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Italian Pages 66 [80] [80] Year 1999
BIBLIOTECA DI “AUTOGRAFO” diretta da Maria Corti
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Eugenio Montale
POESIA TRAVESTITA a cura di Maria Corti e Maria Antonietta Terzoli
interlinea
edizioni
© Novara 1999 interlinea srl edizioni via Pietro Micca 24, 28100 Novara, tel. 0321 612571 www.interlinea.com Stampato in Italia da Editel, Moncalieri ISBN 88-8212-211-5 In copertina: i primi versi di Nuove stanze di Eugenio Montale tradotti in più lingue
SOMMARIO
Premessa (MARIA CORTI) Frammenti di una “giornata speciale” (MAHMOUD SALEM ELSHEIKL) Le insidie della fedeltà (MARIA ANTONIETTA TERZOLI) EUGENIO MONTALE, NUOVE STANZE (DA LE OCCASIONI)
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LE TRADUZIONI Dall’originale italiano in arabo (Mahmoud Salem Elsheikl) Dall’arabo in francese (Claude Krul) Dal francese in polacco (Richard Warczyk) Dal polacco in russo (Wanda Gasperowicz) Dal russo in ceco (Sylvie Richterová) Dal ceco in bulgaro (Doriana Popova Dell’Agata) Dal bulgaro in olandese (William R. Veder) Dall’olandese in tedesco (Johanna Miecznikowski-Fünfschilling) Dal tedesco in spagnolo (Marco Kunz) Dallo spagnolo in italiano (Anna Laura Puliafito)
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I traduttori
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PREMESSA
Questo libro è nato da un desiderio di Eugenio Montale, silenziosamente cresciuto col tempo nella memoria di coloro che lo hanno alla fine realizzato. Nei primi mesi del 1978 il poeta mi espose un originale programma, suggerendomi con allegria di realizzarglielo: trovare qualcuno che traducesse in arabo la lirica Nuove stanze delle Occasioni. A questo punto la sua paternità doveva essere taciuta e il testo, attribuito a un ignoto poeta arabo, andava tradotto in francese, poi a catena in polacco, russo, ceco, bulgaro, olandese, tedesco, spagnolo, per tornare all’italiano. A suo parere la poesia alla fine del trattamento sarebbe stata del tutto irriconoscibile; me lo disse con un gradevole, consueto risolino ironico. Ho saputo quest’anno, per gentilezza dell’editore di questo volume, Roberto Cicala (Interlinea), che tale desiderio era già stato espresso da Montale a Enrico Emanuelli durante un’intervista al “Corriere della sera” in occasione della nomina del poeta a senatore: l’articolo-intervista di Emanuelli dal titolo Il senatore Montale è del 14 giugno 1967 (l’ha rintracciato Franco Contorbia: vedi “La Rivista Ligure”, VIII, 27 [1998]). Il poeta a un certo punto parla di Dragos Vranceanu, amico che lo informa della traduzione di una scelta di sue poesie a Bucarest, a cura di Jlie Constantin. Emanuelli nell’articolo così postilla: «Non è facile farlo parlare di sé e di cose sue. Anche stavolta, in quell’inizio di una nuova traduzione, preferisce scappare improvvisando un fantasioso progetto: si prenda la poesia di un italiano, la si faccia tradurre in francese. Si prenda poi quel che si ottiene e lo si faccia tradurre in inglese. E il testo inglese lo si faccia tradurre in russo e avanti, dal russo in cinese, dal cinese in giapponese e avanti ancora, magari dal giapponese in spagnolo e dallo spagnolo in polacco e finalmente, da quest’ultima traduzione, se ne ricavi un testo in italiano. “Chi sa”, dice, “che cosa tornerebbe a casa dopo questa galoppata di traduzioni. Un’altra cosa?” “Sì, certo un’altra cosa”, dico. “Forse migliore di quand’era partita. Tutto può capitare, non si sa mai”».
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MARIA CORTI
Al di là della consueta e congeniale battuta ironica, il poeta è curioso; lo conferma la iterazione della proposta con un’altra persona, un altro ascoltatore, nel caso chi scrive qui, che a differenza di Emanuelli provò l’entusiasmo di mettersi all’opera. Scrissi all’amico Guglielmo Gorni, italianista docente all’Università di Ginevra, che sapevo in contatto con Mahmoud Salem Elsheikl, filologo e linguista della Crusca. Gorni, che pubblicamente ringrazio, non perse tempo e il 13 gennaio 1979 mi comunicava che le traduzioni in arabo e dall’arabo in francese, quest’ultima a cura della ginevrina Claude Krul, erano pronte e già in sue mani. Mi confermava che le traduzioni erano ottime e che in quella francese «soprattutto alla fine è già evidente uno spostamento progressivo del senso». Ancora a Gorni chiesi aiuto per la traduzione in polacco e il 29 gennaio 1979 l’amico mi informò non solo dell’avvenuta traduzione, ma aggiunse avvertimenti grafici a nome del traduttore. A un altro amico e collega, il polonista Pietro Marchesani, devo una intensa collaborazione per le traduzioni in ceco, in bulgaro e in olandese. Naturalmente il tempo della realizzazione di un progetto del genere è sempre più lungo del previsto e i calcoli umani solo casualmente coincidono con i ritmi del tempo. Montale è morto il 12 settembre del 1981, mentre si stava apprestando la traduzione in olandese. Fu difficile rassegnarsi alla perdita dell’ideatore e destinatario del progetto; sembrò che esso cadesse nel vuoto. In quei tristi mesi, le traduzioni fatte restarono chiuse in un cassetto della mia scrivania, dove sono rimaste per anni sino al 1998, allorché il direttore del Fondo Manoscritti pavese, professore Angelo Stella, mi consigliò di dedicare il numero 39 della nostra rivista “Autografo” al tema “traduzione” e dare contemporaneamente alle stampe, nella collana “Biblioteca di Autografo”, l’operazione montaliana una volta condotta a termine. Mancavano le traduzioni in tedesco, spagnolo e infine in italiano. Mi rivolsi allora a una preziosa collaboratrice, l’italianista docente all’Università svizzera, di lingua tedesca, di Basilea, Maria Antonietta Terzoli, che mi procurò la traduzione dall’olandese in tedesco, spagnolo e infine italiano; naturalmente il traduttore e le due traduttrici ignoravano la paternità montaliana del testo. A questo punto mi parve necessario che, per le lingue di più difficile comprensione da parte dei lettori italiani, cioè polacco, russo, ceco, bulgaro, olandese, a ogni traduzione potesse seguire a piè di
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pagina una resa fedele del testo in lingua italiana, affinché i lettori si rendessero conto dei precisi luoghi testuali dove si fossero prodotti spostamenti semantici. Manca la resa in italiano del testo arabo perché Mahmoud Salem Elsheikl, unico traduttore dal testo originale montaliano, mi scrisse in data 17 maggio 1999: «La mia traduzione araba di Nuove stanze è letterale, con rispondenza quasi “perfetta”, non solo fraseologica, stilistica e concettuale, ma anche formale delle quattro ottave che compongono la poesia. Non ho quindi nessuna chiosa da premettere al testo né tantomeno note da relegare a piè di pagina». Insieme a questa lettera l’autore mi spedì «un breve (e caro) ricordo montaliano, legato sempre all’arabizzazione di Nuove stanze», cioè parte di un colloquio col poeta, che fu registrato e che le disposizioni della legge sulla privacy lo obbligano a rendere qua e là lacunoso. Si tratta del secondo intervento introduttivo del presente volume, dal titolo Frammenti di una “giornata speciale”. Maria Antonietta Terzoli nel terzo intervento, dal titolo Le insidie della fedeltà, affronta con particolare intelligenza critica e acuta sensibilità lo squisito problema che Montale si era posto, di cosa sopravvive del testo originario dopo una serie di traduzioni. Forse la grande poesia riserva delle sorprese; forse la voce del poeta all’apparenza rimane viva e sopravvanza il lungo intervallo del brusio traduttorio, ma non passa impunemente per le vie illusorie dell’altrui decodifica. MARIA CORTI
FRAMMENTI DI UNA “GIORNATA SPECIALE”
Di Montale avevo provato negli anni settanta a tradurre qualche pezzo in arabo. Esercizio dilettantesco mai andato oltre una “prova di traduzione”. Anch’io, insomma, molto più tardivamente per ovvi motivi, contagiato dal genio di Contini, cercavo (a modo mio) di avvicinarmi al “profeta”. Indegnamente, e in modo del tutto clandestino, “arabizzavo” – a uso strettamente personale – alcuni versi di Le occasioni e di Ossi di seppia che amavo recitare, in arabo s’intende, in momenti di allegra solitudine. Unica mia preoccupazione allora era la perfetta dizione. Usavo quindi segni vocalizzanti, evidenziandoli con penna rossa, e inventavo altri segni “miei” particolari per produrre suoni i più armoniosi e gradevoli possibili. E più che leggevo e m’immedesimavo, più mi piaceva “l’arabo” Montale. Esercizio di recitazione, il più delle volte malriuscito! Leggevo cose che solo io potevo comprendere, perché mentre recitavo la traduzione araba scorrevo sullo schermo della memoria il testo italiano. Acrobazia recitativa! Ero convinto che nessun lettore di madrelingua araba avrebbe mai potuto intendere quei vocaboli tanto pazientemente messi insieme, ma che in realtà giravano intorno al non senso. Ero convinto che quella operazione privata, al limite del maniacale, di crearmi un Montale “arabo” da comprendere con l’ausilio del testo italiano, fosse la prova “regina” dell’intraducibilità del maggiore dei poeti italiani del Novecento nella lingua del Corano. Ero convinto che, per un lettore arabo, solo la combinazione fra traduzione araba visiva e il testo originale italiano memorizzato fosse l’unico modo per capire Montale, quindi dell’impossibilità o, se si vuole, dell’inutilità di tradurre Montale in arabo. Ma continuavo a tradurre e a recitare. Era il periodo in cui gli “amici” di allora mi sollecitavano ad affrontare la traduzione in lingua araba di poeti e romanzieri italiani. Qualcuno voleva addirittura farmi credere di essere l’unico in grado di fare simile operazione! Quasi volesse indirizzarmi verso le traduzioni per allontanarmi dalla filologia. Ma nessuno, stranamente – a dire il vero non tanto – mi ha mai chiesto di tradurre qualcosa dal-
