Perché ancora destra e sinistra 8858108841, 9788858108840

"Carlo Galli non usa certo mezzi termini. E in questo densissimo, prezioso testo prende apertamente posizione sulla

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Perché ancora destra e sinistra
 8858108841, 9788858108840

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Economica Laterza 659

Dello stesso autore in altre nostre collane:

Contingenza e necessità nella ragione politica moderna «Sagittari Laterza»

La guerra globale «Saggi Tascabili Laterza»

I riluttanti. Le élites italiane di fronte alla responsabilità «Anticorpi» (a cura di)

Guerra

«Biblioteca di Cultura Moderna» (a cura di, con R. Esposito)

Enciclopedia del pensiero politico. Autori, concetti, dottrine «Manuali Laterza» (a cura di, con R. Esposito e V. Vitiello)

Nichilismo e politica

«Biblioteca di Cultura Moderna»

Carlo Galli

Perché ancora destra e sinistra

Editori Laterza

© 2010, 2013, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Edizioni precedenti: «Il nocciolo» 2010 Nella «Economica Laterza» Prima edizione, con una nuova Prefazione, settembre 2013 1

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Edizione 5 6

Anno 2013 2014 2015 2016 2017 2018

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-0884-0

Prefazione alla presente edizione

Da quando questo libro è stato pubblicato la prima volta, nel 2010, si registrano oggi alcune differenze. In primo luogo, allora la destra aveva un’altra forma, che potremmo definire fantasmagorica (quasi fosse l’immaginazione al potere; o almeno una sua declinazione, forse non troppo sorprendente); una forma che a quel tempo appariva ancora espansiva ed euforica, benché l’ombra della grande crisi cominciasse ad allungarsi anche sul nostro Paese. Oggi, invece, la destra veramente efficace (anche se l’altra ancora permane) è quella ordo-liberale, che in nome della disciplina di bilancio produce e gestisce i sacrifici e l’impoverimento della società, senza riguardo ai suoi costi umani. Amara medicina contro i guasti del neoliberismo (benché questo non sia stato davvero praticato in Italia), la destra austera, dei tempi magri, ­v

rivela ancora più chiaramente l’essenza anti-umanistica di ogni destra: il soggetto che la destra euforica, dei tempi grassi, apparentemente liberava – ma come consumatore e come spettatore, e non certo come protagonista della vita associata – è oggi del tutto assoggettato ai debiti privati, che dovrebbero, secondo i nuovi dogmi economici, sostituire il debito pubblico; ed è così reso del tutto irrilevante. La distruzione di quel legame sociale che è, o dovrebbe essere, il lavoro – una distruzione che è il tratto comune del neoliberismo trionfante e della sua crisi – mette oggi a repentaglio anche la democrazia, che è sfidata da nuovi populismi, reattivi e compensativi rispetto all’immiserimento della vita associata e individuale – ovvero portatori di istanze di giustizia trasformate in voluttà di vendetta. Sono i populismi l’altra differenza che oggi si deve registrare rispetto a tre anni fa. Forze politiche in sé né di destra né sinistra, i populismi di solito nascono da istanze tipicamente di sinistra e tuttavia non intercettate dalle forze politiche della sinistra tradizionale: le elaborano in un linguaggio autonomo che individua i problemi ma non le contraddizioni che ne sono la causa, e che li scarica su un capro espiatorio – in questa fase la ‘casta’ –; e la debole politica tradizionale non sa opporre a quel linguaggio semplificato e ­vi

aggressivo se non dei balbettii. Fase di transizione, in cui la dicotomia destra-sinistra apparentemente tace, eccezione che annulla lo spazio politico e le sue partizioni normali, il populismo è come un masso in bilico, che sta per precipitare. È una rivoluzione imminente, ma certo non necessariamente di sinistra. Ultima differenza è appunto che oggi manca quasi del tutto la sinistra, che si era adattata con la ‘terza via’ al neoliberismo, ma che non ha ancora trovato la chiave per decifrarne la crisi, e per misurare le terribili conseguenze dell’austerità. Così lo spazio politico è oggi abitato prevalentemente da due destre (quella fantasmagorica, ora fattasi più concreta, a rappresentare la paura che la crisi incute a chi ha qualcosa, o ha la speranza di averlo; e quella austera, che toglie tutto ai più deboli); e da un populismo che organizza chi non ha nulla, o ha perduto tutto tranne la rabbia e la disperazione. La conferma sempre più convinta della tesi di fondo di questo libro – che la topologia è spiegata dalla genealogia, ovvero che la differenza fra destra e sinistra, strutturale nella modernità, non nasce da contenuti specifici dell’una o dell’altra, ma è determinata da un diverso rapporto dei due campi politici con la doppia e contraddittoria origine del Moderno, cioè con il suo disordine e con la sua coazione ­vii

all’ordine – è al tempo stesso l’accorato auspicio che i tempi siano ancora tanto moderni da consentire una rinascita della sinistra. E non solo per amore di tesi, o di simmetria politica; ma perché il campo della giustizia e dell’umanesimo (per quanto il termine suoni contraddittorio e obsoleto) non resti vuoto. Perché, insomma, sia possibile la speranza. C. G. aprile 2013

Premessa all’edizione 2010

C’è ancora da riflettere sul tema ‘destra e sinistra’. Benché ampiamente dibattuto, l’argomento non è ancora consumato: questa distinzione, dislocata rispetto al suo spazio politico originario e anche rispetto alla contrapposizione – in qualche modo classica – fra capitale e lavoro, conserva efficacia e significato. La tesi che si vuole sostenere è che ci sono state e ci sono molte destre e molte sinistre, e che in questa pluralità si possono nondimeno individuare due insiemi categoriali al tempo stesso generali, utili e significativi. L’obiettivo, quindi, è di semplificare in modo sintetico, e non di classificare in modo analitico; di attingere un livello radicale di comprensione, non attraverso la nitidezza politologica dei tipi ideali, modelli costruiti secondo le esigenze del ricercatore, né attraverso la varietà storica delle forme concrete, ­ix

né attraverso essenze o complessi ideali ontologicamente stabili (come libertà e uguaglianza, rischio e sicurezza, conservazione e rivoluzione); e nemmeno attraverso attitudini transepocali, psicologiche o antropologiche. Destra e sinistra verranno trattate piuttosto come modalità, distinte ma inscindibili, opposte ma complementari, di accesso all’energia originaria del Moderno, attraverso le quali si dispone – nella storia, nelle istituzioni, nelle idee politiche, nel sentire comune dell’opinione pubblica – la moderna vicenda della politica occidentale. E quindi destra e sinistra si comprendono radicalmente solo attraverso un procedimento genealogico, che risalga al punto zero dei dispositivi della politica moderna. Appartiene alla tesi anche la considerazione che le categorie di destra e sinistra sopravvivono oggi non in virtù della permanenza dello spazio politico moderno, insieme al quale sono nate; né perché descrivano una dicotomia fondamentale della società, che è ormai ben più articolata e frammentata. Ma perché in esse si manifesta ancora una forza e un problema – la soggettività, secondo le modalità che si indicheranno – che può forse essere qualcosa di più che non l’eco di un Big Bang originario, la radiazione fossile che pervade l’universo della politica, sì uno dei contributi del Moderno alla continuità storica della civiltà ­x

occidentale, come lo sono stati l’areté greca o lo ius romano o il cristianesimo. Certo, se la distinzione fra destra e sinistra non è ancora residuale, può nondimeno diventarlo: proprio come può perdersi il retaggio dell’Antico, così può smarrirsi del tutto anche la forza propulsiva degli apparati ideali dell’Occidente. Ciò può ben accadere, benché le principali potenze che vi sono germogliate – scienza, tecnica, modo capitalistico di produzione – si siano estese (certo, in modo differenziato, imperfetto, superficiale) a buona parte del mondo. Nelle categorie di destra e sinistra sono in gioco, infatti, specifiche determinazioni politiche, storico-culturali dell’Occidente – l’umanesimo secolarizzato, e la democrazia, in primo luogo – che non coincidono, benché vi siano implicate, con l’espansione planetaria delle sue capacità pratiche. Fra le avvertenze che è utile avanzare c’è dunque che le tesi del libro – elaborate a partire dall’interesse conoscitivo di decifrare le forme intellettuali e politiche della destra che governa l’Italia, e che le dà un’impronta non si sa quanto destinata a durare – vogliono valere primariamente per le democrazie occidentali, ovvero là dove la questione destra/sinistra è nata. E c’è anche l’avvertenza che questo non è l’ennesimo libro dedicato alle sorti contingenti della sinistra o ­xi

della destra, all’analisi dei loro mali, ai consigli (peraltro non richiesti) sugli argomenti da porre a oggetto delle loro politiche, e a rispondere alla questione se la prassi debba essere moderata o antagonista, istituzionale o radicale. Il discorso che qui si svolge non è normativo – semmai pone la normatività come oggetto della propria riflessione –, e in ogni caso non vuole distribuire ad alcuno patenti di ‘vera’ sinistra o di ‘vera’ destra; serve soltanto a riconoscere nel passato, e anche nel presente (ovvero anche nelle pur rudimentali politiche dell’oggi), due modalità cardinali della politica. Entrambe interpretano elementi originari e ineludibili della modernità, così che non si può dire che l’una sia ‘falsa politica’ e l’altra ‘politica autentica’: l’indeterminatezza della politica, la sua costitutiva contingenza, non lo consentono.

Perché ancora destra e sinistra

Questo libro è il prodotto del radicale ampliamento e della profonda rielaborazione del saggio L’irresistibile sopravvivenza dello spazio politico, pubblicato in «il Mulino», 2009, 1, e di alcuni articoli apparsi in «la Repubblica». Si ringraziano direttori ed editori della cortese concessione.

Una dicotomia obsoleta?

È dagli anni Ottanta del secolo scorso, e con ancora maggiore intensità dalla globalizzazione seguita alla caduta del comunismo sovietico, che si è sostenuta l’obsolescenza euristica, teorica e pratica, della distinzione politica fra destra e sinistra. Mentre negli anni Ottanta la critica di quella distinzione era sospettata di essere sostanzialmente di destra, dagli anni Novanta in poi è stata invece segno di una crisi epocale e strutturale. Arcaico retaggio di contrapposizioni ideo­logiche giocate intorno alla centralità del lavoro di fabbrica, nell’età elettronica e nella società del consumo, del lavoro immateriale e della scomparsa delle classi tradizionali, la coppia destra/sinistra fu definita una mera sopravvivenza lessicale, dovuta a inabilità o a pigrizia del ceto politico e intellettuale (il medesimo risultato si ottiene anche con segno di valore rove­3

sciato, se si rimpiange cioè il mondo polarizzato dalle ideologie forti [Benoist]). In effetti, la differenza fra destra e sinistra era stata determinata nel XIX secolo dall’orizzonte della produzione di fabbrica e aveva identificato la dialettica, anche aspra, fra i sostenitori del prudente rallentamento delle dinamiche inclusive scritte nel Dna del capitalismo, e coloro che invece ne propugnavano un’avanzata e progrediente accelerazione (in termini di cittadinanza, di uguaglianza e di accesso alla sanità e all’istruzione), fino, eventualmente, al rovesciamento/inveramento finale. Divenuta agli inizi del XX secolo la contrapposizione fra le logiche liberali dell’individuo e le logiche democratiche della società di massa – entrambe interne al Moderno fino dalla sua origine, come vide Tocqueville –, la coppia categoriale era nondimeno a molti parsa inadeguata e asfittica, gabbia intellettuale e politica da sfondare con un balzo in avanti, che andasse oltre la destra e la sinistra [Sternhell]; e il fascismo che di tale oltranza si fece banditore incontrò proprio per questo buona parte della più evoluta intellettualità europea, che almeno sulle prime ne fu illusa [Hamilton]. In realtà il fascismo aveva di fatto realizzato un’altra destra, più radicale della destra conservatrice classica, oppure, se si vuole, aveva sì realizzato il suo programma di an­4

dare oltre la destra e la sinistra, ma nel totalitarismo, esperienza politica nuova, ma anche tale da negare le ragioni dello stesso problema da cui aveva tratto origine (e se anche in questa negazione fosse da rinvenire la verità della modernità occidentale, nondimeno destra e sinistra vi perdono ogni significato). In ogni caso, perduta rovinosamente la guerra, il fascismo ha delegittimato la destra e ha legittimato la sinistra in tutte le sue forme, comuniste e (in senso lato) socialdemocratiche, che sembravano spartirsi lo spazio politico della sinistra nel dopoguerra, mentre la destra si doveva presentare come Centro (e in molti sensi anche convergere su di esso). Analogamente, quarantacinque anni dopo, la sconfitta del comunismo reale avrebbe segnato non solo la fine della sinistra estrema ma anche l’indebolimento di quella socialdemocratica; ancora più in generale, le ‘democrazie reali’ avevano sì riportato una storica vittoria sul comunismo reale, debellandolo, proprio in virtù delle loro profonde trasformazioni interne, economiche e politiche, ma erano giunte al trionfo talmente cariche di insuperabili contraddizioni (fondamentale la quasi maturata scomparsa – nella democrazia di massa – dell’individuo, cuore della modernità e reso ormai non soggetto ma oggetto di nuovi e pervasivi poteri) che nel momento della loro vittoria si era manifestato ­5

