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Italian Pages 74 Year 2019
Lorenzo Sangalli
Pasolini e lo sguardo del Poeta Uno studio sul film “Che cosa sono le nuvole?” di Pier Paolo Pasolini edizione in proprio
Nota dell’autore alla presente edizione: La prima edizione di questo mio studio sul film di Pasolini è stata pubblicata nel 2017 da Giuseppe Vozza Editore che, come si legge anche nei ringraziamenti finali, me lo ha direttamente sollecitato, e lo ha poi omaggiato di un’edizione bellissima e molto curata, contenente ben sedici tavole a colori, che riproducevano altrettanti disegni originali di Enzo Toscano, ispirati al film di Pasolini e a questa mia analisi. Sono grato a Giuseppe per aver incoraggiato, sostenuto e infine portato alla luce un libro di cui andrò sempre fiero. All’esaurirsi della tiratura, Giuseppe ha amichevolmente consentito di far proseguire la vita di questo mio studio con la presente edizione in proprio, che ne conserva il testo integrale, la prefazione di Andrea A. Ianniello, e una delle tavole di Enzo Toscano posta in copertina, come lo era nell’edizione originale.
Illustrazioni: Nel capitolo “Cosa dipinge il pittore che dipinge sé stesso nell’atto di dipingere?”: Diego Velázquez, particolare di “Las Meninas” (1656). Nel capitolo “La seconda nascita”: Diego Velázquez, “Venere Rokeby” (1648 ca.). Il disegno di copertina è di Enzo Toscano. Prima edizione del 2017 (ISBN 978-88-88848-74-7): Giuseppe Vozza Editore in Casolla s.r.l. Via Iannelli, 24 81100 Caserta-Casolla www.vozzaeditore.it - [email protected]
seconda edizione © Lorenzo Sangalli, 2013-2019 Tutti i diritti riservati. [email protected] facebook.com/Losanga vimeo.com/Losanga
Prefazione “Io sono una forza del Passato, solo nella tradizione è il mio amore…”[1] “Egregi spettatori, or non siate scontenti, forse vi aspettavate finisse altrimenti. Una leggenda d’oro avevamo inventata, ma poi, strada facendo, in male s’è cambiata. E sgomenti vediamo a sipario caduto che qualunque problema è rimasto insoluto. […] Deve cambiare l’uomo? O il mondo va rifatto? Ci voglion altri dèi? O nessun dio affatto? Siamo annientati, a terra, e non solo per burla! Né v’è modo di uscir dalla distretta se non che voi pensiate fin da stasera stessa come a un’anima buona si possa dare aiuto, perché alla fine il giusto non sia sempre battuto.”[2] E il “giusto” è stato battuto, il caso di Pasolini è semplicemente una “variante sul tema” di chi vuol combattere per una “giusta causa” e, alla fine, perde. Nihil sub sole novum, dirà qualcuno. Tuttavia, dopo questo brevissimo ricordo della vicenda terrena di Pasolini, a mio avviso è opportuno, riguardo a quest’interessante studio di Lorenzo Sangalli, focalizzarsi su due punti principali, che si “schizzeranno” molto sommariamente di seguito. Dobbiamo, infatti, esser grati all’autore per le riflessioni che sa suscitare, oltre che per aver attirato l’attenzione su di un lato di Pasolini che pochi avevano notato, anche se – sia detto per inciso – la citazione riportata qui sopra avrebbe dovuto indurre a qualche più meditato giudizio. Ma così non è stato, storicamente parlando, e queste stesse parole furono all’epoca interpretate come “nostalgia della civiltà contadina” di fronte alla
superficiale “Italietta” del “Boom”, boom che presto si sarebbe rigirato nel Grande “Moob” nel quale viviamo e siamo. La “civiltà” dei consumi, infatti, all’epoca era in grande ascesa, non dimentichiamocene, e Pasolini criticò fortemente tale “civiltà” nel momento della sua massima forza d’ascesa (non ancora il suo “acme”, però, che sarebbe avvenuto, invece, negli anni Ottanta del secolo scorso). Il lato “spirituale” di Pasolini. Vi era, dunque, di più di quanto apparisse nell’ “amore per la tradizione” professato da Pasolini: questo viene pienamente dimostrato dall’autore, con dovizia di particolari e ricchezza di riferimenti, ai quali non si può che far riferimento. Infatti, sarebbe sbagliato privare il lettore del piacere della scoperta, qui ci si contenta solo di far qualche sparsa osservazione. Per esempio, quando Totò, parlando dietro le quinte, rivela (ri-vela) “che cos’è la verità”, questo è immagine chiara della comunicazione del “segreto” (iniziatico), ma pure riecheggia quell’affermazione del sesto Imâm sciita Ja’far al-Sậ diq: “La nostra causa è un segreto dentro un segreto, il segreto di qualcosa che rimane velato, un segreto che solo un altro segreto può spiegare, è un segreto su un segreto che si appaga di un segreto”. Le vicende terrene non sono che un sipario, dietro vi è il “Vero” che è incomunicabile, ovvero “ineffabile”, lo si può sì percepire, se ne può esser “consapevoli”[3], ma non lo si può “dire” se non sotto “il velo” dei simboli: e qui, a mio avviso, il “Salvator Mundi” di Leonardo da Vinci ha un posto interessantissimo. Il filmato pasoliniano riesce molto efficacemente a comunicare i “due livelli”, questi due “piani di senso”, che costituiscono la realtà. Le cose, nella loro apparenza e superficialità, inaspettatamente rivelano una profondità straordinaria ed insospettata, come una stanza chiusa che, improvvisamente, si aprisse su di uno scenario senza fine … per poi tornare a chiudersi, altrettanto inaspettatamente: i contrasti sulla scena provocano l’intervento del popolo, naturaliter “rivoluzionario”, secondo Pasolini. Il popolo eh, non la massa… Sottolineerei, poi, la centralità del dipinto di Velasquez, ben analizzato dall’autore: l’effetto specchio è la “consapevolezza”, la Consapevolezza Infinita “è” Dio nel
senso de “l’Assoluto” (ab solutus, vale a dire “sciolto” da ogni determinazione a Lui esterna), ovvero un effetto specchio che non ha mai termine né inizio, cosa ovviamente incomprensibile a mente umana. Un “effetto specchio” che si limiti a due livelli è la “consapevolezza di sé”, ma il discorso sarebbe lungo, salvo qui sottolineare quanto il comportamento umano di “massa” sia “meccanico”; anzi, quanto più gente viene coinvolta in un tal movimento massificato tanto più esso è prevedibile. Tornando alla questione dello “specchio”, nel Buddhismo, e in particolare nello Zen, è una metafora comune per denotare la bodhi, la consapevolezza[4]. Questo è uno dei significati dello specchio, l’altro – molto probabilmente più vicino alle radici culturali Pasolini – si riferisce allo specchio come conoscenza “riflessa”, per l’appunto[5]. Ancor oltre, specchio rimanda a “riflesso”, come quello sul “globo” – forse uno dei più belli della storia dell’arte – del “Salvator Mundi” di Leonardo (ritrovato fortunosamente nel 2011), la “bellezza” come ambiguità, bene e male contenutivi “sin dal Principio”, eppure Cristo tiene nelle “Sue mani” (nella sinistra, simbolicamente molto interessante sottolinearlo) il mondo tutto, che “Lo riflette”,[6] davvero “straziante bellezza del Creato”… Le cose nella loro armonia eppur mutevoli, cangianti, spariscono come nuvole bianche nell’azzurro del Cielo: ecco che il riflesso della Luce su di esse parrebbe voler “dire” qualcosa, ma non a parole, questo è, appunto, l’ineffabile. “La rosa fiorisce perché fiorisce, senza un perché”, scriveva Angelo Silesio ne Il pellegrino cherubico. Saper cogliere l’aspetto di “mistero” che si riflette nella bellezza della rosa, del nostro esempio, “è” l’arte, quella vera. La realtà vera è tutt’altra da quella che appare; l’arte vera è il messaggero di tale realtà vera, non, dunque, un mero permutare le apparenze. O almeno questo dovrebbe essere… La “preveggenza” di Pasolini. Due parole son d’obbligo al riguardo della “preveggenza” di Pasolini.[7] Si usa dire, difatti, che Pasolini vide molto al di là della sua epoca. In realtà, molti fenomeni degenerativi erano ben visibili all’epoca di Pasolini, che si è limitato a tirar le somme di quel che vedeva succedere sotto i suoi occhi ed intorno a lui; era solo la “sbornia” del consumismo che impediva di vederlo, e
che costituiva una gabbia di fango e cioccolato sciolto, il tutto mescolato in un pastrocchio inestricabile. La particolarità di Pasolini non sta nell’aver visto tutto questo, dunque, ma sta nella particolare intensità della critica, e nell’aver preso partito - senza titubanze - a favore degli ultimi e della civiltà contadina ormai ai suoi ultimi fuochi, per di più provenendo da una formazione prima cattolica e poi marxista. Noi oggi, però, viviamo alla fine della “civiltà” consumistica. Nessun discorso che voglia parlare, oggi, di questo lato di Pasolini può avere alcun senso reale attuale se non si focalizza su questo preciso punto. In caso contrario, si riecheggiano le critiche di Pasolini ad un mondo che non c’è più, mentre quel che conta è la sostanza della critica, che cioè certi “gangli” del “potere senza volto” son rimasti gli stessi, e prima hanno “affogato” la società con il consumismo, mentre dopo hanno pian piano deciso di togliere di mezzo il consumismo, mantenendo però il loro controllo[8]. Ecco, questo fatto lui lo dichiarava “peggio del fascismo”, percepiva molto bene la natura sfuggente, scivolosa e infida, camaleontica, camuffante, trasformista, “simulativa” di un tale “potere senza volto”, il che è una critica ben più radicale, il che è una critica che mantiene intatta la sua carica ben più che il solo criticare la civiltà dei consumi, il cui processo di auto dissoluzione non sta cambiando gli assetti di potere al suo interno[9]. Son discorsi complessi, cui si è potuto soltanto accennare, ma dobbiamo ringraziare l’autore perché, esplorando un lato volutamente ignorato di Pasolini, ci consente d’iniziare, solo iniziare, a riesaminare molte certezze riguardo a Pasolini stesso e alle problematiche a lui ricollegabili. “Straziante, meravigliosa bellezza del Creato”… Andrea A. Ianniello
Matteo, Eleonora, questo è per voi: perché vediate che, una volta nati, prima o poi è necessario rinascere.
Pier Paolo Pasolini, Poeta Pier Paolo Pasolini, classe 1922, non avrebbe bisogno di grandi presentazioni, tanto il suo nome ritorna ancora spesso (e purtroppo talvolta a sproposito) il giorno d’oggi. Anche la sua opera è in costante riemersione, segno di un’attualità mai vinta dal passare del tempo. In realtà, in quest’epoca di citazionismo estremo e di capacità di concentrazione piuttosto limitata, è più facile un’emersione frammentaria dell’opera, magari fuori contesto, spezzettata e diffusa in ogni fattezza e formato su mezzi social di varia natura… Il che contribuisce, inevitabilmente, alla preservazione dei vari pregiudizi sulla sua figura e il suo pensiero, che perpetrano nel tempo perlopiù i cliché già permeati nel ben sedimentato immaginario collettivo. Non manca certo chi si sforza di tornare con spirito sempre nuovo su ciò che Pasolini ha lasciato, per entrarvi in profondità e aprire prospettive sulla realtà del tempo presente, ma non si può dire, purtroppo, che questi siano la maggioranza. In un contesto simile, è gioco facile l’attribuzione di etichette ben identificabili a un uomo dai molteplici interessi e dalle più varie modalità di intervento e presenza nel panorama sociale e culturale Italiano degli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso. Tali etichette sono associazioni di categorie che assolvono chi le attribuisce dall’obbligo di affrontare un’indagine in territori ignoti: se si definisce una figura come quella di Pasolini con l’attributo di intellettuale, romanziere, saggista, polemista, sociologo o cineasta, ad esempio, si può stare ragionevolmente sicuri di condividere un intendimento di base riguardo a ciò che queste figure concretamente rappresentano e l’attività che svolgono (forse con lo stupore di vedere radunato un così vasto catalogo di attività in un unico uomo, che pure le ha effettivamente svolte). Ma vi è, tra le tante, una categoria che potenzialmente inquieta chi la pronuncia perché, se rettamente intesa, provoca uno scarto laterale di senso che non può più sottostare ad alcun cliché. È quando si dice di qualcuno che è un poeta. Proprio così lo descrive il suo amico Alberto Moravia nell’orazione funebre che egli pronuncia in piazza, nel giorno
della commemorazione pubblica per la morte di Pasolini in Campo de’ Fiori, a Roma:[10] MORAVIA: Abbiamo perso prima di tutto un Poeta! E il Poeta… non ce ne sono tanti nel mondo: ne nascono tre o quattro soltanto dentro un secolo! Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno, come Poeta. Il Poeta dovrebbe essere sacro! Moravia parla a braccio, all’aperto: urla dentro un microfono che ne distorce la voce, ed è concitato, tra l’emozionato e il furente. Usa sempre la parola Poeta al singolare, con enfasi, e pare proprio di sentirla quella “P” maiuscola sottintesa,[11] a richiamare la sacralità di questa vera e propria funzione tra gli esseri umani: quella di Poeta, ovvero ben più di un compositore di poesie. Il Poeta, infatti, possiede la natura dell’artefice, di colui che dal nulla crea, che dà la forma, come l’etimo greco poiesis suggerisce. Deve, quindi, saper gettare il proprio punto di vista là dove gli altri non guardano affatto, oppure, guardando, non ne ricavano altro che la semplice apparenza. Ricordiamo questa definizione di Poeta, perché ne faremo buon uso nel corso di questo studio. Ecco perché nascono solo “tre o quattro” individui, nel corso di un secolo, che possano fregiarsi del titolo di Poeta (con la maiuscola!), sentenzia Moravia. E aggiunge: il Poeta (proprio per la sua altissima funzione tra gli uomini) dovrebbe essere tenuto per sacro dalla società. È nota, invece, la quantità di impedimenti e persecuzioni di cui Pasolini è stato vittima (ben 33 processi, a fronte di imputazioni che spaziavano dal vilipendio alla religione di Stato, agli atti osceni in luogo pubblico, fino alla grottesca accusa di un tentativo di rapina a mano armata), per giungere alla violenta conclusione della sua vita, ucciso sulla spiaggia del Lido di Ostia nella notte tra l’1 e il 2 novembre 1975. “Nemo poeta in patria”, si potrebbe dire, parafrasando il famoso detto. Si dice comunemente di lui, e a ragione, che è stato un potente anticipatore di riflessioni su mode e costumi che sarebbero risultati evidenti solo molto più avanti (ad esempio, si pensi alla sua lucidissima analisi sulla TV come mezzo di comunicazione – e di inculturazione – di massa un decennio
prima dell’avvento delle televisioni commerciali), ma una tale capacità di vedere è appunto propria dello sguardo del Poeta: uno sguardo di traverso, un saper vedere, per via intuitiva, dietro l’angolo, dove coloro che abboccano solo a ciò che è direttamente evidente non possono arrivare. È in virtù di questo talento che il Poeta può, come ha fatto Pasolini, spaziare tra argomenti e temi anche diversissimi tra loro e ricavarne un punto di vista che brilla di luce propria[12] e che, per il fatto stesso di accedere a una visione laterale inusuale, può assumere un carattere oracolare. Il Poeta, cioè, può giungere a prospettare un futuro che si avvererà[13] precisamente perché egli ne ha saputo vedere i germi, i segni che ne delineavano le caratteristiche ben prima che queste fossero evidenti ai più. Pasolini è dunque stato Poeta (con la P maiuscola) in questo preciso senso, e così possiamo dire che la profezia di Moravia del 1975 si è, di fatto, avverata, anche grazie al progressivo deterioramento del tessuto culturale Italiano nei successivi venticinque anni (e oltre, s’intende): se considerato con questa funzione globale di Poeta, e non solo come estensore di componimenti, Pasolini è davvero uno dei pochi che contano nel XX secolo. Ma un’indagine a tutto tondo su Pasolini è fuori dagli scopi di questo studio: qui ci dedicheremo a un episodio specifico della sua pur vasta produzione cinematografica, ovvero il suo terzo cortometraggio, realizzato nel 1967 e uscito nel 1968, dal curioso titolo Che cosa sono le nuvole?, opera in cui Pasolini usa il pretesto di rappresentare il mondo del teatro all’interno di un film per offrire, come vedremo, moltissimi spunti di riflessione.
I cortometraggi di Pasolini La filmografia di Pasolini è ampissima, pur svolgendosi nell’arco di soli quattordici anni: si tratta di ben dodici lungometraggi, sei documentari e quattro cortometraggi. Come si vede, è una media di quasi due film l’anno. E, infatti, non c’è annata tra il 1961[14] e l’anno della sua morte in cui Pasolini non si sia dedicato alla realizzazione di nuove opere cinematografiche: una vera costante nell’ultima parte della sua vita.[15] Tra gli anni ‘50 e ‘70 del secolo scorso era frequente che produttori cinematografici chiedessero ad autori affermati la realizzazione di cortometraggi da presentare nei cinema come episodi, a volte legati da un tenue tema in comune ma spesso completamente sganciati tra loro, di film detti collettivi, così che la durata complessiva del film equivalesse a quella di un lungometraggio. Questo consentiva ai produttori la distribuzione in sala (non esistevano videoregistratori, DVD, TV tematiche o Internet… i film si vedevano solo andando al cinema), potendo contare sul richiamo di più autori sotto lo stesso titolo. In Italia ne vennero prodotti anche più di uno ogni anno. A partire dagli anni ‘80, invece, i film collettivi sono quasi del tutto spariti da noi, mentre se ne hanno esempi all’estero fino ai giorni nostri. Nel 1963 Pasolini partecipa per la prima volta a uno di questi film collettivi, intitolato Ro.Go.Pa.G. dalle iniziali dei registi coinvolti (ovvero Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti), con l’episodio La ricotta. Il corto racconta la storia di un figurante, un sotto-proletario proveniente dalle borgate romane dal nome emblematico di Stracci (interpretato da un vero borgataro, Mario Cipriani), che durante le riprese di un film sulla passione di Cristo vende, spacciandolo per proprio, un cagnolino che gli aveva mangiato il cestino del pranzo e, con i soldi ricavati, compra una quantità eccessiva di ricotta che ingurgiterà morendo di indigestione una volta issato sulla croce del set, proprio quando gli toccherebbe dire la battuta del ladrone buono dei Vangeli. Il corto vede la partecipazione di Orson Welles nella parte del regista del film sulla passione di Cristo che viene girato nel film e, come
prevedibile, attirò gli strali di chi non poteva minimamente comprendere la sacralità pasoliniana nell’accostamento tra la vicenda del Cristo e la morte del poveraccio di borgata: Pasolini venne processato e condannato per vilipendio della religione (parzialmente amnistiato) e dovette operare dei tagli e delle modifiche al montaggio originale. La ricotta resta in ogni caso un film straordinario e dalla metafora potente. Dopo aver raccontato per sommi capi il primo corto, e prima di parlare dei due corti centrali della serie, una rapida menzione del quarto ed ultimo, realizzato nel 1969 come episodio del film collettivo Amore e rabbia, dal titolo La sequenza del fiore di carta, ispirato alla parabola evangelica della maledizione del fico sterile. È uno spezzone di dieci minuti, concepito come se fosse un unico piano-sequenza (ma non realizzato come tale) in cui l’unico protagonista, Riccetto (Ninetto Davoli), cammina spensierato per le strade di Roma con in mano un gigantesco fiore di carta rosso, mentre la voce di Dio lo ammonisce a considerare le vicende di guerra e di disperazione che affliggono l’umanità (le cui immagini scorrono a tratti in sovrimpressione). L’incapacità di Riccetto di aprire gli occhi sul mondo reale che lo circonda, perso nella sua stessa spensieratezza, provocherà la sua maledizione agli occhi di Dio, e quindi la morte. Si tratta, in effetti, di un episodio minore, girato molto in fretta e dal significato un po’ didascalico. Non seguiranno altri cortometraggi da parte di Pasolini nei successivi sei anni che gli restano da vivere, per quanto, come vedremo, ne avesse alcuni in progetto. Torniamo ora però ai due cortometraggi precedenti, girati in tempi ravvicinati nel 1966 e nel 1967, che completano la serie dei corti girati da Pasolini, e che vedono entrambi come protagonista, insieme al sempre presente Ninetto Davoli, il Principe Antonio De Curtis, in arte: Totò.
