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Italian Pages 192 [190] Year 2006
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KYKÉION STUDI
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TESTI
La Collana Kykéion Studi e Testi è frutto della collaborazione fra l’Associazione Culturale Kykéion e la Firenze University Press. Si propone di pubblicare opere scientifiche coniugando il rigore della ricerca accademica con l’attenzione per temi e campi del sapere che si impongono come nuovi soggetti del dibattito culturale.
COORDINAMENTO E DIREZIONE DELLA COLLANA DI STUDI E TESTI Federico Squarcini, Fulvio Guatelli
AREE TEMATICHE I. Studi e Testi di Scienze delle Religioni Cristianistica Indologia Islamistica Ebraistica II. Studi e Testi di Scienza ed Epistemologia III. Studi e Testi di Storia e Filosofia IV. Studi e Testi di Scienze Sociali V. Studi e Testi di Formazione e Didattica
Indice
Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9 I. I tempi, i luoghi e gli intrecci di uno scenario frastagliato. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 23 1. Il tempo del calendario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 24 1.1. Il Calendario ebraico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 26 1.2. I calendari hindu . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27 1.3. Il calendario islamico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 29 1.4. Calcolo del tempo e concezioni del mondo . . . . . 30 1.5. Dal calendario ai calendari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 31 2. I luoghi frastagliati delle religioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35 2.1. Dalla Siria a Gerusalemme, da Roma a Benares. . 35 2.2. Dalle regioni del Tibet a Bali . . . . . . . . . . . . . . . . . 42 2.3. Dalle Maldive all’Africa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 48 2.4. Dall’Africa nera ad aree latino-americane. . . . . . 54 2.5. Ultima tappa di un viaggio in divenire . . . . . . . . . 59
Nesti Arnaldo, Per una mappa delle religioni mondiali ISBN 88-8453-245-0, © 2005 Firenze University Press
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II. Per una mappa delle grandi religioni: lo scenario mondiale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 63 1. Le confessioni e le denominazioni interne alle ‘grandi religioni’ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 64 2. Lo stato delle religioni per aree geografiche . . . . . . . . . 70 3. La consistenza delle religioni nei distinti paesi . . . . . . . 70 4. Distribuzione quantitativa delle religioni in alcune aree nazionali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 80 5. Sulle percentuali e le proiezioni riguardanti il futuro prossimo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 88
III. Le interazioni nel religioso . . . . . . . . . . . . . . . . 91 1. Uguaglianza e diversità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 92 2. Analogie e differenziazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 98 3. Processi di osmosi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 99 3.1. Sovrapposizione e adattamenti . . . . . . . . . . . . . . . 101 3.2. Differenziazioni interne . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 103 3.2.1. lslam differenziato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 104 3.2.2. Differenziazioni dentro l’Ortodossia. . . . . . . . . 106 3.2.3. Altre forme di differenziazione: sul fondamentalismo protestante . . . . . . . . . . . 108 3.2.4. La differenziazione del fondamentalismo islamico . . . . . . . . . . . . . . . . 111 3.3. Religioni ed ecumenismo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 114 3.4. Considerazioni finali. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 116
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IV. Oltre l’appartenenza, l’esperienza.. . . . . . . . . 119 1. Le condotte religiose degli europei . . . . . . . . . . . . . . . . 120 1.1. Il mondo dei giovani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 120 1.2. L’andamento in talune aree europee . . . . . . . . . . 123 1.3. ‘Dio dopo il comunismo’ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 128 1.4. Il continente russo dopo l’ateismo di stato . . . . . 128 1.5. Sondaggi latino americani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 136 1.5.1. Brasile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 136 1.5.2. La situazione a Cuba. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 141 1.6. La situazione negli USA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 145 1.7. In Asia: il Giappone. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 151 1.8. Australia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 152 Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 154
Per una mappa del pluriverso religioso . . . . . . . . 161 1. La coesistenza delle religioni nelle distinte formazioni sociali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 162 2. Nel pre-moderno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 164 3. Il moderno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 168 4. Il postmoderno. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 170 5. Per una mappa del pluriverso religioso . . . . . . . . . . . . . 171 5.1. Oltre il monoteismo culturale . . . . . . . . . . . . . . . . 175
Cenni bibliografici per approfondimenti . . . . . . 183
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Studi religiosi in area tedesca . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 186 Studi religiosi in area anglo-americana . . . . . . . . . . . . . . . 187 Studi religiosi in area francofona. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 188 Studi religiosi in aree diverse dalle precedenti . . . . . . . . 189
Premessa Non è questa la sede per discutere della morte di Dio annunciata da Nietzsche, secondo il quale Dio è morto perché gli uomini vivono e si comportano prescindendo dalla sua esistenza, costruendo un mondo che si lascia comprendere senza ricorrere a lui. Similmente, non è questo il luogo per dibattere se la civiltà occidentale è oggi alle prese con un’effettiva crisi culturale, né per rispondere alle accuse da parte ortodossa secondo le quali il cattolicesimo romano e il protestantesimo vedrebbero gravare su di loro le pesanti responsabilità dell’affermazione della mentalità moderna. A questo proposito si pensi agli attacchi al cattolicesimo romano da parte del Principe Mynskin, nell’Idiota di Dostoevskij. In queste pagine non si intende perciò ricostruire la tipologia e la psicologia di quanti vivono nella solitaria persuasione, nelle segretezze dell’anima, che Dio non è di questo mondo, così come non si cercherà di delineare la vicenda e il profilo di coloro che camminano sulle strade del mondo avendo come punto di riferimento una chiesa, una sinagoga, una moschea, un tempio. La nostra preoccupazione è qui assai più modesta, ma non per questo, almeno noi lo crediamo, di poca importanza. Infatti, l’intento è quello di reagire all’odierno analfabetismo religioso e di offrire un primo quadro della consistenza e della dislocazione delle grandi religioni, intese come fatti socio-culturali di ampia portata disseminati nel mondo. Ciò vorrebbe fungere da bussola orientativa dentro l’enigmatico ambito del mondo delle religioni. Il primo scopo di questo libretto è, quindi, quello di avanzare una proposta di mappa, di offrire dei punti
Nesti Arnaldo, Per una mappa delle religioni mondiali ISBN 88-8453-245-0, © 2005 Firenze University Press
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nodali attraverso i quali potersi muovere criticamente all’interno del labirinto del religioso contemporaneo. Suo obiettivo più ampio, inoltre, è quello di mettere in risalto quanto sia ridicola la pretesa di chi intende esplorare il mondo contemporaneo come se il dato religioso non ci fosse o come se non avesse rilevanza alcuna, mentre intende dare, in primis, un contributo alla ricostruzione di una mappa delle religioni a livello mondiale. Potrà non apprezzare un testo come questo chi è abituato a sentir ritmare la propria vita in base alle ore scadenzate dai rintocchi del campanile. Questi si accorgeranno che si può, di fatto, abitare in una stessa borgata ma essere inscritti all’interno di calendari, di divisioni del lavoro e di progetti di vita enormemente diversi, così come può esser vero il contrario. Ma se costoro, magari proprio grazie alla lettura di questo lavoro, vorranno affacciarsi alla finestra a guardare in avanti, scopriranno che il panorama non presenta esattamente un mondo univoco e riducibile all’abusata metafora del villaggio, pur globale che sia. Dylan Thomas nella sua prefazione ai Collected Poems cita, in modo memorabile, il caso di un pastore gallese cui fu chiesto perché continuasse a compiere rituali tracciando cerchi magici al fine di proteggere il suo gregge; egli rispose, con il disprezzo che si prova davanti alla stoltezza di una domanda: «Sarei pazzo se non lo facessi!». E nonostante il perseverarsi della serialità di certi fatti sociali, apparentemente identici, molte sono le novità che si inaugurano a ogni istante. Basta guardarsi intorno per scorgere il numero di nuovi cittadini immigrati dai diversi ‘sud del mondo’, cercando di cogliere i molti modi in cui questa presenza cambia i dettagli della nostra contemporaneità. Altri cambiamenti sono ravvisabili se guardiamo alle forme che stanno assumendo i rapporti interpersonali, governati dagli imperativi e dai tempi dei numerosi messaggi che ci raggiungono in ogni luogo e ad ogni ora, ‘liberi’ di viaggiare grazie ai circuiti mass mediali. Nonostante l’incalzante spinta verso l’omologazione, non è poi più possibile sottrarsi al confronto fra e con le
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culture e le religioni diverse che coabitano i nostri spazi, se non altro per capire e per decodificare i molti calendari che intersecano e influenzano le nostre vite. Vivere dentro l’odierno pluralismo implica registrare la messa in questione delle forme classiche della fedeltà, lo svincolarsi dalle appartenenze date una volta per tutte, lo sforzo di creare uno spazio di identità non protetta da alcun rapporto fiduciario fisso e, in un certo senso, più autentica e vera. Significa rapportarci con il fatto che in ogni fedeltà che non conosce tradimento –e che neppure ne ipotizza la possibilità–, c’è troppa infanzia, troppa ingenuità. Sono per questo sempre più deboli le spinte a chiamare fedeltà e amore quello che in realtà è insicurezza o addirittura rifiuto di sapere chi davvero si è, per il terrore di incontrare se stessi, un giorno almeno –prima di morire–, con l’immenso rischio che presenta la scoperta di non esser mai davvero nati. Tutto questo, cambiando il nostro modo di rappresentarci e di rapportarci alla vita, ci cambia. Senza entrare nei dettagli della delicatissima questione secondo la quale, in seguito alla presenza di cittadini di religione islamica, si producono disordini e disagio all’interno della nostra vita quotidiana, basti registrare il recente scatenarsi inutile e penoso di vere e proprie ‘guerre di religione’, esclusivamente fondate sulla base del pregiudizio e di un oggettivo impianto mentale dal carattere razzista. Qual è dunque, preso atto dei grandi mutamenti del nostro quotidiano, il modo di tracciare lo scenario delle grandi religioni nel mondo? Con l’intento di compiere un viaggio nelle varie zone della geografia religiosa del mondo contemporaneo, come si può verificare fin dal primo capitolo, in queste pagine si vuole ricalcare, pur apportando significative variazioni di enfasi, la mappa convenzionale delle grandi religioni, le quali risentono ancora del cuius regio et eius religio. In India come in Giappone, in Cina come in Russia, si possono infatti riscontrare istituzioni religiose ancorate alla tradizione secolare del mondo pre-moder-
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no, che per questo sembrano quasi ignorare il loro tempo e il cambiamento delle condizioni della vita. Ma se è certamente basilare avere il polso dei dati statistici offerti da coloro che hanno cercato di tracciare i confini del paesaggio religioso sulla base di grandi censimenti internazionali, a noi preme non fermarci alle forme esterne, lasciandoci quasi schiacciare dal peso e dalla fissità dei dati meramente quantitativi e spesso folklorici. A noi interessa delineare il religioso soprattutto come fatto di esperienza, come dato connesso al vissuto e all’interno di distinti contesti storico-sociali. La preoccupazione cardine che muove questo lavoro è quella di delineare il fenomeno rifiutando sia la prospettiva secondo cui le religioni ‘sono tutte modi diversi di guardare alla stessa cosa’, sia quella che non riconosce loro una propria specificità, ritenendole un rivestimento e una simbolizzazione di interessi mondani. In questo ci sorregge il desiderio di capire, specialmente sulla base dell’apporto delle scienze storico-sociali –senza però indulgere in aprioristiche scelte di valore–, il dato religioso nel suo contesto storico, sic et simpliciter, senza presumere di porci a giudici di un tribunale che stabilisce e separa le risposte giuste da quelle sbagliate. Di fatto, con questo libro si intende invitare il lettore a porsi come in un viaggio, con il desiderio nomadico di esplorare, di non fermarsi ai primi ostacoli, magari profittando di soste negli spazi emblematici dei grandi luoghi dello spirito. L’augurio è che più di un lettore voglia fare esperienza di queste soste, intrattenendosi in nuove ricognizioni, traendo vantaggio da altre letture, approfondendo temi non noti e scoprendo altre vie del sapere qui suggerite dai rimandi bibliografici messi a disposizione. L’intento è quello di stimolare la comprensione del fenomeno religioso non solo come fatto dottrinale, non solo come trama rituale, ma come espressione di lunghi processi di inculturazione avvenuti all’interno delle distinte formazioni sociali, come ‘cosmo simbolico’ suscettibile di essere attraversato dai paradigmi e dalle comprensioni sedimentate che sog-
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getti umani innestati nel contesto dei variegati mondi sociali portano con sé. Il primo capitolo, che è quasi la premessa di un viaggio negli universi religiosi, intende tracciare un primo quadro entro cui ‘contenere’ il frastagliato paesaggio delle religioni. Iniziano qui gli inviti alle soste e alle tappe di riflessione. Benares e Gerusalemme, oppure Roma e Yadiz, stanno a indicare solo alcune delle molte pause che si possono fare in certi luoghi paradigmatici. Il capitolo successivo, il secondo, traccia a grandi linee l’oggettiva situazione statistica delle grandi religioni e delle grandi confessioni nel mondo. Per ‘grandi religioni’ qui si intendono le religioni maggiormente diffuse e precisamente il cristianesimo, l’islam, il giudaismo, il buddismo, l’induismo, lo scintoismo, il confucianesimo. A queste si è aggiunto quel contesto di esperienze religiose convenzionalmente ‘definite’ come primitive. Si è poi ritenuto opportuno fare riferimento anche alla presenza dell’ateismo e all’animismo. Le esclusioni o la messa in subordine di taluni fenomeni nascono solo dal fatto del loro modo di essere presenti, a livello quantitativo, nello scenario religioso mondiale. Si vedrà come fin dalla ricognizione essenzialmente quantitativa emerga la complessa dislocazione del religioso all’interno delle culture e degli assetti politici, mentre si farà allo stesso tempo strada l’esigenza di una ricerca del fatto religioso sulla base degli apporti storico-fenomenologici. Al fine di sciogliere certe ambiguità, si è ritenuto di dover richiamare –in un apposito capitolo, il terzo– alcune questioni di metodo, grazie alle quali giungere a una corretta lettura comparata del fattore religioso come fatto sociale. Anche per questo alcune preoccupazioni di carattere comparativistico sono state qui chiamate in causa, al fine di accertarsi se e come si diano determinati processi di osmosi, di interazione, oppure se e come si diano particolari processi di contrapposizione o di transignificazione. Si pensi, al riguardo, alla vicenda della conquista e dell’evangelizzazione del mondo americano dopo il XVI secolo. Infatti, mentre le distinte religioni si
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muovono a partire da un fondamentale nucleo veritativo, esse incontrano e sono altresì trasfigurate al loro interno da differenziazioni e sovrapposizioni. È opportuno ricordare in questa sede quanto fu espresso, con acutezza, da Simone Weil, la quale si interroga su come un indigeno americano vissuto durante il terrore dei genocidi all’epoca dei conquistatori e che ha assistito ai massacri, alla peste e alla distruzione di una cultura, avrebbe potuto conservare la fedeltà alla sua ‘religione tradizionale’. Anche nel caso in cui l’avesse mantenuta, questi l’avrebbe pensata in maniera assai diversa da come aveva fatto fino ad allora. Una tale ricognizione comparativa implica però una puntuale messa a fuoco della prospettiva ecumenica, in cui si sappia guardare con occhi nuovi alla problematicità di fenomeni sociali che accomunano le diverse denominazioni e tradizioni religiose. Nella narrativa di Isaac Singer, per fare un esempio, leggiamo del mondo ‘senza tempo’ della fede nello sheetl, il villaggio ebraico dell’Europa orientale, con la sua devozione, il suo folklore, la sua saggezza proverbiale e la sua solidità spirituale. Ma che cosa è rimasto di tutto ciò nelle situazioni di emigrati senza radici nel dopo guerra? Qual è qui la relazione fra l’identità religiosa di un emigrato fuori dal suo mondo rispetto a quella del tempo in cui si trovava nella terra di origine? Qual è dunque la funzione dei santi che sono condotti con sé dentro valige da viaggio? Tutto ciò ci deve portare a ripensare sia la situazione dell’islam dell’emigrazione sia a quanto avviene all’interno delle distinte confessioni cristiane e ortodosse. Nel quarto capitolo poi, partendo da ricerche empiriche recenti, si propone di non limitarsi a svolgere una lettura statica delle situazioni religiose, ma di travalicare il dato superficiale con lo scopo di superare i limiti delle rappresentazioni formali. Si tratta di chiedersi, con rinnovato vigore analitico, quale sia l’effettiva esperienza religiosa degli uomini e delle donne oggi. In questo capitolo si cerca pertanto di offrire alcuni dati significativi relativi ad alcune aree geografiche, i quali, mentre mostrano come il paesaggio, se ben guardato, appaia
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assai ben più fluido, permettono di comprendere quanto siano labili le tradizionali modalità con cui si sono spesso rappresentate certe situazioni religiose. La scelta dei casi qui non è governata da criteri di esaustività, quanto semmai di emblematicità. Abbiamo infatti richiamato l’attenzione su alcune situazioni particolari, quali quelle del Brasile, di Cuba, degli Usa, dell’Australia. Tenendo in mente l’interrogativo ‘quale sarà il prossimo futuro delle religioni?’, ci si è anche soffermati su aspetti specifici del continente europeo e sul tormentato mondo russo dopo la fine del comunismo. Qui, pur nella grande varietà delle situazioni prese in esame, pare si stiano delineando due traiettorie di fondo: innanzi tutto è netta la tendenza a caratterizzare il versante della religione nei suoi risvolti privati, giungendo fino a una religione ‘fai da te’, ‘a modo mio’, incline all’individualismo, che ha perso i legami con la tradizione e la memoria, che si alimenta più di esperienze sensibili e di dati emozionali che di osservanze e di credenze; d’altra parte non sono poche le chiese e le tradizioni religiose che non si limitano più alla ‘cura delle anime’, rifiutandosi di rimanere entro i confini della mera sfera privata e ambendo a giocare un nuovo ruolo pubblico e di orientamento delle collettività. In altri termini, costrutti istituzionali e movimenti che in nome della religione si interessano di questioni pubbliche, si battono per l’ambiente, si pronunciano sulla identità nazionale, sulla pace e sulla guerra, sui rapporti tra Nord e Sud del mondo, sullo sviluppo sostenibile. Il quinto e ultimo capitolo, sulla base dei materiali e dei problemi affrontati, avanza un’ipotesi di ricostruzione della futura mappa dei singoli universi religiosi che si basa sul concetto di pluriverso. L’idea di pluriverso religioso può essere utile per capire che ogni paesaggio religioso è una realtà policroma e dinamica, che è continuamente attraversata da istanze che vanno al di là di tutte le religioni –nei lori assetti istituzionali– e che si radicano dentro la complessità del ‘mondo della vita’. Questa proposta è più attuale che mai, dal momento che oggi l’analisi del fat-
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tore religioso esige non tanto una conoscenza delle sue multiformi formulazioni estrinseche, quanto semmai dei suoi profondi intrecci e rapporti, delle sue interconnessioni spazio-temporali, delle sue analogie strutturali e sostanziali, senza per questo indulgere in modelli evoluzionistici e aprioristici della vita. Del resto, anche nella postmodernità, quasi fosse una misura di contrappasso, rispuntano le istanze fondamentaliste con le quali si tende a sottolineare il vigore della verità di una data tradizione e per le quali si diventa portatori di atteggiamenti di nevrotico rifiuto verso ogni idea di diversità. Detti fondamentalismi, per quanto diversi all’interno di distinte culture, si caratterizzano per la pretesa di unicità e di rilevanza della loro verità, l’esclusiva lux et veritas mundi. E non si tratta –va oggettivamente detto– solo di alcuni casi isolati. Rispondono infatti a questo profilo correnti ebraiche e cristiane, islamiche e hindu, insieme a molti altri. Conoscere il fatto religioso significa pertanto anche mettersi di fronte al germe del fondamentalismo e dell’integralismo che in esso è contenuto e che è diffuso ben al di là del territorio di un’esclusiva confessione. Ma il futuro è sempre più affidato alla responsabilità individuale, alla forza dell’autonomia e della libera scelta, oppure, per dirla con Peter Berger, ‘dell’imperativo eretico’. Sfogliando queste pagine il lettore potrà avvertire come il fattore religioso costituisca uno dei fenomeni sociali più emblematici del paesaggio sociale contemporaneo. Ed è per questo che esso va conosciuto: per meglio orientarsi e situarsi nell’oggi, anche attingendo a punti di vista e a chiavi di lettura non necessariamente canonici. Del resto, se è vero che alcuni processi sociali travalicano l’ambito conoscitivo delle scienze sociali –sta infatti da tempo scritto Spiritus ubi vult spirat–, dobbiamo di nuovo imparare a guardare a detti fenomeni senza la presunzione di incasellare e di quantificare la presenza della grazia misteriosa, ma evitando che l’attività scientifica debba abdicare alla sua funzione di ricerca e di documentazione per causas.
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A questo proposito giova porsi ex novo alcune domande: dove sta oggi lo spartiacque fra chi è e chi non è religioso? Dove è la linea di confine fra religione e cultura? Come si traccia il limite di demarcazione fra chi è dentro e chi è fuori di una data chiesa? Di che ‘colore è la pelle di Dio’? Ma per rispondere a queste domande non basta il mero dato, o la dotta proiezione statistica. Ci si accorge presto che ben al di là dei dati che derivano dai censimenti e dalle attribuzioni formali c’è un mondo ‘altro’, un mondo che spesso non coincide con quello rappresentato nei censimenti: un mondo che tradisce il profilo di sè costruito sui risultati delle ricerche sul vissuto religioso. Guardando meglio dentro questo mondo –che poi è il ‘nostro mondo’–, talora affiorerà che si è di fronte a dei religiosi senza appartenenza o dalla labile credenza; talaltra appaiono addirittura espressione di un religioso soggettivamente costruito, implicito, arbitrario, a ‘modo mio’. Di qui il limite e il valore di un libro di questo genere. Un libro che è un invito a prendere nuovamente atto di un singolare fenomeno, purtroppo spesso sottovalutato e dai risvolti imprevedibili. Di qui l’invito ad affrontare responsabilmente il viaggio conoscitivo nell’ambito delle religioni, connesse o meno alle grandi istituzioni religiose, anche perché l’edificazione dello spazio sociale futuro chiede a tutti noi la partecipazione: una partecipazione responsabile che non può dimenticare che ‘non c’è pace tra le nazioni senza pace fra le religioni’. «Alle grida di aiuto dei più sulla fine della religione io non unisco la mia voce perché non mi risulta che alcuna epoca l’abbia trattata meglio di adesso». Queste alcune delle considerazioni fatte da Schleiermacher nei suoi Discorsi sulla religione (1799). Si tratta di riflessioni sul fenomeno religioso svolte al tramonto del XVIII secolo, mentre si levava alta la fiaccola illuministica e si era appena scatenata la bufera rivoluzionaria francese. Riflessioni, però, affatto tramontate e che, quasi paradossalmente, possono esser riproposte per intero due secoli dopo, agli inizi del terzo millennio cristiano.
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Oggi, quello stesso Dio che qualche decennio fa pareva irrimediabilmente morto –persino nella teologia– senza che a ucciderlo fossero stati gli uomini (come esagitatamente declamava il Nietzsche della Gaia scienza) ma che fu semplicemente sepolto dall’oblio dell’uomo evoluto, sembra più vivo che mai. Ma come si presenta? Qual è il suo volto? È lo stesso Dio fluido e inconsistente della New Age, simile a una Medusa e avvolto da melodie un po’ melense? È il Dio collocato sugli altari dal raffinato design razionalista, oppure che troneggia all’interno di chiese simili a club di fitness dell’anima, all’interno delle quali si consuma un’‘eucaristia’ che ha tutte le sembianze di una dieta purificatrice, capace di miscelare messaggio e massaggio, yogurt e yoga? È il tempestoso Dio –che incombe ben più minaccioso del pur sempre bonario Zeus– pronto a far esplodere questo mondo e questa storia entrambi posti sotto il vessillo del satanico Drago rosso propugnano dai gruppi apocalittici e fondamentalisti? È il Dio delle reiterate teofanie, che ama le visioni, i miracoli, i colpi di scena, di cui si fa promotore un certo e diffuso devozionalismo? È il Dio dell’istituzione o quello del carisma? È il Dio panico o quello Totalmente Altro? È il Dio misterioso o semplicemente magico? È un Dio storico o più modestamente un Dio ‘tappabuchi’ della nostra impotenza, come sospettava Bonhoeffer? È il Dio a immagine e somiglianza dell’uomo oppure il Dio Creatore Primo e Ultimo, Alfa e Omega, cantato nell’Apocalisse? Non si risponde a questi interrogativi epocali mostrando alcuni reportages emozionali.1 A tutte queste domande dobbiamo aggiungere quelle che si legano al destino odierno dell’ateismo. È realista parlare di un ateismo che, soccombendo al posto di quel Dio che voleva scardinare dal suo trono celeste, è anch’esso morto? Forse il vero ateismo, ombra della vera 1 Cfr. M. Politi, Il ritorno di Dio. Viaggio tra i cattolici d’Italia, Milano, Mondadori, 2004.
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fede, è oggi semmai gravemente ammalato, proprio come il suo antidoto genuino, il ‘credere’ appunto. Come alla fede diffusa, non di rado, si è sostituita una religiosità evanescente, così all’ateismo prometeico è subentrata una sottile indifferenza. Oggi a muovere il mondo sembra predominare un solo grande ideale, l’interesse; qualcuno lo ha definito il vero ‘dio’, il ‘dio denaro’. E’ questo che fa scendere le tenebre. A proposito, Kierkegaard annotava nel suo Diario: «La nave è in mano al cuoco di bordo e ciò che trasmette il megafono del comandante non è più la rotta, ma ciò che mangeremo domani». Effettivamente oggi, con le mani alzate in segno di adorazione e di resa di fronte al Moloch televisivo, l’uomo contemporaneo sa tutto sui cibi e sui vestiti, sulle mode e sui consumi, ma non è più in grado di porsi domande autenticamente ‘religiose’, domande che tormentano la coscienza. È un uomo che non sa più scoprire il senso della vita, le radici dell’essere, la via del bene e quella del male, la meta dell’esistenza. Conosce il prezzo di tutto ma ignora il valore vero della realtà2. L’uomo e la divinità devono incontrarsi non nei cieli dorati ma nelle strade polverose delle opere e dei giorni. La fedeltà alla storia, l’impegno operoso d’amore, il servire e il non essere serviti, il dialogo e non l’arroccamento sacrale, sono tutte virtù che impediscono le varie forme di monofisismo che rendono monca qualunque religione. Su questo scriveva il teologo ortodosso Pavel Evdokimov: «Tra la chiesa con le sue icone, i suoi lumi e i suoi incensi e la piazza col suo rumore non ci deve essere una porta sbarrata ma una soglia aperta, ove scorra il vento dello Spirito di Dio». Per usare un’immagine del Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein, la religione conduce sul litorale di quell’isola che è l’uomo, ne mostra i contorni finiti e delimitati, li segue e ad essi si àncora. Ma, al tempo stesso, mostra che proprio lì, su quella
2 Cfr. G. Ravasi, Fede e indifferenza, in «Golem. L’indispensabile», 6, Luglio 2001, pp. 1-4
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costa, battono le onde dell’oceano, cioè dell’eterno e dell’infinito. Se questo è vero allora le religioni avranno un futuro ‘autentico’ solo se rimarranno se stesse, cercando e proclamando le verità ‘ultime’ della vita e della morte, del bene e del male, della giustizia e della immoralità, coordinandole con le ‘penultime’ dell’impegno concreto, conducendo l’uomo verso l’altro, cioè il fratello, ma anche –e soprattutto– verso l’Altro per eccellenza, il trascendente, evitando le scorciatoie della fede ‘liofilizzata’, commerciale o banalmente esoterica. Ed è ancora Kierkegaard, in Malattia mortale, a ricordare soprattutto all’Occidente cristiano: «Non sapete che l’essere cristiani è l’inquietudine più alta dello spirito? È l’impazienza dell’eternità, un continuo timore e tremore, acuito dal trovarsi in un mondo perverso che crocifigge l’amore!». Ciò di cui dice qui Kierkegaard è la tensione agostiniana, è l’escatologia, è anche la genuina ricerca del mistero e della trascendenza che già Kafka nei suoi Diari faceva balenare quando metteva in bocca a Zenone la certezza secondo cui «è la freccia che vola a riposare» veramente. Perciò, se l’indifferenza, la banalità, la volgarità, l’inerzia distratta, il vociare vano e vacuo sono il contrario della religione autentica, è vero per il credente ciò che nel suo Journal affermava Julien Green: «Finché si è inquieti, si può stare tranquilli». In questo senso il cristianesimo trova la sua emblematicità nella dottrina dell’Incarnazione, del Logos divino che si fa sarx umana, secondo la celebre dichiarazione del prologo di Giovanni (1,14). Un intreccio così forte e ‘scandaloso’ da essere condotto fino all’estremo della sofferenza e della morte: «Dio si fa impotente e debole nel mondo –scriveva in Resistenza e resa Bonhoeffer– e solo così ci sta al fianco e ci aiuta. Dio ci aiuta non in forza della sua onnipotenza ma in forza della sua sofferenza!». Cosa significa dunque, alla luce di queste ultime problematiche, stendere una mappa delle religioni? Proprio nel momento in cui, in apparenza, le religioni sembrano conquistare la scena e gli inni di vittoria in nome di Dio si moltiplicano, occorre saper distinguere tra religioni e cul-
Premessa
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ture di fronte alla paralisi delle passioni ideali e sociali che dominano lo scenario contemporaneo. Spero che i lettori considerino questo un libro che invita e stimola al viaggio nel paesaggio labitintico delle religioni contemporanee. Mentre scrivo queste pagine ho gli occhi rivolti alle coste del Mediterraneo dove arrivano i naufraghi di un’odissea che ha inizio nei luoghi più martoriati dalla miseria, i relitti che si allineano sulle nostre banchine sono l’icona di un dramma, anche religioso, del nostro tempo. Devo rivolgere un grazie cordiale a due amici: a Roero Nesti, che ha dato forma al mio manoscritto, a Federico Squarcini, che ha revisionato il testo finale per la stampa. Arnaldo Nesti CISRECO, San Gimignano Agosto 2004
I I tempi, i luoghi e gli intrecci di uno scenario frastagliato
La religione è un elemento centrale nel processo di costruzione dell’identità di un popolo. Insieme agli orientamenti di fede, essa ha storicamente creato e dato modi di vivere, valori, comportamenti. Ogni religione esprime la propria visione della vita e della morte, della divinità e del destino dell’uomo tramite numerose pratiche, quali preghiere, riti, festività, luoghi di culto, organizzazione del tempo e dello spazio. Tra le varie religioni diffuse nel mondo si è soliti distinguere –in maniera fin troppo ‘classica’– fra quelle monoteiste, fondate sulla credenza in un solo Dio, e quelle politeiste, che credono nell’esistenza di più divinità. Tra le prime sono da annoverare il cristianesimo, l’islamismo, l’ebraismo. Tra le seconde l’induismo, lo shintoismo e, per certi versi, anche il buddhismo. Esistono poi varie forme di credenze animiste, per le quali le piante o gli animali sarebbero sede di spiriti buoni o cattivi. Esse sono ancora oggi diffuse nell’Africa centro-meridionale e nell’ex URSS asiatica. A partire da questi pur minimi –e segnatamente insufficienti– distingui, un viaggio nel paesaggio del religioso contemporaneo a livello planetario si presenta già molto articolato e frastagliato. Senza entrare qui nel
Nesti Arnaldo, Per una mappa delle religioni mondiali ISBN 88-8453-245-0, © 2005 Firenze University Press
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bisogno di declinare ulteriormente le suddette classificazione, proviamo a vedere che cosa emerge al seguito di questa prima ricognizione. 1. Il tempo del calendario Ogni religione organizza il tempo dando vita a un proprio calendario che ritma gli impegni del credente nello scorrere dei giorni. Ogni calendario, in genere, nasce sulla base della lettura degli spostamenti del sole nel cielo che determinano il giorno e la notte, le stagioni e gli equinozi; oppure dalla lettura degli spostamenti della luna che governa le maree e i cicli della seminagione e del raccolto. Il calendario costituisce dunque per l’uomo, a parte un ovvio riferimento pratico, un modo di arginare il flusso del tempo che passa inesorabile, di stabilire tappe alla propria esistenza, di fissare ricorrenze al culto degli dèi e dei morti; il calendario evoca il senso dell’eterno ritorno cosmico, presente in molte religioni e connaturato con la mente umana. Il calendario traduce precise concezioni circa il senso del vivere e del morire. L’escatologia connessa con il culto degli antenati ha la funzione di stabilire un legame morti-vivi tale che i primi aiutino i secondi nelle loro esigenze mondane. La funzione dei morti è di offrire ai vivi una salvezza del tutto immanente. Vi è però, in alcune culture, anche la ricerca di una salvezza diversa e trascendente, quella della vita dopo la morte. Questa ricerca è caratteristica del cristianesimo, dell’islam, dell’induismo e del buddhismo. Quella cristiana è una salvezza positiva, dalla morte eterna: la morte fisica non è la fine di tutto ma l’inizio di una vita perpetua. Da parte sua il buddhismo offre invece una salvezza negativa: la fine del ciclo delle reincarnazioni, la realizzazione di una non-esistenza nel nirvana (ni- prefisso negativo), la morte eterna e la fine delle rinascite. La terra ruota attorno al proprio asse con un periodo costante: il giorno e la notte (benché di durata diversa
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secondo le stagioni) s’alternano sempre ogni 24 ore. L’enorme rilevanza del fenomeno costituito dall’alternarsi di notte e giorno ha fatto sì che ogni civiltà apparsa sul nostro pianeta abbia posto il giorno alla base del proprio calendario. Quella parola deriva dal latino (tempus) diurnum, cioè ‘(tempo) che appartiene alla luce’. Anche il ritorno delle stagioni ha un’importanza tale da meritare l’inserimento nel calendario (l’anno tropico): la parola anno deriva dalla radice indoeuropea at, che ha il significato di ‘ruotare’. Un altro ciclo, ancor più facile da osservare nel volgere delle stagioni (perché più breve e caratterizzato da fenomeni più marcati), è quello della luna, che in ventinove giorni e mezzo si ripresenta con le stesse, immutabili fasi. Questo ciclo (detto sinodico) ha dato origine ai mesi. La parola mese deriva dalla radice indoeuropea me, che significa ‘misurare’. Volendo soffermarci sugli aspetti astronomici del moto della terra attorno al proprio asse e al sole, va osservato che l’orbita apparente del sole attorno alla terra (eclittica [Fig. 1]) è un’ellisse inclinata di circa 23° rispetto al piano dell’equatore. La retta che costituisce l’intersezione fra i due piani (l’eclittica e l’equatore) è detta ‘linea dei nodi’ e il nodo ascendente (il punto in cui la posizione del sole sull’eclittica passa dall’emisfero australe a quello boreale) è detto ‘punto d’ariete’ o ‘equinozio di primavera’. Il susseguirsi delle stagioni inizia convenzionalmente al passaggio del sole al punto d’ariete. Fra un passaggio e l’altro la terra compie poco più di 365 rotazioni (passano 365 giorni, 5 ore, 48 minuti e 45 secondi circa), e questo periodo è detto ‘anno tropico’. Ci sono quindi calendari solari e calendari lunari. Il calendario comunemente usato nei paesi occidentali segue il ciclo del sole ed è quindi un calendario solare. Infatti l’anno è costituito da 365 giorni, ovvero il tempo impiegato dalla terra per compiere un giro completo intorno al sole. Esattamente tale ‘rivoluzione’ dura 365 giorni e sei ore. Ogni quattro anni le ore residue vengono
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come ‘recuperate’ aggiungendo un giorno in più all’anno che diventa così ‘bisestile’. Altre popolazioni, e in genere i musulmani, adottano un calendario lunare con mesi più brevi e quindi ‘sfasati’ rispetto ai calendari solari con la conseguenza che le varie festività annuali sono ‘mobili’. Vi sono altri, ad esempio gli ebrei, che adottano un calendario lunisolare dove troviamo mesi lunari a cui vengono periodicamente aggiunti alcuni giorni. Fig. 1: l’eclittica
1.1. Il Calendario ebraico A partire dal IV secolo d.C., in seguito alla riforma del calendario preesistente, gli israeliti adottarono un calendario luni-solare, che cioè combina il ciclo lunare con l’anno tropico. Il ‘ciclo lunare’ si compone di diciannove anni, fra cui dodici anni ‘comuni’ e sette anni ‘embolismici’ (dal greco, ‘che s’inserisce’). Gli anni comuni sono costituiti da dodici mesi, alternativamente composti da trenta o ventinove giorni per un totale di 354 giorni (‘anno comune regolare’); a seconda di quando cade il primo giorno dell’anno inoltre, essi possono avere un giorno in meno (‘anno comune difettivo’, di 353 giorni) o in più (‘anno comune abbondante’, di 355 giorni). Gli anni del ciclo lunare (il III, il VI, l’VIII, l’XI, il XIV, il XVII ed il IXX) sono composti di tredici mesi.
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Essi comprendono 384 giorni se regolari, 383 se difettivi o 385 se abbondanti. Il tredicesimo mese degli anni embolismici (ve-adar, cioè ‘il secondo adar’) viene posto dopo il mese di adar tutte le volte che il quindicesimo giorno del mese seguente (abib) cadrebbe prima dell’equinozio di primavera. Questo determina il ciclo di diciannove anni. Ulteriori aggiustamenti sono effettuati grazie al meccanismo degli anni difettivi e abbondanti. Di seguito riportiamo i nomi dei mesi ebraici nella trascrizione adottata dalla comunità israelitica di Torino. I mesi sono elencati a partire da quelli che approssimativamente corrispondono a settembre-ottobre del nostro calendario:tishrì (tisc-ri, pronuncia di ‘sc’ come in ‘scena’), cheshvan (chesc-vàn, pronuncia di ‘ch’ come in ‘perché’), kislev (chislèv), teveth (tevèt), shevat (scevàt), adar (adàr), nissan (nissàn, anticamente detto abib), ijar (iiàr), sivan (sivàn), tamuz (tamùz), av (àv), elul (ulùl). L’origine del calendario ebraico è fissata al 7 ottobre 3761 a.C., data presunta della creazione. Le settimane iniziano nel giorno successivo al sabbat, mentre i giorni cominciano al tramonto e finiscono al cadere della notte successiva. 1.2. I calendari hindu Secondo alcune delle tradizioni hindu principali, le date vengono calcolate in base al calendario lunare. Tuttavia in Sudasia esiste una notevole varietà di calendarizzazioni del tempo, variando non solamente a seconda della data tradizione religiosa o del mito di riferimento, ma anche in relazione alle diverse famiglie e scuole di pensiero. Molte delle festività tutt’ora osservate sono comunque associate alle stagioni, ai periodi della semina e del raccolto e perciò, restando legate al loro valore propiziatorio, rimangono delle festività condivise dalla gran parte della popolazione. Molte di queste feste hanno poi assunto una dimensione ‘nazionale’ anche al
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seguito delle operazioni di omologazione culturale che, dal periodo coloniale fino a quello dopo l’indipendenza (1947), hanno segnato il processo di costruzione dell’identità nazionale indiana. Vediamo qui alcune delle festività più note in area sudasiatica. Celebrata nel periodo del raccolto del mese di gennaio, pongal è una festa tradizionale del Tamil Nadu (stato del sud-est) durante la quale viene cucinato un riso dolce su un grande fuoco. Festa agreste dedicata al raccolto e al bestiame, è l’unica festività solare che cade ogni anno nello stesso giorno e viene celebrata nel nord dell’India come makara samkranti, o festa del sole (quando il sole inizia il suo percorso verso nord segnando la fine dell’inverno). Festività celebre è quella del mahashivaratri. Si tratta di una notte dedicata all’adorazione della divinità di Shiva. In questa notte si fa digiuno, si canta, si raccontano le leggende del Dio. Cade tra il tredicesimo e il quattordicesimo giorno della luna nera di phalguna (febbraio-marzo). Letteralmente il nome della festività significa ‘la grande notte di Shiva’ ed è infatti durante la notte che le cerimonie iniziano per protarsi nei giorni successivi. In questa occasione si festeggia inoltre il matrimonio di Shiva e Parvati. Così durante la festività di maha shivaratri, si osservano digiuni e austerità: molti devoti non bevono neanche una goccia d’acqua e vegliano tutta la notte cantando inni in onore di Shiva. Holi è una festività diffusa soprattutto nell’India del nord. Corrisponde alla festa di primavera, momento dell’anno in cui vi è abbondanza di fiori e frutti; in una notte di luna piena si bruciano i ramoscelli secchi dell’inverno in un immenso falò. Ramanavami è la celebrazione della nascita di Rama, occasione in cui si intonano canti devozionali oltre a raccontare e recitare episodi tratti dalla grande epopea del Ramayana, che descrive le gesta del valoroso re Rama. Guru purnima è una festa spirituale celebrata da discepoli che seguono un cammino spirituale sotto la guida di un maestro.
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Janmastami è la festività della nascita di Krishna e migliaia di pellegrini si recano nei luoghi a lui più sacri per festeggiare la sua venuta, in quanto incarnazione di Vishnu sulla terra. Rathayatra è un festival celebrato soprattutto nello stato dell’Orissa (a sud-est), dove si contano centinaia di templi dedicati al culto vaisnava e si svolgono leggendarie processioni nelle quali i devoti, convinti che questo atto conceda loro la liberazione, spingono le ruote di immensi e pesantissimi carri decorati (ratha) che trasportano le statue delle divinità. Esiste la tradizione secondo cui, anticamente, dei fedeli si gettavano sotto le enormi ruote per ottenere dei meriti con il loro sacrificio. Ganesha caturti è un festività importante, molto sentita e celebrata sontuosamente soprattutto nello stato del Maharastra (nel sud-ovest), dove Ganesha è una divinità molto popolare. Egli è il Dio invocato a scopo propiziatorio prima di iniziare qualsiasi attività ed è colui che rimuove gli ostacoli. Importante poi la festa di navaratni che si celebra in onore delle nove incarnazioni di Durga, l’aspetto femminile della divinità. Viene festeggiata due volte l’anno, nel mese di chaitra (aprile - maggio) e di asvayuja (settembre - ottobre), due periodi emblematici del cambiamento della natura: l’inizio dell’estate e l’inizio dell’inverno. 1.3. Il calendario islamico Un solo breve cenno sul calendario lunare adottato all’interno delle grandi tradizioni islamiche. Il primo giorno dell’era musulmana è detto egira e corrisponde al 16 luglio 622, giorno in cui Maometto lasciò la Mecca per recarsi a Medina. L’anno è composto di dodici mesi (o lunazioni) di alternativamente ventinove o trenta giorni (contati a partire dal tramonto del sole del giorno precedente). Un anno normale è quindi di 354 giorni. Dodici mesi sinodici non corrispondono a un numero esatto di giorni, per cui in ogni ciclo di trent’anni, undici sono aumentati di un giorno (anni abbondanti).
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1.4. Calcolo del tempo e concezioni del mondo I calendari riflettono le concezioni del tempo sostenute dalle distinte religioni. Senza entrare nel vivo di ciascuna di esse, faremo solo alcune esemplificazioni. Nel cristianesimo il tempo è strutturato come evento salvifico preordinato da Dio. Il tempo non è considerato come un ritorno circolare su se stesso ove tutto è dominato dal fato, subordinato allo scorrere uniforme di istanti successivi e dove nulla di nuovo è possibile. Tutto il tempo è dominato da Cristo e, per l’azione dello Spirito Santo, il battezzato vive in ogni istante una nuova comunione di grazia e di amore. Nel cristianesimo le feste non sono spazi delimitati di tempo sacro nello scorrere del tempo profano. Esse hanno una struttura sacramentale in quanto utilizzano i ritmi temporali e le forme comunitarie per esprimere sensibilmente e attuare efficacemente la realtà escatologica, che è sempre presente nella Chiesa anche se in modalità meno palesi. Nella prospettiva islamica la dinamica del rapporto uomo-Allah è costituita una volta per sempre in termini di infinita distanza del divino e di totale nullità creaturale: Allah resta fondamentalmente indifferente al tempo della creatura. C’è un abisso che la contemplazione mistica tenterà di avvicinare, ma mai una presenza divina espressa nella vita e nell’attività dell’uomo. Una storicità del senso religioso islamico appare però nella ‘mitologia’ del tempo ciclico che fa riferimento agli interventi di Allah nella storia della salvezza attraverso l’invio nel tempo dei vari profeti (da Adamo ad Abramo, fino al profeta finale Maometto). La ordinata e provvidenziale discesa di messaggeri nel tempo, in un piano di rivelazione che si conclude con Maometto, è ignota alle forme più antiche dell’ebraismo che pone gli avvenimenti fondamentali al principio del tempo: la creazione come inizio della storia, il patto e i segni che qualificano il tempo come storia di Dio. La dottrina hindu, a sua volta, è fondata sulla sacralizzazione della storia e del tempo umano, inseriti in un
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tempo divino del quale sono frammenti. Centrale qui è la nozione di ciclicità, con la quale si intende fare riferimento al ritmo eterno espresso nella ripetizione delle quattro fasi dell’essere: creazione, durata, distruzione e ricreazione. Costitutivi della concezione hindu del tempo sono, inoltre, l’equivalenza fra il decorso delle fasi che costituiscono il ritmo e il tempo della vita del divino (la vita dei mondi è la vita di Brahma); il mito della perfezione del principio, della modalità perfetta della prima epoca; la rilevanza della illusorietà magica (maya) di tutta la storia dei mondi e dei tempi ciclici con la conseguente problematica della liberazione dalla catena dell’esistenza (samsara). Qui la dottrina del tempo è in stretta relazione con i miti cosmogonici e con quelli dell’eterna ripetizione della esistenza. Una concezione della ciclicità del tempo che è profondamente penetrata dai miti cosmogonici e che ha assunto forme specifiche le quali si riferiscono a una storiografia salvifica e mitica. Il tempo è, anche per questo, rappresentato come una ruota a dodici raggi soggetta a un’eterna rotazione che, nel periodico rinnovarsi delle epoche, esclude la distruzione finale della materia e del cosmo mentre ne conferma la permanenza e il perpetuo rinnovamento. Un cenno infine alla dottrina scintoista del tempo. Troviamo qui una costante distinzione fra un tempo storico divino, che è pure il tempo primordiale di trasformazione del caos in cosmo, e un tempo storico-umano, che è quello della società feudale assunto a paradigma di ogni società civile. Il passaggio da un tempo all’altro segna una profonda trasformazione delle condizioni cosmiche: cessa il miracolo della parola, prima estesa a tutte le forme della realtà, ma viene anche posto termine a una confusione aurorale nella quale si avvertiva la presenza di forze numinose e malefiche. 1.5. Dal calendario ai calendari Prendendo come anno di riferimento il 2000, vediamo che a gennaio il capodanno cristiano inizia il primo;
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il tre dello stesso mese è il capodanno ortodosso in Russia mentre il sette si celebra il natale copto-ortodosso. Il tre gennaio, nell’islam ha un particolare valore la laylat al-qadr, la notte del destino che viene in genere fissata fra il ventisei e il ventisette del mese di ramadan e durante la quale si svolgono solitamente veglie religiose, canti, festività familiari. Altra festa è l’otto gennaio, aid el-fitr il giorno della rottura del digiuno, quando si celebra la fine del mese del ramadan con scambi di doni e banchetti rituali. Il chunjie, capodanno cinese coincide con l’inizio del calendario lunare: il cinque febbraio, giorno della seconda luna nuova dopo il solstizio d’inverno. Il primo marzo viene celebrato holi, che nella lingua hindi significa falò. Questa è la festa dell’allegria, dei fuochi di purificazione: si brucia simbolicamente Patana e con esso va in cenere il male. Il quattro marzo, di notte, si celebra la festa di shivaratri, dedicata alla venerazione di Shiva. Secondo le scritture, chi passa la notte sveglio e a digiuno si guadagna grande merito. La gente trascorre le ore notturne pregando e cantando davanti al lingam, il noto simbolo fallico di Shiva e la festa si chiude con il sacrificio finale in cui ognuno getta nel fuoco oggetti sacrificali per acquisire meriti. Il quindici marzo è il momento culminante dei riti di pellegrinaggio che si svolgono nel XII mese dell’anno islamico e durano dieci giorni. I pellegrini sostano nella pianura ai piedi del monte Arafat. Il diciotto marzo è la festa del sacrificio dell’agnello eid l’adha, nel dodicesimo dei mesi musulmani. Secondo le proprie possibilità ciascuno prepara la festa acquistando montoni. Si ricorda così l’episodio di Dio che sostituì un agnello a Isacco, il figlio che Abramo stava per sacrificare. Il ventuno marzo si celebra la festa del purim ed è il capodanno hindu. Il sei aprile inizia l’anno 1421 secondo il calendario islamico ed è il primo muharram. Il dodici marzo nei templi hindu viene celebrata ramanavami, la nascita del leggendario Rama, la settima
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delle dieci incarnazioni di Vishnu. Il poema epico noto come Ramayana racconta le storie della sua vita e, otto giorni prima del festival, in alcuni templi vengono ripetute le sue storie. Il sedici aprile inizia la settima santa secondo la liturgia cristiana. La pasqua di resurrezione è il ventitre. La pasqua degli ortodossi ricorre il trenta aprile. I testimoni di Geova non festeggiano le ricorrenze cristiane eccetto la commemorazione dell’ultima cena per il giovedì santo il venti marzo. Il diciassette aprile si celebra la festa di Buddha. Il quindici maggio il mondo ebraico ricorda il passaggio del mar Rosso in fuga dalla schiavitù egiziana sotto la guida di Mosè. Il nove giugno gli ebrei chiudono il ciclo della pasqua con la pentecoste shavuot. È detta anche ‘il pellegrinaggio del cinquantesimo’ in rapporto al pellegrinaggio che si compiva a Gerusalemme nel cinquantesimo giorno dopo la pasqua. Questo era uno dei tre pellegrinaggi alla città santa stabiliti dalla Legge (azzimi, pentecoste e tabernacoli). L’undici, i cristiani celebrano la pentecoste per ricordare la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli. Il quattro, i cristiani celebrano l’Ascensione al cielo di Gesù. Il dieci di agosto gli ebrei ricordano il tisha b’av, ovvero la distruzione del primo tempio nel 586 a.C. per mano di Nabucodonosor e del secondo tempio da parte dell’imperatore Tito nel 70 d.C., con un particolare digiuno che inizia un’ora prima del calare del sole. Il ventidue, gli hindu celebrano la festa raksha bandhan che evoca la lotta tra il bene e il male. Di settembre, il trenta, si celebra il rosh ha-shana, capodanno ebraico. Dopo dieci giorni, che debbono essere di pentimento e di buone azioni, il giorno del kippur (nove ottobre) è vissuto come il momento più toccante dell’anno. È il giorno celebrativo dell’espiazione. Dopo un rigoroso digiuno, alla sera si accendono i lumi e la festa si conclude con una cena.
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Arnaldo Nesti Fig. 2: Benares, il bagno nel fiume Gange
Il quattordici è la festa delle capanne, il succoth, per ricordare l’epopea del viaggio nel deserto, del cammino verso la terra promessa. Il ventisei ricorre una delle più significative feste indiane diwali, la festa delle luci. Le varie luci vogliono essere segno di gratitudine al cielo. Fino al medioevo, nelle terre abitate dai Celti il primo novembre si festeggiava il capodanno. I Franchi vollero cristianizzare questa festa istituendo la ricorrenza di ognissanti. È noto che nel calendario cristiano ogni giorno è dedicato alla commemorazione di un santo specifico. Con ognissanti si vogliono onorare tutti i ‘testimoni
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della fede’ cristiana, ma le modalità celebrative sono variabili. Ad esempio gli Indios dello Yucatàn convertiti al cristianesimo, oggi celebrano la festa con degli aquiloni che evocano i dischi solari dei Maya loro antenati. Il ventisette inizia il tempo di ramadan. L’otto dicembre è, per il mondo cattolico, la festa dell’Immacolata Concezione, dogma proclamato nel 1854 da papa Pio IX. Il venticinque è la festa di natale. Per il mondo islamico il ventidue è festività di laylatal-qadr cioè la notte del destino e il ventisette aid el-fitr, la piccola festa della rottura del digiuno, coincidente con la fine di ramadan. Entrambe ricorrono per la seconda volta nell’anno 2000 perché l’anno islamico, formato da dodici mesi lunari, è più corto di undici giorni rispetto all’anno solare (di dodici se bisestile). 2. I luoghi frastagliati delle religioni 2.1. Dalla Siria a Gerusalemme, da Roma a Benares La Siria è un paese culturalmente ibrido che ha tenuto la porta aperta a diverse credenze religiose, con tutte le conseguenze culturali che ne discendono. Molti sono i segni della presenza cristiana nelle diverse regioni dell’oriente bizantino, dove si sono fuse con successive tradizioni locali, prime fra tutte quelle islamiche. Questi incontri ci portano ad affrontare un problema culturale attuale quant’altri mai, quello del rapporto fra cristianesimo e islam. Sono oltre trecento le ‘città morte’, villaggi di epoca tardo romana o bizantina abbandonati a seguito della conquista musulmana o dei terremoti, talvolta immerse nel verde intenso degli ulivi, talvolta isolate sui brulli altipiani inospitali. Stanno lì a ricordarcelo, meglio di tante parole, i due luoghi di culto di Serjilla, in mezzo ad un deserto pietroso, l’uno trasformato in moschea e l’altro lasciato alla cristianità anche dopo la presa da parte degli arabi.
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Che dire di Gerusalemme? Città santa per le tre religioni monoteistiche: cristiana, musulmana ed ebraica. Gerusalemme avrebbe dovuto essere, secondo il piano d’azione adottato dall’ONU nel 1947, un corpo separato al fine di garantire e tutelare gli eccezionali interessi spirituali e religiosi presenti nella città e ‘promuovere la cooperazione fra tutti gli abitanti’, sia dello Stato ebraico, sia di quello arabo-palestinese, con un regime internazionale speciale. Avrebbe dovuta essere amministrata dalle Nazioni Unite, tramite il loro consiglio di tutela, con un governatore non cittadino dei due stati, responsabile dinanzi al consiglio; smilitarizzata, ma inclusa nella prevista ‘unione economica’ della Palestina, con garanzia di libera circolazione. Una giornata trascorsa a Gerusalemme, e non dico della drammatica situazione che vede contrapposti ebrei e palestinesi, pone di fronte a una quantità di riti, gesti, abbigliamenti, simboli, libri diversificati che esigono di essere attentamente indagati all’interno delle distinte realtà religiose, sapendosi districare fra quanto è specifico, esclusivo di un particolare gruppo e quanto è comune, appartenente al patrimonio condiviso a livello collettivo. Il venerdì sera, al tramonto del sole entra lo shabbat, in molte case ebraiche si accendono le candele e non si deve più lavorare fino alla sera seguente. Nel centro moderno però, a Gerusalemme come a Tel Aviv, per le strade, nei locali pubblici, dopo cena pochi portano la kippah rituale. Durante il giorno, ci viene ricordato di essere in Israele dal fatto che non pochi gruppi di studenti, ragazzi e ragazze, camminano con armi più grandi di loro. Muovendoci dal Muro del Pianto alla grande moschea di Omar, al Santo Sepolcro, si intrecciano ebrei, islamici e cristiani dalle differenti appartenenze. Gli haredim ovvero ‘i timorati di Dio’, con le palandrane nere e i capelli riccioluti, sono l’avanguardia visibile di un giudaismo religioso variamente suddiviso.
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‘Figlie di Israele, la Torah prescrive che vestiate in modo decoroso’ ammonisce un manifesto ricco di rigide prescrizioni e affisso sui muri di Mea Shearim, il quartiere ultra-ortodosso della città santa. Ombelico del mondo e terra di apocalisse, luogo di pace e di fanatismo, di santità e di persecuzione, qui convivono duramente tre grandi religioni monoteiste. La Gerusalemme sconosciuta la scopri nei piccoli monasteri greci-ortodossi, nei retrobottega dei negozi, nelle iscrizioni incise nel mercato crociato, nelle porte murate, nelle enormi cisterne sotterranee, nelle leggende medievali, nelle vecchie guide di viaggi che si collezionano da anni. Proprio a Gerusalemme, non va trascurato il singolare percorso della differenza che unisce Yad Vashem, luogo della memoria della Shoàh ebraica, alla cattedrale di San Giacomo, cuore religioso e identitario degli armeni di Israele che evoca appunto l’‘olocausto dimenticato’ del popolo armeno, avvenuto nel 1915. Allora un milione e mezzo di armeni furono sterminati dai turchi per aver rivendicato l’indipendenza politica insieme alla propria identità culturale e religiosa. Molti dei sopravvissuti fuggirono a piedi sino alla Giordania dove furono accolti da re Abdullah. Una parte di loro proseguirono fino a Gerusalemme ed oggi la locale comunità armena è l’erede dei sopravvissuti a tale tragico evento. Emblematica, peraltro, è la vita dei grandi monasteri tradizionali in Terra Santa come nelle zone ove sono sorti fin dai primi secoli cristiani. Si pensi al monastero copto di Sant’Antonio alle pendici del Gebel al Galala, una montagna del deserto egiziano orientale a venti chilometri dal Mar Rosso, all’altezza di Zafarana. Questo, come quasi tutti i monasteri del deserto egiziano, ha l’aspetto di un’affascinante cittadella sahariana fortificata, con alte mura di cinta color ocra, torri di difesa e una serie di costruzioni che ripetono all’infinito e con innumerevoli varianti la primitiva forma medio-orientale del cubo sormontato dalla semisfera. A lungo molti accorrevano in
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Egitto non per la meraviglia delle piramidi, ma per incontrare chi aveva fatto della rinuncia e della solitudine l’unica risposta al messaggio evangelico. Qui, a partire dal terzo secolo dopo Cristo si rifugiavano i monaci che avevano rifiutato la vita corrotta delle città dell’impero romano. Qui è nata e si è sviluppata una delle forme della spirtualità cristiana del deserto. Il viaggio nelle città o nei luoghi santi permette di trovarsi immersi all’interno dei differenziati mondi religiosi, evoca il pellegrinaggio. Storicamente farsi pellegrino non ha significato semplicemente mettersi sulla strada. Era una sorta di morte civile, per alcuni solamente temporanea, per altri definitiva. Il pellegrino era un viandante di Dio, separato dal mondo e come tale doveva essere riconosciuto e rispettato fin dalla divisa che avrebbe indossato. Si chiamava ‘palmiere’ se pellegrino in terra santa o jaquot se pellegrino al santuario galiziano di Santiago di Compostella o ‘romeo’ se andava a Roma. La bisaccia, a tracolla o appesa alla corda legata in vita, stava a significare che il pellegrino, distaccato da ogni bene terreno, doveva essere pronto a dare e a ricevere. Il pellegrinaggio nel tempo ha avuto una sua evoluzione. Si pensi alla ‘romeria’ di devozione alla ‘Blanca Palma’ di Nostra Signora del Rocìo che si svolge nel fine settimana di pentecoste in un piccolo villaggio a 60 chilometri da Siviglia. La carovana che si muove per raggiungere a tappe il rocìo si apre con il carro argentato tirato da una coppia di buoi che portano il sinpecado, lo stendardo simbolo di ogni confraternita che partecipa all’evento. Dietro il carro si snoda un interminabile corteo. Altro è l’itinerario di un pellegrinaggio ‘storico’ a Roma che si snoda, ad esempio, fra le basiliche di Santa Maria in Trastevere, San Bartolomeo all’isola, Santa Cecilia e le chiese di San Benedetto in Piscinula, San Francesco a Ripa, Sant’Egidio e della Santissima Trinità dei Pellegrini. Ricorrono i nomi di grandi santi legati ai luoghi del pellegrinaggio: gli apostoli Paolo e Bartolomeo, i martiri
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Callisto e Cecilia, San Benedetto e papa san Gregorio Magno, Egidio e Adalberto e poi ancora Francesco d’Assisi, Filippo Neri. La stessa Roma, centro della cristianità, presenta un volto profondamente articolato proprio di una città pluralista. Oggi, ogni dieci cristiani presenti, sei sono cattolici, due protestanti e due ortodossi. La pratica religiosa dei cattolici è bassa. Gli ortodossi vengono nella stragrande maggioranza dai paesi dell’est. I musulmani, pari al 20% degli immigrati a Roma, vengono almeno per un terzo dall’Africa del nord. Per un terzo dai paesi dell’Africa del sud e per un altro terzo dall’Asia specialmente dal subcontinente indiano. A Roma sono rappresentati anche l’induismo e il buddhismo. Gli ebrei immigrati sono meno di 1000 e si aggiungono ai 15.000 italiani iscritti alla comunità ebraica di Roma. Gli immigrati di religione ebraica si incontrano in cinque luoghi di preghiera dove si può essere seguaci di rito sefardita o di quello ashkenazita. Altra è l’immagine di Benares, la cittadina di Shiva per eccellenza. Lungo le rive del Gange si raccolgono i pellegrini provenienti da ogni parte. Tali e tante sono le prerogative di Shiva e diversificate le sue reincarnazioni, che è legittimo credere che nella ‘città della luce’, emblema dell’inestricabile crogiolo etnico-linguistico-religioso dell’intera India, ci sia spazio per ogni genere di credo e di rito. A conferma della capacità hindu di assorbire e metabolizzare il diverso, i buddhisti fra gli altri sono indotti a prendere parte alla vita del fiume. Sul grande fiume si prega, si rinnova la fede. Alla domanda perché ci si bagni in un fiume così sporco, dove finiscono anche i corpi cremati, non sono rare risposte come questa: «Se mi bagno nel Gange? Certo che sì. Ogni mattina veniamo tutti: mamma e papà, nonni e fratelli. È sporco? Sì, ma è il fiume sacro. Ti fa male se credi che ti faccia male. Se invece pensi che ti faccia bene, fa bene». Il contatto fisico con il corpo del Gange ha il magico effetto di trasformare la natura del devoto. Con il «procedimento alchemico di purificazione e di trasmutazione, il metallo vile
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della vita terrena viene sublimato; egli diventa una personificazione dell’essenza divina del regno eterno nel più alto dei cieli». Altri riti si consumano sulle rive del fiume sacro, rievocando usanze e pratiche lontane: «Alle dieci di mattina –racconta Buldrini (Buldrini 1999)– la pira funeraria è già pronta. I tronchi più grossi, in basso, e quelli più leggeri, alla sommità, formano un basamento quadrato, un po’ più largo del solito. Roop Kanwar è una giovane donna rajasthana. Appartiene alla casta guerriera dei Rajput. Due occhi grandi e neri le illuminano il volto. Ha diciotto anni. È sposata da otto mesi. È vedova da poche ore. Alla periferia di Deorala, un grosso borgo del Rajasthan, una processione di soli uomini porta a spalla il corpo del marito [...]. Dopo la disperazione iniziale, Roop Kanwar adesso è serena. Si è lavata, si è pettinata con cura e ha indossato il sari trapuntato d’oro del giorno delle nozze. Un’amica le ha decorato le mani col mehndi, una tinta marrone. La suocera le ha segnato la fronte con la polvere color rosso vermiglio. Sono quasi le undici e Roop si unisce al corteo funebre del marito. Nel luogo della cremazione sono accorse più di quattromila persone. Il morto viene adagiato sulla pira: ma tutti gli occhi sono puntati su di lei. Roop Kanwar si fa largo tra la folla. Sale sulla catasta di legna. Prende in grembo il corpo del marito avvolto in un sudario bianco. Con una mano gli sorregge la testa; nell’altra tiene una noce di cocco in offerta votiva. Qualcuno aggiunge altra legna [...] Pushpendra Singh Sekhawat, il cognato di quindici anni, si avvicina alla pira con una torcia accesa. Le fiamme guizzano da tutte le parti. Il busto di Roop Kanwar si piega in avanti, quasi ad abbracciare il marito. Poi l’orrendo fuoco consuma i due corpi uniti per l’eternità. ‘Sati mata ki jai!’, evviva la madre Sati, gridano all’unisono quattromila bocche. L’aria è pervasa dalle note dei kirtan, i canti religiosi. ‘Sati mata ki jai!’ ruggisce la folla. Alcune donne piangono istericamente. I giornalisti vengono guardati in cagnesco. Chiedo ad alcune donne il perché di tanta devozione. ‘Nostro marito è il nostro Dio.
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Fig. 3: La Mecca, veduta della grande Moschea con la Kasbah
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Quando se ne va è meglio morire con lui’, rispondono. È l’alba di un recente sedici settembre, alcuni giorni dopo. I fratelli di Roop Kanwar portano in processione il chunri, un velo fittamente trapuntato d’oro (è costato 4.100 rupie), nel luogo dove la sorella si è immolata. Il velo viene fatto ardere sulle braci ancora accese. Poi, dopo tredici giorni, il fuoco verrà ‘placato’ con il latte misto alla ganga jal, l’acqua sacra del Gange». Alla colossale sporcizia di Benares si contrappone Sarnath una delle capitali internazionali della comunità buddhista. Essa ha l’aspetto di un ordinato ed elegante villaggio di campagna. Fu qui che il principe Siddharta operò il ripudio del mondo, concentrando tutte le sue forze per sradicare il dolore che, a suo parere, nasce dalla continua sete dell’io, destinata peraltro al permanente senso di frustrazione. Una volta raggiunta l’attesa illuminazione, per rompere la ripetitiva catena illusione-delusione, nel parco dei cervi di Sarnath ad alcuni discepoli venne illustrato per la prima volta ‘l’ottuplice sentiero’ o ‘via di mezzo’: retta opinione, proposito, parola, azione, meditazione (Shinohara, Schopen 1991). Qui si riassumono le diverse anime, anche se molto distanti, che il buddhismo andrà prendendo. Oggi per le strade e nei templi, si succedono le vesti rosso-brune dei monaci tibetani e quelle rosa pallido dei religiosi di Sri-Lanka, si alternano riti barocchi della corrente mahayana a quelli sobri della tradizione hinayana. 2.2. Dalle regioni del Tibet a Bali La regione del Tibet, a nord-est, separa l’area culturale indiana da quella cinese: si tratta di un vastissimo altopiano poco popolato (1.200.000 kmq), più di 4000 metri l’altitudine media, circa tredici milioni gli abitanti, delimitato dalle catene del Kunlun e dell’Himalaya. Sul versante indiano della catena himalayana troviamo il Nepal, paese grossomodo ampio la metà dell’Italia con una popolazione di sedici milioni e mezzo di persone. Il territorio che nel 1947, con la fine dell’impero bri-
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tannico, si è pacificamente staccato dalla Federazione indiana a cui era legato, proclamando la sua indipendenza e creando una monarchia costituzionale dal 1951. Il Nepal si è dichiarato neutrale in politica estera e convive pacificamente con India e Cina, i suoi grandi vicini. Non altrettanto fortunato è stato il Tibet, sul versante settentrionale del ‘tetto del mondo’: retto da una teocrazia monastica di religione buddhista, che ha al suo vertice il Dalai Lama. Nel 1951 il Paese è stato invaso dalla Cina, che ne ha fatto una sua regione, solo formalmente autonoma, e ha stroncato in un bagno di sangue la rivolta del 1959. Alla repressione militare sono seguiti anni ancora più difficili, nei quali la cultura tibetana ha rischiato di scomparire. L’obiettivo dei cinesi era di annientare la religione e la cultura del Tibet al fine di introdurre nel paese un regime laico e marxista. Con la dinamite hanno disintegrato 6.254 monasteri e templi, l’80% durante il periodo delle cosiddette riforme democratiche (prima del 1966), il resto durante gli anni delle Guardie Rosse di Mao, tra il ‘66 e il ‘76. Conventi e luoghi di culto adesso sono poche decine. A Xiganze (seconda città del Tibet, con quattromila abitanti), stando al racconto di un religioso di 68 anni, ‘ci hanno distrutto quattro templi e da 4.000 monaci siamo rimasti in 700. Io mi sono fatto dieci anni di lavori forzati per costruire l’aeroporto militare dei cinesi’. I dati e le testimonianze di questa prima ondata repressiva fanno pensare a un’invasione barbarica: un milione e 200 mila i morti nel corso della rivolta del 1959; migliaia e migliaia i tibetani incarcerati per dieci o venti anni, il 10% della popolazione secondo stime occidentali; la quasi totalità dei monasteri saccheggiati o distrutti. Oggi qualcosa è cambiato. C’è chi ha avvertito un lieve cambiamento di tendenza nella politica di Pechino verso il Tibet. È stato restaurato il monastero-palazzo di Potala, il simbolo teocratico del paese nel cuore tumultuoso di Lhasa, e via via sono stati rimessi in piedi i luoghi di culto e di preghiera demoliti dalle Guardie Rosse. È presto per stabilire se sia venuto il momento di passare dal bastone
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alla carota e i meno ingenui suggeriscono che lo scopo delle ricostruzioni e dei restauri sia quello di incoraggiare il turismo. ‘In realtà l’anima del Tibet sta scomparendo’, dice serenamente il Dalai Lama, insignito nel 1989 del premio Nobel per la pace (con grande irritazione del governo cinese) per la sua lotta non violenta (Goodman 1994). Dal suo esilio a Dharamsala, il Dalai Lama, capo di un governo che nessuno al mondo riconosce ufficialmente, continua ad agitare la fiaccola di un ideale che rimane la sola ragione della sua esistenza, da quando nel ‘59 i cinesi lo cacciarono via da Lhasa. Quando recentemente gli è stato chiesto se la sua gente ha tratto qualche vantaggio dall’emancipazione economica della Repubblica Popolare Cinese, ha risposto col disarmante sorriso di sempre: «Vantaggi? Oh, non troppi. È stato fatto un sondaggio sui 13.000 proprietari di negozi che si trovano in questo momento a Lhasa [...] solo 300 di loro sono tibetani, il resto cinesi. Noi tibetani stiamo diventando una minoranza nel nostro stesso paese. Ci sono sette milioni e mezzo di cinesi contro sei milioni di tibetani [...]. Con la continua violazione dei diritti umani e coi danni recenti all’ambiente, stiamo subendo da anni una specie di genocidio culturale» (Dalai Lama, Rowell, 1990). Con il turismo di massa i pellegrinaggi cambiano profilo anche a Lhasa nel Tibet, sul tetto delle nevi. Può capitare che una fiumana di pellegrini percorra in senso orario, come vuole la liturgia, l’itinerario del grande palazzo del Potala e che un altro lo percorra invece in senso anti-orario, provocando un ingorgo e quindi l’immobilità assoluta. Solo grazie alla presenza dei monaci i gruppi riprendono il cammino faticando per arrivare in una sacra cappella dove bisogna chinarsi fino a porre il capo sotto la statua di un bodhisattva che elargisce al devoto la benedizione che un monaco per lui invoca a voce alta. Per taluni invoca la benedizione della longevità, per altri quella della grande pace. Però questo Tibet non è più quello di cui parlava Tucci dove, quando calava la notte, sotto le tende i pellegrini discutevano di reli-
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gione. Anche qui è arrivato il dio-denaro. Sarà questa la divinità che spodesterà Buddha nel Tibet sempre più kitsch dei cinesi? Procedendo invece verso est lungo il golfo del Bengala, incontriamo il Mjahmar (più esattamente il Mianma), conosciuto in occidente con il nome di Birmania. Nell’Ottocento, gli inglesi hanno occupato e annesso questa regione all’impero indiano. Si tratta di un’area a prevalenza buddhista, ma punto d’incontro delle civiltà indiana, cinese e malese. È il più grande paese del sud est asiatico, più esteso dei territori dell’Inghilterra e della Francia insieme. Rangoon è una città chiazzata di molto verde vegetale e d’azzurro d’acque lacustri e fluviali. Anche l’albergo, che dà su un minuscolo lago è protetto da un bosco tropicale ove si impara a riconoscere i giganteschi alberi del teak dalle grandi foglie oblunghe. E verdissimi sono anche i tegoli della galleria a padiglioni ascendenti, disposti a rampa sulla gradinata d’accesso alla terrazza dello Shwe Dagon. Lo Shwe Dagon è il più famoso santuario buddhista del sud-est asiatico, meta d’assidui pellegrinaggi un complesso architettonico con al centro un immenso stupa campaniforme la cui cupola lucente d’oro zecchino si protende nel cielo assottigliandosi in guglia. È circondato da una selva di stupe minori e di cappelle e pagode in muratura e in legno, di vari stili: trionfi d’oro e di rosso interpolati di bruno. Nella folla multirazziale, i devoti birmani e i monaci avvolti in toghe di svariate sfumature d’ocra si mischiano con i pellegrini d’Asia e con i turisti d’Europa e d’America (Terzani 1992: 286-291). Il Giappone è per tradizione un paese scintoista. Il buddhismo vi è stato introdotto nel secolo VI. La sua influenza sulla società giapponese è stata molto forte, tanto che in alcuni periodi storici è stato accolto come religione ufficiale dello stato. L’influenza dello shintoismo non è venuta mai meno, anche se nel corso dei secoli ci sono stati dei tentativi di fusione fra shintoismo e buddhismo. La fine della seconda guerra mondiale coincide però con un nuovo corso della religiosità. Dopo la guerra infat-
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ti la nuova costituzione prevede una netta separazione tra politica e religione e assicura la libertà di culto. Per questo sono apparse nuove religioni alcune delle quali hanno come base lo shintoismo e altre hanno stretti legami con le ‘sette’ buddhiste. La gran parte della popolazione si rivolge ai ministri del culto per solennizzare i momenti importanti della vita (nascite, morti, ecc.). Questo fatto si traduce nella contemporanea adesione di molti giapponesi sia allo shintoismo sia al buddhismo (Brocchieri 1999). La molteplicità delle religioni non si presenta come contemporanea esistenza di gruppi di diversa appartenenza, quanto come molteplicità di atteggiamenti religiosi esistenti nella coscienza di singole persone. È molto comune trovare persone seguaci di due o più religioni. Molte tradizioni religiose convivono le une con le altre, anche se sono di derivazione diversa e non si escludono a vicenda perché ogni culto ha particolari funzioni; ci si rivolge a un tempio buddhista per i funerali, oppure al sacerdote shintoista per placare gli spiriti della natura e per la purificazione. Il ritualismo, nell’espressione orale e dei gesti, è un altro aspetto caratteristico della cultura giapponese. L’esecuzione formale che si manifesta nel rito si riproduce anche nel comportamento quotidiano. Le formule di rispetto, nella conversazione, così come gli inchini, ricordano, a chi parla e agisce, e manifestano all’esterno, il rispetto delle gerarchie sociali e quindi l’adesione alla struttura sociale. Il valore di un rito deriva da come esso è rappresentato e il suo contenuto è nella sua forma. La comunicazione emotiva trasmessa da un rito, nella cultura giapponese, si serve di una elaborazione e di una mediazione estetica per ottenere la sua efficacia simbolica. Come sopra accennato, l’adesione al rito religioso è facilmente collegabile all’importanza dell’etichetta formale e rigida che è visibile nei gesti e nelle espressioni. La formalità degli atteggiamenti appare derivare da una profonda ricerca di armonia che si delinea attraverso il sistema di regole condivise dalla società. Nel sud-est asiatico, oltre lo stretto della Malacca si estende l’Indonesia, poco meno di due milioni di chilome-
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tri quadrati con oltre 180 milioni di abitanti, il più popoloso paese del mondo islamico. Comprende un festone di isole disposte da ovest a est lungo la cintura dei vulcani del Pacifico –una settantina quelli attivi nel paese– con le grandi e le piccole isole della Sonda, parte della Nuova Guinea, l’arcipelago delle Molucche e una miriade di isolette minori. La più nota è Bali, poco a sud di Giava, rinomata mèta del turismo internazionale per il clima e le splendide spiagge di sabbia dorata ombreggiate dalle palme, lungo la costa meridionale. Ma è il suo profumo, più che le sue indiscutibili bellezze naturali, a colpire sulle prime il turista. Quello che salta agli occhi immediatamente sono le costruzioni, a prima vista case, in realtà templi. Decine, centinaia, migliaia di templi a picco sul mare, nei campi coltivati o nei recinti familiari, bucano il manto di palme che ricopre l’isola quasi interamente. Bali, terra di rara bellezza e cultura, inizia a scoprire i suoi molti tesori. La religione ufficiale è l’induismo. Gli dei sono per terra, sui bordi delle piscine, sulla testa delle statue quasi sempre vestite, sugli altari, sulle macchine, all’entrata dei negozi e in ogni dove. Vanno placati con milioni di cestini di fiori e piccoli frutti, uniti a un bastoncino d’incenso. L’intensa attività spirituale dei balinesi è fatta quindi da un lato per proteggersi e dall’altro per onorare divinità invisibili atte a influenzare la vita del singolo e della comunità di appartenenza. Si spiega così una prima causa delle tantissime cerimonie rituali che accompagnano la vita dell’hindu balinese. I giorni propizi per la celebrazione dei rituali sono decisi dagli esperti sacerdoti brahmani che li estraggono con complicati calcoli esoterici e simbolici dai due importanti calendari religiosi: il primo originario hindu, molto simile al nostro occidentale, che segue le fasi solari e lunari, mentre il secondo un calendario ciclico di 210 giorni nel quale un anno è composto di sei mesi, ognuno dei quali è diviso in trentacinque giorni e cinque settimane. La complessità di questi due calendari e il dover ricordare le celebrazioni di tante festività ha fatto sì che rara-
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mente i balinesi contino il numero degli anni, dei giorni, delle ore. È più importante il motivo del fare che non il conto delle volte, così per essi è più naturale ricordare l’evento e il nome della giornata propizia ricorrente ogni sei mesi balinesi, che non una data di nascita o il giorno e l’anno in cui è avvenuto un dato evento. Resta invece ben ferma nella mente la cerimonia sempre piena di bei ricordi: l’incontro di tanta gente, i cibi speciali preparati insieme a parenti e amici, gli spettacoli di danze e musiche che accompagnano i sacrifici, le processioni, le visite nei templi decorati a festa. Tuttavia, dopo quanto è successo il 12 ottobre 2002 ad opera dell’organizzazione integralista indonesiana Jemaah Islamiyah –legata ad Al-Qaeda–, anche qui quello che non era mai accaduto è divenuto improvvisamente ancora possibile. 2.3. Dalle Maldive all’Africa È opportuno soffermarsi sul rapporto fra islam e quotidianità prendendo spunto da un soggiorno alle Maldive. L’intera popolazione è qui di religione islamica sunnita ancorata ai cinque precetti fondamentali: la professìone di fede (shahada), la preghiera rituale (salat), la beneficenza o elemosina (zakat), il digiuno nel mese del ramadam (sawan), il pellegrinaggio alla Mecca (hagg). I precetti reIigiosi sono rispettati rigorosamente. Quando il muezzin, per cinque volte al giorno, chiama alla preghiera si ferma tutto per quindici minuti; dai negozi agli uffici, tutti sospendono le loro attività. L’islam vieta l’alcool ai fedeli (ai turisti no). La legge locale vieta addirittura il lavoro di barman, perciò i villaggi sono ricorsi a mano d’opera cingalese e indiana. Per visitare la capitale e gli altri villaggi locali bisogna indossare abiti adeguati, vietatissimo il topless e il nudismo anche nei villaggi. Durante il ramadam (che cambia periodo di anno in anno), il precetto del digiuno viene rispettato rigorosamente, dall’alba al tramonto. La fine del ramadam è la festa
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religiosa più importante dove vengono scambiati dolci e doni per tre giorni. In molti villaggi persistono credenze preislamiche che portano la popolazione a credere a degli spiriti del male (jinnis), specialmente per eventi che non sono spiegabili da parte della cultura e della religione. Per combattere questi spiriti ci sono i kakkem, stregoni che hanno il potere di combatterli con preghiere coraniche e pozioni magiche dette fandita. Questi stregoni compongono anche pozioni d’amore e filtri per sciogliere dei matrimoni. Il riconoscimento della varietà geografica e della diffusione storica dell’islam evidenzia il fatto che la pratica delle comunità musulmane non è né identica né statica. Ogni comunità ha la propria storia e per questo è opportuno periodicizzare e contestualizzare localmente i discorsi musulmani così come è necessario analizzarne le ampie analogie. Le vite reali delle donne e degli uomini nelle società musulmane mostrano non solo delle somiglianze, ma anche enormi differenze tra un periodo e l’altro, tra diverse comunità e anche all’interno della stessa società in momenti diversi. Per esempio in molti paesi dell’Africa e dell’Asia, (come in Egitto e in Nigeria), il passato ci presenta donne di élites che furono studiose riconosciute e stimate. Tuttavia, spesso, nel mondo contemporaneo, la scolarizzazione delle bambine incontra forti resistenze e si scontra con l’argomento che le ragazze musulmane devono sposarsi presto e non perdere tempo a studiare. Il divorzio e la poligamia sono fenomeni frequenti e non straordinari nelle comunità musulmane della Nigeria; generalmente fonte di imbarazzo e vergogna in India e Bangladesh. Analogamente, la clausura domestica delle donne è una pratica generalizzata in Bangladesh, nel nord della Nigeria, in Mombasa, Kenya e nel nord del Sudan, dove viene vista come una pratica intrinseca all’islam. Eppure non è quasi praticata in Indonesia, Senegal, Gambia, Burkina Faso e Niger.
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Le stesse forme di clausura e gli strati sociali di uomini e donne coinvolti nella pratica della clausura domestica sia in Nigeria che in Bangladesh sono molto cambiati negli ultimi cinquanta o sessanta anni per ragioni e in modi diversi (El Solh, Fahzi, Masro 1994; Imam). È evidente che il mero riferimento alla ‘clausura islamica’ quando si parla di sessualità rischia di confondere più che chiarire il problema. Al di là delle distinte maniere di credere, in Africa è lo spirito religioso ciò che anima gli individui legandoli alle forze invisibili, agli altri esseri umani. Sono i legami e le relazioni che caratterizzano, in un complesso sistema di credenze, il rapporto dell’individuo con la divinità, mediato dagli spiriti e dagli antenati, in modo da stabilire connessioni armoniche tra mondo dei vivi, regno dei morti, domini della natura. L’uomo è l’unico essere vivente al quale Dio ha rivelato l’uso della parola, delle arti e delle tecniche per abitare la terra. Il rapporto con questo Dio unico, creatore dell’universo, ma percepito come lontano e inaccessibile, viene mediato da una numerosa schiera di spiriti, portatori del bene ma anche del male, a cui ci si rivolge direttamente o attraverso l’intermediazione degli antenati. Sono questi ultimi, oggetto di culto e venerazione, a proteggere i discendenti (Badran 1995). La popolazione senegalese, secondo le statistiche, è per il 92% musulmana, mentre i cattolici non arrivano al 6%. Non va però dimenticato che, oltre a coloro che si dichiarano apertamente seguaci di qualche religione animista (2% circa), molti senegalesi che si professano musulmani o cattolici sono legati in realtà a forme di religiosità tradizionale. Esistono infatti fenomeni di sincretismo e di coesistenza delle religioni tradizionali con le religioni rivelate: si recuperano alcuni aspetti del passato per non perdere l’identità del gruppo, per non dimenticare la forza dei legami, il senso della continuità. Tutte le concezioni religiose sono in qualche modo alimentate dall’idea di un ‘soffio vitale’, di un’‘energia’ impressa da Dio, creatore del mondo, a tutte le cose del-
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l’universo. Questa forza è presente negli uomini come negli animali, ma solo i primi possono agire su di essa, grazie alla conoscenza dei riti e delle tecniche rivelate da Dio tramite il dono della ‘parola’. Ma l’apprendimento delle arti magiche non è consentito a tutti e avviene gradualmente. I sacerdoti delle religioni animiste, che sono diffuse per lo più tra le etnie Lébou, Bassari e Diola, coinvolgono le forze della natura verso scopi precisi, tramite riti incomprensibili per la maggior parte dei fedeli. Hanno anche il potere di trasferire l’energia vitale su oggetti inanimati come maschere e amuleti, in modo che essa non venga mai, pericolosamente, dispersa (Egizu 1984; Somé 1999; Isizah). Soffermiamoci a osservare ciò che si evince da un viaggio vissuto in tre piccoli paesi che si affacciano sull’oceano Atlantico. Si pensi al Togo con le belle spiagge e lagune della capitale Lomè, le splendide e lussureggianti foreste di Atakpamè, il territorio dei Bassari a nord di Kara. Il Benin, l’antico regno del Dahomey con la sua capitale Abomey, ma anche l’incanto delle sue spiagge, la varietà del paesaggio e la ricchezza di flora e fauna, non possono fare altro che attrarre il curioso viaggiatore. Quidah è uno dei porti oggi territorio del Benin. Reso tristemente noto dalla tratta dei negri, sembra che vi regni un’atmosfera strana, come se i fantasmi dei negrieri e della loro ‘merce’ si aggirassero per le strette strade. In questa area alla fine del XVII secolo mercanti portoghesi, inglesi, danesi e francesi, specializzati nel commercio sulla rotta a triangolo Europa-Africa-Caraibi, istallarono degli empori fortificati proprio a Quidah, allora sotto il controllo del regno di Abomey. I capi locali andavano a cercare lontano, nell’interno, il legno d’ebano che le loro donne si incaricavano di vendere agli Europei, trattando con abilità e fermezza. Gli schiavi venivano marchiati con il ferro rovente e ammassati in locali bui ed angusti prima di venire ammucchiati nelle stive delle navi in partenza. Da questo tratto di costa dell’Africa nera fu anche esportata la religione che questi uomini professavano e
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Fig. 4: Roma, Città del Vaticano. Veduta aerea della Basilica di San Pietro
che ancora oggi impregna profondamente la vita quotidiana della maggior parte degli abitanti. Si ritrovano riti propri di queste religioni, a volte appena modificati, nei culti praticati dalle comunità nere che vivono nell’America meridionale e nelle Antille. Il dogma di base è la credenza in un essere supremo, una forza vitale che può conferire a determinate cose, al di là delle apparenze sensibili, una potenza tutta particolare. Tra questo essere supremo e gli uomini si collocano una quantità di divinità intermediarie chiamate Vodum, da cui il nome ‘Vodu’ o ‘Vudu’. Queste vengono onorate ovunque con il ‘legha’, monticelli di terra più o meno grandi, spesso arrossati dalle macchie di sangue degli animali sacrificati. I Vodum sono oggetto di un culto che
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in molti casi si manifesta con riti magici che portano all’estasi e alla liberazione dello spirito. Visitare il mercato dei feticci a Be, un sobborgo di Lomè in Togo, è il modo migliore per iniziare a conoscere questa religione dove gli stregoni e gli indovini hanno un ruolo assai importante nella vita di tutti i giorni. Sulle loro strane bancarelle si possono acquistare strumenti musicali che fanno parte dell’attrezzatura degli stregoni; rozze statuette in legno per il culto dei gemelli onorati nella religione; cami (conchiglie) e pezzetti di quarzo forati nel mezzo, chiaimni ‘pietre di tuono’ un tempo usati come moneta. Piume, teschi di uccelli, peli di animali, ossicini e così via riempiono e imbandiscono questo strano mercato di feticci, forse unico al mondo. Merita un’attenzione, in Africa, la situazione libica. È bello perdersi nell’intricato groviglio di strade e porticati della Medina. Nessuno infastidisce gli europei di passaggio, i bambini non chiedono l’elemosina o un cadeau. Non ci sono grappoli di venditori che cercano di rifilare paccottiglia ai turisti. Al mercato non esiste l’estenuante rito della contrattazione sul prezzo della merce, come avviene invece nei suk di Marrakech, Tunisi o Sharm el-Sheikh. I commercianti sono cordiali, garbati, non attendono sulla soglia dei negozi gli stranieri da spolpare. L’islam resta religione di Stato, oltre che pilastro sociale e giuridico della società. Il suo colore, il verde, viene usato per dipingere i portoni e le persiane di ogni edificio. Non fa eccezione l’antica moschea di al-Naqah, incastrata nel cuore del quartiere vecchio di Tripoli. ‘È la famosa Moschea della Cammella’, dice Ibraim Abdullah, l’anziano custode. ‘È stata costruita da Omar, il suocero del Profeta Maometto. Proveniva dall’Egitto e la sua cammella decise di fermarsi proprio in questo punto senza voler più ripartire. Per Omar era un segno evidente della volontà di Allah e così ordinò la costruzione di questo luogo di culto’. Da oltre trent’anni, lbraim custodisce le quattro enormi chiavi che aprono i portoni della
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moschea e della vicina scuola coranica. È un mestiere impegnativo, ma anche prestigioso, quello del custode della moschea. Un mestiere tramandato da generazioni nella famiglia di lbraim. ‘Un tempo, quando il custode era mio nonno, il muezzin saliva sopra il minareto, gridava a squarciagola per richiamare i fedeli alla preghiera’, racconta. ‘Poi, negli anni in cui il custode era mio padre, il muezzin poteva contare su microfoni, amplificatori e altoparlanti’ (Trovato 2001). Oggi il muezzin non c’è più e l’adahan, l’invito alla preghiera, è stato registrato su una musicassetta. 2.4. Dall’Africa nera ad aree latino-americane. Dall’Africa è facile stabilire un ponte con l’America latina, in particolare con aree brasiliane contrassegnate dal ricco patrimonio simbolico del candomblé. A Bahìa il culto diffuso ingloba divinità indigene e santi cattolici, prescinde dal colore della pelle e diventa una religione per tutti. La leggenda vuole che a Salvador de Bahia esistano 365 chiese dedicate ai diversi santi di ogni giorno. Di fatto la religione cattolica non è l’unica professata dalla gente. Il candomblé è presente come eredità degli schiavi neri venuti dall’Africa e corrisponde a differenti riti a seconda delle nazioni di origine (jejé, igexa, ecc.). In tal modo, Jamy è considerato Santa Barbara, Oxalà è il signore di Bonfim, Oxossi è San Giorgio. Gli orixas africani trapiantati in Brasile sono onorati nei riti di candomblé che variano da terreiro a terreiro. Si distinguono tre filoni principali: riti gegé-nagò di originee nigeriana, riti congolesi (inkiss), riti angolani. Esiste poi una varietà brasiliana di candomblé, il rito cabodo fortemente influenzato dai riti angolani. Con la evangelizzazione, gli orixas sono stati sincretizzati e identificati con santi e con angeli del pantheon cristiano. Gli africani e i loro discendenti nella diaspora brasiliana sono riusciti a mantenere le loro pratiche religiose, nonostante tutte le limitazioni e le repressioni del perio-
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do della schiavitù e anche dopo la liberazione degli schiavi avvenuta nel 1988. Questi culti costituiscono oggi una componente fondamentale della cosiddetta ‘religiosità popolare’ dei gruppi sociali a basso reddito, ma anche tra quelli di livello sociale medio e alto. In un rapido accenno potremmo indicare le seguenti pratiche: il tambor de mina, il batuque, il candomblé e l’umbanda, sparsi su tutto il territorio brasiliano. In questi rituali, gli adepti cercano soluzioni ai loro problemi concreti di ogni giorno, espressione dell’incessante ricerca di un’armonia tra gli esseri umani e i diversi aspetti della natura. I primi studiosi di queste religioni furono due francesi, Pierre Vergerr e Roger Bastide. Furono loro che mostrarono ai brasiliani le radici negre presenti nella loro cultura. L’africano, segregato dalla propria comunità d’origine, ridotto a schiavo, ricostruì il suo universo di relazioni a partire dalla rottura di continuità delle sue tradizioni africane. I culti presentavano un carattere docile e malleabile nelle diverse situazioni e il dinamismo del sistema africano, trasportato in Brasile, aveva in sé la capacità di favorire lo sviluppo di svariate modalità religiose nelle diverse regioni del paese. La matrice culturale di questi culti è fondamentalmente bandù, ioruba e fon. Dalla prima, quella bantu, ebbe origine il rito ‘angola’. Dalla seconda, la ioruba, i riti keto, alaketi e bosso-alaketo, efà, egungun e il candomblé (Lody 1987). Dalla terza (fon), il jeje di Bahia e il mina del Maranhao e del Parà. Nel periodo coloniale gli schiavi si riunivano in confraternite, come quella di San Benedetto, o quella del Rosario. Lì, sotto il manto della religione ufficiale (il cattolicesimo), hanno potuto conservare le loro tradizioni. Dopo la liberazione degli schiavi, nei primi anni del secolo ventesimo, nacque la religione che da molti fu vista come ‘brasiliana’ per eccellenza: l’umbanda. Alcuni specialisti paragonano l’umbanda e il candomblé a due poli: l’uno rappresenta il Brasile, l’altro l’Africa. L’umbanda, sorta durante il periodo della formazione della società
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urbano-industriale, corrisponderebbe all’integrazione delle pratiche afro-brasiliane nella ‘moderna’ società brasiliana, prendendo in prestito alcuni elementi dallo spiritismo cardechista (movimento che prende le mosse dal pensiero e dalle opere del francese Allan Kardec, vissuto nella prima metà dell’ottocento), dai culti amerindi e da altre tradizioni giunte dall’Oriente. Il candomblé, al contrario, avrebbe il significato opposto, quello di essere la memoria collettiva africana in suolo brasiliano. Esso sarebbe rimasto più puro, più vicino alla matrice originale, conservando la lingua ioruba, mentre nell’umbanda è stato adottato il portoghese. Tali religioni hanno in comune il fatto di essere iniziatiche, cioè di esigere un periodo previo di fomazione perché il fedele impari a controllare il trance e le altre componenti rituali. In esse il trance e l’incorporazione della divinità sono elementi vitali, nei quali avviene l’unione del mondo profano con quello sacro. Nell’umbanda, le persone che frequentano le case di culto possono conversare con le divinità che hanno incorporato, ed esse dànno consigli, informazioni, ricette e aiutano il fedele a ottenere soluzioni a determinati problemi. Nel candomblé, invece, l’unione con la divinità avviene per mezzo di giochi divinatori, soprattutto tramite le conchiglie. In questo processo il fedele conosce il destino a cui è sottoposto e impara come deve comportarsi in merito. La struttura della realtà, che affonda le sue radici nella filosofia bandù, inizia dalla nozione della forza vitale, un principio energetico esistente ovunque, che si concretizza in diverse forme del regno animale, vegetale e minerale. Questa forza vitale può essere controllata, aumentata o diminuita dalle persone che sono capaci di manipolarla a loro favore: è però indispensabile l’uso delle piante, di sacrifici di animali o di altre offerte. Ci sono cerimonie pubbliche, dette ‘feste’, e anche cerimonie segrete, permesse solo agli iniziati. Ogni casa di culto, o terreiro, ha il suo calendario di celebrazioni, preparato con meticolosità dalle sacerdotesse o dai sacerdoti.
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La festa comincia con il ritmo dei tamburi, per consacrare il locale e per richiamare i fedeli e le divinità alla celebrazione. Si suonano i tamburi anzitutto per Exu, la divinità conduttrice della forza vitale, ed essi diventano una specie di motorino d’accensione delle celebrazioni o di qualunque atto propiziatorio. Senza il suo permesso, niente può essere fatto. Si chiede a Exu che apra le porte e spanda la forza divina su ogni cosa. Poi risuonano i tamburi e si fanno danze per le altre entità che formano il pantheon africano: Ogun, Oxossi, Omolu, Oxum, Oxumare, Xango, Iansan, Iemanja, Ossain, Oxalà. Queste pratiche africane, rispetto alle loro radici, hanno sofferto un processo di ‘raffreddamento’. Inizialmente costituivano degli spazi sociali di resistenza al dominio bianco e cristiano. Con l’espansione industriale, nei primi anni di questo secolo, e l’inserimento dei neri e dei loro discendenti nella stratificazione sociale, sono avvenute molte alterazioni: non si parla più la lingua yoruba ma il portoghese; sono stati aboliti i sacrifici di animali; il trance mistico di possessione delle entità africane è sostituito dai medium, che incorporano spiriti, guide o protettori, detti ancestrali amerindi. Le case di culto e i cortili dove si svolgono i riti sono controllati dalle federazioni che danno loro legittimità e dignità. Questi luoghi di culto hanno l’autorizzazione della polizia e funzionano con la dovuta registrazione presso il notaio. C’è stata una separazione della memoria collettiva negro-africana nel processo di rielaborazione dei culti (Amado 1978). Ma i suoi adepti aumentano. Nella grande San Paolo ci sono più di 45.000 luoghi di culto dell’umbanda e quasi tremila del candomblé. Recenti ricerce rivelano che negli ultimi anni c’è stato un processo di ri-africanizzazione di queste religioni: molti luoghi di culto dell’umbanda ricercano la loro radice africana ‘autentica’, eseguono cerimonie per far ritornare gli spiriti degli antenati nei boschi (de Melo Silva 1997). Senza entrare in altre frastagliate realtà, un’altra identità in movimento si ricava venendo a contatto con la
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Santerìa di Cuba. La Regla de Ocha o Santerìa è quel corpo liturgico nato dalla fusione dei culti yoruba con la religione cattolica, in base al culto all’oricha (orisha, ocha, santo). Fu così che gli ‘dèi africani in esilio’ si trasformarono in potenze ‘regnanti’ sui territori dei culti afro-americanì. Intorno ai primi anni del 1900, un altro babalawo di Matanzas, Lorenzo (o Ciriaco) Samà, era preoccupato per la mancanza di unificazione fra i culti yoruba. Insieme a Latuàn (una donna di nazionalità yoruba), egli lavorò quindi per unificare i diversi culti in un singolo corpo liturgico, la Regla de Ocha. Una lettura della Regla de Ocha implica un’attenzione particolare dei lavaggi e delle purificazioni cerimoniali. Il ‘rinfrescare la casa’ ha a Cuba un significato profondo e articolato, essendo questa una operazione fortemente legata a processi di difesa o prevenzione da possibili malefici. Molte sono le piante utilizzate nelle purificazioni di questo tipo. Il pinon botija è molto usato per respingere e neutralizzare gli ndiambos (i malefici). Questo potere del ricino d’inverno si utilizza per lo più per lavare le porte (quando si teme che vi abbiano gettato qualche stregoneria) o per immunizzarle da eventuali malefici. In questo caso è consigliabile aggiungervi salvia, basilico, igname, olio di palma e zenzero; ma se necessario si possono aggiungere alle foglie di pinon anche quelle del fico delle pagode, dell’eupatorio, del trifoglio e molte altre. Il tè del Messico o Chenopodio (Chenopodium ambrosiodes), conosciuto come apaso te, appartiene a Babalù Ayé. Nelle case che sono state purificate con questa pianta se ne lasciano esposti i semi per un intero giorno. Per pulire e spaventare gli spiriti maligni si battono le pareti della casa con i rami del tè del Messico poi, finita questa purificazione, si rovesciano sul pavimento dei secchi d’acqua con chiara d’uovo. Il Chenopodium ambrosiodes (famiglia delle Chenopodiacee, ordine delle Cariofillali) fu importato in Europa dal Messico nel XVII secolo dai Gesuiti per coltivarlo come succedaneo del tè. Si dice inoltre che i Guanci, gli antichi abitatori delle Canarie,
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usassero il Chenopodio per preparare le loro mummie all’eternità (www.meraka.atfreeweb.com/negros). Queste sono alcune delle moltissime purificazioni del mondo cubano, che tuttavia si possono rintracciare anche altrove nel contesto latino-americano. Con questo capitolo si sono scelti solo alcuni dei moltissimi luoghi con l’intento di sottolineare la complessità e le diversità dello scenario religioso. 2.5. Ultima tappa di un viaggio in divenire Per chiudere, ritengo utile sostare in un luogo connesso ad una grande religione ma che si presenta sempre più come un ricco documento del passato: Yadz, ai bordi del deserto iraniano. Yadz, ai bordi del grande deserto iraniano Dasht-e Kevir, è una città sacra per i seguaci della più antica religione monoteistica del mondo. Si trova a 677 chilometri da Teheran, a metà strada tra Isfahaan e Kerman, una città fondata all’epoca della dominazione Sasanide (dal III al VII sec. d.C.). Una città rara in tempo di globalizzazione, che si presenta come un mucchio di ricordi. Qui comunque, il fuoco, simbolo per Zoroastro della purezza della luce divina, arde da secoli senza interruzioni. Oggi vi abitano 12.000 zoroastriani. A trenta chilometri da Yazd, sulla montagna Ciahk, ogni anno per cinque giorni e cinque notti gli zoroastriani si radunano per pregare, celebrare riti e soprattutto per fare festeggiamenti. Ciahk ciahk significa goccia a goccia. La tradizione vuole che la sorgente che sgorga dalla montagna sia fatta delle lacrime di una principessa figlia dell’ultimo re zoroastriano Yazdegerd III. Quando gli arabi nel settimo secolo conquistarono l’Iran e perseguitarono i seguaci di Zoroastro, la principessa arrivò fin qui fuggendo alle soldatesche. L’angelo del bene Ahura Mazda, secondo gli zoroastriani, nell’eterno combattimento fra il bene e il male è destinato a sconfiggere Ariman il suo rivale maligno. La sorte positiva della battaglia implica che gli esseri umani s’impegnino personal-
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mente in essa. Chi si fosse adoperato sarebbe stato poi ricompensato e avrebbe goduto alla fine del tempo il dono dell’immortalità, che avrebbe trascorso in un giardino di delizie. Adesso sono molte le persone arrivate qui da diverse parti del mondo. Migliaia di donne e uomini ogni anno si inerpicano, in fila indiana, sullo stretto, ripido sentiero fino al tempio. La sommità del Ciahk è stata tagliata a terrazze, su ognuna delle quali si riuniscono coloro che provengono da una stessa località. Gli zoroastriani sono ormai poco più di 300.000 nel mondo. La prima diaspora, dopo l’invasione araba, li portò soprattutto in India, dove sono conosciuti ancora come Parsi, e in Cina. Quando lo scià Reza Pahlevi prese il potere nel 1925 diminuì lo stato persecutorio che aveva costretto molti fedeli a rifugiarsi specialmente in India. Anzi, i fedeli dello Zoroastrismo furono considerati come espressione dell’antica nobiltà dell’Iran. La cacciata dello Scià convinse molti a emigrare di nuovo. Oggi sono sparpagliati dal Canada a Parigi a Los Angeles. Una religione che un tempo si diffondeva dalla Turchia alla Cina ed ha influenzato altre grandi religioni come il cristianesimo e l’ebraismo potrebbe diventare, con la globalizzazione, una vicenda residuale tendente a scomparire. Bibliografia Amado, J. (1978), Dona Flor e i suoi due mariti, Garzanti, Milano. Badran, M. (1995), Feminism, Islam and Nation. Gender and the making ofmodern Egypt, Princeton University Press, Princeton. Brocchieri, P.B. (1999), Il buddhismo come ideologia alternativa, in Collotti, E., Capire il Giappone, Franco Angeli, Milano, pp. 68-75.
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Buldrini, C. (1999), L’ultimo rogo, Mondadori, Milano. Dalai Lama, Rowell, G. (1990), My Tibet, University of California Press, Berkeley. De Melo Silva, D. (1997), La religiosità degli afro-brasiliani, in «Popoli», maggio. Egizu, V.I. (1984), Conversion in African Traditional Religions, in «Cahier des Religions Africaines», 8, n. 35, pp. 197-214. El Solh, Fahzi, C., Masro, J. (1994), Muslims Women’s choines Religious Belief and Social Reality, Brown University Press, Providence. Goodman, H. (1994), Between Jerusalem and Benares. Comparative studies in Judaism and Hinduism, State of New York Press, Albany. Imam, A.M., La destra religiosa musulmana e la sessualità, in www.wforw. it/Imam. Isizah, C.D., Dialogue with african traditional religion in subsaharan Africa: the changing attitude of the Catholic Church, in www.afrikaworld.net. Lody, R. (1987), Candomblé religiao e resistencia cultural, Atica, San Paolo. Mani, L. (1989), Contentions traditions: the debate on Sati in Colonial India, University of California Press, Berkeley. Shinohara, K., Schopen, G. (a cura di) (1991), From Benares to Beijing: Essays on buddhism and chinese religion, Mosaic Press, Oakville, Ontario. Somé, M.P. (1999), Dell’acqua e dello spirito: rituali, magia e iniziazione nella vita di uno sciamano africano, Il punto d’incontro, Vicenza. Terzani, T. (1992), Birmania, morti senza un fiore, in Id., Asia, Longanesi, Milano. Trovato, M. (2001), Gheddafi. L’Islam e l’Africa nera, in «Africa on line», n. 2.
II Per una mappa delle grandi religioni: lo scenario mondiale 1
La religione, in genere, non si mostra a noi. Quel che riusciamo a vedere è sempre soltanto una data religione concreta, una figura storica. Nella società contemporanea molte sono le religioni attestate su queste basi. Alcune sono presenti in ogni parte del pianeta, altre hanno un insediamento a livello locale. Sulla base del numero degli aderenti, aggregando le varie espressioni esistenti al loro interno, la mappa delle grandi religioni mondiali presenta la seguente situazione:2 il cristianesimo con circa due miliardi di seguaci raggiunge il 33% della popolazione mondiale; l’islam con un miliardo e 300 milioni di seguaci, il 22%; l’induismo con 900 milioni, il 15%; il buddhismo con 360 milioni, il 6%; il confucianesimo,3 con 225 milioni, il 4%; il giudaismo 1
Le percentuali sono basate su una popolazione mondiale di 6.091.351.000 persone (www.religioustolerance.org; Barret et alii 2001). 2 Segnalo che Thomas J.Belke (Belke 1999) ritiene che 19 milioni di nord coreani siano seguaci della filosofia Juché promulgata da Kim Il Sung agli inizi degli anni cinquanta del novecento. Da un punto di vista sociologico una tale prospettiva va considerata come dato religioso assai più del comunismo in Russia o del maoismo in Cina. 3 Al confucianesimo va unito anche il taoismo come una delle maggiori branchie della religione tradizionale cinese (AA.VV. 1996).
Nesti Arnaldo, Per una mappa delle religioni mondiali ISBN 88-8453-245-0, © 2005 Firenze University Press
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(AA.VV. 2000), con 14 milioni di persone, lo 0,2%; le religioni primitive-indigene con 150 milioni, il 2,6%; le forme tradizionali africane con 95 milioni, l’1,6%. Importante appare anche il sikhismo con 23 milioni di membri concentrati in India e pari allo 0,4%; gli aderenti al giainismo sono 14 milioni presenti soprattutto in India e pari allo 0,2%. Circa il 15% della popolazione mondiale è formato da «agnostici, atei, appartenenti a forme secolari o umanistiche» (Palmer 1993).
Islam...........................22,0%
Induismo.....................15,0%
Buddismo.....................6,0%
Confucianesimo...........4,0%
Giudaismo....................0,2%
Religioni indigene.......2,6%
Forme tradiz. africane..1,6%
Sikhismo.......................0,4%
Giainismo.....................0,2%
Agnostici, atei, ecc......15,0%
Cristianesimo..............33,0%
Fig. 1: Lo scenario religioso mondiale
Ma proviamo a ragionare attraverso vari modi di classificare il portato statistico e demografico delle presenze storiche del religioso contemporaneo.
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1. Le confessioni e le denominazioni interne alle ‘grandi religioni’ Tutte quelle che siamo soliti rubricare come ‘grandi religioni’ hanno conosciuto, sia alla loro origine che durante il loro divenire, pluralismi, scismi, partizioni, caratterizzazioni, e divisioni interne. L’intento di fornire un primo quadro della reale situazione odierna di queste ‘grandi religioni’, deve necessariamente tenere di conto della loro effettiva consistenza interna, e non può prescindere dalla scomposizione del dato generale, frammentandolo –per quanto questo sia possibile di fronte alla pretesa di una ‘visione generale’– in rapporto alle varie confessioni, correnti e denominazioni esistenti all’interno del cristianesimo, dell’islam, dell’induismo, del buddhismo, ecc. (www.adherents.com; AA.VV. 1993). Ecco a seguire alcune prime griglie quantitative relative alle appartenenze alle ‘grandi religioni’. Cristianesimo: Cattolici4 ..................................................1.030.000.000 Ortodossi ....................................................240.000.000 Chiese indipendenti africane5 ...................110.000.000 Pentecostali6 ...............................................105.000.000 Riformati, Presbiteriani Congregazionalisti uniti ..............................................................75.000.000 Battisti ..........................................................70.000.000 Metodisti ......................................................70.000.000 Anglicani ......................................................68.000.000 4 Per cattolici qui si intendono tutti i fedeli in comunione con Roma, compresi quelli di rito non latino, i vecchi cattolici, gli anglicani delle Filippine. Mentre gli aderenti alla Chiesa episcopaliana non sono inclusi. 5 Si pensi qui alla Chiesa Kimbanguista. 6 All’interno dei quali sono da includere casi come le Assemblee di Dio, la Chiesa di Dio in Cristo, la Chiesa universale del Regno di Dio, ecc.
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Luterani ..............................................64.000.000 Testimoni di Geova ............................12.000.000 Avventisti ............................................12.000.000 Mormoni .............................................11.500.000 Altri7 ...................................................50.000.000 Fig. 2: Il cristianesimo Cattolici
Ortodossi
Chiese africane
Pentecostali
Riformati
Battisti
Metodisti
Anglicani
Luterani
Mormoni Avventisti Testimonio Geova
altri
Islam:8 Sunniti ..............................................980.000.000 Sciiti ...................................................120.000.000 Ahmadiyya ..........................................10.000.000 Drusi ...................................................90.000.000 7 Questa categoria comprende fra gli altri il Movement of Christian Science, i Mennoniti e i Quaccheri. 8 Questo è l’elenco delle maggiori branchie dell’islam. Tuttavia, ci sono altri gruppi come i Sufi che sono variamente classificati. I Drusi sono ritenuti una branchia storica derivante dallo sciismo. Ci sono inoltre gli ismailiti e i wahabiti, un piccolo gruppo fondato da Al-Wahab nel XVIII secolo particolarmente presente in Arabia Saudita. Negli Usa, agli inizi
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Fig. 3: L’islam
Sunniti
Drusi
Sciiti
Ahmadiyya
Buddhismo:9 Mahayana ........................................185.000.000 Theravada ........................................124.000.000 Lamaismo ..........................................20.000.000 Fig. 4: Il buddhismo
Mahayana
Theravada
Lamaismo
del novecento troviamo i ‘black muslims’, fondati da Fallace Fard Muhammad che si dichiarò essere inviato da Allah. 9 Appartengono alla tradizione Mahayana il 56% dei buddhisti, a quella Hinayana o Therevada il 38%e alla Tantrayana (lamaismo) il 6%.
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Induismo:10 Visnuiti .............................................580.000.000 Shivaiti .............................................220.000.000 Neo-hindu .........................................22.000.000 Virashaiva ..........................................10.000.000 Fig. 5: L’induismo
Visnuiti
Shivaiti Virashaiva Neo-hindu
Giudaismo (secondo G. Rosenthal): Conservatori ........................................4.500.000 Indipendenti e secolarizzati ...............4.500.000 Riformati ............................................. 3.750.000 Ortodossi .............................................2.000.000 Ricostruzionisti ......................................150.000 Fig. 6: Il giudaismo
Conservatori Indipendenti Ricost.
Ortodossi
Riformati
10 Contrariamente a quanto fanno i materiali statistici prodotti dal governo indiano, molti gruppi di matrice latamente ‘hindu’ –come
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Scinto:11 Scinto in genere.................................. 3.000.000 Seiho-No-Ie ..........................................3.300.000 Tenrykyo .............................................2.800.000 PL Kyodan ..........................................2.600.000 Sekai Kyuseikyo ..................................... 800.000 Zenrinkai ................................................600.000 Tensho Kotai Jingukyo .........................400.000 Ennokyo .................................................300.000 Sikhismo: Si divide in distinte correnti. La più conosciuta è quella degli Shalga (comunità dei puri). La leadership spirituale dello sikhismo è concentrata nelle mani di cinque capi eletti dai maggiori gurdwara in India. Si è addivenuti a una linea comune dopo oltre duecento anni di difformità. Zoroastrismo: Le maggiori branche sono: Parsi .........................................................111.000 Gabars ......................................................20.000 Volendo tradurre i suddetti dati in una tabella sinottica sullo stato delle ‘grandi religioni’ in base al numero di aderenti, si ha questa situazione: Confessione
Religione di riferimento
Cattolica Sunnita Visnuita
cristianesimo islam induismo
Aderenti 1.030.000.000 940.000.000 580.000.000
ad esempio i Lingayata– si considerano separatamente dall’induismo. 11 Per quanto riguarda lo shintoismo è importante consultare il testo di Shukyo Nenkan (Nenkan 2000).
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Ortodossa Shivaita Protestante Mahayana Protest. liberale Theravada Sciita Chiese afr. ind. Pentecostale Anglicana Sikh Neo-hindu Lamaismo Test. Geova Mormoni Ahmadiyya Baha’i Giud. conserv. Giud. secolare Svetambara Riformista Seicho-No-Ie Tenrykyo Ortodossi Scientologia Sekai Kyus. Sthanakavasis Zenrinkai Drusi Quaccheri
cristianesimo induismo cristianesimo buddhismo cristianesimo buddhismo islam cristianesimo cristianesimo cristianesimo sikhismo induismo buddhismo cristianesimo cristianesimo islam baha’i giudaismo giudaismo jainismo giudaismo nuova relig. giapp. nuova relig. giapp. giudaismo cristianesimo nuova rel. giapp. jainismo nuova rel. giapp. islam cristianesimo
240.000.000 220.000.000 200.000.000 185.000.000 150.000.000 124.000.000 120.000.000 110.000.000 105.000.000 68.000.000 23.000.000 22.000.000 20.000.000 14.800.000 11.200.000 10.000.000 6.000.000 4.500.000 4.500.000 4.000.000 3.750.000 3.200.000 2.800.000 2.000.000 1.500.000 800.000 750.000 600.000 450.000 300.000
2. Lo stato delle religioni per aree geografiche I soggetti delle distinte religioni, stando ai dati forniti dai Prospetti della popolazione del mondo, secondo la revisione del 1996 (AA.VV. 1998), si dislocano nelle realtà continentali del mondo sulla base di queste modalità.
R. etniche - 1,3
Hindu - 1,4
Musulmani - 31,2
Buddhisti - 1,5
Cristiani - 559,2
R. etniche - 127,3
Hindu - 792,9
Musulmani - 310,5
Buddhisti - 351,0
Cristiani - 306,4
R. etniche - 94,9
Hindu - 2,3
Musulmani - 310,5
Buddhisti - 0,1
Cristiani - 351,3
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Fig. 7.1: Le grandi religioni per aree geografiche (in milioni)
Africa
Asia
Europa
R. etniche - 0,4
Hindu - 0
Musulmani - 0
Buddhisti - 0,3
Cristiani - 24,8
R. etniche - 0,4
Hindu - 0
Musulmani - 0
Buddhisti - 2,6
Cristiani -- 258,7
R. etniche - 1,3
Hindu - 0
Musulmani - 1,6
Buddhisti - 0,6
Cristiani - 473,7
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Fig. 7.2: Le grandi religioni per aree geografiche (in milioni)
America Latina
America Nord
Oceania
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3. La consistenza delle religioni nei distinti paesi Buddhismo Il buddhismo è la religione più diffusa nella popolazione dei seguenti nove paesi: Bhutan, Cambogia, Giappone, Laos, Myanmar, Sri Lanka, Thailandia, Tibet, Vietnam. Il Buddhismo è rilevante almeno per il 50% della popolazione in Cina, Mongolia e Nord Korea. A Taiwan è fortemente presente una forma di buddhismo, la quale risulta mescolata con aspetti culturali e dottrinali riconducibili al taoismo e al confucianesimo. Nella Corea del Sud il cristianesimo si è molto diffuso al punto che il buddhismo non è più la religione della maggioranza. Cristianesimo Il Cristianesimo, o almeno una delle sue ramificazioni, è maggioritario nei seguenti paesi: Angola, Anguilla, Antigua e Barbuda, Antille Olandesi, Argentina, Armenia, Aruba, Australia, Austria, Bahamas, Barbados, Belgio, Belize, Bermuda, Bielorussia, Bolivia, Bosniaerzegovina, Brasile, Bulgaria, Burundi, Canada, Capo Verde, Cile, Cipro, Città del Vaticano, Colombia, Costarica, Croazia, Cuba, Danimarca, Dominica, Ecuador, EI Salvador, Estonia, Filippine, Finlandia, Francia, Gabon, Georgia, Germania, Ghana, Giamaica, Grecia, Groenlandia, Guatemala, Guinea Equatoriale, Guyana Francese, Haiti, Honduras, Isole Cook, Isole Marshall, Isole Norfolk, Isole Principe e Sao Tomé, Isole Salomone, Italia, Kenya, Kiribati, Lesotho, Lettonia, Liechtenstein, Lituania, Irlanda, Islanda, Lussemburgo, Macedonia, Malta, Martinica, Messico, Micronesia, Namibia, Nicaragua, Norvegia, Nuova Zelanda, Olanda, Palau, Panama, Paraguay, Perù, Polinesia francese, Polonia, Portogallo, Principato di Monaco, Regno Unito, Repubblica Dominicana, Repubblica Ceca, Repubblica Centrafricana, Reunion, Romania, Russia, Rwanda, Saint Kitts e Nevis, Saint Vincent, Samoa, San Marino,
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Serbia e Montenegro, Seychelles, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Stati Uniti, Sud Africa, Svezia, Svizzera, Swaziland, Timor Est, Tonga, Trinidad e Tobago, Tuvalu, Ucraina, Uganda, Ungheria, Uruguay, Vanuatu, Venezuela, Zambia. Cattolicesimo Sono cattolici almeno all’85% della popolazione i seguenti paesi: Andorra, Argentina, Aruba, Austria, Belgio, Bolivia, Canada, Capo Verde, Cile, Città del Vaticano, Colombia, Costarica, Cuba, Ecuador, El Salvador, Filippine, Francia, Gibilterra, Guadalupe, Guam, Guatemala, Guiana Francese, Guinea equatoriale, Haiti, Honduras, Indonesia, Irlanda, Italia, Liechtenstein, Lussemburgo, Malta, Martinica, Messico, Nicaragua, Panama, Paraguay, Perù, Polonia, Portogallo, Portorico, Principato di Monaco, San Marino, Seychelles, Slovenia, Spagna, Rep. Dominicana, Réunion, Venezuela. Si è cattolici fra 50% e l’85% della popolazione nei seguenti paesi: Angola, Belize, Brasile, Burundi, Canada, Congo, Croazia, Dominica, Kiribati, Lituania, Nuova Caledonia, Nuove Antille, Repubblica Ceca, Ruanda, Slovacchia, Uganda, Ungheria, Uruguay. Protestantesimo Questi paesi sono protestanti almeno per l’85% della popolazione: Antigua e Barbuda, Danimarca, Finlandia, Groenlandia, Islanda, Norvegia, Svezia, Tuvalu. Paesi a maggioranza protestante fra il 50% e l’85% della popolazione: Bahamas, Barbados, Bermuda, Isole Salomone, Jamaica, Namibia, Nuova Zelanda, Polinesia Francese, Regno Unito, Samoa, Saint Kitts e Nevis, Saint Vincent, Stati Uniti, Sud Africa, Swaziland, Tahiti, Tonga, Vanuatu. Chiesa Ortodossa Sono di religione ortodossa almeno per il 50% della popolazione: Armenia, Bielorussia, Bulgaria, Cipro,
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Georgia, Grecia, Macedonia, Moldavia, Romania, Russia, Serbia-Montenegro, Ucraina. In taluni casi non esiste alcuna religione che ha più del 50% degli aderenti. È il caso di: Burkina Faso, Camerun, Ciad, Cina, Corea, Congo, Costa d’Avorio, Etiopia, Eritrea, Fiji, Guinea, Hong Kong, Kazakistan, Libano, Macao, Madagascar, Malawi, Mozambico, Nigeria, Papua Nuova Guinea, Singapore, Sierra Leone, Suriname, Taiwan, Tanzania, Zimbabwe. In moltissime nazioni a maggioranza cristiana nessuna delle diverse confessioni ha da sola più del 50% della popolazione. Giudaismo Il numero più grande di ebrei si trova e vive negli Stati Uniti d’America (www.religion-cults.com/judaism; AA.VV. 1996). Negli Usa vive un numero maggiore di ebrei di quelli che vivono in Israele. Un largo numero di israeliani sono non religiosi, agnostici, non osservanti. Induismo L’Induismo ha la maggioranza nella popolazione di tre nazioni: India, Mauritius e Nepal. Per quanto l’80% della popolazione indiana sia hindu, l’India ufficialmente è uno stato secolare. Islam La maggioranza della popolazione appartiene all’islam nei seguenti stati (www.religion-cults.com/ islam): Afghanistan, Albania, Algeria, Arabia Saudita, Autorità Palestinese, Azerbaijan, Bahrein, Bangladesh, Brunei, Cecenia, Dagestan, Egitto, Emirati Arabi, Gambia, Gibuti, Giordania, Guinea, Indonesia, Iran, Iraq, Isole Comore, Kirghisistan, Kuwait, Libia, Malaysia, Maldive, Mali, Marocco, Mauritania, Mayotte, Niger, Pakistan, Qatar, Senegal, Siria, Somalia, Sudan, Tagikistan, Tunisia, Turchia, Turkmenistan, Uzbekistan, Yemen. Nei seguenti casi la maggioranza della popolazione è sciita: Azerbaigian, Bahrein, Iran,
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Iraq, Oman. Il 90% degli islamici sparsi per il mondo è sunnita. Shinto Stando alla registrazione delle nascite in Giappone, un numero maggiore dell’80% è aderente allo shinto. Ma questo non consente di affermare che questa sia la religione preferita dai giapponesi. Sikhismo Il sikhismo non raggiunge la maggioranza in nessuna nazione, ma solo nella provincia indiana del Punjab. Per quanto non sia la religione di maggioranza di nessun stato, va osservato che è una organizzazione religiosa del mondo con circa venti milioni di aderenti, quindi con un numero superiore a quello del giudaismo che nel suo insieme si aggira sui quindici milioni. Taoismo e Confucianesimo In nessun paese si può parlare di una presenza maggioritaria confuciana o taoista. Ma il taoismo e il confucianessmo mescolati svolgono una forte influenza filosofico-culturale in molti paesi dell’est asiatico. Il taoismo rappresenta un riferimento fondamentale in Taiwan e in particolare in Cina, ben al di là della presenza comunista. L’ateismo Nella documentazione della situazione religiosa a livello mondiale, una voce particolare è riservata alla presenza dell’ateismo. Ancora alle fine degli anni novanta del novecento si afferma la presenza di soggetti atei con indici assai differenziati nelle varie parti del mondo. Presenza dell’ateismo: America latina .......................................0,64% America del nord ..................................0,63% Oceania...................................................1, 21%
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Germania Ovest (ex RFD) .....................5, 3% Germania Est (ex DDR).......................42, 7% Inghilterra ................................................6.3% Usa ..........................................................0,30% Olanda ....................................................11,4% Italia ........................................................2, 3% Norvegia ..................................................6, 7% Israele ......................................................12,1% Russia ....................................................12, 4% Nuova Zelanda ..........................................5.1% Slovenia ..................................................13, 9% Ungheria ................................................11, 3% Mondo..........................................................4% Per un totale di 149.912.99212 L’insieme di questo totale relativo all’ateismo presenterebbe le seguenti caratteristiche interne: - Il 78% degli atei non frequenta mai un atto di culto - l’8% riferisce di avere un rapporto personale con la morte - Il 3% ha avuto un’esperienza ‘mistica’ - Il 95% rifiuta di credere che Dio abbia un rapporto personale con l’uomo - Il 98% rifiuta l’idea che la loro vita è predeterminata da Dio - Il 93% rifiuta di credere che Dio possa dare un senso alla vita - Il 96% non prega - Il 98% rifiuta di credere al paradiso, all’inferno, al demonio. Teniamo però a precisare che essi non sono senza una filosofia della vita. Anzi, il 49% ritiene che il soggetto deve dare un senso alla propria vita; il 39% che ognu-
12 Sono qui indicate le persone che non professano alcuna religione e coloro che si dicono indifferenti a ogni forma di religione. Cfr. An Overview of the World bv Religious Adherents, in www.missionfrontiers.org,
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Fig. 8: I cattolici nel mondo
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Fig. 9: L’islam nel mondo
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no deve controllare il proprio destino e il 15% dichiara di essere felice. 4. Distribuzione quantitativa delle religioni in alcune aree nazionali Vorrei richiamare alcuni dati statistici relativi al rapporto religione ed aree geografiche e più precisamente religione e stati nazionali. Cattolici I cattolici nel mondo, in termini assoluti in base all’Annuario pontificio del 1997, sono distribuiti soprattutto in questi paesi: Brasile ..............................................126.944.000 Messico ..............................................79.603.000 Italia ..................................................56.258.000 USA ...................................................54.603.000 Filippine ...........................................49.492.000 Francia ..............................................47.440.000 Spagna ...............................................37.770.000 Polonia ..............................................36.085.000 Germania ..........................................29.209.000 Argentina ..........................................29.156.000 Islam Oggi, per quanto riguarda l’islam nel suo insieme –lasciando qui da parte le doverose distinzioni interne–, si contano 1.300.000.000 credenti. Espressione di tutte le etnie e culture del mondo, i fedeli all’islam sono presenti in modo differenziato nei vari continenti. L’Indonesia è il paese con la più alta appartenenza islamica, pari al 90% della popolazione nazionale. (fra parentesi il rapporto con la popolazione nazionale)
In Asia ...........................................865.000.000 India (13%) ...................................... 80.000.000 Pakistan (97%) .................................73.000.000 Bangladesh (85%) ...........................72.000.000 Turchia (98%) .................................56.000.000
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Iran (98%) ....................................... 35.000.000 Cina (2%)..........................................19.000.000 Afghanistan (99%) ..........................15.000.000 Iraq (95%) ........................................13.000.000 Arabia del Sud (95%) ........................9.000.000 Siria (87%) .........................................8.000.000 Malesia (50%) .....................................7.000.000 Yemen (99%) ....................................6.000.000 Giordania (93% .................................4.000.000 Filippine (5%).....................................3.000.000 Libano (51%) ......................................2.000.000 Kuwait (93%) .................................... 2.000.000 Tailandia (4%) ...................................2.000.000 Burma (4%)....................................... 2.000.000 Sri Lanka (7%) .................................. 2.000.000 Gaza (80%) .........................................1.000.000 Israele (8%).........................................1.000.000 Oman (100%)......................................1.000.000 In Africa ..........................................359.000.000 Egitto (91%) .....................................38.000.000 Marocco (99%).................................21.000.000 Algeria (97%)...................................20.000.000 Sudan (72%) .....................................13.000.000 Tunisia (99%) ....................................8.000.000 Nigeria (85%) .....................................6.000.000 Libia (98%) ........................................4.000.000 Mauritania (96%)...............................3.000.000 In Europa ........................................73.000.000 ex URSS (9%)...................................56.000.000 ex Yugoslavia (19%) ...........................6.000.000 Albania (70%) ....................................3.000.000 Bulgaria (11%) ....................................2.000.000 In America Latina ..............................1.500.000 Nell’America del nord + Canada .....6.000.000 In Oceania ............................................400.000
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Fig. 10: Il giudaismo nel mondo
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Giudaismo Stando ai dati aggiornati al 2000, il Giudaismo appare presente nei seguenti paesi: Asia .........3.221.000 (di cui in Israele 3.135.000) Americhe Usa .......................................................5.860.000 Canada ....................................................305.000 Argentina ................................................300.000 Brasile .....................................................150.000 Altri paesi ..............................................169.000 Europa (compresa ex URSS) ...............660.000 Francia ....................................................650.000 Altri paesi ...............................................422.000 Africa Sud Africa ...............................................118,000 Aaltri paesi ...............................................56.000 Oceania Australia....................................................70.000 Altri paesi ...................................................5.000 Induismo La massiccia presenza induista è in larga misura da correlare al territorio dello Stato indiano e all’estensione territoriale sud/sud-est asiatica che, nei secoli precedenti alla stagione coloniale, era sotto l’influenza politica e culturale di diverse tradizioni hindu. Per la singolare specificità e per le enormi dimensioni politico-demografiche di questa realtà, intendo qui tratteggiare alcune considerazioni di merito. In particolare, credo sia importante riflettere sugli esiti scaturiti dai cambiamenti economici e politici apportati, a partire dalla fine del 1500, dalla presenza coloniale in India. Cambiamenti rapidi e profondi che hanno la responsabilità di aver fortemente mutato gli assetti di quelli che sono oggi due fra i principali nodi sociali della nazione indiana.
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Il primo è il sistema delle caste, smantellato progressivamente dagli inizi del ‘900, in parte per volontà politica, in parte sotto l’urgenza delle trasformazioni economiche. Errato sarebbe tuttavia pensare alla scomparsa di questo modello di distinzione sociale, il quale permane tutt’oggi con una certa insistenza, sia nei territori urbani che in quelli rurali. Qui, l’elemento che indubbiamente appare più interessante è il progressivo dissolversi dei legami di tipo religioso che segnavano l’appartenenza di un individuo a una casta. L’appartenenza castale, concepita come immutabile nei suoi riti e nelle sue regole di funzionamento interno, marcava rigidamente le differenze sociali. Ai legami religiosi ora tendono a sostituirsi meccanismi d’appartenenza puramente corporativa, fondata piuttosto sul primato della difesa degli interessi concreti. Gli strati sociali, un tempo visti come gerarchicamente ordinati, tendono oggi a funzionare come raggruppamenti orizzontali, che lottano e stringono alleanze gli uni con gli altri allo scopo di assicurarsi il possesso e l’accesso alle risorse economiche e politiche. Il secondo nodo è quello del basso livello di alfabetizzazione della popolazione. La scolarizzazione ha messo in crisi l’antica logica che assegnava a ogni singola casta un certo tipo di lavori e professioni. Si è formata una nuova classe media, titolare di certe professioni, servizi, spazi sociali e responsabile di una nuova economia. Una classe media che sfrutta il capitale culturale appreso per emanciparsi dai tradizionali vincoli di casta, contribuendo in tal modo ad una laicizzazione degli atteggiamenti e dei comportamenti d’ampi settori della società. Come è facile immaginare, di fronte alle grandi mutazioni intervenute negli ultimi cinquant’anni, anche il campo religioso ha subito dei significativi cambiamenti. In particolare, in seno all’induismo classico si sono venute manifestando due tendenze antagoniste: l’una di tipo riformista, l’altra nazionalista. Entrambe si sono poste il problema di salvare il patrimonio religioso tradizionale a fronte del nuovo ordine sociale e politico
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che lo stato moderno ha finito per imporre. Esse hanno però perseguito obiettivi e metodi differenti. La prima corrente –il riformismo– si propone di aprire sempre più la concezione hindu ai valori della cultura moderna. La seconda –il nazionalismo– ritiene, al contrario, che la modernizzazione rischi di indebolire il sistema di credenza tradizionale e d’appartenenza socio-religiosa, in una fase storica nella quale il risveglio musulmano e l’attivismo missionario cristiano mostrano forti segni di vitalità e chiari segni di capacità persuasiva. Alcuni movimenti d’ispirazione riformista si spingono a volte sino a scardinare e rivedere punti fondamentali del credo induista, mettendo in discussione lo stesso pantheon degli dei. Dal punto di vista di certi circoli riformisti, infatti, questo pantheon non è altro che una forma d’idolatria. In certi casi, l’incontro del nazionalismo con varie forme di neo-tradizionalismo ha condotto a forme feroci di estremismo religioso. Tali manifestazioni sono però l’espressione moderna di correnti neo-tradizionaliste che già si erano presentate nell’Ottocento indiano. L’anello di congiunzione fra le tendenze neo-tradizionaliste dell’Ottocento e certe idee promosse dai leader dei gruppi etno-religiosi hindu contemporanei è rappresentato dal movimento ‘Arya Samaj’, fondato nel 1875 da Svami Dayananda Sarasvati (1824-1883). Questo movimento si proponeva di risvegliare le coscienze alla fede hindu, in una sorta di ‘ri-induizzazione’ dal basso della società. Man mano che il movimento si diffuse, aprendo scuole, fondando associazioni umanitarie, lanciando nuove testate giornalistiche e reclutando militanti disposti a lavorare a tempo pieno per la diffusione delle idee di Sarasvati, si sviluppò al suo interno una tendenza più radicale che puntò a trasformare il potenziale umano, mobilitato attraverso la conversione religiosa, in capitale di consenso politico. Nel 1920 nacque così un partito che può essere ritenuto come una diretta espressione del movimento: lo ‘Hindu Mahasabha’. Sull’onda dei primi successi elettorali riscossi da questo
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partito, si formerà un gruppo politico ancor più estremista, il ‘Rashtriya Swayamsevak Sangh’ (‘Associazione dei Volontari Nazionali’, noto come RSS), il quale accentuerà in senso nazionalistico l’originaria ideologia religiosa del movimento di Sarasvati. È bene ricordare qui che fu uno dei membri del RSS ad assassinare Gandhi nel 1948. L’idea base che animava i due leader del RSS era la ricostruzione dell’identità nazionale su pure basi religiose hindu, un’identità affermata in contrapposizione aperta a tutti i simboli e gli stili di vita moderni. La militanza che il RSS richiederà ai suoi aderenti non sarà solo ideologica, ma anche paralimitare. L’organizzazione, infatti, è cresciuta nel tempo grazie alla capillare penetrazione in tutto il territorio nazionale. Ed è su questa antica rete di connessioni che oggi può contare un partito ben organizzato e segnatamente influente in India come il ‘Bharatiya Janata Party’ (‘Partito del popolo di Bharata’, noto come BJP), il quale ha governato il paese fino alle scorse elezioni politiche della tarda primavera 2004. Al momento del suo insediamento, nel 1998, questo partito si affrettò ad annunciare al mondo intero che l’India aveva compiuto il primo test nucleare: era nata –fu detto dai leader di quel partito– la ‘bomba hindu’. Il ‘Bharatiya Janata Party’ è un’organizzazione politica e religiosa a vocazione egemonica, nel senso che tende a controllare tutti i movimenti e i gruppi che in qualche modo rivendicano l’identità hindu. Nel 1984, ad esempio, circa 600 esponenti di diverse sette hindu si sono riuniti sotto l’egida del partito e hanno creato un ‘Parlamento del dharma’, il quale ha promosso, fra l’altro, le iniziative di riconquista del sito di Ayodhya (ubicato nello stato dell’Uttar Pradesh). Qui sarebbe sorto –a detta dei militanti del BJP– un tempio dedicato a Rama e che fu distrutto dai musulmani, i quali vi hanno a loro volta costruito una moschea. La battaglia attorno al tempio di Ayodhya acquista una valenza simbolica e illustra efficacemente in che senso possiamo parlare d’etno-fondamentalismo. Nel lessico politico e religioso
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dei movimenti di questo tipo, infatti, ricorre spesso un neologismo: hindutva, che è tradotto dagli specialisti in indologia contemporanea, con la parola ‘induità’. Questo concetto, in verità, è stato per la prima volta enunciato nel 1923 da uno dei maggiori esponenti del partito ‘Hindu Mahasabha’, Vinayak Savarkar in un influente scritto dal titolo Hindutva: Chi è un Hindu?. Per Savarkar gli hindu costituiscono un popolo etnicamente compatto e puro che trova nelle scritture sacre la propria radice culturale e religiosa. Un popolo che da tempi immemorabili abita su uno stesso suolo, condividendo dunque una comune ‘terra santa’ (punyabhumi); una religione santa e superiore a tutte le altre; una nazione guida delle genti, che non può tollerare sul proprio territorio l’esistenza di altre religioni, culture, etnie. Sono questi i pilastri di un pensiero moderno di tipo fondamentalista. L’ ‘induità’ significa, infatti, da un lato affermare l’esistenza della sola nazione hindu, e dall’altro il rifiuto dell’idea dello Stato indiano come nazione multietnica e multireligiosa (Pace 2001: 44-45; Sirtori 1993). Il progetto dell’attuale BJP, che si è riconosciuto fino alle ultime elezioni politiche nella leadership di Atal Vajpayee, è quello di arrivare a rovesciare l’idea di Nehru di uno Stato secolare, non confessionale, multietnico e multireligioso, in favore del primato della purezza etnica hindu. Nella realtà, l’India è assai più vicina all’idea di Nehru, che prima ancora fu di Gandhi: una società plurale come quella indiana non può permettersi il lusso di dare spazio alle tentazioni egemoniche di un’etnia o di una religione che prevale sulle altre. Se così fosse, sarebbe fatale per l’avvenire stesso della giovane democrazia della nazione indiana. Gli animisti Circa 163.000.000 di persone possono essere ricondotte a questa classificazione –peraltro problematica per i suoi generalismi–, ed esse sono presenti soprattutto nei seguenti paesi:
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Cina ....................................................27.252.000 Nigeria ................................................10.176.000 Brasile ..................................................8.141.000 Mozambico ..........................................8.007.000 Africa del sud ......................................7.122.000 Corea ...................................................5.989.000 Vietnam ...............................................2.323.000 5. Sulle percentuali e le proiezioni riguardanti il futuro prossimo La percentuale dei cristiani negli anni ’80 si era stabilizzata sul 30% della popolazione mondiale, ma negli ultimi anni si è andata abbassando e, secondo le previsioni di Huntington, nel 2025 si assesterebbe sul 25%. Al contrario, la popolazione islamica sarebbe destinata ad aumentare, arrivando presto a superare il 20% della popolazione mondiale. Ma qui è importante operare dei distinguo ed entrare nel vivo della realtà socio-religiosa dei nostri tempi. È infatti importante notare che all’interno del mondo cristiano, troppo spesso declinato al singolare, non tutte le confessioni presentano la stessa tendenza al ribasso. I pentecostali, ad esempio, crescono stabilmente dell’8,1%, gli evangelici del 5,4%, i protestanti –nel loro insieme– del 3,3%, mentre i cattolici romani solo dell’1,3% (è di fronte alla comparazione con il tasso di crescita della popolazione –il quale è oggi superiore all’1,4%– che la percentuale della popolazione cattolica sembra destinata a scendere). Anche alla luce di queste proiezioni, le diciannove confessioni più numerose del mondo, che –seguendo David Barret– si potrebbero suddividere in 270 grandi correnti religiose, vanno indagate e considerate non dimenticando il fatto che migliaia di piccoli gruppi e congregazioni religiose non sono interessati a collegarsi e confluire nelle grandi denominazioni. Questo fatto offre alcuni elementi che verranno a formare le basi per future variazioni di scenario e apriranno a possibilità
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interamente nuove di configurazione del panorama religioso mondiale. A ciò va aggiunto lo spinoso problema dell’appartenenza religiosa. Basti riflettere, a riguardo, sul fatto che, se l’88% degli adulti degli Stati Uniti e del Canada sono ritenuti come appartenenti al cristianesimo, solo il 35% tiene a definirsi come tale. Questa scollatura fra definizione etica ed emica dell’appartenenza religiosa è destinata a riservarci senz’altro delle sorprese nel prossimo futuro. Bibliografia AA.VV. (1993), The World’s Major Religions, in «New York Public Library Student’s Desk Reference», Prentice Hall, New York. AA.VV. (1996), Enciclopedia Britannica, London. AA.VV. (1998), Prospetti della popolazione del mondo, Prentice Hall, New York. AA.VV. (2000), American Jewish Year Book, The American Jewish Committee, New York. Barret, D. et alii (2001), Christian Encyclopaedia of the world, Oxford University Press, London. Belke, T.J. (1999), Juchè: a christian study of North Korea’s State Religion, Living Sacrifice Books, Bartlesville. Nenkan, S. (2000), Religions Yearbook, Ministry of Education and Bureau of Statistics, Tokyo. Pace, E. (2001), Hindù, modernità e identità etnica, in «Rocca», 1 febbraio. Palmer, M. (1993), The State of Religion Atlas, Simon & Schuster, New York. Sirtori, V. (a cura di) (1993), Dizionario delle religioni orientali, Vallardi, Milano.
III Le interazioni nel religioso
Le istituzioni religiose finora prese in esame hanno in genere una diffusione a carattere internazionale. A titolo informativo si è altresì fatto cenno ad alcune a carattere regionale e ad altre connesse ai processi migratori. Si è fatta menzione, ad esempio, a diverse tradizioni e ‘denominazioni’ minoritarie, come la corrente dei lingayata, la quale si origina nel sud dell’India, dei kimbaguisti, che provengono dall’Africa centrale, dell’induismo balinese, del tenrikyo, che ha origini nel Giappone. Lo specifico processo di formazione di distinte e autonome denominazioni è però una caratteristica del vecchio mondo occidentale cristiano. Molte correnti religiose orientali non ricalcano necessariamente questo modello. La loro classificazione rimane spesso connessa all’esistenza di varie scuole ‘maggiori’, alle affiliazioni a un singolo tempio o alla particolare moschea, anche se restano forti le analogie fra i processi di configurazione istituzionale. Alle difficoltà comparative si aggiungono le lacune statistiche e quantitative. Infatti, sebbene le odierne fonti che ci informano su dato relativo all’appartenenza religiosa –fra le quali si annoverano strumenti molto qualificati come l’annuale Yearbook of American and Canadian Churches– rappresentano ricchi e documentati riferimenti informativi sui cristiani e gli ebrei, risultano tut-
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t’ora lacunose rispetto a fedi come quella hindu, buddhista e musulmana. La ragione di ciò è conseguente alla maggiore attenzione prestata in America, ma non solo, alle religioni lì più diffuse. Anche per questi motivi in questo capitolo, dopo aver presentato aspetti di fondo relativi alla costituzione di una possibile e plausibile mappa delle religioni, si vuole mettere in risalto la necessità di disporre di concetti e strumenti analitici idonei a mostrare come nella storia le religioni interagiscano secondo modalità diversificate e altamente differenziate. Non è banale tornare qui a ricordare che le classificazioni sono in parte arbitrarie e comunque stabilite da studiosi che, nell’urgenza comparativa, non possono sempre rendere conto della complessità di ciascuna realtà. È bene inoltre sottolineare che le varie tipologie e i rapporti che fra esse si instaurano non sono immutabili nel tempo, ma soggette a trasformazioni. Tuttavia, senza presumere di affrontare l’argomento nella sua completezza, queste pagine vogliono essere un invito a cogliere con rinnovata attenzione analitica il fatto religioso in un’ottica comparata e a scorgervi, altresì, la presenza dell’indicibile al di là delle parole e delle formule dottrinali. 1. Uguaglianza e diversità Le grandi religioni presentano profili assai differenziati. È sulla base di tali diversità che nei secoli sono spesso scaturite ostilità, contrapposizioni, antagonismi, che in alcuni casi sono sfociati anche in conflitti armati (ad esempio, la guerra dei Cent’anni). Ad una lettura più attenta e particolareggiata, possiamo però cogliere non poche affinità e analogie che paiono legare fra loro i diversi universi religiosi. Quali allora le somiglianze e le differenze? E quali le modalità di comparazione? Appare ancora utile, a tale riguardo, la costruzione di tipologie delle religioni formulate dall’olandese Van der Leeuw, che le fa discendere «dalla strettissima collaborazione fra componente fenomenologica ed esame
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Fig. 1: Le grandi religioni e le loro interazioni
dei dati storici» (Van der Leeuw 1960). Il patrimonio delle religioni mondiali sarebbe quindi riconducibile ad alcune fondamentali tipologie che ricordiamo qui in modo sintetico. La prima tipologia è formata dalle religioni dette ‘dell’allontanamento e della fuga’ la cui configurazione storica si manifesta per antonomasia in Cina, principalmente col confucianesimo. Si caratterizza per l’inclinazione a considerare la potenza della divinità soltanto in lontananza. La virtù morale capitale è l’amore filiale inteso
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come devozione. La condotta religiosa tende a risolversi in una morale e in un costume che poggia su dei riti. In tal modo il soggetto è in grado di praticare la filantropia e di tenersi lontano da ogni agitazione. La seconda è costituita dalle religioni dette del ‘combattimento’ fra le opposte forze del bene e del male. Si pensi, ad esempio, al dualismo zoroastriano. L’intera vita, non soltanto degli uomini ma del mondo, è un ininterrotto combattimento. Il mondo intero è diviso in coppie di antagonisti a ogni livello. La terza risulta formata dalle religioni che si fondano sulla ‘quiete’ dello spirito. L’uomo che ha provato il fascino della potenza aspira alla quiete nella sua vita e nel rapporto con Dio. L’esperienza di ripiegamento in Dio sta al centro di tale profilo religioso. La quiete però non si raggiunge senza combattimento, il quale può essere anche assai duro. La quarta tipologia è costituita dalle religioni dell’inquietudine. La religione esige una costante ricerca dei segni della libera e assoluta benevolenza di Dio per superare lo stato di angoscia connessa allo stato di peccato. Si pensi alle religioni della riforma protestante. Tale tipologia presenta alcune affinità con altre religioni qui escluse ma che ugualmente sottolineano la presenza del male e l’angoscia per raggiungere lo stato di favore da parte di Dio. La quinta tipologia si fonda sullo slancio e sulla figura. In particolare lo slancio crea, trascina la vita e finisce per trovare nel dissolvimento il solo riposo possibile. I Greci non ignoravano i limiti della vita e l’esistenza di un oltretomba dove avrebbe trovato inizio la vera esistenza. La religione della figura cerca un mondo figurato, un mondo nuovo che è tale per il fatto stesso di rivestire una forma. La sesta è costituita dalle religioni dell’infinito e dell’ascesi che segnano la vittoria dell’ispirazione sulla figura. Si pensi alla situazione dell’India antica: pur comprendendo elementi molto diversi, la grande corrente della religiosità indiana si orienta verso l’infinito e cerca
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di raggiungerlo mediante l’ascesi. Tutto quel che appare è soltanto la rivelazione dell’Unico che rende insignificante tutto il resto. Il movimento può essere soltanto un gioco che la potenza unica fa con se stessa. Sebbene la moderna nozione di ‘induismo’ debba molto all’attività di classificazione e coniazione degli occidentali, in realtà al suo interno possiamo senz’altro ritrovare un insieme particolare di diverse ‘religioni’: visnuismo, shivaismo e shaktismo, ad esempio, non sono tre sette all’interno di una stessa religione, ma tre religioni diverse che non adorano come divinità suprema lo stesso Dio, non si basano sugli stessi libri sacri, non si richiamano agli stessi fondatori o teologi. Religioni diverse che, dunque, hanno in comune uno spazio geografico, alcune pratiche tradizionali, alcune dottrine, ma soprattutto una finalità: schiudere all’essere umano un accesso all’assoluto e alla salvezza. La settima è costituita dalle religioni che fanno leva sul nulla e sul primario sentimento di pietà. Si pensi al buddhismo mahayana. Nel mahayana il nulla riappare come ‘immensità’ ma ogni cosa ridiventa oggetto di una negazione. La pietà è il movimento generoso di chi sa che potrà liberarsi; l’amore è il movimento di chi sa di essere amato. L’etica del buddhismo è la pietà. Non si deve concludere che il buddhismo sia una religione tetra, che odia il mondo. Specialmente in estremo Oriente la via negativa si presenta come una perfezione graduale. Il messaggio centrale delle varie tradizioni buddhiste si basa su tre principi: impermanenza, sofferenza, insostanzialità. L’esistenza è dolore perché gli esseri umani si attaccano alla vita considerandola come qualcosa di esistente in eterno e dotata di una sostanza propria, di una propria ‘cosalità’. Secondo il buddhismo, tutto passa, tutto è impermanente, nessuna cosa dura se non per un infinitesimo di secondo e senza mantenere la propria sostanza, visto che le cose sono prive di sostanza propria, prive di sé. Ognuno ha la percezione della propria identità: ci si sente diversi dagli altri perché si ha la sensazione dell’irriducibilità del proprio sé come dotato
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di sostanza. L’essere umano soffre per il fatto che il sé è destinato a svanire. Bisogna dunque imparare a considerare tutte le cose come impermanenti, visto che tutti gli esseri non sono che illusioni destinate a svanire. Occorre acquisire la consapevolezza dell’illusorietà della vita per addivenire a uno stadio di consapevolezza superiore attraverso la meditazione che significa sedersi, quietarsi, imparare a non pensare e prendere consapevolezza del momento presente. L’ottava classificazione è costituita dalle religioni della volontà e dell’ubbidienza. Si pensi al giudaismo. La voce che tuona nelle tenebre pronuncia il comandamento. Alla volontà di Dio corrisponde l’ubbidienza dell’uomo. La voce di Dio risuona interiormente e domina la vita intera. Tale voce raggiunge un punto culminante nel libro di Giobbe. La nona classificazione è formata dalle religioni della maestà e dell’umiltà: si pensi all’islam. L’islam è assoluta adesione e sottomissione ai comandamenti di Allah. Non possiamo mutare nessuno dei suoi potenti decreti, mentre tentarlo varrebbe l’annientamento. La sottomissione è il primo e l’ultimo dovere dell’uomo. All’interno dell’universo islamico si danno tuttavia varie differenziazioni. Attualmente la teologia sciita si differenzia da quella sunnita in particolare per la dottrina dell’imamato, il valore redentivo dato alla sofferenza e al martirio. La fondamentale differenza fra sunnismo e sciismo sta nella scelta della direzione spirituale (imam) o di quella politica (hilafa) della comunità musulmana. Gli sciiti ritengono debba esserci un’autorità conferita direttamente da Dio e trasmessa ad personam in una successione ininterrotta a partire da Muhammad; mentre i sunniti sono sostenitori di un’autorità riconosciuta dalla comunità. Un’indagine sul patrimonio islamico in questi ultimi anni evidenzia la presenza di distinte posizioni interne che si rifrangono anche di fronte al processo di modernizzazione (Pace 1999; Bausani 1980). La decima tipologia è costituita dalle religioni fondate sull’amore, come il cristianesimo. L’amore umano per
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Dio è il riflesso dell’amore divino per l’uomo. L’amore che risponde all’amore di Dio riveste una forma, che è la Chiesa, il cui dovere essenziale è di presentare l’offerta del rendimento di grazie. Troeltsch opera, da parte sua, una diversa comparazione fra le varie tradizioni religiose storicamente determinatesi, arrivando a osservare che «[…] tutte le religioni sono nate come assolute perché obbediscono ad un’immediata costrizione divina ed esprimono una realtà che esige riconoscimento e fede» (Troeltsch 1993: 183184). Tuttavia, continua Troeltsch, al seguito di questa genesi esclusivista, le diverse tradizioni religiose –venendo in contatto fra loro– possono dar vita a un rispettoso rapporto di ‘compensazione e comprensione’. Esse riescono a comprendersi reciprocamente quando abbandonano la loro testardaggine tutta umana e il loro spirito di violenza e di auto-affermazione. Possono venire a contatto e avvicinarsi quando ognuna, partendo dal proprio terreno, mira a ciò che è alto e profondo e sente la propria aspirazione a detta altitudine come identica a quella delle altre. Ma per quanto occhio umano possa spingersi nel futuro, le grandi rive che segnano i diversi ambiti culturali, nonostante alcuni spostamenti marginali, resteranno separate e le diversità del loro valore non si potranno mai stabilire oggettivamente perché i presupposti di ogni argomentazione sono già collegati con determinate specificità della rispettiva cerchia culturale. Tale ragionamento ha portato Troelsch a preconizzare il dialogo interreligioso. In seno a una schematizzazione delle tradizioni religiose storiche (Roggero 1998), in cui prende tuttavia atto che le religioni possono procedere verso una chiarificazione e una purificazione interna in vista di un’evoluzione e di uno sviluppo interiore, Troelsch afferma che «[…] ciò non esclude la competizione. Ma dev’essere soprattutto una competizione per la purificazione e per la chiarezza interiore. Se cerchiamo all’interno di ogni gruppo ciò che è più alto e profondo, possiamo sperare di incontrarci» (Troeltsch 1993: 142143). Una competizione che nasce però nel segno del
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rispetto reciproco e dell’amore universale, fatto per cui Troeltsch poté concludere il suo percorso tormentato con parole di speranza: «la vita divina nella nostra esperienza terrena non è l’unità, ma una molteplicità. Proseguire l’uno nei molti è proprio l’essenza dell’amore» (Troeltsch 1993: 184). 2. Analogie e differenziazioni Le importanti tipologie di Van der Leeuw e Troeltsch qui sopra riassunte consentono di classificare molti aspetti delle diverse religioni e di afferrare i loro apporti più significativi. Tali approcci e tipologie risentono però di criteri che privilegiano una rappresentazione del fenomeno religioso come se questo potesse essere indagato e compreso in riferimento all’esclusivo modello dell’esperienza religiosa dell’Occidente e come se, inoltre, fosse possibile considerarlo un evento in se compiuto semel pro semper e non un complesso fatto dinamico del mondo storico. Appare sempre più difficile pensare che esista un unico ed esclusivo centro veritativo dell’universo religioso, a se stante, ripiegato su se stesso. Le religioni, infatti, non sono solo fatti dottrinali statici, impermeabili rispetto alla dinamica storica. Esse debbono essere considerate come insiemi di credenze, norme, riti e condotte che tendono a dare un senso del mondo accessibile alla comprensione umana e che come corpi viventi interagiscono e si evolvono. Spostando l’indagine su un’ottica comparata di lungo periodo possiamo notare come patrimoni cognitivi e narrativi di una confessione siano travalicati in altre tradizioni o si siano a esse intrecciate. A questo proposito, ci sembra opportuno ricordare ciò che scrive Mircea Eliade a conclusione del suo Trattato di storia delle religioni: «Il cosiddetto sincretismo si osserva ininterrottamente nell’intero corso della vita religiosa. Non esiste demone agrario rurale o divinità tribale che non sia l’ultimo termine di un lungo processo di assimilazione e di identificazione con le forme divine circo-
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stanti. Occorre insistervi fin da ora: tali assimilazioni e fusioni non sono da attribuire esclusivamente alle circostanze storiche (interpenetrazione di due tribù vicine, conquista di un territorio, ecc.); il processo avviene in seguito alla dialettica stessa delle ierofanie: che prenda o non prenda contatto con una forma religiosa analoga o diversa, la ierofania tende, nella coscienza religiosa di coloro cui si rivela, a manifestarsi quanto più pienamente e totalmente è possibile» (Eliade 1960: 91-92; 272-300). È perciò fondamentale indagare le distinte confessioni ponendo particolare attenzione ai processi di osmosi e a quelli di interna differenziazione. 3. Processi di osmosi Per cogliere alcuni aspetti dei processi di osmosi esistenti fra le religioni, si pensi all’emblematica narrazione del diluvio universale1. Da quando l’assiriologo inglese George Smith, nella seconda metà dell’800, decifrò il testo di una frammentaria tavoletta cuneiforme ritrovata nella biblioteca del re assiro Assurbanipal a Ninive, si poté avere un prezioso e inaspettato parallelo al racconto biblico della storia di Noè. Da allora molte sono state le ricerche per ottere conferme archeologiche a quest’evento. Il diluvio universale è un episodio di fondamentale valenza simbolica nella riflessione sul rapporto fra il mondo divino e quello umano, fra la potenza insindacabile del creatore e la moltitudine dei subalterni umani. In tutte le sue varian1 Le tradizioni babilonesi collocano a Eridu, nel giardino degli dèi, un albero dai frutti di pietre preziose. Di questo si trova menzione nell’epopea di Gilgamesh. Ezechiele, nella Bibbia, vi alluderà in un oracolo contro il re di Tiro (Noah 1989). L’albero della vita è posto al centro del paradiso nella tradizione rabbinica, fatto di cui si tratta nel lavoro Le Thalmud (Cohen 1950: 457). Anche la teologia islamica, per suo conto, conosce il quib (asse, polo o centro dell’universo). Per alcuni autori tale quih (anche idea divina, parola, spirito) sarebbe un aspetto di Allah. È chiamato ‘il primo angelo’ su cui ruota la molla delle cose create e domina sui cieli, la terra e l’inferno. A sua volta, il santo diventa il polo attorno a cui ruota l’universo.
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ti narrative, esso è presente nella letteratura cuneiforme sumerica e accadica, dal libro della Genesi al mito greco di Deucalione. La decisione di annientamento di un’umanità corrotta prevede l’eccezione di un isolato testimone con relativa moglie. Al biblico Noé (che a seconda dei casi diventa Ziusudra, Utnapishtim, Atrahasis, Deucai ecc.) è affidata la costruzione dell’arca di salvezza per sé, la famiglia, la futura progenie e le eventuali specie animali, vittime senza colpa del castigo divino. Al termine di un lavacro distruttivo e obliterante, può iniziare una nuova era con altri protagonisti, con corrette regole di vita e con diverso destino del genere umano. La netta cesura segnata dal cataclisma supera la sfera delle varie narrazioni vicinoorientali e viene recepita come un preciso evento storico che segna la fine di un passato primordiale, mitico e l’inizio di una nuova era. È presente in documenti diversi quasi ad attestare un evento di rifondazione e di passaggio che riguarda la condizione umana ab imis. Invece di una lenta regressione verso forme subumane, il diluvio porta il riassorbimento istantaneo nelle acque, ove i peccati vengono purificati e da dove nascerà la nuova umanità rigenerata. Gli effetti dell’inondazione, stando alla prima sezione della celebre ‘Lista reale sumerica’ (una composizione fatta risalire alla seconda metà del terzo millenio a.C.), si susseguono nell’arco del regno di ventitre sovrani, per un totale di 24.510 anni, tre mesi e tre giorni e mezzo. La Bibbia si limita a indicare la longevità dei dieci patriarchi biblici vissuti prima del diluvio, compreso Noè che visse per oltre 350 anni dopo di esso. Non pochi ritengono di poter rintracciare elementi comuni a quest’evento anche all’interno delle religioni ritenute più distanti. L’albero della vita, l’asse del mondo, il pilastro, il supporto del sole e il gigante cosmico sono elementi presenti tanto in narrazioni dell’antico mondo iranico quanto all’interno di miti indiani, semitici, indoeuropei ed estremo orientali. Si tratta di similitudini universalmente diffuse, le quali ci pongono interrogativi rilevanti rispetto ai processi di osmosi e di mutuazione fra diversi bacini culturali.
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3.1. Sovrapposizione e adattamenti Accanto ai processi di osmosi fra le diverse religioni si deve tener conto di quelli di sovrapposizione e transignificazione. Si prenda in esame la vicenda religiosa connessa alla conquista-evangelizzazione dell’America latina dopo il XVI secolo. Nel corso dei secoli il colonialismo ispano-portoghese impose ai popoli oppressi del nuovo mondo la religione cristiana cattolica, insieme a una cultura europea posta come unico riferimento di civiltà e convivenza sociale. Obbligati a essere cattolici con la forza delle armi, o con il potere dei signori schiavisti protetti dal Dio cristiano, neri e indigeni impararono a coniugare un sentimento d’appartenenza alla cattolicità con una mistica indigena o negra. La maggior parte della popolazione ‘conquistata’ nell’America Latina ha vissuto nel corso dei secoli una certa forma di ‘doppia appartenenza’ che non era affatto connotata da doppiezza o incoerenza (AA.VV. 1989). In Brasile, solo dagli anni ’60 del novecento le religioni negre hanno potuto celebrare i propri culti senza essere considerati clandestini e senza correre il rischio che la polizia distruggesse i simboli sacri o incarcerasse i capi. Precedentemente ciò avveniva non solo per una naturale tendenza di quella a percuotere i negri, ma anche a causa di pressioni da parte della gerarchia cattolica. Molte persone che vivevano un forte impegno in associazioni e movimenti cattolici, non potevano rinunciare alla loro appartenenza al candomblé o all’umbanda. Fra i molti ambiti si pensi alle culture mestizas del Messico centrale rurale: qui si evincono numerose tracce di credenze e pratiche preispaniche che si pongono in contraddizione con la struttura essenzialmente cattolica di tali configurazioni locali. Per Alfredo Lopez Austin, il processo sincretico prodottosi nel Messico centrale è fondamentalmente e logicamente cattolico anche se il grado di ortodossia risulta contestualmente variabile. Gli elementi di origine preco-
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Fig. 2: Gerusalemme, Il muro del pianto
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lombiana presenti nel complesso religioso osservato sembrano quindi ordinati rispetto alle coordinate ideologiche del pensiero cattolico, con particolare riferimento alla contrapposizione cristiana fra procreazione naturale e procreazione spirituale. Questa osservazione, elaborata precedentemente in uno studio su Tleaycapan nel Moreòlos, è ulteriormente avvalorata in questo contesto dall’analisi della leggenda e dalla festa di Tepoztecatl, divinità pre-ispanica patrona di Tepozteco (Moreòlos settentrionale) e del Santuario di Chalma, uno fra i più popolari luoghi di pellegrinaggio messicani. Una disamina del simbolismo cristiano e l’analisi dei dati relativi a Tepoztecatl e a Chalma suggeriscono che gli scenari mitici precolombiani di Tamonchan e del Tealocan sono assimilati ai luoghi biblici dell’Eden e del Golgota. Viene inoltre posta attenzione all’emergenza dei concetti cristiani di ‘colpa’ e di ‘redenzione’ all’interno delle forme cultuali e rituali presenti sia nel pellegrinaggio a Chalma sia nella festa in onore di Tepoztecatl e al simbolismo relativo alle grotte, all’acqua, agli alberi e alle croci. In particolare si sottolinea la presenza, nella cultura folk messicana, dell’associazione dell’immagine della Vergine con la croce e l’assimilazione dell’antico culto ai graniceros con la devozione alla figura di San Michele Arcangelo (Lopez Austin 1997). 3.2. Differenziazioni interne Per molti aspetti, le religioni rinviano a un nucleo veritativo di valore universale. Ciascuna presenta poi un insieme di simboli, credenze e pratiche riconducibili a una ispirazione particolare o mito fondatore agganciato a una istituzione sociale visibile, organizzata. Ciò vale per lo shiismo iraniano come per l’ortodossia orientale, per il cattolicesimo o il luteranismo ecc. Allo stesso tempo, ognuna prevede un’interna differenziazione dialettica quale che sia il rapporto fra il senso di appartenenza e la credenza degli adepti. Una stessa confessione presenta tratti nettamente diversi distribuiti
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con una certa specificità all’interno di uno spazio suddiviso fra ortodossia ed eresia. Vediamo innanzi tutto il caso dell’islam. 3.2.1. lslam differenziato L’islam non è un fatto unidimensionale e unitario. Scrive al riguardo Khatami: «Per esempio quando parliamo dell’Islam, a quale Islam intendiamo riferirci? All’Islam di Abu Zar, all’Islam di Avicenna, all’Islam di Al Ghazali, all’Islam di Al Arabi all’Islam dei sufi, all’Islam di al-Ashari [...]».2 Ognuno di questi filoni si distingue per la sua peculiarità storica e dottrinale. Inoltre all’interno dell’islam è particolarmente delicato il rapporto con la modernità. Osserva così l’autore: «una delle difficoltà principali cui le società religiose [con riferimento all’islam] si trovano di fronte, consiste in questo: da un lato esse hanno fede nella verità e nelle verità assolute sublimi e sacre; dall’altro esaminano e valutano tali argomenti a seconda delle capacità del loro pensiero relativo e della loro anima relativa». In altri termini occorre distinguere la verità oggetto di fede dalle interpretazioni che di essa si danno nel tempo. In nome 2
Abu Zar è uno dei compagni più vicini ad Alì, il genero di Maometto. Egli da importanza ai temi e agli ideali di giustizia sociale e alla lotta contro gli oppressori. Il persiano lbn Sina (980-1037) elaborò un’approfondita interpretazione di Aristotele nella prospettiva fondata sulla concezione coranica di Dio, delineando la derivazione causale della creazione dall’Essere primo lungo un processo di emanazione. Al Ghazali (1058-1111), nel suo scritto La disunione dei filosofi, sostenne che le scritture sacre dovessero essere interpretate semplicemente in modo letterale. Din Ibn Arabi (1165-1240) ritenne che ogni esistenza derivasse dall’essenza divina dalla quale dipendono in senso gerarchico i diversi ordini di esistenza, e studiò le diverse fasi del cammino che lo gnostico deve percorrere per ricongiungersi a Dio. La gnosi propriamente detta, cioè la via iniziatica spirituale e contemplativa alla conoscenza della Realtà ultima viene distinta dalla sua forma derivata denominata sufismo, che una parte dell’islam ortodosso considera discutibile. Questa nega il principio di causalità e che l’uomo goda del libero arbitrio. Crede inoltre nel valore esclusivamente letterale delle parole dei testi religiosi.
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Fig. 2: Tempio buddhista sulle rive di un fiume
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dell’amore e della fraternità enfatizzata dalle religioni si sono compiuti crimini e si è usato la violenza. «La grande catastrofe, apportatrice di tragedie —nota ancora Kathami— si verifica nel momento in cui il carattere assoluto e sacro proprio dell’essenza della religione viene trasferito alle interpretazioni relative e fallibili che della religione gli uomini elaborano […], da qui si originano molte degenerazioni, molte infedeltà e molti conflitti» (Khatami 1999; AA.VV. 1981). In modo non molto diverso argomenta il gran mufti di Marsiglia Soheib Bencheikh. La teologia dell’islam fu elaborata in un tempo in cui il potere del principe era considerato di origine divina e la guerra e la pace erano quelle di una società nomade, tribale, clanica, divisa in signori e in schiavi. Così come stanno oggi le cose, in Algeria ad esempio, c’è una contraddizione fra lo statuto del cittadino di una moderna democrazia e il canone arcaico del figh, il diritto islamico. Secondo lo stesso Abdul Aziz Rautissi, portavoce di Hamas (abbreviazione di Harak al-Mqu-Hanns-sl-idlsminga, movimenti di resistenza islamica), l’islam non è contrario alla modernità. Il profeta ha sollecitato a utilizzare la saggezza per prendere delle decisioni appropriate. Nell’islam, infatti, ci sono dei punti fermi immodificabili come il precetto dell’atto di fede, ma tanti altri punti possono e debbono essere rivisti. Si pensi a tutta la legislazione concernente gli aspetti pratici della vita. Lo spartiacque fra ortodossia e eterodossia appare assai labile. Si pensi peraltro al movimento islamico djadidico nell’area del Volga russo che si presenta come un fenomeno analogo dentro l’Europa (Kakimov 1998). 3.2.2. Differenziazioni dentro l’Ortodossia Per riferirci alla ortodossia dei paesi balcanici, spesso accade di cogliere la Chiesa Orientale relegata all’interno di un’ortoprassia liturgica di tipo quasi folclorico, una risorsa ideologica ed etnica di alcune nazioni. In tal senso rischia di essere associata a un presuntuoso rifiuto
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e a un isolamento di fronte ai valori della modernità. La sua tradizione e la solidarietà di ordine meccanicistico cui spesso viene associata, pare indurre alla deresponsabilizzazione personale e a un prevalente fattore di appartenenza tradizionalistica. Al suo interno troviamo invece un insieme di figure creative, personaggi innovatori capaci di assumere e interpellare la modernità, aprendo gli orizzonti dell’ortodossia all’universale e proponendo un modo nuovo di vivere la tradizione. A un’attenta analisi il paesaggio non è affatto unidimensionale. Specialmente nei paesi che hanno conosciuto i regimi comunisti e l’ateismo di stato, si cerca di affermare il diritto della presenza libera della chiesa nello stato e la necessità di una cultura basata sui valori della tradizione religiosa, dell’ortodossia. Stando anche al contributo del teologo Bria, si possono distinguere nella teologia ortodossa odiema quattro tendenze che si fondano su distinti modelli: mistico, evangelico o fondamentalista, liturgico, conciliare. Secondo Bria, il pensiero teologico ortodosso soffre oggi della mancanza di uno sviluppo dottrinale proprio e di deboli contributi che sono solo ripetizioni della teologia tradizionale. Esso preferisce purtroppo ripetere le tradizionali formule invece di avanzare proposte attuali alle sfide teologiche del tempo. La teologia, che viene spesso meccanicamente ripetuta, ha perso la sua funzione critica, ha tollerato posizioni estremiste e perfino falsi insegnamenti di imperatori, patriarchi e autorità ecclesiastiche. Questa teologia riflette un modello di società cristiana fondata sul modello di Costantino, incapace di tracciare una distinzione fra chiesa e stato e di delineare il nuovo posto della chiesa all’interno delle società che emergono. Bria tocca qui forse il punto più importante. Il comunismo ha escluso la religione dalla vita sociale; col suo fallimento si reagisce con una forte valorizzazione delle tradizioni religiose, riattivando un modello in cui la chiesa si intreccia con lo stato, con i gruppi sociali e con la cultura che lo sostiene. Uno dei fattori della crisi del-
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l’ex Yugoslavia va cercato nell’aver sostituito al modello comunista un altro per cui in ogni stato sovrano avrebbe dovuto esserci solo una religione. La religione avrebbe dovuto essere l’agente della plausibilità nazionale. Accanto al dibattito teologico c’è una situazione di omogeneità sul terreno storico-politico a nome dell’antica dottrina della sinfonia fra chiesa e stato. Questo rischia di intorbidirsi, alimentando una prospettiva etnocentrica come si è verificato nel Kossovo alla fine del novecento. La battaglia del 1389 a Kosovo Poije contro i turchi, dove morì di Re Lazar, viene ri-scritta in termini biblici quasi si trattasse di una nuova alleanza fra Dio e Milosevic, il leader comunista che sembra aver costruito un’immagine di sé come il Mosè del popolo serbo. La retorica dell’antica battaglia (1389) avrà un influsso nefasto sulla guerra del 1999.3 In Russia Putin è stato a lungo responsabile del dipartimento del KGB che si occupava delle attività sovversive e religiose. Insediatosi al Cremlino, si fa riprendere dalla televisione ogni domenica mentre prega con la candela accesa, senza aver mai chiarito le sue posizioni e soprattutto senza mai aver chiesto perdono o almeno essersi pubblicamente scusato delle sue precedenti responsabilità. 3.2.3. Altre forme di differenziazione: sul fondamentalismo protestante Ritengo utile esemplificare taluni aspetti della differenziazione religiosa prendendo in considerazione lo 3 Milosevic non ha fatto che sfruttare l’esplosivo potenziale della falsa mitopoiesi connessa a quella sconfitta. Come è noto quando sei secoli fa i turchi sfondarono a nord vicino a Pristina, sul campo dei merli sconfissero l’esercito del duca Lazar, la classe dirigente tradì fuggendo al nord. A quel punto il popolo rimase abbandonato, a proteggere i monasteri restarono le truppe del sultano e a coltivare i campi arrivarono gli albanesi. Il mito della sconfitta come santificazione del popolo serbo ha fatto da sfondo a generazioni di cantastorie. La Serbia, ‘benedetta da Dio’, aveva ricevuto la corona del martirio (Rumiz 1999).
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stesso fondamentalismo. Nell’ambito del protestantesimo americano, il nome fundamentalism è stato adottato alla fine dell’ottocento con l’intento di richiamare le cinque verità teologiche fondamentali che dovevano essere difese dal darwinismo, l’interpretazione liberale della bibbia che legittimava i progressi scientifici della biologia e della geologia. I cinque punti erano: la divinità di Cristo; la sua nascita verginale; la teoria dell’espiazione sostitutiva; la resurrezione dei corpi e la seconda venuta di Cristo. Il fondamentalismo ha poi cambiato di significato all’interno dello stesso mondo protestante, divenendo un termine atto a indicare l’atteggiamento secondo cui le affermazioni contenute nei testi sacri vanno prese alla lettera, come verità assolute valide in tutti i campi. Esso traduce una concezione ingenua del libro sacro come verità assoluta anche sul terreno politico e scientifico. In senso proprio, esprime il senso di disorientamento di fronte al processo magmatico della modernità. Facendo diretto riferimento alla realtà statunitense e in particolare al mondo protestante, il fondamentalismo è un complesso movimento di carattere teologico sviluppatosi all’interno della tradizione evangelica e revivalista americana. Originariamente non aveva motivazioni o scopi politici ed era dedito a un’intensa opera di missione con un forte impegno polemico contro la teologia ‘modernista’. Il fondamentalismo si situa in uno spartiacque di grande trasformazione. La sua nascita avvenne infatti in un contesto di vera e propria ‘guerra culturale’ che può essere compreso solo ponendosi in relazione al complesso mondo protestante americano dell’ottocento, frutto di un’eredità che risale all’età coloniale. La Bibbia era lo strumento fornito direttamente da Dio a ogni cristiano e alla Bibbia solamente si doveva fare riferimento nel dare e ricevere la parola. Il protestantesimo americano subisce una spaccatura negli ultimi anni dell’ottocento, con l’affermarsi dell’alleanza fra fede e scienza. In questo contesto, ogni progres-
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so della scienza non poteva che essere un modo per meglio conoscere la volontà divina espressa nel creato e per rafforzare le condizioni di vita del popolo. La diatriba sull’evoluzionismo divenne il punto su cui si ruppe l’unità dell’America protestante. Il fondamentalismo dei primi del novecento non si presenta con un solo volto. Tre possono essere ritenute le fasi dell’antimodernismo protestante e quindi del fondamentalismo. La prima riguarda gli anni venti e si caratterizzò per le campagne antiproibizioniste e anticattoliche; la seconda trova il cemento vivificatore nell’anticomunismo degli anni cinquanta e sessanta; la terza, negli anni settanta e ottanta, è contrassegnata da un programma di ricristianizzazione dell’America su posizioni politiche fortemente conservatrici. Alla fine degli anni ottanta, Lasch descrive la cultura americana come una cultura ‘narcisista’ ripiegata sull’affermazione dell’io individuale. Si parla di quel decennio anche come ‘the me decade’ con un chiaro riferimento al prevalere di una tendenza che privilegia la ‘liberazione personale’, l’individuale. All’interno di questo clima maturano tendenze differenziate: alcune puntano sul valore dell’autoaffermazione economica, sul successo grazie alla scalata sociale; altre sul valore della liberazione interiore ponendosi sulle orme del buddhismo o di religioni orientali; altre ancora mirano al riscatto sociale facendo leva sulla variabile di genere e sulla dimensione etno-culturale in nome del multiculturalismo. In questo contesto si affermano gruppi a carattere tradizionalista come i pentecostali, i carismatici (non solo protestanti, ma anche cattolici) che puntano sulla ‘rinascita del singolo in Cristo’, una rinascita non disciplinata in modo rigido, vissuta nel quotidiano di un’esperienza del tutto laica, inserita nel modo di vivere individualista degli americani di oggi. Di questo fondamentalismo cristiano si avvalse il populismo che portò Reagan alla presidenza degli USA e la Moral Majority. Questi fedeli fondamentalisti statunitensi ritenevano la chiesa un’entità volontaria,
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pattizia, locale, con un debole ruolo di mediazione fra il fedele e Dio. Le loro posizioni venivano spontaneamente a coincidere con l’antistatalismo, l’individualismo, il volontarismo della visione conservatrice. Se alla base del fondamentalismo stava la volontà di reagire al relativismo etico, alla fine del ’900 non ne è venuta fuori una proposta collettiva di rinascita cristiana, anche a causa dell’enfasi posta su una rinascita troppo individuale e su una interpretazione letterale del comando scritturale privo di una tradizione unitaria. Il fondamentalismo ha finito per riattivare un conservatorismo politico permeato di valori etici tradizionali enfatizzanti la libertà personale e il valore delle comunità volontarie. 3.2.4. La differenziazione del fondamentalismo islamico Il fondamentalismo islamico è una corrente radicale, che cerca di liberare le antiche e genuine tradizioni delle prime generazioni di musulmani da tutte le innovazioni successive per tornare al Corano, alla Sunna e al primo consenso nella ricerca del ‘puro islam’. Le tesi di Sayyd Qutb, per fare un riferimento ad un esponente egiziano che eserciterà un notevole influsso sul mondo islamico, tendono a cogliere e a denunciare una dissociazione radicale che è in atto fra l’islam e l’insieme delle società che si dicono musulmane (Carré 1984). Nel loro insieme queste sono considerate jahiliyya cioè realtà dominate dal paganesimo e dall’idolatria. Il vero musulmano avrebbe dovuto rompere con l’idolatria e operare una svolta decisiva, abbattendo i vari faraoni del momento e rimettendo Allah al loro posto. Gran parte dei costumi e dei comportamenti musulmani non hanno più nulla a che fare con la predicazione del profeta: il modo di vestire, di nutrirsi, le relazioni con l’altro sesso, l’educazione, le trame della vita quotidiana, da subito avrebbero dovuto ubbidire all’istanza suprema del rinnovamento. Un tale movimento di reislamizzazione andrà affermandosi in forme diverse all’interno delle bidonville
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come nei movimenti studenteschi delle università. È la prima volta che nella storia del mondo arabo-musulmano emerge una nuova generazione nata dopo l’indipendenza, una generazione massiva, frutto dell’esplosione demografica e dell’esodo rurale di massa verso i grandi agglomerati urbani. Una generazione segnata dallo sfruttamento sociale, perché questi regimi, siano essi militari-nazionalisti o monarchici, sono stati tutti autoritari, liberticidi, caratterizzati da un assoluto monopolio del potere politico come di quello economico, soprattutto laddove c’era una rendita petrolifera da gestire. Si pensi al regime militare algerino, alla monarchia saudita o al regime dello scià in Iran. Nel linguaggio islamico, l’unico in grado di unire le componenti sociali più diverse, si traduceva la promessa di un cambiamento radicale delle gerarchie sociali, la possibilità di avere un lavoro, una casa, una propria famiglia. L’alleanza fra la borghesia religiosa e le masse giovanili urbanizzate prive di futuro viene resa possibile dall’ideologia islamista. Negli anni settanta, con la vittoria di Khomeyni in Iran, a taluni è sembrato fosse giunto il momento di affermare il processo di re-islamizzazione. Negli anni ’80 si sviluppa una riflessione che torna al significato di uzia o mufasala (cioè di rottura). Una tale rottura avrebbe dovuto portare alla lotta contro la jahiliyya che è incarnata dai despoti empi e alla presa del potere seguita dall’instaurazione dello stato islamico che dovrà applicare la sharia (ovvero il diritto ispirato ai testi sacri) nel modo più rigoroso possibile. Il successo più eclatante è la rivoluzione khomeinista in Iran. Facendo riferimento a quanto accade nei paesi islamici oggi, occorre tener presente il loro travaglio interno. Tali paesi si trovano di fronte al processo di modernizzazione, presentano situazioni di crisi e di contrapposizioni proprio nei rapporti fra religione e politica, religione e costume, religione e scelta della vita quotidiana. È sotto gli occhi di tutti come coesistano o si contrappongano in Algeria, come in Iran, precise correnti: la tradi-
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zionalista, la filo occidentale e la riformista. Gli episodi di violenza e gli scontri di cui si legge sui giornali non sarebbero comprensibili se non si facesse costante riferimento alle contrapposizioni in atto. Ma dobbiamo guardare anche le origini della paura occidentale dell’islam e stare attenti a non riprodurla indistintamente e senza consapevolezza. Ci sono molte persone e un filone di pensiero che non si è tranquillizzato dopo la sconfitta degli arabi a Poitiers nel 732 per opera di Carlo il Martello e nel 1683 a Vienna. Il controllo del territorio europeo e del Mediterrraneo sembra ancora essere prioritario e indispensabile. C’è l’incubo che in seguito venga insegnato e imposto il Corano a Oxford come a Roma e a Parigi. Molti approcci riduzionistici sull’islam diffusi in Occidente nascono dall’etnocentrismo europeo per cui innanzi tutto è ignorata l’esistenza di una ‘versione musulmana della storia’. Il suo approfondimento eviterebbe molti errori e consentirebbe l’avvio di rapporti di convivenza migliori. In settori del mondo cattolico, i sentimenti di paura hanno radici tanto profonde da impedire una diversa comprensione dell’islam. Le ragioni di fondo sono il rifiuto del cambiamento determinatosi con la rottura dell’identificazione di occidente e cristianità e l’incapacità di accettare il pluralismo, la diversità, il diritto dei soggetti ad autodeterminarsi. Quale dunque il profilo dell’islam davanti alla modernità? È indubbio che i nuovi processi comunitari non potranno trovare dei criteri regolatori esclusivamente sulla base di spinte economiche. Né potranno ancorarsi a una concezione individualista della vita che persegue esclusivamente il progresso materiale e la promozione dei valori procedurali ossia i meccanismi di mercato, le leggi, le regole formali. Il ruolo delle culture e delle religioni è nodale. Le mète non si raggiungono con la guerra e con la violenza. L’analisi del mondo islamico pone di fronte alla esigenza di saldare la fedeltà religiosa, o meglio la fedeltà all’ispirazione religiosa, e un programma di profonde riforme sociali e politiche, a un progetto
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di civiltà fondato sulla libertà e la democrazia. La pista da battere è quella di intensificare le comunicazioni tra i diversi campi del sapere, una più approfondita consapevolezza dei rapporti fra le azioni e le loro conseguenze, una maggiore coerenza tra cultura e vita sociale, fra princìpi etici e comportamenti individuali. Così facendo, lo sguardo sull’islam contemporaneo potrebbe servire a capire che la parcellizzazione propria della ragione tecnologica occidentale rischia di provocare nuove alienazioni, nuovi allontanamenti da sé. 3.3. Religioni ed ecumenismo In una ricognizione del paesaggio religioso contemporaneo è fondamentale tentare una risposta alla domanda su quale sia lo stato della prospettiva ecumenica. L’ottava assemblea generale del Consiglio ecumenico delle Chiese (CEC) è stato celebrato ad Harare, capitale dello Zimbabwe e aveva come titolo tematico ‘Rivolgetevi a Dio. Rallegratevi nella speranza’. I problemi che sono affiorati in questa circostanza possono dare un’idea al riguardo. Ci si trova di fronte a una situazione di stallo per l’incrociarsi di elementi teologici e storicopolitici, quali l’attesa del superamento del contrasto ecclesiologico che divide l’Ortodossia dal protestantesimo e la forza di una nuova consapevolezza etico sociale dei cristiani di fronte agli scontri Nord-Sud del mondo. Innovativa rispetto al passato è la tematica posta dalla presenza delle donne nelle chiese. Durante il festival per la conclusione del ‘Decennio di solidarietà delle chiese con le donne’, lanciato dal CEC nel 1988, sono state toccanti le testimonianze di donne violentate, anche da uomini di chiesa. Un decisivo momento di riflessione è seguito alle parole di Susan Matuari (Zambia): «Africa, Madre Africa, ricordi quando su di te sorgeva la luna e illuminava i tuoi villaggi che avevano una loro vita e tu nutrivi i tuoi figli? Poi vennero i conquistatori e ci dissero che eravamo barbari e la tua esistenza fu devastata».
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Fin dalla precedente assemblea, svoltasi a Camberra nel 1991, si era manifestato il malessere delle chiese ortodosse nei confronti del Consiglio (CEC) di cui pure erano parte. In questi anni di post-comunismo, esso avrebbe appoggiato le chiese occidentali invadendo il territorio canonico delle chiese ortodosse con molte ‘sette’, questa l’accusa del patriarca di Mosca, Alessio presso il CEC. Il Consiglio sarebbe così giunto a sostenere scelte ritenute improponibili e inaccettabili dall’ortodossia: ministeri femminili, linguaggio inclusivo (‘una bestemmia’ l’ha definito un delegato russo ad Harare), apertura alle religioni non cristiane, comprensione verso gli omosessuali. Nel 1997 era uscita dal CEC la Chiesa ortodossa georgiana, poi nell’aprile 1998 quella bulgara. A Salonicco nel maggio 1998, le chiese ortodosse avevano deciso in linea di massima di non partecipare né ai culti (seppure non eucaristici) in comune, né alle votazioni di Harare. Ma qui il loro comportamento è stato differenziato: i più, con il patriarcato di Costantinopoli, hanno partecipato ai culti in comune e alle votazioni, mentre la delegazione russa (e in parte greca e serba) salvo un paio di eccezioni, ha disertato i culti e pur essendo sempre presente in seduta plenaria non ha votato ai documenti proposti. Gli ortodossi ritengono inaccettabile l’attuale struttura del CEC ed è difficile intravedere quale sarà la posizione in modo particolare della Russia nel prossimo futuro. La politica complessiva del patriarcato non è sembrata rivolta all’assemblea quanto all’immensa realtà russa. Qui infatti una parte importante, forse non maggioritaria ma certo con decisivi agganci nei monasteri, in diverse sedi episcopali, in molti pope, in tanti circoli nazionalistici, aveva minacciato quasi lo scisma se la delegazione russa ad Harare non avesse gridato il suo alt. Tuttavia, se il CEC non può fare a meno della chiesa russa, questa non può risolvere i suoi immensi problemi attraverso l’isolamento. L’ecumenismo, quindi, pare oggi trovarsi davanti a un vicolo cieco. Appare chiaro come la fedeltà alla propria identità non riesca a saldar-
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si con la prospettiva che dovrebbe portare alla ‘comunione’ con gli altri. Lo stesso richiamo al modello di chiesa in atto nei primi dieci secoli di cristianesimo se, da un lato, pare superare le contrapposizioni in ordine al primato di Pietro, dall’altro sembra corrispondere essenzialmente alle esigenze delle diverse autocefalie nei loro rapporti di forza. La grande sfida, più che di ordine ecclesiologico, è di natura simbolica di fronte alle sfide della modernità. Il dialogo e la comunione, per essere reali, richiedono l’instaurazione di rapporti paritari. Il macro-ecumenismo fa propria la proposta del dialogo interreligioso e interculturale in quattro tappe o dimensioni, come insegnano alcuni documenti ecclesiali. Ma desidera andare oltre per costruire nei fatti una testimonianza di unità e di superamento delle frontiere. Penso che questo lavoro si caratterizzi per lo sforzo di superare qualsiasi tentazione di dogmatismo e di autoritarismo. Il cammino del macro-ecumenismo non si realizza attraverso incontri di vertici ecclesiastici o commissioni di alto livello, ma nelle ‘basi’ e nelle relazioni comunitarie. Esso comincia con l’assumere quei rapporti d’integrazione già esistenti fra le persone che soffrono a causa delle discriminazioni. Ciò fa sì che il processo si avvii attraverso lavori sociali e lotte popolari. Inoltre, la ricerca dell’altro, nonché la valorizzazione delle tradizioni ‘altre’, si realizzano soprattutto a partire dai laici e dai più poveri, piuttosto che dalle alte gerarchie. La sfida permane nello sviluppare un pensiero teologico che approfondisca questo cammino e che aiuti le comunità a non cadere nel relativismo religioso, ma ad avanzare verso un’apertura del cuore e della propria fede. 3.4. Considerazioni finali Nel passato, le religioni monoteiste hanno in genere teso a perseguitare materialmente chi non credeva nello stesso Dio (eretici, scomunicati, pagani, praticanti di reli-
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giosità sovversive ecc.). A lungo la chiesa cattolica ha ritenuto suo dovere-diritto perseguitare e sottomettere le coscienze di tutti coloro che non obbedivano alla religione. Purtroppo fu in questo imitata anche da quelle chiese sorte per contrastarla e solo pochissime confessioni (ad es., quaccheri, mennoniti ecc.) hanno agito diversamente. L’intolleranza verso i ‘fedeli liberi pensatori’ è stata una costante delle varie religioni, protestanti comprese. In questo momento storico, le religioni devono imparare a convivere non solo per non continuare a rappresentare un incentivo per le guerre (direttamente o indirettamente), ma soprattutto per non mancare al loro principale compito, quello di insegnare l’imperativo della fraternità. Bibliografia AA.VV. (1985), La Chiesa e il movimento ecumenico, Centro Pro Unione, Roma. AA.VV. (1989), Messico terra di incontro. La cultura mestiza, in «L’uomo», 2, n. 1. Bausani, A. (1980), L’Islam, Garzanti, Milano. Carrè, O. (1984), Mystique et Politique. Lecture revolutionnaire du Coran par S. Qutb, frére musulman radical, PUF, Parigi. Cohen, B. (a cura di) (1950), Le Talmud : expose synthetique du Talmud et de l’enseignement des rabbins sur l’ethique, la religion, les coutumes et la jurisprudence, Payot, Parigi. Eliade, M. (1960), Trattato di storia delle religioni, Bollati Boringhieri, Torino. Kakimov, R.S. (1998), Russia and Tatarstan. At a Crossroads of History, in «Antrhopology and archeology of Eurasian», 37, n. 1, pp. 30-71. Khatami, M. (1999), Religione libertà e democrazia, Laterza, Roma-Bari. Lopez Austin, A. et al. (1997), Tamonchan, Tealocan. Place of Mist, University of Colorado, Austin. Noah, L.R.B. (1989), The person and the story in History
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and tradition, University of South Carolina Press, Columbia. Pace, E. (1999), Sociologia dell’Islam, Carocci, Roma. Roggero E. (1998), Cristianesimo e religioni nel pensiero di E. Troeltsch, in Roggero, E. et al., Religiosità e cultura: dal progetto positivistico al dialogo interreligioso, Il Segnalibro, Torino. Rumiz, P. (1999), Nel diluvio delle memorie, in «La Repubblica», 31 marzo, p. 13. Troeltsch, E. (1993), La posizione del cristianesimo tra le religioni universali, in Lo storicismo e il suo oltrepassamento, appendice a Id., Lo Storicismo e i suoi problemi, Guida, Napoli. Van der Leeuw, G. (1960), Fenonenologia della religione, Bollati Boringhieri, Torino.
IV Oltre l’appartenenza, l’esperienza
I termini con cui indichiamo l’appartenenza religiosa sono oggi divenuti marcatamente polisemici. Cattolico, ad esempio, se significa una precisa confessione, di fatto evoca anche un patrimonio culturale in senso lato, una tradizione storica, un profilo politico, degli habitus. Inoltre, l’attribuzione convenzionale a una religione, non garantisce di per sé la sua pratica né, tantomeno, la sua accettazione coerente e integrale. Questa complessità definitoria si accompagna alla situazione della modernità, in cui assistiamo a una grande trasformazione: si è passati infatti dal primato del destino, della natura, della tradizione a quello della centralità della scelta. Non solo ha perso vigore il principio del cuius regio et eius religio, ma si relativizza la rilevanza del bagaglio dottrinale delle verità oggettive da conoscere e in cui credere, perde peso la dimensione delle trame rituali cui attendere, si rivela assai aleatorio il peso delle regole morali cui attenersi. I beni di salvezza tendono a sfuggire ai loro produttori e i significati che li esprimono possono transitare da una tradizione all’altra. Sono diversi quelli che, utilizzando un’espressione brillante, hanno osservato che «il credere va in vacanza liberandosi delle sue solidarietà per andare a spasso nell’universo lussureggiante del senso»,
Nesti Arnaldo, Per una mappa delle religioni mondiali ISBN 88-8453-245-0, © 2005 Firenze University Press
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mentre il fare diventa orfano, prodotto e sorretto dall’emozione della situazione (Gill 1999; Brierley 2000). In un simile ambiente culturale, le persone non sembrano più tanto interessate alla verità dottrinale o al patrimonio teorico delle diverse ortodossie, quanto all’emozione, a tutto ciò che parla del rapporto con il vissuto, all’aldi-qua nelle sue variegate connotazioni esistenziali ed emozionali. Qui i contenuti e i comportamenti non sono dettati da princìpi religiosi portati avanti dalla tradizione, ma sono scelti a seconda delle esigenze personali. Si verifica così la situazione paradossale per cui la fede persiste, ma spesso disgiunta da una precisa appartenenza. In questo capitolo cercheremo di superare l’immagine di una mappa religiosa fondata su elementi estrinseci e formali, per delineare –a livello internazionale– aspetti di uno scenario religioso più aderente all’effettiva esperienza dei soggetti contemporanei. Tale quadro non presume la completezza, ma, per quanto centrato solo su talune aree del mondo, può essere assunto come indicativo di tendenze diffuse. Innanzi tutto ci soffermeremo sulla situazione europea. 1. Le condotte religiose degli europei 1.1. Il mondo dei giovani Da un’indagine condotta in dodici paesi dell’Europa occidentale sull’evoluzione religiosa dei giovani fra i diciotto e i ventinove anni nell’arco degli anni 1981-1999, risulta che l’individualismo religioso attraversa i confini delle nazioni e accomuna ormai tutti i ventenni e i trentenni (Azcona 2000). La grande maggioranza afferma di far propria una religione e di essere credente, anche se generico è il volto di Dio. Si osservi qui la tabella indicante le condotte religiose dei giovani. Gli italiani, nel 1981, si dichiaravano appartenenti a una religione per l’89%, mentre nel 1999 per l’80%. La cifra è assai consistente specialmente se confrontata con quella della Germania che, nello stesso periodo, è passata
70-56
94-90
57-47
90-78
83-75
98-86
89-80
52-30
63-82
82-71
90-76
Belgio
Danimarca
Francia
Germania
Gran Bretagna
Irlanda
Italia
Olanda
Portogallo (*)
Spagna (*)
Svezia
33-36
76-68
68-86
54-45
75-87
92-90
63-52
55-53
44-47
30-49
70-54
66-77
Crede (%)
6-7
34-13
32-38
35-14
33-40
83-43
10-12
21-22
11- 6
3-5
29-17
35-25
18-24
28-23
43-67
29-20
42-54
64-29
34-30
28-31
37-36
28-45
44-35
38-27
Pratica (%) Fiducia nella Chiesa (%)
(*) per Spagna e Portogallo i rilevamenti si riferiscono al 1990 e al 1999.
89-90
Austria
Appartenente (%)
Fig. 1: Le condotte religiose dei giovani in Europa (1981-1999)
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Fig. 2: L’evoluzione religiosa fra i giovani europei tra i 18 ed i 20 anni rilevata nel periodo 1981-1999
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dal 90% al 78%, della Gran Bretagna dall’83% al 75% e della Francia dal 56% al 47%. In Francia, dunque, meno della metà dei giovani si dice appartenente a una religione. Lo stato della credenza in Dio è assai bassa. In Italia si è avuta una crescita passando dal 75% all’87%. In Olanda si è passati invece dal 54% al 45%, mentre in Svezia dal 33% al 36%. È mediamente bassa la pratica cultuale. In Francia si è passati dall’11% al 6%; in Irlanda dall’83% al 43% e in Belgio dal 29% al 17%. In Italia dal 42% al 54% e in Spagna dal 28% al 23%. La fiducia nella chiesa presenta poi un andamento difforme. Dai dati sopra riportati si ricava che la religione dei giovani è come una carta di credito per i momenti difficili della vita. I giovani non hanno un bagaglio religioso consolidato, il rapporto con Dio è individuale. I riti, in genere, appaiono forme inutili almeno che non siano in grado di coinvolgere in prima persona e vengono considerati occasioni idonee a realizzare concrete proposte sociali o a realizzare forti momenti di aggregazione. La stragrande maggioranza non ritiene necessario adeguarsi alle norme etiche delle religioni, come la morale sessuale o il comportamento politico. L’orizzonte religioso emerso sottolinea la diminuzione dei fedeli in senso stretto, ma anche la necessità di affrancarsi dalle strettoie di un quotidiano troppo angusto per lasciarsi un varco oltre la morte e l’ignoto. 1.2. L’andamento in talune aree europee Gill ha interpretato le tendenze dei praticanti negli ultimi decenni attraverso una distinzione in distinti periodi dei diversi profili. Negli anni prima del 1970, il declino della pratica sarebbe connesso alla secolarizzazione, la quale metteva in crisi lo stretto nesso fra credenza e pratica. Negli anni ’70 persiste la pratica, anche se si ammette la possibilità dell’omissione. Negli anni ’80 si delinea la rottura del tradizionale nesso e si colgono credenze e pratiche come indipendenti. Negli anni ’90 la pratica si configura
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come un tratto culturale della credenza. Ma soffermiamoci ora su alcune situazioni nazionali, passando in particolare rassegna quella spagnola, olandese e francese. La situazione spagnola Ancora nel 1975, il 94,2% della popolazione spagnola si dichiara cattolica. Nel 1984 la percentuale è scesa all’86,5%. L’assistenza alla messa domenicale si aggira nel 2000 sul 27-29% della popolazione. Francisco Azcona stima che negli anni novanta la frequenza festiva si è mantenuta intorno al 27-29% della popolazione. Significativamente, i giovani risultano più inadempienti degli adulti, assestandosi fra il 15% e il 17%. In Spagna si è di fronte a un terzo della popolazione di cattolici praticanti, ma due terzi non lo sono. La rottura dell’unità fra fede e pratica è evidenziata dal fatto che si crede meno in Gesù Cristo che in Dio, nella Chiesa che in Gesù Cristo e ancor meno in alcuni dogmi relazionati con la vita ultraterrena. Assistiamo a una tendenza secondo la quale molti che si dicono cattolici non credono nelle verità, nelle credenze e nei valori del Credo. Questa dicotomia fra fede e vita salta agli occhi rispetto alle posizioni diffuse circa l’aborto o il matrimonio fra omosessuali, specialmente in contesto urbano. Fra il 1993 e il 1994, il 40% degli spagnoli considera l’aborto come un diritto, il 24% come un problema che deve essere tollerato, il 14% un assassinio e il 4% un delitto. Da questa indagine affiora che anche fra i cattolici praticanti, il 52% lo ritiene un assassinio a differenza dell’altro 48% di parere assai diverso. Le credenze permangono ma non vengono più percepite come valori capaci di influire sulla vita personale e sociale. Si tratti di scelte quotidiane o di ordinamenti dell’esistenza, di etica o di estetica, il riferimento abituale, pubblico, in particolare quello diffuso dai mass media, non è più ispirato alla visione cristiana dell’uomo e del mondo. La situazione olandese Qui il processo di secolarizzazione è presente come declino del senso di appartenenza alla chiesa e perdita
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del monopolio delle istituzioni religiose. La situazione olandese sottolinea come la gioventù viva una forte disaffezione rispetto alla religione di chiesa ma metta allo stesso tempo in atto un processo di individualizzazione del religioso. I giovani di oggi sottopongono al bricolage il loro sistema di senso personale, selezionando fra tradizioni religiose disponibili e riproponendo così il loro agire in campo culturale. L’82% dei giovani olandesi prega di quando in quando. Il modo di pregare è assai omogeneo, di carattere psicologico. La preghiera è l’indicatore religioso più resistente. Essa dà la forza per accettare l’inevitabile (come la morte di un familiare), offre uno spazio di meditazione e di riflessione, aiuta a fare un bilancio della vita nella propria quotidianità e funziona come un rituale terapeutico che assicura un certo equilibrio. I giovani pregano preferibilmente quando sono soli, stando a letto, di notte. Designano spontaneamente il destinatario delle loro preghiere, però quando lo descrivono usano termini impersonali e astratti. La mancanza di contatto con Dio potrebbe essere letta, secondo alcuni studiosi, come la base di una ricomposizione del religioso. La situazione francese In questo paese il cattolicesimo si presenta marcatamente indebolito pur restando la religione dominante. Nel 1990, il 62% dei francesi dichiarava la sua appartenenza a una religione, nel 1998 quella percentuale è scesa al 55%. Nello stesso periodo la presenza dei cattolici passa dal 57% al 51% e coloro che si dichiarano senza religione salgono dal 39% al 45%. Tale evoluzione varia essenzialmente a causa dei cambiamenti propri delle generazioni. I giovani mostrano minori rapporti con le religioni e con le istituzioni cattoliche. Willaime definisce la Francia «un paese cattolico di cultura laica» oppure «un paese laico di cultura cattolica» (Willaime 2000: 155; 174). Circa la metà della popolazione afferma chiaramente la propria distanza da ogni religione, un buon quarto continua a dirsi cattolico anche se di fatto ne è distacca-
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to. I valori secolari dominano, ma il declino del cattolicesimo non è stato sostituito da un altro universo religioso. Certamente si affermano dei movimenti religiosi minoritari ma il cattolicesimo, per quanto indebolito, resta la principale religione strutturante l’identità religiosa dei francesi. Il pluralismo religioso in Francia resta un fenomeno quantitativamente limitato. Sulla base di una ricerca, l’universo delle credenze religiose evidenzia che il 35% non crede in Dio, il 24% dà risposte ambigue rispetto al 40% che si dichiara credente (Brechon 1998). Tutti i praticanti sono nettamente credenti e anche una piccola percentuale di senza religione afferma la propria credenza, più o meno stabile, in una divinità. Quale il nesso fra la fede in Dio e altre credenze? Quella nell’inferno è la verità più rifiutata da una parte importante di cattolici praticanti e credenti in Dio. Una percentuale significativa dei senza religione crede tuttavia in una vita dopo la morte. Si è di fronte a un insieme differenziato di fedi e all’autonomia degli individui, che possono rifiutare le religioni istituite e pertanto ricomporre o scardinare il sistema delle credenze religiose. Quale il rapporto fra credenza ed età? La fede in Dio è meno forte presso i giovani (18-24 anni) e più frequente presso gli anziani (65 anni e oltre). Non ci sono particolari differenze in base all’età per altri tipi di credenze quali la vita dopo la morte, l’inferno o i miracoli. Quale l’universo delle credenze parallele? Pochi credono fermamente ai ‘profeti’, ai veggenti, ai guaritori ispirati da Dio, al segno astrologico e all’oroscopo. Gli adepti di questo universo eterodosso costituiscono il 24% del campione, gli indecisi il 39% e il 37% quelli assolutamente contrari. Tra i credenti la maggioranza è femminile, mentre gli anziani sono i più ostili. La tradizione degli studi ha mostrato la possibilità di distinguere in due categorie coloro che credono ai fenomeni paranormali: quelli che rivendicano una certa legittimità scientifica (come la trasmissione del pensiero, i sogni premonitori, gli extraterrestri) e quelli che fanno leva sulla previsione del futuro.
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Il rapporto fra l’universo delle credenze parallele e quello della religione appare assai complesso. La relazione fra il sentimento religioso e le credenze parallele è molto stretto. Quelli che si dicono non religiosi rifiutano spesso tali credenze probabilmente allo stesso titolo per cui ricusano quelle propriamente religiose, percepite come inutili o nocive. Solamente il 35% dei credenti paralleli si dicono religiosi (in un campione contrassegnato dal 51% di cattolici e dall’89% di praticanti). Immagine debole delle organizzazioni religiose, distacco progressivo dal cattolicesimo, ricomposizione dei sistemi di credenza, sembrano essere alcune tendenze del panorama religioso della Francia contemporanea. Quale l’effetto delle identità religiose sull’insieme degli atteggiamenti? È noto che l’impatto delle religioni su una società si misura non solamente in base all’estensione delle pratiche e delle credenze ma anche sul sistema dei valori in senso lato. Ebbene, se si correla il grado di integrazione al cattolicesimo con i valori connessi alle relazioni sessuali al di fuori della coppia legale e all’aborto, si ricava un atteggiamento assai aperto in materia di libertà sessuale, salvo per le relazioni extraconiugali e per quelle omosessuali. Se in media il 53% del campione è favorevole alle relazioni sessuali al di fuori della coppia, solo il 9% dei cattolici praticanti le legittima. La distribuzione delle opinioni varia secondo l’integrazione al cattolicesimo. Altri valori sono dipendenti dall’integrazione al cattolicesimo ma non sempre in modo molto intenso. Così il 54% stima che è illegittimo mentire nel dichiarare il reddito per pagare meno tasse. Al riguardo, i cattolici bene integrati nella loro religione non risultano che moderatamente più morali degli altri. Il grado di integrazione al cattolicesimo continua comunque a introdurre alcune differenze nel sistema degli atteggiamenti dei francesi. Si ha l’impressione, pertanto, che il sistema cattolico perda di omogeneità e che prevalga un’ottica più individualistica. Il religioso diffuso e disseminato è più composito e eterodosso. Anche coloro che si dicono senza religione sembrano meno omogenei, esitano fra l’affermazione della razionalità della scienza e l’adesione alla credenza in
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una vita dopo la morte o a certe credenze parallele. Si definiscono sempre meno in opposizione netta ai sistemi religiosi. Hanno piuttosto un’identità modellata dalla ‘irreligione’. L’aumento della ‘irreligione’ spiega in gran parte il declino dei valori tradizionali. 1.3. ‘Dio dopo il comunismo’ Quale la situazione religiosa nei paesi europei che hanno conosciuto l’esperienza del comunismo di stato? In queste pagine sono stati presi in considerazione le realtà dei seguenti paesi: Lituania, Polonia, Germania Orientale, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Ungheria, Romania (limitatamente alla Transilvania), Slovenia e Croazia. Sulla base della ricerca ‘Dio dopo il comunismo’ condotta nel 1998, i paesi più ‘scristianizzati’ risultano nell’ordine la ex Germania est e la Repubblica Ceca. La modernizzazione produce effetti negativi dappertutto, ma in Polonia si presenta con caratteristiche assai devastanti. La religione in genere assume un ruolo più importante nella vita degli individui fra i 51 e 55 anni. Prendendo in considerazione la richiesta dei grandi riti quali il battesimo, il matrimonio religioso e i funerali religiosi si presenta questa situazione per gruppi di età e per paese. 1.4. Il continente russo dopo l’ateismo di stato Secondo stereotipi assai diffusi nel continente dell’ex URSS, l’ateismo di stato avrebbe caratterizzato le credenze e le condotte della società e dei singoli. A una attenta lettura, la situazione si presenta in modo assai diverso. Va tenuto conto che prima ancora della rivoluzione d’ottobre del 1917, la Chiesa ortodossa aveva avuto uno sviluppo parziale perché, come sosteneva Solgenitzyn, fin dai tempi di Pietro il Grande era stata sottomessa allo stato, che ne aveva limitato fortemente le potenzialità spirituali. Fin dal XIX secolo la intelligentsija aveva assunto atteggiamenti assai critici nei confronti della Chiesa. Nel 1917 la disaffezione era diffusa anche a livello popolare.
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Fig. 3: La richiesta dei grandi riti nel gruppo dei nati prima del 1945 e dopo il 1975 in alcuni paesi dell’Est Europa Anno nascita Rep. Ceca Prima del 1945 Dopo il 1975 Differenza Croazia Prima del 1945 Dopo il 1975 Differenza Germania orient. Prima del 1945 Dopo il 1975 Differenza Lituania Prima del 1945 Dopo il 1975 Differenza Polonia Prima del 1945 Dopo il 1975 Diffrenza Romania Prima del 1945 Dopo il 1975 Differenza Slovacchia Prima del 1945 Dopo il 1975 Diffrenza Slovenia Prima del 1945 Dopo il 1975 Differenza Ucraina Prima del 1945 Dopo il 1975 Differenza Ungheria Prima del 1945 Dopo il 1975 Differenza
Battesimo
Matrimonio
Funerale
41% 15% -26%
31% 12% -19%
34% 21% -13%
86% 72% -14%
77% 67% -10%
87% 75% -12%
32% 8% -24%
26% 12% -14%
33% 20% -13%
93% 81% -12%
87% 80% -7%
90% 69% -21%
96% 83% -13%
85% 78% -7%
90% 83% -7%
98% 88% -10%
98% 85% -13%
97% 82% -15%
74% 66% -8%
65% 49% -16%
64% 61% -3%
69% 48% -11%
60% 43% -17%
69% 55% -14%
78% 80% +2%
60% 66% +6%
70% 75% +5%
80% 61% -19%
69% 51% -18%
77% 60% -17%
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Fig. 4: La richiesta dei grandi riti nel gruppo di età fra i 51 e i 55 anni in alcuni paesi dell’Europa prima del 1945 e dopo il 1975
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Dopo la rivoluzione del 1905 lo zar commise imperdonabili errori personali e politici. Molti, fra cui Solgenitzyn, disapprovarono la scelta della Chiesa ortodossa di attribuire allo zar Nicola Il il ruolo eroico di protomartire in testa a una legione di santi. Prima ancora della fine del regime comunista, all’interno dei 270 milioni di abitanti dell’ex URSS circolavano delle stime secondo le quali il 20% dei cittadini era credenFig. 5: La situazione nel continente russo dopola fine del comunismo
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te e di questi addirittura un terzo sarebbe stato credente attivo. Si riteneva che gli ortodossi fossero esattamente il 22,50% di fronte a un 1,6% di protestanti, a un 1,4% di cattolici e a un 11,3% di musulmani, senza dire degli ebrei e dei buddhisti. Dopo le migrazioni per Israele, al momento attuale gli ebrei si aggirano intorno ai 300.000. Alla fine degli anni novanta la situazione religiosa riflette quella etnica. Gli ortodossi sono la maggioranza in Russia, Bielorussia, Ucraina, Moldavia e Georgia. Forte è la presenza ortodossa in Ossetia, Carelia, Jacuzia. I cattolici erano concentrati in Ucraina occidentale e nella Lituania, territori appartenuti in passato alla Polonia. I protestanti si trovano in Estonia e Lettonia. Qua e là pullulavano altri gruppi religiosi, come gli avventisti del settimo giorno e i testimoni di Geova. L’islam era assai influente fra le popolazioni delle repubbliche asiatiche anche se appariva difficile determinare la sua effettiva entità quantitativa. Si riteneva che i credenti, dopo il forte smantellamento delle moschee del periodo pre-rivoluzione, superassero di poco il 20%. Per una ricostruzione dell’attuale profilo religioso, è opportuno distinguere il territorio della Federazione russa in cinque grandi aree. La popolazione risulta di 145 milioni di cittadini di cui l’80% ruskie, di nazionalità russa e il 20% rossjskie, cioè cittadini della federazione ma non di nazionalità e etnia russa. Forte è il rapporto fra composizione etnica delle varie repubbliche e il profilo religioso. I cittadini di etnia russa sono battezzati per il 54%, ma i praticanti le grandi occasioni festive sono il 10%. I praticanti in senso stretto sono il 5%. Innanzi tutto si deve tener conto della prima area, quella dell’estremo nord della Russia europea. Qui alla maggioranza ortodossa, per l’afflusso dei careli della vicina Finlandia, si è affiancata una discreta presenza di luterani e in seguito anche di calvinisti. Nell’area del Lungo Volga dopo il 1988 si registra un nuovo interesse religioso. Fra i Tatari si era affermato nell’ottocento il movimento djadidista, con forte caratterizzazione in senso europeo dell’islam.
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Si deve tener conto, ad esempio riferendoci alla Baschiria e alla sua capitale Ufa, che gli ortodossi dell’etnia baschira sono circa il 10%, la grande maggioranza è islamica. Come si vedrà anche in altre aree islamiche, si assiste a un frequente passaggio delle donne dall’islam al cristianesimo prevalentemente protestante. Dopo che gli ortodossi hanno cominciato ad alzare la testa, c’è stata una ripresa dei cattolici, dei luterani, dei vecchi credenti ed anche degli ‘ortodossi delle catacombe’. Nella Repubblica Mari-El di origine finnica, tenendo conto anche della storica presenza di immigrati russi, il 30% della popolazione è ortodossa ma si registra una presenza sciamanica del 5-7%. La grande maggioranza, comunque, mentre si dice ortodossa conserva al contempo abitudini nei modi di pregare e pratiche rituali di tipo sciamanico. Per non pochi intellettuali, tali pratiche di origine pagana costituirebbero i presupposti per la costituzione e il rafforzamento dell’identità nazionale. Altra repubblica è quella costituita dagli Udmurti che negli anni Novanta hanno riattivato i grandi riti della tradizione paganica. Gli ortodossi sono il 20%, altrettanti sono i credenti tradizionali delle campagne, mentre il 60% si pone a metà strada fra l’ortodossia e la tradizione sciamanica. Anche i Ciuvasci presentano un profilo analogo a quello degli Udmurti. Di tradizione buddhista si presentano i Calmucchi che evidenziano le analogie con la vicina Mongolia-Burjata. Una terza area è costituita dalle repubbliche del Caucaso settentrionale. Il Daghestan, con i suoi più di quaranta popoli diversi, presenta un profilo islamico che però risente di tradizioni differenziate. Importante appare un richiamo alla Cecenia e al Kabardino Balkaria, ai Carasciaevi e ai Circassi, agli Adigei e alla Ossetia. Qui forte è la presenza islamica, ma non sono assenti alcune presenze cristiane con notevoli tradizioni di origine pagana. Si pensi alla divinizzazione del monte Elbrus, luogo della divinità pagana Cha, un Dio supremo. In Kabardino sono diffusi i riti funebri e le
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tradizioni fondate in conformità alle habzé (regole). Secondo la tradizione (dighé-habzè) viene praticato un atteggiamento di tolleranza per le religioni mondiali (islamica e cristiana). Posizioni analoghe si ritrovano nei Balkari anche se netto è il riferimento all’islam sunnita. I leaders islamici si dicono patrioti e tendono a leggere la sharìa in termini simbolici e spirituali. L’ambito dell’islam è correlato con la famiglia. Nel Daghestan si è diffusa una crisi di identità etnica e si avverte un frequente passaggio degli islamici, o meglio di donne islamiche, al protestantesimo. Vengono così prese le distanze dall’ortodossia come religione etnica dei russi. Anche il cattolicesimo è scartato perché considerato una religione rigida, che postula una sudditanza a un’autorità forte e straniera. L’ortodossia appare, comunque, un fatto connesso alla cultura letteraria e alla formazione ricevuta tramite la scuola. In Siberia si riscontra, a seconda della posizione geografica, da una parte una forte presenza sciamanica della popolazione originaria, dall’altra, specialmente in aree più prossime all’Asia cino-mongolica (Tannu-Tuva e Burjiata), una condotta dai risvolti buddhisti. Nella Repubblica della Iacuzia, la forte presenza dei russi presenta un profilo ortodosso. La popolazione locale è sciamanica. Non mancano presenze di cattolici e di protestanti connesse alle emigrazioni forzate in tempi diversi, rispettivamente di polacchi e tedeschi. I cattolici, circa un milione, sono principalmente concentrati in luoghi quali Astrakan sul mar Caspio, San Pietroburgo, Omsk e Jakutsk. Fra gli altri stati esterni alla Federazione russa e che costituirono l’URSS, l’Ucraina presenta cinque milioni di uniati e tre milioni di armeni su una popolazione di cinquanta milioni. Gli ortodossi sono la maggioranza ma si presentano divisi in base a tre diversi patriarcati. Kazakhistan, Kirghisistan e Moldavia sono a maggioranza ortodossa con una minoranza islamica. La Georgia ha una popolazione divisa fra ortodossi e cristiani di rito armeno.
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La Lituania è a maggioranza cattolica. L’Estonia ha il 30% di popolazione protestante. La Lettonia è divisa fra cattolici e protestanti. Ortodosso è il 45% della popolazione di origine russa. Alla popolazione originaria va aggiunta infatti la popolazione di origine russa e di religione ortodossa. La Bielorussia ha il 13% di cattolici. Prevalentemente popolazioni islamiche sono quelle delle Repubbliche di Azerbajgian, Tarkmeistan, Tagikistan, Uzbekistan, Kirkisistan ed anche del Kazakistan con i suoi quaranta milioni di abitanti e una popolazione pari al 40% di etnia russa e religione ortodossa. Quale l’effettiva situazione religiosa oggi? Negli ultimi anni si sono registrate differenti situazioni. Con la stagione della perestrojka il fattore religioso ha conosciuto una fase di forte riabilitazione. In pochi anni, in occasione della celebrazione del primo millennio della Chiesa Ortodossa, un interesse si è esteso anche alle altre religioni. Dopo il 1992, tuttavia, si è prodotta una fase di riflusso e di apatia. Se nei primi momenti, dopo l’89, le inchieste registravano un grande interesse per l’Occidente, con il 1992 si registra una fase di disincanto e di delusione. La Chiesa Ortodossa riscuote il livello più alto di fiducia e rispetto in rapporto alle altre istituzioni e conosce una fase di ripresa organizzativa: di fronte allo stato rivendica la propria libertà, il diritto di insegnamento della religione nelle scuole, il diritto di una presenza per l’assistenza religiosa nell’esercito ecc. Da parte della popolazione è indubbio il grande riconoscimento della Chiesa Ortodossa come fonte di legittimazione e di appartenenza; a ciò non segue però un altrettanto alto livello di partecipazione. A Mosca, nel 1999 frequenta la chiesa il 6-7% dei russi. Per le celebrazioni pasquali hanno partecipato meno del 2% dei moscoviti. Nel corso del 1999 si è accostato all’eucaristia l’8% dei russi. Quale il tipo e la qualità di credenza degli ortodossi russi? Nel 1999 dichiara di credere in Gesù figlio di Dio il 18% di questa popolazione, mentre crede nella vita ultraterrena il 24% della stessa. Assai basso è il livello di quanti credono nella resurrezione dei morti (10%).
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Nel frattempo si sono andati diffondendo gruppi protestanti quali i metodisti, i luterani, i presbiteriani, che si diffondono anche fra gli islamici, i buddhisti e gli sciamanici. Si sono andati caratterizzando per la loro presenza nell’ambito della beneficenza e dell’assistenza sociale. Un successo particolare hanno conosciuto i carismatici e i battisti. Il patriarcato di Mosca in questi anni si è adoperato come agente di unità nazionale contro i pericoli delle rotture e contro l’acuirsi dei conflitti nazionali. Il patriarcato è diventato il punto di riferimento dell’unità nazionale e dell’identità russa. La Chiesa Ortodossa russa ha di fatto contribuito negli ultimi anni del Novecento a produrre una percezione non religiosa della religione. La gerarchia ha costantemente insistito sulla fedeltà ai valori della tradizione, della cultura ortodossa nazionale, oltre che sul patriottismo e l’unità nazionale (Filatov 2002). Allo stato attuale non sta crescendo il numero dei credenti e pare debole la fede nei dogmi fondamentali dell’ortodossia. Le indagini mostrano, allo stesso tempo, che fra ‘credenti’ e ‘ortodossi’ cresce la fede nella trasmigrazione delle anime, nell’astrologia e nelle pratiche extrasensoriali. 1.5. Sondaggi latino americani 1.5.1. Brasile Rispetto al censimento del 1991, in quello del 2000 sono emerse notevoli variazioni in campo religioso. I risultati sono sostanzialmente tre. La diminuzione della percentuale dei cattolici, dall’83,8% del 1991 si è passati nel 2000 al 73,8%. In numeri assoluti, i cattolici passano da 121,8 milioni a 125 milioni. L’aumento numerico è dovuto all’aumento demografico. In secondo luogo, l’aumento della percentuale degli evangelici (o protestanti). Sono passati dal 9,05% (1991) al 15,4% (2000). In numeri assoluti, sono passati da circa 13 milioni (1991) a 26 milioni nel 2000, raddoppiando il loro numero. Infine, coloro che si
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dichiarano senza religione, passano dal 4,8% della popolazione (1991) al 7,3% (2000). In numeri assoluti passano da 7 milioni a 12,3 milioni con un impressionante sviluppo. Sorprendenti sono anche i risultati relativi ad altre religioni che, contrariamente alle previsioni, appaiono piuttosto deboli: per esempio, lo spiritismo kardecista, dato a 1,1% nel 1991, avrebbe ora 1,4% (dato non definitivo), mentre nel sondaggio di Datafolha del 1994 era stimato al 3,5% degli elettori. I culti afro-brasiliani (umbanda e candomblè) continuano a scendere (0,6% nel 1980; 0,4% nel 1991; 0,33% nel 2000), apparentemente in contrasto col fatto che molti riti e feste afro-brasiliani sono frequentati da milioni di persone. Nell’insieme, i tre stati con meno cattolici sono Rio de Janeiro (attorno all’antica capitale), Espirito Santo (sulla costa, a nord dello stato di Rio de Janeiro) e Rondònia (zona d’immigrazione recente, all’estremo nord-ovest dell’Amazzonia). Gli stessi stati hanno una maggiore presenza di protestanti e di senza religione. Per una più attenta valutazione della situazione religiosa, occorre sottolineare che il 25% degli intervistati dichiara di praticare più di una religione (Ceris 2002: 190). Si deve anche rilevare che i dati del censimento 2000 erano stati anticipati da vari sondaggi d’opinione, alcuni dei quali anteriori al censimento del 1991. Per esempio, il sondaggio Gallup del 1988, fatto con risposte ‘stimolate’, aveva trovato 62% di cattolici, 19% di altre religioni e 19% senza religione; il sondaggio del 1990, condotto sulla domanda ‘Qual è la sua religione?’, trovò 76,2% di cattolici, 14,6% di altre religioni, 9,2% senza religione. Come spiegare questo fatto? Molti sociologi ritenevano i numeri dell’Istituto brasiliano di geografia e statistica (IBGE), compreso il censimento del 1991, esageratamente favorevoli ai cattolici e penalizzanti le altre religioni. Probabilmente le persone nel momento del censimento continuavano a dichiararsi cattoliche, ma in realtà già partecipavano ad altri culti. Comunque, i numeri del censimento 2000 confermano i sondaggi per campione degli
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ultimi due decenni. La novità non starebbe tanto nell’aumento reale del numero dei protestanti o dei senza religione, ma nell’aumento delle persone che non hanno più remore a dichiarare pubblicamente tale condizione. Un’altra osservazione importante è che i dati sulla religione possono esser comparati con altri dati del censimento (diminuzione della natalità, aumento dei matrimoni consensuali senza legalizzazione, aumento della scolarizzazione ecc.), i quali sembrano rivelare una ‘modernizzazione’ delle abitudini della popolazione brasiliana e una crescita dell’individualismo e del soggettivismo (Soares 1992: 9-58). Il censimento non lo mette in rilievo (solo una ricerca qualitativa può farlo), ma è certo che esistono molti modi di credere e di praticare all’interno dello stesso cattolicesimo, per non parlare del mondo evangelico o protestante, notoriamente diviso in centinaia di chiese o denominazioni, e senza dimenticare quelli che frequentano più di una religione contemporaneamente. La frammentazione dell’universo religioso è apparsa evidente anche agli statistici del censimento, che alla domanda ‘Qual è la sua religione?’ hanno ottenuto circa 35.000 risposte diverse, poi ridotte a 5.000. Eliminando i doppioni e le espressioni equivalenti, le risposte sono alla fine state classificate all’interno di 144 gruppi principali. Inoltre non mi pare esatto sostenere che ‘il paese diventa meno religioso’, come è stato scritto sulla prima pagina del Jornal do Brasil (9.5.2002). Altre ricerche mostrano che la religiosità permane molto alta tra i brasiliani. La risposta ‘senza religione’ pare indicare più la tendenza alla ‘de-istituzionalizzazione’ della religione e l’affiorare della cosiddetta ‘religione invisibile’. L’individuo non aderisce più a una religione istituzionalizzata, ma riduce la religione a un sentimento personale, intimo, non accompagnato dalla partecipazione a comunità o istituzioni religiose. Non tralascia la preghiera (almeno occasionale) e spesso continua a credere in Dio. La pubblicazione dei dati ha provocato l’inizio di un dibattito tra i cattolici sulle cause della diminuzione dei
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fedeli della loro religione. Il giornale Estado di San Paolo riporta per esempio due opinioni opposte: quella del vescovo portavoce dei conservatori, monsignor Amaury Castanho di Jundiai (stato di S. Paulo), che accusa la ‘politicizzazione’ del cattolicesimo degli anni ottanta e quindi la teologia della liberazione e il prevalere di una tendenza progressista anche nella presidenza della Conferenza episcopale (CNBB); e quella del direttore del CERIS, il sociologo Luiz Alberto Gomez de Souza, che invece attribuisce alle comunità di base il merito di aver evitato ulteriori perdite. Difatti, gli stati più cattolici sono quelli che hanno più comunità di base, mentre lo stato di Rio de Janeiro ha visto, almeno nella capitale, l’azione pastorale rigidamente centralizzata e tendenzialmente conservatrice del cardinale Eugenio Sales. A questo proposito vorrei sottolineare che gli anni Novanta, quando le perdite del cattolicesimo sono state più evidenti, non sono gli anni del predominio della teologia della liberazione o delle comunità di base, ma piuttosto del rinnovamento carismatico e dei preti cantanti, popstar della televisione. Un giudizio più preciso sulla maggiore o minore efficacia dell’azione pastorale delle varie diocesi è da correlare ai processi culturali di lunga durata e ai contesti resi ancor più complessi dalla rapida urbanizzazione e dalle migrazioni (la popolazione considerata urbana dall’IBGE era nel 1940 il 30%, nel 1970 il 56%, nel 2000 circa l’80%). In questa prospettiva storico-culturale, mi sembra significativo che gli stati più cattolici appartengano al nord-est arido, alle aree dell’interno (Piaui, 91,4% di cattolici; Cearà, 84,9%; Parà, 84,3%; Maranhao, 83%; Alagoas, 81,9%; Sergipe, 81,7%; Rio Grande do Norte, 81,7%), dove quasi certamente il cattolicesimo popolare tradizionale rappresenta il grande ostacolo alla penetrazione dei protestanti o di altre religioni ‘moderne’. Seguono, con una percentuale di cattolici un poco più bassa, gli stati del sud, di migrazione tedesca e italiana (Rio Grande do Sul e Santa Catarina) e lo stato di
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Minas Gerais (formatosi nel secolo XVIII con la scoperta dell’oro e dei diamanti), tradizionalmente cattolico. È pure significativo che il litorale, anche del nord-est, dove si è sviluppata fin dal XVII secolo la coltura della canna da zucchero e dove presto è penetrato uno stile di vita più libero rispetto agli austeri costumi del cattolicesimo dell’interno, annoveri il maggior numero di cittadini che si dichiarano senza religione (Pemambuco con l’11%, Bahia con il 10,3% e Rio de Janeiro con il 15,5%, mentre la media nazionale è del 7,3%). Quanto alla presenza degli evangelici è più forte nel centro-ovest (19,1%), nel nord (Amazzonia, 18,3%), nel sud-est (18,3%); si avvicina alla media nazionale nel sud (15,4%) ed è nettamente inferiore nel nord-est (10,4). Gli stati di maggior presenza di protestanti o evangelici sono Rondònia (27,8%), Espiritu Santo (27,5%), Roraima (3,7%) Rio de Janeiro (21,1%), Goias (0,9%), dove in buona parte si può vedere una connessione del fenomeno con migrazioni recenti (e un’attività missionaria più intensa dei protestanti rispetto ai cattolici). Ciò solleva una questione da discutere più a fondo: perché la Chiesa Cattolica è lenta quando si tratta di occupare nuovi spazi e di affrontare nuovi insediamenti umani? Forse perché troppo legata a un’organizzazione pastorale centrata sui preti, il cui numero è cronicamente scarso? Un’altra prospettiva di analisi, più moderna, potrebbe rifarsi alla nota teoria di Peter Berger sull’‘imperativo eretico’ della modernità. Questa prospettiva era già stata adottata formulando l’ipotesi che i fedeli di una religione tradizionale (qui il cattolicesimo) a contatto con la modernità (soprattutto emigrando dalle aree rurali alla città) siano in qualche modo forzati a fare una nuova scelta religiosa, in un certo senso un’‘eresia’ rispetto alla tradizione. Possono scegliere una nuova religione, o abbandonare ogni Chiesa (diventare senza religione) o scegliere nuovamente il cattolicesimo, ma in una forma più moderna, impegnandosi in movimenti cattolici o comunità non tradizionali, che richiedono una scelta e un impegno preciso, cosa che di fatto sta avvenendo da anni su vasta scala.
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1.5.2 La situazione a Cuba. Per mostrare ancora una volta l’inaffidabilità degli stereotipi, la religione più diffusa a Cuba non è quella cattolica né quella protestante. La religione maggioritaria è la santeria, un insieme di riti animisti di origine africana portati dagli schiavi neri. Magia, mistero, superstizione, filtri d’amore e di morte sono il crogiuolo di pratiche e credenze che passano sotto il nome di santeria, la vera religione di Cuba, la quale si rifà ad antichi retaggi africani e spagnoli, confondendo il sacro e il profano in un combinazione singolare. La popolazione di Cuba è meticcia dal punto di vista culturale e lo è anche in campo religioso, essendo il ‘luogo’ in cui convergono varie credenze liturgiche. Anche di questo si è arricchita la santeria, che in terra cubana ha messo radici e si è ulteriormente alimentata da nuove fonti (Vasquez Montalban 1998; Lopez Valdés 1985: 186-229). Conosciuta anche come regla de ocha, la santeria è la più importante religione di origine africana trasportata a Cuba dagli schiavi catturati in quel continente. La santeria è praticata da un gran numero di fedeli e rappresenta una componente significativa dell’identità nazionale cubana. Questo culto è originario dell’Africa equatoriale, più precisamente della regione compresa tra l’antico regno del Dahomey, il Togo, il Benin e il sud-ovest della Nigeria, dove vissero numerose popolazioni che avevano come idioma comune il yoruba. Oltre alla lingua, queste popolazioni condividevano molti tratti culturali e credenze religiose, specialmente quella per gli orisha. Con la tratta degli schiavi, che si svolse dal secolo XVI al secolo XIX per il lavoro nelle centrali di produzione dello zucchero, arrivano a Cuba africani che riuscirono a conservare vive le proprie credenze religiose grazie alla resistenza opposta nei confronti dei loro padroni e all’identificazione degli orisha con i santi della religione cattolica a partire da alcune caratteristiche comuni (si fonde così, ad esempio, l’immagine di santa Barbara con
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l’orisha Changò, signore del fuoco e del fulmine, divinità della guerra; o quella di san Lazaro con Babalù Ayè, anch’egli divinità dei lebbrosi e delle malattie della pelle). Il complesso sepolcro yoruba è composto da numerosi orisha, che in origine furono personalità reali dotate di achè (potere) e resi santi dai loro discendenti. L’orisha viene trasformato in una forza immateriale che non diventa percettibile agli esseri umani, se non quando prende possesso di uno di essi attraverso la cerimonia denominata hacerse el santo. Tra gli orisha più conosciuti, dopo Changò e Babalù Ayè ci sono Elegguà (signore delle strade, fusosi con il Nino de Atocha o sant’Antonio da Padova), Obatalà (creatore della terra e dell’essere umano, identificato con la Virgen de las Mercedes) e Yemayà (madre della vita, identificata con la Virgen de RegIa). A Cuba ha un ruolo di rilievo anche Ochùn, dea dell’amore, della femminilità e del fiume che è stata identificata con la Virgen de la Caridad del Cobre (patrona dell’isola). Con l’abolizione ufficiale della schiavitù (1880) molti schiavi yoruba emigrati in zone urbane de L’Avana e di Matanzas (province dove si produceva molto zucchero) cominciarono a praticare con maggiore libertà i propri vecchi riti africani già mescolatisi con la religione cattolica (sincretismo). In quel periodo, nei quartieri di Regla e nei pressi de L’Avana, si fondano le prime case dedicate a questo tipo di culto. Due avvenimenti furono decisivi per una definitiva ‘cubanizzazione’ della santeria: l’unificazione di diversi culti yoruba in una unica liturgia (la regla de ocha) raggiunta dal balalawo (il sacerdote dell’orisha Orula, colui che indovina il futuro) Lorenzo Samà e dalla sua sposa Latuan sul finire del secolo XIX; la definizione della regla de Ifà (sistema di predizione usato dagli yoruba) che si deve al babalawo Eulogio Gutierrez (dopo l’abolizione della schiavitù riesce a tornare in Nigeria, dove però riceve l’ordine divino di far ritorno a Cuba per stabilire la regla de Ifà: l’ordine sacro dei babalawo, gli unici capaci di predire il destino di donne e uomini mediante la tavola di Orula).
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Il sistema per predire il futuro usato dalla santeria, conosciuto appunto come regIa de Ifà, funziona attraverso la tavola de Ifà o di Orula (identificato con San Francesco d’Assisi) che è manipolata dal babalawo, categoria sacerdotale che può essere ricoperta solo dagli uomini e solo quando un altro babalawo –dopo aver consultato la tavola– scopre che può essere figlio di Orula. Ogni azione religiosa dei fedeli della regla è scandita da rituali e da pratiche magiche molto diverse tra loro, ma tutti con un obiettivo sostanziale: mettere in comunicazione gli esseri umani con l’universo degli spiriti, siano essi gli spiriti dei defunti o quelli degli orichas. Una parte dei rituali possono essere compiuti da ogni fedele senza intermediazioni. Tutti i rituali fondamentali della santeria richiedono però la presenza di intermediari iniziati ai misteri della religione, ciascuno con la propria ‘specializzazione’. I medium o spiritisti presiedono a tutti i riti dedicati ai defunti, mentre nella sfera riguardante gli orichas, le iniziazioni, i sacrifici di animali e alcuni tipi di divinazione, entrano in gioco santeros e babalawos. Ecco alcuni dei riti più frequenti: misa espiritual, divinazioni, purificazioni, ebbò, consegna di oggetti sacri, kofa e mano de Orula, asentamiento. I santeros (uomini e donne) praticano la predizione del futuro quando il santo che hanno ricevuto in affidamento li autorizza a svolgere questa attività attraverso un sistema denominato caracoles. La santeria, come religione primitiva, ha un carattere pragmatico e per questo i suoi affiliati cercano di risolvere problemi spirituali e materiali. La Virgen del cobre (la Vergine del rame), patrona di Cuba, è anche Oshùn, dea della femminilità. Proprio alla Vergine del rame è dedicato il santuario più importante dell’isola, su una collina vicina a Santiago. Papa Giovanni Paolo II non salirà per la stradina che arriva al santuario, ma sarà la Vergine a essere portata nella piazza Maceo della capitale orientale per essere incoronata. Lì si consumerà un rito di profondo simbolismo: l’unione nella fede dei non tantissimi cattolici e dei ben più numerosi segua-
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ci della santeria. Dietro San Lazzaro, si nasconde babalu ayé, un’altra divinità africana, e a destra dell’altare una madonna nera tiene in braccio un Gesù bianco. Appena fuori dalla chiesa tanti fanno la fila davanti a una fonte di acqua miracolosa e poco distante, tra le radici di una ceiba, enorme pianta sui cui rami, secondo la santeria, riposano le anime dei morti, molti posano ex voto. Non andrà a San Lazzaro il papa, ma dovrà fare i conti con questa religiosità sotterranea, che non è solo dei neri e che altera e si mescola con quella cattolica. Questo è uno dei fenomeni più tipici dell’isola, centro di mescolanze razziali, culturali, dunque anche religiose. L’analisi del diffuso sincretismo che si riscontra in varie parti del mondo latino americano esige di tener conto della politica dell’impero spagnolo durante il periodo barocco. Essa si basava su due concezioni dello spazio: quello locale dove si celebrava la nazione tramite i costumi e le tradizioni e quello globale, dove il cattolicesimo e i suoi difensori (la corona di Spagna), proteggevano le nazioni dall’eresia e dal razionalismo. La devozione alla madonna cubana si afferma durante il barocco spagnolo. In tale periodo la cristianità si sforza di creare legami fra i membri appartenenti a distinte classi sociali e a ‘razze’ differenti, grazie soprattutto alla devozione mariana. Il sincretismo consiste appunto nell’unione di riti e simboli religiosi che, originariamente appartenenti e dotati di senso da ognuno dei due gruppi antagonisti, vanno a costituire un sistema di senso transculturale. Una fusione viene operata. La Virgen del cobre, essendo una patrona nazionale comune a tutti i cubani quale che sia la loro ‘razza’ e origine, avrebbe incitato i praticanti delle religioni afro-cubane ad adottare la Madonna attribuendole l’identità di ochun yoruba. Questo processo sincretico di africanizzazione di una vergine cattolica cubana avrebbe per effetto simmetrico quello di cubanizzare una religione africana. Attualmente nel mondo latino americano si assiste a una nuova sfida che ripropone la questione indigena. Per
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monsignor Proano, fecondo teorico della contaminazione della fede cattolica con i valori etici e culturali delle millenarie culture indigene latino-americane, le comunità indigene si trovano oggi alla mercè di sette religiose di origine statunitense che dopo il sostegno alle dittature militari, tendono a cancellare la loro cultura propria, imponendo la rassegnazione e la sottomissione ai valori dei predicatori carismatici. Nel frattempo, accanto agli indifferenti e a quanti rimangono succubi dello status quo, ci sono coloro che denunciano l’iniquità di un sistema di esclusione, di idolatria del profitto, dell’ecocidio incontrollato, movendosi in una prospettiva ecumenica fatta non più di sole parole ma «fondata sul riconoscimento mutuo della verità e della santità dell’unico mistero di Cristo» (AA.VV. 1998). 1.6. La situazione negli USA Quale la situazione negli Stati Uniti? I dati indicano che molto elevata è la percentuale di coloro che dichiarano di credere in Dio (Bishop 1999). Nel 1994, secondo Gallup, il 96% degli adulti americani dichiara di credere in Dio confermando una tendenza che era emersa cinquant’anni prima da un’indagine analoga. Nel 1953-54 i credenti raggiungono addirittura il 99%, con una leggera flessione nel 1978 (Gallup 1995). A questa massiccia e uniforme tendenza va accompagnata una fede consistente nell’esistenza di un vita ultraterrena (75%) (Gallup, Castelli 1989; Greeley 1997; Shorto 1997). Più bassa è la percentuale dei credenti nel demonio (49,6%). Alta pure è la credenza nei miracoli religiosi. Poco più della metà degli americani ha legami organizzativi con un’istituzione religiosa. Nel 2000, 141,4 milioni di cittadini, il 50,2% della popolazione degli Usa, sono stati assegnati a uno dei 149 organismi religiosi esistenti delle varie confessioni, compresi i musulmani e gli ebrei. Nel 1990 gli associati erano il 55%. I cattolici risultano i più caratterizzati da legami
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organizzativi anche se i protestanti nel loro insieme sono più numerosi raggiungendo i 66 milioni. Sul piano operativo, anche se le statistiche forniscono un ricco quadro della situazione della composizione religiosa degli Stati Uniti, affiorano alcuni problemi al momento dell’accumulazione e nella fase comparativa dei dati. Alcuni gruppi, infatti, quali i testimoni di Geova, non desiderano partecipare al censimento e quindi non sono stati contati. Mancano i dati esatti sui buddhisti, gli indù, alcune chiese ortodosse e le congregazioni dei battisti neri. Si hanno informazioni solo sul numero delle loro congregazioni, ma non sul numero degli aderenti. Stando ai censimenti risultano 66 milioni di protestanti distribuiti in ventiduemila congregazioni. Anche i cattolici, che sono 62 milioni, sono distribuiti in ventiduemila congregazioni (parrocchie). I sei milioni di ebrei sono distribuiti in 3727 congregazioni. Quattro milioni sono i mormoni divisi in dodicimila congregazioni. Mille sono le congregazioni del milione e seicentomila musulmani e una grande quantità distinta sono quelle connesse a differenti appartenenze denominazionali. Questo è l’andamento delle confessioni cristiane fra il 1990 e il 2001: Confessione
Pop. adulta 1990
Pop. adulta 2001
Cattolici 46.004.000 Battisti 33.964.000 Metodisti 14.174.000 Luterani 9.110.000 Presbiteriani 4.985.000 Pentecostali 3.191.000 Episc. Anglicani 3.042.000 Mormoni 2.487.000 Chiese di Cristo 1.769.000 Chiesa unita di C. 599.000 Test. Geova 1.381.000 Ass. di Dio 660.000 Scientology 45.000
50.873.0002 33.830.000 14.150.000 9.580.000 5.596.000 4.407.000 3.451.000 2.697.000 2.593.000 1.378.000 1.331.000 1.106.000 55.000
% 1990
% 2001
4,5% +11% 16,3% 0% 6,8% 0% 4,6% +5% 2,7% +12% 2,1% +38% 1,7% +13% 1,3% +8% 1,2% +47% 0,7% +130% 0,6% -4% 0,5% +68% 0 +22%
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Fig. 6: L’andamento delle confessioni cristiane tra il 1990 e il 2001
Una vasta indagine, condotta fra le generazioni del ‘baby boom’ del dopoguerra rivela l’esistenza di una grande fluidità: un’intensa circolazione di soggetti da un gruppo religioso all’altro e frequenti cambiamenti in termini di credenze e di pratiche religiose (Roof 2000). Per definirsi, i soggetti tendono a utilizzare il termine ‘spirituale’, che solo in alcune occasioni viene associato alla parola ‘religioso’. Le preoccupazioni spirituali, relazionate a questioni quali il viaggio o la guarigione, sono evocate frequentemente tanto fra i cristiani evangelici quanto all’interno di altri gruppi più aperti e interessati ad ali-
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mentarsi di credenze metafisiche con una spiritualità ‘riflessiva’ attenta all’impegno personale, all’esplorazione, all’idea di processo. Quale l’effettivo profilo del mondo protestante? La divisione esistente si esprime in una notevole quantità di denominazioni e riflette antinomie connesse a molte credenze di gruppi che si assestano, a seconda dei casi, su posizioni conservatrici o su posizioni liberali. Volendo tracciare un quadro tendenziale delle posizioni teologiche delle distinte denominazioni a partire dalla più conservatrice, si avrebbe questo quadro: Assemblea di Dio (la più conservatrice), Avventisti del Settimo giorno (Mormoni), Lutheran Church Missouri Synod, Church of the Nazarene, Southern Baptist Convention, Churches of Christ, Presbyterian Church in the United States, American Baptist Churches in the USA, Evangelical Lutheran Church in America, Christian Church (Disciptes of Christ), United Presbyterian Church in the United States of America, United Methodist Church, Episcopal Church, United Church of Christ (la più liberale) (Bawer 1997; Hodge 1979: 185; Jones, Doti et al. 2000; Halvorson, Newman 1992). Quali sono le differenze fra queste chiese in materia teologica? Soffermiamoci su alcuni dati: (vedi tabella 4) La divisione essenziale sta nell’enfatizzare o meno il valore dell’amore e della soggettività. Si ha così da una parte la conservatrice Convenzione Battista del Sud e dall’altra la Liberal United Church of Christ. Nel giugno 2004, la prima ha deciso la propria fuoriuscita dall’Alleanza Battista Mondiale, un organismo fondato a Londra nel 1905 che riunisce 211 fra unioni e convenzioni battiste di tutti i paesi del mondo. Le ragioni di quella scelta sono di ordine teologico ed etico. Per la SBC, l’Allenza mondiale avallerebbe «aberranti e pericolose teologie», metterebbe in discussione una tra le più note questioni bibliche, ossia l’idea secondo cui la salvezza verrebbe solo per una cosciente fede in Gesù Cristo e promuoverebbe i ministeri delle donne come predicatrici e pastore. Inoltre, con le sue idee sul tema della omosessualità, l’Allenza mondiale non solo abbraccerebbe un ‘liberalismo teologico inaccettabi-
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le’, ma dimostrerebbe anche un atteggiamento antiamericano. La decisione allontanerà sedici milioni di battisti dagli attuali quarantasei milioni di fedeli legati all’Alleanza Mondiale. Come leggere il protestantesimo americano? Per molti l’interesse per la ‘verità’ è divenuto irrilevante. Il sorgere di quella che Tom Wolfe chiama ‘la generazione dell’io’ ha prodotto uno spostamento dell’apologetica dalla rilevanza dell’evangelo ai bisogni dell’individuo. Alla luce di questa tendenza culturale si va sottovalutando l’importanza dell’adesione a una denominazione, massimizzando l’uso dei doni carismatici fra i leaders. L’importanza di questo punto appare centrale quando analizziamo la situazione religiosa dell’America Latina, dove l’evangelicalismo avanza in modo considerevole a spese della Chiesa cattolica romana. L’adesione ad una denominazione appare secondaria; il criterio per cui si è salvati non ha nulla a che fare con il gruppo religioso che si frequenta, ma è connesso all’azione individuale del soggetto, al fatto che uno abbia udito l’evangelo e abbia risposto ad esso, in modo ‘favorevole’. Qual è però la presenza delle altre religioni non cristiane? Questo è il quadro delle religioni più diffusa negli Stati Uniti nel 2001, anche rispetto al recente passato (1990). Non sono riportati i dati di alcune religioni quali i baha’i, i taoisti e i sikh (www.gc.cuny.edu/studies/aris_index). Situazione generale delle religioni negli USA (dati in migliaia di unità): Religione 1990 2001 % Cristiana 131.225 159.030 76,5% 13.116 27.539 13,2% Nessuna rel. Agnostici/Ateismo 1.186 1.893 0,9% Ebraismo 3.137 2.831 1,3% Islam 527 1.104 0,5% Buddhismo 401 1.082 0,5% Induismo 227 766 0,4% Univers.Unitari 502 629 0,3%
+/+5% +110% -16% -10% +109% +170% +237% +25%
Ala conservatrice
Padre, giudice, Creatore natura divina, co-eterno con Dio potenza, vivente entità del male inerranza, libera da errori essenzialmente stabilizzata evangelizzare il mondo luogo di punizione eterna fede in Gesù salvatore credenza importante creato da Dio Imminente Imminente abbanbonati da Dio riservato agli eterosessuali opposizione favore favore
Temi
Il Concetto di Dio Gesù Satana Bibbia La fede cristiana Prima Direttiva Inferno Pentimento Basi per la salvezza Nascita verginale Creatore/Inizio Seconda venuta di Gesù Fine del mondo Status dei Giudei Matrimonio Aborto Pena di morte Schoolroom prayer
redentore Padre, Liberatore varie credenze simbolo del male libri con valore diversomolti interni conflitti In constante cambiamento il comandamento dell’amore temporaneo condizione simbolica salvezza universale non importante, o mito grazie a forze naturali/per evoluz. universo non attesa lontano futuro una religione parallela o dallo status incerto qualche favore per ogni tipo di coppia scelta molti contrari opposizione
Ala liberale
Fig. 7: Conservatori e liberali a confronto, differenti posizioni
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Fig. 8: Incremento (decremento) percentuale della religiosità negli USA - anni 1990 -2001
1.7. In Asia: il Giappone Nel corso degli ultimi decenni, l’individualizzazione delle credenze e la privatizzazione del religioso si vanno accentuando (Yanagawa 1992). La parte visibile della religione nei giovani diventa più ludica. La messa in scena del religioso, grazie agli apporti tecnici della comunicazione, accentua la formazione di gruppi attivi in cui la religiosità diventa spettacolo. È significativa la festa delle stelle (hoshi maturi) del movimento Agon-shu. Ogni anno riunisce mezzo milione di persone a Kyoto, mescolando buddhismo esoterico e culto delle montagne. In modo parallelo, si diffondono i riti religiosi per la guarigione dei corpi e delle anime che sono utilizzati a livello individuale. A partire dalla seconda metà degli anni settanta, la comparsa di nuove forme di credenza e di pratica religiosa nella società giapponese ha obbligato a relativizzare la frequente distinzione fra religioni storiche, nuove religioni e credenze
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popolari. Quale il panorama di queste religioni in Giappone? Quale l’inventario di un universo religioso in cui il sincretismo shinto-buddhistico si trova arricchito di tradizioni, che fino a non molto tempo fa erano poco esplicitate se non ritenute estranee al fondo religioso nazionale? Questi nuovi movimenti non devono far dimenticare il costante processo di reinterpretazione e di rivitalizzazione del religioso tradizionale, che continua ad alimentare la mutazione religiosa attuale e che rende il caso giapponese degno di interesse. A Mont Ikoma, nella periferia di Osaka, coabitano religioni popolari, nuove religioni e comunità etniche straniere (coreani e cinesi). Ciò ha messo in luce la rilevanza assunta da forme associative in rete, che si sono espresse sia attraverso modalità nuove, sia tramite una reinterpretazione di antiche confraternite della religione popolare. Queste esperienze, affrancatesi dai timori disciplinari che in passato avevano caratterizzato le varie forme religiose, prefigurano un luogo di indagine fruttuoso per capire la nuova situazione religiosa giapponese. Sembra che si sia di fronte all’emergere di un ambiente il cui orientamento specifico non è necessariamente di tipo confessionale, quanto reisei bunka, di cultura spirituale, del lamento religioso (Berthon, Kashio 2000). 1.8. Australia Quale la situazione religiosa in Australia? Quella che segue è la situazione scaturita dal censimento del 1996. La religione più diffusa è quella cristiana con 12.575.675 cittadini, pari al 70,28%. Questo dato però include tutti i cristiani a prescindere dalle loro confessioni particolari quali il cattolicesimo, l’anglicanesimo, il protestantesimo, l’ortodossia, l’appartenenza mormona, pentecostale, avventista e altre denominazioni minori. Di nessuna religione, o agnostici o atei si dichiarano 2.948.891 cittadini, pari al 16,48%, mentre coloro i quali non si riconoscono in nessuna identità religiosa particolare e non sentono la necessità di definire la propria
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appartenenza sono 1.749.363 pari al 9,78%. Inoltre si danno 202.925 (1,12%) di islamici a maggioranza sunnita. Di essi 2040 si dichiarano drusi. Il buddhismo conta 199.925 aderenti (1,12%). Gli ebrei sono 79.805, pari allo 0,45%. Gli induisti sono 67.278 (0,38%) e il sikhismo conta 12.017 (0,07%). Non mancano aderenti anche ad altre religioni, ma con percentuali assai irrilevanti. Delle confessioni cristiane la più numerosa è quella cattolica romana con 4.799.543 pari al 26,82%. Questa cifra comprende tutti i cattolici compresi maroniti e melchiti. Gli anglicani sono 3.903.324 pari al 21,82%. La United Church in Australia comprende 1.334.917 di persone (7,46%). Presbiteriani e riformati arrivano a 675.534 (3,78%). Gli ortodossi delle distinte chiese orientali sono 528.345 pari al 2,95%. I battisti sono 295.178 (1,65%), i luterani 249.989 (1,40%) i pentecostali 144.208 (0,81%), i testimoni di Geova 83.414 (047%), gli aderenti alle chiese
Nessuna
Atei
Sikhismo Hindu Buddhismo Islam Ebraismo
Cristiana
Fig. 9: Religiosità in Australia (dati censimento 1996)
di Cristo 74.300 (0,42%), l’esercito della salvezza conta 74.145 soggetti pari allo 0,41%. Esistono poi i mormoni, i fratelli (quaccheri) e i membri della chiesa apostolica, ma con percentuali assai ridotte (Webster, Perry 1989).
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Conclusione Una mappa del fenomeno religioso contemporaneo costruita sulla base di elementi formali, lontani dalla complessità delle identità delle donne e degli uomini, ha un valore assai relativo. L’uso di strumenti a maglie troppo larghe non permette di cogliere quelle modalità specifiche, ‘particolari’, di appartenenza, che sono difficili da sintetizzare quantitativamente o da generalizzare, ma spesso più vicine alla realtà. Quei modelli, inoltre, utilizzano termini che, se non contestualizzati, finiscono con il confondere gli effettivi tratti del paesaggio religioso. In Occidente, parole come cattolico o protestante hanno un valore polisemico in quanto indicano la credenza di un gruppo, ma allo stesso tempo organizzazioni politiche e finanziarie. All’interno della stessa credenza-conformità è possibile rintracciare differenziate tipologie ed esperienze. Per esemplificare, troviamo il tipo di credente che fa leva sul primato della scelta religiosa, frutto della mediazione fra i principi e le concrete situazioni storiche; oppure la tipologia che si prefigge essenzialmente ‘l’esserci in ogni evento e situazione’ ritenendo in tal modo di avere una singolare e qualificante specificità, o ancora quella che fa leva sulla normalità della dimensione taumaturgica e dell’evento eccezionale. Pensiamo infine al riferimento al cristianesimo come prerogativa della tradizione e della civiltà di appartenenza. Essendo nati in Europa e in particolare in Italia ‘non si può non essere cristiani’ nel senso di Benedetto Croce. Si è di fronte a uno scenario dove l’ambito del religioso di chiesa è sottoposto a una serie di scollamenti, dove costanti diventano le appartenenze parziali. Si conferma la tesi che le istituzioni ecclesiastiche con le loro piazze e i loro spazi non sono più centri spirituali di riferimento: attaccate prima dalla secolarizzazione e ora dal pluralismo, dalle diverse ‘tipologie del credere’, faticano a far confluire le persone nelle religioni di chiesa. Le chiese non sono più le fontane simboliche dei borghi, ma luoghi periferici, marginali, di importanza secondaria.
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Dio ha cambiato indirizzo? Una risposta necessita strumenti appropriati che tentino di avvicinare l’esperienza religiosa nei suoi molteplici e complessi aspetti. Nel delineare la mappa delle religioni si possono fare alcune considerazioni sul cristianesimo. La presenza cristiana europea si contrae, mentre si espande con forte velocità quella nel sud del mondo. Oggi ci sono meno cattolici in tutta l’Olanda che nella sola area metropolitana di Manila. Ciò che va sottolineato è la qualità di questo cristianesimo in espansione in Africa, Asia e America latina. L’opinione corrente è che esso sia una copia sbiadita e arretrata del cristianesimo europeo. Sarebbe cioè la versione volgare e acritica della fede razionale e tollerante dell’Europa. I tratti dominanti di questo nuovo cristianesimo sono quelli propri dei pentecostali e degli evangelici: fede individuale, moralità esigente e puritana, vincolo comunitario, guarigioni, visioni. Ma anche dentro le chiese protestanti storiche e più ancora dentro la chiesa cattolica romana crescono forme di religione riconducibili a quei tratti. Per la chiesa cattolica, le Filippine costituiscono un caso esemplare. Tolto un 4-5% di musulmani, questo paese era quasi totalmente cattolico fino a pochi decenni fa. Oggi i pentecostali e altri gruppi evangelici hanno raggiunto l’8% della popolazione. La chiesa cattolica ha finito comunque con il lasciar crescere al suo interno movimenti che sono pentecostali nella forma e cattolici nella sostanza. Uno di questi movimenti, che conta milioni di seguaci, si chiama el shaddal. Diverso è il caso del Brasile. I pentecostali protestanti erano nel 1940 appena un milione in tutto il continente latinoamericano. Oggi, arrivano a cinquanta milioni e circa la metà sono in Brasile. Qui la chiesa cattolica non ha resistito alla sfida come nelle Filippine. Del resto, gli Stati Uniti promuovono ampiamente l’avanzare del protestantesimo nel continente latino americano. Molti studiosi ritengono che l’alimentazione nordamericana di chiese libere renderebbe possibile un consenso morale e una formazione democratica della volontà pubblica simili a quelli caratteristici degli USA (Jenkins 2004).
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Un punto debole per la chiesa cattolica, di fronte all’espansione del nuovo cristianesimo, è rappresentato dalla squilibrata distribuzione del clero. In rapporto al numero dei fedeli, al nord la presenza del clero è quattro volte superiore rispetto al sud. Lo squilibrio è aggravato dal fatto che proprio il sud è il principale terreno d’espansione delle nuove chiese. In Brasile il numero dei pastori protestanti ha superato quello dei preti cattolici già alla metà degli anni ottanta. Nelle diocesi del nord del mondo, i preti sono in genere in calo drammatico e i seminari semivuoti. Su scala mondiale, accade così che l’unico flusso consistente di preti nella chiesa cattolica sia oggi dal sud al nord. I preti fatti venire dall’Africa o dall’India sono ormai numerosi nelle parrocchie d’Europa. In questo modo vengono lasciate più sguarnite di prima le comunità dei fedeli nei paesi di origine, che sono così resi vulnerabili alla predicazione dei missionari evangelici. Jenkins commenta al riguardo: «Vista da una prospettiva globale, una simile politica può essere descritta, al meglio, come penosamente miope; al peggio, come suicida per le fortune cattoliche» (Jenkins 2004). «Le tradizioni religiose –scrive Berger– hanno perso il loro carattere di simboli globali per la società […]. Coloro che permangono attaccati al mondo come è definito dalle tradizioni religiose si trovano nella posizione di minoranza cognitiva, condizione che presenta i suoi problemi di ordine socio-psicologico come pure teoretico» (Berger 1984: 165). Questo cambiamento riplasma lo statuto sociale della religione e non significa in alcun modo il suo tramonto. Nonostante tutto, non è smarrita la preoccupazione di dare un significato ed una giustificazione al mondo e alla vita, non è venuta meno la preoccupazione di dare una ragione e un nome alla volta del cielo. Si è di fronte, quindi, più che a un universo o a degli universi religiosi in uno sfondo pluralistico, a una situazione di pluriverso religioso in cui i soggetti si definiscono e si interpretano, si differenziano senza che la loro
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identità religiosa possa essere ancorata a un peculiare ed esclusivo modello di riferimento. Siamo davanti a una complessa mappa, un vero e proprio meticciato culturale e spirituale, dove sono decisivi lo scambio, la compenetrazione e la transignificazione (Bouma, Dixon 1985; Hillard 1997). Bibliografia AA.VV. (1998), Il grido di Riobamba. Manifesto dei partecipanti all’incontro internazionale nel decimo anniversario della morte di Leonidas Proano, Stampa in proprio. Azcona San Martin, F. (2000), Seguidores de Jesus en la Umbra del 2000. Diagnostico del catolicismo espanol, Officina de Estadìstica y Sociologia de la Iglesia en Espana, Madrin. Bawer, B. (1997), Where Protestants Part Company, The New York Times, 5 aprile. Berthon, J.B., Kashio, N. (2000), Les nouvelles voies spirituelles au Japon: etat des lieux et mutations de la religiosité, in «Archives de sciences sociales des religions», 45, n. 109, gennaio-marzo, pp. 57-86. Bishop, G. (1999), What Americans really believe, in « Free Inquiry Magazine», 19, n. 3, pp. 38-42. Bouma, G., Dixon, B. (1985), The religious factor in Australian life, Marc Australian, Melbourne. Brechon, P. (1998), Les attitudes religieuses en France: Quelles recompositions en cours ?, in «Archives de sciences sociale des religions», 45, n.109, pp.11-30. Brierley, P. (2000), The Tide is Running out. What the English Church attendance Survey Revivals Christian Research, Oxford University Press, London. Ceris, (2002), Desafios do catolicismo na cidade, San Paulo. Filatov, S. (2002), Religija i obscestvo. Ocerrki religijoznoj zizni sovremennoj Rossii [Religione e società. Schizzi di vita religiosa della Russia Contemporanea], Letnij sad, Mosca-San Pietroburgo. Gallup, G. jr, Castelli, J. (1989), The peoples Religion:
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V Per una mappa del pluriverso religioso
Che significati può assumere oggi parlare di ‘religione’, dopo che il Novecento –con Nietzsche– ha creduto nella ‘morte di Dio’ e –con Weber– ha proclamato il ‘disincanto del mondo’? Come abbozzare un profilo del contemporaneo mondo religioso muovendosi all’interno della sua realtà così labirintica e plurale? Qual è dunque il volto delle religioni nello scenario della nostra contemporaneità? Certamente, prima di poter rispondere a simili interrogativi, sarebbe necessario indagare a fondo sulla polisemia della parola ‘religione’, a partire dai suoi impieghi nei lessici tecnici fino ai suoi diversi usi più comuni. Infatti, parlare di ‘religione’ non significa soltanto evocare concreti postulati del credere, connessi a religioni istituzionalizzate. Innanzitutto perché con questo termine si fa spesso riferimento a un insieme di fenomeni propri di una cultura e di una civiltà, evocando aspetti che talora con la ‘religione’ non hanno, in senso proprio, alcun preciso rapporto. Con termini come ‘ortodosso’, ‘cattolico’, ‘ebreo’ o ‘islamico’, ad esempio, si possono intendere fatti e persone riconducibili a delle specifiche realtà culturali, oppure alle pratiche sociali o politiche di specifici gruppi, partiti o holding finanziarie, senza con ciò richia-
Nesti Arnaldo, Per una mappa delle religioni mondiali ISBN 88-8453-245-0, © 2005 Firenze University Press
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mare aspetti necessariamente collegati alle ‘religioni’ in quanto tali. Ciò espone a un problema semantico che è lontano dall’essere risolto. Come ben si comprende, infatti, il rischio di proiettare sul termine ‘religione’ vari gradi di sostanzialità resta in ogni caso assai alto, e l’attenzione al suo portato semantico può talvolta non essere sufficiente a scongiurarlo. Autori classici, però, possono ancora esserci di qualche aiuto a questo punto. Secondo Max Weber, ad esempio, la religione è quel complesso di fatti culturali che esprimono la dipendenza degli uomini da un principio trascendente. Ogni religione, in quanto tale, è intesa come costituita da un insieme di credenze che vengono reiterate nella e dalla celebrazione rituale. Il tutto, poi, si trasformerebbe in condotte di vita specifiche, orientate sulla base di una data trama normativa. In questo, la ‘religione’ si distinguerebbe dalla ‘magia’ perché aborrisce le velleità coercitive con cui quest’ultima si porrebbe nei confronti della realtà trascendente. Ma i gradi di complessità della realtà non si esauriscono qui. Di tale complessità parlano gli stessi fenomeni sociali, come quello della moderna perdita del monopolio religioso. Si tratta infatti di un processo nuovo, di un cambiamento radicale che investe con forza lo stesso statuto sociale della religione. Un significativo mutamento di orizzonte che, mentre plasma la religione, non comporta in alcun modo il suo tramonto. Ed è su questo complesso intreccio fra mutamento e conservazione che dobbiamo ancora soffermarci. 1. La coesistenza delle religioni nelle distinte formazioni sociali Nelle pagine che precedono abbiamo visto come la religione, in quanto fatto sociale, investa la vita degli uomini e presenti una sua autonomia, innestandosi all’interno di più ampi processi di formazione sociale e costruzione identitaria, dai quali viene a sua volta plasmata. Abbiamo osservato come le religioni si posizioni-
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no sempre in un rapporto di mutuo scambio e si strutturino reciprocamente rispetto alle coordinate e ai paradigmi culturali delle società di cui fanno parte. Gli assunti, i principi e le pratiche religiosi, quindi, mentre costruiscono o modificano gli altri ‘fatti sociali’, da questi possono venire a loro volta strutturati o influenzati. Il ‘fatto religioso’, dunque, si afferma all’interno di distinte formazioni sociali, da cui trae paradigmi cognitivi, schemi mentali e codici etici. Ed è sulla loro scorta che i soggetti interpretano se stessi e il mondo circostante, generando modi plurali e differenziati di autorappresentazione. Da tutto ciò nasce la domanda su che cosa accade quando alcune categorie strutturali della religione vengono sottoposte alla pressione che su di esse esercitano i mutamenti socio-culturali. In altre parole, si tratta di chiedersi in che maniera delle strutture categoriali nate nella storia subiscano gli effetti della storia stessa e, nello scorrere di questa, si trasformino proprio al seguito di questo loro essere storicamente situate. Certamente, durante tale processo di situazione storica alcuni elementi strutturali della religione permangono, si diffondono e si consolidano ma altri assumono posizioni di sfondo e di secondo piano, fino –talvolta– a scomparire. Tuttavia, per capire a livello socio-antropologico l’effettivo contenuto delle identità religiose –assieme ai loro altalenanti processi di mutazione e conservazione– non basta fare riferimento a principi generali, a formulazioni dottrinali date o ai precetti etici delle singole confessioni. E sebbene possa essere sostenuto che, ad esempio, all’interno dell’islam, del cristianesimo o dell’ebraismo si diano delle distinte costruzioni desumibili in base a categorie dottrinali (come ‘monoteismo’, ‘ecumenismo’, ecc.), le affinità o le lontananze fra le diverse tradizioni religiose si determinano più che sulla base di mere questioni testuali o dottrinali, sulle implicazioni sociali che nascono dagli atteggiamenti e dalla sensibilità di queste rispetto ai diritti umani, ai problemi di genere, alle questioni della soggettività, alla morale sessuale, alla riproduzione e, più in generale, al valore riconosciuto al tempo, al denaro e alla famiglia.
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Ciò richiede un diverso approccio al tema del religioso che sia in grado di porlo maggiormente in relazione alla sua dimensione storica e sociale. Anche per questo, può essere di qualche aiuto ricorrere allo strumento interpretativo della periodizzazione, con l’ausilio del quale si possono tracciare alcuni utili distinguo. Penso qui a quegli autori che hanno creduto che gli ultimi secoli della nostra storia possano essere classificati secondo distinti tipi di formazioni sociali, al cui interno si sono affermate le grandi religioni monoteiste: si è perciò parlato di una condizione premoderna (o rurale), di una moderna e di una postmoderna. Soffermiamoci ora sul rapporto tra queste formazioni sociali e i diversi profili religiosi a esse in vario modo connessi. 2. Nel pre-moderno Nelle società rurali premoderne, i contenuti delle diverse confessioni sono visti come permeati dai seguenti paradigmi: visione cosmologica subordinata al primato della terra e della società rurale; immodificabilità delle leggi di natura; rigorosa stratificazione e gerarchizzazione –in senso ‘maschile’– della società; primato dell’autorità e dell’ordine sociale; percezione del cambiamento come pericoloso e come fonte di negatività; irrilevanza sociale della donna relegata allo spazio emozionale della casa-famiglia. Come osserva anche Berger, l’uomo premoderno vive nella maggior parte dei casi in un mondo governato dal fato, dove non esiste l’ampia possibilità di scelta data in seguito dalla tecnologia. Una società tradizionale è una società in cui la maggior parte dell’attività umana è governata da nette prescrizioni. All’interno di tale contesto sociale, le religioni si fondano su una interpretazione ‘letterale’ del testo sacro, con forti implicazioni antropomorfiche. I paradigmi conoscitivi del mondo premoderno vincolano i comportamenti umani supponendo che tutto accada per necessità e per destino.
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La fonte di legittimazione è un’unica verità. Tutti i valori hanno un risvolto sacro e sono radicati nella divinità stessa. L’ordinamento piramidale del potere postula che la religione eserciti la sua funzione regolatrice al di sopra di tutto. L’esplorazione della vita delle congregazioni cattoliche pre-moderne mette in risalto un sostanziale spirito di disprezzo e separatezza dal mondo profano, la demonizzazione della variabile sessuale e un rigido controllo delle condotte personali dei soggetti. Fino a non molti anni fa nella congregazione cattolica dei passionisti, ad esempio, vigeva una disciplina assai severa. Ci si levava due volte per notte. La prima levata, detta notturna, si verificava all’una e mezza e avveniva al suono di uno strumento di legno chiamato traccola. Contemporaneamente a questo suono se ne dava un altro con le campane e nell’arco di sette minuti i religiosi passavano dalle tavole dove dormivano nella celle, a quelle dei leggii per cantare in coro le lodi del breviario (i religiosi dormivano vestiti). Si tornava al riposo alle tre. La seconda levata, quella del mattino, avveniva alle cinque e mezzo ed era contraddistinta da tre suoni del campanello interno. Con la celebrazione della messa, cominciava l’orazione mentale della mattina che si faceva in coro e durava un’ora. Tutti, ma specialmente i novizi, avevano la proibizione di guardare il volto degli altri religiosi che formavano la comunità. L’ordine era di tenere sempre lo sguardo fisso a terra, senza spingerlo oltre tre metri dal luogo dove si posavano i piedi. Le categorie del senso comune esigono il ricorso a Dio per auspicare la realizzazione di ogni desiderio come di ogni diritto. Il riferimento a Dio, come alla religione, è sentito come una necessità per potersi sentire rassicurati e avere un riparo sicuro dalle insidie e dalle paure. La preghiera e l’invocazione della supplica alla misericordia sono basilari per chiedere ed ottenere favori. Pregare è come circuire, blandire, raggirare la divinità. L’orante si comporta analogamente ai bambini che comprano la generosità dei genitori con mosse studiate, per raggiungere obiettivi particolari e interessati.
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Coesistono dunque religioni con teologie diverse, spesso lontane, che al loro interno sono però attraversate dagli stessi paradigmi valutativi e normativi di tipo premoderno: dualismo, paternalismo, gerarchia, autoritarismo, maschilismo. Morfologia esteriore differente, ma non dissimili modelli di riferimento, presentano i monasteri della tradizione monastica ortodossa come quelli del Monte Athos, la cittadella difesa dal mare e assolutamente interdetta oltre che alle donne ad ogni essere vivente di genere femminile. Qui i monaci si inchinano fino a 1500 volte al giorno. Il ruolo delle scienze è solo ancillare rispetto al giudizio delle autorità religiose, come mostrato dall’emblematico caso di Galileo Galilei. Il diverso e il cambiamento sono avvertiti come segni del disordine morale, della superbia, del peccato, del demoniaco. Sono ritenuti eretici e condannati come tali tutti coloro che si sottraggono all’accettazione ubbidiente e conforme dei giudizi legittimati dall’autorità (si pensi al ruolo del tribunale della Santa Inquisizione e delle istituzioni a essa paragonabili in altre religioni). I processi per eresia o per stregoneria in atto nel mondo cristiano nel recente passato venivano gestiti in base agli stessi criteri con cui, ancora oggi, in Pakistan i cristiani sono processati per blasfemia. Nell’Afghanistan dei Talebani la polizia, pomposamente chiamata ‘ministero per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio’, puniva severamente le donne che uscivano di casa a volto scoperto, senza burqa. Con gli stessi criteri, gli integralisti di Algeri compiono gesti di intolleranza. I mujaheddin intendono combattere il male, estirpandolo con il jihad, per stabilire un regime teocratico. Questi combattenti della fede giungono fino al punto di dedicarsi totalmente, con il martirio, alla causa che viene loro presentata come divina. Le loro vittime sono considerate complici del tagut, del diavolo. Analogie si possono cogliere fra il jihad islamico e talune correnti apocalittiche cristiane presenti negli Stati Uniti: fenomeni paralleli che tendono entrambi a tradur-
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si in forme paragonabili a stimmungen diffuse, in veri e propri stati dell’anima. Si mescolano con facilità fede e politica, morale dell’individuo e morale collettiva e della nazione. Il cristiano ‘saved and born again’ grazie alla Bibbia trascende ogni tempo, si sente eternamente giovane e tende a fondere il presente con il tempo dell’apocalisse messianica, quello degli ‘ultimi giorni’. Legge la coscienza del destino con la preventiva conquista di una pre-destinazione. In questo contesto va inteso quanto scrisse due secoli fa Herman Melville dell’America come nazione eletta: «noi americani siamo un popolo peculiare ed eletto: siamo l’Israele dei nostri tempi. Noi portiamo sulle nostre spalle l’arca della libertà del mondo» (Melville 1986). Nel mondo cattolico, durante il concilio Vaticano II negli anni Sessanta, si è verificato uno scontro fra il vescovo tradizionalista Lefebvre e il Vaticano. Quel contrasto è riconducibile essenzialmente a una divergenza sul concetto di autorità e al conseguente rifiuto di una qualsiasi revisione in senso democratico del modello del capo (in base al principio per cui omnis auctoritas a Deo est). Nello stesso tempo anche all’interno di realtà religiose diverse da quelle citate, convivono schemi mentali e paradigmi cognitivi di tipo premoderno. Il passaggio da un paradigma a un altro non avviene in modo irreversibile e totale. Interferiscono infatti anche variabili legati al genere e al colore della pelle. Dalle interpretazioni della Bibbia, i bianchi in sud Africa (in particolare gli afrikaner discendenti dei coloni olandesi) trassero la legittimazione per considerarsi il popolo eletto da Dio in difesa della cristianità di fronte ai neri indigeni e questo nonostante fossero acculturati e inseriti in una logica moderna. Anche nelle confessioni che erano ben lontane dall’accettare lo ‘sviluppo separato’, secondo il significato letterale di apartheid, il colore della pelle divenne un problema e si crearono autentiche spaccature su basi razziali. I neri pensavano che il loro relativo coinvolgimento nelle questioni politiche fosse
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troppo lento e ininfluente a causa delle opposizioni create dai bianchi. Ciò fu causa di divisioni e portò alla creazione della Baptist Convention fatta di soli neri. Ma la storia non finisce qui. Negli anni settanta la lotta per l’emancipazione fa registrare ben quattro spaccature che hanno dato origine a conventions di soli bianchi, di colorati, di indiani e di neri. E pensare che mai come in quel periodo, soprattutto negli anni ’80 quando il pugno di ferro dello stato segregazionista si abbatté sulla lotta di liberazione, la religione divenne un basilare punto di riferimento per i sudafricani, anche se in una duplice ottica. Per taluni la religione divenne la forza peculiare per far fronte ai gravi problemi connessi ai processi di esclusione. Per altri fece da supporto per ricostituire l’identità del proprio piccolo gruppo e dimenticare la tragedia che si stava consumando fuori, nel mondo. L’avvenuta ricomposizione politica realizzatasi tramite Nelson Mandela non ha cancellato le differenze. Tutto ciò a riprova del fatto che l’esperienza religiosa ancorata ai grandi referenti dottrinali può dunque altamente differenziarsi, dal momento che i riferimenti dottrinali vengono letti, reinterpretati e rifinalizzati all’interno non solo di culture e società diverse ma all’interno dei differenti paradigmi delle formazioni sociali in cui queste sono storicamente inscritte. 3. Il moderno Le formazioni sociali di tipo moderno sono connesse al venir meno di un processo produttivo ancorato essenzialmente alla terra. Le tradizioni religiose vanno perdendo il loro carattere di simboli globali e totalizzanti per le società, che cercano quindi altrove il loro simbolismo specifico. Con la modernità, e quindi con lo stato liberale, la società è più capace di universalità, permette cioè un maggiore rispetto di tutte le componenti che la costituiscono attraverso un’organizzazione laica, non legata a una confessione. Questo principio politico della modernità ha trovato una
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delle sue formulazioni più chiare nella Lettera sulla Tolleranza di John Locke, secondo la quale le chiese non possono essere che delle associazioni libere sottomesse alle leggi dello stato, che le ‘tollera’ nella misura in cui non rappresentano un pericolo per la sua integrità e supremazia. La lettera di Locke rappresenta una incisiva elaborazione che sarà propedeutica a un forte mutamento della cultura europea, se non altro perché porrà la coscienza come termine ultimo di verità. Se si agisce secondo la propria coscienza, non si può essere puniti in base a leggi generali. Bayle teorizzerà il paradosso secondo cui è biasimabile colui che pur agendo bene e conformemente alla legge, lo fa in contrasto e in opposizione alla propria coscienza. Nel suo importante saggio su La religione (Simmel 1994), Simmel indica gli ambiti esistenziali nei quali si manifesta particolarmente il modo moderno dell’essere religioso. In tale ottica l’uomo religioso, perduto ogni centro unificante e dissoltesi le ragioni persuasive delle fedi tradizionali, opera elevandosi a costruttore di rapporti e di significati oltre la casualità delle cose. Possiamo così riassumere le caratteristiche fondamentali della modernità: razionalizzazione; riflessività sistematica; idea di progresso connesso al processo di industrializzazione; differenziazione funzionale; pluralismo; secolarizzazione. In seno a questo momento, la costruzione teologica cerca di venire a patti con il mondo profano, legittimando una spiritualità nel/del privato mentre si amplia la rilevanza dell’autonomia individuale. La scienza stessa rivendica una sua autonomia che, peraltro, è alimentata dalla convinzione di poter superare progressivamente ogni contraddizione. Le condotte umane, grazie anche ai processi di urbanizzazione, tendono a caratterizzarsi come una presa di distanza dai precedenti codici, i quali scaturivano da istituzioni imposte per fede e per tradizione. Il grande criterio di riferimento che attraversa gli stessi mondi religiosi sembra ora essere la disaffezione dall’‘universale’ in nome dell’autonomia personale. Si
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tratta di un processo che investe profondamente il mondo cristiano e quello ebraico, ma del quale risentono anche alcuni settori dell’islam. 4. Il postmoderno Con la crisi della società industriale, le acquisizioni tecnologiche, le nuove conoscenze mass-mediologiche e il rilievo assunto dalla comunicazione, viene meno il ruolo dell’individuo che era stato costruito sulla base del primato della ragione cartesiana. Charles Taylor ha messo in evidenza come l’ideale dell’autenticità del soggetto occidentale sia di chiara origine romantica, ma lamenta che nella società di massa la morte di quell’autenticità sia scaduta a forme di espressione banalizzate e narcisistiche, proprie dell’edonismo consumistico (Taylor 2001). Il mito romantico della libertà individuale degenera in una sorta di relativismo morale per cui i gusti e le scelte del soggetto divengono gli unici criteri di verità. Paradossalmente, in questo delirio di libertà individuale, il soggetto si trova ‘intrappolato’. Da qui il disagio dell’uomo che ha perso tutti i punti di riferimento in valori trascendenti e si trova sempre più succube di automatismi che agiscono al di là della sua volontà. All’interno del mondo ortodosso diverse sono le voci critiche sulla modernità avanzata, perché permeata di intrinseci caratteri antiascetici. Come ha notato il teologo greco Delikostantis, l’ascesi è profonamente legata al problema della libertas, ma la nostra è una società che decide di abdicarvi per ricercare una felicità che, oltre ad esssere fittizia, si risolve in una vera e propria schiavitù (Delikostantis 1997). Un ruolo sempre più consistente è assegnato invece all’immaginario, all’emozione, all’aura estetica. Siamo di fronte a una nuova formazione sociale, la postmoderna, che si fonda sul presupposto che nonostante tutto i problemi possono trovare una soluzione con il ricorso al bricolage. Ciò che qui risulta importante non è la storia con la esse maiuscola, bensì una storia minore, che si traduce nel vivere l’istante e nel legarsi al
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presente quasi per sintonizzarsi con esso e adattarsi a rendere propria patria una minuscola eternità, quella dell’istante che si vive qui e ora. Si è perciò di fronte a una forte e radicale svolta antropologica. Oggi però non siamo più così certi della previsione fatta dal sociologo ‘dell’etica protestante e dello spirito del capitalismo’. Innanzitutto, si assiste a nuove forme di espressività individuale che privilegiano il primato dell’esperienzialismo di una fede nella vita qui e ora. In questo mosaico di nuove forme religiose ha un ruolo rilevante l’attuale contesto di globalizzazione delle idee e degli scambi che, oltretutto, sta creando un inedito mercato comune di tipo religioso dall’Occidente all’Oriente. L’enfasi è posta sul personale che non si oppone al pubblico, ma indica scelte e preferenze operate dal singolo soggetto. Fondante diventa il vissuto del soggetto, che gode di grande elasticità e non forma un tutto finito. La religione si radica tendenzialmente nel vissuto individuale, anziché in credenze e pratiche dettate rigidamente da un’autorità assoluta. Si assiste allo stesso tempo a una transignificazione simbolica e rituale della tradizione. In questo senso, se il quotidiano è secolarizzato, non necessariamente lo è il non-quotidiano, che rimane un luogo di produzione di identità da cui l’aspetto religioso, anche se profondamente trasformato, non si allontana.1 5. Per una mappa del pluriverso religioso L’odierno scenario del religioso si presenta quindi come un effettivo labirinto, in cui coesistono e si intrecciano universi simbolici, che vanno ben oltre quanto previsto dalle singole appartenenze confessionali e dalla specifica formazione sociale. In tutte le grandi religioni, 1 Mi piace ricordare come lo stesso Habermas ci invita a pensare in modo diverso la secolarizzazione. Si preoccupa di superare la contrapposizione ostile, a ‘somma zero’, tra società secolare e valori spirituali, tra una modernità razionalistica che rigetta le risorse sim-
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anche in quelle occidentali, si sono sviluppate sulla base dei paradigmi della tradizione correnti che più o meno apertamente combattono contro la modernità e i suoi linguaggi, riaffermando l’assoluta imprescindibilità di un messaggio ‘originario’ che non può conoscere ‘aggiornamenti’ né cambiamenti e che tende a rimuovere la presenza della diversità. In quest’ottica vanno visti i grandi fondamentalismi dei testimoni di Geova, delle numerose chiese elettroniche americane, ma anche quelli ebraici, cristiani, induisti, islamici e via di seguito. La religiosità apocalittica di Bush ha radici possenti in America e trasforma ogni guaio terrestre in opportunità di salvezza. Un esempio l’ha dato Bush stesso quando la navicella Columbia si è schiantata nell’etere. Lo shuttle era stato mal controllato, l’equipaggio fu condannato a morte dall’incuria della NASA. Ma l’America veniva invitata a ‘pregare perché tutti gli astronauti, pur non essendo atterrati, tornassero sani e salvi a casa’. Nelle omelie funebri ci viene promesso proprio questo, che lo scomparso tornerà sano e salvo a casa, cioé nella dimora celeste che Gesù gli ha preparato. Cinismo e profezia religiosa sono inclini a fondersi nei messianesimi politici ed è così che la coalizione delle volontà auspicata da Bush diventa coalizione dei conti in banca. La crisi della tradizione moltiplica le scelte e nello stesso tempo riduce la portata di ciò che viene esperito come necessità e come destino. La perdita dei monopoli religiosi è un processo socio-strutturale come pure socio-psicologico. Vicinanza e lontananza dalle confessioni ufficiali si misurano, ben al di là delle affermazioni formali e dottriboliche tradizionali della religione e una reazione che rifiuta la modernità occidentale come decadenza spirituale. Oggi, il razionalismo illuministico con le sue implicazioni atee sarebbe diventato troppo angusto. Esso rischia di alimentare la contrapposizione tra società secolare e credo religioso, finendo col fare il gioco del fondamentalismo (Volpi 2001).
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narie, a partire dai paradigmi epistemologici che sottendono i linguaggi, i codici di comportamento e il modo di vivere le varie confessioni. Non è senza importanza che in diverse conferenze internazionali dedicate a temi nevralgici quali ‘la donna’, ‘la famiglia’ o ‘l’andamento demografico’, si sia assistito allo scontro fra coalizioni confessionali comprendenti ognuna cattolici, protestanti, musulmani e membri di altre appartenenze. In questi casi, la divisione e lo scontro non sono quindi sorti sulla base di un esplicito riferimento confessionale o di posizioni dottrinali, ma a causa di diversità latamente culturali, capaci di volta in volta di accomunare persone appartenenti a confessioni differenti. L’elemento che può fare questione non è l’islam in quanto tale, come non lo è il mondo indù, quanto l’accettazione o il rifiuto dell’altro, del diverso, operati a priori e talvolta ignorando il tempo storico. I viaggi dello stesso pontefice romano sono stati non di rado occasione di reazioni negative, al limite della violenza in quanto hanno parso ignorare le verità degli altri. Questo significa che in pieno XXI secolo sussistono modelli religiosi di tipo premoderno fra islamici e cristiani, ebrei e induisti. Contemporaneamente, in altri gruppi all’interno delle stesse confessioni, coesistono modelli di tipo moderno o postmoderno. Il medioevo premoderno, in questo senso, sopravvive e coesiste all’ombra o dentro i grattacieli, mentre si rintracciano modelli postmoderni anche negli spazi del deserto. Si considerino per esempio le grandi analogie che si stanno verificando e/o si sono verificate a proposito della secolarizzazione, in Iran oggi e nei paesi cristiani d’occidente ieri. In Iran molti studiosi criticano la sacralizzazione della tradizione perché contraria allo spirito scientifico, sottolineando la specificità e intangibilità dell’esperienza religiosa. Per il pensatore sciita Soroush, ad esempio, occorre sbarazzarsi delle interpretazioni statiche del Corano ereditate dal passato e, allo stesso tempo, è necessario sottrarre la religione alle preoccupazioni profane che mira-
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no a ridurne l’indipendenza a tutto vantaggio della politica e dell’ideologia. Una lettura strumentale del sacro finisce per impoverire la religione. Non è auspicabile una radicale separazione fra religione e politica, ma va perseguita una chiara divisione di funzioni e responsabilità, evitando ogni confusione di piani e di interessi. È forse con qualche ragione che Salman Rushdie crede che tutte le società musulmane debbano depoliticizzare la religione e riportarla nella sfera del personale. Oggi lo studio del fenomeno religioso non si può sviluppare più in rapporto alla ricerca della verità universale che prevede l’unità di natura e ragione scritta ‘nel cuore dell’uomo’, bensì deve procedere in rapporto alla pluralità delle forme di razionalità soggiacente ai fenomeni religiosi la cui struttura significativa è necessariamente individuale, valevole solo per lo specifico contesto che la origina e sviluppa. Nella fase attuale, dunque, un’analisi del fattore religioso esige una conoscenza di esso come esperienza, come fatto sociale, come nodo semantico espressivo delle diverse pratiche, calato dentro le distinte costruzioni paradigmatiche di livello storico e socio-antropologico. In questo tentativo della religiosità contemporanea di oltrepassare continuamente i confini, si svela la sua tensione profonda verso la molteplicità del reale, la consapevolezza che nessuna definizione e nessun sistema sono in grado da soli di contenere la complessità. È un modo per liberarsi da quello che è stato descritto come ‘monoteismo culturale’ per aprirsi a un ‘neopoliteismo’ del pensiero in cui le diversità possono convivere e respirare insieme, senza ridursi né sincretizzarsi. Complessa è la situazione di un territorio multiculturale, potenzialmente interculturale, che vede l’avvicendarsi di spostamenti, migrazioni di interi popoli e mette a confronto diversità, meticciati, etnie e difficoltà aspiranti all’integrazione, all’accettazione, accoglienza e condivisione della differenza. Essa non deve essere annientata, ghettizzata o omologata in piatte e discriminanti standardizzazioni, ma riconosciuta e rispettata nella valorizzazione e nell’accrescimento reciproci.
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L’identità della nostra società è ormai ottenebrata e degradata dal consumismo esasperato, dal livellamento culturale delle coscienze, da stravolgimenti economicosociali apportati dagli ingenti fenomeni di capitalizzazione industriale delle risorse collettive. Solo superando i concetti di ‘frontiera’ e ‘confini europei’ e divenendo consapevoli delle proprie storie di vita e formazione, sarà possibile recuperare valori di confronto e arricchimento culturale. L’invito è ad adottare identità plurali, interagenti e realmente aperte attraverso il rifiuto di un’ipocrita tolleranza del ‘diverso’, dell’‘altro da sé’. Dovremmo riflettere sul nostro recente passato per ripensare ed essere capaci di analizzare criticamente gli stereotipi assegnati con troppa facilità a coloro che di volta in volta si trovano ad essere ‘stranieri’, ‘immigrati’. L’idea di pluriverso religioso può essere utile per capire che il paesaggio religioso è una realtà policroma e dinamica che attraversa e va al di là di tutte le religioni per investire il mondo della vita nella sua complessità. 5.1. Oltre il momoteismo culturale Ho detto sopra della coesistenza di opzioni religiose diverse e talora antitetiche negli spazi più diversi. Anche nella postmodernità, quasi come per contrappasso, rispuntano i fondamentalismi che sottolineano il vigore delle verità di cui si fanno portatori con un atteggiamento di nevrotico rifiuto della diversità. Per quanto inseriti all’interno di distinte culture, essi si caratterizzano per la pretesa di unicità e rilevanza della loro verità, quasi fossero l’esclusiva lux mundi. E non si tratta, va oggettivamente detto, solo di alcuni casi isolati. Il dialogo interreligioso si dimostra una delle sfide più importanti del nostro tempo, non solo nell’ottica della convivenza, ma anche in quella della autocomprensione delle fedi. Esso infatti è la strada attraverso la quale ciascuna religione può penetrare sempre più profondamente dentro la ricchezza della propria tradizione, per poterne cogliere ed esprimere l’essenza.
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Quali dunque i confini del religioso? Nel secondo capitolo, sulla base dei grandi censimenti internazionali abbiamo censito le grandi religioni come esse si presentano nelle varie parti del mondo. Ci siamo però preoccupati di evidenziare i limiti di una tale procedura, in quanto una mera ricostruzione dei dati quantitativi non riesce a cogliere le ambivalenze e rischia di proporre una mappa meramente formale, distante dal vissuto effettivo delle donne e degli uomini. Quale sarebbe dunque la mappa adeguata? Una risposta esauriente necessiterebbe un lavoro di ricerca a livello internazionale e la mobilitazione di risorse conoscitive ancora da attivare. Qui si è solo cercato di dare un primo contributo in tale direzione, facendo riferilento all’esplicito gap esistente in talune aree prese come campione fra l’appartenenza (belonging) e l’esperienza (living). Inoltre, all’interno delle culture contemporanee, nonostante l’ondata ‘secolare’, si possono rintracciare numerosi percorsi con specificità di senso globale. Di fronte all’amore, al dolore, alla morte, ai dilemmi della vita, quei percorsi rivelano esiti esistenziali e normativi, senza in genere postulare rapporti di adesione e di appartenenza alle istituzioni confessionali. Si ha un vasto paesaggio della Lebenswelt, di un vissuto ‘religioso’ che rimane tale e non viene ulterioriormente specificato, un religioso implicito o senza nome, di fronte al quale si rivelano incerte e inadeguate coppie analitiche quali sacroprofano, magico-religioso, visibile-invisibile, razionaleirrazionale, credente/non-credente. Il religioso implicito, per esempio, oltre che un fenomeno è una cifra analitica del travaglio dell’autonomia esistenziale e della transignificazione simbolico-normativa in atto nella società contemporanea (Nesti 1985). In questo sfondo si potrebbe esplorare la morfologia e il senso di singolari fenomeni fra cui il cristianesimo senza fede (Delumeau 1975), il cristianesimo senza chiesa (Kolakowski 1969), lo scetticismo come arte di vivere la labilità del presente (Starobinski 1982), l’agnosticismo come primato dell’inesprimibile (Wittgenstein 1974), l’ateismo come
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metafora. In senso classico, l’ateismo significa negazione della divinità, impossibilità e/o inutilità, pericolisità di una sua esistenza. A esso sono però sottese altre profonde dinamiche e significazioni. L’ateismo esprime spesso un fenomeno proprio del sottosistema religioso, i cui significati radicali esigono una esplorazione a livello comunicativo sullo spessore profondo della personalità nel suo essere sociale, sulle implicazioni emozionali, sulle modalità espressive siano esse aforismatiche, implicite o meno. Di fronte a una tale complessità, Machovec osserva: «se mi fosse chiesto di spiegare che cosa significhi essere un ateo […] io chiederei in primo luogo che cosa significhi credere. Sono certo che se si confrontano i vangeli, ‘credere’ non significa semplicemente ‘penso che una certa cosa sia vera’» (Machovec 1977). L’ateismo non significa assenza in senso assoluto; è piuttosto negazione e antinomia nei confronti delle istituzioni religiose esistenti, disconoscimento, negazione di ciò che è convenzionalmente codificato e dotato di plausibilità sociale. Per indagare se e come sia possibile enucleare segnali del ‘religioso’ al di là delle forme esplicite, andrebbero rivisitati tratti di un percorso emblematico dell’ateismo contemporaneo, quello di Friedrich Nietzsche. Come è noto, ciò che domina la sua ricerca è la necessità critica di un totale ribaltamento dell’illusione che domina il suo tempo. La scienza, a suo avviso, deve allentare le reti che trattengono l’impalcatura del sapere razionale e far emergere la realtà che si nasconde dietro di essa per assumerla fuori dai limiti della ragione. L’approdo di Nietzsche alla scienza appare come contropartita del suo atteggiamento nullificante nei confronti dell’esperienza etico-morale e metafisica della conoscenza ridotta entro angusti confini. La scienza in Nietzsche diviene, più che mezzo di dominazione della terra e quindi di superamento in termini illuministico-razionalistici del nichilismo, luogo di ricucitura e di reversibilità della scissione soggetto-oggetto, in quanto viene a differenziarsi dal logos e si ricongiunge all’oggetto, decade come scienza oggettiva o, come dice Lacan, ‘come scienza senza soggetto’. In
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questo senso perde la sua autonomia dalla vita che l’aveva costituita come luogo-di-fronte, rigido e cosalizzato. La sua oggettività viene a frantumarsi dentro un gioco di casualità e peculiarità in cui il particolare diventa centro e la parola simbolo. Solo la scienza che incorpora il dubbio, l’oscuro, l’ignoto dentro se stessa, potrà risplendere. Ai fini della nostra ricerca, diventa utile evidenziare come all’interno dei perimetri dell’ateismo di Nietzsche siano presenti simboli e forme che travalicano il mero ambito dell’esplorazione scientifica. La critica al monoteismo cristiano e alla sua morale ‘sentita come contraria alla natura’ si fa stringente e appassionata, come pure quella ai principali dogmi del sistema hegeliano –e a ogni sistema in cui esso si frammenta–, in un movimento ideale che cerca di recuperare quel che si era perduto col politeismo. Il lavoro dell’intera vita di Nietzsche, osservò finemente Ernst Bloch, è quasi tutto rivolto a combattere l’uomo freddo, non dionisiaco, non mitico e la verità senza soggetto. Si potrebbe osservare cha la formula ‘Dio è morto’ non è una proposizione speculativa, bensì quella drammatica per eccellenza entro un personale sensus vitae. Il nichilismo fondato su tale dichiarazione non rappresenta che la fondazione di un particolare umanesimo: negando Dio, Nietzsche afferma l’uomo. La ricostruzione del mondo, in termini di superamento proprio del superuomo e di eterno ritorno, si spiega in una forma di riattingimento della realtà che, allontanati i fantasmi ‘religiosi’, trova il suo radicamento nell’affermazione della vita nella sua interezza, vita della quale nulla si nega e cui nulla si sottrae. Nel mondo di Nietzsche nulla funge da centro equilibratore. Quel che è concepito come essenziale, si manifesta anche in ciò che è apparentemente accidentale. I simboli e le forme che sono radicalmente presenti ed operanti, anziché attenuare l’insicurezza dell’esistenza, spingono ad una compresente consapevolezza delle sue contraddizioni, a un rapporto con essa e le sue mediazioni analogo a quello che si apre con il riconoscimento della differenza. Tale trama simbolico-esistenziale coincide in senso stretto con quella pro-
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pria del viandante che si trova davanti un solo fatto certo e costante: la consapevole esigenza di pensiero e di esistenza di un centro non centrato, sottoposto ad un continuo oltrepassamento. Egli sa di essere ‘sempre su un abisso’. Allo slancio segue e si alterna la critica di quanto si è potuto esperire. In vista della ‘liberazione’ è fondamentale volere il nulla piuttosto che non volere. Ritrovare il mondo nel suo segreto significa anche rintracciare il pensiero come gioco del mondo e il testo, ogni testo, come frammento, come ombra di una trama da inseguire (Nesti 1985: 55-65). Si vive in un tempo in cui tutto viene rimesso in discussione. Stiamo affrontando una crisi di intelligibilità: il divario fra ciò che si dovrebbe comprendere e gli strumenti concettuali necessari per farlo si allarga sempre più. Un mondo scosso da formidabili mutazioni tecnologiche, dal persistere di disordini economici e da crescenti pericoli ecologici. Queste scosse si traducono in particolare in un disorientamento sociale, nell’esplosione di disuguaglianze, nell’apparizione di nuove forme di povertà e di esclusione, nella crisi del valore rappresentato dal lavoro, nel malessere del potere, nella disoccupazione di massa, nell’avanzare dell’irrazionale, nella proliferazione dei nazionalismi, degli integralismi, della xenofobia e simultaneamente in una ripresa delle preoccupazioni etiche. Detto ciò, nel mondo contemporaneo non mancano i segni del religioso, il problema è la sua decifrazione. Quale nome dargli? La new age per molti versi sembra animata da un’autentica volontà di ricomposizione. Essa proclama l’uomo depositario per eccellenza della verità, alla quale può giungere attraverso lo sviluppo e l’affinamento delle sue facoltà razionali e intuitive. In questo modo, essa sembra però divenire una forma estrema di decadenza, la sanzione definitiva della secolarizzazione in nome dell’individualità che sostituisce di nuovo l’Assenza. Sincretismo o sintesi? I nuovi movimenti, che si ispirano alla new age cercano di sviluppare il potenziale umano annullando ogni differenza con l’alterità, ma corrono così il rischio di alimentare una religione narcisistica.
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La domanda fondamentale non è sulla possibilità o sul modo in cui il ‘mondo adulto’ può tornare a essere religioso, quanto quello di considerarsi adulti a prescindere da un senso dell’orizzonte. Nelle sue riflessioni teologiche sulla situazione del cristianesimo, Bonhoeffer afferma: «La nostra chiesa che in questi anni ha lottato solo per la propria sopravvivenza come fosse fine a se stessa, è incapace di essere portatrice per gli uomini e per il mondo della parola che concilia e redime. Perciò le parole di un tempo devono perdere forza e ammutolire. Non è compito nostro predire il giorno, ma quel giorno verrà, in cui degli uomini saranno chiamati a promuovere la parola di Dio in modo tale che il mondo ne sarà cambiato e rinnovato. Sarà un linguaggio nuovo, forse completamente non religioso, ma capace di liberare e di redimere, come il linguaggio di Gesù» (Bonhoeffer 1969: 370; Jonas 1987). Indubbiamente sullo scenario mondiale è in atto una vasta produzione simbolica da parte di molti gruppi e denominazioni spesso fuse fra loro e proponenti rituali che prescindono dal terreno culturale su cui poggiavano e da cui traevano significato. Che dire infatti dei veri e propri puzzle di dottrine e tradizioni che procedono verso una sorta di ‘sfondamento’ dell’essere che ci costituisce? Nell’individuare le caratteristiche comuni della sensibilità religiosa contemporanea si possono rintracciare alcuni tratti significativi. Il primo è il valore del nomadismo. La molteplicità dei linguaggi e delle culture spinge sempre di più a prendere coscienza della molteplicità presente in ciascuno, di quella zona d’ombra e ambiguità che nessun proclama di identità acquisita può cancellare. Il secondo è il senso dell’emozione, tra desiderio e corporeità. L’uomo postmoderno cerca nel religioso quella carica dirompente capace di rivitalizzare le proprie sensibilità sopite e di infondere nuova linfa vitale. Altra caratteristica sono il silenzio e la ‘mistica’ in opposizione alla parola e alla teologia dogmatica. Contro
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l’eccesso di parole e teorie, l’uomo religioso vive il rifiuto del discorso e della didascalia, optando per un immersione più radicale nell’esperienza del sacro. Mentre la teologia si affanna a parlare di silenzio di Dio, di impotenza, di libertà, il credente preferisce tentare una via per percepire, più che comprendere razionalmente, una pervasiva esperienza dell’alterità. Il silenzio e la religiosità sembrano ricercati come antidoto contro un mondo rumoroso e caotico. Allo stesso modo, la contemplazione pare un rimedio per la voracità del tempo, una sorta di ‘antitempo’, antispazio’, in cui vivere una sospensione simbolica. Parte della sensibilità religiosa di oggi è poi il cammino dalla mistica naturale verso un’etica ecologica. Il bisogno religioso contemporaneo incarna la domanda di un’esperienza forte d’impronta biologica, che sappia confrontarsi con la tremenda precarietà dell’esistere. L’inquinamento, la deforestazione, il buco dell’ozono, le trasformazioni climatiche, non sono solo problemi di ordine tecnico ma vanno letti anche come segnale di un impasse, di un blocco culturale, ossia dell’errore di fondo di considerare la natura come separata dall’umanità. La dimensione ecologista è anche l’espressione di un nuovo modo di percepire il proprio essere nel mondo all’interno di una sensibilità a sfondo religioso e del progetto di una spiritualità cosmobiologica. Di qui, forse, si può partire per una nuova mappa delle religioni, partendo dal vissuto ‘religioso’. Infine, la sottolineatura del valore dell’incertezza e dell’irrilevanza. Lentamente l’uomo contemporaneo comprende che il dubbio non è affatto negativo e che una reale crescita è possibile solo quando si è disposti a gettare delle ombre sulla percezione di sé. L’io incerto finisce col diventare un presupposto e una garanzia per la ricerca di una soglia oltre i limiti. In questo senso l’incertezza si coniuga con un nuovo senso di ‘irrilevanza’ che l’uomo religioso avverte di fronte al tempo, agli altri e alla natura. Come chiamare, che nome dare al vissuto religioso delle donne e degli uomini del nostro tempo?
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