quasi inutilizzabile l’intero apparato categoriale della politica moderna. L’epoca postmoderna della globalizzazione vedeva così la crisi del socialismo e anche del conservatorismo, reso estremistico e populistico dalla scomparsa del suo avversario, e conosceva al tempo stesso anche un’interna criticità dello stesso neo-liberismo, incapace di dare forma stabile alla società [Giddens]. Insomma, la fine della modernità e la fluidità del presente avrebbero dovuto portare al riconoscimento che destra e sinistra avevano perduto tanto i propri fini quanto la catena delle soggettività e dei mezzi in grado di raggiungerli: il presente e il futuro avrebbero dovuto richiedere il superamento anche delle moderne alternative politiche e collocarsi sotto il segno del ‘nuovo’; nuova destra e nuova sinistra, se proprio di questa terminologia ci si doveva servire ancora, ma in realtà il nuovo sarebbe stato, con ogni evidenza, sostanzialmente omogeneo, e sarebbe stato variato solo da sfumature, da (poco) diverse interpretazioni del medesimo spartito politico: indiscussa centralità del modo di produzione capitalistico, ma non del lavoro bensì dei consumi, della democrazia parlamentare pluralistica svuotata di fatto dei suoi significati, e dei ceti medi, alla cui ‘medietà’ culturale e sociale la politica avrebbe dovuto adattarsi come a un fatto­6

re strategico e strutturale, divenendo una politica di ‘centro’. E di convergenze al centro, di superamenti della destra e della sinistra, e anche della socialdemocrazia e dell’ecologismo, in nuove ‘terze vie’, sono infatti piene le cronache culturali e politiche degli ultimi venti anni, pur con tutte le differenze riscontrabili nelle varie realtà politiche occidentali (ma anche l’accettazione del capitalismo da parte del regime comunista cinese è una non piccola sfida teorica e interpretativa). Certo, vi era chi rifiutava l’aggiornamento e il depotenziamento, e parlava, dalla sinistra estrema, di due destre – quella propriamente tale e quella in cui veniva a trasformarsi la nuova sinistra – [Revelli 1996]. Al contrario, da sponde opposte la ‘nuova destra’ perseguiva un diverso superamento – in chiave metapolitica, cioè radicalmente categoriale, e non di mera convergenza fattuale – della tradizionale dicotomia, non scevro di consapevolezza storica e teorica e nondimeno di scarsa efficacia pratica (la ‘destra nuova’ che si è affermata nella politica italiana non ha nulla in comune con la ‘nuova destra’). In ogni caso, tuttavia, il mainstream degli interpreti era orientato verso la percezione dello sfumare dei contorni, delle contrapposizioni, e verso il conseguente slittamento della politica in un ‘altrove’ – in cui, nel migliore dei ­7

casi, avrebbero dovuto e potuto prendere corpo e peso tematiche né di destra né di sinistra come le questioni ambientali –, sfidato semmai dalle sopravvivenze dei vecchi estremismi e molto più dall’emergere di nuove forze populiste, veicolo di estremismi nuovi, di carattere etnico, ‘culturale’, religioso. Tutto ciò è stato parzialmente vero, soprattutto nell’ovvia percezione del mutato scenario geopolitico, e anche categoriale: ma per altri rilevanti aspetti è inaccurato. Infatti, in Occidente – si pensi, per fare qualche esempio, alla storia degli ultimi quindici anni in Italia, in Spagna, in Polonia, in Francia e in Usa – lo spazio politico continua a polarizzarsi intorno alla destra e alla sinistra. Questa contrapposizione non trae più alimento dalle complesse costruzioni ideologiche dell’Ottocento e neppure solo dalla collocazione dei soggetti nello spazio produttivo, nella sfera materiale dei rapporti di produzione. In ogni caso, proprio la crisi economica globale sta dimostrando che è in atto un tentativo della politica di ritrovare la propria centralità attraverso una nuova capacità di regolare l’economia, o in generale attraverso l’offerta di nuove soluzioni ordinative postliberiste, tanto di politica sociale quanto al livello simbolico e culturale: e non vi è dubbio che in questa nuova fase le determinazioni di destra e di sinistra abbiano un significato, sia dal lato ­8

delle forze politiche e del loro proporsi, sia dal lato delle risposte dei cittadini, che – anche nelle elezioni del Parlamento europeo del giugno 2009 – hanno ben saputo distinguere fra destra e sinistra, premiando la prima e punendo la seconda. Insomma, destra e sinistra sono categorie della politica moderna, ma in qualche modo continuano ad avere senso anche in una politica largamente postmoderna come quella dell’età globale; il che significa che qualcosa della tradizione moderna opera anche in un contesto assai diverso da quello che le ha viste nascere. E appunto questo è il problema da spiegare.

Gli schemi delle teorie, e la complessità della storia

Il cleavage destra/sinistra ha senso solo a partire dalla modernità – non serve cioè a dare nome a tutti i conflitti di poteri e di saperi che hanno segnato la storia occidentale, a spiegare la lotta fra Cesare e Pompeo, o quella fra Guelfi e Ghibellini: ciò significa da un punto di vista storico-politico che intorno a esso si sono disposti i contendenti impegnati nella lotta fra lo Stato e la Chiesa, e in seguito gli avversari che si sono fronteggiati nello spazio dell’economia politica. Nel primo caso il nesso oppositivo destra/sinistra descrive la lotta borghese, razionalistica e individualistica, contro l’autorità, tanto del pontefice quanto del sovrano tradizionale – secondo una traiettoria che intellettualmente va da Hobbes e Locke all’Illuminismo, e da Rousseau a Kant, e che politicamente ha i suoi punti alti nelle rivoluzioni che alla fine del XVIII ­10

secolo hanno interessato le due sponde dell’Atlantico, quella americana e quella francese. L’obiettivo è che la politica sia lo spazio in cui l’uomo si autogoverna; in cui il potere risponde solo alla ragione umana e non ad altre istanze, dogmatiche. Nel secondo caso, quell’opposizione descrive il rovesciamento di fronte, in seguito al quale il mondo borghese si dà l’obiettivo di conservare il funzionamento del capitalismo con la correlata organizzazione della sfera pubblica a base individualistico-rappresentativa – lo Stato di diritto –, mentre il mondo socialista intende, con varie strategie, superare quell’organizzazione economica e politica. Anche da questo punto di vista è già all’interno delle dinamiche della rivoluzione francese, con Babeuf, che si apre il nuovo fronte, destinato a precisarsi con il maturare della rivoluzione industriale e con l’emergere delle posizioni di Blanc, Blanqui, Proudhon e Marx. Da ciò si può costruire uno schema formale [Revelli 2007], che vede la destra e la sinistra differenziarsi secondo coordinate valoriali (differenza o uguaglianza fra gli uomini), politiche (autorità o liberazione, gerarchia o autonomia, Stato o individuo tolto dall’alienazione borghese), temporali (conservazione o progresso). In realtà, questo schematismo va parecchio complicato. Le tradizioni politiche di destra e si­11

nistra non sono infatti, nella realtà storica, univoche, ma anzi contraddittorie; non sono cioè determinate da contenuti specifici (ma – è questa la tesi del libro – non sono neppure contenitori vuoti, che si riempiono di volta in volta casualmente). È stato osservato [Rémond] che fra il 1789 e il 1848 sono apparse sulla scena politica le matrici delle molte destre possibili. Dapprima i controrivoluzionari cattolici (Maistre, Bonald, il primo Lamennais), cioè la destra che sostiene il radicamento della politica in un fondamento indisponibile che la precede (la tradizione, la religione, la natura – o, nei romantici, la nazione –, la storia) e che deve essere conservato senza poter essere criticato dalla ragione umana, pena il crollo catastrofico dell’ordine politico; e questa è stata una destra radicale, coerentemente anti-individualistica e anticapitalistica, che a rigore non voleva neppure essere destra ma abolire lo stesso spazio politico moderno in cui si danno destra e sinistra (naturalmente, senza riuscirvi, e anzi venendone catturata). A essa si affianca, con la rivoluzione di Luglio, un’altra destra, per alcuni versi contrapposta, quella orleanista, che – dando per acquisito, con Guizot, che la rivoluzione sia chiusa per sempre, e che la democrazia sociale e politica sia un problema da porre ­12

sotto controllo – rappresenta l’iniziativa individuale capace di produrre ricchezza per i singoli e per la società, mentre seleziona vincitori e vinti, adatti e inadatti, secondo le leggi oggettive del mercato e del successo, garantite dagli apparati legali dello Stato; una destra conservatrice. Segue, come sviluppo e reazione al ciclo di eventi rivoluzionari del 1848, il bonapartismo di Napoleone III, ovvero la destra rivoluzionaria del comando politico dall’alto, del capo plebiscitario che con la sua decisione ri-organizza l’intero corpo politico della nazione con mezzi extra-legali ed extra-istituzionali; è in questa destra che il Marx del 18 Brumaio vede manifestarsi una costante della politica borghese, che cioè la borghesia, per paura della forza del proletariato, può rinunciare alle sue stesse forme politiche liberali, parlamentari e democratiche. Si tratta di destre diverse: alcune si confrontano con la modernità al suo nascere, altre invece si formano al suo interno; alcune sono economiche e altre politiche, alcune sono moderate e altre estreme. Sono però i germi delle molte destre successive: che sono state e sono conservatrici, passatiste, reazionarie, ma anche avanguardiste, rivoluzionarie, moderniste e futuriste; autoritarie, totalitarie, ma anche anarcoidi; statalistiche ma anche liberiste; tanto organicistiche quanto individualistiche. L’estrema varietà ­13

delle destre, intellettuali e politiche, nei secoli XIX e XX – che spesso si sono alleate le une con le altre, con differenti rapporti di forza, ma che si sono anche aspramente combattute – ci mostra quindi che per loro lo spazio politico è a volte immobile, altre volte solo lentamente in evoluzione, altre volte ancora del tutto instabile, mentre altre volte è invece dinamico, in vorticoso movimento; alcune volte è rigidamente unitario, nazionalistico-imperialistico, altre volte frantumato in piccole patrie xenofobe. Solo per fare qualche esempio, nella destra stanno personaggi disparati come Maistre e Scruton, Burke e Maurras, Marinetti e Lorenz, Evola e Schmitt, Stahl e Spann, Malinsky e Guénon, Jünger e Gentile, Céline e Sironi, Eliade e monsignor Lefebvre; e politici lontani tra loro come Solaro della Margarita e Hitler, Franco e Mosley, Mussolini e Churchill, Rattazzi e Degrelle. Sui principali problemi e assi categoriali della politica moderna la destra ha avuto ogni tipo possibile di posizione: il rapporto tra politica e religione è declinato, di volta in volta, come fondazione della politica nella religione (i controrivoluzionari), come interiorizzazione spoliticizzata della religione (i liberal-conservatori), come strumentalizzazione della religione da parte della politica (le religioni politiche dei totalitarismi). Anche rispetto allo Stato le attitudi­14

ni delle destre sono assai distanti, e vanno da un vero e proprio culto (quella che si definiva ‘statolatria’) al sospetto per la sua intrinseca laicità, che deve essere controbilanciata dall’autorità dell’Altare, dal rispetto per le sue leggi in quanto portano ordine e unità all’insofferenza per quelle che intralciano o rallentano il dinamismo economico fino al rovesciamento decisionistico delle sue logiche giuridiche e istituzionali (così che lo Stato rimane solo una struttura di dominio) e infine all’aperta ribellione contro le sue pretese unitarie e livellatrici, nel nome delle differenze territoriali, dei radicamenti regionali ma anche delle soggettività eroiche ed eccezionali. L’individuo, per le culture di destra, è inoltre a volte un lupo da tenere a freno con dure leggi repressive, altre volte un’inerme pecora che deve essere difesa dalle insidie di subdoli nemici, altre volte è l’eroe solitario che, forte solo di se stesso, sa affrontare il destino. Rispetto all’economia, poi, le destre oscillano vistosamente: a volte oppongono uno sdegnoso rifiuto aristocratico-guerriero delle logiche e dell’ethos capitalistico (un’opposizione che può anche prendere le forme del rifiuto nazionalistico dell’internazionalismo del capitale, attribuito a ceti o razze cosmopolitiche: di qui l’antisemitismo – il socialismo dei cretini), altre volte tributano un’adesione acritica al mercato, ­15

nuova Provvidenza in terra, e altre volte ancora esercitano un sospettoso e occhiuto governo politico (a volte corporativo) delle sue dinamiche. Riguardo al popolo, infine, le destre manifestano la loro intrinseca pluralità ora aborrendolo come immonda bestia rivoluzionaria, ora blandendolo come docile gregge di consumatori, ora idolatrandolo come nazione – fonte della tradizione storica oppure della razza, in senso biologico – che legittima ogni politica di potenza, ora prospettandogli il destino di essere governato da élites di migliori o di ricchi, o ancora da capi carismatici, ora contrapponendolo (è il populismo di destra) alle istituzioni legali e ai politici di professione come portatore di una legittimità sostanziale e di una moralità spontanea. Fra il 1789 e il 1848 si sono manifestate anche le forme fondamentali della sinistra [Lefranc]: i liberali che hanno innescato la rivoluzione, grazie all’armamentario teorico del razionalismo e dell’illuminismo, della laicità e dei diritti individuali; i democratici radicali, col loro repubblicanesimo egualitario e moralistico (quello giacobino ma anche quello mazziniano); i socialisti, nelle loro varie e spesso contrapposte famiglie: quelli che da Marx saranno definiti utopisti, primo fra tutti Proudhon, i marxisti (destinati alla suddivisio­16

