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PIETRO COMESTORE LA GENESI
CORPVS CHRISTIANORVM IN TRANSLATION
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CORPVS CHRISTIANORVM Continuatio Mediaeualis CXCI
PETRI COMESTORIS SCOLASTICA HISTORIA LIBER GENESIS
EDIDIT Agneta SYLWAN
TURNHOUT
FHG
PIETRO COMESTORE LA GENESI
Introduzione, traduzione e note a cura di Gaia LAZZARINI
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F
Supervisione accademica Paolo Chiesa e Rossana Guglielmetti
©2018, Brepols Publishers n.v., Turnhout, Belgium All rights reserved. No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means, electronic, mechanical, photocopying, recording, or otherwise without the prior permission of the publisher.
D/2018/0095/104 ISBN 978-2-503-57596-4 eISBN 978-2-503-57597-1 DOI 10.1484/M.CCT-EB.5.113374 ISSN 2034-6557 eISSN 2565-9421 Printed on acid-free paper.
INDICE GENERALE
Introduzione 9 Autore e opera 9 Pietro Comestore: vita e opere 9 L’Historia Scholastica: genesi, fortuna, tradizione manoscritta, edizioni 13 Historia Scholastica − La Genesi 20 Fisionomia dell’opera: configurazione strutturale e stilistica 20 Tipologie di esegesi 25 Fonti 39 Nota al testo e alla traduzione 55 Bibliografia 59 Fonti primarie 59 Fonti secondarie 63 Pietro Comestore Historia scholastica 65 Prologo epistolare 65 Prefazione 67 La Genesi 1. Il primo atto della creazione: cielo e terra 2. La primordiale confusione del mondo 3. L’opera del primo giorno 4. L’opera del secondo giorno 5. L’opera del terzo giorno 6. L’opera del quarto giorno 7. L’opera del quinto giorno 8. L’opera del sesto giorno 9. La creazione dell’uomo 10. Viene istituita l’unione coniugale tra uomo e donna
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Indice generale
11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. 31. 32. 33. 34. 35. 36. 37. 38. 39. 40. 41. 42. 43. 44. 45. 46. 47.
Il riposo del sabato e la sua santificazione Riepilogo dopo l’opera dei sette giorni La creazione del primo uomo Il paradiso e i suoi alberi I quattro fiumi del paradiso L’ordine e il divieto Vengono creati gli altri esseri viventi e viene imposto a ciascuno un nome La creazione della donna I nomi della donna La profezia di Adamo La condizione umana prima del peccato La tentazione Il frutto viene mangiato: la condizione umana dopo il peccato Le maledizioni: al serpente, all’uomo e alla donna L’espulsione dell’uomo e della donna dal paradiso, e la spada di fuoco La discendenza di Adamo Le offerte dei fratelli La morte di Abele La discendenza di Caino Seth e la sua discendenza Si inserisce un riepilogo La causa del diluvio L’arca di Noè e il diluvio L’ingresso nell’arca Quando Noè entrò nell’arca Il diluvio L’uscita di Noè e l’arcobaleno L’ubriacatura di Noè e la maledizione a Cam La dispersione dei figli di Noè La torre di Babele La genealogia di Sem La morte di Thare La chiamata di Abram L’arrivo di Abram nella terra di Chanaan La discesa di Abram in Egitto e il suo ritorno La vittoria di Abram e l’incontro con Melchisedech L’origine dell’anno giubilare
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Indice generale
48. La promessa fatta ad Abram 154 49. Agar partorisce un figlio 157 50. Ad Abram viene mutato il nome 159 51. I tre angeli ospitati da Abramo 161 52. La distruzione di Sodoma 163 53. La liberazione di Lot da Sodoma 165 54. Le figlie di Lot concepiscono 167 55. La punizione inflitta ad Abimelech a causa di Sara 168 56. Il gioco di Isacco e Ismaele 171 57. Il patto tra Abramo e Abimelech 172 58. Il sacrificio di Isacco 173 59. La morte di Sara 176 60. Eliezer 177 61. L’arrivo di Rebecca 179 62. Abramo muore dopo aver generato una prole da Cethura180 63. La nascita dei regni1 181 64. La morte di Ismaele 183 65. Il travaglio di Rebecca durante il parto dei gemelli 183 66. Esaù vende la primogenitura 186 67. Isacco scende a Gerar 188 68. Le mogli di Esaù 190 69. Le benedizioni a Giacobbe 191 70. Il sogno di Giacobbe durante la sua fuga in Mesopotamia 193 71. Le due mogli di Giacobbe 195 72. I quattro figli di Lia e i figli delle serve 197 73. Gli altri figli di Lia e la nascita di Giuseppe 198 74. I differenti colori delle verghe e dei cuccioli 199 75. La fuga di Giacobbe e il patto stretto con Labano 203 76. I doni inviati a Esaù 206 77. La lotta di Giacobbe contro l’angelo e il mutamento del suo nome 207 78. L’incontro con Esaù e l’acquisto di un campo in Sichem 208 79. La morte dei Sichimiti per il rapimento di Dina 209 80. Rachele muore mentre dà alla luce Beniamino 211 81. La morte di Isacco e i re di Edom 212 82. Giuseppe viene venduto 216 83. Giuseppe entra in Egitto 220 84. Giuda genera Phares e Zaram da Thamar 221 85. Giuseppe viene incarcerato 223
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Indice generale
86. Il coppiere e il fornaio espongono i loro sogni 224 87. La promozione di Giuseppeper aver interpretato il sogno del Faraone 225 88. I fratelli di Giuseppe entrano in Egitto senza Beniamino 227 89. I fratelli di Giuseppe fanno ritorno dal padre 228 90. I fratelli entrano in Egitto 230 91. Giuseppe si palesa ai propri fratelli 231 92. Israele scende in Egitto 232 93. Giuseppe va incontro al padre e lo presenta al re 234 94. L’istituzione del precetto sulla quinta parte del raccolto 236 95. Il giuramento prestato da Giuseppe al padre 236 96. La benedizione a Effraim e Manasse 237 97. Le benedizioni alle tribù 238 98. Ruben 239 99. Simeone e Levi 239 100. Giuda 240 101. Zabulon 243 102. Isachar 243 103. Dan 243 104. Gad 244 105. Aser 245 106. Neptalim 245 107. Giuseppe 245 108. Beniamino 248 109. Giacobbe muore e viene trasportato a Hebron 249 110. La morte di Giuseppe 251 Note di commento
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Indici Indice delle fonti bibliche Indice delle fonti non bibliche Indice dei nomi Indice dei luoghi
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INTRODUZIONE
Autore e opera Pietro Comestore: vita e opere Per quanto controversa sia la vulgata prevalente che lo vorrebbe soprannominato Comestor («il Divoratore») o Manducator («il Mangiatore») a motivo della sua fama di erudito voracissimo di letture e di studi1, Pietro fu senza dubbio tra gli esponenti di primo piano nel panorama culturale del XII secolo e, segnatamente, tra quelli destinati a lasciare un’eredità duratura anche in epoca posteriore. Scarne, per lo più non contemporanee all’autore e quasi mai in accordo tra loro, le notizie biografiche di cui disponiamo consentono comunque di individuare i momenti nodali della sua vita e della Dal latino classico comedĕre («divorare») o dal latino tardo manducare («mangiare»). Qualche studioso ravvisa invece in Comestor un nome di famiglia diffuso nella regione della Champagne nel XII secolo: in particolare, lo si vorrebbe legato in rapporti di parentela con tale Guido Comestor, menzionato in un elenco dei vassalli del conte di Champagne intorno al 1172. Altri, più marginalmente, ipotizzano addirittura una discendenza dalla famiglia Mangiatore di San Miniato in Toscana. Cfr. Daly, ‘Peter Comestor: Master of Histories’, p. 62-63; Morey, ‘Peter Comestor, Biblical Paraphrase’, p. 10; Petr. Comest., Hist. Schol. − ed. A. Sylwan, p. x. Anche a voler ammettere che Comestor/Manducator sia un gentilizio, è certo che l’appellativo dovette assai presto – forse già vivente il nostro autore – assurgere a designazione antonomastica, in riferimento all’erudizione smisurata: non pare un caso che l’epitaffio di Pietro, verosimilmente da lui stesso composto, giochi con il nome di Comestor alludendo in termini espliciti proprio all’etimologia dal verbo comedĕre (cfr. infra). 1
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Introduzione
sua attività2. Pietro nacque intorno al 1100 nella regione francese della Champagne, presumibilmente nella stessa Troyes – cittadina a sud-est di Parigi e allora fiorente centro di studi3 – dove trascorse la parte iniziale della sua vita. Qui portò a termine i primi studi presso una delle scuole cattedrali (incerto se quella dell’abbazia di San Lupo o di San Pietro); nel frattempo, ebbe modo di ascoltare a Parigi l’insegnamento di Pietro Lombardo e, forse, anche di Pietro Abelardo. Entrato poi a far parte dell’ordine dei canonici del capitolo di Troyes, intorno al 1145 ottenne il titolo onorifico di decanus Trecensis («decano di Troyes») che mantenne a vita4. Del successivo e definitivo spostamento di Pietro a Parigi si ignorano tanto l’anno quanto le motivazioni effettive: è tuttavia comprensibile come la città, a quell’epoca centro d’irradiamento della cultura europea, potesse esercitare una forte attrattiva sugli intellettuali e, anzi, si premurasse di reclutare quelli di maggior calibro. Come che sia, Pietro dovette in un primo momento dedicarsi all’insegnamento della teologia presso uno o più studia parigini, 2 Tra le testimonianze coeve all’autore, la più parte sono documenti ufficiali dei capitoli cattedrali in cui egli svolse la propria attività. Si conservano inoltre tre epistole di datazione coeva: due sono databili alla fine degli anni ’40 e indirizzate dal segretario di Bernardo di Clairvaux allo stesso Pietro Comestore, allora decano di Troyes; nella terza, del 1777-78, il cardinale Pietro di San Crisogono così scrive al papa a proposito del nostro autore: literaturam et honestatem magistri Petri Manducatoris, decani Trecensis, vos non credimus ignorare («non crediamo che voi ignoriate l’erudizione e l’integrità morale del maestro Pietro Mangiatore, decano di Troyes»). Per il resto, non disponiamo che di sporadici riferimenti, ad opera di cronachisti o compilatori di biografie vissuti in epoca posteriore (spesso dipendenti gli uni dagli altri e, tuttavia, mai in completo accordo tra loro). Tra i tentativi di ricostruzione della biografia di Pietro Comestore, il più puntualmente documentato ci è parso Daly, ‘Peter Comestor: Master of Histories’: si rimanda in particolare a questo lavoro per tutti i riferimenti documentari sottesi alla presente trattazione. Cfr. anche, con relativa bibliografia, Petr. Comest., Hist. Schol. − ed. A. Sylwan, p. x-xiii; Morey, ‘Peter Comestor, Biblical Paraphrase’, p. 6-16. 3 Sede, tra l’altro, di una prestigiosa scuola rabbinica i cui membri, secondo taluni studiosi, potrebbero essere stati in contatto diretto con Pietro Comestore: cfr. § Fonti. 4 Come tale egli è menzionato in qualche documento ufficiale tuttora conservato: il più antico, sebbene sia dubbio che il Petrus decanus ivi menzionato sia proprio Pietro Comestore, data al 1145; il più recente è la già citata epistola di Pietro di San Crisogono del 1177-8, periodo assai prossimo alla data presunta della morte di Pietro (cfr. infra).
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Introduzione
verosimilmente Notre Dame e/o San Vittore. È certo che, intorno alla metà degli anni ’60, egli ricevette la nomina, che mantenne a vita, di cancellarius («cancelliere») del capitolo di Notre Dame5: incarico di grande responsabilità e di non indifferente prestigio. Il cancellarius era anzitutto il responsabile a capo dell’attività di produzione dei documenti ufficiali di un capitolo cattedrale (la «cancelleria» appunto), il detentore e garante del sigillo, nonché la figura deputata ad apporre la sottoscrizione in calce. In aggiunta, gli spettava il ruolo di supervisore dell’attività di insegnamento che si svolgeva presso lo studium della cattedrale; nel caso specifico del cancellarius di Notre Dame, anche la supervisione dell’insieme degli studia dell’intera diocesi parigina: in tale funzione, egli esercitava la prerogativa di poter concedere (o revocare) la cosiddetta licentia docendi (lett. «permesso di insegnare») indispensabile per poter svolgere ufficialmente qualsivoglia attività d’insegnamento in àmbito cattedrale. È probabile che, dopo pochi anni dalla prestigiosa nomina, Pietro abbia abdicato alla cattedra di teologia, rinunciando dunque all’insegnamento per occuparsi esclusivamente del cancellierato6. Fu forse in quest’occasione che si ritirò nell’abbazia di San Vittore, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita, circa i quali ben poco si sa: intorno al 1171-2, Pietro avrebbe ricevuto la visita di Guglielmo detto “il Manibianche”, potente arcivescovo di Sens e dedicatario dell’Historia Scholastica (cfr. Prologo), recatosi a San Vittore per un’ispezione su commissione papale7. Tra i documenti ufficiali conservati del capitolo di Notre Dame, l’ultimo sottoscritto dal suo predecessore data al 1164. Il primo a recare la sottoscrizione data per manum Petri cancellari («emanata di persona dal cancelliere Pietro») data al 1168 e l’ultimo al 1178. 6 Ciò avvenne forse nel 1169: anno in cui, secondo quanto riporta la cronaca redatta dal monaco Alberico delle Tre Fontane nella prima metà del XIII secolo, Pietro di Poitiers sarebbe succeduto a Pietro Comestore nella cattedra di teologia (Anno MCLXIX. Parisius post Magistrum Petrum Manducatorem Magister Petrus Pictavensis cathedram tenuit Theologicam: «Anno 1169. A Parigi, dopo il maestro Pietro Mangiatore, il maestro Pietro di Poitiers detenne la cattedra di Teologia»). Nei documenti ufficiali di Notre Dame, tuttavia, Pietro Comestore continuò ad essere indicato al contempo quale magister e cancellarius. 7 In Petr. Comest., Hist. Schol. − ed. A. Sylwan, p. xii, l’editrice ipotizza che proprio in quest’occasione Pietro avrebbe presentato l’opera conclusa a Guglielmo: 5
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Introduzione
Ignoto è anche l’anno della morte di Pietro Comestore, da collocarsi comunque poco prima o poco dopo il 11808: i soli dati certi sono che fu sepolto nella cattedrale di San Vittore, a sinistra dell’altare maggiore e accanto alla tomba di Ugo di San Vittore9, e che sulla sua lapide figurava un epitaffio funebre in esametri (ancora visibile nel XIX secolo) che, secondo la testimonianza di alcuni manoscritti, sarebbe stato composto dallo stesso Pietro. In questi quattro versi – che si aprono con un brillante gioco di parole su entrambi i propri nomi, Petrus e Comestor, collocati specularmente agli estremi del primo verso – il nostro autore rivendica per sé, anche post mortem e sia pure in altro contesto, quel ruolo di magister che già i contemporanei non avevano mancato di riconoscergli: Petrus eram quem petra tegit, dictusque Comestor. Nunc comedor. Vivus docui, nec cesso docere mortuus, ut dicat qui me videt incineratum: “Quod sumus, iste fuit; erimus quandoque quod hic est”10. non disponiamo tuttavia di alcun dato certo a proposito dell’anno di composizione dell’opera (cfr. § L’Historia Scholastica: genesi, fortuna, tradizione manoscritta, edizioni). 8 Le proposte degli studiosi si estendono su un arco cronologico che va dal 1160 al 1198: le tre cronache di epoca posteriore più vicine all’autore, e tuttavia dipendenti l’una dall’altra, indicano il 1179. Altre testimonianze più o meno coeve possono guidare nel tentativo di approssimazione. Anzitutto, l’obituario della cattedrale di Notre Dame che, pur non menzionando l’anno, registra che il giorno XI Kal. Novembris […] obiit magister Petrus Manducator, cancellarius («il 22 ottobre […] morì il maestro Pietro Mangiatore, cancelliere»), mentre la voce che precede in elenco è datata al 1177: anno che parrebbe dunque delinearsi come sicuro terminus post quem. In effetti, l’ultima sottoscrizione di un documento ufficiale di Notre Dame data per manum Petri cancellari è datata al 1178 (cfr. alla n. 5); la prima sottoscritta invece da Ilduino, successore di Pietro nella cancelleria, è del 1180. All’agosto 1180 è datato inoltre un documento in cui Maurizio, vescovo di Parigi, menziona anche il magister Petrus Manducator tra coloro in nome dei quali è offerta una donazione a vantaggio dell’Hôtel-Dieu, da poco divenuto sede del primo collegio universitario parigino: ammesso e non concesso che si tratti di una menzione postuma, è certamente questa l’ultima testimonianza che ci è conservata in cui Pietro è menzionato da un suo stesso contemporaneo. Se ne conclude che la sua morte è da collocarsi senz’altro dopo il 1178 e al massimo qualche tempo dopo il 1180. 9 Maestro come Pietro Comestore e primo esponente di rilievo della scuola vittorina all’inizio del XII secolo: cfr. § Fonti. 10 «Ero Pietro, che la pietra ora ricopre, e detto ‘il Divoratore’. / Ora sono io ad essere divorato. Da vivo insegnai, né smetto di insegnare / ora da morto. Tant’è
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Introduzione
Fatta salva l’Historia Scholastica, le altre opere tradizionalmente ascritte a Pietro Comestore restano tuttavia di incerta attribuzione: si tratta, in genere, di testi inediti (se non in misura parziale nella serie della Patrologia Latina, o in edizioni recenti ma anch’esse parziali11) e poco studiati, anche sotto il profilo della tradizione manoscritta. Quasi certamente autentica è la paternità di un imprecisato numero di Sermones, in parte risalenti agli anni dell’insegnamento e in parte indirizzati ai confratelli canonici di San Vittore, e di un trattato teologico dal titolo De sacramentis. Non ancora provata, ma in buona misura probabile, è l’autenticità di un poemetto in dieci esametri sulla Vergine e di una serie di commenti ai Vangeli. Di controversa attribuzione, invece, il Liber Pancrisis, che si configura come un’antologia di sentenze dei Padri (di qui il titolo, alla lettera «Libro tutto d’oro»).
L’Historia Scholastica: genesi, fortuna, tradizione manoscritta, edizioni L’opera si presenta come un’esposizione commentata della storia sacra12, che percorre i libri biblici a partire dalla Genesi (ossia dalla creazione del mondo) fino a giungere in corrispondenza dei Vangeli (ossia all’ascensione del Salvatore): gli estremi cronologici della materia trattata sono espressamente dichiarati dall’autore nel Prologo. Nessuna notizia di prima mano ci è giunta a proposito di anno e luogo di composizione dell’opera. Dal momento che il dedicache chi mi vede qui ridotto in cenere potrebbe esclamare: / “Ciò che siamo, costui fu; saremo un giorno ciò che egli è”». Nell’ultimo verso, leggiamo erimus quandoque quod hic est con J. H. Morey e A. Sylwan; al contrario, S. R. Daly legge erimus quando quod iste («saremo un giorno ciò che costui [scil. è]»), segmento testuale che ci sembra zoppicare sotto il profilo metrico (mancando una sillaba all’esametro che verrebbe così a formarsi) nonché ignorare il parallelismo con antitesi tra i tempi verbali su cui si giocano entrambi gli emistichi. 11 Cfr. PL 198, col. 1049-1844 (l’intera Historia Scholastica e una cinquantina di Sermones); R. M. Martin, ‘Pierre le Mangeur. De sacramentis’, Spicilegium sacrum Lovaniense, 17 (1937), p. iii-xxviii + 1-132; il già citato Petr. Comest., Hist. Schol. − ed. A. Sylwan, alle cui p. xii-xiii si rimanda per ulteriori riferimenti a proposito della tradizione manoscritta in cui sono conservate le opere tuttora inedite. 12 Cfr. nella fattispecie § Fisionomia dell’opera: configurazione strutturale e stilistica.
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Introduzione
tario è Guglielmo arcivescovo di Sens, la cui carica episcopale si data tra il 1169 e il 1175-6, è verosimile che l’opera sia giunta a compimento in quel torno d’anni: Pietro l’avrebbe dunque composta durante il periodo trascorso nell’abbazia di San Vittore, la cui ricca biblioteca dovette fornirgli un rilevante supporto. Per il resto, qualche dettaglio ulteriore sulla genesi dell’opera è lo stesso Pietro a offrirlo nell’àmbito del Prologo e della Prefazione: passaggi densi di indicazioni programmatiche circa motivazioni, struttura, contenuti e scopi del testo, alle cui note di commento si rimanda per osservazioni puntuali. Basti qui anticipare che, nel Prologo, il nostro autore afferma che le pressanti sollecitazioni a comporre l’opera gli sono pervenute dai socii («colleghi»), verosimilmente chierici, maestri e studenti gravitanti intorno al contesto vittorino. Al netto di questa dichiarazione13, nessun altro cenno egli offre in merito ad una consapevole destinazione scolastica dell’opera. Secondo Agneta Sylwan, lo stesso titolo di Historia Scholastica, con cui l’opera fu universalmente nota nei secoli a seguire, sarebbe in verità posteriore all’epoca dell’autore14: il termine historia ne indica l’oggetto, ossia la storia sacra (la Storia per eccellenza secondo la mentalità dell’epoca); l’aggettivo scholastica fa riferimento alla successiva e pressoché generale adozione del testo come manuale di riferimento per la storia sacra, almeno per l’intera epoca tardomedievale, nelle facoltà di teologia delle università europee. La studiosa segnala che i più antichi manoscritti conservati (XII sec.) non si accordano sul titolo: il più antico testimone datato (P, 1183) legge Hystoria veteris et novi testamenti (alla lettera «Storia dell’antico e del nuovo testamento»); altri quattro esemplari (W Pa L T) leggono Scolastica Historia; altri due (S Tr), a termini invertiti, il titolo poi invalso di Historia Scolastica; uno (To) non reca alcun titolo. Osserva poi che, a suo avviso, i titoli contenenti l’aggettivo scholastica non possono essere quelli originali poiché «Comestore non poteva sapere fin dall’inizio che il 13 Da cui, peraltro, non sembra essere disgiunta una qualche eco del topos di modestia, modulo retorico ricorrente in sede liminare: cfr. il testo del Prologo e relative note di commento. 14 Cfr. Petr. Comest., Hist. Schol. − ed. A. Sylwan, p. xxxix-xl.
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Introduzione
suo libro sarebbe stato utilizzato nelle scuole»15. Ipotizza dunque che l’opera o non avesse affatto un titolo o che Pietro le avesse in origine attribuito un titolo assai generico, forse la stessa espressione di historia sacrae scripturae («storia della Sacra Scrittura») che compare nel Prologo; e che, tuttavia, a distanza di un periodo di tempo imprecisato, allorché l’opera fu sottoposta a revisione dallo stesso Pietro o da altri con il suo consenso, l’autore le abbia dato il titolo di Scolastica Historia, presto trasformato dalla tradizione manoscritta nell’invalso Historia Scolastica. L’opera dovette, in ogni caso, imporsi all’uso scolastico assai presto, e forse già durante la vita dell’autore: non soltanto ebbe una circolazione rapida e ampia fin dai primi tempi, ma a pochi decenni dalla morte di Pietro ricevette dapprima approvazione ufficiale da parte del quarto Concilio Lateranense nel 1215 e, in séguito, nel giro di pochi anni, le maggiori università europee la sancirono quale testo imprescindibile nei curricula delle facoltà teologiche16 insieme alla Bibbia glossata e alle Sententiae, vasta summa in materia teologica composta alla metà del XII secolo dal maestro Pietro Lombardo. Il numero complessivo dei manoscritti conservati assomma a circa 800, distribuiti su un arco cronologico che va dal XII al XVI secolo, provenienti da ogni parte d’Europa e oggi disseminati tra le biblioteche pubbliche e private di tutto il mondo17. Al XII secolo risalgono 25 dei manoscritti tuttora conservati: un numero non indifferente se si considera che la morte di Pietro è da collocarsi intorno al 1180, e che attesta dunque l’ampia fortuna di cui l’opera 15 Assunto a priori che non ci sembra del tutto condivisibile, se è vero, come illustrato poc’anzi, che uno dei punti fermi circa la genesi dell’opera è la sua collocazione nel contesto di San Vittore, eminentemente scolastico data la presenza di una delle scuole cattedrali più prestigiose del panorama europeo. 16 Ciò avvenne, per esempio, nel 1228 a Parigi nell’àmbito del capitolo generale dell’ordine domenicano, e nel 1253 a Oxford: cfr. Morey, ‘Peter Comestor, Biblical Paraphrase’, p. 6-7. Si osservi che, non a caso, in alcuni manoscritti dell’inizio del XIII secolo, l’opera è indicata con il titolo di Historia Scolastica theologice discipline («Storia scolastica della facoltà teologica»): titolo peraltro conservato dall’edizione Navarrus (1699) e dalla sua ristampa nella serie della Patrologia Latina (cfr. infra). 17 Per ulteriori dettagli, cfr. Petr. Comest., Hist. Schol. − ed. A. Sylwan, p. xxxi s.
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Introduzione
godette dal principio; più della metà dei manoscritti conservati si collocano nel successivo XIII secolo; i rimanenti si distribuiscono in modo uniforme tra XIV e XV secolo. La maggior parte dei testimoni trasmette l’opera completa in un solo volume; in caso contrario, un primo volume ospita in genere l’Antico Testamento e un secondo la storia dei Vangeli (oppure il primo dal Libro della Genesi ai Re, e il secondo dal Libro di Tobia ai Vangeli). Già dal XII secolo, all’Historia Scholastica possono seguire nel medesimo manoscritto altri testi, che ne costituiscono la continuazione e/o un complemento: tra i più diffusi, l’Historia Actuum Apostolorum («Storia degli Atti degli Apostoli») e il Compendium Historiae in Genealogia Christi («Compendio della Storia nella genealogia di Cristo»), una mappa genealogica della discendenza da Adamo fino a Cristo, entrambi forse da attribuire a Pietro di Poitiers, successore di Pietro Comestore nella cattedra di teologia di Notre Dame18. Sempre a partire dalla fine del XII secolo, alcuni manoscritti iniziano a riportare anche l’epitaffio posto sulla tomba dell’autore (cfr. supra), che talora dicono essere stato composto dallo stesso Pietro e ritrovato postumo tra le sue carte19. L’opera ebbe la sua editio princeps nel 1473 ad Augusta presso i tipi dell’editore Gunther Zainer; nel medesimo anno un’altra edizione comparve a Utrecht. Le successive si moltiplicarono negli anni a seguire: l’edizione di Strasburgo del 1475 fece da testo-base ad una nutrita serie di edizioni fino a quella del benedettino Emanuel Navarro, pubblicata a Madrid nel 1699. Quest’ultima fu assunta, alla metà del XIX secolo, quale testo-base nella serie della Patrologia Latina (PL 198, col. 1049-1722), che contribuì a fissare l’opera in una forma testuale da allora pressoché definitiva e indiscussa20. Si tratta di edizioni condotte secondo criteri non scientifici, che hanno tuttavia consentito la sopravvivenza e lo studio di Così Daly, ‘Peter Comestor: Master of Histories’, p. 70-71; sulla paternità dell’Historia Actuum Apostolorum è invece più scettica Agneta Sylwan: cfr. Petr. Comest., Hist. Schol. − ed. A. Sylwan, p. xxxiv. 19 Cfr. Petr. Comest., Hist. Schol. − ed. A. Sylwan, p. xiii, alla n. 24. 20 Agneta Sylwan giudica il testo di queste edizioni di qualità mediocre: cfr. Petr. Comest., Hist. Schol. − ed. A. Sylwan, p. xxxv s. 18
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un’opera, come si è visto, di fondamentale rilevanza nel contesto universitario europeo. L’ampiezza della tradizione manoscritta e la considerevole estensione dell’opera sono tali da aver scoraggiato per lungo tempo tentativi di ricostruzione stemmatica e testuale, anche parziali. Nel 2005, preceduta di qualche anno da uno studio preparatorio sulla tradizione manoscritta dell’opera nel XII secolo, ha visto la luce un’edizione, circoscritta al segmento di Historia Scholastica corrispondente al libro della Genesi, ad opera di Agneta Sylwan e pubblicata nella serie Corpus Christianorum – Continuatio Mediaevalis (CC CM 191, Turnhout 2005)21. L’editrice muove dalla considerazione22 che l’immediata diffusione dell’opera in ambito scolastico e l’ampiezza della tradizione manoscritta (anche quella di epoca più antica) sono tali da aver favorito fin da sùbito processi di contaminazione del testo: ragion per cui dichiara espressamente di essersi limitata – al fine di procedere ad una ricostruzione stemmatica dei rapporti di parentela tra i codici – a prendere in esame i 24 manoscritti risalenti al XII secolo e a cavallo tra XII e XIII che ospitano la sezione relativa alla Genesi; tra questi, soltanto nove sono completi e ospitano l’intera opera comprensiva di Prologo, Prefazione e corpo del testo da Genesi fino ai Vangeli. A motivo della considerevole estensione del testo, la studiosa esclude altresì di poter intraprendere una collazione esaustiva di tutti e 24 i manoscritti; li collaziona dunque secondo la tecnica cosiddetta dei loci critici, vale a dire limitatamente a singoli passaggi testuali, e procede poi ad una classificazione delle varianti significative in una lista evolutiva. Operata un’ulteriore selezione dei testimoni – sulla base di criteri che qui non è possibile illustrare nel dettaglio –, all’editrice restano in gioco 21 Si tratta dell’ormai più volte citato Petr. Comest., Hist. Schol. − ed. A. Sylwan. Lo studio preparatorio è A. Sylwan, ‘Petrus Comestor, Historia Scholastica: une nouvelle édition’, Sacris Erudiri, 39 (2000), p. 345-382: nell’edizione del 2005 la Sylwan dichiara tuttavia che uno studio più approfondito l’ha portata a rivedere e a correggere talune considerazioni contenute nell’articolo (cfr. Petr. Comest., Hist. Schol. − ed. A. Sylwan, p. xxxvi, alla n. 54). 22 I criteri in virtù dei quali è stata approntata l’edizione critica, a cui in questa sede non si potrà che accennare in modo cursorio, sono esposti dall’editrice in Petr. Comest., Hist. Schol. − ed. A. Sylwan, p. xxxvi-lxxxvi.
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otto manoscritti del XII secolo (tra i quali il più antico datato è P, all’anno 1183): P S Tr W Pa To L T
Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 16943 Porto, Biblioteca Pública Municipal, Santa Cruz 42 Troyes, Médiathèque du Grand Troyes (ex Bibliothèque municipale) 290 Wien, Österreichische Nationalbibliothek 363 Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 14638 Tours, Bibliothèque municipale 42 Lyon, Bibliothèque municipale 187 Troyes, Médiathèque du Grand Troyes (ex Bibliothèque municipale) 451
Di questi otto testimoni, Agneta Sylwan opera una collazione integrale per la sezione corrispondente alla Genesi. Ne trae così le seguenti conclusioni: alla luce di errori/innovazioni comuni agli otto manoscritti, la loro tradizione deriva da un archetipo ω’ che non può essere l’originale ω; tutti i testimoni presentano ciascuno innovazioni individuali non condivise dagli altri, il che prova che nessuno di essi può essere stato apografo dell’altro; sebbene si tratti del più remoto stadio della tradizione, emergono già in atto processi di contaminazione evidenti e piuttosto pervasivi, sicché è dato individuare raggruppamenti contraddittorî tra i testimoni, in virtù di innovazioni comuni condivise ora da questi contro quelli, ora da altri contro altri. L’esame accurato delle varianti oppositive tra i raggruppamenti conduce infine l’editrice a delineare il quadro che segue, pur senza – si badi – alcun disegno di stemma codicum allegato: per come è trasmesso dagli otto testimoni collazionati, il testo mostra un’evoluzione tale per cui P si presenterebbe come testimone di una redazione primitiva (X), elaborata da Pietro verso il 1170, prima che l’opera diventasse un testo scolastico; gli altri sette manoscritti testimonierebbero invece una nuova redazione del testo (Y), frutto di una revisione destinata all’utilizzo dell’opera in àmbito scolastico e approntata o dallo stesso Pietro o da altri con il suo consenso durante gli anni ’70, che si diffuse ampiamente fin dal principio, soppiantando il testo originario (tuttora conservato dal solo manoscritto P); questa redazione Y sarebbe,
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a propria volta, conservata in diverse forme: una forma integrale [Tr W (= β)]; una forma (S) nella quale coesisterebbero elementi propri della revisione ed elementi del testo primitivo; una forma [Pa To (= γ)] in cui sarebbero confluiti ulteriori rimaneggiamenti del testo approntati negli anni ’80, dopo la morte di Pietro; una forma ulteriormente contaminata [L T (= δ)], che accoglierebbe elementi del testo originario, elementi della prima revisione e successivi rimaneggiamenti23. L’edizione si pone l’obiettivo di ricostruire il testo della redazione originaria (X): la studiosa finisce dunque per privilegiare il testo di P, il cui accordo con S, o l’accordo di P S (= α) con L T (= δ), vale – eccetto in casi di lezione insostenibile24 – a restituire la lezione di X. La priorità accordata a P si esplica anche nel trattamento riservato alle rubriche, alle aggiunte e alle sezioni indicate nel testo con il sottotitolo incidentia (lett. «cose che si verificano nello stesso tempo», ossia le sincronie relative alla storia profana: cfr. § Fisionomia dell’opera). Il manoscritto P presenta una divisione in capitoli e una serie di rubriche in parte differenti rispetto agli altri manoscritti: un’analisi sinottica ha portato l’editrice a concludere che P sia il solo a testimoniare una prima serie di rubriche risalente all’autore Segnaliamo qui soltanto alcune tipologie di varianti che, a dire dell’editrice, indicherebbero il manoscritto P quale testimone di una più antica redazione del testo rispetto a S β γ δ: è il solo P a recare il titolo di Hystoria veteris et novi testamenti; spesso offre esso solo la lezione corretta; le sue rubriche e la divisione in capitoli sono in parte diverse rispetto a quelle degli altri testimoni e il numero delle aggiunte (cfr. infra) è minore; spesso è il solo a fornire una citazione biblica rara, ove gli altri si allineano invece al testo della Vulgata; molte varianti, infine, riguardano lo stile: in molti casi, la lezione di S β γ δ sembrerebbe configurarsi come un consapevole intervento finalizzato a migliorare e/o semplificare la dizione di P per mezzo di piccole aggiunte, inversioni o miglioramenti. Alcune esemplificazioni sono registrate dall’editrice nella sezione introduttiva indicata alla nota precedente: cfr. in particolare alle p. lxxii-lxxviii. 24 L’editrice dichiara che, in genere, il manoscritto P offre un testo eccellente, pur non essendo esente anch’esso da errori, per lo più banali sviste di copista: cfr. Petr. Comest., Hist. Schol. − ed. A. Sylwan, p. lxxii. In simili casi, è di norma accolta la lezione degli altri testimoni o gli errori possono essere comunque facilmente corretti; in rarissimi casi, segnala l’editrice, è stato necessario ricorrere ad interventi congetturali: cfr. ibid., p. lxxxv. 23
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e che, invece, gli altri manoscritti attestino una serie modificata dall’autore stesso o con la sua approvazione25. L’edizione, dunque, accoglie ovunque le rubriche di P. Tutti gli otto manoscritti contengono aggiunte esplicative, inserite a margine o incorporate nel testo (talora segnalate da indicatori quali glosa, «glossa», o simili): le aggiunte non sono le medesime in tutti i manoscritti, eppure 25 di esse compaiono in P (eccetto una) e in quasi (sic!) tutti gli altri. L’editrice le ritiene «appartenenti al testo primitivo, ed è probabile che lo stesso Comestore abbia aggiunto queste note al suo commento. Sono queste le aggiunte che ho incluso nella mia edizione»26, ponendo tuttavia il passo tra parentesi graffe a segnalare che si tratta di additiones auctoris extra textum positae («aggiunte dell’autore poste a margine del testo»). Quanto agli incidentia, l’edizione riproduce lo stato in cui essi compaiono in P: qui, come in δ, sono scritti in inchiostro rosso e si trovano inseriti per lo più negli stessi punti del testo; in quasi tutti i manoscritti delle famiglie β γ figurano invece nel margine e scritti in inchiostro nero. L’editrice ipotizza che l’autore stesso abbia annotato questi inserti a margine del testo originario e che il copista della redazione X li abbia inseriti nel corpo del testo al fine di agevolare la lettura27.
Historia Scholastica − La Genesi Fisionomia dell’opera: configurazione strutturale e stilistica Essenziali per valutare la configurazione generale dell’opera sono alcune tra le dichiarazioni programmatiche esposte dall’autore nel Prologo28. L’opera ambisce espressamente ad agevolare la consultaCfr. Petr. Comest., Hist. Schol. − ed. A. Sylwan, p. lxxv s. Cfr. ibid., p. lxxvi-lxxviii. 27 Cfr. ibid., p. lxxxv s. 28 Alle cui note di commento si rimanda per ulteriori e più specifiche osservazioni. 25
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zione della storia sacra, a dire dell’autore viziata a quell’epoca da tre difetti: a-sistematicità, per cui la storia era come scissa tra testo della Sacra Scrittura e relative glosse di commento; eccessiva concisione; mancanza di un tessuto espositivo organico e strutturato. Il riferimento è a svariati strumenti bibliografici: la cosiddetta Glossa Ordinaria, vale a dire il testo sacro, trascritto al centro del foglio, corredato di glosse più corpose nel margine e più concise nell’interlinea stessa del testo; commentari esegetici ai singoli libri biblici, di epoca patristica e/o posteriore, strutturati come citazione progressiva o dei versetti biblici, di volta in volta commentati, o – in modo più frammentario – di singoli spezzoni di versetto, sintagmi o addirittura lemmi sciolti, cui sono allegate glosse talora anche molto brevi; cronache universali ove si registrano, spesso in forma assai schematica, i principali eventi della storia sacra e, in riferimento a questi, gli eventi della storia profana. Strumenti, dunque, per nulla omogenei tra loro nella configurazione strutturale e spesso complementari sotto il profilo dei contenuti: di qui il proposito di comporre un’opera in grado di armonizzare in sé tanto la storia sacra considerata come mera narrazione di eventi, quanto il commento che è possibile, o meglio necessario, formulare intorno a quegli stessi eventi perché il lettore riesca a comprenderli nel modo più esaustivo. Ne consegue che l’opera presenta un impianto indubbiamente innovativo29: essa si configura come un’esposizione organica, che ricompone in un tessuto discorsivo unitario e coerente la storia sacra e il relativo commento. La struttura portante è costituita dalla trama narrativa storica, nella fattispecie la storia narrata dalla Genesi, all’occorrenza inframmezzata dalla relativa esegesi. Quest’ultima può esplicarsi o come breve glossa, inglobata direttamente nel tessuto narrativo, o come più corposa e dettagliata digressione (ove, ad esempio, sia necessario presentare letture alternative per un medesimo passo) che sospende momentaneamente il procedere della trama. Mai, tuttavia, ne deriva l’impressione di un discorso frammentato e disorganico: la scorrevolezza è cifra distintiva sempre ben riconoscibile. Aspetto su cui, a nostro giudizio, la critica non ha (ancora) posto il dovuto rilievo. 29
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L’ordine adottato per la narrazione storica aderisce a quello biblico: ciò anche nei casi – non rari – in cui la narrazione veterotestamentaria riferisca gli eventi in un ordine che non coincide con la loro successione effettiva (secondo la terminologia tecnica moderna, si direbbe cioè nei casi che vedono una discrepanza tra fabula e intreccio)30. In simili evenienze, lungi dal riorganizzare la narrazione sotto un profilo macroscopico, l’autore si limita semmai a darne conto in sede esegetica: osservando che il testo biblico adotta in quel punto la tecnica cosiddetta della recapitulatio («ricapitolazione», ossia riferisce ex post un evento verificatosi in realtà prima rispetto al punto in cui la narrazione è giunta: cfr. ai capp. 36, 43, 65, 67, 84; altrove per recapitulatio si intende piuttosto un «riepilogo»: così ai capp. 13 e 81); segnalando la presenza di sezioni bibliche riepilogative (tecnicamente epilogus) di quanto già narrato in precedenza (ai capp. 12 e 31); riguardo allo specifico evento della creazione di uomo e donna, precisando che (cfr. al cap. 12), nonostante il testo sacro lo riferisca simultaneamente la prima volta (Gen 1, 27), in verità ebbe luogo in due momenti distinti (come da Gen 2, 7; 18-22). Sono invece piuttosto frequenti le anticipazioni, rispetto alla trama biblica, di piccoli ma fondamentali dettagli narrativi, così da offrire sùbito completo al lettore il quadro informativo (cfr. ad es. al cap. 19, la spiegazione del nome ‘Eva’; al cap. 76, il criterio con cui Giacobbe divide in due schiere il suo séguito). In generale, riesce senz’altro comprensibile il fatto che Pietro Comestore non intendesse (né avesse alcun interesse a) stravolgere l’impianto cronologico – ormai acquisito – della storia sacra. Sempre nell’àmbito del Prologo, l’autore dichiara espressamente di aver inserito, entro il tessuto narrativo della storia sacra, anche alcune sincronie (in latino incidentia: cfr. § L’Historia Scholastica: genesi, fortuna, tradizione manoscritta, edizioni) con la storia profana31. L’operazione si situa nel solco della storiografia 30 Ciò anche a dispetto di quanto potrebbe far pensare una metafora contenuta nel Prologo, alla cui n. 6 si rimanda per ulteriori dettagli. 31 Si badi, al tal proposito, che per il mondo medievale, come già per quello antico, la dimensione propriamente ‘storica’ e quella che noi moderni definiremmo invece ‘mitica’ hanno confini assai labili: non stupisca, dunque, in questi passaggi
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cristiana universale, inaugurata dal Chronicon di Eusebio di Cesarea (III-IV sec.), opera nota all’occidente medievale nella (parziale) traduzione latina di Girolamo: il corso della Storia – in ogni caso una e unitaria – è delineato dalla storia sacra, da cui dipendono gli eventi cardine della storia profana, da inquadrare dunque in riferimento a quella. In effetti, tali sezioni dell’Historia Scholastica traggono spunto da una sincronia registrata tra l’episodio biblico appena esposto e un avvenimento relativo alla storia pagana; soltanto in un caso, l’excursus sulle vicende del regno babilonese-assiro (cap. 40) trae spunto dalla menzione, nel testo biblico, della figura di Assur e della nascita di un regno in terra di Babilonia, e racconta peraltro eventi posteriori (e non contemporanei) rispetto al punto cronologico in cui è giunta la narrazione della storia sacra. La collocazione di questi inserti – tutto sommato pochi – nel corpo dell’esposizione è variabile: in coda ad un capitolo e rilevati dal sottotitolo incidentia (capp. 65, 67, 72, 81) o da nessuna indicazione (cap. 40); un capitolo autonomo dell’opera (cap. 63). Restringendo la prospettiva dell’analisi strutturale, si osserva che non a tutti i capitoli biblici sono riservati il medesimo spazio e la medesima attenzione: l’autore dispone la materia secondo un criterio che non corrisponde pressoché mai a quello del libro biblico. La breve sezione di Gen 1-2 – per ragioni facilmente intuibili, data la sua rilevanza fondativa anzitutto in ottica cosmologica – si articola entro il nutrito segmento dei capitoli iniziali da 1 a 21; via via che la narrazione procede, un capitolo dell’opera abbraccia in genere una sezione di capitolo biblico (il quale si estende dunque su pochi capitoli dell’Historia); non mancano casi in cui sezioni contigue appartenenti a due distinti capitoli biblici sono accorpate in un solo capitolo del nostro testo. È degno di nota come l’autore sembri per lo più scandire l’opera secondo un criterio che verrebbe da definire ‘scenografico’, riservando cioè a ciascun capitolo uno o due episodi – vale a dire ‘scene’ o ‘sequenze narrative’ – autonomi e in sé compiuti. dell’opera, la menzione di noti personaggi della mitologia antica quali, ad esempio, Iside (capp. 65 e 67), Danao (cap. 65), Minerva e Pallade (cap. 72), Prometeo, Atlante, Demetra e i Telchini (cap. 81).
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La cura per l’aspetto meramente strutturale della narrazione riesce confermata dall’attitudine ad inquadrare un dato episodio segnalandone con evidenza i dati contestuali, specie laddove a riguardo il testo biblico risulti poco coerente, se non lacunoso (in tal caso, i dati mancanti sono di norma integrati mediante il ricorso ad altre fonti)32. Talora l’autore non manca di ri-strutturare la trama di un episodio, per come essa è offerta dal testo biblico, in modo tale da guadagnarle una maggiore consequenzialità logico-narrativa: accorpando informazioni desunte da versetti non contigui33; operando tacitamente l’inversione di due passaggi narrativi, contigui nel testo sacro, e ridisponendoli secondo l’ordine che in effetti parrebbe il più congruente sotto il profilo logico34. Lo stile adottato nell’esposizione, che ovviamente ricalca per lo più quello delle fonti prese a riferimento, si mostra improntato ad una cifra di complessiva linearità, scorrevolezza ed essenzialità, per mezzo di un periodare che procede per strutture piuttosto brevi. In qualche sporadico caso, il commento al testo sacro si esplica, in genere sulla scorta delle fonti, nella forma della quaestio («indagine», «interrogativo»), il peculiare modulo esegetico di ascendenza patristica articolato nella dialettica domanda–risposta: in forma di domanda diretta o indiretta, si pone un interrogativo suscitato dal testo e se ne offre, spesso argomentandola, una proposta risolutiva (cfr. ai capp. 8, 10, 11, 14, 34, 36 e 93). Fungono da mano tesa verso il lettore alcuni segnali di richiamo o vere e proprie allocuzioni che qua e là costellano il discorso nelle sezioni a carattere esegetico; si tratta o di formule impersonali che esprimono idea di dovere (il costrutto latino della ‘perifrastica passiva’) o di imperativi/ congiuntivi esortativi alla seconda persona singolare o plurale (che tuttavia la nostra traduzione rende di preferenza 32 Cfr. ad es. in apertura del cap. 58, ad inquadrare spazio-temporalmente l’episodio del sacrificio di Isacco; in avvio del cap. 67, ad introdurre le ragioni del soggiorno di Isacco presso Abimelech; in apertura del cap. 71, a precisare i contorni spazio-temporali del viaggio di Giacobbe. 33 Cfr. il caso emblematico del cap. 46: l’intera sezione di avvio vede la corrispondente sezione veterotestamentaria de-strutturata nei singoli dati e poi ri-strutturata in modo tale da meglio armonizzare i dati contestuali utili ad inquadrare l’episodio. 34 Cfr. i casi segnalati in sede di commento ai capp. 61 e 96.
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con forme impersonali): al cap. 98, distingue (lett. «interpungi», da noi reso «s’interpunga»); al cap. 5, nota e notandum (lett. «nota» e «si deve notare»); al cap. 50, attende (lett. «fa’ attenzione»); ai capp. 5 e 37, nec nos/te moveat (lett. «non ci/ti stupisca/ turbi»), e simili.
Tipologie di esegesi Di nuovo fondamentali a riguardo sono le dichiarazioni programmatiche, più o meno esplicite, contenute nel Prologo e nella Prefazione all’opera (alle cui note di commento si rimanda per il dettaglio). Pietro Comestore mostra precisa consapevolezza delle tre principali tipologie di esegesi che, secondo la dottrina formulata da Agostino35, è possibile applicare alla Sacra Scrittura: il senso storico-letterale (tecnicamente sensus historicus / historia o sensus litteralis / littera), ossia l’esame del testo in sé e per sé, sotto il profilo letterale e/o degli eventi oggetto della narrazione; il senso tipologico-figurale (sensus mysticus o, in epoca posteriore, sensus allegoricus / allegoria36), cioè la lettura di un evento veterotestamentario come prefigurazione di un evento neotestamentario; il senso tropologico-morale (sensus moralis o sensus tropologicus / tropologia), vale a dire la ricerca dei comportamenti o della condotta morale suggeriti da un certo evento narrato nel testo (il nostro autore non fa menzione della quarta possibile prospettiva esegetica, ossia quella anagogica, il sensus anagogicus, che si esplica nell’indagine delle realtà eterne a cui il testo allude). Si tratta di una scansione non soltanto funzionale, ma anche gerarchica: va da sé che l’approccio-base al testo sacro è il primo, e così via a seguire gli altri. 35 Cfr. Avg., De Gen. ad litt. 1, 1: In libris autem omnibus sanctis intueri oportet quae ibi aeterna intimentur, quae facta narrentur, quae futura praenuntientur, quae agenda praecipiantur vel admoneantur («In tutti i libri sacri bisogna indagare a quali realtà eterne si alluda, quali fatti siano narrati, quali eventi futuri siano prefigurati, quali comportamenti siano prescritti o suggeriti»), ove sono elencati nell’ordine il senso anagogico, il senso storico-letterale, il senso tipologico-figurale, il senso tropologico-morale. 36 Quest’ultimo è il termine adoperato dal nostro autore nella Prefazione.
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Altrettanto chiaramente Pietro Comestore afferma tuttavia il proposito di voler commentare la Scrittura in relazione al senso storico-letterale, lasciando ad altri il compito di addentrarsi nel vasto «pelago dei misteri» (cfr. Prologo)37: con l’espressione sensus mysticus (o spiritualis) si usava infatti indicare, in epoca tardomedievale, l’insieme degli altri tre sensi (tipologico, tropologico, anagogico), la cui indagine sottende uno scarto rispetto alla lettera del testo. In effetti, nella sezione dell’Historia Scholastica corrispondente al libro della Genesi – ma la considerazione può essere estesa all’intera opera – si riscontra che letture di altro genere rispetto a quello storico-letterale non figurano se non in misura assai marginale. Non a caso, nel testo sono praticamente assenti38 indicatori tecnici che segnalino al lettore il diverso tipo di esegesi di volta in volta proposta (ad esempio spiritualiter, mystice, allegorice, moraliter con riferimento specifico agli altri tre sensi; oppure il generico aliter, marca con cui nei commentari esegetici si segnala il passaggio ad un diverso tipo di lettura): non compaiono perché non necessari, quasi fosse implicito che l’interpretazione della Scrittura muove sempre sul piano storico-letterale. Il pressoché esclusivo privilegio accordato al primo livello di esegesi emerge anche in relazione all’utilizzo delle fonti, nella fattispecie la Glossa: ove essa riporti differenti spiegazioni per il medesimo passo biblico, è estrapolata di norma quella che consente un approccio immediato al testo39. In un’occasione, il nostro autore afferma che un dato passo biblico non è mai stato commentato ad litteram (cioè sotto il profilo storico-letterale) e, con risoluta intraprendenza, tenta 37 Alla dichiarazione esplicita del Prologo è forse accostabile quanto l’autore insinua in conclusione del cap. 25, ove sembra voler escludere dall’indagine condotta nell’Historia Scholastica la ricerca di sovrasensi estranei ad un approccio-base al testo sacro. 38 Soltanto ai capp. 97 e 101 si registra l’indicazione ad litteram, tecnicamente «alla lettera», ad introdurre un chiarimento del passo in chiave storico-letterale. 39 Ciò anche nei casi in cui l’episodio si presterebbe con particolare evidenza ad essere spiegato, in aggiunta, secondo almeno un altro senso. Basti citare, a titolo di esempio, due episodi: la costruzione della torre di Babele (Gen 11), in genere intesa in chiave tropologica come simbolo della superbia umana; il sacrificio di Isacco (Gen 22), letto in chiave tipologica come il sacrificio di Cristo. Pietro Comestore offre dei due passi soltanto una lettura in base al senso storico-letterale: cfr. rispettivamente ai capp. 40 e 58.
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egli stesso di avanzarne una lettura (cap. 107). La littera del testo sacro funge talora anche da chiave risolutiva in merito a questioni controverse: così, per esempio, la tradizione giudaica secondo cui Adamo avrebbe avuto due mogli è confutata sulla base del fatto che il testo sacro, in riferimento alla moglie di Adamo, parla sempre al singolare (cap. 18)40. L’esegesi storico-letterale praticata da Pietro Comestore contempla svariate tipologie di chiarimenti testuali. Tra quelle di stampo più tradizionale si rilevano: – letture differenti e tra loro alternative per un medesimo passo biblico, di norma scandite dalla congiunzione vel («oppure»)41; – citazioni scritturali, in funzione esplicativa di un dato passo, tratte da altri libri biblici sia veterotestamentari che neotestamentari42; – spiegazioni di carattere etimologico, numerosissime in riferimento sia a nomi di persona che a toponimi, ma anche a comuni concetti / oggetti: cfr. rispettivamente, ad esempio, ai capp. 72-73, le etimologie dei nomi dei figli di Giacobbe; al cap. 45, l’etimo del toponimo Cariatarbe; al cap. 3, le derivazioni etimologiche dei termini ‘giorno’, ‘luce’, ‘notte’ e ‘tenebre’. Nei casi in cui la derivazione etimologica di un termine sia controversa, l’autore presenta le differenti proposte e ne segnala, eventualmente sulla scorta delle proprie fonti, il grado di attendibilità (cfr. al cap. 50 per l’etimologia del nome Sarai, e al cap. 77 per quella di Israele). Il gusto per la ricerca etimologica è a tal punto spiccato da mostrarsi talora anche indipendente dall’utilizzo delle fonti: non sono rare le derivazioni etimologiche, in genere assai ingegnose, per le quali non è dato individuare alcun riscontro altrove43; 40 Per un caso analogo, cfr. al cap. 76, sull’identificazione del corso d’acqua attraversato da Giacobbe. Sempre al cap. 18, è degno di nota come invece, a proposito di modalità e tempi della creazione dell’anima della donna, funga da elemento dirimente non ciò che il testo sacro afferma, bensì ciò che tace. 41 Ciò accade pressoché in ogni capitolo del testo, sicché appare superfluo segnalare esempi. 42 Vale quanto rilevato alla nota precedente. 43 Cfr. ad es. al cap. 4, l’etimologia di ‘cielo’ come ‘casa del sole’; al cap. 19, la presunta derivazione del nome Eva con riferimento al pianto di un neonato; al
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– notazioni di carattere semantico: si tratta per lo più di brevi glosse sinonimiche (nella forma id est [«cioè / ossia»] + sinonimo o significato) o di più corpose spiegazioni concettuali, inserite nel tessuto della narrazione stessa. Si potrebbero registrare qui infiniti esempi: cfr. emblematicamente al cap. 3, che cosa si intenda per ‘luce’, e al cap. 4 per ‘firmamento’; al cap. 24, che cosa siano i ‘perizomi’; al cap. 51, il significato dell’espressione biblica ‘le cose delle donne’, ossia le mestruazioni. Non mancano casi in cui di uno stesso termine si segnalano più accezioni (cfr. al cap. 1, le quattro accezioni di ‘mondo’), oppure, al contrario, di più termini appartenenti alla medesima area semantica si discutono la specificità e i peculiari contesti di impiego (cfr. al cap. 5 per i sinonimi di ‘seme’, e al cap. 50 per gli iponimi di ‘servo’); – informazioni sui luoghi: in aggiunta o in relazione all’etimo (o a più etimi indicati come progressivi nel corso dei secoli) si allegano notizie di vario tipo, per lo più di carattere topografico e/o naturalistico e/o paradossografico: così, ad esempio, al cap. 15 sui quattro fiumi che hanno origine dalla fonte del paradiso; al cap. 45 sulla città di Hebron; un’ampia digressione paradossografica si registra invece al cap. 53 a proposito della regione del Mar Morto. Vale la pena di rilevare altri due peculiari procedimenti sfruttati talora per aiutare il lettore ad identificare precisamente un luogo: segnalare che un oggetto collocato dalla Genesi in un dato luogo è ancora visibile all’epoca dell’autore o lo era all’epoca delle sue fonti (cfr. al cap. 45, l’albero presso il quale abitava Abram; al cap. 49, il pozzo di Agar; al cap. 53, la statua di sale in cui fu trasformata la moglie di Lot durante la fuga da Sodoma); menzionare esplicitamente gli eventi cui quel luogo fa da sfondo nella storia biblica di epoca precedente e/o posteriore, veterotestamentaria o neotestamentaria (cfr. al cap. 25, sull’agro damasceno, già luogo della creazione di Adamo e luogo in cui Caino avrebbe poi ucciso Abele, e nei cui cap. 42, il toponimo Aquileia letto come ‘legata alle acque’; al cap. 82, una possibile spiegazione dell’aggettivo ‘manicata’, detto di un tipo di veste, nel senso di ‘dipinta a mano’.
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pressi Adamo ed Eva furono sepolti; al cap. 55, l’allusione all’episodio delle ‘acque della contesa’ che vede protagonista Mosè in Num 20, 13 per identificare la località di Cades; al cap. 70, il luogo in cui Giacobbe vide Dio in sogno farà da scenario alla costruzione del tempio e alla passione di Cristo); – notazioni di carattere eziologico, secondo una prospettiva che si potrebbe definire ‘rovesciata’ rispetto alla ricerca etimologica: gli eventi biblici – e la storia primordiale esposta nella Genesi ben si presta in questo senso – sono indicati quale origine fondativa di un’istituzione o prassi consuetudinaria (cfr. al cap. 11, l’osservanza del sabato in séguito al riposo di Dio dopo la creazione; al cap. 47, l’istituzione dell’anno giubilare a motivo della liberazione di prigionieri di guerra tra cui Lot)44. In altri casi, sono gli stessi personaggi menzionati nel testo sacro ad essere individuati come ideatori – secondo la topica del prótos euretés – di una qualche arte (cfr. ad es. al cap. 29, sulle arti ideate dai discendenti di Caino; al cap. 38, ove Noè è segnalato come colui che introdusse la coltura della vigna)45; – segnalazione e/o discussione di una o più lezioni alternative per un dato passo/termine biblico attestate dalla tradizione: ebraica e/o greca – di cui talora si distinguono addirittura le varie versioni – e/o latina46. Va detto, tuttavia, che non sempre 44 Ma cfr. anche al cap. 48, l’usanza giudaica di chiedere segni alla divinità ricondotta ad un analogo gesto di Abram; al cap. 58, l’origine di una festa ebraica in ricordo dell’episodio del sacrificio di Isacco; al cap. 60, la consuetudine, poi sancita per legge, di chiedere alla donna promessa in sposa il suo consenso preventivo, come accadde nel caso di Rebecca. 45 Si badi che lo stesso meccanismo si registra anche in riferimento a personaggi non menzionati dalla Genesi ma direttamente dal nostro autore in sede esegetica: cfr. al cap. 39, ove tale Ionitho, figlio di Noè non citato nella Bibbia, viene indicato come l’inventore dell’astronomia; al cap. 40 a Cam-Zoroastre è attribuita l’invenzione dell’arte magica e al re assiro-babilonese Nino l’usanza di costruire idoli; ai capp. 67, 72 e 81 svariate invenzioni sono ascritte a figure appartenenti alla – mitologica – storia profana. 46 Cfr. ad es. ai capp. 11, 49, 52, 84 una lezione ebraica; al cap. 65, ove si riportano le tre differenti rese nel testo greco dei Settanta, di Aquila e di Simmaco, e al cap. 27 una lezione del testo greco di Teodozione; al cap. 16 una lezione latina circolante tra le Veteres. Un excursus sulle differenti versioni del testo biblico approntate nel corso dei secoli è offerto dallo stesso Pietro Comestore al cap. 16.
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figura esplicitamente indicato a quale tradizione appartenga la variante riportata (cfr. le generiche etichette di alia translatio / alia littera, «altra traduzione» / «altra lezione»)47; in un paio di casi, peraltro, la lezione alternativa non trova effettivo riscontro nella tradizione biblica che ci è conservata48. Talora la alia translatio è introdotta (anche) con la funzione di avvalorare una peculiare lettura esegetica avanzata per il passo biblico in questione, che si mostra congruente appunto con quella specifica resa testuale49; – parafrasi esplicative di parole pronunciate nel testo biblico da un personaggio in forma di discorso diretto: la battuta viene citata alla lettera e fatta seguire da una riformulazione (in genere introdotta dalla marca quasi diceret, «come a dire») intesa a metterne in luce, in chiave esegetica, il significato implicito o recondito (cfr. ad es. al cap. 24, ove alla maledizione rivolta da Dio ad Adamo “E ti nutrirai dell’erba della terra!” segue la parafrasi esplicativa «come a dire: ‘Anche in questo sarai uguale ad una bestia!’»)50; – spiegazioni di episodi con riferimento alla simbologia legata ai numeri: al due (cap. 4); al sei, con aggiunta di un interessante excursus tecnico in materia aritmetica (cap. 8); al sette (cap. 31); – notazioni di carattere strettamente grammaticale: sebbene in modo sporadico, l’autore ha cura di registrare, per esempio, che un certo termine (eloym) può essere in ebraico singolare o plurale al contempo (cap. 1); che un dato sostantivo latino (cete) è di genere neutro e di per sé indeclinabile, ma che è tuttavia possibile declinarne nominativo e genitivo secondo il modello dei maschili in -us di seconda declinazione (cap. 7); che un verbo latino (imponere) è adoperato nel testo biblico in senso absolutus (lett. «assoluto»), ossia intransitivo (cap. 67); Cfr. ad es. ai capp. 11, 13, 14, 16, 28, 55, 102, 104, 106. Cfr. ai capp. 37 e 107. La questione è anzitutto di ordine metodologico: molte tra le versioni latine Veteres, per lo più approntate sul testo greco, non sono ancora identificate/repertoriate. 49 Così ai capp. 28, 55 e 67. 50 Si potrebbero citare numerosissime altre occorrenze: cfr. in particolare ai capp. 24, 25, 28, 32, 48, 66, 69, 98. 47 48
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– digressioni di linguistica comparata, onde dar conto delle trasformazioni grafico-fonetiche occorse a certi termini ebraici a séguito di un mutamento nello stesso ebraico (cfr. al cap. 50, sul mutamento grafico-fonetico dei nomi Abram e Sarai) o nel passaggio, cioè nella traslitterazione, in lingua greca e, di qui, in quella latina (cfr. al cap. 42, sulla resa in greco del nesso ebraico formato da una a con aspirazione sia prima che dopo); si registra altresì una segnalazione di un falso caso di omografia e omofonia (in quanto soltanto apparente nella traslitterazione in latino, ma non tale in ebraico: cfr. al cap. 67, in merito al termine sabee); – chiose retoriche, attraverso l’impiego di puntuali tecnicismi: l’autore rileva, per esempio, la presenza di figure quali la sineddoche (al cap. 13; ma anche, pur senza la menzione del tecnicismo, ai capp. 17, 79 e 92, ove la figura è designata per mezzo della sua stessa definizione), l’endiadi (capp. 4 e 6), la sillepsi (capp. 15 e 99), il cosiddetto singularis pro plurali («singolare in luogo del plurale»; cfr. al cap. 12), l’ironia (cap. 25), la personificazione (cap. 32); non mancano casi in cui un’espressione biblica è riformulata o commentata in modo tale per cui al lettore è dato cogliere chiaramente il particolare tipo di procedimento metaforico che vi è sotteso, senza che però questo sia indicato in modo esplicito con il suo nome tecnico51; – articolati excursus in merito a questioni di computo, che muovono dalla constatazione di incongruenze interne al testo biblico stesso, o tra le sue differenti versioni, o tra esso e altre fonti: in merito alla durata complessiva delle epoche storiche (capp. 31 e 41), al computo cronologico di anni e giorni (capp. 37 e 48), al Cfr. ad es. al cap. 56, ove si rileva che il sintagma biblico «la voce del ragazzo» è da intendere come «il pianto della madre per il ragazzo», vale a dire secondo la figura che si usa definire metonimia; al cap. 69, ove si segnala che i tre prodotti della terra (frumento, vino, olio) citati nel testo biblico designano «la fertilità della terra nel suo complesso», vale a dire secondo la figura della sineddoche. Al cap. 40, il commento che trae spunto dal testo sacro individua due differenti casi di omonimia: nel caso del nome Assur, dai due possibili referenti (una persona e un luogo) dipendono due concorrenti interpretazioni del passo biblico in questione; nel caso di Belo, invece, si segnala al lettore di prestare attenzione poiché il referente può essere soltanto uno dei due possibili. 51
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calcolo dell’età dei personaggi in un dato momento (capp. 41, 43, 65, 82), al numero delle persone (cap. 92). Altre categorie di lettura in chiave storico-letterale del testo sacro, sebbene figurino in modo assai più marginale, si segnalano per una certa originalità e/o eccentricità rispetto alla consueta prassi esegetica: – osservazioni di natura strettamente filologica – in genere desunte da qualche fonte –per dare conto al lettore di problemi che coinvolgono nella fattispecie la tradizione testuale della Scrittura: si ipotizza così l’interpolazione di un paio di passi, che non figurano nel testo ebraico (capp. 28 e 58); si avanza un articolato tentativo di spiegare la genesi di due errori generatisi a catena nel corso della tradizione, uno dei quali è imputato ad un errore del copista (in latino, tecnicamente lo scriptor), reo di aver trascritto uniti due nomi in origine distinti, l’altro ad un maldestro tentativo di ripristinare la lezione corretta (cfr. al cap. 92). In altre due occasioni, è lo stesso Pietro Comestore, non sollecitato da alcuna fonte, ad ipotizzare acutamente un errore di copista: all’origine di un dato, incongruente rispetto a Genesi, offerto da Flavio Giuseppe (cap. 41); a monte di una lezione che, a suo dire, potrebbe essere una corruttela per trasposizione anagrammatica (cap. 76). In un paio di casi, l’autore attesta che una lezione divergente rispetto alla Vulgata si registra in quidam codices («alcuni manoscritti»), cioè in parte della tradizione testuale (capp. 16 e 95); – letture esegetiche differenti per un medesimo passo biblico, a seconda dell’interpunzione che si scelga di adottare nel passo stesso (capp. 55 e 98); – notazioni che si potrebbero definire di natura medico-fisiologica, circa presunte proprietà medicinali di piante o frutti (cfr. al cap. 45, l’efficacia preventiva, contro la malattia equina dell’infunditus, dell’albero nei cui pressi abitò Abram; al cap. 73, le proprietà fertili del frutto della mandragola) o in riferimento a malattie/affezioni umane o animali (cfr. al cap. 51, le condizioni fisiologiche che favoriscono o inibiscono la fertilità umana; al cap. 52, l’affezione della vista detta aorisia);
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– precisazioni in materia astronomica: sulla relazione reciproca tra luce e tenebre (cap. 3); sui vari corpi celesti, sulla posizione del sole in corrispondenza dell’inizio delle stagioni, sui diversi cicli annuali, sulla relazione tra forma della luna e momento in cui sorge (cap. 6); sul ciclo del cosiddetto ‘grande anno’ (cap. 38); sull’influsso dei pianeti a seconda della loro posizione (cap. 47); – riferimento ad eventi della storia biblica di epoca posteriore, in modo tale da spiegare per analogia l’episodio della Genesi in oggetto. L’aggancio può essere sia alla storia veterotestamentaria che a quella neotestamentaria: un caso emblematico figura al cap. 52, ove la particolare affezione della vista detta aorisia è paragonata alla condizione in cui si trovarono gli inseguitori del profeta Eliseo (cfr. 2Re 6, 8-20) e, ugualmente, i discepoli incapaci di riconoscere Gesù risorto lungo la via di Emmaus (cfr. Lc 24, 13-35); – spiccato gusto, spesso anche indipendente dalle fonti, per la ricerca dei moventi psicologici che si celano dietro alle azioni o al comportamento dei personaggi: in tal senso, l’introspezione psicologica funge da strumento esegetico per delineare nel modo più esaustivo possibile i contorni dell’episodio: cfr. ad esempio al cap. 22, ove sono esplicitate le ragioni che spingono Lucifero a plagiare proprio la donna (il timore di poter essere smascherato dall’uomo) e costei a peccare (l’arrendevolezza al vizio)52; – digressioni paradossografiche/aneddotiche: cfr. al cap. 25, su luoghi/oggetti in grado di guadagnare agli uomini immortalità; al cap. 36, sulle condizioni di vita ad alta quota; al cap. 53, sulle peculiarità del Mar Morto; – riferimenti puntuali a tradizioni esegetiche ebraiche, in genere riportate sulla scorta di fonti latine, a scopo meramente informativo o in rari casi polemico (cfr. ad es. rispettivamente ai capp. 53 e 46 le formule introduttive neutre Hebraei tradunt/ Altri casi analoghi, che non trovano riscontro in altri testi, si segnalano ad es. ai capp. 29, 49, 57; altrove, invece, il dettaglio è tratto da una precisa fonte di riferimento: cfr. ai capp. 49, 55, 58, 85 e relative note di commento. 52
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dicunt, «gli Ebrei tramandano/ dicono»; al cap. 41 Hebraei fabulantur, «gli Ebrei favoleggiano»)53; – premura di puntualizzare i dogmi dell’ortodossia cristiana, con riferimento polemico a dottrine filosofiche pagane (cfr. al cap. 1, ove si confutano sulla base del testo biblico i fondamenti ontologici postulati dalle dottrine platonica, aristotelica ed epicurea), a correnti ereticali (cfr. al cap. 10, con allusione al catarismo, e ai capp. 18 e 92, con polemica rispetto al traducianesimo), a pratiche astrologiche risolutamente stigmatizzate (cap. 6); circa il momento in cui ebbe luogo la creazione, il nostro autore afferma che la Chiesa tiene per dogma il mese di marzo (cap. 5). Non rari i cenni espliciti al dogma trinitario (cfr. ai capp. 1, 2, 9, 25). Svariati, inoltre, i riferimenti alla cosmologia platonica: l’autore si sforza o di conciliarla con la Genesi (cfr. al cap. 14, a proposito dell’albero della conoscenza del bene e del male e di quello della vita in relazione all’uomo) o, piuttosto, di dimostrarne l’irriducibile fraintendimento di quest’ultima (cfr. al cap. 2, sul concetto di anima del mondo; al cap. 7, sui volatili; al cap. 13, sulla creazione di anima e corpo umani)54; – marcata attitudine – spesso indipendente dalle fonti – a ricercare una spiegazione razionale anche per dettagli narrativi che sì compaiono nel testo biblico, ma che tuttavia non sono strettamente essenziali alla trama della storia biblica (cfr. un caso emblematico al cap. 60, ove l’autore si sforza di trovare una spiegazione plausibile – ossia la volontà di non far entrare i cammelli in città senza che si fossero abbeverati – alla scelta di Eliezer di far sedere gli animali presso il pozzo all’ingresso della città). Ciò vale anche, ed in particolar modo, in relazione ad aspetti legati alla dimensione del miracoloso: così, ad esempio, al cap. 25 si dà conto della particolare natura di un fuoco che brucia senza consumare alcuna sostanza materiale; al cap. 51 si formula un’ipotesi circa la modalità di assimilazione del cibo da parte delle creature angeliche; 53 La menzione, da parte di Pietro Comestore, di tradizioni ebraiche è aspetto tanto peculiare quanto dibattuto tra gli studiosi: cfr. nel merito § Fonti. 54 Sull’ambivalente dialettica tra esegesi cristiana e dottrina platonica, cfr. al cap. 1, n. 14 e al cap. 2, n. 11.
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– icastiche similitudini con riferimento all’esperienza quotidiana (oggetti, situazioni, sentimenti) per raffigurare al lettore un concetto astratto o non immediatamente comprensibile: si vedano, ad esempio, l’allusione – macabra ma efficace – ad un occhio considerato separatamente dall’essere vivente per spiegare il testo di Gen 1, 31 (cap. 10); il parallelo con l’attività di un contadino per dar conto di struttura e funzione dell’arca (cap. 33); il particolare tipo di cecità, detta aorisia, che colpisce i Sodomiti, paragonata alla frequente situazione in cui càpita di trovarsi quando si cerca qualcosa che pure si ha tra le mani (cap. 52)55; – riferimenti puntuali alla Legge: cfr. ad es. al cap. 11 sull’osservanza del sabato; al cap. 24 sulla liceità di cibarsi della carne dell’agnello pasquale; al cap. 34 sugli animali impuri; – digressioni in cui sono illustrate consuetudini liturgiche che rappresentano simbolicamente eventi narrati dalla Genesi (cfr. al cap. 25, l’espulsione di Adamo ed Eva dal paradiso; al cap. 28, l’allontanamento di Caino dalla regione di Eden) o prassi giuridico-ecclesiastiche che traggono origine dall’evento veterotestamentario (cfr. al cap. 28, l’episodio di Caino e Abele giustifica il trattamento riservato a chi si macchia di un delitto di sangue in luogo sacro); – notizie di vario tipo su animali (cfr. al cap. 6, su certi uccelli che non sopportano la luce solare; al cap. 8, sui minuscoli esseri che nascono da sostanze putrefatte o liquidi; al cap. 24, sull’odio che per natura corre fra certe specie animali) e piante (cfr. al cap. 45, su caratteristiche e proprietà attribuite all’albero presso cui Abram abitò; al cap. 89, sui vari tipi di resina); – rapporto tra due differenti unità di misura di lunghezza (cfr. al cap. 33, tra cubito usuale e geometrico). Quanto agli inserti di storia profana, le notizie e/o gli eventi che vi sono riportati possono essere integrati, a propria volta, da spiegazioni di carattere etimologico, eziologico o geografico. 55
Altri casi emblematici sono da noi registrati al cap. 1, n. 18.
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Nel complesso, l’esegesi risulta quasi sempre perspicua e chiaramente argomentata. Ove tuttavia si tratti di letture problematiche e/o controverse, tale qualità non sempre è ravvisabile, anche a motivo della peculiare tecnica di ragionamento adottata, tale per cui un primo dato testuale è glossato e diventa, a sua volta, il punto di partenza per un’ulteriore glossa, e così via fino a che l’autore non ritenga di avere raggiunto un grado soddisfacente di esaustività: in casi simili casi, l’impressione è che a Pietro Comestore interessi forse di più esporre i termini della questione e, al limite, sviscerarli singolarmente, che non proporre una soluzione definitiva e coerente con se stessa sotto ogni profilo56. Vale la pena di sottolineare, altresì, che l’esegesi praticata dall’autore si mostra tutt’altro che pedissequa in rapporto alle fonti; spesso egli si appropria soltanto di uno spunto concettuale, che amplia o riformula. Di più: un elevato numero di letture esegetiche proposte non è riconducibile ad alcuna fonte di riferimento, sicché ci si è dovuti, per così dire, arrendere a registrare nelle note di commento che per il tale passo non è dato individuare un riscontro57. Per così dire a latere dell’esegesi storico-letterale, un ruolo (assai) marginale è comunque riservato anche al commento del testo in chiave tipologico-figurale. I fatti veterotestamentari sono per lo più letti come prefigurazione di fatti legati a Cristo o alla Chiesa: al cap. 14, del termine ‘paradiso’ si indica quale possibile accezione quella di ‘Chiesa’; al cap. 17, l’esclamazione di Adamo sull’unione tra uomo e donna è interpretata come una profezia dell’unione tra Cristo e la Chiesa; al cap. 60, la coscia è vista come simbolo della stirpe di Abramo, a sua volta figura di Cristo; al cap. 65, il movimento alternato dei gemelli Esaù e Giacobbe nel grembo materno è letto come prefigurazione (con l’utilizzo del verbo tecnico prefigurare) del dissenso tra Cristo e Belial, ossia tra cristiani e pagani; al cap. 70, l’allusione di Giacobbe alla ‘porta del cielo’ è intesa come profezia della passione di Cristo, destinata a compiersi in quel luogo. Al cap. 97, il nostro autore dichiara esplicitamente che 56 57
Per un caso significativo, cfr. al cap. 55 e relative note di commento. Su questo aspetto si tornerà in § Fonti.
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le benedizioni rivolte da Giacobbe ai figli ammettono sia una spiegazione ad litteram (tecnicamente «secondo il senso letterale»), ma sono anche chiaramente leggibili in riferimento alla figura di Cristo: la più parte delle benedizioni sarà infatti poi commentata sotto entrambi i profili (cfr. in particolare ai capp. 99, 100, 103, 106, 108). Soltanto al cap. 108 la lettura tipologica non chiama in causa né Cristo né la Chiesa, bensì l’apostolo Paolo, prefigurato da Beniamino. In un singolo caso, si offre un commento spiritualiter («in chiave spirituale»): al cap. 14, il termine ‘paradiso’ indicherebbe, secondo tale prospettiva, la vita beata o la Chiesa58. In altre occasioni, il riferimento a Cristo non si propone come vera e propria lettura tipologica, ma è soltanto funzionale a chiarire il testo nella sua dimensione storico-letterale: si osservino due casi emblematici. Al cap. 69, l’autore afferma che Giacobbe, sebbene dichiari (ingannevolmente) al padre Isacco di essere Esaù, in verità non sta mentendo – perché dopo l’acquisto della primogenitura gli spettano in effetti le prerogative che prima erano del fratello – e porta a confronto un parallelo esplicativo con l’episodio neotestamentario in cui Cristo identifica Giovanni il Battista con Elia (Mt 11, 14), tuttavia – puntualizza – non nella persona fisica, ma nel contesto di un paragone: si badi, dunque, che non è affatto proposta un’equivalenza tipologica tra Giacobbe e Cristo; semplicemente, un episodio che riguarda il secondo è chiamato in causa a spiegarne uno che riguarda il primo. Al cap. 25, si segnala che il fuoco posto all’ingresso del paradiso fu rimosso definitivamente quando, alla morte di Cristo, si estinse: è evidente, anche in questo caso, che l’osservazione non sottende alcuna logica pre-figurativa, ma è finalizzata soltanto – secondo una prospettiva di esegesi storico-letterale – a dar conto al lettore della durata di tale fuoco. Va detto, in ogni caso, che l’esegesi tipologico-figurale non sostituisce mai quella storico-letterale, ma le è semmai complementare, essendo proposta sempre in seconda battuta, dopo che l’episodio veterotestamentario è già stato commentato secondo l’approccio-base 58 Si rammenti quanto osservato in apertura a proposito della generica accezione della formula sensus spiritualis: le due letture si direbbero, nella fattispecie, rispettivamente anagogica (paradiso = vita beata) e tipologico-figurale (paradiso = Chiesa).
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più immediato59. È particolarmente significativo, in tal senso, il caso del cap. 60 (cfr. alle relative nn. 1 e 2): la proposta di lettura tipologica si giustifica poiché deducibile dalla lettera stessa del testo sacro: come a dire che dal primo livello di comprensione della Scrittura trae fondamento e sostegno ogni altro tipo di lettura. Anche la prospettiva tropologico-morale riveste un ruolo decisamente secondario e marginale nel commento. Vere e proprie letture in chiave morale degli episodi biblici narrati figurano in numero davvero esiguo: al cap. 16, l’attività agricola svolta Adamo può suggerire all’uomo di obbedire a Dio, come la terra obbedisce all’uomo; al cap. 52, l’esclamazione pronunciata da Dio (“Scenderò a vedere se abbiano compiuto nei fatti il grido che mi è giunto!”) esorta a non prestare credito alle malvagità degli uomini prima di averle appurate, e la disponibilità mostrata da Lot – a concedere ai Sodomiti le due figlie vergini in cambio dell’inviolabilità di due ospiti – dà luogo ad una discussione ragionata in merito alla cosiddetta compensatio flagitiorum («compensazione dei delitti»), vale a dire alla liceità o meno di scambiare un peccato con un altro; al cap. 53, l’episodio della distruzione di Sodoma offre lo spunto per una lapidaria sentenza moraleggiante; al cap. 59, a commento del legale acquisto, da parte di Abramo, di un campo come luogo di sepoltura, l’autore puntualizza che anche alla sua epoca un siffatto acquisto non costituisce peccato. In altri casi, notazioni che pure chiamano in causa la sfera morale si direbbero tuttavia al servizio di una più puntuale comprensione del testo nella sua dimensione storico-letterale. Così, per esempio, al cap. 52, l’espressione biblica ‘il grido di Sodoma e di Gomorra’ dà luogo ad una precisazione sulla differenza tra peccato e colpa – il peccato porta con sé il grido; la colpa implica la libertà: si comprende come l’autore non intenda articolare una lettura morale rigorosamente intesa, ma semmai spiegare che cosa si debba intendere per ‘grido’. Lo stesso vale anche per cenni a prassi o condotte comportamentali, introdotti più secondo una prospettiva eziologica – segnalare che la tale prassi trae origine dall’episodio veterotestamentario – che tropologiNel caso della lettura tipologica segnalata al cap. 17, il passo veterotestamentario è invece commentato in chiave storico-letterale soltanto in séguito (cap. 20). 59
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ca: cfr. ai capp. 50 e 56 sulla circoncisione, e al cap. 32 sulle pratiche in materia di cibo. Pressoché assente, infine, la prospettiva anagogica (che Pietro Comestore, peraltro, nemmeno menziona nell’àmbito della Prefazione): al cap. 14, il termine ‘paradiso’ è indicato come una designazione della vita beata; al cap. 82, a giustificare l’espressione biblica ‘inferno’ adoperata da Giacobbe, si illustra il luogo cosiddetto ‘seno dell’inferno’ o ‘seno di Abramo’, destinato alla vita post mortem dei beati.
Fonti Il primo riferimento ipotestuale è, ovviamente, il testo biblico: la trama narrativa aderisce piuttosto fedelmente, nella sua struttura generale, alla traccia offerta dalla Genesi; in aggiunta, assai frequenti sono le citazioni scritturali desunte da altri libri biblici, sia veterotestamentari che neotestamentari, e integrate nel commento con funzione esplicativa di un dato passo della Genesi60. I criteri di citazione del testo biblico adottati dall’autore sono tutt’altro che omogenei. Anzitutto, la citazione della Scrittura non è pressoché mai integrale sotto il profilo del contenuto, ma sono estrapolati dall’ipotesto i soli versetti, o sezioni di versetto, o singoli elementi testuali, che offrano dati narrativi essenziali ad un coerente sviluppo della trama61; non sono rari i casi in cui il passaggio testuale è dato per noto al lettore, cui è lasciato il compito di completare la citazione, soltanto avviata e come lasciata in sospeso dalla formula et cetera («eccetera»). Di conseguenza, anche l’aspetto più propriamente formale della citazione varia a seconda della circostanza: l’autore, in genere, non cita ad litteram se non per brevi spezzoni di testo o sintagmi isolati, preferendo piuttosto riformulare i concetti biblici con parole proprie. I discorsi diretti che figurano nella Genesi sono mantenuti o riproposti in forma Come già osservato trattando delle varie tipologie di esegesi. Si rammenti anche quanto segnalato a proposito della configurazione strutturale dell’opera: ove l’impianto narrativo veterotestamentario sia giudicato lacunoso o poco coerente, l’autore non esita ad intervenire riorganizzandolo secondo un criterio di maggior organicità. 60 61
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indiretta secondo un criterio che non pare rispondere ad una logica particolare o consapevole; talora, inoltre, si ha l’impressione che la lettura ‘in parallelo’ del testo biblico e di altre fonti dia luogo a contaminazioni formali anche microscopiche, vale a dire scelte lessicali puntuali eppure meramente sinonimiche rispetto alla lezione della Scrittura62. Si segnala altresì un caso in cui alla narrazione come essa si legge nella Genesi è sostituita la corrispondente parafrasi, con commento esplicativo integrato, offerta da un’altra fonte63. Sebbene Pietro Comestore non offra indicazioni esplicite sulla particolare edizione del testo sacro da lui adottata64, il testo biblico risulta di norma citato secondo la versione Vulgata, approntata da Girolamo alla fine del IV secolo; non mancano, tuttavia, passi per i quali è dato individuare un riscontro preciso nel vasto àmbito delle Veteres Latinae (cfr. ai capp. 24 e 48), le innumerevoli traduzioni della Scrittura in latino, per lo più approntate sul testo greco, circolanti in epoca anteriore alla fissazione della Vulgata; altrove la lezione adottata dall’autore non trova un effettivo parallelo tra le Veteres, ma quasi certamente è da ricondurre a quel contesto di provenienza (cfr. ai capp. 13 e 84); in rari casi, invece, non si dà riscontro alcuno (cfr. ai capp. 37 e 107). Occorre precisare, a tal proposito, che una valutazione precisa di quale forma testuale sia stata effettivamente impiegata da Pietro Comestore si rivela assai ardua anzitutto per questioni di ordine metodologico65: molte tra Cfr. un caso emblematico al cap. 71, ove il verbo che introduce una richiesta da parte di Giacobbe, nella nostra resa «chiese notizie» è il raro percunctari, laddove nella Vulgata figura il più comune interrogare: la scelta di Pietro Comestore coincide con quella adottata da Flavio Giuseppe nella sua narrazione. 63 Si rimanda nel dettaglio alle note di commento al cap. 74. 64 Ambigua suona infatti l’affermazione che chiude il cap. 16, alla cui n. 7 si rimanda per osservazioni più puntuali. 65 L’indagine richiederebbe uno studio specifico e approfondito che non è stato possibile affrontare in questa sede. Agneta Sylwan registra qua e là in apparato talune lezioni che identifica genericamente come appartenenti alle Veteres Latinae (attraverso la sigla VL): ciononostante, talora sorge il dubbio se il riferimento sia davvero pertinente e necessario. Si veda, a titolo esemplificativo, al cap. 37, ove il testo ricostruito dalla Sylwan legge dixit Dominus ad Noe («il Signore disse a Noè»), a fronte di locutus est autem Deus ad Noe («ma Dio disse a Noè») della Vulgata: l’editrice segnala in apparato che dixit è lezione proveniente dalle Veteres; va da sé, 62
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le versioni Veteres, come già si accennava (cfr. § Tipologie di esegesi, alla n. 48), non sono ancora identificate e/o repertoriate; la citazione biblica è elemento testuale in larga misura soggetto ad interferenze dovute alla memoria dell’autore e/o dei copisti, nonché − ove la citazione non proceda ‘a memoria’ − alla tradizione testuale di cui essi dispongono; nel nostro caso, a ciò si aggiunge l’aspetto poc’anzi rilevato, ossia che la selezione cui l’autore sottopone i contenuti stessi del testo sacro comporta inevitabilmente che essi vengano poi ricomposti in una facies che mai potrà del tutto coincidere con quella originale. Per quanto concerne le fonti dell’esegesi, valgono alcune osservazioni di stampo analogo: quasi mai la ripresa è integralmente ad litteram; in genere, l’autore desume dal passo (o dai passi) di riferimento uno o più concetti fondamentali (per questioni esegetiche complesse, ad esempio, il nucleo concettuale di un’argomentazione), che ripropone poi armonizzandoli in un tessuto discorsivo organico e unitario. Pur al netto di questo peculiare modo di procedere, traspare quasi sempre un sostanziale rispetto per i contenuti offerti dalla fonte; soltanto in rarissimi casi l’operazione finisce per tradire – almeno in parte – quanto si legge nel testo di riferimento: gli si fa dire ciò che in realtà non dice e/o se ne rielaborano i singoli elementi imprimendo loro una logica consequenziale che non è dato ravvisare nell’ipotesto66. Ciononostante, non tutte le informazioni di carattere esegetico trovano un riscontro, più o meno preciso, nelle fonti. Di nuovo, si affaccia una ineludibile questione di ordine metodologico: se, cioè, non sia dato individuare un parallelo perché, in effetti, esso non sussiste e, perciò, i commenti al testo sacro sono da attribuire allo stesso Pietro Comestore; o, in alternativa, se il parallelo non si trovi a motivo di una lacuna nella tradizione testuale, tale per cui la (presunta) fonte di un passo è andata perduta dall’epoca dell’au-
tuttavia, che – essendo entrambi i verbi di uso assai comune – potrebbe trattarsi semplicemente di una riformulazione del dettato biblico operata dallo stesso Pietro Comestore, che ri-esprime il verbo locutus est con il sinonimo dixit (si osservi, peraltro, che anche a Deus è sostituito Dominus). 66 Cfr. emblematicamente al cap. 43 e relative note di commento.
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tore ai giorni nostri67. Questa seconda eventualità si configura, ovviamente, come assai rara e anti-economica, ma è da tenere in considerazione specie per le informazioni che l’autore attribuisce espressamente ad una certa fonte, non però individuabile68. Quanto alle letture esegetiche che non trovano paralleli e di cui non è neppure indicata la paternità, si può ragionevolmente ipotizzare, o quantomeno non escludere, che siano contributo originale di Pietro Comestore; soltanto i passaggi dal contenuto per così dire ‘tecnico’ ci sembrano richiedere di necessità un puntuale riferimento esterno69. L’autore mostra una spiccata attitudine a conciliare le letture proposte da due fonti – una delle quali può essere lo stesso testo biblico – ove esse divergano in merito ad un medesimo punto testuale: le differenti letture sono presentate singolarmente e avvalorate entrambe per mezzo di argomenti a sostegno70. L’alterOvviamente, non si può nemmeno escludere l’eventualità che le notizie siano state apprese dall’autore per via orale, se non che appare improbabile che esse non abbiano lasciato qualche traccia in altri testi scritti. Occorrerebbe, a tal riguardo, indagare dappresso quali opere fossero disponibili a Pietro Comestore, a Troyes e a Parigi, ed esaminarne la tradizione manoscritta: indagine che non ci è stato possibile affrontare nello specifico in questa sede. Si segnala tuttavia G. Ouy, Les manuscrits de l’abbaye de Saint-Victor. Catalogue établi sur la base du répertoire de Claude de Grandrue (1514) (Bibliotheca Victorina, 10), 2 vol., Turnhout, 1999: catalogo in cui i manoscritti di opere che abbiamo individuato quali fonti del nostro testo datano ad un’epoca posteriore a quella di Pietro Comestore o, laddove nello stesso secolo, la datazione proposta è approssimata all’ordine dei decenni; senza contare il fatto che il nostro autore potrebbe aver avuto accesso anche a manoscritti che non compaiono nel catalogo. Agneta Sylwan, sulla base del confronto con i manoscritti «conservati» della biblioteca di San Vittore a Parigi, propone una lista di quelli «certamente accessibili a Pietro Comestore durante il suo soggiorno parigino tra il 1150 e 1179» che contengono opere ipotizzate dalla studiosa quali fonti del nostro testo: cfr. Petr. Comest., Hist. Schol. − ed. A. Sylwan, p. xxviii s. 68 Cfr. ad es. al cap. 6, le tre differenti tradizioni sulla sorte della nube luminosa. Enigmatiche, inoltre, sono le due occorrenze in cui l’autore attribuisce una data lettura esegetica a degli imprecisati «santi» (cfr. ai capp. 4 e 37): non è dato né trovare un qualche parallelo per la lettura né intuire a chi precisamente alluda il generico appellativo. 69 Cfr. il caso emblematico del cap. 65, ove non tutti i dettagli sulle possibili modalità di consultazione oracolare trovano riscontro altrove. 70 Cfr. ad es. al cap. 30 con Strabone e Flavio Giuseppe, sul concepimento e la nascita di Seth; al cap. 39 con Metodio e Genesi, sulla stirpe di Nemroth; al cap. 55 con due distinti e divergenti passi della Genesi, sull’identità del padre di Sara; al 67
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nativa sarebbe quella di rifiutare una delle due: ma il prezzo di dover smentire un’auctoritas doveva forse apparire al nostro autore troppo alto (nonché, in fondo, non strettamente necessario: se è possibile accogliere, conciliandole, due diverse e complementari letture, perché non farlo?). Ciò comporta, però, che sia talvolta la tenuta logico-argomentativa dello sforzo conciliante a dover pagare il prezzo di una coerenza poco rigorosa e di una perspicuità non del tutto limpida71. Non manca qualche raro caso in cui le fonti ospitano un errore patente e indiscutibile: nemmeno allora l’autore ne mette in discussione l’auctoritas, ma attribuisce piuttosto la svista a qualche incidente estemporaneo nella tradizione testuale (nello specifico, ad un errore di copista: così ai capp. 41 e 76). Altra cifra distintiva – tanto dell’esegesi derivata da fonti quanto di quella per cui non si dà riscontro – è l’esigenza di trovare una spiegazione razionale per ogni minimo dettaglio che, per qualche motivo, possa suonare singolare72. Risulta dunque ben evidente come l’approccio dell’autore al commento del testo sacro non sia affatto compilatorio, ma mostri, anzi, una forte impronta originale. La fonte delle singole letture esegetiche non è sempre indicata in modo esplicito: in genere, è piuttosto taciuta che allegata. Le auctoritates menzionate più di frequente sono Flavio Giuseppe, Girolamo, Agostino e Metodio; in rarissime o singole occorrenze si fanno i nomi di Strabone, Alcuino, Rabano, Ugo, Isidoro, Eusebio, Beda, Filone, ma anche di autori classici quali Quintiliano e Nicolao Damasceno, nonché di autori/storici pagani dai contorni vagamente leggendari o indefiniti (la Sibilla, Beroso, Esizio, etc.)73. cap. 65 con Flavio Giuseppe e Genesi, sulla nascita di Esaù e Giacobbe in relazione alla morte di Abramo; al cap. 93 con Flavio Giuseppe e Genesi, sul luogo di stanziamento di Giuseppe e fratelli in Egitto. 71 Tre casi emblematici si registrano ai capp. 75 e 90, nello sforzo di armonizzare Flavio Giuseppe con il testo della Genesi, rispettivamente circa: la distanza in giorni di cammino tra Giacobbe e Labano (cap. 75); la tipologia di monumento eretto da Giacobbe (cap. 75); la dimensione della porzione di Beniamino rispetto a quella degli altri fratelli (cap. 90). 72 Si rammentino gli esempi segnalati a riguardo in § Tipologie di esegesi. 73 Ma si badi che la menzione esplicita non è affatto garanzia di citazione per via diretta dalle opere degli autori in questione: daremo conto dettagliatamente di
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Altri autori o opere sono pure citati senza essere espressamente menzionati74. La logica cui risponde la menzione o meno della fonte appare alquanto sfuggente: non pare nemmeno di poter affermare – come si potrebbe pensare – che essa ricorra di preferenza laddove questioni esegetiche controverse necessitino perciò di essere risolte da un’auctoritas di riferimento accreditata. Ciò premesso, il commento alla Genesi si avvale di alcune fonti ben riconoscibili: – la cosiddetta Glossa Ordinaria, un’opera di servizio destinata allo studio del testo sacro: trascritto al centro del foglio, esso è accompagnato tutt’intorno da passi esegetici – che variamente indagano i quattro possibili sensi della Scrittura – estrapolati, in genere non ad litteram, dai commentari patristici (le citazioni più frequenti riportano la sigla di Girolamo, Agostino, Alcuino, Isidoro e Gregorio) e, nell’interlinea, da succinte glosse, sinonimiche o di altro genere. Si tratta di un’opera la cui redazione, stratificata nel tempo, giunse a compimento pressoché definitivo soltanto nella prima metà del XII secolo, fissandosi in una forma standard nota appunto come Glossa Ordinaria: per lungo tempo, tuttavia, si indicò in Valafrido Strabone – esponente di prim’ordine del panorama religioso e culturale di epoca carolingia (IX sec.) – l’autore unico dell’opera75. I passi di commento alla Scrittura che Pietro Comestore desume dalla Glossa sono numerosissimi e delle più svariate tipologie nell’àmbito dell’esegesi storico-letterale. La facies delle citazioni manifesta che dalla Glossa provengono di norma anche le citazioni espressamente attribuite agli autori per così dire ‘canonici’ di epoca patristica e non (Girolamo, Agostino, Alcuino, Rabano, Strabone, Isidoro, Eusebio, Beda, Filone): se quest’aspetto nel prosieguo. Un elenco di tutti gli autori menzionati da Pietro Comestore nel corso dell’opera, corredato di numero di occorrenze, è offerto in Petr. Comest., Hist. Schol. − ed. A. Sylwan, p. xix, alla n. 30. 74 Per qualche indispensabile informazione su biografia e opere dei singoli autori, menzionati e non, si rimanda alle note di commento al testo, in corrispondenza della prima occorrenza in cui essi figurano citati e/o impiegati come fonte. 75 Sotto la sigla di Strabone, la Glossa ospita inoltre alcuni estratti: cfr. al cap. 30, n. 1.
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è peraltro lecito ragionare secondo un criterio di economia, è senza dubbio più economico supporre che a Pietro sia bastato il ricorso ad un sola opera di servizio (la Glossa) che immaginare uno sforzo costante nel consultare di volta in volta i singoli commentari. Va detto che la natura testuale della Glossa, di per sé mobile sebbene standardizzatasi a partire da una certa epoca, pone una spinosa questione di ordine metodologico. Nella realtà, infatti, ogni singolo testimone della Glossa sarà stato diverso dagli altri, e non soltanto a motivo di incidenti occorsi durante la tradizione – al pari di qualsiasi altro testo manoscritto – come banali errori di copista, ma anche, e in particolar modo, sotto il profilo della dizione e dei contenuti: passi trascritti in una veste linguistica più o meno aderente alla fonte patristica; estratti riportati in modo più ampio o più conciso, o addirittura mancanti; letture esegetiche di cui non è segnalato il nome dell’auctoritas di provenienza. Gli studi attuali possono fare affidamento su una sola edizione della Glossa, una ristampa in fac-simile della sua editio princeps76. Pur in mancanza di una documentazione bibliografica che consenta di stabilire quale forma della Glossa, se non quale preciso manoscritto, fosse a disposizione di Pietro Comestore77, l’analisi testuale da noi condotta ha rilevato qualche caso che parrebbe suggerire piccole discrepanze tra l’esemplare della Glossa adoperato dall’autore e l’editio princeps riprodotta nell’edizione poc’anzi menzionata (Turnhout 1992)78; Cfr. Biblia latina cum glossa ordinaria. Facsimile reprint of the ‘editio princeps’ Adolph Rusch of Strassburg 1480/81 (introduction by K. Froehlich – M. T. Gibson), 4 vol. in folio, Turnhout, 1992. L’editio princeps, che non dichiara quali manoscritti siano stati assunti a riferimento, è stata poi ristampata nella serie della Patrologia Latina (PL 113-114), in modo tuttavia incompleto (mancano, su tutto, le glosse interlineari) e parzialmente interpolato. 77 Si tratta, anche in questo caso, di uno studio settoriale non affrontato in questa sede. I pochi testimoni del libro di Genesi glossato (tutti, peraltro, di datazione posteriore all’epoca di Pietro Comestore) catalogati in Ouy, Les manuscrits non sono disponibili nelle banche dati per la consultazione digitale. 78 Valgano un paio di casi emblematici. Al cap. 41, Pietro Comestore segnala che Agostino nutre dubbi circa l’etimologia del nome ‘Ebrei’; anche la Glossa (ed. Turnhout 1992) riporta il medesimo interrogativo, ma l’estratto figura senza sigla indicante l’auctoritas di riferimento: può darsi che si tratti di una semplice 76
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– commentari biblici di epoca patristica o posteriore: al netto del modus operandi appena illustrato − che sembra privilegiare la citazione dei Padri attraverso la mediazione della Glossa piuttosto che per via diretta − è fuori discussione, in ogni caso, che il nostro autore potesse accedere alla maggior parte (se non alla quasi totalità) dei testi esegetici: la biblioteca di una cattedrale importante quale era all’epoca San Vittore dovette senz’altro offrire all’autore un patrimonio bibliografico ricchissimo e aggiornato. Nel corso dell’opera, non mancano casi in cui la citazione patristica non figura nella Glossa (ed. Turnhout 1992), sicché si direbbe tratta direttamente dal commentario specifico79. Tra gli autori di epoca non patristica, pur mai menzionati in modo esplicito e presenti in modo marginale nel tessuto del commento, si segnalano in particolare Remigio di Auxerre, monaco benedettino di età carolingia che compose un’Expositio super Genesim, e Onorio Augustodunense, teologo e filosofo attivo nella prima metà del XII secolo, la cui summa enciclopedica di cosmologia e storia universale, dal titolo De imagine mundi, offre al nostro autore sporadici ma ben riconoscibili dati testuali; – la versione latina delle due principali opere storiografiche di Flavio Giuseppe, storico di origine ebraica, attivo a Roma nella seconda metà del I secolo d.C. Dopo aver partecipato alle prime fasi dell’insurrezione ebraica contro il dominio imperiale romano (66-67 d.C.), Giuseppe fu condotto a Roma e qui liberato dall’imperatore Vespasiano, da cui assunse il gentilizio lacuna del manoscritto riprodotto nell’ed. Turnhout 1992, e che la Glossa di Pietro Comestore recasse invece la sigla di Agostino; in alternativa, si dovrebbe formulare l’ipotesi – tuttavia decisamente anti-economica – per cui lo stesso Pietro si sia impegnato a cercare un riscontro nelle fonti patristiche per il passo adespota. Al cap. 81, il nostro autore indica che tale Iobab è da alcuni identificato con Giobbe; la Glossa (ed. Turnhout 1992) annota la chiosa a proposito di Husan, non di Iobab; a Iobab è riferita però nel passo-fonte (da Girolamo): ove non si voglia ammettere che il manoscritto della Glossa utilizzato da Pietro riportasse correttamente l’indicazione riguardo a Iobab, si dovrebbe ancora prospettare lo sforzo ulteriore, da parte dell’autore, di controllare il passo direttamente in Girolamo. Per altri due casi analoghi, cfr. al cap. 58, nn. 10 e 11. 79 Anche se, in linea di principio, nulla può escludere l’eventualità che tali passi figurassero nell’esemplare della Glossa consultato da Pietro Comestore: cfr. supra.
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Flavio; fu al séguito di Tito in occasione della distruzione di Gerusalemme (70 d.C.) e si stabilì poi a Roma presso la corte imperiale dei Flavî, che gli accordarono protezione e onori. Flavio Giuseppe scrisse in lingua greca due opere che hanno per oggetto la storia ebraica, note all’occidente medievale nelle relative traduzioni in latino e ampiamente sfruttate in ambiente cristiano, specie in sede esegetica, appunto per l’inquadramento storico che potevano offrire agli eventi narrati nel testo biblico: le Antichità Giudaiche (in latino Antiquitates Iudaicae), storia in 20 libri del popolo ebraico dalle origini all’epoca dell’autore, ai cui libri I e II – sovrapponibili alla storia della Genesi – Pietro Comestore attinge con larga abbondanza (la prima citazione ricorre al cap. 15); la Guerra Giudaica (in latino Bellum Iudaicum), monografia in 7 libri sullo scontro tra ebrei e romani (66-70 d.C.), che offre al nostro autore un paio di occasionali spunti (ai capp. 46 e 53). Le Antichità Giudaiche furono interamente tradotte in latino nel corso del VI secolo a Vivarium, nell’àmbito di un più vasto progetto di traduzioni dal greco voluto da Cassiodoro, esponente di spicco del mondo politico e culturale della sua epoca80. Della Guerra Giudaica furono invece approntate due traduzioni – entrambe di autore incerto e risalenti al IV secolo, ma assai diverse tra loro per caratteristiche – che ebbero ampia circolazione in epoca medievale: Pietro Comestore cita il testo secondo la traduzione in 7 libri, condotta in sostanziale aderenza alla traccia del testo greco, nota come Iosephus Latinus («Giuseppe Latino»), a torto attribuita dai medievali a Girolamo o a Rufino; l’altra versione, in 5 libri, nota come “Pseudo-Egesippo” e per lungo tempo falsamente attribuita ad Ambrogio, molto rielabora il testo greco operando anche vistosi tagli al contenuto81. Le citazioni Di questa traduzione latina è disponibile una sola – ma autorevole – edizione critica, limitata ai primi cinque libri dell’opera: cfr. The Latin Josephus. Introduction and text. The Antiquities: books I-V − ed. F. Blatt, København, 1958. 81 Dello Iosephus Latinus non esistono edizioni critiche; ci è stato possibile consultare il testo nella riproduzione digitale di un’edizione cinquecentesca integrale delle opere in versione latina di Flavio Giuseppe: cfr. Flavii Iosephi Opera − ed. I. Frobenius, Basileae, 1524. Agneta Sylwan afferma che un esame delle varianti 80
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da Flavio Giuseppe sono frequentissime nel corso dell’opera, tacite o introdotte dalla menzione esplicita della fonte (in latino Iosephus). L’impressione è che Pietro Comestore effettuasse una incessante collazione tra il testo di Genesi e le Antichità di Flavio Giuseppe: queste consentono di integrare la trama narrativa offerta dal testo biblico con informazioni aggiuntive, allo scopo di tratteggiare il contesto dell’episodio in termini quanto più esaustivi sotto il profilo storico-letterale; talora, in obbedienza a tale logica, i due ipotesti – Genesi e Flavio Giuseppe – si intrecciano nel tessuto discorsivo secondo il ritmo di un’alternanza serrata (cfr. al cap. 45). Il grado di affidabilità – di auctoritas in senso stretto – attribuito dal nostro autore alla testimonianza di Flavio Giuseppe è per lo più indiscusso: può capitare, anzi, che proprio lo storico sia chiamato in causa quale testimonianza dirimente rispetto a dati controversi o incongruenti che figurano nello stesso testo sacro (cfr. al cap. 60); in genere, anche nel caso di dati a prima vista inconciliabili tra Genesi e Flavio Giuseppe, ci si sforza di trovare le ragioni sia di uno che dell’altro (cfr. ai capp. 65 e 93), anche talora a costo di formulare un ragionamento piuttosto capzioso (cfr. ai capp. 75 e 90). Ulteriore spia della lettura in parallelo dei due testi è una nutrita serie di contaminazioni microscopiche, che dal testo di Flavio Giuseppe confluiscono nella trama espositiva biblica: singole scelte lessicali meramente sinonimiche rispetto alla lezione del testo sacro, giri di frase, sintagmi isolati (cfr. ai capp. 46 e 71); – commentari biblici approntati in ambiente vittorino, senza dubbio noti e accessibili al nostro autore: si tratta, nella fattispecie, della sezione relativa alla Genesi delle Adnotationes testuali significative porta a concludere che Pietro Comestore ha utilizzato un manoscritto appartenente alla famiglia siglata v della tradizione di Flavio Giuseppe latino, famiglia che si caratterizza per il fatto di riportare le Antichità Giudaiche in forma parziale (libri 1-12 e 18-20) e la Guerra Giudaica per intero (libri 1-7): cfr. Petr. Comest., Hist. Schol. − ed. A. Sylwan, p. xxii, che rimanda in nota a Fl. Ios., Ant. Iud. − ed. F. Blatt, p. 50-52 e stemma codicum allegato. Il testo critico dello “Pseudo-Egesippo” è invece pubblicato come Hegesippi qui dicitur Historiae libri V − ed. V. Ussani (CSEL, 66), Vindobonae, 1960.
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elucidatoriae in Pentateuchon («Note di chiarimento al Pentateuco») di Ugo di San Vittore, filosofo e teologo poco più anziano di Pietro Comestore e primo esponente di rilievo della scuola vittorina all’inizio del XII secolo, e dell’Expositio super Heptateuchum: in Genesim, parte di un più ampio commento all’intero Ettateuco, opera di Andrea di San Vittore, allievo e successore di Ugo. Sono entrambi commentari che, sebbene organizzati secondo il criterio schematico (successione di singoli spezzoni di versetto, o lemmi sciolti, corredati di relativo commento) che – come visto – Pietro Comestore stigmatizza nel Prologo, tendono anch’essi a privilegiare la lettura in chiave storico-letterale del testo sacro, configurandosi dunque come ricchi di potenziali spunti per l’opera del nostro autore. In verità, una precisa valutazione dei prestiti che egli potrebbe aver desunto dalle due fonti è ardua, e non soltanto perché i nomi dei due maestri vittorini non sono mai menzionati esplicitamente da Pietro Comestore, se non una volta quello di Ugo (appunto con l’appellativo di magister Hugo: cfr. al cap. 92): i commentari di entrambi, ma in misura maggiore l’Expositio di Andrea, accolgono in sé letture già ospitate dalla Glossa; l’esegesi di Andrea è inoltre fortemente debitrice al commento del suo maestro Ugo, sicché non è raro che intere sezioni delle Adnotationes siano riproposte nell’Expositio addirittura alla lettera. In simili casi è pressoché impossibile stabilire da quale fonte Pietro Comestore abbia effettivamente derivato la citazione82: in ogni caso, la presenza di passi che trovano riscontro solo in Ugo o solo in Andrea suggerirebbe che una consultazione diretta, per quanto sporadica, di entrambi gli autori sia senz’altro da postulare; – presunte fonti esegetiche di tradizione ebraica: si è detto ‘presunte’ poiché la questione è assai controversa e tuttora insoluta. Assai numerose sono le occasioni in cui il nostro autore propone una lettura esegetica attribuendola espressamente alla tradizione ebraica, mediante l’uso di formule introduttive quali Hebraei tradunt/ aiunt/ putant/ fabulantur («gli Ebrei 82
Nelle nostre note di commento sono dunque registrate entrambe le fonti.
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tramandano/ sostengono/ ritengono/ favoleggiano») e simili: nella quasi totalità dei casi, tuttavia, l’esegesi si rivela inoppugnabilmente desunta da una qualche fonte di servizio, su tutte dalla Glossa; ma anche, in più rari casi, dai commentari di Ugo e di Andrea di San Vittore83. Tale considerazione basta a denunciare l’inconsistenza della pur suggestiva ipotesi formulata da Esra Shereshevsky84: alla luce della presenza di numerosi passi introdotti dalle formule poc’anzi menzionate, egli suppone che Pietro Comestore abbia inserito nell’opera tradizioni ebraiche apprese per via diretta e orale dai dotti ebrei («which he heard from Jewish scholars»), durante gli anni trascorsi a Troyes85, con i quali è verosimile credere che egli intrattenesse proficui e scambievoli rapporti culturali; lo studioso allega una puntuale rassegna di tutti i passi dell’Historia Scholastica – anche non espressamente introdotti dalle formule di cui sopra – che, a suo dire, troverebbero riscontro nelle fonti esegetiche ebraiche. Confutano la ricostruzione di Shereshevsky alcune convincenti obiezioni avanzate da Samuel T. Lachs86: la vicinanza spaziale non può essere di per sé stessa prova dell’esistenza effettiva di rapporti tra ambienti ebraici e cristiani (e tanto meno di rapporti proficui: in un’epoca in cui, anzi, le dispute dottrinali erano alimentate proprio dalla differente interpretazione del testo sacro); sulla scorta dei Padri della Chiesa, Pietro Comestore adopera l’appellativo di Hebraei («Ebrei») ad indicare o il popolo di epoca biblica o coloro che sfruttano la propria conoscenza delle tradizioni ebraiche allo 83 Che costoro abbiano invece utilizzato fonti ebraiche a loro contemporanee è pressoché dimostrato: cfr. A. Grabois, ‘The Hebraica veritas and Jewish-Christian intellectual relations in the Twelfth Century’, Speculum, 50 (1975), p. 613-634, alle p. 620-625. 84 Cfr. E. Shereshevsky, ‘Hebrew Traditions in Peter Comestor’s Historia Scholastica. I. Genesis’, The Jewish Quarterly Review, 59 (1969), p. 268-289. 85 Come già accennato (cfr. § Pietro Comestore: vita e opere, alla n. 3), la città di Troyes era all’epoca del nostro autore sede di una prestigiosa scuola rabbinica, fondata qualche decennio prima da Rashi († 1105), uno dei maggiori esponenti del mondo rabbinico medievale e autore di numerosissimi commenti alla Bibbia ebraica. 86 Cfr. S. T. Lachs, ‘The source of Hebrew traditions in the Historia Scholastica’, The Harvard Theological Review, 66 (1973), p. 385-386.
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scopo di commentare il testo biblico; i membri delle comunità ebraiche contemporanee all’autore sono designati invece con il nome di Iudaei («Giudei»: cfr. inoppugnabilmente al cap. 58, ma anche ai capp. 48 e 56); per la quasi totalità delle tradizioni attribuite da Pietro agli Ebrei è possibile indicare una precisa fonte di riferimento intermedia latina87. Va detto, tuttavia, che, pur al netto della scarsa solidità del quadro ricostruito, lo studio di Shereshevsky si rivela comunque utile poiché registra un parallelo nell’esegesi ebraica per alcuni passi dell’Historia Scholastica, non introdotti da formule quali Hebraei tradunt e simili, di cui altrimenti non è dato individuare alcuna fonte di riferimento latina88; – il trattato enciclopedico-etimologico, dal titolo Etymologiae sive Origines, di Isidoro vescovo di Siviglia, attivo tra VI e VII secolo: Pietro Comestore vi attinge con una certa frequenza, sebbene – come già rilevato in § Tipologie di esegesi – l’indagine etimologica si spinga talora ben oltre quanto offerto dalla tradizione; – il trattato di geografia dei luoghi santi, noto come De locis sanctis, di Rorgo Fretello, figura di cui poco si sa, verosimilmente da identificare in un arcidiacono attivo a Nazareth nella prima metà del XII secolo: Pietro Comestore, senza tuttavia mai dichiarare il nome della fonte, desume dall’opera alcune peculiari informazioni in materia geografica e topografica; – la cronaca profetica nota con il titolo Revelationes de novissimis temporibus («Rivelazioni sulla fine dei tempi») e circolante sotto il falso nome di Metodio vescovo di Patara (città della Licia), martire all’inizio del IV secolo: si tratta di un peculiare testo di genere apocalittico, in cui trova spazio un racconto profetico – denso di notizie singolari e spesso non attestate altrove – non soltanto sulla fine dei tempi, ma anche sulle vicende successive alla creazione stessa. L’opera si configura scopertamente quale traduzione in latino di un originale testo composto in lingua greca: ciò è dichiarato dallo stesso traduttore, che si firma Pe87 88
Come, in effetti, da noi verificato in sede di analisi testuale. All’occorrenza, ne daremo conto nelle note di commento al testo.
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trus monachus («Pietro monaco»), nella breve prefazione anteposta al testo. Gli studiosi ipotizzano tuttavia l’esistenza di un più antico originale, redatto in lingua sira intorno alla fine del VII secolo, in risposta all’avanzata musulmana contro la cristianità bizantina; questo testo fu poi tradotto in greco e, di qui, in latino nel corso dell’VIII secolo. La versione latina ebbe poi larga diffusione tra gli ambienti di cultura dell’occidente medievale, che vi attinsero come da fonte accreditata di storia veterotestamentaria89. La cronaca profetica dello Pseudo-Metodio consente al nostro autore di integrare la trama narrativa della Genesi con fatti che qui non figurano, corredati per lo più di puntuale collocazione cronologica, o con riferimenti apocalittici alla fine dei tempi; non è rara la menzione esplicita del nome di Methodius quale fonte delle notizie; – opere che trattano di filosofia pagana: in genere non identificabili con precisione, è tuttavia verosimile che tali fonti fossero parte del retroterra culturale di Pietro Comestore. Fu appunto il XII secolo a vedere il culmine dello studio – e della ri-elaborazione a servizio del pensiero teologico cristiano – della filosofia platonica (rilevante fu, in questo senso, il ruolo della scuola filosofico-teologica di Chartres), nonché l’avvio del rinnovato interesse per quella aristotelica, di cui si approntarono le prime traduzioni in latino. Di una sola opera, un cui passaggio è citato ad litteram (cap. 13), è pressoché certo che Pietro Comestore fosse a conoscenza: la traduzione latina con commento, realizzata intorno alla metà del IV secolo dall’intellettuale cristiano Calcidio, del dialogo intitolato Timeo, unico testo platonico L’edizione critica della versione latina del testo, approntata sulla base dei quattro più antichi manoscritti (risalenti all’VIII secolo), figura in Sibyllinische Texte und Forschungen. I Pseudo-Methodius − ed. E. Sackur, Halle a. S., 1898. Agneta Sylwan ipotizza che l’estratto delle Revelationes contenuto in Tr, uno dei manoscritti più antichi dell’Historia Scholastica, sia opera dello stesso Pietro Comestore; osserva inoltre che il testo dei passi che Pietro deriva dallo Pseudo-Metodio corrisponde più a quello di tale estratto che a quello delle Revelationes, e ne conclude perciò che Pietro abbia utilizzato come fonte per la sua opera proprio l’estratto: cfr. Petr. Comest., Hist. Schol. − ed. A. Sylwan, p. xxiv. Non avendo avuto modo di consultare il manoscritto contenente l’estratto, corre l’obbligo di avvertire che nelle note di commento al testo ci riferiremo all’ed. E. Sackur sopra citata. 89
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che continuò a circolare – in virtù della prospettiva cosmologica cui dava voce, potenzialmente conciliabile con la visione cristiana – anche in epoca tardoantica e poi medievale90; – qualche testo con cui il nostro autore lascia trasparire, più o meno in filigrana, una certa dimestichezza: la pseudo-epistola indirizzata da Alessandro Magno al filosofo Aristotele durante la spedizione nel territorio indiano, che si configura come uno degli svariati testi di narrativa leggendaria e paradossografica fioriti in epoca medievale intorno alla figura del sovrano macedone91; gli apocrifi vetero e neotestamentari, il cui apporto, dimostrato per alcune sezioni dell’opera, è forse ipotizzabile anche per la Genesi92; il Liber Nemroth («Libro di Nemroth»), un libello assai diffuso in epoca medievale, che si configura come un trattato astronomico-cosmologico in forma di dialogo tra il saggio astronomo Nemroth (nipote di Cam, secondo Gen 10, 8-10) e il proprio discepolo Ioathon93. Discorso a parte merita la menzione di autori pagani, medio-orientali (Beroso, Esizio) o greci (la Sibilla, Ippocrate, Nicolao Damasceno) o latini (Quintiliano), come fonte delle notizie riportate. Sebbene la citazione sia sempre per via indiretta (in genere da Flavio Giuseppe o dalla Glossa), è tuttavia degno di nota come la cultura pre-cristiana sia ben lungi dall’essere rifiutata e, anzi, concorra in opportuni casi alla spiegazione del testo sacro sotto il profilo storico-letterale: già l’esegesi tardoantica usava attribuire alla cultura pagana una funzione apologetica o prefigurativa di elementi peculiari della cultura cristiana.
Edizione critica del testo: Timaeus a Calcidio translatus commentarioque instructus − ed. J. H. Waszink (Plato Latinus, 4), Londinii – Leidae, 19752. Per ulteriori dettagli sull’opera di Calcidio e sull’approccio degli esegeti medievali cristiani nei confronti della filosofia platonica, cfr. al cap. 1, n. 14. 91 Per indicazioni più precise, cfr. al cap. 25, n. 8. Testo critico dell’epistola: Brief Alexanders über die Wunder Indiens, in Kleine Texte zum Alexanderroman − ed. F. Pfister, Heidelberg, 1910, p. 21-37. 92 Cfr. in particolare al cap. 17, n. 9 (su una presunta profezia emessa da Adamo) e al cap. 21, n. 3 (riguardo una notizia su Zaccaria che non trova riscontro altrove). 93 Dell’opera sono tuttora èditi soltanto estratti testuali: cfr. al cap. 39, n. 5. 90
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Due occasioni vedono inoltre Pietro Comestore citare ad litteram un passo di Ovidio (cap. 9) e riecheggiare un verso di Orazio (cap. 22): segno emblematico della riscoperta, appunto nel XII secolo, delle opere classiche, e in particolare della poesia classica-pagana (non a caso il secolo in questione è noto come aetas ovidiana, «età ovidiana»), ri-utilizzata in sede esegetica secondo la logica poc’anzi esposta. Quanto agli inserti di storia pagana, essi sembrano non derivare in toto da unico testo di riferimento, ma sottendere piuttosto l’impiego di alcune fonti, ben identificabili, da cui il nostro autore estrapola singoli nuclei concettuali, che ricompone poi in un tessuto unitario94: – opere di Ugo di San Vittore: oltre alle già menzionate (cfr. supra) Adnotationes elucidatoriae in Pentateuchon, Pietro Comestore attinge ad una storia universale dal titolo generico di Chronicon, e ad una vasta summa del sapere enciclopedico-filosofico intitolata Didascalicon de studio legendi (lett. «Manuale d’insegnamento sull’arte della lettura»); – il Liber exceptionum (lett. «Libro di cose scelte»), un vasto manuale di accesso al sapere inteso come l’insieme di arti liberali e studio della Sacra Scrittura, opera di Riccardo di San Vittore, allievo di Ugo95; – la traduzione latina geronimiana del Chronicon di Eusebio di Cesarea (cfr. § Fisionomia dell’opera); – le Etymologiae di Isidoro di Siviglia (cfr. supra); – il De imagine mundi di Onorio Augustodunense (cfr. supra).
Meno verosimile – sebbene più economica – l’ipotesi che Pietro Comestore disponesse di una fonte intermedia, oggi perduta o a noi ignota, in cui erano già assemblate secondo un criterio analogo le medesime informazioni che compaiono nel nostro testo. 95 Non di rado Riccardo traspone pressoché ad litteram nella propria opera passi desunti dal Chronicon di Ugo: in casi simili, non ci è possibile stabilire con certezza quale sia la fonte di Pietro Comestore (il discorso è analogo a quanto già osservato circa il rapporto tra Andrea e il suo maestro Ugo); alla luce di dettagli che figurano o solo in Ugo o solo in Riccardo, è tuttavia verosimile che il nostro autore abbia effettivamente consultato le opere di entrambi. 94
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Introduzione
Nota al testo e alla traduzione La traduzione è stata condotta sul testo èdito da Agneta Sylwan (CC CM 191, Turnhout 2005), rispetto al quale, tuttavia, si è ritenuto necessario intervenire all’occorrenza come segue: – emendando il testo èdito, laddove non congruente al senso del passo o insostenibile sotto il profilo sintattico-grammaticale; di norma, è stato possibile sanare il testo sulla base di una lezione registrata dall’editrice nell’apparato critico. Ne diamo puntualmente conto nelle note a piè di pagina, allegando qui di séguito per comodità un prospetto sinottico: cap. , linea (ed. Sylwan) Pref., 24 20, 7 20, 16 21, 12 27, 18 28, 3 28, 12
testo ed. Sylwan
testo adottato
dogma saepe gignendi nollet ingressus est transeamus ut dicit quod ecclesia, etsi
32, 58 37, 24 38, 11 49, 14-15 53, 12 53, 36 60, 31 63, 25 74, 62 75, 16
sterilitate decima septima puer Cham, servus interpretatum est: consternantem in spiritus sororis varietate Iacob primum diem
79, 20
urbem ingressi parvulosque picta et acu, ascende De Symeon
doma semper gignenda noluit ingressus es transeamus. Dicit quod in ecclesia quorundam mos est, etsi fertilitate decima octava Chanaan puer servus perrarum est. conternantem vi spiritus soror variatae Laban primum vel potius post primum diem urbem parvulosque
82, 27 92, 4 99, 1
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picta acu descende De Symeon et Levi
Introduzione
– spostando, in un paio di casi (capp. 16 e 33), le cosiddette additiones auctoris extra textum positae (cfr. § L’Historia Scholastica: genesi, fortuna, tradizione manoscritta, edizioni), che l’editrice colloca a discrezione nel corpo del testo e rilevate tra parentesi graffe; la scelta da noi operata procede dalla considerazione per cui, all’altezza in cui esse si trovano collocate nell’edizione, finiscono per spezzare la continuità logica del discorso che l’autore sta portando avanti: anche di ciò diamo conto nelle note a piè di pagina; – adottando nella nostra traduzione la punteggiatura più opportuna: poiché il testo latino non è qui riprodotto a fronte, si è scelto di non dare conto degli interventi in modo analitico96. È convinzione di chi scrive che tradurre sia esercizio sommo di attenzione e di rispetto, tanto verso il punto di partenza quanto verso il punto di arrivo: è comprendere e riformulare senza alterare; è insieme obbedienza a un dato e sua incessante ricreazione. Si è cercato dunque di riprodurre, per quanto possibile, la cifra espressiva del testo, anche a costo di mantenere nella resa italiana certe ridondanze – o, al contrario, reticenze – peculiari di uno stile esegetico97. 96 Talora l’editrice interpunge il testo, come da lei ricostruito, secondo una logica a nostro avviso poco calzante al senso richiesto dal passo, anche alla luce del riscontro sulle fonti. Basti qui segnalare il caso emblematico che si registra al cap. 98, ove Pietro Comestore propone due letture alternative per il medesimo passo biblico (Gen 49, 4), a seconda che lo si interpunga in un modo o in un altro: si osservi dapprima la nostra traduzione, che rende «“Ti sei profuso come acqua!”, ossia: in una vile libidine. “Tu non abbia a crescere, dal momento che sei salito sul letto di tuo padre!”. Oppure s’interpunga il passo così: ‘Ti sei profuso: come acqua tu non abbia a crescere, dal momento che sei salito sul letto di tuo padre!’»; il testo èdito dalla Sylwan legge […] effusus es sicut aqua, id est in vilem libidinem. Non crescas quia ascendisti cubile patris tui. Vel ita distingue: Effusus es sicut aqua, non crescas, quia ascendisti cubile patris tui, ove la riproposizione della medesima punteggiatura nella parte iniziale della citazione è forse da imputare alla mancata comprensione della logica sottesa all’alternativa esegetica (la nostra resa presuppone invece Vel ita distingue: Effusus es: sicut aqua non crescas, etc.). Vale la pena di rilevare, altresì, come riesca poco amichevole verso il lettore la scelta, da parte dell’editrice, di non inserire interpunzione alcuna in corrispondenza dei discorsi diretti: va da sé che la nostra traduzione non può fare a meno di integrarla. 97 O, ancora, l’andamento anacolutico che pur di rado caratterizza il testo latino: cfr. al cap. 48, ove, in corrispondenza della citazione di Gen 15, 13, la nostra
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Posto che il discorso si configura come un’esposizione organica, che armonizza in sé narrazione della storia sacra e relativa esegesi98 – e non, invece, come una successione di versetti/lemmi citati alla lettera e di volta in volta commentati –, si è scelto di scandire il testo in sequenze narrative, facendole precedere dai versetti biblici di riferimento tra parentesi quadre in carattere grassetto, e di distinguere mediante l’uso del corsivo i soli passaggi biblici (tanto da Genesi quanto da altri libri) citati alla lettera, che talora possono consistere in semplici spezzoni di versetto o sintagmi isolati99. I riferimenti ipotestuali a fonti altre rispetto al testo biblico, mai del tutto letterali, sono dati perciò sempre in carattere tondo (ci si è limitati, semmai, a racchiudere tra apici singoli [‘’] i passaggi che l’autore espressamente introduce come citazioni da una fonte100). Talora, perché una chiosa semantica o etimologica riuscisse perspicua, è stato necessario conservare il termine originale (latino o, più raramente, greco), di cui si è indicata tra parentesi la traduzione italiana; viceversa, ove il legame etimologico o il senso globale del passo riuscisse comunque comprensibile, si è tradotto direttamente in italiano, allegando però tra parentesi il relativo termine originale101. Sono stati mantenuti in lingua originale (ove possibile, con relativa traduzione tra parentesi) anche i tecnicismi dei linguaggi settoriali che qua e là figurano nel testo102.
traduzione conserva la sintassi anacolutica del testo latino, a propria volta esemplata sul testo biblico. 98 Cfr. § Fisionomia dell’opera. 99 Si rammenti la modalità peculiare in cui l’autore è solito citare il testo biblico, nella fattispecie quello della Genesi: cfr. § Fonti. 100 Cfr. ad es. al cap. 28 «Girolamo, tuttavia, dice: ‘…’» e al cap. 33 «in Isidoro si legge: ‘…’». 101 Per la prima eventualità, cfr. ad es. al cap. 1, ove è stato necessario lasciare in latino il sostantivo mundus (“mondo”), di cui l’autore indica l’etimologia da mundicia (“purezza”). Quanto alla seconda, cfr. ad es. al cap. 76, ove è stato allegato il latino Iacob (it. Giacobbe) in quanto lezione precedentemente segnalata dall’autore come corrottasi in Iaboc; al cap. 81, ove è stato allegato il nome Iob (it. Giobbe) per evidenziarne la somiglianza con Iobab. 102 Cfr. ad es. al cap. 1, il concetto filosofico designante il ‘tutto’, indicato con il tecnicismo greco (pan) e latino (omne); al cap. 6, i cosiddetti apotelesmata, diffuse pratiche astrologiche; al cap. 22, la specie di serpente detta phareas.
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La traduzione è corredata di note al testo, secondo i criteri che seguono: – note a piè di pagina (lettera minuscola, per pagina): riferimenti scritturali che consentano al lettore di identificare anche le citazioni da libri biblici altri rispetto alla Genesi, nonché precisi riferimenti o semplici allusioni ad episodi biblici, che l’autore costantemente integra nel commento al testo; indicazione delle fonti limitatamente ai rarissimi passi derivati da (o allusivi a) opere della letteratura pagana-classica, in modo tale che il lettore possa cogliere l’eco intertestuale nell’immediato (senza, cioè, dover leggere le note conclusive)103; rimandi interni tra i capitoli dell’Historia Scholastica medesima, onde rammentare al lettore un fatto cui la narrazione o l’autore accennano nuovamente (o accenneranno in modo più preciso nel prosieguo), oppure quanto già osservato (o quanto si osserverà in séguito) a proposito di una data questione; chiarimenti di natura lessicale o concettuale indispensabili per comprendere pienamente il discorso; emendazioni apportate al testo èdito da Agneta Sylwan ed eventuali spostamenti delle cosiddette additiones (cfr. supra); – note conclusive (numero arabo, per capitolo): indicazione delle presunte fonti di riferimento dell’autore104, o eventualmente di passi paralleli che si rivelino in ogni caso utili per la comprensione di un dato punto testuale; osservazioni di varia natura nel merito del testo (segnalazione di incongruenze nel testo o di fraintendimenti della presunta fonte; esplicitazione di un dettato non perspicuo; etc.).
103 Cfr. ad es. al cap. 9, ove figura una citazione ovidiana; al cap. 13, nel caso di una citazione dal Timeo di Platone nella versione latina circolante in epoca medievale; al cap. 22, ove è riecheggiato un verso oraziano; al cap. 74, ove l’autore cita, non del tutto alla lettera, un emistichio virgiliano. 104 Vale la pena di segnalare che, sebbene una buona parte delle indicazioni non possa che coincidere, la rassegna delle fonti da noi approntata è tuttavia sostanzialmente indipendente da quanto registra l’apparatus fontium dell’ed. A. Sylwan, talora ridondante o, al contrario, lacunoso.
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PIETRO COMESTORE HISTORIA SCHOLASTICA
Prologo epistolare Al reverendo padre e suo superiore Guglielmo, arcivescovo di Sens1 per grazia di Dio: Pietro, servo di Cristo e sacerdote di Troyes, augura una vita buona e una morte beata2. Causa di questa mia fatica sono state le pressanti richieste dei colleghi3: poiché erano soliti leggere la storia della Sacra Scrittura divisa fra il testo e le glosse, troppo concisa e priva di un adeguato tessuto espositivo, mi hanno spinto perciò ad intraprendere la stesura di un’opera alla quale potessero ricorrere per trovare l’esattezza della storia4. E in quest’opera il mio animo ha comandato allo stilo di non allontanarsi da quanto fu detto dai Padri, sebbene sia la novità a guadagnare il favore e ad accarezzare le orecchie5. Iniziando dunque dalla creazione del mondo descritta da Mosèa, ho tracciato il rivolo della storia fino all’ascensione del Salvatore, lasciando ai più esperti il pelago dei misteri nei quali è possibile tanto mantenersi sulle orme già tracciate da altri quanto coniare novità6. Ho inserito anche alcune sincronie con gli eventi della storia profana, secondo la logica richiesta dalla cronologia: come un rivolo che, pur alimentando i rigagnoli seIl mondo medievale attribuiva a Mosè la paternità del Pentateuco, l’insieme dei primi cinque libri del testo biblico (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio). a
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HISTORIA SCHOLASTICA - PROLOGO EPISTOLARE
condari che incontra lungo il suo alveo, tuttavia non cessa poi di scorrere oltre7. Ma poiché lo stilo rozzo ha bisogno di una lima, a voi, o padre illustre, ho riservato la lima affinché, con la volontà di Dio, a quest’opera la vostra correzione conceda splendore e la vostra autorità durata perenne8. Sempre sia benedetto Dio. Amen9.
