sua turbolenza polemica. Cercare un filo conduttore attraverso le opere ch'egli ci ha lasciate, è forse un'impresa perduta e non condurrebbe ad altro che a vedere di volta in volta nel suo viso cangiante qualcosa che non lo rappresenta mai per intero, ora il fanfarone e ora lo scienziato, ora il pre cursore del razionalismo e ora il seguace dell'alchimia e delle scienze occulte. Gli anni del duplice soggiorno bolo gnese, dal 1463 al 1465 e dal 1473 al 1477 nella cattedra cli retorica, coincidono per Galeotto Marzio con due frago rose polemiche umanistiche, a risposte e controrisposte: la prima contro l'ormai vecchio Filelfo a proposito deHa sua Sforziade, e la seconda contro il piu abile specialista d'in vettive, Giorgio Merula. Sono, come c'è da aspettarsi, pa gine per gran parte d'ingiuria e di ritorsione, di malanimo ingigantito dall'artificio del genere letterario. Ma a leggerle attentamente, vi si trova anche J'eco delle lezioni universi tarie del Galeotto, la sua ·posizione critica nei confronti di un formalismo grammaticale ridotto in canoni di corret tezza, le sue riserve dinanzi a un umanesimo della parola mescolato di pedanteria, la sua difesa di una cultura enci clopedica, il suo rifiuto del mito di una civiltà originaria greco-latina per un orizzonte storico piu largo in cui trovi posto anche il mondo ebraico. Non si va lontano dal vero se si giudica che nella schiera degli « inquieti » e degli « scapigliati » Galeotto Marzio con la clissi·pata ricchezza delle sue suggestioni rap25
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presenta a Bologna l'uomo d'avanguardia. Eppure partirà anche lui, come Cola Montano, senza lasciare un'opera in cui l'umanesimo bolognese del secondo Quattrocento sap pia riconoscersi; a meno che non si debba considerare tale la sontuosa edizione della Cosmografia tolemaica, pubbli cata nel 1476 con le incisioni di Taddeo Crivelli, in cui vediamo appunto collaborare insieme, oltre naturalmente agli studiosi di astrologia, i notissimi Girolamo Manfredi e Pietrobono Avogaro, due inquieti come Cola Montano e Galeotto Marzio alla vigilia della partenza, e forse un giovane di scuola recente, bolognese e regolare, Filippo Beroaldo. Ma in questo caso, allora, il fatto piu rilevante che si estrae dal Tolomeo bolognese, è l'intesa, all'interno dello Studio, tra ·scienziati e letterati di almeno due ge nerazioni e per i secondi quasi il simbolico cambio di guardia fra i « torbidi » e gli « illuminati ». Dopo il '70, mentre le prime stampe cominciano ad apparire anche a Bologna, la situazione della città non sembra piu comportare alcuna incertezza. Giovanni II Ben tivoglio che è succeduto a Sante, ne continua la politica interna ed estera e con l'abilità del « condottiero » che si destreggia diplomaticamente tra i centri politici dell'equi librio italiano, consolida il suo potere facendo perno sul l'alleanza obbligata di Milano. È vero che alla sua Signoria manca piu che mai una forza economica stabile e profonda e che nella città non esiste intorno a lui una compattezza ef fettiva di ceti diversi, urbani o del contado, troppo lontani gli uni dagli altri nell'assenza di una vera borghesia mercan tile. Ma sono limiti che diverranno evidenti soltanto nel corso di un trentennio, con lo sviluppo imprevisto della que stione italiana. In apparenza, secondo la logica di una poli tica tradizionale, il potere del Bentivoglio ha radici solida mente piantate e col trascorrere degli anni sembra acquistare vigore, sicurezza. Giovanni II è il piu grande proprietario terriero di Bologna e le confische, oltre che le campagne 26
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militari al servizio di altri stati, gli consentono di dilatare i suoi bilanci in misura da sostituirsi di fatto all'antica am ministrazione comunale. Egli si impadronisce cos{ di tutti i posti di comando a spese degli avversari e si organizza intorno una piccola classe dirigente disposta a collaborare con lui e a pagare con la propria indipendenza - un cambio che non desta però né rimorsi né proteste - lo splendore di una corte. Anche l'università viene a poco a poco at tratta nella sfera politica del Bentivoglio, il quale per parte sua non pone confini al proprio mecenatismo, spesso anche sincero, pur di stringere legami sempre piu forti e vantag giosi con molti dei professori invitati ora a prendere stabile residenza nella città per formare quell'élite intellettuale che garantisca al signore una propaganda d'alto stile e rafforzi il prestigio del suo governo. Sotto l'impulso diretto o indiretto del Bentivoglio l'università è condotta cos{ a . partecipare al fervore della rinascita cittadina. Intanto, dinanzi alle nuove possibilità che si delineano con l'invenzione della stampa, gli umanisti non chiudono gli occhi, ma intendono rapidamente la portata di questa rivoluzione culturale e ne traggono le prime conseguenze. Nello stesso tempo in cui alcuni dei nobili si trasformano in editori accanto ai professionisti venuti dal Nord, vi è pure piu d'un letterato che non esita ad allearsi con loro ed entra nelle stamperie per dare il proprio aiuto di filo logo alle imprese editoriali presto in florklo rigoglio. Se si guarda dall'esterno, la cultura bolognese dell'ultimo Quat trocento offre cos{ un quadro di notevole decoro e so prattutto d'indubbia vitalità. Il moltiplicarsi delle tipogra fie, l'interesse dei maestri dello Studio ai problemi della città, anche se attraverso l'invisibile controllo del potere signorile, la pronta formazione di circoli intellettuali che gravitano poi intorno al centro universitario e quasi ne prolungano le manifestazioni in una sede piu mondana, sono altrettanti segni di un mondo culturale sufficiente-
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mente vigoroso e, se non acutissimo, esteso oramai anche ai ceti agiati. In queste condizioni favorevoli che vedono l'uni versità di nuovo in un punto chiave della vita cittadina, la scuola umanistica trova finalmente il suo carattere per sonale in un dialogo piu efficace, piu sistematico di quanto non si fosse dato per l'addietro. È probabile che, volendo indicare un iniziatore da questo punto di vista, si debba scegliere quasi a colpo sicuro il padano-lombardo Francesco dal Pozzo, insegnante di retorica dal 1467 al 1478, pedagogo di casa Bentivoglio e collaboratore dell'Azzoguidi nelle primissime stampe com parse nella città subito dopo il '70. Testimonianza tanto piu autorevole perché di un contemporaneo e di uno spe cialista, lo riconosce anche il piu valoroso dei suoi allievi, Filippo Beroaldo, il quale dichiarerà piu volte senza paura di ripetersi che « il Puteolano ridiede vita a Bologna allo studio delle lettere e col suo insegnamento si rese bene merito della cultura bolognese». Con lui si ,può dire che la grammatica si trasforma veramente in filologia e l'estro, la retorica, in metodo razionale. Sceso a Bologna dalla ca pitale lombarda dove poi ritornerà dopo il '78, H Puteolano sembra portare con sé l'ordine e la certezza delle nuove indagini filologiche. Un esame di quanto ci ha lasciato, ce lo rivela come un artigiano della cultura, un grande e infaticabile artigiano, immune per giunta dai provinciali smi: è legato da amicizia al Poliziano, s'intrattiene con gli umanisti della cerchia .fiorentina e ne divide l'ampiezza degli interessi, non schiavo di un mito esclusivo della forma. Egli è l'uomo insomma che a Bologna apre definitivamente le finestre al vento delle idee moderne e si hatte fra l'altro per un'alleanza ragionevole dei diversi indirizzi del sapere. Con il suo intuito di pioniere ricco d'iniziative egli non conosce la sterile grettezza del grammatico conservatore, non ha complessi d'inferiorità. Consapevole d'appartenere alla schiera dei « moderni», si rifiuta di credere a una 28
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storia d'idee che sia soltanto decadenza; ha fede in un progresso, per sommario che l'intuisca, al punto da scri vere con una frase quasi programmatica: « Amo l'antichità come qualcosa di venerando, ma non disprezzo secondo le abitudini di questi impostori gli ingegni del nostro tempo: e non credo che la natura sia stanca e oramai sterile». E oltre all'abilità e all'entusiasmo del maestro egli per giunta i-ivela anche le virru dell'uomo di mondo che sa orien tarsi altrettanto bene al di fuori della scuola. Accettando di entrare nel mondo familiare dei Bentivoglio in qualità di precettore, il Puteolano inaugura in un certo senso, almeno a Bologna, la prassi dell'umanista che è anche funzionario di corte, rappresentante ufficiale della nuova politica signorile a contatto non solo con la cultura accade mica, ma anche con quella degli ambienti intellettuali piu evoluti della città. Nei medesimi anni dell'affermazione universitaria del Puteolano, mentre maturano nel frattempo le nuove ener gie del Beroaldo, la cultura cittadina, raccolta intorno al l'astro oramai raggiante dei Bentivoglio, si avvia verso la sua stagione piu fortunata e s'incarna nel gusto sontuoso di una società dall'apparenza florida, piu che mai deside rosa, dopo Je angustie di un passato recente, d'eleganza e di agio. Nel mondo bolognese, ora intimamente inserito nel blocco padano-lombardo e non chiuso d'altra parte al commercio oltre Appennino con la Toscana, filtrano cosi quasi di riflesso e come attratte dai segni dello ·splendore economico, l'arte dei ferraresi e quella della provincia fio rentina. In questi anni, tra l'ascesa di Sante e il trionfo di Giovanni II, si iscrivono appunto gli eventi piu alti per l'arte del Quattrocento ·bolognese, dopo l'apparizione mi racolosa di Iacopo della Quercia, spentisi gli ultimi fo cherelli trecentistici e perdurando l'assenza dello Zoppo. Sotto il soffio delle nuove esperienze figurative l'aria ferma della città si scuote e il livello del gusto locale sale di 29
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colpo, quantunque poi non abbia la forza di assimilare in profondità la lezione degli stranieri e si accontenti di tra sportarla sul piano del decoro illustrativo nell'amministra zione degli spettacoli e delle feste. A poca distanza di tempo operano nelle officine bolognesi artisti di levatura eccelsa: ecco dunque il grande Ercole Roberti, in una breve ma indi menticabile apparizione; il rude e atletico Cossa, che poi rimarrà a Bologna sino alla morte; il drammatico Niccolò dell'Arca, il lirico Costa, e a un grado di tenuta minore l'e&pertissimo Francia, quasi un genius loci dell'accade mismo nascente. Sono mondi diversi, configurati in indoli e in ambienti estremamente vari, che s'incontrano insieme dinanzi agli occhi del pubblico bolognese in una sorta cli museo immaginario: dal naturalismo accigliato, ruvido, so lenne di un Cossa con le sue tempre rade, possenti, ele mentari, direbbe il Longhi, alla grazia ,stemperata in gracile malinconia del Francia; dal tono poderoso e fiammante del Roberti alla vicenda epica di Niccolò dell'Arca, cresciuto tra la felicità illustrativa delle prime prove manieristiche e il dramma sconvolto e agitato dell'ultimo capolavoro, in un'atmosfera di lancinante patetico nordico. Domina però, soprattutto in alto, l'accento .ferrarese. Nel loro ideale este tico i Bentivoglio sembrano guardare in prevalenza a Fer rara, pur non rifiutandosi mai di accordare su quel timbro aspro e forte altre tonalità piu chiare o piu amabili. Il ri sultato di questa simpatia per la contaminazione, ·per il florilegio stilistico, qualora si scenda dall'arte al costume, è un'eleganza carica di sapore un po' acre, una squisitezza perigliosa che rasenta il grossolano e nasconde tailora qual cosa di feroce o almeno di ispido, di macchinoso.
Ma a penetrare nella vita sentimentale della società bentivolesca, piu del mondo figurativo composto in una sua perfezione che travalica spesso il senso d'una testimonianza, aiuta forse quello della letteratura in volgare: che risulta assai piu scadente per qualità poetica e perciò resta tanto
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piu pr�imo, tanto piu fedele alle sue or1guu umane quanto può esserlo una media rispetto a un esito d'ecce zione. Anche lasciando da parte tutta la vasta produzione encomiastica fiorita artificialmente nell'orto feudale dei Bentivoglio, è qui che troviamo il ritratto piu ricco e opu lento di quegli anni, ossia l'arazzo che Sabadino d egli Arienti, letterato anche lui d'ascendenza ferrarese, si pro pose di tessere in un colore copioso sino all'ingorgo con le sue Porretane. ,Non resta dunque che prestargli ascolto: « Correndo dunque li anni, illustrissimo signor mio, de l'umana salute mille quatrocento septantacinque, uno giorno ch'el luminoso e radiante Apollo, che col carro de la sua luce era già salito alquanto sopra il meridiano cer chio, aveva piu forza e valore, il conte, cum compagnia di alcune gentili persone, omini e donne, de la nostra citade e de altre aliene parte, onesti giochi, suoni e canti, chi a brazze, chi ·per mano e chi senza, con vari e dolci parla menti se partirono · da l'ospizio signato del victorioso cristian vexillo, e andaron a man dextra drieto la vaga ripa del fiume di Reno, che ivi non molto distante nasce d'un chiaro e limpido fonte: dove, poco andati, trovarono uno praticello de tenere erbe e de vari fiori che dolce e suave odore respiravano, e dintorno de altissimi fagi, d'abeti, de gineveri e grossissime querce vestito e adorno, le cui verde fronde defendevano il luoco da li fervidi ragi del sole ». Cos{ cominciano le Porretane, entro uno sfondo d'elegia naturalistica imbottito di molta cartapesta. E le ambizioni illustrative del ritrattista e prosatore ufficiale della classe agiata bolognese non andranno mai oltre il fasto gremito di questa apertura, cos{ tipica da potere essere assunta come l'emblema di tutto un paesaggio mentale. Il ritmo illustre del Boccaccio si scioglie in una materia turgida e informe, venata di linfa umanistica, quasi a nobilitare la cronaca contemporanea in una vaghezza strascicata di mito classico-romanzo, insieme dialettale e cosmopolitico. Ma lo 31
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scrupolo e l'attenzione mondana di Sabadino danno vita intanto a una galleria esauriente e curiosa dei gruppi si gnorili-feudali della città, ripresi nella cornice di quel sa lotto all'aperto che è il giardino rinascimentale. La buona società locale vi è rappresentata con tutti i suoi uomini piu in vista e forse, salvo l'intervento fabulatore della tra dizione letteraria, nei suoi atteggiamenti piu significativi. È piu che verosimile inoltre, come del resto lascia intendere la premessa dell'opera, che molte delle conversazioni e degli aneddoti accolti dallo scrittore si rifacciano a una situazione reale e corrispondano nell'essenziale a dialoghi piu o meno documentabili nella vita d'ogni giorno. Nelle Porretane si parla di molti argomenti, sino a stancarsene. Si discute, si ascolta e ·soprattutto si ride. Si ride alla buona senza guardare troppo per il sottile, smascellatamente sottolinea Sabadino, in una ·franca felicità fisica cui non si sottraggono neppure, nonostante il rossore di rito, le generose donne della brigata. La «lepidezza» si insinua in ogni angolo delle Porretane, quasi mai ·schiarita per altro dalla grazia lieve dell'intelletto. A farne le spese, secondo i canoni cli una novellistica che ormai si identifica con il gusto dei let tori, sono -principalmente il contadino rozzo e il prete igno rante, la credulità dei semplicioni e l'incostanza delle donne: tutto questo in un'aria di avventura borghese, spesso per sino di stregoneria, per metà presa in giro e per metà tollerata. Quando non si ride, si piange di «pietà» o di commozione. Mancano i mezzi toni e al loro posto compare quasi ·sempre l'iperbole degli estremi. Dalla piacevolezza, dallo spasso della facezia o della burla si trascorre anche agevolmente al divertimento della discussione, alla gioia di uno scambio d'idee, di un giudizio sui fatti del giorno o sui problemi dell'attualità. Questo è poi .il ·momento della cultura alla moda, dell'accademia trapiantata nel «bel mondo» con una pretesa d'eleganza e di sublimazione ,sentimentale. Si discute allora dell'amore 32
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nella sua casistica cortese, della virru e della fortuna, de] determinismo astrologico, del senso dell'uomo nel mondo, dell'anima immortale - quasi una piccola teologia per i laici - e magari della fede cristiana, per la quale però il rispetto dichiarato non è mai troppo. Prendono la parola di volta in volta « gentiluomini» di esperienza diversa, ma coloro cui tocca piu di frequente il compito di dare l'avvio al ruscorso, è inevitabile che siano gli « intellet tuali», i maestri dello Studio. Sabadino ne ha raffigurati quanti piu poteva, specialmente fra i suoi amici o i suoi compagni di fede letteraria. Nel complesso, di conseguenza, quasi tutti i nomi della cultura bolognese, massime di quelli piu disposti o solleciti alla vita di società, trovano posto negli annali celebrativi di Sabadino, dal Beroaldo a Battista Mantovano, dal Refrigerio a Cesare Nappi. Per ognuno di essi le Porretane hanno un complimento, un elogio sempre al superlativo, quasi una epigrafe senten ziosa come questa per il Nappi, proclamato « erudito e umano citadino, uomo de animo e de corpo strenuo e delle muse vero alunno». Che dire? È retorica, e di quella piu contingente e convenzionale; ma non bisognerà poi per questo dimenticare che dietro di essa vive l'opinione pub blica di quegli anni, vale a dire una tavola di valori a uso dei contemporanei, non importa se destinata a scomparire assai presto. Nel caso di Cesare Nappi si può tuttavia ripetere, tra ducendola al massimo in termini moderni, la sentenza delle Porretane. Nel mondo bolognese del secondo Quattrocento egli impersona l'intellettuale medio, l'uomo degli interessi disponibili, il tipo del notaio informato e attivo, presente nella vita dell'università come in quella dell'élite cittadina. t dunque da supporre che la sua cultura sia l'indice di un costume e di un livello mentale comune ,piu o meno a tutti coloro che senza essere accademici sentono il ri chiamo dell'ambiente universitario e non si sottraggono 33
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alle sue -suggestioni. Il voluminosissimo zibaldone mano scritto che di lui c'è rimasto, il Palladium eruditum, ci in troduce direttamente nell'intimità del suo studio tra le let tere e gli esercizi del suo libero umanesimo. Quantunque conosca e possieda le opere dei mcxlerni, persino le piu audaci come il De falso eredita del Valla, egli continua an che a dar ascolto a una Practica sive usus dictaminis, né fa distinzione tra l'autorità dei classici e quella dei testi mediolatini. Inoltre s'interessa di epigrafia, compita qual che tentativo di greco, si compiace d'affastellare nelle sue note un'erudizione di moralista fondata in gran parte sui Padri della Chiesa con qualche apertura intermittente verso i grandi problemi teologici. Questa riluttanza o inettitudine a optare, questa volontà forse di accogliere piuttosto che di escludere si ritrova allo stesso grado nelle sue poesie volgari, dove convivono insieme l'esperienza petrarchesca e quella realistica, il dettato popolaresco di un ridanciano violento sino all'oscenità e il tono amaro del canto religioso, il grave recitativo della preghiera desolata. E tutto ciò potrebbe essere benissimo l'effetto di una personalità mu tevole e fiacca, senza energia d'attivazione interiore. Solo che vi sono altri a Bologna che coniugano lo stesso pa1adigma di cultura polimorfa, tanto da far pensare che questo atteggiamento accomcxlante e non selettivo sia ga rantito da un gusto piu largo dell'ibridismo e del compro messo, da un costume di vita in cui molti si riconoscono senza disagio. Del resto, è anche vero che il sistema cultu rale cittadino con la sua rete di relazioni, imposte fra l'altro dagli uffici e dalle norme della convenienza, civile c cortigiana che sia, limita certi antagonismi, non che li sopprima, e contribuisce cosi a formare un certo spirito di tolleranza verso di sé del pari che verso gli altri. I ri flessi si colgono in primo luogo nel costituirsi di una sensi bilità quasi di compromesso o, come sarebbe forse meglio dire, di un sincretismo estetico e ideologico. 34
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Non succede cosi, però, in tutti i campi, dal momento che resta sempre una zona assai estesa per l'urto di inte ressi o tendenze in confiltto. È quanto capita infatti negli ambienti musicali della città, divisi non senza asprezza tra teorici reazionari e « illetterati » novatori. La polemica tra il Burzio e il Pareja o lo Spataro, a lato della vita universi taria, negli ultimi trent'anni del secolo suscita a Bologna notevoli risonanze anche per le idee e i principi di fondo in essa affacciati: principalissimo quello di una scienza co stituibile fuori della « latinità » per forza di scoperta e d'esperienza personali. È dello Spataro appunto la frase abbastanza aroita che « essendo la musica arte ·liberale, l'è da credere che li soi termini sono senza fine e che quello che oggidf ,sanno li musici e compositori, è la superficie di quello che si può sapere ». E gli uomini di lettere non si sentono poi, a conti fatti, di rifiutarla: il loro liberalismo conservatore li mette anzi sulla strada giusta. Anche se il Burzio, l'avversario piu ostinato dello Spataro, è uno cli loro, gli umanisti conservano lo ·stesso la propria libertà di movimento, né rinnegano per spirito di corpo le proprie simpatie personali. Con lo Spataro è il Salimbeni, l'autore insieme con l'Afdrovandi della Filomazia, un altro mani festo dell'umanesimo in volgare, e con i musicisti della cattedrale si schiera anche il Nappi. Sono proprio questi 1apporti di persone, questi scambi di esperienze a incidere largamente nella cultura cittadina e a destarvi una molte plicità d'interessi, di curiosissime aperture. Rispetto all'in dagine letteraria dei maestri universitari il punto di incon tro e di 6mistamento quasi obbligato è costituito, a parte i circoli mondani, dalle grandi biblioteche dei conventi, le piu importanti e le piu fornite della città: le librerie cli S. Domenico, di S. Francesco, di S. Salvatore. Qui tra una visita e l'altra, alla ricerca di un manoscritto o in margine a una lettura, nascono nuovi dialoghi e conveMazioni: i religiosi piu autorevoli entrano cosi a far parte attiva35
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mente della classe inteHettuale cittadina - si è visto per esempio il ·piu famoso, Battista Spagnoli, accolto con onori speciali tra i protagonisti delle Po"etane - e trasferi scono il loro mondo spirituale e letterario, biblico e pa tristico, nel gusto permeabile dei laici. Ma chi guarda alla vita letteraria di quegli anni verso l'epilogo del secolo, non può neppure passare sotto silenzio le in.B.uenze e gli apporti che vengono dall'esterno in una con la ripresa in grande stile dell'immigrazione studentesca, in aumento soprattutto dai paesi del Nord. Per il mondo accademico e specialmente per la scuola umanistica la nuova afHuenza di un pubblico in molta parte transalpino e non italiano ha un valore considerevole sia in relazione all'affermarsi di uno ·specifico gusto universitario che venga incontro alle richieste di una folla cos{ eterogenea, sia per la possibilità concreta di un collegamento con molti centri di cultura stranieri, fra l'altro, come si ha ragione di de durre da piu d'un indizio, con l'università e con i gruppi editoriali parigini. In altre parole la presenza a Bologna di forze giovani, spesso fra l'altro maturate in un'atmosfera ideologica diversa da quella delle scuole bolognesi, serve prima di tutto a « sprovincializzare» l'umanesimo accade mico: sul piano immediato della vita e del costume univer sitario torna anche in questo modo a imporsi, e con un'in tensità nuova, la tradizione goliardica spericolata e giocosa. Un'aria di vitalità chiassosa, di estro comico e beffardo sale a poco a poco sino all'ambiente degli umanisti e spira nel gusto vittorioso della parodia, del pastiche letterario, suggerendo i modi discorsivi di una coiné erudita aperta a tutte le combinazioni e tale da dscuotere un notevole suc cesso dopo la .partenza del Puteolano.