ne interna fra rivoluzionari e riformisti), gli anarchici. Statalistica e individualistica, libertaria e autoritaria e anche totalitaria, centrata sulla spontaneità o sulla disciplina, pauperistica o produttivistica; industrialista o ecologista, bellicosa o pacifista, universalista e differenzialista, utopistica e scientifica, anche la sinistra appare costituire, allo sguardo storico, un universo pluralistico: è, quello della sinistra, un mondo di infinita varietà e di straordinaria plurivocità, che sul piano storico-pratico ha avuto e ha il gusto più della separazione che non dell’unione, della guerra fratricida che non della collaborazione. I conflitti fra Marx e Bakunin, fra Lenin e Luxemburg, fra Stalin e Trockij, fra socialisti e comunisti, sono solo alcuni momenti esemplari, alti e sanguinosi, di una storia politicoideo­logica all’insegna della scissione. Anche in questo caso, il riferimento ad alcuni indicatori categoriali può illustrare quanto profondamente sia diviso l’universo polimorfo delle sinistre. Che infatti sulla questione della soggettività si bipartiscono in due grandi famiglie: quella di coloro che considerano il soggetto precedente rispetto alla politica, dotato di una sua originaria autonomia (i diritti individuali), e l’altra, di chi vede il soggetto stesso generarsi all’interno del processo delle lotte storiche per l’emancipazione (la soggettività collettiva del proletariato). La ­17

prima posizione è quella liberal-democratica, mentre la seconda è quella del pensiero dialettico che già da Hegel – qui preso in considerazione non perché sia ascrivibile alla sinistra ma perché è l’iniziatore di una tradizione di pensiero – unisce il massimo di valorizzazione della soggettività (la teoria fenomenologica della sostanza-soggetto che costruisce se stessa nella storia) alla critica all’astrattezza e alla superficialità del liberalismo, aprendo così la strada alla critica di Marx e dei marxismi nei confronti dell’individualismo liberale (in quanto non sufficientemente umanistico, dato che si fissa su un’immagine alienata dell’uomo), nella prospettiva dello sviluppo di una soggettività pienamente liberata (attraverso il soggetto collettivo della classe proletaria, e oltre questa nella multiforme umanità del comunismo). È chiaro che la questione è quella dei diritti, che nella sinistra democratica valgono come a priori, mentre nella tradizione dialettica non possono non essere storicizzati (come ‘borghesi’), dialettizzati (come contraddittori), e infine rinviati – non più come diritti ma come pienezza dell’essere pratico-concreto – alla dimensione del comunismo realizzato. Con le conseguenze che si sanno. E anche rispetto allo Stato l’ambiguità è forte: vi è, a sinistra, chi lo interpreta come strumento dell’op­18

pressione di classe, da contrastare con una forza collettiva non alienata qual è il partito, e chi invece di considerarlo un Leviatano da abbattere lo vede come mezzo per portare nella società un po’ di giustizia. Anche la dimensione universale dello spazio politico, che accomuna in teoria tutta la sinistra – dai liberal ai no-global passando per i diversi socialismi – è soggetta a molte e potenti eccezioni: vi è stata spesso una Patria, una nazione, uno Stato, che ha incarnato l’Idea, e che ha avuto la missione di propagarla nel mondo – massimamente, com’è ovvio, l’Urss. Inoltre, a rendere ancora più impraticabile ogni schematismo e più confusa ogni storia si devono ricordare i numerosi momenti di sovrapposizione delle critiche che da destra e da sinistra sono state mosse alle categorie e agli istituti in cui è realizzato l’assetto politico del capitalismo, tanto nella forma della liberaldemocrazia quanto in quella della socialdemocrazia. Benché logiche e intenti siano stati differenti, la convergenza è stata notevole, e ha portato all’utilizzazione comune di interi set argomentativi. Così, ad esempio, la facilità con cui Lamennais passa dalla sua fase controrivoluzionaria a quella democratica è spiegata dalla permanenza, in lui, di una costante polemica antiborghese; oppure, basti pensare all’assonanza, pur ­19

da opposte sponde politiche e da diversissime matrici culturali, fra le critiche di destra e di sinistra al parlamentarismo (non è un caso che si sia potuto credere alla dipendenza di alcuni temi antiparlamentari della Scuola di Francoforte da Carl Schmitt, in chiave antiliberale), o alle sintesi più o meno felici (Rivoluzione conservatrice, nazionalbolscevismo, per tacere del nazionalsocialismo), o al convergere di destra e sinistra, ancora nella prima metà del XX secolo, su alcune soluzioni organizzative, come la pianificazione, per superare l’economia capitalistica a base individualistica. Infine, la medesima forza politica (ad esempio il liberalismo) può svolgere, secondo contingenze storiche, un ruolo ora di destra ora di sinistra, e lo stesso dicasi per i concetti (ad esempio, la nazione) e per i pensatori (l’esempio più illustre è Sorel); e, specularmente, opposizioni apparentemente dirimenti come quella di individualismo e statalismo attraversano e incrociano tanto la destra quanto la sinistra. Tuttavia, nonostante l’insufficienza degli schematismi formali e l’ambiguità dei contenuti storici, la coppia destra/sinistra pare permanere anche nella politica del nostro presente: si rende quindi necessaria una decifrazione radicale delle categorie politiche della modernità, non certo per spiegare le concrete scelte ­20

politiche delle singole persone o dei soggetti collettivi o delle diverse forze politiche – scelte in larga misura contingenti –, ma per comprendere come siano potute nascere e perché siano così dure a morire le categorie di destra e di sinistra. Senza ricorrere a essenzialismi, a definizioni valide per tutte le epoche, si esige cioè dei concetti di destra e di sinistra una genealogia, condotta con gli strumenti e le categorie di una filosofia che non si limiti a riconoscere che il cleavage destra/ sinistra ha senso in una topologia politica moderna, ma che risalga alla radice della vasta e contraddittoria fenomenologia delle destre e delle sinistre.

L’origine della politica moderna, e le sue conseguenze

L’esistenza della coppia oppositiva destra-sinistra è l’espressione del fatto che la politica moderna è originariamente indeterminata, che cioè la sua unitarietà non consiste nell’esibire impianti o fondazioni condivise, ma in un problema, il quale si presenta costituito secondo una duplicità strutturale. L’impianto categoriale del pensiero che innerva la politica moderna – in quanto essa deve rinunciare alla tradizionale idea di Giustizia, ossia di Ordine dell’essere che orienta, se non fosse per la peccaminosità umana, anche l’ordine politico – consiste infatti nella centralità del nesso fra disordine come dato e ordine come esigenza: da una parte esiste una realtà minacciosa e instabile, lo stato di natura, dall’altra è indispensabile costruire un artificio che dia forma e ­22

stabilità alla politica. Sono questi i due lati, inscindibili, del modo moderno di guardare alla politica. Interpellata radicalmente, la storia delle idee politiche moderne, in quel suo mainstream che è il razionalismo politico, può essere interpretata come una cosmologia politica, come una serie di discorsi sulla costruzione dell’ordine: e l’elemento di novità non sta soltanto nella coazione epocale a costruire l’ordine, ma anche nel fatto che attore, centro e protagonista di esso è il soggetto singolo, razionale, libero e uguale. In Hobbes, Locke, Pufendorf, Rousseau, Kant – pur con tutte le distanze, che a volte diventano opposizione – si ritrova la medesima struttura categoriale, il medesimo sguardo sul mondo: esiste un’esperienza primaria (naturale o storica che sia) del disordine, della scarsità, dell’aggressione, ma in essa si manifesta anche, contemporaneamente, un’esigenza di liberazione del soggetto singolo dalle sue angosce e deficienze; per quanto insensata, la realtà ha in sé un seme di razionalità e di uguale dignità umana, che può essere fatto fiorire nell’artificio politico. C’è dunque un programma razionalistico, iscritto nel Dna del Moderno; che può essere interpretato in chiave trionfalistica o più scettica, che può essere visto come un’esaltazione dell’uomo o invece come abbassamento delle finalità che la tradizione assegnava ­23

alla politica (attingere il summum bonum, sostituito dal conatus sese conservandi); un programma di cui si può dire anche che è stato sempre smentito, nella real­tà storica e geografica, dalle innumerevoli forme di cittadinanza diseguale o di inclusione gerarchica, o di esclusione interna – il fenomeno della schiavitù, consustanziale alla nascita della modernità, la formazione degli Imperi coloniali e la costruzione razzista del dominio sugli indigeni, le lotte dei (e contro i) dissidenti, i ribelli, la subalternità delle donne – in cui si è sostanziato il progetto politico moderno fuori d’Europa. E anche in Europa (in Occidente), dove la modernità si dispiega in tutta la sua pienezza e potenza, il soggetto è stato collocato in realtà all’interno di forme di universale materiale – l’economia capitalistica – che realizzano sì potentissime forme di inclusione, ma in vie contraddittorie e gerarchizzanti. Tutto ciò ha potuto fare interpretare il progetto moderno come un dispositivo di dominio, e non di liberazione; di fatto, quello che qui si vuole sottolineare è che tra gli effetti di quel dispositivo – e anzi all’origine della struttura categoriale che caratterizza l’epoca moderna – c’è, e non può non esserci, la possibilità, e anzi la necessità, tanto della destra quanto della sinistra. I critici più radicali potranno dire che proprio in quanto moderne né l’una né l’altra portano in sé la li­24

berazione, ma sono entrambe forme di dominio; qui, però, si vuole solo mostrare la loro comune radice, la loro diversità, e la loro permanenza: il superamento del Moderno è infatti un orizzonte che si mostra, finora, in forme spurie, in cui destra e sinistra continuano a esistere. In ogni caso, l’originaria modernità della destra e della sinistra, la loro differenza e al contempo il loro condividere la medesima origine, il loro essere i due modi in cui il Moderno necessariamente si manifesta, hanno a che fare con la differente radicalità con cui partecipano all’uno e all’altro dei lati della duplicità originaria e strutturale del moderno discorso politico. È lo sguardo genealogico sull’origine della politica moderna (del modo moderno di pensare all’origine della politica) – e non un riferimento a questo o a quel contenuto – che consente di stabilire il criterio della loro distinzione. Un criterio che permette di riconoscere le posizioni politiche e ideologiche che si sono snodate nel corso della storia tardo-moderna e contemporanea, anche senza che sia chiaramente presente ed esplicitato in esse e da esse. Un criterio che, però, non vuole misurare le intenzioni, palesi o recondite, delle forze e delle proposte politiche, ma che ne prende in esame le profonde strutture logiche, categoriali, argomentative. ­25

