135 35 1MB
Italian Pages 144 [143] Year 2010
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CIAK SI SCRIVE / I PROTAGONISTI a cura di Simone Isola e Luca Lardieri
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Matteo Botrugno
PARK CHAN-WOOK Il poeta della vendetta
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Grafica di copertina a cura di Elisa Serra Realizzazione grafica Billy Corgan © 2010 SOVERA MULTIMEDIA s.r.l. Via Vincenzo Brunacci 55/55A - 00146 Roma Tel. (06) 5585265 – 5562429 www.soveraedizioni.it e-mail: [email protected] I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i paesi.
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Indice
Guida alla lettura
9
Capitolo primo Schizzi
11
Capitolo secondo Primi passi
19
Capitolo terzo Corpo mente e spirito. La trilogia della Vendetta
41
Capitolo quarto Lucida follia
62
Capitolo quinto Sete di sangue
76
Capitolo sesto Le sceneggiature
91
Capitolo settimo Luci, ombre, suoni. Lo stile di Park Chan-Wook
101
Capitolo ottavo L’occhio di Park. La macchina da presa come penna stilografica
120
Ringraziamenti Filmografia
135 136
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A Michele, alle nostre battaglie
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Guida alla lettura
Non esistendo un sistema unico di trascrizione della lingua coreana in caratteri latini, l’autore ha optato per inserire titoli di film e nomi di membri di cast e crew adottando il sistema di traslitterazione utilizzato anche dal sito IMDB.com, punto di riferimento per la compilazione dei credits non solo dei film di Park, ma anche degli altri film coreani citati nel saggio. Nel corpo del testo sono stati inseriti i titoli internazionali, prevalentemente in inglese, di tutte le pellicole coreane citate. Nelle note, invece, è stata inserita anche la traslitterazione in caratteri latini. Solamente per i film di Park Chan-Wook l’autore ha optato per inserire anche il titolo del film in lingua coreana e di inserire le opere del regista alla fine del saggio nel capitolo dedicato alla filmografia. Nel libro sono stati citati anche altri film, sia di produzione orientale che europea e statunitense. In questo caso, se le opere in questione hanno avuto una distribuzione italiana, si è optato per inserire il titolo italiano nel corpo del testo e il titolo originale nelle note. Per quanto riguarda tutti i lavori che non hanno avuto una distribuzione in Italia (o che magari l’hanno avuta ma che sono comunque di difficile reperibilità) si è adottato lo stesso sistema utilizzato per i film coreani. Buona lettura.
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Capitolo primo
Schizzi
“Old Boy è il film che avrei voluto fare io!”. Con queste parole Quentin Tarantino esalta il lavoro che ha consacrato a livello internazionale il regista coreano Park Chan-Wook. Tarantino, presidente della giuria al Festival di Cannes nel 2004, ha premuto affinché il film in questione si aggiudicasse il Premio della Giuria. Nel marasma di un giornalismo troppo attento a trovare parallelismi fra Kill Bill Volume 1 e Kill Bill Volume 21 e il lavoro di Park, si innesta quella parte della critica che legittima l’importanza fondamentale di un’opera collocabile fra i blockbusters e, allo stesso tempo, analizzabile come un vero e proprio film d’autore. La vendetta secondo Park Chan-Wook ha risvolti completamente diversi da quella tarantiniana. In particolare Old Boy, secondo capitolo della Trilogia della Vendetta, manifesta la scelta di porre il desiderio di riscatto in modo viscerale e lontano anni luce dal seppur divertente e affascinante Kill Bill. La vendetta diviene la conditio sine qua non affinché la brutalità di una giustizia estremamente personale, insita in ogni essere umano, scatti e si riveli nella sua forma più oscura, primordiale e violenta. Tarantino affronta la violenza in maniera talmente esasperata da trasformarla quasi in un gioco; Park, invece, scava nei meandri oscuri di anime in pena e, ora cinicamente, ora ironicamente, dipinge con pennellate raffinate ciò che l’essere umano tende a reprimere e a tenere sepolto. Tarantino gioca non solo con la violenza, estremizzandola ed esorcizzandola allo stesso tempo, ma anche con il 1 Kill Bill Volume 1 e Kill Bill Volume 2 (Id., USA 2003-2004) di Quentin Tarantino, con Uma Thurman, David Carradine, Daryl Hannah, Michael Madsen, Lucy Liu, Sonny Chiba, Julie Dreyfus, Chiaki Kuriyama, Kazuki Kitamura.
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cinema, tramite astuti giochi di citazioni e mescolanze di stili spesso molto differenti fra loro. Park, per quanto sia da considerare come un regista quanto mai eclettico e debitore del cinema di genere, come il thriller ed il noir ad esempio, riesce a raggiungere un livello creativo originale che stravolge i generi cinematografici propriamente detti. La violenza non diviene più semplicemente una scelta estetica. In Tarantino la violenza viene mostrata senza alcun tipo di freno proprio per sortire l’effetto contrario al ribrezzo, per divertire lo spettatore, già ampiamente abituato ad immagini crude mostrate in televisione o sul web. Il pensiero di Park è estremamente differente: la violenza non è più qualcosa da mostrare per divertire, ma proprio per raccapricciare e, più che puntare sullo splatter e sui tipici eccessi visivi di marchio tarantiniano, il cineasta coreano preferisce disseppellire quella violenza repressa e nascosta, di cui il regista stesso, personaggio mite e pacato (a differenza di come potrebbe sembrare vedendo i suoi film), subisce il fascino morboso e allo stesso tempo inquietante. “Molte volte rimango sveglio nel letto immaginando le torture più crudeli. Mi figuro il modo più terribile di rovinare la vita di questa o quella persona. Dopodiché posso addormentarmi col sorriso sulle labbra. Fino a che rimane confinata nel territorio dell’immaginazione – più è crudele, più è efficace – la cosa è salutare. La raccomando anche a tutti voi. E spero che i miei film possano in qualche modo aiutare la vostra fantasia a diventare almeno un filo più crudele.”2 Il pensiero di Park, più che avvicinarsi al compiacimento tarantiniano, è orientato ad una visione della violenza come forma di liberazione interiore e di riflessione sulla serenità partendo dal suo stesso opposto. Da questo punto di vista l’aspetto della violenza è da osservare il più possibile da un’ottica tutta orientale. La forza espressiva di un regista come Takeshi Kitano è il frutto di una riflessione sulla violenza, apparentemente immotivata, vista come espressione di un sentimento di repressione che prima o poi dovrà manifestarsi in tutta la sua potenza. Anche Takashi Miike, con il suo Visitor Q3 si è allontanato da quell’estremismo, in bilico fra splatter e fumetto, che da sempre è il suo marchio di fabbrica, ricercando quella 2
http://www.parkchanwook.org/biografia.php Visitor Q (Bijitâ Q, Giappone, 2001) di Takashi Miike, con Endo Kenichi, Uchida Shungiku, Watanabe Kazushi, Nakahara Shôko, Fujiko, Mutô Jun, Suzuki Ikko. 3
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violenza sublime e morbosa celata all’interno dei membri di una famiglia sui generis. Tornando al cinema sud-coreano, un autore come Jang Sun-Woo con Lies4, storia di un uomo e di una teenager legati da un morboso rapporto sadomaso, ha raccontato un’escalation di violenza esagerata, vista in una paradossale chiave romantica, in cui i due personaggi si scavano dentro l’un l’altra fino a trovare, tramite le reciproche percosse, l’essenza stessa dei loro corpi e delle loro emozioni. L’amore e la violenza vanno a braccetto nel cinema coreano. In The isle5, Kim Ki-Duk adotta proprio l’escamotage degli ami nella gola e nella vagina dei due protagonisti affinché uomo e donna si trovino e riescano, anche solo per un attimo, a scrollarsi di dosso la schiacciante solitudine che li opprime. I temi della violenza e della vendetta verranno comunque analizzati in maniera più approfondita nel capitolo dedicato alla Trilogia della Vendetta. Park Chan-Wook è spesso annoverato non solo tra i registi coreani più inclini al “mostruoso”, ma spesso viene inserito in un contesto di cinema di genere (horror, nel caso della Trilogia) che non gli appartiene assolutamente. Il cinema horror viene solamente sfiorato da un regista che, effettivamente, non ha mai diretto ad oggi nessun film di questo genere, con la sola esclusione di Cut in Three… extremes, la cui estetica sembra essere debitrice al cinema horror, e di Bakjwi (Thirst), uscito nel 2009; le sue tematiche sono infatti ben lontane da film di genere di grande successo come l’ottimo A tale of two sisters6 di Kim Ji-Woon. Il cinema di Park non è riconducibile entro i confini di nessun tipo. Come nel caso dei registi citati in precedenza il genere diviene solo lo spunto per raccontare una storia a livello prettamente personale, oltre a divenire una sorta di espediente, di maschera, che crea il piacevole inganno in cui cadono spettatori e critici che tentano di focalizzare la propria attenzione sull’apparenza, più che sui contenuti. Lo stesso cineasta coreano ha dichiarato: “Quando un giorno sarò morto e anche oltre, quando si parlerà di che tipo 4 Lies (Gojitmal, Corea del Sud, 1999) di Jang Sun-Woo, con Lee Sang-Hyun, Kim Tae-Yeon, Jeon Hye-Jin, Choi Hyun-Joo, Han Kwon-Taek, Kwon Hyuk-Poong, Jung Myung-Keum, Shin Min-Soo, Cho Young-Sun, Ahn Mi-Kyung. 5 The isle (Seom, Corea del Sud, 2000) di Kim Ki-Duk, con Suh Jung, Kim Yoo-suk, Park Sung-hee, Jo Jae-hyeon, Jang Hang-Seon, Kim Yeo-jin, Seo Won. 6 A tale of two sisters (Janghwa, Hongryeon, Corea del Sud, 2003) di Kim Ji-Woon, con Kim Kap-su, Yum Jung-ah, Lim Su-jeong, Mun Geun-yeong, Lee Seung-bi.
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di regista sono, mi piacerebbe si dicesse che ho fatto film di diversi stili ma non che sono mai caduto in basso con lavori mediocri”7. Il pensiero di Park la dice lunga sul suo modo di intendere il cinema. Genere e forme possono essere differenti, così come il messaggio: la ricerca artistica prende dunque il sopravvento sul perseguimento di mere esigenze di stile. L’insofferenza di Park verso le etichette diviene evidente nel momento in cui una certa fetta della critica tende ad inserirlo in un contesto di cinema autoriale, di certo non disprezzabile ma di sicuro fortemente limitante per un regista tanto eclettico ed aperto al cinema commerciale. “Io non penso che nei miei film ci sia uno stile consistente”8 afferma Park con una certa modestia. Il suo lavoro è come quello di un direttore d’orchestra che non tiene in mano nessuno strumento ma senza il quale non sarebbe possibile alcuna esecuzione. Il merito della buona riuscita di un film è da una parte frutto degli sforzi del regista-direttore ma, dall’altra, Park tiene a specificare il fondamentale contributo degli attori, lasciati il più possibile liberi di interpretare il personaggio con naturalezza per evitare perdite di intensità e di espressività, e ai quali devono essere imposte meno limitazioni possibili; non meno importanti i preziosi consigli dei membri della troupe, le cui idee spesso possono integrarsi a perfezione con il lavoro del regista. Park, conosciuto in gran parte per la Trilogia della Vendetta, ha diretto e sceneggiato lavori spesso molto differenti fra di loro. La consacrazione in patria è senza dubbio avvenuta nel 2000 con Gongdong gyeongbi guyeok – JSA (JSA: Joint Security Area), sull’onda dell’interesse suscitato dal cortometraggio Simpan (Judgement) del ’99. Forse non molti sanno che prima dei due lavori appena citati il regista ha diretto due pellicole, poco prese in considerazione dalla critica e dal pubblico ma fondamentali per capire il processo evolutivo della tecnica e degli stili adottati da Park: il primo è Daleun... haega kuneun kum (Moon… is the sun’s dream) (1993), l’altro Saminjo (Trio) del ’97. Passati entrambi quasi totalmente inosservati in patria, i due film verranno analizzati nel capitolo successivo. L’attività di Park come sceneggiatore non si è limitata esclusivamente ai film che ha diretto. Anakiseuteu (Anarchists) di Yu Yong-Sik e The Humanist di Lee Mu-Yeong sono solo i primi due lavori in cui Park ha spe7 8
http://www.cinemacoreano.it/interviste/park_chan_wook.htm Ivi.
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rimentato una scrittura differente rispetto ai film da lui diretti fino a quel momento, e per certi aspetti possono essere l’anticamera di certe tematiche affrontate con l’avvento del nuovo millennio. Il carattere eclettico e libero dell’opera di Park è sicuramente ravvisabile in Saibogujiman kwenchana (I’m a cyborg… but that’s OK) (2006), opera spiazzante (soprattutto se consideriamo che segue, a livello cronologico, il trittico sulla vendetta) e, in qualche modo, debitrice delle commedie surreali sceneggiate dal regista in precedenza, come Cheoleobtneun anaewa paramanjanhan nampyeon geurigo taekwon sonyeo (Teakwon girl) di Lee MuYeong (2002) e del più recente Sonyeon, Cheonguk-e gada (A boy who went to heaven) di Yun Tae-yeong (2005). I’m a cyborg… but that’s OK, malgrado abbia fatto storcere il naso ad una grossa fetta di pubblico e critica per la sua estetica barocca e per il suo carattere allucinato e grottesco, è da considerarsi come la scelta coraggiosa di un regista che non impone a se stesso alcuna limitazione e che continua a ricercare e a stupire. Non c’è da meravigliarsi che Park abbia intrapreso una strada differente dopo l’estenuante lavoro della Trilogia. Gli echi del melodramma, genere particolarmente affrontato dal nuovo cinema coreano (in primis in My sassy girl9 di Kwak Jae-Young), e uno sguardo romantico si mescolano alle tematiche della follia e ad un’improbabile fantascienza, creando una mescolanza di generi assolutamente affascinante, ben distante da Il favoloso mondo di Amelie10, a cui spesso è stato accostato. Park Chan-Wook nasce a Seul il 23 agosto 1963 da una famiglia cattolica e borghese. L’estrazione sociale influirà non solo sulla scelta della sua carriera, ma anche sul suo modo di fare cinema. “Le mie scelte cinematografiche non sono dettate da forti esperienze di vita”, afferma il regista “una vita tranquilla, senza grosse difficoltà, quasi noiosa e senza stimoli, si potrebbe dire che fossi destinato ad un cinema raffinato, aristocratico, invece… l’eccentricità dei miei film non ha alcuna relazione con il mio vissuto, 9 My sassy girl (Yeopgijeogin geunyeo, Corea del Sud, 2001) di Kwak Jae-Young, con Cha Tae-hyun, Jun Ji-hyun, Han Jin-hie, Hyun Sook-hee, Kim Il-woo, Kim In-mun, Kim Tae-hyeon, Lee Mu-yeong, Lim Ho, Seo Dong-won, Song Wok-suk. 10 Il favoloso mondo di Amelie (Le Fabuleux destin d’Amélie Poulain, Francia, 2000) di JeanPierre Jeunet, con Audrey Tautou, Mathieu Kassovitz, Rufus, Yolande Moreau, Artus de Penguern, Urbain Cancelier, Dominique Pinon, Claude Perron, Maurice Bénichou, Isabelle Nanty, Clothilde Mollet, Claire Maurier, Jamel Debbouze.
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ciò che piace ha poco a che fare con ciò che si è”11. Park dichiara in diverse interviste di aver avuto una vita normale e che il suo cinema è frutto non solo di una sua propensione verso ciò che lo affascina ma anche, e soprattutto, verso ciò che lo spaventa di più, verso quel primordiale istinto di cui si parlava in precedenza. Park sembra individuare due fattori che opprimono (e reprimono) la società coreana da cui lui stesso proviene: da una parte quarant’anni di dittatura (per le prime elezioni che portarono ad un presidente non proveniente dall’esercito bisognerà aspettare il 1993 con l’ascesa del presidente Kim Young-Sam) e, dall’altra, una religiosità spesso tendente al fanatismo. Se la dittatura militare comportò da una parte un’ascesa economica non indifferente, dall’altra portò nella Corea del Sud censura, repressione ed un certo isolamento culturale. La religione cattolica d’altro canto, ponendo le sue stesse basi sul peccato, sul senso di colpa e sulla ricerca di espiazione, non può non influenzare una società spesso soffocata dalla sua stessa rabbia. Un ritratto lucido e impietoso del fanatismo religioso in Corea, specialmente in zone di provincia, è sicuramente Secret sunshine12 di Lee Chang-Dong, autore che già con lo splendido Oasis13, storia dell’amore fra un uomo pluri-pregiudicato con lieve ritardo mentale e una ragazza con forte handicap fisico, aveva lanciato una forte accusa contro il facile pietismo e contro un certo buonismo di radice cristiano-cattolica. Park decide di iscriversi alla Facoltà di estetica dell’Università di Seul ma non viene ammesso e così ripiega sull’Università cattolica di Sogang, roccaforte della filosofia analitica e, per questa ragione, ambiente non particolarmente stimolante per il futuro cineasta. La scelta di intraprendere la carriera cinematografica risale comunque agli anni del liceo quando, un po’ per gioco un po’ per sfida, affermò, dopo la visione di La donna che visse due volte14 di Alfred Hitchcock, che il suo mestiere sarebbe stato sicuramen11
Intervista. Cinema del silenzio. http://www.cinemadelsilenzio.it/index.php?mod=interview&id=657 12 Secret sunshine (Milyang, Corea del Sud, 2007) di Lee Chang-Dong, con Jeon Do-Yeon, Song Kang-Ho, Jo Yeong-Jin, Kim Mi-Kyung, Kim Yeong-Jae, Ko Seo-Hie, Park Myeong-Shin, Song Mi-Rim, Seon Jeong-Yeob. 13 Oasis (Id., Corea del Sud, 2002) di Lee Chang-Dong, con Sol Kyung-Gu, Moon So-Ri, Ahn Nae-Sang, Ryoo Seung-Wan, Chu Kwi-Jung, Kim Jin-Gu, Son Byung-Ho, Yun Ga-Hyun, Park Myeong-Shin, Park Kyung-Geun. 14 La donna che visse due volte (Vertigo, USA, 1958) di Alfred Hitchcock, con James Stewart, Kim Novak, Barbara Bel Geddes, Tom Helmore.
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te il regista. Non c’è da meravigliarsi di questo colpo di fulmine. Il film del grande maestro inglese raccoglie in sé tutti quegli aspetti che avrebbero influenzato il cinema di Park: onirismo, tensione e violenza raccolti in una pellicola di grande stile e annoverabile sicuramente fra i film “sempreverdi”. Un’ulteriore folgorazione avvenne dopo la visione de Il corridoio della paura15 di Samuel Fuller. L’ospedale psichiatrico dentro il quale un giornalista impazzisce, nel tentativo di trovare il colpevole dell’omicidio di un degente, diviene lo specchio dell’immaginario di Park, affascinato ed ossessionato allo stesso tempo dalle prigioni, dalle reclusioni forzate e dalla “follia” che si nasconde dietro l’apparente “normalità” di ogni essere umano. Deciso ad intraprendere la carriera cinematografica inizia a lavorare, dopo il diploma, nel team di produzione del film Ggamdong16 di Yun Yeong-Jin e nel frattempo inizia a coltivare i rapporti con il regista Kwak Jae-Yong, lavorando come aiuto regista al suo primo lungometraggio, A watercolor painting on a rainy day17, nel 1989. L’anno dopo si sposò ed iniziò a lavorare in produzione per guadagnare i soldi necessari per il sostentamento della sua famiglia. Pur non trascurando l’attività di critico cinematografico, Park si dedicò a qualsiasi tipo di mansione, dalle traduzioni al design di poster e locandine, dall’organizzazione di prime ed eventi alla gestione di materiale stampa di film altrui, finché non giunse l’opportunità per il suo sfortunato esordio, The moon is the sun’s dream. Pur studiando ed analizzando vizi e virtù della propria società, Park Chan-Wook non parla un linguaggio politico come molti altri suoi colleghi (Park Kwang-Su e Im Sang-So in primis), ma cerca di identificare nel singolo individuo il male che affligge la sua società. Il cineasta, membro del Partito Laburista-Democratico, non nasconde il suo interesse per la politica né le sue simpatie: “Io non sono un Ken Loach”, afferma Park, “non ho per niente intenzione di porre critiche a persone di questo tipo, ma se da una parte ci sono loro, dall’altra può sembrare che i miei film e la mia appartenenza al Partito Laburista-democratico siano due cose ben distinte... Io non arrivo a pensare a una divisione fra i miei film e la mia inclinazione politi15 Il corridoio della paura (Shock corridor, USA, 1963) di Samuel Fuller, con Hari Rhodes, Philip Ahn, James Best, Peter Breck, John Mathews, Chuck Roberson, Constance Towers, Larry Tucker. 16 Ggamdong (Id., Corea del Sud, 1988) di Yun Yeong-Jin, con Lee Bo-Hee, Lee Eun-Seong. 17 A watercolor painting on a rainy day (Corea del Sud, 1989) di Kwak Jae-Yong.
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ca, ma non voglio neanche mostrare il mio privato”18. L’arte cinematografica diviene quindi un mezzo per parlare dell’uomo e non di politica: essa non è altro che un paletto, una limitazione auto-imposta dall’uomo stesso. L’interesse di Park va oltre i pensieri precostituiti. I viaggi nell’inconscio, la rabbia e la violenza represse, la causa e l’effetto, i delicati giochi del destino: questi sono i leitmotiv del geniale direttore d’orchestra omaggiato in questo libro. I saggi che seguiranno, sono solo i primi passi di uno studio necessario e sistematico delle opere di un autore all’interno del cinema del suo paese e del suo tempo. Su Park c’è ancora molto da dire non solo per quanto riguarda i primi lavori, in gran parte sottovalutati, ma anche per quanto concerne le ultime produzioni, soprattutto alla luce di un recente interesse statunitense per un remake (sempre diretto da Park) di Sympathy for Lady Vengeance e su un possibile rifacimento de Il cacciatore di teste19 di Costa-Gavras, a sua volta tratto dal romanzo The Ax di Donald E. Westlake. Staremo a vedere.
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http://www.cinemacoreano.it/interviste/park_chan_wook.htm Il cacciatore di teste (Le couperet, Francia, 2006) di Costa-Gavras, con José Garcia, Karin Viard, Geordy Monfils, Christa Theret, Ulrich Tukur, Olivier Gourmet, Yvon Back, Thierry Hancisse, Olga Grumberg. 19
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Capitolo secondo
I primi passi
Sarebbe assolutamente impossibile ricostruire ed analizzare il linguaggio di un autore come Park Chan-Wook senza inserire le sue opere all’interno del contesto sociale, artistico e produttivo nel quale il regista di Seul iniziò a muovere i suoi primi passi. Diverse furono le ragioni per cui il cinema sudcoreano divenne in pochi anni non solo un punto di riferimento per gli amanti (e non) del cinema orientale, ma anche un business che ha contribuito alla grande crescita economica della Corea del Sud a partire dalla fine degli anni ’80. A livello politico, dopo diverse manifestazioni di dissenso popolare nei confronti dell’operato del generale Chun Doo-Hwan, che aveva preso il potere durante il colpo di stato del 1980, la Corea del Sud tornò alle urne decretando Roh Tae-Woo come nuovo presidente. Era il 1988, anno in cui la prestigiosa vetrina delle Olimpiadi di Seul contribuì a promuovere in ambito internazionale una nazione dal percorso storico piuttosto travagliato. Per quanto riguarda l’aspetto prettamente economico invece, si segnala, proprio in prossimità delle Olimpiadi, da una parte una forte crescita sia a livello qualitativo che quantitativo di produzioni cinematografiche e, dall’altra, un sempre maggiore interessamento da parte di grandi aziende (Samsung e Daewoo in primis) non solo ad acquisire i diritti sull’home video ma anche ad investire direttamente nel settore cinema. Assistiamo quindi alla nascita di film pianificati e prodotti a livello industriale, che incarnarono il repentino cambiamento socio-economico della Corea del Sud. La crescita commerciale del settore cinematografico, d’altro canto, non è l’unico aspetto che ha contribuito alla formazione dei grandi cineasti degli anni ’90. Se da un lato
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film costruiti a tavolino come Marriage story1, sancirono l’effettiva concretizzazione dei primi passi verso una gestione industriale all’occidentale, dall’altro è necessario evidenziare la crescita artistica ed autoriale dei cineasti sud-coreani, ben distanti (Im Kwon-Taek a parte) dal livello di mediocrità in cui si era insediata la cinematografia coreana durante gli anni ’70. Paradossalmente uno dei primi film “moderni” è stato scritto e diretto da un non addetto ai lavori. Il film in questione è Why Did Bodhi-Dharma Leave for the East?2 di Bae Yong-Kyun, professore d’arte all’università di Seul, primo film della storia del cinema coreano ad essere stato distribuito all’estero prima del debutto in patria. Questo fatto appare come un sinonimo di un cambiamento a cui la Corea del Sud non era ancora pronta. Inoltre, il film, proprio per via delle influenze e delle esperienze di Bae, è un lavoro scevro da qualsiasi formula cinematografica precostituita, con un linguaggio che da una parte attinge dalla tradizione zen e che, dall’altra, infrange le barriere del commerciale e invade i territori dell’opera d’autore. La libertà espressiva di questo lavoro divenne l’esempio su cui costruire una gamma di stili che, staccatisi dalla tradizione del melodramma del passato e del film romantico-commerciale dell’immediato futuro, porranno le fondamenta del nuovo cinema coreano. Il già citato Im Kwon-Taek, unico regista della vecchia scuola a continuare ad avere immutato successo, confermò l’importanza del suo contributo artistico (oltre che commerciale) con Seopyeonje3, storia di una cantante di pansori (forma teatral-musicale tradizionale coreana), in cui veniva da una parte affermato il concetto di autorialità nell’ambito del cinema commerciale e, dall’altra, la riscoperta dei valori e delle tradizioni popolari. Da quel momento in poi, in bilico fra cinema per le masse ed opere apprezzate e premiate a livello internazionale, la Corea del Sud iniziò a sfornare (tolta la piccola parentesi negativa durante la crisi economica in Asia nel 1997) opere cinematografiche di ogni tipo, dai melodrammi agli horror, dai film low budget ai blockbusters. 1 Marriage story (Gyeolhon iyagi, Corea del Sud, 1992) di Kim Ui-seok, con Lee Hie-Do, Kim Hie-Ryeong, Kim Seong-Su. 2 Why Did Bodhi-Dharma Leave for the East? (Dharmaga tongjoguro kan kkadalgun, Corea del Sud, 1989) di Bae yong-Kyun, con Choi Myeong-Deok, Huang Hae-Jin, Kim Hui-Yeong, Ko Su-Myong, Lee Eun-Yeong, Lee Seon-Hye, Yi Pan-Yong, Sin Won-Sop, Yun Byeong-Hui. 3 Sopyonje (Seopyeonje, Corea del Sud, 1993) di Im Kwon-Taek, con Kim Myung-Gon, Oh Jung-Hae, Kim Kyu-Chul, Shin Sae-Kil, Ahn Byeong-Kyeong.
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Negli anni ’90 alcuni autori cercarono di indagare le contraddizioni sociali del paese, ora provocando, ora cercando di mettere in luce gli errori del passato e del presente. È il caso del regista Park Kwan-Su con The black republic e Jeon Tae-Il. Nel primo film vengono narrate le vicende di uomini e donne appartenenti al ceto popolare, nel secondo viene raccontata la storia di Jeon Tae-Il, leader del movimento operaio degli anni ’70. La Corea di ieri viene vista con gli occhi di oggi, quelli del cinema, che permettono di guardare al di là delle barriere politiche e recuperare stralci di Storia dimenticati o, addirittura, cancellati perché considerati troppo scomodi. In questa categoria è possibile inserire anche Jang Sun-Woo il quale, dopo Lovers in Woomuk-Baemi4 divenne uno dei registi che più si interessarono a scavare all’interno della realtà stessa, giungendo a risultati artistici di notevole livello con A petal5, di cui parleremo in seguito, e con l’inchiesta sulla gioventù contemporanea, quasi in stile documentaristico, Timeless Bottomless Bad Movie6. I più importanti esordi del cinema coreano contemporaneo avvennero tutti nel triennio ’96-’98, periodo che segnò la nascita artistica di una generazione di registi che hanno contribuito alla diffusione del cinema coreano nel mondo. Dalla cruda poesia di Kim Ki-Duk con Crocodile7 alla freddezza di Hong Sang-Soo con The Day a Pig Fell Into the Well8, dal provocatorio lavoro di Im Sang-Soo, Girls’ Night Out9 alla divertentissima commedia nera di Kim Ji-Woon, The quiet family10, fino ad arrivare al buon esordio di Lee Chang-Dong, Green fish11. Già questi pochi film citati hanno in nuce 4 Lovers in Woomuk-Baemi (Woomuk-Baemi ui sarang, Corea del Sud, 1990) di Kang SunWoo, con Choi Myung-Kil, Lee Dae-Kun, Park Joong-Hoon, Seo Kap-Suk, Yu Hae-Ri. 5 A petal (Ggotip, Corea del Sud, 1998) di Jang Sun-Woo, con Lee Jung-Hyun, Mun SeongKun, Lee Yeong-Ran, Chu Sang-Mi, Myeong Gye-Nam, Heo Jun-Ho. 6 Timeless Bottomless Bad Movie (Nappun yeonghw, Corea del Sud, 1997) di Jang Sun-Woo, con Hang Seul-Ki, Park Kyeong-Won, Lee Jae-Kyeong, Jang Nam-Kyeong Jang, Byeon SangGyu, Song Kang-Ho. 7 Crocodile (Ag-o, Corea del Sud, 1996) di Kim Ki-Duk, con Jo Jae-Hyeon, Ahn Jae-Hong. 8 The day a pig fell into the well (Daijiga umule pajinnal, Corea del Sud, 1996) di Hong SangSu, con Bang Eun-Hee, Cho Eun-Sook, Park Jin-Seong, Kim Eui-Sung Kim, Lee Eung-Kyung, Myeong Sun-Mi, Song Kang-Ho. 9 Girls’ Night Out (Chunyudleui jeonyuksiksah, Corea del Sud, 1998) di Im Sang-Su, con Jin Hee-Kyung, Jo Jae-Hyeon, Kang Soo-Yeon, Kim Yeo-Jin, Sol Kyung-Gu. 10 The quiet family (Choyonghan kajok, Corea del Sud, 1998), di Kim Ji-Woon, Park InHwan, Na Mun-Hee, Song Kang-Ho, Choi Min-Sik, Go Ho-Kyung, Lee Yun-Seong. 11 Green fish (Chorok mulkogi, Corea del Sud, 1997) di Lee Chang-Dong, Mun Seong-Kun, Han Seong-Kyu, Han Suk-Kyu, Jeong Jae-Yeong, Lee Byeong-Cheol.
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quelli che saranno i temi fondamentali della cinematografia autoriale sudcoreana. Ora in forma di dramma ora sotto le sembianze di una commedia (dall’ironia sottile, poco “occidentale”) vengono proposte quelle che saranno le strutture cardine non solo dei registi nominati, ma anche di coloro che adotteranno gli stessi stilemi tecnico-narrativi. Dove inserire allora la figura di Park Chan-Wook? In quale dei contesti appena citati è possibile rintracciare le orme dei primi passi del regista di Seul? Park, sempre alla ricerca di un linguaggio originale e fuori dagli schemi, anticipa di qualche anno il suo esordio, cavalcando un’onda non sbagliata, ma semplicemente più bassa di quella di altri suoi colleghi: Park partì dunque in sordina e, soprattutto, prima degli altri autori della new wave cinefila. Ottenere informazioni da Park sui suoi esordi è molto complesso, perché lo stesso regista riconosce il fallimento (e la relativa delusione e frustrazione) dei suoi primi due lavori. Non li considera più suoi. Riuscire a visionare quei film è quasi impossibile, poiché hanno avuto una distribuzione esclusivamente nazionale o sono stati visti da pochi fortunati nell’ambito di quei festival internazionali che hanno avuto l’intuizione di proiettarli in retrospettive complete sull’autore (e comunque, solamente dopo lo strepitoso successo di Old Boy e la consacrazione a livello mondiale). Nel saggio che segue si cercherà di tracciare un’analisi quanto più approfondita dei primi due film di Park Chan-Wook, cercando in essi gli embrioni dello stile unico che ha reso il regista di Seul uno dei più importanti autori orientali di culto.
Moon… is the sun’s dream e Trio Come già accennato nel capitolo introduttivo, Park all’inizio degli anni ’90 lavorava in produzione, eseguendo ogni sorta di mansione. D’altra parte continuava a coltivare il suo interesse non solo per il cinema d’autore europeo e statunitense, ma anche per i cosiddetti b-movies da cui attingerà per rifinire, con un tocco di ironia, il suo stile raffinato ed elegante. Nel 1992, in anticipo rispetto ad altri futuri illustri colleghi, Park ricevette la possibilità di far acquisire dalla Dreambox, società associata alla Samsung, la sceneggiatura di un film low budget. Il futuro regista, malgrado abbia dovuto
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scrivere una sceneggiatura in tutta fretta e consapevole di avere a disposizione un budget molto modesto (160 milioni di won, poco più di 100 mila euro di oggi), è riuscito comunque a presentare lo script di Moon… is the sun’s dream. Inizialmente la richiesta della produzione riguardava la possibilità di dirigere una pellicola che riprendesse la comicità surreale e di stampo parodistico dei fratelli Zucker, ma il cineasta coreano fece capire che era impossibile scrivere una sceneggiatura ex novo in così poco tempo. Optò quindi per mettere in ordine le idee e proporre una storia scritta con uno stile prettamente personale. Ottenne la possibilità di girare (seppur, come detto, con mezzi esigui) il suo film d’esordio, a patto di inserire nel cast un nome di grido, in maniera tale che il film potesse essere lanciato in modo adeguato e ottenere una distribuzione più ampia possibile. La scelta cadde sulla pop star Lee Seung-Chul, allora popolarissimo fra le teenagers. Il film presenta, anche se in maniera spesso sconclusionata, tutti i tratti fondamentali dell’estro di Park Chan-Wook e del fortissimo senso estetico sia nella tecnica cinematografica che nella struttura prettamente narrativa. La vicenda ruota intorno alle vite di due fratellastri, Ha-Young e MuHoon, i quali conducono vite estremamente diverse: il primo è un fotografo, il secondo, invece, viene assoldato da una banda di gangster di Busan. Eun-Joo, amante del boss della banda, chiude il triangolo. La ragazza e MuHoon si innamorano, iniziando una sfida inevitabile contro la sorte. Il loro amore romantico li costringe all’esilio: i due decidono di scappare con i soldi della banda per rifugiarsi ovunque saranno liberi di vivere la loro storia. Purtroppo per loro, però, alcuni gangster della banda riescono a trovarli. Mu-Hoon riesce comunque a fuggire con i soldi mentre Eun-Joo viene punita con lo sfregio di una guancia e, successivamente, venduta come prostituta e costretta a lavorare in un quartiere a luci rosse. Mu-Hoon, disperato per aver perso la sua donna, ritorna allo studio di Ha-Young e trova per 23
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caso una foto di Eun-Joo che proprio lo stesso fratellastro aveva immortalato durante un reportage nel quartiere a luci rosse. Il ragazzo decide allora di passare all’azione e, trovata Eun-Joo, riesce a salvarla dopo uno scontro rocambolesco. I due si nascondono nello studio fotografico; Ha-Young però, rimasto colpito dal fascino di Eun-Joo, la assolda come modella. La ragazza inizia quindi a lavorare per lui dopo essersi fatta rimuovere chirurgicamente la cicatrice sul volto. I guai però non sono ancora finiti: Mu-Hoon viene intercettato di nuovo dalla gang di Busan. L’uomo viene costretto, ricattato con il rapimento di Eun-Joo, a giustiziare un ex componente della banda, un traditore. Il giovane, per amore della ragazza, si reca al tribunale per uccidere il pentito ma si troverà davanti agli occhi un’amara sorpresa: il bersaglio non è altri che Man-Soo, il suo migliore amico. Mu-Hoon si rifiuta di eseguire gli ordini. Durante la sua fuga dalla polizia, viene colpito da un proiettile ma riesce comunque ad uccidere il boss della banda; muore però alla ricerca di Eun-Joo. Un anno dopo Ha-Young ricorda la travagliata storia mentre guarda, al cinema, un film interpretato dalla stessa Eun-Joo, ormai attrice. La prima sofferta fatica di Park Chan-Wook, composta e realizzata malgrado gli ostacoli di un budget bassissimo e di tante idee organizzate in fretta, sarebbe un film quasi totalmente trascurabile se non si prendesse in considerazione l’importanza che questa esperienza ha avuto nella futura carriera del regista. Dalle sue stesse dichiarazioni a proposito di Moon… is the sun’s dream è facile dedurre come il film sia stato un flop e che esso non abbia stimolato né l’interesse del pubblico né tanto meno della critica sudcoreana. “Il giorno della prima” racconta Park, “c’era uno sciame di ragazzine fan di Lee Seung-Chul davanti al cinema, ma erano lì solo perché lui stava firmando autografi. Non ne sapevo niente, così ho pensato che il mio debutto fosse stato un successo. Non appena passato il weekend, nessuno sarebbe più andato al cinema”12. Per quanto riguarda l’accoglienza del film da parte della critica, è eloquente il simpatico aneddoto raccontato dallo stesso regista: “Ad essere precisi, nessuno scrisse alcuna recensione del film. No, in realtà c’era una recensione. Ed è quella che ho scritto io! Un giornale universitario propose di inserire una recensione del mio film, ma 12 Park Chan-Wook, di Kim Young-Jin (Korean Film Directors, Kofic). Ed. Seoul Selection, 2007, pag. 76 (t.d.r.).
