Pier Paolo Pasolini sconosciuto. Interviste, scritti, testimonianze 8889782501, 9788889782507


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Table of contents :
PASOLINI SCONOSCIUTO. Interviste, scritti, testimonianze
I. Pasolini e l’Orestiade
II. Pasolini e l’India
III. Pasolini e il cinema: al cuore della realtà
Come un corvo può essere corsaro
di Francesco Leonetti
Passaggi, tracce, marche di un fantasma ridotto a “logo”
di Franco Cordelli
Appunti su “Trasumanar e organizzar”
di Daniele Piccini
Pier Paolo
di Federico Fellini
Caro Pier Paolo... Scritti su Pasolini
di Laura Betti
Sul cinema di Pasolini 1961-1976
di Antonello Trombadori
Sul teatro e i teatri di Pasolini
(con una nota di Stefano Casi)
La mia trilogia pasoliniana
di Giuseppe Bertolucci
Per Sergio Citti
di Pier Paolo Pasolini
Il mio attore Pier Paolo Pasolini
di Carlo Lizzani
l montaggio come questione linguistica. Pasolini e Baragli
di Roberto Perpignani
Cineasti alla prova del cinema di Pier Paolo Pasolini
Lino Del Fra
Bernardo Bertolucci
Gideon Bachman e Jonas Mekas (con Pier Paolo Pasolini)
Massimo Mida Puccini
Pier Francesco Pingitore
Franco Citti
Marco Tullio Giordana. Conoscere Pasolini
Antonio Capuano. Il mio film
Guido Chiesa. Basta solo un’inquadratura
Pier Paolo Pasolini e la nuova critica degli anni Sessanta
di Piero Spila
Pasolini saggista cinematografico
di Goffredo Fofi
Il suono della solitudine. La musica nei film di Pier Paolo Pasolini
di Quirino Principe
È passata la pop art? Torno a dipingere
di Pier Paolo Pasolini
Dossier Pasolini 1969-1972
di Roberto Chiesi
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Pier Paolo Pasolini sconosciuto. Interviste, scritti, testimonianze
 8889782501, 9788889782507

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Table of Contents PASOLINI SCONOSCIUTO. Interviste, scritti, testimonianze I. Pasolini e l’Orestiade II. Pasolini e l’India III. Pasolini e il cinema: al cuore della realtà Come un corvo può essere corsaro di Francesco Leonetti Passaggi, tracce, marche di un fantasma ridotto a “logo” di Franco Cordelli Appunti su “Trasumanar e organizzar” di Daniele Piccini Pier Paolo di Federico Fellini Caro Pier Paolo… Scritti su Pasolini di Laura Betti Sul cinema di Pasolini 1961-1976 di Antonello Trombadori Sul teatro e i teatri di Pasolini (con una nota di Stefano Casi) La mia trilogia pasoliniana di Giuseppe Bertolucci Per Sergio Citti di Pier Paolo Pasolini Il mio attore Pier Paolo Pasolini di Carlo Lizzani l montaggio come questione linguistica. Pasolini e Baragli

di Roberto Perpignani Cineasti alla prova del cinema di Pier Paolo Pasolini Lino Del Fra Bernardo Bertolucci Gideon Bachman e Jonas Mekas (con Pier Paolo Pasolini) Massimo Mida Puccini Pier Francesco Pingitore Franco Citti Marco Tullio Giordana. Conoscere Pasolini Antonio Capuano. Il mio film Guido Chiesa. Basta solo un’inquadratura Pier Paolo Pasolini e la nuova critica degli anni Sessanta di Piero Spila Pasolini saggista cinematografico di Goffredo Fofi Il suono della solitudine. La musica nei film di Pier Paolo Pasolini di Quirino Principe È passata la pop art? Torno a dipingere di Pier Paolo Pasolini Dossier Pasolini 1969-1972 di Roberto Chiesi

PASOLINI SCONOSCIUTO. Interviste, scritti, testimonianze

I. Pasolini e l’Orestiade

Il poeta traduttore che in questi anni è stato al centro delle più accese discussioni è stato certamente Pier Paolo Pasolini, in primo luogo per la sua versione dell’Orestiade di Eschilo messa in scena da Vittorio Gassman a Siracusa. Che ricordo ha Pasolini di questa esperienza? La traduzione dell’Orestiade allora è stata in un certo senso casuale come spesso succede cioè è giunto da me Gassman e mi ha chiesto di trargli qualcosa per il suo teatro popolare. Ma non è stato un caso che io abbia scelto l’Orestiade perché la traduzione dell’Orestiade è propriamente il pezzo del teatro greco che io amo di più o per lo meno che ho amato di più in quel periodo. Io credo che sia meno interessante forse dirle le ragioni tecniche che mi hanno guidato nella traduzione, proprio le ragioni tecnico-linguistiche che adesso sono molto chiare. Ho cercato di ridare al testo greco, non attraverso una traduzione letterale che è impossibile perché certi significati delle parole cambiano in maniera irrecuperabile, e non ho cercato nemmeno una mediazione classicistica, ho cercato cioè di fare una traduzione un po’ come si dice “per analogia”, un po’ come poi ho ricostruito, per esempio, nel fare Il Vangelo l’ambiente, non l’ho ricostruito archeologicamente e filologicamente ma l’ho ricostruito per analogia cioè ad un villaggio, un paese, un castello dell’antica Palestina ho sostituito un villaggio, un paese, un castello dell’odierno

Mezzogiorno d’Italia che sono simili per analogia. Da allora ho cominciato ad avere per il teatro greco un amore che è rimasto per molto tempo come sopito in me ed è improvvisamente rifiorito con violenza, addirittura con irruenza in questi ultimi anni, in questi ultimi due anni in cui ho scritto io stesso per il teatro e scrivendo per il teatro sono stato incapace di uscire dallo schema del teatro greco. Rifacendo il teatro io, ora mio come autore, ho seguito fedelmente lo schema della tragedia greca. La seconda esperienza teatrale di Pasolini sui classici fu il Miles gloriosus di Plauto dà lui ribattezzato Il Vantone e messo in scena da Franco Enriquez. Nel Vantone, lei Pasolini, ha autorizzato un linguaggio popolare in gran parte fondato sul dialetto romanesco, inoltre ha adottato un verso lungo a rime baciate che ricorda da vicino l’alessandrino francese specie nella forma che assunse nella commedia di Molière. Quali le ragioni di questa scelta linguistica e metrica? Anche per Il Vantone le dirò posso ripetere più o meno quello che le ho detto a proposito della traduzione sull’Orestiade e cioè ho fatto una traduzione che fosse analoga, ho cercato cioè un linguaggio che non fosse la traduzione letterale dell’antico latino di Plauto ma fosse in qualche modo un linguaggio analogo, ma nello scegliere il romanesco non ho scelto il romanesco puro che ho adottato per esempio per certi brani dei miei romanzi, perché lì parlava della gente reale veramente del 1968 e parlavano dei sottoproletari. Il mondo di Plauto è un mondo già teatrale è già un mondo per capocomici, direi, e quindi ho cercato un dialetto romano che fosse un po’ vicino a quello che si dice linguaggio dell’avanspettacolo ecco. Quanto alla rima le dirò questo, i latini non conoscevano la rima, noi invece neolatini siamo ormai abituati a non prescindere più dalla rima quando pensiamo alla poesia soprattutto naturalmente quando pensiamo alla poesia classica. Quindi ho adottato la rima che è un procedimento prosodico che è nelle nostre abitudini e l’ho adottato per un testo come quello di Plauto che la rima non ce

l’ha per ragioni storiche. Perentoriamente ormai noi quando storicamente pensiamo a Plauto non possiamo pensare a Plauto più di duemila anni di studi su Plauto se non possiamo pensare a Plauto più il Rinascimento italiano, più Molière ecc. ecc. Intervento di Pier Paolo Pasolini sulla traduzione dell’Orestiade e del Vantone dalla rubrica radiofonica a cura di Ruggero Jacobbi Le belle infedeli, ovvero i poeti a teatro, Rai, gennaio 1968.

II. Pasolini e l’India

Operatore Tv (OP), Pier Paolo Pasolini (PPP), Ninetto Davoli (ND), Traduttore (T), Voce della Troupe (VT), Romano Costa (RC), Accompagnatore (A), Intervistato (INT) Il programma di questa sera, un montaggio libero di voci e ambienti indiani ha due protagonisti: Pier Paolo Pasolini e l’India; singolare autore in “nagra”, il registratore professionale portatile perfetto. Il “nagra” ha fatto tutto da sé; riproposte da lui sono le musiche dei templi di Jaipur, le voci dei bambini di Rishikesh, le opinioni dei contadini sul problema demografico, quello degli operai sull’industria, l’urbanizzazione e la coscienza di classe, il giudizio degli industriali italiani in India sulle maestranze indigene, i “si gira” di Pier Paolo Pasolini. Infine i pareri sul problema della lingua e delle caste. Chi ha curato il programma di suo ha messo soltanto una lunga pazienza per scegliere 50 minuti di India su oltre 300 minuti registrati dal “nagra”.

RC. Pier Paolo, senti, ma dov’è che adesso andiamo? Un miglio a piedi su per il Gange, arriviamo in Cina! PPP. Sto facendo dei sopralluoghi per un film, non ho mai fatto documentari in tutta la mia vita e non saprei neanche farli, quindi l’unico modo per farli è fare questi sopralluoghi che sono una specie di traccia, di filo conduttore nella scelta delle inquadrature, nella scelta delle piccole sequenze ecc… RC. È il tuo primo lavoro che fai così, diciamo, giornalistico, in un certo senso, è la prima volta. Hai sempre fatto soltanto dei film, non hai fatto delle cose del genere, questo è un po’ un reportage anche perché se va per la rubrica “Tv7” dovrà avere anche un taglio particolare oppure di questo tu non ti interessi? PPP. No, non mi interesso di questo, penso proprio veramente di fare i sopralluoghi per il mio film, e se poi questo verrà anche un documentario tanto meglio. In quanto al lavoro giornalistico si è il primo che faccio, ho fatto qualche articolo per dei giornali molti anni fa e quanto al cinema ho sempre fatto del cinema quello che si chiama il cinema di finzione, il cinema con delle storie, però ho fatto un film che si chiama Comizi d’amore che è un po’, in un certo senso, un documentario, più che un documentario insomma, comunque, quello era un film inchiesta. RC. Il film ha già una traccia, ha già un soggetto, qualcosa o hai in mente soltanto così un’idea generale? PPP. No, per il film ho in mente una traccia ma è completamente astratta perché l’ho pensata a tavolino, a casa mia, per puro caso e quindi adesso sono qui a verificare se tutto quello che ho pensato in astratto può essere realizzabile, può essere vero, può essere attendibile, in questo consiste appunto il documentario; adesso, per esempio, stiamo

camminando per questo bosco, lungo il Gange, andiamo a cerare un monaco, il capo dei monaci di questo convento a cui voglio sottoporre delle domande perché, per esempio, la prima idea del film è questa: c’è un Maharajah il quale un giorno andando per i suoi possedimenti coperti dalla neve vede un gruppo di tigrotti che stanno morendo di fame e allora offre il suo corpo in pasto a questi tigrotti, per disprezzo della propria carne, per pietà insomma, cioè per ragioni proprio assolutamente religiose. Questa cosa qui me l’ha detta, per caso, Elsa Morante una sera a cena, che l’aveva letta in un libro di religione indiana appunto, e da qui mi è nata l’idea del film. Il primo episodio appunto racconta questa storia che ti ho detto, adesso vado da questo monaco, poi andrò anche da un maharajah e poi lo chiederò anche alla gente per strada se questa, se questo fatto, se questa storia è attendibile ancora oggi oppure è un fatto nella tradizione puramente leggendaria. RC. Quindi, per il momento, non è che ci sia una storia di finzione appunto come dicevi te, non sarebbe un film come quelli del passato a parte Comizi d’amore. PPP. No, continua ad essere una storia, una vera e propria storia perché c’è la storia di questo maharajah che in un epoca, diciamo, idealmente preistorica, mettiamo prima che gli inglesi se ne andassero dall’India, fa questo che ti ho detto, dopodiché la sua famiglia rimane sola, la moglie con dei figli, gli inglesi partono, il primo anno dell’indipendenza dell’India è un anno di carestia suppongo io, è una pura invenzione questa però mi sembra abbastanza attendibile, e in questa carestia, questa famiglia che si reca in viaggio verso Benares piano piano scompare in mezzo alla miseria, cioè ad uno ad uno i membri di questa famiglia muoiono di stenti e di fame. Insomma più che un’idea è un ritmo che ho in testa. RC. E questo ritmo potrebbe essere cambiato da questo sopralluogo, non so da queste interviste, sentendo, vedendo,

oppure è un ritmo che intendi mantenere pur cambiando qualcosa? PPP. Se io mi accorgo che quello che ho pensato è assurdo allora rinuncio a fare il film, ma se mi accorgo che quello che ho pensato è in qualche modo credibile allora questo ritmo lo mantengo perché questo ritmo è l’idea formale del film e quindi il suo vero contenuto. Allora, ho capito, gli dica che noi conosciamo la leggenda in cui un maharajah, un santo, un santo maharajah ha visto dei tigrotti che morivano di fame e allora ha dato il suo corpo da mangiare a questi tigrotti, ecco, gli chieda se qualcuno di questi monaci di cui lui è servo, che lui serve, sarebbe capace di fare così, di fare che vedendo dei tigrotti morire di fame sarebbe capace di dargli il suo corpo da mangiare. OP. Tutto il libretto? PPP. Sì, ma però non vorrei che stringessi, capisci? OP. No, sto fermo, sto fermo. PPP. Cioè parte con un obiettivo. OP. Parto così, con una grandezza adesso c’ho… e tutto il libro, e il primo piano, così, sì. PPP. Allora io dico, io non sono qui in India, quando sto dicendo in…, lei va giù. OP. … metti un 35, c’è il sole in macchina. Attenzione che panoramico. ND. Guarda quanto è bello… gli avvoltoi. Guarda come.

OP. Gli avvoltoi mannaggia!!!

ci

stanno,

sono

scappati

tutti,

PPP. Lei deve chiedere agli adulti non ai bambini che non capiscono… T … ah no, non volevano, però mi sembra che poi si siano convinti. PPP. le deve chiedere, deve dire anzitutto che secondo noi il problema più grave dell’India, è un problema della sovrappopolazione che è stato presentato un disegno di legge che propone la sterilizzazione volontaria degli uomini. Noi vogliamo chiedere a loro che cosa ne pensano, chi è favorevole a questa legge deve dire sì e chi è contrario deve dire no. Guarda, guarda, ma guarda, proprio lì devono stare! Perché non vanno sulla torre, non ho capito cosa aspettano ad andare sulla torre! VT. Ci siamo messi nel posto peggiore! Qui arrivano. Ci metteranno… PPP. Non ci sono le maestra e il maestro, ci sono? VT. Sì, stanno lì. PPP. Chi è quello bianco lassù… (continuano dei brevi dialoghi, tra i componenti la troupe, non comprensibili)

RC. Pier Paolo, è vero o mi sbaglio che ti stai divertendo a fare il giornalista televisivo? PPP. Veramente non avrei mai creduto che fare i documentari fosse così bello. Non capisco bene ancora perché sia così bello ma probabilmente questo senso di piacere nel fare il documentario è dovuto all’estrema libertà in cui ci si trova, cioè tutto può andar bene, tutto è giusto, tutto è bello, tutto è necessario e quindi quello che posso registrare, che posso fissare con la pellicola è infinito praticamente ma, al tempo stesso però, il fare un documentario come idea, così diciamo come struttura di quello che sarà poi il documentario invece costringe ad essere estremamente essenziale più che nel film, perché in fondo nel raccontare una storia tocca spesso mettere dei particolari prosaici tanto per spiegare come le cose vanno avanti, nel documentario tutto questo è inutile. Quindi da una parte i documentari sono infiniti, dall’altra sono estremamente ristretti, estremamente sintetici. Sono due piaceri contrastanti ma ugualmente profondi. VT. Pier Paolo… PPP. Là, là, là, c’è il cadavere, ci sono gli avvoltoi. VT. Son scappati tutti! ND. Mannaggia! RC. Ora tornano và, se aspettiamo un momento. VT… i corvi. Ma non sono corvi! Eccoli! Eccoli! Non sono corvi! Ma dov’è il cadavere? PPP. Dov’è la carogna?

ND. Eccolo là vede? VT. Ce n’erano… lì vicino gli avvoltoi. T. … È che devo… ND. Ce stanno un sacco de… Ndo’ stanno quell’uccelletti laggiù! Segua il corso dell’acqua come senso dico e poi… troverà. VT. Mi… Sempre. Vabbè… e niente so’ scappati. Se… c’ha il vaiolo guarda! ND. C’ha il vaiolo! VT. È tutto chiuso… non vedi la faccia? È tutto stretto. (Segue breve brano in indiano) PPP. … Le chieda se può chiudere un momento la radio. VT. Dentro è nero, è scuro, scuro… VT. … sono tutti ragazzini. Mannaggia. PPP. Chiama gli uomini. PPP. Da quell’uomo con gli occhiali lì a destra in poi.

PPP. Comincia a fare, a spiegarglielo bene, glielo dica due o tre volte, chiedi se loro credono che ci sia qualche differenza tra gli operai che lavorano nelle fabbriche e loro che continuano a lavorare la terra. Andiamo motore. Stop, stop. Facciamo la terza domanda, chiediamo ai ragazzi se loro preferiscono fare i contadini oppure vogliono andare a lavorare in qualche fabbrica. T. Desiderano lavorare, vogliono lavorare nella terra. PPP. Nella terra? Ah sì? T. Desiderano lavorare la terra. PPP. Domanda se ce n’è uno che vorrebbe andare a lavorare nella fabbrica. Aspetti, vada, vada… il motore. T. Questi desiderano lavorare nella fattoria, nella fabbrica. PPP. Nella fabbrica. T. Nella fabbrica, sì. PPP. Loro tre. Ma non sono quelli che hanno risposto… T. Ma i bambini, quelli sono stati influenzati, qualcuno ha detto ha detto… VT. … bene nel campo.

PPP. Non si riesce a sapere la verità! VT. Forse i bambini poi si trovano bene anche nei campi non capisco. T. E no perché per i bambini è una questione sentimentale insomma. PPP. Perché c’ha due bambini poi riesca a… tutti quelli più grandi. Allora voi sapete che nell’India ci sono tante persone, tanti milioni di persone e non c’è abbastanza da mangiare per tutti ecco, allora la gente muore di fame, di stenti, sta male, allora si sta facendo una legge, chiedendo agli uomini di farsi sterilizzare cioè gli spieghi come funziona, di fare in modo che dopo avere fatto tre figli non ne possano fare più. T. Il family planning… PPP. Il family planning, se loro ne hanno mai sentito parlare di questo, prima domanda, prima cosa; seconda cosa se sono a favore o se sono contro. Glielo dica come vuole, faccia il giro di parole. Ecco avanti, faccia il discorso, bene, chiaro. VT. Silenzio adesso eh! T. Dato che non tutti sanno l’hindi quindi è necessario che lo spieghi a lui poi lui lo spiegherà in marathi. (Segue la traduzione di quanto poc’anzi domandato da Pasolini).

VT. Il fatto qui è stato questo, non hanno saputo rispondere, si rifiutano, non capiscono niente. RC. Tu in questo viaggio chiedi anche a questi abitanti del villaggio che mi pare siano analfabeti e gli fai delle domande tipo appunto sulla sterilizzazione, i problema della sterilizzazione e anche dell’industrializzazione, credi che le capiscano, cioè concettualmente capiscano quello che tu vuoi che gli rispondano? PPP. Qui ci sono delle fabbriche, in queste fabbriche ci sono degli operai e dei tecnici, intono alle fabbriche con tecnici e operai c’è un dato che è diverso dal resto del mondo indiano cioè del mondo contadino. Quindi è chiaro che se io faccio queste domande a degli operai, a dei tecnici e a chi vive intorno al mondo industriale queste mie domande sono capite. Fino a che punto non lo so ma almeno alla lettera sono capite. E infatti le risposte che mi hanno dato fin ora sono risposte di gente che si è resa ben conto del problema e le mie domande invece non sono capite, nemmeno alla lettera, forse, dai contadini più arretrati. In certi villaggi proprio assolutamente non hanno capito quello che volevo chiedergli. Ma però ho pensato che non avessero voluto capire che fosse il loro un rifiuto totale che non avessero voluto capire che fosse il loro un rifiuto totale non a una domanda specifica ma alle domande in generale. Ho avuto un’altra idea ieri conoscendo tutti questi industriali italiani lì dal console di fare un altro documentario, di restare un giorno in più, e cioè sul problema dell’industrializzazione in India. Le domande che mi sono fatto sono tre: cioè se per una nazione che si chiama in via di sviluppo per industrializzarsi sia necessario che si occidentalizzi, perché pare che sia una specie di luogo comune, di cosa non critica per cui una nazione in via di sviluppo si debba industrializzare e debba anche occidentalizzarsi. Mi chiedo se questo è vero o no. La seconda domanda che mi sono fatto è questa: se in India si è avuto

qualche caso di violenza, di protesta violenta cioè manifestazione di studenti a Calcutta, tumulti a Madras, cioè un tipo di cosa abbastanza nuova all’interno dell’India, cioè se quando gli indiani sono stati violenti per ragioni religiose, mettiamo per una guerra religiosa oppure per l’indipendenza non lo so, ma all’interno della loro nazione mi sembra che sono i primi casi questi o no di protesta violenta, cosciente da parte di studenti. A. Sì pensano forse di sì, ma dovrebbe approfondirlo con questo economista. PPP. No, no questo fa parte di questo secondo documentario di cui le sto parlando per cui mi occorreranno persone che poi le dico, ecco allora volevo chiedermi se per caso questo tipo, questi nuovi sintomi appena registrabili di violenza sono dovuti all’inizio dell’industrializzazione cioè il passaggio da un mondo puramente agricolo e religioso ad un mondo invece industriale e laico, non so come dire. E poi la terza domanda che mi sono fatto è questa: il problema linguistico, se risolvere il problema linguistico in modo nazionalistico, sia nazionalistico indiano, sia nazionalistico locale, sia una forma di occidentalizzazione oppure un rifiuto all’occidentalizzazione perché si presenta come un rifiuto all’occidentalizzazione cioè rinunciare all’inglese, adottare l’hindi, le lingue nazionali, locali, sembrerebbe un rifiuto all’occidentalizzazione cioè rinunciare all’inglese, adottare l’hindi, le lingue nazionali, locali, sembrerebbe un rifiuto all’occidentalizzazione in realtà invece è una forma di nazionalismo piccolo-borghese tipico dell’Occidente almeno fin ora. Ecco, queste sono le tre domande chiave che vorrei fare. A. Ecco questa potrebbe farla a questa signora, a questa signora che viene adesso perché ha detto che, può darsi che sia eletta fra non molto come sindaco di Bombay, è eleggibile quella carica, potrebbe.

PPP. Su queste cose insomma lei è informata, non ci sono problemi di… Io potrei fare tutte e due le interviste, una che mi serve per il primo documentario cioè sul problema delle caste e qui mi occorre veramente qualcuno di coraggioso perché in generale gli indiani quando si parla di caste fanno finta di niente, fanno finta che non ci sono. Allora mi serve una persona coraggiosa che mi dica fino a che punto questo è ancora un problema o non lo è ecc… ecc… capito. Allora potrei farle questa domanda qui per il primo documentario e poi quest’altra per il secondo. A. Per la signora sarebbe molto più indicato il secondo documentario, per il primo le darà forse molti consigli, ma dato che Bombay si trova un po’ alla punta non della (penisola) indiana, quindi potrebbe aiutarla molto nel secondo documentario. PPP. E poi vorrei mettermi in rapporto con questi industriali italiani che ho conosciuto ieri perché mi facessero un po’ da guida, per esempio ce n’è uno che ha una fabbrica qui vicino mi ha detto, è quel piemontese un po’ basso di statura nato però a Vicenza, è proprio il problema delle caste. Per esempio negli hotel, mettiamo qui in albergo, quando scendi in un hotel, si sente che ognuno ha una sua funzione e che non potrebbe, che gli è impedito da qualcosa di fatale di fare, di eseguire qualcosa che non è nelle sue mansioni, non so come dire, una conseguenza del… delle caste questa, cioè quello che pulisce i pavimenti non potrebbe mai portare la colazione, non so come dire, capisce. Può darsi che le caste nel senso tradizionale delle quattro caste non ci siano più, però una mentalità castale forse rimane ancora nelle mansioni della gente. A. Dunque lei ha citato adesso un caso particolare di uno degli intoccabili che è uno dei ministri del gabinetto di Bombay. Prima aveva parlato del problema delle caste cioè

come l’aveva impostato lei, cioè nel senso più moderno della parola, ha detto che ogni componente di una determinata casta si sente come vincolato con la casta degli altri, perché gli altri impongono di non poter scavalcare quella barriera che si è creata intorno a lui e quindi lui si sente, non si sente affatto libero come governante… cerca di convincere la gente a poter scavalcare, cioè ci sono i mezzi legislativi per poter scavalcare questa barriera. PPP. Sì, questo lo so, sì lo so, io so che le leggi, tutte quante, tutto è aperto a scavalcare tutto questo, io volevo chiedere fino a che punto invece la tradizione è più forte delle leggi e della democrazia, ecco, capito, sono problemi anche italiani questi intendiamo, non è che siano problemi indiani. Va bene, allora io direi che possiamo farla questa intervista, andiamo là con la camera e io le faccio le domande su questi argomenti, lei dovrebbe cercare di essere concisa, rispondere con una certa concisione, esattezza, e l’ultima domanda che le farò, farò queste due o tre domande cioè una cosa che riguarda il film in generale, una cosa che riguarda invece il problema oggettivo, storico delle caste in India, quello che ho risposto adesso più o meno, e l’ultima domanda, cioè la tre, l’ultima domanda che le farò sarà se lei camminando per le strade saprebbe indicarmi ecco quello è un “pari”, quello è un “intoccabile”, quello è un “bramino”, cioè se sono riconoscibili, non dico nei vestiti ma se li riconosce dallo sguardo, dal modo di fare, se li saprebbe individuare o no, ecco se potesse indicarmeli, per esempio in Italia superata la differenza tra Italia del nord e Italia del sud però se io vedo un italiano del sud lo riconosco subito; io le dirò se questo è possibile lei mi indica qualcuno. RC. Scusa Pier Paolo, ma la musica un po’ lontana non darebbe mica fastidio ai fini dell’intervista. PPP. No, per cortesia, se è possibile tagliarne un pezzetto perché poi si sente e non si sente… la facciamo venire da più

lontano e la facciamo fermare più sul mare, ancora ecco… va bene, siete pronti?… la facciamo prima dell’intervista, tanto qui è muto. VT. Ah, questo è muto da fare… PPP. Ve lo dico io motore, aspettate, motore! VT. Stop, stop. PPP. Cos’è successo? VT. C’è stato lui in campo, s’è trovato lui qua! PPP. Non dite mai niente alla gente, non dite mai niente alla gente. Ok, ok, thank you. Va bene così. Prepariamo l’intervista (n.7) e scrivete bene sotto il suo nome però. Avete preso sempre bene i nomi della gente? VT. Sì, sì. PPP. Ecco, la prima la facciamo così, direi sono tre domande, tre o quattro e cambiamo angolazione. VT. Ah, cambiamo proprio angolazione? PPP. Sì, prendiamo anche contro le navi là, la prima domanda è quello che abbiam detto cioè questa famiglia del maharajah, caduta in miseria che si trova nel Bihar in un momento di fame e carestia terribile, secondo lei conserva la sua mentalità castale o no e fino a che punto la conserva, le

rifacciamo la domanda, può darsi che lei la modifichi un po’, allora digli pezzettino per pezzettino in modo che è più chiara. Allora voi andate quando vi dico io via. Pronto? Quando dico via io andate, quando dico motore andate. Ecco devi fare la domanda da qui, da qui vicino a me. Siete pronti, posso cominciare la domanda, vi dico io motore eh. Allora, secondo lei, la famiglia di un maharajah morto, caduta in miseria, nella più estrema miseria, che si trova nel Bihar in un momento di terribile carestia conserva ancora mentalità castale o no? PPP. Stop. Dunque, più o meno, com’è la risposta? T. Dunque, la risposta è questa. PPP. Ecco, ho cambiato un pochino angolazione. T. In risposta alla domanda ha detto solo questo che il maharajah, cioè la famiglia del maharajah, è conscia di essere tra i suoi sudditi e non sa che doveri ha verso questi suoi sudditi e poi ha naturalmente la sua situazione personale cioè quella della fame sua da dover considerare. PPP. E allora posso passare alla seconda domanda, cioè fino a che punto conservano questo irrigidimento castale, fino a che punto, cioè le faccio l’esempio dell’altra volta, nel caso che stia morendo di fame un intoccabile le dà un pezzo di pane, mangerebbe questo pezzo di pane o no ecco. Attenzione eh, allora ho avvicinato il microfono, vi dico io motore eh. (Nino) lascia stare sempre la gente dove sta, quante volte devo dirlo, lasciatela sempre dove sta. PPP. Ma questo sarebbe un grave dolore, una cosa angosciosa per loro oppure lo vivono con una certa naturalezza?

PPP. Stop, ho cambiato angolazione, si ho capito più o meno, è stato molto doloroso ma con tutte le difficoltà dovrebbero farcela. Mettiamo la macchina più in qui. Adesso passiamo alla seconda domanda e cioè nella situazione politica indiana attuale il problema delle caste, malgrado le leggi che danno la totale libertà ecc… ecc… T. Attuale? PPP. Attuale, attuale, di adesso, malgrado le leggi che danno libertà e cioè hanno abolito queste cose qui, la mentalità castale è ancora molto forte o no, fino a che punto la tradizione è più forte della buona volontà dei dirigenti. Siete pronti? Ecco, motore. PPP. Thank you. Stop. Facciamo la terza domanda da un’altra angolazione. Dunque, volevo appunto. T. Quel caso particolare di lei che cercava di convincere le donne più umili. PPP. Sì, lo facciamo nella terza domanda. T. Ah, una terza domanda. PPP. Sì, sì, una terza domanda. Allora stringiamo ancora un pochino. Sì, sì, ecco allora la terza domanda è dire, va bene, nei villaggi questo problema è ancora fortissimo ed è quasi rimasto come prima ma nelle grandi città meno, ma però nelle grandi città lei, guardandosi intorno, distingue gli individui delle varie caste o no, sono distinguibili o no e in questo caso, dopo, le indica qualcuno.

RC. Pier Paolo, tu dici che l’India è un paese senza speranza, in che senso dai questa definizione di questo popolo? PPP. Ma io ho detto un paese senza speranza avendo dentro di me l’idea che m’ero fatto dell’India nell’altro viaggio che avevo fatto in India cinque o sei anni fa, e allora mi era nata questa definizione così, questa definizione un po’ generica devo dire la verità; dicevo che era senza speranza perché non vedo quale forma politica, democratica o socialista possa risolvere i problemi dell’India perché sono insolubili di per sé, non sono insolubili perché sia cattiva o mediocre la forma di governo indiano o diciamo così la vita politica indiana, e cioè il problema della sovrappopolazione e della fame è un problema sorto, forse un governo formato soltanto da scienziati che abbiano soltanto quel problema a cui pensare possono risolvere. Neheru parlava sempre dell’energia atomica usata attualmente per scopi pacifici come dell’unica possibile speranza indiana, quindi il salto dall’era preindustriali addirittura all’era atomica. VT. … monumenti equestri, ne succedono di tutti i colori, sempre imprevedibili… perdere mezz’ora. Eh, ma lui… PPP. Beh, no, veramente essendo una guida dovrebbe capire che i turisti vogliono vedere i templi, i palazzi antichi, non vogliono vedere i monumenti equestri, non capisco. Si vede che Nardelli ha tradotto letteralmente la mia parola monumento, monumento in senso muratoriano “monumenta”. RC. Qui potrebbe essere il palazzo dove… PPP. No perché non piace a me, potrebbe anche essere ma non mi ispira. Per quello che riguarda la casa o il palazzo dove dovrebbe abitare il maharajah del mio film, il rajah sta nel Gujerat cioè la regione che stiamo percorrendo, mi pare che, no, no, mi hanno un po’ deluso; perché i palazzi che abbiamo

visto sono bellissimi anzi forse il palazzo rosa di Jaipur è una delle cose più belle che abbia mai visto nel viaggio, però è immerso dentro una città moderna, invece ho bisogno di qualcosa di più preistorico, di più mitico, di più lontano nel tempo, di più fantastico insomma; loro continuano sempre a pensare o a Golconda nel centro dell’India oppure ad Agra che è a due trecento chilometri da Nuova Delhi verso il Bihar, la quale Agra è una città morta perché è stata costruita molti secoli fa e poi si sono accorti all’ultimo momento che non c’era acqua nei dintorni e non potevano averla e quindi l’hanno abbandonata così come l’avevano costruita, è rimasta intatta, perfetta, perduta così nel tempo, nel silenzio. Durante il viaggio, la notte, durante un felicissimo viaggio di notte, temendo di aver sbagliato strada così, quindi abbiamo impiegato tutta la notte fino all’alba, non c’è stato un momento che aprendo gli occhi non si vedesse una vacca, due vacche con un carrettino oppure qualcuno che camminava non si sa mai dove vanno, dove vanno alle tre di notte, dei vacchi, aprendo gli occhi si vedeva un vecchietto che passo passo camminava, tre o quattro carri con delle vacche. Senta, qual è la percentuale di operai che lavorano nelle fabbriche rispetto all’intera popolazione che lavora? INT. La popolazione che lavora in India può essere calcolata sui duecento milioni di cui soltanto il tre per cento cioè sei milioni lavorano in fabbrica. PPP. Senta, ho sentito dire da molti industriali che lavorano qui che non sempre sono soddisfatti del rendimento dell’operaio indiano. C’è qualche ragione di questo secondo lei? INT. Manca, sempre secondo me, ripeto, la spinta, l’ambizione personale che è tipica degli operai dei paesi occidentali.

PPP. Secondo lei è assolutamente fatale, necessario che una nazione come l’India, che si sta industrializzando, si debba anche occidentalizzare, cioè industrializzazione o occidentalizzazione sono inseparabili. INT. Secondo me inseparabili. PPP. Ma non sarà una nostra abitudine diciamo razionale, di uomini bianchi che crediamo che il mondo debba essere per forza come noi lo concepiamo? INT. Potrà essere anche così, comunque siamo noi che dettiamo la strada per il progresso industriale. PPP. I casi di violenza che si sono verificati in India, di violenza voglio dire, di contestazione interna, all’interno dello stato indiano, sono dovuti in parte, secondo lei, all’industrializzazione o no? INT. Attualmente parte di queste dimostrazioni sono dovute a ragioni, diciamo, di ostilità tra stato e stato e soltanto una piccola parte sono istanze sociali chiamiamole così, e di questa piccola parte io direi che è strettamente legata all’industrializzazione. PPP. Grazie. INT. Prego. VT … no, no, no, riprendi un gruppo poi panoramichi su loro.

PPP. Gli chieda per favore se sentono che c’è molta differenza tra quelli che continuano a lavorare nei villaggi come contadini e loro che lavorano qui come operai. T. A ciascuno di loro. PPP. No, insieme, gli faccia una domanda, allora, andiamo, andiamo, via, motore. No, mettete un 50. PPP. Thank you very much. Questi operai; in genere, quelli che… come operai come le sono sembrati in genere? INT. Azzeccato fino ad un certo punto perché prima di tutto mi sembra che la domanda sia estremamente difficile, cioè potrei rispondere qual è la differenza tra un operaio che è stato avvicinato dalla civiltà industriale e il contadino, per l’operaio stesso mi pare che sia quasi impossibile, in sostanza loro sono degli operai occasionali perché evidentemente sono venuti a lavorare nell’industria per interesse economico, hanno sempre i legami col paese nativo dove vanno regolarmente e penso che non ci sia un abisso, una barriera tra quello che hanno lasciato al paese e quello che hanno trovato qua. PPP. E però a vederli così fisicamente, se la presenza fisica ha un significato, la presenza fisica parla in modo assolutamente diverso da come parla la presenza fisica di un abitante di un villaggio. INT. Ah bè, esteriormente sì perché è logico che avvicinandosi ad una società industriale ne subiscono tutte le conseguenze almeno esterne. PPP. Sì ma lei pensi adesso quando tornano nei loro villaggi si sentano sincronizzati con gli altri, coi loro fratelli.

INT. Ma io penso di sì. Adesso loro continuano a ripetere che c’è molta differenza ma se poi lei va a fondo e chiede che differenza trovano continuano a ripetere che la differenza è che l’operaio lavora con le macchine e il contadino lavora nella campagna. PPP. Sì, ma però quando ho chiesto se c’erano differenze sulla religione, su problemi politici anche lì hanno detto che c’è molta differenza. INT. Sì, quello ha detto che credono in un altro… in altri dei, adesso io non sono al corrente delle sottili distinzioni tra Dio e Dio e tra adorazione e adorazione ma non vedo perché improvvisamente l’accostarsi alla civiltà industriale debba cambiare il tipo di religione, il tipo di interessi religiosi. PPP. È quello che è sempre successo però, sempre la fabbrica è una mentalità laica, diciamo così, lei pensi un cattolico mettiamo di Milano e un cattolico di Canicattì, benché tutti e due abbiano le stesse idee, l’atteggiamento religioso è molto diverso. Poi, probabilmente, voteranno in modo diverso. INT. Questo non lo saprei. VT. Mettiamoci contro… no ma è bene che si veda… lì dietro eh! Aspetta. Se vuoi possiamo andare su… verde, ci sono un po’ di alberi, di fiori. È bello che si veda quel fondo così. Sì così. PPP. Dunque eravamo rimasti agli dei della pioggia e ai monsoni no… Secondo lei certe… Se la parola religione coincide, grosso modo, con l’India tradizionale, mentre questo

nuovo atteggiamento religioso coincide con l’India moderna, l’India industrializzata, a proposito di questo vorrei farle questa domanda: secondo lei, per una nazione come l’India che si sta industrializzando, è fatale che questo comporti anche un’occidentalizzazione o no? INT. Non necessariamente perché se per occidentalizzazione intende che l’uso dei mezzi di produzione che l’Occidente ha avuto negli ultimi cent’anni modifichi la struttura mentale degli indiani in tutti gli aspetti della sua vita no, perché rimane attaccata a delle forme che non penso possano essere eliminate nell’immediato futuro, due, tre generazioni, rimarrà come è adesso. Non penso che l’industrializzazione possa modificare l’atteggiamento spirituale indiano, insisterei molto sull’aspetto religioso, perché la religione come manifestazioni esteriore esiste, la religione come analisi, introspezione è al di fuori della portata di questa gente. PPP. Quindi si potrà avere un’India industrializzata ma non occidentalizzata. INT. Senz’altro, cioè ci sarà un paese completamente nuovo che potrà avere anche uno sviluppo industriale all’avanguardia ma con caratteri e con fenomeni di individualità completamente diversi dai nostri ai quali noi siamo abituati, nostri tradizionali in sostanza. PPP. Senta Tealdo un’ultima domanda. Secondo lei certi casi di violenza, non dico di violenza in guerra, mettiamo la guerra col Pakistan ecc…, ma la violenza all’interno di una nazione cioè della violenza contrapposta all’ideale della non violenza di Gandhi, questi episodi che si sono verificati a Calcutta, a Madras ecc…, sono in qualche rapporto con l’inizio dell’industrializzazione in India o no?

INT. Lo escluderei signor Pasolini. Queste manifestazioni di violenza sono legate a fatti storici preesistenti a qualsiasi forma di industrializzazione. Il problema linguistico è nato prima ancora dell’indipendenza dell’India, altri problemi che hanno creato invece recenti atti di violenza sono essenzialmente legati coi bisogni principali degli indiani che è il cibo, un tetto sulla testa e un pezzo di cotone con cui vestirsi. PPP. Sì, ho capito ma di fronte a queste necessità l’indiano ha sempre reagito, diciamo così, con la non violenza, con la mitezza, con la rassegnazione, questa forza improvvisa che è venuta in certi sporadici casi non s’era legata a quella nuova mentalità di cui parlavamo prima.. INT. Non so come risponderle signor Pasolini perché sostanzialmente il limite di sopportazione che l’indiano sia esso operaio o agricoltore ha dimostrato nei confronti di moltissimi aspetti di difficoltà nella vita quotidiana avrebbero giustificato ben maggiori violenze, ben maggiori reazioni, quindi la situazione non penso abbia portato nuovi componenti alla violenza locale, e anche la non violenza è una forma di protesta, non è mai stata interpretata come non violenza a tutti i costi, non violenza fino a che non si può ottenere con altri sistemi bene, poi dopo anche la violenza. PPP. Ho capito, comunque si dà il caso che proprio adesso se succede succede che la reazione sia violenza. È un caso voglio dire? È un caso? INT. Penso non si possa dire, perché in fondo le manifestazioni di violenza in Madras dove l’indice di industrializzazione è inferiore a quello di Bombay non sono legati evidentemente ad un fenomeno di industrializzazione, particolarmente l’oggetto della violenza è un problema linguistico, non è legato alle condizioni economiche, né è legato alle condizioni politiche.

PPP. Va bè, Gramsci però diceva che ogni volta che sorge in una nazione il problema linguistico vuol dire che c’è un problema sociale dietro cioè si è coscienti del problema linguistico soltanto nei momenti in cui albeggia, comincia a porsi una questione sociale, è strattamente legato. INT. Bè, evidentemente il problema sociale e linguistico indiano oggi è legato alla possibilità, non so nel Sud, di accedere ai posti di governo, sì non solo all’impiego pubblico come conoscenza dell’hindi come lingua ormai quasi obbligatoria per gli atti pubblici. Questo può esser, son certo, a… di realtà, ma anche quello non è legato all’industrializzazione, è legato ancora alla macchina burocratica del paese. PPP. E secondo lei? INT. Sì, no, la violenza di questi ultimi casi, soprattutto di Calcutta, secondo me non ha niente a che fare con lo sviluppo industriale, ne è prova il fatto che Bombay, che ha uno sviluppo industriale notevolissimo fino adesso non ha rivelato nessuna esplosione di violenza. PPP. Vuole dire che il moto rivoluzionario cioè la protesta portata sulla piazza, insomma così, a mano armata, nasce a questo punto dell’industrializzazione generalmente. INT. Qui esistono invece quei caratteri peculiari di una determinata popolazione come quella di Calcutta che sono forse preponderanti sul fatto che ci sia o non ci sia l’industrializzazione nella zona. Però, allo stesso punto, anche in America, allo stesso punto di industrializzazione sono scoppiati i moti.

PPP. Sì è un po’ tipico di tutto il mondo, allora io chiedevo, appunto, se anche l’India si inserisce in questo ciclo, diciamo. INT. L’abbandono di valori spirituali tipo la non violenza, cioè il testamento spirituale di Gandhi gradualmente dimenticato. PPP. Per questo dico non solo nell’India ma in tutto il mondo, per esempio il mito della non violenza avrebbe in America adesso si sta… INT. Di conseguenza, a conclusione, l’India si sta occidentalizzando, si sta mettendo a livello di tutto il mondo. Certo che se come occidentalizzazione siamo riusciti ad esportare la violenza in India non ha nessun motivo di essere proprio… da questa… PPP. Che nesso c’è tra i moti dei negri INT. No, no io parlavo dei moti in America all’inizio dell’industrializzazione in America, fine ’800, allo stesso livello di qua, anche là ci furono dei moti di piazza paurosi con dozzine di morti. PPP. Cioè Malcom X quando parla in quel suo bellissimo… del suo potere nero parla dei negri d’America come gruppo leader di tutti i popoli sottosviluppati, di tutti i popoli preindustriali, cioè i negri d’America si pongono un po’ all’avanguardia di tutti i moti di violenza, di tutti i popoli sottosviluppati, ne hanno coscienza di questo i negri. Infatti si vede che c’è un certo nesso, misterioso ma c’è.

RC. Senti Pier Paolo, tu l’altro giorno, quando siamo stati dai santoni, mi dicevi che cercavi una verifica in queste interviste che fai, una verifica di questo ritmo, di questa idea che tu hai in mente per il film che girerai o che pensi di girare, sono 15 giorni, 20 giorni che stiamo girando e tu stai intervistando, hai avuto risposte ecc…, hai potuto vedere meglio e forse verificare questi fatti. A questo punto tu credi di poterlo ancora fare il film? PPP. Sì, devo dire che la verifica ha ottenuto un risultato favorevole, cioè tutti i punti che per me erano problematici sono stati confermati dalle mie inchieste, dalle mie interviste; qualche scetticismo l’ho trovato presso qualche intellettuale a Bombay, ma non profondo; in conclusione quando gli ho chiesto di darmi qualche consiglio come sceneggiatore me l’ha poi dato, me l’ha poi dato e anche abbastanza intelligente, abbastanza acuto. Quindi la leggenda del Maharajah che si dona alle tigri ecc… ecc… prima, e poi questa morte di fame dei membri della famiglia sono due fatti attendibilissimi anche nei particolari che man mano sono andato chiedendo. Potrei dire alla fine di questa mia indagine che ho talmente verificato la possibilità di realizzare questo film che addirittura non ho più voglia di farlo. Mi è venuto in mente un nuovo film, in un certo senso mi sono accorto, nel fare questo film inchiesta su un film da farsi, che questo film da farsi l’ho esaurito, ho esaurito la curiosità, l’entusiasmo, la passione di farlo, cioè potrei lavorare in India ancora moltissimo ma non più a questo film e allora mi è venuta un’altra idea appunto di un altro film tutto formato di tanti sopralluoghi o inchieste su molti film da farsi non soltanto su uno. Per esempio ho pensato a fare un’indagine, un’inchiesta come questa in Arabia, nel mondo arabo, un’altra nell’America del sud, un’altra nel mondo negro africano e un’altra nel mondo negro degli Stati Uniti. RC. Quindi siamo sempre nel terzo mondo anche perché i negri degli Stati Uniti anzi credo che siano gran parte del terzo mondo in senso politico, in senso come forza no?

PPP. Sì, questo film dovrebbe intitolarsi per l’appunto “Pagine per un poema sul terzo mondo” o “Appunti per un poema sul terzo mondo”. Sarebbe costituito appunto da questi cinque sei viaggi inchieste su dei film a soggetto, il cui soggetto naturalmente sia ben chiaro, limpido e preciso un po’ come era il soggetto del film sull’India. Naturalmente il film sull’India è fondato su un problema fondamentale ma in un certo senso generico cioè la fame, mentre questi altri film abbandonerebbero questa vastità di interesse che in qualche modo appunto è generica e un po’ approssimativa e affronterebbero problemi particolari, per esempio la ricerca, nel mondo arabo, avrebbe come tema preciso cioè il confitto tra Israele e terzo mondo arabo, mentre la ricerca, diciamo, negli Stati Uniti considererebbe un possibile film sulla biografia di Malcom X e allora tenderebbe ad appurare quanto i negri d’America sono consapevoli di essere i leader di un movimento rivoluzionario particolare dell’intero terzo mondo ecc… In India con Pier Paolo Pasolini. Serata a soggetto a cura di Romano Costa (registrazione integrale). Rai febbraio 1968.

III. Pasolini e il cinema: al cuore della realtà

Savio: Uno dei film più attesi e più seguiti di questa stagione cinematografica sono Le Mille e una notte, Il fiore delle Mille e una notte di Pier Paolo Pasolini. Pier Paolo Pasolini è qui in studio con me questa sera. A Pasolini io chiedo tanto per rompere il ghiaccio: quando ha intrapreso questa trilogia, quando ha girato il Decameron al quale poi hanno fatto seguito I Racconti di Canterbury e adesso Il fiore

delle Mille e una notte, pensava appunto a una trilogia o la trilogia è nata per caso, via via? Pasolini: No, è nata per caso, stavo girando il Decameron nello Yemen, cioè giravo un episodio del Decameron nello Yemen, che poi ho tagliato, quindi non si vede più nel film, e mentre ero nello Yemen ho avuto l’idea delle Mille e una Notte evidentemente, è una cosa ovvia. Poi finendo di girare il Decameron nel Deserto vecchio a un certo punto ho pensato anche a Chaucer e a quel punto mi è venuta l’idea di fare la trilogia. Savio: Ah, ecco, insieme al secondo è nata l’idea del terzo. Pasolini: Sì, sì. Savio: E quindi tutto questo corrisponde a un disegno visto a posteriori, lei ritrova un arco, oppure è un’esplorazione che si è manifestata? Pasolini: Se le idee mi sono venute, così, diciamo, spontaneamente e poi si sono organizzate in tutto, significa che c’è una logica in questo e quindi io penso che la trilogia abbia una sua ragione di essere, indubbiamente. Savio: Adesso, dal fondo della sua opera, l’opera più recente che è Il fiore delle Mille e una notte risaliamo alle origini in un lungo filmato e penso che torniamo insieme ad Accattone, vediamo. Pasolini: Lo Yemen era fino a dieci anni fa un paese medioevale. Da secoli la sua storia si era fermata.

Commentatore: Le mura di Sana’a, una piccola, antica città dello Yemen. Un documentario che Pier Paolo Pasolini ha realizzato nel 1970 per la televisione italiana. Pasolini: … con la recente vittoria… Commentatore: Egli stesso ne commenta le immagini, anticipando in questo testo che si ispira al destino di Sana’a un tema polemico che ha avuto recentissimi esclusivi sviluppi: il progresso determina l’annullamento dell’uomo, della sua storia autentica. Pasolini: … in questo momento almeno a Sana’a, la capitale, è esploso un discriminato desiderio di modernità e di progresso, proprio nel senso che queste parole hanno per noi. Le strade costruite dai cinesi hanno portato innanzitutto a Sana’a i primi mezzi di consumo della civiltà industriale, non importa se capitalista o socialista. I benefattori giunti nello Yemen da oriente e da occidente, hanno cominciato la loro opera di corruzione, d’altra parte ormai senza alternative. La vecchia città dentro le mura di cinta è ancora completamente intatta. Commentatore: È il tema che si ritrova in tutto il cinema di Pasolini e segnatamente nel Fiore delle Mille e una Notte, il suo ultimo film, che illustra una realtà intatta senza più alcuna struttura e ideologia che la corrompano e che è stato girato in oriente, negli stessi luoghi, in parte, dove ancora resistono le intatte mura di Sana. Uomo: Cavaliere che vieni dal deserto, tu sarai incoronato re di questa città. Cavaliere: Che cosa?

Uomo: Chi sei e come ti chiami? Cavaliere: Sono un soldato, il mio nome è Vardan. Uomo: La nostra usanza è che quando un re muore e non lascia figli ci mettiamo sulla porta ad aspettare il primo uomo che arrivi dal deserto, lo prendiamo e lo facciamo re. Dio sia lodato che ci ha mandato un uomo snello di corpo e bello di volto. Su, bevi!, ed entriamo in città! Pasolini: Una panoramica così, poi verranno con la macchina così, seguendo loro che vengono avanti dal pozzo, così… Commentatore: Pasolini scrittore, poeta, saggista cominciò a servirsi del mezzo del cinema nel 1961 col film Accattone, una vicenda che si svolge all’interno della nostra epoca, ma al di fuori della società borghese, cioè tra i poveri del sobborgo romano. È la storia di un povero, di un puro di cuore che, naturalmente, una società consumistica che ha perso i valori fondamentali dell’uomo, condanna a morte. Uomo: …avanzo de galera. Giusto la faccia tua ce vo’ a presentatte qua’. Vattene! E ricordate, nun presentatte più da ‘ste parti, che la faccia tua nun vojo che la veda tu fijo, nun vojo che se vergogni d’avecce avuto un padre così… Commentatore: Un poeta, uno scrittore come Pasolini, con Accattone, prende per la prima volta in mano la macchina da presa. Poteva sembrare un’avventura, un capriccio da intellettuale, invece anche il cinema come cinema, diventa con Pasolini spoglio, povero, innocente, ridotto. Quasi paradossalmente, un “noncinema”, ma fortemente suggestivo e pieno di significati.

Pasolini: Ho dato a questo mio passaggio dalla letteratura al cinema varie spiegazioni. La prima è stata la più ovvia, cioè ho pensato di aver voluto cambiare tecnica. Tutta la mia produzione letteraria è caratterizzata dal fatto che ho cambiato spesso tecnica letteraria. E pensavo che il cinema fosse una tecnica nuova. Poi ho capito che questo non era vero, perché il cinema non è una tecnica letteraria ma è un’altra lingua. Savio: Certo… Pasolini: Allora ho pensato in maniera forse un po’ avventurosa e così esagerata di essere passato al cinema cioè ad un’altra lingua per abbandonare l’italiano. Cioè per fare una specie di protesta contro l’italiano e contro la mia società. Una specie di rinuncia alla società italiana. Ma neanche questa in fondo è una spiegazione totale. La spiegazione vera, secondo me, è questa: e cioè le ho detto che il cinema è una lingua, una lingua transnazionale e transclassista, cioè un negro del Ghana, un americano, un italiano, quando usano questa lingua del cinema la usano tutti alla stessa maniera. È un sistema di segni che è valevole per tutte le possibili nazioni del mondo. Ora, qual’ è la caratteristica principale di questo sistema di segni, quella di rappresentare la realtà non attraverso dei simboli, come sono le parole, ma attraverso la realtà stessa. Se per esempio io voglio rappresentare lei, rappresento lei attraverso lei o comunque attraverso qualcun altro che però è in carne e ossa che è analogo a lei, cioè rappresenta sempre la realtà usando la realtà stessa. Questo mi permette facendo il cinema, cioè usando questo mezzo di espressione artistica, di vivere sempre al livello e nel cuore della realtà. Commentatore: Al cuore della realtà, di questa realtà appartiene anche Mamma Roma del 1962, un eccezionale ritratto di prostituta e di madre. C’è la presenza del mondo piccolo borghese nei suoi ideali. Mamma Roma sogna un benessere irraggiungibile, una riabilitazione, una nuova vita accanto al figlio, ma anch’egli, come il ragazzo di Accattone,

sarà travolto e ne sarà la madre stessa colpevole, ma insieme a lei colpevoli e responsabili della morte del figlio il fango, la fame, i ricatti in cui Mamma Roma è cresciuta. Pasolini: Qui siamo a mezzacosta nel Monte delle Beatitudini, qui probabilmente stava radunata la folla ad ascoltare Cristo e lassù, là dove c’è quella chiesetta con quella cupola nera probabilmente Cristo stava parlando alla folla. Commentatore: La ricerca di una realtà più vera senza più alcun filtro spinge Pasolini ad effettuare nel 1964 i sopralluoghi in Palestina per Il Vangelo secondo Matteo, a ritrovarvi le facce, strade, colori. L’anno prima aveva anticipato i temi del Vangelo in una specie di apologo: La ricotta, che conclude la prima fase del cinema pasoliniano. Il viaggio di Pasolini in Palestina è un diario stenografico, immediato, commosso e scritto con la macchina da presa. Ma nel Vangelo secondo Matteo, che viene realizzato subito dopo, l’ambiente e i volti del cristianesimo dell’origine della civiltà, altra zona di una inseguita età dell’innocenza e delle verità perdute, saranno quelli del materese in Basilicata, dei contadini del Sud. Con questo film Pasolini libera il Vangelo dal filtro di una tarda deformante iconografia e restituisce a Cristo e al mondo la cifra fondamentale della povertà. “Io non credo che Cristo sia figlio di Dio”, aveva scritto qualche anno prima, “ma credo che Cristo sia divino, credo cioè che in Lui l’umanità sia così alta, rigorosa, ideale, da andare al di là dell’umanità. Cristo: Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra, io non sono venuto a portare la pace, ma la spada, perché sono venuto a dividere l’uomo dal padre suo, la figliola dalla madre sua, la nuora dalla suocera sua e nemici dell’uomo saranno i suoi familiari. Chi ama il padre e la madre più di me e chi ama il figliolo e la figliola più di me, non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita la perderà e chi avrà perduto la sua vita per causa mia la ritroverà.

Pasolini: Più alla tua sinistra… uh… un po’ più alla tua sinistra (fischio). Commentatore: 1966, si gira Uccellacci e uccellini, un film fantastico, sospeso, irreale, una specie di teoria-fiaba del rapporto che intercorre tra realtà e ideologia. Pasolini: … ne facciamo uno più breve… Commentatore: Uccellacci e uccellini è tra l’altro occasione di un meraviglioso incontro: Pasolini e Totò. Ed è proprio Totò a rappresentare nel film insieme a Ninetto Davoli, suo figlio, la realtà; un corvo parlante rappresenta l’ideologia. Totò: (Canta) Carmè, Carmè i tengo a capa tosta tosta tosta cumme che, i tengo a capa tosta tosta tosta cumme che, che che… Corvo: … er crepuscolo, er crepuscolo delle grandi speranze, eh, eh, eh, e quei poveri imbroglioni sono i primi ad essere lasciati in ombra, magari in compagnia di Rossellini o di Brecht, mentre gli operai, loro continuano in questo crepuscolo ad andare avanti, ad andare avanti. Sono passate di moda le ideologie, ed ecco qui uno che continua a parlare non si sa più di che cosa a degli uomini che vanno, non si sa dove. Commentatore: Sono i funerali di Togliatti, un pezzo di repertorio inserito nel film raffigura la presenza degli avvenimenti, la storia. Totò: Ce lo mangiamo.

Ninetto: Che?! Totò: Tanto se non ce lo mangiamo noi se lo mangia qualchedun’altro, e poi chi ce lo fa fa’, me sembra pure matto, me sembra! Ninetto: Sì, sì che c’hai ragione! Quanto m’ha stufato! Così se impara ad impicciasse degli affari degli altri. Come se lo magnamo? Totò: Come gli antichi, che buttavano i cocci e mangiavano i fichi. Ninetto: Eh! Totò: Mannaggia a li pescetti, mannaggia! Ah, ah, ah… Gnam!!! Pasolini: Mi sembrava di non aver esaurito con Uccellacci e uccellini la mia vena comica; forse in Uccellacci e uccellini pesava così, diciamo un po’ troppo l’ideologia e ho voluto fare un altro episodio più liberamente comico, più poeticamente comico, che si chiama appunto La terra vista dalla luna. I protagonisti sono gli stessi, ma sono immersi in un ambiente più libero, più poetico, puramente picaresco e vitale e a proposito di quello che dicevo prima della, del cinema come altra lingua, potrei dare una conferma per una piccola esperienza che ho fatto nel fare la sceneggiatura di questo episodio, se non possedendo un linguaggio, uno stile per esprimere per iscritto, verbalmente questo tipo di comicità, sono stato costretto a scrivere la sceneggiatura facendo dei fumetti, cioè disegnando Totò e Ninetto nelle varie situazioni appunto con dei fumetti. Totò: Povero figlio mio, sei rimasto senza madre.

Ninetto: E che è colpa mia? Totò: Io ci ho ancora qualche cartuccia da sparare e lotto, lotto il destino, sono impiegato del Comune, ho una casetta, oddio modestamente tanto brutto poi non sono. Ninetto: No, no, brutto nun ce sei. Totò: E che vuoi che non trovi una donnetta che si accompagni a me, che faccia da moglie a me e da madre a te? Ninetto: A te come te piace? Totò: Mora, mora, mora, mora. Ninetto: A me me piace bionda, va be’? Totò: L’essenziale è che non sia rossa. Ninetto: Sì, sì, roscia no! Totò: Vedova? Ninetto: Bona! Totò: Me butto? Ninetto: A papà, datte una pettinata.

Totò: Tuh! Thu! (trombetta). Tanto quaggiù è la moglie di un morto uh, uh! Buongiorno signora, bella giornata, eh? Donna: ‘ngiorno Totò: Se permette le bacio la manoooo… aiuto… Ninetto: Ahi! Perdono signora, perdono, misericordia… Ahi ahi ohi ohi… Commentatore: Dopo questa esperienza di cinema ideocomico, parole sue, Pasolini decide di fare un film ispirandosi al mito classico: Edipo re, del 1967. Nella tragedia di Sofocle, nella tragedia eterna che Edipo personifica nel mondo, i critici parlarono di un progressivo avvicinarsi di Pasolini da Marx a Freud. Pasolini continua a rintracciare, a voler individuare quella sua sognata realtà, intatta e vera. Sarà forse nel mito questa realtà? Alle origini del tempo dove vive appunto Edipo? Ma in questa età barbarica egli trova piuttosto l’età dell’infanzia. Pasolini: Voglio rappresentare il mito di Edipo, ma un mito che sia veramente mito, mito cioè arcaico, lontanissimo nel tempo, quasi selvaggio. Infatti i costumi ricordano più che la Grecia antica o micenea, ricordano addirittura i costumi dei sumeri o addirittura degli atzechi o addirittura di selvaggi dell’Africa equatoriale. L’ho fatto un po’ arbitrariamente, ma sapendo di farlo e forse anche con un po’ di estetismo, ma sapendo che quest’estetismo c’era. È chiaro che se io sposto la vicenda al di là della storia, in un periodo storico imprecisato, prima della nostra coscienza di uomini, all’origine dell’umanità, mi trovo in un mondo che è uguale dappertutto e chi si aspetterà, probabilmente molti si aspetteranno una elucubrazione ideologica del mito resterà deluso, perché la

elucubrazione come ripeto è interiore. Non è che con questo vorrei semplicemente fare una specie di mito di Edipo come si trattasse di Maciste, questo no, e infatti l’inizio come la fine del film sono moderni, cioè affondo il mito nei nostri giorni, lo rendo cioè assolutamente attuale attraverso la rappresentazione di una infanzia e di una vecchiaia che sono dei nostri anni. I° Uomo: Dove siamo? II° Uomo: Siamo in un posto con tanti alberi messi in fila e con tanti fiumiciattoli e un grande prato verde verde. I° Uomo: Luce che non vedo più che prima eri in qualche modo mia, ora mi illumini per l’ultima volta. Sono giunto, la vita finisce dove comincia. Commentatore: Siamo nel 1968, l’anno della contestazione studentesca. Degli studenti Pasolini scrive in una poesia: “siete pavidi, incerti, disperati, benissimo, ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati, prerogative piccolo borghesi, cari. Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte con i poliziotti, io simpatizzavo con i poliziotti. Perché i poliziotti sono i figli dei poveri”. Nel 1968 Pasolini realizza il film Teorema, che attacca l’ipocrisia della morale borghese. Il teorema, ogni teorema è appunto tale in quanto pretende di scardinare geometricamente la realtà senza la realtà. Ma se un dio vendicatore, un Messia appare inaspettato nella nostra società borghese, questa società, questa casa di convenzioni mistificate si autodistrugge, si disfa. Uomo: Che cosa stai leggendo?

Voce fuori campo: Egli apparteneva alla propria vita e il turno di bontà avrebbe messo più tempo a riprodursi che una stella. L’adorabile che senza che io l’avessi mai sperato era venuto, non è ritornato e non tornerà mai più. Il dubbio che l’ospite improvviso ha disseminato sconvolge tutta la famiglia, l’unica a salvarsi. È la serva, l’elemento proletario, l’unica persona capace di avere un cuore umile. Commentatore: La rabbia antiborghese si ripropone in Porcile nel 1969, mentre in Medea dello stesso anno, il terreno dell’azione storica è definitivamente abbandonato in favore di un ritorno alla preistoria dell’uomo. Medea, come è stato scritto, è la perdita di tutte le illusioni e di tutti i sogni, l’approdo alla religiosa contemplazione di chi accetta la realtà senza cercare in essa altre fughe che verso l’assoluto. Voci: E ‘ndo annate… Commentatore: Decameron, Racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una notte. In questi ultimi tre film di Pasolini si assiste al rifiuto completo del tempo degli uomini, del presente contraddittorio che li avvolge. Sono favole, sono l’individuazione di un’epoca felice, dove le chiavi principali del vivere e dell’essere umano, vita, morte, sesso, hanno preso il posto di una ideologia d’improvviso e miracolosamente scomparsa. Donna: Ciò i belli pummodò, accattateve. Uomo: … (?) Uomo 2: Suri, a ‘npu de vorte chi se pente se sarva, oh. Uomo: E cumme sarà u poste… (?) u paradise cumme

Uomo 2: A comincie n’artra a cape, ma tu me voi propriu morte Uomo: E chi u sape posse muri pure prim’io, stame tutti dentre ‘e mani e Ddio. Commentatore: Anche nel secondo film della trilogia, I racconti di Canterbury, si avverte la rinuncia ad ogni forma di ideologia, c’è solo il vivere, il cercare da parte di ciascuno di vivere, fino a quando, in che modo, quanto, non si sa. Ragazza: Ecci!! Giovane: Ahio! Commentatore: Nelle “Mille e una Notte” persino l’intervento divino è casuale, più che misterioso, ecco perché prevale qui come negli altri due film, un grande, profondo sentimento della morte. È forse questo l’al di là della storia? Lo spazio intatto, vero, reale, arcaico, innocente da dove ogni storia può ricominciare o finire? Uomo: Fratello, quello non si tocca! Giovane: Io mangio quello che mi pare. Uomo: Bada che questo riso è maledetto e se lo mangi finirai crocefisso, è già successo a un altro. Giovane: Ma che me importa, stai zitto bastardo, io faccio quello che vojo.

Uomo: Che fame è, ti vuoi mangiare anche il piatto? Uomo 2: Lascialo mangiare, basta guardallo per vedere che la sua faccia è già quella di un morto, e poi non c’è niente da fare contro la volontà di Dio. Bambino: Ehi tu, alzati in piedi prima di mangiare il secondo boccone… Come ti chiami e che mestiere fai? Giovane: Mi chiamo Otman, signore, e faccio il giardiniere. Sono venuto in questa città per comprare degli attrezzi al mercato. Bambino: Ah, è così, eh? Guardami in faccia, straniero, e non chinare gli occhi. Guai a te, ladro; i tuoi occhi mi informano che il tuo mestiere è quello del ladro, che fra gli altri delitti, poco tempo fa, davanti al tuo villaggio hai sgozzato un soldato per impadronirti del suo cavallo. Il tuo nome non è Otman ma Giovanni. Giovane: O re, tu dici il vero, ma da oggi mi metto nelle tue mani, pentito e deciso a cambiare vita. Bambino: Prendetelo e fate come avete fatto con l’altro. Commentatore: “C’è dentro di me l’idea tragica che contraddice sempre tutto, l’idea della morte”, scrive Pasolini, “L’unica cosa che da’ una vera grandezza all’uomo è il fatto che muoia”. Savio: La prima cosa che salta agli occhi del profano è la sua enorme capacità di lavoro, di fatica. Tempo fa in

televisione qualcuno le disse: “Lei ha la faccia triste”, e lei ha risposto: “No, io sono gaio”. Ora è certamente gaio, abbiamo visto che perlomeno sa essere gaio, ma è indubbiamente fragile. Ora la cosa che sorprende è che un uomo della sua struttura sia riuscito a produrre tutto questo, cioè come se lei fosse riuscito a ridurre il cinema al puro traliccio delle immagini, senza peso, senza sforzo, senza resistenza. Pasolini: È un complimento che mi fa… Savio: Non lo so, è una domanda, è una osservazione, è un… in genere il regista, soprattutto il regista che come lei si trasferisce lontano, è visto un po’ come De Mille, come una specie di Faraone, assiso sulla produzione. Viceversa i suoi film, nonostante questa apparenza, sono in realtà dei film molto fragili, perché dentro c’è un’ispirazione asciutta, secca, che il pubblico deve poi estrarre. Pasolini: Beh, sì, come imprese atletiche i miei film indubbiamente sono abbastanza straordinari, a parte il fatto che lavoro moltissime ore al giorno e poi sono io stesso l’operatore di macchina. Quindi queste otto-nove ore al giorno in cui lavoro tengo la macchina in mano, presa in mano, c’è una certa robustezza, diciamo così, ma coesiste a questa fragilità di cui lei mi parla. Ma secondo me questa fragilità è tipica di tutto il cinema. Savio: In che senso? Pasolini: Guardando queste, queste immagini di questo filmato su cui non sono d’accordo in tante, tantissime cose. Savio: Poi lo diciamo…

Pasolini: Lo diremo… Notavo che in fondo che cos’è un autore cinematografico? È l’inventore di una iconografia, e guardando questo filmato indubbiamente questa iconografia mia particolare c’è, non c’è dubbio, sia come fatto antropologico, cioè una scelta di uomini, di facce, anche abbastanza particolari; però questa iconografia è affidata alla pellicola, è questa la fragilità, è affidata alla pellicola che è poco piú, appunto, robusta di un’ala di farfalla. E poi è affidata a un circuito, a un modo di essere visto che è altrettanto fragile o perlomeno labile. Quindi secondo me tutto il cinema è fragile. Savio: Ah, lei non crede che i film stiano acquistando una durata, anche da un punto di vista pratico? Pasolini: No. Cosa vuoi che siano due anni, dieci anni, venti anni? Se lei pensa che sto leggendo in questi giorni le imitazioni di Cristo, tanto per andare… è un libro che è stato scritto nel 1400, nel 1200 e siamo ora qui che lo leggiamo, magari avremo dei problemi di codice cioè, però un film che cos’è, che cosa sono dieci anni di vita, cinquant’anni, non sono nulla, il cinema è destinato a sparire, quindi è di per sè labile, vedendo un film si ha questa impressione di labilità, di fragilità che è sempre dolorosa. Savio: Ma questa si accompagna a una decadenza della qualità, secondo lei non si può leggere un film in… Pasolini: No, io parlo proprio di un fatto materiale, parlo di un fatto materiale prima di tutto che è quello più fatale, e poi c’è anche un certo appassimento più rapido dell’immagine cinematografica, perché sono legate non dico alla realtà, che è eterna, ma a certe momenti della realtà che sono appunto passeggeri, labili, ma questo sarebbe meno grave, perché…

Savio: Anzi, potrebbe essere interessante che questi lati siano colti nel loro momento, tanto più effimero, tanto più interessanti averli sorpresi. Pasolini: Se è, sono documentari, oppure se sono film, riescono a dare a questa labilità del momento attuale qualcosa di fisso, di ieratico, di assoluto, insomma o il massimo della finzione o il massimo della casualità. Savio: E adesso mi dica dove non è d’accordo con quello che abbiamo visto, magari se non è più d’accordo con se stesso, perché ci sono molte interviste. Pasolini: No, quello che dicevo più o meno l’ho sviluppato, l’ho fissato in libri, sono abbastanza d’accordo, comunque sia, no, non sono d’accordo su un punto, che secondo me è proditorio: cioè aver estrapolato due versi di una poesia che o si legge tutta o non si legge, parlo della poesia degli studenti1. Savio: Ho capito. Pasolini: È un ricatto, come viene sempre fatto o da destra o da sinistra, insomma il senso di quella poesia non è quello che appare dicendo quei due versi. Ma a parte questo non sono d’accordo su un punto che è forse quello che interessa la discussione di stasera, cioè il fatto che i miei tre ultimi film, la Trilogia della vita, manchi di una ideologia, anzi ho detto e lo ribadisco qui che questi tre film sono i miei film più ideologici, perché nel momento stesso in cui si dà una preminenza alla vita, mettiamo rispetto alla storia, questa è una affermazione estremamente ideologica fatta da parte mia, è una scelta ben precisa, cioè è una presa di posizione contro un certo sentimento della storia che è diventato conformismo, soprattutto nella cultura di sinistra, sappiamo benissimo che la storia non esiste perché non esiste il tempo e non esistendo una

unilaterità temporale, una successività cronologica, non esiste nemmeno la storia cha si basa su questo, Senza una storia questa storia non è unilineare o successiva e quindi la storia che noi abbiamo in mente è un’illusione, ed è un’illusione laica. Savio: Del resto questo privilegiare la vita sulla storia c’era al suo più basso livello anche in Accattone. Pasolini: Sì, questo c’è sempre stato, voglio dire che questi ultimi film sono estremamente coerenti… Savio: La vita fisica, il corpo… Pasolini: Che cosa? Savio: La vita fisica, il corpo… Pasolini: Il sesso. Savio: La materialità, il sesso. Pasolini: Diciamo il sesso. Savio: Il sesso, certo. Pasolini: E allora, prima finisco il discorso sull’ideologia: per riprendere, c’è in questi film un’ideologia generale che può essere anche non capita, ma non importa, cioè questo passato rappresentato nel Decameron e nelle Mille e una notte si contrappone in maniera assolutamente critica e contestatrice

rispetto al presente. Cioè ho fatto questi film per criticare indirettamente il presente industriale consumistico che non amo, come del resto il commentatore di questo filmato diceva al principio e questi due film li ho fatti quasi per una protesta violenta che è esplosa figurativamente contro il presente. Ma questo, le ripeto, può essere un’ideologia troppo vasta e anche generica, ma dentro questa ideologia generale c’è una ideologia specifica, che è l’ideologia che riguarda l’eros, il sesso. Non capisco perché non dare all’eros e al sesso il peso che essi hanno veramente nella nostra vita di ogni giorno, nella nostra vita umana. Savio: Sì, però lei per dare all’eros il peso che lei dice avere, ha dovuto rifarsi a un’epoca favolosa e lontana, distante, non ha potuto trovare questo eros tra di noi, nella nostra civiltà, nella nostra società. Pasolini: No, perché la nostra società è poi, la parte vecchia della nostra società, è ipocrita e oppressiva e quindi ignora l’eros; la parte tollerante e permissiva dà all’eros delle qualità che non mi piacciono, cioè è una falsa tolleranza, è una falsa permissività e quindi è una forma di alienazione anche quella; cioè c’è una manipolazione anche fisica, anche del corpo nell’epoca consumistica. Allora io appunto ho ripescato questa vecchia realtà nel cui ambito ho ritrovato un momento dell’eros che fosse in qualche modo autentico anche se poi ho favoleggiato su questo, però la sostanza per me è reale. Savio: E dal Decameron a Canterbury al Fiore delle Mille e una notte c’è un’evoluzione, oppure questa ideologia è costante? Pasolini: No, sostanzialmente è costante e stilisticamente si possono notare delle varianti. Cioè io con Decameron ho scoperto una specie di nuovo stile, cioè il mio stile era comico, cioè quello che si chiama stile comico, oppure stile sublime,

per usare una certa fraseologia così tecnica, oppure una mescolanza dei due. Non avevo mai… ho tentato, ho osato tentare, non mi sono mai considerato in grado di tentare il cosiddetto “stilus medius”, lo stile medio. Con il Decameron ho scoperto un po’ lo stile medio, un po’ terra-terra, realistico nel senso più convenzionale della parola magari, ecco… invece con Le Mille e una notte ho capito che non gliel’ho fatta, lo “stilus medius” non è per me e allora sono tornato a una certa poeticità che è tipica dei miei film precedenti, da Accattone al Vangelo. Savio: Vediamo adesso una breve scheda con un’intervista al critico cinematografico Morando Morandini. Morandini: L’itinerario di Pasolini mi sembra che vada da uno scoperto e animoso dilettantismo dei suoi primi film, che comunque anche prescindendo dai singoli risultati rappresentò una clamorosa e salutare rottura con la tradizione del cinema italiano, verso una raffinata, impeccabile, forse sterile ma comunque stanca autosufficienza linguistica, raggiunta attraverso il ricorso ad altri autori e ad altre esperienze figurative. Secondo me, per dirla in termini un po’ rozzi e perentori, anche al cinema Pasolini è stato un poeta; ora è soltanto un artista e qualche volta soltanto un letterato e personalmente della sua ultima trilogia ho ammirato con riserve, ma non amato, il Decameron, ho detestato con tutte le mie forze I racconti di Canterbury e giudico Il fiore delle Mille e una notte il più risolto, il più sereno, il più incantato dei tre film. Questo dipende forse anche dalla natura culturale del mondo arabo alla quale Pasolini ha attinto, e cultura che lo esenta da ogni obbligo più o meno pretestuoso di fare i conti con la storia e con il potere che sono nel suo ultimo film sostituiti dalla fatalità e dai sentimenti assoluti. Anche quel recupero del corpo e del sesso che è la componente ideologica e polemica di tutta la Trilogia in contrapposizione con la società capitalistica e consumistica diventa in questo ultimo film meno, meno provocatoria in una specie di accordo armonioso tra la natura e la cultura. A parte l’ammirazione che

ho per Pasolini, per il suo lavoro, per la sua intelligenza, per lui provo anche rispetto sempre, anche quando i suoi risultati non mi convincono, anche quando non condivido le sue idee, anche quando mi irritano le sue prese di posizione, perché lo trovo ogni volta sincero, anche quando si contraddice, anche quando recita la parte di chi si contraddice in quella smania irrefrenabile e anche un po’ nevrotica di far sentire sempre la sua presenza, che ha fatto dire a Franco Fortini che fra le tante cose che Pasolini sa fare, dovrebbe impararne una, quella di stare un po’ zitto. Savio: Non ascolterò il suggerimento di Fortini e di Morandini e la invito a rispondere a questo intervento del nostro amico… Pasolini: Morandini è una persona molto carina e simpatica e io ricambio l’affetto e l’ammirazione, la stima che lui ha per me, però appartiene a quella categoria di persone che più nella vita mi rendono infelici, cioè i moralisti. Non dico tanto, non voglio accusarlo di aver fatto del moralismo a proposito del sesso e del corpo, lo cita, lo dice ma non gli dà l’importanza che la cosa, che bisogna dargli; cioè non basta ammettere che c’è il sesso in un film, bisogna anche rappresentarlo, dirlo, affrontarlo, dire come c’è e come non c’è, ecc…ecc… Ma a parte questo moralismo, diciamo corrente, mi sembra che la sua posizione morale riguardi sopratutto il fatto che secondo lui io a un certo momento ho abbandonato una specie di estasi, di violenza iniziale con cui ho cominciato a fare il film per andare verso risultati più formali, lui dice, ma io invece sento che se c’è stata una necessità, una violenza, un’estasi anche nell’andare verso questa compiutezza formale, non è detto che uno scrittore, un autore debba appassionarsi ai temi ideologici o a un fare approssimativo, ma calzante; si può innamorare anche di una forma, anzi, a dire la verità i mondi cinematografici o letterari sono mondi formali e lo dico nel senso proprio con cui lo dicevano i formalisti russi da Sklovskij in poi, cioè ogni opera è una forma.

Savio: Ma lei non crede, dall’alto del Fiore delle Mille e una notte, cioè oggi è qui, lei non crede che da Accattone, da certe opere del primo periodo vi sia stata una specie di traversata nel deserto nella sua opera, lei non crede che Teorema e Porcile hanno rappresentato una fase, non diciamo di incertezza, ma di sospensione, un qualche cosa che non era risolto ma era di ricerca, di approccio e non di risultati. Pasolini: Mah, questo non lo direi. Io considero Teorema uno dei miei due o tre migliori risultati, insieme a Uccellacci e uccellini e La ricotta, lo ritengo un film estremamente preciso e nitido e anzi semmai il suo difetto è quello di essere poco incerto e costruito con un nitore e con una sicurezza in quello che dicevo che non ho avuto mai. Savio: Non stavo dando un giudizio, facevo una domanda di altra natura. Praticamente il suo atteggiamento sembrava un atteggiamento più problematico di quanto non sia oggi nei confronti di Canterbury o di Mille e una Notte in cui il regista cerca direttamente il risultato, più che non il problema. Pasolini: Ma sa, queste cose… tutto quello che si dice qui in fondo è tutto un po’ pretestuale, un po’ campato in aria, me ne rendo conto benissimo; mi potrebbe rovesciare completamente quello che lei dice, cioè semmai è il contrario, ero in fondo più certo in Teorema e meno certo adesso. E meno certo adesso perché all’interno di questa Trilogia della vita, che è sempre così scoperta, innocente, favolosa, c’è una osservazione profonda, cioè il mio rifiuto del presente. Savio: Sentiamo Giorgio Bassani e Vittorio Sermonti. Bassani: Devo premettere, e me ne scuso, che non ho visto tutti i film di Pier Paolo Pasolini, ho letto tutti i suoi libri ma i

suoi film non li ho visti tutti, li ho visti in gran parte, ad ogni modo a cominciare dico dell’Accattone, un film che considero tra le cose più belle, non soltanto della produzione di Pasolini regista, ma dell’intero cinema italiano e poi venendo giù giù all’Edipo re, al Vangelo secondo Matteo, a La ricotta; cioè ai film, diciamo così, che si riagganciano a quello che è il temperamento vero di Pasolini, che è un temperamento tragico. Ho visto anche i film diciamo comici, Uccellacci e uccellini, dove c’era un’intuizione formidabile, insomma di adoperare il comico Totò in versione tragicomica, e poi ho visto anche… ho visto I racconti di Canterbury, ho visto anche l’ultimo, credo che mi sia sfuggito qualcosa insomma, no? In ogni caso mi sembra di poter dire, di poter lamentare una cosa, cioè, dico per capire, per cercare di mettere d’accordo Pasolini tragico al Pasolini comico, vero, comico in senso proprio, insomma, no? Gli ultimi film ricavati dal vero e dalle novelle vero, persiane, in qualche modo appartengono al genere comico, mi sembra che sia molto strano non rifarsi a quella che è la matrice fondamentale della sua arte, cioè ad esempio i suoi libri di poesia, a curioso che giudicando un film di Pasolini non si ricordi mai quel libro fondamentale per capire lui, fondamentale per capire lui e fondamentale anche nella letteratura italiana, che è Le ceneri di Gramsci, e l’altro libro di versi importantissimo che si chiama La religione del mio tempo, dove fra l’altro c’è una poesia dedicata, che si intitola Ad un ragazzo, che è dedicata a Bernardo Bertolucci. Quindi per capire Bernardo Bertolucci e Pasolini il rapporto tra i due anche cinematografico, anche artistico ecc…, dovrebbe essere di rigore rifarsi a una… ai libri di Pasolini, alle poesie sue, e anche direi come mai non vedo mai citato nelle critiche che si fanno ai film di Pasolini tragici e comici, non vedo mai citata la sua produzione saggistica, di straordinaria importanza, come risulta ormai anche al pubblico normale, insomma al più vasto pubblico ormai risulta dopo gli ultimi articoli su “Corriere della Sera” che hanno suscitato tanto rumore, tanto scalpore, scalpore a me no, perché lo conosco cerco in qualche modo, mi è facile mettere insieme l’una cosa all’altra, bisogna in sostanza rendersi conto che in un artista, in un grande artista, tout se tien, tutto sta insieme, ogni cosa spiega l’altra, è inutile estrapolare, fare finta che un film di Pasolini sia un prodotto

estemporaneo vero, quindi, insomma, altrimenti se non si fa un’operazione di questo genere, si rischia di confondere dei pezzi che possono sembrare osceni o volgari ecc… con la produzione commerciale più corrente; per esempio nei Racconti di Canterbury o nel Fiore delle Mille e una notte ecc. esistono evidentemente delle cose che appartengono al genere comico-osceno, insomma, ma non sono volgari neanche quelle se noi non teniamo conto che nascono tutte da una matrice unica, insomma da una base fondamentale, rischiamo di non capire. Se facessimo un’operazione così, mi scusi il pubblico se oso paragonare Pasolini a Dante - perché no, dopotutto sono due poeti - … se noi facessimo un’operazione del genere con Dante come potremmo mettere insieme Taide e la puttana, e le unghie merdose di Taide ecc.. con “Quale allodoletta che in aere si spazia, prima cantando e poi tace contenta dell’ultima dolcezza che la sazia”. Trascrizione di Al cuore della realtà (regia Francesco Savio, 1974), programma televisivo Rai tratto dalla rubrica Settimo Giorno a cura di Francesca Sanvitale ed Enzo Siciliano. Hanno partecipato Morando Morandini, Giorgio Bassani e Vittorio Sermonti.

Come un corvo può essere corsaro di Francesco Leonetti

I.

Un giorno che passeggiavamo a Roma più di un anno fa, Pasolini e io discutemmo del suo progetto di un film dal Vangelo di Matteo. (Io ho ricordi-suoni di Bach, brandenburghesi, lezioni, e quei recitativi, che sono tutto del mio essere, in un periodo d’adolescenza…). Dal colloquio romano mi è rimasta un’incertezza su quanto egli può trasporre nel film della sua idea di una nuova moralità, che Gesù significa come maestro e giudice vivo e assoluto; e su quanto di languori troppo personali e troppo umani può pensare Pasolini di esprimere nel film. E insomma si rende, col film, religioso in modo tutto sublime, o in modo rivoluzionario? Mi è rimasta questa incertezza (dell’interpretazione di fondo, e della resa di stile) fino ad ora che sono a Matera, ai Sassi, in automobile, nella hall, parliamo di varianti di testi poetici (d’altro, come Pasolini è capace, entro il lavoro terribile che fa); e riparliamo come non mai ci era successo dopo gli anni della Officina comune, di problemi generali, alla fine di un anno di verità, di disillusione… E, addirittura, io mi atteggio come Erode: accettando, nell’occasione, di osservare la macchina cinematografica con l’entrarci due minuti, dopo aver letto nel copione che Erode non sta al centro di una scena erotica, decadente, ma è un puro mostro di potere e di privilegio in un quadro di semplice linea. Pasolini suggerisce esattamente, dopo aver con un solo gesto sgombrato tutta la macchina; sembra che sia lì a discutere varianti di un testo, con una presenza più cordiale, meno appuntita. Ma ci si accorge che vede: cioè ha l’occhio dilatato… Poi lascia fare: mi lascia calcolare l’espressione doppia di libidine e di orrore del proprio abisso. Ciò mi avviene con tutta freddezza (domando a me stesso, intanto: e perché deve avvenire così? o perché quelli mi sono sentimenti estranei nient’affatto miei?). C’è anche Elsa, non convinta della parte per me, pur se mi ha sempre visto come “cattivo”; e al ritorno dice acutamente che il costume rende o può rendere una individualità umana, mentre l’abito borghese non è democratico, è vile, insignificante… non sono d’accordo, eppure questa idea mi viene suggestiva.

Pasolini non si stanca, eppure è travolto; Pasolini è stanco eppure si scatena; io riparto dalla mia visita, ripenso in viaggio a questo, ad altro, ai giovani studenti di Gioia del Colle che aspettano in paese una fabbrica della Breda, per uscire dal loro vecchio costume; e ripenso a questo: come nella Ricotta, diversamente, riuscirà a Pasolini di unire il suo manierismo con una altra lucidità? o non è troppo alto ogni momento del film? Come si può pensarlo? perché ha scelto questo e non fugge da sé? o che cosa sta decifrando di se stesso? Mi è sempre chiarissimo e mi è impreciso sempre il suo nodo di passione, d’intelletto, di viscerale e d’ideologico, di esasperazione, di scampo, di detta sofferenza e di soffribilità inutile, di passato, di transizione, di luce. Pasolini è stanco eppure si scatena in Testimonianze per il Vangelo di Pasolini, “L’Europa Letteraria” nn. 30-32, giugnosettembre 1964

II. La fisicità, o la presenza, di Maria Callas rimane immaginabile a rivedere Medea, il film di Pier Paolo Pasolini. Personalmente io sono stato a lavorare sul set di Pasolini quattro o cinque volte: per dare la mia “voce” al Corvo petulante e dotto del film Uccellacci e Uccellini, e poi recitando con Laura Betti, Adriana Asti, Totò, Franchi, Davoli, Citti, Julian Beck, Carmelo Bene, Alida Valli. Non ero presente quando ci fu Maria Callas. So bene come Pier Paolo agiva con delicatezza nei suoi suggerimenti, per rendere consapevole l’attore e poi lasciarlo libero. Aveva ragione Pier Paolo di immettere la Callas nel passato antropologico, nella preistoria, nel mito tragico greco (quando gli incesti erano praticati). Lei è stata in Medea un’eccezionale attrice. Del loro rapporto personale così dolce Pierpaolo (di cui sono stato

molto amico fin dai venti anni, facendo poi insieme una rivista di letteratura) mi accennò una volta: e a me parve di poter cogliere un riferimento a una certa somiglianza con sua madre. Ciò vuol dire molto per Pasolini particolarmente come “diverso”. Conoscevo bene la madre di Pierpaolo in casa loro: Susanna era sensibilissima, mite, colta e discreta, forte, con viso contadino e aristocratico insieme. Maria era maestosa e carismatica; e pur essendo di altezza media diventava alta e possente sulla scena. Si muoveva con abilità di attrice, così rara nel suo campo. Il perfezionismo e la passione e la cura professionale erano in lei così alti che si impegnava nelle prove come se fosse in scena. Ciò, mi ricordo, ci fu detto di lei da Cathy Berberian, la grande cantante - a sua volta - della musica d’avanguardia di Stockhausen, Nono, Berio. Cathy era amica di molti di noi intellettuali e artisti: di Eco, di Arnaldo Pomodoro, e anche mia; si ballava insieme al Santa Tecla nel ’66… Nella casa di campagna di Arnaldo disse ciò, aggiungendo che se Maria si fosse risparmiata nelle prove l’avremmo avuta più attiva ancora… Noi fummo sorpresi e Cathy dovette spiegarci. Si sa sempre poco della realtà quotidiana di un lavoro artistico. Ma è chiaro che il patrimonio vocale di una persona è relativo, sempre; richiede un’amministrazione saggia, oltre che una fatica, una dedizione, che è simile a quella degli atleti. E che è maggiore, per l’attenzione al proprio corpo e alla propria energia, dalla cura degli interpreti musicali per il proprio strumento: che diviene pure, presso di loro, una parte del corpo, quasi una protesi… Nel canto tutto è più grave. Io non penso che la voce sia semplicemente “uno strumento”, pur se si usa dire così in senso elogiativo. La voce con un ritmo si è data agli inizi come grido di gruppo umano dei cacciatori primordiali; ed è nata così, pare, la stessa comunicazione fra gli uomini. Nel ’61 il canto “drammatico” di una Medea-Callas è stato detto “espressionistico”, con ammirazione, dal grande poeta e musicologo Eugenio Montale (con una voce di baritono). E sempre la voce è personale, prima che espressiva.

Si deve inoltre pensare che l’opera lirica italiana risorgimentale, con la sua serie di eventi e intrecci mitologici, storici e fantastici, è un luogo centrale della nostra civiltà. In Italia e altrove dal Sette al Novecento pieno si celebra l’idea di nazione proprio col cerimoniale straordinario del teatro. La società borghese crescente ha qui il punto alto delle sue passioni e memorie. Maria Callas è stata fino a dieci anni fa, nel settembre 1977, un modello di questa tradizione nel nostro periodo. Dieci anni fa la sua voce entrò nella storia in “Sette Giorni Illustrati”, 19 settembre 1987

III.

Il mio intervento riguarda, con un tentativo di precisione critica, il lavoro teorico di Pasolini compiuto nella redazione di “Officina”. Da parte mia propongo alcuni anticipi pungenti, con riflessioni a distanza, mentre domani si porterà il discorso più generalmente sulla tradizione e sul senso di rottura che questa rivista ha avuto nella cultura letteraria e intellettuale italiana degli anni Cinquanta. Ritengo che l’esame del lavoro teorico di Pier Paolo, in quel periodo a cominciare dal ’56 sia uno degli argomenti più importanti del secondo Novecento. In generale è poco trattato; e non è chiarito il problema del percorso di ricerca delle riviste. I preamboli ad un breve ma abbastanza curato riesame, sono molto semplici. Ancora oggi ritengo eccellenti i poemetti del periodo che arriva fino agli anni ’62-63 e i primi film, mentre mi pare che l’attività di Pier Paolo abbia avuto successivamente, dopo il ’62-64 nel secondo decennio nella pienezza della sua maturità, un diverso svolgimento.

Ci troviamo di fronte ad un problema che è preciso e sottile: quello di una fortuna straordinaria, nel senso classico della parola, dell’attività, del pensiero, delle opere di Pasolini. E in ciò che è avvenuto forse c’è stato un tentativo di usare le posizioni di Pasolini da parte della destra. Questo è uno dei motivi che ha reso contorta l’attenzione a Pasolini, io credo anche con pochi frutti, sia critici sul suo lavoro, sia di ripensamento o di sviluppo. È per questo che oggi è giusto riprendere, chiarire nuovamente, rinsaldare il valore innovativo e rivoluzionario del pensiero e dell’attività di Pasolini che è indubbiamente al centro del periodo tra il 1955, il 1956 - inizio della rivista “Officina” - e i primi anni Sessanta. Dobbiamo rivalutare questi punti con molta attenzione, perché sono passati quarant’anni. Oggi c’è un’attenzione più memoriale e celebrativa che critica, a mio parere. È un timbro che non amo, forse perché il tempo passato è lungo, ma non è questo ciò di cui dobbiamo parlare in una situazione ancora e nuovamente molto tesa come quella italiana di oggi. Dobbiamo riprendere la forza e le contraddizioni interne alla problematica posta da Pasolini e non ricordarlo come una figura di serietà esemplare. C’è qualcosa di più. Dobbiamo fare i conti con questi problemi in un periodo in cui, rispetto ai nostri maggiori del Novecento, come Gadda o Rebora o Montale, il discorso tace. Come mai si riapre invece per Pier Paolo? C’è un intrigo irrisolto di problemi e c’è il tentativo di giocare sulla supposizione di una sua ambiguità o ambivalenza. Questo a mio parere è inesatto. Nel tentativo di precisare il suo apporto teorico e i suoi limiti, voglio anche riproporre il centro preciso di intelligenza innovativa che Pier Paolo aveva dentro se stesso, con una maturità che ha superato nettamente i nostri apporti. A distanza lo sento come se avesse avuto dieci anni più di me, non solo quei tre o quattro. Lo sento come della generazione precedente, con quelle caratteristiche che Volponi, quando ne parlavamo insieme, diceva di un maestro o di un giovane maestro.

Qual è il punto essenziale a cui dobbiamo prestare attenzione? Il punto essenziale è che non sono solo i caratteri tecnicolinguistici a dare importanza al concetto di vero sperimentalismo proposto da Pier Paolo per la ricerca letteraria e particolarmente di poesia, dal ’66 in poi, a cominciare appunto dalla rivista “Officina”, con uno scritto poi diventato famoso intitolato II neo-sperimentalismo. Questi elementi sono, come vedremo tra poco, molto connessi ad un saggio di Contini. A mio avviso, esso va soprattutto inteso come uno scritto di carattere teorico sulla contemporaneità e quindi come un manifesto di “Officina” perché questo è stato lo scritto sul neosperimentalismo, ciò che era posto in evidenza e che poi successivamente ha costituito una contraddizione tra Pier Paolo e me, contraddizione sulla quale ci siamo abbastanza logorati e mai riconciliati. II nesso che è nel manifesto di “Officina” venne posto tra espressionismo e riferimento al Trecento, al Novecento, per rifarsi addirittura al Trecento. Che cosa significa ciò? Ricostruiamo innanzitutto molto semplicemente questo scritto sul neosperimentalismo. Mi avvalgo di alcune battute del dialogo con Volponi uscito all’inizio dell’anno, dove abbiamo recuperato alcuni problemi della nostra formazione giovanile, spesse volte facendo un riferimento abbastanza preciso, elaborato e discusso a Pasolini, pur evitando di metterlo al centro del nostro discorso. Agosti ha apprezzato molto, per ragioni legate alla sua evoluzione psicoanalitica e semiologica insieme, Petrolio, che a noi molto semplicemente non è piaciuto affatto, essendo un libro non maturo, per la pubblicazione e per l’attenzione. Dunque non abbiamo discusso di Pier Paolo, ma abbiamo posto abbastanza a fondo questo problema del neosperimentalismo. Che cosa contiene questo scritto? Il riferimento di partenza è ad una lezione di Gianfranco Contini sulla lingua di Dante e di Petrarca in cui si dice con molta chiarezza che la lingua di Petrarca taglia le ali espressionistiche di Dante, cioè del suo sperimentalismo incessante. Quando ci frequentavamo, quarant’anni fa, io

lavoravo in questa biblioteca. Nei primi movimenti per sviluppare questa rivista, con Pasolini, il riferimento era strettamente e assai fortemente Contini e non si estendeva a Longhi. Abbiamo parlato pochissimo di Longhi insieme. Mentre invece, come dirò tra poco, soprattutto questa posizione di Contini è longhiana più che continiana. Perché non se ne parlava? Io sono stato sempre molto interessato all’arte, anzi il mio lavoro successivo si è svolto più nella connessione con gli artisti innovatori che con i compagni stessi di “Officina”. Mi sono interessato dell’avanguardia artistica che allora era rappresentata da artisti romani: Novelli, Perilli, i Pomodoro e altri. Era strano che non ne parlassimo, però c’era tra noi una incompatibilità di gusto sulle scelte artistiche, che emergeva casualmente. In casa di Moravia, a me piaceva molto qualche opera di Schifano; mentre la tradizione del cosiddetto “realismo” era presente pesantemente nelle scelte relative a Guttuso, che ho considerato ben presto come un avversario nelle scelte intellettuali e di ricerca. Pier Paolo ha tentato di utilizzare questa nozione continiana per definire i poeti del secondo Novecento, per stabilizzare in un rapporto profondo di carattere critico, quasi in un manifesto, questo riferimento allo sperimentalismo di Dante. È stata una mossa importantissima per “Officina” e per rompere o modificare il percorso della ricerca di poesia nel Novecento che si era sviluppato con una forte selezione di tanti poeti ricercatori e amici nostri di quel periodo, come ad esempio Bertolucci. Più tardi Contini ha voluto intervenire in una conversazione dicendo che ben diverso dagli sperimentalismi novecenteschi è “quell’impeto folle che è in Dante”. L’impeto folle? Non dice niente. Non c’è una differenziazione posta teoricamente. Ha voluto solo rimarcare una sua contraddizione tra quelle successive del suo rapporto con Pasolini.

Va detto che il rapporto con Contini è un rapporto privilegiato di Pier Paolo fin dall’origine. Quando uscirono nel ’42 quattro piccoli libri con i quali a Bologna noi volevamo fare, nell’imminenza di eventi molto gravi della vita pubblica italiana, un atto di presenza e di anticipo sul nostro lavoro letterario successivo, uno solo, quello di Pier Paolo, fu fortemente apprezzato da Contini con un saggio. Quindi è da quel periodo che Pier Paolo frequentava Contini. Diciamo anche questo per capire l’utilizzo delle posizioni di Contini che Pier Paolo compie successivamente. Questo non è avvenuto per noi, anche se io ho avuto qualche scambio di cartoline con Contini e qualche sua gentilezza, reciproca magari, però non propriamente estesa. Mentre ho avuto un rapporto molto fitto con Longhi, sostituendo Pier Paolo nella sua attività di recensore della poesia nella rivista “Paragone”, numero letterario. Fino ad un mio urto molto forte con Longhi in un mio accenno, forse incauto, forse ingenuo ad Argan e ad alcune matrici della ricerca teorica novecentesca. Un breve accenno: ha costituito poi un’interruzione che mi è stata chiesta da Pier Paolo. Ecco che tocchiamo un punto di posizione molto singolare. Pasolini nel riprendere il discorso continiano, semplicemente dice: partiamo da una terminologia filologica e, passando attraverso lo sperimentalismo del Seicento, per esempio, andiamo a cercare di comprendere l’innovazione nel nostro periodo, questo che viviamo, gli anni Cinquanta, di noi uomini - adopero qui io una frase di Habermas - “del ’45”, rinnovatori democratici e radicali. Per far ciò, già mette l’accento su quella che sarà poi la linea di “Officina”, cioè la rottura con le poetiche precedenti: sia l’area ermetica, sia l’area neorealistica nella narrativa. Anzi, io ritengo che il senso della linea di “Officina” verta su questa inversione e modificazione profonda rispetto alla cultura allora dominante. La rivista era scarsamente diffusa, circolava pochissimo, però la sua penetrazione negli ambienti più attenti della cultura italiana (i poeti, i critici più vivi del periodo) ha fatto sì che il nostro strano, complesso, articolato attacco a queste due posizioni di neorealismo e di tradizione anteriore, con l’ermetismo, abbia segnato una rottura di cui i

più interessati, cioè i ricercatori della cosiddetta nuova avanguardia, non hanno tenuto conto. L’ermetismo, il neorealismo li avevamo già fatti fuori noi, detto con semplicità, da amici al tavolo. Quindi era più facile la mossa successiva. Ora che cosa è che possiamo dire? Che se questa è la linea, la ricerca nella letteratura è fondata sullo sperimentare e sul cercare nuove forme, il nuovo, l’originale secondo un termine già kantiano. Il nuovo come si diceva allora. Far letteratura di ricerca nella sua stessa definizione storica, antica non vuol dire né accettare il dogma, né accettare la non certezza assoluta, ma ricercare, escludendo appunto l’una e l’altra convenzione. È certo che questo punto va a toccare l’espressionismo. E di espressionismo in fondo si tratta, quando si guardano i caratteri tecnico-linguistici, il plurilinguismo, cioè l’uso di termini tecnici, gergali, dialettali, di uso corrente, che improvvisamente affollano il testo di Dante e poi scompaiono - dice Contini - nel proseguire la storia letteraria italiana, salvo riapparire nella poesia dialettale, o in certi tratti della narrativa, però mai più nella poesia, dato che il seguito di Petrarca taglia le ali espressionistiche e compie una purificazione lessicale. Non si cercano più tecnicismi, parole innovative. Tutti questi fatti tecnico-linguistici che potrebbero essere descritti con più cura, sono importanti in quanto connotano l’espressionismo. Quindi il nostro riferimento preciso, come avveniva anche nella rivista, quando noi ci riferivamo ai poeti del primo Novecento, particolarmente quelli che pubblicavamo, mentre erano stati trascurati, perché il percorso letterario di quell’epoca e anche di oggi, ha ignorato l’importanza straordinaria di scrittori che giustamente vanno considerati tra i maggiori del secolo: Rebora, Boine, Jahier. Tutto l’espressionismo vociano, considerato tale anche nei testi critici fondamentali sull’espressionismo, come quello di Spitzer, e nella tradizione espressionistica in generale. Di chi è la formulazione del termine, del concetto di espressionismo? Questo è il punto in cui ci dobbiamo trovare. Dove emerge nella cultura italiana per la prima volta? Anzitutto non è in partenza italiano, ma è di un teorico tedesco, W. Worringer, che si riferisce ad artisti detti “fauves”,

cioè feroci, selvaggi, che sono i grandi artisti della fine dell’Ottocento: Van Gogh, Matisse, Cézanne. E poi lo accenna per i primi movimenti del Novecento. Longhi ha usato subito questo termine e nelle sue lezioni bolognesi, frequentate da Pier Paolo con passione, con questo termine si è riferito ai pittori bolognesi del Trecento. Ha fatto del termine che connotava immediatamente l’area inventiva del primo Novecento, un uso all’indietro riscoprendo l’espressionismo delle origini. In termini continiani, in questo famoso scritto, per esempio laddove definisce l’espressionismo in modo compiuto nell’Enciclopedia del Novecento della Treccani, è indubbio che c’è qualcosa di novecentesco di straordinaria importanza: il rigore dato a nuovi modi inventivi o creativi che si connettono a idee. Questa è la forza del Novecento. Ciò avviene per l’espressionismo come più tardi avviene per il dadaismo, il surrealismo e certamente anche per il futurismo, dove le matrici sono più complicate. Mi soffermo brevemente sull’espressionismo, per dire che la valenza, che noi diciamo espressionistica (la ricerca di terminologie e di situazioni della gente umile e della vita quotidiana, così come il caricamento formale - vedete Van Gogh, oppure il testo dantesco stesso) può avere un’estensione metaforica - dice Contini, riconoscendo di dovere l’uso del termine a Longhi, anche nel suo riferimento a Dante. È indubbio che possa avere un’estensione metaforica ad altri secoli: presso i critici tedeschi l’espressionismo viene riferito anche a popoli e civiltà precedenti, antiche come gli egiziani. Quindi nessuno stupore! È plausibile, e, dopo il periodo centrale del Novecento, è venuto in uso tra i critici dichiarare espressionistiche opere che non sono propriamente del Novecento, ma di periodi precedenti. Si rintracciano nel passato le scoperte del Novecento: la coscienza divisa secondo Freud, oppure lo spazio-tempo di Einstein.

È proprio del nostro secolo scoprire in altri secoli innovazioni che in fondo non ci sono state. Ciò che stupisce che mentre l’espressionismo viene centrato nel Trecento, sia ignorato totalmente nel Novecento. Questo fa stupore in Longhi, come a tutta la generazione che prende le mosse da Longhi, e anche in Pier Paolo Pasolini per l’arte. Comincia ad interessarsi di Dante e riporta Dante nel suo testo e scrive la terzina dantesca. Gli innovatori che lo seguono di cinque o dieci anni, che poi fanno parte della nuova avanguardia, sono carichi di espressionismo. Magari facendo riferimento, come fa Sanguineti, a Eliot oppure, come fa Giuliani, a Dylan Thomas, piuttosto che ai primi espressionisti che sono gli scapigliati. Nelle antologie è ovvio che la poesia italiana del Novecento comincia con l’espressionismo. Avviene però uno strano uso, spostato prevalentemente al passato; e sembra che noi lo recuperiamo da Dante, invece di averlo scoperto nel Novecento, in base alle scoperte teoriche, alle idee nuove, alla situazione sociale contraddittoria che c’era dopo il ’45, e che c’era al principio del Novecento, s’intende, prima dell’involuzione degli anni Venti-Trenta. Questo è l’elemento caratterizzante del manifesto di Pier Paolo che io ho condiviso e condivido tuttora. Alcuni anni fa sono ripartito, dopo un periodo difficile, dalla nozione di uno sperimentalismo e lo porto avanti in altre riviste, particolarmente nel periodo più recente. In questi ultimi 5-6 anni, ho cercato di dare un senso al neosperimentalismo, non solo in sede filologica, ma addirittura in sede di rapporto con la ricerca scientifica, nelle scienze del vivente. Proprio di recente parlo di neosperimentalismo nella rivista che faccio ora con alcuni artisti e altri teorici legati a Segre, che si intitola “Campo” con la nozione di “antirappresentazionalismo”. È una mia evoluzione, una messa a punto successiva dei concetti di fondo del neosperimentalismo presso Pier Paolo. Quello che è avvenuto successivamente, punto centrale di snodo dagli anni Sessanta agli anni Novanta, costituisce ancora oggi una contraddizione per i contemporaneisti, e cioè i critici che si avvalgono della loro metodologia per studiare la

letteratura contemporanea nel suo farsi, così come faceva Contini. Ben sappiamo che egli passava da Dante a Gadda, mentre Longhi passava dai trecentisti bolognesi a Guttuso: osserviamo una forte differenza anche tra Contini e Longhi, indubbiamente. Quello che interessa ora è che si è determinata una contraddizione, che io considero secondaria, ma che è bene chiarire, tra neosperimentalismo pasoliniano e nuova avanguardia, è una contraddizione che è stata usata a sproposito per svuotare la positività complessiva di uno dei filoni, quello sperimentalista, definito da Pier Paolo, che comprende ovviamente, nel suo discorso del 1956, anche Zanzotto e anche Giuliani, che poi è uno dei primi autori della nuova avanguardia e che è nostro coetaneo. Estensivamente comprende coloro che hanno lavorato nell’area di “Officina” e cioè, oltre a me e a Roversi, anche Volponi. In un secondo tempo stranamente Fortini, che viene considerato poeta di “Officina”, da teorici che dobbiamo rispettare come molto attenti, come Romano Luperini. C’è qualche contrasto comunque fra questo filone e il filone successivo di mezza generazione distante, che appunto fa centro sui poeti che poi si dichiararono “nuovissimi” (e che nei manuali di storia letteraria costituiscono l’innovazione radicale della nuova avanguardia). Perché è avvenuto tutto questo? A mio avviso l’espressionismo si connette alla nuova avanguardia e alle teorizzazioni di tutti quelli che la rappresentano all’inizio, cioè dello stesso Giuliani, dello stesso Sanguineti. Quindi in realtà l’espressionismo, che è la prima definizione forte dell’invenzione italiana di una nuova letteratura alle soglie del Novecento, a tratti viene in qualche modo inalveata. Quando noi andiamo contro il neorealismo riscopriamo l’espressionismo, perché il neorealismo si appiattisce sulla rappresentazione immediata della realtà. Quando andiamo contro l’ermetismo, di nuovo cerchiamo l’espressionismo,

perché l’ermetismo tende piuttosto a rinunciare al confronto elaborato con le situazioni emozionali. Il punto è sottile anche perché esso svuota questa contraddizione su cui hanno giocato moltissimo i tradizionalisti includendo Pasolini nel loro discorso, e gli avanguardisti avendo un astio inesauribile verso Pasolini, che non ha ragione di essere. S’intende, dentro “Officina” il dibattito era aperto. Fortini era contrarissimo alla nuova avanguardia, anzi ci ha poi attaccati con violenza parecchie volte su questo. Alcuni, ad esempio io e Gianni Scalia, eravamo molto più interessati alla nuova avanguardia e successivamente abbiamo anche partecipato all’elaborazione delle idee che correvano nel filone della nuova avanguardia. Voglio concludere dicendo quale sia la differenza tra il neosperimentalismo di “Officina” nella formulazione fondamentale, ricerche storiografiche a parte, e quella che ha avuto corso nella nuova avanguardia, che invece aveva un’ascendenza benjaminiana sulla problematica non dello stile ma del linguaggio. Vogliamo vedere precisamente la differenza? La differenza coglie un punto delicato anche della complessa posizione di Pasolini. Fino a che abbiamo elaborato dentro “Officina” la nozione di neosperimentalismo, scegliendo i riferimenti di fondo, accogliendo proposte o contraddicendoci fra di noi, il quadro della cultura italiana era determinato da quella serie di posizioni e di scelte che venivano definite “critica-stilistica” o stilcritica. Questo risaliva ad un teorico molto amato da Pasolini e direi anche da me: Leo Spitzer, a lunghi tratti presente in Italia, presentato e tradotto da Schiaffini e inventore sia del riferimento teorico europeo all’espressionismo che si fa cominciare in Rabelais, sia studioso del discorso libero indiretto nella narrativa. Quel discorso cioè dove il narratore racconta non con un punto di vista oggettivo ed esterno, ma come assumendo la posizione di un personaggio, scrivendo come se fosse quel personaggio. Quindi attraverso la voce di quel personaggio costruisce l’ambiente. Operazione senza dubbio vicina alla soggettività moderna, che si distanzia dal discorso storico-critico o storico-

cronachistico di una distanza oggettiva. Questo discorso libero indiretto è presente nei romanzi di Pier Paolo come nei miei, come in quelli di Gadda, come in quelli di quasi tutti gli innovatori del Novecento. II quadro successivo, quello che si comincia a spostare al principio degli anni Sessanta in Italia è determinato invece da una cultura emergente, decisiva ed estremamente rigorosa, ancor oggi importantissima: quella che si connette alla semiologia, o semiotica, e che è in partenza saussuriana. Quindi si determina la prevalenza di Saussure, che fonda una sua disciplina nuova, poi diventata importante almeno quanto la psicoanalisi nell’influenzare arte e letteratura del Novecento, in contrasto con il filone spitzeriano, che aveva il difetto o il limite di intendere le espressioni letterarie e artistiche come connesse all’affetto o all’affettività che in Spitzer sono fondanti per la conoscenza delle espressioni. È indubbio il maggiore approfondimento di Saussure, mai accettato da Pier Paolo. Questo è anzi un varco strettissimo. Ieri pomeriggio parlavo con uno storico del cinema che insegna a Bologna, Antonio Costa. Mi raccontava di aver scritto un saggio, che io non ho ancora letto, in cui dimostra che quando Pier Paolo si interessa di semiologia, cioè nel suo discorso relativo al cinema, in realtà non è la semiologia che lo interessa, la elabora come se fosse stilcritica. È implacabile la sua versione! Si capisce che Segre e Maria Corti, i due maestri italiani della semiologia, in un primo tempo polemizzano, se la fanno con i materialisti piatti, con quelli svuotati che sentono il realismo come se fosse il neorealismo, cioè la riproduzione della realtà, cosa che non è mai stata presso Engels, né presso Lukàcs, dove si parla sempre di concentrazione della visione, mai di riproduzione o di riferimento o di mimesi di una realtà. Invece il termine “mimesi”, la scelta mimetica, è fondamentale nella teorizzazione, che preferisce non toccare il punto dell’invenzione formale fino in fondo, come si dà nel riferimento saussuriano.

Secondo me il punto è tutto qui, che il filone di lavoro di cui ho già riferito e che si lega come capostipite e primo agente, protagonista, se volete “maestro” pur essendo coetaneo, cioè Pasolini, incide molto fortemente anche sul piano semantico, cioè delle idee, cioè dei significati dell’opera. Mentre la formalizzazione è più forte nella vera avanguardia. Questa è la differenza. Lo dice molto bene anche Volponi, quando dice che lo sperimentalismo, o quel che noi consideriamo tale, il lavoro ad esempio attorno a “Officina”, mira di più al conflitto, alla ricerca nuova e forte e alla proposta di valori nuovi. Mentre la nostra avanguardia è rimasta legata alla crisi, subendola, esibendola, con esercizio, anche prezioso, ma che resta piuttosto un esercizio-laboratorio piuttosto che un’invenzione. È questa la valutazione che nell’ambiente pasoliniano, viene data di tale differenza, che come vedete è connessa all’epoca e alle ascendenze teoriche con diversità sottili. Attenzione però che in questa diversità non debbono essere posti equivoci, né abusi. Intanto si è svolto da un’altra rivista, “Il Verri”, il gruppo che ha dato luogo alla nuova avanguardia. Però non è venuto dall’interno della rivista “Il Verri” perché questi scrittori della nuova avanguardia, sia i critici come Eco (integralmente semiologici), sia i critici e i poeti che sono rimasti fortemente materialistici (come indubbiamente Sanguineti e Balestrini), in realtà sono stravaganti, rispetto al “Verri” (e di questo io vorrei parlare con Niva Lorenzini). Abbiamo avuto tra Anceschi e “Officina”, un rapporto molto intenso, vivo, amichevole, di suggestione reciproca. Abbiamo considerato, dentro “Officina”, che “Il Verri”, in sostanza era sulla linea di Sereni, era postmontaliano e sereniano. Sereni è il vero numero uno per Anceschi; e i suoi giovani che sono andati cosi lontani, lui li amava tanto, però non sono stati decisivi per il suo discorso. Quindi nella stima profonda del grande lavoro che ha fatto “Il Verri” non è - come dire? - compresa la matrice. Certo il riferimento di quelli è stato “Il Verri”, piuttosto che “Officina”. Il nostro impegno era troppo pesante per alcuni di loro. Ma

non è nel “Verri” che avviene la presa di coscienza della problematica nuova di origine semiologica. Avviene piuttosto in sede critica e poi viene recuperata dagli scrittori o realizzata dagli scrittori e si diversifica. Questo io in sostanza ho ritenuto di dover dire per dare testimonianza intellettuale, teorica, precisa dell’elaborato fondamentale di orientamento che ha mosso Pier Paolo con la sua capacità di formulare nuove definizioni nell’ambito di una cultura che cresceva come critica rispetto alla cultura dominante, vecchia dei decenni precedenti, avendo dentro di sé anche delle successive complicate contraddizioni. Pier Paolo si è mosso con estrema lucidità su questo terreno prima di noi, con passione fortissima, con polemiche inesauribili, che bisognerebbe vedere alla luce del quadro della cultura italiana e dei limiti stessi della formazione di Pier Paolo e di quanto l’insegnamento di Longhi, che non è motore della ricerca nuova del Novecento, abbia pesato su di lui. Io stimo profondamente Longhi per la sua scrittura, per la sua profonda capacità di studiare i classici. Longhi ha però bloccato la ricerca artistica e letteraria italiana verso il nuovo, in quanto ciò che veniva scoperto allora, gli elementi anzitutto dell’espressionismo, poi del surrealismo, sono stati visti in un ambito storico-critico, piuttosto che in un ambito di innovazione. Questo nesso, Longhi tramite Contini e Pasolini, è direi più un limite di Pasolini che una sua forza, mentre egli tendeva a vedere fortemente il nuovo. Non dimentichiamo che alcuni poeti che poi si rivoltano contro “Officina” (Sanguineti, Pagliarani, anche Arbasino), sono apparsi per una prima volta in “Officina” per la nostra scelta autentica di ricerca. Con Pasolini in “Officina” in (a cura di) D. Ferrari e G. Scalia, Pasolini a Bologna, Pendragon, Bologna, 1998

Passaggi, tracce, marche di un fantasma ridotto a “logo” di Franco Cordelli

Continuavo a pensare al progetto di un confronto tra il film Teorema e il trattamento, ovvero il romanzo sperimentale che aveva assunto questo titolo. Mi dicevo: in fondo Pasolini non ha scritto che narrazioni liriche (“Amado mio” la migliore) e prose sperimentali, per quanto involontarie, o fornite dalle circostanze. Da qualche giorno, insomma, mi muovevo nell’ambito di un proposito convenzionale. Leggere, studiare, confrontare. Poi avrei scritto. All’improvviso mi sono chiesto perché avrei dovuto farlo. Che senso ha un altro contributo, più o meno ben riuscito? Me lo sono chiesto una mattina, all’ora in cui vengono lette le pagine di un romanzo. Avevo acceso la radio e sentito frasi che difficilmente sarebbero potute appartenere a un qualsivoglia sviluppo narrativo. Mi sono stupito, confuso, incuriosito. Erano frasi brutte, perfino stupide, certamente arroganti. Le colpe dei padri ricadono sui figli, i figli hanno colpe che non si vogliono assumere. E poi contumelie verso i giornali e la televisione, ripudio dei giovani, i giovani di oggi non sono più come quelli di ieri e dell’altro, in nome del benessere è stata distrutta la cultura della povertà. A questo punto non potevo non riflettere che era l’1 novembre del 2005, trent’anni dalla sua morte; non potevo non riconoscere Pasolini, l’ineffabile Pasolini delle Lettere luterane. Da giorni esprimevo i miei moti di risentimento nei confronti di quanti s’ammantano del nome di questo prestigioso intellettuale. Ma come non dire che ogni lettore ha lo scrittore che si merita allo stesso modo in cui ogni cittadino ha l’amministratore e il legislatore che egli stesso s’è scelto, per quanto condizionato egli sia, influenzato, bombardato, subornato? Lo scrittore che si merita, dunque. Ma anche costui, non solo il suo lettore, andrà giudicato. E forse,

davvero, Pasolini, con le sue famose contraddizioni, è il giusto Santo Patrono Intellettuale d’Italia, che le celebrazioni per i trent’anni dalla morte hanno attestato e posto in irrevocabile e definitivo valore. Ancora una volta, il mito della vitalità vince su tutto. In nome della vita, tutto è possibile, tutto è giustificato. È perfino possibile (anzi certo) che Pasolini, nonostante i suoi problemi che tanto ci danno da speculare e vivere e scrivere e recitare e riproporre il già proposto e riproposto, è perfino possibile che egli sia stato, di tanto in tanto, un grande poeta, scrittore, regista, intellettuale. Perché no? Proust non ha detto una volta per tutte che poesie, scrittura, intelligenza nascono da zone inesplorate, sconosciute a noi e agli altri? Ma le accuse che a suo tempo gli mosse Edoardo Sanguineti restano valide. La “cultura della povertà” è per me una frase priva di senso. Ciò che è stato eventualmente distrutto (abolito) è la povertà. E che poi tale distruzione sia avvenuta e avvenga a spese altrui (sebbene non solo) è un altro discorso, un discorso politico. È il discorso politico che Pasolini non fa, scantonando in un nuovo discorso sentimentale, fuggendo perfino fisicamente verso India e Africa (che affronterà come mito: ed è la ragione, come ovvio, per cui tutti gli schieramenti politici e tutte le generazioni lo abbracciano). L’altra accusa, che nei giorni della ricorrenza è stata avanzata da Giorgio Montefoschi, di contraddizione esistenziale, d’essere un corruttore di giovani, è la stessa che gli mosse Italo Calvino trent’anni fa. Calvino insofferente nei confronti del fatto che Pasolini, uomo di successo e di potere (benché successo e potere non siano proprio la stessa cosa), si scagliasse con tanta veemenza contro il potere. È l’accusa che definirei moralistica, un’accusa irrilevante se Proust ha ragione. Come potrebbe scagliarsi contro il peccato chi il peccato non conosce? O chi non ne conosce la tentazione, il desiderio? Se Tolstoj non avesse ripetutamente tradito la moglie Sof’ja Andréevna avrebbe potuto scrivere La sonata a Kreutzer? Ma appunto, scrisse La sonata a Kreutzer, un racconto moralistico. E questo è il punto. Il problema è ciò che si scrive, che si sia fatto, supposto o non fatto. Naturalmente

Tolstoj scrisse ben altro. Come Pasolini scrisse ben altro che Lettere luterane o ben altro che il povero racconto intitolato La ricotta che al dunque ha preso il posto di Teorema. Nel passaggio da testo scritto in funzione di qualcosa a quel qualcosa, cioè il film con Orson Welles, si racchiude il problema Pasolini, o almeno il problema che m’ero posto. Nello stesso film ne rimangono le tracce. Sono nella fattispecie tracce di didascalismo (ancora Lettere luterane, o un preannuncio di esse). Altre tracce, o come residuo o come tentazione o aspirazione o perfino compimento, altre tracce frequenti nell’opera di Pasolini sono quelle che definiamo di estetismo, la faccia speculare del moralismo, ovvero della didascalicità. Nel racconto La ricotta, se è lo stesso autore a parlare come un ragazzo di vita (“tira fuori da sotto l’ascella, rotolandosi nella polvere e l’erba zozza, un termometro e lo smorfisce”; oppure: “un giovinottellaccio di sedici anni” ecc…), questo è sprofondamento in quello che Calvino avrebbe chiamato “mare dell’oggettività” assai più che soggettività o, ovviamente, oggettività (e lo sprofondamento, più che assunzione di una colpa, di una condizione, di un deficit, è un cedimento, una caduta nel sentimentalismo, appunto nel moralismo). Nel film La ricotta, vale a dire nel passaggio dal testo scritto al testo figurativo, al regime iconico, proprio ciò che fu da tutti salutato come un grande evento estetico, la riproduzione in smaglianti colori delle due Deposizioni, di Rosso Fiorentino e di Pontormo aprendo a dismisura la forbice tra realtà e realtà perduta, proprio questo tradisce l’agghiacciante esteticità (l’estetismo) in funzione della quale l’opera di Pasolini s’è compiuta e da cui è continuamente macchiata, quell’estetismo che, ripeto, altro non è se non il risvolto di una critica “per altri scopi” alla fine ottusa e pretenziosa come ogni moralità furiosa, ovvero luterana. Nell’ultimo e forse più importante, più poderoso contributo, tra i mille, tra i troppi, su Pasolini si legge questa frase, o meglio questo giudizio: “Poeta senza la grazia quasi naturalmente incline al classicismo di un Sereni; narratore

incapace della grandezza espressionistica di un Volponi e dell’abilità di costui nel governare e dare forma compiuta sulla pagina al tumulto della scrittura e al disordine del mondo; saggista istintivo e ossessivo, e dunque privo del nitore (tuttavia spesso algido) e della precisione (troppo spesso prossima a un’invisibilità o a un impoverimento del senso) di un Calvino; scrittore incompiuto, Pasolini è ciononostante, o forse proprio per questo, l’autore più emblematico della sua generazione. Perché le sue scelte espressive e i suoi ripensamenti, i suoi stessi errori, sono quelli di chi nasce e si forma in una civiltà (l’Italia sotto il fascismo), si afferma come scrittore in un’altra (l’Italia postmoderna del neocapitalismo), e perché più di altri autori egli crede di dover adeguare la propria opera a questi passaggi epocali, così rendendola precaria e incapace di classicità in quanto pienamente comprensibile solo se messa in relazione a un preciso contesto storico e culturale”. Mi si perdoni la lunga citazione, tratta da Sull’opera mancata di Pasolini, un libro di cui è autore il trentenne Antonio Tricomi: egli stesso dichiara d’esser nato nell’anno della morte di Pasolini. La tesi di Tricomi mi pare chiara e saettante. Ma è una tesi drammatica. Essa dice che tra breve l’opera del poeta e regista friulano sarà incomprensibile. È un miracolo che ancora oggi lo sia, comprensibile, la si legga, la si discuta. È cioè un miracolo che dal 1975 ad oggi l’Italia o il mondo siano cambiati così tanto, cioè così poco, che si possa citare Pasolini come, in un qualche modo, esemplare. Ma è una tesi ancora più drammatica se si riflette su un punto. Per Tricomi l’opera di Pasolini è la più “emblematica della sua generazione”: il che, in fondo, coinvolge un mondo espressivo più ampio di quello scaturito dall’opera di un solo autore. Poiché nel merito di questo aspetto della tesi di Tricomi non voglio entrare, non è qui pertinente, ciò che mi interessa è: perché Pasolini, in modo tambureggiante, maniacale? Perché continuiamo a discutere, o rievocare un autore la cui opera sappiamo “mancata” e forse, in parte o tutta, destinata all’oblio, all’incomprensibilità? O, detto in altri termini, che

cosa davvero resta di Pasolini? Non già, dunque, che cosa resterà, quali tracce, questo non lo possiamo dire, se già supponiamo che non ne resterà l’essenziale; ma proprio che cosa resta in questo momento, se nei nostri anni non si fa altro che evocare il fantasma suo, e dico fantasma non a caso, dico fantasma poiché penso al suo nome, alla sua presenza-assenza, alla vita che fu, alle testimonianze che ne restano; dico fantasma in quanto entità contrapposta a ciò che di reale, di materiale, di non leggendario dovrebbe sussistere di un autore: la sua opera. Non l’opera di Pasolini viene evocata, chiamata in causa, letta e discussa (studiosi a parte); ma l’alone che la circonda: lì passò Pasolini, Pasolini disse, Pasolini fece, Laura Betti giurava, Moravia urlava, Enzo Siciliano ricordava, i fratelli Citti ne sono testimoni ecc… Ciò che davvero resta, così sembra, non è che questo alone, appunto il suo fantasma, il fantasma di Pasolini. Esso appare, come una cattiva coscienza, sugli spalti di quel castello che è la nostra Danimarca, ci ammonisce con il suo paterno esempio, buono o cattivo che lo si reputi. Ma poiché i figli e i nipoti di tanto ammonitore, per quanto di sé dubitosi, o addirittura amletici, Amleto non sono, essi non sembrano affatto disponibili al gesto risolutivo, ecco che questo già antico fantasma, benché sfuggente, intoccabile, inverificabile, inverificato, non più neppure sfiorato (con le mani, con gli occhi), o proprio per tutte queste ragioni, come ogni altra porzione di realtà, viene ridotto a merce. Altro non è Pasolini che una merce, vale a dire una marca, un logo. È l’indice di ciò che promette l’immortalità anche se la propria opera è imperfetta. È la garanzia che una buona (o cattiva) vita, purché vissuta non già al cinque per cento (come Montale, per citare un anti-Pasolini), è ben più che ogni opera classica e quindi duratura. È il marchio di fabbrica con tutti i filistei del mondo si proteggono laddove nello stesso Pasolini scoprono, o pensano sarebbe possibile scoprire, come attesta un analista al di sopra delle parti, il nostro Tricomi, che un movente cruciale è la convinzione di “dover adeguare la propria opera” ai passaggi epocali del proprio tempo, della propria vita.

E in verità, io credo, il meglio di Pasolini è questo: egli non dà scampo proprio a causa dei suoi difetti, proprio perché lo ammiriamo, o perché diciamo di ammirarlo essendo a lui così simili (siamo figli e nipoti suoi) e ne siamo in realtà così lontani, non abbiamo un centesimo dell’energia che egli aveva e ci vantiamo di impugnarne il vessillo, che senza pudore sventoliamo in faccia a chi non ne faccia uso, con discrezione, con modestia, allontanandosene, in punta di piedi.

Appunti su “Trasumanar e organizzar” di Daniele Piccini

C’è nell’ultimo Pasolini una rabbia contro la poesia: basta pensare a come egli rinneghi, sostituendo bianco con nero, bene con male, il mondo edenico in dialetto casarsese della Meglio gioventù (1954) nella riscrittura amara, di sconfitta e di amore tradito, della Nuova gioventù (1975). Eppure nonostante questo veleno, questo avvelenamento delle fonti dell’amore, della fede nel mondo e nella vita che sempre più lo attanaglia negli ultimi anni, Pasolini è anche uno che continua a scrivere poesia, fino alla fine, come una delle forme possibili - forse la matrice di tutte le altre - per esprimere quell’ansia di totalità, che non viene meno in lui. Trasumanar e organizzar, che esce nel 1971, è per questo aspetto un’opera cruciale, un testo emblematico, nel titolo e nella tessitura stessa che il libro presenta. Dicevamo del titolo. Esso (preso da uno dei componimenti inclusi) presenta due elementi, o meglio due figure, di denso significato: l’ossimoro e anche una forma di parodia, la disillusa esplicazione della messa in crisi e in questione di un’idea di letteratura, con il trasumanar dantesco,

paradisiaco, messo a fronte dell’organizzar politico, della prassi e del linguaggio mutato dei tempi. Chiediamoci: perché Pasolini ebbe un sentimento così acuto delle antinomie, della lacerazione, dell’essere nel giusto e nel torto al tempo stesso, del non poter mai aderire compiutamente a un principio, a una parte, a una salvezza? Ci sono diversi motivi, credo, per spiegare lo scacco in cui lo scrittore sente di trovarsi, lo scrittore prima dell’uomo (o insieme all’uomo). Ma uno, fondamentale, mi sembra si possa additare nella riduzione della vita a cui egli, da molti punti di vista, assisteva. Di fronte a tale diminuzione, perpetrata magari in nome di una ideologia, di una fede laica e politica ritenuta giusta, Pasolini reagisce istintivamente, visceralmente, andando contro le stesse razionali costruzioni storiche a cui una parte di lui aderiva. Basta ricordare, luogo tante volte citato, il pronunciamento doloroso e insieme vivo del ‘tradimento’ delle “ceneri di Gramsci” nel testo eponimo del libro del 1957 (attacco del IV brano): “Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere / con te e contro di te; con te nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere ”1. E poco oltre, alla fine della VI parte: “Mi chiederai tu, morto disadorno, / d’abbandonare questa disperata / passione di essere nel mondo?”. Di fronte a un indefinibile ma per lui chiarissimo snaturamento dell’uomo e della sua sete e fame di pienezza, Pasolini reagisce con strumenti diversi, di crescente complessità e direi ardimento nel trascorrere del tempo, nell’incupirsi dell’orizzonte storico e antropologico. Trasumanar e organizzar appartiene, appunto, all’ultima, ultimissima stagione della sua poesia e della sua vita. A questa altezza, gli strumenti di reazione al chiudersi degli spazi, vitali e culturali, diventano estremamente ambigui, fino all’indecifrabile. Pasolini ha attraversato, quando scrive questo libro, molte forme, molti tentativi, ha esperito strumenti opposti (dal dialetto alla lingua lirica a quella impura e narrativa), ne ha fatti reagire, mescidandoli, di disparati e antitetici: ne Le ceneri di Gramsci (1957) e ne La religione del mio tempo (1961), tappe centrali del suo lavoro poetico, ha cercato una via per ridar vita, intima polpa e palpitazione a un mondo di forme e stilemi che rischiavano l’obsolescenza e, viceversa, si è appoggiato all’intelaiatura certa delle quasi-

terzine, della metrica per evitare che il suo trasporto sentimentale, arcaico, vitalistico prendesse il sopravvento sulla dicibilità, sfociando nel magma della effusività emorragica. Ha corretto l’oratoria con il lirismo e ha innestato nella lirica l’oratoria, in forme rotonde, magari appoggiandosi alla tradizione della nostra pittura e alle succose, prensili, metaforiche ricreazioni plastiche della critica d’arte di uno dei suoi maestri, Roberto Longhi. Ora, questo non basta più. Andando oltre quelle partiture in cui il caos, la pressione del discorso erano ancora arginati, Pasolini (già con il libro subito precedente a Trasumanar, cioè Poesia in forma di rosa, 1964, per quanto un punto di rottura e di svolta sia già all’interno della Religione del mio tempo) ha slabbrato le misure e il “linguaggio speciale” (come dice con ironia) della scrittura poetica. Nel libro del ’71 inserisce pezzi scritti “su commissione” che parlano di Kennedy, di Pio XII, di attualità; attutisce, annichilisce, sforza e maltratta la natura, la specificità del discorso poetico. Ma mentre fa questo, si creano come dei momenti di iperventilazione, per cui la poesia, stravolta, torna a parlare anticamente eppure con lingua non più seletta e ‘diversa’, ma naturale, e attraverso di essa a dare ancora un corpo - verbale ma non solo - al desiderio, all’aspirazione di totalità che è sempre contraddetta (e insieme salvata, tesa indefinitamente) nell’impossibilità di compimento (“[…] Della nostra vita sono insaziabile, / perché una cosa unica al mondo non può essere mai esaurita” dice l’autore in chiusa di Uno dei tanti epiloghi, poesia scritta per Ninetto Davoli). Prendiamo a titolo d’esempio alcuni versi di La presenza (per altro ispirata a un concetto dell’antropologo Ernesto De Martino), in cui mi sembra che questa fuoriuscita dalle regole e dalle partiture del discorso poetico crei una di quelle zone di sospensione e quasi di diffusa, capillare rivelazione tormentosa: “Eppure lei, lei, la bambina, / basta che per un solo istante sia trascurata, / si sente perduta per sempre; / ah, non su isole immobili / ma sul terrore di non essere, il vento scorre / il vento divino / che non guarisce, anzi ammala sempre più; / e tu cerchi di fermarla, quella che voleva tornare indietro, / non c’è un giorno, un’ora, un istante / in cui lo sforzo disperato possa cessare; / ti aggrappi a qualunque cosa / facendo venir voglia di baciarti”. O ancora, da uno dei

testi più integralmente risolti, in equilibrio tra la non-forma e l’intensità còlta attraverso di essa, che è Versi del testamento, leggiamo gli stichi finali: “Non c’è cena o pranzo o soddisfazione del mondo, / che valga una camminata senza fine per le strade povere, / dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani”. Insomma, Pasolini nega la poesia, la attacca, la sfibra, per poterne dare ancora qualche brandello. La sforma e quasi la dissolve per lasciare poi che improvvisamente possa riaccadere. Credo, guardando alla storia del suo tempo e alla sua vicenda intellettuale complessiva, che egli abbia pagato sul proprio corpo una serie di diktat drammatici che gli sbarravano da ogni lato, progressivamente, la strada; che gli dicevano, ad esempio, che la poesia non si poteva fare più; che valeva l’azione, la politica, l’ideologia (o, forse ancor peggio, che tutto il diverso, il non contenibile in formule stava diventando preda di una desemantizzazione di massa, di una banalità comunicativa epocale). Per continuare a farla, la poesia, l’autore-testimone deve attraversare e ‘pagare’ questa serie di negazioni, di invocate impossibilità, per portare la poesia al sicuro dall’inerzia e dal sospetto. Pasolini sapeva, quando scriveva soprattutto negli ultimi tempi, che la poesia e la sua singolare, umanistica e furente idea della realtà, della disperazione e della vitalità (il più celebre e davvero icastico ossimoro pasoliniano) erano assediate, circondate: dal neocapitalismo, dalla comunicazione (da Canzonissima, diceva lui), dal nascente processo livellatore di ogni verità pre - e anti - ideologica e pre- o anti - commerciale. Eppure, nonostante tutto questo, l’autore di Trasumanar è il meno postmoderno dei poeti contemporanei, il meno dissolutorio e citatorio in senso ludico. Soltanto che diventa - deve diventare autovampiresco, nel senso che nutre la poesia, la sua residuale e insieme altissima scommessa, della propria (appunto) “disperata vitalità”; la fa esistere grazie al proprio sangue, al proprio sacrificio, sempre presupposto (vi si allude, in forma di proiezione mortuaria, spesso negli ultimi testi). Questa poesia estrema è l’attraversamento senza fine della fine. Tanto è vero che in questi anni l’autore tenta ancora un’altra forma, diversa dalla lasse dissolta e a maglie larghissime di Trasumanar, negli oltre cento testi de L’hobby del sonetto

(composti tra il 1971 e il 1973 e rimasti a lungo inediti): sonetti di cui resta solo l’impalcatura, lo scheletro, ma che intanto fanno rivivere una formalizzazione quasi chiusa, con un ulteriore scarto, ad abitare ancora in extremis una possibile concentrazione della poesia, a non consegnarsi a una maniera, sia pure anti-manieristica, definitiva (e vi si fa segnare anche un’ultima compresenza di motivi: alla discussione e all’intervento civile e intellettuale si sostituisce qui una denudata espressione di dolore viceralmente privato per la fine del legame con Ninetto). Certo l’autovampirismo, il pagare, il riscattare la nuova e stremata vitalità della parola non potevano durare per sempre. La morte sarebbe stata - sembra presupporre l’autore - l’estrema custodia del proprio tentativo di mantenere in vita la lingua “vera”, la tensione che in essa si esprime. La morte è più o meno apertamente indicata e forse agognata perché segna, laicamente, il compimento, la fine della minaccia, il venir meno di quelle contraddizioni che alla fine avrebbero asfissiato la sua forza di resistenza. Ecco, diversamente da quello che da alcune parti si è scritto, credo che Pasolini non ci consegni, neanche con le sue estreme prove, una letteratura morta, senza futuro e possibile prosecuzione, ma una letteratura (e in particolare una poesia) tenuta miracolosamente in gioco, in vita grazie al proprio sangue, un soffio al di sopra delle contraddizioni e lacerazioni che la postulerebbero finita: non la sua fine, ma il suo darsi solo a prezzo di sacrificio. Dicendoci dunque non che la letteratura è impossibile - pur nell’epoca chiaramente individuata della sua eclissi dal panorama delle forme comunicabili, riconosciute, civilmente influenti e accolte nel dibattito -; ma che chiede, per darsi ancora, per riuscire, un prezzo altissimo; che per ritrovarsi deve prima perdersi, accettare su di sé tutta l’estensione di uno scacco che sarebbe limitativo credere individuale. Non a caso la sua figura ha ormai assunto per noi l’aspetto di un emblema, come la personificazione di una disperata, vitale resistenza: vera, continua e operante (pur tra risultati diseguali) prima di tutto in forma di poesia; e basterà ricordare al proposito il grido di Moravia ai funerali di Pasolini, che lo diceva uno dei poeti veri che l’Italia abbia avuto.

Le citazioni sono tratte dai due tomi di Pier Paolo Pasolini, Tutte le poesie, a cura e con uno scritto di Walter Siti, saggio introduttivo di Fernando Bandini, cronologia a cura di Nico Naldini, Mondadori, Milano 2003. Per un inquadramento più generale dell’opera poetica pasoliniana, quanto alla mia visione, mi permetto di rimandare a due interventi: Pier Paolo Pasolini. La poesia, inseguimento della vita, “Poesia”, anno XVI, 172 (maggio 2003), pp. 3-5 e Pier Paolo Pasolini. La poesia che dice tutto, “Poesia”, anno XVIII, 199 (novembre 2005), pp. 17-19.

Pier Paolo di Federico Fellini

Dapprima Federico Fellini ha detto di no. Aveva appena letto il bellissimo testo di Pasolini e non riusciva a capire come all’epoca potesse non averne avuto notizia. Sembrava incuriosito da questo ma anche molto amareggiato. Poi una telefonata il giorno di Natale con la risposta definitiva: “Va bene accetto”. Ecco dunque il testo della conversazione che abbiamo avuto, una sorta di dialogo metaforico, ma forse per questo ancora più suggestivo, con Pier Paolo Pasolini.

In che occasione ha conosciuto Pasolini? Gli telefonai dopo aver letto Ragazzi di vita per manifestare il mio entusiasmo; lui fu molto simpatico, parlò in termini lusinghieri dei Vitelloni, di La strada. Solo più tardi, quando fu pronto il copione di Le notti di Cabiria pensai di farglielo leggere per chiedergli una consulenza linguistica su certi modi di dire gergali. L’appuntamento era al bar Canova a Piazza del Popolo. Lo vidi arrivare e mi sembrò subito molto simpatico con quella sua faccetta impolverata, da muratorello, una faccetta da proletario, da peso gallo, da pugile di borgata. Accettò la proposta di collaborazione con entusiasmo, una qualità che me lo rese subito familiare. Era un uomo generoso, immediato. E partimmo per quelle passeggiate che lui descrive così bene. Pasolini descrive la “forma Fellini” in vari modi: un polipo, un’ameba ingrandita, un rudere azteco, un uomo tenerissimo, intelligentissimo, furbissimo e spaventato, un gattone siamese, una lumaca-labirinto che tutto assimila. In quale di questi esseri si riconosce? In tutti quanti - beh, un po’ meno nel lumacone - ma da un punto di vista letterario, detti da un poeta come era Pier Paolo li accetto. Certo, siamo un po’ tutti lumaconi, anche lui aveva qualcosa di avido negli occhi, di attentissimo, una curiosità vivida, inesausta. La sua qualità che ho sempre apprezzato era la sua disponibilità ad essere un artista che assorbe, assimila, trasforma ma, nello stesso tempo, una parte del suo cervello sembrava un laboratorio preciso, attentissimo dove quello che l’artista aveva creato veniva vagliato, giudicato, in generale con un consenso; essere insieme creatore e critico acutissimo, implacabile di quel che aveva inventato. Una qualità, questa inesauribile presenza critica, che a me per esempio manca completamente.

Racconti ancora qualcosa di quelle vostre passeggiate notturne alla ricerca di ambienti e di suggestioni per Cabiria. Giravo con lui per certi quartieri immersi in un silenzio inquietante, certe borgate infernali dai nomi suggestivi, da Cina medievale, Infernetto, Tiburtino III, Cessati Spiriti. Mi conduceva come se fosse Virgilio e Caronte insieme, di entrambi aveva l’aspetto; ma anche di uno sceriffo, di un piccolo sceriffo che andava a controllare ambienti molto familiari. Si divertiva ai miei allarmi, era lì col sorriso di chi ha visto di più, di peggio, anzi si augura che il peggio possa accadere, da un momento all’altro, soprattutto per compiacere l’amico ospite e turista. Tanto c’era lui lì a spiegare e a difenderti, sceriffo conosciuto. Ogni tanto sbucavano da certe finestre, da certe porte, da angoli bui imprevedibili presenze, ragazzetti che lui si compiaceva di presentare come se fossimo in Amazzonia, tra esseri fantastici, selvaggi, antichi. Le ha mai dato l’impressione di una persona che avesse paura di qualcosa? Mi sembrava, per quel poco che lo conoscevo una persona che si inebriava anche del pericolo inteso nel suo aspetto diavolesco, sconosciuto, esaltante. Ha raccontato la prima impressione che ebbe di lui. E l’ultima? Negli ultimi tempi portava gli occhiali neri, si vestiva come un personaggio da film di fantascienza di adesso, tipo Terminator, con i giubbotti di cuoio. E poi era diventato più silenzioso, tendeva alla immobilità. Ricordo una volta alla Saffa Palatino rimase seduto, immobile e silenzioso, per ore, su una seggiolina scomoda. Ci eravamo salutati con molta

effusività, abbracciandoci, perché la nostra amicizia ricordava un po’ la scuola, aveva bisogno anche del contatto fisico. Vedevo con piacere che la nostra amicizia continuava anche se qualche piccolo episodio avrebbe potuto allontanarci. Di che si tratta? Che cosa era successo? Accadde quando, del tutto sconsideratamente, avevo convinto il vecchio Angelino Rizzoli a mettere insieme un casa di produzione che si chiamava “Federiz”, dove la “z” stava per Rizzoli e “Federi” per Federico. Aveva l’ambizione, la Federiz, di aiutare i giovani registi a debuttare. In realtà tutto quello che riuscii a fare per quella società fu di trovare un ufficio e di arredarlo. Mi divertii per mesi a trasformarlo in un vecchio convento o nell’osteria dei Tre Moschettieri. Ospitò per dieci mesi tutti i disoccupati di Cinecittà. Lì vicino a, via della Croce, poi c era il ristorante Cesaretto e verso l’una era facile farsi portar su qualche piatto; era diventato più che altro una mensa. Ma i primi mesi l’entusiasmo era grande e anch’io ero convinto che avrei prodotto tanti bei film, che poi fecero altri: El cochecito di Ferreri, Il posto di Olmi e Accattone di Pasolini. Pier Paolo era fiducioso di poter debuttare come regista. Il copione era bellissimo e lui chiese di poter fare dei provini. Si dovettero vincere le resistenze di Rizzoli e dell’altro socio, Clemente Fracassi, bravissimo ma con tendenza al pessimismo e al catastrofismo nel fare i conti. Quanto a me giocavo a fare il produttore ed ero irresponsabile più che ottimista. Pier Paolo girò i provini e io, suggestionato dai pareri negativi di Rizzoli e di Fracassi oltre che da una troppo personalistica visione delle cose, giudicai e sbagliai. Come andò a finire? Fui costretto a dire a Pier Paolo non la verità, ma che era meglio aspettare ma lui, intelligente com’era, capì che c’erano resistenze anche da parte mia, cosa non vera, e sorridendo con

un po’ di mestizia mi disse: “Certamente non posso fare il cinema come lo fai tu”. Per fortuna incontrò subito Alfredo Bini e il loro sodalizio funzionò. Cercai di farmi perdonare quella presa di distanza, apprezzai persino esageratamente il film e soprattutto mi diedi da fare perché venisse liberato dal blocco della censura. Pasolini scrisse in quell’occasione un articolo sul “Giorno” in cui raccontava tutta la storia con onestà, con molta acutezza e anche un po’ di umorismo, cosa che non apparteneva alle sue corde. In quell’articolo venni da lui battezzato come “l’elegante vescovone” per il modo in cui, con grande imbarazzo, gli diedi la notizia negativa sul suo film. E la “Bomba” che avete cercato insieme inutilmente, esisteva davvero o era solo uno dei suoi fantasmi?

Era una vecchia battona di cui avevo sentito favoleggiare da Ercole Patti i primi tempi che ero arrivato a Roma. In realtà la chiamavano “Bomba Atomica” e se ne parlava in un mitico caffè notturno che stava vicino al “Messaggero”. Al giornale andavo di notte assieme a un leggendario redattore sportivo che collaborava anche al “Marc’Aurelio”. Mi piaceva quella vita da giornalista come l’avevo immaginata stando a Rimini, come nei film americani quando Fred Mc Murray arriva in redazione, butta il cappello da lontano e centra l’attaccapanni. Dunque una notte uscendo all’una dal “Messaggero” e risalendo verso piazza Barberini, ho visto la Bomba”. Era una specie di mongolfiera, tutta vestita di bianco, scendeva camminando al centro della strada, né su un marciapiede, né sull’altro, proprio in mezzo. È quell’apparizione che ha dato vita alle varie Saraghine dei miei film. Parlando, anni dopo, con Pier Paolo mi ero messo in testa di ritrovarla, lui si era associato volentieri alla ricerca e cercava anzi di incuriosirmi ancora di più sulla vita notturna delle borgate. Dopo tanti anni cosa resta, a lei, di Pasolini? Il rimpianto di non averlo visto più spesso, di non aver approfittato della sua generosità, della sua cultura. E poi, forse, mi illudo, se c’era qualcuno con cui confidarsi, credo che con me l’avrebbe fatto volentieri, probabilmente anche soltanto per stupirmi. O anche per tentare, come qualche volta è successo, di avere un punto di vista diverso dal suo in questo mondo che gli si presentava sempre più atroce, indecifrabile, minaccioso. Una volta mi disse: “La verità è che tutto è caos”, ma in contrasto con questa frase che mi colpì per la sincerità beffarda che conteneva, c’era l’accettazione rassegnata e sconfitta. Aveva una sorta di dolcezza ferita, Pier Paolo, suggeriva quel fascino misterioso e segreto che ho sempre immaginato avesse Kafka. Rita Cirio, A colloquio con Federico Fellini, Pier Paolo in “L’Espresso” 19 gennaio 1992.

Caro Pier Paolo… Scritti su Pasolini di Laura Betti

I. Caro Pier Paolo, qui tutto si svolge secondo il previsto. Infatti ieri non ti ho raccontato - è vero, lo dici sempre che dimentico l’essenziale -, non ti ho raccontato che ti conoscono in tanti. Tanti che sanno tutto di te e ti descrivono da destra a sinistra da sinistra a destra. E tu ti credevi così solo. Invece se tu sapessi - ma tanto lo sai - io non faccio che leggerti tutto nuovo, tutto imprevisto e imprevedibile. Ma sono persone serie e irreprensibili quelle che parlano, per cui bisogna anche starle ad ascoltare. È quindi strano che tu ignorassi - quando te ne andavi come Charlot in fondo allo schermo, un puntolino nero e solo - che non eri per niente solo, ma con tutta questa “gente rispettabile che ti conosceva bene” e che quindi ti seguiva nel buio, fino all’idroscalo. Eri insomma protetto, circondato di calore. E non lo sapevi. Ma perché? Eppure “questa gente” porta delle prove sai e dicono veramente che tu sei così e così e così. Cose precise. Sanno persino che amavi e cercavi la morte. Ad esempio tu sapevi che la morte era lì, vestita e pettinata, e tu le andavi incontro e le dicevi: “mi vuoi adesso? dopo cena? devo ripassare? e quando devo ripassare?”. Sai Pier Paolo, dicono anche che eri un po’ matto. Ma non matto come noi, tu, io, Ninetto, Sandro, Elsa, Alberto o Sergio

o Dario. No. Matto proprio e quindi ne hai fatte di tutti i colori, anche quella notte. Però, forse è bene che parlino tanto di te. Anche all’estero, sai. Come? Non ti piace? Ma forse allora non mi hai capita e quindi vuol dire che non ho detto l’essenziale. Vedi, io penso che “ti conoscono bene” perché altrimenti l’alternativa è la paura. La paura di sapere come non puoi non rinunciare per una morte anche ben vestita e pettinata, a una cenetta con gli spaghetti alla panna, a una gita ad Amatrice solo per mangiare l’amatriciana, o spiare i bambini di Ninetto che festeggiano i tuoi arrivi e le tue partenze, o girare intorno al mio vestito nuovo scandaloso di lustrini, correre all’improvviso all’EUR per tuffarti nell’odore di primule di Susanna, la partitella, il tuo Bach, il tuo Mozart, o spiare da sotto gli occhiali i ragazzi della F.G.C.I., incredulo. E invece è vero sai che a loro non importa nulla del tuo chiedere amore ai ragazzi. Per loro non è diverso. E tu questo lo sapevi e ne tremavi. Magari “la gente che dice” questo non lo sa. Ma tu sapevi - “tremando” - che si preparavano anni in cui avresti scoperto una briciola di amore al di fuori di noi matti. E se parlo ora della tua morte - tu che per me morto non sei né mai lo sarai - è solo per passeggiare con te nel paradosso, nella disinformazione a mezzo stampa e TV, nel conformismo e nel perbenismo per i viali ripuliti a fondo da ogni contraddizione, di questa “Italia di serie B” così femminilmente timorosa di avere paura. Ma naturalmente c’è anche gente che non ti conosce per niente, rispettabile quel tanto che basta, che ti ha preso per mano da quel punto lontano dove sei rimasto con Charlot, e non ti lascia. Non ti lascerà mai e abitano quasi tutti nella “cittadella”. Quanto a me io farò tutto quello che mi dirai di fare: disobbedirò alla “tolleranza”, correrò dietro al potere per riferirti di volta in volta come si maschera e come si trucca, imparerò nuovi piatti succulenti che servirò ai giovani che riescono a crescere malgrado tutto e cercherò in tutto il mondo qualcuno che debba imparare a ridere e glielo insegnerò come l’ho insegnato a te - poiché di una cosa sono certa: è successo qualcosa di aberrante perché privo della poesia e della grazia di cui tu sai e di cui hai colmato il tuo striminzito

esercito di matti. Questo qualcosa si trasformerà - lo si voglia o no - in una stupenda rosa rossa inondata di sole, di dolcezza e di risate. Schiere di ragazzi e ragazze rideranno felici e complici dell’ambiguo segreto dei tuoi versi d’amore. E questo segreto terrorizzerà sempre più “la gente che ti conosceva bene”. Ma non è grave, vero? So che hai incontrato Pirro, il cane di Alberto e Dacia e che insieme correte per prati verdi, liberi e freschi. Pirro, è uno di cui ti puoi fidare, è saggio e gentile, vi assomigliate molto e ti seguirà dappertutto. Quindi sono tranquilla. Ti telefono domani alla stessa ora. Ciao.

Lettera a Pier Paolo Pasolini, da “Annuario 1976 - Eventi del 1975” , La Biennale di Venezia, Venezia 1976.

II. Pasolini, chi si salva l’anima Esiste su “Panorama” una rubrica dal titolo “Pensiamoci su”. Un invito allettante soprattutto quando (numero 9 novembre) è Ferdinando Camon che chiama a raccolta le coscienze per riflettere sulle sue personali riflessioni. E fin qui niente di male, ma andiamo avanti. Segue un sottotitolo: “Pasolini: come si muore d’amore”. E riguardano proprio Pasolini - non Eleonora Duse o chi per lei - sia il titolo che l’elaborata riflessione all’interno dell’articolo. Sempre nell’ordine, segue una frase d’inizio di tipo gioioso e natalizio: “Finalmente si ridiscute sulla morte di Pasolini: nel gruppo dei suoi amici romani (Moravia, Siciliano, Bellezza; Laura Betti, Dacia Maraini) che hanno sempre sostenuto la tesi della ‘morte politica’ s’insinua il dubbio che l’uccisione sia avvenuta così come vuole la versione ufficiale”. E continua

annunciando che questo dubbio (“assassinio” d’amore) per ora ha invaso Dario Bellezza, ma ne auspica una vasta diffusione che “non potrà che essere utile alla memoria di Pasolini…”, eccetera. La gioia natalizia sta al “finalmente si ridiscute”. Si ferma lì, a circuito chiuso. Non un’incertezza, ad esempio, né tanto meno una riflessione su come perché i suddetti “amici romani” optarono per una resa “condizionata”. Condizioni, ovviamente, facenti capo al privato dove le truppe si ritirano quando l’estabilishment pianta le sue bandiere, da sempre e per sempre vittoriose, su pance che rimangono sbudellate, ma tant’è, diligentemente ignorate. Diciamo subito che Camon propone delle riflessioni un tantino troppo semplici. Più complicato, ma di certo più produttivo, sarebbe stato il soffermarsi a lungo sui nomi di quanti, a suo tempo, si batterono per la “verità”. Poiché di questo, inconfutabilmente, si trattava. E quindi lasciamo perdere il “romani” con il suo odore stantio di polemiche regionali ammuffite e parliamo di: Paolo Volponi, Andrea Zanzotto, Tullio De Mauro, Franco Fortini, Mario Spinella, Lietta Tornabuoni, Carla e Stefano Rodotà, G. Carlo Ferretti, Francesco Leonetti, Gianni Scalia, come dire una vasta geografia dalla Sicilia al Veneto, dalla Lombardia all’Emilia e via di seguito, oltre, ovvio, ai succitati. Secondo Camon, tutti questi signori - tutti - non avrebbero avuto “la forza morale-culturale” di rivendicare quanto di glorioso può esservi in un crimine omosessuale-d’amore o d’altro che sia. Davvero un gruppetto desolante per reazionarietà e imbecillismo. Ma la cosa non finisce qui. Camon insiste molto sulla “versione ufficiale” reclamizzata dal famigerato gruppetto che stornò quindi la versione alternativa o “dubbio” che ora, finalmente ed eroicamente, per intercessione di Bellezza e incondizionato appoggio di Camon, potrà diffondersi e diventare opinione di massa recuperando così il senso della lotta visto che l’omosessualità è “esterna e contraria alla morale borghese”. E dunque rifiutata dal sistema. E qui mi consento uno stupore assoluto. Davvero Camon non si è mai reso conto fino a che punto l’unica versione

ufficiale, da sempre, per la morale borghese sia stata, appunto: “…macchè politica… macchè storie di ignoti… siamo permissivi, lo si sa, ma l’omosessualità da sempre porta al crimine… che Pasolini serva da esempio…”. È mai possibile una simile distrazione? Forse ne sono spiacente ma la scarsa conoscenza dei fatti rende abietto il pezzo di Camon su “Panorama”. E ripeto: abietto. Esisteva, ed esiste tuttora, una versione ufficiale mai accettata dal sistema. Pasolini è stato ucciso da Pelosi “in concorso di ignoti”. E questo per Alfredo Moro, presidente del tribunale dei minori, per il giudice a latere Pino Salmè, per il perito Prof. Faustino Durante, gli avvocati Nino Marazzita e Guido Calvi, i magistrati Saraceni Misiani e Castriota i quali tutti - proprio tutti . si riunirono a suo tempo, durante il processo per l’assassinio di Pasolini, per i bui corridoi del palazzo di giustizia. E tutti questi signori avevano una sola angosciata preoccupazione: salvare la reputazione di Pasolini. Così vide la faccenda Camon? Imbarazzante, ma così la vide. Seguirono altre versioni ufficiali che mai smentirono “gli ignoti”, visto che l’ultima ufficialità, la Cassazione, nel tentativo di spazzarli via (“gli ignoti” sono scomodissimi caro Camon. Ci vuole una “forza morale-culturale davvero considerevole per metterseli sulle spalle), si produsse in un triplo salto mortale senza rete davvero interessante per chi fosse documentato, e cioè: l’assassino è Pelosi e solo lui. Pelosi però mente su tutta la linea. Ora: cosa sostiene Pelosi? Di averlo ucciso da solo. Ebbene sì, siamo d’accordo, però mente. Così la Cassazione, ovvero il sistema. Mio caro Camon, gli uomini di “quella” versione ufficiale sono stati chini sul corpo di Pier Paolo. Su quel corpo “gli ignoti” hanno lasciato le loro tracce. Tangibili. Terrorizzanti. Hai mai avuto paura di quelle tracce, su quel corpo? Da anni la versione ufficiale è diventata alternativa. Da anni la pratica è chiusa, schedata e archiviata con etichetta “crimine omosessuale”. Solo tu e Bellezza non sapevate. E siete caduti nelle braccia del sistema, di cui evidentemente ignori i doppi giuochi, che vi aspettava da tanto tempo, lievemente stupito del vostro ritardo.

Penso sia difficile, ma voglio tentare di stupirti a mia volta. Amo ogni particella che compone l’immenso di Pier Paolo. Tutto di lui è gelosamente custodito dentro di me. Tutto. Sono sempre stata fiera dell’omosessualità di Pier Paolo. Cioè del suo modo di amare. E prima di cadere nel buio, ho desiderato… ho sperato… che potesse trattarsi di “una morte d’amore”. Sarebbe stata la mia salvezza. Ma questo tu non lo puoi capire. Pasolini, chi si salva l’anima… in L’Unità, 8 novembre 1981

III. Caro Valentino, sono in tournèe con il recital di poesia di Pier Paolo Una disperata vitalità. Di tanto in tanto cambio treno perché no, di là non si può andare, gli assessori sono momentaneamente in galera, il teatro è chiuso e i manifesti ciondolano dai muri, eccetera. Non mi annoio. Sono tornati gli operai in sala - come negli anni ’60 - e ascoltano in religioso silenzio, come allora. Cosa è successo? Dove erano andati? Di città in città mi scappano improvvisi pensieri o flash, non so. A Crema credo di aver firmato e spedito a Boutros Ghali il manifesto per gli stupri. Sì, penso proprio che ero a Crema. Poi, a Romanengo ho pensato: Come mai non le abbiamo chiamate in causa? Le abbiamo emarginate? Non le consideriamo all’altezza del problema? Vogliamo far finta che erano per qualche motivo all’oscuro, non ne sanno niente, non sono donne? Mi sono sentita scomoda. Devo preoccuparmene? No? A Macerata poi - a proposito della trasmissione “Un giorno in Prefettura” - ho pensato che la Boniver, sbagliando, ha fatto bene e Eco anche. Ma perché è stato omesso il punto centrale? Voglio dire che, a suo tempo, si trattava di una trasmissione realmente informativa e, come tale, innocente. Ma ora, il punto centrale e

nuovo è importante. È la presenza di Di Pietro, no?, che rende intollerabile, inammissibile la trasmissione, ovvero la “gogna” cui vengono sottoposte persone che automaticamente acquistano una sorte di innocenza per noi scomoda. E ancora più che a Armanini, mi riferisco alla precedente trasmissione in cui tre o quattro uomini e donne erano coinvolti in un omicidio anche lui trabalzone e umano, così umano, mio Dio, da non tollerare l’idea di un Auditel, impazzito per Di Pietro, in atto di divorare e di digerire insieme al pop corn (ricordi Il giorno della locusta?). Dicendolo si toglie qualcosa all’ammirazione che - con calma - si può avere anche incondizionatamente per Di Pietro? No. Forse lo si potrebbe anche aiutare a capire che il suo noleggio (sic, da gergo cinematografico) è altissimo e non può non spiazzare il senso di una eventuale corretta informazione, in breve, sento una brutalità in agguato che m’impedisce perfino di lasciarmi andare a tanta umile bellezza che sfila davanti, tra una valigia e l’altra. Ti saluto.

Lettera da un viaggiatore, in “Il Manifesto”, 7 marzo 1993

IV. A un mese dalla morte di Laura Betti pubblichiamo questa conversazione avuta con lei il 3 novembre 2002 nell’ambito del programma “I luoghi della vita”, su Radio Tre Rai. Trascrivere accuratamente il ritmo e quasi lo scoppio di frase di Laura, così intimo al suo modo di essere come sanno i fortunati che l’hanno frequentata, non basta certo a far rivivere qui tutta l’irruenza scenica, tra divertimento, sberleffo e dolore: pure quel pomeriggio ne fummo incantati… questa “potentissima signora” fuori dalle regole, anche nello stare dentro le regole.

Federico de Melis. Allora, i luoghi della vita di Laura Betti… Laura Betti. Hai voglia! F.D.M. Cominciamo con te che arrivi a Bologna, dunque fine anni cinquanta romani: la prima casa è a via del Babuino. L.B. Quella era molto carina perché, non avendo soldi, non ero riuscita a trovare una camera con il bagno: lì il gabinetto era in terrazza, per cui bisognava scappar fuori all’aperto col paltò, sennò non si poteva fare nessun bisogno corporale… col paltò, però, ci si riusciva. Era molto carina, quella lì. F.D.M. Quella in via del Babuino era una casa, diciamo così, dove in quegli anni si incontravano tutta una serie di scrittori e personaggi che si imponevano sulla scena romana. L.B. Beh, si incontravano perché io avevo conosciuto Moravia e tutti mi dicevano: se riesci ad avere una canzone di Moravia, è fatta! La tua carriera è fatta! E allora io volevo canta’… e però mi sembrava che fosse meglio cantare dei testi che nessuno conosceva. E quindi attaccai con Moravia. Con Moravia era tutto divino, era tutto bellissimo. Ancora adesso non riesco a farne a meno… a meno della sua telefonata mattutina: “Sono le sette e il pesce è arrivato! Vai a piglia’ il pesce! Se vai a piglia’ il pesce subito lì, a Piazza de’ Campo de’ Fiori, a sinistra ce sta il pescivendolo che c’ha sempre l’orata fresca”. Roberto Andreotti. informazioni sul pesce?

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L.B. Perché lui era un grande pesciarolo, perché aveva deciso e detto - anche se il mio medico obiettava che questo non bastava - che se si mangiava pesce si diventava spiriti intelligenti. La preoccupazione, allora, era sempre quella di mangiare il pesce. E io glielo facevo trovare. Poi si andava al cinema ma lui là al cinema diceva: “questo sonoro non va bene!” e non c’era cinema in cui il sonoro andasse bene… finché non si è scoperto che, insomma, non ci sentiva. Allora dico: smettiamola!

R.A. Già a quel tempo non ci sentiva? L.B. Già da lungo tempo. Ma lui era un grande saggio, un filosofo, per cui del problema di sentire non gliene fregava neanche un po’. F.D.M. Non c’è peggior sordo… L.B. Sì, lui voleva non sentire. Gli andava benissimo non sentire. R.A. Andava già al cinema per “L’Espresso”? L.B. E mica ne aveva bisogno! In linea di massima c’era un gran numero di fattorini che andavano e venivano e portavano la sceneggiatura, perché sennò qualcosa del dialogo sfuggiva. Capito? Allora lui faceva le critiche ma si faceva mandare le sceneggiature. F.D.M. Che canzoni scrisse per te Moravia? L.B. Eh, fu un disastro! Perché non riusciva, non gli entrava in testa neanche con quel sistema che era perfetto per tutti, e cioè gli dicevo: Alberto, basta che tu fai diciannove, tredici, ventuno. Poi ci metti sopra le parole, capito? Diciannove, tredici, ventuno… beh!, insomma, come si fa a fare delle rime su questa base? Provaci te. Diciannove, tredici, ventuno. F.D.M. Non ci riusciva? L.B. E tu? F.D.M. Mah insomma…. L.B. Provaci! F.D.M. E come faccio? Non so… L.B. Diciannove, tredici, ventuno. R.A. Diciannove, tredici, ventuno/ tutti dentro fuori uno. L.B. Ecco sì, bravo! Eh, lui non ce la faceva. Era un disastro. Io gli davo tutti questi numeri e lui non riusciva a fare niente. Allora subentrarono i musicisti di musica contemporanea, per cui Alberto era uno messo in musica da

grandi esperti di musica contemporanea… popi po! pu pu! popi po! pu pu! F.D.M. Ma chi erano? L.B. Mah, beh!, ce n’erano di quelli bravissimi: Mario Muzi, anche più grandi… F.D.M. Anche Bussotti? L.B. No, Bussotti no, non fece Moravia. Ma comunque erano tutti molto bravi. Io ho fatto, mi ricordo, uno spettacolo insieme a Stravinskij. Insomma Stravinskij stava alla mia sinistra e io stavo alla sua destra. E comunque m’ha regalato delle battute che io non sapevo valessero tanto. Eh, sì, le ho perse e mi son detta: sei proprio cretina, perché se le andavo a vendere pare che ci avrei fatto non so quanti milioni. E io le ho perse. E ho fatto questo spettacolo perché avevo tanti musicisti adibiti al ruolo di guaritori di scrittori che con la zucca proprio non ce la facevano. R.A. Quali erano gli altri scrittori oltre a Moravia? L.B. Tutti, tutti. R.A. Anche Parise, vero? L.B. Parise me ne ha fatta una, un po’ stitica, non gran che, però non male. Bravi erano Fabio Mauri, Arbasino e Pier Paolo. F.D.M. E Arbasino che scrisse per te? L.B. Eh, delle canzoni-scandalo! Scrisse quella là che diventò l’inno dei froci, quella che fa [cantando]: “Ossigenarsi a Taranto è stato il primo errore/l’ho fatto per amore di un incrociatore…” e così via. E quando si attaccava quella lì c’era il teatro subito diviso in due. Era molto divertente. Perché da una parte c’erano tutte le froce impazzite che ridevano come delle pazze, e dall’altra tutto un pubblico serio, quasi al limite del pianto. Un pubblico che non capiva perché quelli là ridevano. C’era poco da fare, era proprio diventato un inno nazionale. R.A. Fu Arbasino a darti il soprannome di Giaguara?

L.B. No. Fu il settimanale “Lo Specchio”. Io ero la Giaguara e Ornella Vanoni era la Mangusta. F.D.M. E tu era la Giaguara per questo vitalismo sfrenato, per questo… L.B. Non lo so, può darsi anche per questa falcata che poi negli anni ho perso. R.A. Prima avevi cantato anche jazz. L.B. Beh, lì ero bravissima. E anzi - cosa che pochi sanno -, adesso, il 9 sera, io ritorno sulla scena all’Auditorium con una band favolosa, con tutti i più grossi solisti italiani. E io lì in mezzo, via che vado! E mi piace talmente tanto che non riesco ad avere una posizione distinta, ma sto là e praticamente dirigo, che è molto carino, molto bello. C’è Rava, tutti questi qui, ecco. (Si riferisce allo spettacolo I cosmonauti russi) F.D.M. Laura, negli anni sessanta come ti trovavi nel ruolo di attrice intelligente o cantante intellettuale? L.B. Benissimo, perché non mi sono mai posta il problema di trovarmi, mettermi, incuffiarmi in un ruolo qualsiasi. Niente. Io ho sempre lasciato che la vita mi venisse addosso e magari mi facesse pure male, qualche pestata di callo… però ho sempre lasciato che tutto accadesse. E mi sembrava la miglior tecnica possibile e immaginabile. Se vedevo che mentre stavo ad aspettare che mi cadesse addosso qualche macigno poi non cadeva niente, allora andavo io di rincorsa a cercar qualcosa… F.D.M. Torniamo ai luoghi della vita. Via del Babuino: tu ci resti fino a che anno? L.B. Mah, chi si ricorda… Nel ’67 o ’68 ero già a via Montoro. F.D.M. Dietro Campo de’ Fiori. L.B. Dentro Campo de’ Fiori… Ma questo andare in giro per le case, per le città in cerca di momenti vissuti mi fa venire in mente qualche cosa: perché allora sei costretto a sfogliare sempre dei libri, e io sfoglio quelli di Pier Paolo, né si può dimenticare qualcosa che ci sta addosso proprio in questa giornata [era l’anniversario della morte di Pasolini], e la

ritrovo qui [legge un lungo brano de “La religione del mio tempo”]: “E intorno a questo interno dominio / della volgarità, la città che si sgretola / ammucchiandosi, brasiliana o levantina…”. F.D.M. Ecco, ventisette anni fa, all’alba del 3 novembre, fu ritrovato il corpo di Pasolini all’idroscalo di Ostia. Questi versi che Laura Betti ha letto vorrebbero ricordare quel giorno. E con questo apriamo sui set del cinema di Pasolini, al quale lei ha dato un grande contributo. R.A. Contributo e corpo. Cominciamo con i tre episodi comici, cioè La ricotta, La terra vista dalla luna e Cosa sono le nuvole. Nella Ricotta, che è del 1963 e fa parte di RoGoPaG, tu facevi la diva. L.B. La diva e la Madonna: la diva che recita il ruolo della Madonna del Pontormo. Cosa ricordo? Ricordo cose che… non sono tanto da ricordare: bisognerebbe bruciare tutto, fare un bel falò, una fiamma alta. Si deve ricordare quello che non è più ricostruibile, insomma, ecco. Ricordo un qualche cosa che faceva parte di un cinema che non c’è più, non esiste più, non è tornato più. Un cinema bellissimo, non solo quello di Pier Paolo, dove si poteva arrivare anche a fare capolavori, e La ricotta lo è. R.A. Questo film non fu capito subito, non fu molto apprezzato. L.B. No. Pier Paolo era perseguitato politicamente. Fu messo sotto processo, un processo definito proprio una caccia alla streghe e che impaurì, ecco… Non è che fosse proprio molto protetto dal set intellettuale. Con La ricotta siamo all’interno del governo Tambroni, e ogni cosa che lui facesse… il primo processo che ha avuto, nel ’55, portava la firma del Ministero degli Interni, come capo d’accusa, il che era abbastanza strano. Poi, va beh!, fu assolto perché ci fu una spesa personale, non so, di Ugaretti, di gente di questo tipo… Figuratevi che per La Ricotta avevamo un pubblico ministero che portò la moviola in tribunale. F.D.M. Era la prima volta, no?

L.B. Era la prima volta che accadeva, sì, anche per i poveri uscieri che dovevano fare il buio: “Tirate le tende!”, e questi due dovevano tirare le tende per vedere qualcosa di queste scene incriminate, quando nel film si ripeteva la passione di Cristo e il protagonista era poi un povero muratore che, insomma, non magnava da non so quanto e gli era venuta poi un’indigestione ed era morto sulla croce, insomma, per aver mangiato troppa ricotta. F.D.M. Dove fu girato La ricotta? L.B. Qua! In tutti quei posti in cui c’erano rovine romane. Dalla parte dei Castelli. C’è quella parte dove ci sono delle rovine, ancora ce ne sono parecchie. R.A. Tu come lo avevi conosciuto Pasolini: il primo incontro. L.B. Pier Paolo era arrivato al Babuino quando arrivavano tutti perché, appunto, c’era Moravia, e quindi arrivava anche Pier Paolo, e insomma, siccome non c’era mai posto, era un buco, lui si mise lì e da allora rimase lì a guardarmi. F.D.M. Non parlava mai? L.B. No. Dopo però con me parlava e allora erano tutti incazzati perché con me parlava, mentre con gli altri no. R.A. Ci fu subito un feeling tra l’attrice Laura Betti e il regista Pasolini? L.B. Mah! il feeling, cosa vuoi, c’era dall’inizio, quindi dove vuoi che se ne andasse a spasso durante il film? No, rimaneva bello preciso, anche nel mandarci a quel paese. Poi, Pier Paolo era adorato da tutta la troupe. Da tutti adorato. Perché li teneva di buonumore. Ma nel senso che lui non ci provava a tenerli di buonumore, però parlava allo stesso modo con tutti, parlava con gli elettricisti come se fossero dei professori di semiotica, dei gran Tullio De Mauro sparsi in tutti gli angoli con le prese e le corde eccetera. Allora succedeva che tutti godevano pazzamente: “A dotto’! Ando’ ‘a metto, semioticamente parlando, questa spina? Perché non l’ho capito!”. E godevano! A tutti piaceva pazzamente di essere trattati in questo modo. Quindi lui era adorato. Io un po’ meno.

F.D.M. Sul set della Ricotta c’era anche Orson Welles. L.B. Orson, divino! Lui è stato molto carino perché poteva distruggermi in un soffio. Perché avevamo fatto un’altra litigata con Pier Paolo - io e Pier Paolo litigavamo veramente molto spesso, ma è che non mi voleva dare mai retta -, e insomma quando si trattò che dovevo fare la diva gli dico: “Caro, chi caccia i soldi? Perché le dive devono essere vestite come delle dive, eh, insomma!”. F.D.M. Tu, invece, dovevi ricorrere alla Standa, no? L.B. No. Là sono stata io che ho detto: “Una vera diva prende e va per lo meno alla Standa!”. R.A. Ma c’era già, per i costumi, Danilo Donati. L.B. No, Donati non se ne guardava proprio di starmi a cosare. Però qui c’entra, anche qua, ma non nel vestire me. Perché di vestire me non ne ha mai voluto sapere, se non trent’anni dopo. Anche in Teorema lui vestì tutta la Mangano, ma la Coppa Volpi per la grande attrice l’ho avuta io e non avevo un cazzo! F.D.M. Con quel maglioncino nero. L.B. Con quel maglioncino nero e la parrucca che mi scendeva fin qua. Ma Danilo non aveva voluto far niente. E allora io sono andata alla Standa con Pier Paolo, e lì sono riuscita ad avere il coraggio di comprare una mantella di quelle che sembravano fanti, quelle grigio-verdi, quelle degli alpini [qui canticchia], “Sul cappello sul cappello che noi portiam”, e poi ho detto: beh, questa è meravigliosa! Avevo visto una bertocca, una specie di cuffia da notte, di lana d’angora (che non era mai stata molto chic, io però l’ho trovata molto chic): me la sono messa, poi sono andata da Orson, ignorando che la cosa fosse disgustosamente orripilante, e lui m’ha detto: “fantastic!”, e siamo rimasti tutti così, impalati. Mi ha dato il beneplacito e ha detto che più di me neanche a Hollywood… R.A. Torniamo nei commoventi e drammatici anni pasoliani, spostandoci - 1966 - sul set de La terra vista dalla luna, episodio de Le streghe dove tu, Laura, girasti ancora con

la divina Mangano, citata prima. Tu però in questo episodio facevi il turista di una coppia dove il partner, che faceva invece la turista, era Luigi Leoni. E fu Piero Tosi a mascherarti da esploratore. L.B. Sì, ero molto carina. Fu preso come modello il ‘corpicciolo’ di Guidarino Guidi, che aveva molta pancia e un gran culone, e mi han fatto un busto di gomma uguale a lui. Poi avevo quattro ore di parrucchiere per infilarmi pelo per pelo la barba rossa. E poi ero vestita con i knickerbocker - i pantaloni alla zuava -, i calzettoni, le scarpe bianche e marroni, e in testa il casco dell’esploratore. F.D.M. Era una specie di sahariana color cachi. L.B. Sì, sì… era molto carino. Mia moglie, invece, era vestita di chiffon. Altissimo, magro. R.A. Nella Terra vista dalla luna questi due esploratori hanno un ruolo piuttosto decisivo: che cosa voleva dire Pasolini con questa storia? L.B. Voleva dire un bel niente! Voleva dire quello che era: una storia comica, divina. A un certo momento noi nel passeggiare incrociamo l’altra storia - che si svolgeva con il matrimonio della Mangano con Totò, e il figlio Ninetto che cosava, eccetera. Poi loro un bel giorno si accorgono di non avere più soldi e allora la Mangano dice che ci penserà lei, e vanno al Colosseo… F.D.M. … dove dovrà impietosire tutti minacciando di buttarsi di sotto. L.B. Sì, e lì, per guardare le rovine, stanno andando anche i due turisti. La Mangano stava al piano di sotto, noi invece saliamo all’ultimo piano. Senonchè io, con quel popò di pancia, con quel culo, dovevo salire per una scaletta ripida e non riuscivo. Dovevo arrivare in cima e fino al davanzale, perché da lì era previsto che, mangiando una banana, tirassi fuori tutte le bucce, le buttassi giù: la Mangano ci mette un piede sopra, cade e muore: questa è la storia. Senonché, io proprio non volevo andare su. Mi sono messa anche un po’ a piangere, cosa che faccio raramente. E Pier Paolo si è incazzato come una belva. Non so come ha fatto da là sotto a

salire le scale e a venire su, ci ha messo neanche un minuto: poi quando ha sporto la testa lì e ha visto che popò di vuoto che c’era, beh! a quel punto è stato molto carino, mi ha tirato giù per il pantalone, poi mi ha un po’ coccolata… E dopo m’ha rimessa su, però. F.D.M. Pasolini ti tirava sempre su nel suo cinema. Anche in Teorema sei tirata su. C’era questa tendenza a farti levitare. L.B. Sì, a farmi levitare in qualsiasi modo, ma soprattutto a fare in modo che io magari morissi anche. Perché anche in Teorema io non sono andata a finire sotto? Dov’è che mi seppellisce? R.A. Sotto terra. L.B. Ah, sì, come no!… che c’era il cane che mi voleva salvare. R.A. Ma ti faceva morire non perché non tenessi la lunga durata nelle recitazioni. L.B. No, quello non l’ha mai pensato. Anzi ha sempre pensato che io ero, forse, la migliore delle attrici che lui conosceva. Lo faceva per questo, non gli piaceva nessuno! F.D.M. Terzo episodio comico: Che cosa sono le nuvole, del 1967. Lì Laura Betti fa Desdemona. Eravate tutti pitturati: Totò era verde. L.B. Io ero rosa. F.D.M. Rosa aragosta. L.B. Con delle ciglia lunghe così: insomma, ero molto buffa. Poi c’era Ninetto Davoli che faceva il moro ed era pure pitturato… R.A. Lui era pitturato d’ordinanza. L.B. La cosa più bella è che un giorno io gli ho detto: “Senti caro Pier Paolo, non ci son santi. Io qui non vedo l’ombra di un quattrino, mentre invece devo andare alla Rai, dove devo essere al massimo alle tre-quattro, perché lì mi danno il cachet. - Cos’è il cachet?, mi fa; e io: - Il cachet è una cosa con cui si mangia!”. Per questo cominciammo a girare al mattino abbastanza presto. Naturalmente, arrivata l’ora, ero

già in ritardo e sono scappata col costume, con la parrucca, non ho tolto niente. C’era in quei giorni a Roma il bandito Cimino, allora era famosissimo e girava travestito da donna. Nelle descrizioni che davano parlavano di questa parrucca, di queste ciglia, eccetera. Va beh! io avevo preso la macchina sparata… R.A. Cos’era, una Seicento? L.B. No, avevo già una Lancia. R.A. Beh, non male una Desdemona in Lancia. L.B. Beh, certo che non era male! Io non avevo soldi però ero sempre molto chic. Comunque, andavo sparata quando, passando per il ponte del Vaticano, ho visto una guardia che segnava qualcosa. Arrivata a piazza Mazzini c’erano due Pantere che, con gran stridore di motore, mi hanno bloccata. Poi uno è sceso di corsa e m’ha tirata sù convinto che io avessi la cravatta. Io non l’avevo la cravatta, ero una signora vera, capito? F.D.M. In Che cosa sono le nuvole te facevi Desdemona, ma in teatro di marionette no? L.B. Sì, com’è bello! Ha fatto dei film meravigliosi, Pier Paolo. Io li mando in giro dappertutto, in tutto il mondo. C’era Francesco Leonetti che faceva il burattinaio e noi eravamo i burattini. E quando poi alla fine Jago fa tutta la combinazione, e Ninetto vuole ammazzarmi e mi riempie di botte, il pubblico insorge… bellissimo. R.A. Insorge a suo favore? L.B. In mio favore, caro mio, si capisce. R.A. Laura, questa prima trilogia pasoliniana ti disegna un personaggio che ti corrisponde nello stile. Quindi recitavi te stessa. Oppure no? L.B. No, ma io non ho mai molto capito, neanche adesso, qual è la reale differenza tra recitare ed esistere. E poi Pier Paolo non è che mi ha insegnato tante cose sulla recitazione, però questa sì, un po’. Cioè non ha nessun senso recitare. Che senso ha? La realtà la devi veramente possedere, tu devi

trasmettere la realtà al pubblico. Allora la devi realmente possedere, se no cosa vuoi trasmettere? Una televisione? R.A. Il Sessantotto di Pasolini è soprattutto Teorema, un film che ancora oggi mette i brividi. Tu recitavi la serva Emilia in una famiglia altoborghese in cui i ruoli principali erano quelli della Mangano e di Massimo Girotti. Tu non volevi fare quella parte, mi risulta. L.B. No, io non la volevo proprio fare, non capivo… Che c’entravo, io, a fare una figlia del popolo? Insomma, lo capivo benissimo che non era una serva vera, ma le sue radici erano comunque popolane. E io mi dicevo: dove vado a fini’?, come me la recito? Fu una babele di schizzi di rabbia, delle cose tremende. Lui interruppe il film, non voleva continuare, ma era fatto così: quello che voleva, voleva. Senonchè anch’io ero fatta così, davvero non capivo perché dovevo farla. E comunque alla fine quando s’è visto che sto’ film non partiva, perché lui diceva sempre di no… R.A. Cioè Pasolini senza di te non l’avrebbe fatto? L.B. Credo di sì, credo che non l’avrebbe mai fatto. Poi, invece, ha capito. In realtà ha ceduto lui, perché un bel giorno ha cercato un’altra strada e mi ha convinta che io quel personaggio lo ero proprio nel modo più totale, più radicale, più estremo, per una serie di motivi che poi ho dovuto riscontrare nella mia vita, sempre. Sempre io ho avuto un parallelo con quello che lui mi diceva che io in realtà ero. E ho sempre capito che aveva avuto ragione. F.D.M. In Teorema la serva Emilia è l’unico personaggio che si sottrae profondamente all’angelo sterminatore Terence Stamp, il quale paralizza la famiglia altoborghese in quel preciso momento storico, il 1968, in cui, appunto, la borghesia italiana si trova di fronte alla sua prima vera crisi. Ecco, la serva Emilia però a un certo punto entra dentro di te. L.B. Ma completamente! altrimenti non l’avrei mai fatta. F.D.M. Questo film fu girato in una pianura padana che cominciava ad avere all’orizzonte i profili delle prime fabbriche. Cosa ricordi?

L.B. Io ricordo un approccio a luoghi e persone che non avrei mai supposto di poter avere, e questo credo sia accaduto perché la poesia ha come sempre un’entrata ambigua, ma forte, forte, forte. E una volta che hai capito dove vuole andare, ne fai parte e non c’è scampo. E quindi non potevi non capire esattamente, non so, le furie borghesemente religiose della moglie; non potevi non capire il padre quando pensa di potersi riscattare semplicemente cedendo le fabbriche… È un film che precedeva di molto i problemi veri del Sessantotto, come è stato scritto dopo. Li precedeva veramente. R.A. Tu però a differenza di tutti gli altri personaggi, impregnati di borghesia, in qualche modo riesci a redimerti, torni alla campagna e ti chiudi in un mistico silenzio che ti porta fino a una specie di ascensione. L.B. Ma lui spiega molto bene che da un’apocalisse del genere si poteva salvare solo una figlia del popolo, con la sua crudezza e barbarie di santa-pazza. Era una pazza e santa: due fattori che in realtà sono molto radicati nei contadini dell’epoca. E quindi Emilia si salva per questo. Lei ha subito lo stesso trauma degli altri, anche lei si è innamorata del dio o diavolo Terence Stamp, lei ha fatto tutto: ma a tutto è riuscita a trovare scampo. F.D.M. Teorema finisce con la serva Emilia che torna, appunto, alla madre terra, sepolta, in quella scena… R.A. Sotto a un caterpillar. E poi l’urlo di Massimo Girotti, che ancora oggi risuona. F.D.M. Ma passiamo a un altro set pasoliniano, I racconti di Canterbury, 1971-1972. Lì c’era più da divertirsi, no? L.B. Beh, insomma sì! Ma io mi sono sempre divertita con Pier Paolo. Però lì ce n’erano di tutti i colori perché Ninetto si voleva sposare, e io dico: adesso qua succede una tragedia… e invece poi ho scoperto che tutte le tragedie che dovevano essere terribili o definitive, tutto sommato Pier Paolo le superava sempre, e anche molto bene. Non lo so, aveva una tale necessità di vivere e di divertirsi che riusciva a decantare tutto. R.A. Tu eri la donna di Bath.

L.B. Sì, e mi sono molto arrabbiata. La colpa era di questo pellegrinaggio che andava in giro per l’Inghilterra, ognuno raccontava una storia, e se questa storia era bella o robusta allora prendeva un premio finale… Io non facevo altro che raccontare tutte le mie avventure, le mie scopate, le mie cose, e arriva Grimaldi e taglia tutto. E io ero molto incazzata. F.D.M. Ecco ecco, la carovana attraverso l’Inghilterra…. e a un certo punto c’era una lunga carrellata verso la piazza della cattedrale di Canterbury: una scena che ti piaceva molto, no? L.B. Mi piaceva molto, sì, e avevo quaranta chili di costume più la pioggia. F.D.M. Ma vogliamo dire, per sottolineare la civiltà della conservazione in Italia, che tutto quello che fu tagliato oggi è introvabile? Non esiste più? L.B. Assolutamente! Non c’è. La Technicolor dice che ci fu un’inondazione: sarà… quaranta minuti ed era bellissima. A me il film non è che sia piaciuto, invece la carovana era di una bellezza barbara, questa roba che attraversa tutta l’Inghilterra. F.D.M. I racconti di Canterbury è l’ultimo film pasoliniano che fai, perché poi in Salò sei presente, ma solo come voce: la voce dell’aguzzina Hélène Surgère. L.B. Sì, anche se è una delle cose più belle, più importanti che ha fatto. Lo diceva l’altro giorno anche un regista, Ruiz. Ma è vero. Bellissimo. Pier Paolo però ebbe molto dispiacere di non potere avere né me, né Ninetto, perché quello è un film in cui lui ha avuto paura. E aveva ragione. Erano tempi bui, direbbe Brecht. Pier Paolo stava sotto pressione, era un momento di persecuzione e minacce fisiche, dire proprio: anche assalti con catene. Era giusto avere paura, cosa che non era mai successa nella sua vita: infatti non ne aveva tanto per sé, l’ha avuta per me e per Ninetto, quindi non ha proprio voluto che noi facessimo i personaggi. F.D.M. Tra le tue interpretazioni extra-pasoliniane, non si può non parlare di Novecento di Bernardo Bertolucci. R.A. Dove facevi la compagna un po’ torbida del fattore fascista Sutherland.

L.B. Per me significò una pura, epidermica ma forte forma di felice vitalità. Sembrava una macchina enorme inventata per dei bambini. Tutti gli attori stavano a Parma, e allora c’erano queste macchine che partivano al mattino in tutte le direzioni dell’Emilia e della Romagna, con tutti i contadini, attaccati da una parte e dall’altra: si infilavano nelle macchine hollywoodiane piuttosto che nelle altre macchine, e tutto questo era veramente impagabile, proprio fantastico. I contadini avevano poi preso molto sul serio le loro incombenze di attori, per cui quando Sutherland e io scappiamo inseguiti dai forconi, a me m’han cacciato una forconata nel culo, con rispetto parlando, che mi son presa la prima e unica sciatica della mia vita. Poi ci avevo addosso questa Teresa [ qui fa la cadenza bolognese]: “Scusami Laura, non l’ho fatto apposta. Lo sai che ci dicono dacci dentro! dacci dentro! e io chi ho dato dentro! - e io: Scusa, ci hai dato dentro, ma potevi fare con un po’ più di delicatezza, cazzarola!”. Capito? M’ha stesa, m’ha stesa! Han dovuto pagare l’assicurazione e io per un po’ non mi son potuta muovere. Fermarono le riprese. E per forza, caro mio, io c’avevo tutta questa sciatica… Bisognava avere un terrore, e mi ricordo che Sutherland aveva una paura… F.D.M. Tu del resto tornavi alla tua terra d’origine, perché - non lo abbiamo detto abbastanza - la tua radice è emiliana, bolognese. L.B. Sì, e devo dire che mi sono divertita molto anche per quel motivo lì. Questi rientri, questo scoprire questa gente impunita, proprio tremenda perché, sai, allora erano ancora più reali di adesso: adesso mica più tanto. F.D.M. Questa della campagna era una realtà che tu avevi conosciuto durante l’adolescenza. L.B. Sì, ma non tanto, voglio dire che l’ho conosciuta più tardi nello scoprire che del mio carattere faceva parte questo essere - che mi è tornato poi con Teorema - cocciuta… F.D.M. Terragna. L.B. Sì, sì.

R.A. Cioè, ancora una volta l’occasione professionale, esistenziale ti svela qualcosa che ti appartiene intimamente. L.B. Sì, sì, sempre, sempre, è sempre stato così. Beh, io ho fatto, credo, settantotto film - adesso non mi ricordo più, e intendo ruoli grandi e ruoli piccoli, che per me sono la stessa cosa -, e in tutti i film, tranne una decina o forse meno, non mi è stato mai possibile optare per il mestiere puro e semplice e restare su quello. F.D.M. In Novecento tu tratteggiavi personaggio fascista molto fosco.

appunto

un

L.B. E quello m’è costata molta fatica. F.D.M. Per esempio, anche ne Il piccolo Archimede di Gianni Amelio fai questa signora sterile dell’alta borghesia toscana anni trenta: un’altra fosca figura, insomma… L.B. Questa però non mi è costata nessuna fatica, perché se tu cominci, non finisce più l’andare dentro di sé. Non finisce più, non si sa cosa ci trovi. Ci trovi molte cose, molto più di quello che immagini… ma poi fra il fascismo e il torbido passa una grossa differenza, per cui, veramente, per me era una fatica enorme entrare nella pelle di una vera fascista. R.A. E cosa ti chiedeva Bertolucci per questa fascista? L.B. No, sai, Bernardo non chiede niente, e in questo è anche la sua bellezza di regista. Perché lui ti dà una casa, ti dà una tua camera, dei tuoi vestiti, delle tue cose, e vuole che tu trovi te stessa - la fascista, in questo caso -, lì in questi elementi. Vuole che tu ritrovi te stessa in questo uomo che ti è stato destinato - e che era Sutherland, l’uomo fascista -, vuole che venga fuori da te. R.A. Bertolucci era più ‘dolce’ di Pasolini nel dirigere l’attore? F.D.M. Cioè: sul set Pasolini era più attivo rispetto a Bertolucci? L.B. No, Pier Paolo non ha mai detto niente per quello che riguarda una recitazione, una regia, mai, mai. Lui aveva necessità, come Bernardo ma in un altro modo, di veramente averti tutta intera, per quello che tu potevi dare. E lui aspettava

e, se non veniva, aspettava ancora che venisse questo uscir fuori da sé e darlo alla macchina da presa, perché la macchina da presa ha questa facoltà, enorme, di fotografare quello che uno è dentro. F.D.M. Rileggevo un articolo di Enzo Ungari su Novecento, quando uscì nel 1976, in cui lui teneva molto su questo film, che poi, secondo me, non ha avuto, anche a posteriori, la giusta valutazione: non pensi anche tu che Novecento fu un po’ uno spartiacque? L.B. Io penso che lo sia e penso anche che, però naturalmente non in Italia, perché in Italia… [qui canticchia “Faccetta nera”] la la la la la la… quando saremmo vicino a te… -, dall’estero vengano fuori “gli input”, per fortuna, e dunque qualcosa si riesce a capire. Per esempio, appunto, Novecento è un film che si ha avuto una lunga gestazione anche all’estero: non era accettato, ma adesso sì. R.A. Come ultimo “luogo della vita” di Laura Betti torniamo ancora una volta a Pasolini, filo rosso di questa conversazione, e precisamente a Chia, nella campagna viterbese: lì Pasolini si era innamorato di un castello, vi girò anche una scena del Vangelo… L.B. Sì, il Battesimo, credo. R.A. Cosa lo affascinava di questo paesaggio dove “azzurri gli Etruschi dormono”? L.B. Eh, capirai… proprio tutto il suo mondo. F.D.M. E tu lì ci andavi, Laura? L.B. Dopo, quando abbiamo dovuto ristrutturare, hai voglia se ci andavo: lui dava gli ordini che poi dovevo eseguire io, dovevo lasciare intatte tutte le pietre. F.D.M. Era una torre medioevale, no? L.B. Due erano. Guarda, è un castello meraviglioso, e lui ha preso tutto quello che era rimasto. Quello che era rimasto era di un’interezza stilistica, cioè c’era il grande quadrato, il cortile enorme e tutte le parti del cortile erano circondate dalle mura, da cui si vedeva anche il torrente…

F.D.M. Come si vede nel libro con le foto di Pedriali. L.B. Ma il fiumiciattolo stava sotto, capito? Poi c’erano due torri, una di fronte all’altra. In una delle torri lui dopo ha costruito la casa, dietro. Ma tutto questo badando bene di non offendere una sola pietra, il che era francamente un po’ noioso. F.D.M. C’è quel famoso intervento di Pasolini in cui… L.B. Quello era bellissimo… F.D.M. … in cui addita la distruzione di Orte a causa di alcuni palazzi che rompevano il profilo storico della città: Orte che è lì vicino. L.B. Non ha mai avuto torto. F.D.M. E lui applicava anche alla sua casa questa severità. L.B. Una severità che andava anche oltre, perché, appunto, i bagni sì! però tu ce dovevi anda’ dentro blindata, corazzata, perché non si poteva proprio toccare una sola pietra. Allora quando il tuo corpicciolo era bello nudo e tentavi di farti il bagno, ti pigliavi certe rocciate addosso che non era mica carino! Poi se veniva la mamma a dormire io dovevo andare di sopra, nella torre, e nella torre non c’era nessun bagno. “E che faccio la notte se me viene la pipì?, e che faccio io, me scaravento de sotto?”. Allora dico: peggio per te caro, se non vuoi che io vada in bagno… e prendevo dei bei vasi etruschi, meravigliosi, e poi facevo la mia pipì! R.A. Abbiamo aperto con il gabinetto in terrazza di via del Babuino e chiudiamo con i pitali etruschi a Chia. Grazie Laura Betti. Sì, mi sono divertita (intervista di Roberto Andreotti e Federico De Melis, 3 novembre 2002) in “Alias” n. 35, 4 settembre 2004.

Sul cinema di Pasolini 1961-1976 di Antonello Trombadori

I. Non ho ancora visto il film di P. P. Pasolini, Accattone, e non intendo anticipare un giudizio sul suo valore come opera d’arte. Non posso, tuttavia, tacere sul fatto che Accattone è fermo di censura da almeno due mesi e che, dopo lunghe trattative personali tra il produttore del film e il sottosegretario allo Spettacolo Helfer, la minaccia è quella di impedirne totalmente la presentazione sui nostri schermi e, di conseguenza, l’esportazione all’estero. Si pone qui una prima questione di principio e di metodo nella lotta per la libertà di circolazione delle opere cinematografiche. La difesa di questa libertà pare a me non debba essere da altro sollecitata che dal rispetto della legge e, ove la legge non soccorre, come nelle perduranti condizioni anticostituzionali della censura amministrativa nel nostro paese, da una lotta senza quartiere per l’attuazione del disposto costituzionale. Accade invece che, attorno ai divieti della censura amministrativa e attorno alle illegittime intromissioni di membri del governo e di esponenti dell’Azione cattolica in maniera cinematografica, si sviluppi, o meno, la denuncia ferma della cultura italiana e degli organismi professionali che più specificatamente hanno tratto col mondo del cinema, in base a particolari vedute ideologiche o estetiche o morali. È accaduto così che, dopo le impegnative lotte della cultura italiana in difesa della libertà di circolazione di film come Rocco e i suoi fratelli, La notte o I dolci inganni, nulla o quasi si sia fatto in favore della libertà di circolazione e della integrità di film come La ragazza in vetrina o Laura nuda. Gli argomenti che abbiamo sentito spendere a giustificazione della mancata protesta per casi simili sono varii: l’un film sarebbe non perfettamente riuscito,

l’altro sarebbe troppo spinto, ecc., ecc. Si scivola così, inavvertitamente, su di un terreno dove non più la libertà si difende ma una particolare tendenza o concezione del cinema, finendo, in sostanza, per dare un indiretto aiuto a chi, in forme rovesciate ma spesso analoghe, esercita faziosamente, strumentalmente e anticostituzionalmente la censura amministrativa. Il che solleva, oltre tutto, più d’un dubbio sulla opportunità, a volte ventilata, d’una autocensura che finirebbe per perdere ogni criterio di oggettività anch’essa. È per questi motivi che io non mi rallegro, almeno come hanno mostrato di rallegrarsi certi uomini di cinema e certi giornali, del recente intervento dell’avvocato Francesco Carnelutti a favore di Accattone. Non mi rallegro di questo intervento poiché esso è soltanto di parte, vale a dire è basato sulla convinzione dell’avvocato Carnelutti che il film di Pasolini in tanto ha diritto di circolare integralmente e liberamente in quanto è un film cristiano anzi cattolico. Staremmo freschi se si stabilisce una norma di questo tipo! Nessuno pretende di togliere all’avvocato Carnelutti il diritto di esprimere opinioni critiche, per quanto sballate possano essere, ma si pretende che egli, e chiunque altro sostiene di battersi in favore della libertà d’un film, avanzi prima di tutto delle ragioni oggettive e costituzionali. Ora l’oggettività e la costituzionalità democratica esigono unicamente che un film non incorra nel reato di oscenità previsto dal Codice penale, e non prescrivono affatto che non vi incorra grazie a una particolare concezione filosofica o religiosa. Non è grazie all’imprimatur d’una autorità religiosa o d’un autorevole giurista cattolico che occorre ottenere la rimozione dei dubbi d’un sottosegretario o la copertura burocratica e disciplinare d’un funzionario più o meno fascista o più o meno vigliacco e servile. È questo il motivo per il quale anni or sono noi avemmo un pubblica e salutare polemica con Federico Fellini a proposito di certi sotterranei interventi cardinalizi in favore della Dolce vita. Auguriamoci quindi non soltanto che la difesa della libera circolazione di Accattone venga sottratta a qualsiasi ipoteca ideologica, ma che gli organismi professionali competenti, e in primo luogo l’Associazione Nazionale Autori Cinematografici (ANAC), la facciano propria in nome della Costituzione italiana e dei diritti della espressione artistica. Che è il solo

modo per difendere la libertà d’un’opera d’arte senza vincolarsi a un precostituito giudizio di merito sulla sua ideologia e sul suo valore poetico. Detto questo, mi sembra tuttavia degna di commento la questione della cattolicità, della evangelicità, o più genericamente della cristianità del film di Pasolini e della intiera poetica di questo artista. Ripeto che non mi è possibile fornire un giudizio specifico sul risultato artistico di Accattone poiché non ho ancora assistito alla sua proiezione, ma non mi è difficile, anzi mi par giusto dire qualcosa sulla pretesa cattolicità della tematica pasoliana, conoscendo la sceneggiatura di Accattone e rifacendomi, in generale all’opera lirica e narrativa dell’autore di Una vita violenta. Tempo fa incontrai, dopo molti anni di mancata consuetudine, un vecchio amico di gioventù, uno scrittore assai noto e altrettanto noto scopritore di scrittori; il discorso cadde, tra l’altro, su Pasolini e sul suo film Accattone. Quel vecchio amico mi disse, come capita spesso a coloro che accettano con facilità la dissociazione tra la forma artistica e il contenuto ideologico delle opere d’arte, che il film di Pasolini era a suo avviso assai bello; immediato e forte il suo piglio poetico; appassionata la sua drammaticità, sincera la sua commozione, straordinaria la scelta dei tipi, la loro recitazione, ed evocato con potente realismo l’ambiente. Ma, ahimè, il film era cattolico, fin nel midollo, prigioniero cioè della alternativa tra perdizione e salvamento, di conseguenza reazionario per tutte le limitazioni di libertà che una simile alternativa finisce con l’imporre alla ricerca creativa riducendone l’ufficio al consolidamento della egemonia religiosa sul piano dell’arte e della concezione del mondo. Un film che, come tutta la letteratura di Pasolini, secondo il mio vecchio amico, narra soltanto di anime da mondare dal peccato, di decadimenti che nulla hanno di valido se non la necessità di essere fino in fondo compiuti perché si possa, poi, intravedere, a inevitabile contrasto, la prima luce del pentimento e della redenzione. Miope assai è la Chiesa cattolica, aggiungeva il mio vecchio amico, a non accorgersi di avere negli scrittori come Pasolini i suoi veri autori moderni e a respingerli invece come reprobi! Io sono convinto che egli avrebbe aggiunto (se non fosse stato

per il timore di turbare un incontro che aveva per noi anche il valore di riportarci ai tempi lontani delle prime battaglie critiche e della comune milizia antifascista): e miopi assai quei comunisti e quegli uomini di sinistra cui sfugge, per amore di contenuti grezzi, la sostanza antilaica, cattolica della letteratura di Pasolini! Ma questa è solo una parentesi. Per quanto riguarda le argomentazioni sulla cattolicità di Pasolini, non è chi non veda la somiglianza anzi l’identità, a fini opposti, delle argomentazioni dell’avvocato Francesco Carnelutti con quelle del mio vecchio amico. A parer mio la questione è mal posta, dalle due parti. Davvero dobbiamo ridurci al fatto che ogni problematica di riscatto morale è una problematica cattolica? E che ogni ripristino, ogni risarcimento morale della persona umana, attraverso la forza rigeneratrice della esperienza dolorosa e amorosa della vita, non abbiano scopo ed effetto diversi da quelli di distrarre gli uomini dal loro dovere di costruire una società laica e una cultura fatta di storia e di ragione? D’accordo che ogni problematica di riscatto morale, anche a lieto fine, anzi tanto più se a lieto fine, o se a fine edificante, è falsa, dannosa e reazionaria, ove essa riposi unicamente sull’alternativa cattolica tra peccato e grazia, in una dialettica che utilizza la denuncia sociale a fini puramente strumentali e, di conseguenza, con soluzioni paternalistiche. Ma ove questa problematica, come, malgrado il suo ingombro di incubi angosciosi, mi sembra essere in Pasolini, riposi invece sull’alternativa tra degradazione individuale, come prodotto non del peccato ma di una determinata struttura sociale e di una determinata cultura e riscatto, non come espiazione ed emendamento di colpe ma come rovesciamento del rapporto borghese tra individuo e società, la faccenda si mette in modo assai diverso. Quale sarebbe infatti l’inversa proposta? Quella di una laicità che pretende di superare e sconfiggere il tema del peccato in nome della negazione, tout court, di ogni problematica di riscatto sociale e individuale? In nome dell’annientamento di tutte le morali e, infine, del rifiuto estremo di ogni redenzione (leggi trasformazione) rivoluzionaria della società, accusando anche questa di paternalismo e di violenza conto il “libero”, esistenziale sviluppo degli individui? Finora non ce ne è stata fornita

alcun’altra. E, tanto per rimanere nell’ambito degli esempi cinematografici, è questo il motivo per il quale, fatti i debiti riconoscimenti alle loro contraddizioni poetiche, non mi convince la “laicità” di Antonioni e di certi registi della cosiddetta nouvelle vague. Lasciamo qui la questione. Apriamola al dibattito, alla critica e ai contributi di chiunque voglia intervenire per portare luce e chiarimenti. Desidero solo aggiungere qualcosa intorno alla importanza della frattura che, sia pure nei termini della problematica cattolica (ma come potrebbe essere altrimenti?), i film come Accattone producono nella compagine della cultura cattolica, non certo grazie alle querimonie carismatiche dell’avvocato Carnelutti, dalle quali mettiamo seriamente in guardia Pier Paolo Pasolini, ma grazie alla possibilità che esse aprono, per la prima volta nella cultura italiana, di far convergere l’attenzione degli artisti e dei lettori là dove è il vero nodo da sciogliere: diciamo alla confluenza dei problemi sociali con quelli morali, alla confluenza del problema della libertà con quello della emancipazione degli sfruttati e degli oppressi. E questa, vivaddio, non è tematica cattolica! Pasolini a mio avviso un contributo in questa direzione l’ha dato. E non indifferente. Pasolini e i cattolici, “Il Contemporaneo” n. 41, ottobre 1961

II. Roma è la città del cinema. Non soltanto perché a Roma risiede la maggioranza degli studi cinematografici, ma perché Roma stessa è il teatro della maggior parte dei film italiani. A pezzi e bocconi, le sue vie le sue piazze i suoi giardini e le sue fontane le sue chiese e cupole e campane i suoi poliziotti i suoi preti i suoi tassi le sue carrozzelle le sue osterie le sue prostitute le sue galere i suoi ospedali il suo fiume il suo mare le sue cloache le sue rovine, appaiono sul novanta per cento della pellicola impressionata in Italia. Ma Roma, la vera

Roma, col suo volto, ad un tempo sprezzante e conformista, vile e spaccone, con la sua convulsa problematica sociale e morale, viene fuori assai di rado. Due nuovi film riportano brandelli di vera Roma sullo schermo: Accattone di Pier Paolo Pasolini e L’oro di Roma di Carlo Lizzani. Si tratta della vera Roma, in primo luogo, perché la città è vista nella sua luce di sempre che è cupa, drammatica, direi disperata, sotto la coltre di un’apparente spensierata dissipazione; e, in secondo luogo, perché le vicende dei due film si collocano nel paesaggio in modo tale che da esso non possono in alcun modo essere separate. E il paesaggio stesso riceve dai fatti raccontati una animazione espressiva che lo sottolinea, lo deforma anche, lo esalta, lo fa parlare. L’oro di Roma narra la storia del ricatto che, nell’ottobre del 1943, i tedeschi imposero alla comunità ebraica: o versare cinquanta chili d’oro o subire la deportazione in massa. La drammatica vicenda fu affidata da Giacomo Debenedetti a una vivissima cronaca: 16 ottobre 1943. Ansano Giannarelli ne ha tratto un cortometraggio documentario di rara suggestività rievocativa. Era tempo che si arrivasse al vero e proprio film. Dico subito che l’opera di Lizzani soffre non poco della convenzionalità imposta allo sviluppo della sceneggiatura da un “scaletta” di tipo romanzesco nella quale spiccano bene i caratteri dei personaggi, non raggiungono piena e commovente persuasività i sentimenti che l’uno all’altro li legano. L’osservazione riguarda soprattutto la storia d’amore tra la giovane ebrea e il giovane cattolico. Ma in tutto il suo asse ideale e in tutta la sue ricostruzione documentaria, diciamo pure per il suo valore di inchiesta applicata al passato in cerca d’una risposta a interrogativi di bruciante attualità, il film risulta di livello non comune. Esso affronta la questione della persecuzione razziale sotto l’aspetto della rassegnazione con la quale la maggioranza degli ebrei la subirono e tenta acutamente di mettere in evidenza le ragioni. Il complesso d’inferiorità, il passivo orgoglio confessionale, la remissiva tesi della non violenza e della inevitabilità del pagamento dei tributi al potente, l’incomprensione della necessità di inserire la difesa delle proprie tradizioni nella lotta più generale per la

democrazia, l’illusione della forza risolutiva del denaro, il tentativo, insomma, di frenare la valanga dell’irrazionale nazista mediante la meschina razionalità del buon senso piccoloborghese, ecco i temi dell’ Oro di Roma. La forza del film consiste nel rapporto dialettico che gli autori, e principalmente il regista, sono riusciti a stabilire tra la spregiudicata requisitoria dei difetti degli ebrei e la condanna storica irrevocabile dei loro persecutori. In questo senso si deve dire che L’Oro di Roma riesce a trasferire la questione ebraica, da un lato sul piano del più universale rapporto tra rassegnazione degli oppressi e ordine costituito, dall’altro lato sul piano d’una rassegna di caratteri, di stati d’animo, di interessi, di sentimenti tipicamente condizionati dalla irritante e dolorosa ambiguità che loro deriva dalla città di Roma. L’orribile delitto del 16 ottobre 1943, vale a dire l’esazione dei cinquanta chili d’oro da una parte dei nazisti e la deportazione in massa del ghetto romano nei campi di sterminio tedeschi, avviene sotto gli occhi freddi e distratti della città. Né freddezza né distacco vi fu in quei giorni nei romani in quanto singoli cittadini. Ma freddezza e distacco, quando non complicità, dimostrarono le uniche forze costituite presenti: i fascisti e il Vaticano. Il film ricorda la servile viltà dei primi, la tardiva, diplomatica e clandestina offerta di aiuto della Chiesa cattolica. Su questo impianto Lizzani avrebbe potuto costruire una storia forse meno ricca di episodi e personaggi ma certo più severa e sorvegliata. Accattone si muove su tutt’altra linea di linguaggio, anche se non si può dire estranea a Pasolini la stessa tendenza propria di Lizzani, di pervenire attraverso vitali contatti con la realtà, a un giudizio ragionato di natura al tempo stesso morale e sociale. Pasolini non ha avuto, però, nessuna delle preoccupazioni “cinematografiche”, di sceneggiatura, di intreccio, di attori, che hanno irrigidito convenzionalmente L’Oro di Roma. Accattone è l’anticinema per eccellenza. In ciò risiede la sua forza e la sua debolezza. La forza si manifesta tutta nella appropriata naturalezza con cui Pasolini ha trasposto figurativamente le sue scoperte di scrittore. La debolezza si manifesta nella insufficienza espressiva e stilistica che, malgrado una ininterrotta presenza di ispirazione, il racconto cinematografico (vale a dire le

immagini in movimento) rivela rispetto al risultato già fissato da Pasolini sulla pagina scritta. Con Accattone Pasolini non ci ha dato un’opera nuova, bensì ci ha richiamati a un modo per leggere meglio i suoi libri e le sue poesie. Ha dato volto ai personaggi di Ragazzi di vita e di Una vita violenta, ha verificato il peso e la tensione del paesaggio romano, ha fornito una chiave per intendere meglio la portata conoscitiva del dialetto romanesco, spuria congerie non soltanto di barbarismi idiomatici ma di miseria culturale e morale, ha messo in evidenza, grazie a una scelta quanto mai felice dei tipi e dei luoghi, il senso della morte che incombe sulla vergogna sociale di Roma non meglio, ma certo con maggiore evidenza, di quanto non sia nei suoi libri o nei suoi poemi; ma non è andato oltre. Si paragoni il finale di Una vita violenta (… tossì, tossì, senza più rifiatare e addio Tommaso), col finale di Accattone che muore a cavalcioni di una motocicletta rubata per sfuggire alla polizia, fracassandosi contro la spalletta del Tevere (…ah, mò si che sto bene…). Non si potrà che optare per la forza espressiva della prima morte. Non soltanto perché là le parole hanno una insostituibile forza di gravità e la mozzatura della frase (che è il respiro mozzato dello scrittore stesso sul corpo inerte del suo personaggio) si pone come una vera e propria cessazione di vita, ma perché, qui, nella versione filmata, la scena non evade i limiti documentaristici e perde ogni dolorosa solennità. Vi è tuttavia in Accattone, assieme alla stridente bellezza che Pasolini ha saputo scavare con la macchina da presa dallo squallore amaro e spudorato della disgregazione romana (sia nel paesaggio delle borgate che nella cupa bizzarria e ottusità dei personaggi), una testimonianza più approfondita della pietà e della rabbia che lo scrittore soffre, desumendole dall’animo stesso dei personaggi di cui si occupa e delle quali a mio avviso non gli si darà mai abbastanza atto. Nella pagina scritta, talvolta pietà e rabbia sembrano essere smussate dal compiacimento che le parole stesse rendono d’obbligo. Qui, nell’immgine filmata, la laconicità e la sintesi visiva hanno permesso a Pasolini, proprio al contrario dei registi che finora a lui si sono ispirati, di ridurre al minimo ogni cesellatura descrittiva e di arrivare all’osso del suo tema poetico fondamentale: la insopportabilità della condizione

sottoproletaria e la necessità di rimuovere le cause; la scuoiatura di tale condizione fino a mostrarne le radici nella ingiusta divisione classista della società e nell’ipocrita paternalismo della cultura dominante. Pasolini-Lizzani: Roma dissipata e tragica, “Vie Nuove”, 30 novembe 1961 III. Mamma Roma è un personaggio inedito. Pasolini non lo ha trasferito sullo schermo dalle pagine dei suoi libri come aveva fatto, più o meno, con i personaggi di Accattone. Questo è uno dei motivi per i quali Mamma Roma è, a mio avviso, un film più costruito, più ricco e, in ultima analisi, più bello di quello che lo ha preceduto nell’opera dello scrittore-regista. Ma non è soltanto il personaggio, ovviamente, ad essere inedito e nuovo. Rispetto alla precedente tematica sentimentale di Pasolini, anche il sentimento base di Mamma Roma è nuovo. Inquadrato nella medesima prospettiva ideologica di tutta la ricerca realistica dell’autore di Ragazzi di vita e di Una vita violenta, il personaggio di Mamma Rosa spezza tuttavia quello schema e, se così si può dire, ci porta a esplorare il noto paesaggio pasoliniano della disgregazione sociale sottoproletaria come da un periscopio collocato nel punto più oscuro e più intimo di un essere umano grande e generoso, e, al tempo stesso, devastato e inaridito dalle condizioni sociali e culturali che lo determinano. Di qui lo stile stesso del film: tutto condotto sul filo del sentimento dell’amor materno, purissimo e sincero, inesorabilmente spezzato, però, da improvvisi schianti, da laceranti aggressioni, da cadute che lo infangano, non gli consentono di affermarsi liberamente, lo rendono disperato e tragico. Alle sequenze e alle identificazioni fisionomiche più descrittive e naturalistiche si alternano pertanto, senza mai risultare giustapposti meccanicamente, voli poetici e invenzioni figurative e ritmiche la cui gentilezza tanto più ferisce l’animo quanto più

si enuclea dalla scorza brutale e cinica e stolta del quotidiano immobilismo d’una certa condizione di vita. Non ricordo chi parlò di “caravaggismo” a proposito dello stile e del cipiglio narrativo di Accattone. A maggior ragione tale riferimento è valido per Mamma Roma dove l’alternarsi del gran lume oggettivo delle cose al buio profondo che le attornia (non si sa se per dominarle o per dar loro maggiore energia vitale) non viene in prevalenza da ragioni formali ma è sostanza stessa della dialettica espressiva dell’opera. E “caravaggesco” è qui, persino nei tratti somatici, così simili a quelli del giallo “bacchino”, malato d’itterizia, della Galleria Borghese, il protagonista maschile. Un Ettore Garofalo, preso, come si dice, dalla vita, la cui interpretazione rimarrà certo memorabile sia per il rapporto con la regia del film che per la consanguineità dei movimenti dinoccolati, delle dizioni quasi spente e appannate, degli sguardi perduti nel vuoto o inutilmente, raramente felici, con la somma delle qualità espressive di tutti i precedenti ragazzi di vita pasoliniani, aggiuntovi l’inedito, anche tipologico, che questo possiede rispetto agli altri. Mamma Roma è una prostituta da strada. Ha un figlio alle soglie della prima giovinezza. Come tutti i figli delle prostitute che non dimenticano di essere madri esso vive in campagna presso dei contadini che per quattro soldi lo hanno tenuto a pensione. Radunato un certo gruzzolo e ottenuta una licenza per un banco da fruttivendola al mercato, Mamma Roma è anche riuscita a persuadere il suo protettore (o magnaccia) a trovarsi una moglie per vivere alle sue spalle, in campagna, non lontano da Roma. Potrà così smettere di battere e potrà richiamare con sé il figlio per dargli un avvenire e per riscaldare se stessa al solo calore umano pulito che ha conosciuto nella vita. Ma due limiti invalicabili dividono Mamma Roma dall’obbiettivo che si è prefisso. Riesce, sì, a portare a Roma suo figlio, a dargli una casa decente in uno dei grandi casermoni di cemento armato della città che cresce, ma le mancano gli strumenti essenziali per trasformare il suo istinto e il suo sentimento materno in quella che si chiama la costruzione d’una realtà familiare; e, d’altro canto, puntuale

come la morte riappare di tanto in tanto alle sue spalle il ricatto del protettore liquidato che chiede soldi e la spinge nell’unica direzione dove per lei è possibile trovarli: sul marciapiede. È così che Ettore, il figlio, per il quale Mamma Roma è stata soltanto capace di trovare un posto di cameriere in cui, del resto, farà deliberato fallimento, vive la breve stagione d’un amor materno che sarà, assieme alla rivelazione bruciante del doppio mestiere di sua madre, prologo di una miserabile fine. D’un lasciarsi morire. Educato da Mamma Roma, che lo colma di tutti i doni possibili, a identificare la vita col denaro e ad amare il denaro ottenuto senza lavoro, Ettore imbocca la via del più squallido vuoto spirituale. E contestualmente educato, da un’altra più grande, smisurata e cinica Mamma Roma, la città stessa in quel punto di inesplorata disgregazione che sono i suoi nuovi quartieri dormitorio (perché mai i cronisti cinematografici si ostinano a parlare di “borgate”. Oculos habent et non vident.) a scambiare la vita per un continuo galleggiare tra la furberia e la menzogna, finirà per incontrare la morte sul letto di contenzione del carcere minorile di Porta Portese dove si trova, quasi senza saper come, per aver partecipato a uno stupido quanto miserabile furto in un ospedale. Mi astengo dal riferire le vicende, l’intreccio di personaggi, minori ma non meno evidenti, e di stati d’animo, di ambienti e di caratterizzazioni dialogiche, che danno carne allo scheletro qui riassunto. Nulla di tutto ciò che Pasolini racconta in Mamma Roma è estraneo alla realtà, direi alla cronaca quotidiana della capitale d’Italia, ma il film evade, nel suo complesso, dai limiti del racconto veristico, è lontano le mille miglia dalla casualità fotografica del film inchiesta, e, senza mai assumere il fastidioso tono del simbolismo moralistico, riesce a toccare, al livello più basso di una cultura e di una condizione psicologica e sociale il punto più alto del rapporto che unisce universalmente l’esistenza complessa e complicata di una madre e di un figlio. Nei libri di Pasolini i personaggi delle madri sono appena sfiorati, simili quasi alle ombre agitate dei commensali anonimi del banchetto di Don Rodrigo. In Ragazzi di vita la madre del Riccetto, Adele, si ricorda solo per certi suoi urli

sgraziati e insofferenti, “seduta su una seggioietta spagliata, sdraiata, col giornale che le era caduto sui piedi, e il sedere che le si spampanava da tutte le parti; la madre di Alduccio appare anch’essa rapidamente “scapigliata, mezza ignuda, con le zinne tutte sudate che quasi le uscivano dalla veste aperta”; la madre di Genesio, di Borgo Antico e di Mariuccio è ferma, tra poche righe stampate, a piangere “prima perché s’era accorta che i figli col loro cagnoletto a casa non c’erano più, poi perché si era vista arrivare in casa i carabinieri che li cercavano”. In Una vita violenta, la madre di Tommasino, la sora Maria, pur nel suo dolorante emergere dal fondo del libro, passa due volte impastata quasi con la morte dei figli: di Tito e Toto prima, poi dello stesso protagonista al quale sa dire soltanto: “Sì, sì, statte bono!” prima di voltarsi e risortire “quasi correndo, coprendosi la faccia con le mani”, per andare in cerca d’un dottore. Mamma Roma non è legata che per filamenti molto secondari, a queste matrici. Occorrerà, piuttosto, rifarsi a taluni umanissimi versi sull’amor materno frequenti nell’opera poetica di Pasolini. Ma, a mio avviso le sue più pertinenti premesse letterarie occorre cercarle, molto meno che nelle figure di madri emergenti di tanto in tanto dai Sonetti di Gioachino Belli (e parentele ve ne sono, pensate alla Madre der ladro). In Giovanni Verga, primo moderno interprete della realtà sottoproletaria e contadina. In Diodata, prima di tutto, la serva resa madre da Mastro Don Gesualdo, con i suoi occhi di cagna mansueta e con la sua fiera beltà domata e avvilita. Poi nella Lupa, con la sua forza non domabile, eppure vanamente, disperatamente dispersa e assorbita oltre gli argini della vita. A questo personaggio, costruito sullo stesso conflitto tra il possibile naturale e il veto sociale (della società borghese) che è alla base di tutta l’ispirazione rivoluzionaria di Pier Paolo Pasolini (con buona pace di coloro che lo accusano di populismo e di romanticismo deamicisiano) Anna Magnani ha dato anima, corpo, e quel che più conta, ritmo interiore cangiante e incessante, pur nella completa quasi ebete immobilità che ne è la condizione di fondo. Una interpretazione difficile, calibrata fra l’illuminazione istintiva e il calcolo ragionato, nella quali taluni rarissimi surrogati di

mestiere aggiungono semmai, validità creativa al compito assolto con tanta ricchezza di mezzi e intima adesione spirituale. I paragoni sono a questo punto inevitabili, del resto sono utili alla giusta comprensione di tutto il film. Mamma Roma è per la recitazione della protagonista e per la complessità della costruzione psicologica e narrativa, ciò che non sono stati né il romanzo, né la regia, né l’interpretazione della Ciociara. Là, pur nella castigata e interiorizzante fatica di De Sica e Zavattini, trionfano la convenzionalità e l’effetto descrittivo; qui prida e preme un incontenibile eppur controllatissimo bisogno di espressione, di verità. Non è soltanto il cinema, a mio avviso, ad essersi arricchito di un’opera assolutamente nuova; non è soltanto il rapporto cinema-letteratura ad aver trovato una conferma validissima; ma è il realismo come tendenza ad aver fatto un passo avanti, allargando, su un tema antichissimo e non perituro, i limiti della nostra conoscenza. Mamma Roma disperata e tragica, “Vie Nuove”, 6 settembre 1962

IV. La Ricotta è stata sequestrata. Manco a dirsi, l’episodio girato da Pier Paolo Pasolini accanto a quelli di Rossellini, Godard e Gregoretti, per il film Rogopag, è il più serio e il più bello di tutti. Sono sicuro che se il magistrato che ne ha ordinato il fermo si fosse consultato prima con Giovanni XXIII, il Papa lo avrebbe sconsigliato dal procedere. Il magistrato invece ha preferito dar retta al velenoso attacco scritto sul giornale “Il Tempo” contro l’episodio di Pasolini dal critico clericale, baciapile e battipetto, Gian Luigi Rondi. È noto però, che, come ai tempi di Platone “molti erano coloro che portavano il tirso e pochi gli iniziati”. E ai tempi di Gesù Cristo “molti i chiamati e pochi gli eletti”, così ai tempi di

Giovanni XXIII, moltissimi sono i cattolici che hanno gli occhi cuciti con lo spago dell’ipocrisia e pochi ahimè, quelli che, soprattutto fra i letterati, gli adulatori del potere, i reggicoda (o caudatarii) dell’autorità, intendono aprire gli occhi alla verità e alla vita. Certo, Pasolini ha fatto male a far precedere il film da quella specie di dichiarazione di innocenza nella quale egli avverte il pubblico che nella Ricotta non ha affatto inteso offendere le sacre scritture e che anzi ritiene quei passi di esse che si riferiscono alla passione di Cristo tra le rotture più edificanti e più belle della storia del mondo. Ha fatto male, perché questo sentimento suo traspare fin troppo da tutto il film; e, soprattutto, ha fatto male perché egli non aveva bisogno di correggere, con una dichiarazione di rispetto, nessuna delle buone intenzioni, sociali, e morali, e politiche, che costituiscono la premessa della Ricotta e che gli hanno dato modo di toccare, con la consueta poesia e umanità, momenti altissimi di commozione e momenti acuti di intelligenza e di anticonformismo. Semmai, Pasolini, avrebbe dovuto ricordare che l’episodio da lui elaborato per lo schermo è accaduto paro paro nella realtà, in quella squallida e blasfema e puteolente realtà, ai margini tra il cinema, l’industria, l’affarismo e la mondanità, che è così tipica della Roma democristiana degli anni ’60. Infatti un generico di Cinecittà, una comparsa, morì sulla croce di uno dei tanti grossolani film biblici, che i magistrati si guardano bene dal sequestrare e che i Rondi si guardano bene dal denunciare, così come il protagonista della Ricotta, Stracci, muore sulla croce alla sinistra di Cristo, che, come è noto, è la croce del buon ladrone. Di fame e di indigestione al tempo stesso. Partendo da questa sollecitazione Pasolini ha ricostruito un racconto esemplare degno, a mio avviso, sul piano narrativo, della penna di un Cervantes. Persino l’animazione a colori della celebre Deposizione del Pontormo, dettagliata al tempo stesso con lo spirito del fumetto e con l’interesse del critico d’arte, che ha capito fino in fondo tutto l’estetismo e tutta l’umanità di quel celebre quadro, riesce, in virtù della semplicità con la quale Pasolini intrattiene lo spettatore, a non produrre alcun disturbo di tipo intellettualistico.

Io personalmente non amo, né sul piano dell’argomentazione politica, né sul piano della elaborazione ideale, il ricorso ai paragoni strumentali fra le parole del cristianesimo e l’uso distorto che di determinati principi e miti cristiani fanno i ricchi e i potenti della società capitalistica e borghese. Non amo questo ricorso perché in esso c’è qualcosa di vecchio e di facile e forse anche di errato e di non solidale critico e persuasivo. Devo però ricordare che molti tra i poeti e gli scrittori e i pittori rivoluzionari dell’epoca moderna si sono serviti di un tale ricorso. Si pensi a Blok e alla sua poesia I dodici, si pensi a Grosz e al suo Cristo con la maschera antigas, si pensi a Ensor e alla sua Entrata di Cristo in Bruxelles. Devo ricordare che un simile ricorso costituì una delle chiavi attraverso le quali è stata costruita in Italia quella primitiva coscienza socialista dei contadini e degli operai, la quale, per quanto criticabile e piena di debolezze, è pur sempre un momento della cultura delle masse popolari del nostro Paese. Non per nulla il bracciante e grande dirigente rivoluzionario Giuseppe Di Vittorio amava farsene partecipe e servirsene per parlare, come lui sapeva, agli umili, ai diseredati e agli sfruttati. È in questa direzione che si è mosso Pasolini ed è questo il vero motivo del sequestro della Ricotta. Il resto di Rogopag, salvo la graziosa e mordente satira della civiltà dei consumi realizzata da Gregoretti col dentino avvelenato contro i teorici del miracolo economico, è troppo poco per meritare un discorso. Perché è diventato “Rogog”, “Vie Nuove”, 7 marzo 1963

V. Davanti al Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini la critica militante, senza eccezione alcuna, sia di parte laico-

borghese sia di parte cattolica e di parte marxista, ha fatto un po’ come Ponzio Pilato. S’è lavata le mani dei problemi più scabrosi, pur convenendo che, come quello di Cristo, l’animo del poeta-regista è l’animo di un “giusto”. Vi è certo la scusante della fretta con la quale i corrispondenti da Venezia debbono render conto ai loro lettori: ma questa fretta non basta a spiegare la più o meno relativa sospensione di giudizio che accomuna tutti gli articoli dedicati ai film in questione. Il che rileva un fondamentale imbarazzo di ordine ideologico e morale che non è di questo o quel critico, ma della cultura italiana nel suo complesso quando si tratta di misurarsi con opere d’arte le quali affrontino in termini non tradizionali la grande questione - grande e complessa soprattutto per noi italiani - del punto d’incontro e di scontro della coscienza laica e della coscienza religiosa rispetto ai valori del messaggio evangelico cristiano. Verrebbe anche a me la tentazione di seguire l’esempio dei miei colleghi associando il mio giudizio soprattutto a quello di coloro, non importa se cattolici o non cattolici, che molto opportunamente hanno posto in luce la straordinaria qualità figurativa del film di Pasolini; la sua limpida sintesi di mito e di realtà nel quadro d’una ambientazione della vita di Cristo al livello del nostro Mezzogiorno più contadino e sottoproletario - quello stesso Mezzogiorno che Carlo Levi dipinge nel suo quadro “Matera come Gerusalemme” e nel suo libro famoso prima che Cristo, vale a dire la moderna civiltà, avesse varcato i confini di Eboli, e che ancora in tanta parte è rimasto tale, quasi fosse India, Algeria, Congo o Perù - ; la sua accentuazione dei lati umani e battaglieri, quasi fanatici, di Cristo con il conseguente rilievo conferito all’umano dolore disperato e alla placata umana speranza di sua madre Maria davanti alla morte e davanti alla notizia della resurrezione, e così via. Ma confesso che tutte le riflessioni e tutte le emozioni, tutti i consensi e tutti i dissensi che su questo piano è possibile ricavare e stabilire con l’opera di Pasolini, mi lasciano insoddisfatto rispetto al quesito fondamentale, che non è come potrebbe sembrare, estraneo alla lettura e alla valutazione estetica di questo film, ma, al contrario, è pregiudiziale ad esse, se è vero che la condizione prima d’una opera d’arte è la totale “sincerità” del suo autore. Siamo da troppo tempo edotti del fatto che i temi evangelici e

in generale i temi della coscienza religiosa hanno ben distorti riflessi nell’arte moderna. La “sincerità” degli autori che a tali temi si sono accostati è ben difficilmente riscontrabile, infatti, sia in quelli tra loro che si appagano dell’imprimatur degli interpreti autorizzati delle Sacre Scritture (tra l’altro il Vangelo secondo Matteo così come Pasolini lo ha tradotto in immagini ci da una bella rinfrescata sul nessun conto che Cristo faceva dalla Chiesa organizzata), sia in quelli tra loro che muovendo da questioni interne alla disputa sulla interpretazione delle Sacre Scritture traducono in chiave ereticale (dall’uno o dall’altro punto di vista) la problematica religiosa in generale e quella evangelico-cristiana in particolare. È singolare osservare come scrittori o pittori o registi che appartengono all’una o all’altra di queste due categorie sono piuttosto interessanti a volgere in chiave apologetica o misticodecadente, a seconda dei casi, una materia nella quale la “sincerità” deve, invece, misurarsi, su tutt’altro terreno: il terreno della storia. Ora potrebbe apparire un segno di incrinatura della propria consapevolezza storica il fatto che Pasolini abbia sentito il bisogno di sottoporre al vaglio dei sacerdoti e teologi cattolici il testo da lui elaborato per il film sul Vangelo secondo Matteo e, quindi, di una sua non totale “sincerità”. Ma non credo che le cose stiano così. Pasolini ha tentato di intridere la materia del suo film di un nuovo tipo di consapevolezza storica. Se egli avesse voluto muoversi soltanto sulla linea classica del materialismo storico rispetto al problema del Cristianesimo non gli sarebbero mancati i suggerimenti più autorevoli (si rilegga, ad esempio, quello stupendo passo di Federico Engels nell’ Introduzione alla prima ristampa delle Lotte di classe in Francia di Carlo Marx, laddove con epica immagine si stabilisce il valore “sovversivo” del messaggio evangelico contro tutte le basi dell’autorità religiosa e statale); né gli sarebbe mancata la suggestione poetica di quel Gesù che “in una bianca ghirlanda di rose” procede alleato e fratello e guida alla testa dei dodici apostoli bolscevichi nel famoso poemetto scritto da Alessandro Blok in una notte del 1917. Ma Pasolini ha cercato, e non poteva essere diversamente per un poeta sensibile all’esperienza viva della lotta dei

comunisti italiani in questi venti anni di integrare la dimensione classica della consapevolezza storica del Cristianesimo con la dimensione attuale moderna che esso trova o come deliberata scelta o come irrazionale sedimento culturale nelle grandi masse del popolo. Nel giusto tentativo di immergersi in questa seconda dimensione (e qualcosa di simile aveva tentato di fare anche Guttuso con la sua “blasfema” Crocifissione degli anni ’40) va collocato anche il ”sincero” colloquio stabilito da Pasolini con alcuni di loro che, a torto o a ragione, si ritengono gli interpreti patentati delle Sacre Scritture. Guttuso negli anni ’40 non trovò sacerdoti né laici cattolici altrettanto scaltriti e disponibili, Pasolini sì. Segno i tempi camminano e che soprattutto cammina, facendo sentire il suo peso, il processo autonomo delle masse popolari nell’unificare di fatto la loro fede religiosa, ove essa sussiste, e il loro diritto a rivendicare la “sovversione dell’ordine sociale imposto dei moderni sinedri e dai moderni farisei. Con grande chiarezza e con grande coraggio Pasolini ha esposto i termini della sua “sincerità” davanti al grande e complesso tema del Vangelo secondo Matteo. In una lettera al dottor Lucio S. Caruso della Pro Civitate Christiana di Assisi egli ha scritto: “In parole molto semplici e povere: io non credo che Cristo sia figlio di Dio, perché non sono credente almeno nella coscienza”. In una lettera al produttore del film egli ha spiegato poi che cosa vuol dire per lui non essere “credente, almeno nella coscienza”. Ha scritto che fuori della coscienza, vale a dire nel suo subcosciente di italiano, insomma nel suo irrazionale, vive un’idea poetica e affettiva di Cristo e del suo messaggio (io vorrei qui ricordare i segni della croce fatti da migliaia di lavoratori davanti alla bara di Togliatti), e che di conseguenza, proprio per il Pasolini “che per tutti gli anni cinquanta ha lavorato in polemica con l’irrazionalismo della letteratura decadente, l’idea di fare un film sul Vangelo è, invece, frutto di una furiosa ondata irrazionalistica”. Ha detto infine a chiare note che il suo film è un’opera “epico-lirica, in chiave nazionale-popolare secondo gli insegnamenti gramsciani”.

La contraddizione tra questi diversi punti di partenza è palese, ma il fatto che essa esista non rivela, come potrebbero facilmente stabilire degli spiriti superficiali, una contraddizione oggettiva nel pensiero di Pasolini. Al contrario, nell’aver colto ciò che di essenziale deve essere posto in luce per accostarsi oggi, secondo una coscienza storica più vasta, al complesso problema umano e spirituale dell’eredità cristiana, Pasolini ha compiuto il passo indispensabile al conseguimento di quella “sincerità” che sta alla base del suo film. Mi scuseranno i lettori se lo spazio non mi consente di mettere in evidenza tutte le debolezze e tutti i pregi che il Vangelo secondo Matteo rivela malgrado e grazie a tal tipo di “sincerità”. Mi premeva porre l’accento su quanto il film di Pasolini porta avanti sul terreno delle idee. Non so se per la via intrapresa egli se ne andrà verso quella che qualcuno ha chiamato una clamorosa conversione o se continuerà a rodersi nei suoi dubbi. Quello che egli ci consegna con questo suo “intervento” nel dialogo tra marxisti e cattolici è ciò che conta. Sarebbe bene che egli non abbandonasse la via intrapresa e che anche i suoi amici cattolici accettassero questa come la vera base di un proficuo discorso. Passione e ragione secondo Matteo, “Vie Nuove”, 10 settembre 1964

VI. “Dove va il mondo? Boh…!” - Mao Tse-tung. Con questa epigrafe satirica ma agghiacciante ha inizio il film di Pasolini Uccellacci e Uccellini. L’attribuzione forzata di una simile frase al capo della rivoluzione cinese, contiene già tutto intiero il senso dello stile e del contenuto della più recente fatica cinematografica del poeta-regista. Uno stile che egli ha felicemente chiamato “ideocomico”, un contenuto che sembra come nutrito di quella proposizione di Engels nella quale è detto “Tutto ciò che esiste è degno di perire”. Invano però si

cercherà in Uccellacci e Uccellini quell’atteggiamento “rabbioso” o, all’occorrenza, flebilmente evasivo che da tante parti ci viene proposto come la sola alternativa possibile alla confusione attuale. Al contrario, il piglio del film di Pasolini è quello della certezza. Di due cose fondamentali Uccellacci e Uccellini vuole renderci socraticamente edotti: che non sappiamo e che non dobbiamo sapere. Pasolini perciò, ad onta del dato di partenza che sembrerebbe consigliare soluzioni unicamente irrazionaliste (nel momento in cui tace la ragione il solo rimedio è quello di abbandonarsi nelle braccia dei mostri), rimanere radicalmente e, si vorrebbe dire, ostinatamente, sul terreno dell’analisi dialettica, del ricorso alle armi della critica, insomma, della constatazione che quando insorge un conflitto fra la realtà e l’ideologia quel che occorre non è di far luogo a un qualsiasi pragmatismo ma di ritessere, al lume dei fatti, l’ideologia stessa. Che è quanto dire: distruggere la ideologia come falsa coscienza e fondare una nuova autentica coscienza della realtà. Non va oltre la segnalazione di tale stato di cose il film di Pasolini. Ma questa stessa segnalazione è già un modo di servirsi del dubbio per cessare di dubitare e per muovere verso la ricerca e l’azione. La vicenda, se di vicenda si può parlare, è collocata, come in una favola esopica o in un’operetta morale leopardiana o in un racconto gnomico alla Voltaire, fra il dato più grezzo della cronaca e il volo più elaborato dell’immaginazione. Cronaca e immaginazione si cibano reciprocamente di se stesse in modo tale che ogni situazione, ogni personaggio, ogni squarcio di ambiente e di paesaggio sembrano continuamente spostarsi sotto i nostri occhi dal fuoco di una meravigliosa lente di ingrandimento: ora, perciò, essi ci appaiono nelle loro dimensioni naturali, e si immiseriscono persino, ora assumon o lo spessore, il gesto e la nobile area levità di veri e propri simboli storici. Un padre e un figlio sottoproletari, ricettacoli di tutti i luoghi comuni e di tutte le ragioni perché ogni miseria culturale sia loro perdonata, si imbattono, durante un pellegrinaggio senza meta, in un corvo parlante. Si vedrà poi che quel pellegrinaggio, in una regione che risulta da un misto arcaico di periferia romana e di italici luoghi medioevali, è soltanto in apparenza senza meta. Pasolini è passato dallo

spazio al tempo. La meta che non esiste nel viaggio dei protagonisti, un grande Totò, un eccellente Ninetto Davoli e, naturalmente, il corvo ammaestrato, (poiché ogni luogo del film è punto di partenza e punto di arrivo) vediamo invece configurarcela ben netta ad un altro livello: quello della storia. Un’epoca è finita, occorre prenderne atto. Ma non è finito il tessuto storico- sociale-spirituale di un ben più lungo periodo: quello della lotta di classe. Per quanti sforzi si siano fatti di mistificare questa verità fino al punto di illudersi che gli “uccellini” (i passeri) e gli “uccellacci” (i falchi) fossero riducibili ad un unico comun denominatore amoroso, rimane ancora agli uomini da risolvere questa fondamentale contraddizione sul cammino della loro libertà. Il corvo parlante “figlio del dubbio e della coscienza” è nel film il ritratto patetico di tutto ciò che è finito. Eppure sui resti delle sue pene e delle sue ossa dopo il misero festino del quale egli cadrà vittima per la fame dei suoi compagni di viaggio, viene da ricordare, sempre in chiave comica, ma non tanto, l’orazione di Marcantonio alla memoria di Cesare. Un corvo ideologo finisce mangiato, “Vie Nuove”, 19 maggio 1966

VII. Il rapporto fra madre e figlio è dominante nell’opera di Pasolini. Persino là dove, come in Una vita violenta e in Ragazzi di vita, la figura della madre è lontana, quasi in penombra, essa finisce col trarre risalto dalla definizione stessa degli eroi maschili: questi figli del sottoproletariato romano le cui apparenti capacità di violenza e di aggressione sono in realtà la maschera d’una timidezza, d’una vaghezza e d’una viltà quasi femminili, di uomini non ancora svezzati al seno materno. Prigionieri, come dice la psicanalisi, ma come più anticamente dissero la mitologia e la tragedia greca, del “complesso di Edipo”. Nel film Mamma Roma, poi, ancor più

che nei suoi romanzi, Pasolini ha tracciato del rapporto non risolto fra madre e figlio, a livello d’una umanità subalterna e corrotta, il noto possente ritratto che tutti conoscono. Con Edipo Re, presentato al recente Festival di Venezia, l’antico mito ha formato ancora una volta oggetto della ricerca di Pasolini nel modo apparentemente più diretto, col palese e dichiarato richiamo all’opera di Sofocle, ma in realtà proprio questa volta dallo schema del “complesso di Edipo” e dalla ricostruzione dell’inconsapevole accoppiamento con la madre e dell’uccisione del padre, Pasolini si è mosso per raccontare qualcosa che va oltre, che tocca altri problemi, persino indipendentemente da ciò che costituisce il filo conduttore della vicenda. Vi è in questo film che unifica preistoria e storia, continenti e luoghi diversi, realtà e sogno, prima di ogni altra cosa il tentativo di partire dal dramma sofocleo (la scoperta terribile della verità) muovendosi all’indietro verso le sue premesse anziché verso le sue conclusioni: verso l’uomo, cioè, in quanto tale e molto meno verso concetti di valore generale. Di qui la incertezza e contraddizione anche stilistica del film, di qui il suo sapore di libro di appunti e di ipotesi, alla ricerca, forse, in una prossima opera (romanzo, poema, film?) di quella aggressività ideologica che l’autore ha perduto. Verso l’uomo, “Vie Nuove”, 21 settembre 1967

VIII Quando Pier Paolo Pasolini annunciò che per realizzare sullo schermo la storia antichissima di Medea aveva scelto la più grande soprano che sia apparsa alla ribalta del teatro lirico dopo la folgorante apparizione di Maria Malibran, più d’un secolo fa, Maria Callas, c’era più d’un motivo per supporre che dal volto greco della Callas e dal suo personaggio divenuto già favoloso per quell’insieme di alterigia e di dolore

che si porta addosso quasi con rabbia, lo scrittore-regista avesse ricevuto l’incentivo intellettuale e l’emozione umana necessarie per esprimersi. Ma bastano le prime immagini, le prime luci e le prime battute del film da lui realizzato per comprendere che purtroppo non è stato così. La Callas c’è nel film di Pasolini; il groviglio di sentimenti e di sconvolgimenti, anche di natura erotica, che dal personaggio della Callas si poteva arguire che Pasolini avrebbe tratto, non c’è. Anzi non ce n’è nemmeno l’eco. Ad ogni apparizione della Callas nel corso della corso della rievocata storia di Medea ci si domanda: “Che accadrà ora? Come esploderà l’enigma del volto greco della virtuosa che non canta più? Come farà danzare la Callas, Pasolini, sul filo di lama tagliente e mortale dell’antico mito di sangue e di odio?”. E tutte le domande, tutte le attese andranno regolarmente deluse. Provatevi a togliere dall’Edipo re di Pasolini la Giocasta impersonata quasi tremando di vita da Silvana Mangano, provatevi a togliere da Mamma Roma Anna Magnani, o da Uccellini e Uccellacci Totò: quei film egregi e grondanti di invenzione poetica e di nerbo ideologico, cadranno come afflosciati su se stessi. La Mangano, la Magnani, Totò, avevano fatto parte dell’accomulazione creativa di Pasolini prima che egli girasse quei film e ancora mentre, improvvisando, li girava. Davanti a Pasolini invece la Callas è rimasta inerte davanti alla macchina da presa, obbediente, ella, alle direttive dell’autore. È forse questo il motivo principale per cui la Medea di Pasolini più che arricchire d’una nuova prospettiva il grande tema della rivisitazione del mondo antico che da tempo e prima di altri l’autore delle Ceneri di Gramsci aveva proposto, risulta soltanto una riedizione delle prospettive già scoperte e sdipanate con l’inevitabile approdo, essendo rimasti fermi gli stimoli ideologici, a un manierismo dello stile, a volte assai elevato e in sé sorprendente ma sempre manierismo, vale a dire ricalco mentale di cose già viste, già dette, già ingoiate e

digerite, fino alla esasperazione e anche fino al gusto decadente di quel sottile veleno che è la noia. Questa potrebbe essere forse una chiave per avvistare ed intendere la nuova svolta psichica ed estetica di Pasolini, ma non è sicuramente il modo con il quale avrebbe dovuto essere realizzato, dopo Il Vangelo secondo Matteo e dopo l’Edipo Re, il terzo momento di quella rivisitazione del mondo antico di cui s’è detto. Proprio ricimentandosi con la tragedia greca che ha sempre voluto il numero tre come il numero perfetto Pasolini non ha saputo dar compimento alla trilogia. Tanto che viene da chiedersi perché, se l’inceppo è venuto proprio dal mancato incontro (o per timore o per estraneità, è difficile a dirsi) con la protagonista femminile, Pasolini non si sia guardato attorno più attentamente e, da uomo di mestiere, non si sia ricordato che c’era nel cinema e nel teatro moderni un altro personaggio-donna, greca essa stessa, forse assai più intrisa di sortilegio e di magia di quanto non sia la Callas e che davvero non sarebbe rimasta inerte davanti alla macchina da presa ma avrebbe travolto questa e lo stesso regista mettendoli sulla strada buona: alludo al grande personaggio di Irene Papas, che è, a mio avviso, la grande assente ingiustificata del film Medea. Ed ora diciamo tutto il bene possibile (che in rapporto a quanto sopra detto può anche risultare tutto male) del modo come Pasolini ha tentato con Medea di prolungare l’emozione già scoperta e comunicata nelle sue precedenti rivisitazioni del mondo antico. Anche qui, prima di tutto, come nel Vangelo o nello Edipo la dimensione contadina dei re e dei potenti, il disinnesco di tutto lo stantio armamentario melodrammatico estraendo tuttavia dal fondo pescoso del melodramma le contrapposizioni nette dei personaggi e la riduzione o la esaltazione del paesaggio a luogo simbolico e deputato. Poi la penetrazione ossessiva e persino crudele delle passioni che dominano i potenti e che fanno delle loro storie la proiezione paradigmatica del quadro essenziale ed elementare in cui si adempie l’accadimento della vita e della morte. E ancora quel tener fisso l’obiettivo sul volto dei potenti e dei re anche

quando, come nel Vangelo, la questione si presentava davvero difficile e impervia poiché potenti e re, cioè “intellettuali”, dovevano risultare Cristo e gli Apostoli, non più popolo minuto e massa. Chè giustamente nella tragedia greca il popolo minuto e la massa non hanno volto se non quello del “coro”, di una voce cioè che cade sui fatti non si sa da dove né perché. Pasolini tutte queste cose le ha dette per primo e per primo, ciò che più conta in sede di storia dello spettacolo, le ha codificate nel linguaggio filmico. Certo, avendo ben studiato anche lui il suo latino (ma questo non può che accrescere i suoi meriti intellettuali) nei testi, già in tale direzione bene incamminati, di Th. Dreyer della Giovanna d’Arco e di S. M. Elsenstein dell’Alessandro Newskij. In questa “Medea” affiora piuttosto, un lato della sensibilità e della cultura di Pasolini regista cinematografico che viene direttamente dalla sua profonda e tormentata immersione nel “paesaggio” della pittura italiana dal Medioevo al primo Rinascimento. Ho posto fra virgolette la parola “paesaggio” poiché intendo esattamente alludere a ciò che di “paesaggio”, cioè di estraneo all’uomo e di sopravvivente all’uomo, vi è in quella pittura in quanto immaginazione figurativa e fantastica, quasi evocazione magica di luoghi antichi e lontani, di bivi trivi e quadrivi dove sfociano e di dove si dipartono le vie che portano ai castellani, alle mura misteriose, alle munite cittadelle, dove si decidono i destini degli uomini e dove si compiono, nel segreto, i riti inevitabili del potere. Di solito nel “paesaggio” al quale Pasolini mostra di sapere rifare con tanta precisione e al tempo stesso libertà (si pensi a quella sua Anatolia che ricorda le “tebaidi” del Sassette) i cieli sono aperti e puliti. Aperto e pulito è anche il cielo di questa “Medea” nell’intenzione di far più struggente e urlante la tragedia. Peccato davvero che Pasolini ce ne abbia consegnato soltanto le scene, mancando in esse, come s’è detto, la vita dei personaggi e soprattutto quella della bifronte e immortale eroina di Euripide.

Questa Medea manca di sale, “Vie Nuove”, 8 gennaio 1970

IX. Mi colpì quando, dopo l’assassino di Pier Paolo Pasolini, cominciarono le visioni private del suo film Salò o le 120 giornate di Sodoma la reazione di non pochi uomini di cultura. Pasolini aveva scritto di aver deliberatamente spinto le immagini del film “oltre i limiti della sopportabilità”. Non credo però che, così facendo, egli si fosse proposto di suscitare nello spettatore un trauma psichico fine a se stesso. Troppo netto è nel film il rifiuto del metodo “dadaista” della provocazione intellettuale (“Canto quel motivetto che mi piace tanto e che fa da-dà, da-dà, dàda-dadà-dadàaa” canticchia uno dei quattro protagonisti della infame vicenda). Penso, al contrario, che Pasolini, organizzando in quel modo la poetica del film (che in un realista come lui è quanto dire l’etica stessa dell’opera), intese chiedere al pubblico tutta la sopportazione necessaria (una sopportazione estremamente difficile) per giungere ad accettare fino in fondo l’appello di Salò o le 120 giornate di Sodoma a mobilitarsi per condannare e combattere ciò che il film racconta, svela denuncia e combatte. È accaduto in buona parte l’inverso. Si rileggano, ad esempio, gli interventi di Giovanni Grazzini, Enzo Biagi, Leonardo Sciascia. Vi si trovano argomentazioni e annotazioni di stati d’animo senz’altro comuni alla massa degli spettatori, ma se ne ricava anche, in ultima istanza, una condanna del film proprio in quanto atto non responsabile e non mediato da alcun fine morale. Non esporrò tutte le ragioni del mio totale dissenso da un simile rapporto col film di Pasolini. Mi limito a sottolineare che nessuno ha posto l’accento sul fatto che il contenuto reale e dichiarato di Salò o le 120 giornate di Sodoma è la “tortura”, vale a dire ciò che, sul terreno della sopraffazione, della

repressione, della sevizie e della morte, un uomo (ricco o povero, borghese o proletario) può giungere a fare di un altro uomo quando la somma di poteri concentrati nelle sue mani glielo consenta. “Noi fascisti - dice uno dei protagonisti siamo il punto d’incontro fra il massimo di autocratismo e il massimo di anarchia”. E del contenuto reale del film fa parte anche alla denuncia della contraddizione fra il crescere di questa pratica nel mondo e la coscienza piena che il mondo ha acquistato della necessità di rifiutare tale metodo a qualunque fine rivolto. Poiché come ebbe a dire Evtuscenko, “i mezzi modificano il fine”. Ciò che mi ha colpito nelle reazioni di molti uomini di cultura ai film di Pasolini è la repulsione che in essi non esiste e se anche esistesse dovrebbe agire in contraddizione con le leggi. Ed è inutile continuare ad appellarsi al senso di tolleranza di questo o quel giudice quando tal senso fa difetto a tanti che giudici non sono. Occorre bensì un pronunciamento non per un uso più oculato e più prudente della condanna per reato di oscenità. Occorre optare per la decadenza del reato di oscenità tout court. Non soltanto nell’arte dove si è concordi nel riconoscere che non è mai esistito, ma anche laddove fin’oggi si è ritenuto di riscontrarlo e reprimerlo nella vita privata e nel comportamento pubblico dei cittadini. D’altra parte è un fatto che molti studiosi di estetica, anche cattolici, hanno optato per la teoria della “morte dell’arte”. A quali esperti dovrebbe dunque far capo il giudice per accertarsi se una immagine ritenuta oscena è tuttavia da salvare per appartenenza a una categoria che non esiste più anche presso autorevoli cattedre universitarie? Io non sono convinto del modo come tale teoria è portata avanti, anzi la avverso, ma è un fatto che l’assoluzione estetica dell’oscenità è divenuta quanto mai opinabile e impraticabile. Si guardi alla impudica contraddizione in cui è caduta la stessa magistratura che ha condannato Ultimo tango a Parigi. Da un lato ha riconosciuto giusto il rifiuto dei giudici di Bologna di attribuire al film valore d’arte, dall’altro ha assegnato il film alla Cineteca di Stato che altro non è se non un pubblico museo-archivio dell’arte filmica.

Passeranno attraverso la abolizione del reato di oscenità confezioni cinematografiche ignobili e soltanto finalizzate al lucro? Ma non è contro di esse che si appunta lo strale della magistratura. Esse passano già da tempo in gran copia. Il problema è dunque quello di salvare dalla condanna proprio quelle opere dell’ingegno le quali come Salò o le 120 giornate di Sodoma e Ultimo tango a Parigi incappano nello sbarramento repressivo per motivi più profondi di quelli che l’attuale legislazione consente di dichiarare determinanti. Per ottenere ciò non basta legiferare attorno al ristretto campo dell’espressione artistica. Occorre, come s’è detto, giungere a mutamenti di ordine ben più generale. Ciò che mi ha colpito nelle reazioni di molti uomini di cultura al film di Pasolini è la repulsione in essi provocata più dalle scene delle “manie” e della “merda” che non da quelle del cosiddetto girone finale del “sangue” ovvero della sevizie e della morte per sevizie. E, a ben rifletterci, è vero che dalla stessa tradizione figurativa, della pala d’altare al “santino” (si prenda tutta la liturgia iconografica cattolica sul martirio della fede), siamo stati abituati ad ammettere la visione dello strappo delle mammelle o dell’arrostimento sul rogo o dell’inchiodamento in croce (certo per esecrarli ma infine omologandoli otticamente e, al limite, esteticamente), mentre non lo siamo stati mai a misurarci con la rappresentazione senza ipocrisie della sessualità nelle sue variazioni non certo in sé ignominiose, se attuate come possibili pratiche dell’amore. È capitato anche a me di coprirmi gli occhi per “non vedere” (è il primo gradino del processo censorio) quando nel film si procede alla coprofagia. Non me li sono coperti, o me li sono coperti meno, quando si procede allo scotennamento o alla cavatura degli occhi al suono eroico e consolatorio di Sole che sorgi. Come a dire: se Pasolini avesse mostrato meno merda si sarebbe anche potuto resistere, così no. Ho voluto ricordare alcune delle reazioni della cultura italiana al film di Pasolini perché, a mio avviso, sono state anch’esse ad aprire, senza volerlo, le porte alla sentenza definitiva della Corte di Cassazione che, pur non essendo entrata nel merito, conviene ricordarlo, ha avallato come

corretto il giudizio di condanna di un altro film, Ultimo tango a Parigi, emesso dalla Corte d’appello di Bologna. Dico subito che, a differenza di Salò o le 120 giornate di Sodoma, io considero il contenuto sessuale del film di Bertolucci del tutto privo di finalità ideologiche o morali. Ma tanto più se tra coloro che con le parole e le immagini contribuiscono a formare lo spirito pubblico c’è chi argomenta come se davanti alla oscenità del film di Pasolini null’altro c’è da fare che coprirsi gli occhi, un magistrato, che sia già per suo conto incline a vedere dovunque violazioni del “comune senso del pudore”, non potrà che sentirsi addirittura culturalmente sollecitato all’intervento punitivo su Ultimo tango a Parigi. La verità è che siamo giunti al punto di non ritorno della questione. È inutile continuare a invocare una magistratura che sia più avanti delle leggi quando gegno le quali come Salò o le 120 giornate di Sodoma e Ultimo tango a Parigi incappano nello sbarramento repressivo per motivi più profondi di quelli che l’attuale legislazione consente di dichiarare determinanti. Per ottenere ciò non basta legiferare attorno al ristretto campo dell’espressione artistica. Occorre, come s’è detto, giungere a mutamenti di ordine ben più generale. Sono maturi i tempi politico-culturali dell’Italia quale si è storicamente venuta formando perché i codici sanciscano una tale rivoluzione del costume e dalla morale? Parrebbe di no, se dubbi in proposito, e avversioni nette, vengono a sommarsi alle posizioni dogmatiche della Chiesa cattolica anche da parte di rilevanti voci della cultura non confessionale e della filosofia dell’immanenza. Ma nondimeno è, a mio avviso, da questa rivendicazione che occorre cominciare a muoversi. Il confronto, il dibattito, la ricerca, non dovrebbero più prescindere da questa piattaforma del tutto logica e corrispondente alle mutate condizioni di fatto nel più ampio quadro della mutata tecnologica della circolazione mondiale delle idee e delle immagini con tendenza alla unificazione culturale a livelli che certo non sono quelli della repressione e della discriminazione sessuale. E nemmeno quelli del confinamento delle libertà sessuali nel ghetto dell’oscenità privata.

È in circolazione in Francia con successo da best-seller un film-inchiesta sul mondo dei protagonisti professionali dell’industria europea di film pornografici. Vi si assiste, tra l’altro, con tempi reali molto prolungati a una reale automasturbazione della protagonista. Si è riflettuto al fatto che l’unificazione politica dell’Europa dovrà inevitabilmente comprendere quella unificazione dei comportamenti sessuali e quella caduta di tabù che è già in atto presso la gioventù dei diversi paesi del Vecchio continente? Vi sono certo nella cultura italiana forze disponibili all’avvio non strumentale di un discorso di questo tipo. Ma chi a un discorso di questo tipo non è disponibile smetta almeno di confondere le acque stracciandosi ipocritamente le vesti quando i giudici colpiscono. Invocare dai giudici una applicazione soggettiva (trasgressione) delle leggi vigenti mi pare una via assai pericolosa. Il percorrerla può forse oggi far strappare l’assoluzione estetica di un film ma può autorizzare domani, avendo accettato che i giudici passino a loro libito dal campo del potere giudiziario a quello del potere esecutivo, la legalizzazione del colpo di Stato e della soppressione violenta delle libertà. Il cammino da compiere è più arduo e complicato. Occorre che anche dall’ordine dei giudici vengano contributi efficaci all’indispensabile rinnovamento delle leggi. Ma solo arricchendo di nuove voci, sul piano della lotta politica e culturale, il processo che deve portare il parlamento a legiferare in modo consono allo sviluppo reale della coscienza pubblica nel nostro paese. Abolire il reato di oscenità, “Corriere della Sera”, 7 febbraio 1976

Sul teatro e i teatri di Pasolini (con una nota di Stefano Casi)

Il teatro di Pasolini è stato considerato per molto tempo un “teatro non teatrale”. Non teatrali i suoi testi, non teatrale la sua regia di Orgia, e ancor meno teatrale il Manifesto per un nuovo teatro in cui ha raccolto la sua teoria. E invece oggi quei suoi testi, quella sua esperienza registica e perfino quella sua teoria così spiazzante sono leggibili come una preziosa miniera di sollecitazioni per il teatro contemporaneo. Si sbaglierebbe, però, a cercare in Pasolini un drammaturgo, un regista teatrale o un teorico del teatro in senso tradizionale. Pasolini è invece un utopista, che attraverso folgorazioni intuitive e provocatorie è riuscito a dare una propria impronta al teatro, ma da ‘straniero’, da ‘diverso’. Il periodo più importante in cui si sviluppa il teatro pasoliniano è negli anni ’60, in quegli anni ’60 in cui la sperimentazione teatrale, in Italia e non solo, si basava soprattutto - per dirla proprio con le parole di Pasolini - sul “gesto” o sull’“urlo”. Pasolini piombò a metà di quel decennio, con apparente ingenuità, per proporre una diversa rivoluzione teatrale, rispettosa della parola poetica e capace di creare una diversa concezione di rito, un rito borghese ma intellettuale. La sua era davvero una “apparente ingenuità”. Pasolini aveva infatti una conoscenza del teatro tutt’altro che scarsa. Certo, non andava a teatro tutte le sere (ma sempre in ottima compagnia: da Elsa Morante a Laura Betti) e non era coinvolto nel teatro in modo costante, ma forse fu proprio questo a consentirgli una freschezza di analisi e proposte. E comunque, non era digiuno di teatro. Non lo era fin da ragazzo quando, prima ancora di scrivere le famose Poesie a Casarsa, aveva scritto un dramma per un concorso teatrale, vincendolo. Era il 1938, aveva 16 anni e ancora a lungo sarebbe stato incerto se dedicarsi al teatro, alla pittura o alla poesia. E a

lungo coltivò tutte e tre, sognando di fondare una sua compagnia teatrale perché il teatro era, nella sua adolescenza, “idolo dei nostri pensieri”. Pasolini non era affatto digiuno di teatro neanche al suo arrivo a Roma dopo la lunga parentesi friulana. Lassù, in Friuli, Pasolini il teatro l’aveva fatto, anzi aveva cercato di inventarlo a modo suo. Un teatro in friulano per dare alla polis Casarsa il suo teatro ‘politico’, come in una piccola Atene, ma anche un teatro pedagogico, con testi scritti apposta per i bambini e recitati con loro. E se negli anni ’50 a Roma furono altri impegni a prendere il sopravvento, ecco che il richiamo del teatro, in quella sua presenza estrema di corpo e parola di fronte a uno spettatore, risucchia nuovamente Pasolini (che pure aveva continuato per vent’anni a rimaneggiare la sua autobiografia teatrale Il cappellano). Nel 1965 una grande inchiesta della prestigiosa rivista teatrale “Sipario” rilanciò il ruolo degli scrittori e degli intellettuali nel rinnovamento del teatro italiano. Pasolini intervenne denunciando la distanza della lingua ‘falsa’ degli attori da quella vera, parlata dagli italiani; insomma, in sostanza, una distanza tra attori e pubblico, causata non tanto dalla povertà dei testi quanto dalla formazione sbagliata degli attori e dal disinteresse dei registi. Questo intervento ebbe numerose risposte da parte degli attori: se Pasolini sembra essere lo scrittore con le analisi più lucide sul malessere del teatro, perché non scrive testi per noi? Così Pasolini decise di accettare la sfida, diventando un fiume in piena, abbozzando decine di progetti drammaturgici che alla fine si concretizzano in ben sei tragedie. Ma non bastava. Pasolini si spinse oltre, scrivendo una sua teoria teatrale nella forma autoironica di Manifesto simil-futurista, e diventando addirittura regista teatrale, per promuovere quel nuovo teatro a cui teneva tanto. E così, tra il 1966 e il 1968 fiorì il teatro di Pasolini, quel teatro di cui solo con il tempo è stato possibile apprezzare la reale teatralità sulle assi dei palcoscenici italiani e stranieri: una teatralità in anticipo con i tempi, difficile, esigente da attori e spettatori, ma capace di trasmettere sempre più tutta l’inquietudine dell’unico utopista del teatro cresciuto in Italia nel Novecento.

Stefano Casi

I. Dire in breve di che si tratti a chi non abbia letto il testo è piuttosto difficile. L’unico confronto, che, pur tenendo conto delle differenze, mi viene in mente è con Il maestro e Margherita di Bulgakov. Nel libro di Pasolini c’è una serie di brani dialogati in forma teatrale. Nelle successive scene personaggi, che spesso sono gli stessi (o almeno portano lo stesso nome), si presentano in situazioni differenti, con ruoli mutati, e come appartenenti a ceti sociali, famiglie ambienti e perfino tempi diversi. Al modo come ciò può accadere nella vita onirica. Ed un riferimento alla vita onirica c’è, in una precisa citazione di La vida es sueño di Calderón de la Barca, da cui anche il titolo dell’opera. Il dramma citato riguarda il caso di un principe che, tenuto fin dalla più tenera infanzia, per ordine del re padre, prigioniero, in un castello isolato, viene addormentato con un artificio e trasportato nella reggia a cui per nascita avrebbe dovuto appartenere, e fatto là vivere col nuovo ruolo e nelle nuovi vesti; dopo breve tempo ed altro sonno artificiale, è però ricondotto nella primitiva prigione, cosicché al risveglio gli rimane solo il ricordo di questa parentesi di vita, col senso di aver soltanto sognato una strana avventura. Ed anche se in seguito si rende conto di quanto gli è effettivamente accaduto, rimane con la impressione che la vita intera altro non sia che un sogno, da cui in ogni momento è possibile risvegliarsi. Viene così posto il problema del rapporto fra la vita vera e una vita soltanto sognata, e dalla indistiguibilità fra sogno e vita. Il dramma di Calderón è del 1635. Due anni più tardi Cartesio pubblicava Il discorso del metodo, già da tempo composto. Così il dramma di Calderón e il celebre saggio di Cartesio sono in qualche maniera contemporanei. Anche Cartesio pone nel suo scritto, a proposito del dubbio metodico, un problema analogo. Chi ci dice che la vita da noi vissuta non

sia sogno soltanto? Stando dentro al sogno non avremmo possibilità di riconoscerlo tale; e solo Dio si fa per noi garante della effettiva realtà della nostra vita. Gli studiosi della patologia mentale conoscono il sottile legame che unisce la stabilità dell’io e quella del mondo oggettuale, della realtà. Come cioè il senso della identità personale, e di contro i fenomeni di spersonalizzazione che incrinano quella identità, si accompagnino rispettivamente al sentimento della realtà e alle impressioni di derealizzazione. In quest’opera di Pasolini non c’è un sognatore ben determinato. Ognuno può essere sognatore o personaggio del sogno. E la destrutturazione della realtà è sempre anche crisi di identità. Molti dei personaggi sono sì ricavati dallo stesso dramma di Calderòn: Basilio che là è re polacco, Sigismondo che ne è figlio, Rosaura che è la protagonista femminile, e Stella una principessa nipote del re. Ma a questi personaggi, e ad altri aggiunti, vengono assegnate da Pasolini parti diverse e mutevoli. Vengono utilizzati come si potrebbe fare con burattini prefabbricati, o con maschere del teatro dell’arte, di volta in volta impiegate per successive situazioni: una moderna famiglia della ricca borghesia spagnola, un gruppo di baraccati nei sobborghi di Barcellona, una fantastica famiglia reale di Spagna ricalcata su quelle del secolo XVII, un manicomio, la contestazione studentesca degli ultimi anni ’60, un Lager, non si sa se nazista, o spagnolo, o di qualsiasi altra parte. Per la famiglia reale spagnola la situazione è collocata all’interno di un famoso quadro di Velasquez, contemporaneo anch’egli di Calderòn: Las meninas. È un quadro su cui molto è stato detto e scritto non soltanto per la sua grandiosità e bellezza e perché contiene l’autoritratto del pittore, ma per alcune sue singolarissime particolarità. Vi si vede dunque Velasquez in una sala del Palazzo reale, lo “stanzone del principe”, mentre sta dipingendo un grande quadro di cui si scorge solo il rovescio. Ha al suo fianco la infanta Margherita, attorniata da gentiluomini, dame e nani della sua corte. Velasquez sta ritraendo la coppia reale, Filippo IV e Marianna d’Austria, che noi vediamo riflessi in uno specchio collocato alla parete in fondo della sala. Tutti i personaggi del quadro guardano in

avanti rivolti verso i sovrani, che si debbono supporre - data la direzione degli sguardi - posti dietro a noi che stiamo osservando il vero quadro. In tal modo si produce la impressione che l’ambiente del quadro comprenda anche lo spazio dove siamo noi stessi, che così ci sentiamo paradossalmente dentro al quadro medesimo. Ciò spiega come Teofilo Gautier, portato di fronte a questo dipinto, esclamasse: “Ma dove è il quadro!”. Una pittrice, persona dunque del mestiere, di fronte alla riproduzione di Les meninas, voleva convincermi - contro ogni logica e ogni considerazione geometrica - che il pittore, quale lo si vede, stia nel quadro dipingendo proprio lo stesso quadro che noi contempliamo. Anche Pasolini dice che Velasquez “pur guardando da fuori del quadro, ne è dentro”. Ciò può affermarsi ovviamente per ogni autoritratto: costituente sempre e in ogni modo qualche cosa di perturbante, che si collega alla tematica, sviluppata nella letteratura e nella favolistica dell’ombra, dello specchio, del doppio, del sosia, dello studente di Praga, della storia di Dorian Gray. Ma in questo quadro di Velasquez, per tutte le complicazioni che si son dette, il carattere ambiguo e problematico della identità è più pregnante, e si inserisce nella atmosfera schizoide che è propria di tutto questo dramma di Pasolini. L’opera, accanto allo sdoppiarsi dei personaggi, per così dire ibridati. Come per Sigismondo, già il principe in catene per Calderòn; e che sembra qui trasformarsi in un altro Sigismondo ben noto, Sigmund Freud, tanto che al suo apparire Dona Astrea, che di Freud aveva parlato, dice: “Lupus in fabula”: ma Freud solo a metà (mezzo ebreo, si proclama il personaggio), per apparire in seguito il violentatore di Dona Lupe, e padre di Rosaura, che di lui incestuosamente si innamora, e - in un successivo contesto violentatore invece di Rosaura e padre di Pablo, col quale la stessa Rosaura sta per avere un rapporto amoroso, ancora incestuoso. Alla fine egli rispunto come vecchio rispettabile, e reazionario, suocero di Basilio. Incombono dunque sulla storia, se di storia si può parlare, paternità e maternità segrete, dovute ad antichi occulti stupri, e

conseguenti minacce di incesto, secondo uno schema abbastanza comune della commedia classic, e che è di assai facile interpretazione psicoanalitica. Vicende rimescolate. E chissà se Pasolini, nel dare all’opera per titolo il nome del poeta spagnolo, non sia stato anche influenzato - data la sua origine veneta - da una assonanza con un termine dialettale: Caldioron, o Caldiron, e in friulano anche Calderon, che vale gran caldaia o pentola; e metaforicamente l’inferno. Inferno potrebbe essere il titolo di quest’opera di poesia. Inferno in un senso moderno e psicologico. Come costante aspirazione, sempre frustrata, alla realtà, e invece condanna alla perpetua destrutturazione della persona e delle cose; senza più la garanzia di Dio di cui parlava Cartesio, così che ogni pensiero di salvazione o di riscatto si vanifica. E che cos’altro potrebbe essere l’inferno? Lo attesta l’episodio dell’ultimo sogno della donna nel Lager: il sogno della insurrezione operaia in Spagna, della rivolta vittoriosa e della liberazione. Sogno di cui Basilio, chiudendo l’opera con un accento che esclude ogni speranza, dice: “Di tutti i sogni che hai fatto o che farai - si può dire che potrebbero essere anche realtà - Ma quanto a questo degli operai, non c’è dubbio - esso è un sogno, niente altro che un sogno”. Cesare Musatti, Calderon, “Sipario”, aprile 1974

Velasquez,

Pasolini,

in

II. Nell’estate del ’59, mentre con Gassman andavano preparando la prima stagione del Teatro popolare italiano (e già era deciso che il debutto sarebbe avvenuto con Adelchi di Manzoni, al quale avrebbe fatto seguito, sempre che fosse arrivata in tempo, la commedia che ci aveva promesso Flaiano, Un marziano a Roma), l’Istituto del Dramma Antico invitò

Gassman a mettere in scena l’Orestiade di Eschilo nel Teatro greco di Siracusa. Era un’occasione da non perdere. Dopo aver tanto polemizzato con le cattive abitudini di quegli spettacoli (la cui unica suggestione, come ebbe a scrivere Bianchi-Bandinelli, derivava “dal fatto di premere, le natiche sulle stesse pietre antiche, calde di sole, sulle quali le pose Platone”), ci veniva offerta la possibilità di passare dalle parole ai fatti. Tutti e due avevamo letto il libro di George Thomson, Eschilo e Atene, pubblicato da Einaudi qualche anno prima, che conteneva un’analisi assai eterodossa, per qui tempi, della trilogia eschilea (il passaggio dalle barbarie alla civiltà, dalla legge della vendetta a quella della giustizia degli uomini), e decidemmo di prenderla a base del nostro spettacolo. Purtroppo nessuna delle versioni italiane a nostra disposizione (Untersteiner e Traverso, soprattutte) era adatta all’operazione che intendevamo compiere. A un certo punto viene fuori il nome di Pasolini, che a quell’epoca aveva già pubblicato, oltre a Ragazzi di vita e Una vita violenta, le poesie de Le ceneri di Gramsci; e fummo subito d’accordo nel fare a lui la proposta di una nuova traduzione dell’Orestiade. Pasolini accettò, e disse che si sarebbe messo al lavoro appena si fosse liberato dei precedenti impegni. Poi, per qualche tempo scomparve. Sapevamo che aveva in programma un giro di conferenze, e l’idea che lavorasse alla nostra traduzione viaggiando per l’Italia, in treno o in albergo, non ci sembrava molto rassicurante. Per giunta il Festival di Spoleto ci aveva offerto di partecipare con uno spettacolo allestito dai giovani che facevano parte della nostra compagnia, e Gassman aveva suggerito di chiedere a Pasolini se si poteva ridurre uno dei suoi romanzi “romani”. Così io lo rintracciai a Milano e gli scrissi chiedendogli notizie della versione e domandandogli se per caso non lo interessava il progetto di adattare Una vita violenta per la scena. La prima delle lettere di Pier Paolo che qui si pubblicano è la risposta a quella mia. Naturalmente non conoscevamo bene il modo di lavorare di Pasolini. La versione dell’Agamennone ci arrivò prima del 15 gennaio, battuta correttamente a macchina su quei piccoli fogli che lui usava. Le Coefore e le Eumenidi ci giunsero altrettanto puntualmente.

Lo spettacolo fece molto chiasso e destò le polemiche più aspre, soprattutto da parte dei filologi e dei professori di letteratura greca legati all’Istituto del Dramma Antico. Le altre due lettere di Pasolini si riferiscono ad una nostra offerta di scrivere lui, direttamente, per il teatro. E hanno una certa importanza perché testimoniano che già allora, nel ’60, molti anni prima del periodo di convalescenza in cui portò a termine le sei tragedie che costituiscono tutto il suo “teatro di poesia” (Bestia da stile, Porcile, Orgia, Calderón, Pilade e Affabulazione), Pasolini si era avvicinato alla scena. Non ricevemmo mai quel suo primo lavoro, e quindi non sono in grado di dire se si tratta di uno di quei sei testi, con altro titolo, oppure no. Forse qualcuno dei suoi amici letterati, Moravia o Siciliano, può chiarire il piccolo mistero. Ciò che importa è soltanto, ripeto, sapere che già nel 1960 Pasolini aveva scritto un dramma, una cosa “un po’ mostruosa e folle”, come lui stesso dice, e di una sincerità imbarazzante. E forse Gassman, mettendo in scena oggi Affabulazione, paga anche, a vent’anni di distanza, o quasi, un vecchio debito. Luciano Lucignani, Quel suo incontro con la scena, “La Repubblica”, 11 novembre 1977

III. Era l’autunno del ’61. Con Gassman discutevamo il programma della terza giornata del Teatro popolare italiano, lui e Gerardo Guerrieri stavano già lavorando alla elaborazione di Questa sera si recita a soggetto. Avevamo alle spalle il grande successo di Adelchi, l’insuccesso (relativo) di Un marziano a Roma, e la polemica edizione dell’Orestiade data a Siracusa. Fra i tanti motivi di scandalo (il diverso orario, i totem disegnati da Teo Otto, le danze vudù), il primo posto se l’era guadagnato la versione di Pier Paolo Pasolini, colpevole di dire “chiesa” invece di

“tempio”, “Dio” in luogo di “Giove”, e così via. Pensammo che forse si poteva ripetere l’operazione, mettendo in scena un altro classico dell’antichità, sempre tradotto da Pasolini, ma logicamente meno impegnativo della trilogia di Eschilio, e decidemmo per il Miles glorious di Plauto. Pasolini era, come sempre, sovraccarico d’impegno, ai libri, alle conferenze a alle sceneggiature questa volta si era aggiunto il lavoro di preparazione del primo film suo, Accattone. Tuttavia accettò, fissò una data e il copione, puntualissimo, ci raggiunse a Torino, dove stavamo già recitando Pirandello. Il risultato entusiasmò tutti. Presto, però, ci accorgemmo di aver fatto uno sbaglio, la compagnia che avevamo non era la più adatta a recitare il Il vantone (che allora era ancora Il grande generale, il titolo attuale apparve solo nel testo stampato da Garzanti). La “traslazione” di Pasolini, in bocca ai nostri attori, nessuno dei quali era romano, acquistava un sapore quanto meno insincero. E anche la distribuzione dei ruoli non coincideva troppo con le necessità del nostro gruppo: Gassman avrebbe dovuto fare Pirgopolinice, ma quasi un altro protagonista è Palestrione, il servo. A questo si aggiunga che le polemiche suscitate dal Pirandello “elaborato” condussero, in pratica, ad una maggiore richiesta di questo spettacolo. Così il Miles gloriosus di Plauto fu accantonato, ne avremmo riparlato l’anno successivo. Allora nessuno di noi sapeva che quella sarebbe stata l’ultima stagione del Teatro popolare italiano. Luciano Lucignani, Come nacque questa traduzione, in Il Vantone di Plauto nella versione di Pier Paolo Pasolini, programma di sala del Teatro di Roma, 2 novembre 1976

IV.

Affabulazione potrebbe essere ridotto alla lineare rappresentazione d’un conflitto padri-figli. Scritto in anticipo di due anni sul Sessantotto, può sembrare una sorta di oroscopo cifrato di quegli avvenimenti, che Pasolini ispezionò con folgorante occhio critico: - del ’68, in Italia, fu l’unico a separare intellettualmente la carica innovatrice da quella irrazionale e regressiva, dissimulata sotto spoglie rivoluzionarie (e questa fu operazione difficile, che dapprincipio gli valse la più ottusa incomprensione). Ma Affabulazione non tratta soltanto, e genericamente, del rapporto padri-figli. Il rapporto di crisi che il testo rappresenta rovescia nel simbolo del padre un’angoscia conoscitiva. Chiede il padre a suo figlio: “Dì: chi ti ha illuminato? / Chi ti ha ispirato questo rifiuto? Questo ‘no’?”. Voglio dire che in Pasolini, anche in Affabulazione, non c’è mai la riduzione del problema proposto, alla cronaca. L’uso del verbo “illuminare” non cade invano nel verso che ho citato. Non bisogna dimenticare che Pasolini fu dominato in ogni occasione da un’ispirazione rigorosamente religiosa, seppure cattolica. Quel che fa disperato “il padre” di Affabulazione è l’impossibilità di rendere alla pietà, di affabulare cioè secondo una condotta che superi la contingenza del tempo, il proprio rapporto con tutti gli altri membri della famiglia. Eppure egli è un padre borghese, un industriale: un uomo nel quale la corruzione potrebbe celebrare tutti i propri effetti fascistici. Ma Pasolini guardava più in là - polemicamente, religiosamente, guardava più in là. Ricordate Teorema? Anche in Teorema la famiglia presa come modello di rappresentazione era una famiglia borghese, nella quale la pietà dell’amore si realizzava attraverso un deragliamento totale di tutti i legami tradizionali. Affabulazione fa da controcanto a Teorema. È il padre - guardato come simbolo dell’istituto borghese che naufraga davanti a se stesso, per il desiderio di mostrarsi al figlio quale egli è, pura pietà, senza l’abito che la società gli ha imposto. Se il figlio è stato “illuminato” a dire no, la risposta paterna sarà svelarsi al figlio nella nudità totale della propria

natura: un padre che vuole offrire al figlio il proprio sesso “senza utilità… come nelle masturbazioni”, “quando il ragazzo si sente, nel pugno, un sesso di padre, / ma privo del privilegio e del dovere di fecondare, / come un grande albero senza ombra”. Il conflitto padre-figlio viene quindi trascritto ad altra pagina che non quella d’una psicanalisi ormai da drogheria: ma in quella dove i rispettivi ruoli, e di padre e di figlio, si trovino del tutto contraddetti, trasfigurati. Così il padre sarà figlio al proprio figlio, e il figlio, all’inverso, padre al proprio padre. Se quindi il figlio possiede un carisma - “Dì, chi ti ha illuminato?” - il padre, è di quel carisma che vuole nutrirsi. Si potrà arguire che forse Pasolini sottintende una nuova versione del mito di Crono: - un padre può sempre trovare la strada a divorare il proprio figlio. Ma in questo caso, Crono, il padre, scopre di possedere un figlio che non può divorare, poiché il figlio - inteso anche come metafora del futuro in generale non può essere divorato. Il figlio è sparito: il futuro è sparito, e il non essere è, appunto, non essere. Proprio alla conclusione Affabulazione celebra, invece che un banale intrigo dove padri e figli si confrontano il sesso, celebra dicevo la distruzione del tempo (è il figlio ad essere divorato dalla società dei consumi), - ma non la distruzione della storia. Enzo Siciliano, Riflessioni su “Affabulazione” di Pier Paolo Pasolini in programma del Teatro Tenda per la stagione 1977/’78 (novembre - dicembre 1977)

V. Credo che il dato più confortante del successo davvero insperato con cui è stata accolta questa Affabulazione di Pier Paolo Pasolini, sia costituito soprattutto dall’altissima percentuale di pubblico giovanile. Dico questo non per

rivolgere ai giovani il solito, inutile, stucchevole e ipocrita imbonimento, ma per constatare una situazione di fatto. Pasolini è forse l’unico scrittore italiano della mia generazione che abbia esercitato ad eserciti tuttora una funzione di guida spirituale presso i giovani. Nella storia letteraria del nostro paese c’è solo un altro esempio del genere: D’Annunzio. Affabulazione non è un’opera “facile”. Bellissima, affascinante, con alcuni momenti di lirismo assoluto, ma espressa in un linguaggio piuttosto insolito, ricco di simboli e di metafore. Il suo racconto è ambiguo, le azioni compiute dai personaggi hanno moventi oscuri, misteriosi, affondano le loro radici in zone della coscienza umana che sanno d’arcaico, di primordiale. In altre parole, non certo un’opera (né uno spettacolo) destinata al “consumo”. Eppure mai mi era capitato di vedere pubblico più attento, più coinvolto per usare un termine che oggi è di moda, più consapevole di che cosa stava ascoltando. Sono abbastanza abituato al successo, credo di essere in grado, entro certi limiti, di analizzarlo. E sento che non è per me, non è soltanto per me, che quel pubblico è lì, immobile, in silenzio, come ipnotizzato. Sento (ed è, per molti versi, un’esperienza esaltante) di essere tramite, elemento percorso da una corrente che ha un punto di partenza e uno d’arrivo. Mezzo di comunicazione fra un Teatro di Parola (come dice Pasolini) e un Uditorio, l’officiante d’un rito culturale. Oggi è in atto un largo dibattito, non privo di ragioni e significati, sul ruolo dell’attore. Tradizione e avanguardia nel teatro ne hanno fatto il loro terreno di scontro. Il “rifiuto dell’attore” non è soltanto, mi pare di capire, una richiesta di abdicazione di fronte al nuovo signore della scena, che dovrebbe essere il regista-autore; ma anche, e soprattutto, il “rifiuto dell’interprete”, quindi dell’attore come servo di un autore, dell’attore come colui che non parla in proprio. Tutte le rivolte (non dico le rivoluzioni) affermano alcune cose e ne negano altre. È loro diritto e non vale stupirsene o rammaricarsene. Ma credo che sia giusto indicare l’errore che certe posizioni radicali contengano. Il nuovo teatro vuol essere diverso, più impegnato, culturalmente e politicamente (che è

poi la stessa cosa). Ora, se si vogliono comunicare delle idee, non c’è altro mezzo che la Parola (uso la maiuscola per chiarire che non alludo al fonema puro e semplice). La Parola è simbolica, l’Immagine (e quindi il Gesto) no. E la Parola ha bisogno d’un interprete. Combattere l’interprete è combattere a Parola, è distruggere il teatro (non questo o quel teatro, vecchio o nuovo, tradizione o d’avanguardia, ma tutto il teatro, il teatro come istituzione). Il teatro trae le sue origini dal rito e dal mito. Rito e mito della magia, agli inizi. Poi religiosi, quindi laici, profani. Ma rito e mito, da sempre, hanno avuto bisogno d’un interprete. Chiamatelo mago, sciamàno, sacerdote, stregone: è sempre lui che ha il privilegio di farsi strumento di comunicazione fra il dio e la comunità. Oggi ancora parliamo di magia della poesia, a teatro. Senza questa magia, senza quella poesia, senza un interprete che ce ne dia comunicazione il teatro perde il suo ufficio, si riduce a pure coreografia muta, a didascalia, illustrazione. Uccidete l’autore e l’interprete, dico, ma sappiate che cosa state facendo, sappiate che state uccidendo il tetro. E sappiate che al vostro impegno politico, sociale, ideologico, la pura coreografia, il Gesto senza Parola, saranno utili come un comizio deserto o un comiziante muto. Per questo il Teatro di Parola proclamato da Pasolini nel suo Manifesto del 1968 e il successo di questa Affabulazione che ne è l’esempio pratico mi riempiono di speranza. È piacevole, nel momento in cui più dura si fa la battaglia l’annuncio insperato dei rinforzi. Come in un vecchio western, quando giungono, da lontano, gli squilli di tromba della cavalleria. Non è un momento esaltante. Vittorio Gassman, Più che il gesto potè la Parola, “Quotidiano di Lecce”, 27 ottobre 1985

VI.

Il poeta, con i suoi scritti e i suoi film. L’intellettuale, con le sue polemiche, le sue analisi, le sue profezie. Ma anche l’uomo, con la sua tormentata coerenza, e quella morte che per certi aspetti fu anche un martirio. È probabilmente impossibile, nel valutare l’importanza che Pier Paolo Pasolini ha avuto nella vita culturale italiana del dopoguerra - soprattutto negli ultimi vent’anni - dare il giusto peso a ciascuno di questi tre aspetti: scindere l’opera dalla biografia, il pensiero da un’immagine costruita dai mass media, oltre che dall’interessato. Una conferma di quanto sia difficile districarsi tra questi punti di vista viene da due spettacoli attualmente in tournée, certo molto diversi tra loro. Tratti entrambi da opere postume, appaiono accomunati da un identico segno “forte”: la proiezione - se non l’identificazione - dei protagonisti con l’autore. Ma curiosamente i due personaggi sono (o dovrebbero essere) agli antipodi, a cominciare da un aspetto cruciale: San Paolo, sessuofobo e omofobo; e Carlo, il protagonista di Petrolio, che in un prato di periferia decide di offrirsi a un intero plotone di ragazzi di vita. Paolo di Tarso di Paolo Billi e Dario Marconcini è tratto dalla sceneggiatura del film che Pasolini non girò mai. Il progetto era stato concepito dopo le Mille e una notte, quindi ai tempi della clamorosa Abiura della Trilogia della Vita. Era basato sulla trasposizione della vicenda dell’apostolo ai tempi del nazismo e negli anni immediatamente successivi (non a caso, l’epoca di Salò). Nella sceneggiatura (così come in questo spettacolo), Paolo pronuncia unicamente parole tratte dagli Atti degli Apostoli e dalle Lettere, a testimoniare uno “scandalo” inconciliabile, una doppia natura indecifrabile: da un lato il mistico, il profeta, il poeta; dall’altro il fondatore di una chiesa, l’abile organizzatore, l’efficace agit prop. In Paolo di Tarso, rielaborazione del lavoro presentato quest’estate a Volterra vista al Crt di Milano dopo il debutto di Buti, il protagonista è quasi sempre in proscenio. Con la forza delle sue frasi oscure e ispirate scatena le reazioni di una sorta di coro composito, ora travolto, ora scandalizzato, ora pronto a dare concretezza alle sue visioni: dalle inquietudini dei

Vangeli apocrifi alle rivoluzionarie comunità delle origini (con la loro etica gruppettara), dalla furia inquietante (e ancora pagana) della tarantata all’istituzionalizzazione della Chiesa. Paolo di Tarso vive della contrapposizione tra il teatro di parola e di poesia dell’apostolo, e la ritualità liturgica del coro, fatta di corpo e di voce (che attinge a “maestri” che vanno da Barba a Brook alla Bausch, e a una vocalità ben affilata dalle cure di Carine Jourdant). Emblematicamente, nella scena finale sarà proprio il gruppo (Alessandra Carlesi, Antonella Caron, Mario Lembo, Virginia Martini, Antonella Questa, Filippo Timi) a farsi portavoce degli aspetti per noi meno accettabili, più scandalosi, della predicazione dell’apostolo, “rubandogli” e introiettando i divieti sessuali contro i “fornicatori”, i severi limiti posti alle donne eccetera, come se questo rifiuto del corpo non fosse organico a una visione del mondo basata sulla colpa originaria dell’uomo. La voce di Pasolini - così come resta nelle registrazioni era sottile, un po’ roca, come logora, e insieme di una dolcezza quasi materna. Paziente e insistente ma con improvvise, quasi impercettibili esitazioni. A volte cantilenante, in particolare quando leggeva. Disposta ad abbandonarsi al ritmo della poesia e a lasciar riaffiorare discretissimamente sonorità dialettali, forse più emiliane che friulane. Questa voce è il modello di Lorenzo Minelli, “l’uomo che diventa Paolo” con effetti di notevole mimetismo. Nel Pratone del Casilino la stessa voce guida Antonio Piovanelli; almeno all’inizio, prima cioè che l’interprete si cali ancora di più nel personaggio, per immedesimarsi nella parola pasoliniana, attingendo alle cadenze del proprio dialetto d’origine, quello bresciano - forse il meno “intellettuale” d’Italia. Il pratone del Casilino (vietato ai minori di 18 anni) è tratto da un capitolo chiave (e lasciato come sospeso) dell’incompiuto Petrolio: il testo è dunque più o meno contemporaneo del San Paolo, anche se pubblicato alcuni anni più tardi. In quella fatidica notte, Carlo, protagonista del romanzo e per alcuni aspetti alter ego dello scrittore, si applica a un’intrapresa più mentale che fisica - o meglio, che arriva al

corpo attraverso la scrittura: per “degradarsi senza limiti”, Carlo farà “l’amore con venti uomini, né uno di più né uno di meno” - anche se la fatidica cifra non la raggiungeranno né Carlo né la scrittura di Pasolini (lo spettacolo riduce a quattro le sodomizzazioni, minuziosamente cantate in visioni ispirate e poetiche). Piovanelli e Bertolucci (che firma la regia) saltano la mediazione del personaggio e l’architettura di messinscene costruita dallo scrittore nella materia del romanzo impossibile di Pasolini, e si concentrano sul capitolo più hard di quella “summa di tutte le mie esperienze, di tutte le mie memorie”, trasponendolo in prima persona. La vertigine sensuale è quasi assente, immediatamente soppiantata dalla pulsione di morte: un’ansia di autodistruzione vissuta in prima persona, fin nelle fibre più intime di sé, carne e spirito, bruciata in un ossessivo rituale erotico. Quello che viene officiato nella scena nuda e desolata, in quell’oscurità appena punteggiata di stelle, è dunque un sacramento osceno, attraverso il quale ricercare la verità del corpo - o almeno, una sua verità. Visti Paolo di Tarso e Il pratone del Casilino, pare molto difficile coniugare queste due icone pasoliniane, l’asceta e il pornografo, con i rispettivi seguiti di chierici e marchettari. Certo, sono entrambi in grado di “épater les bourgeois” con i tabù della religione e del sesso. Ma, sul versante dell’omosessualità, l’unica lettura praticabile sembrerebbe un’insoddisfacente riduzione freudiana: leggendo da un lato un meccanismo di sublimazione e rimozione; dall’altro la perversione nevrotica, la coazione a ripetere. Altrimenti, ad accomunare l’uno e l’altro resterebbe una altrettanto generica giustificazione poetica, che permette di trascendere le divergenze nella sfera estetica. Ma proprio questo Pasolini, poeta profondamente in lotta con il suo tempo, non avrebbe voluto fare. Oliviero Ponte Di Pino, Due spettacoli pasoliniani: Paolo di Tarso e Il pratone del Casilino, “Il Manifesto”, 1994

La mia trilogia pasoliniana di Giuseppe Bertolucci

I. La breve ricognizione storico critica attorno al Pasolini televisivo (autore, personaggio, spettatore) ci suggerisce di accennare - in un’incursione assolutamente fugace e del tutto interlocutoria - a un grande nodo problematico dei modo di produzione audiovisivi: è, non diciamo praticabile, ma anche solo concepibile una televisione d’autore? O invece quella formula è una sorta di impronunciabile ossimoro, se non una vera e propria contraddizione in termini? Volendo - in omaggio all’autore che qui ricordiamo ricorrere a un lessico tipicamente pasoliniano, è ipotizzabile una compatibilità tra soggettività e omologazione, tra la vittima e il suo boia? Il “pensiero unico” della Società dello Spettacolo può ospitare nel suo statuto totalizzante e totalitario la legittimità di un libero arbitrio creativo? A che condizioni il medium televisivo accetta di essere mezzo (e non fine) di un messaggio d’autore? A che condizioni quel messaggio, nel momento in cui, per esprimersi, imbocca i binari della comunicazione di massa, riesce a non negare i tratti distintivi del mittente senza dissolversi in un viaggio di sola andata verso i territori dell’anonimo e dell’indistinto? Certamente queste stesse domande se le sono poste, nel corso del ’900, intere generazioni di cineasti nei confronti dell’industria cinematografica e delle sue coercizioni, certamente la censura di mercato non nasce con la televisione;

ma quanto e soprattutto come la nuova egemonia televisiva ha modificato la natura e la qualità di queste questioni? Non si potrebbe forse sostenere che, con l’avvento della televisione, si è passati dalla censura del mercato alla censura del medium? E - gettando uno sguardo all’Italia e al passato prossimo - è azzardato affermare che solo la televisione pedagogica e normativa del Monopolio Pubblico poteva permettersi, come in parte è avvenuto, una televisione d’autore, che il modello dominante della televisione commerciale ha reso via via sempre più impraticabile? Dobbiamo dunque conseguentemente concludere che la televisione d’autore è una modalità strettamente legata a un modo di produzione arcaico e superato? O forse è arretrata (modulata su un modello esclusivamente cinematografico) la nostra concezione di autore, nel momento in cui è riluttante a comprendere e assimilare in quella “categoria critica” gli inventori di format e/o i creatori di palinsesti televisivi? Pasolini - eliminato proprio all’alba della grande mutazione che aveva così lucidamente previsto - a queste domande aveva a suo modo incominciato a rispondere, come artista e come intellettuale, come autore e come spettatore. Ma, in sua assenza, qualcuno ha detto, ha pensato, qualcosa di più convincente? Il piatto (teorico) piange. Domande in La TV di Pasolini - Cineteca Speciale Bologna, Dicembre 2002

II.

Con il precedente lavoro sui versi di Caproni e la successiva edizione televisiva del Pasticciaccio, Il Pratone del Casilino di Pasolini costituisce una (involontaria) trilogia dedicata a tre straordinari autori italiani del Novecento, che ho avuto la fortuna di conoscere, anche personalmente, fin da bambino, perché erano, tutti e tre, grandi amici di mio padre. Forse è l’effetto-tempo, forse è il ricordo che a volte funziona come un magico effetto speciale ma, ripensando a quei tre tipi così geniali e così diversi tra loro, ho la sensazione che ha molti anni non mi capiti più di incontrare delle personalità così ricche e affascinanti, quasi che il mondo fosse andato impoverendo e il nostro presente riuscisse a produrre solo replicanti di replicanti. O forse, solo a spettacolo concluso, solo dopo la morte, la personalità, soprattutto di un artista, diventa finalmente compiutamente leggibile. Questo Pratone con Antonio Piovanelli completa poi un’altra mia (anch’essa involontaria) trilogia, dedicata al monologo teatrale, che comprende il Cioni Mario con Benigni (1975) e Raccionepeccui con Marina Confalone (1983). Di fronte al monologo continuo ad avere un dubbio irrisolvibile: se si tratti della forma più pura di teatro o se invece sia una forma in qualche modo pre-teatrale. Nella mia esperienza il monologo teatrale ha ruotato comunque, sempre, attorno al rapporto esclusivo (e un po’ ossessivo) con un attore, con il quale si riescono a determinare le condizioni rare e irripetibili di uno strano rito: l’affabulazione come momento sacro e l’attore monologante come officiante di una cerimonia segreta, della quale sono all’inizio - l’unico, privilegiato spettatore. Il Pratone del Casilino, Dichiarazione (1996) contenuta in Massimo Giraldi, Giuseppe Bertolucci, Il Castoro, Milano, 2000

III.

L’urgenza drammaturgica di questo spettacolo nasce dal desiderio di distillare, nell’alambicco del monologo, sostanze linguistiche dai sapori apparentemente opposti: la prosa politica, polemica del Pasolini luterano e corsaro, i versi friulani del poeta di Casarsa e gli endecasillabi inediti (e sorprendenti) di Giorgio Somalvico, che - in un romanesco crepitante e reinventato - costringe in metrica il delirio di Pino Pelosi, detto er rana, nella sua scorribanda notturna alla guida dell’Alfa GT, per le strade di Roma e di Ostia, dopo l’omicidio. Il Teorema pasoliniano - genocidio culturale, imbarbarimento consumistico, uso strumentale dei media da parte del Nuovo Fascismo - si dispiega inesorabilmente in tutta la sua lucida disperazione, delineando, attimo dopo attimo, i connotati dell’assassino. Generandone i tratti identitari, le demotivazioni profonde, “pensandolo” quell’assassino, prima ancora di incontrarlo, in un vertiginoso (quanto “involontario”?) processo di invenzione. Una sorta di agone tragico - inteso come scontro, ma anche come agonia - tra un Padre e un Figlio, vissuto in scena da un solo corpo e da una sola voce che de-genera, senza soluzione di continuità, da vittima a carnefice, da Dottor Jekyll a Mister Hyde, in una reazione a catena culturale e linguistica tutta da sperimentare. Come spesso accade, il monologo è un appuntamento. Tra un attore e il suo talento, tra un regista e un attore, tra la teatralità e l’affabulazione, tra lo spettatore pellegrino e l’eremita in preghiera nella grotta. E il luogo dell’appuntamento è, appunto, la grotta del testo, dove tutti troviamo un comune riparo alle intemperie e ai disagi del viaggio, ma anche l’unico luogo dove tutti - immobili, in ascolto - paradossalmente viviamo l’esperienza del viaggio. (con Fabrizio Gifuni)

Il mio rapporto con Petrolio risale a dieci anni fa, quando nel’94 ho lavorato con Antonio Piovanelli al monologo Il Pratone del Casilino, ricalcato su un capitolo del romanzo di Pasolini. Allora rimasi stregato da quelle pagine che verbalizzavano la fisiologia della genitalità con una precisione e una proprietà mai raggiunte in letteratura né prima né dopo. Mentre, lo confesso, il disegno politico allegorico dell’opera mi lasciò del tutto indifferente. Ma, come spesso succede con Pasolini, sono il tempo e lo sguardo retrospettivo che restituiscono tutta la pienezza e la lungimiranza della sua affabulazione. Su questo formidabile “effetto ritardato” si basa anche il monologo al quale stiamo lavorando con Fabrizio Gifuni: una sorta di illusione ottica “temporale” che ci fa ritrovare il presente nelle pagine di un passato che era già futuro. ‘Na specie de cadavere dell’omonimo spettacolo, 2005

lunghissimo.

Programma

IV.

Ci impressiona quanto anche oggi Pasolini sembri vicino al nostro presente e quanto ci aiuti a leggere il futuro, nonostante provenga da trent’anni di distanza, dalle profondità del nostro passato. Anche se penso che egli più che un profeta fosse un aruspice, capace di guardare le viscere dei processi storici e antropologici, rilevando cose che altri non vedevano, ma che c’erano. Basti pensare al suo discorso sulla televisione, sulla società dei consumi, sui giovani, sulla omologazione culturale e sul pensiero unico.

Salò l’ho visto tre giorni dopo la morte di Pasolini imbucandomi a una proiezione a cui era stato invitato mio fratello Bernardo. È un film assolutamente unico senza altri esempi nella sua stessa filmografia e in tutta la storia del cinema. Dichiarazioni su Pasolini prossimo nostro (2006)

V.

La rabbia di Pier Paolo Pasolini nella ricostruzione di Giuseppe Bertolucci All’inizio ho avuto una sorta di timore reverenziale, perché non si trattava di restaurare, ma di costruire qualcosa che non era mai esistito, quindi più una simulazione che una ricostruzione. Nello stesso tempo poi quando Tatti Sanguineti, ideatore della cosa, ci ha spinto ad agire, avevo chiare due cose: che i materiali presenti consentivano l’operazione che andavamo a fare, e che ero molto attirato dall’idea di poter restituire a questo film la sua forma originale e quindi la sua integrità. Noi viviamo in tempi in cui i film del passato arrivano alla visione in modo distorto, si pensi alle edizioni televisive che rappresentano dei continui attentati all’integrità delle nostre opere, quindi, ho colto l’occasione di restituire integrità a un’opera che in fondo non l’aveva mai avuta veramente. Pasolini aveva malvolentieri accettato la coabitazione con Guareschi e mi è sembrato che fosse importante restituire l’integrità a un’opera così come inizialmente era stata concepita in un tempo come il nostro in cui l’integrità delle opere è sempre molto a rischio, molto in pericolo.

Ho usato anche nel testo di presentazione all’interno del film il termine “con beneficio di inventario”, che mi sembrava minimo. Sono stato, penso giustamente, spinto ad adeguarmi al fatto di avere la voce di un non attore nella lettura del commento e ho chiesto a Valerio Magrelli di partecipare all’operazione e ho deciso di partecipare solo nei titoli di testa. Non mi sono permesso di aggiungere altra musica perché mi sembrava di entrare in un sfera di soggettività molto discutibile. Abbiamo lavorato alla costruzione del montaggio della parte mancante, facendo riferimento a molti “segni”. Freud dice che il lavoro dello psicoanalista alla fine è simile a quello dell’archeologo che trova frammenti di rovina e può ripensare a com’era la città. Noi abbiamo provato a ricostruire l’integrità della costruzione, di quell’opera procedendo come fa un archeologo. C’è forse una certa dose di violenza nell’aver separato la parte di Guareschi da questa di Pasolini, ma proprio in questi mesi abbiamo partecipato al centenario di Guareschi con una mostra fotografica molto interessante. Non c’è stato nessun tipo di scelta ostile. Guareschi era uno scrittore controverso, dalle molte facce e non credo (è la mia personale opinione) che quello che esprime nel suo montaggio e nel suo commento de La rabbia, sia il meglio: in altre occasioni si è espresso in modo molto più interessante. Però voglio dire che noi stiamo lavorando anche su Guareschi. (10 settembre 2008)

Per Sergio Citti

di Pier Paolo Pasolini

“Sergio Citti da filosofo aiutò”: così canta Domenico Modugno sui titoli di testa di Uccellacci e uccellini. Il “consulente linguistico” di Ragazzi di vita e La notte brava per Pasolini era un filosofo. Stoico-epicureo, magari. Non marxiano, ma sicuramente materialista. Tanto per ribadire l’autonomia poetica e autoriale di Citti, e toglierlo sia dal folklore della borgata, sia dall’ombra ingombrante del Maestro che lo scopre, lo fa esordire, e lo difende dai “borghesi”. Si rilegga il risvolto pasoliniano della sceneggiatura di Ostia: “Dichiarando naïf un dilettante, dotanto di talento, proveniente da una cultura non borghese, tutto va a posto: compresa la coscienza (per sua natura razzista) dei professionisti borghesi. Invece no: Sergio Citti non è un naïf […] perché è del tutto cosciente della sua operazione formale; tuttavia porta da un mondo sottoproletario, imparlabile dalla cultura borghese, alcuni lacerti di sentimenti allo stato puro”. Citare oggi queste parole sembra un’excusatio non petita? I luoghi comuni su Citti (il borgataro, il naïf, il poeta - e a Citti non garbava troppo neanche quest’ultima etichetta) si sono stati puntualmente ripetuti all’indomani della sua morte, l’11 ottobre 2005. E pochi hanno ricordato quello che faceva grande e unico il suo cinema. “Sergio Citti” (è ancora Pasolini a scrivere, in una nota postuma su Storie scellerate) “crede solo, come personaggi, negli uomini e nelle donne che non credono, come lui. E che quindi vivono nel mondo come in una ridicola mascherata […]. È il loro pessimismo assoluto e totale che consente loro di essere allegri”. Come i due ladri che stanno per essere impiccati in Storie scellerate. Che Pasolini apprezzasse tutto questo, è segno di una generosità e apertura non scontata. A guardare bene, il cinema del primo Citti è quanto di meno pasoliniano si possa immaginare. Si vada al di là dell’identità di ambientazioni e interpreti: in Citti non c’è la “forza del passato”, e neanche la

sacra frontalità dell’immagine di Accattone. Alla fine di Ostia scopriamo quasi con sorpresa che siamo nel presente, che avanza il nuovo piccolo-borghese e consumista dei mangiadischi e delle domeniche sulla spiaggia. Ma il suo mondo nasce fuori dalla Storia; come notava ancora Pasolini, è a-ideologico, laico, privo di qualunque estetismo. Il suo unico orizzonte è la morte, la sua unica arma è la risata beffarda. E per questo, nel secondo film, può ambientare nella Roma del Belli novelle del Bandello in un progetto concepito come sequel decamerotico: senza scendere a compromessi. Forte di un modo di raccontare che è solo suo, paratattico (popolare? se vogliamo usare questo aggettivo, è per un fatto prima di tutto tecnico), oggettivo, più vicino al racconto orale che al cinema come viene comunemente praticato. Pasoliniano, Citti lo è diventato dopo. Dopo Casotto, in cui l’assenza di Pasolini è esorcizzata in un tripudio vitalistico, in una celebrazione del basso materiale-corporeo che di rado si è vista nel cinema italiano. Pasoliniano, Citti lo diventa con Due pezzi di pane, e Giovanni Grazzini - che già per Ostia aveva parlato di “squallore di racconto privo di intelligenza spettacolare” e di “taglio narrativo rozzo, inerte, maleodorante” - è pronto a rinfacciarglielo: “un regista popolare quanti mai… al quarto film si è convinto che tutto nel mondo cambia in peggio, e se ne accora come un colonnello in pensione”. Certo, le lucciole sono scomparse, i figli rinnegano i padri, e tutti se ne stanno chiusi in casa, un po’ più agiati e più incattiviti. Citti continuerà a ripeterlo, fino a Cartoni animati (dove assiste alla regìa il fratello Franco) e all’ultimo Fratella e sorello, che chiude malinconicamente il suo cinema dove era partito. Ma i tempi sono cambiati (e gli attori non sono più quelli di una volta: ieri Terzieff e Franco Citti, oggi Amendola e Ravello), e alla cognizione del dolore di Ostia (un fratello uccide l’altro) segue una fuga dalla realtà stile Dov’è la libertà…? di Roberto Rossellini (i due amici innamorati ritornano in prigione). Dopo Pasolini, il cinema di Citti ha pagato sia l’estraneità a ogni regola, sia il mutamento del panorama sociale, antropologico e urbano (quest’ultimo passaggio, per altro, è ben rappresentato in Due pezzi di pane e soprattutto nel

Minestrone, uno dei suoi film più felici). Il suo cinema da marginale ha rischiato spesso di farsi anacronistico, si è ripiegato nella fiaba (Magi randagi, che tanto urtò la sensibilità di Irene Bignardi, e dove è quasi irriconoscibile l’originario Porno-Teo-Kolossal pasoliniano) e nel passato (l’Italia fascista e postfascista di Vipera). Non sempre ha tollerato l’immissione di attori di fama (tra i più spaesati: Carol Alt e Malcolm McDowell in Mortacci). Ma nell’essere respinto o trattato con imbarazzo, nella sua stessa debolezza, ha mostrato quanto l’eredità pasoliniana sia rimasta scomoda e non assimilabile, malgrado la gara ad accaparrarsela. (Alberto Pezzotta)

*Le citazioni di Pasolini provengono da Pier Paolo Pasolini, I film degli altri, a cura di Tullio Kezich, Guanda, Parma, 1996.

I. Quello di Ostia è un caso. Ma si sa che anche i casi hanno le loro patenti, il loro codice: la possibilità di essere riconosciuti e catalogati come casi. Ciò non avviene per il caso del regista Sergio Citti. Finora che un regista venisse direttamente da un mondo popolare non operaio, non era mai accaduto: quindi si tratta di un caso anche rispetto ai casi. È vero, si sono avuti dei sottoproletari-piccolo borghesi che hanno scritto libri o dipinto: ma per essi la catalogazione era pronta: erano dei naïfs.

Dichiarando naïf un dilettante, dotato di talento, e proveniente alla cultura da una cultura non borghese, tutto va a posto: compresa la coscienza (per sua natura razzista) dei professionisti borghesi. Invece, no: Sergio Citti non è un naïf. Qualche critico ha azzardato di dire che Ostia è un po’ un ex voto. Ma l’ha detto a mezza voce, senza convinzione. C’è nel film l’oleografia di un Diavolo-pipistrello che porta sul suo groppone una ragazza bionda, che sta lì a fare la spia che Sergio Citti era ben cosciente di rappresentare almeno uno dei suoi personaggi (la Donna-demonio) come un personaggio da ex voto. E questo elemento “voluto”, di carattere manieristico popolare, si inserisce, contaminandosi, con il realismo degli altri personaggi (i due fratelli e i loro amici). È questa contaminazione che è indefinibile. E fa sì che Ostia sia un’affabulazione nata da esperienze profonde e atroci dell’Autore (anche autobiografiche: come l’episodio della pecora Rosina), e da una sua volontà “demoniaca” di liberarsene attraverso l’ironia: che non potendo essere di qualità borghese non ottiene gli effetti che di solito l’ironia ottiene. Infatti le psicologie dei personaggi e il loro rapporto con l’ambiente sono tutte perfette, e prive di deformazioni. L’unica deformazione è quella metafisica del Maligno: che contamina dunque la forma del film, non il suo spirito. Ma, ancora una volta, i caratteri non sono quelli consueti della deformazione metafisica: perché Sergio Citti non è un borghese spiritualista. Egli no crede in niente. La demonicità della donna è una sua ossessione privata, che non ha doppifondi spiritualistici o religiosi: resta inerte e ontologica. Sergio Citti non è dunque un naïf, perché è del tutto cosciente della sua operazione formale: tuttavia porta da un mondo sottoproletario, imparlabile dalla cultura borghese, alcuni lacerti di sentimenti allo stato puro: e ciò getta sulla sua opera una luce sconosciuta, di mistero non cercato: e dà nel tempo stesso all’opera una completezza e un’esaustività di quel certo reale che vuole esprimere - come ben raramente succede anche nei migliori film d’autore.

Pier Paolo Pasolini, Risvolto Ostia, in Sergio Citti, Ostia, Garzanti, Milano 1970 II. La critica migliore - non quella infingarda dei giornali padronali e razzisti - ha trovato bellissimo il primo film di Sergio Citti, Ostia. Era infatti un film bellissimo: solo Rossellini era riuscito a far dei film così belli con altrettanta semplicità e naturalezza. Il diabolico era dentro il film, non nella sua forma. Una riuscita come quella di Ostia si spiega attraverso l’autenticità dell’esperienza personale rivissuta nell’opera: l’amore tra due fratelli, la donna che vi si inserisce come elemento del Male, il mondo intorno nudo, privo di ogni ornamento. In Storie scellerate il fenomeno si ripete: il mondo circostante divora i personaggi protagonisti, sostituendoli con una folla di personaggi non protagonisti; ma in ognuno di questi però c’è il ricordo di un’esperienza reale, vissuta in un altrove che il destinatario borghese sente come una perdita. Questo “altrove” è il mondo popolare di una Roma antica (rimasta inalterata fino a pochi anni fa): non per niente il periodo storico in cui si svolge il film è quello in cui il Belli ha scritto i suoi sonetti. Questo mondo romano popolare è stato vissuto da Sergio Citti non solo perché egli vi è nato e cresciuto, ma perché l’ha contemplato. E l’ha contemplato proprio con l’occhio disinteressato e spiegato del filosofo (l’unico autore che egli ha letto per intero è Epicuro). Nulla resiste allo sguardo di Sergio Citti: nulla di ciò che è ufficiale, istituzionale, rispettato. Perché alla filosofia stoico-epicurea (che ha ignorato e snobbato per secoli il cattolicesimo) si aggiunge in Sergio Citti l’anarchia, che è una eredità famigliare. Nulla dunque resiste, ma crolla miseramente. Sergio Citti crede solo, come personaggi, negli uomini e nelle donne che non credono, come lui: e che quindi vivono nel mondo come in una ridicola mascherata, o in un deserto o, appunto, in una città crollata o crollante. Roma intorno è un

nulla chimerico e spregevole. I personaggi vi si muovono sapendolo. Non si aspettano assolutamente “niente” dalla società. Si arrangiano come possono, prendono dalla vita quello che riescono. È il loro pessimismo assoluto e totale che consente loro di essere allegri. Proprio come Sergio Citti: il nero plumbeo che copre il mondo gli consente di godere con completo abbandono i particolari in luce, quelli che vengono casualmente - per volontà di un destino altrettanto idiota che la storia - sotto gli occhi. Se vale la pena, appunto, si godono: se no si buttano. Un senso di morte come non-senso presiede dunque i sentimenti e le vicende di Storie scellerate: ma non c’è niente di religioso in questo senso di morte: esso è perfettamente aideologico, perfettamente laico (al contrario che nei miei film), e non si traduce mai in estetismo. Anche l’ironia blasfema delle “battute” non è solo un elemento (come nei miei film, che hanno goduto, in questo senso, dell’apporto di Sergio Citti): ma è tutto. Sergio può esprimersi linguisticamente solo attraverso la frecciata ironica che chiede una tale velocità di riflessi per essere capita, da passare qualche volta quasi inavvertita. A questa velocità della “battuta” (tutte le Storie scellerate non sono che un cumulo bellino di battute), risponde una strana pacatezza nel susseguirsi delle immagini: il “filmato” di Sergio Citti ha un suo passo lento e ineluttabile che fa sì che la vicenda “si svolga” nel senso letterale della parola: egli cattura il mondo passo passo, tanto sa che non può sfuggirgli: il suo pessimismo è così infinito che nega al mondo qualsiasi capacità di eludere: esso è capito una volta per sempre e senza scampo. È questa ideologia senza incrinature che consente a questo regista non borghese e incolto - che ha rifiutato di diventare un autodidatta - di essere addirittura raffinato ed elegante!

Pier Paolo Pasolini, Appunto pubblicato in Meridiano Cinema, 1973

Il mio attore Pier Paolo Pasolini di Carlo Lizzani

L’occasione di incontro con Pier Paolo Pasolini fu, per me, il film Il Gobbo. Era il 1959 e si affrontava per la prima volta un tema delicatissimo: un partigiano romano che, nel 1944, dopo la liberazione di Roma non cede le armi e, almeno per la sua borgata vuole “tutto subito”, anche a costo di mettersi contro la Legge, con rapine e uccisioni. Certo, ci ponemmo il problema: non sporcheremo la Resistenza, con questo film? Una bella responsabilità per degli antifascisti di ferro, come me, come i soggettisti e sceneggiatori Vincenzoni, Pirro e Mario Socrate, e come Pier Paolo Pasolini (sì, anche lui, narratore della Roma violenta, era stato coinvolto nell’ultima fase di scrittura del film). Il Gobbo dovette passare così sia tra le secche della censura governativa (al musicista Piero Piccioni fu imposto di cancellare una citazione di Bandiera rossa) sia tra i malumori di non pochi compagni partigiani. Ma anche Pasolini era stato fermo nel guardare con spregiudicatezza (forse memore della sua tragedia famigliare?) a quelle che oggi sono definite le ombre, gli aspetti oscuri che avrebbero macchiato la Resistenza. Durante il lavoro di sceneggiatura, Pier Paolo Pasolini contribuì a una certa “coloritura” dei personaggi, inventò dei nomignoli, si batté per attenuare certi aspetti un po’ melò della vicenda (che però sarebbero stati decisivi per l’enorme successo popolare del film). Significativo rimane invece per

me il suo contributo di attore. Non era certo la sua professione, ma frequentandolo durante il lavoro di sceneggiatura, mi venne, di giorno in giorno, sempre più la voglia di dare al personaggio del “monco” (un altro partigiano passato al banditismo) il suo volto duro, scolpito nella pietra. Con mia sorpresa accettò subito l’offerta che gli feci proprio alla vigilia delle riprese. Forse giocavano in lui diversi elementi, per spingerlo ad apparire sullo schermo: primo, un certo narcisismo, secondo l’amore per quei personaggi di borgata che aveva così ben raccontati nel suo romanzo, l’idea di vestirsi come loro, di diventare - attraverso un doppiaggio che era naturalmente già previsto - un vero ragazzo romano, insomma una voglia di mimesi non più di parole, ma di gestualità, di tratti fisici… Terzo - elemento forse più decisivo - la voglia di frequentare un set, conoscerne i retroscena, i segreti. Pasolini era al suo esordio nella regia, sognava di portare direttamente sullo schermo i suoi personaggi romani con Accattone voleva capire bene le varie professionalità del cinema. Il coinvolgimento diretto in un ruolo, gli parve evidentemente l’occasione d’oro per questo tipo di esperienza. Lo vidi infatti parlare spesso, con gli operatori, interessarsi ai vari tipi di obiettivi, osservare con attenzione il lavoro delle varie maestranze, chiacchierare con le sarte, i truccatori ecc… con mia sorpresa, anni dopo, accettò, malgrado fosse divenuto già un regista celebrato, una nuova offerta: il ruolo di un religioso rivoluzionario nel film western Requiescant. Lui stesso parlerà anni dopo, in modo affettuoso di queste nostre comuni esperienze, in una intervista al giornalista inglese Jon Halliday che mi piace citare: Ha recitato anche lei qualche volta: ha fatto la parte del gran sacerdote in Edipo Re, ed è apparso ne Il Gobbo di Lizzani. Com’è successo? P. - Per Lizzani ho recitato due volte. È un vecchio amico, e non riuscii a dirgli di no. Mi ci divertii parecchio, e la cosa

mi fu utile per farmi un’idea di quello che è un set: infatti feci una parte nel Gobbo prima di girare Accattone. E fu anche una piccola vacanza, durante la quale lessi molto. L’altra volta che ho recitato per Lizzani è stata un western, dove ho fatto un prete messicano che sta dalla parte dei ribelli. Il nostro rapporto sul set fu sempre gradevole, anche quando, in Requiescant, il Pasolini attore era divenuto il regista autorevole che tutti ricordiamo.

l montaggio come questione linguistica. Pasolini e Baragli di Roberto Perpignani

Quando si pensa al cinema di Pasolini, di fatto così singolare, ci si può trovare ad immaginare quali possano essere stati i procedimenti attraverso i quali le idee siano riuscite a trovare di volta in volta la loro forma, attraverso un vero e proprio lavoro di individuazione. Bernardo Bertolucci, che ha fatto la sua prima esperienza cinematografica come assistente nel film di esordio di Pasolini, Accattone , ricorda come su quel set si avesse l’impressione di assistere alla “invenzione” del cinema. Era ovviamente di una sensazione che non era motivata da avvenimenti oggettivi ma piuttosto da un clima creativo che rendeva tangibile il lavoro di trasferimento della forma immaginativa del suo autore, fino a quel momento letteraria, a quella degli “specifici”

cinematografici. Si sa che il “girato” delle prime settimane di ripresa aveva fatto dire ad alcuni* che il film non era “montabile”. Subentrato un secondo produttore* la lavorazione era ripresa certamente in un clima di maggiore comprensione che aveva consentito a Pasolini di continuare il difficile compito di “appropriazione” del nuovo procedimento linguistico e rappresentativo. Si trattava di un lavoro molto più complesso di quanto non avrebbe comportato il semplice “adeguamento” ad una forma cinematografica convenzionalmente concepita. Si può perciò supporre che le differenze venissero da una forma ideativa e creativa che in Pasolini era caratterizzata da un percorso immaginativo del tutto originale e personale. In un’intervista* Baragli dice testualmente: “ Lui spiegava le sequenze come fossero un libro. Anche quando girava era come se scrivesse un libro. Non aveva mai delle regole fisse: bisognava interpretarlo”. È così che nasce, su Accattone , la collaborazione tra Pasolini e Baragli, nei modi di un incontro basato sulla “interpretazione” come fatto essenziale e necessario. È ancora da un racconto di Baragli che cogliamo con maggiore immediatezza la nascita della loro intesa. “ A un certo punto ho detto a Pasolini: “ Pier Paolo, non si può fare! Non si può fare che un personaggio sta correndo, taglio, e lo ritroviamo fermo. Non si può fare!” Allora Pasolini si è tolto gli occhiali dalla testa, se li è infilati sulla gamba e mi ha detto: ”Come sai io sono anche scrittore e mi può accadere di scrivere: Accattone corre - Punto - Vado a capo - E poi scrivo: Accattone è fermo alla fermata del tram. Perché quando scrivo lo posso fare e quando faccio un film non lo posso fare?” Allora io ci ho pensato per un po’ e poi ho risposto: “Si può fare”. L’efficacia di questo racconto sta nella effettiva rappresentazione dell’incontro delle due diverse posizioni e delle due diverse personalità. Una collaborazione che nasce dalla necessità dell’uno di porre in modo esplicito delle esigenze, seppure in modo apparentemente naif, e di ricevere dall’altro, dopo un lavoro più che di comprensione di identificazione (“allora io ci ho pensato per un po’…”), una risposta adeguata. Soprattutto nel senso dell’adeguare una risposta concreta ad un’esigenza “diciamo” teorica. Ed è chiaro che si tratta di un accordo basato sulla

complementarietà che non può che saldare in modo molto forte due persone di fatto diverse. Ci siamo trovati un giorno con Baragli e Fraticelli in una commissione d’esame per l’ammissione al Centro Sperimentale di Cinematografia e ricordo di aver proposto al giovane esaminato di fare delle considerazioni su una sequenza di Accattone, per l’esattezza sulla sequenza finale quando tutti corrono verso il luogo dell’incidente. Si tratta di un momento in cui sono montate una dopo l’altra tre diverse immagini di persone che corrono seguite in panoramica da destra verso sinistra; prima un gruppo di “ragazzini” curiosi che corrono verso l’incidente - stacco - poi “il biondo”, il giovane proprietario della moto rubata da Accattone - stacco per ultimi gli amici di Accattone che corrono con le mani chiuse nelle manette - stacco - segue l’epilogo con l’arrivo sul luogo dell’incidente e la conclusione sul viso di Accattone che dice “Ah, mo’ sto bene!” Il giovane non sembrava capire cosa io gli chiedessi, ma anche Baragli sembrava non avere chiare le mie intenzioni. Quando io dissi al giovane: “ Non ti rendi conto che è geniale!” vidi Nino fare un’espressione meravigliata come a dire : “ Ma sei sicuro?”. In quei tre “stacchi” che riportavano sempre indietro lo sguardo dello spettatore verso qualcun’altro che sopraggiungeva sentivo una prova di autonomia dalle convenzioni che indicano come opportuni procedimenti più descrittivi, e nello stesso tempo si potevano avvertire anche i riferimenti non necessariamente intenzionali ad una serie di casi linguistici incentrati sulla scansione delle ripetitività; alludo a Eizensteijn. Inoltre in quella sequenza finale si sentiva la sintesi tra un cinema che ci aveva nutrito tutti, il neorealismo di Ladri di biciclette, e una poetica diversa che si poneva il compito di raccontare in modo nuovo i personaggi popolari. Poco prima, nel prefinale del film, Accattone e gli amici si siedono stanchi sul marciapiedi e ridono di uno di loro che si è tolto le scarpe appestando l’aria. La sequenza, che mira a coinvolgere nell’ilarità anche lo spettatore, è formalmente essenziale e mi verrebbe da definirla molto “grezza”; il “materiale”, ovvero “il girato” sembra formalmente impreciso, ma di fatto è montata con un notevole senso della necessità, la cui efficacia sembra essere costituita da una ritmica fratturata indotta dal carattere sincopato, quasi

onomatopeico, delle risate. È un primo approccio ad un’esigenza, più tardi approfondita intenzionalmente, ad esempio nel Vangelo secondo Matteo , di cercare la strada delle equivalenze tra forma ritmica della parola, del verso, e forma dinamica dell’immagine e del montaggio. Nel Vangelo , nella sequenza del “Discorso della montagna” c’è una realizzazione delle idee in immagini che si basa sulla assoluta libertà interpretativa della forma e della attendibilità. La prima a cadere è la norma dell’unità di tempo e di luogo. Ad ognuno dei “versetti” corrisponde un’immagine diversa per tempo e ambientazione, ma molto poco diversa come “taglio” di inquadratura, su un soggetto unico, il viso di Cristo, iterato ossessivamente, seppure variato nei toni e nella luce, nelle condizioni atmosferiche, complementi delle enfasi oratorie insieme alle variazioni delle espressioni e della voce. È un blocco “costruito” più che costituito da parti diverse ma uguali (sempre in primo piano -P.P.), non diversificate formalmente e ostinatamente attaccate su se stesse, nei casi eccezionali “sull’asse”. Altro che “Accattone che corre - stacco - Accattone fermo”! - caso emblematico dell’inizio del sodalizio tra Pasolini e Baragli. Pasolini muove la sua fantasia senza inibizioni, nella capacità di considerare come complementari le forme che gli fanno da riferimento e costituiscono lo strumento autentico della sua esigenza espressiva: l’inquadratura come verso. In casi come questo la forma cinematografica è basata sull’elemento strutturale che è composto dal verso e dal P. P. , mentre insieme le immagini del viso del Cristo si sostengono tra loro come i versetti del Vangelo. Inoltre la forma cinematografica consente a Pasolini di dare un’interpretazione singolare al “Discorso della montagna”. Pur senza cambiare le parole del testo il senso del noto avvenimento si è modificato. Non solo non è stata rispettata l’unità di tempo e di luogo, ma non è stata rispettata, più significativamente, l’unità del discorso. Se un discorso tende a modulare le sue parti in un principio di concatenazione, di continuità, in una retorica della consequenzialità, nella “versione pasoliniana” ogni affermazione diventa lapidaria, essenziale e in se stessa

programmatica. Il discorso si è tramutato in una miriade di affermazioni assolute. Nello stesso film, più avanti c’è una sequenza che lascerebbe sconvolto chiunque, anche un “montatore”. È la sequenza del Getsemani quando Cristo viene distolto dalla preghiera dal sopraggiungere di coloro che vengono per arrestarlo. La sequenza che “ci interessa” inizia con Cristo che si “lancia” ad impedire che ci si opponga facendo resistenza all’ineluttabile, mentre la stessa sequenza arresta violentemente la sua dinamica con il P.P. di Giuda, fermo, che lo abbraccia. Nel frattempo una costruzione formale astratta e simmetrica fa di tutto per apparire attendibile, in base certo alla chiarezza del senso, aiutata da uno stato di confusione portato dalla situazione, ma non ultimo dalla impossibilità, in cinema, di poter considerare analiticamente le anomalie. Non si può che andare avanti. In una prima immagine Cristo viene “verso macchina” (ovvero verso lo spettatore), cercando di intervenire in… una situazione di confusione composta da più inquadrature alla fine delle quali si nota un seguace di Cristo brandire una spada. Cristo sta continuando a venire avanti correndo “verso macchina”, pur se è tornato a ripartire da più lontano, e sentiamo la sua voce che vuole impedire che si usi la forza. Nella lontananza, in una situazione di luce incerta, nella foga della corsa, sembra di vedere che Cristo non sta di fatto pronunciando le parole che sentiamo e che però… immobilizzano l’uomo che stava ferendo un soldato. Cristo, continuando a gridare sta ancora venendo avanti, in un’inquadratura che sembra la ripetizione di quelle già viste, ma questa volta sta di fatto parlando e dicendo le cose che sentiamo. Sopraggiungono dei sacerdoti. Cristo, esattamente come nell’immagine precedente, incede gridando, in sincrono. Da un tumulto di persone, come viste da Cristo, si stacca Giuda che viene verso la macchina da presa, ovvero verso

Cristo. Ancora Cristo, la cui immagine non sembra in nulla diversa dalle altre, che sta ancora parlando, ma nel venire avanti ci rendiamo conto che di nuovo, simmetricamente con quelle iniziali, non muove la bocca. Giuda continua a correre verso di lui e in campo lungo si abbracciano. Improvvisamente un P. P. di Giuda sulla spalla di Cristo in silenzio ferma di fatto l’azione. Le esigenze di una sequenza come questa devono certamente aver prodotto in Baragli un caso di modificazione profonda dei riferimenti formali e costruttivi fino ad allora creduti come indiscutibili, un adeguamento che non poteva risolversi altro che nella piena condivisione cocreativa. Al punto da aprire nella natura immaginativa di un montatore professionista come una strada “altra” che non pretendeva di imporsi come “conversione”, ma che potenziava di fatto, molto oltre il prevedibile, le sue facoltà creative e concettuali. Al Pasolini letterato, sociologo, antropologo, filosofo, necessitava uno strumento comunicativo che avesse nella sua tradizione la forza del convincimento, della dimostratività. E il cinema, rappresentando fisicamente i pensieri, poteva avere questa efficacia, questa forza, e liberare una attitudine a condividere i grandi temi della natura umana. Che fosse lontana nel tempo della nostra formazione ancestrale come quella di Cristo o in una narrazione arcaica di un tempo protostorico dove tutto diviene simbolo, o ancora nell’intenzione di condividere un mondo di esseri emarginati dalla modernità. In poco tempo ciò che Pasolini si poneva come compito doveroso, cercare di conquistare un controllo effettivo del mezzo per poter formulare in autentica libertà la propria individuata esigenza espressiva, e di conseguenza una propria ricerca di equivalenze stilistiche, si era ampiamente realizzato. La scelta cinematografica era diventata una forma pienamente rispondente al proprio progetto di “autore”, il quale è veramente tale quando agisce coerentemente sulle scelte della forma. Gli anni ’60 erano peraltro gli anni che avevano da più parti rotto le resistenze di una cinematografia legata all’idea di prevalenza di una concezione canonica

uniforme e si erano avviate tante ricerche, in varie direzioni, affermando la legittimità di una necessità innovativa. E Pasolini, che già possedeva nello specifico letterario tutti gli strumenti per maîtriser la forma creativa fino all’esattezza linguistica, attratto dal cinema, aveva saputo comprendere quanto questa forma e i suoi percorsi realizzativi implichino la necessità delle collaborazioni, fino alla assimilazione reciproca, fino alla simbiosi. Le sue esigenze venivano guidate da una spontaneità immaginativa alla quale aveva dovuto rispondere, adeguandovisi, la spontaneità della sensibilità identificativa di Nino Baragli. Un tale incontro, fatto di comprensione e complementarietà, di coincidenza delle diversità, era dotato profondamente di una naturale attrazione combinatoria. Roberto Perpignani, Dare forma alle emozioni. Il montaggio cinematografico, Falsopiano, 2006.

Cineasti alla prova del cinema di Pier Paolo Pasolini

Lino Del Fra

… Eravamo adulti, Pasolini e io, in un caffè pacchiano e anonimo nei pressi della stazione Termini; lui ancora fresco di

una malattia influenzale oggi di moda, mi sembrava più timido del solito, un po’ lamentoso e depresso. Era il tardo pomeriggio di una inutile e balorda giornata autunnale e l’atmosfera appariva tutt’altro che propizia alle discussioni e alle polemiche. “È necessario uno shock” pensavo e mi ritornò alla mente l’ultimo Premio Viareggio. “Che cosa hai provato sapendo di non aver vinto il Viareggio?”, chiesi con voce che voleva essere pacata. Mi rispose un lamento, un sordo mugolio disperato. “Perché tiri fuori queste domande?”. E i suoi occhi erano timidi e spenti. Cercai di spiegare che la mia domanda aveva un preciso obiettivo polemico: la giuria del premio. Si riprese, ci pensò su per un momento, poi scandendo le parole, come se dettasse: “La recente esperienza del Viareggio fa scendere di un nuovo segmento la linea discendente del grafico dei miei rapporti con l’umanità. Nella fattispecie, con la società letteraria italiana”. “È una risposta breve” dissi. E lui di rimando, un po’ ironico: “Lapidaria”. Ma non si fermò lì. Capii subito che il discorso ci avrebbe condotto molto lontano. Bastò soltanto una mia ulteriore sollecitazione per spingere Pasolini ad affrontare un tema delicato: l’atteggiamento della critica nei confronti dei suoi libri. “Ragazzi di vita” non ha avuto un’esistenza facile. A parte le vicende giudiziarie il mio libro è stato accolto con le più violente stroncature o con i più vivi e acuti elogi. Alcuni critici hanno sottolineato il carattere descrittivo, più che narrativo del lavoro. Magari avranno anche le loro ragioni, io però non avevo intenzione di scrivere un romanzo; volevo fare semplicemente un libro che fosse un documento, che rappresentasse soprattutto una testimonianza. Niente di più o di diverso. Al contrario, su “Le ceneri di Gramsci” la critica è apparsa fino ad oggi, maggiormente concorde. Tuttavia, a parte qualche eccezione, mi sembra che i discorsi sulle mie poesie siano stati troppo spesso generici e lontani dall’avere espresso, in termini negativi o positivi, una precisa e approfondita valutazione. Mancano però i giudizi più qualificati, che dovranno apparire in queste settimane dopo la

normale stasi editoriale di alcune riviste, dovuta al periodo estivo”. Un largo settore della critica ha definito “Le cenere di Gramsci” come un ritorno alle tradizioni dello scorso secolo, come poesia civile in violenta rottura con il clima ennetico delle attuali tendenze. È stato fatto, tra gli altri, il nome di Carducci. Sull’argomento l’opinione di Pasolini è decisa: “non è un ritorno. Il parallelo mi sembra del tutto esteriore. I nostri poeti civili sono sempre stati, per qualche verso, conformisti e apologetici. Le mie poesie al contrario vorrebbero essere problematiche, decisamente critiche. Può darsi che il linguaggio di Le ceneri di Gramsci risenta della tradizione. Usare una forma logica concettuale, prosastica e apparenetemente tradizionale rappresenta tuttavia una rottura violenta rispetto alla analogicità dell’ermetismo. Si tratta quindi di un’innovazione, di uno sforzo polemico anche nei confronti della mia formazione novecentesca. Penso addirittura che gli ottenebramenti che possono forse ritrovarsi, qua e là, nelle mie poesie, nascano proprio da questo contrasto, da questa lotta interiore contro le antiche scorie”. Pasolini è nato alla letteratura giovanissimo, in un periodo malinconico e sterile. Le sue prime esperienze, i suoi primi interessi, “non potevano fatalmente andare al di là dei modi aulici e sterili della Ronda e di Solaria”. I suoi primi studi sul dialetto, i suoi stessi componimenti dialettali tendevano alla ricerca o all’espressione di una estenuata squisitezza formale; alla letteratura ricca di una raffinatezza fine a se stessa. In seguito, anche per Pasolini, venne la crisi e con essa il desiderio della ricerca di nuove più ricche prospettive. Si approfondì in lui l’interesse per la poesia popolare, per il mondo autentico e immediato della gente semplice, per il linguaggio del popolo brusco e spoglio; colorito ed efficace. Un mondo al quale lo scrittore vuole restare fedele: “Sto preparando un romanzo, sullo stesso ambiente e con lo stesso linguaggio di Ragazzi di vita. La struttura di questo nuovo lavoro sarà però assai diversa. Racconterò le vicende di un solo personaggio, un ragazzo bruttarello, malato, umiliato,

diverso dagli altri, solo. La sua condizione fisica, le sue vicende, spesso avvilenti, determinano in lui un atteggiamento psicologico confuso, disordinato, contorto. Il mio nuovo personaggio è in preda a un desiderio, a tratti affannoso, di esistere, di affermarsi, uscendo da una situazione di inferiorità e di avvilimento. Tutto ciò si concretizza in una serie di esperienze politiche, le più varie e contraddittorie, sulle quali influiscono costantemente i motivi intimi e privati. Da prima fascista, egli scivolerà poi verso una forma esasperata di anarchismo teppistico, ben presto dissolta in un piatto e avvilente conformismo verso la forza politica dominante. Infine, allorché, malato, dovrà rifugiarsi in una casa di cura, la sua crisi potrà risolversi in una precisa prospettiva critica nei confronti della società e in un desiderio, coscientemente rivoluzionario, di rinnovamento”. Nel suo romanzo Pasolini tenterà quindi di approfondire la sua maniera narrativa: “Resterai meravigliato se ti dico che le mie recenti esperienze di sceneggiatore cinematografico sono risultate preziose per un affinamento della tecnica e dei metodi di raccontato. E non mi riferisco soltanto al mio lavoro con Felini per Le notti di Cabiria; un lavoro entusiasmante e traumatico e fianco di un mago che somiglia a una savana piena di sabbie mobili, per penetrare nella quale non bastano la guida nera della malafede o l’esploratore bianco della razionalità. Anche le sceneggiature più commerciali e anonime mi hanno offerto motivi utilissimi di riflessione e di interesse…”. Fu a questo punto che la discussione si interruppe bruscamente. Uscimmo a precipizio dal bar vacuo e pacchiano, dirigendoci verso la vicina stazione. Pasolini attendeva l’arrivo di alcuni amici. Io dovevo imbucare ai treni le solite corrispondenze. Il colloquio aveva giovato, credo, a tutti e due. Lui, parlando delle sue cose, si era tirato via di dosso qualche grammo di quella patina pigra e molle che lo affliggeva; io avevo fatto volentieri le mie domande e volentieri avevo ascoltato. Pasolini oggi è di moda. Lo sanno tutti; anche lui, ma non dà l’impressione di gioirne molto, di inorgoglirsi oltre il necessario. Ho idea che non si consideri arrivato. Cerca ancora, e non è poco.

“L’Italia che scrive”, 10 ottobre 1957

Bernardo Bertolucci

Se non fosse per i giornalisti, il primo film diretto ad Pier Paolo Pasolini rischierebbe senza dubbio di restare un caso unico e curioso: le otto settimane previste per la lavorazione di Accattone si inseriscono per forza di cose in una cornice insolita, di interesse autentico, a un ritmo, per chi ce le fa, assai importante. Invece, ecco qua: attori in isterico e diligente viavai tra la prigione e il set, e viceversa; scrittrici famose che ramazzano la polvere dai pavimenti delle baracche della Gordiani; cantanti (bionde) indecise tra la calzamaglia e la divisa da crocerossina; schiere di cineasti “veri” che cospirano nell’ombra e organizzano pattuglie d’assalto, e così via per i fili del più bieco conformismo e della convenzionalità più sprovveduta. Non era facile banalizzare la disperazione che si respira nei fetori primordiali della Borgata Gordiani, e neppure altrettanto facile trovare “piacevolmente veri” i lineamenti di Accattone, del Tedesco, di Giorgio il Secco e di Maddalena e di tutti gli altri: i giornalisti ci sono riusciti. Hanno voluto fare di Accattone e dei suoi amici, nel migliore dei casi, una sorta di Corte dei Miracoli con sede a Torpignattara, senza però riuscire neppure nell’errore, abilissimi chissà se nella banalità o nella menzogna. Pier Paolo Pasolini dirige i suoi attori con estrema cortesia, cosciente delle difficoltà che incontra e quasi si sente colpevole di trovarsi dall’altra parte della macchina da presa a temperare e a scatenare umori sui volti dei suoi amici, a bloccare quei volti con una scrittura che gli è nuova. Quasi temesse di violare con la tecnica cinematografica il materiale

poetico e affettivo accumulato per mezzo della parola. Accanto a questi timori, che la vitalità accalora, la medesima vitalità accende fuochi di un interesse altrettanto esclusivo per lo stile cinematografico, per l’inquadratura, per la successione delle immagini nella struttura del racconto, per il montaggio. Sono più filtri che agiscono contemporaneamente, freni e stimoli, tutta la pena e tutta la fiducia che Pasolini ha nel mondo. Si è detto che Pasolini lavora con una troupe ridottissima. È composta da: un aiuto regista, un assistente alla regia, un direttore della fotografia, un operatore alla macchina, due aiuti operatore, un architetto, un arredatore, un fotografo di scena, due tecnici del suono, un truccatore, una sarta, quattro macchinisti, cinque elettricisti, un pullman, dove gli attori si cambiano, due camion carichi di attrezzi. Una troupe normale, insomma, ed efficientissima. Pasolini si sposta a girare dal Vigneto alla Via Portuense, dall’Eur alla Borgata Gordiani, muove i suoi personaggi in una Roma ignara e primaverile, sotto improvvise acquate e soli meridionali, immerso in un’avventura che lo assorbe, alla scoperta di una nuova lingua: passione e ideologia non abbandoneranno mai Pasolini, sono ancorate alla sua disperazione e al suo ardore quasi religioso. La “vita” di Accattone, “Vie Nuove”, 6 maggio 1961

Gideon Bachman e Jonas Mekas (con Pier Paolo Pasolini)

Bachmann: Se ho ben compreso le recenti osservazioni di Pasolini egli è del parere che la cinepresa riprende sempre il presente. Tutto ciò che si inquadra con la cinepresa è il presente. Ma nel momento in cui si monta e si ricompone,

quando cioè questo “presente” viene incollato, si creerebbe il passato. Mekas: Non vedo nessuna differenza di principio tra il punto di vista di Pasolini e le idee che abbiamo Brakhage ed io. Noi tutti, durante il montaggio, lavoriamo con brandelli di realtà. Il problema è come e dove tagliare. Molti prevedono il montaggio già durante la ripresa, come avviene del resto anche nella pittura e nella poesia: anche qui l’“edizione” comincia durante il processo di genesi del quadro o del testo. Poi succede che molte poesie vengano distrutte e ricostruite, e forse migliorano… Veniamo spesso accusati di non montare più i nostri film, ma la gente che ci critica semplicemente non ha capito che il cinema è diventato adulto e che la rielaborazione o il perfezionamento si effettuano già nella genesi della ripresa, in modo intuitivo ed automatico. Ovviamente mi riferisco soprattutto al film poetico, che utilizza in misura minore le forme della narrativa. Ma quando parlo di “rielaborazione” (editing), non intendo il lavoro tra un’inquadratura e 1’altra, come nel mio single-frame-shooting, ma all’interno stesso dell’inquadratura, perché la macchina da presa “monta” anche nel corso dell’inquadratura. Pensi a Douglas Sirk, o John Ford: anche per loro la cinepresa lavora all’interno di ogni singola inquadratura, c’è montaggio anche quando non ci sono tagli nelle singole scene. In questo senso dico che il mio punto di vista non è diverso da quello di Pasolini. Bachmann: Mi sembra che lei consideri il montaggio come un atto emotivo più che logico, come invece lo intende Pasolini. Lei forma il “passato”, fissa intuitivamente 1’espressione definitiva, nell’atto stesso della creazione, per cui tutto verrebbe contenuto in questo atto creativo: il “presente” dell’atto che diventa, nel lavoro, “passato”. In breve, se si fondessero le sue idee con quelle di Pasolini, si potrebbe dire

che l’atto di creazione trasforma il presente in passato. Meglio: che il tempo viene fermato. Mekas: Poiché il cinema evolve nella sua totalità, anche le tecniche di rielaborazione cambiano, diventano sempre più automatiche. I pittori abitualmente non compiono alcun tipo di scelta logica, non dicono a se stessi “ora devo muovere il pennello a destra, ora un po’ più in alto”, e così via. Essi sentono il modo in cui devono muovere il pennello. È questo ciò che intendo quando parlo di “montaggio automatico”, e non dipende dalla bravura dell’artista: è una questione di principio, di sensibilità. Per noi queste non sono idee nuove, ma qui in Europa i nostri film appaiono “nuovi” a molta gente. Mi piacerebbe chiederle che cosa si intende per “nuovo”, qui. Ci sono i festival del “nuovo cinema”, ma poi si scopre che la gente non ha affatto chiaro il significato dell’aggettivo. Il pericolo, con 1’uso esagerato del termine “nuovo”, è che i critici si sentano incoraggiati a chiamare non nuovo qualcos’altro, perché si aspettano che il nuovo debba essere nuovo completamente, come un nuovo genere, mettiamo, che non può essere tale, se ha delle radici… Io penso che “nuovo”, per quanto riguarda il cinema, stia a significare che il linguaggio si modernizza, si fa più acuto nella sintassi, nella grammatica, nel ritmo, nel metodo, idoneo al sentimento come lo si intende oggi, per poter esprimere sensazioni e realtà mutate. Questo non significa che deve essere reinventato: il vocabolario è lo stesso, si aggiungono solo una, due parole. In fin dei conti Rilke utilizzava lo stesso linguaggio di Holderlin, con alcuni importanti cambiamenti. Io sono contrario al fatto che persone come Aristarco guardino i nostri film e dicano: “Dziga Vertov utilizzava già la tecnica del single-frame esisteva già da tempo nel cubismo; Buñuel l’aveva già utilizzata, non c’è nulla di nuovo in ciò che voi fate ora…”. Pasolini: Non dobbiamo prendercela con i professori. Per me tutto, comunque, è sempre nuovo.

Mekas: Tuttavia c’è bisogno di una qualche consapevolezza di ciò che è nuovo, anche perché quando la vita intorno a noi cambia, quando la realtà esteriore e anche quella interiore cambiano, alcuni artisti tendono ad adattare i nuovi contenuti alle vecchie forme a loro familiari. Usano le stesso vecchio ritmo di vent’anni prima, le stesse cadenze, costringendo la nuova sensibilità in un letto di Procuste, e il contenuto viene falsato. Pasolini: A prescindere dal fatto che tutto è sempre nuovo, perché lo vediamo sotto una nuova luce, io non desidero né definire questo “nuovo” né approvare norme ormai cristallizzate. Tutto è nuovo nel senso che gli eventi provocano sempre meraviglia, e le osservazioni sugli eventi, quando sono a priori, non hanno alcun valore. Mekas: Riconosco che il “nuovo” non dovrebbe essere definito, ma io desidererei un po’ di chiarezza, anche perché molti respingono il nostro Nuovo Cinema, o meglio rifiutano semplicemente i film, mentre utilizzano una propria definizione del “nuovo”. Queste definizioni, che per la maggior parte non sono neppure tali, e questi vaghi e contraddittori pregiudizi devono essere distrutti. Forse dovremmo arrivare a una comprensione molto aperta del “nuovo”, in modo che nessuno possa più attaccarci al riguardo. Pasolini: L’unica possibilità è non ascoltare queste persone, ignorarle. L’unico rapporto possibile con loro è il disprezzo. E io non ho tempo per gli idioti. Mekas: Non è per me che mi preoccupo, ma ovunque viene sempre posto lo stesso problema. Abbiamo preparato un programma di film in quattro serate, ci muoviamo in giro per 1’Europa e ogni sera, dopo la proiezione qualcuno si alza per porre questa famosa domanda. E ciò accade non perchè si

chiama “Nuovo cinema americano”, ma perché i professori hanno confuso le idee. Bachmann: Lei ha quindi un bisogno di chiarezza fondato soprattutto su motivi pedagogici: chiarire per evitare fraintendimenti. Non sarebbe più importante esaminare i fenomeni che vengono chiamati “nuovi”? Pasolini: Questo io lo faccio sempre. Mi pongo davanti ai fenomeni definiti “nuovi” e li analizzo. I1 criterio della “new sensibility” lo accetto ma questa nuova sensibilità è qualcosa di astratto; diventa significativa solo quando viene applicata a situazioni storiche concrete. È ciò che in ultima analisi fa ogni artista appartenente ad un determinato ambiente sociale e linguistico, quando inventa quelle poche parole nuove di cui lei ha parlato per adattare la propria lingua alla nuova sensibilità. Ora, dal momento che cerco di trovare le radici sociali, politiche e storiche del “nuovo”, anche io mi domando come debba essere analizzato questo fenomeno. E da questo punto di vista penso che la novità assoluta del cinema sperimentale americano corrisponda allo spirito della Nuova sinistra, che è un fenomeno politico nuovo. Con questo non voglio dire che i suoi film appartengano consapevolmente e in modo totale alla Nuova sinistra, ma sotto il profilo storico rappresentano un’espressione precisa del suo spirito: la loro forma nuova rappresenta una nuova possibilità per una opposizione alla società americana. Mekas: Io chiedo sempre che i nostri “programmi ambulanti” siano presentati come proiezioni di film politici, ma in genere gli organizzatori non lo fanno. Il fatto è che una richiesta come questa scatena molte discussioni, e si spiega col fatto che la politica per molti è una questione del tutto superficiale. Persino durante il “Festival del Nuovo cinema”, a Pesaro, si sono rifiutati di presentare il nostro come un programma politico.

Pasolini: È ovvio. Pesaro viene organizzato dal Partito socialista, che attualmente è al governo in Italia, e tenta di diminuire il significato politico della manifestazione. Invece le sue proiezioni di Torino, all’Unione culturale, sono state organizzate da un circolo culturale filocinese, e so che il programma è stato presentato come politico. Questo circolo, raccoglie a modo suo degli anarchici filocinesi, ai quali interessa sviluppare gli aspetti politici dei suoi film. Bachmann: Forse sarebbe opportuno definire la funzione politica di questi circoli cinematografici anarchici. Pasolini: Per me è abbastanza chiara. È la stessa che induce il direttore del festival di Pesaro a non dare rilievo agli aspetti politici di questi film. Si tratta di un socialista, per formazione, educazione e mentalità, un marxista tradizionale. Per lui i vostri film sono apolitici, perché provengono dal cuore del ceto medio e non riflettono le esperienze del marxismo. Per lui è difficile considerarli politici, se non sono marxisti.

Mekas: Io penso che il nostro marxismo sia sopravvissuto a Freud, a Wilhelm Reich, al Beat, all’ Lsd… Pasolini: Certamente, ma ciononostante il marxismo americano rappresenta un’esperienza trasmessa, non vissuta. In America non c’è mai stata una rivoluzione che si potesse definire “marxista”, mentre per gli europei il marxismo rappresenta un’esperienza viva. Per questo motivo percepisco la vostra lotta come una lotta politica fuori dal marxismo e da un programma marxista. Per questo motivo amo il “new cinema”, ma non quello fatto in Italia. Non amo i film dei giovani registi, perché sono “qualunquisti”, come del resto sono “qualunquisti” molti esponenti della letteratura d’avanguardia italiana.

Bachmann: Questa parola non può essere tradotta. “Uomo qualunque” in Italia era un Partito politico creato subito dopo la guerra, che diede ad intendere di essere una sorta di partito per “ogni uomo”, ma in verità nascondeva tendenze neofasciste. Oggi “qualunquista”, nel vocabolario politico italiano, è un aggettivo che si paragona più o meno al nostro “reazionario”, ma contiene nello stesso tempo 1’elemento del rifiuto di responsabilità sociale e di tendenze totalitarie, con atteggiamenti un po’ alla Wilde-Engel. Negli ambienti progressisti equivale ad un insulto. Mekas: I movimenti politici in Europa sono sempre molto intensi, e basati su esperienze; invece in America abbiamo ben poche esperienze politiche. I movimenti artistici, o indirettamente politici - come gli scioperi, le manifestazioni studentesche non hanno mai espresso una consapevolezza politica ma solo reazioni personali, che finiscono per suscitare un orientamento politico. E solamente ora si sta sviluppando un tipo di pensiero marxista, a partire dal rifiuto dello stato di cose esistente. Noi diciamo: “Non vogliamo essere dove siamo; non sappiamo cosa ci sia davanti a noi ma non vogliamo rimanere dove ci troviamo ora”. Questa potrebbe essere la differenza essenziale tra la generazione dei giovani americani e quella europea. E questa è la domanda davanti alla quale ci si trova continuamente in Europa: qual è il vostro scopo?”. Rispondiamo: “Il nostro scopo è andar via da dove siamo adesso”. Perciò veniamo spesso definiti anarchici. Pasolini: Anche in Europa ci sono esperienze simili. I poeti della boheme ottocentesca, per esempio, e i “rimbaudiani”… Mekas: E oggi i Provos… Pasolini: Quindi una terza forza, una Terza Alternativa esiste anche in Europa. I marxisti insultano questo movimento

della Terza Alternativa definendolo “borghese”, perché sorto in seno ai ceti medi. Si tratta di una sorta di odio-amore. È un odio rivolto contro 1’establishment ma è pur sempre un odio che assomiglia all’amore. Potremmo considerarlo come un “amore deluso”. Mekas: Qualche settimana fa ho cercato di spiegare ad un rappresentante della Pravda il significato dell’anarchia nell’America d’oggi. È andata avanti per ore. Ma è stata la prima volta in cui ho avuto la sensazione che uno di loro avesse capito il significato di azioni prive di uno scopo preciso. Azioni il cui unico scopo è la distruzione della situazione attuale. La prima volta che un russo sembrava veramente capire, capire anche che il nostro punto di vista può avere una funzione politica utile. Mi è sembrato un progresso. Pasolini: Lei dice che quel russo capiva? Come comunista, è un uomo vuoto, riempito forse di un po’ di disperazione…. Bachmann: Essere vuoti e pieni solo di disperazione oggi non mi sembra un privilegio dei comunisti. Infatti sembra che la grande minaccia della Terza Alternativa sia nel fatto che 1’epoca industriale ha abituato i giovani di ogni paese ad una determinata direzione, ad una certa speranza, e le idee anarchiche arrivano troppo tardi per creare scompiglio. Una volta persa 1’indipendenza spirituale ed intellettuale, la maggior parte delle persone non sa più cosa farsene della libertà di spirito, di pensiero, di azione. Come si può contrastare questa grande indifferenza? Mekas: Oggi in America ci sono sette milioni di cineprese da 8 e 16 millimetri. Noi dovremmo togliere i film alle compagnie di distribuzione e farli circolare nelle case, questo è il vero significato del cinema underground. Ma certo togliere, all’industria cinematografica tutti i film che produce è un’idea azzardata. Allora liberiamo quei sette milioni di cineprese, in

modo che possano compiere un gesto intenzionale… Ogni bambino che cresce in una casa dove c’è una cinepresa potrebbe cominciare a fare qualcosa di diverso dai soliti filmini familiari, potrebbe assimilare qualcosa a vantaggio della propria consapevolezza, del proprio sviluppo. Penso che sette milioni di cineprese potrebbero diventare una forza politica. Affronterebbero tutti gli aspetti della realtà, e se alla fine riuscissero a entrare nelle prigioni, nelle banche, nell’esercito, ci aiuterebbero a capire il nostro punto di vista, e da lì potremmo metterci in cammino per andare altrove. Ci piacerebbe dare a sette milioni di cineprese una voce unica. Pasolini: Ho i miei dubbi… Quante macchine da scrivere ci sono in America? Non voglio ridicolizzare le sue speranze, al contrario, ma cerco di capire perché lei considera il cinema una strada migliore della letteratura per arrivare alla liberazione di se stessi. Mekas: Perché con la macchina da scrivere si mettono per iscritto le proprie fantasie, che riflettono delle distorsioni, che a loro volta rappresentano i sogni. La cinepresa invece mostra la realtà, parte della realtà, volti e situazioni. E non è non è come fare film prodotti a Hollywood o a Cinecittà: sette milioni di cineprese vengono utilizzati per filmare la realtà, e niente può rimanere nascosto dietro un volto che si vede realmente. Bachmann: Le sue idee coincidono con quelle di Pasolini, quando si tratta di dare una definizione della realtà o del cinema (Pasolini ha scritto recentemente che 1’unità base del film non è la singola inquadratura ma 1’oggetto fotografato). Entrambi però mostrate di credere molto meno alla possibilità della cinepresa nel riprodurre la realtà, rispetto alla parola. Comunque è molto più importante la vostra fiducia nella gente che utilizzerà quei sette milioni di strumenti di conoscenza. Chi e che cosa si è realizzato finora, e quali passi si devono compiere per compiere il suo progetto?

Mekas: Stiamo raccogliendo soldi per un progetto che abbiamo denominato “Liberati sparando con la cinepresa”. Si tratta di distribuire duecento cineprese tra bambini e ragazzi di colore, materiale cinematografico, sviluppo gratuito e consigli, senza avanzare nessun genere di richiesta, senza fare proposte, senza il bisogno di visionare i filmati. I1 progetto fa riferimento soprattutto a ragazzi tra i quattordici e i vent’anni. Accanto a loro ci saranno gli autori di cinema underground che nelle varie città aiuterebbero con consigli pratici. In un foglio informativo di quattro pagine chiariamo che non si tratta di un programma educativo o anti-povertà, ma riguarda il cinema underground. Con il materiale possono fare ciò che vogliono. Noi pensiamo che queste duecento cineprese potrebbero dar vita a qualcosa nel mondo dei neri, ma non sappiamo esattamente che cosa. Vogliamo semplicemente che si divertano a filmare. I1 programma è già iniziato a Washington e a New York. Noi lavoriamo solo direttamente; non abbiamo dato le cineprese a organizzazioni che le distribuiscano. Ci vanno i nostri stessi autori, che incontrano in modo informale la gente e consegnano le cineprese basandosi su una scelta completamente individuale. Prima della fine del 1967 non ci aspettiamo alcun risultato. Tuttavia esiste un problema. La gente che potrebbe trarre il maggior profitto dal progetto rifiuta abitualmente tutto ciò che un bianco gli offre, perché vige da anni un’atmosfera di totale sfiducia per qualsiasi cosa di “buono” che provenga da un bianco. Bachmann: Saranno presentati questi film, e come? Mekas: Sì, i film vengono presentati prima nelle città in cui sono stati fatti, poi mandati in giro. La “Film-MakersCooperative” si occupa di organizzare le proiezioni. Pasolini: Sembra un bel progetto, un’idea pienamente rivoluzionaria, assolutamente nuova e tipicamente americana. Questo, presumo, è il Nuovo cinema.

Bachmann: Si potrebbe immaginare cineprese a gente povera in Calabria?

di

distribuire

Pasolini: Sì, dovrebbe essere possibile, ma noi non pensiamo mai a cose del genere. Bachmann: In ogni paese, credo, la gente riflette per lo più sulle cose che la riguardano personalmente. Quando a lei, Jonas, nella conferenza stampa di Pesaro domandarono perché voleva che i suoi film fossero considerati politici, lei rispose: perchè si occupano dei più importanti problemi quotidiani dell’americano odierno. Mekas: Non credo ci sia una grande differenza tra i problemi quotidiani, nazionali o internazionali. Prendiamo il Vietnam. È qualcosa che riguarda tutti. Al momento vi sono da noi quaranta autori cinematografici impegnati a girare ciascuno un film di due minuti. Ci sono ovviamente anche altri problemi in America, più privati, non riconducibili a quelli del Brasile o dell’Italia. Possiamo sintetizzarli in una domanda: “Pensa che se terminasse oggi la guerra in Vietnam, 1’America cambierebbe?”. Ma questo ovviamente non è il tipo di domanda che potrei rivolgere a Pasolini, dal momento che egli sarebbe certamente d’accordo col mio punto di vista. È piuttosto un’affermazione in forma di domanda, perché qualcuno deve cambiare 1’America, prima, altrimenti ci sarà ancora un altro Vietnam! Se nulla è in grado di cambiare 1’America o gli americani dall’interno, allora non c’è che da attenderci per domani un’altra esplosione, simile al Vietnam. Bachmann: Cosa potete fare oggi personalmente, come gruppo di operatori cinematografici, come individui consapevoli, per raggiungere il vostro scopo? Mekas: Qualcosa sta già accadendo. Gli artisti stanno creando in tutto il Paese delle piccole cellule, e non solo gli

artisti ma tutti coloro che attraverso 1’esperienza beat o le droghe si sono liberati delle vecchie forme di vita, dal sentimento-base della società americana odierna. Questa gente sta costruendo piccole cellule nei più diversi angoli del paese, e si distingue sin d’ora per un nuovo stile di vita. Il cambiamento dell’America deriverà da queste cellule di “beautiful people”, il cui carattere si è da tempo liberato dello spirito della società capitalistica. I1 nostro motto potrebbe essere: Paradise now. Ciò che si deve fare non va lasciato al domani, va fatto oggi. E quando parlo di “paradiso”, è solo un’idea, è ovvio. Proprio come il fatto che l’America non cambierebbe semplicemente con la fine della guerra. Anche “beautiful people” è semplicemente un’idea, ma ne racchiude un’altra: nessuno di loro sostiene una qualunque delle alternative politiche o sociali oggi esistenti. A volte, però, mi viene da pensare che siamo arrivati al momento in cui si deve cominciare a scegliere una direzione, e porsela come scopo. Pasolini: Avete certamente ragione quando dite che una miracolosa fine della guerra nel Vietnam non provocherebbe un mutamento in America. Se finisse con una guerra civile dalla quale la “beautiful people” uscisse vincitrice, allora sarebbe un’altra storia. Io attendo una guerra civile, in America. Potrebbe essere la salvezza del mondo. Mekas: Qualcosa sta accadendo. I contrasti e i conflitti diventano sempre più forti. Di recente alcuni miei amici che cantavano nel parco sono stati arrestati, per il semplice fatto di cantare nel parco. I1 conflitto tra le piccole cellule e il corpo opulento si accentua sempre di più, al punto che circolano voci a proposito di campi di concentramento per beatniks e tossicodipendenti, e io tendo a crederci. Se n’è discusso persino nel Senato degli Usa. La protesta a favore dell’integrazione dei neri, contro la guerra, contro le iniziative politiche del regime prosegue ora nelle università e ha raggiunto 1’opinione pubblica. Nessuno può fermare questo movimento.

Pasolini: Vedo esattamente in cosa consiste il problema. Fino a questo momento la rivolta americana è stata un fatto enorme, la cosa che oggi ammiro di più al mondo. Ma in realtà è rimasta sempre irrazionale, ha trovato le proprie cause sempre all’interno dell’America, in quella parte autentica dell’America che significa democrazia, che costituisce l’esempio migliore di una democrazia allo stato puro. A questo punto ci vuole una direzione, una direzione che può solo avere la forma di un’ideologia. L’America non aspetta una guida: aspetta un’ideologia. Mekas: Noi ci auguriamo che qualcosa accada in questo senso. La cosa più nuova negli Usa sono ora i “be-ins”: gente che si incontra ogni domenica nei parchi, quelli che potremmo chiamare, sia pure con prudenza, “beautiful people”. Si radunano a migliaia e cantano, ballano, o non fanno niente. Stabiliscono rapporti. È un inizio, e siccome non hanno alcun tipo di finalità possono crescere solo attraverso lo stare insieme. Da qui si può sviluppare qualcosa, ma non sappiamo ancora che cosa. Bachmann: Intende un’ideologia? Pasolini: Se fosse in grado di nascere un’ideologia, ci sarebbe una guerra civile. E nel caso di una guerra civile il mondo sarebbe salvo per i prossimi trecento anni, forse. Se tutto fosse più concreto… se ci fosse una maggiore concretezza nei confronti di una qualche ideologia, ciò darebbe alla gente la forza di cominciare una guerra civile, come hanno fatto i neri. Così si forma un’ideologia. Mekas: Sì, da lì arriverebbe a cristallizzarci una qualche forma di ideologia. Lo si può cogliere osservando ciò che accade già. Alcuni elementi, per esempio, credo siano ripresi da Thoreau, che ha una profonda influenza, o dal Buddismo, dallo Zen…

Bachmann: Ma questi sono tutti movimenti, o meglio idee, che riguardano 1’individuo, esclusivamente il suo interno. Mekas: Sì, ma queste idee producono forze che nel corso di due o tre anni potrebbero trasformarsi in ideologia, forse addirittura in un’ideologia politica. Bachmann: Purtroppo ho 1’impressione che questi, alla fine, siano dei movimenti sociali: sono troppo grandi per non esserlo. Tutte le ideologie costruite sul principio di rendere migliori gli uomini sono ottime, ma non produrranno mai un’ideologia che porti a una guerra civile. Lei sa che ogni cosa fatta con metodo, anche una guerra civile, unisce; ma poi tutto si sgretola e si uniforma intorno ad un denominatore medio. In ogni caso, poi, si tratta di movimenti pacifisti. Pasolini: Anche i pacifisti sono pacifisticamente attivi. Bachmann: Le intenzioni sono chiare, e penso che siamo d’accordo sul fatto che le cose in America non possono continuare in questo modo, ma non credo che possano trasformarsi in ideologia, perché qui vigono dei concetti, basati a loro volta su altri concetti, come per esempio 1’idea che la maggioranza sia qualcosa di buono in quanto tale. Mi sembra quindi che queste intenzioni siano troppo deboli, che siano gettate al vento, e che il vento soffi proprio in direzione della maggioranza, aiutandola ad acquisire sempre più coscienza di sé. Ai fini della Terza Alternativa, trovo che il suo aspetto migliore sia proprio 1’assenza di un’ideologia organizzata, e il fatto di fondarsi sul dogma che ognuno tenti di tornare a se stesso.

Mekas: Ma la gente della Terza alternativa si è accorta di poter crescere solo se lavora insieme ad altri. Questa è 1’origine dei “be-ins”, íl cui passo successivo consiste nel consolidamento degli incontri in forma più concreta. Durante gli ultimi sei mesi, per esempio, la popolazione di San Francisco è aumentata di circa duecentomila persone: la maggior parte di questi “immigrati” sono teen-agers in cerca di una guida, così San Francisco è esplosa. Snyder, Ginsberg e Leary si sono dedicati a loro e hanno dato il buon consiglio di organizzarsi in piccoli gruppi di duecento persone, per formare delle comunità al di fuori della città. È stato fatto, e si può pensare che in un paio d’anni da lì si svilupperanno i veri e propri centri per la Terza alternativa. Pasolini: Può darsi che un’ideologia da sola non basti a unire gli uomini e a facilitare il raggiungimento della libertà. C’è anche la religione. Forse è questo ciò che state facendo in America: un movimento mistico-religioso. Ma anche un movimento del genere potrebbe far scattare una guerra civile. Mekas: Quel tipo di guerre civili sono le più terribili… Pasolini: In ogni caso è chiaro che 1’America, in assenza di una guerra civile, assumerà 1’eredità della Germania e diventerà un paese profondamente nazista. Bachmann: C’è qualcosa di positivo nella situazione italiana che potrebbe interessare gli Usa? Pasolini: No. Vengo proprio ora dal Marocco, dove ho girato il mio ultimo film, e appena tornato sono stato sul punto di abbandonare proprio tutto: il film, la mia vita. Volevo tornare in Marocco per viverci. E non perché ami così tanto il Marocco, ma perché il mio ritorno in Italia era stato terribile, traumatico. Qualcosa da non poter sopportare. Non c’è un filo di speranza, niente. Era come entrare in un manicomio in cui

vivevano dei pazzi autentici, cioè pazzi tranquilli. Ho trascorso dieci giorni nel terrore di non poter più vivere in Italia. Dieci giorni in cui ho seriamente riflettuto se lasciare 1’Italia o no. E il peggio è che gli italiani non si rendono conto di niente. Ma dopo quanto lei mi ha detto su New York mi sentirei forse di abbandonare tutto e di andare nel deserto in Marocco, dove i problemi sono elementari, familiari e preindustriali: la pigrizia, i ritardi, la povertà, tutte cose che abbiamo imparato ad affrontare. Mekas: Naturalmente non posso giudicare se questo bisogno provenga da uno stimolo mistico come per noi, in America, dove 1’intera questione è piena di misticismo, anche se coinvolge tutte le nostre azioni quotidiane. Tutto ciò che si fa, unisce; ogni passo conta, e tutti i passi che si compiono quotidianamente sono legati alle esperienze mistiche dei singoli, che si trovano di fronte alla necessità di compiere le proprie scelte del momento. Il conflitto nasce qui: le piccole esperienze quotidiane si scontrano con la realtà sociale e politica che le circonda. Così la nostra lotta diventa politica, proprio in questo punto. E non c’è compromesso che tenga. Perciò dico anche che dovranno costruire quei campi di concentramento, perché non c’è alcuna possibilità di far convergere i due fronti: la nostra gente e le concrete realtà politiche dell’America. Non c’è alcun legame tra le generazioni. Bachmann: Ma questo conflitto esiste anche in altri paesi. Ho letto sul giornale che la polizia di Milano ha dichiarato con orgoglio di aver distrutto - in modo “del tutto legale” - la comunità di Barbonia. Era una comunità del tipo che lei ha descritto, con la sola differenza che c’erano solo una settantina di “capelloni”. (Un termine che in Italia ha un significato ironico, coniato perché la gente della Terza alternativa si lascia crescere i capelli.) Alcuni sono stati cacciati, rinchiusi o “riconsegnati ai genitori”. Nell’articolo ci sono le solite accuse: che questa gente ha solo vaghe idee riguardo alla propria libertà, che non ha alcuna risposta concreta e alcun

programma. Mi chiedo: da dove dovrebbero ricavare delle risposte o delle idee chiare, se nessuno nel cosiddetto mondo normale ha una visione chiara dei problemi? Non è sufficiente che dei quattordicenni, dei sedicenni o dei ventenni abbiano la consapevolezza che le cose non possono continuare così come sono? Non basta il rischio di dover rinunciare ai vantaggi di una vita borghese agiata? che siano pronti a mettere sulla bilancia la propria vita, il benessere e la reputazione, nella vaga speranza di trovare in qualche modo, da qualcuno, in qualche posto, un aiuto o una risposta? Oppure pensate che quelli della Terza alternativa diventeranno sempre di più, e come tutti gli altri uomini del mondo, che possiedono fucili e munizioni, belle parole e benessere? La vostra gente esiste dappertutto. L’unica consapevolezza che hanno è quella della rivolta contro qualcosa. Nessuno ha la coscienza sufficiente per dar vita a una rivolta per qualcosa, perché gli scopi sono ignoti. “Paradise now”: che tipo di paradiso? il paradiso di chi? a quale prezzo? che cosa potrebbe offrire? come risolverebbe il problema della sovrappopolazione? Mekas: Gli obiettivi riguardano il domani. Le ideologie sono per il domani. Se noi diciamo “Paradise now” è solo perché non vogliamo attendere fino a domani. Pasolini: Questa è una posizione tipicamente religiosa. Nella religione non si vive mai la propria vita nel domani, perché è un’altra vita. Ma tutte le ideologie umane sono sempre ideologie per il domani. Bachmann: Questa è 1’origine della speranza. Pasolini: Speranza. Nel senso strettamente umano del credere in un domani migliore, fatto dagli stessi uomini? Bachmann: No, è più una spes ultima dea! Invece di dire “oggi devo suicidarmi”, gli uomini hanno inventato la

speranza. Pasolini: La fuga nel futuro è un metodo antico e molto comune… Mekas: … nel cui nome si compiono le peggiori crudeltà. Per esempio il pessimo modo di affrontare i problemi dei neri da parte dei bianchi: tentavano la fuga in avanti andando a risolverli personalmente. Oggi la situazione è cambiata. I neri. risolvono i propri problemi da sé. Questo è un ulteriore motivo per affidar loro duecento cineprese. I neri non hanno più bisogno del nostro aiuto e della nostra guida: di capi ne hanno già a sufficienza. Quest’estate New York ribolliva di violenza; di ciò non siamo responsabili ma non siamo nemmeno contrari. Diciamo semplicemente che se i neri vogliono che le case esplodano, ebbene che saltino in aria; se vogliono cominciare oggi la loro guerra non ci opporremo. Ma comunque non possiamo aiutarli, non possiamo farla al posto loro. Non si ha idea di quante resistenze abbia provocato il fatto che i bianchi vogliano intervenire sempre a favore dei neri. Pasolini: Capisco bene la sua posizione, un’espressione di democrazia assoluta e totale. Mekas: Cosa proporre altrimenti? Io credo che i bianchi delle giovani generazioni sosterrebbero la lotta dei neri, se si arrivasse ad una guerra civile. Ma per il momento possono solo dare un appoggio morale. Nelle manifestazioni ci troviamo comunque uniti: ai “be-ins” prendono parte sia i bianchi che i neri. Nelle manifestazioni gigantesche come quella che abbiamo organizzato contro la guerra nel Vietnam, con duecentomila persone, c’erano neri e bianchi. Lì per la prima volta si sono effettivamente riuniti i vari movimenti. Pasolini: Capisco che lei non voglia prendere alcuna decisione per loro conto, e lasci che siano gli eventi a decidere

cosa fare. Secondo me il problema sta nell’orientamento dimostrato dai neri - un po’ come gli israeliani oggi - verso tendenze nazionalistiche, che pure posso comprendere. Ma è su questo punto che a loro manca un’ideologia: sulla base delle idee marxiste sarebbe semplice dimostrare che non si tratta di scontro razziale ma di lotta sociale… Mekas: Il rapporto estraniato tra bianchi e neri è solo un prodotto. Noi ci troviamo di fronte a una situazione resa confusa dalle generazioni precedenti, e per eliminare i detriti di questa ostilità è necessario lasciare i neri da soli. È la cosa migliore da fare. In seguito potremo incontrarci, forse. Da uguali. Pasolini: In futuro, forse. Ma ora tutti andate dritti per una strada quasi religiosa che nessuno sa dove conduca. Una strada che inizia in modo mistico-religioso presso i bianchi e misticopopolare - dovrei dire “razzistico” - presso i neri. Davvero non vedo come possano ricongiungersi, visto che religione e misticismo sono forze centrifughe, e potrebbero allontanarsi 1’una dall’altra. Il fatto che i neri vogliano liberarsi con la violenza mi sembra del tutto ovvio, dal momento che non si trovano in una situazione normale. Tutte le loro idee sono dei buoni inizi, ma credo che debbano affrontare le realtà che loro stessi provocano. In fin dei conti i neri non hanno niente da perdere, mentre voi avete da perdere ancora un mucchio di cose: tutti i privilegi del benessere borghese, per esempio, che lei citava poco fa. Potreste perdere il privilegio d’essere “beautiful people”… Bachmann: Intende dire che un’ideologia va comunque trovata, anche se dovesse limitare la libertà dell’individuo? Anche quando 1’assenza di un’ideologia generale fa già parte della mentalità? (…) Guerre e rivoluzioni spesso generano arte e idee nuove; raramente il benessere ha creato qualcosa. Finche le cose vanno relativamente bene, gli uomini non possono liberarsi. È il nostro vecchio problema: se le necessità

biologiche dell’umanità si esprimano più nettamente in periodi di crisi o di pace sociale. Tutte le esperienze, nonostante le teorie di Marx, indicano la prima soluzione. Mekas: Io penso che il nostro slogan “Paradise now!” includa una tale possibilità. Se riusciamo ad andare avanti, anzitutto è perché sappiamo che i tempi non sono buoni, e poi perché proprio questa atmosfera ottimistica ci aiuta. Bachmann: Io trovo invece che 1’unico ottimismo valido nella nostra epoca sia il pessimismo più assoluto. Solo questo può aiutarci a continuare: la consapevolezza che ognuno ha di sé e della propria situazione, la percezione dei margini limitati della nostra esistenza. Mekas: Noi conosciamo solo una realtà, che racchiude due dati di fatto: il mondo confuso e corrotto, che rifiutiamo, e la vita diversa di pochi individui, che ci fanno pensare come sarebbe bello il mondo, se fosse così. Non siamo scettici né pessimisti; diciamo che sarebbe bello ma lo consideriamo anche un dato di fatto, perché non c’è niente di peggio di quel che già esiste. E noi pensiamo che un cambiamento sia possibile. Dichiariamo d’essere a favore di queste forze e non di quelle. E tutto ciò senza teorizzare sul passato o sul futuro. Bachmann: Con il suo ottimismo, lei si pone forse come metro di misura del bene? Mekas: Noi diciamo solo “non uccidere”, e cose simili. Anche se avrei preferito non doverle dire. Bachmann: Per i neri non esiste il problema di definire la propria lotta: è forse questa la grande differenza?

Pasolini: Ma in America si pone ancora il problema dei bianchi poveri? Mekas: Naturalmente. I bianchi poveri e i neri sono gli unici gruppi che, per la prima volta, vogliono oggi una rivoluzione per 1’America. Bachmann: Credo che questa conversazione potrebbe avere un valore - solo se riuscissimo a venir fuori dai problemi ordinari e quotidiani. Mi riferisco alle battaglie che sono già in atto: Vietnam, libertà dei neri, povertà, libertà d’espressione. Esprimono tutte un dato di fatto: 1’uomo non può essere tale perché completamente accerchiato dal gruppo, totalmente sistematizzato, nel male e nel bene, in una situazione sociale dialettica e concreta. Il vero problema quindi è che cosa può fare 1’uomo, in quanto individuo, per essere autentico… Mekas: Forse sono d’accordo, se dico che noi in America così come in Cina o in Russia - dobbiamo essere disposti a cambiare dall’interno verso 1’esterno, se vogliamo risolvere i problemi e imboccare una nuova strada. Io cerco sempre di prendere le distanze dalle teorie storiche e mi limito a ciò che vedo e sento intorno a me. Pasolini: Tutte le religioni hanno sempre affermato che i veri problemi non sono quelli esterni ma quelli interiori. Ma la fame, che distrae i cinesi dai loro problemi interiori, e il benessere - un sogno che distrae dalla realtà - sono la stessa identica cosa. Sono entrambe cose esteriori. Mekas: Ma le manifestazioni esteriori non si possono dimenticare! Per esempio la guerra del Vietnam ha un effetto anche interiore sugli americani, ed è la stessa guerra che trasforma i giovani americani in altrettanti pacifisti. Agisce su entrambi i lati. Comunque sappiamo tutti che il problema dell’ideologia è diventato urgente, che è il momento di trovare la strada.

Bachmann: La Terza alternativa svilupperà un’ideologia in base alla quale gli uomini saranno in grado di vivere più felicemente? Mekas: Questo accade sempre. Una ce ne sarà. Non siamo ancora in grado di definirla, ma in America sta facendo la sua comparsa qualcosa che si potrebbe chiamare “ideologia”. Pasolini: Naturalmente. Anche io penso che esista. È quella che viene chiamata la “Nuova sinistra”. Un’ideologia in formazione, ancora un po’ eclettica, inconsapevole della propria identità… Mekas: Sì, probabilmente da lì nascerà una nostra ideologia. Ci vorranno ancora due, tre anni… Pasolini: Per me le idee della “Nuova sinistra” costituiscono una delle ideologie più rivoluzionarie del presente, insieme a quelle antisovietiche dei cinesi. Attualmente sono le ideologie più grandi e vive. In Cina il problema è come non trasformare il socialismo di un paese non più affamato in un sistema borghese, in una società del benessere come la Russia o 1’America, giacché questo tipo di società è uguale dappertutto. Mekas: Gli unici gruppi con i quali i neri hanno contatti, in America, sono quelli della “Nuova Sinistra”. Pasolini: Voi dovreste arrivare a formulare definizioni precise. Questa è una necessità inderogabile, altrimenti si finisce per adagiarsi in un benessere intellettuale che è ancora peggio di quello materiale.

Mekas: Voi capite che usiamo la parola d’ordine “Paradise now” un po’ come uno strumento da agit-prop, ma mi piacerebbe che qui ci fosse più interesse per i film, che si facessero domande. Quello è uno slogan buono contro i professori, ma la discussione conduce sempre a temi interessanti. Per esempio, alla fine di un colloquio un po’ accademico, in Italia, ho proposto la seguente conclusione: “Poiché non abbiamo trovato nulla di nuovo nel cinema americano, proponiamo di lasciare anche il cinema italiano là dove si trova”! L’hanno presa male. Ma le contraddizioni fanno sì che la gente parli, e che pensi. Questo è quanto vogliamo ottenere, per il momento. La Terza Alternativa ha bisogno di un’ideologia?, dibattito in Film Hannover, ottobre 1967

Massimo Mida Puccini

Ho avuto occasione di vedere l’ultimo film di Pier Paolo Pasolini Il fiore delle Mille e una notte e desidero offrirne ai lettori di “Giorni” una breve anticipazione, riservandomi un intervento più ampio nel momento in cui il film sarà proiettato nelle sale pubbliche. Mi pare infatti giusto inquadrare questa ultima opera - la dodicesima - nel cammino filmico di uno degli autori più rappresentativi del cinema italiano. Infatti, Il fiore delle Mille e una notte, tratto dalla più celebre opera letteraria della civiltà araba, chiude la trilogia iniziata con Il Decamerone e i Racconti di Canterbury, ma, come lo stesso Pasolini mi ha confidato, aprirà un nuovo capitolo nella sua filmografia. Egli infatti tornerà a misurarsi il film si intitolerà Ideologia - con i problemi del nostro tempo non soltanto politici, ma con attenzione particolare alla loro

sovrastruttura ideologica. Al di là dei messaggi che il suo cinema può comunicarci, e di conseguenza alle discussioni che può provocare - comunque fattive nel complicato trasformarsi della società - è questo il Pasolini che preferisco, il Pasolini che dà la misura del suo impegno con il presente. Certo, lo sguardo che egli ha dato al passato con la sua trilogia ha i suoi meriti, ma è al Pasolini di Accattone, de La ricotta, de Il Vangelo secondo Matteo, di Uccellacci e uccellini che io mi riferisco, a quelle opere pasoliniane che hanno inciso profondamente nel nostro cinema. Proprio con Accattone, infatti, Pasolini provocò la prima benefica rottura, dette al nostro cinema quello scossone e lo trasse da un torpore ormai lungo (a neorealismo ormai esangue), riaprì il dibattito, lo rivitalizzò. Certo è che Pasolini con Il fiore delle Mille e una notte, a conclusione della sua trilogia, ci ha consegnato il suo film più convincente e più limpido, e non solo per l’aspetto formale e stilistico ma soprattutto per la costante poetica che lo illumina dal primo all’ultimo fotogramma. Nei due precedenti, soltanto a tratti Pasolini raggiungeva questo obiettivo. Il fiore delle Mille e una notte, infatti, mette in evidenza questo afflato poetico nell’incontro con un testo in cui Pasolini ha tratto con innata grazia tutto il favolistico che l’opera conteneva, privilegiandolo su tutti gli altri elementi. Le dieci storie che egli ha desunto dal testo tramandatosi nei secoli si dipanano intrecciandosi in modo limpido in una successione ben calibrata, sicché tutte risultano compiutamente espresse. A questo bisogna aggiungere l’amalgama degli interpreti che ha ottenuto tra i suoi attori preferiti e professionisti - Ninetto Davoli, Franco Citti - con gli altri trovati con felice scelta nei luoghi stessi dove ha girato, e cioè lo Yemen del Nord e del Sud, l’Eritrea, la Persia e il Nepal. Splendidi volti di giovani e di anziani che recitano in tono quasi estatico, proprio come la poesia favolistica del film indicava. Può tuttavia darsi che lo spettatore, come è accaduto al sottoscritto, possa ritrovare nella narrazione qualche momento di stanchezza, di prevedibilità ma nello stesso non potrà sentirsi appagato dalla bellissima scelta dei luoghi dove il film è stato girato. Città medievali rimaste intatte nel loro incanto insieme misterioso e affascinante. In quanto alla prevedibilità, questa riguarda

soprattutto il sesso, toccato con mano più leggera in questa occasione, e tuttavia sempre motore portante e perciò alla fine un po’ stucchevole, risaputo. Ma anche per quanto riguarda questo aspetto, ne I fiori delle mille e una notte, Pasolini addolcisce le scene erotiche, che diventano più funzionali, mai insistite ma stemprate dai sentimenti che vi circolano in abbondanza. Eppure, anche dopo questo film, una domanda ci preme rivolgere a questo autore. Che cos’è il cinema per Pasolini? Un’avventura intellettuale o un incontro necessario, inevitabile? Poeta, romanziere, saggista, autore filmico, finora la presenza nel cinema di Pasolini ci sempre riproposto questa domanda, fattasi forse più acuta dopo questa trilogia del passato. Per questo è lecito domandarsi: quando finirà di sperimentare di misurarsi con se stesso? Il suo debutto, con Accattone, come abbiamo detto, fu decisivo per il nostro cinema. Dopo un poco convincente Mamma Roma (neorealismo di ritorno, fu detto), nell’episodio La ricotta raggiunge grande forza espressiva, ci dà un piccolo gioiello. La storia della comparsa affamata era narrata come un canto disperato, la tragica realtà trovava accenti pregnanti. Questo episodio anticipava il cristianesimo indignato e fremente de Il Vangelo secondo Matteo: un cristianesimo radicale e intransigente che suonava critico a quello di oggi. Un film coraggioso, ambientato in una terra scabra, un linguaggio nuovo e incisivo. Si pensi al lungo primo piano del discorso sulla montagna che ricorda lo stile di Godard. La crisi, i dubbi di Pasolini sono riconfermati in Uccellacci e uccellini, un’opera densa di elementi ideologici (l’autore diviso tra cristianesimo e marxismo) e insieme di sofferta poesia. Edipo Re e Medea sono opere che lo allontanano da quel “cinema di poesia” e di battaglia, di cui Pasolini ha ampiamente trattato nel volume critica Empirismo eretico. Sono trasposizioni storiche libere, soggettive, classici scomposti e adattati alla propria visione del mondo in un recupero autobiografico del mito. Teorema, del 1968, ha diviso i critici in esaltatori e detrattori. Si tratta di un racconto emblematico, un po’ freddo e distaccato, in cui un ospite misterioso svolge un compito mistico svolge un compito mistico nel disordine e nella apatia di una famiglia borghese. È lui che sconvolge il ritmo

monotono, standardizzato, pre-morte di quella casa. Il linguaggio si è fatto in Pasolini, per questo film, più pacato, più limpido. Dopo Il porcile, un film non del tutto risolto, si giunge all’ultima trilogia che ha avuto, e questo bisogna sottolinearlo, il grande merito di contribuire a portare su un piano normale il momento sessuale dell’uomo, che lo stesso Pasolini definisce “importante e primordiale”, proprio per i tabù in cui la morale tradizionale lo ha imprigionato. Esperienza in cui Pasolini si è gettato con entusiasmo, dando fondo al suo assunto. E tuttavia, ancora un Pasolini dedito allo sperimentalismo, in una sorta di irrazionalismo disilluso che lascia perplessi. Per questo la domanda che ho rivolto a Pasolini, e cioè quale sia in realtà il suo cinema, resta tuttora attuale. I prossimi film di Pasolini cancelleranno i nostri dubbi e le nostre perplessità? Meglio della polemica “Il fiore delle Mille e una notte” di Pasolini, Giorni - “Vie Nuove” 14 agosto 1974

Pier Francesco Pingitore

Vidi Salò di Pasolini in una saletta della P.E.A., con comodissime poltrone di pelle - quando ancora il film era privo del visto di censura - per la cortese sollecitudine di un dirigente della casa di produzione romana. Sono in genere contrario a vedere i film senza il pubblico, e senza il pubblico pagante, in special modo, al quale il film è destinato e che ne rimane l’unico autentico giudice. Andai alla proiezione solo perché in quel momento quello era il solo mezzo per poter vedere Salò. A un certo punto dal secondo tempo, complice senza dubbio l’ovattato comfort dell’ambiente e la silenziosità della piccolissima platea (una decina di persone in tutto), fui

preso da un leggero sopore, dal quale mi ridestai con un sussulto, terrorizzato dall’eventualità che qualcuno potesse avermi visto o che, peggio, avesse potuto sentirmi russare. Mi ripresi alla meglio, dicendomi: vergogna, ma come, stai vedendo Salò, l’ultima opera di Pasolini, così piena di merda, di sangue, di messaggi, e te ne stai a dormire?!? Ma allora sei proprio un pelandrone qualunquista! Ecco, devo confessare che io ho sul film un’opinione assai diversa da quella espressa dalla critica - e d’altra parte io non sono un critico, bensì uno spettatore come tanti. In genere, sia pure con varie sfumature, Salò è stato giudicato per quello che Pasolini ha dichiarato che dovesse essere: un atto d’accusa contro la violenza esercitata dal potere, violenza che si esprime attraverso le più aberranti forme di sadismo a sfondo sessuale. Ora, nella critica ufficiale, c’è chi ha contestato i modi di espressione del film di Pasolini, chi ha posto in rilievo la fondamentale sessuofobia dell’autore, chi ha parlato di irrimediabile oscenità. Nessuno, tuttavia, ha osato porre in dubbio l’intento manifestato - come una parola d’ordine lanciata agli addetti ai lavori - dal Pasolini nel presentare il suo film. L’esser, quest’ultimo, un’opera contro la violenza e il sadismo del potere. Nel vedere il film, invece, solo l’ipocrisia e il conformismo, oggi come ieri dominanti, possono fasciare gli occhi e l’intelletto, perché non si arrivi alla conclusione che Salò, lungi dall’essere una condanna della violenza, è il film più intimo, più passionalmente sofferto, più intimamente autobiografico del poeta scomparso. Consapevolmente o inconsapevolmente - ma io propendo fermamente per la prima ipotesi - Pasolini ha messo in Salò tutti i mostri da cui è stata attanagliata la sua tormentata esistenza, tutte le voglie inconfessabili, le tentazioni aberranti, le ributtanti e pur seducenti anomalie di una sessualità senza confini, parossistica e abnorme. “Salò” è il film in cui Pasolini dà fondo a tutte le sue ossessioni, è la rappresentazione più completa del suo personale inferno-paradiso: il girone del culo, della merda, e del sangue, conclusosi mortalmente all’idroscalo di Fiumicino. Non dico questo, sia chiaro, con intenti moralistici e, men che meno, censori. A mio giudizio si può essere grandissimi

nella rappresentazione di quelli che un tempo si chiamavano i propri vizi e oggi, più illuminatamene, si chiamano “comportamenti devianti” (in fondo basta cambiare le parole, no?!?). E penso che qualunque opera, anche la più ripugnante, non sia mai da proibire: posto che nessuno sia costretto a vederla forzatamente, chi la vede volontariamente può sempre trarne quel po’ di utile che v’è in ogni tipo di conoscenza. Il mio vuol essere un discorso sull’ipocrisia. Quella forse in qualche misura comprensibile del Pasolini, che non ha osato mettere l’etichetta giusta sulla propria bottiglia (avesse detto: faccio un film per esprimere tutte le mie ossessioni, le mie manie, i miei vizi, oh come sarei lieto oggi di esaltarlo, finalmente uno che ha il coraggio della propria autentica diversità in questa terra di intellettuali di batteria) e quella inescusabile, eterna invincibile dei critici, dei saggisti, degli esegeti senz’anima. Mi sono quasi addormentato al film di Pasolini, perché è un’opera ripetitiva e lugubre, noiosa e soffocante, come può esserlo solo la rappresentazione di atti sessuali mossi dall’istinto di morte, tipico dell’ossessione bigotta. Se per pornografia deve intendersi l’eccitazione erotica provocata attraverso l’esibizione di atti sessuali, direi che nulla è meno pornografico di Salò. L’eccitazione che si prova, che io almeno ho provato, è stata zero. E questo, a mio avviso, non è affatto un pregio dell’opera. L’eccitazione, l’erotismo, anche nelle sue forme ingenue o banali, sono comunque istinti vitali dell’uomo, sono attaccamento alla natura, calore, gioia, vita. Il freddo cadavere del sesso che ci mostra Pasolini nella cella frigorifera di Salò, è morte, Viva la pornografia, abbasso la morte. Salò-Sade o dell’ipocrisia, “Playmen”, gennaio 1976

Franco Citti

Sembra che sia venuto il momento del grande ritorno per Franco Citti, l’attore “romano de Roma” preferito da Pier Paolo Pasolini. Si sta preparando a debuttare in teatro, sotto la regia di Carlo Quartucci in I giganti della Montagna e Tamerlano. Comparirà in autunno nei panni del Griso nei chiaccheratissimi Promessi sposi televisivi. Per il cinema ha finito di girare Il segreto di Francesco Maselli, dove fa la parte di un vecchio barbone che vive in borgata e che per campare costruisce statue con le lamiere delle macchine, con i cartoni e i rottami. Protagonista del film è Nastassja Kinski. Che effetto le ha fatto lavorare con la Kinski? “Un fatto normale per me che ho lavorato con attrici quali Anna Magnani e Silvana Mangano. È una ragazza dolce. È importante che ci sia una come lei in Italia perché di attrici italiane non è che ce ne siano”. E di registi come Pasolini? “Neanche di quelli”. Come ha conosciuto Pasolini? “Nel ’53 facevo il pittore edile. Pier Paolo venne in borgata a Torpignattara e si mise a parlare con mio fratello Sergio che me lo presentò quasi subito. Veniva spesso a trovarci con la bicicletta: andavamo a mangiare la pizza napoletana, facevamo il bagno al fiume. All’epoca era maestro elementare, e poi scriveva e s’incontrava con Sergio; nacque un’amicizia, e un giorno mi disse che doveva fare un film dal titolo Accattone e c’era una bella parte per me, ma non mi

rivelò che dovevo fare il protagonista. Così è iniziata questa avventura”. Da allora come cambiò la sua vita? “Oltre al fatto di prendere ottomila lire al giorno che all’epoca era una cifra considerevole, per me l’esperienza dell’Accattone era stata un gioco. Faccio ancora cinema perché mi diverto, sarebbe assurdo dire che faccio l’attore”. Non si considera un attore? “No, io mi sento normale. Non mi preparo per fare teatro o cinema: vado lì e sono me stesso, solo che adopero frasi di altre persone. Inizialmente cerco di non prendere nulla dal regista, cerco di fare come mi sento e funziona sempre”. Come definirebbe la sua recitazione? “Io non ‘recito’: il pubblico immagina che in quel momento sto recitando. Recito me stesso nella vita, quando sono al bar con gli amici, quando vado a pesca. Ecco, quando vado a pesca, si può dire che coi pesci ci faccio una recita”. Ma il cinema non è diverso dalla vita, non è finzione? “Nel cinema vero non si deve recitare. Gli attori del neorealismo, quelli che venivano presi dalla strada, non recitavano: il regista voleva che fossero se stessi”. A Pasolini piaceva questo suo modo di essere?

“Lui non ha mai voluto che io recitassi; anzi delle volte io lo facevo per gioco e lui mi diceva: ‘Che cavolo stai facendo, a me non serve Shakespeare, voglio Franco Citti’”. Per le battute da dire, era libero o doveva seguire un copione? “Il copione lo dava alla segretaria di edizione e a quelli che ci tenevano ad averlo. Una traccia la seguivamo, ma io linguisticamente non dovevo parlare italiano, andavo a briglia sciolta”. Come è cambiato Pasolini negli anni? “Non è cambiato: Pasolini è sempre stato lo stesso. Tutti lo conoscono. Forse per me è cambiato quando faceva dei film e non mi chiamava. Allora provavo un po’ di rammarico. Poi capivo che non c’entravo niente per quel genere di film. Quando fece il Il Vangelo secondo Matteo, Laura Betti mi voleva come Giuda. Ma Pasolini non ha voluto perché, per il bene che mi voleva, non mi avrebbe creduto mai nella parte di Giuda. Avrebbe preferito che fossi stato Cristo, ma io non ero né Cristo né Giuda. Da lì cominciai a capire che se non mi chiamava era bello così”. Che tipo di collaborazione c’era tra Pasolini e suo fratello Sergio”. “Le cento giornate di Sodoma era un film di mio fratello. Però l’ha fatto Pasolini. Questo non lo dice mai nessuno”. È felice?

“Io non sono stato mai felice. In genere fingono quelli che dicono di essere felici”. Cosa vorrebbe migliorare della sua vita? “Migliorare la vita mia a questo punto significa stare sotto terra con tanti fiori”. Ma non c’è niente che la faccia ridere? “Sì. Ci sono pensieri, fatti che mi fanno ridere. Posso ridere di certe morti, di una disgrazia. Ma posso ridere anche per una barzelletta”. Cosa desidera più di ogni altra cosa? “Il paradiso”. Perché, vuole fuggire da questo “inferno”? “Sì. È un mondo che non mi appartiene più. Non mi piace niente. Non mi piace la gente. Oggi è tutto falso. La gente si muove perché si deve muovere ma non ha niente da fare”. Cosa è venuto a mancare del mondo che le piaceva tanto? “Mi manca il profumo della vita. Mi manca il sapore delle cucine che usciva dalle finestre delle borgate. Oggi ci sono ristoranti cinesi, giapponesi, un po’ di tutto ma non c’è più sapore. Una volta si sentiva la primavera, oggi non si sente più niente. Infatti sono andato a vivere al mare e l’estate invoco la

pioggia perché se ne vadano tutti i bagnanti, dato che voglio rimanere solo”. Che cosa ha oggi che non aveva ieri? “Oggi ho la macchina, che ieri non avevo. Però ieri avevo un cielo bello e un mare pulito e oggi non li ho più. Vorrei fare una bella morte, ci penso spesso. Ma non ho il coraggio di uccidermi”. Cosa si aspetta dopo la morte? “Niente. Un riposo tranquillo. Non è un fatto di stanchezza della vita, ma non c’è proprio niente da fare. Anche se io faccio un film e la gente dice “è bello” oppure “è brutto” non cambia niente. Mi dimentico subito di quello che faccio. Non mi importa di niente. Non sono mai andato a prendere un caffè a via Veneto. Non sono mai andato a ritirare un premio, eppure me ne hanno offerti tanti”. Perché? “Perché ho paura dei borghesi. Mi dà fastidio la gente falsa. Io vorrei fare il cinema di una volta perché era vero: come Totò, De Sica, De Filippo. Oggi il cinema sta in mano a quattro stupidi che credono di far ridere la gente e la gente ride. Se non ci fosse più il cinema non se ne accorgerebbe nessuno. È come se a Ostia scomparisse il mare. Dopo due o tre giorni non gliene importerebbe niente a nessuno. Perché oggi il cinema non esiste. Infatti stanno sparendo anche le sale cinematografiche: danno spazi ai grandi magazzini”. Allora prima o poi dovrà proprio rinunciare al cinema.

“Se è per quello io già mi sono messo a scrivere un libro di memorie”. E come si intitola? “Accattone va in paradiso”. Parola di Accattone (intervista “L’Espresso”, 23 luglio 1989

di

D.

Bisogni),

I.

Marco Tullio Giordana. Conoscere Pasolini

II mio primo incontro con Pasolini risale al 1962. Ho dodici anni, vengo colpito dalla fotografia in bianco e nero di un settimanale. Pasolini vi è colto durante le riprese di Mamma Roma; maniche di camicia. La camicia è di quelle che si comprano al mercatino di Livorno, da ergastolano, con grossi numeri stampati sopra. Pasolini è torvo, porta gli occhiali scuri. Tutto l’insieme ha un che di pericoloso, enfatizzato dal commento sprezzante della didascalia che in tono liquidatorio e ostile, più che dare una notizia, sembra puntare l’indice contro un reprobo. Qualcosa su Pasolini la so già. So che ha girato Accattone (titolo poco raccomandabile!), che è uno scrittore importante, un poeta. Ma anche una figura strana, alla quale in famiglia si

allude con un certo imbarazzo e soprattutto senza spiegare bene perché è strana. Quell’immagine mi fa riflettere, mi turba. Forse perché intuisco che la stranezza ha qualcosa a che vedere con la sessualità, argomento al quale associo il massimo della curiosità al minimo di informazioni accessibili (non si parla di sesso nelle caste famiglie italiane degli anni Cinquanta/sessanta). Un paio d’anni dopo vedo finalmente Mamma Roma. Sono più informato sulla sessualità in genere e anche su Pasolini e sul cinema. Trovo il film bellissimo e non riesco a riconoscere nel suo autore la figura demoniaca stigmatizzata così sbrigativamente dal vecchio rotocalco e dei molti altri giornali che mi è capitato di leggere in seguito. Ne ricavo invece la sensazione che Pasolini sia vittima di un pregiudizio, di una falsificazione, e che gli animi non siano sereni ogni volta che si parla di lui. Ma le sue parole, le sue immagini, mi sembrano molto più affascinanti e vicine di quelle dei suoi detrattori. Nessun imbarazzo a scegliere di stare dalla sua parte. Accattone lo vedo molto tempo dopo, negli anni ’70. Conosco già Uccellacci e uccellini, il Vangelo, Teorema, Porcile, Edipo, insomma più o meno tutti i film che sono usciti nelle sale nel corso della mia adolescenza. Conosco ormai bene anche il resto della sua opera, i romanzi, le poesie, e soprattutto mi è ben chiaro il ruolo che la sua intelligenza continua a svolgere nella cultura italiana dell’epoca, ancora piuttosto asfittica e arretrata, disorientata dal sessantotto appena accaduto e dalla imprevedibile (per tutti tranne che per Pasolini) modernizzazione laica e consumata che sta cambiando completamente l’Italia e i suoi valori. Accattone lo vedo molto tempo dopo, negli anni ’70 come una specie di reperto filologico nella carriera di un cineasta che mi appassiona, mi provoca, e non sempre mi piace. Lo vedo soprattutto alla luce della ritrattazione che Pasolini stesso opera in quei primi anni ’70, l’abiura per la borgata e le creature che hanno ispirato i romanzi e le poesie degli anni Cinquanta, i suoi primi film - e soprattutto il suo amore - e che ora cessano di ispirarlo, coinvolti come sono nel tentativo grottesco di diventare massa indifferenziata, consumatori piccolo-borghesi. È uno strazio che proietta sul film un filtro

assente nel momento in cui fu girato: quello del rimpianto, dello strazio per l’inganno amoroso. Il mondo di Accattone, i suoi personaggi, le sue catapecchie, le strade, i baretti, quella città che fa da teatro alle sue picaresche avventure, non esistono già più: è bastato un decennio per distruggere la sua architettura e sostituirla con l’alveare simil-sovietico dei quartieri dormitorio dove nessuno conosce più nessuno. Sembra un progresso, l’avvento del benessere, e invece è un genocidio. In quel decennio si annienta definitivamente quella cultura contadina ancora alla base della vitalità sottoproletaria, la televisione importa i suoi modelli unificanti; la lingua prima di tutto, poi come ci si deve vestire, cosa bisogna comprare e, infine, cosa si deve pensare. E soprattutto cambiano le facce, i corpi, gli sguardi, tutti intontiti dalla frustrazione continua dell’opulenza ostentata e indicata come obiettivo a portata di mano, in realtà ancora inaccessibile e lontana per quei borgatari, a meno di non diventare piccoli criminali. Come difatti succederà. Guardo Accattone negli anni Settanta e ho negli occhi la rabbia di Pasolini che, appena finito di cantare quel mondo, già lo vede soccombere a uno peggiore. Ma continuo a rivederlo anche negli anni Ottanta e Novanta e Duemila, e non c’è più la voce di Pasolini a commentarlo ma soltanto i ricordi dell’Italia che ho abitato anch’io e ho fatto in tempo a vedere. Tutto è cambiato, la metropoli si è fatta ancora più densa e sovrappopolata, la televisione è ormai una divinità assoluta. Non sono più italiani gli “accattoni” di oggi ma disperati che premono alle frontiere, cacciati dalle guerre, dalla fame, dai miraggi. Fra quel mondo e il nostro c’è lo stesso abisso che separava Accattone dai quartieri del centro. Viviamo adiacenti alla polveriera, coltiviamo la separazione illudendoci che per proteggersi, basta non comprendere o non vedere. La nostra lingua si è semplificata, è diventata tecnica, poco espressiva. Anche il nostro cinema sembra aver abbassato le armi di fronte a una realtà che non sa o non vuole interpretare. L’Italia è piena di accattoni, ma un film come Accattone non si farà mai più. Per questo, dovendo scegliere un film, scelgo questo. Per ricordare e voler fare. Perché - e basterebbe questo - è bellissimo.

II.

Antonio Capuano. Il mio film

… cioè, come voi. Prima avevo visto film e film, film su film, non è che avevo mai visto un film. Mi seguite? E quanti nomi. Straordinari, irraggiungibili, non ne parliamo proprio! Ma, quando ho visto Accattone, l’ho visto e ho pensato, questo è il film mio. Non lo so, se a voi è mai capitato di vedere un film, e dopo avete pensato, questo film, è il film mio. Il mondo se ne cade di film, ma io credo, che ognuno tiene il film suo. Accattone è il mio e, sarei più felice ancora, se io potessi dividere, con quanta più gente e possibile. Con altri milioni di persone, miliardi. Felice di pensare che Accattone è di tutti. Capisco che è impossibile, perciò ogni tanto mi sento un po’ solo.

III.

Guido Chiesa. Basta solo un’inquadratura

Se le banalità sono permesse, allora togliamoci il rospo: come si fa a scegliere un solo film italiano degli ultimi cinquant’anni? È impossibile. O, meglio, come si fa a indicare un solo titolo nella produzione di registi che hanno fatto/trasformato la storia del cinema e della cultura di questo paese (e non solo)? Solo per menzionare i più macroscopici: Visconti, Rossellini, Antonioni, Fellini. Per carità, sono il primo a voler usare ogni arma critica contro i culti delle personalità e le perniciose semplificazioni delle politiques des auteurs. Ma la storia della cultura è un conto; un altro i gusti soggettivi, le traiettorie personali, le ossessioni da cinephile. Quindi, la mia risposta non potrebbe che essere: non esiste il miglior film italiano degli ultimi 50 anni. Non è domanda da porsi. D’altra parte, se colgo lo spirito dell’iniziativa (ma non ne sono certo), mi sembra di capire che proprio i gusti soggetti, le traiettorie personali, le ossessioni da cinephile siano l’argomento del contendere. Per cui, pur non amando particolarmente questo genere di indagini, accetto l’invito, specificando però che la mia indicazione non va assolutamente considerata rappresentativa (se non dei miei gusti soggettivi, delle mie traiettorie personali, delle mie ossessioni da excinephile), che non sottende alcun discorso generale su che cos’è il cinema (e neanche su che cos’è il cinema italiano) e che non prevede l’esclusione di numerosi altri titoli, egualmente e diversamente meritori. Anche perché, tra l’altro, non ho mai sofferto del mito di Pasolini, non amo particolarmente il suo modo di girare, considero Salò decisamente inferiore al (e diverso dal) testo sadiano a cui è ispirato e, in ultima battuta, penso che si tratti di lavoro imperfetto e altamente discutibile. Eppure, per certe strane ragioni, come mi accadde vedendo Il cimitero del Sole di Oshima, Querelle di Fassbinder o Fango sulle stelle di Kazan, ho sempre sentito che, se avessi potuto, certi film li avrei sottoscritti: inquadratura per inquadratura, battuta per battuta, imperfezione per imperfezione. Perché? Gusti soggetti traiettorie personali, ossessioni da cinephile. Con affetto.

Pier Paolo Pasolini e la nuova critica degli anni Sessanta di Piero Spila

Pier Paolo Pasolini era diverso sempre, nel bene e nel male, nell’essere autore grande e imperfetto, classico ed estremo, primitivo e insieme raffinato, lucido nel progetto ma febbrile nella furia creativa, incontenibile, spesso spiazzante; era diverso nei giudizi sferzanti e inattesi come nelle posizioni pubbliche più spericolate, nei rancori e nelle chiusure assolute che continuavano però ad accompagnarlo e tormentarlo nella vita, così come negli amori e nelle adesioni generose che non servivano quasi mai a rasserenarlo e alla fine lo ferivano. Pasolini era diverso, esistenzialmente e culturalmente, e lo era anche nel modo di porsi nei confronti della critica, intesa nella sua natura istitutiva più che nell’esercizio prosaico e banale. Diverso perché malgrado fosse un grande critico letterario e cinematografico, non aveva una bella opinione dei critici e del loro ruolo. Nel 1975, praticamente poche ore prima di morire, nella sua ultima intervista rilasciata a “Tuttolibri” diceva: «Non vi illudete. Voi siete, con la scuola, la televisione, la pacatezza dei vostri giornali, voi siete i grandi conservatori di questo ordine orrendo, basato sull’idea di possedere e sull’idea di distruggere. Beati voi che siete tutti contenti quando potete mettere su un delitto la sua bella etichetta. A me questa sembra un’altra delle tante operazioni della cultura di massa. Non potendo impedire che accadano certe cose, si trova pace fabbricando scaffali». Qui Pasolini parla evidentemente del sistema dell’informazione in generale, della drammatica deriva del costume culturale e politico nazionale, ma le sue parole,

come sempre, hanno un’eco dolorosamente autoreferenziale e riguardano anche la sua condizione d’artista, la sua insoddisfazione, la sua ferita. Si continua a fabbricare scaffali, per continuare ad allineare in bell’ordine pratiche messe a tacere per sempre, scandali e vergogne nazionali, complicità e rimozioni generazionali, ma anche analisi critiche colpevolmente riduttive, argomentazioni ingenerose, approfondimenti parziali e insoddisfacenti. Ed eccoli, allora, i “beati”, tutti contenti di “mettere etichette” e ritenersi così soddisfatti del lavoro eseguito, sono loro i colpevoli del misfatto più grave, quello di fingere di non vedere o di insistere a parlare d’altro. Complici, ipocriti e disattenti, tutori di un “ordine orrendo” o gestori di un potere votato all’autodistruzione. In questa categoria del pensiero ci sono anche quelli che continuano a trincerarsi dietro l’esercizio benpensante del sapere, coloro che tentano - nel rispetto del loro status, con la pochezza delle risorse e attitudini disponibili - di semplificare e tradire con una formula, esorcizzare con una definizione brillante e compiaciuta, rendere innocuo magari con una spiegazione sapiente o didascalica ciò che invece è anomalo, e che deve allarmare proprio per il suo mistero e diversità, ciò che è indefinibile e quindi non smerciabile, che è destinato a restare ambiguo, e quindi inesauribile. Negli ultimi tempi della sua vita Pasolini non era contento di nulla, ma il suo rapporto conflittuale con la critica aveva radici antiche, e probabilmente nasceva da una delusione profonda, da un’attrazione e insieme da una sfiducia che sono state una costante della sua carriera. Ne fanno fede l’ansia, la bulimica generosità con cui ha accompagnato tutti i suoi film, da Accattone a Salò, con una serie sterminata di interventi, testi e materiali spuri (poesie, prose, diari di lavorazione, articoli giornalistici, interviste, dichiarazioni d’autore, autocritiche, difese), tutti materiali predisposti, più che per difendere le sue opere nel momento del loro incontro con il pubblico e la critica, per dilatarne e prolungarne il senso, precisarne e approfondirne le ragioni, completando con una serie di intenzioni d’autore, di riflessioni a margine e a posteriori, ciò che temeva di non essere riuscito a dire fino in fondo, con le immagini, o che sentiva di aver detto sempre in

modo unilaterale e confuso, parziale e impreciso. E, proprio a causa di questa unilateralità e parzialità, essere ingiustamente giudicato e tradito. E in questo esercizio, a mio avviso, Pasolini è stato sempre, in assoluto, il miglior critico di se stesso e della sua opera, il più lucido e il meno indulgente. Come è evidente, ad esempio, nel modo in cui descrive, già all’inizio della sua carriera cinematografica, il dissidio con Fellini, che all’epoca si era proposto di produrre Accattone. «Fellini si siede e mi dice subito che vuole essere sincero con me e che il materiale che ha visto, no, non l’ha convinto. Io lo sapevo: era chiaro che non gli sarebbe piaciuto da almeno dieci giorni; forse fin dalla prima sera che mi sono presentato a lui proponendogli di produrre il film. Non mi stupisco quindi. E discuto per puro e semplice amore della chiarezza e della verità. In sostanza che cosa non piace a Fellini? La povertà, la sciatteria, la rozzezza, la goffa scolasticità quasi anonima con cui ho girato. Bene, sono d’accordo. Per la prima volta in vita mia mi ero trovato dietro a una macchina da presa: questa macchina da presa era tutta scassata, vecchia, conteneva poca pellicola: dovevo girare un’intera scena in un giorno. Gli attori, anch’essi erano per la prima volta davanti a un obiettivo. Cosa potevo fare, un miracolo? Sì, certo, Fellini si aspettava un miracolo. Che non è accaduto, perché, non avendo esperienza dei risultati, mi sono trovato alla fine con dei primi piani che erano piani americani, con dei testoni alla Dreyer che erano comuni primi piani, delle carrellate veloci che invece erano lente, della luce torbida che invece era limpida e viceversa. È mancata, insomma, in questa scena, quella rifinitura che in definitiva è lo stile: il miracolo. Tuttavia, se dovessi rigirare la scena - è una precisa domanda che mi pone Fellini - sì, la rigirerei esattamente con quel ritmo: rapido, affrettato, sciatto, buttato via, funzionale, senza coloriture e atmosfere, tutto addosso ai personaggi. È tutto il film che vorrei girare in questo modo». (in “Accattone”, Edizioni FM, Roma, 1961). Pasolini ha appena girato un provino di poche centinaia di metri di pellicola ma ha già chiarissima l’idea di un progetto espressivo, di uno stile (“il miracolo”), e offre, in termini critici più che d’autore, quella

che sarà la chiave di lettura più proficua di un film linguisticamente così anomalo, così “diverso”, come indubbiamente è Accattone. Ed è sempre con parole da critico che Pasolini parla dell’incontro (piuttosto conflittuale) con Anna Magnani sul set di Mamma Roma, o, ancora meglio, quando denuncia la sua insoddisfazione teorica nei riguardi de Il Vangelo secondo Matteo, il film che determinò un profondo ripensamento nel suo modo di fare cinema. Nei primi giorni di riprese Pasolini aveva adottato il solito modo di girare, fatto per lo più di inquadrature frontali e lente panoramiche. Una tecnica dall’andamento solenne, quasi sacrale, che aveva avuto esiti felici nella rappresentazione del mondo sottoproletario di Accattone e Mamma Roma, e che sembrava fatto apposta per esaltare anche l’atmosfera mistica, sospesa, delle pagine evangeliche. Non è così e la delusione è sconvolgente. Pasolini prende le distanze dal materiale girato e lo fa con un giudizio drastico e irrevocabile: «Ho fatto delle cose orrende, insopportabili; in proiezione, dopo la visione dei primi due, tre giorni di riprese, sono stato sul punto di piantarla, di arrendermi». Il motivo del fallimento è chiaro ed è sempre Pasolini ad analizzarlo criticamente. Rappresentare gli episodi del Vangelo con la tecnica di sempre equivale a ricalcare delle immagini già impresse nella mente: quello che per Accattone era “scandaloso” e stilisticamente efficace, per il Vangelo diventa scolastico e formale. Un Cristo ieratico non è il Cristo; una panoramica solenne, maestosa, sugli Apostoli intenti ad ascoltare il Messia non suscita una vera emozione. In pochi giorni e poche notti insonni, Pasolini rivoluziona completamente il progetto stilistico del film. Comincia ad usare per la prima volta obiettivi per lui inusuali - invece del solito 50 mm, con cui praticamente ha girato tutto Accattone, fa dei primi piani col 25 oppure col 100 o addirittura col 300, che diventa l’obiettivo più presente perché gli consente con la sua profondità di salvaguardare la casualità documentaristica (che sarà la cifra stilistica del film) ma anche di “schiacciare” le immagini e quindi rendere ancora più pittoriche le figure e i paesaggi; usa il teleobiettivo per seguire gli Apostoli che vanno dietro Gesù o per girare da lontano la terribile sequenza

della strage degli innocenti; usa anche la macchina a mano, per rendere meglio lo stile concitato della cronaca, per “drammatizzare” i due processi davanti a Caifa e Pilato - spiati da dietro la nuca degli spettatori che assistono alla scena - o per inseguire la camminata nervosa di Giuseppe che, offeso e incredulo, corre dalla sposa Maria. Infine, anziché rispettare la solita simmetria delle inquadrature pasoliniane - campo e controcampo - e delle panoramiche che introducono o spezzano il primo piano del personaggio o il dettaglio del gesto, Pasolini comincia a utilizzare una grammatica più imprevedibile e di volta in volta diversamente espressiva: ad esempio gira la sequenza del “Discorso della montagna” interamente in studio, con un’unica inquadratura frontale di Gesù, solo cambiando la luce - dal giorno pieno alla notte e di nuovo al giorno - a sottolineare il succedersi del tempo e delle stagioni, e a rompere la temporalità realistica dell’evento. Anche per queste violente rotture stilistiche, il Vangelo è il film forse più libero e ispirato di Pasolini, in cui viene usata una tecnica volutamente discontinua, un espressionismo irregolare e - dice Pasolini - “irto come un istrice”. Ebbene, una lettura stilistica e critica del film viene fornita in prima battuta proprio da Pasolini, che propone così anche un modello del tutto inedito di fare critica cinematografica all’interno del processo creativo stesso. Si tratta di un livello di analisi critica alto, stimolante, portatore di provocazioni e di possibili sviluppi, ma che non viene raccolto in modo adeguato. Il dibattito intorno al Vangelo si sposta sul terreno ideologico, è molto intenso e supera i confini nazionali. Nell’occasione, Pasolini viene sostenuto dalle organizzazioni religiose che, alla Mostra di Venezia, gli assegnano il Premio Ocic (Office Catholique International du Cinéma) e a Parigi, alla vigilia del Natale 1964, con il consenso delle autorità religiose, viene celebrato un vero processo al film nella cattedrale di Notre Dame, con un tribunale presieduto da un rappresentante dell’arcivescovo di Parigi cardinale Feltin e la difesa assunta dal Prof. Marrou, titolare di Storia del Cristianesimo alla Sorbona. Le critiche più dure (e ottuse) provengono però dalla sinistra, che sostanzialmente rimprovera a Pasolini una concessione al cinema commerciale (probabilmente solo perché per la prima volta un suo film ottiene un grande

successo di pubblico) e di aver realizzato una versione agiografica del Vangelo. Sempre in Francia, Pasolini riceve la solidarietà di Jean Paul Sartre, ma il critico marxista Michel Cournot parla di “art pedé” e scrive su “Le Nouvel Observateur” una critica feroce («è un film che sembra fatto apposta per chi va a messa la domenica di Pasqua e all’inizio dell’anno prende la tessera del partito comunista»). È il segno di una frattura verticale che accompagnerà da quel momento in poi tutta la carriera di Pasolini e che si arricchirà nel tempo di episodi altrettanto dolorosi. Tralasciando le aggressioni e i linciaggi operati dai fogli e fogliacci della destra (ma non solo), la cosa che più colpisce è naturalmente l’accanimento delle critiche che provengono dalla parte culturalmente più contigua a Pasolini: si va dalle discussioni teoriche, aspre e comunque rispettose, con intellettuali amici come Moravia o Franco Fortini, alle invettive “dialettiche” di critici come Goffredo Fofi, agli “insulti d’autore” rivoltigli da intellettuali prestigiosi come Edoardo Sanguineti o Umberto Eco. Pasolini vive sempre questi confronti come fossero un’aggressione personale, comunque come una sconfitta, ma è proprio da questa sensazione di isolamento e di difficoltà di comunicazione, che trova lo slancio per imboccare ogni volta nuove strade espressive (un film-saggio come Uccellacci e uccellini, i film in forma di appunti come Sopralluoghi in Palestina o Appunti per un film sull’India, i film-intervento come 12 dicembre, le sperimentazioni linguistiche come La Terra vista dalla Luna o Che cosa sono le nuvole?), e, per quanto riguarda la riflessione teorica, per aprire continuamente nuovi fronti di provocazione e dibattito. Sono gli anni dei grandi convegni teorico-critici pesaresi, a cui Pasolini partecipa da protagonista, portando una ventata di vitalità ed entusiasmo e suscitando, come sempre, clamore e scandalo. Nei primi anni Sessanta, la Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro è la capitale del “nuovo cinema”, a cui fanno riferimento autori come Godard e Straub, Oshima e Rocha, Mekas e Makavejev, ma da un certo punto in poi diventa anche un punto di riferimento per la “nuova critica” e per tutto ciò che di “nuovo” e “rivoluzionario” si verifica nella

cultura cinematografica. Ebbene, questa stagione sarebbe impensabile senza l’opera e la spinta di Pasolini, senza la forza delle sue idee e provocazioni. È lui ad incarnare meglio di ogni altro la saldatura tra pratiche espressive (gli autori, i film) e pratiche riflessive (la critica, l’approfondimento teorico), oltreché il progetto teorico-pratico di riattribuire ai poeti e agli artisti, e in particolare ai cineasti, una “coscienza tecnica della forma”. Pasolini non si limita a elaborare analisi e teorie, ma mette a disposizione di chi studia e opera nel cinema nuovi strumenti e nuove metodologie. Nel 1965, presenta a Pesaro la relazione “La mimesi dello sguardo”, in cui descrive, tra l’altro, l’operazione “doppia” (linguistica ed estetica) compiuta dall’autore cinematografico rispetto all’autore letterario (assumere l’im-segno dal caos della realtà, renderlo significativo e poi, in seconda battuta, aggiungervi la “qualità espressiva” individuale). È sempre in quell’occasione che, attraverso le analisi critiche di alcuni film di Chaplin e Godard, Bergman e Bertolucci, elabora ed esemplifica la sua definizione di cinema di prosa e cinema di poesia. Nel 1966 è la volta della relazione “La lingua scritta dell’azione”, in cui Pasolini, in contrapposizione con Christian Metz che contesta l’idea di cinema come lingua, presenta uno schema grammaticale linguistico del cinema. Uno schema che è in primo luogo uno strumento di lavoro e che verrà adottato e messo alla prova proprio in quanto tale (ad esempio dalla rivista “Cinema & Film” che, nella primavera del 1967, propone due analisi linguistiche e strutturali di Viaggio in Italia di Rossellini). L’anno successivo, infine, partecipa alla Tavola Rotonda “Linguaggio e ideologia del cinema”, insieme a Galvano Della Volpe, Umberto Eco, Emilio Garroni e tanti altri, ed è in questa occasione che presenta il suo “Discorso sul piano-sequenza ovvero il cinema come semiologia della realtà”. Tutti interventi che Pasolini accompagna con saggi e prese di posizione pubbliche che suscitano, come sempre, un ampio dibattito tra gli specialisti e gli addetti ai lavori. Innumerevoli sono i distinguo e le contestazioni teoriche (spesso solo pedanti) e anche le accuse di una certa improvvisazione culturale (Pasolini è pur sempre “un poeta”) rivoltegli da

semiologi e linguisti di tradizione accademica; ma ci sono anche apprezzamenti sinceri e soprattutto segnali di grande vitalità in un dibattito teorico a lungo bloccato su se stesso, inerte e autoreferenziale. Come la città pasoliniana che «non finisce ai capolinea del 12, del 13, del 409, ma si distende al di là delle ultime case, rivive nelle borgate, nei tuguri, nei piccoli bar affollati», così, alla stessa maniera, Pasolini va oltre, anche là dove in genere non si arriva. Sarà così anche per quanto riguarda la sua riflessione teorica sul cinema. Pasolini è stato un linguista, magari un “pessimo linguista” come ha detto lui stesso, è stato un semiologo, magari impreciso e troppo semplificatorio, ma è stato soprattutto capace di indicare un modo nuovo di porsi, appunto da linguista e semiologo, nei confronti del cinema. Ed è comunque sulla spinta delle provocazioni pasoliniane, che si apre un confronto culturale proficuo in cui, parlando di cinema, si discute anche di semiologia, strutturalismo, antropologia, e si citano autori come De Saussure e Sklovskij, Levi Strauss e Jakobson. Un dibattito di alto livello a cui partecipano, tra gli altri, studiosi come Roland Barthes e Christian Metz, certamente più adusi di certi colleghi italiani alle contaminazioni scientifiche e più predisposti all’uso poeticamente “arbitrario” fatto da Pasolini di alcuni modelli teorici comparati. In questi stessi anni, la critica cinematografica italiana vive uno dei suoi momenti più esaltanti. Nascono, agiscono e muoiono nuove riviste specializzate, in particolare “Cinema & Film” e “Ombre rosse”, che fanno riecheggiare in Italia, a livello alto, il confronto e lo scontro che si svolge da anni in Francia tra riviste quali “Cahiers du Cinéma” e “Positif”. Si parte naturalmente da strumentazioni ideologiche contrapposte, chi più contenutista o più formalista, chi più marxista ortodosso o più movimentista, ma il confronto avviene con strumenti critici e apparati metodologici nuovi (in gran parte quelli di cui si discute grazie a Pasolini), e soprattutto con un approccio al cinema totalmente rivoluzionato, anche per l’impeto degli eventi del Maggio parigino. È una nuova critica che in certi casi riesce ad essere all’altezza di quanto di nuovo si sta affacciando nel panorama

cinematografico internazionale: il New American Cinema, i Newsreel di Robert Kramer, il cinema nôvo brasiliano, e poi autori come Jean Marie Straub e Jean Rouch, Carmelo Bene e Andy Wharol. Purtroppo è una stagione brevissima, che si brucia nell’arco di un pugno di anni (1965-1969), al termine della quale tutto si ferma di nuovo e regredisce. Di certo si interrompe quasi del tutto lo scambio fertile tra Pasolini e la critica italiana. Negli anni Settanta tra Pasolini autore e la critica specializzata c’è sostanzialmente un discorso interrotto, una serie di incomprensioni e di sottovalutazioni, un punto di non ritorno che viene sancito con la consueta chiarezza da Goffredo Fofi, nel 1971 (Pasolini ha appena girato il Decameron). «È proprio per il rispetto che ancora sentiamo per il poeta che Pasolini è stato, e per la sua capacità, allora, di cogliere il conflitto tra spinta politica e spinta esistenziale, e la necessità di una sua soluzione, che il Pasolini di oggi va più duramente rifiutato e negato. Oggi, nell’inarrestabile profluvio di film, abbozzi di film, documentari, progetti, poesie, drammi, dichiarazioni, difese, denunce, lettere aperte, interviste, libri, che Pasolini butta sul mercato in un’ansia irrefrenabile e di presenza e di esorcismo, è difficile, forse inutile, tentare un discorso critico, perché la mescolanza di biografico e poetico e teorico che Pasolini ingarbuglia si è allontanata progressivamente dalle vere preoccupazioni, dalla sostanza dei problemi che ci riguardano» (In Servi e padroni, Feltrinelli). Appunto un discorso interrotto (malgrado i tanti articoli e libri a lui dedicati), e per Pasolini è la conferma di quanto ha scritto in versi: la morte comincia quando non si riesce più ad essere compresi. Un’interruzione di dialogo che per Pasolini assume toni addirittura drammatici (la sua “abiura” alla Trilogia della Vita, la realizzazione di un film estremo come Salò, l’annuncio di un suo probabile ritiro dal cinema), mentre per la critica è soprattutto un’occasione mancata. Una delle tante. Personalmente sono convinto che la critica cinematografica, nel suo complesso, non sia stata all’altezza di Pasolini e di un cinema così alto, di un corpus linguistico così complesso,

stratificato, unico, “diverso”. Viceversa, è stato Pasolini a dare tantissimo, e sempre generosamente, alla critica cinematografica. A proposito di questo debito inevaso nei suoi confronti, mi piace usare le parole scritte da Gianni Scalia: «Su Pasolini, chiedo di essere sospettosi. Occorre sospettarlo, interrogarlo nell’unico modo possibile: interrogarsi. Chiedeva di essere tradotto, dovremmo, forse, essere cattivi interpreti, non prenderlo alla lettera, e prendendolo alla lettera, trascinarlo nelle nostre contraddizioni, dimenticarci del suo “testo” per mescolarlo alla (nostra) vita. Tradurre Pasolini. E magari tradirlo. Tradurlo è anche un momento di memoria di quello che non abbiamo capito, e non abbiamo fatto: e di quello che resta da fare. Marxista “ordinario”, comunista “comune”, ci ha ricordato, semplicemente, radicalmente, che il Capitale è totale, né cosa né fantasma. Il capitale siamo noi. Ci ha ricordato che non abbiamo le prove, ma sappiamo. Che tutto è spaventosamente chiaro. Che si dovrà fare il Processo. Che ci sarà un giorno di giudizio. Pasolini è stato crudele. Ci ha ricordato la realtà del mondo in cui abitiamo, abituati. Che l’avanzare può essere un declinare. Ci ha ricordato, con altrettanta crudeltà, il “sogno di una cosa”, in una disperatata vitalità, la crudeltà del “diritto di sognare”». Che è un’indicazione di lavoro su cui varrebbe la pena interrogarsi se e in quale misura sia stata seguita. A fronte dei tanti libri e studi che continuano ad uscire su Pasolini, delle tante iniziative che meritoriamente vengono svolte in suo onore, delle celebrazioni e dei premi, c’è l’impressione forte che, fortunatamente, molto resti ancora da fare, a partire da quel delta critico evocato da Scalia, fatto anche di crudeltà e tradimento.

Pasolini saggista cinematografico

di Goffredo Fofi

Si dovesse fare una storia dei “generi” più insoliti nella storia del cinema, il “film-saggio” apparirebbe forse come una fusione di due generi ibridi per eccellenza, anzi due sottogeneri, il primo dei quali - il film a episodi - molto diffuso in certi anni (fra i Trenta e i Quaranta) e il secondo più raro (il film - conferenza). Poteva esserci nel primo un filo interno (es. Carnet di ballo di Duvivier) o esterno (es. Altri tempi di Blasetti, antologia di racconti italiani dell’Ottocento e del primo Novecento, o Passioni, nell’originale Quartet, quattro racconti di Maugham diretti da più registi), e ogni episodio poteva rimandare a un genere diverso (drammatico, comico, commedia, fantastico ecc.). Il film-conferenza era in genere affidato a un attore che presentava episodi legati a un filo tematico: rispettando il taglio della conferenza, per esempio Noël-Noël con Gli scocciatori, oppure affidandosi alla voce fuoricampo dell’attore, per esempio Totò per Totò e le donne. A volte il taglio didascalico, con il presentatore-esperto in campo o off, era di supporto a documentari. Negli anni Venti in Urss, si ragionò sui generi letterari e, di conseguenza, cinematografici con maggiore assiduità che in qualsiasi altro luogo ed epoca. Il tono delle opere realizzate (da Dziga Vertov a Ottobre) era fortemente epico-esortativo. Ejzenstejn dichiarò una volta che sarebbe stato possibile - e avrebbe voluto accingersi all’impresa - tradurre in immagini un capitolo o più del Capitale. Gli anni Trenta sovietici uccisero, come si sa, ogni possibilità di invenzione e ricerca che uscissero dai canoni zdanoviani. Molti anni dopo, qualche regista del “terzo mondo” tentò di rifarsi a quelle lontane teorie debitamente aggiornandole e innovando, per esempio Fernando Solanas e Octavio Gelino con L’ora dei forni. E ovviamente ci furono, debitori a tanti, i liberi esperimenti europei dello straordinario Godard, distruttore-costruttore indefesso di canoni e forme. (Il suo film-saggio per eccellenza rimane, a mio parere. Due o tre cose che so di lei). A Godard e ai suoi modi, Pasolini dovrà non poche suggestioni.

A Hollywood, Mosca, Cinecittà, Pinewood i produttori - il business - hanno sempre vietato con il ricatto della commerciabilità ogni iniziativa eterodossa, e confinato il cinema “per le sale” sotto la dittatura della narrazione. Dicono produttori, autori, sceneggiatori, pubblico, critici: il cinema richiede partecipazione-identificazione da parte dello spettatore, il cinema richiede personaggi e vicende, il cinema richiede regole narrative infinitamente ripetute, il cinema permette solo variazioni sui generi e qualche rara commistione tra i generi. A questa dittatura quasi nessuno si è ribellato. Se lo ha fatto era preferibilmente qualcuno che non veniva dalle file del cinema. Ma quanti nomi si ricordano? A Hollywood ci provò Orson Welles con It’s all True, i cui resti abbiamo potuto vedere solo di recente; e ci rimise le penne anche William Saroyan con La commedia umana, che la Mgm gli tolse per affidarlo al banale Clarence Brown e che doveva essere (in parte è rimasto) un poema epico-affettuoso sulla vita quotidiana statunitense, la piccola città del melting pot democratico. Poema, appunto: la libera costruzione, composizione di immagini e parole, affascinante campo di sperimentazione, aveva la possibilità di rubare suggerimenti e modelli da tantissima poesia del nostro secolo, in particolare anglosassone, e non lo ha fatto. Il cinema da subito ha preferito pescare i suoi modelli nelle narrazioni canoniche della borghesia e del popolo della seconda metà dell’Ottocento: il romanzo, il teatro e, con più attenzione di quanto non si pensi, il melodramma. D’altronde, Pasolini. Accattone e Mamma Roma devono molto alla sua poesia, potrebbero ben essere la visualizzazione di brani di poemi, dilatati, trasferiti. Il Vangelo ha una sua struttura originale e diversa bell’e pronta nel testo. La ricotta è cinema sul cinema, ibrido provocatorio e costruttivo. E dopo Uccellacci e uccellini, sono delle ardite sperimentazioni di strutture narrative insolite anche gli episodi con Totò, o Teorema, e Salò, mentre la “Trilogia della vita” ritorna alle matrici della narrazione moderna, i massimi serbatoi-repertori della favolistica e del racconto.

Tenendo ben conto di questa sua disponibilità sperimentale, quando fui chiamato da Lotta Continua e da lui medesimo a far da mediatore sull’impostazione di un film documentario sull’Italia degli anni intorno al ’70, proposi un “soggetto” che permettesse un massimo di libertà formale, attorno al pretesto di un gruppo di operai che visionavano cinegiornali sugli avvenimenti di un anno, e li smontavano proponendo un’altra storia e un’altra Italia in una sorta di viaggio di andata e ritorno per tappe significative da Torino al Sud, e ritorno; ma si preferì un altro ibrido, dettato da casualità e propaganda, che Pasolini non riuscì o non volle contenere in una struttura coerente, 12 dicembre. Uccellacci e uccellini è, nell’opera di Pasolini, un film di passaggio e di questo porta i segni. Viene dopo i capolavori degli inizi, apre alla stagione più metaforica e ambiziosa (Edipo Re, Teorema, Porcile, Medea…) interrotta dai due “episodi” con Totò che nascono invece sotto il segno della grazia e della poesia. C’è in Uccellacci un disagio che non trova la sua definizione formale; c’è una difficoltà a stringere in una forma nuova le cose che ribollono, e che a noi oggi sembrano definitivamente appartenere a un’epoca di transizione. Il boom c’è stato, l’Italia è cambiata, ma la grande mutazione è in corso. Il ’68 è vicino, ma non lo si percepisce affatto nella opaca realtà del ’66. Il dibattito ideologico è fermo su posizioni tardo-marxiste, ha il suo punto di riferimento obbligato nel Pci. Il maggior, “interno” contraddittore di Pasolini sembra essere ancora Fortini. Tra operaismo e Francoforte e la lettura mistico-mitica dell’idea di Rivoluzione, dell’idea di Comunismo, Fortini figura in quegli anni come una sorta di incombente e autorevole e autoritario super-io per gli intellettuali di sinistra giovani e vecchi, da Calvino e Pasolini ai “Piacentini” e altri. Ma c’è anche Leonetti, cercatore di forme ideologicissime (la voce del Corvo, che bensì dice frasi e concetti perlopiù fortiniani, “riusati” liberamente e provocatoriamente da Pasolini) e c’è anche il Pci, realtà ancora imponente della sinistra “storica”, mentre la sinistra “nuova” (il ’68) tarda a spuntare. I funerali di Togliatti, pezzo forte del film, tra elegia e distacco, ma è un distacco che non si vuole affatto

esplicitare, segnarono una svolta per lutti e decretano simbolicamente la fine di un’epoca, per tutti ma niente affatto per il Pci stesso. II richiamo rosselliniano (i Fioretti) è esplicito e forte, ma non basta, è distante, primitivo (basilare) e nstalgico, e non viene seguito fino in fondo. È inframmisto a suggestioni di teatro didascalico (qui e in Porcile occhieggia uno strano Brecht, via Fortini in Uccellacci, e pre-Salò, curiosamente tinteggiato da Sade, in Porcile). Il Terzo Mondo, che è la vera rivelazione messianica di Il Vangelo secondo Matteo da a quel film il valore e l’altezza di un manifesto. Come non ricordare quanto piacque a Glauber Rocha e ai giovani registi latino americani, ai giovani intellettuali africani? Perfino Buñuel vi si soffermò con grande rispetto, lui che aveva diretto con Los olvidados il primo grande manifesto del cinema del Terzo Mondo, e cui Pasolini aveva “rubato” tante suggestioni per Accattone. Il lungo viaggio di Totò e Ninetto “Innocenti” - innocenti come è al fondo innocente il sottoproletariato pasoliniano, stato di natura meglio che costrizione di società - percorse la terra di qualcuno, ancora segnata da riconoscibili reperti (Roma e il juke-box, le regole di classe, la borghesia in via di oscenizzarsi in piccola-borghesia “coltivata”, i dentistidantisti…) ma già segnata da cartelli stradali che spingono altrove, e collegano idealmente i due amorali e affamati sottoproletarii di Roma-Sud ai Sud che ribollono, alle rivoluzioni che nel mondo dei colonizzati sono esplose o stanno ancora esplodendo. Lo ieri dell’ideologia marxista deve confrontarsi - ma ci riuscirà? - con l’oggi dello spostamento, altrove che nella fabbrica occidentale, dell’asse della novità. La giustezza prospettica, possibilità e attualità della rivolta riguarda ora i poveri del mondo, i lumpen vituperati da Marx più ancora che i contadini. I contadini Pasolini li ha cantati solo ai suoi inizi friulani, ma non riesce a vedere più in loro l’identità di soggetti sociali e politici poiché l’Italia del boom va spazzandoli via dalla nostra geografia. Non sa più riconoscere forza vitale neanche ai contadini di un Terzo Mondo, che con preveggenza vede ormai abitato da “sottoproletari” come un’immensa periferia di un’unica metropoli. Ai contadini

dedicherà, in qualche modo. Le Mille e una notte e le altre fiabe, però fiabe, ricordo mitico di ciò che non c’è più. Film di passaggio, che tutto sommato è confuso proprio per questo, significativo oggi per noi tutti di un passaggio di civiltà, Uccellacci è scritto e raccontato come una fiaba fortemente didascalica più che come un film-saggio. L’antica metafora della strada, del cammino (ma non della storia, non del progresso) tiene insieme le sue molte parti e i suoi molti suggerimenti e rinvii. Ma soprattutto a tenerlo insieme è la poesia, e l’ideologia o critica della ideologia. Varia di toni, salta di modelli. Non esprime un’ispirazione coerente e neanche, mi pare, un progetto coerente. È tuttavia istruttivo e affascinante nei suoi stessi difetti, nelle sue stesse incertezze. Può essere un modello a ipotetici film-saggio che fosse possibile (che sarebbe auspicabile) fare oggi? Credo di no. Ma come è ben noto agli artisti, è dalle opere inconcluse e irrisolte, dai grandi tentativi non riusciti che c’è da imparare di più per chi viene dopo. Nel cinema contemporaneo, e in particolare in quello italiano, scarseggiano però gli autori in grado di leggere in chiave teoricamente solida il nostro presente, di poter leggere coi mezzi della poesia le logiche, le prospettive, gli orrori e le speranze (se pure ci sono ancora). Pasolini era poeta e saggista, regista e antropologo, e protagonista di un “passaggio” che è stato per noi tutti, quello della fine di un mondo travolto dalla plastica e dalla televisione. Quell’epoca ha impresso le proprie contraddizioni nella sua carne. Autore di passaggio, non ha avuto e forse non poteva avere eredi. Il film-saggio del nostro tempo non potrà essere, se mai ci sarà, che più ironico e più disperato di Uccellacci e uccellini.

“Filmaker 5”, aprile 1996

Il suono della solitudine. La musica nei film di Pier Paolo Pasolini di Quirino Principe

Un esercizio utile e forse rivelatore sarebbe il tentativo di avvicinare la poetica e la visione della vita di Pier Paolo Pasolini a uno fra i grandi orientamenti filosofici dell’odierno Occidente. Credo che l’analogia più plausibile ci indicherebbe una sorta di dolorosa fenomenologia, in bilico sul filo di rasoio tra il nichilismo radicale e in un incontro ravvicinato e terrificante con la trascendenza. Quel filo di rasoio si adatta perfettamente a una formula illustre, che circola come sangue nella poesia italiana del Novecento, il “male di vivere”, ma esige un’espansione della voce e dell’orizzonte, libera da enfasi e tuttavia acuta e penetrante: il male di apparire e di rivelarsi, il male di camminare sulla terra, il male di tentare il volo per non farsi male camminando, il male di nutrirsi, di far vibrare il proprio corpo e di amare, il male di essere. Per usare il termine lessicale fenomenologico per eccellenza, il pasoliniano In-der-Welt-sein potrebbe essere semantizzato mediante l’immagine di chi, correttamente vestito secondo il gradimento sociale diffuso, sia costretto a camminare con un piede stranamente scalzo, o di chi, bello e sapientemente curato nella persona, sopporti la croce dell’essere gobbo o mutilato d’una gamba, o di chi compia ogni sforzo per comunicare ma (come avviene negli incubi in cui ci manca improvvisamente la voce) non è udito né veduto da alcuno.

Tutto questo ci si ripresenta con forza nella relazione, studiatissima e coltivata con passione e attenzione al minimo dettaglio, che Pasolini istituisce nei suoi film tra soggetto, sceneggiatura e immagini da un lato, e scelte musicali dall’altro. Da quando esiste il cinema come linguaggio d’arte, il rapporto tra i due elementi è fatalmente un’operazione più o meno raffinata di montaggio (parola poco elegante, ma ve n’è una ancora più sgraziata e ahimé molto usata: “assemblaggio”…). Uno dei due elementi è il “prima” (di solito è la sceneggiatura e la sequenza d’immagini, ma non lo è necessariamente: si pensi ad Aleksandr Nevskij di Ejzenštejn, dove la musica di Prokof’ef determinò, almeno in parte, la sceneggiatura), l’altro è inevitabilmente il “poi”. Sull’eccitante promessa estetica costituita dall’adattamento dell’uno all’altro elemento, incombe sempre la minaccia del “disadattamento”. È superfluo osservare che, nell’organizzare le musiche per la colonna sonora di un suo film, Pasolini fu sempre assai più attratto dalla minaccia che non dalla promessa. Una delle ragioni forse la maggiore, del fascino che i film pasoliniani suscitano, è proprio lo straniamento come effetto di una musica che ferisce e accentua il colore della solitudine (direi, il “suono” della solitudine) aggregato intorno al personaggio dolorosamente protagonista. Si sente che quella musica è “fuori luogo” (per esempio, i Brandeburghesi di Bach in Accattone) ed è volutamente tale, e questo genera acuto disagio nello spettatore-ascoltatore: esattamente ciò che Pasolini voleva, come immagine del suo (nostro) In-der-Weltsein. L’effetto-solitudine è spaventoso quando si associa a una tragedia del microcosmo individuale. Così, in Mamma Roma, una canzone malinconicamente idillica negli intenti e appiccicaticcia nel risultato, e comunque proprio perciò memorabile qual è Violino tzigano di Cesare Andrea Bixio e Bixio Cherubini, suona in un mercato di bancarelle d’infimo ordine gestite da miserabili manigoldi e necrofori delle sventure altrui, ed è come se una mostruosità patologica crescesse all’improvviso sotto i nostri occhi, poiché l’udito subisce a volte effetti visivi.

Ma c’è anche un altro tipo di straniamento, ed è quello ideologico: l’amarissimo disadattamento, accentuato dalla nostra memoria e consapevolezza storica, tra ciò che un a musica avrebbe voluto significare e i detriti di speranze calpestate che le sono rimasti attaccati. Anticipando altre notizie, proponiamo un esempio dal film Il Vangelo secondo Matteo. Va sottolineata una scelta che ha il massimo rilievo ideologico e semantico. Nei titoli di testa di quel film, nelle sequenze del primo miracolo e della tomba vuota dopo la risurrezione, la colonna sonora accoglie parti della Missa luba. Lo possiamo intendere come un omaggio allo psichiatra e sociologo nero martinicano Frantz Fanon (1925-1961) e al suo libro Les damnés de la terre (1961), del cui significato che allora pareva una luminosa promessa, e oggi è orrendamente fatto a pezzi, è memore un verso pasoliniano della poesia La Guinea, nella raccolta Poesia in forma di rosa (Garzanti, Milano 1964): «la negritudine ch’è ragione». Questa composizione, geniale nell’ispirazione e negli intenti, salutata da una fama che per alcuni anni fu straordinariamente ampia e sonante, poi corrosa dagli abusi “alla moda” che ne furono perpetrati, fu in sostanza tutt’altro che una realtà originaria e “popolare”. Posso concedere che essa sia stata una maniera colta e individualistica di fare rivivere qualcosa di popolare mediante innesto e metamorfosi. La Missa luba (“luba” è un aggettivo che si riferisce a un gruppo di etnie presenti nell’Africa centro-occidentale, e lo troviamo nell’espressione sostantivata “i Baluba”, dove ba- è il prefisso che dà luogo al plurale, e così analogamente muntu, “uomo” e bantu, “uomini”) è dovuta all’ingegno inventivo del missionario francescano Guido Haazen, di nazionalità belga, musicista ed etnomusicologo. Nel 1953, Guido Haazen andò missionario nel Congo, l’immenso territorio dell’Africa equatoriale occidentale che allora era una colonia soggetta (ancora per sette anni e non più) a Bruxelles e a re Baldovino. Sospinto dalla passione didattica e dalla curiosità etnomusicologica nel 1954 fondò nell’ambito della Missione in cui era impegnato, un gruppo di cantori, i Troubadours, per i quali creò un intero repertorio, adattando e fondendo i canti della liturgia occidentale in latino con la vocalità propria della tradizione

congolese e, in senso ampio, dello stile vocale e strumentale delle etnie kikongo. Il frutto maggiore, in breve tempo divenuto celeberrimo, di tale fusione fu la Missa luba (1958), strutturata secondo lo schema pentadico tradizionale (Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei). La Missa ebbe subito esecuzioni memorabili nel mondo occidentale e fu registrata e incisa dando il massimo rilievo al musicista-leader del gruppo, il vocalista Joachim Ngoi. Sciogliendo il nodo storico-stilistico cui allude il titolo breve e fortemente icastico, e usando una parafrasi lunga e pedantesca, si potrebbe dettagliare: Messa adatta ad essere eseguita da musicisti Baluba. Per quanto riguarda il rapporto tra sceneggiatura e colonna sonora, a nessuno sfugge il legame tra due eventi miracolosi (l’acqua diventa vino, un morto è uscito dalla tomba, in sostanza il primo e l’ultimo prodigio oltre e non “contro” natura operato da Gesù uomo, insomma un Alfa e un Omega) e il miracolo musicale costituito da una latinità alto-medievale ambrosiana e gregoriana e da una “negritudine” centro-africana che si convertono l’una nell’altra. Non è necessario, ma è sempre utile istituire un raffronto tra la filmografia di Pasolini e quella dei registi di cinema che più meritano attenzione riguardo alle loro scelte musicali: Sergej Mikhajlovič Ejzenštejn (1898-1948), Alfred Hitchcock (1899-1980), Luchino Visconti (1906-1976), sir Laurence Olivier (1907-1989), Michelangelo Antonioni (1912-2007), Orson Welles (1915-1985), Stanley Kubrick (1928-1999). Privilegiamo gli otto nominati, Pasolini compreso, rispetto ad altri che non sono collocabili allo stesso livello di consapevolezza, anche se molto tuttavia è stato detto e scritto sul loro rapporto con la musica. Bastino due esempi: Michael Curtiz (Manó [Mihaly] Kertész Kaminer, 1886-1962) e Federico Fellini (1920-1993). È evidente che né per l’uno né per l’altro la parola “scelta” ha lo stesso significato riconoscibile nella funzione che alla musica attribuiscono sia Pasolini, sia Ejzenštejn, Hitchcock, Visconti, Olivier, Antonioni, Welles e Kubrick. Nei casi di Curtiz e di Fellini, sia l’uno che l’altro dei due si affidò quasi sempre, guidato da una sensazione magari chiaroveggente di “adattabilità” e tuttavia povera di controllo critico, a un musicista compositore (non a un musicista esecutore, arrangiatore, rielaboratore) di alta

formazione accademica: Curtiz a Erich Wolfgang Korngold, Fellini a Nino Rota. Korngold e Rota sono stati eccellenti compositori con una viva sensibilità per lo spettacolo, per il teatro d’opera e per il cinema, ma il loro talento era prevaricante e straripante, e difficilmente si piegava a una logica diversa da quella della forma propriamente musicale. Poiché erano entrambi uomini amabilissimi, il loro rapporto con i registi di cinema scorreva abbastanza liscio, malgrado le loro intemperanze creative. (Eppure Mervyn LeRoy seppe disciplinare Korngold in Anthony Adverse nel 1936, e Sergej Fëdorovič Bondarčuk riuscì a fare lo stesso con Rota in Waterloo nel 1970). Da ciò deriva, in vari film diretti da Curtiz e da Fellini, l’insorgere di una sensazione che sottintende zone d’insufficienza semantica e poetica: avvertiamo occasionalmente (non sempre e in tal caso le eccezioni sono momenti rari e preziosi per quanto riguarda il rapporto musicaimmagini) non il traumatico e perturbante effetto di straniamento nel rapporto musica-immagini e musicasceneggiatura (sarebbe un connotato di qualità), bensì una fastidiosa immotivazione. Il raffronto legittimo di cui si parlava non è maldestro soltanto se non è ideologico e se è orientato esclusivamente alla ricognizione di gusti, linguaggi, inclinazioni temperamentali. Esso respinge inoltre un parametro definitorio che talvolta è ineludibile, ma qui è del tutto inessenziale: la cronologia, e l’arbitraria storicizzazione che ne conseguirebbe. Pier Paolo Pasolini, nato a Bologna domenica 5 marzo 1922, si colloca per età anagrafica tra Fellini e Kubrick, e possiamo tranquillamente ascriverlo alla loro generazione, usando tuttavia la parola “generazione” in un’accezione elastica. Eppure, ci sembra evidentissimo che, fra i registi da noi privilegiati in riferimento al rapporto musica-film, soltanto il più anziano, l’unico che si sia formato attraverso più che illustri e addirittura mitiche esperienze di cinema muto, ossia Ejzenštejn, sia avvicinabile alla maniera con cui Pasolini intende l’elemento-musica nell’ambito della colonna sonora. In lui come in Pasolini, lo straniamento della musica rispetto alle immagini avviene mediante una dolorosissima operazione di “abbandono” di ciò che il regista più ama nella musica utilizzata. L’analogia tra i due maestri del cinema non esclude

il fatto che il loro percorso sia diametralmente opposto: Pasolini costringe la musica in una specie di sotterraneo della coscienza, in cui essa perde i suoi significati assoluti e si relativizza, ora umiliandosi al ruolo di ancella di un mito religioso la cui natura “popolare” stride al contatto con la musica di Johann Sebastian Bach (la Matthäus-Passion e l’aria “Erbarme“ nel film La passione secondo Matteo), ora rendendosi inafferrabile e “perduta” con effetto straziante (i due Brandeburgische Konzerte BWV 1046 e 1047 e la Kantate “Actus Tragicus” BWV 106 di Bach in Accattone, i Concerti RV 443 e 481 di Vivaldi in Mamma Roma. Ejzenštejn, in Aleksandr Nevskij, parte da una connotazione nobilmente nazional-popolare della musica di Prokof’ev (nella sequenza di Pskov) e raggiunge uno straniamento “a rovescio” teso alla sublimazione e addirittura all’esaltazione abnorme della vicenda storica. In Olivier, soprattutto in film “shakespeariani” come Hamlet e Henry V, c’è invece una piena empatia con la musica di William Walton, fedelissima nel servire sceneggiatura, immagini e intonazione poetica: ne nasce una sensazione di “empatia”, di appagamento, di Einfühlung nel significato originario che nel 1907 Wilhelm Worrringer aveva dato alla parola. In Welles e in Kubrick, la musica è usata come mosaico: si adatta in dettaglio ad ogni microstruttura. Tutto questo costituisce una fenomenologia svariata su cui s’infrange la tesi espressa da Theodor Adorno e Hanns Eisler nel loro libro Komposition für den Film, 1969: l’essere la musica per film derivata essenzialmente dall’accompagnamento musicale dei mélodrames ottocenteschi per il teatro di prosa. Se i criteri di definizione che abbiamo tentato di offrire non sono del tutto miserabili, crediamo che non sia difficile giustificare, in Uccellacci e uccellini, la coesistenza della Zauberflöte di Mozart e dell’inno partigiano Fischia il vento, o, in Accattone, delle musiche bachiane e del blues St. James Infirmary di William Primrose. Scavalcando la notte tra sabato 1 e domenica 2 novembre 1975 sul lido di Ostia, il destino avrebbe forse concesso a Pasolini la possibilità di afferrare la chiave adatta ad aprire il segreto universale di ogni solitudine.

È passata la pop art? Torno a dipingere di Pier Paolo Pasolini

Ho ricominciato proprio ieri, 19 marzo, a dipingere, dopo (tranne qualche eccezione) una trentina d’anni. Non ho potuto far niente né con la matita, né coi pastelli, né con la china. Ho preso un barattolo di colla ho disegnato e dipinto, insieme, rovesciando direttamente il liquido sul foglio. Ci sarà una ragione per cui non mi è venuta mai l’idea di frequentare qualche liceo artistico o qualche accademia. Solo l’idea di fare qualcosa di tradizionale mi dà la nausea, mi fa stare letteralmente male. Anche trent’anni fa mi creavo delle difficoltà materiali. Per la maggior parte i disegni di quel periodo li ho fatti col polpastrello sporcato di colore direttamente dal tubetto, sul cellophan; oppure disegnavo direttamente col tubetto, spremendolo. Quanto ai quadri veri e propri, li dipingevo su tela di sacco, lasciata il più possibile ruvida e piena di buchi, con della collaccia e del gesso passati malamente sopra. Eppure non si può dire che fossi (e eventualmente sia) un pittore materico. Mi interessa più la composizione - coi suoi contorni - che la materia. Ma riesco a fare le forme che voglio io solo se la materia è difficile, impossibile; e soprattutto se, in qualche modo, è “preziosa”.

I pittori che mi hanno influenzato nel ’43 quando ho fatto i primi quadri e i primi disegni sono stati Masaccio e Carrà (che non sono, appunto, pittori materici). Il mio interesse per la pittura è cessato di colpo per una decina quindicina d’anni, dal periodo della pittura astratta a quello della pittura “pop”. Ora l’interesse riprende. Sia nel ’43 che adesso i temi della mia pittura non possono che essere stati famigliari, quotidiani, teneri e magari idillici. Malgrado la presenza cosmopolita di Longhi - la mia Nous nemmeno pregata, allora, tanta era l’adorazione - la mia pittura è dialettale: un dialetto come lingua per la poesia. Squisito, misterioso: materiale da tabernacoli. Sento ancora - quando dipingo - la religione delle cose. Forse una parentesi di trent’anni fa sì che, in questo campo, il tempo non sia passato, e io mi ritrovi, davanti a una tela, al punto in cui ho smesso di dipingere. Naturalmente tra i miei idoli (dimenticavo) c’era anche Morandi. Non posso allora tacere il mio immenso amore per Bonnard (i suoi pomeriggi pieni di silenzio e di sole sul Mediterraneo). Vorrei poter fare un quadro un po’ simile a un suo paesaggio provenzale che ho visto nel piccolo museo di Praga. Nel peggiore dei casi, vorrei poter essere un piccolissimo pittore neocubista. Ma mai, mai, potrò usare il chiaroscuro né soffiare il colore, con la spugnosa purezza e perfetta pulizia che sono necessarie al cubismo. “L’Espresso”, 19 gennaio 1992

Dossier Pasolini 1969-1972 di Roberto Chiesi

Le visioni «barbare» di Medea La dimensione onirica del progetto originario (1969)

Nella seconda metà del gennaio 1970, a quasi un mese di distanza dall’uscita di Medea nelle sale italiane, Pier Paolo Pasolini, contrariamente alle sue abitudini, decise di partecipare ad un dibattito televisivo sul film, Pasolini e il pub (Pasolini e il pubblico, prodotto nell’ambito della rubrica “Cinema ’70”, regia di Marcello Curti Gialdino, a cura di Amando Malin e Oreste Del Buono, produzione RAI Tv, trasmesso il 28 gennaio 1970), forse per cercare di risollevarne le sorti commerciali che erano rimaste molto al di sotto delle aspettative. All’inizio del dibattito, tracciò una sorta di bilancio della sua opera, soprattutto cinematografica ma non solo, soffermandosi sul motivo alla radice del suo progetto di un film su Medea: «I primi miei film, da Accattone a Il Vangelo secondo Matteo, La ricotta, Edipo Re, li ho fatti sotto il segno di Gramsci. Infatti coi miei primi film mi sono illuso di fare opere nazional-popolari nel senso gramsciano della parola, e quindi da questo consegue che pensavo di rivolgermi al popolo, al popolo come classe sociale ben differenziata dalla borghesia, almeno in modo ideale naturalmente, così come l’aveva conosciuto Gramsci, e come io stesso l’avevo conosciuto da giovane, almeno compresi tutti gli anni ’50. (…) È successa poi quella che si chiama la crisi, in un certo senso positiva, della società italiana, cioè il passaggio dell’Italia da un’epoca a carattere ancora in parte agrario, artigianale, comunque paleo-capitalistico, a una nuova epoca, quella del benessere, del neocapitalismo. E quindi, con la trasformazione in un certo senso radicale, per quanto fulminea, della società italiana, il trasformarsi di questo popolo idealizzato da Gramsci e da me giovane in qualcos’altro, in quello che i sociologi chiamano “massa”. A questo punto, io mi sono in un certo senso rifiutato, non programmaticamente, non aprioristicamente, ma in seguito alle prime esperienze, di fare dei prodotti che siano consumabili da questa massa. E quindi

ho fatto dei film d’élite, apparentemente antidemocratici, aristocratici, mentre in realtà, essendo film prodotti in polemica contro la cultura di massa, che è tirannica, che è antidemocratica per eccellenza, in realtà secondo me sono un atto, per quanto forse inutile, per quanto idealistico, di democrazia. (…) Il tema, come sempre nei miei film, è una specie di rapporto ideale, e sempre irrisolto, tra mondo povero e plebeo, diciamo sottoproletario, e mondo colto, borghese, storico. Questa volta ho affrontato direttamente, esplicitamente questo tema. Medea è l’eroina di un mondo sottoproletario, arcaico, religioso. Giasone, invece, è l’eroe di un mondo razionale, laico, moderno. E il loro amore rappresenta il conflitto tra questi due mondi. Medea viene da un mondo arcaico, religioso, in cui si fanno ancora dei sacrifici umani, quindi preistorico. (…) È la ragione, è la ragione il centro della civiltà borghese, piccolo borghese, mentre tutto ciò che è irrazionale, per esempio l’arte, contesta questa ragione borghese; cioè il potere si fonda sempre sulla ragione. E allora in un certo senso in Medea ho voluto dimostrare (in modo assolutamente favoloso e mitico e narrativo) proprio questo: la violenza incancellabile dell’irrazionalità». Come figura che incarna “la violenza incancellabile dell’irrazionalità”, scelse quindi il mito tragico della madre che sopprime i propri figli, un personaggio estremo che compie un atto estremo e inaccettabile. Ma quell’azione assumeva, nell’idea di Pasolini, un significato molto diverso da quello tradizionalmente assegnatole, ispirato, come vedremo, più dagli studi di antropologia che dai versi di Euripide.

Una tragedia della «dismisura» Il progetto di Medea nacque da una proposta di Franco Rossellini, il produttore di Teorema. Dopo il film lirico di montaggio La rabbia, del 1963, era la seconda volta che Pier Paolo Pasolini decideva di intraprendere un film in seguito alla

proposta di un produttore. Ma era una proposta che veniva a combaciare con alcune idee per film che non aveva ancora potuto o voluto realizzare. In un’altra intervista, infatti, Pasolini aggiunse: «Due o tre anni fa mi venne l’idea di adattare Le Troiane di Euripide. Avevo cominciato ad elaborare un abbozzo di soggetto, a pensare alle situazioni, ai costumi, etc. Però in seguito, dato che mi vengono in mente tante idee nello stesso tempo, non realizzai questo progetto e passai ad occuparmi di altri. Successivamente, pensai alla Callas come interprete di Giocasta in Edipo re, ma non fu possibile. Quando il produttore Rossellini mi propose di realizzare Medea con Maria Callas, accettai immediatamente. Erano due vecchi desideri che venivano a coincidere» (l mito y la mitologia no me interesan, a cura di Oscar Jahn Montauban, “El Nacional”, Caracas, 29 marzo 1970, tr. it. in Pasolini, Callas e “Medea”, a cura di Roberto Chiesi, FMR, Bologna, 2007, pp. 51-56). In un’intervista radiofonica (RAI, 19 aprile 1969), precisò che la proposta di Rossellini «è caduta a proposito perché io da tempo pensavo di fare un film sulle Troiane di Euripide, sulla storia di Ecuba, della figlia di Ecuba, di Andromaca ecc., cioè il dopoguerra troiano, usando naturalmente i testi tragici greci alternati a lunghi pezzi narrativi muti. Quindi ero un po’ già preparato all’idea di fare Medea e quando Rossellini mi ha fatto questa proposta, l’ho accettata con un certo entusiasmo, però non ho ancora definito niente, non ho stabilito niente, non ho un programma preciso. (…) L’antefatto non è mai stato raccontato da nessuno e quindi dovrei raccontarlo io, ma siccome non voglio inventare il dialogo, dato che userò il dialogo di Euripide e lo voglio organizzare come ho fatto per Il Vangelo, la stessa tecnica, le parti del Vangelo di cui non avevo il testo di Matteo le ho fatte mute, quindi praticamente uso un procedimento stilistico che ho già usato sia nel Vangelo che nell’Edipo. Però qui l’antefatto sarà un po’ più lungo e ci sarà una parte di film muto un po’ più lunga che negli altri film». L’antefatto assumerà una funzione determinante nel film, con la contrapposizione fra l’universo silenzioso e barbarico dove vive e regna Medea e il mondo prima favoloso, poi laico, dove

cresce Giasone, un mondo dove è la parola del Centauro a evocare prima le mitologie antiche, poi, quando Giasone raggiunge l’adolescenza, ad insegnargli un approccio razionale alla realtà. Pasolini incontrò per la prima volta Maria Callas il 19 ottobre del 1968, a Parigi, in compagnia di Piero Tosi, e, contro tutte le aspettative, rimase profondamente affascinato dalla soprano: «A volte scrivo la sceneggiatura senza sapere chi sarà l’attore. In questo caso sapevo che sarebbe stata la Callas, quindi ho sempre calibrato la mia sceneggiatura in funzione di lei. Ha contato molto nella creazione del personaggio… La barbarie, sprofondata dentro, che vien fuori nei suoi occhi, nei lineamenti, non si manifesta direttamente, anzi. Lei appartiene a un mondo contadino, greco, agrario, e poi si è educata per una civiltà borghese. Dunque in un certo senso ho cercato di concentrare nel suo personaggio la complessa totalità di Medea» ( Intervista con Pasolini, a cura di Violette Pisanelli Stabile, “La Rassegna”, n. 1, Roma, gennaio 1970). La Callas «impersonava, per me, da tempo, una serie di figure femminili del repertorio tragico… Sono riuscito a convincerla grazie alla mediazione del produttore Rossellini, amico personale della Callas. Sapevo che non avrebbe mai accettato di realizzare per lo schermo la sua interpretazione di Medea nell’opera lirica di Cherubini. Devo dire che è un’attrice nata, di un’intelligenza spontanea e di una presenza del tutto eccezionali… Una delle attrici che mi hanno posto meno problemi di direzione» (Pier Paolo Pasolini, Il sogno del centauro, a cura di Jean Duflot, Editori Riuniti, Roma, 1983, p. 113). Pasolini rimase affascinato dalla vulnerabilità e dalla violenza dei sentimenti che la Callas esprimeva nel suo volto e nel suo corpo. La definì ancora «una straordinaria apparizione fisica, con quei grandi occhi in un volto dagli zigomi alti, dai lineamenti e dalle espressioni che rientrano perfettamente nella mia mitologica fisionomica» (Il primo film di Maria Callas, intervista a cura di Alberto Ceretto, “Corriere della sera”, Milano, 24 aprile 1969). Anche dopo la realizzazione del film, disegnò il suo viso in una serie di ritratti, utilizzando sostanze liquide e solide

“naturali” come vino rosso e bianco, frammenti di cera, petali schiacciati. Il volto della soprano ricorre quasi sempre di profilo, come una regina da bassorilievo. Nell’autunno del 1968, ancora non si erano spenti gli strascichi della violenta polemica innescata dalla poesiapamphlet Il PCI ai giovani!!, dove Pasolini esprimeva senza reticenze i complessi sentimenti di estraneità, diffidenza e avversione che gli ispirava il movimento della contestazione studentesca. Nello stesso periodo, stava lavorando contemporaneamente a tre progetti cinematografici, Porcile, Appunti per un’Orestiade africana (che avrebbe completato soltanto ai primi del 1970) e l’episodio La sequenza del fiore di carta per il film Amore e rabbia. Inoltre aveva esordito nella regia teatrale, mettendo in scena, al Teatro Stabile di Torino, la tragedia in versi Orgia, che aveva definito «dramma della disperata lotta di chi è diverso contro la normalità che respinge ai margini, che rinchiude nel ghetto» (Dibattito al teatro Gobetti, in Pier Paolo Pasolini, Teatro, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, I Meridiani, Mondadori, Milano, 2001, p. 327). Negli ultimi versi del IV episodio di Orgia, il personaggio della Donna, interpretata da Laura Betti, prima di suicidarsi, decide di sopprimere i figli: «prima di guadagnare la loro cameretta, / andrò a prendere un coltello, nella cucina, di qua. / Ed è quello che, muovendo i passi, mi accingo a fare. / Ecco tutto! / Si dirà: è morta per un alito d’aria» (Pier Paolo Pasolini, Porcile. Orgia. Bestia da stile, Garzanti, Milano, 1979). Questa eco di Medea che s’insinua nella tragedia contemporanea di Orgia, suggerisce che il limite di non ritorno della tragedia di Euripide - la madre che sopprime i propri figli per vendetta - era un motivo che stava già muovendo l’immaginazione di Pasolini. Ma, al di là di questa scena, la matrice essenziale del progetto pasoliniano non era Euripide, ma il Trattato di storia delle religioni di Mircea Eliade, Il ramo d’oro di James G. Frazer, e L’anima primitiva di Lucien Lévy-Bruhl: «Specifico,

per inciso, all’intenzione di quelli che la partecipazione della Callas indurrebbe in errore, che non mi riferisco affatto all’opera musicale di Cherubini. Su questo punto non c’è ambiguità possibile. Quanto alla pièce di Euripide, mi sono semplicemente limitato a trarne qualche citazione. Curiosamente, quest’opera poggia su un fondamento “teorico” di storia delle religioni: Mircea Eliade, Frazer, Lévy-Bruhl, opere di etnologia e di antropologia moderne. Medea è il confronto dell’universo arcaico, ieratico, clericale, con il mondo di Giasone, mondo invece razionale e pragmatico. Giasone è l’eroe attuale (la mens momentanea) che non solo ha perso il senso metafisico, ma neppure si pone ancora questioni del genere. È il “tecnico” abulico, la cui ricerca è esclusivamente intenta al successo. (…) L’intero dramma poggia su questa contrapposizione di due “culture”, sull’irriducibilità reciproca di due civiltà. (…) Devo dire che nella scelta di questa tragedia, della “barbarie”, in cui si vede una madre uccidere i figli per amore di un uomo, quel che più mi ha affascinato è la dismisura di questo amore» (Pier Paolo Pasolini, Il sogno del centauro, op. cit., p. 103). Tre mesi prima di iniziare le riprese, Pasolini scrisse una poesia, Preghiera su commissione, dove sembrava identificarsi a Medea, alla sua «catastrofe spirituale» di donna maga e barbara precipitata nel mondo moderno della razionalità e della tecnica. Il poeta si identificava, in particolare, a quel comportamento religioso e rituale che denotava l’appartenenza ad una cultura remota e arcaica. L’angoscia che Pasolini esprime, in modo così esplicito e viscerale, per la fine del mondo contadino, si ritrova nel disperato spaesamento di Medea che, sotto lo sguardo sarcastico degli argonauti che l’hanno portata via dalla Colchide, si isola e si allontana. «ho forse il terrore che il sole, un giorno o l’altro, non risorga, oppure che l’erba non cresca più? Vivo in questa continua ansia? (…) Mi sbaglio, Dio, o il tempo si riapre

e non ha più la sua forma d’uovo? Mi sbaglio o torna il tempo dei Raccoglitori (così buoni) e sta crollando tutto un sistema di religioni?» (Pier Paolo Pasolini, Preghiera su commissione, in id., Medea, Milano, Garzanti, 1970). Il tema doloroso della fine del mondo antico, preludio luttuoso che ispirerà, quale reazione, alla vena polemica del Pasolini “corsaro” e “luterano”, si ritrova nei versi di altre poesie scritte in questo periodo e pubblicate nel volume che contiene la sceneggiatura originale del film.

Dalla sceneggiatura al film: gli incubi scomparsi Le riprese di Medea, che inizialmente si intitolava Visioni della Medea, iniziarono alle ore nove del 1 giugno 1969 a Uçhisar, in Cappadocia. La prima sequenza era ambientata nell’accampamento degli Argonauti, nel momento in cui arrivano Medea e Giasone sul carro. Il 2 giugno la troupe si sposta (sempre in Cappadocia) a Göreme, poi a Çavuşin, quindi, il 7 giugno, si ritornò a Uçhisar (dove vennero girate le sequenze ambientate nel tempio della Colchide). Il 13 giugno, la troupe si inoltrò nella campagna di Çavuşin, per la sequenza della processione e del rito sacrificale. Il 18 giugno si ritornò a Göreme. L’ultimo giorno di lavorazione in Turchia fu il 21 giugno, a Uçhisar. La settimana successiva, il 27, la troupe, ritornata in Italia, effettuò le riprese presso il fiume Chia, non lontano da Viterbo, sottostante un’antica torre medievale (scoperta da Pasolini nel 1964, ai tempi della lavorazione de Il Vangelo secondo Matteo e che avrebbe acquistato nel novembre del 1970). Il regista rimase accidentalmente ferito da un’ascia manovrata da una comparsa e fu portato all’ospedale di

Viterbo. Ma si trattò di un lieve incidente che non interruppe la lavorazione. Il 1 luglio, iniziarono le riprese nel teatro 8 di Cinecittà, “trasformato” nella casa di Medea. Nel teatro 3, vengono invece girate le sequenze della reggia di Corinto. Dal 10 luglio, il teatro 8 diventò la reggia di Pelia a Iolco. Il 14 luglio sulla spiaggia di Tor Caldara, furono realizzate le sequenze degli Argonauti e, tre giorni dopo, ad Anzio, il finale, con la scena della casa in fiamme. Il 19 a Grado, in campagna, si girò la sequenza della Dea della Terra e delle ninfe (poi soppressa al montaggio). Grado offrì gli esterni della reggia di Pelia e la laguna fornì lo scenario della sequenza dell’incontro di Giasone e della maga sotto la tenda. Quasi al termine della giornata, la Callas ebbe un malore e la lavorazione venne sospesa. Il 23 luglio, alla foce dell’Ausa, ancora nella laguna di Grado, Pasolini girò le sequenze del Centauro (Laurent Terzieff) con Giasone. Il 28 luglio, il Campo dei Miracoli di Pisa venne trasformato nella reggia di Corinto. Il giorno dopo, l’acrobata Roberto Chiappa, controfigura di Margareth Clementi nella sequenza della morte “sognata” di Glauce, si ustionò, non gravemente, alle mani e al viso. Il 4 agosto la troupe si trasferì ad Aleppo, in Siria, per girare le sequenze di Creonte e poi di Giasone sotto le mura, davanti alla casa di Medea. Infine, il 6 e il 7 di agosto, vennero realizzate le ultime sequenze: l’assalto degli Argonauti a Geboul, nei pressi di Aleppo. Da agosto a settembre, Pasolini lavorò al montaggio, negli studi della NIS a Roma. «Medea (…) si esclude da sé, porta con sé la propria tragedia. Medea, bisogna ricordarselo, è giunta al massimo dell’integrazione; qual è mai la causa profonda di questa autoesclusione in Medea? Una specie di conversione a ritroso. Immagini che San Paolo fosse credente nel momento in cui precipitò da cavallo, e il trauma gli avesse fatto perdere la fede. Medea è vittima della stessa “folgorazione”. Non che Giasone l’abbia convinta di inseguirlo, essa lo fa al di fuori

dell’intervento di qualsiasi ragionamento logico. A un certo punto ha una visione di Giasone, e scatta l’irreparabile. (Cfr. la poesia Endoxa). In mezzo alla sua meravigliosa storia d’amore con Giasone, Medea ha un sogno, un sogno regressivo che la riconduce alle proprie origini. Ed è questo sogno a darle il coraggio di uccidere i figli. In questo sogno è risalita agli “archetipi” della sua vita. Vede i sacrifici umani che venivano celebrati a quel tempo, e tale visione la stimola. Ma le faccio sognare il delitto così com’è rappresentato da Euripide» (Pier Paolo Pasolini, Il sogno del centauro, op. cit., p. 104). Quando parla del film a Duflot, Pasolini non ha ancora deciso di sopprimere le sequenze oniriche sui sacrifici umani che assediano Medea e che, già girate, furono probabilmente inserite nella primitiva versione del film (di una durata, pare, superiore alle tre ore). Nella sceneggiatura, è descritta una visione (che assale Medea a Corinto, dopo che ha subìto l’abbandono di Giasone) dove il sacrificio di un uomo diviene il viatico per la resurrezione dei corpi dei morti. Ma queste sequenze di sogni scompaiono dall’edizione definitiva del film, come numerose altre sequenze previste nella sceneggiatura originale. È la forma onirica, visionaria e soggettiva a subire, quindi, un drastico ridimensionamento. Le visioni di Medea si riducono ad una sola: il sortilegio omicida contro Glauce prima soltanto sognato e poi attuato nella realtà. Anche la fisionomia del personaggio di Giasone viene modificata. La parte dedicata all’infanzia dell’Argonauta era assai più ampia nel disegno primitivo del film. Le sue origini, nella sceneggiatura, lo rendevano quasi una variante di Edipo: infatti doveva essere visualizzato il momento in cui lo zio Pelia usurpa il regno del padre di Giasone, Esone, che si sottrae alla morte, fuggendo col figlioletto e affidandolo al centauro Chirone. Analogamente a quello di Edipo, è un destino di emigrazione coatta e del trapianto in un altro nucleo famigliare. Pasolini aveva anche immaginato che Giasone fanciullo vivesse un’esperienza d’iniziazione erotica calata in una dimensione mitologica. Di questa sequenza, girata a Grado,

sopravvivono alcune fotografie inedite (che, al pari delle altre, furono realizzate dal grande fotografo di scena Mario Tursi) dove vediamo il ragazzo circondato da giovani donne di colore, in un quadro pagano e sensuale che ricorda già lo scenario del Fiore delle Mille e una notte. Ma era soprattutto il mondo barbaro e magico della Colchide che, nella concezione originaria, avrebbe dovuto avere uno spazio più ampio. Prima di iniziare le riprese, Pasolini scriveva nella sceneggiatura: «Nella Colchide lunare - così diversa dalla terra di Giasone, che è piatta, malinconica e realistica - tra i folti calanchi, le rupi mostruose, le terrazze labirintiche - (…) si celebra un rito - che si lega in qualche modo alle parole razionali e sconsacranti del Nuovo Centauro, ma che le contraddice, perché serba intatta la sua fede totale nell’ontologia e nella sacralità di “ciò che è”: il mondo come ierofania, ecc. Il rito celebrato e officiato da Medea, muta, intenta, rapita, sicura di sé e della sua religione, ecc. è un mito solare. Il sole, calando, prefigura la discesa nel Regno dei morti, e, risorgendo, prefigura la resurrezione: inoltre esso crea il ritmo temporale e la sacralizzazione del tempo, su cui è fondato il mondo contadino, ecc. Il sole è insieme il Dio della Fecondazione e della Morte» (Per questa e le citazioni successive dalla sceneggiatura, cfr. Pier Paolo Pasolini, Medea, Garzanti, Milano, 1970). Nella sceneggiatura, troviamo numerose descrizioni di rituali apparentemente enigmatici e infatti, nella poesia Endoxa, il poeta-regista definisce il film «una descrizione di riti alternati a un’educazione religiosa alla rovescia». Ispirandosi alle descrizioni di Eliade, Pasolini scrisse e girò diverse sequenze dove mostrava una serie di riti officiati da Medea. Nel film sarebbe rimasto esclusivamente il rituale più importante: il sacrificio umano compiuto per propiziare il raccolto, con una differenza: nella sceneggiatura è Medea stessa a sopprimere la vittima con le sue mani, nel film è un carnefice. Dopo il sacrificio, e dopo che anche i resti del cadavere smembrato sono stati carbonizzati, Medea pronuncia le uniche

parole di questa sequenza: «Dà vita al seme e rinasce il seme». Muove una ruota di legno, per disperdere la cenere. Ritorna così la figura del cerchio, già apparso nel disegno del vano della grotta del prigioniero, in un altro disegno all’interno e nelle forme di quasi tutti gli addobbi della cerimonia. È un simbolo della circolarità delle stagioni, del loro eterno ritorno che si lega ai riti della semina, quindi della rinascita del seme in forma di pianta e del raccolto. Un rito che allude, come vedremo, soprattutto alla resurrezione dei morti. È un tema che ritornerà in alcuni appunti di Petrolio: in due pagine intitolate Racconti colti (dove fra l’altro, appena poche righe prima, c’è curiosamente un rimando ad un proprio film, Appunti per un film sull’India): «la distruzione della popolazione del Bihar (i Bianchi cercano di distruggere i 30 o 40 milioni di affamati e colerosi, dapprima buttando dall’alto pacchi di viveri avvelenati, poi addirittura bombardando a tappeto città e villaggi. Ma la popolazione non muore: appena uccisi, massacrati, tutti risuscitano» (Pier Paolo Pasolini, Petrolio, a cura di Silvia De Laude, Mondadori, Milano, 2005, p. 170). La forma circolare del tempo trova una figurazione nell’immagine dell’“uovo”, che ricorre anche nelle poesie di Trasumanar e organizzar e in altri versi coevi (la ritroviamo anche nel testo della quarta di copertina de La nuova gioventù): “la forma d’uovo del tempo ci congiunge tutti”. È l’immagine di quella circolarità, del ritorno delle stagioni e dei cicli legati al mondo agricolo (la semina, il raccolto) che il mondo moderno sta cancellando definitivamente, per sostituirli con quelli della produzione e del consumo.

Il Sole androgino Come si è detto, Pasolini aveva inizialmente immaginato che Medea, abbandonata da Giasone in procinto di sposare Glauce, figlia del re di Corinto, venisse invasa da sogni

terribili, da incubi atroci che la riconducevano alla sua identità originaria e, al tempo stesso, svelavano il senso profondo di quei rituali che costituivano la sua cultura. Nelle visioni di questi sacrifici, sarebbe dovuta apparire anche la figura di un sacerdote misterioso che non compare nel film. È il Sole, nonno di Medea, dalle sembianze antropomorfe: un vecchio dai lineamenti virili, «un sorriso bonario e arguto, da vecchio contadino». La fisionomia ideata da Pasolini contraddice l’iconografia classica che gli attribuisce le fattezze di un giovane biondo e il suo volto e la corona circolare ricordano l’immagine del misterioso sacerdote che avrebbe dovuto presiedere ai sacrifici rivissuti nel sogno. Inoltre il regista raffigurò il dio Sole con due mammelle nel petto. È quindi un dio androgino, che richiama nel suo corpo la madre terra, perché quelle mammelle ostentate sul petto del sole sono un connotato del paesaggio della Colchide: «ocra e gialla - piena di punte, mammelle, cuspidi, precipizi, terrazze, tra abitazioni cavernicole che si affacciano nel grande vuoto silente». Ricordiamo che anche sul petto di Carlo, il protagonista sdoppiato del romanzo incompiuto Petrolio, appariranno prodigiosamente due seni: «Andò dritto in camera e si spogliò, guardandosi al grande specchio disadorno dell’intimità virile. Subito vide che cos’era successo di lui. Due grandi seni gli pendevano - non più freschi - nel petto; e nel ventre non c’era niente» (Pier Paolo Pasolini, Petrolio, op. cit., p. 207). La stesura del romanzo iniziò nel 1972, a tre anni di distanza da quella del film ed è interessante notare come alcuni elementi siano passati dal “laboratorio” di Medea a quello di Petrolio. Non è l’unico elemento. Un’analoga fisionomia di vecchio la ritroveremo anche in una delle visioni di Petrolio: «C’era un gran vecchio, dalla barba bianca e dagli occhi dolci e sofferenti: un vecchio santo, certo sommamente buono, ma anche, si vedeva, sommamente intransigente, e certo capace, se fosse stato il caso, di restare assolutamente insensibile alla pietà» (Pier Paolo Pasolini, Petrolio, op. cit., p. 88). Quell’immagine antropomorfa, del resto, ricorreva già in

alcune poesie scritte durante la preparazione del film, come Lungo le rive dell’Eufrate: «ora il padre con le mammelle li guarda, bravi figlioli che si sono liberati dai sacrifici umani e dalla siccità, e, frastornati da tale «catastrofe spirituale», se ne vanno nudi sotto i panni militari, come vermi, come bambini. Non puoi accennare un sorriso che subito ti sorridono di rimando, fino a ridere abbracciandoti». Nel film, invece, non appare nessuna figura antropomorfa: il Sole è un cerchio di fuoco, immanente, la cui voce può essere udita solo da Medea e il cui intervento genera caos e morte. Al ritorno del Sole nella coscienza della Maga si lega il sortilegio malefico contro Glauce, mentre l’immagine del fuoco che continua a bruciare sotto le ceneri del focolare domestico, anticipa l’uccisione silenziosa dei due figli da parte della madre. Ma la parte visionaria, come si è detto, fu interamente tagliata dal film, ma non senza un certo rammarico da parte di Pasolini. O almeno è un senso di rimpianto che sembra trasparire nella filigrana nei versi conclusivi di Lettera dall’interno di una sezione di poesia, la poesia che chiude il libro Medea: «L’idea pilota è dunque morta: seppelliamola. La storia della storia del film sulla regale sottoproletaria è qua, la storia vera e propria è là: altro rapporto non si dà. La tensione di quarantasette anni di vita mi ha svuotato, posso ormai dire solo le parole che mi costano meno fatica

il messaggio di un malato non conta per la sua bellezza ma per qualcosa di pratico che riconcilia col sapersi alla fine». ottobre 1969