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L'interprete piu autentico di questa temperie intellet tuale va identificato, ora che egli è giunto alla piena ma36
Università e umanesimo turità, nel discepolo piu intelligente del Puteolano, il bolo gnese Filippo Beroaldo. Di ritorno da Parigi qualche anno avanti all'80, per oltre tre decenni egli conserva nella scuola universitaria un ruolo di preminenza assoluta, con il pre stigio indiscusso di una prima pet6ona, proprio per questa consapevole fedeltà al mondo culturale, cittadino ed eu ropeo, che gli vive intorno. Nel teatro accademico dell'ul timo Quattrocento egli spicca subito per il suo equilibrio cordiale di studioso infaticabile e di uomo bonario, nelle vesti argute di un Socrate dimesso, da almanacco o da libro di cantastorie. E poi c'è da aggiungere che la sua opera letteraria si ricongiunge tutta alla pratica dell'insegnamento accademico; per cui riesce impossibile, anche volendo, distinguere nella sua figura il maestro che intrattiene un uditorio dal filologo che scrive nella solitudine dello studio. L'uno è sempre interno all'altro, e da questa compenetra zione che pare istintiva nascono, associati a un · calore di umanità tutta padana, i pregi e i difetti di Beroaido. In dubbiamente, a Bologna non c'è nessuno che si avvicini al livello e alla ampiezza di un'attività filologica come la sua, in continuo sviluppo di esperienze omogenee ma non ortodosse. Studioso di Plinio sin dai suoi anni di sco laro, interessato in seguito ai problemi del diritto al punto, nel '79, da frequentare anche i corsi di notaio > il Beroaldo accompagna le sue lezioni universitarie coi grandi commenti delle Tuisculane e delle Filippiche, di Pro perzio, di Svetonio, di Apuleio, con l'edizione di Plauto e con le note critiche a Servio e agli agronomi latini. In alcune serie di Annotationes percorre da filologo formida bilmente sicuro i campi piu disparati dell'erudizione clas sica, dall'esegesi delle sacre scritture alla lettura critica dei testi medici, dalle glosse dei giuristi ai Padri della Chiesa > dai poeti di Roma repubblicana ai prosatori della decadenza. Nello stesso tempo attende a comporre le sue prolusioni accademiche, presentate talora in forme fantastiche di ine-
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dita vivacità, di elaborata e a suo modo squisita dottrina. In altre indagini eccolo invece studiare i simboli di Pita gora o' la origine della peste e dei terremoti . .:8 moralista nel considerare l'essenza della felicità, politico nel trat tare dell'ufficio del principe e infine, quando gli riesce, poeta in versi latini non tutti mediocri, alcuni dei quali anzi verranno tradotti in francese dal piu grande Marot. I suoi interessi si estendono sino alla letteratura volgare dal momento che si compiace a sua volta di tradurre in latino la canzone aDa Vergine del Petrarca e qualche no vella del Decameron: sa benissimo in questo caso che la sua lingua è inadeguata all'-altezza inimitabile dell'originale perché nell'atto del tradurre le espressioni piu stupende perdono sempre - parole sue - «la loro luce», ma è anche persuaso che in tale esercizio di .mediazione, un esercizio connesso allo stesso lavoro universitario, «l'in gegno s'irrobmtisce» cosi come «lo stile si fa piu ele gante». La libertà e la larghezza dei suoi orizzonti mentali sono anche all'origine del suo stile. Il Beroaldo ama infatti una lingua sorprendente e bizzarra, ricca d'accenti parlati se non addirittura d'infiessioni dialettali - troppo, pa reva già a qualche contemporaneo - piu attenta alle «cose» che alle «parole». La spezzatura improvvisa, il dialogato cordiale e quasi scucito valgono certo per lui assai piu della cadenza sonora, della composta clausola regolare. In questa inclinazione, si direbbe, nativa si è subito con dotti a scorgere la divisa dell'anticiceroniano, insieme con l'arma consueta dell'anticonformismo stilistico. Se a Ci cerone il Beroaldo assegna il primato dell'eloquenza, in pratica però egli sente che la propria via è un'altra: la sciando cadere le polemiche o le controversie rabbiose, che sono lontane dalla sua indole, si tiene stretto al suo gusto d'erudito avvezw all'esuberanza di un dialogo fami liare con qualche impennata compiaciuta e quasi estrosa 38
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verso una lingua meno consueta, di lessico dotto disposto a sfociare nel tecnicismo allusivo. Forse non si sbaglia quando si afferma che nel Beroaldo agisce una spinta, una carica di espressionismo linguistico, sia pure a potenza ri dotta, e che da essa gli deriva il costume d'attingere per la sua prosa di laboratorio dagli autori di tutta la latinità senza distinzione interna di stile o di epoca, da Cicerone a Gerolamo, da Plauto ad Agostino, da Apuleio a Colu mella. Si osserverà insieme che è uno espressionismo chiuso di taglia provinciale, incapace di dare l'avvio a una rivolu zione di strutture linguistiche per la sua stessa ingenuità circoscritta e ideologicamente disarmata. Ma al Beroaldo non occorre di piu, esso basta da solo a garantirgli l'indi pendenza stilistica, la gioia sempre nuova d'una scoperta, di una segnalazione preziosa tra le sue gagliarde e funam bolesche escursioni culturali. E quanto alle riserve che gli piovono da piu ,parti, non se ne cura. In fondo ha la cer tezza che le« cose» lo riscattano sempre, che il suo umore di galantuomo, di borghese pieno di buon senso prima o poi viene a galla sotto la polvere di un arcaismo o di un hapax legomenon stupefacenti. Per giunta gli piace proba bilmente di rischiare qualcosa, di gettarsi in questo calei doscopio stilistico, magari con l'allegria di chi non ha paura di cadere perché ha sempre modo di rifarsi. Nella storia del Beroaldo il commento ad Apuleio, ap parso negli ultimi anni del secolo, segna anche l'acme della sua disposizione espressionistica: l'opera folta cli excursus eruditi di un sapore quasi esotico, ricchissima di vocaboli e di forme peregrine, rimesse in circolazione sul !'autorità del modello ellenistico, trova a Bologna un pub blico singolarmente pronto a gustarla e fa colpo inaugu· rando quasi una moda. Se non che il Beroaldo per conto suo s'accorge anche d'aver toccato il limite massimo della sua scapigliatura erudita, tanto è vero che dopo l'Apuleio egli retrocede verso i modi piu aperti e piacevoli del suo 39·
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parlato, sempre tra serio e faceto, cli quel parlato che ce lo rappresenta ,piu al vero nella sua nobiltà di uomo buono e di filologo robusto. Se come scrittore infatti egli può suscitare piu d'un dubbio e anche quando si siano messi in luce i moventi del suo stile, molte perplessità, come filologo ha invece diritto a un consenso senza limitazioni. Anzi stupisce a questo riguardo che il suo nome compaia solo di rado nei repertori moderni, mentre sarebbe da porre, a voler te nere conto dei fatti, abbastanza vicino a quello di un Poli ziano o di un Barbaro. Nella prassi filologica il Beroaldo mette finalmente a fuoco la sua intelligenza, la sua atten zione di lettore enciclopedico, vivace e pure modesto, im paziente soltanto di fronte all'orgoglio dogmatico. Non è schiavo di nessun pregiudizio. Valuta serenamente, con equilibrata costanza, badando a rendersi ragione di tutte le opinioni: il critico, come dichiara in una pagina del commento a Properzio, deve essere simile a un « esperto cambiavalute » che « respinge la moneta falsa per tenere soltanto quella autentica ». E si capisce come l'« insecta tio » non gli vada a genio per nulla: ogni volta che gli sorge il sospetto d'aver ceduto a una punta d'acrimonia, si affretta a scusarsi e si sente davvero che se ne ramma rica come se fosse venuto meno al rispetto della verità. Nel suo metodo - è giusto chiamarlo cosf __:_ gli stru menti spontanei del gusto s'integrano il piu possibile con la logica di una scienza rigorosa e prudente, che si costi tuisce nell'esame larghissimo di tutti i casi particolari· di un problema. La congettura per restituire un testo cor rotto o per penetrare il significato cli un termine, di un passo oscuro, acquista certezza solo se esce dal rilievo isolato e si rapporta all'unità culturale e stilistica dello Beroaldo intuisce anche chiara scrittore che si studia. mente in questo campo il valore euristico della cosiddetta lectio difficilior, mostrando di sapersene valere con il rin-
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calzo appropriato di quel confronto sistematico che egli giudica uno dei primi doveri per il filologo antiquario. Perciò accanto al principio dell'elegantius et eruditius vige sempre per lui quello complementare dell'historiae accommodatius: che è come dire l'argomento oggettivo a verifica del iudicium nel suo correlato stilistico. Nella sperimentazione dei propri criteri filologici il Beroaldo ha ,mano quasi sempre felice. Il suo gusto cosi aderente all'autore, ove non sia in gioco un divertimento personale, gli consente un'agilità vigile ed efficace che solo a tratti scade nell'operazione meccanica. Che egli allora sia riuscito un interprete d'eccezione, una specie di maestro del commento, per i contemporanei addirittura il fonda tore di una tecnica esegetica, è un fatto che dopo quanto si è detto si può considerare abbastanza naturale. Sulla figura del commentatore, appunto, le sue idee sono di una straordinaria chiarezza e appaiono tanto vive, c'è da giu rarlo, perché riscoperte e vagliate giorno per giorno nella pratica assidua della scuola. Ammesso che ci sia, l'orgo glio dd Beroaldo si illumina nella fiducia eh'egli ha comune con il suo maestro, il Puteolano, nei propri tempi, non inferiori agli antichi, e nella nuova esegesi filologica. Non si può assolutamente fare a meno di ricoi:dare la sua dedi catoria ai Commentarii in Propertium, che sembra quasi un manifesto, un programma di luminosa semplicità: « Non esiste vero poeta senza l'ala di Dio. Non esiste vero in terprete senza afflato poetico. Il poeta è simile a un ora colo che l'interprete deve spiegare. Mentre il poeta vda il suo carme con oscure figurazioni e adombra in modi de ganti il suo pensiero, l'interprete chiarisce, illustra, pone in luce ed esamina copiose et diligente, ciò che l'artista sfiora appena strictim et quasi transeunte,. Perciò i poeti meritano il nostro rispetto e dopo di loro gli interpreti, le cui indagini portano ai posteri un frutto utilissimo, degno del piacere con cui si legge l'opera di poesia. :8 mia opi41
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nione che non si debbano consultare soltanto gli antichi commentatori, ma anche gli studiosi del nostro tempo. È difficile infatti credere che la natura sia invecchiata col vol gere dei secoli come una donna ormai sfinita dai parti, e in giusto è il pensare che l'ingegno degli uomini sia condannato c1 una progressiva decadenza. Se gli elementi non sono mu tati, se le anime sono congiunte ai corpi coi medesimi numeri, se le membra sono connesse con la stessa materia, è necessario che anche il vigore intellettuale sia rimasto intatto. Ricordate Manilio? Sarà sempre uguale perché sem pre fu eguale. Anche oggi, nel mondo delle lettere, opera una schiera vivace di uomini illustri che nel commentare, interpretare e chiarire la poesia degli antichi hanno rag giunto fama non mediocre ». Quando ci si intrattiene con la persona del Beroaldo, è una pagina cotesta che corre l'obbligo di citare per esteso, tanto condensa in un campione abbastanza ricco le cariche della sua cultura: e anche il tono, cosi discorsivo nella solennità delle proposte e delle enunciazioni, va tutto a favore del suo umanesimo alacre. Umanista è il Beroaldo proprio nel culto di una parola che fondi tra gli uomini una comunicazione, un rapporto spirituale, a tutela di un mondo civile, sempre insidiato dalle minacce dell'esistenza e dell'irrazionale. Rispetto alla realtà, torbida e confusa, egli assegna alla parola un'essenziale funzione di conforto, di ricupero e di rasserenamento intellettuale, di ordine interiore. Una volta sbollite le velleità antiquarie con le loro corse a serpentina dentro i depositi della latinità piu stinta ed eccentrica, resta nel Beroaldo una fermezza viva e temprata, un equilibrio morale sensibile ai problemi del vivere, da riscoprire sempre nel lavoro, nella gioia fati cata del mestiere. L'ideale di umanità serena ma attiva che egli vagheggia e si sforza poi di attuare, si profila di continuo tra le sue lezioni commosse. Spesso prende l'avvio da un paradosso sorridente per distendersi poi in pacata 42
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pienezza e quasi gravità come quando dice, per esempio: « La parola ci consola nelle ore della sciagura: per essa la tristezza si fa meno amara, la gioia piu limpida e tersa... Le lettere rasserenano l'animo, purificano la mente fu gando le nebbie della mestizia come il vento nel cielo che splende bianco e puro, d'imperturbata e fermissima luce». È probabile che qui per l'appunto suoni per I'umane simo del Beroaldo la nota piu pura, quella che lo apparenta degnamente alla generazione di Pico e di Poliziano ( non per nulla li conosce e li ama) nella fede di un comune messaggio di civiltà. Quella « luce imperturbata» di cui egli parla, è anche la misura stessa dell'uomo: essere uo mini nel segno della ragione e della parola vuol dunque dire operare con la certezza di costruire ogni giorno una realtà che non muore come tutte le cose, in quanto rappre senta, al di sopra di tutti i confini di nazione o di città, la « grande e universale repubblica» della cultura. Non è però che il Beroaldo si faccia illusione o nasconda a se stesso, mentre si esalta nel suo sogno universalistico, quanto di effimero e di caduco rimane nel fondo dell'esistenza e della natura umana. Nel suo intimo è troppo cristiano per dimenticare la lezione dei Vangeli. Antistoico per natura, sa che l'uomo non è un eroe ma un soggetto limi tato e mutevole per il quale coincidono il molto e il nulla: la verità è la sua ansia, la sua ragione di essere, ma .in modo, ahimè, da sfuggirgli sempre come il Proteo del mito. Piu che nei filosofi o negli scienziati, verso i quali egli tiene un atteggiamento di scetticismo moderato a sfondo natural mente religioso, il Beroaldo si compiace di ritrovare o di avvalorare le sue convinzioni nella sapienza favolosa degli antichi, anteponendo sempre al ragionamento dialettico la massima proverbiale, che a conti fatti gli sembra tanto piu carica di umanità, di saggezza provata e sicura. Un'imma gine abbastanza ricca per divenire anche un simbolo gli 43
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suggerisce ciò che non può apprendere da un'arida discus sione. E allora che cosa è l'uomo alla fine? Niente ialtro, pensa il Beroaldo illustrando un proverbio che sarà caro poi anche al grandissimo Erasmo, se non una bolla d'acqua. Oggi si gonfia, cresce; domani scompare senza tracce, ri profondato nel nulla. Non piu che un essere frivolo, scherzevole, legato al momento: davvero una bolla che d'improvviso viene meno. Su questo motivo possono anche nascere le variazioni di un pessimismo concorde, classico e cristiano. Al pari dell'uomo, cosi è la vita, foglia che cade, fiore che apertosi sul mattino inaridisce prima di sera, tanto piu rapido nel suo spegnersi quanto maggiore appa riva la sua bellezza. Tutto dunque dilegua come fiume che scorre in una vertigine dolorosa, mentre ogni giorno l'uomo vive morendo, simile in tutto, appunto, a una bolla d'acqua. Che cosa concludere, ·allora, della sua superbia, a fronte di una fragilità di cui non s'incontra l'eguale? Non resta, re plica il Beroaldo di nuovo socratico, che conoscersi vera mente nel profondo dell'essere, educarsi alla dura e pun gente coscienza della labilità connaturata da sempre alla condizione dell'uomo sulla terra. Ma con tutto ciò non s'ha da credere che il Beroaldo coltivi nel proprio costume qualcosa di ascetico. La sua religiosità anzi gli fa accettare la legge della vita, bella o brutta che sia, con la fiducia di un lavoro, per quanto pic colo, che vale la pena di portare a termine. Umanista e cattolico ma di spirito profondamente laico, egli cerca nella scuola, e in questo si dimostra veramente maestro auten tico, la letizia e la solidità degli affetti che si instaurano in una fatica comune, in una gara disinteressata di intelli genze. E del resto, prodigiosamente operoso, non si sottrae neppure ai doveri del cittadino. In mezzo alle sue occu pazioni di erudito trova anche il tempo di prestare la pro pria opera di diplomatico o di cortigiano, esperto e at tento, a fianco dell'aristocrazia addetta agli affari politici. 44
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Anche lui, come è quasi ovvio, vede nei Bentivoglio :i sal vatori della città che garantiscono una antica indipen.;. denza, senza accorgersi, per quanto sia inutile contestarlo, della sostanziale debolezza che caratterizza la loro posi zione di vassalli manovrati da Milano, o limitandosi, come anche si potrebbe supporre, a riflettere inconsapevolmente il disagio di un fittizio benessere locale nella sua disponi bilità per uno scetticismo gnoseologico o nel suo vagheg giamento cli un cosmopolitismo culturale. Del resto sa rebbe vano chiedersi se la classe intellettuale che, tolte poche eccezioni come il Refrigerio, ha sposato di buon grado la causa dei Bentivoglio, intuisca il destino minac cioso che incombe, perché oltre a non possedere una con creta, attiva, esperienza politica che gliene dia la capacità, non è neppure neHa condizione di porsi il problema: gliene tnancano gli strumenti. In sostanza essa è col governo oli garchico-democratico e assolve onestamente il proprio com pito di fiancheggiamento culturale, di propaganda legitti mistica. Il Beroaldo anche in questa materia si colloca al « centro » come gli suggerisce il suo ingegno di borghese equilibrato, forse un po' gretto e calcolatore. Piu a destra invece è un altro umanista, non trascu rabile in un quadro del mondo bolognese di quegli anni per la ricchezza, se non proprio per la profondità dei suoi atteggiamenti mentali: alludo a Giovanni Garzoni. Senza dubbio i Bentivoglio hanno in lui l'araldo piu convinto, quasi sino alla placida fierezza di un vecchio mandarino. In un certo senso egli è lo storico ufficiale della famiglia e ha tutta la fecondità, la facile abbondanza del celebratore d'alto rango. Scrive di tutto il Garzoni, nei lunghi anni di un lavoro ininterrotto: riempie manoscritti su manoscritti, nitidi e ariosi nelle grandi occasioni, con lo zelo, la felicità commovente del poligrafo enciclopedico. Non c'è materia che lo disanimi o lo colga impreparato, e questo poi senza che egli rinunci a un fondamento severo di dottrina che 45
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conferisce alla sua pagina, specie se sono in gioco i valori in cui crede, un tono sufficientemente dignitoso. Il suo itinerario culturale risulta uno dei piu interessanti anche in relazione all'ambiente bolognese di cui finisce col diven tare un esponente non mediocre. t medico, quindi esperto di problemi scientifici; ma ha insieme studiato retorica col Valla - un'esperienza di cui sarà sempre orgoglioso ascoltando anche giovanissimo, tanto da farne poi una specie di mito, i patriarchi dell'umanesimo fiorentino. In letteratura come in politica è un uomo d'ordine, cicero niano da cima a fondo, forse con un certo gusto di sfida e di ritorsione nei confronti di coloro che battono altre strade piu o meno pericolosamente fuori mano. Fra lui e il Beroaldo, quanto a ideale di stile, si viene cosi a porre a discrimine un fortissimo stacco. Il Garzoni rifiuta la sprezzatura parlata e torce il naso dinanzi ai furori lessicali della stravaganza manieristica: è per un comporre in ca denza oratoria ed elegante, senza incivili sorprese a carico del lettore comune. Il dissidio letterario non compromette però altro che la retorica, lascia intatta la possibilità di un'intesa, ben piu sostanziale, sul piano ideologico e religioso. A paragone del Beroaldo, se mai, il Garzoni appare un cattolico assai piu intransigente, cosi deciso e austero che chi andasse in cerca d'un campione bolognese dell'umanesimo devoto, dovrebbe fermarsi proprio a lui, che è l'assertore di un integralismo singolare anche nelle sue punte antipelagiane. Ciceroniano nell'amore della parola composta non meno che nel culto dell'eloquenza, il Garzoni colloca all'apice di tutte le esperienze la fede cristiana, attentissimo nel fissare i limiti del paganesimo di fronte alla carità del Vangelo. Quando si discute di problemi etici o religiosi, non vi pos sono d'altronde essere equivoci per lui, perché il centro del suo mondo interiore è 1'adesione incrollabile alla ve rità evangelica, sintesi logica per un verso ma insieme ir46
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repetibile prcxligio della storia umana. Cosi, tra i laici del mondo bolognese, egli è il piu insistente, quasi il piu estre mista nella negazione dell'uomo come soggetto di dignità autonoma di fronte a Dio. Che non faccia proprio e che anzi oppugni tenacemente il mito umanistico di una « hu manitas » integra e libera è provato dal suo energico De miseria humana, un'opera di tono aspro sotto la luce della « santa religione», cui si contrapporrà sempre a Bologna la vibrante rettifica di un altro umanista, il Morandi, piu misurato e meno acerbo del Garzoni. Il vero è che in pieno Quattrocento lo storico dei Bentivoglio conserva ancora l'inflessione devota di un se colo prima; e chi legga oggi certe sue pagine dove nella tempra -distesa d'un latino ciceroniano s'insinua una figura cosi poco classica come quella del demonio, « l'avversario astuto e violento» di cui si fa cenno in un altro opuscolo intorno alla libertà d'arbitrio, non può non provare un moto di sorpresa non tanto dinanzi a uno stato d'animo, a una «paura» che è lungi dall'essere scomparsa anche tra gli intellettuali, ,ma piuttosto di fronte alla stranezza di un accostamento per cui il dato umanistico torna alla fine a farsi gotico, come da oscure radici ancestrali. E non è tutto ,poi. Il fervore sincero della sua religiosità gli detta non soltanto questi pensieri di moralista cristiano, infiam mato contro ogni eterodossia, ma suscita pure in lui la disposizione piu idonea alla prosopopea, all'elogio agiogra fico: e che costanza, che zelo anche qui! Per quanto ci sia qualcuno probabilmente che sorride scettico di un esercizio letterario che riconduce indietro di parecchi secoli in piena aria patristica, egli ha la tenacia e la passione sufficiente per seguitare a trasferire imperterrito nel decoro solenne del suo latino le piane e umili vite dei santi: tanto piu infine che se c'è chi scuote il capo, c'è pure chi applaude e si commuove. Dopo tutto, siamo nella città dell'Albergati e di una santa Caterina. A Bologna la fede di un umanista at47
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tardato e clericale come il Garzoni ha dunque modo di espri mersi con larghezza di forme dentro un clima ideologico che �bbene cominci a sussultare nel ribollire di lontani fer menti, è ancora favorevole ai fenomeni di riflusso di un'an tica e veneranda tradizione culturale. M11 sul finire del secolo, soprattutto nell'ambito dell'in dagine filosofica, gli indirizzi speculativi si incrociano e si sovrappongono in un quadro non sempre di facile lettura. Accanto all'averroismo critico dell'Achillini che con le sue ricerche di filosofia naturale e
Barbaro, in « Miscellanea di storia veneta• edita per cura della R. Deputazione veneta di storia patria, S. III, XV (1922). lS Il silenzio del Barbaro, che era stato scolaro del Merula, potrebbe anche dipendere (ma si tratta di un'ipotesi) dal fatto che forse egli co nosceva i cattivi rapporti tra il suo maestro e il Bcroaldo (in XXXIV, 11, per Seplasiae, è nominato il Merula soltanto): rapporti, come si sa, che poi precipitarono allorché il Merula prese posizione anche contro il Poliziano. Ora, è sintomatico che in una delle lettere al Poliziano, il Beroa1do parli di sé come di un « tyro • che è costretto a schierarsi di fronte 11 un « veteranus •, o, come diremmo noi, a un rappresentante della vecchia generazione. Sulla _polemic.a è da vedere M. Santoro, La polemica Poliziano-Merula, in « Giom. ital. di filologia •, V (1952), cui sarà da aggiungere che le pagine del Merula da lui ritrovate erano già a conoscenza di uno scolaro del Beroaldo, G. B. Pio: questi le cita piu d'una volta nel commento alle Epistolae ad T. Pomponium Atticum edito nel 1527 (cfr. per esempio f. 46 r, 73 v). 16 Per il giudizio del Barbaro sul Sabellico e le sue Emendationes, baterà rimandare all'op. cii. del Ferriguto, pp. 255-56. :t poi opportuno ricordare che fo stesso Sabellico pubblicò in appendice alle sue note le correzioni proposte dal Bcroaldo (« carnem • per « carmen », III, 5; « Tabracha » per « Tachabracam », V, 3; « ichtyocollam » per « lithocol lam », VII, 56; « a Veiss » per « habenas •, VIII, 42; « viveris • per « in terris », VIII, 55; « phalangia » per « phalangcs », X, 74; « cerre tano » per « ccterano », XIV; « aes • per « aras », XVIII, 1; « haere dium » per « aedium », XIX, 4; « saccis » per « succis », XIX, 4; « vc natu » per « venenato •, XXV, 5; « pyram » per « Epyrum », XXV, 5; « sanguincm anatum Ponticarum » per « in anatum Ponticarum », XXV, 2; « pityocampes » per « phitocampes », XXVIII, 9; « Graecostasim » per «gratotasium•, XXXII, 1; «Marciporcs et Lucipores» per «Marciferes et Lociferes •, XXXIII, 1; « Pausiae » per « Pausiani », XXI, 2; « pree tidas » per « parotidas », XXV, 5. Egli tralasciò tuttavia « Hccale » per « Hccate », XXII, 22 - che è correzione proposta anche poi dal Poli-
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ricordare, per l'appunto, ciò che il Barbaro aveva scritto con orgogliosa cortesia al Sabellico dopo aver ricevuto la prima serie delle sue Annotationes: « At non respondi tunc > ne si te quod erat necesse laudassem, quia octo aut novem errata compemsses in Plinii codicibus, mihi ipse viderer blandiri, qui duo milia et amplius loca in eodem auctore depravata lectioni priistinae incorruptaeque restitui» 17• Che anche nei confronti del Beroaldo lo scrittore delle Castigationes senta la propria superiorità, è piu che pro babile; né d'altronde gliela contesta il Beroaldo, il quale, alieno com'è dal costume della superbia, è pronto ad am mirare gli amici piu grandi di lui, gli « ingeniorum cul mina» di un secolo fortunato, e a vedere nel Barbaro una « lux altera bonarum literarum». Lo dice nella lettera al l'interessato, e Jo ripete in una postilla del commento a Svetonio, dove proclama lo studioso veneziano « doctrina rum asylum et Plinianae eruditlonis thesaurus» 18• Questo non vuol dire affatto poi che il Beroaldo sottoscriva sempre le ipotesi del Barbaro e consideri chiusa, dopo di lui, la partita con Plinio: il suo biografo parla di un volume di emendazioni pliniane, frutto di larghissime ricerche, che dimostra proprio il contrario. Purtroppo quel volume andò smarrito mentre il Beroaldo vi lavorava attorno, e oggi, per seguire il suo dialogo col Barbaro, dobbiamo acconten tarci di ciò che l'umanista bolognese ha disseminato, come un preannuncio dell'opera piu grande, nelle sue lezioni uni versitarie o nei suoi commenti. Ogni volta che il testo gliene offre l'occasione, il Beroaldo ha bisogno di citare. come ziano nei Miscellanea -; « fraus Seplasiae,. per « fraus Asiae ,., XVI r 11; « milax ,. per « similax ». Tanto le pagine del Sabellico quanto quelle del Beroaldo sono ristampate in Lampas, sivt fax artium liberalium, Frankfurt, 1602, I. 11 Cfr. Ermolao Barbaro, Epistolae, Orationes et Carmina, edizione aitica a cura di Vittore Branca, Firenze, 1942, Il, _p. 36. •• Cfr. Caii Svetonii Tranquilli, Duodecim Caesares, cum Philipp... Beroaldi Bononiensis Marcique item Antonii Sabellici commcotarii, Lyon ,. 1'48, p. 366.
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egli lo chiama, il suo Plinio, di discuterne una ,frase, di vagliarne un vocabolo: ed è facile accorgersi che non perde mai di vista il Barbaro, che in un certo senso si misura con lui. Di solito è una « contentio » 19 onesta, lontanis sima, per esempio, dalle forme risentite con cui un Sabel lico reagisce ai morsi delle Castigationes 20• Non si tratta piu allora, di fatti personali, ma di una vera indagine filo logica, che implica un metodo e inruisce, dietro una va· riante, il ,problema del passato e della sua tradizione. Il caso piu tipico è forse quello offerto dal commento a un enunciato di Plinio, nel cap. 52 del libro X, intorno alla forma delle uova: « feminam edunt guae rotundiora gi gnuntur, reliqua marem ». Nelle prime Castigationes il Barbaro, dopo aver osservato che la Naturalis historia con traddice in questo caso a quanto afferma Aristotele, « hoc est a veritate », di sostituire, a « rotundiora, oblongiora ». Poi la lettura di Columella, di cui prima non aveva tenuto conto, lo persuade che la soluzione da lui data all'incon gruenza non regge; ed ecco allora che nelle seconde Ca stigationes, stabilito che Plinio ha scritto il suo pezzo « ex aliorum sententia, non Aristotelis », il Barbaro ritorna alla lezione del codice. Anche iil Beroaldo perviene ad un ri sultato che in parte è lo stesso, ma con un procedimento 19 La nozione di « contentio » è, del resto, nel Beroaldo consueta, e non implica, come per esempio nella pratica di un Merula, nessuna forma di contrasto polemico. Si veda quanto scrive in una delle lettere del ms. Campori, a proposito del suo viaggio a Firenze: « iuvat viros vidisse litteratos, iuvat cum illis contendisse de litcris, quae haud dubic una est honestissima contendo» (c. 10 r). « Contentio » è anche, per lui, l'atteggiamento che ogni scolaro vero deve avere nei confronti del proprio maestro per riuscirne migliore e portarne avanti le espe rienze. 20 « Calunnie » chiama il Sabellico molte delle critiche fatte dal Barbaro alle sue congetture; convinto, per di piu, che quei tali (ma si capisce subito a chi allude) che hanno cercato di infirmarle, l'hanno fatto « non ut veriora dicercnt1 sed ne accessisse •suo" iudicio viderentur,. (Lampas, cit., pp. 182-83). 1\11che nelle Epistolae, del resto, e«li farà sentire le sue querimonie, le sue proteste (cfr. Opera omnia, BascI, l560, III, c. 409-10).