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l’arabo. La risposta era, e non è cambiata nel tempo, «non so tradurre». L’esperienza montaliana era una cosa intima, e doveva quindi rimanere segreta. E segreta rimase fino alla metà di novembre 1978, quando Maria Corti, tramite l’amico Guglielmo Gorni (da poco emigrato in Svizzera), mi chiese di tradurre una poesia di Montale. Perché «il signore nostra miglior musa vorrebbe», recitava la lettera di Gorni, «non so bene da chi indotto, o da quali cerebrali curiosità, far tradurre una sua poesia, nella fattispecie Nuove stanze di Le occasioni, in arabo. Indi in francese. Poi, credo, in polacco, e così via [...]; il tutto verrebbe pubblicato sotto l’alto patronato dell’autore, con ogni opportuna pubblicità resa ad esperimento e ai suoi alchimisti». E prosegue: «Immagino che tu preveda il finale: volgarizzamento italiano da X, da confrontare con l’originale. Solo il primo traduttore conoscerà il nome dell’autore di partenza: gli altri dovranno solo trasporre nella lingua che a loro è familiare un testo poetico non altrimenti definito. [...] A chi rivolgersi, se non a te? ti va di stare a questo gioco d’alta curiosità, connivente e grato l’autore?» Mi pareva geniale l’idea ed eccitante la proposta. Ma essere il capofila di un esperimento del genere mi procurava una preoccupazione, quasi esaltante. Dipendeva da me, ossia dal mio arabo, da me stesso giudicato incomprensibile, l’esito finale di questa alchimia linguistica, stilistica e concettuale pensata e voluta da Montale. Ero perfettamente consapevole della grave responsabilità che Montale, involontariamente, mi addebitava. Ma il progetto era oltre modo affascinante. Con la benedizione del Maestro – ero di casa al Pian de’ Giullari –, tirai dal cassetto una mia vecchia traduzione di Nuove stanze. Era una delle poesie su cui mi ero soffermato a lungo, forse per il suo alto valore profetico. Pensavo di rivederla, di apportare modifiche e correzioni per migliorarla, di limarne lingua e stile. Di aggiornarla e di renderla insomma, non tanto leggibile quanto concettualmente comprensibile. E non era un problema da poco, convinto com’ero del non senso della mia traduzione. Certo, ho cambiato, aggiunto, tolto, limato; con risultati, a dir poco, disastrosi e per nulla convincenti. Ho provato e riprovato; ma, alla fine, ho deciso di spedire alla signora Claude Krul – scelta da Gorni per tradurre il testo arabo in francese – la versione originaria, senza cambiare una virgola. Quando Contini, verso la metà di gennaio 1979, vide la traduzione france-
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se proposta dalla signora Krul sul mio testo arabo, disse: «È la più bella traduzione francese che sia mai stata fatta di Nuove stanze». E fu per me un complimento grandissimo. E una liberazione! Nell’estate del 1980 Montale – mancato baritono – chiese di sentire recitata e registrata in arabo una sua poesia; e la scelta cadde, manco a farla apposta, su Nuove stanze. Fervevano allora i lavori di allestimento dell’Opera in versi a cura del duo Bettarini-Contini. Si era quasi ai ritocchi finali, e fu deciso di andare a trovare Montale al Forte dei Marmi il 18 luglio: Contini, Bettarini e lo scrivente. I due curatori della monumentale edizione a sottoporre a Montale alcuni dubbi e informarlo di qualche loro intervento; chi scrive – munito di un registratore – a fare sentire al poeta la sua poesia recitata in arabo. Quel giorno però Contini era di pessimo umore a causa di un disturbo notturno. Da Montale andammo in due, io e la Bettarini, ognuno con una borsa: la mia era occupata dal banalissimo mezzo meccanico; quella della Bettarini, assai più preziosa poiché conteneva due copie delle ultime bozze dell’Opera in versi. Di quel 18 luglio 1980, poco più di un anno prima della morte di Montale, mi è rimasto, oltre alla cara memoria di quella “giornata speciale”, un nastro registrato che conserva, sia pure disturbata dal rumore del traffico e del chiasso estivo della Versilia, una grossa fetta di una conversazione lunga quasi un pomeriggio. Vi compare, saltuariamente, anche la voce della fedelissima Gina. È uno zibaldone che testimonia prima di tutto la curiosità del poeta, per dovere di ospitalità e in omaggio allo scrivente, particolarmente per la lingua e la letteratura araba. Voleva sapere, fra l’altro se «ci sono nel mondo arabo poeti ermetici moderni, incomprensibili, soprattutto incomprensibili». Così come chiedeva se «ci sono dialetti» e se «ci sono analfabeti arabi» e «quanti» (in percentuale s’intende), «perché», aggiungeva, «se a parere di qualcuno ci sono varianti dentro l’analfabetismo, ci sono anche delle divisioni». Quindi domandava: «Gli analfabeti parlano tutti la stessa lingua?» Sembrava che la mia presenza stimolasse la proverbiale curiosità del poeta. Ritornava a chiedere «se i dialetti sono innovativi rispetto all’arabo, o sono ancora più arcaici», per poi domandare se «in Italia vi sono cattedre di arabo in qualche università». Le mie risposte aumentavano sempre di più la curiosità di Montale. Non si accontentava infatti di sapere che cattedre di arabo esistevano a Napoli, a Roma, a Venezia, a Palermo ecc., ma voleva sapere se gli insegnanti
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«sono arabi o sono italiani». E alla mia risposta che erano tutti italiani, incalzava: «Conoscono veramente l’arabo questi italiani?» Domande pertinenti e quanto mai imbarazzanti. Non si limitava però Montale a porre domande, ma si lasciava andare a qualche riflessione, anche velenosa. Parlando dell’insegnamento delle lingue in Italia, sottolineava spesso la sua perplessità con qualche «mah!», poi aggiungeva: «Perché in Italia non tutti sono [...]. Io sono molto vecchio, ma quando ero molto giovane guardavo i professori universitari con immensa ammirazione, credevo che fossero uomini di talento eccezionale, dei padreterni [...], e ora non esistono nemmeno, nemmeno in Arabia!» Sempre a proposito d’Arabia, non poteva certo mancare qualche riferimento lirico, e il genio di Montale lo sfodera quando chiede: «È mai stata rappresentata l’Aida in arabo nel deserto?» Con apparente distacco, ma con l’arguzia che lo distingueva, Montale mostrava grande interesse per i fatti universitari. Chiede infatti, con non molto celata ironia: «Che succede nel mondo accademico di così complesso?» Anche la Gina si inserisce nel discorso, e si scopre che anche lei era molto informata dell’ambiente, perfino dei concorsi a cattedra, quando si rivolge alla Bettarini per sapere «se è vero che ormai ci va anche la [...]». Alla risposta della Bettarini: «Pare di sì; pare che il [...] sia andato lì dicendo che se non passava la sua, lui si dimetteva», Montale, impenetrabile, sillaba appena un «mah!», mentre la Gina si lascia scappare: «È questa l’alta cultura? Oddio!». Malizia o ingenuità? Mah! «Sì», sospira la Bettarini, quasi a volere mettere una pietra sopra, «ma in fondo è un fatto così comune che... non vedo lo scandalo». Sante parole! A Montale a quel punto premeva avere notizie di Silvio Guarnieri. Gli occhi profondi e penetranti s’illuminano appena scandisce il nome di Guarnieri. «E Guarnieri?», chiede, «m’interessa per ragioni abbastanza umanitarie; mi ha fatto cantare nel teatro di Feltre, però non c’era pubblico: eravamo io, lui e il guardiano del teatro e ho cantato La calunnia è un venticello. E comincia a cantare: La calunnia è un venticello, un’auretta assai gentile ... oh.
E aggiunge ridendo: «Ed ho avuto l’approvazione del guardiano». Beffardamente soddisfatto e, probabilmente esaltato dalla presenza
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di così “folto” pubblico disposto ad ascoltarlo, Montale, incurante del fumo che aspirava con avidità, riprende a cantare: un colpo di cannon un colpo di cannon un tremoto, un temporal un tremoto, un temporal un tremoto, un temporal ecc.