Ciò detto, è abbastanza semplice constatare che le sinistre, pur nella loro storica varietà, si sono proclamate eredi del razionalismo e dell’illuminismo, e hanno tra loro in comune la più grande attenzione al lato del Moderno che consiste in quell’intrinseco elemento normativo, ma non immediatamente ordinativo, che è la natura umana nella sua forma seminale; questa, per le qualità innate che vi ineriscono – tradotte, secondo la semantica e la sintassi del discorso politico moderno, nei diritti, termine più spendibile politicamente e meno impegnativo che non ‘essenza’ –, è assunta a priori come Valore da affermare, ugualmente, per tutti. Lo sviluppo storico della modernità verso la democrazia ha portato gli obiettivi delle sinistre a consistere in concezioni della politica volte ad assicurare attivamente la libertà del fiorire del soggetto – singolare o collettivo (in comunità liberamente scelte) – in uguale dignità. Un liberale ‘di sinistra’ come John Stuart Mill poteva magnificare nell’Autobiografia «l’importanza per l’uomo e la società di una larga varietà di caratteri e di una completa libertà della natura umana di esprimersi in direzioni innumerevoli e contrastanti»; e dentro le medesime logiche, benché con strumentazioni concettuali assai differenti, il giovane Marx parlava del comunismo come della dimensione che realizza la ritrovata coincidenza, nell’uomo liberato, di società e ­26

natura («il naturalismo compiuto dell’uomo e l’umanismo compiuto della natura»), e che consente al lavoro di essere «libera estrinsecazione della vita, quindi godimento della vita». Insomma, la norma – che non implica necessariamente il normativismo – è qui l’idea che è Bene che i semi naturali di umana razionalità si sviluppino liberamente, in soggettività caratterizzate da uguaglianza di dignità e da autonomia, con la rinuncia a violenza, discriminazioni e dominio: che è Giustizia non l’ordine dell’essere ma il progetto delle soggettività di emanciparsi, attraverso la politica, da impedimenti e condizionamenti. Obiettivo per nulla generico e per nulla ovvio, che tiene insieme politiche liberal e politiche radical, e che non è per nulla moderato perché implica scelte difficili in ogni circostanza; se è vero che, secondo il detto di Rousseau, l’uomo nasce libero ma ovunque è in catene, allora alla politica – che a questo punto rivela il proprio carattere moderno, di essere cioè a un tempo strumento e destino – tocca il compito di realizzare concretamente l’umanità. È quindi grazie alla politica che prende forma questa normatività che si trova nella realtà naturale: la natura umana non è un dato, ma un impulso, non è predeterminata ma è solo un seme di immediatezza, che rende indispensabile la mediazione delle istitu­27

zioni. Va sottolineato che la sinistra non coincide con l’ipotesi della razionalità del reale, ma solo della sua razionalizzabilità intorno al soggetto, in termini di uguale dignità. E quindi la stessa immagine della fioritura può essere sviante: se presa alla lettera, infatti, implica spontaneità, una sorta di necessità unidirezionale, quella appunto che da un seme porta inevitabilmente a un fiore (e solo a quello) e a un solo frutto. Al contrario, nonostante l’apparenza di essenzialismo e di naturalismo che pertiene al razionalismo moderno, la verità della sua immagine dell’uomo – una verità che si è resa manifesta nella riflessione novecentesca (ad esempio, con linguaggi differenti, tanto in Rawls quanto in Habermas) – è indeterminata: i diritti sono in realtà un modo per nominare ciò che solo è veramente essenziale, cioè la libera espressione di un Sé che ha il diritto di essere ciò che di volta in volta vuol essere, ovvero che non è un’essenza vincolata a rendersi attuale secondo schemi obbligati, o doverose configurazioni. Questa volontà del soggetto di vivere secondo quella che, nell’interpretazione di ciascuno, è la pienezza, è la logica profonda del Moderno, visto da sinistra; è l’impulso alla democrazia umanistica; è il modo con cui oggi parliamo della ricerca della felicità: una logica che ha in sé, per necessità, l’uguale dignità delle diverse volontà e dei diversi progetti, con ­28

l’esclusione conseguente del dominio e della violenza (non solo accidentale ma soprattutto strutturale: dal dominio di classe al dominio di genere). Dentro l’universo delle sinistre questo ideale di libero sviluppo può essere concepito anche come di origine divina, come comando o come grazia o come esortazione di Dio agli uomini: ciò che importa è che la natura umana non sia interpretata né monisticamente, essendo anzi intrinsecamente plurale e vocata alla piena autonomia delle molteplici soggettività, né coercitivamente: non sono legittime istituzioni o agenzie di senso – partiti, Chiese o altro – che diano una versione obbligante (e quindi anche escludente) del fiorire dei semi dell’umanità, che argomentino in termini di ‘vera’ natura umana, di disordine individuale rispetto a un ordine oggettivo e imperativo, legittimato da una trascendenza che non è disponibile alla ragione umana e alla sua capacità critica. Il motivo e la legittimazione dell’esistenza in comune non stanno in nulla che trascenda gli individui. La normazione e il disciplinamento, naturalmente, sono ben presenti all’interno dell’universo intellettuale e alla pratica storica delle sinistre, come mezzi per realizzare il fine: il loro peculiare rapporto con la doppia origine del Moderno può ispirare, politicamente, dirigismo in vista della spontaneità, coartazione in ­29

vista della liberazione (ma anche negazione di ogni mezzo autoritario che contraddica il fine liberatorio). Sulle qualità naturali dell’esser uomo (e donna), sull’analisi degli impedimenti che esse subiscono, sui mezzi per emanciparle, le sinistre si sono divise: ma democratici, socialisti, comunisti, anarchici, libertari, rivoluzionari e riformisti, massimalisti e gradualisti, settari o nazionalpopolari, i militanti e i partiti di sinistra – pur nelle più aspre contrapposizioni fratricide – sono accomunati dall’idea che tutti gli esseri umani hanno naturalmente diritto a un destino umano, che passa attraverso la loro inclusione razionale e paritaria in uno spazio politico che deve essere costruito libero da violenza e da ogni dominio arbitrario, e che ha come fine il fiorire di molteplici programmi di vita, tutti ugualmente degni. Sta in questa uguaglianza di principio il rischio di astratto universalismo che di fatto, ma non necessariamente, alla sinistra pertiene: il rischio, cioè, di perdere la determinatezza e la concretezza della politica, di ignorarne la costitutiva contingenza, ovvero di trascurare il fatto che pertiene alla politica non solo l’obiettivo del libero fiorire degli uomini ma anche il loro raggrupparsi in collettività identitarie reciprocamente estranee e potenzialmente ostili. Un rischio, questo, strettamente affine a quello di costruire un effetto-necessità [Galli 2009], cioè di ­30

interpretare la propria finalità liberatoria come se fosse sorretta da un’intrinseca provvidenzialità, guidata da una immanente teleologia, da una filosofia della storia a cui può essere sacrificata ogni contingenza (comprese le vite degli uomini e delle donne da liberare). Argomento, questo, che non manca di essere ripresentato dalle destre, in polemica con il perfezionismo della sinistra e con i suoi esiti perversi (secondo la retorica di Hirschman). Anche se, va detto, la sinistra non è obbligatoriamente faziosa o sprovveduta, e può ben essere consapevole della limitatezza umana, della contingenza stessa della soggettività e della politica: del fatto cioè che lo Spirito oggettivo non è Assoluto, e conosce necessariamente la contraddizione. Discriminante non è che lo sviluppo espressivo dei soggetti, in uguale dignità, sia perfettamente raggiungibile, ma che costituisca l’obiettivo primario della politica. La sinistra può perfino accettare che il soggetto non sia l’origine della politica moderna; ma in ogni caso non può fare a meno di considerarlo, nella sua uguale dignità, il fine in sé: se non l’essere, il dover essere. La destra, da parte sua, non può rifiutare – anche se a volte lo tenta – lo spazio del gioco politico, quella modalità originaria di interpretazione del reale che è la modernità. Ma ha con essa un diverso rapporto. La destra infatti mette sullo sfondo i semi ­31

naturali di razionalità universale soggettiva, ed è definita primariamente dalla percezione dell’instabilità del reale, della sua anomia, della sua mai piena ordinabilità: una contingenza, un disordine, che possono assumere l’aspetto della minaccia ma anche dell’opportunità, del nichilismo da fronteggiare ma anche da utilizzare per plasmare indefinitamente il reale. Il dato che la destra accetta come insuperabile [Santambrogio] non è un sistema di valori ma è l’inconsistenza ontologica della realtà: appunto, uno dei due lati originari del Moderno. È questa percezione a spiegare molti motivi tipici della destra: è infatti vero che questa spesso ricorre a forme di pensiero organicistico, o si appella a un Ordine trascendente, a una Legge inesorabile, non disponibile per l’agire emancipatorio dell’umanità. Queste istanze però – e questo è l’elemento decisivo – non sono soltanto minacciose, perché non a misura d’uomo, ma sono anche minacciate: il roccioso e intransigente fondazionismo sostanzialistico di molte espressioni intellettuali della destra – che vuole la politica stabilmente garantita da (e funzionale a) Dio, Natura, Storia, Tradizione, Valori, Nazione, Razza, Destino, Mercato – si accompagna sempre al tema, che è quello da cui propriamente si sprigiona l’energia politica della destra, dell’aggressione permanente ­32

all’Ordine, che quindi in realtà non è né naturale né necessario; l’esperienza primaria è che la natura non è antropomorfa, ma è instabile e che quindi l’Ordine va sì realizzato ma non tanto con l’artificio razionale quanto con la lotta incessante contro chi lo minaccia. L’accettazione del disordine – del fatto cioè che in natura non esistono semi di razionalità antropomorfa – come dato originario è presente perfino là dove l’Ordine politico è un vero e proprio dogma: a un pensatore radicale come Maistre non sfugge che ogni legittimità dinastica ha alla propria origine un mistero, il momento illegittimo del suo inizio. Ma l’accettazione del disordine non è atteggiata soltanto in chiave difensiva: il disordine non è solo il problema, il male, ma può anche essere visto come la soluzione, come la principale risorsa a disposizione della politica. La destra non è infatti sinonimo di conservazione o di quietismo. Il filo rosso della percezione, più o meno ossessiva, dell’instabilità del reale in quanto privo di un pur seminale elemento normativo a misura d’uomo, e quindi della sua precaria casualità pre-umana oppure della sua necessaria destinalità oltre-umana (che non è la contingenza machiavelliana, perché il Fiorentino si colloca in una ‘prima modernità’ che sta al di qua – e guarda oltre – il dispositivo dualistico disordine/ordine del Moderno pienamente ­33

sviluppato verso il razionalismo), è la logica profonda di una complessa fenomenologia. Questa vede la destra sia perseguire arcigne corazzature autoritarie dell’Ordine politico contro i suoi nemici interni ed esterni; sia accettare apertamente il rischio della instabilità con l’individualismo del soggetto economico, che si affida alle logiche del mercato (la cui presunta oggettività, in realtà sempre mutevole, è anch’essa un modello di fondazione instabile della politica), eventualmente da mitigare in un ordine che non può non portare dentro di sé il ricordo della realtà naturale del disordine e cercare, al più, di trasformarlo nella gerarchia (compassionevole o meno, a seconda dei casi) dei forti sui deboli, dei vincitori sui vinti, di chi ha successo sui falliti; sia infine ricorrere a quel radicale modello di instabilità che è il Nichilismo, con cui la destra afferma la inconsistenza del reale, esibendosi in un duro e tragico decisionismo extra-legale ma anche in una futuristica creatività immaginativa, o nell’illusionismo manipolatorio – e anche questa, nella sua festosa artificiale irresponsabilità, non è che una sofisticata strategia per fronteggiare e utilizzare un disordine sempre presente, conservandolo nella realtà e sublimandolo nella fiction. È da notare che la plasmabilità del reale, a partire dal suo essere anomico, è certo moderna – è frutto dell’idea che la realtà ­34

sia così poco oggettiva da essere a disposizione del soggetto – ma non è costruttivistica, perché con questo termine si intende quel particolare intervento sul reale che si attua quando si vogliono sviluppare in un artificio politico razionale le ragioni seminali della soggettività, già presenti in natura. Che pretendano di attingere l’Originario più arcaico o che si proiettino nel Futuro più visionario, che si percepiscano come apertura a un destino di potenza o come strumento di amministrazione dell’esistente e delle sue logiche naturali; che si servano della tecnica per rinsaldare il mondo o che la rifiutino perché lo manipola troppo radicalmente; che professino i Valori più chiusi e solidi o che pratichino il nichilismo più spregiudicato; che si manifestino nella ricerca conservatrice-borghese di sicurezza o nel culto fascista della morte; che si affidino al mercato o allo Stato, all’individuo o alla corporazione; che contrappongano il 1789 al 1914, e i mercanti agli eroi, o che si diano al liberismo più sfrenato; in ogni caso le politiche di destra sono segnate dalla convinzione, più o meno esplicitamente dichiarata e razionalizzata, che sia impossibile realizzare nell’artificio la norma naturale dell’umanità. Rispetto al fiorire delle soggettività in uguale dignità c’è sempre un compito più importante da portare a termine, una compatibilità più stringente ­35

da riconoscere, un contesto più cogente da rispettare, un interesse più alto da servire, un obiettivo più realistico da perseguire, una narrazione più avvincente da rappresentare, un’anomia mortale da sventare, una contingenza (o al contrario una Legge) che non si può superare. Così, quando la destra tematizza ordine, sostanza, stabilità, pesantezza, uniformità, e anche quando propone la leggerezza della fiction o l’ardire dell’immaginazione, sviluppa sempre come principale il lato dell’instabilità del reale; la dura sottolineatura della necessità della Legge non umana ha senso perché il disordine o è senz’altro Legge di natura da accettare, o minaccia costantemente la legge degli uomini. L’istanza di concretezza [Mannheim], di cui la destra è portatrice, è da intendersi non come solidità ontologica ma come accettazione immediata del disordine del mondo e della contingenza della politica: la trascendenza a cui si appella è un nome dell’immanenza, della non-umanità della realtà, non rischiarata da alcuna ragione seminale antropocentrica. Insomma, il dato dominante, a destra, è la necessità dell’eccezione, ossia l’intrinseca casualità e nullità del reale: la ricorrente polemica contro il relativismo che sarebbe tipico della sinistra cela e rivela un profondo aderire alla relatività del reale, vista come il dato primario, ­36