Perché Totò? Il legame di Pasolini con il territorio campano è precoce: già nel 1956 il suo componimento poetico, poi confluito nella raccolta Le ceneri di Gramsci, intitolato La Terra di Lavoro[16] esprime una sentita vicinanza alla realtà e alla condizione di quelle terre e dei suoi abitanti. In questa poesia, Pasolini immagina (o forse descrive un’esperienza realmente vissuta) di attraversare in treno quelle pianure e di alternare l’attenzione tra la bellezza dei paesaggi che scorrono e l’afflizione che scorge nella gente locale, per lo più misera, che sta viaggiando con lui, traendone considerazioni amare. Il componimento è molto lungo e complesso da analizzare, ma ecco un breve passaggio che ci riguarda perché pone l’accento sull’innocenza delle persone semplici, qualità che interessa moltissimo Pasolini e che ritroveremo quando parleremo di Che cosa sono le nuvole?: Ma anche chi non mangia o le sue storie non dice al vicino attento, se lo guardi, ti guarda con il cuore negli occhi, quasi, con spavento, a dirti che non ha fatto nulla di male, che è un innocente.[17] Un’ulteriore prova della stima e del favore di Pasolini verso il popolo campano (napoletano, nello specifico) viene da uno scritto tardivo, datato 6 marzo 1975 e incluso nella raccolta postuma Lettere luterane. In una specie di missiva a un ragazzo immaginato, Gennariello,[18] Pasolini chiarisce perché ha voluto immaginarlo di Napoli: “Coi napoletani mi sento in estrema confidenza, perché siamo costretti a capirci a vicenda. Coi napoletani non ho ritegno fisico, perché essi, innocentemente, non ce l’hanno con me. […] Io con un napoletano posso semplicemente dire quel che so, perché ho, per il suo
sapere, un’idea piena di rispetto quasi mitico, e comunque pieno di allegria e di naturale affetto.” Come si può notare, i livelli di prossimità con il popolo napoletano citati da Pasolini sono di due tipi: una confidenza a livello quasi fisico e affettivo (sempre in virtù di un’atavica innocenza) e, ancora più interessante, un rispetto “quasi mitico” (dice) per quello che è, a tutti gli effetti, la trasmissione di un sapere. Come sempre, in Pasolini, vi è dunque il riconoscimento del valore di una cultura, nella fattispecie quella del popolo campano per ciò che rappresenta la sua storia peculiare, sia in quanto popolazione nel complesso, sia nell’espressione delle varie storie individuali, fuori da ogni condizionamento derivato da stereotipi.[19] Veniamo dunque a Totò. Anno Domini 1966. Non si potrebbe immaginare una coppia più antitetica: l’intellettuale Pasolini, “borghese settentrionale”,[20] e il napoletanissimo guitto Totò. Eppure la loro collaborazione, sebbene durata l’arco di sole tre opere in poco più di due anni, produsse dei risultati notevolissimi. Fu Pasolini a cercare Totò, che non conosceva di persona: lo scelse per ciò che di lui sapeva della sua immagine pubblica, come attore protagonista di un cospicuo numero di pellicole che diremmo leggere, e come ospite intrattenitore nei programmi della televisione pubblica. Perché lo scelse? Fu la domanda che il giornalista Andrea Barbato gli rivolse in occasione di un’intervista televisiva dal set di Uccellacci e uccellini, loro prima collaborazione, nel 1966: BARBATO: Com’è nata l’idea di utilizzare Totò? PASOLINI: Perché riuniva in sé, in maniera assolutamente armoniosa, indistinguibile, due ‘momenti’ tipici dei personaggi delle favole, cioè l’assurdità… il clownesco… e l’immensamente umano. Totò, dal canto suo, era alla ricerca di un’occasione per sganciarsi dalla ripetitività del suo consolidato personaggio macchiettistico: era ormai anziano e non aveva avuto fino ad
allora la possibilità di recitare in un film che non fosse la solita commediola (con qualche eccezione di qualità, certo). Accolse perciò la proposta di Pasolini con entusiasmo: dopo un primo periodo di studio reciproco in cui si dice che fosse perplesso perché non capiva dove Pasolini volesse andare a parare, Totò divenne collaborativo e pienamente partecipe. È una collaborazione virtuosa tra i due, che si rispettano e si stimano, pur dandosi spesso del lei. Il risultato è, appunto, il film Uccellacci e uccellini, un’allegoria in bianco e nero sul conflitto di classe e sulla delusione per le sorti del marxismo, in cui non manca una storia nella storia relativa a due frati inviati in missione direttamente da San Francesco. Il film vede l’esordio di Ninetto Davoli, che apparirà in quasi tutti i film successivi di Pasolini. I titoli d’apertura sono sonori, nel senso che nomi, cognomi e ruoli appaiono in rima sullo schermo mentre vengono cantati dalla riconoscibilissima voce di Domenico Modugno.[21] Ritroveremo tutti loro nel film che ci interessa analizzare in questo studio. Il grande successo di Uccellacci e uccellini (non commerciale, ma di sodalizio artistico e di qualità)[22] spinge Pasolini a pensare ulteriori collaborazioni con Totò. Ne vedranno la luce solamente due: i due corti, appunto, intitolati La Terra vista dalla Luna e Che cosa sono le nuvole?.[23] Del secondo avremo modo di parlare per esteso: diamo perciò un breve accenno al primo. Si tratta di un corto inserito nel film collettivo intitolato Le streghe (1966), uno di quei casi in cui i vari episodi, per quanto indipendenti, fanno riferimento a un vago tema comune.[24] Questa fiaba, come viene definita nei titoli di testa,[25] si apre con padre e figlio (Totò e Ninetto) dagli improbabili nomi di Ciancicato Miao e Baciù Miao (e altrettanto improbabili capelli arancioni) che piangono la morte della loro moglie e madre per un avvelenamento da funghi. Ci troviamo (verrebbe da dire: naturalmente) nell’ambiente delle borgate romane dove tutto è misero e le case sono catapecchie di fango e lamiere. Ciancicato Miao vuole trovare una nuova moglie, soprattutto perché li accudisca e pensi alla casa come faceva la precedente. Trova una ragazza muta, Assurdina Caì (Silvana Mangano), e la sposa: presto gli viene in mente che potrebbe sfruttare il
mutismo della sua nuova compagna per impietosire la gente e raccogliere un po’ di elemosina. Immagina però una messa in scena grandiosa: lei che sale tra gli archi del Colosseo e che, a gesti, minaccia di buttarsi di sotto se non riceve un aiuto economico. Realizzano dunque questa situazione recandosi al Colosseo ma, dopo aver perorato la causa con la sua arringa muta, la ragazza scivola su una buccia di banana gettata da un turista e precipita davvero, morendo. Dopo il funerale, Ciancicato e Baciù tornano alla loro casupola in lamiera ma, sorprendentemente, trovano la ragazza in casa: fuggono terrorizzati per l’apparizione, ma poi tornano per indagare. A gesti lei conferma di essere effettivamente morta, ma promette di occuparsi comunque di loro e della casa: felici per aver risolto il problema, padre e figlio attraversano l’uscio per continuare a vivere tutti insieme. Il cartello finale del film dice: “Morale: essere morti o essere vivi è la stessa cosa.” La Terra vista dalla Luna è probabilmente il meno interessante dei tre film realizzati da Pasolini e Totò insieme. Avrebbe giovato un ritmo più serrato (dura mezz’ora, forse troppo rispetto ai contenuti) e non riscontriamo in questo corto la ricchezza di significati e metafore (in definitiva: la dimensione poetica) che vedremo esserci nel successivo. Ma resta comunque notevole, essendo uno dei soli tre momenti di incontro tra questi straordinari artisti. Anche in seguito all’esperienza con Totò, il sodalizio artistico di Pasolini con le terre campane non verrà meno: nel 1970 deciderà di ambientare buona parte delle riprese del suo Decameron a Casertavecchia e nelle antiche ville e borghi di Piedimonte di Casolla (CE). E, ancora, il suo ultimo progetto cinematografico, rimasto incompiuto, prevedeva di avere come protagonista un altro grande attore napoletano: Eduardo De Filippo.[26]
Un gioiello nascosto Nel marzo del 1967, in attesa di iniziare le riprese di Edipo Re (film che vedrà la partecipazione anche di Carmelo Bene e Julian Beck, importantissimi attori di teatro), Pasolini gira dunque il suo terzo cortometraggio, dopo La Ricotta e La Terra vista dalla Luna. Protagonisti, come nel precedente corto, e come nel film Uccellacci e Uccellini, Totò e Ninetto Davoli. Per accorciare i tempi di ripresa (hanno poco più di una settimana a disposizione), il film viene interamente girato in studio, anche se la sceneggiatura originale prevedeva alcune scene in esterni.[27] Chi è avvezzo alle date della biografia di Totò, avrà notato la prossimità tra le riprese di Che cosa sono le nuvole? (marzo 1967) e la sua morte (15 aprile 1967): si tratta infatti dell’ultimo film interpretato da Totò. Di successivo a queste riprese ci sarà solo un intervento realizzato per un documentario della RAI su Napoli e un’unica inquadratura, effettuata due giorni prima della sua scomparsa, per il film Il padre di famiglia di Nanni Loy,[28] che avrebbe dovuto interpretare con Nino Manfredi. Sarà Ugo Tognazzi a prendere il suo posto. Va dunque tenuto ben presente che l’opera che analizzeremo è l’ultimo atto di Totò nel cinema, atto che lui non poté vedere realizzato perché il film uscì in sala un anno esatto dopo la sua morte. Che cosa sono le nuvole? è inserito in un film collettivo intitolato Capriccio all’Italiana (i titoli di questi film collettivi non sono mai particolarmente raffinati…), uscito appunto nell’aprile del 1968, in cui gli altri episodi sono realizzati da Mauro Bolognini, Mario Monicelli, Steno (ancora con Totò, ma girato prima di quello di Pasolini) e Pino Zac. L’episodio di Pasolini è il terzo nella scaletta del film, e vede la presenza di altri attori molto conosciuti, nazionalpopolari diremmo oggi, come Franco Franchi, Ciccio Ingrassia e Domenico Modugno, che vi canta una canzone, pubblicata anche su vinile a 45 giri, sulla quale avremo modo di ritornare in seguito. Completano il cast, Laura Betti, Adriana Asti, Francesco Leonetti, scrittore e intellettuale,
amico di Pasolini, che è stato più volte convinto da quest’ultimo a recitare piccole parti nei suoi film, e Carlo Pisacane, un già anziano caratterista che compare in moltissimi film dell’epoca. Fa una brevissima apparizione anche Cipriani, lo Stracci de La ricotta. Quando dovesse capitarci di menzionare ad alta voce il titolo di questo corto di Pasolini, certamente ci scapperebbe di intonarlo come un’affermazione. Ma dovremmo prestare attenzione al fatto che il titolo è, in effetti, una domanda: ha un punto interrogativo finale e, una volta visto il film, si comprende come tale domanda abbia un senso preciso, per quanto, mentre lo si guarda per la prima volta, ci si possa domandare a lungo il motivo di un titolo che sembra non avere alcun senso, fino alle battute conclusive che lo rendono infine comprensibile. Sia come sia, il punto fondamentale è che questo titolo esprime una domanda. Ed è importante notare che nel titolo stesso non è contenuta alcuna risposta, neanche accennata. La domanda resta perciò completamente aperta verso l’ignoto… se non fosse che noi, in realtà, sappiamo molto bene cosa sono le nuvole: ce lo dice la nostra esperienza umana. Perché, dunque, porre una domanda così pleonastica come titolo dell’opera? Forse perché tale ovvietà deve essere in qualche modo sfidata? Forse perché bisogna abituarsi a guardare oltre l’evidenza delle cose, proprio come fa il Poeta? Questo è il primo di alcuni indizi, anzi, di vere e proprie chiavi di lettura che Pasolini offre a chi si accosti a questo suo capolavoro. Sì perché, per quanto si tratti di un corto di una ventina di minuti e di un episodio relativamente poco conosciuto e citato rispetto ai classici pasoliniani, questo potrebbe essere il vero gioiello nascosto della filmografia di Pasolini. Nel corso di questo breve studio, cercheremo di portare alla luce una serie di analisi e di prospettive sui contenuti e i rimandi di questo film (alcune già note ma altre presentate qui, probabilmente, per la prima volta) tali che ci si potrebbe legittimamente domandare: ma come ha potuto Pasolini, fatta salva la sua enorme statura intellettuale, aprire così tante metafore e gestire così tanti livelli di significato, in soli venti minuti di pellicola?
Infatti colpisce, in questo film, lo spessore di quello che sta, appunto, sotto l’evidenza di ciò che si osserva a un primo livello di lettura. Il film sembra raccontare una vicenda tutto sommato banale, ma contiene dettagli sottili e metafore potenti, anche dove non le si aspetta. Quante di queste erano nel pieno controllo di Pasolini sceneggiatore e regista, e quante, invece, si attivano, per così dire, da sé nel momento in cui un artista mette in moto un meccanismo che, in quanto opera d’arte, finisce per camminare da solo, generando molto più di quello che il creatore aveva nelle sue intenzioni? Il fatto è che un artista, con la sua opera, genera un mondo, popolato di personaggi che, seppur illusori, posseggono inevitabilmente un loro grado di realtà (tematica peraltro squisitamente pirandelliana). È dunque possibile che, una volta messo in moto questo meccanismo, ovvero creato questo mondo, esso possa essere di più, rispetto alle intenzioni, del suo creatore? Ma non è forse questo lo scopo del Poeta, ovvero di colui che crea, che rende possibile la poiesis? Non è ogni creatura, in fondo, intitolata a svilupparsi con un suo grado di autonomia? Anche questo va tenuto presente nel prosieguo di questo studio, perché ritroveremo pari pari questa condizione all’interno della vicenda che viene narrata nel film. Già, non abbiamo ancora detto di cosa parla questo film, ma è stato un atto intenzionale: vogliamo portare il lettore a conoscerlo passo dopo passo, come se lo si stesse guardando in diretta. L’ideale, in realtà, sarebbe che il film fosse conosciuto, perché vi sono dei limiti nel racconto di ciò che all’origine è concepito per essere fruito come immagine in movimento. Ma per chi non ha avuto, o non abbia ora, la possibilità di vederlo prima di leggere le pagine che seguono, cercheremo di descriverlo come se fosse visto in tempo reale alla lettura di queste note. Cominciamo.
Domenico Modugno, l’immondezzaro Il film inizia con uno stacco netto sull’immagine del primo personaggio di cui facciamo conoscenza: è un immondezzaro (verrà chiamato così nel film, in gergo romanesco), interpretato da Domenico Modugno. È di profilo, con il suo camice grigio da netturbino, ha un classico bidone di metallo della spazzatura tra le mani e la prima azione che compie, voltandosi verso di noi e apprestandosi a svolgere la funzione di raccoglitore dell’immondizia nel suo piccolo furgone telonato, è di… cantare. Ecco i primi versi della sua canzone: Ch’io possa esser dannato se non ti amo. E se così non fosse non capirei più niente. Tutto il mio folle amore lo soffia il cielo, lo soffia il cielo… così. L’immondezzaro sembra essere un innamorato che, mentre lavora, canta il suo amore, il quale pare però avere delle complicazioni: ci sono parole come dannato e folle… Diremo in seguito come nasce questa canzone e come è stato composto il suo testo. Per ora notiamo che il personaggio interpretato da Domenico Modugno è truccato da… Domenico Modugno! Con baffi e pettinatura standard da Domenico Modugno: uguale. Sembra uscito da pochi minuti dalla registrazione di un varietà televisivo del sabato sera della RAI di quegli anni. Pasolini in questo film non si cura minimamente di truccare il volto degli attori (salvo un colore uniforme sul viso di Totò e Ninetto Davoli, come vedremo): da una parte, essi ci appaiono perciò perfettamente riconoscibili (nel 1967 erano delle vere e proprie star della televisione e del cinema), dall’altra, questo significa che l’attore stesso deve palesemente metterci la faccia, la propria, rendendosi perciò riconoscibile. Stessa cosa per l’uso della voce: Modugno canta alla Modugno, con gli accenti e le enfasi sue proprie, e gli altri attori usano ciascuno la propria voce, senza alcuna alterazione… Franco Franchi parla proprio come negli sketch comici televisivi dell’epoca, e Ninetto Davoli mantiene
addirittura il suo accento e le allocuzioni in romanesco, pur avendo il suo personaggio (che conosceremo dopo) nulla a che fare con l’Urbe. C’è quindi una scelta di base nell’utilizzo degli attori: saranno personaggi nella misura in cui sono vestiti come tali e in quanto appaiono nel contesto della vicenda narrata nel film, ma ciascun attore conserverà la piena riconoscibilità della sua identità. Questo è un parallelo interessante con l’aspetto di doppia vita che viene rappresentata nel film: infatti, come scopriremo subito, tutti i personaggi sono delle marionette, ad eccezione dell’immondezzaro, del marionettista e del pubblico che assisterà allo spettacolo. Ma, ed ecco la particolarità, queste marionette sono interpretate da attori in carne ed ossa (Totò, Davoli, Betti, Franchi e Ingrassia, eccetera), ovvero i riconoscibilissimi attori di cui si diceva, costretti dal copione a recitare la parte di marionette che, a loro volta, dovranno recitare la propria parte sul palco, manovrate dai fili del marionettista. Già s’intravvede una struttura a scatole cinesi che costituisce una delle potenti metafore del film. Anche se pure lì, sul palco della rappresentazione teatrale dentro il film, esiste un ulteriore livello di realtà (o, potremmo dire, di possibilità), su cui torneremo a suo tempo. Questa ambientazione della vicenda in un teatro, ha una sua spiegazione. Il periodo in cui Pasolini scrive la sceneggiatura di Che cosa sono le nuvole?, e ne gira il film, è coincidente alla scrittura delle uniche sei drammaturgie per il teatro che egli produsse, tutte negli anni 1966 e 67. Scrisse queste opere in un breve lasso di tempo, iniziato quando gli capitò una degenza a letto forzata da un problema di salute. Uno di questi drammi (tra l’altro, l’unico pubblicato con l’autore in vita) ha come titolo Calderón:[29] lo menzioneremo più volte nel prosieguo di questa analisi, perché ha dei punti di contatto tematici evidenti con il corto che qui ci interessa. Il teatro è stato dunque per un certo periodo al centro dell’interesse di Pasolini, che giunse a scrivere nel 1968 un Manifesto per un nuovo teatro[30] nel quale preconizzava la comparsa sulle scene di un Teatro della Parola che avrebbe avuto le caratteristiche di un rito culturale, opposto sia a ciò che lui chiama teatro della chiacchiera (identificato come un
prodotto borghese in cui la parola e l’azione sono ridotte a pura imitazione naturalistica, e perciò adatto per la borghesia), sia al cosiddetto teatro del Gesto e dell’Urlo di derivazione anti-borghese[31] che, nella impostazione squisita-mente pasoliniana, poiché prova a dissacrare il teatro borghese con la rottura del naturalismo, finisce per “confermarne le sue convinzioni.” Il Manifesto di Pasolini si snoda per 43 articoli, cercando di strutturare una nuova forma di teatro che si era figurato, modellandolo sulla tradizione del teatro greco, e rivolto alla classe operaia che, secondo Pasolini, “è unita da un rapporto diretto con gli intellettuali avanzati”.[32] Non ebbe molto successo, né il Manifesto né un tentativo di messa in scena secondo tali criteri: in una intervista del 2005, Luca Ronconi lo definì “velleitario” perché “pensava che parola e teatralità siano due termini antitetici. Non lo sono. Sono complementari.”[33] Fatto sta che Pasolini non si occuperà più direttamente di teatro, per il quale ci restano comunque le sue sei drammaturgie, e si dedicherà esclusivamente al cinema (fatta salva la sua mai interrotta opera letteraria). È in qualche modo una fortuna che questo periodo di interesse per il teatro abbia intersecato gli anni di collaborazione con Totò, vero animale da palcoscenico,[34] producendo così un film che mostra al suo interno lo svolgersi di una rappresentazione teatrale. A cui ora torniamo.
La nascita della marionetta Dopo aver fatto conoscenza dell’immondezzaro e aver visto la sua attività, che è quella di caricare i rifiuti sul suo camioncino telonato mentre canta, la scena si sposta all’interno di un laboratorio artigianale di falegnameria, dove assistiamo all’ultimo atto della creazione di una marionetta, la cui testa viene avvitata sul corpo dal suo creatore. Non sappiamo se questa sia la procedura effettiva nella realizzazione artigianale di una marionetta, ma c’è da notare che in questo modo viene simbolicamente evidenziato come la parte senziente (il cervello) e sensibile (la testa è l’unica parte del corpo da cui sono accessibili tutti i cinque sensi) sia l’ultima cosa che serve a un corpo inanimato per prendere vita. Infatti la testa di questa marionetta, che è quella dell’attore Ninetto Davoli dal viso interamente colorato di bruno, improvvisamente si anima. E vediamo subito che c’è un preciso parallelo con la storia di Pinocchio, dato che una delle prime azioni che la marionetta ormai viva compie è di mostrare la lingua, proprio come accade nel racconto di Collodi (solo che, nel Pinocchio, mastro Ciliegia, suo primo parziale fattore, si spaventa grandemente di questi fatti, mentre qui non c’è il minimo accenno di reazione da parte del marionettista: tutto regolare, insomma, come parve poi abbastanza regolare al vero pater di Pinocchio: Geppetto). Prima di proseguire, è necessaria una precisazione. Proprio Collodi, con il suo Pinocchio, ha contribuito a un equivoco linguistico nell’immaginario collettivo, avendo chiamato burattino il proprio personaggio. Ma Pinocchio, e i personaggi di Che cosa sono le nuvole? con lui, sono in realtà delle marionette. Le marionette, infatti, sono i pupazzi che vengono mossi dall’alto tramite dei fili, mentre il burattino è quel pupazzo che viene agito da sotto, infilando la mano del burattinaio direttamente nel vestito. Si chiamano marionette perché questo tipo di pupazzi animati venne utilizzato soprattutto nelle rappresentazioni sacre, tipicamente narranti episodi dell’infanzia di Gesù in cui il personaggio principale era, appunto, Maria. Da cui deriva il termine marionetta. I burattini, invece, ebbero sempre un’accezione e un uso
maggiormente popolare, più da spettacolo di strada, anche perché molto più facili da gestire e manovrare. Questa distinzione tra marionetta e burattino ci tornerà utile verso la fine del film di Pasolini, quando incontreremo un episodio davvero significativo al riguardo. Torniamo, con ciò, alla scena che avevamo lasciato in sospeso. L’artigiano, che scopriremo presto essere il marionettista stesso (interpretato da Francesco Leonetti), ha dunque completato la creazione della marionetta dal viso scuro. In un certo senso, si tratta di una nascita, di una venuta al mondo. La sua specificità di neonato viene evidenziata dal fatto che dev’essere trasportato a spalle (un neonato ancora non è capace di camminare) verso la rastrelliera dove sono allineate, in piedi, le altre marionette che, a questo punto, ci appaiono tutte in carne e ossa: sono tutti gli altri attori di cui si è detto, vestiti in abiti cinque-seicenteschi. La neonata marionetta mora, viene collocata di fianco a un’altra dal vestito viola e il viso colorato di verde: è Totò. La reazione della nuova marionetta, non appena collocata al suo posto nel mondo è di felicità: ride, è contento. Ma non sa il perché. Infatti, ecco il primo dialogo[35] del film (per ora useremo i nomi degli attori, dato che i personaggi non li abbiamo ancora svelati): DAVOLI: Come son contento! Perché son così contento? PISACANE: Perché sei nato. DAVOLI: E perché? Che vuol dire che son nato? TOTò: Vuol dire che… ci sei. La contentezza è, in effetti, una caratteristica naturale del neonato che, se non è disturbato da fame o altri fastidi, è spontaneamente portato al riso, ovvero a una gioia senza un perché (spiegabile razionalmente). Chi è neo-nato è, per definizione, un innocente che sente, semplicemente, di esistere. E constata, istintivamente, che essere qualcosa è meglio di essere niente: esserci è bello e conduce, senza ragionamenti, alla gioia. Teniamolo presente nel corso del film, e anche per il finale, sia del film sia del presente studio.
Se consideriamo ora questo evento dal punto di vista dell’attore, con l’inizio del suo ruolo egli entra nella parte: il suo personaggio, cioè, nasce in questo momento, ignaro di ciò che lo attende dopo, nello svolgimento della storia. Si produce dunque una doppia esistenza: da una parte l’attore, che sa già come andrà a finire, avendo letto il copione, e, dall’altra, il personaggio che vive l’istante presente (della vicenda narrata) senza conoscere a priori il proprio destino. Ma quest’ultima è precisamente la condizione dell’essere umano, di tutti noi, incluso l’attore che interpreta il personaggio, ciascuno nella propria esistenza. Il che rende questa metafora universale e ci interpella direttamente. Noi, ci suggerisce la messa in scena di Pasolini, siamo proprio come loro, appesi lì alla rastrelliera, in attesa di recitare una parte: a breve, infatti, si innesterà nella vicenda una specie di secondo livello, ovvero quello del personaggio che è consapevole di essere un personaggio. Per ora, una riflessione che possiamo trarre da questo inizio è che, prendendo ad esempio il teatro, ad ogni replica di uno spettacolo i personaggi lì rappresentati rinascono a nuova vita, mentre i loro artefici, gli attori, li possono vedere per così dire dall’eternità, ovvero da una condizione che si trova fuori dal tempo, in cui tutto è da loro conosciuto perché in possesso dell’intero copione, ovvero dell’intera sequenza di eventi che, per il loro personaggio, sarà invece una vita vissuta nel tempo. Ma tale modello consente un ragionamento regressivo, nel senso che anche noi spettatori, in effetti, disponiamo del film in una dimensione che non è quella sua interna: se immaginiamo di tenere in mano la pellicola del film (o il DVD, è lo stesso) sappiamo che lì vi sono contenuti tutti i fotogrammi del film stesso, dal primo all’ultimo. Solo facendoli scorrere nel tempo la vicenda potrà dipanarsi in senso cronologico, generando la storia. Per non dire di quando rivediamo un film (o uno spettacolo teatrale): mentre i personaggi dentro la vicenda vivono nuovamente la storia per un’altra prima volta, ignari quindi di quello che deve accadere, noi conosciamo già ogni dettaglio di ciò che li riguarda. Li vediamo cioè anche noi dall’eternità, come l’attore che conosce il copione che deve recitare; eternità che, ribadiamo, non è prolungamento indefinito della linea del tempo (come spesso è equivocato), ma ne è propriamente l’uscita. Questa
riflessione ci porta direttamente alla scena successiva di Che cosa sono le nuvole?
Il mistero della morte Ecco che, immediatamente dopo lo scambio di battute riportato sopra, il canto dell’immondezzaro torna a risuonare e il personaggio di Davoli tende l’orecchio, sentendolo per la prima volta: DAVOLI: E questo, che è? TOTò: L’immondezzaro che canta. DAVOLI: L’immondezzaro? E che fa? TOTò: è uno che viene e se ne va. Sì: viene, prende i morti… prende i morti e se ne va. L’immondezzaro, dunque, arriva nel cortile, prende ciò che è morto, lo carica sul suo furgone e… “se ne va.” Null’altro è dato sapere, se non che questo personaggio proviene da un fuori, e a questo fuori ritorna, dopo aver raccolto ciò che non viene chiamato dalle marionette spazzatura ma, assai più significativamente, “i morti.” Alla neonata marionetta (Davoli) questa informazione non suscita alcuna reazione. Se, da una parte, appena nato viene subito posto di fronte all’esito ultimo di qualsiasi esistenza, che è la sua cessazione, d’altra parte egli non se ne può curare perché cosa voglia dire morire lui non lo sa. Ma, a ben guardare, pare di poter dedurre che nessuna delle marionette anziane (per così dire) sappia davvero cosa succede quando il furgone dell’immondezzaro varca la soglia e sparisce alla vista, perché sono tutte legate a una rastrelliera, costrette dentro un mondo che le contiene e dal quale sembra possibile uscire, appunto, solo per quella via, cioè morendo. Dove vada quel furgone che vedono tutti i giorni portar via i morti (e sorge un’immediata analogia nel considerare l’immondezzaro una specie di Caronte dantesco) è una domanda senza risposta, aperta com’è verso l’ignoto.[36] Questo è, presumibilmente, il mistero per eccellenza della loro esistenza di marionette, della loro vita letteralmente appesa a un filo… Risulta perciò evidente che uno dei temi fondamentali del film è, appunto, la morte. E, come spesso accade nelle vere opere d’arte, esse catalizzano in forma artistica ciò che è già
nell’aria: come si diceva, ecco che questo risulterà essere l’ultimo corto di Pasolini (per quanto ne avesse in programma altri, come vedremo a breve, e se escludiamo il breve episodio de La sequenza del fiore di carta) e sono anche le ultime riprese cinematografiche di Totò che, come detto, morirà poche settimane dopo aver girato queste immagini. Ma rientriamo nel flusso delle sequenze di Che cosa sono le nuvole?. Non appena Totò pronuncia il suo tentativo di spiegazione su chi sia l’immondezzaro, l’immagine stacca su una locandina distesa a terra e mezza stracciata: s’intravvede la riproduzione di un quadro, un ritratto seicentesco, e la scritta “La Terra vista dalla Luna”, mentre alcune foglie secche vengono soffiate via dal vento. La cinepresa risale da terra e, appese alle assi di legno di una staccionata, vediamo in successione altre due locandine dello stesso tipo, con ciascuna una diversa riproduzione di ritratti, sempre seicenteschi, e, sovrapposte, le scritte “Mandolini” (con un cartello che dice: “Prossimamente”) e “Le avventure del Re Magio randagio” (con l’indicazione: “Domani”). Infine, con lo sfondo di un altro quadro raffigurante una scena di corte, ecco finalmente il cartello “Oggi”, e il titolo: “Che cosa sono le nuvole? Regia: Pier Paolo Pasolini.” Questa rapida sequenza di locandine è importantissima per comprendere una delle chiavi di lettura fondamentali del film, specie in riferimento all’ultimo dei quadri rappresentati: Pasolini lo mostra per meno di un secondo, prima di tagliare bruscamente sull’ingrandimento del titolo, ma ci lascia così comunque un indizio chiave che dobbiamo analizzare nel dettaglio prima di procedere nel film.
Cosa dipinge il pittore che dipinge sé stesso nell’atto di dipingere? Abbiamo visto che la sequenza delle locandine esprime una serie temporale di avvenimenti, che esistono sia nella finzione del film (sono i cartelli che annunciano la messa in scena di spettacoli) sia nella realtà, come la conosciamo dal nostro punto di vista. Infatti, la locandina buttata a terra, segno di uno spettacolo le cui repliche sono ormai terminate, riporta il titolo del precedente cortometraggio di Pasolini, i due cartelloni con l’indicazione Prossimamente e Domani, hanno i titoli dei successivi due cortometraggi che Pasolini aveva intenzione di girare (quasi certamente ancora con Totò, dato che aveva espresso l’idea di realizzare una vera e propria serie di corti con lui protagonista), mentre l’ultima locandina annuncia ciò che, nella finzione, va in scena Oggi, ovvero… il film che si sta guardando. I due lavori successivi annunciati da questi cartelloni non vedranno mai la luce: la morte di Totò interruppe il progetto. Solo nel 1996 Sergio Citti realizzerà il lungometraggio I magi randagi a partire da quello che era lo spunto iniziale di Pasolini (e a cui Pasolini stesso era tornato attingendo spunti per il film che avrebbe voluto realizzare con Eduardo De Filippo dopo Salò). Invece eccoci, qui ed ora, alla rappresentazione di Che cosa sono le nuvole?, il quale è contemporaneamente lo spettacolo annunciato dalla locandina nella finzione della storia narrata, cioè lo spettacolo che verrà messo in scena oggi dalle marionette che abbiamo appena conosciuto, e anche il film stesso (che, per definizione, stiamo vedendo oggi), così da creare un loop logico in cui risulta impossibile separare, appunto, finzione da realtà. Ma c’è di più. I quadri che fanno da sottofondo alle locandine sono, come si poteva presumere dal loro stile, dello stesso autore: lo spagnolo Diego Velázquez (1599-1660). E il quadro, che è posto in corrispondenza di Che cosa sono le nuvole?, è uno dei suoi più famosi: Las meninas, dipinto nel 1656. Perché Pasolini ha scelto proprio questo quadro? Questo quadro, sul quale sono stati scritti interi trattati, possiede caratteristiche di ambiguità riguardo a ciò che il quadro stesso rappresenta, che
lo rendono una chiave perfetta per il film. Lungi dal soddisfare tutte le possibilità di analisi di questo quadro, vediamo solo quello che ci riguarda in relazione ai significati del corto di Pasolini.
Nella figura qui sopra è possibile vedere la riproduzione della metà inferiore del quadro (lo stesso taglio selezionato da Pasolini nella locandina dentro il film). Atteniamoci a ciò che appare a un primo sguardo: vi sono delle damigelle in primo piano, un pittore con la sua tela sul lato sinistro, e alcuni altri personaggi che s’intravvedono sullo sfondo. Ma c’è un primo particolare un poco inquietante: tutti questi personaggi, ad eccezione di un paio, volgono il loro sguardo… verso di noi. Guardano dritti a ciò che sta al di qua del quadro, cioè a noi che lo stiamo guardando, e che stiamo guardando loro. Dunque, da un punto di vista assoluto, o dall’eternità (nel senso che si è dato prima), chi è che sta guardando chi? Spostiamoci ora sul pittore, raffigurato nell’atto di dipingere. La prima particolarità è che si tratta di un autoritratto di Velasquez: l’autore del quadro ha dunque dipinto sé stesso dentro il quadro. Ma non c’è solo la sua figura: vediamo anche una buona porzione della tela che questo pittore, nel quadro, sta dipingendo. Solo che la vediamo da dietro e ci è preclusa la possibilità di sapere quale sia l’oggetto del quadro che si sta dipingendo dentro il quadro
che stiamo guardando. Notiamo che, se stessimo osservando un palcoscenico con degli attori in scena, la tela sarebbe posizionata in corrispondenza delle quinte laterali del palco (ricordiamoci di questa particolarità). Quindi, se potessimo vedere dietro l’angolo di questa tela, nel quadro, questo corrisponderebbe a poter osservare cosa avviene dietro le quinte di una rappresentazione su un palco. Qual è, dunque, l’oggetto del suo quadro, la cui tela vediamo da dietro? Evidentemente, è ciò che sta di fronte al pittore raffigurato nel quadro. Ma, abbiamo osservato prima, nella nostra realtà, siamo noi ad essere di fronte allo sguardo del pittore. Sta dunque dipingendo… noi? Se non si è disposti a un salto metafisico così ampio, siamo costretti a rientrare nella finzione del quadro, ma anche da questo punto di vista non è possibile stabilire una soluzione certa. Forse di fronte a tutti questi personaggi c’è un grande specchio (che, ed è interessantissimo, occuperebbe il punto esatto del nostro sguardo) e il pittore sta dipingendo le damigelle di corte riflesse in questo specchio per noi invisibile. In effetti, questo è il titolo del quadro (Las meninas, le damigelle), ma queste damigelle sono le protagoniste, attrici potremmo dire, del quadro che viene dipinto nel quadro, o ne sono le spettatrici? Infatti, a un certo punto potremmo notare, sullo sfondo al centro, l’immagine di due persone a loro volta riflesse in uno specchio, probabilmente i sovrani: sono costoro, dunque, ad essere l’oggetto del quadro che viene dipinto nel quadro? Però, in questa ipotesi, una volta di più loro sarebbero, rispetto allo sguardo del pittore, dove noi siamo, cioè fuori dal quadro stesso, nella realtà. E, ancora, se quello non fosse uno specchio ma un vetro? Se fosse quel signore in fondo sulla porta a illuminare, scostando la tenda, i due dietro il vetro, che sarebbero perciò non gli attori ma gli spettatori della scena? Insomma, dove sta la verità, in questo quadro? Teniamo tutto questo a mente, perché questa è precisamente la chiave del film: vedremo presto come ci sia un rapporto analogico molto preciso tra questa rappresentazione pittorica e il film. A riprova di questa voluta ambiguità che si esprime nel corso del film, la sceneggiatura originale[37] scritta
da Pasolini prevedeva che a questo punto si sentisse la voce del marionettista declamare la seguente battuta: VOCE DEL MARIONETTISTA: Questa non è solo la commedia che si vede e che si sente, ma anche la commedia che non si vede e non si sente. Questa non è solo a commedia di ciò che si sa, ma anche di ciò che non si sa. Questa non è soltanto la commedia delle bugie che si dicono, ma anche della verità che non si dice. La battuta non ha poi trovato strada nella versione finale del film, ma ci dà l’indicazione che, fin dalle primissime battute, Pasolini fa riferimento all’ambiguità tra ciò che appare e ciò che è, ovvero tra forma e sostanza. Questo tema irromperà nel film più avanti. Un’ultima annotazione su Las meninas e il suo pittore. Nel già citato dramma teatrale Calderón, che fu scritto più o meno in contemporanea alla sceneggiatura di Che cosa sono le nuvole?, Pasolini immaginò che il terzo episodio del dramma si svolgesse proprio all’interno di questo quadro e, come fa dire a uno “speaker” che interviene ogni tanto a svolgere in solitaria le funzioni del coro greco, questa scelta dell’autore è “un’ispirazione di qualità misteriosa.”[38] In questo episodio, due attori interpretano i due personaggi che, nel quadro, si troverebbero nello specchio in fondo e, da lì parlando, dicono, tra le altre, anche queste battute[39] che ci interessano in relazione al film, come vedremo in seguito: LUPE REGINA: Questo è un sogno. […] BASILIO RE: Se questo è un sogno, non serve ad altro tuttavia che a rendere più reale la realtà. […] LUPE REGINA: [Tu] interroga l’autore, coinvolto anch’esso nel mondo della nostra ricchezza e, pur guardando da fuori il quadro, ne è dentro!
I quattro mondi del teatro La prima immagine del film dopo il fermo immagine del titolo sovrapposto al quadro di Velasquez è un sipario verde che si apre su uno sfondo uniforme grigio. E, subito dopo, vediamo entrare in scena Totò con Ciccio Ingrassia, marionette viventi, con i polsi e il collo legati a corde tese che scompaiono verso l’alto. Si sente un vociare in sottofondo, segno che il pubblico non è proprio disciplinato e in silenzio come si usa nelle rappresentazioni teatrali: un veloce controcampo ci mostra una platea composta da una sessantina di persone di varia età, ma decisamente di estrazione sottoproletaria (e tutti con giacche e cappotti indosso, quindi il locale non dev’essere molto riscaldato), sedute su panche di legno senza schienale in una stanza completamente spoglia e priva di qualsiasi porta o finestra: tre muri di un grigio uniforme, proprio come il palco. Scopriamo così, dalle prime battute tra Totò e Ciccio Ingrassia che la messa in scena delle marionette a cui stiamo assistendo è quella dell’Otello di Shakespeare: Totò, con il viso colorato di verde-invidia, impersona[40] Jago, mentre Ciccio Ingrassia è Roderigo, colui che aiuta a tendere l’inganno a Cassio (Franco Franchi) per mezzo del famoso fazzoletto di Desdemona (Laura Betti), in modo da portare alla gelosia omicida Otello (Ninetto Davoli, dalla faccia colorata di bruno).[41] Siamo, dunque, in presenza di un pubblico popolare in un teatro popolare e, come sentiamo subito dalle battute tra Jago e Roderigo, anche l’adattamento della tragedia shakespeariana è decisamente popolare: JAGO: Ah, tu non ci credi che io Otello lo odio. Non ci credi? E invece sai dove lo tengo io? Lo tengo qui, sulla bocca dello stomaco. RODERIGO: Ma perché? Che ti ha fatto Otello il moro? JAGO: Che mi ha fatto? Osi domandarmi che cosa mi fa fatto? Ha nominato luogotenente Cassio al mio posto.
RODERIGO: Chi? JAGO: Cassio, quel cuore di stracci! Quello che si profuma come una vecchia bagascia, e che si lava i denti quattro volte al giorno… I toni proseguiranno simili per l’intera durata della rappresentazione dell’Otello che, in effetti, segue la vicenda, per quanto in estrema sintesi, così come narrata da Shakespeare, almeno fino a un certo punto che vedremo. Quello che ora ci interessa notare è che durante questo primo dialogo, Pasolini monta in successione quattro diversi punti di vista, corrispondenti ad altrettante precise collocazioni della cinepresa, che mostrano i quattro mondi che ci accompagneranno nella visione del film e nei quali vi sono differenti possibilità di azione, rispondenti a un codice ben preciso:
1.
Vista frontale del palco. Questo è il normale punto di vista del pubblico presente in platea. Vediamo gli attori recitare sul palco, sopraelevato, e ne seguiamo la vicenda. Questo è tutto ciò che è osservabile da parte di chi è pubblico di una rappresentazione: è il palcoscenico del mondo visibile, dell’evidenza, nel quale i personaggi in scena si attengono alla propria inderogabile parte, che ne giustifica l’esistenza stessa. Agiscono cioè rigorosamente secondo copione. Se così non fosse, e ciascuno potesse agire secondo un proprio libero arbitrio, in quel mondo regnerebbe il caos. Le corde che ne obbligano i movimenti garantiscono perciò che vi sia ordine. E, bisogna dire, a nessuna marionetta passa per la testa di disobbedire al ruolo che le è stato assegnato.
2.
Vista della platea dal palco. Da questa prospettiva vediamo ciò che vedono gli attori dal palcoscenico: la cinepresa è collocata sul palco e inquadra gli attori da dietro, avendo come sfondo il pubblico sottostante. Pasolini non effettua alcun primo piano: la vista è sempre
generale sul popolo intero. Chi recita, dunque, recita sempre alla vista di tutti: è esposto, e da questa esposizione ne possono derivare conseguenze, come vedremo. Gli spettatori però, nel loro mondo, sono solo tenuti a fare da testimoni di ciò che succede sul palcoscenico, e ci si aspetta da loro che esercitino questo ruolo in modo totalmente passivo: altra azione da parte loro non è prevista, se non osservare. Vedremo come Pasolini utilizzerà l’esistenza di questa tacita convenzione teatrale per far sì che avvenga il colpo di scena che farà deragliare l’ordine costituito.
3.
Vista sui marionettisti che manovrano i fili in alto, sopra il palcoscenico. Questa vista è preclusa al pubblico: nessuno deve vedere il marionettista se vuole credere alla finzione delle marionette. Noi che guardiamo il film vi accediamo perché siamo fuori dal film stesso o, per riprendere un concetto espresso più sopra, possiamo vedere tutto dall’eternità. La vista del marionettista è certamente preclusa anche alle marionette stesse mentre sono in scena, perché una creatura incasellata nella propria parte non può interagire con il suo creatore. Abbiamo infatti visto che il marionettista è anche colui che crea la marionetta: in questo, e nella successiva padronanza dei fili che le agiscono, svolge nei confronti delle marionette una vera e propria funzione demiurgica. [42] Tale demiurgo/regista è perciò giustamente collocato nell’alto dei cieli, ed è invisibile al pubblico, con il quale non ha la minima interazione, come un essere dotato di poteri creativi divini che operi silenzioso nella sua propria dimensione. Vedremo però che il marionettista può venire interpellato dalle marionette, purché questo avvenga dal mondo che alberga dietro le quinte. Non è possibile che questo avvenga dalla scena, ovvero sotto gli occhi del pubblico, perché lì sono tutti tenuti a recitare la propria parte, a dare cioè agli spettatori l’illusione di un mondo bastante a sé stesso. Da notare che in un paio di occasioni il marionettista si rivolge anche direttamente a
noi che guardiamo il film: teniamo presente ancora una volta il quadro di Velasquez con le sue ambiguità…
4.
Vista dietro le quinte. Veniamo qui portati, nel film, a conoscere un luogo che, per suo statuto ontologico, deve restare nascosto. Dietro le quinte del palco si è letteralmente fuori scena, e perciò la convenzione della rappresentazione è sospesa perché non vi è alcun occhio di spettatore che possa raggiungere questo luogo.[43] Da dietro le quinte un attore può osservare ciò che accade sul palcoscenico come fosse uno spettatore, ma solo e unicamente in funzione di una sua entrata in scena. Osserviamo che il dietro le quinte è un mondo che si colloca lateralmente al mondo della rappresentazione. È un guardare dietro l’angolo, dove si cela ciò che non è evidente. Ma questo è ciò che più sopra abbiamo detto essere la proprietà dello sguardo del Poeta: dunque, il dietro le quinte è il luogo dove si manifesta la potenza creativa della poiesis. Infatti, come vedremo a breve, è solo là, nel dietro le quinte, che le marionette viventi, chiamate sul palco a recitare la loro parte inalienabile, possono invece pensare, agire, ragionare e parlarsi liberamente, senza un copione o una partitura prefissata. Nel nascondimento dagli sguardi altrui acquisiscono cioè un proprio grado di libertà.
Questi mondi sono pertanto organizzati spazialmente su più livelli, determinando, di fatto, anche una gerarchia verticale,[44] dalle profondità della platea occupata dal popolo anonimo e senza diritto di parola, a un cielo in cui alloggia, e tutto comanda e dirige, il demiurgo/marionettista. Il mondo dei personaggi che vivono la storia si apre, tra questi due estremi, in una vera e propria terra di mezzo[45] che è il palcoscenico. Da questa prospettiva, notiamo ancora una volta come la libertà che vedremo ottenuta dalle marionette dietro le quinte corrisponda a una mossa laterale, uno spostamento poetico del punto di vista, grazie al quale la creatura può vedere più
nitidamente ciò che egli è, e magari, come capiterà a Otello, potrà avere intuizioni sulla sua vera natura. La condizione degli spettatori in platea, vista la conformazione a scatola chiusa dell’ambiente, è assimilabile al mito della caverna di Platone, in cui s’immaginano gli esseri umani costretti a rivolgersi al muro di fondo di una caverna sul quale vengono proiettate le ombre delle entità reali che stanno nascoste alla loro vista, scambiandole per vere. Allo stesso modo, rivolgendosi al palcoscenico (non propriamente costretti ma, nella logica dello spettatore, questo è ciò che devono fare) il pubblico assiste alle parvenze di vita[46] che sono rappresentate sul palco, e che possono essere scambiate per reali. Torneremo a breve su considerazioni riguardo al grado di realtà che una finzione, com’è il teatro, comunque deve avere, e vedremo più avanti che questo equivoco del mito platonico in cui può occorrere il pubblico è, in effetti, assai concreto. Nell’impianto del film di Pasolini, comunque, il luogo davvero reale è il dietro le quinte: vediamo perché.
Cosa succede dietro le quinte? La vicenda di Otello narrata nello spettacolo delle marionette rappresentato nel film si svolge, come abbiamo detto, conformemente alla scrittura shakespeariana, seppur in grande sintesi e in gergo popolano: Otello viene mandato a Cipro a combattere i Turchi, seguito dalla moglie Desdemona, dal consigliere Jago, dal luogotenente Cassio e da Roderigo, che vorrebbe ottenere le grazie di Desdemona e che si presta perciò a un complotto ben più ampio ordito da Jago nei confronti di Otello, di cui ne invida la posizione e il potere. Tutta la narrazione si svolge con un continuo alternarsi della vista dalla platea e della vista dal palcoscenico con il popolo spettatore sullo sfondo. Questo è necessario affinché si noti che il pubblico, in questa fase, è seduto abbastanza composto e attento allo svolgersi della storia. Quando Jago recupera il fazzoletto di Desdemona e gli viene l’idea di come incastrare Otello alla sua stessa gelosia, egli ne narra i passaggi a un perplesso Roderigo mentre, questo è importante, ci viene mostrato un primo piano di Otello/Davoli che osserva quello che sta succedendo in scena da dietro le quinte. Sulla risata diabolica di Jago il sipario si chiude ed ecco che, mentre sentiamo in sottofondo la voce del venditore di snack che offre la sua mercanzia al pubblico nell’intervallo tra un atto e l’altro, veniamo portati dietro il sipario ormai chiuso e vediamo Jago/Totò avanzare verso le quinte (dal punto di vista in cui è collocata la cinepresa, egli appare di fatto avanzare verso di noi) e la sua espressione sardonica diventare seria mentre si avvicina a Otello/Davoli che lo sta aspettando con espressione triste. Ecco il dialogo che ne segue: OTELLO: Ammazza, Jago. Te credevo così bono, così bravo, così generoso… un pezzo de pane. E invece… quanto sei cattivo! Ma perché? JAGO: (porta il dito davanti alla bocca, spaventato) Sssst! OTELLO: Comunque mi giudico da me: pure io faccio schifo, mica solo te. Ma perché dovemo esse’ così diversi da come se credemo, perché?
JAGO: Eh, figlio mio… noi siamo in un sogno dentro un sogno. Ecco svelata la proprietà specifica del mondo dietro le quinte, come già accennavamo più sopra: essendo fuori scena, nascosti dagli sguardi del pubblico, qui gli attori possono permettersi di non attenersi al copione e alle battute che i loro rispettivi personaggi devono recitare. Possono dire ciò che pensano, ciò che sentono di più genuino, senza gli artifici della messa in scena. Sono liberi di pensare e di esprimersi come meglio credono. Accade perciò che la marionetta chiamata a interpretare Otello (ma, evidentemente, non essendo il carattere geloso di Otello la sua natura intima, come vediamo adesso), nato da poco e subito portato in scena a recitare una vita, non si capacita della distanza che è in grado di percepire tra come lui si sente interiormente e la parte che è costretto a recitare. Ed esprime questo suo dubbio alla marionetta che interpreta Jago:[47] “Perché dobbiamo essere così diversi da come ci crediamo?” Vi è in questa domanda tutta l’ambiguità del gioco di rimandi tra essere umano (in questo caso, l’uomo Ninetto Davoli), l’attore nella sua funzione (in questo caso, la marionetta che deve interpretare un personaggio) e il personaggio della finzione che viene rappresentata. Il punto è che tutti e tre sono reali, partecipano cioè di un proprio grado di realtà, che spazia dal concreto all’illusorio, senza però per questo diventare irreale.[48] Chi è quindi che può avere la facoltà di sentirsi diverso da come dovrebbe essere e, quando si creda qualcosa, può farlo in modo oggettivo, senza ambiguità? Un personaggio, prendiamo Otello, nel suo grado di esistenza (che è quello della finzione del dramma scritto da Shakespeare) non si pone certo il dubbio di chi egli sia: crede in sé stesso fermamente e in modo assoluto. Se ha un dubbio, all’interno della vicenda narrata, è un dubbio del personaggio per come egli è, fosse anche un dubbio, per così dire, esistenziale. È solo l’attore (nel nostro caso, la marionetta) che, essendo su un piano ontologico diverso da quello del personaggio, può sentirne la distanza e percepire il male di vivere del dover rappresentare, sul palcoscenico del mondo, una figura che non corrisponde a come egli si percepisce. Solo
che alla marionetta agente nel film, quindi, in effetti, ancora all’interno di una finzione, corrisponde una persona, Ninetto Davoli, il quale, nel suo camerino, potrebbe benissimo porsi la medesima domanda rispetto alla sua parte nel film. E così via, in un regresso virtualmente indefinito, perché la domanda di Otello ci dice che solo da fuori si può vedere con chiarezza. Ecco perché questa domanda interpella anche noi che guardiamo il film, che ne siamo, appunto fuori, ma pur sempre dentro la nostra vita e il nostro personale… personaggio. Appena Jago capisce che Otello si pone una tale domanda, che esprime un barlume di consapevolezza interiore, per quanto non ancora ben decifrato, gli fa subito segno di tacere con un’aria preoccupata: teniamo a mente questo invito al silenzio, perché lo ritroveremo più avanti. Di prima battuta, la preoccupazione espressa da Jago potrebbe far pensare che egli tema che di questa nascente auto-coscienza di Otello si accorga il marionettista (o magari il pubblico?), che non tollererebbe una deviazione dal copione, ma forse la preoccupazione è di altra natura, come vedremo in un secondo dialogo tra loro dietro le quinte che avverrà in seguito. Notiamo inoltre che Jago, il quale sulla scena (in quanto personaggio) è suo acerrimo nemico, qui (in quanto attoremarionetta) chiama Otello “figlio mio”. È l’attore più anziano, certamente più saggio: lui forse sa come vanno le cose, le domande che agitano Otello probabilmente lui le ha risolte da tempo. Ma l’indicazione che giunge da questa improvvisa famigliarità è che, fuori dai ruoli che ciascuno deve assumere per recitare la propria parte, gli esseri umani possono riconoscersi simili e solidali tra loro. E arriviamo con questo alla risposta che dà Jago alla domanda di Otello sul perché siamo diversi da come ci crediamo di essere: “Noi siamo in un sogno dentro a un sogno”, gli dice. Vediamo meglio.