«un trentanni fa, vero!» Ma di botto il viso di Montale ritorna indecifrabile quando borbotta: «Non ha vinto, poveraccio! Mi dispiace, non so come protestare; è anche un comunista [...], un comunista all’acqua di rosa». E, per un attimo, fu tradito dall’emozione. A precise domande, e piuttosto insistenti, Montale tace l’identità delle “sue” donne. Non si scompone nemmeno di fronte alla tenace volontà della Bettarini che, per l’ennesima volta, gli chiede: «Senta, Lei si ricorda chi era la donna dell’Angelo nero? Perché in un manoscritto Suo, quella poesia comincia con: “Morta troppo giovane / francese”, sembra scritto, “d’Alsazia”. Può essere? Le dice niente?» Il poeta si rifugia in un «mah!» e, con lo sguardo fisso nel vuoto, bisbiglia: «Butti via tutto». Di Annetta però discorre spontaneamente, quasi con nostalgia. «Anna», dice, «era figlia di uno dei due ammiragli che tornano in una poesia» [Una visita]. I due ammiragli omonimi, rivela Montale, si chiamavano Nicastro, e con espressione furbastra aggiunge: «non credo che siano altri esempi di ammiragli italiani omonimi». Non si ferma qui Montale, è preda di un raptus di generosità. «Non credo di dover dedicare», soggiunge, «la capinera alla figlia di nessun ammiraglio. Tuttavia suo padre aspirava ad aiutarmi». Era proprio in vena Montale quel pomeriggio. E, come al solito, molto pungente. Chissà cosa avrebbe detto di una operazione linguistica così audace, da lui stesso tanto sollecitata. Peccato che non potrà più appagare questa sua curiosità e che Contini, per “eterna fedeltà”, non vedrà senza il “profeta” Nuove stanze ritornata in italiano dopo un lungo e travagliato peregrinare attraverso spericolate forche caudine linguistiche, sbalzando fra Romania e non. Eppure ci teneva tanto. MAHMOUD SALEM ELSHEIKL
LE INSIDIE DELLA FEDELTÀ
Rispetto alla mia traduzione di questi tre versi, e di moltissimi altri, m’accorgo che si può etimologizzare, sillogizzare, fantasticare sopra i grandi originali, ritrarli al vivo non mai U. FOSCOLO
C’è un gioco che quasi tutti conoscono. In un gruppo, seduto in cerchio, un giocatore racconta sottovoce al suo vicino una breve storia. Questo, a sua volta, la racconta all’altro vicino. E così via fino a quando la storia ritorna alle orecchie del primo narratore, che stenta a riconoscerla. La storia è così cambiata che quando egli la racconta infine a voce alta, tutti vi ritrovano qualcosa, frammenti e parole, ma non la storia che loro stessi avevano ascoltato e poi narrato. Ognuno, nel riprodurla, ha aggiunto infatti, senza rendersene conto, qualcosa di suo e tolto qualcos’altro, cambiato quello che non capiva e modificato quello che non era di suo gusto. Negli anni trenta di questo secolo uno studioso di psicologia, Frederic Charles Bartlett, aveva utilizzato un principio analogo per un esperimento sulla facoltà della memoria di registrare le informazioni ricevute e sulla sua tendenza a modificarle progressivamente. Aveva letto una storia tratta dalla tradizione orale degli Indiani d’America a un gruppo di persone del suo ambiente, chiedendo loro di raccontargliela di nuovo. Più cresceva il tempo trascorso tra il momento dell’ascolto e il momento della narrazione, più la storia si modificava, perdendo gli elementi caratteristici e bizzarri legati alla cultura indiana, che non rientravano negli schemi mentali e interpretativi degli inglesi. Non conoscendo quello che c’era dietro certi comportamenti e fatti narrati, i narratori inglesi li dimenticavano e li eliminavano dal loro racconto. O li modificavano senza rendersene conto, per adattarli a un diverso contesto. Li traducevano insomma nella loro cultura. Bartlett raccolse e analizzò le diverse versioni di quella storia in un libro uscito a Cambridge nel 1932 (Remembering. A Study in Experimental and Social Psychology) e diventato presto un classico della materia.1
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Non credo che Montale conoscesse questo esperimento, pur celebre tra gli specialisti. Probabilmente conosceva però il gioco della storia raccontata in cerchio, che ne è una variante ludica e popolare. Certo non era del tutto innocente quando propose – con reiterata insistenza a quanto risulta dalle testimonianze dirette e indirette citate da Maria Corti nella sua Premessa – il gioco, l’esperimento, o la sfida di cui ora questo libro rende pubblici i risultati. La scommessa era chiaramente persa in partenza, per le restrizioni estreme a cui erano sottoposti i traduttori. Ma i risultati in un certo senso vanno al di là di quanto ci si poteva aspettare: in negativo consentono di verificare in maniera sperimentale, quasi da laboratorio, in che misura e a quali condizioni la poesia possa essere traducibile. Della diffidenza di Montale – che pure fu eccellente traduttore tra l’altro di Shakespeare, di Eliot, di Melville, di Marlowe e di Corneille – nei confronti della possibilità di trasporre in altra lingua testi poetici, può già essere indizio il fatto che nel 1946 e poi ancora nel 1966 le traduzioni in francese di alcune poesie tratte dagli Ossi di seppia, dalle Occasioni e dalla Bufera – firmate da specialisti come Avalle e Hotelier o da poeti in proprio come Pierre Jouve –2 sono accompagnate dall’originale stampato a fronte. Quasi per consentire al lettore di ripercorrere a ritroso, se lo crede, il cammino compiuto dai traduttori. È subito chiaro, dunque, quanto crudeli fossero le condizioni imposte nell’esperimento da lui suggerito: una traduzione in serie dove ogni traduttore – scelto sempre tra persone provviste di notevole familiarità con lingue e letterature, e con pratica del tradurre – non conosceva né l’originale, né il nome dell’autore, né le versioni precedenti e doveva misurarsi solo con l’ultima che precedeva la sua. Tradurre “bendato”, per così dire. L’unico che conosceva l’originale e sapeva il nome dell’autore era il primo, che doveva tradurre dall’italiano in arabo. Si trattava in altre parole di una traduzione “a catena”, senza la possibilità di risalire agli anelli precedenti né di verificarne la tenuta. Niente di più infido e rischioso, anche se questo tipo di traduzione costituisce una forma tutt’altro che rara di trasmissione culturale, addirittura propria di testi base della cultura occidentale. È a tutti noto il caso della Bibbia, redatta in aramaico e in ebraico, tradotta in greco dai Settanta, e da lì in gran parte trasposta in versioni latine, poi nel latino della Vulgata e da quello nelle lingue moderne dei paesi cattolici. Ma si pensi anche alle modalità di ricezione della filosofia
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aristotelica nel Medioevo: tradotta dal greco all’arabo e di lì in latino. Certo con deformazioni, modifiche e contaminazioni. Diciamo pure con errori storici e filologici: ma errori fecondi, come in botanica gli innesti più riusciti. La deformazione diveniva anzi il veicolo di un ulteriore sviluppo, di un’evoluzione non prevista. Anche in letteratura la conoscenza di tanti classici è avvenuta, a volte, grazie a traduzioni di traduzioni: basti pensare ai poemi omerici, ancora a inizio Ottocento volgarizzati spesso a partire da una versione latina. È noto che Vincenzo Monti, autore di un’importante traduzione dell’Iliade, era praticamente digiuno di greco, come egli stesso non aveva troppa difficoltà ad ammettere: «Quand’io vi lessi la mia versione dell’Iliade voi mi recitaste la vostra, confessandomi di avere tradotto senza grammatica greca; ed io nell’udirla mi confermava nella sentenza di Socrate che l’intelletto altamente spirato dalle Muse è l’interprete migliore d’Omero». Così rivelava pubblicamente il Foscolo, prima del feroce epigramma che doveva dedicare, pochi anni più tardi, all’amico di un tempo: «Questo è Monti poeta e cavaliero, / Gran traduttor dei traduttor d’Omero».3 Ma lo stesso Foscolo, che qui stigmatizza la traduzione mediata da un’altra lingua, aveva a sua volta già praticato quell’esercizio, pubblicando nel 1803 il volgarizzamento della Chioma di Berenice, tradotta non dall’originale di Callimaco bensì dalla versione latina di Catullo. Lui che pure il greco lo sapeva bene, lo sapeva anzi meglio dell’italiano. A conferma che la pratica era diffusa e legittima, e anzi aveva un forte significato culturale. Tanta letteratura inglese e tedesca, nel Settecento e ancora nel primo Ottocento, entra del resto in Italia mediata da una versione francese, che spesso è la sola lingua nota al traduttore. Ma in tutti questi casi chi traduceva conosceva il nome dell’autore, ne poteva leggere e studiare altre opere, si poteva misurare con altre traduzioni dello stesso testo. Né la fedeltà era condizione richiesta, o valore a priori: «così io n’ho approfittato [della traduzione francese] in parecchi luoghi; in alcuni altri ho creduto meglio il tenermi più esattamente all’originale: in alcuni ho pur aggiunto, o levato, o variato qualche cosa da me medesimo». Quello che dichiarava Francesco Soave nella sua Prefazione alla versione italiana dei Nuovi idilli di Salomon Gessner4 era in effetti una normale consuetudine. Ma torniamo ora a Montale e vediamo da vicino come funziona questa catena di traduzioni, compiute nelle particolari condizioni di