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Prefazione È prerogativa della maestà imperiale disporre a corte di tre stanze: un auditorio, o sala consiliare, dove amministra la giustizia; una sala da pranzo dove distribuisce il cibo; una camera da letto dove riposa. Analogamente, il nostro Imperatorea, che regna sui venti e sul mare, dispone del mondo come auditorio, dove ogni cosa viene predisposta secondo il suo cenno, come è scritto: Io riempio cielo e terrab; secondo questa accezione è detto ‘signore’, come è scritto: Del Signore è la terra e quanto essa contienec. Dell’anima del giusto dispone come camera da letto, poiché è per lui delizia stare con i figli dell’uomod; secondo questa accezione è detto ‘sposo’. Della Sacra Scrittura dispone come sala da pranzo, dove inebria i suoi sì da renderli sobri, come è scritto: Camminammo nella casa di Dio in concordiae, cioè nella Sacra Scrittura condividendo la medesima sapienza; secondo questa accezione è detto ‘padre di famiglia’1. Tre sono le parti di questa sala da pranzo: pavimento, parete, tetto. Il pavimento è la storia, le cui specie sono tre: annalistica, calendariale, efemèride. {La storia annalistica è quella condotta anno per anno. La storia calendariale è quella condotta mese per mese, cioè alcuni eventi degni di memoria che si verificano in ciascun mese. La storia efemèride è ciò che accade in un breve lasso di tempo, cioè in un singolo giorno o in una parte del mese: in modo analogo, ‘efèmera’ è il nome di un pesce che muore il giorno stesso in cui nascef.} La parete che lo sovrasta è l’allegoria, che consiste Dio, s’intende. Cfr. Ger 23, 24. c Cfr. Sal 24, 1. d Cfr. Prov 8, 31. e Cfr. Sal 55, 15. f Per la verità, la cosiddetta efèmera (nome scientifico Ephemeroptera) è un insetto che vive per lo più nell’acqua: dal momento in cui la larva raggiunge l’età adulta, la sua vita può durare al massimo qualche ora. Il medesimo appellativo ephemĕrus (dal gr. ἐϕήμερος, composto di ἐπί «sopra» e ἡμέρα «giorno») è attestato in latino anche per un particolare tipo di febbre, della durata di un solo giorno, nonché per una specie di erba velenosa. Alla luce di tale similitudine zoologica, efficacemente proposta dal nostro autore, ci sembra opportuno conservare nella resa italiana il pur raro aggettivo «efemèride» anche in riferimento alla storia (anziché tradurre con un più comune «diaria» o «giornaliera»). a
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HISTORIA SCHOLASTICA - PREFAZIONE
nel rappresentare un fatto attraverso un altro fatto. La copertura del soffitto che vi poggia sopraa è la tropologia, che, attraverso un fatto, ci suggerisce come dobbiamo comportarci2. La prima è più immediata, la seconda più sottile, la terza più dolce3. Il nostro discorso avrà principio dal pavimento4 o, per essere più precisi, dal principio del pavimento stesso, con il favore di Colui che è prìncipe e principio di ogni cosa5.
a Il testo dell’ed. A. Sylwan legge dogma culminis superpositum, ossia «dogma poggiato sopra alla sommità». L’apparato critico segnala che, in luogo di dogma, la famiglia di manoscritti β legge doma (gen. domătis), sostantivo neutro che significa tecnicamente «tetto piatto» o «terrazza», ma anche in termini generici «tetto» o «copertura». L’impressione è che in questo contesto si richieda piuttosto la lezione doma, per completare il parallelismo trimembre che vede ciascuna delle tre letture esegetiche (historia, allegoria, tropologia) paragonata a una delle tre parti di una stanza elencate poco sopra, la terza delle quali il tectum («tetto»): con lieve variatio semantica, la tropologia corrisponderebbe perciò al doma culminis superpositum, ossia alla «copertura del soffitto che vi poggia sopra», in altre parole appunto al «tetto». Sulla base di queste considerazioni, si ritiene opportuno tradurre accogliendo la lezione doma, ove dogma può spiegarsi come lectio facilior, certamente più comune del tecnicismo architettonico, e come errore indotto dal contesto: dal momento che la tropologia concerne la sfera della moralità (cfr. subito dopo, ove si spiega che essa consiste nel suggerire, attraverso un fatto, un modo di comportarsi), di qui forse la definizione di dogma, inteso come «dogma morale».
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LA GENESI
1. Il primo atto della creazione: cielo e terra In principio era il Verboa, e il Verbo era il principio, nel quale e per mezzo del quale il Padre creò il mondo1. Il termine ‘mondo’ contempla quattro differenti accezioni2. Talvolta è il cielo empireo ad essere detto mundus (“mondo”) per la sua mundicia (“purezza”)3. Talvolta, invece, per ‘mondo’ si intende il mondo sensibile, quello che i Greci chiamano pan (“tutto”), e i Latini omne (“tutto”)4: il filosofo, infatti, ignorava l’esistenza dell’empireo5. Talvolta è detta ‘mondo’ la sola regione sublunare6, dal momento che essa è la sola ad ospitare gli esseri viventi a noi conosciuti; ad essa si fa riferimento ove è scritto: Il principe di questo mondo viene cacciato fuorib. Talvolta è detto ‘mondo’ l’uomo, poiché riproduce in sé l’immagine del mondo nella sua totalità: è per questo che l’uomo fu chiamato dal Signore ‘ogni creatura’c, e che i Greci lo definiscono ‘microcosmo’, vale a dire ‘mondo più piccolo’7. L’empireo, il mondo sensibile e la regione sublunare, Dio li creò nel senso che li creò dal nulla; l’uomo, invece, lo creò nel senso che lo plasmò8. Cfr. Gv 1, 1. Cfr. Gv 12, 31, con allusione al demonio. c Con ogni probabilità, il riferimento è al passo di Mc 16, 15, ove Gesù, appena risorto, appare agli Undici e affida loro il mandato della predicazione universale del Vangelo, esortandoli con le seguenti parole: Euntes in mundum, universum praedicate Evangelium omni creaturae, ossia «Andate nel mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura». a
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LA GENESI, 1
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[1,1] A proposito della creazione del mondo inteso nelle prime tre accezioni, così scrive il Legislatorea: In principio Dio creò cielo e terra. Per ‘cielo’ s’intende sia il contenitore sia ciò che è in esso contenuto: rispettivamente il cielo empireo e la natura angelica; per ‘terra’ s’intende la materia di cui tutti i corpi sono formati, cioè i quattro elementi, vale a dire il mondo sensibile che da questi è costituitob. Alcuni intendono per ‘cielo’ le regioni superiori del mondo sensibile, e per ‘terra’ quelle inferiori e tangibili9. Il testo ebraico legge eloym, termine che vale sia come singolare sia come plurale, ossia può significare ‘Dio’ o ‘dèi’10: il Dio creatore, infatti, è uno solo in tre persone11. E il fatto che Mosè abbia detto ‘creò’ vale a demolire tre opinioni errate: quelle di Platone, di Aristotele e di Epicuroc. Secondo Platone, tre sono le cose che esistono dall’eternità: dio, le idee, la materiad; egli sostenne che in principio del tempo il mondo fu creato dalla materia. Secondo Aristotele, invece, sono due: il mondo e l’artefice, il quale, servendosi di due principî, ossia materia e forma, operò senza inizio e opera senza fine. Secondo Epicuro, sono due: il vuoto e gli atomi, e in principio la natura aggregò alcuni atomi a formare la terra, altri a formare l’acqua, altri l’aria, altri ancora il fuoco. Mosè, al contrario, profetizzòe che Dio solo è eterno e che il mondo fu creato senza materia preesistente12. E il mondo fu creato ‘in principio’, secondo quanto è detto: In principio Dio creò cielo e terra. E il senso è: ‘nel principio’ cioè ‘nel Figlio’13; e poi si deve sottintendere ripetuto ‘nel principio’ inteso Si tratta di Mosè, qui definito «legislatore» per antonomasia (così anche ai capp. 23 e 26): il cosiddetto Pentateuco (cfr. Prologo, p. 65, n. a) è infatti la Torah o Legge ebraica. b I quattro elementi sono terra, acqua, aria, fuoco: cfr. alla n. 3. c Le dottrine attribuite nel prosieguo a ciascuno dei tre filosofi pagani sono riportate in modo sostanzialmente fedele a quanto si ricava dalle loro opere: basterà qui rimandare al Timeo di Platone e al De caelo di Aristotele; dell’opera di Epicuro, come è noto, non ci restano che frammenti, per lo più papiracei, e testimonianze indirette. d Si badi che gli ultimi due concetti sono designati da Pietro Comestore con il tecnicismo greco traslitterato in latino, rispettivamente ydeae (dal gr. ἰδέα, «idea») e yle (dal gr. ὕλη, «materia»). e Il verbo «profetizzare» andrà qui inteso non nell’accezione di «predire», ma di «dire per ispirazione della divinità». a
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LA GENESI, 1-2
‘del tempo’: il mondo e il tempo sono infatti coevi14. Ma, se Dio solo è eterno, il mondo è invece sempiterno, ossia ‘sempre eterno’, vale a dire ‘eterno nella dimensione della temporalità’; anche gli angeli sono sempiterni15. Oppure s’intenda in principio – inteso: di tutte le altre creature – creò cielo e terra16: vale a dire che furono queste le cose che creò per prime e simultaneamente tra loro. Ma ciò che accade simultaneamente non può essere riferito a parole altrettanto simultaneamente: sebbene, infatti, quia si menzioni prima il cielo e poi la terra, tuttavia altrove è scritto: All’inizio tu, o Signore, fondasti la terra, e opera delle tue mani sono i cielib17. {Allo stesso modo, non appena apro gli occhi, sùbito il mio sguardo incontra il sole ad oriente: cosa che non potrebbe fare, se non percorresse all’istante, come in volo, i numerosi spazi di atmosfera che si interpongono tra me e il sole. Ma, se volessi spiegare a parole questo volo istantaneo, dovrei spesso aggiungere nel mio discorso le indicazioni ‘prima’ e ‘poi’, così: prima il mio sguardo passa all’atmosfera vicina, poi a quella che si trova sopra le Alpi, poi a quella che si trova sopra le altre terre fino all’oceano, poi a quella che si trova sopra l’oceano, e infine tocca il sole18.} La creazione del mondo, qui soltanto accennata, la Scrittura la illustra poi nel dettaglio delle opere di sei giorni, facendo riferimento a tre differenti aspetti: creazione, disposizione, ornamento. Il primo giorno, la creazione e parte della disposizione; il secondo e il terzo giorno, la disposizione; i tre giorni restanti, l’ornamento19.
2. La primordiale confusione del mondo [1,2a] Ma la terra era inane e vuota. Vale a dire: il meccanismo del mondo era ancora inutile, sterile e privo del suo ornamento1. [1,2b] E vi erano le tenebre sulla superficie dell’abisso. Il medesimo meccanismo che poc’anzi era stato chiamato ‘terra’ è detto qui ‘abisso’ a motivo della sua confusione e della sua oscurità; ragion per cui i Greci lo hanno definito anche chaos2. E il fatto che si dica ‘vi erano a b
In Gen 1, 1, s’intende. Cfr. Sal 102, 26.
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LA GENESI, 2-3
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le tenebre’ ha indotto alcuni a sostenere come dogma l’eternità delle tenebre, ossia che esse già – vale a dire: mentre il mondo veniva creato – esistevano. Altri, invece, prendendosi gioco del Dio dell’Antico Testamento, sostengono che abbia creato prima le tenebre della luce3. Tuttavia, qui per ‘tenebre’ altro non si intende che l’assenza di luce4. È pur vero, però, che una certa oscurità dell’aria fu comunque creata da Dio e chiamata ‘tenebre’; non a caso, infatti, nell’elenco delle creature si dice: Benedìte, o luce e tenebre, il Signore!a. [1,2c] E lo spirito del Signore – s’intenda: lo Spirito Santo, che è il Signore, oppure la volontà del Signore5 – si muoveva sopra le acque. Allo stesso modo in cui la volontà di un artefice, il quale ha davanti ai suoi occhi tutta la materia necessaria per costruire una casa, si muove su di essa mentre egli decide che cosa fare e con che cosa farlo6. Il meccanismo di cui sopra viene qui chiamato ‘acque’: come ad intendere che si tratta di una materia che ben si presta, per la sua duttilità, ad essere lavorata7. Il motivo per cui esso viene indicato con nomi di volta in volta diversi è il seguente: onde evitare che, nel caso in cui venga indicato sempre con il nome di un solo elemento, lo si ritenga perciò maggiormente confacente a questo elemento8. In luogo di ‘si muoveva sopra’, il testo ebraico legge ‘covava’ e la lingua sira ‘riscaldava’, come fa l’uccello con le uova9: l’espressione sta ad indicare, oltre che l’opera divina di governo del mondo in via di formazione, anche l’inizio stesso del mondo10. Platone intese male questo punto del testo sacro e pensò che facesse riferimento all’anima del mondo. Il riferimento è invece allo spirito creatore, a proposito del quale si legge: Manda il tuo spirito ed essi saranno creati!b11.
3. L’opera del primo giorno [1,3] Dio disse: “Luce sia!”, e luce fu. Ossia: Dio generò una parola, nella quale era contenuto il fatto stesso che vi fosse la luce; vale a dire con tale facilità come qualcuno potrebbe fare con una semplice a b
Cfr. Dan 3, 72. Cfr. Sal 104, 30.
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LA GENESI, 3
parola. Chiama ‘luce’ una sorta di nube luminosa, che illumina le regioni superiori del mondo, e tuttavia dotata di un chiarore tenue, simile a quello che è solito esserci all’alba1. Questa luce, fatta ruotare continuamente intorno al mondo a guisa del sole2, ne illuminava con la sua presenza ora l’emisfero superiore ora quello inferiore. Con il verbo ‘sia!’ si intende l’essenza della luce in Dio, prima che essa fosse creata; con il verbo ‘fu’ si intende, invece, l’essenza della medesima luce in atto, vale a dire quando essa iniziò ad esistere. [1,4a] E Dio vide che la luce era buona. Ossia: la luce, che nella prescienza divina era piaciuto a Dio che venisse creata, una volta che fu nella sua essenza piacque a Dio che rimanesse3. Oppure può darsi che ‘vide’ sia da intendere in senso non letterale, vale a dire ‘fece in modo che si vedesse’4. [1,4b] E separò la luce dalle tenebre. Qui inizia la fase della disposizionea. E, tuttavia, si dice qualcosa anche a proposito della creazione, come ad intendere: insieme alla luce creò le tenebre, ossia l’ombra che si forma quando i corpi si trovano davanti alla luceb. Poi, dopo che ebbe creato luce e tenebre, le separò in virtù della distanza e della qualità dei luoghi a loro destinati5: in modo tale, cioè, che – mai trovandosi simultaneamente nello stesso punto, ma sempre ai rispettivi antipodi – ora la luce occupasse un emisfero e le tenebre l’altro, e viceversa. S’intende, inoltre, che in quest’occasione ebbe luogo la divisione degli angeli: quelli che restarono saldi furono detti ‘luce’, quelli che caddero ‘tenebre’6. [1,5a] E Dio chiamò la luce dies (“giorno”), dal greco dian che significa ‘chiarore’7; la lux (“luce”), invece, è detta così perché luit (“lava”), ossia ‘purifica’ le tenebre8. E chiamò le tenebre nox (“notte”), da nocere (“nuocere”), poiché essa nocet (“nuoce”) agli occhi, impedendo loro di vedere9; allo stesso modo, le tenebrae (“tenebre”) sono dette così perché tenent (“trattengono”) gli occhi, impedendo loro di vedere10. È vero anche, però, che come dies deriva dal greco dian, così anche nox deriva dal greco nictin11. a La seconda delle tre fasi in cui risulta scandita l’opera di Dio: cfr. in chiusura del cap. 1. b È verosimilmente questa l’accezione ‘positiva’ del termine «tenebre» cui si era alluso al cap. 2 (cfr. alla relativa n. 4).
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LA GENESI, 3-4
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[1,5b] E si fece sera, e poi si fece mattino: e in tal modo si compì un giorno naturale. In principio, infatti, insieme al cielo e alla terra fu creata la luce; poi, dopo che essa fu tramontata a poco a poco, si fece sera, la prima di un giorno usualea; e, dopo che la medesima luce fu migrata sotto le terre e poi di nuovo giunta a sorgere, si fece mattino, ossia ebbe termine la notte12 e iniziò il secondo giorno. E così – una volta terminata sia la luce del giorno, che venne per prima, sia la notte, che seguì poi – ebbe luogo un giorno.
4. L’opera del secondo giorno Il secondo giorno Dio operò la disposizione delle regioni superiori del mondo sensibile. L’empireo, infatti, non appena creato, fu sùbito disposto e ornato, vale a dire riempito degli angeli santi1. [1,6-7a] Il secondo giorno, dunque, Dio creò il firmamento nel mezzo delle acque, ossia una sorta di superficie esterna del mondo, formata di acque congelate, dura e trasparente come cristallo2; essa contiene in sé tutte le altre cose sensibili, in modo analogo al guscio di un uovo3. Nel firmamento sono incastonate le stelle4. È detto ‘firmamento’ non tanto per la sua solidità, ma perché è il confine ‘fermo’ e invalicabile delle acque che si trovano al di sopra5. È detto anche ‘cielo’ poiché ‘cela’, ossia ‘nasconde’ tutte le cose invisibili o sensibili6. Altrove si legge ‘il firmamento del cielo’ b: si tratta di un’endiadi, ossia ‘il firmamento che è il cielo’, analogamente a quando si dice ‘la creatura del sale’7. A motivo della sua a Sulla distinzione tra dies naturalis («giorno naturale») e dies usualis («giorno usuale»), qui accennata in termini assai vaghi, Pietro Comestore tornerà più nel dettaglio al cap. 6. Lo scarto corrisponde, in buona sostanza, a quello che oppone l’italiano «giorno» a «dì»: dies naturalis designa l’arco temporale che include ventiquattro ore (cfr. it. «giorno»); dies usualis, invece, l’arco temporale che si estende dal sorgere del sole al suo tramonto (cfr. it. «dì» inteso come opposto di «notte»). Nelle righe che seguono, il termine «giorno» ricorre per altre tre volte, senza specificazione alcuna: la prima («il secondo giorno») senza dubbio nell’accezione di dies naturalis; la seconda («la luce del giorno») si direbbe piuttosto in quella di dies usualis; la terza («ebbe luogo un giorno») di nuovo come dies naturalis. b Nel primo capitolo di Genesi l’espressione figura svariate volte: cfr. ai vv. 14, 15, 17 e 20.
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LA GENESI, 4
peculiare forma a volta sferica, in greco è detto anche uranon, ossia ‘palato’8: termine che in latino può essere di genere neutro o maschilea. Oppure può darsi che si dica caelum (“cielo”) nel senso, per così dire, di casa elios (“casa del sole”)9: il sole, infatti, si trova al di sotto del firmamento e lo illumina. Questa volta sferica, il filosofo10 la intese invece come la sommità del fuoco: quando, infatti, il fuoco non ha spazio dove poter salire, esso prende a ruotare in senso circolare, come ben si può osservare in una fornace; analogamente, il fuoco ruota anche intorno alla parte più esterna del mondo. E questo è il cielo cosiddetto “stellato” o “etereo”. Esiste anche, al di sotto, un terzo cielo che è detto “aereo”11, di cui è scritto: Gli uccelli del cielo lo mangiaronob. Alcuni ipotizzano l’esistenza di un quarto cielo sopra l’empireo, poiché si legge che Lucifero, quando si trovava nell’empireo, disse: “Salirò in cielo” ecceterac; e sostengono che in esso si trovi soltanto Cristo uomo, al di sopra degli angeli che si trovano nell’empireo. [1,7b] In ogni caso, è certo che il firmamento divide le acque che si trovano sotto di esso dalle acque che si trovano al di sopra. Di queste ultime è scritto: Tu che ricopri con le acque le sue parti più alted; esse, come il firmamento stesso, sono congelate come cristallo, in modo tale che non possano essere sciolte dal fuoco; oppure può darsi siano simili a nubi di vapore12. Tuttavia, il motivo per cui esse si trovino lì lo conosce Dio; a meno che il motivo non sia quello sostenuto da alcuni, ossia che da lì scende la rugiada in estate. Quanto al fatto che si dica ‘Sia il firmamento!’ e poi ‘Dio creò il firmamento’ e in terzo luogo ‘Fu creato il firmamento’e, non è ridondante. Quando infatti si costruisce una casa, dapprima la casa Si è scelto di rendere così il latino uranon, id est palatum vel palatus, alla lettera «uranon, ossia palatum o palatus»: impossibile conservare nella resa italiana l’opposizione di genere, neutro vs. maschile (palatum vs. palatus). b Cfr. Lc 8, 5. c In latino Ascendam in caelum, libera riproposizione di Is 14, 13: Qui dicebas in corde tuo:“In caelum conscendam” («Tu che dicevi nel tuo cuore: “Salirò in cielo”»). d Cfr. Sal 104, 3: Qui tegis aquis cenacula eius («Tu che ricopri con le acque le sue stanze più alte»). In luogo del tecnicismo cenacula (lett. «stanze dei piani alti»), il nostro autore impiega il generico superiora (lett. «le cose più alte»). e Le tre espressioni figurano rispettivamente in Gen 1, 6; 1, 7a; 1, 7b. a
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viene creata nella scienza del suo artefice; poi, viene creata anche in termini di materia, quando legno e pietre vengono lavorati; infine, viene creata anche in termini di essenza, quando i materiali lavorati vengono disposti in ordine nella struttura della casa. Allo stesso modo, qui, l’espressione ‘Sia!’ si riferisce alla prescienza di Dio; ‘creò’ all’opera considerata nella sua materia; ‘fu creato’ all’opera considerata nella sua essenza13. I primi due passaggi ebbero luogo il primo giorno, l’ultimo il secondo giorno14. Nonostante l’opera di questo secondo giorno fosse buona come quella di tutti gli altri giorni, tuttavia qui non si legge ‘Dio vide che era cosa buona’. Tramandano infatti gli Ebrei che, in questo secondo giorno, un angelo fu trasformato in diavoloa15. E sembrano attribuire credito a quest’opinione coloro che ebbero l’usanza di cantare il lunedì la messa degli angeli, come in lode degli angeli che erano rimasti saldi. Ma i santi tramandano che quell’evento ebbe una valenza simbolica: in teologia, infatti, il numero due è un numero nefando, dal momento che è il primo a tralignare dall’unità; ma Dio è unità e non tollera né la divisione in due parti né la discordia16. Possiamo affermare, tuttavia, che l’opera del terzo giorno sia in un certo senso ancora la prosecuzione di quella del secondo giorno, come risulterà evidente tra breveb. È per questa ragione, dunque, che l’opera del secondo giorno non viene lodata se non durante il terzo giorno: a conclusione, per così dire, del suo definitivo compimento.
5. L’opera del terzo giorno [1,9-10a] Il terzo giorno Dio ammassò in un unico luogo le acque al di sotto del firmamento. Queste acque, in verità, occupano più di un luogo soltanto: ciononostante, dal momento che tutte quante si ricongiungono nelle viscere della terra, si dice perciò che esse sono state ammassate ‘in un unico luogo’. Può darsi che le acque, a L’allusione parrebbe a Lucifero (cfr. al cap. 3, n. 6). Si registra, tuttavia, una inspiegabile discrepanza rispetto a quanto segnalato al cap. 3, ove la divisione tra angeli rimasti saldi e angeli decaduti era stata collocata tout court durante il primo giorno. b La fase di disposizione delle acque si conclude infatti il terzo giorno: cfr. al cap. 5.
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LA GENESI, 5
che prima occupavano tutto intero lo spazio dell’atmosfera poiché sotto forma di vapore, una volta condensate si trovino ad occupare uno spazio limitato. Oppure può darsi che la terra sia sprofondata un poco, in modo tale da racchiuderle come in un alveo1; e perciò apparve l’asciutto: che, per così dire nascosto sotto le acque, fu detto propriamente humus2. Eppure quello stesso asciutto, nel momento in cui apparve, viene chiamato terraa poiché teritur (“viene calpestato”) dai piedi degli esseri viventi. Oppure, in relazione agli altri tre elementi che lo circondano, può essere detto anche solumb in quanto solidum (“solido”). È detto anche tellusc poiché tolerat (“sopporta”) i lavori degli uomini3. [1,10b] La massa di tutte le acque la chiamò ‘mare’: secondo la consuetudine della lingua ebraica, che chiama ‘mare’ ogni tipo di massa d’acque4. [1,10c] Compiuta dunque l’opera delle acque, segue: E Dio vide che era cosa buona. [1,11] E aggiunse a quella un’altra opera, dicendo: “La terra produca frutto!”. Ciò non è da intendersi soltanto in riferimento all’atto del produrre frutto, ma anche alla potenzialità; come ad intendere: Sia in grado di produrre frutto!5. E fece infatti germogliare dalla terra erba rigogliosa e che produceva seme, e alberi da frutto che producevano frutti secondo la propria specie. È evidente che, diversamente da quanto accade ora, la terra in quell’occasione non produsse le sue piante gradualmente nel corso del tempo, ma sùbito nel rigoglio della loro maturità, quando già le erbe sono cariche di semi e gli alberi di frutti6. E si noti che è scritto ‘rigogliosa’: alcuni, perciò, sostengono che il mondo sia stato creato in primavera, poiché il rigoglio e la produzione dei frutti sono propri di quella stagione. Altri, invece, dal momento che pure si legge ‘alberi che producevano frutti’ e inoltre ‘erba che conteneva seme’, sostengono che il mondo sia stato creato nel mese di agosto, sotto la costellazione del Leone. a Così infatti Gen 1, 10a: et vocavit Deus aridam terram, ossia «e Dio chiamò l’asciutto ‘terra’». b Propriamente «suolo». c Altro termine latino per «terra».
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LA GENESI, 5-6
La Chiesa, tuttavia, tiene per dogma che la creazione abbia avuto luogo in marzo7. Si osservi che dapprima si dice ‘che produceva seme (semen)’ e poi si aggiunge ‘che conteneva ciascuno la propria semente (sementis)’a: si utilizza, infatti, propriamente il termine sementis quando il seme ancora si trova nella sua potenzialità fecondatrice; semen oppure sementum quando viene seminato; seminium quando è stato seminato. Altri distinguono in modo diverso: sementis in riferimento ai prodotti della terra e agli alberi; semen in riferimento agli animali; seminium ad indicare l’inizio di qualsiasi cosa8. E non stupisca il fatto che, nella fase di disposizione degli elementi, l’aria non sembri essere stata disposta: essa, infatti, pur non essendo stata menzionata, è stata tuttavia disposta nel momento in cui, libera dalle acque, assunse l’aspetto che ci è noto. Oppure può darsi che non si accenni al fatto che sia stata disposta perché essa non ospitò in sé alcun ornamento creato dalla sua stessa sostanza9.
6. L’opera del quarto giorno
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Il quarto giorno Dio iniziò ad ornare ciò che aveva disposto con elementi che si muovessero entro i confini dell’universo con appropriati movimenti. La vegetazione, infatti, essendo radicata alla terra, è come se avesse più a che vedere con la disposizione della terra stessa. E, come già aveva fatto con l’opera di disposizione, così Dio iniziò anche l’opera di ornamento a partire da quanto si trova più in alto1. [1,14] Il quarto giorno, infatti, Dio creò i luminari: sole, luna e stelle. E si dice ‘sole’ poiché esso ‘solo’ risplende2: nel senso che null’altro risplende insieme ad esso. Si dice invece luna (“luna”) poiché essa è luminum una (“tra i lumi l’una”), nel senso di ‘la prima tra i lumi’: allo stesso modo in cui si dice una dierum (“il primo tra i giorni”) o una sabbatorum (“il primo tra i giorni della settimana”)3. Le due espressioni si leggono rispettivamente in Gen 1, 11 (già citata alla lettera poco sopra) e 1, 12. a
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[1,16a] Il sole e la luna sono detti ‘grandi luminari’a in virtù di due caratteristiche e sotto due punti di vista: in primo luogo, non soltanto per la quantità della loro luce, ma anche per la quantità della loro massa; in secondo luogo, non soltanto a paragone delle stelle, ma anche considerati di per se stessi4: si dice che il sole sia otto volte più grande della terra, e che anche la luna sia più grande della terra. [1,16b] Volle che luna e stelle illuminassero la notte: perché la notte, senza luce, non avesse a rimanere poco bella, e perché chi si spostasse di notte, come marinai e viandanti, potesse avere il conforto della luce5. {Ciò specialmente nei deserti sabbiosi dell’Etiopia, dove una pur lievissima spinta di vento è sufficiente a livellare le impronte, che è dato trovare lungo il percorso, dei viaggiatori precedenti6.} Esistono anche certi piccoli uccelli che, non riuscendo a sopportare la luce del sole, si nutrono per lo più di notte7. La creazione del sole non fu inutile, sebbene già vi fosse la nube luminosa che svolgeva una funzione analogab: quella nube, infatti, era dotata di una luce tenue e insufficiente, e può darsi che non illuminasse se non le zone poste più in alto, così come ora fanno le stelle. A proposito di tale nube si tramanda: o che essa si sia ritrasformata nella materia a partire dalla quale era stata creata, come accadde alla stella apparsa ai Magic e alla colomba nella quale si manifestò lo Spirito Santod; o che essa accompagni sempre il sole; o che da essa sia stata creata la massa del sole8. [1,14] E Dio volle non soltanto che i lumi avessero le funzioni di adornare e di illuminare, ma anche che fungessero da segni, e da misure del tempo, e da giorni, e da annie. In latino magna luminaria. Si tratta della peculiare nube di cui al cap. 3. c Secondo il racconto di Lc 2, 2, alla nascita di Gesù i Magi videro la sua stella in oriente, che li guidò ad adorarlo. d I Vangeli narrano che, in occasione del battesimo di Gesù, lo Spirito Santo discese dal cielo sotto forma di colomba: cfr. Mt 3, 16; Mc 1, 10; Lc 3, 22; Gv 1,32. e Cfr. Gen 1, 14, ove Dio dice: Fiant luminaria in firmamento caeli ut dividant diem ac noctem et sint in signa et tempora et dies et annos («Siano i luminari nel firmamento del cielo per dividere il giorno dalla notte, e fungano da segni, e da misure del tempo, e da giorni, e da anni»). Nel prosieguo del capitolo, il nostro autore si sofferma a discutere il possibile significato di ciascuna delle quattro espressioni. a
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Che essi, cioè, siano ‘segni’ di bel tempo e di cattivo tempo9; oppure nel senso che da essi si formassero dodici segni zodiacali maggiori e altri, più numerosi, segni minori. I quali sono chiamati ‘segni’ (signa) o ‘costellazioni’ (sidera) sia perché con grande attenzione l’antichità li ‘segnò a dito’ (signavit) o li ‘considerò’ (consideravit), sia perché tuttora gli uomini li ‘segnano a dito’ (signant) e li ‘considerano’ (considerant) per identificare le scansioni del tempo10. Inoltre, ci si deve ben guardare dall’affermare quel che invece presumono fantasiosamente gli astrologia, ossia che questi elementi sono stati collocati in funzione di ‘segni’ dei casi e delle azioni che ci riguardano, o che essi ‘segnano’ e regolano la condizione della nostra vita: cose che gli astrologi pretendono di dimostrare per mezzo di esperimenti che chiamano apotelesmata (“influssi”). Tuttavia, in materia di cose celesti, non si deve prestare alcun credito a costoro, che sono alieni dal Padre che è nei cieli11. E poi si aggiunge: ‘da misure del tempo’. A tal proposito, non bisogna pensare che in quel momento, per mezzo dei lumi, sia iniziato ad esistere il tempo – che iniziò ad esistere insieme al mondob −, ma che per mezzo dei lumi ha luogo la distinzione del tempo in quattro stagioni. Il sole, infatti, quando discende verso la costellazione del Capricorno, determina il solstizio d’inverno e, quando sale verso la costellazione del Cancro, determina il solstizio d’estate. Quando invece si trova tra l’una e l’altra costellazione, a pari distanza da entrambe, determina gli equinozî12. In alternativa, è da supporre in questo punto del testo la presenza di un’endiadi: intendere, cioè, ‘da segni, e da misure del tempo’ nel senso di ‘da segni delle misure del tempo’13. Si dice poi ‘da giorni’, al plurale perché il termine ‘giorno’ contempla più di una singola accezione: può indicare, cioè, il ‘giorno naturale’, vale a dire un arco temporale di ventiquattro ore, oppure
a Il termine tecnico utilizzato da Pietro Comestore è geneaticus, variante grafico-fonetica in luogo del più consueto genethliacus (dal gr. γενέθλη, «nascita»), che designa propriamente chi è in grado di divinare il futuro dei singoli individui osservando la costellazione del loro giorno natale. b Cfr. già al cap. 1, ove si era osservato che il mondo e il tempo sono coevi.
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il ‘giorno usuale’a. Peraltro, il termine ‘giorno’ può fare riferimento anche ad un tempo non definito e a noi ignoto, come nel punto in cui è scritto: In quel giorno i monti stilleranno dolcezzab. Si dice al plurale anche ‘da anni’, perché il termine ‘anno’ contempla anch’esso più di una singola accezione. E ciò non soltanto in virtù del fatto che i diversi popoli scandiscono la durata dell’anno in modo diverso, chi maggiore e chi minore, e che anche i pianeti hanno ciascuno il proprio ciclo annuale; ma ciò vale anche secondo la consuetudine della Chiesa. Esiste, infatti, l’anno lunare, che conta 354 giorni; l’anno solare, che comprende 365 giorni più un cosiddetto “quadrante”c, vale a dire sei ore; l’anno bisestile, di 366 giorni; l’anno embolismale, che supera i 380 giorni, dal momento che include tredici cicli lunari14. E si dice ‘anno’ da an, che significa ‘intorno’: l’anno, infatti, si riavvolge ciclicamente intorno a se stesso. È per questo motivo che gli antichi, prima che fosse introdotto l’uso della scrittura, usavano rappresentare l’anno in figura di serpente riavvolto circolarmente intorno a se stesso, con la coda nella propria bocca15. [1,15; 18] Poi, una volta creati i luminari, Dio li collocò in modo tale che essi risplendano nel firmamento del cielo e illuminino la terra – non però ininterrottamente – e che separino la luce dalle tenebre. Quanto al fatto che la luna fu creata in plenilunio, ciò si intuisce da un’altra traduzione che legge ‘e il luminare più piccolo all’inizio della notte’: la luna, infatti, non sorge mai all’inizio della notte se non quando essa è pansilenos, ossia ‘piena’16. {Pan significa ‘tutto’, e silene ‘luna’; un altro termine per indicare la ‘luna’ è mene. Perciò pansilenos significa ‘tutta quanta illuminata’, ed è ciò che noi chiamiamo ‘plenilunio’17}. E perciò si comprende che il sole fu creato al mattino in oriente e che, quando poi si fece sera, fu creata la luna all’inizio della notte, essa pure in oriente. Alcuni, invece, sostengono che sole e luna siano stati creati al mattino e Quest’ultimo designa l’arco temporale che si estende dal sorgere del sole al tramonto. Alle due accezioni di ‘giorno’ si era già accennato al cap. 3 (cfr. anche alla relativa p. 74, n. a). b Cfr. Gioel 4, 18. c In latino quadrans, termine che indica genericamente la «quarta parte» di qualcosa: nella fattispecie, delle ventiquattro ore che formano il ‘giorno naturale’. a
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contemporaneamente, il sole in oriente e la luna in occidente; e che, quando poi il sole fu tramontato in occidente, la luna da sotto la terra si sia spostata in oriente all’inizio della notte18.
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7. L’opera del quinto giorno [1,20] Il quinto giorno Dio adornò l’aria e l’acqua, attribuendo all’aria gli esseri che volano e all’acqua gli esseri che nuotano. Gli uni e gli altri nacquero dalle acque: è facile, infatti, per l’acqua, assottigliandosi, trasformarsi in aria; e viceversa, per l’aria, ispessendosi, trasformarsi in acquaa. I pesci, Mosè li chiamò reptilia (“rettili”) dal momento che essi, dandosi una spinta, se rapiunt (“si spingono”) con tutto il corpo, come i serpenti; al contrario delle ferae (“bestie”), che invece feruntur (“si spostano”) con i piedi1. Si osservi che Platone, dal momento che è scritto ‘i volatili sopra la terra’b, fu indotto in errore: egli, infatti, quando scese in Egitto e lesse i libri di Mosè, pensò che Mosè avesse inteso i volatili come ornamento dell’aria soltanto nella parte che si trova intorno alla terra; ornamento dell’aria nella sua parte più alta sarebbero, invece, i calodemones (“buoni demoni”) e i cacodemones (“cattivi demoni”)2. Le cose, tuttavia, non stanno affatto così: come già è stato osservato, infatti, i buoni demoni si trovano nell’empireoc; i cattivi demoni, invece, sono stati scagliati giù, in questo strato di aria caliginosa, per scontare la propria pena3, e non come ornamento dell’aria stessa. [1,21a] E Dio creò – ossia: plasmò – i grandi cetacei. Il termine cete (“cetaceo”) è di genere neutro e indeclinabile, ma è comunque possibile declinarlo come segue: hic cetus (“questo cetaceo”), huius ceti (“di questo cetaceo”)4. [1,21b] E plasmò ogni anima vivente e mobile che le acque avevano generato. Le anime di pesci e uccelli sono dette ‘mobili’ in contrapposizione all’anima dell’uomo: quelle, infatti, ‘si muovoa Si tratta dei passaggi di stato noti rispettivamente come ‘evaporazione’ e ‘condensazione’. b In Gen 1, 20. c Gli angeli, s’intende (cfr. alla n. 2): la cui sede è appunto l’empireo, come già osservato in apertura del cap. 4.
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no’ dalla condizione di essere a quella di non essere; cosa che, invece, all’anima dell’uomo non accade poiché è eterna. Oppure, se è vero – come pure può darsi – che pesci e uccelli non sono dotati di anima, allora qui il termine ‘anima’ sta per ‘animale’, nel senso di ‘essere vivente’. Anche i Greci distinguono nell’insieme degli ‘animali’ gli zoa e i sichea: gli zoa sono gli ‘esseri viventi’, ossia le bestie; i sichea, invece, sono gli ‘esseri dotati di anima’, da siche che significa ‘anima’, e si tratta, cioè, degli esseri dotati di ragione5. E il motivo per cui si dice che esso fu creato ‘mobile’ è il seguente: perché fu creato in modo tale da ‘muoversi’ dalla vita alla morte; cosa che invece non si può dire dell’uomo, il quale fu creato in modo tale da ‘non muoversi’ a patto che lo avesse volutoa. Gli altri esseri viventi, invece, furono creati in modo tale che o debbano cedere ad altri, essendone divorati, o debbano morire di vecchiaia6. {Agostino sembra essere dell’opinione secondo cui i pesci sarebbero dotati di anima: afferma infatti che sono dotati di memoria. Riferisce, infatti, che nella regione di Bullab vi è una fonte ricca di pesci, i quali, nuotando a frotte, vanno e vengono insieme agli uomini che camminano sulla riva; e, quando gli uomini si fermano, anche i pesci si fermano in attesa che quelli gettino loro qualche cibo: i pesci si comportano così perché lo hanno appreso per abitudine7.} [1,22] Poi Dio benedisse queste creature: “Crescete e moltiplicatevi!”.
8. L’opera del sesto giorno Il sesto giorno Dio adornò la terra. [1,24] La terra, infatti, generò tre specie di esseri viventi: animali da soma, rettili, bestie. Dio, infatti, poiché sapeva che l’uomo, a causa del peccato, era destinato a cadere in punizione, gli diede come rimedio contro la fatica gli iumenta (“animali da soma”), come a dire iuvamenta (“giovamenti”) al lavoro o al nutrimento. In latino si vellet, periodo ipotetico dell’irrealtà, a suggerire cioè che l’uomo non lo ha tuttavia voluto: il peccato lo ha infatti reso mortale. b Precisamente Bulla Regia, località nordafricana dell’odierna Tunisia. a
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I rettili e le bestie, invece, sono per l’uomo motivo di preoccupazione. Esistono tre specie di reptilia (“rettili”): quelli che si trascinano, come i vermi che si trascinano con la bocca; quelli che serpeggiano, come le serpi che se rapiunt (“si spingono”)a con la forza delle costole; quelli repentia (“che strisciano”)b con i piedi, come le lucertole e le botracec. Le bestiae (“bestie”) sono invece così chiamate come a dire vastiae, dal verbo vastare che significa ‘danneggiare’ e ‘infierire’1. A proposito di certi esseri viventi piccolissimi, che sono soliti nascere o dai cadaveri o dai liquidi, ci si può domandare se anch’essi siano stati generati in quell’occasione. Ne esistono di sei specie: quelli che nascono dalle esalazioni, come i bibionid dal vino, e i papilionie dall’acqua; quelli che nascono dalla putrefazione dei liquidi, come i vermi nelle cisterne; quelli che nascono dai cadaveri, come le api dai giumenti, gli scarabei e gli scrabonif dai cavalli; quelli che nascono dalla putrefazione del legno, come le termiti; quelli che nascono dalla putrefazione della vegetazione, come le tenie dagli ortaggi; quelli che nascono dalla putrefazione della frutta, come i gurgulionig dalle fave. Si risponde, a tal riguardo, che quelli che non nascono dalla putrefazione, ad esempio quelli che nascono dalle esalazioni, sono stati creati in quell’occasione; al contrario, quelli che nascono dalla putrefazione hanno avuto origine dopo il peccato da sostanze putrefatte2. Un altro interrogativo concerne gli esseri viventi nocivi: se essi, cioè, siano stati generati già nocivi, oppure, dapprima miti, soltanto in séguito siano divenuti nocivi per l’uomo. Si risponde che Etimologia già segnalata al cap. 7. Su quest’altra, dal verbo repo («strisciare»), cfr. al cap. 7, n. 1. c Secondo Isid., Etym. 12, 4, 34-35, il termine botrax, -acis designa una sottospecie di lucertola, così chiamata perché ha il muso simile a quello di un βάτραχον («rana»). Pietro Comestore declina il sostantivo seguendo non il modello della terza, bensì della prima declinazione (botraca, -ae): in latino, al nominativo botracae. d Una specie di mosche (lat. bibio, -onis): cfr. Isid., Etym. 12, 8, 16. e Il termine papilio, -onis designa variamente un genere di farfalla o di falena. f Il sostantivo scrabo, -onis è attestato come variante grafica di scabro («scarabeo») e di crabro («calabrone»). g Variante grafica di curculio, -onis, il latino gurgulio, -onis designa appunto un verme parassita del grano. a
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lo sono divenuti in séguito, e per tre motivi: per punire l’uomo, per correggerlo, per ammaestrarlo. L’uomo, infatti, viene punito quando essi gli procurano danno, oppure quando teme che essi gli procurino danno, essendo il timore una delle pene più dure. Viene da essi corretto quando comprende che tutto ciò gli è accaduto a motivo del proprio peccato. Viene ammaestrato quando contempla le opere di Dio – e quando contempla le opere prodotte dalle formiche in misura anche maggiore di quando contempla i carichi trasportati dai cammelli – oppure quando, vedendo che anche i più piccoli esseri gli possono arrecare danno, si ricorda perciò della sua fragilità e riconosce la propria pochezza3. Ma si obietta: perché alcuni animali arrecano danno ad altri, i quali, tuttavia, non ne traggono né punizione né correzione né ammaestramento? Perché, si risponde, anche da ciò, per mezzo del loro esempio, l’uomo trae un ammaestramento. Gli esseri viventi sono stati creati anche in funzione del fatto che gli uni costituissero il pasto degli altri4. Ma, di nuovo, si obietta: perché infieriscono anche sui cadaveri umani? Perché, si risponde, anche da ciò l’uomo trae un ammaestramento: non aborrire alcun tipo di morte5 poiché, attraverso qualunque via la morte abbia a passare, non un solo capello perirà dal suo capoa. Inoltre, si è soliti domandarsi, a proposito di vegetazione e alberi sterili, se anch’essi siano stati generati in quei giorni: la Scrittura, infatti, menziona soltanto la vegetazione che contiene seme e gli alberi che portano fruttob. È possibile affermare che, quanto oggi è sterile, prima del peccato ha sì portato un qualche frutto; ma che poi, però, in séguito al peccato, quelle stesse cose nascono per arrecare all’uomo più fatica che giovamento. Oppure può darsi che siano stati generati in séguito al peccato, perché è proprio in séguito al peccato che fu detto all’uomo: Spine e rovi farà germogliare per te la terra!c. Oppure bisogna pensare che tutto quanto è radicato alla terra produca frutto, intendendo per ‘frutto’ un giovamento manifesto o nascosto6. a Cfr. Lc 21, 18: si tratta di parole pronunciate da Gesù, nel contesto di una profezia apocalittica sulla condizione umana alla fine dei tempi. b Cfr. Gen 1, 11-12, e qui al cap. 5. c Cfr. Gen 3, 18, e qui al cap. 24.
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Sebbene in quest’occasione non venga più pronunciata, la benedizione ‘Crescete e moltiplicatevi!’ che era stata rivolta a pesci e uccelli, bisogna sottintenderla rivolta anche agli esseri viventi di cui si sta trattando7: è questa, infatti, la finalità comune della loro creazione.
9. La creazione dell’uomo
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[1,26a] Poi, a proposito della creazione dell’uomo, si aggiunge: “Creiamo l’uomo!” eccetera. È il Padre che sta parlando al Figlio e allo Spirito Santo. Oppure si tratta, per così dire, della voce unanime delle tre persone1: ‘Creiamo!’ e poi ‘nostra’a. [1,27a] L’uomo fu creato ‘ad immagine di Dio’ per quanto attiene all’anima: ma l’anima è ‘immagine di Dio’ nella sua essenza e nella sua razionalità, poiché essa è spirito ed è razionale come Dio; è invece ‘somiglianza di Dio’ nelle virtù, poiché è buona, giusta e sapiente2. Mentre con l’immagine l’uomo trascorre tutta la vitab, dal momento che la conserva anche quando pecca, al contrario spesso viene privato della somiglianza. [1,27b] Maschio e femmina li creò. Ciò è da intendersi per quanto attiene al corpo; e, tuttavia, si dice ‘creò’ perché si fa riferimento all’anima3. E si dice ‘li’, al plurale, in modo tale che non pensiamo che siano stati creati androgini, ossia ermafroditi4. Anche per quanto attiene al corpo, tuttavia, l’uomo fu creato in un certo senso ‘ad immagine di Dio’: Dio, infatti, diede all’uomo uno sguardo rivolto verso l’altoc5, perché potesse vedere e imitare Dio e le cose del cielo. È per questa ragione che un tale filosofo, a La menzione del possessivo «nostra» si giustifica in virtù di quanto Gen 1, 26a legge per intero: «E [scil. Dio] disse: “Creiamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza!”». b In latino imagine pertransit homo. Si direbbe che Pietro Comestore stia qui ri-utilizzando, funzionalmente all’opposizione immagine-somiglianza, il dettato di Sal 39, 7 sulla vanità della vita umana: verumtamen in imagine pertransit homo, sed et frustra conturbatur, etc. («E tuttavia l’uomo trascorre rapido nell’ombra, tuttavia invano anche si affanna, etc.»). c Nel testo latino os homini sublime dedit. Cfr. Ovid., Metam. 1, 85-86: Os homini sublime dedit caelumque videre / iussit et erectos ad sidera tollere vultus («Diea
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chi gli domandava il fine in vista del quale egli fosse stato creato, rispose: “Per contemplare il cielo e gli dèi del cielo!”a6. [1,26b] E Dio accordò all’uomo la supremazia sugli altri esseri viventi. Sono tre, dunque, gli elementi che segnalano la condizione privilegiata di cui gode l’uomo. In primo luogo, non soltanto il fatto che egli fu creato secondo la propria specie, come tutte le altre creature in precedenza menzionate, ma anche il fatto che egli è immagine di Dio. In secondo luogo, il fatto che egli fu creato in nome di una decisione unanime: in occasione delle altre opere, infatti, Dio parlò ed esse furono create; nel caso dell’uomo, invece, le tre persone, come se stessero concertando una decisione, dissero “Creiamo!”. In terzo luogo, il fatto che gli fu attribuito il ruolo di dominatore sugli animali, in modo tale che questi potessero servire all’uomo, che Dio sapeva destinato ad essere mortale, come cibo, come indumenti e come ausilio nella fatica del lavoro7. Prima del peccato, infatti, Dio diede come cibo agli uomini e agli animali soltanto la vegetazione e i frutti degli alberi: ciò si deduce dal fatto che, prima del peccato, la terra non produsse nulla di nocivo o di sterileb8. E si noti che l’uomo ha perdutoc il dominio sugli animali più grandi, ad esempio i leoni, proprio perché abbia coscienza della sua perdita; lo ha perduto anche sugli animali più piccoli, ad esempio le mosche, perché abbia coscienza della propria limitatezza; lo conserva, invece, sugli animali di medie dimensioni come consolazione e proprio perché abbia coscienza di ciò che possedeva un tempo9.
de all’uomo uno sguardo rivolto verso l’alto, e di guardare il cielo / ordinò, e di alzare i volti, in posizione eretta, verso le stelle»). a Cfr. Ps. Avg., Serm. ad fratr. 55, col. 1338: Quod tamen si non credis prophetae crede poetae scholaris perverse cui deus os sublime dedit coelumque videre iussit; a quo dum quaereret tyrannus et diceret: “Quare te deus fecit?”, respondit: “Ut contempler coelum et coelorum numina” («Tuttavia, se tu non credi al profeta, credi, o allievo perverso, al poeta, cui il dio diede uno sguardo rivolto verso l’alto e di guardare il cielo ordinò; ed egli, allorché un tiranno lo interrogò chiedendogli: “Perché il dio ti ha creato?”, rispose: “Per contemplare il cielo e gli dèi del cielo!”»). b Cfr. le ipotesi formulate sul finire del cap. 8. c A motivo del peccato, s’intende.
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10. Viene istituita l’unione coniugale tra uomo e donna
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[1,28] Poi Dio li benedisse con queste parole: “Crescete e moltiplicatevi!”. E, dal momento che ciò non sarebbe potuto accadere senza che essi si unissero1, risulta evidente che qui Dio sta istituendo l’unione coniugale tra uomo e donna. Osservazione che vale a confutare alcuni eretici, i quali sostengono che non ci possa essere unione carnale senza peccato2. [1,29] Ci si può domandare il motivo per cui all’uomo sia stato dato del cibo prima del peccatoa, sebbene allora egli fosse immortale: perché la condizione di immortalità in cui l’uomo fu creato necessitava di essere sostentata per mezzo del cibo; non era come la condizione di immortalità destinata a venire, che non avrà bisogno di cibo. L’una, infatti, consisteva nella possibilità di non morireb; l’altra, invece, consisterà nell’impossibilità di morire3. [1,31] E Dio osservò tutte quante le cose che aveva creato: ed erano assai buone. Il senso è che ciascuna cosa, considerata di per se stessa, era buona; ma tutte quante, considerate nel loro insieme, erano assai buone: allo stesso modo in cui un occhio, se si trova su un essere vivente, è più bello di quanto non lo sia se considerato separatamente4. Oppure tutte quante erano assai buone nel senso che l’insieme delle cose buone era ottimo: infatti, le cose che appartengono a questo insieme, sebbene di per se stesse siano soltanto strumenti destinati ad usi vili, sono tuttavia strumenti utili per le altre cosec. Il sommo bene, invece, è Dio stesso5. Il cambio di argomento, che suona brusco e ingiustificato, si spiega in virtù di Gen 1, 29, che tuttavia l’autore omette di riportare: Dixitque Deus: “Ecce, dedi vobis omnem herbam adferentem semen super terram, et universa ligna quae habent in semetipsis sementem generis sui, ut sint vobis in escam” («E Dio disse: “Ecco, vi ho dato ogni erba che porta seme sopra la terra, e tutti gli alberi che recano in sé semente della propria specie, perché siano il vostro nutrimento”»). b Già al cap. 7 si era osservato che, in origine, l’uomo fu creato in modo tale da non dover affrontare il passaggio dalla vita alla morte: a patto, però, che egli stesso lo avesse voluto. c Nel testo latino si contrappongono le espressioni vasa in contumeliam – [vasa] in utilitatem: nella nostra traduzione «strumenti destinati ad usi vili – strumenti utili», con il generico «strumenti» a rendere il sostantivo vasa (concretamente «vaso»). L’immagine metaforica riecheggia Rom 9, 21, ove san Paolo, ad esemplificare il concetto per cui la volontà di Dio è principio sovrano, imperscrutabile a
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A differenza di quanto si era detto a proposito di tutte le altre creature, nel caso dell’uomo non si dice ‘E Dio vide che era cosa buona’: o perché Dio sapeva che, di lì a breve tempo, l’uomo era destinato a cadere nel peccato6; o perché la creazione dell’uomo non era ancora del tutto compiuta fino a che la donna non fosse stata creata a partire da lui, e infatti in séguito si legge: Non è cosa buona che l’uomo sia soloa.
11. Il riposo del sabato e la sua santificazione [2,1] Furono dunque portati a compimento i cieli e la terra. È questo il momento in cui le opere vengono ultimate: sia perché cieli e terra sono stati creati, disposti, ornati, dunque portati a compimento; sia perché essi sono stati realizzati nell’arco di sei giorni. Il numero 6, infatti, è il primo numero perfettamente compiuto che si incontra quando si procede nella numerazione: dalla somma delle sue parti, infatti, si ricava come totale il numero stesso. Circostanza che, nei numeri appartenenti all’ordine delle unità, non si riscontra mai, se non appunto nel caso del numero 6; e nemmeno nei numeri appartenenti all’ordine delle decine, se non nel caso del numero 28. {Si definiscono ‘parti’ di un numero tutte quelle per cui è possibile stabilire il numero esatto di volte che quel numero le contiene. Il numero 6, per esempio, è sì formato da 1 e 5, da 2 e 4: ciononostante, il 4 e il 5 non sono ‘parti’ del 6, dal momento che non è possibile stabilire il numero esatto di volte che il 6 li contiene.}1 e inappellabile, ne paragona l’opera a quella di un vasaio, avanzando la seguente domanda retorica: an non habet potestatem figulus luti ex eadem massa facere aliud quidem vas in honorem, aliud vero in contumeliam? («o forse non possiede il vasaio piena facoltà sull’argilla, sì da ottenere dalla medesima massa un vaso destinato ad usi onorifici e un altro vaso destinato ad usi vili?»). a Cfr. Gen 2, 18. Questa seconda soluzione interpretativa sembrerebbe incongruente rispetto a Gen 1, 27b (qui al cap. 9), ove è detto che Dio in origine «maschio e femmina li creò»; dato che tuttavia − come sarà chiarito al cap. 12 − non è da intendersi alla lettera: la creazione di uomo e donna, sebbene riferita simultaneamente, ebbe luogo in momenti distinti.
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[2,2] E Dio portò a compimento nel settimo giorno l’opera che aveva creato. Un’altra traduzione legge ‘nel sesto’: e questa lettura non lascia sussistere obiezione alcunaa. Il punto, tuttavia, è che il testo ebraico legge ‘nel settimo’, e perciò ci si domanda: se ‘portare a compimento’ significa ‘realizzare la conclusione di una qualche opera’, allora come può essere vero quanto si dice immediatamente dopo, ossia che il settimo giorno Dio si riposò ecceterab? È pur vero, d’altra parte, che Dio istituì il settimo giorno, e inoltre lo benedisse, e poi riposò2. Oppure ‘portò a compimento’ è da intendersi nel senso di ‘mostrò che era compiuta’: nel settimo giorno, infatti, Dio non creò nulla, e dunque si riposò astenendosi da nuove tipologie di opere3. In séguito, infatti, Dio non creò nulla di cui, in quel momento, già non avesse creato la materia (nel caso dei corpi) o la somiglianza (nel caso delle anime)c. Che Dio si sia riposato, infatti, non lo si dice come ad intendere che fosse stanco, ma nel senso di ‘cessò’: come quando in Isaia si dice che i serafini ‘non avevano requie’ nel dire “Santo, santo, santo”d, vale a dire ‘non cessavano’4. Oppure il senso del passo è: si riposò dall’opera, sottinteso ‘e non nelle opere’, vale a dire che Dio non ha bisogno delle opere che ha creato5; e lo si dice, per così dire, in senso antifrastico6. Oppure: si riposò dall’opera, sottinteso ‘in se medesimo’7, vale a dire che dalla mutabilità delle opere apparve la sua immutabilità: Dio, infatti, mantenendosi nella sua stabilità, fa in modo che tutto si muova.
L’ultimo atto della creazione (ossia l’uomo) ebbe luogo infatti il sesto giorno. Il prosieguo del versetto («da ogni opera che aveva compiuto») sarà citato e discusso poco oltre. c Sul concetto di «somiglianza» in riferimento all’anima umana, cfr. al cap. 9. d Per la verità, Is 6, 3 legge et [scil. seraphim] clamabant alter ad alterum, et dicebant “Sanctus, sanctus, sanctus” («e [scil. i serafini] gridavano l’uno all’altro, e dicevano “Santo, santo, santo”»). La dizione del nostro testo, nonché la sua sostanza concettuale, aderiscono più puntualmente al passo di Apoc 4, 8, ove si dice che quattro creature angeliche dalla natura teriomorfa requiem non habent die et nocte dicentia “Sanctus, sanctus, sanctus” («non hanno requie, giorno e notte, nel dire “Santo, santo, santo”»). Il punto è che la citazione, nella fonte da cui Pietro Comestore con ogni probabilità la deriva (cfr. alla n. 4), non presenta alcun soggetto (nel nostro testo, invece, sono i serafini, come in Isaia) ed è attribuita – opportunamente – all’Apocalisse: l’incongruenza potrebbe addebitarsi o ad un errore nel manoscritto-fonte impiegato dall’autore o ad un’interferenza generatasi nella memoria. a
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Quanto al fatto che si dica da ogni opera che aveva compiuto, ciò significa che esiste un’opera che ancora Dio non aveva compiuto e dalla quale non si riposa. Sono tre, infatti, le opere che aveva compiuto: aveva creato, disposto, adornato. Una quarta opera, quella di propagazione, non cessa mai di compierla. Ne compirà anche una quinta, quando si cingerà le vesti e passerà a servirea: in quel momento, tuttavia, in particolar modo riposerà8. [2,3] E Dio benedisse il settimo giorno, ossia lo santificò. Vale a dire: volle che fosse sacro e celebrato. Si tramanda, infatti, che, prima della Legge, l’osservanza del sabato abbia sempre avuto luogo presso alcuni popoli. Poi, anche nella Legge, Dio indicò tale osservanza con il termine ‘santificazione’, ove è scritto: Ricòrdati di santificare il sabatob9.
12. Riepilogo dopo l’opera dei sette giorni [2,4a] Queste sono le generazioni di cielo e terra. Alcuni collocano in questo preciso punto del testo la conclusione delle opere dei sei giorni; altri, invece, nel punto in cui è scritto: Adamo si unì a sua mogliec; altri ancora nel punto in cui è scritto: Questo è il libro della discendenza di Adamod. Ora, però, non curiamoci di ciò che è dubbio, e non distogliamo la nostra attenzione dalla lettera del testo1. In precedenza, infatti, la creazione del maschio e della femmina era stata riferita simultaneamentee: cosa che, tuttavia, non ebbe luogo simultaneamentef2. Ora, per poter meglio illustrare quanto in precedenza aveva accorpato per brevità, la Scrittura adotta l’espediente ricapitolativo di ripetere il termine ‘generazioni’ anche Cfr. Lc 12, 37, ove Gesù, per esortare i discepoli a vegliare in attesa del Messia, li invita a comportarsi come i servi che attendono svegli il proprio padrone: costui li ricompenserà poiché al suo arrivo praecinget se, et faciet illos discumbere, et transiens ministrabit illis («si cingerà le vesti, e li farà sedere a tavola, e passerà tra di loro a servirli»). b Cfr. Es 20, 8. c Cfr. Gen 4, 1, e qui al cap. 26. d Cfr. Gen 5, 1, e qui al cap. 31. e Il rimando è a Gen 1, 27 (cfr. qui al cap. 9). f Un cenno a tal riguardo era già stato anticipato in conclusione del cap. 10. a
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a proposito di tutte le altre creature. Questo termine, infatti, può essere inteso in senso attivo, ossia ‘le opere che Dio ha compiuto’, ma anche in senso passivo, ossia ‘ciò che è stato generato’3. [2,4b-5] Inoltre, merita attenzione il fatto che qui si dica: creò ogni virgulto prima che spuntasse dalla terra, e la vegetazione prima che germogliasse. In precedenza, invece, si era detto che i virgulti, non appena creati, erano già maturi e carichi di frutti, e che la vegetazione era germogliata e carica di semea. Vale, a tal proposito, quanto già si è avuto modo di osservareb, ossia che le modalità secondo cui Dio operò furono due: l’una relativa alla materia, l’altra all’essenza. Dunque il senso è: Dio li creò quanto alla loro materia, prima che essi spuntassero e germogliassero quanto alla loro essenza. Oppure, in virtù di quanto si legge sùbito dopo, ossia il Signore, infatti, non aveva ancora fatto piovere sopra la terra, è possibile interpretare il passo in quest’altro senso: Dio li creò allora già perfettamente compiuti e nella loro essenza, prima che essi spuntassero e germogliassero come sono soliti fare ora che, irrorati dalla rugiada benefica e con l’ausilio del lavoro dell’uomo, gradualmente giungono a nascita e a maturazione4. [2,6] A quel tempo, infatti, una fonte irrigava la terra5: allo stesso modo in cui il Nilo irriga l’Egitto. {Ossia: alternativamente, ora l’una e ora l’altra regione6. Il senso è analogo a quando si suol dire che, prima che la Pentapoli venisse sommersac, il Giordano la irrigava tutta quanta: alternativamente, s’intende. E così pure Agostino, a proposito di alcune fonti, riferisce che, grazie ad una mirabile alternanza, esse giungono ad irrigare tutta quanta una data regione7. Non si abbia a dire, insomma, che a quel tempo tutta la terra si trovava ad essere irrigata simultaneamente dalla fonte, che sarebbe come dire che ci fu un diluvio8. Un’altra possibilità interpretativa è la seguente: dal momento che il testo legge ‘una fonte’, e non ‘una Il rimando è a Gen 1, 11-12 (cfr. qui al cap. 5). Cfr. al cap. 4, con parallelo esplicativo in riferimento alla costruzione di una casa ad opera di un artefice. c Si allude all’episodio della vendetta divina contro Sodoma e Gomorra (cfr. Gen 18-19, e qui ai capp. 52-53): due città appartenenti alla cosiddetta Pentapoli, insieme ad Adama, Sebois e Bala altrimenti detta Segor (cfr. Gen 14, 2, e qui al cap. 46). a
b
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sola fonte’, allora il termine ‘fonte’ sta in luogo di un plurale, allo stesso modo in cui è scritto: Venne una cavallettaa9.}
13. La creazione del primo uomo [2,7a] Il Signore Dio, dunque, plasmò l’uomo a partire dal fango della terra. Dio è detto qui per la prima volta ‘Signore’: è in questa occasione, infatti, che Dio per la prima volta ebbe un servo1 nel senso vero e proprio del termine, vale a dire uno che lavorava per lui. Dopo la breve ricapitolazioneb, il testo si diffonde più ampiamente a proposito del modo in cui furono creati il maschio e la femmina. [2,7b] Il discorso verte dapprima sul maschio e, dal momento che due sono le parti di cui l’uomo è formato, si fa riferimento ad entrambe: alla carne, ove si dice plasmò l’uomo a partire dal fango della terra; all’anima, ove si dice e alitò un respiro ecceterac. Come ad intendere: il corpo lo creò a partire dalla terra; l’anima, invece, la creò dal nullad. Un’altra traduzione rende ‘soffiò dentro’ o ‘soffiò’. E tale espressione, a dispetto di quanti hanno obiettato che Dio non sarebbe dotato di bocca e di respiro, è tutt’altro che inappropriata in riferimento a Dio: si dice infatti ‘alitò un respiro’ nel senso di ‘creò lo spirito’ e, analogamente, ‘soffiò dentro’ nel senso di ‘creò il soffio’, ove ‘soffio’ sta per ‘anima’2, allo stesso modo in cui in Isaia si legge: Io ho creato ogni soffioe. Quanto al fatto che poi a Cfr. Sal 105, 34: il riferimento è all’ottava delle dieci piaghe che per volontà divina si abbatterono sul popolo d’Egitto, riluttante a liberare dalla schiavitù la stirpe d’Israele (cfr. Es 7-11). b Dell’intera opera di creazione divina, s’intende: cfr. in apertura del precedente cap. 12. c Da questo punto del testo in avanti, il nostro autore cita, di volta in volta commentandoli, singoli spezzoni di Gen 2, 7b, che per intero legge: et inspiravit in faciem eius spiraculum vitae, et factus est homo in animam viventem («e alitò sul suo volto uno spiraglio di vita, e l’uomo diventò un’anima vivente»). d Cfr. rispettivamente al cap. 1, n. 7 e al cap. 9, n. 3. e Con ogni probabilità, si allude al passo di Is 57, 16: la Vulgata legge et flatus ego faciam («e io creerò il soffio»). Può darsi che Pietro Comestore stia citando una versione, forse riconducibile all’àmbito delle Veteres, approntata in stretta aderenza
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si dica sul volto, è una sineddoche per mezzo della quale si indica il tutto attraverso una sua parte: Dio, infatti, dotò di anima l’uomo nella sua totalità; qui, tuttavia, si menziona soltanto il volto in quanto parte del corpo più nobile, poiché capace delle facoltà sensoriali3. Per indicare l’anima, si utilizza qui anche l’espressione spiraglio di vita, poiché, grazie all’anima, l’uomo respira e vive. Si dice poi un’anima vivente: di per se stessa, ossia vivente nell’eternità della sua vita, e non invece mobile come è l’anima delle bestiea. Questo punto del testo fu malinterpretato da Platone, che sostiene sia stata la divinità a creare l’anima, ma gli angeli a plasmare il corpo, nel passo che così esordisce: ‘Dèi, figli degli dèi, il cui artefice e padre sono io’ b. Alcuni sostengono che l’anima sia stata fatta di divina essenza: è un’opinione che non può reggere, dal momento che, se così davvero fosse, essa non avrebbe potuto peccare in nessun modo4. Altri, poi, distinguono tra ‘spiraglio di vita’ e ‘anima’: lo ‘spiraglio di vita’ sarebbe lo Spirito Santo, che costoro sostengono sia stato attribuito in quell’occasione anche all’uomo5, perché fosse dotato della facoltà profetica quando poi ebbe a dire: Questo è ora osso delle mie ossa!c. Altri, invece, distinguono in modo ancora diverso, e intendono per ‘spiraglio di vita’ una sorta di soffio corporeo, che si trova nel corpo di un essere vivente e che fa funzionare in esso i cinque sensi, e che pure si estingue in esso a poco a poco: mentre al testo greco dei Settanta, che legge appunto καὶ πνοὴν πᾶσαν ἐγὼ ἐποίησα («e io ho creato ogni soffio»). a Osservazione già esposta al cap. 7. b In latino Dii deorum, quorum opifex paterque ego: il nostro autore sta citando qui il testo di Plat., Tim. 41A secondo la traduzione latina di Calcidio (cfr. al cap. 1, n. 14). La frase in oggetto costituisce l’esordio del discorso che il Demiurgo, dopo aver creato il mondo e avervi infuso l’anima cosmica, rivolge a tutte le altre divinità da lui stesso create (che il pensiero cristiano identificò nelle creature angeliche: cfr. anche nel nostro testo): a loro attribuisce il compito di plasmare i corpi delle creature mortali, che egli provvederà invece a dotare dell’essenza. Si osservi che, come già ai capp. 2 e 7, anche qui emerge a chiare lettere la divulgata convinzione secondo cui Platone avrebbe letto e malinterpretato il testo biblico. c Cfr. Gen 2, 23 (qui al cap. 18): è questa la prima di una serie di esclamazioni (cfr. Gen 2, 23-24, e qui ai capp. 18-20) che Adamo pronuncia dopo essersi risvegliato dal sopore che Dio gli ha infuso per poter ottenere da lui la donna (cfr. Gen 2, 21-22, e qui al cap. 17).
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l’essere vivente sta morendo, questo soffio si percepisce ancora in qualche parte del suo corpo, sebbene si sia già estinto in un’altra parte6. L’uomo fu creato già in età adulta7, mortale e immortale, vale a dire nella possibilità di morire e al contempo di non morire8. E l’anima venne infusa nel corpo dopo che questo era già stato plasmato. Ci si domanda, però, se l’anima sia stata creata all’interno del corpo stesso, mentre vi veniva infusa, oppure sia stata creata all’esterno del corpo e dotata per sua natura della volontà di entrare nel corpo: come che si sia verificato nel caso di quella prima anima, quanto alle anime create in séguito si può rispondere che vengono create all’interno dei corpi stessi, mentre vi vengono infuse9.
14. Il paradisoa e i suoi alberi [2,8] Il Signore Dio aveva piantato il paradiso del piacere in principio. Ci si potrebbe chiedere: l’uomo restò nel luogo dove fu creato, ossia nell’agro damascenob? No. E dove fu spostato, dunque? Nel paradiso: il terzo giorno, infatti, Dio aveva piantato (plantaverat) – ossia ‘aveva dotato di piante’ (plantis aptaverat), cioè di vegetazione e di alberi – il paradiso1. ‘In principio’ sottinteso ‘della creazione’: quando apparve l’asciutto e Dio fece in modo che la terra avesse a germogliare. Oppure ‘in principio’ nel senso di ‘nella prima parte dell’orbe terrestre’. Un’altra traduzione, infatti, rende ‘paradiso in Eden ad oriente’, ove ‘Eden’ è termine ebraico che corrisponde al latino ‘delizie’: e perciò ‘paradiso del piacere’ In punta d’etimologia, il sostantivo paradisus (dal gr. παράδεισος) vale genericamente ‘giardino’: si è scelto tuttavia di rendere con l’italiano «paradiso» dal momento che, nel pensiero teologico e nel linguaggio corrente, quello di cui si sta trattando è ‘il’ giardino per antonomasia, vale a dire il cosiddetto ‘paradiso terrestre’. Altre possibili accezioni del termine sono segnalate dal nostro autore nel corso del capitolo. b Rendiamo così, in modo volutamente vago, il latino in agro Damasceno. Come segnala Graf, Miti, leggende, p. 51, è questa un’opinione condivisa da larga parte degli esegeti tardomedievali; altri indicano invece Hebron quale luogo della creazione. Il dato, che sarà ribadito al cap. 25, è tuttavia di controversa interpretazione: cfr. nel dettaglio al cap. 25, p. 114, n. b. a
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è espressione equivalente a ‘giardino in Eden’, ossia ‘nelle delizie’; e allora ‘in principio’ equivale a ‘ad oriente’. Si tratta di un luogo assai ameno, che un lungo tratto di mare e di terra separa dalle nostre regioni abitabili; e si trova in posizione a tal punto elevata da sfiorare il globo lunare: ragion per cui le acque del diluvio non vi giunsero2. Il termine ‘paradiso’ può indicare anche il cielo empireo, e lo si definisce ‘paradiso spirituale’ dal momento che esso è anche il luogo in cui si trovano gli spiritia. Inoltre, secondo una chiave di lettura spirituale, il termine ‘paradiso’ indica la vita beata oppure la Chiesa3. [2,9] E Dio produsse nel paradiso dalla terra alberi di ogni specie, dai quali l’uomo potesse trarre piacere nell’osservarli e sostentamento nel mangiarli. E li ‘produsse’ (produxit) in senso vero e proprio, ossia ‘assai li fece crescere’ (procul duxit) in altezza. Oppure li ‘produsse’ nel senso che ‘li fece germogliare per l’uomo’ (pro homine eduxit)4. Al cui centro − come più nobili − pose l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male. L’albero della vita è così chiamato a motivo dell’effetto che, per sua stessa natura, avrebbe potuto produrre: se mangiato di frequente, irrobustire l’uomo in uno stato di perenne vigore, in modo tale che non avesse ad incorrere in una malattia o nella morte per causa di qualche morbo, o della vecchiaia, o di qualche tormento5. L’albero della conoscenza del bene e del male, invece, è così chiamato a motivo di ciò che accadde dopo che fu mangiato6. Prima di averlo mangiato, infatti, l’uomo non conosceva che cosa fosse il male, dal momento che non ne aveva ancora fatto esperienza. Per ‘bene’ si intendono la salute e il vigore; per ‘male’ la malattia e la debolezza, che l’uomo non aveva ancora sperimentato in concreto. Le aveva sì conosciute in termini astratti, dal momento che da un opposto si conosce anche l’altro, ma non in termini di concreta esperienza: allo stesso modo in cui un medico, mentre è sano, conosce sì le malattie; ma poi, quando si ammala lui stesso, le conosce, per così dire, di più: perché le conosce e le sperimenta in concreto. Così anche nel caso di un bambino di cui ci si prena
Sull’empireo, cfr. al cap. 1, n. 3.
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de cura con estrema delicatezza: si può dire che non conosca che cosa sia il male (a dire il vero, egli non conosce ancora nemmeno quanto grande valore abbia il benea). Oppure si può intendere per ‘male’ la disobbedienza, e per ‘bene’ l’obbedienza: dopo aver mangiato di quell’albero, l’uomo conobbe infatti quanto grande fosse il bene dell’obbedienza e quanto grande fosse il male della disobbedienza7. Platone, ritenendo che il passo mal si prestasse ad essere letto in riferimento a due alberi, intese l’una e l’altra espressione in riferimento all’uomo8: l’uomo, infatti, vive e conosce il bene e il male. E disse inoltre che qui l’uomo è chiamato ‘albero’ ad indicare che esso è fatto di corpo, a differenza degli spiriti, che pure vivono e conoscono il bene e il male9. Quanto al fatto che fu posto ‘al centro’, diede questa spiegazione: l’uomo si trova per così dire in posizione mediana tra il creatore, che si trova sopra di lui, e le cose sensibili, che si trovano sotto10. Disse, inoltre, che la creazione di quel primo uomo fu diversa dalla successiva creazione di tutti gli altri uomini: ciò in virtù proprio di quelle due espressioni che sono state aggiunte, ossia ‘della vita’ e ‘della conoscenza del bene e del male’11. Come, infatti, nella lettera di Samo si trova prima, al di sotto, un tronco dritto, e poi, in alto, una biforcazioneb, così vale tuttora nel caso dell’uomo. Nelle prime età della sua vita, infatti, è come se egli vivesse soltanto, senza usare le facoltà intellettive che pure gli sono state attribuite; poi, quando raggiunge gli anni del discernimento, allora discerne tra il bene e il male, e allora per la prima volta le sue azioni sono buone o cattive12. Ma così non fu nel caso di Adamo, al quale, insieme alla vita, fu data anche la conoscenza del bene e del male. Quasi che Platone volesse dire che l’uomo fu creato: dotato di corpo; in posizione subordinata a Quest’ultima osservazione, da noi posta tra parentesi, sembra una sorta di “nota a margine” intesa ad esplicitare il paradosso in cui si risolvono le eccessive cure prestate ad un bambino delicate nutritus («di cui ci si prende cura con estrema delicatezza»). Tali cure, infatti, valgono certo a preservarlo dall’esperienza del «male» (ossia da «malattia» e «debolezza»), ma al contempo non gli consentono di conoscere il valore del «bene» (ossia «salute» e «vigore»): il suo stato di pur effettiva salute non è frutto di un vigore naturale del corpo (che dovrebbe essere il vero «bene»), ma, appunto, delle attenzioni che riceve dall’esterno. b Con ogni evidenza, la lettera ypsilon (Y).
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rispetto a Dio; in posizione preminente rispetto agli altri esseri viventi; dotato al contempo della vita e della conoscenza del bene e del male13.
15. I quattro fiumi del paradiso
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[2,10a] E una fonte – oppure: un fiume1 – sgorgava per irrigare il paradiso. S’intenda: per irrigare gli alberi del paradiso2. Il termine ‘fonte’ si può intendere: nel senso di ‘abisso’, cioè il punto in cui hanno origine tutte le acquea; oppure, per sillepsi, nel senso di ‘fonti’ b. E ‘irrigare’ sta per ‘fornire acqua’: si ritiene, infatti, che tutta la terra circostante ricevesse acqua dai fiumi, per mezzo di cunicoli sotterranei, fino ad una distanza di dodici o sedici stadî3. [2,10b-14] E questa fonte si divide poi in quattro fiumi. Uno si chiamava Physon, e da Gangar, re dell’India, prese il nome di Gange4. Secondo quanto riferisce Isidoro, il nome Physon significa ‘schiera’: in esso, infatti, confluiscono dieci diversi corsi d’acqua5. Secondo una diversa interpretazione, significa invece ‘mutamento di volto’: l’aspetto del fiume, infatti, muta rispetto a come si presenta nel paradiso6. Esso muta inoltre, a seconda dei diversi luoghi, in tre aspetti: nel colore, ove chiaro, ove scuro, ove torbido; nella portata, ove scarsa, ove abbondante; nella temperatura, ove fredda, ove calda7. Questo fiume circonda la terra di Evilath, ossia l’India8, e trascina nella sua corrente sabbie cariche di oro. Un altro fiume si chiamava Gyon, altrimenti detto Nilo. Il nome Gyon significa ‘voragine della terra’, oppure ‘di colore terreo’ dal Sembrerebbe questa un’altra accezione di «abisso» rispetto a quella segnalata al cap. 2. b Il termine ‘sillepsi’ (dal gr. σύλληψις: lett. «l’atto del prendere insieme») designa in termini generici una qualunque figura retorica che consista nel riferire un concetto, oltre che a ciò cui propriamente andrebbe riferito, anche a qualcos’altro cui propriamente non andrebbe riferito. Nello specifico, per esempio, possono dirsi ‘sillepsi’ una concordanza verbale cosiddetta ‘a senso’, ma anche il fenomeno che qui si intende segnalare e che, in termini grammaticali più precisi, si direbbe un singularis pro plurali («singolare in luogo del plurale»). Si rammenti che la medesima ipotesi, ma senza l’impiego del tecnicismo ‘sillepsi’, era stata formulata al cap. 12, a commento della fonte menzionata in Gen 2, 6. a
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momento che è torbido9. Questo fiume circonda l’Etiopia. Gli altri due fiumi, invece, sono tuttora chiamati con i loro nomi primordiali: Tigri ed Eufrate. Giuseppe riferisce che il Tigri è chiamato anche Diglat, nome che significa ‘sottile’ e ‘stretto’10. La tigre è l’animale più veloce: e perciò questo fiume, a motivo della sua rapidità, fu chiamato con lo stesso nome dell’animale11. Il Tigri scorre di fronte al territorio degli Assiri. Il nome Eufrate significa ‘portatore di raccolto’12 oppure ‘carico di frutti’. Attraverso quali regioni scorra l’Eufrate, Mosè lo tace, come dandolo per noto ai suoi lettori: il fiume, infatti, si trova nella Caldea, la regione dalla quale era giunto Abramo13. Questi quattro fiumi, come già detto, sgorgano da una medesima fonte e poi si separano, e poi di nuovo alcuni di essi si mescolano tra loro, e poi di nuovo si separano. Spesso, inoltre, vengono assorbiti dalla terra, e poi di nuovo emergono in più luoghi distinti14. È questo il motivo per cui, a proposito della loro sorgente, è dato leggere differenti indicazioni: si dice che il Gange abbia origine nella zona del Monte Caucaso; il Nilo non lontano dall’Atlante; il Tigri e l’Eufrate dall’Armenia15.
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16. L’ordine e il divieto [2,15] Dio, dunque, spostò l’uomo dal luogo della sua creazione al paradiso, in modo tale che vi lavorasse – tuttavia, s’intenda, non faticando né spinto dalla necessità, ma traendone piacere e svago1 – e perciò Dio lo custodisse. Ove ‘lo’ sta per ‘l’uomo’; oppure può darsi che entrambe le cose siano dette in riferimento all’uomo, vale a dire: in modo tale che l’uomo custodisse il paradiso e, come già detto, vi lavorasse2. Alcuni manoscritti non riportano ‘lo’, e in tal caso bisognerebbe intendere ‘e custodisse’ in questo senso: l’uomo considerasse la propria opera, in modo tale che, quanto egli faceva sulla terra per mezzo dell’agricoltura, lo osservasse anche in se medesimo per mezzo della disciplina; in modo tale, cioè, che, come la terra obbediva a lui, così lui stesso obbedisse al proprio creatore3. [2,16-17] E gli diede un ordine dicendo eccetera. L’uomo ricevette un ordine dal Signore perché sapesse di essere assoggettato
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al Signore. E, dal momento che qualunque tipo di comandamento consiste in due distinti aspetti, ossia in un ordine e in un divieto, dunque il Signore si servì di entrambi. Ordinò: “Cìbati di tutti gli alberi del paradiso!”, e impose il divieto: “Non cibarti dell’albero della conoscenza del bene e del male!”. E il comandamento fu dato all’uomo, in modo tale che, per suo tramite, giungesse anche alla donna4. Oppure può darsi che si tratti di un’anticipazione: il comandamento, cioè, fu dato nel contempo ad entrambi dopo la creazione della donnaa. E Dio aggiunge poi l’indicazione della pena, nel caso in cui il divieto fosse stato trasgredito: “Il giorno in cui te ne sarai cibato, morirai di morte!”; s’intenda: della morte dell’anima, e la morte sarà per te inevitabile. Un’altra traduzione, infatti, rende in modo più esplicito: ‘Sarai mortale!’5. I Settanta, invece, rendono con il plurale: ‘Il giorno in cui ve ne sarete cibati, morirete di morte!’. Ragion per cui alcuni ritengono che il comandamento sia stato dato ad entrambi, e venga qui anticipato. Ed esso fu dato da Dio per tramite di qualche creatura sottoposta6, così come accade anche a noi per tramite dei profeti e degli angeli. b {Qualche notizia, una volta per tutte, a proposito delle differenti traduzioni del testo sacro. Nell’anno 361 prima dell’incarnazione del Signore, all’epoca di Tolomeo Filadelfo, furono attivi i Settanta traduttori. Dopo l’ascensione del Signore, nell’anno 124, sotto il regno di Adriano, fu attivo Aquila, primo traduttore dalla lingua ebraica a quella greca. Cinquantatré anni dopo costui, sotto il regno di Commodo, fu attivo Teodozione. Trent’anni dopo costui, sotto il regno di Severo, fu attivo Simmaco. Otto anni dopo costui, fu approntata una quinta edizione a Gerusalemme: essendone ignoto l’autore, essa viene indicata con il nome di ‘Vulgata’c. L’ipotesi è ribadita in conclusione del cap. 21. La seguente sezione tra parentesi graffe (criterio editoriale su cui cfr. Introduzione § L’Historia Scholastica: genesi, fortuna, tradizione manoscritta, edizioni) è collocata da Sylwan qualche riga sopra, tra «… morirete di morte!’» e «Ragion per cui …». Un siffatto inserimento spezza tuttavia bruscamente la continuità del discorso: abbiamo dunque ritenuto opportuno spostare la sezione in un punto più avanzato del testo. c Da non confondere con la versione geronimiana, che pure si è soliti designare con il nome di Vulgata. a
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Poi, diciotto anni più tardi, sotto il regno di Alessandro, Origene approntò una traduzione facendo uso di asterischi e obeli. (Periarchon – ove peri significa ‘a proposito di’ e archon ‘principio’ – è il libro in cui Origene dice che Cristo deve ancora patire nell’aria per i demoni, allo stesso modo in cui ha patito sulla terra per gli uomini.) In séguito, senza queste cosea. Tutti costoro tradussero dall’ebraico al greco. Ma furono ben più numerosi coloro i quali tradussero dal greco al latino: nella Chiesa delle origini, infatti, chi conosceva anche solo un poco di entrambe le lingue traduceva dal greco al latino. Da ultimo, Girolamo tradusse dall’ebraico al latino: alla cui edizione del testo non ci si attiene integralmente.}7
17. Vengono creati gli altri esseri viventi e viene imposto a ciascuno un nome [2,18] Poi Dio disse: “Non è cosa buona che l’uomo sia solo: creiamo per lui un aiuto, per procreare figli1, che sia simile a lui!”. Per natura, infatti, da cose simili nascono cose simili. [2,19] Tuttavia, perché la creazione della donna non sembrasse inutile ad Adamo – che avrebbe potuto credere che già esistesse un suo simile tra gli altri esseri viventi – Dio condusse perciò al cospetto di Adamo tutti gli animali di terra e d’aria. E bisogna intendere che vi fossero inclusi anche gli animali d’acqua: s’intenda, cioè, il tutto indicato attraverso una sua parte2. Oppure può darsi che tutti quanti, animali d’acqua e di terra, siano considerati a Rendiamo così, alla lettera, il latino postea sine his: il senso della frase, ellittica di verbo, è decisamente oscuro. L’apparato critico segnala che W Tr γ integrano nella frase il verbo transtulit («tradusse»), sicché la frase parrebbe doversi leggere in riferimento a ciò che precede la digressione sul Periarchon – la quale, in effetti, sembra una sorta di interpolazione – nel senso di «in séguito, [scil. egli tradusse] senza servirsi di questi [scil. segni diacritici]»; tuttavia, non risulta che Origene abbia mai approntato, in séguito alla Bibbia Exaplare, alcuna traduzione del testo biblico in forma usuale, ossia non corredata di segni diacritici. Si potrebbe altresì pensare ad una sorta di “nota redazionale”, con cui si intende segnalare l’intrusione, nel corpo del discorso principale, della breve digressione sul Periarchon: come a dire «da questo punto del testo in poi, senza considerare questa digressione [scil. si riprende il discorso]».
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‘di terra’: anche gli animali d’acqua, infatti, recano in sé qualche elemento che deriva dalla terra3. Oppure, e più verosimilmente, i pesci solo in séguito furono conosciuti dagli uomini e fu attribuito loro un nome: il che si deduce chiaramente dal fatto che hanno nomi uguali a quelli degli animali di terra, dal momento che è stata còlta una qualche somiglianza con essi4. Dio ottenne che tutti insieme giungessero al cospetto dell’uomo in virtù di quel cenno mediante il quale creò ogni cosa; oppure può darsi che ciò sia avvenuto per tramite degli angeli5. Li condusse all’uomo, perché egli imponesse loro un nome, per due ragioni: da ciò quelli comprendessero di essergli assoggettati6, e Adamo comprendesse che nessuno di loro era simile a lui. [2,20a] E Adamo impose loro dei nomi. In lingua ebraica, che era la sola che esistesse in origine: ciò si intuisce in virtù del fatto che sono ebraici i nomi che si leggono fino a quando ebbe luogo la divisione delle linguea7. [20b-21a] E, poiché l’uomo non aveva trovato un suo simile, Dio infuse in Adamo un sopore. Non un sonno, s’intenda, ma un’estasi, durante la quale si crede che egli abbia preso parte alla curia celesteb: ragion per cui, risvegliatosi, profetizzò dell’unione di Cristo con la Chiesa8. Durante quello stato di estasi, inoltre, venne a conoscenza del diluvio destinato a venire e del giudizio per mezzo del fuoco: cose che riferì poi ai suoi figli9.
18. La creazione della donna [2,21b-23a] Dopo che si fu addormentato, il Signore prese una delle sue costole: la carne e l’osso, s’intende. E, avvalendosi dell’aiuto degli angeli, ne ottenne la donna, formandone la carne dalla carne e le ossa dall’osso, e la pose al cospetto di Adamo. Il quale disse: “Questo è ora osso delle mie ossa e carne della mia carne!”. E l’avverbio ‘ora’ ha tratto in errore i Giudei, inducendoli a sostenere che in In séguito alla dispersione di Babele: cfr. Gen 11, 1-9, e qui al cap. 40. L’espressione designa usualmente il coro di angeli e di anime beate che si trovano nell’empireo. a
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precedenza fosse stata creata un’altra donna, alla quale erano riferite le parole maschio e femmina li creòa, e che ora, invece, ne venga creata una seconda. Quasi che Adamo volesse dire: la prima donna è stata creata insieme a me dal fango; ora, invece, questa dalla mia carne1. Giuseppe sostiene che la donna sia stata creata fuori dal paradiso e poi portata nel paradiso insieme all’uomo: dice infatti ‘E Dio fece entrare in questo giardino Adamo e sua moglie, e ordinò loro di prendersi cura della vegetazione’2. I Giudei, peraltro, si inventano sterminate genealogie di entrambe le mogli di Adamo3. Ciononostante, a dimostrare l’infondatezza delle loro credenze sembra essere lo stesso testo sacro: ove, in riferimento alla moglie di Adamo, si parla sempre al singolare4. Si osservi che, per quanto concerne la creazione della donna, il discorso ha riguardato soltanto il corpo. Vi è perciò chi ha ritenuto che il fatto che non si dica nulla a proposito dell’anima voglia sottintendere che, come già la carne dalla carne, così anche l’anima della donna sia derivata per trasmissione da quella dell’uomo5. Agostino pare nutrire dei dubbi su come vada intesa la questione: se, cioè, l’anima della donna abbia avuto origine per trasmissione oppure dal nulla. Tuttavia, il fatto stesso che il testo sacro non dica nulla a proposito dell’anima, vale piuttosto a confutare chi è dell’opinione poc’anzi esposta. Nell’ipotesi, infatti, che l’anima della donna abbia avuto origine per trasmissione, allora ciò significherebbe che essa fu creata in modo diverso rispetto all’anima dell’uomo, che era stata invece creata dal nulla. Ma, se fosse stata creata in modo diverso, allora ciò non avrebbe dovuto essere passato sotto silenzio: ciò onde evitare che, altrimenti, si potesse credere che fosse stata creata secondo la stessa modalità di cui già si era detto a proposito dell’anima dell’uomo. Il silenzio a riguardo lascia dunque intendere che, anche in questo caso, bisogna ritenere che sia avvenuto non diversamente da quanto già si era appreso in precedenza6.
a Cfr. Gen 1, 27 (qui al cap. 9), sulla cui funzione meramente anticipatrice, nel contesto della logica narrativa di Genesi, si rammenti quanto il nostro autore aveva già osservato ai capp. 10 e 12: come a dire, dunque, che è invece quella poc’anzi riferita la descrizione vera e propria della modalità in cui fu creata la prima donna.
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19. I nomi della donna
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[2,23b] Poi Adamo, come fosse il signore di sua moglie, impose anche a lei un nome e disse: “Costei si chiamerà virago (“donna”)!”, che significa a viro acta (“tratta dall’uomo”)1. E come la materia era derivata dalla materia, così anche il nome della donna derivò da quello dell’uomo. Il medesimo procedimento di derivazione si osserva anche in ebraico: ‘uomo’ si dice infatti is, da cui issa per derivazione; proprio come da vir deriva virago2 . E virago fu il nome proprio di quella donna; ora, invece, è nome comune di tutte le donne. La sua forma sincopata è virgo (“vergine”), termine con cui le donne vengono indicate finché si mantengono nell’illibatezza della loro condizione natale; infranta la quale, si definiscono mulieres (“donne”). Allo stesso modo, Adamo fu il nome proprio di quell’uomo; ora, invece, è nome comune di tutti gli uomini3. Il nome Adamo significa ‘rosso’ oppure ‘terra rossa’ dal momento che, secondo Giuseppe, fu creato da terra rossa inumidita: di tale colore è infatti, come egli riferisce, la terra vergine e incorrotta4. Oppure s’intenda ‘rossa’ nel senso di ‘dotata di anima’: la sede dell’anima, infatti, è nel sangue. Oppure ‘rossa’ in relazione a ciò che sarebbe divenuta, ossia ‘sanguinea’ nel senso di ‘peccatrice’. Spesso, infatti, si utilizza il termine ‘sangue’ per indicare il peccato: ad esempio, ove si dice ‘un abito rappreso di sangue’a e ‘il sangue toccò il sangue’ b5. Dopo il peccato, le impose anche un altro nome, ossia Eva, che significa ‘vita’6: perché era destinata ad essere la madre di tutti i viventic. Poiché tuttavia non si legge qui che le abbia dato questo nome, ma soltanto in séguito, dopo le maledizioni, può darsi dunque che l’abbia chiamata Eva come a voler compiangere la misera condizione dell’uomo, e per così dire imitando il vagito dei neonati: un neonato che emette vagiti, infatti, se è maschio dice a, Cfr. Is 9, 5. La Vulgata legge vestimentum mixtum sanguine («un abito commisto di sangue»); nel nostro testo figura invece il participio concretum («rappreso»): l’incongruenza terminologica è forse spia di una citazione che procede a memoria. b Cfr. Os 4, 2. c Così si legge infatti in Gen 3, 20: il nostro autore anticipa qui il dato per completezza d’informazione. a
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se è femmina invece dice e. Come ad intendere: tutti coloro che nasceranno da Eva diranno e vel a (“e oppure a”)a.
20. La profezia di Adamo [2,24a] Dopo averle imposto il nome, sùbito profetizzò dicendo: “E perciò – ossia: per il fatto che la donna trae origine dal fianco dell’uomo – l’uomo lascerà – spesso – il padre e la madre – a causa di sua moglie – e si unirà a sua moglie!”, come se costei fosse una delle sue membra1. Oppure può darsi che dica ‘perciò’ additando la moglie, come ad intendere: a causa di questa donna egli lascerà eccetera; cosa che gli uomini fanno ogni giorno. Oppure, e assai più verosimilmente, si deve intendere: lascerà per sempreb; nel senso che non si unirà a loro in matrimonio (qui sono due le persone che vengono escluse dall’unione coniugale; nel Vangelo, invece, sono di più2). Vale a dire che è a causa di ciò, ossia dell’unione coniugale, che l’uomo lascerà il padre e la madre: perché cesserà di abitare insieme a loro fisicamente o spiritualmente dal momento che l’affetto verso la moglie è maggiore dell’amore che i figli nutrono verso i genitori. Non dico, invece, maggiore dell’amore che i genitori nutrono verso i figli: la linfa, infatti, sale dal tronco su per i rami, a Sembra di intuire che a fondamento dell’ingegnosa ipotesi etimologica, che non trova riscontro altrove, stia il meccanismo per cui e vel a («e oppure a») > e v[el] a > eva («Eva»): ove il secondo passaggio, senz’altro mentalmente favorito dalla grafia abbreviata (ū oppure uł in luogo di vel) consueta all’uso scrittorio del mondo medievale, ben rispecchia l’abitudine del nostro autore di proporre etimi ottenuti per crasi (come già osservato al cap. 14, n. 1). b Riteniamo qui opportuno prendere le distanze dal testo come ricostruito da Sylwan, che legge saepe relinquet, ossia «lascerà spesso»: l’apparato critico segnala che S β γ δ (vale a dire tutti i testimoni, eccetto il solo P, presi in esame dall’editrice) leggono semper («per sempre») in luogo di saepe («spesso»). In effetti, poiché la glossa esplicativa che segue suggerisce di intendere le parole di Adamo come divieto del matrimonio incestuoso tra genitori e figli, l’avverbio semper parrebbe più calzante alla logica del discorso, nonché in voluta antitesi con il saepe della prima lettura esegetica proposta: il divieto in oggetto, infatti, implica un distacco assoluto (semper) dai genitori, laddove invece il distacco dai genitori è, per così dire, facoltativo (saepe) se riferito all’atto del prendere moglie, che non costituisce obbligo per gli uomini.
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ma poi non ritorna indietro; e infatti qui Adamo non ha detto che a causa di ciò i genitori lasceranno i figli3. [2,24b] E ancora: “E saranno due in una carne sola!”. Il senso è: si uniranno entrambi in una sola opera carnale. Oppure: saranno in due nel generare la carne del figlioa; non da un solo sangue, infatti, ma da due si genera la carne di un figlio. O, ancora, si può intendere che, sebbene siano due fisicamente, saranno tuttavia una sola carne nell’unione coniugale (quanto al resto, invece, saranno pur sempre due), dal momento che nessuno dei due ha potere sulla propria carne4.
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21. La condizione umana prima del peccato [2,25] Entrambi erano nudi, e non ne arrossivano. Non ritenevano infatti che ci fosse nulla da coprire, perché non avevano ancora percepito nulla a cui si dovesse porre un freno1. Allo stesso modo, noi non arrossiamo se qualcuno ci osserva le mani, la testa, i piedi. A rendere certe membra oggetto di vergogna, è infatti soltanto il loro impulso sregolato. E così anche i bambini, se pure qualcuno osserva le loro vergogne, tuttavia non arrossiscono: in virtù della loro età, infatti, non percepiscono ancora un impulso che possa far arrossire2. Impulso che è motivo di vergogna in quanto sregolato, dal momento che non è esente da peccato: a meno che, in rari casi, non venga scusato in nome della speranza di concepire prole. Ma, anche quando l’impulso può essere scusato del peccato, non può a Il testo èdito da Sylwan legge vel erunt duo in carne, pueri gignendi, alla lettera «oppure: saranno in due nella carne del figlio da generare» (superflua, peraltro, la virgola inserita nel testo): il gerundivo gignendi («da generare»: gen. masch. riferito a «figlio») è emendazione dell’editrice in luogo di gignenda («da generare»: abl. femm. riferito a «carne») attestato da α δ. È evidente, tuttavia, anche alla luce della precisazione che segue, come si tratti di un’emendazione inopportuna: è infatti la «carne» del figlio concretamente intesa, e non il figlio in quanto tale, a dover essere generata. La nostra traduzione accoglie perciò a testo il femminile gignenda: il costrutto al gerundivo che ne risulta (in carne…gignenda: lett. «nella carne…da generare») è da noi reso con il corrispondente costrutto al gerundio + compl. oggetto (come fosse cioè in gignendo…carnem: «nel generare la carne»).
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tuttavia evitare che si arrossisca. È per questo che il santo Zaccaria, quando si unì alla santa Elisabetta per generare il santo precursore del Signorea, tuttavia non volleb essere visto3. Alcuni ritengono che si debba collocare in questo punto – sebbene nel testo sia stato anticipato – l’ordine, che il Signore avrebbe dato ad entrambi, di astenersi dal mangiare il fruttoc.
22. La tentazione [3,1a] Il serpente era il più astuto tra tutti gli esseri viventi della terra: sia per sua stessa natura che in quella precisa circostanza, in quanto era posseduto dal demonio1. Lucifero, infatti, poiché era stato scagliato giù dal paradiso degli spiriti, invidiò all’uomo il fatto di trovarsi nel paradiso dei corpid; e sapeva che, se fosse riuscito a fare in modo che l’uomo trasgredisse il divieto, anche l’uomo sarebbe stato espulso dal luogo in cui si trovava. Lucifero, però, temeva di poter essere smascherato dall’uomo, e così avvicinò la donna, meno cauta dell’uomo e molle come cera a piegarsi al vizioe2. E la avvicinò appunto per tramite del serpente: a quel tempo, infatti, il serpente stava in posizione eretta come l’uomo, e fu poi prostrato a terra come simbolo della sua maledizionef. Tuttora, come si tramanda, il serpente della specie phareas cammina in posizione eretta3. Secondo quanto riferisce Beda, peraltro, Lucifero Perifrasi a designare colui che sarà poi noto come Giovanni il Battista. Poiché la sintassi richiede di norma un indicativo nella proposizione principale, traduciamo accogliendo l’indicativo perfetto noluit («non volle»), lezione attestata da α e Tr, in luogo del congiuntivo imperfetto nollet («non volesse») accolto a testo da Sylwan. c Lo si era già osservato al cap. 16. d Lucifero era stato menzionato al cap. 4, una volta espressamente (con riferimento ad una citazione da Isaia) e un’altra in modo allusivo (ove si accenna ad un angelo trasformato in diavolo). Per ‘paradiso degli spiriti’ si dovrà intendere l’empireo, e per ‘paradiso dei corpi’ il giardino dell’Eden (cfr. al cap. 14). e Nel testo latino ceream in vicium flecti. Cfr. Hor., Ars 163: cereus in vitium flecti, monitoribus asper («molle come cera a piegarsi al vizio, intrattabile nei riguardi di chi lo ammonisce»), a proposito dell’uomo in giovane età (v. 161: imberbis iuvenis, «giovane ancora senza barba»). f Cfr. al cap. 24. a
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scelse una particolare specie di serpente, dal volto di fanciulla: il simile, infatti, accoglie con favore le proposte dei suoi simili4. [3,1b-5] E Lucifero mosse a parlare la lingua del serpente, il quale tuttavia non ne aveva coscienza: allo stesso modo in cui egli parla per bocca di coloro che sono invasati e posseduti, i quali tuttavia non ne hanno coscienza5. Esso chiese: “Perché Dio vi ha ordinato di non cibarvi di tutti gli alberi del paradiso?”; vale a dire: di cibarvi degli alberi, ma non di tutti quanti6. Avanza questa domanda per trovare, dalla risposta della donna, l’occasione di dire ciò per cui era venuto da lei. E così avvenne. La donna, infatti, come dubitando disse: “Perché, forse, non abbiamo a morirne”. E poiché chi dubita7 si piega facilmente in qualunque direzione, allora il serpente, certo di ottenere il suo scopo, le disse: “Non morirete affatto! Anzi! Dio non vuole che voi diveniate simili a lui nella conoscenza, e sa che, nel momento in cui vi sarete cibati di quell’albero, sarete come gli dèi, conoscitori del bene e del male: perciò, come se fosse invidioso di voi, vi ha proibito di cibarvene”. E la donna, gonfia di superbia, si lasciò persuadere poiché voleva diventare simile a Dio.
23. Il frutto viene mangiato: la condizione umana dopo il peccato
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[3,6a] La donna vide anzitutto che l’albero era bello a vedersi; s’intenda: che era in buono stato. E notando, dall’odore e al tatto, che era dolce a mangiarsi1, se ne cibò e ne diede a suo marito: può darsi che lo abbia prima esortato con parole persuasive che per brevità il Legislatore omette di riportare2. E anche l’uomo si lasciò persuadere dalla donna: egli, infatti, fino a quel momento aveva creduto che la donna sarebbe morta all’istante, secondo le parole pronunciate dal Signorea; ora, poiché aveva visto che la donna non era morta, pensò che quelle parole erano state pronunciate dal Signore soltanto per suscitare terrore3. [3,6b-7a] Egli se ne cibò. E i loro occhi si aprirono. Il senso è: essi, per mezzo della vista, percepirono qualcosa che non percepivano a
Si allude a Gen 2, 17: cfr. al cap. 16.
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prima, ossia la sconvenienza della loro nudità4. Oppure bisogna intendere che il riferimento non sia agli occhi del corpo: in precedenza, infatti, si era detto: La donna vide che l’albero eccetera; e ciò significa che non si erano avvicinati all’albero come ciechi che vadano a tentoni5. L’espressione ‘i loro occhi’ starebbe invece ad indicare la concupiscenza e l’avere coscienza di essa6. Gli impulsi della concupiscenza, infatti, che si trovavano sì per natura in loro, ma repressi e chiusi come lo sono nei bambini fino alla pubertà, in quel momento eruppero come fiumi e iniziarono a muoversi e a diffondersi. Ed essi, mentre in precedenza non li avevano mai percepiti dentro di sé, in quel momento li sperimentarono e ne ebbero coscienza. E come essi avevano disobbedito al proprio superiore, così anche le loro membra iniziarono a muoversi contro il proprio superiore, ossia contro la ragione. Il primo impulso di concupiscenza che essi percepirono contrario alla ragione fu nei genitali; e, poiché vedevano i propri genitali muoversi contro la loro stessa volontà, ne arrossirono: ragion per cui i genitali sono detti anche ‘vergogne’a. Tutte le altre membra, infatti, stanno ferme o si muovono al cenno dell’uomo; le vergogne, invece, no. E poiché sono la porta attraverso cui passa la propagazione della stirpe, nonché sede della disobbedienza delle membra, è stato impresso per così dire un simbolo della disobbedienza dei progenitori su questa porta7. [3,7b] Ed ebbero coscienza di essere nudi. Vale a dire: del fatto che le loro vergogne erano sconvenienti. Giuseppe, invece, riferisce che quella facoltà intellettiva − di avere coscienza di essere nudi e di percepire il proprio turbamento − derivò loro dall’essersi cibati dell’albero, come se questo ne fosse il naturale effetto. Egli afferma: ‘E infatti quell’albero era causa di acume e di intelletto’8.
24. Le maledizioni: al serpente, all’uomo e alla donna [3,7c] Allora si prepararono dei perizomi: ossia cinture, simili a calzoni corti come quelli che sono detti ‘campestri’1. E non senza moa
Cfr. già al cap. 21.
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tivo li prepararono con foglie di ficoa: se infatti le si sfrega e con il loro succo si unge la carne dell’uomo, essa all’istante percepisce in quel punto il prurito del piacere carnale; come se con ciò si volesse rendere evidente che essi già avevano percepito nella loro carne il prurito del piacere carnale. Per questo motivo taluni sostengono fosse un fico l’albero che era stato proibito2. [3,8-13] E udirono la voce del Signore mentre stava passeggiando. Come se il Signore, già per il fatto stesso di muoversi, sembrasse rimproverarli perché non si erano attenuti al suo ordine; e parlava loro per tramite di qualche creatura sottoposta. Ed essi si sottrassero alla vista di Dio, nascondendosi in mezzo agli alberi. Il Signore chiamò l’uomo, ossia colui a cui aveva dato l’ordine, e rimproverandolo (e non, invece, perché davvero non lo sapesse) gli chiese: “Adamo, dove sei?”; come a dire: vedi, in quale misera condizione ti trovi? E Adamo rispose: “Mi sono nascosto perché ero nudo”. Risposta stolta: come se a Dio potesse dispiacere nudo, lui che era stato creato appunto in quel modo. E il Signore gli domandò: “Chi te lo ha fatto capire, se non il fatto che tu hai mangiato dell’albero?”. Adamo, però, non confessando umilmente il proprio peccato, ma ritorcendolo contro sua moglie e, anzi, persino contro colui che gli aveva dato la donna, rispose: “La donna, che tu mi hai dato come compagna, mi ha offerto dell’albero e io ho mangiato”. E il Signore chiese alla donna: “Perché hai fatto questo?”. E nemmeno la donna si scusò, ma fece ricadere il peccato sul serpente (e, implicitamente, su chi aveva creato il serpente)3. Al serpente, invece, non viene posta alcuna domanda perché esso non aveva agito secondo la propria volontà, ma era stato il diavolo ad agire per suo tramite4. [3,14-15] E Dio li maledisse a cominciare dal serpente: seguendo, cioè, l’ordine secondo il quale essi avevano peccato, e riservando a ciascuno un numero di maledizioni corrispondente ai peccati commessi. Il serpente, infatti, aveva peccato per primo, e di più perché aveva peccato in tre cose; la donna, invece, aveva peccato dopo, e di meno rispetto al serpente, ma di più rispetto all’uomo, Il testo integrale di Gen 3, 7c legge infatti consuerunt folia ficus et fecerunt sibi perizomata, ossia «cucirono insieme delle foglie di fico e si prepararono dei perizomi». a
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perché aveva peccato in due cose; l’uomo aveva peccato per ultimo, e di meno perché aveva peccato in una cosa soltanto. Il serpente aveva nutrito invidia, mentito, ingannato: come punizione di questi tre peccati, ricevette tre maledizioni. Poiché aveva nutrito invidia per la condizione di superiorità di cui godeva l’uomo, gli fu detto: “Camminerai sul tuo addome!”. Poiché aveva mentito, fu punito nella sua bocca: “Mangerai terra per tutti i giorni della tua vita!”. Per giunta, Dio lo privò anche della voce e gli pose il veleno nella bocca5. Poiché aveva ingannato, ricevette questa maledizione: “Porrò inimicizia tra te e la donna!”. E qui si accenna al fatto che Eva si pentì6. E inoltre: “Essa ti schiaccerà la testa!”; che il serpente tende per natura a proteggersi, in quanto sede della sua vita. E poi: “E tu le insidierai il calcagno!”; a lei soprattuttoa. E perciò, come vi è naturale odio tra cavalli e grifonib, tra lupi e cani, così anche tra l’uomo e il serpente: come, infatti, il veleno del serpente uccide l’uomo, così lo sputo di un uomo a digiuno uccide il serpente7. E poiché essi erano ancora nudi, anche ora il serpente teme l’uomo nudo e fugge; se, invece, l’uomo è vestito, gli balza addosso8. [3,16] Due furono i peccati della donna: insuperbì e si cibò di quanto le era stato proibito. Poiché insuperbì, Dio la umiliò dicendo: “Sarai soggetta al dominio dell’uomo: un dominio violento a tal punto che egli ti ferisce anche durante il primo rapporto sessuale!9”. Ora, in effetti, la donna è soggetta all’uomo per sua stessa condizione e per timore, mentre in precedenza gli era stata sì soggetta, ma per amore. Poiché, inoltre, aveva peccato nel mangiare il frutto, la donna fu punita nel suo stesso frutto. Le fu perciò detto: “Partorirai nel dolore!”. E la maledizione è ‘nel dolore’; ‘partorirai’, invece, è una benedizione: maledetta, infatti, è la donna sterile10. E così Dio, anche nel punire, non si dimenticò di usare misericordia: è un aspetto degno di nota anche in altre maledizioni rivolte agli uomini11. Più che all’uomo, sembra di poter sottintendere. Uccello leggendario dal corpo di leone e dotato di ali e testa d’aquila. In ambito letterario, il proverbiale odio tra cavalli e grifoni figura già tematizzato nell’adynaton che si legge in Verg., Buc. 8, 27: Iungentur iam grypes equis, etc. («Ormai i grifoni si uniranno con i cavalli, etc.»). a
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[3,17-20] Adamo, poiché aveva peccato per il solo fatto di aver mangiato il frutto, fu punito con la fatica di procurarsi il cibo, in questo modo: “Maledetta la terra nella tua azione!”. S’intenda: a causa della tua azione; ossia: a causa del peccato12, per cui accadde che la terra, che prima produceva spontaneamente frutti buoni e rigogliosi, da quel momento iniziò a produrre pochi frutti, e non senza il contributo della fatica dell’uomo, e talvolta spine e rovi al posto dei fruttia. Poi aggiunse: “E ti nutrirai dell’erba della terra!”; come a dire: anche in questo sarai uguale ad una bestia13. E il motivo per cui Dio maledisse la terra, e non invece le acque, è il fatto che la trasgressione dell’uomo ebbe per oggetto il frutto della terra. Ed è per questo che il Signore mangiò pesceb, mentre non si legge mai che abbia mangiato carne di esseri viventi che provenisse dalla terra che era stata maledetta14; se non, forse, soltanto la carne dell’agnello pasquale, come prescritto dalla Leggec. Quanto alla fatica, Dio aggiunse: “Nel sudore del tuo volto ti nutrirai del tuo pane, fino a quando ritornerai nella terra – s’intenda: fino a quando morirai – poiché terra sei e nella terra andrai!d ”. L’espressione ‘andrai’ è davvero appropriata, come a dire: tu che ti saresti mantenuto nella medesima condizione fino a raggiungerne una migliore, purché tu lo avessi voluto, ora invece, come fa l’acqua che continua a scorrere, da una condizione di miseria te ne andrai in un’altra condizione di miseria15. Allora Adamo, come già dettoe, compiangendo la misera condizione della sua posterità, diede a sua moglie il nome di Eva.
Il testo di Gen 3, 18a legge infatti spinas et tribulos germinabit tibi («spine e rovi farà germogliare per te la terra!»): si rammenti che la maledizione era stata citata ad litteram al cap. 8, a sostegno dell’ipotesi per cui la vegetazione sterile e infeconda sarebbe stata generata soltanto in un secondo momento, appunto in séguito al peccato. b L’allusione è a Lc 24, 41-43: Gesù risorto appare agli apostoli, i quali gli offrono da mangiare del pesce arrostito, che egli prende e mangia di fronte a loro. c L’ipotesi è avanzata in modo assai cauto: in effetti, il testo biblico non accenna nulla in merito. Sulla prescrizione dell’agnello pasquale, cfr. Es 12, 1-11. d La Vulgata legge qui quia pulvis es et in pulverem reverteris («poiché polvere sei e nella polvere ritornerai»). Il nostro autore adotta, invece, la lezione quia terra es et in terram ibis («poiché terra sei e nella terra andrai»), riconducibile all’àmbito delle Veteres. e Il rimando è al cap. 19. a
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25. L’espulsione dell’uomo e della donna dal paradiso, e la spada di fuoco [3,21-22a] Poi Dio preparò per Adamo e sua moglie delle tuniche di pelle, vale a dire fatte con le pelli di animali morti, in modo tale che essi recassero su di sé un simbolo della loro condizione mortale1. E disse: “Ecco, Adamo è diventato quasi uno di noi!”. È un’espressione ironica, come a dire: Adamo avrebbe voluto essere come Dio, ma è ora evidente che egli non lo è2. È la voce non di un Dio che insulta, ma che corregge dalla superbia3. È anche la voce della Trinità4. Oppure è la voce di Dio che sta parlando agli angeli, ed è la voce di chi sta commiserando, come a dire: è evidente, dal momento che è stato creato da me, che sarebbe potuto essere quasi uno di noi, a condizione che egli non avesse vacillato. [3,22b] “Anche ora, egli non abbia per caso a stendere la mano, e a cogliere dell’albero della vita, e a mangiarne, e a vivere in eterno…”. Si tratta di una reticenza, come fosse sottinteso ‘badate’ o ‘fate attenzione’5 o ‘cacciatelo fuori’. Sembra dura la decisione, presa da Dio, di aggiungere alle punizioni precedentia anche quella dell’espulsione. {La Chiesa rappresenta in modo simbolico l’espulsione dei primi progenitori all’inizio del periodo di digiuno, quando espelle da sé i penitenti. Si consegna loro il cilicio come simbolo delle tuniche di pelle, mentre vengono pronunciate queste parole: ‘Sei cenere’ b. Inoltre, in ricordo della maledizione, coloro che sono stati espulsi tengono in mano delle candele: ciò come simbolo del fatto che, a causa del gesto dei progenitori, che avevano teso la mano verso il frutto proibito, una spada di fuoco fu posta accanto al paradiso. Essi si recano anche in un’altra chiesa, le cui porte vengono chiuse proprio di fronte a loro, come simbolo del fatto che, un tempo, l’ingresso al paradiso fu precluso. Non mangiano presso l’altare, ma sopra la terra, poiché fu detto: Maledetta la terra nella tua azionec . Nessuno dice loro ‘Ave!’ perché il nome di Cioè alle maledizioni di cui al precedente cap. 24 (cfr. Gen 3, 16-20). Allusione alle parole quia pulvis es, etc. («poiché polvere sei, etc.»), pronunciate da Dio all’atto della maledizione di Adamo: cfr. al cap. 24, p. 112, n. d. c Cfr. Gen 3, 17. a
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Eva non era ancora stato mutato.}6 In verità, è l’esatto contrario: qui, infatti, Dio ha addolcito con la misericordia la punizione che aveva dato in precedenza, sicché risulta essere vero quanto di Lui si dice: Anche quando ti sarai adirato, ti ricorderai della misericordiaa . Infatti, dal momento che essi erano destinati a vivere in una misera condizione, quanto più lunga fosse stata la loro vita, tanto più sarebbe stata miserabile. E così, se avessero mangiato dell’albero della vita, ciò avrebbe significato che, vivendo più a lungo, sarebbero stati più a lungo in una misera condizione. Né desta stupore il fatto che, pur dopo il peccato, essi sarebbero vissuti più a lungo dopo aver mangiato dell’albero della vita: tuttora esistono le cosiddette ‘Isole dei Viventi’ dove nessuno muore7. E così pure la peluria che si trova sulle foglie degli alberi presso il popolo dei Seri: se le si mangia, la propria vita si allunga. Anche Alessandro scrisse ad Aristotele che i sacerdoti degli alberi del sole e della luna vivono una vita lunghissima perché si cibano dei frutti di quegli alberi8. [3,23] E il Signore, secondo quanto aveva detto, lo cacciò dal paradiso del piacere perché lavorasse la terra dalla quale era stato tratto. Lo cacciò, cioè, nell’agro damasceno: dal quale Adamo era stato tratto, dove Caino uccise suo fratello Abele, e nei pressi del quale Adamo ed Eva furono sepolti nella spelonca dupliceb. Cfr. Abacuc 3, 2. Per questi tre riferimenti, cfr. rispettivamente ai capp. 14, 28 (ove non si accenna al luogo in cui Caino uccise Abele: l’indicazione di Damasco è, in ogni caso, ampiamente condivisa in sede di esegesi biblica) e 59. Si badi che al cap. 59 la spelonca duplice è tuttavia collocata (sulla scorta di Gen 23, 19) in Hebron, città della Palestina ben lontana dalla siriana Damasco: ne risulta una patente incongruenza geografica, riscontrabile anche in altri autori tardomedievali. La questione è sviscerata da A. Hilhorst, ‘Ager Damascenus: views on the place of Adam’s creation’, Warszawskie Studia Teologiczne, 20 (2007), p. 131-144: lo studioso ipotizza che, in origine, il dato in agro Damasceno («nell’agro damasceno») − quale luogo della creazione di Adamo − designasse precisamente il territorio della siriana Damasco; in epoca posteriore, tuttavia, prevalendo la tradizione che vuole invece Hebron quale luogo della creazione di Adamo, il medesimo dato dovette in qualche modo essere “aggiustato” a quest’altra tradizione e fu dunque re-interpretato come territorio/campo nei pressi di Hebron (di qui, può darsi che l’incongruenza abbia coinvolto anche l’indicazione del luogo della spelonca duplice). Data l’ambiguità dell’espressione, e come già segnalato al cap. 14, p. 95, n. b, si è scelto di rendere vagamente «nell’agro damasceno». a
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[3,24] E collocò di fronte al paradiso del piacere un cherubino e una spada di fuoco versatile: in modo tale che l’angelo tenesse a distanza il diavolo e il fuoco l’uomo9. Oppure può darsi che Dio, avvalendosi dell’aiuto degli angeli, vi abbia collocato il fuoco per impedire l’ingresso al paradiso10. E questo fuoco viene indicato non con il nome di una qualunque spada, ma precisamente di una spada ‘versatile’, ossia ‘che taglia in entrambe le direzioni’: l’uomo, infatti, fu punito in entrambe le sue partia. Oppure s’intende ‘versatile’ nel senso di ‘adatto ad versandum (“ad essere rovesciato”)’, ossia ‘ad essere rimosso’ nel momento in cui Dio lo avesse voluto: fu infatti rimosso temporaneamente quando Elia ed Enoch entrarono nel paradiso; ma fu rimosso in modo definitivo soltanto nel momento in cui, alla morte di Cristo, esso si estinse11. Ci si può domandare quale fosse la sostanza che quel fuoco consumava: si può rispondere che quel fuoco era di una specie simile a quella cui si accenna nella Vita del beato Nicola: avvicinandovi la mano, si avverte un intenso calore, ma non ci si brucia. Esso non ha bisogno di una materia da consumare: è un fuoco che brucia lo spirito12. Ci si può domandare anche il motivo per cui Dio ha permesso che l’uomo venisse tentato, pur sapendolo destinato a cadere nel peccato. Per quanto attiene alla presente opera13, la risposta a questa e a molte altre simili domande è la seguente: perché Dio ha voluto così. Se poi ci si domanda il motivo per cui Dio ha voluto così, è questa una domanda sciocca: è sciocco, infatti, indagare la causa della volontà divina, dal momento che è essa stessa causa di ogni causa.
26. La discendenza di Adamo [4,1a] Adamo si unì a sua moglie: cioè non nel paradiso, ma essendo già reo di peccato1 ed espulso. Il Legislatore passa rapidamente in rassegna la discendenza di Adamo per giungere in fretta all’epoca di Abramo, il padre degli Ebrei, e perciò non menziona molti tra i figli e le figlie di Adamo2. Metodio martire, tuttavia, mentre si trovava in carcere, pregò e ota
Vale a dire nel corpo e nell’anima.
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tenne dallo Spirito rivelazioni circa l’inizio e la fine del mondo: e quanto egli aveva pregato di apprendere lo lasciò anche scritto, sia pure in uno stile molto semplice3. Egli riferì che essi uscirono dal paradiso ancor vergini e che ad Adamo, durante il quindicesimo anno della sua vita, nacquero Caino e la sorella di costui Calmana4. È vero, infatti, che Adamo fu creato all’età di circa 30 anni: ciononostante, a partire da quel momento la sua età fu prima di un giorno, poi di un anno, poi di due anni, e poi di tre, e così via5; sicché può darsi anche che, prima di Caino, egli abbia generato molti altri figli che quia non vengono menzionati. Dopo altri quindici anni, gli nacquero Abele e la sorella di costui Delbora6. Durante il centotrentesimo anno della vita di Adamo, Caino uccise Abele, che Adamo ed Eva piansero per cento anni7. {Il luogo in cui lo piansero si chiama Valle delle Lacrime e si trova nei pressi di Hebron8.} Allora gli nacque Seth, nel trentesimo anno del primo millennio: Metodio, infatti, inizia il computo delle epoche a partire dal momento in cui Adamo aveva 200 anni, e per intendere la singola epoca usa il termine ‘un millennio’9. Tale dato si accorda con i Settanta, che dicono: ‘Adamo aveva 230 anni quando generò Seth’; nel testo ebraico si legge invece ‘130 anni’ b. Ma ora torniamo alla narrazione concisa che si legge nella Genesi. [4,1b-2a] Eva concepì e partorì Caino, il cui nome significa ‘possesso’10. Poi partorì Abele, il cui nome significa ‘lutto’ o ‘dolore’, oppure anche ‘vapore’ a significare che era destinato, per così dire, a dissolversi rapidamente11: come se, con il suo nome, fosse stato profetizzato ciò che poi gli sarebbe accadutoc. Secondo Giuseppe, invece, il nome significa ‘questo nulla’12: Abele, infatti, non lasciò il proprio seme sulla terra.
Cioè nel testo di Metodio, pare di capire. Sull’età di Adamo allorché generò Seth, cfr. anche al cap. 31: come si vedrà, l’indicazione anagrafica segnalata dall’ebraico è la medesima accolta a testo dalla Vulgata in Gen 5, 3. c Abele fu infatti ucciso in giovane età dal fratello Caino: cfr. Gen 4, 8 e qui al cap. 28. a
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[4,2b] Abele fu un pastore e Caino un contadino: costui, infatti, poiché era a tal punto malvagio da voler persino soddisfare la propria avidità, coltivò per primo la terra13.
27. Le offerte dei fratelli [4,3-4a] Dopo molti giorni, essi offrirono doni a Dio. Caino offrì parte delle messi. Abele, secondo quanto riferisce Giuseppe, offrì latte e gli agnelli primogeniti1; Mosè dice che offrì anche parte del loro grasso, ossia parte dei più pingui tra il gregge2. È opinione diffusa che Adamo, pervaso dallo spirito, abbia insegnato ai suoi figli ad offrire a Dio le decime e le primizie3. [4,4b-5a] E Dio si voltò a guardare Abele e i suoi doni; Caino e i suoi doni, invece, non si voltò a guardarli. A Dio piacque infatti Abele e, per merito di costui, gli piacque anche la sua offerta4. In che modo ciò si sia potuto capire, lo indica chiaramente un’altra traduzione, che rende: ‘Dio mandò un fuoco su Abele e sui suoi doni’. Un fuoco sceso dal cielo, infatti, incendiò l’offerta di Abele: la stessa cosa si legge essersi verificata ad Elia sul Carmelo e anche, come si legge nel Levitico, all’epoca di Mosèa5. Non piacquero a Dio, invece, i doni che ebbero origine dall’avidità dell’uomo6. [4,5b-7] Caino si adirò e il suo volto si abbatté: a causa della vergogna, poiché vedeva che il fratello minore gli era stato preferito7. E così il Signore, in atto di rimprovero8, disse a Caino: “Perché sei adirato? Non è forse vero che, se ti sarai comportato bene, riceverai?”, ove s’intende: un premio da me9. In luogo di ‘riceverai’, Teodozione ha reso ‘sarà accettabile’, sottinteso: il tuo dono10. E ancora: “Se invece ti sarai comportato male, sùbito il peccato sarà alla porta!”, ossia: sarà alla tua portata e nella volontà in nome della quale ti sei mossob all’azione. Di nuovo: “Tuttavia, dal momento che sei Cfr. rispettivamente 1Re 18, 38, in occasione dell’offerta rituale effettuata da Elia presso l’altare costruito al Signore sul Monte Carmelo; e Lev 9, 24, in occasione delle prime offerte rituali effettuate dal popolo d’Israele sotto la guida di Mosè e di Aronne. b Il testo èdito da Sylwan legge in voluntate per quam ingressus est ad opus, ossia «nella volontà stessa in nome della quale esso si è mosso all’azione», ove per ‘esso’ a
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dotato di libero arbitrio11, sotto di te − ossia: in tuo potere12 − sarà l’appetito suo − del peccato − e tu lo dominerai, a patto che tu lo voglia!”. Un’altra traduzione rende invece: ‘Perché il tuo volto si è abbattuto? Non è forse vero che, se offri secondo giustizia ma non spartisci secondo giustizia, hai peccato? Plàcati! Il peccato è rivolto verso di te, e tu lo dominerai!’13. Egli aveva offerto secondo giustizia, ma non aveva spartito le offerte a Dio secondo giustizia: Caino, infatti, offriva al diavolo la parte migliore dell’offerta, vale a dire se stesso. Oppure non aveva spartito secondo giustizia perché aveva tenuto per sé le offerte migliori, e aveva invece offerto a Dio le spighe che si erano recise e spezzate lungo la strada14.
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28. La morte di Abele [4,8a] E così Caino, poiché nutriva invidia verso suo fratello, gli disse: “Usciamo fuori − o secondo un’altra lezione: ‘entriamo’ − nel campo!”. Girolamo dice chea questa battuta, che si trova nei libri dei Samaritani e nei nostri, è da ritenersi in verità interpolata: nel testo originale, infatti, non si legge che cosa Caino gli abbia
bisognerebbe intendere ‘il peccato’. Nell’apparato critico si segnala che P Tr leggono ingressus es («tu ti sei mosso»), con soggetto sottinteso ‘tu’ riferito all’uomo, cui nel testo biblico è rivolto il discorso di Dio: dal momento che, in effetti, è proprio l’uomo (e non il peccato) colui che Dio indica come potenzialmente destinato ad agire male, ci sembra opportuno accordare preferenza alla lezione ingressus es. a Sulla base di quanto legge la fonte (cfr. nel dettaglio alla n. 1), riteniamo indispensabile prendere le distanze dal testo dell’ed. A. Sylwan, che legge: Egrediamur foras in campum. Vel transeamus ut dicit Ieronimus, quia, etc. (il cui senso risulterebbe: «“Usciamo fuori nel campo!”; oppure “Entriamo!”, come rende Girolamo dal momento che, etc.»). Nella fattispecie, ci appaiono incongrui il punto fermo prima di vel e l’ut accolto a testo dall’editrice (lezione testimoniata dal solo P; al contrario, S lo erade e β γ δ lo omettono): i due elementi finiscono per attribuire direttamente a Girolamo la lezione transeamus (alternativa rispetto ad egrediamur), relegando inoltre quia al ruolo di congiunzione subordinante causale, esplicativa rispetto alla presunta lezione proposta da Girolamo. La nostra traduzione è perciò approntata sul testo che segue: Egrediamur foras in campum, vel transeamus. Dicit Ieronimus quia, etc.
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detto, ma bisogna intendere che gli abbia riferito le parole pronunciate dal Signore (quelle, cioè, di rimproveroa)1. [4,8b-10] E si scagliò contro Abele, e lo uccise. E il Signore gli chiese: “Dov’è tuo fratello Abele?”, non perché non lo sapesse, ma perché voleva stigmatizzare il fratricidio in atto di rimprovero2. Ma poiché Caino voleva tenere nascosto quanto aveva compiuto3, Dio disse: “La voce del sangue di tuo fratello mi lancia un grido dalla terra!”. Il senso è: quanto hai compiuto è manifesto: lo spargimento di sangue lo addìta; e ciò che è palese non ha bisogno di un accusatore4. È questo il motivo per cui nella Chiesa vi è chi ha l’usanzab di trascinare in giudizio, anche in assenza di un accusatore, coloro che sono sospettati di spargimento di sangue in luogo sacro: è il sangue stesso, infatti, a lanciare un grido. E, qualora essi abbiano negato il delitto, vengono esaminati dal giudizio di Dio5. [4,11-12] E ancora: “Ora, dunque, sarai maledetto sopra la terra, vagabondo e profugo!”. Meritatamente Caino, a differenza di quanto era accaduto nel caso di Adamoc, viene qui maledetto: Caino, infatti, pur essendo a conoscenza della punizione già riservata alla prima trasgressione, vi aggiunse tuttavia anche il fratricidio6. [4,13-14] E poiché Caino temeva o che le bestie lo divorassero se si fosse allontanato dagli uomini7 o che, se fosse rimasto insieme agli uomini, questi lo uccidessero a causa del peccato che aveva commesso, condannandosi da sé e disperando disse8: “Troppo grande è la mia iniquità perché io possa meritare perdono!”. {La mia Rivolte da Dio a Caino in Gen 4, 6-7 (cfr. qui al cap. 27). Di nuovo, corre l’obbligo di rifiutare il testo come ricostruito da Sylwan, che legge: Inde est quod ecclesia, etsi nemo accuset, quod pro sanguinis effusione suspecti in loco sacro trahuntur in causam, etc. (lett. «È questo il motivo per cui la Chiesa, anche in assenza di un accusatore, che sono trascinati in giudizio coloro che sono sospettati di spargimento di sangue in un luogo sacro, etc.»). Riesce infatti evidente come il periodo non possa reggersi sotto il profilo sintattico, sicché accogliamo, ai fini della nostra traduzione, due lezioni segnalate in apparato: inde est quod] in add. β γ δ («È questo il motivo per cui nella Chiesa, etc.»); ecclesia] quorundam mos est add. S Tr γ δ (lett. «nella Chiesa è usanza di taluni che vengano trascinati, etc.»). c Si allude qui alla maledizione divina rivolta contro Adamo in Gen 3, 17-20 (cfr. qui al cap. 24): essa, infatti, aveva colpito la persona di Adamo non direttamente, ma come conseguenza della maledizione rivolta alla terra, destinata da allora in avanti a procurare fatica all’uomo. a
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iniquità è più grande rispetto a ciò che possa rendermi meritevole di perdono. Come a dire: è un’iniquità troppo grande, anche in confronto al mio merito più grande.} E poi: “Chiunque mi avrà incontrato, mi ucciderà!”; ciò lo disse per timore, oppure auspicandolo come a dire: magari mi possa uccidere! [4,15a] E Dio gli disse: “Non accadrà affatto così!”, vale a dire: non morirai sùbito. E poi: “Ma chiunque avrà ucciso Caino…”, e qui bisogna integrare il senso: lo libererà dal tormento e dalla miseria. E poi si aggiunge, in modo impersonale: “Si punirà per sette volte!”, ossia: gli si infliggerà una punizione per tutto il tempo in cui vivrà in pena fino a Lamech, il settimo a partire da lui. Questa lettura si accorda con la traduzione dei Settanta, che rende: ‘Chiunque avrà ucciso Caino scioglierà sette vendette’. Alcuni tramandano che la sua pena sia durata fino alla settima generazione a partire da lui perché sette erano i peccati che aveva commesso: non aveva spartito secondo giustizia, aveva nutrito invidia verso il fratello, aveva agito subdolamente chiamandolo nel campo, aveva ucciso, aveva negato sfacciatamente, aveva disperato, una volta condannato non si era pentito9. Oppure si può leggere: “Chiunque avrà ucciso Caino, lo si punirà per sette volte!”, ossia: più dello stesso Caino; e ciò a motivo della proibizione dell’omicidio, che a Caino non era ancora stata rivolta10. [4,15b] E Dio pose su Caino un segno, ossia il tremore del capo: in modo tale che si potesse così riconoscere che era stato punito e scomunicato dal Signore, e che, essendo indegno di misericordia11, non venisse ucciso. [4,16] Allora Caino si allontanò dal cospetto del Signore e abitò verso la regione ad oriente di Eden, ossia delle deliziea: abitò cioè non tra le delizie, ma rivolto verso la terra delle delizie. {La Chiesa rappresenta in modo simbolico l’espulsione di Caino, quando scomunica coloro che si sono macchiati di un delitto di sangue, in particolare attraverso l’uso di candele spente: sia Caino che costoro, infatti, con il vizio hanno estinto la vita altrui.} Giuseppe dice: ‘E Caino, dopo aver percorso molta terra insieme a sua moglie, Cfr. già al cap. 14, ove si era osservato che l’ebraico ‘Eden’ corrisponde al latino ‘delizie’. a
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si stanziò nel luogo che si chiama Nayda, dove poi gli nacquero anche dei figli’12. Girolamo, tuttavia, dice: ‘A dispetto di quanto ritiene la maggior parte di noi, non si deve leggere ‘terra di Nayda’. Si deve invece leggere ‘abitò sulla terra nod’, ove nod significa ‘senza una dimora fissa’ e ‘vagabondo’, e il termine è riferito a Caino’13.
29. La discendenza di Caino [4,17] Caino si unì a sua moglie, che partorì Enoch. Poi costruì una città e la chiamò Enoch dal nome di suo figlio. Da qui si deduce chiaramente che, sebbene non se ne menzioni la discendenza, allora già esistevano molti uomini, che Caino fece venire nella città e con il cui aiuto poté costruirla1. Giuseppe riferisce inoltre che Caino, accumulando ricchezze con l’uso della rapina e della violenza, esortava i suoi a commettere ruberie; che rivoluzionò la semplicità della vita allora condotta dagli uomini con l’invenzione di pesi e misure, e che la spinse all’inganno e alla corruzione; che per primo pose i segni di confini delle terre; che dotò le città di mura; e che, poiché temeva coloro ai quali egli arrecava danno, chiamò a raccolta i suoi nelle città perché fossero al sicuro2. [4,18] Poi Enoch generò Irath, che generò Mauiael, che generò Matusale, che generò Lamech. Costui è il settimo a partire da Adamo, ed è il peggiore: egli introdusse per primo l’uso della bigamia, e perciò commise adulterio contro la legge di Dio, contro la legge di natura, e contro il decreto di Dio3. In principio della creazione, infatti, una sola donna fu creata per un solo uomo; e Dio, per bocca di Adamo, aveva decretato: “Saranno due in una carne sola!”a. [4,19] Lamech prese due mogli, Ada e Sella. [4,20] Ada generò Iabel. Il quale ideò l’uso di tende trasportabili per i pastori, in modo tale che si potessero cambiare i luoghi del pascolo. Egli organizzò anche le greggi, e le rese riconoscibili per mezzo di segni distintivi: secondo il genere, separò le greggi di pecore dalle greggi di capre; secondo la qualità, separò gli animali di un solo colore dal gregge di quelli con il pelo maculato; a
Cfr. Gen 2, 24, e qui al cap. 20.