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assai piu sinuoso, che vale la pena in questa sede di ri produrre nella sua forma oiiiginaria perché, oltre a essere un saggio di arguta intelligenza, contiene un piccolo ma compatto discorso critico sui modi della tradizione aristo telica. Secondo il Beroaldo, infatti, chi va discusso non è Plinio, ma Aristotele: « Columella ex ovis acutissimis longissim·.rsque gigni mares, ex rotundissimis feminas tradit. Columellae adstipulatur Plinius noster in decimo: - fe minam - inquit - edunt guae rotunda gignuntur, reliqua mares. - Hoc idem sentire videtur et Horatius Flaccus, qui in Sermonibus probans ova oblonga ait: - Namque marem cohibuit callosa vitellum -; guae saporis quoque gratioris esse putat. Et haec nostri inter se concinentes procliclerunt. Attende quaeso reliqua. Albertus ille Magnus mirandusque in physicis rebus sic scribens in sexto De anima1ibus: - Dicit Aristoteles quod ova longa et acuta prodiderint mares, rotunda feminas. Et hoc est falsum omnimo, et vitium fuit ex scriptura perversa et non ex dictis Philosophi, propter quod dicit Avicenna quod ex rotundis et ·hrevibus ovis producuntur mares et galli, ex longis autem et acutis ovis prcxlucuntur gallinae: et hoc concordat cum experientia quam nos in ovis experti sumus, et cum ratione. - Hactenus Albertus Magnus; ex cuius verbis colHgimus codices Aristotelis tempore ipsius Alberti et congruisse cum sententia Plinii et Columellae super ovis progenerantibus feminas et mares. Et ita ego opinor Aristotelem scripsisse, et Plinium, qui Aristotelis quasi interpres est luculentus, in natura maxime animalium, id ex ipso mutuatum esse; nec credo Alberto vitiatos esse codices Aristotelicos, eciamsi experientia evidenter ostende ret ex rotundis ovis mares, ex acutis feminas gigni. lgitur ut peregre ista concludamus, sensit Aristoteles et scripsit, ex rotundis progenerari feminas, ex acuminatis mares: idem Columella, Plinius, Horatius sensere scripsereque Aristo telem secuti. Nunc vero in libro Aristotelis sexto legitur 69
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prout correxit Albertus Magnus, ne magister a discipulo dissidere videatur; sed vetus Aristotelica lectio est illa quam vitiatam dixit Albertus, quam secutus est Plinius. Ne nostros inscitiae arcessamus aut incuriae an vero expe rientia reclamet, gallinarius super hoc est consulendus: modo nobis constet Aristotelem fuisse in ea haeresi, ut ex acutis ovis mares gigni crederet, ne Plinius Aristotelirus ab Aristotele devius videatur, ne Columella omnis villicationis consultissimus in re villatica lapsus iudicetur. Ratio vera quam affert Albertus ex auctoritate Avicennae, quod ex ovis rotundis mares ,producantur, haudquaquam a nobis refellenda est. Dii enim mentem meliorem mihi quam ut adversus tantum in philosophia virum hiscere audeam; sed philosophicas physicasque hasce rationes physici, philosophi discutiant, trutinent, examinent. Nobis satis est, si guae historica sunt vindicamus » 21• Poco importa poi se il Beroaldo abbia veramente ra gione. La ,pagina conserva in ogni caso la sua forza, con quell'appello cosf stringente, per non dire forse ironico, alla « historia » contro le « rationes philosophicas physicas que », che è in fondo una dichiarazione di fede nella filo logia. Concepita come ricerca comune sempre aperta, come « curiosa observatio » dell '« opinator » 22, è la filologia quella che suggerisce al Beroaldo, soprattutto allorché dis sente dal Barbaro, un rispetto pieno di buon senso, una Cfr. Apulcil Madaurensis Philosophi Platonici, Opera quae quidem exlant omnia, Bascl, 1.597, I, pp. 412-13, del commento del Bcroaldo. umsidcrazioni abbastanza simili • queste fatte dal BcroaJdo ai ritro vano ancora nello Schncidcr, ai primi dell'Ottocento, nell'edizione del De animalibus historille, Leipzig, 1811, p. 403. 22 Circa l'idea che il Bcroaldo ha della filologia, � significativo che essa consista anche per lui, come per il Poliziano, in un e introspi ccre ,. (si cfr. Aususto ·Mancini, Il Polivano filologo, in Il Poliziano e il suo tempo. Atti del IV Gmvegno Internazionale di Studi sul Rinasci mento, Firenze, 19.57, p. 63), in un « eruerc i., come dichiara nel com mento ad Apuleio, « sanguincm ac medullam vcrborum i.. L'amicizia dlc lega il Bcroaldo col Poliziano da una parte e con il Bemaro dal l'altra, ha in fondo le sue pranesac in una mcdcsima fede filologica, in une tecnica intierpretativa comune. 21
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franchezza senza veleni. Se rifiuta una formula incerta delle· Castigationes - lo sparganoptes di XXII, 16 - avverte anche che « cognitio rerum quotidie crescit licetque semper invenire meliora pràeteritis »; se non è d'accordo sullo scambio di zeta e diaeta, aggiunge che la lectio ch'egli propone« facile appareret, si codices Plmianos sine mendis haberemus » 23• Abbiamo scelto questi due luoghi, tra i molti che si sarebbero potuti citare, in quanto sono gli stessi che ri troviamo poi in una prolusione universitaria di Antonio Urceo Codro, sempre di quegli stessi anni, dove sembra 23 Le due lezioni pliniane si trovano nel commento a Svetonio (ed. cit., pp. 207, 4,7). Il pensiero della cognitio rerum che cresce giorno pct" giorno e port'a, quindi, anche e una rielaborazione dei risultati già acqui siti, è un altro dei princfpi che regolano il lavoro del Beroaldo. Nei · Commentarli Quaestionum Tusculanarum (Bologna, 1496) leggiamo cosf: « Nos in cliem vivimus, idest nunquam permanemus perseveranter in una sententia, scd quoticlie nova depromimus, sicut illi qui vivunt in cliem, quotidie parant nova cibaria nihil. reservanta, ncc recondito utuntur, hoclie appetentes hoc, cras illud, quorum varia est vita et victus• (f. 104 r); e prima, aveva detto: « Verum iR alla me nunc quas prius opinione esse confiteor. Et enim supervacuus foret in studiis longior labor, si nihil liceret melius invenirc paeteritis• (f. 91 r). Qualche anno dopo, nel commento apulciano, ribadisce che è lecito « mutare sententiam uhi posteriores cogit'ationes meliores sunt prioribus et post inventa magis quadrant•, anche peIChé, come hanno pensato gli antichi, « veritas tcmporis filia est• (ed. cit., II, pp. 209, ,oJ). Ancora piu esplicito, in un'altra pagina del medesimo commento: « Scio me aliter traclidissc io Commentariis; sed cum liccat quoticlic mcliora invenire praeteritis et postcriores cogitationes prioribl.16 sint sapientiores, volui obiter retractare id quod in Tranquilli commentariis poteram. videri dormitans conniven· tibusque oculis inspexisse: verum id a me aliubiquoque fiet, quoticscum que repastinandi reformanclique cditos iam commentarios in meliorem sententiam dabitur occasio. Homines enim sumus ...• (I, p. 224). Non si può fare a meno, a questo punto, ritornando al Barbaro, di allineare accanto alle formule del Beroaldo, soprattutto all'ultima, una diohiarazionc analoga e non meno programmatica, imerita nel cap. I del libro XXXIII delle Castigationes secundae: « Poteramus et hoc et alla quaedam pau cula in Castigationibus prioribus nondum eclitis inducere abolereque. Sed peccata nostra extare ·volumus ut omnes intelligant non aegre laturum mc, si peritiores aliqui nostra correxcrint, quando ipse me primus onmium reprehendo ec revoco•· Del ttsto, già nc1la Primae, aveva detto il Barbaro a XXXIII, 7: « Mihi porro gratissimam rem lecturi nostra fecerint, siqua minus accurate posita monstraverint. Omnes omnia nec videre nec meminisse possumus ».
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di respirare ancora l'aria della scuola, tra le discussioni, le curiosità di un uditorio impaziente. Con la sua tecnica dialogata Codro sta passando in rassegna alcuni problemi filologici e spiega come il Barbaro abbia chiarito vittorio samente la questione di asarota, quando d'improvviso un interlocutore immaginario gli chiede che cosa pensi del mae stro delle Castigationes. « Sed clic quaeso, quid de Barbaro sentis? ». Allora, forte dei due esempi che gli fornisce il Beroaldo, egli dichiara: « Id quod de homine doctissimo sentiendum est: ita tamen ut ei omnium rerum scientiam non concedam » 24• In modo tanto piu eloquente quanto maggiore è la sua immediatezza, la risposta fissa a un tempo l'atteggiamento dei maestri bolognesi nei confronti dei grandi umanisti contemporanei: si direbbe che a Bologna non vi sia posto per i miti, tanto per quelli celebrativi come ·per quelli polemici. Si vive la cultura non come un sacerdozio, ma come un lavoro, come un'esperienza di uo mini che possono sempre sbagliare e che, vinti i complessi professionali, si consolano ridendoci sopra con una sag gezza istintiva, tta un proverbio e una battuta di spirito 25• Se il Beroaldo appare cosf un moralista cordiale e san24 Antonii C.odri Urcci, Opera quae extant omnia, Base!, 1540, pp. 34-5. Il Barbaro � menzionato anche alcune � prima, ma questa volta per ridurre al silenzio un « vir elegantiarum scctator »: « Atqui Ve getius malus Latinitatis autor, qui gambosum iumcntum, quod crura habeat infiata et gambas pro tibiis, et parvissimos fines dixerit. Tace, vir elcgans, dicet tibi Hermolaus vocabulum esse graecum a ficxu ductum » (p. 18). 25 Sulla vita dei filologi, sempre nel Sermo I, Codro scrive una pa gina umanissima, di sottile ironia: « ...dies et noctes laborant ut scribant commentarla, noctcs Atticas, elcgantias, epistolas, quacstioncs, annota tioncs, observationcs, castigationes, miscdlenea, centurias, quacstiones Plautinas et alias, provcrbia, antiquitates, collectanea, comucopias, pa radoxa, orationes, sermones, facetias ... Quid tum? Fabulae sumus. Nam saepe in primo limine succidimus, hallucinamur, erramus, et praeterea invectivas et doctiores viros nostra errata castigaturus timemus. Scd nos addemus secundam aeditioncm et secunda commentarla ... Scmper crit aliquid quod nescietis: quid opus est nosmet nobis nimium blandiri? Nihil ex omni parte perfectum in humanis inventionibus rcperiri potesti. (p. 16). Quanto elle adulazioni usate nei suoi confronti, l'Urcco nota, con non minore vivacità, nel Sem,o XII: « Quid cticam dc aduJationibus quibus nonnulli erga mc quoquc utuntur, ncscientes quanto opere has nugas
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guigno che ha preso a modello un Socrate dalle fattezze paesane, Codro si presenta addirittura come un personag gio di commedia, con una maschera grottesca di vecchio chierico vagante. Nelle sue mani la lezione diviene un di vertimento scenico, qualche volta ha le movenze di una farsa che strappa l'applauso di un pubblico accorso con la speranza che Codro reciti come sempre la sua parte di macchietta, di savio stravagante e un poco mistificatore. Questo singolare umanista, che non esita a mettere tutto in parodia e invoca i testi sacri affinché poi non lo si creda «erraticus et epicureus», pensa che la natura abbia fatto gli uomini «.falsi, urbani et narratores faceti», e pa1agona la vita a una «fabula», a un teatro dove non vi è nulla di ,stabile al di fuori, forse, del quotidiano lavoro su cui l'uomo fonda la propria dignità terrena. Sotto i suoi lazzi e le sue ·fumisterie, Codro ha infatti un ideale di cultura da difendere, da imporre pazientemente, di anno in anno, entro il mondo universitario bolognese: poiché crede al l'unità organica della tradizione greco-latina, da buon elle nista propugna un ritorno alle fonti e wole che la propria lettura filologica serva appunto a inserire i testi della sa pienza ,greca nel quadro dell'enciclopedismo accademico. Perciò intende tradurre e commentare Ippocrate, Eliodoro, Antello, Ruffo, Galeno per i medici, Oribasio, Euclide, Nicomaco, Archimede per i matematici, Platone, Porfirio, Plotino, e soprattutto Aristotele, per i filosofi, col presup posto di ricondurre poi il linguaggio scientifico ai modi aperti dell'antica eloquenza 26• Cosf, presentando la Rheto rica di Aristotele, si augura che i dialettici, abbandonati contemnere et deridere soleam, ignari quibus verbis obiurgavcrim Ragusi num quendam eruditum poetam, qui oratione sua luculenta me Cicerone et Demosthcnc disertiorem mihi ipsi persuadere conabatur? i. (p. 236). 26 Opera, p. 90. Il programma delle letture enciclopediche è alla p. 188, nel Sermo IX. Si tenga presente, inoltre, q1:J8Dto è dichiarato nel Sermo lii, alla p. 93, e nel Sermo VI, p. 147. Sulle difficoltà di attuare tale programma istruisce il Sermo VII, p. 166 per esempio.
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Alessandro Achillini, Galeotto Beccadelli, Federico Gamba lunga, che sono i filosofi dello Studio, corrano « ad Codrum audiendum », sebbene si affretti subito ad aggiungere che forse non lo faranno, « quoniam Codri rhetorica non est cum Achillini philosophia comparanda ». È una delle tante frasi scherzose che l'Urceo ·mormora con diplomatica grazia quando vuol dire la sua senza urtare i potenti della gerar chia accademica; ma, a parte l'orchestrazione di circostanza, essa insinua anche, con la sua implicita proposta di una filosofia mediata dalla retorica, la critica dell'umanista al tecnicismo delle scuole e fa subito pensare alle idee cosi simili, seppure elaborate con altra solennità e con altro impegno polemico, che circolano nella Venezia di fine se colo dietro l'esempio illustre di un Barbaro o di un Do nato rr. Non per nulla, del resto, il mondo a cui Cocko si sente forse piu vicino, è proprio quello veneziano. Lo co nosce bene, anche perché vi si è recato di persona nel 1492, e vi conta amici di lunga data, che lo stimano e lo ascoltano. Piu che i ,patrizi delle grandi famiglie cittadine, sono gli uomini di lettere, i maestri che lavorano come lui per vivere: il Sabellico, il Regio, il Mosco, Giorgio V·alla, il Leoniceno, e piu di tutti Aldo Manuzio 28• Con quest'ulXl C'è bisogno di ricordare quanto scriveva appunto il Barbaro al Donato, nella prefazione al De somno et vigilia di Tcmistio, sulla ne cessità di congiungere « cum. studiis philosophiac bonas litteras... ut pro virili parte naturalis philosophia cum studiis humanitatis in gratiam redeat? • (Epistolae, Orationes et Carmina, cit., I, p. 17). 28 Sul gruppo degli amici veneziani dcll'Urceo (per il Manuzio e il programma culturale dei filelleni, si confronti intanto G. Toffanin, Il Cinquecento, Milano, 194,3, pp. 8-12), qualche notizia si può reperire in C. Malagola, Della vita e delle opere di Antonio Urceo detto Codro, Bologna, 1878, pp. 214-220; ma si tratta sempre di indialzioni som marie e del tutto esterne. Per conto nostro, noteremo che il Regio era anche in rapporto con il Barbaro, al quale dedicava alcune Conclusiones et Quaestiones in nonnullos e"ores cuiusdam Calphurnii Bestiae (cfr. Marco Foscarini, Della letteratura veneziana ed altri scritti intorno ad essa, Venezia, 18,4, p. 86, n. 2). J.l Valla, poi, nella prefazione al suo Commento di Giovenale (vedilo nell'ediz. di Venezia, 1492), memore anche degli aiuti e del favore conccssigli dal maestro delle Castigationes, lo esaltava come colui « qui sapit pleno pectorc, qui nunquam satis
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timo, il quale poi gli dedicherà una raccolta di Graecae epistolae, Codro è anche naturalmente in corrispondenza: è vero che di essa ci resta ben poco, tuttavia è quanto basta ·perché si possa cogliere la qualità del rapporto intel lettuale che unisce il filologo di Bologna e l'editore uma nista. Tra tante lettere perfette che ci ha lasciato il Quat trocento, quasi come l'emblema di una nuova società let teraria, quelle veneziane di Antonio Urceo si distinguono per una loro ,modestia borghese, tra erudizione e discorso d'affari, tra sfogo personale e moralismo di uomo comune. È una conversazione quasi sempre alla buona, da amici che si incontrano •per strada o al mercato, e padano del proprio mestiere, di un libro o di un dubbio da chiarire, di un avvenimento domestico, di una lezione universitaria. Senza la maschera del commediante, senza gli sberleffi dei Se, mones, Codro appare anche veramente quello che è: un professore venuto su dal popolo di ·provincia, abituato alle durezze dell'esistenza, incline a qualche malinconia e de cisamente avaro, al punto da non salvarsi dalla grettezza. Ma ciò che ha valore per noi è proprio questa dimensione umana, questa verità grigia e mediocre, perché cosi, sot tratta all'atmosfera eroica di un'ascetica laica, la cultura entra nel mondo di tutti i giorni, dove si discute, magari, di denaro o di noiose beghe di quartiere. Quando scrive al Manuzio, il nostro Codro ci porta davvero nel mezzo della sua vita, tra Je quinte del suo lavoro accademico. Informa l'editore dei ·testi greci che sta preparando per lui, gli spiega un verso di Teocrito corrotto, gli promette di cercare in laudatus, qui non aquas illc quidcm collcgit pluvias, aed vivo, largo et perenni fonte exundat; quem actas certe nostra altcrum nobis Varronem susciravit: ita enim omnifaria excellit scientia, cuius oratio bene docta, pressa, enucleata, limata, gravis in laudando, arguta in docendo, subtilis in disserendo, et deniquc urbana et Venetiis ipsis diana i.. Ll Sabellico, infine, per quanto appare dalle sue opere, aveva familiarità tanto con il Barbaro, sia pure con le complicazioni che si sono viste ciraa Plinio, quanto con il Donato, cui anzi indirizzava il suo De Venetiae urbis situ.
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Ovidio una forma insolita, risponde alle sue domande in torno alla metrica di Pindaro; e •poi gli chiede notizia dei libri che si sono stampati, vuol sapere quanto costano le opere di Boezio e se è possibile avere un Cassio Dione. Accenna anche a certi dissapori con Giorgio Valla, che non possono poi sorprenderci se si immaginano accanto il pom poso e cattolicissimo autore del De expetendis et fugiendis rebus e il « grammaticus trivialis », a modo suo umorista, che è appunto Codro; e nel ripensare a un giudizio che l'addolora, ribadisce, citando S. Paolo, la sua professione di fede contro la superbia di chi non ha compreso il mes saggio ·socratico: « Sumus literarum pauperes et volumus videri omnia scire... Officium nostrum esset non superbire, sed alterum ab altero discere et nos invicem amare... » 29• Queste parole sono del 1492, e con esse il colloquio epi stolare tra Codro e il MamlZio si interrompe: soltanto sei anni dopo, ritroviamo tra le Epistolae dell'umanista bo lognese un'altra lettera indirizzata a Venezia, non diret tamente all'editore, ma a un amico comune, Battista Pal mieri. Stavolta Codro è di cattivo umore, almeno quando impugna la penna: i conti non gli quadrano, perché da Ve nezia ,pretendono ancora dei soldi per i libri che ha acqui stato, sebbene egli sia certo d'essere in pari. Lo sa anche lui che la stampa costa caro; ma diamine, si chiede, « reli qui labores in acquirendis pecuniis non sunt magni? ». Eppure, nonostante l'afflizione per il danaro che ha speso, quanto ·poteva bastare per arricchire la propria biblioteca di dieci codici latini «optimi et magni», l'Urceo è poi felice, in fondo, d'avere in casa ora il De animalibus aristotelico, anche se gli errori della ·stampa gli fanno temere che sarà difficile rispondere con esattezza ai colleghi filosofi per i 29 Opera, pp. 27�72. Riguardo allo screzio tra il Valla e l'Urceo, il Malagola avanza l'ipotesi che l'oggetto del « disprcao » manifestato dal primo possa essere stato l'epilso scritto dal secondo per l'Aululllria: ma gli clementi su cui egli si fonda per la sua COJJSCttura, SODO ex>1f fragili che è impossibile restarne convinti.
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loro dubbi sulla translatio latina. Intanto egli indica al !' amico, e con lui al Manuzio, le mende piu gravi che vi ha pescato, salvo poi a mescolare alla sua dissertazione filo logica le notizie ·spicciole piu varie: da un quesito di pro sodia a una indagine sull'identità di un giovane greco che si trova a Venezia, dall'annuncio del matrimonio di Filippo Beroaldo con un « fiore» di ragazza a un consiglio tipo grafico, dall'aneddoto di un'angoscia grammaticale alla ri chiesta di un codice, con relativa assicurazione di pa gamento. Per noi, naturalmente, la parte piu importante della lettera resta quella intorno ai testi aristotelici con la sua espertissima analisi dei fenomeni linguistici e con i suoi vivaci riferimenti alle prove tecniche ricavate dall'espe1ienza della dissectio anatomica: Codro non pretende d'aver colpito nel segno, ma vuole soltanto sottoporre le sue ipo tesi, i suoi ragionamenti problem,atici, al giudizio dei Greci che aiutano il Manuzio, ai docti viri della scuola vene-· ziana 30• E si capisce sempre meglio come dai colloqui che ha con loro, dalle discussioni di cui la lettera del '98 è appena uno squarcio, tragga anche forza, per la battaglia a favore del greco dentro la Facoltà delle Arti, il suo spregiudicato umanesimo filellenico. Allorché, nel Sermo X in laudem literarum graecarum, egli mostra che « nisi lite rae graecae essent, Latini nihil eruditionis haberent», e soggiunge tra l'altro che non si dà filosofia « bona et vera » al di fuori della greca, o per dir meglio di quella secta Aristotelica che « aliis explosis viget et vigebit donec sta bunt literae graecae » per quanto i barbari l'abbiano « pul sata et lacerata», è ormai chiaro che, accampato ,sulle stesse posizioni del Manuzio e dei suoi amici, guarda alla Vene zia del Barbaro, al centro dell'aristoteHsmo autentico e della 1
30 Opera, pp. 263-70. Si confronti, poi, per le questioni editoriali cd iumninistrative toccate nella lettera, A. Firmin-Didot, op. cit., pp. 117, 123.
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filologia enciclopedica, con una solidarietà di vecchio com pagno che, pur criticando e protestando, milita sotto le stesse insegne 31• Né sarà casuale, poi, che fra coloro i quali ascoltano il Sermo IV utrum ducenda sit uxor, figuri an che l'ambasciatore deHa Serenissima a Bologna, il letterato Antonio Vinciguerra: che cosa di piu veneziano dell'ar gomento scelto da Codro in quella occasione, non senza forse un' arrière pensée? 32 31 Opera, pp. 196-7; poco prima, a p. 193, aveva proclamato: « Ne cesse est ad fontes graecos rccurrcre ad Praedicamenta, ad Elenchos, ad Topica, ad Peri erminias, ad libros Analyticos Ari6totelis, ad Porphyrium. ad Simplicium, ad Themistium aliosque graccanicos philosophos i.. Del resto, in nome di questa sua convinzione, Codro può persino mettersi a discutere, ma con amichevole civiltà, il culto di Plinio e le idee del collega Bcroaldo: come nd Sermo V in laudem Aristotelis, che deve risalire nd 1490, dove, dopo aver celebrato la Secta Aristotelica, sog giunge: « Audivistis superioribus dicbus ab Philippo Bcroaldo praecellentis ingcnii et memoriac viro, quod, quid et quanta, quac caelo terra marique contineantur a Plinio fuere literis mandata: sed decies plura et de cies ab Aristotde perscripta fuerunt, quorum nullam Plinius fccit · mentioncm ... Praetcrea Plinium suae actatis doctissimum virum Latini soli. quia Latinus fuit, amant seu in practio habent, ncc omnes quidem. Nam raros invenias scriptores qui Plinii auctoritate muniantur. Aristo tclem vero non soli Graeci, sod Latini, ChaJdaei, Syri, Hcbraei, Arabes et, quod mirum est, christiani theologi et totus denique terrarum orbis amant, testantur, colunt ... • (Opera, p. 144). E qui ,pare già di percepire qualcosa di ciò che sarà, poco dopo, la polemica Leoniceno-Collenuccio (su cui si vedano l'esatto M. Santoro, La polemica pliniana fra il Leoni ceno e il Collenuccio, in « Filologia Romanza•, III (19.56) e anche, per alcune importanti osservazioni di portata generale, E. Gmn, L'ambiente del Poliziano, m Il Poliziano e il suo tempo, cit., pp. 26-7 e A. Renaudct. Srasme et l'Italie, cit., p. 68). Codro ritornerà poi, esplicitamente. qualche anno dopo, sul problema di Plinio e dei suoi rapporti con la tradizione greca, nel Sermo I, concludendo che la varietas si riscontra non solo « inter Latinos et Graccos, sed et inter Graecos et in uno eodem que scriptorc • (pp. 46-7). 32 I,n realtà, tra Codro (il cui Sermo deve cadere intorno al 149.5) e il Vmciguerra cor:rc un vero e proprio dialogo, perché in quello stesso 149.5 il veneziano pubblica a Bologna le terzine che formano il Liber utrum deceat sapientem ducere uxorem an in caelibatu vivere. Le sue tesi hanno molto in comune con il rigorismo del Barbaro, e la conclu sione piu conciliante di tutto il discorso è, in termini del tutto ortodossi, che « Opera santa dc Dio tu che te amogli I siegui, da poi che l'inte stino foco / par che speranza a tua salute togli. I Il continente ha in ciel piu degno loco / per confermarsi a quei lumi supcmi I che Spes60 ad impetrar tal grazia invoco. I El vergcne è supremo fra gli eterni / spiriti magni che in maggior splendore I godono Idio negli secreti in78
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* * * Eppure, quando, a S. Marco si pensa agli umanisti di Bologna, il ·nome che viene ·piu sponmneo non è quello di Antonio Urceo, anche se le sue bizzarrie lo rendono cosi simpatico, ma, di -nuovo, quello di Filippo Beroaldo, il commentator Bononiensis come lo chiama proprio Ccxlro, facendosi da parte quasi per lasciargli il primo posto. Nell'inviare a Giovanni II Bentivoglio il volume delle Enneades, per esempio, Marcantonio Sabellico si augura che possa sopnittutto leggerlo al piu presto « Philippus Beroaklus, vir eruditissimus et cui tantum in his nostris studiis tribuo, quantum eorum qui fama et celebritate florent nemini ». Il medesimo scrittore, nel dialogo De latinae linguae reparatione, che ha come interlocutori ac canto 1al Guarino tutti i patrizi della cultura veneziana, il Barbaro, il Donato, il Dandolo, il Priuli, il Lipomano, il Reniero, il Prunuli, cita il commento del Beroaldo a Properzio come un'opera importante e attesa 33• Oggi il terni i.. Codro, invece, batte, come sempre, le sue strade laiche, un ·poco paradossali. Non solo, nella prima parte del Sermo, che è quella negativa e antifemmm.istica, allega versi di vecchio gusto goliardico come: « Di scite, recedite, ne mulieri credite, quia in Venere .non deficit et nunquam dicit: sufiidt, ad iterandum allicit ,. e parodie del genere di « Dimitte nobis debita nostra, siait et nos dimittimus debitoribus nostris ,. (p. 115), riferito appunto alle feminae similes sacerdotibus; ma addirittura, quando passa alla parte positiva, che poi coincide anche con la sua posizione persona}e, enuncia il principio che virginitas, « hoc est sterilitas, non minus contra naturam est quam corruptio, quam mors ,., aggiungendo inoltre che « quamvis vir sapiens multis aliis voluptatibus, ingenii. scilicct, doct:rimc ac conscicntiec suae affici possit, non debet tamen hac naturali et suavissima se privare ,. (pp. 123, 12.5). La contrapposizione, anche per quanto concerne il tono, non potrebbe essere piu appariscente. Ed è molto probabile ohe Codro, mentre parla, conosca le idee del Vinciguerra e voglia forse chiamarle in causa con la sua consueta tecnica scherzosa. Solo cosi, ci pare, prende anche colore la battuta che egli pronuncia a un certo punto: « Et ut aliquid privacim de nostris dicamus, nisi vir sapientes uxores duxisent, non haberemus Antonium Chronicum ora torem Vcnctianum nos audientem •. Sulle funzioni di Antonio Vinoiguerra Cronico a Bologna, si rimanda a C. M. Ady, op. cit., pp. 118-20. 33 Le parole del Sabellico si leggono negli Opera omnia, cit., III, c. 424 e 326. Tra le Epistolae del Sabellico trova �to anche la risposta
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Da Bologna a Venezia
si trova piu a suo agio, o per sciogliere un nodo filologico, una difficoltà del testo 34• Beroaklo invece ha bisogno di diffondersi, di avvalomre la parola che commenta con un manipolo di esempi attinti dal prodigioso promptuarium della sua memoria: è copioso per programma e per abitu dine, pletorico per natura. Allo.oché bisogna definire una lezione sospetta, mentre il veneziano interroga il contesto ed emenda con un'ipotesi che è sempre un rischio, il bo lqgnese esamina il vocabolo, cerca, come egli dice, di guar darvi dentro, di situarlo in una tradizione linguistica: l'uno sbaglia per astrattezza, l'altro ·per preziosismo 35• Per venire a un caso caratteristico, si prenda il « cymazacum » nel cap. XXX del Nero. Il Sabellico, che legge giusto « Mra zacum », collega il termine a « Mazaca, urbs Cappadociae uncle servitia olim Romam deportabantur », e respinge il
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34 Era un costume, questo dclla sobrietà, e cui anche il Barbaro aveva sempre cercato di attenersi per le Castigationes. L'avC'Y8 pemno saittò in una lettera al Calvo: « Deinde quemadmodum corrigenda sunt adiun gimus, cit.atis auctoribus unde id quo volumus facile comprobari possit, idque praefiatianibus summotis omnibus et sine ulla verborum pompa; ne, quod multi faciunt, dum nimis labores suos mirantur, lectorem finis alicuius avidum oratione ambitiosa detineam. lta defatigatur animus an tequam pascitur et bonac alioqui rcs fastidiuntur antcquam discuntur » (Epistolae, cit., II, p. 71). 35 Credo, però, che il caso piu divertente, nell'arca degli azzardi filologici infilati dal Beroaldo, sia rappresentato, al di fuori del com mento a Svetonio, da una nota, neanche a farlo apposta, pliniana, che si trova nella sua Enarratio in Columellae libros ( vedila in Libri de re rustica, Paris, 1529): « Plinius ait lanas in quodam usu medico adhiberi non curatas rudiculis, hoc est, ut ego interpretor, non excussas agita tasque virgis a batuentibus, sia.1t Bonionienses 1anu quotidie curari conspicimus vel potius audimus. Fit cnim crepitus sonorus cx percussu rudicularum. Scio aliter locum illum Plinianum et legi et explicari ab cruditis sed mihi cummodior videtur lectio et intcllectus purior quem retuli... ». Qui, c'è poco da dire, la filologia è stata sacrificata a un'im pressione pittoresca, 1llla «curiosità» di chi ascolta tutti i giorni, cd è un quadretto che ha la grazia di uno schizm felicissimo, quel crepitus insistente e festoso. D'altronde, questa lettura di Plinio en pleir air, si potrebbe dire, era consueta anche per il Barbaro: si veda, nelle Castigationes secundae, XXXVI, 14, la nota a Beronibus arena... che dice, per l'altro: « Ceterum et merones tueri possumus quasi partes magnas pilarum specie, cuiusmodi Vcnctiis plerumque factitari cemimu6: quoties vel cistemae fiunt vcl canalcs siccandi sunt... ».