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cui si è detto. La poesia sottoposta a questo esercizio, Nuove stanze, è estratta dalla raccolta delle Occasioni. È una poesia complessa, ma non certo tra le più ostiche di Montale: dunque non programmaticamente intraducibile. Composta nel 1939, si articola in quattro strofe (stanze appunto) di otto versi, in prevalenza endecasillabi, con tre settenari (vv. 4, 10, 24) e tre quinari, questi ultimi collocati in chiusura di strofa (vv. 8, 16, 32). Rime e rime al mezzo collegano tra loro le strofe o sono interne a esse. È interessante notare che tutti i traduttori mantengono la stessa scansione strofica, pur non riproducendo più, naturalmente, il verso italiano. E rispettano il numero dei versi della versione precedente, benché non ci sia più identità di contenuti e di successione tra i singoli versi. In altre parole: una strofa di otto endecasillabi e settenari (o quinari) viene trasposta in una strofa di otto pseudo-versi in tutte le traduzioni successive, benché l’ordine e la distribuzione delle singole parole non sia più necessariamente la stessa. Come se questa forma, identica in superficie ma ormai priva di ragioni prosodiche, avesse però ragioni più profonde e garantisse in qualche modo la riconoscibilità del testo. Con una sola eccezione: la terza versione, in polacco, riduce la prima stanza a sette versi, introducendo un cambiamento che non sarà più corretto. Che si tratti di un errore, è dimostrato proprio dalla fedeltà con cui è riprodotto in tutte le successive versioni, che non conoscendo l’originale rispettano la nuova misura e forniscono di lì in avanti un testo con la prima strofa di sette e le altre di otto versi. Vedremo più avanti come si può spiegare la genesi di questo errore, non riconoscibile dai traduttori successivi e quindi irreversibile. Guardiamo ora da vicino le singole versioni, nell’ordine: arabo, francese, polacco, russo, ceco, bulgaro, olandese, tedesco, spagnolo, italiano. Il primo anello della catena è costituito da quella in arabo, allestita da qualcuno che conosceva il nome dell’autore, con dichiarata fedeltà all’originale: ed è la ragione per cui il traduttore non ha voluto fornire qui una versione letterale in italiano. Pure la trasposizione in arabo rivela subito il suo effetto straniante, per l’estrema distanza dalla lingua dell’originale e dalla lingua della versione successiva, il francese, dove compaiono già alcune modifiche sostanziali. In particolare nell’ultima strofa si introducono, oltre a minori variazioni su cui torneremo, due cambiamenti molto forti. Vediamo il primo caso. Al v. 28 si legge «à la lumière de mon spectre – colline enneigée», dove l’originale aveva «in una luce /
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spettrale di nevaio» (vv. 27-28): parole vicine, ma significato incompatibile. Di fronte all’evidente perdita di senso i traduttori immediatamente successivi (polacco, russo, ceco e bulgaro) si attengono a una strenua fedeltà alla lettera, trasmettendo una frase senza senso ma formalmente simile a quella che avevano ricevuto: “nella luce del mio fantasma – della collina coperta di neve” (in polacco, v. 27); “nel flusso di luce del mio fantasma – di questa cima coperta di neve” (in russo, v. 27); “nel diluvio di luce del mio fantasma, della mia nevosa cima” (in ceco, v. 27); “nel flusso di luce del mio fantasma, della mia nevosa cima” (in bulgaro, v. 27). Una frase simile ma non identica, con gli scarti minimi che ho evidenziato in corsivo: slittamenti quasi non significativi per chi traduce, ma già abbastanza forti per chi leggerà e tradurrà a sua volta. A partire da un certo momento – quando altri punti del testo cominciano a cedere, a presentare un terreno insicuro e ambiguo su cui non si può poggiare – interviene il bisogno di ritrovare il senso messo in forse dalla traduzione precedente. Il tentativo, reso difficile da un sentimento di generale insicurezza per la mancanza di un originale al quale dar credito, è destinato a fallire. Ogni modifica comporta di fatto una perdita ulteriore, con progressivi e irreparabili allontanamenti. L’olandese sostituisce “viso” a “fantasma” (che ancora conservava una traccia, pur stravolta, dello «spettrale» montaliano) e istintivamente modifica “del” e “della” che gli venivano da polacco, russo, ceco e bulgaro in “sul”, “sulla” («op»). Banalizza poi “nevosa” (che serbava qualche labile eco del «nevaio» iniziale) trasformandola in “lucida” («blanke»): “nel flusso di luce sul mio viso, sulla mia lucida cima” (v. 27: «in de vloed van licht op mijn schim, op mijn blanke top»). Lo segue, senza sostanziali differenze, il tedesco, «in der Flut von Licht auf meinem Antlitz, auf meiner blanken Spitze» (v. 27). «Flut» può significare sia “flusso” sia “profluvio”, «blank» sia “lucido”, sia “lucente”, «Spitze» sia “cima” sia “punta”: in un contesto così perturbato non è facile decidere, non ci sono abbastanza segnali, o è indifferente. Così lo spagnolo opta per il secondo significato in tutti i casi, scivolando da “profluvio” («Flut») in «derroche» (“sperpero”), da “lucido” («blank») in «reluciente» (“splendente”, “rilucente”), e allontanandosi ancora un po’ dall’originale: «en el derroche de luz en mi rostro, en mi punta reluciente» (v. 27). La traduzione italiana, che rispetta alla lettera quella spagnola, «nello sperpero di luce sul mio volto, sulla mia punta rilucente» (v. 27), è la misura di una distanza ormai incolmabile
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dalla montaliana «luce / spettrale di nevaio», definitivamente perduta. In assenza di un contesto riconoscibile, in effetti, ogni tentativo di risolvere un’aporia aumenta di fatto il grado di errore: il nodo non si scioglie, ma diventa sempre più intricato.5 Nell’ultima strofa della traduzione francese compare, come si è detto, un altro importante cambiamento: «Pourtant l’honneur de la veille solitaire / est à qui affronte / le miroir ardent de tes yeux d’acier / aveuglant les témoins sur l’échiquier» (vv. 29-32). L’originale suonava: «Ma resiste / e vince il premio della solitaria / veglia chi può con te allo specchio ustorio / che accieca le pedine opporre i tuoi / occhi d’acciaio» (vv. 28-32). Diciamo subito che «miroir ardent», pur traducendo fedelmente «specchio ustorio», mette già le basi della successiva perdita del tecnicismo usato da Montale con forte funzione metaforica («Lo specchio ustorio, la guerra, il male ecc.», postillerà l’autore in una lettera a Silvio Guarnieri del 22 maggio 1964).6 Se il polacco, il russo e il ceco lo conservano alla lettera (v. 30: “ardente specchio ”), rovesciando di necessità l’ordine aggettivo-sostantivo lo indeboliscono di fatto. Trasformando l’aggettivo “ardente” in un semplice epiteto, ne legittimano le successive variazioni: “bruciante specchio” del bulgaro (v. 30), “incandescente specchio” dell’olandese (v. 30: «withete spiegel»), «weissglühenden Spiegel» del tedesco (v. 30), fino allo spagnolo che ripristina l’ordine senza poter restituire il valore iniziale, «espejo candente» (v. 30), tradotto in italiano con il semplice «specchio incandescente» (v. 30). Anche l’altro tecnicismo usato in funzione di metafora colta («La morgana che in cielo liberava / torri e ponti è sparita / al primo soffio», vv. 9-11 di Montale) conosce del resto un processo di banalizzazione che ne esautora rapidamente il senso: dal corretto «mirage» del francese (v. 9) passa subito a “illusione” in tutte le successive traduzioni. Quando la poesia riemerge in italiano, la morgana è ormai solo un’illusione che svanisce (v. 9). Ma torniamo alla significativa differenza tra i vv. 29-32 della versione francese e i versi corrispondenti dell’originale (28-32). Da «occhi d’acciaio», da opporre vittoriosamente all’accecante specchio ustorio, si passa a «yeux d’acier», che accecano essi stessi come uno specchio ustorio. L’errore – non riconoscibile come tale in assenza dell’originale perché apparentemente non privo di senso – non è sottoposto a nessun tentativo di correzione e avrà conseguenze decisive sull’intero sistema. In particolare sposterà progressivamente chi de-
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tiene questo potere nefasto di accecamento verso un ruolo maschile, più consono a un interlocutore che appare sempre più come un pericoloso antagonista. La singolare metamorfosi avviene nel passaggio dall’olandese, “Sulla scacchiera sei tu solo (sola), / a saper infocare il gioco” (vv. 1415: «Op het schaakbord ben jij de enige, / die vuur in het spel weet te brengen») al tedesco, «Auf dem Schachbrett bist du der Einzige, / der Feuer ins Spiel zu bringen weiss» (vv. 14-15), in un punto dove il genere – maschile vs femminile – non è indicato grammaticalmente (de enige = tu solo/tu sola) e deve essere deciso da chi traduce sulla base di altri elementi, forniti dal contesto. Ma il contesto – il solo disponibile, cioè quello interno alla poesia stessa – è ormai quello di una sfida feroce, in un’atmosfera bellica e cruenta (“seleziona nuove vittime”, in olandese, v. 21: «selecteert zij nieuwe slachtoffers»), contro un personaggio connotato da elementi maschili. La sigaretta («Poi che gli ultimi fili di tabacco / al tuo gesto si spengono nel piatto / di cristallo», vv. 1-3 di Montale) è diventata infatti tabacco da presa: “Nel fondo della coppa di cristallo / c’è un’ultima presa del tuo tabacco” (in olandese, vv. 1-2: «Op de bodem van de kristallen schaal / ligt een laatste pluk van jouw tabak»). La versione spagnola dei versi 14-15, «En el tablero de ajedrez eres el único / que sabe meter fuego en la partida», rinforza a sua volta il senso della lotta traducendo «Spiel» (“gioco”) con «partida», e preparando così il terreno per l’ultimo avanzamento nella stessa direzione introdotto dalla versione italiana: «Sulla scacchiera sei tu il solo / che sa mettere fuoco nella sfida» (vv. 14-15). È così compiuto il rovesciamento assoluto – di senso e di genere grammaticale – dei versi originali che suonavano: «sulla scacchiera di cui puoi tu sola / comporre il senso» (vv. 15-16). Vale ora la pena di fare un passo indietro e di vedere dove e come si è prodotto il cambiamento che consente di passare, per progressivi slittamenti, da «comporre il senso» di Montale (v. 16) a «mettere fuoco nella sfida» dell’ultima versione (in italiano, v. 15). La genesi dell’errore può fornire anche informazioni interessanti su altre modalità di trasferimento di singole parole. La versione francese di questi versi appare non troppo lontana dall’originale: «sur l’échiquier toi seule / sait disposer le jeu» (vv. 15-16). La traduttrice rende però esplicito il termine «jeu» implicito nella parola «scacchiera», forzando leggermente verso un significato letterale quanto in Montale ave-