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non hanno trovato nessuno che la scrivesse. Senza altra scelta, scrissi io la recensione sotto falso nome e questa venne inserita nel giornale universitario!”13 Pubblico e critica non erano ancora pronti? O semplicemente Park, ansioso di mettere troppa carne al fuoco e di cercare di dirigere “una storia convenzionale con uno stile sperimentale”14, non era riuscito a trovare gli equilibri narrativi giusti? Entrambi gli interrogativi contengono una parte di verità. Se da una parte lo stile del ventinovenne esordiente conteneva già carattere ed originalità (forse in misura eccessiva, considerati i gusti dell’epoca), dall’altra Park non riuscì a colpire nel segno per via di un’esasperata ricerca di commistione di generi cinematografici diversi e, soprattutto, per via di un metodo narrativo basato su troppa voglia di dimostrare, più che di raccontare. Moon is the sun’s dream è solo in apparenza un semplice ganster movie con improbabili e poco riusciti inserti melodrammatici e romantici. La vicenda, in cui il regista in fase di sceneggiatura ha tentato di inserire di tutto un po’, se vista alla luce di ciò che avrebbe scritto e diretto Park in futuro, contiene indubbiamente degli aspetti interessanti. Torbidi elementi di delinquenza locale, slanci zuccherosi fra Mu-Hoon ed Eun-Joo, vendette, sentimenti celati e lampi di buon cinema d’autore: gli elementi per un cocktail interessante ci sono tutti. Anche formalmente il film ha in sé i segni di un tentativo di ricerca estetica. Malgrado la scarsità di mezzi, le scarne scenografie ed una realizzazione spesso grezza, risulta evidente una ricerca sul colore, dalle fredde atmosfere al neon ai caldi gialli e rossi richiamati nei flashback, dal verde acido dello strepitoso incipit alle sfumate suggestioni oniriche delle scene ambientate all’interno della sala cinematografica. Pur assumendo spesso e volentieri le sembianze di una qualsiasi opera orientale mediocre prodotta negli anni ’80, si possono facilmente notare delle similitudini sia a livello narrativo che a livello realizzativo con As tears go by15 di Wong Kar-Wai. Amore, azione e tragedia mescolati a fredde atmosfere metropolitane: molte sono, a livello visivo, le analogie con il lavoro del cineasta cinese. 13
Ivi, pag. 75 (t.d.r.). Ivi, pag. 76 (t.d.r.). 15 As tears go by (Wong gok ka moon, Hong Kong, 1988) di Wong Kar-Wai, con Andy Lau, Maggie Cheung, Jacky Cheung, William Chang, Kau Lam, Alex Man, Ronald Wong. 14
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Considerando che, come già evidenziato in precedenza, l’esordio di Park avvenne in anticipo rispetto ad altri importanti cineasti sudocoreani, non si possono non notare alcune geniali intuizioni ed alcune originali invenzioni che rendono Moon… is the sun’s dream un’opera degna di interesse e di attenzione. Il regista, com’è noto, è solito raccontare storie in cui gli eventi, ramificandosi, vengono continuamente stravolti da flashback e colpi di scena. L’oggettività, in Park, lascia spazio ad una continua percezione parziale e soggettiva della realtà. Non si assiste quasi mai ad una versione definita, ma piuttosto si tende a lasciarsi trasportare da eventi costruiti in maniera tale che la realtà possa sempre essere composta da tante piccole verità soggettive. Ovviamente il regista riuscirà nell’intento narrativo solamente a partire da JSA – Joint Security Area e, ovviamente, con la Trilogia della Vendetta; sarebbe errato però pensare che i primi lavori non contengano elementi riconducibili ai suoi film di successo. Park, dunque, oltre a stravolgere la linearità della narrazione con continui sbalzi temporali per destabilizzare il ferreo concetto di oggettività, riesce a mescolare le carte del tempo proprio per creare quella tensione che caratterizza la sua opera. Gli espedienti utilizzati nel film d’esordio sono molteplici e, spesso, geniali: ad esempio i fotogrammi fissi inseriti ad inizio film, utilizzati per introdurre le vicende dei protagonisti, non solo risultano elementi disgregatori della linearità narrativa, ma sono anche anticipatori della funzione dell’immagine fotografica, punto cardine di Moon… is the sun’s dream. È proprio tramite l’utilizzo delle fotografie (espediente rintracciabile anche nella Trilogia, di cui si parlerà nel capitolo ad essa dedicato) che Ha-Young scopre che Eun-Joo lavora come prostituta nel quartiere a luci rosse. Il fotografo, esattamente come Park, è costretto a fissare lo sguardo oggettivo tramite un’immagine fissa, un istante dell’eterno e impercettibile movimento delle cose. Nel finale, lo schermo di un monitor di sorveglianza (come la televisione nelle sequenza finali di Sympathy for Lady 26
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Vengeance) mostra a Eun-Joo un momento in cui Mu-Hoon fugge dalla polizia dopo essere stato ferito: tramite questo escamotage Park mostra ancora una volta una realtà oggettivata attraverso un filtro differente rispetto agli occhi del personaggio. Nella sua alternanza fra lirismo e azione, il film ha un ritmo piuttosto alto. Forse i ralenti in alcune scene d’azione lasciano un po’ a desiderare, ma momenti come la costruzione del pre-finale sono sicuramente da incorniciare, malgrado l’intervento dell’ennesima e invadente canzone pop danneggi l’ultima parte della pellicola. Il combattimento in macchina e la corsa disperata alla ricerca di Eun-Joo da parte di Mu-Hoon rimangono fra i momenti migliori del film. Per quanto riguarda le sequenze più liriche, è impossibile non prendere in considerazione alcune intuizioni geniali, come la serie di approcci impacciati di Ha-Young verso la sua modella, di cui si è innamorato, o il tentativo da parte dell’uomo di evitare di vedere le effusioni amorose fra Eun-Joo e Mu-Hoon utilizzando la luce di una torcia per smorzare l’ombra dei due amanti, intenti a baciarsi. Ancora giochi di luci ed ombre nella sequenza finale, in cui Ha-Young accarezza il volto della donna proiettato sullo schermo del cinema. Esordio imperfetto quello di Park, ma sicuramente degno di attenzione e considerazione e utile a comprendere lo sviluppo del suo straordinario talento visivo. Nel tentativo di elaborare la delusione del suo sfortunato esordio, Park intraprese un’intensa attività di critica cinematografica. Se da una parte però i cinque anni di distanza da Moon… is the sun’s dream e il suo secondo film, Trio, sono stati caratterizzati da momenti di grande frustrazione, d’altra parte il lavoro di critico ha contribuito non poco alla formazione dello suo stile eclettico. Park Chan-Wook iniziò con l’approfondire i suoi studi sulla struttura e sul sistema di scrittura di film di Hitchcock per approdare allo studio più approfondito non solo di film d’autore, ma anche di opere considerate minori o di serie B. Da scritti su Nicholas Ray e Sam Raimi all’action di Hong Kong, da lavori (fino a quel momento poco considerati) di Lee Doo-Yong e Kim Ki-Young16 fino a lavori europei e statunitensi etichettati spesso e volentieri come trash: gli articoli scritti nell’arco di questo periodo vennero raccolti in The discreet charm of filmwatching: videodrome, in cui 16 Registi particolarmente attivi negli anni ’70, praticamente sconosciuti al di fuori della Corea del Sud.
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il regista non solo dimostra una conoscenza profonda del cinema (al di là di generi ed etichette) ma riesce lucidamente a raggiungere una forte solidità critica e, soprattutto, grandi capacità di trasversalità analitica ed eclettismo. Nel film d’esordio Park fallisce nel tentativo di mescolare forme e stili, ma sembra intuire che la strada sia quella giusta. Valorizzando e spesso esaltando opere rimaste ai margini, il cineasta coreano sembra apprendere lezioni fondamentali per il prosieguo della sua carriera. Park continuò ad alternare alla sua attività di critico quella di sceneggiatore, ma con scarsi risultati, fino al momento in cui si ritrovò a dirigere, nel 1997, Trio, lavoro superiore a Moon… is the sun’s dream qualitativamente parlando, ma che comunque si rivelò un’altra occasione mancata, sia dal punto di vista artistico che commerciale. Il film si presenta come uno strampalato road movie intriso di ironia e grottesco, elementi ampliati rispetto al lavoro precedente e che saranno, nell’immediato futuro, punti di forza del mix di generi cinematografici che caratterizzano la sua opera. Ahn è un sassofonista costretto ad impegnare il suo sax per via di una serie di difficoltà economiche. Il giorno stesso, tornando a casa, si accorge che la figlia è stata narcotizzata con delle pillole: mentre la bambina dorme la moglie dell’uomo è intenta a divertirsi con l’amante. Dopo aver portato la figlia dalla suocera, Ahn decide di suicidarsi ma la sua goffaggine gli impedisce di porre fine ai suoi giorni. Deluso da se stesso, si accorge di una strana lettera, arrivatagli poco prima, scritta da Moon, un ladro violento e un po’ folle che gli propone di incontrarsi in un locale. Ahn decide di recarsi all’appuntamento ed ascoltare la proposta di Moon: il ragazzo, resosi conto che il suo QI 80 non gli permette di diventare un delinquente a tutti gli effetti, propone ad Ahn, che invece possiede un QI 150, di diventare suo socio. Violenza senza scrupoli ed intelligenza avrebbero fatto di loro una coppia formidabile. Sulle prime Ahn rifiuta l’offerta; Moon allora inizia a sparare e a creare il panico nel locale per costringere lo sfortunato sassofonista ad essere suo complice. Il destino vuole che nel bar si trovi anche la cameriera, Maria, ragazza dalla vita turbolenta, ex suora e poi madre di un bambino che è stata costretta ad abbandonare per via delle difficoltà della vita. La donna costringe Ahn e Moon a trasformare il “duo” in un “trio”, per l’appunto, in maniera tale che fra rapine, confessionali e rocamboleschi inseguimenti, gli uomini possano aiutarla a ritrovare il suo bambino. L’unione fa la forza, dunque. Nasce un delicato rapporto d’amore, amicizia e convenienza 28
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fra i tre ma, come in ogni commedia dalle tinte amare che si rispetti, la scalcinata banda non riuscirà a raggiungere l’obiettivo prefissato. Ahn cercherà di allontanarsi da Moon e si vendicherà uccidendo la moglie e tentando di nuovo il suicidio, rinunciandoci solo per amore della figlia; Moon, spinto dall’amore nei confronti di Maria, deciderà di aiutarla nella sua impresa mettendo in scena un rapimento e simulando di prendere lei, vestita da suora, come ostaggio in un vecchio capannone industriale. La farsa non andrà avanti a lungo: Moon verrà ucciso e Maria verrà “tratta in salvo” in elicottero. Park Chan-Wook, seppur mancando di nuovo il centro del bersaglio, sembra aver aggiustato la mira. Il suo secondo film è un concentrato di tematiche che man mano diverranno punti chiave della sua opera. Innanzitutto anche in Trio il regista sembra indirizzarsi verso una narrazione basata su forti cambi di registro e di commistione di generi ma sceglie, a differenza di quanto fatto in Moon… is the sun’s dream, di non mescolare troppo le carte per mantenere intatta la linearità del racconto. Anche in questo caso si avverte una forte influenza del ganster movie e del melodramma, ma ciò che rende più credibile e apprezzabile il racconto è proprio quell’ironia cinica e provocatoria che Park avrebbe continuato ad utilizzare in futuro da JSA – Joint Security Area a Cut, dalla Trilogia a Thirst. “Vedo me stesso come qualcuno privo dell’attitudine di fare film artistici, socialmente impegnati e con forti dichiarazioni politiche o film realistici. Volevo fare un film che non appartenesse ad alcuna categoria. Questo perché non aspiravo a fare un capolavoro immortale e credevo che la coerenza, l’unità e la raffinatezza non fossero per me. Io faccio film imperfetti e ho puntato a fare opere che fossero semplici ed ironiche, a volte surreali, che avrebbero fatto dell’imperfezione il loro punto forte”17. Malgrado gli intenti del regista e risultati commerciali leggermente superiori all’opera di esordio, Park divise comunque pubblico e critica in due fazioni: da una parte chi considerava il film come una commedia divertente e ben riuscita e chi, dall’altra, lo vedeva come un’accozzaglia di sequenze rubate qua e là da altri film. Volendo scomporre il film, è evidente che l’attitudine da gangster movie di serie B e il rischio melò, pur sempre dietro l’angolo, vengono smorzati da un senso del grottesco che ne maschera le imperfezioni, rendendolo tutto somma17
Ivi, pag. 78 (t.d.r.).
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to godibile. Fin dall’inizio, in cui viene esasperata (ma senza infastidire) l’incredibile scarsezza d’intelligenza di Moon e mostrata la vita esageratamente sfortunata di Ahn, Park riesce a creare gli equilibri giusti della commedia. I tentativi di suicidio di Ahn, ridicoli fino al parossismo, sono contenuti in una sequenza in cui la ricerca del grottesco avviene proprio scavando nella reale intimità dei personaggi. Questa tendenza viene evidenziata nella sequenza in cui Ahn, innamorato di Maria, esce dal bagno dopo essersi masturbato e trova Ahn intento a succhiare il seno della donna: Moon sta per dare in escandescenze e sarà dura per Ahn fargli capire che lo fa per sbloccare il flusso del latte materno. Anche le scene d’azione si trasformano in un divertente gioco cinematografico, come nel caso della geniale zoomata sul primo piano di Maria dal buco sulla mano del poliziotto su cui la donna aveva sparato un momento prima o, nella fase centrale del film, la sequenza in cui Ahn e Moon, trafelati, scappano a piedi inseguiti dalla polizia: Moon viene improvvisamente investito da un camion guidato da Maria che riesce così a salvare lui e Ahn, gettandosi poi all’inseguimento dei poliziotti rimasti a loro volta a piedi. All’azione e alla commedia viene mescolata una forte componente drammatica che anticipa un altro dei temi fondamentali del cinema di Park, ovvero quello dell’incapacità da parte dei suoi personaggi di portare a termine la perenne ricerca di un nucleo familiare da ritrovare o ricostruire. Ahn è incapace di risolvere i suoi problemi familiari; il suo tentativo è proprio quello di creare una famiglia a parte prendendosi cura di Moon, a sua volta orfano, come farebbe un fratello maggiore. Entrambi gli uomini cercheranno di aiutare Maria a ricongiungersi al figlio per permetterle di dimenticare il fatto che il neonato sia il frutto di una violenza del padre di lei. Nell’ambito della commedia quindi, viene introdotto quell’impalpabile senso del timore della perdita degli affetti, che porterà ad una disperata ricerca dell’Altro. Le fasi più riuscite di Trio, escludendo alcuni gradevoli momenti di pura commedia in cui i tre personaggi iniziano a relazionarsi e confrontarsi fra loro e con le loro malcapitate vittime, restano sicuramente quelle intrise di quella sana provocazione volta ad ironizzare sulle convenzioni cattoliche. Perfettamente consapevole di stuzzicare lo spettatore medio e, allo stesso tempo, di esorcizzare alcune esasperazioni di carattere religioso insite nella società coreana, Park colpisce nel segno proprio nel momento in cui si diverte a giocare su equivoci, clichè e luoghi comuni di segni e simboli sacri. Da questo punto di vista, ad esempio, Thirst, uscito nel 2009, è frutto di un lun30
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ghissimo lavoro di gestazione e sicuramente risultato di riflessioni ed elaborazioni che partono proprio da questo delicato periodo della carriera del regista coreano (anche se in Trio, ovviamente, l’originalità lascia spazio all’ingenuità). L’idea di fondere e rendere impercettibile la differenza fra sacro e profano si manifesta nello stravolgimento delle convenzioni imposte all’Uomo. Se una sorta di pietas religiosamente profana confonde le scelte del giovane protagonista di The humanist e, nel caso di Thirst, il vampirismo è visto come una pericolosa, erotica e irresistibile evasione verso il peccato e contro il senso di colpa (sentimento che nella religione cristiano-cattolica ha un peso rilevante), in Trio, seppur coi limiti del caso, si assiste ad uno sfottò garbato e divertente. Il dialogo fra Ahn e Moon nel confessionale o la scena di sesso fra lo stesso Moon e Maria (tra)vestita da suora, si rivelano sequenze che interferiscono con la percezione di elementi comuni (e dati per assodati) dei dogmi cattolici. Ma Park, si sa, è contro le classificazioni, le etichette e il conformismo. La musica popolare suonata da Ahn nel negozio dell’anziana rigattiera si trasforma immediatamente in un’assordante improvvisazione jazz, possibile metafora del desiderio di evasione e, al contempo, di esorcizzazione che spinge i personaggi a trarsi fuori dalle imposizioni culturali. Dal punto di vista tecnico Trio trae forza dal periodo cinefilo di Park Chan-Wook e, di conseguenza, dagli studi approfonditi sul cinema di genere. A differenza del primo lavoro, caratterizzato da elementi presi in prestito qua e là e mescolati in maniera troppo disordinata, in questo film l’autore riesce a rendere evidente che tutto ciò che viene inserito nello script (e di conseguenza nel film) è frutto di scelte meditate, ad eccezione della scelta delle musiche, ancora troppo casuale e incoerente nel suo mescolare brani jazz, pop ed heavy metal. Dal punto di vista visivo le inquadrature cominciano ad essere caratterizzate da una ricerca estetica elegante (malgrado Park lo abbia parzialmente negato nello stralcio di intervista citato in precedenza): spazi e ambienti cominciano ad essere ritratti con una certa autorevolezza e gli interni si tingono di colori evidenziati da luci gestite con una maggiore attenzione. Elementi decentrati, raffinate carrellate e dolly sempre più arditi: l’estetica di Park inizia a prendere forma e si fa sempre più personale. Moon is the sun’s dream e Trio non sono neanche l’ombra dei capolavori di Park. Tuttavia sarebbe impossibile comprendere appieno la sua poetica prescindendo da questo faticoso inizio. Il futuro, che avrebbe sancito la sua consacrazione, era ormai alle porte. 31
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Judgement Il secondo insuccesso non inibì affatto il cineasta coreano. Dopo aver realizzato ben due lungometraggi mediocri, la figura di Park sembrava destinata al dimenticatoio. Invece, nel 1999, giunse la possibilità di girare un cortometraggio, Judgement, in cui il regista ebbe l’occasione di condensare tutto ciò che, con risultati altalenanti, aveva tentato di inserire in Moon…is the sun’s dream e Trio. Cinismo ed ironia, elementi coadiuvati da uno stile impeccabile, si concretizzano in un lavoro che, lanciato dall’importante festival di Clermont-Ferrand, spalancherà al regista le porte del successo. Il cortometraggio si apre con un servizio televisivo che mostra i danni causati da una catastrofe naturale che ha colpito la Corea del Sud. Dopo questo incipit apocalittico, lo spettatore si ritrova catapultato in un obitorio in cui giace, su un lettino, il cadavere di una donna. All’interno della stanza vi sono, inoltre, alcune persone che fanno di tutto per riconoscere il cadavere spacciandolo per quello della propria figlia, perché il governo ha assicurato un ricco rimborso spese per chi ha perso familiari durante il disastro. Un reporter immortala con la telecamera la vergognosa vicenda e l’arrivo della vera figlia di una delle coppie che aveva rivendicato con più veemenza la “paternità” del cadavere. Ad un tratto il gruppo avverte una forte scossa di terremoto. Si rompono alcuni tubi e la stanza viene invasa dall’acqua e, dopo la caduta in terra di una lampada elettrica, tutti i presenti, tranne il portantino, vengono fulminati. In Judgement c’è tutto Park Chan-Wook. La libertà espressiva è uno dei punti chiave del corto. Il regista riesce a condensare in poco più di venti minuti le (dis)umane debolezze, le incertezze, le paure e quell’ironico pessimismo che saranno alla base delle sue opere successive. Anche dal punto di vista formale Park è libero di giocare con movimenti di macchina stilisticamente impeccabili all’interno della stanza, teatro claustrofobico delle piccole tragedie e bestialità umane. Il bianco e nero allucinato della prima parte, che impreziosisce la pellicola ricreando una suggestiva atmosfera post-atomica, lascia spazio nel finale a colori saturati che evidenziano la potenza del “giudizio”. Dal punto di vista prettamente narrativo, le venature ironiche appena accennate nei precedenti lavori escono fuori prepotentemente in un magma di cinismo e senso del grottesco: il cineasta coreano trasforma il cattivo gusto in poesia, mettendo a nudo l’indecenza dei compor32
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tamenti umani. Tramite questo procedimento l’Uomo si mostra per ciò che è: un animale impaurito che ha solo la sopraffazione come unico mezzo per non soccombere. La sopravvivenza è l’unico obiettivo della bestia umana, a cui mancano dignità e decenza necessarie per affrontare a testa alta il destino, la vita e la morte. Vita e morte si incrociano in una stanza in cui tutti i personaggi rimangono sospesi in una sorta di limbo senza tempo. La metaforica attesa, necessaria per il riconoscimento del cadavere, diviene l’anticamera per un inevitabile giudizio che si abbatterà su di loro. Torna lo scontro fra sacro e profano, si anticipano le sottili interpretazioni della giustizia. Il coupe de théatre finale pone fine alla penosa condizione di uomini e donne che non sono riuniti in un obitorio per giudicare, ma per essere giudicati. È la stessa Natura che li condanna e che si rivolta, indignata, contro il vuoto in cui galleggia, esanime, la coscienza umana. Park si diverte a creare un microcosmo sospeso e, come un burattinaio, tira i fili di marionette impotenti di fronte all’incubo della morte. È il corpo il nucleo centrale del corto; una fisicità distrutta, irriconoscibile, deformata, proprio come il cadavere steso sul lettino. I personaggi hanno interesse a riconoscere la donna per via del risarcimento, ma il regista costruisce gli intoppi in cui essi si imbatteranno con ritmi quasi comici e carichi di travolgente senso del grottesco. In principio i familiari tentano di riconoscere la presunta figlia tramite alcune vecchie foto. La donna però, avendo la faccia sfigurata, potrebbe essere chiunque. Uno dei presenti cerca di convincere gli altri della sua somiglianza con la morta mettendosi addirittura vicino al suo volto deforme e chiedendo agli altri di confrontare i tratti somatici. Qualcuno ha un’idea brillante. La ragazzina della foto ha una voglia sulla gamba destra: purtroppo però i presenti, dopo aver alzato il lenzuolo, scoprono che la donna non ha più la gamba in questione. Il regista, tramite trovate che vanno al di là della verosimiglianza, annulla le scelte dei suoi personaggi tramite l’espediente della ridicolizzazione. Perfino quando uno dei presenti dichiara che la figlia è stata vessata dai compagni durante l’adolescenza, e per questo motivo sostiene di sapere che in prossimità del suo seno potrebbero esserci delle bruciature di sigaretta, si sente rispondere: “Non sai di cosa sono capaci i ragazzi oggigiorno”. Banalità, luoghi comuni, ipocrisia. Ogni gesto diventa un passo in più che porterà tutti dal limbo all’inferno. 33
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Finalmente libero da pressioni di ogni tipo, Park Chan-Wook riesce a realizzare un film forte della libertà del cinema indipendente e che, allo stesso tempo, ha tutte le caratteristiche per poter avere un appeal commerciale. Una nuova entusiasmante parte della sua carriera stava per cominciare.
JSA – Joint Security Area Prima di analizzare l’opera che alle soglie del nuovo millennio consacrò la personalità artistica di Park Chan-Wook e che gli offrì la possibilità di essere notato in ambito europeo al Festival di Berlino del 2001, è necessario introdurre il discorso delle “due Coree” che hanno ispirato molti film di successo. Come è noto, la penisola coreana è divisa in due parti: il Nord (o Repubblica Democratica Popolare Coreana), regime socialista isolato dalla comunità internazionale, e il Sud, filoamericano nonché uno degli stati asiatici più sviluppati a livello economico. Le origini delle discrepanze politiche e sociali dei due paesi ebbero origine alla fine della Seconda Guerra Mondiale conseguentemente al crollo dell’impero giapponese che già dal 1910 aveva assunto il controllo della penisola coreana, importante ponte fra Giappone e Cina. Dopo la disfatta nipponica le truppe alleate invasero la penisola creando due sfere di controllo, a nord i sovietici e a sud gli americani. La proposta degli Alleati di creare un governo provvisorio venne respinta dal Nord che bloccò le entrate e vide l’ascesa al potere di Kim Il-Sung (deceduto nel 1994 ma tuttora “presidente eterno” e sostituito negli incarichi “terreni” dal figlio Kim Jong-Il). Il Sud elesse invece Syngman Rhee e venne riconosciuto dalle Nazioni Unite. Nel 1950 il Nord invase il Sud in nome di una violenta riunificazione. Forte della superiorità militare, le truppe del Nord raggiunsero Seul e, successivamente, si spinsero fino alla parte meridionale della penisola coreana. Le forze dell’ONU, guidate dagli Stati Uniti, intervennero rovesciando le sorti della guerra, spingendosi fino a Pyongyang, capitale della Corea del Nord. Solo dopo l’intervento della Cina di Mao Zedong fu possibile arrivare all’armistizio del ’53 dopo una guerra che causò in pochi anni quattro
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milioni di vittime. Non fu mai firmato un trattato di pace vero e proprio e così Nord e Sud rimasero divisi dalla “linea di armistizio” (vera “protagonista” di JSA – Joint Security Area). La singolare situazione politica delle “due Coree” ha influenzato in modo fondamentale anche alcuni fra i più importanti film della new wave coreana, nei quali si avverte la forte tendenza ad inserire piccole vicende personali all’interno della storia del paese. Questo probabilmente è servito a dare una dimensione prettamente umana alle divergenze politiche che impediscono la riunificazione in un’unica Corea. Ma non solo. Il nuovo cinema sud-coreano non vuole spiegare le radici della divisione ma piuttosto tende a far luce su un dramma che ha macchiato la storia della penisola coreana. L’aspetto emozionale risulta quindi preponderante rispetto a quello socio-politico. Passa in secondo piano dunque il tira e molla delle colpe e delle responsabilità. L’arma del cinema è proprio quella che colpisce al cuore e che, rievocando la guerra del ’50, lo spionaggio e il terrorismo, punta all’osservazione del dramma della divisione (sempre dal punto di vista sud-coreano, raramente di parte nei film più importanti). Il primo lavoro da annoverare è sicuramente To the starry island18. Il regista Park Kwang-Su nel raccontare il piccolo dramma di un figlio che tenta di seppellire il padre sull’isola in cui è nato, riesce ad evocare un invisibile evento del conflitto fra Nord e Sud, avvenuto proprio sull’isola “stellata” che dà titolo al film. Di ben altro argomento è invece Shiri19 uno dei più grandi successi commerciali della storia del cinema sud-coreano. La mano salda di Kang Je-Gyu guida un cast eccezionale nei meandri di una torbida storia di spionaggio che eccelle in un finale in cui i presidenti delle “due Coree” rischiano di rimanere vittime di un attentato durante una partita di calcio proprio fra la nazionale del Sud e quella del Nord. La riflessione in questo caso lascia spazio all’azione e ad una sofferta storia d’amore e tradimenti, ma non è impossibile ravvisare nel suo nucleo centrale lo stato di perenne tensione che accompagna i complicati processi di riunificazione. Dal punto di vista cinematografico però, Kang riuscirà a colpire 18 To the starry island (Geu seome gago shibda, Corea del Sud, 1993) di Park Kwan-Su, con Ahn So-Young, Ahn Sung-Kee, Choi Hyung-In, Choi Woo-Hyeok, Heo Jun-Ho. 19 Shiri (Swiri, Corea del Sud, 1999) di Kang Je-Gyu, con Han Suk-kyu, Yu Jong Won, Choi Min-Sik, Kim Yun-Jin, Song Kang-Ho, Johnny Kim.
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nel segno solamente qualche anno più tardi con Tae Guk Gi: The Brotherhood of War20, film dall’incedere epico che strizza l’occhio all’occidente nella forma e che invece, nei contenuti, entra nel profondo della divisione che da più di sessant’anni spacca in due la penisola coreana. Due fratelli vengono arruolati dopo l’invasione del Sud da parte del Nord. Il maggiore dei due, per proteggere il più giovane, partecipa alle azioni di guerra più importanti e finisce per assumere il comando di un intero plotone dell’esercito sud-coreano. Tornato a Seul il giovane assiste all’uccisione della sua futura moglie, accusata di collaborazionismo, e al ferimento del fratello minore, che crede morto. Questi eventi (e la terribile vita al fronte) lo condurranno alla follia: finirà per arruolarsi nell’esercito nord-coreano e per battersi, ironia della sorte, proprio contro il fratello minore. Il film di Kang non racconta solamente il dramma del Sud, delle migrazioni di massa, dei massacri e dei conflitti interni. Il regista sceglie la metafora della fratellanza carnale (e, quindi, dell’ultimo struggente combattimento) proprio per evidenziare la follia di una guerra fra gente dello stesso popolo, diviso solamente da diversi regimi politici. Anche in questo caso è possibile notare come l’aspetto socio-politico passi in secondo piano lasciando spazio ai drammi personali che divengono simbolo della tragedia di un’intera nazione. Infine, è fondamentale citare Silmido21, opera in cui il regista Kang Woo-Suk, pur guardando prettamente dentro “casa propria”, racconta una vicenda avvenuta alla fine degli anni ’60 che vede come protagonisti un gruppo di ex condannati a morte, reclutati sull’isola di Silmido ed addestrati in maniera disumana per raggiungere l’obiettivo finale: l’assassinio del presidente nord-coreano Kim Il-Sung. Il clima di terrore, alimentato dal regime militare sud-coreano, è lo spunto d’inizio di una storia di follia, in cui si giudica severamente il passato, il controllo militare, la “dottrina dello shock”22, l’odio perenne contro il nemico comunista e, non meno importante, i brutali metodi di addestramento. 20 Tae Guk Gi: The Brotherhood of War (Taegukgi hwinalrimyeo, Corea del Sud, 2004) di Kang Je-Gyu, con Jang Dong-Gun, Bin Won, Lee Eun-Ju Lee, Kong Hyeong-Jin, Lee Yeong-Ran Lee, Ahn Kil-Kang Ahn, Jin Jun, Jeon Jae-Hyeong Jeon, Jang Min-ho, Jo Yun-Hie Jo, Choi MinSik. 21 Silmido (Id., Corea del Sud, 2003) di Kang Woo-Suk, con Ahn Sung-Kee, Sol Kyung-Gu, Heo Jun-Ho, Jeong Jae-Yeong, Kang Seong-Jin, Lim Won-Hun, Lee Jeong-Heon. 22 Definizione presa in prestito dal libro The shock doctrine di Naomi Klein.
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Nell’ambito di un contesto variegato, in cui il dramma della divisione fra i due stati viene trattato in maniera ora vaga, ora molto decisa, si inserisce Park Chan-Wook con il suo JSA – Joint Security Area, lavoro che si spinge nettamente oltre rispetto ai precendenti film sia per quanto riguarda la costruzione narrativa, sia per le innovazioni nella messinscena. Quello che alle prime battute sembra un semplice giallo politico-militare, si rivela essere un lavoro incentrato sul desiderio di scavare in profondità nelle contraddizioni della politica dei due stati coreani e di quella adottata dalle Nazioni Unite e dal consiglio di vigilanza dei paesi neutrali. Ma non solo. Il lavoro di Park riesce a svelare il senso di libertà e il desiderio di trarsi fuori dall’incubo e dai pregiudizi della travagliata storia dei due paesi. Il regista adotta la tecnica del giallo, ma riesce a far sorridere e, con repentini cambi di registro, a far commuovere e riflettere. Corea del Sud e del Nord sono divise simbolicamente dal “ponte del non ritorno” in prossimità della Joint Security Area (Panmunjeom). Nel piccolo rifugio delle guardie nord-coreane, vengono uccisi il soldato Jung Woo-Jin e un suo superiore. Sono coinvolti nell’oscura faccenda il sergente nordcoreano Oh Jyung-Pil, il sergente del Sud Lee Su-Hyeok e il suo subalterno Nam Sung-Shik. Quest’ultimo, durante le indagini guidate da Sophie, elvetico-coreana incaricata di indagare per conto della Commissione di Supervisione delle Nazioni Neutrali, si suicida. Le versioni dei due sergenti sono estremamente contrastanti ed il giallo si fa sempre più fitto, fino ad arrivare ad un finale carico di violenza e pathos. Ciò che colpisce subito è indubbiamente la costruzione narrativa del film. Se da una parte si assiste alle indagini, dall’altra l’utilizzo in prestito del genere giallo viene alternato con dei flashback tramite i quali viene pian piano concesso allo spettatore di venire a conoscenza dell’amicizia e del cameratismo fra i soldati del Sud e del Nord. Di conseguenza fino alle ultime sequenze del film appare impossibile stabilire, malgrado l’intrigo sia comunque avvincente, quali possano essere le ragioni 37
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che hanno spinto i protagonisti di questo pericoloso rapporto d’amicizia a spararsi l’uno con l’altro. Sophie sente sempre di essere ad un passo dalla verità ma non otterrà niente dai due sergenti i quali temono di essere arrestati e, nel caso del soldato nord-coreano, di essere addirittura condannati a morte. Inoltre, come nel romanzo DMZ (Demilitarized Zone) di Park SangYeon, da cui è tratto il film, al di là delle divergenze fra i due stati, non vengono espressi giudizi politici. I due sergenti divengono la metafora delle “due Coree”: essi hanno lo stesso sangue, la stessa lingua, si sentono così vicini e allo stesso tempo così lontani. Si ameranno e si odieranno, ma l’amore e l’odio sono facce della stessa medaglia. Le radici della tensione fra i due personaggi e, quindi, fra i due stati, sono troppo spesse ed intricate per essere estirpate completamente. “Questo film non ha niente a che vedere con le agonie degli intellettuali” afferma Park, “Ho solamente simpatizzato con un individuo incapace di scegliere da che parte stare. Volevo rappresentare un conflitto tra l’individuo e l’autorità, e ho provato a mostrare Panmunjeom come un prodotto della guerra fredda e allo stesso tempo come spazio contraddittorio di cui è facile parlare per via della sua posizione”23. Il regista affronta un argomento politico senza entrare in disquisizioni prettamente politiche. L’intento non è solo quello di confrontare le diversità-affinità dei suoi personaggi ma anche di porre l’Uomo al centro del racconto. Dall’essere umano nascono la paura nei confronti delle severe istituzioni, l’incomprensione di fronte alle divisioni, gli affetti, le ritorsioni, l’impossibilità di comunicare con la giustizia e sentirsi protetto da essa: ogni singolo momento del film è pervaso da una forte complessità strutturale che permette allo spettatore di cogliere le sfumature dei personaggi e delle loro azioni. La commistione di generi è perfettamente coadiuvata da quello che diventerà il classico metodo narrativo di Park: la scissione fra realtà e punto di vista. Se da un lato l’intrigo fa sì che la storia si tinga di giallo, dall’altro il lungo flashback centrale, quasi in stile di commedia, ed il tragico finale divengono lo sguardo oggettivo che permette allo spettatore di chiarire la Verità fino a quel momento celata da più sguardi soggettivi. Il sergente nordcoreano Oh Jyung-Pil, è il ritratto perfetto di uno stato in cui regna la paura e in cui un soldato è costretto a non mostrare emozioni ed ad esaltare i valo23
Ivi, p. 82.
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ri del proprio paese; il sud-coreano Lee Su-Hyeok, invece, è dipinto con pennellate leggere i cui colori alternano tinte forti e tonalità scarne e opache. L’animo umano e le sue contraddizioni vengono rappresentate con una fluidità disarmante e, tramite l’escamotage dei flashback e delle “verità alternate”, la tensione rimane sempre alta e insolubile fino alla fine del film. Il cineasta però si pone in modo polemico di fronte alla molteplicità dei punti di vista. “Qui si mantiene la pace nascondendo la verità”: in questo modo un superiore di Sophie stronca il desiderio sempre più crescente della donna di risolvere il caso. La donna vuole cercare di affrontare e sovvertire un sistema contro cui è impotente e che in quel frangente, in fondo, sta bene a tutti. La Verità concessa allo spettatore è dunque un segreto per il resto del popolo coreano, ignaro di chissà quanti altri segreti mai svelati. Il meraviglioso finale è lo specchio di questo gioco di punti di vista ed avviene, come abitudine, tramite una fotografia. Un turista scatta una foto ad inizio film, per immortalare i soldati del Nord e del Sud a guardia della simbolica linea di separazione fra i due stati. Gli ultimi istanti del film mostrano la foto: i quattro soldati sono insieme, vivi, amici e nemici allo stesso tempo. La Verità è racchiusa nella fissità dell’istante. Oltre alle contraddizioni e alle vicende che coinvolgono i soldati e che li porteranno al massacro finale, non ci si può esimere dal considerare quello di Sophie un personaggio chiave. La donna, coreana mai vissuta in Corea, cerca di risolvere il caso con un atteggiamento tutto occidentale. Giunta nella Joint Security Area forte delle sue capacità e della sua freddezza, la donna commette l’errore di non voler vedere oltre il fatto compiuto e di non inserire inizialmente la faccenda in un contesto molto più ampio di quello che crede. Solo nel finale “diventa” coreana a tutti gli effetti; ciò avviene nel momento in cui le viene fatto notare che il padre, dissidente nord-coreano, era fuggito dopo la guerra di Corea prima in Argentina e poi in Svizzera, paese in cui nacque la ragazza. Ecco dunque che Sophie riesce ad entrare, anche solo parzialmente, all’interno di questo storico e lacerante contrasto. Solo dopo aver capito la sua dualità interiore, la donna cerca la Verità, quella oggettiva, e la terrà per sé. Pregevole dal punto di vista formale, JSA – Joint Security Area porta avanti il discorso sulla giustizia iniziato con Judgement e che proseguirà, poco tempo dopo, con la Trilogia della Vendetta. L’interesse di Park sembra essere incentrato sulla relatività del concetto di giustizia. Se nel cortome39
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traggio precedente le forze oscure della Natura hanno lavato i peccati del mondo, in questo caso il giudizio assume diverse e sottili sfaccettature. Fin dalle battute iniziali (“Esistono solo i comunisti e i nemici dei comunisti” pronunciato da un sergente istruttore sud-coreano) appaiono evidenti le ferree regole della legge precostituita. Ma, come è evidente in Park, la giustizia ha forme e interpretazioni ben diverse. Per Lee Su-Hyeok è “giusto” incontrare i fratelli nord-coreani, imparare a conoscere le loro abitudini, ma da abitante di un paese di stampo liberale e capitalistico tenta di convincere i “nemici” ad entrare in Corea del Sud per vivere in maniera più dignitosa. Il “giusto” prende pieghe che cozzano con le rigide leggi dei soldati del Nord. L’interrogatorio a due, gestito da Sophie, pone i simboli delle “due Coree” l’uno di fronte all’altro, ma il tentativo di imporre una giustizia super partes finisce con un nulla di fatto: Oh Jyung-Pil sputa fuori tutta la rabbia che ha in corpo e tenta di strangolare Lee Su-Hyeok. Il primo contesta al secondo di essere un codardo: il suo giudizio è severo ed i metodi di esecuzione divengono quasi animaleschi. La repressione del Nord si pone contro l’apparente democraticità del Sud e, al centro, l’inapplicabile giustizia del tribunale dei paesi neutrali: malgrado si tenti di imporre regole, l’essere umano continua a rimanere impelagato nelle sue convinzioni, in bilico fra senso di libertà e prigionia, fra esplosioni di gioia e paura. JSA – Joint Security Area può essere definito come un secondo esordio. Malgrado lo script non sia esclusivamente opera di Park Chan-Wook, il regista dimostra di aver assimilato le lezioni del passato e di essere pronto a dimostrare quella libertà espressiva che era rimasta imbrigliata nei primi lavori. La personalità di un grande regista era finalmente formata e, con essa, il talento straordinario che lo avrebbe condotto a scrivere e dirigere grandi film che, in linea con le aspirazioni del cineasta, avrebbero messo d’accordo pubblico e critica in più occasioni.
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Capitolo terzo
Corpo, mente e spirito. La Trilogia della Vendetta
“La giustizia è privata, la vendetta è sacra”. Con queste parole Lee GeumJa, protagonista di Sympathy for Lady Vengeance, esprime il pensiero di Park già parzialmente discusso in precedenza riguardo al personale concetto di giustizia di ogni essere umano. In un qualsiasi agglomerato umano che possa essere definito società, quello di giustizia è un concetto legato principalmente a presupposti socio-culturali che hanno ben poco a che vedere con l’enigma della psiche umana. Ogni legge è composta da una serie di parole prive di senso se dovessero essere applicate al lato bestiale dell’uomo. Causa, effetto. Ogni evento genera un numero infinito di reazioni. Ciò che Park Chan-Wook dipinge in maniera sublime è proprio quella incapacità da parte di un essere umano di sapersi appellare alla giustizia precostituita, prendendo invece, come unica possibile, la propria. La vendetta a questo punto è l’effetto scaturito dalla causa. Più che riprendere il concetto di vendetta molto esemplificato di stampo tarantiniano o, se vogliamo, quello de La sposa in nero1, uno dei punti di riferimento del regista statunitense, l’intento di Park sembra essere quello di sbrogliare la matassa di intricati enigmi, per arrivare alla radice di quel male che divora i suoi personaggi. Mentre in Tarantino viene rievocata una vendetta virile (pur essendo una donna la protagonista) di stampo spaghetti-western e, in Truffaut, una semplice e gelida giustizia personale, nella trilogia di Park viene sviscerato quel senso di vendetta ancestrale, celato dal tempo e nascosto dalla quotidianità, che si trasforma in una disperata lotta non solo contro il “nemico” ma anche, e soprattutto, contro se stessi. 1 La sposa in nero (La mariée était en noir, Francia, 1967) di François Truffaut, con Jeanne Moreau, Michel Bouquet, Jean-Claude Brialy, Charles Denner, Claude Rich.