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« cymagaium » proposto da alcuni perché per lui non ha senso. Ascoltate ora il Beroaldo: « Multi interpretamenta parum consistentia comminiscuntur. Quidam cymazaces ac cipiunt pro stipatoribus: quod bene quidem congruit, sed nullo idoneo authore fulcitur. Tu vero legito hamaxicorum, sicut legitur in codice emaculatiore. Dicuntur autem hama xici aurigae rectoresque vehiculorum. Dictio est a graeco vo cabolo inclinata: namque illi 4µ4;t1v currum appellant; quod ·nos Septentriones in cacio vocamus, Graeci iiµt1ç.t1v vocant, quia simile plaustri hoc sidus vocatur. Hanc dictio nem nostri Latinitate donaverunt, et in primis Iulius Capitolinus scribens quod Maximinus hamaxas manibus at traheret, rhedam onustam solus moveret. Plinius Hamaxo bios populos appellat, quorum vita degitur in plaustris. lta ab hamaxa, hoc est plaustro, ham.axei et hamaxici derivan tur, signifìcantque plaustrarios aurigas » 36• Tutto questo spiega anche perché, nei casi dubbi, il Beroaldo sia incline alla lectio difficilior assai piu di quanto non faccia il Sa bellico, dJ. quale, .per esempio, accetta la variante « depra vatos » ·nel gruppo « so.tdidos ac depravatos » contro il « parcos » di altri codici, spiegandola come « avaritiae sordibus immersos »; il Beroaldo invece, memore anche cli una scheda apuleiana che gli viene. proprio a proposito, 36 Caii Svetonil Tranquilli, Duodecim Caesares, cit., pp. 554-55. Il problema di mll%llCum aveva anche, qualche anno prima, occupato il Barbaro in due lettere al Faccino (già esaminate dal Fcrriguto), che ci offrono quasi la cronaca di una discussione filologica fatta da un uma nista tra sé e sé. Il Barbaro respinge dapprima le lezioni « amaxcorum, amaxarum » e « mazarum », proponendo di emendare in « comistarum » o, ma con meno convinzione, in « comastarum » (per « comcsatorum »); poi, sentito anche il parere cli un amico, il quale a sua volta avanzava un « comagenum », convintosi che non si possa accettare né « mazaccon » né « comagcnum », ma che, comunque sia, il luogo di Svetonio deve riferirsi ai cappadoces e, come ora suggerisce la pur falsa lezione « co magenum », ai « syri », conclude trionfante, commentando: « Non potest laterc diu vcritas: per mille se vias asserit », che l'unica lettura ohe possa an� è forse: « ...cappadocum turba et syrorum » (Epistolae, cit., pp. 66-68). Nelle Castigationes il problema viene rifuso per une lezione cli VI, 3, « Mazaca » in luogo di « onyzaca ».
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noterà: ·« Corrige deparcos, sicut habet vetustus coclex. Diountur enim deparci eleganti vocabulo tenaces et nimium parei, quibus profusi magnificique opponuntur » 'SI. In fon do, se si dovessero qualificare il metodo e Jo stile dei due commenti, si potrebbe tòrse dire che quello veneziano muove da un ideale di eleganza asciutta e composta (non per nulla Antonio Urceo chiamava il Sabellico« vir elegans et disertus ») e quello bolognese si ispira al gusto del pit toresco e del camtteristico: il primo ha la riservatezza di un mondo aristocratico; il secondo, l'effusione, il calore di tm ·ambiente borghese ,saturo di dottrina. Parla da sé la reazione dei due umanisti dinanzi a una formula come « ex capturis prostitutarum », nel cap. XL del Caligula. Nel Sabellico si avverte una specie di pudore, di· discrezione, che gli fa annotare semplicemente con di staccata freddezza: « quaestum corpore facientium ». Tutt'altra musica nel Beroaldo, il quale non solo trova necessario introdurre nella sua postilla l'immagine della Bologna moderna, quasi a sottintendere che i tempi non sono· poi cambiati (« Bononiae hoc etiam hac tempestate observatur, ut prostitutae meretrices tributariae sint, hoc est vectigal persolvant menstrum his magistratibus qui vulgo praefecti bulletarum dicuntur. Si latine dici volumus, syngrapharum dici possunt » ), ma si concede anche il pia cere cli una lunga scorribanda tra il lessico e la storia del costume: « Plautus eleganti vocabulo prostitutas meretrices appellat diobolaria, ab eo quod duobus obolis conduceban tur a scortatoribus, ut ante docuimus. Refert Iulius Firmi cus in VIII Matheseos quod habentes horoscopum in tertio pede Scorpii, erunt me.retrices pudore prostituto. Idem ait quod in quarta parte Piscium habens horoscop1:1m mulier pudorem passiva libidinum nundinatione prostituet. Captu ras autem intellige quaesticulos quos capiunt pro concubitu a subactoribus. Prerium autem scorti, ut inquit Solomon, . 'SI
Op. cit., p. 553.
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vix unius est panis. Institutum autem fuisse vectigal me retricum et lenonum et exoletorum tescis est Lampridius, qui Alexandrum Imperatorem Romanum vetuisse talla vectigalia inferri in sacrum aeracium refert, sed ea depu tasse ad instaurationem theatri, circi et amphitheatri » 38• In fondo, a costo magari di prendere una cantonata, il Be roaldo ha un modo suo di i,ivivere il testo, di metterlo in rapporto a:lla propria esistenza di lettore e di uomo, con un amore della parola che talvolta, accanto al virtuosismo retorico, rivela anche una sensibilità pronta e commossa, con una piccola vena discorsiva alla Montaigne. Cosf, quando giunge alla massima di Vespasiano: « lmperatorem ait stantem mori oportere », egli non può fare a meno di esclamare: « Verbum plenum fortitudinis et virilitatis, quo indicavit viriHter moriendum esse et fortiter, dum ait turpe esse imperatori cubanti mori, quem stantem mori opor teat », e poi, ripensando a questa morte dignitosa e serena, replica ancora: « Vridetur autem haec Vespasiani mors fuisse talis qualem in sene scribit Plato contingere; qui in Timaeo refert eam mortem inter cetera mortis genera esse lenissimam, guae senio paulatim ad finem deducente na . turaliter subrepit et cum voluptate potius quam cum dolore contingit » 39• Al suo con::fronto, il Sabellico ci tascia dav vero la bocca amara: osserva soltanto impassibile che « stantem » ha il valore di « non cubantem », senza sco prire sotto il ,suo latino sobrio ed esatto un gesto, un • accento personale. 38 Op. cit., p. 420. L'argomentazione degli scorta è forse di quelli che divertono poi il Beroaldo: tanto è vero che ci scherza sopra anche in una lettera del ms. Campori (cfr. E. Garin, art. cit., p. 360). 39 Op. cii., p. 704. Il commento a Svetonio si presterebbe a molte altre considerazioni; ricorderemo soltanto, poiché è un'altra pennellata che complebl il ritratto del Beroaldo commentatore, la notidna al cap. 13 dell'Octavius Augustus, che ci presenta l'umanista durante un'escur sione archeologica: « Antonius, Lepidus et Augustus convenerunt in insulam quam facit Lavinus, 1luvius Bononiensis: quam nos oh id ipsum, cum parum devia sit, olim studiose inspemnus • (p. 128).
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Ma è una differenza, una contrapposizione, a cui chi tiene di piu è proprio il Beroaldo, perché l'esegesi è conce pita da lui come un discorso ove si deve scorgere l'animo del commentatore« ut vultus in speculo». Tra gli umanisti della generazione del Poliziano e del Barbaro, egli è forse quello che si è posto con maggiore impegno il problema· del commento, cercando di �arne una specie di genere let terario con una sua dignità, una sua coerenza. Fin dalla premessa ai Commentarii in Propertium, che segnano il primo tempo della sua originale esperienza esegetica, il Be roaklo è arrivato a capire che anche l'inter,prete non può accostarsi alla pagina di uno scrittore senza uno ·stato di grazia, senza una facoltà di consenso crinico, e può cosi scrivere, adattando e rielaborando un pensiero platonico nei termini, quasi, di un manifesto: « Non est sine deo bonus poeta. Non est sine poetico afflatu bonus interpres. Hle tamquam oraculum. Hic tamquam oraculi e�plicator. Et rum poetae offi.cium sit obliquis fi.gurationibus poema velare et sententi:as concinniter implicare, intetpres involu cra ·explicat, obscura rllustrat, arcana revelat: et quod ille stricrim et quasi transeunter attingit, hic copiose et dili genter enodat ». E se poi lo si segue nel suo lavoro, di commento in commento, purché non si tratti di una stampa messa insieme piu che altro per fare soldi, dal Properzio allo Svetonio, dal Cicerone delle Tusculanae ali'Apuleio ddle Metamorfosi, si vedrà anche come questo suo ·me tcxio esegetico a poco a poco si perfezioni, divenga uno stile 40• Il segreto di Beroaldo - in seguito, con l'affer40 Le date di quattro commenti maggiori sono 1486, 1493, 1496, 1499. Il Beroaldo, però, non s'impegnava sempre allo stesso modo e qualche volt.a tirava v.ia, preso com'era dall'idea di guadagnar a ogni costo (an che il suo biografo, infatti, oltre che giocatore, lo descrive « homo ad rem av:id.ior »). E alla luce di questa habendi cupiditas, probabilmente, andrà visto il suo intervento nella stampa dell'Enchiridion di Epitteto, tradotto dal Poliziano (su cui si consulti R. Pendleton Oliver, Era pla giario Poliziano nelle sue traduzioni di Epitteto e di Erodiano?, in Il Poliziano e il suo tempo, cit., pp. 257-59).
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marsi di un gusto nuovo, si dirà maniera - consiste prima di tutto nell'« inserere •, come egli afferma, « Bosculos doctrinarum per intervalla», nell'intrattenere il lettore su tutto quanto gli passi per la testa, e infine nel riversare dentro le glosse la propria vita di maestro, con le sue av venture e i suoi aneddoti 41• Chi crederebbe mai che in margine a un luogo àe1le Tusculanae egli possa raccontarci quello che gli capitava negli anni d'insegnamento a Parigi, tra il '76 e il '78, quando per sottrarsi agli inviti dei trans montani che lo chiamavano a bere, pronti ad adirarsi se diceva di no, doveva fingere d'essere male .in arnese e mostrarsi addirittura afflitto di ,non sentirsi cosi gagliardo da poter partecipare ai ludi della tavema? E che dire, allora, di un'altra paginetta per la vecchia madre morta, con il suo movimento di affetti modesti ma intensissimi, in un interno appena abbozzato di sapore rustico-borghese? « Deus bone, quanta me, quanta fratres caritate amplexa batur: hilaris erat uhi nos hilaros videbat, tristis uhi subtristes; Jaetitia eius ac tristitia ex filiorum wltibus pendebat, nobis vicem patris matrisque exhibens... ». La vita degli affetti -suscita sempre nel Beroaldo una riso nanza, tanto meglio poi se, come suggerisce la sua natura di emiliano bonario che non è fatto ,per gli accenti dram matici, vi può anche celiare sopra. Nelle Tusculanae, per esempio, lo incontriamo che è ancora un celibe impeni tente, infastidito dai consigli degli amici, i quali lo vorreb bero pure veder sposato. Qualche tempo dopo, allorché com41 Le �ioni piu esplicite e piu maistcnti sul proprio metodo sono affidate dal Beroaldo al c:omm.ento apulciano: si veda pè1' esempio, èd. cit., Il, p. 105. Ma già nella dedicatoria al V1tl'ady si dice, a pro posito di questo « inserere quasi aliud agentem », che esso deve servire poi perché « velud condimcntis nauseolus lasscscentls convivae stome chus reficeretur et omne quasi fastidium abstergeretur ». Su questo gusto del mélange nell'esegesi umanistica fa buone osservazioni H. Fricdrich, Montaigne, cit., pp. 432-36. Cir. anche A. Buck, Die « studia huma nitatis » und ihre Methode, in « Bibliothèquc d,Humanisme et Renais sance », XXI (19,9), pp. 288-89.
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menta .A:puleio, non la pensa piu cosi, perché nel frattempo si è portato in casa uria moglie: ed ecco aHora un nuovo ·ruscorsetto per spiegare che aveva torto, che l'« interventus uxoris », quando ci si sente stanchi in mezzo ai libri, è un « fomentum », un « susoitabulum ». Ancora quakhe anno, e finalmente lo vedremo anche marito premuroso, con un figliolo tra le braccia, di sposto a scherzare sulle paure della moglie mentre fuori c'è aria di terremoto, ma pronto, per non contrariarla, a trasferirsi subito con lei a pianter reno, dove si vive piu sicuri 42• È impossibile immaginare il Beroaldo senza questi umori: essi non soltanto sono connaturati al suo modo di intendere la cultura, ma rappresentano anche un'inven 'Zione comoda e piacevole, una formula di successo da in trodurre nella scuola e da imporre sul mercato editoriale che, da prudente uomo d'affmi, egli non perde mai di vista. E c'è un commento, soprattutto, dove la maniera del Be roaldo celebra il suo trionfo, sf.ruttando tutte le occasioni di un testo pittoresco, tra ila favola, il romanzo d'avven tura e il racconto filosofico: è il commento all'Asino d'oro, un'opera cosi singolare da apparire ,ai ·suoi primi :lettori un testo, come si direbbe oggi, d'avanguardia. In effetti, le postille ad Apuleio oi consegnano l'immagine piu completa del Beroaldo, con la sua socratica saggezza popolare, e la curiosità per le stranezze di un mondo decadente, e lo scetticismo verso le. storie di diavoli o di fattucchiere, e l'ironia nei confronti dei religiosi sciocchi e disonesti, e l'aspirazione a una vita cristiana mediata da uno spirito laico e tollerante. Ma nell'illustrare il testo delle Meta42 Nell'ordine, gli excursus autobiografici segnalati nel testo stanno nei Commentarii Quaestionum Tusculanarum, cit., f. 128 r, 70 r, .58 v, nel Commento ad Apuleio, ed. cit., I, pp. 739-43, e .nel De terrae motu et pestilentia (Bologna, 1505). Tra i motivi che Giovanni de Pins allega per spiegare la riluttanza del Beroaldo a sposarsi, c'è poi soprattutto il timore di portare in casa una donna ostile alla sua vecchia madre ( cfr. Vita Philippi Beroaldi, cit., 130).
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morfosi, il problema che sta piu a cuore all'umanista è la
dimensione dello stile, la qualità di una scrittura cosf fertile e sontuosa. Di qui il suo interesse per il«vocabulum nove fictum et scite fabricatum», per la «solertia in epithetis apponendis », per gli arcaismi, per l'eleganza esotica delle espressioni. E che questo lavoro d'esegesi, poi, sia con dotto anche con una finezza critica tutt'altro che volgare, è dimostrato, ,sia pure a un caso limite di rendimento, da una stupenda nota alla battuta: «Uhi ducis asinum istum? » dove è detto per l'-appunto: «Attende elocutionem inu sitatam "uhi ducis ", cum ex grammaticali disciplina et norma dicendum fuerit "Quo duois ". Verum Lucius noster, ut ego opinor, non minus scite quam festiviter quam mili tem grammaticae institutionis ignarum inducit militariter loquentem praevaricato grammaticorum decreto minimeque observantem placita Donatistarum » 43• È anche vero, però, che a questo punto il dato di gusto si converte in un prin dpio piu generale: il Beroaldo infatti è convinto, e non si stanca di ribadirlo tutte le volte che Apuleio e gli altri «classici» gli danno ragione, che l'eleganza latina non può né deve essere imprigionata«intra cancellos normae gram maticalis», in quanto i grammatici sono sempre tributari degli oratori e dei poeti e fissano le proprie regole «ad auctoritatem veterum scriptorum» 44• 43 Ed. cit., I, 439. Aggiungeremo a questa postilla un'altra osserva zione assai fine intomo a una novella apulciana ripresa dal Boccaccio; là dove il Beroaldo nota da sagacissimo lettore, e con l'esperienza di chi aveva a sua volta tradotto in latino alcune pagine del Decameron: « Joannes Boccatius eloquio vernaculo disertissimus condidit centum fa bulas argumento et stylo lepidissimo festivissimoque, inter quas Apu leianam hanc imeruit transposuitque commodissimc non ut interpres sed ut conditor: quam feminae nostrates non surdis auribus audiunt nequc invi.tac lcgunt » (II, 297). 44 II, p. 200. Si ttetta, come abbiamo detto, di un leitmotiv che corre lungo tutto il commento e s'intreccia, per cos{ dire, all'idea che altro è il «grammatista», cioè colui che esamina un testo con una gretta norma puristica, altro il « grammaticus », il quale invece inter preta un autore in una prospettiva piu amp.ia, tenendo conto, in primo luogo, della sua personalità stilistica. Il « commentator », come lo pensa
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La polemica contro l'astrattezza puristica, aggiunta alla candida ammirazione per Apuleio, ha fatto sf che il Be roaklo venga considerato l'iniziatore di uno stile bizzarro che, un poco come la cosiddetta poesia cortigiana del tardo Quattrocento, ·sembra un lontano preannuncio del gusto manieristico-barocco 45• In realtà, se si legge i!l suo com mento alle Metamorfosi senza pregiudizi ciceroniani, si vede bene che la stranezza dello scrittore si risolve nel piacere della parola ·rara, ma sempre documentata, e so prattutto nella scelta di quelle «dicdones» che paiono proprie soltanto del «senno vernaculus» mentre appar tengono anche all'uso degli eruditi. Nella pref.azione delle Tusculanae, parlando dei transmontani che alla sua scuola si scrollano di dosso la «barbarie» per divenire civili ed eloquenti, il Beroaldo cita come modelli di eleganza, di fronte a Bartolo e a Baldo, Plauto e Plinio 46: ed è un e lo attua il Beroaldo, se da una parte deve guardarsi dalla grettCZ7.8 del « trivialis et minutus masistcr ,., dall'altra ha anche l'obbligo di non rifarsi al metodo allegorico degli «ecclesiastici conditores ,. e di tenersi sempre all'« historicus sensus ,., per non correre il rischio, come è detto per la favola di Psiche, di sembrare piu un «philosophaster,. che un « commcntator,. (I, p. .523). Un bell'esempio di esegesi «storica,. si può registrare in II, p. 643. Ora si può vedere anche lo studio re centissimo, dedicato per intero al commento spulciano dd Beroaldo, di K. Krautter, Philologische Methode und humanistische Existenz, Miin chen, 1971. 45 Cfr. R. Sabba.clini, Storia del Cice,oni4nismo, Torino, 188.5, pp. 42-4.5. Per quelli che potremmo chiamare i vol8arismi dottJi, si può vedae nel commento apuleiano, per esempio: I, 49.5 («Verba non pauca sunt vernacula ac plebeia atque in opificum sennonibus usitata, qUQe rum dehonestata deculpataque videantur, tamen latina sunt et in usu quoque C'l'Uditorum frequentantur •); Il, 363 (« "cordolium", vocabulwn in quo tidiana vernaculi sermonis consuetudine est usitatissimum, quo et ve tustissimi scriptores utuntur»); II, 448. Nascono cosf, accanto alle formule arcaiche e ai tecnicismi singolari, modi «parlati», per non dire, ripe tendo il Bcroaldo, vernaculi, come: «Expertus loquor: amatorcm maxime torquet expectatio illius horae, quam amica condixit. Dies una vidctur animus esse longissimus: conqueritur de mora et tarditate crepusculi vespertini ...» (Il, p. 185). 46 Oie per il Beroeldo Plinio fosse un grande scrittore, si è già avuto modo di vedere: «longe quam grammatici omnes doctior clegantiorque ,., lo esalta una volta. Quanto a Plauto, converrà tener presente oiò che l'umanista asseriva nella lettera dedicatoria della sua edizione plautina:
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accostamento che rispecchia esattamente le sue preferenz.e, i suoi gusti di archeologo letterato� intento a trascrivere gli aspetti della vita contemporanea in una nomenclatura tecnica inconsueta e perciò ricca d'umore, per un certo senso, espressionistico. Inserita appunto com'è in un inter mezzo del commento all'Asino d'oro, torna allora alla memoria ,la« descriptio» di una villa bolognese, nella cam pagna di Pontecchio, che forse ha valore esemplare, e dove gli oggetti piu comuni acquistano il colore esotico di mi steriosi monumenti antichi: dagli « ambulacra fornicata» alle « coenationes», d agli « andronites» alle « pergolae», dall'acqua che « fìstulatim excussa sese in auras per tubos ducta eiacularur» alla « piscina pisculenta», dai « fructus vineatici» aJ « peristerotrophium», dall'« hortus holito rius» all'« horologium longe conspicabile quod horas diur nas nocturnasque aequa lance describens tintinnabuloque «Si vis esse tum in sermone quotidiano tum in epistolis formandis elegancior venustiorque, scito homincm insulsum fore ac invenustum, qui neque sale neque lepore Plautino conditus eniterit ». L'interesse dd .Bcroaldo per Plauto è attestato anche dai suoi commenti, dove egli non i:nanca mai di discutere forme e lezioni plautine per restituire, come dichiara in una pagina di quello apuleiano, «Plauto suam elegantiam suamque dictionem et pla.ne Plautini.ssimam ». Anche questo gusto «plautino» ci riconduce a Vcrnezia, a quella Venezia dove I'editio prin ceps delle Comoediae curata dal Merula nel 1472 ha lasciato dietro di sé un ricordo durevole, fertile di nuove esperienze. Non sarà a caso, ancora una volta, che il piu geniale scolaro amico del Merula, Ermolao Barbaro, scriva un festoso frammento per la .grande lacuna dell'Amphi truo, divertendosi, in fondo, a ricomporic un testo mutilus con l'intel ligenza di un archeologo «qui statuas antiqui operis sine cçitc aut pcdibus inventas reficit ferruminatque» (Epistolae, Orationes et Car mina, cit., II, p. 89). Chi fa qualcosa di simile a Bologna è, invece, come sappiamo, Codro, con la sua brillante e fortunata conclusione del I'Aulularia: solo che mentre per il Barbaro l'esercizio plautino resta, alla fine, una parentesi, un episodio minore della sua enciclopedia stilistica, per Codro rappICSenta quui un centro ideale del suo gusto e lievita in tutte le sue pagine di «grammaticus » comico, di «narrator facetus •· Ma per queste .invenzioni-restauri degli umanisti, occorrerà wdeic la diligente trattazione di W. Creizenach, Geschichte des neueren Dramas, Hallc, 1911; I: alle Ergi.inzungen del Barbero e dcll'Urceo sono, per l'appunto, dedicate le pagine 571-75.
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denuncians non patitur obrepere errorem satagentibus » �: « ...Villa est pulcherrima magnificentissimaque villarum in Bononiensi territorio secesso ab urbe plus minus septem milibus passuum, quod iter vel homini ignavo commodum est sesquihoraeque curriculo peragitur: potesque peractis quae .agenda in urbe fuerint matutinis negociis illud tran scurrere ad horam .prandii. Extructa est in valle quam Rhenanam vocant, aditur via non una. Praetereuntibus viatoribus praebet forinsecus effigiem non tam praetorii quam castelli, pinnis turriculis conspicui. Statim ab ipso introitu haud dubie asseverabis principis id cuiuspiam et summatis viri luculentum diversorium. Introeuntibus a vestibulo statim occurrit cavum aedium amplissimum, quod a lateribus utrimque habet ambulacm fornicata, a fronte
� La «topothesia» del Ponticulanum, come la chiama il Beroaldo, è· alle pp. 550-4, I, del commento apuleiano, ed. cit., e vi si potreb bero affiancare ancom altre «descriptiones»: le stesse che mcevano andare in bestia Francesco Florido Sabino (su cui si veda R. Sabbadini, op. cit.) quando pensava al «wtioswimum scribendi gcnus», che il Beroaklo, a suo avviso, aveva tolto «ex Apuleio, Ma:rtiano, Sidonio et si qui sunt duriores» (dr. Lampas, cit., 1121). Quanto all'Hypneroto machia, non spetta a noi, in questa sede, di andar oltre l'accenno fatto: noteremo soltanto che Apuleio e · Marziano Capella sono anohe due degli autori prediletti di Francesco Colonna, e che il Beroaldo, nel suo com mento aUe Metamorfosi, sottolinea con particolare insistenza oerte ana logie tra cerimoniale neoplatonico-egizio e litiJ!pi cristiana (cfr. per esempio, II, 754, 685, e si vedano, per il significato che tutto questo può avere in rapporto all.'Hypnerotomachia, le ottime indagini di M. T. Casella e G. Pozzi, Francesco Colonna, Padova, 1959, II, pp. 25 ss. e gl-89). La maniera di Beroaldo venne anche ripresa, come sappiamo, da un suo scolato, G. B. Pio, il quale allargò il proprio «pomerio» lingui stico sino ai poeti mediolatini, Alano e Giovanni di Anville, con risultati, tuttavia, grevi soprattutto in rapporto al nuovo gusto cinquecentesco: lo stesso Pio se ne rese conto e «inserviens», come scrive, «ingeniis "sui" tcmpori-s, perinde ac moribus», mise da parte il suo antico «stylus Asius, floridus, tumens, obscurus, desitus» (Lampas, cit., p. 388). Una domanda che, a questo punto, nasce quasi naturalmente, è se il Pio abbia potuto anche conoscere il Colonna: rimettendo la questione agli specialisti dcll'Hypnerotomachia, possiamo intanto osservare che l'uma nista bolognese fu senu dubbio per qualche tempo a Venezia, vicino al circolo, forse, del M-anuzio, perché in una delle sue Annotationes po steriores si legge: «Cum Vcnetia1, orbis nobilissimum emporium, animi grati.a petlisscm, ad officinatorem librarium diverti, ut priscos auctores, hoc est amicos inviserem» (Lampas, cit., p. 523). 91
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scalas binas, quae laterculo structae, latissime expanciantes in areolam quasi coeunt. Uhi in summum perveneris, quod mirum est, in plano consistis; et cum alte ascendere te putes, senris te nihl1. ascendisse: est enim ·in clivo cle menter et sensim surgente constructa... ». È innegabile che a Venezia, nonostante il culto di Plinio che vi ha lasciato il Barbaro, nessuno potrebbe scrivere in questo modo e con cepire una pagina cosi turgida di preziosismi e tuttavia, non so come, affettuosa: salvo non si voglia pensare, e non sarebbe neppure assurdo se il rapporto si limita a una remota consonanza di atmosfere, alla prosa floreale ed enigmatica della Hypnerotomachia. Ma fra l'eleganza della società bolognese e quella del mondo veneziano verso la fine del Quattrocento, sebbene esse abbiano in comune l'aspirazione alla grandezza fastosa del gusto nordico, si avverte qualcosa di profondamente diverso; si sente che da una parte vi è una città florida, ma chiusa nella sua economia di grosso centro agrario, e che dall'altra vi è una metropoli, un attivissimo emporio proiettato sul mare verso l'Oriente, e dove s'incrociano, per cosi dire, le strade dell'Europa. E tutto questo si riflette anche nello stile della cultura, negli uomini con cui s'iden tifica, ,purché non se ne faccia poi un'astrazione, il destino dell'umanesimo 48• Lo voglia o no, il mondo intellettuale gravita tutto, a Bologna, intorno allo Studio universitario e alla sua tradizione cosmopolitica: perciò i Bentivoglio, al lorché prendono in mano il potere, promuovono una corte che per gran parte risulta composta di personalità accade miche, di letterati « ufficiali ». Nella vita cittadina il co stume universitario ha, cosi, un peso determinante, impo48 In questo senso, può risultare paradigmatica la contrapposizione che si ottiene se si mettono a contronto una festa bolognese, cos{ come la descrive il Beroaldo (alludo alle Nuptiae Bentivolorum, cfr. Orationes multi/ariae, Bologna, 1500), e una cerimonia mondana a Venezia come la racconta il Sabellico (in una lettera al Barbadoro, Opera omnia, III, 375-7).