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va già un forte senso metaforico. Il polacco traduce “Sulla scacchiera tu sola / sei capace di sciogliere il gioco” (vv. 14-15), preparando il successivo slittamento del russo: “Sulla scacchiera tu sola / sai scatenare il gioco” (vv. 14-15). La polivalenza stessa delle parole, in assenza di un contesto più ampio e sicuro, rende altissimo il rischio di scegliere un significato lievemente sfasato o meno pertinente, introducendo slittamenti di senso, eventualmente altre associazioni metaforiche, che si dilatano progressivamente passando da una traduzione all’altra. Così da “scatenare” si passa a “infiammare” del ceco, “Tu sola sulla scacchiera / sei in grado di infiammare il gioco” (vv. 14-15), del bulgaro, “Sulla scacchiera unica tu / riesci ad infiammare il gioco” (vv. 14-15) e dell’olandese citato sopra (vv. 14-15). Il tedesco introduce una variazione, minima, ma degna di nota. Lo trascrivo qui di nuovo: «Auf dem Schachbrett bist du der Einzige, / der Feuer ins Spiel zu bringen weiss» (vv. 14-15). «Feuer bringen» (“portar fuoco”), che diventa «meter fuego» nello spagnolo (v. 15) e «mettere fuoco» nell’italiano (v. 15), per l’incremento di tensione drammatica, induce a trasformare «Spiel» in «partida» e poi in «sfida». Ma c’è in questo esempio un fatto, per niente prevedibile, sul quale vale la pena di richiamare l’attenzione. “Fuoco” è una parola che si leggeva in un altro punto della poesia di Montale: «follìa di morte non si placa a poco / prezzo, se poco è il lampo del tuo sguardo, / ma domanda altri fuochi» (vv. 20-22). Ma era scomparsa relativamente presto, a partire dal polacco che aveva tradotto il francese «elle réclame un autre feu» (v. 22) con “lei chiede un nuovo sacrificio” (v. 21), inaugurando la strada che, attraverso “esige nuove vittime” del russo, del ceco e del bulgaro, passando per “seleziona nuove vittime” dell’olandese (v. 21: «selecteert zij nieuwe slachtoffers»), «wählt sie neue Opfer» del tedesco (v. 21), «elige nuevas víctimas» dello spagnolo (v. 21), doveva portare a «sceglie nuove vittime» della versione italiana (v. 21). La parola scomparsa in un punto, «fuochi» (v. 22 di Montale), riaffiora dunque, sfasata, in un altro luogo del testo: un felice compenso a distanza che sembra funzionare anche in questo caso estremo, dove il traduttore non conosce l’originale. Che non si tratti di semplice coincidenza pare confermato dal fatto che questo non è l’unico caso che si può citare. Gli ultimi due versi di Montale contengono una parola, «pedine», di cui non c’è più traccia già nella versione francese, che suona:
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«aveuglant les témoins sur l’échiquier» (v. 31), dove l’originale aveva «che accieca le pedine» (v. 31). La nuova parola, “testimoni”, attraversa vittoriosa l’intera serie delle traduzioni. Ma «pedine», precocemente caduta, riaffiora miracolosamente intatta alla fine del percorso, in un altro punto del testo, nella prima strofa: «sopra pedine e cavalli perplessi». Così la versione italiana (v. 4) traduce lo spagnolo «sobre peones y caballos perplejos» (v. 4), a sua volta traduzione del tedesco «über perplexe Bauern und Pferde» (v. 4). Il recupero era avvenuto nell’olandese, “sopra pedine e cavalli perplessi” (v. 4: «over perplexe pionnen en paarden»), che così aveva modificato il bulgaro “sugli storditi cavalli e cavalieri” (v. 4), derivato alla lettera dal ceco, che traduceva il russo “sopra cavalli e cavalieri sgomenti”. Tentiamo di capire come è avvenuto questo affioramento. Il testo di Montale suonava «che gli alfieri e i cavalli degli scacchi / guardano stupefatti» (vv. 5-6). Il traduttore olandese non ha letto questi versi, ma si rende conto che la coppia “cavalli e cavalieri”, arrivatagli dal bulgaro, nel gioco degli scacchi non funziona e quindi la sostituisce con una coppia di pezzi più esatta, “pedine e cavalli”. Questa non coincide con quella originale, alfieri e cavalli (la divinatio raramente si concede fino in fondo), ma è plausibile entro la metafora del gioco e della scacchiera. Pur abbassando gli alfieri a pedine, recupera infatti proprio l’altro pezzo menzionato da Montale alla fine della poesia e andato subito perduto. È uno dei casi, rari in verità, in cui il bilancio si può ritenere sostanzialmente positivo: una ripresa esatta, benché sfasata, che comporta un recupero nel sistema. La norma è piuttosto il contrario: eventuali recuperi puntuali (per lo più effimeri) e scarto nel sistema. Abbiamo visto le modalità di questo recupero. Ora può essere istruttivo, dal momento che disponiamo dell’intera catena, capire dove è avvenuta la perdita. Il francese traduce con fedeltà: «qu’observent avec stupeur / cavaliers et aufins» (vv. 4-5), tralasciando la precisazione «degli scacchi» (in Montale, v. 5), non più necessaria dal momento che “aufin” è termine che designa appunto l’alfiere nel gioco degli scacchi. Ma «aufins», che è parola rara e arcaica, usata in antico francese, è naturalmente a rischio. E infatti scompare presto. Ma non subito, come ci si poteva anche aspettare. La versione successiva traduce correttamente “sopra gli impietriti cavalli e alfieri” (in polacco, v. 4), senza però assumersi la responsabilità di reintrodurre la precisazione «degli scacchi», che in francese è implicita. Mette co-
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sì le basi per un indebolimento della parola. Successivamente, in un micro-contesto divenuto semanticamente debole, senza esplicito riferimento agli scacchi, il russo introduce a sua volta la facilior: “sopra sgomenti cavalli e cavalieri” (v. 4). Al di fuori di una partita di scacchi pare questa, infatti, la coppia più accreditata. Torniamo ora al polacco che aveva superato lo scoglio di «aufins». Superarlo non era stato del tutto indolore: aveva comportato infatti una grave perdita di attenzione nella frase collegata, dove il traduttore aveva trasformato «qu’observent avec stupeur» in “impietriti”, facendo cadere un verso. Si era così introdotto l’errore più facile da evitare – infatti è l’unico in tutta la sequenza – e impossibile da correggere perché non riconoscibile: una strofa di sette anziché di otto versi. Perdite irreversibili e quasi immediate, slittamenti progressivi, aggiunte che si fissano nella catena e si trasmettono poi inalterate fino alla fine: sono tutte modalità di allontanamento dall’originale che si possono facilmente riconoscere in queste traduzioni in serie, dove è possibile mettere a nudo, e osservare in maniera quasi sperimentale, la genesi e i meccanismi di trasmissione dell’errore. Vediamo un esempio dove convivono in maniera quasi paradigmatica diverse tipologie. Prendiamo i vv. 12-14 dell’originale: «Là in fondo, / altro stormo si muove: una tregenda / d’uomini che non sa questo tuo incenso». Nella versione finale sono diventati: «Sull’orizzonte una moltitudine / che ignora l’odore del tuo incenso» (vv. 12-13). In apparenza non sembrano troppo lontani. In realtà hanno un senso completamente diverso. «Altro stormo» è – dice Montale nella lettera già ricordata – «la guerra che matura». Per questo usa il termine «tregenda», che indica «pure “moltitudine”, con un più di maleficio diabolico», come spiega Dante Isella nel suo commento.7 Ma questa parola (quasi un tecnicismo che alla lettera significa “convegno notturno di diavoli, di spiriti dannati, di streghe”) si perde subito, in maniera irreversibile. La versione francese suona infatti: «A l’horizon un essaim, hommes / ignorants de ton encens» (vv. 13-14). La «tregenda d’uomini» si è banalizzata a semplice apposizione di «essaim» (“sciame”), che a sua volta comporta un abbassamento della metafora, se non altro per riduzione di dimensioni: da uccelli a insetti. Quasi a compenso si introduce una nuova precisazione, «A l’horizon», che resterà fino alla fine e però traduce solo in apparenza «Là in fondo» di Montale. Le traduzioni successive introducono alcune modifiche: “All’orizzonte folla, gente / che non conosce il tuo incenso” (in polacco, vv.
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12-13), “All’orizzonte una folla, gente / che non conosce il tuo incenso” (in russo, vv. 12-13), “All’orizzonte c’è folla, uomini / che ignorano il profumo del tuo incenso” (in ceco, vv. 12-13), “Sull’orizzonte – folla, uomini / che ignorano l’aroma del tuo incenso” (in bulgaro, vv. 12-13), “All’orizzonte una folla di uomini, / che non conosce il profumo del tuo incenso” (in olandese, vv. 12-13: «Aan de horizon een menigte mensen, / die de geur niet kennen van jouw wierook»), «Am Horizont eine Menschenmenge, / die den Duft nicht kennt deines Weihrauchs» (in tedesco, vv. 12-13), «En el horizonte una muchedumbre / que el olor ignora de tu incienso» (in spagnolo, vv. 12-13). In apparenza si tratta di semplici assestamenti nel sistema: di fatto però indeboliscono ulteriormente il senso di alcune parole e mettono le premesse della loro scomparsa. In particolare la parola “uomini”, divenuta una semplice apposizione, per giunta pleonastica dopo che si è persa la metafora del gruppo animale (“sciame” è stato corretto in “folla”), scompare e riappare sempre più debolmente, a volte solo nell’etimo della parola (“folla, gente”, “folla, uomini”, «een menigte mensen», «eine Menschenmenge», «una muchedumbre»), fino a perdersi definitivamente nella «moltitudine» dell’ultima versione. Tra le perdite più prevedibili si collocano quelle di oggetti e termini legati a realtà locali, ignote al di fuori di una cerchia ristretta. In mancanza di un più ampio contesto e di una informazione specifica al riguardo sono parole candidate naturalmente alla scomparsa. Ma è interessante osservare che la loro scomparsa può anche non seguire un percorso lineare, e magari non essere totale. Facciamo un esempio. Nell’ultima strofa dell’originale è evocata una campana fiorentina, la Martinella («batte il suo fioco / tocco la Martinella», vv. 25-26), che lo stesso Montale mostra di conoscere in maniera approssimativa se ne chiede informazioni a Palazzeschi in data 26 agosto 1939: «Come si chiama la campana di Palazzo Vecchio? La “Martinella”? Una volta mi dicesti qualcosa di simile. Scrivimelo a Sarzana». E infatti il 15 maggio dello stesso anno, inviando a Contini una versione della poesia, si era sentito in dovere di precisare: «La Martinella, come sai, è la campana di Palazzo Vecchio; suona solo, secondo Palazzeschi, per indicare “vituperio”».8 Nelle edizioni a stampa della poesia una nota viene in soccorso del lettore: «Forse non tutti sanno che la Martinella è la campana di Palazzo Vecchio, a Firenze». In effetti non tutti lo sanno. Nella versione francese la Martinella sembra piuttosto una donna che bussa discretamente alla porta: «la