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Più che a lavori statunitensi ed europei Park sembra ispirarsi sia a livello estetico che a livello tematico a film di matrice orientale. Il primo punto di riferimento è senza dubbio La vendetta è mia2 del giapponese Shoei Imamura, storia di Iwao e della sua incredibile latitanza. L’uomo, dopo aver commesso due omicidi, riesce a sfuggire continuamente all’arresto: truffa, si innamora, continua ad uccidere, sfidando di volta in volta il suo destino, con una spavalderia ed un coraggio che lo rendono un anti-eroe per antonomasia. I tratti che possono avvicinare il lavoro di Imamura al cinema della vendetta di Park Chan-Wook sono numerosi. Innanzitutto lo stile: il regista giapponese crea forme, spazi, luci e colori non dissimili da quelli che Park adotterà specialmente nel primo capitolo della Trilogia. Imamura, reduce da un intenso lavoro di documentarista negli anni ’60, tratta la realtà con freddezza, narrando le vicende di Iwao seguendo in parte gli stilemi di una narrazione prettamente documentaristica senza tralasciare però una componente emozionale dipendente dall’impulso di creare cinema di finzione. L’intento di Imamura, come quello di Park del resto, è quello di scavare in profondità non limitandosi solo a mostrare gli eventi a livello di cronaca. La figura di Iwao non è quella di un folle in cerca di riscatto nei confronti della vita; piuttosto, essa sembra essere l’immagine dell’uomo contemporaneo non in lotta contro le frustrazioni legate alla società, quanto impegnato in una perenne sfida con se stesso; questo è l’unico modo per dimostrare la sua esistenza e per palesare disperatamente la sua identità. Egli è solo contro un’umanità destinata all’alienazione. Il padre di Iwao, cattolico e moralista, diviene il ritratto di quella falsità legata alla maschera della religione e delle imposizioni culturali, oltre che alla repressione che lo costringe a desiderare il corpo della nuora e, conseguentemente, la morte della moglie. Egli è l’impersonificazione della frustrazione, dell’aspirazione repressa di un essere umano la cui volontà è imprigionata dalle catene che egli stesso ha forgiato con le sue mani. Come nell’opera del regista sud-coreano, Imamura riesce a creare una perfetta tensione di corpi persi nel sesso o devastati dalla violenza, accompagnati dalle impeccabili geometrie degli ambienti. Per queste ragioni la Trilogia sembra essere ispirata più all’opera del cineasta 2 La vendetta è mia (Fukushû suru wa ware ni ari, Giappone, 1979) di Shoei Imamura, con Ogata Ken, Mikuni Rentarô, Miyako Chôchô, Baishô Mitsuko, Ogawa Mayumi, Kiyokawa Nijiko.
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giapponese che a lavori che rimandano ad estetiche e temi specificatamente occidentali. La vendetta come forma di redenzione e liberazione, visione espressa in maniera evidente in Sympathy for Lady Vengeance, è un concetto trattato più volte nella cinematografia coreana. L’esempio più lampante è rappresentato da Samaritan girl3 di Kim Ki-Duk, eccezionale affresco di una società vittima del suo stesso moralismo ed implacabile ricerca di espiazione da parte della giovane protagonista, Yeo-Jin. La ragazza, dopo la morte della sua amica Jae-Young, adolescente intrattenitrice di uomini maturi, cerca di rintracciare tutti i clienti della sua amica per placare il suo desiderio di salvezza e di pace interiore. Distrutta dai sensi di colpa decide di restituire i soldi agli avventori e di concedersi sessualmente, cercando in questo modo bizzarro di salvare se stessa e di leccare le ferite di un genere umano incapace di far fronte alla propria desolante solitudine. Il padre di Jae-Young, una volta scoperti i fatti, opterà invece per una vendetta più crudele: cercherà i clienti e li spingerà a fare i conti con loro stessi, oltre ad abbandonare la figlia in una sperduta regione montuosa, in una macchina immersa nel fango. Malgrado la ragazza abbia cercato l’espiazione delle proprie colpe, rimane ancora metaforicamente impantanata e costretta a lottare contro la propria solitudine. La redenzione, che tanto aveva cercato, è ancora lontana. L’idea dell’espiazione delle proprie colpe ritorna in Kim in dei suoi film più riusciti Spring, Summer, Fall, Winter... and Spring4, favola zen in cui la vendetta non è più sinonimo di redenzione e quindi effetto, ma la causa che genera la volontà stessa dell’espiazione. Un giovane monaco si innamora di una ragazza ospite sulla chiatta in cui lui vive con il suo maestro. Fugge con lei e la sposa. Quando scoprirà il tradimento di lei, non potrà fare altro che cedere all’impulso della vendetta e la ucciderà. Quando uscirà di prigione ricercherà la sua pace interiore non tramite la violenza, ma proprio grazie alla presa di coscienza di sé, alla meditazione e al perdono. 3 Samaritan girl (Samaria, Corea del Sud, 2004) di Kim Ki-Duk, con Han Yeo-Reum, Kwak Ji-Min, Lee Eol, Kwon Hyun-Min, Young Oh, Im Gyun-Ho, Lee Jong-Gil, Shin Taek-Ki, Park Jung-Gi, Kim Gul-Seon, Seo Seung-Won. 4 Spring, Summer, Fall, Winter... and Spring (Bom yeoreum gaeul gyeoul geurigo bom, Corea del Sud, 2003) di Kim Ki-Duk, con Oh Yeong-Su, Kim Ki-Duk, Kim Young-Min, Seo JaeKyeong, Ha Yeo-Jin, Kim Jong-Ho, Kim Jung-Young, Ji Dae-Han, Choi Min, Park Ji-A, Song Min-Young.
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Per quanto l’argomento sia più o meno lo stesso, Park Chan-Wook dirige tre pellicole che presentano fra loro notevoli differenze, soprattutto a livello contenutistico. La vendetta è come un serpente che striscia nei meandri di corpi, di ricordi, di storie tanto forti e violente quanto cariche di dolcezza e di desiderio di redenzione. La differenza più lampante fra i tre capitoli della Trilogia è insito nella costruzione stessa delle storie. Il primo film, Sympathy for Mr. Vengeance, presenta tutta quella violenza e quella forza espressiva quanto mai necessarie per entrare nel vorticoso gioco del destino costruito intorno ai protagonisti. Ryu, sordomuto fin dalla nascita, lavora il fabbrica per mantenere la sorella, bisognosa di un trapianto di reni. Non riuscendo a coprire le spese del trapianto si rivolge ad alcuni trafficanti di organi ai quali vende un suo rene per 10.000 won che non gli verranno mai consegnati. La vita della sorella è ancora appesa ad un filo. Grazie all’aiuto di Young-Mi, la sua fidanzata, Ryu rapisce una bambina, figlia di Park DongJin, direttore della fabbrica in cui il ragazzo lavora. La sorella di Ryu muore e, mentre il giovane sordomuto la sta seppellendo, un folle molesta la bambina che, nel tentativo di sfuggirgli, cade in un fiume e muore. Da questo momento in poi si incroceranno da una parte la vendetta di Ryu nei confronti dei trafficanti di organi che lo hanno ingannato e, dall’altra, quella del presidente Park, a cui è stata strappato così violentemente il suo unico affetto. Ciò che salta immediatamente agli occhi è un’estrema fisicità che lega i personaggi come una sorta di materno cordone ombelicale. Il rapporto fra Ryu e la sorella è, innanzitutto, fisico. Park Chan-Wook, in una sequenza carica di struggente dolcezza, mostra il giovane intento a lavare il corpo della donna debilitata dalla malattia, rendendo Ryu fratello, padre e amante allo stesso istante. Il sacrificio di Ryu (quello di farsi asportare un rene), risponde alla logica esigenza di sacrificare ciò che salverebbe la vita alla sorella la quale, a sua volta, rivoltando il meccanismo del sacrificio, si suicida per non gravare troppo sulle spalle del giovane sordomuto. Ryu si ritrova allora di nuovo a contatto con il corpo della sorella nell’atto della sepoltura in riva ad un fiume, luogo che raccoglie in sé passato, presente e futuro. In quel posto i due, da bambini, giocavano spensieratamente; ora le acque del fiume riflettono angoscia e dolore, per poi divenire teatro dei fatali giochi del destino, concretizzati con la morte della bambina e dello stesso Ryu. L’atto della sepoltura rappresenta un ritorno alla terra, una inevitabile ciclicità cui l’essere umano non può sottrarsi. La fisicità però non riguarda esclusivamente il 44
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rapporto fra i due fratelli. Il corpo umano è come cera fra le mani del regista coreano. Tramite il corpo Park modella il dolore, scolpisce la rabbia e incide, in maniera indelebile, i segni apparentemente indecifrabili del destino. Il dipendente licenziato dal presidente Park diviene uno dei simboli della fisicità che pervade l’intera pellicola: l’uomo, dopo aver interrotto il tragitto in macchina del presidente, si auto-flagella in mezzo alla strada. Questo evento, apparentemente insignificante, non è solo un espediente narrativo per introdurre la freddezza e il cinismo del presidente Park, insensibile al dolore dell’uomo. Inconsciamente diviene naturale paragonare il disperato sacrificio dell’uomo a quello dei due fratelli: ci troviamo di fronte alla carne che si apre sotto la lama di un coltello, ad un corpo, con ferite aperte e sanguinanti, dalle quale far fuoriuscire, metaforicamente, tutta la disperazione accumulata. Park Chan-Wook non risparmia neanche la bambina, ormai defunta, alla distruzione del proprio corpo. Durante l’autopsia, il presidente Park è costretto ad osservare; allo spettatore viene concesso solamente l’ascolto dell’atroce rumore dello sterno della bambina spezzato dal medico legale. Il corpo e i liquidi prodotti dal corpo sono al centro della narrazione. Ogni personaggio perderà sangue: da Ryu a sua sorella, dai trafficanti d’organi al presidente Park nel cinico finale. Young-Mi non riuscirà a trattenere l’urina durante la tortura subita, così come il gruppo di ragazzi, vicini di casa di Ryu, in fase di masturbazione collettiva, lasceranno schizzare il proprio sperma. Ogni cicatrice racconta una storia. Park, nel caso di Sympathy for Mr. Vengeance, sceglie di mostrare tanti corpi che, come un mosaico, compongono un puzzle emotivamente toccante. Differente sembra essere stato l’approccio alla scrittura in Old Boy. Il film tratta la storia di Dae-Su, esuberante quarantenne sposato e con una bambina, rapito nel 1988 senza una ragione apparente. L’uomo viene rinchiuso in una stanza per quindici lunghi anni. Il pensiero di chi possa odiarlo a tal punto e la stessa prigionia lo logorano fisicamente e psicologica45
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mente. Con un cucchiaio, a mo’ di conte di Montecristo, scava un buco dietro al letto e per anni vive con la speranza di poter fuggire. Dalla tv nel frattempo apprende che la moglie è stata assassinata e che lui stesso viene incolpato dell’omicidio. Dae-Su viene improvvisamente liberato e dal quel giorno seguirà un solo dictat: vendetta. Ma un nuovo, crudele gioco del suo carceriere sta per iniziare: all’uomo vengono dati cinque giorni per scoprire le ragioni del suo rapimento e della sua segregazione. Verrà aiutato nelle sue ricerche da Mi-Do, una giovane cuoca conosciuta in un ristorante il giorno della sua liberazione. Al termine dei cinque giorni Dae-Su scoprirà che il suo carceriere non era altri che un ex compagno di scuola, Lee WooJin, che in passato aveva scoperto in atti sensuali con la sorella. Bastò una parola del giovane Dae-Su per far sì che chiunque fosse a conoscenza dell’incesto. La pressione fu troppa per un’adolescente dolce e riservata come la sorella di Woo-Jin, la quale si suicidò, sotto lo sguardo disperato del fratello. Per quanto rimanga forte in Park la costruzione di immagini incisive che, in qualche modo, riprendono la fisicità del capitolo precedente della Trilogia, è necessario evidenziare lo spostamento dell’attenzione del regista sulla costruzione psicologica dei suoi anti-eroi. Se in precedenza il filo rosso che legava storie e personaggi era il corpo, in questo caso la psiche è padrona della scena, divenendo lo strumento tramite la quale viene costruita l’intricata trama di Old Boy, ricca di incastri fra passato e presente, fra ricordo e realtà. Il primo elemento chiave che evidenzia la predominanza del “fattore mente”, sono le allucinazioni di cui è vittima Dae-Su nella prima parte del film. La prigionia lo porta ad immaginare delle grosse formiche che gli salgono dapprima sulle braccia e poi, via via, lungo tutto il corpo. L’uomo è completamente alienato ma, malgrado il gioco psicologico sia di una crudeltà agghiacciante, egli riesce a sopravvivere e a preparare la sua vendetta. L’ipnosi è un’altra componente fondamentale della storia. Il destino viene scritto tramite il controllo delle menti di Dae-Su e di Mi-Do. L’uomo viene liberato proprio in concomitanza di una seduta di ipnosi in modo che non capisca dove sia stato prigioniero fino a quel momento né tanto meno dove sia stato catapultato al momento del rilascio. Dae-Su intuisce di essere stato ipnotizzato ma è ancora ignaro del fatto che il suo incontro con Mi-Do non è un caso, ma l’aspetto più crudele della vendetta di Woo-Jin. Il controllo della mente diviene ad un tratto il nodo centrale di tutta la vicenda: l’uomo 46
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e la ragazza si incontrano e si innamorano non sapendo di essere padre e figlia. Essi sono condotti da Woo-Jin a percorrere la medesima strada incestuosa che egli stesso aveva intrapreso da ragazzo. A differenza di Ryu e della sorella in Sympathy for Mr. Vengeance, Dae-Su, pur facendo l’amore con la figlia espletando quindi un atto fisico, crea con lei un legame mentale inconscio, un rapporto di dipendenza psichica più che di necessità fisica. D’altra parte Woo-Jin si ritrova a dover convivere con il senso di colpa della morte della sorella con la quale, al di là di qualche approccio amoroso, non era mai arrivato ad avere un rapporto sessuale. Pur avendo solo desiderato mentalmente quell’acerbo corpo di adolescente Woo-Jin, infatti, non aveva mai fatto l’amore con la sorella. La ragazza però cominciò a non avere più il ciclo mestruale e iniziò a credere di essere incinta, fino a che, vinta dalle suggestioni dettate dalla sua mente, non cedette, gettandosi dalla diga. L’ipnosi è l’espediente tramite il quale Dae-Su vorrà dimenticare di nuovo, accettando la vita che gli è stata consegnata dal suo burattinaio. Il sentimento verso Mi-Do non potrà essere quello di un padre: l’uomo sarà costretto a seguire il destino che è stato costruito per lui. La misteriosa donna che lo aveva ipnotizzato poco prima della sua liberazione sarà colei che lo libererà di nuovo, stavolta dal peso delle proprie colpe, facendo in modo che la sua mente possa sprofondare di nuovo nell’oblio. Si arriva ora a sciogliere un altro nodo chiave della storia che, ovviamente, riguarda sempre il fattore psicologico sul quale pone le sue fondamenta. Passato e presente si intersecano in Old Boy senza soluzione di continuità. I ricordi di Dae-Su sono sepolti, non c’è traccia di passato nella sua coscienza. L’unico ricordo che gli rimane è quello che lo spinge a desiderare così ardentemente la sua vendetta. L’oblio dell’uomo viene compensato dalla lucidità dei ricordi impressi nella mente di Woo-Jin. Ogni singolo istante passato diviene il suo nuovo presente. Dae-Su esce dall’oblio in una mirabile sequenza in cui egli stesso sembra inseguire fisicamente il proprio passato. Vede se stesso da giovane, nella vecchia scuola e rincorre se stesso, cercando di gettarsi a capofitto in un passato che ristagnava immobile nella sua mente. Proprio in questo frangente rivedrà l’incesto fra i due fratelli e, finalmente, capirà il perché di tanto spietato rancore nei suoi confronti. Anche Woo-Jin prima di suicidarsi ricorda gli ultimi momenti della vita della sorella prima del volo fatale dalla diga: la foto scattata dalla ragazza in procinto di gettarsi è impressa nella mente dell’uomo, così come il ricordo della colpa. L’unica via di fuga 47
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rimane la morte e come Dae-Su sceglie di morire (metaforicamente parlando) facendosi ipnotizzare di nuovo, per poi rinascere sicuramente ignaro di tutto, ma certamente da perdente. “Ridi e il mondo riderà con te, piangi e piangerai da solo”: Dae-Su ripete dentro di sé questo insegnamento datogli dalla vita, riassumendo non solo il dolore subito in passato, ma anche profetizzando il solitario sentiero della sconfitta e della disillusione che dovrà, suo malgrado, continuare a percorrere. Per quanto Old Boy contenga ancora delle immagini estremamente esplicite e violente (l’estrazione dei denti con il martello e il taglio della lingua in primis), la fisicità è legata ad un aspetto spettacolare di una vicenda che sembra piuttosto essere improntata sulla mente più che sul corpo. A differenza di Sympathy for Mr. Vengeance, Park Chan-Wook, nel secondo capitolo della Trilogia, scava con rabbia nei meandri della coscienza e della psiche più che fra le carni, vive o morte, dei suoi personaggi. Il passo successivo è la consacrazione della vendetta che dopo essere stata fisica e mentale, diviene finalmente sacra e veicolo di redenzione con Sympathy for Lady Vengeance. La ventenne Geum-Ja si auto-accusa dell’omicidio di un bambino e viene condannata a tredici anni di prigione. Grazie all’appoggio di un prete, la donna in carcere crea intorno a sé un’aura di santità, aiutando le compagne di cella ad ambientarsi e a sopravvivere alla dura realtà della detenzione. Dal momento in cui viene rilasciata però Geum-Ja abbandona gli apparenti propositi di espiazione dei suoi peccati, dedicando ogni secondo della sua libertà alla preparazione e realizzazione della vendetta che la porterà a vedere la morte dell’uomo che in passato l’aveva incastrata e ricattata, il professor Baek, violento pedofilo e rapitore di bambini. La ragazza era stata costretta ad auto-accusarsi dato che Baek l’aveva minacciata di uccidere la figlia che Geum-Ja, benché ancora giovane ed inesperta, aveva voluto tenere. La donna preparerà meticolosamente la sua vendetta, dalla costruzione di una singolare pistola al trucco e all’abbigliamento, e riuscirà nei suoi propositi grazie all’aiuto di genitori e parenti delle innocenti vittime del terribile professore. In Sympathy for Lady Vengeance, salta immediatamente agli occhi il carattere sacro della vendetta. Come il Dio dell’Antico Testamento, cinico e vendicativo, Geum-Ja prepara accuratamente la sua vendetta, cercando in essa la redenzione e le ragioni della sua stessa esistenza. Il tentativo di scon48
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figgere il male che la donna porta in seno ha inizio in carcere. Durante un incontro fra detenute Geum-Ja afferma: “La prigione è un posto ideale per imparare a pregare. Qui non possiamo fingere. Noi sappiamo di essere tutti peccatori”. Nel buon proposito di non fingere in realtà la donna riuscirà a far credere alle altre e a se stessa che la fede sia l’unica arma necessaria per sconfiggere il senso di colpa. In prigione la donna crea intorno a sé un’aura di buona samaritana che le altre “peccatrici” (e lo spettatore) riescono a intravedere. La luce emanata dal viso di Geum-Ja diviene una guida per le detenute: alla prostituta che ha ucciso il suo protettore la donna consiglia di uccidere se stessa per poi rinascere di nuovo, spogliata dei suoi peccati; alla rapinatrice Geum-Ja offre il suo rene; in carcere la ragazza somministra del veleno alla “strega”, detenuta violenta e volgare, che costringeva le altre ragazze a sudici rapporti saffici; infine aiuta un’anziana nord-coreana a morire in pace. Geum-Ja riceverà in dono da quest’ultima un quaderno sul quale inizierà a pianificare la sua futura vendetta, incominciando dal progetto della pistola decorata da spinosi steli di rosa rossa. La realtà è ben diversa dai convincimenti personali. Non appena la donna esce di prigione rifiuta il tofu che il prete che l’aveva seguita per anni le aveva offerto come simbolo di espiazione dei peccati. La giustizia precostituita non coincide affatto con quella personale. Tredici anni di prigione non hanno condotto la donna alla redenzione: la giustizia è un concetto estremamente soggettivo e, pur avendo scontato una pena che la redime agli occhi della società, la strada dell’espiazione è ancora lunga e può concretizzarsi solo per mezzo della vendetta. Geum-Ja, con gli occhi esaltati da un eyeliner rosso sangue, non emana più luce dal viso, ma rabbia e desiderio di riscatto, che si manifestano inizialmente con il rifiuto del tofu. Come prima forma di espiazione la donna decide di andare in casa dei genitori del bambino ucciso tredici anni prima da Baek e si taglia un dito, ma la mutilazione non può bastare per cancellare il male che la divora dall’interno. Geum-Ja non riesce ad amare pienamente il garzone della pasticceria 49
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dove ha trovato lavoro; l’impossibilità di mostrare sentimenti si manifesta nel momento in cui ritrova la figlia, viva e vegeta, adottata da una coppia di australiani. È proprio alla bambina che confesserà il suo senso di colpa così duro a morire. Ha costretto la figlia a vivere senza madre, ha aiutato Baek a commettere un efferato omicidio e ora è costretta a commettere un nuovo peccato: uccidere l’uomo che le ha distrutto la vita. Geum-Ja è trasportata come una foglia dal vento della vendetta, non riesce ad intravedere la strada della redenzione. La santa diventa umana e porta con sé il fardello delle colpe. Tutte le donne che aveva aiutato in prigione divengono ora uno strumento per mettere in piedi la propria vendetta. L’ex prostituta le trova una casa, la rapinatrice l’aiuta a costruire la pistola, una delle vittime della “strega”, amante di Baek, diventa il modo per avvicinare l’uomo e per rapirlo. Dopo aver spinto i parenti delle piccole vittime a torturare ed uccidere Baek, Geum-Ja spara due colpi sul corpo senza vita del professore. Ormai la donna non è più la santa, né l’angelo della vendetta, ma il simbolo di una redenzione vicina, ma ancora non raggiunta. Nel finale, fra i labirintici vicoli di una Seul irreale, Geum-Ja, la bambina e il ragazzo si inseguono fino a fermarsi in un viottolo a guardare la neve scendere dal cielo. Ai genitori delle vittime era bastato uccidere Baek e cantare un grottesco “Tanti auguri a te”, per liberarsi dal peso della morte dei propri figli e sentirsi più leggeri. La donna invece si sente ancora incatenata. La figlia e il ragazzo aprono le bocche ed iniziano a mangiare la neve, il cui bianco diviene simbolo di purezza e di espiazione. Bastano pochi fiocchi per placare la loro sete di redenzione; per Geum-Ja non basterebbe tutta la neve del mondo. In un sublime finale carico di spiritualità, la donna immerge il suo volto nel bianco tofu: riesce finalmente a piangere, la redenzione è avvenuta. Anche Old boy termina con Dae-Su e Mi-do che si incontrano in un bosco innevato, ma in quel caso il bianco simboleggia non la liberazione, ma un ritrovato oblio. La vendetta è avvenuta tramite i corpi nel primo capitolo della Trilogia e tramite le menti nel secondo. Con l’ultimo film sulla vendetta Park ChanWook libera definitivamente non solo Geum-Ja, ma tutti suoi personaggi che nei lavori precedenti avevano cercato la pace interiore tramite la vendetta. Per questa ragione quella di Park può essere definita Trilogia del Corpo, della Mente e dello Spirito. Uno degli aspetti più significativi della Trilogia rimane indubbiamente la messa in discussione del concetto di giustizia. I tre lavori di Park sono 50
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caratterizzati dall’impossibilità di saper distinguere fra giustiziere e giustiziato. Come già affermato in precedenza, per il regista coreano non è fondamentale esprimere i valori di una legge considerata “giusta” dalla morale corrente. Il suo intento sembra essere piuttosto legato all’arbitrio del singolo essere umano che decide da sé i metodi e le dinamiche del suo personalissimo e relativo concetto di giustizia. In Sympathy for Mr. Vengeance la vendetta ha una forma differente ma lo stesso primordiale impulso scatenante. Ryu subisce il trauma dell’inganno dei trafficanti d’organi e, per prima cosa, cerca di placare la sua sete di vendetta tramite l’omicidio. Siamo ad una vendetta primordiale, ad un regolamento di conti, la classica legge del taglione. Il presidente Park, freddo e cinico, inizia a comprendere quanto sia insignificante la sua vita proprio nel momento in cui perde la figlia. Si illude di poter raggiungere la pace interiore solo mettendo in atto la sua spietata vendetta, simile a quella di Ryu e altrettanto simile a quella degli anarchici che vendicheranno la morte di Young-Mi nel finale. Nel primo capitolo della Trilogia assistiamo ad un’escalation di violenza che genera altra violenza senza soluzione di continuità. Il senso di giustizia genera una reazione a catena che trasforma l’uomo in bestia e con ciò Park Chan-Wook non esprime un giudizio, ma lascia libero lo spettatore di riflettere non tanto sull’effettivo valore di una giustizia intrapresa per vie personali, quanto piuttosto sulla sottile linea che separa l’umanità dalla bestialità, stesso concetto che espresse con grande efficacia Mario Bava con Reazione a catena5 più di trent’anni fa. L’essere umano non è così lontano dagli animali che studia (insetti nel caso del film italiano in questione). Le leggi sono le stesse, quelle della natura, le quali, inserite in una qualsiasi società divengono illogiche e prive di un’apparente giustificazione. Il dualismo Ryu-Park viene amplificato dal rapporto fra Dae-Su e Woo-Jin in Old Boy. Nel secondo capitolo della Trilogia la vendetta è doppia: da una parte troviamo Dae-Su alla disperata e furiosa ricerca del suo carceriere e, dall’altra, quest’ultimo che perpetua la sua vendetta ormai da quindici anni. In questo caso la giustizia si rifà sempre ad un’etica estremamente personale con la sola differenza che il primo cerca ancora la vendetta fisica 5
Reazione a catena (Id., Italia, 1971) di Mario Bava, con Claudine Auger, Luigi Pistilli, Claudio Volontà, Isa Mirando, Anna Maria Rosati, Leopoldo Trieste, Laura Betti.
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(vuole quasi mangiare vivo il suo avversario, così come aveva fatto nella celebre sequenza del polipo) e pretende il sangue e la morte del suo misterioso nemico mentre il secondo cerca, tramite una violenta pressione psicologica, di annichilire le difese dell’uomo che gli ha distrutto l’esistenza. Nel finale del film si avverte comunque un cambio di tendenza: il faccia a faccia fra i due protagonisti del film non si risolve in uno scontro fisico, come nel caso di Sympathy for Mr. Vengeance, ma in una sapiente sostituzione del desiderio di vendetta con un crescendo di senso di colpa che immobilizza entrambi gli uomini. Dae-Su, sconvolto dalla scoperta che Mi-Do, la ragazza di cui si sta innamorando, è in realtà sua figlia, cede psicologicamente e invoca il perdono del suo carceriere in maniera tanto plateale quanto ridicola. L’uomo chiede pietà non per la sua colpa del passato ma per quella del presente: in un certo senso la colpa dell’incesto che Woo-Jin aveva subito su di sé per anni ricade su Dae-Su solo nel momento in cui egli si sente effettivamente coinvolto. D’altra parte è proprio nel finale che Woo-Jin ha un forte cedimento mentale: il ricordo della sorella riaffiora lentamente, fino a che pian piano il giovane perde interesse per quella vendetta che avrebbe dovuto lenire i suoi sensi di colpa. Finisce per spararsi un colpo in testa e, con questa scelta, Park Chan-Wook dimostra ancora una volta che l’essere umano, seppur annebbiato dalla propria sete di sangue, non può dimenticare il proprio passato ed è condannato a conviverci in eterno, a meno che non decida di porre fine alla sua vita. Pur portando la vendetta al limite estremo non esiste la possibilità di frenare la giustizia la quale, prima o poi, finirà per rivoltarsi contro l’uomo stesso che l’ha applicata. In questo senso la linea fra giudice e condannato diviene molto più sottile e le inversioni di tendenza fra le due figure diventano man mano sempre più frequenti, fino ad auto-annullarsi. Da questo punto di vista è interessante analizzare il fattore giustizia in Sympathy for Lady Vengeance, film che diviene l’emblema di quanto analizzato finora. La storica lotta fra il Bene, rappresentato dalla giustizia portata avanti da eroi senza macchia e senza paura, e il Male, dipinto con il volto dei nemici dell’ordine e della legge, finisce per non avere senso nel cinema di Park Chan-Wook. Il regista coreano, soprattutto con il terzo capitolo della Trilogia, rende estremamente ambiguo il dualismo fra ragione e irrazionalità, giustizia e ingiustizia, boia e condannato a morte. Un classico 52
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esempio potrebbe essere Infernal affairs6 (successivamente ripreso da Scorsese con The departed – Il bene e il male7), opera che mette in mostra l’assoluta incompatibilità dell’uomo con concetti astratti come, per l’appunto, il Bene e il Male. Ma a differenza della storia dei due poliziotti, l’uno talpa di un boss della mafia di Hong Kong e l’altro infiltrato nella banda dello stesso boss, la galleria dei personaggi che si susseguono in un film come Sympathy for Lady Vengeance, rende ancora più sottile la distinzione. Mentre i due poliziotti fingono di essere ciò non sono, costruendosi due identità parallele che finiranno per morire, Park Chan-Wook lascia aperta la via alle considerazioni più disparate riguardo al modo ironico e cinico allo stesso tempo di trattare i concetti di Bene e Male. Geum-Ja inizialmente è un personaggio negativo. Appare allo spettatore come una spietata donna che non esita a replicare davanti alle telecamere le dinamiche dell’omicidio del quale si è auto-accusata; durante il carcere diviene quasi una santa ma, dopo la liberazione, ritorna nuovamente fredda e cinica. Dov’è la Verità? Chi è Geum-Ja e quale sentimento rappresenta? La risposta è molto semplice: la realtà percepita è solo una delle molteplici proiezioni possibili, così come molteplici sono i sentimenti che un essere umano deve sentirsi obbligato a mostrare. Park è molto attento a far trapelare dalle immagini un senso di incertezza che destabilizza lo spettatore impedendogli di esporsi in giudizi facili. La strada del giudizio è molto più tortuosa o, se vogliamo, è una strada senza uscita. Mentre tutto il fanatismo dei cattolici in vena di caccia alle streghe si riversava su Geum-Ja, che tutti consideravano colpevole, ci si accorge ben presto che in realtà la sua innocenza è tanto evidente quanto scomoda. Il cineasta coreano mostra una realtà apparente che, tramite astuti giochi di scrittura, viene presa inizialmente come verità assoluta ma, pian piano, insinuando l’ombra del dubbio, comincia a crollare come un castello di carte. La Verità, dunque, è quella che ogni uomo vede come assoluta e che invece non è altro che una visione soggettiva, relativa, spesso e volentieri imposta. Prendendo come esempio la figura del professor Baek senza dubbio si potrebbe affermare che in questo caso Park abbia dipinto un personag6 Infernal affairs (Wu jian dao, HK, 2002) di Andrew Lau, con Andy Lau, Tony Leung, Chiu Wai, Anthony Wong Chau-Sang, Eric Tsang, Kelly Chen, Sammi Cheng, Edison Chen. 7 The departed – Il bene e il male (The departed, USA, 2006) di Martin Scorsese, con Leonardo DiCaprio, Matt Damon, Jack Nicholson, Mark Wahlberg, Martin Sheen, Ray Winstone, Vera Farmiga, Alec Baldwin, Anthony Anderson.
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gio effettivamente negativo. Pedofilo, pluri-omicida, violento e per di più senza il minimo senso di colpa. Non ci può essere niente di peggio probabilmente. Invece man mano che la storia va avanti il personaggio di Baek si trasforma da carnefice a vittima tramite un procedimento semplice e allo stesso tempo efficace. I parenti dei bambini uccisi dall’uomo vengono riuniti in una vecchia scuola e costretti a guardare delle videocassette in cui sono registrati gli ultimi momenti di vita delle giovani vittime. Ritorna di nuovo la causa, che scatenerà un effetto che sarebbe fuori controllo se non fossero presenti Geum-Ja e l’ispettore di polizia che ha acconsentito ad aiutarla. In questo caso i parenti, ovvero le vittime, divengono spietati torturatori senza scrupoli, trasformandosi nello strumento di vendetta della donna. Le vittime, uccidendo un assassino, divengono assassini a loro volta per una causa “giusta”, in cui diviene ancora più evidente la relatività del concetto di giustizia; Baek, legato su una sedia e dilaniato da armi da taglio di ogni tipo, appare quasi come un capro espiatorio. A questo proposito Park afferma che nei suoi film “si parla di paura e dolore; la paura prima dell’azione violenta, il dolore dopo e questo si applica sia alla vittima che al carnefice”8. Persino l’ispettore di polizia, in teoria tutore dell’ordine e di una giustizia che appare quanto mai falsa, si trova piegato al cospetto delle regole della rabbia e dell’odio, inscindibili dall’apparenza buona (o buonista?) dell’essere umano e della parte che deve interpretare all’interno della società. Il prete che si occupava di Geum-Ja mostra la sua anima falsa nel momento in cui consegna a Baek le foto scattate durante l’incontro fra la donna e l’ex detenuta amante del professore. Ma la redenzione non si compra con i soldi e tutto ciò Park non esita a dimostrarlo. Il senso di colpa in Sympathy for Lady Vengeance è un sentimento che traspare molto più nitidamente rispetto ai due precedenti lavori. Se Ryu sa di aver sbagliato ma sente ancora forte l’istinto di sopravvivenza e se Dae-Su decide di tagliarsi la lingua, nascondendosi nel mutismo pur di essere perdonato e poter dimenticare di nuovo, Geum-Ja, vittima del senso di colpa, non cerca una scappatoia per ovviare ai suoi errori, ma affronta il destino a viso aperto. Da una parte fa di tutto per portare a termine il suo piano di vendetta ma, dall’altro, cerca di ottenere la liberazione da ciò che la opprime. La donna ha scelto di mettersi in 8 Citazione tratta dal sito http://www.bloomriot.org all’indirizzo http://www.bloomriot.org/996/parkchan-wook.html
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gioco e di trasformare la sua identità pur di arrivare al duplice obiettivo. Lo raggiungerà, e sarà l’unico personaggio della Trilogia a farla franca nei confronti della società e della vita stessa. Per quanto le tre opere sulla vendetta, pur mantenendo una certa organicità fra di loro, siano slegate a livello stilistico, alcuni tratti comuni balzano immediatamente all’occhio come inossidabili punti di riferimento della poetica di Park Chan-Wook. L’autore coreano sembra essere ossessionato dalla privazione della libertà. L’uomo ha l’illusione di essere libero ed è proprio per mantenere viva questa illusione che si trasforma in animale nel momento in cui la perde. La prigione può essere metaforica, come nel caso di Ryu, ingabbiato nella sua sordità, isolato dagli altri uomini, chiuso e perso nella sua solitudine e in un mutismo molto vicino a quello del Bad Guy9 di Kim Ki-Duk. Anche Dae-Su diverrà muto dopo essersi tagliato la lingua e, facendosi ipnotizzare di nuovo nel finale, si auto-imprigionerà in una libertà illusoria più tollerabile della realtà che il destino gli ha assegnato. L’idea di perdita della libertà, al di là dei simbolismi, si manifesta anche in modo assolutamente naturale. In Old boy Dae-Su viene imprigionato per quindici anni; in Sympathy for Lady Vengeance, la “dolce” Geum-Ja deve necessariamente perdere la libertà, come primo passo che la condurrà nella dura via dell’espiazione dei suoi peccati. Come nel caso della impossibile distinzione fra Bene e Male, i personaggi di Park non solo vengono trascinati in gabbia come degli animali, ma, a loro volta, si trasformano in carcerieri, cercando nel dolore altrui la propria rinascita e il seppellimento del proprio senso di colpa. Il rapimento diviene quindi la prima forma di vendetta: la figlia del presidente Park in Sympathy for Mr. Vengeance viene rapita, così come la giovane fidanzata di Ryu viene legata e torturata. La differenza fra i due rapimenti sta nell’intenzione: il primo nasce come una semplice ritorsione che finisce per innescare il terribile meccanismo di un destino cieco e cinico; il secondo, invece, attinge da quel senso di privazione che attanaglia l’animo del presidente Park, creando il primo passo di una vorticosa escalation di violenza. Nel caso del secondo capitolo della Trilogia, il rapimento diviene un nodo cruciale: a Dae-Su vengono rubati quindici anni della sua vita come a Geum-Ja, nel 9 Bad Guy (Nabbeun namja, Corea del Sud, 2001) di Kim Ki-Duk, con Jo Jae-Hyeon, Seo Won, Kim Yun-Tae, Choi Duek-Mun, Choi Yoon-Young, Shin Yoo-Jin, Kim Jung-Young, Nam Gung-Min.