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nendo il proprio gusto, tra conservatore ed eolettico, con il prestigio della sua cultura aristocratica, calata però in una realtà borghese con un paternalismo di tipo popola resco, quasi dialettale. Gli umanisti all'Urceo e alla Be roaldo accettano questa situazione, che, dopo tutto, non forza la loro natura, e operano entro il sistema accade mico, dove prevaJgono i giuristi, i medici, i filosofi, per affermarvi un ideale di eloquenza e di sapere che possa far presa immediatamente su un uditorio erudito, tra una folla di studenti chiassosi, e che esasperi, tra l'altro, ai limiti della libertà personale le forme del dialogo scolastico. Il metodo filologico, che è poi il culmine del loro lavoro, si trasforma in una conversazione famHiare, in una sorta di spettacolo a effetto, pieno di riferimenti, di allusioni, di notizie, con una tecnica comica in fondo antiaccademica. Lo scherzo, la lepidezza, H paradosso, ma adattato quasi sempre a un robusto buon senso, divengono dunque un fatto pubblico, un ,prodotto di cui la scuola non può fare a meno. A Venezia invece è un'altra cosa. La celia e la burla appartengono a un mondo privato, all'universo mi nore delle lettere e dei colloqui domestici. Sul piano pub blico, la scuola conserva un aspetto severo, un decoro raccolto, come si addice a una società di patrizi e di grandi mercanti, cos{ diversi dalla folla studentesca che scende a Bologna povtandovi l'innata anarchia di una giovinezza troppo breve. Certo, vi è anche Padova con le sue baruffe filosofiche, con le sue battaglie accademiche 49; ma si di rebbe che questo contatto renda piu forte a Venezia, in un mondo controllato da un austero potere politico, l'esigenza di un costume composto, di una scuola solenne anche nella polemica, che educhi dei gentiluomini, dei funzionari d'alto rango. Allorché Giorgio Valla, in una pagina della sua grande enciclopedia umanistioa, si decide a parlare di se 49
Cfr. B. Nardi, art. cit., p. 121 e A. Ferriguto, op. cit., pp. 92-93.
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stesso, è sintomatico che egli scelga un episodio d'ecce zione, raccontando, tra il visionario e l'eroico, come un giorno gli apparisse, non senza una volontà divina, l'im magine del Salvatore «ex sepulchro... exsurgens auro cir· cumdata cum vexiJlo aureo, promissa in pectus barba > capillis oblongis, utcimque longius ad cervicem protensis > ore aliquantulum pallido». A Codro, viceversa, se deve fare dell'autobiografia, basta un aneddoto, magari l'incon tro al «forum hoarium» con un'«hortulana iuvenis» che > chiamandolo «barba», gli ha fatto capire d'improvviso che è vecchio prima del tempo 50••• Non si può negare, d'altro canto, che m queste cadenze famiHari e dimesse che gli umanisti piu rappresentativi della scuola bolognese si divertono a introdurre tra le loro le zioni e i loro discorsi eruditi, quasi in contrasto con l'ap parato di una dottrina sempre sfarzosa, non entri anche una certa civetteria, favorita forse, poi, dalla oro inclinazione a tradurre le idee in un gesto, in una battuta personale. A ,guardar bene, è la stessa tecnica di cui si servono per il loro dialogo amabilmente polemico con la filosofia ac� cademica: una tecnica, in fondo, cli compromesso, che sarà insieme una virtu e un limite. Mentre a Venezia, soprat tutto ·nel gymnasium RJvoaltinum, gli interessi filosofici nascono da un'autentica passione speculativa, a cui il gusto filologico, con il suo amore per un'esattezza degante, lega un concreto programma di moderne e corrette versioni dal greco, l'umanesimo bolognese non porta mai la sua battaglia cosi a fondo e preferisce restare quasi sempre in un atteggiamento di curiosità allusiva, di denunzia conci liante, di ironia un po' facile 51• Se a Bologna si è d'accordo 1l
so Cfr. rispettivamente G. Vsl.la, De expetendis et fugiendis rebus opus, Venezia, 1501, II, f. 330 e A. Urceo, Opera, cit., p. 6. Per l'epi sodio cui si riferisce il Valla, è da leggere F. Gabotto, Giorgio Valla e il suo processo a Venezia nel 1496, in« Nuovo Archivio Veneto», I (1891). si Cfr. E. Garin, Filosofi italiani del Quattrocento, Fm:nze, 1942, p. 541. Per la posizione filosofica del Dooato e .del Barbaro, oltre agli
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con il Donato quando egli condanna i« cavillamenta » e le « quaestiuncul-ae » delle scuole, è difficile invece che si dica, come lui, che occorre poi consacrarsi alla vera scienza « repudiatis obiectisque corticibus »; ed è vano cercarvi chi, come il V.alla, sia disposto a ripercorrere tutto il cam mino del sapere enciclopedico antico e moderno per al linearsi alla :fine con S. Tommaso e Duns Scoto contro l'aristotelismo spurio di Averroè e di Avicenna 52• Lo stesso Urceo, nonostante certe sue simpatie per le tesi nomina listiche e per il Valla, non sembra mai impegnarsi piu di tanto, preoccupato, si direbbe, di non allontanarsi troppo dal suo orto filologico. Quanto al Beroaldo, a parte la 1
Declamatio an orator sit philosopho et medico antepo nendus e il De terremotu et pestilentia, egli si comporta
soprattutto. come un inter.prete che ha bisogno, per discu tere, di un caso concreto, di un testo da chiarire: soltanto allora è pronto ,a segnalare gli errori di un Alberto Magno, cosi come non risparmia un Accursio o un Nicolò di Lira,
studi del Garin, La Filosofia, Milano, 1947, I, pp. 346-47 e L'umanesimo italiano, Bari, 19.582, pp. 81-8.5, 120-21, dove però l'opera e filosofica» dd Barbaro viene limitata per certa sua « formalità vuota», andrà ri cordato G. Saitta, Il pensiero italiano nell'Umanesimo e nel R.intJSci mento. I: L'Umanesimo, Bologna, 1949, pp. 437-49. Ancora sul Bar baro sono da · consultare B. Nardi, Saggi sull'Aristotelismo padovano dal secolo XN al XVI, Firenze, 1958, pp. .366-8, 449-.50 e C. Dio nisotti, E. Barbaro e la fortuna di Suiseth, in Medioevo e R.intJScimento. Studi in onore di Bruno Nardi, Fireme, 1955, I, pp. 219-53, una ricerca, quest'ultima, esemplare, che storicizza rapporti e idee del mondo uni versitario italiano, nel. Quattrocento, con straordinaria e acuta esattez7.a. 52 Intorno alla figura del Valla, umanista enciclopedico, oltre ai saggi indicati dal Branca in E. Barbaro, Epistolae, OrtJtiones et Carmina, cit., Il, p. 161, è opportuno vedere ora E. Garin, La Filosofia, cit., p . .347, e La cultura milanese nella seconda metà del XV secolo m Storia di Milano, Milano, 1956, VII, p. 574. Per il Sabellico e i suoi rapporti con i filosofi di Rialto, offrono buone testimonianze le sue Epistole e le sue Ora tiones De origine et incrementis philosophiae, De cultu et fructu philoso phiae, De usu philosophiae. Ed è il Sabellico che proclama, in quest'ultima: e ...In ea civitatc nati sumus, quae legibus et moribus sit optime imtituta, uhi libertas, in qua nata est et adulta, tantum vclit quantum vis et aequitas patiuntur, uhi scmpcr cct.eris artibus magous sit honor, habitus, philosophiae maximus...» (Opera omnia, III, 515).
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per concludere che anche a un grande filosofo può capitare « dum caelestia contemplatur » di non scorgere« quae sunt ante pedes » 53• Questo atteggiamento appare tanto piu logico in quanto i filologi di Bologna, a prescindere forse da Giovan Bat tista Pio, uno degli scolari del Beroaldo 54, si accontentano
La battuta del Beroaldo si legge nel commento apuleiano, Il, p. 410: nel commento, del resto, tutre le volte che si fa il nome di Alberto Magno, si avverte anche, quasi sempre, che � fu « magi,s doctus quam tersus, eruditior quam eloquentior i.. L'atteggiamento del Beroaldo, il quale, una volta affermati i diritti dctl'eloquenza e della filologia, non ci tiene a sconfinare piu di tanto, pago di aver segnalato, al massimo, il problema (in una pagina del commento può cosf ammonire che « haec ex secret:ariis philosophorum magis eruenda sunt quam ex promptuariis grammatistarum i.) rientra in quella « battaglia delle arti i. su cui ha giustamente richiamato l'attenzione il Kristeller (Studies, cit., p. 563) e che non può non 1Jradursi, all'interno del mondo accademico, in un dialogo sfumato e « diplomatico •, al sicuro, per quanto � possibile, dagli incidenti irrimediabili, dalle rotture definitive. Questa prudenza, resa necessaria, tm ,l'altro, dal fatto che gli «umanisti.i., per imporre la propria cultura, debbono cercare un'.intesa, e non aprire una guerra con i fil�ofi, 9i ritrova ancor di piu nei sermones di c.oclro, proprio pen:h6 le sue letture enciclopediche possono dare piu facilmente il sospetto di uno sconfinamento. Ed eccolo, J)Ct" esempio, ammonire, nel Sermo VII: « Nemo a sacrarum legum lectione, nemo a philosophia, nemo a me dicina sermone mco se dehortari putet: quisque coeptum iter prose quatur. Sed adolescentes istos qui mansuetioribus Musis se mancipiave runt, exhortor ut singulis diebus saltem festis, si possent (ut credo) horam unam reliquis studiis suffurentur ill.amque greeds lltcris audimc:lis totam impendant • (Opera, p. 164). Eppure ha, indubbiamente, una certa preparazione filosofica, come mostra la letrem al Garzoni su « per sona» (Opera, pp. 279-85, e cfr. F. Gaeta, Lorenzo Valla, Filologia e storia dell'Umanesimo italiano, Napoli, 1955, pp. 99-100). 54 Il Pio, che insieme con Filippo Beroaldo iuniore e col Bombaci è il piu rappresentativo tra gli scolari del Beroaldo, è infatti addottorato anche in filosofia e non esita, a differenza dei suoi maestri, ad affrontare di petto i problemi speculativi: basterà vedere nei suoi In Carum Lu cretium poetam commentarii (Bologna, 1511), un testo che forse var rebbe la pena di esaminare piu a lungo, le ·pagine sull'anima, LXXXVIII v-XCI v, che formano una vera e propria quaestio. Il Pio, inoltre, non tace le sue antipatie, per esempio quelle, estreme, verso la scuola pari gina: nel commento alle Epistolae ciceroniane, che abbiamo già avuto occasione di menzionare, si scaglia furioso contro la « Parisia imperterrita loquendi licentia, qua in disputando hodie sophistac abutuntur qui se parisinos hodie vocant... qui asinos alatos faciunt, lapidcm extra mun dum ponunt, trepidationis -novum motum invcniunt � (f. 138 v).... Per quanto riguarda la formula super captum mortalium, essa appartiene al Beroaldo ed è proposta in una pagina del commento alla Tusculanae, 53
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di essere dei moralisti, indifferenti o poco teneri verso ciò che è « super captum mortalium ». Avvezzi a misurare le cose del mondo nella loro dimensione quotidiana e bor ghese, essi preferiscono rimettersi poi, per i vuoti oscuri dell'esistenza, alle verità della fede, al conforto che la pa rola evangelica concede anche ·ai peccatori e ai pigri, quando si pentono. t vero che in Codro si sorprende talora una voce ambigua di scettico epicureo; ma nel complesso egli rimane ancora un uomo che crede, ,magari ,anche attraverso la superstizione. Insomma, tra gli intellettuali che vivono tra il'Università e il circolo dei Bentivoglio, la situazione spirituale piu comune è quella di un cristianesimo reali stico, consapevole àei limiti entro cui opera l'uomo, inca pace di slanci .e di idee grandi, sebbene non manchi di accenti sinceri. Ma non bisogna neppure dimenticare che sotto lo splendore del costume signorile la società bolo gnese conserva i caratteri provinciali imposti dalla natura dove si presenta un Socrate moralista secondo la versione di Senofonte (f. 98 1'): per il Bcroaldo, come ha visto assai bene il Gario, si tratta. addirittura, di un principio di vita, di una massima da cui egli non può mai staccarsi, pcrch� la « moralis philosophia... tractat ea quae nobis propiora sunt humanaque et hominibus conducentia magis quam illa naturalia, et ut dixit Socrates, guae supra nos nihil ad nos,. (f. 113 v). Socrate che egli prende a maestro (e che anche Cooro predilige, insi stem!o, se mai, sui motivi scettici) non è un eroe, ma un uomo comune che ci>Doscc la vita e ne parla con bonaria saggezza; un uomo, tra l'altro, brutto e pc1' nulla affascinante: « Socratan - dirà cosf nel commento apuleiano - simis naribus et recalva fronte, repandis cruribus focdis simumquc fuissc auctor est Hieronimus. c:cterum. virtus non tam for mosum corpus quam animum quacrit potestquc sub qualibet cute ingc nium beatissimum ilatcrc: et siait potest in hum.ili casula vir magnus babitare, ita potcst m deformi corpusculo .formosus animus ac magnus aistere. Vidctur mihi Socmtcs in cxcmplare editus ut scire posscmus non ddormitate corporis foedari animum, sed puldu,itudinc animi corpus ornaci» (ed. cit., II, p. 611). E questa mediocrità popolaresca entra anche nel modo che ha il Bcroaldo di vivere il cristianesimo. In lui non c'è, quindi, il rigore aristOCNtico che .f.a dire a un Barbaro: « Duos agnosco dominos, Christum et litteras •· E del resto, per ascoltare qual cosa di simile a Bologna, bisognerebbe rivolgerei piuttosto a un Giovanni Garzoni;· ma siamo allora a un livello mentale dccisamcnte piu basso. « Homo nequc solum. corpus est, ncquc anima sola, scd ex anima simul et corpore compectus est•: questo è il vero centro del Bcroaldo, del suo equilibrio di cristiano laico.
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di un piccolo stato che non ha solide radici e dove i pro blemi politici e ideologici, a differenza forse di quanto av viene per i dibattiti accademici, arrivano di riflesso 55• An che se partecipano alla vita pubblica e assecondano il Bentivoglio nel lavoro diplomatico con cui egli si destreg gia •in una posizione quanto mai· difficile, gli umanisti bolognesi, vincolati come sono alle prospettive prammati che di un mondo subalterno, non possono intendere pro fondamente la lezione deLle cose e hanno per la storia un interesse mediocre, che non va oltre gli schemi di un sano moralismo ·retorico. t un altro aspetto, e non dei meno importanti, che li distingue nettamente da quelli veneziani 56• Ove si eccettuino i modesti e inediti esperi menti di un Giovanni Garzoni, la cultura · bolognese non offre nulla che possa essere paragonato all'opera storiogra fica di un Sabellico, probabilmente perché le mancano l'orgoglio di un'antica tradizione cittadina e ira consape volezza di appartenere a una comunità politica e civile, che conti di piu di una famiglia con il suo potere instabile e la sua rete effimera di relazioni. A Venezia, quando s'apre la grande crisi italiana, Girolamo Donato, H traduttore di Alessandro di Afrodisia e di Dionigi l'Areopagita, sente il dovere di prendere la parola per esaltare la costituzione di una città dove, egli dice, i cittadini « non a principibus aut regibus libertate aut nobi1itate donati, sed sua sponte, natura, virtute liberi, nobiles, libertatem nobilitatemque cum legum innocentiam posteris reliquerunt » 57• Anche a Bologna il .pensoso Beroaldo dedica alcune pagine del suo ss Per lo sfondo su cui va considerata la vita accademica bolognese di fine secolo, sarà bene tener presente, almeno, A. Renaudet, Erasme et l'Italie, cit. S6 Intorno al carattere «politico» della cultura e della scuola ve neziana scrive buone pagine G. Zippel, Lorenzo Valla e le origini della storiografia umanistica a Venezia, cit., 125-32, per esempio. S7 Cfr. Degli Agostini, Notizie istoriche-critiche della vita e delle opere degli scrittori viniziani, Venezia, 1752, Il, p. 233.
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commento apuleiano a quegli anni decisivi che dal 1494 ·portano al secolo nuovo, ma da moralista stupito di nanzi ai oasi di una fortuna onnipotente, per applaudire poi soprattutto Giovanni II Bentivoglio che con la neu tralità ha serbato la patria « immunis et excors bellicae vastitacis bellis undique allatrantibus », e per augurarsi che Milano resti libem, in quanto il destino dell'Italia ,. l'« Italorum existimatio maiestasque » come egli dice, da ·cui dipende anche la sorte di Bologna, è iegato essenzial mente alla forza politica del dux Mediolani. È un giu dizio di ,parte, come si vede, non privo, forse, di certa acutezza pmtica, e può anche essere assunto per definire l'orizzonte civile e ,politico dell'umanesimo bolognese 58• S8 L'excursus sulla situazione italiana e sulla caeca Fortuna figura alle pp. 8-14 del commento ad Apuleio, ed. cit., È un frammento, � munque lo si debba giudicare, di grande interesse, perché riflette diret tamente lo stato d'animo di una persona colta, messa di fronte a una realtà turbinosa e in parte imprevista. Anche nel Beroaldo si coglie lo stupore per la facilità con cui i Francesi 50n siunti a Napoli: «..Gal liarum regem Carolum... qui ingenti:bus equitum peditumque copiis sti patissimis, a transgressu .Ailpium adusque Neapolim nuWs obiicibus repagulisque transcurrit et citra cruorem et sudorem subacta velut a tnmscurrentJe Campania est, Calabri Apulique in ditionem ultronei ve r.erunt •· Piu che risposte, l'umanista in fondo, pur rendendosi conto che i «dissidiia» e le «aemulationes inter principes populosque ltaliae longe potentissimos >>, ossia il contrasto tra il «Dux Mediolanensis » e i «Venetli. octium iamdiu occultum coquontes», sono all'origine della crisi italiana, può porre soltanto delle domande esclamative; come chi, di fronte a una sciagura, finisce col meditare, ascoltando il proprio istinto ,. sulla sorte dell'uomo: «Quis quaeso unquam credidisset Ludovicum sphorciam inter duces omneis maximum, inter reges famigeratum, inter mortales memoratissimum, in1er homines terrenum deum, tam repente,. tam inopinato, iacturam tanti tamque opulenti ducatus esse facturum,. tam subito rebus deploratis, Mediolanum ipsa.mque Mediolani arcem deserturum? qua nihi1 ·in terrarum orbe munitius, quam commeatibus copiosam, machlnis repugnatoriis instructissimam, inexpugnabilem et omnibus tormentis bellicis invincibilem esse soiunt omnes qui videre. Nimirum id totum fortunae et fato assignandum. Fab:> dantur imperia et adimuntur. Fortunae hi ludi sunt: sola utramque pasina.m faoiit ». L'ap pello finale ai Bentivoglio come ai tutori di un'isoJa felice i,n mezzo alla tempesta, è runica maniera, per il Beroaldo, di mettere in pace le sue inquietudini di «moralista», che pure saprà essere fedele sino in fondo al suo Signore (dr. per questo Cherubino Ghirardacci, Historia di Bo logna, Bologna, 1933, Ili, t. 1, p. 316). Cosi aveva fatto anche Codro ,.
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Dopo tutto, lo storico non può neppure c:hieclere cli piu. Gli umanisti dello Studio vanno .presi per quello che sono, dei professori che lavorano giorno .per giorno, attac cati al loro piccolo mondo cittadino, dei maestri che hanno trovato nella scuola il loro stile di umanità. Alla morte cli Filippo Beroaldo, uno scrittore di ,altra levatura e di di versissimo gusto, dopo aver collocato il commentato, Bo noniensis accanto a Pico, al Poliziano, al Pontano, al Leto, al Barbaro, ne ricordava la « mirifica opera» di educatore « cum ingenio et doctrina, tum multo etiam magis.... labore ac diligentia singulari » 59• Chi scriveva queste parole era Pietro Bembo: e piace ·pensare che fossero in fondo anche l'omaggio della nuova cultura veneziana a Bologna e al suo umanesimo universitario.
qualche anno prima, in quel Smno I dove sembra deporsi, sotto i modi paradossali, una vena di nichilismo scettico, legata proprio, si direbbe, all'impressione dello sconquasso italiano, quando s'era consolato, da corti giano che si rifugia all'ombra del principe, dicendo: « Hac ratione Iohan ncs Bcntivolus princcps divus est et non tantum nobis amandus. scd etiam praesens est adorandus, qui tota Italia tumultu Gallico pertcrrita et plcrisque ctiam urbibus aut dircptis aut subiugatls, nos in ocio ac tranquilla pace servaverit » (Opera, p. 4). S9 Cfr. Pietro Bembo, Epistolarum familiarium libri VI, Venezia, 1.5.52, p. 233. t la risposta a Filippo Bcroaldo iuniorc, che gli aveva scritto ap pwuo per annunciare la morte del commentato, Bononiensis.
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Il primo commento umanistico a Lucrezio
Pubblicando a Bologna nel 1511 il suo commento a Lucrezio, l'umanista Giovan Battista Pio dava un esito inaspettato ma coerente alla sua avventura cli antiquario stravagante e aggressivo, « vetustatis verborumque prisco rum curiosus assectator »,che sin dalle prove giovanili delle postille lombarde a Sidonio Apollinare, a Fulgenzio e poi a Plauto aveva sempre avuto il gusto della sfida e che non poteva rinunziarvi ·neppure quando i tempi, oramai mutati,consigliavano un ripiegamento,una disposizione piu equilibrata e accomodante. A differenza del suo maestro, il Beroaldo, che sapeva essere abile, cordiale, e rifuggiva dalle esasperazioni del fanatismo anche come apuleiano, tanto da poter scrivere in testa al suo Asino d'oro: « sunt praeterea in Lucio nostro verba non parum multa interse minata, quibus magis delecter quam utar, plurima vero quibus pel'inde utar ac delecter: et sane novator plerumque verborum est elegantissimus », il Pio amava le contrap posizioni radicali,i giudizi tesi e vihranti. Lo si capiva già dalle pagine introduttive al Siàonio, che andavano subito al bersaglio ( « Eius extant epistolae et nonnuJJ.i versus, reverendac antiquitatis opus observantissimum et retinen tissimum Apuleiani fulminis aemulum, literatoribus trivia libus neutiquam placiturum, qui unico 1ibello contenti, senes elementarii cupressum fingere norunt, ad omnem oculariam aegritudinem uno ut ait Hieronymus, utentes collyrio »),o dal capitolo dei primi Annotamenta del 1496 intorno a un errore di sant'Agoscino, dove premesso che « hi blaterones et subducto supercilio vituperones,qui quod ignorant elevant, me vellicabunt, taX'abunt et demorsica101
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bunt, qui ·spreta viri in omni doctrina tanti eiusclemque apotheosi obstrigilari tantillus et indoctus audeam », ri vendicava per sé, « tantillus et indoctus », il diritto della critica: « Fuit equidem Augustinus vir magnus et erudi tionis integerrimae: verum ut auctor est Iunius Columella, qui sapientes existrunati ·sunt, multa scisse dicuntur, non omnia. Summi sunt, sed tamen homines, proinde possunt erratiriis diverticulis caecutire veritatemque protinus re linquere » 1• Uno scolaro di questo genere non doveva in fondo pia cere al maestro non solo perché ,il suo totalitarismo pole mico e un po' tetro deformava •l'immagine della scuola donde era uscito, ma anche perché piu che un continuatore faceva di lui un concorrente, quasi un antagonista, il quale prometteva quattro anni prima della stampa del Beroaldo una restituzione del testo apuleiano ( « Lucium Apuleium Madaurensem fiorentissimi styli nitidissimique characteri smi fuisse, si Sidonio credimus atque Fulmineo, quem Pla tonicorum eruditissimum Augusrinus De civitate dei libro octavo iudicat, cuius opinamina et sententias aemulabundus non pauoa platonice protulit. At is aureus liber et brac teatus, quem non genium, quam non habet charitem, multi iugis tamen mendis scatet, et oh inscitiam nescias an incuriam aevi nostri repudiatus, ab bisce trivialium faerulis faeculentis sordescit apud wJgus in dies, cuius patrocinium nostrum erit, qui politioris eruditionis iampridem profes sores sumus ») e lo ripeteva ancora nel commento plautino del 1500, tra ·molte postille che chiamavano in causa lo stesso Filippo, proponendo inoltre imperiosamente un'in terpretazione manieristica dello stile comico-romanzesco, per cui Plauto e Apuleio divenivano « consectanei eloquen1
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1 Cfr. Lampas, sive fax artium liberalium, I, Frankfurt, 1602, .362. Si avverte una volta ,per tutte che le citazioni degli Annotamenta del Pio sanmno sempre tratte da& ristampa secentc9c:a della Lampas. Per il fmmmento della dcdiattoria all'edmone di Sidonio Apollinare si � :seguito il testo della ristampa di BuiJea, apparsa nel 1,42.