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Martinelle frappe à coups légers» (v. 26); così in polacco, “(la)9 Martinella batte con colpi leggeri” (v. 25). Il russo traduce “(la) Martinella batte con lievi tocchi” (v. 25). Tanto basta perché nel ceco riaffiori l’idea della campana, “lievemente la Martinella risuona” (v. 25), che passa senza mutamento sostanziale al bulgaro: “la Martinella lievemente risuona” (v. 25). L’olandese, senza ragione evidente, trasforma la Martinella in sostantivo comune, «brandklok» (campana d’incendio), con perdita irreparabile del nome proprio: “pian piano batte la campana d’incendio” (v. 25: «zachtjes klept de brandklok»), che il tedesco rispetta alla lettera, «leise läutet die Feuerglocke» (v. 25). Lo spagnolo traduce, a sua volta, «dobla suavemente la campana de incendio» (v. 25), utilizzando un verbo, “doblar”, che si usa per il suono delle campane a morto, evocato probabilmente da un’atmosfera ormai carica di terrore. La strada è aperta alla versione italiana che prosegue in questa direzione: «la campana d’incendio batte dolcemente i suoi cupi rintocchi» (v. 25), dove miracolosamente risuona di nuovo, benché lontanissima, un’eco del «fioco / tocco» della Martinella (vv. 25-26 di Montale). A fronte di tante perdite non mancano recuperi puntuali, che intervengono a sanare un luogo divenuto incomprensibile. Il tentativo di restituire il senso perduto può dare infatti esiti opposti, con una diffrazione di soluzioni: ulteriore allontanamento dall’originale o restauro quasi perfetto. Quest’ultimo si rivela però estremamente fragile nel mutato contesto, destinato per lo più a soccombere a breve termine. Basti qualche esempio. Nella prima strofa, ai vv. 6-8 dell’originale, si legge: «e nuovi anelli / la seguono, più mobili di quelli / delle tue dita», a cui corrisponde il francese: «Suivent d’autres anneaux / plus vifs / que ceux dont s’ornent tes doigts» (vv. 6-8). Limitiamoci all’epiteto riferito agli anelli. Il polacco traduce: “alle sue spalle ancora altri anelli, / più vivaci di quelli, / che ornano le tue dita” (vv. 5-7), seguito dal russo: “dopo di lei ancora altri anelli, / più vivaci di quelli, / che adornano le tue dita” (vv. 5-7). Il ceco modifica lievemente in “e dietro di lei ancora altri anelli / più vivi di quelli / che ornano le tue dita” (vv. 5-7), seguito dal bulgaro: “e dietro di lei anche anelli / più vivi di quelli / che ornano le tue dita” (vv. 5-7). L’olandese introduce un’ulteriore modifica, “e dopo di lei vengono anelli / con più agilità / di quelli che adornano le tue dita” (vv. 5-7: «en achter haar aan komen ringen / met meer beweeglijkheid / dan die juow vingers sieren»), che apre la strada al felice recupero operato dal tedesco: «und ihr nach
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kommen Ringe, / beweglicher, / als die die deine Finger zieren» (vv. 57). «Beweglicher»: “più mobili”, esattamente come in Montale. Ma il restauro è fragilissimo. Non resiste neppure nella versione successiva, «y la siguen anillos / más movidos / que los que adornan tus dedos» (vv. 5-7), che l’italiano traduce: «e la seguono anelli / più agitati / di quelli che adornano le tue dita» (vv. 5-7). Nella stessa strofa il verbo usato per il fumo, «al soffitto lenta sale / la spirale del fumo» (Montale, vv. 3-4), si perde all’altezza del ceco, che traduce: “Una lieve spirale s’innalza” (v. 3), seguito dal bulgaro: “Si innalza una lenta spirale” (v. 3). Lo recupera l’olandese: “Sale una spirale lenta” (v. 3: «Op stijgt een slome spiraal»), che lo trasmette al tedesco («Auf steigt eine träge Spirale», v. 3) e allo spagnolo («Sube una lenta espiral», v. 3). Ma nel contesto ormai mutato, il recupero non può resistere a lungo e si perde proprio nel ritorno all’italiano: «Una lenta spirale s’alza» (v. 3). Che poi si trattasse di fumo, che saliva al soffitto, era già taciuto nel francese, dove si leggeva solo: «Une lente spirale monte» (v. 3). Si potrebbero indicare altri casi, dove la parola dell’originale riemerge brevemente e poi torna a perdersi nella serie. Così «al primo soffio» (vv. 9-11 di Montale: «La morgana che in cielo liberava / torri e ponti è sparita / al primo soffio») passa attraverso la sequenza “respiro” (polacco) / “sospiro” (russo) / “respiro” (ceco), per riaffiorare in bulgaro, “soffio”, e perdersi di nuovo, e per sempre, in olandese, “sospiro” («zucht», v. 8).10 Ma limitiamoci a un ultimo caso, che ha notevoli conseguenze sul piano del significato: l’alternanza “accecare” / “abbagliare” alla fine del testo. In Montale si legge: «che accieca le pedine» (v. 31). Soggetto è lo specchio ustorio. Nel francese («aveuglant», v. 32) e nel polacco (v. 31) resiste lo stesso verbo, ma in russo (v. 31) inizia un processo di affievolimento che introduce l’idea concomitante, ma più debole, di “abbagliare”. “Accecare” riaffora nel ceco (v. 31), resiste nel bulgaro (v. 31) e si riperde nell’olandese (v. 31: «verblindt», “abbaglia”). Il tedesco traduce con «blendet» (“abbaglia”-“accieca”, v. 31), trasmettendo allo spagnolo la possibilità di recuperare il senso più forte. Ma lo spagnolo, non potendo eludere la scelta e in mancanza di altri segnali, opta per il verbo più debole, «deslumbra» (v. 31), e perde definitivamente la parola del testo originario. L’italiano, a sua volta, con assoluta fedeltà, traduce «abbaglia».
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La tipologia delle perdite è varia, come si è visto: ci sono perdite immediate, perdite dilazionate, perdite parziali. Ma non molte sono le parole che resistono: cristallo, tabacco, spirale, cavalli, anelli, dita, torri e ponti, finestra, fumo, incenso, scacchiera, morte, prezzo, sguardo‚ dio, oggi, avorio, luce, solitaria, specchio, occhi d(i) acciaio, e poco altro. In assenza dell’originale, privati di un contesto più ampio, anche i sostantivi più comuni e referenziali sono esposti a un alto rischio d’errore (esemplare il caso di «alfieri» e «pedine»), soprattutto se usati in un senso proprio e metaforico insieme. E le parole che restano hanno assunto ormai significati e valori diversi, come le carte rimescolate per un altro gioco, dove non valgono più le stesse regole. È sempre possibile, naturalmente, incrementare la campionatura che si è fornita e tentare assaggi anche in altre direzioni. Ma qui mi fermo: ognuno potrà prolungare l’esercizio e divertirsi a scoprire altri anelli che non tengono – o che tengono solo in apparenza – nella catena di queste traduzioni. Da quanto si è mostrato, mi pare si possa già concludere che, nel complesso, il bilancio è in perdita: se anche si dànno recuperi puntuali e sporadici, di varia tenuta, si assiste però a uno scarto nel sistema, che si aggrava rapidamente. E si può ragionevolmente ipotizzare che più la catena si allunga, più i punti con perdita irreversibile aumentino, fino all’irriconoscibilità del testo al suo stesso autore, come appunto Montale aveva sospettato. In queste traduzioni in serie accade in effetti qualcosa di non troppo diverso da quello che succede con le copie di un’opera d’arte: la prima, tratta dall’originale, è quasi identica, ma contiene alcune minime aggiunte e modifiche che trasmette alla successiva. Questa introduce a sua volta altre minime variazioni rispetto a quella che la precede e le trasmette oltre. E così via fino ad arrivare a una copia in cui resta solo una vaga, quasi parodica somiglianza con l’opera di partenza. L’esercizio che si è proposto in questo libretto è iterabile a piacere. E anche modificabile. Ci si può chiedere, per esempio, quali sarebbero stati i risultati se l’ordine di traduzione fosse stato diverso. Se per esempio la prima versione fosse stata non in arabo, bensì in una lingua vicina all’italiano e poi in altre lingue sempre più lontane. O come sarebbe stato se tutti avessero tradotto dall’originale. È quello che aveva tentato il Foscolo nel 1807, stampando nell’Esperimento di traduzione della Iliade la propria versione del primo libro, accompagnata da quella in prosa del Cesarotti e da quella in versi del Monti. Ci si può anche chiedere cosa sarebbe successo se tutti aves-