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terzo film, viene inflitta una condanna per un omicidio mai commesso. In gabbia l’essere umano reagisce esattamente come un animale. Nel momento in cui ottiene di nuovo la sua libertà non è soddisfatto, poiché la razionalità che lo rende apparentemente superiore agli animali è indissolubilmente legata al suo opposto, ovvero a quell’irrazionalità che sarà da una parte la sua unica forma di riscatto e, dall’altra, la sua rovina. Park insiste notevolmente sul concetto di famiglia, concentrando su di esso il suo ossessivo discorso sulla privazione. Ogni figura materna diviene quasi come un’icona sacra, magnificamente rappresentata dalla Lady Vendetta dell’ultimo capitolo. I personaggi di Park sembrano essere privati della figura della madre che, in qualche modo, potrebbe certamente incarnare il puro concetto della libertà. “Come si dice ‘mamma’ in coreano?”, chiederà la piccola figlia di Geum-Ja: la madre rimarrà sempre collegata alla figlia tramite un invisibile cordone ombelicale. Ma se Geum-Ja è una madre in cerca della figlia abbandonata in passato, Ryu e Mi-Do hanno visto morire le proprie madri. Il primo ne cercherà l’ombra negli occhi della sorella malata; la seconda, invece, cercherà di sopperire alla privazione tramite l’amore per Dae-Su. In quest’ultimo caso la faccenda è molto più complessa. Mi-Do, personaggio estremamente ambiguo nella sua inconsapevolezza, commette un incesto forzato con il padre, cercando di recuperare tramite l’esperienza carnale quel rapporto padre-figlia di cui la ragazza ha un disperato bisogno: un legame fisico, in cui la figlia necessita di sentire la protezione di braccia forti e virili. Nel caso di Woo-Jin, invece, il rapporto fraterno, da cui Park riesce a trarre fuori ogni idea di sudicia perversione, diviene l’anticamera dell’amore e della scoperta del corpo. Il fattore erotico fra i due fratelli assume un carattere di dolcezza e purezza che viene distrutto dalla crudeltà delle malelingue che spingeranno la ragazza a gettarsi dalla diga. Con ciò non si vuole affermare che un tale rapporto sia considerato lecito o giusto dal regista poiché, come già detto in precedenza, il concetto di giustizia è estremamente vago nell’opera di Park Chan-Wook. Il rapporto fra Woo-Jin e la sorella diviene qualcosa di assolutamente unico e irripetibile. Fra i due si percepisce un’aura di sacralità, una sorta di poetico e primordiale inno alla vita carico di rievocazioni mitiche, ricreato anche nella sequenza in cui DaeSu e Mi-Do giacciono su un letto, addormentati con del gas dopo aver fatto sesso. Al suono leggero dei loro respiri si aggiunge quello più pesante (per via della maschera antigas) di Woo-Jin. Il trio è riunito su un solo letto in cui 56
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vita, morte, amore ed incesto sembrano scambiarsi vicendevolmente di posto prima di rarefarsi, come gas, nell’aria calda della stanza. L’infanzia è, per Park, un momento della vita in cui si è particolarmente sensibili alle vicende familiari e in cui possono generarsi i primi conflitti interiori che porteranno alla futura perdita di quell’infantile illusione di libertà che tiene vivo ogni essere umano. Gli oggetti dell’infanzia, nell’opera del cineasta coreano hanno un duplice scopo: da una parte, ovviamente, quello ludico ma, dall’altra, assumono una funzione carica di una forte drammaticità. Ogni oggetto sembra essere legato sia alla vitalità tipica del periodo infantile che, inevitabilmente, alla morte. È il caso della collanina in Sympathy for Mr. Vengeance, prima oggetto delle ingenue vanità della piccola figlia del presidente Park e, successivamente, ciò che porterà la bambina a cadere nel fiume e morire annegata. Anche in Sympathy for Lady Vengeance, semplici oggetti dell’infanzia si possono trasformare in orrendi trofei. Baek tiene legati al cellulare palline e pupazzetti appartenuti alle sue piccole vittime. In questo modo il gioco infantile diviene feticcio di un pervertito e simbolo di una libertà spezzata prima ancora di prendere il volo. Ma non c’è volo senza ali. Il giorno del suo rapimento Dae-Su tiene in mano un paio di ali d’angelo da regalare alla figlia, Mi-Do, ancora bambina, la quale le riceverà solamente dopo quindici anni, nel momento in cui il padre diverrà il suo amante. In un flash di struggente poesia, la ragazza è seduta sul letto, nel luogo dove il padre è stato imprigionato e attende, impaziente, con un paio di alette legate alle spalle, notizie dell’ormai amante Dae-Su per poi potersi alzare e spiccare il volo. Se in Park il concetto di giustizia è quanto mai soggettivo, una certa oggettività si può ravvisare invece nell’idea del raggiungimento di una Verità finale ed inequivocabile. Se la legge è una questione che va oltre l’etica e la morale comune, divenendo un fatto estremamente personale, la Verità (non intensa come obiettivo personale di un artista in senso tarkovskijano) e l’oggettività di un determinato fatto non possono essere 57
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causa di fraintendimenti. Ogni interprete delle ciniche e spesso grottesche messinscene di Park è pervaso da un suo orgoglio personale che non solo offusca la razionalità, ma che impedisce anche di saper visualizzare la realtà dei fatti, la verità che pone le basi su un destino forse non apparentemente evidente, ma senza dubbio univoco. La formula più usata dal regista per definire l’evidenza della verità è, ovviamente, l’immagine stessa. Park, al momento di sciogliere un’intricata vicenda, nel momento in cui si avverte la necessità della rivelazione della verità, permette ai suoi personaggi e, dunque, allo spettatore, non solo di “guardare” ma anche di “vedere”. La Verità viene dimostrata sempre con delle immagini. Che siano fotografie, disegni o addirittura video, la realtà dei fatti, celata nell’intimo di ogni individuo, emerge inesorabilmente tramite le tracce lasciate nel corso del tempo. Nel primo capitolo della Trilogia, ad esempio, il presidente Park riesce ad arrivare alla conclusione che il rapimento della figlia sia da attribuire a Ryu proprio perché, giunto in casa del ragazzo tramite una banale informazione di un suo dipendente, trova delle foto che mostrano la bambina con lo stesso Ryu. Park Chan-Wook, raffinato poeta dell’immagine, inserisce continui sottotesti all’interno dei suoi quadri; tramite questo procedimento l’ultimo nodo di ogni enigma verrà sciolto. Anche in Old Boy gli scatti fotografici hanno una fondamentale funzione narrativa. Sarà proprio tramite alcune fotografie, attaccate in ordine cronologico su un album, che Dae-Su scoprirà che Mi-Do è sua figlia. Sfogliare con furia crescente le pagine del raccoglitore significa riesumare una vita intera, mai vista crescere, nascosta per anni e creduta sepolta per sempre. L’uomo dovrà cedere davanti all’evidenza della realtà mostrata in maniera tanto cruda, esattamente come Woo-Jin dovrà arrendersi nel momento in cui vedrà la foto della sorella, scattata un attimo prima di suicidarsi. Anche in questo caso la Verità viene mostrata tramite un’immagine. Dae-Su fa notare al suo carceriere che la data impressa sulla foto coincide con quella della morte di sua sorella. In questo modo anche Woo-Jin dovrà fare i conti con qualcosa di esterno alla memoria, con la traccia stessa, in un presente di rimorsi e sensi di colpa, di un passato che, a differenza degli affetti, non morirà mai. L’immagine non è solo un’orma indelebile. Una fotografia è un momento unico fissato per sempre; una qualsiasi immagine video è la ripetizione di una determinata azione che rimarrà tale in eterno: tramite essa si fissa la vita stessa e la sua perpetuazione. La morte, proprio in base alla sua assoluta 58
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inscindibilità dalla vita, può anch’essa ripetersi in eterno. È il caso dei video mostrati da Geum-Ja ai genitori delle vittime del professor Baek: la donna ritiene che l’unico modo per stimolare le coscienze affrante delle famiglie sia quello di mostrare la Verità tramite l’immagine impressa nei nastri del pervertito. Vita e morte vengono (di)mostrate senza alcun tipo di filtro, parola o gesto. La Verità non può essere detta, poiché perderebbe tutta la sua essenza e la sua forza. Totò, in Che cosa sono le nuvole?10 affermava che la Verità “non bisogna nominarla, perché appena la nomini, non c’è più”. La citazione pasoliniana è necessaria nel momento in cui ci si trova di fronte alle problematiche nello stabilire cosa sia la Verità: essa è la fiamma che brucia all’interno di ogni essere umano, vagamente percepibile e assolutamente soggettiva. Nel momento in cui le parole tentano di spiegarla essa, automaticamente, muore spenta da un vento invisibile. Park Chan-Wook, in ambito di giustizia, etica e moralità, aveva lasciato in sospeso il concetto di Verità, facendo sì che le azioni dei suoi personaggi rimanessero contraddittorie o ambigue. Ma la dimostrazione della realtà dei fatti non può rimanere sospesa. Il cineasta coreano sente l’esigenza di dover mostrare tramite “l’immagine nell’immagine” quella Verità che, se detta, negherebbe se stessa. Il video può suggerire anche una Verità filtrata. In una delle sequenze iniziali di Sympathy for Lady Vengeance, l’immagine di Geum-Ja sarà trasmessa su tutti i canali televisivi coreani, durante una spietata ricostruzione recitata del presunto omicidio del bambino per colpa del quale la donna viene arrestata. In questo caso Park sembra giocare notevolmente con il concetto di realtà: la gente, affamata di cronaca nera e di notizie scandalose, prende per vero ciò che viene mostrato in televisione proprio perché vuole che sia vero. Una ricostruzione però non corrisponde alla verità proprio perché imitazione della stessa: l’essere umano cerca la realtà nella sua rielaborazione. Per questa ragione la Verità ricostruita viene fatta coincidere con un evento effettivamente mai compiuto, ovvero l’omicidio del bambino da parte di Geum-Ja. Il colpevole è sempre stato Baek e la sequenza nella scuola abbandonata sarà teatro della realtà e non della sua imitazione. Park Chan-Wook mostra la realtà in modo tale da non doverla esprimere a parole. Le immagini sono pure dimostrazioni di quanto la realtà stessa 10 Che cosa sono le nuvole (Episodio contenuto in Capriccio all’italiana, Italia, 1968), di Pier Paolo Pasolini, con Totò, Ninetto Davoli, Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Laura Betti, Adriana Asti, Domenico Modugno, Carlo Pisacane, Francesco Leonetti, Luigi Barbieri, Piero Morgia.
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possa parlare da sé con impronte impresse nella vita. Tramite il cinema il regista mostrerà, come già accennato in precedenza, l’orrore nascosto dentro l’essere umano, una tragica visione della realtà che, per l’appunto, si manifesterà tramite immagini, senza essere mai pronunciata. La vendetta spesso è solo apparentemente la conseguenza di una colpa. A volte, e come abbondantemente disquisito in precedenza, essa è una forma di giustizia del tutto personale e totalmente al di fuori di schemi precostituiti. La dea greca della vendetta, Nemesi, ha nel suo nome la radice stessa della sua funzione. La parola “nèmesis” deriva dal verbo “nèmo”, “distribuire” e, nello specifico, la dea aveva come compito la distribuzione di un dolore che fungesse da compensazione per un periodo particolarmente fortunato. In questo caso la giustizia tramite la vendetta assume la funzione di compensazione, poiché l’armonia dell’universo è possibile solo tramite il perfetto equilibrio fra Bene e Male. Il mito ha sicuramente dei punti in comune con l’idea di fondo di Park Chan-Wook. Quello che viene spesso definito come semplice cinismo, si differenzia da un compiaciuto atteggiamento verso l’orrore che si ritrova nell’opera tarantiniana o anche nel lavoro di altri registi coreani, come ad esempio in A bittersweet life11 di Kim Ji-Woon. Le opere di Park, in particolar modo la Trilogia e Judgement, trasudano una cattiveria esasperata pur non arrivando a raggiungere livelli eccessivi di spettacolarizzazione della violenza (con eccezione di Old Boy, sicuramente il più fortunato a livello commerciale anche per questa ragione). Park colpisce dentro, arrivando a percuotere le corde più nascoste, scavando in una intimità riservata spesso e volentieri utilizzata come nascondiglio di un’istintività repressa e pronta ad esplodere da un momento all’altro. Il regista costruisce delle situazioni in cui il Bene e il Male, non avendo valore, si annullano a vicenda, ricreando quell’equilibrio necessario all’armonia della vita, simboleggiato in maniera quanto mai esatta dalle narrazioni mitiche a cui si faceva riferimento in precedenza. Il concetto di armonia non ha nulla a che vedere con la serenità. Essa è sinonimo di giustezza. In musica l’armonia è l’insieme delle teorie che determinano le regole della sovrapposizione di suoni e la loro reciproca con11 A bittersweet life (Dalkomhan insaeng, Corea del Sud, 2005) di Kim Ji-Woon, con Hwang Jeong-Min, Jin Ku, Kim Hae-Gon, Kim Roe-Ha, Kim Yeong-Cheol, Lee Byung-Hun, Lee GiYeong, Lee Mu-Yeong, Moon Eric, Oh Dal-su, Oh Kwang-rok.
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catenazione all’interno di una data tonalità. Pur trattandosi di una teoria estremamente connessa a fattori culturali, l’armonia è sicuramente da rapportare all’idea di equilibrio. Il ruolo di Park Chan-Wook è vicino a quello di un musicista: le sue storie, simili a tante melodie prive di senso singolarmente, raggiungono la completezza solo intersecandosi fra di loro e viste ed ascoltate nel loro insieme. Come un compositore il cineasta coreano esprime il senso dei suoi pensieri proprio tramite la regola stessa che li tiene legati. Per la comprensione di un’opera è necessario prendere singolarmente ogni melodia ed analizzarla, proprio come si è fatto per le singole storie dei personaggi; per perdersi nell’emozionante ambiguità dei lavori di Park però, basta lasciarsi trasportare dal fiume della totalità. La vendetta quindi, componente fondamentale del cinema di Park, non è più solo un gioco ironico o un espediente per divertire lo spettatore, ma la forma di “giustizia compensativa” necessaria per arrivare a quell’armonia su cui si basa la realtà umana, sempre in bilico fra la vita e la morte, il bene e il male, il tutto e il niente, la verità e l’illusione.
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Capitolo quarto
Lucida follia
Dopo il vorticoso sviluppo economico in Corea del Sud avvenuto dopo l’ascesa al potere nel 1993 di Kim Young-Sam, primo presidente sud-coreano a non avere precedenti militari, il cinema si trovò a confrontarsi con problematiche legate sia alla Storia che alle difficoltà inerenti alla costituzione di una nuova società. Se da una parte alcuni registi iniziarono a denunciare i grandi drammi del passato, come fecero ad esempio Jang Sun-Woo trattando il tema della rivolta di Kwangju del 1980 o Park Kwang-Su con un lavoro come A single spark, dall’altra giovani cineasti emergenti avvertirono il desiderio di trattare tematiche sociali e politiche che analizzassero la strada che il paese stava iniziando ad intraprendere. Uno dei temi ricorrenti del nuovo cinema coreano è indubbiamente quello della follia, argomento trattato nelle maniere più disparate, provocata da fattori tramite i quali vengono mostrate le contraddizioni del passato e dell’odierna società coreana. Una delle opere più rappresentative da questo punto di vista è, senza ombra di dubbio, A petal, film di grande spessore e di rara intensità. Dopo l’incarcerazione di Kim Dae-Jung, oppositore del regime instaurato dal generale Chun Doo-Hwan che aveva preso il potere con un colpo di stato dopo l’omicidio del presidente Park Chung-Hee (evento narrato in President’s last bang1 di Im Sang-Soo), diverse migliaia di coreani, in supporto al dissidente incarcerato, si recarono a Kwangju, città natale di Kim. Il 18 maggio 1980, in violazione della legge marziale in vigo1
President’s last bang (Geuddae geusaramdeul, Corea del Sud, 2005) di Im Sang-Soo, con Song Jae-Ho, Han Suk-Kyu, Baek Yun-Shik, Jeong Won-Jung, Jo Sang-Geon, Kim Sang-Ho, Kwun Byung-Gil, Lee Jae-Gu, Kim Seong-Wook, Cho Sang-Gun.
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re, ci fu una grande manifestazione di dissenso. Seguirono dieci giorni di violenta repressione militare che culminò, il 27 maggio, con la presa della città da parte dei soldati e, successivamente, con un massacro che lasciò un’ulteriore scia di sangue sulle pagine della storia coreana. Jang Sun-Woo, in carcere ai tempi degli scontri di Kwangju, dirige un film che non incentra la sua narrazione direttamente sul tragico evento, ma sugli effetti che esso ebbe sui due personaggi protagonisti di A petal. Il regista non sceglie né la trama documentaristica né quella romanzata e verranno mostrati solo alcuni frammenti degli scontri fra militari e popolo in rivolta. L’espediente della follia viene utilizzato in questo caso per ricostruire un evento tramite le sue stesse conseguenze sulla psiche umana. Da una parte troviamo una quindicenne sotto shock dopo la morte della madre durante gli scontri e, dall’altra, un operaio che, dopo aver trovato per caso la ragazza mentre vagava nelle campagne, commette una serie di violenze nei suoi confronti. Malgrado la difficile situazione, i due si sentiranno legati da una singolare forma d’affetto, le cui basi sono poste proprio nella profondità dei loro ricordi e del loro shock emotivo. La ragazza si sfregia, piange, non parla e non vuole ricordare; l’uomo si fa simbolo di una violenza destinata a ripetersi all’infinito. I due modi di intendere follia e turbamento emotivo fanno di A petal un film in cui non solo si fa il punto della situazione sulle conseguenze emotive di un evento più che sul fatto politico in sé, ma in cui viene introdotta anche una tematica che verrà ripercorsa altre volte da molti cineasti coreani per scandagliare l’interno di una società nuova e già piena di contrasti e contraddizioni. Le diverse manifestazioni della follia vengono dipinte in maniera altrettanto efficace nel 2002 da Kim Ki-Duk con The coast guard2. Anche in questo caso la follia è una medaglia le cui facce sono raffigurate da una ragazza che vede il fidanzato morire per errore sotto i colpi di mitra di un militare incaricato di controllare eventuali approdi di spie provenienti dalla Corea del Nord, e da quella rappresentata dallo stesso soldato, omicida per caso. In una situazione assurda, in cui si aspetta un’invasione nord-coreana che non arriverà mai, il vero nemico da combattere è il dolore provato dai due protago2
The coast guard (Hae anseon, Corea del Sud, 2002) di Kim Ki-Duk, con Jang Dong-Kun, Kim Jeong-Hak, Park Ji-A, Yu Hye-Jin, Jeong Jin, Kim Gu-Taek, Kim Kang-Woo, Park Yun-Jae, Kim Tae-Woo, Kim Yeong-Jae.
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nisti. La follia è un germe che si insinua pian piano nella psiche dei due giovani, è un morbo che li divorerà completamente. Il destino cieco e la paura di una guerra improbabile provocano un totale crollo psicologico della ragazza che, dopo l’omicidio del fidanzato, cede alle violenze di alcuni soldati che approfittano della situazione. La perpetuazione della violenza e lo sfruttamento della follia, quindi, ritornano anche in Kim Ki-Duk. Il soldato invece continua la sua guerra personale, non più contro un eventuale attacco nordcoreano, ma contro il rimorso che lo sta divorando interiormente. La follia però non è solo un dato di fatto, una patologia legata ad uno shock o ad un’emozione violenta. A volte quello della pazzia è un concetto che non riguarda assolutamente lo stato psichico di un individuo, quanto piuttosto sembra essere legato ad un’erronea classificazione del “diverso” da parte della società. In questo caso l’accoppiata Oasis e Secret sunshine, entrambi di Lee Chang-Dong, è l’esempio più adatto per analizzare questo punto di vista. Nel primo film un ragazzo ritardato si innamora di una paraplegica; nel secondo invece, una vedova subisce lo shock del rapimento e dell’omicidio di suo figlio. In entrambi i casi non esiste una vera e propria forma di degenerazione mentale: i personaggi però vengono considerati come folli proprio perché alieni al comune (ben)pensare. Un ritardato è folle se si innamora di un’invalida, a sua volta vittima della pena e della compassione altrui; una donna sola e anticonformista viene costretta a seguire le regole di una cittadina popolata da gente conservatrice e bigotta e proprio questa sarà causa della sua follia. Un individuo è “pazzo”, dunque, quando presenta disinteresse verso le convenzioni di una determinata società, quando preferisce vivere liberamente, quando riesce a trarsi fuori dal gioco del controllo delle masse dimostrandosi totalmente estraneo al pregiudizio altrui e alle regole imposte. In questo contesto è possibile ascrivere N.E.P.A.L. - Never Ending Peace and Love, cortometraggio di Park Chan-Wook contenuto in If you were me, opera ad episodi diretti da diversi registi coreani, che ha come sfondo l’argomento della violazione dei diritti umani. I corti del film, malgrado l’argomento sia lo stesso, sono tutti estremamente differenti fra loro e non cadono mai nel patetico o nel lacrimevole, conservando una certa originalità sia a livello tematico che stilistico. In The Weight of her3 viene trattata la storia di 3
The Weight of her (Geu nyeoeui muge in If you were me, Corea del Sud, 2003) di Im Sun-Rye.
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due adolescenti che, finiti gli studi, decidono di imporsi una drastica dieta per trovare più facilmente lavoro; nel criptico ed alienante The man with an affair4 viene descritta la storia di un uomo emarginato dalla società per via dei suoi presunti gusti sessuali; con Tongue tie5, invece, viene raccontata con efferato realismo la storia di un bambino sottoposto al taglio della parte inferiore della lingua, che migliorerà la sua pronuncia della “r” inglese; Face value6 è l’originale racconto dell’allucinazione di un uomo che rivede la donna che aveva investito con la sua automobile; quello di Crossing7, infine, è lo spaccato di vita di un portatore di handicap e la spietata e provocatoria descrizione di tutte le difficoltà, fisiche e relazionali, a cui il ragazzo dovrà far fronte. Ogni corto di If you were me tratta l’argomento in maniera assolutamente autonoma, ora prendendo l’argomento alla larga, ora andando a dipingere con razionalità e realismo i problemi legati alla violazione dei diritti umani. Si avverte facilmente un senso di critica verso le contraddizioni di una società coreana proiettata verso la globalizzazione, in cui l’immagine è una componente fondamentale per trovare un lavoro, in cui un portatore di handicap è costretto a lanciarsi urlante in mezzo ad una strada per far sentire il suo disperato bisogno di considerazione; una società in cui l’unica scelta folle è, effettivamente, quella di una madre che espone il proprio figlio ad una sofferenza atroce come quella del taglio della lingua. È l’emarginazione che crea la follia e non il contrario. Nell’ambito di un film sostanzialmente riuscito quindi si inserisce il lavoro di Park Chan-Wook che spicca per originalità e brillantezza nella narrazione. Stilisticamente impeccabile, il regista propone un mix tecnico di notevole intensità, seppur raccontato con la consueta e cinica ironia che contraddistingue i suoi lavori. In bilico fra il mokumentary, per via delle interviste ad attori che interpretano i personaggi implicati nella vicenda, e la finzione, N.E.P.A.L. - Never Ending Peace and Love, tratto da una storia vera, 4 The man with an affair (Geu namjaeui sajeong in If you were me, Corea del Sud, 2003) di Jeong Jae-Eun, con Baek Jong-Hak. 5 Tongue tie (Shinbihan yeongeonara in If you were me, Corea del Sud, 2003) di Park JinPyo, con Se-Dong Kim, Ryu Seung-Su. 6 Face value (Eolgulgabs in If you were me, Corea del Sud 2003) di Park Kwang-Su, con Ji Jin-Hee. 7 Crossing (Daeryukhwingdan in If you were me, Corea del Sud, 2003) di Yeo Kyun-Dong.
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narra dell’incredibile odissea della nepalese Chandra, scambiata per una malata di mente e sbattuta da un ospedale psichiatrico all’altro per sei anni e quattro mesi. La donna, operaia in una fabbrica in Corea e appena licenziata, perde tutti i soldi della liquidazione all’esterno di un ristorante e si ritrova in difficoltà nello spiegare in coreano la situazione al proprietario del locale il quale, innervosito, chiama la polizia. Chandra viene arrestata e il poliziotto che si occupa di lei, non riuscendo a capirla e scambiandola per una coreana un po’ fuori di testa, la spedisce in un ospedale psichiatrico in cui le vengono diagnosticati depressione e ritardo mentale. In un vortice di assurdità la donna viene dapprima presa per coreana e poi, una volta chiarito che si tratta di un’immigrata nepalese, viene forzata ad un improbabile colloquio con un pakistano, per via della vaga assonanza di linguaggio. Chandra, persa nella solitudine e incapace di far fronte alla faccenda con una fluida spiegazione in lingua coreana, “diviene” una schizofrenica dopo essere stata inviata ad un centro di recupero per donne vittime di violenza e dopo ripetute visite e numerosi ricoveri psichiatrici. Il corto si conclude con delle splendide immagini di un ospitale villaggio nepalese che ha riaccolto Chandra con una grande festa. Quello che Park considera come uno dei suoi lavori più riusciti, si rivela in effetti un vero e proprio gioiello cinematografico in cui è riassunto tutto ciò che il regista aveva detto in precedenza e che, soprattutto, avrebbe dimostrato in futuro con lavori come Old Boy e Sympathy for Lady Vengeance. Innanzitutto sembra emergere una critica profonda nei confronti della società coreana, fatta di uomini e di donne che, colpevoli di indifferenza, ma comunque fintamente impegnati a risolvere il problema di Chandra, divengono specchio di un disinteresse collettivo e simbolo di un’umanità totalmente svuotata dal valore della solidarietà e dalla capacità di vedere ed ascoltare. Nel momento in cui è più che evidente che la donna non è affatto una malata di mente ma una straniera incapace di spiegare il qui pro quo, 66
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viene addirittura affermato che il mugugnare di una nepalese può essere tranquillamente confuso con quello di un malato di mente coreano. Park non accusa la sua Corea di razzismo, ma di un qualcosa di più sottile e, spesso e volentieri, più velenoso e tagliente: l’indifferenza. Nel corto viene negata ogni evidenza e l’incomprensione impedisce di vedere oltre il filtro dell’apparenza. La donna in questo modo subisce una perdita della propria identità, inizialmente cominciando a non esistere più (eloquente la sequenza in cui il poliziotto, intervistato, parla davanti al manifesto affisso da parenti ed amici di Chandra, in cui sulla foto della donna è attaccato l’adesivo di una pubblicità); successivamente, dopo essere stata scambiata per tailandese e filippina, la donna viene quasi costretta a sostituire la sua identità ormai azzerata con una nuova, da coreana, nella sequenza in cui un’infermiera le insegna a pronunciare il nome assegnatole, Su Mi-Ya. Chandra però, in un moto di orgoglio, insiste dicendo il suo vero nome, rifiutando quello che le viene assegnato da quella società che non vuole riconoscere la sua cultura. Quando la donna viene portata al Women’s Helps Center, viene presa per pazza perché convinta di essere nepalese. “I coreani dicono che pakistani e nepalesi sono uguali”, afferma con un pizzico di tristezza il pakistano costretto a fare da interprete. Da queste parole si intuisce che anche un immigrato integrato porta ancora dentro di sé i problemi legati alla lotta per non perdere, con la propria identità, anche il ricordo delle proprie radici etniche e culturali. L’unica forma di solidarietà sarà proprio quella del pakistano, che stringerà forte le mani di Chandra, come per dirle che anche senza capirla davvero, è perfettamente a conoscenza del grottesco misunderstanding di cui la donna è vittima. Il film, in bianco e nero fino a pochi minuti dalle sequenza finali, prende alla fine i colori di un Nepal civile, festoso ed allegro, in cui una serie di donne, come nella sequenza iniziale, vengono intervistate da Park. Il regista chiede ad ognuna: “Sei tu Chandra?” e ogni donna risponde di no, fino al momento in cui, seria ed orgogliosa, la vera Chandra risponde di sì. Il corto si chiude con la donna che dice qualcosa in camera, in lingua nepalese, che lo spettatore non può comprendere. Ad un tratto la situazione è ribaltata in un finale in cui chi osserva si ritrova nella stessa situazione di Chandra la quale, per anni, ha ascoltato parole, ha provato a parlare e non ha mai avuto ascolto. Dal punto di vista tecnico N.E.P.A.L. - Never Ending Peace and Love è un originale ibrido in cui Park inserisce tutte le componenti fondamentali 67
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del suo cinema. Di grande importanza è il duplice utilizzo della soggettiva: da una parte lo spettatore è costretto a vedere con gli occhi di Chandra, in modo tale da immedesimarsi con la donna e guardare, come lei, i volti ora falsamente sorridenti, ora perplessi, di medici, infermieri e poliziotti. D’altra parte la soggettiva viene utilizzata con approccio prettamente documentaristico sia nelle domande poste alle donne nel villaggio nepalese, sia a quelle rivolte ai protagonisti dell’incredibile equivoco, i quali tentano di salvarsi in corner con scuse a dir poco assurde. Il corto di Park non è ricostruzione né documentario. Il film è un mix nel quale il concetto di genere cinematografico perde senso sotto le dita del regista, che modella una storia vera in una forma estremamente personale. L’idea di identità viene dapprima messa in discussione e, successivamente, affermata di nuovo nello scambio di punti di vista Park-Chandra-spettatore, che diviene la chiave di volta per comprendere in maniera approfondita i problemi legati all’incomprensione e all’incomunicabilità. La società crea dei mostri che poi tenta di scacciare con tutte le sue forze, mascherandosi da dolce casa pronta ad accogliere i nuovi arrivati senza pregiudizi: il pensiero di Park si inserisce a perfezione nell’ambito del progetto sui diritti umani, rivelandosi come uno dei lavori più lucidi e diretti e, allo stesso tempo, come un’opera complessa costruita su solide basi cinematografiche. La follia in questo caso non è più conseguenza di un trauma come nel caso di A petal o The coast guard, ma proiezione delle paure e dei pregiudizi di una collettività terrorizzata dal “diverso” e, al tempo stesso, incapace di rapportarsi a ciò che non fa parte della “normalità”, concetto precostituito sempre più astratto ed indefinito. Ciò che balza subito all’occhio nel cortometraggio di Park Chan-Wook è indubbiamente il ritorno della tematica della privazione forzata della libertà tramite la segregazione. Il “diverso” è destinato ad essere tenuto in disparte in modo tale da non interferire con i ritmi della società ed evitare di essere d’intralcio. A differenza della Trilogia della Vendetta, si verifica in questo caso l’applicazione di una giustizia non privata ma collettiva, che si manifesta con un’individuazione del capro espiatorio che raccoglie in sé le colpe di un’umanità repressa e incapace di gestire un equivoco dalla soluzione apparentemente molto semplice. L’ospedale psichiatrico diviene una nuova forma di prigionia la cui funzione non è più quella di curare, ma di celare consapevolmente agli occhi della collettività quell’affascinante diversità che dovrebbe essere la struttura portante di ogni civiltà. 68
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I’m a cyborg… but that’s OK per quanto abbia come spunto iniziale l’idea della follia e della segregazione in una sorta di bizzarro manicomio, è un’opera concepita in modo da ribaltare completamente i punti di vista del malato di mente e del cosiddetto “sano”: nel film viene meno la critica sociale a favore di un più leggero, romantico e brillante spaccato sulla diversità. Cha Young-Goon, giovane operaia in una fabbrica di radio, viene internata in un istituto per malati mentali perché ha tentato un suicidio molto particolare: si è tagliata le vene inserendo all’interno dei polsi alcuni cavi elettrici. I medici non capiscono perché la ragazza abbia scelto di morire in quel modo e, osservando la paziente dal lato medico, troveranno solo alla fine la soluzione del dilemma. Young-Goon rifiuta il cibo e si “nutre” mettendo la lingua fra i poli di una batteria, perché è convinta di essere un cyborg, segreto che non può svelare a nessuno dopo una promessa fatta alla madre durante l’adolescenza. In realtà tutta la famiglia della ragazza è completamente strampalata. La madre è una donna eccentrica che crede che nascondere un problema sia più facile che affrontarlo, mentre la nonna, a cui Young-Goon era molto legata, impazzì all’improvviso quando la ragazza era poco più di una bambina. L’anziana credeva di essere un topo ed aveva anche cominciato ad allevare topi in casa; dopo poco la donna sarebbe stata portata in un ospedale psichiatrico. Una delle missioni di Young-Goon non è solo quella di comportarsi realmente da cyborg, ma anche quella di portare alla nonna la dentiera senza la quale non potrebbe mangiare gli amati rafani. Dall’ambulanza, mentre la ragazza tentava, invano, di consegnare la dentiera alla legittima proprietaria, la nonna disse qualcosa di strano che la ragazza inizialmente non capì: “Lo scopo della tua vita è…” e il veicolo si allontanò lasciando la ragazza a piangere per la nonna e a scervellarsi su quale fosse il vero scopo della sua vita (o costruzione, se la si vuol guardare dal punto di vista “robotico”). Young-Goon nell’ospedale non verrà accolta solamente da medici cortesi ma considerati comunque nemici degli assurdi progetti di 69
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distruzione della ragazza, ma anche da altri malati di mente che Park ChanWook descrive con estrema dolcezza, molto lontana dalla freddezza con cui Samuel Fuller, uno dei punti di riferimento del cineasta coreano, trattò l’argomento della follia ne Il corridoio della paura, di cui si è già parlato in precedenza. Nella prima metà si assiste ad una presentazione dei malati di mente mentre, nella seconda, Park punta al racconto del dramma di YoungGoon, del suo rifiuto del cibo, e del fondamentale aiuto di Park Il-Sun, ragazzo che con le sue originali teorie ed invenzioni la riporterà a mangiare di nuovo e a vivere una storia d’amore decisamente sui generis. Non c’è da stupirsi che Park abbia deciso di cambiare rotta rispetto alla Trilogia della Vendetta. Un artista nel momento in cui è arrivato a raggiungere il suo obiettivo deve assolutamente cambiare. Il mutamento delle tematiche e delle forme è necessario per una rigenerazione che diverrà la chiave per esplorare nuovi territori e nuovi approcci verso l’arte cinematografica. In realtà I’m a cyborg… but that’s OK non deve essere considerato come il frutto isolato della “follia” del regista coreano. Le influenze sono molte, così come gli stabili punti di riferimento cui Park si aggrappa in continuazione e che rimangono fondamentalmente immutati nella sua filmografia. Innanzitutto è possibile inserire l’opera nel filone del melodramma, genere fra i più amati in Corea, pur risultando per molti aspetti estremamente originale, e che solo di striscio si avvicina a film di notevole successo in patria come la favola surreale narrata da Lee Hyun-Seung ne Il Mare8. Nel lavoro di Lee un uomo e una donna si conoscono e si innamorano tramite lettere che viaggiano nel tempo (due anni per la precisione), e si perdono nei rispettivi ricordi della loro casa in comune, chiamata, per l’appunto, “Il Mare”. Questo è solo uno dei tanti film d’amore che spopolano in Corea, ma l’atmosfera onirica e sognante che ricrea, seppur accostabile a quella del lavoro di Park, spesso sfocia nel melenso e in un forzatissimo lieto fine. L’autore di Old Boy invece, seppur in chiave ironica e grottesca, tende a non esagerare i toni comunque zuccherosi della sua commedia. In effetti anche in Park è ravvisabile un mezzo lieto fine, perché si intuisce che, malgrado un simbolico arcobaleno colori il cielo sopra le teste di Young-Goon e Il-Sun, la strada del ritorno alla società è ancora lontana e che, per il momento, ai ragazzi non resta che 8 Il mare (Siworae, Corea del Sud, 2000) di Lee Hyun-seung, con Lee Jung-Jae, Jun Ji-Hyun, Kim Mu-Saeng, Jo Seung-Yeon, Min Yun-Jae, Choe Yun-Yeong.
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accettare la loro riappacificazione nei confronti della natura e della vita, spesso estremamente ostili nei loro confronti. Così come la dolcezza sostituisce il melenso e il patetismo lascia il posto ad una sincera commozione, è lecito affermare che il regista abbia attinto alle sue sceneggiature precedenti rimpiazzando un atteggiamento sfrontatamente comico-grottesco e la sua ironia carica di cinismo, per approdare sui caldi lidi di una poesia che lascia il sorriso sulle labbra e che non forza più la risata od il disgusto. I’m a cyborg… but that’s OK rappresenta indubbiamente una forma di continuità con le sceneggiature comiche e surreali di Park come Taekwon girl e A boy who went to heaven, a cui però apporta un tocco registico personale che rende il primo sostanzialmente differente dagli altri due. “Dopo la Trilogia” afferma Park in un’intervista “ho partecipato alla realizzazione di un episodio del film collettivo Three… extremes […] ho passato molti anni a ‘filmare’ solo il dolore e la violenza, mi sentivo un po’ stanco e avevo voglia di cambiare. Inoltre quando mia figlia era piccola non me ne rendevo conto, ma quando ha compiuto dodici anni ed ha cominciato ad apprezzare i film, mi sono accorto che non avevo realizzato niente che potesse vedere. […] Ho diretto un film che tratta i complessi di un’adolescente, in modo che fosse anche un regalo per mia figlia”9. La continuità di fondo si avverte anche con il tema della follia, affrontato ora in N.E.P.A.L. - Never Ending Peace and Love in chiave di critica sociale, ora nella Trilogia, come manifestazione di una primitiva bestialità celata nell’animo umano. Quella di I’m a cyborg… but that’s OK però non è solo la storia di una ragazza in cerca della nonna, che indossa una dentiera e che parla con i distributori automatici di bibite. Il film di Park è un’odissea all’interno della mente di uomini e donne incompresi, vittime di problemi e di soprusi. L’idea originale risiede proprio nelle modalità in cui la storia viene raccontata: invece di porre come riferimento il punto di vista del cosiddetto “sano”, il regista coreano insiste nel costringere lo spettatore a vedere con gli occhi del “folle”, a sentire le sue stesse emozioni, a cancellare ogni sorta di lucidità apparente per permettere un’immedesimazione totale. Non esistono più i termini medici che invano hanno tentato di spiegare la condizione mentale di Chandra; in quest’opera esiste un mondo a parte, 9 Tratto dall’intervista video al sito http://edition.cnn.com/2008/SHOWBIZ/05/14/ta.parkchanwook/# (T.d.r.).
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parallelo a quello “normale”, in cui si riesce a carpire una nuova Verità, forse immaginata ma quanto mai probabile e verosimile. Se nel corto contenuto in If you were me la soggettiva diveniva l’escamotage per comprendere un punto di vista, in I’m a cyborg… but that’s OK il mondo analizzato è esclusivamente quello dei “folli”, in cui gli unici ospiti, spesso e volentieri indesiderati, sono proprio quei medici che tentano di spiegare con la razionalità ciò che non vedono e che forse non vogliono vedere. Il campionario esposto da Park è estremamente vario e, sicuramente, stemperato da un velo poetico che non lascerà mai trapelare compassione o disgusto, né pretenderà di fare di tutta l’erba un fascio presentando un manicomio come una sorta di parco giochi. Quello dell’autore non è il tentativo di spiegare verità ancestrali della mente umana, né di approfondire la psicologia di un individuo; l’intento sembra essere invece quello di ricreare un’atmosfera segreta in cui lasciarsi andare per dimenticare i problemi “reali”, per mettere in discussione l’idea stessa di “punto di vista”. Un medico, ad esempio, potrebbe diagnosticare a Young-Goon una grave forma di anoressia dato il suo rifiuto per il cibo e il conseguente e rapidissimo dimagrimento. La ragazza invece non mangia perché crede di essere un cyborg, ed anche lo spettatore, dopo poco, ne è convinto. Basta un punto di vista diverso e la Verità crolla, senza che sia possibile ricostruirne i pezzi. Il-Sun sarà l’unica persona in grado di poter aiutare Young-Goon proprio perché crederà alla verità di lei, senza metterla in discussione e, con l’ingenuità di un bambino, la farà mangiare di nuovo grazie alla furbesca e geniale invenzione del “risoconvertitore” che il ragazzo afferma essere una macchina da installare nella schiena di lei, affinché il riso possa convertirsi in energia elettrica invece di danneggiare i presunti circuiti all’interno del corpo della ragazza. Il-Sun, cleptomane e maniaco dell’igiene orale, è stato rinchiuso nell’ospedale dopo essere stato dichiarato individuo dal comportamento antisociale. Eppure questa diagnosi sembra essere smentita dalla dolcezza di questo personaggio il quale, per paura di diventare invisibile al resto della gente, indossa sul volto delle singolari maschere da coniglio-robot. Il ragazzo è al centro delle avventure dei pazienti dell’ospedale: viene accusato da alcuni di rubare le abilità altrui e di sfruttarle a suo piacimento, mentre a volte viene addirittura chiamato da altri per permettergli di rubare il loro stato d’animo negativo o la loro debolezza. Farà così con lui la stessa Young-Goon che chiederà al ragazzo di rubarle la compassione, sentimento che le impedisce di “far 72
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fuori” i medici dell’ospedale e poter finalmente essere libera. Bisogna cancellare i buoni sentimenti perché un vero cyborg deve essere freddo, cinico e violento. Purtroppo però un cyborg con le pile scariche non serve a nulla. Almeno fino all’arrivo del marchingegno di Il-Sun che le salverà la vita e, dal punto di vista psicologico, le darà un aiuto fondamentale per la sua “carica di energia”. Gli altri personaggi, seppur di contorno, sono utilizzati per arricchire il mondo parallelo di cui si parlava in precedenza. Nell’ospedale ci sono una grassa signora vittima della sua stessa immagine, una mitomane che inventa le malattie degli altri pazienti per avere ascolto, una ragazza, appassionata dello yodel, canto tradizionale svizzero, che guarda le altre persone attraverso uno specchio per non incrociarne lo sguardo; fra i pazienti ci sono un uomo abbandonato dalla moglie e un altro con forti sensi di colpa che cammina a mo’ di gambero per non dare le spalle alla gente intorno a sé. Il punto in comune fra i “folli” è proprio il problema legato alle relazioni sociali. L’ossessione per l’immagine, la paura del confronto, l’impossibilità di mantenere rapporti stabili, lo stesso rancore di Il-Sun nei confronti della madre che lo ha abbandonato da bambino: ogni personaggio ha una storia di emarginazione e di segregazione che, pur non divenendo il nodo chiave del film, è sicuramente uno spunto di riflessione interessante per quanto riguarda il problema di accettazione del “diverso” nella società. Park non nasconde un atteggiamento vagamente ruffiano nel dipingere i suoi folli ma, come già detto in precedenza, il suo non vuole essere un tentativo di spiegare a tutti i costi qualcosa o di trattare come se fosse un gioco un tema serio e delicato come la malattia mentale. Trasportato dal fascino del racconto favolistico, il regista si addentra fra le pieghe del cervello, descrivendo in maniera semplice, umana e leggera, una fetta di realtà rifiutata dalla massa. Il tono scanzonato con cui viene trattata la vicenda si riflette in sequenze spesso addirittura esilaranti. Come non citare ad esempio la scena in cui l’uomo con i sensi di colpa duetta con la ragazza in uno yodel grottesco nella cornice onirica delle Alpi svizzere, o le sequenze in cui Il-Sun mostra a tutti la foto della madre, che appare nello scatto come un uomo travestito da donna: la leggerezza e i toni surreali garantiscono un sano divertimento lontano dal luogo comune sulla figura del folle e dai clichè della comicità surreale. Le visioni dei folli prendono vita tramite sequenze oniriche di notevole effetto, in cui Park non rinuncia ad infilare, nell’ambito di quella che alla 73
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fine non è altro che una commedia romantica, scene d’azione cariche di liberatoria violenza. Young-Goon immagina di vedere una canna di mitra fuoriuscire dalle dita delle mani, alimentate dai proiettili contenuti nella boccacaricatore. Nelle sue trasformazioni in cyborg la ragazza spara a chiunque provi a bloccarle la strada, trasformandosi in una sorta di robotica Alita10 pronta ad abbattere i suoi nemici medici. Il riferimento al mondo dei manga è ancora più evidente nelle sequenze in cui Park sceglie un approccio onirico per rendere più completa l’immersione nella mente dei suoi personaggi e l’immedesimazione sempre più forte dello spettatore, soprattutto nella sequenza del bacio fra la ragazza e il simpatico cleptomane, in cui lei ruota a 180° la testa e si tiene sospesa in aria grazie ai reattori sotto ai piedi. L’esplorazione dei generi non si ferma alla commedia, né alle citazioni di fumetti, film di fantascienza o di guerra. L’aspetto romantico della storia, punto centrale della seconda parte del film, viene trattato con una poesia carica di ingenuità e di eleganza che non cade mai nel patetico. Quando Young-Goon viene rinchiusa nella stanza adibita alla terapia intensiva e IlSun, invece, nella cella d’isolamento, il ragazzo suggerisce alla giovane cyborg di prendere i calzini della donna grassa: la carica elettrostatica dovuta allo sfregamento dei calzini avrebbe permesso alla ragazza di volare e di uscire fuori dalla stanza. Young-Goon riuscirà, dopo essersi rimpicciolita, a passare fra le sbarre della finestra e a volare su di un minuscolo letto. Ad attendere i ragazzi non ci saranno solo verdi colline ma anche la nonna di Young-Goon, legata da un grosso elastico (auto-citazione da Cut), che per la seconda volta non riuscirà a dire alla ragazza quale sia il vero scopo della sua “costruzione”. Il momento in cui Park schiaccerà l’acceleratore di un lirismo più commovente è vicino. Nella sequenza in cui Il-Sun, installatore del “riso-convertitore”, vede la spina dorsale della ragazza resa evidente dal rapido dimagrimento, si avverte un momento di lucida “normalità”. Quella del ragazzo non è pena, sentimento estremamente dannoso, ma sincero dolore nei confronti di una persona che rischia di morire da un momento all’altro. Il-Sun sta per piangere ma la forza dell’amore nei confronti della ragazza e della solidarietà verso chi, come lui, è vittima di problemi legati alla famiglia e alle relazioni sociali, sono le armi più forti per sconfiggere la 10 Alita – L’angelo della battaglia (Gunnm). Manga giapponese creato nel 1991 da Yukito Kishiro, che tratta delle avventure di una ragazza-cyborg.
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paura e l’angoscia e per permettergli di portare avanti il suo “lavoro”. La stessa forte carica emotiva si percepisce quando Young-Goon mangia ed inghiotte il primo cucchiaio di riso. La sua pancia diventa trasparente e, al suo interno, surreali meccanismi si rimettono in moto, davanti agli occhi increduli e commossi del ragazzo e di tutti i pazienti presenti nella mensa. Quello di Park non è stato un cambio di stile né di tematiche, ma l’ulteriore prova che giocando coi generi, con le citazioni e, soprattutto, con l’irrazionalità, si può costruire una favola i cui ritmi sono scanditi da una dolce follia che se da una parte fa così paura, dall’altra, forse, sembra essere sinonimo di libertà.
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Capitolo quinto
Sete di sangue
Fin dalla fine degli anni ’90, oltre al proliferare dei celebri melodrammi di successo, si avverte, nella Corea del Sud, la necessità di sviluppare un linguaggio che possa sfruttare al meglio le caratteristiche del cinema di genere. Si assiste quindi ad una forte ascesa di ganster movie, polizieschi, thriller (spesso di notevole fattura ed originalità, a volte invece orientati verso uno standard prettamente statunitense) e, soprattutto, di horror, genere che ha avuto un’importanza fondamentale nell’ambito del nuovo cinema coreano. L’horror coreano è il genere che più di ogni altro si è sviluppato sotto il segno della contaminazione e che ha saputo destare interesse verso un modo di fare cinema che pian piano, in occidente, andava perdendo lo smalto e la forza espressiva degli anni ’70 e ’80. Sull’onda del successo di pellicole nipponiche (ma anche di cinematografie fino a quel momento più sconosciute, come quella tailandese ad esempio), la Corea del Sud ha sfornato per un decennio film (spesso ingenui è vero, ma di notevole fattura dal punto di vista tecnico), che fanno leva su quelle paure inconsce che diventano il filo rosso che lega ogni opera di questo genere. Inoltre, molti horror coreani hanno il pregio di voler scavare in fondo alla coscienza umana e di recuperare tutti i sentimenti e ricordi (soprattutto sgradevoli) che si credevano perduti. L’obiettivo di questo genere non è esclusivamente quello di spaventare con clamorosi colpi di scena, ma anche quello di individuare nel “mostro” o nel “fantasma” tutte le paure ataviche, i rimorsi e i sensi di colpa che sono sepolti nei meandri dell’animo umano. La paura non viene dunque da fuori né viene evocata da entità, concrete o
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astratte che siano, esterne all’uomo: il terrore è parte dell’uomo ed è in grado di materializzare forme e figure che tormentano il malcapitato personaggio di turno. Uno dei primi film horror che in Corea ha destato scalpore per messinscena è sicuramente Memento Mori1, secondo capitolo della lunga e fortunata serie Whispering corridors, serie di horror ambientati all’interno di istituti scolastici. Al di là di alcune ingenuità narrative, questo lavoro presenta dei caratteri di originalità soprattutto nell’ambientazione. Luoghi familiari come la classe, il corridoio scolastico, la mensa e il cortile in cui si svolgono le attività ricreative divengono location in cui si mescolano racconti, leggende e vendette, trasformandosi in territori mitici al di là dello spazio e del tempo. L’utilizzo delle scuole ha anche una fondamentale importanza dal punto di vista commerciale essendo l’horror destinato soprattutto ai ragazzi: l’ambientazione familiare risulta indubbiamente più impressionante e ha quell’appeal necessario per destare l’interesse di un pubblico più giovane e desideroso di emozioni forti. Un ulteriore fattore che lega gli horror coreani di maggior successo è l’oggetto della paura. Come già tratteggiato in precedenza, ciò che terrorizza è il risultato di un comportamento errato del passato che si ripercuote nel presente. È vero che ci si ritrova sempre di fronte ad entità soprannaturali, ma esse hanno spesso a che fare con la vendetta per un torto subito in vita. Uno dei punti in comune, quasi stucchevole a volte, dei film horror coreani degli ultimi quindici anni, è sicuramente quello classico del fantasma di donna, dal volto inizialmente irriconoscibile poiché coperto da lunghi capelli neri. I coreani dimostrano di aver raccolto l’eredità iconografica dei primi esperimenti con il “mostro” effettuati già nel 1998 con Ringu2 e proseguiti nella maggior parte degli horror orientali. Capelli che galleggiano sull’acqua, che escono dal lavandino, con cui si strozzano giovani ed ignare protagoniste e, soprattutto, capelli che celano il “mostro”. Uno dei punti chiave dell’horror coreano è proprio quello di nascondere più che mostrare. Non mancano di certo componenti splatter, ma i migliori horror prodotti in Corea 1 Memento mori (Yeogo goedam II, Corea del Sud, 1999) di Kim Tae-Yong, Min Kyu-Dong, con Kim Min-Sun, Park Yeh-Jin, Lee Young-Jin. 2 Ringu (Id. Giappone, 1998) di Hideo Nakata, con Nanako Matsushima, Miki Nakatani, Yûko Takeuchi, Hitomi Satô, Yôichi Numata, Yutaka Matsushige, Katsumi Muramatsu, Rikiya Ôtaka, Masako.
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del Sud sono proprio quelli che mostrando di meno tendono a tenere sempre alta la tensione, fino al raggiungimento della punta più alta dei climax nei colpi di scena. Dal filone Whispering corridors3 a The wig4, da The doll master5 e Phone6 a Bunshinsaba7 e Dead friend8: è facile ravvisare in queste opere dei tratti comuni tramite i quali si è sviluppato il linguaggio standard del cinema horror coreano. Malgrado la tensione sia sempre piuttosto alta, a livello narrativo e contenutistico questo filone horror non riesce mai a spiccare davvero il volo come se si temesse di valicare i limiti che lo stesso genere si è auto-prestabilito. Fortunatamente però ci sono le eccezioni che confermano una regola trasgredita spesso e volentieri con successo. Il primo regista che è riuscito a sovvertire le leggi dell’horror coreano è sicuramente Kim Ji-Woon. Dalla geniale commedia nera The quiet family9 che prende in prestito anche il linguaggio dell’horror, a A tale of two sisters, psicologico ed estremamente inquietante, il regista riesce a colmare le lacune di un sistema cinematografico che spesso ruota intorno ai soliti spunti narrativi. Kim è un cineasta in grado di manipolare il concetto di genere e che soprattutto, facendo parte come Park Chan-Wook della “generazione dei cinefili”, dimostra di aver assimilato anche altri tipi di linguaggi, riproponendoli in un mix esplosivo ricco di idee, sperimentazione ed originalità. Nell’area della commistione di generi si possono inserire tutte quelle opere che vanno al di là degli stereotipi in cui sta scivolando l’horror sud-coreano. Bong Joon-Ho è indubbiamente il regista che ha saputo rilanciare nella maniera più adeguata il gene3 La serie Whispering corridors è composta da: Yeogo goedam di Park Ki-Yeong, Memento mori di Kim Tae-Yong e Min Kyu-Dong, Yeowoo gyedan di Jun Jae-Yeon, Moksori Choe IkHwan, Dong-ban-ja-sal di Lee Jong-Yong. 4 The wig (Gabal, Corea del Sud, 2005) di Won Shin-Yeon, con Chae Min-Seo, Kim So-Yeon, Lee Jeong-Seong, Rah Kyeong-Bin, Sa Hyeon-Jin. 5 The doll master (Inhyeongsa, Corea del Sud, 2004) di Jeong Yong-Ki, con Kim Yu-Mi, Lim Eun-Kyeong, Shin Hyeong-Tak, Ok Ji-Young, Lim Hyeong-Jun. 6 Phone (Pon, Corea del Sud, 2002) di Ahn Byeong-Ki, con Ha Ji-Won, Kim Yu-Mi, Choi Woo-jae, Choi Ji-Yeon, Eun Seo-Woo. 7 Bunshinsaba (Id., Corea del Sud, 2004) di Ahn Byeong-Ki, con Kim Gyu-Ri, Lee Se-Sun, Lee Yu-Ri, Choi Seong-Min, Cho Jeong-Yun. 8 Dead friend (Ryeong, Corea del Sud, 2004) di Kim Tae-Kyeong, con Kim Ha-Neul, Nam Sang-mi, Bin, Yi Shin, Jeon Hie-Ju, Lee Yun-Ji. 9 The quiet family (Choyonghan kajok, Corea del Sud, 1998) di Kim Ji-Woon, con Park InHwan, Na Mun-Hee, Song Kang-ho, Choi Min-Sik, Go Ho-kyung, Lee Yun-Seong.
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re fanta-horror con The host10 che, malgrado abbia dei tratti in comune con film statunitensi dello stesso tipo, riesce a mescolare effetti speciali all’avanguardia con un dramma familiare caratterizzato da personaggi di forte spessore e, elemento non trascurabile, mantenendo comunque un forte appeal commerciale (al contrario del pessimo D-War11, troppo dipendente dal modello a stelle e strisce). D’altronde c’è lo zampino di Bong anche nella sceneggiatura di Antarctic journal12, opera che mescola con suggestioni horror il dramma psicologico di alcuni partecipanti ad una spedizione in un Antartide gelido e pericoloso. Stesso discorso vale per uno dei film horror coreani più suggestivi, Epitaph13, in cui una serie di cellule narrative formano un organismo carico di forza espressiva ed onirica. Le opere di Park Chan-Wook che possono essere inserite nell’ambito del genere horror, Cut e Thirst, fanno parte indubbiamente di questa seconda categoria. Come in altri suoi lavori, il regista utilizza l’horror come mezzo necessario da un lato per ricercare una ricchezza formale ancora più eterogenea e, dall’altro, per giocare ancor di più con i clichè del genere, spesso triti e ritriti, per poi reinterpretarli in chiave più moderna e soprattutto arricchendoli con la solita componente grottesca ed ironica. Il primo approccio di Park con il genere horror, se escludiamo alcune sequenze in Judgement, avviene tramite la possibilità di realizzare un mediometraggio per la super produzione asiatica Three… extremes che, oltre al già citato Cut, contiene anche la perla del giapponese Takashi Miike, Box14, storia avvincente intrisa di onirismo e tensione, e Dumplings15 del regista cinese Fruit Chan, che tratta il tema dell’invecchiamento di un’attrice televisiva tramite un racconto agghiacciante e, allo stesso tempo, surreale ed ironico. 10 The host (Gwoemul, Corea del Sud, 2006) di Bong Joon-Ho, con Song Kang-Ho, Byeon Hie-Bong, Park Hae-Il, Bae Du-Na, Ko Ah-Sung. 11 D-war (Id., USA, 2007) di Shim Hyung-Rae, con Jason Behr, Jesse Jam Mirando, Amanda Brooks, Robert Forster, Craig Robinson, Aimee Garcia, Chris Mulkey, Agent Frank Pinsky. 12 Antarctic journal (Namgeuk-ilgi, Corea del Sud, 2005) di Yum Pil-Sung, con Song KangHo, Yu Ji-tae, Park Hee-Soon, Yoon Jae-Moon, Choi Duek-Mun. 13 Epitaph (Gidam, Corea del Sud, 2007) di Jeong Beom-Sik e Jeong Sik, con Choi JaeHwan, Jeong Jin-An, Jeon Mu-Song, Ku Jin, Kim Bo-Kyeong, Kim Eung-Su, Kim Tae-Woo, Ko Ju-Yeon, Kong Ho-Seok. 14 Box (Id. in Three… extremes, Corea del Sud, Giappone, Cina, 2004) di Takashi Miike, con Kyoko Hasegawa, Atsuro Watabe, Mai Suzuki, Yuu Suzuki, Mitsuru Akaboshi. 15 Dumplings (Id. in Three… extremes, Corea del Sud, Giappone, Cina, 2004) di Fruit Chan, con Ling Bai, Pauline Lau, Tony Leung Ka Fai, Meme Tian, Miriam Yeung Chin Wah.
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Il mediometraggio di Park Chan-Wook appare come un divertissement meta-cinematografico che mescola alcuni temi chiave della poetica del regista con gli elementi più cinici e più truci del linguaggio horror, riadattandoli in uno stile sempre personale ed originale. Ji-Ho è un regista di successo all’apice della sua carriera. Ha una bella moglie (snob e un po’ oca) che suona il pianoforte, un’amante e una bella casa. Tornando nella sua abitazione, trova la moglie legata al pianoforte. Un pazzo furioso, ex comparsa, prende in ostaggio anche lui e lo costringe ad ogni genere di tortura fra lo psicologico e il “trash” in modo tale da ridicolizzarlo. Ad un tratto arriva l’ultima prova: l’uomo vuole che il regista uccida una bambina fino a quel momento nascosta sotto un lenzuolo. Il regista è diviso fra salvare la propria vita e quella della moglie (le cui dita vengono tagliate ogni cinque minuti dal folle), o uccidere l’innocente. Ma nel frattempo si accorge che quella in cui si trova non è esattamente casa sua ma, probabilmente, il set del film horror che sta dirigendo. Ji-Ho non riuscirà più a distinguere fra bene e male: la terribile situazione farà eruttare il vulcano delle agghiaccianti contraddizioni all’interno dell’animo umano. Pur sottolineando la vicenda con particolari notevolmente macabri, Park dimostra di saper scavare nelle più profonde oscurità, muovendo i suoi personaggi come le pedine su una scacchiera (d’altronde è impossibile non notare le affinità fra il pavimento della casa e, per l’appunto, una scacchiera). Ogni brutalità assume caratteristiche da fumetto intriso di frizzante comicità. Il “cut” pronunciato dal regista alla fine di ogni inquadratura, si trasforma nel “cut” (taglio) delle dita della moglie, ma questa è solo una delle tante invenzioni che arricchiscono il mediometraggio. Scivolando nei territori del kitsch, a partire dall’arredamento della casa-set fino alle sequenze musicali, Park compie un viaggio grottesco ricco di balletti in stile musical, travestimenti, scambi di persona ed esperimenti meta-cinematografici, in cui l’orrore è generato non da forze oscure e soprannaturali ma dall’essere umano stesso. Il vero terrore è all’interno dell’Uomo, e follia e paura sono le cause scatenanti di una violenza psicologica devastante pur stemperata dall’atmosfera surreale. Vendetta e giustizia, tratti fondamentali della poetica del regista coreano, vengono raccontate con sfrenata libertà espressiva, senza limiti di alcuna sorta. L’ex comparsa rappresenta il popolo oppresso e invidioso delle fortune dei ricchi ed affermati registi. Egli si erge a giustiziere, poiché per lui la legge consiste proprio nell’applicare quella “giustizia compensatrice” di cui 80
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si è parlato in precedenza nel capitolo sulla Trilogia. L’uomo porta su un paradossale banco degli imputati il regista. Quest’ultimo è costretto a confessare che la sua vita da invidiare non è altro che un frutto maturato su invidie, matrimoni di convenienza e nefandezze di ogni tipo. Ji-Ho, sopraffatto dalla paura, mostra il suo cinismo celato fino a quel momento dietro la faccia da bravo ragazzo e da artista intellettuale. Al di là delle considerazioni appena accennate da Park sulla classe borghese medio-alta, il nucleo centrale del racconto non è sicuramente quello politico ma, piuttosto, sembra essere incentrato sulle pulsioni represse dell’essere umano. La paura è ciò che frena il completarsi della vendetta: non solo il regista ne è vittima ma lo è anche il folle che, dopo aver ucciso la propria moglie, non ha la forza di uccidere anche suo figlio, mascherato da bambina e portato lì proprio per far compiere il crimine dal regista stesso. In una società di stampo capitalista forte di una crescita economica vertiginosa, il “popolino” è costretto ad inseguire ed invidiare miti borghesi senza mai raggiungerli e arrivando addirittura ad impazzire; il borghese invece evita di essere fagocitato dal suo stesso ambiente proprio per via della maschera che indossa. La felicità è solo una chimera per entrambi e Park, ponendo i due pesi sul piatto della bilancia, riesce a trovare un solido equilibrio. La paura è il comune denominatore, la vendetta è il risultato della fusione dei due pesi, che finiscono per annullarsi a vicenda. In un mondo di plastica (basti pensare al flash in cui la moglie in versione “cartonata” saluta il regista), le differenze sociali sono azzerate dal bestiale metodo di giudizio che Park impone ai suoi personaggi, in cui Ji-Ho diviene un attore diretto da un improvvisato regista che gli impone di recitare il monologo più difficile: la sua vita. L’uomo inizialmente è scosso e tenta di salvare la mogliettina ma poi, pian piano, esce fuori ciò che davvero pensa di lei e del pazzo che li sta imprigionando. Questa pulsione però non ha niente a che vedere con la sincerità; piuttosto appare come l’ultimo segno di ribellione di una bestia imprigionata e costretta, poco dopo, a compiere un crimine gravissimo pur di salvarsi la vita (più che la faccia). L’essere umano in situazione di pericolo è capace di qualsiasi cosa. “Mors tua vita mea”, dicevano gli antichi, e mai espressione può essere più calzante per esprimere il punto di vista di questo film. Il più debole è destinato a soccombere sotto il più forte. Ma Park, intelligentemente, riesce a mettere continuamente in discussione il concetto di “più forte”. Se inizial81
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mente il folle sembra avere la meglio, in un secondo momento il regista prende le redini del gioco, fino ad un finale a sorpresa in cui l’unico a non soccombere fisicamente è proprio il bambino che, con uno sguardo gonfio d’odio e di rabbia dice: “Voi, feccia, avrò la mia vendetta”. Il dramma umano non avrà mai fine. Nella sequenza iniziale di Cut si assiste ad uno spunto interessante che Park riprenderà qualche anno dopo proprio con Thirst. Una splendida steady scopre pian piano una donna che decide di saziare il suo appetito succhiando sangue ad un uomo semi-surgelato in piedi nel salotto. La donna poi si sente male e vomita sangue. Alle prime battute Cut sembrerebbe trattare una vicenda “vampiresca” in maniera bizzarra. Poco dopo però la storia ritorna dai territori soprannaturali e, di conseguenza, da quelli cinematografici del set, verso lidi di realtà apparentemente sicura. Surrealtà e iperrealismo verranno a fondersi subito dopo, ma la tematica del vampiro viene presto abbandonata. Nel 2009 però Park realizza il suo sogno di sempre: realizzare un film sui vampiri seguendo il percorso di forte impatto visivo iniziato proprio con Cut e con la Trilogia e, aspetto fondamentale, riuscendo allo stesso tempo a richiamare le suggestioni e le invenzioni più brillanti di I’m a cyborg… but that’s OK. Film di animazione a parte, il cinema orientale si è occupato in maniera piuttosto scarsa dei vampiri, argomento che rimane comunque una prerogativa europea e statunitense. Uno dei pochi film degni di nota è Lake of Dracula16, lavoro giapponese dei primi anni ’70. In particolare il cinema sud-coreano, malgrado abbia visto fiorire il genere horror soprattutto nei primi anni del nuovo millennio, non è mai stato una vetrina interessante per quanto riguarda opere sui vampiri. Lo spunto “vampiresco” è avvenuto solamente in film che di horror hanno ben poco come ad esempio The Galgali family and Dracula17 o Vampire cop Ricky18, che dimostrano la tendenza ad affrontare l’argomento scegliendo la strada del demenziale più che quella 16
Lake of Dracula (Chi o suu me, Giappone, 1971) di Michio Yamamoto, con Midori Fujita, Osahide Takahashi, Sanae Emi, Shin Kishida. 17 The Galgali family and Dracula (Galgali Familiwa Dracula, Corea del Sud, 2003) di Nam Ki-Nam, con Park Jun-Hyeong Park, Jeong Jong-Cheol Jeong, Lee Seung-Hwan, Lim Hyeok-Pil. 18 Vampire cop Ricky (Heubhyeol hyeongsa na do-yeol, Corea del Sud, 2006) di Lee SiMyung, con Jeon Ho-Jin, Jo Yeo-Jeong, Kim Hie-Jeong, Kim In-Mun Kim, Kim Su-Ro, Oh Kwang-Rok, Park Yeong-Su, Son Byung-Ho.
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dell’horror in sé. D’altra parte però questo territorio narrativo vergine, o così immerso nella commedia da perdere tutte le sue caratteristiche basilari, ha permesso a Park di sviluppare una storia originale che prendesse il semplice spunto della figura del vampiro, per poi potervi inserire successivamente alcuni degli aspetti fondamentali della sua cinematografia come il discorso sul sacro e il profano, il sesso e la violenza. Tratteggiando una storia dagli umori variegati, il regista coreano immagina quello del vampiro come uno stato superiore all’essere umano, in cui la libertà d’azione, di scelte e di volontà si scontrano con la morale corrente e con un’etica di cartapesta. Il libero arbitrio è la condizione necessaria per strapparsi di dosso le catene delle convenzioni, ma non sempre la bestialità repressa insita nell’essere umano permette di fare buon uso di una libertà ottenuta così faticosamente. Thirst ha sicuramente diviso pubblico e critica, probabilmente perché molti aspettavano un ritorno ad uno stile narrativo più vicino a quello adottato nella Trilogia. Park però, intendendo proseguire per la strada della contaminazione, compie un ulteriore passo avanti rispetto ai suoi precedenti lavori. In Thirst la continua destabilizzazione e i netti cambi di registro da una parte rendono sicuramente meno leggibile il film ma, dall’altra, riempiono lo sguardo ed il cuore con il loro concentrato di invenzioni e ricerca di disperata poesia. Un horror oltre l’horror dunque, in cui la figura del vampiro diviene l’emblema delle pulsioni represse, della sessualità, del rifiuto delle convenzioni e dei dogmi. Padre Sang-Hyun decide di sottoporsi ad un esperimento in Africa tramite il quale si potrebbe trovare la cura per un virus che sta mietendo sempre più vittime. Il virus sembra avere il sopravvento sul suo corpo fino a farlo morire ma, a sorpresa, Sang-Hyung torna in vita. Il fatto di essere l’unico sopravvissuto all’esperimento ha i suoi contro: per sopravvivere il prete ha bisogno di nutrirsi con sangue umano. Nel frattempo incontra un amico d’infanzia, Kang-Woo, la madre di questo e la sua moglie-sorellastra Tae-Ju, 83
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ragazza vessata dalla famiglia, annoiata, repressa e psicologicamente instabile. Sang-Hyun, proclamato santo dai fedeli, inizia presto ad essere attratto dalla ragazza finché non comincerà una relazione con lei. La storia d’amore porterà inevitabilmente all’omicidio di Kang-Woo, il cui spettro inizierà a tormentare il prete-vampiro e la sua amante. Sang-Hyun non trova più il conforto della fede e non riesce a consolarsi neanche con l’aiuto di un anziano confratello cieco che, dimentico dei buoni consigli dati in precedenza, vuole diventare anch’egli un vampiro; Tae-Ju è sempre più distante, troppo debole ed “umana” per accettare la situazione. Sang-Hyun uccide la ragazza davanti alla signora Ra, madre naturale del defunto, ma facendole bere il suo sangue la riporta in vita trasformandola quindi in vampira. Gli amici di famiglia della signora Ra e di Kang-Woo, scopriranno che la morte del giovane non è stata una tragica fatalità. Ne seguirà un massacro e un finale, fra l’epico e il romantico, in cui i due amanti decideranno di “suicidarsi” rimanendo a fissare il sole sul picco di una scogliera. L’ultima fatica di Park Chan-Wook è incentrata, più di ogni altro suo film, su una forte carnalità. È sicuramente inevitabile recuperare quelli che sono i dictat di un horror sui vampiri che si rispetti; il regista coreano però assimila senza copiare e attinge alla fonte della nutrita filmografia “vampiresca” senza esagerare. In Thirst ciò che balza immediatamente all’occhio è l’evoluzione dei personaggi, la loro trasformazione e l’ambivalenza fra la prigione corporale e quella spirituale. Il corpo, nucleo centrale di Sympathy for Mr. Vengeance, è come un marmo delicato su cui Park modella le sue figure. Quello di Sang-Hyun subisce innumerevoli trasformazioni ed ogni mutazione fisica è lo specchio del turbine di emozioni che stravolge il suo animo. Il virus da cui contrae la malattia causa piaghe sul suo corpo: nella sua paradossale situazione di uomo in balia del Dio dell’Antico Testamento, il prete trova nel sangue di altri esseri umani la cura al suo “male”. Dietro le cause scientifiche, peraltro appena delineate, l’interesse di Park è quello di andare ad indagare sul senso del male fisico, ricercandone l’origine all’interno della psiche umana. Non è solo il virus la causa del suo disfacimento corporale. La vera ragione è da cercare nel nucleo profondo di una coscienza macchiata dalla “malattia umana”. Il prete assume capacità sovrannaturali ma più va avanti il racconto e più ci si rende conto che nel suo atteggiamento, nelle sue pulsioni, non vi è nulla che travalichi le leggi della natura. Inizialmente, ancora pervaso da un’etica tutta umana, si aggira in cerca di 84
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cibo come un animale addomesticato che tenta di sopravvivere senza prevaricare il prossimo. Ma la passionalità più profonda esce fuori, prorompente, tramite una sessualità bestiale, fatta di morsi, sangue e violenza, che raggiunge l’apoteosi in una scena carica di un erotismo esplosivo e trascinante. Se però Padre Sang-Hyun è ancora in bilico fra il senso di colpa umano e la furia animale, Tae-Ju nasce vampira e strappa quasi immediatamente le catene che finora l’avevano tenuta legata ad un senso di umanità reprimente. La ragazza non conosce il peccato e si aggira come una bestia pronta a uccidere e, costringendo Sang-Hyun a cacciare per lei, diviene quasi un capo branco feroce e affamato. Il sangue è l’alimento naturale per sopravvivere, il sesso quello spirituale. La passionalità violenta è la cura per le repressioni che l’Uomo cuce su se stesso. Il prete si bastona le gambe per non pensare alla ragazza che gli ha turbato l’animo; l’uomo dà inconsciamente la colpa al virus ma la realtà, probabilmente, è che lo stesso virus non è altro che il mezzo tramite il quale può manifestarsi (e successivamente esplodere) tutto ciò che è “male” secondo la morale corrente. La “malattia” è all’interno di un essere umano già contagiato da pulsioni bestiali non appena nasce e “malato” fino al giorno in cui morirà. Ma un vampiro, malgrado possieda capacità sovraumane, può morire ed è la paura stessa della morte che rende la bestialità ancora più evidente. L’Uomo ha tentato di ovviare alla sua paura tramite l’ausilio delle religioni che, nei secoli, si sono sviluppate in maniera da rispondere ai quesiti sulla ricerca della vita eterna. L’essere umano è immortale solo nel momento in cui possiede la fede. La bestia, invece, non potendo far leva sull’abbandono nella fede religiosa (né ovviamente sulla ragione o sulle leggi precostituite), può solamente agire d’istinto, tramite lo slancio rabbioso che giunge in risposta alla paura della morte. Sang-Hyun, con l’ultimo briciolo d’umanità, cerca la morte come liberazione; Tae-Ju si rifiuta, ha paura di morire, di rinunciare alla sua libertà. L’uomo la spunterà e spingerà la ragazza a morire con lui, compiendo il supremo sacrificio: salvare il mondo dalla contaminazione, dalla bestialità, da una libertà cui l’umanità non è ancora pronta. L’interesse principale di Park risulta essere quello di compiere un viaggio complesso ed affascinante in bilico sulla linea invisibile che separa il sacro dal profano. Nell’ironia generale del racconto, nel suo continuo provocare, Park non risulta mai blasfemo o irrispettoso, ma sembra piuttosto 85
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delineare un’alternativa, e proporre, tramite un intelligente gioco di estremizzazioni grottesche, una lettura anomala della società e delle interpretazioni della religione (soprattutto quella cristiano-cattolica). Ogni personaggio è costruito in modo da evidenziare le contraddizioni generate dall’attrito fra spiritualità e tentazione, fra sacralità e peccato, fra ricerca di salvezza e prigione della carne. Sang-Hyun nelle fasi iniziali del film appare come un prete moderno che sembra aver trovato il suo equilibrio fra fede e ragione. In confessione consiglia ad una suora di prendere degli antidepressivi per superare una delusione amorosa e di farsi aiutare da Dio tramite la scienza; successivamente decide di prendere parte all’esperimento perché è convinto che sacrificarsi alla scienza possa aiutare l’umanità. Park tratteggia un clero che sembra immerso in problemi comuni (come nel caso della suora) o, addirittura, che sia deciso ad agevolare il percorso della scienza. Il suo anticonformismo viene però stemperato nella sequenza in cui Sang-Hyung comunica al suo confratello cieco di voler partecipare all’esperimento. L’anziano risponde che il Vaticano non è favorevole, ma il giovane prete progressista continua ostinatamente il suo percorso. In Africa anche il medico che si occupa dell’esperimento vuole assicurarsi che il comportamento del prete sia puramente in nome della scienza e che non si tratti, come già successo con altri partecipanti, di “suicidio drammatico”, di un tentativo di estremizzazione dell’idea del sacrificio, punto cardine della religione cristiano-cattolica. Durante le fasi dell’esperimento Sang-Hyung vede il suo corpo riempirsi di bolle e di piaghe, ma continua ad avere la forza di pregare: “Garantiscimi quanto segue, in nome di nostro Signore Gesù Cristo. Come una lepre a cui marcisca la carne, fa sì che tutti mi evitino, come uno storpio senza membra, fa sì che non mi muova liberamente. Toglimi le guance, così che le lacrime non possano scorrervi, distruggimi le labbra e la lingua, così che non possa commettere peccati. Tira via le mie unghie, poiché potrei afferrare qualcosa, fa che le mie spalle e la mia schiena siano piegate, così che non possa portare niente. Come un uomo con un tumore nella testa, fa sì che manchi di giudizio, devasta il mio corpo votato alla castità, lasciami senza orgoglio, e lascia che viva nell’onta. Non permettere a nessuno di pregare per me, che solo la grazia del Signore Gesù Cristo abbia pietà di me”. Forzato a rimanere nella sua stanza e vessato da atroci sofferenze e deturpazioni fisiche, il giovane sacerdote si rivolge a Dio, invocandolo con preghiere quasi ancestrali, in cui si augura che le piaghe che lo 86
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stanno colpendo siano un segno della volontà divina, una sorta di prova da superare. Sang-Hyung supererà la prova del dolore, supererà la sua stessa morte, ma la resurrezione che lo aspetta lo farà rinascere come un nuovo essere sempre più sospeso fra le animalesche tendenze umane, il dubbio e la fede. Appena uscito dall’ospedale, l’uomo si troverà a fronteggiare tutte le contraddizioni legate alla religione. Egli non dovrà solamente tentare di sconfiggere le tentazioni erotiche, la sete di sangue ed evitare la discesa verso l’oscurità. Il giovane sacerdote è solo di fronte a grotteschi fedeli in cerca di un miracolo perché lui, per loro, è il “Santo Bendato”, l’uomo guarito dal virus EV, la guida spirituale che tutti stavano aspettando. La comunità religiosa appare dunque come la più immersa nella paura della sofferenza e della morte; uomini e donne si aggirano per il mondo, emarginati, come i lebbrosi che Cristo guarì ma a cui il Santo Bendato risponde prima con timore e, successivamente, con la provocazione e la violenza (in riferimento al finale in cui Sang-Hyung, in preda al furore più bestiale misto a disprezzo, tenta di violentare una ragazza accampata insieme ai membri della comunità che chiedono insistentemente la grazia). L’uomo ha solo un amico con cui confidarsi, il suo confratello cieco, di cui è interessante notare il percorso nell’arco del film. L’uomo, inizialmente rappresentante di una generazione di religiosi un po’ all’antica chiede, a mo’ di San Tommaso, di sentire con le mani le piaghe di Sang-Hyung fino a toccargli il cuore. L’uomo pur non vedendo è costretto a percepire non solo il corpo di un essere non più umano, ma a subire anche la tentazione del peccato più grave: desiderare di essere un vampiro per ritrovare la vista e per conquistare l’immortalità. Il giovane prete decide di ucciderlo per salvarlo dalla tentazione e, conseguentemente, per nutrirsi del suo sangue. Inoltre, nel singolare incipit, un uomo grasso in fin di vita racconta di aver sognato una meravigliosa torta al cioccolato; stava per addentarla quando ha visto due sorelle affamate anelare un pezzo della torta. La tentazione di nascondersi era tanta ma alla fine l’uomo si era sentito costretto a regalare il dolce alle donne. Dietro un episodio apparentemente insignificante e introduttivo come quello appena raccontato, è facile intuire il percorso fra tentazione e repressione che lo spettatore dovrà intraprendere durante il film. Ciò che regna nell’ultimo lavoro di Park è il continuo smascheramento dell’ipocrisia legata alla religione. Seppur in maniera ironica e inoffensiva, 87
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il regista coreano lancia il suo messaggio. L’intento è di riuscire a sovvertire completamente i valori cattolici, a metterli in discussione, ricreando quella “fede nel dubbio” che l’essere umano sembra aver perso. L’Uomo accetta la tradizione, l’imposizione e tenta in tutto e per tutto di soffocare le proprie esigenze corporali portando l’allontanamento della trasgressione proprio all’effetto contrario. L’istinto animale, soffocato e represso, crea morbosità e di conseguenza paura. Tae-Ju ha il terrore di provare godimento nel ricevere i violenti morsi del suo amante. “Andremo all’Inferno per questo?” chiede a Sang-Hyung. Ma l’inferno non è il luogo indefinito ed indefinibile in cui l’Uomo viene condotto dal Male: esso è all’interno dello stesso essere umano e risultato di inesplicabili contraddizioni. Il sacrificio finale del prete è parallelo a quello di Cristo. Quest’ultimo è morto per “lavare i peccati del mondo” e liberare l’essere umano dandogli la speranza di una vita eterna; Sang-Hyung muore affinché l’umanità non debba mai annusare il vero odore di una pericolosa immortalità. Thirst però non è solo un concentrato di considerazioni filosofico-religiose, forse solo suggerite ma comunque presenti in maniera preponderante. Il film è anche, dal punto di vista narrativo, un folle esperimento, probabilmente il punto più alto dell’idea centrale del cinema di Park, cioè quella di mescolare in continuazione le carte dei generi cinematografici. Il regista non si limita a raccontare un horror, ma riesce in quegli intenti che aveva appena accennato con l’ingenuo Trio e rincorso e raggiunto poi con le sue opere successive. L’ultima fatica del regista sud-coreano si presenta solo apparentemente come un horror sui vampiri. Park si diverte nelle fasi iniziali ad indugiare su elementi splatter, curando con attenzione quasi maniacale ogni particolare raccapricciante del deperimento fisico di Sang-Hyung, oltre a stupire con una delle sequenze visionarie più deliranti del cinema coreano, tramite la quale il giovane prete si rende conto di essere ancora “malato”. Non appena l’uomo sembra essere sopravvissuto al virus EV, il film ha un 88
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leggero cambio di direzione verso i territori della commedia nera di stampo familiare (che tanto ricorda gli esordi di Kim Ji-Woon). La bella Tae-Ju è continuamente vessata da un marito demente quanto esilarante e dalla madre-suocera, la signora Ra, che la tratta come fosse la sua schiava. Ad un tratto, il brusco cambio di registro che fa virare la storia verso i lidi del cinema erotico. Sicuramente la figura del vampiro ha sempre suggerito l’idea della sessualità intesa come violenta passione e scambio vicendevole di fluidi corporei, ma Park si spinge oltre. Le scene di sesso sono costruite in maniera da rendere quasi palpabili i corpi dei due personaggi; sembra quasi possibile sentire l’odore e il sapore della loro pelle. Il vampiro diviene la guida verso la trasgressione sessuale, verso un sano appagamento degli istinti fino a quel momento repressi; la sua vittima, invece, diviene metafora dell’essere umano che si ribella contro i tabù e tutto ciò che viene definito malato o morboso dalla morale corrente. Dopo la straordinaria parentesi erotica, ha inizio una serie di sequenze che non a torto potrebbero essere accostate a quelle di un qualsiasi film romantico. Niente più sangue, né sesso, ma giochi d’amore fra Sang-Hyun e Tae-Ju. Lui le mostra come mangia (o meglio, beve), come spezza una monetina con le dita e, successivamente, fa saltellare la ragazza sui tetti dei palazzi di Seul. A questo punto è facile intuire che il film abbia iniziato un percorso diverso da quello che si era potuto pensare in precedenza. I due sono talmente innamorati (lui è la trasgressione, lei l’oggetto del peccato) da uccidere Kang-Woo. Ovviamente il delitto passionale porterà ad un nuovo brusco cambio di marcia: si ritorna alla commedia nera, con leggere venature oniriche stavolta, in cui oltre a mettere in risalto il singolare rapporto di coppia fra i due vampiri, Park inserisce esilaranti gag con la signora Ra, rimasta paralizzata dopo la morte dell’amato Kang-Woo. Non appena il delitto verrà risolto, il film si chiuderà con un epilogo tanto tragico quanto romantico. I due decidono di morire insieme, togliendosi quella seconda vita che il destino aveva loro regalato. Malgrado le innumerevoli e incomprensibili perplessità lasciate da Thirst, è impossibile non notare come esso sembri essere il logico proseguimento della poetica di Park. La violenza espressiva della Trilogia lascia il posto a pretesti horror; la comicità simile a quella di alcune sequenze di JSA – Joint Security Area scivola verso il grottesco esaltando i già buoni risultati di I’m a cyborg… but that’s OK; infine l’idea di un amore impossibile 89
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riporta alle suggestioni e alla purezza quasi primigenia dell’incestuoso e dolce rapporto fra Woo-Jin e la sorella in Old Boy. Park è in viaggio verso altre direzioni, ma non senza la classe registica e l’esperienza duramente acquisite in quasi venti anni di carriera. Allo stesso modo con cui ha ridato vitalità e vigore al genere horror, il regista continuerà a giocare le sue carte e, sicuramente, è destinato a mantenere un approccio sempre spiazzante, innovativo e, soprattutto, mai inchiodato ai clichè del film di genere.
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Capitolo sesto
Le sceneggiature
Finora sono stati analizzati dal punto di vista critico i film diretti da Park Chan-Wook e, nella seconda parte del saggio, verranno analizzati in maniera più specifica gli elementi tecnici dello stile del regista. In questa sezione, invece, verrà dato lo spazio necessario ad una parte dell’opera di Park spesso dimenticata o comunque posta in secondo piano rispetto ai suoi lavori di maggior rilevo internazionale. Il cineasta di Seul infatti ha lavorato con una certa continuità su sceneggiature di lavori diretti da altri registi, oltre a collaborare con altri sceneggiatori nella stesura dei suoi stessi film. A parte l’ispirazione letteraria di DMZ, punto di riferimento nella trascrizione cinematografica di JSA – Joint Security Area, e quella fumettistica di Old Boy, Park ha spesso lavorato con altri autori in fase di scrittura dei film di maggior successo, ad iniziare da Jeong Seo-Gyeong con il quale ha steso lo script delle sue ultime tre opere, fino ad arrivare all’eclettico Lee Mu-Yeong che oltre ad aver collaborato in fase di scrittura con Park ha spesso diretto film scritti a quattro mani con quest’ultimo. Nel 2000 Park Chan-Wook scrive la sceneggiatura di Anarchists, la cui regia viene affidata al poco prolifico Yu Yong-Sik, autore poco noto nell’ambito della cinematografia coreana, anche se proprio con questo film aveva dato prova di una buona padronanza del mestiere. Anche se le storie di Park prendono spunto da una certa realtà sociale e politica, il regista preferisce concentrare la propria attenzione sul dramma dell’essere umano che si muove all’interno di quel contesto. Solo in Anarchists si avverte una presenza politica e di orgoglio nazionalista difficilmente riscontrabile nelle altre sue opere. Ovviamente nel film diretto da Yu la politica è comunque il
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pretesto per celebrare l’eroismo e il valore del sacrificio ma, fra le righe, è possibile leggere un certo interesse da parte di Park nell’inserire i personaggi in un contesto storico ben definito e nel dipingerli in modo tale da mettere in evidenza le influenze politiche che, per forza di cose, pervadono il loro pensiero e il loro modo di porsi rispetto alla vita. Il film, ambientato a Shanghai nel 1924, è caratterizzato da una forte linearità narrativa. Anarchists narra le avventure di un gruppo di anarchici coreani esuli in Cina che combattono, seguendo i dictat della propaganda d’azione, contro l’occupazione giapponese che li ha costretti a fuggire dalla loro patria. In primis vengono messe in evidenza le idee politiche che legano i personaggi e che consolidano rapporti d’amicizia tanto forti quanto drammatici. Gli anarchici vivono insieme ogni singolo momento della loro vita, dalle azioni in incognito alle operazioni terroristiche, dagli amori ai tradimenti. Il nucleo centrale dello script è sicuramente l’idea del sacrificio, posta necessariamente oltre le individualità e le esigenze personali. L’azione violenta è la condizione senza la quale gli anarchici non potrebbero combattere la guerra parallela che agevolerà, secondo le loro intenzioni, la liberazione dall’occupazione giapponese (“La violenza è la nostra unica arma” dirà uno dei membri della banda). Quando l’organizzazione che li controlla decide di appoggiare la causa socialista per poter avere un peso politico maggiore, la banda di anarchici decide di staccarsi e di continuare a perorare la causa per conto proprio, persistendo su sistemi, dal punto di vista odierno, meno democratici. Essi cercheranno di sopravvivere rapinando banche e proseguiranno la loro lotta armata, unico modo per combattere il nemico e per arrivare all’epico finale. Uomini soli contro l’oppressione, mossi dall’ideale puro, dalla coerenza. Gli spunti di questo film sono numerosi e degni di nota. L’interesse personale è messo sempre in secondo piano dalla dedizione alla lotta per la liberazione e, anche se i personaggi hanno ispirazioni politiche spesso divergenti, l’utopia anarchica applicata alla lotta è il comune denominatore fra tutte le individualità. Le vicende sono costruite in maniera equilibrata, in modo tale da alternare momenti d’azione e di forte impatto visivo a sequenze più poetiche e delicate, nelle quali emergono i sentimenti, le idee e i drammi personali. La scelta di alternare i ritmi narrativi si rivela necessaria per porre alla luce le motivazioni che spingono il gruppo all’azione. Non importa quanto sia vano anche solo tentare un attacco violento contro il regime 92
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dominante: una vera rivoluzione non si compie senza sacrifici. Park sembra essere convinto che ogni sacrificio non possa mai essere vano né antidemocratico, specie in un luogo dove la democrazia è solamente la maschera posta a forza sul popolo oppresso. Il regista eleva la politica del terrore a Resistenza, proprio nell’atto di ribellione degli anarchici contro il loro stesso sistema, piegato dai compromessi politici. Il principio di immolazione per la liberazione del popolo in nome di un ideale comune non cancella la possibilità di uno scambio dialettico, di un produttivo scontro politico all’interno della banda degli anarchici. Se l’oppiomane Seregay, personaggio dall’animo torbido e tormentato, si presenta come un intellettuale nichilista e individualista, d’altra parte abbiamo personaggi come l’idealista Lee Geun o come Han Myung-Gon, proveniente quest’ultimo da un ambiente marxista-leninista, passando per l’anarchico puro di estrazione popolare, Dol-Suk, fino all’ingenuo sognatore Sang-Gu, narratore delle vicende degli anarchici. Diverse influenze politiche e sociali sono mescolate in nome di un obiettivo comune: non importa se i protagonisti verranno massacrati nel finale o se i loro nomi non verranno annotati nel grande libro della Storia. L’Uomo che combatte è modello di eroismo, di coraggio e di luce per il percorso verso la libertà, e l’anarchia “è un gruppo di marinai senza capitano” (come dice proprio uno degli anarchici). Si potrebbe definire Park Chan-Wook un anarchico del cinema. Ogni sua narrazione, per quanto equilibrata e coerente, è scevra da qualsiasi clichè narrativo. Anche in Anarchists si avverte la propensione verso la ricerca di libertà espressiva. Il film, che tende a dipingere a piccole pennellate la figura dell’anarchico coreano esule in Cina, è impreziosito da una serie di sottostorie che rendono il plot sicuramente fruibile e divertente. Non manca l’azione (esaltata dalla buona mano del regista Yu Yong-Sik) e l’interesse ad indagare l’emblematica figura di Kaneko, una cantante che grazie alla sua voce e alla sua bellezza riesce ad avere informazioni riguardo agli spostamenti e alle mosse dei pezzi grossi dell’esercito giapponese. La donna però non incanta solo gli oppressori, ma anche Seregay e Lee Geun. Torna così in Park la costruzione geometrica che fa del “trio” un punto di forza della sua poetica. Come già visto in Moon… is the sun’s dream e Trio (e come si noterà in seguito in altri film), il regista protende verso un certo ordine simmetrico: Uomo-Donna-Uomo, assioma perfetto per riuscire a raggiungere un equilibrio irraggiungibile nel “duo”. 93
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Nel 2001, anno successivo alla realizzazione di Anarchists e JSA – Joint Security Area, Park scrive The humanist in coppia con Lee Mu-Yeong, il quale dirigerà anche il film. Quanto a coerenza, tensione narrativa e genialità nel gusto e nei colpi di scena, The humanist è indubbiamente il miglior film di Park Chan-Wook sceneggiatore. Un concentrato di forza espressiva (forse poco coadiuvata dalla regia pulita ma mai sopra le righe di Lee) esplode in nome dei temi cardine della poetica dell’autore sud-coreano; cinismo e pessimismo si fondono in un energico trattato sulla società contemporanea in forma di commedia nera. Te-o è un giovane ricco e viziato, abituato a comprare le persone con i soldi del padre imprenditore. Sarebbe costretto alla solitudine e alla routine data dal benessere economico e dall’obbligo delle convenzioni (specialmente quelle religiose), ma un giorno incontra due vecchi amici, i due orfani Euglena e Amoeba, il primo pittore ed il secondo vittima di un grosso ritardo mentale. I tre si ubriacano insieme e, a seguito di un incidente stradale, uccidono un poliziotto. Il collega dell’uomo, rimasto vivo, deduce che Te-o è ricco (il giovane guida una Mercedes) e decide di ricattare i tre: se i ragazzi non gli porteranno venti milioni di dollari il poliziotto spiffererà tutto. Il trio allora inscenerà il finto rapimento del padre di Te-o in modo tale da poter ottenere come riscatto la somma richiesta dal poliziotto corrotto. Per sbaglio Euglena e Amoeba rapiscono l’amante della madre di Te-o e mettono l’uomo nel portabagagli della macchina; vengono però tamponati da un camion e l’uomo muore. Durante la fuga inoltre, i due giovani avevano anche preso in ostaggio una suora, insegnante del fratellino di Te-o. Amoeba, dopo aver tentato di violentare la suora, svenuta per il terrore, cerca di disfarsi, con l’aiuto di Euglena, del cadavere dell’uomo rimasto ucciso nel portabagagli. Sopraggiungerà Te-o che, pensando di chiudere la faccenda, si “sbaglia” risparmiando la vita alla suora che lo ferirà agli occhi, rendendolo cieco, prima di farlo arrestare. The humanist, seppur ironico e a tratti divertente, non lascia 94
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scampo quanto a violenza e a distorsione di qualsiasi principio morale ed etico. Innanzitutto Park e Lee esaltano e deformano le contraddizioni della società coreana, puntando il riflettore sulla totale mancanza di equilibrio fra classe sociale alto-borghese e “popolino”. Ma l’attenzione dei due autori non si limita a criticare l’ipocrisia malcelata della classe abbiente e tutti i falsi moralismi e buonismi che la circondano. Dal punto di vista narrativo la sceneggiatura è equilibrata perché mostra anche l’altra faccia della medaglia, cioè quella che rappresenta una classe medio-bassa che commette ogni tipo di nefandezza con la vana speranza di una più veloce crescita economica e sociale. Il poliziotto, che solo ad un primo momento si mostrava paladino della legge e della giustizia, chiede una ricchissima mazzetta ai tre ragazzi; Euglena e Amoeba sono dipinti come bestie più che come esseri umani. Non solo il giovane Te-o è il risultato della noia e della degenerazione di chi è nato ricco: anche i poveri e la loro ansia di emancipazione tradotta in maniera distorta sono messi sotto accusa. I valori cristiani perseguiti dai ricchi sono in realtà una copertura, e l’affidarsi a Dio è solo una giustificazione per avere la coscienza a posto. In The humanist si percepisce l’assenza di una qualsiasi struttura familiare, dai due ragazzi orfani a Te-o e alla sua famiglia disastrata composta da padre e madre con rispettivi amanti e un fratellino totalmente succube di un ambiente che lo distrugge psicologicamente. “Un umanesimo facile ha fatto fallire il mio giudizio”, dice Te-o quando viene arrestato. Questa affermazione descrive perfettamente le intenzioni dei due sceneggiatori. Il ragazzo paga il dazio per aver risparmiato la suora: il perdono non è più simbolo di forza interiore ma diventa un mero atto di vigliaccheria che fa soccombere, più che elevare l’essere umano ad eroe spirituale. Non c’è speranza per l’Uomo che si lascia “corrompere” dalla pietà. Paradossalmente, uno dei personaggi fondamentali della storia sembrerebbe essere un barbone dalla gamba in cancrena che i tre ragazzi incontrano sulla loro strada. L’uomo appare totalmente sconfitto dalla vita, è costretto a mendicare e suscita il disgusto di persone che gli regalano qualche spicciolo solamente per pietà di facciata. Ad un tratto però il barbone racconta la sua storia ai ragazzi: in passato era uno studente di lettere pieno di sogni ma la vita ferrea della caserma lo aveva distrutto. Veniva picchiato in continuazione perché non amava lavarsi; giunto al culmine della sopportazione uccise un superiore, divenne un fuggitivo e si ridusse in quello stato. L’uomo rifiu95
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ta di lavarsi perché compiere questa semplice e banale azione significa fare ciò che è convenzionalmente accettato per rendersi belli davanti agli altri. Il rifiuto estremo dell’uomo nei confronti dell’igiene personale appare come un atto di libertà, tramite il quale l’essere umano rifiuta il compromesso forzato con la società che lo opprime con regole e limitazioni. La libertà è un sacrificio: egli rinuncia all’affetto della madre, ad una vita decente, divenendo un “pazzo” emarginato. Ma l’odore della libertà, seppur raggiunta in modo totalmente folle, è troppo attraente. E così sarà anche per la scelta che sarà fatale al barbone, quella di farsi tagliare la gamba in cancrena da uno dei tre ragazzi. Morirà sulla spiaggia, libero. Il fallimento del sistema familiare tradizionale è il nucleo centrale anche del film successivo di Park sceneggiatore. Taekwon girl, conosciuto anche con il nome A bizzarre love triangle, uscito nel 2002 (come Sympathy for Mr. Vengeance) e diretto sempre da Lee Mu-Yeong, è una commedia che perde le tinte nere di The humanist pur essendo comunque impreziosita da alcune trovate narrative intelligenti e da un ritmo frizzante. L’aspetto più importante di quest’opera è indubbiamente la produzione, affidata alla EGG Films, società di produzione fondata da Park e dallo stesso Lee, oltre che dai registi Bae Chang-Ho, Kwak Jae-Yong e Lee Young-Jae e diretta dal produttore Ji Young-Jun. La EGG si proponeva di mettere sotto contratto a lunga scadenza i registi (con particolare interesse per gli emergenti), in maniera tale da garantire loro totale autonomia nella gestione dei propri film. Dettagli produttivi a parte, la commedia costruita da Park Chan-Wook e Lee- Mu-Yeong perde in termini di freschezza rispetto al precedente lavoro dei due autori, ma mantiene degli spunti interessanti sia dal punto di vista tecnico che da quello narrativo. Ancora una volta troviamo un “trio”, stavolta composto da due donne ed un uomo. Quest’ultimo, presentatore TV, si innamora di un’aspirante star televisiva, Eun-Hee, un po’ stupida ma fascinosa. L’atteggiamento sbarazzino della ragazza colpisce anche Keum-Sook, insegnante lesbica di Taekwondo. Il presentatore, Doo-Chan, e Eun-Hee si sposano ma presto la loro vita diverrà vuota e noiosa. La ragazza allora trova un diversivo: provare a fare nuove esperienze sessuali cedendo alle avances di Keum-Sook. Dopo piccole tragedie personali, tradimenti, arresti e tante scoppiettanti avventure, i tre si troveranno a convivere insieme e a crescere il bambino concepito in una “notte di vendetta”: Doo-Chan, colpito al cuore della sua virilità dopo aver scoperto le due donne in procinto di fare sesso, 96
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costringe Eun-Hee ad guardarlo mentre fa l’amore con Keum-Sook. Tutte le vicende vengono raccontate in una navicella spaziale da un anziano ad un giovane, entrambi ospiti ad un matrimonio in un futuro non ben precisato. La costruzione narrativa è divisa sostanzialmente in due parti. La prima, incentrata sul personaggio di Doo-Chan apre le porte alla seconda in cui viene descritta la storia d’amore fra le due donne. Questo sistema si rivela efficace poiché nella prima parte si assiste a vicende chiaramente spiegabili esclusivamente con la seconda. Ne segue quindi un livello di tensione mantenuto sempre al di sopra della media e un ritmo piuttosto incalzante. Come già detto, non si tratta sicuramente di un capolavoro ma, anche in questo caso, Park insiste sulla ricerca di una stabilità familiare, qualsiasi essa sia. L’idea di famiglia tradizionale fallisce miseramente ancora prima di concretizzarsi ma stavolta i personaggi, invece di soccombere alla solitudine o di essere stravolti da un turbine di violenza, riescono a trovare il compromesso che li renderà liberi e, sicuramente, un po’ più felici. L’amore fra Doo-Chan e Eun-Hee nasce nell’occasione in cui la donna è ospite in una trasmissione televisiva in cui si raccolgono fondi per curare il figlio di lei (frutto di una precedente relazione). Il giovane presentatore si batte per ottenere i soldi, arrivando addirittura a piangere davanti alle telecamere per aumentare l’audience: in pochi minuti di film si concentra un’atroce condanna al mondo dello show business ed anche la sincerità di Doo-Chan, che ammette in diretta TV di aver organizzato la farsa e di essersi fatto mettere delle gocce agli occhi perché non riusciva a piangere, appare come un’ulteriore prova di sciacallaggio per racimolare qualche spettatore in più. Taekwon girl ad una prima lettura può apparire come un lavoro privo di particolare interesse. Ma volendo scavare fra le righe è possibile individuare alcune intuizioni tipiche della poetica di Park. Il cinismo c’è, anche se troppo spesso viene nascosto dalla ricerca di una comicità sciatta e superficiale; ciò che più colpisce però è la tendenza a voler trattare argomenti “scomodi”, come l’amore fra due donne o il bizzarro triangolo amoroso del finale. L’intento del cineasta coreano è ancora una volta quello di voler superare i tabù di una società che guarda al futuro con i piedi piantati ancora nel passato. Gli ultimi due film scritti da Park e diretti da altri registi sono A boy who went to heaven, diretto da Yun Tae-Yeong, e Crush and blush, dell’esordiente Lee Kyoung-Mi. Il cineasta, in linea con le sue produzioni degli ultimi anni, conti97
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nua a prediligere l’espediente della commedia leggera, come se scrivendo per altri registi potesse lasciar sfogare quella giocosità spesso imbrigliata nella drammaticità della sua poetica. Il primo dei due film citati è un’aggraziata storia d’amore surreale e, in qualche modo, soprannaturale. Un tredicenne vive con la madre; del padre, mai visto, non sa niente se non che è stato in prigione e che, successivamente, è morto. La mamma di Nae-Mo (questo il nome del bambino) si suicida, lasciandolo solo ad affrontare la vita. Quasi in cerca di una nuova madre, Nae-Mo è affascinato da Boo-Ja, proprietaria di una piccola libreria; presto la donna prenderà a cuore le sorti del ragazzo e lo accudirà, trattandolo quasi come fosse come un altro figlio (la donna, single, ha un bambino di sette anni). I tre vanno al cinema e scoppia un terribile incendio: Nae-Mo, per salvare il figlio di Boo-Ja, morirà fra le fiamme. In Paradiso due angeli, uno fra i quali è il padre del ragazzo, decidono di dargli una seconda possibilità per vivere e lo fanno ritornare sulla terra ma, per errore, da tredicenne diventa trentenne. Questo qui pro quo ultraterreno è lo spunto di una commedia di buoni sentimenti, divertente e a tratti zuccherosa, in cui un adulto con la mente di bambino si ritrova a fare i conti con l’amore nei confronti della bella Boo-Ja (il giovane, in incognito, si spaccerà per il suo stesso padre). Nelle sue avventure sarà comunque aiutato dal fantasma del padre, invisibile a tutti. In questo caso è praticamente assente il cinismo che accompagna le opere di Park Chan-Wook. La comicità spesso surreale che caratterizza il film è indubbiamente un primo passo che porterà il regista al raggiungimento di una meta che segna un punto di svolta nella sua carriera, ovvero I’m a cyborg… but that’s OK. Gli schemi classici della commedia nera lasciano il posto ad una comicità più leggera, che va a braccetto con l’incedere romantico della pellicola, debitrice delle tematiche di film d’amore che spopolano in Corea del Sud. Il padre di Nae-Mo non è affatto morto; l’uomo si trova in un ospedale psichiatrico in stadio vegetale. I pazzi tendono ad avere l’anima 98
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fuori dai loro corpi, ed è per questa ragione che il padre del ragazzo, sotto forma di angelo custode, guida il figlio e lo aiuta nelle sue scapestrate vicende. Il malato di mente è “oltre”, come in I’m a cyborg… but that’s OK che Park dirigerà solo un anno dopo A boy who went to heaven: il folle è visto in maniera dolce e affettuosa, e viene dipinto come colui che può abbattere i muri della realtà per intraprendere strade che superino le barriere del visibile. I mondi immaginari ricreati da Park immergono lo spettatore in realtà alternative, cariche di fascino e di onirismo. La scintilla di luce che brilla nella mente dei folli è la stessa che illumina la strada di Nae-Mo, bambino col corpo di uomo, che appare matto proprio perché si comporta in maniera non conforme alle norme. Anche se in quest’opera viene trattata la difficoltà di costruzione di un nucleo familiare stabile, il regista decide di scrivere una storia lontana dalla cattiveria che lo ha influenzato nella prima parte della sua carriera. In Crush and blush invece, si assiste ad un leggero cambio di tendenza. La commedia rimane il genere prescelto ma, a differenza della favola A boy who went to heaven, le tinte grottesche e ciniche del film diretto da Lee Kyoung-Mi prendono il sopravvento: non più commedia romantica brillante dunque, ma un passo indietro verso una critica alla società dell’apparire, seppure non corrosiva come nell’ottimo The humanist. Me-Sook, professoressa di russo relegata ad insegnare inglese (lingua per lei semisconosciuta) alle scuole medie, è innamorata di Jong-Cheol, insegnante anch’egli, sposato e con figlia. L’uomo però sembra avere interesse per la professoressa Lee Yoo-Ri. Me-Sook allora, frustrata dall’amore non corrisposto e, soprattutto, da un problema di arrossamento del volto in momenti di stress e tensione, si fa aiutare dalla figlia di Jong-Cheol per evitare che l’uomo finisca a letto con l’attraente insegnante; la sfortunata donna non solo riuscirà ad evitare che il fatto si compia, ma approfitterà anche di Jong-Cheol in stato di ubriachezza, riuscendo a portarselo a letto. La moglie dell’uomo arriverà a scoprire tutto e a svergognare Me-Sook in uno spietato interrogatorio nel laboratorio di lingue della scuola. Crush and blush è un’opera che fa leva sulla grande prova dell’attrice Kong Hyo-Jin, la quale conferisce al personaggio quella forza che Park, coadiuvato da Lee Kyoung-Mi in fase di sceneggiatura, non riesce a dare. Sono palesi gli intenti di ironizzare sulle sfortune di una donna costretta a soccombere sotto il peso della continua esigenza di essere apprezzabile e 99
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desiderabile fisicamente. Essere piacente significa avere un posto migliore nella società; il brutto, considerato “sfigato”, viene emarginato. Conformarsi ad un certo ideale di bellezza è la meta da raggiungere per non essere risucchiati dal vortice della mediocrità. L’apparenza conta più della sostanza: questo sembrano dire fra le righe i due sceneggiatori ma, a parte la sequenza dell’interrogatorio, costruita con un eccellente senso del ritmo, l’obiettivo viene sfiorato ma non totalmente raggiunto. Fra piagnistei, isterismi e continui equivoci, quella che si preannunciava come un’interessante commedia nera, si presenta invece come l’ombra di ciò che il regista di Seul aveva già fatto e detto in precedenza. Park Chan-Wook non è solamente un grande cineasta, ma anche un ottimo sceneggiatore di film altrui, dai risultati sicuramente più altalenanti rispetto ai lavori che vedono anche la sua regia, ma comunque degni di un’attenzione spesso riservata esclusivamente alle sue opere di maggior successo.
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Capitolo settimo
Luci, ombre e suoni. Lo stile di Park Chan-Wook
Dal fumetto al film: una genesi ibrida DI
ANDREA DI LORENZO
Chi ha avuto modo di apprezzare Old Boy di Park Chan-Wook, secondo capitolo della sua Trilogia della Vendetta, non mancherà di compiacersi nel leggere le pagine del manga (dal titolo omonimo) che ha ispirato il regista coreano per la realizzazione del suo film. Autori di questo manga, che in Italia è distribuito dalla Coconino Press, sono Tsuchiya Garon (ideatore) e Minegishi Nobuaki (disegnatore), i quali, per un misero compenso di 11000 Euro, hanno dato vita, nel 1997, ad un personaggio tanto oscuro quanto vendicativo, che solo dopo l’uscita del film di Park ha avuto modo di vedersi attribuita la fama che merita. Old Boy è un manga fortemente caratteristico, che si differenzia dalle produzioni più commerciali alle quali oggi siamo abituati e alle quali può essere assimilato Dragon Ball1 di Akira Toriyama (ma attenzione, qui ci riferiamo solo al fumetto e non a quell’universo mediatico-commerciale ricreatovi attorno in Italia e altrove). Oltre ad una storia imperniata sul mistero di una vendetta (e non c’è niente di più adatto ad attirare il lettore), il manga ha un punto di forza nella cura estrema di ogni sua scena e nella ricerca di una realtà che non astragga la storia raccontata (come può essere ad esempio, ma qui mi allontano molto dal discorso, la serie dei 1 Per chi non fosse esperto in materia e volesse approfondire l’argomento la relativa pagina di Wikipedia offre un’ottima introduzione al fumetto, http://it.wikipedia.org/wiki/Dragon_Ball
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Peanuts2 di Schultz, dove le gesta di Snoopy & co. sono ambientate in un autentico non-luogo). Ma non solo, perché è il taglio fortemente cinematografico delle vignette (estremamente propenso a fare del primo piano a tutta pagina un’arma impropria!) a mantenere viva l’attenzione del lettore, sempre pronto ad apprezzare una tecnica inusuale (ma pur sempre piacevole) in campo fumettistico. Quasi si trattasse di un film a fumetti piuttosto che di un fumetto “classico”. La trama del film si discosta da quella originariamente “disegnata” da Tsuchiya Garon, mantenendosi però fedele a quello che è il nucleo della storia: il gioco mortale tra “carceriere” e “prigioniero”, rinchiuso senza (evidenti) motivi in una cella per dieci anni (15 nel film). La scelta di Park è evidentemente quella di adattare il manga “per” il grande schermo, a differenza di altri registi che invece preferiscono trasferire la storia, gli ambienti e quant’altro di originale, direttamente “sul” grande schermo: esemplare è il caso di Nana3 del regista giapponese Otani Kentaro, dove è impressionante la fedeltà del film rispetto al manga omonimo di Ai Yazawa, mirabilmente ricreato sino all’ultimo particolare insignificante. Nel caso di Old Boy questo non accade: esiste certo una forte relazione visiva tra originale e riproposizione, ma non è mai eccessiva, fine a se stessa. È come se si facesse una cernita di ciò che si può mantenere sul grande schermo e ciò che non vi prenderà mai luogo. Un’opzione che però non si riflette sulla scelta delle inquadrature, mai diretti rimandi al manga ma semmai scene elaborate a partire da quello. La relazione causaeffetto è così evitata, lasciando il passo ad una più agile (per il media utilizzato) causa-rielaborazione, a tutto vantaggio tanto del film quanto del manga. A tal proposito, Park afferma di essere molto attento quando si tratta di relazionarsi con un fumetto, non bisogna mai scambiarlo per uno storyboard poiché si corre il rischio di cadere in una un trappola. Come afferma lo stesso regista in un’intervista presente nel saggio di Piero Di Domenico, presente all’interno del primo volumetto di Old Boy4 “nel film non c’è alcuna 2 Per maggiori informazioni rimandiamo all’opera omnia in corso di pubblicazione dal 2005 della Panini, The complete Peanuts. 3 Presentato in anteprima italiana al Far East Film Festival di Udine del 2006 (FEF 8) e ora disponibile in DVD pubblicato dalla One Movie. 4 Old Boy, Coconino Press.
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immagine del manga, per alcune cose la storia è stata profondamente cambiata, tanto che del fumetto originale è rimasto ben poco nel film; specie il motivo ed il modo con cui il protagonista si vendica sono del tutto fuori dal manga. Quando presi in mano il progetto – continua il regista coreano – pensai di farne una copia seguendo la storia e le illustrazioni; sarebbe stato anche molto facile. Nel tempo però è diventata una cosa totalmente diversa, tanto che il film è così lontano dal fumetto che mi sono sentito in forte imbarazzo verso l’autore, scusandomi ripetutamente”. Una scelta che gli ha dato ragione: la versione cinematografica di Old Boy ha vinto, infatti, il Gran Prix della Giuria al Festival di Cannes del 2004, ulteriore affermazione di una cinematografia in continua ascesa, coadiuvata da una produzione fumettistica di livello sempre maggiore. Ma non solo. La scelta di Park incide profondamente su di una tipica disamina in cui convergono opera prima letteraria-fumettistica e la sua riproposizione filmica: il confronto diretto. Questo è il tipico modo in cui, sin troppo spesso, ci si avvicina a questo genere di opere (perché di genere si deve parlare in questi casi): si tenta un confronto che, immancabilmente, ci porta a chiederci se sia meglio l’originale o il suo rifacimento. Un errore in molti casi che trae il lettore-spettatore in inganno: si parla di media differenti e di un salto mediatico che la storia, pensata per la carta, compie sino alla pellicola. Come non considerare poi lo stile linguistico adottato per la scrittura di un testo (più facile quando invece si parla di tratto illustrativo per i fumetti), molto spesso difficilmente relazionabile ad un linguaggio basato sull’immagine? Il rischio è di prendere lucciole per lanterne e, a tal proposito, prima di ritrovarci con un pugno di mosche in mano, chiudiamo qui questa piccola digressione per ritornare a ciò di cui stavamo parlando prima, Old Boy. Dicevamo di come Park si discosti dal fumetto: lo rielabora, lo rende una sua creatura, mantenendo un nucleo di fondo a cui poi aggiunge, lentamente e con somma sapienza, altri temi a lui cari, come ad esempio le tortuose e turbolente relazioni uomo-donna o anche quella sensazione agrodolce, sospesa tra il dramma personale e la commedia, che spesso si ravvisa nei personaggi tratteggiati dal regista coreano. Una cosa decisamente concepibile, se si prendono in considerazione anche gli altri due episodi della sua Trilogia della Vendetta: l’impressione è che questa saga si regga solo su questo cardine centrale, la vendetta appunto, alternandogli intorno personaggi, situazioni, luoghi ed eventi. È una scelta ben precisa, dettata sicuramente dal 103
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punto di vista prettamente personale di Park, ma anche da una saggia definizione di un lavoro di ampio respiro: la protagonista principale dei tre film è infatti sempre la vendetta, i personaggi non sono altro che suoi burattini. È lei la regista nella storia, è lei che muove le fila di pupazzi animati solo dalla sua volontà. Nel contempo però non si mette da parte la componente formale fumettistica: durante il film molti sono i rimandi, tanto alle scene, quanto proprio ad una certa forma filmica pensata partendo da un manga. Prendiamo come esempio una sequenza esemplare (per il nostro discorso) del film: al minuto 39 e 27 secondi5, inizia una sequenza dalle forti componenti fumettistiche aperta proprio da un’inquadratura su di un manga giapponese. Oh Dae-Su riesce finalmente ad individuare il ristorante cinese che lo ha nutrito per i suoi lunghi 15 anni di prigionia coatta; seguendo il ragazzo delle consegne scopre il piano fantasma dove la prigione era situata. La sequenza in questione inizia proprio quando il ragazzo spinge i due tasti (il 7 e l’8) dell’ascensore: Dae-Su entra nella sua prigione, noi spettatori entriamo nel fumetto. L’inquadratura successiva ci mostra il guardiano della prigione che legge un manga: la porta dell’ascensore si chiude, il fumetto viene gettato per terra e ci troviamo di fronte lo sguardo (particolare) del guardiano. Da ora i piani che si susseguono sono fissi, caratterizzati solo da pochi movimenti (un aggiustamento di fuoco, il tremolio degli attori, una carrellata) e da una forte componente formale fumettistica. Servono cinque inquadrature per far sì che l’azione riprenda: gli occhi del guardiano, un particolare del martello impugnato da Dae-Su, un’inquadratura dal basso che ci mostra la situazione, una carrellata all’indietro che scopre l’azione 5
Si fa qui riferimento al DVD italiano pubblicato da Medusa Home Entertainment nel 2005.
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lateralmente (seguita dal tracciato della mira che parte dal martello e arriva sino alla testa del guardiano, in puro stile cartoon), la stessa inquadratura dal basso in cui il guardiano cerca di estrarre un coltello dai suoi stivali. Per terminare, un lento movimento di macchina dal martello al volto di Dae-Su ci mostra il suo sorriso vittorioso. La staticità imposta dalle inquadrature fisse e dall’immobilità degli attori, ci ricorda fortemente quella di un fumetto e dei suoi quadri d’azione: Park gioca sottilmente rimandando alle origini del suo personaggio, al suo essere protagonista di un fumetto, non dimenticando mai la materia base da cui è tratto il film. Volendo riportare un altro esempio di questa relazione fumetto-film, prendiamo una scena che inizia al minuto 43 e 15 secondi: si tratta della sequenza laterale della rissa con martello, in cui il protagonista di Park viene seguito lateralmente alla scena, in una sorta di vignetta continuata e prolungata, mentre combatte con un folto manipolo di tipacci poco raccomandabili, il padrone della prigione. Qui l’influenza del manga si fa più forte, fondendosi appieno con la forma filmica, in una delle scene forse più significative del film, con l’uomo solo contro tutti. Dae-Su solo contro il suo destino. Il destino di un uomo solo, come solitari sono i protagonisti della filmografia di Park Chan-Wook. Cercando di ricondurre il filo di questo breve discorso, è facile porre l’accento sul fatto che il film di Park è quanto di più diverso ci sia dal fumetto realizzato da Garon e Nobuaki: quasi si potrebbe dire che Park lo abbia migliorato, e non di poco, rielaborandolo secondo canoni a lui cari e a noi ormai ben conosciuti. Rimanendo comunque fedeli al fatto che film e fumetto siano due mezzi mediatici molto diversi tra di loro e che quindi non possano essere “realmente confrontati” (tanto nei loro mezzi quanto drammaturgicamente), è qui però necessario rimarcare che il lavoro del regista coreano sia stato indirizzato principalmente al grande schermo, e non al compiacimento dei lettori (o fruitori) del manga: confrontato a Nana, prodotto pensando al folto pubblico di lettori adolescenti (e non) del manga di Ai Yazawa, Old Boy è agli antipodi, come del resto dimostra la conclusione che Park ha dato alla storia, la quale, praticamente, non mantiene nessuna affinità con quella originale. Fedeltà che comunque ritorna in altri momenti, a constatare come la genesi di questo film, vero chef d’oeuvre della filmografia del regista coreano, sia “ibrida”: due linee di condotta che scorrono parallele, intersecandosi e, a volte, scambiandosi le posizioni; da 105
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un lato il film dall’altro il fumetto, legati assieme da un collante vendicativo, da un personaggio unico che nonostante il salto drammaturgico mantiene intatte le sue caratteristiche e la sua forza.
Volti DI
MATTEO BOTRUGNO
Uno dei compiti più importanti del mestiere di regista è indubbiamente quello di saper dirigere gli attori, di essere in grado di far “indossare” ad un interprete le esistenze dei personaggi di una determinata storia. In poche parole, il regista deve saper utilizzare i volti degli attori per poter arrivare alla concretizzazione della sua poetica e tracciare le linee comunicative di base. Alcuni attori coreani, per quanto conosciutissimi in patria, al di fuori della Corea del Sud o di altri paesi asiatici in cui vengono importati film di questa nazione, sono praticamente dei perfetti sconosciuti. Una delle pochissime attrici che ha raggiunto notorietà a livello mondiale è Kim Yun-Jin grazie alla fortunata serie TV creata da J.J. Abrams, Lost6, e già protagonista di uno dei primi blockbusters coreani, Shiri. Dati lo stile elaborato e la ricchezza stilistica delle sue opere, Park Chan-Wook potrebbe rischiare di essere considerato una sorta di dittatore per il quale la forma ha maggior rilievo rispetto alla figura dell’attore. Niente di più sbagliato. Per quanto la mano del regista sia sempre salda, anche nei movimenti di macchina più arditi e nelle inquadrature più estreme, il lavoro con gli attori non passa mai in secondo piano. Park, esordi a parte, sceglie gli attori in base a caratteristiche fisiche che possano combinarsi con la sua idea di personaggio, lasciando liberi allo stesso tempo gli interpreti di assimilarne le caratteristiche. Uno degli attori feticcio del cineasta è Song Kang-Ho, uno dei più importanti attori coreani e, fatto non indifferente, interprete che ha avuto la possibilità di lavorare in opere di grande qualità. Uno dei pregi di Song è sicuramente la sua capacità di essere versatile e di saper adattare il suo volto e le sue interpretazioni in film spesso diversissimi l’uno dall’altro. Spietato vendicatore in Sympathy 6 Lost (Id., USA, 2004-2010) di AA.VV., con Naveen Andrews, Matthew Fox, Jorge Garcia, Josh Holloway, Daniel Dae Kim, Yunjin Kim, Evangeline Lilly, Terry O’Quinn, Emilie de Ravin.
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for Mr. Vengeance, innamorato e sognatore in Secret sunshine, wrestler demente e membro di una famiglia di criminali rispettivamente in The foul king7 e The quiet family, oltre allo “strano” in The bad, the good, the weird: Song è un interprete in grado di trasformarsi a seconda delle esigenze narrative, dimostrandosi pilastro di opere di numerosi registi coreani, Kim Ji-Woon in primis, autore degli ultimi tre film citati, e di registi come Bong Joo-Ho, per il quale Song ha offerto alcune delle sue migliori interpretazioni in Memories of murder8 e The host. Park, oltre al primo capitolo della Trilogia, utilizza Song Kang-Ho in maniera totalmente libera, non relegandolo dunque ad una parte ben specifica e permettendogli di costruire personaggi che rispecchino il suo stesso eclettismo. Dal sergente nord-coreano in JSA – Joint Security Area all’incredibile interpretazione del prete vampiro in Thirst: Song è un attore in grado di saper sfruttare le sue capacità di mimesi a trecentosessanta gradi e, non meno importante, abile nel cementare il suo rapporto con i registi e con il lavoro di questi. Oltre alla piccola parte interpretata in Sympathy for Lady Vengeance, lo si ritrova sul set di Old boy (nel backstage è possibile vederlo mentre fa degli scherzi a Choi Min-Sik mentre quest’ultimo rivede una scena appena girata): modestia, simpatia e capacità trasformiste fuori dal comune sono le caratteristiche di un grande attore, stella del cinema coreano e, da qualche tempo, anche del panorama internazionale, che da diversi anni incarna l’idea di antieroe (o comunque di eroe sui generis) dal volto “normale” e lontano da standard estetici e attoriali occidentali. Un altro interprete straordinario, anch’egli utilizzato in due film di Park Chan-Wook (Old boy e Sympathy for Lady Vengeance), è Choi Min-Sik, già citato in precedenza. Meno versatile di Song, ha comunque il pregio di aver lavorato in film di grande spessore artistico. Lo stesso Choi, che è ritornato a recitare ben tre anni dopo l’ultima apparizione nel terzo capitolo della Trilogia di Park in Himalaya, Where the Wind Dwells9, preferisce partecipa7 The foul king (Banchikwang, Corea del Sud, 2000) di Kim Ji-Woon, con Song Kang-Ho, Go Ho-Kyung, Jang Hang-Seon, Jang Jin-Young, Jeong Woong-In, Jung Doo-hong, Kim Ka-Yeon, Kim Su-Ro, Lee Won-Jong, Park Sang-Myeon, Goo Shin, Song Young-Chang, Yoon Mi-Kyeong. 8 Memories of murder (Salinui chueok, Corea del Sud, 2003) di Bong Joon-Ho, con Song Kang-Ho, Kim Sang-Kyung, Kim Roe-Ha, Song Jae-Ho, Byeon Hie-Bong, Ki Seo-Hie, Park NoShik, Park Hae-Il, Choi Jong-Ryol. 9 Himalaya, Where the Wind Dwells (Himalayaeui sonyowa, Corea del Sud, 2008), di Jeon SooIl, con Choi Min-Sik, Hamo Gurung, Namgya Gurung, Tsering Kipale Gurung, Tenjing Sherpa.
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re solamente a film d’autore. I suoi personaggi sono spesso sofferti e carichi di inconciliabili contraddizioni: è Dae-Su in Old boy ma anche il terribile professore in Sympathy for Lady Vengeance. Non solo Park però si è accorto dell’incredibile capacità di Choi nell’incarnare dolore e sofferenza di un anima rinchiusa in una gabbia di carne. L’attore offre una delle sue più grandi prove in Ebbro di donne e di pittura, opera di straordinaria intensità, e riesce a tenere alta la qualità di un film come Failan10, che durante il suo svolgimento rischia cadute nei territori del lacrimevole. Volendo dare uno sguardo ai volti femminili nei film di Park ChanWook, non si può non citare una serie di interpreti giovani e di grandi qualità. Prima fra tutte Lee Yeong-Ae, la Sophie in JSA: Joint security Area e, soprattutto, lo splendido angelo nell’ultimo capitolo della Trilogia. Versatile e non particolarmente prolifica, Lee possiede un volto semplice, quasi acqua e sapone, che però, grazie ad un acceso make-up rosso fuoco può trasformarsi nella gelida maschera della vendetta. Una nota di merito va anche al lavoro svolto da Park con le tre giovanissime interpreti dei suoi due ultimi lavori: Lim Su-Jeong, deliziosa nel rendere un cyborg così umano (o viceversa), Kang Hye-Jeong, dallo sguardo sognante e stralunato con il quale riassume l’essenza del personaggio di Mi-Do in Old Boy, e, infine, la strepitosa Kim Ok-Bin, attrice di poca esperienza ma dal talento impressionante. Fra i rumors prima della premiére di Thirst a Cannes circolava la voce che tutte le attrici contattate per l’ultima fatica di Park si fossero rifiutate di prenderne parte poiché il progetto era troppo carico di violenza, crudo cinismo e scene di nudo e di sesso. La scelta è caduta così sulla ventiquattrenne Kim, semi-esordiente. La giovane attrice diviene la metafora del cinema e della poetica di Park Chan-Wook: la sua interpretazione così ricca di sfumature, in cui passa dalla rappresentazione di una donna sottomessa a quella di ribelle prima e spietata vampira poi, è il simbolo dell’eclettismo dello stile di Park e della sua capacità nel saper modellare i volti degli attori. Tornando agli uomini, uno degli attori più utilizzati da Park (e anche da altri registi coreani fra cui il solito Kim Ji-Woon) è indubbiamente l’ottimo Lee Byung-Hun. Fascinoso ed intrigante, viene spesso chiamato a interpre10 Failan (Id., Corea del Sud, 2001) di Song Hae-Sung, con Choi Min-Sik, Cecilia Cheung, Jeong Dae-Hoon, Kong Hyeong-Jin, Son Byung-Ho.
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tare ruoli in cui ha molta rilevanza la componente estetica. In Cut, ad esempio, è il regista ricco e famoso; in JSA: Joint security Area invece, il sergente sud-coreano dai buoni sentimenti. Anche Kim lo utilizzerà in ruoli in cui si avverte la necessità di uno sguardo che possa essere dolce e, allo stesso tempo, spietato, come nel caso di Bittersweet life o The bad, the good, the weird. Più che utilizzare attori sempre diversi l’interesse di Park sembra essere orientato sull’utilizzo di volti a lui conosciuti, riuscendo a plasmarli ad immagine e somiglianza della sua poetica. Anche questa è una qualità da riconoscere nell’opera del cineasta di Seul.
Una suite coreana DI
DANIELE COLUCCINI
Il lavoro di ricerca estetica di Park Chan-Wook è qualcosa che scaturisce dalla volontà del regista di riuscire a creare un prodotto artistico nel quale non solo ogni componente è dosata sapientemente, ma è anche indispensabile per la fruizione dell’opera nella sua totalità. In questo contesto le musiche adottate nei suoi film sono volte sia a sottolineare drammaturgicamente l’azione, sia, soprattutto, a suggerire allo spettatore le sensazioni proprie della scena a cui assiste. La componente musicale diventa una sorta di guida, una chiave di lettura alternativa di una determinata sequenza. La ricerca estetica che Park conduce attraverso le immagini, carica le sue opere di una prorompente forza espressiva che quasi non richiederebbe l’uso della musica. Le sue pellicole infatti godono di una tale autonomia visiva e di una carica emotiva così coinvolgente, che l’uso della componente musicale in modo non ponderato e accorto rischierebbe di appesantire la narrazione rendendola inutilmente ampollosa e ridondante. Il punto di forza nell’uso sapiente della colonna sonora è da ricercare proprio nel lavoro che essa conduce a livello subconscio creando metafore e chiavi di lettura inaspettate. Le continue contaminazioni tra musica diegetica e colonna sonora sospendono la narrazione in un limbo di incertezza e di precarietà necessario al regista per motivare le scelte ardite e spesso grottesche presenti nella
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quasi totalità dei suoi lavori. I protagonisti si trovano sempre a dover scavare a fondo dentro loro stessi; Park Chan-Wook li mette di fronte alle origini delle loro angosce, alle loro paure ataviche, ai loro desideri segreti. L’uso della musica suggerisce allo spettatore non solo la condizione del personaggio nel momento in cui si svolge la vicenda ma, riuscendo ad andare oltre, suggerisce ciò che è passato e ciò che avverrà, fungendo da invisibile collante di tutta la vicenda. Elaborando e maturando il suo stile registico, Park Chan-Wook ha dato sempre più rilievo alla colonna sonora giungendo, negli ultimi lavori, ad una enorme influenza della stessa nella narrazione. Con l’evolversi del suo linguaggio si è reso indispensabile l’ausilio di una colonna sonora originale affiancata, come nel caso di Sympathy for Lady Vengeance o di Old Boy, da brevi inserti di musica classica. Il lavoro che il regista compie sul subconscio dello spettatore attraverso l’uso della musica è evidente sin da uno dei suoi primi lavori; il cortometraggio Judgement infatti, si avvale principalmente di una colonna sonora non originale. Questa non solo tende a sottolineare drammaticamente l’azione ma, ad una lettura più approfondita, suggerisce allo spettatore la grande attenzione che il regista ripone nel dettaglio. La vicenda, svolgendosi quasi per intero in una camera mortuaria, si presta facilmente ad essere sostenuta drammaturgicamente da un tappeto sonoro cadenzato e malinconico. Park Chan-Wook offre però allo spettatore attento un ulteriore piano di lettura delle immagini. La scelta dei due temi principali risulta oculata, affatto scontata e raffinatamente selezionata. Il brano che fa da sottofondo alla vicenda è l’andantino dalla Sonata in La Maggiore D 959 di Franz Schubert. Questa sonata appartiene all’ultimo ciclo delle sonate del compositore viennese e, non a caso, viene considerato da molti il suo “testamento musicale”. Altro brano preso in prestito dal repertorio classico e degno di nota, è il secondo movimento dal Quintetto in Mi bemolle Maggiore op. 44 di Robert Schumann. L’indicazione di tempo sulla partitura è “In modo d’una marcia. Un poco largamente”. Quella a cui fa riferimento il compositore tedesco nella sua indicazione agogica, è una marcia funebre, cadenzata e malinconica, da eseguirsi in tempo Largo. I due brani sono strettamente connessi alla vicenda pur non essendo stati concepiti, ovviamente, con una finalità cinematografica. Anche nei suoi lavori più recenti, pur avvalendosi principalmente di colonne sonore originali, Park continua ad utilizzare, di tanto in tanto, musi110
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che appartenenti al repertorio della musica classica. Il regista sembra avere una predilezione per gli strumenti ad arco ed in particolare per il violino, strumento solista delle composizioni di cui si serve. Nei brani in questione, però, questo strumento non è utilizzato per produrre melodie cantabili, ma – nel rispetto della simbologia di diverse tradizioni – come mezzo “demoniaco”. Allo strumento vengono affidati brani di grande virtuosismo e bravura e il tema del celebre ultimo capriccio di Niccolò Paganini usato per i cambi di scena in Sympathy for Lady Vengeance ne è la prova. Il brano, tratto dalla raccolta dei Ventiquattro Capricci, che racchiude in sé molte fra le pagine più ardue del repertorio violinistico, termina il ciclo dei capricci del compositore genovese. Questa composizione è un “tema con variazioni”, uno dei generi più in voga tra i virtuosi dello strumento come Niccolò Paganini. La stessa verrà più volte usata nei secoli a venire da altri importanti compositori, tra i quali Franz Liszt e Johannes Brahms che la porteranno alla celebrità. Il tema, grazie alla sua brevità, esprime grande compiutezza e si presta particolarmente ad essere variato; inoltre è attraverso questo breve inciso demoniaco che Park Chan-Wook inizia a raccontare allo spettatore la sanguinosa storia di vendetta di Geum-Ja. L’altro importante brano di musica classica utilizzato dal cineasta in Old Boy, in una scena di grande efferatezza, è il primo movimento de l’Inverno di Antonio Vivaldi, altra composizione di grande complessità per il violino solista, tratta dalle famose Quattro stagioni11. Il protagonista Dae-Su entra per la prima volta nel luogo dove è stato tenuto prigioniero per lungo tempo. Sta iniziando a ricostruire i frammenti dei suoi ultimi anni di vita e il grande odio verso i suoi carcerieri lo spinge al folle gesto che sta per compiere: staccare al suo aguzzino un dente per ogni suo anno di prigionia. Il brano, caratterizzato da un intenso crescendo, si sposa perfettamente con le immagini, creando il tappeto sonoro necessario alla scena di estrema violenza alla quale lo spettatore sta per assistere; si rivela, poi, quanto mai adatto per accompagnare il raptus di folle violenza che scaturisce dalla sete di vendetta. Il brano originale che segue, ritmico e dai tratti elettronici, in netto contrasto con quello vivaldiano, svela l’anima goliardica del regista che immerge lo spettatore in una sorta di videogioco bidimensionale ricreato con una lunga carrellata in piano sequenza. 11
Tratti dai dodici concerti per violino op. 8 Cimento dell’armonia e dell’inventione.
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L’interesse per un repertorio di tipo classico, oltre a manifestarsi esplicitamente con l’uso di brani che appartengono alla cosiddetta musica “colta”, si ritrova anche nelle musiche originali commissionate da Park Chan-Wook. Gli stilemi propri di questo tipo di musica si rivelano perfettamente conciliabili con la quasi totalità dei lavori del regista. Nella colonna sonora di Sympathy for Lady Vengeance, la contaminazione tra i tratti distintivi propri del Barocco e quelli della musica per il grande schermo è quanto mai evidente. La ricerca di quel “sapore” musicale sembra infatti essere di fondamentale importanza per il regista. Il compositore Choi Seung-Hyun realizza delle musiche che potremmo collocare in un immaginario confine fra il ‘700 e i giorni nostri. In un cinema fatto di continue contraddizioni e di forti contrasti, la scelta di una musica di tipo sinfonico si rivela di grande forza espressiva pur sembrando estranea alla cultura orientale. Troviamo quindi una musica dalla cantabilità moderna, arrangiata però con gli strumenti propri del periodo barocco. L’uso del clavicembalo come basso continuo dona all’intera pellicola un carattere nostalgico e malinconico supportato dall’impiego, quasi esclusivo, della tonalità minore. È una colonna sonora fatta di concerti grossi, sonate a due, concerti per violino o per oboe solista. Il film è intriso delle sonorità proprie del grande ‘700 italiano. Il compositore usa il cembalo come una sorta di collante, che dà unità a tutti i diversi brani ma al tempo stesso scandisce, col suo timbro netto e tagliente, l’incedere della vicenda. In Sympathy for Lady Vengeance la musica non ha solo funzione di “guida”, ma veste i panni della vera protagonista del film: la Vendetta. I temi principali sono due: il primo, che viene esposto nei titoli di testa, è una cellula che torna in modo ciclico e costante durante tutto lo svolgimento della vicenda; ma il più importante è il secondo, che viene esposto dopo appena dodici minuti dall’inizio del film e ricoprirà un ruolo essenziale durante tutta la pellicola. Il motivo musicale, che potremmo chiamare per comodità il “tema della vendetta”, sembra avere una sua autonomia che prescinde dalla vicenda e riesce spesso ad insinuarsi sullo schermo con prepotente indipendenza. Si ripresenta ogni volta che questo sentimento si insinua nella mente dei protagonisti o si palesa in qualche modo davanti ai loro occhi. In questo contesto, Park fa un uso ciclico dei temi musicali, o se preferiamo, si avvale dell’espediente del leitmotiv wagneriano. Egli assegna infatti ad un determina112
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to personaggio o ad un sentimento, uno specifico tema musicale che si ripresenta ogni qual volta questo viene mostrato. Questo escamotage consente al regista di agire a livello subcosciente e di evidenziare a livello sonoro l’azione che si sta per svolgere sullo schermo. Si permette così allo spettatore di andare oltre, avanti nel tempo e nell’azione riuscendo a presagire, mediante il suggerimento musicale, ciò che dovrà accadere. Il primo evidente indizio che il cineasta ci dà si trova, come abbiamo detto, nella primissima parte del film. Geum-Ja, la protagonista, è inginocchiata a terra intenta a meditare quando viene improvvisamente colta dal sonno. Ciondolante e quasi in trance, si china lentamente a terra sopraffatta dalla stanchezza. È proprio in questo momento che la Vendetta viene a farle visita. Subito prima di toccare terra col corpo, infatti, la donna inizia ad intonare una semplice melodia. Il sogno che questa melodia suggerisce a Geumja è visionario e cruento, permeato dal sentimento che dà il nome anche al film: la Vendetta. Questo piccolo frammento musicale viene cantato a mezza bocca, quasi sussurrato; è però sufficiente allo spettatore per familiarizzare con esso. Park Chan-Wook associa questo tema musicale alla brutale esecuzione dell’uomo-cane nel sogno della protagonista. Un espediente sicuramente non nuovo (basti pensare al macabro presagio dell’arrivo della bestia nel famoso Lo squalo12 di Steven Spielberg, ogni volta cadenzato dal tetro tema che tutti conosciamo) ma che si carica di significato, nel momento in cui viene associato non ad un’azione o ad un personaggio quanto ad un sentimento, in questo caso quello della vendetta. Questo tema, inoltre, non è caratterizzato da una melodia aggressiva, come si potrebbe pensare, ma è invece sorprendentemente evocativo e arioso e sembra voler connotare quel sentimento come qualcosa di naturale ed ineluttabile. La grande forza espressiva di questa musica risiede non solo nella sua capacità evocativa, ma anche nella sua capacità di mutare a seconda di ciò di cui il regista necessita. Così facendo, Park riesce sapientemente a plasmare lo stato d’animo dello spettatore. Lo stesso tema musicale viene spesso stravolto, talvolta arricchito, altre volte prosciugato di ogni ornamento superfluo, per adattarsi all’azione filmica. Il tema funge da invisibile filo 12
Lo squalo (Jaws, USA, 1975) di Steven Spielberg, con Roy Scheider, Robert Shaw, Richard Dreyfuss, Lorraine Gary, Murray Hamilton, Carl Gottlieb, Jeffrey Kramer.
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rosso che attraversa la vicenda. Osservando i lavori del regista in questa ottica, Sympathy for Lady Vengeance sembra essere il film nel quale la musica riesce meglio nel suo intento suggestivo. La forza con la quale la musica attraversa i lavori del cineasta coreano e la grande intensità che questa riesce a donare alle sue opere, è strettamente collegata all’uso che egli fa dell’immagine e all’intensità della sua regia. La “mano” del regista è onnipresente e non si nasconde; anzi, spesso viene ostentata in tutta la sua eleganza e raffinatezza; una mano che i personaggi sembrano quasi vedere e sentire su di loro. Lo stesso accade alla componente sonora extra-musicale. I suoni quindi, le ariose melodie, i rumori, si trovano in quel limbo di incertezza di cui abbiamo accennato precedentemente; la loro provenienza oscilla fra il diegetico e l’extra-diegetico, in bilico fra ciò che i personaggi possono ascoltare e quella parte di realtà tangibile solo per lo spettatore. Così la colonna sonora si interrompe se Dae-Su, il protagonista di Old Boy, chiude un cellulare o, al contrario, la musica scaturisce dal canto di Geum-Ja per poi diventare sinfonica e uscire dalla realtà cinematografica. C’è una continua mescolanza fra ciò che è reale e ciò che il regista vuole mostrare. Egli si pone nelle condizioni più adatte per scegliere ciò che desidera rappresentare in qualunque modo egli voglia. Ogni lavoro di Park Chan-Wook ha un rapporto molto intimo con la musica che lo accompagna. I tratti che accomunano i suoi lavori, dal punto di vista della colonna sonora, non sembrano essere molti oltre quelli che abbiamo appena citato. Ci sono però due aspetti che ci possono suggerire molto non solo sul rapporto fra musica e immagini, ma che possono fornire interessanti spunti di riflessione sulla concezione cinematografica del regista sudcoreano più in generale. Il primo aspetto è sicuramente legato all’universalità dei temi che il cineasta coreano tratta nei suoi film. La sua poetica infatti, pur scaturendo dalla grande tradizione cinematografica del suo territorio, riesce ad affascinare non solo lo spettatore appassionato di cinema orientale, ma anche il fruitore meno attento alla cultura dell’est asiatico. La musica di cui fa uso incarna pienamente la trasversalità culturale di cui Park Chan-Wook è artefice. Le colonne sonore di cui egli si avvale subiscono le influenze della musica di Shosthakovic, Dvorák, del sinfonismo russo fino ad arrivare al Barocco italiano di cui Sympathy for Lady Vengeance, come già 114
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visto, è pervaso. Figlio della modernità, il regista riesce a coniugare la contraddizione dell’oriente contemporaneo che da una parte sembra voler restare saldamente attaccato alle proprie radici e che dall’altra cerca quotidianamente di imitare, e spesso emulare, i caratteri propri della cultura occidentale. Il secondo tratto che accomuna i lavori principali di Park Chan-Wook, riguarda l’uso che il regista fa di generi musicali propri del mondo della danza. Si è citato prima il compositore russo Dmitrij Dmitrievic Shosthakovic che con le celeberrime Suite per orchestra jazz ha fatto rivivere, trasponendolo in chiave moderna, il genere della suite orchestrale, molto utilizzato dai grandi maestri del passato, tra i quali Johann Sebastian Bach. Le suite barocche erano una serie di danze unite fra di loro dal legame della tonalità musicale. A differenza di quelle barocche, formate dalle danze del ‘600 quali, per esempio, l’allemanda, la sarabanda e la giga, le suite orchestrali di Shosthakovic riprendono del vecchio modello solo la struttura dando modo al compositore di inserire i “nuovi” balli in voga nel suo periodo: il valzer, la polka, il foxtrot. La maestria del compositore consiste nel saper amalgamare i vari momenti della suite per donare varietà e nello stesso tempo unità al proprio lavoro. Le musiche utilizzate da Park Chan-Wook sono spesso delle grandiose danze nelle quali volteggiano le molteplici anime dei suoi personaggi. Il genere prediletto dal cineasta è il valzer, che viene ininterrottamente riproposto nei suoi lavori più importanti. Da Old Boy a Sympathy for Lady Vengeance, passando per I’m a Cyborg… but that’s OK fino all’ultimo Thirst, il valzer francese, caratterizzato da un accompagnamento scarno e da una melodia cantabile affidata ai fiati, permea tutti i momenti di grande enfasi emotiva, quasi a voler essere il genere nel quale trovano libero sfogo il dualismo e le contraddizioni proprie del cinema di Park. L’accostamento di scene di efferata violenza con momenti di grande poesia, l’armonia fra grottesco e reale e fra carnale e metafisico, sembrano trovare il loro compimento nei tanti piccoli valzer, sempre diversi gli uni dagli altri, che riescono a coniugare il loro ritmo cadenzato con le loro ariose melodie. Un grandioso insieme di balli, di suggestioni visive e visionarie nelle quali i protagonisti sono chiamati a danzare a loro insaputa: sicuramente è questa è una delle immagini più interessanti tramite le quali è possibile raccontare il cinema di Park Chan-Wook. 115
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Amore al primo sguardo Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 03/12/2018
DI
MATTEO BOTRUGNO
Il primo amore, guardando un film, sboccia spesso al primo sguardo. Un colpo di fulmine, un innamoramento istantaneo. In questo brevissimo capitolo si andranno ad esplorare i celebri incipit e sequenze di titoli di testa che hanno contribuito a rendere ancor più affascinanti le pellicole di Park ChanWook. La fase iniziale di ogni film è in assoluto la più importante. Un buon inizio riesce a trascinare lo spettatore all’interno del mondo artistico del regista. Park, raffinato e meticoloso, ha fatto sì che gli opening credits dei suoi film dessero immediatamente l’idea dello spettacolo a cui si sta per assistere. Già con Moon… is the sun’s dream il regista coreano aveva dato prova di saper partire con il piede giusto, anche se il film non è riuscito a seguire la stessa piega della sequenza di apertura. L’esordio di Park si apre con una serie di soggettive girate “con uno stile sincopato tra Ferrara e Godard”13 tramite le quali il regista anticipa le ragioni del dramma che sta per raccontare. Le prime immagini mostrano un’atmosfera casalinga sporcata da tinte acide gialle e verdi; tramite la soggettiva di un uomo viene concesso allo spettatore di vedere una ragazza che sorride dolcemente, l’uomo stesso allo specchio che si fa la barba con un coltello e, successivamente, che raggiunge la ragazza che chiude in fretta le tendine di una finestra. La donna, voltandosi, ha uno sguardo preoccupato. Sempre in soggettiva, l’uomo regala un anello alla ragazza, lei è emozionata ma tesa, i due guardano l’orologio. A seguire momenti confusi e concitati e la guancia insanguinata della ragazza. Il tutto accompagnato da una calda musica jazz. Con pochi e semplici indizi si può notare che i due sono rintanati dentro un rifugio di fortuna (per via del coltello al posto del rasoio da barba), che si amano e che si sentono pressati da qualche minaccia esterna (lo si deduce dalla preoccupazione di lei nel tenere ben chiuse le tende). Park riesce ad immergere immediatamente lo spettatore nella relazione segreta fra Man-Soo ed Eun-Joo, creando un’atmosfera suggestiva fatta di tensione onirica che fa evincere, insieme all’uso della soggettiva, che questo incipit, comprensivo di titoli di testa, sia un flashforward volto ad anti13
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cipare la storia d’amore, filo conduttore del film. Stesso procedimento avviene in Trio: tramite l’accostamento dei cartelli dei titoli di testa ad inquadrature ricercate in cui vengono mostrate le minacce di Moon ad un uomo (con la successiva uccisione di quest’ultimo), lo spettatore viene catapultato immediatamente nel mondo grottesco e violento creato ad hoc da Park nel suo secondo lavoro. Se il titolo del cortometraggio Judgement viene inserito all’interno della bocca spalancata del medico dell’obitorio che sbadiglia, annoiato, dopo aver controllato l’ennesima vittima del terremoto che ha sconvolto Seul, nel caso di JSA – Joint Security Area, si assiste ad un incipit semplice e, allo stesso tempo, carico di tensione. Un gufo, vigile nella notte, si trova su un albero a metà fra la casupola di controllo dei soldati sud-coreani e quella dei militari nord-coreani, separate dal Ponte del Non-Ritorno (inquadrato con uno splendido campo lungo da terra). Uno sparo desta l’attenzione del gufo, unico testimone della notte di follia che darà origine alle indagini di questo originale giallo politico-militare. La casupola nord-coreana ha un foro di proiettile dalla quale filtra la luce dell’interno: la m.d.p. si spinge fino al buco, quasi a volerci entrare, ma lo spettatore rimane abbagliato dalla luce, sullo sfondo della quale si formerà poi il titolo del film. La Verità, a volte, è immersa nell’ombra; in questo caso è lo spettatore (come Sophie e gli altri militari incaricati delle indagini) a brancolare nel buio, alla ricerca di un qualcosa che illumini la realtà dei fatti. Park ama proiettare immediatamente lo spettatore all’interno delle atmosfere dei suoi film. L’incipit di Old Boy e quello di Sympathy for Mr. Vengeance, ad esempio, permettono un’immersione quasi istantanea all’interno delle vicende dei lavori in questione: con schizzi rapidi e precisi il cineasta lancia dei messaggi da codificare durante lo svolgimento delle sue storie. Il vero capolavoro di Park però è, senza ombra di dubbio, la sequenza di titoli di testa di Sympathy for Lady Vengeance. Un motivo musicale fortemente debitore della musica del secondo barocco italiano accompagna una serie di immagini, apparentemente senza significato, che si riveleranno poi essere tasselli fondamentali che non solo anticipano elementi fondamentali 117
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del film, ma che si rivelano essere parti inscindibili del mosaico creato dal regista. Una spalla e una mano sulle quali si compone, tramite un ottimo uso dell’animazione digitale, uno stelo di rosa con relativi petali; una scia fina di glassa per tofu, rossa come il sangue a cui rimanda; un coltello e ancora un corpo di donna immerso nel bianco. Sul corpo della donna continuano ad auto-dipingersi steli di rose, che si ritroveranno nel progetto della pistola che Geum-Ja disegnerà durante la sua detenzione: una nuvola di farina, che servirà a preparare il tofu, si spande nell’aria prima di essere impastata con l’acqua da mani alacri; schizzi di glassa che come sangue continuano a sporcare il bianco puro dell’immagine; infine una foglia che si trasforma nell’occhio dipinto di rosso di Geum-Ja. Fuoriuscirà una lacrima volta a comporre il nome del regista. In una concitata sequenza immersa nel bianco (che simboleggerà la purezza durante l’arco del film) e tinta di rosso (colore del dolore e della vendetta), Park racconta praticamente tutta la storia in poco più di un minuto. I colori, le rose, il tofu, il coltello, le palpebre rosso fuoco: mescolati ai titoli di testa vi sono tutti i simboli che verranno inconsciamente riconosciuti dallo spettatore durante lo svolgersi della storia. Interessante, inoltre, è la sequenza in cui vengono presentati i credits di I’m a cyborg… but that’s OK. Perfettamente in linea con lo stile adottato nel film, Park inventa (ancora una volta tramite animazione digitale) un opening che non a torto si potrebbe definire alquanto “burtoniano”. Cast e crew vengono inizialmente scritti su ingranaggi immaginari (che rimandano al fantasioso riso-convertitore che si ritroverà in seguito) e su un paio di lampadine, che immergono immediatamente lo spettatore nell’atmosfera in bilico fra il robotico e il surreale che caratterizza tutto il film. Una dissolvenza al nero porta ad un comple118
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tamento dei credits decisamente più “analogico”, ma non per questo meno geniale. Il penultimo lavoro di Park si apre con un campo lungo su una fabbrica in cui vengono costruite delle radio, nel quale si intravede immediatamente la simpatica e stralunata Young-Goon. Un altoparlante le sta dando istruzioni su come “nutrirsi” con la corrente elettrica. In un simile contesto, alienante e immediatamente ricco di “follia”, i titoli di testa sono scritti materialmente sugli oggetti più disparati: il nome del compositore diviene la marca dell’altoparlante, il costumista del film è scritto sul camice di Young-Goon, il responsabile degli effetti visivi è contrassegnato sul circuito elettrico di una radio in costruzione. Nel frattempo la madre della ragazza descrive ad un medico la condizione della figlia mentre i nomi dei montatori divengono la marca del monitor di un PC; si ritorna dunque a Young-Goon, prossima al suo singolare pranzo a base di energia elettrica e il gioco dei credits non cambia. Il responsabile delle luci diviene la marca della radio, il nome dello scenografo viene appuntato su un tappetino del mouse e, tramite il nastro isolante con il quale la ragazza avvolge il polso connesso ai cavi elettrici, vengono “srotolati” i nomi del direttore della fotografia Chung Chung-Hoon e degli sceneggiatori Chung So-Kyung e dello stesso Park Chan-Wook. Invenzioni e trovate ad hoc sono le caratteristiche dell’opera del cineasta di Seul: tutti i mondi costruiti da Park pongono le loro basi sulle solide fondamenta di incipit intriganti in cui anche i minimi dettagli vengono curati in maniera quasi maniacale.
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Capitolo ottavo
L’occhio di Park. La macchina da presa come penna stilografica DI
LUCA LARDIERI E SIMONE ISOLA
Park Chan Wook. L’estetica dell’incipit DI
LUCA LARDIERI
Per capire al meglio un autore come Park Chan-Wook, non ci si può esulare dall’analizzare la sua opera attraverso la scrittura per immagini che compie in maniera minuziosa e quasi scientifica dei suoi personaggi e dei luoghi dove essi agiscono. Scrittura per immagini compiuta utilizzando la macchina da presa come fosse una penna stilografica. Penna che, sebbene molto spesso non nasconda affatto la propria presenza agli spettatori, bensì cerchi di palesarsi il più possibile attraverso virtuosi carrelli, crane e steadicam quasi ossessivi nel seguire l’azione, non risulta mai disturbante o eccessivamente barocca; essa si rivela semmai utile ed indispensabile a capire meglio la storia, a creare empatia negli spettatori e ad affascinare lo sguardo di chi osserva. La macchina da presa è talmente presente da assurgere la funzione di protagonista fondamentale della storia; narratore onnisciente dall’occhio imparziale e allo stesso tempo desideroso di abbellire la storia stessa con orpelli mai banali o superflui. A dimostrazione di ciò prenderemo in esame tre dei suoi lungometraggi più importanti stilisticamente ed analizzeremo alcune sequenze fondamentali. I film in questione sono: Sympathy for Mr. Vengeance, Sympathy for Lady Vengeance e Thirst. Prendiamo in considerazione gli incipit dei tre film e analizziamo le loro inquadrature. In Sympathy for Mr. Vengeance, Ryu, il ragazzo sordomuto protagonista della storia, viene introdotto in maniera molto originale. Dal nero dello schermo compare pian piano quello che sembra essere il filo della cornetta di un telefono. Lo sfondo è completamente sfocato e l’inquadratu120
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ra è fissa. La voce di una donna racconta la storia di un ragazzo sordomuto e della sua amata sorella maggiore, assai malata. Lentamente la macchina da presa inizia una carrellata laterale che scopre il microfono di una radio e, sempre sfocata, la bocca della donna che racconta la storia. Due rapidi stacchi in successione ci mostrano la regia di uno studio radiofonico e un quadro dalle tinte acquerello, raffigurante una bambina ed un bambino seduti su di una roccia in prossimità di uno stagno. Due leggerissime dissolvenze al nero ci portano in un luogo a metà strada tra sogno, ricordo e premonizione. Qui due figure del tutto simili a quelle mostrate dal quadro, giocano saltando nelle pozzanghere e ridono di cuore. Poi esse siedono vicino ad un corso d’acqua e finiscono per assumere la stessa posizione immortalata nell’acquerello. La macchina da presa si immerge nell’acqua dello stagno e un’altra lentissima carrellata segue il filo degli auricolari attraverso i quali, la sorella di Ryu sta ascoltando la radio. Vediamo il suo viso sofferente e una lacrima che scorre leggera lungo la sua guancia ci introduce all’immagine successiva, che vede la giovane ragazza guardare il tramonto dal tetto di una casa abbracciata al fratello. Un’inquadratura sghemba scopre il paesaggio intorno a quella terrazza. Autostrade, lenzuola stese e montagne in lontananza. L’ultimo stacco prima dell’inizio vero e proprio del film, ci mostra finalmente il viso di Ryu. Il viso sorridente di chi ha deciso di donare il proprio rene per salvare la sorella malata. In appena due minuti e quindici secondi e con pochissime opportune inquadrature, Park ci ha presentato tutti gli elementi fondamentali del film. Un ragazzo con un grave handicap, una giovane donna molto malata e un forte legame che li lega fin da bambini. Il tutto scritto soavemente con la macchina da presa in una maniera talmente efficace da poter funzionare sia come introduzione che come cortometraggio a sé stante. Sympathy for Lady Vengeance ha un incipit della stessa forza espressiva se non addirittura superiore. Infatti dopo i bellissimi titoli di testa introduttivi che, in tutto e per tutto ci mostrano alcune immagini salienti di ciò che poi ci presenterà la protagonista (su tutte domina l’immagine dell’ombretto rosso fuoco, adagiato sulle palpebre di una carnagione bianca porcellana. Ombretto messo, come dirà la stessa donna, per sembrare meno buona). Dal bianco accecante, compare l’inquadratura fissa di un gruppo di persone vestite da babbo natale in attesa di qualcuno. Improvvisamente la macchina da presa indietreggia fino ad inquadrare il viso di un uomo che si tiene le 121
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orecchie coperte con le mani. In lontananza si sente il rumore di una porta blindata che viene aperta. L’uomo si gira verso le persone vestite da babbo natale e inizia a dirigerle a mo’ di orchestra. Stacco su di un campo lungo composto come un quadro espressionista. Sotto nubi plumbee e suggestive montagne, dalla porta di un carcere, situata a sinistra dell’inquadratura, iniziano ad uscire delle donne, subito accolte gioiosamente dai parenti e dal canto intonato dalla banda natalizia. Sulle mura del carcere, al centro e a destra dell’inquadratura, un grandissimo murales raffigura nubi, scogli e un mare in burrasca. Park Chan-Wook, anche quando lascia immobile la macchina da presa non lo fa mai in maniera banale, componendo tutto proprio come fosse la tela di un quadro. Nell’inquadratura successiva vediamo una giovane donna (Geum-Ja) farsi spazio tra le altre e dirigersi verso la macchina da presa: avanza fino a fermarsi in primissimo piano e, algida come la neve che scende rada intorno a lei, guarda fissa in macchina. Dai suoi occhi traspare tristezza e risoluta voglia di vendetta. Il canto si interrompe, lei abbassa gli occhi (fissi in macchina fino a questo momento) e l’inquadratura si sposta sull’uomo che dirigeva la piccola orchestrina di Santa Claus. Due rapidi stacchi ci mostrano nuovamente gli occhi vitrei di lei fissi sull’uomo e una semisoggettiva della donna in cui l’uomo scopre un dolce e glielo porge. Nel momento in cui quest’ultimo dice: «sono fiero di te!», la macchina da presa con un movimento della steadicam si avvicina in un primissimo piano dell’uomo che dà il via ad un inquietante flashback. Qui un telegiornale del passato ci racconta la storia di Geum-Ja, ingenua diciannovenne, e del terribile omicidio di un bambino di cinque anni per il quale si auto-accusò e che la portò ad essere arrestata e incarcerata. L’uomo, rimasto folgorato dal bellissimo viso angelico di Geum-Ja, decide di andarla a trovare in prigione e di farla redimere. Da questo momento in poi iniziano una serie di rapide e intense inquadrature che ci mostrano il cambiamento della giovane donna. Man mano che le inquadrature si velocizzano, la fotografia cambia cromatura fino a diventare quasi un giallo seppia in stile anni Settanta che, in un crescendo costante con la musica, ci porta fino ad una conferenza dal titolo “Testimonianza del giorno della fede per i reclusi”, in cui Geum-Ja espone il proprio pensiero religioso davanti alle sue compagne di carcere. La macchina da presa inizia un viaggio tra tutti i volti delle recluse che applaudono, fino a fermarsi sul viso del nostro uomo che si esibisce in una orgogliosa standing ovation. Uno stacco ci riporta al presente e al 122
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dolce di tofu offerto alla nostra protagonista. «È tradizione mangiare il tofu nel giorno della scarcerazione. Così resterai candida e non tornerai più a peccare». L’inquadratura si sposta lateralmente. L’uomo è fermo dinanzi alla donna col piatto proteso verso di lei. Geum-Ja allunga la mano, ma anziché prendere il dolce e cominciare a mangiarlo, lo rovescia per terra. Uno stacco repentino lo associa ad uno dei piatti della piccola orchestra che cade a terra emettendo un suono prolungato. Appena il piatto si ferma ed il suono cessa, Park si sofferma sul primo piano dell’uomo, rimasto sconcertato, per alcuni istanti, per poi ritornare sul volto della donna. La macchina da presa si avvicina morbida agli occhi di lei, la quale dice: «Perché non te ne vai al diavolo?». Geum-Ja si infila risoluta gli occhiali da sole ed esce dall’inquadratura. Anche qui il cineasta quarantasettenne, in poco più di sette minuti, ha introdotto il personaggio protagonista, riassunto il background che l’ha portata fino a quel punto (il punto in cui ha inizio la storia che interessa al regista e che viene raccontata allo spettatore), ed ha anticipato, infine, stile e tema principale della storia: la vendetta. Il tutto stavolta utilizzando la TV anziché la radio e mantenendo i quadri (l’acquerello in Mr. Vendetta e il Murales in Sympathy for Lady Vengeance) come traid d’union stilistica tra le due pellicole. Thirst ha un inizio un po’ più contorto e dilatato invece, ma egualmente potente e significativo. Infatti ciò che nei film precedenti era stato condensato, rispettivamente, in poco più di due e sette minuti, qui viene raccontato in circa dodici primi. Il film si apre su di una inquadratura fissa. Lentamente dal buio appare una porta bianca, illuminata da ciò che sembra essere una finestra e adornata dalle ombre di alcune foglie d’alberi. Foglie mosse da una lieve brezza. Dopo alcuni istanti questa bellissima immagine viene interrotta dall’ingresso di un prete (Sang-Hyeon), che si avvia verso il letto di un uomo intubato e curato premurosamente da un’infermiera. Ci troviamo in un ospedale quindi. Nei successivi cinque minuti Park Chan-Wook con pochissime inquadrature ci mostra il paziente cadere in coma, Sang-Hyeon confessare un’infer123
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miera depressa e con manie suicide e lo stesso prete chiedere al suo superiore di essere trasferito in un laboratorio in cui fanno esperimenti medici. Laboratorio in cui si cerca di trovare un vaccino ad un terribile virus. Da qui in poi comincia il vero incipit per immagini del cineasta coreano. La macchina da presa si esibisce in un’alternanza di inquadrature fisse e geometriche contrapposte ad altre dinamicamente fluide che nel giro di pochi minuti trasportano lo spettatore verso la trasformazione del prete nel vero protagonista; nel singolare “vampiro” assetato di sangue (e non solo) ma dall’animo ancora umano. Tre sequenze sono di particolare importanza in questo incipit: 1. Quando Sang-Hyeong viene istruito dal medico che cura l’esperimento, sui particolari sintomi della malattia (Emmanuel Virus). Park in un primo momento mostra le diapositive delle piaghe provocate dalla malattia, poi si sofferma su un lungo primo piano del prete che osserva quelle immagini un po’ a disagio. La composizione dell’inquadratura è molto importante. La finestra è chiusa e filtra una flebile luce dalle fessure lasciate dalle imposte. La figura in penombra di Sang-Hyeong, presagisce quasi la sua prossima mutazione in vampiro. Una lentissima carrellata orizzontale scopre il medico di colore che, senza guardare le diapositive, ripete stancamente le peculiarità del virus. Senza stacchi, la m.d.p. segue il dottore alzarsi, aprire la finestra e accendere meccanicamente una piccola videocamera situata dietro alla sua scrivania. Lentamente la macchina da presa si avvicina alla camera palmare fino a quando uno stacco quasi impercettibile ci mostra la figura del prete dal punto di vista del piccolo lcd dell’apparecchio digitale. Qui Park Chan-Wook con un gioco di fuochi e fuori fuochi tra il monitor della videocamera e ciò che accade all’interno dello studio, porta il suo protagonista ad accettare l’esperimento e le sue conseguenze, dando il la alla storia vera e propria. 2. La seconda invece è tutto il periodo in cui viene somministrato il virus al prete (all’incirca un mese), che Park racconta attraverso inquadrature suggestive che fanno da sottofondo alla preghiera dell’uomo. Una macchina da presa quasi fluttuante, che avvolge la figura del protagonista, dapprima inquadra la sala con i letti in quarantena dei volontari, poi con una dissolvenza, introduce un lentissimo carrello verticale ad uscire fuori da una finestra rettangolare (da notare sia la geometricità della disposizione dei letti nella prima inquadratura che la perfetta simmetria tra inter124
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no ed esterno della seconda) che ci mostra Sang-Hyeong intento a passeggiare nel parco. Uno zoom ad inquadrare i rami di un albero e una dissolvenza incrociata ci trasportano all’interno della sala in cui viene somministrato il virus al prete. Qui un’altra lentissima carrellata obliqua ad uscire guida lo sguardo dello spettatore da uno spiraglio tra le tende di isolamento del letto, fino alla porta da cui esce l’equipe medica una volta effettuata l’iniezione. Lo stile è tutto in questa scena, la macchina da presa diventa narratore onnisciente. 3. Da un susseguirsi di inquadrature perennemente in movimento, si passa alla costruzione di un quadro fisso. Sang-Hyeong è intento a suonare il flauto. Per circa un minuto vediamo il giovane prete quasi di spalle, girato di tre quarti rispetto alla m.d.p. e posizionato al centro esatto dell’inquadratura. L’uomo esegue la musica, tema portante del film, seduto davanti ad una piccola scrivania e al lato di una porta di legno. Improvvisamente un colpo di tosse ne rovina l’esecuzione. Del sangue comincia ad uscire copioso dal flauto. Un’inquadratura ravvicinata mostra nel dettaglio lo strumento insanguinato e il viso dolente di Sang-Hyeong. Un ulteriore stacco ci porta all’interno di una sala operatoria. I medici stanno cercando di fare tutto per salvare la vita dell’uomo. La m.d.p segue il tragitto del sangue che viene trasfuso nell’uomo attraverso una tubo di plastica. Nello stesso momento i movimenti di macchina iniziano a fluttuare in maniera sghemba ed affascinante come a voler simulare l’anima del prete che ne abbandona il corpo. L’elettrocardiogramma è piatto. Il medico ne diagnostica la morte alle 15:31 e nello stesso istante l’inquadratura torna ad essere fissa e geometrica. Un lenzuolo bianco viene posto sul viso di Sang-Hyeong, le luci spente. Improvvisamente l’uomo inizia a recitare di nuovo la sua singolare preghiera. I medici lo scoprono e cominciano a farsi il segno della croce. Dissolvenza in nero e compare la scritta, sei mesi dopo. È così che termina il lungo incipit di Thirst: il film più complesso da un punto di vista di scrittura e di regia che, grazie a questi dodici minuti, ci proietta nel film vero e proprio, spiegandoci la genesi del suo protagonista, un vampiro molto singolare. Mettere a confronto questi tre inizi così diversi eppure così simili da un punto di vista strutturale è fondamentale per capire lo stile delle inquadratu125
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re del regista coreano. Infatti attraverso di essi, concepiti come piccoli cortometraggi, ci si può rapportare a tutto il resto dei tre lungometraggi e notare che i quadri vengono concepiti sempre alla stessa maniera. Virtuosi movimenti di macchina alternati a inquadrature fisse, dove l’immagine viene costruita come fosse un quadro. C’è sempre armonia nelle sue inquadrature, sia dettata dalla geometria che dall’estetica di ciò che si vede. L’empatia con il personaggio viene sapientemente costruita abbinando ad ogni evento un movimento di macchina ben preciso. Lentissime carrellate che lasciano un’azione per poi scoprirne un’altra, vengono utilizzate per portare lo spettatore nell’atmosfera del film. Atmosfera quasi sempre claustrofobica e allo stesso tempo poetica. In poche parole la macchina da presa di Park ChanWook è la vera protagonista di ogni sua pellicola. L’elemento che rimane più impresso e che lo rende uno degli autori più interessanti ed innovativi del panorama cinematografico contemporaneo.
Cut! Cambi di stile DI
SIMONE ISOLA
Il 29 giugno 1995 crollano a Seoul gli edifici dei magazzini Sampung, causando la morte di 501 persone. Per risarcimento ai parenti delle vittime viene offerto mezzo milione di dollari, operazione che scatena azioni di sciacallaggio e opportunismo. Un fatto di cronaca che colpisce profondamente Park Chan-Wook e gli offre lo spunto per il suo terzo lavoro. Judgement rappresenta per l’autore una sorta di rinascita cinematografica dopo i deludenti esiti dei primi film. E non solo perché il cortometraggio viene selezionato per il prestigioso festival di Clermont-Ferrant, consentendo a Park un primo significativo, anche se limitato, contatto con il pubblico straniero; ma in quest’opera si consolida anche uno stile e un’idea di regia che ritroveremo compiutamente in alcuni film successivi. Possiamo affermare che Judgement sta a Sympathy for Mr. Vengeance come JSA - Joint Security Area sta ad Old Boy. Sono due linee espressive che corrono parallele nel cinema di Park Chan-Wook, con continue commistioni. Come due vasi comunicanti, l’astrazione e la fissità del primo gruppo si unisce alla seducente mobilità dello sguardo degli altri film.
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L’azione di Judgement si svolge nella stanza di un obitorio, dove giace il corpo di una ragazza in attesa di riconoscimento. È vittima del crollo di un edificio provocato da una scossa tellurica, ma anche dall’imperizia dei costruttori. Questo è l’antefatto, per così dire, raccontato attraverso gli inserti delle immagini dal vero trasmesse dalla tv, che dividono il cortometraggio in quattro atti. Una coppia si qualifica come genitori della vittima, ostentando disperazione per la perdita della giovane. All’atto del riconoscimento ufficiale, però, l’impiegato dell’obitorio rivendica il corpo della ragazza come quello di sua figlia; da qui inizia una grottesca querelle su chi sia il vero “proprietario” del cadavere e quindi il legittimo beneficiario del risarcimento. Park gira in un ambiente ristretto e asettico, fotografato in un livido bianco e nero. Superbo l’uso del sonoro in chiave drammatica. Rumori insignificanti, ma che costruiscono un significativo tappeto sonoro: dal volgare rumore della lattina che viene aperta (con la birra tracannata dall’impiegato in modo sgraziato) al fruscio del rasoio che passa rapido sulla pelle. In Judgement sono i dettagli a sottolineare le micro-azioni compiute dai protagonisti, mentre i dialoghi si sviluppano su lunghi piani sequenza. La batteria del rasoio gettata nel secchio, il rasoio con il vano batteria aperto, il residuo di birra che gocciola dalla lattina; sono elementi che rompono la continuità e che danno quel tocco di humour nerissimo che aleggia nel film. Montaggio dunque che mai come in questo caso non unisce ma rompe. La parola d’ordine è ‘Cut!’. Come non citare, ad esempio, la raccapricciante scena nella quale i due aspiranti padri si accostano al volto sfigurato della ragazza per sottolineare una fantomatica somiglianza. Anche qui un piano più ravvicinato segna una sferzata di tono nel film, che qui acquista i toni del grottesco. 127
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Il funzionario tocca il corpo della ragazza con morbosità; uno degli “aspiranti padri” gli sferra un pugno, ma l’azione si svolge fuori campo, sentiamo solo il rumore del colpo e il dettaglio, rivelatore, del sangue che cola a terra, accostato hichtcockianamente alla goccia d’acqua che scende dal rubinetto. Ecco dunque l’uso del fuoricampo per le azioni violente, elemento di stile che ritroveremo in Old Boy. In Judgement la regia presenta caratteri di staticità nell’uso dei piani, basso numero di inquadrature, alcuni totali della stanza, poi primi piani e dettagli, pochi campi intermedi. La faccenda si complica ulteriormente; arriva un’altra giovane che afferma di essere la vera figlia della coppia. E alla fine il terremoto giunge davvero; tutto trema, il soffitto si apre, ci sono crolli, oggetti che cadono. Il dettaglio del sismografo che disegna onde altissime sul foglio di carta; poi il movimento si placa. La stanza ora ci appare a colori, la catarsi è avvenuta. L’impiegato è accanto al corpo della giovane morta nel sisma, mentre l’altra ragazza si ritrova adagiata accanto alla coppia. Sembra come se la natura abbia assegnato salomonicamente le due ragazze alle rispettive famiglie. Ritorniamo aull’equazione già proposta: Judgement sta ai vari Sympathy, così come JSA - Joint Security Area1 sta a Old Boy. Se nel primo caso la macchina da presa indugia in piani sequenza e il dramma si tinge di grottesco, nel secondo è aerea, leggera, rapida nei movimenti; priva di forza di gravità ruota su stessa, segue i protagonisti, offre una visione sempre elaborata, mediata da uno sguardo non impassibile, ma attento e partecipe. È il Park che più appassiona il pubblico occidentale, con le sue trovate di regia, i tocchi tanto sublimi quanto impercettibili. Basti citare la straordinaria sequenza di lotta in Old Boy, dove la camera riprende la visuale dei videogiochi ‘picchiaduro’ bidimensionali, o i movimenti circolari che chiudono molte sequenze di JSA e segnano snodi cruciali della storia. Sono diversi gli elementi che legano i due film, come comune è l’indagine edipica, quel voler giungere ad una verità dolorosa che provoca nuove morti e ferite. La penultima scena di JSA è sintomatica di come Park gestisca la sua regia in modo per così dire “emozionale”, accompagnando sensazioni e stati d’animo con precisi movimenti di macchina. Il maggiore Sophie Lang fa 1
Da ora in poi abbrevieremo in JSA.
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visita in ospedale al sergente Lee, ferito nella sparatoria. Durante il breve colloquio la donna afferma che il sergente Oh nella sua testimonianza ha accusato proprio Lee di aver sparato il primo colpo. Ma in fondo, conclude la donna, “che importanza ha chi ha sparato un secondo prima o dopo?”. Il maggiore ha “voluto” fallire, nel senso che la sua indagine ha ricostruito la vicenda ma non ha fatto chiarezza nei comportamenti dei singoli individui, sottoposti a imponenti pressioni e a ragioni di stato. Giustizia non è fatta, anzi. Mentre il sergente scende le scale, il maggiore Lang, rimasta sola nella stanza, afferra l’accendino donato a Lee dal ‘nemico’ e ha come un presentimento. Si avvicina alla finestra, mentre il gruppo esce dall’edificio. L’uomo sta maturando la decisione di uccidersi; Park traduce visivamente l’istante con un leggero movimento che coglie il dettaglio della stampella, dolorosa eredità del passato. Il sergente entra nella camionetta, ma con destrezza riesce a prendere la pistola di uno dei due soldati di scorta, costringendoli alla fuga. Sophie assiste alla scena impotente, dalla finestra. È sgomenta, ma non può far nulla contro il tabù di una verità indicibile, così come indicibile è l’amicizia tra nemici. Guerra e fratellanza convivono nell’essenza stessa dell’uomo; di fronte ad una situazione di tensione uno dei due umori prevale sull’altro. L’equilibrio precario che si crea nella casetta subito dopo la linea di confine è un equilibrio fuori dall’ordinario, che forza la natura contestuale dei coreani stessi. Park per tutto il film inquadra la fisicità di quella linea di confine, con tagli a volte perpendicolari; ce ne fa sentire lo spessore, la dolorosa tangibilità. «così alla linea ‘chiaramente invalicabile’ che i soldati sorvegliano di giorno, badando che nemmeno l’ombra del fratello-nemico possa sfiorarla, si oppone l’attraversamento notturno del Ponte del Non-Ritorno da parte di due soldati sud-coreani, la cui inammissibile amicizia con i nemici-fratel129
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li del Nord emerge a poco a poco»2. Mentre Lee si butta in ginocchio a terra, Sophie non può far altro che osservarlo dalla finestra, dietro il vetro che la incornicia e ne rende ancora più etereo il volto. La donna comprende le intenzioni del soldato, e si precipita per le scale. Ma l’uomo si è già puntato la pistola in bocca e lascia partire il colpo. Alcuni rapidissimi flashback della sparatoria mostrano come in effetti sia stato proprio Lee a colpire il soldato Jung. Il corpo del soldato ora giace a terra. Un movimento vorticoso della macchina da presa ne segna il trapasso. Sophie resta sulla soglia del palazzo, impotente. Il sangue cola e bagna la spoletta della mina che ha dato inizio alla storia. Virtuosismi che in Old Boy diventano ancora più raffinati. La straziante ricerca di verità di Oh Dae-Su è studiata analiticamente, quasi al microscopio. Potremmo dire che in Old Boy ogni scena è osservata da un diverso punto di vista. Prendiamo la scena iniziale con il protagonista alla centrale di polizia, ubriaco. Qual è il punto di vista della macchina da presa? Viene naturale pensare che sia la soggettiva di un agente che dietro un vetro o un banco osserva i vari individui portati in centrale. I jump cut sembrano infatti segnare i momenti nei quali il comportamento dell’uomo attrae l’attenzione degli agenti, ovvero quando gli atti di Dae-Su diventano molesti e sono costretti ad intervenire per calmarlo. Anche in questo caso, come in JSA, è un movimento circolare a chiudere una sequenza e a segnare un importante snodo narrativo; la macchina da presa ruota intorno alla cabina telefonica e rende tangibile la scomparsa di Dae-Su per poi cogliere, sempre in un unico movimento, il dettaglio delle ali, il regalo di compleanno che l’uomo voleva portare a sua figlia. Questi dettagli sono una delle cifre stilistiche di Park; ne sono cosparsi tutti i film. Elementi che poi spesso ritroviamo nel corso delle storie, e che acquistano particolari significati emotivi. Le inquadrature all’interno della prigionia tendono a mostrarci l’uomo come un topo in gabbia, alcune per ampiezza ricordano le tipiche immagini delle telecamere di sorveglianza. Il rapporto tra l’uomo e la televisione diventa morboso; è allo stesso tempo “orologio, calendario, scuola, casa, chiesa e amante”. E quando la voce off calca la parola “amante”, Park la trasforma in un personaggio: la masturbazione di Dae-Su davanti alla visione di un innocente balletto viene inquadrata come se si trattasse della soggetti2
Sabrina Stroppa, http://www.parkchanwook.org/rece_jsa.php
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va della tv. Gli ultimi anni di prigionia vengono sintetizzati con uno split-screen: su un lato dello schermo c’è Dae-Su che si allena per prendere a pugni il muro, dall’altro le immagini televisive che si susseguono veloci, unico parametro che segna lo scorrere del tempo. Maurizio Pettinengo nel suo ottimo saggio significativamente intitolato Il tempo non cessa di ri-guardarci, parla proprio delle «distorsioni percettive che l’asimmetria strutturale di Old Boy provoca»3. Ovvero di come la sequenza della battaglia tra Dae-Su e i sicari del nemico nei corridoi della prigione duri poco meno del tempo filmico dedicato agli anni della prigionia; si tratta di un «paradosso doveroso ma in definitiva meno importante del capovolgimento di senso che esso comporta: più il tempo, in quella stanza, trascorre ciclicamente, più è innaturale»4. Riflessione importante che trova riscontro nella voce off del protagonista, che scopriremo solo alla fine costituire il testo di una lettera che Dae-Su spedisce alla medium. Passato e presente si compenetrano in un unicum difficilmente scindibile; il ricordo e la memoria ricade sul presente, lo annulla e gli restituisce senso in ogni istante. Nessuna dissolvenza, dunque, ad introdurre i flashback. Il Dae-Su di allora è il DaeSu di oggi, osserva il proprio passato e cerca di trovare il senso del presente proprio nell’atto di “ri-guardare”. Altro segno stilistico in Old Boy è l’uso del fuori campo nelle scene di violenza. La regia, pur non risparmiando scene forti, evita di mostrare in video l’atto finale della violenza, che viene lasciato all’immaginazione dello spettatore. E proprio la voce fuori campo afferma in una battuta che “la gente si spaventa per colpa dell’immaginazione. Non immaginare, sarai più coraggioso di una tigre”. Prendiamo ad esempio la scena della vendetta all’interno della sala controllo della prigione. Vediamo Dae-Su immobiliz3 4
Maurizio Pettinengo, Il tempo non cessa di ri-guardarci, «Cineforum», n.445, giugno 2005. Idem.
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zare l’uomo in modo tale da lasciare la bocca aperta e potergli estrarre un dente per ogni anno di prigionia. Tutte le operazioni sono accompagnate dall’atmosfera impetuosa dell’Inverno di Vivaldi. C’è il dettaglio insostenibile del martello che inizia a fare forza sui denti, e del sangue che inizia a fuoriuscire. La musica si alza in un crescendo che si compie quando Dae-Su strappa i denti con un movimento secco. Questa azione viene risparmiata al nostro sguardo; non vediamo materialmente l’estrazione, ma solo il dettaglio iniziale e le conseguenze della violenza, ovvero i resti dei denti gettati sulla tastiera di un computer. Così come nell’assassinio di Joo-Hwan, quando Woo-Jin scena colpisce l’uomo con un cd spezzato a metà; o ancora nella quando Dae-Su si taglia la lingua, come segno di massima sottomissione e pentimento. Le scene non perdono di carica espressiva, anzi il crescendo musicale e l’uso espressivo del fuori campo rendono la violenza profonda e lacerante, puntando sull’immaginazione dello spettatore. Mostrare il prima e il dopo, lasciando fuori campo l’atto violento, vuol dire invitare lo spettatore a ‘completare’ l’evento con l’immaginazione; si instaura un coinvolgimento molto profondo, un’atmosfera generale allo stesso tempo inquietante ma non priva di fascino. Non c’è una sola scena uguale all’altra in Old Boy. La regia cambia continuamente, regalando sempre soluzioni visive originali. «La messa in scena è studiata nei minimi dettagli» afferma Veronica Barteri «e si traduce in una descrizione nervosa e lucida su più piani visivi e narrativi. Che siano lunghi piani sequenza o eleganti carrellate della macchina da presa, l’immagine è sempre nitida e ben strutturata. A fare da sottofondo una colonna sonora che, spaziando dalla classica alla techno, esercita un vero e proprio potere ipnotico»5. Sintomatica, in tal senso, la scena del confronto finale tra Dae-Su e Woo-Jin. Sembrerebbe la sera dei conti, ma la regia è così straniante che intriga piuttosto e rende chiare e semplici le conclusioni. Woo-Jin esce dalla doccia, e Dae-Su guarda una foto di sua sorella attaccata alla parete. Poi pronuncia una battuta voltandosi: “Hai fatto l’amore con tua sorella… E io ho messo in giro la voce. È per questo che Soo-ah è morta”. L’ immagine di Dae-Su viene per la prima volta riflessa allo specchio. Woo-Jin esce dallo spogliatoio e si pone anche lui davanti allo specchio, pronunciando una battuta emblematica: “Guardare nello specchio ricorda quel giorno, non 5
Veronica Barteri, Old boy, «Film», n.76, lug.-ago. 2005.
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trovi?”. Ora i corpi dei due uomini sono inquadrati dal riflesso, usando la spalla di Woo-Jin come quinta. Da ora il crescendo di informazioni e battute si sviluppa alternando primi piani di Dae-Su con l’immagine dei due contendenti riflessa sullo specchio. Il tema dell’occhio che osserva, dalla ripresa televisiva allo specchio, alle fotografie giunge ora all’apice. Il gioco di riflessione si rompe con un’inquadratura straniante, assolutamente irrealistica, con Dae-Su che ora è alla sinistra di Woo-Jin; potrebbe essere l’immagine riflessa nello specchio, ma sembra prima di tutto un’immagine mentale, anche perché introduce la rivelazione dell’ultima parte del diabolico piano di vendetta. Ovvero aver indotto Dae-Su e Mi-Do, che scopriamo essere sua figlia, ad innamorarsi tra loro mediante ipnosi. La colonna sonora è ossessiva, ipnotica, le immagini sembrano rincorrere il passato in un bellissimo montaggio alternato che racconta il riemergere di situazioni, in un continuo compenetrarsi tra presente e passato. Si arriva addirittura ad uno split screen, nel quale le immagini speculari di Dae-Su e Woo-Jin si congiungono per ricreare un unico volto. Una volta vestito, Woo-Jin indica con un piccolo laser luminoso un pacco regalo sul tavolo. Dae-Su lo apre e trova un album di foto. Intanto vediamo Mi-Do che ha di fronte a sé un paio di finte ali. Si va definendo la parte finale della vendetta di Woo-Jin... Dae-Su apre l’album e inizia a sfogliarlo, sempre più velocemente. Il soggetto è proprio Mi-Do, che vediamo crescere con lo scorrere delle foto. Qui il concetto di contrazione temporale alla base del film arriva all’apice; in pochi secondi un’intera vita passa davanti ai nostri, per chiudersi poi con una pagina dove un piccolo specchio (ancora lo specchio!) ci mostra il volto esterrefatto e stravolto di Dae-Su. La musica al culmine del crescendo si arresta. Vediamo Mi-Do indossare le ali che il padre le aveva regalato prima della reclusione. L’oggetto giunge a destinazione dopo quindici anni, ma il suo status è mutato da innocuo regalo a ultimo tassello della vendetta. Una sequenza memorabile, forse la più emblematica del cinema di Park Chan Wook, con un montaggio allucinato, frenetico, e un’immagine dotata di una ferrea struttura interna. Contrazione temporale, andate e ritorni, una scrittura rigorosa, un 133
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uso disteso della colonna sonora come mai prima di allora nel cinema di Park Chan-Wook e una musicalità che accompagna in tempi e sonorità da sinfonia per poi chiudersi ellitticamente. I’m a Cyborg, But That’s OK è il film che porta Park Chan-Wook a sperimentare nuove soluzioni visive. Si è parlato spesso di film ‘piacevolmente leggero’. Vengono messi momentaneamente da parte i furori dei film precedenti; il registro è quello tipico della commedia, con i suoi tempi, le scene comiche. La clinica psichiatrica nella quale sboccia l’amore tra Young-Goon e Park Il-Sun è una sorta di enorme acquario dalle pareti colorate con toni pastellati, talmente ipnotico da creare nello spettatore un senso di straniamento e freddezza. Sembra di trovarsi di fronte ad una serie di pastelli colorati, con una dominante azzurra, in un asettico ambiente popolato da maschere apparentemente farneticanti. Quadri in movimento, si potrebbe dire; l’occhio della camera non aggredisce lo spazio, ogni soluzione registica esprime una ostentata semplicità. E in questo contesto le sferzate acquistano particolare valore; sì perché Park non perde il suo umorismo nero, il gusto per lo scarto visivo forte. Il montaggio pacato, quasi ieratico, è scomposto da alcune sequenze che non disdegnano un’improvvisa impennata di violenza. Così Young-Goon immagina di trasformarsi in una sorta di ‘angelo sterminatore’ e di sparare con le mani a mo’ di pistola (d’altronde lei è un cyborg…) a tutto personale medico della clinica. Una scena audace, che il ralenti e la musica gioiosa trasformano in una sorta di macabra proiezione mentale della protagonista (non a caso alla sparatoria sopravvivono magicamente tutti i pazienti), tanto elegante da non rompere il tono fiabesco ma arricchirlo di una solida sfumatura dark; così lo spirito ribelle dell’autore sembra vendicarsi dei metodi antiquati e banali della psichiatria. Può succedere di tutto in questo film; così come che un letto venga sollevato da una coccinella e si liberi tra le nubi. È in fondo la libertà che cerca Park ChanWook dallo status cinico di ‘cineasta della vendetta’ che lo ha accompagnato nei suoi film di maggior successo.
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Ringraziamenti
Scrivere un saggio su un autore importante come Park, spesso trascurato dalla carta stampata, non è opera semplice. Un ringraziamento speciale va ai miei amici e collaboratori che hanno contribuito ad impreziosire con le loro riflessioni ed i loro studi le pagine di questo libro: Daniele Coluccini, Andrea Di Lorenzo, Simone Isola e Luca Lardieri. Un grazie sentito anche a coloro che supportano da sempre il cinema orientale, come Francesco Novello, Davide Cazzaro e Alessandro Baratti, che hanno contribuito con i loro consigli a migliorare le mie ricerche, e alla redazione del sito Asianworld.it, punto di riferimento per gli appassionati di cinema asiatico. Desidero inoltre ringraziare Giovanna Vincenti per il suo contributo in fase di traduzione e la mia insostituibile interprete italo-coreana Hong Ijin, senza la quale parte del mio lavoro non avrebbe visto la luce. Infine, un grazie di cuore alla mia famiglia, che da sempre supporta i miei progetti e le mie attività con entusiasmo e fiducia, e a Viola Rastrelli per avermi accompagnato e aiutato durante le fasi di scrittura di questo mio piccolo libro.
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Filmografia
Regista Moon… is the sun’s dream – Daleun... haega kuneun kum (1993) Produzione: M.N.R.; produttore: Im Jin-Gyu; co-produttore: Choe Mu-Hun; soggetto e sceneggiatura: Kim Yong-Tae, Park Chan-Wook; fotografia: Bak Seung-Bae; montaggio: Kim Hui-Su; scenografie: Do Yong-U, Bak ChangGyeaong; musica: Sin Jae-Hong, Bak Gwang-Hyeon; luci: Kim Gang-Li; interpreti principali: Bang Eun-Hee, Lee Seung-Chul, Nah Hyun-Hee, Song Seung-Hwan, Kim Dong-Su, Lee Gi-Yeol, Han Yeong-Su, Park Jun-Yeong, Im Yun-Gyu, Park Jong-Seol. Trio (A.K.A. Threesome) – Saminjo (1997) Produzione: Cine2000 Film Production; produttore: Lee Chun-Yeon; co-produttore: Lee Mi-Yeong; soggetto e sceneggiatura: Lee Mu-Yeong, Park ChanWook, fotografia: Lee Eun-Gil; montaggio: Park Gok-Ji; scenografie: O Sang-man, Kim Bo-Gwan, musica: Jeon Sang-Yun; costumi: Lee SeungHyeon; luci: Sin Jun-Ha; interpreti principali: Lee Kyung-Young, Kim MinJong, Jeong Seon-Kyung, Do Geum-Bong, Jang Yong, Kim Bu-Seon, Seo Gyeong-Seok, Lee Yun-Seok, Yu Tung, Eom Chun-Bae, Ahn Gil-Gang, Kim Seok-Ok, Seo Gweon-Sun, Lee In-Cheol, Lee Chun-Yeon, Lee Chun-Yeon. Judgement – Simpan (1999) Produzione: Studio Box; produttore, soggetto e sceneggiatura: Park Chan-Wook; fotografia: Pak Hyun-chul; montaggio: Kim Sang-Man; scenografie: O Sang-man; luci: Lee Seok-Hwan, Kim Tae-In; interpreti principali: Choi Hak-Rak, Gi Ju-Bong, Ko In-bae, Myeong Sun-mi.
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JSA-Joint security area – JSA - Gongdong gyeongbi guyeok JSA (2000) Produzione: MK Pictures; produttore: Lee Eun, Sim Jae-Myeong; soggetto: tratto dal romanzo DMZ di Park Sang-Yeong; sceneggiatura: Park Chan-Wook, Park Sang-Yeong, Kim Hyeon-Seok, Lee Mu-Yeong; fotografia: Kim SungBok; montaggio: Kim Sang-Beom; scenografia: Kim Sung-Bok; luci: Im JaeYoung; musica: Bang Jun-Seo, Jo Yeong-Wook; interpreti principali: Lee Yeong-Ae, Shin Ha-Kyun, Kim Tae-Doo, Kim Myoeng-Su, Herbert Ulrich, Christoph Hofrichter, Lee Byung-Hun, Song Kang-Ho. Sympathy for Mr. Vengeance – Boksuneun naui geot (2002) Produzione: Studio Box; produttore: Im Jin-Gyu; co-produttori: Lee JaeSoon, Son Se-Hun; soggetto e sceneggiatura: Park Chan-Wook, Lee Jae-Sun, Lee Mu-Yeong, Lee Yong-Jong; fotografia: Kim Byeong-Il; montaggio: Kim Sang-Beom; scenografia: Choe Jung-Hwa; musica: Kim Seok-Won; costumi: Shin Seung-Heui; luci: Park Hyun-Won; interpreti principali: Song Kang-Ho, Shin Ha-Kyun, Bae Du-Na, Lim Ji-Eun, Han Bo-Bae, Kim Se-Dong, Lee Khan-Hee, Lee Jung-Wook, Oh Kwang-Rok, Jeong Jae-young, Ji Tae-Han, Lee Dae-Yeon, Jung Kyu-Soo, Ki Joo-Bong, Ryu Seung-Beom, Ryoo Seung-Wan. “N.E.P.A.L. - Never Ending Peace and Love” in If you were me - Yeoseot gae ui siseon (2003) Produzione: National Human Rights Commission of Korea, Fillmore Entertainment; produttore: Lee Tae-Hun; soggetto e sceneggiatura: Park Chan-Wook; fotografia: Kim Byeong-Il; montaggio: Choe Jae-Geun; musica: Jo Young-Wook; luci: Lee Seong-Hwan; interpreti principali: Lee Ji-Hyeon, Oh Dal-su, Chandra Fumari Gurung. Old Boy (2004) Produzione: Show East, Egg Films; produttori: Gim Dong-Ju, Ji YeongJun; co-produttore: Im Seung-Yong; soggetto: tratto dal manga Oldboy di Garon Tsuchiya e Nobuaki Minegishi, sceneggiatura: Park Chan-Wook, Hwang Jo-Yun, Lim Joon-Hyung; fotografia: Chung Chung-hoon; montaggio: Kim Sang-Beom; scenografia: Yoo Seong-Hee; musica: Cho YoungWuk; costumi: Cho Sank-Yung; luci: Park Hyun-Won; interpreti principali: Choi Min-Sik, Yoo Ji-Tae, Gang Hye-Jung, Yun Jin-Seo, Kim Su-Hyeon, Park Myeong-Shin, Kim Byeong-Ok, Lee Seung-Ji, Oh Dal-Su, Yun SuKyeong, Ji Dae-Han.
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Cut in Three… extremes – Saam gaang yi (2004) Produzione: Bom Films; produttori: O Jeong-Wan, Lee Yu-Jin; soggetto e sceneggiatura: Park Chan-Wook; fotografia: Chung Chung-Hoon, montaggio: Kim Sang-Beom, Kim Jae-Bum; scenografia: Yoo Seong-Hee; musica: Lee ByungHun, Peach; costumi: Cho Sang-Kyoung; luci: Park Hyun-Won; interpreti principali: Lee Byung-hun, Lim Won-Hee, Gang Hye-Jung, Lee Jun Goo, Lee Mi-Mi. Sympathy for Lady Vengeance – Chinjeolhan geumjassi (2005) Produzione: Moho Films; produttori: Lee Tae-Hun, Jo Young-Wook; co-produttore: Lee Chung-Young; soggetto: Park Chan-Wook; sceneggiatura: Park Chan-Wook, Jeong Seo-Kyung; fotografia: Chung Chung-Hoon; montaggio: Kim Sang-Beom, Kim Jae-Beom; scenografia: Cho Hwa-Sung; musica: Cho Young-Wuk; costumi: Cho Sang-Kyung; luci: Park Hyun-Won; interpreti principali: Lee Young-Ae, Choi Min-sik, Lim Su-Gyeong, Anne Cordiner, Go Su-hee, Oh Dal-Su, Oh Kwang-Rok, Shin Ha-kyun, Ra Mi-Ran, Nam Il-Woo, Kim Shi-Hoo, Kim Byeong-ok, Kim Bu-Seon, Kang Hye-Jeong, Yu Ji-Tae, Seo Yeong-Ju, Lee Dae-Yeon, Ryu Seung-Beom, Lee Seung-Shin, Yun Jin-Seo, Ryoo Seung-Wan, Song Kang-Ho. I’m a cyborg…but that’s Ok – Saibogujiman kwenchana (2006) Produzione: Moho Films; produttore: Lee Tae-Hun; co-produttore: Lee Chung-Young; soggetto: Park Chan-Wook; sceneggiatura: Park Chan-Wook, Jeong Seo-Kyung; fotografia: Chung Chung-Hoon; montaggio: Kim SangBeom, Kim Jae-Beom; scenografia: Ryu Sung-hee; musica: Cho Young-Wuk; costumi: Cho Sang-Kyung; luci: Park Hyun-Won; arredamento: Cho Sangkyoung; interpreti principali: Lim Su-jeong, Jung Ji-Hoon, Choi Hee-Jin, Lee Young-Yeo, Lee Young-Mi, Chun Sung-Hoon, Kim Choon-gi, Kim Do-Yeon, Oh Dahl-Su, Park Jun-Myun, Park Byung-Eun, Kim Joo-Bok, Sohn YoungSoon, Joo Hee, Lee Kyung-Eun, Yoo Ho-Jung. Thirst – Bakjwi (2009) Produzione: Moho Films; produttori: Ahn Soo-Hyun, Park Chan-Wook; produttore associato: Joon H. Choi; soggetto: Park Chan-Wook; sceneggiatura: Park Chan-Wook, Jeong Seo-Kyung; fotografia: Chung Chung-Hoon; montaggio: Kim Sang-Beom, Kim Jae-Beom; scenografia: Ryu Sung-hee; musica: Cho Young-Wuk; costumi: Cho Sang-Kyung; interpreti principali: Song Kang-Ho, Kim Ok-Bin, Kim Hae-Sook, Shin Ha-Kyun, Park In-Hwan, Oh DalSu, Song Young-Chang, Mercedes Cabral, Eriq Ebouaney, Choi Hee-Jin, Hwang Woo-seul-hye, Lee Hwa-ryong, Ra Mi-Ran. 138
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Sceneggiatore Anarchists – Anakiseuteu (2000) Produzione: CineWorld, Shanghai Film; regia: Yu Yong-Sik; soggetto e sceneggiatura: Park Chan-Wook; fotografia: Kim Eung-Taek; montaggio: Kyeong Min-Ho; musica: Choi Man-Sik; interpreti principali: Jang DongKun, Kim Sang-Jung, Jeong Jun-Ho, Lee Beom-su, Kim In-Kwon, Ye Ji-Won, Jeong Won-Jung, Lee Chan-Yeong, Seo Ji-Won, Kim Gwang-Seok, Zhu Ying. The humanist – (2001) Produzione: Bear Entertainment; regia: Lee Mu-Yeong; soggetto e sceneggiatura: Park Chan-Wook, Lee Mu-Yeong; fotografia: Byeon Hee-Seong; montaggio: Kim Sang-Beom; musica: Lee Mu-Yeong; interpreti principali: Ahn Jae-Mo, Kang Seong-Jin, Park Sang-Myeon, Park Young-Gye, Myeong SunMi, Kim Myoeng-Su, An Seok-Hwan, Lee Mu-Yeong. Taekwon girl (A.K.A. A bizzarre love triangle) – Cheoleobtneun anaewa paramanjanhan nampyeon geurigo taekwon sonyeo (2002) Produzione: Egg Films; regia: Lee Mu-Yeong; soggetto e sceneggiatura: Park Chan-Wook, Lee Mu-Yeong; fotografia: Go Su-Bok; montaggio: Kim Sang-Beom, Kim Jae-Beom; musica: Jang Yeong-Gyu; interpreti principali: Gong Hyo-Jin, Jo Eun-Ji, Choi Kwang-Il, Kim In-Mun, Yu Hye-Ri, Kim Seung-Hyeon, Kim Gi-Hyeon, Lee Bong-Gyu, Jeon Chang-Geol, Kim SaengMin, Jang Su-Yeong, Baek Hyeon-Jin. A boy who went to heaven (A.K.A. Boy Goes to Heaven) – Sonyeon, Cheonguk-e gada (2005) Produzione: Lets Film, Christmas Entertainment, Sidus; regia: Yun Tae-Yong; soggetto e sceneggiatura: Park Chan-Wook, Lee Mu-Young, Choi Dong-Hun, Yun Tae-Yong; fotografia: Lee Jun-Gyu; montaggio: Kim Sang-Beom, Kim Jae-Beom; scenografia: Ju Byeong-Do; musica: Dal Palan, Jang Young-Gyu; interpreti principali: Yeom Jeong-A, Park Hae-Il, Oh Gwang-Rok, Park EunSu, Jeong Jin-Gak. Crush and blush - Misseu Hongdangmu (2008) Produzione: Moho Films; regia: Lee Kyoung-Mi; soggetto e sceneggiatura: Park Chan-Wook, Lee Kyoung-Mi, Park Eun-Kyo; fotografia: Kim Dong139
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Young; montaggio: Shin Min-Kyeong; musica: Jang Yeong-Gyu; interpreti principali: Gong Hyo-Jin, Lee Jong-Hyeok, Pang Eun-Jin, Seo Woo, Bong Joon-Ho.
Aiuto Regista Kkamdong (1988) Produzione: Seoul Films; regia: Yu Young-Jin; interpreti principali: Lee BoHee, Jeong Seung-Ho. Attore Mascara (1994) Produzione: Seo Gang Planning; regia: Lee Hun; interpreti principali: Jang DuI, Ha Ji-Na, Jang Song-Mi, Kim Se-Yeong, Park Chan-Wook, Kim Myung-Su.
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Bibliografia
Il cinema sudcoreano contemporaneo e l'opera di Jang Sun-Woo, AA. VV (a cura di Davide Cazzaro e Giovanni Spagnoletti) Marsilio, Venezia Park Chan-Wook - Korean Film Directors, Kim Young-Jin, KOFIC.
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Sitografia
www.imdb.com www.cinemacoreano.it www.asianworld.it www.asianexpress.it www.parkchanwook.org www.asiandb.com www.asianfeast.org www.cinemadelsilenzio.it www.koreanfilmfestival.it www.fareastfilm.com www.mymovies.it it.wikipedia.org ko.wikipedia.org www.youtube.com
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