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tiva di un modello culturale, l'intermediario o il veicolo di esigenze e rapporti extratestuali. Si potrebbe affermare, adattando un pensiero di Brecht, che l'interesse per il mondo di un libro non cancella nel lettore l'interesse per il mondo, anzi è proprio questa tensione a creare il con fronto, l'arte difficile del leggere. Viene dunque a pro posito quanto ci insegna Jurij M. Lotman, il piu acuto e il piu originale, ci sembra, fra i teorici slavi di un rigoroso strutturalismo letterario, di autentica impostazione se miologica. A suo avviso, il testo non esiste mai per sé solo, è incluso di necessità in un contesto storico, reale o fittizio che sia, e si presenta, per cosf dire, quale parte contraente i nei riguardi ·degli elementi di struttura extratestuali che si { legano ad esso alla stregua di due membri di un'opposizione. Pertanto un'opera non s'identifica semplicemente col testo, ma appare qualcosa di piu complesso, tanto piu impreve dibile e mobile, in virtu per l'appunto delle strutture extra testuali che entrano nel suo sistema: esse mutando danno origine a nuove relazioni con gli elementi del testo e quindi a nuove prospettive di lettura. D'altro canto poi, il testo non può essere percepito come« artificio» o procedimento di stile se non sullo sfondo di un determinato « fuori testo», in lotta con le attese di un lettore che implicano sempre la presenza proiettiva di norme e di convenzioni distribuite tra i due estremi di un'estetica dell'identità è di un'estetica dell'opposizione. La parte extratestuale di una struttura letteraria rappresenta dunque una compo nente rilevante dell'insieme, contraddistinta da una straor dinaria mobilità di rapporti, ma ciò rende piu arduo il lavoro di formalizzazione da parte del critico e richiede in via provvisoria una tecnica largamente soggettiva, al meno fino a quando, ipotizza il Lotman, non si siano indi viduate meglio le sue articolazioni logiche e le sue pro cedure di analisi. Sembra certo, a ogni modo, che i caratteri
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Sabellico non si può considerare proprio una :figura di primissimo piano; ma ai tempi suoi, su1l'ultimo squarcio del Quattrocento, egli aveva a Venezia, nonostante le ri serve delle Castigationes, il prestigio di un maestro auto revole e rappresentativo, per non dire di un caposcuola: lo stesso Beroaldo, secondo quanto riferisce il suo biografo, lo collocava al livello del Barbaro, sia pure lodandone, piu che l'erudizione, che attribuiva se mai al grande Ermolao, la « facilitas ». Ciò che conta, intanto, è aver trovato un ,rap porto di cultura tra il Sabellico e il Beroaldo, l'eco di un dialogo che, per la personalità dei suoi protagonisti, vede piu che mai di fronte due tradizioni, due scuole. Chi vo glia ora anche conoscerlo piu da vicino, non deve far altro, una volta messo ·sull'avviso, che ,scorrere i commenti a Svetonio lasciatici dai due umanisti. Attraverso il filo pa ziente delle postille e delle �hede si segue, cosf, un lungo colloquio erudito in cui tocca quasi sempre al BeroaJ.do la parte piu comoda, quella di chi replica: dico quasi sempre, perché nell'epistola nuncupatoria il filologo bolognese ci avverte che i commentari del Sabellico, « non indocte neque ineleganter conscripti », vennero come a interrom pere ,le sue « lucubrationes », dunque mentre le stava stendendo. Non obbligheremo il lettore a un tour de force ttia le pagine di Svetonio: alcuni saggi di prova sono piu che sufficienti per dare la misura, il tono di due stili ese getici cosf diversi. In genere, il Sabellico ama un commento stringato, ri dotto all'essenziale; se allarga il suo discorso, lo fa soprat tutto per illustrare una questione storica, ed è ,l'area dove di Giovanni II Bentivoglio, che dice fra l'altro. « Historiam abs te luculente graphiceque perscriptam leget et Beroaldus nostcr, cui iam. translegendam dedi, qui eam probat et praeconio laudis extollit ». Per l'opera del Sabellico, oltre alla vecchia Vita di A. Zeno, si possono vedere M. Foscarini, op. cii., pp. 250-5 e R. Bersi, Le fonti della prima decade delle « Historiae Rerum Venetarum » di M. Sabellico, in « Nuovo Archivio Veneto», XIX (1910) e XX (1911). Altre indicazioni biblio grafiche a p. 158 di E. Barbaro, Epistolae, Orationes et Carmina, cit., Il.
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tiae asiaticae quam maxime»,con tratti piu bizzarri di quelli disegnati dal ·maestro. E difatti poi il Beroaldo ristabiliva subito le distame,all'interno dei suoi commentari apuleiani, con una svalutazione sistematica di Fulgenzio, che ne colpiva soprattutto l'editore entusiasta, come ha visto be nissimo il Dionisotti, e la sua pretesa, si può ora aggiun gere, di erigersi a corifeo, a impetuso primo violino di un asianesimo integrale o allargato 2• Non era una rottura, ma piuttosto un ammonimento, una rettinca per chi voleva capire, un invito a non andar oltre, e insieme un gesto di precauzione, un modo per non compromettersi piu di tanto nel momento in cui il Pio rientrava a Bologna e riprendeva il suo posto di professore nell'universo accademico. Anche :allora, come oggi, la convivenza poteva riuscire difficile, e il Pio bisognava che si adattasse a sopportare le conseguenze dell'essere un personaggio incomodo ma rap presentativo, sia che Beroaldo il giovane, già consacrato dal seniore nelle pagine dell'Asino d'oro come l'erede piu legittimo del suo magistero ( « mox, ut spero et opto, nos t.t nostra trascendens longius procurret atque emica bit .. » ), pubblicasse nel 1502 le opere di Antonio Urceo Codro e non risparmiasse le frecciate per i cultori dei « verba sesquipedalia et ampullosa ac desita, quae multis risum, pluribus stomachum movent», sia che l'anziano e autorevole Garzoni prendesse la parola nel De eloquutione, che è del 1503, per contrapporre alla moda fallace dei « verba nova 1aut prisca» una 1nisura ciceroniana. « Te nenda tibi erunt - raccomandava infatti a Leandro Al berti - praecepta Ciceronis: quae si contempseris, haud fieri non posse existimo ut voti compos sis futurus. Vitanda 1
2 Si veda per rappunto C. Dionisotti, Giovan Battista Pio e Mario Equicola, nel volume Gli umanisti e il volgare fra Quattro e Cinquecento, Firenze, 1968, aggiungendovi anche quanto lo stesso Dionisotti scrive, come sempre da maestro, sulla oultura lombarda di fine secolo nel saggio dedicato a Girolamo Claricio, « Studi sul Boccaccio,., Il (1964), pp. 291-341.
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tibi erunt verba nova aut prisca aut duritcr aliunde tran slata. In quem errorem cum multi memoria nostra incidis sent, damnata est eorum oratio. Erunt igitur inventiones tuae ad commune iudicium et ad ·popularem intelligentiam accommodandae. Sit orario tua pura, non absit a latinitate, sit aperta ac dilucida. Haec consequcre si Ciceronem imita beris » 3• Per parte sua il Pio intanto ·non reagiva, cercava di assestarsi, di reinserirsi nel circolo della vita cittadina letteraria, come mostrano i versi del De pace nel 1503, dedicati naturalmente a Giovanni II Bentivoglio, e la parte cipazione alle Collettanee grece, latine e vulgari pe,r diversi
auctori moderni, nella morte de l'ardente Serafino Aqui lano, curata nel 1504 da Giovanni Filoteo Aclilllini, al Tirocinio de le cose vulgari di Diomede Guidalotti, e al l'edizione che quest'ultimo, non per mùla ·SUO discepolo, licenziava, sempre nello stesso anno, del Buccolicum car men di Calpumio e di Nemesiano 4•
Ma anche a un'intelligenza ostinata, chiusa e orgogliosa come la sua, non poteva alla fine sfuggire che il gusto si stava modificando e che lo stesso Bero�do, ora che cre scevano le resistenze, si ritraeva a poco a poco dalla trincea apuleiiana, lasciandolo solo a rappresentare la posizione del l'arcaismo manieristico e pedantesco. Era dunque il mo mento di ·rispondere, di pigliare l'iniziativa con il lavoro filologico dei nuovi Annotamenta, che vedevano per l'ap punto la luce nel ·gennaio del 1505, preceduti da una lettera dedicatoria, che aveva anch'essa il suo peso come vedremo, al cardinale Francesco Scxlerini, fratello di Piero, il gonfa loniere perpetuo di Firenze 5• Sin dal primo capitolo, quasi 1
3 Cfr. Ioannis Ganonis, De eloquutione libellus, Bologna, 1503. 4 Per tutte ques� edizioni si può avere presente A. Serra-Zanetti, L'arte della stampa in Bologna nel primo ventennio del Cinque�nto, Bologna, 1959. s Forse mette poi conto di ricordare che tra i rituali tcstl d'elogio che chiudono gli Annotamenta s'incontra anche un componimento greco di « Franciscus Tisardus Ambacaeus Gallus » (583 ), che � un altro segno
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d'esordio generale, il Pio metteva le carte in tavola e di chiarava prontamente di lasciare da parte lo stile asiatico cd ermetico, bizzarro e prezioso, che gli era stato caro in altre circostanze, poiché, diceva, ,bisognava piegarsi all'evo luzione del costume, che forse chiedeva un chiarimento delle stesse tecniche espressive, con un ritorno al senso comune. Ma erano anni di sorprese, di crisi per tutti: « Redeamus ad annotamenta nostr.a bene favente virtute genio, stylo non Asio, non florido, non tumenti, non obscu ro, non desito, ,sicut antea consuevimus, utentes, sed .potius dicendi genus grammaticum aggrediamur supra crepidam, ut aiunt, non se tollem, ingeniis nostri tempods perinde ac moribus inservientes, quos non, improbo, quippe cum illis obtemperare necesse sit, àva:rxn oò6l itEot µa.xovra.r., graecum proverhium est. Hic non sexcentos auctores uno adunatos hiatu deprehendes. Intendo nostra simpliciter ex plicabitur, nodum in scirpo non quaeremus, auctorem unicum nobis concinentem aliquando satis erit advocasse, cum occurrant innumeri, ut haec editi.o nostra succosa sit, non corticosa • (388). Le ragioni polemiche di fondo che avevano dettato que sto mutamento erano invece indicate piu innanzi, in cima alle Emendationes et annotamenta in Marci Tulli ad Hor tensium opus, inserite fra i capitoli 150 e 151, che porta vano una specie di biglietto di dedica a Giovanni Garzoni molto simiJc a una confessione, anche se non vi mancava l'accento iperbolico 6• E conviene proprio .Iegger,lo, perché dei rapporti &a il mondo felsineo e la cultura francese. Dell'ellenista Tissarcl discorre ampiamente A. Rcmudet, Préré/orme et humanisme t)
Paris pendant les premières guerres d'ltalie (1494-1.517), Paris, 1916. 6 Le Emendationes non sono state ristampate in Lampas e vanno quindi lette nell'editio princeps del 1505. :S anche da notare, poiché la coiincidcm.a è abbastam.a curiosa, che il capitolo 1.50 degli Annotamenta è dedicato al Properzio del Beroaldo, con .Ja premessa cautdativa, prima di venire aUa aitica: « Propcrtii intcrpretem nunquam crit quin Iau dandum non ocn9C8mus ob abstrusa loca aperta et nodos inenodablles cnodetos • (534). Un elogio scoperto del Bcroaldo, a proposito del Phi-
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Politica e commedia fra l'altro sfiora quasi l'eleganza con una punta di ironia, cosa rara nel Pio: « Irritavit me grammatica scabies, cla rissime Garzo, quae me etiam humeris meis maiora onera subire provocavit M. Tuili Hortensium ut aggrederer un clecumque sacculi incuria foeclatum. Feci quod Athlas, qui cum caelum ·amplius ferre non posset, in Herculem tran �tulit. Perinde ego cum tot Ciceronianis hydris colluctatus cessim pedem refero, et tanquam rorarius ·miles, postquam spes nulla ex tam pernicioso bello effugiendi, nec contra sistendi datur, ad te tanquam robuscissimum triarium me recipio. In te enim Ciceronis anima non secus ac homerica in Ennium trans·volavit. Tu eloquenriissimuis, tu eruditis simus, tu ad omnia quae mihi occurrunt subobscura the saurus. Hic opus, hic labor est. Accingere igitur et mecum occurrens barbarici Tuili tui congredere. Scimus enim te Ciceronianae facundiae intermorientis maximum asserto rem ». D'·altro canto la mossa una volta tanto diplomatica nei confronti di un ciceroniano quale il Garzoni non s�gnificava per nulla una conversione di gusto o un approdo al clas sicismo ortodosso, tanto è vero che sempre nelle stesse pagine delle « emendationes » s'incontrava poi un'inter pretazione per cosf dire antiquaria di Cicerone ( « quamvis haec verba non ·satis ciceronianae conveniant eloquentiae, quandoque tamen Tuilius antiquarii nomen, parce tamen, non recuset, ut qui muginari et mille alla vix vetustis sae culis cognita revocaverit » ), che si aggiungeva per di piu alla tesi dell'eclettismo soggettivo enunciata al capitolo XXXV degli Annotamenta nello stesso spirito, si direbbe, di un Poliziano e, di lf a poco, di un Giovanfrancesco Pico. L'autocritica del manierismo pedantesco non equivaleva insomma a un ritomo a Cicerone e al suo paradigma oralostratus, si legge in�e a ·p. 503: si veda, a ogni modo, quanto os serva ora, sui rapporti fra il Beroaldo e il Pio, K. Krautter, Philologische Methode und humanistische Existenz, Miinchen, 1971.
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torio 7• In questo caso il Pio osservava: « Palladium multi gr,ave et eruditum auctorem iudicant, sed a quo potius eruditio quam eloquentia debeat experi. Alienum sit in hac re iudicium. Nos exemplo Caesaris non morosioris stomachi homines minime offendimur, si convivator oleum conditum pro recenti apponat. Exrutimus omnes schedas. Non malos imitatores aemulamur quos brutum pecus vocat Horatius, qui solum Ciceronem per,legunt tanquam selec tum deum, ceteros, ut Tertulliani verbis utar, tanquam bulbos reprobos .adicientes. Faveo Ciceroni utpote erudi torum eloquentissimo. Illius sermonis neotarei felicitatem admirar.i non desino, non eo tamen fine ut ceteros explo dendos ducam. Sed hoc iudico, cuique suum dicendi mo dum peouliaremque stylum a natura compamtum, et sicuti viiridissimum et amoenissimum pratum diversicolori flore fit illustrius, ita Romanum eloquium disparibus dicendi characteribus exornatius splendet, quippe cum singulo auctori dos sua domesricaque facundi11 natura sit in nata » ( 439). Costretto a ripensare ai suoi quindici anni di ricerche filologiche con la sensazione d'essere ·giunto a una svolta della propria carriera, il Pio non aveva paur:a a riconoscere gli errori d:n cui era caduto nel corso di un'indagine che considerava �mpre aperta e quindi problematica, cosi come la verità è « tempods filia »; ma contemporaneamente sot tolineava ancora, per quanto ingenuo e imperfetto, il lavoro interpretativo compiuto sul testo di Pliauto ( « considerent 7 Anche per le vicende stilistiche del Pio occorrerà sempre avere dinanzi i grandi ,paradigmi storici della retorica classica, senza di cui si corre il rischio di fraintendere molte proposizioni della polemica antiar caicizzant.c. I nostri ausili, in questo ca.,o, sono stati il sempre fonda mentale E. Norden, Die antike Kunstprosa, Darmstadt, 19.582; A. D.
Lecman, Orationis ratio. Tbe stylistic tbeories and practice of tbe roman
orators bistorians and pbilosopbers, Amsterdam, 1963; G. M. A. Grubc, Tbe Greek and Roman Critics, London, 196.5. Anche può servire D. F. S. Thomas, Tbe Latinity of Erasmus, in Erasmus, a cura di T. A. Dorey, London, 1970.
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omnes velim quam multa bene dieta, non quam paucula male... », 395), su Fulgenzio (« nos Planciadem in com munem studiosorum utilitatem inwlgavimus, a 1961, p. 379).
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animae immortali/ate,
di cui era artefice un certo Raphad Francus, « florentinus arci.um et medicinae scolasticus », lettore poi di logica nello Srudio per l'anno 1506 10• Non poteva essere uno stimolo, un invdto complementare? Ma ammesso che il conto non sia, cosf, troppo largo, il pe riodo che si apriva ora per ,il Pio non sembrava il piu favorevole all'impresa lucreziana, perché, a parte il tra sferimento imprevisto a Bergamo dopo la cacoiata dei Ben tivoglio, tra il 1506 e il 1507, egli era poi coinvolto dall'attacco postumo del Boccardo in una polemica plau tina che partiva dalla provmoia, coi suoi umori rissosi e spesso grotteschi, ma rimbalzava sino a Bologna, consor� zi.ando pericolosamente il nome del Pio, proprio quando con la ,scomparsa del Beroaldo egli diveniva l'erede piu titolato della ·souola bolognese, a un mondo angusto e lu natico di maestri perifeiiioi 11• Si ritornava di colpo a una storia ·polverosa di litigi e di dispetti, dove la filologia, anche se ,acuta, tracciava la caricatura di se stessa in una grafia gotica da teatro degli orrori, da arttigianato subal terno, ancora sensibile alle furie ,gesticolanti deM'invettiva piu goffa. Era chiaro che bisognava replicare per rimettere le cose a posto e non fare il gioco, tacendo, dei maligni, che po tevano a Bologna sfruttare l'epi,sodio nel peggiore dei modi, impietosi e insieme divertiti. Necessaria, sebbene 10
Cfr. S. Bertelli, Noterelle machiavelliane. Ancora su Lucrezio e Machiavelli, « Rivista Storica Italiana,., LXXVI (1964), pp. 786-88. Ma sarà anche da consultare, per il retroterra fiorentino, E. Garin, Il proble1114
dell'anima e dell'immortalità nella cultura del Quattrocento in Toscana, sempre in La cultura fiJosofica, cit., mentre giova poi mettere in evidenza,
tornando a Bologna, che qui, nel 1504, veniva ristampato il Marullo. 11 Non bi808D8 scordare che sin dal 1505, ,poco dopo 1a morte del Beroaldo, Iohannes Pinus, pubblicando la Divae Catherinae Senensis simul et clarissimi viri Philippi Beroaldi Bononiensis vita, dove pre sentava come primi « discipuli • del grande scomparso Beroaldo il gio wnc e il B.io, indirizzava a quest'ultimo una letterina di omaggio con una richiesta di supervisione « dum adhuc mutandi consilii C>Cal5io ac paemtcndi locus datur ». Di fatto era un riconoscimento d'autorità, quasi di suettSsione nel ruolo accademico del maestro.
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imponesse una diversione, la controffensiva dava origine all'Apologia in Plautum ( 1508), che ufficialmente risultava opera di Achille Bocchi, il piu dotato degli scolari del Pio, il iuturo autore delle Symbolicae quaestiones, ma che di fatto rivelava anche la presenza atri.va del maestro, rico noscibile in certi impasti stilistici e soprattutto nell'uso di un dossier ·petisonale di lettere, fra cui spiccavano quelle del Beroaldo e di Pietro Bembo, che servivano da puntelli definitivi al prestigio di una cultura universitaria lontanis sima, ripeteva poi il Bocchi con l'impeto della sua devo zione giovamle, dall'erudizione confusa dei « magistel1i », dei « grammatistae » dozzinali 12• Ma ,insieme con questa operazione pubblica di rigetto si rimetteva forse in moto per ,il Pio un processo interno di riesame, di bilancio del proprio lavoro assai piu radicale di quanto non gli fosse caphato negli Annotamenta, se si deve credere piu che al libro degli Elegidia, presentato sul finire del 1509 quale documento lirico di una « iuvenilis aetas », alle « retracrio nes » filologiche che veniva maturando intanto che rileg geva le proprie pagine, e le ragioni ·puttroppo non gli mancavano, con la consapevolezza un po' amam d'avere perduto da tempo, in ogni caso, il « consensus erudito rum ». Siouro di sé ,anche nel denunciare ,i propri errori, quando beninteso se ne avvedeva, egli pensava di riscat tarsi con una redazione piu meditata dei commenti mila nesi, che ora quasi non ·riconosceva piu come propri. E ancora una volta la palinodia e la tenacia procedevano 12 Citando l'Anticlaudiano, un vecchio amore del Pio, il Bocchi ven tenne, su cui si rimanda di nuovo, per altri particolari, al saggio del Dionisotti, prendeva di petto i grammatici ancora immersi nella « Ger mana Britannicaque illuvic,. che « put&m:ine solo contenti nuclei ne qucunt libare saporem,. (Apologia in Plautum, Bologna, 1508, cap. 222), ma poi, regolati i conti col fantasma del Boccardo, affiancava al pam phlet plautino la versione della Vita Ciceronis auctore Plutarcho: e an che questa circostanza, col suo contesto di ambigue implicazioni cicero niane, sembra indicare che la vera partita dell'Apologia si giocava a Bologna. M01to e sepolto, il Boccardo non poteva piu parlare.
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d'accordo. Pieno di speranza diceva: « Scio me non omnia esse complexum superesseque longe plura, sensus canni num meliores exqu1sitioresque in medium afferri posse, versusque plautinos innumeros superare, qui aut trutinatio rem enucleationem exposcunt, aut liman severiorem: quod me facturum in secunda in Plautum, qui sub incude lite raria procuditur, editione polliceor, quando semper se cunda putantur. Fulgenrii novos ·a me perfectos commen tarios in manibus habes prioribus longe dissimiles, quos non partu1s Pii, sed molas et rudes offas esse fatebuntur, qui secundos legerint. Primi in Fulgentium commentari soli, ut ansa libitinis malevo1isque subducatur, etiam sidoniani, inter nostra nolo recenseantur. Sapiunt enim nescio quid àµovcr6"'CEpov et affectatum » 13• Questi propositi, d'altro canto, non giungevano ina spettati poiché avevano premesse e radici lontane. Anche gli Annotamenta s'erano conclusi con l'annuncio di nuovi « commentarii » plautini « longe fusiores et explicatiores, non tantum docris, ut primi, verum etiam ·mediocribus servientes » ( 582 ). Tutto dipendeva oramai dalla realiz zazione, dal modo concreto di iintendere, sulla pagina da interpretare, una promessa cosf generosa di nnnova mento, di maturazione tecnica e intellettuale.
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Non c'è bisogno di leggere, proprio alle prime battute del discorso esegetico, la variante tematica di « quoniam auctore Magno .&lberto libro De animalibus vigesimo se cundo sapientibus et insipientibus nos esse cognoscimus debitores, stilo perspicuo utemur et illaborato, quippe 13 Tutto questo si può leggere in appendice, f. 221v, ai In Carum Lucretium poetam Commentarii a Ioanne Baptista Pio editi: codice Lu cretiano diligente, emendato: nodis omnibus et difficultatibus apertis: obiter ex diversis auctoribus tum grecis tum latinis multa leges enu cleata: que superior etas aut tacuit aut ignoravit. Bologna, 1511, l'edi mone di Lucrezio cui si farà riferimento d'ora in poi.
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verum est id Thucydiclis ·in secundo, ,loquente Pericle: qui novit neque id quod sentit explicat pednde est ac si ne soiret » ( 6 ), per trarne la conferma che nel commento a Lucrezio del 1511 si compie finalmente con risultati solidi e tangibili il ciclo di ricerche e di inquietudini grammaci cali cui avevano dato principio gli Annotamenta bolognesi, mentre conviene piuttosto insistere ancora sulla singolarità delle tensioni e degli impulsi che presiedono alla genesi dello studio lucreziano. Nella logica del Pio la riconquista del«consensus eruditorum » passava evidentemente attra verso un'impresa senza precedenti di rilievo, su di un terreno difficile e impervio che nessuno aveva ancora esplorato, cosi da consentirgli poi di riattaccarsi all'ideale esegetico del Beroaldo e di reinterpretarlo a modo proprio, fuori dalle schermaglie e dai sottintesi d'un tempo, con l'animo di chi riconosce alla fine il vincolo di una scuola e riscopre una tradi2ione in cui radicarsi, un costume da difendere e ,anche da s&uttare come un patrimonio o una rappresentanza di gruppo. L'ddenrifìca2Jione col «padre» s'era dunque compiuta. lil fatto stesso che dei codici usati per il testo del De rerum natura due si legavano ai nomi del Beroaldo e di Codro, confermava l'impostazione bolo gnese di tutta l'«interpretatio », per quanto vi si affian cassero anche contributi preziosi come quelli del Marullo, a prescindere dagli altri manoscritti del Barbaro, del Leto e dello Strozzi, che portavano poi il. Bio suJJla stessa strada del Gandido, l'editore del Lucrezio fiorentino del 1512, partito anche lui, guarda caso, da una versione giovanile della Tabula ài C.ebete tebano 14• Ma ciò che ,rendeva unico di fatto l'iitinerario del Pio era la matrice eterodossa della sua scelta, lo spirito antici1
14 Cfr. Bertelli, Noterelle machiavelliane, cit., p. 783. Il Pio aveva tradotto la Tabula per Isabella d'Este (cfr. Dionisotti, Gli umanisti e il volgare, cit., pp. 8485), prima dunque del Candido, e discorreva ancora dell'« opusculwn • negli Annotamenta.
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ceroniano che dopo aver ispirato le stravagame e i ghi ribizzi arcaizzanti del Sidonio ApoUinare, del Fulgenzio e dd Plauto, decantandosi e chiarendosi, almeno in parte, s'incontrava con Lucreno e la sua lingua severa, non piu fra gli erbari spinosi del manierismo pedantesco ma nel mondo scosceso di una parola che si inventa come ckamma del pensiero, come desiderio contrastato di libertà, di cer tezza intel'iore 15• Non a caso, come a togliere ogni dubbio sulla coerema della ,propria operazione, l'interprete con l'aiuto di una ·notizia di san Gerolamo stabiliva sin dal principio un rapporto diretto fra i vecchi commentari plautini e i nuovi lucreziani, e subito dopo, raccogliendo ed esaminando i giudizi dei classici intorno allo scrittore del De rerum natura, ne ricavava anche un abbozzo di di battito, con alcune conclusioni programmatiche. Lo stile piuttosto neutto del discorso grammaticale conferiva mag giore forza al manifesto, al grafico delle simpatie piu strettamente personali. Notava dunque il Pio: « Quinti lianus Macrum et Lucre1Jium legendos putat, sed non ut 15 Viene a proposito, in questo caso, la postilla d'ordine retorico su coloro « qui vcrborwn rhythmos inancs et fuco redundantcs thorosae et m11c:1Jlac vcritati proponunt, tanquam philosophi cultus et oratoris sit divc:rsus; in quam sententiam prolatum id catholicon a Manlio as� nomico: •Omari rcs ipsa ncgat contenta doccri•,. (36v), il rui sotto fondo « sidoniano,. diventa piu chiaro se si confronta subito con il testo di f. 26: « Ncrvosam et mascu1am orationem plus ponderis habentcm et laccrtorum quam pinguedinis, idest superfiuitatis oratoriac, vesculam Sidonius sic appellat: «Non tantum dictio cxossis, tenera, ddumbis, quantum vescula, thorosa et quasi mascula placet•. In expositione cuius dictionis in commentariolo nostro in Apollinarcm mirum dictu quam mibi non satisfacio ». Ma per ritornare alla prima glos.u, che avevamo lasciato a mezzo, essa cootinua, dopo la citazione cli Manilio, per il Pio quasi canonica, con un richiamo a Quintiliano: « Quintilianus tamcn libro primo non probat artes, quae nuda praecepta tradunt, cuius non minus docta quam mora1ia verba subscripsi: •Nam plcrumque nudae illae artcs nimia subtilitatis affectationc frangunt quidquid est in orationc generosius, et omnem succum mgenii bibunt et ossa detcgunt, quac ut esse et adstringi nervis suis debent, sic corpora operienda sunt" •· A questa dichiarazione si può poi associare quanto è detto, al principio del libro quarto, intorno all'eloquenza di Luaczio, il quale « se mcritum refert i.nsigncm coronam, quooiam res obscuras versibus lucidissimis il lusttat: quac summa in oratore dos est• (120v).