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sero tradotto direttamente dall’originale, ma senza sapere il nome dell’autore, come accadeva nelle versioni scolastiche (dal greco, dal latino o da una lingua moderna) quando veniva proposto un passo estrapolato dal contesto, senza nome d’autore e senza altri riferimenti. Come molti hanno amaramente sperimentato, il rischio d’errore era altissimo, anche a conoscere bene le regole della grammatica. Bastava sbagliare all’inizio, nella scelta tra i possibili significati di una parola, per infilarsi in un labirinto sempre più intricato, cercando disperatamente di ritrovare la direzione perduta: recuperabile solo grazie al dio del caso o dell’azzardo, quando assisteva. Quelle che ho suggerito sono varianti dello stesso esperimento, a cui è possibile sottoporre altri testi. Ma già le versioni qui raccolte possono prestarsi ad altri tipi di indagine. Sarebbe interessante, per esempio, confrontare queste traduzioni – o altre costruite secondo lo stesso protocollo – con traduzioni della stessa poesia allestite in condizioni di normalità, eventualmente già pubblicate. Ma ora chiudiamo su una domanda semplice e un po’ provocatoria: dopo questo trattamento cosa resta della poesia di Montale? Era a priori scontato che andasse perduta, oltre la metrica, la straordinaria ricchezza fonosimbolica dell’originale: giocata su una sofisticata trama di rime, di allitterazioni, di assonanze, e legata irrimediabilmente alla materialità dello strumento linguistico adottato. Ma a ben guardare – scavando oltre l’apparente e illusoria fedeltà a singole parole, cercando tra i frammenti sopravvissuti o recuperati a distanza ma ormai estraniati dal loro contesto – quello che si è perso è in realtà molto di più. Inviando a Contini una versione dattiloscritta di questi versi, il 15 maggio 1939, l’autore così ne sintetizzava il senso: «potrebbero intitolarsi “Amore, scacchi e vigilia di guerra”».11 Alla fine del lungo e accidentato percorso sotterraneo, quando la poesia riemerge finalmente in lingua italiana, di questi tre elementi ne sono rimasti due, gli scacchi e la vigilia di guerra. Della donna salvatrice – unica in grado di opporre il suo sguardo fermo e preveggente alla follia della guerra imminente, i suoi occhi d’acciaio allo specchio ustorio che accieca la maggioranza degli uomini – non resta neppure una labile traccia. È scomparsa lei, «donna o nube, angelo o procellaria», a cui il poeta si era affidato, proiettandola, sono sue parole, «sullo sfondo di una guerra cosmica e terrestre, senza scopo e senza ragione».12 Il suo ruolo salvifico e protettore è svanito al primo soffio, come «la morgana che in cielo liberava /
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torri e ponti» (vv. 9-10). Il gioco degli scacchi tra i due amanti è diventato una partita feroce, in cui la posta in gioco è la vita stessa, contro un avversario impietoso a cui non è quasi possibile resistere: contro un essere che abbaglia con lo specchio incandescente dei suoi occhi d’acciaio e sembra incarnare il destino più implacabile. Basilea, agosto 1999 MARIA ANTONIETTA TERZOLI
1 Le diverse varianti della storia sono analizzate nel capitolo VII, Experiments on Remembering. The Method of Serial Reproduction, alle pp. 118-176 nella ristampa del 1977. 2 E. MONTALE, Choix de poèmes, Traduit de l’italien par S.D. Avalle et S. Hotelier, Introduction de G. Contini, Editions du Continent, Genève 1946; Eugenio Montale traduit par P.J. Jouve, 8 dessins par G. Schneider, Scheiwiller, Milano 1966. 3 Lo si veda in U. FOSCOLO, Tragedie e poesie minori, a cura di G. Bézzola, Edizione Nazionale delle Opere, Le Monnier, Firenze 1961, II, p. 446. La citazione precedente è estratta dall’Esperimento di traduzione della Iliade di Omero, per Nicolò Bettoni, Brescia 1807, p. III, da cui deriva anche la frase citata in exergue, p. 120 (ed. anastatica, a cura di A. Bruni, Edizioni Zara, Parma 1989). 4 I nuovi idillj di Gessner in versi italiani con una lettera del medesimo sul dipingere di paesetti, Traduzione del P. F. Soave C.R.S., Edizione seconda con alcuni idillj del traduttore, Dalla Tipografia Patria, Vercelli 1784, p. 9. 5 Un altro esempio può essere quello dei vv. 20-22, «follìa di morte non si placa a poco / prezzo, se poco è il lampo del tuo sguardo», che riemerge nella versione italiana finale ai vv. 19-20: «Neppur d’un passo cede la pazzia dinnanzi alla morte, per un prezzo modico / – che le importa il luccichìo clemente del tuo sguardo? –». 6 In L. GRECO, Montale commenta Montale, Pratiche Editrice, Parma 1980, p. 38. 7 Cfr. E. MONTALE, Le occasioni, a cura di D. Isella, Einaudi, Torino 1966, pp. 202-207. 8 Le due lettere sono parzialmente citate in E. MONTALE, L’opera in versi, Edizione critica a cura di R. Bettarini e G. Contini, Einaudi, Torino 1980, p. 933. 9 Indecidibile senza altre informazioni. Così nella citazione successiva. 10 Si veda anche la traduzione di «impaura» (v. 26 di Montale), con l’oscillazione “fremono” / “tremano”, e l’alternanza “caso” / “azzardo” per «dio / del caso» (vv. 23-24 di Montale). 11 Cfr. E. MONTALE, L’opera in versi..., p. 933. 12 Cfr. Intenzioni (Intervista immaginaria), in E. MONTALE, Sulla poesia, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano 1976, pp. 561-569; la citazione è a p. 568, dove si precisa: «Il motivo era già contenuto e anticipato nelle Nuove Stanze, scritte prima della guerra».
EUGENIO MONTALE DA LE OCCASIONI
NUOVE STANZE
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Poi che gli ultimi fili di tabacco al tuo gesto si spengono nel piatto di cristallo, al soffitto lenta sale la spirale del fumo che gli alfieri e i cavalli degli scacchi guardano stupefatti; e nuovi anelli la seguono, più mobili di quelli delle tue dita. La morgana che in cielo liberava torri e ponti è sparita al primo soffio; s’apre la finestra non vista e il fumo s’agita. Là in fondo, altro stormo si muove: una tregenda d’uomini che non sa questo tuo incenso, nella scacchiera di cui puoi tu sola comporre il senso. Il mio dubbio d’un tempo era se forse tu stessa ignori il giuoco che si svolge sul quadrato e ora è nembo alle tue porte: follìa di morte non si placa a poco prezzo, se poco è il lampo del tuo sguardo, ma domanda altri fuochi, oltre le fitte cortine che per te fomenta il dio del caso, quando assiste. Oggi so ciò che vuoi; batte il suo fioco tocco la Martinella ed impaura le sagome d’avorio in una luce spettrale di nevaio. Ma resiste e vince il premio della solitaria veglia chi può con te allo specchio ustorio che accieca le pedine opporre i tuoi occhi d’acciaio.
LE TRADUZIONI
DALL’ORIGINALE ITALIANO IN ARABO
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DALL’ORIGINALE ITALIANO IN ARABO
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DALL’ARABO IN FRANCESE
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Au fond de la coupe de cristal, le dernier brin de ton tabac. Une lente spirale monte, qu’observent avec stupeur cavaliers et aufins. Suivent d’autres anneaux plus vifs que ceux dont s’ornent tes doigts. Au premier souffle s’est évanoui le mirage qui traçait dans le ciel les tours et les ponts. Quelque part une fenêtre s’ouvre, la fumée tressaille. A l’horizon un essaim, hommes ignorants de ton encens, sur l’échiquier toi seule sait disposer le jeu. Naguère je doutais de ta maîtrise des règles du mouvement sur ce carré, nuage ténébreux désormais à ta porte. La folie de la mort ne cède point au prix doux – mais est-il doux l’éclat de ton regard; elle réclame un autre feu, là derrière l’épais rideau qu’agite pour toi le dieu du hasard, s’il est. Aujourd’hui je connais ton dessein, la Martinelle frappe à coups légers, les figures d’ivoire frémissent à la lumière de mon spectre – colline enneigée. Pourtant l’honneur de la veille solitaire est à qui affronte le miroir ardent de tes yeux d’acier aveuglant les témoins sur l’échiquier.
DAL FRANCESE IN POLACCO
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DAL FRANCESE IN POLACCO
Sul fondo della coppa di cristallo / l’ultimo filo d’erba del tuo tabacco. / Una lenta spirale sale / sopra gli impietriti cavalli e alfieri, / alle sue spalle ancora altri anelli, / più vivaci di quelli, / che ornano le tue dita. Al primo respiro si disperse / l’illusione che disegnava nel cielo / torri e ponti. / Da qualche parte di là, si apre una finestra, il fumo tremò. / All’orizzonte folla, gente / che non conosce il tuo incenso. / Sulla scacchiera tu sola / sei capace di sciogliere il gioco. Poco tempo fa dubitavo / delle tue capacità di muoverti su questo quadrato. / Da allora una nuvola scura alla tua porta. / L’allucinazione della morte non cede affatto a causa d’un dazio tenue / – però, sono tenui i bagliori del tuo sguardo? – / Lei chiede un nuovo sacrificio, di là / della tenda pesante, che muove per / te il dio del caso, se esiste. Oggi conosco la tua intenzione, / (la) Martinella batte con colpi leggeri, / le figurine d’avorio tremano / nella luce del mio fantasma – della collina coperta di neve. / Però, l’onore della vigilanza solitaria / appartiene a quello che si ferma / davanti all’ardente specchio dei tuoi occhi d’acciaio, / accecanti i testimoni sul campo della scacchiera.
DAL POLACCO IN RUSSO
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DAL POLACCO IN RUSSO
Nel fondo della coppa di cristallo / l’ultima presa del tuo tabacco. / Una spirale lenta sale / sopra sgomenti cavalli e cavalieri, / dopo di lei ancora altri anelli, / più vivaci di quelli / che adornano le tue dita. Con il primo sospiro è svanita / l’illusione che tracciava al cielo / torri e ponti. / Là da qualche parte si apre una finestra, tremò il fumo. / All’orizzonte una folla, gente, / che non conosce il tuo incenso. / Sulla scacchiera tu sola / sai scatenare il gioco. Ancora poco tempo fa avevo dei dubbi / sulle tue capacità di muoverti in questo quadrato. / Da allora c’è una nuvola scura alle tue porte. / La follìa non cede affatto la (alla) morte per un prezzo modico / – ma c’è o non c’è il benevolo fulgore del tuo sguardo? – / Esige nuove vittime, di là / dal di dietro della cortina pesante che muove / per te il dio del caso, se esiste. Oggi conosco la tua intenzione, / (la) Martinella batte con lievi tocchi, / le figurine di avorio tremano / nel flusso di luce del mio fantasma – di questa cima coperta di neve. / E tuttavia l’onore di una vigilanza solitaria / è dovuto a colui che si ferma / davanti all’ardente specchio dei tuoi occhi d’acciaio, / che abbagliano i testimoni sul campo degli scacchi.