“Siamo in un sogno dentro un sogno” Sono almeno due le fonti immediate di questa sentenza: lo stesso Shakespeare ne La tempesta[49] e Calderón de la Barca con il suo La vita è sogno, di cui abbiamo già accennato quando abbiamo visto il quadro di Velasquez. È evidente che in questo film Pasolini riprende l’idea già percorsa nel suo Calderón di utilizzare le suggestioni innescate da Las meninas in associazione con la tesi che il mondo cosiddetto reale possa essere in verità filtrato da un velo illusorio, come un sogno che sembra vero finché non ci si sveglia. Esiste però un testo, ed è difficile pensare che fosse sconosciuto a Pasolini, che menziona le esatte parole della frase pronunciata da Totò/Jago. È una poesia di Edgar Allan Poe, il cui refrain dice: Tutto ciò che vediamo o a cui rassomigliamo è soltanto un sogno dentro un sogno.[50] Ma c’è anche, da parte di un altro poeta capace d’indagini genuinamente interiori come Fernando Pessoa, un passaggio dalla sua opera incompiuta e postuma, Faust, in cui il personaggio dice: Il mondo racchiude un sogno come realtà. […] Le figure di sogno non conoscono il sogno del quale sono figure, perché il mondo non solo è sognato ma è, all’interno di un sogno, un altro sogno in cui anche i sognatori sono sognati. Puoi capire?[51] A questo proposito si può notare come nello stato di sogno il più delle volte non ci si accorga di stranezze, incongruenze o vere e proprie impossibilità fisiche o anche illogicità narrative che ci meraviglierebbero molto se le sperimentassimo da svegli. Detto in termini un po’ semplicistici: per l’io con cui ci identifichiamo dentro il sogno le incongruenze non appaiono tali e, forse anche per questo motivo, non ha motivo di mettere in dubbio la sua realtà
(dubbio che lo porterebbe a realizzare di essere solo il personaggio di un sogno). Nel sogno, cioè, non vediamo stranezze che pure ci sono… cosa ci autorizzerebbe dunque a pensare di poter vedere invece tutto chiaramente, nello stato che chiamiamo di veglia (quello in cui stai presumibilmente leggendo queste pagine, in questo esatto istante)? Ecco il paradosso messo in luce in questo primo dietro le quinte del film. E che l’essere umano viva da dormiente, pur credendosi perfettamente sveglio, nonché la prospettiva per cui il mondo, come lo percepiamo con i sensi, non sia altro che un velo, o anche uno specchio offuscato che copre l’essenza del reale, è nozione che si ritrova in tutte filosofie tradizionali. È molto interessante, in questo contesto, riferirsi a Ramana Maharshi,[52] saggio vissuto in India tra la fine del 1800 e la prima metà del secolo XX, perché, nelle poche trascrizioni esistenti di sue risposte a domande di visitatori, fa più volte riferimento al cinema come analogia per descrivere la percezione fallace dell’io transitorio rispetto alla permanenza dell’unico Sé: è come un film proiettato su uno schermo, dice, e se nel film scoppia un incendio, non per questo il telo di proiezione prende fuoco… Così come, quando voleva sfidare a porsi la domanda fondamentale per la propria consapevolezza, spesso chiedeva se si fosse in grado di determinare dove vada ciò che chiamiamo io quando dormiamo: dato che, sia come sia, questo io di fatto non è presente (ovvero: cosciente) nel sonno profondo, esso non può essere la realtà permanente. E, per concludere e riallacciarci all’idea portante espressa nel film di Pasolini: “Quando sognate, create un altro sé che vede il mondo della creazione di sogno e dell’ambiente di sogno, proprio come fate ora. Le visioni di sogno sono nel cervello di sogno, che si trova nel corpo di sogno.”[53] “Proprio come fate ora”: quindi chi sogna è, appunto, in un sogno dentro un sogno, dove il secondo livello di sogno è ciò che noi normalmente chiamiamo realtà.[54] Allora la questione diventa: da una condizione del genere ci si può risvegliare? Da più parti arrivano conferme, che siano di tipo tradizionale, religioso, o poetico tout-court. Ma serve un singulto, uno scarto davvero esiziale (paragonabile cioè a un
morire per poter rinascere) rispetto al quotidiano esperire: serve la percezione di un vuoto da cui possa scaturire l’essenza di un segreto incomunicabile. Come interpretare altrimenti, per restare sempre in ambito poetico, l’esperienza raccontata da Eugenio Montale in questo suo componimento del 1923: Forse un mattino andando in un’aria di vetro, arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me, con un terrore di ubriaco. Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto alberi case colli per l’inganno consueto. Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto. [55]
Terminiamo questa digressione sulla relazione tra stato di sogno e stato di veglia, tornando a Pasolini e al suo Decameron, girato nel 1970 in terra casertana. La battuta finale del film è detta da Pasolini stesso, che si è ritagliato un piccolo ruolo come allievo di Giotto. Contemplando l’affresco appena completato sul muro della chiesa, l’artista si stacca per un attimo dal gruppo dei manovali che stanno brindando alla fine del lavoro e, tra sé e sé, guardando verso il nuovo affresco, dice: “Perché realizzare un’opera, quando è così bello sognarla soltanto?”
“Ma qual è la verità?” Torniamo al film e arriviamo dunque, nella vicenda shakespeariana rappresentata sul palco delle marionette, al momento in cui Jago fa scattare la sua trappola: Otello è costretto a rimuovere il suo luogotenente Cassio dall’incarico perché sorpreso in una rissa (organizzata appositamente da Roderigo); Cassio chiede l’intercessione di Desdemona presso Otello per recuperarne la fiducia e Jago ha buon gioco nel seminare il dubbio in Otello che questo interessamento di Desdemona sia viziato da una segreta passione, ben poco innocente, verso Cassio perché, in fondo, “Desdemona è come tutte le altre.” Al proferire di questa insinuazione, non reagisce solo Otello a pretendere ulteriori spiegazioni ma, per la prima volta, sentiamo da lontano (l’inquadratura è sulle due marionette) levarsi qualche protesta dal pubblico. Jago sta mentendo, proprio mentre assicura a Otello di star dicendo la “sacrosanta verità,” e il pubblico dà segni di insofferenza. Poco importa che quella sia una rappresentazione: la menzogna non viene tollerata in silenzio. La pancia del pubblico percepisce che una rappresentazione non è, come si diceva prima, totalmente irreale: vede i personaggi soffrire in scena, e vi s’immedesima fino a considerarli loro pari. Ora Jago deve fare in modo che Otello veda in mano a Cassio il fazzoletto precedentemente sottratto a Desdemona, per farne scattare la mortale gelosia, e quindi lo incontra. Questo brano è visivamente raccontato dal punto di vista delle marionette, quindi dal palco con il pubblico a vista. E il pubblico, questa volta, rumoreggia vistosamente: Jago finge di interessarsi alle avventure amorose di Cassio con Bianca, ma menziona ad alta voce il nome di Desdemona in una frase di circostanza, così che Otello, nascosto nei pressi, creda si parli di lei… e il pubblico ancora reagisce con indignazione, si agita, protesta rumorosamente contro Jago. Quando poi Jago fa finta di starnutire e chiede a Cassio un fazzoletto, egli estrae quello di Desdemona, per la disperazione di Otello che lo riconosce, e subito si levano voci dal pubblico per cercare di avvisare Otello che è tutto un inganno: una voce singola urla perfino un “disgraziato!” rivolto a Jago. Il pubblico, ovvero
(più propriamente in questo contesto) il popolo, dà chiaro segno di non poter sopportare di essere testimone di un’ingiustizia, di non poter stare diligentemente nel posto assegnato, schierandosi quindi dalla parte di Otello, il quale è in fondo doppiamente ingannato: una prima volta perché portato alla vita solo per essere obbligato a recitare una parte, e poi perché pure il suo personaggio è destinato a essere truffato nella finzione che viene rappresentata in scena. Ma Otello, Jago e Cassio non possono recepire e rispondere a questa protesta: le parti che devono recitare sul palco, così come i fili manovrati dal marionettista nei cieli, li legano a una condotta che non può essere alterata. Per quanto il pubblico si sbracci e gridi, i tre proseguono senza tentennamenti nella recitazione della loro finzione. Non possono fare altro: in loro non vi è il potere di modificare il copione, e la loro natura di marionetta, l’unica fin qui concepibile, è quella dell’obbedienza alla partitura. Ecco allora che il volto di Otello si riga di lacrime nel realizzare che l’inevitabile esito per la sua ossessione sarà quello di uccidere Desdemona, ed ecco che Jago gli suggerisce, al posto di un asettico veleno, di sporcarsi le mani e strozzare la moglie. Come, appunto, da copione. Con questo si chiude il sipario del quarto atto e veniamo ancora una volta portati, con una carrellata in soggettiva (cioè questa volta siamo noi ad avere la sensazione di avanzare), nel mondo del dietro le quinte dove Otello, con il viso ancora rigato dalle lacrime, in presenza del nuovamente paterno Jago, esordisce così: OTELLO: Io sono assassino, io sono assassino… chi se lo credeva… Io sono assassino, mannaggia! (si rivolge verso l’alto, al marionettista) A Sor Maé, ma perché devo credere alle cose che me dice Jago? Perché son così stupido? MARIONETTISTA: Forse perché, in realtà, sei tu che vuoi ammazzare Desdemona. OTELLO: Come? Io voglio ammazzà Desdemona? E perché? MARIONETTISTA: Forse perché a Desdemona piace essere ammazzata.
OTELLO: Ah sì, è così? MARIONETTISTA: Forse è così. OTELLO: (si rivolge a Jago) Ma qual è la verità? È quello che penso io de me, o quello che pensa la gente, o quello che pensa quello là, lì dentro? (indica verso l’alto) JAGO: (paterno) Eehh… cosa senti dentro di te? Concentrati bene… cosa senti, eh? OTELLO: (pausa, si concentra) … sì, sì… si sente qualcosa che c’è. JAGO: Quella è la verità. Ma… ssst. Non bisogna nominarla, perché appena la nomini… non c’è più. Questo secondo dietro le quinte, è dunque composto di due parti: nella prima, Otello si rivolge e dialoga direttamente con il marionettista, a cui segue uno scambio finale di battute con Jago senza alcuna partecipazione da parte del marionettista, che non viene neanche più inquadrato, come se non c’entrasse più nulla. Notiamo dunque una volta di più come dietro le quinte avvenga la sospensione delle regole che governano la messa in scena. L’attore può parlare liberamente con il suo regista o, per la metafora che abbiamo utilizzato, la creatura può parlare con il suo creatore. Rispetto al primo dietro le quinte, dove in Otello si affacciava una vaga domanda di consapevolezza, qui la vita[56] lo ha portato a comprendere profondamente che, sulla scena, sarà chiamato a svolgere il ruolo dell’assassino, per quanto non possa interiormente identificarsi con questo ruolo. Otello si rivolge per prima cosa verso l’alto, cioè verso colui che gli ha dato forma e che lo anima, e gli domanda, chiamandolo Maestro, da dove venga la stupidità che lo costringe a credere, sul palco, alle cose che dice Jago. Ancora una volta, il suo percorso è guidato dal fatidico “perché” che si affaccia al pensiero di chi vuole comprendere esercitando la facoltà del dubbio. E poiché il dubbio, in virtù della sua proprietà assoluta,[57] è pericolosissimo per il proseguimento dello status quo, il marionettista/demiurgo deve necessariamente rispondere a tono: nella sua indifferenza all’afflato di consapevolezza espresso dalla sua creatura, e
nella funzione di ordinatore della messa in scena sul palcoscenico del mondo, deve ribadire che è così perché è così. In effetti, dal suo punto di vista, non potrebbe fare altro. Egli però indora la sua spiegazione con dei “forse” e dei “in realtà” che puntano a combattere l’arma del dubbio con il suo stesso veleno: permani pure nel dubbio senza soluzione (io te lo rafforzo con una spiegazione infarcita di “forse”) e, a lungo andare, non potrai più distinguere ciò che è vero da ciò che è falso, ciò che è realtà da ciò che è rappresentazione. “Forse, in realtà, sei tu che vuoi ammazzare Desdemona; forse a Desdemona piace essere ammazzata”: è una posizione che mira a preservare il copione assumendo che ciascuno dovrebbe essere lieto di fare docilmente la propria parte nei termini e nei modi per la quale è stata assegnata. L’armonia nel mondo, il passaggio da caos a cosmo dovrebbe cioè avvenire per accettazione della propria natura, del proprio karma si potrebbe dire, ovvero ciò che abbiamo chiamato recitare la parte. Il demiurgo, nell’esercizio delle sue funzioni,[58] non può suggerire un decorso diverso, perché è colui che presiede alla forma: rivolgersi a lui è dunque inutile e vano. Che sia possibile interrompere questo circolo vizioso di predestinazione non è concepibile per lui che è il padrone del copione (ovvero di ciò che è ineluttabile): alternative non ce ne possono essere, l’esercizio di una scelta è fuori discussione. Ma che questa sia una visione limitata ce lo dice un dettaglio visivo presente in tutte le inquadrature del marionettista da parte di Pasolini: per quanto sia collocato in alto, su un piano perciò certamente più elevato rispetto a palco e platea, che gli conferisce evidenti poteri sia rispetto alle marionette sia sul pubblico,[59] sopra di lui vediamo comunque… un soffitto. Già, come le sue creature e come il popolo che affolla la platea, anche il marionettista è collocato dentro il teatro: sopra di lui non si vede il cielo, men che meno si possono vedere le nuvole. Il suo potere si esercita all’interno del sistema: se ci limitiamo, come dovremmo, a ciò che viene mostrato direttamente nel film,[60] nessuno esce da quel teatro se non quando l’immondezzaro, come sappiamo, viene, prende i morti e li porta via.
Se dunque rivolgersi al cielo, ad incontrare il manovratore, non dà alcun risultato e non concede alcuna spiegazione, la verità va cercata altrove. E, infatti, la domanda finale, quella che coinvolge il centro essenziale del suo esistere, Otello non la rivolge al marionettista (che d’ora in poi resterà muto e, anzi, scomparirà del tutto dal film), ma la rivolge a chi si è mostrato come il più saggio tra i suoi simili, ovvero Jago. E quindi, infine, gli chiede: “ma qual è la verità?” Notare che nella formulazione estesa della domanda vi sono indicate le tre direttrici della probabile risposta: o la verità è ciò che io penso di me stesso, o è ciò che pensa la gente, o è ciò che il marionettista pensa che io sia (notare la reiterazione del verbo pensare). Che altro, se no? Se la risposta non viene da me stesso,[61] dagli altri o direttamente dal creatore, dove mai potrà essere trovata? È la domanda suprema, la domanda finale che viene, ad esempio, rivolta a Cristo nel Vangelo da parte di Pilato.[62] Ed ecco il punto centrale del film, metafisicamente parlando: la risposta della saggia marionetta-che-interpretaJago taglia il nodo gordiano di un dubbio pensato e suggerisce alla smarrita marionetta-che-interpreta-Otello una prassi completamente inedita. A lui che, da quando ha calcato il palcoscenico, si arrovella per cercare un senso spiegabile razionalmente, cioè una comprensione mentale della situazione (perdendo così definitivamente la gioia primitiva neonatale e affondando invece in una palude di angoscia e disperazione), propone di smettere di pensare e di concentrare piuttosto la propria attenzione su ciò che egli sente dentro di sé: “…cosa senti dentro di te? Concentrati bene.” L’indicazione è concentrati bene, non pensaci bene. Un invito cioè a spostare la ricerca della soluzione al quesito dalla mente al cuore: è lì che va cercata la verità, una verità che perciò si percepisce e non si può pensare, perché appena la si vuol dire, anche a sé stessi, cioè idealizzare o razionalizzare… questa è destinata a diventare sfuggente e non si potrà più riconoscerla per vera. È importante notare due proprietà di tale verità: per ciò che si è detto, non può essere una risposta al dilemma, ma piuttosto la sua soluzione, ovvero ciò che lo scioglie;[63] in
secondo luogo, tale verità è, per l’appunto, indicibile. È cioè un segreto nel senso più preciso del termine: ciò che è recluso, nascosto in un ambito così intimo della natura umana che qualsiasi tentativo di trasporlo in un qualsivoglia concetto non può che limitarne la portata. La verità che si sente, al contrario di quella che si pensa, è, propriamente, una intuizione, nel senso di comprensione immediata e definitiva ciò che non può essere altrimenti. Quando una tale intuizione giunge, non è più questione di crederci o non crederci perché, in modo definitivo, la si sa. La sua sede non può che essere, come detto, il cuore. E non bisogna confondere l’intuizione con il sentimento o l’emozione:[64] questi ultimi hanno sede, più propriamente, giù nel ventre[65] e hanno come loro proprietà la volatilità, non la certezza. Nel cuore ha piuttosto sede l’intelletto, ed è anche una delle possibili dimore del luz,[66] cioè il nocciolo primario e indivisibile della scintilla che dà vita alla forma e le concede la capacità di connettersi a una più alta comprensione. Tale intuizione non è comunicabile, ognuno deve trovarla da sé. E non è un caso che, così come Jago rinnova qui a Otello l’invito al silenzio (non più il silenzio preoccupato del primo loro incontro, ma quello sereno della consapevolezza che “qualcosa c’è”), l’atteggiamento tenuto da Cristo alla domanda di Pilato è quello di restare, appunto, in silenzio. Nel film c’è questo bellissimo momento di sospensione, quando Jago dice a Otello “concentrati bene, cosa senti?” Segue un silenzio con il primo piano del viso di Ninetto Davoli che si concede la giusta pausa per provare, per la prima volta, a sentire. E non appare sul suo viso il minimo cliché di chi si sforza di concentrarsi. Non vi è tensione alcuna, ma piuttosto una gentile e curiosa attenzione, parola che deriva dal verbo attendere, nella sua doppia valenza di “tendere verso” e di “aspettare.” È questa la sola vera concentrazione possibile per chi cerca la soluzione di un tale mistero: non uno sforzo, una prestazione muscolare, ma un cauto prestare orecchio (un orecchio interiore, s’intende). È così che Otello può arrivare a sentire che “qualcosa c’è”; e non è qualcosa che si è creato in quel momento, ma qualcosa che è sempre stato lì: l’indicibile, ma innegabile, Verità.
E nel percepire finalmente tutto questo, ritrovando d’un tratto lo stupore privo d’angoscia del neonato che fu, la marionetta-che-interpreta-Otello ancora una volta, e malgrado tutto quello che gli sta capitando… sorride.
Il popolo non ci sta: ribellione e morte Il popolo giù in platea, nel frattempo, difficilmente lo possiamo immaginare intento a disquisire di tali sottigliezze metafisiche. È piuttosto assimilabile a un mare che ondeggia e muggisce, indignato dalle ingiustizie che si stanno perpetrando sul palco. Pasolini, come è noto, ha un rispetto quasi sacro della capacità del sotto-proletariato di essere istintivamente vero.[67] E ora che, nella vicenda di Otello, siamo arrivati al momento dell’assassinio di Desdemona, sarà proprio questo movimento dal basso a determinare il colpo di scena che ribalta il gioco. Il popolo sa che cosa è giusto, se non per mezzo di un’acuta facoltà intellettuale, certamente in grazia di una sua capacità residua di connettersi a un istinto naturale, primigenio, del genere umano.[68] Inizia l’ultimo atto e Otello irrompe sul palco, per la verità spinto dentro platealmente da Jago, dove Desdemona lo attende in camicia da notte e dopo un breve scambio di battute velenose le mette le mani al collo per ucciderla. Per il pubblico/popolo, questo è troppo: un’innocente sta per essere uccisa per mano di un altro innocente, gabbato da una trama che fa leva su una sua debolezza, che è la gelosia. Questo esito deve essere impedito a ogni costo; e, visto che nessuno interviene, il popolo si fa giustizia da sé: sfonda la quarta parete salendo sul palco e, da spettatore passivo, si fa anch’esso attore. Non c’è alcuna inquadratura di gesti singoli o di capipopolo che guidano gli altri: sembrano, come le formiche, costituire un unico organismo che, con una invasione di uno dei mondi che non gli pertiene, il palco, rivoluziona la gerarchia dello status quo e pure la natura ontologica dei ruoli. Separano Desdemona da Otello e strozzano quest’ultimo, linciano anche Jago[69] e, mentre le donne fanno cerchio intorno a Desdemona per assicurarsi che stia bene, un gruppo di uomini va a prendere Cassio e lo porta in trionfo sulle loro spalle. Ma ciò che sorprende è l’espressione di Cassio, completamente incredula: anch’egli ha creduto ciecamente al ruolo prescritto e vi si è prestato docilmente; com’è che adesso è tutto ribaltato? Non è così che dovrebbero andare le cose… portato in trionfo allarga le
braccia stupito, come a dire: io facevo solo la mia parte, cos’è che non andava bene? C’è un’ultima cosa da notare in questa scena con Cassio: per opera dell’azione del popolo, egli viene simbolicamente trasformato da marionetta (governata dall’alto) a burattino (agìto dal basso). Il popolo è la mano del burattinaio che anima dall’interno il pupazzo e si sostituisce ai fili che dall’alto vengono tesi dall’invisibile marionettista.[70] Infatti, in tutto questo putiferio, il marionettista non compare: non può intervenire, non può fermare questo epilogo. La sua potestà si esercita sulle marionette e sul rispetto del copione, ma nulla può fare quando si accende l’autocoscienza, che sia quella individuale che abbiamo visto sbocciare nei dietro le quinte,[71] o quella collettiva di un popolo che si attiva e fa la rivoluzione. In questa fase non lo si vede proprio più, chiuso forse anch’egli nel suo silenzio, nella sua sostanziale assenza di fronte alle vicende degli uomini. Sa però che dovrà pazientemente costruire un nuovo Jago e un nuovo Otello se vorrà fare la prossima rappresentazione. A questo proposito, è possibile in effetti ipotizzare tre alternative riguardo a tale epilogo della vicenda: la prima è che questo film narra di un evento eccezionale accaduto inaspettatamente in una delle repliche dello spettacolo delle marionette;[72] la seconda ipotesi è che non vi sarà più alcuna replica: abbiamo visto Otello essere costruito semplicemente per ultimo, e quella a cui abbiamo assistito, con il suo esito ribaltato, è l’unica volta in cui avverrà questa messa in scena; Otello ha una sola vita per comprendere che qualcosa c’è e, se non ci riesce, questa possibilità è sprecata.[73] La terza ipotesi, infine, è che questo è ciò che accade ogni sera, in ciascuna replica. E che quindi le marionette che interpretano Otello e Jago vengono fatte a pezzi ogni volta e il marionettista deve pazientemente ricostruirle ogni giorno.[74] Del resto, non abbiamo forse visto all’inizio del film proprio la costruzione della marionetta Otello? Anzi, per quello che ne sappiamo, potrebbe essere che ogni volta tutte le marionette vengono distrutte (sia da parte del pubblico sul palco e poi, in magazzino, dal marionettista stesso[75]) e ricreate in un continuo ciclo di distruzione e nuova creazione in cui Jago è già da subito con tutta la sua saggezza di vecchio attore e
ciascun’altra marionetta con le proprie caratteristiche: tale visione è in un certo modo analoga alla concezione orientale ciclica del tempo, della ruota del samsara.[76] Forse si potrebbe obiettare che Pasolini è culturalmente lontano da una simile visione, e probabilmente è così. Ma c’è un minuscolo dettaglio nel film che potrebbe supportare la terza ipotesi (non perché voluta in questi termini da Pasolini, ma in quanto presente nell’opera volente o nolente[77]): quando rivediamo l’immondezzaro, ora che la scena si sposta nuovamente nel magazzino con le marionette superstiti ancora ordinate in fila sulla rastrelliera dell’inizio, Domenico Modugno appare inquadrato nella stessa identica posizione dell’immagine iniziale del film, di profilo con il secchio dei rifiuti a livello del petto, l’azione di girarsi avviene nella stessa direzione, e c’è persino lo stesso sfondo. Il suo arrivo nel cortile del teatro per raccogliere i rifiuti è ciclico, lo sappiamo, ma la perfetta sovrapposizione dell’inquadratura potrebbe suggerire che è l’intera rota mundi a iniziare un nuovo giro.[78] In più, nella sceneggiatura originale del film compare un ulteriore scambio di battute nel prologo, tagliate poi nella realizzazione finale,[79] in cui il neonato Otello, sentendo provenire rumori da oltre i muri e chiedendone conto a Jago, ottiene da lui la rivelazione che quello è “l’altro mondo” e quando, nel suo entusiasmo giovanile, dice che gli piacerebbe sapere se è un luogo bello o brutto, Jago gli risponde: “Lo saprai, lo saprai…”, come fosse una specie di Grillo Parlante che predice la sorte a Pinocchio. Dunque Jago potrebbe avere la veggenza di ciò che è destinato ad accadere, oppure un vero e proprio stato di conoscenza al suo riguardo, come risulta anche dalle sue sagge risposte alle domande di Otello nel dietro le quinte. Infine, questo episodio dell’irruzione sul palco da parte di un pubblico che confonde la finzione del palco con la realtà della vita, ricorda un altro analogo celebre episodio letterario, anche questo certamente non ignoto a Pasolini: quello del capitolo XXVI del Don Chisciotte di Cervantes in cui il protagonista passa a fil di spada le marionette di uno spettacolo a cui sta assistendo, proprio perché nell’opera che
viene rappresentata si sta perpetrando un’ingiustizia. Precisamente come succede nel film di Pasolini.
La seconda nascita Arriviamo al segmento finale del film: dopo l’assalto del pubblico e l’irruzione sul palco, sottolineata da una concitata marcetta da clownerie circense, improvvisamente si fa silenzio. Siamo nel dopo-la-rivoluzione. La prima immagine che viene mostrata è quella delle due marionette, Otello e Jago, uccise dalla rivolta del popolo. Sono sempre i due attori, Totò e Davoli, ma inerti e riversi nella cassa che contiene altri stracci e scarti, evidentemente danneggiati (in quanto marionette) oltre la possibilità di una riparazione. Ma, se notiamo bene, sulla cassa è scritta la parola “mondezza”. Non il termine italiano immondizia ma la forma più gergale, appunto, senza quel “in/im” negativo: sono dunque costoro esseri che sono stati mondati? Sono forse passati, per mezzo della morte, attraverso una purificazione, o rigenerazione, che li rende puliti e pronti per il prossimo passaggio? I loro compagni non sanno né si interrogano su nulla e, appesi alla rastrelliera dell’inizio, ne piangono semplicemente la morte (come detto, il marionettista/demiurgo non si vedrà più dopo il suo dialogo dietro le quinte con Otello). Non essendo mai stati fuori, non possono conoscere nulla di ciò che li aspetta quando l’immondezzaro li porterà via. Dal loro punto di vista, la morte è la fine di tutto. Giunge, infatti, alle loro orecchie il canto di Modugno (lo stesso canto dell’inizio), e tutte le marionette superstiti si disperano mentre l’immondezzaro compie il suo lavoro, caricando Otello e Jago nel suo furgone telonato insieme agli altri rifiuti della giornata. Per tutte loro, quello alle marionette uccise è soltanto un “Addio per sempre”. Mentre vediamo l’immondezzaro salire al posto di guida, [80] avviare il motore e guidare il furgone, e mentre vediamo immagini di Otello e Jago sballottati nel retro, in mezzo agli altri rifiuti, Pasolini ci fa ascoltare per intero la canzone musicata da Modugno e di cui lui ha composto il testo. Vale la pena di menzionare come il testo sia un montaggio di frasi tratte dall’Otello di Shakespeare, ma ricontestualizzate a formare la suggestione di un perduto amore. In alcuni casi, le frasi sono pronunciate, nella tragedia originale, da un Otello al
colmo dell’accecamento dovuto alla gelosia, ma il nuovo contesto formato dal montaggio testuale di Pasolini, e dalla romantica melodia di Modugno, restituisce piuttosto immagini di struggi-menti e lontane nostalgie. Ancora una volta è la reiterazione, così tanto presente in questo film, dell’ambiguità su ciò che appare rispetto a ciò che è reale, e su come sia difficile stabilire cos’è la verità. Ad esempio, il già citato incipit: Ch’io possa esser dannato se non ti amo. / E se così non fosse non capirei più niente. / Tutto il mio folle amore lo soffia il cielo, / lo soffia il cielo… così è una rielaborazione di quanto Otello dice a Jago: OTELLO: La perdizione afferra la mia anima / ma quanto ti amo! / E se non dovessi più amarti, / tornerebbe il caos. […] Guarda, Jago: così soffio al cielo / tutto il mio folle amore. Ecco, è andato![81] In un altro caso, il testo utilizzato non è neanche pronunciato da Otello, ma è un dialogo tra il Doge e Brabanzio mentre discutono dell’attacco dei turchi a Cipro. Testo della canzone: Il derubato che sorride ruba qualcosa al ladro, / ma il derubato che piange, ruba qualcosa a sé stesso. / Perciò io mi dico: finché sorriderò, / tu non sarai perduta e testo shakespeariano: DOGE: Il derubato che sorride ruba qualcosa al ladro; / ruba invece a sé stesso chi si perde in inutili afflizioni.
BRABANZIO: Lasciamo allora che il Turco prenda Cipro, / perché finché sorrideremo non l’avremo perduta. [82]
Bisogna davvero sentire la canzone, reperibile facilmente su Internet, per cogliere tutta la distanza tra il dramma del testo di Shakespeare e la dolcezza struggente della rielaborazione di Pasolini e Modugno, a fronte di parole quasi identiche. Abbiamo detto che durante il canto dell’immondezzaro, il quale in tutta evidenza sta guidando verso il luogo dove scaricare i rifiuti che trasporta, vediamo solo e unicamente il primo piano di Modugno e quelli di Totò e Davoli, sballottati nel furgone che procede lungo la strada. La sceneggiatura originale prevedeva che si vedesse il transito del furgoncino tra strade, campi e argini: nulla di queste sequenze è rimasto nel film finito, e neanche noi possiamo quindi vedere questo transito. Siamo cioè, ancora una volta, nelle stesse condizioni delle due marionette che percepiscono il movimento ma non possono vedere i luoghi. E per questo, comprensibilmente, sono terrorizzate: nelle immagini che li riguardano, vediamo Otello e Jago nuovamente svegli (per quanto sembra sia loro impossibile muoversi autonomamente), ma le loro espressioni tradiscono un vero e proprio terrore. È il terrore di un aldilà che resta ancora ignoto pur essendo ora concretamente in atto. Abbiamo già paragonato il personaggio dell’immondezzaro al Caronte dantesco, ma possiamo ora indicare un’altra analogia. Tornando ancora una volta al racconto di Collodi, il furgone del trasporto rifiuti svolge la funzione del ventre della balena[83] che inghiotte Pinocchio (e suo padre – non dimentichiamo che Jago nel primo dietro le quinte chiama Otello “figlio mio”), luogo nel quale avviene l’ultima trasformazione interiore di Pinocchio prima che avvenga quella finale esteriore, da marionetta a ragazzo umano. In ogni caso, si tratta del punto più profondo e spaventoso del viaggio agli inferi[84] che le marionette morte devono compiere (ed è ancora interessante notare il contrasto con la dolce canzone d’amore che si ascolta nel frattempo). C’è un’ultima particolarità da notare in questo viaggio: alle spalle dell’immondezzaro, sulla lamiera che separa il posto
di guida dal vano di carico, Pasolini colloca, ben visibile nei primi piani di Modugno, un altro quadro di Velasquez.
Si tratta della Venere Rokeby, anche conosciuto come Venere e Cupido o Venere allo specchio, dipinto del 1648 circa (e probabilmente durante un soggiorno di Velasquez in Italia). Il quadro, oltre ad accordarsi con il tema della canzone d’amore che viene cantata in sottofondo, contiene l’ennesima suggestione sulla relazione finzione-realtà che percorre tutto il film e si collega in un certo modo al quadro di Velasquez dell’inizio. La posizione dello specchio nel quadro è, infatti, incongruente con l’idea che Venere stia guardando sé stessa allo specchio: ella sta piuttosto guardando, tramite lo specchio, il pittore nell’atto di dipingerla (e, ora che il quadro è stato dipinto, sta guardando… noi).[85] Il parallelo con quanto discusso relativamente a Las meninas è evidente. Inoltre, se prendiamo la Venere come simbolo della Bellezza, essa si identifica (in Platone) con la Verità. Ecco allora un altro indizio per cui la Verità, tanto disperatamente invocata da Otello dietro le quinte, può essere trovata solo in quel transito, cioè solo in quell’istante di discontinuità che avviene tra morte e successiva rinascita. Quindi, la presenza di Venere alle spalle dell’immondezzaro ribalta l’immagine diabolica che le marionette hanno inizialmente di lui (quello che prende i morti e li porta via) per suggerire che il viaggio che egli fa compiere
ai morti è un viaggio verso la bellezza e la Verità, e non verso la perdizione. Le marionette dunque si sbagliano sul suo conto, ma, chiuse nel loro mondo senza via d’uscita e prive di qualsiasi intuizione trascendente, non possono saperlo e restano perciò sottoposte al potere del Demiurgo.[86] Per tornare ai nostri Otello e Jago e al loro viaggio, il chiuso furgone che li sta trasportando può infine essere assimilato a un utero, nel quale si compia una rigenerazione (in senso letterale) che sfoci in una nuova nascita. E, infatti, ecco che l’immondezzaro arresta il suo mezzo, scende e si porta sul retro: il furgone ci appare in alto, sul ciglio di una collinetta, in prossimità di una striscia di rifiuti che costituisce quasi uno scivolo per scaricare i successivi. Il quadro d’insieme ricorda, in modo molto stilizzato, una vagina. L’immondezzaro apre il retro del furgone e scaraventa letteralmente di sotto i rifiuti che ha trasportato, inclusi Otello e Jago, che vediamo rotolare lungo la scarpata/vagina, in una simbolica venuta al mondo. Atterrano entrambi di schiena, in mezzo a scarti di ogni tipo. E qui, davanti ai loro occhi (e noi lo vedremo in soggettiva, come fossimo i loro occhi) appare, per la prima volta, il cielo azzurro coperto di nuvole bianche. Parte in sottofondo un brano di Mozart,[87] e loro, con gli occhi spalancati dallo stupore, guardano in alto con meraviglia e curiosità, dicendo queste ultime battute: OTELLO: Iiiiih… E che so’ quelle? (indica verso l’alto) JAGO: Quelle… sono… sono le nuvole. OTELLO: E che so’ ‘ste nuvole? JAGO: Mah! OTELLO: (ride) Quanto so’ belle, quanto so’ belle!… Quanto so’ belle! (ride) JAGO: Ah, straziante, meravigliosa bellezza del creato! E, con un’ultima immagine in soggettiva del cielo e delle nuvole che si muovono piano, il film si conclude.
Otello e Jago, sono quindi transitati da un nuovo utero simbolico e sono perciò rinati. Ma sono anche, sempre simbolicamente, risaliti dagli inferi e, per dirla con Dante, sono tornati a riveder le stelle. O, meglio, giungono a vedere per la prima volta il cielo e le nuvole. Solo nell’ultima scena del film si rivela dunque il senso del suo titolo. Ma, attenzione, alla domanda espressa nel titolo non viene data una risposta certa: quando Otello chiede a Jago che cosa siano le nuvole, Jago risponde con un laconico “Mah!”. Dato che la conoscenza delle nuvole (fatte anch’esse, in fondo, della stessa sostanza impalpabile dei sogni) significa di fatto sapere cosa sia la morte[88] (che, come detto, è l’unica via d’uscita dalla scatola in cui erano rinchiusi nella vita precedente), meglio non azzardare una risposta e restare in quella condizione di silenzio suggerita da Jago stesso, nel secondo dietro le quinte, come reazione alla soluzione trovata nel cuore per via intuitiva: che ognuno trovi da sé “che cosa sono le nuvole”, e ne faccia il proprio segreto. Restano due cose da notare in questo straordinario finale. Per prima cosa, la condizione di seconda nascita è evidenziata da due indizi ben precisi: Otello e Jago sembra proprio che non possano muoversi autonomamente (Otello muove appena il braccio quando indica le nuvole) proprio come i neonati, e così come abbiamo visto accadere all’inizio con la creazione di Otello portato a braccia al suo posto. Inoltre, ritroviamo qui, dopo il terrore del viaggio iniziatico nel ventre della balena, il secondo carattere che contraddistingue il neonato: alla vista delle nuvole, Otello scoppia nuovamente in un riso fanciullesco (e anche Jago, pur non ridendo apertamente, ha il viso solcato da un grande sorriso e un’espressione di pace e di gioia). Questa condizione del fanciullo che ride di gioia è molto importante per Pasolini, ed è scientemente collocata e reiterata in questo film. Vedremo il perché nel prossimo e conclusivo capitolo. Per ultimo, notiamo il paradosso davvero sconfinato tra la condizione in cui i due rinati si trovano, una schifosa discarica di rifiuti, e ciò che essi provano: una gioia paradisiaca. Un Paradiso, alla fine, potrebbe ancora avere le apparenze di una discarica ma, consentendo un nuovo sguardo rivolto al cielo,
chi vi accede può fare esperienza di un’altra prospettiva: quella per cui ogni essere umano che vive dietro la maschera del suo personaggio, può aspirare a una perfetta libertà da ogni condizionamento. Nessun filo di alcun marionettista, infatti, li costringe più a recitare una parte dentro una scatola. E la visione che si para innanzi agli occhi non è più quella del soffitto di una stanza, ma di un cielo apparentemente senza fondo. Cosa ne faranno le due marionette di questa loro nuova libertà non è dato saperlo[89] perché il film, opportunamente, si ferma qui, con questa ode alla bellezza del creato che sottolinea, una volta di più, la dimensione che è propria di chi è Poeta il quale, grazie al suo sguardo laterale ha potuto indagare ciò che, davanti o dentro di noi, è sacro: “Ah, straziante, meravigliosa bellezza del creato!”.[90]
Il Poeta canta come l’usignolo: ab joi Ci eravamo domandati come fosse possibile che un artista, per quanto dotato intellettualmente e di vasta cultura, possa racchiudere in una sua opera una tale varietà di significati, metafore e rimandi come quelli che abbiamo provato ad analizzare in questo studio. Si pensi, per di più, che il corto film in oggetto è un’opera, tutto sommato, minore del corpus pasoliniano: girato abbastanza in fretta, lasciato in attesa per un anno, mentre Pasolini si dedicava a lungometraggi (e senza contare tutte le altre attività di scrittore e saggista che portava avanti in parallelo) e inserito in un film collettivo che ne diluisce l’impatto: nelle antologie delle opere di Pasolini, questo è un capitolo da cui si transita in fretta. Eppure, quanti fili si possono dipanare da questo meccanismo stupefacente che Pasolini ha saputo mettere in piedi! Le sue conoscenze e la sua sensibilità di Poeta gli hanno consentito di immaginare una struttura, ben poggiata su riferimenti solidi (Shakespeare, Pinocchio, eccetera), capace di continue aperture e rivelazioni. È certo possibile che in questo studio si sia andati oltre le intenzioni dell’autore: certi collegamenti di tipo filosofico e tradizionale sono probabilmente fuori dall’orizzonte e da ciò che premeva dire a Pasolini. Ma, ed è una questione che supera il singolo caso considerato in questo studio, una volta nata, ovvero venuta alla luce, un’opera d’arte guadagna un certo grado di realtà e, quindi, di indipendenza dall’autore: se l’apparato metaforico e significante consente collegamenti e analogie non previste dall’autore, beh, vuol solo dire che esse ci sono malgrado lui e la sua poetica. Il fatto che ci siano, però, è testimonianza della grandezza dell’autore stesso, che ha saputo porsi nel crocevia di tali e tanti influssi e rimandi. È proprio quando di un artista si dice che ha operato in stato di grazia. Per chiudere il cerchio, è necessario sottoporre a un’ultima verifica la tesi da cui ha preso le mosse questo studio, ovvero che la vera natura di Pier Paolo Pasolini è quella del Poeta, e che è un tale sguardo che lo rende grande. Chi meglio può validare questa tesi, se non Pasolini stesso? In uno spezzone audio non datato, ma certamente di poco
precedente alle riprese del Decameron nel 1970 in Campania, Luigi Necco chiede a Pasolini perché abbia avuto l’idea di scegliere proprio le novelle napoletane per trasporre l’opera di Boccaccio: PASOLINI: Perché ho scelto Napoli? […] Nel momento in cui ho pensato di fare un film profondamente popolare […] mi è rimasto Napoli. Perché Napoli è fatalmente, storicamente, oggi il luogo d’Italia dove il popolo è rimasto più autenticamente sé stesso […] NECCO: È un dato negativo? PASOLINI: No, io lo considero un meravigliosamente positivo. Io, personalmente.
fatto
NECCO: Da Poeta? PASOLINI: Sì, sono Poeta […] quindi non posso mai prescindere da questa mia esigenza, da questa mia ossessione. Ecco dunque Pasolini che s’identifica volentieri con l’imbeccata del giornalista che lo definisce Poeta (e non solamente un poeta) e che, in tal modo, rivela che la visione del mondo che egli ha maturato è conforme a questa sua facoltà. Ma c’è un’ulteriore testimonianza diretta, ancora una volta dalla sua stessa voce. Facendo un salto indietro di due o tre anni, ci giunge un’altra intervista in cui Pasolini chiarisce meglio la propria identità e aggiunge considerazioni importanti: siamo nel 1966, giusto a ridosso della realizzazione di Che cosa sono le nuvole?, e Pasolini concede una lunga videointervista al giornalista francese Jean-André Fieschi, che ne trae un documentario intitolato Pasolini l’arrabbiato.[91] Ecco una sintesi del brano che ci interessa, dalla voce stessa di Pasolini ripreso in primo piano mentre si rivolge (in Italiano) al proprio intervistatore: PASOLINI: Se c’è stata della sincerità in quello che ho detto, è stata una sincerità, per così dire, indiretta. […] Ma, in realtà, non ho detto le cose che avrei voluto e avrei dovuto dire, e nessuno di noi riesce mai a dirle: le
cose vere e sincere si riescono a dire raramente, forse per caso, forse nei momenti di ispirazione poetica. […] Quello che si dice a proposito della poesia, di sé stessi, dei propri film, dei romanzi… è sempre viziato da abitudini che sono fondamentalmente ‘medie’, sociali, culturali. La verità ‘vera’ forse si può esprimere nei termini della religione o della filosofia indiana… non so… o della poesia, ‘tout-court’. […] Io fin da ragazzo, dalle primissime poesie in friulano all’ultima poesia in italiano che ho scritto, ho usato un’espressione della poesia provenzale che è ‘ab joi’: l’usignolo che canta ‘ab joi’, per gioia. Ma ‘joi’, nel provenzale di quel tempo, aveva un significato particolare, di ‘raptus’ poetico, di esaltazione, di ebbrezza poetica. Questa espressione è forse la chiave di tutta la mia produzione: io ho scritto ‘ab joi’, cioè al di fuori di tutte le mie determinazioni, le mie spiegazioni e le mie definizioni culturalistiche. Il segno che ha dominato tutta la mia produzione è questa specie di nostalgia della vita, questo senso di esclusione che però non toglie amore per la vita, ma lo accresce. Questa è la costante di tutta la mia produzione. Il passaggio “non ho detto le cose che avrei voluto dire” è sostanzialmente identico a quanto Pasolini dirà a Enzo Biagi nella famosa intervista televisiva del 1971 (censurata e trasmessa solo dopo la sua morte). Solo che in quel caso, Pasolini affermerà di non poter dire tutto ciò che vorrebbe perché se no sarebbe “accusato di vilipendio”, ma anche perché “di fronte all’ingenuità e alla sprovvedutezza di certi ascoltatori, io stesso non vorrei dire certe cose”[92]. Nel caso dell’intervista a Fieschi, invece, risulta evidente che l’impossibilità a poter dire tutto è di altra natura: è, come verrà in seguito espresso in Che cosa sono le nuvole?, un’impossibilità dovuta all’indicibilità di ciò che, “vero e sincero”, può essere solo espresso per mezzo di una “ispirazione poetica”. Un’ispirazione della stessa natura di quell’intuizione che proviene dal cuore e che induce al
silenzio, in quanto inesprimibile, come abbiamo visto nel dialogo tra Totò e Davoli nel secondo dietro le quinte del film. Pasolini conferma dunque con le sue stesse parole che la “verità vera” è indagabile solo con gli strumenti della poiesis (e, per chi può, forse anche con la “religione” o la “filosofia indiana”…!) perché, altrimenti, qualsiasi cosa che si può dire (di sé stessi, della propria opera, eccetera) è necessariamente viziata da sovrastrutture culturali e sociali, dalle quali un ragionamento solo mentale non può sottrarsi. In sostanza, riprendendo la metafora del film, ciò che è confinata nel teatro delle marionette, scatola chiusa dalla quale si esce solo morendo, è la mente. Ma è precisamente nella mente che risiede la nozione dell’individualità, di un io che si vuole riconoscere separato e autonomo, ed è proprio questo io che deve morire per poter uscire e accedere così alla “verità vera”. In questo, religioni e filosofie indiane (già, proprio quelle altre vie possibili citate da Pasolini…) concordano, purché ci si rivolga a quanto sia tramandato di realmente tradizionale,[93] e si accordano al percepire interiore di un intelletto sano, quello che fa esclamare alla marionetta-che-interpreta-Otello: “ma perché devo sentirmi così diverso da ciò che credo di essere?”. La soluzione a tale quesito (che, come detto, non è una risposta, perché non riducibile a un concetto) risiede nel cuore, non nella mente. È solo in quella sede che può prodursi l’afflato poetico in quanto, per Pasolini, esso procede “ab joi”, come la voce dell’usignolo, che non sa perché canta, ma canta. E il Poeta, proprio come l’usignolo, canta.[94] Non solo: canta con gioia. È stupefacente, e anche commovente, sentire Pasolini dire di sé stesso che quella nostalgia e quel senso di esclusione che lo caratterizzano, personalmente e come artista, contribuiscono, grazie a quest’afflato poetico che si genera dal canto gioioso del cuore, a un accrescimento dell’amore per la vita, e non a una sua diminuzione. Chi sembrerebbe più destinato al tormento e all’infelicità di Pasolini? Persino il giornalista francese nel titolo del suo documentario lo etichetta come “arrabbiato”: parrebbe assimilabile a un poeta maledetto, sempre a un passo da una depressione esiziale… e invece… eccolo qui a dirci del suo amore per la vita, sempre accresciuto dall’afflato poetico espresso come un canto che
procede “ab joi”. Anzi, specifica che si tratta di un vero e proprio “raptus”, proprio come è un raptus lo sgorgare spontaneo e irrefrenabile che abbiamo visto accadere nel riso dei neonati e, per chi ne ha la fortuna, anche dei rinati che comprendono, finalmente e una volta per tutte, che cosa sono le nuvole.
Qualche ringraziamento Questo libro deriva da una serie di conferenze che ho svolto a partire dal 2013 sull’analisi di Che cosa sono le nuvole? e, in seguito, anche di altri film. Grazie perciò a tutti coloro che hanno ospitato finora questi incontri e a chi vi ha partecipato. Ho però alcuni ringraziamenti specifici da rivolgere a: Massimo Giannetti (con Daniela Damiani e Saverio Fiano: Associazione Aletheia) mio primo maestro nell’arte teatrale, che ha ospitato, in una giornata di ricordo su Pasolini, il mio breve intervento su Che cosa sono le nuvole?, da cui è disceso tutto il resto, fino a queste pagine. Raúl Iaiza (Regula contra Regulam Teatro), per l’incoraggiamento a sviluppare le prime conferenze su cinema e teatro, tra le quali vi era questa. Mario Barzaghi (con Rosalba Genovese e Maria Rita Simone: Teatro dell’Albero), e don Giuliano Savina (con gli amici del Refettorio Ambrosiano di Milano) per il loro supporto e aiuto nel far conoscere il mio lavoro, e perché non fanno mai mancare una parola di stimolo a proseguire. Andrea Ianniello, in particolare, e a tutti i soci dell’Associazione San Rufo Rinasce di Casolla (CE) per avermi chiamato dal profondo Nord a tenere la conferenza su Pasolini nei luoghi casertani dove fu girato il Decameron. Giuseppe Vozza, per avermi incitato ad approfondire ulteriormente, ampliando gli appunti che usavo per parlare a braccio nelle conferenze, fino alla realizzazione di queste pagine, che ha poi deciso di pubblicare. Infine, a Franco Bagnarol di Casarsa della Delizia (PN) che un giorno del lontano 1987 parlò a un giovane ignorante di un certo Pasolini, e lo portò poi nel vicino cimitero a inciampare nella sottile striscia di marmo che punta verso le lapidi accostate di una madre e di suo figlio. Quel figlio è Pasolini, quel giovane ignorante ero io.
[1] Versi di Pasolini nell’Introduzione di Enzo Siciliano in Processo a Pasolini, a cura di Annamaria Guadagni, Supplemento al n. 115 dell’Unità del 18-5-94, p. 7, corsivi in originale. [2] Bertolt Brecht, L’anima buona del Sezuan, Giulio Einaudi editore, Torino 1963, p. 125, Epilogo, corsivi miei.
[3] “Consapevole di vacuità” – dove “vacuità” è il Nulla che si riempie di Tutto – è il nome dello Scimmiotto, e, secondo il Calendario in uso in Asia orientale, siamo nell’Anno della Scimmia (8 febbraio 2016 – 27 gennaio 2017). Secondo certe dottrine buddhiste, lo Scimmiotto è il “discepolo” che deve diventare “consapevole della vacuità” d’ogni cosa perché possa esser riempito del Tutto dal Tutto. [4] Si narra, infatti, che, alla successione dell’ultimo Patriarca unitario della scuola Zen – Chan in cinese -, prima che il “Chan” si dividesse nelle due scuole, del Nord e del Sud, proprio all’origine di tale divisione, vi fosse la richiesta, da parte dell’ultimo Patriarca comune, ai suoi due migliori discepoli di scrivere una poesia che, in breve, in sintesi, rendesse “l’essenza” dello Zen. “Shen-hsiu scrisse questi versi: ‘Il corpo è simile all’albero-di-Bodhi, / E la mente a uno specchio luminoso; / Con cura noi li puliamo ora per ora / Perché la polvere non cada su di essi’” (Fung Yu-lan, Storia della filosofia cinese, Oscar Mondadori, Milano 1975, p. 205). Tali parole, in effetti, riassumevano come l’essenza delle “vie sacre” e dell’iniziazione di qualsiasi genere o forma. Ma ecco cosa gli rispose il futuro Patriarca della scuola del Sud: “Replicando a quest’idea, Hui-neng scrisse i seguenti versi: ‘In origine non esisteva albero-di-Bodhi,/ Né specchio alcuno esisteva;/ Se in origine non esisteva nulla,/ Su cosa può la polvere cadere?’” (ibid.). Ora, quando qui prima si legge “non esisteva nulla” tale affermazione ha sottozero a che spartire con il “nichilismo moderno”, ciò va detto a favore di chi vede cose che non ci sono, ma vuol solo affermare che la distanza fra specchio e “ciò” che sullo specchio si riflette non esiste: e questo è il satori. Ma sono cose di cui è impossibile “dire” in quanto qualsiasi dire implica necessariamente la distinzione fra quanto viene riflesso e lo specchio stesso. Cosa che il satori, appunto, per principio, abolisce. Naturalmente, il satori, secondo varie dottrine buddhiste, è solo l’inizio della “liberazione”, non è, insomma, il nirvâna “finale”. Ma, di nuovo, questi son altri discorsi che ci porterebbero ben lontano, solo che è giusto qui citarli per riecheggiare tematiche in vista nell’epoca di Pasolini. [5] Come Giordano Bruno, tra gli altri: “All’interno dei Furori, in effetti, le metafore del ‘simulacro’, dello ‘specchio’, del ‘vestigio’ e ‘dell’ombra’ esprimono l’impossibilità per l’uomo di accedere direttamente alle ‘idee’, alla conoscenza suprema e assoluta, la quale può essere colta solo nel riflesso delle cose naturali, nell’immagine di Diana, nell’universo infinito” (Nuccio Ordine, Tre corone per un re. L’impresa di Enrico III e si suoi misteri, Bompiani RCS Libri, Milano 2015, p. 102, corsivi miei). [6] “Per sintetizzare: la Bellezza creata, che è sì un riflesso di quella increata, richiama un elemento forte di contemplazione. Dio è Somma Bellezza, e, nella Sua Bellezza, annulla ogni dolore, ogni bruttura, perché tale Bellezza non è creata, essa è infinita e parla dell’Infinito: ma son cose che vanno al di là della capacità espressiva delle parole. Questo però, forse, dovrebbero pensare tutti coloro i quali si sentano schiacciati dal lato negativo della vita: che la Bellezza divina è infinitamente oltre ogni dolore o limite umani. Questo perché è oltre il creato. Ogni bellezza creata è per definizione, infatti, limitata, pur portando in sé stessa comunque, nonostante tutto, un elemento d’ineffabile. Quando vediamo un quadro mirabile, per quanto ci diamo a spiegarne il significato, quest’esegesi non ha mai un termine vero, non ha mai fine. Questo significa che un riflesso dell’infinito è in esso”, nota 3 in http://associazione-federicoii.blogspot.it/2014/02/il-salvator-mundi-un-probabile-dipinto.html. [7] Seguendo Guénon, le “profezie” son quelle proprie dei Testi Sacri, il resto son “preveggenze”, vale a dire futuri possibili – non “necessari” – eventualmente prevedibili, appunto, da chi abbia uno sguardo “altro” e più “aperto”, da chi sappia “andar oltre”. Ora, tuttavia, le tendenze che Pasolini vide le percepì a distanza di qualche decennio prima: dunque si trattava di futuri “possibili” ormai all’epoca già così “materializzatisi” da esser divenuti, in pratica, necessari! Che poi Pasolini non fosse l’unico è confermato dal famoso Rapporto del Club di Roma, pubblicato nel 1972! E poi, da tutta quella serie di “Medioevo prossimo venturo” che, anche grazie alla crisi petrolifera dell’anno seguente (il 1973), divenne quasi un “genere letterario” … [8] A tal proposito, cfr. Jean Baudrillard, La sinistra divina, Feltrinelli, Milano 1986, pp. 78-81, frasi - che dovrebbe essere scritto a lettere cubitali sui muri in tante parti – nelle quali Baudrillard tratta delle “due fasi della modernità”, quella in cui si è “civilizzato” le masse e quella, in cui siamo entrati dagli anni Ottanta - e non se n’è ancora fuori -, in cui le masse vengono sovraesposte dopo essere state “iperprotette”. E le masse si son opposte a tutte e due le fasi, aggiungeva sempre illo tempore Baudrillard (ma su questi temi, cfr. http://ideeinoltre.blogspot.it/2014/05/andrea-ianniello-baudrillard-la.html). In ogni caso, metodologicamente parlando, le condizioni storiche si accettano, nessuno le “fa”, come ben sapeva lo stesso Bismarck, di certo un politico di gran successo, eppure se ne rendeva ben conto, cfr. Lothar Gall, Bismarck. L’uomo che ha fatto grande la Germania, Garzanti, Milano 1994, pp. 23-24. [9] Critiche spuntate – “morsi di sdentati”, come li chiamo – han libero corso nei nostri tempi, come, per esempio, questo “neo nazionalismo” che ha in testa l’Europa antecedente alla Prima Guerra Mondiale, o l’uso del “tradizionalismo” come supporto di tale corrente, ovvero quell’uso del “tradizionalismo” cui lo stesso Guénon si oppose illo tempore, questo sì di una “preveggenza” notevole: cfr. René Guénon, Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, Adelphi Edizioni, Milano 1982, cap. 31, “Tradizione e tradizionalismo”. I passi cui qui si è appena fatto riferimento furono scritti negli anni Quaranta del secolo scorso… Tra le altre cose, il testo di Guénon, di qui sopra, lo si può leggere anche online, precisamente al link http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/reneguenon/regnotempi.pdf, e richiederebbe senza dubbio una lunga discussione, che ci porterebbe lontano, ma qui è bene citar questo testo, perché propizia una profonda riflessione su queste questioni, senza contare che lo stesso autore - in Crisi del mondo moderno, Edizioni Mediterranee, Roma 1972 (guarda caso) - metteva in guardia contro i “difensori dell’Occidente”, giudicando che anche “l’invasione degli orientali occidentalizzati”, come li chiamava lui all’epoca (anni Venti del secolo scorso) poteva essere una via d’uscita, la peggiore - ma nondimeno tale, cioè “uscita” - dalla “Crisi del mondo moderno”, e tale posizione dà da pensare, come suol dirsi. Insomma, in due parole, il “tradizionalismo” si allea agli ultimi fuochi della civiltà dei consumi in nome di un “neo nazionalismo” ritrovato. Ma pure qui, il discorso ci porterebbe molto ma molto lontano… [10] Lo sgranato video di Moravia che pronuncia queste parole è attualmente rintracciabile con facilità in Internet su YouTube. [11] E così noi, d’ora in avanti, la useremo. [12] Un ottimo esempio è la sua incursione nell’urbanistica con il documentario La forma della città del 1974, in cui mostra come la perfetta forma architettonica della città medievale di Orte (VT), costruita rispettando l’andamento della collina di tufo sulla
quale risiede, fosse rovinata da costruzioni moderne completamente eterogenee ed esteticamente brutte. Un approccio, appunto, non tecnico ma derivato da una sensibilità poetico-estetica che, pure, risulta inconfutabile. [13] Ci si riferisce ovviamente ai percorsi macroscopici della società, non alla previsione di singoli avvenimenti. [14] Anno in cui esce, creando notevole scalpore, il primo dei suoi film: Accattone. [15] Il motivo di questo interesse risiede nella capacità del cinema di essere “una vera e propria lingua” che lui considera alternativa alla lingua italiana del romanzo scritto, come dice in un’intervista al rotocalco televisivo Primo piano nel 1966, appena terminato Uccellacci e uccellini. Pasolini avrà una tale sintonia con questo mezzo espressivo che finirà per girare più film di quanti romanzi abbia scritto. [16] La Terra di Lavoro (anticamente detta Liburia) era una vasta zona, per lo più coincidente con l’attuale territorio della regione Campania (ma non solo) e, soprattutto, con l’attuale provincia di Caserta, che mantenne questa denominazione dall’alto medioevo fino alla definizione delle nuove province Italiane del 1927. [17] Pier Paolo Pasolini, La Terra di Lavoro, in Le ceneri di Gramsci, Garzanti, Milano 1957, pagg. 100-105. [18] Pasolini, Il Gennariello, in Lettere luterane, Einaudi, Torino 1976, pagg. 15-70. [19] Ma vi è sempre, in Pasolini, anche un immediato parallelismo tra la spontaneità del popolo e l’artificioso stile di vita della borghesia. Infatti, poco sopra le righe citate ecco che specifica: “Ma cosa vuoi farci, preferisco la povertà dei napoletani al benessere della repubblica italiana, preferisco l’ignoranza dei napoletani alle scuole della repubblica italiana, preferisco le scenette, sia pure un po’ naturalistiche, cui si può ancora assistere nei bassi napoletani alle scenette della televisione della repubblica italiana.” Proprio quest’aspetto di spontaneità genuina da parte del popolo sarà uno dei temi sviluppati sottotraccia in Che cosa sono le nuvole?. [20] Auto-definizione presente in Gennariello poche righe sotto quelle già citate. [21] Il testo dei titoli in rima è di Pasolini mentre la melodia è di Ennio Morricone, che ha curato tutte le musiche del film. [22] Il film viene presentato al Festival di Cannes del 1966 e Totò riceve una menzione speciale per la sua interpretazione, unico riconoscimento ottenuto da Totò fuori dall’Italia. Per Uccellacci e uccellini Totò riceve anche il Nastro d’Argento del 1967, il suo secondo, dopo quello del 1957 per Guardie e ladri. Malgrado il centinaio di film realizzati in carriera, questi (insieme alla Targa d’Oro ANICA del 1959) sono gli unici premi riconosciuti a Totò nel cinema. [23] Contrariamente ad altre sue opere, per le quali si spese in molte interviste e commenti, Pasolini non parlò praticamente mai di questi suoi due cortometraggi con Totò, e non possiamo pertanto attingere a suoi diretti spunti o interpretazioni. Come testimonia Laura Betti: “È difficile spiegare la grazia che regnava sul set di questi episodi. Penso che molto fosse dovuto al rapporto fra Pier Paolo e Totò, pervaso di rispettosa ironia e reciproca gratitudine. E non ho mai capito perché sia La Terra vista dalla Luna che Che cosa sono le nuvole?, che oggi sono considerati dei capolavori, all’epoca furono perfettamente ignorati. Nessuno se ne accorse. Non un solo critico. E neppure Pier Paolo, che non ne parlò più.” – Le regole di un’illusione, Fondo Pier Paolo Pasolini - Roma, 1991, pag. 154 [24] Gli altri episodi sono realizzati da Rosi, Bolognini, Visconti e De Sica. [25] Notevole il cartello posto come titolo: “Visto dalla luna, questo film che si intitola appunto ‘La terra vista dalla luna’, non è niente e non è stato fatto da nessuno… ma poiché siamo sulla Terra, sarà bene informare che si tratta di una fiaba scritta e diretta da un certo Pier Paolo Pasolini.” [26] Ne parliamo più diffusamente in una nota del capitolo “La seconda nascita”. [27] Questa circostanza è una grande fortuna, perché l’aver girato in studio ha permesso l’utilizzo dell’audio in presa diretta. A quei tempi, la tecnologia per la cattura delle battute pronunciate dagli attori in esterno non produceva risultati ottimali, e spesso i film venivano poi doppiati in studio, modalità che determinava la perdita della qualità della performance dal vivo dell’attore. Qui, invece, abbiamo la voce degli attori registrata mentre recitano la scena, e questo è particolarmente importante per Totò, per il motivo che vediamo nel paragrafo seguente. [28] Curiosamente, si tratta della scena di un funerale. [29] Da Pedro Calderón de la Barca, drammaturgo spagnolo del XVII secolo, autore del famoso dramma La vita è sogno (1635). [30] Pier Paolo Pasolini, Manifesto per un nuovo teatro, pubblicato in “Rivista Nuovi Argomenti”, n. 9, gennaio-marzo 1968. Ristampato in: Pier Paolo Pasolini, Teatro, Garzanti, Milano 2010, Vol. 2, pagg. 368-387. [31] Sono ascrivibili a questa tipologia le realtà del teatro di ricerca che ebbero una vastissima eco negli anni Sessanta, e anche molta fortuna artistica divenendo in seguito capisaldi dell’arte teatrale del novecento. Tra questi, il Teatr Laboratorium di Grotowski in Polonia, l’Odin Teatret di Barba in Danimarca e il Living Theatre di Beck e Malina negli Stati Uniti. È curioso notare che Pasolini volle proprio Julian Beck del Living nel suo Edipo Re uscito l’anno precedente a questo Manifesto. [32] Pier Paolo Pasolini, Manifesto per un nuovo teatro, op.cit., comma 15. [33] Oliviero Ponte di Pino, Il mio Pasolini: una conversazione con Luca Ronconi, pubblicato sulla rivista “Hystrio”, n.3, 2005. Attualmente reperibile online al link: http://videotecapasolini.blogspot.it/2015/02/il-mio-pasolini-una-conversazione-con.html. [34] Totò è famoso per i numerosissimi film, ma non va dimenticato che esordì nel cinema nel 1937, a 39 anni, e che l’attività filmica divenne una costante solo dopo la guerra, a partire dal 1947, quando di anni ne aveva ben 49! Tutta la sua precedente carriera si svolse sul palcoscenico del teatro. [35] Tutti i dialoghi qui riportati sono trascrizioni fedeli dall’audio del film e possono discostarsi dalla sceneggiatura originale, che è stata pubblicata in seguito (vedi note successive). [36] Abbiamo intenzionalmente riutilizzato la stessa espressione usata quando abbiamo parlato della domanda insita nel titolo (vedi sopra).
[37] Pier Paolo Pasolini, Per il cinema, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2001, pagg. 935-966, da cui trarremo tutte le citazioni dalla sceneggiatura originale. [38] Pier Paolo Pasolini, Teatro, Garzanti, Milano 2010, Vol. 1, pag. 49. [39] Ibid., pagg. 52-55. [40] Più precisamente, Totò e gli altri attori impersonano marionette che, a loro volta, interpretano i personaggi dell’opera di Shakespeare perché ne sono fatti a immagine e somiglianza – questa precisazione è molto importante, come vedremo in seguito. [41] Vi sono infine Carlo Pisacane (Brabanzio) e Adriana Asti (Bianca), ma hanno solo una fugace apparizione. Tra le nonmarionette, come detto, Francesco Leonetti è il marionettista, e Domenico Modugno l’immondezzaro. E poi ci sono, naturalmente, gli spettatori. [42] Demiurgo, del resto, significa artigiano. [43] Bisogna qui ricordarsi della tela dentro il quadro di Velasquez che avevamo assimilato, appunto, a una quinta teatrale. [44] Il sovvertimento di tale gerarchia sarà usato da Pasolini per la metafora politica contenuta in quest’opera. [45] Espressione squisitamente tolkieniana. Si può del resto fare tranquillamente un parallelo con la letteratura pensando allo scrittore come marionettista e al lettore come spettatore, con i personaggi chiamati a esistere nelle pagine del libro in cui la storia viene narrata. [46] Classica espressione del teatro di Pirandello. [47] Quando ci troviamo dietro le quinte, dovremmo sempre dire la-marionetta-che-interpreta-Otello e la-marionetta-cheinterpreta-Jago, proprio perché, in questo mondo, la maschera del personaggio formalmente cade e ci troviamo piuttosto di fronte all’attore. Diamo per scontata questa differenza ogni volta che si parla del dietro le quinte. [48] Cfr. René Guénon, Il simbolismo del teatro, cap. XXVIII, in Considerazioni sull’iniziazione, Luni Editrice, Milano 1996, pagg. 224-228. [49] “Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni”, dice Prospero. [50] Edgar Allan Poe, A dream within a dream, 1849. Curiosamente la frase, che viene ripetuta due volte a mo’ di ritornello, appare una prima volta in forma affermativa e la seconda come domanda, proprio come è una domanda il titolo del film. [51] Fernando Pessoa, Faust, Einaudi, Torino 1991, pag. 75 [52] Ramana Mararshi, 1879-1950, saggio indiano dell’Advaita Vedānta, risvegliatosi adolescente alla consapevolezza dell’Essere, si ritirò per tutta la vita alle pendici del monte Arunachala, nel sud-est dell’India, adottando il silenzio come principale mezzo di trasmissione della consapevolezza. Diventa noto in Occidente grazie al libro dell’Inglese Paul Brunton (India segreta, 1934), in cui è descritto il suo incontro con Ramana Maharshi. [53] Discorsi con Ramana Maharshi, Ediz. Vidyananda, Roma 2002, vol. 2, pag. 151. [54] Cfr. il film Inception di Christopher Nolan, 2010. [55] Eugenio Montale, Ossi di seppia, Piero Gobetti Edizioni, Torino 1925. [56] Ovvero quel breve arco temporale che è la durata della rappresentazione, la quale esprime, dal punto di vista del personaggio, l’estensione della sua vita intera. [57] Perché è impossibile dubitare di star dubitando. [58] Con una suggestione basata sul meccanismo a matrioska della metafora del film, potremmo domandarci se non esista un dietro le quinte anche per il marionettista, nel suo ordine di esistenza. [59] Grazie al potenziale di suggestione del mondo della rappresentazione. [60] Se facessimo riferimento a ciò che possiamo mutuare dalla realtà che conosciamo, dovremmo concludere che il marionettista, terminato lo spettacolo, uscirà dal teatro e andrà tranquillamente a casa sua. Ma se consideriamo un film, ovvero qualsiasi opera d’arte, la generazione e l’espressione di un mondo in sé conchiuso, dovremmo piuttosto attenerci a ciò che vi è mostrato, o la nostra pretesa di conoscere come stanno veramente le cose ci porterebbe a diluire la potenza dirompente dell’opera con il nostro supposto buon senso della quotidianità. [61] Ma qui solo in quanto cosa io penso di me. [62] Pasolini aveva girato Il vangelo secondo Matteo nel 1964. [63] Una comprensione interiore non risponde alla logica dialogica razionale, ma procede piuttosto per salti, ovvero per cambi di stato. È perciò qualcosa di più rapportabile con il processo alchemico detto solve et coagula. [64] Sono queste le facoltà comunemente associate al cuore nell’immaginario collettivo (e nella pubblicità!). [65] La pancia… quella che già abbiamo detto muovere il popolo dal basso, come vedremo nuovamente tra poco. [66] Ed è precisamente la sede legata al verificarsi di una seconda nascita. Cfr. René Guénon, Il Cuore e l’Uovo del Mondo, in Simboli della Scienza sacra, cap. 32, Adelphi, Milano 1994, pagg. 193-195. [67] In una famosa intervista giunse a dire che avrebbe desiderato circondarsi di persone che avessero fatto al massimo la quarta elementare.
[68] Questo per Pasolini è tutt’altro che un segno di arretratezza. Anzi, dovrebbe essere il modo normale di stare al mondo. L’inculturazione borghese determina proprio un distacco da quest’istintività, che per Pasolini è tutt’uno con l’attributo umano. [69] Solo noi spettatori del film sappiamo che Otello e Jago, in quanto marionette che interpretano un ruolo, in realtà non sono affatto cattivi. Ma lo sappiamo perché abbiamo accesso al luogo nascosto che è il dietro le quinte. Il popolo della platea soggiace, come detto, all’illusione di considerare reale ciò che vede sul palco e, pertanto, la loro apparente giustizia colpisce senza la luce di un più profondo discernimento. [70] Se si ricorda che la marionetta è creazione storicamente più recente del burattino, si tratta perciò di un simbolico ritorno alle origini. Ecco perché facevamo notare nel capitolo 6 la provenienza più popolare dell’arte dei burattini rispetto alle marionette. [71] E lì confinata, almeno per quello che si vede in questo film. [72] Che, ricordiamolo, si intitola Che cosa sono le nuvole?, proprio come il film. E un film ha la proprietà di riprodursi sempre identico a ogni sua proiezione, analoga alla replica in teatro. Il che ci porta alla terza ipotesi, più avanti. [73] E questo è certamente aderente alla percezione che ogni essere individuale ha di sé nel grado di realtà di cui ha coscienza. [74] Adempiendo, così, al suo proprio destino di eterno creatore. [75] Il marionettista sarebbe qui più simbolicamente assimilabile alla Trimūrti indù, che crea-preserva-distrugge in continuazione. [76] Ovvero il perenne ciclo di nascita e morte che si ripete finché un essere non riesca a sfuggirvi. L’analogia si ferma qui perché non va dimenticato che i cicli non si ripetono mai identici tra loro. [77] Nel senso che questo dettaglio potrebbe anche benissimo essere dovuto a un errore nella ripresa o nel montaggio… Fosse anche questa la ragione, non cambierebbe il fatto che questo dettaglio nel film è presente. [78] Nuovo giro, sì, ma non identico: se l’inquadratura e l’azione di Modugno è sovrapponibile alla prima, il brano di canzone che egli canta è differente. Anche tradizionalmente il ritorno nel ciclo delle rinascite non può svolgersi in modalità identiche alle precedenti, come già accennato nella nota più sopra. [79] La prima parte del film è quella che risulta più tagliata rispetto alla sceneggiatura originale. [80] È interessante notare come l’immondezzaro, per spostarsi dal retro del suo furgone (che sta sulla soglia, a cavallo tra il dentro del mondo chiuso del teatro e il fuori) al posto di guida, debba schiacciarsi e passare rasente tra l’arco del portone e il fianco del suo mezzo. Il passaggio è angusto, e viene alla mente la “porta stretta” per la quale Gesù invita a passare (Mt 7:13), contrapposta a quella larga, da cui passano in molti e che conduce alla perdizione. Solo che Gesù, nel brano evangelico, dice di entrare per la porta stretta, non di uscire: ecco un indizio per cui questo viaggio non è un’uscita di scena (come appare) ma un nuovo ingresso. [81] William Shakespeare, Otello, atto terzo, scena terza. Traduzione nostra. [82] Ibid., atto primo, scena terza. Traduzione nostra. [83] Si tratta di un pescecane nel testo di Collodi, poi passato nell’immaginario come balena. Il transito nel ventre della balena è anche un episodio biblico, e riguarda Giona che inizia la sua missione profetica proprio a seguito di questo evento. [84] Inteso come percorso di esaurimento delle possibilità residue di un determinato grado di esistenza, per cui è possibile trasmigrare al successivo. [85] È il così detto effetto Venere, in quanto presente in diversi quadri raffiguranti Venere che si specchia, che è utilizzato anche nel cinema per mostrare personaggi che si specchiano inquadrando lo specchio: l’attore mentre recita non vede sé stesso nello specchio, ma la cinepresa. [86] Cfr. René Guénon, Il Demiurgo, in Il Demiurgo e altri saggi, Adelphi, Milano 2007, pagg. 21-43. [87] W.A. Mozart, Quarto movimento dal Quintetto per Archi in Sol minore, K 516. [88] Da questo punto di vista, Che cosa sono le nuvole? avrebbe potuto benissimo intitolarsi Che cos’è la morte?. Ricordiamo il cartello conclusivo del corto precedente, La Terra vista dalla Luna (sempre con Totò e Davoli) che recita: “Essere morti o essere vivi è la stessa cosa”. [89] A questo riguardo, c’è un collegamento molto interessante da fare con l’ultimo abbozzo di film che Pasolini produsse nell’anno della sua morte, ovvero un film in cui sarebbe stato protagonista Eduardo De Filippo (un altro napoletano!) con Ninetto Davoli, dal titolo provvisorio “Porno-Teo-Kolossal”. Nella vicenda, appena abbozzata, dopo un lungo viaggio per seguire una stella cometa, i due personaggi muoiono per rinascere subito dopo in forma eterea e salire lungo una strada che porta nei Cieli. Lassù non trovano un “Paradiso”, ma riescono finalmente a percepire il globo terrestre come un tutto e a guardarlo, per la prima volta, “con simpatia.” Come scrive Pasolini in questa sceneggiatura rimasta incompiuta, per il personaggio che avrebbe interpretato Eduardo: “è stata una illusione quella che l’ha guidato attraverso il mondo – ma è stata quell’illusione che, del mondo, gli ha fatto conoscere la realtà…”. La concordanza con il percorso tracciato in Che cosa sono le nuvole? è degna di nota. (Citazioni tratte da: Pasolini per il cinema, op. cit., pagg. 2695-2753.) [90] Nella sceneggiatura originale del film, Pasolini scrive in didascalia che questa frase va detta in “comica estasi”. La cosa è curiosa: non c’è il minimo accenno comico nella realizzazione finale. Quell’accenno all’intenzione di virare questa battuta in chiave comica sembra quasi un pudore sopravvenuto in fase di scrittura, forse per il timore di un’eccessiva seriosità del finale che, invece, non ha avuto affatto bisogno di una chiave comica, tanto risulta compiuto nell’espressione di una condizione di pura beatitudine dei personaggi. [91] “1966: È la Francia, e non l’Italia, a dedicare a Pasolini il primo, importante ritratto in forma di film-intervista per la prestigiosa serie ‘Cinéastes de notre temps’, che include già Luis Buñuel, Fritz Lang, Robert Bresson, Jean Vigo, Max Ophüls, e altri. Il titolo è ‘Pasolini l’engragé’ con la regia di Jean-André Fieschi.” – da: Pier Paolo Pasolini, Bestemmia, a cura di Guido Harari e Graziella Chiarcossi, Chiarelettere, Milano 2015, pag. 107.
[92] Questo passaggio è all’interno di una delle più lucide e anticipatrici analisi mai state fatte della TV come anti-democratico medium di massa – e siamo nel 1971! [93] Questo è un discorso che porterebbe molto lontano, ed è fuori dagli scopi del presente studio. Basti dire che è opportuno (e salutare) distinguere tra le vie che mirano a consolidare l’individualità e quelle che hanno come esito il trascenderla. [94] In La ricotta il personaggio di Orson Welles, interrogato su che opinione avesse di Fellini, risponde: “Egli danza”. Come si vede, in nessun caso Pasolini definisce l’artista come colui che pensa. Ed è un passaggio ancora più significativo sapendo che, nella sceneggiatura originale, la domanda non era incentrata su Fellini, ma sullo stesso Pasolini.