mai superabile del tutto. Non si tratta dell’idea (di sinistra) che la libera soggettività è minacciata dal disordine del contesto ma dell’idea (di destra) che è preferibile (o almeno è inevitabile) che si sottometta al contesto che la trascende: ad esempio, l’aborto o il divorzio devono essere vietati perché la società, per esistere, esige la non-libertà dei soggetti, oppure, al più, devono essere tollerati come male minore, ma mai accolti e rivendicati come diritti. E per converso quando la sinistra persegue il mutamento, la lotta continua contro l’ingiustizia, la rivoluzione, ma anche le riforme progressiste, ha in mente la normatività intrinseca della natura umana: il suo ‘movimento’, la sua continua trascendenza rispetto al dato, ha in realtà come telos (come orizzonte ultimo di senso) la pace come stabilità finalmente raggiunta nella giustizia. La sinistra si caratterizza quindi per la trascendenza, ma non in senso proprio, sì come critica, come superamento, come dover-essere, cioè per la negazione del mondo com’è, e per lo sforzo di realizzarne un altro, migliore, che è già una possibilità (benché al momento negata) immanente al presente. È insomma la politica di sinistra a essere orientata dall’idea che siano possibili sicurezza e stabilità, sia pure come esito ultimo di politiche tutt’altro che pacificate e anzi anche molto dinamiche e conflittuali di ­37

emancipazione, di polemico inveramento politico dei semi naturali della razionalità umana; mentre invece per la destra, nonostante l’enfasi che pone sull’Ordine e sulla Tradizione [Cofrancesco], è politicamente centrale il disordine. Al limite – ma senza che si cada in facili dualismi –, da una parte c’è la speranza nella pace, dall’altra la paura o il conflitto senza fine (anche depotenziato come concorrenza); da una parte l’analogia (la possibilità che il soggetto abiti un mondo a propria immagine) dall’altra l’anomalia (la perenne sconnessione del mondo); da una parte la soggettività (intesa come ideale), dall’altra l’oggettività (intesa come quel Nulla che in fondo è la realtà); da una parte il personale, dall’altra l’Impersonale (come negazione attiva della centralità del soggetto); da una parte la Cultura (il regnum hominis) dall’altra la Natura (riottosa a ogni configurazione antropomorfica). La plasmabilità del reale è concepita a sinistra in modo fortissimo ma non totale, cioè soltanto come possibilità di emancipazione e di educazione dell’uomo; la sinistra ha in mente un artificio politico (un partito, uno Stato, una rivoluzione) che, almeno nella teoria, serve a far fiorire la natura umana, a ricollocarla nella sua autonomia, a disalienarla. In linea di principio, per la sinistra non tutto è possibile, poiché – per quanto problematicamente – esiste nel mondo ­38

una finalità, un grano normativo di ragione (e di dignità) umana, o almeno ci si può e ci si deve comportare come se ci fosse. La sua inquietudine ha un fine pacificato, la sua politica (con le sue durezze) ha un fine liberatorio. Se Bruno Bauer poteva scrivere «nulla è impossibile per l’uomo», lo intendeva in senso emancipatorio: ci si può liberare da ogni catena. Per la destra, invece, tutto è davvero possibile (e ciò è bene, per la destra futurista e postmoderna, mentre è male, per la destra tradizionale), poiché non esiste in natura una norma universalmente e ugualitariamente umana, per quanto implicita, da sviluppare esplicitamente nell’ordine politico. Perché il reale è infinitamente anomico, instabile, e quindi anche, transitoriamente, plasmabile; per la destra è l’infondatezza – il disordine, il conflitto, l’indeterminatezza, la contingenza radicale – la dimensione ultima e intrascendibile della politica. Entrambe, sinistra e destra, possono sviluppare queste logiche in modo parziale e limitato oppure in modo illimitato: da entrambe è stata praticata la coer­ cizione estrema (pedagogica – il modello sovietico –, o gerarchica – il dominio razziale) e la lotta paranoica contro il nemico, storico o naturale (una lotta a cui ha partecipato anche la sinistra, non solo quella totalitaria ma anche quella democratica, proprio in ­39

chiave anticomunista, durante la Guerra fredda). Il permesso, la proibizione, il comando, la spontaneità, la violenza, possono appartenere tanto alla destra quanto alla sinistra, secondo le circostanze. Due forme di pensiero, pertanto, entrambe moderne, benché molto divergenti (l’una fondata in ultima istanza sull’eccezione, l’altra sulla norma); entrambe aperte, ma diversamente, alla contingenza (le forme plurali del fiorire umano, irriducibile ad un’unica figura, in un caso; l’insensatezza radicale del mondo, dall’altro), ed entrambe tentate dall’effetto-necessità (dall’effetto di sviluppo teleologico della storia, oppure dell’accettazione ‘oggettiva’ di logiche non umane). Alcuni chiarimenti si rendono necessari, su alcune esperienze storiche e intellettuali apparentemente divergenti rispetto alle linee generali fin qui tratteggiate. Va in primo luogo definita la posizione del liberalismo. Questo, nella sua matrice storico-filosofica razionalistico-moderna (in pratica, a partire da Locke), è l’indispensabile primo passo, che consiste nel porre al centro della politica la soggettività e i suoi diritti. A partire da questa acquisizione, il liberalismo può mescolarsi a pensieri e pratiche sia di destra – dove la libertà individuale può essere declinata in modalità aggressive, sprezzanti, o gerarchiche – sia di sinistra, ­40

se prevale l’idea che l’autodeterminazione individuale debba accompagnarsi all’idea dell’uguale dignità degli individui, e della lotta politica per liberarli dai condizionamenti che ne frenano o impediscono il fiorire. In ogni caso, anche nelle sue configurazioni di destra il liberalismo ha dato nobili prove di sé. Il sobrio realismo della destra storica italiana, il patriottismo cristiano-nazionale di De Gaulle, la resistenza inglese al nazismo sotto la guida di Churchill, sono state grandi esperienze umane e intellettuali, ma anche forme di transizione, frutto di emergenze storiche specifiche, di equilibri politici ed economici provvisori, in cui la percezione del dovere pubblico o della minaccia radicale si è trasformata in legittima egemonia reale della destra. Esistono insomma figure ascrivibili a quest’ambito – a ulteriore esempio, quelle di Cavour e di Einaudi, pur nelle loro diverse collocazioni storiche, e nella distanza fra il ruolo propulsivo dell’uno rispetto alla costruzione dello Stato unitario, e la posizione più difensiva dell’altro rispetto a quanto di erroneo c’è nel fascismo, e di ingenuo c’è nelle istanze socialiste e democratiche – che si attestano su una sorta di crinale, in un punto di equilibrio intellettuale e politico, che ne fa personaggi mirabili e precari, la cui eccellenza e la cui efficacia politica hanno un ­41

che di eccezionale, di casuale, di irripetibile. Che non fanno quindi paradigma. E anche il pensiero politico del costituzionalismo inglese e poi dello scetticismo e dell’illuminismo scozzese, che non è storicamente riconducibile alla genealogia del Moderno qui delineata, viene di fatto attratto all’interno delle logiche dell’opposizione destra/sinistra: da una parte infatti vi è (per esempio in Burke, Hayek, Scruton) una sorta di individualismo metodologico, che tuttavia sempre trascende l’individuo e la sua uguaglianza in dignità in nome di qualche logica a esso superiore (la storia, il mercato, la tradizione, il successo), mentre dall’altra vi sono ipotesi di governo del mercato da parte dello Stato in chiave di giustizia sociale (si pensi al laburismo e per certi versi ai democratici negli Usa, mentre invece l’ideo­ logia repubblicana americana, pur con tutto il suo individualismo, non accede all’uguaglianza di dignità né alle dinamiche di liberazione, e resta interna in vari modi a ipotesi di Ordini che trascendono il singolo: il mercato oppure una religiosità fondamentalistica). La polemica anticostruttivistica che questa destra oppone alla sinistra coglie nel segno, ma solo per certi versi e con gravi limitazioni: presa sul serio, quella polemica dovrebbe applicarsi infatti non solo alla sinistra ma estendersi anche all’orizzonte storico e categoriale ­42

che vuole che esistano una destra e una sinistra, cioè all’origine stessa del Moderno; l’anticostruttivismo per cessare di essere ideologico dovrebbe diventare vero e proprio decostruzionismo, cioè rifarsi a tradizioni di pensiero – da Nietzsche a Heidegger, da Foucault a Derrida – in sé non di destra né di sinistra perché capaci di rivelare dall’esterno, e di dislocarli, i dispositivi originari del discorso politico moderno (un simile obiettivo radicale di comprensione del Moderno oltre i suoi stessi principi, ma in chiave in qualche modo ‘costruttiva’ e comunque opposta a questa – in quanto orientata alla Sostanza-Soggetto –, era stato di Hegel, il quale infatti, quanto a qualità intrinseca del suo pensiero, trascende la destra e la sinistra, come è dimostrato dalla sua polemica antiliberale ma anche dagli attacchi sia a un reazionario cattolico come Haller sia a un ‘germanista’ romantico come Savigny). Vi è certo in questi autori decostruzionisti l’annichilimento (o almeno la storicizzazione radicale) delle credenze più o meno ingenue della destra e della sinistra, tanto dell’Ordine da opporre al Disordine, quanto del Soggetto da liberare. Eppure, nonostante il loro collocarsi, da un punto di vista intellettuale, fuori e oltre la destra e la sinistra, anche questi autori vi vengono fatalmente risucchiati quanto alle loro posizioni individuali, o alla torsione ideologica che il ­43

loro pensiero assume di fatto: senza volere fare torto a Nietzsche e anzi riconoscendogli lo sforzo oltreumano di essere davvero impolitico, cioè esterno alle categorie della politica moderna, questa ha ricondotto alle categorie di destra e di sinistra l’umana vicenda – e anche alcuni tratti intellettuali, trasformati in ideologia – di Heidegger, capace certo di collocarsi a monte dell’origine del Moderno e di interpretarla genialmente come compimento della metafisica occidentale, e quindi di preconizzare il destino di assoggettamento e di distruzione tecnica dello stesso soggetto che con la tecnica voleva invece insignorirsi del mondo (ridotto a immagine, sì, ma non dell’uomo); ma da questa sua superiore visione filosofica Heidegger è stato anche trascinato a trascurare ogni offesa mortale che l’umanità deve subire prima di rimettersi dalla malattia della metafisica e di modificare radicalmente il proprio rapporto con l’Essere (la Verwindung). Un percorso di accanita lucidità intellettuale e di cecità politica e umana. Un pensatore affine, benché non riconducibile a questa linea, come Schmitt, è invece più facilmente ascrivibile alla destra. Infatti, il suo decostruzionismo è potente e prezioso al fine di scoprire le dinamiche originarie della politica moderna, la sua infondatezza (che egli definisce ‘eccezione’ o ‘politico’): e in ciò ­44

la sua prestazione è conoscitiva, e può essere accolta anche da sinistra (che in effetti lo ha fatto, in Italia, negli anni Settanta del XX secolo), come consapevolezza (antidialettica) della assoluta contingenza della soggettività, ovvero del fatto che il soggetto e l’azione, anche di sinistra, sono decisi, non necessari. Ma Schmitt­è di destra perché da lui l’origine della politica – l’aporia originaria del Moderno, per cui la politica che pure ha il soggetto come fine non può averlo come inizio, perché l’inizio è l’indeterminatezza – è giocata in positivo, ancora dentro (e non oltre) l’orizzonte della politica moderna, come ‘politica dell’origine’, ovvero come progetto politico che ripropone indefinitamente l’origine indeterminata del Moderno, che assolutizza e perpetua i tratti costitutivamente non-razionali del razionalismo, e che quindi esclude che il soggetto costruttore dell’Ordine politico (che in ogni caso è destinato a ospitare sempre in sé il Disordine, a non liberarsi mai dallo stato di natura) possa essere il singolo (semmai, è il potere costituente del popolo, oppure il Partito). Insomma, Schmitt non solo critica il liberalismo e l’umanesimo nelle loro forme ingenue, ma abbandona ogni remora davanti a un radicalissimo cinismo politico, perché si consegna a un nichilismo che nega il soggetto nella sua pienezza e anche ogni politica che si immagini il ­45

soggetto come fine in sé; per lui tutto è davvero possibile (un relativismo che ha cercato di frenare con i suoi paurosi radicamenti völkisch), proprio perché la politica è quella originaria negazione indeterminata, che rende vana ogni specifica contraddizione che ruoti intorno a una soggettività, e che si possa superare in una ulteriore libertà. Per due esiti di destra del decostruzionismo (per quanto accidentale in Heidegger tale qualifica possa essere) se ne possono menzionare parecchi di sinistra – Foucault e Derrida, appunto, ma anche Deleuze e Rorty, e altri ancora (si pensi a un percorso distante da questi, ma convergente sulla critica della soggettività moderna nella sua forma ancora metafisica e necessaria, nonché sulla rivalutazione della contingenza, qual è quello di Adorno): questi, pur scontando l’obsolescenza del concetto di soggettività da liberare, pur scorgendo anzi la trappola della ‘liberazione’ (il disciplinamento, la coazione, la continua costruzione di dispositivi di verità), si sono comportati, sulla scena politica, come se il soggetto da loro stessi decostruito e desostanzializzato (una figura sulla sabbia, che l’onda del mare cancella...) godesse di una sorta di sopravvivenza larvale o fantasmatica, di una residua forza interna sia pure depotenziata rispetto alla tradizione del razionalismo progressista; come se, insomma, in ­46

nome della decenza e della compassione, se non della ragione o dei diritti naturali, la soggettività ancora orientasse il discorso politico, quanto meno nel dettare opzioni concrete, prese di posizione contingenti, contrarie alla violenza, alla crudeltà, al dominio, alla discriminazione, al razzismo. Anche il radicalismo decostruzionista giunge insomma a posizioni non vicine ma neppure opposte a quelle liberal: anche se non aderisce ingenuamente alle teorie dei diritti e le reputa un discorso fra altri, e degli altri non ‘più vero’, non si può opporre all’impulso verso il libero fiorire della soggettività. Il che dimostra che se anche si può pensare, in teoria, oltre la destra e la sinistra, la pratica – che ovviamente è centrale nell’ambito politico – lo impedisce: e che è proprio la presenza o l’assenza della centralità politica del soggetto e della sua uguale dignità a fare la differenza. E ciò, a prescindere dalla consapevolezza della crisi epistemologica della soggettività (che può essere narrata anche attraverso la via della psicoanalisi, e della scoperta della originaria scissione e della struttura desiderante del soggetto), e a prescindere anche dagli scacchi storici dell’umanesimo. Tanto forte è il campo d’attrazione della moderna contrapposizione destra/sinistra che perfino la Chiesa cattolica – che ovviamente ne è esterna, e che del ­47