DAL RUSSO IN CECO
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DAL RUSSO IN CECO
Sul fondo della cristallina coppa / giace l’ultimo pizzico del tuo tabacco. / Una lieve spirale s’innalza / sugli storditi cavalli e cavalieri / e dietro di lei ancora altri anelli / più vivi di quelli / che ornano le tue dita. Col primo respiro si scioglieva / l’illusione che in cielo dipingeva / torri e ponti. / Là da qualche parte si apre una finestra, ha avuto un fremito il fumo. / All’orizzonte c’è folla, uomini / che ignorano il profumo del tuo incenso. / Tu sola sulla scacchiera (sullo scacchistico campo) / sei in grado di infiammare il gioco. Ancora recentemente ho dubitato / della tua capacità di muoverti in questo quadrato. / Da quel tempo presso le tue porte si accumula una nera nuvola. / La follia non cede neppure di un palmo alla morte, per un conveniente prezzo / – cos’è il grazioso lampo del tuo sguardo? – / esige nuove vittime / di sotto il pesante sipario che per te solleva / il dio del caso, se c’è uno tale. Oggi so cosa stai pensando, / lievemente la Martinella risuona, / le figurine d’avorio (di elefantino osso) fremono / nel diluvio di luce del mio fantasma, della mia nevosa cima. / Eppure bisogna onorare la solitaria veglia / di colui che resta in piedi / di fronte all’ardente specchio dei tuoi di acciaio occhi / accecanti i testimoni sulla scacchiera (sullo scacchistico campo).
DAL CECO IN BULGARO
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DAL CECO IN BULGARO
Sul fondo della cristallina coppa / giace l’ultimo pizzico del tuo tabacco. / Si innalza una lenta spirale / sugli storditi cavalli e cavalieri / e dietro di lei anche anelli / più vivi di quelli / che ornano le tue dita. Col primo soffio si scioglie / l’illusione che disegnava sul cielo / ponti e torri. / Là da qualche parte si apre una finestra, ha avuto un fremito il fumo. / Sull’orizzonte – folla, uomini / che ignorano l’aroma del tuo incenso. / Sulla scacchiera (sullo scacchistico campo) unica tu / riesci ad infiammare il gioco. Fino a poco tempo fa ancora dubitavo / della tua capacità di dominare il quadrato. / Da allora una nera nuvola si raccoglie accanto alla tua porta. / Neanche un palmo la follia cederà alla morte, per un conveniente prezzo / – cos’è davanti a lei il pietoso lampo del tuo sguardo? – / esige nuove vittime / di sotto al pesante sipario che per te solleva / il dio del caso, se ce n’è uno tale. Oggi so cosa stai pensando / la Martinella lievemente risuona / le figurine d’avorio (di elefantino osso) fremono / nel flusso di luce del mio fantasma, della mia nevosa cima. / Eppure che sia onorata la solitaria veglia / di colui che resiste / di fronte al bruciante specchio dei tuoi d’acciaio occhi / accecanti i testimoni sulla scacchiera (sullo scacchistico campo).
DAL BULGARO IN OLANDESE
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Op de bodem van de kristallen schaal ligt een laatste pluk van jouw tabak. Op stijgt een slome spiraal over perplexe pionnen en paarden en achter haar aan komen ringen met meer beweeglijkheid dan die jouw vingers sieren. Met de eerste zucht vervliegt die illusie, die aan de hemel bruggen en torens tekende. Daar gaat er een raam open, siddert de rook. Aan de horizon een menigte mensen, die de geur niet kennen van jouw wierook. Op het schaakbord ben jij de enige, die vuur in het spel weet te brengen.
Tot voor kort nog twijfelde ik aan je vermogen het vierkant te beheersen. Sindsdien trekt zwarte duisternis op voor jouw deur. Geen duimbreed wijkt de gekheid voor de dood, [voor een zachte prijs 20 – Wat is voor haar de genadige glans van jouw blik? – selecteert zij nieuwe slachtoffers vanachter het zware doek, dat achter jou wordt opgetrokken door de god van de toeval, als die bestaat.
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Vandaag weet ik wat je van plan bent, zachtjes klept de brandklok, de ivoren figuurtjes gaan trillen in de vloed van licht op mijn schim, op mijn blanke top. En toch, laat de eer aan de eenzame wake van hem, die weerstand biedt aan de withete spiegel van jouw stalen ogen, die de getuigen verblindt op het schaakbord.
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DAL BULGARO IN OLANDESE
Nel fondo della coppa di cristallo / c’è un’ultima presa del tuo tabacco. / Sale una spirale lenta / sopra pedine e cavalli perplessi / e dopo di lei vengono anelli / con più agilità / di quelli che adornano le tue dita. Con il primo sospiro svanisce / l’illusione che tracciava al cielo / ponti e torri./ Ecco che si apre una finestra, trema il fumo. / All’orizzonte una folla di uomini, / che non conosce il profumo del tuo incenso. / Sulla scacchiera tu sei solo (sola) / a saper infocare il gioco. Fino a poco fa avevo dei dubbi / sulla tue capacità di dominare il quadrato. / Da allora un’oscurità nera sale davanti alla tua porta. / Nemmeno un pollice la follìa cede davanti alla morte, per un prezzo modico, / – che cos’è per lei il benevolo fulgore del tuo sguardo? – / seleziona nuove vittime / dal di dietro del drappo pesante che è alzato dietro di te / dal dio del caso, se esiste. Oggi so che cosa intendi fare, / pian piano batte la campana d’incendio, / le figurine d’avorio stanno per tremare / nel flusso di luce sul mio viso, sulla mia lucida cima. / Eppure, lascia l’onore alla vigilanza solitaria / di colui che resiste / all’incandescente specchio dei tuoi occhi d’acciaio, / che abbaglia i testimoni sulla scacchiera.
DALL’OLANDESE IN TEDESCO
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Auf dem Boden der Kristallschale liegt ein letztes Büschel deines Tabaks. Auf steigt eine träge Spirale über perplexe Bauern und Pferde und ihr nach kommen Ringe, beweglicher, als die die deine Finger zieren. Mit dem ersten Seufzer verfliegt die Illusion, die am Himmel Brücken und Türme zeichnete. Da geht ein Fenster auf, es zittert der Rauch. Am Horizont eine Menschenmenge, die den Duft nicht kennt deines Weihrauchs. Auf dem Schachbrett bist du der Einzige, der Feuer ins Spiel zu bringen weiss. Vor kurzem noch zweifelte ich an deiner Fähigkeit, das Viereck zu beherrschen. Seither zieht schwarze Dunkelheit vor deiner Tür auf. Kein Zoll weicht die Tollheit vor dem Tod, [gegen einen milden
Preis 20 – was ist für sie schon der gnädige Glanz deines Blicks? – wählt sie neue Opfer hinter dem schweren Tuch hervor, das hinter dir hochgezogen wird vom Gott des Zufalls, wenn es ihn gibt. Heute weiss ich, was du vorhast, leise läutet die Feuerglocke, die elfenbeinernen Figuren erzittern in der Flut von Licht auf meinem Antlitz, auf meiner blanken Spitze. 25
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Und dennoch, lass die Ehre der einsamen Wache dessen, der Widerstand bietet dem weissglühenden Spiegel deiner stählernen Augen, der die Zeugen blendet auf dem Schachbrett.
DAL TEDESCO IN SPAGNOLO
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En el fondo de la copa de cristal quedan las últimas hebras de tu tabaco. Sube una lenta espiral, sobre peones y caballos perplejos, y la siguen anillos más movidos que los que adornan tus dedos. Con el primer suspiro se desvanece la ilusión que en el cielo dibujaba puentes y torres. Una ventana se abre, tiembla el humo. En el horizonte una muchedumbre que el olor ignora de tu incienso. En el tablero de ajedrez eres el único que sabe meter fuego en la partida.
Hace poco dudaba aún de tu capacidad de dominar el cuadrado. Desde entonces una negra oscuridad se levanta ante tu puerta. Ni una pulgada cede la locura ante la muerte, [por un precio modesto 20 – ¿qué le importa el brillo clemente de tu mirada? – elige nuevas víctimas de detrás de la tela pesada, alzada a tus espaldas por el dios del azar, si existe. Hoy conozco tu intención, dobla suavemente la campana de incendio, se estremecen las piezas de marfil en el derroche de luz en mi rostro, en mi punta reluciente. Y sin embargo, deja el honor a la solitaria guardia 25
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del que opone resistencia al espejo candente de tus ojos de acero que deslumbra a los testigos en el tablero.
DALLO SPAGNOLO IN ITALIANO
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Sul fondo della coppa di cristallo restano ancora le ultime fibre del tuo tabacco. Una lenta spirale s’alza, sopra pedine e cavalli perplessi e la seguono anelli più agitati di quelli che adornano le tue dita. Con il primo sospiro svanisce l’illusione che in cielo disegnava ponti e torri. Una finestra s’apre, tremola il fumo. Sull’orizzonte una moltitudine che ignora l’odore del tuo incenso. Sulla scacchiera sei tu il solo che sa mettere fuoco nella sfida. Pocanzi dubitavo ancora della tua capacità di dominare il quadrato. Da allora una cupa oscurità si leva davanti alla tua por-
ta.
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Neppur d’un passo cede la pazzia dinnanzi alla morte, [per un prezzo modico – che le importa il luccichìo clemente del tuo sguardo? – sceglie nuove vittime da dietro il pesante sipario teso alle tue spalle dal dio dell’azzardo, se mai esiste.
Oggi conosco le tue intenzioni, 25 la campana d’incendio batte dolcemente i suoi cupi rintocchi, fremono le figure d’avorio nello sperpero di luce sul mio volto, sulla mia punta rilucente. E tuttavia, lascia l’onore alla solitaria vigilia
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di chi oppone resistenza allo specchio incandescente dei tuoi occhi di acciaio, che abbaglia i testimoni sul quadrato.
I TRADUTTORI
Dall’originale italiano in arabo Dall’arabo in francese Dal francese in polacco Dal polacco in russo Dal russo in ceco Dal ceco in bulgaro Dal bulgaro in olandese Dall’olandese in tedesco Dal tedesco in spagnolo Dallo spagnolo in italiano
Mahmoud Salem Elsheikl Claude Krul Richard Warczyk Wanda Gasperowicz Sylvie Richterová Doriana Popova Dell’Agata William R. Veder Johanna Miecznikowski-Fünfschilling Marco Kunz Anna Laura Puliafito
Versioni letterali in italiano Dal polacco Dal russo Dal ceco Dal bulgaro Dall’olandese
Klara Stracˇuk Johanna Miecznikowski-Fünfschilling Doriana Popova Dell’Agata Doriana Popova Dell’Agata Johanna Miecznikowski-Fünfschilling