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phrasin id est corpus eloquentiae faciant: elegantes in sua quisque materna, sed alter humilis, alter diflidlis. Quod vicium, si modo vicium vooari potest, non poetae recte potest adsccibi, sed hypothesi hoc est materiae, quamvis 'facilis esset ex Platonis Sophista responsio: vulgarium animarum oculi divinitatis radios susri.nere non possunt. Cum Taoitus inquit: "vobis iitaque v�anrur ante oculos qui Lucilium pro Horatio et Lucretium pro Virgilio le gunt", phrasin consideravit, non hypothesin. Quod si su binde vocibus asperis et parum dulcedini modulorum ido neis uritur, id ascribatur velim cum penuriae linguae tum carminis clifficultat!i: m quo demiror haec tam scite, tam modulate, tam concinne inseruisse Lucretium, guae vix sine scoria pedestri. orari.ani possunt includi; qua neces sitate et angustiis arctatus Aristoteles verba innovat, pro re sua Cicero confingit, etiam post Giceronem Hiieronymus, Lactantius et Augustinuis quoque. Danda Luoretio ea venia, quam sibi libro secundo, Manlius deprecatur ita canens: "Ornari res ·ipsa .negat, contenta doceci". Et si qua extema referuntur nomina lingua, hoc operis, non vatis erit: non omnia B.ecti possunt, et propria melius sub voce notantur. Fusius alibi de Lucretio tradit haec Fabius: "Nec philo sophiae ignara potest esse grammatice, cum propter pluri mos in omnibus carminibus locos ex intima quaestionum naturalium subtiilitate repenitos, tum vel propter Empe doclem in graecis, Varronem ac Lucretium in latinis� qui praecepta sapientiae versibus tradiderunt" » ( 1 ). E non si trattava piu ·soltanto di una questione stilistica, ma entrava in circuito anche una riserva filosofica di tipo anticiceroniano - sebbene poi nelle postille non mancas sero le lodi all'« oratoriae deus » - che prendeva corpo non senza una certa simmetria nell'ulci1ma parte dell '« exposi tio », quando la ricognizione degli antecedenti speculativi di Lucrezio giungeva a Epicuro. Alla fine del suo catalogo, che pure era introdotto dal rituale « omnia quae delirat » 117
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di Lattanzio, l'umanista bolognese commentava in termini abbastanza lucidi ed espliciti: « Plura potuissem Epicu reorum sectae sensus recitare, sed scrupulosiora, sed amoenitates studiorum quaerentibus non voluptati futura. Amplius ,arduum esset et forsan impossibile sententias Epicureas recte tradere: quem modo stoicum, modo vo luptarium conspicio, modo Catonem, modo Sardanapalum, modo hispidum et macilentum, modo coronatum et co messatorem; quem M. Tullius credit ,in horas mutare clavum, nisi, quod Laertius Diogenes retur, invidia plu rimum castissimo philosopho nonnulla praeter fìdem ascri pserit, quae sua non erant, uti ita contemnendus et explo dendus videretur e ph.ilosophorum coeru atque decuria. Apud Senecam morbo compugnat Epicurus, et stoicae ri giditatis aemulus ·in ipsis Oroi faucibus et limine mortis epistolas dictat, quae adeo ab Epicuro vulgato hoc est un guentato et temulento discrepant, ut putem esse citra ttdem si venerius et scortator a plerisque omnibus habetur; quorum auctoritatem sequtus Cicero saepicule vellicat et sugillat Epiourum tanquam voluptari.um et mulierum amo ribus ancillantem. Quod si Cicero mencis oculos non invi òiae collimasset atque direxisset ,ad amasiam Epicuri vo luptatem, libentes ad illam divertlisset. Comperisset enim eam statum esse animi se. interviene proprio la dicotomia di « interpretatio» filosofica e teologica > in rapporto per l'appunto ad Aristotde: « Sunt multa quae oratores et philC*>phi non possunt evidenter tradere, quare de his tractantes faciunt quod nilotici canes, bibunt et fugiunt: qucxl observavit in multis Ari stotdes, unde sepia dictus est a cavillatoribus, praecipue in libris De anima, uhi cum dixerit: ttseparatur hoc ab hoc tanquam corruptibile ab inco1TUptiibili ", dedit occasionem thcologis nostratibus auctoritate sua asserendi animam sepa.ratam esse immortalem, philosophis vero alitcr interpretandi». Che poi il Pio conoscesse bene Alessandro Achillini, il filosofo piu autorevole ddl'aristotelismo averroistico bolognese, non può essere posto iin dubbio, se è vero, come dice il Fantuzzi sulla fede dd1'Alklosi, che egli conseguiva nel 1494 la laurea in filosofia. :E: da ag giungere ancora che nel commento a Lucremo si fa menzione di Giovanni Filotea Achil:lini, il frate1lo minore di Alessandro, come « iuvcne odarum vernacularum primario vate» ( 69), e che ndle Praefationes gymnasticae, Bologna, 1522, in un Sermo pro doctore novello ad Collegium philoso phorum di qualche anno prima, si parla del « praeclarissimi doctoris Alexandri Achillini, qui vere philosophorum Achilles est». Per quanto poi concerne la posizione filosofica dell'Achillini quale risulta dai suoi testi e dalle sue discussioni, tra Bologna e Padova, sono essenziali i due studi di B. Nardi, I « Quodlibeta de Intelligentis» di Alessandro Achil lini e Appunti sull'averroista bolognese Alessandro Achillini nei Saggi sull'aristotelismo padovano dal secolo XIV al XVI, Firenze, 1958.
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Primo commento umanistico a Lucrezio
denza apologetica, alla maniera, diciamo� di un Lattanzio, citato d'·altronde tante volte; come quando si avverte: «lucretianae opinioni tum discutiendae (quoniam est im pia) tum excutiendae» (88v) oppure: «sed a pietate nostrae theologiae haec acerbitas et irreligio procul explo datur» (138v), o quando, a colloquio diretto col lettore, gli si dice in tono piu ostentatamente prezioso: «sed ne tibi Lucretius insidiosis rugientis leonis crocodilitis, serJ:1is et corniculatis argumentis armatus officiat, aegida Minervae theologicae induamus, quo et nunc et in posterum nedum resistere, sed adorientes labefactare valeamus» (94): per non parlare delle pagine de1la dedicatoria suH'«hereticae pravitatis asphaltus» e sulla «influentis lordanis suavitas» che deve stemperarlo, «dulcescere». Viene a mente il Nifo, un tecnico dell'esegesi filosofica, il quale per intonarsi al suo interlocutore, dopo aver ammesso come tutti gli aver roisti che «commentatoris offidum solet esse, quid ipse auctor velit ac sentiat, etiam si id ,interoum minime verum sit, interpretari», aggiungeva anche come nell'esporre «guae &lei catholicae contraria erant» fosse uscito dai confini dell'«expositor», «quemadmodum virum christia num decebat», per confutare «theologorum nostrorum auxilio» le tesi del testo 21• Ma il Pio non ha bisogno di spingersi cosf in avanti, non è un filosofo di mestiere e nel suo sincretismo erudito può fermarsi a mezza strada, salvo poi a lasciarsi prendere dal gusto della mimesi dram matica, dell'iperbole e della messa in scena. In realtà ciò che g1i importa, siccome esiste una tr:adizione antie picurea, è di descriverne gli aspetti essenziali, e ne viene di conseguenza, visto che dalla parte degli oppositori sta la teologia, un giudizio di «empio», che piu di una confu tazione implica in fondo una prospettiva, una distanza, quasi una specie di «culture shock», se si vuole assumere Cfr. B. Nardi, Saggi sull'aristotelismo padovano, cit., p. 311, e anche A. Poppi, Saggi sul pensiero inedito di Pietro Pomponazzi, Padova, 1970. 21
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un concetto dell'antropologia culturale contemporanea. E in questo modo poi l'« interpres » può identificarsi con il suo autore -« induere personam philosophi » - senza divenire un « praeco », senza perdere la propria identità storica, tanto nel caso in cui si riproponga il contrasto tra filosofia e ·pensiero teologico (« principium sumit hinc exor dia rem nullam gigni clivinitus ex nihilo. Vel expone divinitus deo etiam volente, nec artifice deo aliquid ex nihilo creari potest: quod sacrosanctae theologiae dissentaneum prorsus est, quae vere sentit deum creare posse ailiquid ex nihilo. Caeterum Aristoteles affirmat nihil ex nihilo fieri posse, et hoc concedunt omnes philosophantes... Piae tamen religionis asseclae creàunt deum ex nihilo res produxis se... » 18v), quanto in quello di una controdeduzione ese getica a favore di Lucrezio: « potuisset sollers lector interrogare: « Atqui, o Lucreti, scribis philosophiam penitus dissonam bonis ·institucis, ac subesse videtur impietas, cum deos curam mortalium non habere .scribis, cum religionem rem vocas sceleratam et mentis hominum falso terrore perpetim angentem ". Respondet Lucretius, huic petitioni dicens se religionem ·non bonum sed malum vocare, non cultum sed impietatem esse vocandam » ( 14). Prudentemente al riparo del ·SUO sistema prospettico, con la libertà di movimento e di adesione che è concessa a un interprete, il Pio ·si addentra nella selva delle « posi tiones » e ne commisura le analogie o le divergenze iscri vendole in un'implicita tavola cli rafft"onto, come se si trattasse di una collazione filologica a piu testimoni - egli dice per l'appunto di« conferre opiniones » - dove i rag· gruppamenti non sono costanti, ma mutano secondo i pro blemi presi ii.n considerazione. Se Lucrezio può rifiutare l' « opinio peripateticorum », benché poi Aristotele resti « illaesus a Lucretianis argumentis » ( 49v), e gli aristo telici non approvino l'ottica lucreziana ( 47v), altrove invece essi si trovano d'accordo dal momento che « quae peripa128
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teticorum princeps scribit libro Quaestionum orbicularium decimo sexto Lucretianae sententiae quadrant » (65v). Allo stesso modo il filosofo del De rerum natura ora segue Empedocle e ora se ne allontana, mentre respinge di regola l'idealismo platonico, essendo altrettanto vero, del resto, che « Platonici Epicurum, Democritum Lucretiumque im pugnant infinitatem mundorum ponentes, et corpuscula insectilia, quibus aiunt epicurei munclum esse coalitum, subsannant ac irrident, quippe cum ista functio ac motus non sit in corporibus, sed in virtute ac specie corpori su peraddita » (82). Lucrezio ha invece l'appoggio di Plinio t. del suo naturalismo non meno nell'interpretazione vita listica della « voluptas » ( 4v) che nel problema della prov videnza (« in hanc infamem opinionem et Plinius noster impegit, vir cui nihil par est aut secundum », 81.v) o in quello, sempre ricorrente, della « infelicitas » dell'uomo (157v). Chi volesse registrare tutti gli avvertimenti e le di stinzioni dell' « interpretatio » andrebbe avanti un bel pezzo, ma non muterebbe, crediamo, questa prima mappa, cui basterebbe se mai, anche per venire cosf alla teologia, allegare ora la riserva che colpisce lo stesso Aquinate, « vir sane caelestis ingenii », una delle guide aristoteliche del Pio ( « divus Aquinas ponit in caelo materiam, sed alterius ra tionis ab istorum inferiorum materia: quae sententia stare non potest », 55) di fronte ad Averroè e a Egidio Romano. Ma è anche naturale che l'interesse massimo de1la colla zione filosofica nel commento si accentri sul capitolo dei riscontri tra cristianesimo, aristotelismo, epicureismo e ma gari platonismo, dove infatti diventano possibili nuove scomposizioni, che vanno dal riconoscimento di« hoc negat Aristoteles multis rationibus adlatis. Plato cum Lucretio sentit mundum videlicet esse corruptibilem. Idem asserunt nostri theologi » ( 154), ripetuto anche poco dopo (« Aristo telem poeta carpit, qui voluit mundum non habuisse princi129
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pium », 159v), alla constatazione, contro i«dogmatistae >> pitagorici, che«pia religio in hoc a Lucretio non discrepai: asserens corpora ferarum animas fundi mortalles » (111) ,· da apparentare col «redarguit palingenesian aut metem psychosin, hoc est regenerationem et transanimationem. Pythagorae » ( 110), o alle considerazioni, sfiorate da un alito remoto di pessimismo cosmico,. per cui mentre il Pia;. tone del Timeo «caelum esse quidem ortum, non tamen esse caducum, sed reliquo semper fore tempore dicit »,«in hoc Epicurus et eum secutus Lucretius recte senserunt dicentes mundum ruiturum, deformatum orbem atque de sertum fore » ( 154v). E un'altra postilla ·si chiede a questo punto, in un tono tutto lucreziano: «ignis superans aquam minatur ecpyrosin, hoc est exustionem et consequenter exitium; aqua vero ignem superare contendens diluvium minatur. Quae contentio cu·m tanta sit, quid miremur mundum esse tam discordem mutabilemque? » (160). Quantunque occorra andar cauti nel valutare testimo nianze del genere soprattutto quando paia di percepirvi l'inflessione di una esperiema piu diretta, d'una voce piu interna, si direbbe proprio che il Pio aderisse a una forma composita di moralismo cristiano, con un senso aspro e preciso della materia che si corrompe, tanto piu identifi cabile nelle sue niatrici ideologiche se si prende atto di ciò che gli accade di .scrivere nel commento su certe con cordanze ,abbastanza singolari fra la riflessione di Lucrezio e il ·pensiero teologico. Per persuadersene, non resta altro che venire a qualche esempio, quale ,può essere quello della postilla sulla «ratio guae non potest omnia intelligere » (« ...considerandum est Lucretium deum esse non ire infi cias, verum humanae mentis aciem caligare ad perceptionem dei: id quod pii firmiter asserunt, et imprimis Thomas, cuius verba subtexui. Divina substantia omnem formam quam intellectus noster attingit sua immensitate excedit: et sic ipsam appr�hendere non possumus cognoscendo quid 130
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sit. Sed aliquam eius habemus notitiam cognoscendo quid non est», 13v), e piu ancora, rimanendo nella medesima pagina, il saggio di riflessioni che fioriscono in margine all'« alte terminus haerens » del poeta: « Retulit animus hominis illius inventoris nobis quod alte idest in caelo errombus planetisve transmissis sit terminus positus hu mano ingenio, quod extra illum terminum vagaci ,nequit nec deum cognoscere; expone haerens furus, situs ad regendam curiositatem humanae mentis. Naturalia igirur ex sententia Epiaui cognosci possunt, non autem divina. Nec multum iis quidem theologi dissentiunt, qui auctore loanne Scoto ilio acutissimo interprete dicunt duplicem esse theologiam: per se videlicet et per accidens. Theologia per se est co gnitio divmorum non per opinionem, sed per experientiam, qualis est in indigentibus, idest sanctis et angelis. Per ac cidens theologia quae ex terra speoulat caelum, in quo falli potest et decipi». Sempre in rapporto a Duns Scoto, altrettanto signi ficativo risulta il lungo frammento teoretico sull'immortalità dell'anima. La conclusione ultima dell'interprete è che l'« amma hominis » non possa essere mortale « ex prae dictis rationi:bus»; ma pcima di arrivarvi, c'è da fare i conti di nuovo con il testo delle Sententiae, trascritto per quasi due pagine e introdotto, una volta di piu, dalla se gnalazione della congruenza tra Lucrezio e il teologo fran cescano: « Ioannes Scotus, quod plurimum Lucrecio con gruit, libro Sententiarum quarto sentit rationibus demon &trativis nec probabilibus haberi animam esse immortalem sed tamen per fìdem auctore Augustino libro XIII Trinitatis et per Evange1ium dicente Christo: «Nolite timere eos qui occidunt cor.pus, animum ·autem non possunt occidere ". Premissis autem sententia catholicae fìdei concordat. Dici tur enim in libro De dogmatibus ecclesiasticis: Solum hominem credimus habere animam substantivam, guae et exuta corpus vivit et sensus suos atque ingenia vivaciter1
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tenet, neque cum corpore moritur sicut Arabs asserit, neque post modicum intervallum sicut Zenon, quia substantialiter vivit. Per hoc autem excluditur error impiorum, ex quo rum persona dicitur Sapientiae Il: "Ex nihilo nati sumus et post hoc erimus tanquam non fuerimus" ». E alla fine di tutta la citazione segue anche un com mento, una postilla suppletiva in chiave umanistica, ma non solo d'ordine letterario, che precisa: « Haec sunt quae loannes Scotus acute magis quam diserte disputat: quae ut erant rudia et inculta posui, ne perperam essem in alieno libro ingeniosus. Nam, ut inquit Manlius, ornari res ipsa negat contenta doceri. Rectene an perperam trutinatus sit haec Scotus, haec lis non est nostri fori » (90v). Che poi il Pio non voglia compromettersi e si ritiri die tro la visione delle competenze, corrisponde alla sua lo gica di lettore che si limita di massima a un regesto e se sconfina nell'a1"ea tecnico-valutativa dei filosofi, ·procede con discrezione, in forma di mera ipotesi, esattamente come succede allorché nota un'altra analogi·a fra Lucrezio e i « recentiores »: « tanquam Lucretius sentiat animum eam partem esse animae, guae a philosophis recentioribus vo catur inte1lectus. Sed nihil affirmo » ( 9 3 ). Certo, diviene anche piu difficile in questo modo, se qualcuno crede che ne valga la pena, individuare e col locare debitamente l'aristotelismo filosofico del Pio, che sostiene e unifica il suo lavoro di interprete sotto l'insegna dell'« ab Aristotele divine ut omnia prolata » (77). Si può escludere intanto che si allinei su posizioni averroistiche, sebbene ricavi da esse le direttive della propria esegesi, poiché appare inequivocabile il suo rifiuto dell'intelletto possibile di Averroè ( « ex premissis evidenter ostenditur non esse unum intellectum possibilem omnium hominum qui sunt, qui erunt et qui fuerunt, ut Averrhoes in tertio De anima fingit », 89). L'attenzione spesso concorde, di cui il commento lucreziano offre una prova continua, ad Ales132
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sandro d'Afrodisia, a Temistio, a Tommaso d'Aquino, al Gaetano, oltre che a Duns Scoto, sembra dirigei:,si in ter mini di schieramento non verso la parte dell'Achillini, che fu il caposcuola, s'è detto, dell'averroismo bolognese proprio negli anni del Pio, ma piuttosto verso quella da cui emergerà di li a breve, attraverso un travagliato in treccio di esperienze speculative, il Pomponazzi. Non si tratta naturalmente di caricare l'interprete del De rerum natura di un peso troppo grave per le sue spalle d'uma nista, e neppure di accreditargli un rigore filosofico che non ha, mentre ·si può invece riconoscere, senza alterare le proporzioni, che le « lucubrationes » del commento si formano nell'ambito di una cultura fortemente naturali stica, assai distante dal Ficino apologetico dell.a Theologia, e ne rifrangono, ne moltiplicano le aperture e gli interessi razionalistici per i «monstra », i «somnia », i «daemones », i « magica terricul,a », i « portenta » « guae phiJosophicae scholae repugnant », sullo stesso sentiero, a ben guardare, che conduce al De incantationibus non meno che al Trac
tatus de immortalitate animae.
Persino la lingua sembra tradire qualche inflessione co mune, con lo stesso sottofondo di reminiscenze o di let ture; e chi legge, ad esempio, che «cum anima sit in confinio corporum et incorporearum substantiarum quasi in hori zonte existens aethernitatis et tempore, recedens ab infinito appropinquat ad summum: unde et quando penitus erit a corpore separacta, perfecte substantiis assimilabitur sepa ratis, quantum ad modum intelligendi et habendi inB.uen tiam recipiet » (94v), non può non rammentarsi, per quanto poi diverga il contesto concettuale, del « con finium » del Pomponazzi nel Tractatus: « verum cum ipsa sit materialium nobilissima in confinioque immaterialium, aliquid immaterialitatis odorat... cum inter materialia anima humana primum obrinet locum, coniungetur ergo cum im materialibus, mediaque est inter materialia et immateria-
earum
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lia » 22• Che dire allora delle vaste catastrofi, dei movimenti tellurici descritti e discussi nel commento con il gus·to scientifico di una natura gmndiosa, aspra e drammatica sotto l'urto delle sue forze elementari? « Eodem autem modo· videmus quocl movet aquam undas elevando in plana superficie maris, alriquando autem ex oppositione vento rum, unde obviant undis, et fìunt procellae alritudines montium adaequantes, et «liquando de terra plurimam exsuffiantes et facientes diluvium et submersiones terrarùm. Eodem modo videmus quod convellit aedificia et structuras magnas et arbores et saxa ingentia. Si ergo omnia haec vapor venti subtilis in superficie terrae perficere potest, rion est dubium quin ventus ex vapore cra9So in visceribus terrae generatus possit movere terram et aliquando con.:. vellere quando erit forrior 1."edditus ... » ( 199 ). Ma è inutJile ripetere che il Pio resta un eruditò; un interprete eclettico, un organizzatore accorto di « spicile gia ». Entro questi limiti tuttavia la sua passione filosofica cè autentica, come il suo proposito di unire letteratura e ::filosofia - le « due culture » - e risponde allo spirito dei tempi, forse anche a un'inquietudine piu profonda e perso nale 23• Potrebbe esserne per l'appunto una· spia ciò che egli confessa a suggello di un diverticulum storico stille lotte tra guelfi e ghibellini, con una presa di posizione· ironica che postula, quasi polemicamente, un disimpegno politico. « Nos vero - dichiara om l'interprete - mutuo amo ris affectu aequalique charitate uttiusque factionis bomi· nibus favemus, de aliena immo de propria republica parum solliciti, sententiae Diogenis allubescentes, qui subinde di cere solebat µT) 1tol1.'fEvEaì)«1, hoc est admisceri reipublicae non decere sapientem. Barbara odia, venena sunt haec · a 22 P. Pomponazzi, Tractatus de immortalitate animae, a cura di G. Morra, Bologna, 19.54, pp. 120, 228. 23 In questo stesso quadro di cultura filosofica merita forse d'essere :aottolincata la tcnder::ma dcll'mtcrpn:te a trad�, per cos( dite, il ra·
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pravis ,ingeniis ad religionem optimatumque statum everten dum excocta. Nos hac a scabie tenemus ungues, et platonicae familiae consectanei in exttlmo mundi dorso vivimus» ( 174 ). Comunque si voglia poi valutarla, l'impresa esegetica del Pio era abbastanza ,solida e nuova nel suo ricco im pianto enciclopedico, nella sua 'JtOÀ.vµcxDttx, per assicurare al filologo un sostanzioso successo, suffragato anche dalla ri stampa francese del 1514, che riducew per intanto al sigionamento lucremano in uno stile di pensiero scolastico, di nuovo se condo le consuetudini di una lezione universitaria, di un esercizi.o di logica. Si possono considerare tipici gli esempi di « Tacit.ae obiectioni respondet. Potwsset ille dicere:. primordia habent partes mmimas et minutissimas, quae sunt infinitae. Nego, inquit Lucretius, quoniam si forma debet accedere parti, pars· il1a debet ordinem habere, quem nunquam habebit, et consequenter neque forman, nisi habebit augmcn tum » (63v); o di « Respondet tacitae obiectioni. Potuisset quispiam rcspondere: corpora prima sensum habent, quem dum geniturae con veniunt amittunt infundendo rei generatae, sed alium reassum.unt � vum videlicet et nuperrime partum. Frustra ergo, respondet Lucretius, principiis dabitur sensus et subducetur interimque fiet id quod superius evitabamus, ut sint mut.abilia prima principia et minime aetherna,. (77). In un altro luogo del commento si arriva addirittura a spiegare breve mente la tecnica dell'argomentazione dialettica: « Non erit aliquod obiec tum quo, idest ad quod, primum referentes, idest reducentes, omnia queamus confumare animos auditorum. Philosophi sive dialectid cum nituntur aliquid adstruere, proponunt ar8Ulllentationem, guae nisi pro betur et subiectum syllogismi sit verum, aliam post aliam probationem af ferunt; guae si pervicaciter inficias eat consertor, deducunt illum ad nega tionem primi principii, quod qui negat vocatur insanus: et contra illum mi nime disputandum esse censet peripateticorum canon,. (29). 2 un altro a spetto, questo, della mediazione perseguita dal Pio tra cultura letteraria e cultura filosofica, tra stile della « grammatica • e stile della « philosophia ». Non per nulla, d'altronde, il commentatore premette all'interpretazione del libro quarto del De rerum natura, in rapporto all' « Avia Pieridum peragro loca, nullius ante / trita solo • del poeta: « Auspicaturus poeta librum quartum oiroa op100en, hoc est vim visivam, versantcm, docet id sibi praecipuc iucundum esse quod illustrem philosophiae lucem mort.alibus ostendat. Profitetur enim se loca peragrare avia et inaccessa, per quem collem superatu difficilem nullus ante Luoretium tietendit: opus arduum, sublime, difficile. Sed cum tendat in ardua virtus, gaudct quod dux regat examen et posteri poetae sua sint adoraturi vestigia; quod in hac dicendi facultate et stilo palmam et coronam obtineat, causam reicit in sublimitatem operis: dein sibi placet quod verba et hypothesin materiamque senticosam, guae vix orationi pedestri possit inseri, omat carmine dulci, comi, nectarco • {120v). Nella lingua della retorica � l'omaggio del Pio a una grande, audace poesia didascalica.
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lenzio i vecchi oppositori, e per kuttargli l'onore di una chiamata a Roma, in veste di professore, nella metropoli cli Giulio II, mentre a Bologna con-evano anni piu duri, quelli - sono parole dello stesso umani,sta nella sua prima prolusione romana - in cui « spemitur orator bonus, hor ridus miles amatur ». Ma bisogna pure dire che il suo suc cesso era destinato a durare poco, perché a Roma, nel nome di una nuova letteratura, latina e volgare, ohe consi derava oramai l'« affettazione » come una « disgrazia », si stava proprio liquidando la tradizione dell'anarchi,smo ac cademico, dello sperimentalismo manieristico quattrocente sco, e il Pio che ne era l'ultimo rappresentante universita rio, venuto fresco fresco dalla provincia padana, non poteva non fare le spese di una offensiva diretta contempol'Wlea mente contro le « parole di Polifilo » e lo stile di Apuleio, i due emblemi della retorica pedantesca o asiatica ai! prin cipio del Cinquecento 24• Come ha elegantemente indicato il Dionisottd, alla rui perizia si deve la ricostruzione deN'in tero episodio, I.a polemica ciceroniana cdlpf subito il mae stro bolognese sfruttando le armi della satira beffarda e della parodia, tanto piu temihili ,in quanto il Pio, del tutto privo di humour e di malizia, a parte i suoi rictus un poco goffi di declamatore, non poteva difendel"Si né contrattac care. Di fronte ai letterati del bel mondo romano, fra cui figurava anche Beroaldo il giovane, l'antico concor rente degli ,anni bolognesi, il Pio si sentiva ,ancom come quando, insegnante di prima nomina a Mantova, scriveva alla sua illustire allieva, Isabella d'Este, ·per lamentarsi di due « invidiosi » che tramavano contro di lui: « io non esco fuom del mio studio, e vivo ·senza far dispiacere ad alcuno, 24 Or. ancora C. Dionisotti, Gli umanisti e il volgare, cit.; ma sono da vedere a un tempo, poiché amochiscono questo capitolo storiogra fico di altre, acute considerazioni stilistiche, M. T. Casella e G. Pozzi, Francesco Colonna, Padova, 19.59, Il, e M. Corti, Da un convento veneto a un castello piacentino (L'autore del «De/filo• non è Francesco Co lonna), ora in Metodi e fantasmi, Milano, 1969, pp. 2.51-89.