Moderno è per certi versi l’obiettivo polemico originario – vi è coinvolta, sia pure solo nella contingenza storica, che la vede declinare la propria azione e la propria teoria della persona, che si vorrebbe esterna alla coppia destra/sinistra, ora in un senso, ora nell’altro (da Pax Christi a monsignor Fisichella, tanto per fare due esempi comprensibili in Italia, oppure dai teo­logi della rivoluzione a Lefebvre). Nemmeno la sua Autorità riesce a sottrarsi ai dilemmi che l’orizzonte moderno reca in sé, anche se la sua dottrina insegna una Fede e una Speranza che trascendono la storia. Resta da analizzare come il criterio genealogico qui avanzato interagisca con alcuni parametri di rilievo nell’analisi e nella prassi politica. Sul rapporto fra rischio e sicurezza – due categorie che in sé, astrattamente, non sono ascrivibili esclusivamente né alla destra né alla sinistra, perché al riguardo abbondano gli esempi più contraddittori – la spiegazione categoriale dà ragione di un chiasmo, o incrocio, sperimentabile anche nella politica quotidiana. La destra è per la sicurezza nel senso poliziesco dell’ordine pubblico, un ambito in cui il senso della minaccia prevale (con particolare riferimento, oggi, a quella fonte di disordine che sarebbero gli immigrati, ­48

la cui presenza apre il conflitto fra uguale dignità e inclusione gerarchica, risolto nei fatti in direzione della seconda – come il «pacchetto sicurezza» ha mostrato nel luglio 2009), e invece è per il rischio nell’economia (anche se non assume la forma di un mercato di pura concorrenza, al capitalismo inerisce il rischio, per molteplici aspetti, come la crisi apertasi nel 2008 sta a dimostrare) e a volte anche nella politica, quando il disordine ontologico è declinato in chiave eroiconichilistica (il tema fascista della bella morte, il tema eroico dell’avventura e della sfida). La sinistra è invece favorevole ad affrontare il rischio del nuovo e del diverso (gli immigrati) con apertura mentale, come arricchimento umano, mentre è tenacemente paladina della sicurezza nel lavoro e sul lavoro, poiché in questo vede in gioco la dignità dell’uomo. Quanto all’individualismo, la sinistra non lo assume certo in modo immediato: la ‘libera fioritura’ delle soggettività (che sono individui o anche aggregazioni libere) non è la stessa cosa della ‘spontanea fioritura’, poiché quest’ultima in situazioni di ingiustizia e di alienazione è in realtà sinonimo di ‘legge del più forte’ o di passivo adattamento al contesto. Hayek, nonostante quanto afferma di sé, è di destra (nel suo lessico, un conservatore) benché individualista (un tempo si sarebbe detto ‘proprio perché’, dato che ­49

l’individualismo ‘borghese’ era la destra e il collettivismo era la sinistra): la sua quasi totale esclusione dalla politica del tema della giustizia a misura d’uomo (da lui screditata come taxis e contrapposta all’ordine spontaneo, al kosmos) compromette di fatto la uguale dignità, che alla libera fioritura è sempre connessa (il che colloca ad esempio anche una figura come l’Anarca di Jünger, per quanto suggestiva, al di fuori della sinistra). Non c’è bisogno, insomma, per essere di destra, che si teorizzi la diseguaglianza – che può anche essere non solo sociale ed economica ma anche politica, in forme di aperta gerarchia o di escludente separatezza (in cui rientra anche il rapporto amico/ nemico): è sufficiente praticarla e accettarla come inevitabile, incorreggibile, insuperabile. E farne il dato centrale dell’ordine politico. Quindi, la tesi di Bobbio sull’uguaglianza come discrimine fra destra e sinistra è empiricamente vera, e costituisce un criterio di giudizio abbastanza sicuro; solo, va interpretata come l’esito della più radicale differenza fra destra e sinistra, che sta nel rapporto con i due lati dell’origine della politica moderna. A prescindere dal fatto che ‘uguaglianza’ è concetto indeterminato e che va specificato come ‘uguale dignità’, è vero che l’uguaglianza in senso normativo è esclusa dall’orizzonte delle destre, le quali trovano ­50

la loro potenza nel combinare variamente l’intrinseca instabilità e frammentazione del reale, accettata come naturale, e legittimata, e transitoriamente stabilizzata, per via legale (così che l’ordine della destra è in realtà un conflitto permanente, di cui le gerarchie sociali politicamente rinforzate, o l’avventura individuale, danno una soluzione solo transitoria e anch’essa casuale). Ed è vero anche che non l’unificazione livellatrice ma almeno la delegittimazione delle differenze sociali e politiche – insieme alla valorizzazione di quelle esistenziali e individuali – è l’asse che orienta la politica delle sinistre. Sul nesso fra soggettività e contesto è chiaro, infine, che la sinistra può ben sapere che quest’ultimo è indispensabile alla libera fioritura della soggettività (cioè che il cosmopolitismo e il nomadismo non sono l’unica opzione praticabile di soggettivazione); ovvero può ben essere consapevole della determinatezza e contingenza della politica. Ma per la sinistra il contesto non è mai insuperabilmente dato, né è un radicamento, perché la piena espressività del soggetto – il libero e differenziato fiorire dell’individuo, in collettività liberamente scelte – è per essa un dovere primario. La destra invece anche nel migliore dei casi vedrà quel fiorire determinato dal (e subordinato al) contesto: è quest’ultimo che si impone al singolo ­51

come Valore. Ed è un valore sempre minacciato, non pacificamente fondativo, un contesto che è sempre potenzialmente Caos: il radicamento del singolo è un dovere, serve a evitare il disordine derivante dallo sradicamento, il rischio di anomia sempre presente e imminente (in realtà, immanente nel senso della trascendenza del Disordine rispetto al soggetto). Un rischio di cui è responsabile la struttura manchevole dell’essere, ma anche la stessa soggettività, che da soluzione, qual è per le sinistre, è in realtà parte del problema del disordine, e certamente non è centrale nell’ordine politico. Così, in definitiva, la democrazia senza aggettivi – secondo la sua essenza moderna – non può non essere l’obiettivo di forze variamente orientate a sinistra (il che non significa per nulla che tutte le sinistre siano democratiche nella loro prassi concreta); e ciò non implica che le destre siano tutte antidemocratiche, ma solo che la loro democrazia è sempre qualificata come espressione di qualche cosa d’altro (che può essere assai variegato: democrazia di mercato, democrazia autoritaria, democrazia nazionale, democrazia protetta, democrazia cristiana). Si capisce anche, a partire da queste considerazioni, perché la nozione di società è lo sfondo concreto e reale assunto come campo d’indagine e di lotta dalle sinistre, il tema della comunità (nella sua accezio­52

ne standard) è in fondo estraneo alla sinistra – che lo proietta semmai nell’avvenire, come comunismo, ossia come ideale regolativo della prassi, e che nelle sue forme democratiche preferisce la solidarietà (sorta di sintesi tra altruismo e fraternità) – ed è invece un Leitmotiv della destra, che la colloca nel passato, e che le può anche prestare una robusta consistenza ontologica naturale, ma che, in un caso e nell’altro, la vede sempre minacciata da qualcosa o da qualcuno nel presente. Analogamente, il legame sociale per la sinistra è un dato storico-dialettico (il contesto) che va superato e trasformato in un atto di libera volontà: il contratto, la solidarietà, la relazionalità coltivata; il Bene comune non trascende i singoli, ma è voluto da ciascuno come condizione del fiorire di tutti. Invece per la destra il legame sociale (il Bene comune) è un dato da accettare come naturale (Dio, la nazione, la razza, il mercato, la storia, la civiltà), e che quindi rende i singoli passivi, esposti a ogni manipolazione e all’isolamento, pur con l’enfasi che viene posta sulla Comunità. Il criterio genealogico fornisce quindi la ragione profonda anche dell’osservazione superficiale, ma spesso fondata, secondo cui la destra è portatrice di un’antropologia negativa (ossia di un pensiero della politica in cui il soggetto, nella sua condizione di ­53

uguale dignità, non può essere centrale) e la sinistra, invece, di un’immagine almeno potenzialmente positiva dell’uomo. E dà ragione anche della circostanza, strettamente correlata, che il realismo politico è più consono alla destra, poiché questa assume come principale il lato non antropomorfico della natura, la sua totale contingenza, e a partire di lì sviluppa un discorso sull’uomo in generale, sulla necessaria limitatezza delle sue aspettative (benché un percorso transepocale, che ha origine da Tucidide e Tacito e transita attraverso Machiavelli e Hobbes, per culminare in Schmitt, sia solo un anacronistico gioco prospettico, tutto costruito all’interno della camera di specchi della modernità, a cui la destra appartiene costitutivamente).

L’età globale, e il caso italiano

L’età globale è caratterizzata da molte crisi: della normatività del soggetto, dei suoi diritti, del rilievo della dimensione del lavoro, dello Stato. Il tramonto della fabbrica fordista e del compromesso socialdemocratico; la nuova centralità dei consumi (la ‘svolta linguistica’ nella politica) e della soggettività debole, polimorfa e plasmabile che ne consegue; lo stesso crollo di quel modello iper-normativo che era stato il comunismo; tutto ciò ha aperto un’epoca per molti versi postmoderna, l’epoca di ferro della guerra globale, in cui hanno vigenza assai problematica le distinzioni categoriali politicamente centrali della modernità – interno/esterno, pubblico/privato, norma/eccezione, pace/guerra. È un’epoca di spazi politici sfumati e incerti, in cui coesistono e contrastano scale differenti – loca­55

li, statali, poststatali, regionali, universali, globali –; è un mondo liquido, fluido, instabile, frammentato, insicuro, attraversato da conflitti, paure, incertezze. In questo contesto la politica non si presenta con le coor­dinate ugualitarie di origine razionalistica e illuministica, e le istituzioni includenti dello Stato sociale, ma si struttura secondo molteplici contrapposizioni ed esclusioni (di fatto o di principio) sempre cangianti: la differenza fra amico e nemico, fra Occidente e islam, fra civiltà e terrorismo, fra cittadini e migranti, fra ricchi e poveri, fra istruiti e ignoranti, fra bianchi, neri e colorati. E lo spazio pubblico tende a presentarsi come casuale, come un assemblaggio di poteri sociali fondato sull’eccezione e sull’anomalia. Insomma, il passaggio dalla modernità alla contemporaneità è il passaggio dalla crescita al rischio, dal progresso al labirinto. È la crisi della capacità normativa di politica e diritto (centrata sulla soggettività), e il trionfo della normatività instabile e oltre-umana della tecnica e dell’economia. È in questa situazione di crisi delle neutralizzazioni moderne e tardo-moderne (lo Stato, nella sua forma di Stato sociale) che le forze politiche (le opinioni pubbliche) paiono collocarsi con nuova intensità intorno al cleavage destra/sinistra. Prima di tutto in questo ­56

spazio politico amorfo e anomico è stata la destra a riprendere forza e ritrovare in buona parte d’Europa la sua occasione storico-epocale, la prima dopo il 1945 (certo, negli anni Ottanta del secolo scorso vi era stata la Thatcher, ma il suo grande peso politico si era esercitato soprattutto nel mondo anglofono atlantico). Ben lungi dal voler ricostituire ordini del passato, del tutto immuni da nostalgie, le destre postmoderne – sono infatti tutte all’opera, oggi, quale più quale meno a seconda dei diversi contesti politici statali: carismatiche e tecnocratiche, fondazionistiche e nichilistiche, personalistiche e razziste (o biopolitiche), nazionalistiche e localistiche – agiscono con spregiudicatezza dall’interno della pluralità e della complessità delle società contemporanee. Su cui intervengono con politiche che assecondano divisioni corporative e paure allarmistiche, risentimenti sociali e frammentazioni culturali, chiusure ed esclusioni (o subordinazione) dei non-integrati, xenofobie aperte e mascherate. Organizzare provvisorie combinazioni gerarchiche delle differenze sociali; prospettare politiche contraddittorie – libertà del mercato (il neoliberismo, con la sua selvaggia potenza di mobilitazione) e libertà dal mercato (il neointerventismo statale, con la sua forza di stabilizzazione) –; far stare insieme la paura della concorrenza e del nemico con la speranza di vincere la ­57

lotta per l’esistenza o di scavarsi una nicchia protetta; esercitare l’individualismo egoistico mentre si coltivano identità collettive in comunità immaginate, col folklore e con le ronde volontarie che creano l’illusione che si possano ritrovare i territori e gli spazi sociali perduti; inventare un Altro minaccioso per scaricare su di esso le tensioni a cui non si dà una risposta razionale; tutto ciò significa che l’immagine di società che le destre promuovono non trova il suo centro in un progetto di emancipazione che abbia la propria norma nella uguale dignità dei diversi: la società, anzi, deve restare divisa nei differenti interessi e nelle variegate pulsioni che la attraversano e la scompongono, e deve trovare precari equilibri fondati sulla gerarchia e sulla esclusione (o meglio, sulla inclusione diseguale). Una rivoluzione perché nulla cambi; perché le differenze permangano. Questa strategia – modulata con diversa intensità – è possibile appunto grazie al fatto che la destra interpreta la realtà come ontologicamente instabile e anomica; le forme di unificazione e di stabilizzazione identitaria (la nazione, la religione, la Vita, la comunità locale) che vengono offerte al livello simbolico sono in verità mobilitanti, polemiche, organizzate sul conflitto contro un nemico, o sull’esorcismo di un fantasma comunista, islamico, terrorista (benché ­58

vengano raccolte anche da tradizionali agenzie di senso, come la Chiesa cattolica, che, prendendo sul serio alcuni di questi temi di propaganda, vi trovano occasione per intervenire sulla politica, sulla società e sugli individui). Il caso italiano è per certi versi paradigmatico delle nuove occasioni e delle nuove forme delle destre postmoderne, della loro capacità di plasmare il reale, senza essere costruttiviste in senso stretto. La fine lentamente maturata della doppia conventio ad excludendum generata fra il 1943 e il 1948 (il momento costituente della Repubblica, prima antifascista e poi anche anticomunista) ha portato già quindici anni orsono, dopo l’azzeramento del sistema politico dovuto all’azione della magistratura, a un governo in cui l’elemento normativo della politica – la soggettività repubblicana espressa dal nesso fra i partiti del Cln e lo Stato democratico-sociale – non era più l’elemento politicamente propulsivo. Nella ormai progredita consumazione di tratti decisivi della modernità – nell’anomia sociale e nell’obsolescenza della differenza fra pubblico e privato (una differenza che in sé non è né di destra né di sinistra, ma che le attraversa entrambe, come non è discriminante neppure l’alternanza del primato conferito ora all’un elemento ora all’altro, essendo decisi­59

va solo la finalità politica a cui è orientato) – la destra attua oggi con successo (elettorale, almeno) una politica gestita secondo le logiche dell’eccezione e dell’anomalia, dando per scontata e acquisita la più piena plasticità del mondo: questo viene scomposto e ricomposto secondo molteplici possibilità combinatorie che fanno coesistere unità simbolica e frammentazione reale, populismo passivo e oligarchia gerarchizzante, tradizione e postmodernità, razzismo e retoriche della solidarietà, flessibilità reale e radicamenti comunitari immaginari, duro comando politico e dissoluzione mediatica della realtà. Una complexio oppositorum resa possibile, sotto il profilo intellettuale, dall’intima adesione delle destre all’instabilità del reale, alla sua radicale contingenza e quindi ai rapporti di forza che di fatto si producono nella società. Questa, in verità, è assai prossima a uno stato di natura (quello della destra è un individualismo egoistico e anomico, è il privato che vuol essere immediatamente pubblico), mentre lo Stato politico – inteso come artificio razionale – è ridotto a puro potere (neppure tanto potente) e quasi dissolto nei fatti dal sistematico scavalcamento degli equilibri costituzionali e dello stesso principio di legalità. L’immanenza che caratterizza la destra sta tanto nell’aderenza al mondo com’è quanto nell’illusione ­60

compensatoria – continuamente alimentata – di un sogno di potenza individuale e di gruppo, di comunità fantasticata, di prosperità e felicità che, se fossero rimossi alcuni ostacoli (i ‘comunisti’, i terroristi, i migranti, i magistrati, i ‘giustizialisti’, i giornalisti, e quanti altri), si potrebbe realizzare. E gli italiani maggioritariamente condividono la percezione del mondo come privo di regole che non siano quelle che sanciscono il successo comunque perseguito, la subordinazione dei meno abili, e l’esclusione dei diversi. La stessa centralità del tema della sicurezza fa passare come ovvia una costruzione di fatto gerarchica della società, in cui i penultimi trovano parziale sollievo al proprio status di subalternità grazie a leggi che sanciscono dure linee d’azione verso i non cittadini, gli ultimi: ciò che conta è che la linea guida della politica non sia più l’uguaglianza garantita dallo Stato ma l’eccezione. Al più, si accede all’idea che sia cosa buona e edificante, ove possibile, lenire col balsamo della compassione (ma come beneficenza, non in chiave di diritti) la dura legge delle disuguaglianze. Il sentimentalismo è il succedaneo dell’umanesimo. Ma se il successo della destra in Italia è garantito dalla sua capacità di servirsi in modo spregiudicato del potere dello Stato oltre l’orizzonte della statualità; se la forma della politica italiana è un esempio della ­61

forza rivoluzionaria della destra; non si può tacere che il suo successo è principalmente dovuto al suo leader Berlusconi, singolare esempio di affabulazione carismatica, di biopotere, di fiction, di rappresentazione, e di populismo televisivo. La proposta politica di Berlusconi è che la sua stessa persona, il suo stesso corpo – trasfigurato dall’apoteosi mediatica e virtuale – realizza la fusione dell’Uno coi Molti, e dei Molti con l’Uno, attraverso l’Amore; è questo un singolare rovesciamento del motto del Re Sole «lo Stato sono Io»: Luigi XIV si poneva infatti come l’inizio personale dell’attività impersonale della macchina pubblica, mentre il Cavaliere rende Legge la sua persona e i suoi interessi privati, proprio mentre rende il proprio Corpo identico al Tutto. Non è rappresentanza, questa, ma rappresentazione, frutto di un ‘contratto emotivo’ che si colloca fra la mistica religiosa e la teatralità; il Corpo mistico del Capo – che è al tempo stesso re e popolo – è la vivente e concreta figura di una moltitudine che in lui vede rappresentata se stessa, che in lui ama se stessa, potenziata sì ma non oppressa da sensi di inferiorità: il Capo è al contempo tutti e ciascuno, è un uomo comune, comprensibile, col quale ci si può identificare. È così istituita una radicale distanza fra l’essere cittadini e l’essere membri di un corpo mistico, e una forte concorrenzialità fra la rappresentazio­62

ne e la rappresentanza (il Parlamento): quest’ultima è destinata a un ruolo politico sempre più marginale, perché essere cittadini è noioso e difficile, alienante e a volte deprimente, mentre essere parte del corpo mistico non costa fatica, e fornisce gioia e felicità: la fusione-trasfigurazione dell’Uno nei Molti e dei Molti nell’Uno, è vitale, ottimistica, espansiva (non a caso i militanti del Pdl sono stati definiti missionari della libertà, poiché devono portarne l’Immagine in partibus infidelium). Per di più – e questa è vera egemonia, unita a vero illusionismo – riesce al Capo di far credere che la difesa dei suoi interessi (e di quelli come lui) faccia anche gli interessi del popolo lavoratore, che infatti massicciamente lo premia in sede elettorale. E quindi il Cavaliere fa politica in senso forte proprio mentre trasmette l’illusione del superamento della politica nella pienezza della Vita della Nazione, grazie a un plebiscito mediatico quotidiano, così incorporando in sé l’antipolitica, la prepolitica e la (pretesa) postpolitica. Soprattutto, questa proposta politica è deresponsabilizzante. La trasfigurazione politica ha l’effetto di far coincidere, nella piena immanenza, ciò che è reale con ciò che è rappresentato: è abolito lo scarto – da cui prende inizio la politica moderna – fra essere e dover essere, fra situazione di fatto e progetto, fra ­63

natura e artificio; ciò che è reale è trasfigurato, ma lasciato sostanzialmente così com’è. Non la critica ma uno sforzo d’immaginazione e d’ottimismo, nonché l’iniziativa individuale, consente che i problemi siano superabili; se non lo sono, ciò è da imputarsi a capri espiatori, alle forze del Male, che si oppongono alle forze del Bene, che non amano né il Capo né il popolo. Naturalmente, i fini di questa politica sono quelli delle rivoluzioni della destra: cambiare tutto perché tutto resti com’è. Il che oggi significa un disegno, piuttosto efficiente, di andare oltre la democrazia parlamentare verso un esecutivo forte e legittimato dal carisma e dal potere del Capo, perché il progetto di uguaglianza democratica e di emancipazione della Costituzione repubblicana si fermi, perché le attuali contraddizioni della società si blocchino, perché il crescente dislivello di potere e di ricchezza fra i cittadini non venga colmato, e anzi non venga avvertito, soffocato e trasfigurato nella nuova comunità di destino che si impersona nel corpo del Capo: e poiché in una comunità non si ragiona in termini di diritti, è alla Sua compassione che si deve se nessuno sarà «lasciato indietro». In concreto: questa rivoluzione, in queste forme, serve perché la persona e gli interessi del Capo siano salvaguardati, perché la crisi economica non ­64

venga governata in senso progressivo e di sviluppo, e i suoi effetti vengano sopportati dal popolo il più lietamente (o distrattamente) possibile. Dal punto di vista pratico-empirico, il successo di questa politica costruita come una Gefolgschaft (un seguito) non eroica ma ammiccante e complice – in cui il re taumaturgo incrocia il satrapo, e sprigiona la potenza futurista di un immaginario populista, che fa del popolo il protagonista della politica (ma solo a parole, perché di fatto è sempre più passivo) – è reso possibile dal controllo pressoché totale delle televisioni e di buona parte della carta stampata: la destra si è sempre trovata a proprio agio nel servirsi della tecnica in modo innovativo. Non necessariamente, però, si deve dire che oggi il mondo è di destra; la vittoria di Obama negli Usa – per quanto determinata essenzialmente dalla crisi economica, imputata dall’opinione pubblica statunitense alla destra al governo – sta a smentire questa affermazione. Eppure, dall’esperienza italiana – singolare, certo, ma significativa –, è chiaro che in un mondo postmoderno la destra è meglio appaesata, perché sa giocare con energia la percezione moderna dell’instabilità profonda del reale: è questo il motivo per cui è in grado, di fatto, di realizzare egemonia politica, sociale e culturale. Il suo pensiero sbrigativo ­65

– preparato negli anni Ottanta, dalla critica filosofica del Moderno, ma molto più dalle fiction della tv commerciale – intercetta il senso comune, lo manipola, e, senza trascenderlo, lo forma e lo avvalora. Mentre al contrario la sinistra è spaesata perché ogni sua affermazione è controfattuale, alludendo al mondo non com’è ma come dovrebbe essere, ed essendo al contempo ancora carente di molti degli strumenti teorici e politici indispensabili per la prassi; solo quando saprà orientarsi su ciò che davvero vuole dalla politica potrà cercare credibilmente, nelle circostanze di volta in volta date, di realizzare quello che non può non essere il proprio obiettivo: la costruzione di una forma politica orientata dall’intrinseca normatività del fiorire, in uguale dignità, dei singoli e dei gruppi, nelle loro concrete differenze. Il suo appello alle soggettività consapevoli, ai diritti, a quanto rimane dello Stato sociale, alla sfera pubblico-statuale, può suonare attardato e ineffettuale: benché in qualche contesto e in qualche circostanza sia sembrato più realistico e ragionevole delle fantasie della destra, le elezioni europee del 2009 hanno dimostrato che la sinistra c’è, che è diversa dalla destra, ma che a differenza di questa non riesce a evolvere adattativamente rispetto al mutato ambiente ecologico, ad appaesarsi con la necessaria ­66

duttilità e multiformità nel nuovo contesto profondamente anomico della crisi economica. Questa lentezza, d’altra parte, ha di fronte a sé la rapidità della destra (che però è anche altamente instabile nelle sue soluzioni).

Sul presente, e sul futuro. Conclusione provvisoria

Il passaggio al postmoderno (ossia al globale) trasfigura quindi sia la destra sia la sinistra, e fa loro perdere le tradizionali identità e forme politiche; ma – benché entrambe traggano dall’origine della modernità la loro ragion d’essere – non le rende obsolete come categorie della politica. E il passato non passa non perché destra e sinistra siano acquisizioni permanenti, ma (solo) perché la moderna duplicità strutturale della politica, in sospeso fra anomia naturale e norma implicita nelle soggettività, ha sì perduto soggetti, forme e orizzonti ma non è sostituita da alcun terreno solido, da alcuna nuova Giustizia o da un suo equivalente funzionale che funga da metro, da misura, per nuove categorie della politica, e neppure da un nuovo fronte polemico capace di determinare un nuovo orizzonte di senso politico. Permane insomma la duplicità ori­68

ginaria del Moderno, anche se non le sue architetture politiche e istituzionali. E quindi di volta in volta sia l’analista sia la pubblica opinione possono ancora capire se una posizione e una politica sono di destra o di sinistra, se privilegiano l’Eccezione o il Contesto, oppure la normatività ultima del fiorire del soggetto. Il mondo interpretato dalla politica oscilla anche oggi fra la nullità dell’Ordine delle cose umane (oppure la difesa a oltranza di un Ordine sempre minacciato) e la percezione di un seme di norma che, come (remota) possibilità, consiste nelle soggettività, se non nella loro essenza razionale almeno nella loro capacità di soffrire e nella loro volontà di vivere e di fiorire. Così, benché il mondo sia mutato, benché i problemi cambino e le soluzioni manchino, se la politica resta strutturalmente indeterminata, se le lenti categoriali restano queste – ovvero se la soggettività come fine in sé può essere, almeno nel discorso politico, ancora discriminante –, allora destre e sinistre continuano a determinare lo spazio politico, e a contrapporsi. L’agenda delle sfide da affrontare, delle nuove linee della politica da intercettare, è impressionante: si tratta di confrontarsi con le nuove forme del rapporto fra universale e particolare, con la dialettica implicita nel nesso di umanità e culture [Galli 2008], quali si ma­69

nifestano all’interno dello spazio politico dello Stato, oggi chiamato a ospitare differenze assai più eterogenee (ma non incomunicanti né incomprensibili) che non l’antitesi fra capitale e lavoro; di fronteggiare le biotecnologie e il loro ambiguo potenziale biopolitico, collocato fra i molteplici poteri che entrano nella nuda carne del vivente, a plasmarlo e a condizionarlo fino ad assoggettarlo, e nuove opzioni di possibile espressione e liberazione delle soggettività. Non si tratta insomma di combattere il biopotere perché snatura la presunta ‘vera’ essenza della natura umana, ma perché può violare la libertà e la dignità del soggetto reale; ma d’altra parte la prospettiva dell’umanità ibridata con la tecnica non è in sé né nuova né spaventosa, se questo connubio avviene nella prospettiva della libertà e della massimizzazione dell’espressività delle soggettività. Le sfide stanno poi anche nel gestire la ri-frammentazione dell’economia globale e di governare, in un nuovo ordine mondiale in cui l’Occidente non è più il centro, la globalizzazione in un pluralismo di grandi spazi economici; nel rivitalizzare la democrazia rendendola capace di affrontare i conflitti; nel cercare di operare, proprio attraverso lo Stato, il salto di scala (che la de-nazionalizzazione della politica sembra richiedere) che colloca (in parte) la politica oltre lo Stato, verso la federazione, o verso l’Impero; nel ­70

leggere gli elementi di fluidità e di destrutturazione delle relazioni internazionali (dalla potenza delle corporations alle migrazioni, al terrorismo) con aderenza realistica e con immaginazione creatrice; nel decidere fra crescita e decrescita; nel superare il conflitto fra il nomadico e lo stanziale che oggi sembra ipnotizzare le coscienze popolari europee. Tutti i punti di questa agenda colgono il soggetto, il capitalismo, la tecnica, la biopolitica, l’ambiente, le culture, come i centri strategici di contraddizioni reali che si generano a livello globale ma che si avvertono criticamente – anche come suo sfondamento – all’interno dello spazio locale dello Stato, e della sua residua capacità ordinativa. E se le risposte possibili alle sfide del presente vedranno ancora contrapporsi anomalia e norma, eccezione e legalità, autorità e libertà, dominio e autonomia, chiacchiera o propaganda e responsabile presa di parola, disuguaglianza e uguaglianza; se si porrà, anche in questi nuovi scenari, l’alternativa se la vita associata debba essere qualcosa di normativamente diverso da un coacervo di relazioni fra diseguali, o se al contrario possa solo oscillare fra il caso e la necessità; se avrà ancora senso chiedersi se l’ultima parola debba spettare all’economia capitalistica che si presenta come un insieme di bolle e di crisi, entità autonoma che si autoplasma ­71

ed esige sacrifici di uomini, di forme e di ordini, per funzionare, o invece alla centralità e alla dignità delle soggettività, affermata nella politica; se il soggetto non più trascendentale, certo, ma neppure soltanto decostruito dalla critica né reso dalla prassi una larva ideologica, un’entità soltanto sentimentale o un consumatore o uno spettatore, sarà ancora – nella sua vita, nella sua riproduzione, nel suo modo d’amare, nella sua malattia, nel suo soffrire, nella sua morte – il campo di battaglia fra l’autorità minacciosa e minacciata e la libertà; ciò significherà che destra e sinistra avranno vita oltre il Moderno, che sopravvivranno nell’età globale. Non è per nulla detto che conservino le forme attuali: nulla vieta – e anzi è auspicabile – che la sinistra esprima un umanesimo non ingenuo, una limpida speranza, lontana dalle coazioni dei suoi molti vecchi ‘effetti-necessità’, e sia attenta invece alle contraddizioni reali e al loro autentico prodursi nei corpi e negli spazi; e che la destra si ponga come portatrice di una serietà severa, di un realismo non cinico, di un non-umanesimo che non sia anche antiumano, di un senso della contingenza non spietato né effimero. Entrambe, se lo sapranno fare, dovrebbero rilanciare la normatività della politica e del diritto contro le derive dell’economia e della tecnica. Compito strategico ­72

della destra continuerà a essere di inventarsi sempre nuove soluzioni ordinative – che si vogliono fondative e trascendenti, ma che in realtà sono transitorie, conflittuali e anomale – per problemi e minacce che sa di non potere (e che non vuole) risolvere radicalmente. Alla sinistra spetterà di assumere l’esistenza e il valore dell’individuo come dover essere, e declinare i diritti delle soggettività in modo fermo ma non essenzialistico-identitario, per non farne un’arma contro l’Altro, ma anzi per incontrarlo nella sua concretezza; e in generale di non limitarsi ad aspettare che scoppi la bolla immaginativa della destra, ma di perseguire attivamente una nuova egemonia, ovvero di delineare una nuova catena di soggettività attive e di mezzi politici efficaci, e di offrire una nuova visione del mondo, un quadro entro il quale trovino spazio le energie individuali e collettive, impegnate in un’emancipazione che può essere anche conflittuale ma non diseguale; al limite, di attivare in modo dinamico la potenza del populismo, di rispondere alle domande insoddisfatte della politica con la costituzione di un nuovo soggetto-popolo come cuore del ‘politico’, oltre la neutralizzazione statale [Laclau]. Il che significa per la sinistra tanto, abbandonata ogni pretesa di necessità, trovare un kairòs, un’occasione che legittimi un’altra impresa comune da perseguire – oltre ­73

l’ultima creazione della sinistra (o del centro-sinistra), lo Stato sociale –, quanto re-inventare gli strumenti intellettuali e istituzionali che rendano possibile, senza farne un salto utopico, il passaggio dal mondo com’è al mondo come dovrebbe essere. La lotta e la contingenza, la mobilità e la fuga, ma anche una nuova stagione dei diritti, delle libertà e delle responsabilità individuali e collettive, singolari e plurali, sono le molte opzioni che da qui si aprono alla prassi, con le naturali divaricazioni fra sinistre radicali e moderate – e la contrapposizione fra la soggettività destrutturata e ribelle e le istituzioni è forse il nuovo nome del tradizionale dilemma riforme/rivoluzioni. Se e quando la moderna struttura originaria della politica, in bilico fra natura e artificio, sarà consumata e impensabile; se e quando il terreno della politica sarà radicalmente mutato, perché la soggettività non sarà più una categoria che ha valore strategico al fine di formare lo spazio politico, e il suo fiorire non sarà più la questione politica centrale; se e quando la politica si organizzerà intorno ad altri assi categoriali (ad esempio, inquinatori contro ambientalisti – ed effettivamente la questione ecologica è in sé in grado di spiazzare il cleavage destra/sinistra, e di costruire un fronte che unisce l’umanità contro la natura impazzita, oppure, ancora più radicalmente, di unire l’uomo ­74

e la natura, cioè il vivente non umano, in una nuova alleanza fondata sulla descrescita); allora destra e sinistra non significheranno più nulla, come del resto è stato per quasi tutta l’esperienza storico-politica dell’Occidente. Ma fino ad allora destra e sinistra continueranno a dire, forse flebilmente forse ad alta voce, qualcosa di moderno sui nostri destini politici postmoderni.

Bibliografia essenziale

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E. Laclau, La ragione populista (2005), Roma-Bari, Laterza, 2008. G. Lefranc, Le sinistre in Francia: dalla rivoluzione ai giorni nostri (1973), Milano, Mursia, 1975. K. Mannheim, Conservatorismo. Nascita e sviluppo del pensiero conservatore (1984), Roma-Bari, Laterza, 1989. R. Rémond, La destra in Francia (1968), Milano, Mursia, 1970. M. Revelli, Le due destre. Le derive politiche del postfordismo, Torino, Bollati Boringhieri, 1996. M. Revelli, Sinistra Destra. L’identità smarrita, Roma-Bari, Laterza, 2007. A. Santambrogio, Destra e sinistra. Un’analisi sociologica, Roma-Bari, Laterza, 1998. Z. Sternhell, Né destra né sinistra. La nascita dell’ideologia fascista (1983), Napoli, Akropolis, 1984.

Indici

Indice dei nomi

Adorno, Theodor, 46.

Fisichella, Salvatore, 48. Foucault, Michel, 43, 46. Franco, Francisco, 14.

Babeuf, François-Noël, 11. Bakunin, Michail Aleksandrovič, 17. Bauer, Bruno, 39. Benoist, Alain de, 4. Berlusconi, Silvio, 62. Blanc, Louis, 11. Blanqui, Louis-Auguste, 11. Bobbio, Norberto, 50. Bonald, Louis de, 12. Burke, Edmund, 14, 42.

Galli, Carlo, 30, 69. Gentile, Giovanni, 14. Giddens, Anthony, 6. Guénon, René, 14. Guizot, François, 12. Habermas, Jürgen, 28. Haller, Carl Ludwig von, 43. Hamilton, Alastair, 4. Hayek, Friedrich von, 42, 49. Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 18, 43. Heidegger, Martin, 43-44, 46. Hirschman, Albert O., 31. Hitler, Adolf, 14. Hobbes, Thomas, 10, 23, 54.

Cavour, Camillo Benso, conte di, 41. Céline, Louis-Ferdinand, 14. Cesare, Caio Giulio, 10. Churchill, Winston, 14, 41. Cofrancesco, Dino, 38. De Gaulle, Charles, 41. Degrelle, Léon, 14. Deleuze, Gilles, 46. Derrida, Jacques, 43, 46.

Jünger, Ernst, 14, 50. Kant, Immanuel, 10, 23. Laclau, Ernesto, 73. Lamennais, Félicité de, 12, 19. Lefebvre, Marcel-François, 14, 48. Lefranc, Georges, 16.

Einaudi, Luigi, 41. Eliade, Mircea, 14. Evola, Julius, 14.

­81

Lenin (Vladimir Il’ič Ul’janov), 17. Locke, John, 10, 23, 40. Lorenz, Konrad, 14. Luigi XIV, re di Francia, 62. Luxemburg, Rosa, 17. Machiavelli, Niccolò, 54. Maistre, Joseph de, 12, 14, 33. Malinsky, Emmanuel, 14. Mannheim, Karl, 36. Marinetti, Filippo Tommaso, 14. Marx, Karl, 11, 13, 16-18, 26. Maurras, Charles, 14. Mill, John Stuart, 26. Mosley, Oswald, 14. Mussolini, Benito, 14. Napoleone III, imperatore, 13. Nietzsche, Friedrich, 43-44. Obama, Barack, 65. Pompeo, Gneo, 10. Proudhon, Pierre-Joseph, 11, 16. Pufendorf, Samuel von, 23.

Rattazzi, Urbano, 14. Rawls, John, 28. Rémond, René, 12. Revelli, Marco, 7, 11. Rorty, Richard, 46. Rousseau, Jean-Jacques, 10, 23, 27. Santambrogio, Ambrogio, 32. Savigny, Friedrich Carl von, 43. Schmitt, Carl, 14, 20, 44-45, 54. Scruton, Roger, 14, 42. Sironi, Mario, 14. Solaro della Margarita, Clemente, 14. Sorel, Georges Eugène, 20. Spann, Othmar, 14. Stahl, Julius, 14. Stalin (Iosif Vissarionovič Džugašvili), 17. Sternhell, Zeev, 4. Tacito, 54. Thatcher, Margaret, 57. Tocqueville, Alexis de, 4. Trockij, Lev, 17. Tucidide, 54.

Indice del volume

Prefazione alla presente edizione Premessa all’edizione 2010 Una dicotomia obsoleta?

v ix

3

Gli schemi delle teorie, e la complessità della storia

10

L’origine della politica moderna, e le sue conseguenze

22

L’età globale, e il caso italiano

55

Sul presente, e sul futuro. Conclusione provvisoria

68

Bibliografia essenziale

77

Indice dei nomi

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