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secondo l’età, separò gli agnelli dagli animali più adulti. Comprese inoltre che bisognava farli accoppiare in periodi ben precisi4. [4,21] Il fratello di costui ebbe nome Iubal, che fu il padre dei suonatori di lira e di flauto: non nel senso che fu l’inventore di questi strumenti (che furono inventati, per la verità, molto tempo dopo), bensì della musica, ossia delle consonanze, in modo tale che la fatica dei pastori si potesse trasformare, per così dire, in attività di svago5. E poiché aveva appreso che da Adamo erano stati profetizzati i due giudizia, mise per iscritto l’arte che aveva inventato, in modo tale che non andasse perduta, su due colonne e per intero su entrambe: una colonna era di pietra e l’altra di mattoni, in modo che l’una non potesse essere sciolta dal diluvio né l’altra bruciata dal fuoco6. [4,22a] Sella generò Tubalcaim, che per primo ideò l’arte di lavorare il ferro, esercitò decorosamente l’arte della guerra, e fabbricò opere scolpite in metallo per soddisfare il piacere della vista7. Proprio mentre le stava fabbricando, Iubal, cui si è accennato poc’anzi, dilettato dal suono dei martelli, intuì le proporzioni e le consonanze che ne derivano a seconda del peso dei martelli, (i Greci, invece, attribuiscono falsamente questa invenzione a Pitagora)8. In modo analogo, Tubalcaim ideò di applicare ai metalli quanto vide verificarsi nel caso degli arbusti: infatti, dopo che alcuni arbusti avevano preso fuoco nei pascoli, i filoni dei metalli presero a scorrere in rivoli, e le lamine poi, una volta asportate, riproducevano la forma dei luoghi in cui si erano depositate9. [4,22b] Sorella di Tubalcaim fu Noema, che ideò la variegata arte della tessitura10. [4,23-24] Ma Lamech − che Giuseppe riferisce essere stato sapiente conoscitore delle cose divine − poiché sapeva che, mentre Caino era soggetto ad una pena tutto sommato ordinaria, egli stesso avrebbe invece dovuto scontare una pena più grande, lo profetizzò alle proprie mogli in questi termini11: “Poiché ho ucciso un uomo con la mia ferita e un giovane con la mia lividura, sette volte sarà tratta vendetta da Caino; da Lamech, invece, settanta volte Cfr. in conclusione del cap. 17 (e relativa n. 9): l’espressione ‘i due giudizi’ allude al diluvio universale e al giudizio finale per mezzo del fuoco (cfr. al cap. 37). a
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sette!”. A Lamech, che era un arciere, si annebbiò la vista a causa della vecchiaia: mentre si stava dedicando con il giovane che gli faceva da guida all’esercizio della caccia (soltanto per diletto e per usare le pelli degli animali: prima del diluvio, infatti, non era consuetudine mangiare carnea), uccise accidentalmente Caino tra gli alberi da frutto, scambiandolo per una bestia feroce. E poiché lo aveva ucciso indirizzando la freccia verso il punto che gli era stato indicato dal giovane, adiratosi contro costui, lo percosse a morte con l’arco12. E così Lamech aveva ucciso Caino con una ferita, e il giovane con i lividi procurati dalle percosse. Oppure s’intenda che li aveva uccisi entrambi per sua ferita e per suo livido, vale a dire per sua stessa dannazione13. E perciò, mentre il peccato di Caino, come già dettob, era stato punito sette volte, il peccato di Lamech fu punito settanta volte sette: nel senso, cioè, che settantasette animec discese da Lamech perirono durante il diluvio14. Oppure può darsi che questo numero stia ad indicare semplicemente la maggior grandezza della pena. Gli Ebrei, invece, spiegano le parole di Lamech in questi termini: le sue mogli spesso lo trattavano male, sicché egli adirato diceva loro che sopportava tutto ciò a causa del duplice omicidio che aveva commesso, e tuttavia le terrorizzava aggiungendo il riferimento alla loro pena, come a dire: perché mi volete uccidere? chi mi ucciderà sarà punito più duramente di chi ha ucciso Caino15.
30. Seth e la sua discendenza [4,25] Anche Adamo si unì di nuovo a sua moglie, che partorì un figlio e lo chiamò Seth. Strabone dice che, dopo la morte di Abele, Adamo aveva fatto voto di non unirsi più a sua moglie; e che poi, però, infranse il voto perché Dio, per tramite di un angelo, La questione sarà affrontata nel dettaglio al cap. 32. Cfr. Gen 4, 15, e qui al cap. 28. c Il testo latino legge appunto animae, qui metonimia per homines («uomini»): trattandosi di uno stilema che riproduce una modalità espressiva tipica del testo biblico (cfr. in apertura del cap. 44, con annessa glossa esplicativa), si è scelto di conservarlo anche nella traduzione. a
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gli aveva così ordinato di fare, in modo tale che da Adamo potesse nascere il figlio di Dio1. {Si legge che Adamo ebbe trenta figli e altrettante figlie, oltre a Caino e ad Abele2.} Giuseppe, invece, riferisce che Adamo, dopo la morte di Abele e l’esilio di Caino, pensava a procreare dei figli, e che il forte desiderio di generare lo opprimeva intensamente3. Può darsi che questo pensiero rivolto alla propagazione della stirpe, Strabone lo abbia indicato come un ordine dato dal Signore perché il Signore aveva così ordinato: “Crescete e moltiplicatevi!”a4. [4,26] Anche a Seth nacque un figlio, che chiamò Enos: nome che significa ‘uomo’ o ‘maschio’, come ad intendere ‘dotato di ragione’ e ‘forte’5. Costui iniziò ad invocare il nome del Signore: può darsi che Enos abbia ideato delle parole con cui pregare per invocare Dio6. La maggior parte degli Ebrei, tuttavia, ritiene che abbia inventato delle immagini per rendere onore a Dio7. E così facendo sbagliò; oppure può darsi che abbia riprodotto l’immagine di Dio per risvegliare la pigrizia in cui versava il pensiero degli uomini verso Dio, allo stesso modo in cui si usa fare ora nella Chiesa8.
31. Si inserisce un riepilogo [5,1] Questo è il libro della discendenza di Adamo. Il riepilogo inizia a partire dalla discendenza di Adamo in modo tale da esporne per intero l’elenco della genealogia1. Perciò alcuni fanno iniziare la ‘prima età’ b a partire da Adamo, altri invece da Seth. Quest’ultima opinione è condivisa da Metodio, che così sostiene in virtù del
a Cfr. Gen 1, 28, e qui al cap. 10: è l’esortazione rivolta da Dio all’uomo e alla donna immediatamente dopo la loro creazione. b In epoca patristica, l’esegesi cristiana adottò un sistema di periodizzazione della storia del mondo a partire dalla creazione, scandito in sei macro-periodi, le cosiddette «età»: la prima dalla creazione fino al diluvio universale (cfr. anche infra); la seconda dal diluvio fino ad Abramo; la terza da Abramo fino al re David; la quarta da David fino alla deportazione in Babilonia del popolo d’Israele; la quinta dalla deportazione in Babilonia fino alla nascita di Cristo; la sesta dalla nascita di Cristo alla fine dei tempi.
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fatto che Abele non ebbe figli e che l’intera discendenza di Caino perì durante il diluvio2. [5,3] Adamo visse 130 anni e generò a propria immagine e somiglianza. Adamo era stato generato ad immagine e somiglianza di Dio; tutti gli altri uomini furono generati ad immagine e somiglianza di Adamo: il che equivale a dire più o meno la stessa cosa. Oppure, e più verosimilmente, egli uomo mortale generò uomini mortali, come è scritto: Qual è l’uomo fatto di terra, tali sono anche gli uomini fatti di terraa3. Può darsi che Mosè abbia omesso di computare i 100 anni del lutto di Adamo poiché, come già osservatob, i Settanta, Metodio e Giuseppe scrivono invece che Adamo aveva 230 anni quando generò Seth4. [5,6-31a] Costui generò Enos, che generò Caina, che generò Malaleel, che generò Iareth, che generò Enoch, che generò Matusalemme, che generò Lamech, che generò Noè5. {Enos introdusse l’uso di certe lettere e scrisse alcuni libri. Si ritiene che Adamo sia morto all’epoca di Enos6.} E come nella discendenza di Caino il settimo fu il peggiore, così nella discendenza di Seth il settimo fu il migliorec e Dio lo rapì temporaneamente nel paradiso del piacere, in modo tale che, alla fine dei tempi e insieme ad Elia, converta i cuori dei padri verso i figlid7. I Giudei, invece, attribuiscono la causa di questo rapimento piuttosto al numero sette che alla santità di Enoch, poiché è dato leggere di molti uomini più santi di lui, nessuno dei quali è stato rapito: sostengono infatti che Dio abbia disposto ogni cosa secondo il numero sette, a tal punto che dicono persino che abbia
Cfr. 1Cor 15, 48, nel contesto di un passo in cui si tratta proprio di Adamo. Il rimando è al cap. 26. c Si allude rispettivamente a Lamech (su cui cfr. al cap. 29) e ad Enoch. d Cfr. Lc 1, 17 a proposito di Giovanni il Battista, di cui si dice che, pervaso dallo spirito e dalla virtù di Elia, precorrerà l’avvento del Signore ut convertat corda patrum in filios, appunto «in modo tale che converta i cuori dei padri verso i figli» (analogo ruolo è riservato ad Elia in Sir 48, 10 e in Mal 4, 6): essendo opinione comune, fondata sul testo biblico e sviluppata dagli apocrifi, che ad Enoch ed Elia fosse toccata la medesima sorte (traslazione in cielo prima della morte: cfr. al cap. 25, n. 11), ad entrambi è pure attribuita la medesima funzione. Al soggiorno temporaneo di Enoch ed Elia nel paradiso terrestre si era già accennato al cap. 25. a
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creato sette cieli, a ciascuno dei quali attribuiscono un nome, e sette terre che David chiama ‘fondamenta dei monti’a8. Differenti sono le opinioni circa l’età di Matusalemme. Secondo il computo dei Settanta, egli visse ancora per quattordici anni dopo il diluvio: tuttavia, non si legge che sia entrato nell’arca né che sia stato rapito come Enoch. Altri dicono che sia morto sei anni prima del diluvio. Girolamo sostiene che sia morto lo stesso anno in cui ebbe luogo il diluvio: il che risulta anche da un accurato computo dei suoi anni sulla base delle indicazioni riportate dalla Genesi9. In ogni caso, tutti concordano sul numero complessivo degli anni della sua vita: egli visse per ben 969 annib. Noè fu dunque il decimo in linea di discendenza a partire da Adamo, e con Noè ebbe termine la ‘prima età’ (e lo stesso Noè vi è incluso). Secondo i Settanta, la ‘prima età’ annovera 2244 anni; secondo Girolamo quasi 2000 anni; secondo Metodio 2000 anni. Metodio, tuttavia, scandisce le epoche in periodi di mille anni, e non fa menzione degli anni di scarto rispetto alla cifra tonda: ne consegue che, in merito al computo degli anni, egli non ha tramandato alcuna indicazione davvero precisa10.
32. La causa del diluvio [5,31b] Noè all’età di 500 anni generò Sem, Cam e Iaphet. [6,1-2; 4] Mosè, apprestandosi a narrare del diluvio, ne segnala prima la causa dicendo: dopo che gli uomini avevano iniziato a moltiplicarsi sulla terra, i figli di Dio − ossia: i figli di Seth, uomo devoto − videro le figlie degli uomini − ossia: della stirpe di Caino − e vinti dalla concupiscenza le presero come mogli e dalla loro unione nacquero i giganti1. Mosè, tuttavia, non precisa quando ciò sia acIl senso di quest’ultima indicazione è alquanto oscuro. In Sal 18, 8 il re David, cui è tradizionalmente attribuita la paternità del salterio, riferisce che a causa dell’ira divina commota est et contremuit terra et fundamenta montium concussa sunt et conquassata («sussultò e tremò la terra, e le fondamenta dei monti si scossero e si sconquassarono»): è evidente, tuttavia, come si parli di ‘terra’ al singolare (e non di sette terre) e non la si identifichi affatto con le «fondamenta dei monti». b Così infatti Gen 4, 27. a
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caduto: se all’epoca di Noè, o molto tempo prima, o poco tempo prima. Giuseppe, però, riferisce che i figli di Seth rimasero buoni fino alla settima generazione e poi si volsero al male, tralignando dalle pratiche di devozione ereditate dai propri padri, e che perciò irritarono Dio contro di sé: molti angeli di Dio, infatti, si unirono alle donne e generarono figli tracotanti, che furono chiamati ‘giganti’ dai Greci a motivo dell’eccessiva confidenza nella propria forza2. Della causa del diluvio, ossia i peccati commessi dagli uomini, Metodio tratta più diffusamente. Riferisce che nel cinquecentesimo anno del primo millennio − ossia: contando a partire dal primo millennioa − i figli di Caino abusavano delle mogli dei propri fratelli commettendo parecchi adulterî. Nel seicentesimo anno, però, le donne, divenute folli e oltrepassata ogni misura, abusavano degli uomini. Poi, dopo la morte di Adamo, Seth separò la propria parentela da quella di Caino, il quale era tornato nella sua terra natale. Il padre, infatti, quando ancora era in vita, aveva proibito che le due parentele avessero a mescolarsi: e perciò Seth abitò su un monte nei pressi del paradiso; Caino abitò invece nel campo in cui aveva ucciso suo fratellob. Nel cinquecentesimo anno del secondo millennio, gli uomini s’infervorarono e si unirono gli uni con gli altri. Nel settecentesimo anno del secondo millennio, i figli di Seth bramarono le figlie di Caino e dalla loro unione nacquero i giganti. Poi, all’inizio del terzo millennio, il diluvio inondò la terra. Così Metodio riferisce la successione degli eventi3. Può darsi anche che i demoni incubi abbiano generato i giganti, così chiamati per la grandezza del loro corpo, da geos che significa ‘terra’. Ma all’abnormità del loro corpo corrispondeva In latino id est post primam ciliadem, alla lettera «ossia: dopo il primo millennio». Il segmento testuale è espunto da S e omesso da β e γ: si fatica, in effetti, a comprendere il senso della precisazione, dal momento che l’evento in oggetto sembra doversi collocare precisamente nel primo millennio e non dopo (un’implicita conferma in tal senso si ricava qualche riga oltre, ove il resoconto prosegue, in ordine cronologico, con la menzione di un evento verificatosi il cinquecentesimo anno del secondo millennio). L’unica soluzione interpretativa che non si mostri incongruente con la logica del computo è intendere post non nel senso di «dopo», ma di «[scil. contando] a partire da». b Abele, s’intende: cfr. Gen 4, 8, e qui al cap. 28. a
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anche l’abnormità del loro animo4. Dopo il diluvio, tuttavia, altri giganti nacquero in Hebron, e poi in Thani, la città dell’Egitto dal cui nome essi furono chiamati anche ‘Titani’. Della loro stirpe fu Enachim, i cui figli abitarono in Hebrona5; da loro discesero Goliab e altri. [6,3; 5-6a; 7] E Dio, adirato per i peccati degli uomini, disse: “Mi pento di aver creato l’uomo!”. Come a dire: farò quanto è solito fare l’uomo quando si pente della propria azione: distrugge infatti ciò che aveva creato. E il senso è: “Distruggerò l’uomo che io stesso avevo creato: infatti il mio spirito non rimarrà per l’eternità nell’uomo perché egli è carne!”. Come a dire: non lo punirò per l’eternità come il diavolo, perché egli è fragile; ma gli renderò ciò che si merita e, tuttavia, prima che io abbia ad annientarlo, gli darò tempo per pentirsi, se mai ne abbia l’intenzione. E ancora: “I suoi giorni − s’intenda: per pentirsi − saranno centoventi anni!”6. Ciò, infatti, non bisogna intenderlo detto in riferimento allo spirito dell’uomo, bensì all’indignazione di Dio7. Né si tratta del limite massimo della vita umana dopo il diluvio: dopo il diluvio, infatti, risulta che l’uomo sia vissuto ben più a lungoc. Il Signore, come osserva Girolamo, disse ciò vent’anni prima che iniziasse ad essere costruita l’arca, che si legge essere stata costruita in cento anni8. Oppure, secondo l’opinione di Strabone, il Signore disse ciò nel medesimo anno in cui l’arca inziò ad essere costruita: e tuttavia, poiché essi perseverarono nella loro malvagità, furono annientati prima del termine prestabilito, ossia durante il centesimo anno9. Giuseppe, invece, sostiene che si tratti del limite massimo stabilito per la vita umanad10. [6,6b] Quanto al fatto che si dica che Dio fu sfiorato dal dolore del cuore nell’intimo, può darsi stia ad indicare semplicemente che Cfr. Num 13, 23; 33-34. Cfr. 1Sam 17, 4: Golia, il guerriero dei Filistei sconfitto da David, era alto 6 cubiti e 1 palmo (circa 3 metri). c Esemplificando in riferimento al libro della Genesi: cfr. lo stesso Noè, che visse ancora 350 anni dopo il diluvio, per un totale di 950 anni (cfr. Gen 9, 28-29 e qui al cap. 38); Thare, padre di Abramo, vissuto 205 anni (cfr. Gen 11, 32 e qui al cap. 42); lo stesso Abramo, vissuto 175 anni (cfr. Gen 25, 7 e qui al cap. 72); Isacco, vissuto 180 anni (cfr. Gen 35, 28 e qui al cap. 81); Giacobbe, vissuto 147 anni (cfr. Gen 47, 28 e qui al cap. 95). d Pietro Comestore lo ribadirà in conclusione del cap. 43. a
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agli uomini sfuggiva la grandezza dell’offesa di Dio; oppure si tratta di una personificazionea. [6,9] Ma Noè era perfetto tra le sue generazioni. Come a dire: non era di quel tipo di perfezione che vige nella Patriab, ma era perfetto secondo il modo della propria generazione, ossia terrena11. [6,13] E il Signore disse a Noè: “Per quanto mi riguarda, è giunta la fine di tutta quanta la carne!”; s’intenda: ad eccezione di chi era destinato a salvarsi nell’arca12. E poi: “Li annienterò insieme alla terra”, ossia: insieme alla fertilità della terrac. Si tramanda inoltre che il vigore e la fecondità della terra furono, dopo il diluvio, di gran lunga inferiori rispetto a prima: ragion per cui all’uomo fu concesso di mangiare carne, mentre in precedenza egli si sostentava con i frutti della terrad13.
33. L’arca di Noè e il diluvio [6,14a] Noè, secondo il precetto del Signore, costruì un’arca con blocchi di legno levigati: ossia ben rifiniti; secondo altre lezioni: ‘cubici’ oppure ‘rivestiti di bitume’1. {Il Signore parlò come rivolgendosi ad un contadino, in modo tale, cioè, che Noè costruisse un’imbarcazione simile ad un archonium (“cumulo di fascine”): a In latino antropospatos, alla lettera «passione dell’uomo» (attribuita a Dio, s’intende): trattandosi di un tecnicismo retorico − di attestazione rarissima − che manca di un preciso corrispondente in lingua italiana, si è scelto di rendere con «personificazione», la figura retorica che consiste genericamente nell’attribuire una caratteristica umana a ciò che umano non è. b Nella terminologia cristiana, il sostantivo «patria», ove accostato all’aggettivo «celeste», è designazione metaforica per «paradiso». Talora, come nel nostro passo, è il solo «patria» ad essere impiegato, per antonomasia, nella medesima accezione. c La logica del passo, di cui lo stesso Pietro Comestore offre dettagliata spiegazione nel prosieguo, ci obbliga a respingere il testo ricostruito da Sylwan, che legge cum sterilitate terrae («insieme alla sterilità della terra»): ove la lezione sterilitate è testimoniata dal solo P, mentre S β γ leggono − assai più ragionevolmente e come da noi tradotto − cum fertilitate terrae («insieme alla fertilità della terra»). d Già al cap. 29 si era accennato al fatto che per l’uomo non fosse consuetudine mangiare carne prima del diluvio. Sulle abitudini alimentari umane, cfr. anche ai capp. 9, 24 e 34.
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dal verbo arcēre (“contenere”), essendo l’arca chiusa da ogni parte2.} [6,15] Di lunghezza pari a 300 cubiti, di larghezza pari a 50 cubiti, di altezza pari a 30 cubitia: a somiglianza, cioè, del corpo umano, la cui lunghezza è sei volte più grande della larghezza e dieci volte più grande dell’altezza: ove per lunghezza si intende dalla pianta del piede al vertice del capo; per larghezza dalle costole di un fianco a quelle dell’altro; per altezza dal dorso al ventre3. Molti, tuttavia, ritengono che ciò sia detto soltanto in riferimento al corpo di Cristo perché in Isidoro si legge: ‘Mostra una somiglianza con il corpo umano in cui Cristo si manifestò’4.b{Quanto al fatto che si dica che l’arca era di 30 cubiti in altezza, bisogna intenderlo in relazione alla sua struttura portante, ossia dal fondo al basamento: sarebbe impossibile, infatti, che la copertura dell’arca non fosse salita più in alto e che delle travi di legno di 30 cubiti potessero coprire una lunghezza e una larghezza così imponenti5.} L’arca era dunque quadrangolare alla base, con la pianta che aveva un lato più lungo dell’altro; e, salendo, i suoi spigoli si restringevano fino alla lunghezza di un cubito alla sommità6. [6,14b] Fu rivestita all’interno e all’esterno di bitume, un collante caldissimo: i blocchi di legno rivestiti di bitume non si possono dissolvere né con la forza bruta né per mezzo di qualche altro espediente. Un materiale di legno o di pietra che sia stato rivestito di bitume può essere dissolto soltanto con il sangue mestruale. Nei laghi della Giudea il bitume si raccoglie quando viene a galla; in Siria è una sorta di fango che ribolle sgorgando dalla terra7. [6,16b] Nell’arca furono costruite sale da pranzo e alloggi tripartiti, i cosiddetti tristega, cioè suddivisioni, così chiamate da trica (“piega”)8 . Un’altra traduzione rende: ‘un alloggio a due stanze e un alloggio a tre stanze’9. L’arca conteneva infatti cinque stanze. Ago-
Il cubito è unità di misura equivalente a 0,44 metri. La seguente sezione tra graffe (cfr. Introduzione § L’Historia Scholastica: genesi, fortuna, tradizione manoscritta, edizioni) è collocata dall’editrice qualche riga sopra, tra «… più grande dell’altezza» e «ove per lunghezza …». Va da sé che la logica del ragionamento ne risulta bruscamente spezzata: abbiamo dunque preferito spostare la sezione in un punto più avanzato del testo. a
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stino sostiene che vi fossero cinque stanze, esclusa la sentinaa: dice che sopra il basamento, al di sotto del quale si trovava la sentina, si trovava un alloggio a due stanze, una delle quali era la latrina, l’altra il deposito per le provviste; sopra questo alloggio, ve n’era un altro a tre stanze: le due stanze laterali erano una per gli animali feroci e l’altra per quelli mansueti; la stanza centrale era quella per uomini e uccelli. L’arca, inoltre, aveva una porta dove il piano a due stanze e quello a tre stanze si univano. Altri, invece, dispongono queste cinque stanze soltanto nel verso dell’altezza dell’arca: dicono che la stanza inferiore, che fungeva anche da sentina, era la latrina; al di sopra di questa, la seconda era il deposito per le provviste; la terza per gli animali feroci e i serpenti (e, secondo quest’ipotesi, la porta sarebbe collocata dove la seconda e la terza stanza si uniscono); la quarta stanza per gli animali mansueti; la stanza più in alto per uomini e uccelli10. Giuseppe, invece, riferisce che l’arca aveva quattro stanze11: forse non include nel computo la latrina o la sentina. [6,16a] Noè costruì nell’arca una finestra. Gli Ebrei tramandano fosse di cristallo, e nel testo ebraico è detta ‘meridiano’; Simmaco, invece, la chiama ‘albore’12. Rabano sostiene che i cubiti dell’arca fossero dei cubiti geometrici poiché, in caso contrario, l’arca non sarebbe potuta essere a tal punto capiente: un cubito geometrico, infatti, corrisponde a sei o a nove cubiti nostri (e il cubito propriamente detto corrisponde a un piede e mezzo)b13.
34. L’ingresso nell’arca [6,18] Una volta che l’arca fu terminata, il Signore disse a Noè: “Entrerai nell’arca, tu e i tuoi figli, e tua moglie e le mogli dei tuoi Termine tecnico del gergo nautico, nella lingua latina come in quella italiana: si tratta della parte posta in basso, nel fondo dell’imbarcazione, dove si raccoglie ogni sorta di liquido proveniente dall’esterno o prodotto all’interno (onde, con scarto metonimico, genericamente «cloaca»; oppure, con ulteriore scarto metaforico, «ricettacolo di vizi»). b Essendo il valore del cubito pari a 0,44 metri, se ne deduce che un cubito geometrico vale circa 2,65 metri/4 metri, e un piede circa 0,30 metri. a
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figli!”. In queste otto persone fu conservato il seme per la propagazione del genere umano1. Con riferimento all’ingresso nell’arca, il Signore menzionò separatamente gli uomini e le donne, come a dire: in tempo di afflizione, ci si deve astenere dai rapporti sessuali2. [6,19] E poi: “E di tutti gli esseri viventi, di qualsiasi carne, due per ciascuno farai entrare nell’arca”; il senso è: a coppie, ossia un maschio e una femmina. Degli animali impuri, infatti, ve ne furono sull’arca soltanto due, secondo il proprio genere; degli animali puri, invece, ve ne furono sette3. Mosè, tuttavia, li definisce ‘impuri’ in relazione all’epoca in cui egli vive: sono, cioè, gli animali che la Legge definisce ‘impuri’a4. Oppure già all’epoca di Noè sono stati definiti ‘impuri’ gli animali che già allora non erano per natura adatti ad essere mangiati dall’uomo (si è detto ‘per natura’ perché allora nessun animale gli era ancora stato concesso in pastob). [6,21] Poi: “E porterai con te tutto quanto si può mangiare, in modo tale che faccia da cibo per te e per gli altri!”. Ci si domanda, però, se gli esseri viventi di piccole dimensioni siano stati inclusi nel computo. Agostino sostiene che per quelli che non si generano per mezzo dell’unione sessuale non fu necessario stare nell’arca: si tratta, cioè, degli esseri che nascono dalla polvere, come le pulci, oppure dai liquidi o da putrefazioni. D’altra parte, che siano stati fatti entrare nell’arca soltanto quelli che vengono generati, si comprende dal fatto che Dio aggiunge ‘secondo il proprio genere’ o ‘nel proprio genere’c. Ci si domanda inoltre se, senza che fosse violato il precetto divino, siano stati mandati nell’arca anche alcuni animali che la necessità di sfamare quelli che si nutrono di carne Alle prescrizioni in materia è interamente riservato Lev 11. Come già osservato da Pietro Comestore al cap. 32, fu appunto dopo il diluvio che all’uomo fu accordato il permesso di cibarsi della carne. c In latino secundum genus suum e in genere suo: si tratta di due espressioni che compaiono al v. 20, a suo luogo non citato dal nostro autore. Cfr. Gen 6, 20: de volucribus iuxta genus suum, et de iumentis in genere suo, et ex omni reptili terrae secundum genus suum: bina de omnibus ingredientur tecum ut possint vivere, ossia «dei volatili secondo il proprio genere, dei giumenti nel proprio genere, e di tutti i rettili della terra secondo il proprio genere: di tutti quanti, due per ciascuno entreranno con te perché possano sopravvivere». a
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aveva costretto ad includere nel numero. Agostino sostiene che, oltre alla carne, c’erano anche alimenti adatti a tutti: ciò soprattutto in considerazione del fatto che gli animali che si nutrono di carne possono nutrirsi anche di fichi e di castagne, specie quando la fame li costringe a nutrirsi di qualsiasi cosa5. Oppure può darsi che, come l’uomo, anche gli animali non si nutrissero ancora di carne.
35. Quando Noè entrò nell’arca [6,22] E Noè fece tutto quanto il Signore gli aveva ordinato. [7,1-11a] Durante il seicentesimo anno della sua vita, Noè entrò nell’arca insieme a tutte le creature che il Signore gli aveva indicato. Esse furono condotte al cospetto di Noè, in virtù di un cenno divino e dell’aiuto degli angeli, nel diciassettesimo giorno del secondo mese dell’anno1. Si tratta del mese che gli Ebrei chiamano nisan, i Latini ‘maggio’, i Macedoni dion2 . Giuseppe riferisce che però Mosè stabilì che, per quanto concerne le attività fissate per legge, nisan fosse il primo mese (corrispondente cioè al mese di aprile); per quanto concerne il commercio e ogni altro tipo di affare amministrativo, conservò invece le precedenti istituzioni in materia cronologica e l’ordine consueto dei mesi. Giuseppe riferisce anche che, a partire da Adamo fino a questo momento, erano trascorsi 2656 anni, e che tale indicazione è riportata nelle Sacre Scritture in modo assai precisoa3.
36. Il diluvio [7,11b] Dopo l’ingresso di Noè nell’arca, eruppero le fonti dell’abisso − ossia: l’acqua che si trova nelle viscere della terrab − e le a Per la verità, il testo biblico non fornisce esplicita indicazione in tal senso. Può darsi che Flavio Giuseppe alluda al dato cronologico che è possibile ricavare nel modo già indicato al cap. 31, n. 10. b Su cui cfr. in apertura del cap. 5.
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cateratte del cielo − ossia: gli squarci; vale a dire: le nubi − si aprirono. Propriamente, le ‘cateratte’ sono i meandri del Nilo allorché il Nilo si divide in sette foci, oppure sono i punti del corso del Nilo chiamati Chatadupla; impropriamente, si dicono ‘cateratte’ tutti i meandri d’acqua nella parte iniziale del loro corso1. [7,12; 17-18] E piovve sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti. E sollevatasi l’arca molto in alto ondeggiava. [7,20] L’acqua superò di quindici cubitia l’altezza di ogni monte: per lavare la sporcizia dell’aria fino a dove erano salite le opere dell’uomo. Fino alla medesima altezza si alzerà il fuoco del giudiziob per purificare l’aria. Eppure, non sembra sia possibile che le opere degli uomini giungano così in alto. Sull’Olimpo, infatti, che svetta più in alto dell’atmosfera umida, si è scoperto che certe lettere, scritte nella polvere, si sono conservate immutate per un anno. Sull’Olimpo, inoltre, a causa dell’eccessiva rarefazione dell’aria, non possono vivere neppure gli uccelli. Né riuscirono a restare sul monte, sia pure per poco tempo, certi filosofi che vi salirono senza spugne imbevute d’acqua da avvicinare alle narici per inspirarvi aria più umida2. Vi è però chi ritiene che a quell’epoca i monti non fossero tanto alti quanto lo sono ora3. Oppure può darsi che coloro che si recavano sulle vette dei monti per fare sacrifici accendessero un fuoco, il cui vapore e le cui faville riuscirono a salire molto in alto e ad inquinare l’aria4. Dopo che Noè fu entrato nell’arca, Dio chiuse la porta e la rivestì di bitume all’esterno5. [7,21-24] E ogni anima che viveva sulla terra morì. E le acque occuparono la terra, così elevate per centocinquanta giorni: a partire, cioè, dal giorno in cui Noè entrò nell’arca6. [8,3-4] Dopo centocinquanta giorni, le acque iniziarono ad abbassarsi: cioè durante il settimo mese dell’annoc. E così il ventisettesimo giorno del mese l’arca si posò sui monti dell’Armenia. Qui ancora oggi gli abitanti del luogo addìtano i resti dell’arca. SeconCirca 6,6 metri: cfr. al cap. 33, p. 130, n. a. Il giudizio della fine dei tempi: cfr. in conclusione del cap. 17. c Si rammenti che Noè era entrato nell’arca durante il secondo mese dell’anno (cfr. al cap. 35): sommandovi i 150 giorni (pari a 5 mesi) del diluvio, risulta che il diluvio cessò appunto durante il settimo mese dell’anno. a
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do quanto riferisce Giuseppe, di questo diluvio e dell’arca fanno menzione anche coloro che scrissero le storie dei popoli pagani. A tal proposito, Beroso il Caldeo così afferma: ‘Si dice che tuttora esista nei pressi del Monte Cordico qualche resto della nave che giunse in Armenia, e che ne venga estratto del bitume usato dagli uomini principalmente come sostanza purificante’. Della stessa cosa fa menzione anche Girolamo l’Egizio, che scrisse un’Antichità. Manasse Damasceno così riferisce a tal riguardo: ‘Sopra Numada, vi è in Armenia un monte altissimo, che chiamano Boris: si tramanda che molti, rifugiandosi su di esso, si salvarono all’epoca del diluvio, e che nel medesimo periodo un tale vi sia stato trasportato su di un’arca’ eccetera7. [8,5-7] Infine, nel decimo mese, il primo giorno del mese, apparvero le cime dei monti. Poi, trascorsi quaranta giorni, Noè aprì la finestra e mandò fuori un corvo, che non ritornava indietro: può darsi che sia stato imprigionato dalle acque o che, avendo trovato un cadavere che galleggiava sulle acque, ne sia stato adescato8. Giuseppe, invece, riferisce che il corvo, avendo trovato ogni luogo sommerso, fece ritorno da Noè9. [8,8-12] Dopo il corvo, Noè mandò fuori una colomba che, non avendo trovato un luogo dove poter posare le zampe, fece ritorno da Noè. Ma si obietta: non è forse vero che le cime dei monti già si erano scoperte? Può darsi, però, che non si fossero ancora prosciugate: e perciò, come non poté posarsi sull’acqua, così non poté nemmeno posarsi su luoghi ancora paludosi. Oppure, in virtù della tecnica narrativa della ricapitolazione, si può intendere accaduto in precedenza un evento che è stato riferito soltanto in séguito10. Dopo sette giorni, la mandò fuori di nuovo: ed essa, allorché fece ritorno sul far della sera, recò con sé un ramo di ulivo verdeggiante. Dopo altri sette giorni, la mandò fuori ed essa non gli ritornò più indietro. [8,13] E così, durante il seicentounesimo annoa , nel primo mese, il primo giorno del mese, Noè aprì il tetto dell’arca e vide che la super-
Della vita di Noè, s’intende, che era entrato nell’arca durante il 600° anno della sua vita (cfr. al cap. 35). a
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ficie della terra si era prosciugata. Prima di uscire, però, attendeva l’ordine del Signore.
37. L’uscita di Noè e l’arcobaleno
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[8,14-17] Nel secondo mese, il ventisettesimo giorno del mese, il Signore disse a Noè: “Esci dall’arca, tu e tua moglie, e i tuoi figli e le mogli dei tuoi figli!”. Si ordina che escano uniti coloro che erano entrati separati, come se il Signore intendesse dire loro: ora è tornato il tempo in cui potete avere rapporti sessuali per moltiplicarvi sulla terra1. Sùbito dopo infatti aggiunse: “Crescete e moltiplicatevi!”. [8,18-19] E Noè uscì insieme a tutti quanti si trovavano con lui: precisamente il medesimo giorno in cui era entrato, essendo trascorso un anno. Entrò infatti alla 17a luna del secondo mese (sebbene un’altra traduzione legga: ‘alla 27a luna’)a e uscì alla 28a luna: se infatti si aggiunge 11 al numero della luna di oggi, si ottiene il numero della luna che ci sarà esattamente un anno come oggi (per esempio: se oggi è la 1a luna, un anno come oggi sarà la 12a). E il lettore non si turbi perché ho detto che uscì alla 28a, sebbene il testo sacro dica alla 27a: può darsi, infatti, che sia uscito la sera della 27a luna, ma ormai nell’imminenza della 28a. E i periodi compresi tra due estremi cronologici vengono spesso indicati indifferentemente con il nome dell’uno o dell’altro estremo cronologico: per esempio, dal momento che il Signore fu crocifisso tra l’ora terza e l’ora sesta, un evangelista dice perciò all’ora terza e un altro all’ora sestab. Oppure, e più verosimilmente, bisogna intendere la questione in riferimento ai nomi dei giorni della settimana. Se cioè la 17a luna cade, per esempio, di martedì, allora l’anno seguente nello stesso martedì cadrà la 27a luna: il computo dei giorni, infatti, si abbassa di un giorno in relazione al calendario. Per esempio: se a Cfr. Gen 7, 11, e qui al cap. 35. Alla luce delle nostre ricerche, non risulta alcuna «altra traduzione» che renda ‘alla 27a luna’ anziché ‘alla 17a luna’: occorre tenere presente, in ogni caso, che le indicazioni numeriche sono facilmente soggette a modifiche (anche involontarie) nel corso della trasmissione testuale. b Cfr. rispettivamente Mc 15, 25 e Gv 19, 14.
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le kalende di gennaio cadono di domenica e nella 7a luna, allora l’anno seguente alle kalende di gennaio la luna sarà la 18aa, ma le kalende cadranno di lunedì; e perciò la 17a luna cadrà la domenica prima delle kalende. Se ne conclude che da una domenica alla stessa domenica dell’anno successivo si aggiungono soltanto 10 lune; da kalende a kalende, invece, si aggiungono 11 lune2. [8,20] E Noè costruì un altare al Signore, e il settimo degli animali puri lo sacrificò al Signore: il Signore, infatti, aveva ordinato che ne fossero introdotti nell’arca sette secondo il proprio genere, in modo tale che, sacrificato il settimo, gli altri sei potessero bastare alla propagazione della specie3. Il luogo in cui uscirono, gli Armeni lo chiamano appunto ‘Uscita’4. I figli di Noè, invece, lo chiamarono Thannon, che significa ‘otto’, perché otto era il numero di persone uscite dall’arca5. Ragion per cui alcuni tramandano che Noè avrebbe costruito anche l’altare con otto pietre6. [8,21-22] E il Signore odorò profumo di dolcezza, e disse a Noè: “Non maledirò più l’intera terra per causa degli uomini, i quali sono inclini al male. Il tempo della semina e del raccolto, il freddo e il caldo, la notte e il giorno non cesseranno!”. Può darsi che le quattro stagioni non fossero state ancora così ben distinte, dal momento che, fino al diluvio, le acque non si erano ancora raccolte a formare le nubib. [9,1-2] E il Signore li benedisse dicendo: “Crescete e moltiplicatevi! E trèmino al vostro cospetto tutti gli esseri viventi della terra!”. Ciò fu loro detto per confortarli: in modo tale, cioè, che quei pochi uomini non avessero timore di essere aggrediti dalle bestie, che erano in numero ben maggiore7. [9,3-6] E ancora: “Come in precedenza vi avevo dato per cibo la vegetazione rigogliosa, così ora vi assegno per cibo gli esseri viventi: con l’eccezione, però, che non mangerete carne sanguinolenta”,
a Inspiegabilmente, Sylwan non accoglie la lezione XVIII (= decima octava: «diciottesima»), che l’apparato critico segnala essere testimoniata da α Tr Pa, ed emenda il testo in decima septima («diciassettesima»). La logica del computo, tuttavia, richiede di necessità che venga accolta la lezione decima octava. b Cfr. in apertura del cap. 36.
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vale a dire: un animale ucciso per strangolamento. Poi Dio proibì che si compisse l’omicidio8. [9,8-17] E poiché essi temevano moltissimo che il Signore mandasse di nuovo le acque del diluvio ad inondare la terra, e poiché, come riferisce Giuseppe, lo stesso Noè pregava ogni giorno che ciò non accadesse9, allora il Signore strinse con loro un patto, in virtù del quale il diluvio non avrebbe mai più avuto luogo. E, come simbolo di questa alleanza, pose il suo arco tra le nubi. Esso sta a simboleggiare due cose: il giudizio per mezzo dell’acqua, già passato, perché non se ne abbia timore; il giudizio destinato a venire per mezzo del fuoco, perché lo si attendaa. Ed è questo il motivo per cui l’arco ha due colori: azzurro, che è il colore dell’acqua, ed è il più esterno ad indicare che l’acqua è già passata; rosso, che il colore del fuoco, ed è il più internob ad indicare che il fuoco è destinato a venire10. E i santi tramandano che, nei quarant’anni prima del giudizioc, l’arco non sarà visibile: ciò sarà il segno naturale del fatto che l’aria avrà iniziato ad inaridirsi11.
38. L’ubriacatura di Noè e la maledizione a Cam
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[9,20-21] Noè iniziò a lavorare la terra e piantò una vigna: addomesticando cioè per mezzo dell’attività agricola le viti selvatiche per adattarle alla coltivazione in vigna1. E bevuto del vino, ma ignorandone l’effetto si ubriacò e, durante il sonno, si denudò nella sua tenda: all’ubriacatura, infatti, segue il denudamento dei fianchi, così come alla sazietà segue la pulsione sessuale2. [9,22-23] Poi Cam vide denudate le vergogne del padre e ne fece parola, in atto di scherno3, ai fratelli. Costoro, però, indossato un mantello sulle spalle e camminando all’indietro per non vedere, coSi tratta dei due giudizi − il diluvio universale e il giudizio della fine dei tempi − già oggetto di profezia da parte di Adamo (cfr. al cap. 17) e in vista dei quali Iubal aveva messo per iscritto l’arte musicale su due colonne (cfr. al cap. 29). b Per la verità, l’arcobaleno vede la sequenza dei colori sfumare nell’ordine esattamente contrario, con il rosso all’esterno e il blu verso l’interno: sfuggono le ragioni dell’incongruenza. c S’intende quello col fuoco, destinato a venire. a
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prirono le vergogne del padre. Se ne deduce, con ogni evidenza, che gli uomini non usavano ancora indossare le brache4. [9,24-25] Noè si svegliò e, dopo aver appreso ciò che suo figlio minore aveva fatto, disse: “Maledetto Chanaan: schiavoa dei suoi fratelli egli sarà!”. Ci si può domandare come sia possibile che Cam sia definito ‘il figlio minore’, se era invece il medianob. Può darsi che ‘minore’ stia a significare ‘il più indegno’5 o, forse, ‘il più piccolo di statura’. Oppure può darsi che il riferimento sia a Iaphet che, sebbene fosse più giovane di Cam, tuttavia si comportò in modo più saggio di Cam che pure era più anziano. Noè, però, non maledisse il figlio, ma il figlio del figlio: Noè, infatti, pervaso dallo spirito, sapeva che a servire i propri fratelli sarebbe stato non il figlio, bensì la stirpe di costui, e, anzi, nemmeno tutti i membri della stirpe, ma soltanto quelli discesi da Chanaan. In effetti, spesso la vendetta per i peccati commessi dai padri viene scontata dai figli per un certo periodo di tempo. E il senso è: non abbia tu a gioire di tuo figlio, come io non gioisco di te6. [9,26] E aggiunse: “Benedetto il Signore, Dio di Sem! Chanaan sia il suo schiavo!”. Si tratta di una profezia: Noè, infatti, previde che tra i figli di Sem si sarebbero conservati il culto e il nome dell’unico Dio7. [9,27] E ancora: “Dio faccia espandere Iaphet: abiti nelle tende di Sem e Chanaan sia il suo schiavo!”. E anche questa è una profezia: i popoli pagani, infatti, che discesero da Iaphet, si espansero nel loro numero per volere di Dio e nel culto degli dèi con il a Il testo ricostruito da Sylwan legge puer Cham, servus (come fosse «il giovane Cam, schiavo» o «il figlio di Cam, schiavo»?), ove la lezione Cham è verosimilmente quella attestata da P. L’apparato critico segnala che β γ T leggono invece Chanaan puer servus, in linea con il testo biblico di Gen 9, 25 (cfr. anche il manoscritto S, che attesta puer Canaan servus): si badi che puer servus è espressione idiomatica che vale semplicemente «schiavo» (cfr. il testo greco dei Settanta: παῖς οἰκέτης, «schiavo»). Dal momento che, poche righe oltre, Pietro Comestore spiega la maledizione facendo esplicito e puntuale riferimento alla figura di Chanaan, ritieniamo indispensabile emendare il testo dell’ed. A. Sylwan sulla base di quanto leggono gli altri manoscritti; la lezione di P si può facilmente spiegare come errore paleografico (Chanaan > Cham) indotto dal contesto nonché dalla mancata comprensione del sintagma puer servus. b Cfr. Gen 5, 31, e qui al cap. 31.
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permesso di Dio; poi, dopo essere approdati anch’essi alla fede, si innestarono sul tronco dell’ulivo8. [9,29] Si compirono i giorni di Noè: 950 anni. Ed egli morì. Giuseppe esorta a che nessuno abbia a ritenere falso quanto è stato scritto a proposito della longevità degli antichi. Dio, infatti, donò loro un tempo più lungo per vivere a motivo delle loro virtù e delle discipline utili e degne di gloria che essi costantemente indagavano, ossia l’astrologia e la geometria. Non avrebbero altrimenti potuto portarle alla luce nella loro interezza, se la loro vita non fosse durata 600 anni: il ciclo del ‘grande anno’ si compie infatti nell’arco di 600 anni9.
39. La dispersione dei figli di Noè
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[10,1] Mosè torna all’inizio della genealogia di Noè, e dice: Queste sono le discendenze dei figli di Noè. E inizia a trattarne a partire da Iaphet, il minore, in modo tale da tenere per ultimo Sem, la cui discendenza Mosè intende delineare più nel dettaglioa. A partire dai figli di Noè, si delineano 72 generazioni: 15 da Iaphet, 30 da Cam, 27 da Sem. I tre si disseminarono in tre diverse parti dell’orbe terrestre: secondo Alcuino, a Sem toccò in sorte l’Asia, a Cam l’Africa, a Iaphet l’Europa1. Giuseppe si esprime in termini più precisi: i figli di Iaphet occuparono la regione settentrionale, dai monti Tauro e Amano di Cilicia e Siria fino al fiume Tanaib, e in Europa fino a Cadicec; i figli di Cam, invece, occuparono, a partire dalla provincia di Siria e dai monti Amano e Libano, tutte le terre che danno sul mared, arrivando a colonizzare anche quelle Il cap. 10 di Genesi ospita infatti ai vv. 2-5 la genealogia di Iaphet, ai vv. 6-20 la genealogia di Cam, ai vv. 21-31 la genealogia di Sem. Lo stesso Pietro Comestore dichiarerà a breve il proposito di soffermarsi in particolare sulla discendenza di Sem: ciò, con ogni evidenza, poiché da Sem discende Abramo, capostipite del popolo d’Israele e la cui discendenza sarà oggetto dei capp. 12-50 di Genesi. b Antico nome del fiume Don, affluente del Mar Nero, che scorre nell’odierno territorio russo sud-occidentale. c Città della penisola iberica meridionale, di fondazione fenicia, arroccata su un promontorio prospiciente l’Oceano Atlantico. d Il Mar Mediterraneo. a
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che danno sull’oceanoa, e attribuendo loro dei nomi propri; i figli di Sem, invece, abitano l’Asia separatamente dagli altri, a partire dall’Eufrate fino all’oceanob2. Ci soffermeremo sulla discendenza di Sem, tralasciando le alc tre . [10,6; 8-9] Aggiungiamo soltanto che è scritto che figlio di Cam fu Chus, e che figlio di Chus fu Nemroth: costui per primo iniziò ad essere potente sulla terra e robusto cacciatore di uomini al cospetto del Signore. Il senso è: uccisore e oppressore per brama di dominio; e costringeva gli uomini ad adorare il fuoco3. Di qui è derivato il seguente modo di dire, ad intendere che qualcuno è forte e malvagio: ‘Come Nemroth, robusto cacciatore al cospetto del Signore’. Abbiamo riportato questo dettaglio perché Metodio afferma invece che Nemroth fu uno dei figli di Hiro, figlio di Sem4. E il motivo per cui Nemroth fu il primo che iniziò a regnare, Metodio lo spiega facendo menzione di un figlio di Noè, di cui Mosè non fa menzione alcuna5. Metodio così riferisce: ‘Nel centesimo anno del terzo millennio, a Noè nacque un figlio a sua somiglianza e lo chiamò Ionitho. Nel trecentesimo anno Noè fece delle donazioni a suo figlio Ionitho e lo mandò nella terra di Etha. Ionitho vi si addentrò fino al mare che ha nome Eliochora, che significa ‘regione del sole’: qui ricevette da Dio il dono della sapienza e scoprì l’astronomia. Il gigante Nemroth si recò da Ionitho: costui lo istruì e gli diede consiglio sui luoghi in cui avrebbe potuto iniziare a regnare’6. Ionitho previde alcuni eventi futuri, specie la nascita dei quattro regni e la loro caduta uno dopo l’altro: ciò fu profetizzato anche da Danieled. E Ionitho predisse al suo discepolo Nemroth che L’Oceano Atlantico. L’Oceano Indiano. c Come di consueto, il nostro autore non si cura di riportare per intero le genealogie: si limita, semmai, a segnalare qualche nome degno di nota (Chus e Nemroth). d Nel Libro di Daniele figurano tre distinti passi in cui è adombrata profeticamente, sia pure in termini di volta in volta differenti, la progressiva nascita e caduta di quattro regni, destinati a sorgere in successione sulla terra prima del definitivo avvento del regno di Dio: cfr. Dan 2, 1-45; 7, 1-28; 8, 1-25. In sede esegetica, i quattro regni sono soliti essere identificati secondo il medesimo criterio adottato anche dal nostro autore nel prosieguo: l’impero babilonese-assiro (indicato qui attraverso il a
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per prima avrebbe regnato la stirpe di Cam, da cui discese Belo; poi i Medi e i Persiani e i Greci, discesi da Sem; infine i Romani, discesi da Iaphet7. Poi Nemroth si congedò da lui e, acceso dalla brama di dominio, esortò la propria stirpe discesa da Sem a concedergli di regnare su tutti gli altri, come se fosse il primogenito, ma nessuno fu d’accordo. Perciò Nemroth passò dalla parte di Cam, che acconsentì; e Nemroth regnò tra loro in Babilonia: da quel momento Nemroth fu detto essere uno dei figli di Cam8. Se invece davvero egli fu uno dei figli di Cam, allora non si pone alcun interrogativo circa il perché abbia regnato tra loro. Sull’esempio di Nemroth, Iecta iniziò a regnare sui figli di Sem, e Suffene sui figli di Iaphet. Filone, inoltre, nel libro delle Questioni sulla Genesi, narra che dai tre figli di Noè, mentre ancora Noè era in vita, nacquero 114 mila uomini, senza contare le donne e i bambini. Tutti costoro erano assoggettati ai tre capi che abbiamo menzionato poc’anzi9.
40. La torre di Babele
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[11,1-9] Dopo la morte di Noè, i capia, muovendo i propri passi da oriente, giunsero in un medesimo luogo, la piana di Sennaar1. Poiché temevano il diluvio, su suggerimento di Nemroth che ambìva a regnare2, iniziarono a costruire una torre che si alzasse fino a sfiorare i cieli, usando mattoni al posto di pietre e bitume al posto di calce. Ma il Signore scese per vedere la torre – s’intenda: decise di punirli3 – e disse agli angeli4: “Venìte e confondiamo la loro lingua, in modo che nessuno comprenda5 più la lingua di chi gli sta accanto!”. Nell’operare questa divisione, in verità, Dio non introdusse alcun cambiamento davvero radicale (presso tutti i popoli, infatti, i suoni sono i medesimi), ma ciò che nome di Belo, fondatore del regno: cfr. al cap. 40); l’impero medo-persiano; l’impero greco-macedone (fondato dal re macedone Alessandro Magno, alla cui morte l’impero fu smembrato nei cosiddetti regni ellenistici); l’impero romano. a Ossia Nemroth per la stirpe di Cam, Iecta per la stirpe di Sem, Suffene per la stirpe di Iaphet: cfr. al termine del cap. 39.
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fece fu dividere secondo differenti tipologie i modi e le forme di esprimersi6. A proposito di questa torre, Giuseppe dice che la sua larghezza era a tal punto imponente che perciò, a coloro che la osservavano, la torre sembrava persino più larga che lunga; ma gli dèia, scagliandovi contro i venti, sradicarono la torre e distribuirono a ciascuno la propria lingua, e fu così che la città fu chiamata Babilonia: in ebraico infatti babel significa ‘confusione’. Di questa torre fa menzione anche la Sibilla, che dice: ‘All’epoca in cui gli uomini avevano una sola lingua, alcuni di essi costruirono una torre altissima con l’intenzione di salire fino in cielo per mezzo di essa’. Della piana di Sennaar, che si trova nella regione di Babilonia, fa menzione invece Esizio, che dice: ‘Tra i sacerdoti, quelli che furono trascinati in salvo presero con sé gli oggetti sacri a Giove e giunsero a Sennaar di Babilonia’. Poi gli uomini si dispersero a motivo della diversità delle loro lingue, dando origine a migrazioni e colonizzando sia le regioni interne sia quelle lungo la costa7. [10,7]b Inoltre, ritengo valga la pena di rilevare che Mosè dice che Regma, figlio di Chus, ebbe due figli: Saba e Dodan. Giuseppe, invece, dice Saba e Giuda; e riferisce che gli Esperî, il popolo egiziano in mezzo a cui Giuda abitò, da lui ereditarono l’appellativo di ‘Giudei’8. [10,11] Quanto a ciò che seguec, ossia dalla terra di Sennaar uscì Assur9, bisogna intenderlo nel senso che Nemroth lo cacciò a forza da quella terra e dalla torre che pure gli apparteneva per diritto
Per questo riferimento – a prima vista sorprendente – ad una pluralità di imprecisati dèi, cfr. alla n. 7. b Sfugge il motivo per cui Pietro Comestore torni ad occuparsi, qui e nel prosieguo, di due punti testuali contenuti nel cap. 10 di Genesi (nella fattispecie Gen 10, 7 e 10, 11), non avendone trattato al corrispondente cap. 39. Limitatamente al primo punto (Gen 10, 7), può darsi che ciò dipenda dall’ordine espositivo che Pietro ritrovava in Flavio Giuseppe, fonte a cui il presente capitolo attinge in abbondanza e ove, in effetti, l’elenco dei figli di Regma segue (e non precede, come invece nel testo biblico) l’episodio della dispersione di Babilonia. c La precisazione riguarda, cioè, un punto contiguo rispetto al passo di Gen 10, 7 appena menzionato. a
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ereditarioa. Oppure la frase non va intesa in riferimento ad Assur figlio di Sem (colui che scoprì l’uso della porpora e degli unguenti per i capelli e per il corpo, e dal cui nome la Caldeab prese anche il nome di Assiria), ma bisogna intendere che Assur, cioè ‘il regno degli Assiri’, ebbe origine da lì: cosa che avvenne al tempo di Sarug, bisnonno di Abramo10. Detennero il regno di Babilonia i membri della stirpe di Nemroth, fino al quarto millennio e fino all’ultimo discendente di Chus11. Nel corso del loro regno, assoggettarono gli Egizi, e inoltre gli Assiri nel modo che segue. All’epoca di Sarug, Belo discendente di Nemroth e re di Babilonia (da non confondere con il Belo che fu re della Grecia)c entrò in Assiria, ma vi conquistò pochi territori. Dopo la morte di Belo, suo figlio Nino conquistò tutta l’Assiria e ampliò la città che era la capitale del regno, fino ad un’estensione pari a tre giorni di camminod, e la chiamò Ninive dal proprio nome. È questo il motivo per cui in alcune narrazioni storiche si legge che il regno degli Assiri abbia avuto inizio con quel primo Belo: cosa che è vera se si considera l’inizio del regno. In altre, invece, si legge che abbia avuto inizio con Nino: cosa che è pure vera se si considera l’ampliamento del regno12. Nino, inoltre, sconfisse Cam, che a quel tempo era ancora in vita e regnava in Battriae, ed era chiamato Zoroastre, l’inventore dell’arte magica: costui mise anche per iscritto le sette arti liberali su quattordici colonne, sette di bronzo e sette di mattoni, contro i due diluvîf. Nino, tuttavia, fece bruciare i libri di Zoroastre13. In quanto Assur era figlio di Sem (cfr. infra), uno degli artefici della torre. La regione meridionale della Mesopotamia, prospiciente l’odierno Golfo Persico, che ospita il corso inferiore dei fiumi Tigri ed Eufrate nonché la città di Ur, patria di Abramo (cfr. al cap. 41). c Per la verità, nessun «re della Grecia» figura tra i personaggi storico-mitologici noti con il nome di Belo: si ha notizia, invece, di un Belo re dell’Egitto, mitico padre di Egitto e di Danao, e di un Belo re di Tiro, mitico padre di Didone. d Cfr. Giona 3, 3: Ninive erat civitas magna Dei itinere dierum trium («Ninive era la grande città di Dio, dall’estensione pari a tre giorni di cammino»). e Antica regione dell’area medio-orientale, corrispondente all’attuale territorio tra il Mar Caspio e l’altopiano del Tibet. f Il diluvio per mezzo dell’acqua (il cosiddetto ‘diluvio universale’) e quello per mezzo del fuoco (il giudizio della fine dei tempi): cfr. al cap. 17, n. 9. a
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Da Nino ebbero anche origine gli idoli, così: dopo la morte di Belo, Nino si costruì, come consolazione al proprio dolore, un’immagine del padre, per la quale mostrava così tanta reverenza da perdonare tutti i rei che si fossero rifugiati presso di essa. Da allora, tutti coloro che vivevano nel regno di Nino iniziarono ad attribuire onori divini all’immagine di Belo. Sull’esempio di Nino, poi, furono in moltissimi a dedicare immagini ai propri cari defunti. E come dall’idolo di Belo tutti gli altri idoli hanno tratto indiscutibilmente origine, così pure dal nome di Belo ha tratto origine la denominazione generica degli idoli: come, infatti, gli Assiri chiamano Belo l’idolo, così anche gli altri popoli lo denominarono, secondo gli idiomi della propria lingua, chi Bel, chi Beel, chi Baal, chi Baalim. Gli attribuirono persino dei nomi più specifici: chi lo chiamò Beelphegor, chi Beelzebub14. Ma ora proseguiamo con la sequenza della genealogia di Sema.
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41. La genealogia di Sem [11,10] Sem aveva 100 anni quando generò Arfaxat due anni dopo il diluvio. Sembra contraddire questa affermazione quanto detto in precedenza, vale a dire che quando Noè aveva 500 anni nacque Sem, e che quando Noè aveva 600 anni il diluvio inondò la terrab. Se ne conclude, dunque, che sùbito dopo il diluvio Sem aveva 100 anni e che, due anni più tardi, aveva 102 anni. Spesso, però, è abitudine della Sacra Scrittura arrotondare le cifre, non menzionando gli anni di scarto se la differenza è poca. Si può affermare, dunque, che Sem aveva 102 anni, ma che i due anni la Scrittura non li ha menzionati. In caso contrario, si dovrebbe ipotizzare: o che Noè, quando generò Sem, aveva 502 anni; o che a Noè mancavano due anni alla soglia dei 600 quando il diluvio inondò la terra. O, in alternativa, si legga la lettera del testo come segue: Sem aveva 100 anni – sottinteso: sùbito dopo il diluvio – e correva il secondo L’autore riprende qui il filo della narrazione principale, interrotta in corrispondenza della divisione delle lingue (Gen 11, 9). b Cfr. rispettivamente al cap. 32 (Gen 5, 32) e al cap. 35 (Gen 7, 6). a
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anno dopo il diluvio quando generò Arfaxat1. Giuseppe, invece, dice: ‘A Sem nacque suo figlio Arfaxat dodici anni dopo il diluvio’; ma si tratta, probabilmente, di un errore imputabile al copista2. [11,12-25] Arfaxat generò Sale (che in Luca è chiamato Cainaa), il fondatore di Salem3. Sale generò Heber: da costui, secondo l’opinione di Giuseppe, gli Ebrei (Hebraei) derivarono il loro nome4. Agostino, tuttavia, osserva: ‘Ci si può domandare se il nome Hebraei derivi da Heber oppure da Abrahamb, quasi che il nome suonasse Abrahei’5. Heber generò Phalec e Iecta. In ebraico phalec significa ‘divisione’: all’epoca di Phalec, infatti, i popoli si divisero a motivo della divisione delle lingue ed ebbe luogo la divisione delle terre6. Ma il motivo per cui si dice che tale divisione abbia avuto luogo proprio con Phalec è, in particolar modo, il fatto che, mentre Phalec e i suoi figli conservarono la lingua antica, tutti gli altri si divisero, per così dire, da lui7. Phalec generò Reu (o Ragau)c, che generò Sarug, che generò Nachor, che generò Thare. [11,26] Thare, quando ebbe 70 anni, generò Abram, Nachor e Aram. E tale ordine risulta invertito: Aram, infatti, fu il primogenito e Abram l’ultimo. Peraltro, è verosimile che Thare non li abbia generati tutti e tre quando aveva quest’età, ma che a questa età egli abbia iniziato a procreare e che, poi, abbia generato ciascuno di essi a suo tempo8. Con Thare ha termine la ‘seconda età’d: secondo i Settanta, essa conta 1072 anni; secondo Metodio 1000 anni; secondo il testo ebraico 1292 anni. Tanti sono gli anni che Giuseppe sostiene siano trascorsi fino alla nascita di Thare: questa età, tuttavia, si estende fino alla nascita di Abram9. [11,27-29b] Poi Aram generò Lot, Iesca e Melcha, e morì in Ur dei Caldei davanti agli occhi di suo padre. Secondo l’opinione di Giuseppe, è proprio Ur il nome della città dove tuttora si può Il rimando è al passo di Lc 3, 35-36: cfr. tuttavia alla n. 3. Il nome di Abramo, attribuito da Dio al primo patriarca del popolo ebraico: cfr. Gen 17, 5 e qui al cap. 50. c La Vulgata riporta il nome nella grafia Reu in Gen 11, 19 e in quella di Ragau nel già citato Lc 3, 35. d Il secondo dei macro-periodi in cui la tradizione esegetica cristiana usava scandire la storia del mondo a partire dalla creazione: cfr. al cap. 31, p. 124, n. b. a
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osservare la sua sepoltura10. Nella lingua degli Ebrei hur significa ‘fuoco’: ragion per cui essi favoleggiano che i Caldei avrebbero gettato Abram e Aram nel fuoco, attraverso cui erano soliti trascinare i bambini che non volevano adorare il fuoco; e sostengono che, mentre Aram vi giaceva morente, Abram fu invece liberato grazie all’aiuto di Dio: ecco perché si dice Io sono colui che ti trasse fuori da Ur dei Caldeia11. E così Thare, avendo in odio la propria terra a causa del lutto di Aram12 e non riuscendo a sopportare le torture alle quali lo sottoponevano per costringerlo a venerare il fuoco, decise perciò di emigrare. [11,29a-30] E diede Melcha in moglie a Nachor, e Sarai in moglie ad Abram. Abram, inoltre, poiché Sarai era sterile, adottò come figlio Lot, fratello di sua moglie13.
42. La morte di Thare [11,31] Thare, dunque, uscì insieme a loro per andare nella terra di Chanaan; e giunsero fino ad Aran, città della Mesopotamia1. I Settanta scrivono ‘a Charan’: essi, infatti, quando la lettera a presenta un’aspirazione sia prima che dopo, non riuscirono a renderla in greco, e perciò posero ch in luogo di entrambe le aspirazioni. È lo stesso motivo per cui il nome di Haham, figlio di Noè, lo resero Cham (“Cam”). Ed è per questo che può capitare di leggere variamente scritto Oreb o Choreb, Raab o Rachab2. La Mesopotamia prese il suo nome dalle acque che vi scorrono intorno: meso, infatti, significa ‘in mezzo’ e potamos ‘acqua’. Analogamente, la città di Aquilegia (“Aquileia”) si chiama così come ad indicare che essa è aquis ligata (“legata alle acque”)3. [11,32] E si compirono i giorni di Thare, per un totale di 205 anni, e morì in Aran.
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Cfr. Gen 15, 7.
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43. La chiamata di Abram
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[12,1-4] Il Signore disse ad Abram: “Esci dalla tua terra!” eccetera. Abram, quando uscì da Aran, aveva 75 anni. Giuseppe afferma: ‘E abbandonò la Caldea all’età di 75 anni, poiché il Signore gli ordinava di trasferirsi nella terra di Chanaan’1. Se Abram, dopo la morte del padre, aveva 75 anni, risulta perciò evidente quanto abbiamo detto in precedenza, ossia che Thare aveva più di 70 anni quando generò Abrama. Se, infatti, Thare avesse generato Abram all’età di 70 anni, allora Abram, dopo la morte del padre (il quale aveva 205 anni quando morì), avrebbe dovuto avere 135 anni: tanti ne risultano, infatti, sottraendo 70 da 205. Agostino, invece, sostiene che questo episodio sia stato narrato qui secondo la tecnica della ricapitolazione: Abram, infatti, uscì da Aran mentre ancora suo padre era in vita (quando costui aveva 145 anni e lui appunto 75), e lì lasciò suo padre e suo fratello; e il Signore aveva parlato ad Abram durante il viaggio verso la Mesopotamia, e gli aveva detto “Esci dalla tua terra!” eccetera non perché già non vi fosse uscito, ma perché aveva intenzione di ritornarvi, quasi che Dio intendesse dire: tu che già sei uscito con il corpo, ora esci con la mente! Secondo Girolamo, invece, è vero quanto tramandano gli Ebrei: costoro attribuiscono a Thare l’età di 70 anni quando generò Abram, e sostengono che Abram sia uscito da Aran dopo la morte del padre e che, in quel momento, egli avesse più anni di quanti ne riferisca Mosèb; ma che i suoi anni vengono computati a partire dal momento in cui, con l’aiuto di Dio, fuggì dal fuoco dei Caldeic, così da considerare quel periodo della sua vita a partire dal quale egli, disprezzando gli idoli dei Caldei, professò la propria fede nel Signore2. Giuseppe osserva che la vita degli uomini già si stava accorciando, e andava a poco a poco riducendo la propria durata, fino a Mosè con il quale il Signore fissò in modo definitivo il limite che
Cfr. al cap. 41. Cioè più dei 75 anni segnalati da Gen 12, 4. c Si tratta dell’episodio narrato al cap. 41. a
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LA GENESI, 43-44
aveva stabilito per la vita umana: Mosè, infatti, morì all’età di 120 annia3.
44. L’arrivo di Abram nella terra di Chanaan [12,5] Perciò Abram prese con sé Sarai, Lot e le anime che avevano fatto in Aran – s’intenda: tutti gli esseri viventi che lì avevano acquistato1 – ed entrò nella terra di Chanaan. [12,6] E giunse a Sichem (che spesso càpita di leggere erroneamente scritto ‘Sichar’) e nella Valle Illustre, che a quel tempo si chiamava ‘Pentàpoli’ perché ospitava le cinque città dei Sodomìtib. Ora si chiama ‘Mare del Sale’ o ‘Mar Morto’: esso, infatti, non ospita alcuna forma di vita e nulla che sia dotato di vita può immergervisi. {Ora si chiama ‘Mare del Diavolo’ perché qui si è peccato su persuasione del diavoloc. In questo luogo, inoltre, si trova allume in abbondanza.} Il luogo è chiamato anche ‘Lago dell’Asfalto’, vale a dire di quel particolare tipo di bitume che si chiama ‘giudaico’, oppure ‘Valle delle Saline’2. [12,7] Il Signore gli apparve e gli disse: “Io darò alla tua discendenza questa terra!”. Ed egli costruì un altare al Signore nel luogo in cui gli era apparso. Perciò Giuseppe parla di Abram in questi termini: ‘Per primo egli osò affermare che esiste un unico Dio creatore di ogni cosa, ed ebbe la forza di innovare e mutare le opinioni che tutti gli altri nutrivano a proposito di Dio. Queste cose egli le congetturava sulla base dei sommovimenti di terra e mare, nonché degli eventi che coinvolgono sole e luna, e alla luce di tutto quanto attorno al cielo sempre si verifica’. Di Abram fa menzione anche Beroso, che dice: ‘Nella decima generazione dopo il diluvio, vi fu presso i Caldei un uomo esperto nelle cose celesti’3. [12,8-9] Poi Abram si spostò, e fissò la tenda tra Bethel e Hai, e costruì di nuovo un altare al Signore. Poi Abram proseguì oltre nel Cfr. Deut 34, 7. Cfr. al cap. 46: si tratta di Sodoma, Gomorra, Adama, Sebois e Bala altrimenti detta Segor. c Si allude al peccato commesso dalle città di Sodoma e Gomorra: cfr. Gen 18, 20-21, e qui al cap. 52. a
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suo cammino, avanzando verso meridione. Dove si sia recato, Mosè lo tace per brevità o come se lo desse per noto. Uno dei luoghi in cui Abram abitò fu Damasco4: ragion per cui, ancora oggi, nella regione di Damasco il suo nome è tenuto in gloria e vi si può osservare un villaggio che da lui prende il nome di ‘Dimora di Abram’. Anche Nicolao Damasceno dice: ‘Abram regnò in Damasco, giungendovi forestiero con un esercito dalla terra al di là di Babilonia, che è detta ‘Terra dei Caldei’’5.
45. La discesa di Abram in Egitto e il suo ritorno
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[12,10-17] Poi scoppiò sulla terra una grave carestia, e Abram scese in Egitto. Temendo però la libidine degli Egiziani, e perché costoro non lo uccidessero a causa della bellezza della sua donna1, Abram disse che era sua sorella. E la donna, che era molto bella, fu condotta alla corte del Faraone. Abram, invece, proprio a causa di lei fu trattato bene dagli Egiziani. Ma Dio, perché il re non avesse a sfiorare la donna, ne ostacolò il desiderio con una pestilenza e con lo sconvolgimento degli affari pubblici. I sacerdoti, che offrirono sacrifici per la salvezza del re, indicarono che ciò era accaduto a causa dell’ira di Dio, poiché il re aveva desiderato arrecare oltraggio alla moglie di un forestiero2. [12,18-20] Il Faraone fece dunque chiamare Abram e gli disse: “Perché non hai detto che era tua moglie? Ecco qui tua moglie: prèndila e vattene!”. Poi il re diede ordine ad alcuni uomini che lo conducessero via. [13,2] Abram era infatti molto ricco in oro e argento, in servi e ancelle, e in bestiame3. Egli tramandò inoltre agli Egiziani l’aritmetica e le nozioni di astrologia: discipline che prima essi ignoravano e che poi tramandarono ai Greci4. [13,3-12] Abram fece poi ritorno al luogo dove aveva fissato la tenda tra Bethel e Hai. E si spartì la terra con Lot, dal momento che i loro pastori litigavano per i pascoli; diede a Lot anche la possibilità di scegliere5. E Lot, levando gli occhi, vide che la regione del Giordano gli si confaceva, e si stabilì nei villaggi dei Sodomìti.
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[13,18] Abram, invece, scese verso la Valle di Mambre nei pressi di Hebron: qui si stabilì e costruì un altare al Signore. Hebron è la città che si chiama anche Cariatarbe, ossia ‘città dei quattro’: da arbe, che significa ‘quattro’ e cariath ‘città’. Qui, infatti, furono sepolti Adamo, il più grande dei profeti, Abramo, Isacco e Giacobbe con le rispettive moglia6. Quanto a Mambre, Aner ed Escol, essi erano fratelli e si allearono con Abram: la valle prendeva il suo nome dal primogenitob. Qui Abram abitò nei pressi di una quercia, o di un terebinto, le cui radici sono tuttora visibili. Giuseppe ne ha indicato il nome proprio laddove dice: ‘Abram abitava nei pressi del leccio che si chiama Ogigi’7. {Quell’albero, secondo quanto riporta Girolamo, è resistito fino all’epoca dell’imperatore Teodosio; e si racconta che da quell’albero sia nato questo che esiste oggi e che, seppur privo di linfa, è tuttavia dotato di proprietà medicinali: chi ne porta un po’ con sé, il suo giumento non si ammala di infunditusc.}8 [13,14-17] Qui Dio promise ad Abram che tutta la terra circostante, nei quattro punti cardinali, l’avrebbe data a lui e alla sua discendenza.
46. La vittoria di Abram e l’incontro con Melchisedech [14,1a] A quel tempo, accadde che Amraphel, re di Sennaar (ossia: di Babilonia) eccetera. La brama di dominio era ormai giunta a tal segno che ogni città aveva un piccolo sovrano locale; la maggior parte dei quali era al servizio di qualche re più potente; tutti, in ultima istanza, erano sudditi del monarca degli Assiri1.
a Per la verità, Rachele, moglie di Giacobbe, non fu sepolta in quel luogo: cfr. Gen 35, 19, e qui al cap. 80. b Per rendere ragione del toponimo Valle di Mambre (Gen 13, 18), Pietro Comestore si vede costretto ad anticipare al lettore l’identità dei tre fratelli, che il testo biblico segnalerà invece nel prosieguo (cfr. Gen 14, 13, e qui al cap. 46). c Cfr. Du Cange, s.v. infunditus: equorum morbus, qui accidit ex potatione superflua, vel ex immoderato labore, ossia «malattia dei cavalli, che si verifica a causa di un eccessivo abbeveramento o di una smodata fatica».
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[14,1b-12] Anche le cinque città dei Sodomìti (Sodoma, Gomorra, Adama, Sebois, Bala detta anche Segor) avevano cinque re. Chedorlaomer, re degli Elamìti, aveva sottomesso queste città e le aveva rese tributarie al proprio regno: lo avevano servito per dodici anni versandogli tributi; il tredicesimo anno, però, si rifiutarono di sottomettersi2. Ragion per cui, il quattordicesimo anno, Chedorlaomer prese con sé i tre re di Babilonia, del Ponto e delle Genti, e radunò un esercito; giunsero poi nella Valle Silvestre, ove si trovavano pozzi di bitume (valle che, a causa dell’ira di Dio, in séguito fu trasformata nel Mar Morto3), e saccheggiarono i territori circostanti. I cinque re uscirono per combattere contro gli altri quattro. Ma furono vòlti in fuga: caddero in gran numero e i superstiti fuggirono verso i monti. Poi i vincitori presero tutti i loro beni nonché alcuni prigionieri, tra cui lo stesso Lot con i suoi beni4. [14,13-17] Ed ecco, un fuggiasco riferì l’accaduto ad Abram l’Ebreo (secondo altra lezione ‘il Transfluviale’ poiché era giunto dall’altra parte dell’Eufrate5). Il quale chiamò all’appello i suoi servi nati in casa, già pronti a combattere, in numero di trecentodiciotto, e i tre fratelli poco fa menzionatia, ossia Mambre, Aner ed Escol. E inseguì i nemici fino a Dan, una delle due fonti del Giordano: da essa prese il nome di Dan il villaggio che ora si chiama Paneas. L’altra fonte ha nome Ior: nel punto in cui le due fonti si uniscono in un unico corso d’acqua, esse prendono il nome di Iordanis (“Giordano”)6. E sferrò ai nemici un assalto durante la notte, dopo aver diviso i suoi alleati in tre schiere7. Massacrò i nemici che dormivano; chi era sveglio, invece, non essendo in grado di combattere a causa dell’ubriachezza, si diede alla fuga8. E li inseguì fino a Hoba, che si trova ad oriente di Damasco. E riportò in salvo Lot, insieme alle donne e al popolo, con tutti i loro beni. Poi il re dei Sodomìti gli si fece incontro nel luogo detto Valle del Re, sulla strada per Solima (altrimenti detta Salemb), la città che fu poi chiamata Ierosolima9. [14,18a] Ma Melchisedech, re di Salem, gli offrì pane e vino. Come a voler meglio raccontare questo episodio, Giuseppe dice: a b
Cfr. al cap. 45. Sulla fondazione di Salem, cfr. al cap. 41.
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‘Offrì all’esercito doni ospitali e anche grande abbondanza di cose utili. Poi, durante il banchetto, egli benedisse Dio che aveva sottomesso ad Abram i nemici’10. [14,18b] Costui era infatti sacerdote di Dio altissimo. {Giuseppe al termine del suo libro: ‘Il più potente tra i Cananei, che nella lingua patria è chiamato ‘re giusto’, per primo offrì un sacerdozio a Dio e costruì un tempio e la città a cui diede nome Ierosolima (che prima si chiamava Solima)a. Dopo l’espulsione dei Cananei, il primo tra i Giudei a regnare nella città fu Leobio’11.} [14,20b] E Abram gli consegnò la decima dell’intero bottino12: si dice che, in quest’occasione, per la prima volta furono consegnate le decime; le primizie, invece, erano state consegnate da Abeleb. [14,21-24] Poi il re dei Sodomìti disse a lui: “Consegnami gli esseri viventi! Tutto il resto, invece, prendilo per te!”. Ma Abram non volle prenderne neppure una minima parte, se non quanto i suoi uomini avevano mangiato e le parti dei tre fratelli che lo avevano accompagnato. Gli Ebrei sostengono che tale Melchisedech fosse Sem, il figlio di Noè, e che sia vissuto fino al tempo di Isacco; sostengono, inoltre, che tutti i primogeniti, a partire da Noè fino ad Aaron, abbiano rivestito la carica di sacerdote13. Costoro, durante i banchetti e le offerte, davano la benedizione al popolo e consegnavano agli eredi i diritti di primogenitura, dei quali sarà data spiegazione a suo luogoc.
47. L’origine dell’anno giubilare Si tramanda che, a partire da questa vittoria, abbia avuto inizio l’anno giubilare, in ricordo della liberazione dei prigionieri: iobel significa infatti ‘liberazione’ o ‘inizio’, da cui iubelaeus, cioè ‘che libera’ o ‘che dà inizio’. a Alla lettera, il nome Ierosolima vale infatti «la sacra Solima»: si tratta dell’odierna città di Gerusalemme. b Si allude all’episodio che vede protagonista Abele in Gen 4, 4 (cfr. qui al cap. 27). c Il rimando è alla sezione conclusiva del cap. 66.
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L’anno giubilare fu istituito con cadenza cinquantennale poiché, come tramandano alcuni, in quel momento Lot aveva cinquant’anni. O può darsi che in quel momento corresse il cinquantesimo anno da quando il Signore aveva parlato ad Abram durante il viaggio oppure da quando Abram era uscito da Arana. Abram era esperto di astri: disciplina nella quale, secondo l’opinione di alcuni, istruì ancheb Zoroastre, l’inventore dell’arte magica. Abram sapeva infatti che l’instabilità che si verifica a causa dell’influsso dei pianeti, in virtù della loro posizione elevata o bassa, ritorna sempre alla stabilità nel giro di cinquant’anni: e ciò che vide accadere negli astri, volle riprodurlo sulla terra1.
48. La promessa fatta ad Abram
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[15,1-3] In séguito a questi eventi, il Signore parlò ad Abram: “Io sono il tuo protettore, e assai grande sarà la tua ricompensa!”. E Abram rispose: “Che cosa mi darai? Io me ne andrò senza figli, e mio erede sarà Damasco, il figlio del mio amministratore Eliezerc”. Come a dire: che me ne faccio della promessa di una terra, se sono privo di un erede? Si tramanda che da tale Damasco sia stata fondata e abbia preso il nome la città di Damasco, e che lì egli abbia regnato1. [15,4-8] E il Signore gli disse: “Non costui sarà il tuo erede, ma colui che uscirà dal tuo ventre!”. Abram credette a Dio e ciò gli fu Cfr. al cap. 43. S’intende, forse, in aggiunta agli Egiziani, come osservato al cap. 45. c Il testo della Vulgata (Gen 15, 2) legge filius procuratoris domus meae, iste Damascus Eliezer, ove risulta ambiguo se il nome Eliezer sia da intendere come patronimico o secondo nome di Damascus («il figlio dell’amministratore della mia casa: Damasco di Eliezer/Damasco Eliezer»). Pietro Comestore opta per la prima alternativa: Damascus filius Eliezer, procuratoris mei, erit heres meus, ove la posizione reciproca di filius e di Eliezer, con quest’ultimo seguìto dalla relativa apposizione al genitivo, rende inequivocabilmente Eliezer patronimico di filius. Al contrario, il testo greco dei Settanta fa di Eliezer il secondo nome di Damasco, il cui padre aveva invece nome Masek (cfr. Gen 15, 2: ὁ δὲ υἱὸς Μασεκ τῆς οἰκογενοῦς μου, οὗτος Δαμασκὸς Ελιεζερ, ossia «il figlio del mio amministratore Masek: Damasco Eliezer»). a
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accreditato a giustizia. Poi Abram, dal momento che quanto gli veniva promesso era qualche cosa di insperato, chiese un segno in virtù del quale potesse sapere che ciò davvero gli sarebbe accaduto: lo fece non per mancanza di fiducia, ma nutrendo speranza e chiedendo il modo per sapere. È proprio a motivo di questo particolare episodio che si affermò tra i Giudei l’abitudine di chiedere segni2. [15,9-12] E il Signore disse: “Préndimi domani una vacca, una capra e un ariete, ciascuno dell’età di tre anni, e inoltre una tortora e una colomba”. Come a dire: mi immolerai questi animali e io ti mostrerò il segno. Ed egli prese questi animali3, li squartò nel mezzo e pose le due parti l’una di fronte all’altra; gli uccelli, però, non li squartò. Poi, mentre attendeva le istruzioni del Signore circa la modalità del sacrificio, discesero dei volatili sopra i cadaveri, e Abram li scacciava. Dopo che il sole fu tramontato, un sopore calò d’improvviso su Abram, e un grande turbamento che fu parte integrante del segno. [15,13-16a] E gli fu detto: “Sappi fin d’ora che la tua stirpe è destinata ad essere pellegrina in una terra che non le appartiene, e popoli stranieri4 li sottometteranno in schiavitù e li opprimeranno per quattrocento annia. Prima, però, tu ritornerai dai tuoi padri; i tuoi posteri, invece, nella quarta generazione faranno ritorno qui!”. Come a dire: non aspettarti di poter regnare ora in questa terra, né che lo possa fare la tua stirpe dopo di te; tu infatti sarai già morto allorché tra quattrocento anni si compirà la mia promessa. Non si deve intendere che per quattrocento anni furono schiavi in Egitto; bensì che il quattrocentesimo anno è caduto proprio nel corso di quella oppressione: secondo Isidoro, infatti, i quattrocento anni sono computati a partire dal tempo in cui ad Abram vengono fatte queste promesse. Agostino, invece, poiché ad Abram fu detto ‘la tua stirpe’, effettua il computo a partire dalla nascita di Isacco; e infatti, dall’anno della nascita di Isacco fino all’anno dell’uscita dall’Egitto, computa quattrocentocinque anni: la Scrittura, però, a Si è scelto di conservare anche nella traduzione italiana l’andamento anacolutico del testo biblico, che vede il sostantivo singolare semen tuum («la tua stirpe») quale diretto referente del pronome determinativo plurale eos («li»): concordanza a senso che procede dal significato collettivo di semen («stirpe» e dunque «discendenti»).
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i cinque anni non li menzionaa. Egli intende perciò la lettera del testo come segue: la tua stirpe sarà pellegrina per quattrocento anni; e infatti fu pellegrina sia nella terra di Chanaan sia in Egitto, finché non ricevette l’eredità promessa da Dio. Ciò che invece sta nel mezzo − ossia ‘li sottometteranno e li opprimeranno’ − non si riferisce ai quattrocento anni5. Quanto al fatto che si dica che nella quarta generazione avrebbero fatto ritorno, ciò è da intendersi in relazione alla tribù sacerdotaleb: Levi, infatti, generò Chaat, che generò Amram, che generò Aaron, che generò Eleazar, il quale uscì dall’Egitto insieme ad Aaron. E si badi che per ‘quattro generazioni’ si intendono non i singoli individui, bensì le discendenze: in modo tale, cioè, che il numero delle generazioni risulti essere pari al numero di volte che nel testo si legge ‘generò’. Un altro punto del testo sacro legge invece ‘nella quinta generazione’c, e ciò è da intendersi in relazione alla tribù regale: Giuda, infatti, generò Phares, che generò Esrom, che generò Aram, che generò Aminadab, che generò Naason, il quale uscì dall’Egitto insieme al padre6. [15,17-21] Poi scese l’oscurità e apparve un fuoco, come di fornace7, che passò in mezzo a quelle porzioni e le consumò. Ecco il segno. Il Signore tracciò ad Abram i confini della sua terra dal Rinocorula8, fiume dell’Egitto, fino all’Eufrate; e gli elencò i nomi dei popoli.
La consuetudine della Sacra Scrittura ad arrotondare le cifre era già stata segnalata al cap. 41. b La tribù d’Israele da cui discese la casta sacerdotale fu quella che ebbe per capostipite Levi: cfr. al cap. 99. In séguito si fa invece menzione della tribù regale, da cui discese la prima stirpe di re d’Israele, il cui capostipite fu Giuda: cfr. al cap. 100. c Si tratta del passo di Es 13, 18, qui citato in una versione riconducibile all’àmbito delle Veteres, che legge quinta autem progenie ascenderunt filii Israel de terra Aegyptii («ma nella quinta generazione i figli d’Israele salirono dalla terra d’Egitto»). Il testo della Vulgata legge altrimenti: armati ascenderunt filii Israel de terra Aegyptii («i figli d’Israele salirono armati dalla terra d’Egitto»). a
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49. Agar partorisce un figlio [16,1-6] E così Sarai non aveva figli, e disse ad Abram: “Unisciti alla mia serva Agar! Forse, per mezzo di lei, io potrò avere figli!”. Ed egli si unì a lei. Ma questa, dopo che ebbe concepito, disprezzò la propria padrona, e Abram fingeva di non accorgersene. E Sarai disse: “Ti comporti ingiustamente nei miei riguardi: Dio sia giudice tra me e te!”. Abram le rispose: “Eccoti la tua serva in tuo potere: fanne ciò che vuoi!”. E poiché Sarai la trattava male, quella si diede alla fuga: voleva ritornare nella sua patria; era infatti egiziana. [16,7-11a] L’angelo del Signore la trovò a vagare solitaria, mentre aveva sete e ignorava il cammino, presso il pozzo che si trova sulla strada nel deserto di Sur. E le chiese: “Da dove vieni? E dove vai?”. E quella: “Fuggo dalla presenza della mia padrona Sarai”. E a lei l’angelo: “Ritorna dalla tua padrona e sottomettiti a lei!”. E ancora: “Hai concepito e partorirai un figlio, e gli porrai nome Ismaele!”1. Qui, per la prima volta, si legge un nome profetizzato dal Signore: si tratta di un’eventualità assai raraa2. a In corrispondenza di questo punto testuale, Sylwan legge quod interpretatum est: Manus eius…, ossia «che [scil. il nome di Ismaele profetizzato dal Signore] fu spiegato in questi termini: “La sua mano…”». Nell’usus scribendi del nostro autore, tuttavia, il verbo interpretari («spiegare», e tecnicamente «tradurre») è di norma impiegato ad introdurre una spiegazione etimologica, e non già una profezia quale invece risulta essere l’esclamazione che segue (Gen 16, 12b: “La sua mano…”): cfr. inoppugnabilmente, qualche riga oltre, l’impiego anche da parte di Pietro Comestore del verbo tecnico praedicere, appunto «profetizzare» (nella fattispecie hoc predictum est: «ciò fu profetizzato»). Peraltro, dall’apparato critico si ricava che la lezione interpretatum («spiegato») è attestata dal solo P; al contrario, tutti gli altri sette testimoni presi in esame (S ed i sei delle famiglie β γ δ) leggono concordemente perrarum, aggettivo che significa «assai raro» (quod perrarum est, lett. «cosa che è assai rara»): Pietro intenderebbe così sottolineare l’estrema rarità delle occasioni in cui un nome fu profetizzato direttamente dal Signore; in effetti, sul finire del cap. 50, in corrispondenza della seconda di tali circostanze, vale a dire la profezia del nome di Isacco, il nostro autore segnalerà che ciò ebbe luogo in sole sei occasioni, allegando preciso riferimento anche per le altre quattro. Alla luce di tali osservazioni, riteniamo dunque legittimo prendere le distanze dal testo èdito: traduciamo accogliendo la lezione perrarum, nonché emendando la punteggiatura del passo in quod perrarum est. Manus eius…, in modo tale da riservare alla profezia che esordisce “La sua mano…” l’inizio di un nuovo capoverso.
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[16,12b] E poi: “La sua mano sarà contro tutti, e la mano di tutti contro di lui, e pianterà le sue tende fuori dalla regione dei suoi fratelli!”. Ciò non si legge però a proposito di Ismaele medesimo, bensì di suo figlio Cedara. Tuttavia, ciò fu profetizzato a proposito della stirpe di Ismaele: i Saraceni, infatti, vagabondi e senza dimore stabilite, muovono guerra ai popoli che confinano da un lato con il deserto, e da tutti sono essi stessi attaccati3. Più precisamente, tutto ciò era destinato a verificarsi, secondo quanto riferisce Metodio, allorché i quattro capi della stirpe di Ismaele (che egli chiama anche ‘figli della vigna’: a causa, forse, della loro follia, simile a quella degli ubriachi), ossia Oreb, Zeb, Zebee e Salmana, uscirono dal deserto e mossero contro i figli di Israele; ma, sconfitti da Gedeoneb, furono respinti nel deserto da cui erano sortiti4. [16,12a] Quanto al fatto che nella Genesi si legge: Costui sarà un uomo selvatico, il testo ebraico legge invece phara, che significa ‘onagro’c5. È questo il motivo per cui, come osserva Metodio, è stato dettod: ‘Gli onagri e le capre calpesteranno, cacciandola fuori dal deserto, tutta la furia delle bestie, e anche l’insieme degli animali mansueti sarà da essi calpestato’. Metodio, infatti, così scrive a proposito dei figli di Ismaele: ‘Ma accadrà che usciranno ancora una volta, e otterranno il possesso dell’orbe terrestre per otto periodi di sette anni ciascuno, e il loro cammino si chiamerà ‘via dell’angustia’, poiché il Signore chiamò ‘onagro’ il loro padre Ismaele. Nei luoghi sacri, essi uccideranno i sacerdoti; lì dormiranno con le donne e legheranno i giumenti ai sepolcri dei santi. Tutto ciò a causa della malvagità dei cristiani che allora vivranno, dei quali è scritto: In tempi lontanissimi vivranno uomini amanti
È probabile che il riferimento sia all’espressione veterotestamentaria tabernacula Cedar, ossia «le tende di Cedar», che figura in Sal 120, 5 e in Ct 1, 5. Si badi, tuttavia, che nella precedente citazione di Gen 16, 12b figura non il sostantivo tabernacula, bensì il sinonimo tentoria (anch’esso «tende»). b Alle gesta di Gedeone, eletto da Dio per liberare il popolo d’Israele dalle incursioni dei popoli berberi, è dedicata l’intera sezione di Giud 6-8. c Specie di asino selvatico. d Allo stesso Metodio, s’intende. Si rammenti, infatti, che costui nella sua opera riferisce alcune profezie, sull’inizio e la fine dei tempi, rivelategli dallo Spirito: cfr. al cap. 26. a
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di loro stessi ecceteraa. E allora si compirà ciò che fu detto per mezzo di Ezechiele: Figlio dell’uomo, chiama le bestie del campo ed esortale dicendo: «Radunatevi e venìte, poiché immolo per voi un grande sacrificio! Mangiate le carni dei forti e bevete il sangue dei celesti!b»’6. [16,13-16] Poi il Signore, mentre stava parlando con Agar, volò via in un turbine. Ella ne vide le spalle7 e disse: “Ho visto le spalle di colui che mi vede!”. E diede a quel pozzo il nome di ‘Pozzo di colui che è vivo e che vede’: Dio, infatti, l’aveva vista e le aveva restituito, per così dire, la vita mostrandole il pozzo quando lei aveva sete8. Il pozzo di Agar è tuttora visibile9 tra Cades e Barad. Ed ella, dopo aver fatto ritorno10, partorì un figlio e lo chiamò Ismaele. Abram aveva 86 anni quando nacque Ismaele.
50. Ad Abram viene mutato il nome [17,1-2; 9-10] Non appena Abram ebbe 99 anni, gli apparve il Signore che gli disse: “Io moltiplicherò la tua stirpe, e tu custodirai la mia alleanza, che è questa: sarà circonciso tra voi” eccetera. [17,4-5] Ma il Signore, prima di esporre in che cosa consista l’alleanza, gli muta il nome1. Egli si chiamava Abram, da abba e ram, quasi che il suo nome suonasse Abbaram, che significa ‘padre eccelso’; in quell’occasione, al suo nome fu aggiunta una lettera a, e il suo nome divenne Abraham (“Abramo”), quasi che suonasse Abraam, che significa ‘padre di molti’, sottinteso ‘popoli’c. Gli Ebrei, invece, sostengono che Dio, prendendola dal suo stesso nome che è il tetragrammad, abbia aggiunto al nome di lui una lettera e, che però si pronuncia come a: è tipico della lingua ebraica, Cfr. 2Tim 3, 1 ss. Libera riproposizione di Ez 39, 17-18. c Cfr. Gen 17, 5, ove Dio si rivolge ad Abram dicendogli: «e il tuo nome non sarà più Abram, ma ti si chiamerà Abramo, dal momento che ho fatto di te il padre di molti popoli». d Le quattro lettere (yod, he, waw, he) con cui la Bibbia ebraica è solita indicare il nome proprio di Dio, usualmente traslitterato YHWH e pronunciato Yahweh. a
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infatti, scrivere a ma pronunciare e, nonché viceversa2. La lettera è stata aggiunta dopo la r per eufonia3. E poiché il suo nome fu mutato in occasione della circoncisione, gli Ebrei impongono i nomi quando effettuano la circoncisione. [17,10-14] Perciò il Signore, volendo distinguere il suo popolo dagli altri in virtù, per così dire, di un qualche segno particolare4, prescrisse la circoncisione secondo questa modalità: “Sarà circonciso tra voi tutto il genere maschile, e circonciderete la carne del vostro prepuzio. Il nuovo nato sarà circonciso quando avrà otto giorni; e così pure il servo nato in casa e il servo acquistato. Colui la cui carne non sarà stata circoncisa, quell’anima verrà meno al suo popolo!”. Non fu prescritto con quale tipo di lama si dovesse effettuare la circoncisione: il motivo per cui, tuttavia, si effettuava con un coltello di pietra, lo spiegheremo in séguitoa. Si osservi che, in origine, si disse ‘servo’ (servus) da ‘conservare’ (servare): i vincitori, infatti, chiamarono ‘servi’ i nemici vinti che ‘conservavano’ in vita. Il verna, invece, o vernaculus o vernula, è il servo che è stato allevato in casa; empticius è il servo che viene ‘acquistato’ (emptus) quanto alla sua stessa persona; originarius è colui che è anche servo della gleba, ossia il colono5. [17,15] Poi il Signore disse ad Abramo: “Non chiamerai più Sarai tua moglie, ma Sara!”. Sbaglia chi sostiene che il nome le sia stato mutato perché prima si scriveva con due r e ora invece con una, o viceversa. La spiegazione corretta è questa: prima si chiamava Sarai, che significa ‘principessa mia’, come a dire ‘principessa di un solo popolo’; poi si chiamò Sara, che significa ‘principessa’ in termini assoluti, come a dire che era destinata ad essere ‘principessa di tutti i popoli’. E si faccia attenzione che, sebbene a noi possa sembrare che sia stata tolta una lettera e che non ne sia stata aggiunta nessun’altra, in realtà in ebraico viene aggiunta una let-
Cfr. Petr. Comest., Hist. Schol. − PL 198, col. 1147C: a commento del passo di Es 4, 25 – ove si narra che Seffora, moglie di Mosè, prese una acutissima petra («pietra assai appuntita») e circoncise il figlio – il nostro autore osserva che hinc volunt quidam morem circumcidendi petrinis cultellis habuisse principium, ossia che «alcuni ritengono che proprio da questo episodio abbia avuto origine la consuetudine di effettuare la circoncisione con coltelli di pietra». a
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tera a che è scritta però come ea. Alcuni, inoltre, dal momento che in ebraico sarath significa ‘lebbra’, hanno perciò erroneamente sostenuto che in origine il suo nome significasse appunto ‘lebbra’6. [17,16-19] E il Signore disse: “Per mezzo di lei ti darò un figlio!”. Abramo cadde ai suoi piedi, e rise – per la gioia – dicendo – in atto di approvazione7: “Credi davvero che a me che sono centenario nascerà un figlio, e che Sara partorirà novantenne?”. E il Signore disse: “Sara ti partorirà un figlio e lo chiamerai Isacco!”. Il nome Isacco significa ‘riso’: a motivo, s’intende, del riso di suo padre8. Ecco che qui per la seconda voltab un nome viene profetizzato dal Signore: la stessa cosa si legge ancora a proposito di altri due nomi nel Antico Testamento, ossia Sansone e Giosia, e di soli altri due nomi nel Nuovo Testamento, ossia Gesù e Giovannic9. [17,20-27] E il Signore gli promise la moltiplicazione di Ismaele. Poi, quando il discorso del Signore fu terminato, Abramo circoncise se stesso, Ismaele, e tutti i membri di sesso maschile appartenenti alla sua casa. In quel momento Abramo aveva 99 anni e Ismaele ne aveva 13.
51. I tre angeli ospitati da Abramo [18,1-2] Il Signore apparve ad Abramo nella Valle di Mambre. E Abramo, levàti gli occhi, vide tre uomini e, fattosi loro incontro, adorò uno di essi1. Giuseppe ha riferito che tre angeli dall’aspetto
a In virtù della consuetudine ebraica, poc’anzi segnalata, di scrivere e ma pronunciare a, e viceversa. La fonte (cfr. alla n. 6) chiarisce meglio il mutamento occorso al nome: al nome ebraico originario, scritto con le tre lettere sin, res, ioth (SRI), è stata tolta la lettera finale ioth (I) e aggiunta una e che si pronuncia a, così da ottenere SRA, la cui pronuncia è appunto Sara. b La prima volta era stato il caso del nome Ismaele : cfr. Gen 16, 11, qui al cap. 49. c In nessun luogo dell’Antico Testamento (cfr. nella fattispecie Giud 13) si legge che il nome di Sansone fu profetizzato dal Signore: si tratta invece, con ogni probabilità, del nome di Salomone, profetizzato in 1Cron 22, 9 (ma si badi che la corruttela Salomone > Sansone – nomi la cui grafia è facilmente equivocabile – risale già alla fonte del nostro autore: cfr. alla n. 9). Per il nome Giosia, cfr. 1Re 13, 2; per Gesù, cfr. Mt 1, 21 e Lc 1, 31; per Giovanni, cfr. Lc 1, 13.
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umano furono inviati a portare l’annuncioa ad Abramo mentre si apprestavano a distruggere Sodoma2. Eusebio, invece, dice: ‘Ad Abramo, il primo tra i profeti, fu rivelato il Verbo di Dio: essendogli infatti apparso in figura umana, gli promette la vocazione delle gentib’3. E così gli apparve il Figlioc: che egli adorò4. Ma poiché in nessun luogo si legge che il Padre sia mai apparso sotto le spoglie di una sostanza creata, allora si dice che due angeli siano apparsi a simboleggiare i due araldid Mosè ed Elia: l’uno precorse il primo avventoe, l’altro precorrerà il secondo5. [18,3-8a] E Abramo li pregò che sostassero da lui, e che si ristorassero prendendo un po’ di cibo. Quelli accettarono, e Abramo si affrettò a dare ordine a Sara di preparare, con tre satif di fior di farina, pani cotti sotto la cenere. Egli, invece, andò a prendere il miglior vitello tra il bestiame. Poi prese burro, latte e il vitello arrostito6, e li pose dinnanzi a quelli. È verosimile che Abramo prima abbia creduto che fossero uomini, per i quali preparò doni ospitali, e che soltanto poi abbia compreso che erano angeli di Dio7. Quanto al cibo che essi mangiarono, si può affermare che, masticandolo, si sia dissolto come accade all’acqua per il calore del fuoco8. [18,8b-11] E Abramo s’intratteneva presso di loro. Sara, invece, era dietro la porta della tenda. E un angelo disse: “Io tornerò da te in questo periodo – ossia: in questo stesso giorno tra un anno esatto – e allora Sara avrà un figlio!”. All’udire queste parole, Sara rise: entrambi, infatti, erano anziani, e a Sara avevano cessato di venire le cose delle donne. Ossia: le mestruazioni; venute meno le quali, viene meno la capacità di generare. Se uno dei due fosse stato gioDella nascita del figlio Isacco, s’intende. Ossia la vocazione cristiana dei «popoli pagani», le gentes (da noi reso «genti») per antonomasia secondo la terminologia cristiana. c Larga parte del pensiero teologico cristiano identifica infatti il ‘Verbo’ nel ‘Figlio’, ossia nella seconda persona della Trinità. d Si è scelto di conservare anche nella traduzione italiana il tecnicismo latino praecones, ossia «araldi»: il termine andrà inteso, naturalmente, nel significato metaforico di «preannunciatori» in quanto «profeti». e Di Cristo, s’intende. Secondo il pensiero teologico, il primo avvento è quello storico, ossia l’incarnazione, e il secondo quello destinato ad avere luogo alla fine dei tempi, in occasione del cosiddetto ‘Giudizio Universale’. f Misura di capacità ebraica per sostanze solide. a
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vane, non sarebbe stato impossibile che, da uno vecchio e uno giovane, si generasse una prole: ma entrambi erano in età avanzata; e a ciò si aggiungeva il fatto che Sara era sterilea9. [18,12-15] Ella perciò rise, poiché dubitò10, e disse: “Ora che io sono invecchiata, e che anche il mio signore è vecchio, mi curerò del piacere carnale?”. E il Signore chiese ad Abramo: “Perché Sara ha riso? A Dio è forse difficile qualche cosa?”. Sara, in preda al terrore, negò di avere riso. Ecco dunque con quale intenzione ciascuno dei due ha risob: lo ha potuto giudicare Colui che conosce i cuori11.
52. La distruzione di Sodoma [18,16-17] Dopo che quegli uomini si furono alzati, rivolsero gli occhi verso Sodoma, e Abramo stava uscendo insieme a loro. E il Signore disse: “Potrò forse celare ad Abramo qualcosa di ciò che sto per fare?”. [18,20] E gli disse: “Il grido di Sodoma e di Gomorra è giunto fino a me!”. Il peccato porta con sé il grido; la colpa implica la libertà1, vale a dire quando qualcuno commette peccato apertamente e seguendo il proprio piacere. Il peccato di costoro fu la superbia della vita e l’abbondanza di panec, per cui proruppero in un’ignominiosa libidine. [18,21] E aggiunse: “Scenderò a vedere se abbiano compiuto nei fatti il grido che mi è giunto!”. Colui che tutto conosce ci ha lasciato ciò a titolo di esempio, come a dire: non credete alle malvagità degli uomini prima di averle appurate2. E questo è il motivo per cui un giudice non può punire un crimine noto a lui soltanto3. E
Quest’ultimo dettaglio era già stato segnalato in conclusione del cap. 41. Si rammenti che Abramo aveva riso all’annuncio della sua futura paternità per mezzo di Sara − secondo il nostro autore, in segno di gioia e approvazione: cfr. Gen 17, 17, e qui al cap. 50. c Cfr. Ez 16, 49: Ecce, haec fuit iniquitas Sodomae sororis tuae: superbia, saturitas panis et abundantia («Ecco, questa fu l’iniquità di Sodoma, tua sorella: superbia, sazietà di pane e abbondanza»). a
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perciò fu detto: Nessuno ti ha condannata? Nemmeno io ti condannerò!a [18,23-33] Ma Abramo, ricordatosi di suo fratellob Lot4, si accostò al Signore e gli disse: “Farai forse perire anche il giusto, insieme all’empio? Questo non è da te, che giudichi tutta la terra. Se vi saranno cinquanta giusti, non risparmierai forse, per causa loro, tutto il popolo?”. E il Signore rispose: “Perdonerò a tutto il popolo per causa loro!”. Allora Abramo, come a voler giocare al ribasso5, disse: “E se ve ne saranno quarantacinque?”. “Lo stesso!”. “E se quaranta? E se trenta? E se venti? E se dieci?”. E il Signore rispose: “Non li sterminerò per causa di quei dieci!”. Poi il Signore se ne andò – ossia: non fu più visibile6 – dopo che ebbe terminato di parlare ad Abramo, e costui fece ritorno alla propria casa. [19,1-8] E i due angeli – quelli che si trovavano con il Signore, o altri secondo l’opinione di alcuni7 – giunsero a Sodoma sul far della sera, mentre Lot sedeva all’entrata della città in attesa dell’arrivo di un ospite8. Egli andò loro incontro, li adorò e chiese loro di sostare nella sua casa: e poiché quelli indugiavano, li costrinse con la forza. Essi vi entrarono ed egli preparò un banchetto, fece cuocere del pane azzimo, e mangiarono. Allora, gli uomini che vivevano in città, dal più giovane al più vecchio, presero la casa d’assedio, e dissero a Lot: “Porta qui fuori quegli uomini, in modo che possiamo unirci a loro!”. Ed egli: “Ho due figlie che ancora non hanno conosciuto uomo: fate di loro quel che vi piace, a patto che non facciate nulla di male a costoro che sono entrati sotto l’ombra del mio tetto!”. Era infatti consuetudine dei fedeli difendere i propri ospiti da qualunque tipo di oltraggio9. Quanto a ciò che egli disse, tuttavia, fu sconvolgimento dell’animo, non prudenza: è prudenza, certo, commettere un peccato meno grave per non essere costretti a commetterne uno più grave; in nessun modo, però, bisogna commet-
Le parole rivolte da Gesù alla donna adultera in Gv 8, 10-11. Lot è in verità nipote di Abramo, in quanto figlio di suo fratello Aram (cfr. al cap. 41). Poiché, tuttavia, Lot è anche fratello di Sara, moglie di Abramo, può darsi che qui il termine ‘fratello’ sia adoperato non in senso tecnico, ma nell’accezione segnalata dallo stesso Pietro Comestore al cap. 55, ossia come sinonimo, dalla valenza per così dire più affettiva, di ‘consanguineo maschio’. a
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tere un peccato meno grave, ma mortale, per evitare che qualcun altro ne commetta uno più grave10. [19,9-11] Ma quelli non vollero, e facevano pressione a Lot con violenza. Ed ecco che gli angeli fecero rientrare Lot e chiusero la porta. Quelli, invece, li colpirono con la cecità. Non con la privazione della vista, ma con l’aorisia, che in latino si può rendere con ‘incapacità di vedere’: affezione che fa sì che non si riesca a vedere, ma non tutto, bensì solo quanto non si deve vedere. Ne furono colpiti anche coloro che cercavano Eliseo, mentre egli si trovava insieme a loro; e anche i discepoli che cercavano il Signore sulla strada verso Emmausa11. Può darsi che si tratti di una condizione simile a quella in cui talora ci troviamo quando cerchiamo qualcosa che pure abbiamo tra le mani12. [19,12-14] E gli angeli dissero a Lot: “Fa’ uscire tutti i tuoi da questa città: questo luogo, infatti, lo distruggeremo!”. E Lot andò dai suoi generi e disse loro: “Alzàtevi e uscite: il Signore distruggerà questa città!”. Come afferma Girolamo, non bisogna prestare credito a chi sostiene che Lot abbia avuto, oltre alle figlie vergini poco fa menzionate, anche altre figlie che già avevano marito e che furono sommerseb insieme ai propri mariti; ma che qui vengono chiamati ‘generi’ i futuri generi: ragion per cui nel testo ebraico si legge ‘Lot andò dai promessi sposi’13. Costoro, tuttavia, non vollero uscire, poiché dicevano che Lot era solito parlare in quel modo14.
53. La liberazione di Lot da Sodoma [19,15-22] Il mattino seguente, poiché Lot indugiava ad uscire, gli angeli lo presero per mano e lo collocarono fuori dalla città insieme a sua moglie e alle sue figlie, e gli dissero: “Non voltarti indietro, ma cerca la salvezza sul monte!”. Ma Lot, che a causa del suo Si tratta degli episodi narrati rispettivamente in 2Re 6, 8-20 (cfr. in particolare ai vv. 18-19), ove il profeta Eliseo, incalzato dai nemici, prega il Signore che li colpisca di cecità e viene esaudito, e in Lc 24, 13-35 (cfr. in particolare al v. 16), ove Gesù risorto appare sulla via di Emmaus ai discepoli, che tuttavia non lo riconoscono. b Dalla pioggia di zolfo e di fuoco che distrusse Sodoma, s’intende: cfr. Gen 19, 24, e qui al cap. 53. a
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sconvolgimento non credeva ancora pienamente nel Signore1, disse: “Non riesco a salvarmi sul monte: temo che la sciagura mi possa raggiungere e che io debba morire!”. Può darsi che, essendo vecchio, aborrisse il freddo dei monti e la fatica del cammino2. E aggiunse: “Ma c’è qui vicino una piccola città: mi basta fuggire lì per essere salvo!’. E il Signore disse: “Non distruggerò la città di cui hai parlato!”. E perciò, dal momento che Lot aveva detto ‘piccola’, la città fu chiamata Segor, che significa ‘piccola’. {Ora è chiamata ‘Città della Palma’.} Gli Ebrei tramandano che questa città si chiamò prima Bala, e poi Salisa. In Isaia è detta ‘vitella di tre anni’a: fu inghiottita infatti dal terzo terremoto che si verificò dopo la sommersione delle altre quattro cittàb3. Per tutto il tempo che Lot vi si trattenne, la città fu perciò risparmiata dal Signore. Girolamo, però, riferisce che Lot, temendo i frequenti terremoti che colpivano la città, uscì e si stabilì sul monte4. [19,24] E così, dopo che Lot fu uscito da Sodoma, il Signore fece piovere su quelle città zolfo e fuoco. Il Signore fece piovere da se stesso: lui che è sulla terra da se stesso che è in cielo; colui che giudica da colui che governa5. Fece piovere queste sostanze in modo tale che la terra si inaridisse per sempre, senza alcuna speranza di germogliare ancora6. E così punì questi uomini in modo più pesante di quanto non avesse punito, per mezzo del diluvio, i primi peccatori (costoro, infatti, per quanto eccedessero nella misura, tuttavia peccavano, per così dire, secondo natura)7. E li sterminò dal primo all’ultimo, e anche i bambini a causa dei peccati commessi dai genitori: in tal modo, fece il loro bene, perché non avessero a seguire, rimanendo in vita più a lungo, l’esempio dei loro padri. Ed è già una buona cosa, per chi non è degno di gloria, non essere reo: a chi non può essere re giova infatti non essere povero8. a Cfr. Is 15, 5. Sulla base di quanto legge il testo della Vulgata in corrispondenza del riferimento scritturale, appunto vitulam conternantem («vitella di tre anni»), riteniamo qui indispensabile prendere le distanze dal testo dell’ed. A. Sylwan, che legge invece vitulam consternantem (lett. «vitella che costerna»), lezione peraltro insostenibile anche alla luce dell’esegesi proposta sùbito dopo. L’apparato segnala che conternantem è lezione attestata dai manoscritti S W Tp.c.. b Per i nomi delle altre quattro città della cosiddetta Pentàpoli, cfr. in apertura del cap. 46.
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[19,26] E la moglie di Lot, mentre si stava voltando indietro, fu tramutata in una statua di sale. Giuseppe sostiene di aver visto questa statua, e che essa si è conservata fino ai suoi tempi9. E così la regione fu trasformata in un lago di sale, sterile, che è detto ‘Mar Morto’ poiché in esso non vivono né pesci né uccelli, diversamente da quanto accade negli altri laghi. {Questo lago separa la Giudea dall’Arabia che fu, un tempo, quel deserto impervio e arido in cui i figli di Israele trascorsero quarant’anni.} Non si lascia solcare da imbarcazione, senza che essa non abbia immancabilmente a risalire tutta a galla (a meno che non sia rivestita di bitume) a causa degli uomini vivi al suo interno. Se vi si immerge un essere vivente in qualche modo, esso risale a galla. {Giuseppe riferisce che, a causa dell’estrema leggerezza dell’acqua, anche le moli più pesanti, qualora vi vengano buttate dentro, ritornano a galla. Per questo motivo Vespasiano ordinò che alcuni uomini vi fossero gettati in profondità con le mani legate dietro la schiena: e tutti, come respinti in alto dalla forza di un soffioa, galleggiavano in superficie.} Una lucerna accesa vi galleggia, ma spenta sprofonda. In molti punti, il lago butta fuori nere zolle di bitume: perciò è detto anche ‘Lago dell’Asfalto’ o ‘Lago di Asfaltide’. Si racconta, inoltre, che i frutti che crescono sugli alberi intorno al lago fino alla maturazione sono di colore verdeggiante; una volta maturi, se incisi, vi si troveranno all’interno faville di cenere: ragion per cui, come osserva Giuseppe, ciò che si racconta sulla terra di Sodoma è degno di fede10.
54. Le figlie di Lot concepiscono [19,30] Poi Lot, uscito da Segor, si stabilì sul monte, in una spelonca, e insieme a lui le sue due figlie. Il testo ricostruito da Sylwan legge in spiritus (in + accusativo plurale): l’espressione, tuttavia, non suona per nulla chiara in relazione al contesto del passo (forse «nei venti»?). La fonte dell’aneddoto (cfr. alla n. 10) legge vi spiritus, ossia «dalla forza di un soffio», sintagma calzante alla natura dell’evento in questione. Sebbene l’editrice non segnali alcunché nell’apparato critico, si ritiene necessario emendare il testo èdito e accogliere vi spiritus: si tenga presente che i monosillabi in e vi facilmente si prestano a confusione sotto il profilo paleografico. a
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[19,31-36] Le figlie di Lot avevano capito che, a causa del fuoco, il mondo si sarebbe estinto, e sospettarono che fosse accaduto quanto già era accaduto ai tempi di Noè, vale a dire che loro due fossero state mantenute in vita insieme al proprio padre per ridare vita al genere umano. Perciò si accordarono e, addolcendo per mezzo del vino la tristezza e il freddo del padre, l’una una notte e l’altra un’altra notte, sebbene ancor vergini, concepirono da lui, che tuttavia non se ne rese conto, né si unirono più a lui una seconda volta1. Questo passo, però, gli Ebrei lo espungono, come se narrasse qualche cosa di inverosimile: la natura non consentirebbe di unirsi a qualcuno che non ne è cosciente2. Oppure si sostiene che Lot non avrebbe riconosciuto sua figlia, credendo si trattasse di sua moglie3. Si sostiene anche che sarebbe impossibile, per una donna vergine, concepire al primo rapporto. Ragion per cui l’Anticristo si proclamerà figlio di vergine4. [19,37-38] E la figlia maggiore partorì un figlio e lo chiamò Moab, capostipite dei Moabiti. La minore partorì un figlio e lo chiamò Ammon, capostipite degli Ammoniti. Il nome Moab deriva dalla parola che significa ‘padre’: con questo nome la madre rese nota a tutti l’unione incestuosa con il proprio padre. Il nome Ammon significa ‘figlio del mio popolo’: la madre tenne così in parte nascosto l’accaduto, come ad intendere ‘è figlio di un uomo del mio popolo5’. Girolamo dice che le figlie possono essere scusate, poiché credettero che il genere umano si fosse estinto6; e dunque la loro pietà verso i posteri valse a scusare l’empietà dell’incesto7. Ciò, tuttavia, non vale a scusare il padre, poiché la sua mancanza di fiducia fu causa dell’incesto. A tal proposito, così sostiene Strabone: ‘Lot non è scusabile: anzitutto, perché non ha creduto di potersi salvare, secondo le parole dell’angelo, in Segor; in secondo luogo, perché si è ubriacato. E così il peccato fu, a sua volta, causa di peccato’8.
55. La punizione inflitta ad Abimelech a causa di Sara [20,1-2a] Abramo partì dalla Valle di Mambre1 diretto verso meridione, e si recò a Gerar, tra Cades (dove sgorgarono le acque della
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contesaa2) e Sur, fingendo che Sara fosse sua sorella, come già in precedenzab, spinto dal timore3. [20,2b] Ma Abimelech, re di Gerar, mandò a prendere la donna. E in ciò è degna di ammirazione la potenza della bellezza di colei che, sia pure novantenne, ancora poteva essere oggetto di amore4. Poi tuttavia − secondo quanto riferisce Giuseppe − il re si ammalò per volontà di Dio5, in modo tale che non avesse a sfiorare la donna6. [20,18] Al termine di questo capitoloc, invece, è indicato un altro tipo di punizione, vale a dire che Dio, a causa di Sara, aveva chiuso ogni ventre della casa di Abimelech: in modo tale, cioè, che nel frattempo nessuna donna nella sua casa potesse concepire. [20,3-7] Ma, mentre i medici ormai non nutrivano più speranze, addormentatosi7 Abimelech udì dal Signore che la causa di tutto ciò era la moglie di un forestiero. E il Signore gli ordinò di restituire la moglie al marito, poiché costui era un profeta e avrebbe pregato per lui e così sarebbe rimasto in vita. [20,8-12] Poi si svegliò all’improvviso e chiamò i suoi servi. Fece chiamare anche Abramo e gli disse: “Che cosa mi hai fatto? Che cosa hai visto per farmi questo?”. E Abramo: “Ho creduto che non ci fosse timore di Dio in questo luogo, e che mi avrebbero ucciso a causa di mia moglie. D’altra parte, però, lei è davvero anche mia sorella, figlia del padre…”d. Qui s’interpunga: del proprio padre, cioè. Segue a Si allude all’episodio narrato in Num 20, 1-13: l’acqua è detta ‘della contesa’ poiché fatta sgorgare da una pietra, come gesto dimostrativo, da Mosè per ordine di Dio, dopo che il popolo d’Israele aveva conteso con Aronne e con lo stesso Mosè a causa della mancanza di acqua, dimostrando in tal modo mancanza di fiducia nel Signore. b Il riferimento è alla precedente discesa di Abramo e Sara in Egitto: cfr. Gen 12, 10-20, e qui al cap. 45. c Del capitolo biblico, s’intende. d In corrispondenza di questo punto testuale, la Vulgata legge alias autem et vere soror mea est filia patris mei et non filia matris meae, alla lettera «d’altra parte, però, lei è davvero anche mia sorella, figlia di mio padre e non figlia di mia madre»: tale affermazione di Abramo sembra fare a pugni con i rapporti di parentela segnalati nel contesto di Gen 11, 27-30 (cfr. qui al cap. 41 e relativa n. 13), ove Sara è indicata quale figlia di Aram, primogenito di Thare e fratello di Abramo, e perciò nipote (non sorella) dello stesso Abramo. Ciò premesso, il motivo per cui il nostro autore spezza la citazione – riprendendola soltanto poi per intero – è appunto l’esigenza di inframmezzarvi fin da subito opportuni interventi esplicativi. Per agevolare la com-
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“…mio”: e tuttavia s’intenda ‘del padre mio’ vale a dire ‘che è mio – sottinteso – fratello’. Oppure: “… figlia di mio padre e non di mia madre”, e il senso è: è mia nipote, e mia consanguinea dalla parte di mio fratello e non dalla parte di mia sorella. Infatti un’altra traduzione rende: ‘È mia sorella da parte di suo padre e non di sua madre’. Come infatti erano soliti chiamare ‘fratelli’ i consanguinei maschi, così pure ‘sorelle’ le consanguinee femmine. E chiamò ‘padre’ suo fratello Aram poiché costui era più vecchio di lui, secondo quel modo di esprimersi per cui usiamo chiamare ‘padri’ i più anziani e ‘figli’ i più giovani di noi. E, poiché solitamente l’affetto è più degno e più grande verso chi ci è parente attraverso un uomo rispetto a quanto non lo sia verso chi ci è parente attraverso una donna, chiamò colei che gli era parente attraverso un uomo con un nome più degno, ossia ‘sorella’ in luogo di ‘nipote’8. Oppure Abramo finse che Sara fosse figlia di suo padre. E tuttavia non si può dire che abbia mentito: così come non mentì il Signore allorché finse di proseguire il camminoa. A maggior ragione, non ha mentito dal momento che si crede che abbia detto ciò per ordine del Signore. In tal modo, si fece portavoce delle parole del Signore e, come Eliseo, si nascose agli occhi di chi non lo conoscevab. Alcuni, tuttavia, sostengono che Thare, morta la madre di Abramo e morto Aram, abbia sposato la vedova di suo figlio e abbia generato Sara: che perciò è detta qui essere figlia di Thare secondo la carne, prensione delle righe che seguono, anticipiamo che le letture esegetiche proposte a chiarimento delle parole di Abramo sono due, nessuna delle quali trova completo riscontro nelle fonti (si registrano al più singoli spunti concettuali: cfr. le note di commento al testo); l’esegesi è condotta attraverso una peculiare tecnica che si potrebbe definire ‘per approssimazione progressiva’ e che verosimilmente risente del metodo perfezionato dalla filosofia scolastica: si parte da un dato testuale, che glossato diventa a sua volta il punto di partenza per un’ulteriore glossa o precisazione, e così via, con il risultato che talora si fatica a seguire nel dettaglio la logica del ragionamento. a Cfr. Lc 24, 28: si allude all’episodio, già menzionato al cap. 52, dell’incontro tra Gesù risorto e i discepoli sulla via di Emmaus; Gesù finge di voler proseguire il cammino, ma quelli lo trattengono insieme a loro (pregandolo con le parole mane nobiscum quoniam advesperascit, ossia «resta con noi perché si fa sera») e, mentre si trovano a tavola, Gesù spezza il pane, pronuncia la benedizione, lo distribuisce, e viene perciò riconosciuto (vv. 30-31). b Cfr. 2Re 6, 8-20 (cfr. in particolare ai vv. 18-19): anche a quest’altro episodio si era già accennato al cap. 52 (cfr. p. 165, n. a).
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e sopra invece figlia di Aram secondo la rinascita del seme (Aram, infatti, aveva lasciato un solo figlio maschio)9. [20,17] Poi Abramo pregò per Abimelech e costui fu guarito, e sua moglie e le sue serve tornarono a generare. [20,14-16] E Abimelech consegnò ad Abramo doni e una terra dove poter abitare a proprio piacimento. A Sara, invece, disse: “Ecco, io ho dato a tuo fratello per te mille denari d’argento: ti faranno da velo sugli occhi di fronte a coloro che sono con te!”. Il senso è: in ricordo della tua vergogna, poiché sei stata còlta in flagrante a mentire10. E infatti aggiunge, come per spiegare11: “E, ovunque andrai, ricòrdati che sei stata còlta in flagrante!”. Oppure è un modo elegante per deriderla: ‘ti faranno da velo sugli occhi’ nel senso di ‘in preparazione del tuo funerale’; come a dire: sei vecchia e si avvicina per te il momento del funerale, e tuttavia hai mentito e ingannato; prendi dunque questo denaro per le spese del tuo funerale! (che era consuetudine venisse celebrato con grandi spese, specie dai Giudei)12. Oppure: per comperare dei veli che ti coprano il volto, in modo tale che nessuno possa amarti13!
56. Il gioco di Isacco e Ismaele [21,1-2] Il Signore visitò Sara, ed ella concepì e partorì un figlio. [21,4] E Abramo lo circoncise dopo otto giorni. Perciò dopo altrettanti giorni i Giudei effettuano la circoncisione; gli Arabi, invece, la effettuano dopo tredici anni, poiché allora fu circonciso Ismaelea, capostipite del loro popolo1. [21,3] E lo chiamò Isacco, che significa ‘riso’ poiché il Signore aveva suscitato riso ai suoi genitori, ossia una gioia inopinatab. [21,8] Il bambino crebbe e all’età di tre anni fu svezzato. Quel giorno, il padre organizzò un grande banchetto, poiché allora per la prima volta il figlio prese parte alla mensa del padre2. Cfr. Gen 17, 25, e qui in conclusione del cap. 50. Pietro Comestore ribadisce qui l’etimologia del nome, già segnalata al cap. 50, e ne rammenta la motivazione con riferimento al riso di Abramo in Gen 17, 17 (qui al cap. 50) e di Sara in Gen 18, 12 (qui al cap. 51). a
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[21,9] Poi, mentre Isacco e Ismaele giocavano insieme, il maggiore faceva del male al minore. E la madre intuì nel gioco una persecuzione: vale a dire che, una volta morto il padre, il maggiore avrebbe voluto dominare sul minore3. Oppure, come tramandano gli Ebrei, Ismaele lo costringeva ad adorare delle immagini di fango che aveva plasmato4. [21,10-19] La madre, contrariata, disse ad Abramo: “Caccia via l’ancella e suo figlio!”. Abramo accolse duramente queste parole, e faceva finta di nulla. Ma il Signore gli disse: “Presta ascolto a Sara!”. E così egli, presi del pane e un otre d’acqua, li pose sulle spalle di Agar e le affidò il ragazzo. Poi, quando nel deserto l’acqua si fu esaurita e il ragazzo era stremato per la sete, la madre lasciò il ragazzo sotto un albero e si sedette lontano, alla distanza di un tiro d’arco, per non vedere suo figlio morire, e pianse. E Dio udì la voce del ragazzo; ossia: udì il pianto della madre per il ragazzo5. E un angelo disse alla madre: “Àlzati e prendi il ragazzo!”. E Dio le aprì gli occhi, ed ella vide un pozzo e diede da bere al ragazzo; poi, riempito l’otre, partì da quel luogo. [21,20-21] Il ragazzo crebbe, e dimorò nel deserto di Phara, e divenne un arciere. E la madre gli prese una moglie dalla terra d’Egitto. Da essa gli nacquero dodici figli, capi delle rispettive tribù e dal cui nome ricevono lustro città, villaggi e tribù: dal nome del primogenito Nabaioth, è detta Nabathea la parte di Arabia che si estende tra l’Eufrate e il Mar Rosso; da Cedar, il secondogenito, prende il nome Cedar, che si trova nel deserto; da Duma, il sesto, la regione di Duma; da Thema, il nono, Theman a meridione; da Cethma, l’ultimo, Cedema a oriente6.
57. Il patto tra Abramo e Abimelech [21,22-31] A quel tempo Abimelech, vedendo che la condizione di Abramo prosperava, ebbe timore di lui1. E andò da lui con Phicol, il capo del suo esercito, e gli disse: “Giurami in nome di Dio che non arrecherai danno né a me né ai miei posteri, ma che ti comporterai sempre bene verso di me come io mi sono comportato verso di
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te”. E Abramo li condusse presso un pozzo: quello che Dio aveva mostrato ad Agara; e che era stato scavato da Abramo prima che Agar fosse cacciata, ma che poi i servi di Abimelech avevano sottratto ad Abramo, che lo aveva costruito nel deserto per abbeverare le greggi quando si fossero trovate a pascolare nel deserto, lontano dalla sua dimora2. E Abimelech gli restituì il pozzo. Ma Abramo, a testimonianza del fatto che aveva scavato lui il pozzo e che Abimelech, dopo averglielo sottratto, glielo aveva restituito, consegnò al re sette agnelle. E quel pozzo lo chiamò Bersabee, ossia ‘il settimo pozzo’: in ebraico infatti sabee significa ‘sette’. E in quel luogo i due strinsero il loro patto, e perciò vi è chi ritiene che il pozzo sia stato chiamato Bersabee, ossia ‘pozzo del giuramento’: in ebraico infatti ‘giuramento’ si dice sabee3. Secondo Giuseppe, invece, il nome Bersabee significa ‘giuramento del pozzo’4. Dal pozzo, anche la regione circostante trae il nome di Bersabee. [21,33-34] Poi Abramo piantò degli alberi presso il pozzo5 e vi soggiornò come colono per molti giorni. Non come abitante: Stefano, infatti, negli Atti degli Apostoli dice che lì Abramo non ricevette né un’eredità né lo spazio di un piedeb6.
58. Il sacrificio di Isacco [22,-1-2] Poi, mentre Abramo abitava in Bersabee e Isacco, come scrive Giuseppe, aveva 25 anni1, il Signore gli disse: “Prendi con te Isacco, il tuo figlio unigenito da te amato, e va’ nella Terra della Visione, e offrimelo in olocausto sul monte che ti mostrerò!”. E chiamò ‘Terra della Visione’ la parte montuosa della Giudea, perché può essere vista da lontano e da essa si può vedere lontano2. Isaia la a Cfr. Gen 21, 19 (qui al precedente cap. 56). Vale la pena di osservare che, nel contesto del precedente episodio, il luogo di sosta di Agar e Ismaele è indicato da Gen 21, 14 come «il deserto di Bersabee»: il toponimo, tuttavia, verrà attribuito al luogo proprio in occasione dell’incontro in oggetto tra Abramo e Abimelech (cfr. infra); sicché può darsi che Pietro Comestore non lo abbia là riportato onde evitare l’anacronismo. b Cfr. Atti 7, 5, nel contesto del discorso in cui Stefano, il futuro protomartire, ripercorre le tappe del percorso del popolo d’Israele verso la salvezza.
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chiama ‘Valle della Visione’a. Sulla sommità dei monti della Giudea c’era un monte più alto, chiamato Monte Moria, che Dio mostrò ad Abramo per l’immolazione del figlio. Gli Ebrei tramandano che, in epoca successiva, su questo monte fu costruito il tempio, e che l’altare fu costruito nel luogo in cui anche Abramo aveva costruito l’altare, e dove David vide l’angelo deporre la spada nello spiazzo di Ornam il Gebuseob3. Disse infatti Isaia: Ci sarà un monte sulla sommità dei monti, e i popoli tutti vi confluirannoc. Perciò il Signore prescrisse anche ai Giudei che non gli offrissero sacrifici in ogni luogo, ma soltanto nel luogo che avesse indicato lorod. [22,3-4] Dunque Abramo, levàtosi di notte e non rivelando a nessuno quanto aveva intenzione di fare4, sellò l’asino, prese con sé due servi e suo figlio, e camminò per due giorni. Il terzo giorno, levàti gli occhi, vide da lontano il luogo. Ciò vale a riprova del fatto che a torto alcuni hanno sostenuto che a quel tempo Abramo abitasse tra Bethel e Haie: luogo che, invece, dista dal Monte Moria nemmeno un giorno di cammino5. [22,5-9] Poi Abramo, dopo aver preso la legna e il fuoco e aver lasciato a valle i servi con l’asino, salì da solo insieme a suo figlio. E il figlio gli chiese: “Qui ci sono il fuoco e la legna; ma dov’è la vittima?”. E il padre: “Dio si procurerà da sé la vittima!”. E collocò l’altare e, sistemata la legna, accese il fuoco. Giuseppe riferisce anche le parole rivolte dal padre al ragazzo: gli disse che, come per Cfr. Is 22, 1. Si tratta del tempio e dell’altare di Gerusalemme, la cui costruzione fu intrapresa dal re David e poi portata a compimento da suo figlio Salomone: cfr. 1Cron 22 e 2Cron 3-7. L’episodio ambientato nello spiazzo di Ornam il Gebuseo, cui si accenna nel nostro testo, prelude appunto alla decisione da parte di David di costruire il tempio: mentre la pestilenza imperversa sul popolo d’Israele, reo di peccato, e un angelo di Dio si appresta a distruggere con la spada Gerusalemme, il re David costruisce un altare nello spiazzo di Ornam, sicché l’ira di Dio si placa e viene ordinato all’angelo di deporre la spada (cfr. 1Cron 21, 7-30). c Cfr. Is 2, 2. d Il riferimento è con ogni probabilità a Deut 12, 13-14, nell’àmbito delle prescrizioni relative ai luoghi del culto: cave ne offeras holocausta tua in omni loco quem videris, sed in eo quem elegerit Dominus («guàrdati dall’offrire i tuoi olocausti in ogni luogo che vedrai, ma offrili soltanto nel luogo che il Signore avrà scelto»). e Il luogo, cioè, in cui Abramo aveva fissato la tenda appena giunto nella terra di Chanaan: cfr. Gen 12, 8 (qui al cap. 44) e Gen 13, 3 (qui al cap. 45). a
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volontà di Dio era venuto al mondo in modo eccezionale, così pure per volontà di Dio doveva andarsene in modo eccezionale; e che il Signore lo aveva giudicato degno non di terminare la vita a causa di una malattia, o di una guerra, o di qualche altra vicissitudine umana, ma chiamava a sé la sua anima con preghiere e sacrifici; e lo avrebbe resuscitato per adempiere le sue promesse. E perciò Isacco, spontaneamente, si accostò all’altare e alla morte6. A tal proposito, Alcuino dice: ‘Con animo saldo voleva sacrificare il figlio: è da lodare per la sua costanza nell’offrire il figlio e per la sua fede nel fatto che sarebbe risorto’7. [22,10-12] Tuttavia, non appena ebbe afferrato la spada per immolare il figlio, un angelo gli gridò: “Non stendere la mano sul ragazzo! Ora so che hai timore del Signore!”. Il Signore, infatti, non era assetato del sangue del ragazzo8, ma di sapere quanto Abramo avesse timore del Signore. [22,13] E Abramo vide alle sue spalle un ariete impigliato con le corna tra i cespugli, e lo offrì al posto del figlio. Il testo ebraico legge ‘tra i virgulti sabec impigliato con le corna’, ove sabec indica un tipo di virgulto9. Qui Eusebio sbagliò nell’affermare che il termine sabec indicasse un capro alzato sulle zampe per afferrare le fronde10: e perciò indicò con sabec l’ariete, come fosse, cioè, un capro alzato sulle zampe. E Rabano sostiene che esso non fu creato dal nulla, ma che l’angelo lo portò lì da qualche altro luogo11. [22,14] E diede a quel luogo il nome di ‘ il Signore vede’. E ancora oggi i Giudei, quando si trovano in difficoltà, a mo’ di proverbio12 usano dire ‘sul monte il Signore vedrà’: come rivolse il suo sguardo ad Isacco sul monte, così possa rivolgere il suo sguardo anche a noi che ci troviamo in questa difficoltà. Secondo gli Ebrei, il giorno della liberazione di Isacco cade il primo di settembre: in questo giorno, perciò, fanno festa e suonano con i corni in ricordo dell’ariete13. [22,15-18] Poi il Signore giurò in nome di se stesso che avrebbe moltiplicato la stirpe discesa da Isacco e che le avrebbe consegnato una terra. [22,19-24] Il giorno seguente, Abramo si rimise in viaggio e fece ritorno in Bersabee. E gli fu data notizia che Melcha aveva partorito a suo fratello Nachor otto figli: il primogenito Hus, dalla
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cui stirpe discende Giobbe, come è scritto: Nella terra di Hus viveva un uomo di nome Giobbea; e suo fratello Buz, dal cui nome e dalla cui stirpe discende Balaam, che, secondo gli Ebrei, nel Libro di Giobbe è chiamato Heliu il Buzitab. Sbaglia perciò chi sostiene che Giobbe discenda dalla stirpe di Esaù: ciò che infatti si legge al termine del suo libroc, ossia che il libro è stato tradotto dalla lingua sira e che Giobbe è il quarto in ordine di discendenza da Esaù, il testo ebraico non lo riporta14. Dalla concubina Roma, Nachor aveva avuto invece quattro figli.
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[23,1-20]1 Abramo fece poi ritorno nella Valle di Mambre2. E Sara morì all’età di 127 anni, e fu sepolta a Hebron nella spelonca duplice che Abramo acquistò al prezzo di 400 sicli d’argento da Ephron, grazie all’intermediazione degli Ethei, ossia del popolo di quella terra. La spelonca duplice era una roccia che conteneva al suo interno, in modo naturale oppure per via artificiale, due distinte spelonche. Abramo la acquistò per la sepoltura della sua stirped: nella spelonca posta più in alto erano sepolti gli uomini, in quella più in basso le donne3. Nel medesimo luogo, tuttavia, erano già stati sepolti Adamo ed Evae. Né Abramo commise peccato acquistando il luogo, né lo commise Ephron vendendolo: così come oggi non commette peccato chi comperasse un campo per usarlo come luogo di sepoltura4. A meno che, per caso, non si voglia sostenere che abbiano peccato perché in quel luogo erano sepolti i primi uomini plasmati da Cfr. Giob 1, 1. Cfr. Giob 32, 2: si tratta del personaggio che obietta incollerito ai discorsi di Giobbe e dei suoi tre amici. c Non, tuttavia, nel testo della Vulgata: cfr. alla n. 14. d Al cap. 95, si segnalerà che il luogo è appunto noto con il nome ‘Abramio’. e Sulla sepoltura di Adamo ed Eva nella spelonca duplice, cfr. già al cap. 25 (ma erroneamente collocata presso Damasco: cfr. p. 114, n. b); sulla sepoltura di Adamo ed Eva nei pressi di Hebron, cfr. invece al cap. 45. a
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Dio5. Girolamo, invece, sostiene che Ephron sia degno di biasimo e che perciò il suo nome fu mutato da Ephron in Ephran6.
60. Eliezer [24,1-4;8-9] Abramo era ormai vecchio, e disse a Eliezera, l’amministratore della sua casa: “Metti la tua mano sotto la mia coscia: e giurami, in nome del Dio di cielo e terra, che non prenderai per mio figlio Isacco una moglie tra le figlie dei popoli in mezzo ai quali io abito, ma che andrai dalla mia parentela e lì gli prenderai una moglie. Ma se nessuna donna tra loro ti vorrà seguire, allora non sarai più vincolato a questo giuramento!”. E il servo giurò, ponendogli la mano sotto la coscia. Gli Ebrei tramandano che abbia giurato sul segno della consacrazione di Abramo, ossia sulla sua circoncisione. Tuttavia, poiché è scritto ‘sotto la coscia’, siamo dell’opinione che abbia giurato sulla stirpe di Abramo, ossia su Cristo, che Abramo sapeva destinato a nascere dalla propria stirpe1. Ragion per cui disse: “Giurami, in nome del Dio di cielo e terra”2. Quanto al fatto che volle che la mano fosse posta sotto la coscia, ciò sta ad indicare che la carne di Cristo era destinata a stare al di sopra di ogni altra carne3. [24,10-14] E così Eliezer prese dieci cammelli, e partì portando con sé un po’ di tutti i beni del suo padrone, specie quelli che sapeva essere rari nella terra verso cui si stava recando4. E si diresse in Mesopotamia, a Charan, la città di Nachor. Giuseppe riferisce che il viaggio gli costò molto tempo e molta fatica, poiché in Mesopotamia durante l’inverno il fango è profondo, e durante l’estate manca l’acqua, e nei boschi ci sono i predoni5. Fece poi sedere i cammelli presso il pozzo che si trovava all’ingresso della città, poiché non voleva farveli entrare senza che si fossero abbeverati6. Poi, quando sul far della sera le donne uscirono ad attingere l’acqua, egli pregò il Signore di poter trovare tra di esse una moglie per il Il nome proprio dell’amministratore è aggiunto sulla base di quanto riportato al cap. 48, in corrispondenza di Gen 15, 2: nel merito di tale indicazione, si rimanda tuttavia alla relativa p. 154, n. c. a
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suo padrone, se davvero una di quel popolo era destinata al suo padrone; e pregò di poterla riconoscere grazie al fatto che, nel momento in cui lui avesse richiesto dell’acqua, proprio quella donna gliel’avrebbe offerta, mentre tutte le altre gliel’avrebbero negata7. [24,15-24] Ed ecco Rebecca, figlia di Batuel, era scesa e aveva riempito il vaso. E, mentre le altre donne ignoravano il forestiero, ella gli offrì acqua8. Poi aggiunse: “Perché non attingere acqua anche per i tuoi cammelli?”. E versò negli abbeveratoi l’acqua che aveva attinto e diede da bere ai cammelli. Quello, dopo averla osservata in silenzio, per capire se fosse la donna giusta per il suo padrone, le chiese di chi fosse figlia e se ci fosse per lui, nella casa di suo padre, un posto dove poter sostare. Appurato che era figlia di Batuel, figlio di Nachor e di Melcha, e sorellaa di Labano, tirò fuori orecchini d’oro e braccialetti, e glieli donò9. [24,28-33] La fanciulla andò di corsa a casa della madre e annunciò quanto aveva udito. Poi Labano uscì, e fece entrare quell’uomo in casa; tolse la sella ai cammelli e diede loro paglia e fieno; poi lavò i piedi degli ospiti e offrì loro del pane. Ma Eliezer non volle mangiarne fino a che non avesse riferito loro le parole per cui era giunto lì. [24,34-49] E così, dopo aver riferito di essere servo di Abramo, loro fratello, e dopo aver elogiato Abramo sotto molti riguardi, espose loro la richiesta di Abramo, il giuramento che lui stesso gli aveva prestato, e la sua preghiera presso il pozzo esaudita dal Signore10. [24,50-51] E Labano e Batuel gli risposero: “È dal Signore, che è uscito il discorso!”; s’intenda: il discorso di Abramo e la tua preghiera. E ancora: “Non possiamo risponderti nulla che vada contro il Suo placito! Ecco, tu hai qui di fronte a te Rebecca: prendila e sia a Il testo dell’ed. A. Sylwan legge filia Batuelis, filii Nachor et Melche, sororis Laban, ossia «figlia di Batuel, costui figlio di Nachor e di Melcha, costei sorella di Labano»: la lezione sororis, al genitivo, è insostenibile poiché è lo stesso testo biblico, poco oltre, a dichiarare inequivocabilmente che Labano è fratello di Rebecca, e non di Melcha (cfr. Gen 24, 19: habebat autem Rebecca fratrem nomine Laban, ossia «Rebecca aveva un fratello di nome Labano»). È perciò necessario emendare il genitivo sororis, verosimilmente un errore per persistenza data la serie di genitivi che precede, in un nominativo soror, coordinato a filia. La stessa Sylwan, peraltro, segnala in apparato che la lezione soror è attestata da S β γ.
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la moglie del tuo padrone!”. Si osservi, però, che Giuseppe riferisce che Batuel era già morto, e che la fanciulla, ancor vergine, era sotto la custodia della madre e del fratello; e che era stata la fanciulla stessa ad anticipare la notizia della morte del padre al servo, allorché costui le chiese presso il pozzo di chi fosse figlia11. Ma anche Mosè, fino a questo punto del testo, sembra voler intendere che la fanciulla non avesse già più il padre, allorché, poco sopra, aveva scritto: ‘La fanciulla andò di corsa a casa della madre’. Qui, invece, forse la madre è indicata con il nome del padre perché ora ha reso noto il mandato del padre, lasciato alla moglie prima di morire, circa la consegna in sposa della figlia: può darsi, infatti, che avesse lasciato detto di consegnarla in sposa ad un uomo della propria famiglia12. [24,52-59] Udite queste parole, il servo di Abramo adorò il Signore, che aveva guidato il suo viaggio, e tirò fuori vasi d’oro e d’argento e vesti, e li consegnò a Rebecca, e poi doni anche per la madre e il fratello di lei. Il mattino seguente, il servo si svegliò e chiese di poter essere congedato, adducendo a pretesto il ritardo accumulato durante il viaggio e la vecchiaia del suo padrone13. E, pur avendogli quelli domandato di restare presso di loro per altri dieci giorni, egli rifiutò. E quelli dissero: “Allora chiamiamo la ragazza, e chiediamole quale sia la sua volontà!”. Quando le chiesero se volesse partire, ella rispose: “Vado!”. E qui, per la prima volta, si legge che fu richiesto il consenso da parte della donna: e perciò da allora fu stabilito per legge che venisse richiesto14. Ed essi la lasciarono partire.
61. L’arrivo di Rebecca [24,62-63] A quel tempo, Isacco abitava a Gerar1 e si trovava per caso a camminare per la via che conduce al ‘Pozzo di colui che è vivo e che vede’a. Era infatti uscito a meditare in campagna: forse pensando al ritardo del suo servo2. Un’altra lezione rende ‘ad operare’:
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Il pozzo così chiamato da Agar in Gen 16, 14 (cfr. al cap. 49).
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forse lavorando nei campi o adoperandosi per portare a termine un qualche lavoro3. [24,64-67] Rebecca, dopo aver visto Isacco ed aver saputo che era l’uomo a lei destinato, scese dal cammello4 e, afferrato un teristro o un mantello bianco5, si coprì e si riassettò. Il teristro è un tipo di veste femminile araba. Poi Isacco la fece entrare nella tenda che era appartenuta a sua madre, e la amò a tal punto da temperare il dolore che lo aveva colpito dopo la morte della madre.
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62. Abramo muore dopo aver generato una prole da Cethura [25,1] Abramo prese un’altra moglie, il cui nome era Cethura. Gli Ebrei sostengono che Cethura sia un soprannome dal significato di ‘congiunta’: dicono infatti che costei fosse Agara, la quale, dopo la morte di Sara, passò dallo stato di concubina a quello di moglie, ossia da ‘non congiunta’ a ‘congiunta’; ciò in modo tale che Abramo, ormai vecchio, non avesse ad incorrere nell’accusa di lascivia a motivo delle nuove nozze1. Giuseppe riferisce anche che Abramo la prese in moglie prima di aver mandato a prendere una moglie per il figlio2. [25,2; 5-6] Cethura partorì ad Abramo sei figli3. Per una donna giovane, infatti, è possibile generare da un uomo vecchio4. Abramo, mentre ancora era in vita, li separò da Isacco, indirizzandoli verso oriente. E tutti i beni che aveva posseduto li consegnò a Isacco; agli altri figli, invece, consegnò dei doni. Tuttavia, i figli di Cethura si diedero il nome di Saraceni, dal nome di colei che era donna di condizione libera5. Essi conquistarono dapprima la Traconitideb e l’Arabia Felicec, fino ai confini del Mar Rosso. Giuseppe riferisce che da uno di loro nacque Opher, che si stanziò in Libia, terra in cui abitarono i suoi posteri e che chiamarono Africa6. Giuseppe, A questa tradizione ebraica si accennerà di nuovo al cap. 82. Storpiatura in luogo di Trogloditide, antica regione della penisola arabica così chiamata dal nome di un popolo che viveva ancora nelle caverne (i cosiddetti Troglodìti: dal gr. τρώγλη, «caverna»). c Con l’appellativo di Arabia Felix, gli antichi designavano la regione meridionale della penisola arabica. a
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inoltre, segnala che il profeta Cledeo, detto anche Malcho, avrebbe scritto una storia dei Giudei, proprio come fece lo stesso Mosè. E riferisce che Cledeo avrebbe sostenuto che da uno dei figli di Cethura, di nome Surim, derivò il suo nome la Siria; e che da un altro, di nome Apheram, derivò il suo nome l’Africa; e che, quando Apheram scese in Libia, Ercolea gli portò aiuto e ne prese in moglie la figlia, di nome Ethea, da cui generò Dodorim, che ebbe per figlio Phoron7. [25,7-10] I giorni di Abramo furono 175 anni. Poi morì e fu ricongiunto al suo popolo: nel seno dell’infernob. E Ismaele e Isacco lo seppellirono nella spelonca duplice insieme a sua mogliec.
63. La nascita dei regni1 Nell’undicesimo anno della vita di Abramo, morì Ninod. La cui moglie Semiramide, per poter regnare dopo di lui, si sposò con il proprio figlio, avuto da Nino, e generò da lui un figlio. Semiramide ampliò anche la città di Babilonia. Abramo aveva 75 anni allorché gli fu fatta la promessae. All’età di 86 anni gli nacque Ismaelef. All’età di 100 anni gli nacque Isaccog. All’età di 137 anni gli morì Sarah.
a Il noto eroe della mitologia greca: si osservi il sincretismo tra storia ebraica e storia-mito greci. b Luogo di cui il nostro autore offrirà dettagliata spiegazione al termine del cap. 82. c Ossia a Sara: cfr. Gen 23, 19, e qui al cap. 59. d Sulla figura di Nino, cfr. al cap. 40. e Verosimilmente la prima promessa fatta da Dio ad Abramo: cfr. Gen 12, 7 (qui al cap. 44); la medesima indicazione anagrafica si legge infatti poco prima, in Gen 12, 4 (qui al cap. 43). f Cfr. Gen 16, 16, e qui al cap. 49. g Cfr. Gen 21, 5 (nel nostro testo, il dato è desumibile dal finale del cap. 50). h Il dato anagrafico si ricava dall’incrocio dei dati segnalati in Gen 21, 5; 17, 17 (cfr. qui al cap. 50: alla nascita di Isacco, Abramo ha 100 anni e Sara 90); 23, 1 (cfr. qui al cap. 59: Sara muore all’età di 127 anni): dal momento che Abramo e Sara hanno 10 anni di differenza, risulta che, al momento della morte di Sara, Abramo aveva appunto 137 anni.
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Il regno degli Assiri nacque sotto Belo, nel venticinquesimo anno della vita di Sarug, bisnonno di Abramoa, e si protrasse fino al settimo anno di Ozia, re di Giudab: per una durata complessiva di 1302 anni e per un totale di 37 re fino a Sardanapaloc, colui che per primo introdusse l’uso dei banchetti sacri. Dopo costui, il regno passò nelle mani dei Medi. Il regno dei Sicioni nacque sotto Egialeod, nel ventiquattresimo anno della vita di Nachor, nonno di Abramo, e si protrasse fino al diciassettesimo anno di Heli, sacerdote e giudice di Israelee: per una durata complessiva di 961 anni e per un totale di 31 re fino a Zeusippof. Dopo costui, furono giudici della Sicionia i sette sacerdoti Carniig. La Sicionia è la regione che in precedenza si chiamò Apia e poi Peloponneso. Fino alla nascita di Abramo c’erano già state in Egitto 15 dinastie: gli Egizi chiamano ‘dinastia’ il sommo potere. A partire dalla nascita di Abramo, detennero la 16a dinastia i Tebeih; la 17a dinastia i Pastori, ossia re che furono così chiamati; la 18a dinastia i Diopolitanii, detti anche Faraoni, per un totale di 16 re. Le dinastie, poi, sono mutatej, passando spesso dalle stirpi di alcuni re Cfr. già al cap. 40. Su Ozia, cfr. 2Cron 26: gli studi di cronologia biblica ne collocano il regno intorno alla prima metà dell’VIII sec. a.C. c Leggendario re assiro, che la tradizione ritrae quale uomo ricchissimo e dai costumi dissoluti. d Nella mitologia greca, uno dei cosiddetti Epigoni: la seconda generazione che, per vendicare la morte dei propri padri, riprese la guerra contro la città di Tebe. e La figura di Heli compare in 1Sam 1-4: gli studi di cronologia biblica ne collocano le cariche alla fine del II millennio a.C. f Re di Sicione di cui nulla si sa. g Cosiddetti da ‘Carneo’, epiteto del dio Apollo. h Ossia la dinastia originaria di Tebe città dell’Egitto: cfr. al cap. 93. i Dinastia originaria della città egizia il cui nome antico fu Diospolis, alla lettera “Città di Zeus”. j Il testo èdito da Sylwan legge qui Varietate autem sunt dynastie, etc., ove l’ablativo varietate (da varietas, «varietà») non consente di dare alla frase un senso davvero plausibile (l’unica soluzione cui si potrebbe pensare è una sorta di ablativo di qualità: «Le dinastie, inoltre, sono caratterizzate da varietà»). L’apparato critico non segnala nulla, sicché non è dato comprendere se tale lezione sia quella in effetti attestata dai manoscritti presi in esame oppure un semplice refuso in luogo del participio perfetto variatae («variate», «mutate»), che conferirebbe alla frase un a
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ad altre stirpi: fino a Cambise, figlio di Ciro, sotto il quale per la prima volta i Persiani regnarono sull’Egitto2.
64. La morte di Ismaele [25,17] Ismaele visse 137 anni e poi morì. Gli Ebrei tramandano che morì di dissenteria1. [25,18b] Morì in presenza di tutti i suoi fratelli: vale a dire in presenza dei suoi figli che ancora erano in vita2. [25,18a] I suoi posteri abitarono la terra che da Evila si estende fino a Sur. Evila è l’India, così chiamata da Evila, nipote di Noè; Sur è la zona desertica tra Cades e Barad, attraverso la quale il deserto si estende fino al Mar Rosso e fino ai confini dell’Egitto3.
65. Il travaglio di Rebecca durante il parto dei gemelli La storia prosegue con Isacco. [25,20-22a] Isacco aveva 40 anni quando prese in moglie Rebecca, che rimase sterile per lungo tempoa. Ma Isacco, che era a conoscenza della promessa fatta a suo padre di moltiplicare la sua stirpe proprio per mezzo di luib, pregò il Signore di portare a compimento quanto aveva promesso1. E la donna concepì, portando nel grembo due gemelli. Quando però si trovava ormai prossima al parto, i bambini si scontravano nel suo grembo. I Settanta hanno reso ‘giocavano’ o ‘scalciavano’; Aquila ‘si urtavano’; senso perfettamente calzante al contesto («Le dinastie, poi, sono mutate, etc.»): scegliamo di tradurre accogliendo quest’ultima lezione. a Sebbene anche Gen 25, 21 accenni alla sterilità di Rebecca, Pietro Comestore anticipa qui, ad uso del lettore, un ulteriore dato che il testo biblico lascia intuire soltanto nel prosieguo: cfr. Gen 25, 26, ove si dice che Isacco divenne padre all’età di 60 anni; essendosi sposato, come detto poc’anzi, all’età di 40 anni, si deduce che Rebecca rimase sterile per 20 anni. In tal modo, la protratta sterilità di Rebecca è ragionevolmente posta a premessa dell’intera vicenda. b In séguito all’episodio del (risparmiato) sacrificio di Isacco: cfr. Gen 22, 15-18, e qui al cap. 58.
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Simmaco ‘oscillavano in superficie come fa una nave’2 (se è priva di un adeguato contrappeso). I bambini si muovevano infatti scambiandosi di posto, dando l’idea che ora l’uno e ora l’altro potesse venire alla luce per primo. E non si deve intendere, come pure è parso a taluni, che ciò accadesse per la scarsa dimensione dell’utero materno, quasi che non fosse abbastanza capiente per due gemelli. Ma ciò accadeva soltanto per volontà di Dio, che così già mostrava, mentre non erano ancora nati, che cosa sarebbe accaduto loro da adulti: vale a dire che l’uno cedette la primogenitura, che gli spettava per natura, all’altro cui spettava per grazia divina. Inoltre, prefigurava già allora la futura discordia tra i loro posteri. Si ritiene infatti che Giacobbe abbia ottenuto la consacrazione divina già nel grembo materno, e che il movimento dei gemelli prefigurasse il fatto che non c’è consenso tra Cristo e Beliala3. [25,22b] La madre, profondamente addolorata, avrebbe voluto non aver mai concepito e, quasi disperando per il parto, andò a consultare il Signore. Tuttavia, non è dato leggere che a quel tempo fosse già stato istituito né un luogo dove poter consultare Dio, né modalità né intermediari attraverso cui poter consultare Dio4. Può darsi che sia andata sul Monte Moria, dove Abramo aveva costruito l’altare al Signoreb, e che abbia sacrificato delle vittime, e che poi, mentre stava dormendo sulle loro pelli distese a terra, abbia ricevuto in sogno un oracolo. Forse, secondo la consuetudine pagana appresa osservando i genitori, poggiò la testa sulla specie di alloro che è detta ‘tripode’, e si pose a dormire sui rami dell’albero che è detto ‘agnello casto’, in modo tale da non avvertire durante il sonno le visioni fantastiche prodotte dalla sua testa5. Oppure consultò Melchisedechc che ancora era in vita6. a È qui riecheggiata la domanda retorica avanzata da san Paolo in 2Cor 6, 15: Quae autem conventio Christi ad Belial aut quae pars fideli cum infidele? («Ma quale consenso ci può essere tra Cristo e Belial o che cosa possono avere a che spartire il fedele e l’infedele?»), ove Belial è termine di origine ebraica ad indicare la personificazione del demonio. b Apprestandosi a sacrificare Isacco: cfr. Gen 22, 9, e qui al cap. 58. c Il re di Salem, e sacerdote di Dio, che aveva reso onore ad Abramo in Gen 14, 18 ss.: cfr. qui al cap. 46.
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[25,23] In qualunque modo abbia fatto7, ricevette dal Signore questo responso: “Nel tuo grembo ci sono due popoli – ossia: i capostipiti di due popoli – che in futuro si separeranno e combatteranno tra loro, ma il maggiore servirà il minore!”. Ciò non fu affatto detto in riferimento ai bambini, il maggiore dei quali fu sempre superiore al minore, bensì in riferimento ai popoli: gli Idumei, infatti, discesi da Esaù, erano destinati ad essere tributari di David, disceso da Giacobbea8. A meno che, per caso, non si voglia intendere che Esaù abbia servito Giacobbe nell’atto stesso di perseguitarlo: come la lima giova al ferro, la fornace all’oro, la calamità al grano9. [25,24-25] Quando partorì i gemelli, il primo che venne alla luce era di colore rossiccio e tutto irsuto come pelliccia. Perciò fu detto Seir: gli Ebrei chiamano infatti seiron la ‘peluria’10. Ma con nome proprio fu chiamato Esaù, che significa ‘forte’11. Sùbito dopo uscì l’altro, nell’atto di afferrare con la mano il calcagno del fratello: come se volesse scalzarlo dalla primogenitura. Perciò fu chiamato Giacobbe, che significa ‘soppiantatore’12. [25,26] Isacco aveva 60 anni quando gli nacquero i gemelli. Se ne conclude che Abramo era ancora in vita e sarebbe vissuto ancora per altri 15 anni. Si legge infatti che Abramo, dopo aver vissuto già 100 anni allorché gli nacque Isaccob, visse poi ancora per altri 75 annic: perciò, allorché Isacco aveva 60 anni, ad Abramo restavano ancora 15 anni di vita. Lo abbiamo precisato perché Giuseppe così afferma: ‘Poi, dopo la morte di Abramo, la moglie di Isacco concepì’ eccetera; forse definendo ‘morte di Abramo’ il periodo in cui Abramo, divenuto ormai completamente sterile il suo corpo, cessò di generare13. Lo stesso testo della Sacra Scrittura, infatti, segnala con la tecnica narrativa della ricapitolazione che l’evento non è stato menzionato in precedenza14.
a Sulla sottomissione degli Idumei (altrimenti detti Edomìti) ad opera del re David, cfr. 2Sam 8, 13-14. b Cfr. Gen 21, 5. c In Gen 25, 7 si era detto infatti che Abramo morì all’età di 175 anni: cfr. qui al cap. 62.
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Sincronie. Nel medesimo anno in cui a Isacco nacquero i gemelli, ebbe origine il regno degli Argivi sotto Inaco, padre di Isidea e primo re. Il regno si protrasse fino al dodicesimo anno di Debora e Barach, giudici di Israeleb: fino ad Acrisio, l’ultimo re, ebbe una durata complessiva di 14 re e di 544 anni. Poi Perseo, dopo che ebbe pur involontariamente ucciso Acrisio, fuggì per timore da Argo e trasferì il regno presso Micenec. Può capitare di leggere in qualche storia che questo regno durò da Inaco fino a Stelenod: s’intenda che fino a Steleno regnarono i discendenti dalla stirpe di Inaco, e poi il regno fu affidato a Danaoe, che non apparteneva alla stirpe regale15.
66. Esaù vende la primogenitura [25,27-28] Poi, quando i figli di Isacco furono cresciuti, Esaù divenne cacciatore e agricoltore, mentre Giacobbe era un pastore1 e abitava nelle tende. Il padre amava Esaù sia perché era il primogenito sia perché della sua cacciagione si cibava volentieri. Al contrario, la madre amava Giacobbe sia per la semplicità di costui sia per ispirazione di Dio2.
a Divinità nella quale gli Egizi identificarono la figura di Io, figlia di Inaco re di Argo: cfr. al termine del cap. 67. Il mito greco narra che Io, amata da Zeus, fu trasformata in giovenca per gelosia di Era. b Le due figure compaiono in Giud 4-5: Debora fu profetessa e giudice d’Israele in carica, secondo gli studi di cronologia biblica, alla fine del II millennio a.C.; Barach, sebbene il nostro testo lo menzioni quale giudice, fu propriamente condottiero d’eserciti all’epoca di Debora. c Secondo il mito greco, Acrisio, re di Argo, fu ucciso involontariamente dal nipote Perseo, figlio di sua figlia Danae, che lo colpì con il disco durante una gara di pentathlon cui Acrisio stava assistendo. Perseo ottenne così il trono di Argo, ma, addolorato per l’accaduto, abbandonò la città: dopo varie peregrinazioni, si spostò a Micene, ove fondò un nuovo regno. d Leggendario figlio di Perseo. e Il mito greco narra che Danao, padre di cinquanta figlie (le cosiddette Danaidi), fu costretto dal fratello gemello Egitto, a sua volta padre di cinquanta figli maschi, a fuggire dalla terra d’Egitto: Danao giunse con le figlie in Grecia, precisamente ad Argo, ove ottenne il trono.
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[25,29-30a; 31-34] Accadde un giorno che Giacobbe aveva cucinato una pietanza di lenticchie3. Esaù tornò stanco dai campi e disse: “Dammi un po’ di quella pietanza rossa, perché sono stanchissimo!”. Come a dire: ho fame, ma per la stanchezza non ho la forza di cucinarmi da solo la pietanza. Giacobbe gli rispose: “Véndimi la tua primogenitura!”. Ed Esaù, attribuendo scarso valore alla primogenitura e pensando che sarebbe morto se non avesse mangiato all’istante, gli cedette la primogenitura in cambio di un piatto di lenticchie, e giurò che avrebbe poi ritenuto la vendita valida a tutti gli effetti. {Se a Giacobbe fu lecito comperare la primogenitura, perché non è altrettanto lecito fare lo stesso con decime e simili?}a [25,30b] E poiché la lenticchia è di colore rosso, e in ebraico ‘rosso’ si dice edom, a partire da allora fu chiamato Edom. Nome da cui derivò poib quello della regione, che fu detta Idumea4. I diritti di primogenitura erano dei particolari privilegi, che fino ad Aaron i primogeniti detennero nell’àmbito della propria parentelac. Il primogenito, infatti, aveva una particolare veste, che indossava soltanto in occasione dell’offerta di un sacrificio, ed era colui che avrebbe ricevuto la benedizione finale da parte del padre. Era il primogenito, in occasione delle cerimonie solenni, a dare la benedizione ai fratelli minori durante il banchetto, nel corso del a Non ci spieghiamo perché mai Agneta Sylwan ponga il passo tra parentesi graffe, sebbene non si tratti di una delle additiones auctoris extra textum positae (cfr. Introduzione § L’Historia Scholastica: genesi, fortuna, tradizione manoscritta, edizioni) attestate da tutti gli otto manoscritti esaminati, ma di un segmento testuale che, anzi, è omesso da S β γ T. L’interrogativo suona come un appunto lasciato in sospeso – sicché la scelta stessa di accoglierlo a testo appare discutibile – e finalizzato a rilevare una sorta di incongruenza tra la non liceità della compravendita di decime e simili e liceità della compravendita della primogenitura. L’editrice, peraltro, colloca il passo qualche riga sopra, dopo «… da solo la pietanza!”»: posizione decisamente incongrua, dal momento che alla primogenitura il nostro testo non ha ancora neppure accennato: per coerenza narrativa, abbiamo ritenuto opportuno spostare la sezione al termine della sequenza che si conclude con la vendita della primogenitura. b Cioè in occasione dello stanziamento definitivo di Esaù: cfr. al cap. 81. c Il nostro autore ne aveva già accennato al termine del cap. 46, rimandando però il lettore ad un punto più avanzato del testo, verosimilmente qui, per ulteriori dettagli in merito.
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quale riceveva una doppia porzione di cibo. Si tramanda ricevesse il doppio anche nella spartizione dell’eredità5.
67. Isacco scende a Gerar
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[26,1; 7] Poi sopraggiunse una carestia e, sebbene Isacco volesse andare in Egitto, per ordine di Dio si fermò tuttavia a Gerar, e Abimelecha lo accolse in nome dell’amicizia con Abramo1. E Isacco, seguendo l’esempio del padreb, disse di sua moglie: “È mia sorella!”. {Sembra che ciò venga riferito qui secondo la tecnica narrativa della ricapitolazione: non pare infatti possibile che Abimelech sia vissuto tanto a lungo, cioè fin dopo la vendita della primogenitura poco fa menzionata2.} [26,8-11] Dopo molto tempo, Abimelech sorprese dalla finestra Isacco che amoreggiava con sua moglie. Lo mandò a chiamare e gli chiese: “Perché ci hai imposto questo?”. Qui il verbo ‘imporre’ è usato in senso assoluto, ossia ‘fare impostura’, cioè un inganno, e il senso è: “Perché ci hai ingannato?”3. E ancora: “Perché hai mentito dicendo che era tua sorella? Avresti potuto attirare su di noi una grande sventura, se qualcuno si fosse unito con tua moglie, ritenendola libera da uomo4!”. Poi disse al suo popolo: “Chi toccherà la moglie di costui, lo colpisca la morte!”. [26,12] Isacco seminò in quella terra e ottenne il centuplo stimato. Ossia: sulla base di quanta semente ricordava di aver un tempo seminato, stimò di averne ricavato il centuplo. E ciò non poté accadere per una sola specie di seminato, ma può darsi che abbia ottenuto il centuplo in ogni tipo di sua attività; perciò un’altra traduzione rende: ‘ottenne nel corso di quell’anno il centuplo’5.
Il re di Gerar punito da Dio per aver fatto rapire Sara (cfr. Gen 20, e qui al cap. 55) e con cui Abramo strinse il patto di Bersabee (cfr. Gen 21, 22-34, e qui al cap. 57). b Pietro Comestore rileva l’analogia tra il comportamento di Isacco e quello già tenuto da Abramo nei due episodi che avevano visto protagonisti rispettivamente il Faraone (Gen 12, 10-20, e qui al cap. 45) e lo stesso Abimelech (Gen 20, e qui al cap. 55). a
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[26,13-25] E così i Palestinesi, invidiandogli i pozzi che suo padre aveva scavato, glieli ostruirono riempiendoli di terra. Anche Abimelech, avendo timore di lui, gli disse: “Vattene via da qui, dal momento che sei diventato più potente di noi!”. Isacco andò via, e giunse nella piana il cui nome è Phara, che significa ‘valle’, e abitò presso l’alveo in cui talvolta scorreva un torrente6. Qui riaprì i pozzi che un tempo suo padre aveva scavato in quel luogo, ma che, dopo la sua morte, i Filisteia avevano ostruito. Ma allorché vi trovò acqua sorgiva, i pastori di Gerar vennero a contesa con lui e gli dissero: “L’acqua è nostra!”. Perciò Isacco chiamò quel pozzo Escon, che significa ‘calunnia’ o ‘offesa’. Poi, andatosene via anche da lì, scavò un altro pozzo, ma vennero a contesa anche per quest’altro: perciò lo chiamò Satana, che significa ‘contrario’ o ‘inimicizia’. Giuseppe riferisce che Isacco lasciò incompiuta la costruzione di entrambi i pozzi, poiché non voleva contendere con gli abitanti del luogo, di cui attendeva la ragionevolezza e il permesso in virtù di una loro buona disposizione nei suoi riguardi7. Andatosene via anche da lì, scavò un terzo pozzo, per il quale non vennero a contesa: perciò lo chiamò Robooth, che significa ‘espansione’, perché Isacco espandendosi era cresciuto sopra la terra8. Poi da lì salì in Bersabee, e il Signore gli apparve quella stessa notte, promettendogli quanto già aveva promesso a suo padre. E Isacco, costruito un altare, invocò in quel luogo il nome del Signore e diede ordine ai servi di scavare lì un pozzo. È verosimile che abbiano riaperto il pozzo di Abramob. [26,26-33] A quel tempo, giunsero da lui Abimelech e Phicol, il capo dell’esercito, e rinnovarono il pattoc giurando vicendevolmente. Quello stesso giorno, i servi fecero ritorno da Isacco recandogli notizie sul pozzo che avevano scavato: vi avevano trovato acqua. E Isacco lo chiamò Bersabee, che significa ‘pozzo della sazietà’ o ‘pozzo dell’abbondanza’9: e alla città fu dato questo nome, che conNon è chiaro se i Filistei siano da identificare con i Palestinesi menzionati poco sopra: l’incongruenza tra gli etnonimi figura già nel testo biblico. b Il pozzo che fu oggetto di contesa tra Abramo e lo stesso Abimelech e che, in occasione del loro precedente accordo, Abramo aveva chiamato Bersabee, nome da cui derivò quello dell’intera regione circostante: cfr. Gen 21, 22-32, e qui al cap. 57. c Già stretto in precedenza tra Abramo e lo stesso Abimelech: cfr. Gen 21, 2732, e qui al cap. 57. a
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serva fino ad oggi. E si badi che questo nome differisce – sia nella pronuncia, poco aspra, che nella scrittura – dal nome che Abramo gli aveva dato un tempoa: il medesimo termine sabee, infatti, scritto con la lettera ebraica sin, significa ‘giuramento’ o ‘settimo’ e suona più aspro nella pronuncia; scritto invece con la lettera greca sigma, significa ‘sazietà’ e suona più dolce nella pronuncia10. Sincronie. Nel medesimo periodo, Foroneob, figlio di Inaco e di Niobe, fu il primo a dare leggi alla Grecia, e stabilì che i processi si svolgessero sotto la supervisione di un giudice, e dal suo stesso nome chiamò ‘foro’ il luogo destinato al giudice. Sua sorella Iside navigò fino in Egitto e insegnò agli Egizi alcune forme di lettere. Insegnò loro anche molte cose relative all’agricoltura: perciò, mentre prima si chiamava Io, gli Egizi la chiamarono Iside, che nella loro lingua significa ‘terra’. E perciò, dopo la sua morte, fu inclusa nel numero degli dèi d’Egittoc. Anche il figlio di Foroneo, di nome Apis, a quel tempo navigò fino in Egitto. Alcuni raccontano sia stato il marito di Iside. Anch’egli fu divinizzato dagli Egizi e chiamato Serapide11.
68. Le mogli di Esaù [26,34-35] Esaù, all’età di 40 anni, prese come mogli Iudith e Besamath, figlie di uomini potenti tra i Cananei, ritenendosi padrone di arrogarsi lui stesso l’autorità decisionale in merito alle mogli. Nonostante le due donne avessero offeso l’animo di Isacco e di Rebecca, e nonostante Isacco non volesse che gli abitanti di quella terra si mescolassero alla sua parentela, Isacco giudicò tuttavia che fosse meglio tacere1.
Cfr. Gen 21, 31, e qui alla precedente p. 189, n. b. Leggendario re della città di Argo: secondo la versione divulgata del mito, e diversamente da quanto vorrebbe il nostro testo, Foroneo era figlio del dio fluviale Inaco e della ninfa Melia, padre di Niobe e di Apis, e fratello (o padre) di Io. c Sulla figura di Io-Iside, cfr. già al cap. 65 e relativa p. 186, n. a. a
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69. Le benedizioni a Giacobbe [27,1-10] Isacco invecchiò e non riusciva più a vedere. E disse a Esaù: “Preparami del cibo con la cacciagione, in modo che io possa mangiarne e benedire la tua anima prima di morire!”. Dopo che Esaù fu uscito per andare a caccia, Rebecca disse a Giacobbe: “Questo e quest’altroa ho sentito dire da tuo padre a tuo fratello Esaù! Portami dunque al più presto due capretti, i migliori, in modo che io possa preparare a tuo padre i suoi piatti preferiti, e che così benedica te al posto di Esaù!”. [27,14-15; 12; 16] Egli andò, li prese e li consegnò alla madre. La quale, quand’ebbe preparato il cibo, fece indossare a Giacobbe i vestiti preziosi di Esaù: cioè quelli che, come abbiamo dettob, usavano indossare i primogeniti. Giacobbe, però, temeva, se smascherato dal padre, di ricevere una maledizione al posto della benedizione. Allora la madre gli arrotolò le pelli dei capretti attorno a mani e collo, in modo tale che il suo aspetto somigliasse a quello del fratello che era peloso: in tutto il resto, infatti, erano del tutto simili, come si conviene a due gemelli1. [27,17-29] Giacobbe prese il cibo, lo portò al padre e gli disse: “Sono Esaù. Mangia la mia cacciagione, sicché la tua anima possa benedirmi!”. {Come a dire: sono io colui che ora detiene la primogenitura e la benedizione, così come prima le deteneva Esaù. E non sta mentendo. Come non mente Cristo quando afferma che Giovanni è Eliac: non nella persona fisica, ma nel contesto di un a In latino sic et sic, alla lettera «così e così»: espressione elusiva che consente al nostro autore di omettere la ripetizione, pressoché letterale, delle parole rivolte da Giacobbe ad Esaù, e qui riportate da Rebecca a Giacobbe. b Cfr. al cap. 66. c L’allusione è al passo di Mt 11, 14: Gesù, elogiando Giovanni il Battista ai discepoli, dice che ipse est Helias qui venturus est, ossia «egli è l’Elia che è destinato a venire». Tuttavia, come chiarisce Lc 1, 17 (ipse praecedet ante illum in spiritu et virtute Heliae: «egli [Giovanni], pervaso dallo spirito e dalla virtù di Elia, ne [= del Messia] precorrerà l’avvento»; sulla citazione, cfr. già al cap. 31, p. 125, n. d), l’identificazione Giovanni-Elia è da intendersi non in senso fisico-materiale (come se, cioè, Elia si fosse reincarnato in Giovanni), bensì nel contesto di un paragone spirituale-funzionale: entrambi, investiti delle medesime doti, furono precursori dell’avvento del Messia. Su Elia precursore, cfr. già al cap. 51.
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paragone.} E a lui Isacco: “Avvicìnati a me, in modo che io ti possa toccare e appurare se tu sei davvero Esaù oppure no!”. E toccatolo disse: “La voce è quella di Giacobbe, ma le mani sono quelle di Esaù!”. Poi, dopo che ebbe mangiato e bevuto vino, baciò il figlio e lo benedisse dicendo: “Dio ti conceda, mediante la rugiada del cielo e la fertilità della terra, abbondanza di frumento, vino e olio!”. Con questi tre prodotti si suole intendere la fertilità della terra nel suo complesso: con il frumento si intende il cibo, con il vino la bevanda, con l’olio il companatico2. E aggiunse: “Ti servano i popoli e le tribù, e sii tu il padrone dei tuoi fratelli! Chi ti maledirà sia maledetto, e chi ti benedirà sia benedetto!”. E si osservi che i primi tre punti della benedizione – ossia: l’abbondanza, la potenza, la primogenitura – fanno riferimento al tempo presente. Il quarto punto, invece, è una benedizione che riguarda il futuro, e perciò suole tuttora essere pronunciata dai nostri sacerdoti durante le benedizioni3. Giacobbe fu benedetto secondo le parole del padre, ma non secondo l’intenzione del padre: situazione analoga a quando un vescovo conferisce l’ordinazione ad un estraneo credendolo un suo sottoposto, e tuttavia l’ordinazione è comunque valida4. [27,30-40] Non appena il padre ebbe terminato di parlare e Giacobbe se ne fu andato, Esaù venne a portare il cibo al padre chiedendogli la benedizione. Isacco fu preso da fortissimo terrore. In questa condizione di estasi, pervaso dallo spirito vide che tutto ciò era stato compiuto da Dio e comprese il significato del pio inganno. Perciò, senza adirarsi, ma anzi confermando quanto aveva fatto5, disse: “Tuo fratello è venuto qui ingannandomi, e ha ricevuto la benedizione che ti spettava: e sarà benedetto!”. Ed Esaù: “A giusta ragione è stato chiamato Giacobbe: ecco che mi ha soppiantatoa un’altra volta – ossia: ha ingannato due volte −: dapprima sottraendomi la primogenitura, la seconda volta la benedizione!”. Ma poiché seguitava a domandare anch’egli al padre una benedizione, e faceva insistentemente pressione al padre, che pure esitava nel benedirlo, Isacco si lasciò smuovere e disse: “La tua benedizione sarà nella fertilità della terra e nella rugiada dall’alto del cielo!”. E così
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Il nome Giacobbe vale infatti etimologicamente ‘soppiantatore’: cfr. al cap. 65.
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fu: l’Idumeaa è infatti una regione ricca di pascoli. Poi, profetando dei posteri di Esaù, aggiunse: “Vivrai con la spada – ossia: sarai bellicoso – e servirai tuo fratello!”, s’intende quando l’Idumea fu resa tributaria della casa d’Israeleb6. E ancora: “Ma verrà un tempo in cui ti libererai del giogo che ti ha imposto al collo!”. Ciò si adempì quando gli Idumei si ribellarono per non restare sottomessi a Giudac7.
70. Il sogno di Giacobbe durante la sua fuga in Mesopotamia [27,41-46] Perciò Esaù aveva in odio Giacobbe, e disse in cuor suo: “Verranno i giorni del lutto – ossia: della morte1 – di mio padre, in modo che io possa uccidere Giacobbe!”. Ciò fu annunciato a Rebecca. La quale venne a conoscenza dei pensieri di Esaù grazie al medesimo Spirito che già l’aveva indotta ad esortare Giacobbe a defraudare il fratellod. Perciò Giacobbe, in nome della visione della madre, è scusato della menzogna ai danni del padre e dell’inganno ai danni del fratello; la madre, invece, è scusata in nome del consiglio amichevole dello Spirito Santo2. E così disse a Giacobbe: “Fuggi da mio fratello Labano, e trattieniti lì fino a che non si sarà placata l’indignazione di tuo fratello!”. E perché ciò non avvenisse senza il permesso del padre3, Rebecca disse a suo marito: “Se Giacobbe prenderà moglie tra le figlie di Hethe , io voglio morire!”.
Regione che prese il nome appunto da Edom, appellativo di Esaù: cfr. al cap. 66. b Quest’ultimo è appellativo di Giacobbe: cfr. Gen 32, 29, e qui al cap. 77. Ciò accadde all’epoca del re David: cfr. 2Sam 8, 13-14, e già il nostro autore al cap. 65. c Uno dei figli di Giacobbe. Ciò accadde all’epoca di Ioram, re della tribù di Giuda: cfr. 2Cron 21, 8-10. d Si allude, con ogni evidenza, all’episodio del travestimento di Giacobbe, narrato al precedente cap. 69: cfr. nella fattispecie Gen 27, 6-17. e Heth è figlio di Chanaan (cfr. Gen 10, 15), a sua volta figlio di Cam: il suo nome sta ad indicare il popolo dei Cananei, che già si è detto essere inviso ad Isacco e Rebecca (cfr. Gen 26, 35, e qui al cap. 68), la cui stirpe è invece semìta. a
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[28,1-2] E Isacco, chiamato a sé Giacobbe, lo benedisse e gli ordinò di andare in Mesopotamia a prendere moglie tra le figlie di Labano. [28,6-9] Esaù, poiché si rese conto di aver offeso suo padre sposando donne non appartenenti alla propria stirpe, andò da suo zio paterno Ismaele e ne prese in moglie, oltre alle due che già avevaa, la figlia Malech, sorella germana di Nabaioth4. [28,10] E così Giacobbe uscì da Bersabee, e si dirigeva verso Aranb. Tuttavia, mentre si trovava in viaggio attraverso la Cananea, ebbe timore degli abitanti di quella terra: secondo quanto riferisce Giuseppe, infatti, i Cananei non erano devoti verso Isacco poiché ne erano stati molto oppressi nel corso delle precedenti guerre contro di lui, specialmente in occasione della conquista di Cariath, per la quale aveva assai faticato. Perciò Giacobbe ebbe timore di cercare ospitalità presso un abitante di quella terra, e restava a dormire all’aperto5. [28,11-15] Giunto poi nei pressi di Luzac sul far della sera, poggiò il capo sopra una pietra e si addormentò. E vide in sogno una scala, che si elevava da terra fino a toccare i cieli, e angeli che scendevano e salivano per mezzo di essa. Giuseppe dice: ‘Vide scendere per mezzo di essa figure che avevano una natura più onorevole rispetto a quella umana’6. E vide il Signore, sulla scala, che gli disse: “Io sono il Dio di Abramo e di Isacco! Questa terra la darò a te e alla tua stirpe! Tutte le tribù della terra saranno benedette in te e nella tua stirpe! Sarò tuo custode durante questo viaggio e ti ricondurrò in questa terra!”. Il Signore adottò nel suo discorso un ordine inverso: dapprima, infatti, custodì Giacobbe nella sua stessa persona; in séguito, all’epoca di Giosuè, diede alla sua stirpe quella terrad; alla fine dei tempi, le tribù della terra sono benedette in Cristo, in quanto disceso da Giacobbe7. Cfr. al cap. 68. Città già segnalata al cap. 60, nella grafia alternativa Charan, quale patria di Labano e Rebecca; sull’alternanza grafico-fonetica Aran/Charan, cfr. al cap. 42. c Pietro Comestore anticipa qui il nome del luogo, che nel testo biblico compare un poco più avanti (cfr. Gen 28, 19). d Giosuè, successore di Mosè, guidò il popolo d’Israele nella Terra Promessa: l’entrata in Chanaan e le successive conquiste sono narrate in Gios 1-12. a
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[28,16-17] Svegliatosi, Giacobbe esclamò: “Davvero il Signore è presente in questo luogo, e io non lo sapevo! Terribile è questo luogo! E qui è la casa di Dio e la porta del cielo!”. Con queste parole egli profetizzò della Legge, del tempio, e della passione di Cristo, che erano destinati a compiersi in quella terra: ‘terribile’ indica infatti la Legge; ‘casa di Dio’ il tempio; l’apertura della ‘porta del cielo’ la passione di Cristo8. [28,18; 20-22] La pietra su cui aveva poggiato il capo, la eresse in quel luogo come titolo. Ossia: per onorare la memoria di quella visione. E vi libò sopra dell’olio al Signore, promettendo in voto che avrebbe sempre avuto come suo Dio il Signore che gli era apparso, e che avrebbe sempre onorato la pietra – cioè: il luogo della pietra – e che al ritorno avrebbe offerto in quel luogo decime e vittime sacrificali. [28,19] E stabilì che si dovesse onorare anche la città vicina, e le pose il nome Bethel, che significa ‘casa di Dio’ o, secondo Giuseppe, ‘vittima sacrificale di Dio’. In precedenza, infatti, la città si chiamava Gebus dal nome dei Gebusei che l’avevano fondata; poi Luza, che significa ‘noce’ o ‘mandorla’: perché, quando vi furono gettate le prime fondamenta, lì fu scoperta la radice del mandorlo; o forse perché questa specie di albero vi cresce in abbondanza9.
71. Le due mogli di Giacobbe [29,1-3; 7-8] Avanzando verso la Mesopotamia, dopo lungo tempo giunse a Charana1. E arrivò ad un pozzo che si trovava fra i campi, coperto da una grande pietra e presso il quale riposavano tre greggi. Quando disse ai pastori di far abbeverare le greggi e di ricondurle al pascolo, gli fu spiegato che era usanza di quel luogo che la pietra non venisse rimossa finché tutte le greggi non si fossero radunate, e che non era possibile far abbeverare le greggi una alla volta. [29,5-6; 9-11] Poi chiese notizie2 a proposito di Labano: “Sta bene! – rispondono i pastori – Ed ecco lì sua figlia Rachele con il suo gregge!”. Non appena la fanciulla fu giunta, Giacobbe rimosse la a
La città di Labano: cfr. al cap. 70, p. 194, n. b.
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pietra dalla bocca del pozzo. Se ne deduce, con ogni evidenza, che Giacobbe non si recò in quel luogo da solo3. Fece abbeverare il suo gregge, le rivelò di essere suo cugino materno, e la baciò. [29,12-20] La fanciulla portò la notizia al padre, che, correndo incontro a Giacobbe, lo introdusse a casa sua. Venuto poi a sapere la causa della sua fuga, gli disse: “Sei il mio osso e la mia carne: presso di me potrai nasconderti al sicuro!4”. Decise infine di affidargli la cura del gregge5. Trascorso un mese, fece scegliere a Giacobbe una ricompensa per il servizio che gli stava prestando come pastore6. Labano aveva due figlie: Lia, dagli occhi cisposi, e Rachele, di grazioso aspetto. Giacobbe, poiché amava Rachele, disse a Labano: “Ti servirò per sette anni in cambio di Rachele!”. E così lo servì per sette anni in cambio di Rachele, e gli sembravano pochi giorni a paragone della grandezza del suo amore. Non è scritto ‘brevi’: infatti, per un animo che arde di desiderio, persino la velocità è lenta. Ma è scritto ‘pochi’: gli sembrava infatti di aver acquistato al prezzo di così pochi giorni una cosa tanto amabile. Pur di non esserne privo, infatti, avrebbe prestato servizio per un numero di anni di gran lunga maggiore. Oppure per ‘giorni’ si intende la ‘fatica dei giorni’: fatica che gli sembrava piccola dal momento che era addolcita dall’amore7. [29,21-27] Allo scadere del settimo anno, Labano organizzò le nozze a suo genero. Scesa la sera, fece però entrare Lia nella camera di lui, e le diede una serva di nome Zelpha. Ma Giacobbe, che si era unito a Lia – secondo quanto riferisce Giuseppe – a causa dell’ubriachezza e del buio, una volta che poi si fece giorno, prese a lamentarsi dell’ingiustizia con Labano. Costui pretese di dover essere scusato in nome della necessità, dicendo che era usanza di quel luogo far sposare prima le figlie maggiori e che, trascorsi altri sette anni, gli avrebbe consegnato Rachele8. E avvalorò la causa del rinvio di tempo aggiungendo che non avrebbe mandato volentieri la figlia tra i Cananei, tra i quali già si pentiva di aver mandato la sorellaa9. Girolamo, tuttavia, dà torto a chi ha affermato che Rachele fu consegnata a Giacobbe dopo altri sette anni: sostiene Rebecca, s’intende. Tra la stirpe semìta e il popolo dei Cananei, indigeni del luogo in cui essa si stanziò, correvano rapporti ostili: cfr. ai capp. 68 e 70 (qui alla p. 193, n. e). a
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invece che gli fu consegnata dopo sette giorni di convivenza coniugale10, che non era lecito venisse, per così dire, turbata dall’aggiunta di una seconda sposa. [29,30] Allo scadere dei giorni, Giacobbe, ottenute le agognate nozze, preferì l’amore della seconda sposa a quello della prima, prestando servizio per altri sette anni in cambio di Rachele.
72. I quattro figli di Lia e i figli delle serve [29,31-35] Poi il Signore aprì il ventre di Lia, mentre sua sorella era stata consegnata sterile, perché Lia potesse guadagnarsi grazie alla fecondità l’amore del marito1. Ella generò un figlio e disse: “Il Signore ha guardato alla mia pochezza!”, vale a dire: alla scarsa considerazione in cui mi tiene mio marito. Perciò chiamò il figlio Ruben, che significa ‘figlio della visione’. Poi ne generò un altro e disse: “Il Signore ha ascoltato me, che sono tenuta in disprezzo!”, e perciò fu chiamato Simeone, che significa ‘ascolto’. Ne generò un terzo e disse: “Mio maritò si unirà con me, poiché gli ho aggiunto dei figli!”, e perciò fu chiamato Levi, che significa ‘aggiunta’ o, secondo Giuseppe, ‘colui che rinsalda il vincolo di comunanza’. Ne generò un quarto e disse: “Ora professerò la mia fede nel Signore!”, e perciò fu chiamato Giuda, che significa ‘professione’. Poi cessò di generare2. [30,1-8] Perciò Rachele nutrì invidia verso la sorella, e disse a Giacobbe: “Dammi dei figli, altrimenti morirò!”. Ed egli: “Sono forse Dio?”. E quella: “Se non da me, quantomeno dalla mia serva!”. E gli diede Bala perché si unisse a lei. S’intenda: non in moglie, ma in un rapporto carnale3. Bala generò un figlio, e Rachele disse: “Il Signore mi ha giudicata!”, vale a dire: mi ha eguagliato a mia sorella4. Perciò il bambino fu chiamato Dan, che significa ‘giudizio’. Ne generò poi un altro, e Rachele disse: “Sono stata messa a paragone con mia sorella e ho vinto!”, e perciò fu chiamato Neptalim, che significa ‘paragone’ o ‘espansione’5. [30,9-13] Anche Lia consegnò al marito Zelphaa, che gli generò un figlio. E Lia disse: “Felicemente!”, e il bambino fu chiamato a
La sua ancella: cfr. Gen 29, 24, e qui al cap. 71.
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Gad, che significa ‘felicità’. Ne generò anche un secondo, e Lia disse: “Le donne mi diranno beata!”, e il bambino fu chiamato Aser, che significa ‘beato’6. Sincronie. Nel medesimo periodo, ebbe luogo un diluvio non universale in Acaiaa, all’epoca del re Ogigeb. Costui rifondò la città che si chiamava Acta e la chiamò Eleusic. Sempre nel medesimo periodo, presso il lago Tritonided apparve una fanciulla, che i Greci chiamarono Minervae. Costei inventò molte arti, in particolare l’arte di tessere la lana. È chiamata anche Pallade: o da Pallene, l’isola della Tracia dove fu allevata; o da Pallante, il gigante che fu da lei ucciso. Si tramanda inoltre che le Cicladif, a causa di quel diluvio, restarono sommerse per lungo tempo e che, nel momento in cui poi le acque si ritirarono, la prima isola ad essere illuminata dal sole fu Delo: e perciò fu chiamata Delo, che significa ‘ben visibile’7.
73. Gli altri figli di Lia e la nascita di Giuseppe [30,14a] Ruben, al tempo della messe del grano… Ossia: dopo la raccolta dell’orzo. Oppure può darsi che qui vengano chiamate ‘messi’ le tre ‘raccolte’, dal verbo ‘mietere’ che significa ‘raccogliere’: la messe dei frutti, che viene per prima; la messe delle graminacee, che viene per seconda; la messe dei vitigni, che viene per terza1. [30,14b] Ebbene a quel tempo, Ruben, di ritorno dalla campagna, portò a casa delle mandragole e le consegnò a sua madre. E Rachele, poiché desiderava mangiarne, disse a Lia: “Dammi un La regione più settentrionale della penisola peloponnesiaca. Secondo la versione più diffusa del mito greco, l’eroe beota Ogige (o Ogigo) fu il primo re dei popoli autoctoni che risiedevano nel territorio tebano. c Antica città dell’Attica, nota quale sede dei culti misterici in onore della dea Demetra. d Leggendario lago situato in una zona non meglio precisata del territorio nord-africano. e Pietro Comestore deriva fedelmente l’informazione dalle sue fonti di riferimento (cfr. alla n. 7). Per la verità, il nome di Minerva fu quello attribuito dai Romani alla dea della guerra, nonché protettrice delle attività artigianali, in cui si era soliti identificare la dea greca Atena, nota anche con l’epiteto di Pallade (cfr. infra). f Arcipelago del Mar Egeo. a
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po’ di mandragole!”. Vi è infatti chi sostiene che questa specie di frutto, assunto come cibo, procuri la fertilità a chi è sterile. Agostino, però, afferma che ciò è falso: riferisce, infatti, di aver visto di persona il frutto della mandragola a motivo appunto del passo in questione, e di averne indagato accuratamente tutte le proprietà e la natura, ma di non avervi riscontrato nulla di simile2. [30,15-21] Ma Lia disse: “Ti sembra forse poco avermi già rubato il marito, se non mi avrai rubato anche le mandragole?”. E Rachele, per mitigare l’ira della sorella3, rispose: “Dorma pure con te questa notte, in cambio delle mandragole!”. Lia corse incontro a Giacobbe che stava ritornando dalla campagna, e gli spiegò che se lo era guadagnato come ricompensa. E concepì quella stessa notte. Partorì il quinto figlio e disse: “Dio mi ha dato una ricompensa perché ho consegnato la mia serva a mio marito!”. Perciò chiamò il bambino Isachar, che significa ‘è una ricompensa’: da achar che significa ‘ricompensa’. Lo chiamò così anche perché aveva comperato in cambio delle mandragole l’unione con suo marito4. Poi Lia concepì di nuovo un sesto figlio, lo partorì e disse: “Mio marito abiterà con me perché gli ho generato sei figli!”. Perciò chiamò il bambino Zabulon, che significa ‘abitazione’. Nel Libro dei nomi ebraici se ne indica invece erroneamente il significato di ‘flusso della notte’5. Poi partorì una figlia di nome Dina. [30,22-24] Ma il Signore si ricordò di Rachele e aprì il suo ventre. Ed ella partorì un figlio e disse: “Il Signore mi aggiungerà un secondo figlio!”. E perciò il bambino fu chiamato Giuseppe, che significa ‘aumento’6.
74. I differenti colori delle verghe e dei cuccioli [30,25-28] Allo scadere dei quattordici anni di servizio prestato per le sue mogli1, Giacobbe disse a suo suocero: “Dammi le mie mogli e i miei figli, perché io possa tornare alla mia terra!”. E Labano rispose: “Che io possa trovare grazia al tuo cospetto! Così tu mi servirai ancora per sette anni!2 E stabilisci tu la ricompensa che ti devo: io so, infatti, che Dio mi ha benedetto per causa tua!”.
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[30,29-36]3 Giacobbe disse: “È giusto che ora io provveda finalmente alla mia casa! Se però tu farai quanto io ti chiedo, pascolerò ancora le tue pecore! Separa le greggi maculate e con il pelo variegato, e affìdale nelle mani dei tuoi figli; invece, le greggi di un solo colore affìdale a me. E ogni bestia maculata che nascerà da quelle di un solo colore sia la mia ricompensa; invece, ogni bestia che nascerà di un solo colore sarà tua. Risponderà per me domani – cioè: in futuro4 – la mia giustizia!”. Come a dire: la natura gioca dalla tua parte: da bestie bianche nascono bestie bianche e da bestie nere bestie nere; io, invece, ho dalla mia parte la mia giustizia: e verrà il giorno in cui Dio, in cambio del mio lavoro, mi farà avere contro natura quanto gli sembrerà giusto. L’accordo fu gradito a Labano: separò tutte le bestie maculate e le affidò in custodia ai suoi figli, mentre le bestie di un solo colore le affidò a Giacobbe. Poi interpose tra Giacobbe e i suoi figli una distanza pari a tre giorni di viaggio: ciò per evitare che la vicinanza tra le pecore potesse dare àdito a qualche inganno. Così raccontata, la vicenda è chiara. Se non che, però, nel testo sacro si legge che Labano affidò nelle mani dei suoi figli il gregge di un solo colorea: il che appare come l’esatto opposto di quanto narrato poc’anzi. Può darsi si dica che l’abbia affidato nelle mani ‘dei suoi figli’, nel senso di ‘dei suoi nipoti’, cioè dei figli che erano pastori a servizio del padreb. Oppure lo si dice a mo’ di anticipazione: vale a dire che il gregge di un solo colore, che nacque poi sotto la custodia di Giacobbe, lo affidò ai propri figli insieme al gregge maculato che già prima aveva affidato loro. Anche Girolamo riferisce che questo punto del testo si era tramandato confuso fino alla sua epoca5. [30,37-43]6 Ma Giacobbe, avendo escogitato un nuovo inganno della natura, combatté contro la natura con un artificio anch’esso naturale. Prese infatti delle verghe verdi di pioppo (i Settanta rendono ‘di stirace’c), di mandorlo e di platano e, scorticandole qua e là, ne ottenne verghe di colore variegato. Può darsi che ci fossero Cfr. Gen 30, 35. Vale a dire nelle mani dei figli di Giacobbe e perciò nipoti di Labano: pastori al servizio del padre, ossia dello stesso Giacobbe. c Sulla natura dello stirace, cfr. al cap. 89. a
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tre abbeveratoi, e che abbia preso soltanto tre verghe, della stessa lunghezza degli abbeveratoi, e che abbia posto in ciascun abbeveratoio la rispettiva verga. Oppure può darsi che negli abbeveratoi ci fossero più verghe7. E così Giacobbe prestava attenzione al periodo in cui le bestie si accoppiavano e allorché, durante il caldo fervido del giorno, esse avide si recavano ad abbeverarsi, egli faceva in modo che le pecore e le capre venissero montate appunto mentre si abbeveravano con avidità. Ciò in modo tale che concepissero dei cuccioli simili ai riverberi, che vedevano riflessi nello specchio d’acqua, degli arieti e dei caproni che le montavano: il colore dei riverberi era infatti variegato a causa delle verghe che erano state poste nell’acqua. Tuttavia, per evitare che tutti i cuccioli nascessero di colore variegato e che perciò l’inganno venisse smascherato, Giacobbe si cautelò così. Quando le pecore si accoppiavano durante la prima stagione, poiché la cucciolata della primavera è la migliore, egli poneva le verghe in modo che concepissero mentre le stavano osservando. Al contrario, in occasione dell’accoppiamento tardivo, cioè di quello alla fine della primavera, la cucciolata è di pessima qualità perché negli animali, che ricercano tardi l’unione sessuale, la natura ha minor vigore8: perciò in questo periodo non poneva di fronte a loro le verghe. E così le bestie nate tardive diventavano di Labano, e quelle nate durante il primo periodo di Giacobbe. Oppure può darsi s’intenda per ‘accoppiamento tardivo’ quello durante l’autunno: si tramanda infatti che la specie di pecore della Mesopotamia sia la medesima di quelle dell’Italia, tale cioè da ingravidare due volte nel corso dell’anno. Scrive infatti il poeta: ‘Per due volte gravide di prole’a9. Si dice: in modo che ‘concepissero’ mentre stavano osservando le verghe. Girolamo segnala che non è possibile esprimere, se non con un giro di parole, la forza espressiva del termine che si legge in ebraico, e che indica precisamente l’estremo scuotimento di tutto il corpo nell’estremo fervore dell’unione sessuale. a Cfr. Verg., Georg. 2, 150, il cui primo emistichio legge bis gravidae pecudes («per due volte gravide le bestie»). Il nostro testo legge invece bis gravidae fetu («per due volte gravide di prole»): la discrepanza è da imputare forse ad un guasto testuale nel manoscritto della fonte da cui Pietro Comestore deriva la citazione virgiliana (cfr. alla n. 9) oppure ad un difetto di memoria dello stesso Pietro.
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E non desta meraviglia il fatto che all’apice del piacere sessuale si concepisca una prole simile all’immagine che si sta osservando. Girolamo segnala che analogamente accade tra le greggi di cavalle presso il popolo degli Ispanî. E Quintiliano avrebbe difeso una matrona, accusata perché aveva partorito un bambino di colore, argomentando che ciò era accaduto a causa dell’immagine che la donna aveva osservato. E nei libri di Ippocrate si trova scrittoa che una donna avrebbe dovuto essere punita perché aveva partorito un bambino bellissimo, diverso non soltanto da entrambi i genitori, ma anche da tutta la loro parentela: se non che Ippocrate suggerì di indagare se nella camera da letto non ci fosse per caso un’immagine simile al bambino. E fu così che Giacobbe si arricchì oltre misura. [31,1-8] Dopo aver udito i figli di Labano dire: “Giacobbe si è preso i nostri beni ed è diventato potente grazie alla ricchezza di nostro padre!”, egli si accorse che anche il volto di Labanob non era più nei suoi confronti come era stato il giorno prima e il giorno prima ancora. Oltretutto, il Signore gli diceva: “Torna a casa e io sarò al tuo fianco!”. Perciò fece chiamare Lia e Rachele nel campo dove stava pascolando il gregge, e disse loro: “Il volto di vostro padre non è più dalla mia parte. Voi sapete che mi ha ingannato e che ha mutato la mia ricompensa per dieci volte”. I Settanta rendono
L’attribuzione di paternità, a Quintiliano e ad Ippocrate, degli exempla qui riportati è desunta per via indiretta (dalla fonte registrata alla n. 6): nessuno dei due passi trova effettivo riscontro nell’opera dei due autori, sotto il cui nome già in epoca antica avevano preso a circolare numerosi scritti spurî o di non provata autenticità. Al netto di tale considerazione, è qui rilevante, come già osservato alla n. 9, il riutilizzo funzionale della letteratura pagana-classica. b Il testo di Gen 31, 2 legge animadvertit quoque faciem Laban quod…, ossia «[scil. Giacobbe] si accorse inoltre che il volto di Labano…». Il testo ricostruito da Sylwan legge invece etiam faciem Iacob animadvertit quod…: non è chiaro se Iacob sia inteso dall’editrice – a giusta ragione – come soggetto di animadvertit («Giacobbe si accorse che anche il volto…») oppure – a torto – come complemento di specificazione di faciem («[sogg.?] si accorse che anche il volto di Giacobbe»). Anche nella prima eventualità, corre tuttavia l’obbligo di emendare la lezione Iacob in Laban (quest’ultima attestata da W T): complemento di specificazione necessariamente richiesto dal sostantivo faciem perché il senso del passo risulti perspicuo e dotato di senso. a
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‘per dieci anni’10: da intendere come fosse ‘per dieci cicli’a, dal momento che il mutamento per dieci volte si verificò nell’arco di sei annib. Giuseppe riferisce infatti che assomma a vent’anni la durata complessiva del tempo trascorso presso Labano11. Giacobbe, infatti, non volle completare il terzo periodo di sette anni al servizio di Labano a causa dell’iniquità di costui. Labano, infatti, allorché vedeva che la maggior parte delle bestie nasceva di colore maculato, diceva: “D’ora in avanti, le bestie di un solo colore siano la tua ricompensa!”; analogamente, allorché vedeva che erano le bestie di un solo colore a moltiplicarsi, cambiava la ricompensa. [31,9-16] E Giacobbe aggiunse: “È Dio, che ha preso i beni di vostro padre e li ha dati a me! Mi mostrava in sogno di quale colore fossero i cuccioli che dovevano nascere, e mi disse: ‘Àlzati ed esci da questa terra!’”. Lia e Rachele risposero: “Nostro padre ci ha considerate come due estranee: ci rimarrà forse qualcosa della sua ricchezza e della sua eredità? Fa’ tutto quanto il Signore ti ha comandato!”.
75. La fuga di Giacobbe e il patto stretto con Labano [31,17-21] E così Giacobbe si levò e partì con mogli e figli. E portò via con sé tutti i beni, le greggi e ogni cosa che aveva acquistato in Mesopotamia. Giacobbe, secondo quanto riferisce Giuseppe, pora L’italiano «ciclo» rende il latino circumvolutatio: al pari di circumvolutio (grafia più comune e attestata da S β γ δ), il termine designa genericamente un qualunque moto/ciclo di rotazione o rivoluzione (da circumvoluto o circumvolvo, «ruotare intorno») e tecnicamente quello terrestre. Benché subito dopo si dica che «il mutamento per dieci volte si verificò nell’arco di sei anni», non ci risulta l’esistenza di peculiari moti/cicli di rivoluzione corrispondenti all’anno solare in rapporto 10:6. D’altra parte, l’impressione è che Pietro Comestore intenda avanzare un’ipotesi interpretativa del testo dei Settanta che risulti coerente con la lezione della Vulgata riportata poco prima, ove figura il termine vices, ossia «volte»: di qui la nostra scelta di rendere semplicemente «cicli», inteso forse come mero sinonimo di «volte» in virtù dello scarto metonimico ‘anno’ = ‘ciclo’ = ‘volta’ (e dunque la precisazione che segue varrebbe appunto a segnalare che la lezione ‘anni’ non può essere intesa alla lettera, poiché gli anni sono sei e non dieci). b Cioè nel terzo dei tre periodi di servizio. Cfr. Gen 31, 41, ove lo stesso Giacobbe, rivolgendosi a Labano, afferma di averlo servito «per vent’anni», di cui «quattordici per le tue figlie e sei per le tue greggi».
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tò via con sé anche la metà del gregge all’insaputa di Labano1, che al momento si trovava lontano per la tosatura delle pecore. Anche Rachele, all’insaputa del marito2, rubò gli idoli preziosi di suo padre e li portò via con sé: non per venerarli (il marito le aveva infatti insegnato che non si dovevano venerare), ma per impetrare perdono rifugiandosi presso di essi, qualora il padre li avesse inseguiti e fatti prigionieri3. Poi Giacobbe, oltrepassato il fiume, avanzò in direzione del Monte Galaad. [31,22-23] Il terzo giorno, fu comunicato a Labano che Giacobbe era fuggito. Egli, presi con sé figli e parenti4, lo inseguì per sette giorni. Giuseppe dice invece: ‘Labano, venuto a sapere della fuga di Giacobbe e delle sue figlie dopo il primo giorno, li inseguì e li trovò accampati su un colle lontano’5. Può darsi che, dal momento che lo ha saputo il terzo giorno, perciò si dica ‘dopo il primo’. Oppure, e più verosimilmente, si dice che lo ha saputo ‘dopo il primo giorno’a perché il messaggero, dopo essere partito in quel momentob, giunse il terzo giorno da Labano, dove i suoi figli stavano facendo pascolare le greggi: ed essi si trovavano separati da Giacobbe di una distanza pari a tre giorni di viaggio, come già detto in precedenzac6. [31,24-35] Poi Labano vide in sogno Dio che gli diceva: “Guàrdati dal parlar male contro Giacobbe!”. Ma egli si svegliò e accusò Giacobbe: “Perché sei fuggito di nascosto da me? E perché hai rubato i miei dèi? Sei figlio di mia sorella, mio genero e mio commenIl testo ricostruito da Sylwan legge Potest dici quia […] tunc post primum diem dicitur cognovisse, quia, etc.: l’autore starebbe proponendo una sola lettura esegetica, che suonerebbe «Può darsi che […] perciò si dica che lo ha saputo ‘dopo il primo giorno’, perché etc.». L’apparato critico segnala che S β γ δ aggiungono dopo primum il segmento testuale vel potius post primum («oppure, e più verosimilmente, etc.»): ne risulterebbero così due proposte interpretative, per quanto la prima piuttosto banale, scandite dalla congiunzione disgiuntiva vel («oppure»). Il senso del passo può funzionare in entrambi i casi: tuttavia – anche ammessa la contaminazione tra i vari gruppi di manoscritti – supporre che in tutti, ad eccezione di P, sia stata integrata quest’aggiunta, e in tutti uguale, ci sembra decisamente anti-economico rispetto all’ipotesi per cui, al contrario, sia stato il solo P a omettere il segmento per banale ‘salto da pari a pari’ (saltando cioè dalla prima alla seconda occorrenza di primum). Traduciamo dunque accogliendo a testo la lezione di S β γ δ. b Cioè dopo il primo giorno, pare di capire. c Cfr. Gen 30, 36, e qui al cap. 74. a
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sale: non avresti dovuto comportarti così!7”. Giacobbe rispose: “Ho temuto che tu mi strappassi a forza le tue figlie: loro, però, stanno seguendo non tanto me quanto i propri figli8. E circa il fatto che mi accusi di furto, venga ucciso di fronte ai nostri fratelli colui in possesso del quale tu avrai trovato i tuoi dèi!”. Labano entrò nelle tende di Lia e delle serve, ma non li trovò. Poi, mentre si apprestava ad entrare nella tenda di Rachele, costei nascose gli idoli sotto la sella del cammello e vi si pose a sedere. E al padre intento a cercare disse: “Non si adiri il mio signore perché non posso alzarmi e andargli incontro: mi sono appena venute ora le cose che vengono alle donne!”. E così ne riuscì delusa la premura di chi era intento a cercare. [31,36-46] Giacobbe adiràtosi lo insultò, dicendogli che non si meritava, in cambio di vent’anni di fedele servizio, che lui frugasse tra tutte le sue cose. E Labano disse: “Tutto ciò che tu possiedi è mio. Ma che cosa posso fare per i miei figli e i miei nipoti? Vieni e stringiamo un patto!”. E Giacobbe prese una pietra e la eresse come titoloa del patto. Poi disse ai suoi fratelli: “Portate qui delle pietre!”. Ed essi, ammucchiandole, ne fecero un cumulo e mangiarono sopra di esso. [31,48a; 52; 50] E Labano disse: “Questo cumulo sia testimone del nostro patto! Che io non abbia ad oltrepassarlo per avanzare contro di te, con l’intenzione di farti del male! E che tu non abbia ad oltrepassarlo arrecandomi danno! Né causerai dolore alle mie figlie, né prenderai altre mogli oltre a loro!”. [31,47; 48b; 55] Quel colle, perciò, Giacobbe nella sua lingua lo chiamò Galaad, che significa ‘cumulo della testimonianza’: da gal cioè ‘cumulo’ e aad ‘testimonianza’. Labano, invece, in lingua sira lo chiamò Igar Sedutha9 . Poi Labano, levàtosi durante la notte, diede loro la sua benedizione e se ne tornò a casa. Giuseppe dice che hanno eretto sul monte una colonna a forma di altare: può darsi che abbia chiamato ‘colonna’ il cumulo10.
L’espressione biblica in titulum («come titolo») figurava già in Gen 28, 18 (qui al cap. 70): il nostro autore ne aveva offerto la glossa esplicativa id est in commendabilem memoriam (da noi resa «ossia: per onorare la memoria»). a
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76. I doni inviati a Esaù
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[32,1-9] Giacobbe riprese il viaggio, e una moltitudine di angeli gli venne incontro. Perciò chiamò quel luogo Manaim, che significa ‘accampamento’: lì vide infatti gli angeli schierati per difenderlo contro il fratello, di cui aveva timore1. Poi inviò da quel luogo messaggeri alla volta del fratello perché sondassero quale fosse la sua disposizione d’animo2. Al ritorno, essi portarono la notizia che Esaù gli stava marciando incontro pacificamente3 con quattrocento uomini. Perciò Giacobbe fu assalito da timore: non perché non aveva fiducia nella promessa degli angeli, ma perché fu preso da turbamento come è abitudine degli uomini4. E così divise tutti coloro che si trovavano al suo séguito in due schiere: le serve e i loro figli nella prima schiera, le donne libere e i loro figli nella seconda, in modo tale però da riservare l’ultima posizione a Rachele e a Giuseppea come se gli stessero più a cuore5. Vi è perciò chi ha erroneamente sostenuto che Rachele e Giuseppe si trovassero in una terza schiera6. Adottò questo tipo di divisione in modo tale che, se Esaù fosse giunto con l’intenzione di nuocere e avesse sbaragliato la prima schiera, la seconda avrebbe potuto salvarsi fuggendo. [32,14; 17; 21-22] Sempre in quel luogo mise poi da parte, come doni per suo fratello, tutto quanto vi era di più bello e di più raro tra i beni che possedeva, e anche animali di diverse specie. Glieli inviò inoltre per mezzo di svariati messaggeri e frapponendo una certa distanza tra gregge e gregge, perché i doni sembrassero numerosi appunto per la frequenza con cui si susseguivano l’un l’altro: in tal modo, se mai Esaù avesse nutrito ancora del rancore, i doni avrebbero potuto placarlo7. Perciò i doni furono mandati avanti per primi, mentre egli ancora si tratteneva a Manaim. [32,23-24] Poi, alzàtosi prima dell’alba, trasportò le mogli e i figli, insieme con tutti i suoi beni, al di là del Guado dello Iaboc. {Lo Iaboc, che Giacobbe attraversò a guado, si trova a due miglia dal Giordano, nel territorio dell’Idumea8.} Giuseppe dice che attraversò un torrente di nome Iaboc9. Nella Genesi si legge che Giacobbe, Il preciso criterio adottato nella divisione si legge in Gen 33, 2: Pietro Comestore anticipa qui il dato per completezza d’informazione. a
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mentre stava pregando perché temeva il fratello, aveva detto: “Ho attraversato con il mio bastone il Giordano che è qui di fronte, e ora faccio ritorno con due schiere!”a. Può darsi che fosse il Giordano quello che attraversò e che, essendo in quel punto pietroso e dal corso torrenziale, era perciò chiamato Guado dello Iaboc10. E può anche darsi che, per un errore del copista, si legga ‘Iaboc’ in luogo di ‘Iacob’: e il nome ‘Guado di Iacob’ sarebbe stato coniato proprio perché Giacobbe (Iacob) aveva attraversato in quel punto11.
77. La lotta di Giacobbe contro l’angelo e il mutamento del suo nome [32,25-26] Mentre le schiere lo precedevano, egli rimase solo sulla riva del fiume a pregare1. Ed ecco che un uomo prese a lottare contro di lui fino al mattino, e gli colpì il nervo largo2 del fianco, che incancrenì. [32,33] Perciò Giacobbe decise che da quel momento in poi non avrebbe più mangiato il nervo, e anche la sua discendenza osserva questo precetto3. [32,27-30] Quando si levò l’aurora, quell’uomo gli disse: “Lasciami andare!”. Ma gli rispose: “Non ti lascerò andare se tu non mi avrai benedetto!”. Poi, all’uomo che gli chiedeva quale fosse il suo nome, egli disse di chiamarsi Giacobbe. E quello disse: “Non più Giacobbe sarà il tuo nome, ma Israele: se infatti sei stato forte contro Dio, quanto più prevarrai contro gli uomini!”. E così benedisse Giacobbe. Lo benedisse, cioè, mutandogli il nome e confortandolo a non temere il fratello4. L’essere rimasto invitto contro Dio, gli accadde infatti a simboleggiare che sarebbe rimasto invitto contro il fratello. Giuseppe sostiene che il nome Israele in ebraico significa ‘colui che lotta contro l’angelo sacro’5. Nel Libro dei nomi ebraici se ne indica invece il significato di ‘uomo che vede Dio’ (da is, che significa ‘uomo’; hel, che è il nome di Dio; ra, che significa Citazione alla lettera da Gen 32, 11, omessa a suo luogo, ma qui recuperata funzionalmente alla lettura esegetica che il nostro autore intende proporre del toponimo Guado dello Iaboc. a
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‘che vede’) oppure di ‘mente che vede Dio’: Girolamo dice però che si tratta di una spiegazione proposta non tanto secondo verità, quanto secondo una forzatura. Per la spiegazione proposta da Giuseppe, dice di non aver trovato un riscontro in ebraico. E sostiene invece che il nome significa ‘principe con Dio’: dice infatti che così l’angelo stesso ne avrebbe inteso il significato dicendo: “Se sei stato principe – ovvero: forte – contro Dio” eccetera6. [32,31-32] Perciò Giacobbe chiamò quel luogo Phanuel, che significa ‘viso di Dio’7, e disse: “Ho visto il Signore viso a viso, e la mia anima ne è uscita salva!”, ossia: da molto terrorizzata ne è uscita assai confortata. Dopo che si fu lasciato alle spalle Phanuel, gli si levò di fronte il sole, ed egli continuava a zoppicare.
78. L’incontro con Esaù e l’acquisto di un campo in Sichem
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[33,1-10] Poi, levàti gli occhi, vide Esaù con quattrocento uomini. E, avanzando a capo di entrambe le schiere che aveva predispostoa, lo adorò prostrandosi a terra per sette volte. Ma Esaù gli corse incontro, lo abbracciò e, mentre lo baciava, pianse. Gli chiese poi di chi fossero le donne e i bambini e, saputo che erano di Giacobbe, si avvicinò a loro e li baciò. E poiché Esaù, dicendo di essere già molto ricco, non voleva accettare i doni che gli erano stati inviati, Giacobbe disse: “Se ho trovato grazia agli occhi del mio signore, accetta un piccolo dono dalle mie mani: io ho visto il tuo volto come se avessi visto il volto di Dio!”. Vale a dire: di qualcuno assai potente; infatti, né credeva che Esaù fosse Dio, né si sarebbe mai lasciato andare ad una tale forma di idolatria1. [33,16-17] E così Esaù fece ritorno quello stesso giorno a Seir: cioè al villaggio che aveva così chiamato dal suo nomeb2. Giacobbe, invece, proseguì oltre e pose le tende nel luogo a cui perciò diede il nome di Sochot, che significa ‘Tende’. A tal proposito, Girolamo osserva: ‘Sochot è tuttora una città al di là del Giordano, nel terCfr. al cap. 76 (e relativa p. 206, n. a). Il nome Seir è infatti uno degli appellativi di Esaù: cfr. al cap. 65, con relativa spiegazione etimologica. a
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ritorio di Sicopoli’3. È il luogo in cui Gedeone aveva attraversato il Giordano quando parlò agli uomini di Sochota. Tuttavia, è singolare che Girolamo abbia detto ‘al di là del Giordano’, dal momento che, secondo l’opinione di alcuni, già si era detto che Giacobbe aveva attraversato il Giordano allorché si trovava in Sochot. Può darsi che abbia detto ‘al di là del Giordano’ dal punto di vista della Mesopotamia, dalla quale Giacobbe stava facendo ritorno. Oppure, e più verosimilmente, Giacobbe non aveva ancora attraversato il Giordano, bensì lo Iaboc: e quando poco prima egli disse ‘il Giordano che è qui di fronte’ b, non lo additò come se davvero lo avesse lì di fronte, ma vi alluse semplicemente quale noto confine della Giudea4. [33,18-20] Da Sochot si spostò in Salem, ossia la città dei Sichimi. Cioè in Sichem: da Sichem derivano infatti il loro nome i Sichimi o Sichimiti. Può darsi che la città avesse due nomi. Oppure, come tramandano gli Ebrei, Mosè soltanto in quest’occasione la chiamò Salem, che significa ‘giunta a compimento’ e ‘perfezionata’, perché qui il fianco di Giacobbe zoppicante fu guarito5. Poi Giacobbe acquistò nei pressi del villaggio un appezzamento di terra da Emor re dei Sichimic e dai suoi figli, al prezzo di cento agnelli. Vi si stanziò e, costruito un altare, invocò il fortissimo Dio di Israele.
79. La morte dei Sichimiti per il rapimento di Dina [34,1-4] Poi Dina uscì a vedere le donne di quella regione. Giuseppe riferisce infatti che, mentre i Sichimiti celebravano una ricorrenza solenne, da sola si recò in città per comperare gli ornamenti tipici delle donne di quella regione1. Ma vedendola, Sichem, il figlio del re, se ne innamorò, la rapì, e fece violenza alla ragazza ancor ver-
Cfr. Giud 8, 4 ss. Cfr. Gen 32, 11, e qui al cap. 76 (p. 207, n. a). c Il dettaglio, qui anticipato, è desumibile da Gen 34, 2, ove Sichem, il figlio di Emor, è qualificato come «principe di quella terra». a
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gine. La sua anima divenne una cosa sola con lei, e disse al padre: “Prendimi la ragazza in moglie!”. [34,6-24] Quando il re uscì con suo figlio per andare da Giacobbe, i figli di Giacobbe stavano tornando dai campi, e adiràti non risposero nulla2. Poi, al re che chiedeva reciproca amicizia e alleanza e che combinassero matrimoni tra di loro, e a Sichem che avanzava molte offerte e prometteva cose ancora più grandi, essi risposero con un inganno: “Non è lecito presso di noi allearsi con uomini non circoncisi: circoncidetevi e saremo un sol popolo!”. La proposta piacque a Emor e a suo figlio, e il giovane non esitò a fare in modo che la cosa si compisse sùbito. Entrarono in città e persuasero il popolo: e tutti furono circoncisi3. [34,25-30] Ed ecco il terzo giorno, quando è fortissimo il dolore per la ferita, Simeone e Levi, impugnate le spade, senza timore entrarono in città: e, dopo aver ucciso ogni persona di sesso maschile, portarono via dalla casa di Sichem la loro sorella. Poi, gli altri fratellia infierirono sui cadaveri, e saccheggiarono la cittàb, e portarono via come prigionieri i bambini e le donne. Giuseppe riferisce invece: ‘Mentre si teneva una festa e i Sichimiti riposavano e banchettavano, essi senza indugio assalirono le prime guardie e le uccisero nel sonno’4. Quando venne a conoscenza dell’accaduto, Giacobbe disse: “Simeone e Levi, mi avete sconvolto e mi avete reso odioso agli abitanti di questa terra: si scaglieranno contro di me e sarò sterminato io e la mia famiglia!”. [35,1-4] Ma il Signore, rincuorandolo, gli disse: “Àlzati e sali a Bethel! Va’ ad abitare lì e costruisci un altare nel luogo in cui io ti sono apparsoc! Prima, però, purifica i tuoi!5”. Ma Giacobbe, conIl testo biblico legge qui «figli di Giacobbe», e perciò «fratelli» di Simeone e Levi: si rammenti, tuttavia, che questi due erano fratelli germani di Dina, in quanto figli di Giacobbe e Lia (cfr. Gen 29, 33-34 e 30, 21: qui ai capp. 72 e 73). b Il testo èdito da Sylwan legge et depopulati sunt urbem ingressi, ossia «e saccheggiarono la città dopo esservi entrati». Il participio ingressi, tuttavia, non figura in Gen 34, 27 né risulta coerente con la logica narrativa (l’aver infierito sui cadaveri implica già di per sé l’entrata in città); l’apparato critico, peraltro, segnala che S Tr To δ lo omettono: l’impressione è possa trattarsi di un errore per persistenza rispetto a poche righe prima, ove si era detto confidenter urbem ingressi sunt («senza timore entrarono in città»). Riteniamo perciò opportuno tradurre espungendo ingressi. c Durante la fuga di Giacobbe in Mesopotamia: cfr. Gen 28, 12-22, e qui al cap. 70. a
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vocata tutta la sua casa, mentre stava purificando i suoi – come racconta Giuseppe – trovò gli dèi di Labano: non sapeva infatti che Rachele li avesse nascosti sotterrandoli sotto un alberoa6. E disse ai suoi: “Gettàte via gli dèi stranieri e purificatevi! E saliamo a Bethel!”. Avevano infatti portato via da Sichem anche idoli e orecchini, cioè gli ornamenti degli idoli: il tutto indicato attraverso una sua parte7. Giacobbe sotterrò tutti gli oggetti sotto un terebinto fuori dalla città di Sichem. Alcuni tramandano che David li abbia portati a Gerusalemme, e li abbia fusi come materiale di costruzione per il tempio che aveva progettato di costruire8. [35,5-10] Poi, il terrore di Dio assalì i popoli confinanti in modo tale che non inseguissero Giacobbe. Costui partì e giunse a Bethel: costruì un altare al Signore e gli immolò le offerte sciogliendo il voto che un tempo aveva formulatob. Nel frattempo, morì Delbora, la nutrice di Rebecca, e fu sepolta nei pressi di Bethel sotto un terebinto, e il luogo fu chiamato ‘Quercia del Pianto’. Si osservi che qui pare che la quercia e il terebinto siano considerati come fossero la stessa cosa9. E gli apparve di nuovo il Signore, che gli disse: “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele sarà il tuo nome!”. E si rivolse a lui chiamandolo Israele. Di qui si deduce chiaramente che Dio, in precedenza, gli aveva soltanto promesso il nomec; ora, invece, glielo attribuisce a tutti gli effetti10.
80. Rachele muore mentre dà alla luce Beniamino [35,16-18] Poi Giacobbe partì e in primavera giunse nella terra che conduce a Effrata, ossia a Betlemme1. Si tratta di un’anticipazione: a Si rammenti che il testo biblico aveva riferito sì del furto commesso da Rachele, narrando però che gli idoli di Labano erano stati nascosti «sotto la sella del cammello» (cfr. Gen 31, 19 e 31, 34: qui al cap. 75); nulla, invece, accenna in séguito quanto al ritrovamento della refurtiva. b In Gen 35, 7 si menziona soltanto la costruzione dell’altare; il voto cui si allude è quello in effetti formulato da Giacobbe in occasione della fuga in Mesopotamia (cfr. Gen 28, 22, e qui al cap. 70). c Il riferimento è alle parole pronunciate dal misterioso uomo durante la lotta contro Giacobbe: cfr. Gen 32, 29, e qui al cap. 77.
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soltanto in séguito, infatti, prese il nome di Effrata dalla moglie di Caleb, che vi fu sepolta2. E lì Rachele, mentre si apprestava a partorire, iniziò ad accusare sofferenza, e tuttavia partorì un figlio. Mentre stava per esalare l’ultimo respiro a causa del dolore del parto, in punto di morte chiamò il figlio Bennoni, ossia ‘figlio del dolore’. Il padre, invece, lo circoncise3 e lo chiamò Beniamino, ossia ‘figlio della destra’. [35,19-22] Rachele fu poi sepolta lungo la via che conduce a Betlemme. Fu la sola a non ottenere l’onore della sepoltura accanto ai propri parentia4. E Giacobbe eresse sul suo sepolcro un monumento commemorativo che è visibile tuttora. Poi egli partì da lì e pose la tenda al di là della Torre di Ader, che significa ‘Torre del Gregge’5. Gli Ebrei sostengono che questo sia il luogo dove fu poi costruito il tempio, e che a mo’ di profezia sia chiamato ‘Torre del Gregge’, in riferimento cioè alla futura congregazione presso il tempio. Girolamo, invece, sostiene si tratti di un luogo nei pressi di Betlemme: o dove una congregazione di angeli cantò al momento della nascita del Signoreb, o dove Giacobbe fece pascolare le sue greggi, lasciando dunque al luogo questo nome6. Poi, mentre abitava qui, Ruben si unì a Bala, concubina del padre: tuttavia ciò non sfuggì a Giacobbe.
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81. La morte di Isacco e i re di Edom [35,27-29] Poi Giacobbe si recò da suo padre Isacco nella città di Hebron. Qui venne a sapere che la madrec era già morta. Non molto tempo dopo il suo arrivo, si compirono anche i giorni di Isacco, per un totale di 180 anni (o, secondo Giuseppe, di 185 anni). E fu unito al suo popolo, carico dei suoi giorni, e lo seppellirono i suoi figli, Giacobbe ed Esaù: nella spelonca dupliced. Qui si conclude il primo libro di Giuseppe1. a Vale a dire nella spelonca duplice acquistata da Abramo in Hebron: cfr. al cap. 59. b L’allusione è verosimilmente a Lc 2, 13. c Ossia Rebecca. d Cfr. al cap. 59.
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LA GENESI, 81
[36,1-43]a Poi, dopo la morte del padre, Esaù e Giacobbe si arricchirono al punto tale che la medesima terra non poteva più contenerli entrambi. Perciò Esaù fece ritorno alla terra montuosa da cui si era allontanato2. E dal nome di Edom quella terra fu chiamata Idumeab, mentre prima si chiamava Bosra3. Quando infatti Mosè elenca i dodici re di quella terra, dal primo all’ultimo che egli poté vedere4, dice: e dopo Bale regnò Iobab, figlio di Zara, dalla terra di Bosrac. Alcuni sostengono che costui fosse Giobbe (Iob), pronipote di Esaù: ma gli Ebrei, come già osservatod, respingono questa ipotesi5. Dal testo di Genesi, inoltre, risulta che la stessa terra, prima di Esaù, si chiamò anche Seire. {Ai piedi del Monte Seir vi è la città di Damasco. L’Idumea si trova nella terra di Damasco: anche lo stesso Esaù abitò infatti in Damasco. Una metropoli dell’Idumea è Theman, da cui il nome Eliphaz Themanita; un’altra è Suetan, da cui il nome Baldach Suitaf. Bosra si trova al confine tra l’Idua L’intero cap. 36 di Genesi è dedicato all’elenco di quattro genealogie distinte e assai nutrite: stirpe e capi di Esaù (vv. 1-19); stirpe e capi di Seir l’Horreo, il capostipite del popolo che abitava la terra di Esaù prima di costui (vv. 20-30); re della terra di Edom prima dei re d’Israele (vv. 31-39); altro elenco dei capi di Esaù (vv. 40-43). Pietro Comestore non si cura di riportare l’intera onomastica, ma si limita ad appuntare, peraltro in un ordine che non rispetta quello dell’esposizione biblica, alcune osservazioni in merito a singoli elementi testuali: la separazione di Esaù da Giacobbe (Gen 36, 6-8); i toponimi del luogo in cui Esaù si stanzia, con riferimento ai nomi Bosra (Gen 36, 33) e Seir (Gen 36, 8-9 e Gen 36, 20); qualche nota circa l’articolazione interna del capitolo biblico in esame; un excursus semantico che trae spunto da quanto si dice di Ana (Gen 36, 24); un’osservazione sui nomi attribuiti alle mogli di Esaù (Gen 36, 2-3); un appunto su Amalech (Gen 36, 12). b Cfr. già al cap. 66: si rammenti che Edom è uno degli appellativi di Esaù. c Cfr. Gen 36, 33. d Il rimando è al termine del cap. 58, ove si era detto che il testo ebraico non riporta, in conclusione del Libro di Giobbe, il dettaglio sulla discendenza in quarta linea di Giobbe da Esaù. e Cfr. Gen 36, 8-9, ove si indica precisamente il «Monte Seir» quale luogo di insediamento di Esaù e della sua stirpe. Nel prosieguo, e come già nel caso del nome Bosra, il nostro autore avanzerà una proposta di derivazione etimologica per il toponimo, giustificata sempre sulla base di quanto si legge nel testo biblico. f I nomi di Eliphaz Themanita e di Baldach Suita sono menzionati in Giob 2, 11: si tratta di due dei tre amici con i quali Giobbe dialoga nel libro veterotestamentario che da lui trae il nome.
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mea e l’Arabia. Il Libanoa separa l’Idumea dalla Fenicia, e ai suoi piedi nascono i fiumi Albana e Farfar, che lambiscono la città di Antiochia6.} Dopo aver elencato i figli di Esaù, Mosè elenca infatti i prìncipi degli Horrei, che erano vissuti in quella terra prima di Esaù7, a proposito dei quali così esordisce: Questi sono i figli di Seir l’Horreo, gli abitanti della terrab eccetera. Come si legge nelle Cronachec, gli Horrei furono infatti cacciati da Esaù8. Alcuni sostengono però che qui siano elencati i re che regnarono in Edom prima che i figli di Israele avessero un loro red, ossia Saule; e sostengono che questo elenco sia stato composto da Esdraf, il quale poté esserne a conoscenza9. Tra costoro che vengono elencatig, a proposito di Ana, figlio di Sebeon e la cui figlia Esaù prese in moglieh, si legge che trovò acque calde nel deserto mentre stava facendo pascolare le asine di suo padrei . Nel testo ebraico si legge che ‘trovò iamnum’: termine su cui, S’intende qui verosimilmente il Monte Libano, omonimo del territorio circostante. b Cfr. Gen 36, 20. c Per la verità, si legge in Deut 2, 12: cfr. nel merito alla n. 8. L’italiano Cronache traduce il latino Paralipomenon: più spesso attestato al plurale Paralipomena, traslitterazione del participio greco Παραλειπόμενα, alla lettera «cose tralasciate» o «cose omesse»; così il testo greco dei Settanta e quello latino della Vulgata intitolano i due libri veterotestamentari delle Cronache, poiché integrano e/o continuano vicende già accennate nei precedenti libri (secondo la scansione attuale, i due Libri di Samuele e i due Libri dei Re). d Cfr. la formula con cui Gen 36, 31 introduce il successivo elenco: reges autem, qui regnaverunt in terra Edom antequam haberent regem filii Israhel, fuerunt hii, ossia «quanto ai re che regnarono nella terra di Edom prima che i figli di Israele avessero un re, furono questi». Non è affatto chiaro il senso istituito dal nesso tamen…hic («però…qui») in relazione a quanto precede, dal momento che la nuova sezione testuale non mostra legame (tantomeno avversativo) con la precedente. e Primo re degli Israeliti, sulle cui vicende cfr. 1Sam 9-31. f Sacerdote e scriba, da cui trae il nome l’omonimo libro veterotestamentario, Esdra fu il principale fautore, insieme a Neemia, della restaurazione della comunità giudaica in séguito all’esilio babilonese. g Non è chiaro a quale elenco Pietro Comestore alluda: il dimostrativo ‘costoro’ farebbe pensare all’ultimo appena menzionato, ossia a quello dei re della terra di Edom prima dei re d’Israele, se non che Ana compare invece nell’elenco dei discendenti di Seir l’Horreo. h Rapporti di parentela ricavabili da Gen 36, 2. i Cfr. Gen 36, 24. a
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come riferisce Girolamo, gli Ebrei variamente dibattono. Secondo alcuni, iamnum significa ‘mari’: nel senso che avrebbe trovato un lago nel deserto. Altri ritengono che questo termine significhi ‘acque calde’ nella lingua punica, che è affine all’ebraico (quelle che chiamano ‘acque termali’). Altri sostengono che abbia operato un incrocio tra onagri e asine, in modo che nascessero asini veloci il cui nome è appunto iamnum. Altri ancora ritengono che iamnum significhi ‘accoppiamento’: per primo, infatti, avrebbe fatto montare le cavalle dagli asini, in modo che nascessero i muli10. Si noti che Mosè, quando ricapitola i figli di Esaù, attribuisce alle sue mogli nomi diversi rispetto a quelli che aveva attribuito loro in precedenza11. Giuseppe riferisce inoltre che Amalech, figlio naturale che nacque ad Esaù da una concubina, abitò nella zona dell’Idumea che prima si chiamava Gobolitide, e la chiamò Amalechite12. Ma su ciò non occorre dilungarsi: passiamo invece a trattare della stirpe di Giacobbe. Sincronie. Nel medesimo periodo, si tramanda che Prometeo, fratello di Atlante, per primo abbia creato gli uomini: sia nel senso che li rese dotti da ignoranti quali erano; sia nel senso che, come si legge, creò delle immagini che fece poi camminare per mezzo di un qualche artificioa. Inoltre, fu il primo ad inventare l’anello, inteso come l’ornamento in ferro. E vi incastonò una gemma: lo chiamò perciò anche ‘ungulo’ perché, come l’unghia è circondata dalla carne, così la gemma dal metallo. Insegnò inoltre che lo si portasse come ornamento sul quarto dito, che chiamano ‘dito medico’ b: disse che questo dito è più importante degli altri, perché una vena scorre da esso fino al cuore. Si tramanda che a quel tempo, inoltre, Trittolemo, con un’imbarcazione su cui era dipinto un drago, sia giunto in Grecia e abbia introdotto innovazioni
a I fratelli Prometeo e Atlante sono due figure mitologiche appartenenti alla leggendaria stirpe dei Titani. Nella fattispecie, il mito greco fa di Prometeo l’artefice degli uomini, che avrebbe avviato alla civiltà donando loro il fuoco. b Nome popolare del quarto dito della mano, il cosiddetto ‘anulare’ appunto.
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nell’agricolturaa. Poi Cerereb inventò anche, oltre agli strumenti per l’aratura, il modo per misurare il grano: prima, invece, le messi venivano riposte in covonic e il raccolto veniva contato per cumuli. Perciò Cerere fu chiamata Demetra dai Grecid. Inoltre a quel tempo i Telchinie, dopo essere stati sconfitti ed esiliati, fondarono Rodi13.
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82. Giuseppe viene venduto [37,2a] All’età di 16 anni Giuseppe pascolava il gregge di suo padre. Si sappia che Giuseppe fu venduto 12 anni prima della morte di Isacco: ciò risulta comprovato dai calcoli che seguono. Isacco aveva 60 anni quando nacque Giacobbe, e morì all’età di 180 annif. Giacobbe aveva perciò 120 anni quando il padre morì; aveva invece 108 anni quando il figlio fu vendutog. Quando infatti andò da Giuseppe in Egitto, Giacobbe aveva 130 annih; ma tra la sua discesa in Egitto e la vendita di Giuseppe erano trascorsi 22 anni: Giuseppe, infatti, era nel suo 17° anno di vitai quando fu venduto a Secondo la versione più diffusa del mito, Trittolemo, re di Eleusi, ospitò nella sua città la dea Demetra, che in cambio gli donò un carro trainato da draghi alati, sul quale Trittolemo avrebbe poi dovuto percorrere l’intera Grecia per insegnare l’agricoltura. b Il corrispettivo romano della greca Demetra, dea dell’agricoltura. c In latino in archoniis: sul preciso significato del termine archonium, di uso assai raro, cfr. al cap. 33, n. 2. d Il dettato non è perspicuo. Pare di capire che Demetra fu così chiamata appunto in virtù dell’innovazione da lei introdotta: va detto che, in genere, l’etimologia del nome è ricondotta al greco μήτερ, ossia «madre»; l’ipotesi di derivazione qui proposta si direbbe, invece, procedere dal verbo mensurari («misurare»), in greco μετρέω, da cui il nome di Demetra. e Esseri demoniaci della mitologia greca, ritenuti i primi abitanti dell’isola di Rodi. f Cfr. rispettivamente Gen 25, 26 e Gen 35, 28. g La prima indicazione si ricava incrociando i due dati segnalati immediatamente prima; la seconda, invece, incrociando quelli segnalati nel prosieguo. h Cfr. Gen 47, 9. i Nel testo latino septemdecim annorum erat (lett. «aveva 17 anni»), indicazione anagrafica che Pietro Comestore deriva puntualmente dalla fonte (cfr. alla n. 1): tuttavia, perché i conti abbiano a tornare e tale dato non risulti incongruente
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in Egitto, e aveva 39 anni quando suo padre andò da lui. {Tale età risulta infatti se si sommano i 30 anni che Giuseppe aveva quando si presentò al cospetto del Faraone, i 7 anni dell’abbondanza e i 2 anni iniziali della carestiaa1. Ma come poté dunque Giuseppe ricordarsi in Egitto di Beniamino, che neppure conosceva?2} Se ne conclude perciò che Mosè torna qui ad occuparsi di fatti che in precedenza aveva omesso di narrare. Mentre perciò Giacobbe tornava dalla Mesopotamia e non era ancora giunto da suo padreb – mentre ancora Rachele era in vita, secondo Flavio Giuseppec – la vendita di Giuseppe avvenne nel modo che segue. [37,2b-4] I fratelli lo odiavano perché era amato dal padre più di tutti gli altri: sia perché il padre lo aveva generato durante la vecchiaia, sia perché Giuseppe era più robusto nel corpo e più saggio di tutti i suoi fratelli3. E Giuseppe, di fronte al padre, aveva accusato i suoi fratelli di un crimine bruttissimo: o dell’odio che nutrivano verso lo stesso Giuseppe; o del fatto che si univano sessualmente con le bestie; o l’accusa fu rivolta al solo Ruben a motivo della concubina del padred4. [37,3b] E il padre gli fece una tunica riccamente istoriata: dipinta o a mano o con l’ago. Oppure, secondo Aquila, una tunica ‘astragalea’, ossia ‘lunga fino ai piedi’; o ancora, secondo Simmaco, una tunica ‘manicata’, ossia ‘con le maniche’ (gli altri, invece, rispetto a Gen 37, 2a, si dovrà intendere che «era nel suo 17° anno di vita» ossia «aveva 16 anni». a Cfr. rispettivamente Gen 41, 46, Gen 45, 6 e Gen 41, 29-30. b Dimostrata la necessità di postulare un flashback nella narrazione biblica, il nostro autore segnala perciò il momento in cui più precisamente è da collocare la vendita di Giuseppe: si rammenti che Giacobbe si era recato in Mesopotamia da Labano per prendere moglie (cfr. Gen 39 ss., e qui ai capp. 70 ss.) e che, una volta ritornato nella terra di Chanaan, si era recato in Hebron dal padre Isacco, che dopo poco tempo era morto (cfr. Gen 35, 27-29, e qui al cap. 81). c Da questo punto del testo in poi, corre l’obbligo di tradurre Iosephus non più soltanto «Giuseppe», ma «Flavio Giuseppe»: ciò onde evitare la confusione con il nome di Ioseph, ossia «Giuseppe», figlio di Giacobbe e protagonista dei capitoli che seguono. Il motivo per cui la narrazione di Flavio Giuseppe presuppone che Rachele, madre di Giuseppe, fosse ancora in vita al momento della vendita del figlio, sarà giustificato nel prosieguo del capitolo. Si rammenti che Rachele morì, dando alla luce Beniamino, durante il viaggio di ritorno di Giacobbe dalla Mesopotamia alla terra di Chanaan (cfr. Gen 35, 16-20, e qui al cap. 80). d Si allude all’episodio riferito in Gen 35, 22, e qui al termine del cap. 80.
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LA GENESI, 82
indossavano tuniche senza manichea per essere più liberi nei movimenti)5. Può darsi che si dica ‘manicata’ nel senso di ‘dipinta a mano’, ricamata cioè con l’agob. [37,5-10] Ma il motivo più grande del loro odio furono i sogni che fece Giuseppe. Costui, infatti, riferì ai fratelli un sogno che aveva fatto: “Ho sognato che stavamo legando dei fasci nel campo, e che i vostri fasci adoravano il mio fascio che stava ritto in piedi6”. Essi risposero: “Sarai tu forse il nostro re o saremo sottomessi al tuo potere?”. Poi, alla presenza del padre, riferì loro anche un altro sogno: “Ho sognato come se il sole e la luna e undici stelle mi stessero adorando”. Il padre lo rimproverò e gli disse: “Forse che io e tua madre e i tuoi fratelli ti adoreremo prostrandoci a terra?”. E queste parole hanno effettivamente un senso: la madre, infatti, era ancora in vitac; se non che, poi, non lo adorò perché non scese in Egitto. E neppure si legge che l’abbia adorato suo padre7: poiché, in tal caso, sarebbe stato Giuseppe a non tollerarlo. Lo adorarono invece i suoi fratellid: e perciò i genitori attraverso i loro figli. [37,12-24] Poi, mentre i fratelli dimoravano in Sichem per pascolare le greggi, il padre vi mandò Giuseppe dalla valle di Hebron per vedere come stessero i fratelli e il bestiame. Ma Giuseppe, non avendoli trovati in Sichem, li andò a cercare a Dotaim. Essi, non appena lo videro da lontano, così presero a dirsi l’un l’altro: “Ecco a In latino colobia (sing. colobium), tecnicismo di derivazione greca: dal gr. κολόβιον, appunto «tunica senza maniche». b Il testo ricostruito da Sylwan legge Potest dici manicata manu picta et acu, scilicet superinducta (il cui senso suonerebbe «Può darsi che si dica ‘manicata’ [scil. ossia] dipinta a mano e con l’ago, cioè ricamata»). Il passo, che non trova riscontro nelle fonti a noi note, sembra proporre un’altra possibile etimologia dell’aggettivo manicata, sebbene l’usus scribendi del nostro autore vorrebbe piuttosto la formula …manicata ID EST… («…‘manicata’ OSSIA…»). In tal senso, riteniamo opportuno tradurre espungendo la congiunzione et («e»), che l’apparato critico segnala omessa da β γ δ: quanto segue, ossia il sintagma acu scilicet superinducta («ricamata cioè con l’ago»), sarebbe dunque un’ulteriore glossa, esplicativa di manu picta («dipinta a mano»). Tale soluzione rende superflua la virgola tra acu e scilicet inserita a testo dall’editrice. c A maggior ragione, cioè, le parole di Giacobbe sono spia del fatto che, come segnalato qualche riga sopra, la narrazione veterotestamentaria sottende un flashback. d Così, infatti, in Gen 42, 6 (cap. 88), 43, 26 (cap. 90) e 50, 18 (cap. 110).
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LA GENESI, 82
che arriva il sognatore! Venite, uccidiamolo e gettiamolo in una vecchia cisterna! E poi diremo che una bestia ferocissima lo ha divorato!”. Ruben, però, che voleva lasciarlo libero, diceva: “Non versiamo sangue innocente! Piuttosto, gettiamolo vivo nella cisterna: altrimenti, anche nostro padre e nostra madre moriranno per il dolore del lutto!8”. Di qui si deduce che Flavio Giuseppe suppone che la madre fosse ancora in vitaa. E perciò, dopo averlo denudato della tunica riccamente istoriata, lo gettarono in una cisterna che non conteneva acqua. Poi Ruben si allontanò in cerca di migliori pascoli9. [37,25-28] Poi, mentre sedevano a mangiare il pane, videro degli Ismaeliti che giungevano da Galaad e che portavano in Egitto sui loro cammelli aromi, resina e stacte (cioè la ‘mirra’10). E Giuda disse ai suoi fratelli: “È meglio che il ragazzo sia venduto agli Ismaeliti, e che le nostre mani non si macchino celando il suo sangue: egli, infatti, è nostra carne e nostro sangue!”. E così lo vendettero ai Madianiti per trenta denari d’argento11. Il testo sacro chiama qui ‘Madianiti’ gli stessi che prima ha chiamato ‘Ismaeliti’. Per la verità, Madian è il figlio che Abramo ebbe da Cethura, e Ismaele è il figlio che gli nacque da Agar. Si legge inoltre che Abramo separò gli uni dagli altri i figli nati da mogli diverse: essi, dapprima separati, in séguito si ricongiunsero e diventarono un sol popolo conservando i nomi di entrambi i progenitori. Oppure bisogna supporre che sia vero quanto sostengono gli Ebrei, secondo cui Agar e Cethura sarebbero la stessa personab: e perciò, forse, i due popoli mai furono separati12. [37,29-35] Quando Ruben tornò alla cisterna, non vi trovò il ragazzo. E, credendo che fosse stato ucciso, strappatosi le vesti, seguitava a singhiozzare; ma poi, dopo aver saputo che era ancora vivo, si placò13. Poi presero Giuseppe e intinsero la sua tunica nel sangue di un agnello, e mandarono degli uomini a portarla al padre dicendo: “Abbiamo trovato questa: vedi un po’ se è la tunica di tuo figlio!”. Il a Le parole pronunciate da Ruben, che – si badi – non è il testo biblico a riferire, ma appunto Flavio Giuseppe (cfr. alla n. 8), dimostrerebbero cioè quanto accennato sopra: secondo la narrazione di Flavio Giuseppe, la vendita di Giuseppe ebbe luogo quando ancora Rachele era in vita. b Tradizione già riferita e giustificata al cap. 62.
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LA GENESI, 82-83
padre, non appena l’ebbe riconosciuta, disse: “Una bestia ferocissima ha divorato mio figlio Giuseppe!”. E, strappatosi le vesti e indossato il cilicio, pianse il figlio per lungo tempo. Poi, quando i suoi figli si riunirono per lenire il dolore del padre, egli non volle ascoltarli, e anzi diceva: “Scenderò all’inferno piangendo mio figlio!”. Nell’inferno c’era infatti un luogo per i beati, di molto separato dai luoghi dove si scontavano le pene, che per la sua quiete e per il fatto di trovarsi separato dagli altri era detto ‘seno’a: proprio allo stesso modo in cui noi usiamo definire un ‘seno’ del mare. E fu detto anche ‘seno di Abramo’ perché anche Abramo si trovava lì in attesa fino alla morte di Cristo14.
83. Giuseppe entra in Egitto
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[37,36] I Madianiti vendettero Giuseppe in Egitto all’eunuco Putifarre, capo dell’esercito del Faraone. Secondo altra lezione, invece, ‘all’archimacherus’ ossia ‘al capo dei cuochi’: machera è infatti il termine che si utilizza per indicare la ‘cucina’ oppure il ‘coltello’ dei cuochi, da machere che significa ‘uccidere’1. E ciò è tutt’altro che infondato: presso molti popoli, infatti, il cameriere del re è il dignitario di più alto onore ed è anche il capo dell’esercito2. Flavio Giuseppe lo chiama invece Petefre: Girolamo, però, sostiene che il nome non sia stato ben tradotto3. Ebbe moglie e figli, e lo stesso Giuseppe prese in moglie una sua figliab; né tantomeno costui fu uno degli eunuchi del re che venivano castrati da bambini. Gli Ebrei, invece, tramandano che Putifarre, vedendo che Giuseppe era di bell’aspetto, lo comprò per unirsi a lui. Il Signore, tuttavia, per preservare Giuseppe, rese frigido Putifarre a tal punto che, da quel momento in poi, egli non fu più in grado di avere un rapporto sessuale, proprio come se fosse un eunuco. Sicché gli
Luogo cui si era già fatto cenno, ma senza fornire adeguata spiegazione, al cap. 62. b Cfr. Gen 41, 45, e qui al cap. 87. a
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LA GENESI, 83-84
Ierofantia, vedendo che era impotente, secondo il loro costume lo elessero pontefice di Eliopolib4: ed egli godeva nel regno di onori ancora più grandi di prima.
84. Giuda genera Phares e Zaram da Thamar [38,1-5] A quel tempo – s’intenda: prima che Giuseppe fosse venduto; anche l’episodio che qui si narra, infatti, è stato inserito in questo punto secondo la tecnica della ricapitolazione1 – Giuda si separò dai propri fratelli e andò da un uomo di nome Ira, che abitava nella città di Odolla. Lì prese in moglie una donna di nome Sua, figlia di un Cananeoc, la quale gli partorì il suo figlio primogenito Her, e poi Ona, e infine Sela. [38,6-7] Giuda diede al suo primogenito Her una moglie di nome Thamar. Ma Her era depravato: abusava cioè del corpo di sua moglie. E perciò fu ucciso dal Signore: ossia fu trovato morto sul talamo accanto alla moglie2. [38,8-10] E Giuda disse a Ona di unirsi a lei per procurare una prole al fratello: di qui si deduce chiaramente che certe norme, poi messe per iscritto nella Legge, furono tuttavia osservate anche prima della Legge3. Ma Ona, indignato del fatto che i figli nati non sarebbero stati suoi, disperdeva il suo seme per terra: si univa cioè a sua moglie senza alcuna efficacia. E così il Signore lo fece morire.
a Presso le civiltà antiche, gli Ierofanti (dal gr. ἱερός, «sacro», e ϕαίνω, «mostrare») erano i supremi sacerdoti addetti ai culti misterici, cui spettavano i compiti di interpretare ed esporre le sacre dottrine misteriche, nonché di introdurre al culto ed istruire gli iniziati. b Città del Basso Egitto, sede di un importante santuario del culto solare: da cui il nome, alla lettera “Città del Sole” (dal gr. ἥλιος, «sole», e πόλις, «città»). c Il testo di Gen 38, 2 riporta che Giuda vide e prese in moglie filiam hominis Chananei vocabulo Suae, ossia «la figlia di un uomo cananaeo, dal nome di Sua», ove è ambiguo se il dato onomastico sia riferito a ‘figlia’ o a ‘uomo’ (in verità a quest’ultimo: cfr. alla nota che segue): il nostro autore opta indubbiamente per la prima ipotesi (cfr. qui in latino accepit ibi uxorem nomine Suae, filiam Chananei, nonché qualche riga avanti in corrispondenza di Gen 38, 12).
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LA GENESI, 84
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[38,11] Giuda rimandò Thamar a casa del padre di lei, perché vi trascorresse il periodo di vedovanza fino a che Sela non fosse cresciuto. Ma quando costui si fece adulto, Giuda ebbe timore di darlo a Thamar, e perciò faceva finta di nulla. [38,12-14] Poi morì Sua, la moglie di Giudaa. Costui, una volta che si fu ripreso dal lutto, andò a tosare le pecore con Ira, il suo pastore. Thamar lo venne a sapere e, deposti gli abiti da vedova, indossò un teristrob e si pose a sedere presso il bivio della strada che conduce a Thamna. Il testo ebraico legge invece: ‘si pose a sedere presso gli occhi’; così infatti gli Ebrei chiamano il bivio, perché lì il viandante deve osservare attentamente quale direzione prendere4. [38,15-22] Non appena Giuda vide la donna, pensò che fosse una ‘cadesa’: ossia una ‘prostituta’5. E le disse: “Lascia che io mi unisca a te!”. E quella rispose: “Che cosa mi darai in cambio?”. Ed egli: “Ti manderò un capretto del gregge!”. E quella: “Consègnami un pegno e ti concederò quel che vuoi!”. Ed egli le diede in pegno un anello, un braccialetto e il bastone che teneva in mano. Si unirono una sola volta, e la donna concepì due gemellic, e se ne andò dopo aver indossato di nuovo i suoi abiti da vedova. Giuda le mandò il capretto per mezzo di un pastore: costui, tuttavia, giunse dalla donna ma non la trovò, e perciò fece ritorno da Giuda senza gli oggetti consegnàti in pegno. [38,24-26] Poi, dopo tre mesi, dissero a Giuda: “Thamar si è prostituita, ed è rimasta incinta!”. Ed egli: “Andate a prenderla e sia bruciata viva!”. La donna, mentre veniva condotta al supplizio, fece consegnare i pegni a suo suocero e gli mandò a dire: “Sono rimasta incinta dell’uomo a cui appartengono questi oggetti”. E Giuda: “Questa donna è più giusta di me: io, infatti, non le ho dato mio figlio Sela; lei, invece, ha fatto tutto questo perché il seme di mio figlio non perisse!6”. Poi Giuda non si unì più a lei. [38,27-30] Quando era ormai prossima al parto, si capì che aveva in grembo due gemelli. E durante il parto, uno dei due mise fuori una mano, intorno alla quale la levatrice legò un filo rosso, dicendo: a Cfr. alla nota precedente: il testo di Gen 38, 12 legge qui inequivocabilmente mortua est filia Suae uxor Iudae («morì la figlia di Sua, moglie di Giuda»). b Veste femminile araba: cfr. al cap. 61. c Il dettaglio anticipa quanto dal testo biblico emergerà poco oltre.
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LA GENESI, 84-85
“Questo uscirà per primo!”. Ma poi questo tirò indietro la mano e uscì l’altro. E la madre disse: “Come hai fatto a dividere il muro che ti separava da tuo fratello?”, e perciò lo chiamò Phares7. E chiamò ‘muro’ la membrana ‘seconda’, o ‘secondina’8, che avvolge il bambino nell’utero e che durante il parto si spezza e viene espulsa dopo il bambino. Poi uscì l’altro con il filo rosso, e fu chiamato Zaram, che significa ‘colui che nasce’: perché comparve per primo, oppure perché, come si legge nelle Cronachea, moltissimi uomini giusti nacquero da lui9. Tuttavia all’inizio del commento al terzo Libro dei Re si legge: ‘Nella Genesi la levatrice legò un filo rosso intorno alla mano di Phares: costui fu chiamato Phares perché aveva diviso il muro’10. Può darsi che la levatrice abbia poi preso il filo rosso dalla mano di Zaram e lo abbia legato intorno a quella di Phares, in modo tale che si potesse riconoscere il primogenito tra due gemelli simili nell’aspetto11.
85. Giuseppe viene incarcerato [39,1-9] Giuseppe fu dunque condotto in Egitto, e l’eunuco Putifarre lo acquistò. E il Signore fu con Giuseppe. Ed egli amministrava la casa del suo padrone, che gli era stata affidata. E il Signore benedisse la casa dell’egiziano per merito di Giuseppe, che però, di tutti quei beni, non conosceva altro se non il cibo che mangiava1 . Poi, però, accadde che la padrona di Giuseppe, che aveva gettato gli occhi su di lui, gli disse: “Dormi con me!”. Ma Giuseppe rispose: “Il tuo signore mi ha affidato tutto quanto gli appartiene ad eccezione di te. Come potrei dunque fargli questo? E, anzi, peccare contro il mio Dio?”. [39,12] Secondo quanto riferisce Flavio Giuseppe, si avvicinò poi il tempo di una solenne ricorrenza pubblica, alla quale anche le donne avrebbero dovuto partecipare. La donna, allora, si finse a In latino Paralipomenon: cfr. al cap. 81, p. 214, n. c. Può darsi si alluda genericamente alle nutrite genealogie esposte in 1Cron 2-3: la discendenza, dalla stirpe di Giuda (in verità non da Zaram, ma da Phares: cfr. 1Cron 2, 5-16), della dinastia regale davidica.
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LA GENESI, 85-86
malata agli occhi del marito, e riuscì perciò ad ottenere la solitudine e il silenzio necessari per convincere Giuseppe2. E, afferrato un lembo della veste di Giuseppe, gli disse: “Dormi con me!”. Ma egli adiràto3 lasciò il mantello tra le mani di lei e se ne andò via. [39,13-22] La donna, dolendosi di essere stata rifiutata, conservò il mantello come presunta prova della sua buona fede. E, quando il marito tornò a casa, glielo mostrò e gli disse: “Il tuo servo ebreo si è avvicinato a me e tentava di sedurmi!”. Il marito, prestando eccessiva fede a sua moglie, fece incatenare Giuseppe e lo fece condurre nel carcere del re. Ma il Signore fu con Giuseppe e gli procurò favore agli occhi del capo del carcere, che affidò alla sua custodia il carcere e i prigionieri.
86. Il coppiere e il fornaio espongono i loro sogni
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[40,1-8] Poi accadde che il coppiere e il fornaio del re furono rinchiusi nello stesso carcere, e Giuseppe li serviva. Poi entrambi fecero un sogno durante la medesima notte. Il mattino seguente, Giuseppe si accorse che erano tristi e domandò il motivo del loro dolore. E, saputo che erano afflitti a causa di un sogno, disse loro: “Raccontatemi i vostri sogni! L’interpretazione dei sogni non procede forse da Dio?”. [40,9-15] E il capo dei coppieri raccontò: “Ho sognato che davanti a me c’era una vite e su di essa tre spuntoni”. Vale a dire: i germogli da dove spuntano i tralci. Altri, invece, rendono ‘tre ramoscelli’ oppure ‘tre propaggini’: il significato è il medesimo1. E proseguì: “E a poco a poco crescevano le gemme e, dopo i fiori, i grappoli d’uva maturavano, e io li spremevo nel calice del Faraone che tenevo tra le mani, e poi porgevo la coppa al Faraone”. E Giuseppe disse: “Dio ha dato il vino agli uomini perché ne facciano buon uso: perciò gli viene offerto in libagione, scioglie le liti e la tristezza, e sognarlo è un buon segno2. I tre tralci significano tre giorni, dopo i quali il Faraone ti riabiliterà nell’incarico che detenevi prima. E tu, quando starai bene, ricòrdati di me, e cerca di convincere il re a farmi uscire
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di qui! Mi hanno portato via con l’inganno dalla terra degli Ebrei, e da innocente sono stato gettato in questa fossa!”. [40,16-19] Poi il fornaio raccontò: “Ho sognato che avevo tre canestri di farina sopra la mia testa, e che in quello posto più in alto trasportavo i cibi che si producono con l’arte del fornaio, e che gli uccelli se ne cibavano”. Flavio Giuseppe scrive: ‘Due canestri pieni di pane; il terzo, invece, pieno di vivande e di tutti i cibi che sono soliti essere serviti ai re’3. Il testo greco legge invece ‘tre canestri condricona’, cioè ‘di pani poveri’: può darsi che anche nel canestro posto più in alto ci fossero i pani poveri, sopra i quali c’erano i pani più pregiati che mangiava il Faraone4. E Giuseppe disse: “Preferirei essere interprete di buoni sogni!5 Ti restano ancora tre giorni, dopo i quali il Faraone ti crocifiggerà, e gli uccelli si nutriranno delle tue carni”. [40,20-23] Dopo tre giorni, infatti, ricorreva il natalizio del Faraone: costui, durante il banchetto, si ricordò del coppiere e lo riabilitò; il fornaio, invece, lo fece crocifiggere. Ma il coppiere si dimenticò di colui che aveva interpretato il suo sogno.
87. La promozione di Giuseppeper aver interpretato il sogno del Faraone [41,1-8] Dopo due anni il Faraone fece un sogno: gli sembrava di trovarsi su un fiume, dal fondo del quale risalivano sette vacche grasse, con le carni obeseb, cioè ‘piene’, come fossero state allevate ob esum (“a forza di mangiare”)1. E, poi, altre sette emergevano dal fiume, consunte da una terribile magrezza, e divoravano le prime. Il Faraone si svegliò di soprassalto; poi si riaddormentò e fece un altro sogno: sette spighe piene germogliavano su un unico stelo, e altrettante ne spuntavano accanto, sottili e arse da un vento bruciante, e divora-
a Traslitterazione rudimentale del genitivo plurale χονδριτῶν, lezione del testo greco dei Settanta: al nominativo singolare χονδρίτης, alla lettera «[scil. pane] di farina povera». b Nel testo biblico, quest’ultimo dettaglio si legge al v. 18.
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vano le prime. Terrorizzato, il Faraone convocò gli interpreti e i sapienti d’Egitto: ma non v’era chi riuscisse a interpretare. [41,9-17] Poi il coppiere si ricordò di Giuseppe e, su suo suggerimento, per ordine del re Giuseppe fu condotto fuori dal carcere e gli furono tagliati i capelli: i prigionieri e gli esuli, infatti, si lasciano crescere i capelli2. Poi Giuseppe, cambiatosi d’abito, fu condotto dal re. Il re gli prese la mano destra e gli disse: “Ho fatto dei sogni. Non avere timore3: esponi nel dettaglio il loro significato!”. E gli raccontò quanto aveva sognato. [41,25-36] Giuseppe disse: “Il sogno del re è uno solo – ossia: uno solo è il suo significato4 −; ciò che Dio sta per compiere, lo ha mostrato al Faraone. Ecco, verranno sette anni di grande abbondanza in tutta la terra d’Egitto, ai quali ne seguiranno altri sette di così grave carestia che tutta l’abbondanza che c’è stata prima si perderà nell’oblìo. Le vacche, i contadini e le spighea significano tutti quanti la stessa cosa. E la ripetizione del sogno è un indizio di conferma. Quanto al fatto che il sogno era ambientato presso un fiume, significa che la causa dell’abbondanza e della carestia trarrà origine in particolar modo dal fiume5. Ora, dunque, il re veda di procurarsi un uomo che per tutti e sette gli anni dell’abbondanza ammassi nei granai del re la quinta parte del raccolto, in modo tale che la riserva sia conservata pronta contro la carestia futura”. [41,38] Il Faraone ammirò in Giuseppe sia la spiegazione del sogno che il consiglio, e gli affidò l’amministrazione di quel compito6, dicendo che Giuseppe era colmo dello spirito di Dio. Ecco che qui per la terza volta si menziona lo ‘spirito di Dio’. La prima volta ove si era detto: Lo spirito di Dio si muoveva sopra le acqueb; la seconda volta ove si era detto: Il mio spirito non rimarrà in questi uominic; la terza volta qui7. a In latino (ed. Sylwan) boves, agricolae et spicae: il secondo dei tre soggetti, ossia i contadini (agricolae), non era comparso in nessuno dei due sogni del Faraone; anche volendo intendere «le vacche del contadino» (con agricolae al genitivo e senza virgola dopo), si obietta tuttavia che allevare non è tecnicamente compito di un contadino. Posto che l’apparato critico non segnala nulla a proposito, la questione riesce davvero inspiegabile. b Cfr. Gen 1, 2, e qui al cap. 2. c Cfr. Gen 6, 3, e qui al cap. 32.
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[41,40-43] Il Faraone prese dunque un anello dalla propria mano e lo pose nella mano di lui, e gli mise intorno al collo una collana d’oro, e lo rese il secondo uomo nel suo regno. Poi Giuseppe salì sul carro del re, mentre l’araldo urlava a gran voce che tutti si genuflettessero al suo cospetto così come al cospetto al re. Gli Ebrei, tuttavia, tramandano che l’araldo non urlò perché si facesse la genuflessione, ma che urlò abrech che significa ‘padre tenerissimo’: da abba, che significa ‘padre’, e rech, ‘delicato’ o ‘tenerissimo’; come a dire che Giuseppe, sebbene tenero per età, tuttavia era padre per sapienza8. [41,44] E il re disse a Giuseppe: “Io sono il Faraone”. Si tratta di un giuramento, il cui senso è: come è vero che io sono il Faraone, così è vero quanto io sto per dire9. E disse: “Senza il tuo ordine nessuno muoverà mano o piede in Egitto!”, ossia: nessuno uscirà di qui senza il tuo assenso né assumerà incarichi pubblici. [41,45] E in lingua egiziana lo chiamò Phanecphane, ossia ‘salvatore del mondo’ (che in greco suona Pontiphanec); nome che, tuttavia, in ebraico significa ‘inventore di cose nascoste’10. Poi consegnò a Giuseppe Asenec, la figlia ancor vergine11 di Putifarre, il suo padrone. [41,46; 50-52] Giuseppe aveva trent’anni quando si presentò al cospetto del Faraone. E gli nacquero poi due figli prima che sopraggiungesse la carestia. Il figlio primogenito lo chiamò Manasse, che significa ‘oblìo’12, poiché disse: “Dio mi ha fatto obliare i miei affanni e la casa di mio padre!”. Il secondogenito lo chiamò Effraim, che significa ‘produrre frutti’13, poiché disse: “Dio mi ha fatto prosperare nella terra della mia povertà!”.
88. I fratelli di Giuseppe entrano in Egitto senza Beniamino [41,47-49; 53-57] Giuseppe ammassò grano per sette anni. Trascorsi i quali, giunsero gli anni della carestia, e il popolo reclamò il cibo al Faraone. Costui rispose: “Andate da Giuseppe!”. E Giuseppe aprì i granai e vendette il grano agli Egiziani. Anche le altre provin-
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ce si recavano in Egitto per comperare il cibo. Il denaro, poi, veniva depositato nelle casse del re1. [42,1-16] Poi Giacobbe venne a sapere che in Egitto si vendeva cibo, e vi mandò dieci dei suoi figlia trattenendo a casa Beniamino. Costoro, entrati nella terra d’Egitto, andarono da Giuseppe, ma non lo riconobbero. Lo adorarono ed egli li riconobbe, e parlava loro assai duramente chiedendo: “Da dove siete venuti?”. Ed essi risposero: “Dalla terra di Chanaan, per comperare cibo”. Ed egli: “Siete delle spie! E siete giunti qui da molti luoghi2 per vedere i punti deboli di questa terra!”. Ma quelli: “Non è così, signore: siamo tutti tuoi servi, figli di un solo uomo. Il più piccolo è rimasto con nostro padre, e un altro non è più in vita”. Ma egli disse: “È come ho detto: siete delle spie! È impossibile, infatti, che un uomo comune possa avere tanti figli, quando è difficile persino ai re avere una tale abbondanza di figli3. Per la salvezza del Faraone: voi tutti non vi muoverete di qui, fino a che non giunga il vostro fratello più piccolo! Mandate uno di voi a prenderlo e a portarlo qui!”. Giuseppe, infatti, temeva che avessero fatto del male anche a lui4. [42,17-25] E li fece imprigionare, legati in catene, per tre giorni. Il terzo giorno li fece poi uscire; trattenne Simeone e lo fece incatenare di fronte a loro; e accordò poi agli altri il permesso di partire. Ed essi si lamentavano, dicendosi l’un l’altro: “È giusto che noi stiamo subendo tutto questo, dal momento che abbiamo peccato contro nostro fratello!”. E ignoravano che Giuseppe capiva quanto andavano dicendo, perché si serviva di un interprete per comunicare con loro. Poi Giuseppe diede ordine ai suoi servi di riempire i loro sacchi e di riporre di nuovo il denaro di ciascuno nel rispettivo sacco, e di riporvi poi sopra le cibarie per il viaggio.
89. I fratelli di Giuseppe fanno ritorno dal padre [42,26; 29] Quelli partirono e arrivarono dal padre nella terra di Chanaan, e gli raccontarono tutto quanto era capitato loro. Si rammenti che Giacobbe aveva in totale dodici figli, compresi Giuseppe e Beniamino. a
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[42,35-38] Poi, quando versarono il frumento, ciascuno trovò il denaro legato all’apertura del sacco. Tutti furono presi dallo spavento, e il padre disse: “Mi avete privato dei miei figli! Giuseppe non c’è più, Simeone è tenuto prigioniero, Beniamino mi verrà portato via! Queste sciagure si sono abbattute su di me!”. E Ruben disse: “Affìdalo a me, e uccidi i miei due figli se non te lo riporterò indietro!”. Ma Giacobbe: “Mio figlio non scenderà laggiù insieme a voi!”. [43,1-5; 9-14] Frattanto, il cibo si esaurì e la carestia li opprimeva. E Giacobbe disse ai suoi figli: “Tornate in Egitto a comperare un po’ di cibo!”. Ma Giuda rispose: “Se vuoi mandare il ragazzo insieme a noi, andremo! Altrimenti, non andremo! Io prendo il ragazzo nelle mie mani: ne domanderai conto a me. Se non te lo avrò riportato, sarò reo di peccato per tutta la vita”. E Israelea rispose: “Se è proprio necessario fare così, fate pure quel che volete. Prendete i migliori tra i prodotti della nostra terra: un po’ di resina, di miele, di stirace, di stacteb, di terebinto e di mandorle, e portateli in dono a quell’uomo. Restituite il denaro che avete riportato indietro, e portàtene dell’altro per comperare il cibo! Dio vi procuri l’accondiscendenza di quell’uomo e rimandi qui insieme a voi i vostri fratelli!”. È detta ‘resina’ qualunque tipo di gomma, liquida o solida: dal greco rein, che significa ‘stillare’. La prima, e la più preziosa, è la resina di terebinto: è questo, forse, il motivo per cui poi aggiunge ‘di terebinto’, come a voler essere più preciso. Per seconda viene la resina di lentisco, che proviene dall’isola di Chio. Terza, la resina di pino1. Oppure può darsi che abbia chiamato ‘resina’ il balsamo: Flavio Giuseppe, infatti, all’inizio dell’elenco dei doni ha posto ‘unguenti del balsamo’ e ha omesso ‘resina’2. Quanto allo stirace, alcuni sostengono sia un tipo di resina3. Girolamo segnala che il testo ebraico legge nechota, che è il termine generico per indicare il ‘profumo’; e che in Isaiac l’espressione ‘casa nechota’ è stata tradotta da alcuni ‘casa del profumo’ e da altri invece ‘casa dello stirace’4.
Appellativo di Giacobbe: cfr. Gen 32, 29, e qui al cap. 77. Ossia la mirra: cfr. al cap. 82. c Il riferimento è al passo di Is 39, 2 (cfr. tuttavia alla n. 4). a
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[43,15-25] E così i figli di Giacobbe scesero in Egitto e si presentarono al cospetto di Giuseppe. Costui ordinò al suo cameriere di farli entrare e di preparare un banchetto perché essi avrebbero mangiato con lui. Quelli, temendo di essere stati fatti entrare a causa del denaro che avevano riportato indietro, dicevano al cameriere che avevano riportato ora la medesima somma e che a loro insaputa era stato riposto nei sacchi. Ma egli disse: “Pace a voi! Il vostro Dio vi ha dato quel denaro! Quello che mi avete consegnato è nelle mie mani!”. E fece condurre a loro Simeone. Poi essi prepararono i doni, in attesa che arrivasse Giuseppe a mezzogiorno. [43,26-31] Quando egli entrò, gli offrirono i doni e lo adorarono prostrandosi a terra. Poi Giuseppe, dopo aver saputo che il padre stava bene, e dopo aver benedetto anche Beniamino, si commosse fin nelle viscere: entrò nella sua camera e pianse. Poi, lavatosi il viso, uscì di nuovo e, trattenendosi, disse: “Servìte il cibo!”. [43,32-34] Ma Giuseppe sedette per conto proprio, in quanto forestiero; e per conto proprio gli Egiziani, in quanto indigeni; e per conto proprio i suoi fratelli, in quanto ospiti1. Gli Egiziani ritengono infatti cosa profana mangiare insieme agli Ebrei: forse per la diversità del loro culto2. Poi Giuseppe dispose i fratelli secondo la successione della loro età, proprio come erano soliti sedere in casa del padre3. E quando vennero distribuite le porzioni, si meravigliavano del fatto che la porzione di Beniamino superasse di cinque volte quella degli altri. Flavio Giuseppe dice invece: ‘Onorava Beniamino con doppie porzioni’4. Ma le due diverse indicazioni non sono in contraddizione tra loro: ciò nell’ipotesi che le portate dei cibi siano state cinque e che, per ciascuna di esse, abbia dato a Beniamino una porzione doppia5. Ed essi bevvero e si inebriarono insieme a lui: è un modo di dire ebraico che sta a significare ‘si saziarono di cibo’6. [44,1-34] Poi Giuseppe ordinò al suo cameriere di riempire i loro sacchi e di riporvi il denaro come già in precedenza, e di mettere la sua personale coppa d’argento nel sacco del fratello più piccolo. E così fu fatto. Poi, l’indomani all’alba, essi furono congedati. Allora il cameriere, per ordine di Giuseppe, li inseguì e, quando li
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ebbe raggiunti, disse loro: “Avete fatto una cosa riprovevole! Avete rubato la coppa nella quale il mio padrone è solito bere e della quale si serve per divinare!”. Ma quelli risposero: “Sia messo a morte colui che sarà trovato in possesso di ciò che tu stai cercando! Quanto a noi, saremo servi del tuo padrone !”. Quello si mise a cercare, iniziando dal maggiore e così via fino al minore, e trovò la coppa nel sacco di Beniamino. Poi tornarono da Giuseppe, ed egli disse loro: “Non sapete forse che non c’è nessuno più capace di me nell’arte di fare l’indovino?”. Può darsi che ciò l’abbia detto per scherzo, e non è cosa che gli debba essere rimproverata7. Giuda, però, lo supplicava con insistenza di trattenere lui come migliore servo al posto del ragazzo, che il padre gli aveva affidato dietro la sua parola d’onore8.
91. Giuseppe si palesa ai propri fratelli [45,1-15] Giuseppe non riusciva più a trattenersi. E, fatti uscire tutti gli altri, singhiozzò a voce così alta che quelli che erano usciti lo sentirono dire: “Io sono Giuseppe: non temete! Il Signore mi ha mandato davanti a voi per la vostra salvezza! Sono ormai trascorsi due anni di carestia: ne restano ancora cinque, durante i quali non si potrà né arare né mietere!”. Si pensa che la causa di tutto ciò sia stata una violenta inondazione del fiumea. E aggiunse: “Affrettàtevi e annunciate a mio padre la mia gloria, e portàtelo qui da me! Io darò di che vivere a voi e al vostro bestiame sicché non abbiate a morire! E abiterete nella terra di Gessenb! I vostri occhi vedono che è la mia bocca, a parlarvi!”. Ciò significa: che quanto io vi sto dicendo è la verità. Poi Giuseppe baciò tutti i suoi fratelli e pianse sulle spalle di ognuno. [45,16-24] Dell’accaduto si fece parola nella corte del re, e il Faraone si rallegrò e disse a Giuseppe: “Di’ a tuoi fratelli così: «Prendete dei carri dall’Egitto per trasportare mogli e bambini, e portate tutti i vostri beni insieme a voi! Io vi darò tutti i beni dell’Egitto a Si rammenti che, al cap. 87, lo stesso Giuseppe, interpretando i sogni del Faraone, aveva previsto che la causa dell’abbondanza e della carestia sarebbe stata il fiume. b La regione dell’Egitto dove i figli d’Israele abitarono, dall’arrivo di Giacobbe fino all’esodo: cfr. al cap. 93.
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e voi mangerete il fior fiore di questa terra!»”. E così fu fatto. Poi Giuseppe diede a ciascuno due stole. Si dice ‘stola’ da telon, che significa ‘lungo’1, come a dire ‘che arriva fino ai piedi’ (talaris). A Beniamino, invece, diede trecento monete d’argento e cinque stole delle più preziose. E mandò altrettanto al padre, insieme a dieci asini che gli portassero tutti i beni dell’Egitto. E, allorché si apprestarono a partire, disse loro: “Non litigate durante il viaggio!”. [45,25-28] Una volta giunti dal padre, gli dissero: “Giuseppe è vivo e detiene grande potere in Egitto!”. Giacobbe, come risvegliandosi da un sonno profondo, non credeva alle loro parole. Poi, però, quando ebbe visto tutte le cose che Giuseppe gli aveva mandato, disse: “Mi basta sapere che mio figlio Giuseppe è vivo!”; e il senso è: di pena o di gloria poco mi importa, purché egli sia vivo2. E aggiunse: “Andrò da lui e potrò vederlo prima di morire!”.
92. Israele scende in Egitto [46,1-6] Israele partì dunque con tutto quanto era in suo possesso, e arrivò presso il Pozzo del Giuramentoa. Dopo che ebbe sacrificato delle vittime a Dio, udì in sogno durante la notte Dio che gli diceva: “Non temere! Scendib in Egitto, e farò di te un grande popolo, e poi ti farò ritornare indietro! Anche Giuseppe porrà la sua mano sui tuoi occhi!”. E così Giacobbe partì dal Pozzo del Giuramento e andò in Egitto con tutta la sua stirpe. [46,26-27]c Tutte le anime che entrarono in Egitto insieme a lui, e che erano uscite dal suo fianco (con ciò non si vuol intendere che le Verosimilmente il pozzo scavato da Abramo e da lui chiamato Bersabee: cfr. Gen 21, 31, e qui al cap. 57. b Il testo èdito da Sylwan legge ascende («sali»): trovandosi tuttavia l’Egitto a sud della terra di Chanaan, traduciamo accogliendo descende («scendi»), lezione attestata dalla Vulgata (Gen 46, 3) e, secondo quanto riporta l’apparato critico, dal manoscritto S. c L’ampia sezione di Gen 46, 7-25 contiene un dettagliato elenco della genealogia di Giacobbe, onde dar ragione del numero totale di persone, indicato subito dopo ai vv. 26-27, che entrarono con Giacobbe in Egitto: si osservi che Pietro Comestore, come usualmente in simili casi, non riporta l’intera onomastica, limitandosi alla sola indicazione del totale assoluto (e, poco oltre, dei totali parziali); è a
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anime abbiano origine per trasmissionea; si utilizza invece la parte per indicare il tutto1), furono sessantasei: senza contare cioè lo stesso Giacobbe, nonché Giuseppe e i suoi due figlib che già si trovavano in Egitto. Se ne conclude, perciò, che in totale furono settanta. I Settanta, però, hanno tradotto ‘settantacinque’; e così anche Luca negli Atti degli Apostolic. Girolamo, però, sostiene che ciò sia stato detto a mo’ di anticipazione, e che al computo siano stati aggiunti cinque figli dei due figli di Giuseppe, poiché anche questi due erano destinati a costituire tribù. Quanto a Luca, allorché scrisse gli Atti degli Apostoli per i pagani, non osò modificare la lettera dei Settanta perché tra i pagani vigeva l’autorità dei Settanta, mentre Luca era per i pagani ancora uno sconosciuto. Ma anche gli stessi Settanta, nel Deuteronomio, hanno tradotto che Israele entrò in Egitto con ‘settanta’ animed2. Si osservi che nel computo sono inclusi Her e Ona, figli di Giuda, i quali, tuttavia, morirono nella terra di Chanaane. Può darsi che, al posto di costoro che erano morti, siano incluse nel computo le due ancellef di Giacobbe (nell’ipotesi che anch’esse siano entrate in Egitto). Oppure può darsi che la Scrittura, come è solita fare, abbia indicato la cifra tonda, sebbene quella esatta sia di poco inferiore3. Si osservi anche che, se si include Dina nel computo, sono in totale settanta escluso Giacobbe: i figli di Lia, infatti, sono trentatré; quelli di Zelpha sedici; quelli di Rachele quattordici; quelli di Bala setteg. offerto tuttavia lo spunto per una nutrita sezione di carattere esegetico, nella quale saranno di necessità menzionati alcuni dei nomi riportati da Gen 46, 7-25. a Come invece professa la dottrina teologica nota come ‘traducianesimo’: cfr. al cap. 18, n. 5. b Ossia Effraim e Manasse. c Cfr. Atti 7, 14. La paternità lucana degli Atti degli Apostoli, dibattuta nel corso dei secoli, è oggi unanimemente accettata. d Cfr. Deut 10, 22. e Cfr. Gen 38, 7-10, e qui al cap. 84. f Ossia Bala e Zelpha, dalle quali Giacobbe aveva avuto dei figli: cfr. Gen 30, 3-13, e qui al cap. 72. g Le cifre dei totali parziali sono segnalate in Gen 46 rispettivamente ai vv. 15; 18; 22; 25.
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Si osservi che, dal momento che Giuseppe non aveva che due figli, se ne deve concludere che Beniamino ne aveva diecia: nel Libro, tuttavia, non se ne leggono che nove. Può darsi che, per un errore dei copisti, due nomi siano stati scritti come uno solo. Sicché il maestro Ugo ha diviso il terzo nome, Asbel, in Asa e Belus. Ma si tratta di una soluzione che non può reggere: nei Numeri, infatti, quando vengono elencate le famiglie delle tribù dopo la vittoria sui Madianìti, si legge quanto segue: da Asbel, la famiglia degli Asbelìtib. Sono invece i due nomi Ros e Mumphin, che nel testo ebraico sono due nomi distinti, ad essere erroneamente scritti come un solo nome nella nostra versione. Può darsi, peraltro, che il motivo per cui Ugo ha diviso così il terzo nome sia il fatto che Flavio Giuseppe lo ha scritto come Asbela, in luogo di Asbel4.
93. Giuseppe va incontro al padre e lo presenta al re
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[46,28-29] Poi Giacobbe mandò avanti Giuda, in direzione di Giuseppe, in modo tale che costui gli venisse incontro. E Giuseppe, dopo aver attaccato il suo carro, gli si fece incontro in Gessen. Altri, invece, dicono ‘presso la Città degli Eroi, nella terra di Ramesse’, che allora si chiamava Gessen, poi fu chiamata Tebaide1 (da cui ‘Tebei’, della cui legione fu a capo san Maurizio; città da non confondere con Tebe, da cui ‘Tebani’2), poi, quando i re furono scelti in questa città, fu chiamata ‘Città degli Eroi’ perché gli eroi dell’Egitto avrebbero dovuto proteggerla3. In epoca successiva, entro il territorio di quella regione, gli Ebrei, sotto la costrizione degli Egiziani, costruirono la ‘Città delle Tende’, che fu chiamata ‘Ramesse’c. Questo villaggio fu poi chiamato Arsenoites, che
Il totale dei discendenti di Rachele è infatti pari a quattordici (cfr. supra): sicché, sottraendovi i due figli di Rachele (Giuseppe e Beniamino) e i due figli di Giuseppe (Effraim e Manasse), risulta pari a dieci il totale dei figli avuti da Beniamino. E appunto dieci sono i nomi dei figli di Beniamino elencati in Gen 46, 21. b Cfr. Num 26, 38. c Si allude all’episodio narrato in Es 1, 11, che segna l’inizio della schiavitù del popolo d’Israele nella terra d’Egitto. a
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significa ‘senza sesso’: così chiamato quando sull’Egitto iniziò a regnare indifferentemente l’uno o l’altro sesso4. [46,31-34] Poi Giuseppe disse a tutta la casa di suo padre: “Vado ad annunciare al Faraone che siete arrivati e che siete dei pastori. Quando vi chiederà quale sia il vostro mestiere, direte: «Siamo pastori, noi e i nostri padri!». E direte così in modo che possiate abitare separati dagli Egiziani, nella fertilissima terra di Gessen, perché gli Egiziani odiano tutti i pastori di pecore”. Questo perché si astengono dal cibarsi di pecore e, anzi, le venerano nella figura di Ammone5. [47,1-4] Poi Giuseppe entrò dal re, e presentò al cospetto del re i cinque più avanzati – ossia: i più anziani6 – tra suoi fratelli. Essi, dopo aver dichiarato di essere pastori di pecore, aggiunsero: “Non ci sono più pascoli, nella terra di Chanaan: chiediamo che tu ci dia ordine di essere tuoi servi nella terra di Gessen! Non vogliamo separarci, ma prenderci cura insieme di nostro padre!7”. Ci si può domandare: come è possibile che, durante il periodo di carestia, l’Egitto abbondasse di pascoli? Rispondiamo: l’Egitto, diversamente da quanto accade nelle altre regioni, quando abbonda di raccolto, è povero di pascoli, e viceversa. Se infatti il fiume indugia a lungo sulla terra, impedisce il periodo della coltura o fa morire il seminato; d’altra parte, però, nutre i pascoli8. [47,7-9] Poi Giuseppe presentò al re il padre. Costui benedisse il re9 e, quando il re gli domandò conto dei giorni dei suoi anni, rispose: “I giorni del viaggio della mia vita sono 130 anni, pochi e malvagi, e non hanno ancora eguagliato i giorni della vita dei miei padri!”. Disse ‘del viaggio’ perché i santi considerano questa vita come un soggiorno temporaneo10; e disse ‘malvagi’ perché il saggio è accusatore di se stesso. Quanto al fatto che disse ‘pochi’, ne ha chiarito egli stesso il senso dicendo ‘e non hanno ancora eguagliato’ eccetera. [47,11] E così Giuseppe diede ai suoi fratelli un possedimento di terra sul fertilissimo suolo di Ramesse. Flavio Giuseppe, invece, dice: ‘Il Faraone gli accordò il permesso di insediarsi nella città di Eliopoli – qui infatti anche i suoi pastori avevano ottenuto in possesso i pascoli −, sapendo che era cosa gradita agli Egiziani che i pastori restassero da loro separati e che non fosse stato concesso
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loro nulla che fosse di pertinenza degli Egiziani’11. Può darsi che la terra di Gessen fosse prospiciente il territorio di Eliopoli12.
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94. L’istituzione del precetto sulla quinta parte del raccolto [47,13-26] La carestia imperversò sull’Egitto. Poi, quando il denaro dei compratori si fu esaurito, Giuseppe li sfamò per quell’anno in cambio del loro bestiame. L’anno seguente, quando di nuovo stavano morendo per la carestia, Giuseppe comprò tutta la terra d’Egitto in cambio del cibo, e la assoggettò alla schiavitù del Faraone, ad eccezione della terra dei sacerdoti, che era stata assegnata a costoro dai re. Sacerdoti ai quali spettava di diritto una quota stabilita di cibo dei granai pubblici, sicché essi non furono costretti a vendere le loro terre. Poi però, verso la fine della carestia1, Giuseppe disse al popolo: “Come vedete, voi e il vostro bestiame siete nelle mani del Faraone. Ecco, io vi riconsegno la terra2 e il bestiame, e vi darò la semente e coltiverete la terra per il re! Consegnerete al re la quinta parte del raccolto; le restanti quattro, invece, le lascio a voi come semente e come cibo!”. Gli dissero: “La nostra salvezza è nelle tue mani!”. E da allora fino ad oggi la quinta parte del raccolto si consegna ai re d’Egitto: e questa usanza è divenuta una sorta di legge.
95. Il giuramento prestato da Giuseppe al padre
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[47,27-30] E così Israele abitò nella terra d’Egitto, e si arricchì oltre misura, e visse lì per 17 anni. E si compirono i suoi giorni: 147 anni. Poi, vedendo che il giorno della propria morte era ormai imminente, chiamò Giuseppe e gli fece porre la mano sotto la sua coscia e giurare che lo avrebbe sepolto nel sepolcro dei suoi avia, che viene chiamato ‘Abramio’1. E in riferimento a questo gli disse dove morì Racheleb: come a voler scusarsi di non averla sepolta dove lui stesNella spelonca duplice: cfr. al cap. 59. Si badi che questa indicazione è data da Giacobbe un poco più avanti nella narrazione, in corrispondenza di Gen 48, 7: cfr. tuttavia nel dettaglio alla n. 2. Il riferia
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so voleva essere sepolto2. I santi si preoccuparono di essere sepolti nella terra in cui sapevano che Cristo sarebbe risorto, per risorgere insieme a Lui: l’Abramio, infatti, dista dal Calvario all’incirca 30 miglia3. [47,31] Poi, dopo che Giuseppe ebbe giurato, Israele si rivolse verso il capo del letto (che era infatti rivolto verso oriente4) e adorò Dio. Alcuni manoscritti leggono invece: ‘adorò sopra il capo del bastone di lui’ oppure ‘sul capo del proprio bastone’. Entrambe le cose possono avere un senso: può darsi infatti che, in quanto anziano, abbia avuto un bastone, come si usa a quell’età, e che abbia adorato appoggiandosi sopra di esso; oppure può darsi che egli abbia preso e tenuto in mano lo scettro di Giuseppe fino a che costui non avesse giurato, e che poi, dopo che costui ebbe giurato, abbia adorato Dio sul capo di quel bastonea che ancora non aveva restituito a Giuseppe. Non bisogna infatti prestare credito a chi sostiene che abbia adorato lo scettro di Giuseppe5.
96. La benedizione a Effraim e Manasse [48,1-2] Poi a Giuseppe venne data notizia che suo padre era malato, e così, presi con sé i suoi due figli, andò da lui. Il vecchio, udendo che era venuto suo figlio, ne trasse conforto e si mise a sedere sul letto. [48,8-10; 5-6]1 E, poiché vide due persone insieme a Giuseppe, chiese: “Chi sono questi?”. Non riusciva più infatti a vedere bene. E Giuseppe gli rispose: “Sono i miei figli, che Dio mi ha dato in questa terra!”. E Giacobbe: “Questi due saranno miei, e come Ruben e Simeone saranno annoverati tra i miei figli!”; s’intenda: ciascuno di loro formerà una tribù2. E ancora: “Invece, tutti gli altri da te generati saranno menzionati nei loro territori con il nome dei loro fratelli!”. [48,12-14] Poi Giuseppe avvicinò Manasse alla destra del padre ed Effraim alla sinistra, lo adorò e gli chiese di benedirli. Ma
mento è all’episodio di Gen 35, 16-20, qui narrato al cap. 80, ove già l’autore aveva osservato che Rachele fu la sola a non essere stata sepolta insieme alla propria parentela. a Cioè dello scettro di Giuseppe.
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LA GENESI, 96-97
Giacobbe, pervaso dallo spirito3, incrociò le mani e pose la destra sul minorea. [48,17-19] Ma Giuseppe fu assai contrariato per quel gesto, e disse: “Non va bene fare così, padre: è l’altro il primogenito!”. E Giacobbe: “Lo so, figlio mio, lo so. Anche lui darà origine ad una discendenza di popoli, ma il minore sarà più grande e il suo seme si moltiplicherà in popoli!”. E ciò trovò compimento con Geroboamo, che per primo regnò sulle dieci tribù e che fu della stirpe di Effraimb. [48,20; 15-16]4 E disse ad Effraim: “In te sarà benedetto Israele e si dirà proverbialmente: ‘Dio ti renda come Effraim e Manasse!’”. Poi, rivolto ad entrambi, disse: “Il Dio dei nostri padri benedica questi ragazzi, e si invochi su di loro il mio nome, e anche i nomi di Abramo e di Isacco, ed essi si moltiplichino sulla terra in una moltitudine!”. [48,21-22] Poi disse a Giuseppe: “Dio vi ricondurrà nella vostra terra! In più rispetto ai tuoi fratelli, consegno a te Sichima5, che ho strappato dalle mani degli Amorrei con la mia spada e il mio arco!”. Per la verità, l’aveva acquistata al prezzo di cento agnelli dal re Emorc: ma poi, quando a causa dell’eccidio dei Sichimìtid aveva dovuto essergli sottratta, egli riuscì sempre a mantenerne il possesso mediante l’esercizio della forza6.
97. Le benedizioni alle tribù [49,1] Poi Giacobbe chiamò a raccolta i suoi figli, e disse loro: “Radunatevi qui in modo tale che io vi possa annunciare quanto accadrà nei tempi futuri!”. Alla lettera, la sua profezia ebbe per oggetto la
Ossia su Effraim, il secondogenito di Giuseppe. Cfr. nella fattispecie 1Re 11, 26 e 1Re 12, 20. c Cfr. Gen 33, 19, e qui al termine del cap. 78: ciò che viene qui chiamato Sichima è dunque il terreno acquistato in Sichem. d Si rammenti che Simeone e Levi, figli di Giacobbe, per vendicare la violenza usata dal figlio di Emor, re di Sichem, ai danni della loro sorella Dina, avevano distrutto la città e massacrato l’intera popolazione maschile: cfr. nella fattispecie Gen 34, 25, e qui al cap. 79. a
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LA GENESI, 97-99
spartizione della terra e lo stato futuro delle tribù: è però del tutto evidente che il riferimento fu all’uno e all’altro avventoa di Cristo1.
98. Ruben [49,3a] “Ruben, mio primogenito, mia forza!”; ossia: tu che io ho generato in età vigorosa. [49,3b] “Principio del mio dolore!”; il senso è: della mia preoccupazione per i miei figli; sicché altri rendono: ‘punto d’inizio per i miei figli’1. [49,3c] “Il primo nei doni, il più grande nel dominio!”; si sottintenda: saresti dovuto essere tu. [49,4] “Ti sei profuso come acqua!”, ossia: in una vile libidine. “Tu non abbia a crescere, dal momento che sei salito sul letto di tuo padre!” b. Oppure s’interpunga il passo così: ‘Ti sei profuso: come acqua tu non abbia a crescere, dal momento che sei salito sul letto di tuo padre!’. Come a dire: secondo la legge della primogenitura ti sarebbe dovuto spettare di diritto un onore più grande degli altri e il doppio dell’eredità; tuttavia, a motivo del crimine che hai commesso, ti basti essere al pari degli altri. Non potrai dunque crescere oltre misura come fa l’acqua quando bollendo tracima o come un fiume quando straripa2.
99. Simeone e Levic [49,5; 6b] “Simeone e Levi, vasi dell’iniquità, poiché presi dal furore uccisero uomini – s’intenda: i Sichimìtid – e distrussero un muro secondo la propria volontà!”. Qui Giacobbe sta chiarendo che tutto Rispettivamente l’incarnazione e il definitivo avvento alla fine dei tempi. Si allude all’unione tra Ruben e Bila, concubina di suo padre Giacobbe: cfr. Gen 35, 22, e qui al termine del cap. 80. c Il testo èdito da Sylwan legge soltanto De Symeon; l’apparato critico segnala tuttavia che S β γ δ aggiungono et Levi: poiché la benedizione è rivolta al contempo anche a Levi, riteniamo opportuno accogliere l’integrazione a testo. d Cfr. al cap. 96, p. 238, n. d. a
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LA GENESI, 99-100
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ciò fu da loro compiuto contro la sua stessa volontà1. Altri rendono ‘spezzarono i nervi ad un toro’2: espressione che alcuni intendono riferita al figlio del re, che aveva rapito Dina; altri riferita a Cristo; altri ad indicare, per sillepsia, i tori stessi3. [49,6a] “La mia anima non prenda parte alle loro decisioni!”. Qui il riferimento è, con ogni evidenza, a Cristo: da Simeone, infatti, discesero gli scribi, e da Levi i sacerdoti, per decisione dei quali Cristo fu ucciso4. [49,7b] “Li dividerò in Giacobbe e li disperderò in Israele!”. Alla lettera, ciò sta a significare che a Levi non fu assegnata alcuna porzione di terra; la sua tribù, tuttavia, frammista a quelle degli altri fratelli, ottenne in possesso dei villaggi per far pascolare le greggi. Allo stesso modo Simeone, poiché la sua tribù era scarsamente numerosa, non ottenne alcuna porzione di terra, ma fu incluso nel territorio di Giuda5. Segue la benedizione rivolta a Giuda: qui Giacobbe profetizzò del regno, destinato a sorgere nel territorio di Giuda; e profetizzò, con ogni evidenza, di Cristo.
100. Giuda [49,8a] “Giuda, ti loderanno i tuoi fratelli!”. Ciò accadde quando, mentre tutti gli altri esitavano, Giuda entrò nel Mar Rosso per primo dopo Mosè1: occasione nella quale egli si guadagnò anche il regno. [49,8b] “La tua mano si poserà sul collo dei tuoi nemici, e i figli di tuo padre ti adoreranno!”: ciò sta ad indicare che è destinato a diventare re. [49,9] “Giuda, cucciolo di leone!”. Il riferimento è qui al capo del regno: David era infatti il minore dei suoi fratelli e fu eletto reb. “Sulla preda, figlio mio, sei balzato!”: David, infatti, dapprima Figura retorica su cui cfr. al cap. 15, p. 98, n. b. La genealogia di Iesse, padre di David, è elencata in 1Cron 2, 13-15; all’intera vicenda di David, primo re di Israele appartenente alla tribù di Giuda, sono dedicati 1Sam 16-31, 2Sam 1-24 e 1Re 1-2, 10: l’elezione regale è riferita in 2Sam 5, 3. a
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LA GENESI, 100
ebbe moltissimi nemici. “Ti sei placato, e ti sei sdraiato come un leone e, per così dire, come una leonessa!”: in séguito, infatti, egli regnò in pace ed era assai temuto. “Chi lo risveglierà?”, ad essere profeta; come ad intendere: solo lo spirito, che fu indirizzato su Davida; oppure può darsi che il riferimento sia alla successione di Salomoneb. [49,10] “Non sarà sottratto lo scettro – s’intenda: il re2 – a Giuda, né un capo a guidare le sue gambe, fino a che non giunga colui che deve essere mandato!”, dal Padre s’intende: il riferimento è a Cristo3. Da Giuda discesero i re fino al momento della deportazione in Babilonia; in séguito, i capi fino ad Ircano; poi di nuovo i re fino all’epoca di Cristo. Poi vennero meno entrambi, e regnò Erode, che era uno stranieroc4. “Ed egli sarà l’attesa delle genti!”: cioè la salvezza, attesa non soltanto dai Giudei5, ma anche dai pagani. [49,11-12] Poi, rivolse le sue parole direttamente a suo figlio Giuda, a proposito di quel Cristo che doveva essere mandato, in Si allude qui al passo di 1Sam 16, 13, ove si dice che, non appena Samuele ebbe consacrato David mediante l’unzione rituale, directus est spiritus Domini in David a die illa, ossia «da quel giorno, lo spirito del Signore fu indirizzato su David». b Forse nel senso che la successione di Salomone al regno farà, per così dire, rivivere la figura di suo padre David. c La dinastia regale davìdica regnò sul popolo d’Israele (che, in verità, andò poi via via riducendosi a poche tribù a motivo di secessioni interne) fino alla definitiva conquista ad opera del regno babilonese, con conseguente deportazione del popolo ebraico in Babilonia, databile intorno al 589-6 a.C. Da allora, il popolo d’Israele perdette l’indipendenza politica e fu soggetto a numerose dominazioni straniere (babilonese, persiana, egiziana, siriana), pur conservando uno o più capi dell’esercito che talora svolgevano anche la funzione di sommo sacerdote (ruolo-guida indicato nel testo latino con il termine dux, da noi reso «capo»). Uno di questi capi militari fu Giuda Maccabeo, che nel 166 a.C. diede vita ad una rivolta nazionalistica, riuscendo a guadagnare l’indipendenza al proprio popolo e inaugurando una nuova dinastia, detta asmonèa, che non tutti gli ebrei riconobbero come dinastia regale in quanto di discendenza non davìdica. Gli Asmonèi regnarono tra alterne vicende fino al 40 a.C., anno in cui Erode, detto ‘il Grande’, fu nominato re di Giudea dai triumviri romani Ottaviano e Antonio. La nomina segnò l’inizio della dinastia erodiana, i cui membri erano di stirpe edomìta, vale a dire non ebraica: ragion per cui, nel nostro testo, Erode è definito alienigena («straniero»). Non è affatto chiaro, tuttavia, perché mai Pietro Comestore segnali come ulteriore punto di cesura la figura di Ircano, con il quale, a suo dire, la tribù di Giuda sarebbe tornata a regnare fino all’epoca di Cristo. L’appellativo di Ircano può infatti riferirsi a due membri della dinastia asmonèa: Giovanni Ircano I (nipote di Giuda Maccabeo), che regnò dal 135 al 104 a.C.; o Giovanni Ircano II (nipote di Giovanni Ircano I), che regnò dal 67 al 40 a.C., anno della nomina di Erode. a
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questi termini: “O figlio mio, egli sarà colui che lega alla vigna il suo puledro e alla vite la sua asina!”. Il senso è: egli, che è la vite, legherà a sé il popolo dei pagani e quello dei Giudei6. “Laverà nel vino la sua stola e nel sangue dell’uva il suo mantello!”; cioè: macchierà la sua carne col sangue della passione7. “Più belli del vino i suoi occhi – cioè: gli apostoli – e più candidi del latte i suoi denti – cioè: i predicatori”8. Gli Ebrei, invece, intendono l’intero passo su Giuda nei termini seguenti. Non sarà sottratto lo scettro a Giuda, ossia: la supremazia genericamente intesa: per primo, infatti, entrò nel Mar Rossoa, per primo offrì sacrifici dopo che fu costruito il tabernacolob, e via dicendo. Fino a che non giunga colui che deve essere mandato: qui il testo ebraico legge invece: ‘fino a che non giunga Silo’, e il senso è: fino a Saul, che fu consacrato a Siloc. In séguito, però, la supremazia tornò a Giuda: egli, infatti, strappò Giuseppe dalle mani dei propri fratellid. Egli sarà l’attesa delle genti, ossia: delle tribù; ed è per questo motivo che il Signore disse: “Giuda muoverà battaglia per voi!”e. Colui che lega alla vigna il suo puledro e alla vite la sua asina, ossia: egli avrà così grande abbondanza di vino che basterà una sola vite per caricare un asino. Appunto per questo motivo, il testo ebraico definisce poi ‘rubicondi’ f gli occhi: di questo colore, infatti, essi appaiono in chi beve. Il candore dei denti, invece, starebbe ad indicare l’abbondanza di pecore e di latte: se si è mangiato latte, infatti, lo si può vedere dai denti9. Cfr. supra e alla n. 1. Il riferimento è, con ogni probabilità, a Num 7, 12: al termine della costruzione del tabernacolo, i capi di ciascuna delle dodici tribù d’Israele si avvicendano per dodici giorni consecutivi ad offrire doni per la dedicazione dell’altare; la tribù che offre il primo giorno, e dunque per prima, è proprio quella di Giuda, nella figura del suo capo Naasson. c Cfr. 1Sam 10, 1: il re Saul fu consacrato dal profeta Samuele, che esercitava il proprio ministero in Silo, sede di un importante santuario. S’intende dire, cioè, che lo scettro fu sottratto temporaneamente alla tribù di Giuda con Saul, in quanto costui apparteneva alla tribù di Beniamino (cfr. 1Sam 9, 1-2). d L’allusione è a Gen 37, 26-27 (cfr. qui al cap. 82): Giuda convinse i fratelli a non uccidere Giuseppe, colui attraverso il quale la stirpe israelitica sarà destinata a perpetuarsi, ma a venderlo piuttosto agli Ismaelìti. e Libera riproposizione di Giud 1, 1-2. f In luogo di ‘più belli’, s’intende. a
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LA GENESI, 101-103
101. Zabulon [49,13] “Zabulon abiterà sulla riva del mare e nel porto delle navi, giungendo a sfiorare Sidone!”. Alla lettera: questa tribù ha ottenuto in possesso i territori costieri1.
102. Isachar [49,14a] “Isachar, asino vigoroso!”, o secondo altri: ‘ossuto’; e il senso è: uomo che coltiva la terra1. [49,14b] “Che se ne sta entro i confini”: egli, infatti, ottenne in possesso la regione interna che si trova tra la zona costiera e i monti. [49,15] “E vide che il riposo è cosa buona”, ossia: che la terra era feconda2. E, infatti, poi prosegue: “e che la terra era ottima; e ha abbassato le sue spalle per portare carichi”: egli, infatti, ha faticato nel trasportare verso il mare le merci che abbondavano nei suoi confini3. “Ed è divenuto schiavo dei tributi”, ossia: delle navi che trasportavano i tributi. Gli Ebrei spiegano questo passo in termini metaforici: egli ha faticato notte e giorno nello studio, e perciò tutte le tribù gli hanno prestato servizio, come se stessero portando doni al proprio maestro4.
103. Dan [49,16-18] “Dan giudicherà il suo popolo, come farà anche ogni altra tribù di Israele. Diventi Dan un serpente sulla strada, una vipera sul sentiero, che morde gli zoccoli del cavallo, sicché il suo cavaliere abbia a cadere all’indietro!”. Ciò si compì con Sansonea. E il senso è: sebbene quella di Dan sia la tribù più piccola, tuttavia da essa sorgerà un giudice in Israele1, come pure dalle altre tribù; ed egli Giudice d’Israele, il cui padre è detto appartenere appunto alla tribù di Dan: cfr. Giud 13, 2. a
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LA GENESI, 103-104
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scruterà le vie allo stesso modo di un serpente, perché agli altri nemici non sia lecito vagare per la Giudea depredandola come in precedenza, e farà retrocedere la superbia dei Filistei; ma, sebbene egli sia tanto grande, tuttavia non sarà Cristo2. E infatti Giacobbe, sia pure soltanto dopo quanto già detto, aggiunge: “Attenderò la tua salvezza, o Signore!”. Questo passo viene spiegato anche in riferimento all’Anticristo, che si sostiene destinato a discendere da Dan, e che si armerà contro i santi con il morso di una predicazione pestifera e con il corno del potere3. Inoltre, molti tra coloro i quali già erano ascesi al culmine delle virtù, l’Anticristo li farà sprofondare di nuovo; e allora giungerà il Salvatore atteso per il giudizioa . Altri, invece, intendono il passo in riferimento a Giudab, che fece sprofondare nella morte il cavallo – ossia: la carne di Cristo – e il suo cavaliere – ossia: l’anima – con il morso del tradimento; ciononostante, il Salvatore atteso poi risorse4. Tuttavia, l’opinione più accreditata vuole Giuda discendente dalla tribù di Isachar5.
104. Gad [49,19] “Gad: un uomo in armi – secondo altra lezione: un brigante1 – muoverà guerra contro di lui, e anche lui si armerà per assalirlo alle spalle!”. Dopo aver lasciato mogli e figli nei propri territori al di là del Giordano, Gad, insieme a Ruben e a metà della tribù di Manasse, precedeva in armi Israele nella Terra Promessa. Dopo quattordici anni, Gad fu il primo a fare ritorno, e trovò che i popoli confinanti avevano mosso guerra contro i suoi, dai quali lui si era allontanato: e perciò, combattendo strenuamente contro i nemici, li sconfisse2.
Che avrà luogo alla fine dei tempi, s’intende. Come risulterà chiaro dal prosieguo, il riferimento non è a Giuda figlio di Giacobbe, bensì a Giuda Iscariota, colui che tradì Gesù con un bacio: nei tre vangeli sinottici, l’episodio neotestamentario si legge in Mt 26, 45-50; Mc 14, 41-46; Lc 22, 47-48. a
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LA GENESI, 105-107
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[49,20] “Aser, pane sostanzioso, e offrirà delizie ai re!”: fertili furono, infatti, i suoi possedimenti1 e assai ricchi di delizie.
106. Neptalim [49,21] “Neptalim, cervo lasciato in libertà, che pronuncia eloquio di bellezza!”. La velocità del cervo sta ad indicare la velocità della terra più fertile, che produce frutti precoci prima di tutte le altre terre1. Altri leggono ‘Neptalim, campo irrigato’: o perché la regione al di sopra del Lago di Genesaretha è irrigata dal Giordano, o perché lì si trovano delle sorgenti di acqua calda2. Quanto all’elogio del suo eloquio, vi è chi lo intende in riferimento al Monte Tabor, che si trova nel territorio di Neptalim: o perché il monte fu abitato da profeti3; o perché durante la Pasqua si offriva una parte del primo raccolto del monte, e con ciò si rendeva lode a Dio, e questa lode è ‘eloquio di bellezza’4. È più verosimile, tuttavia, che il riferimento sia a Cristo e agli apostoli: nel territorio della tribù di Neptalim, infatti, si svolse per la maggior parte la predicazione di Cristo5.
107. Giuseppe [49,22a] “Giuseppe, figlio che arricchisce!”: in virtù e decoro, s’intende1. [49,22b] “Le figlie presero a correre lungo il muro”: ciò sta ad indicare che, mentre Giuseppe attraversava l’Egitto, le donne salivano sui muri per osservare la sua bellezza2. [49,23] “Lo esacerbarono, vennero a contesa, e nutrirono invidia verso di lui coloro che impugnano le frecce”: ciò si riferisce ai fratelli
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Più comunemente noto come Lago di Tiberiade.
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di Giuseppe, che si armarono contro di lui impugnando le frecce dell’invidiaa3. [49,24a] “Sulla forza – cioè: sul Signore – siede il suo arco, e perciò le catene delle sue braccia e delle sue mani sono state spezzate per mano del potente di Giacobbe!”. S’intenda: per mano di Dio, che è la potenza di Giacobbe4, spezzò le catene con cui i fratelli lo avevano legatob5. [49,24b] “Pastore ne uscì, pietra d’Israele!”: da lui, infatti, nacque Geroboamo, che governò con vigore Israele, vale a dire le dieci tribùc. Oppure s’intenda: pastore di tutta la tribù del padre in Egitto6. Il testo ebraico legge invece: ‘pietra dei pastori in Israele’7. [49,25] Dopo averlo elogiato, lo benedisse così: “Il Dio di tuo padre sarà tuo sostegno! L’Onnipotente ti benedirà con le benedizioni del cielo che sta in alto, con le benedizioni dell’abisso che giace in basso, con le benedizioni delle mammelle e del grembo!”. E l’ordine risulta qui invertito: questi ultimi due termini, infatti, intendono riferirsi al concepimento e all’allattamento8. Sta invocando su di lui la rugiada del cielo, la fertilità della terra, l’abbondanza di latte, la fecondità del bestiame. [49,26a] E ancora: “Le benedizioni di tuo padre sono state rafforzate dalle benedizioni dei padri di tuo padre, finché giunga il desiderio dei colli eterni!”. Per questo punto del testo non è dato leggere alcuna spiegazione quanto al senso letterale: ma si potrebbe forse avanzare la spiegazione che segued. Nei Numeri si legge: ‘Si
Si allude all’episodio narrato in Gen 37, 4 ss., e qui al cap. 82. Nel senso che Giuseppe, grazie al suo talento profetico di interprete dei sogni, riuscì a guadagnarsi l’uscita dal carcere (cfr. Gen 41, 14-15, e qui al cap. 87) in cui era stato rinchiuso dal padrone egiziano che l’aveva acquistato dai Madianìti, cui Giuseppe era stato venduto dai suoi stessi fratelli. c Come già osservato al cap. 96, Geroboamo fu infatti della stirpe di Effraim, secondogenito di Giuseppe: cfr. 1Re 11, 26 e 1Re 12, 20. d Per la verità, nell’ampia sezione esegetica che segue, sembra di poter ravvisare due distinte proposte di spiegazione: cfr. nel merito alle nn. 9 e 11. Vale la pena di segnalare fin d’ora che l’intero passo non trova riscontro nelle fonti e che l’argomentazione non sempre risulta del tutto perspicua: in ogni caso, è senz’altro degno di nota il tentativo di spiegare un passo biblico mai commentato, a dire del nostro autore, sotto il profilo storico-letterale. a
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LA GENESI, 107
abbassarono le rocce dell’Arnon’a o secondo altra lezione: ‘Esultarono le rocce dell’Arnon’ b; nel Salmo si legge: ‘Monti, avete saltato come arieti, e colli come agnelli delle pecore!’c; e qui si dice: ‘il desiderio dei colli’. Tutti e tre i passi fanno riferimento alla stessa cosa. Altroved i colli sono chiamati ‘tetragoni eterni’. Possiamo dunque affermare che presso l’Arnon si trovavano dei colli assai impervî e rocciosi, che perciò furono detti ‘eterni’; i quali, poiché avevano quattro cime aguzze, furono detti anche ‘tetragoni’. Una parte di essi si abbassò al cospetto di Israele, in modo tale che egli potesse facilmente attraversare; e, per così dire, ne applaudì l’arrivo. E può darsi che metà della tribù di Manasse abbia ottenuto dei territori attorno a quei monti. E il senso del passo è: così sarà benedetto Giuseppe finché egli, attraverso i colli esultanti, sia entrato nella Terra Promessa; e anche in séguito, s’intende: ‘finché’ è infatti da intendersi in senso inclusivo9. Può darsi che Giacobbe abbia profetizzato del Monte Effraim e del Monte Samaria, sui quali regnò Israele10. Oppure può darsi che abbia profetizzato dei monti di Medi e Persiani, al di là dei quali ancora si trovano in esilio le tribù di Effraim e Manasse; e la terra fu allietata dall’esilio dei nemici. In tal caso ‘finché’ è da intendersi in senso esclusivo: da quel momento, infatti, ebbe termine la gloria di Israele11. Alla luce di quanto legge il testo ebraico, il senso del passo risulta invece il seguente: ‘Finché si uniscano i colli eterni al cielo’. Il che significa: benedetto sia Giuseppe ovunque! – secondo quell’a-
Cfr. Num 21, 14-15, ove il testo della Vulgata legge sic faciet in torrentibus Arnon: scopuli torrentium inclinati sunt, etc., ossia «così farà nei torrenti dell’Arnon: le rocce dei torrenti si abbassarono, etc.». Pietro Comestore ripropone liberamente il nucleo concettuale del passo, senza curarsi di citare alla lettera. b Si direbbe che il nostro autore stia qui segnalando la lezione gestierunt («esultarono») come variante testuale di inclinati sunt («si abbassarono»), e lo stesso registrerà anche nell’àmbito del commento al passo di Num 21, 14-15 (cfr. Petr. Comest., Hist. Schol. − PL 198, col. 1235B): ciononostante, la lezione gestierunt non risulta altrove attestata. c Cfr. Sal 114, 6. d Ignoriamo dove: cfr. alla n. 9. a
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LA GENESI, 107-108
bitudine di esprimersi per cui si è soliti dire ‘fino a dove cielo e terra si uniscano’a12. [49,26b] E infine: “Tutte queste benedizioni13 siano sul capo di Giuseppe e sulla testa di colui che è il Nazareo – ossia: di colui che è il santo14 – tra i suoi fratelli!”.
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108. Beniamino [49,27] “Beniamino, lupo rapace, al mattino divorerà la preda e di sera dividerà le spoglie!”. Alcuni intendono ciò in riferimento a Gerusalemme, situata nel territorio toccato in sorte a Beniamino, e che viene definita ‘lupo rapace’ perché versò il sangue dei profeti e di Cristo. E al mattino, uscito dall’Egitto, egli ricevette la preda, ossia la Leggeb, avendola, per così dire, estorta a Dio. E ancora la sta divorando; ma, quando verrà la sera del mondo, egli dividerà lo spirito che dona la vita dalla lettera che uccidec1. Gli Ebrei, invece, leggono il passo in riferimento all’altare che vi fu in Gerusalemme, e che sarebbe definito ‘lupo rapace’ a motivo della voracità del suo fuoco, sul quale al mattino i sacerdoti ponevano le vittime sacrificali perché venissero bruciate; poi, di sera, i sacerdoti stessi si spartivano tra loro le porzioni delle offerte sacrificali che spettavano a ciascuno2. Tuttavia è più verosimile che il riferimento sia a Paolo, che discese dalla tribù di Beniaminod e dapprima perseguitò i fedeli; poi, convertitosi egli stesso a fedele,
a Notoriamente, infatti, il cielo e la terra si uniscono all’orizzonte: come a dire all’infinito, cioè alla fine del confine visibile della sfera terrestre. b Non a titolo personale, si dovrà forse intendere, ma in quanto la tribù di Beniamino fu parte del popolo d’Israele a cui Dio consegnò, dopo l’uscita dall’Egitto e precisamente sul Monte Sinai, il decalogo della Legge. c Cfr. 2Cor 3, 6, ove la contrapposizione – spirito che dona la vita vs. lettera che uccide – si colloca nel contesto di un più ampio passo in cui san Paolo osserva che l’antica alleanza, incarnata dalla ‘lettera’ scritta su tavole di pietra che è la Legge dell’Antico Testamento, è destinata a cedere il passo alla nuova alleanza, incarnata dallo ‘spirito’ di Dio, per mezzo del quale vengono incise non più le tavole di pietra, ma i cuori di carne degli uomini. d Si tratta, naturalmente, di san Paolo: l’informazione si legge in Fil 3, 5.
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LA GENESI, 108-109
dispensò discorsi su Dio e cariche ecclesiastiche3. Un’altra spiegazione può riferirsi al fatto che questa fu una tribù assai bellicosa4. [49,28] E li benedisse ciascuno con una specifica benedizione. Non perché abbia detto cose buone a ciascuno, s’intende; ma perché parlò in modo appropriato e profetico, oppure perché alla maggior parte di loro riservò una benedizione5.
109. Giacobbe muore e viene trasportato a Hebron [49,32] Dopo che ebbe pronunciato queste parole, Giacobbe sollevò i piedi sul letto e spirò. E fu unito al suo popolo. Ossia agli angeli1: ora in virtù di una speranza certa e infine di fatto. Per la verità, è noto che egli fu unito ad Abramo e Isacco: tuttavia, un così esiguo numero di persone non può certo essere definito ‘popolo’2. [50,2-3] Poi Giuseppe diede ordine ai medici di imbalsamarne il cadavere rivestendolo con aromia. E così gli Egiziani lo custodirono per quaranta giornib. I popoli pagani, infatti, usavano conservare i cadaveri non imbalsamati per nove giorni, e piangerli ogni giorno e riscaldarli con acqua calda in modo tale che si potesse capire se l’anima fosse uscita o fosse addormentata. I cadaveri imbalsamati, invece, Almeno in questa prima occorrenza, si è scelto di rendere il verbo condīre (lett. «condìre») con la perifrasi «imbalsamare rivestendo», certo ridondante rispetto al solo «imbalsamare» (così invece nel prosieguo), ma che permette di conservare anche nella traduzione italiana il parallelismo con antitesi che compare poco oltre: ai popoli pagani (in latino ethnici) e agli Ebrei, che usano condīre aromatibus («rivestire con aromi» cioè «imbalsamare») i cadaveri, sono infatti contrapposti i cristiani (in latino fideles), la cui convinzione è invece che i morti siano conditi fide et virtutibus («rivestiti con la fede e con le virtù»). b Il testo di Gen 50, 3 legge per la verità «E intanto che essi [scil. i medici] compirono ciò che era stato ordinato loro [scil. l’imbalsamazione del cadavere di Giacobbe], trascorsero quaranta giorni: si usava infatti così per i cadaveri imbalsamati. E l’Egitto lo pianse per settanta giorni». L’ampia sezione esegetica che segue ha la funzione di puntualizzare, in ultima istanza, che il dato relativo ai quaranta giorni è da intendersi riferito soltanto al periodo di custodia sotto gli Egiziani (che tanti giorni impiegarono per l’imbalsamazione), mentre quello relativo ai settanta giorni è da intendersi come la somma dei due periodi di custodia – entrambi in terra d’Egitto (ecco perché «l’Egitto lo pianse») – trascorsi rispettivamente sotto gli Egiziani (quaranta) e gli Ebrei (trenta). a
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LA GENESI, 109
li conservavano per quaranta giorni. Gli Ebrei, invece, usavano conservare i cadaveri per sette giorni se non imbalsamati, e per trenta giorni se imbalsamati. E così anche gli Ebrei conservarono Giacobbe per trenta giorni. Se ne conclude perciò che il periodo complessivo trascorso sotto la custodia degli uni e degli altri fu di settanta giorni. Oggi, i fedeli affermano che i loro morti siano rivestiti con la fede e con le virtù, e li piangono per trenta giorni, nel senso che fanno celebrare per loro speciali messe alla ricorrenza del trentesimo giornoa. Alcuni osservano in modo particolare il terzo giorno: perché tre sono lo spirito, l’anima e il corpo. Altri, invece, il settimo giorno: perché i morti passano nella cosiddetta ‘settima della quiete’b, oppure per il cosiddetto ‘settenario’ dell’anima e del corpoc3. [50,4-9] Poi Giuseppe, attraverso intermediari, riferì al Faraone il giuramento che aveva prestato al padre a proposito della sua sepolturad. E ottenuto dal Faraone il permesso, trasportò il padre a Hebron per dargli sepoltura, accompagnato dai suoi fratelli e da numerosi anziani d’Egitto. [50,10-11] Tuttavia, poiché temevano la presenza di guerre4, fecero una deviazione rispetto al percorso più breve. E giunsero nella piana di Adad: il luogo dove, in séguito, il popolo che mormorava contro Dio fu sterminato da un fuoco di origine divinae5. E lì lo piansero per sette giorni, e perciò gli abitanti di quella terra chiamarono quel luogo ‘Pianto dell’Egitto’.
Il cosiddetto “trigesimo”. Si tratta dell’ultima età, contraddistinta da eterna quiete e beatitudine, delle sette in cui il pensiero teologico usava scandire la vita spirituale umana. c Dal momento che si riteneva che l’anima dell’uomo fosse dotata di tre facoltà (razionale, concupiscibile, irascibile) e il corpo costituito dai quattro elementi (aria, acqua, terra, fuoco), le celebrazioni funebri del cosiddetto ‘settenario dell’anima e del corpo’ erano intese a guadagnare al defunto la cancellazione dei peccati commessi in vita da ciascuna di queste sette parti. d Che lo avrebbe cioè sepolto insieme ai propri avi (ossia nella spelonca duplice): cfr. Gen 47, 29-31, e qui al cap. 95. e In verità, il toponimo Adad non ricorre altrove nel testo biblico. Un episodio analogo, ove il popolo che mormora contro Dio viene punito per mezzo di un fuoco mandato da Dio stesso, si legge in Num 11, 1-3: il passo biblico riferisce però che il luogo in cui si verificò l’evento fu chiamato Incensio («Incendio»). a
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LA GENESI, 109-110
[50,13-14] Poi ripresero il cammino e, riattraversato il Giordano6, lo seppellirono nella spelonca duplice. Poi Giuseppe fece ritorno in Egitto insieme ai suoi fratelli e a tutto il suo séguito.
110. La morte di Giuseppe [50,15-21] Poi però i suoi fratelli, temendo che, ora che il padre era morto, eglia si ricordasse delle offese che loro gli avevano inflitto, gli dissero: “Tuo padre, quando ancora era in vita, ci ordinò di dirti queste parole: «Ti preghiamo: dimentica il delitto commesso dai tuoi fratelli!». E anche noi ora ti preghiamo di perdonare questa iniquità in nome di tuo padre!”. E lo adorarono prostrandosi a terra. Giuseppe pianse e disse loro: “Non abbiate timore!”. E li rassicurò. [50,22-21] Giuseppe visse 110 anni, e fece in tempo a vedere i figli di Effraim fino alla terza generazione. Anche i figli di Machir, figlio di Manasse, nacquero sulle ginocchia di Giuseppe. Poi disse ai suoi fratelli: “Dio verrà ancora a visitarvi, e vi ricondurrà nella terra che ha promesso in giuramento ai nostri padri. Allora, portate le mie ossa insieme a voi!”. E, dopo che ebbe ottenuto da loro il giuramento, spirò. Lo imbalsamarono e lo riposero in una cassa, in Egitto, e non lo spostarono di lì fino a quando i figli di Israele non uscirono dall’Egitto. Quanto ai suoi fratelli, invece, secondo quanto riferisce Flavio Giuseppe, quando ciascuno di essi moriva, veniva portato via e sepolto in Hebron1. Poi furono spostati in Sichem2. Qui termina il Libro della Genesi.
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Giuseppe, s’intende.
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NOTE DI COMMENTO
Prologo epistolare 1.
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Il dedicatario dell’opera è Guglielmo, detto il Manibianche, arcivescovo di Sens tra il 1169 e il 1175. Fratello del conte della regione francese della Champagne, Guglielmo fu personaggio di spicco e di notevole influenza nella stessa città di Troyes, luogo d’origine di Pietro Comestore: ben si comprende, dunque, il motivo per cui l’Historia Scholastica non sia stata la sola opera ad essergli dedicata, forse anche a motivo del timore della censura ecclesiastica, all’epoca sempre in agguato (basterà qui rammentare due vittime illustri della generazione precedente a quella del nostro autore, ossia Pietro Abelardo e Gilberto Porretano); a quest’ultimo aspetto sembra alludere lo stesso Pietro formulando un particolare auspicio in conclusione del Prologo (cfr. alla n. 8). Tra gli intellettuali che ambirono alla protezione del potente arcivescovo compaiono figure di rilievo quali Pietro di Blois, Pietro di Poitiers (che nel 1169 succedette a Pietro Comestore nella cattedra di teologia a Notre Dame) e Gualtiero di Châtillon. Cfr. Daly, ‘Peter Comestor: Master of Histories’, p. 67-68. Il Prologo all’intera opera – ricco di indicazioni circa genesi, scopi, contenuti e struttura del testo – si presenta in forma di epistola dedicatoria e si apre con un’ampia e altisonante formula di dedica, costruita in fedele osservanza ai moduli retorici del topos di modestia e della captatio benivolentiae. Il primo posto è riservato al dedicatario, cui segue, in seconda battuta nonché in ruolo di ef-
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Note di commento, PROLOGO EPISTOLARE
3.
fettivo subordine, la menzione del dedicante: entrambe le figure sono accompagnate da una serie di qualifiche che ne definiscono il rispettivo statuto sociale e, al contempo, ne sottolineano il rapporto gerarchico. Si osservi l’accorta attribuzione dei titoli e la loro perfetta rispondenza speculare: in relazione a Guglielmo, designato come reverendus pater («reverendo padre») e dominus suus («suo superiore»), Pietro Comestore qualifica se stesso come un semplice servus («servo») di Cristo, ma anche dello stesso Guglielmo se è vero che vale l’opposizione dominus-servus; inoltre, il ruolo di Guglielmo, nella sua alta carica ecclesiastica di archiepiscopus Senonensis («arcivescovo di Sens»), spicca per contrasto rispetto all’umile autoqualifica di presbyter Trecensis («sacerdote di Troyes») che Pietro riserva a se stesso. Il topos di modestia, peraltro, assume tanto più rilievo ove si consideri che, al momento della stesura della dedica (verosimilmente tra il 1169 e il 1175, estremi cronologici della carica arciepiscopale rivestita dal dedicatario), il nostro Pietro era ben più che un semplice presbyter Trecensis: oltre a potersi fregiare, da almeno un ventennio, del titolo onorifico di decanus Trecensis («decano di Troyes»), da qualche anno esercitava infatti anche il prestigioso incarico di cancellarius («cancelliere») del capitolo cattedrale di Notre Dame (cfr. Introduzione § Pietro Comestore: vita e opere). Obbediente al modulo retorico della professio modestiae, la mossa per così dire de-responsabilizzante, che vede l’autore dichiarare di aver intrapreso l’opera a motivo di pressanti richieste (qui instans petitio) altrui, è già in epoca classica un topos consueto in sede liminare: fatta salva questa osservazione, può darsi tuttavia che il nostro autore stia dichiarando il vero. L’identità di tali socii (da noi reso «colleghi») resta in ogni caso sfuggente: dal momento che Pietro Comestore, all’epoca presunta di composizione dell’opera, è attivo nel contesto della scuola cattedrale di San Vittore a Parigi, le sollecitazioni potrebbero essergli giunte da chierici, maestri e studenti che popolavano questo peculiare ambiente, già a tutti gli effetti universitario. Merita rilevare, tuttavia, l’assenza di un qualsivoglia cenno esplicito ad una consapevole destinazione scolastica dell’opera: si rammenti che il titolo di Historia Scholastica sembra non sia da ritenersi quello attribuito in origine; tra le ipotesi avanzate
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Note di commento, PROLOGO EPISTOLARE
da Agneta Sylwan circa il titolo originale vi è l’espressione historia sacrae scripturae («storia della Sacra Scrittura») che compare qui poco più avanti (cfr. Introduzione § L’Historia Scholastica: genesi, fortuna, tradizione manoscritta, edizioni). 4. L’opera si configura come un intervento migliorativo, al fine di ottenere uno strumento che consenta di reperire notizie attendibili in materia di storia sacra (in latino historia sacrae scripturae). Nella fattispecie si tratta di agevolare, migliorandola, la prassi allora abituale di consultazione della storia sacra, penalizzata da tre elementi di debolezza espressamente segnalati da Pietro Comestore: complessivo carattere di a-sistematicità, per cui la storia sacra era divisa tra il testo vero e proprio della Sacra Scrittura e le glosse di commento (in serie et glosis diffusa); eccessiva concisione (brevis nimis); mancanza di un tessuto espositivo (inexposita). È evidente come Pietro stia qui alludendo indifferentemente ad almeno tre diversi strumenti bibliografici: la Glossa Ordinaria; i commentari esegetici ai singoli libri biblici; le cronache di impianto universale (sulle caratteristiche di ciascuno, cfr. Introduzione § Fisionomia dell’opera: configurazione strutturale e stilistica). Ne risultava una consultazione poco agevole sotto il profilo pratico, che richiedeva al lettore un continuo sforzo di collazione tra testo e glosse marginali e/o interlineari, nonché il ricorso complementare ad opere esegetiche altre e fisicamente distinte dal testo sacro; al già complicato tentativo di orientarsi tra la mole sempre crescente delle notizie, si aggiungeva inoltre (e di conseguenza) il compito di vagliare il grado della loro attendibilità. Alla luce di tutto ciò, sembra che l’opera di Pietro Comestore ambisca a dare sistemazione organica al materiale allora disponibile: armonizzare e ricomporre in un discorso coerente e unitario le informazioni di storia sacra che era possibile ricavare tanto dal testo biblico quanto da opere ad esso collaterali, così da agevolare al lettore il reperimento di notizie accreditate. L’opera mostra dunque un impianto generale senz’altro innovativo, che si distanzia sia dalla prassi della storiografia universale (mera registrazione, concisa e oggettiva, degli eventi) che da quella dei commentari biblici (ove, all’opposto, ciò che conta è l’esegesi): se è vero che – come ha insegnato una lunga tradizione esegetica che affonda le radici in epoca tardoantica – la realtà tutta, e perciò anche la storia
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Note di commento, PROLOGO EPISTOLARE
sacra, coincide con i significati che se ne possono trarre, allora ben si comprende il proposito di guadagnarle unità, tessendone inscindibilmente narrazione e commento. 5. Il nostro autore offre qui una precisa indicazione di carattere metodologico, in relazione all’utilizzo delle fonti: con metafora assai concreta, egli dichiara di non aver mai consentito che lo stilus («stilo») si allontanasse da quanto già fu detto dai Padri, sebbene sia piuttosto la novità a riscuotere il favore dei lettori. Il dichiarato ossequio all’auctoritas di cui sono depositarie le fonti patristiche, e dunque il rifiuto per la novità e l’originalità compositiva, sottende in verità una certa eco del topos di modestia che informa di sé l’intero Prologo: si è già accennato (cfr. alla nota precedente) − e ciò riuscirebbe confermato dall’analisi delle fonti, non sempre individuabili − alla cifra tutt’altro che compilatoria del progetto ideato dall’autore. Si badi che il termine stilus designa tecnicamente lo strumento scrittorio appuntito adoperato nell’antichità per incidere le tavolette, mentre in epoca medievale si impiegò il calamus (cannula vegetale) o la penna (penna d’oca) per vergare con l’inchiostro i manoscritti: si è scelto di rendere comunque con l’italiano «stilo» poiché il sostantivo è qui chiaramente utilizzato – con scarto metonimico conservatosi anche nella lingua italiana – in riferimento allo «stile» del testo (cfr. anche poco oltre). 6. Si circoscrivono gli estremi cronologici della materia trattata: l’opera prende avvio in corrispondenza del libro della Genesi (dalla creazione del mondo) e, percorrendo la storia biblica quale è narrata nel corso dei successivi libri, si conclude in corrispondenza dei Vangeli (fino all’ascensione del Salvatore). L’operazione, nel suo complesso, è descritta metaforicamente come l’aver tracciato il rivulus historicus («rivolo della storia»), fuor di metafora il corso della storia; al contrario, l’autore dichiara di aver lasciato ad altri la possibilità di avventurarsi nel ben più vasto pelagus mysteriorum («pelago dei misteri»), che consente tanto l’adesione alle orme già tracciate da altri (vetera prosequi) quanto la coniazione del nuovo (nova cudere). Le affermazioni programmatiche contenute nella Prefazione manifestano come il binomio rivulus historicus-pelagus mysteriorum, pur non esente dal consueto topos di modestia, alluda alla precisa scelta di circoscrivere le letture esegetiche del testo
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Note di commento, PROLOGO EPISTOLARE
sacro al senso storico-letterale, tecnicamente detto sensus historicus (o soltanto historia), non curandosi invece di tutti gli altri, che in epoca tardomedievale si riassumevano appunto nell’espressione sensus mysticus: vale a dire non curandosi, secondo la canonica distinzione agostiniana, del senso tipologico-figurale, tropologico-morale e anagogico (cfr. le note di commento alla Prefazione). A margine, vale la pena di notare che la metafora della storia quale rivulus potrebbe prestarsi ad essere letta anche in riferimento all’ordine espositivo della materia storica: come il flusso d’acqua scorre in direzione inevitabilmente progressiva, così l’autore starebbe suggerendo l’intenzione di narrare la storia secondo un ordine cronologico rigoroso, in tal modo distinguendosi – anche sotto questo profilo – dai commentari esegetici, che adottavano l’ordine espositivo dei libri biblici. L’analisi dell’opera mostra però che l’ordine di esposizione della materia non si discosta da quello biblico: cfr. nel dettaglio Introduzione § Fisionomia dell’opera: configurazione strutturale e stilistica. 7. Pietro Comestore dichiara qui di non aver limitato la propria esposizione alla sola storia sacra, ma di aver registrato anche alcune sincronie (in latino incidentia: lett. «cose che si verificano nello stesso tempo») con la storia profana, inserendole nel tessuto narrativo pro ratione temporum (da noi reso «secondo la logica richiesta dalla cronologia»): ciò accade, in forme di volta in volta variabili, ai capp. 40, 63, 65, 67, 72 e 81. La logica sottesa all’operazione − ispiratrice della storiografia cristiana di impianto universale (inaugurata tra III e IV sec. dal Chronicon di Eusebio di Cesarea, tradotto in latino da Girolamo: cfr. al cap. 51, n. 3) − è efficacemente chiarita da una nuova immagine metaforica, che segue e integra la precedente del rivulus e del pelagus: è pur sempre il rivulus (cioè la storia sacra) ad alimentare i diverticula («rigagnoli secondari») che incontra lungo il suo alveo, e tuttavia il rivulus non cessa poi di scorrere oltre; come a dire, fuor di metafora, che la Storia è una e unitaria, e il suo alveo principale è tracciato dalla storia sacra (il rivulus), del quale gli eventi della storia profana non costituiscono che ramificazioni secondarie (i diverticula) e da esso comunque dipendenti (a margine di tutto ciò, sta il pelagus mysteriorum, in cui l’autore ha dichiarato però di non voler avventurarsi). Si tratta cioè di inquadrare le
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Note di commento, PROLOGO EPISTOLARE - PREFAZIONE
8.
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tappe salienti dello sviluppo della storia profana, assumendo pur sempre a riferimento gli eventi della storia sacra. Il Prologo si chiude, secondo uno schema in qualche modo circolare rispetto all’esordio (cfr. l’allocuzione pater inclite, «padre illustre», a riecheggiare il reverendus pater di apertura), con una ulteriore e nemmeno troppo sottaciuta captatio benivolentiae nei confronti del dedicatario, di nuovo inscindibilmente coniugata alla topica professio modestiae. Pietro Comestore afferma di aver riservato a Guglielmo la lima necessaria a dirozzare lo stilus rudis, in senso proprio lo «stilo rozzo» e dunque in senso traslato lo «stile» dell’opera stessa (cfr. già alla n. 5): l’auspicio finale è che, insieme al favore divino, le correzioni e l’autorità di Guglielmo possano concedere all’opera rispettivamente splendore e perenne durata; sull’autorità del dedicatario quale garanzia di perenne durata dell’opera, cfr. alla n 1 in merito alla censura ecclesiastica. Chiude, a suggello, la benedizione formale rivolta alla divinità.
Prefazione 1.
Nella Prefazione all’opera trova conferma, sotto le vesti di un’ampia e articolata allegoria, la dichiarazione già adombrata nel Prologo circa il tipo di esegesi che l’autore sceglie consapevolmente di privilegiare. L’immagine allegorica si articola su due livelli tra loro complementari: il primo livello consiste in una similitudine (i cui due termini sono posti in relazione dalla formula ad hunc modum, da noi reso «analogamente») che paragona tre stanze di una profana corte imperiale, ciascuna adibita ad una precisa funzione, a tre metaforici luoghi di cui dispone l’imperatore per antonomasia, vale a dire Dio, per l’adempimento delle proprie funzioni. All’auditorium («auditorio») o consistorium («sala consiliare») imperiale, preposto all’amministrazione della giustizia, corrisponde il mundus («mondo»), dove Dio predispone ogni cosa secondo il suo cenno; al thalamus («camera da letto»), deputato al riposo, corrisponde l’anima iusti («anima del giusto»); al cenaculum («sala da pranzo»), adibito alla distribuzione del cibo, corrisponde la sacra scriptura («Sacra Scrittura»), dove Dio inebria i suoi fedeli
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Note di commento, PREFAZIONE
con il paradossale fine di renderli sobri. In aggiunta, sul versante divino della similitudine, il nostro autore allega altri due dati: una citazione scritturale, per così dire esplicativa di ciascuna delle tre funzioni esercitate da Dio; l’appellativo con cui Dio, nell’esercizio di ciascuna funzione, può essere con maggior esattezza designato, ossia rispettivamente dominus («signore»; con ulteriore citazione scritturale esplicativa), sponsus («sposo») e paterfamilias («padre di famiglia»). 2. Il secondo livello dell’immagine allegorica si focalizza sull’ultimo dei tre luoghi divini menzionati, vale a dire sul cenaculum, corrispondente alla Sacra Scrittura. Articolando più nel dettaglio la precedente similitudine, Pietro Comestore delinea qui la nota dottrina, di matrice agostiniana, dei differenti sensi che è possibile indagare nella Sacra Scrittura (cfr. Introduzione § Tipologie di esegesi): il fundamentum («pavimento») ne rappresenta il senso storico-letterale, qui definito historia (appunto «storia»), vale a dire l’approccio-base al testo biblico, che considera in sé e per sé i fatti che sono oggetto della narrazione; la paries («parete») il senso tipologico-figurale, per il nostro autore allegoria, ossia la lettura mediante la quale si rappresenta un fatto attraverso un altro fatto (in termini rigorosamente intesi, essa consiste nella lettura della storia veterotestamentaria come prefigurazione di quella neotestamentaria); il tectum («tetto») o doma culminis («copertura del soffitto») il senso tropologico-morale, qui indicato come tropologia, cioè la lettura che suggerisce, attraverso un fatto, una certa condotta morale. Quanto all’historia, se ne indica un’ulteriore articolazione interna, in tre differenti sottospecie, di cui è offerta opportuna spiegazione: storia annalistica, calendariale ed efemèride. Si osservi la mancata menzione dell’ultima delle quattro prospettive di esegesi contemplate dalla dottrina agostiniana, vale a dire la lettura anagogica, che consiste nell’indagare a quali realtà eterne alluda il testo. 3. Si intende cioè suggerire che la distinzione historia-allegoria-tropologia non è soltanto funzionale, ma anche in un certo senso gerarchica: la prima è la più immediata e semplice (planior), la seconda più acuta e sottile (acutior), la terza più dolce (suavior). 4. Il nostro autore dichiara espressamente che il suo discorso muoverà dal fundamentum («pavimento»): fuor di metafora, si esplicita
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Note di commento, PREFAZIONE - CAP. 1
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qui la scelta di privilegiare l’esegesi storico-letterale. Per la verità, l’espressione loquendi sumemus principium (lett. «prenderemo il principio del discorso») resta vagamente ambigua: a rigore, l’esegesi storico-letterale parrebbe qui indicata come prima e preliminare tappa di un programma di lavoro ben più ampio («prenderemo avvio», cioè «inizieremo», con implicita allusione ad un prosieguo del discorso), che forse avrebbe contemplato anche (ma quando?; e in quale sede?) gli altri due livelli di esegesi (l’allegoria e la tropologia); d’altra parte, può darsi si tratti di una semplice marca di explicit, che segna la conclusione della Prefazione e prelude all’inizio dell’opera vera e propria (come a dire «ora prende avvio il discorso, ed esso avrà per oggetto il fundamentum»). Con abile gioco di parole che sfrutta la polisemìa dei termini fundamentum e principium, l’autore puntualizza che il discorso muoverà non già dal fundamentum genericamente inteso, bensì dal principium («principio» cioè «soglia») del fundamentum stesso: coincidendo quest’ultimo con la historia, l’indicazione non fa che confermare quanto già dichiarato in modo esplicito nel Prologo (cfr. «Iniziando dalla creazione del mondo descritta da Mosè etc.») a proposito dell’estremo cronologico iniziale dell’opera assunto in corrispondenza dell’inizio di Genesi. Chiude l’invocazione al favore della divinità, designata – proseguendo con il gioco di parole allusivo – come princeps («prìncipe») e principium («principio») di ogni cosa.
Capitolo 1 1.
Cfr. Gv 1, 1-3: In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, et Deus erat Verbum. Hoc erat in principio apud Deum. Omnia per ipsum facta sunt, et sine ipso factum est nihil quod factum est («In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e Dio era il Verbo. Esso era in principio presso Dio. Ogni cosa fu creata per mezzo di esso, e senza di esso non è stato creato nulla di ciò che è stato creato»). Il richiamo, senz’altro concettuale e in parte anche esplicitamente formale (cfr. la coincidenza ad litteram nella formula incipitaria), ai versetti di apertura del Vangelo di Giovanni sembra
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Note di commento, CAP. 1
2.
3.
rivestire una precisa funzione esegetica: segnalare al lettore che, a dispetto di quanto si potrebbe dedurre sulla sola base di Gen 1, 1, è improprio ritenere che prima della creazione materiale del mondo non esistesse null’altro ad eccezione di Dio; esisteva invece il Verbo, esso stesso principio nel quale e attraverso il quale Dio procedette alla creazione del mondo. Nel prosieguo del capitolo, l’equivalenza Verbo-principio sarà estesa al Figlio, con esplicito riferimento al dogma trinitario: cfr. alla n. 13. Il nutrito excursus semantico che segue, sulle quattro possibili accezioni del termine mundus («mondo»), non trova riscontro nelle fonti, né per intero né limitatamente alle singole accezioni. Neppure per le spiegazioni etimologiche proposte è dato individuare un parallelo testuale, tanto meno nelle Etymologiae sive Origines, il trattato etimologico di Isidoro di Siviglia (VI-VII sec.) che il mondo medievale assunse a riferimento in materia. Il concetto di ‘cielo empireo’ fu elaborato dalla teologia cristiana tardomedievale (nota anche come ‘scolastica’) a complemento della dottrina cosmologica di matrice aristotelico-tolemaica. In accordo con quest’ultima (cfr. il trattato aristotelico De caelo), al centro del cosmo si trova la sfera terrestre, circondata da una serie di altre sfere mobili e tra loro concentriche, i cosiddetti ‘cieli’: il mondo sublunare (terra e spazio di atmosfera fino al primo cielo, quello della Luna) è costituito dai quattro elementi – terra, acqua, aria, fuoco – che già il filosofo Empedocle di Agrigento (V sec. a.C.) aveva individuato quali sostanze primordiali e irriducibili del cosmo; il mondo sopralunare è invece costituito da un particolare quinto elemento, più puro degli altri, detto ‘etere’. Il modello cosmologico affermatosi nel corso del tempo individua un totale di nove sfere celesti: le sette dei pianeti, il cielo delle stelle fisse e il ‘Primo Mobile’. In aggiunta, i teologi cristiani postularono l’esistenza di un decimo cielo, appunto l’empireo: indicato quale sede di Dio, degli angeli e delle anime beate, esso fu concepito dalla scolastica per lo più come materiale e corporeo al pari degli altri nove (al contrario, il Dante della Commedia lo penserà come immateriale e incorporeo). Dalle righe e dai capitoli che seguono, si ricava che Pietro Comestore ha presente un modello geocentrico di cosmo che coincide soltanto in parte con quello di matrice aristotelica appena illustrato. Vi è
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Note di commento, CAP. 1
sostanziale accordo sia sulla teoria dei quattro elementi costitutivi del mondo sensibile sia sull’individuazione di una regio sublunaris («regione sublunare»). Il punto di divergenza più rilevante riguarda il numero di sfere celesti postulate intorno alla terra, che per il nostro autore assommano a tre (o, al più, quattro: cfr. al cap. 4) sulla scorta di larga parte della teologia cristiana (cfr. al cap. 4, n. 11). Nulla di esplicito egli osserva a proposito della sostanza costitutiva dei cieli: il carattere di mundicia («purezza») qui attribuito all’empireo e la denominazione di aethereum («etereo») attribuita al cielo che ospita le stelle (cfr. al cap. 4) suggerirebbero che, anche secondo Pietro, i cieli siano costituiti dal quinto elemento, l’etere. Quanto al cielo empireo, alcuni dettagli a riguardo sono offerti qua e là nel corso di questi primi capitoli: il suo carattere distintivo, come già osservato, è la mundicia [cap. 1]; il philosophus (su cui cfr. infra alla n. 5) ne ignorava l’esistenza [cap. 1]; ad esso, nelle sue due componenti di ‘contenitore’ (il cielo empireo stesso) e di ‘contenuto’ (la natura angelica), fa riferimento Gen 1, 1 con il termine caelum [cap. 1]; esso, non appena creato, fu sùbito disposto ed ornato [cap. 4]; è la sede dei cosiddetti calodaemones o boni daemones («buoni demoni»), ossia degli angeli [cap. 7]; ha l’aspetto di un paradisus («giardino»), detto spiritualis («spirituale») in quanto regio spirituum («luogo degli spiriti») [cap. 14]. 4. Non è dato comprendere con esattezza che cosa Pietro Comestore intenda per sensilis mundus («mondo sensibile»). Al cap. 4 si indica la volta del firmamento come la superficie esterna del mundus, la quale contiene in sé cetera sensibilia («tutte le altre cose sensibili»): il sensilis mundus parrebbe dunque configurarsi come l’intero spazio di cosmo che si estende dalla terra, essa inclusa, fino per l’appunto al firmamento. 5. In latino philosophus («filosofo»), generico appellativo di cui si fatica ad individuare il preciso referente. Due sono le ipotesi che è possibile formulare: a) designazione antonomastica ad indicare verosimilmente Aristotele, il cui sistema filosofico fu assunto a fondamento dalla scolastica: l’usus scribendi di Pietro Comestore, tuttavia, mostra altrove una puntuale cura nel menzionare in modo esplicito per nome i filosofi pagani alle cui teorie ha occasione di accennare, anche e specie a scopo polemico (cfr. già qui nel pro-
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Note di commento, CAP. 1
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sieguo); b) designazione collettiva (per mezzo di un singularis pro plurali) ad indicare il pensiero filosofico pagano tout court in contrapposizione al pensiero teologico cristiano: va da sé, infatti, che nessun filosofo pagano postulò mai l’esistenza dell’empireo. Il dilemma appare pressoché insolubile, anche alla luce di un’altra occorrenza del termine che pure si presta a duplice lettura (cfr. al cap. 4 e relativa n. 10). Vale a dire soltanto una parte (ossia terra e atmosfera fino al cielo della Luna: cfr. alla n. 3) del mondo sensibile appena menzionato. La metafora uomo-microcosmo è emblematica della concezione antropocentrica che contraddistingue la mentalità medievale: non soltanto il mondo è stato creato da Dio a servizio dell’uomo, ma è anche l’uomo stesso ad essere stato creato da Dio quale perfetta riproduzione, in piccolo, del mondo nella sua totalità. Il nostro autore ha cura di puntualizzare la distinta accezione in cui è da intendersi il verbo «creare», e perciò l’atto stesso della creazione, in riferimento rispettivamente alle prime tre accezioni di ‘mondo’ («creare dal nulla») e alla quarta («plasmare»). L’uomo fu infatti creato non dal nulla, bensì de limo terrae («dal fango della terra»): cfr. Gen 2, 7 e qui al cap. 13. Si tratta cioè, a differenza della precedente, di una distinzione tutta interna al mondo sensibile. Cfr. ad es. Hier., Hebr. quaest. in Gen. 6, 2 (p. 11, l. 23). È questo il primo di svariati cenni, nel corso dell’opera, al concetto di Trinità (cfr. ai capp. 2, 9, 25). La premura di ribadire i dogmi dell’ortodossia cristiana in funzione contrastiva rispetto a dottrine eterodosse (lato sensu: sistemi filosofici di epoca pagana-classica; correnti cristiane eterodosse/ereticali diffuse all’epoca dell’autore; semplici credenze divulgate) è aspetto peculiare e costante in questi primi capitoli: cfr. nell’immediato prosieguo e ai capp. 2, 5, 6, 9, 10, 18. A confutazione di tre dottrine filosofiche pagane (platonica, aristotelica, epicurea), altri due dogmi dell’ortodossia cristiana sono qui affermati a chiare lettere: a) la sola entità che esiste ab aeterno è Dio: la medesima chiosa offre Glossa interl. Gen 1, 1; b) il mondo (si dovrà intendere nelle prime tre accezioni sopra esposte) fu creato a partire dal nulla, cioè senza la pre-esistenza di alcuna materia. Una analoga confutazione delle dottrine platonica ed aristotelica si
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Note di commento, CAP. 1
legge nell’Expositio super Heptateuchum di Andrea di San Vittore (cfr. Andr. S. Vict., Exp. Gen. 1, 2), esponente della scuola vittorina coetaneo del nostro Pietro Comestore: può darsi che quest’ultimo, per completezza d’informazione, abbia ritenuto opportuno allegare anche un cenno alla dottrina epicurea. 13. L’equivalenza Verbo-principio, istituita in apertura del capitolo, si arricchisce qui del riferimento al dogma trinitario, di nuovo sulla scorta della teologia cristiana ortodossa: nella fattispecie, il Verbo-principio si identifica nel Figlio, la seconda persona della Trinità. 14. È questo uno dei fondamenti della cosmologia platonica: cfr. Plat., Tim. 38B. Il dialogo intitolato Timeo è il solo testo di Platone che continuò a circolare ampiamente anche in epoca tardoantica e poi medievale: lo spontaneo accostamento tematico tra mito platonico – la creazione dell’universo ad opera del Demiurgo, il divino artefice – e racconto biblico del primo capitolo della Genesi – la creazione dell’universo ad opera di Dio – valse a guadagnare favore all’opera anche presso gli ambienti cristiani. Lo strenuo e costante sforzo esegetico, inteso a conciliare la narrazione platonica con quella veterotestamentaria, giunse al culmine proprio all’epoca di Pietro Comestore (XII sec.) con la scuola filosofico-teologica di Chartres (si segnala, in particolare, il commento al Timeo di Guglielmo di Conches). Intorno alla metà del IV sec., l’intellettuale cristiano Calcidio approntò una traduzione latina del testo greco corredata di commento (entrambi tuttavia parziali: l’una copre la sezione 31C-53C, l’altro 17A-53C), nota anche al nostro Pietro, che al cap. 13 ne cita ad litteram un passaggio. I nuclei concettuali del Timeo che trovano riscontro (in chiave polemica o, al contrario, apologetica) nei commentari biblici alla Genesi sono passati in rassegna da Robbins, ‘The Influence of Greek Philosophy’, p. 219230: nelle note di commento lo studioso registra anche svariati passi dell’Historia Scholastica. 15. Posto che per ‘eternità’ si intende il non avere né inizio né fine, si intende cioè suggerire la seguente distinzione: l’aggettivo aeternus («eterno») allude all’eternità che si pone al di fuori del tempo e che è soltanto di Dio; l’aggettivo sempiternus («sempiterno») allude invece all’eternità inscritta nella dimensione temporale, che è
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Note di commento, CAP. 1
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propria del mondo e degli angeli. Per l’etimologia di sempiternus, come composto dall’avverbio semper («sempre») più l’aggettivo aeternus, cfr. analogamente Isid., Etym. 7, 1, 22. La triplice accezione della formula ‘in principio’ è segnalata, pur concisamente, da Glossa interl. Gen 1, 1: temporis, vel ante cetera, vel in filio suo, ossia «del tempo; o prima di ogni altra cosa; o nel Figlio suo». La menzione di cielo e terra compare cioè a termini invertiti rispetto a Gen 1, 1: essendo infatti simultanea la creazione dei due elementi, l’ordine in cui essi vengono menzionati è ininfluente. L’osservazione è debitrice a Glossa ord. Gen 1, 1. Il concetto teorico in precedenza esposto – ossia l’impossibilità di riferire simultaneamente a parole una sequenza di eventi simultanei – trova esemplificazione pratica mediante un’efficace similitudine desunta da Avg., De Gen. ad litt. 4, 34. Il riferimento all’esperienza quotidiana, al fine di chiarire al lettore un concetto astratto e/o di non immediata comprensione, è una modalità esegetica cui il nostro autore mostra di riservare una particolare predilezione: cfr. i casi emblematici che figurano al cap. 2 (lo spirito divino paragonato alla volontà di un artefice), al cap. 4 (il firmamento paragonato al guscio di un uovo), al cap. 10 (l’allusione macabra ad un occhio considerato separatamente dall’essere vivente), al cap. 14 (l’effetto dell’albero della conoscenza spiegato per analogia a quanto accade ad un medico e ad un bambino), al cap. 20 (l’analogia tra amore genitoriale e linfa degli alberi); al cap. 23 (i genitali intesi come la porta da cui passa la propagazione della stirpe), al cap. 33 (il riferimento all’attività del contadino per dar conto di struttura e funzione dell’arca), al cap. 51 (l’ipotesi sulla modalità di assimilazione del cibo da parte degli angeli), al cap. 52 (l’esemplificazione pratica del concetto di aorisia), al cap. 65 (la triplice similitudine a spiegare un paradossale tipo di giovamento). La triplice scansione parrebbe riecheggiare quella in cui la precettistica retorica, già codificata in epoca classica ed ereditata dal mondo tardoantico e poi medievale, suggerisce all’oratore di articolare la fase iniziale dell’attività di produzione di un discorso. L’inventio («reperimento degli argomenti») della retorica sta infatti alla creatio («opera di creazione della materia»), come la dispositio
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Note di commento, CAP. 1-2
(«disposizione degli argomenti reperiti nell’ordine più idoneo») sta all’omonima dispositio («opera di disposizione della materia creata») e come l’elocutio («elaborazione della forma più idonea ad esporre gli argomenti») sta all’ornatus («opera di ornamento per mezzo della materia in precedenza creata e disposta»). Ciò a riprova di come la tradizione esegetica medievale, che affonda le radici in epoca tardoantica, sia intimamente permeata di schemi di pensiero e spiegazione della realtà ideati all’origine in funzione esplicativa di una realtà profana (qui, la retorica) e ri-adattati in funzione esplicativa di una realtà teologica (qui, l’opera divina).
Capitolo 2 1. 2.
Cfr. Glossa ord. Gen 1, 2. Così osserva anche Petr. Lomb., Sent. 2, dist. 12, cap. 1, par. 2: testo di riferimento, almeno per l’intera epoca tardomedievale, le Sententiae furono redatte alla metà del XII sec. dal teologo Pietro Lombardo con lo scopo di dare una sistemazione organica alle differenti auctoritates che circolavano in materia. Il sostantivo chaos (gr. χάος), deverbativo dal greco χαίνω («spalancarsi» ma anche «inghiottire»), designa propriamente il concetto di «voragine» o appunto «abisso», ove tutto è ridotto a confusione e oscurità: in questi termini, infatti, ci si raffigurava lo stato primordiale del cosmo. 3. Tale opinione è stigmatizzata in Glossa ord. Gen 1, 2. 4. Sulla scorta di Petr. Lomb., Sent. 2, dist. 12, cap. 3, par. 3 – cap. 4 (che a sua volta cita Agostino quale auctoritas di riferimento), si osserva che il termine «tenebre» può designare due opposti concetti: uno puramente negativo, ossia l’assenza di luce (cfr. Avg., De Gen. contra Man. 1, col. 176-177), in effetti creata in un secondo momento (cfr. Gen 1, 3, e qui al cap. 3); un concetto positivo, ossia una qualità dell’aria (cfr. sempre al cap. 3). 5. Cfr. Glossa interl. Gen 1, 2, ove analogamente il generico spiritus («spirito») è identificato con lo Spirito Santo (la terza persona della Trinità, secondo la dottrina cristiana ortodossa). Merita rilevare, tuttavia, come Pietro Comestore ne tragga ulteriore spunto
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Note di commento, CAP. 2
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per ribadire il dogma trinitario: il cosiddetto ‘Credo niceno-costantinopolitano’ – la cui redazione, elaborata tra il 325 e il 381, valse a suggellare il dogma in séguito alle spinte centrifughe eterodosse diffuse ormai da decenni – proclama appunto Credo in Spiritum Sanctum, Dominum et vivificantem etc. («Credo nello Spirito Santo, che è il Signore e dà la vita etc.»). La concreta similitudine esplicativa è offerta da Avg., De Gen. contra Man. 1, col. 179. Si badi, tuttavia, che essa appare formulata nel nostro testo in modo assai più aderente a Remig., Expos. super Gen. 1, 2: il commentario alla Genesi di Remigio di Auxerre, monaco benedettino e intellettuale di età carolingia, è uno dei numerosi commentari biblici medievali che ripropongono la similitudine agostiniana. Cfr. Glossa interl. Gen 1, 2. Analoga osservazione nel già citato Avg., De Gen. contra Man. 1, col. 179. Le due lezioni sono tratte rispettivamente da Glossa ord. Gen 1, 2 e da Glossa interl. Gen 1, 2. Può darsi che il nostro autore intenda qui implicitamente suggerire che l’accezione di ‘inizio’ va perduta nella resa latina con il verbo superferre («muoversi sopra»), in cui si conserva soltanto l’idea di ‘governo’. Al contrario, le due accezioni sono compresenti nella resa ebraica e in quella sira, rispettivamente mediante i verbi «covare» (incubare) e «riscaldare» (fovēre), con icastica allusione metaforica al mondo animale: l’azione del covare/riscaldare le uova sottende infatti un gesto di cura (accezione di ‘governo’) e, al contempo, allude al principio di un’esistenza (degli uccellini dentro le uova: accezione di ‘inizio’). Entrambe le osservazioni figurano nella già citata Glossa ord. Gen 1, 2. Si osservi che, sebbene la fonte attribuisca l’erronea opinione ad imprecisati multi («molti»), in effetti il concetto di ‘anima del mondo’ o ‘anima cosmica’ – il principio vivificante dell’intero universo – è cifra distintiva della dottrina platonica: cfr. Plat., Tim. 30B (sulla diffusione del Timeo in ambiente cristiano, cfr. al cap. 1, n. 14). Il nostro testo lascia trasparire un’idea largamente condivisa in sede di esegesi biblica già a partire dall’epoca ellenistica: la cultura greca sarebbe debitrice in toto a quella ebraica e, nella
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Note di commento, CAP. 2-3
fattispecie, alla Sacra Scrittura, originaria fonte di verità; lo stesso Platone, dunque, si sarebbe lasciato influenzare dal testo sacro, talora mal-interpretandolo o re-interpretandolo sulla base dei fondamenti della propria dottrina: cfr. già al cap. 1, e ancora ai capp. 7, 13 e 14.
Capitolo 3 La luce è definita nubes lucida (da noi reso «nube luminosa») in Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 34D: Ugo di San Vittore, filosofo e teologo di qualche anno più anziano di Pietro Comestore, fu il primo grande esponente della scuola vittorina del XII sec., seguìto dall’allievo Andrea e dallo stesso Pietro; costui, nel corso dell’opera, attinge ad almeno tre scritti di Ugo: il commento alla Genesi, parte del più vasto Adnotationes elucidatoriae in Pentateuchon («Note di chiarimento al Pentateuco»); il Chronicon, storia di impianto universale; il Didascalicon, vasta summa del sapere enciclopedico-filosofico. Quanto ai dettagli che seguono (le zone illuminate dalla luce e la particolare natura di quest’ultima), cfr. rispettivamente Remig., Expos. super Gen. 1, 4 e 1, 3. 2. Cfr. il già citato Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 34D. Il sole verrà creato da Dio soltanto il quarto giorno (cfr. Gen 1, 14-19, e qui al cap. 6). 3. L’osservazione accorpa due spunti derivati da Glossa interl. Gen 1, 4 e da Glossa ord. Gen 1, 4. 4. La chiosa è debitrice a Glossa interl. Gen 1,4. Si è scelto di conservare con trasparenza anche nella resa italiana l’opposizione attivo-passivo (vidēre – vidēri) su cui si fonda l’esegesi proposta, che suggerisce di intendere il verbo vidit («vide») di Gen 1, 4 come fosse videri fecit (da noi reso «fece in modo che si vedesse»): ciò non toglie che quest’ultimo verbo possa essere reso anche nella più consueta accezione di «sembrare» o «apparire» («fece in modo che sembrasse/apparisse»). 5. Cfr. il già citato Remig., Expos. super Gen. 1, 4 e analogamente Andr. S. Vict., Exp. Gen. 1, 4. 1.
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Note di commento, CAP. 3-4
6. La tradizione vuole che i secondi, ribellatisi a Dio, siano stati scagliati giù dal cielo e siano decaduti dall’originario stato di grazia: il più celebre tra essi è Lucifero (cfr. Is 14, 12). 7. Questa prima derivazione etimologica non trova riscontro nelle fonti. Fermo restando che la radice di(v)- veicola primariamente il concetto di luce (cfr. ad es. l’aggettivo gr. δῖος / lat. divus: «illustre» e perciò anche «celeste», «divino»), non è attestato neppure alcun sostantivo greco in qualche modo riconducibile alla forma dian (a meno, forse, di pensare alla forma Δία, accusativo di Ζεύς, «Zeus»). Si badi, a tal proposito, che Pietro Comestore possedeva una conoscenza della lingua greca – a quanto risulta – non diretta né approfondita, bensì mediata da testi e/o traduzioni in lingua latina: l’inevitabile scarsa dimestichezza in materia è un tratto che affiorerà anche altrove (cfr. poco oltre, nonché ai capp. 4, 6, 32, 83, 91, 93). 8. Cfr. Glossa interl. Gen 1, 3. 9. Cfr. Isid., Etym. 5, 31, 1. 10. Cfr. Glossa interl. Gen 1, 4 e analogamente Andr. S. Vict., Exp. Gen. 1, 5. 11. La lingua greca attesta il sostantivo νύξ (gen. νυκτός), la cui declinazione non lascia spazio ad alcuna forma riconducibile alla traslitterazione nictin (coniata forse per analogia con i tanti accusativi greci in -in / -en): valga quanto già osservato alla n. 7. 12. La duplice corrispondenza (sera = fine del giorno usuale / mattino = fine della notte) è così delineata da Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 34D-35A.
Capitolo 4 1.
2.
L’osservazione è desunta da Andr. S. Vict., Exp. Gen. 1, 1. Si rammenti che l’empireo era stato creato in principio della creazione: cfr. al cap. 1, ove ‘cielo empireo’ è una delle possibili accezioni di ‘mondo’. La medesima analogia con il cristallo è proposta anche da Honor. Avg., De imag. mundi 1, col. 141C-D, una vasta raccolta enciclopedica di cosmologia e di storia universale, redatta nella prima metà
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Note di commento, CAP. 4
del XII sec. dal teologo e filosofo Onorio Augustodunense, che non manca di offrire al nostro autore qualche sporadico ma ben riconoscibile spunto esegetico. Cfr. anche, ma meno puntualmente, Glossa interl. Gen 1, 6. 3. Si osservi, secondo un modulo esegetico già rilevato, l’icastica similitudine con riferimento ad un oggetto quotidiano. 4. Cfr. Glossa ord. Gen 1, 6. 5. Analoga spiegazione etimologica in Glossa ord. Gen 1, 6. 6. In latino omnia invisibilia vel sensibilia. La logica dell’alternativa è assai poco perspicua: l’aggettivo «invisibili» parrebbe infatti riferirsi a ciò che si trova al di là del firmamento, rispetto all’uomo che si trova al di sotto; al contrario, l’aggettivo «sensibili» è chiaramente riferito a ciò che è contenuto entro il firmamento; a meno che con «invisibili» non si intenda forse designare le entità che, pur trovandosi al di sotto del firmamento, non sono tuttavia visibili all’uomo (gli angeli caduti, per esempio: cfr. al cap. 3). La Sylwan segnala peraltro nell’apparato critico che il segmento testuale invisibilia vel («invisibili o») è espunto dal manoscritto S e omesso dalle famiglie β γ δ: ciò ad ulteriore riprova dell’ambiguità sottesa all’espressione. In mancanza di osservazioni dirimenti, accogliamo comunque il testo come ricostruito dall’editrice. 7. Sintagma che, ragionando per analogia, vale perciò ‘la creatura che è il sale’: si tratta di un’espressione che compare in apertura della preghiera di esorcismo del sale, che esordisce con le parole Exorcizo te, creatura salis etc., ossia «Ti esorcizzo, o creatura del sale etc.». Analogo parallelo esplicativo è proposto in Petr. Abael., Expos. in Hex. par. 218, p. 53, ove tuttavia non compare la puntuale menzione dell’endiadi quale figura retorica sottesa alle due espressioni. In termini grammaticali più precisi, si osservi come l’endiadi – in termini generici, l’esprimere un unico concetto per mezzo di due termini, per lo più coordinati tra loro (dal gr. ἕν διὰ δυοῖν, lett. «una sola cosa per mezzo di due») – proceda nella fattispecie dall’uso di un sostantivo accompagnato da un genitivo in funzione cosiddetta ‘epesegetica’: è quanto accade, per esempio, anche nel caso di un’espressione quale urbs Romae (lett. «la città di Roma», cioè «la città che è Roma»). Un’altra occorrenza di endiadi, costruita però secondo un differente meccanismo, sarà segnalata dall’autore al cap. 6.
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Note di commento, CAP. 4
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Cfr. Isid., Etym. 11, 1, 55. Si dovrà pensare ad una sorta di derivazione per crasi: casa elios > ca[sa] el[ios] > cael- : la glossa è desunta da Andr. S. Vict., Exp. Gen. 1, 1. Si osservi come ne riesca qui confermata la scarsa familiarità del nostro autore con la lingua greca: nel sintagma casa elios, il cui significato intende essere evidentemente «casa del sole», il termine elios è trattato alla stregua di un genitivo, laddove in greco si ha ἥλιος (elios) al nominativo e invece ἡλίου (eliou) al genitivo. Anche per questa occorrenza del generico philosophus potrebbero valere entrambe le ipotesi esplicative formulate al cap. 1, n. 5. L’opinione secondo cui il fuoco, poiché più leggero rispetto agli altri tre elementi (aria, acqua, terra), tenderebbe per sua stessa natura a salire verso l’alto, e dunque a ruotare intorno al mondo, è comune alla filosofia pagana nel suo complesso (tratto condiviso, ad esempio, dal sistema platonico e da quello aristotelico). L’individuazione di tre cieli concentrici nel cosmo si accorda con larga parte della teologia cristiana (sulla scorta di 2Cor 12, 2, ove il ‘terzo cielo’ cui allude san Paolo è da intendersi il terzo contando dall’interno verso l’esterno). Pietro Comestore conta i cieli dall’esterno verso l’interno: il cielo empireo, che qui non è menzionato (ma cfr. al cap. 1 e alla relativa n. 3), sede della divinità e della vita beata; il cielo in cui sono incastonati gli astri, nel nostro testo sidereum o aethereum («stellato» o «etereo»); il cielo atmosferico, più vicino alla superficie terrestre, nel nostro testo aerium («aereo»). Quanto al cielo degli astri, l’appellativo sidereum (da sidus, gen. sideris: «stella») allude al fatto che, come osservato qualche riga sopra, nel firmamento sono incastonate le stelle; l’appellativo aethereum fa invece riferimento all’aether («etere»), il cosiddetto quinto elemento di cui, pare dunque di capire, anche secondo il nostro autore è costituito il mondo sopralunare (cfr. al cap. 1, n. 3). Il riferimento scritturale è debitore a Glossa ord. Gen 1, 6; sono invece desunte da Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 35A-B le due alternative ipotesi sulla natura di tali acque. L’efficace e articolato parallelo esplicativo – con riferimento concreto al processo di costruzione di una casa – non trova riscontro nelle fonti.
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Note di commento, CAP. 4-5
14. Il testo latino legge Illud primo die, istud secundo factum est (alla lettera «Quella cosa ebbe luogo il primo giorno, questa il secondo giorno»), ove il referente diretto dei dimostrativi illud e istud è lasciato implicito dall’autore. La scansione dell’opera divina in tre fasi progressive, quale illustrata in conclusione del cap. 1, ci sembra possa ragionevolmente autorizzare ad intendere la contrapposizione illud – istud come segue: illud in riferimento ai primi due passaggi, che pertengono entrambi alla creazione, che ha luogo il primo giorno; istud in riferimento al terzo che, come chiarisce il parallelo esplicativo con la costruzione di una casa, pertiene invece alla disposizione, che ha luogo il secondo (e il terzo) giorno. 15. Non ci è dato individuare la fonte da cui Pietro Comestore abbia desunto la tradizione ebraica qui riportata, prima di numerose nel corso dell’opera. La derivazione di tali passi è oggetto di ampio dibattito tra gli studiosi: cfr. Introduzione § Fonti. 16. Sebbene Pietro Comestore menzioni ben tre auctoritates (gli Ebrei; coloro che ebbero l’usanza di cantare il lunedì la messa degli angeli; imprecisati “santi”), le singole informazioni riportate, nonché la lettura esegetica nel suo complesso, non si lasciano ricondurre ad alcuna fonte. Si segnala, per la verità, un passo di Glossa ord. Gen 1, 7, ove si dice che gli Ebrei sostengono che l’opera dal secondo giorno non venga qualificata nel testo biblico come ‘buona’ (a differenza dell’opera degli altri giorni) perché il numero due è il primo a tralignare dall’unità: analoga osservazione compare nel nostro testo, ma non attribuita agli Ebrei e corredata peraltro di ulteriori dettagli.
Capitolo 5 1. 2.
La sezione esegetica che qui si conclude, sulla modalità in cui le acque vennero ammassate, trae spunto da Glossa ord. Gen 1, 9-10. A differenza di quanto accade nel caso degli altri tre termini per «asciutto» segnalati nel prosieguo (terra, solum, tellus), il nostro autore non accenna qui alla derivazione etimologica del sostantivo humus. Tuttavia, la precisazione quasi latens sub aquis («per così dire nascosto sotto le acque») lascerebbe intendere che se ne in-
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Note di commento, CAP. 5
dividui l’origine nella radice hum-, la medesima che compare in humor («liquido», «acqua») e in humidus («umido»): legame etimologico segnalato anche da Isid., Etym. 14, 1, 1, senz’altro noto a Pietro Comestore (cfr. alla nota che segue). 3. Per l’etimologia di terra e di solum, cfr. rispettivamente Isid., Etym. 14, 1, 1 e 14, 8, 24. Il primo dei due passi citati segnala anche l’etimologia di tellus, tuttavia curiosamente diversa rispetto a quella che si legge nel nostro testo: tellus […] quia fructus eius tollimus, vale a dire «tellus […] perché tollimus (“raccogliamo”) i suoi frutti». 4. L’osservazione è debitrice a Glossa ord. Gen 1, 10. 5. Identica parafrasi esplicativa delle parole pronunciate da Dio offre Glossa interl. Gen 1, 11. Il binomio potenza – atto è cifra distintiva della dottrina aristotelica. 6. Cfr. Glossa ord. Gen 1, 11, ove si puntualizza che omnia creata sunt perfecta («ogni cosa fu creata nella sua forma perfettamente compiuta»). 7. L’ipotesi primaverile si legge in Glossa ord. Gen 1, 11: si tratta di un’opinione generalmente condivisa dagli esegeti; quanto all’ipotesi estiva, non è dato individuare una precisa fonte di riferimento. Si osservi la volontà di puntualizzare a chiare lettere quale sia il dogma assunto dalla Chiesa. 8. Le due proposte di distinzione terminologica si fondano rispettivamente sulla progressiva fase biologica del seme medesimo e sulla differente identità del portatore del seme. La seconda trova puntuale riscontro in Glossa ord. Gen 1, 12. 9. Il senso di quest’ultima osservazione non è del tutto perspicuo, sicché non pare un caso che la totalità dei manoscritti eccetto P ometta l’intera frase («Oppure […] sostanza»). È vero, infatti, che il prosieguo del testo biblico non accenna ad ornamenti creati dalla sostanza stessa dell’aria: ciò a differenza di quanto accade nel caso degli altri tre elementi (cfr. al cap. 6: gli astri che, per quanto non esplicitato, si suppongono creati dal fuoco; al cap. 7: volatili e pesci, ornamento rispettivamente di aria e acqua, ma creati entrambi dall’acqua; ai capp. 8-9: animali terrestri e uomo, creati dalla terra). Tuttavia, non si vede il nesso causale che autorizzi il nostro autore ad affermare che l’aria, proprio perché non ebbe ornamenti creati dalla sua stessa sostanza, non possa perciò essere stata disposta: dal
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Note di commento, CAP. 5-6
momento che la fase di disposizione precede quella di ornamento, nulla vieterebbe – a rigor di logica – che l’aria sia stata disposta, ma poi non ornata.
Capitolo 6 Analoghe osservazioni preliminari in Avg., De Gen. ad litt. 2, 13. Si previene, anzitutto, l’obiezione per cui la vegetazione si direbbe a prima vista un ornamento: se si assume per ‘ornamento’ ciò che si muove, tale non può essere la vegetazione. Si precisa poi che l’opera di ornamento ha inizio dall’alto, secondo l’ordine già adottato per la disposizione: questa, infatti, aveva contemplato dapprima la divisione della luce dalle tenebre (cap. 3), in séguito la creazione del firmamento (cap. 4), poi la creazione del mare e dell’asciutto e, da ultimo, della vegetazione (cap. 5). 2. La medesima etimologia offre Cassiodoro (VI sec.) nel suo commentario ai Salmi: cfr. Cassiod., Expos. Psalm. 103, l. 490. 3. Ignoriamo la fonte da cui Pietro Comestore abbia desunto l’etimologia del sostantivo ‘luna’, che si direbbe una sorta di derivazione per crasi: luna < lu[minum u]na. In aggiunta, due paralleli sono addotti a sostegno della peculiare accezione semantica dell’aggettivo unus, a, um nel contesto di tale sintagma («uno» nel senso di «il primo tra»): si badi che, per la verità, in una dierum l’aggettivo ha valore assolutamente generico (cfr. ad es. Lc 5, 17: et factum est in una dierum etc., vale a dire «e accadde in uno di quei giorni etc.»); il significato proposto calza invece in una sabbatorum (cfr. ad es. Mc 16, 2: una sabbatorum veniunt etc., appunto «il primo giorno della settimana giungono etc.»). 4. Cfr. Andr. S. Vict., Exp. Gen. 1, 16. Il nostro autore allega opportunamente i dettagli relativi al paragone con le dimensioni terrestri. 5. Entrambe le ipotesi esplicative in Glossa ord. Gen 1, 14. 6. Altrove il dettaglio figura, con formulazione pressoché identica al nostro testo, nel commentario alla Genesi di Rabano Mauro, abate di Fulda e personaggio di spicco nel panorama culturale e religioso di epoca carolingia (cfr. Hrab., Comm. in Gen. col. 453C) e in Remig., Expos. super Gen. 1, 14. 1.
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Note di commento, CAP. 6
7. Perciò, s’intende, luna e stelle valgono anche a loro sostegno. La già citata Glossa ord. Gen 1, 14 segnala genericamente l’esistenza di «certi animali» (quaedam animalia) incapaci di sopportare la luce solare: che il novero includa anche alcuni uccelli, come riferisce il nostro testo, è confermato da Isid., Etym. 12, 7, 40 (Noctua dicitur pro eo quod nocte circumvolat et per diem non possit videre: nam exorto splendore solis, visus illius hebetatur, ossia «La noctua [tecnicamente “civetta”] si chiama così perché vola di notte e durante il giorno non riesce a vedere: infatti, non appena sorge la luce del sole, la sua vista ne viene accecata) e 12, 7, 41 (Nycticorax ipsa est noctua, quia noctem amat. Est enim avis lucifuga, et solem videre non patitur, ossia «Nycticorax [tecnicamente “gufo”] è altro nome per noctua, perché ama la notte. È infatti un uccello che rifugge la luce e che non sopporta la visione del sole»). 8. Nessuna delle tre congetture formulate sembra trovare un qualche riscontro nelle fonti. 9. Cfr. Glossa interl. Gen 1, 14. 10. Anche Isid., Etym. 3, 71, 4 riconduce l’etimologia del sostantivo sidera («costellazioni») al verbo considerare («considerare» cioè «esaminare»). 11. Le pratiche cosiddette apotelesmata (dal verbo greco ἀποτελέω: «compiere», «portare ad effetto»), tecnicamente «effetti» o «influssi» – nella fattispecie degli astri sul destino umano – sono analogamente stigmatizzate in Avg., De Gen. ad litt. 2, 17; contro i genethliaci (cfr. alla p. 80, n. a) si scaglia anche Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 36C. Si osservi l’esplicito ed ulteriore richiamo all’ortodossia cristiana, tratto peculiare di questi primi capitoli. 12. Che l’espressione in tempora di Gen 1, 14 (lett. «da tempi», da noi reso «da misure del tempo») stia a designare le quattro stagioni, è lapidariamente annotato da Glossa interl. Gen 1, 14. È degna di nota la precisione scientifica con cui Pietro Comestore, in aggiunta, dà conto del passaggio dall’una all’altra stagione con riferimento al moto del sole rispetto alle costellazioni del Capricorno e del Cancro (i cosiddetti ‘tropici’). 13. A differenza che nel caso di endiadi segnalato al cap. 4 (cfr. alla relativa n. 7), la figura retorica consiste qui nell’impiego di due sostan-
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Note di commento, CAP. 6
14.
15.
16.
17.
18.
tivi coordinati in luogo del primo sostantivo seguìto dal secondo in caso genitivo. Le molteplici accezioni di ‘anno’ in relazione al numero dei suoi giorni complessivi sono così indicate da Honor. Avg., De imag. mundi 1, col. 154D-155B. Non è ben chiaro se Pietro Comestore intenda an come radice o preposizione/avverbio: in effetti, la radice an- con valore di «intorno» è la medesima che compare nel prefisso greco ἀμφ- e nel latino amb-. Pur senza il puntuale riferimento ad an, in Isid., Etym. 5, 36, 1-2 si offre la medesima spiegazione etimologica per annus («anno»), in relazione cioè al suo ciclico riavvolgimento e con analogo cenno alla sua rappresentazione grafico-simbolica da parte dei popoli antichi (che la fonte precisa essere gli Egizi). Il medesimo ragionamento in Glossa ord. Gen 1, 14. La alia translatio («altra traduzione») riportata a sostegno è la resa del testo greco dei Settanta, che in corrispondenza di Gen 1, 16 legge appunto καὶ ἐποίησεν ὁ θεὸς […] τὸν φωστῆρα τὸν ἐλάσσω εἰς ἀρχὰς τῆς νυκτός («e Dio creò […] il luminare più piccolo all’inizio della notte»), ove il testo della Vulgata legge invece Fecitque Deus […] luminare minus ut praeesset nocti («e Dio creò […] il luminare più piccolo perché governasse la notte»). A dispetto di quanto osservato altrove, la terminologia greca qui indicata risulta abbastanza precisa: corrette le prime tre chiose, ove merita rilevare la consapevolezza della possibilità di impiego del sostantivo μήν (gen. μηνός; nel nostro testo mene, una sorta di femminile), alla lettera «mese», nell’accezione traslata di «luna» in effetti attestata dalla lingua greca. Inspiegabilmente, invece, il secondo elemento di pansilenos è glossato «illuminata»: la derivazione è dal già citato termine per «luna» (gr. σελήνη; nel nostro testo silene), onde il significato complessivo di «luna tutta» e perciò «luna piena». Ignoriamo la provenienza di tale lettura esegetica.
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Note di commento, CAP. 7
Capitolo 7 L’etimologia di reptilia («rettili») dal verbo se rapĕre («spingersi») sarà ribadita al cap. 8; in Glossa interl. Gen 1, 20 e in Isid., Etym. 12, 6, 2 è invece ricondotta al verbo repĕre («strisciare»): così anche lo stesso Pietro Comestore al cap. 8, in merito alla terza specie di rettili. Non trova riscontro la derivazione di ferae («bestie») dalla forma verbale passiva con valore mediale ferri («muoversi»). 2. La netta distinzione tra demoni buoni e cattivi è postulata più precisamente dalla filosofia medioplatonica, che li considera tutti quanti esseri dalla natura intermedia tra quella umana e divina ed investiti di una funzione mediatrice tra dio e uomo; l’esegesi biblica cristiana identificherà poi i ‘buoni demoni’ nelle creature angeliche e i ‘cattivi demoni’ negli spiriti malefici (cfr. la frase che segue nel nostro testo). Platone non espose mai una dottrina organica e sistematica in materia: il più noto cenno alla natura e alla funzione del demone (nella fattispecie di Eros) si legge in Plat., Symp. 202D-203A. Come già al cap. 2 (cfr. alla relativa n. 11), anche qui ben emerge la convinzione divulgata secondo cui Platone avrebbe attinto al testo sacro, tuttavia malinterpretandolo. 3. Analoga osservazione a proposito degli angeli caduti si legge in Glossa ord. Gen 1, 20 (un estratto da Avg., De Gen. ad litt. 3, 10). Quanto all’espressione in hunc aerem caliginosum (da noi resa «in questo strato di aria caliginosa»), il riferimento è con ogni probabilità all’aer circa terram, ossia allo strato di «aria che si trova intorno alla terra» menzionato poco sopra (onde il dimostrativo hunc, «questo») e qui definito «caliginoso» verosimilmente per contrasto rispetto all’empireo, esso pure menzionato poco sopra quale sede dei buoni demoni (gli angeli) e il cui carattere distintivo è invece la mundicia, ossia la «purezza» (cfr. al cap. 1). 4. Si osservi come l’esegesi offra spazio, talora, anche ad osservazioni di natura strettamente grammaticale: il sostantivo cete, di per sé indeclinabile, può ammettere tuttavia una flessione esemplata sul modello dei nomi maschili in -us della seconda declinazione. 5. Nel sostantivo zoa (plurale dal neutro ζῷον, «essere vivente») figura in effetti la medesima radice di ζωή, «vita»; il termine sichea si dice derivato da siche, rudimentale traslitterazione del gr. ψυχή,
1.
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Note di commento, CAP. 7-8
«anima», qui considerata eminentemente nella sua funzione razionale. 6. Cfr. Glossa ord. Gen 1, 21. 7. L’aneddoto è tratto da Avg., De Gen. ad litt. 3, 8. Si fa valere, in tal caso, la funzione dell’anima come sede della memoria.
Capitolo 8 Non trovano riscontro altrove le etimologie di iumenta e di bestiae; le tre specie di rettili sono così distinte in Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 37A. 2. Per la prima volta nel corso dell’opera, il nostro autore si avvale del modulo esegetico della quaestio: si pone un interrogativo (qui in forma indiretta) e se ne offre poi, eventualmente argomentandola, una proposta risolutiva. La quaestio in oggetto è desunta da Glossa ord. Gen 1, 21 (un estratto da Avg., De Gen. ad litt. 3, 14). La fonte, tuttavia, non elenca le sei specie di animali, per ciascuna delle quali il nostro autore ha inoltre cura di segnalare uno o due esempi. 3. La quaestio è posta nei medesimi termini da Glossa ord. Gen 1, 21 (da Avg., De Gen. ad litt. 3, 15). Ciononostante, mentre la fonte propone una soluzione alquanto sfumata (limitandosi a sostenere la ragionevolezza della seconda ipotesi), Pietro Comestore prende invece decisa posizione a favore della seconda ipotesi, articolando la lettura esegetica in tre distinte e complementari motivazioni, debitamente illustrate. Il dettaglio relativo a formiche e cammelli è desunto dal già citato Avg., De Gen. ad litt. 3, 14 (nella fonte, a proposito della meraviglia che suscitano nell’uomo gli animali di piccolissime dimensioni): s’intende, cioè, che quanto compiono le formiche tanto più vale come ammaestramento quanto più è stupefacente in relazione alla piccolezza delle formiche stesse. 4. Altra quaestio tratta da Glossa ord. Gen 1, 21 (da Avg., De Gen. ad litt. 3, 16). 5. Cfr. di nuovo Glossa ord. Gen 1, 21 (da Avg., De Gen. ad litt. 3, 17). Il nostro autore allega alla quaestio un riferimento neotestamentario a sostegno della soluzione proposta. 1.
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Note di commento, CAP. 8-9
6. Generatasi a catena dalle quaestiones precedenti, quest’ultima è relativa non più agli animali ma alla vegetazione: il discorso è affrontato in termini analoghi da Glossa ord. Gen 1, 11 (da Avg., De Gen. ad litt. 3, 18), a commento del passo biblico sulla creazione degli elementi vegetali. 7. Vale a dire degli animali terrestri: l’ipotesi è avanzata sulla scorta di Glossa ord. Gen 1, 21.
Capitolo 9 1.
Ossia della Trinità: analoga osservazione in Glossa interl. Gen 1, 26 e in Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 37B-C. Si osservi l’ulteriore richiamo all’ortodossia del dogma trinitario (cfr. nella fattispecie l’aggettivo «unanime»). 2. Della cosiddetta «immagine» fa menzione Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 37C-D, ma con solo riferimento alla razionalità. Quanto alla «somiglianza», può darsi che il nostro autore abbia elaborato un lapidario riferimento alla iusticia («giustizia») offerto da Glossa interl. Gen 1, 26. 3. Quest’ultima osservazione è poco perspicua. Si rammenti che al cap. 1 (cfr. alla relativa n. 8), trattando della creazione del mondo intesa nel suo senso materiale-corporeo, Pietro Comestore aveva osservato che la creazione dell’uomo è da intendersi come opera di plasmazione (e non di creazione dal nulla): può darsi si intenda suggerire che, dal momento che qui si dice precisamente ‘creò’ (e non ‘plasmò’), il riferimento è dunque non al corpo, ma all’anima. 4. La chiosa è debitrice a Glossa ord. Gen 1, 27 (estratto da Avg., De Gen. ad litt. 3, 21-22). Si tratta verosimilmente di una frecciata polemica contro il mito platonico secondo cui, all’origine, il genere umano sarebbe stato creato in tre differenti sessi, ossia maschile, femminile e androgino (maschile e femminile insieme): cfr. Plat., Symp. 189C-190B. 5. La coincidenza ad litteram con il passo ovidiano difficilmente può essere casuale: si direbbe, anzi, emblematica del rifiorire, nel XII secolo, degli studi delle opere classiche, specie poetiche e ovidiane in particolare (non a caso, l’epoca è nota anche come aetas ovidia-
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Note di commento, CAP. 9
na, ad indicare l’ampia e rinnovata fortuna di cui godette Ovidio). Quanto al riutilizzo della citazione in chiave esegetica, si rammenti che già l’esegesi tardoantica aveva fatto suo punto di forza proprio il reimpiego della cultura classica-pagana, in funzione apologetica o prefigurativa di quanto attinente nello specifico alla cultura cristiana. Tra coloro che riportano l’intero distico ovidiano a commento dell’episodio veterotestamentario della creazione dell’uomo, si segnalano ad es. Lact., Div. inst. 2, 1, 15; Beda, Gen. 1, 1, 785 ss.; Hrab., Comm. in Gen. col. 460B-C. Una altrettanto inequivocabile eco oraziana figura al cap. 22. 6. Un simile aneddoto figura in due fonti greche, perciò non accessibili al nostro autore, delle quali non risulta nemmeno l’esistenza di traduzioni latine: cfr. Arist., Eth. Eud. 1216A (in riferimento esplicito al filosofo Anassagora) e in Iambl., Protr. 9, 51 (in riferimento esplicito ai filosofi Pitagora e Anassagora). La formulazione del nostro testo (in latino Unde cum quaesitum esset a quodam philosopho ad quid factus fuisset, respondit: “Ut contempler caelum et caeli numina”) aderisce abbastanza puntualmente a quanto si legge in uno degli svariati sermoni circolanti in epoca medievale sotto il falso nome di Agostino (cfr. alla p. 87, n. a): si osservi, tuttavia, che nel passo pseudo-agostiniano l’esclamazione non è attribuita ad un filosofo, come vorrebbe invece Pietro Comestore, ma sembrerebbe allo stesso Ovidio (menzionato con il generico appellativo di «poeta») di cui è riportato l’emistichio che compare anche nel nostro testo. 7. Dei tre argomenti a sostegno della supremazia dell’uomo sul resto del creato, soltanto il terzo trova riscontro assai puntuale in Andr. S. Vict., Exp. Gen. 1, 28. 8. Analoghe osservazioni nel commento alla Genesi di Beda, monaco e intellettuale anglosassone (VII-VIII sec.): cfr. Beda, Gen. 1, 1, 899 ss. 9. Il rapporto uomo – animali è articolato nei medesimi termini da Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 37D-38A.
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Note di commento, CAP. 10-11
Capitolo 10 1. 2.
Cfr. Glossa ord. Gen 1, 27. Ulteriore richiamo all’ortodossia: qui in funzione anti-ereticale, nella fattispecie anti-càtara. Il catarismo (dal gr. καϑαρός, «puro»), setta ereticale diffusasi ad ampio raggio in Europa a partire dall’XI sec., affermava la coesistenza nell’intero cosmo di due principî supremi, il bene e il male (Dio e Satana), in contrasto per il predominio del mondo: anche il singolo individuo umano è perciò dotato di una duplice natura, spirituale e materiale, quest’ultima da sopprimere il più possibile per ottenere la salvezza; ne conseguiva, concretamente, la pratica di un rigoroso ascetismo, inclusa l’astinenza da ogni elemento corporale e materiale: su tutto, dal cibo e dall’unione sessuale. 3. La quaestio – sul differente concetto di ‘immortalità’ (primordiale vs. escatologica) – trae spunto da Glossa ord. Gen 1, 26. Le definizioni che seguono aderiscono più puntualmente ad Avg., De civ. Dei 22, 30. 4. È degno di nota lo sforzo, consueto al nostro autore, di elaborare similitudini assai concrete per spiegare concetti astratti o non immediatamente intuibili: sforzo che, come in questo caso, si spinge al limite del parossismo, dando luogo ad un’immagine singolare nonché al limite dell’orripilante. 5. La triplice gerarchia (buono – assai buono – sommo bene) è così delineata da Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 38A. 6. Questa prima proposta esegetica figura in Glossa ord. Gen 1, 31.
Capitolo 11 1.
Il nutrito excursus in materia aritmetica, debitore ad Avg., De Gen. ad litt. 4, 2, è inteso ad illustrare – mediante l’uso di un linguaggio tecnico e preciso, per quanto rudimentale e poco perspicuo possa apparire ai nostri occhi – che cosa si intenda per numerus perfectus (da noi reso «numero perfettamente compiuto»). Secondo la terminologia corrente, lo si definirebbe quel particolare numero la
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Note di commento, CAP. 11
somma dei cui sottomultipli (in latino partes, genericamente «parti»: ma si osservi la puntuale definizione che se ne offre) dà come risultato il numero medesimo: in effetti, per quanto concerne gli ordini delle unità e delle decine, la rara eventualità si verifica in due soli casi, rispettivamente appunto nel caso del numero 6 (1+2+3) e del numero 28 (1+2+4+7+14). 2. Sono desunti da Glossa ord. Gen 2, 2 sia i rilievi filologici, esposti in forma di quaestio (l’«altra traduzione» è la resa del testo greco dei Settanta), sia questa prima soluzione esegetica. Il cui senso, ad accreditare quanto legge il testo ebraico, è in sostanza il seguente: si può dire che Dio abbia creato qualche cosa anche il settimo giorno, dal momento che, prima di riposare, ha istituito il giorno stesso e lo ha benedetto. 3. Nessun riscontro nelle fonti per questa seconda lettura interpretativa, di nuovo a difesa del testo ebraico, che suggerisce di intendere il verbo complēre («portare a compimento») in accezione non letterale. L’osservazione addotta a sostegno (il settimo giorno Dio non creò nulla di nuovo) si legge invece in Glossa interl. Gen 2, 2 e in più luoghi di Glossa ord. Gen 2, 2; si osservi come, nel prosieguo, il nostro autore abbia cura di puntualizzarne meglio il significato. 4. La peculiare accezione del verbo requiescere («riposare») e il parallelo scritturale figurano in Glossa ord. Gen 2, 2. Lo stesso testo della Vulgata, al seguente v. 3, legge et benedixit diei septimo et sanctificavit illum, quia in ipso cessaverat ab omni opere suo etc. («e benedisse il settimo giorno e lo santificò, dal momento che in quel giorno aveva cessato da ogni sua opera etc.»). 5. Cfr. Glossa ord. Gen 2, 2. 6. Il senso di quest’ultima osservazione – in latino et est dictum quasi negative – riesce alquanto oscuro: alla luce della proposta esegetica che precede, e posto che l’avverbio negative (da noi reso «in senso antifrastico») non sembra poter significare altro se non che un’espressione è da intendersi in senso contrario rispetto alla lettera, può darsi che il nostro autore voglia suggerire che il verbo ‘riposarsi’ vale, all’esatto opposto, nel senso di ‘non si riposò’ (poiché appunto «Dio non ha bisogno delle opere che ha creato»).
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Note di commento, CAP. 11-12
7. Analoga proposta esplicativa in Glossa interl. Gen 2, 2 e in più punti di Glossa ord. Gen 2, 2. Di nuovo, Pietro Comestore si appropria dello spunto concettuale, ma avverte poi l’esigenza di allegare ulteriori precisazioni in merito. 8. La sezione esegetica non trova riscontro nelle fonti. Quanto alle prime tre opere, cfr. la triplice scansione individuata al termine del cap. 1. La quarta opera allude al concetto di opus propagationis naturae (lett. «opera di propagazione della natura»), che nel pensiero teologico cristiano designa la peculiare opera divina che consente alla natura, ossia al cosmo, di conservarsi incessantemente nel proprio stato. La quinta opera, infine, è da intendersi in riferimento alla dimensione escatologica, riposo per eccellenza. 9. Il rimando scritturale figura in Glossa ord. Gen 2, 3.
Capitolo 12 1.
Si osservi come Pietro Comestore, in perfetta linea con le dichiarazioni programmatiche esposte nel Prologo e nella Prefazione all’opera, ribadisca qui a chiare lettere il proposito di indagare in via privilegiata il senso storico-letterale (in latino tecnicamente littera) del testo sacro. 2. Così anche Glossa interl. Gen 1, 27 (a commento del primo racconto della creazione di uomo e donna). 3. Il rilievo semantico è debitore a Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 38B. La logica dell’osservazione, che il nostro autore lascia come implicita, si direbbe la seguente: perché la ripresa del discorso sulla creazione di uomo e donna (cfr. Gen 2, 7 e qui al cap. 13) non abbia a suonare brusca al lettore, il testo sacro adotta l’espediente ricapitolativo di ripetere il termine ‘generazioni’ anche in riferimento a tutte le altre creature; ove il termine ‘generazioni’ è da intendersi – così pare si voglia suggerire – non in senso attivo, bensì in senso passivo: vale a dire in riferimento non all’opera di generazione/creazione attuata da Dio (che già ha avuto luogo, né viene qui ripetuta una seconda volta), bensì a ciò che già è stato generato, e che qui la narrazione richiama in funzione meramente ricapitolativa. 4. Questa seconda lettura esegetica è tratta da Glossa ord. Gen 2, 4.
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Note di commento, CAP. 12-13
Il testo di Gen 2, 6 legge Sed fons ascendebat e terra inrigans universam superficiem terrae, ossia «Ma una fonte saliva dalla terra irrigando l’intera superficie della terra». Vale la pena di rilevare come non sia qui dettato da innocua esigenza di concisione il modo in cui Pietro Comestore riformula e ripropone il dettato biblico: il dettaglio «l’intera superficie» è omesso in quanto ambiguo; il passo, infatti, come si preciserà poco oltre, non è affatto da intendersi alla lettera. 6. Il parallelo esplicativo in relazione al fiume Nilo, con relativa spiegazione, è offerto da Avg., De Gen. ad litt. 5, 10. 7. Cfr. ibid. 8. Cosa che non ebbe luogo, s’intende: la medesima chiosa in Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 38C. 9. Si ipotizza, cioè, l’impiego metonimico del cosiddetto singularis pro plurali («singolare in luogo del plurale»). Questa lettura esegetica alternativa, con allegato riferimento scritturale in chiave esemplificativa, è proposta dal già citato Avg., De Gen. ad litt. 5, 10. 5.
Capitolo 13 L’osservazione è debitrice a Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 38D. La alia translatio («altra traduzione») riportata è verosimilmente una traduzione circolante nell’àmbito delle Veteres (lo stesso Agostino, per esempio, riporta sovente il passo di Gen 2, 7 impiegando quest’altro verbo). Per il significato del verbo insufflare («soffiare dentro») in tale contesto, cfr. Glossa ord. Gen 2, 7. 3. L’intera spiegazione è desunta da Andr. S. Vict., Exp. Gen. 2, 7. Si osservi, tuttavia, che il tecnicismo retorico ‘sineddoche’ è aggiunto dal nostro autore ad identificare puntualmente la figura retorica in oggetto, ossia la designazione del tutto attraverso una sua parte: analoga chiosa, ma senza la menzione del tecnicismo, ai capp. 17, 79 e 92. 4. Tale opinione è analogamente stigmatizzata in Glossa ord. Gen 2, 7. 5. Cfr. ibid. 6. Questa terza opinione, peraltro riportata con dovizia di particolari, non trova riscontro nelle fonti. 1. 2.
283
Note di commento, CAP. 13-14
7. Cfr. Glossa ord. Gen 2, 7. Al cap. 26 verrà precisato che Adamo fu creato all’età di circa 30 anni. 8. Si rammenti che, al cap. 10, la primordiale condizione di immortalità era stata definita come la «possibilità di non morire». Sulla scorta di Glossa ord. Gen 2, 7, il concetto è qui ribadito e ulteriormente declinato: nel primo uomo coesistevano la condizione di mortalità e quella di immortalità. Il senso dell’affermazione, che suona lapidaria e sibillina, è ben chiarito da Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 39B: Factus est enim homo mortalis et immortalis. Sed sic immortalis, quod poterat non mori per cibi sustentationem quo egebat, item mortalis, quia perire potuit per extrinsecam violentiam. Sed Deus ita munierat eum intus per lignum vitae sumptum in cibum, et extra per divinam potentiam, ut posset non mori («L’uomo, infatti, fu creato mortale e immortale. Ma come era immortale, in quanto aveva la possibilità di non morire grazie al sostentamento del cibo di cui necessitava, così era mortale, in quanto sarebbe potuto morire a causa di una violenza proveniente dall’esterno. Ma Dio lo aveva premunito sia all’interno, per mezzo dell’albero della vita se mangiato come cibo, sia all’esterno, per mezzo della divina potenza, in modo tale che potesse non morire»). 9. La medesima quaestio è posta e, per così dire, troncata in termini del tutto analoghi da Petr. Lomb., Sent. 2, dist. 17, cap. 2, par. 4.
Capitolo 14 1.
2. 3.
Si osservi la sequenza incalzante di quaestiones, qui formulate in veste di domanda diretta e seguite da relativa risposta. È altresì degno di nota come la spiegazione del verbo plantare («piantare») chiami in causa una sorta di derivazione per crasi, secondo un modulo non inconsueto al nostro autore (cfr. al cap. 4, n. 9 e al cap. 6, n. 3): plant[is apt]averat > plantaverat. La nutrita sezione rielabora – in un tessuto discorsivo unitario – singoli spunti attinti da Glossa ord. Gen 2, 8. Entrambe le letture esegetiche sono riportate da Glossa interl. Gen 2, 8. Il dato qui rilevante è che Pietro Comestore, derogando al consueto modus operandi che privilegia il senso storico-letterale,
284
Note di commento, CAP. 14
4.
5. 6. 7.
8.
9.
10.
11. 12.
segnala inoltre due letture in chiave spirituale, in latino spiritualiter: tecnicismo che, in epoca tardomedievale, può essere impiegato a designare indifferentemente il senso tipologico, morale o anagogico; nella fattispecie, la prima lettura è anagogica (paradiso = vita beata) e l’altra tipologico-figurale (paradiso = Chiesa). Né l’una né l’altra proposta di derivazione etimologica trovano riscontro nelle fonti. Entrambe si fondano di nuovo sul meccanismo della crasi: pro[cul] duxit / pro [homine e]duxit > produxit. Cfr. Glossa ord. Gen 2, 9 e Andr. S. Vict., Exp. Gen. 2, 9. Cfr. ancora Andr. S. Vict., Exp. Gen. 2, 9. Dei due possibili significati di bene / male che il nostro autore propone (ossia: salute / malattia; obbedienza / disobbedienza), soltanto il secondo trova puntuale riscontro nel già citato Andr. S. Vict., Exp. Gen. 2, 9. Come già ai capp. 1, 2, 7 e 13, affiora qui di nuovo a chiare lettere la consuetudine, tipica dell’esegesi cristiana, di leggere la dottrina cosmologica di Platone come una rilettura, tuttavia viziata da fraintendimenti, della cosmologia biblica. Si badi che in nessun luogo Platone afferma ciò. Si tratta verosimilmente del tentativo, da parte del nostro autore, di conciliare alla dottrina cristiana quanto si legge in Plat. Tim. 90A, ove l’uomo è paragonato ad una pianta non terrena, ma celeste, vale a dire con la radice (l’anima, fuor di metafora) fissata in alto. Vale quanto osservato alla nota precedente. Qui l’allusione potrebbe essere genericamente al fatto che, secondo la dottrina platonica, l’uomo si trova a metà strada tra la dimensione sovrasensibile, cui anela, e quella sensibile, che lo imprigiona. Non è affatto chiaro a quale aspetto della dottrina platonica si faccia qui riferimento. L’appellativo littera Samia («lettera di Samo») è giustificato da Isid., Etym. 1, 3, 7, ove si chiarisce anche la simbologia sottesa alla forma stessa della lettera, con riferimento – come nel nostro testo – all’evoluzione morale dell’individuo umano con il progredire dell’età: Υ litteram Pythagoras Samius ad exemplum vitae humanae primus formavit. Cuius virgula subterior primam aetatem significat, incertam quippe et quae adhuc se nec vitiis nec virtutibus dedit. Bivium autem, quod superest, ab adolescentia incipit: cuius dextra pars
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Note di commento, CAP. 14-15
ardua est, sed ad beatam vitam tendens; sinistra facilior, sed ad labem interitumque deducens («Pitagora di Samo tracciò per primo la lettera Y sul modello della vita umana. Il piccolo segmento inferiore ne indica la prima età, incerta e che ancora non si è data ai vizi e alle virtù. Il bivio che si trova al di sopra, invece, ha il suo punto d’origine nell’adolescenza: il suo segmento destro è arduo, ma tende alla vita beata; quello sinistro è più facile, ma conduce alla rovina e alla morte»). Si osservi come Pietro Comestore si sforzi di meglio conservare l’eco della metafora albero-uomo, indicando il segmento inferiore della Y con il termine truncus, appunto «tronco» (laddove il passo isidoreo impiega il più generico virgula, «piccolo segmento», «rametto»). 13. Sono qui ribadite e riassunte le considerazioni apologetiche già avanzate in precedenza.
Capitolo 15 Il testo della Vulgata legge fluvius («fiume») come soggetto della frase: il termine fons («fonte») è invece attestato in alcune versioni del testo biblico riconducibili al vasto àmbito delle Veteres. Poiché il testo di Gen 2, 6 (cfr. qui al cap. 12) aveva espressamente menzionato la presenza di una «fonte» all’origine della creazione, può darsi che il nostro autore abbia ritenuto opportuno, al fine di guadagnare coerenza alla narrazione, invertire il rapporto tra testo divulgato e versioni minoritarie. 2. Cfr. Glossa ord. Gen 2, 10. 3. Tutte queste osservazioni sono desunte da Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 38C-D. 4. Cfr. Isid., Etym. 13, 21, 8, ove al re è però attribuito il nome Gange, omonimo del fiume che ne ha derivato il nome. 5. Cfr. ibid., ove il numero degli affluenti indicato è quindici (e non dieci, come invece nel nostro testo). 6. Quest’altra etimologia è debitrice a Glossa interl. Gen 2, 11. 7. Non è dato individuare la fonte da cui Pietro Comestore abbia derivato queste informazioni. 8. Cfr. Glossa ord. Gen 2, 11.
1.
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Note di commento, CAP. 15
9.
10.
11. 12.
13. 14. 15.
L’identificazione Gyon-Nilo è segnalata da Glossa interl. Gen 2, 13 e da Isid., Etym. 13, 21, 7. Nel primo passo figura anche la prima delle due glosse etimologiche proposte. La seconda non trova alcun preciso riscontro: il passo isidoreo qui citato osserva soltanto, in termini assai generici, che il fiume trae il suo nome dal fatto che incremento suae exundationis terram Aegypti inriget: γῆ enim Graece, Latine terram significat, ossia «con l’innalzamento del suo livello irriga la terra d’Egitto: il termine greco γῆ (ghé), infatti, corrisponde al latino ‘terra’». Cfr. puntualmente Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 1, 3 . Qui per la prima volta Pietro Comestore ricorre all’auctoritas di Flavio Giuseppe: storico di origine ebraica, attivo a Roma in epoca imperiale (seconda metà I sec. d.C.), scrisse in lingua greca le Antichità Giudaiche e la Guerra Giudaica, entrambe ampiamente diffuse in traduzione latina nell’occidente medievale e adoperate dagli esegeti per inquadrare sotto il profilo storico gli eventi narrati nel testo sacro (cfr. nel dettaglio Introduzione § Fonti). Pietro attingerà con frequenza sempre crescente alle Antichità Giudaiche, mentre la Guerra Giudaica sarà sfruttata soltanto marginalmente (capp. 46 e 53). Le Antichità furono tradotte in latino nel VI sec. a Vivarium per volere di Cassiodoro: citeremo la sola, ma autorevole, edizione critica disponibile (limitata ai primi cinque libri dell’opera: The Latin Josephus. Introduction and text. The Antiquities: books I-V − ed. F. Blatt, København, 1958) usando la sigla Fl. Ios., Ant. Iud. seguìta dal numero del libro e dalla scansione in paragrafi, capoversi e singoli periodi (questi ultimi tra parentesi uncinate) adottata dall’editore. Cfr. Isid., Etym. 13, 21, 9 (a proposito del fiume) e 12, 2, 7 (a proposito dell’animale). Cfr. Glossa interl. Gen 2, 14. Per la verità, questa etimologia – al pari di quella che segue, non attestata altrove – non è sostenuta da alcun fondamento linguistico: la derivazione etimologica del nome Eufrate è tuttora oggetto di dibattito tra gli studiosi. L’osservazione trae spunto da Glossa interl. Gen 2, 14. Analoga formulazione in Andr. S. Vict., Exp. Gen. 2, 10 (cfr. anche, ma meno puntualmente, Glossa ord. Gen 2, 10). Per tutte e quattro le indicazioni, cfr. il passo di Glossa ord. Gen 2, 10 cit. alla nota precedente. Quale monte identifichi il nome At-
287
Note di commento, CAP. 15-16
lante non è chiaro: usualmente il toponimo designa la catena montuosa che si estende lungo la regione costiera settentrionale del continente africano; le sorgenti del Nilo, tuttavia, si trovano molto più a sud. Nemmeno è ben chiaro, inoltre, se per Armenia si intenda il nome di un monte, come vorrebbe il parallelo con le due indicazioni che precedono, oppure quello della regione che ospita le sorgenti.
Capitolo 16 1. 2.
3.
Cfr. Andr. S. Vict., Exp. Gen. 2, 15. In corrispondenza di Gen 2, 15, il testo della Vulgata legge Tulit ergo Dominus Deus hominem et posuit eum in paradiso voluptatis ut operaretur et custodiret illum, alla lettera «Il Signore Dio, dunque, spostò l’uomo e lo pose nel paradiso del piacere, in modo tale che lavorasse e lo custodisse»: quest’ultima frase vede sottintesi i soggetti di «lavorasse» e di «custodisse», nonché implicito il referente diretto del dimostrativo latino illum (nella nostra resa «lo») che funge da complemento oggetto di «custodisse». Pietro Comestore cita il versetto integrandolo di dettagli dalla valenza esegetica, secondo una prima lettura interpretativa che vede «uomo» soggetto di «lavorasse» e «Dio» soggetto di «custodisse», con illum riferito a «uomo»; in alternativa, Pietro avanza poi una seconda possibile lettura, che vede «uomo» soggetto sia di «lavorasse» che di «custodisse», con illum riferito a «paradiso» (così anche in Glossa ord. Gen 2, 15). Il nostro autore rileva che in «alcuni manoscritti» il pronome che funge da oggetto di «custodisse» non compare: può darsi che il generico riferimento sia ad alcune versioni del testo ancora in parte modulate sulle Veteres. Il passo è così citato, per esempio, da Avg., De Gen. ad litt. 8, 10 (un cui estratto si legge in Glossa ord. Gen 2, 15), da cui è peraltro desunta la lettura esplicativa: intendere il verbo «custodire» – usato in senso assoluto – come sinonimo di «osservare» una certa condotta morale («custodire» nel senso di «mantenere»), ossia «obbedire» a Dio come la terra all’uomo. Merita qui rilevare la proposta di un’esegesi in chiave morale, tipologia per lo più estranea all’uso del nostro autore.
288
Note di commento, CAP. 16
4. Cfr. Glossa ord. Gen 2, 16 (un conciso estratto da Avg., De Gen. ad litt. 8, 17). 5. Cfr. Glossa interl. Gen 2, 17, ove la traduzione è espressamente attribuita a Simmaco. 6. Analoga puntualizzazione in Glossa ord. Gen 2, 16. 7. Inserito a margine del discorso principale, l’articolato excursus intende ragguagliare il lettore sulle differenti traduzioni del testo biblico approntate nel corso dei secoli, che all’occorrenza il nostro autore menziona quali portatrici di varianti testuali rispetto a quanto legge la Vulgata. La rassegna segue un criterio cronologico progressivo: di ciascuna versione eccetto la geronimiana (fine IV sec.), si indica la datazione puntuale secondo il sistema di computo teologico (i recenti studi preferiscono invece indicare un torno d’anni o di decenni) e l’autorità politica allora regnante. Vale la pena di rilevare: l’inesattezza macroscopica che vede l’attività dei Settanta collocata giustamente all’epoca di Tolomeo Filadelfo (il cui regno si data tra il 285 e il 246 a.C.), ma insostenibilmente nell’anno 361 a.C.; la lieve discrepanza per cui l’anno della versione di Teodozione (177 d.C.) risulta incompatibile con il regno di Commodo (180-192 d.C.). Aquila è definito il primo tra coloro che tradussero dall’ebraico al greco: si dovrà intendere non in senso assoluto (già lo avevano fatto i Settanta), bensì in relazione alla cesura cronologica «dopo l’ascensione del Signore». La versione di Origene, filosofo e teologo bizantino del III secolo, che si dice approntata cum asterisco et obelo (da noi reso «facendo uso di asterischi e obeli»), è la cosiddetta Bibbia Exaplare: una sorta di edizione critica impaginata su sei colonne – recanti rispettivamente le versioni del testo ebraico, ebraico in traslitterazione greca, greco nella traduzione rispettivamente di Aquila, di Simmaco, dei Settanta, di Teodozione – ove il testo greco dei Settanta era corredato di asterischi (ad indicare la presenza di una lacuna rispetto al testo ebraico, colmata facendo ricorso ad una delle altre versioni) e obeli (ad indicare che un dato passo non trova riscontro nell’ebraico); ne consegue che, in riferimento a questa operazione, il verbo transtulit («approntò una traduzione») è alquanto improprio. Di Origene si menziona anche il trattato teologico dal titolo originale Periarchon, di cui ci restano la traduzione latina opera di Rufino di Aquileia (attivo tra IV e V sec.) intitolata De principiis («Sui princi-
289
Note di commento, CAP. 16-17
pî») e frammenti di tradizione indiretta, la più parte tramandati da Girolamo e da Giustiniano: la tesi sul duplice patimento di Cristo riferita da Pietro Comestore non figura nella traduzione di Rufino, ma è riportata – come citazione desunta dallo stesso Origene – da Girolamo (Epist. 124 − CSEL 56, p. 114, par. 12) e da Giustiniano (fr. XXIII) in termini molto simili, sicché sembrerebbe sia stato piuttosto Rufino ad omettere il passo per motivi dottrinali; resta dubbio, tuttavia, se Origene presentasse la tesi come una proposta sua o come un’ipotesi da respingere (forse in questa seconda ottica, dato che altrove Origene afferma l’unicità del sacrificio di Cristo: la questione è sviscerata da S. Fernández, ‘Gli interventi dottrinali di Rufino nel De Principiis di Origene’, in L’Oriente in Occidente. L’Opera di Rufino di Concordia − ed. M. Girolami, Brescia, 2014, p. 27-44, alle p. 31-33, con relativa bibliografia in nota). Da ultimo, suona ambiguo il senso della nota conclusiva, in latino cuius editio non ubique servatur a nobis (da noi resa «alla cui edizione del testo non ci si attiene integralmente»), ove è dubbio, nella fattispecie, se l’utilizzo della prima persona plurale abbia valore: a) generico, ad indicare che il testo della Vulgata, all’epoca in cui Pietro scrive, non è adottato universalmente e/o in ogni singolo punto del testo sacro; b) di pluralis maiestatis, per cui si tratterebbe di una programmatica dichiarazione autoriale, onde avvertire il lettore che il testo delle citazioni bibliche non aderisce in toto alla lezione del testo geronimiano. Alla luce del modus operandi del nostro autore, riteniamo forse più calzante questa seconda possibilità interpretativa: non mancano, infatti, alcuni punti dell’opera in cui Pietro cita il testo biblico accogliendo però a testo una lezione differente rispetto a quanto legge la Vulgata (cfr. ai capp. 13, 15, 24, 48, 67, 80, 84).
Capitolo 17 1.
2.
Il dettaglio, ad esplicitare la finalità della decisione divina, è desunto da Glossa interl. Gen 2, 18 e integrato a tutti gli effetti nel discorso diretto biblico. In termini più precisi, si direbbe dunque una sineddoche: cfr. al cap. 13 e relativa n. 3.
290
Note di commento, CAP. 17
3.
L’eventualità per cui il termine ‘terra’ possa includere anche l’elemento ‘acqua’ è avanzata da Andr. S. Vict., Exp. Gen. 2, 19. 4. Cfr. Glossa ord. Gen 2, 19 e analogamente Isid., Etym. 12, 6, 4 ss.: quest’ultimo allega, a titolo esemplificativo, i nomi di pescecane e pescelupo. 5. Per entrambe le ipotesi, cfr. Glossa interl. Gen 2, 19. 6. Questa prima motivazione figura in Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 40B. 7. Cfr. puntualmente Glossa ord. Gen 2, 19. 8. Cfr. Glossa ord. Gen 2, 19, ove si puntualizza che Adamo ebbe la facoltà di profetizzare in virtù del fatto che, nella curia celeste, fu messo a parte di quanto sarebbe accaduto alla fine dei tempi. Quanto la fonte non segnala è la peculiare lettura esegetica in chiave tipologico-figurale – modalità di esegesi cui il nostro autore riserva nel complesso un ruolo assai marginale – delle parole pronunciate da Adamo dopo il risveglio: in particolare, l’allusione parrebbe a Gen 2, 24, ove Adamo esclama Quamobrem relinquet homo patrem suum et matrem, et adherebit uxori suae, et erunt duo in carne una («E perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre, e si unirà a sua moglie, e saranno due in una carne sola»), qui spiegate come cenno pre-figurativo all’unione tra Cristo e la Chiesa (cfr. analogamente Glossa interl. Gen 2, 24). Il passo verrà ripreso a suo luogo e debitamente commentato anche sotto il profilo storico-letterale: cfr. al cap. 20. 9. Soltanto gli apocrifi narrano di analoghe profezie sui tempi futuri, attribuendole sia ad Adamo che a Eva. Nella fattispecie, l’apocrifo latino dal titolo Vita Adae et Evae («Vita di Adamo ed Eva») riferisce che Eva, in punto di morte, convocò tutti i figli avuti da Adamo e rivelò loro ciò che lei e il marito avevano udito profetizzare dall’arcangelo Michele dopo il peccato originale: il Signore avrebbe scatenato sull’intero genere umano l’ira del suo giudizio per due volte, la prima con l’acqua e la seconda con il fuoco. La donna esortò quindi i figli (o il solo Seth, a seconda della tradizione manoscritta) a costruire delle tavole di pietra e di argilla, e a incidervi la vita sua e di Adamo, in modo tale che la tavola di pietra sopravvivesse al giudizio per mezzo dell’acqua e quella di argilla al giudizio per mezzo del fuoco (cfr. i parr. 49-50 dell’edizione critica
291
Note di commento, CAP. 17-18
del testo − recensio cosiddetta “Latin-V” − in Vita latina Adae et Evae − ed. J.-P. Pettorelli, J.-D. Kaestli, A. Frey, B. Outtier (CC SA, 18-19), Turnhout, 2012; il testo in traduzione italiana, a cura di L. R. Ubigli, è disponibile in Apocrifi dell’Antico Testamento, vol. II − ed. P. Sacchi, Torino, 1981-1996, p. 447-471). L’allusione è rispettivamente al diluvio universale (cfr. Gen 7) e al giudizio finale (cfr. il Libro dell’Apocalisse). Tuttavia si noti che nel nostro testo una simile profezia è attribuita ad Adamo (non a Eva) e giustificata come conseguenza dell’estasi di Adamo in occasione della creazione della donna (nell’apocrifo, invece, si tratta di una profezia appresa da Adamo ed Eva in tutt’altro contesto: dall’arcangelo Michele e in séguito al peccato). A qualche cosa di analogo Pietro Comestore fa riferimento anche al cap. 29, sulla scorta di Flavio Giuseppe, il quale attribuisce la profezia espressamente ad Adamo (cfr. nel dettaglio al cap. 29, n. 6): non è da escludere l’ipotesi di una interferenza tra le due fonti, o, meglio, tra il testo di Flavio Giuseppe e la tradizione (scritta o soltanto divulgata?) derivante dagli (e non coincidente con gli) apocrifi. Un accenno ai due giudizi figura anche al cap. 37 e uno ai cosiddetti ‘due diluvi’ al cap. 40.
Capitolo 18 1.
Si allude qui al mito di Lilith: assimilato dalla cultura ebraica per tramite delle antiche civiltà mesopotamiche, esso riuscì ben funzionale a giustificare, in sede di esegesi testuale, la discrepanza tra i due racconti della creazione di uomo e donna contenuti nella Genesi. Secondo la versione più accreditata del mito, fu Lilith la prima donna generata da Dio a sua stessa immagine e simultaneamente ad Adamo (cfr. Gen 1, 26 ss.): Dio avrebbe poi dato Lilith in moglie ad Adamo, ed entrambi sarebbero vissuti per un certo periodo nel paradiso terrestre, fino al momento in cui la donna si sarebbe rifiutata di sottomettersi ad Adamo (tanto in senso fisico-sessuale quanto simbolico-morale) fuggendo dal paradiso e rifugiandosi presso i demoni; raggiunta da alcuni angeli, inviati da Dio per farla tornare sui propri passi, Lilith avrebbe rifiutato di obbedire anche a Dio. Il mito vuole che, dopo la fuga di Lilith dal paradiso, Dio abbia creato
292
Note di commento, CAP. 18
una seconda donna a partire dalla costola di Adamo (cfr. Gen 2, 2122): Eva, seconda moglie di Adamo e madre dei viventi. Il mito di Lilith attraversò i secoli, arricchendosi di ulteriori dettagli figurativi: la cultura antica, ebraica e non, descrive e rappresenta la prima donna come una creatura demoniaca, bellissima ma inquietante, dalle fattezze teriomorfe e con lunghi capelli rossi o blu; l’epoca medievale ereditò il patrimonio leggendario e proiettò sulla figura di Lilith gli aspetti più negativi della femminilità (ribellione all’autorità maschile, adulterio, stregoneria, etc.). 2. La donna creata fu dunque una sola, s’intende: cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 1, 3 . 3. Secondo alcune versioni del mito, Lilith si sarebbe unita con Adamo e avrebbe generato figli umani e demoni; è credenza diffusa, invece, che, dopo la fuga dal paradiso terrestre, si sarebbe unita con i demoni e avrebbe generato una pluralità di creature demoniache. 4. L’osservazione, a prima vista ingenua ma senz’altro dirimente, non trova riscontro altrove: spicca − a maggior ragione − la tendenza del nostro autore a ricercare la chiave risolutiva per questioni di natura esegetico-testuale nella littera stessa del testo sacro, sommo e inderogabile fondamento di qualsivoglia altra lettura (cfr. Prefazione). 5. È questo il fondamento teorico, confutato nel prosieguo, di una dottrina teologica eterodossa diffusasi a partire dal II sec. d.C. e nota con il nome di ‘traducianesimo’ (dal lat. traducĕre, «trasferire», «trasmettere»): l’anima individuale dell’uomo non è frutto della creazione di Dio – come invece professa la dottrina ufficiale ‘creazionista’ – ma deriva ex traduce, ossia «per trasmissione», da quella dei genitori, che la trasferiscono ai figli in virtù dell’unione biologica tra i loro semi. Il traducianesimo ebbe ampio séguito e fu sostenuto, tra gli altri, da Tertulliano; lo stesso Agostino (cfr. De Gen. ad litt. 10) ne riconobbe una certa efficacia a giustificare l’ereditarietà del peccato originale (cfr. infra nel nostro testo, ove anche Pietro Comestore riferisce che Agostino si mostra dubbioso circa la questione); la condanna ufficiale e definitiva da parte della Chiesa di Roma giunse sul finire del V secolo. Come già più volte nel corso di questi primi capitoli, si osservi anche qui l’estrema cura di puntualizzare i dogmi dell’ortodossia in funzione anti-ereticale: analoga stigmatizzazione della dottrina traduciana anche al cap. 92.
293
Note di commento, CAP. 18-19
6. La nutrita sezione esegetica è debitrice a Glossa ord. Gen 2, 21 (un estratto da Avg., De Gen. ad litt. 10, 1-2). A fungere da elemento discriminante, a sostegno della dottrina ortodossa, è di nuovo il testo sacro: in tal caso – e quasi paradossalmente – non in nome della sua littera, bensì del suo silenzio.
Capitolo 19 1.
Impossibile conservare, nella resa italiana, la trasparenza del nesso etimologico che – in virtù del medesimo verbo agere («trarre») – corre tra il sostantivo e la glossa esplicativa: il composto virago («donna»), da vir («uomo») + ago (indic. pres. 1a pers. sing. di agere: «io traggo»), è ricondotto appunto all’espressione a viro («dall’uomo») acta (partic. perf. di agere: «tratta»). L’etimologia non trova riscontro nelle fonti: in termini differenti, cfr. ad es. Isid., Etym. 11, 2, 22: Virago vocata quia virum agit, hoc est opera virilia facit et masculini vigoris est, ossia «Si dice virago perché virum agit (“si comporta da uomo”), cioè pratica attività virili ed è dotata di mascolino vigore». 2. Cfr. Glossa interl. Gen 2, 23. 3. Il nome di Adamo è glossato homo («uomo») da Glossa interl. Gen 5, 5 (in corrispondenza di una delle svariate menzioni del nome proprio). 4. L’etimologia rubra terra («terra rossa») è anch’essa segnalata da Glossa interl. Gen 5, 5. Quanto a rubeus («rosso»), si tratta invece della glossa etimologica offerta da Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 1, 2 , che la spiega, come riportato nel nostro testo, in relazione al colore della terra onde Adamo fu creato. 5. Non è dato individuare alcun parallelo testuale né per la spiegazione del colore rosso con riferimento al sangue quale sede dell’anima, né per la successiva con riferimento profetico-allegorico al sangue inteso come metonimia del peccato, di cui l’uomo si sarebbe poi macchiato. 6. Cfr. Glossa interl. Gen 3, 20.
294
Note di commento, CAP. 20
Capitolo 20 1. 2.
3.
Si osservi come già nel corpo della citazione di Gen 2, 24a siano inframmezzati dettagli dalla valenza esplicativa. In Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 41A, fonte da cui Pietro Comestore desume l’osservazione, si segnala più precisamente che Duae istae tantum personae in paradiso excluduntur, scilicet ne pater cum filia, aut filius cum matre coeat. Lex autem decem personas, Evangelium usque ad septem generationes omnes excludit, ossia che «Nel paradiso vengono escluse [scil. dall’unione coniugale] soltanto queste due persone: cioè che il padre non si unisca con la figlia, né il figlio con la madre. La Legge, invece, esclude dieci persone; il Vangelo esclude ogni persona fino alla settima generazione». Il riferimento alla Legge sottende verosimilmente il passo di Lev 18, 6-17, ove si elencano, vietandoli, alcuni possibili casi di unioni incestuose (più di dieci, per la verità). Al contrario, il dato attribuito genericamente al Vangelo non figura né all’interno dei Vangeli né in altri luoghi del testo biblico. I soli passi che potrebbero lasciarvisi accostare sono i sinottici Mc 10, 7 e Mt 19, 5: Gesù, citando pressoché alla lettera l’incipit dell’esclamazione di Adamo, se ne serve per condannare l’adulterio. Se davvero a ciò alludesse Ugo, e Pietro sulla sua scorta, l’osservazione andrebbe letta come un divieto di unione extra-coniugale dopo il matrimonio (e non come divieto preventivo). Tre sono le possibili letture, in chiave storico-letterale, che il nostro autore offre a spiegazione della profezia emessa da Adamo in Gen 2, 24a (ma si rammenti l’esegesi tipologico-figurale anticipata al cap. 17: l’unione tra uomo e donna letta come pre-figurazione dell’unione tra Cristo e la Chiesa): a) in riferimento alla creazione materiale della donna dalla costola dell’uomo: l’uomo lascerà spesso (saepe) i genitori per unirsi in matrimonio ad una moglie, come ad una delle sue membra; b) in riferimento alla moglie del singolo uomo, intesa come persona fisica; si tratta di una spiegazione, per così dire, contingente: si precisa infatti che l’uomo ogni giorno lascia in questo senso i genitori, s’intende per stare con sua moglie; c) in riferimento al divieto assoluto per i figli di contrarre un matrimonio incestuoso con i propri genitori: l’uomo, cioè, lascerà
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Note di commento, CAP. 20-21
per sempre (semper) i genitori, per unirsi invece ad una moglie. Il distacco dai genitori è da intendersi da un punto di vista non soltanto fisico-concreto, ma anche spirituale-affettivo, poiché l’uomo nutre un affetto maggiore verso la moglie che verso i genitori. La considerazione conclusiva, allegata come a latere, denota un’acuta finezza psicologica, cifra consueta dell’esegesi di Pietro Comestore: l’affetto dell’uomo verso la moglie non è però maggiore di quello che i genitori nutrono verso i figli (in duplice senso, pare di poter intendere: l’uomo ama i figli più di sua moglie; i genitori amano il proprio figlio più di quanto costui ami sua moglie), sicché la natura dell’affetto che corre tra genitori e figli è delineata – con icastica metafora vegetale da cui traspare un amaro pessimismo di fondo – in direzione unilaterale e irreversibile. 4. Anche per quest’altra esclamazione profetica di Adamo, tre sono le possibili letture esegetiche sotto il profilo storico-letterale: a) l’unione intesa meramente come opera carnale; b) l’unione intesa come atto materiale finalizzato alla procreazione della carne di un figlio, che si può generare soltanto grazie all’apporto di entrambi i genitori: in questi termini chiosa il passo anche Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 41B; c) l’unione intesa, così pare di intuire, come comunione in termini legali, tale per cui uomo e donna non hanno potere su sé medesimi ove considerati nel contesto del matrimonio, mentre lo conservano al di fuori.
Capitolo 21 1. 2. 3.
Cfr. Glossa ord. Gen 3, 25. Si osservi, secondo un modulo esegetico caro al nostro autore, l’efficace parallelo esplicativo tratto dalla vita quotidiana. In latino Unde sanctus Zacharias, cum sanctam Elisabeth cognosceret ad generandum sanctum precursorem Domini, tamen videri noluit: si è scelto di tradurre il periodo alla lettera e in accordo con la grammatica, sebbene l’interpretazione del passo sia decisamente oscura. La presunta volontà da parte di Zaccaria di non essere visto – cioè osservato: da Elisabetta? – durante l’atto del concepimento di Giovanni (così necessariamente il cum…cognosceret) non trova al-
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Note di commento, CAP. 21-22
cun riscontro, più o meno esplicito, nelle fonti in nostro possesso: nemmeno nei Vangeli apocrifi, cui verrebbe spontaneo accostare una simile notizia. È pur vero, d’altra parte, che il contesto verte sulla vergogna causata appunto dall’essere visti; il dato in oggetto ci sembra però troppo singolare perché possa sussistere come frutto dell’esegesi personale di Pietro Comestore, senza alcun aggancio testuale esterno. L’unico possibile riferimento che ci sia dato individuare consiste nell’episodio dell’annunciazione della nascita di Giovanni secondo Lc 1, 5-25: ai vv. 24-25 si dice che Elisabetta, dopo aver concepito, occultabat se (cioè «si teneva nascosta [scil. agli occhi della gente]» nei primi cinque mesi) e diceva che il Signore le aveva rivolto lo sguardo per rimuovere presso gli uomini la sua vergogna (la protratta sterilità). Muovendo da qui, si potrebbe azzardare una differente lettura interpretativa del nostro passo: «È per questo che il santo Zaccaria, dopo che si unì alla santa Elisabetta per generare il santo precursore del Signore, tuttavia non volle che [scil. Elisabetta/ la gravidanza] fosse vista». Anch’essa, tuttavia, a conti fatti ci pare poco convincente per due ordini di ragioni: sotto il profilo grammaticale, costringerebbe a postulare due anomalie estranee all’usus scribendi del nostro autore, ossia una costruzione assai approssimativa del cum + congiuntivo imperfetto (con valore di anteriorità anziché di contemporaneità) e un ambiguo cambio di soggetto tra reggente e infinitiva, con il soggetto di quest’ultima lasciato peraltro sottinteso; sotto il profilo concettuale, finirebbe per attribuire il comportamento di Elisabetta ad una presunta coercizione da parte di Zaccaria, come se fosse costui a costringerla a tenersi nascosta.
Capitolo 22 1. 2.
Cfr. Glossa interl. Gen 3, 1. Il riecheggiamento del verso oraziano ci pare inequivocabile, anche alla luce del grecismo sintattico ceream…flecti («molle come cera a piegarsi al vizio»), infinito con valore finale retto da un aggettivo, struttura sintattica senz’altro inconsueta all’usus scribendi del nostro autore e, più in generale, al latino medievale. Ignoriamo però
297
Note di commento, CAP. 22
attraverso quale via Pietro Comestore abbia derivato la citazione: se direttamente dall’opera oraziana (il XII secolo vide infatti il rifiorire dell’interesse per le opere poetiche di epoca pagana-classica: cfr. al cap. 9, n. 5 su un prestito ovidiano) o da una fonte intermedia. In ogni caso, l’adagio oraziano si presta con efficacia ad esemplificare l’indole di Eva: si rammenti che il riutilizzo della cultura classica-pagana in chiave esegetica affonda le proprie radici in epoca già tardoantica. Si osservi, inoltre, il modulo esegetico che si esplica nella formulazione di ipotesi in merito ai moventi psicologici sottesi all’agire dei personaggi: esso è particolarmente caro al nostro autore e spesso, come in questo caso, anche indipendente dalle letture proposte dalle fonti. 3. Il nome phareas è attestato anche nelle varianti grafico-fonetiche pareas e parias. La fonte del nostro autore parrebbe Isid., Etym. 12, 4, 27: Parias serpens quae semper in cauda ambulat et sulcum facere videtur. De quo idem Lucanus: Quo contentus iter cauda sulcare parias («Parias è un serpente che cammina sempre sulla sua coda e sembra che scavi un solco. Ne fa menzione anche Lucano [cfr. Phars. 9, 721]: ‘Dove il parias intento a solcare con la coda il cammino’»). 4. Questo dettaglio, espressamente attribuito a Beda, costituisce in verità un autentico enigma filologico. Nell’intera opera a noi nota dell’autore anglosassone non è dato leggere nulla di simile; Agneta Sylwan, nell’apparatus fontium della sua edizione, segnala quale possibile fonte di Pietro Comestore il passo di Ps. Beda, Quaest. super Gen. col. 276C: Serpens per se loqui non poterat, nec quia hoc a Creatore acceperat assumpsit, nisi nimirum illum diabolus utens, et velut organum per quod articulatum sonum emitteret (il cui senso è piuttosto chiaro, sebbene l’andamento del periodo sia fortemente anacolutico, forse a motivo di qualche corruttela testuale: «Il serpente non era in grado di parlare da solo, né [scil. il diavolo?] lo scelse perché aveva ricevuto dal Creatore questa prerogativa; se non che, evidentemente, il diavolo, servendosi di quello [scil. del serpente] e come di uno strumento attraverso il quale emettere un suono articolato»). Va da sé che Pietro potrebbe aver letto ancora qualche opera di (o attribuita a) Beda ora perduta: il nostro testo, in ogni caso, è la prima opera letteraria in ordine di tempo ad ascrivere a
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Note di commento, CAP. 22-23
Beda la paternità dell’ipotesi per cui il tentatore di Eva sarebbe stato un serpente virgineum vultum habens («dal volto di fanciulla ») perché similia similibus applaudunt («il simile accoglie con favore le proposte dei suoi simili»). Lo studioso John K. Bonnell suggerisce cautamente l’eventualità che Pietro potesse avere tra le mani un manoscritto deteriorato di opere attribuite a Beda, in cui il passo poc’anzi citato presentava difficoltà di lettura, sicché Pietro potrebbe aver equivocato l’espressione velut organum, trasformandola in vultum virgineum; cfr. J. K. Bonnell, ‘The serpent with a human head in art and in mystery play’, American Journal of Archaeology, 21 (1917), p. 255-291, alla p. 258 (il contributo segnala Vincenzo de Beauvais e Guido delle Colonne quali altri due autori, di epoca posteriore a Pietro, che hanno assegnato a Beda il dettaglio in questione). A prescindere dall’attribuzione, vera o falsa che sia, a Beda, l’immagine del serpente con volto di donna doveva comunque avere larga diffusione nel patrimonio iconografico di epoca medievale: cfr. K. M. Crowther, Adam and Eve in the Protestant Reformation, New York, 2010, p. 28 (che rimanda in nota alle fonti segnalate da N. C. Flores, ‘Virgineum vultum habens’: The woman-headed serpent in art and literature from 1300 to 1700, PhD dissertation, University of Illinois at Urbana-Champaign, 1981). 5. Cfr. puntualmente Glossa ord. Gen 3, 1. 6. La riformulazione è intesa, con ogni evidenza, a chiarire il giro di frase un poco ingannevole di Gen 3, 1b. 7. Analoga insistenza sul dubbio della donna in Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 41C.
Capitolo 23 1.
2.
La formulazione che qui compare pulchrum visu… ad vescendum suave («bello a vedersi… dolce a mangiarsi») ricalca alla lettera Gen 2, 9. Pur al netto della sostanza concettuale, il passo di Gen 3, 6 varia lievemente il dettato e legge invece bonum… ad vescendum et pulchrum oculis («buono… da mangiare e bello alla vista»). Cfr. Avg., Gen. ad litt. 11, 30: ma cfr. infra alla n. 5.
299
Note di commento, CAP. 23-24
3.
Si osservi, secondo un modulo esegetico già rilevato, la premura di sottolineare quale sia il recondito ragionamento che spinge Adamo all’azione: il dato non trova riscontro nelle fonti. 4. La medesima spiegazione è offerta da Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 41D-42A. 5. Cfr. Glossa ord. Gen 3, 7: si tratta di un estratto da Avg., Gen. ad litt. 11, 31, passo contiguo rispetto a quello citato alla n. 2, sicché può ben darsi che l’esemplare della Glossa tra le mani di Pietro Comestore estrapolasse un più ampio passo del testo agostiniano e che, dunque, anche in quel caso si debba pensare piuttosto alla Glossa medesima quale fonte del nostro autore. 6. Cfr. Glossa interl. Gen 3, 7. Di tale esegesi, assai concisa, segue nel nostro testo una spiegazione ben più dettagliata, con annessa immagine metaforica dei motus concupiscentiae («impulsi della concupiscenza») quali rivuli («fiumi») che erompono all’improvviso: ulteriore tentativo di figurare al lettore, in termini quanto più concreti, il senso puntuale della lettura proposta. 7. Sulla scorta di Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 42A, si offre un’efficace spiegazione in chiave metaforica (si osservi l’icastica immagine: vergogne = porta attraverso cui passa la propagazione della stirpe) del diverso comportamento inflitto alle vergogne rispetto alle altre membra. 8. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 1, 4 . L’avversativa tamen (da noi resa «invece») ad introdurre la citazione sembra giustificarsi in virtù del fatto che al contrario, stando al testo biblico, la consapevolezza di essere nudi e il conseguente turbamento di Adamo ed Eva non derivano loro, nell’immediato, dall’aver mangiato il frutto, ma soltanto in séguito dall’apertura dei loro occhi (nel senso che Pietro ha appena illustrato con precisione).
Capitolo 24 1.
Per il dettaglio succinctoria quasi bracas («cinture, simili a calzoni»), cfr. Glossa interl. Gen 3, 7; per l’analogia con il particolare tipo di bracae breves («calzoni corti») dette campestria («campestri»), cfr. Avg., De civ. Dei 14, 17: ‘campestria’ latinum quidem
300
Note di commento, CAP. 24
verbum est, sed ex eo dictum, quod iuvenes, qui nudi exercebantur in campo, pudenda operiebant («campestria è un termine latino: si dice così perché i giovani che si esercitavano nudi nel campus [scil. il campo Marzio, luogo dell’antica Roma deputato agli esercizi militari e ginnici] coprivano le loro vergogne»). 2. Ossia l’albero della scienza del bene e del male: ciò osserva anche Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 42A-B; l’identificazione muove dall’esegesi ebraica (cfr. Shereshevsky, ‘Hebrew Traditions’, p. 272) e figura anche negli apocrifi (cfr. Graf, Miti, leggende, p. 28). Il precedente dettaglio, sulla presunta proprietà delle foglie di fico di provocare voluptatis prurigo («il prurito del piacere carnale»), non trova invece riscontro nelle fonti. 3. Per l’intera sezione narrativa che qui si conclude, Pietro Comestore integra la traccia offerta dal testo biblico con brevi notazioni esegetiche desunte dalla Glossa: nella fattispecie, cfr. Glossa interl. Gen 3, 8 per la spiegazione «perché non si erano attenuti al suo ordine» e per il dettaglio «per tramite di qualche creatura sottoposta»; cfr. Glossa ord. Gen 3, 9 per le glosse «ossia colui a cui aveva dato l’ordine» e «rimproverandolo (e non, invece, perché davvero non lo sapesse)»; cfr. Glossa interl. Gen 3, 9 per la parafrasi esplicativa «Come a dire etc.»; 3, 10 per il commento «Risposta stolta etc.»; 3, 12 per la puntualizzazione «Adamo, però […] dato la donna»; 3, 13 per la chiosa «E nemmeno la donna […] sul serpente». 4. Cfr. Avg., Gen. ad litt. 11, 36. 5. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 1, 4 . 6. Cfr. Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 43A. 7. Per quest’ultimo curioso dettaglio, circa il presunto effetto letale dello sputo di un uomo a digiuno su un serpente, cfr. Ambr., Exam. 6, 4, 28. 8. Cfr. puntualmente Physiologus latinus, versio Y, 13, 14. Ignoriamo se Pietro Comestore fosse a conoscenza e/o disponesse di quest’opera (in ogni caso, tuttavia, verosimilmente in un’altra versione rispetto alla Y della cui edizione critica disponiamo): vista anche la presenza, qualche riga sopra, della notazione sull’odio che per natura corre tra alcune specie di animali, si può forse ipotizzare l’utilizzo di qualche bestiario o di una fonte da esso derivata.
301
Note di commento, CAP. 24-25
9.
10. 11. 12.
13.
14.
15.
Il testo di Gen 3, 16 legge soltanto sub viri potestate eris («sarai soggetta al dominio dell’uomo»): la precisazione che segue, e che pure il nostro autore integra a tutti gli effetti nel discorso diretto pronunciato da Dio, trae spunto da Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 43B. Cfr. Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 43A. Interessante notazione apologetica, che non trova riscontro nelle fonti. La duplice glossa è intesa a chiarire, anzitutto, il significato della preposizione in nel contesto del sintagma in opere tuo («nella tua azione», da intendere come pro opere tuo, «a causa della tua azione»); in secondo luogo, sulla scorta di Glossa interl. Gen 3, 7, è rilevato il significato stesso del termine opus (opera = peccato). Cfr. Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 43B. Il senso dell’etiam («anche») che figura nel nostro testo non è molto chiaro: bisogna forse intendere ‘in aggiunta’ a quanto già detto poc’anzi, ossia alla necessità di procurarsi il cibo da sé (cosa che, in effetti, pure fanno le bestie). Traggono spunto da Glossa ord. Gen 3, 17 sia questa osservazione sul comportamento di Gesù che la precedente sul motivo per cui la maledizione riguardò la terra e non le acque. Il nostro autore si premura di rilevare l’appropriatezza del verbo ibis («andrai»): può darsi che la notazione gli sia stata suggerita da un passo di Glossa ord. Gen 3, 19, ove si contrappone la condizione di immutabilità nel tempo, goduta dall’uomo prima del peccato, a quella di mutabilità cui fu soggetto in séguito (e il verbo ibis veicola, appunto, il concetto di movimento/mutamento).
Capitolo 25 1. 2.
Per le tuniche di pelle quali simbolo della condizione mortale umana, cfr. Glossa interl. Gen 3, 21. Analoga esegesi è proposta da Andr. S. Vict., Exp. Gen. 3, 22; la chiosa retorica tecnica, a segnalare che l’esclamazione di Dio è da leggersi in chiave ironica (in latino ironia), figura anche in Glossa interl. Gen 3, 22.
302
Note di commento, CAP. 25
3. Cfr. Glossa interl. Gen 3, 22. 4. Questa osservazione, che al lettore potrebbe suonare poco perspicua, è invece chiaramente motivata in Glossa ord. Gen 3, 22, da cui Pietro Comestore si limita a riprendere il concetto essenziale: dal momento che Dio parla “al plurale” (cfr. «“…uno di noi!”»), se ne deduce che tali parole sono la vox trinitatis («voce della Trinità»). 5. Anche in questo caso, la notazione retorica tecnica, a segnalare che il testo sottende una reticenza (in latino aposiopesis), figura già in Glossa interl. Gen 3, 22; è mutuato invece da Andr. S. Vict., Exp. Gen. 3, 22 il suggerimento di sottintendere, onde colmare la reticenza, il verbo vidēte («badate») o cavēte («fate attenzione») come reggente dell’esclamativa, ossia «[scil. badate/fate attenzione] che egli non abbia per caso a…»: è probabile che l’allocuzione diretta ad una seconda persona plurale si giustifichi alla luce dell’ipotesi avanzata qualche riga sopra, a proposito degli angeli quale diretto interlocutore cui Dio rivolge le sue parole. 6. È qui descritto con dovizia di particolari il rituale liturgico dell’espulsione dei penitenti dalla Chiesa, celebrato in memoria dell’espulsione di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre a causa del peccato: esso ha luogo in capite ieiunii, alla lettera «all’inizio del periodo di digiuno [scil. quaresimale]», ossia il giorno del mercoledì delle ceneri; ciascun aspetto del rituale ha valore intrinsecamente simbolico, in relazione appunto all’episodio biblico. Il cilicio è una cintura ruvida e nodosa, da portare a contatto con la pelle nuda come pratica religiosa penitenziale. L’ultima osservazione − nessuno saluta i penitenti con la parola ‘Ave!’ poiché il nome di Eva non era ancora stato mutato − allude ad una particolare lettura esegetica, in chiave tipologica, della relazione che corre tra la figura di Eva e quella della Vergine Maria, cui l’angelo Gabriele rivolse il saluto ‘Ave!’ (cfr. Lc 1, 28): essendo Ave il nome stesso di Eva letto al contrario, si può affermare che il nome di Eva sia stato rovesciato di segno grazie alla Vergine Maria, che ha riscattato l’umanità mutando la maledizione di Eva in benedizione. 7. La fonte da cui Pietro Comestore desume la notizia è ignota. L’esistenza di luoghi i cui abitanti godono di immortalità è una credenza non estranea al patrimonio mitico-leggendario condiviso dal mondo medievale: cfr. Graf, Miti, leggende, p. 26-27.
303
Note di commento, CAP. 25
8.
Pietro Comestore fa qui riferimento ad uno dei numerosi testi, di tematica avventurosa-leggendaria e paradossografica ma assai diversi tra loro per genere, che l’epoca medievale vide fiorire intorno alla figura del sovrano macedone Alessandro Magno: si tratta di un breve testo in forma epistolare (edizione critica di riferimento: Brief Alexanders über die Wunder Indiens, in Kleine Texte zum Alexanderroman − ed. F. Pfister, Heidelberg, 1910, p. 21-37) che la finzione narrativa vuole composto dallo stesso Alessandro Magno, durante la sua spedizione nel territorio indiano, e indirizzato al filosofo Aristotele, suo precettore d’infanzia, con l’intenzione di informarlo dei mirabilia (animali, luoghi e uomini fuori dal comune) incontrati lungo il percorso. Tra gli aneddoti che costellano l’epistola, figura appunto la scoperta di due alberi, detti rispettivamente albero del sole e albero della luna, custoditi da un sacerdote indigeno ed entrambi dotati di parola e di facoltà profetica circa le vicende umane future: cfr. Ps. Alex., Epist. 16, 21 ss. L’intero testo dell’epistola non contiene però alcun riferimento al fatto che i sacerdoti dei due alberi conducessero una vita lunghissima proprio grazie al fatto di cibarsi dei loro frutti. Peraltro, l’epistola fa menzione anche di certi alberi che si trovano presso i Seri (antico popolo dell’Asia orientale), i quali sarebbero «dotati di foglie simili a lana» (habentes ipsa folia velud lanam) che gli indigeni raccolgono ed utilizzano per farne abiti: cfr. Ps. Alex., Epist. 3, 2931. Lo stesso Pietro, nelle righe immediatamente precedenti e pur senza l’indicazione esplicita della fonte, aveva menzionato proprio la lanugo in foliis arborum apud Seres («la peluria che si trova sulle foglie degli alberi presso il popolo dei Seri»), attribuendole inoltre la proprietà, a cui l’epistola non allude affatto, di allungare la vita di chi se ne nutre. Va detto che la produzione testuale fiorita intorno alla figura di Alessandro Magno ben si prestava, per sua stessa natura, ad accogliere in sé ulteriori e singoli aneddoti, collocati come a margine del filone narrativo principale e che da esso traevano spunto: può darsi che Pietro leggesse una versione ‘arricchita’ dell’epistola, che ospitava anche i dettagli circa il presunto effetto di longevità sulla vita umana esercitato da certi elementi naturali, nella fattispecie frutti degli alberi e lanugo delle foglie (si tenga presente che è questo un topos magico-religioso ampiamente consolidato: cfr. l’albero della vita che compare già nella Genesi).
304
Note di commento, CAP. 25-26
9. 10. 11.
12.
13.
La medesima spiegazione è offerta da Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 43D. Cfr. Glossa ord. Gen 3, 24. Sulla rimozione della spada infuocata, cfr. Glossa interl. Gen 3, 24 e Glossa ord. Gen 3, 24. Sulla base di quanto si legge nel testo biblico, la teologia cristiana postulava che il patriarca antidiluviano Enoch (cfr. Gen 6, 23, ma anche Sir 44, 16 e Ebr 11, 5) e il profeta del popolo d’Israele Elia (cfr. 2Re 2, 11) fossero stati sottratti alla morte e rapiti da Dio in cielo; nella fattispecie, si riteneva che essi soggiornassero appunto nel paradiso terrestre. Il fuoco all’ingresso del paradiso si estinse alla morte di Cristo perché in tale occasione l’umanità fu redenta dal peccato originale. Merita rilevare che la menzione della figura di Cristo non sottende qui alcuna volontà di proporre una lettura esegetica in chiave tipologica – gli eventi veterotestamentari letti come prefigurazione di quelli neotestamentari −, ma risulta esclusivamente funzionale all’esegesi in chiave storico-letterale del passo veterotestamentario: informare il lettore sulla durata del fuoco posto all’ingresso del paradiso. Per tutte queste informazioni sulla particolare natura di tale fuoco, cfr. Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 43D. La sterminata ricchezza del repertorio agiografico non consente di individuare a quale preciso testo si alluda con il titolo generico di Vita beati Nicholai («Vita del beato Nicola»), verosimilmente una Vita di san Nicola vescovo di Myra, città della Licia, vissuto tra III e IV secolo. L’impressione è che tale formula restrittiva sia da intendere alla luce delle dichiarazioni programmatiche, circa il privilegio accordato all’esegesi storico-letterale, esposte dall’autore nel Prologo e nella Prefazione all’intera opera: come a dire, cioè, che indagare ulteriori sovrasensi non è compito dell’opera che il lettore sta leggendo.
Capitolo 26 1. 2.
Entrambi i dettagli sono segnalati da Glossa interl. Gen 4, 1. Il nostro autore rileva la sproporzione tra lo spazio che Genesi riserva alla discendenza rispettivamente di Adamo (capp. 4-11) e di Abramo (i restanti capp. 12-50): essa si giustifica, a suo dire, alla
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Note di commento, CAP. 26
luce della volontà di giungere quanto prima ad occuparsi della storia di Abramo, in quanto padre degli Ebrei. Si suggerisce inoltre che, proprio a motivo di tale concisione, molti figli e figlie di Adamo non vengano menzionati (della nascita di figlie femmine, cui il testo biblico non allude, fa menzione anche Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 2, 1 ): nel prosieguo del capitolo, Pietro Comestore integrerà tali informazioni mediante il ricorso ad altre fonti. 3. È questa la prima di svariate occasioni in cui Pietro Comestore cita espressamente Methodius («Metodio») quale fonte delle notizie. Sotto il falso nome di Metodio, vescovo di Patara in Licia che patì il martirio all’inizio del IV sec., circolava nell’occidente latino medievale un testo di genere apocalittico sull’inizio e la fine dei tempi, noto come Revelationes de novissimis temporibus («Rivelazioni sulla fine dei tempi»): cfr. nel dettaglio Introduzione § Fonti. Basti qui rammentare che la versione latina, dell’VIII secolo, ebbe ampia fortuna in epoca medievale e fu impiegata dagli esegeti come fonte accreditata di storia veterotestamentaria. All’edizione critica di tale versione latina, approntata sulla base dei quattro più antichi manoscritti (VIII sec.) e contenuta in Sibyllinische Texte und Forschungen. I Pseudo-Methodius − ed. E. Sackur, Halle a. S., 1898, faremo riferimento con la sigla Ps. Method., Revelat., seguìta da numero di paragrafo e, tra parantesi, relativo numero di pagina. Tornando al nostro testo, va detto che non trovano alcun riscontro nella fonte le informazioni contestuali che Pietro segnala in merito alla genesi dello scritto di Metodio; M. B. Ogle ipotizza che lo stesso Pietro possa aver aggiunto tali dettagli traendo spunto dalle numerose agiografie in cui si racconta che il martire, proprio durante il periodo di prigionia, è in grado di profetizzare il futuro per ispirazione divina: cfr. M. B. Ogle, ‘Petrus Comestor, Methodius, and the Saracens’, Speculum, 21 (1946), p. 318-324, alla p. 319. 4. Cfr. Ps. Method., Revelat. 1 (p. 60), ove tuttavia si legge che Adamo ed Eva generarono Caino e Calmana in anno autem XXXmo ab expulsionis eorum de paradiso («durante il 30° anno dopo la loro espulsione dal paradiso»): dal momento che la divergente indicazione segnalata da Pietro Comestore (anno vitae Adam decimo quinto: «nel 15° anno della vita di Adamo») non sembra potersi ricavare dall’incrocio di altri dati, non è da escludere l’eventualità per
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Note di commento, CAP. 26
cui già il manoscritto di Metodio a disposizione di Pietro riportasse una lezione diversa da quella accolta nell’ed. E. Sackur. 5. Era opinione unanimemente condivisa che Adamo fosse stato creato già in età adulta: si suggerisce qui all’età circa 30 anni. La chiosa vale a disambiguare il dato anagrafico appena segnalato, ossia l’età di Adamo pari a 15 anni allorché avrebbe generato per la prima volta, che potrebbe suonare al lettore troppo bassa: in realtà, si precisa, non è questa da intendersi l’età “effettiva” di Adamo in quell’occasione (che sarà stata dunque di 30 + 15 anni), bensì quella “nominale”, che inizia ad essere computata a partire dal momento in cui egli fu creato. 6. Cfr. Ps. Method., Revelat. 1 (p. 60), ove tuttavia si legge che Abele e Delbora furono generati post XXXmo alium annum (ossia «dopo altri 30 anni [scil. dalla nascita di Caino e Calmana]) e non, come invece segnala Pietro, post alios quindecim annos («dopo altri 15 anni»): vale quanto osservato alla n. 4. 7. Cfr. puntualmente Ps. Method., Revelat. 1 (p. 60-61). 8. L’indicazione toponomastica-topografica figura nel trattato di geografia dei luoghi santi di Rorgo Fretello (forse l’arcidiacono attivo a Nazareth nella prima metà del XII sec.): cfr. Fretell., Loc. sanct. 8. 9. In Ps. Method., Revelat. 1 (p. 61) si legge CCmo autem et XXXmo anno primi miliari, quod est primum seculum, natus est Sedh («durante il 230° anno del primo millennio, ossia della prima epoca, nacque Seth»). Come infatti lo stesso Pietro Comestore si premura di precisare poco oltre (Methodius…vocat seculum unam ciliadem, cioè «Metodio…per intendere la singola epoca usa il termine ‘un millennio’»; ma cfr. anche al cap. 31: Methodius…per ciliades secula disponit, cioè «Metodio scandisce le epoche in periodi di mille anni»), il testo di Metodio adotta una scansione cronologica per miliarii o chiliades (dal gr. χιλιάς: lett. «migliaio»), ossia appunto per «millenni». Quanto al merito dell’indicazione cronologica, Pietro segnala che Seth nacque tricesimo anno prime ciliadis («nel 30° anno del primo millennio»), tenendo però presente il fatto che Metodio inchoat secula post ducentos annos Adae («inizia il computo delle epoche a partire dal momento in cui Adamo aveva 200 anni»). Quest’ultima puntualizzazione è verosimilmente da inten-
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Note di commento, CAP. 26-27
10. 11.
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dersi non nel senso che per Metodio l’inizio del primo millennio coincide con il 200° anno della vita di Adamo (nel testo di Metodio, infatti, non si legge alcuna esplicita dichiarazione in questi termini), bensì nel senso che è questa la prima occasione in cui egli fa riferimento alla scansione temporale per miliarii o chiliades. Cfr. Glossa interl. Gen 4, 1. Le due etimologie luctus («lutto») e vapor («vapore»), quest’ultima con relativa spiegazione, sono mutuate da Glossa ord. Gen 4, 2. Rendiamo così il latino nihil hoc: cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 2, 1 . Simile motivazione è addotta da Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 2, 1 .
Capitolo 27 Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 2, 1 . Il testo di Gen 4, 4 legge Abel quoque obtulit de primogenitis gregis sui et de adipibus eorum («Anche Abele offrì parte dei primogeniti del suo gregge e parte del loro grasso»), ove in effetti verrebbe spontaneo intendere il pronome eorum in riferimento ai soli primogeniti: sembra potersi giustificare in tal senso la glossa esplicativa offerta dal nostro autore (il grasso, cioè, non è quello dei soli primogeniti ma dell’intero gregge). 3. L’informazione è mutuata da Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 44A. Nel prosieguo si mostrerà che il rituale di consegna delle decime fu istituito non da Adamo, bensì da Abramo: cfr. Gen 14, 20, e qui al cap. 46 (ove, peraltro, si rammenterà al lettore che la consegna delle primizie fu invece effettuata per la prima volta da Abele: con implicito rimando all’episodio narrato appunto qui al cap. 27). 4. Le offerte, cioè, non sono di per se stesse gradite/sgradite a Dio, ma lo sono per il merito/demerito di cui gode l’offerente agli occhi Dio: cfr. Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 44A-B. 5. Cfr. Glossa ord. Gen 4, 4: il passo della fonte ascrive espressamente a Teodozione quella cui Pietro Comestore allude in termini assai generici con l’indicazione di alia translatio («altra traduzione»); dalla fonte Pietro desume anche la relativa spiegazione e il
1. 2.
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Note di commento, CAP. 27-28
6. 7.
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primo rimando esemplificativo all’episodio di Elia; il secondo, invece, non trova riscontro nella fonte: può darsi che Pietro lo abbia aggiunto in quanto si tratta dell’episodio veterotestamentario fondativo di tale consuetudine rituale. L’osservazione è debitrice a Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 2, 1 . Per il dettaglio sulla vergogna, cfr. Glossa interl. Gen 4, 5; per la più precisa motivazione che segue, cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 2, 1 . Cfr. Glossa interl. Gen 4, 6: s’intende, cioè, sottolineare la tonalità e la funzione delle parole pronunciate da Dio. La breve glossa esplicativa, ad integrare il dettato vagamente allusivo del testo biblico, è mutuata da Glossa interl. Gen 4, 7. Cfr. Glossa ord. Gen 4, 6. Pietro Comestore integra a tutti gli effetti nel discorso diretto pronunciato da Dio una breve glossa esplicativa derivata da Glossa interl. Gen 4, 7. Cfr. Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 44B. Il passo è mutuato da Glossa ord. Gen 4, 6: si tratta di una traduzione approntata ad litteram sul testo greco dei Settanta e che, con ogni probabilità, è da ricondurre all’àmbito delle Veteres. Le due proposte esegetiche – circa il significato della spartizione delle offerte non effettuata secondo giustizia – non trovano riscontro nelle fonti: tanto più degna di nota ne riesce la premura con cui Pietro Comestore si sforza di chiarire espressioni potenzialmente dubbie o ambigue per il lettore.
Capitolo 28 1.
Cfr. quanto Glossa ord. Gen 4, 8 riporta sotto il nome di Girolamo (un estratto da Hier., Hebr. quaest. in Gen. 4, 8 [p. 9, l. 12-15]): Dixitque Cayn etc.: HIERO.: Subaudis quae locutus est Dominus. Superfluum est ergo quod in Samaritanorum et nostrorum reperitur voluminibus ‘transeamus in agrum’ («E Caino disse etc.: GIROLAMO: Si sottintenda: le parole che il Signore ha pronunciato. È dunque interpolato quanto si trova scritto nei volumi dei Samaritani e nei nostri: “Entriamo nel campo!”»). Anzitutto, si evince che
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Note di commento, CAP. 28
transeamus è la lezione che Girolamo trova attestata nei manoscritti dei Samaritani (setta minoritaria ebraica, la cui originaria ispirazione religiosa, largamente improntata al sincretismo con altre dottrine medio-orientali, fu perciò spesso osteggiata dall’ebraismo ortodosso) e “nei nostri” (ossia in quelli in suo possesso o, forse più generalmente, in quelli greci e latini); nella Vulgata, invece, Girolamo accoglie a testo egrediamur, sicché anche Pietro Comestore sembra limitarsi a segnalare transeamus quale lezione alternativa rispetto a egrediamur. In secondo luogo, è evidente come Girolamo sostenga che (in tal senso, la congiunzione quia che compare nel nostro testo non può che considerarsi una dichiarativa) questa battuta di discorso diretto attribuita a Caino sia elemento testuale superfluum (lett. «di troppo», «inutile»): ipotizza, cioè, che si tratti di un’interpolazione, ossia di un passo che non compare nel testo originale ebraico, ma soltanto in parte della tradizione manoscritta circolante (la tradizione samaritana e quella greco-latina). Vale la pena di osservare, tuttavia, come Girolamo nel testo della Vulgata non espunga la presunta interpolazione, ma la conservi comunque a testo: ciò in perfetto accordo con il fondamento metodologico del proprio operato, che si radica anzitutto sul rispetto della tradizione testuale circolante all’epoca, anche a scapito dell’adesione al testo riconosciuto come autentico in ebraico. 2. Cfr. Glossa interl. Gen 4, 9. 3. Analoga sottolineatura in Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 2, 1 e in Andr. S. Vict., Exp. Gen. 4, 10. 4. Questa parafrasi in chiave esegetica accorpa singoli spunti derivati da Andr. S. Vict., Exp. Gen. 4, 10 e da Glossa interl. Gen 4, 10. 5. Il nostro autore ha cura di segnalare che l’episodio veterotestamentario in questione è da ritenersi fondativo di una particolare prassi giuridica, diffusa in àmbito ecclesiastico e applicata a chi è sospettato di aver commesso un delitto di sangue in luogo sacro. 6. Cfr. Glossa interl. Gen 4, 9. 7. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 2, 1 . 8. Quest’ultimo dettaglio, relativo all’autocondanna di Caino, è desunto da Glossa interl. Gen 4, 13.
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Note di commento, CAP. 28-29
9.
10. 11. 12. 13.
La nutrita sezione esegetica in merito a Gen 4, 15a è debitrice a Glossa ord. Gen 4, 15. Si badi l’innaturale scissione della frase su cui si fonda la lettura del passo, tale per cui il verbo punietur (lett. «sarà punito») è inteso come una forma impersonale («si punirà») in riferimento a Caino, e non al soggetto della relativa che precede. Quest’altra possibile soluzione interpretativa è mutuata da Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 44C. Cfr. Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 44D. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 2, 2 . L’osservazione trae spunto da Glossa ord. Gen 4, 16 (un estratto da Hier., Hebr. quaest. in Gen. 4, 16 [p. 9, l. 20-25]): Girolamo, a proposito di Gen 4, 16, osserva che la lezione del testo greco dei Settanta, accreditata anche in ambiente latino, ossia habitavit in terra Naid, si mostra tuttavia incongruente rispetto al testo ebraico, che legge nod in luogo di naid; ove nod è da intendersi, precisa Girolamo, non come toponimo, bensì come aggettivo maschile riferito a Caino, il cui significato suona instabilis o vagus («senza una dimora fissa» o «vagabondo»), esplicativo rispetto alla maledizione divina precedentemente rivolta contro Caino stesso (cfr. Gen 4, 11-12). Non a caso, nella Vulgata Girolamo renderà appunto habitavit in terra profugus («abitò profugo sulla terra»).
Capitolo 29 1. 2.
3.
Cfr. Glossa ord. Gen 4, 17. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 2, 2 , ove tuttavia non è precisato il motivo per cui Caino abbia chiamato i suoi a raccolta nelle città: il dettaglio potrebbe essere stato aggiunto dallo stesso Pietro Comestore a giustificare, secondo una modalità esegetica consueta, l’azione del personaggio. La notazione trae spunto da Glossa ord. Gen 4, 18, ove l’atto commesso da Lamech è definito contra morem et contra naturam («contro il costume e contro natura»). È tuttavia ben comprensibile come Pietro Comestore abbia inteso stigmatizzarne anche, e specialmente, l’illiceità rispetto alla legge divina: non a caso, Pietro
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Note di commento, CAP. 29
allega poi il puntuale rimando al precetto divino che, a tal proposito, era stato formulato al momento della creazione, sotto forma di una profezia pronunciata dallo stesso Adamo. 4. Il testo di Gen 4, 20 definisce Iabel semplicemente pater habitantium in tentoriis atque pastorum («padre di coloro che abitano nelle tende e dei pastori»): non trovano preciso riscontro nelle fonti a noi note le informazioni, assai più dettagliate, che il nostro testo offre a tal riguardo. In termini ben più generici, cfr. Honor. Avg., De imag. mundi 3, col. 165D (reperit usum tabernaculorum, «inventa l’uso delle tende») e Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 2, 2 (tabernacula fixit et greges amavit, «fissò le tende e amò le greggi»). 5. Anche in tal caso, a trovare puntuale riscontro nelle fonti è la sola precisazione per cui Iubal fu inventor musicae («inventore della musica»): cfr. Glossa interl. Gen 4, 21. Si tratta di una breve glossa che intende chiarire, come il nostro autore ha poi cura di precisare, il dettato di Gen 4, 21: non si deve intendere che Iubal sia stato «il padre dei suonatori di lira e di flauto» nel senso che fu l’inventore di tali strumenti, bensì appunto della musica in quanto tale. 6. Cfr. Glossa ord. Gen 4, 21, sotto la sigla di Flavio Giuseppe (cfr. Ant. Iud. 1, 2, 3 ). Una patente incongruenza dimostra che Pietro Comestore ha attinto al passo della fonte intermedia (la Glossa) senza curarsi di riscontrare la notizia nella fonte diretta (Flavio Giuseppe): in Flavio Giuseppe si dice che furono i discendenti di Seth, conscî della profezia emessa da Adamo, a mettere per iscritto su colonne l’insieme delle arti (le scienze astronomiche) da loro stessi ideate; per qualche imprecisabile ragione, il passo della Glossa, e Pietro sulla sua scorta, attribuiscono invece l’operazione a Iubal e menzionano precisamente l’arte della musica. 7. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 2, 2 : passo riportato, in termini pressoché analoghi, da Glossa ord. Gen 4, 22. 8. La fonte della notizia è ignota. Quanto alla tradizione greca – respinta dal nostro autore – che vorrebbe l’arte della musica un’invenzione di Pitagora, cfr. puntualmente Isid., Etym. 3, 16, 1: ove, peraltro, si menziona proprio il malleorum sonitus, ossia il «suono dei martelli», come l’elemento da cui procede l’invenzione. 9. Anche in tal caso, la fonte della notizia ci risulta ignota.
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Note di commento, CAP. 29
10. Cfr. puntualmente Honor. Avg., De imag. mundi 3, col. 165D. 11. Questo preambolo, ad introdurre le parole pronunciate nel testo biblico da Lamech, non trova riscontro nelle fonti: si osservi tuttavia, secondo una modalità esegetica ormai più volte rilevata, il tentativo di indagare le motivazioni recondite che spingono i personaggi ad agire o, come in questo a caso, a dire. Per il dettaglio espressamente attribuito a Giuseppe, cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 2, 2 . Non è ben chiaro che cosa si intenda per communis poena (lett. «pena comune»), cui Caino sarebbe soggetto secondo l’opinione di Lamech (e non pare un caso che il manoscritto S erada l’aggettivo e che le famiglie β γ lo omettano): dal momento che la pena riservata a Caino è affatto singolare e per nulla «comune» nel senso di «condivisa con altri uomini», può darsi che l’aggettivo sia da intendere nel senso di «tutto sommato ordinaria», come rende la nostra traduzione e come, in effetti, potrebbe apparire se osservata dal punto di vista di Lamech, che sa di essere soggetto ad una pena pari a settanta volte quella di Caino. 12. L’aneddoto, che rende ragione delle parole pronunciate da Lamech alle sue mogli, figura in termini concettualmente analoghi in almeno quattro tra le fonti a disposizione del nostro autore: cfr. Glossa ord. Gen 4, 23; Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 44D-45A; Andr. S. Vict., Exp. Gen. 4, 23; Angel. Lux., Comm. in Gen. col. 152A-B. La presenza, nel nostro testo, di dettagli che è dato leggere soltanto nell’una o nell’altra fonte, sembra suggerire che Pietro le abbia avute effettivamente presenti tutte quante, derivando da ciascuna gli elementi più appropriati al fine di delineare un excursus esegetico-narrativo quanto più esaustivo possibile: è il solo Angelomo di Luxeuil ad attribuire a Lamech il puntuale appellativo di sagittarius vir («arciere»), nonché a puntualizzare che Lamech uccise Caino scambiandolo per una bestia feroce; è il solo Ugo di San Vittore a illustrare le ragioni per cui Lamech si dedicava alla caccia, sebbene prima del diluvio non si usasse mangiare carne, nonché a precisare che Lamech uccise il giovane in quanto iratus («acceso dall’ira»); è il solo Andrea di San Vittore a suggerire l’ipotesi per cui Lamech abbia ucciso il giovane con l’arco. 13. Pietro Comestore avanza qui due alternative proposte esegetiche in merito alle espressioni, in verità poco perspicue, in vulnus meum…
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Note di commento, CAP. 29-30
in livorem meum (da noi rese «con la mia ferita… con la mia lividura») pronunciate da Lamech in Gen 4, 23. Discrimine tra le due letture è il diverso valore che è possibile attribuire al possessivo meum: a) equivalente di un genitivo oggettivo (mio = di me = da me provocato ad altri), per cui ne risulta un significato complessivo in termini assai concreti; b) equivalente di un genitivo soggettivo (mio = da me procuratomi), per cui ne risulta un’espressione da intendersi in termini metaforici (come allusione, cioè, alla dannazione che Lamech si è procurato da sé per mezzo del duplice omicidio). Né l’una né l’altra trovano riscontro nelle fonti. 14. La medesima lettura esegetica è offerta da Glossa ord. Gen 4, 24 e, in termini del tutto analoghi, da Andr. S. Vict., Exp. Gen. 4, 24. 15. Questa differente spiegazione delle parole pronunciate da Lamech, espressamente attribuita alla tradizione ebraica, è segnalata sia da Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 45A-B che da Andr. S. Vict., Exp. Gen. 4, 24: la dizione del nostro testo aderisce più al passo di Ugo che a quello di Andrea; è soltanto quest’ultimo, tuttavia, ad ascrivere alla tradizione ebraica la paternità di tale esegesi.
Capitolo 30 1.
Cfr. Glossa ord. Gen 5, 3 (a commento del passo in cui si ricapitola la discendenza di Adamo) appunto sotto il nome di Strabus («Strabone»): si tratta di Valafrido Strabone, personaggio di spicco nel contesto religioso-culturale del IX sec. – da semplice monaco quale era, il favore di cui godeva presso la dinastia imperiale carolingia valse a guadagnargli la nomina ad abate del potente monastero benedettino di Reichenau, sulla sponda del Lago di Costanza. Per lungo tempo, in epoca medievale e oltre, gli fu attribuita tout court la paternità del complesso lavoro redazionale e compilatorio – in verità stratificato nel tempo e giunto a compimento solo nella prima metà del XII sec. – che soggiace alla cosiddetta Glossa ordinaria (cfr. Introduzione § Fonti). La quale, inoltre, accoglie qua e là alcuni passi che recano la sigla Strabus: i compilatori della Glossa li derivarono da alcuni commentari biblici circolanti sotto il nome dello stesso Strabone (si tratta, tuttavia, di una paternità
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Note di commento, CAP. 30
assai dibattuta). Tornando nel merito del nostro testo, si dice che da Adamo sarebbe nato il figlio di Dio, ossia Gesù, perché costui era ritenuto appunto discendere da Adamo attraverso Seth, il figlio generato da Adamo dopo la morte di Abele: cfr. l’intera genealogia di Gesù in Lc 3, 23-38. 2. Cfr. puntualmente Honor. Avg., De imag. mundi 3, col. 165B. 3. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 2, 3 . 4. Merita rilevare il tentativo, tutt’altro che inconsueto al nostro autore, di conciliare due letture esegetiche a prima vista incongruenti. In questo caso, è lo stesso testo biblico a fungere, per così dire, da tertium comparationis: si può ben dire, infatti, che le parole pronunciate da Dio in Gen 1,28 siano tanto un’esortazione divina (un ordine, dunque, come sostiene Strabone) quanto un auspicio a che il genere umano abbia a propagarsi (il proposito che Giuseppe attribuisce ad Adamo). 5. Per l’etimologia homo vel vir («‘uomo’ o ‘maschio’»), cfr. Glossa ord. Gen 4, 25: può darsi che le ulteriori due glosse, quasi rationalis vel fortis («come ad intendere ‘dotato di ragione’ e ‘forte’») siano state aggiunte dal nostro autore, al fine di meglio precisare il significato – in effetti piuttosto vago – delle due etimologie. 6. Cfr. Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 45B, secondo cui Enos fu l’inventore di novae orationes…ad invocandum Deum («nuove preghiere… per invocare Dio»). 7. Cfr. Glossa ord. Gen 4, 26, ove tuttavia, in luogo di imagines, compare il termine ydola («idoli»), più preciso e negativamente connotato. All’invenzione di imagines accennano invece Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 45B (ma senza attribuire la notizia alla tradizione ebraica) e Andr. S. Vict., Exp. Gen. 4, 26. 8. Si osservino le due chiose, di segno opposto, che il nostro autore allega a proposito della tradizione ebraica appena riportata: da un lato, una notazione di biasimo, trattandosi in sostanza dell’introduzione di un culto idolatrico; dall’altro, una notazione di carattere apologetico, per cui si suggerisce l’ipotesi che Enos abbia riprodotto l’immagine di Dio animato da una pia intenzione.
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Note di commento, CAP. 31
Capitolo 31 1.
2.
3.
Il lettore del testo biblico potrebbe infatti domandarsi il motivo per cui, sebbene la narrazione sia ormai giunta a parlare di Enos, ossia alla terza generazione a partire da Adamo (Gen 4, 26), si riprenda qui il discorso di nuovo a partire da Adamo: ciò – si chiarisce – al fine di delineare per intero e in modo unitario quella che il nostro autore definisce in modo assai generico la ‘genealogia’, cioè la linea di discendenza per così dire privilegiata che da Adamo, attraverso Seth ed Enos, conduce a Noè (laddove, invece, la sezione precedente del testo biblico aveva riservato un excursus alla discendenza, maledetta da Dio, di Adamo attraverso suo figlio Caino: cfr. Gen 4, 17-24, e qui al cap. 29). Il testo di Metodio non contiene alcun cenno né al fatto che la prima età abbia inizio con Seth né, tantomeno, alle presunte ragioni dell’adozione di tale scansione temporale. Può darsi si tratti di una sovradeduzione operata dal nostro autore sulla base dei dati cronologico-anagrafici segnalati al cap. 26 (cfr. alla relativa n. 9): lì, infatti, si era detto che Metodio colloca la nascita di Seth nel 30° anno del primo millennio (corrispondente al 230° anno della vita di Adamo) e che in coincidenza di tale evento egli fa riferimento per la prima volta alla scansione temporale per miliarii o chiliades; di qui, forse, la deduzione – del tutto arbitraria, lo ribadiamo – che la prima epoca prenda avvio con Seth. Analogamente, può darsi che lo stesso Pietro abbia inteso giustificare tale (presunta) scelta di Metodio in virtù del fatto che Abele e Caino, gli altri due figli di Adamo, non ebbero una propria discendenza. Figurano entrambe in Glossa ord. Gen 5, 3 le letture alternative dell’espressione biblica ad similitudinem et imaginem suam («a propria immagine e somiglianza»). Pur al netto della sostanza concettuale, la formulazione della seconda aderisce però in modo più puntuale a Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 45C, che ugualmente legge mortalis mortales (da noi reso «egli uomo mortale generò uomini mortali»), laddove il passo della Glossa ricalca la formula neotestamentaria e legge terrenus terrenos («egli uomo terreno generò uomini terreni»).
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Note di commento, CAP. 31
4. Già al cap. 26, Pietro Comestore aveva osservato che Metodio e i Settanta attribuiscono ad Adamo 230 anni quando generò Seth; in aggiunta, si segnala qui che anche Flavio Giuseppe concorda nella medesima indicazione: cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 2, 3 . Si rammenti che in quell’occasione Pietro aveva anche osservato che, al contrario, il testo ebraico gli attribuisce 130 anni (indicazione anagrafica accolta a testo dalla Vulgata: cfr. citazione ad litteram da Gen 5,3 riportata da Pietro qui al cap. 31): ragion per cui, onde giustificare lo scarto di 100 anni tra le due differenti indicazioni, si avanza qui l’ipotesi di una presunta omissione (non è dato capire se s’intenda volontaria o meno) da parte di Mosè, che nel computo degli anni di Adamo non terrebbe conto dei 100 anni di lutto (a motivo della morte di Abele: cfr. al cap. 26). 5. Per ciascun componente della stirpe di Seth, l’ampia sezione di Gen 5, 6-31a allega tre dettagliate indicazioni anagrafiche (l’età in cui generò il discendente; gli anni restanti di vita a partire da quel momento; gli anni complessivi di vita): Pietro Comestore si limita a riportare soltanto i nomi, riservando semmai un breve excursus, nel prosieguo del capitolo, ad una dibattuta questione circa l’anno di morte di Matusalemme in relazione al diluvio. 6. Per tutte queste notizie a proposito di Enoch, cfr. Honor. Avg., De imag. mundi 3, col. 165C. 7. Al rapimento di Enoch, il testo di Gen 5, 24 allude in termini assai generici: et non apparuit quia tulit eum Deus («e scomparve dalla vista perché Dio lo rapì»). Il nostro autore offre dettagli precisi: da Glossa ord. Gen 5, 24, il motivo del rapimento, ossia il gradimento mostrato da Dio verso Enoch; da Honor. Avg., De imag. mundi 3, col. 165C, il luogo in cui fu rapito, ossia il paradiso terrestre; lo scopo in vista del quale fu rapito, per analogia con quanto si legge nel testo biblico a proposito di Elia. 8. Non ci è dato individuare alcuna fonte che menzioni questa tradizione giudaica sul rapimento di Enoch con riferimento alla simbologia del numero sette (il passo non è registrato nemmeno in Shereshevsky, ‘Hebrew traditions’). Si osservi che è questo uno dei rari casi in cui il nostro autore adopera l’appellativo ‘Giudei’ e non ‘Ebrei’: sulla presunta logica di tale distinzione, cfr. Introduzione § Fonti.
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Note di commento, CAP. 31
9.
L’excursus cronologico-anagrafico, in merito all’anno di morte di Matusalemme in relazione al diluvio, assembla informazioni tratte da due distinti passi riportati dalla Glossa: per la seconda ipotesi, cfr. Glossa ord. Gen 5, 26 (ove, per la verità, si parla non di sei anni, ma di sette prima del diluvio: banale svista del nostro autore?); per la prima e la terza ipotesi, cfr. Glossa ord. Gen 5, 27. È quest’ultimo un estratto da Girolamo, in cui egli rileva come le indicazioni cronologico-anagrafiche riportate dal testo dei Settanta siano incongruenti poiché, incrociando quattro dati (Gen 5, 25: Matusalemme genera Lamech a 173 anni; Gen 5, 28: Lamech genera Noè a 182 anni; Gen 7, 6: il diluvio ha luogo quando Noè ha 600 anni; Gen 5, 27: Matusalemme muore all’età di 969 anni), risulterebbe che Matusalemme, al momento del diluvio, aveva 955 anni e che perciò visse per altri 14 anni dopo il diluvio; se non che – Girolamo non lo osserva esplicitamente, ma si premura di farlo il nostro autore – tale dato non può sussistere poiché non si legge che Matusalemme sia entrato nell’arca (cfr. Gen 7, 7) né che, eventualmente, sia stato rapito (prima del diluvio, s’intende) come Enoch. Lo stesso Girolamo segnala poi che, in realtà, nei manoscritti ebraici è dato leggere diversamente in merito alla prima indicazione (Gen 5, 25: Matusalemme genera Lamech a 187 anni), sicché nella Vulgata accoglie a testo questa lezione, grazie alla quale si evita di incorrere nell’incongruenza di cui sopra: incrociando il dato con gli altri tre, risulta perciò che Matusalemme sia morto esattamente lo stesso anno del diluvio. 10. Nel caso del testo greco dei Settanta e di quello latino di Girolamo, la durata complessiva della ‘prima età’ si ricava – al netto di lievi discrepanze, essendo i dati numerici tra gli elementi testuali più facilmente soggetti a modifiche nel corso della tradizione manoscritta – dalla somma delle età in cui ciascun componente della genealogia elencata in Gen 5, 1-31 (da Adamo a Lamech, padre di Noè) generò il proprio discendente, con l’aggiunta dei 600 anni che corrono tra la nascita di Noè e il diluvio (cfr. Gen 7, 6). Pietro Comestore, inoltre, segnala che secondo Metodio la ‘prima età’ annovererebbe 2000 anni: nella fonte, tuttavia, non è dato leggere nulla di simile, né il dato sembra potersi ricavare dall’incrocio di altri dati. Vero è che in Ps. Method., Revelat. 2 (p. 63) si dice che in explicionem
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Note di commento, CAP. 31-32
secundi miliarii factum est diluvio (sic!) aquarum («il diluvio delle acque ebbe luogo al termine del secondo millennio»), ove – si rammenti – vale l’equivalenza 1 millennio = 1 epoca (cfr. al cap. 26): assunto che la ‘prima età’ si estende dalla creazione al diluvio, il nostro autore potrebbe averne dedotto arbitrariamente che, secondo Metodio, siano trascorsi fino al diluvio due periodi di mille anni ciascuno, appunto 2000 anni. Pietro precisa anche che Metodio non apponit annos si supersint (da noi reso «non fa menzione degli anni di scarto rispetto alla cifra tonda»): si registra, in effetti, che le indicazioni cronologiche offerte dalle Revelationes sono per lo più approssimate alle centinaia o alle decine.
Capitolo 32 1.
2.
3.
Pietro Comestore integra la narrazione veterotestamentaria con qualche notazione desunta da Glossa interl. Gen 6, 2 − l’identità dei figli di Dio e delle figlie degli uomini, nonché il dettaglio victi concupiscentia («vinti dalla concupiscenza») − e da Glossa ord. Gen 6, 2 − la conseguente nascita dei giganti (dato che anticipa quanto nel testo biblico si legge un paio di versetti oltre: cfr. Gen 6, 4). Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 3, 1 . Quanto alla denominazione di ‘giganti’, il nostro autore sembra qui fraintendere un poco quanto si legge nella fonte: ove pure si menziona la confidentia fortitudinis («eccessiva confidenza nella propria forza») di tali uomini, ma non la si adduce affatto, come vorrebbe Pietro, quale ragione in virtù della quale fu loro attribuito dai Greci il nome di ‘giganti’ (si allude invece a loro imprese simili a quelle compiute dalle creature che i Greci chiamano ‘giganti’). La nutrita citazione da Metodio accorpa in un discorso unitario brevi passi estrapolati da Ps. Method., Revelat. 1-2 (p. 61-63). Tre soli dettagli non trovano riscontro nella fonte: il ritorno di Caino alla sua terra natale; il divieto di mescolarsi avanzato da Adamo mentre ancora era in vita alle parentele di Caino e di Seth; il dato cronologico circa il verificarsi del diluvio all’inizio del terzo millennio. I primi due dettagli sembrano interventi esplicativi intesi
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Note di commento, CAP. 32
ad armonizzare la narrazione offerta da Metodio, guadagnandole coerenza rispetto a quanto già narrato sulla scorta del testo biblico: non si spiegherebbe, altrimenti, come e perché Seth, dopo la morte di Adamo, possa separare la propria parentela da quella di Caino, dal momento che costui era stato allontanato dal paradiso terrestre già molto tempo prima (dopo l’uccisione di Abele: cfr. Gen 4, 16 e qui al cap. 28); ragion per cui, verosimilmente, Pietro Comestore si vede costretto ad postulare il ritorno di Caino e, in aggiunta, un presunto divieto avanzato dallo stesso Adamo ancora in vita. Per il dato cronologico, cfr. forse il già citato Ps. Method., Revelat. 2 (p. 63), ove si dice che «il diluvio delle acque ebbe luogo al termine del secondo millennio» (cfr. al cap. 31, n. 10): sebbene sia labile lo scarto tra le due differenti indicazioni (fine del secondo millennio / inizio del terzo), l’incongruenza fatica comunque a trovare plausibile spiegazione. 4. L’ipotesi per cui i giganti siano stati generati dai cosiddetti daemones incubi (lett. «demoni del sonno») non trova riscontro nelle fonti: cfr. tuttavia Avg., De civ. Dei 15, 23, ove, discutendo sulla possibilità o meno di un’unione carnale tra esseri spirituali e donne umane, è riportata la tradizione secondo cui Silvanos et Panes, quos vulgo incubos vocant, inprobos saepe extitisse mulieribus et earum appetisse ac peregisse concubitum («i Silvani e i Fauni, che comunemente chiamano “incubi”, sono stati spesso malvagi con le donne, e ne hanno bramato e ottenuto l’unione carnale»). Quanto alla derivazione etimologica del termine gigantes («giganti»), Pietro Comestore si esprime in termini poco perspicui, chiamando in causa la magnitudo corporum («la grandezza del corpo») dei giganti stessi e, al contempo, il presunto termine greco per ‘terra’ (a suo dire geos, ma correttamente γῆ, γῆς): la duplice indicazione è chiarita da Isid., Etym. 11, 3, 13-14, ove si osserva che i gigantes sono così chiamati perché i Greci eos γηγενεῖς existimant, id est terrigenas, eo quod eos fabulose parens terra inmensa mole et similes sibi genuerit: γῆ enim terra appellatur, γένος genus («li ritengono γηγενεῖς, vale a dire ‘generati dalla terra’, poiché la loro madre terra, secondo il mito, li avrebbe generati di immensa mole e simili a se stessa: infatti γῆ significa ‘terra’ e γένος ‘generazione’»). Fa luce sull’analogia tra corpo e animo dei giganti Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 46A,
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Note di commento, CAP. 32
che segnala come l’enormitas membrorum («enormità delle membra») dei giganti ne simboleggi la superbiam animorum («superbia degli animi»): sicché, nel nostro testo, andrà intesa in accezione negativa la seconda occorrenza del termine immanitas (da noi reso «abnormità»). 5. È probabile che le osservazioni traggano spunto da Num 13, 23; 3334: esploratori inviati da Mosè giungono in Hebron, dove incontrano tre uomini di altissima statura, figli di tale Enach (nel nostro testo Enachim), che riferiscono poi a Mosè essere uomini de genere giganteo («della stirpe dei giganti»). In modo all’apparenza avulso dal contesto della narrazione, il medesimo passo biblico (v. 23) accenna al fatto che la città di Hebron fu fondata sette anni prima di Tanis (nel nostro testo Thani) in Egitto. Come si apprende da Isid., Etym. 15, 13, 32, a costruire la città di Tanis sarebbero stati i titanes, id est gigantes, et ex nomine suo nuncupaverunt («i Titani, ossia i giganti, e la chiamarono così dal loro nome»): curioso, nonché inspiegabile, il fatto che Pietro inverta la derivazione etimologica, per cui sarebbero stati i Titani a prendere il nome dalla città (la medesima indicazione è ribadita anche a commento di Num 13, 23: cfr. Petr. Comest., Hist. Schol. − PL 198, col. 1228A). 6. La sezione narrativa corrispondente a Gen 6, 3; 5-7 (si rammenti che il v. 4, sulla presenza dei giganti sulla terra, era stato in precedenza anticipato) è ri-organizzata da Pietro Comestore in funzione già intrinsecamente esegetica, facendo uso di un’abile alternanza tra discorso diretto pronunciato da Dio e relativa parafrasi esplicativa. Anzitutto, si riferisce il pentimento di Dio per aver creato l’uomo, a motivo dei peccati commessi da costui (vv. 5-6a): per la chiosa circa l’uso eufemistico del verbo paenitere («pentirsi») in tale contesto, cfr. Andr. S. Vict., Exp. Gen. 6, 6. Si riporta poi l’espressa volontà divina di distruggere l’uomo (v. 7) e, introdotta da un enim («infatti») esplicativo, l’esclamazione a proposito dello spirito divino destinato a non rimanere per l’eternità nell’uomo (v. 3a); sulla scorta di Glossa ord. Gen 6, 3, segue cenno alla fragilità umana e alla possibilità di pentimento concessa all’uomo. Da ultimo, nonché di conseguenza, si riportano le parole pronunciate da Dio a proposito dei 120 anni dell’uomo (v. 3b): da intendersi, come già precisa una breve glossa, in riferimento agli anni a dispo-
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sizione dell’uomo per pentirsi; nel prosieguo del capitolo, Pietro si soffermerà nel dettaglio su quest’espressione, segnalandone tre differenti letture esegetiche. La chiosa si giustifica alla luce di quanto già osservato alla nota precedente, in merito alla ri-organizzazione narrativa operata dal nostro autore con finalità esegetica. Il v. 3, infatti, se letto nella sua interezza e avulso dal contesto dei seguenti vv. 5-7, suggerisce l’idea per cui i 120 anni si riferiscano alla durata dello spirito divino nell’uomo (cfr. v. 3: Dixitque Deus: “Non permanebit spiritus meus in homine in aeternum quia caro est, eruntque dies illius centum viginti annorum”, ossia «Dio disse: “Il mio spirito non rimarrà per l’eternità nell’uomo perché egli è carne, e i suoi giorni saranno 120 anni”»): come invece segnala Glossa interl. Gen 6, 3, per spiritus meus bisogna intendere la indignatio («indignazione») di Dio stesso e, dunque, il dato cronologico sta ad indicare il periodo di durata complessiva dell’ira divina nei confronti dell’uomo, durante il quale è tuttavia concessa all’uomo la possibilità di pentirsi. Tanto per questa proposta esegetica, espressamente attribuita a Girolamo, quanto per la precedente smentita circa l’ipotesi per cui il dato cronologico possa riguardare la durata massima della vita umana, cfr. un estratto da Girolamo riportato da Glossa ord. Gen 6, 3. Cfr. Glossa ord. Gen 6, 3 appunto sotto il nome di Strabone (a tal riguardo, cfr. al cap. 30, n. 1): per la verità, nella fonte non si dice esplicitamente che Dio abbia pronunciato tali parole nel medesimo anno del diluvio, ma lo si deduce con ogni evidenza dall’altra indicazione cronologica che il nostro autore pure riporta. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 3, 2 . L’osservazione trae spunto da Glossa interl. Gen 6, 9. Cfr. Glossa interl. Gen 6, 13. Cfr. Glossa ord. Gen 6, 13: il permesso di mangiare carne, accordato all’uomo, è motivato cioè come conseguenza dello stato in cui la terra versò dopo il diluvio.
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Note di commento, CAP. 33
Capitolo 33 Per la glossa politis («ben rifiniti») e per le altre due lezioni segnalate, cfr. Glossa interl. Gen 6, 14. 2. L’interessante osservazione non trova riscontro nelle fonti. Con ogni evidenza, Pietro Comestore intende qui alludere alla struttura/funzione di questo particolare tipo di imbarcazione, detta archa («arca»), in riferimento al presunto etimo dal verbo arcēre («contenere»): l’archa è infatti undique clausa («chiusa da ogni parte»), appunto per poter arcēre («contenere») quanto sta al suo interno. Allo stesso modo – si suggerisce per analogia – funziona un archonium costruito da un contadino: il termine, che deriva dal medesimo verbo arcēre, è di attestazione rarissima, per lo più tardomedievale; esso designa propriamente un acervus manipulorum, ossia un «cumulo di fascine», sicché si dovrà pensare ad una sorta di «covone», dalla forma conico-piramidale, costruito per contenere le fascine legandole tra loro. 3. Bisogna immaginare, cioè, un uomo in posizione sdraiata. L’intero passo, sull’analogia proporzionale tra dimensioni dell’arca e quelle del corpo umano, è puntualmente mutuato da Glossa ord. Gen 6, 15. 4. Cfr. Glossa ord. Gen 6, 15 cit. alla nota precedente: un estratto da Isidoro, cui il nostro autore attribuisce appunto la citazione. 5. Il rilievo, indipendente dalle fonti, è assai acuto: registrata l’inverosimile sproporzione dell’altezza in confronto alle altre due dimensioni, si avanza l’ipotesi che il dato relativo ai 30 cubiti si riferisca soltanto al corpus (lett. «corpo») della nave. Non è chiaro quale parte della nave intenda designare il generico termine, da noi reso altrettanto genericamente «struttura portante»; non riesce d’aiuto nemmeno la glossa esplicativa id est a fundo usque ad tabulatum («ossia dal fondo al basamento»): forse la cosiddetta ‘chiglia’? 6. Cfr. Glossa interl. Gen 6, 15. L’arca, cioè, ha base rettangolare e forma simile a quella di una piramide; o, meglio, di un tronco di piramide, se è ragionevole intendere così l’espressione, per la verità non molto perspicua, donec in cubito summitas eius perficeretur (lett. «finché la sua sommità si compìva in un cubito»; cfr. Dio a Noè in Gen 6, 16: in cubito consummabis summitatem: lett. «finirai 1.
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Note di commento, CAP. 33
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9. 10.
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la sommità in un cubito»): nel senso che l’arca, salendo verso l’alto, si restringeva sempre più fino alla sommità, che non era a punta, ma il cui spigolo era pari ad un cubito sia in lunghezza che in larghezza; la nostra traduzione rende perciò «fino alla lunghezza di un cubito alla sommità». Per la proprietà di collante indissolubile esercitata dal bitume, cfr. Glossa interl. Gen 6, 14; per la curiosa osservazione sul sangue mestruale quale unico elemento in grado di dissolvere materiali rivestiti di bitume, cfr. Andr. S. Vict., Exp. Gen. 11, 3; per la differente genesi naturale del bitume in Giudea e in Siria, cfr. Isid., Etym. 16, 2, 1. Ulteriori informazioni e/o aneddoti a proposito di tale sostanza saranno offerti ai capp. 44, 46 e 53. Il testo della Vulgata legge coenacula et tristĕga (lett. «sale da pranzo e tristega»): il prestito dal greco tristĕga, -ōrum, sostantivo composto da τρίς («tre volte») e στέγος («copertura», «tetto»), designa propriamente una «abitazione a tre piani». Pietro Comestore ne segnala invece l’etimologia da trica, con ogni probabilità sulla scorta di Andr. S. Vict., Exp. Gen. 6, 16, ove si osserva che tristega dicunt quidam esse mansionum distinctiones secundum earundem mansionum longitudines, quas interclusiones dicere possumus a trica (id est plica) dicta («alcuni sostengono che tristega siano le suddivisioni delle abitazioni secondo la lunghezza delle abitazioni stesse, che possiamo definire ‘partizioni’: da trica, che significa ‘piega’»): pare di capire, cioè, che per tristega si intendano le ‘stanze’ e non i ‘piani’. In latino bicamerata et tricamerata: come segnala Glossa interl. Gen 6, 16, si tratta della resa del testo greco dei Settanta. Per la prima delle due proposte, attribuita ad Agostino, cfr. Glossa ord. Gen 6, 16 (un estratto da Avg., Quaest. in Hept. – Gen. 6), ove si suggerisce l’articolazione dell’arca in tre piani, rispettivamente composti di una, due e tre stanze, senza tuttavia precisare quale funzione sia riservata a ciascuna stanza, né tantomeno la collocazione della porta. Può darsi che il nostro autore abbia, per così dire, ri-adattato allo schema abitativo proposto da Agostino le dettagliate indicazioni ricavate invece dalla seconda ipotesi alternativa, riportata nel prosieguo, di un’arca a cinque piani: cfr. puntualmente Andr. S. Vict., Exp. Gen. 6, 16 (senza, però, alcun riferimento alla sentina). Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 3, 2 .
324
Note di commento, CAP. 33-34
12. Per tutti e tre i dettagli riguardo la finestra dell’arca, cfr. Glossa interl. Gen 6, 16. Vale la pena di rilevare che Pietro Comestore attribuisce a Simmaco la resa diluculum (sostantivo: «albore», «prima luce del giorno»), laddove la fonte legge invece dilucidum (aggettivo: «luminoso», «chiaro», «limpido»): posto che i due termini sono paleograficamente assai facili a confondersi e che gravitano entrambi nel medesimo àmbito semantico, non è da escludere che già il manoscritto della Glossa a disposizione di Pietro leggesse diluculum. Può darsi che sia la resa ebraica meridianum (aggettivo, dal significato di «meridionale», «meridiano»; ma anche «mezzogiorno» ove impiegato al neutro in accezione sostantivata) che quella di Simmaco siano da intendere in senso metaforico, con riferimento alla funzione rischiarante esercitata della finestra. 13. Cfr. Hrab., Comm. in Gen. col. 517B (che, per la verità, attribuisce ad Origene la paternità dell’osservazione): un estratto del passo figura anche in Glossa ord. Gen 7, 14, ove è registrato sotto la sigla Ɍ indicante appunto il nome di Rabano Mauro. La cui auctoritas, in verità, non sembra rivestire un ruolo di particolare rilievo tra le fonti di Pietro Comestore (esiguo anche il numero delle menzioni esplicite del nome Rabanus: sette in totale nell’intera opera, due delle quali nella sezione relativa alla Genesi: qui e, peraltro erroneamente, al cap. 58). L’equivalenza 1 cubito geometrico = 6 cubiti usuali è proposta dai due passi citati in precedenza (cfr. anche, ad es., Glossa interl. Gen 6, 15; Avg., Quaest. in Hept. - Gen. 4; Beda, Gen. 2, 6, 1376); cfr. invece Hvgo S. Vict., Adnot. elucid. col. 46D per l’alternativa 1 cubito geometrico = 9 cubiti usuali e per l’equivalenza 1 cubito usuale = 1,5 piedi.
Capitolo 34 1. 2. 3.
L’osservazione trae spunto da Glossa interl. Gen 6, 18. Cfr. Glossa interl. Gen 7, 7 (a proposito dell’ingresso vero e proprio nell’arca). La notazione altro non fa che anticipare, in una forma peraltro già glossata, quanto nel testo biblico si legge poco oltre in Gen 7, 2: ex omnibus animantibus mundis tolle septena septena masculum et feminam; de animantibus vero non mundis duo duo masculum et fe-
325
Note di commento, CAP. 34-35
minam («di tutti gli esseri viventi puri, préndine sette per ciascuno, sette per ciascuno maschio e femmina; degli esseri viventi impuri, invece, préndine due per ciascuno, due per ciascuno maschio e femmina»). Dal momento che la ripetizione del numerale distributivo potrebbe erroneamente far pensare ad un totale di 14 animali puri (7+7) e di quattro impuri (2+2), Pietro Comestore si premura, sulla scorta di Glossa ord. Gen 7, 2, di sostituire a tali ambigue indicazioni il semplice numero cardinale. 4. Si evidenzia, cioè, la presenza di un anacronismo: cfr. Andr. S. Vict., Exp. Gen. 7, 2. 5. In coda al capitolo, Pietro Comestore allega due quaestiones – l’una sull’inclusione o meno nell’arca degli animali di piccole dimensioni, l’altra sulla presenza o meno di animali in sovrannumero come cibo per quelli carnivori – per entrambe le quali riporta la soluzione avanzata da Agostino: cfr. Avg., De civ. Dei 15, 27, riproposto nella forma (un poco variata rispetto alla fonte diretta) di Glossa ord. Gen 6, 19 e 6, 21.
Capitolo 35 1.
2. 3.
Pietro Comestore riassume qui in modo assai conciso l’ampia sezione, in effetti assai ridondante quanto al contenuto, di Gen 7, 1-11a. Il dettaglio nutu divino («in virtù di un cenno divino») è debitore a Glossa interl. Gen 7, 9. Per il nome ebraico e latino, cfr. Glossa interl. Gen 7, 11; per il nome macedone, cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 3, 3 . Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 3, 3 . Si rileva tuttavia una discrepanza: ove il nostro testo legge in legitimis (lett. «per quanto concerne le attività fissate per legge»), la fonte legge invece in festivitatibus («per quanto concerne le festività»).
326
Note di commento, CAP. 36
Capitolo 36 1. Sono desunte da Glossa ord. Gen 7, 11 sia le due glosse fenestrae
2.
(«squarci») e nubes («nubi») che la nota sull’appropriatezza dell’impiego del termine catharactae («cateratte») in riferimento alle sette foci del Nilo. In aggiunta, Pietro Comestore segnala un altro utilizzo in senso proprio (lat. proprie) del sostantivo, ad indicare cioè i punti del corso del Nilo noti – a suo dire – con il nome di Cathadupla (per la precisione Cathadupa: dal greco κατά, «giù», e δοῦπος, «fragore»; il toponimo è segnalato da Ambr., Exam. 2, 2, 7): si tratta, in sostanza, di ciò che tuttora si usa definire ‘cateratte’ del Nilo (lett. «cascata»: dal verbo greco καταρράσσω, «cadere giù»), ossia i punti in cui il corso del fiume, a motivo della conformazione geo-morfologica del luogo, deve affrontare una serie di dirupi e brevi salti. Sulla scorta della già citata Glossa, Pietro allega anche un utilizzo in senso improprio (lat. abusive) del termine, tuttavia ben differente rispetto a quello riportato dalla fonte, ove si legge invece che catheractae…abusive pro omnibus fenestris ponuntur («impropriamente il termine ‘cateratte’ sta ad indicare qualsiasi tipo di apertura»). Per l’intero excursus aneddotico sull’Olimpo (monte di circa 3000 metri di altezza, sito tra Grecia e Macedonia e ritenuto dagli antichi la sede degli dèi pagani), cfr. Avg., De Gen. contra Man. 1, col. 184 (ma è il solo Pietro Comestore a precisare che a salire sul monte senza spugne furono dei filosofi): Agostino ne tratta a proposito di Gen 1, 21-22, per dimostrare che la creazione dei volatili a partire dall’acqua fu possibile proprio perché l’acqua può essere assimilata all’aria nella sua funzione vitale; la fonte, peraltro, chiarisce quanto nel nostro testo resta implicito, ossia che è l’assenza di vento e pioggia il motivo per cui le lettere disegnate nella polvere restano immobili. A chiunque sia da attribuire (se allo stesso Pietro, o già a qualche fonte intermedia a noi ignota), è degno di nota il re-impiego funzionale dei medesimi aneddoti, a sostegno – così pare di capire – dello scetticismo avanzato poco prima circa la possibilità che le opere umane giungano tanto in alto fin dove giunse l’acqua del diluvio: come a suggerire, cioè, che tali aneddoti dimostrano ap-
327
Note di commento, CAP. 36
punto che così in alto ogni attività umana e la vita stessa dell’uomo sarebbero impossibili a causa dell’assenza di acqua. 3. E che perciò, s’intende, può ben essere verosimile che le acque siano giunte più in alto dei monti: l’osservazione è debitrice a Glossa ord. Gen 7, 20. 4. Per purificare la quale, s’intende, fu necessario che le acque salissero più in alto dei monti. 5. Cfr. Glossa interl. Gen 7, 16. 6. Analoga puntualizzazione in Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 47B. 7. L’intera sezione che qui si conclude (già a partire da «Qui ancora oggi…») è mutuata da Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 3, 5-6 . Tra gli storici pagani menzionati per avere offerto testimonianze sul diluvio e sull’arca, possediamo sommarie notizie soltanto su Beroso (il cui nome figura anche al cap. 44): sacerdote e astronomo-astrologo babilonese (detto ‘il Caldeo’ dalla regione di provenienza, appunto la Caldea), visse tra IV e III sec. a.C. e, avvalendosi di fonti autoctone, compilò in lingua greca una storia di Babilonia in tre libri, dal titolo Βαβυλωνιακά («Storie di Babilonia»), di cui restano frammenti di tradizione indiretta. Nulla sappiamo, invece, di Girolamo l’Egizio, a dire di Pietro autore di un’imprecisata Antichità (la fonte precisa trattarsi di Antichità fenicie). Il nome del terzo autore menzionato è frutto di un patente fraintendimento originatosi nell’àmbito della traduzione del testo di Flavio Giuseppe dal greco al latino: dopo Girolamo l’Egizio, infatti, il testo greco menziona tale Mnasea (di Patara in Licia, vissuto nel III sec. a.C.: fu autore di opere storico-geografiche di cui ci restano pochi frammenti, per lo più di tradizione indiretta) e, immediatamente dopo, Nicolao Damasceno (autore citato anche da Pietro, sempre per tramite di Flavio Giuseppe, al cap. 44, alla cui n. 5 si rimanda per qualche dettaglio su biografia e opere); il testo latino, invece, opera una sorta di crasi tra i due nomi, con annessa storpiatura del primo, originando il nome di tale Manasse Damasceno, figura storicamente mai esistita. Di rado o per nulla attestati altrove i toponimi segnalati, per la verità simili (sebbene un poco storpiati nella grafia) a quelli che compaiono già nel testo greco: ignoriamo quali luoghi essi intendano designare.
328
Note di commento, CAP. 36-37
8. Le due ipotesi sono debitrici a Glossa interl. Gen 8, 7. 9. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 3, 5 . 10. Si osservi l’utilizzo della quaestio in forma diretta (qui introdotta dalla particella nonne: «non è forse vero che…?») per porre un problema di natura testuale. In questo caso, la modalità esegetica trova riscontro già nella fonte: cfr. Glossa ord. Gen 8, 9, ove si avanza analogo interrogativo e si offrono le due soluzioni alternative per cui o le cime dei monti non si erano ancora prosciugate o è da ravvisare nel testo biblico la tecnica narrativa della ricapitolazione (ossia un flashback, in termini correnti). L’impossibilità per la colomba di posarsi non solo sull’acqua, ma anche su luoghi paludosi, è dettaglio che trae verosimilmente spunto da Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 48A, ove si accenna alla probabile persistenza, sulle cime dei monti, di lutum («fango») e di aqua lutulenta («acqua fangosa»).
Capitolo 37 1.
2.
Si rammenti che in Gen 6, 18 (cfr. al cap. 34), in occasione dell’ingresso nell’arca, Dio aveva menzionato separatamente uomini e donne: un implicito divieto – aveva osservato Pietro Comestore – di avere rapporti sessuali durante il periodo del diluvio. Qui, in occasione dell’uscita dall’arca, accade l’esatto contrario, ossia Dio menziona congiuntamente uomini e donne: il rilievo è debitore a Glossa interl. Gen 8, 15. Con riferimento contrastivo rispetto a quanto osservato al cap. 34, Pietro allega un’ulteriore parafrasi esplicativa delle parole pronunciate da Dio, motivandole come un implicito permesso ad avere nuovamente rapporti sessuali. Si conclude qui un ampio excursus, in materia di computo cronologico, per il quale non è dato individuare alcun riscontro nelle fonti. La questione verte sul giorno dell’uscita di Noè dall’arca in relazione al giorno d’entrata: in Gen 7, 11 (cfr. qui al cap. 35) si era collocato l’ingresso nell’arca durante il 600° anno della vita Noè, il 17° giorno del 2° mese; in Gen 8, 13-14 (cfr. in conclusione del cap. 36 e in apertura del presente cap. 37) si colloca l’ordine divino di uscita dall’arca durante il 601° anno della vita di Noè, il 27° gior-
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Note di commento, CAP. 37
no del 2° mese. Pietro Comestore sostiene la tesi per cui tra l’entrata e l’uscita sarebbe trascorso un anno esatto, e ne offre due alternative argomentazioni, a seconda che il computo del numero della luna (da 1 a 28, nell’arco dell’intera fase lunare) sia effettuato su base meramente annuale oppure anche calendariale-settimanale. Le due opzioni si possono così delineare (e si badi che lo stesso Pietro, in chiusura, riassume i termini della questione, esemplificandola sotto il profilo pratico): a) su base annuale: dato il no della luna nel giorno x di quest’anno, aggiungendo 11 si trova il no della luna nel giorno x dell’anno successivo (sebbene Pietro non lo precisi, ciò a motivo della sfasatura tra durata dell’anno solare e dell’anno lunare: 365 vs. 354 giorni); e perciò 17 + 11 = 28, che però il testo biblico approssima a 27, come in genere usa fare nel caso di indicazioni cronologiche comprese tra due estremi temporali; b) su base calendariale-settimanale: dato il no della luna nel giorno x della settimana di quest’anno, aggiungendo 10 si trova il no della luna nel giorno x della settimana dell’anno successivo (a motivo del fatto che, considerando una certa data e procedendo di anno solare in anno solare non bisestili, il giorno della settimana aumenta di uno), e perciò 17 + 10 = 27. 3. In Gen 8, 20 si legge semplicemente che Noè tollens de cunctis pecoribus et volucribus mundis, obtulit holocausta super altare («tra tutti gli ovini e gli uccelli puri, ne prese una parte e li offrì in olocausto sull’altare»). È debitrice ad Andr. S. Vict., Exp. Gen. 7, 2 (a commento delle prescrizioni date da Dio prima dell’ingresso nell’arca) la puntualizzazione per cui ad essere sacrificato è uno solo tra i sette animali puri di ogni specie introdotti nell’arca (cfr. al cap. 34). 4. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 3, 5 . 5. Cfr. Ps. Method., Revelat. 3 (p. 63). 6. La fonte della notizia è ignota. 7. Cfr. Glossa ord. Gen 9, 2. 8. In Gen 9, 5-6 Dio afferma: Sanguinem enim animarum vestrarum requiram de manu cunctarum bestiarum et de manu hominis; de manu viri et fratris eius requiram animam hominis. Quicumque effuderit humanum sanguinem, fundetur sanguis illius («Chiederò conto del sangue della vostra anima alla mano di tutte le bestie e alla mano dell’uomo; alla mano dell’uomo e di suo fratello chiederò
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Note di commento, CAP. 37-38
conto dell’anima dell’uomo. Chiunque avrà versato sangue umano, sarà versato il suo stesso sangue»). Pietro Comestore si limita a riassumere in modo assai conciso il senso di tali parole, spiegandole come il divieto di compiere l’omicidio: cfr. Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 48B (che, a tal proposito, osserva: hic proprie est prohibitio homicidii per poenam quam minatur («si tratta propriamente del divieto di compiere l’omicidio, formulato attraverso la pena che viene comminata»). 9. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 3, 7 . 10. Per il significato simbolico dei due colori, cfr. Glossa ord. Gen 9, 13. 11. Come già al cap. 4, anche qui il nostro autore chiama in causa l’auctoritas di non meglio precisati “santi”: la notizia non trova riscontro nelle fonti a noi note.
Capitolo 38 1.
Non è dato individuare la fonte di tale notizia. Dal momento che si tratta della prima volta in cui il testo biblico menziona la coltura della vite, può darsi che il nostro autore si sia premurato di avanzarne un’ipotesi attendibile circa la genesi, ossia l’addomesticazione di viti in origine selvatiche. 2. Sono desunti da Glossa ord. Gen 9, 21 sia questo parallelo che il precedente dettaglio sull’ignoranza degli effetti provocati dal vino. 3. Il dettaglio è tratto da Andr. S. Vict., Exp. Gen. 9, 22. 4. Cfr. Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 48C. 5. Cfr. Andr. S. Vict., Exp. Gen. 11, 10 (a proposito di un’indicazione cronologica riguardante Sem). Nessun riscontro nelle fonti, invece, per le proposte esegetiche che seguono. 6. La lettura esegetica è mutuata da Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 48D. 7. Quest’altra lettura trae spunto da Andr. S. Vict., Exp. Gen. 9, 26. 8. I popoli pagani, cioè, una volta convertiti alla fede nell’unico Dio, si inserirono a pieno titolo nel corso della storia del popolo ebraico-cristiano. L’incisiva immagine metaforica, di ispirazione botanica, allude tacitamente al passo di Rom 11, 11-24: san Paolo para-
331
Note di commento, CAP. 38-39
9.
gona il popolo d’Israele al tronco di un ulivo domestico da cui, ad un certo punto della Storia, verranno tagliati via alcuni rami (gli Israeliti increduli) e in cui, al loro posto, verranno innestati i rami di un ulivo selvatico (i popoli in origine pagani e poi convertiti). Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 3, 9 . Secondo la concezione antica, già babilonese, l’intera storia dell‘universo è scandita in cicli periodici di formazione e distruzione, regolati da eventi di natura astrale: nella fattispecie, il cosiddetto ‘grande anno’ (dal gr. μέγας ἐνιαυτός; lat. magnus annus) è un ciclo cosmico che ha termine nel momento in cui gli astri tornano ad occupare la posizione che avevano all’inizio di quel ciclo, inaugurandone perciò uno nuovo.
Capitolo 39 1.
La precisa ripartizione numerica delle generazioni discese da ciascuno dei tre figli di Noè è desunta da Glossa ord. Gen 10, 1; la tripartizione territoriale, invece, da un altro estratto che Glossa ord. Gen 10, 1 riporta sotto il nome di Alcuino (dal suo commentario alla Genesi: cfr. Alcuin., Interr. et respons. in Gen. col. 526BC), esponente di prim’ordine della cultura europea nell’VIII secolo e colui che maggiormente contribuì – incaricato da Carlo Magno – alla diffusione della riforma carolingia, rivitalizzando la cosiddetta ‘Scuola palatina’ di Aquisgrana, centro di aggregazione dei più valenti intellettuali dell’epoca. 2. Per ciascuno dei tre figli di Noè, cfr. rispettivamente Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 6, 1 , 1, 6, 2 e 1, 6, 4 . 3. Cfr. rispettivamente Glossa ord. Gen 10, 9 e Glossa interl. Gen 10, 9. 4. Per la verità, Ps. Method., Revelat. 3 (p. 64) legge così: Hi autem Nebroth ex filiis discendebat hiroum; qui fuit filius Sem et ipse primus regnavit super terram («Tale Nemroth discendeva dai figli degli eroi; fu figlio di Sem e per primo regnò sulla terra»). Con ogni evidenza, l’indicazione ex filiis hiroum è stata malinterpretata (impossibile dire se già nel manoscritto di Metodio a disposizione di Pietro o da quest’ultimo): nella fattispecie, il genitivo plurale hiroum («degli eroi») sembra essere stato scambiato per il genitivo
332
Note di commento, CAP. 39
5.
di un presunto nome proprio di persona, che suona Hiro (va detto, tuttavia, che nel nostro testo il genitivo Hirou, «di Hiro», è emendazione di Sylwan (a fronte di hirori P: hyrom Tr: hiron W: hyrou To: hyron T); di conseguenza, la relativa qui fuit filius Sem è stata intesa in riferimento al presunto nome proprio del padre di Nemroth («… di Hiro, figlio di Sem»). Come si comprenderà dalla citazione che segue, si tratta di Ionitho (Ionithus): costui – nella grafia lievemente variata di Ioathon – è il protagonista, insieme a Nemroth, del cosiddetto Liber Nemroth. Si tratta di un’opera latina, di datazione e ambiente di provenienza controversi, conservata in soli tre manoscritti e due frammenti, tuttora inedita ad eccezione che per brevi estratti testuali: narra di come l’astronomo Nemroth, grazie ad un inesausto e virtuoso anelito alla conoscenza, giunga a comprendere l’ordine del mondo e a postulare l’esistenza di un creatore, di volta in volta condividendo le proprie dottrine e scoperte con il discepolo Ioathon. Lo studioso Peter Dronke discute il possibile impiego del Liber Nemroth da parte di Dante quale fonte per la descrizione, dalle tinte fortemente negative, del gigante Nembrotto nella Commedia (cfr. Inf. XXXI, vv. 46-81): cfr. P. Dronke, Dante e le tradizioni latine medievali − trad. it. M. Graziosi, Bologna, 1990, p. 77-81 e 173-190. Lo studioso si mostra scettico anche soltanto circa la possibilità che Dante fosse a conoscenza dell’opera e ipotizza, al contrario, che proprio l’Historia Scholastica del nostro Pietro Comestore possa essere stata una fonte di riferimento per Dante; osserva, inoltre, che la trattazione di Pietro deriva in parte da quella dello Ps. Metodio (cfr. alla nota seguente), ove la figura di Nemroth non è caratterizzata da aspetti negativi, e azzarda dunque l’ipotesi che «le aggiunte di Pietro che mirano a creare questo effetto [scil. di una descrizione in negativo] derivano probabilmente, direttamente o indirettamente, da fonti ebraiche». Lo stesso Dronke rileva infine l’incongruenza – senza tuttavia avanzarne spiegazione – per cui, mentre nel Liber è Nemroth a istruire il suo discepolo Ioathon, in Pietro Comestore (sulla scorta di Metodio) il rapporto tra i due si inverte: cfr. qualche riga più avanti nel nostro testo.
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Note di commento, CAP. 39
6. La nutrita citazione da Metodio accorpa brevi passi estrapolati da Ps. Method., Revelat. 3 (p. 63-64). Sulla peculiare scansione cronologica adottata da Metodio, ossia per millenni, cfr. ai capp. 26 e 31. 7. Ignoriamo da quale fonte Pietro Comestore abbia derivato la notizia per cui Ionitho sarebbe stato dotato di capacità profetica e, in particolar modo, avrebbe profetizzato a Nemroth la successione dei quattro regni. Uno spunto analogo, ma senz’altro più generico e in parte incongruente rispetto a quanto si legge nel nostro testo, è offerto da Ps. Method., Revelat. 3 (p. 65): Scripsit ergo Ionitus epistolam ad Nebroth ita, quia regnum filiorum Iapheth hic incipiet delere regnum filiorum Cham. Haec autem regna primo apparuerunt in terra et post haec didicerunt omnes gentes constituere sibi regnum post regnum («Ionitho scrisse perciò una lettera a Nemroth indicandogli che il regno dei figli di Iaphet avrebbe allora iniziato a distruggere il regno dei figli di Cam. Questi furono i primi regni che comparvero sulla terra, e poi ogni popolo imparò a fondarsi un regno l’uno dopo l’altro»). 8. L’intera sezione, sulla modalità in cui Nemroth riuscì ad ottenere il regno, non trova riscontro nelle fonti. Si osservi che è qui anticipato il nome del luogo in cui Nemroth regnò, ossia Babilonia (cfr. nel dettaglio al cap. 40). L’impressione è che Pietro Comestore intenda offrire una lettura apologetica rispetto all’indicazione segnalata da Metodio, secondo cui Nemroth discenderebbe dalla stirpe di Sem (e non invece da Cam): è tratto tipico del modus operandi di Pietro il tentativo di conciliare con l’auctoritas per eccellenza, ossia con il testo biblico, dati incongruenti eventualmente reperiti altrove. 9. L’intero paragrafo conclusivo è debitore a Glossa ord. 1Cron 1, 19, ove si attribuisce la paternità delle informazioni (compresa, si badi, la menzione dei due capi che iniziano a regnare sulle altre due stirpi) appunto alle Questioni sulla Genesi di Filone di Alessandria: attivo tra I sec. a.C. e I sec. d.C., Filone fu tra i più autorevoli esponenti della comunità ebraica alessandrina; notevole influenza sull’esegesi cristiana dei primi secoli esercitò il suo approccio al testo sacro, che prevedeva l’interpretazione in chiave allegorica della Legge ebraica, anche attraverso un ampio utilizzo della cultura elaborata in ambiente ellenistico.
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Note di commento, CAP. 40
Capitolo 40 1.
Le precise coordinate spazio-temporali, utili ad inquadrare l’episodio biblico, integrano quanto si legge in Gen 11, 2 (la partenza da oriente; l’arrivo nella piana di Sennaar) con i dati offerti da Glossa ord. 1Cron 1, 19 (il riferimento alla morte di Noè; il ritrovo in uno stesso luogo) e da Beda, De temp. rat. 10, 13 (il dettaglio «muovendo i propri passi»). 2. Analoghe motivazioni sono addotte da Glossa ord. Gen 10, 8 e 11, 3, nonché da Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 49B. Sulla brama di dominio di Nemroth, cfr. già al cap. 39. 3. Si rileva cioè l’impiego in senso non letterale – ma, per così dire, eufemistico – del verbo «vedere» in tale contesto. 4. Il dettaglio, che esplicita l’interlocutore cui sono rivolte le parole di Dio, è desunto da Andr. S. Vict., Exp. Gen. 11, 7. 5. Nel testo biblico (Gen 11, 7) il verbo adoperato è audire, ossia «udire»: evidente eufemismo cui il nostro autore, sulla scorta di Glossa interl. Gen 11, 7, sostituisce il più calzante intelligere, «comprendere». 6. Cfr. Glossa ord. Gen 11, 8. Si puntualizza qui l’effettiva modalità in cui si esplica l’intervento divino: secondo la terminologia moderna, si direbbe che a mutare non è il patrimonio fonetico (in latino voces, da noi reso «suoni») che sta alla base di tutte le lingue, bensì i meccanismi morfologici e semantici (in latino modi et formae dicendi, «i modi e le forme di esprimersi»), che da questo momento iniziano ad agire su quel medesimo patrimonio in modo diverso presso i singoli popoli. 7. L’ampia sezione che qui si conclude è interamente mutuata da Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 4, 3 -1, 5, 1 : Flavio Giuseppe, cioè, non soltanto è fonte ‘diretta’ delle prime notizie riportate, ma anche la fonte ‘indiretta’ da cui il nostro autore desume le citazioni attribuite alla Sibilla e a tale Esizio. La Sibilla era considerata dagli antichi l’ispiratrice profetica dei cosiddetti Oracoli Sibillini, una raccolta di profezie in esametri greci, la cui redazione si mostra stratificata nel tempo: il nucleo originario, che includeva testi di ispirazione pagana e legati all’ambiente dei templi di culto, accolse in séguito anche testi di matrice giudaico-ellenistica; il tutto fu poi
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Note di commento, CAP. 40
rielaborato nei primi secoli del cristianesimo con finalità apologetica: reinterpretare quelle stesse profezie in modo tale che si prestassero a prefigurare le vicende storiche della religione cristiana. Merita rilevare che, nella fonte, la sezione «Ma gli dèi […] significa ‘confusione’» è parte integrante della citazione dalla Sibilla: il nostro autore la anticipa, sicché tali notizie finiscono per sembrare attribuite allo stesso Flavio Giuseppe; sebbene di per sé inspiegabile (forse già nel manoscritto-fonte di Pietro Comestore), la trasposizione vale a giustificare – in virtù del retroterra ideologico pagano degli Oracoli cui si è accennato – il riferimento ad imprecisate divinità. L’autore che Pietro menziona con il nome di Esitius (da noi reso «Esizio») è forse lo storico greco Estieo, di cui poco o nulla sappiamo: autore di non conservate Φοινικικά («Storie fenicie»), di cui restano frammenti di tradizione indiretta, visse probabilmente in epoca tardo-ellenistica, se non già romana. Quanto alla grafia del nome proprio, si osservi che il testo latino di Flavio Giuseppe legge Estius («Estio») e quello greco Ἑστιαῖος («Estieo»): non è possibile stabilire se a leggere Esitius fosse già la fonte di Pietro o sia stato costui ad equivocare un corretto Estius. Peraltro, il nome Esitius non risulta attestato altrove: forse grafia alternativa in luogo del più comune Esichius («Esichio»), sicché la corruttela Estius > Esitius = Esichius si configurerebbe – in qualunque punto della tradizione sia da collocare – come una banale lectio facilior. 8. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 6, 2 , ove però si legge Iudadas in luogo di Iuda: non è possibile precisare a chi sia da attribuire l’innovazione Iudadas > Iuda (cfr. quanto già osservato, alla nota precedente, a proposito della lezione Esitius); si potrebbe trattare o di un errore involontario per aplografia o di una consapevole correzione del nome proprio Iudada, in effetti poco comune, nel più consueto Iuda. 9. Il testo di Gen 10, 11 legge de terra illa egressus est Assur («da quella terra uscì Assur»): Pietro Comestore riporta la citazione sostituendo per chiarezza al dimostrativo illa il suo diretto referente, appunto Sennaar, come esplicitato da Glossa interl. Gen 10, 11. 10. Le due proposte esegetiche in merito a Gen 10, 11 – ossia all’identificazione di tale Assur, soggetto della frase, da cui dipende il senso complessivo della frase stessa – sono allineate ciascuna ad una di-
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Note di commento, CAP. 40
versa fonte: a) Assur = figlio di Sem: cfr. Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 49C; le notizie di carattere storico-biografico su Assur sono integrate sulla base di Isid., Etym. 14, 3, 10; b) Assur = regno degli Assiri: cfr. Glossa ord. Gen 10, 11. In questa seconda ipotesi, il nome Assur sarebbe cioè impiegato in chiave metonimica, sicché anche il concetto di uscita veicolato dal verbo sarebbe da intendersi, metaforicamente, ad indicare la derivazione-origine del regno assiro da quello babilonese. Nascita del regno assiro che, tuttavia, si colloca molto tempo dopo rispetto all’epoca di cui il testo biblico sta trattando, ossia quella dei discendenti diretti di Sem: ragion per cui Pietro Comestore puntualizza che l’evento è da collocarsi all’epoca di Sarug bisnonno di Abramo, vale a dire ben cinque generazioni dopo Assur figlio di Sem (come se Gen 10, 11 anticipasse un evento futuro; cfr. anche infra: le prime conquiste territoriali in Assiria, ad opera di Belo, ebbero luogo appunto «all’epoca di Sarug»). 11. Da qui fino al termine, il capitolo ospita una serie di svariate notizie sulle vicende storico-politiche del regno babilonese. Questo dettaglio sulla durata complessiva del dominio di stirpe camita sul regno (si rammenti che Nemroth e Chus sono rispettivamente nipote e figlio di Cam) si direbbe mutuato da Ps. Method., Revelat. 4 (p. 65) non senza sovrainterpretarne (o malinterpretarne?) il dettato anacolutico e poco perspicuo sotto il profilo sintattico-grammaticale: Igitur Nebri, expletam iam tertiam chiliadam annorum, anno VIIIo quarte chiliadis semper pugnabant ad invicem utrumque (sic!) regna, et devictum est regnum Aegyptiorum a regno Nebroth, et obtinuit potentatum (sic!) regnum Babillonis in semine Nebroth usque ad Chuzimisdem («Dunque i discendenti di Nebroth (?), ormai conclusosi il terzo millennio, nell’ottavo anno del quarto millennio, entrambi i regni combattevano sempre tra loro, e il regno degli Egizi fu sconfitto dal regno di Nebroth, e [sogg?] ottenne il potentato (?) regno di Babilonia nella stirpe di Nebroth fino al discendente di Chus»). 12. Il nutrito excursus concerne l’espansione territoriale del regno babilonese. Mentre alla conquista dell’Egitto si accenna soltanto, ampio spazio è riservato alla conquista dell’Assiria, anche con il proposito di fare ordine tra due discordanti tradizioni storiografiche (menzionate genericamente come quaedam historiae… aliae: «alcune
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Note di commento, CAP. 40-41
narrazioni storiche… altre»), delle quali l’una colloca l’inizio del regno assiro all’epoca di Belo e l’altra all’epoca di suo figlio Nino, entrambi mitici re assiro-babilonesi: per la verità, le fonti sono concordi nell’indicare Belo quale primo re assiro (cfr. ad es. Avg., De civ. Dei 18, 2; Isid., Etym. 8, 11, 23; Hugo S. Vict., Chron. − Paris, BnF, lat. 15009, f. 5v); ignoriamo di quale testo rappresentante dell’altra tradizione il nostro autore potesse disporre. In ogni caso, vale la pena di notare come egli si mostri incline – secondo un procedimento che gli è consueto – ad accogliere entrambe le proposte, sostenendone le ragioni: le basi della conquista furono gettate da Belo; l’ampliamento di queste prime conquiste fu invece opera di suo figlio Nino. 13. Le informazioni storico-biografiche su Cam-Zoroastre, che qui si dice essere stato sconfitto da Nino, sono desunte da Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 49C-D; la puntuale qualifica di inventor magicae artis («inventore dell’arte magica») si legge in Isid., Etym. 9, 2, 43. Il profeta Zoroastre è tradizionalmente ritenuto il fondatore dello Zoroastrismo; le sette arti liberali sono le discipline portanti del sapere medievale, articolate nei due gradi di insegnamento progressivi noti con i nomi di Trivio (le discipline di ambito letterario: grammatica, retorica, dialettica) e Quadrivio (le discipline di ambito scientifico: aritmetica, geometria, musica, astronomia). 14. La digressione a sfondo eziologico, sull’origine del culto universale degli idoli a partire dal culto tributato da Nino ad un’immagine del defunto padre Belo, accorpa in un tessuto narrativo unitario singole informazioni estrapolate da passi contigui dell’opera di Isidoro: cfr. Isid., Etym. 8, 11, 23-24; 26.
Capitolo 41 1.
Si conclude qui un’ampia sezione esegetica in merito ad un’incongruenza nella cronologia biblica. Nella fattispecie, l’indicazione di Gen 11, 10 (riportata ad litteram nella frase di apertura del capitolo) si mostra incongruente rispetto ai dati offerti dai due passi precedenti di Gen 5, 32 e Gen 7, 6, incrociando i quali l’età di Sem due
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Note di commento, CAP. 41
2.
3.
anni dopo il diluvio, ossia quando generò suo figlio Arfaxat, risulterebbe pari a 102 anni (e non a 100, come invece da Gen 11, 10). Le proposte risolutive sono due: a) essendo consuetudine della Sacra Scrittura arrotondare le cifre, l’incongruenza è soltanto apparente: analoga spiegazione è offerta da Glossa ord. Gen 11, 10; b) suggerimento di leggere il testo di Gen 11, 10 come se l’espressione finale post diluvium («dopo il diluvio») fosse, per così dire, sottintesa anche nella prima parte della frase. Va detto che la logica di questa seconda soluzione interpretativa, che non trova riscontro nelle fonti, riesce sfuggente: la nostra impressione è che si intenda ravvisare nella frase di Gen 11, 10 quel particolare tipo di costrutto temporale che, in termini tecnici, si definirebbe un cum inversum: il rapporto logico-temporale che corre fra proposizione reggente e subordinata temporale risulta invertito (inversum) rispetto a quello consueto, sicché è la reggente ad ospitare lo sfondo temporale («Sem aveva cento anni»), mentre l’evento logicamente principale, nuovo e inatteso, è quello contenuto nella temporale («quando generò Arfaxat due anni dopo il diluvio»). Come se, cioè, il senso di Gen 11, 10 fosse: Sem aveva cento anni (sottinteso: sùbito dopo il diluvio), quand’ecco che, due anni dopo il diluvio, generò Arfaxat. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 6, 5 . La patente incongruenza rispetto al testo biblico è addebitata ad un (presunto) errore da parte dello scriptor, tecnicamente il «copista»: analoga osservazione filologica ai capp. 76 e 92. La sezione che qui prende avvio ha per oggetto la discendenza di Sem: Pietro Comestore ne menziona i singoli membri, offrendo all’occorrenza qualche ulteriore dettaglio che li riguardi. Davvero bizzarra risulta la precisazione per cui Sale sarebbe chiamato, nel Vangelo di Luca, con il nome Caina: in Lc 3, 35-36, nel contesto della genealogia di Cristo, Caina è sì menzionato, ma quale padre di Sale. Il punto è che l’esposizione di tale genealogia presenta in Luca due tratti peculiari: segue un criterio a ritroso nel tempo (e non, come si usa in genere, progressivo dal capostipite in poi), sicché Sale è menzionato prima di Caina (e non dopo); esprime il rapporto “X figlio di Y” mediante la formula “X qui fuit Y”, ove il nome proprio che compare come Y è un patronimico al caso genitivo (cfr. Lc 3, 35-36: Sale qui fuit Cainan: «Sale che fu figlio di Caina»). Si
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Note di commento, CAP. 41
4. 5.
6.
7. 8. 9.
tratta cioè di una formula decisamente equivocabile: dal momento che i nomi ebraici sono in genere indeclinabili, può darsi che Pietro abbia erroneamente inteso il nome proprio Y come un nominativo («Sale, che fu/ebbe nome Caina»). Che il dettato di Luca si prestasse ad equivoci, riesce confermato da Andr. S. Vict., Exp. Gen. 11, 10 (anch’esso a commento della genealogia di Sem), ove si legge che Sale secundum Lucam habuit filium nomine Cainan, quem posuit in generatione Christi («Sale, secondo Luca, ebbe un figlio di nome Caina, che Luca incluse nella genealogia di Cristo»): lo stesso Andrea malinterpreta infatti il passo di Luca, sostenendo che Caina sia figlio di Sale, e non viceversa come richiesto dalla genealogia a ritroso. Quanto alla fondazione della città di Salem (antico nome di Gerusalemme: cfr. al cap. 46) ad opera di Sale, cfr. Honor. Avg., De imag. mundi 3, col. 166B. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 6, 4 . Cfr. Avg., Quaest. in Hept. – Gen. 24 (o analogamente De civ. Dei 16, 3). Arduo stabilire se qui Agostino sia citato per via diretta o mediata da Glossa ord. Gen 10, 24: sebbene infatti l’edizione della Glossa di cui disponiamo (Turnhout, 1992) riporti il passo senza la sigla dell’auctoritas di riferimento, può darsi che questa figurasse invece nell’esemplare della Glossa utilizzato da Pietro Comestore. Cfr. Glossa interl. Gen 10, 25, a commento del passo biblico in cui, nel contesto della genealogia di Sem, si dice che Phalec fu così chiamato appunto «perché alla sua epoca fu divisa la terra». La medesima spiegazione è avanzata da Avg., De civ. Dei 16, 11. Le osservazioni sono debitrici a Glossa ord. Gen 11, 26. Come già al cap. 31 per la ‘prima età’, Pietro Comestore segnala qui la durata complessiva della ‘seconda età’ (dal diluvio fino all’epoca di Thare o, più precisamente, fino alla nascita di Abram) in relazione ai dati riportati da alcune fonti. Per quanto concerne il testo greco dei Settanta e quello ebraico, il computo si effettua in modo analogo a quanto già osservato per la ‘prima età’ (cfr. al cap. 31, n. 10): prescindendo da lievi discrepanze numeriche imputabili alla tradizione testuale, il dato complessivo si ricava dalla somma delle età in cui ciascun componente della genealogia elencata in Gen 11, 12-26 (da Arfaxat a Thare, padre di Abram) generò il proprio discendente, con l’aggiunta dei 2 anni trascorsi dal diluvio alla nascita
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Note di commento, CAP. 41
10. 11.
12. 13.
di Arfaxat da Sem (cfr. Gen 11, 10). Secondo Metodio la ‘seconda età’ annovererebbe invece 1000 anni (in latino cilias: cfr. al cap. 26, n. 9): ciononostante, la fonte non offre alcun dato simile né consente di ricavarlo dall’incrocio di altri dati. Da ultimo, l’indicazione offerta da Flavio Giuseppe: il nostro autore si esprime in termini poco perspicui, sostenendo che, secondo Flavio Giuseppe, tot anni (lett. «un tale numero di anni») – da intendersi, pare di capire, in riferimento all’ultimo dato appena citato, ossia 1292 anni – siano trascorsi fino alla nascita di Thare; e che tuttavia la ‘seconda età’ – e questo sembra un intervento dello stesso Pietro a rettificare l’affermazione attribuita alla fonte – si estende fino alla nascita di Abram (e non di Thare). Può darsi che il nostro autore abbia qui presente Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 6, 5 : … Thares, qui fuit pater Abraham. Hic autem decimus quidem est a Noe. Secundo vero anno et nonagesimo supra ducentos post diluvium natus est («… Thare, che fu il padre di Abramo. Quest’ultimo è il decimo in linea di discendenza a partire da Noè. Nacque 292 anni dopo il diluvio»). Ma anche ammesso, come pure è possibile, che Pietro (o già il suo manoscritto-fonte) leggesse qui 1292 in luogo di 292, è evidente che la ‘seconda età’ non vi è affatto menzionata e che, in ogni caso, il dato è riferito proprio alla nascita di Abram (e non di Thare, come invece Pietro attribuirebbe a Flavio Giuseppe). Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 6, 5 . La tradizione ebraica, che lega il nome della città ad un episodio dell’infanzia di Abram e Aram, è desunta da Glossa ord. Gen 10, 28. Si osservi come il nostro autore la qualifichi, senza mezzi termini, dotata di scarso credito: a differenza di quanto accade altrove, il verbo introduttivo impiegato non è il neutro tradere («tramandare») o dicere («dire»), bensì il connotativo fabulari («favoleggiare»). Analoga motivazione è addotta da Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 6, 5 . L’adozione di Lot da parte di Abramo è segnalata da Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 7, 1 . Può suonare sorprendente leggere qui indicata con il nome di Sarai la sorella di Lot data in sposa ad Abram, mentre poco prima si erano menzionati Lot, Iesca e Melcha come i tre figli di Aram; la medesima incongruenza risulta anche dall’incrocio dei dati offerti da Gen 11, 27-30. La discrepanza è però soltanto apparente, essendo Sarai e Iesca la stessa persona: cfr. ad es. Glossa
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Note di commento, CAP. 41-42
ord. Gen 11, 29, ove si puntualizza che Aram […] duas filias genuit Melcham et Sarai, cognomento Jescham («Aram generò due figlie: Melcha e Sarai, il cui secondo nome è Jescha»). Peraltro, Agneta Sylwan registra nell’apparato critico che, se la prima redazione del testo legge Iescam, lezione accolta a testo dall’editrice, le famiglie di manoscritti testimoni a vario titolo della successiva redazione leggono invece Iescam que et Sarai («Iesca, detta anche Sarai»): anche Pietro Comestore sarebbe dunque intervenuto, sia pure in un secondo momento, a sciogliere la potenziale ambiguità sottesa al testo.
Capitolo 42 1. Simile dettaglio compare in Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 6, 5 .
2.
3.
La questione discussa, che trae spunto dal nome della città di Aran/ Charan, concerne la traslitterazione dall’ebraico al greco dei termini che in ebraico presentano un’aspirazione sia prima che dopo la lettera a: poiché in greco tale sequenza di suoni non esiste, il testo greco dei Settanta rende la doppia aspirazione con ch (ebr. hah > gr. ch; si veda l’esempio a seguire: Haham > Cham). La medesima osservazione si legge in Glossa ord. Gen 9, 18 (un estratto da Hier., Hebr. quaest. in Gen. 9, 18 [p. 13, l. 20-27]) a commento del nome Cham; il concetto è invece esemplificato in relazione al nome Rachab (cfr. infra anche nel nostro testo) in Petr. Lomb., Comm. in Psalm. 86, col. 808B. Quanto alle varianti grafico-fonetiche segnalate sùbito dopo, ossia Oreb/Choreb (altro nome del Monte Sinai) e Raab/Rachab (nome di una prostituta più volte menzionata nel testo biblico), sembrerebbe trattarsi di un rilievo interno alla tradizione latina medesima: Pietro Comestore si premura cioè di avvertire che simili termini possono trovarsi scritti in due differenti modi, vale a dire in modo più aderente alla traslitterazione greca (cioè con ch) oppure alla lingua latina (cioè senza ch, sequenza grafico-fonetica che in latino non esiste). Per l’etimologia del toponimo Mesopotamia, cfr. Andr. S. Vict., Exp. Gen. 48, 7: Nam ‘mesos’ medius, ‘potamos’ fluvius dicitur («Infatti mesos significa ‘in mezzo’ e potamos ‘fiume’»). Il nostro autore glossa però aqua («acqua») la seconda parte del composto: può
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Note di commento, CAP. 42-43
darsi che il dettato di Andrea sia stato volontariamente modificato, per meglio sottolineare il confronto poi proposto – a titolo esemplificativo di una simile categoria semantica di toponimi – con il nome della città di Aquileia, la cui derivazione etimologica (Aquilegia < aquis ligata) non trova tuttavia alcun riscontro nelle fonti.
Capitolo 43 1.
2.
Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 7, 1 . La citazione può giustificarsi in duplice funzione: rilevare l’incongruenza per cui si dice che Abram a quell’età abbandonò la Caldea (ossia la terra di Ur), e non Aran (come invece risulta da Gen 12, 4); avvalorare, per mezzo della concorde testimonianza di un’altra fonte, un dato anagrafico la cui esegesi letterale, cui sarà dedicata la sezione di capitolo che segue, è assai discussa e variamente interpretata. Si conclude qui un’ampia e articolata sezione esegetica in merito ad un problema di cronologia relativa: incrociando i precedenti dati di Gen 11, 26 (Thare genera Abram all’età di 70 anni) e di Gen 11, 32 (Thare muore all’età di 205 anni in Aran), l’età di Abram dopo la morte di Thare risulterebbe pari a 135 anni, dato anagrafico che appare incongruente con quello segnalato da Gen 12, 4 e riportato dal nostro autore all’inizio del capitolo (Abram aveva 75 anni quando partì da Aran). La discrepanza può risolversi in tre differenti modi: a) ipotizzando, come già osservato al cap. 41, che Thare quando generò Abram abbia avuto più dei 70 anni indicati da Gen 11, 26; b) ipotizzando che Gen 12, 4 sottenda la tecnica narrativa della «ricapitolazione» (un flashback, in termini correnti): Abram sarebbe uscito da Aran quando ancora il padre era vivo (e precisamente quando costui aveva 145 anni, e Abram appunto 75: è fatta salva perciò l’ipotesi che Thare abbia generato Abram a 70 anni); Dio avrebbe parlato ad Abram durante il viaggio verso la Mesopotamia (s’intende, cioè, tra l’uscita da Ur dei Caldei e l’arrivo in Aran) per dissuaderlo dal fare ritorno alla propria terra; c) attribuendo credito alla tradizione ebraica secondo cui: Thare avrebbe generato Abram a 70 anni; Abram sarebbe uscito da Aran dopo la morte del padre; Abram all’uscita da Aran avrebbe avuto più dei 75 anni segnalati da
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Note di commento, CAP. 43-44
3.
Gen 12, 4; quest’ultimo dato può tuttavia spiegarsi alla luce della consuetudine di computare l’età di Abram dal momento in cui riuscì a scampare, grazie all’aiuto divino, dal fuoco dei Caldei in Ur. La soluzione b) è attribuita da Pietro Comestore tout court ad Agostino: essa attinge in verità a due passi riportati dalla Glossa sotto il nome di Agostino (Glossa ord. Gen 11, 31 e 12, 1) e ad un altro breve passo riportato sotto il nome di Strabone (Glossa ord. Gen 12, 1; sull’attribuzione di tale paternità, cfr. al cap. 30, n. 1). Si osserva dunque l’attitudine – non inusuale – ad estrapolare qua e là i concetti essenziali che le fonti avanzano in merito ad un dato problema testuale, accorpandoli in un nuovo e originale discorso: l’esito complessivo dell’operazione finisce per imprimere ai singoli concetti una logica consequenziale che non è dato ravvisare nella fonte. Anche la lettura c) attinge ad un estratto geronimiano (Glossa ord. Gen 12, 4) e ne rielabora poi i nuclei concettuali secondo l’occorrenza . Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 6, 5 . Nel testo di Flavio Giuseppe, il legame logico con quanto precede è evidente e rigoroso, dal momento che l’osservazione segue immediatamente alla notizia della morte di Thare a 205 anni; non altrettanto può dirsi nel caso del nostro testo: sfugge il motivo per cui Pietro Comestore non abbia collocato tale osservazione alla fine del cap. 42.
Capitolo 44 1.
2.
La glossa è intesa a rilevare l’uso metonimico del termine «anime» e l’uso non letterale del verbo «fare» in tale contesto. L’intervento esplicativo trova puntuale riscontro nella tradizione esegetica ebraica: così Shereshevsky, ‘Hebrew traditions’, p. 278. Le informazioni geografico-toponomastiche offerte dal nostro autore figurano in svariate fonti: cfr. Glossa interl. Gen 12, 6 e Andr. S. Vict., Exp. Gen. 12, 6 (il dato sulla città di Sichem; le differenti designazioni della Valle Illustre); Isid., Etym. 13, 19, 3-4; 6 (anche qui le differenti designazioni della Valle Illustre; la spiegazione del toponimo Mar Morto); Fretell., Loc. sanct. 10-11 (il toponimo Mare del Diavolo con relativa spiegazione; il dettaglio relativo alla presenza di allume; l’appellativo ‘giudaico’ in riferi-
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Note di commento, CAP. 44-45
mento al bitume). Ulteriori dati sulla regione geografica in oggetto saranno offerti da Pietro Comestore al cap. 53. 3. Entrambe le citazioni sono mutuate da Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 7, 1-2 . Sulla figura di Beroso, cfr. al cap. 36, n. 7. 4. La notizia del soggiorno di Abram in Damasco (in latino Habitavit autem in Damasco) segue all’osservazione sulla reticenza del testo biblico a proposito del luogo di destinazione di Abram: ciononostante, il nesso logico che Pietro Comestore istituisce tra i due passaggi riesce poco chiaro, anche in conseguenza del valore ambiguo della congiunzione autem. La nostra scelta di intenderla – secondo un modulo tutt’altro che estraneo all’usus scribendi dell’autore – come semplice formula di trapasso (e perciò di ometterla nella traduzione: «Uno dei luoghi in cui Abram abitò fu Damasco») procede da una considerazione di ordine concettuale: Damasco si trova ben a nord della regione di Bethel, da dove Abram si sposta verso sud (cfr. Gen 12, 8-9), sicché attribuire ad autem un valore rigorosamente avversativo rispetto a quanto precede (come fosse: la Genesi tace dove Abram si sia recato avanzando verso sud, ma/ eppure risulta che egli abitò in Damasco) comporterebbe una macroscopica incongruenza topografica. 5. Le informazioni relative al soggiorno di Abram nella città di Damasco sono tratte da Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 7, 2 . Il testo di Flavio Giuseppe è dunque anche fonte che veicola la citazione da Nicolao Damasceno: storico greco, originario di Damasco e attivo in epoca augustea, fu autore di una Storia Universale in 144 libri, di una Vita di Augusto e di una raccolta di aneddoti paradossografici nota con il titolo latino di Mirabilia («Cose straordinarie»), opere di cui restano soltanto frammenti di tradizione indiretta.
Capitolo 45 1. 2.
Analoga formulazione delle ragioni che inducono Abram a mentire in Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 8, 1 . Le conseguenze del desiderio del Faraone (punizioni divine, attività e responso dei sacerdoti) sono debitrici a Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 8, 1 .
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Note di commento, CAP. 45-46
3.
Sono qui accorpate due distinte indicazioni, relative alla ricchezza accumulata da Abram, che nel testo biblico si leggono rispettivamente in Gen 13, 2 e in Gen 12, 16. Si osservi che, per la verità, il dato di Gen 13, 2 fa riferimento alla condizione di Abram dopo l’uscita dall’Egitto: nello sviluppo narrativo del nostro testo, invece, entrambi i dati sembrano essere attribuiti alla condizione di Abram in Egitto. Per giunta, l’enim («infatti») che compare in apertura finisce per sovrainterpretare decisamente l’ipotesto biblico: quasi che la cacciata di Abram dall’Egitto dipendesse da una (presunta) invidia del Faraone nei confronti della ricchezza accumulata da Abram durante il soggiorno. 4. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 8, 2 . Da questo passo si evince chiaramente l’opinione divulgata che vorrebbe la cultura greca debitrice in ogni settore a quella ebraica: lo si era già osservato al cap. 2, n. 11, a proposito della presunta influenza di Mosè sull’opera di Platone. 5. Il conciso dettato di questa sezione, che riassume Gen 13, 5-9, è verosimilmente esemplato su Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 8, 3 . 6. La spiegazione etimologica è desunta da Glossa ord. Gen 13, 18; cfr. in termini analoghi Fretell., Loc. sanct. 8. 7. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 10, 4 . 8. La digressione, sul luogo preciso della Valle di Mambre ove Abram si sarebbe stabilito, è interamente mutuata da Fretell., Loc. sanct. 9. A riprova della derivazione, valga anche una curiosa incongruenza: Fretello, e Pietro Comestore sulla sua scorta, attribuiscono a Girolamo l’opinione secondo cui l’albero di Abram sarebbe il medesimo che ha resistito fino all’epoca dell’imperatore Teodosio; se non che Girolamo (cfr. Hier., De situ et nom. loc. Hebr. col. 890B) menziona non il nome di Teodosio, bensì quello di Costanzo.
Capitolo 46 1.
Per tale premessa all’episodio biblico, intesa a chiarire preventivamente al lettore il contesto storico-politico che fa da sfondo agli eventi, non è dato individuare alcun riscontro nelle fonti. Si osservi, in ogni caso, la sapiente articolazione sotto il profilo tanto
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Note di commento, CAP. 46
linguistico quanto concettuale: la stratificazione di poteri in atto nella regione medio-orientale è delineata secondo uno schema “piramidale” (puntuali ed espressive le scelte lessicali: regulus, «piccolo sovrano», si oppone a rex, «re», ed entrambi a monarchus, «monarca», il cui significato etimologico è qui valorizzato); nel suo complesso, il fenomeno è spiegato in chiave morale come la conseguenza di una sempre crescente libido dominandi («brama di dominio»). 2. Tali vicende tributarie, a cui il testo biblico non accenna, sono desunte da Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 9, 1 . 3. Cfr. Glossa ord. Gen 14, 2: si allude alla futura vendetta divina contro Sodoma e Gomorra (cfr. Gen 19, 24 ss., e qui al cap. 53). 4. La corrispondente sezione veterotestamentaria (Gen 14, 1-12) è de-strutturata nei singoli dati e ri-strutturata in modo tale che gli elementi portanti della narrazione (nell’ordine in cui figurano nel nostro testo: a chi, perché, quando, da chi, che cosa, dove, come) riescano meglio concatenati: la narrazione stessa guadagna dunque organicità espositiva e tenuta logico-consequenziale. È altresì degno di nota come l’intero passo sia qua e là punteggiato di tessere lessicali desunte dal testo di Flavio Giuseppe: cfr. Ant. Iud. 1, 9, 1 per l’esplicita menzione dell’exercitus («esercito»); ibid. per il riferimento al numero di combattenti caduti in battaglia (il superlativo plurimi, da noi reso «in gran numero»; nella fonte al grado positivo multi, «molti») e per il dettaglio sul rapimento di captivi («prigionieri»). 5. Cfr. Glossa ord. Gen 14, 13, che puntualizza trattarsi della lezione del testo greco dei Settanta. 6. Vale a dire per crasi tra i nomi Ior e Dan. Le informazioni sulle due fonti del Giordano sono attinte da Glossa ord. Gen 14, 14 e da Glossa interl. Gen 14, 14. 7. Il dettaglio in tres turmas («in tre schiere») non compare né in Genesi né in altre fonti. Può darsi che si tratti di una lieve sovrainterpretazione del nostro autore, sulla base di quanto precede: dal momento, cioè, che gli alleati di Abram si sono detti essere tre, ne consegue che la loro divisione dà origine a tre distinte schiere. 8. Sulla diversa sorte di addormentati e svegli-ubriachi, cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 10, 1 .
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Note di commento, CAP. 46
Cfr. Glossa ord. Gen 14, 18 (ma anche Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 10, 2 ). Si osservi come, oltre ad assolvere una funzione glossematica, il chiarimento concorra anche a guadagnare coerenza geografica alla narrazione: per il lettore del testo biblico, infatti, la figura di Melchisedech, re di Salem, compare sulla scena ex abrupto a partire dalla sezione narrativa che segue (Gen 14, 18 ss.); Pietro Comestore, precisando in anticipo che la Valle del Re si trova sulla strada che conduce alla città di Solima/Salem, introduce l’entrata in scena del personaggio coerentemente alla logica richiesta dalla narrazione. 10. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 10, 2 . La formula che introduce la citazione ne dichiara espressamente la valenza integrativa rispetto a quanto si legge nel testo biblico (cfr. l’utilizzo del verbo exponere: «raccontare nel dettaglio»). 11. Il passo si configura esplicitamente quale citazione da una non meglio precisata ‘fine del libro’ di Giuseppe. La fonte in oggetto è la Guerra Giudaica di Flavio Giuseppe, storia in 7 libri della rivolta ebraica contro la dominazione romana (66-70 d.C.): Pietro Comestore cita il testo secondo la traduzione latina, anch’essa in 7 libri, nota come Iosephus Latinus (nell’altra traduzione latina, cosiddetta “Pseudo-Egesippo”, il passo non figura; per ulteriori dettagli su entrambe le versioni, cfr. Introduzione § Fonti). Non disponiamo di alcuna edizione critica dello Iosephus Latinus; cfr. tuttavia l’edizione cinquecentesca integrale Flavii Iosephi Opera − ed. I. Frobenius, Basileae, 1524, ove il passo compare nel libro VII al capitolo XVIII, e non, come vorrebbe Pietro, alla fine di un libro. Alla fine di un libro, e precisamente del libro VI, si trova invece collocato secondo la scansione in 7 libri del testo greco: cfr. Fl. Ios., De Bello Iudaico − ed. J. von Destinon, B. Niese, 6, 10, 438-440. Sulla base della sola edizione cinquecentesca da noi consultata, non è dato stabilire quale fosse la sua effettiva collocazione nello Iosephus Latinus, ma si può pensare che il manoscritto nelle mani di Pietro adottasse la scansione in capitoli e libri che figura nel testo greco. Tornando nel merito del nostro passo, desta una qualche curiosità il riferimento a tale Leobius (lezione confermata dall’ed. I. Frobenius), nome proprio mai attestato altrove, come il primo fra i Giudei a regnare in Gerusalemme: il testo greco legge invece Δαυίδης («David»), il 9.
348
Note di commento, CAP. 46-47
nome del re biblico al quale si deve, in effetti, la conquista di Gerusalemme (cfr. 2Sam 5, 6-9). 12. Il dettaglio spoliae («del bottino») è un’altra tessera lessicale desunta da Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 10, 2 . 13. Cfr. Glossa ord. Gen 14, 18, ove sono riportate entrambe le tradizioni ebraiche (su Melchisedech e sui primogeniti).
Capitolo 47 1.
Il capitolo può considerarsi una sorta di “appendice eziologica” a quanto narrato nel precedente cap. 46: la liberazione dei prigionieri di guerra (tra cui Lot), conseguente alla vittoria di Abram sui quattro re, segna l’istituzione dell’anno giubilare. Merita rilevare la sostanziale indipendenza rispetto a qualsivoglia fonte di riferimento: è possibile individuare soltanto un esiguo numero di passi dai quali Pietro Comestore può aver tratto singoli spunti, ampliando poi il discorso sulla base del proprio patrimonio di conoscenze o mediante il ricorso a fonti a noi ignote. Analoga etimologia dell’aggettivo iubelaeus offre Andr. S. Vict., Exp. Lev. 25, 10; il termine iobel, che Pietro vorrebbe un sostantivo, è invece considerato dalle fonti una voce verbale (cfr. ad es. Hier., Interpr. Hebr. nomin. 7, 10: iobel ‘dimittens’ aut ‘mutatus’ sive ‘defluet’, ossia «iobel significa ‘che libera’, o ‘mutato’, o ‘fluisce’»); Zoroastre era già stato menzionato quale «inventore dell’arte magica» al cap. 40, sulla scorta di Isid., Etym. 9, 2, 43; alle diverse posizioni assunte dai pianeti, ma senza alcun riferimento all’anno giubilare, accenna Guill. Conch., Dragm. 5, 12, 4 (trattato di filosofia naturale in forma dialogica, onde il titolo di Dragmaticon, alla lettera «Dialogo»: Guglielmo di Conches fu uno dei più influenti maestri della scuola filosofica di Chartres nel XII sec.). Si segnalano, al contrario, i seguenti dati testuali per cui non è dato trovare riscontro nelle fonti: la tradizione secondo cui sarebbe proprio l’episodio della liberazione dei prigionieri a segnare l’istituzione dell’anno giubilare; le varie ipotesi sul motivo per cui l’anno giubilare fu istituito con cadenza cinquantennale; la tradizione secondo cui Abram avrebbe istruito Zoroastre in materia astronomica.
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Note di commento, CAP. 48
Capitolo 48 1. 2.
Cfr. Glossa interl. Gen 15, 2. Le motivazioni sottese alla richiesta di Abram e la nota eziologica allegata sono debitrici a Glossa interl. Gen 15, 8; il dettaglio non ex diffidentia («non per mancanza di fiducia») è mutuato da Andr. S. Vict., Exp. Gen. 15, 2. Si osservi, inoltre, che il termine signum («segno») sarà utilizzato per altre due volte nel prosieguo del capitolo, appunto come chiave interpretativa dei fenomeni sovrannaturali che preannunciano la promessa di Dio ad Abram. 3. La precisazione animalia («animali») è integrata sulla scorta di Glossa interl. Gen 15, 10. 4. Nel testo della Vulgata, il soggetto dei successivi due verbi «sottometteranno» e «opprimeranno» non è espresso: il nostro autore integra extranei («popoli stranieri») sulla scorta di Glossa Interl. Gen 15, 13. 5. Si conclude qui un’articolata sezione esegetica in merito alla lettera di Gen 15, 13: l’indicazione temporale «per quattrocento anni» non è da intendersi – come verrebbe da pensare – in riferimento alla durata del periodo di schiavitù della stirpe di Abram in Egitto. Pietro Comestore segnala le due differenti proposte interpretative di Isidoro e di Agostino: alla luce del modus operandi del nostro autore, è verosimile ipotizzare una derivazione non già per via diretta, bensì mediata per tramite di Glossa ord. Gen 15, 13 (due estratti riportati sotto i nomi delle due auctoritates citate). In sintesi: a) Isidoro suggerisce di computare i 400 anni a partire dal momento delle promesse di Dio ad Abram: in tal modo, il 400° anno cadrebbe proprio durante il periodo di schiavitù; b) Agostino avanza una proposta più elaborata: poiché la promessa di Dio fa esplicito riferimento alla stirpe di Abram, il computo è da effettuarsi a partire dalla nascita di suo figlio Isacco; il periodo compreso tra la nascita di Isacco e l’uscita dall’Egitto assomma infatti a 405 anni, cifra che però il testo sacro arrotonda a 400 anni; ne consegue che in Gen 15, 13 si evidenzia la presenza di un artificio retorico (in termini correnti, si direbbe tecnicamente un iperbato): l’indicazione temporale è da riferirsi alla prima parte della frase (ossia all’intero
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Note di commento, CAP. 48-49
periodo che vide la stirpe di Abram pellegrina in una terra che non le apparteneva) e non a quella centrale (ossia alla schiavitù). 6. Seguendo Glossa ord. Gen 15, 16, Pietro Comestore dà conto dell’apparente incongruenza tra i passi di Gen 15, 16 e di Es 13, 18 in merito al numero della generazione dopo Abram durante la quale ebbe luogo l’uscita del popolo d’Israele dall’Egitto: le due differenti indicazioni fanno riferimento ciascuna ad una differente tribù. In aggiunta, Pietro ha cura di precisare che il computo delle generazioni va effettuato contando non le personae («singoli individui») – altrimenti, per esempio, l’elenco dei nomi relativo alla tribù sacerdotale ne conterebbe cinque, e non quattro −, ma le successiones («discendenze»), ossia le ‘generazioni’ concretamente intese: non a caso, si suggerisce l’espediente pratico di contare il numero di volte in cui compare, in modo esplicito o sottinteso, il verbo genuit («generò»). 7. Il testo di Gen 15, 17 legge et apparuit clibanus fumans et lampas ignis («e apparve una fornace fumante e una lampada di fuoco»): Pietro Comestore riformula il dettato biblico secondo un criterio già implicitamente esegetico, individuando nel passo veterotestamentario la presenza di una sorta di endiadi (il nostro testo legge infatti et apparuit ignis, quasi clibani: «apparve un fuoco, come di fornace»). 8. Il nome del fiume, che nel testo biblico non compare, è integrato sulla base di Glossa interl. Gen 15, 18.
Capitolo 49 1.
Fino a quest’altezza del capitolo, la trama essenziale della narrazione procede in stretta aderenza rispetto al testo biblico (Gen 16, 1-11). Si rilevano soltanto tre piccole aggiunte, intese ad esplicitare le ragioni psicologiche alla base del comportamento dei personaggi, secondo un modulo esegetico frequente: il dettaglio «e Abram fingeva di non accorgersene», che spiega la causa del conseguente rimprovero di Sarai ad Abram; la precisazione «voleva tornare nella sua patria; era infatti egiziana», che segnala l’intenzione di Agar a motivo della sua fuga (cfr. Glossa interl. Gen 16, 7); il dato contestuale «mentre aveva sete e ignorava il cammino», che
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Note di commento, CAP. 49
dà ragione della successiva comparsa dell’angelo e della domanda da lui rivolta ad Agar. 2. Pur al netto delle considerazioni esposte alla p. 157, n. a, l’assoluto silenzio in merito all’etimologia del nome Ismaele riesce sorprendente: tanto più ove si consideri che la ricerca etimologica è cifra distintiva dell’esegesi del nostro autore e che, per giunta, l’etimo è qui offerto dal testo biblico medesimo (cfr. Gen 16, 11b: eo quod audierit Dominus adflictionem tuam, ossia «perché il Signore ha udito la tua afflizione»). Occorre però tener presente che si tratta di un punto del testo sacro particolarmente delicato: da Ismaele, come è noto, la tradizione musulmana fa discendere il profeta Maometto; la stessa etimologia biblica del nome Ismaele ben si presterebbe, peraltro, ad essere letta in chiave ‘legittimante’ della predestinazione divina di cui sarebbe depositario il primogenito di Abramo. Può darsi, dunque, che il silenzio del nostro testo non sia del tutto innocente: il volontario intervento di censura potrebbe addebitarsi o direttamente a Pietro Comestore o già alla sua fonte biblica, mutila della seconda parte del v. 11. 3. La notazione relativa alla bellicosità dei Saraceni è mutuata da Glossa ord. Gen 16, 12. 4. Cfr. Ps. Method., Revelat. 5 (p. 68). Assai curioso suona l’appellativo filii vineae («figli della vigna»), che Pietro Comestore dice essere attribuito da Metodio agli Ismaeliti: nella fonte, tuttavia, esso non figura né nel passo in questione né altrove. Il sospetto è che possa trattarsi di una errata lettura paleografica di un punto preciso del passo citato, in cui si legge filii Umee, quae ab eis sic vocabatur etc. («i figli di Umea, la quale era da loro così chiamata etc.»), ove Umee è un nome proprio di persona femminile al genitivo, non meglio precisato né attestato altrove: una emblematica lectio difficilior, che ben poteva prestarsi ad equivoci; nella fattispecie, la corruttela Umee > vinee sembrerebbe procedere da una errata scansione paleografica dell’affollamento di aste contigue delle lettere u ed m. Impossibile precisare se l’incomprensione sia da attribuire allo stesso Pietro o risalga già alla tradizione del testo di Metodio che Pietro aveva tra le mani: la lezione vinee, in ogni caso, deve essere suonata al nostro autore un poco bizzarra; di qui il tentativo di darne plausibile motivazione («a causa, forse, etc.»).
352
Note di commento, CAP. 49-50
5. La lezione è desunta dalla già citata Glossa ord. Gen 16, 12. 6. Il nostro autore accorpa in un discorso unitario singole profezie estrapolate da passi non contigui della fonte: cfr. Ps. Method. Revelat. 5 (p. 67-68); ibid. 11 (p. 80-81); ibid. 11 (p. 84-87 passim). 7. È questa un’aggiunta rispetto al testo biblico: finalizzata, con ogni evidenza, a motivare la conseguente esclamazione di Agar. 8. Così il nostro autore si premura di giustificare il nome dato da Agar al pozzo. 9. Il dettaglio è mutuato da Glossa ord. Gen 16, 14. 10. La notazione temporale sembra integrata ad esplicitare lo scioglimento della vicenda, che nel testo biblico è taciuto e dato come per scontato.
Capitolo 50 1.
2. 3.
Pietro Comestore rileva cioè la peculiare costruzione retorica del discorso di Dio ad Abram: i termini dettagliati del patto di alleanza stabilito da Dio, la cui logica di mutuo scambio è stata già anticipata dal nostro autore per chiarezza, saranno esposti soltanto in séguito (vv. 11-14), dopo il mutamento del nome di Abram (vv. 4-5). Nel prosieguo, infatti, Pietro riprenderà a citare il testo biblico, riagganciandosi al passo di Gen 17, 10 prima lasciato in sospeso («Sarà circonciso tra voi etc.»). Le due ipotesi di derivazione etimologica sono tratte da Glossa ord. Gen 17, 5. In latino R autem superaddita est causa euphonie: la precisazione non trova riscontro nelle fonti. Essa può prestarsi a due differenti traduzioni: «Inoltre, una lettera r è stata aggiunta per eufonia» oppure «Inoltre, [scil. la lettera, a o e che sia] è stata aggiunta dopo la r per eufonia». La lettera r era tuttavia già presente nella seconda parte del primo composto (ram), né sembra esserne stata aggiunta una seconda, sicché riteniamo preferibile la seconda lettura interpretativa (così infatti la nostra traduzione): Pietro Comestore tenta cioè di precisare il motivo per cui la lettera aggiuntiva sia stata inserita, tra le tante possibili, proprio in quella posizione.
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Note di commento, CAP. 50
4. Si osservi la consueta esigenza di motivare plausibilmente le azioni dei personaggi. 5. Il dettagliato excursus semantico-etimologico trae spunto dalla menzione in Gen 17, 12 del vernaculus («servo nato in casa») e dell’empticius («servo acquistato»). Per rilevare la specificità dei due termini, Pietro Comestore costruisce una catena semantica, in parte documentata sotto il profilo etimologico: in testa, quello che definiremmo l’iperònimo (servus); a seguire, ben tre ipònimi (non soltanto vernaculus/ verna/ vernula ed empticius, ma anche originarius). Due sono i termini di cui si segnala il significato senza indicare l’etimologia: verna (e forme derivate) sarebbe secondo alcuni studiosi un prestito dalla lingua etrusca, ove è attestato un gentilizio Verna (l’etimologia popolare lo vorrebbe invece derivato da ver, ossia «primavera»); in originarius si ravvisa chiaramente la medesima radice di orior («nascere») e origo («nascita»), a designare appunto il servo legato alla terra dal momento della nascita. L’indagine semantico-etimologica è qui tanto più degna di nota quanto meno parrebbe suggerita dalle fonti: soltanto l’etimo di servus si ritrova in Avg., De civ. Dei 19, 15. 6. L’intera sezione esegetica, sulla derivazione linguistico-etimologica del nome Sara, è interamente debitrice a Glossa ord. Gen 17, 15. Vale la pena di osservare l’ultima annotazione, intesa a smentire l’etimologia popolare che vorrebbe ‘lebbra’ quale significato del nome originario: equivoco indotto dalla somiglianza tra il nome ebraico per ‘lebbra’, ossia sarath, e il nome Sarai. 7. I dettagli «per la gioia» e «in atto di approvazione» sono mutuati da Glossa interl. Gen 17, 17. Il nostro autore si preoccupa di disambiguare così il testo di Gen 17, 17, ove il riso e la conseguente domanda di Abramo sembrerebbero motivate piuttosto da un sentimento di dubbiosa incredulità di fronte alla promessa divina. 8. Cfr. Glossa ord. Gen 17, 17. 9. Cfr. Glossa ord. Gen 17, 19, ove l’osservazione è però limitata ai nomi profetizzati nell’Antico Testamento: può darsi che Pietro Comestore, per completezza d’informazione, abbia ritenuto opportuno allegare anche i due nomi profetizzati nel Nuovo Testamento.
354
Note di commento, CAP. 50-51
Capitolo 51 1.
Quest’ultimo dettaglio, debitore a Glossa interl. Gen 18, 2, sembra inteso ad escludere l’ipotesi di un’adorazione politeistica. Come si preciserà poco oltre, la figura adorata da Abramo è da identificarsi nel Verbo-Figlio. 2. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 11, 2 . 3. Cfr. Hier., Chron. p. 24a. Il Chronicon di Eusebio di Cesarea (III e IV sec. d.C.), storia universale dalla creazione del mondo fino all’epoca dell’autore, è opera ora perduta: Girolamo ne approntò una traduzione (parziale, a partire dall’epoca di Abramo), proseguendo inoltre la cronologia fino al terzo quarto del IV sec. d.C. 4. Il riferimento trinitario-cristologico non ambisce a proporre un’esegesi tipologica rigorosamente intesa – la storia veterotestamentaria letta come prefigurazione di quella neotestamentaria −, ma è introdotto per spiegare il dettato biblico nella sua dimensione storico-letterale: offrire cioè delucidazioni sull’identità delle figure apparse ad Abramo. 5. Alla potenziale obiezione secondo cui in nessun luogo è dato leggere che il Padre sia mai apparso sotto le spoglie di una sostanza creata, ossia in natura antropomorfa, il nostro autore ribatte sulla scorta di Glossa ord. Gen 18, 2: i due angeli, che accompagnano colui che è stato poc’anzi identificato nel Verbo-Figlio, simboleggerebbero i due profeti Mosè ed Elia. La tradizione che attribuisce a costoro il ruolo di precursori, rispettivamente del primo e del secondo avvento di Cristo, muove dall’episodio evangelico della cosiddetta trasfigurazione di Gesù (cfr. Mt 17, 1-8; Mc 9, 2-8; Lc 9, 2835): il volto di Gesù appare trasfigurato di luce e splendore ai tre discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni; sùbito dopo, Mosè ed Elia appaiono loro nell’atto di conversare con Gesù stesso. Sul ruolo di Elia, cfr. già al cap. 31, p. 125, n. d. 6. Il tecnicismo assare («arrostire») è tessera lessicale mutuata da Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 11, 2 . 7. Analoghi spunti concettuali in Glossa ord. Gen 18, 10 e in Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 11, 2 . 8. La curiosa notazione non trova riscontro nelle fonti: è un bell’esempio, in ogni caso, dell’attitudine di Pietro Comestore a razio-
355
Note di commento, CAP. 51-52
nalizzare tutto, inclusi gli aspetti fisici legati alla dimensione del miracoloso. 9. Il breve excursus in materia medico-fisiologica accorpa singole notazioni tratte da Glossa ord. Gen 18, 11 e da Glossa interl. Gen 18, 11. 10. Cfr. Glossa ord. Gen 18, 10. 11. Dio, s’intende: cfr. ibid.
Capitolo 52 1.
2. 3.
4. 5. 6. 7.
8. 9. 10.
Cfr. Glossa ord. Gen 18, 20. Si osservi come, tuttavia, la chiosa non intenda sviluppare una lettura esegetica dell’episodio in chiave tropologico-morale, ma semplicemente illustrare a che cosa alluda il termine ‘grido’. Altra cursoria notazione di ordine morale, sempre desunta dal medesimo passo di Glossa ord. Gen 18, 20. Cfr. in effetti Gratian., Decr. 2, 2, 1, 19 (col. 593B), la prima compilazione di diritto canonico ragionata e con elencazione delle auctoritates di riferimento, redatta dal monaco Graziano intorno alla metà del XII sec. (in genere nota come Decretum, ma dal titolo originario di Concordia discordantium canonum): Peccatum, quod tantum iudici notum est, ab eo damnari non valet («Un peccato, che è noto soltanto al giudice, non può da lui essere condannato»). Dettaglio assente nel testo biblico e che puntualizza il motivo della sollecitudine di Abramo. Il nostro autore si premura di rilevare così la logica escogitata da Abramo nel formulare le domande che seguono. Il verbo abire («andarsene»), cioè, non è da intendersi in senso fisico-letterale. Le due ipotesi non trovano riscontro nelle fonti: quanto alla prima, l’allusione è forse a due dei tre uomini menzionati in Gen 18, 2 (qui in apertura del cap. 51). Il dettaglio circostanziale è debitore a Glossa interl. Gen 19, 1. Cfr. Glossa interl. Gen 19, 8. L’osservazione, di ordine morale, trae spunto da Glossa ord. Gen 19, 8 (estratto da Avg., Quaest. in Hept. – Gen. 42) ove ci si
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Note di commento, CAP. 52-53
11.
12.
13. 14.
interroga circa la liceità o meno della cosiddetta compensatio flagitiorum (lett. «compensazione dei delitti»), vale a dire la possibilità o meno di “scambiare” un peccato con un altro: la proposta avanzata da Lot, che si dice disposto a concedere ai Sodomìti le due figlie vergini in cambio dell’inviolabilità dei due ospiti, è inammissibile poiché il primo dei due peccati sarebbe sì meno grave di un atto di violenza ai danni degli ospiti, ma in ogni caso peccato mortale. Cfr. Glossa ord. Gen 19, 11: il breve excursus verte su una questione di natura semantica, ossia l’effettivo significato del termine caecitas (lett. «cecità»), affezione con cui gli angeli colpiscono i Sodomìti. Ulteriore tentativo di chiarire il concetto di aorisia, condizione inconsueta e perciò ardua a raffigurarsi: assai icastico ed efficace il riferimento in termini concreti ad una situazione quotidiana e perciò sperimentabile dal lettore stesso. Cfr. Glossa ord. Gen 19, 14 (estratto da Hier., Hebr. quaest. in Gen. 19, 14 [p. 29, l. 10-20]). Cfr. puntualmente Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 11, 4 . Si osservi che tale dettaglio appare come una sovradeduzione sulla base di Gen 19,14, ove è detto semplicemente che Lot visus est eis quasi ludens loqui («sembrò loro parlare come per scherzo»).
Capitolo 53 1. 2.
Cfr. Glossa ord. Gen 19, 18. L’ipotesi, che non trova riscontro nelle fonti, rispecchia bene la consueta premura esplicativa del nostro autore. 3. Sono qui assemblate informazioni toponomastiche desunte da passi non contigui della Glossa: cfr. Glossa interl. Gen 19, 20 e 19, 22; Glossa ord. Gen 14, 2 (sulla menzione di Bala, anche detta Segor, cfr. al cap. 46) e 19, 30. Il toponimo «Città della Palma» deriva invece da Fretell., Loc. sanct. 11. 4. Cfr. Glossa ord. Gen 19, 30 cit. alla nota precedente (estratto da Hier., Hebr. quaest. in Gen. 19, 30 [p. 30, l. 3-18]); Pietro Comestore, peraltro, anticipa qui la notizia del trasferimento di Lot da Segor sul monte, che nel testo biblico si legge poco oltre (Gen 19, 30).
357
Note di commento, CAP. 53
5.
L’osservazione meglio si comprende alla luce della parte finale del v. 24, che tuttavia Pietro Comestore non si cura di riportare ad litteram: cfr. Gen 19, 24 igitur Dominus pluit super Sodomam et Gomorram sulphur et ignem a Domino de caelo («e così il Signore fece piovere sopra Sodoma e Gomorra zolfo e fuoco dal Signore in cielo»). Per la notazione esplicativa, con evidente riferimento all’ubiquità divina, cfr. Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 52A e analogamente Andr. S. Vict., Exp. Gen. 19, 24. 6. Cfr. Glossa interl. Gen 19, 24. 7. Cfr. Glossa ord. Gen 19, 24. 8. È desunta da Glossa ord. Gen 19, 25 l’osservazione circa la necessità di sterminare anche i bambini, con sentenza moraleggiante ed efficace analogia esplicativa. 9. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 11, 4 . 10. L’ampia sezione trae spunto dall’effetto causato dalla vendetta divina contro Sodoma e Gomorra: la trasformazione dell’intera regione nel lago del Mar Morto. Ribadendo talune informazioni già riportate al cap. 44, Pietro Comestore accumula qui una nutrita serie di dettagli toponomastici e geo-morfologici, nonché di curiose notizie a sfondo aneddotico-paradossografico: indizio del fascino che il luogo, in virtù delle sue caratteristiche intrinseche, non mancò di esercitare anche in epoca medievale. Per la spiegazione del toponimo ‘Mar Morto’ e per il peculiare comportamento di esseri viventi, imbarcazioni e lucerne, cfr. Isid., Etym. 13, 19, 3-4. Per l’indicazione del lago quale confine tra Giudea e Arabia, con osservazione relativa al periodo trascorso dagli Israeliti in Egitto, cfr. Fretell., Loc. sanct. 11-12. Gli aneddoti espressamente attribuiti a Flavio Giuseppe – su Vespasiano e sui frutti maturi che recano al loro interno cenere – sono tratti dalla Guerra Giudaica (versione cosiddetta Iosephus Latinus): cfr. Flavii Iosephi Opera − ed. I. Frobenius, Basileae, 1524, libro V, cap. V (sull’impiego di quest’edizione, cfr. al cap. 46, n. 11; segnaliamo per comodità che, secondo la scansione in libri del testo greco, il passo in oggetto è Fl. Ios., De Bello Iudaico − ed. J. von Destinon, B. Niese, 4, 8, 476-485); al medesimo passo è debitore anche il dettaglio sull’emissione di zolle di bitume.
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Note di commento, CAP. 54-55
Capitolo 54 1.
La sostanza concettuale della sezione narrativa biblica (Gen 19, 3136: l’inganno escogitato dalle due figlie di Lot, le quali, dopo averlo fatto ubriacare, si uniscono a lui e concepiscono) è riproposta – con integrazione di note esegetiche – in aderenza non già al testo biblico, bensì ad un passo di Glossa ord. Gen 19, 32. 2. Cfr. Glossa ord. Gen 19, 31. 3. Cfr. Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 52B. 4. Le due osservazioni non trovano riscontro nelle fonti. Vale la pena di notare che il testo medievale di più ampia diffusione e rilevanza sulla figura dell’Anticristo, ossia il breve trattato in forma epistolare De ortu et tempore Antichristi («La nascita e il tempo dell’Anticristo»), composto dall’abate francese Adso di Montier en Der (X sec.), si esprime invece in modo diverso: cfr. Adso, Antichr. 24, ove si profetizza che l’Anticristo nascetur autem ex patris et matris copulatione, sicut et alii homines, non, ut quidam dicunt, de sola virgine («nascerà dall’unione sessuale di padre e madre, come tutti gli altri uomini; non, come sostengono alcuni, da sola vergine»). 5. Per l’etimologia del nome Moab, cfr. Glossa interl. Gen 19, 37; il nostro autore ne allega anche una spiegazione, verosimilmente formulata per contrasto rispetto a quella desunta da Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 52B a giustificare l’etimo del nome Ammon (segnalato dal testo biblico medesimo). 6. Cfr. Glossa ord. Gen 19, 31 (estratto da Hier., Hebr. quaest. in Gen. 19, 30 cit. al cap. 53, n. 4). 7. Cfr. Glossa ord. Gen 19, 32. 8. La citazione è tratta fedelmente da un passo che Glossa ord. Gen 19, 31 riporta sotto il nome di Strabone (ma cfr. al cap. 30, n. 1).
Capitolo 55 1. 2.
Nel testo biblico genericamente inde («di lì»): l’esplicitazione del luogo preciso è debitrice a Andr. S. Vict., Exp. Gen. 20, 1. Il rimando è desunto da Glossa interl. Gen 20, 1.
359
Note di commento, CAP. 55
Il testo di Gen 20, 2a legge dixitque de Sarra uxore sua: “Soror mea est” («e [scil. Abramo] disse di sua moglie Sara: “È mia sorella”»): Pietro Comestore, ritenendola forse un’indicazione troppo neutra, la sostituisce con il corrispondente passo di Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 12, 1 , che consente di rilevare l’analogia tra questo episodio e un precedente analogo, nonché il motivo che avrebbe spinto Abramo a fingere. 4. Cfr. Glossa ord. Gen 20, 2. 5. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 12, 1 . 6. Si osservi il modo in cui il nostro autore ristruttura la narrazione veterotestamentaria, onde guadagnarle la più rigorosa consequenzialità e chiarezza: a giustificare l’apparizione divina (Gen 20, 3-7), egli si vede infatti costretto ad anticipare quanto nel testo biblico emergerà solo al termine del capitolo (Gen 20, 17-18), ossia la natura fisica della punizione divina inflitta ad Abimelech a motivo del rapimento di Sara; analogamente, nel prosieguo si menzionerà prima l’avvenuta guarigione del re e delle donne in virtù delle preghiere di Abramo (Gen 20, 17) e, soltanto poi, la ricompensa perciò concessa da Abimelech ad Abramo e Sara (Gen 20, 14-16). 7. In latino soporatus («addormentato»): tessera lessicale che, insieme al precedente dettaglio sui medici, è desunta da Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 12, 1 . 8. Questa prima lettura esegetica presuppone l’impiego in senso non-letterale, da parte di Abramo, dei termini soror («sorella») e pater/mater («padre/madre»): secondo una logica ‘affettiva’ di esprimersi, soror starebbe in luogo cognata («consanguinea»), e pater/mater in luogo di frater/soror («fratello/sorella»). In altri termini, Abramo starebbe affermando che Sara è sua neptis («nipote»), concordemente alle indicazioni di parentela segnalate in Gen 11, 27-30: anche lo scambio, per così dire, metonimico tra i sostantivi neptis e soror obbedirebbe ad una logica espressiva improntata a sottolineare maggiormente l’affetto nei confronti di una persona che ci è parente attraverso un uomo (nella fattispecie, attraverso il fratello di Abramo). Soltanto un paio di spunti concettuali sono ravvisabili nelle fonti: l’equivalenza pater = frater è ipotizzata da Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 52D; l’alia translatio («altra traduzione»), in virtù della quale l’effettivo rapporto di parentela 3.
360
Note di commento, CAP. 55
9.
10.
11. 12. 13.
risulterebbe più perspicuo, è riportata da Glossa ord. Gen 20, 12: si tratta verosimilmente di una traduzione, circolante forse tra le Veteres, approntata in stretta aderenza rispetto al testo greco dei Settanta, che legge καὶ γὰρ ἀληθῶς ἀδελφή μού ἐστιν ἐκ πατρός, ἀλλ᾽ οὐκ ἐκ μητρός, ossia «e infatti è davvero mia sorella, attraverso il padre ma non attraverso la madre». Secondo quest’altra lettura, Abramo starebbe fingendo che Sara sia figlia di suo padre Thare. Ciononostante, Pietro Comestore si premura di difendere la buona fede di Abramo: avanzando il confronto con un episodio neotestamentario; allegando, inoltre, un’osservazione a fortiori (Abramo avrebbe agito da semplice portavoce delle parole di Dio, per potersi così nascondere agli occhi di chi non lo conosceva) con parallelo veterotestamentario. Per la verità – segnala a margine il nostro autore – vi è chi sostiene che Sara sia davvero figlia di Thare: costui l’avrebbe generata con la vedova di Aram, sposata in seconde nozze dopo la morte della madre di Abramo e dello stesso Aram (sulla morte di Aram, cfr. Gen 11, 28 e qui al cap. 41); tradizione che segnala anche Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 52C-D, senza però menzionare la precisa identità della donna (definita genericamente alia uxor, «un’altra moglie»). In ogni caso, Pietro procede ben oltre, nel tentativo di conciliare, ammesso che Sara sia davvero figlia di Thare, le divergenti indicazioni di Genesi: qui in Gen 20, 12 Sara sarebbe indicata come figlia di Thare secondo la carne; in Gen 11, 27-30, invece, come figlia di Aram secondo la rinascita del seme (in latino suscitatio seminis), vale a dire nata perché il seme di Aram potesse perpetuarsi, avendo costui lasciato un solo figlio maschio (Lot). Analoga esegesi per l’espressione biblica erit tibi in velamen oculorum (da noi resa «ti faranno da velo sugli occhi») è avanzata da Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 52D e da Andr. S. Vict., Exp. Gen. 20, 16. Pietro Comestore rileva cioè la valenza glossematica delle successive parole di Abimelech, a sostegno della spiegazione appena esposta. Questa seconda lettura esegetica non trova riscontro nelle fonti. Per questa terza, cfr. i già citati Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 52D e Andr. S. Vict., Exp. Gen. 20, 16.
361
Note di commento, CAP. 56-57
Capitolo 56 La duplice notazione eziologica è tratta da Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 12, 2 . 2. Non trovano riscontro nelle fonti né l’indicazione dell’età alla quale Isacco fu svezzato (in latino trimus, lett. «dell’età di tre anni») né la ragione per cui Abramo organizza un banchetto nel giorno dello svezzamento. 3. Si osservi che nel testo biblico si parla soltanto di gioco, senza menzionare soprusi commessi da Ismaele ai danni di Isacco: quest’ultimo dettaglio sembra introdotto a giustificare la conseguente volontà, espressa da Sara e altrimenti immotivata, che Agar e Ismaele vengano cacciati (Gen 21, 10). In tal senso, anche l’eventualità prospettata in Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 12, 3 – il tentativo di sopraffazione, morto Abramo, di Ismaele ai danni di Isacco – è investita da Pietro Comestore di una precisa funzione esplicativa, s’intende in chiave profetica. 4. Alla costruzione di idoli, usati come gioco da Ismaele, accenna Glossa ord. Gen 21, 9. La lettura interpretativa nel suo complesso troverebbe effettivo riscontro nella tradizione esegetica ebraica: così segnala Shereshevsky, ‘Hebrew traditions’, p. 280. 5. La chiosa intende rilevare la metonimia sottesa al testo biblico: cfr. Andr. S. Vict., Exp. Gen. 21, 17. 6. Anticipando informazioni genealogiche che il testo biblico offrirà in séguito (Gen 25, 12-16), Pietro Comestore segnala qualche dato sulla discendenza di Ismaele e alcuni toponimi derivati dai nomi dei suoi figli. Lo spunto ad allegare un breve excursus sulla stirpe di Ismaele può darsi gli sia stato offerto da Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 12, 4 (ove alla menzione del matrimonio di Isacco seguono i nomi dei dodici figli e notizie sul primogenito); la sostanza concettuale è invece debitrice a Glossa ord. Gen 25, 13. 1.
Capitolo 57 1.
Come spesso accade, il nostro autore indulge a considerazioni di ordine psicologico al fine di motivare le azioni dei personaggi.
362
Note di commento, CAP. 57-58
2.
La seconda parte dell’incontro tra Abramo e Abimelech vede, nel nostro testo, la scena spostarsi sul luogo del pozzo la cui proprietà è rivendicata da Abramo: nel testo biblico, al contrario, si ha l’impressione che il dialogo tra i due prosegua nella medesima circostanza. Sul pozzo, inoltre, è offerto qualche dettaglio aggiuntivo rispetto a quanto si legge in Genesi (la sola notizia del furto): nessuno di essi, tuttavia, si lascia ricondurre ad una fonte. 3. Per le due possibili etimologie, cfr. Glossa ord. Gen 21, 31. 4. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 12, 1 . 5. Il dettaglio è tratto da Glossa interl. Gen 21, 33. 6. Cfr. Glossa ord. Gen 21, 33.
Capitolo 58 1.
Laddove il testo biblico non offra dati contestuali entro i quali inquadrare l’episodio, è sovente il nostro autore ad integrarli a vantaggio della coesione e della perspicuità narrativa: il riferimento al soggiorno in Bersabee può dirsi facilmente dedotto dal contesto (cfr. Gen 21, 33-34, ove si era riferito lo stanziamento di Abramo appunto in quella regione, e Gen 22, 19, ove si dirà che Abramo, dopo l’episodio oggetto di questo capitolo, fa ritorno in Bersabee); è invece debitrice a Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 13, 2 la puntuale indicazione cronologica sulla base dell’età di Isacco. 2. La spiegazione del toponimo, che ne scioglie la metafora sottesa, non trova riscontro nelle fonti. 3. Cfr. Glossa ord. Gen 22, 2, ove si menziona espressamente la tradizione ebraica quale depositaria delle notizie; cfr. inoltre Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 13, 2 , che accenna alla successiva edificazione del tempio di David nel luogo indicato per il sacrificio; cfr. infine Fretell., Loc. sanct. 51, sulle vicende relative all’origine del tempio. 4. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 13, 2 . Il dettaglio dà ragione della mancata opposizione altrui alla partenza di Abramo e Isacco: nessuno si è opposto ad Abramo perché nessuno ne conosceva le intenzioni. 5. Cfr. Glossa ord. Gen 22, 4.
363
Note di commento, CAP. 58
6. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 13, 3-4 : non vi figura però alcun cenno alla resurrezione di Isacco affinché si compissero le promesse divine. Il passo consente di indagare le ragioni profonde che spingono i personaggi ad agire in un certo modo, secondo un modulo esegetico caro al nostro autore: ciò riesce qui tanto più funzionale quanto meno credibile appare, secondo la logica umana, il comportamento di padre e figlio, entrambi disposti ad accettare il sacrificio. Si osservi che Pietro Comestore non manca di intervenire sul passo estrapolato dalla fonte, in funzione di una maggiore efficacia retorica, onde enfatizzare il pathos intrinseco all’episodio: è infatti un’originale aggiunta il rigoroso parallelismo con cui si pone accento sul carattere eccezionale (cfr. l’anafora dell’avverbio mirabiliter, da noi reso «in modo eccezionale») sia della nascita che della morte di Isacco per volontà di Dio. 7. Cfr. Glossa ord. Gen 22, 4, un estratto dal commentario alla Genesi di Alcuino (cfr. Alcuin., Interr. et respons. in Gen. col. 545B-C). 8. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 13, 4 , che legge Non enim quasi sanguinem desideraret humanum etc. («Non, infatti, come se [scil. Dio] desiderasse il sangue umano etc.»). Di nuovo, il nostro autore interviene per accentuare la cifra retorico-patetica del passo: il verbo sitire («essere assetato di») è adoperato in luogo del più scialbo desiderare («desiderare»); l’affettiva specificazione pueri («del ragazzo») figura in luogo del generico aggettivo humanus («umano») 9. Cfr. Glossa ord. Gen 22, 13 (un estratto da Hier., Hebr. quaest. in Gen. 22, 13 [p. 34, l. 3-21]). 10. L’osservazione è debitrice a Hier., Hebr. quaest. in Gen. 22, 13 cit. alla nota precedente: può darsi che l’esemplare della Glossa utilizzato dal nostro autore riportasse un estratto da Girolamo in forma un poco più ampia rispetto a quanto si legge nell’edizione della Glossa assunta a riferimento (ed. Turnhout, 1992). 11. Nell’intera opera di Rabano, non è dato trovare alcun riscontro per l’ipotesi che gli viene qui attribuita; né risulta una qualche altra fonte che concordi con il nostro testo nell’attribuzione. Tale ipotesi è segnalata da Glossa ord. Gen 22, 13 sotto il nome di Alcuino (si tratta, in effetti, di un estratto da Alcuin., Interr. et respons. in Gen. col. 545C): impossibile stabilire se l’incongruenza
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Note di commento, CAP. 58-59
sia da imputare già all’esemplare della Glossa utilizzato da Pietro Comestore o direttamente a costui; quanto alla genesi dell’errore, si potrebbe ipotizzare o una patente e involontaria svista o un lapsus per ‘scambio metonimico’ tra il nome di Alcuino e quello del suo allievo Rabano. 12. Il detto, che già il testo biblico riporta, è contestualizzato sulla scorta di Glossa ord. Gen 22, 14. 13. Cfr. ibid. 14. Cfr. Glossa ord. Gen 22, 20 sia per le notizie biografiche sui primi due figli di Nachor (si badi che Pietro Comestore, come in genere, omette di riportare i nomi di tutti i figli, limitandosi qui alla sola indicazione numerica) con annessa questione circa la dibattuta genealogia di Giobbe, sia per l’ipotesi filologica di una presunta interpolazione al termine del Libro di Giobbe. In relazione a quest’ultimo punto, vale la pena di precisare che si tratta di un’ipotesi avanzata da Girolamo (il passo della Glossa è infatti un estratto da Hier., Hebr. quaest. in Gen. 22, 20 [p. 35, l. 3-16]): il passo sospettato di interpolazione non compare nel testo ebraico; sì invece nel testo greco dei Settanta – da cui può darsi fosse confluito anche in parte della tradizione latina delle Veteres; Girolamo, nella redazione della Vulgata, si allinea al testo ebraico.
Capitolo 59 1.
Si osservi la ‘riduzione ai minimi termini’ cui l’autore sottopone il contenuto del testo biblico, conservandone solo i dati strettamente funzionali alla comprensione dell’episodio: l’indicazione anagrafica dell’età di Sara al momento della morte (Gen 23, 1); la sua sepoltura in Hebron nella spelonca duplice (Gen 23, 19), che Abramo acquista da Ephron al prezzo di 400 sicli d’argento (Gen 23, 16) e grazie all’intermediazione degli Ethei (Gen 23, 8; 16), ossia gli abitanti della regione (Gen 23, 7). Del tutto omesse, invece, le varie fasi della trattativa d’acquisto, cui pure il testo biblico dedica ampio spazio riportandone i due successivi momenti (Abramo-Hetei: vv. 3-9; Abramo-Ephron con intermediazione degli Hetei: vv. 10-15), nonché la ricapitolazione dettagliata dell’esito della trattativa (vv. 16-18).
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Note di commento, CAP. 59
2.
L’indicazione è assente nel testo biblico, ove, anzi, in Gen 23, 2 si dice che Sara mortua est in civitate Arbee quae est Hebron in terra Chanaan; venitque Abraham ut plangeret et fleret eam («morì nella città di Arbee, ossia Hebron, nella terra di Chanaan; e Abramo vi andò a far lutto e a piangerla»): si direbbe perciò che prima Sara sia morta in Hebron e che Abramo, ritornato ad abitare in Bersabee dopo l’episodio del sacrificio (cfr. Gen 22, 19 e qui al cap. 58), soltanto dopo la morte di Sara si sia recato in Hebron, città che si trova nella Valle di Mambre (cfr. Gen 13, 18 e qui al cap. 45). Se non che, tuttavia, la narrazione biblica ha sempre visto, fino a quest’altezza, Sara al séguito di Abramo durante i vari spostamenti: può darsi che Pietro Comestore, per mezzo di un intervento senza dubbio sostanziale e arbitrario sull’ipotesto, abbia inteso allineare anche questo episodio ai precedenti, segnalando il ritorno di Abramo nella Valle di Mambre prima della morte di Sara; in tal modo, anche qui si ha l’impressione che, come in altre circostanze, i due si siano trasferiti insieme da Bersabee nella Valle di Mambre, e che qui poi Sara sia morta. 3. L’ingegnoso tentativo di giustificare l’aggettivo duplex («duplice»), con riferimento alla conformazione geo-morfologica del luogo, non trova riscontro altrove. 4. La lettura in senso tropologico-morale dell’episodio è desunta da Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 53C. 5. Ossia Adamo ed Eva. La chiosa non è del tutto perspicua: l’impressione è che il nostro autore intenda suggerire che la sola ragione per cui, eventualmente, la compravendita possa essere ritenuta illegale – e perciò Abramo ed Ephron colpevoli di peccato – sia una sorta di ‘legge di inviolabilità’ del luogo, non scritta, eppure implicita a motivo della sepoltura ivi dei primi due uomini. 6. Cfr. Glossa ord. Gen 23, 16. Si tratta di un passo estrapolato da Hier., Hebr. quaest. in Gen. 23, 16 (p. 36, l. 5-17), ove Girolamo segnala di aver conservato, anche nella sua traduzione, il mutamento del nome del venditore, così come è dato leggere nel testo ebraico: scritto dapprima Ephron e poi, in occasione dell’atto di vendita, Ephram (cfr. in effetti Gen 23, 16). Girolamo ipotizza anche il motivo di tale mutamento, che il nostro autore omette di riportare: l’aver acconsentito alla vendita per denaro di un luogo di sepoltura, sia
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Note di commento, CAP. 59-60
pure su richiesta pressante di Abramo, rende in ogni caso Ephron un uomo non perfectae virtutis («dalla virtù non perfetta»); ragion per cui al suo nome fu mutata la lettera che in greco corrisponde ad una omega, ultima dell’alfabeto e simbolo della perfezione.
Capitolo 60 Cfr. Glossa ord. Gen 24, 9 (un estratto da Hier., Hebr. quaest. in Gen. 24, 9 [p. 36, l. 18-24]). È degno di nota come, in via del tutto eccezionale rispetto al privilegio accordato all’esegesi storico-letterale, si accolga anche una lettura in chiave tipologico-figurale del gesto simbolico in cui si esprime il giuramento. Il primo livello di lettura, attribuito alla tradizione ebraica, spiega infatti il gesto del servo come un giuramento ‘fisicamente’ effettuato sulla circoncisione di Abramo; un secondo livello interpretativo chiama invece in causa la figura di Cristo: la coscia, in quanto simbolo della stirpe discesa da Abramo, è pre-figurazione di Cristo, che Abramo già sapeva sarebbe stato suo discendente (cfr. la genealogia di Gesù in Mt 1, 1-17 e Lc 3, 23-38). 2. L’osservazione, a nostro giudizio, offre la chiave per comprendere l’inconsueta scelta di accogliere qui anche una lettura tipologico-figurale dell’episodio (cfr. alla nota che precede): l’autore sembra infatti premurarsi di giustificarla in nome di quanto si legge nel testo biblico medesimo. Il fatto cioè che Abramo chieda al servo di giurare «in nome del Dio di cielo e terra» vale ad accreditare la lettura dell’episodio in riferimento a Cristo (la cui divinità è sancita dal dogma trinitario). L’esegesi tipologica risulta quindi deducibile per via diretta dalla littera del testo: l’approccio-base alla Scrittura resta fondamento e soluzione di eventuali sovrasensi. 3. Cfr. Glossa interl. Gen 24, 2. 4. Il dettaglio è debitore a Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 16, 1 . 5. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 16, 1 sia per il breve excursus circa durata e ostacoli del viaggio che per il nome della città della Mesopotamia in cui dimora Nachor. Si badi che il toponimo non è qui menzionato nel testo biblico: cfr. tuttavia Gen 11, 31, e qui al cap. 42, ove si era detto che Thare, insieme ai figli Abram e Nachor,
1.
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Note di commento, CAP. 60
6.
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10.
11. 12.
si trasferisce in Mesopotamia nella città di Aran, toponimo che il testo greco dei Settanta rende nella grafia Charan. Quest’ultimo e curioso dettaglio non trova riscontro nelle fonti: vale tuttavia ad ulteriore testimonianza dell’attitudine di Pietro Comestore ad interrogarsi anche riguardo minimi elementi testuali, non strettamente indispensabili alla trama della storia biblica. La preghiera del servo, cui il testo biblico dedica i vv. 12-14, è tuttavia riportata in stretta aderenza alla formulazione di Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 16, 1 : il passo, a differenza del testo biblico, sottolinea il contrasto tra il comportamento della donna prescelta e quello delle altre donne; il che risulta ben funzionale a caratterizzare il nucleo dell’episodio stesso, ossia l’elezione di Rebecca per volontà divina. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 16, 2 : vale quanto osservato alla nota precedente. Si osservi che, nel testo biblico, la successione delle azioni è la seguente: prima il servo tira fuori i gioielli (v. 22); poi interroga la donna circa la sua identità e le chiede ospitalità (v. 23); infine la donna risponde (v. 24). Pietro Comestore, invece, ri-dispone i tre momenti nell’ordine che, in effetti, parrebbe il più logico: prima il servo interroga la donna; poi ella risponde; infine il servo, appurata l’identità della donna, le offre i gioielli (non a caso, anche in Gen 24, 47 il servo riferirà ex post gli eventi appunto secondo questa scansione). Il lungo discorso ricapitolativo pronunciato dal servo (Gen 24, 3449) è riportato dal nostro autore in forma indiretta e condensato nei suoi elementi essenziali. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 16, 2 . A riprova dell’auctoritas di cui Pietro Comestore ritiene depositario il testo di Flavio Giuseppe, ci si premura qui di dimostrare come sia soltanto apparente l’incongruenza tra le indicazioni da esso offerte e quelle segnalate dal testo biblico: la morte di Batuel può dirsi implicita anche in Gen 24, 28, ove si riferisce infatti che Rebecca si sia recata di corsa a casa “della madre” (e non “del padre”); quanto al fatto che poi, in Gen 24, 50, si riferisca che furono Labano e Batuel a rispondere al servo, il nostro autore formula
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Note di commento, CAP. 60-61
l’ipotesi per cui il nome del padre starebbe qui in luogo di quello della madre, come a segnalare che era stato appunto il marito, ossia il padre della ragazza, ad averle affidato l’incarico di dare in sposa la figlia. 13. I pretesti addotti dal servo per ottenere congedo non trovano riscontro nelle fonti: il dettaglio potrebbe essere stato aggiunto dal nostro autore, nel tentativo di motivare plausibilmente la fretta di partire manifestata dal servo, in effetti altrimenti immotivata. 14. Secondo Shereshevsky, ‘Hebrew traditions’, p. 281-282, il dato sarebbe riconducibile alla tradizione esegetica ebraica.
Capitolo 61 1.
Sulla scorta di Glossa interl. Gen 24, 62, si precisa il luogo di insediamento di Isacco, ove il testo biblico si esprime invece in termini generici (cfr. Gen 24, 62: habitabat enim in terra australi, ossia «abitava infatti a meridione»). 2. L’ipotesi si mostra congruente con quanto puntualizzato al termine del cap. 60: tra i pretesti addotti dal servo per ottenere immediato congedo, si menzionava infatti il ritardo da lui accumulato durante il viaggio. 3. La lezione alternativa è estrapolata da Glossa interl. Gen 24, 63. Si osservi lo sforzo ulteriore, indipendente dalle fonti, di darne ragione in termini quanto più verosimili. 4. Nel testo biblico, Rebecca prima scende dal cammello (v. 64) e poi si informa circa l’identità dell’uomo (v. 65): Pietro Comestore inverte la sequenza delle due azioni, come la logica parrebbe in effetti meglio richiedere. 5. Il testo della Vulgata legge soltanto pallium («un mantello»): il sostantivo teristrum («un teristro») è segnalato quale lezione alternativa in un passo di Glossa ord. Gen 24, 65, da cui il nostro autore deriva anche la glossa esplicativa sulla natura di tale indumento. L’indicazione del colore – bianco – intende forse sottolineare la purezza di Rebecca.
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Note di commento, CAP. 62
Capitolo 62 1. 2.
La tradizione ebraica è desunta da Glossa ord. Gen 25, 1. Tale risulta, infatti, la scansione narrativa adottata da Flavio Giuseppe: il matrimonio di Abramo con Cethura si legge in Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 15, 1 e l’ambasceria inviata da Abramo per prendere moglie a Isacco in Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 16, 1-3 . 3. Pietro Comestore non si cura di riportare i nomi dei sei figli, sebbene il testo biblico li menzioni singolarmente. 4. L’osservazione è debitrice a Glossa interl. Gen 25, 1: essa ribadisce quanto già osservato al cap. 51 sulla sterilità di Sara. 5. Vale a dire di Sara, e non invece di una concubina. Pietro Comestore sembra qui accogliere implicitamente la tradizione ebraica, sopra esposta, per cui Cethura altri non sarebbe che Agar: svariate fonti, infatti, riportano sì la medesima osservazione onomastica, ma non in merito ai figli di Cethura, bensì ai discendenti di Agar. Ciò premesso, un’etimologia analoga è formulata in Petr. Lomb., Comm. in Psalm. 119, col. 1135D-1136A: Cedar fuit filius Ismaelis. Unde Saraceni descenderunt, qui verius ab Agar dicerentur Agareni, sed a Sara digniori et libera nomen sibi vindicaverunt («Cedar fu figlio di Ismaele: da lui discesero i Saraceni, che in verità si sarebbero dovuti chiamare Agareni da Agar, ma si arrogarono il loro nome derivandolo da quello di Sara, donna più degna e di condizione libera»). 6. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 15, 1 e Glossa ord. Gen 25, 1. 7. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 15, 1 . La grafia di alcuni nomi propri di persona – elemento testuale tra i più facilmente soggetti a corruttela – compare nel nostro testo in forma un poco storpiata rispetto alla fonte: il nome Cledeo (in latino Cledeus) sta in luogo di Cleodemo (in latino Cleodemus), storico attivo forse in epoca tardo-ellenistica, di cui nulla ci è tramandato se non le scarne informazioni e il frammento riportati da Flavio Giuseppe. I nomi Dodorim e Phoron sono scritti nella fonte rispettivamente Diodorus e Sophon. Si badi, inoltre, che secondo la fonte Ercole sposò la figlia non di Apheram, ma di Iaphram: un terzo figlio di Cethura e Abramo, citato da Cleodemo in aggiunta a Surim e Apheram.
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Note di commento, CAP. 63
Capitolo 63 1.
2.
Come dichiarato espressamente nel Prologo, all’occorrenza la narrazione registra − nel solco della storiografia universale cristiana, anch’essa solita articolare l’esposizione per regni − alcune sincronie (in latino incidentia) tra la storia sacra e la storia profana. Nessuno di tali inserti sembra riconducibile in toto ad un preciso testo-fonte: si rimanda a Introduzione § Fonti per una rassegna delle opere da cui si direbbero desunte le singole nozioni, poi assemblate in un originale e unitario discorso. Il capitolo qui in esame si configura come appendice al precedente, che vede la morte di Abramo individuare un punto di cesura nella narrazione. I tre brevi excursus ricapitolativi della storia dei principali regni (assiro, sicionio, egizio) attingono a fonti di ambiente vittorino: cfr. Hugo S. Vict., Chron. − Paris, BnF, lat. 15009, f. 5r-6r; Richard. S. Vict., Except. 1, 5, 3; 9; 11. Le due fonti si esprimono in termini analoghi, poiché Riccardo desume pressoché ad litteram interi passi dall’opera del suo maestro Ugo, integrandovi qualche dato ulteriore: il nostro testo accoglie dettagli che figurano soltanto nell’uno o nell’altro. Nel caso dei regni assiro e sicionio, Pietro Comestore cita fedelmente dalle proprie fonti, omettendo però gli elenchi dei nomi dei sovrani e limitandosi ad indicarne il numero complessivo; quanto al regno egizio, invece, estrapola dall’ampio e dettagliato passo di Riccardo i concetti essenziali (ove Ugo si limita ad elencare per via schematica la successione delle dinastie). Vale la pena di segnalare che la Sylwan individua nel manoscritto Paris, BnF, lat. 15009 l’esemplare del Chronicon di Ugo di San Vittore effettivamente utilizzato dal nostro autore, dal momento che esso – copiato a San Vittore intorno al 1140 – è l’unico testimone del Chronicon a recare, in veste di glossa marginale accanto al nome di Sardanapalo, il dettaglio qui primus pulvinaria adinvenit («colui che per primo introdusse l’uso dei banchetti sacri»): cfr. Petr. Comest., Hist. Schol. − ed. A. Sylwan, p. xxvi.
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Note di commento, CAP. 64-65
Capitolo 64 1.
2. 3.
Il dettaglio trova effettivo riscontro nella tradizione esegetica ebraica: così Shereshevsky, ‘Hebrew traditions’, p. 282. Tra i commentari biblici che è lecito supporre accessibili al nostro autore, il solo a riportarlo è Remig., Expos. super Gen. 25, 17. Cfr. Glossa interl. Gen 25, 18. Il testo biblico attribuisce lo stanziamento tra Evila e Sur allo stesso Ismaele: Pietro Comestore ne estende l’indicazione all’intera posterità. Le chiose geografiche sono desunte da Glossa interl. Gen 25, 18 (l’identificazione di Evila con l’India) e da Glossa ord. Gen 25, 18 (i restanti dati).
Capitolo 65 1.
2.
3.
La preghiera rivolta da Isacco a Dio in Gen 25, 21 è motivata al fine di esplicitare, per coerenza narrativa, l’ostacolo frapposto dalla sterilità di Rebecca al compimento della promessa divina, per cui risulta necessaria la preghiera di Isacco: analogo spunto concettuale in Glossa ord. Gen 25, 21 e in Glossa interl. Gen 25, 21. Alternative rispetto a conlidebantur (da noi reso «si scontravano») della Vulgata, le tre rese sono estrapolate da Glossa ord. Gen 25, 22. L’espressione biblica «i bambini si scontravano nel suo grembo» è oggetto di chiarimento. Come di consueto, il primo approccio al testo è quello storico-letterale (i gemelli si avvicendano nei loro movimenti, scambiandosi di posto); esso, tuttavia, non basta a spiegare il motivo per cui tale evento si verifica: il nostro autore prende infatti posizione contro l’ipotesi per cui il fenomeno sia imputabile alla scarsa capienza dell’utero materno. Può spiegarsi, invece, in chiave allegorica con riferimento alle successive vicende storiche veterotestamentarie: il movimento alternato dei gemelli ancora nel grembo è letto come pre-figurazione (cfr. il generico demonstrare, «mostrare», ma anche il tecnico figurare, «prefigurare») di quanto sarebbe a loro stessi accaduto da adulti (la compravendita della
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Note di commento, CAP. 65
primogenitura: cfr. Gen 25, 27-34 e qui al cap. 66) e della discordia che avrebbe regnato tra i loro posteri; lettura allegorica che – si precisa – muove dalla convinzione che Giacobbe avesse già ricevuto la consacrazione divina nel grembo materno. Infine, e in via del tutto eccezionale, l’esegesi procede oltre il livello storico-letterale e quello allegorico: riecheggiando un passo di san Paolo, Pietro Comestore segnala anche una possibile lettura dell’episodio in chiave strettamente tipologico-figurale, vale a dire come pre-figurazione del dissenso tra Cristo e Belial, ossia tra cristiani e pagani (si noti, di nuovo, l’espressione tecnica in hoc motu prefiguratum, «che il movimento dei gemelli prefigurasse»). La nutrita sezione esegetica non si lascia accostare ad alcuna fonte di riferimento, se non al passo di Andr. S. Vict., Exp. Gen. 25, 22, ove si accenna esclusivamente alla prefigurazione della discordia tra i posteri; ciononostante, quantomeno l’ipotesi sulla scarsa capienza dell’utero materno, attribuita ad imprecisati quidam («taluni»), sembrerebbe sottendere una tradizione esegetica (forse solo orale?) nota al nostro autore. 4. Sulla scorta di Glossa ord. Gen 25, 22, si rileva un apparente anacronismo. In aggiunta, Pietro Comestore allega due proposte risolutive. 5. Nella già citata Glossa ord. Gen 25, 22 è formulata genericamente l’ipotesi che Rebecca si sia recata presso l’altare costruito da Abramo e lì abbia ricevuto il messaggio divino durante il sonno: il nostro testo risulta ben più denso di contenuti, anche di carattere ‘tecnico’ (le due particolari specie di alloro e di albero, nonché la prassi dettagliata seguìta da Rebecca), che tuttavia non trovano riscontro nelle fonti. 6. Cfr. ibid. 7. Analogo modo di troncare la questione in Glossa ord. Gen 25, 22. 8. L’osservazione trae spunto da Glossa ord. Gen 25, 23. 9. Quest’ultima catena di similitudini, assai concrete, ben chiarisce il senso della proposta esegetica: nel caso in cui si voglia intendere la servitù precisamente in relazione ai due fratelli, bisognerebbe intendere la servitù del maggiore (Esaù) nei confronti del minore (Giacobbe) come quel paradossale tipo di giovamento che talora può derivare da un apparente danno o persecuzione. È interessante
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Note di commento, CAP. 65
10.
11. 12. 13.
osservare che la triplice similitudine è attestata altrove, in termini pressoché analoghi, esclusivamente in alcuni trattati o sermoni (di poco anteriori, coevi o posteriori alla nostra opera) in cui si discute l’utilità della tribulatio («patimento»), con riferimento alla vita del martire o del monaco oppure alla dimensione morale dell’uomo giusto. A titolo esemplificativo, riportiamo qui un passo tratto da una raccolta pseudo-agostinana (redatta con ogni probabilità nel XII sec.) di sermoni rivolti a monaci eremiti (cfr. Ps. Avg., Serm. ad fratr. 10, col. 1252): Nam sicut in fornace purgatur aurum, sicut lima purgat ferrum, sicut flagellum separat a grano paleam, sic in fornace tribulationum patientia exercetur, fortitudo roboratur, constantia solidatur, spes ad coelestia invitatur («Infatti, come nella fornace l’oro si purifica, come la lima purifica il ferro, come la calamità separa la paglia dal grano, così nella fornace delle tribolazioni la pazienza viene esercitata, la fortezza corroborata, la speranza invitata alle cose del cielo»). Può darsi che tali immagini fossero parte di un divulgato patrimonio metaforico-figurativo, cui all’occorrenza gli intellettuali medievali non esitavano ad attingere. Il nome, o meglio soprannome, di Seir, è annotato in Glossa interl. Gen 25, 25 con relativa glossa, ossia l’aggettivo pilosus («peloso»); la spiegazione etimologica che offre il nostro testo deriva invece da Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 18, 1 , ove tuttavia è segnalata come quella del nome Esaù: non stupisce che Pietro Comestore l’abbia accostata al nome Seir, più simile al sostantivo ebraico seiron. L’etimologia qui proposta compare altrove soltanto in Remig., Expos. super Gen. 25, 25. Sono tratti da Glossa interl. Gen 25, 25 sia l’etimo del nome che la precedente spiegazione simbolica del gesto di Giacobbe. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 18, 1 . L’indicazione cronologica offerta da Flavio Giuseppe, secondo cui Rebecca avrebbe concepito dopo la morte di Abramo, si mostra cioè incongruente con il dato ricavabile dal testo biblico, secondo cui – come dimostrato poc’anzi – Abramo sarebbe stato ancora in vita al momento della nascita dei gemelli. Pietro Comestore, secondo un modulo consueto, si sforza di avanzare un’ipotesi conciliatrice tra l’auctoritas del testo biblico e quella di Flavio Giuseppe, in modo tale che non si debba
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Note di commento, CAP. 65-66
rifiutare l’una o l’altra: per ‘morte di Abramo’ può darsi si voglia intendere il periodo della sua infecondità a causa della vecchiaia. 14. Il testo latino legge ipse enim textus littere non esse dictum per recapitulationem indicat, ove il soggetto dell’infinitiva non esse dictum è inespresso: alla lettera «lo stesso testo della Sacra Scrittura, infatti, segnala che non è stato detto con la tecnica narrativa della ricapitolazione». Due considerazioni preliminari: la tecnica narrativa detta recapitulatio consiste nel riepilogare, o narrare per la prima volta, un evento che in realtà ha avuto luogo tempo prima rispetto al punto in cui la narrazione è giunta (il termine è impiegato nella medesima accezione anche ai capp. 13, 36, 43, 67, 81, 84); il nostro autore ha appena dimostrato che la narrazione biblica sottende in effetti tale tecnica, dal momento che la nascita dei gemelli di Isacco ha avuto luogo vivente ancora Abramo, la cui morte il testo biblico aveva tuttavia già riferito. Alla luce di queste premesse, ci pare che l’unico modo per dare senso alla frase sia supporre come soggetto dell’infinitiva l’evento della nascita dei gemelli (in ogni caso, data la non assoluta perspicuità della frase, si è scelto di tradurre genericamente «l’evento») e sottintendere non esse dictum ‘a suo luogo’, ‘in precedenza’, ossia nel contesto della precedente sezione di Gen 25, 1-10, ove si trattava della vecchiaia di Abramo: l’evento, infatti, non è stato menzionato allora, ma soltanto dopo, in virtù appunto della ricapitolazione. 15. Per questo inserto di storia profana si segnalano i passi paralleli di Hugo S. Vict., Chron. − Paris, BnF, lat. 15009, f. 6r e di Richard. S. Vict., Except. 1, 5, 12: sul rapporto tra le due fonti, nonché tra esse e il nostro testo, si rimanda al cap. 63, n. 2.
Capitolo 66 1.
In Gen 25, 27 Giacobbe è definito vir simplex («uomo semplice»), dato a cui Pietro Comestore sostituisce pastor («pastore»): forse per allineare il ritratto di Giacobbe a quello di Esaù, del quale si erano indicate le due attività svolte (e non, invece, una qualità del carattere). Il dato biblico, tuttavia, non è ignorato da Pietro, ma riportato poco oltre: cfr. anche alla nota che segue.
375
Note di commento, CAP. 66-67
2.
Il testo di Gen 25, 28 segnala un solo motivo per cui Isacco ama Esaù e nessun motivo per cui Rebecca ama Giacobbe: il nostro autore, invece, adotta una duplice scansione bimembre (cfr. tum… tum: «sia…sia») che evidenzia, per ciascuno dei gemelli, ben due motivi dell’affetto nutrito dal genitore. Si osservi che è qui reimpiegata l’indicazione di Gen 25, 27 sulla simplicitas («semplicità») di Giacobbe. 3. Quest’ultimo dettaglio è anticipato sulla base di Gen 25, 34. 4. Le osservazioni etimologiche e toponomastiche sono debitrici a Glossa ord. Gen 25, 29 e a Glossa interl. Gen 25, 30. 5. Sulla particolare veste indossata dai primogeniti in occasione dei sacrifici, cfr. Glossa ord. Gen 25, 31; sul privilegio, goduto dai primogeniti, di poter ricevere il doppio (rispetto agli altri fratelli, s’intende) dei beni paterni, cfr. Andr. S. Vict., Exp. Gen. 25, 31.
Capitolo 67 Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 18, 2 : l’inquadramento contestuale dell’episodio vale anche ad esplicitare le intenzioni di ciascun personaggio. 2. L’episodio della discesa di Isacco a Gerar viene cioè riferito qui, ma bisogna supporre abbia avuto luogo ben prima, data la menzione di Abimelech ancora in vita: l’osservazione estrapola il nucleo concettuale da un ampio passo di Glossa ord. Gen 26, 1. 3. Traendo verosimilmente spunto da Glossa interl. Gen 26, 10 (che a proposito del verbo imposuisti, da noi reso «hai imposto», annota: .i. decepisti, unde impositores: «ossia: hai ingannato; da cui il termine ‘impostori’»), il nostro autore rileva l’impiego in senso absolutus (lett. «assoluto»), ossia intransitivo, del verbo imponere (lett. «porre sopra [scil. qualcosa a qualcuno]») in tale accezione: si osservi la nutrita catena di espressioni sinonimiche che riformulano, per meglio chiarirlo, il medesimo concetto. 4. Quest’ultimo dettaglio, assente nel testo biblico, obbedisce alla logica – ormai più volte evidenziata – di motivare le azioni e i comportamenti umani, a sostegno di una puntuale comprensione del testo nella sua dimensione storico-letterale.
1.
376
Note di commento, CAP. 67
In corrispondenza di Gen 26, 12, il testo della Vulgata legge seminavit autem Isaac in terra illa et invenit in ipso anno centuplum («Ma Isacco seminò in quella terra e ottenne nel corso di quell’anno il centuplo»). La parte finale del passo qui riportato è segnalata da Pietro Comestore quale alia translatio («altra traduzione»), e perciò come relegata a lezione secondaria: in genere, invece, alla Vulgata aderisce la citazione del testo biblico, e soltanto in séguito sono eventualmente riportate una o più lezioni alternative. Qui la citazione accoglie la lezione aestimatum («stimato»), verosimilmente desunta da Glossa ord. Gen 26, 12: un estratto da Hier., Hebr. quaest. in Gen. 26, 12 (p. 41, l. 6-11), ove Girolamo si schiera a favore della lezione centuplum aestimatum («il centuplo stimato») contro centuplum hordei («il centuplo di orzo») che dice di trovare attestata in alcuni manoscritti (in ogni caso, si badi che lo stesso Girolamo, nella Vulgata, accoglie a testo il solo centuplum; la resa «il centuplo stimato» si legge peraltro anche nel testo greco dei Settanta). Sull’aderenza assoluta o meno di Pietro Comestore al testo della Vulgata, cfr. al cap. 16, n. 7. Non trovano riscontro nelle fonti né il tentativo di spiegare il significato dell’espressione «il centuplo stimato» né il dubbio avanzato circa la verosimiglianza che il centuplo possa essere stato ricavato da una sola specie di seminato (osservazione, quest’ultima, che giustifica la proposta della lezione alternativa). 6. Lo scarno dato offerto da Gen 26, 17 (Isacco si reca al torrente di Gerar e vi si stanzia) è integrato con notazioni geografiche derivate da Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 18, 2 . 7. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 18, 2 . Quanto alla seconda delle due motivazioni per cui Isacco lascerebbe incompiuti i pozzi, la fonte legge expectans (scil. Isacco) bonae voluntatis ratione licentiam etc., ove l’espressione bonae voluntatis ratione è riferita a Isacco, ossia «attendendo, con la ragionevolezza della buona volontà, il permesso etc.». Il nostro testo, invece, legge expectans bonae voluntatis eorum rationem et licentiam, alla lettera «attendendone [= di loro, degli abitanti del luogo] la ragionevolezza e il permesso della buona volontà»: forse a motivo di un guasto già nella tradizione di Flavio Giuseppe a disposizione del nostro autore, la simultanea presenza dell’accusativo rationem («la ragionevolezza») in luogo dell’abla5.
377
Note di commento, CAP. 67
tivo ratione («con la ragionevolezza»), nonché del pronome eorum («di loro»), muta radicalmente il senso del passo, poiché fa di «ragionevolezza» un ulteriore complemento oggetto e riferisce l’intera espressione agli abitanti del luogo; si rende dunque necessario, in sede di traduzione, rendere la frase in modo più libero e intendere il sostantivo voluntas come «disposizione» piuttosto che «volontà». 8. Si osservi che, per ciascuno dei tre pozzi, il testo della Vulgata segnala il nome proprio latino (rispettivamente Calumnia, «Calunnia»; Inimicitia, «Inimicizia»; Latitudo, «Espansione»): Pietro Comestore ne segnala invece il nome ebraico (rispettivamente Escon, Sathana, Robooth), cui allega il corrispettivo latino in forma di glossa esplicativa e, nel caso dei primi due, un ulteriore sinonimo. È verosimile che la scelta tragga spunto da Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 18, 2 , ove sono indicati (soltanto) i nomi ebraici (quello del secondo pozzo nella grafia corrotta di Suennam); i nomi ebraici del secondo pozzo (nella grafia corretta Sathana) e del terzo sono riportati altresì in Glossa ord. Gen 26, 21-22, ove figura anche la glossa contrarium («contrario») in riferimento al secondo. 9. Come già per i tre precedenti, anche per questo pozzo il testo della Vulgata segnala il nome proprio latino (Abundantia, «Abbondanza»), riservando invece il nome ebraico Bersabee soltanto alla città: il nostro autore attribuisce quest’ultimo anche al pozzo, allegando il corrispettivo latino in forma di glossa esplicativa («pozzo dell’abbondanza») più un’ulteriore glossa sinonimica («pozzo della sazietà») ricavata da Glossa ord. Gen 26, 32. 10. La spiegazione è fedelmente debitrice alla già citata Glossa ord. Gen 26, 32. Si tratta di prevenire un’indebita conclusione cui il lettore potrebbe giungere rammentando il precedente episodio del patto tra Abramo e Abimelech, a conclusione del quale Abramo diede al pozzo il nome Bersabee (cfr. Gen 21, 22-32, e qui al cap. 57): nome che sembrerebbe precisamente il medesimo di quello ora attribuito da Isacco. L’excursus chiarisce tuttavia che la seconda componente dei due nomi, ossia sabee, sebbene omografa e omofona nella trascrizione latina, in lingua ebraica risale ad una differente etimologia e differisce nella pronuncia: nel nome attribuito da Abramo, sabee è da ricondurre al termine ebraico per ‘giuramento’
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Note di commento, CAP. 67-68
o per ‘settimo’ (cfr. già al cap. 57), è scritto con la lettera ebraica sin (più precisamente, si tratta della lettera shin, corrispondente alla sibilante palatale sc dell’italiano) e suona più aspro nella pronuncia; nel nome attribuito da Isacco, sabee è da ricondurre al termine ebraico per ‘sazietà’, è invece scritto con la lettera greca sigma (o meglio, come chiarisce la fonte, per mezzo della lettera ebraica samech, che in greco è traslitterata come sigma: la lettera samech corrisponde ad una sibilante non palatale s dell’italiano) e suona più dolce nella pronuncia. 11. Per questo inserto di storia profana, è dato individuare un preciso riscontro testuale soltanto limitatamente a singole nozioni: in punti sparsi del trattato etimologico di Isidoro di Siviglia, (sull’introduzione, da parte di Foroneo, di leggi e processi, cfr. Isid., Etym. 5, 1, 1 e 5, 39, 8; sulla presunta derivazione del sostantivo «foro» dal nome di Foroneo, cfr. ibid. 15, 2, 27; sull’arrivo in Egitto di Iside e Apis-Serapide, sull’introduzione in Egitto da parte di Iside di lettere e innovazioni agricole, e sulla derivazione etimologica del nome Iside dal termine egizio per «terra», cfr. ibid. 8, 11, 84-85); nella traduzione geronimiana del Chronicon eusebiano (sulla presunta discendenza di Foroneo da Inaco e Niobe, nonché su leggi e processi da lui introdotti, cfr. Hier., Chron. p. 29b); nella cronaca universale di Onorio Augustodunense (sul nome originario di Iside, ossia Io, mutato in occasione della sua divinizzazione, cfr. Honor. Avg., De imag. mundi 3, col. 170C). Nessun riscontro per il dettaglio sulla presunta unione matrimoniale tra Iside e Api-Serapide.
Capitolo 68 1.
La scarna trama offerta dal testo biblico è integrata da ulteriori dettagli presi a prestito da Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 18, 4 : la stirpe di provenienza delle due donne; la totale autonomia rivendicata da Esaù nella scelta delle mogli; la riluttanza di Isacco a mescolare la propria parentela con i Cananei. Le aggiunte esplicative sono intese a giustificare l’offesa, altrimenti immotivata, arrecata dalle due donne a Isacco e Rebecca (Gen 26, 35).
379
Note di commento, CAP. 69-70
Capitolo 69 1.
Il nostro autore esplicita così lo scopo del travestimento. In aggiunta, allega un’osservazione desunta da Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 18, 6 sui caratteri fisici dei due gemelli, che rispecchia una certa premura nel delineare l’episodio in termini di verosimiglianza realistica. 2. La precisazione intende evidenziare lo scarto metonimico sotteso al testo biblico (cioè la parte in luogo del tutto). 3. Il chiarimento non trova riscontro nelle fonti. 4. Il rilievo sulla discrepanza verba-intentio (parole-intenzione) è formulato in termini analoghi, con parallelo esplicativo in riferimento all’ordinazione episcopale, da Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 55A e da Andr. S. Vict., Exp. Gen. 27, 28. La controversia relativa alla validità o meno delle cariche ecclesiastiche si inserisce nel più ampio dibattito, vivo già a partire dall’epoca patristica, in merito al cosiddetto fenomeno della ‘simonìa’, ossia la compravendita di beni spirituali quali sacramenti e cariche: la posizione ufficiale condannava sì aspramente la moralità dei religiosi simoniaci, ma riteneva comunque validi ex opere operato («per il fatto che l’azione è stata compiuta») i sacramenti da loro conferiti in quanto opere attuate da Dio attraverso un ministro umano, a dispetto della dignità o meno di quest’ultimo. 5. Sono tratti da Glossa ord. Gen 27, 33 sia i chiarimenti sul terrore di Isacco, da intendersi come uno stato di estasi in cui gli è dato comprendere il motivo dell’inganno, sia la descrizione del suo conseguente comportamento. 6. Cfr. Glossa ord. Gen 27, 40. 7. Cfr. un altro passo di Glossa ord. Gen 27, 40.
Capitolo 70 1.
Cfr. Andr. S. Vict., Exp. Gen. 27, 41. La breve glossa scioglie la potenziale ambiguità sottesa all’espressione luctus patris mei (lett. «il lutto di mio padre»), diversamente interpretabile a seconda che il genitivo sia inteso come soggettivo («il lutto di mio padre
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Note di commento, CAP. 70
[scil. per la morte altrui]») oppure oggettivo («il lutto [scil. altrui per la morte] di mio padre»): il senso da attribuire all’espressione è evidentemente il secondo, con «lutto» metonimia per «morte» (l’effetto in luogo della causa). 2. Anche Glossa ord. Gen 27, 41 pone la questione circa la modalità attraverso cui Rebecca sarebbe giunta a conoscenza dei pensieri di Esaù: nella fonte, tuttavia, non si menziona precisamente lo Spirito Santo, ma si dice in termini più vaghi che ciò le fu rivelato divinitus («per volere divino»). Quanto alle scusanti per il comportamento di Rebecca e Giacobbe, cfr. Petr. Lomb. Sent. 3, dist. 38, cap. 6, par. 3 (a commento però dell’episodio dell’inganno: Gen 27, 5-16, e qui al cap. 69). 3. Il nostro autore esplicita il motivo per cui Rebecca agisce in tal modo. 4. La tessera lessicale patruus («zio paterno») figura in Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 18, 8 . Ignoriamo, invece, quale fonte abbia potuto suggerire a Pietro Comestore l’altro tecnicismo indicante rapporto di parentela, ossia uterina («germana», «nata dagli stessi genitori»), riferito a Malech in relazione a Nabaioth, il primogenito di Ismaele: può darsi che l’esigenza di precisarlo nasca dal fatto che il nome Malech non era stato menzionato tra l’elenco dei figli avuti da Ismaele in Gen 25, 13-16 (nomi che, tuttavia, Pietro aveva omesso di riportare al corrispondente cap. 64). 5. Per tutti questi particolari sul viaggio di Giacobbe, cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 18, 8 -1, 19, 1 . Presenta qualche difficoltà interpretativa, nel nostro testo, il nome proprio Cariath (in latino, all’accusativo Cariathim). La fonte legge Cum iam Ismahelis patrui filiam Basmin Esau coniugem accepisset, non enim erant devoti Chananaei circa Isaac in prioribus eius bellis valde gravati, cum Baemathim cepisset, circa quam praecipue laboraverat (lett. «Avendo Esaù già preso in moglie Basemath, figlia dello zio paterno Ismaele, i Cananei non erano infatti devoti verso Isacco, molto oppressi nel corso delle precedenti guerre contro di lui, avendo egli preso Basemath, per la quale aveva assai faticato»): dalla prima occorrenza del nome proprio Basemath (in latino, all’accusativo Basemathin), è evidente che si tratta del nome della nuova moglie di Esaù, figlia di Ismaele. Al contrario, Pietro Comestore ne
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Note di commento, CAP. 70
ha poc’anzi riportato il nome Malech, in accordo con Gen 28, 9; il nome Basemath è invece quello attribuito da Gen 26, 34 ad una delle prime due mogli di Esaù, e riportato anche da Pietro (nella grafia lievemente variata di Besamath) al cap. 68. Quanto al nome proprio Cariath che compare nel passo in esame, lo si direbbe un toponimo (cfr. al cap. 45, ove Pietro aveva glossato «città» il termine cariath, prima parte del composto Cariatarbe, toponimo alternativo per la città di Hebron): in effetti, dal momento che il discorso verte su precedenti scontri bellici tra i Cananei e Isacco, un toponimo suonerebbe ben più calzante rispetto ad un nome proprio di persona, e i verbi capĕre (lett. «prendere», ma anche «conquistare») e laborare (lett. «faticare») sembrerebbero meglio potersi riferire alla conquista di una città che non a quella di una donna. Impossibile stabilire a quale altezza della tradizione testuale sia da collocare l’innovazione, o semplice corruttela grafica, Cariathim in luogo di Basemathin. A margine del discorso, vale la pena di rilevare che, a monte di tutto ciò, sta una maldestra traduzione del passo di Flavio Giuseppe dal testo greco alla versione latina: il greco legge infatti ἤδη γὰρ τὴν Ἰσμαήλου παῖδα Ἡσαῦς παρειλήφει πρὸς γάμον Βασεμάθην: οὐ γὰρ εὐνόουν τοῖς Χαναναίοις οἱ περὶ τὸν Ἴσακον, ὥστε, ἐπὶ τοῖς πρότερον αὐτοῦ γάμοις δυσχερῶς διακειμένων, εἰς τὸ ἐκείνοις κεχαρισμένον τὴν Βασεμάθην παρέλαβεν, μάλιστα περὶ αὐτὴν σπουδάσας («Infatti Esaù aveva in precedenza preso in moglie Basemath, figlia di Ismaele. La famiglia di Isacco, infatti, non vedeva di buon occhio i Cananei: al punto che, poiché si ostinava nel disapprovarne le precedenti nozze, egli prese in moglie Basemath per compiacerli, assai adoperandosi per lei»). 6. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 19, 1 . 7. La digressione non trova riscontro nelle fonti. Il nostro autore ha cura di rilevare che le tre promesse divine sono riferite in ordine praeposterus («inverso») rispetto al tempo in cui saranno adempiute: l’ultima, infatti, che riguarda direttamente la persona di Giacobbe, si è perciò adempiuta per prima; la prima riguarda invece la sua discendenza, e si è adempiuta all’epoca di Giosuè; la seconda si adempirà alla fine dei tempi con la venuta di Cristo. 8. L’esegesi accoglie spunti concettuali offerti da Glossa interl. Gen 28, 17.
382
Note di commento, CAP. 70-71
9.
Il testo di Gen 28, 19 riferisce soltanto che Giacobbe chiama Bethel la città che prima si chiamava Luza. Il nostro testo è ricco di dettagli aggiuntivi: l’etimologia di Bethel, sulla scorta di Glossa interl. Gen 28, 19 e poi di Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 19, 2 ; il toponimo originario Gebus, a motivo della fondazione della città ad opera dei Gebusei (cui accennano le fonti, ma senza indicare il nome della città: cfr. Isid., Etym. 15, 1, 22); l’etimologia di Luza dal termine per ‘noce’ o ‘mandorla’, segnalata da Glossa interl. Gen 28, 19. Si osservi, inoltre, lo sforzo di motivare plausibilmente l’ultima e curiosa etimologia: nessuna delle due ipotesi trova riscontro altrove.
Capitolo 71 1.
2.
3.
Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 19, 3 : l’inquadramento spazio-temporale del nuovo episodio che ci si appresta a narrare è un aspetto a cui Pietro Comestore, come già osservato altrove, attribuisce sempre una particolare importanza. Vale la pena di notare che, nel testo latino, la richiesta ai pastori di notizie su Labano è introdotta dal verbo percunctari, di uso assai più raro rispetto ad interrogare della Vulgata, e tuttavia scelta lessicale che figura anche in Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 19, 3 . Posto che la coincidenza difficilmente può dirsi casuale, il fenomeno sembra indicativo della continua collazione, operata dal nostro autore, tra il testo di Genesi e quello di Flavio Giuseppe, con l’inevitabile possibilità di dar luogo anche a contaminazioni microscopiche, ossia soltanto formali e non sostanziali. Il senso dell’osservazione è che Giacobbe da solo non sarebbe stato in grado di sollevare e rimuovere una pietra di grandezza tale da coprire la bocca di un pozzo. Cfr. Andr. S. Vict., Exp. Gen. 29, 10: Cum praemissum sit, quod grandis (scil. lapis) esset, quo os putei claudebatur, patet, quod socios itineris de paterna domo habebat, quibus adiuvantibus grandem lapidem amovit («Poiché si è detto in precedenza [cfr. Gen 29, 2] che la pietra a chiusura della bocca del pozzo era grande, se ne deduce con ogni evidenza che Giacobbe aveva portato con sé, da casa di suo padre, dei compagni di viaggio, con l’aiuto dei quali rimosse quella grande pietra»). Analoga notazione
383
Note di commento, CAP. 71
in Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 55C, ma in forma ermetica come nel nostro testo. 4. Quest’ultima affermazione è un’aggiunta rispetto a quanto si legge nel testo biblico: sebbene inglobata a tutti gli effetti nel discorso diretto pronunciato da Labano, essa altro non fa che proporre una lettura esegetica della sua precedente esclamazione, espressa in termini evidentemente metaforici. 5. L’indicazione è implicita nel testo biblico, dove è tuttavia deducibile dal prosieguo dell’episodio (cfr. in particolare Gen 30, 31 ss. e qui al cap. 74): può darsi che Pietro Comestore, forse sulla scorta di Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 19, 6 , abbia ritenuto opportuno anticiparla qui per giustificare la conseguente proposta, da parte di Labano, di una ricompensa per Giacobbe (Gen 29, 15). 6. Il testo di Gen 29, 15 parla genericamente di ricompensa, senza specificare per quale tipo di servizio prestato da Giacobbe: valga quanto già osservato alla nota precedente. 7. Il breve excursus semantico-lessicale intende far luce sull’espressione pauci dies («pochi giorni»). Anzitutto, accogliendo una notazione di Glossa ord. Gen 29, 20, si esclude che essa vada intesa in riferimento alla durata temporale dei giorni di servizio, dal momento che il desiderio, anzi, fa apparire lenta la velocità stessa: il nostro autore, in aggiunta, osserva acutamente che l’accezione temporale avrebbe visto più calzante l’aggettivo parvi («piccoli» cioè «di breve durata»). Ciò premesso, le proposte sono due: a) intendere pauci come una sorta di aggettivo indicante complemento di stima-prezzo: a Giacobbe i sette anni sembrano pauci dies nel senso che gli sembra di aver acquistato a così scarso prezzo una cosa tanto amabile come Rachele; b) intendere il sostantivo dies nel senso di labor dierum («la fatica dei giorni»), che a Giacobbe sembra piccolo in quanto addolcito dall’amore. Questa seconda lettura accorpa due distinti spunti offerti da Glossa ord. Gen 29, 20 e da Glossa interl. Gen 29, 20. 8. Sono tratteggiate in aderenza a Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 19, 6 sia la reazione di Giacobbe all’inganno ordìto da Labano che la conseguente di costui alle lamentele di Giacobbe. Il solo dettaglio che deriva da Gen 29, 26 è l’allusione di Labano al costume locale di dare in sposa prima la figlia maggiore.
384
Note di commento, CAP. 71-72
9. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 19, 6 . 10. Cfr. Hier., Hebr. quaest. in Gen. 29, 27 (p. 44, l. 9-17). Non a caso, il testo della Vulgata di Gen 29, 28, che tuttavia il nostro autore omette di riportare, legge ebdomada transacta Rahel [scil. Iacob] duxit uxorem, appunto «trascorsi sette giorni, [scil. Giacobbe] prese in moglie Rachele».
Capitolo 72 1.
Pietro Comestore esplicita lo scopo dell’azione divina, laddove Gen 29, 31 vi allude in termini assai più vaghi dicendo che il Signore aprì il ventre di Lia videns…quod [scil. Iacob] despiceret Liam («vedendo che [scil. Giacobbe] disprezzava Lia»). 2. Per meglio evidenziare il legame che corre tra l’esclamazione della madre e il nome dato al bambino, il nostro autore allega a ciascun nome, in forma di breve glossa, il puntuale significato etimologico, derivandolo da Glossa interl. Gen 29, 32-35. Nel caso del nome Levi, il dettato biblico (Gen 29, 34: quod pepererim illi tres filios, «poiché gli ho generato tre figli») pare riformulato (in quia addidi ei filios, «poiché gli ho aggiunto dei figli») con il chiaro intento di allineare, in modo più trasparente, le parole di Lia all’etimologia additio («aggiunta»). Soltanto per il nome Levi, inoltre, il nostro autore segnala sia l’etimologia offerta dalla Glossa che quella offerta da Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 19, 7 : entrambe risultano infatti congruenti con le parole di Lia, poiché l’una (additio) procede dall’affermazione circa i figli, mentre l’altra (firmator societatis, da noi reso «colui che rinsalda il vincolo di comunanza») dall’affermazione circa il marito (copulabitur mihi vir meus, ossia «mio marito si unirà con me»). 3. L’autore si premura di sciogliere la potenziale ambiguità dell’espressione in coniugium (da noi resa «perché si unisse a lei»): da intendersi non in relazione al sostantivo coniunx come sinonimo di uxor (nella nostra resa «in moglie»), ma semplicemente, in punta d’etimologia dal verbo cum-iungo, nel senso di «unirsi con» (nella nostra resa «in un rapporto carnale»). 4. Cfr. Glossa interl. Gen 30, 6.
385
Note di commento, CAP. 72-73
5.
Come già in precedenza, ad entrambi i nomi è allegato il significato etimologico sulla scorta di Glossa interl. Gen 30, 6 e 30, 8. La seconda delle due etimologie di Neptalim, ossia dilatatio («espansione»), è anch’essa ben attestata nelle fonti patristiche: cfr. ad es. Hier., Interpr. Hebr. nomin. 9, 9. 6. Per le etimologie dei due nomi, cfr. Glossa interl. Gen 30, 11 e 30, 13. 7. Le singole informazioni trovano riscontro: nella traduzione geronimiana del Chronicon eusebiano (un diluvio, non meglio specificato, all’epoca di Ogige: cfr. Hier., Chron. p. 31b; su Ogige e sulla prima apparizione di Minerva, cfr. ibid. p. 30b); in punti sparsi dell’opera di Isidoro di Siviglia (la precisa collocazione in Acaia del diluvio verificatosi all’epoca di Ogige: cfr. Isid., Etym. 13, 22, 3; su Minerva inventrice di molte arti, cfr. ibid. 8, 11, 71; la prima apparizione di Minerva e le due possibili etimologie dell’epiteto Pallade: cfr. ibid. 8, 11, 74-75; il breve excursus che giustifica il nome attribuito all’isola di Delo: cfr. ibid. 14, 6, 21); nel Didascalicon di Ugo di San Vittore (il lanificium, ossia «l’arte di tessere la lana», tra le arti che si tramandano introdotte da Minerva: cfr. Hugo S. Vict., Didasc. 3, p. 50, l. 20).
Capitolo 73 1.
Prima ancora che la narrazione prenda avvio, Pietro Comestore si sofferma sul dato contestuale tempore messis triticeae («al tempo della messe del grano»). Due sono le letture esegetiche proposte, la cui logica si direbbe la seguente: a) intendere l’aggettivo triticeus (alla lettera «del grano»: da triticum, tecnicamente «grano») in senso specifico-particolare, distinguendo il grano internamente al gruppo delle graminacee tutte, e perciò si tratterebbe del periodo della raccolta del grano, effettuata dopo quella dell’orzo, altra graminacea; b) intendere l’aggettivo triticeus in senso generale-generico, ossia in riferimento al gruppo delle graminacee tutte (dal verbo tero, «tritare», il triticum è «ciò che viene mietuto»), considerate in opposizione a frutti e vitigni, categorie di prodotti del suolo che hanno ciascuna un differente periodo di raccolta.
386
Note di commento, CAP. 73-74
L’intero excursus sulla presunta efficacia fecondativa della mandragola è desunto da Glossa ord. Gen 30, 14: un estratto da Avg., Contr. Faust. 22, 56, ove Agostino dimostra l’infondatezza di una divulgata opinione, sulla base di un’osservazione autoptica. 3. La finalità della proposta di Rachele è esplicitata sulla scorta di Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 19, 7 . 4. Cfr. Glossa interl. Gen 30, 18. 5. Quanto all’esclamazione di Lia, si osservi che il dettato biblico (Gen 30, 20: mecum erit maritus meus, «mio marito sarà con me») è lievemente riformulato (in mecum habitabit maritus meus, «mio marito abiterà con me») onde allineare le parole di Lia all’etimologia di Zabulon, ossia habitaculum («abitazione»). Inoltre, Pietro Comestore segnala l’infondatezza dell’etimo fluxus noctis («flusso della notte»), ascritto ad un non meglio specificato Liber nominum Hebraeorum («Libro dei nomi ebraici»): il riferimento, che doveva essere certamente noto ai lettori, è al trattato etimologico geronimiano (cfr. nella fattispecie Hier., Interpr. Hebr. nomin. 11, 29). Entrambe le notazioni sono debitrici a Glossa interl. Gen 30, 20. 6. Per la glossa etimologica, cfr. Glossa interl. Gen 30, 24. 2.
Capitolo 74 1.
2.
Il dato cronologico, assente nel testo biblico, ha il merito di guadagnare coerenza alla narrazione, giustificando la successiva richiesta formulata da Giacobbe a Labano. L’intenzione da parte di Labano di trattenere Giacobbe presso di sé è deducibile dalla conseguente risposta di Giacobbe stesso. Quanto alla durata dell’ulteriore servizio, cfr. Glossa ord. Gen 30, 32 (passo di cui si dirà nel dettaglio alla nota che segue): il dato si direbbe anch’esso dedotto dal prosieguo dell’episodio, dal momento che in Gen 31, 41 Giacobbe rammenta a Labano di averlo servito per quattordici anni (sette più sette) in cambio delle due figlie, e per altri sei anni come semplice pastore; se ne deduce, sia pure arbitrariamente, il prolungamento del servizio per un periodo pari ai primi due, ossia di altri sette anni.
387
Note di commento, CAP. 74
3.
È necessario segnalare fin d’ora che, da questo punto del testo in poi, la modalità espositiva adottata da Pietro Comestore aderisce fedelmente alla riformulazione dell’episodio che è dato leggere in Glossa ord. Gen 30, 32. Si tratta di un ampio estratto da Hier., Hebr. quaest. in Gen. 30, 32 (p. 47, l. 11-p. 50, l. 14): Girolamo, dopo aver osservato che il senso dell’intero passo risulta multum confusus («molto confuso») tanto nella resa dei Settanta quanto nelle rese latine a disposizione, lo ri-narra secondo una modalità che alterna parafrasi del dettato biblico, talora modificato anche nella sostanza, alla relativa esegesi. Il testo della Vulgata, che Girolamo appronta invece rispettando la tradizione testuale ormai invalsa, lascia chiaramente intuire che cosa egli intenda per “confusione”: dapprima si dice che Giacobbe, in cambio del suo servizio a Labano, propone a costui di riservargli i soli animali maculati del gregge come ricompensa, sicché ogni animale non maculato, di cui Giacobbe sarà trovato in possesso, varrà ad accusarlo di furto (Gen 30, 31-33); si riferisce poi che Labano separa all’interno del gregge gli animali maculati da quelli di un solo colore, e che affida il secondo gruppo ai propri figli (Gen 30, 34-36); si narra infine l’inganno attuato da Giacobbe che, per arricchirsi ai danni di Labano, ottiene il modo, con un astuto artificio, di far generare al bestiame una prole di colore maculato, e perciò a lui stesso destinata (Gen 30, 37-43). Il punto è che la logica di tale inganno sembra, con ogni evidenza, quella di ottenere “contro natura” una prole maculata anziché di un solo colore, quale invece ci si attenderebbe dal colore dei genitori, appunto per sottrarla a Labano: se ne dovrebbe dedurre, a rigor di logica, che a Giacobbe sia stata affidata in cura la parte del gregge di un solo colore, e che Labano abbia tenuto per sé il gregge maculato. Se non che – come ricapitolato poc’anzi e come anche il nostro autore evidenzierà – il testo biblico riferisce che Labano affidò ai propri figli il gregge di un solo colore (Gen 30, 35), suggerendo implicitamente che a Giacobbe sia stato consegnato il gregge maculato. Per sciogliere l’incongruenza, Girolamo si vede perciò costretto a riformulare la narrazione nel modo cui si è accennato: formula espositiva che lo stesso Pietro Comestore sceglie di adottare. 4. Cfr. Glossa interl. Gen 30, 33.
388
Note di commento, CAP. 74
5.
Cfr. alla n. 3. Il nostro autore, riportando la perplessità già espressa da Girolamo, esplicita qui l’incongruenza tra la logica richiesta dall’episodio nel suo complesso e la lezione del testo di Gen 30, 35. Le due letture proposte a soluzione non sono offerte né da Girolamo né da altre fonti: riesce sottolineato lo strenuo sforzo di indagare a fondo la littera del testo sacro, nel tentativo di accreditarla anche ove a prima vista insostenibile. 6. Anche per quest’intera e ampia sezione, Pietro Comestore adotta la modalità parafrastico-esegetica che caratterizza l’estratto di Glossa ord. Gen 30, 32: nel prosieguo del commento, l’indicazione della fonte sarà perciò limitata ai soli passaggi che non ne derivano. 7. Le due ipotesi alternative, circa il numero delle verghe poste da Giacobbe in ciascun abbeveratoio, non trovano riscontro nelle fonti. Il punto verte sull’indicazione delle tre specie di verghe (Gen 30, 37): può darsi che il testo biblico ne indichi tre specie perché gli abbeveratoi erano tre, e perciò Giacobbe prese una verga per ogni specie da porre in ciascuno di essi; al contrario, può darsi che il numero delle specie indicate abbia valenza generica e nessun rapporto con il numero di abbeveratoi e verghe, entrambi da immaginare perciò in numero imprecisato. 8. Non trovano riscontro nelle fonti le notazioni sul cosiddetto ‘accoppiamento tardivo’ (in latino serotina admissura), ossia tardivo in relazione alla durata complessiva della stagione primaverile: è verosimile che il nostro autore abbia ragionato per differentiam rispetto al caso precedente (chiarito sulla scorta di Glossa ord. Gen 30, 32). 9. Pietro Comestore avanza qui una seconda ipotesi sul significato dell’aggettivo serotinus, ossia ‘tardivo’ in relazione alla durata dell’intero anno, vale a dire autunnale. Tale proposta interpretativa è giustificata sulla base di un’osservazione tratta da Glossa ord. Gen 31, 7: le specie ovine mesopotamica (si rammenti che Aran/ Charan, la città di Labano, si trovava in Mesopotamia) e italica possono ingravidare due volte nel corso dell’anno (seguendo il filo del ragionamento, in primavera e in autunno), come testimonia il passo virgiliano anch’esso riportato nel nostro testo. A quest’ultimo riguardo, è degno di nota, come si è già avuto modo di rilevare
389
Note di commento, CAP. 74-75
altrove (cfr. ai capp. 9 e 22), il riutilizzo in sede esegetica della letteratura pagana-classica, accolta attraverso la mediazione delle fonti patristiche. 10. L’informazione è desunta dalla citata Glossa ord. Gen 31, 7. Per la verità, la fonte di tale estratto (Hier., Hebr. quaest. in Gen. 31, 7 [p. 49, l. 33]) segnala decem agnis, ossia «di dieci agnelli», quale resa del testo greco dei Settanta (cfr. in effetti ἤλλαξεν τὸν μισθόν μου τῶν δέκα ἀμνῶν, ossia «mutò la mia ricompensa di dieci agnelli»): il fatto che il nostro testo risulti qui allineato (nell’errore) con la Glossa, rafforza l’ipotesi per cui l’utilizzo dei commentari patristici, nel modus operandi di Pietro Comestore, è da supporre per lo più mediato attraverso l’opera di servizio per eccellenza in materia, la Glossa appunto. 11. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 19, 8 . Per la verità, stupisce un poco che il nostro autore sembri attribuire il dato esclusivamente (si dice “infatti” e non “anche”) a Flavio Giuseppe: come se il testo biblico non segnalasse nulla in merito, laddove invece la medesima indicazione si legge poco oltre in Gen 31, 38 e 31, 41, ed è per giunta riportata a suo luogo anche nel nostro testo (cfr. al cap. 75).
Capitolo 75 Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 19, 8 . Pietro Comestore anticipa qui un dato che nel testo biblico emergerà poco più avanti: cfr. Gen 31, 32, ove si dice che Giacobbe «ignorava che Rachele avesse rubato gli idoli». 3. La spiegazione è debitrice a Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 19, 8 . 4. Il testo biblico legge assumptis fratribus suis («presi con sé i suoi fratelli»). È probabile che la diversa indicazione presente nel nostro testo abbia valenza glossematica, a segnalare cioè che il sostantivo fratres non è da intendersi in senso letterale: cfr. quanto già osservato dallo stesso Pietro Comestore al cap. 55, a proposito dell’abitudine espressiva per cui si era soliti appellare fratres («fratelli») i cognati («consanguinei maschi», «parenti maschi»). 5. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 19, 9 . 1. 2.
390
Note di commento, CAP. 75
6. Pietro Comestore si sforza di conciliare le due auctoritates prese qui a riferimento per la narrazione, il testo biblico e Flavio Giuseppe: lo sforzo di accreditare ad ogni costo un’indicazione incongruente con la Scrittura è qui tanto più evidente quanto più le due proposte di lettura esegetica, specie la prima, suonano capziose. La prima suggerisce infatti che, posto che il testo biblico afferma che Labano ha avuto la notizia il terzo giorno, perciò Flavio Giuseppe dice che l’ha avuta dopo il primo giorno: ciononostante, è evidente che il dato ‘dopo il primo giorno’ non debba necessariamente significare ‘il terzo giorno’. La seconda suggerisce invece di intendere il dato in relazione al momento della partenza del messaggero, incaricato di portare la notizia a Labano, che sarebbe poi giunto a destinazione il terzo giorno, essendo Labano e Giacobbe separati di una distanza pari a tre giorni di viaggio (così infatti Gen 30, 36): il punto è che i dettagli relativi al messaggero e alla distanza di tre giorni sono tratti dal testo biblico e trasposti, in modo del tutto arbitrario, anche sulla narrazione di Flavio Giuseppe, sebbene questa non contenga alcun cenno in tal senso. 7. Questa aggravante dell’accusa contro Giacobbe, inclusa a tutti gli effetti nel discorso diretto pronunciato da Labano, è aggiunta dal nostro autore sulla scorta di Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 19, 9 . 8. Anche questa giustificazione del comportamento delle figlie nei confronti del padre, inglobata nel discorso di Giacobbe, è desunta da Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 19, 9 . 9. Il testo della Vulgata riporta in latino entrambi i nomi dati al luogo da Labano e Giacobbe, rispettivamente tumulus testis («cumulo del testimone») e acervus testimonii («cumulo della testimonianza»): la lingua in cui si esprime Labano e il nome originario da lui dato al luogo sono integrati sulla base di Glossa ord. Gen 31, 46. 10. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 19, 10 . Vale anche qui l’osservazione già formulata alla n. 6, a proposito dello sforzo di accreditare ad ogni costo un dato incongruente con il testo biblico: il ragionamento non manca di suonare capzioso, essendo i termini ‘colonna’ e ‘cumulo’ tutt’altro che sinonimi in senso stretto.
391
Note di commento, CAP. 76
Capitolo 76 1.
2.
3.
4. 5. 6. 7.
8. 9. 10.
Cfr. Glossa interl. Gen 32, 2 sia per il dettaglio multitudo angelorum («una moltitudine di angeli»: assai più connotativo rispetto al solo angeli di Gen 32, 1) che per la spiegazione intesa a rendere trasparente l’etimologia del toponimo. Nei riguardi di Giacobbe, s’intende. È qui esplicitata, forse sulla scorta di una chiosa analoga offerta da Glossa interl. Gen 32, 22, la reale funzione dell’ambasceria inviata da Giacobbe al fratello Esaù, a dispetto del comportamento cautamente cerimonioso che Giacobbe suggerisce ai messaggeri di tenere nei riguardi di Esaù (cfr. Gen 32, 5-6). Il dettaglio pacificum (da noi reso «pacificamente») nel testo biblico non compare, per quanto deducibile dal prosieguo dell’episodio: l’impressione è che Pietro Comestore intenda così ulteriormente sottolineare la logica tutta umana, e anzi paradossale, del timore che assale Giacobbe sùbito dopo. Analogo spunto concettuale, sia pure formulato in termini differenti, si legge in Glossa interl. Gen 32, 7. Tale spiegazione troverebbe riscontro nella tradizione esegetica ebraica: cfr. Shereshevsky, ‘Hebrew traditions’, p. 283. Cfr. Glossa interl. Gen 33, 1. Sono tratte da Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 20, 1 le precisazioni sull’espediente escogitato da Giacobbe per guadagnarsi la benevolenza di Esaù: la tipologia di doni riservati al fratello; lo scopo per cui è posta una distanza tra le greggi inviate in dono; lo scopo ultimo dell’invio di doni. Cfr. Fretell., Loc. sanct. 28. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 20, 2 . Come già in due occasioni al precedente cap. 75 (cfr. alle relative nn. 6 e 10), anche qui il nostro autore si ingegna a conciliare l’incongruenza di Flavio Giuseppe con Genesi. La chiave risolutiva è individuata nella littera stessa del testo sacro: dal momento che in Gen 32, 11 Giacobbe aveva menzionato esplicitamente il fiume Giordano come se lo avesse di fronte e si accingesse a riattraversarlo, può darsi che il corso d’acqua guadato da Giacobbe cui allude Gen 32, 23 altro non sia che il Giordano stesso, in quel punto detto però
392
Note di commento, CAP. 76-77
‘Guado dello Iaboc’ appunto perché, come segnala Flavio Giuseppe, il fiume aveva lì un corso torrenziale. 11. Pietro Comestore avanza un’ipotesi filologica in merito alla lezione Iaboc: suggerisce che possa trattarsi di una corruttela in luogo di Iacob, il nome «Giacobbe» in latino, per cui il toponimo suonerebbe vadum Iacob («Guado di Giacobbe»), perfettamente calzante in quanto coniato proprio a motivo del fatto che Giacobbe aveva attraversato il corso d’acqua in quel punto. Ciò che merita rilevare è il tentativo filologico di dar conto della ‘genesi dell’errore’ chiamando in causa un «errore del copista» (in latino vicium scriptoris; analoga osservazione ai capp. 41 e 92); non è dato però comprendere a quale altezza della tradizione testuale esso sia ipotizzato: dal momento che la lezione Iaboc è attestata tanto nella Scrittura (cfr. ad es. la Vulgata, ma anche il testo greco dei Settanta) quanto in altre fonti (cfr. ad es. lo stesso Flavio Giuseppe), il nostro autore immagina forse un guasto genericamente ‘a monte’ della tradizione biblica (per la verità, va detto che anche il testo ebraico legge Iaboc). Il ragionamento è altresì degno di particolare nota per due aspetti: la precisa e acuta consapevolezza del meccanismo di trasposizione anagrammatica quale possibile causa di corruttela testuale; il curioso fatto per cui, tra le varianti Iaboc e Iacob, ad essere ipotizzata quale autentica è quella che verrebbe da definire facilior, ossia Iacob (ciò, paradossalmente, in virtù appunto della considerazione esposta dallo stesso Pietro: trattandosi del punto in cui Giacobbe ha guadato il fiume, sembra più facile la corruttela Iaboc > Iacob che non viceversa).
Capitolo 77 1.
2.
Questi ultimi due dettagli non trovano riscontro nelle fonti: l’uno parrebbe inteso, secondo una consuetudine più volte osservata, ad introdurre l’episodio inquadrandolo in un preciso contesto spaziale; l’altro avanza il motivo per cui Giacobbe non segue le due schiere. Il testo di Gen 32, 26 legge tetigit nervum femoris eius («gli colpì il nervo del fianco»). L’aggettivo latum, ossia «largo», in rife-
393
Note di commento, CAP. 77-78
rimento al nervo è tessera lessicale desunta da Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 20, 2 , ove si legge circa nervum latum, «intorno al nervo largo» (così anche il testo greco di Flavio Giuseppe: περὶ τὸ νεῦρον τὸ πλατὺ, appunto «intorno al nervo largo»). 3. In Gen 32, 33, che Pietro Comestore anticipa qui per completezza d’informazione, si accenna soltanto alla posterità di Giacobbe. L’astinenza dello stesso Giacobbe dal mangiare il nervo è espressamente menzionata in Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 20, 2 . 4. Accogliendo un paio di spunti offerti da Glossa interl. Gen 32, 29, si esplicita il legame che corre tra la benedizione e le parole rivolte dall’uomo a Giacobbe. 5. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 20, 2 . 6. Il nutrito excursus etimologico è interamente debitore a Glossa ord. Gen 32, 29. È questo un estratto da Hier., Hebr. quaest. in Gen. 32, 29 (p. 51, l. 18-p. 52, l. 23), che nell’ordine vede Girolamo: prendere posizione contro l’etimologia proposta da Flavio Giuseppe; proporre l’etimologia a suo dire fondata (“principe con Dio”) in quanto congruente con le parole del misterioso uomo, identificato in un angelo; ritrattare l’etimologia da lui stesso proposta nel trattato etimologico che Pietro Comestore, come già al cap. 73, indica con il titolo di Liber nominum Hebraeorum («Libro dei nomi ebraici»; cfr. in effetti Hier., Interpr. Hebr. nomin. 13, 21). 7. Cfr. Glossa interl. Gen 32, 31.
Capitolo 78 1.
2. 3.
La spiegazione del comportamento tenuto da Giacobbe accorpa due notazioni desunte da Glossa interl. Gen 33, 10 (Giacobbe non paragona il fratello a Dio) e da Glossa ord. Gen 33, 10 (l’eventualità o meno che Giacobbe abbia potuto idolatrare il fratello). Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 20, 3 . Cfr. Glossa ord. Gen 33, 17. Sebbene la citazione sia attribuita direttamente a Girolamo, vi figura una spia che avvalora l’ipotesi per cui Pietro Comestore in genere attinga ai commentari patristici
394
Note di commento, CAP. 78
non per via diretta, ma attraverso la mediazione della Glossa (cfr. analogamente al cap. 74, n. 10): nella fonte di tale estratto (Hier., Hebr. quaest. in Gen. 33, 17 [p. 53, l. 10]), si segnala infatti il toponimo Scythopolis, ossia «Scitopoli» città della Palestina; la Glossa invece, e Pietro sulla sua scorta, leggono erroneamente Sychopolis, ossia «Sicopoli», toponimo di fatto inesistente (corruttela meramente grafica o da imputare forse alla menzione, nell’immediato prosieguo, della città di Sichem, da cui Sychopolis inteso come «città di Sichem»). 4. L’intera sezione muove da un rilievo mosso al dato topografico segnalato da Girolamo, secondo cui Sochot si troverebbe trans Iordanem, ossia «al di là del Giordano»: indicazione che, in genere, s’intende dal punto di vista della terra d’Israele, ad indicare la zona ad est del fiume, cioè verso la Mesopotamia; ciò fa tuttavia a pugni con l’ipotesi interpretativa già formulata al cap. 76, secondo cui Giacobbe, trovandosi in Sochot, aveva già oltrepassato il Giordano, in virtù della presunta identificazione Iaboc-Giordano (ipotesi qui attribuita ad imprecisati «alcuni», lat. quidam, ma che non trova però riscontro altrove). Pietro Comestore, lungi dallo smentire l’auctoritas di Girolamo, si sforza anzi di accreditarla, avanzando ben due proposte di lettura: a) l’indicazione trans Iordanem può intendersi data − al contrario di come si usa in genere − dal punto di vista della Mesopotamia, da cui Giacobbe stava rientrando, ad indicare perciò la zona ad ovest (e non ad est) del Giordano stesso; b) ad essere infondata è piuttosto l’ipotesi del cap. 76, vale a dire è da supporsi errata l’identificazione Iaboc-Giordano: anche ammesso che la littera attribuisca a Giacobbe l’espressione Iordanis iste (cfr. Gen 32, 11: «il Giordano che è qui di fronte»), può darsi sia da intendere non in senso letterale, cioè concreto-spaziale, ma come allusione metonimica al confine della Giudea. 5. L’apparente incongruenza, nel testo biblico medesimo, tra nome della città e nome dei suoi abitanti, richiede naturalmente di essere chiarita: la città è in effetti Sichem, ma qui chiamata con il nome di Salem per due possibili ragioni, entrambe desunte da Glossa ord. Gen 33, 18.
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Note di commento, CAP. 79
Capitolo 79 Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 21, 1 . S’intende: adiràti dopo aver udito da Emor e Sichem quanto accaduto a Dina, e in silenzio alla richiesta di consegnare Dina in moglie a Sichem. Per il dettaglio, assente nel testo biblico, circa il silenzio dubbioso dei figli di Giacobbe, cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 21, 1 . 3. La narrazione aderisce alla traccia offerta dal testo biblico: come di consueto, tuttavia, il nostro autore ne estrapola soltanto i concetti essenziali, talora riesprimendoli in termini personali ma rispettosi quanto alla sostanza concettuale. 4. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 21, 1 . Si segnala che il nostro testo legge incunctanter («senza indugio»), ove la fonte legge invece noctanter («di notte»): corruttela da collocarsi verosimilmente entro la tradizione del testo di Flavio Giuseppe impiegato dal nostro autore. 5. Quest’ultima esortazione, che non compare nel testo biblico, può darsi sia stata aggiunta da Pietro Comestore a vantaggio della consequenzialità logico-narrativa: non si spiegherebbe, altrimenti, perché mai Giacobbe, nel prosieguo dell’episodio, anziché eseguire all’istante l’esortazione divina a recarsi in Bethel, convochi tutti i suoi e dia loro ordine di purificarsi e di allontanare le divinità straniere. 6. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 21, 2 . 7. In Gen 35, 4 si dice soltanto che a Giacobbe vengono consegnati dai suoi familiari gli dei alieni («dèi stranieri»), ossia gli idoli, e le inaures, gli «orecchini». Il nostro autore si premura di segnalare che questi oggetti erano stati portati via da Sichem (s’intende, forse, in occasione del saccheggio della città dopo l’eccidio dei Sichimiti); in aggiunta, rileva la presenza della figura retorica che, secondo la terminologia tecnica, si definirebbe una sineddoche (i soli «orecchini» in luogo dell’insieme degli «ornamenti»): analoga notazione ai capp. 13, 17 e 92. 8. La fonte della notizia è ignota. Qualche cosa di simile si legge in 2Sam 5, 21, ove si narra che i Filistei, in fuga dopo essere stati sconfitti da David, reliquerunt ibi sculptilia sua quae tulit David et viri eius, ossia «abbandonarono lì le loro statuette, che David e i suoi 1. 2.
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Note di commento, CAP. 79-80
uomini portarono via»: anche a commento di questo passo, Pietro Comestore annota che ibi fugientes reliquerant idola, quae tulit David secum et conflavit, ossia «fuggendo, avevano abbandonato lì gli idoli, che David portò via con sé e fuse» (cfr. Petr. Comest., Hist. Schol. − PL 198, col. 1329C), ove si noti che, sebbene qui non sia specificato a quale preciso scopo, il verbo impiegato è il medesimo «fondere» (in latino conflare). 9. Il testo della Vulgata legge che Delbora fu sepolta subter quercum, cioè «sotto una quercia», onde il toponimo Quercus fluetus («Quercia del Pianto») attribuito a quel luogo; Pietro Comestore riferisce invece sub terebinto, cioè «sotto un terebinto», sicché si trova poi costretto, per giustificare l’incongruenza tra tale indicazione e il toponimo, a concludere che le due specie di albero sembrano qui intese come fossero la stessa cosa. Posto che non esistono versioni del testo biblico o altre fonti allineate con il nostro testo, la sola spiegazione che ci pare plausibile è la seguente: può darsi che il manoscritto della Vulgata a disposizione di Pietro leggesse erroneamente sub terebinto, anziché sub quercu, forse a motivo di un errore generatosi per persistenza rispetto all’indicazione di pochi versetti prima (Gen 35, 4), ove si era detto che Giacobbe aveva sotterrato gli oggetti del culto idolatrico appunto subter terebintum («sotto un terebinto»). 10. L’osservazione è debitrice a Glossa ord. Gen 35, 10.
Capitolo 80 1.
2.
Cfr. Glossa interl. Gen 35, 16: la glossa anticipa quanto il testo biblico segnalerà poco oltre (cfr. Gen 35, 19: «Effrata, ossia Betlemme»). Non è dato sapere da dove Pietro Comestore tragga l’informazione. Nel testo biblico, la figura di Effrata, moglie di Caleb, è menzionata soltanto in 1Cron 2, 19 e 2, 50, nel contesto di elenchi genealogici: nulla vi si riporta a proposito della sua morte e della sua sepoltura nei pressi di Betlemme. Peraltro, è assai curioso che Pietro faccia risalire l’etimologia del toponimo proprio al nome di questa donna, laddove Glossa interl. Gen 35, 16 chiosa che il nome Effrata interpretatur frugifera, ossia «significa ‘che porta raccolto’».
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Note di commento, CAP. 80-81
3.
Il dettaglio è assente in Genesi. Può darsi si intenda così puntualizzare che era in ogni caso il padre, e non la madre, a dover imporre formalmente il nome al nuovo nato: prerogativa che, come il nostro autore aveva già osservato al cap. 50, si esplicava appunto all’atto della circoncisione. 4. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 21, 3 . 5. Il testo della Vulgata legge turris gregis («Torre del Gregge»), toponimo il cui complemento di specificazione è indicato da Glossa ord. Gen 35, 21 quale resa latina del termine originario ader: Pietro Comestore inverte, come in effetti suonerebbe più logico, il rapporto tra i due termini, allegando quello latino in veste di glossa etimologica. 6. Sia per la tradizione ebraica che per le due ipotesi geronimiane, cfr. Glossa ord. Gen 35, 21 (un estratto da Hier., Hebr. quaest. in Gen. 35, 21 [p. 55, l. 21-32]).
Capitolo 81 1.
2.
La narrazione è integrata da qualche dettaglio ulteriore derivato da Fl. Ios., Ant. Iud. 1, 22, 1 : l’ormai avvenuta morte di Rebecca allorché Giacobbe giunse in Hebron, forse una sovradeduzione alla luce del silenzio circa la sorte della donna nel testo biblico; la precisa collocazione cronologica della morte di Isacco in riferimento all’arrivo di Giacobbe; la differente indicazione anagrafica dell’età di morte di Isacco. Inoltre, Pietro Comestore segnala al lettore che con la morte di Isacco si conclude il primo libro – delle Antichità Giudaiche – di Flavio Giuseppe. Quanto al dato sulla sepoltura di Isacco nella spelonca duplice, assente nel testo biblico, anch’esso parrebbe una ragionevole deduzione: qui si dice infatti che Isacco muore in Hebron e viene riunito alla propria stirpe, e poco prima (cfr. al cap. 80) si era detto che Rachele è la sola a non essere sepolta nella spelonca duplice. Nel testo biblico si dice che Esaù risiede sul Monte Seir: Pietro Comestore trascura per il momento questo toponimo, cui accennerà nel prosieguo. Sulla scorta di Glossa ord. Gen 36, 6, si contestualizza l’episodio dopo la morte di Isacco e si precisa che lo spo-
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Note di commento, CAP. 81
stamento di Esaù è in verità un ritorno alla terra in cui già si trovava (cfr. infatti Gen 32, 3, che vede Esaù nella terra di Seir in occasione del ritorno di Giacobbe dalla Mesopotamia; e cfr. poi Gen 35, 29, che colloca Esaù a Hebron in occasione della morte di Isacco). 3. Quest’ultima informazione, che non trova riscontro altrove, è opportunamente argomentata sulla base di quanto si legge in Gen 36, 33, ove è indicata appunto Bosra quale terra d’origine di tale Iobab, elencato tra i re di Edom prima dei re d’Israele. Va detto che, per la verità, Iobab da Bosra è il secondo dell’elenco, e non il primo, come verrebbe piuttosto da pensare ragionando secondo la logica dell’eponimìa. 4. Cioè non tutti quelli che effettivamente regnarono (prima dei re d’Israele, s’intende), ma soltanto quelli che regnarono fino alla morte di Mosè: analoga osservazione in Glossa ord. Gen 36, 31. Si badi che Pietro Comestore indica un numero errato: ai vv. 31-39 non sono infatti elencati dodici re, bensì otto. 5. Cfr. Glossa ord. Gen 36, 34, che tuttavia annota la chiosa a proposito del nome Husan, e non di Iobab; al contrario, la chiosa è riferita appunto a Iobab nel passo-fonte della Glossa medesima, ossia in Hier., Hebr. quaest. in Gen. 36, 33 (p. 57, l. 14-17). Gli studi attuali si avvalgono di un’edizione della Glossa in fac-simile (ed. Turnhout, 1992), sicché può darsi che il manoscritto della Glossa utilizzato dal nostro autore riportasse invece l’indicazione corretta. Va da sé che, in linea di principio, nulla – se non una valutazione suggerita dal modus operandi di Pietro Comestore – può comunque escludere che il passo sia mutuato direttamente da Girolamo. 6. Il nutrito excursus assembla informazioni topografiche desunte da passi non contigui del trattato di geografia dei luoghi santi di Fretello: cfr. Fretell., Loc. sanct. 28; 33; 24-25 e 29. 7. Analoga chiosa, ad esplicitare l’articolazione del capitolo biblico in esame, in Glossa ord. Gen 36, 20. 8. Il nostro autore deriva l’informazione da Glossa ord. Gen 36, 20, un passo (distinto da quello citato sopra) che la fonte riporta sotto il nome di Strabone (su tale attribuzione cfr. al cap. 30, n. 1): ciononostante, il rimando alle Cronache risulta inesatto; è invece il passo di Deut 2, 12 a menzionare la sconfitta degli Horrei, abitanti di Seir,
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Note di commento, CAP. 81
9.
10. 11.
12.
13.
ad opera dei figli di Esaù (si noti che, invece, il rimando al Deuteronomio figura in Glossa ord. Gen 36, 20 cit. alla nota precedente). Il riferimento a Saul e l’osservazione che segue sono debitori a Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 56C-D (a Ugo allude forse l’imprecisato «alcuni»). Si intende cioè suggerire che questo elenco fu aggiunto dopo l’epoca di Mosè, nella fattispecie si ipotizza da Esdra: Mosè, infatti, supposto autore del Pentateuco, non avrebbe potuto elencare dei re che sarebbero vissuti dopo la sua stessa epoca. L’ampia sezione attinge a Glossa ord. Gen 36, 24. Il nostro autore rileva la discrepanza tra i nomi qui attribuiti alle mogli di Esaù (cfr. Gen 36, 2-3: Ada, Oolibama, Basemath) e quelli riportati in precedenza (cfr. Gen 26, 34, e qui al cap. 68: Iudith e Basemath; cfr. Gen 28, 9, e qui al cap. 70: Malech). Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 2, 1, 2 . L’indicazione di parentela è tuttavia errata: sia Flavio Giuseppe che il testo biblico (cfr. Gen 36, 12, nel contesto della genealogia di Esaù) menzionano espressamente Amalech non come figlio, ma come nipote di Esaù in quanto figlio che suo figlio Eliphaz ebbe da una concubina. Le fonti da cui si direbbero desunte alcune informazioni, che questo inserto di storia profana assembla in un discorso unitario, sono l’opera di Isidoro di Siviglia (su Prometeo artefice degli uomini, cfr. Isid., Etym. 8, 11, 8; su Prometeo inventore del primo anello, cfr. ibid. 19, 32, 1 e 16, 6, 1; sul motivo per cui è invalsa l’abitudine di portare l’anello sul quarto dito, cfr. ibid. 19, 32, 2, ove però non si accenna al nome di ‘dito medico’; sulla tipologia di anello detto ‘ungulo’, cfr. ibid. 19, 32, 5; su Trittolemo e Cerere, cfr. ibid. 17, 1, 2, ove l’uno è menzionato come colui che introdusse nella fattispecie l’uso dell’aratro con buoi, e l’altra come colei che introdusse l’uso dell’aratura medesima con uno strumento qualunque in ferro) e la traduzione geronimiana del Chronicon eusebiano (sui Telchini fondatori di Rodi, cfr. Hier., Chron. p. 32b). Per altri dettagli non è invece possibile segnalare alcun riscontro testuale: l’arrivo di Trittolemo in Grecia su un’imbarcazione recante la figura di un draco (da noi reso «drago»); l’invenzione da parte di Cerere di un sistema per la misurazione del grano più preciso rispetto ai metodi rudimentali utilizzati in precedenza; l’etimologia del nome Demetra, attribuito dai Greci al corrispettivo della romana Cerere.
400
Note di commento, CAP. 82
Capitolo 82 1.
2.
L’intera sezione che qui si conclude attinge ad un ampio passo di Glossa ord. Gen 37, 2 (un estratto da Avg., Quaest. in Hept. – Gen. 122): Pietro Comestore riassume concisamente il ragionamento, conservandone il nucleo concettuale. La questione verte sul computo dell’età di Giuseppe in relazione alla morte di Isacco: la tesi di fondo è che, nonostante il testo biblico tratti prima della morte di Isacco (Gen 35, 27-29) e poi della storia di Giuseppe (Gen 37, 1 ss.) a partire da quando costui aveva 16 anni, in verità la narrazione veterotestamentaria sottende la tecnica narrativa altrove definita «ricapitolazione» (un flashback, in termini correnti); ciò significa che la vendita di Giuseppe sedicenne è da collocarsi temporalmente prima della morte di Isacco (e non dopo). Il nostro autore non si cura di esplicitarlo, ma, se così non fosse, dall’incrocio dei dati cronologico-anagrafici segnalati qua e là dal testo biblico e riportati anche nel nostro passo, sortirebbe un’incongruenza altrimenti insolubile: certamente Giacobbe, dopo la morte di Isacco, aveva almeno 120 anni (come risulta incrociando Gen 25, 26 e Gen 35, 28); certamente, quando Giacobbe andò in Egitto, Giuseppe aveva 39 anni (come risulta incrociando Gen 41, 46, Gen 45, 6 e Gen 41, 29-30); ora, se davvero Giuseppe avesse avuto 16 anni dopo la morte di Isacco, allora dalla vendita di Giuseppe all’arrivo di Giacobbe in Egitto sarebbero trascorsi 23 anni, e perciò Giacobbe si sarebbe recato in Egitto all’età di almeno 143 anni; se non che il testo biblico riferisce apertamente che Giacobbe andò in Egitto all’età di 130 anni (cfr. Gen 47, 9). Collocando, invece, la vendita di Giuseppe sedicenne prima della morte di Isacco, l’incrocio dei dati non dà luogo a contraddizioni. Pietro Comestore evidenzia cioè un’incongruenza logico-cronologica: allorché Beniamino poi si recherà in Egitto con i fratelli, Giuseppe lo riconoscerà all’istante (cfr. Gen 43, 16 ss.). Eppure, se è vero che la vendita di Giuseppe è da collocarsi 12 anni prima della morte di Isacco, l’agnizione appare del tutto inverosimile: stando alla narrazione biblica, infatti, Beniamino nacque poco tempo prima della morte di Isacco (cfr. Gen 35, 16 ss.), sicché Giuseppe
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Note di commento, CAP. 82
3. 4. 5. 6. 7.
8.
9. 10. 11. 12. 13.
14.
non lo avrebbe in verità mai conosciuto prima del loro incontro in Egitto. Per questa seconda motivazione, cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 2, 2, 1 . I tre possibili capi di accusa sono segnalati in termini analoghi da Glossa interl. Gen 37, 2. Sono desunte da Glossa ord. Gen 37, 3 sia le due lezioni attribuite ad Aquila e Simmaco che il dettaglio sulle tuniche senza maniche. In latino stantem («che stava ritto in piedi»): medesima scelta lessicale in Fl. Ios., Ant. Iud. 2, 2, 2 . Cfr. Glossa ord. Gen 37, 10, ove analogamente si sottolinea che Giuseppe non fu poi adorato né dalla madre Rachele che, nel frattempo defunta, non ebbe nemmeno modo di scendere in Egitto (cfr. Gen 35, 16-20, e qui al cap. 80), né dal padre Giacobbe allorché costui raggiunse Giuseppe in Egitto insieme agli altri suoi figli (cfr. Gen 46 ss., e qui ai capp. 92 ss.). La motivazione dissuasoria addotta da Ruben è tratta da Fl. Ios., Ant. Iud. 2, 3, 1 : il nostro autore la integra a tutti gli effetti nel discorso diretto biblico. Il dettaglio è debitore a Fl. Ios., Ant. Iud. 2, 3, 2 . Cfr. Glossa interl. Gen 37, 25. Sin qui la narrazione procede seguendo dappresso il testo biblico, tuttavia mai citato ad litteram. Per tutte queste precisazioni e ipotesi sull’identità di Madianiti e Ismaeliti, cfr. Glossa ord. Gen 37, 28. Traggono spunto da Fl. Ios., Ant. Iud. 2, 3, 3 le notazioni sul comportamento di Ruben (il sospetto che Giuseppe fosse stato ucciso e il sollievo conseguente alla notizia che era ancora in vita). Cfr. Glossa ord. Gen 37, 35, ove si accenna all’esistenza di un imprecisato luogo dell’Inferno separato dai luoghi in cui si scontavano le pene e dimora temporanea dei santi, cui l’ingresso in Paradiso era precluso fino al momento della resurrezione di Cristo. La precisa identificazione di tale luogo con il cosiddetto sinus Abrahae («seno di Abramo») può darsi tragga spunto da Lc 16, 22, ove la medesima espressione compare a designare il luogo in cui fu portato il povero Lazzaro dopo la morte, con implicita allusione alla comunanza spirituale, anche nella dimensione escatologica, dei giusti e degli umili
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Note di commento, CAP. 82-83
con Abramo. Vale la pena di osservare, nel nostro testo, la proposta di spiegazione etimologica, che non trova riscontro nelle fonti a noi note, per l’espressione sinus («seno»): il luogo, poiché separato dagli altri luoghi infernali e dunque pervaso da quiete, è così designato per analogia con il sinus del mare («seno» cioè «golfo»).
Capitolo 83 La lezione archimachiro («all’archimachirus») con glossa esplicativa («capo dei cuochi») e il presunto significato del termine machere («uccidere») sono segnalati da Glossa ord. Gen 37, 36 (un estratto da Hier., Hebr. quaest. in Gen. 37, 36 [p. 57, l. 28-p. 58, l. 10]). Pietro Comestore segnala anche i due presunti significati del termine machera («cucina» o «coltello»), a suo dire la base del composto. Per la verità, il grecismo archimachirus presenta come secondo elemento il sostantivo μάγειρος, che significa appunto «cuoco» (come indicato dallo stesso Pietro nella prima glossa esplicativa) e che, a dispetto della somiglianza grafico-fonetica, non sembra presentare legami etimologici né con il sostantivo machera (traslitterazione un poco imprecisa di μάχαιρα: «coltello» e non «cucina») né tantomeno con un inesistente verbo machere (il passo-fonte di Girolamo legge invece μαγειρεύειν, ossia «fare il cuoco», «fare il macellaio», e perciò «uccidere»: la corruttela figura già nella Glossa): la scarsa familiarità con la lingua greca − tratto già segnalato altrove − difficilmente avrebbe potuto suggerire al nostro autore interventi correttivi. 2. L’osservazione non trova riscontro nelle fonti. 3. In Fl. Ios., Ant. Iud. 2, 4, 1 l’uomo egiziano cui viene venduto Giuseppe è chiamato in effetti Petefres; tale nome Girolamo segnala essere scorretto nell’estratto di Glossa ord. Gen 37, 36 cit. alla n. 1: si badi, tuttavia, che Girolamo non fa alcun riferimento al fatto che tale lezione sia precisamente da attribuire a Flavio Giuseppe. 4. Le informazioni storico-biografiche su Putifarre, relative alle sue particolari caratteristiche sessuali, sono desunte dalla citata Glossa ord. Gen 37, 36. 1.
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Note di commento, CAP. 84
Capitolo 84 1. Cfr. Glossa interl. Gen 38, 1 e Glossa ord. Gen 38, 1. 2.
Questa spiegazione, così come la precedente, non trova riscontro nelle fonti. 3. L’osservazione è debitrice a Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 57B. 4. La lezione del testo ebraico, con relativa spiegazione, è derivata da Glossa ord. Gen 38, 14. 5. Nel testo latino suspicatus est cadesam, id est scortum; il testo della Vulgata legge invece suspicatus est esse meretricem (cfr. Gen 38, 15: «pensò che fosse una meretrice»). Il sostantivo cadesa, che figura nel nostro testo, è termine di derivazione ebraica e di rarissima attestazione in àmbito latino: esso è segnalato da Girolamo (Epist. 78 − CSEL 55, p. 76, par. 35) come la lezione del testo ebraico (iuxta hebraicam veritatem) non in questo preciso punto testuale (Gen 38, 15), ma poco oltre in corrispondenza di Gen 38, 21, ove la Vulgata legge invece mulier (cfr. Ubi est mulier?: «Dov’è la donna?»). Arduo avanzare ipotesi: il fatto che il termine venga poi glossato (se ne indica il significato di scortum, «prostituta») parrebbe suggerire che nel testo biblico a disposizione di Pietro Comestore si leggesse in effetti a testo cadesam (e non meretricem), termine giudicato inusuale e perciò degno di nota. Può darsi che la lezione, circolante tra le Veteres, si sia conservata poi in parte della tradizione biblica; non è da escludere nemmeno l’eventualità che si trattasse in origine di una glossa, poi confluita a testo. 6. Secondo un modulo esegetico frequente, è integrata nel discorso diretto la motivazione per cui, secondo Giuda, Thamar avrebbe agito in tal modo. 7. Sebbene Pietro Comestore non lo espliciti, tale nome significa infatti divisio, ossia «divisione»: cfr. Glossa interl. Gen 38, 29. 8. Si tratta cioè della placenta: in latino membranae secundae («membrana seconda») come in Andr. S. Vict., Exp. Gen. 38, 29, oppure membranae secundinae («membrana secondina») come in Glossa interl. Gen 38, 29. 9. Entrambe le ipotesi esegetiche sono debitrici a Glossa ord. Gen 38, 29.
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Note di commento, CAP. 84-85
10. La citazione in oggetto costituisce un vero e proprio enigma filologico: Pietro Comestore la attribuisce infatti alla sezione iniziale di un imprecisato commento al terzo Libro dei Re (in latino super [scil. libro] Regum in principio tercii libri: lett. «intorno a [scil. il libro] dei Re all’inizio del terzo libro»): libro che, nella scansione latina, corrisponde all’attuale primo Libro dei Re; se non che nessun commento a quel libro (nemmeno la Glossa) risulta contenere tale citazione. La quale è invece fedele estratto da Hier., Epist. 52 − CSEL 54, p. 419, par. 3: nemmeno in Girolamo, tuttavia, il passo compare in riferimento al Libro dei Re. Prescindendo dalla questione relativa alle fonti, si comprende che Pietro vuole segnalare l’incongruenza per cui si dice che è Phares, e non Zaram come in Genesi, il gemello cui viene legato il filo rosso: si tratta, con ogni probabilità, di una svista – un cosiddetto ‘errore polare’ – commessa da Girolamo. 11. L’ingegnosa soluzione – un’ipotesi al limite dell’inverosimile – è proposta dal nostro autore nel tentativo di giustificare in qualche modo l’incongruenza di cui sopra: l’auctoritas di Girolamo può dunque riuscirne illesa.
Capitolo 85 1.
2.
3.
Vale la pena di osservare che in Gen 39, 6 resta ambiguo il soggetto di nec quicquam aliud noverat nisi panem quo vescebatur («e non conosceva altro se non il pane che mangiava»): potrebbe essere l’egiziano, nel senso che, avendo affidato ogni cosa a Giuseppe, non doveva curarsi di altro se non del cibo; ma potrebbe essere anche Giuseppe, nel senso che, pur essendo al servizio dell’egiziano, non ne ricavava altro guadagno se non il cibo di cui vivere. Dal giro di frase del nostro testo (con il pronome relativo strettamente legato al nome di Giuseppe), si direbbe che Pietro Comestore opti per la seconda ipotesi. Entrambe le letture in Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 57C. È esemplata su Fl. Ios., Ant. Iud. 2, 4, 3 questa sezione introduttiva alla narrazione biblica, che consente di delineare il contesto e le intenzioni dei personaggi. Il dettaglio, ad esplicitare la reazione psicologica di Giuseppe, è mutuato da Fl. Ios., Ant. Iud. 2, 4, 5 .
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Note di commento, CAP. 86-87
Capitolo 86 In corrispondenza di Gen 40, 10, il testo della Vulgata legge tres propagines («tre propaggini»), mentre la lezione alternativa tres fundi (da noi resa «tre spuntoni») è segnalata in un passo di Glossa ord. Gen 40, 9 insieme a tria flagella (da noi resa «tre ramoscelli»): può darsi che, nel manoscritto a disposizione del nostro autore, la lezione fundi − in origine una glossa − fosse confluita a testo. In ogni caso, è degna di nota la glossa etimologica allegata al termine fundi, la quale non trova riscontro altrove: per derivazione dalla medesima radice, i fundi sarebbero i ‘germogli’ (in latino oculi, tecnicismo: lett. «gli occhi») da cui funduntur (da noi reso «spuntano» in modo tale da conservare la trasparenza della figura etimologica) i tralci (in latino palmites). 2. Queste considerazioni iniziali, integrate nel discorso diretto biblico, sono desunte da Fl. Ios., Ant. Iud. 2, 5, 2 . 3. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 2, 5, 3 . 4. Per la lezione del testo greco e relativa ipotesi esegetica, cfr. Glossa ord. Gen 40, 16 (ove, tuttavia, in luogo di panes secundi, da noi reso «pani poveri», si legge il sinonimo panes cibarii): si tenta cioè di giustificare una lezione («di pani poveri») che parrebbe stonare con il fatto che si sta trattando di cibi destinati al Faraone. 5. Anche qui Pietro Comestore integra nel discorso diretto biblico una notazione tratta da Fl. Ios., Ant. Iud. 2, 5, 3 . 1.
Capitolo 87 1.
La prima glossa (obese = piene) è mutuata da Glossa interl. Gen 41, 18. Quanto alla proposta di derivazione etimologica dell’aggettivo obesus («obeso») dal sintagma formato dalla preposizione con valore causale ob + verbo edĕre («mangiare»), la sola fonte che accenna a qualche cosa di analogo – e che tuttavia non risulta fosse nota a Pietro Comestore – è l’epitome, approntata da Paolo Diacono in epoca carolingia, del trattato etimologico del grammatico latino Festo (II sec. d.C.): cfr. Fest., De verb. signific.
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Note di commento, CAP. 87-88
2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10.
11. 12. 13.
p. 207, l. 8: Obesus pinguis, quasi ob edendum factus, ossia «Obeso: pingue; come se fosse diventato così ob edendum (“a causa del mangiare”)». L’osservazione non trova riscontro nelle fonti. Sono attinti da Fl. Ios., Ant. Iud. 2, 5, 5 sia quest’ultima esortazione che il precedente dettaglio sul gesto del Faraone. Cfr. in termini analoghi Fl. Ios., Ant. Iud. 2, 5, 6 . Questa interpretazione è assente nel testo biblico, né trova riscontro altrove. Cfr. puntualmente Fl. Ios., Ant. Iud. 2, 5, 7 . L’osservazione è debitrice a Glossa ord. Gen 41, 38. Questa tradizione ebraica, con relativa spiegazione, è desunta da Glossa ord. Gen 41, 43. Lettura esegetica tratta da Andr. S. Vict., Exp. Gen. 41, 44. In corrispondenza di Gen 41, 45, il testo della Vulgata legge semplicemente vocavit eum lingua Aegyptiaca salvatorem mundi («in lingua egiziana lo chiamò ‘salvatore del mondo’»). Il nostro autore, derivandolo da Glossa ord. Gen 41, 45, integra a tutti gli effetti nella citazione biblica il presunto termine indigeno, che suona Phanecphane; di conseguenza, è declassata al rango di glossa (cfr. «ossia…») la lezione della Vulgata. Sulla scorta della medesima Glossa, Pietro segnala la presunta lezione del testo greco (a suo dire Pontiphanec, ma nella fonte Spontumphanec: quest’ultima una traslitterazione imprecisa di Ψονθομφανηχ, lezione del testo greco dei Settanta) e osserva che in lingua ebraica il termine Phanecphane significa diversamente ‘inventore di cose nascoste’. Il dettaglio è mutuato da Fl. Ios., Ant. Iud. 2, 6, 1 . Cfr. Glossa interl. Gen 41, 51. Cfr. Glossa interl. Gen 41, 52.
Capitolo 88 1.
La notazione non trova riscontro nelle fonti: può darsi che il nostro autore abbia inteso puntualizzare che Giuseppe, lungi dall’arricchirsi egli stesso con il ricavato delle vendite, consegnava debitamente il denaro al Faraone.
407
Note di commento, CAP. 88-90
Il dettaglio è debitore a Fl. Ios., Ant. Iud. 2, 6, 2 . Nel discorso diretto biblico è integrata un’acuta osservazione avanzata da Giuseppe in Fl. Ios., Ant. Iud. 2, 6, 2 . 4. Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 2, 6, 2 . 2. 3.
Capitolo 89 Il passo di Isid., Etym. 17, 7, 71 segnala sia la derivazione etimologica del termine ‘resina’ che le tre resine più preziose in ordine di pregio. 2. Cfr. in effetti Fl. Ios., Ant. Iud. 2, 6, 5 . 3. Cfr. Glossa interl. Gen 43, 11. 4. Pietro Comestore deriva verosimilmente le informazioni da Glossa ord. Gen 43, 11 (un estratto da Hier., Hebr. quaest. in Gen. 43, 11 [p. 61, l. 26-p. 62, l. 2]), non senza cadere in un vistoso fraintendimento: Girolamo segnala infatti i due sintagmi ‘casa del profumo’ e ‘casa dello stirace’ non come traduzioni alternative di ‘casa nechota’ (cfr. il testo greco dei Settanta di Is 39, 2: οἶκον τοῦ νεχωθα, lett. «casa del nechota»), ma semplicemente come possibili significati dell’espressione stessa (domus nechota, quae in Isaia legitur, manifestissime cella thymiamatis sive storacis intellegitur, quod in illa aromata diversa sint condita: «l’espressione ‘casa nechota’, che si legge in Isaia, significa chiaramente ‘stanza del profumo’ o ‘stanza dello stirace’, poiché in essa sono conservati diversi tipi di aromi»). A riprova del fraintendimento, il fatto che i due sintagmi non risultano essere attestati altrove, né tantomeno quali possibili traduzioni di Is 39, 2; la stessa Vulgata, nel passo in questione, attesta una lezione del tutto diversa, ossia cellam aromatum («stanza degli aromi»).
1.
Capitolo 90 1. 2.
La spiegazione del motivo per cui ciascuno siede per proprio conto trae spunto da Glossa interl. Gen 43, 32. L’ipotesi non trova riscontro nelle fonti.
408
Note di commento, CAP. 90-91
Quest’ultimo dettaglio è mutuato da Fl. Ios., Ant. Iud. 2, 6, 6 . 4. Cfr. ibid. 5. Si rivela qui piuttosto maldestro, e indubbiamente capzioso, il tentativo di conciliare la patente incongruenza rilevata tra l’auctoritas per eccellenza, ossia il testo biblico, e quella di Flavio Giuseppe: anche nell’ipotesi contemplata dal nostro autore, infatti, il rapporto tra la porzione di ciascuno degli altri fratelli e quella di Beniamino resterebbe pur sempre di 1 a 2 (ciò in relazione alla singola portata, ma anche al totale delle portate, il cui rapporto effettivo sarebbe di 5 a 10), e mai di 1 a 5. 6. Cfr. Glossa interl. Gen 43, 34. 7. Rimproverata come menzogna, s’intende. L’osservazione apologetica è debitrice a Glossa ord. Gen 44, 15. 8. Questa concisa frase, con cui si conclude il capitolo, riassume l’intera e ampia sezione dei vv. 16-34, dal contenuto ricapitolativo e dall’andamento assai ridondante: come in genere, tali sezioni sono giudicate da Pietro Comestore superflue al fine della narrazione. 3.
Capitolo 91 1.
2.
Cfr. Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 57D-58A (a proposito della stola fatta indossare dal Faraone a Giuseppe in Gen 41,42: particolare cui il nostro testo non aveva accennato a suo luogo), che registra però la derivazione etimologica a stolon Graeco, quod est longum («dal termine greco stolon, che significa ‘lungo’»): è probabile che già il manoscritto di Ugo a disposizione di Pietro Comestore leggesse erroneamente telon in luogo di stolon. In lingua greca, né l’uno né l’altro sostantivo (cfr. στόλος: «viaggio», «spedizione»; τέλος: «fine», «esito») attestano un significato minimamente riconducibile all’aggettivo «lungo»: ciò a riconferma di quanto ormai più volte osservato sulla scarsissima padronanza del nostro autore (e qui già di Ugo) in materia di lingua greca. Cfr. Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 58C.
409
Note di commento, CAP. 92
Capitolo 92 1.
Cfr. Glossa ord. Gen 46, 26. Si evidenzia cioè la presenza di una sineddoche: la medesima chiosa retorica ai capp. 13, 17 e 79. 2. A dispetto, cioè, delle differenti indicazioni numeriche di Gen 46, 26 nella versione greca dei Settanta (giustificata come una sorta di anticipazione) e di Atti 7, 14 (giustificata in nome della volontà di Luca di non rifiutare l’auctoritas del testo dei Settanta), è esatta l’indicazione ‘settanta’. L’intera sezione esegetica enuclea e ripropone la sostanza concettuale di un ampio passo di Glossa ord. Gen 46, 26 (un estratto da Hier., Hebr. quaest. in Gen. 46, 26 [p. 63, l. 1-p. 64, l. 17]). 3. L’obiezione avanzata e le due possibili ipotesi risolutive sono desunte da Andr. S. Vict., Exp. Exod. 1, 5 (a commento di un passo in cui è ribadita l’indicazione del totale di settanta discendenti di Giacobbe che entrarono con lui in Egitto). Merita rilevare, tuttavia, che si tratta di un’obiezione incongrua: il totale di settanta anime (o di sessantasei, se si escludono Giacobbe, Giuseppe, Effraim e Manasse) è infatti già esso stesso ottenuto eccettuando dal computo Her e Ona. 4. Questa ulteriore e nutrita sezione esegetica è interamente debitrice ad Andr. S. Vict., Exp. Gen. 46, 21. La questione verte sul numero dei figli di Beniamino, a rigor di logica dieci (cfr. alla p. 234, n. a), se non che – osserva Andrea – in quibusdam libris («in alcuni libri»), cioè in parte della tradizione testuale biblica (latina, sembra di intuire), ne sono segnalati soltanto nove. Si badi che Pietro Comestore utilizza l’espressione in libro (lett. «nel/in un libro»), al singolare e assai poco perspicua: rendere o per antonomasia «nella Bibbia» (cioè nel ‘libro per eccellenza’, secondo i cristiani) o «nel Libro [scil. della Genesi]» suonerebbe fuorviante, dal momento che in Gen 46, 21 il testo ufficiale della Vulgata elenca dieci nomi (e non nove); d’altra parte, è verosimile che Pietro faccia riferimento sì per antonomasia al libro della Bibbia o al solo libro di Genesi, ma inteso come il testo che lui aveva a disposizione (e non come Bibbia o Genesi tout court). Data l’ambiguità dell’espressione, si è scelto di tradurre nel modo più letterale e al contempo più neutro possibile, ossia «nel Libro» con iniziale maiuscola. Di particolare
410
Note di commento, CAP. 92-93
interesse sono le osservazioni di natura filologico-testuale avanzate nel tentativo di spiegare la cosiddetta ‘genesi dell’errore’ (nonché quella di un altro guasto testuale, generatosi a catena dal precedente). La logica del ragionamento si può riassumere come segue: per un banale errore di copista, i due nomi Ros e Mumphin, distinti in ebraico, sono stati trascritti uniti a formare un solo nome, sicché i figli di Beniamino risultano nove in luogo di dieci; Ugo di San Vittore – qui appellato con deferenza magister – si è reso conto dell’incongruenza e, per far tornare i conti, ha separato il terzo nome in ordine di elenco, ossia Asbel in Asa e Belus (cfr. in effetti Hugo S. Vict., Chron. − Paris, BnF, lat. 15009, f. 10v); ciononostante, tale soluzione si rivela palesemente insostenibile al confronto con il passo di Num 26, 30, in cui è menzionato proprio il nome di Asbel, scritto per intero; quanto all’errore commesso da Ugo, si avanza l’ipotesi che sia stato indotto dal testo di Flavio Giuseppe, ove nell’elenco dei nomi dei dieci figli di Beniamino figurerebbe il nome Asbela (cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 2, 7, 4 , ove si legge in verità Asabelus, dizione che giustifica ancor meglio, anzi perfettamente, la divisione operata da Ugo), secondo una grafia un poco diversa rispetto a quella della Vulgata (ove si legge Asbel) e che – così sembra di capire – avrebbe perciò indotto Ugo a separare proprio questo nome e proprio nel modo segnalato (forse nel senso che la parte finale del nome, ossia -bela o -belus, sarebbe potuta suonare a Ugo come un nome a sé stante, in virtù della terminazione in -a o in -us).
Capitolo 93 1.
2.
Le osservazioni sono desunte da Glossa ord. Gen 46, 28. La lezione segnalata è quella del testo greco dei Settanta, di qui probabilmente confluita anche in alcune traduzioni latine Veteres. Non è dato individuare una precisa fonte di riferimento per tali indicazioni, chiaramente intese a prevenire la possibile confusione del lettore tra la città di Tebaide, in Egitto, e quella di Tebe, in Grecia. Le fonti agiografiche concordano nell’attribuire a san Maurizio un importante ruolo a capo della legione tebana.
411
Note di commento, CAP. 93
3. 4.
5.
6. 7.
8. 9.
10. 11.
Né la notizia né la spiegazione etimologica trovano riscontro altrove. In sostanza, se ne conclude che il toponimo ‘Ramesse’, attestato dalla lezione riportata poco sopra, è un anacronismo. Sull’identificazione di Ramesse con il villaggio poi detto Arsenoites, cfr. Glossa ord. Gen 46, 28 cit. alla n. 1. Ignoriamo la fonte da cui sono tratte glossa etimologica e relativa spiegazione: la prima, peraltro, è filologicamente priva di consistenza, dal momento il nome Arsenoites ospita la radice greca ἄρσην- che, al contrario, significa «maschio». Cfr. Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 58D e analogamente Andr. S. Vict., Exp. Gen. 46, 34. Il dio Ammone, una delle maggiori divinità del pantheon egizio, viene infatti spesso rappresentato con testa e corna di ariete. Cfr. Andr. S. Vict., Exp. Gen. 47, 2. Quest’ultima affermazione, integrata nel discorso diretto biblico, trae spunto da Fl. Ios., Ant. Iud. 2, 7, 5 , un resoconto del discorso pronunciato da Giuseppe onde intercedere presso il Faraone a favore del padre e dei fratelli (cfr. oltre alla n. 11). La quaestio, qui formulata rigorosamente secondo il meccanismo di domanda diretta-risposta, attinge a Glossa ord. Gen 47, 16. Il testo di Gen 47, 7 legge qui benedicens illi (alla lettera «e costui lo benedisse»): l’esplicitazione del referente diretto del pronome illi, altrimenti ambiguo, è debitrice ad Andr. S. Vict., Exp. Gen. 47, 7. Cfr. Glossa ord. Gen 47, 9. La citazione in oggetto sembra accorpare due passi che nella fonte non sono immediatamente contigui. Sull’insediamento accordato al popolo d’Israele nei pressi della città di Eliopoli, dove già erano stati fatti insediare anche i pastori del Faraone, cfr. puntualmente Fl. Ios., Ant. Iud. 2, 7, 6 . L’osservazione che segue, invece, sembra un poco forzare, se non malinterpretare, il prosieguo di Fl. Ios., Ant. Iud. 2, 7, 5 cit. alla n. 7, ove Giuseppe riferisce al Faraone che i suoi fratelli non vogliono altro ut omnes pariter habitarent, utque providentiam facerent patris quatenus et Aegyptiis gratus esset, et nihil quod illorum esset istis imponeret. Aegyptiis enim erat abhominabilis conversatio pastoralis, ossia «che abitare tutti insieme per prendersi cura del padre finché egli non fosse divenuto gradito anche agli Egiziani; e che [scil. il Faraone] non attribuisca
412
Note di commento, CAP. 93-95
loro nulla che sia di pertinenza di costoro: gli Egiziani, infatti, odiavano stare insieme ai pastori». 12. Il nostro autore tenta di conciliare le differenti indicazioni di Genesi e Flavio Giuseppe: può darsi che la terra di Gessen, cui Gen 47, 11 fa riferimento con il toponimo Ramesse (un anacronismo, come già osservato: cfr. alla n. 4), sia prospicente il territorio di Eliopoli.
Capitolo 94 1. 2.
La notazione contestuale è desunta da Fl. Ios., Ant. Iud. 2, 7, 7 . Il dettaglio, assente o forse implicito nel testo biblico, compare invece in Fl. Ios., Ant. Iud. 2, 7, 7 .
Capitolo 95 1. 2.
L’indicazione toponomastica è mutuata da Glossa ord. Gen 47, 30. Rendiamo così il latino Et interserendo dixit ubi mortua fuit Rachel etc.: alla lettera «E inserendo (?) disse dove morì Rachele etc.», ove risulta assai poco perspicua l’espressione Et interserendo. Per tentare di attribuire un senso plausibile alla frase, e alla frase nel contesto del periodo, può essere utile muovere da tre distinte considerazioni: nel testo biblico Giacobbe rivela sì a Giuseppe il luogo in cui morì Rachele, ma nel seguente capitolo di Genesi e senza alcun riferimento né alla sua stessa morte imminente né alla sua volontà circa il luogo di sepoltura (cfr. infatti Gen 48, 7, ove Giacobbe afferma che mihi enim quando veniebam de Mesopotamiam mortua est Rahel in terra Chanaan in ipso itinere, eratque vernum tempus et ingrediebar Ephratam; et sepelivi eam iuxta viam Ephratae, quae alio nomine appellatur Bethleem: «infatti, in occasione del mio arrivo dalla Mesopotamia, Rachele mi morì nella terra di Chanaan durante il viaggio, ed era primavera, e stavo entrando in Effrata; e le diedi sepoltura lungo la strada di Effrata, detta anche Betlemme»); quanto segue
413
Note di commento, CAP. 95-96
(«come a voler… sepolto»), ossia la lettura esegetica che vede nelle parole di Giacobbe una sorta di confessione apologetica a proposito del luogo di sepoltura, è mutuato da Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 58D (a commento di Gen 48, 7); il verbo interserĕre, alla lettera «intrecciare» e quindi «inserire», «aggiungere in mezzo», è impiegato altre due volte dal nostro autore, ai capp. 31 e 84, con il significato tecnico di «inserire/inframmezzare nella trama narrativa». L’unica soluzione plausibile ci pare dunque la seguente: può darsi che Pietro, spinto dalla sua consueta esigenza di razionalizzare ogni singolo aspetto del testo sacro, si sia spiegato sulla scorta di Ugo le parole pronunciate da Giacobbe in Gen 48, 7 – ossia come un riferimento apologetico e perciò allusivo ‘per contrasto’ rispetto al suo proprio luogo di sepoltura −, sicché le anticipa appunto «inserendole nella trama narrativa» in corrispondenza del passo in cui Giacobbe accenna al proprio luogo di sepoltura (come se interserendo fosse una sorta di asterisco inserito da Pietro, a dire ‘inserisco qui qualche cosa che nel testo biblico compare dopo’). Perché la resa italiana suoni accettabile e scorrevole, si è scelto di tradurre «E in riferimento a questo gli disse dove morì Rachele». 3. Cfr. la già citata Glossa ord. Gen 47, 30. 4. La fonte della notizia è ignota. 5. Per le due lezioni alternative, con relativa esegesi esplicativa, cfr. Glossa ord. Gen 47, 31 (si badi che, nella fonte come nel nostro testo, alla prima lezione corrisponde la seconda esegesi, e alla seconda lezione la prima esegesi). È invece tratta da un altro passo di Glossa ord. Gen 47, 31 l’osservazione intesa a smentire una divulgata ipotesi interpretativa sulla prima delle due lezioni proposte.
Capitolo 96 1. Nel testo biblico Giacobbe prima dichiara quale trattamento di favore sarà riservato ai figli di Giuseppe nati in Egitto (Gen 48, 5-6), e soltanto poi, a motivo della vista ormai compromessa, chiede al figlio chi siano le due persone insieme a lui (Gen 48, 8-10): si osservi che Pietro Comestore inverte i due passaggi narrativi, come in effetti più congruente a rigor di logica (ossia prima Giacobbe
414
Note di commento, CAP. 96-97
chiede e viene a sapere chi siano i due, e poi dichiara di riservare loro un trattamento di favore). 2. Al pari, s’intende, dei figli dello stesso Giacobbe: la notazione è debitrice a Glossa ord. Gen 48, 5. 3. Il curioso comportamento di Giacobbe è giustificato in nome dell’ispirazione divina. 4. Si osservi come l’autore anche qui intervenga a ristrutturare la narrazione secondo un criterio logico più congruente: il testo biblico riporta la benedizione rivolta ad entrambi (Gen 48, 15-16) prima ancora della disapprovazione manifestata da Giuseppe per il gesto di Giacobbe e della conseguente risposta di costui (Gen 48, 17-19) con le parole di benedizione rivolte al solo Effraim (Gen 48, 20); il nostro testo, invece, fa prima manifestare a Giuseppe la sua disapprovazione, e poi dire a Giacobbe il motivo dello scambio di mani, indi la benedizione riservata ad Effraim e soltanto infine quella rivolta ad entrambi. 5. Il testo della Vulgata legge do tibi partem unam («consegno a te una sola porzione [scil. di eredità]»): sulla scorta di Glossa ord. Gen 48, 22, è esplicitato il referente diretto cui allude il complemento oggetto. 6. L’obiezione mossa alla lettera del testo sacro, con riferimento all’acquisto dal re Emor, è desunta da Glossa ord. Gen 48, 22. Non trova invece riscontro nelle fonti la lettura esegetica proposta a soluzione.
Capitolo 97 1.
Analogo spunto concettuale in Glossa interl. Gen 49, 1. Eccezionalmente Pietro Comestore procede qui oltre il livello di esegesi storico-letterale cui − pressoché sempre − sono confinate le letture proposte per il testo sacro: nel corso dei capitoli che seguono (capp. 98-108), le benedizioni rivolte da Giacobbe ai propri figli (Gen 49, 2-27) saranno infatti spiegate non soltanto in chiave storico-letterale, ma talora anche in chiave strettamente tipologico-figurale, ossia come pre-figurazione di eventi neotestamentari, per lo più riguardanti Cristo. Si segnala fin d’ora, inoltre, che non tutte
415
Note di commento, CAP. 97-100
le letture trovano riscontro altrove: laddove un parallelo si dà, le tre fonti cui il nostro autore attinge con maggior frequenza sono la Glossa e i commentari di Ugo e di Andrea di San Vittore (nei non rari casi in cui entrambi ripropongano i medesimi passi della Glossa, si citerà per comodità soltanto quest’ultima).
Capitolo 98 1. 2.
Si tratta della resa del testo ebraico, segnalata da Glossa ord. Gen 49, 3. Cfr. ibid.: Pietro Comestore ha cura però di formulare in modo esplicito due distinte letture esegetiche, puntualizzando che esse dipendono da un diverso modo di interpungere il passo; nella fonte manca anche il duplice paragone finale a spiegare, in termini assai concreti, che cosa si debba intendere per crescita dell’acqua.
Capitolo 99 1. 2.
Cfr. Glossa ord. Gen 49, 5. Cfr. ibid., ove è segnalata quale resa del testo greco dei Settanta, in luogo di suffoderunt murum («distrussero un muro») della Vulgata. 3. Le tre letture esegetiche non trovano riscontro nelle fonti. 4. Cfr. Glossa ord. Gen 49, 5. 5. Cfr. ibid., ove tuttavia si osserva in termini generici che Levi e Simeone non ottennero un proprio territorio, se non il solo Simeone alcuni territori della tribù di Giuda.
Capitolo 100 1. 2.
Cfr. Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 59B. Per la verità, il racconto di Es 14, 21 ss. non contiene alcun riferimento in tal senso. Cfr. Glossa interl. Gen 49, 10.
416
Note di commento, CAP. 100-103
3. Per entrambe le glosse esplicative, cfr. ibid. 4. Non può aver offerto al nostro autore che un esiguo spunto il passo di Glossa ord. Gen 49, 10, ove si osserva che fu Erode il primo re di stirpe non giudaica. 5. Cfr. Glossa interl. Gen 49, 10. 6. Il solo popolo dei pagani è menzionato da Glossa interl. Gen 49, 11. 7. Cfr. ibid. 8. Per entrambe le glosse esplicative, cfr. Glossa interl. Gen 49, 12. 9. L’esegesi ebraica per il passo di Gen 49, 10-12 è desunta da Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 59B-C (ma l’intera sezione è fedelmente riproposta anche da Andr. S. Vict., Exp. Gen. 49, 10-12).
Capitolo 101 1.
Cfr. Glossa interl. Gen 49, 13.
Capitolo 102 1.
Entrambe le notazioni sono debitrici a Glossa ord. Gen 49, 14, ove peraltro si precisa che osseus («osseo») è la resa del testo ebraico. 2. Cfr. Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 59D. 3. Cfr. la già citata Glossa ord. Gen 49, 14. 4. Cfr. ibid.
Capitolo 103 1. 2.
3.
Cfr. Glossa ord. Gen 49, 16. Sulla sconfitta dei Filistei e sulla grandezza in ogni caso non accomunabile a quella di Cristo, cfr. Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 59D-60A. Cfr. la già citata Glossa ord. Gen 49, 16.
417
Note di commento, CAP. 103-106
4. Cfr. ibid., ove tuttavia si segnala, in modo assai meno analitico rispetto al nostro testo, che il passo può leggersi in riferimento a Giuda, il cui tentativo di sopraffazione era destinato a fallire poiché Cristo risorse il terzo giorno. 5. Cfr. Isid., Etym. 7, 9, 20, ove tra le possibili derivazioni etimologiche per l’appellativo Iscariota si suggerisce che ex tribu Issachar vocabulum sumpsit, ossia «prese il nome dalla tribù di Isachar».
Capitolo 104 1. 2.
Cfr. Glossa interl. Gen 49, 19. Si badi che il testo biblico non allude mai a tali eventi. Il nostro autore accorpa informazioni desunte da Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 60A e da Glossa ord. Gen 49, 19 (quest’ultimo estratto figura anche in Andr. S. Vict., Exp. Gen. 49, 19). Le notizie in oggetto troverebbero effettivo riscontro nell’esegesi ebraica: cfr. Shereshevsky, ‘Hebrew traditions’, p. 287.
Capitolo 105 1.
Cfr. Glossa interl. Gen 49, 20.
Capitolo 106 1. 2.
3.
Cfr. Glossa interl. Gen 49, 21 e Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 60B. La lezione ager irriguus («campo irrigato») è segnalata da Glossa ord. Gen 49, 21 quale resa del testo ebraico. Quanto alle due possibili letture esegetiche proposte per il passo, cfr. puntualmente Andr. S. Vict., Exp. Gen. 49, 21 (la prima anche nella già citata Glossa ord. Gen 49, 21). Nessun riscontro né per la proposta di leggere il passo in riferimento al Monte Tabor né per questa prima ipotesi esplicativa.
418
Note di commento, CAP. 106-107
4. Cfr. Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 60B e nei medesimi termini Andr. S. Vict., Exp. Gen. 49, 21, ma senza alcun riferimento al fatto che le prime offerte sacrificali fossero tratte precisamente dal Monte Tabor. 5. Cfr. Glossa ord. Gen 49, 21.
Capitolo 107 1. 2.
Cfr. Glossa interl. Gen 49, 22. Cfr. Glossa interl. Gen 49, 22 e in termini analoghi Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 60B. 3. Cfr. Glossa ord. Gen 49, 22; il dettaglio relativo agli iacula invidiae («frecce dell’invidia») è tratto da Glossa interl. Gen 49, 23. Che il riferimento sia ai fratelli, invidiosi di Giuseppe, è osservato anche da Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 60B. 4. Equivalenza proposta da Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 60B-C. 5. Cfr. Andr. S. Vict., Exp. Gen. 49, 24. 6. Cfr. Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 60C e analogamente Andr. S. Vict., Exp. Gen. 49, 24. 7. Cfr. ibid. 8. Cfr. Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 60C e analogamente Andr. S. Vict., Exp. Gen. 49, 25. 9. Si conclude la prima proposta esegetica: il ragionamento sembra seguire il filo che qui ripercorriamo. Anzitutto, Pietro Comestore porta a confronto i due passi veterotestamentari di Num 21, 14-15 e Sal 114, 6, concludendo che tutti e tre ad idem spectant («fanno riferimento alla stessa cosa»), espressione il cui senso pare ambivalente: a) in tutti e tre si osserva la figura che useremmo definire, in termini correnti, una personificazione di un oggetto inanimato: in tal senso, l’autore si premura di giustificare l’impiego del sostantivo «desiderio» in riferimento ai «colli»; b) i tre diversi elementi menzionati nei tre passi, ossia «rocce dell’Arnon», «monti» e «colli», identificano in verità i medesimi luoghi e accennano al medesimo evento (ossia all’entrata di Israele nella Terra Promessa: cfr. nel prosieguo). In secondo luogo, Pietro motiva anche l’impiego dell’aggettivo «eterni» in riferimento ai «colli», di nuovo portando a confronto
419
Note di commento, CAP. 107
un passo parallelo, di cui tuttavia non è dato individuare la provenienza (egli stesso vi allude con il vago alibi, «altrove»: senz’altro un riferimento esterno al testo biblico): ne conclude – sebbene la logica della deduzione stenti a risultare perspicua – che i colli presso l’Arnon sono detti «eterni» in quanto assai impervî e rocciosi (forse nel senso di «inestirpabili»?). Segnala inoltre, e come a latere, il motivo per cui, nel passo poc’anzi citato a confronto, i «colli» sono definiti «tetragoni» (lett. «figure con quattro angoli», e perciò «quadrato» o «cubo»): di dubbia interpretazione è il sostantivo ceraunium, dal gr. κεραυνός, ossia «fulmine» e perciò forse «cima aguzza» (poiché a forma di fulmine). Allega due ulteriori osservazioni: l’una sembra intesa a spiegare il senso dei passi di Num 21, 14-15 e Sal 114, 6 («Una parte…l’arrivo»); l’altra è forse un appunto suggerito ancora a latere (si fatica infatti a comprenderne la logica nel contesto del ragionamento: «E può darsi…a quei monti»). Finalmente, incrociando i dati offerti dai tre passi biblici, giunge ad esplicitare il senso di questa prima lettura esegetica: la benedizione di Giuseppe durerà «finché giunga il desiderio dei colli eterni» nel senso che Giuseppe sarà benedetto fino a quando i colli esulteranno per il suo ingresso nella Terra Promessa − e anche in séguito: in questo caso, infatti, alla congiunzione donec («finché») è attribuito un senso cosiddetto inclusivum («inclusivo»), e non invece exclusivum («esclusivo») come nel contesto della seconda lettura (cfr. infra alla n. 11). Sembra di poter intendere l’opposizione tra donec inclusivum vs. donec exclusivum come quella che corre tra le due accezioni di «finché» che si conservano anche nell’italiano moderno: finché = per tutto il tempo in cui (inclusivum) vs. finché = fino al momento in cui (exclusivum). Come a dire, cioè, che Giuseppe sarà benedetto per tutto il tempo in cui (donec inclusivum) egli si sarà trovato all’interno della Terra Promessa, ossia anche dopo avervi fatto ingresso. A margine, segnaliamo che i tre passi qui in oggetto sono posti in relazione anche nel commento al passo di Num 21, 14-15 (ove Gen 49, 26 è citato come profezia di quanto sarebbe poi accaduto e Sal 114, 6 come allusivo al medesimo evento): cfr. Petr. Comest., Hist. Schol. − PL 198, col. 1235D-1236A. 10. Sembra di poter intendere questa osservazione come un’ulteriore ipotesi, complementare alla proposta esegetica appena illustrata:
420
Note di commento, CAP. 107-108
11.
12.
13. 14.
come a dire, forse, che il termine generico «colli» è allusione profetica a due ben precisi monti, sui quali si estese il regno di Israele. È questa la seconda proposta esegetica, di diverso stampo rispetto alla prima in virtù del diverso valore attribuito alla congiunzione donec («finché»), intesa qui in senso exclusivum (cfr. alla n. 9). Nella fattispecie, il generico «colli» sarebbe allusione profetica ai «monti» di Medi e Persiani, oltre i quali ancora sono in esilio le tribù di Effraim e Manasse, figli di Giuseppe: il «desiderio dei colli eterni» sarebbe perciò da intendere – così sembra di capire – come il desiderio, nutrito dai nemici di Israele, dell’esilio (cui il termine «colli» allude per metonimia) della stirpe di Giuseppe sua nemica; esilio che, quando giungerà, susciterà in loro gioia. In questo senso, Giuseppe sarà benedetto fino al momento in cui (e non oltre, s’intende: donec exclusivum) la sua stirpe sarà esiliata: in quel momento, infatti, avrà termine la sua gloria. Questa ulteriore lettura interpretativa, che muove dalla differente resa del testo ebraico, è desunta da Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 60D. Il soggetto dell’esclamazione di Giacobbe, assente nel testo biblico, è utilmente integrato sulla scorta di Glossa interl. Gen 49, 26. Cfr. Andr. S. Vict., Exp. Gen. 49, 26.
Capitolo 108 1.
Prima lettura esegetica, in riferimento alla città di Gerusalemme: cfr. Glossa ord. Gen 49, 27. 2. Cfr. ibid. e analogamente Glossa interl. Gen 49, 27: questa seconda lettura chiama in causa l’altare presente in Gerusalemme. 3. La terza esegesi, mutuata da Glossa interl. Gen 49, 27, è in chiave tipologico-figurale, con riferimento a san Paolo: si osservi che Pietro Comestore la segnala come la più attendibile. 4. Quarta e ultima lettura interpretativa, in riferimento alla bellicosità della tribù di Beniamino: cfr. Hugo S. Vict., Adnot. in Gen. col. 60D e Andr. S. Vict., Exp. Gen. 49, 27. 5. Analoghe osservazioni in Hugo S. Vict., Adnot. elucid. col. 61A.
421
Note di commento, CAP. 109-110
Capitolo 109 1.
Cfr. Glossa interl. Gen 49, 32: si segnala cioè a che cosa sia da intendersi qui riferito il termine «popolo». 2. Cfr. Glossa ord. Gen 49,32: si puntualizza per quale ragione sia inappropriato intendere il termine «popolo» nell’accezione più immediata, vale a dire nel senso di «stirpe». 3. Alle due possibili spiegazioni per la simbologia del numero sette allude in termini analoghi Glossa ord. Gen 50, 3. 4. La motivazione qui addotta è desunta da Glossa ord. Gen 50, 10. 5. L’osservazione è debitrice a Glossa interl. Gen 50, 10 6. Cfr. la già citata Glossa ord. Gen 50, 10, ove si precisa che la piana Adad, il luogo verso cui essi avevano deviato, si trova infatti trans Iordanem, appunto «al di là del Giordano».
Capitolo 110 1.
2.
Cfr. Fl. Ios., Ant. Iud. 2, 8, 2 non soltanto per quest’indicazione relativa ai fratelli di Giuseppe, ma anche per la precedente circa il momento in cui il cadavere di Giuseppe fu spostato. Tale notizia, sulla sepoltura definitiva in Sichem di Giuseppe e dei suoi fratelli, si legge altrove in Remig., Expos. super Gen. 50, 25.
422
INDICI
INDICE DELLE FONTI BIBLICHE
Biblia sacra iuxta Vulgatam versionem − ed. R. Weber, R. Gryson, B. Fischer, Stuttgart, 2007 Genesi 1, 2 1, 6 1, 7a 1, 7b 1, 10a 1, 11 1, 11-12 1, 12 1, 14 1, 15 1, 17 1, 20 1, 26a 1, 27 1, 28 1, 29 2, 6 2, 7 2, 17 2, 18 2, 23 2, 24 3, 7c 3, 17 3, 17-20 3, 18 3, 18a
3, 20 4, 1 4, 4 4, 6-7 4, 8 4, 15 4, 27 5, 1 5, 31 5, 32 6, 3 6, 20 6, 23 7, 2 7, 6 7, 11 9, 5-6 10, 7 10, 11 10, 15 11, 1-9 12, 4 12, 7 12, 10-20 12, 16 13, 2 14, 13 15, 2 15, 7 15, 17 16, 11 16, 16
226 n. b 75 n. e 75 n. e 75 n. e 77 n. a 78 n. a 85 n. b; 92 n. a 78 n. a 74 n. b 74 n. b 74 n. b 74 n. b; 82 n. b 86 n. a 91 n. e; 103 n. a 124 n. a 88 n. a 283 n. 51 262 n. 8 108 n. a 89 n. a 94 n. c 121 n. a; 291 n. 8 110 n. a 113 n. c 119 n. c 85 n. c 112 n. a
427
104 n. c 91 n. c 153 n. b 119 n. a 116 n. c 123 n. b 126 n. b 91 n. d 129 n. b 145 n. b 226 n. c 132 n. c 305 n. 11 326 n. 31 145 n. b 136 n. a 330 n. 8 143 n. b 143 n. b 193 n. e 102 n. a 181 n. e 181 n. e 169 n. b; 188 n. b 346 n. 3 346 n. 3 151 n. b 177 n. a 147 n. a 351 n. 7 161 n. b; 352 n. 2 181 n. f
INDICE DELLE FONTI BIBLICHE
17, 5 159 n. c 17, 17 163 n. b; 171 n. b; 181 n. h 17, 25 171 n. a 18-19 92 n. c 18, 12 171 n. b 18, 20-21 149 n. c 19, 24 358 n. 5 20 188 n. b 21, 5 181 n. g, h; 185 n. b 21, 19 173 n. a 21, 22-32 189 n. b 21, 27-32 189 n. c 21, 31 190 n. a 22, 9 184 n. b 22, 15-18 183 n. b 23, 1 181 n. h 23, 16 366 n. 6 23, 19 181 n. c 25, 7 185 n. c 25, 12-16 362 n. 6 25, 26 183 n. a; 216 n. f 26, 35 193 n. e 27, 6-17 193 n. d 28, 12-22 210 n. c 28, 18 205 n. a 28, 19 194 n. c 28, 22 211 n. b 29, 24 197 n. a 30, 35 200 n. a 30, 36 204 n. c 31, 41 203 n. b 32, 11 207 n. a; 209 n. b 32, 29 211 n. c 33, 2 206 n. a 33, 19 238 n. c 34, 2 209 n. c 34, 25 238 n. d 35, 22 217 n. d; 239 n. b 35, 28 216 n. f 36, 2 214 n. h 36, 8-9 213 n. e 36, 20 214 n. b 36, 24 214 n. i 36, 31 214 n. d 36, 33 213 n. c 37, 4 ss. 246 n. a
428
37, 26-27 38, 7-10 41, 14-15 41, 29-30 41, 45 41, 46 42, 6 43, 26 45, 6 46, 15 46, 18 46, 21 46, 22 46, 25 47, 9 47, 29-31 48, 7 50, 18
242 n. d 233 n. e 246 n. b 217 n. a 220 n. b 217 n. a 218 n. d 218 n. d 217 n. a 233 n. g 233 n. g 234 n. a 233 n. g 233 n. g 216 n. h 250 n. d 236 n. b 218 n. d
Esodo 1, 11 12, 1-11 13, 18 14, 21 ss. 20, 8
234 n. c 112 n. c 156 n. c 416 n. 13 91 n. b
Levitico 9, 24 11 18, 6-17
117 n. a 13 n. a 295 n. 2
Numeri 7, 12 11, 1-3 13, 23 13, 33-34 20, 1-13 21, 14-15 26, 38
242 n. b 250 n. e 128 n. a; 321 n. 5 128 n. a; 321 n. 5 169 n. a 247 n. a; 419 n. 9 224 n. b
Deuteronomio 2, 12 10, 22 12, 13-14 34, 7
214 n. c; 399 n. 8 233 n. d 174 n. d 149 n. a
INDICE DELLE FONTI BIBLICHE
Giosuè 1-12
194 n. d
Giudici 1, 1-2 4-5 6-8 8, 4 ss. 13, 2
242 n. e 186 n. b 158 n. b 21 n. a 243 n. a
1Samuele 1-4 9-31 9, 1-2 10, 1 16-31 16, 13 17, 4
182 n. e 214 n. e 242 n. c 242 n. c 240 n. b 241 n. a 128 n. b
2Samuele 1-24 5, 3 5, 6-9 5, 21 8, 13-14 1Re
240 n. b 238 n. b; 246 n. c 238 n. b; 246 n. c 161 n. c 117 n. a
2 Re 2, 11 6, 8-20
305 n. 11 165 n. a; 170 n. b
1Cronache 2-3 2, 5-16 2, 13-15 2, 19 2, 50 21, 7-30 22 22, 9
223 n. a 223 n. a 240 n. b 397 n. 2 397 n. 2 174 n. b 174 n. b 161 n. c
174 n. b 193 n. c 182 n. b
Giobbe 1, 1 2, 11 32, 2
176 n. a 213 n. f 176 n. b
Salmi 18, 8 24, 1 39, 7 55, 15 102, 26 104, 3 104, 30 105, 34 114, 6 120, 5
240 n. b 240 n. b 348 n. 11 396 n. 8 185 n. a; 193 n. b
1-2, 10 11, 26 12, 20 13, 2 18, 38
2Cronache 3-7 21, 8-10 26
429
126 n. a 67 n. c 86 n. b 67 n. e 71 n. b 75 n. d 72 n. b 93 n. a 247 n. c; 419 n. 9 158 n. a
Proverbi 8, 31
67 n. d
Cantico dei Cantici 1, 5
158 n. a
Siracide 44, 16 48, 10
305 n. 11 125 n. d
Isaia 2, 2 6, 3 9, 5 14, 12 14, 13 15, 5 22, 1 39, 2 57, 16
174 n. c 90 n. d 104 n. a 268 n. 6 75 n. c 166 n. a 174 n. a 229 n. c; 408 n. 42 93 n. e
Geremia 23, 24
67 n. b
INDICE DELLE FONTI BIBLICHE
Ezechiele 16, 49 39, 17-18
163 n. c 159 n. b
Daniele 2, 1-45 3, 72 7, 1-28 8, 1-25
141 n. d 72 n. b 141 n. d 141 n. d
Osea 4, 2
104 n. b
Gioele 4, 18
1, 17 1, 28 1, 31 2, 2 2, 13 3, 22 3, 23-38 3, 35-36 3, 35 5, 17 8, 5 9, 28-35 12, 37 16, 22 21, 8 22, 47-48 24, 13-35 24, 28 24, 41-43
81 n. b
Giona 3, 3
144 n. d
Abacuc 3, 2
114 n. a
Malachia 4, 6
125 n. d
Marco 1, 10 9, 2-8 10, 7 14, 41-46 15, 25 16, 2 16, 15
79 n. d 355 n. 5 295 n. 2 244 n. b 136 n. b 273 n. 3 69 n. c
Matteo 1, 1-17 1, 21 3, 16 11, 14 17, 1-8 19, 5 26, 45-50
367 n. 1 161 n. c 79 n. d 191 n. c 355 n. 5 295 n. 2 244 n. b
Luca 1, 5-25 1, 13
296 n. 3 161 n. c
430
125 n. d; 191 n. c 303 n. 6 161 n. c 79 n. c 212 n. b 79 n. d 314 n. 1; 367 n. 1 146 n. a; 339 n. 3 146 n. c 273 n. 3 75 n. b 355 n. 5 91 n. a 402 n. 14 85 n. a 244 n. b 165 n. a 170 n. a 112 n. b
Giovanni 1, 1 1, 1-3 1, 32 8, 10-11 12, 31 19, 14
69 n. a 259 n. 1 79 n. d 164 n. a 69 n. b 136 n. b
Atti degli Apostoli 7, 5 7, 14
173 n. b 233 n. c
Romani 9, 21 11, 11-24
88 n. c 331 n. 8
1Corinzi 15, 48
125 n. a
2Corinzi 3, 6 6, 15 12, 2
248 n. c 184 n. a 270 n. 11
Filippesi 3, 5
248 n. d
INDICE DELLE FONTI BIBLICHE
2Timoteo 3, 1 ss. Ebrei 11, 5 Apocalisse 4, 8
Vetus Testamentum graece iuxta LXX interpretes − ed. A. Rahlfs, R. Hanhart, Stuttgart, 2006
159 n. a 305 n. 11 90 n. d
431
Genesi 1, 16 9, 25 15, 2 20, 12 31, 7
275 n. 16 139 n. a 154 n. c 360 n. 8 390 n. 10
Isaia 39, 2 57, 16
408 n. 42 93 n. e
INDICE DELLE FONTI NON BIBLICHE
Adso De ortu et tempore Antichristi 24 359 n. 4
10, 1-2 294 n. 6 11, 30 299 n. 2 11, 31 300 n. 5 11, 36 301 n. 4 De Genesi contra Manichaeos (PL 34) 1, col. 176-177 265 n. 4 1, col. 179 266 n. 6, 8 1, col. 184 327 n. 2 Quaestiones in Heptateuchum − Genesis 6 324 n. 10 4 325 n. 13 24 340 n. 5 42 356 n. 102 122 401 n. 1
Agostino Contra Faustum 22, 56 387 n. 21 De civitate Dei 14, 17 300 n. 1 15, 23 320 n. 4 15, 27 326 n. 5 16, 3 340 n. 5 16, 11 340 n. 7 18, 2 337 n. 12 19, 15 354 n. 5 22, 30 280 n. 3 De Genesi ad litteram 1, 1 25 n. 35 2, 13 273 n. 1 2, 17 274 n. 11 3, 8 277 n. 7 3, 10 276 n. 3 3, 14 277 n. 2, 3 3, 15 277 n. 3 3, 16 277 n. 4 3, 17 277 n. 5 3, 18 278 n. 6 3, 21-22 278 n. 4 4, 2 280 n. 12 4, 34 264 n. 18 5, 10 283 n. 61, 7, 9 8, 10 288 n. 3 8, 17 289 n. 4
Ps. Agostino Sermones ad fratres in eremo commorantes (PL 40) 55, col. 1338 87 n. a 10, col. 1252 373 n. 9 Alcuino Interrogationes et responsiones in Genesin (PL 100) col. 526B-C 332 n. 1 col. 545B-C 364 n. 7 col. 545C 364 n. 11 Ps. Alessandro Magno Epistula ad Aristotelem 3, 29-31 304 n. 8
432
INDICE DELLE FONTI NON BIBLICHE
16, 21 ss. Ambrogio Exameron 2, 2, 7 6, 4, 28
46, 21 410 n. 4 46, 34 412 n. 5 47, 2 412 n. 6 47, 7 412 n. 9 48, 7 342 n. 3 49, 10-12 417 n. 9 49, 19 418 n. 21 2 49, 21 418 n. 2 ; 419 n. 41 49, 24 419 n. 52, 6, 7 49, 25 419 n. 8 49, 26 421 n. 14 49, 27 421 n. 4 Esodo 1, 5 410 n. 3 Levitico 25, 10 349 n. 1
304 n. 8
327 n. 1 301 n. 7
Andrea di San Vittore Expositio super Heptateuchum Genesi 1, 1 268 n. 1, 270 n. 9 1, 2 262 n. 12 1, 4 267 n. 5 1, 5 268 n. 10 1, 16 273 n. 4 1, 28 279 n. 7 2, 7 283 n. 3 2, 9 285 n. 5, 6, 7 2, 10 287 n. 14 2, 15 288 n. 1 2, 19 291 n. 3 3, 22 302 n. 2; 303 n. 5 4, 10 310 n. 3, 4 4, 23 313 n. 12 4, 24 314 n. 14, 15 4, 26 315 n. 7 6, 6 321 n. 6 6, 16 324 n. 7 7, 2 326 n. 4; 330 n. 3 9, 22 331 n. 3 9, 26 331 n. 7 11, 7 335 n. 4 11, 10 331 n. 5; 339 n. 3 11, 3 324 n. 7 12, 6 344 n. 2 15, 2 350 n. 2 19, 24 358 n. 5 20, 1 359 n. 12 20, 16 361 n. 10, 13 21, 17 362 n. 5 25, 22 372 n. 32 25, 31 376 n. 5 27, 28 380 n. 4 27, 41 380 n. 12 29, 10 383 n. 3 38, 29 404 n. 8 41, 44 407 n. 9
Angelomo di Luxeuil Commentarius in Genesin (PL 115) col. 152A-B 313 n. 12 Aristotele Ethica Eudemia 1216A Beda De temporum ratione 10, 13 In principium Genesis 1, 1, 785 ss. 1, 1, 899 ss. 2, 6, 1376
279 n. 6
335 n. 1 278 n. 5 279 n. 8 325 n. 13
Ps. Beda Quaestionum super Genesim dialogus (PL 93) col. 276C 298 n. 4 Calcidio Timeo di Platone 41A94 n. b Cassiodoro Expositio Psalmorum 103, l. 490
433
273 n. 2
INDICE DELLE FONTI NON BIBLICHE
1, 7, 1-2 345 n. 3 1, 7, 2 345 n. 5 1, 8, 1 345 n. 1 1, 8, 1 345 n. 2 1, 8, 2 346 n. 4 1, 8, 3 346 n. 5 1, 9, 1 347 n. 2 1, 9, 1 347 n. 4 1, 9, 1 347 n. 4 1, 10, 1 347 n. 8 1, 10, 2 348 n. 9 1, 10, 2 348 n. 10; 349 n. 12 1, 10, 4 346 n. 7 1, 11, 2 355 n. 2, 7 1, 11, 2 355 n. 6 1, 11, 4 357 n. 14 1, 11, 4 358 n. 9 1, 12, 1 360 n. 3 1, 12, 1 360 n. 5, 7 1, 12, 1 363 n. 41 1, 12, 2 362 n. 11 1, 12, 3 362 n. 3 1, 12, 4 362 n. 6 1, 13, 2 363 n. 42 1, 13, 2 363 n. 32 1, 13, 2 363 n. 12 1, 13, 3-4 364 n. 6 1, 13, 4 364 n. 8 1, 15, 1 370 n. 2 1, 15, 1 370 n. 6 1, 15, 1 370 n. 7 1, 16, 1-3 370 n. 2 1, 16, 1 367 n. 4 1, 16, 1 367 n. 5 1, 16, 1 368 n. 7 1, 16, 1 368 n. 8 1, 16, 1 368 n. 11 1, 18, 1 374 n. 13 1, 18, 1 374 n. 10 1, 18, 2 376 n. 1 1, 18, 2 377 n. 6 1, 18, 2 377 n. 7 1, 18, 2 378 n. 8 1, 18, 4 379 n. 1 1, 18, 6 380 n. 11
Festo − Paolo Diacono De verborum significatu p. 207, l. 8 406 n. 12 Flavio Giuseppe Antiquitates Iudaicae 1, 1, 2 294 n. 4 1, 1, 3 293 n. 2 1, 1, 3 287 n. 10 1, 1, 4 300 n. 8 1, 1, 4 301 n. 5 1, 2, 1 305 n. 2; 308 n. 12 1, 2, 1 308 n. 13 1, 2, 1 308 n. 1; 309 n. 6 1, 2, 1 309 n. 7; 310 n. 3 1, 2, 1 310 n. 7 1, 2, 2 311 n. 12 1, 2, 2 311 n. 2 1, 2, 2 312 n. 4, 7 1, 2, 2 313 n. 11 1, 2, 3 315 n. 3; 317 n. 4 1, 2, 3 312 n. 6 1, 3, 1 319 n. 2 1, 3, 2 322 n. 10 1, 3, 2 324 n. 11 1, 3, 3 326 n. 2 1, 3, 3 326 n. 32 1, 3, 5 329 n. 9 1, 3, 5-6 328 n. 7 1, 3, 5 330 n. 4 1, 3, 7 331 n. 9 1, 3, 9 332 n. 9 1, 4, 3 – 1, 5, 1 335 n. 7 1, 6, 1 332 n. 2 1, 6, 2 332 n. 2 1, 6, 2 336 n. 8 1, 6, 4 332 n. 2 1, 6, 4 340 n. 4 1, 6, 5 340 n. 9 1, 6, 5 339 n. 2 1, 6, 5 341 n. 10 1, 6, 5 341 n. 12; 342 n. 1; 344 n. 3 1, 7, 1 341 n. 13; 343 n. 1
434
INDICE DELLE FONTI NON BIBLICHE
1, 18, 8-1, 19, 1 381 n. 5 1, 18, 8 381 n. 4, 5 1, 19, 1 382 n. 6 1, 19, 2 383 n. 9 1, 19, 3 383 n. 1, 2 1, 19, 6 384 n. 5 1, 19, 6 384 n. 9 1, 19, 6 384 n. 8 1, 19, 7 385 n. 2 1, 19, 7 387 n. 3 1, 19, 8 390 n. 11 1, 19, 8 390 n. 1, 3 1, 19, 9 390 n. 5 1, 19, 9 391 n. 7 1, 19, 9 390 n. 8 1, 19, 10 391 n. 10 1, 20, 1 392 n. 7 1, 20, 2 392 n. 9 1, 20, 2 394 n. 5 1, 20, 2 393 n. 2; 394 n. 31 1, 20, 3 394 n. 2 1, 21, 1 396 n. 1 1, 21, 1 396 n. 2 1, 21, 1 396 n. 4 1, 21, 2 396 n. 6 1, 21, 3 398 n. 4 1, 22, 1 398 n. 1 2, 1, 2 400 n. 12 2, 2, 1 402 n. 3 2, 2, 2 402 n. 6 2, 3, 1 402 n. 8 2, 3, 2 402 n. 9 2, 3, 3 402 n. 13 2, 4, 1 403 n. 3 2, 4, 3 405 n. 2 2, 4, 5 405 n. 3 2, 5, 2 406 n. 3 2, 5, 3 406 n. 5 2, 5, 5 407 n. 3 2, 5, 6 407 n. 4 2, 5, 7 407 n. 6 2, 6, 1 407 n. 11 2, 6, 2 408 n. 21, 31
2, 6, 2 408 n. 41 2, 6, 5 408 n. 22 2, 6, 6 409 n. 3, 4 2, 7, 5 412 n. 7, 11 2, 7, 6 412 n. 11 2, 7, 7 413 n. 11 2, 7, 7 413 n. 21 2, 8, 2 422 n. 12 De Bello Iudaico 4, 8, 476-485 358 n. 10 5, 5 (ed. I. Frobenius) 358 n. 10 6, 10, 438-440 348 n. 11 7, 18 (ed. I. Frobenius) 348 n. 11 Fretello De locis sanctis 8 307 n. 8; 346 n. 6 9 346 n. 8 10-11 344 n. 2 11 357 n. 3 11-12 358 n. 10 24-25 399 n. 6 28 392 n. 8; 399 n. 6 29 399 n. 6 33 399 n. 6 51 363 n. 32 Giamblico Protrepticus 9, 51 Girolamo Chronicon p. 24a p. 29b p. 31b p. 30b p. 32b Epistulae 78, p. 76, par. 35 124, p. 114, par. 12 52, p. 419, par. 3
435
279 n. 6
355 n. 3 379 n. 11 386 n. 7 386 n. 7 400 n. 13 404 n. 5 289 n. 7 405 n. 10
INDICE DELLE FONTI NON BIBLICHE
Hebraicae quaestiones in libro Geneseos 4, 8 309 n. 1 4, 16 311 n. 13 6, 2 262 n. 10 9, 18 342 n. 2 19, 14 357 n. 13 19, 30 357 n. 4; 359 n. 6 22, 13 364 n. 9, 10 22, 20 365 n. 14 23, 16 366 n. 6 24, 9 367 n. 1 26, 12 377 n. 5 29, 27 385 n. 10 30, 32 388 n. 3 31, 7 390 n. 10 32, 29 394 n. 6 33, 17 394 n. 3 35, 21 398 n. 6 36, 33 399 n. 5 37, 36 403 n. 1 43, 11 408 n. 42 46, 26 410 n. 2 De situ et nominibus locorum Hebraicorum (PL 23) col. 890B 346 n. 8 Liber interpretationis Hebraicorum nominum 7, 10 349 n. 1 9, 9 386 n. 5 11, 29 387 n. 5 13, 21 394 n. 6
2, 8 2, 11 2, 13 2, 14 2, 17 2, 18 2, 19 2, 23 2, 24 3, 1 3, 7 3, 8 3, 9 3, 10 3, 12 3, 13 3, 20 3, 21 3, 22 3, 24 4, 1 4, 5 4, 6 4, 7 4, 9 4, 10 4, 13 4, 21 5, 5 6, 2 6, 3 6, 9 6, 13 6, 14 6, 15 6, 16 6, 18 7, 7 7, 9 7, 11 7, 16 8, 7 8, 15 10, 9 10, 11 10, 25 11, 7
Glossa interlineare Genesi 1, 1 262 n. 12 1, 1 264 n. 16 1, 2 265 n. 5; 266 n. 7, 9 1, 3 268 n. 8 1, 4 267 n. 3, 4; 268 n. 10 1, 6 268 n. 2 1, 11 272 n. 5 1, 14 274 n. 9, 12 1, 20 276 n. 1 1, 26 278 n. 1, 2 1, 27 282 n. 2 2, 2 281 n. 3; 282 n. 7
436
284 n. 3 286 n. 6 287 n. 9 287 n. 12, 13 289 n. 5 290 n. 1 291 n. 5 294 n. 2 291 n. 8 297 n. 1 300 n. 6, 1; 302 n. 12 301 n. 3 301 n. 3 301 n. 3 301 n. 3 301 n. 3 294 n. 6 302 n. 1 302 n. 2; 303 n. 3, 5 305 n. 11 305 n. 1; 308 n. 10 309 n. 7 309 n. 8 309 n. 9, 11 310 n. 2, 6 310 n. 4 310 n. 8 312 n. 5 294 n. 3, 4 319 n. 1 322 n. 11 322 n. 11 322 n. 12 323 n. 1; 324 n. 7 325 n. 13 324 n. 9; 325 n. 12 325 n. 1 325 n. 2 326 n. 1 326 n. 2 328 n. 5 329 n. 8 329 n. 1 332 n. 3 336 n. 9 340 n. 6 335 n. 5
INDICE DELLE FONTI NON BIBLICHE
12, 6 14, 14 15, 2 15, 8 15, 10 15, 13 15, 18 16, 7 17, 17 18, 2 18, 11 19, 1 19, 8 19, 20 19, 22 19, 24 19, 37 20, 1 21, 33 24, 2 24, 62 24, 63 25, 1 25, 18 25, 21 25, 25 25, 30 26, 10 28, 17 28, 19 29, 20 29, 32-35 30, 6 30, 8 30, 11 30, 13 30, 18 30, 20 30, 24 30, 33 32, 2 32, 7 32, 22 32, 29 32, 31 33, 1 33, 10
35, 16 397 n. 1, 2 37, 2 402 n. 4 37, 25 402 n. 10 38, 1 404 n. 1 38, 29 404 n. 7, 8 41, 18 406 n. 12 41, 51 407 n. 12 41, 52 407 n. 13 43, 11 408 n. 32 43, 32 408 n. 13 43, 34 409 n. 6 49, 1 415 n. 1 49, 10 416 n. 23; 417 n. 31, 5 49, 11 417 n. 6, 7 49, 12 417 n. 8 49, 13 417 n. 11 49, 19 418 n. 11 49, 20 418 n. 12 49, 21 418 n. 13 49, 22 419 n. 3 49, 23 421 n. 13 49, 26 421 n. 2, 3 49, 32 422 n. 11 50, 10 422 n. 5
344 n. 2 347 n. 6 350 n. 1 350 n. 2 350 n. 3 350 n. 4 351 n. 8 351 n. 1 354 n. 7 355 n. 1 356 n. 91 356 n. 8 356 n. 92 357 n. 3 357 n. 3 358 n. 6 359 n. 5 359 n. 22 363 n. 51 367 n. 3 369 n. 1 369 n. 3 370 n. 4 372 n. 21, 31 372 n. 12 374 n. 10, 12 376 n. 41 376 n. 32 382 n. 8 383 n. 9 384 n. 7 385 n. 2 385 n. 4; 386 n. 5 386 n. 5 386 n. 6 386 n. 6 387 n. 4 387 n. 5 387 n. 6 388 n. 4 392 n. 1 392 n. 4 392 n. 2 394 n. 4 394 n. 7 392 n. 6 394 n. 1
Glossa ordinaria Genesi 1, 1 264 n. 17 1, 2 265 n. 1, 3, 266 n. 9, 11 1, 4 267 n. 3 1, 6 269 n. 4, 5; 270 n. 12 1, 7 271 n. 16 1, 9-10 271 n. 1 1, 10 272 n. 4 1, 11 272 n. 6, 7; 278 n. 6 1, 12 272 n. 8 1, 14 273 n. 5; 274 n. 7; 275 n. 16 1, 20 276 n. 3 1, 21 277 n. 6, 2, 3, 4, 5; 278 n. 7 1, 26 280 n. 3 1, 27 278 n. 4; 280 n. 11 1, 31 280 n. 6 2, 2 281 n. 2, 3, 4, 5; 282 n. 7 2, 3 282 n. 9
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INDICE DELLE FONTI NON BIBLICHE
2, 4 282 n. 4 2, 7 283 n. 2, 4, 52; 284 n. 7, 8 2, 8 284 n. 2 2, 9 285 n. 5 2, 10 286 n. 2; 287 n. 14, 15 2, 11 286 n. 8 2, 15 288 n. 2, 3 2, 16 289 n. 4, 6 2, 19 291 n. 4, 7, 8 2, 21 294 n. 6 3, 1 299 n. 5 3, 7 300 n. 5 3, 9 301 n. 3 3, 17 302 n. 14 3, 19 302 n. 15 3, 22 303 n. 4 3, 24 305 n. 10, 11 3, 25 296 n. 1 4, 2 308 n. 11 4, 4 308 n. 5 4, 6 309 n. 10, 13 4, 8 309 n. 1 4, 15 311 n. 9 4, 16 311 n. 13 4, 17 311 n. 1 4, 18 311 n. 3 4, 21 312 n. 6 4, 22 312 n. 7 4, 23 313 n. 12 4, 24 314 n. 14 4, 25 315 n. 5 4, 26 315 n. 7 5, 3 314 n. 1; 316 n. 3 5, 24 317 n. 7 5, 26 318 n. 9 5, 27 318 n. 9 6, 2 319 n. 1 6, 3 321 n. 6; 322 n. 8, 9 6, 13 322 n. 13 6, 15 323 n. 3, 4, 6 6, 16 324 n. 10 6, 19 326 n. 5 6, 21 326 n. 5 7, 2 326 n. 31 7, 11 327 n. 1 7, 20 328 n. 3
8, 9 9, 2 9, 13 9, 18 9, 21 10, 1 10, 8 10, 9 10, 11 10, 24 10, 28 11, 8 11, 10 11, 13 11, 26 11, 29 11, 31 12, 1 12, 4 13, 18 14, 2 14, 13 14, 14 14, 18 15, 13 15, 16 16, 12 16, 14 17, 5 17, 15 17, 17 17, 19 18, 2 18, 10 18, 11 18, 20 19, 8 19, 11 19, 14 19, 18 19, 24 19, 25 19, 30 19, 31 19, 32 20, 2 20, 12
438
329 n. 10 330 n. 7 331 n. 10 342 n. 2 331 n. 2 332 n. 1 335 n. 2 332 n. 3 336 n. 10 340 n. 5 341 n. 11 335 n. 6 338 n. 1 335 n. 2 340 n. 8 341 n. 13 343 n. 2 343 n. 2 343 n. 2 346 n. 6 347 n. 3; 357 n. 3 347 n. 5 347 n. 6 348 n. 9; 349 n. 13 350 n. 5 351 n. 6 352 n. 3; 353 n. 5 353 n. 9 353 n. 2 354 n. 6 354 n. 8 354 n. 9 355 n. 5 355 n. 7; 356 n. 101 356 n. 91 356 n. 1, 2 356 n. 102 357 n. 11 357 n. 13 357 n. 1 358 n. 7 358 n. 8 357 n. 3, 4 359 n. 21, 6, 8 359 n. 11, 7 360 n. 4 360 n. 8
INDICE DELLE FONTI NON BIBLICHE
21, 9 21, 31 21, 33 22, 2 22, 4 22, 13 22, 14 22, 20 23, 16 24, 9 24, 65 25, 1 25, 13 25, 18 25, 21 25, 22 25, 23 25, 29 25, 31 26, 1 26, 12 26, 21-22 26, 32 27, 33 27, 40 27, 41 29, 20 30, 14 30, 32 31, 7 31, 46 32, 29 33, 17 33, 18 35, 10 35, 21 36, 6 36, 31 36, 34 36, 20 37, 2 37, 3 37, 10 37, 28 37, 35
37, 36 403 n. 1, 3, 4 38, 1 404 n. 1 38, 14 404 n. 4 38, 29 404 n. 9 40, 9 406 n. 11 40, 16 406 n. 4 41, 38 407 n. 7 41, 43 407 n. 8 41, 45 407 n. 10 43, 11 408 n. 42 44, 15 409 n. 7 46, 26 410 n. 1, 2 46, 28 411 n. 1; 412 n. 4 47, 9 412 n. 10 47, 16 412 n. 8 47, 30 413 n. 12; 414 n. 3 47, 31 414 n. 5 48, 5 415 n. 2 48, 22 415 n. 5, 6 49, 3 416 n. 11, 21 49, 5 416 n. 12, 22, 4, 5 49, 10 417 n. 41 49, 14 417 n. 12, 32, 42 49, 16 417 n. 13, 33; 418 n. 4 49, 19 418 n. 21 49, 21 418 n. 22;419 n. 51 49, 22 419 n. 3 49, 27 421 n. 1, 2 49, 32 422 n. 21 50, 3 422 n. 3 50, 10 422 n. 4, 6 1Cronache 1, 19 334 n. 9; 335 n. 1
362 n. 4 363 n. 31 363 n. 6 363 n. 32 363 n. 52; 364 n. 7 364 n. 9, 11 365 n. 12, 13 365 n. 14 366 n. 6 367 n. 1 369 n. 5 370 n. 1, 6 362 n. 6 372 n. 31 372 n. 12 372 n. 22; 373 n. 5, 6, 7 373 n. 8 376 n. 41 376 n. 5 376 n. 22 377 n. 5 378 n. 8 378 n. 9, 10 380 n. 5 380 n. 6, 7 381 n. 2 384 n. 7 387 n. 21 387 n. 22; 388 n. 3; 389 n. 6, 8 389 n. 9; 390 n. 10 391 n. 9 394 n. 6 394 n. 3 395 n. 5 397 n. 10 398 n. 5, 6 398 n. 2 399 n. 4 399 n. 5; 400 n. 10 399 n. 7, 8 401 n. 1 402 n. 5 402 n. 7 402 n. 12 402 n. 14
Graziano Decretum 2, 2, 1, 19
356 n. 3
Guglielmo Di Conches Dragmaticon 5, 12, 4 349 n. 1 Isidoro di Siviglia Etymologiae sive Origines 1, 3, 7 285 n. 12 3, 16, 1 312 n. 8 3, 71, 4 274 n. 10
439
INDICE DELLE FONTI NON BIBLICHE
Ps. Metodio di Patara Revelationes de novissimis temporibus 1 (p. 60) 306 n. 4; 307 n. 6 1 (p. 60-61) 307 n. 7 1 (p. 61) 307 n. 9 1-2 (p. 61-63) 319 n. 3 2 (p. 63) 318 n. 10; 319 n. 3 3 (p. 63) 330 n. 5 3 (p. 63-64) 334 n. 6 3 (p. 64) 332 n. 4 3 (p. 65) 334 n. 7 4 (p. 65) 337 n. 11 5 (p. 68) 352 n. 4 5 (p. 67-68) 353 n. 6 11 (p. 80-81) 353 n. 6 11 (p. 84-87) 353 n. 6
5, 1, 1 379 n. 11 5, 31, 1 268 n. 9 5, 39, 8 379 n. 11 7, 1, 22 264 n. 15 7, 9, 20 418 n. 5 8, 11, 8 400 n. 13 8, 11, 23 337 n. 12 8, 11, 23-24; 26 338 n. 14 8, 11, 71 386 n. 7 8, 11, 74-75 386 n. 7 8, 11, 84-85 379 n. 11 9, 2, 43 338 n. 13; 349 n. 1 11, 1, 55 270 n. 8 11, 2, 22 294 n. 1 11, 3, 13-14 320 n. 4 12, 2, 7 287 n. 11 12, 4, 27 298 n. 3 12, 4, 34-35 84 n. c 12, 6, 2 276 n. 1 12, 6, 4 291 n. 4 12, 7, 40 274 n. 7 12, 7, 41 274 n. 7 12, 8, 16 84 n. d 13, 19, 3-4 344 n. 2; 358 n. 10 13, 19, 6 344 n. 2 13, 21, 7 287 n. 9 13, 21, 8 286 n. 4, 5 13, 21, 9 287 n. 11 13, 22, 3 386 n. 7 14, 1, 1 271 n. 2; 272 n. 3 14, 3, 10 336 n. 10 14, 6, 21 386 n. 7 14, 8, 24 272 n. 3 15, 1, 22 383 n. 9 15, 2, 27 379 n. 11 15, 13, 32 321 n. 5 16, 2, 1 324 n. 7 16, 6, 1 400 n. 13 17, 1, 2 400 n. 13 17, 7, 71 408 n. 12 19, 32, 1 400 n. 13 19, 32, 2 400 n. 13 19, 32, 5 400 n. 13 Lattanzio Divinae institutiones 2, 1, 15
Onorio Augustodunense De imagine mundi (PL 172) 1, col. 141C-D 268 n. 2 1, col. 154D-155B 275 n. 14 3, col. 165B 315 n. 2 3, col. 165C 317 n. 6, 7 3, col. 165D 312 n. 4; 313 n. 10 3, col. 166B 339 n. 3 3, col. 170C 379 n. 11 Q. Orazio Flacco Ars poetica 163107 n. e P. Ovidio Nasone Metamorphoses 1, 85-86
86 n. c
Pietro Abelardo Expositio in Hexameron par. 218, p. 53 269 n. 7 Pietro Comestore Historia Scholastica (PL 198) Es 4, 25, col. 1147C160 n. a Num 13, 23, col. 1228A 321 n. 5
278 n. 5
440
INDICE DELLE FONTI NON BIBLICHE
1, 5, 9 1, 5, 11 1, 5, 12
Num 21, 14-15, col. 1235B 247 n. b Num 21, 14-15, col. 1235D-1236A 419-20 n. 9 2Sam 5, 21, col. 1329C 396-7 n. 8
Ugo di San Vittore Adnotationes elucidatoriae in Pentateuchon (PL 175) col. 34D 267 n. 1, 2 col. 34D-35A 268 n. 12 col. 35A-B 270 n. 12 col. 36C 274 n. 11 col. 37A 277 n. 1 col. 37B-C 278 n. 1 col. 37C-D 278 n. 2 col. 37D-38A 279 n. 9 col. 38A 280 n. 5 col. 38B 282 n. 3 col. 38C-D 286 n. 3 col. 38C 283 n. 8 col. 38D 283 n. 1 col. 39B 284 n. 8 col. 40B 291 n 6 col. 41A 295 n. 2 col. 41B 296 n. 4 col. 41C 299 n. 7 col. 41D-42A 300 n. 4 col. 42A 300 n. 7 col. 42A-B 301 n. 2 col. 43A 301 n. 6 col. 43B 302 n. 9, 13 col. 43D 305 n. 9, 12 col. 44A 308 n. 3 col. 44A-B 308 n. 4 col. 44B 309 n. 12 col. 44C 311 n. 10 col. 44D 311 n. 11 col. 44D-45A 313 n. 12 col. 45A-B 314 n. 15 col. 45B 315 n. 6, 7 col. 45C 316 n. 3 col. 46A 320 n. 4 col. 46D 325 n. 13 col. 47B 328 n. 6 col. 48A 329 n. 10 col. 48B 330 n. 8 col. 48C 331 n. 4 col. 48D 331 n. 6
Pietro Lombardo In Psalmos (PL 191) 86, col. 808B 342 n. 2 119, col. 1135D-1136A 370 n. 5 Sententiae 2, 12, 1, 2 265 n. 2 2, 12, 3-4 265 n. 4 2, 17, 2, 4 284 n. 9 3, 38, 6, 3 381 n. 2 Platone Symposium 202D-203A 189C-190B Timaeus 30B 38B 90A Rabano Mauro In Genesim (PL 107) col. 453C col. 460B-C col. 517B
371 n. 2 371 n. 2 375 n. 15
276 n. 2 278 n. 4 266 n. 11 263 n. 14 285 n. 9
273 n. 6 278 n. 5 325 n. 13
Remigio di Auxerre Expositio super Genesim 1, 2 266 n. 6 1, 3 267 n. 1 1, 4 267 n. 1, 5 1, 14 273 n. 6 25, 17 372 n. 11 25, 25 374 n. 11 50, 25 422 n. 22 Riccardo di San Vittore Liber exceptionum 1, 5, 3 371 n. 2
441
INDICE DELLE FONTI NON BIBLICHE
col. 60B-C 419 n. 42 col. 60C 419 n. 6, 7, 8 col. 60D 421 n. 12, 4 col. 61A 421 n. 5 Chronicon (Paris, BnF, lat. 15009) f. 5v 337 n. 12 f. 5r-6r 371 n. 2 f. 6r 375 n. 15 f. 10v 410 n. 4 Didascalicon de studio legendi 3, p. 50, l. 20 386 n. 7
col. 49B 335 n. 2 col. 49C 336 n. 10 col. 49C-D 338 n. 13 col. 52A 358 n. 5 col. 52B 359 n. 3, 5 col. 52D 360 n. 8; 361 n. 10, 13 col. 52C-D 361 n. 9 col. 53C 366 n. 4 col. 55A 380 n. 4 col. 55C 383 n. 3 col. 56C-D 400 n. 9 col. 57B 404 n. 3 col. 57C 405 n. 1 col. 57D-58A 409 n. 1 col. 58C 409 n. 2 col. 58D 412 n. 5; 413 n. 22 col. 59B 416 n. 13 col. 59B-C 417 n. 9 col. 59D 417 n. 21 col. 59D-60A 417 n. 22 col. 60A 418 n. 21 col. 60B 419 n. 41, 2, 3
442
P. Virgilio Marone Bucolica 8, 27 Georgica 2, 150
201 n. a
Vita latina Adae et Evae 49-50
291 n. 9
111 n. b
INDICE DEI NOMI
307 nn. 5, 9, 308 n. 3, 312 nn. 3, 6, 314-5 n. 1, 315 n. 4, 316 nn. 1, 2, 317 n. 4, 318 n. 10, 319-20 n. 3, 366 n. 5 Adriano: 100 Agar: 28, 157, 159, 172-3, 179 n. a, 180, 219, 351 n. 1, 353 nn. 7, 8, 362 n. 3, 370 n. 5 Agostino: 25, 43-4, 45-6 n. 78, 83, 92, 103, 132-3, 146, 148, 155, 199, 265 n. 4, 279 n. 6, 283 n. 2, 293 n. 5, 324 n. 10, 326 n. 5, 327 n. 2, 340 n. 5, 344 n. 21, 350 n. 5, 387 n. 21 Alberico delle Tre Fontane: 11 n. 6 Alcuino: 43-4, 140, 175, 332 n. 1, 364 nn. 7, 11 Alessandro [Severo], imperatore: 101 Alessandro Magno: 53, 114, 141 n. d, 304 n. 8 Amalech: 213 n. a, 215, 400 n. 12 Ambrogio: 47 Aminadab: 156 Ammon: 168, 359 n. 5 Ammone: 235, 412 n. 5 Ammoniti: 168 Amorrei: 238 Amram: 156 Amraphel: 151 Ana: 213 n. a, 214 Anassagora: 279 n. 6 Andrea di San Vittore: 49-50, 54 n. 95, 263 n. 12, 267 n. 1, 313 n. 12, 314 n. 15, 340 n. 3, 342 n. 3, 410 n. 4, 415 n. 1 Aner: 151-2
Aaron: 153, 156, 187 Abele: 28, 35, 114, 116-9, 123-5, 127 n. b, 153, 307 n. 6, 308 nn. 2, 3, 315 n. 1, 316 n. 2, 317 n. 4, 320 n. 3 Abimelech: 24 n. 32, 168-9, 171-3, 188-9, 360 n. 6, 361 n. 11, 363 n. 21, 376 n. 22, 378 n. 10 Abram: vd. Abramo Abramo: 28, 29 n. 44, 31-2, 35-6, 38-9, 43 n. 70, 99, 115, 124 n. b, 128 n. c, 140 n. a, 144, 146-57, 159-64, 168-82, 184-5, 188-90, 194, 212 n. a, 219-20, 232 n. a, 238, 249, 305 n. 2, 306 n. 2, 308 n. 3, 337 n. 10, 340-1 n. 9, 341 nn. 11, 12, 13, 343 nn. 1, 2, 343, 346 nn. 3, 8, 347 n. 7, 349 n.1, 350 nn. 2, 5, 351 nn. 6, 1, 352 n. 2, 353 n. 1, 354 n. 7, 355 nn. 1, 3, 4, 356 nn. 4, 5, 360 nn. 3, 6, 8, 361 n. 9, 362 nn. 2, 3, 363 nn. 21, 1, 42, 365 n. 1, 366 nn. 2, 5, 6, 367 nn. 1, 2, 5, 370 nn. 2, 7, 371 n. 1, 373 n. 5, 374 n. 13, 375 n. 14, 378 n. 10, 402 n. 14 Acrisio: 186 Ada: 121 Adamo: 16, 27-30, 35-6, 38, 53 n. 92, 92, 94 n. c, 97, 101-6, 110, 112-7, 119, 121-7, 133, 138 n. a, 151, 176, 284 n. 7, 291 nn. 8, 9, 292, 293 nn. 3, 4, 295 nn. 2, 3, 296 n. 4, 300 nn. 3, 8, 301 n. 3, 303 n. 6, 305 n. 2, 306 n. 4,
443
INDICE DEI NOMI
Beroso, il Caldeo: 43, 53, 135, 149, 328 n. 7, 345 n. 3 Besamath: 190, 400 n. 11, 381-2 n. 5 Buz: 176
Anticristo: 168, 244, 359 n. 4 Apheram: 181, 370 n. 7 Apis: vd. Serapide Apollo: 182 n. g Aquila: 29 n. 46, 100, 183, 217, 289 n. 7, 402 n. 5 Aquileia: 28 n. 43, 147, 342-3 n. 3 Arabi: 171 Aram, discendente di Giuda: 156 Aram, fratello di Abramo: 146-7, 164 n. b, 169 n. d, 170-1, 3412 nn. 11, 13, 361 n. 9 Arfaxat: 145-6, 339 n. 1, 340 n. 9 Argivi: 186 Aristotele: 53, 70, 114, 261 n. 5, 304 n. 8 Armeni: 137 Aronne: 117 n. a, 169 n. a Asbel: 234, 410-11 n. 4 Asbeliti: 234 Asenec: 227 Aser: 198, 244 Assiri: 99, 144-5, 151, 182, 337 n. 10 Assur: 23, 31 n. 51, 143, 144 n. a, 3367 nn. 9, 10 Atlante: 23 n. 31, 215
Caina, figlio di Enos: 125 Caina: vd. Sale Caino: 28-9, 35, 114, 116-27, 306 n. 4, 307 n. 6, 309-10 n. 1, 310 n. 8, 311 nn. 9, 13, 2, 313 nn. 11, 12, 316 nn. 1, 2, 319-20 n. 3 Calcidio: 52, 94 n. b, 263 n. 14 Caldei: 147-50, 344 n. 21 Caleb: 212, 397 n. 2 Calmana: 116, 306 n. 4, 307 n. 6 Cam: 29 n. 45, 53, 126, 138-42, 144, 147, 193 n. e, 334 nn. 7, 8, 337 n. 11, 338 n. 13 Cambise: 183 Cananei: 153, 190, 193 n. c, 194, 196, 379 n. 1, 381-2 n. 5 Carnii: 182 Cassiodoro: 47, 273 n. 2, 287 n. 10 Cedar: 158, 172, 370 n. 5 Cerere: vd. Demetra Cethma: 172 Cethura: 180-1, 219, 370 nn. 2, 5, 7 Chaat: 156 Chanaan: 139, 193 n. c Chedorlaomer: 152 Chus: 141, 143-4, 337 n. 11 Ciro: 183 Cledeo: 181, 370 n. 7 Cleodemo: vd. Cledeo Commodo: 100, 289 n. 7
Bala: 197, 212, 233 Balaam: 176 Baldach Suita: 213 Bale: 213 Barach: 186 Basemath: vd Besamath Batuel: 178-9, 368 n. 12 Beda: 43-4, 107, 279 n. 8, 298 n. 4 Belial: 36, 184, 373 n. 3 Belo, re assiro-babilonese: 31 n. 51, 142, 144-5, 182, 337 n. 10, 338 nn. 12, 14 Belo, re della Grecia: 144 Beniamino: 37, 43 n. 71, 211-2, 217, 227-32, 234, 242 n. c, 248, 401 n. 2, 409 n. 5, 410 n. 4, 411 n. 4, 421 n. 4 Bennoni: vd. Beniamino Bernardo di Clairvaux: 10 n. 2
Damasco: 154 Dan: 197, 243-4 Danao: 23 n. 31, 144 n. c, 186 Daniele, profeta: 141 Dante Alighieri: 260 n. 3, 333 n. 5 David: 124 n. b, 126, 128 n. b, 174, 185, 193 n. b, 211, 240-1, 348 n. 11, 363 n. 3, 396 n. 8 Debora: 186 Delbora, nutrice di Rebecca: 211, 397 n. 9
444
INDICE DEI NOMI
Enos: 124-5, 315 nn. 6, 8, 316 n. 1 Ephram: vd. Ephron Ephron: 176-7, 365 n. 1, 366 nn. 5, 6 Epicuro: 70 Epigoni: 182 n. d Ercole: 181, 370 n. 7 Erode il Grande: 241, 417 n. 41 Esaù: 36-7, 43 n. 70, 176, 185-7, 190-4, 206, 208, 212-5, 373 n. 9, 374 n. 10, 375 n. 1, 376 n. 2, 379 n. 1, 381 nn. 2, 5, 392 nn. 2, 7, 398 n. 2, 400 Escol: 151-2 Esdra: 214, 400 n. 9 Esizio: 43, 53, 143, 335-6 n. 7 Esperî: 143 Esrom: 156 Estieo: vd. Esizio Ethea: 181 Ethei: 176, 365 n. 1 Eusebio di Cesarea: 23, 43-4, 54, 162, 175, 256 n. 7, 355 n. 3 Eva: 22, 27 n. 43, 29, 35, 104-5, 111-2, 114, 116, 176, 291-2 n. 9, 293 n. 1, 298 n. 2, 299 n. 4, 300 n. 8, 303 n. 6, 306 n. 4, 366 n. 5 Evila: 183 Ezechiele: 159
Delbora, sorella di Abele: 116, 307 n. 6 Demetra: 23 n. 31, 198 n. c, 216, 400 n. 13 Dina: 199, 209, 210 n. a, 233, 238 n. d, 240, 396 n. 2 Diopolitani: vd. Faraoni Dodan: 143 Dodorim: 181, 370 n. 7 Duma: 172 Ebrei: 34, 45 n. 78, 49-51, 76, 115, 1234, 131, 133, 146-8, 153, 159-60, 166, 168, 172, 174-7, 180, 183, 185, 209, 212-3, 215, 219-20, 222, 225, 227, 230, 234, 242-3, 248, 249 nn. a, b, 250, 271 n. 16, 306 n. 2, 317 n. 8 Edom: vd. Esaù Effraim: 227, 233 n. b, 234 n. a, 2378, 246 n. c, 247, 251, 410 n. 3, 415 n. 4, 421 n. 11 Effrata: 212, 397 n. 2 Egesippo, pseudo: 47, 348 n. 11 Egialeo: 182 Egitto: 186 n. e, 144 n. c Egizi: 144, 150, 154 n. b, 182, 186 n. a, 190, 227, 230, 234-6, 249, 275 n. 15, 337 n. 11, 412 n. 11 Egiziani: vd. Egizi Elamìti: 152 Eleazar: 156 Elia: 37, 115, 117, 125, 162, 191, 305 n. 11, 309 n. 5, 317 n. 7, 355 n. 5 Eliezer: 34, 154, 177-8 Eliphaz, figlio di Esaù: 400 n. 12 Eliphaz Themanita: 213 Elisabetta, santa: 107, 296-7 n. 3 Eliseo: 33, 165, 170 Emor: 209-10, 238, 396 n. 2, 415 n. 6 Empedocle di Agrigento: 260 n. 3 Enach: vd. Enachim Enachim: 128, 321 n. 5 Enoch, discendente di Seth: 115, 125-6, 305 n. 11, 317 nn. 6, 7, 8, 318 n. 9 Enoch, figlio di Caino: 121
Faraone: 150, 188 n. b, 217, 220, 224-8, 231, 235-6, 250, 345 n. 2, 346 n. 3, 406 n. 4, 407 nn. 3, 1, 409 n. 1, 412 nn. 7, 11 Faraoni: 182 Filistei: 128 n. b, 189, 244, 396 n. 8, 417 n. 2 Filone di Alessandria: 43-4, 142, 334 n. 9 Flavî: 47 Flavio Giuseppe: 32, 40 n. 62, 42 n. 70, 43, 46-8, 53, 99, 103-4, 109, 116-7, 120-2, 124-5, 127-8, 131, 133, 135, 138, 140, 143, 146, 148-9, 151-3, 161, 167, 169, 173-4, 177, 179-80, 185, 189, 194-197, 203-12, 215, 217, 219, 220, 223, 225, 229-30, 234-35,
445
INDICE DEI NOMI
4 n. 22, 414 n. 1, 415 nn. 2, 3, 4, 1, 421 n. 13 Gilberto Porretano: 252 n. 1 Giobbe: 46 n. 78, 57 n. 101, 176, 213, 365 n. 14 Giosia: 161 Giosuè: 194, 382 n. 7 Giovanni, evangelista: 259 n. 1, 355 n. 5 Giovanni, il Battista: 37, 107 n. a, 125 n. d, 161, 191, 296 n. 3 Giove: 143 Girolamo di Stridone: 23, 40, 43-4, 46 n. 78, 47, 101, 118, 121, 126, 128, 148, 151, 165-6, 168, 177, 196, 200-2, 208-9, 212, 215, 220, 229, 233, 256 n. 7, 290 n. 7, 309-10 n. 1, 311 n. 13, 318, 322 n. 8, 346 n. 8, 355 n. 3, 364 n. 10, 365 n. 14, 366 n. 6, 377 n. 5, 388 n. 3, 389 n. 5, 394 nn. 6, 32, 395 n. 4, 399 n. 5, 403 nn. 1, 3, 404 n. 5, 405 nn. 10, 11, 408 n. 42 Girolamo l’Egizio: 135, 328 n. 7 Giuda, figlio di Giacobbe: 156, 197, 219, 221-2, 223 n. a, 229, 231, 2334, 240, 242, 404 n. 6 Giuda, Iscariota: 244, 418 n. 4 Giuda, Maccabeo: 241 n. c Giuda, tribù di: 182, 193 Giuda: vd. Dodan Giudei: 51, 102-3, 125, 143, 153, 155, 171, 174-5, 181, 241-2, 317 n. 8 Giuseppe, figlio di Giacobbe: 43 n. 70, 198-9, 206, 21621, 223-38, 242, 245-51, 401, 402 nn. 7, 13, 403 n. 3, 405 nn. 1, 3, 407 n. 1, 408 n. 31, 409 n. 1, 410 n. 3, 412 nn. 7, 11, 413 n. 22, 414 n. 1, 415 n. 4, 419 n. 3, 420 n. 9, 421 n. 11, 422 nn. 12, 2 Giuseppe Flavio: vd. Flavio Giuseppe Giustiniano: 290 n. 7 Golia: 128 Greci: 69, 71, 83, 122, 127, 142, 150, 198, 216, 319 n. 2, 320 n. 4
251, 287 n. 10, 292 n. 9, 312 n. 6, 313 n. 11, 315 n. 4, 317 n. 4, 328 n. 7, 335-6 n. 7, 341 n. 9, 344 n. 3, 345 n. 5, 347 n. 4, 348 n. 11, 358 n. 10, 368 n. 12, 370 nn. 2, 7, 374 n. 13, 377 n. 7, 382 n. 5, 383 n. 2, 390 n. 11, 391 n. 6, 392 n. 10, 393 n. 11, 394 nn. 2, 6, 396 n. 4, 398 n. 1, 400 n. 12, 403 n. 3, 409 n. 5, 411 n. 4, 413 n. 12 Foroneo: 190, 379 n. 11 Fretello, Rorgo: 51, 307 n. 8, 346 n. 8, 399 n. 6 Gabriele, arcangelo: 303 n. 6 Gad: 198, 244 Gangar: 98 Gebusei: 195, 383 n. 9 Gedeone: 158, 209 Geroboamo: 238, 246 Gesù Cristo: 16, 26 n. 39, 29, 33, 36-7, 65, 69 n. c, 75, 79 nn. c, d, 85 n. a, 91 n. a, 101-2, 112 n. b, 115, 124 n. b, 130, 161, 162 n. e, 164 n. a, 165 n. a, 170 n. a, 177, 184, 191, 194-5, 220, 237, 239, 240-1, 244-5, 248, 253 n. 2, 290 n. 7, 291 n. 8, 295 nn. 2, 3, 302 n. 14, 305 n. 11, 315 n. 1, 339 n. 3, 355 n. 5, 367 nn. 1, 2, 373 n. 3, 382 n. 7, 402 n. 14, 415 n. 1, 417 n. 22, 418 n. 4 Giacobbe: 22, 24 n. 32, 27, 29, 36-7, 39, 40 n. 62, 43 nn. 70, 71, 57 n. 101, 128 n. c, 151, 184-7, 1917, 199-213, 215-8, 228-34, 236-40, 244, 246-7, 249-50, 373 nn. 3, 9, 374 n. 12, 375 n. 1, 376 n. 2, 381 nn. 2, 5, 382 n. 7, 383 nn. 9, 3, 384 nn. 5-8, 385 nn. 10, 1, 387 nn. 1, 2, 388 n. 3, 389 n. 7, 390 n. 2, 391 nn. 6-9, 392 nn. 2, 3, 7, 10, 393 nn. 11, 1, 394 nn. 3, 4, 1, 395 n. 4, 396 nn. 2, 5, 7, 397 n. 9, 398 n. 1, 399 n. 2, 401 n. 1, 402 n. 7, 410 n. 3, 413-
446
INDICE DEI NOMI
Gregorio Magno: 44 Gualtiero di Châtillon: 252 n. 1 Guglielmo di Conches: 263 n. 14, 349 n. 1 Guglielmo il Manibianche: 11, 14, 65, 252 n. 1, 253 n. 2, 257 n. 8 Guido Comestor: 9 n. 1
379 n. 1, 380 n. 5, 381-2 n. 5, 398 nn. 1, 2, 401 Isachar: 199, 243-4, 418 n. 5 Isaia: 90, 93, 107 n. d, 166, 173-4, 229, 408 n. 4 Iside: 23 n. 31, 186, 190, 379 n. 11 Isidoro: 43-4, 51, 54, 98, 130, 155, 260 n. 2, 323 n. 4, 338 n. 14, 350 n. 5, 379 n. 11, 386 n. 7, 440 n. 13 Ismaele: 157-9, 161, 171-2, 173 n. a, 181, 183, 194, 219, 352 n. 2, 362 nn. 3, 4, 6, 370 n. 5, 372 n. 31, 381 nn. 4, 5 Ismaeliti: 219, 242 n. d, 352 n. 4, 402 n. 12 Israele: vd. Giacobbe Israele, popolo di: 93 n. a, 117 n. a, 128 n. b, 140 n. a, 156 nn. b, c, 158, 167, 169 n. a, 173 n. b, 174 n. b, 182, 186, 193, 194 n. d, 213 n. a, 214, 231 n. b, 234 n. c, 238, 240, 241 n. c, 242 n. b, 2434, 246-7, 248 n. b, 251, 305 n. 11, 332 n. 8, 351 n. 6, 395 n. 4, 399 nn. 3, 4, 412 n. 11, 419 n. 9, 421 nn. 10, 11 Iubal: 122, 312 n. 5 Iudith: 190, 400 n. 11
Heber: 146 Heli: 182 Heliu il Buzita: 176 Her: 221, 233 Heth: 193 Hiro: 141, 333 n. 4 Horrei: 214, 399 n. 8 Hus: 175-6 Husan: 46 n. 78, 399 n. 5 Iabel: 121, 312 n. 4 Iaphet: 126, 139-40, 142, 334 n. 7 Iaphram: vd. Apheram Iareth: 125 Idumei: 185, 193 Iecta, capo semìta: 142 Iecta, figlio di Heber: 146 Ierofanti: 221 Iesca: 146, 341 n. 13 Inaco: 186, 190, 379 n. 11 Io: vd. Iside Ioathon: vd. Ionitho Iobab: 46 n. 78, 57 n. 101, 213, 399 Ionitho: 29 n. 45, 53, 141, 333 n. 5, 334 n. 7 Ippocrate: 53, 202 Ira: 221-2 Irath: 121 Ircano: 241 Isacco: 24 n. 32, 26 n. 39, 29 n. 44, 37, 128 n. c, 151, 153, 155, 157 n. a, 161, 162 n. a, 171-3, 175, 177, 179-81, 183-6, 184 n. b, 188-94, 193 n. c, 212, 216, 217 n. b, 238, 249, 350 n. 5, 362 nn. 2, 3, 6, 363 nn. 1, 4, 364 n. 6, 369 n. 1, 370 n. 2, 372 n. 12, 375 n. 14, 376 nn. 21, 22, 377, 378 n. 10,
Labano: 43 n. 71, 178, 193-6, 199-205, 211, 217 n. b, 368 n. 12, 383 n. 2, 384, 387 nn. 1, 2, 388 n. 3, 389 n. 9, 391 Lamech, discendente di Caino: 1203, 125 n. c, 311 n. 3, 313-4 Lamech, padre di Noè: 125, 318 Latini: 69, 133 Lazzaro: 402 n. 14 Legislatore: vd. Mosè Leobio: 153 Levi: 156, 197, 210, 238 n. d, 239-40, 385 n. 2, 416 n. 5 Lia: 196-9, 202-3, 205, 210 n. a, 233, 385 nn. 1, 2, 387 n. 5 Lilith: 292-3 n. 1, 293 n. 3
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INDICE DEI NOMI
179, 181, 194 n. d, 209, 213-5, 217, 240, 259 n. 5, 317 n. 4, 321 n. 5, 346 n. 4, 355 n. 5, 399 n. 4, 400 n. 9 Mumphin: 410-11 n. 4
Lot: 28-9, 38, 146-7, 149-50, 152, 154, 164-8, 341 n. 13, 349 n. 1, 357 nn. 10, 14, 4, 359 n. 11, 361 n. 9 Luca, evangelista: 146, 233, 33940 n. 3, 410 n. 2 Lucifero: 33, 75, 76 n. a, 107-8, 268 n. 6
Naason: 156, 242 n. b Nabaioth: 172, 194, 381 n. 4 Nachor: 146-7, 175-8, 182, 365 n. 14, 367 n. 5 Nazareo: 248 Nemroth: 42 n. 70, 53, 141-4, 332-5, 337 n. 11 Neptalim: 197, 245, 386 n. 5 Nicola, beato: 115, 305 n. 12 Nicolao Damasceno: 43, 53, 150, 328 n. 7, 345 n. 5 Nino: 29 n. 45, 144-5, 181, 338 Niobe: 190, 379 n. 11 Noè: 29, 40 n. 65, 125-9, 131-42, 145, 147, 153, 168, 183, 316 n. 1, 318, 323 n. 6, 329 n. 2, 330 n. 3, 332 nn. 1, 2, 335 n. 1, 341 n. 9 Noema: 122
Macedoni: 133 Machir: 251 Madian: 219 Madianiti: 219-20, 234, 246 n. b, 402 n. 12 Magi: 79 Malaleel: 125 Malcho: vd. Cledeo Malech: 194, 381 n. 4, 382 n. 5, 400 n. 11 Mambre: 151-2 Manasse, figlio di Giuseppe: 227, 233 n. b, 234 n. a, 237-8, 244, 247, 251, 410 n. 3, 421 n. 11 Manasse Damasceno: 135, 328 n. 7 Maometto: 352 n. 2 Masek: 154 n. c Matusale: 121 Matusalemme: 125-6, 317 n. 5, 318 n. 9 Mauiael: 121 Maurizio, santo: 234, 411 n. 2 Maurizio, vescovo di Parigi: 12 n. 8 Medi: 142, 182, 247, 421 n. 11 Melcha: 146-7, 175, 178, 341 n. 13 Melchisedech: 151-3, 184, 348 n. 9, 349 n. 13 Metodio, pseudo: 42 n. 70, 43, 51-2, 115-6, 124-7, 141, 146, 158, 306-8, 316-20, 332-4, 341 n. 9, 352 n. 4 Michele, arcangelo: 291-2 n. 9 Minerva: vd. Pallade Mnasea di Patara: 328 n. 7 Moab: 168, 359 n. 5 Moabiti: 168 Mosè: 29, 65, 70, 82, 99, 108, 115, 117, 125-6, 132-3, 140-1, 143, 148-50, 160 n. a, 162, 169 n. a,
Ogige: 198, 386 n. 7 Ona: 221, 233 Onorio Augustodunense: 46, 54, 269 n. 2, 379 n. 11 Opher: 180 Orazio: 54 Oreb: 158 Origene: 101, 289-90 n. 7, 325 n. 13 Ornam il Gebuseo: 174 Ovidio: 54, 279 nn. 5, 6 Ozia: 182 Palestinesi: 189 Pallade: 23 n. 31, 198, 386 n. 7 Pallante: 198 Paolo Diacono: 406 n. 12 Paolo, apostolo: 37, 88 n. c, 184 n. a, 248, 270 n. 11, 331 n. 8, 373 n. 3, 421 n. 3 Pastori: 182 Perseo: 186 Persiani: 142, 183, 247, 421 n. 11
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INDICE DEI NOMI
Saba: 143 Sale: 146, 339-40 n. 3 Salmana: 158 Salomone: 161 n. c, 174 n. b, 241 Samaritani: 118, 309-400 n. 1 Sansone: 161, 243 Sara: 27, 31, 42 n. 70, 147, 149, 157, 160-3, 164 n. b, 168-72, 176, 1801, 188 n. a, 341-2 n. 13, 351 n. 1, 354 n. 6, 360 nn. 3, 6, 8, 361 n. 9, 362 n. 3, 365 n. 1, 366 n. 2, 370 nn. 4, 5 Saraceni: 158, 180, 352 n. 3, 370 n. 5 Sarai: vd. Sara Sardanapalo: 182, 371 n. 2 Sarug: 144, 146, 182, 337 n. 10 Saul: 214, 242, 400 n. 9 Sebeon: 214 Seffora: 160 n. a Seir l’Horreo: 214 Seir: vd. Esaù Sela: 221-2 Sella: 121-2 Sem: 126, 139-42, 144-6, 153, 331 n. 5, 332 n. 4, 333 n. 8, 337 n. 10, 338-9, 340 nn. 3, 6, 341 n. 9 Semiramide: 181 Serapide: 190, 379 n. 11 Seri: 114, 304 n. 8 Seth: 42 n. 70, 116, 123-7, 291 n. 9, 307 n. 9, 312 n. 6, 315 n. 1, 316-7, 319 n. 3 Settanta, Bibbia dei: 29 n. 46, 93 n. e, 100, 116, 120, 125-6, 139 n. a, 146-7, 154 n. c, 183, 200, 202, 203 n. a, 214 n. c, 225 n. a, 233, 275 n. 16, 281 n. 2, 289 n. 7, 309 n. 13, 311 n. 13, 317 n. 4, 318 nn. 9, 10, 324 n. 9, 340 n. 9, 342 n. 2, 347 n. 5, 361 n. 8, 365 n. 14, 368 n. 5, 377 n. 5, 388 n. 3, 390 n. 10, 393 n. 11, 407 n. 10, 408 n. 42, 410 n. 2, 411 n. 1, 416 n. 22 Severo [Settimio], imperatore: 100 Sibilla: 43, 53, 143, 335-6 n. 7 Sichem: 209-10, 396 n. 2
Phalec: 146, 340 n. 6 Phanecphane: 227, 407 n. 10 Phares: 156, 221, 223, 405 n. 10 Phicol: 172, 189 Phoron: 181, 370 n. 7 Pietro Abelardo: 10, 252 n. 1 Pietro di Blois: 252 n. 1 Pietro di Poitiers: 11 n. 6, 16, 252 n. 1 Pietro di San Crisogono: 10 nn. 2, 4 Pietro Lombardo: 10, 15, 265 n. 2 Pitagora di Samo: 122, 279 n. 6, 286 n. 12, 312 n. 8 Platone: 58 n. 103, 70, 72, 82, 94, 97, 263 n. 14, 266 n. 11, 276 n. 2, 285 nn. 8, 9, 346 n. 4 Prometeo: 23 n. 31, 215, 400 n. 13 Putifarre: 220, 223, 227, 403 n. 4 Quintiliano: 43, 53, 202 Raab: 147, 342 n. 2 Rabano: 43-4, 131, 175, 273 n. 6, 325 n. 13, 364 n. 11 Rachele: 151 n. a, 195-9, 202-6, 211-2, 217, 219 n. a, 233, 234 n. a, 236, 384 n. 7, 385 n. 10, 387 n. 3, 390 n. 2, 398 n. 1, 402 n. 7, 413 n. 22 Ragau: vd. Reu Rashi: 50 Rebecca: 29 n. 44, 178-80, 183, 190-1, 193, 194 n. b, 196 n. a, 211, 212 n. c, 368 nn. 7, 12, 369 nn. 4, 5, 372 n. 12, 373 n. 5, 374 n. 13, 376 n. 21, 379 n. 1, 381 nn. 2, 3, 398 n. 1 Regma: 143 Remigio di Auxerre: 46, 266 n. 6 Reu: 146 Riccardo di San Vittore: 54, 371 n. 2 Roma: 176 Romani: 142, 198 n. c Ros: 410-11 n. 4 Ruben: 197-8, 212, 217, 219, 229, 237, 239, 244, 402 nn. 8, 13 Rufino di Aquileia: 47, 289 n. 7
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INDICE DEI NOMI
Thema: 172 Titani: 128, 215 n. a, 321 n. 5 Tito: 47 Tolomeo Filadelfo: 100, 289 n. 7 Trittolemo: 215, 216 n. a, 400 n. 13 Tubalcaim: 122
Sichimiti: 209-10, 238-9, 396 n. 7 Sicione: 182 n. f Sicioni: 182 Simeone: 197, 210, 228-30, 237, 238 n. d, 239-40, 416 n. 5, Simmaco: 29 n. 46, 100, 131, 184, 217, 289 nn. 5, 7, 325 n. 12, 402 n. 5 Sodomìti: 35, 38, 149-50, 152-3, 357 nn. 10, 11 Stefano, protomartire: 173 Steleno: 186 Strabone, Valafrido: 42 n. 70, 43-4, 123-4, 128, 168, 314 n. 1, 315 n. 4, 322 n. 9, 344 n. 21, 359 n. 8, 399 n. 8 Sua: 221-2 Suffene: 142 Surim: 181, 370 n. 7
Ugo di San Vittore: 12, 43, 49-50, 54, 234, 267 n. 1, 295 n. 2, 313 n. 12, 314 n. 15, 371 n. 2, 386 n. 7, 400 n. 9, 409 n. 1, 411 n. 4, 414 n. 2, 415-6 n. 1 Vespasiano: 46, 167, 358 n. 10 Zabulon: 199, 243, 387 n. 5 Zaccaria, santo: 53 n. 92, 107, 296-7 n. 3 Zara: 213 Zaram: 221, 223, 405 n. 10 Zeb: 158 Zebee: 158 Zelpha: 196-7, 233 Zeus: 182 n. i, 186 n. a, 268 n. d Zeusippo: 182 Zoroastre: 29 n. 45, 144, 154, 338 n. 13, 349 n. 1
Tebani: 234 Tebei: 182, 234 Telchini: 23 n. 31, 216, 400 n. 13 Teodosio: 151, 346 n. 8 Teodozione: 29 n. 46, 100, 117, 289 n. 7, 308 n. 5 Tertulliano: 293 n. 5 Thamar: 221-2, 404 n. 6 Thare: 128 n. c, 146-8, 169 n. d, 170, 340 n. 9, 341 n. 9, 343-4, 361 n. 9, 367 n. 5
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INDICE DEI LUOGHI
Bersabee, pozzo di: 173, 188 n. a, 189, 232 n. a, 378 nn. 9, 10 Bersabee, regione di: 173, 175, 189, 194, 363 n. 1, 366 n. 2, 378 n. 9 Bethel, città: 195, 210-11, 383 n. 9, 396 n. 5 Bethel, località presso cui dimora Abram: 149-50, 174, 345 n. 4 Betlemme: vd. Effrata Boris, monte: 135 Bosra, terra di: 213, 399 n. 3 Bulla Regia: 83
Abramio: 176 n. d, 236-7 Acaia: 198, 386 n. 7 Acta: vd. Eleusi Adad, piana di: 250, 422 n. 6 Adama: 92 n. c, 149 n. b, 152 Africa: 140, 180-1 Agro damasceno: 28, 95, 114 Albana, fiume: 214 Alpi: 71 Amalechite: 215 Amano, monte: 140 Antiochia: 214 Apia: vd. Sicionia Arabia Felice: 180 Arabia: 167, 172, 214, 358 n. 10 Aran: 147-9, 154, 177, 194-5, 342 n. 2, 343, 368 n. 5, 389 n. 9 Argo: 186, 190 n. b Armenia: 99, 134-5, 288 n. 15 Arnon, fiume: 247, 419-20 n. 9 Arsenoites: vd. Ramesse Asia: 140-1, 304 n. 8 Assiria: 144, 337 Atlante, catena montuosa: 99
Cades: 29, 159, 168, 183 Cadice: 140 Caldea: 99, 144, 148, 328 n. 7, 343 n. 1 Calvario, monte: 237 Cariatarbe: vd. Hebron Cariath: 194, 381-2 n. 5 Carmelo, monte: 117 Caucaso, monte: 99 Cedar: 172 Cedema: 172 Champagne: 9 n. 1, 10, 252 n. 1 Chanaan, terra di: 147-9, 156, 174 n. c, 194 n. d, 217 nn. b, c, 228, 232 n. b, 233, 235, 336 n. 2, 413 n. 22 Charan: vd. Aran Chartres, scuola di: 52, 263 n. 14, 349 n. 1 Chio, isola di: 229
Babele: 26 n. 39, 102 n. a, 142 Babilonia: 23, 124 n. b, 142-4, 1502, 181, 241, 328 n. 7, 334 n. 8, 337 n. 11 Bala: vd. Segor Barad: 159, 183 Battria: 144
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INDICE DEI LUOGHI
Galaad: 204-5, 219 Gange, fiume: 98-9, 286 n. 4 Gebus: vd. Bethel, città Genesareth, lago di: 245 Gerar: 168-9, 179, 188-9, 376 n. 2, 377 n. 6 Gerusalemme: 47, 100, 152-3, 174 n. b, 211, 248, 340 n. 3, 348 n. 11, 421 nn. 1, 2 Gessen: 231, 234-6, 413 n. 12 Giordano, fiume: 92, 150, 152, 206-9, 244-5, 251, 347 n. 6, 392 n. 10, 395 n. 4, 422 n. 6 Giudea: 130, 167, 173-4, 209, 241 n. c, 244, 324 n. 7, 358 n. 10, 395 n. 4 Gobolitide: vd. Amalechite Gomorra: 38, 92 n. c, 149 nn. b, c, 152, 163, 347 n. 3, 358 nn. 5, 10 Grecia: 144, 186 n. c, 190, 215, 216 n. a, 327 n. 2, 400 n. 13 Gyon: vd. Nilo
Cicladi, isole: 198 Cilicia: 140 Città degli Eroi: vd. Gessen Città della Palma: vd. Segor Città delle Tende: vd. Ramesse Cordico, monte: 135 Damasco: 114 n. b, 150, 152, 154, 176 n. e, 213, 345 nn. 4, 5 Dan: 152, 347 n. 6 Delo, isola di: 198, 386 n. 7 Diglat: vd. Tigri Don: vd. Tanai Dotaim: 218 Duma: 172 Eden: 35, 95-6, 107 n. d, 120 Edom, terra di: 212, 213 n. a, 214, 399 n. 3 Effraim, monte: 247 Effrata: 211-2, 397 nn. 1, 2, 413 n. 22 Egitto: 43 n. 70, 82, 92, 128, 144 n. c, 150, 155-6, 169 n. b, 172, 182-3, 188, 190, 216-20, 221 n. b, 226-36, 245-6, 248, 249 n. b, 250-1, 287 n. 9, 321 n. 5, 337 n. 12, 346 n. 3, 350 n. 5, 351 n. 6, 358 n. 10, 379 n. 11, 401-2, 410 n. 3, 411 n. 2, 414 n. 1 Eleusi: 198, 216 n. a Eliochora, mare: 141 Eliopoli: 221, 235-6, 412 n. 11, 413 n. 12 Emmaus: 33, 165, 170 n. a Escon: 189 Etha, terra di: 141 Etiopia: 79, 99 Eufrate, fiume: 99, 141, 144 n. b, 152, 156, 172, 287 n. 12 Europa: 140 Evila: vd. Evilath Evilath, terra di: 98, 183, 372 n. 31
Hai: 149-50, 174 Hebron: 27-8, 95 n. b, 114 n. b, 116, 128, 151, 176, 212, 217 n. b, 218, 249-51, 321 n. 5, 365 n. 1, 366 n. 2, 382 n. 5, 398 n. 1, 399 n. 2 Hoba: 152 Iaboc: 57 n. 101, 206-7, 209, 393 nn. 10, 11, 395 n. 4 Idumea: 187, 193, 206, 213-5 Ierosolima: vd. Gerusalemme Igar Sedutha: vd. Galaad India: 98, 183, 372 n. 31 Ior: 152, 347 n. 6 Isole dei Viventi: 114 Lago dell’Asfalto: vd. Mar Morto Lago di Asfaltide: vd. Mar Morto Libano, monte: 140, 214 Libia: 180-1 Luza: vd. Bethel, città
Farfar, fiume: 214 Fenicia: 214
Macedonia: 327 n. 2 Mambre, valle di: 151, 161, 168, 176, 346 n. 8, 366 n. 2
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INDICE DEI LUOGHI
Phara, piana di: 189 Physon: vd. Gange Pianto dell’Egitto: 250 Ponto: 152 Pozzo del Giuramento: 232 Pozzo di colui che è vivo e che vede: 159, 179
Manaim: 206 Mar Mediterraneo: 140 n. d Mar Morto: 28, 33, 149, 152, 167, 344 n. 2, 358 n. 10 Mar Rosso: 172, 180, 183, 240, 242 Mare del Diavolo: vd. Mar Morto Mare del Sale: vd. Mar Morto Mesopotamia: 144 n. b, 147-8, 177, 193-5, 201, 203, 209, 210 n. c, 211 n. b, 217, 342 n. 3, 343 n. 2, 367 n. 5, 389 n. 9, 395 n. 4, 399 n. 2, 413 n. 22 Micene: 186 Moria, monte: 174, 184
Quercia del Pianto: 211, 397 n. 9 Ramesse: 234-5, 412 n. 4, 413 n. 12 Rinocorula, fiume: 156 Robooth: 189 Rodi: 216, 400 n. 13 Roma: 46-7, 269 n. 7, 287 n. 10, 301 n. 1
Nabathea: 172 Nayda, terra di: 121 Nilo, fiume: 92, 98-9, 134, 283 n. 6, 287 n. 9, 288 n. 15, 327 n. 1 Ninive: 144 Notre Dame, cattedrale di: 11, 12 n. 8, 16, 252 n. 1, 253 n. 2 Numada: 135
Salem: 146, 152-3, 184 n. c, 209, 340 n. 3, 348 n. 9, 395 n. 5 Salisa: vd. Segor Samaria, monte: 247 Samo, lettera di: 97, 285 n. 12 San Lupo, abbazia di: 10 San Miniato, comune di: 9 n. 1 San Pietro, abbazia di: 10 San Vittore, cattedrale di: 11-4, 15 n. 15, 42 n. 67, 46, 253 n. 3, 371 n. 2 Satana: 189 Scitopoli: vd. Sicopoli Sebois: 92 n. c, 149 n. b, 152 Segor: 92 n. c, 149 n. b, 152, 166-8, 357 nn. 3, 4 Seir, monte: 213, 398 n. 2, 399 n. 8 Sennaar, piana di: 142-3, 151, 335 n. 1, 336 n. 9 Seno dell’inferno: vd. Seno di Abramo Seno di Abramo: 39, 181, 220, 402 n. 14 Sichar: vd. Sichem Sichem: 149, 208-9, 211, 218, 238 nn. c, d, 251, 344 n. 2, 395 nn. 3, 5, 396 n. 7, 422 n. 22 Sichima: 238 Sicionia: 182 Sicopoli: 209, 395 n. 3
Oceano Atlantico: 140 n. c, 141 n. a Oceano Indiano: 141 n. b Odolla: 221 Ogigi, leccio di: 151 Olimpo, monte: 134, 327 n. 2 Oreb, monte: 147, 342 n. 2 Palestina: 114 n. b, 395 n. 3 Pallene, isola di: 198 Paneas: 152 Paradiso: 28, 35-7, 39, 95-6, 98-100, 103, 107-8, 113, 114-116, 125, 127, 129 n. b, 288 n. 2, 292 n. 2, 293 n. 3, 295 n. 2, 303 n. 6, 305 n. 11, 306 n. 4, 317 n. 7, 320 n. 3, 402 n. 14 Parigi: 10, 11 n. 6, 12 n. 8, 15 n. 16, 42 n. 67, 253 n. 3 Pàtara: 51, 306 n. 3, 328 n. 7 Peloponneso: vd. Sicionia Pentapoli: 92, 149, 166 n. b Phanuel: 208 Phara, deserto di: 172
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INDICE DEI LUOGHI
Sidone: 243 Silo: 242 Siria: 130, 140, 181, 324 n. 7 Sochot: 208-9, 395 n. 4 Sodoma: 28, 38, 92 n. c, 149 n. b, 152, 162-7, 347 n. 3, 358 nn. 5, 10 Solima: vd. Salem Spelonca duplice: 114, 176, 181, 212, 236 n. a, 250 n. d, 251, 365 n. 1, 398 n. 1 Suetan: 213 Sur, deserto di: 157, 169, 183, 372 n. 31
Thannon: 137 Theman: 172, 213 Tiberiade, lago di: vd. Genesareth Tigri, fiume: 99, 144 n. b Torre del Gregge: 212, 398 n. 5 Torre di Ader: vd. Torre del Gregge Tracia: 198 Traconitide: 180 Tritonide, lago: 198 Trogloditide: vd. Traconitide Troyes: 10, 42 n. 67, 50, 65, 252 n. 1, 253 n. 2
Tabor, monte: 245, 418 n. 3, 419 n. 41 Tanai, fiume: 140 Tanis: vd. Thani Tauro, monte: 140 Tebaide: 182 n. h, 234, 411 n. 2 Tebe, città egizia: vd. Tebaide Tebe, città greca: 182 n. d, 234, 411 n. 2 Terra della Visione: 173 Terra Promessa: 194 n. d, 244, 247, 419-20 n. 9 Thamna: 222 Thani: 128, 321 n. 5
Ur dei Caldei: 144 n. b, 146, 343 nn. 1, 2 Uscita: vd. Thannon Valle del Re: 152 Valle della Visione: 174 Valle delle Lacrime: 116 Valle delle Saline: vd. Mar Morto Valle Illustre: 149, 344 n. 2 Valle Silvestre: 152 Vivarium, monastero di: 47, 287 n. 10
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