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ma sono tante le male lingue che né voleno far bene, né lasarne fare ad altri » 25• E in pratica non doveva piu risollevarsi né riprendere l'iniziativa, anche se i C. Valerii Flacci commentarii del 1519 e l'edizione, sempre commentata, delle Epistolae di Cicerone, nel 1527, per non citare le Praefationes gym nasticae del 1522, attestano uno sforzo quasi commovente per adattarsi al nuovo clima ciceroniano, ma senza con versioni clamorose, se si toglie il giudizio su Sidonio Apol linare, e ribadendo ancora, secondo l'esempio del vecchio muginari, il diritto moderato ( «a1iquanclo, rarenter tamen») di « exoletis ac desitis verbis uti » « ad aprimendam si gnificantius inventionis ac mentis nostrae vim ». Oramai non poteva piu competere con la generazione dell'Amaseo o di Eiasmo, faceva parte di un'altra storia, di un costume già lontano 26• A definire e ad allargare il distacco ci pen sava poi per tutti Francesco Florido Sabino, uno che l'aveva ascoltato bene, il quale nelle sue Lectiones subci sivae, sotterrando ufficialmente la scuola bolognese del Beroaldo e la moda apuleiiana, impietoso come tutti i ne crofori dava l'ultimo calcio all'immagine cadente del Pio e ne canonizzava ,l'archetlipo comico di antiquario oscuro e polveroso. La sentenza era senz'appello: « Succedit Be roaldo Baptista Pius, eius -auditor, cuius commentaria quan25
Cfr. A. Luzio, I precettori d'Isabella d'Este, Ancona, 1887, p. 29. Per il clima spirituale di quegli anni, che sono poi quelli cruciali, per quanto in tutt'altro senso, anche per il Machiavelli o per il Pom ponazzi, si può tenere presente, proprio per la prospettiva erasmiana su cui s.i. costruisce, il volume di A. R.enaudet, Erasme et l'Italie, Genève, 1954. Quanto alla nota critica del Pio su Cicerone, contro gli « antiqui tatis osores ,., ricordata od testo, essa si legge nell'edizione ciceroniana del 1527, (240) dove viene citato anche, a non grande distanza, il Budé, « Budaeus Aristarchus gallicanus,. (225v). Non si può fare a meno di ripensare per associazione, retrocedendo al commento lucreziano dell'll, alla postilla per cos{ dire italocentrica sull'« eloquenti& i.: « dulci et amoeno eloquenriae lepore redundans, non theutonicis fctoribus et a&pe ritatibus et salebris ulcerosa, nec barbariem gallicam tinniente, quae liberalem sapientiam soientiarum reginam reddit illibcralcm et aspema bilem » (28v). l6
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tum ingenii eruditionisque habeant, alii interpretabuntur. Ego sane cum pleraque eius scripta recreandi animi gratia nonnunquam lectitarim, neminem ad hanc diem ex ,iis exd cisse didioi, qui durior, sordidior, impuriorque •in scribendo fuerit, quam ipse Pius, longo intervallo in styli immun ditie magistro anteponendu'S. De quo cum alibi pauca pro hominis merito dixe.mmus, aliqua etiam ad phrasin spec tantia hoc loco ex eius annotationibus proferemus, ut cum risus aucupe ne dicam riduculo, ipsi quoque, et libenter quidem, rideamus. Risu emm, seu cachinno digna est praefixa prioribus Pii annotationibus epistola ... » n. · · La condanna del Flomdo Sabino piu che l'« eruditio » riguaroava ,Io stiile ed emanava da un'interpretazione dia cronica della lingua latina, tradotta in un canone d'ordine moderatamente classicistico, che affermava la realtà storica di « tempom diversa » con le tre « aetates » di Plauto, di Cicerone e di Blinio, risultando poi qudla «media» la , « perfeotissima » da cui attingere 1e « locutiones », senza per altro ridursi alla sola prosa ciceroniana. Ma in verità, allorché continuando · si legge, in un altro libro delle Lectiones, il duro giudizio ideologico su Lucrezio, Plinio e gli altri « eiusdem haereseos » ( « Quorum in numero Z1 Anche le citazioni del Florido Sabino sono fatte sul testo secente sco di Lampas, 1144: e a p. 1195 si trova invece il frammento antilu creziano che diamo subito dopo quello contro il « vitiosissimum scri bendi genus ex Apuleio, Martiano, Sidonio et si qui sunt duriores •, comune, secondo il censore, tanto al Beroaldo quanto al Pio. Va però t!reclsato che nell'Apologia, a p. 118 dell'edizione di. Basilea, 1540, il Florido Sabino concede qualcosa di piu �,« eruditio • del Pio ( « ... multa tlaJDell eruditione commendari poterat nisi oratiorus genus sibi maxime vituperandum elegisset » ), quantunque poco piu avanti, ripetuto che egli aveva messo a frutto davvero « quod Philippi Beroaldi auditor fuerit •, tornava a scagliarsi ferocemente contro i due « barbari • di Bologna, « qui sordidos impurosque scriptores candidissimis Latinitatis authori bus praetulerant ». Per lo scri·ttorc delle Lectiones si può ancora ri correre agli studi del Sebbadini, e in primo luogo, naturalmente, alla sua Storia del Ciceronianismo, Torino, 188,; ma ormai è evidente, �prat tutto per merito del Dioni60tti, che la storia di queste polemiche do �bbe essere riscritta e ampliata di molti capitoli, di nuove indagini stilistiche e culturali.
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Primo commento umanistico a Lucrezio
non toantum Graecorum quam plurimi, sed et non pauci ·Latini fuerunt, ac ,inter ceteros T�tus Lucretius Carus Caiusque Plinius maior. Cum enim eorum alter multis id ratiorubus comprobare ni·tatur, quamnam philosophorum sectam secutus sit, his de Epicuro versibus piane ostendit, quos sine ,stomacho mihi quidem legere nunquam contigit... Alter vero dignus propter singurlarem eruditionem, cui ·sanior mens iirl ea parte fuisset, sic de anima garrit ... » ), viene il mezzo sospetto che fra le colpe del Pio vi fosse pure, taciuta ma non meno grave, quella d'aver commen tato proprio Lucrezio, spesso d'accordo con Plinio, e per giunta dn un contesto aristotelico donde usciva anche il Pomponazzi, il « phllosophus lucrericus », come lo chia mava a torto qualche umanista devoto di Francia 28• Di fatto poi, mentre tu�tii ·gli oppositori, ciceroniani o meno, citavano per irriderlo il Pio cli Sidonio Apollinare o di Fu1genzio, nessuno ricordava il Lucrezio con la sua opzione a favore cli uno stile « perspicuo et illaborato », cli una « naturalis tradirlo ». Un silenzio di questo tipo si può certo interpretare come il gesto tattico di chi sceglie sempre la carta piu con veniente al proprio gioco, mentre getta via quella che non gli garba perché contraria o inutile, per non dire imprevista. Ma oltre a essere irriducibile alle trame del grottesco, la carta di Lucrezio risultava insieme com plessa, rischiosa e inquietante. Quanto al Pio, egli l'a veva giocata onestamente e in fondo, nonostante l'ambi guità del suo eclettismo ermeneutico, da « naturae studio-
Cfr. S. Fraisse, L'influence de Lucrèce en France, cit., p. 40, insiste anche sul fatto, a suo avviso sorprendente, che in Francia, non senza un influsso emsmiano, « i grandi umamsti, che dominano con la propria figura la ptiima metà del secolo XVI, mantengono un silenzio completo su Lucrezio». Sempre in rapporto alla sigla quasi infamante o deprecativa di « philosophtlS lucreticus », (ma non solo per questo una volta che lo si sia ripreso in mano), conviene consultare il libro classico di L. Febvrc, Le Problème de l'incroyance au XVJe 28
che
siècle. La religion de Rabelais,
Paris, 1947, pp. 286-87.
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sus » den'ultimo Quattrocento padano, non aveva perduto la partita. La reticenza potrebbe anche ·rappresentare allora un segno di imbarazzo e forse di rispetto, una forma man cata di giudizio, che in qualche modo tocca allo storico di riempire. Per arrivare all'esegesi di Lucrezio e della sua eloquenza, come dorevia poi defìrul'la Montaigne, « ner veuse et solide, qui ne plaict pas tant comme elle remplit et ravit, et ravit le plus les plus forts esprits », occorreva proprio, sembra, l'enfasi antiquaria del Pio, la « pinguis et aspera novit,as » di un erudito austero e irritante.
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L'arte dello stato e i ghiribizzi dell'esistenza
Il 31 gennaio 1515, ormai alle ultime battute di un dialogo epistolare che aveva avuto inizio nell'infausta pri mave.iia del '13 e aveva accompagnato, lucido, caldo, pit toresco, l'ideazione dei Discorsi e ila nascita del Principe, Niccolò Machiavelli scriveva a Francesco Vettori, amba sciatore fiorentino a Roma: « Chi vedesse le nostre let tere, onotando compare, e vedesse la diversità di quel:le, si maraviglierebbe assai, perché gli parrebbe ora che noi fussimo uomini gravi, tutti volti a cose grandi, e che ne' petti nostri non potesse cascare alcuno pensiere che non avesse in sé onestà e grandezza. Però dipoi, voltando carta, gli parrebbe quelli noi medesimi essere leggieri, mcosmnti, lascivi, volti a cose vane. Questo modo di procedere, se a qualcuno pare sia vituperoso, a me pare laudabile, perché noi imitiamo .la natura, che è varia; e chi imita quella non puo' essere npreso ». Nessuno era in grado di gustare queste parole meglio del Vettotii, non solo perché egli aveva tenuto bordone con altrettanta disinvoltura ai ghiribizzi seri e faceti dell'amico in disgrazia, ma anche perché quella «varietà», che nella lettera aveva l'ufficio di giustificare quasi sul filo del pa radosso la trasgressione di un tradizionale « decoro », rien trava benissimo nel suo ordine di pensieri, e anzi rispec chiava da vicino H modo suo di concepire la vita in genere e, piu ancora, quel1a dell'inviato diplomatico, deN'amba sciatore in missione. È abbastanza sintomatico che nello stendere le pagine divertite e avventurose del proprio Viaggio in A/,emagna per l'ambasceria del 1507 presso Massimiliano d'Austria {la quale vide, in un secondo tem141
Politica e commedia
po, l'aggregazione dello stesso Machiavelli), anche il Vet tori si fosse difeso dall'accusa di « perdere il tempo a scri vere cose frivole, novelle e favole» con il medesimo argomento della « variazione» che rende il mondo « piu dilettevole» perché viene d:ncontro alla nativa curiosità dell'uomo. Né si trattava solo di una formula di comodo nei confronti dei lettori troppo ,austeri.; tanto è vero che dopo un incontro all'osreria con un finto mendicante, am mirato poco prima in piazza tra un « ,grande cerchio» cli uomini e di donne, il nostro viaggiatore aveva annotato > parlando piu che altro a se stesso, da fiorentiino che la sa lunga: « ...pensai tra me medesimo con quanti modi, con quante astuzie, con quante varie arti, con quale industria un uomo s'ingegna ingannar l'altro, e per questa varia zione il ,mondo si fa piu bello, il cerve1lo di questo si fa acuto a trovare arte nuova per �raudare, e quello d'un altro si fa sotnile per guardarsene, ed in effetto tutto il mondo è ciurmeria, e comincia ai religiosi e va discorrendo ne' giureconsulti, ne' medici, negli astrologi,. ne' principi secolari, in quelli che sono loro intorno, in tutte l'arti ed esel'Cizi, e di giorno ,in ·giorno ogni cosa piu s'assottiglia ed affina». Era una battuta, questa del Vettori, che in fondo rias sumeva, proprio come {',altra del Machiavelli, l'esperienza meno ufiici·ale di un « amha·sciatore» nella reazione di un'intelligenza acre e mobile di fronre iallo spettacolo della commedia umana. E anche il dialogo dei due ·amici poi non faceva altro che continuare nel tono e nei gesti quella consuetudine di vita, ne ·riproponeva i modi e le bizzarrie nell'impasto di un umore comune. È difficile dire se il Machiavelli lesse qualcosa del Viaggio in Alemagna; ma è certo che il diario o racconto dell'amico ci permette cli conoscere in forma straordinariamente viva una pratica cli comportamento, una stiruttura di esperienze, che era anche la sua. Dietro la facciata dei rapporti diplomatici, il mondo 142
Arte deflo stato e ghiribizzi dell'esistenza
di chi andava in legazione, e aveva il temperamento di un Vettori o cli un Machiavelli, si componeva di strade, di piazze, cli ·locande tra un paese e l'altro, e cli uomini sem vre diversi, con cui si discorreva e da cui si ricavavano notizie, confidenze: preti, frati, osti, serve, mercanti, im broglioni, giooatori, donne cli malaffare, contadini. All'esi stenza regolare della città si sostituiva una vita quasi d'ec cezione, cli costumi piu liberi e spericolati, che dava esca, nelle lunghe giornate cli noia o nelle sere presso il fuoco di un'osteria, a una vitalità scaltra e festosa. Anche se :poi nel Viaggio in Alemagna ·si deve sup porre che lo scrittore abbia ceduto alla tentazione di fare della letteratura, l'aria che circola ti.ia quelle pagine pare delie piu autentiche: un'aria cli novella realistica che si confonde con 1'esrstenza, di favola bassa e qualche volta di romanzo, che si prolunga nel reale, lo accende di colori piu. sanguigni, di effetti quasi drammatici. GLi episodi co mici si intteoci1ano ai « casi strani e piuttosto tragici», le beffe colpiscono i semplicioni, gli avari, gl'innamorati ri dicoli. E a dn,igere il ·gioco de11a brigata sono sempre gli uomini « allegci», « ciarJatol'li e vani», pronti a godersi l'immagine quasi grott,esca di un'umanità ne è molto evidente, perché tali feb bri procedono il piu delle volte da umori freddi, i quali né con cristeri né con medicine si possono muovere, ma il timor grande è sf potente che gli manda tutti sottosopra. Ma bisogna aver gran circospezione che la paura non fussi di qualità che traesse l'infermo di cervello, e però è ne cessario che quello cui è commessa quest'opera sia e pra tico e prudente"» (8-9). Per quanto venga spontaneo il ricordo della Mandra gola, non è il luogo di insistere su somiglianze cosi vaghe > che possono discendere dalla predilezione comune per certi schemi o combinazioni novellistiche ( dal rapporto conflit tuale medico-giureconsulto al raggiro pseudo-scientifico), anche perché, se proprio si vuole portare innanzi questo tipo di discorso, la sezione del Viaggio da seguire deve essere piuttosto la commedia inserita tra il quarto e il quinto libro come testimonianza di un «atto scenico in tedesco» ascoltato ad Augusta senza grande profitto per via della lingua e poi finalmente tradotto in italiano col titolo di La Costanza da Casale di Monferrato. Il testo teatrale del Vettori ha inoltre il pregio di recare forse qualche nuovo elemento per la datazione del Viaggio, o almeno di alcune delle sue parti, in aggiunta alla certezza oggettiva che la sua stesura si distribuisce in periodi di versi, come prova fra l'altro l'intervallo dichiarato fra il primo e il secondo libro, e che il termine «allora» che serve allo scrittore da segnale dell'io narrante di fronte al passato della narrazione («la sera mi fermai alla Mi randola, castello che ne era allora signore il conte Lodo vico» si legge a pagina 16, e a 213: «non sono avaro, ed allora ne potevo spendere») comporta il senso di una distanza cronologica non indifferente, posteriore comun190
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que, se si tiene conto dello spiraglio storico mirandolese, al 1510: ma non oltre poi il 1515, dal momento che pro prio nelle ultime pagine si nomina Consalvo di Cordova ancora vivo « in un angolo di Spagna ». E a mano a mano poi che si sfoglia il copione dell'atto unico, tutt'altro che travolgente ma non privo di puntate felici, ciò che emerge è un clima del tutto simile a quello delle lettere del Vet tori intorno al proprio amore romano. Dentro un intreccio piu studiato e con un gioco di combinazioni piu vario, entro cui entrano secondo le regole del genere comico un parassita, una serva e tre uomini in gara per la stessa ragazza, con la vittoria alla fine del piu giovane restituito a uno stato civile illustre, anche nella commedia, am bientata sempre a Roma, si ripresenta una coppia di madre e figlia all'insegna della bella vita, la seconda porta lo stesso nome di Costanza delle lettere, e di fronte •ad esse si ritrova un gentiluomo maturo già sposato, Ulrico, che sembra quasi il double o il modeHo del Vettori. Dagli schemi situazionali alle tessere o ai moduli lin guistici il passaggio è altrettanto breve, al punto anzi che se nella lettera del 9 febbraio '14 l'ambasciatore dice di sé: « consideravo che ho quaranta anni, ho donna, ho figliuole maritate e da marito; non ho però roba da git tare; ma che sarebbe ragionevole che tutto quello potessi risparmiare lo serbassi pelle figliuole », nella commedia la madre di Costanza osserva a proposito di Ulrico: « Ulrico è di buona pasta e non s'accorge delle nostre bugie, e a lui bisogna dare buone parole e fare il fatto suo. Ha donna, ha figliuoli, e non è per stare qui molto e da esso non si può sperare cosa che abbia a durare » ( 17 6 ). Cosi, con tinuando, mentre nella lettera del 24 dicembre '13 si narra di una « cortigiana » che capita « in camera » e si pone « a sedere come se fussi in casa sua », nell'atto unico Ulrico informa il servitore Gaspare che « come furono in camera » figlia e madre, invitatesi a cena da sole, « Co191
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stanza si messe a sedere in sul letto dicendo: cc Ceniamo presto che ho gran sonno" » ( 18 3); e se il Vettori rac conta, di nuovo il 9 febbraio, che « l'animo è stato sempre in angustia», Sorbillo il parassita dichiara a Ulrico: « credi che io mi sono piu d'una volta accorto in quanta angustia ti truovi quando ella ti prepone un altro » ( 188 ). Se infine sul versante epistolare, ancora il 9 febbraio, si re gistra per il ritratto di Costanza: « Nicolò mio, voi non vedesti mai colli occhi la piu bella cosa: grande, ben proporzionata, piu presto grassa che magra, bianca con un colore vivo, un viso non so se è afHlato o tondo, basm che mi piace; galante, piacevole, motteggevole, sem pre ride, poco accurata di persona, sanza aque o lisci», su quello drammatico si incontra, ricomposto a frammenti, prima dall'angolo visuale di un servo: « ...io non ho co nosciuto mai la piu bella né la piu dolce cosa della Co stanza » ( 179 ), poi nel monologo sconsolato della « fem mina» giovane: « ...non è al mondo la piu meschina cosa che una femmina meretrice, la quale perde l'anima, sta sempre del corpo inferma perché mangia e beve troppo, veglia assai, usi lisci ed altre acque nocive» (200), e nuo vamente per bocca di Gaspare: « non è piu gentilezza spendere in vestire e contentare una bella e galante figlia, che solo a vedertela davanti ti fa stare tutto allegro e gioioso? ». E qui alla domanda retorica segue subito un commento che porta dritto dritto al Vettori delle confi denz.e private, quasi in veste da camera, libertino e mora lista: « Credi a me, padrone mio, che quei filosofi s'av viluppano e non seguitano quello che dicono: a me: pare che si tragga un gran piacere da una formosa e linda fem mina, ed abbiamo si pochi piaceri in questo mondo, che quando possiamo avere questo, lo dobbiamo cercare; o tu consumi quello che hanno da avere la moglie e i figliuoli tuoi, pensa che la natura che gli ha creati provederà ben loro, e per cagione di essi non lasciar preterire un'ora di 192
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consolazione». Si sa che le concordanze stilistiche non sono sempre traducibili in valori dell'ordine cronologico o genetico e che bisogna fare posto altresf al margine analogico del caso. Tuttavia riesce difficile respingere l'ipotesi di una dipendenza dell'intrigo della commedia dall'episodio ro mano dell'epistolario, al limite per un effetto di sovrappo sizione o di assonanza della nuova avventura alla materia teatrale forse preesistente, ma sempre in un arco di tempo i cui estremi non possono essere troppo lontani se la scrittura si coagula negli stessi stampi stilistici. Bisogna d'altro canto ricordare come fra le amicizie che allietano il Vettori dei primi mesi del suo soggiorno a Roma sia Bernardo da Bibbiena, lo scrittore della Calandria, che pro prio in una lettera al Machiavelli del 23 novembre '13 viene proclamato « uomo faceto e discreto» di « gentile ingegno», con un elogio che fa coppia con quello per il « iudicio» di Niccolò e che individua subito ai nostri occhi ii profilo dell'inventore teatrale nella sfera del « motteg giare e ridere», cosf cara, come sappiamo, a1l'ambasciatore di Firenze presso il pontefice quando, lontano dalle « ce rimonie», si ristora nella sua casa verso il Gianicolo. Sul · piano del probabile nulla vieta ora di supporre che il Vettori abbia avuto notizia diretta della Calandria e che magari abbia ripreso in mano le carte del suo viaggio te desco non solo per riflesso di un romanzetto sentimentale che poi si uniforma a sua volta a un cliché di novella letteraria, ma anche sotto la suggestione o il contraccolpo dell'esperienza comica, della favola drammatica felicemente architettata dal Dovizi. Comunque si vogliano riempire le lacune della cro naca, il prologo della Costanza, di cui non può essere 1esponsabile se non il Vettori, ha un'intonazione affine a quello steso dal Castiglione per il primo spettacolo della Calandria ( « che antiqua non sia dispiacer non vi
,�
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dee, se di sano gusto vi trovate: per ciò che le cose mo derne e nove delettano sempre e piacciono piu che le antique e le vecchie; le quale, per longo uso, sogliano sapere di vieto ») e procede, se mai, ancor piu risoluto lungo la linea di una poetica tutta moderna. Chi voglia persuadersene, non ha che da prestare l'orecchio alle di chiarazioni critiche dell'amico del Bibbiena: « Sono assai lodati dagli uomini letterati quei due poeti comici Plauto e Terenzio, né io voglio essere tanto presuntuoso che nel cospetto vostro gli danni; pure non si può negare che non mancassino d'invenzione, perché, avendo a comporre favole nelle quali si può dire tutto quello che si pensa e s'immagina, sempre hanno voluto tradurre di greco, né di loro fantasia hanno composto cosa alcuna. lo liberamente confesso il vero e dico che questo atto è nuovo, stato re citato cosf in lingua tedesca e di poi tradotto in italica, né so per che causa le cose nuove non debbino piacere: è stultizia di molti che con ammirazione considerano le cose antiche e le nuove disprezzano. Se tra voi spettatori è al cuno che lo intenda in questo modo, partisi e lasci il luogo a quelli che delle cose moderne si dilettano; gli altri stiano con silenzio, e se lo atto piace, nel fine ne fac ciano segno. Questa città che vedete si grande è Roma, perché quivi intervenne il caso; un'altra volta sarà un'altra città ». È destino, sembra, che in luogo di ordinarsi, di chia rirsi in maniera univoca, le coincidenze e i parallelismi si accumulino lungo la strada e suscitino di continuo nuovi interrogativi, l'uno dentro l'altro. Ascoltando il prologo della Costanza per esempio, il lettore del Machiavelli è indotto subito a rammentarsi la prima stanza di quello della Mandragola ( « ... noi vogliàm che s'intenda / un nuovo caso in questa terra nato... questa è Firenze vostra; / un'altra volta sarà Roma o Pisa ... »), mentre poi se si trasferisce all'altro estremo del testo, alla battuta di rito 194
Il segretario a teatro
rivolta al pubblico per chiudere secondo il modello clas sico (nella fattispecie: « Non aspettate piu di vedere o udire altro. Dentro si farà il desinare e la cena. Dentro si faranno le nozze. Dentro sarà il notaro che rogherà il , contratto; e poi il marito e la moglie se n anderanno a letto e faranno quello che hanno fatto piu anni insieme... ») può persino illudersi di ritrovarvi il commiato terenziano dell,Andria nella copia fiorentina del Machiavelli: « O voi, non aspettate che costoro eschino fuora. Drento si sposerà, e drento si farà ogni altra cosa che mancassi ». D'altronde non è necessario che tutto si spieghi alla luce di eventi sottostanti accertabili e concordi, soprattutto quando ciò che conta, alla confluenza degli indizi raccolti, troppo numerosi poi per essere accidentali, resta in de , finitiva l'individuazione di un area di cultura a cui sembra riallacciarsi la genesi della Mandragola e che ha il suo perno nel Vettori delle lettere giocose, in equilibrio fra novella e commedia e con una finestra aperta sul teatro del Bibbiena. Quasi tutte le consonanze semantiche che sono venute via via affiorando, anche a prescindere dal problema della Costanza, si correlano direttamente o indi rettamente alla presenza del Vettori e alla logica di un dialogo documentato e sicuro, nel quale il Machiavelli sembra divertirsi, giocando di rimessa, a ricomporre a pro prio modo, sempre su di una scala cromatica piu accesa, la materia o il tema introdotti dall'amico. Cosi come la descrizione, da parte dell'ambasciatore, della sua giòrnata romana promuove quale risposta simme trica la grande lettera dei pidocchi e dell,osteria, col diario a due facce di un ozioso non per elezione ma per forza, il racconto del 18 gennaio '14 intorno alla famiglia della « vedova » e casa Vettori suscita sul versante del Machiavelli una replica· del quadro romano ( « ... mi pare che la sia cosi degna di recitarla ad un principe... ») che mostra quasi l'impianto di una sceneggiatura (« E, mi pare ve195
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dere il Brancaccio raccolto in su una seggiola a seder basso per considerar meglio il viso della Gostanza, e con parole e con cenni, e con atti e con risi e dimenamento di bocca e di occhi e di spurghi, tutto stillarsi, tutto consumarsi... » ). E non per nulla dopo una sequenza iperbolica di gesti e istantanee ( « Io lo veggo gestire... veggolo qualche volta scuotere il capo... veggolo, parlando seco... Veggo voi, signor oratore... ») si approda a una parodia di affresco mitologico ( « Veggo in fine Giove incatenato innanzi al carro ») o al movimento di una battuta dialogata, oramai da palcoscenico: « ... veggovi rispondere generalmente loro, e all'ultime parole, come Ecco; e infine tagliare e' ragio namenti, e correre al fuoco con certi passolini presti e lunghi, un dito un poco 'chinato in su le reni. Veggo, alla giunta vostra, }:ilippo, il Brancaccio, il garzone, la fanciulla rizzarsi; e voi dite: cc Sedete, state saldi, non vi movete, 'Seguite i vostri ragionamenti" ... ». Ora se lo spazio delle lettere ·assorbe spesso un'aria di teatro, piu forte fra l'altro .di quella che si percepisce nei ghiribizzi del Vettori, cui pure non è estranea una vena drammatica, e se ha un $enso, come parrebbe, l'iscrizione di quasi tutte le con gruenze testuali negli ultimi mesi del '13 o nei primi del '14, viene inevitabile la conclusione che il Machiavelli già in questo campo . intrattiene per proprio conto un di scorso teatrale e che l'idea della Mandragola, anche sup posto che la sua stesura si realizzi solo piu tardi, si con nette al periodo immediatamente successivo al Principe. Lo scrittore politico tace o si confonde con il narratore giocoso del lungo duetto col Vettori in una sorta di gara a due voci, che forse nasconde anche, per una delle due parti, una volontà di paradosso o di esasperata stravaganza, quasi .di sfida. Il colloquio col Vettori sopravviene al momento giu :sto per ridestare nel Machiavelli una disposizione comica antica, che s'era già espressa nel disegno satirico delle Ma196
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schere, oggi purtroppo perduto, e per annodare insieme la consuetudine del pastiche cancelleresco e la poetica del
nuovo teatro dotto, terenziano e plautino, secondo l'agile esempio della Calandria, per svolgere sino in fondo la propria polemica contro il gusto umanistico piu scolastico ,. di cui non per niente si rintraccia un segno beffardo nel secondo sonetto a Giuliano di Lore�o de' Medici a pro posito del Dazzi e della sua « commedia in guazzeroni»: